L'assoluto e la storia. Oriente e Occidente a confronto 8878702374, 9788878702370

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L'assoluto e la storia. Oriente e Occidente a confronto
 8878702374, 9788878702370

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ITINERARI DI RICERCA STORICO-RELIGIOSA —9—

Collana diretta da Danila Visca

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NICOLA MAPELLI

L’Assoluto e la Storia Oriente e Occidente a confronto

BULZONI EDITORE

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In copertina: Un sa\dhu (asceta itinerante) Orcha, Madhya Pradesh Foto di Gianluca Bogi

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-237-0 © 2007 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

Introduzione .............................................................................................................................

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1. L’incontro degli orizzonti ............................................................................................

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2. La fama oltre i confini ..................................................................................................

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45

3. Il paradigma mistico

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67

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107

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137

7. La provocazione di nuovi referenti: Dalit, Ad| ivas\ i, donne e ambiente ................................................................................................................................

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153

8. L’altra liberazione ..............................................................................................................

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Conclusione ..............................................................................................................................

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213

Appendice: la storia del cristianesimo in India .............................................

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241

Glossario ......................................................................................................................................

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Bigliografia .................................................................................................................................

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Indice dei nomi ......................................................................................................................

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295

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4. Alla ricerca di un nuovo paradigma

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5. Uscire dal tempio: verso la liberazione 6. Oltre i confini dell’India

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INTRODUZIONE

Sono passati più di due secoli da quando l’Occidente ha iniziato a interessarsi in maniera scientifica dell’India: nel 1785 Charles Wilkins pubblicava la prima traduzione in una lingua europea della Bhagavad Gı \ta\; nel 1814 si inaugurava a Parigi la prima cattedra di sanscrito in Europa mentre a Bonn quattro anni più tardi i fratelli Schlegel istituirono la prima cattedra europea di indologia. Dal cuore dell’Europa l’interesse per l’India si diffuse ovunque, anche negli Stati Uniti. La scoperta dell’alterità, ormai, non si limitava più ai soli ‘selvaggi’ dell’America o ai felici isolani dell’Oceania, ma si estendeva anche a un mondo raffinato come l’India: se è vero che l’Oriente aveva sempre suscitato stupore e meraviglia (basti pensare alle Storie di Erodoto e al Milione di Marco Polo), solo ora questa scoperta spingeva a incontrare l’altro non più in termini di sola ‘barbarie’, ma anche in quelli di ‘civiltà superiore’: l’incontro/scontro che si sviluppò fra i due orizzonti fu, e continua a essere, fra i più complessi della storia dell’umanità 1. Delegittimare il presente Quanto legittime furono, tuttavia, le categorie prodotte nell’arco di due secoli dagli indologi? La revisione critica di paradigmi e concetti 1

Cfr. anche Halbfass 1988 e Franco-Preisendanza 1997.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

ormai consolidatisi si espresse in numerose pubblicazioni, tra le quali ha una certa rilevanza quella di P. Chatterjee Nationalist thought and the colonial world: a derivative discourse (1986). In essa lo studioso propone la tesi che l’identità non solo nazionale ma anche culturale (e dunque pure religiosa) dell’India fu un prodotto dell’espansione occidentale: non era una identità pre-esistente all’arrivo degli europei, quanto un frutto del colonialismo del XIX e XX secolo 2. Gli anni successivi videro il moltiplicarsi di testi sull’argomento, fra i più noti l’opera di G. D. Sontheimer e H. Kulke Hinduism reconsidered (1989), quella di R. Inden Imagining India (1990), quella di G. Pandey The construction of communalism in colonial North India (1992), quella di V. Dalmia e H. von Stietencron Representing Hinduism: the construction of religious traditions and national identity (1995) e India’s agony over religion (1995) di G. J. Larson. Già i titoli fanno intuire la direzione presa dagli autori: la tesi è che l’induismo in sé non è mai esistito, se non nella mente degli studiosi occidentali; se dunque gli indologi del passato hanno ‘costruito’ l’induismo, compito di quelli contemporanei deve essere quello di ‘decostruirlo’ o, con una terminologia cara allo storico delle religioni Dario Sabbatucci, vanificarlo. La principale obiezione è che ‘induismo’, come voce singolare, è fuorviante. Basti fra tutte le possibili citazioni la seguente: Non è mai esistito qualcosa come un singolo ‘induismo’ o ‘comunità indù’ per una qualsiasi regione socio-culturale del continente. Inoltre, non c’è mai stata una religione – né un sistema di religioni – al quale il termine ‘indù’ si possa applicare appropriatamente. Nessuna cosiddetta religione, infine, può pretendere il monopolio o essere definita dal termine ‘induismo’. La stessa nozione di esistenza di una singola comunità religiosa con questo nome è stata falsamente concepita 3. 2 3

Cfr. Chatterjee 1986 e Smith 2002: 35 ss. Frykenberg 1989, citato in Smith 2002: 38.

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INTRODUZIONE

La conclusione è che o si parla di ‘induismo’ al plurale, o si abbandona completamente la categoria. Seguendo lo stesso approccio critico, Barbara A. Holdrege evidenzia la persistenza di un paradigma interpretativo dell’induismo che si basa ancora sulle riflessioni elaborate nel XIX secolo da studiosi di estrazione protestante: la centralità della categoria sacro/profano o di quella ancor più sottolineata credenza/pratica 4 sono le sopravvivenze più note di un certo modo di intendere la religione – e dunque dell’induismo interpretato come religione. Anche se bisogna ammettere la necessità di ‘ambiti dialogici’ – per dirla con J. Habermas – che fungano da interfaccia nelle relazioni fra i due orizzonti, i metodi decostruttivi contemporanei (e analogamente la storicizzazione portata avanti dalla scuola romana di storia delle religioni) hanno ormai dimostrato come i parametri occidentali utilizzati anche per lo studio delle ‘religioni asiatiche’ siano delle “camice di forza” 5. Identico è il giudizio di F. Staal, che in Rules without meaning. Ritual, Mantras and the Human Sciences (1989) sostiene che i paradigmi religiosi occidentali sono inapplicabili alle tradizioni spirituali asiatiche 6. Quando si affronta il continente asiatico si dovrebbe parlare invece di ‘tradizione rituale’, limitando il termine ‘religione’ al mondo occidentale: l’inapplicabilità della nozione occidentale di religione alle tradizioni dell’Asia non ha solo condotto a variegati errori di catalogazione, identificazione e clas4

Cfr. Holdrege 2002: 31-32. Holdrege 2002: 32. 6 Cfr. Staal 1989: 387-419. Un esempio di quanto la categoria ‘religione’ (nel senso protestante menzionato) abbia influenzato l’approccio dell’Occidente all’India è nel modo in cui è stata trattata la sua letteratura: solo quella di natura espressamente religiosa è stata presa in considerazione – il caso più evidente, l’opera di cui F. Max Müller fu il curatore generale: Sacred Books of the East (1879) –, tutto il resto escluso in base a quella che per il contesto indiano era una divisione artificiale fra sacro e profano. Eppure anche la letteratura vernacolare non-sanscrita avrebbe potuto aiutare a delucidare molti aspetti della tradizione spirituale indiana (sul tema cfr. Pollock 2002: 55-73). 5

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

sificazione, a confusione concettuale e ad abusi, ma è anche responsabile di qualcosa di più straordinario: la creazione delle cosiddette religioni [...]. Così è nata una moltitudine di religioni: vedica, brahmanica, indù, buddhista, bonpo, tantrica, taoista, confuciana, shintoista, ecc. In Asia, raggruppamenti del genere non sono solamente poco interessanti e scarsamente informativi, ma anche tinti d’irrealtà. Al contrario ciò che è rilevante sono gli antenati e i maestri – quindi le stirpi, le tradizioni, le affiliazioni, i culti, le eleggibilità e le iniziazioni – concetti con implicazioni rituali piuttosto che vero-funzionali 7.

Va da sé che gli storici delle religioni più attenti, e gli indologi più seri, furono quasi sempre coscienti della complessità del discorso. Quanto detto finora si qualifica piuttosto come una questione ermeneutica, le cui conseguenze si fanno sentire sul presente: sono spesso gli stessi indiani (e vedremo subito quali indiani), più che gli indologi e gli storici delle religioni, a voler utilizzare il termine induismo e a utilizzarlo nel senso di religione. In questo senso il discorso fatto finora non è un invito a compiere un’operazione di ‘archeologia di concetti’ per contestualizzare le conclusioni di, poniamo, un F. Max Müller, quanto un invito a delegittimare (e vedremo per quali ragioni) quelle ‘autorità indigene’ che oggi pretendono di parlare a nome dell’induismo. La prima autorità che si vuole delegittimare sono i sacerdoti e i filosofi che per millenni hanno sostenuto che indù è solamente chi riconosce l’autorità dei Veda (lo stesso Shankara, il filosofo-mistico per antonomasia del mondo indiano, faceva dei Veda il criterio dell’ortodossia). Fu proprio l’approccio privilegiato con quelle ‘autorità’ che portò gli studiosi occidentali a ‘costruire’ un induismo nei termini da quelle indicati. La conseguenza negativa di questa ‘costruzione’ è stata che gli studiosi occidentali hanno sottovalutato certe correnti di pensiero messe sotto silenzio dall’induismo ‘ufficiale’ perché considerate eretiche, in7 Staal 1989: 393. Corsivo nel testo. Conferma Heinrich von Stietencron: “non solo il termine [induismo] è moderno [...], ma anche il concetto di unicità della religione indù fu introdotto dai missionari e dagli studiosi occidentali”. Stietencron 1995: 51.

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INTRODUZIONE

centrando piuttosto la loro attenzione sulla speculazione (rituale, filosofica e mistica) nata attorno ai Veda. L’altra autorità che si vuole delegittimare sono i riformatori neo-induisti e i loro seguaci 8. Quella che sembrava essere una rinascita religiosa e spirituale in seno all’induismo a partire dal XIX secolo, fu di fatto un evidente prodotto dell’Occidente: “è la cultura occidentale e in molti casi addirittura la religione cristiana, che li ha condotti ad abbracciare certi valori religiosi, etici, sociali e politici” 9. È stata la scelta da parte di questi riformatori di determinati valori, scelta determinata da criteri occidentali, a ‘costruire’ un induismo a misura dei paradigmi occidentali. Così il neo-induismo ha paradossalmente utilizzato strumenti occidentali e valori cristiani per costruire un ‘induismo’ (“tollerante, universalistico, onnicomprensivo e non settario”) 10 da contrapporre al cristianesimo, e che potesse anche servire da collante spirituale per la lotta nazionalistica. Sono proprio i nazionalisti indù la terza autorità presa di mira dagli studiosi che vogliono ‘decostruire’ l’induismo: la religione dei nazionalisti è stata creata sulla falsariga delle religioni semite (dai vari RSS, VHP...) “per scopi politici piuttosto che religiosi e in particolar modo per supportare le ambizioni di una nuova classe sociale” 11. In altri termini: gli stessi nazionalisti indù che volevano e vogliono allontanarsi dall’Occidente hanno ‘costruito’ una visione monolitica e intollerante dell’induismo utilizzando gli schemi e i paradigmi di quel mondo occidentale che tanto disprezzano. Si comprende il valore aggiuntivo di un 8

Cfr. Infra, pp. 30-41. Hacker 1978, citato in Smith 2002: 47. 10 Smith 2002: 48. 11 Thapar 1985: 22. Lo RSS, o Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione Nazionale Volontaria), venne fondata nel 1925 dal Dr. K. B. Hedgewar e si dichiara una organizzazione culturale, non un partito politico (cfr. Klostermmaier 2004: 181); il Vishwa Hindu Parishad (VHP), ossia l’Associazione Mondiale Hindu, venne fondato nel 1964 anche con lo scopo di ridare potere politico agli indù. 9

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

tentativo di decostruzione di questo induismo: gli indologi, cioè, vogliono demistificarlo per evitare gli eccessi del fondamentalismo, aprendo piuttosto alla possibilità di creazione di canali di compatibilità, ossia di dialogo. Analizzare i luoghi d’incontri Il dibattito presentato finora deve essere tenuto sullo sfondo nelle analisi successive, dove si presenteranno gli incontri fra gli orizzonti dell’induismo e quelli del cristianesimo: la coscienza, cioè, che l’induismo come ‘religione’ è una costruzione artificiale elaborata sulla falsariga di paradigmi occidentali. Se in passato tale costruzione era più funzionale all’Occidente che all’India 12 ora la situazione sembra essersi capovolta, come mostrato dall’uso improprio della religione da parte di fondamentalisti indù 13. Il contributo della storia delle religioni sarà dunque quello di sgombrare il campo affinché l’incontro fra induismo e cristianesimo avvenga senza mistificazioni falsificatorie. Lo scopo della presente ricerca, tuttavia, non è quello di ‘decostruire’ l’induismo ma di analizzare i luoghi nei quali i molteplici orizzonti dell’induismo e del cristianesimo si sono incontrati. Quanto detto nei paragrafi precedenti era però una necessaria premessa, alla quale ora dobbiamo aggiungere una riflessione sul cristianesimo. 12

Cfr. Infra, pp. 37 ss. Parlare di ‘uso improprio’ della religione è già esprimere un giudizio di valore, che si vorrebbe piuttosto evitare in una analisi storico-religiosa. Preciso dunque che il termine ‘improprio’ non è da intendersi nel senso di una condanna – ossia che la religione non debba essere utilizzata per finalità politiche; anzi, vedremo (cfr. Infra, pp. 107 ss.) quanto la stessa teologia indiana della liberazione insista sul coinvolgimento politico della religione – ma della constatazione che una ‘religione’ apparentemente tollerante come l’induismo sia stata trasformata in una ‘religione’ fondamentalista per scopi politici. 13

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INTRODUZIONE

Mi spiego: come si è accennato alla necessità di ‘de-induizzare’ l’induismo, viene spontaneo infatti chiedersi se sia necessaria una parallela ‘de-cristianizzazione’ del cristianesimo, intesa a un primo livello come la contestualizzazione storica, e la conseguente relativizzazione, della costruzione intellettuale ‘religione cristiana’ successiva all’evento-Gesù. Va da sé che oltre alla domanda sulla validità – o meglio opportunità – di una tale operazione, ci si dovrebbe pure interrogare su quanto essa sia fattibile: quanto praticabile può essere la decostruzione di una religione che fin dagli inizi della sua riflessione teorica, attingendo al pensiero ebraico, greco e romano, si è qualificata come mediterranea e successivamente, con l’incontro col mondo germanico e più in generale nordico, occidentale? Siamo di fronte a un prodotto storico dell’Occidente, e per quanto interessante possa essere una ricerca sull’archeologia dei concetti cristiani, ciò che ai fini di questa ricerca risulta essere rilevante è che il cristianesimo nel suo sviluppo storico è giunto a noi come un prodotto occidentale, e come tale sia stato esportato dalle potenze coloniali in India. Questa è la ragione per cui, più che de-cristianizzare il cristianesimo, sarebbe opportuno parlare di de-colonizzazione della teologia cristiana: eliminare, per quanto possibile, ciò che è stato costruito in duemila anni di storia per parlare al mondo occidentale e vedere come sia possibile parlare e dialogare col mondo dell’induismo senza tutta la zavorra occidentale. L’operazione è senza dubbio delicata, perché la costruzione compiuta in duemila anni è fatta di alcuni elementi che possono essere considerati accidentali (come mostrato da alcuni cambiamenti introdotti dal Vaticano II) ma anche di elementi che, pur espressi con linguaggio filosofico e giuridico occidentale (si pensi ai dogmi), sono ritenuti essenziali al cristianesimo stesso. ‘Decolonizzare la teologia’ non è una mia espressione originale: è presa letteralmente dal titolo di un libro del teologo Noel Leo Erskine, Decolonizing Theology (1998) 14, testo che si inserisce nella linea della teologia 14

Erskine 1998.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

della liberazione: decolonizzazione della teologia, in questa prospettiva, significa trasformare il discorso teorico della teologia ‘tradizionale’ in una prassi liberatrice; passare, se vogliamo, da una ortodossia a una ortoprassi e in questo passaggio trovare gli strumenti per poi elaborare dei linguaggi – dei codici di compatibilità – per parlare a mondi differenti da quello occidentale. Per questa ragione la nostra analisi dei molteplici orizzonti dell’incontro fra induismo e cristianesimo presterà una particolare attenzione alla teologia della liberazione sorta nel contesto indiano: in una prospettiva storico-religiosa, possiamo individuare proprio in quella riflessione uno dei momenti iniziali della ‘de-colonizzazione’ della teologia, laddove una nuova ortoprassi cerca di parlare a un universo complesso come quello induista. Di particolare interesse per la nostra analisi sarà poi il fatto che questo processo ‘decolonizzante’ ha trovato il suo naturale sbocco nella teologia delle religioni: la storia delle religioni non può infatti trascurare il fatto che si è giunti nel confronto fra induismo e cristianesimo a negare, o perlomeno a relativizzare, la normatività stessa di Gesù Cristo come via di salvezza – negazione che, per riprendere la terminologia usata in questo paragrafo, attua una vera e propria de-cristianizzazione del cristianesimo. Anzi, si giunge addirittura a produrre un ‘cristianesimo de-cristianizzato’, laddove Cristo non occupa più la posizione centrale e assoluta avuta nel cristianesimo occidentale per duemila anni.

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1. L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

Non vi sono fonti storiche che testimonino una presenza di Gesù Cristo in India. L’ipotesi venne tuttavia sostenuta con vigore in un’opera oggi quasi dimenticata: La Vie inconnue de Jésus-Christ (1894), del russo Nicolai Notovitch 1. Assorbita abbastanza velocemente in ambienti teosofici e più tardi in quelli antroposofici, l’idea raggiunse pure alcuni circoli massonici 2, grazie anche alla mediazione di The Aquarian Gospel of Jesus the Christ (1908), dell’americano Levi H. Dowling 3. Attualmente l’ipotesi viene portata avanti in alcuni settori del

1 La prima menzione di documenti scritti riguardanti Issa (Gesù) sembra comunque risalire alla metà del XIX secolo nell’opera di una viaggiatrice: cfr. Hervey 2005. 2 In particolare grazie ai testi di James Churchward. Cfr. Mapelli 2006a: 78 ss. 3 Ancor meno interesse dell’opera di Notovitch suscitò negli ambienti accademici The Aquarian Gospel, in particolare per la modalità con cui il suo autore sostenne di aver ottenuto le informazioni: furono infatti alcune rivelazioni à la New Age che gli permisero di venire a ‘conoscenza’ del ‘fatto’ che Gesù venne portato in India, all’età di 12 anni, da un principe indiano che aveva assistito alla disputa nel tempio di Gerusalemme. Come nel racconto di Notovitch anche in quello di Levi Gesù Cristo apprese la sapienza indiana, fino a quando non venne costretto ad abbandonare l’India. A differenza del racconto di Notovitch, però, Gesù nella ricostruzione di Levi raggiunse il Tibet (e non il Nepal), fermandosi a Lhasa a studiare l’antica sapienza tibetana. Quindi, alla vigilia dei 30 anni, tornò in Palestina.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

New Age 4 e compare saltuariamente nella letteratura di viaggio 5. Che Notovitch avesse raggiunto il monastero di Himis 6, e che in quel monastero alcuni monaci buddhisti gli avessero mostrato documenti che narravano del viaggio di Cristo in India, è confermato da diverse fonti 7, anche se contestato da Max Müller 8 e soprattutto da J. A. Douglas 9. L’assenza di prove tangibili – Notovitch non riportò in Europa i documenti in questione –, non dà però alcun credito all’ipotesi. A nulla valse il fatto che dopo Notovitch altre persone affermarono di aver raggiunto il monastero di Himis, e di avere avuto a che fare con quegli stessi manoscritti 10. 4

Un esempio è The Church Universal and Triumphant, guidata da Elizabeth Claire Prophet che è anche l’autrice di un testo, The Lost Years of Jesus (1984), dove si attinge abbondantemente alle tesi di Notovitch. 5 Cfr. ad esempio Childress 1991. 6 Il monastero esiste realmente e si trova in India nella catena dell’Himalaya a circa 4000 metri di altitudine, e a 34 km di distanza dalla capitale di Ladak (Leh). 7 Cfr. Kersten 1986: 36 ss. 8 F. Max Müller pubblicò nel 1894 un articolo dal titolo The alleged sojourn of Christ in India sulla rivista mensile The Ninteenth Century (vol. XXXVI, pp. 515522) dove oltre ad argomentazioni accademiche, cercò di far passare la scoperta di Notovitch come una frode ponendo seri dubbi sull’affermazione del russo di essere realmente stato in Kashmir. Max Müller sostenne infatti che i suoi ‘contatti’ ufficiali britannici in Kashmir non avevano alcun documento che fosse in grado di testimoniare la presenza di un occidentale che rispondesse alla descrizione di Notovitch in un qualunque monastero della regione nel 1887. 9 Nel 1895 Douglas, professore in un collegio ad Agra in India, seguì i passi di Notovitch giungendo fino al monastero di Himis, dove Notovitch avrebbe preso visione dei manoscritti concernenti Issa. Il capo dei monaci gli disse però che l’intera storia di Notovitch era falsa, e che nel suo monastero non vi erano documenti che parlavano di Issa/Gesù. I risultati delle ricerche di Douglas vennero pubblicati nell’aprile del 1896 in un articolo dal titolo The Chief Lama of Himis on the Alleged Unknown life of Christ, nella rivista The Ninteenth Century (vol. XXXIX, pp. 667-678). 10 Il primo fu il discepolo di Ramakrishna Swam \ i Abhedananda (1866-1939) che, dopo aver letto nel 1922 il racconto di Notovitch, decise di raggiungere Himis per confermare la validità della tesi del russo. Nel 1929 pubblicò il resoconto del suo viaggio,

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

La vita sconosciuta di Gesù Notovitch racconta di aver raggiunto, nell’autunno del 1887, un monastero buddhista nella valle di Ladakh (odierno Kashmir indiano). Un monaco, attraverso un interprete, gli spiega come un tempo il Buddha da puro essere spirituale si incarnò in un santo uomo di nome Issa, la cui vita, insegnamento e morte richiamano alla mente di Notovitch quelli di Gesù Cristo 11. Non avendo però quel monastero alcun documento che narri questi fatti, Notovitch decide su consiglio del monaco di dirigersi verso l’importante monastero di Himis. Qui scopre l’esistenza di documenti che raccontano del profeta Issa. Dopo alcune vicissitudini riesce a farsi leggere un paio di quei manoscritti da un monaco, scoprendo cosa accadde a Gesù durante i suoi ‘anni oscuri’ (dai 12 ai 30), dei quali i Vangeli canonici non dicono praticamente nulla. La storia, sinteticamente, è questa: all’età di 14 anni Gesù, in compagnia di alcuni mercanti, giunge in India. Viaggia in diversi luoghi, imparando a leggere il sanscrito e a interpretare i Veda, ma commette l’errore di insegnare alle caste più basse, provocando la furia dei sacerdoti locali che lo costringono a fuggire. Raggiunge il Nepal, dove Kashmir O Tibbate (In Kashmir and Tibet) dove afferma di aver maneggiato e tradotto lui stesso gli antichi manoscritti. La sua testimonianza non è ritenuta credibile dagli storici. Il secondo fu l’artista russo e membro della società Teosofica Nicholas Roerich (18741947): nel 1925 raggiunse il monastero di Himis, confermò in alcuni suo libri l’esistenza di una leggenda che riguardava san Issa (il più famoso dei suoi libri è Heart of Asia, del 1930), ma in tutta onestà ammise di non aver visto i manoscritti. La terza persona fu una svizzera, Elizabeth Caspari, che disse di aver visitato nel 1939 il monastero di Himis dove un monaco gli mostrò dei manoscritti dicendole che vi era scritto che Gesù era stato lì. Anche questa testimonianza non viene ritenuta credibile, particolarmente alla luce del fatto che la Caspari divulgò la notizia solo dopo aver iniziato a lavorare per Elizabeth Claire Prophet. Una coincidenza quanto meno sospetta [cfr. Hassnain @ (n/a)]. 11 Può essere di un certo interesse segnalare questa affermazione di Vivekananda: “È mia particolare convinzione che lo stesso Buddha divenne Cristo”. Vivekananda 1971a: VIII, 180.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

rimane sei anni dedicandosi allo studio dei testi buddhisti; quindi inizia il suo viaggio verso occidente, che lo porterà in Palestina. Lì gli eventi della sua vita saranno poi raccolti e narrati nei Vangeli. La tesi di Notovitch, se rimanesse confinata in questo breve tragitto, non recherebbe alcun danno teologico: i dogmi fondamentali della fede non vengono intaccati. L’opposizione che Notovitch trovò una volta tornato in Europa era più legata alla percezione che gli europei avevano del mondo indiano, che non alla tesi stessa: in un modo o nell’altro, infatti, l’idea di un Gesù che apprende le sue verità dal mondo indiano avrebbe implicato che Gesù Cristo e in ultima analisi il cristianesimo sarebbero stati debitori alla sapienza indiana, piuttosto che a quella ebraica o a quella greco-romana; e che conseguentemente l’intero Occidente cristiano (che a quel tempo dominava l’India portando avanti, nelle parole di R. Kipling, “il fardello dell’uomo bianco” 12), fosse debitore al mondo indiano. Non sarebbe stato più dunque l’impero britannico a portare la luce della civiltà al mondo intero e all’India particolare, quanto l’opposto 13. La Società Teosofica La tesi di Notovitch riveste un certo interesse per un’analisi storicoreligiosa: l’ipotesi di Gesù in India, infatti, ci induce a domandarci che 12 “the white man burden”. La nota poesia di R. Kipling, pubblicata nel 1899, è in realtà un appello agli Stati Uniti affinchè si assumesse il fardello di sviluppare le Filippine, recentemente acquisite dalla Spagna. L’espressione è comunque entrata nel linguaggio comune come espressione generale del faticoso compito dell’uomo occidentale di civilizzare – ossia occidentalizzare – l’intero pianeta. 13 È comunque di un certo interesse notare che un attento storico del cristianesimo come Ernest Renan (1823-1892) mostrò curiosità sull’argomento, tanto da avere un colloquio personale con Notovitch (cfr. Notovitch 2000: 7). Renan fu l’autore di una celebre Vie de Jésus (1863), opera nella quale il fondatore del cristianesimo perdeva tutti i suoi attributi divini. L’interesse di Renan per l’argomento poi finì in nulla perché Notovitch, timoroso che Renan si prendesse tutta la gloria della scoperta, non gli passò i suoi appunti.

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

cosa portò alcuni individui a sostenere e a credere con vigore che Gesù Cristo, punto fondante della più diffusa religione del pianeta, dovesse avere avuto in un modo o nell’altro dei contatti col mondo indiano. È possibile intuire una risposta facendo riferimento ad alcuni ambienti intellettuali (soprattutto parigini), che nella seconda metà dell’Ottocento stavano cercando una alternativa spirituale all’aridità del positivismo, una alternativa che al tempo stesso avesse il meno possibile da spartire con il cristianesimo, considerato fonte di oscurantismo e ignoranza. La Teosofia fu una di queste alternative, e per questo movimento era vitale trovare una sapienza che potesse lustrarsi del titolo di maggior antichità e profondità rispetto al cristianesimo. L’induismo e le sapienze orientali erano ideali allo scopo e un libro come quello di Notovitch, che faceva di Cristo un discepolo dell’illuminata sapienza indiana, era quanto di meglio potessero sperare: era la conferma ‘storica’ di quanto lungamente cercato e un ridimensionamento colossale di tutta la pretesa cristiana: Cristo stesso poteva venire relativizzato e ridotto al rango di uomo sapiente fra altri uomini sapienti; un guru fra i tanti. La Società Teosofica era stata fondata a New York nel 1875 dall’ucraina Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891) e dal colonnello britannico Henry Steel Olcott (1832-1907). Dopo la pubblicazione e il successo di Isis Unveiled (1877) lasciarono New York e giunsero in India nel 1879. Qui la Società Teosofica mosse i suoi primi passi grazie alla collaborazione con l’Arya Sama\j 14, collaborazione che ebbe tra l’altro il positivo effetto di “rimuovere il ‘complesso di inferiorità’ dalle menti degli Indiani istruiti” 15. Di fatto, anche se gli studi accademici di indologia e sanscrito erano iniziati da diversi decenni, fu la Società Teosofica a fare da ponte fra l’India e l’Occidente, in particolare rendendo popolari con14

Lo Arya Sama\j è un movimento di riforma neo-induista fondato nel 1875 da Swa\mi Dayananda Saraswati. Centrale è l’autorità dei Veda, e il conseguente rigetto di tutto ciò che non era contemplato dai Veda quali il sacrificio di animali, i pellegrinaggi, il sistema castale e il matrimonio dei bambini. 15 R. C. Majumdar, citato in Piano 2002: 257.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

cetti che fino ad allora erano stati patrimonio quasi esclusivo di università e di pochi avventurosi viaggiatori, quali karma e reincarnazione 16. Diffusasi rapidamente in molte città dell’India, la Società Teosofica sopravvisse alla morte dei fondatori grazie alla forte personalità di Annie Besant (1847-1933), la quale coinvolse la Società Teosofica in alcune battaglie sociali nel contesto indiano, tra le quali il tentativo di abolizione della pratica del matrimonio delle fanciulle. I problemi iniziarono quando il braccio destro di A. Besant e pastore anglicano Charles Webster Leadbeater (1847-1934) credette di vedere in un quattordicenne di nome Jiddu Krishnamurti (1895-1986) l’incarnazione sia del Buddha Maitreya sia di Gesù Cristo. Il padre di Krishnamurti era un membro della Società Teosofica dal 1881, e con la famiglia si era trasferito nel 1909 al quartier generale della Società ad Adyar (Chennai, Tamil Nadu). Pochi mesi dopo il giovane Krishnamurti (come ricordato, aveva solo 14 anni), venne ‘scoperto’ da Leadbeater, che vide in lui il ‘Maestro Universale’ tanto atteso. Molti teosofi entusiasti contribuirono all’educazione del giovane prodigio, che terminò i suoi studi in Inghilterra. Se in un primo momento – secondo la sua biografa Mary Lutyens, autrice del libro Krishnamurti: The Years of Awakening (1975) – Krishnamurti era pienamente convinto della verità di quella ‘scoperta’, la morte del fratello nel 1925 lo scosse al punto da rinunciare a tutte le pretese messianiche: nel 1929 rifiutò le insistenti offerte di Leadbeater e Besant di continuare a guidare The Order of the Star, la sezione della Società Teosofica della quale era a capo. Dopo aver abbandonato la Società Teosofica Krishnamurti viaggiò per tutto il mondo, finendo con lo stabilirsi in California. Nel 1984 parlò alle Nazione Unite, ricevendo la Medaglia della Pace. Morì in India nel gennaio del 1986. 16 Va da sé che nella Teosofia i concetti di karma e reincarnazione assunsero un significato diverso – oseremo dire ‘deviato’ – rispetto a quello del proprio contesto originario.

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

Non vogliamo soffermarci sulla figura di Krishnamurti. Ciò di cui prendiamo atto è piuttosto come la Società Teosofica abbia voluto ‘scoprire’ un nuovo messia in India, quasi volendo attuare un paradigma della sostituzione: trovare qualcuno da sostituire a Gesù Cristo. Questa operazione aveva come logica conseguenza che la Società Teosofica sarebbe divenuta la nuova Chiesa universale, in sostituzione di quella Cattolica. Solo attraverso un paradigma di sostituzione, in altre parole, la Società Teosofica avrebbe potuto assumere il ruolo di mediatrice fra Oriente e Occidente 17, spronando la rinascita spirituale dell’Occidente. La conseguenza a lungo termine di questa operazione fu che il coinvolgimento della Società Teosofica col mondo indiano fece guardare con sospetto alla sapienza indiana stessa da parte di ferventi e convinti cristiani: “il viscerale odio anticristiano” della società Teosofica, come lo definisce P. A. Gramaglia, era evidente, come evidenti erano le eretiche riletture della bibbia e dei dogmi cristiani 18: di conseguenza tutto ciò che la Teosofia toccava ed esaltava – sapienza indiana in primis – veniva negativamente inquinato, e poteva essere avvicinato solo con sospetto o quanto meno con precauzione. La tomba di Cristo in Kashmir Chi invece di precauzioni non ne prese alcuna fu il tedesco Holger Kersten, che quasi un secolo dopo Notovitch pubblicò un libro controverso: Jesus lived in India (1986) 19. 17

Cfr. Piano 2002: 258. Cfr. Gramaglia 1991: 103 ss. 19 Un libro più recente che tratta del ‘mito’ di Gesù in India è: Jesus in India: a reexamination of Jesus’ Asian traditions in the light of evidence supporting reincarnation (1994) dell’americano James W. Deardorff, professore emerito presso la Oregon State University. Un testo sull’argomento tradotto in italiano è: Hassnain 1997. 18

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I racconti neotestamentari ambientati dopo la crocifissione, sostiene l’autore, non hanno per protagonista un Cristo risorto quanto un Gesù mai deceduto durante la crocifissione: si trattava solo di morte apparente archittettata dal Cristo stesso con la complicità di alcuni discepoli e soldati. La morte apparente sarebbe stata causata da una sostanza narcotica che Gesù avrebbe ingerito, diluita nell’aceto che bevve sulla croce. Sopravvissuto alla terribile prova Gesù avrebbe visitato di nascosto alcuni fedeli discepoli, in special modo Paolo a Damasco; essendo pericoloso per Cristo rimanere nei domini romani, decise di fuggire verso Oriente per tornare in quell’India che lo aveva formato nella sua giovinezza. Gesù venne accompagnato per un tratto anche dall’anziana madre, che sarebbe poi morta durante il tragitto nei pressi di Taxila (Pakistan). Kersten conclude la sua esposizione descrivendo la cosiddetta tomba del profeta Yuz Asaf (non altri che Gesù Cristo stesso) nel bel mezzo dell’attuale città di Srinagar (Kashmir). Sebbene Kersten sostenga che “tutto considerato, ci sono almeno ventuno documenti storici che testimoniano la presenza di Gesù in Kashmir” 20, l’autore non fornisce attendibili prove storiche a sostegno della sua tesi, limitandosi a citare documenti (fra questi il Bhavisya Pura\n Ûa, sul quale fra breve ritorneremo) senza preoccuparsi di contestualizzarli o di sottoporli a una analisi storico-critica. Un esempio dell’estrema disinvoltura di Kersten nel raggiungere conclusioni è proprio nella parte finale del libro: all’interno della tomba di Yuz Asaf, dice lo scrittore, sono stati trovati (ma non precisa quando e con quali modalità) un crocifisso e un rosario accanto a delle impronte di piede, impresse nella roccia. Il fatto straordinario, scrive Kersten, è che – qualunque sia l’origine delle impronte – in quelle è possibile individuare anche le ferite causate dai chiodi durante la crocifissione. Conclude l’autore: “la posizione delle ferite indica inoltre che il piede sinistro fu inchiodato sopra quello destro, un fatto confermato dall’analisi delle tracce di sangue sulla sacra sindone. 20

Kersten 1986: 200.

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Considerato che la crocifissione era sconosciuta, come mezzo punitivo, in Asia, si può concludere che questo è il luogo di sepoltura di Gesù” 21. Di fatto, quello che gli studi accademici hanno mostrato è che oltre alla mancanza di prove storiche tangibili si può evincere una distanza di Gesù Cristo dall’India almeno da altre due osservazioni. La prima e più appariscente è che da nessuna parte nei Vangeli canonici Gesù cita i Veda o gli insegnamenti del Buddha, che invece secondo le tesi di Notovitch e Kersten sarebbero stati alla base del suo apprendimento durante il soggiorno indiano, nepalese o tibetano. È invece possibile trovare nei Vangeli canonici diverse citazioni tratte dal Vecchio Testamento, che inseriscono pienamente Gesù nel suo contesto ebraico; e il Vecchio Testamento per il quale Cristo mostrò tanto rispetto mette continuamente in guardia contro il cadere vittime di dèi falsi e bugiardi (come evidentemente sarebbero apparsi quelli propugnati dall’induismo) 22. Una seconda ragione è che Gesù era ben conosciuto nel suo ambiente come un falegname (cfr. Mc. 6,3) figlio di un falegname (cfr. Mt. 13,55) e non come un profeta che aveva viaggiato in terre lontane. Per di più l’evangelista Luca, narrando l’inizio del ministero pubblico di Gesù, afferma esplicitamente che Nazareth fu il luogo nel quale Cristo crebbe (cfr. Lc. 4,16), mancando di menzionare quello che ai tempi sarebbe stato un fatto straordinario e degno di nota: l’aver viaggiato e l’essere vissuto per lungo tempo in una terra distante come l’India. In altri termini: nonostante le svariate tesi che sono state proposte per ‘riempire’ gli anni oscuri di Gesù, l’unica ipotesi che finora ha credibilità da un punto di vista storico è quella che vede Gesù Cristo pienamente inserito nel suo ambiente; ambiente dal quale non si è mai allontanato per giungere in un’India misteriosa e lontana 23. 21

Kersten 1986: 208. Cfr. Es. 20,2-3; Es. 34,14; Dt. 6,14; Dt. 13,10; 2 Re 17,35. 23 Si potrebbero aggiungere molte altre obiezioni. In particolare: è storicamente impossibile che Gesù abbia appreso il buddhismo in Tibet, in quanto – secondo gli 22

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Il Pura\naÛ controverso Quello che è singolare, per un’analisi storico-religiosa, non è solamente il fatto che alcuni settori dell’Occidente abbiano cercato di attenuare l’urto fra cristianesimo e induismo facendo di Cristo un pellegrino sulle vie del dharma, ma anche e soprattutto il fatto che all’interno dello stesso induismo si cercò di ‘familiarizzare’ la figura di Cristo attraverso codici conosciuti. Questo è testimoniato in modo esemplare dal Bhavisya Pura\naÛ . Datato al XII secolo circa 24, il Bhavisya Pura\naÛ contiene quello che viene solitamente ritenuto il primo riferimento a Cristo in un testo indiano: in una sezione di questo Pura\naÛ (III, 3.2.21-32) viene infatti narrata la visione di Isamasiha/Cristo (‘aldilà del fiume’, in una imprecisata regione dello Himalaya) da parte del re Salivahana. Nella visione Isamasiha, un figlio di dio nato da vergine, rivela di essere venuto nella terra del re a predicare il dharma. Il passaggio in questione si trova solo in una delle cinque edizioni del Bhavisya Pura\naÛ in nostro possesso: è nota come l’edizione Venkatesvara e risale al 1897. Da alcuni studiosi è ritenuta una ‘literary fraud’, un disonesto tentativo di far passare come ‘antico’ un testo in realtà risalente alla fine del XIX secolo 25. L’osservazione però tralascia di considerare la natura dei Pura\naÛ , i quali non sono testi canonici fisstudi accademici più recenti – gli insegnamenti del Buddha non raggiunsero il Tibet prima del VII secolo. 24 Cfr. Amaladass 2004: 123, nota 1. Il Bhavisya Pura\naÛ è oggetto di svariate polemiche, sia per datazione e contenuto, sia per autorità e nome stesso: ‘Bhavisya’ vuol dire futuro, ‘Pura\naÛ ’ antichità. 25 Bonazzoli 1979: 27. Va comunque ricordato che il riferimento a Cristo non è l’unico di natura biblica: troviamo la storia di Adamo ed Eva e quella di Noè (Pratisarga 1.4.18-60); si parla dei discendenti di Noè, si nomina Mosé e la confusione di Babele (Pratisarga 1.5.1-41); quindi si parla di nuovo di Noè, che va in Egitto, ha dieci figli e uno di questi giunge ai confini dell’oceano sul monte Arbuda (Pratisarga IV.3.10-20).

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sati ma l’espressione di una tradizione vivente: il Bhavisya era proprio uno di quei testi puranici ancora in fase di sviluppo e aggiornamento 26. La vera questione esegetica è stata piuttosto individuata in questa problematica: l’interpolazione è stata opera di un singolo individuo o è l’espressione di una più vasta tradizione indù rifacentesi al ‘mito’ di Cristo in Kashmir? 27. In altri termini: come spiegare il fatto che a un certo punto (sia che si tratti di un singolo individuo sia di una ‘scuola’) l’induismo abbia sentito la necessità di confrontarsi con Cristo, e di farlo inserendo la sua figura all’interno di un testo appartenente alla propria tradizione? Nelle pagine dell’edizione Venkatesvara scopriamo che il testo si basa su un unico manoscritto preparato da un individuo di nome Thakur Mahan Candar, il quale a sua volta avrebbe consultato un vecchio libro trovato nella città di Amrtsar (Punjab). Se l’informazione è corretta, quanto scritto nel Bhavisya Pura\naÛ può vantare una certa antichità rispetto al testo stampato: perlomeno sarebbe anteriore al 1897, rifacendosi a una tradizione presente nella regione già da tempo 28. Ecco il testo in questione: 21cd. Una volta il Signore dei Saka si diresse verso un monte innevato. 22. Al centro del territorio degli Huna [i.e. la zona vicino al monte Kaila\sa, nel Tibet Occidentale] il potente re vide su una montagna un individuo bello e di carnagione chiara, con indosso abiti bianchi. 23. “Chi sei?”, chiese [il re] e l’altro con grande gioia rispose: “Sappi che io sono il figlio di dio (Isaputra), nato dal grembo di una vergine (kumari), predicatore della religione per i Mleccha (Mleccha-dharma), devoto alla verità e all’osservanza religiosa”. 24. Sentendo ciò, il re chiese: “Quale è la religione (dharma) che insegni?”. 26

Cfr. Bonazzoli 1979: 31. Cfr. Bonazzoli 1979: 39. 28 Cfr. Bonazzoli 1979: 29-30. 27

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25. Rispose: “Quando si è completato il satya yuga, o grande re, io sono venuto come Messia (Masiha) in questo paese malvagio dei Mleccha. 26. Il terribile ‘Isamasi’ degli empi degradati era apparso. L’ho preso dai Mleccha e sono divenuto Massiah. 27. Il corpo è soggetto a contaminazioni buone o cattive. Ascolta, o signore della terra, come ho reso pura la mente e stabilito principi religiosi (dharma) fra i Mleccha. 28. Un uomo, mettendo la sua fiducia sulla tradizionale recita (japa), secondo la norma dovrebbe contemplare il Supremo senza macchia, con parole di verità e mente concentrata. 29. Si dovrebbe adorare Dio che risiede nel globo solare con la meditazione. Questo è in perpetuo l’immobile Signore stesso e l’immobile sole. 30. Egli è colui che rimuove tutti gli elementi transeunti completamente. Così, o Re, attraverso questa azione, il Masiha fu distrutto. 31. Avendo ottenuto nel mio cuore l’immagine sempre pura, e fonte di felicità, di Dio, il mio nome è divenuto Isamasiha. 32. Dopo avere ascoltato tutto ciò, quel re si inchinò a quella persona al servizio dei Mlecca, e si stabilì nella terra dei Mleccha.

G. Bonazzoli sostiene che “il brano non sembra influenzato da alcuna fonte scritta” 29: l’autore (o autori) non aveva fra le mani il Vangelo o qualche libro biblico. È più probabile invece che si tratti di una re-interpretazione di cose sentite (hearsay) da cristiani e musulmani ormai da diversi secoli presenti nell’area 30. È possibile dimostrare l’ipotesi con un esempio: nella sloka (strofa) 29 Isamasiha/Cristo spiegando il dharma incoraggia la devozione al sole: “Si dovrebbe adorare Dio che risiede nel globo solare con la meditazione”. Si tratta, questa, di una devozione chiaramente aliena alla fede cristiana. Se presa letteralmente la sloka è il segnale più evidente che colui, o coloro i quali hanno voluto inserire questo passo erano ignari dei più basilari fonda29

Bonazzoli 1979: 35. Dopo aver parlato di Cristo, il Pura\naÛ in questione narra di Maometto, ed è probabile che l’autore dei due racconti sia lo stesso. 30

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menti della dottrina cristiana: in nessuna parte del Vangelo è possibile trovare un brano nel quale Gesù Cristo inviti alla devozione nei confronti di un elemento naturale, e neanche sfogliando le Lettere degli Apostoli o la letteratura patristica successiva si trova qualcosa che può essere interpretato come un culto solare. È tuttavia possibile un’altra spiegazione, mettendo in relazione tale invito col fatto che i cristiani celebrano le loro devozioni nel ‘giorno del sole’: sun-day (domenica nella lingua inglese). Questo era palese a tutti coloro che vivevano a contatto con i cristiani: pur non conoscendone le più intime dottrine o i raffinati dogmi teologici, tutti sapevano che la domenica essi si ritrovavano a pregare il loro Dio – un po’ come anche i non-musulmani sanno che i fedeli dell’islam si trovano a pregare di venerdì, pur non avendo letto il Corano e pur non conoscendo quali sono i principi del loro credo. Un’operazione del genere, però, è possibile solo in un ambiente culturalmente influenzato dal mondo e dalla lingua inglese, dove domenica è sunday: sun-day, il giorno del sole. Un tale ‘errore’ di interpretazione non sarebbe stato possibile in un ambiente culturalmente dominato ad esempio dalla Francia (dove domenica è dimanche, nulla a che vedere col sole). È proprio l’ipotesi di una influenza culturale inglese che porta G. Bonazzoli a sostenere la tesi che la visione di Gesù nel Bhavisya può essere compresa solo sulla sfondo del Rinascimento indiano del XIX secolo, quel movimento di rinascita spirituale e intellettuale indiana influenzato dal mondo inglese: “troviamo qui, dunque, la chiave per comprendere la ragione di queste inserzioni; tutte le storie bibliche e l’apparizione di Gesù a Salivahana dovrebbero forse essere interpretate come un tentativo da parte di alcuni Indù di assimilare nelle loro tradizioni i valori dei conquistatori” 31; conquistatori che altri non erano che i cristiani dell’impero britannico, gli inglesi che ogni sun-day cantavano le lodi a Cristo. 31

Bonazzoli 1979: 37.

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Le conclusioni tratte da Bonazzoli sono dunque che il passo del Bhavisya 1) è stato influenzato dalle teorie occidentali di un Cristo in Kashmir, che a quei tempi stavano diventando sempre più popolari (il libro di Notovitch, sarà bene ricordarlo, era stato pubblicato nel 1894, solo tre anni prima dell’edizione Venkatesvara) e che con ogni probabilità 2) è stato inserito da un circolo di studiosi facente parte di un gruppo più vasto di intellettuali che in quegli anni cercava di reagire – perlomeno sul piano culturale – ai colonizzatori stranieri 32. Il Rinascimento indiano Soffermiamoci su questi intellettuali e sul movimento a cui essi diedero origine: il Rinascimento indiano. Fino al XIX secolo l’induismo non aveva mostrato sostanzialmente alcun interesse per il cristianesimo: anche se era la religione dei conquistatori, era semplicemente ‘una delle tante’. Quando tuttavia si risvegliò il sentimento nazionale iniziarono pure diversi movimenti di riforma dell’induismo, e alcuni di questi adottarono principi cristiani. I movimenti di riforma si presentarono spesso come sama\j, ossia associazioni di carattere culturale che nascevano dall’ambiente della borghesia indiana. Abbiamo già citato l’Arya Sama\j; il più noto fu tuttavia il Brahma Sama\j – fondato nel 1828 da Ram Mohan Roy –, associazione alla quale si fanno risalire gli inizi del dialogo fra induismo e cristianesimo. Nelle parole di K. Baago: “le prime persone a tentare una intepretazione indigena di Cristo in India non furono missionari o cristiani indiani, ma degli appartenenti al Brahma Sama\j” 33. Ram Mohan Roy (1772-1833) era interessato soprattutto all’insegnamento etico di Gesù, tanto da tradurre in sanscrito dal Nuovo Te32 33

Bonazzoli 1979: 38. Baago 1969: 12.

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stamento (aveva studiato il greco e l’ebraico) alcuni insegnamenti di Cristo che riteneva essere utili per gli indù, poi confluiti in un celebre libro: The precepts of Jesus: the guide to Peace and Happiness (1820). Quanto l’operazione venisse interpretata come pericolosa da entrambi i fronti – quello cristiano e quello indù –, è mostrato dal fatto che se i missionari attaccarono Ram Roy perché non riconosceva la divinità di Gesù Cristo, i suoi ‘amici’ indù lo accusarono invece di voler cristianizzare l’induismo: agli occhi degli indù più tradizionalisti il Brahma Sama\j appariva infatti una sorta di ‘cavallo di Troia’ col quale infettare l’induismo di idee cristiane e occidentali. In effetti Ram Roy, di formazione occidentale, sentiva la necessità di riformare il politeismo indù e il culto delle immagini: ciò era necessario per ‘riportare’ l’induismo al monoteismo vedantico. L’operazione però richiedeva la diffusione a livello popolare di testi che fino ad allora erano stati accessibili solo alle caste alte. Un altro motivo di diffidenza delle caste alte nei suoi confronti era il forte attivismo di Ram Roy sul piano sociale: famosa è rimasta la sua lotta per l’abolizione del rito della satı.\ Si comprendono le preoccupazione dei tradizionalisti indù: come non vedere nella pretesa di ritornare al ‘monoteismo’ vedantico un tentativo di omologazione al monoteismo cristiano? Come non vedere nella ‘democratizzazione’ dei testi sacri l’omologazione all’uguaglianza predicata dall’Occidente illuminista? Come non vedere nella lotta contro la satı \ un tentativo occidentale di riscattare la donna per portarla in una posizione che non le apparteneva nella società indù? Tutti questi sospetti verranno confermati quando nel 1857 Keshub Chandra Sen (1834-1884) aderì al Brahma Sama\j: esponente dell’ala più ‘progressista’ dell’associazione – lottò strenuamente contro il matrimonio fra bambini –, contribuirà al diffondersi dell’associazione al di fuori dei confini originari del Bengala. Se Ram Roy aveva accettato solamente l’insegnamento etico del cristianesimo, Keshub Chandra Sen vide invece in Gesù Cristo la pienezza, il completamento (fulfilment) dell’induismo. Ram Roy agli occhi dei fondamentalisti indù aveva fatto i primi timidi passi per avvicinare l’induismo al cristianesimo; ora Ke31

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shub Chandra Sen compiva il passo decisivo e assorbiva l’induismo nel cristianesimo: “anche se prese pratiche devozionali e yoghiche dall’induismo, egli attinse molto più dagli insegnamenti e dalle pratiche cristiane” 34. Poco importava che per Keshub Chandra Sen Cristo era asiatico; quello che gli indù ‘puri’ percepivano era che per lui Gesù rappresentava il completamento della ricerca spirituale indiana: “Gesù Cristo non era forse un asiatico? Sì, ed i suoi discepoli erano asiatici, e tutti i ministri impiegati per la propagazione del Vangelo erano asiatici. Infatti, il Cristianesimo è stato fondato e sviluppato dagli asiatici in Asia. Quando rifletto su questo, il mio amore per Gesù viene intensificato cento volte di più; io lo sento più vicino al mio cuore e più profondo nei miei sentimenti nazionali... In Cristo vediamo non solo la sublimità dell’umanità, ma anche la sua grandiosità alla quale la natura asiatica è sensibile. Per noi asiatici, dunque, Cristo è doppiamente interessante e la sua religione merita la nostra speciale attenzione come una cosa totalmente orientale” 35. I sospetti degli indù ‘puri’ vennero ulteriormente provati dal discepolo più noto di Keshub Chandra Sen, Manilal Parekh (1885-1967). Come scrive H. Staffner: “Per lui essere un cristiano significava condividere la coscienza di Gesù Cristo. In questo senso poteva dire: più era un indù, più era un discepolo di Cristo; e più era un discepolo di Cristo, più era un indù. Considerava di suprema importanza per un discepolo di Cristo rimanere, dal punto di vista sociale, un membro della comunità indù” 36. Il sigillo di questo assorbimento dell’induismo nel cristianesimo si vide comunque quando il brahmino Krishna Mohan Banerjea (1813-1885) venne battezzato. Nei suoi scritti Banerjea cercò di dimostrare che Gesù di Nazareth era il vero Praja\pati “il cui nome e la cui 34

De Bary 1958: II, 64. Citato in Acharaparumbil 1982: 245. 36 Staffner 1988: 46. Maestro e discepolo, in ogni caso, non si conobbero personalmente. 35

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

posizione corrispondono a quello dell’ideale vedico – uno mortale ed immortale, che sacrifica se stesso per l’umanità” 37: Banerjea faceva infatti notare che secondo i Veda la redenzione del peccatore avviene attraverso il sacrificio del Praja\pati; e l’ideale del Praja\pati, in tutta la storia dell’umanità, si era realizzato solo nella figura di Gesù di Nazareth 38. La conferma definitiva venne quando nel 1881 un altro brahmano, Bramabandhav Upadhyaya (1861-1907), si convertì al cattolicesimo dopo aver ‘conosciuto’ Gesù attraverso il Brahma Sama\j. L’interpretazione di Gesù da parte di colui che A. Mookenthottam definisce “il primo teologo cattolico indiano” 39 non ruotava attorno alla figura del Praja\pati ma alla speculazione, ispirata a Shankara, sulla ‘trinità’ dei Veda (sat-cit-a\nanda: essere-coscienza-beatitudine), messa a tal punto in parallelo con quella cristiana che la figura storica di Gesù sembrava dissolversi in una figura metafisica e atemporale 40. In quegli stessi anni Dayananda Saraswati (1824-1883) portava avanti una tesi molto radicale: solo i Veda erano accettabili, tutto ciò che veniva dopo e tutto ciò che era fuori da quei testi sacri doveva essere condannato 41. Diversamente dagli approcci tolleranti di Keshub Chandra Sen e Ram Roy, Saraswati si diede da fare per mostrare le in37

Philip 1982: 195. Sulla complessa tematica concernente il mito di Praja\pati, cfr. Panikkar 2000: 77-104. 39 Cfr. Mookenthottam 1980: 12. 40 Non va dimenticato che tentativi di sintesi di questa natura non sono una novità storica, ma sono presenti nei Pura\naÛ come espressione di uno sforzo di unificare varie correnti upanishadiche e dharmiche. Cioè a dire: il tentativo di alcuni indiani di armonizzare una realtà esterna alla tradizione indiana quale il cristianesimo non deve essere sovraccaricato di significato particolare, per quanto concerne l’originalità del meccanismo. L’originalità, come si vedrà, la si può individuare piuttosto nel tentativo di conciliare un unicum di carattere storico (Gesù) con una verità di carattere astorico. La Storia e l’Assoluto. 41 Una posizione simile riferita all’epica indiana era già presente da tempo nella letteratura puranica, e non era basata sul dharma. 38

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consistenze della fede cristiana: famosa resta un’opera del 1873, dove attraverso un dialogo fra lui e un missionario mostra come la bibbia sia un libro pieno di falsità. Quanto al rapporto con i missionari è significativa una frase di P. C. Moozumdar (1840-1905), il quale pubblicò nel 1883 un saggio dal titolo The Oriental Christ: “Cristo ci ha raggiunto, ma i missionari ci hanno mancato” 42. Il suo amico Max Müller gli scrisse, mostrando una certa comprensione per quel giudizio: “è ben vero che i missionari dovrebbero rendersi conto che in India dovevano predicare un altro tipo di cristianesimo” 43. Sa\dhu Sundar Singh (1889-1929), definito “l’indiano cristiano più famoso mai vissuto” 44, ebbe una visione negativa delle chieseconfessioni cristiane: “noi indiani non vogliamo una dottrina, nemmeno una dottrina religiosa; ne abbiamo abbastanza di quel genere di cose; siamo stanchi di dottrine. Abbiamo bisogno del Cristo Vivente. L’India non vuole solo persone che insegnino e predichino, ma lavoratori la cui vita e carattere sia una rivelazione di Gesù Cristo” 45. Ciononostante, affermava che “il cristianesimo è il compimento dell’Induismo. L’Induismo ha scavato canali. Cristo è l’acqua che scorrerà in questi canali” 46. Nehemiah Goreh (1825-1895), ordinato poi sacerdote anglicano, sostenne la tesi della praeparatio evangelii nell’induismo: “Abbandonai la religione indù perché compresi che non era una religione donata da Dio. Io condanno i suoi errori. Ma non ho mai trovato nulla di sbagliato, teoricamente, nel suo insegnamento circa l’incarnazione di Dio. In verità, molte delle storie di Krishna e Ra\ma, che secondo la religione Indù sono incarnazioni di Dio, ci colpivano profondamente... E co-

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Citato in Staffner 1988: 72. Citato in Bose 1940: 276. 44 Boyd 1975: 92. 45 Citato in Heiler 1927: 266. 46 Citato in Streeter-Appasamy 1921: 232. 43

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

sì i nostri connazionali sono stati preparati, in qualche misura, ad apprezzare e accogliere le verità del cristianesimo” 47. Vengal Chakkarai fu tra i fondatori del Christo Sama\j, che aveva lo scopo dichiarato di ‘induizzare’ la Chiesa. Pubblicò Jesus the Avatar (1927) e The cross and indian thought (1932). Il suo pensiero si caratterizza per una virtuale identificazione fra Cristo e Spirito Santo: “Lo Spirito Santo è Gesù Cristo all’opera nella personalità umana” 48; ancora: “lo Spirito Santo è Gesù Cristo stesso, che prende la Sua dimora fra noi [...]. Il punto di partenza nella coscienza del discepolo cristiano è che lo Spirito Santo è Gesù stesso” 49. Pandipeddi Chenchiah (1886-1959), definito “una delle figure più straordinarie e originali nella storia della teologia cristiana indiana” 50, contribì alla stesura di un famoso libro sul cristianesimo in India: Rethinking Christianity in India (1938). Convertitosi dall’induismo al cristianesimo, sviluppò un pensiero che risentì dell’influenza, fra gli altri, di Aurobindo (che conobbe e visitò nel suo a\shram di Pondicherry): il destino dell’uomo è quello di evolversi in una razza spirituale superiore: divenire Cristo. Di qui la necessità di sviluppare uno yoga dello Spirito Santo: “lo Spirito Santo è la nuova energia cosmica; il regno di Dio, il nuovo ordine; i figli di Dio, il nuovo tipo che Cristo ha inaugurato. La Buona Novella è che Dio attraverso Gesù ha fatto una nuova creazione [...]. I figli di Dio sono il gradino successivo nell’evoluzione, e il Regno di Dio il prossimo livello del cosmo” 51. Ne segue una dura critica alla Chiesa: “il cristianesimo prese la via sbagliata quando lasciò il Regno di Dio per la Chiesa [...]; il Cristianesimo è un

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Citato in Boyd 1975: 55-56. Chakkarai 1932: 117. 49 Chakkarai 1932: 117. 50 Boyd 1975: 145. 51 Devasahyam-Sunarisanam 1938: 57. 48

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

fallimento, perché abbiamo fatto una nuova religione invece di una nuova creazione” 52. Sia Bramabandhav Upadhyaya sia Krishna Mohan Banerjea cercano di mettere in luce come Cristo sia ‘in accordo’ con le verità rivelate dai saggi indù; entrambi sottolineano l’importanza dei Veda per interpretare la figura di Cristo. Soprattutto, entrambi sottovalutano l’aspetto umano del Cristo a favore di quello divino: l’uno mettendo in luce il suo ruolo di salvifico Praja\pati, l’altro il suo essere parte della trinità ‘vedico-cristiana’. Questo è un tratto comune della riflessione indiana su Cristo nel XIX secolo e l’impressione è che ciò sia avvenuto per evitare di attribuire a Gesù la casta (degli artigiani) che gli sarebbe stata propria, una delle più umili. La localizzazione socio-economica di Cristo ha dunque avuto un ruolo determinante nel pensiero dei due autori citati, entrambi brahmani, nel sottolineare più l’aspetto divino che quello umano. La conseguenza fu che questi primi intellettuali non avrebbero riflettuto abbastanza sulla prassi ‘liberatrice’ di Cristo a favore dei poveri e degli emarginati, in maniera radicalmente diversa da quanto farà la teologia della liberazione indiana del XX secolo. Ecco un passo di Bramabandhav Upadhyaya: Siete frenati dalla paura di cambiamenti sociali nelle vostre abitudini di vita? Abbandonate queste preoccupazioni. Il Cristianesimo non richiede questi cambiamenti. Chiede solo una fede che si manifesti nell’amore. Vuole la purezza del cuore, della mente, delle azioni. Richiede solo il sacrificio di tutti i cattivi principi: un fatto ragionevole. Ma non interferisce con le consuetudini sociali. Non detta alcuna norma per quanto riguarda la carne, le bevande o gli abiti 53. 52 53

Citato in Boyd 1975: 159. Citato in Philip 1982: 199-200.

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

Ancora, un passo di Singh: Il pensiero indiano può essere utile al Cristianesimo esattamente come lo fu il pensiero Greco per l’Europa [...]. Le verità dei filosofi Indù devono essere ‘battezzate’ e usate come tracce (stepping-stones) per la fede cattolica [...]. Le vesti europee della religione cattolica dovrebbero essere dismesse prima possibile. Deve assumere panni Indù, che la renderanno accettabile agli abitanti dell’India 54.

Volendo semplificare, questi brahmani convertiti, ai quali dobbiamo le prime autentiche riflessioni concernenti un’inculturazione del cristianesimo in India, furono più attratti dal Cristo post-pasquale che dal Gesù pre-pasquale; più attratti dal suo essere connesso alla cosmica gloria trinitaria, che al suo essersi incarnato nel corpo di un individuo di umile casta. Invenzioni e protezionismo Per comprendere il senso del dibattito, tuttavia, dobbiamo ritornare su un tema al quale abbiamo già accennato nella Introduzione, ossia l’uso del termine-concetto ‘induismo’: inesistente nella tradizione culturale indiana, esso è stato piuttosto un ‘vestito’ fatto indossare dall’esterno – da parte di burocrati coloniali, missionari, indologi e viaggiatori – al mondo indiano. Una volta divenuto di uso corrente, tuttavia, il concetto venne utilizzato dagli stessi indiani e, nel nostro caso specifico, dai riformatori indù. Posto in questi termini, il paradosso è quello di trovarsi di fronte a un movimento che vuole riformare dall’interno qualcosa che è stato forzato dall’esterno. Questa parrà una riflessione sofistica, ma è indubbio che l’uso del termine ‘induismo’ da parte dei riformatori ha inge54

Citato in Heiler 1927: 248.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

nerato una difficoltà non secondaria: essendo il termine ‘induismo’ una nuova invenzione occidentale, non vi fu un consenso fra i riformatori su che cosa si dovesse intendere con ‘induismo’. Anzi, la confusione fu tale che si giunse al paradosso che gli stessi riformatori indù si ‘scomunicavano’ reciprocamente 55, ciascuno pretendendo di rappresentare il ‘vero’ induismo: nel tentativo di definire quale fosse il ‘vero’ induismo da una parte troviamo i riformatori che si muovevano nella direzione del teismo (come Ram Roy, Keshub Chandra Sen e Sarasvati) e dall’altra i riformatori (come Ramakrishna, Vivekananda e in tempi più recenti Aurobindo) 56, che consideravano il teismo e più in generale l’idea di un dio personale come una verità inferiore, in quanto l’esperienza più alta era quella non-dualista dell’Advaita Veda\nta. Si può notare l’ironia di tutto ciò: gli occidentali inventano l’induismo, e gli induisti così ‘inventati’ disquisiscono su che cosa sia il vero induismo 57. Di fatto, l’utilizzo del temine induismo mostra un chiaro debito nei confronti dei missionari e degli indologi, le due categorie alle quali possiamo ragionevolmente far risalire l’invenzione del termine: i primi con lo scopo di raggruppare l’infinito caleidoscopio religioso e filosofico del continente indiano in un sistema unico, di modo che potesse essere più facilmente compreso, affrontato e, nelle intenzioni di molti, distrutto; i secondi per poter avere a disposizione un’unità ‘filosofica’ delle varie speculazioni indiane, tali da renderle più comprensibili alla mente occidentale. Si potrebbe osare di più: i teisti sono direttamente debitori dei missionari. Mi spiego: da una parte abbiamo i missionari cristiani che cercano di mostrare e diffondere la superiorità di una religione monoteista; dall’altra i riformatori indù che, nel tentativo di mostrare la profondità spirituale della loro tradizione, l’assi55

Cfr. Neufeldt 1985: 25-44. Cfr. Infra, pp. 46-50; 69-75. 57 Non va tuttavia dimenticato che le discussioni sul significato e il valore dei Veda, delle varie divisioni del dharma e via di questo passo sono sempre state molto vivaci nella storia indiana. 56

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milano al cristianesimo, individuando la punta più alta della millenaria riflessione indiana proprio nelle dottrine teiste. In questo loro processo di ‘assimilazione’ gli induisti furono certamente incoraggiati da diversi occidentali: un esempio è il riformatore indiano Mahadev Govind Ranade (1842-1901), che vide nell’arrivo dei britannici un fatto ‘provvidenziale’ proprio perché attraverso la predicazione civilizzatrice dei missionari l’induismo poteva (ri)scoprire la sua riflessione teista; questo a sua volta avrebbe purificato l’induismo – allontanandolo dalle superstizioni del popolo e dalle astruse speculazioni dei filosofi – e lo avrebbe preparato all’accoglimento dell’unica vera religione monoteista, il cristianesimo. Il secondo fronte dei riformatori si muoveva invece su una linea radicalmente differente dal teismo: ispirandosi alla dottrina non-dualista dell’Advaita, trovarono il pinnacolo della riflessione spirituale indù nella scoperta di un Assoluto ‘impersonale’ (o meglio, ‘superpersonale’), di fronte al quale tutte le religioni che celebravano un dio personale divenivano di rango inferiore; questo valeva tanto per il cristianesimo che per l’induismo teista. Ora, se per la prima linea di pensiero possiamo ragionevolmente supporre che forte sia stata l’influenza dei missionari cristiani e della loro predicazione monoteista, per questa seconda linea possiamo ipotizzare invece l’influenza degli indologi: furono questi che, scoprendo l’altissima spiritualità contenuta nelle Upanishad e negli altri testi sacri, avrebbero esaltato un induismo più filosofico che fideistico; furono gli indologi a creare l’induismo come filosofia spirituale dell’Assoluto indifferenziato. Due fatti accumunano in ogni caso entrambe le linee di pensiero: il primo è l’enfasi posta da entrambe sulle scritture sacre indù, quasi se ne volesse fare una sorta di ‘bibbia’ dell’induismo; il secondo è che gli esponenti di entrambi i movimenti diedero origine a varie strutture sociali e caritative sul modello di quelle dei missionari cristiani – scuole, orfanatrofi, case per vedove, assistenza ai poveri – senza dimenticare il loro interesse per questioni sociali quali il matrimonio dei bambini, la satı,\ le ingiustizie prodotte dal sistema castale. Non voglio comunque 39

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

forzare eccessivamente questi paralleli, quasi a voler stabilire un rapporto meccanico di causa (missionari e indologi) ed effetto (riformatori neo-induisti). Quello che viene spontaneo domandarsi è per quale motivo i riformatori neo-induisti accolsero così entusiasticamente questa invenzione: per mancanza di riflessione intellettuale, o altro? La risposta più appropriata ce la fornisce R. Neufeldt: I cambiamenti che avvengono, dunque, devono essere considerati attentamente, per non correre il rischio di vederli come ciò che avvicina Indù e Cristiani, rendendoli sempre più simili. In un certo senso essi diventano l’uno simile all’altro, ma a livello di tattica e di argomentazioni, non a livello di un accordo sul come l’essere umano trovi vero significato e compimento. In altri termini, i cambiamenti che effettivamente avvennero nel Rinascimento indiano avvennero per proteggere gli indù dagli appelli dei Cristiani. Gli appelli all’esistenza di un ‘nucleo centrale’ nell’induismo, nella forma vuoi del monoteismo vuoi del non-dualismo, devono essere intesi almeno in parte come una mossa protezionistica. Le argomentazioni in favore di quel ‘nucleo centrale’ o per la supremazia dei Veda o delle Upanishad sono sotto certi aspetti temi presi a prestito, ma utilizzati per sostenere una particolare visione dell’Induismo contro le incursioni della Cristianità 58.

In poche parole: i riformatori indù non hanno ‘preso in prestito’ gli insegnamenti dei missionari e degli indologi per rendere l’induismo simile al cristianesimo, quanto per proteggerlo utilizzando – metaforicamente parlando – le stesse armi dei nemici. Gli indologi e i missionari, in altri termini, potevano pure avere ‘inventato’ l’induismo. Questa invenzione tuttavia venne utilizzata dai loro ‘discepoli’ per rinvigorire le posizioni tradizionali e nazionaliste. Coloro – e sono la maggioranza – che vedono in questi movimenti di riforma neo-induista i primi entusiasti passi di un dialogo indù-cristiano devono dunque prendere in considerazione anche altri lati della vicenda: se è vero che il Rinasci58

Neufeldt 1989: 42-43. Corsivo mio.

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

mento indiano portò più vicine le due ‘religioni’, non per questo automaticamente le portò al dialogo. Invenzioni e traduzioni A queste riflessioni è possibile aggiungerne altre. In particolare, viene riconosciuto al neo-induismo il merito di avere ‘tradotto’ i termini religione e filosofia con, rispettivamente, dharma e darsa; na 59. Sono tuttavia i due termini così univoci? Possiamo realmente tradurre dharma con religione e darsa; na con filosofia – o non sono piuttosto e religione e filosofia così intese delle creazioni del neo-induismo? La complessità del discorso si può intuire anche dal fatto che in India non si trova un termine per ‘filosofo’ per indicare qualcuno distinto dal ‘saggio’ o dal ‘santo’, quasi a voler dire che la dimensione ‘spirituale’ non è separata da quella ‘filosofica’. Nel classico Philosophies of India (1951) di Heinrich Zimmer troviamo ad esempio questa affermazione: l’interesse primario dell’India, “in stridente contrasto con gli interessi dei moderni filosofi occidentali, è sempre stato non l’informazione, ma la trasformazione: un cambiamento radicale della natura dell’uomo e, quindi, un rinnovamento della sua comprensione del mondo esterno e dell’esistenza; la trasformazione più completa possibile, così come avviene quando si giunge con successo a una conversione o a una rinascita totale. In tal senso, la filosofia indiana si avvicina alla religione molto più di quanto faccia il pensiero critico e secolarizzato dell’Occidente moderno” 60. Proprio in virtù di queste parole si è pensato bene, nella traduzione italiana, di rendere il titolo inglese Philosophies of India con Filosofie e Religioni dell’India, perché 59 60

Cfr. Halbfass 1988: 275. Zimmer 2001: 27-28.

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la disciplina che offre all’uomo non semplice informazione, ma piuttosto trasformazione interiore in Occidente si chiama religione 61.

W. Halbfass sottolinea la complessità del discorso ricordando che esistono in realtà almeno due termini che potrebbero tradurre il concetto di ‘filosofia’: a\nvıks \ ikı Û \ e il già nominato darsa; na. Il primo termine potrebbe essere tradotto con “ragionamento logico” 62, in particolare con riferimento a un sistema logico di pensiero utilizzato dai pensatori del passato per contrastare gli avversari, mettendo in luce i punti deboli del loro ragionamento. Il secondo termine è solitamente tradotto come ‘vedere’ (nel senso dell’atto del vedere), e comunemente inteso nel senso inglese di to realize; assume dunque un significato più vasto di mero ‘discorso logico’, includendo dimensioni che in termini occidentali verrebbero definite come ‘spirituali’, come già rilevato da H. Zimmer. È questo secondo termine che trovò il favore dei neo-induisti e venne a essere utilizzato nel senso più vasto di filosofia, intesa come ‘dottrina’ o ‘sistema di pensiero’. Anche il concetto di dharma si presta a molteplici interpretazioni: Stefano Piano precisa che se è vero che “la parola usata in India per indicare religione è dharma” 63 – termine che fra l’altro significa “legge della natura, norma eterna, ordine sia del cosmo, sia della vita individuale e sociale degli esseri umani” 64 –, è anche e soprattutto vero che si potrebbero riempire volumi analizzando le sfumature di tale concetto. In ogni caso il termine dharma, per indicare la ‘religione’ dell’India, è più legittimo del deceptive term – per usare l’espressione di H. von Stietencron – di induismo 65. Già nell’Introduzione ho affrontato la que61

Zimmer 2001: 4. Il discorso si problematizza ulteriormente se consideriamo che in Occidente né il concetto di religione né quello di filosofia hanno un significato univoco. 62 Halbfass 1988: 275. 63 Piano 1996: 21. 64 Piano 1996: 22. 65 Cfr. Stietencron 1989: 11 ss.

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L’INCONTRO DEGLI ORIZZONTI

stione 66; qui mi limito a ricordare che il termine induismo – che piuttosto che essere usato al singolare (una religione) andrebbe usato al plurale per indicare un “collettivo di religioni” 67 –, è più adatto a indicare una realtà socio-culturale che una religione, mentre il concetto di dharma sarebbe più rispettoso della peculiarità culturale indiana. Di fatto, come ricordato da Mario Piantelli all’inzio della sua trattazione sull’induismo, “è sempre malagevole servirsi di un repertorio di categorie nate e cresciute sotto i cieli d’Occidente [...] per interpretare e classificare dati e fenomeni appartenenti ad altri orizzonti culturali, portatori di visioni del mondo sovente affatto irriducibili a quelle che ci sono familiari” 68. Anche da questi pur brevi suggerimenti risulta evidente quante problematiche siano connesse alle concezioni di filosofia-darsa; na e religione-dharma, ma soprattutto quanto sia difficile sfuggire all’impressione della ‘riduzione’ subita da quei concetti nel momento in cui i neo-induisti li hanno voluti ‘tradurre’ per assimilarli a quelli occidentali. Cioè a dire: è difficile sfuggire all’impressione che il neo-induismo dei ‘riformatori’ non sia stato altro che una risposta, inevitabilmente riduttiva e resa in termini occidentali, a stimoli che venivano dal mondo europeo: dovendo (o volendo?) trovare nella propria tradizione culturale degli equivalenti a religion e philosophy essi si sono rivolti a quei concetti, dharma e darsa; na, che più reputavano vicini a quelle nozioni occidentali. In tal modo i neo-induisti potevano mostrare che il retaggio millenario dell’India non era affatto inferiore a quello dell’Occidente, in quanto anche in India era possibile trovare una religione (dharma) e una filosofia (darsa; na). Di fatto W. Halbfass individua nella ‘traduzione’ dei concetti di dharma e darsa; na una precisa volontà di ‘self-representation’ da parte dei neo-induisti che fosse sì rivolta all’Occidente (‘anche noi abbiamo una religione e una filosofia’), ma che al tempo 66

Cfr. supra, pp. 9-12. Stietencron 1986: 175. 68 Piantelli 2002: 3. 67

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

stesso fosse soprattutto contro l’Occidente (‘e le nostre sono più antiche, migliori e più profonde’) 69. Al cospetto di questa che sembrerebbe una resa dell’India nei confronti dell’Occidente, Halbfass commenta: “ciò non significa, comunque, che il dialogo e il dibattito fra India e Europa sia stato deciso in favore dell’Europa, o che l’India sia stata soppiantata dall’Europa. Il potere della tradizione indiana non si è annullato nell’autorappresentazione e autointerpretazione dell’India moderna. La situazione dialogica è ancora aperta” 70. Il fatto, cioè, che alcuni intellettuali indiani abbiano sentito la necessità di inventare ‘religione’ e ‘filosofia’ nel senso di dharma e darsa; na per non sentirsi inferiori all’Occidente o, come visto nel paragrafo precedente, per proteggersi dall’Occidente, nell’ottica di Halbfass deve essere interpretato come la dimostrazione della vitalità e del dinamismo di un pensiero indiano non già fossilizzato al remoto passato dei Veda e delle Upanishad, bensì capace di rispondere alle sfide del mondo moderno. Un’altra espressione di questo dinamismo si palesò quando la tradizione indiana re-inventò se stessa per assumere nuovi volti, e divenire così ‘esportabile’ all’Occidente. Se con il neo-induismo dei riformatori si cercò sostanzialmente di costruire delle elaborazioni intellettuali che funzionassero – per la gran parte – sul suolo indiano, assisteremo invece di lì a poco alla nascita di un ‘induismo-da-esportazione’ che, opportunamente vestiti i panni occidentali, sarà in grado di varcare gli oceani e affascinare migliaia di occidentali fino a giungere alle moderne propaggini dei nuovi movimenti religiosi e del New Age.

69 70

Cfr. ad esempio Halbfass 1988, capitoli 15-18. Halbfass 1988: 375.

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2. LA FAMA OLTRE I CONFINI

A partire dagli anni Trenta del XIX secolo figure di spicco quali Ram Roy, Dvarkanath Tagore (nonno del più famoso nipote, Rabindranath Tagore) e Keshub Chandra Sen visitarono l’Europa. L’accoglienza che trovarono in Occidente fu entusiastica, ma non per quello che si potrebbe pensare con la mentalità odierna: gli europei non esaltavano la figura di un ‘santone’ che veniva a condividere una fine esperienza mistica, ma un ‘barbaro’ divenuto ‘civile’. In questi ‘indiani-da-esportazione’ gli occidentali trovarono infatti la conferma che il loro modello di civiltà e il loro sistema di educazione funzionavano: erano in grado di strappare un individuo da pratiche superstiziose quali adorare una mucca e bruciare una vedova, e farne un campione illuminato del teismo. Gli sforzi dei missionari e della burocrazia dell’impero, insomma, non erano stati vani: avevano sottratto alla barbarie gli ignoranti pagani e li avevano avviati sulla strada della salvezza. Certo, sarebbe stato necessario ancora del tempo prima che gli indiani potessero comprendere tutta la verità e abbracciare il cristianesimo, ma si era sulla buona strada, come mostrato dall’enorme successo avuto da Vivekananda nei quattro anni che passò (dal 1893 al 1897) in USA e Gran Bretagna. Fu però solo a partire dal XX secolo che iniziò veramente la ‘esportazione’ di alcuni personaggi, esemplificazioni viventi di come l’induismo seppe, senza molta difficoltà, ‘vendere’ se stesso all’Occidente. Con una fine operazione di maquillage ebbe l’abilità di presentarsi nei suoi volti più incantevoli e disparati: l’amorosa non-violenza 45

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

(Gandhi) 1, la fine speculazione mistico-filosofica (Aurobindo), il guru che insegna l’assoluta libertà (Osho), ‘nuove’ forme di yoga (Yogananda) o la devozione assoluta (Bhaktivedanta Prabhupada con gli Hare Krishna), l’asceta che compie miracoli (Sai Baba). Sri Aurobindo e lo ‘yoga integrale’ Aurobindo Ghosh nacque a Calcutta nel 1872. Il padre lo inviò in Gran Bretagna a studiare nelle più prestigiose università inglesi, tra cui il King’s College a Cambridge. Tornato in India, aveva venti anni, Aurobindo abbracciò la causa indipendentista con una intensità e un impegno tali da venire incarcerato. Uscito di prigione nel 1910, Aurobindo si trasferì a Pondicherry (allora colonia francese a circa cento km a sud di Madras), e lì fondò un a\shram. Nel 1920 venne raggiunto dalla franco-egiziana Mirra Alfassa (in seguito chiamata Mère) alla quale lasciò nel 1926 la conduzione dell’a\shram per dedicarsi interamente alla meditazione. Morì nel 1950. Aurobindo è da molti ritenuto la perfetta sintesi fra cultura occidentale e sapienza orientale 2. Egli fu particolarmente affascinato dalla dottrina dello slancio vitale (élan vital) elaborata dal filosofo francese H. Bergson e – con riflessioni che richiamano alla mente quelle di P. Teilhard de Chardin –, Aurobindo unì al monismo delle Upanishad l’evoluzionismo scientifico, elaborando una dottrina conosciuta come Non-Dualismo (in quanto l’unica realtà è l’Assoluto, o Brahman) integrale (in quanto ogni dimensione della realtà, materia-spirito, finito-infinito, è presa in considerazione): esiste un processo evolutivo il cui esito finale è la creazione di una super-razza di esseri intelligenti, perfetta espressione della vita divina sulla Terra. La visione di Aurobindo è de1 2

Su Gandhi, cfr. Infra, pp. 121-136. Cfr. Lamparelli 1985: 199.

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LA FAMA OLTRE I CONFINI

mocratica: tutti, prima o poi, raggiungeranno quell’età dell’oro in cui in ognuno si svilupperà la supercoscienza, perché ogni uomo “è un dio in formazione” 3. Ciò potrà attuarsi grazie a una forma particolare di meditazione, chiamata yoga integrale: “Ad Aurobindo non piace la tradizionale distinzione fra via della devozione (bhakti), della conoscenza (jña\na) e delle opere (karma)” 4. Scegliere una di queste vie a discapito delle altre è un impoverimento dell’essere umano: solo attraverso la loro integrazione – e la conseguente armonia fra corpo, mente e spirito, è possibile conseguire l’illuminazione che permette il ‘contatto’ con il ‘maestro interiore’. Aurobindo è consapevole che molti possono sentire la necessità di rappresentare quel ‘maestro interiore’ attraverso un simbolo esteriore, come può essere l’avata\ra Gesù Cristo per i cristiani 5 o, se si è seguaci di altre religioni, figure quali Krishna, Ra\ma o Buddha. Come già molti intellettuali indiani, anche Aurobindo relativizza la figura di Cristo. Il suo relativismo, tuttavia, è in qualche modo ‘sfumato’ dal fatto che per lui esistono quattro grandi eventi nella storia dell’umanità: l’assedio di Troia, la vita e la crocifissione di Gesù, l’esilio di Krishna a Brindavan e il noto episodio del colloquio di Krishna con Arjuna nella Bhagavad Gı \ta\. Anche se l’accostamento di queste quattro vicende è già indizio del modo in cui è concepito l’evento Cristo, è fuor di dubbio che fra tutti gli scrittori indiani non-cristiani Aurobindo è quello che ha dato alla crocifissione l’importanza maggiore: la morte in croce di Gesù è l’avvenimento che più ha cambiato la storia dell’Occidente, perché con esso l’avata\ra Cristo ha manifestato l’amore divino e la sua compassione in un momento in cui l’umanità sembrava dominata solo dalla barbarie e dall’odio. La percezione di un ‘maestro interiore’ è solo il primo passo verso la completa manifestazione dell’Assoluto nell’individuo, per facilitare la 3

Aurobindo 1985: I, 381. Lamparelli 1985: 201. 5 Cfr. Lamparelli 1985: 204. 4

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

quale è necessario abbandonare tutti quei dogmi, pregiudizi, immagini e devozioni esteriori che altro non sono che gabbie nelle quali l’uomo è imprigionato. Anche il cristianesimo, in quest’ottica, non è altro che una gabbia. Divenendo coscienti tramite la meditazione integrale di queste sbarre e cercando di superarle, l’individuo e l’umanità intera potranno espandere la propria coscienza attuando un salto evolutivo: “dal nocciolo della vecchia specie umana si svilupperà una nuova specie supercosciente e ‘di conseguenza superumana’” 6. Il superuomo di Aurobindo non sarà però compiuto in se stesso: si caratterizzerà per un continuo rapporto di sottomissione con il Trascendente che egli qualifica, seguendo la tradizione dei Veda, come Saccida\nanda: unità e trinità di essere-coscienza-beatitudine. Il rapporto dell’Assoluto col mondo avviene tramite la mediazione di quella che Aurobindo definisce la Supermente (Supermind), ossia la ‘forma’ dinamica del Saccida\nanda, il suo ‘volto’ che si relaziona con la nostra realtà: solo così l’Assoluto stesso può divenire la causa immanente dell’universo, attuando un processo di discesa-involuzione che è anche logica premessa per il processo di ascesa-evoluzione. Questo ‘percorso’ è la base dello yoga integrale di Aurobindo: se lo Spirito dalla cosciente purezza originaria discende fino alla materia non-cosciente, deve pure risalire alla sua perfezione originaria. L’evoluzionismo in tal modo è giustificato non con un discorso scientifico e biologico, ma metafisico e spirituale: non è la natura che cerca nuove strade per adattarsi e sopravvivere, ma lo Spirito che vuole ritornare al punto più alto. Per conseguire il risultato finale è indispensabile il cammino della reincarnazione: “l’anima [...] ebbe un passato preumano e ha un futuro superumano” 7. Il futuro superumano non sarà una condizione pura6 7

Lamparelli 1985: 204. Aurobindo 1985: I, 760-761.

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mente spirituale: si vivrà piuttosto in un corpo glorificato e immortale, del quale hanno parlato tutte le tradizioni religiose: È il senso ardente di questa possibilità che ha assunto varie forme lungo i secoli: la perfettibilità dell’uomo, la perfettibilità della società, la visione degli Alwar della discesa di Vishnu e degli dei sulla terra, il regno dei santi, sadhunam rajyam, la città di Dio, il millennio, il cielo nuovo e la terra nuova dell’Apocalisse” 8.

Come sarebbe stato impossibile per la ‘scimmia’ di C. Darwin ‘immaginare’ che si sarebbe evoluta nell’uomo attuale in grado di costruire astronavi e giungere sulla Luna, allo stesso modo sembra impossibile all’uomo attuale immaginarsi un futuro più alto 9: da questa mancanza di immaginazione Aurobindo ci vuole liberare attraverso lo yoga integrale. Gli insegnamenti di Aurobindo verranno portati avanti da Mirra Alfassa, più nota come Mère. Nata a Parigi da padre turco e madre egiziana nel 1878, Mère fu “un’autentica yoginı,\ il che risulta tanto più eccezionale quanto più si consideri che era una donna nata nell’Ottocento e che aveva avuto una formazione culturale occidentale” 10. Dopo aver tentato la via dell’occultismo, si recò in India dove incontrò per la prima volta Aurobindo nel 1914. Si trasferì quindi in Giappone per quattro anni, al termine dei quali si separò dal secondo marito (il filosofo Paul Richard). Ritornò in India nel 1920 e divenne la collaboratrice di Aurobindo, gestendone l’a\shram a partire dal 1926. Morirà nel 1973. La mente, sostiene Mère, deve essere liberata da tutte le sue limitazioni per avviare l’uomo sulla via dell’evoluzione, il cui destino è nelle nostre mani: possiamo accontentarci di quello che siamo o possiamo sentire il bisogno e la necessità di procedere oltre, un oltre che non è un ‘luogo’ unicamente spirituale – una libe8

Aurobindo 1985: I, 485-486. Cfr. Aurobindo 1985: I, 55-56. 10 Lamparelli 1982: 12-213. 9

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razione dell’anima dalla materia, dal ciclo di continue reincarnazioni –, ma anche materiale: più che spiritualizzare la materia, sostiene Mère, occorre materializzare la coscienza. Penetrare la radice di se stessi significa penetrare la più piccola cellula perché “è laggiù, dove la materia si fa più densa e il tempo si arresta, che si trova il divino, il sovramentale” 11. Gli insegnamenti di Aurobindo e di Mère hanno ‘convertito’ diversi occidentali, che vi hanno trovato un induismo in grado di unire il meglio dell’Occidente (la scienza) con il meglio dell’Oriente (la spiritualità). La complessità del loro discorso lo rende però un fatto élitario e circoscritto a un numero limitato di individui. Diverso è il caso di altre forme di ‘adattamento’ dell’induismo, per la precisione quelle che si popolarizzarono al punto tale che alcuni guru divennero delle vere e proprie star mediatiche. È il caso di Osho. Osho (Bhagwan Shree Rajneesh) Bhagwan Shree Rajneesh (1931-1990) è il guru indiano più famoso, assurto per lungo tempo al ruolo di star mediatica: nel momento della sua massima popolarità Shree Rajneesh avrebbe avuto, si dice, oltre 200.000 discepoli sparsi in tutto il mondo. Fino al 1985 erano facilmente riconoscibili perché indossavano vesti di colore rosso o arancione (da cui l’appellativo di ‘arancioni’ sovente usato per indicare i seguaci di Rajneesh) e una collana di 108 perle, alla quale era appesa la foto di Rajneesh. Figlio di giainisti, all’età di 21 anni Rajneesh ebbe una esperienza di ‘risveglio’ che invece di convertirlo a una specifica credenza lo portò a elaborarne una propria, unendo sincreticamente elementi di svariate 11

Cfr. Lamparelli 1982: 220.

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religioni. Trasferitosi nel 1974 a Koregaon Park, un sobborgo di Pune, istituì un a\shram nel quale si stima che oltre 50.000 giovani abbiano cercato l’illuminazione sotto la sua guida. Nel 1981 si trasferì nel “Big Muddy Ranch” in Oregon, USA: nei momenti più floridi il Ranch giunse a ospitare 3000 persone, dotandosi anche di una piccola pista di atterraggio. Nel 1987, anche a causa di crescenti problemi con le autorità statunitensi, Shree Rajneesh ritornò in India. Poco prima di morire volle cambiare il proprio nome in quello di Osho 12. Nell’insegnamento di Osho le religioni sono fondate sulla paura, per cui “nel momento in cui la paura scompare, scopri che non esiste nessun Dio. Nel momento in cui riesci a fidarti di te stesso, ad essere te stesso, allora non esiste più nessun Dio” 13, solo un’unica essenza divina impersonale da cogliere non con la preghiera, ma per mezzo di una particolare pratica spirituale chiamata ‘meditazione dinamica’, dove il silenzio e particolari forme di celebrazione seguono a un’intensa attività fisica. L’enfasi è posta sulla forza liberatrice del sesso, ma si includono anche attività quali danze, salti, grida e ripetizioni di mantra. L’inconscio viene così reso libero di esprimere se stesso oltre ogni forma di autocontrollo, oltre ogni inibizione: “Il metodo di liberazione proposto da Rajneesh non si basa dunque su un rafforzamento della volontà e dell’autocontrollo – come si verifica invece in gran parte delle vie yogiche – ma sulla spontaneità, sulla felicità, sul piacere, sull’abbandono, sulla resa alla vita, sull’esperienza totale, sul coinvolgimento integrale” 14. Ecco come C. Lamparelli ci descrive un’esperienza di meditazione dinamica: In genere s’incomincia con dieci minuti di respirazione violenta, profonda, caotica (o di movimenti altrettanto dinamici); poi si passa ad altri dieci minuti 12

“Dopo aver cancellato il suo nome, [Bhagwan Shree Rajneesh] accetta alla fine il termine ‘Osho’ spiegando che esso deriva da ‘oceanico’, come lo usa William James. ‘Non è il mio nome’ afferma ‘è un suono di guarigione’”. Osho @ (n/a). 13 Rajneesh 1988: 5. Cfr. anche Milne 1986 e Appleton 1987. 14 Lamparelli 1985: 306.

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di catarsi, facendo tutto ciò che si desidera: urlare, piangere, ridere, scuotersi, ballare, girare su se stessi, ecc. Seguono dieci minuti di ripetizione del mantra “hu”, sempre agitandosi, saltando, gridando e alzando le braccia in alto: questo suono avrebbe il particolare potere di risvegliare l’energia kundalini concentrata nel centro sessuale. A questo punto ci si ferma di colpo nella posizione in cui ci si trova (come insegnava Gurdjieff ) e ci si concentra sull’energia che i precedenti movimenti hanno messo in moto. Si tratta di sentirla dentro di sé, di osservarla, di prenderne coscienza. Infine seguono dieci minuti di danza, di celebrazione, di ringraziamento, per la gioia che si è provata 15.

Tutto questo serve per liberarsi dal controllo che la mente esercita sulla nostra natura più intima: un metodo catartico, dunque, e preliminare a una meditazione più profonda. Per vivere questo stadio è però necessario un ulteriore passo: la resa totale e incondizionata al maestro, che ci fa capire quanto sia inutile lottare contro se stessi. Il male che è in noi non è qualcosa di diverso, di altro da noi: è parte costitutiva di ciò che siamo e solo accettandolo sarà possibile procedere oltre quella divisione fra bene e male che lacera l’uomo. Divenire discepoli di un guru è la via migliore per raggiungere la riunificazione interiore, che è il passo che precede l’illuminazione: affidandosi al maestro esteriore si è in grado di scoprire dentro di noi il maestro interiore, non altri che l’a\tman – l’essenza spirituale individuale – di cui parlano le Upanishad. In questo modo l’individuo può vincere le sue depressioni e le sue inibizioni raggiungendo il ‘vuoto’, ossia la condizione indispensabile per ottenere quella illuminazione che libera il discepolo da ogni forma di attaccamento 16. Gettando le maschere, ci si libera da tutti i condizionamenti sociali e le prigioni che l’uomo ha costruito attorno a se stesso, in primis la religione. 15

Lamparelli 1985: 311. Espressione di questa ‘rinascita’ è il fatto che Osho assegnava un nuovo nome ai suoi discepoli (che per gli uomini era preceduto dal titolo Swa\mi, per le donne dal titolo Ma). 16

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Gli attacchi contro il cristianesimo seguono con una certa logica. Se dio non esiste, Gesù non può avere alcuna pretesa di essere il Figlio di Dio. La sua resurrezione, in particolare, è una grande frode perché è risaputo che egli visse fino all’età di 110 anni in Kashmir, dove è ancora possibile vedere la sua tomba posta accanto a quella di Mosé: “Ho visitato la sua tomba, e forse vi sorprenderà sapere che per una coincidenza straordinaria, Gesù e Mosé morirono entrambi in India, e le loro tombe si trovano nello stesso posto, nel Kashmir” 17. È la tesi di Notovitch: le parole di Gesù non sono originali, ma il frutto di verità apprese in India: “Fino a trent’anni viaggiò in Egitto, in India, in Ladakh, sull’Himalaya; io sono stato in Ladakh e ho visitato un’antica lamasseria, il monastero buddhista di quella regione, in cui si trova una biblioteca antichissima dove sono conservati i registri di tutti i visitatori. Uno di questi è Gesù. La sua personalità è descritta nei dettagli: la sua epoca, l’età, il suo aspetto, i fondamenti del suo insegnamento. E gli scienziati hanno analizzato quelle pagine, sono come le foglie di un albero, e le fanno risalire esattamente a duemila anni fa” 18. Se dio non esiste, allora le religioni e i loro mortificanti precetti sono falsi. Spiega C. Lamparelli: Rajneesh non ama gli uomini di Chiesa, asceti o austeri, che predicano la mortificazione e considerano la vita come una tentazione da cui bisogna sfuggire. L’esistenza può essere una condizione di insufficienza, ma non necessariamente un luogo d’espiazione. L’individuo che nega la vita e la possibilità di gioirne è più lontano dal divino dell’uomo che cerca di utilizzarla fino in fondo. Chi ama, chi è felice, è più vicino alla verità di chi reprime i propri istinti vitali. Rajneesh critica gli uomini che si accontentano di esistenze grigie e si lasciano distruggere dal conformismo e dal condizionamento sociale. Egli preferisce allora il grande peccatore, l’edonista convinto, perché ha almeno avviata una ricerca che, con una semplice conversione, può essere indirizzata verso l’obiettivo giusto. Ma il mediocre, il conformista, il represso, l’uomo 17 18

Rajneesh 1988: 41. Rajneesh 1988: 42.

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che ha paura della vita e del piacere, dove troverà la forza per liberarsi ed essere se stesso? 19

È forse proprio in questo ‘anticonformismo spirituale’, capace di parlare al moderno uomo occidentale, il segreto dell’enorme successo di Osho. A oltre quindici anni dalla sua morte sono ancora centinaia di migliaia i libri di/su/attribuiti a Osho venduti in tutto il mondo, mentre fioriscono ancora i gruppi, le scuole e gli a\shram ispirati al suo insegnamento: sostituire a tutte le assurdità religiose un’etica del carpe diem per giungere alla piena realizzazione spirituale: “sacrifica ogni cosa a questo istante. Godi e gioisci in questo momento” 20. Le risposte a Osho: Yogananda e Hare Krishna Alla grande libertà sessuale insegnata da Bhagwan Shree Rajneesh fanno riscontro le concezioni sessuofobiche di Yogananda e degli Hare Krishna 21. Yogananda (1893-1952) è autore di una celebre Autobiography of a Yogi (1946) 22 la quale ha avuto l’effetto di introdurre “generazioni di lettori nel mondo affascinante dello yoga, presentandone i vari aspetti, dal folcloristico al religioso, dal metafisico all’organizzativo, in un sincretismo di dottrine che accontenta (o scontenta) tanto l’occidentale che l’orientale” 23. Ancora bambino, Yogananda fugge da casa portando con sé solo una copia della Bhagavad Gı \ta\, incontrando nei suoi viaggi personaggi straordinari tra i quali il maestro Sri Yukteswar Giri (18551936), che gli concede l’iniziazione. 19

Lamparelli 1985: 320. Rajneesh 1988: 86. 21 Cfr. Lamparelli 1985: 256; 330 ss. 22 Yogananda 1971. 23 Lamparelli 1985: 254. 20

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Nel 1920 Yogananda si reca negli USA, fondando la Self-Realization Fellowship allo scopo di diffondere gli insegnamenti del grande guru indiano Babaji – una figura ritenuta leggendaria, ma che secondo Yogananda è vissuto attorno alla metà del XIX secolo – il quale secondo una tradizione indiana vivrebbe, eternamente giovane, in un luogo imprecisato dell’Himalaya con altri maestri illuminati e in comunione con Cristo per diffondere ‘vibrazioni positive’ nell’umanità, in particolare attraverso una tecnica di meditazione chiamata Kriya Yoga. La sede della Fellowship venne trasferita nel 1925 a Los Angeles e le sue attività continuano ancor oggi con il fine di “rendere palese la completa armonia e l’unità fondamentale esistenti fra il Cristianesimo originale insegnato da Gesù Cristo e lo Yoga integrale insegnato da Bhagava\n Krishna e dimostrare che questi principi di verità sono la base scientifica comune a tutte le religioni” 24. Questa ‘completa armonia’ trova il suo paradigma in Cristo, trait-d’union fra Oriente e Occidente: Gesù visse in Oriente fino a diciotto anni (per un periodo anche in compagnia dei tre re magi) e questo spiega le somiglianze fra l’insegnamento dei Vangeli e quello della Bhagavad Gı \ta\. Di nuovo troviamo la tesi di Notovitch, che Yogananda aggiorna: Gesù era uno yogi perfetto e in grado di trasformare il suo corpo in pura energia. Egli sarebbe andato in trance durante il battesimo nel Giordano, ricevendo una illuminazione fondamentale: “il cosmo è costituito del trascendentale Dio Padre (la Coscienza al di là di ogni creazione), di Dio Figlio (la Coscienza del Padre riflessa nel grembo dell’energia cosmica come l’unigenita, la sola riflessa Coscienza Cristica) e dello Spirito Santo o Vibrazione Cosmica” 25. Anche la tentazione nel deserto fu in realtà un fatto meditativo: “Cristo, Dio-superuomo, meditando costantemente sul vibrante suono oceanico finitamente onnipresente (la vibrazione dello Spirito Santo), sentì che la sua coscienza era presente in ogni particella dello spazio” 26. 24

Yogananda 1980: 441. Yogananda 1984: I, 87-88. 26 Yogananda 1984: I, 58. 25

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La reinterpretazione (o manipolazione) 27 dei Vangeli da parte di Yogananda prosegue su questa linea: Gesù non sarebbe morto sulla croce, e dunque non sarebbe nemmeno risorto; era tutta una tecnica da yogi per purificare le varie dimensioni della sua persona al fine di ottenere l’immortalità. Questo è proprio quello che deve fare ogni individuo attraverso le tecniche insegnate da Yogananda: “convertire la materia in forza vitale e la forza vitale in Coscienza Cosmica” 28, divenendo così consapevole che tutta la realtà è costituita da un’unica energia vibratoria divina che l’uomo illuminato – come lo fu Cristo – è in grado di controllare. Decisamente meno complesso è l’insegnamento degli Hare Krishna – o più correttamente, International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) –, fondati nel 1966 da Bhaktivedanta Swam \ i Prabhupada (1896-1977) 29: ogni male ha origine dalla dimenticanza della propria natura spirituale, dallo scordarsi continuamente la nostra dipendenza dal divino. Per allontanare questo pericolo occorre recitare centinaia di volte al giorno il mantra “hare Krishna hare rama” (che nella sua forma completa è “Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna, Krishna, Hare, Hare, Hare Rama, Hare Rama, Rama, Rama, Hare, Hare”): per tenere il conto si utilizza una sorta di ‘rosario’ a 108 grani che deve essere ripetuto almeno per 16 volte. Alla ripetizione del mantra – considerato l’unico metodo di 27

L’espressione è di Gramaglia 1991: 345. Yogananda 1980: 71. 29 Swami Bhaktivedanta Prabhupada (Abhay Charan De, nato a Calcutta nel 1896) arrivò negli Stati Uniti quando aveva quasi settanta anni, nel 1965. L’anno dopo fondò la International Society for Krishna Consciousness (ISKCON). Alla morte del suo fondatore (nel 1977, presso l’eremo del tempio di Krsna-Balarama, a Vrndavana), ISKCON era divenuta una confederazione con decine di a\shram, scuole, templi, istituti e comunità agricole – anche in posti ‘remoti’ quali la Papua Nuova Guinea e le isole Fiji – che facevano (e fanno) riferimento alla sede principale del movimento, a Vrndavana, nell’Uttar Pradesh. Il messaggio di Prabhupada attrasse personalità celebri, la più nota delle quali è forse il cantante dei Beatles George Harrison: la canzone My Sweet Lord ne è testimonianza. 28

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preghiera efficace nell’era attuale del vizio e dell’ignoranza, il Kali-yuga – si accompagnano spesso i suoni di alcuni strumenti musicali. Gli Hare Krishna – il cui testo sacro è la Bhagavad Gı \ta\ – hanno una devozione assoluta per Krishna: se nella comune visione dell’induismo Krishna è l’ottava incarnazione di Vishnu, per ISKCON invece diviene il Signore supremo di tutte le divinità, ivi incluso Vishnu. Proprio per questo, da alcuni ISKCON è assimilato a una fede monoteistica il cui accento è posto sulla bhakti, la devozione amorosa. Gli Hare Krishna vivono in comunità regolate da una disciplina ferrea, che impone fra l’altro il divieto di ‘intossicanti’ (droghe e liquori, ma anche caffè, tè e sigarette), una dieta vegetariana (che esclude oltre alla carne anche pesce e uova) e vieta l’attività sessuale al di fuori del matrimonio, nel quale deve essere esercitata solo a fini procreativi e con una frequenza non superiore a un rapporto al mese 30. Devono “ascoltare insegnamenti che riguardano Dio; ripetere l’insegnamento, ossia parlare di Dio, ricordare a ogni istante, nello svolgere le attività quotidiane, che tutto ciò che si sta facendo è in relazione con Dio; svolgere servizi speciali, come cucinare o offrire cibo a Krishna, pregare o officiare cerimonie (con fiori, incenso, cibo, ecc.)” 31. Oltre a dei segni esteriori (i membri sposati portano una veste bianca, quelli non sposati giallo-zafferano; le donne vestono la sari, mentre gli uomini si devono rasare il capo, lasciando solo un ciuffo) espressione della loro assoluta devozione a Krishna e al guru, i seguaci di Prabhupada devono assumere un nuovo nome (indiano) e l’epiteto di dasa (dasi per le donne), termine sanscrito col significato di ‘servitore’. Attraverso questa ‘servitù’ a Krishna è possibile liberarsi dalle cinque catene: quella del corpo, quella della famiglia, quella dei beni materiali, quella della scienza e quella della religione, intesa come semplice ritualità esteriore 32. 30

Cfr. Bellinger 1989: 381. Bergonzi 1980: 55. 32 Cfr. Bellinger 1989: 380. 31

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Anche se molti leggono in tutto ciò un pericoloso atteggiamento fideistico 33, la via della bhakti proposta dagli Hare Krishna è una fra le più radicate nella tradizione indiana: annientare il proprio io fenomenico ed empirico attraverso l’assoluta devozione alla divinità, oppure attraverso l’assoluta dedizione alla sua manifestazione/personificazione che è il guru, non è niente di nuovo nell’induismo 34. Sai Baba: il ‘nuovo Cristo’ Nel libro Un sacerdote incontra Sai Baba (1991) don Mario Mazzoleni – un sacerdote bergamasco che si era specializzato in teologia morale all’Alfonsianum, a Roma 35 – invita la Chiesa cattolica ad accettare il messaggio non-dualista dell’induismo, ma soprattutto a esprimere la propria fedeltà a Cristo attraverso l’adesione al messaggio di Sai Baba. Ecco un esempio delle riflessioni di M. Mazzoleni: Il dualismo Cristo-Baba è solo morfologico e fisico, non ontologico. Le differenze fra i due sono soltanto dovute al tipo di incarnazione di cui si è rivestita l’Unica Realtà. Storicamente sono due involucri corporei, due templi dello Spirito Supremo: quello di Gesù, che ospitava il Cristo, e quello di Sai Baba, altra cattedrale di Dio, in una manifestazione differente 36. 33

Cfr. ad esempio Lamparelli 1985: 332. Lo stesso Patanjali – l’autore degli Yogasutra, vissuto probabilmente fra il II e il III secolo d.C. – affermava che l’abbandono a Dio (I |shvara) è la via: attraverso la devozione, il pensiero si concentra (divenendo dunque una forma di meditazione) su un ‘oggetto’, per poi trascendere se stesso nell’infinito. È un insegnamento simile a quello di Ramakrishna, che scrisse: “Vivete nel mondo, ma non siate del mondo. Nel medesimo tempo mantenete il vostro spirito fisso su Dio, la Dimora divina dalla quale noi tutti veniamo, affinché l’amore, bhakti, vi sia dato, e voi possiate farne la base della vostra vita”. Ramakrishna 1963: 118. 35 Il sacerdote morì in India nel 2001. 36 Mazzoleni 1991: 110. Per quanto concerne il concetto di avata\ra e una sua possibile ‘applicazione’ in campo cattolico, ecco quanto scrive Mons. Giovanni Ca34

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La scomunica di don Mazzoleni (1992) e le reazioni in ambito cattolico seguono con una certa prevedibilità. Secondo alcuni, ad esempio, ciò che era avvenuto al sacerdote bergamasco era una conversione ad altra fede religiosa: don Mazzoleni si sarebbe convertito all’induismo e facendo di Cristo un avata\ra dell’Assoluto (ossia una incarnazione e non la incarnazione), avrebbe perso di vista il punto centrale della propria fede cristiana 37. Altre reazioni a Sai Baba, non direttamente collegate al caso don Mazzoleni, furono più dure: un noto esorcista cattolico, padre Gabriele Amorth, consiglia “vivamente alle persone di evitare la tappa da Sai Baba perché il più delle volte necessitano di preghiere di liberazione e, nei casi più gravi, di esorcismi” 38. Sai Baba, sale: “Un concetto proveniente dalla tradizione indù e che è abbastanza presente – in modo esplicito o implicito – nella nuova religiosità, ci può aiutare a mettere meglio a fuoco questo punto importantissimo: si tratta del concetto di avata\ra. È un termine sanscrito che significa letteralmente: discesa. Si applica alla Divinità e alla sua manifestazione condiscendente nella sfera del sensibile (non solo umano). Molti indologi e occultisti lo traducono semplicemente con ‘incarnazione’. Ecco allora che il dogma centrale del Cristianesimo si trova ricondotto a una categoria storico-religiosa più ampia. Frequenti sarebbero state le ‘discese’ del dio Vishnu. L’ultima sua apparizione umana sarebbe stata Krishna. L’evento di Cristo diventa così solo il caso particolare di una categoria più generale. Un caso nuovamente ripetibile, come per esempio si pretende per il guru indiano Sathya Sai Baba. In realtà un esame più attento – un esame teologico, come richiede la materia – evidenzia subito che i concetti di avata\ra e di incarnazione possono essere accomunati solo in forza di un grave equivoco. A parte la inconsistenza storica della figura di Krishna, la manifestazione umana del dio si risolve nell’assunzione di un corpo apparente. Chi applica questa concezione a Cristo ricalca – in modo più o meno cosciente – le orme di un’antica eresia, il docetismo (dal greco dokeo, ‘apparire’) e certamente non esprime le fede cristiana. L’incarnazione cristiana, che implica la verità e la completezza della umanità di Gesù, emerge da questo confronto come evento unico e irripetibile, vero ‘segno di contraddizione’ (Lc 2,34) che non sopporta nessuna omologazione sincretistica o pseudognostica, ma esige una presa di posizione chiara e decisiva”. Casale 1993: 52-53. Corsivo nel testo. 37 Cfr. Pavese 1992: 209. 38 Citato in Isolica @ (1994).

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continua padre Amorth, è un prodotto di Satana: “È il suo figlio primogenito, non ho dubbi in proposito. Parla bene di tutti, di Gesù in particolare, ma il dio è lui. Aiuta con cospicue donazioni gli ospedali dei villaggi indiani, apparentemente fa del bene perché il diavolo è furbissimo, ma il dio si ritiene lui, gli altri sarebbero tutti profeti. Tanti turisti italiani, donne in special modo, cadono nella sua rete” 39. Dopo queste affermazioni generiche, l’esorcista porta un esempio concreto: “Ho impiegato anni per liberare, nel nome potente di Gesù, una signora, madre di quattro bambini, la quale era andata numerose volte a trovare il santone in India. Molte volte gli aveva baciato i piedi, Satana vuole essere adorato, e molte volte aveva mangiato la polvere. Bene, questa signora per anni ha sputato sangue per liberarsi dalle polveri. [...]. Frequentare santoni, maghi e cartomanti all’inizio può dare un senso di sollievo, perché il demonio è furbo, ma è importante che la gente sappia che ha aperto una porta al principe del male. Già tanti sono gli italiani, circa dodici milioni, che ricorrono all’occulto. E adesso proliferano pure gli adepti di Sai Baba” 40. Quali le ragioni di tanta ostilità? La risposta è nella vita e nell’insegnamento di Sai Baba. Per quanto concerne la sua vita dobbiamo rilevare che una ricostruzione obiettiva è piuttosto difficoltosa, in quanto la biografia ufficiale di Sai Baba è stata gestita da un suo staff che ha attentamente ‘riscritto’ gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Sappiamo che Sai Baba nasce nel 1926 da una famiglia della casta dei brahmani. A otto anni – questo quanto si legge nelle biografie ufficiali – Sai Baba comincia a materializzare oggetti, ad esempio dolci per i suoi amici. All’età di quattordici anni qualcosa succede: forse a causa del morso di uno scorpione (o, secondo altre ipotesi, per una malattia di tipo isterico) 41, si manifestarono dei sintomi strani quali temporanei 39

Citato in Isolica @ (1994). Citato in Isolica @ (1994). 41 Cfr. Schulman 1972: 148. 40

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irrigidimenti, alternanza di risate e pianti incontrollabili, il rimanere a lungo in silenzio e digiuno, fino al momento (era il 1940) in cui il ragazzino annunciò di essere la reincarnazione di Shirdi Sai Baba, un mistico vissuto nel secolo precedente (1856 ca.-1918). Dopo alcuni anni Sai Baba si ritira in un a\shram, accogliendo un numero sempre crescente di persone affascinate dal suo messaggio di armonia religiosa (tutte le religioni conducono a Dio, per cui non è necessario abbandonare la propria religione per seguire Sai Baba) e umana (cinque sono i precetti fondamentali da praticare: verità, retta condotta, pace, amore, non-violenza), oltre che dai suoi poteri taumaturgici e miracolosi che includerebbero la capacità di materializzare oggetti – quali gioielli e una cenere profumata ‘miracolosa’ chiamata vibhuti –, chiaroveggenza, apparizioni, levitazioni, guarigioni, fino al potere di far risorgere i morti: due i casi a lui attribuiti (un indiano nel 1953 e un americano nel 1971). Non è solo la dottrina della ‘doppia appartenenza’ (si può essere devoti di Sai Baba senza abbandonare la propria religione di appartenenza) a infastidire critici come padre Amorth: vi è anche la pretesa di Sai Baba di essere l’avata\ra ‘integrale’ dell’Assoluto, mentre personaggi come Gesù, Ramakrishna e Aurobindo sarebbero stati solo degli avata\ra ‘parziali’, con la logica conseguenza che il suo messaggio è quello completo mentre quello degli altri solo parziale. Sai Baba ha profetizzato inoltre che dopo la sua morte (prevista per l’anno 2022) apparirà un futuro Sai Baba (Prema Sai Baba), da alcuni suoi devoti ritenuto il segno del ritorno dell’età dell’oro. Di fatto, aldilà di quelli che potrebbero apparire come degli aspetti ‘folkloristici’ – che sono comunque quelli che più hanno contribuito a crearne la fama – l’insegnamento di Sai Baba è il ‘classico’ messaggio di armonia universale fra gli uomini e le religioni, ormai divenuto paradigmatico nell’induismo-da-esportazione: ogni uomo ha/è una realtà divina, la quale deve essere riscoperta per giungere alla perfetta comunione con la Realtà Ultima. 61

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La svolta ad Oriente Naturalmente si sarebbero potute analizzare molte altre nuove forme e formazioni ‘religiose’, come ad esempio la Meditazione Trascendentale, i Brahma Kumaris, l’Ananda Marga, la Divine Light Mission (Élan Vital) e i centri di Sri Chinmoy, ognuna con le proprie caratteristiche e con le proprie specificità: dalla centralità dell’uso quotidiano di un mantra per la Meditazione Trascendentale, alle manifestazioni ‘medianiche’ dei Brahma Kumaris, dallo stretto legame con la politica dell’Ananda Marga, alla fondamentale ‘esperienza di se stessi’ per la Divine Light Mission, fino alla connessione fra meditazione e sport per Sri Chinmoy. Come esemplificazioni di quello che è stato definito un ‘paradigma dell’esportazione’, tuttavia, Aurobindo, Osho, Yogananda, gli Hare Krishna e Sai Baba sono più che sufficienti. Di fatto, tutte queste realtà mostrano come al tentativo del cristianesimo di assumere un volto ‘indiano’, sia corrisposto un analogo tentativo, da parte di certi settori dell’induismo, di assumere un volto ‘cristiano’ o più in generale occidentale: la non-violenza di Gandhi e lo spirito del ‘Sermone della Montagna’; l’evoluzionismo di Aurobindo e quello di Teillard de Chardin; il miracolismo di Sai Baba e quello di Gesù; la comunità devota a Krishna e la Chiesa devota a Cristo. Si potrebbe obiettare che in questi casi non sono il cristianesimo e l’induismo che si stanno parlando e stanno interagendo, quanto un’India occidentalizzata e un Occidente che – se mi si passa l’espressione – si vuole orientalizzare. Una compenetrazione di orizzonti, cioè, nella quale risulta difficile riconoscere ciò che è autenticamente indiano e ciò che è autenticamente occidentale; piuttosto, dei sottili meticciamenti che hanno cercato di prendere quello che si riteneva il meglio da entrambe le tradizioni culturali per creare una sintesi che sapesse parlare soprattutto ai giovani. Non va infatti dimenticato che la maggior parte di questi guru, i loro movimenti e i loro insegnamenti fecero presa in particolare sui giovani, trovando un terreno fertile soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo: quel periodo nel quale ai ‘fi62

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LA FAMA OLTRE I CONFINI

gli dei fiori’ sembrava che la tradizione culturale occidentale non dicesse più nulla di significativo, e che solo rivolgendosi altrove fosse possibile trovare una risposta autentica: è quella svolta a Oriente della quale parla il teologo battista Harvey Cox. H. Cox (n. 1929) raggiunse la notorietà con l’opera The Secular City (1965). Nel 1977 pubblicò un libro meno famoso: Turning East – The Promise and Peril of the New Orientalism, nel quale analizza il fenomeno dei neo-orientali, espressione con la quale vuole indicare tutti quei giovani americani (generalmente bianchi, istruiti, di classe media o medio-alta e per la stragrande maggioranza cristiani) che si sono fatti affascinare dall’induismo, compiendo una ‘svolta a oriente’. In realtà, dice Cox, quei giovani hanno attuato una ‘svolta all’indietro’: l’Oriente così come essi lo concepiscono non esiste più, avendo l’Oriente attuato da tempo una svolta a Occidente. L’Oriente è diventato attivista, ha assunto modelli comportamentali tipici dell’Occidente, e quella spiritualità della quiete e dell’eternità con la quale solitamente si dipinge l’induismo è un qualcosa che ormai è relegato a un passato morto, o al massimo conservato in qualche monastero. Anche tutti quei nuovi movimenti religiosi, tutti quei guru che dicono di ispirarsi alla grande tradizione indiana in realtà trasmettono una falsa immagine dell’Oriente e dell’induismo: non è negli insegnamenti di Osho, insomma, che dobbiamo cercare il vero volto dell’India. Secondo Cox l’aspetto più grave di tutto ciò è che l’Oriente che affascina i giovani è quello dell’eternità e dello spirito, messo in contrapposizione all’Occidente del tempo e della materia: il neo-orientalismo non è dunque altro che il sintomo della crisi dell’uomo occidentale, e “la svolta ad Oriente è la conseguenza logica della ‘morte di Dio’” 42. Di fronte al fallimento dell’Occidente (guerre mondiali, guerra del Vietnam, fame nel mondo, corsa agli armamenti, etc.) la tentazione diviene quella di dare le ‘dimissioni’ dall’impegno nella storia e, tramite la me42

Cox 1978: 113.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

diazione dei nuovi movimenti religiosi, rifugiarsi nella mistica. L’accusa è sostanziale: la ‘svolta a Oriente’ è una implicita rinuncia alla storia, all’impegno per la giustizia e per la trasformazione sociale del mondo. Questa rinuncia alla storia sembra avere trovato conferma a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, quando le suggestioni del mondo orientale in generale, e quello indiano in particolare, divennero uno dei cardini fondamentali del ‘movimento’ New Age 43. Di fatto, in quelle sapienze esotiche i new agers trovarono, sulla linea di quanto iniziato da H. P. Blavatsky e dalla Società Teosofica, una alternativa a un Occidente divenuto ormai spiritualmente arido, riplasmando secondo nuovi paradigmi le stesse tematiche che abbiamo visto all’opera nei nuovi movimenti religiosi di ispirazione orientale, in particolare la centralità dell’esperienza interiore e della meditazione come vie per superare quella scissione fra anima e corpo prodotta dal consumismo e dall’eredità giudaico-cristiana. Di qui l’assunzione nel paradigma New Age di realtà come le varie discipline yoga: non semplici attività ginniche, ma anche e soprattutto espressioni di profonde esperienze di spiritualità e di affermazione dell’unità fra l’elemento spirituale e il corpo, come ad esempio insegnato da Yogananda; o si pensi all’importanza attribuita nel New Age sia alle tradizionali medicine indiane, sempre fondate sullo stesso principio di unità e interdipendenza fra elemento spirituale ed elemento corporale, sia alle diete vegetariane, sul modello ad esempio degli Hare Krishna, o ancora più al rispetto per la natura nella quale viene individuata la presenza di uno Spirito Universale, e non una inerte materia per esperimenti scientifici: di qui una visione ‘spirituale’ dell’intera tematica ecologica 44. In particolare, si pensi all’assunzione della credenza nella reincarnazione, così centrale in tutti i 43

Il termine ‘movimento’ è stato messo fra virgolette per ricordare che il New Age non è un movimento ma una molteplicità di movimenti. Cfr. sul tema Visca 2007 e Mapelli 2007a. 44 Cfr. Mapelli 2006a.

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LA FAMA OLTRE I CONFINI

nuovi movimenti religiosi e passata anche nel multiforme universo New Age divenendone uno dei principi fondamentali, se non altro come espressione simbolica del continuo cammino di perfezione dell’individuo verso dimensioni superiori di esistenza. Sopra ogni cosa, il paradigma New Age ha accolto il messaggio che ha sempre fatto da sfondo alle elaborazione dei vari nuovi movimenti religiosi: l’unità fondamentale di tutte le religioni, non solo diverse espressioni di una unica realtà, ma anche e soprattutto vie differenti, ma tutte con pari dignità, per raggiungere lo stesso Assoluto. Da ciò ne deriva quel principio di generosa tolleranza inclusivistica tipico del New Age, che lo rese e lo rende ancora in grado di accogliere le più diverse provocazioni, non solo di natura religiosa. Di fatto, come l’induismo e i nuovi movimenti religiosi furono e continuano ad essere in grado di accogliere al loro interno molteplici elementi, tra cui il cristianesimo, creando un sistema di compatibilità fra realtà diverse 45, allo stesso modo il New Age si è affermato in Occidente come un paradigma in grado di accogliere al suo interno molteplici elementi, tra i quali anche in questo caso il cristianesimo: si pensi, per fare un esempio, alle interpretazione di Cristo come avata\ra, popolari sia in certi settori dell’induismo sia in quelli del New Age 46. In questa ottica possiamo dire che il New Age sia stato, in quanto alla sua struttura, una sorta di induismo occidentalizzato, prodotto dall’Occidente per l’Occidente 47, e in grado di accogliere le suggestioni tipiche dell’induismo che erano già state mediate dai nuovi movimenti religiosi, ma ora riproposte in un linguaggio e in una forma in grado di accogliere i paradigmi tecnologici e informatici del III millennio, e conseguentemente più facilmente in grado di parlare all’uomo occidentale contemporaneo. 45

Cfr. supra, pp. 30 ss.; 45 ss. Cfr. Mapelli 2007a: 105, nota 66. 47 Cfr. Mapelli 2007a: 84, nota 7. 46

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Anche in queste elaborazioni New Age, tuttavia, rimane sullo sfondo la critica di H. Cox ai nuovi movimenti religiosi: il pericolo, cioè, che tutti questi adattamenti occidentali della sapienza indiana non siano altro che un indice della fuga dalla Storia e dall’impegno nella realtà concreta per rifugiarsi unicamente nel metastorico, alla ricerca di un Assoluto disincarnato attingibile tramite la sola esperienza interiore: una sapienza perduta capace forse di trasformare l’individuo, ma non la società.

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3. IL PARADIGMA MISTICO

Alla ‘svolta a Oriente’ di H. Cox corrisponde veramente una ‘svolta a Occidente’ nel contesto indiano? E se la riposta è positiva, quali forme ha assunto? E si è trattato, anche in quel caso, di una abdicazione alla storia? Per rispondere a queste domande dobbiamo andare agli inizi di quei tentativi di fusioni ‘orientaleggianti’ fra mistiche cristiane e mistiche indiane, e lo facciamo partendo dalla proposta di un individuo del quale abbiamo già parlato: Brahmababdhav Upadhyaya, il brahmano del bengala convertitosi al cattolicesimo nel 1881. Nel numero di maggio del 1898 della rivista Sophia egli espose il progetto di conciliare Oriente e Occidente attraverso la fondazione di un ordine di sannya\sin, che si sarebbero dovuti formare con lo studio della patristica, dei dottori della Chiesa, della Summa di San Tommaso e dei Vedanta. L’idea era talmente rivoluzionaria e innovativa che di lui si scrisse, già nel 1928: “Non c’è forse un solo tentativo moderno di adattare il cattolicesimo al pensiero ed ai bisogni indù che non tragga, in un modo o nell’altro, ispirazione o incoraggiamento dall’esempio di Brahmabandhav Upadhyaya” 1. Il suo discepolo Swa\mi Animananda (m. 1945) coglierà l’insegnamento del maestro, suggerendo la pubblicazione di una rivista il cui primo numero uscì a Calcutta nel 1922: The Light of 1

Lacombe 1996: 611.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

the East. Il primo direttore fu padre G. Dandoy (che sarà poi autore di L’Ontologie du Vedanta, 1932) coadiuvato da padre P. Johanns (che in seguito pubblicò Vers le Christ par le Vedanta, 1933 e La pensée mystique de L’Inde, 1952). I due gesuiti belgi affrontarono con dedizione il lavoro, preparandosi sotto la guida dei migliori indologi di Oxford; il tutto avveniva con l’approvazione del Vaticano (espressa tramite il visitatore apostolico Mons. Pisani) e di illustri studiosi indù di sanscrito. Anche il solitamente inflessibile Jean Maritain fu colpito positivamente da questo tentativo intellettuale. Quale era lo ‘spirito’ della rivista che sembrava mettere d’accordo tutti? Lo spiega l’editoriale scritto da padre Dandoy nel dicembre 1925: Non vogliamo distruggere, ma costruire. Noi continueremo a riconoscere la verità, la bontà, la bellezza ovunque si trovino, e per quanto parziale sia la modalità della loro manifestazione. Pur essendo sicuri che le nostre personali convinzioni religiose sono le uniche pienamente e assolutamente vere, nutriamo tuttavia troppo rispetto per ogni fede sincera e ogni opinione seria per insultare, diffamare o minimizzare il valore di un’altra credenza, quale che essa sia. Il nostro intento non è di far uscire l’India da se stessa per farla entrare in una dimensione estranea al suo cuore, ai suoi ideali e al suo genio, ma di aiutarla a divenire pienamente se stessa, indicandole la sua vera meta e mostrandole la via per realizzarla, per metterla così in grado di dispiegare completamente il suo genio peculiare e – per certi versi – unico 2.

Considerando che il Vaticano II era ancora quarant’anni a venire, si può intuire la portata rivoluzionaria di quelle parole, e dunque della rivista di cui esse esprimevano lo spirito: nonostante essa fosse, sostanzialmente, un tentativo di apostolato dei missionari cristiani fra intellettuali indù, palese era il rispetto nei confronti di quella tradizione religiosa. Ciò nasceva dalla convinzione che una tradizione spirituale così ricca altro non potesse essere che una delle migliori præparationes evan2

Citato in Lacombe 1996: 612.

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IL PARADIGMA MISTICO

gelicæ mai incontrate dall’Occidente – e che al tempo stesso quella ricca tradizione spirituale avrebbe potuto trovare compimento nella Chiesa cattolica, l’unica che sarebbe stata in grado di mettere insieme tutti i frammenti di saggezza sparsi nell’induismo. Di fatto, gli intellettuali della rivista The Light of the East cercarono di assorbire la filosofia Vedanta e le riflessioni di Shankara e Ra\ma\nuja all’interno della philosophia perennis della sapienza cristiana. Come scrisse padre Johannes: “La filosofia della tradizione cristiana conserva infatti il meglio di Shankara e Ra\ma\nuja, così come essa ha fatto con Aristotele e Platone. Gli indù possono accettare la nostra filosofia senza rinunciare ai loro grandi filosofi” 3. Due maestri: Vivekananda e Radhakrishnan Una proposta speculare venne fatta da Vivekananda (1862-1902), nel cui sistema di pensiero si cerca di assorbire sia Cristo sia il cristianesimo all’interno della filosofia Advaita, la quale conserva “una perdurante influenza sulla vita culturale dell’India, riuscendo a tenere unite genti di diverse lingue, razze, gruppi etnici, religioni, e più recentemente anche di diverse ideologie politiche” 4. La sua proposta fu talmente affascinante che ancora oggi per molti teologi (e non solo) è unicamente sul terreno di una mistica Advaita, “il culmine dell’esperienza religiosa dell’umanità” 5, che è possibile un incontro-dialogo fra cristianesimo e induismo. Swa\mi Vivekananda fu discepolo di Sri Ramakrishna Paramahamsa (1836-1886), il cui pensiero può essere sintetizzato nella grande tolleranza nei confronti delle altre religioni: “Le diverse professioni di fede 3

Citato in Lacombe 1996: 613. Samartha 1991: 108-109. Corsivo mio. 5 Aleaz 1995: 8. 4

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

sono solo sentieri differenti per arrivare all’Onnipotente” 6. Seguendo la propria religione, si arriverà tutti alla comune Origine. Ancora: “Sii un cristiano nella pratica della misericordia, un musulmano nell’osservanza rigorosa delle forme esterne e un indù nell’esercizio dell’amore universale verso tutte le creature viventi” 7. A riprova di ciò può essere il fatto che Ramakrishna stesso – che aveva iniziato come sacerdote in un tempio della Dea Madre – per un certo periodo assunse l’islam come via, ripetendo continuamente il nome di Allah (dikr Allah) e recitando le varie preghiere rituali islamiche. Non solo: egli affermò di avere avuto visioni di un Cristo in carne e ossa 8, ancorchè un Cristo inserito in categorie comprensibili a un indù: Cristo era un avata\ra al pari di Ra\ma e Buddha. Il punto fondamentale per Ramkrishna è che, essendo dio trascendente, le religioni non possono essere altro che espressioni parziali di quell’assoluto infinito: dio è un camaleonte, ripeteva Ramakrishna, e le varie religioni non fanno altro che vedere un solo colore di esso; assolutizzandolo, una religione non si rende conto che quando le altre religioni dicono che il camaleonte ha un altro colore, dicono la verità. Ancora: “come una stessa sostanza, l’acqua, viene chiamata con nomi diversi da popoli diversi – gli uni la chiamano water, altri la chiamano vari, altri acqua, altri ancora pani – così l’unico Saccida\nanda viene invocato da alcuni come Dio, da altri come Allah, oppure come Hari, infine come Brahman” 9. Di qui la conclusione che l’unico modo per conoscere l’Assoluto non è quello di perdersi in disquisizioni filosofico-teologiche, bensì di sperimentarlo tramite la devozione. Ramakrishna è infatti considerato il principale esponente moderno del bhakti-yoga, da lui ritenuta la via migliore per incontrare dio in quest’epoca oscura del kali-yuga: attraverso la devozione assoluta (con la 6

Citato in Meinhold 1986: 88. Citato in Acharaparumbil 1982: 249. 8 Cfr. Klostermaier 2004: 164. 9 Citato in Acharaparumbil 1982: 248. 7

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IL PARADIGMA MISTICO

meditazione, la preghiera, la ripetizione del nome di dio, le opere di carità...) l’uomo si concentra su dio in maniera assoluta, giungendo all’illuminazione e alla percezione di quella comune Origine dalla quale gli uomini vengono e alla quale ritornano. Prima di morire Ramakrishna nominò come suo successore Vivekananda, il quale propugnò principi di tolleranza simili a quelli del suo maestro: “Colui che è Brahman degli indù, Ahura Mazda degli zoroastriani, Buddha dei buddhisti, Jehova dei giudei, il Padre dei cieli dei cristiani vi dia la forza di realizzare le vostri nobili idee” 10. Il nostro viaggio spirituale non va dall’errore alla verità, dice Vivekananda, ma da una verità ‘inferiore’ a una ‘superiore’ 11 perché identica è l’essenza di tutte le religioni 12. Da ciò ne consegue che se le religioni vogliono raggiungere la pace e l’armonia (garantita dalla condivisione di quell’unica essenza), esse devono essere pronte a sacrificare alcuni aspetti anche importanti della propria identità, ma secondari rispetto all’essenza 13. Questa posizione portò Vivekananda ad affermare a chiare lettere, al World Parliament of Religion (1893), la necessità che tutte le religioni si evolvessero in un’unica religione universale, somma di tutte le religioni e capace al tempo stesso di continuare a evolversi. L’Advaita Vedan\ ta sarebbe stato lo strumento che avrebbe permesso di armonizzare tutte le religioni, che altro non erano che stadi inferiori verso lo stadio supremo dell’Advaita 14: “L’induismo e i Veda sono ancora la verità ultima della religione, ma una verità che è in grado di abbracciare gli insegnamenti cristiani più alti, e dunque è universalmente accettabile” 15. Un altro 10

Citato in Acharaparumbil 1982: 251. Cfr. Vivekananda 1969: VII, 120-121, 425; Vivekananda 1968: VI, 103, 114; Vivekananda 1970a: V, 385; Vivekananda 1970b: I, 365-366. 12 Cfr. Vivekananda 1970b: I, 46, 318; Vivekananda 1971b: II, 41, 43, 299. 13 Cfr. Vivekananda 1971b: II, 68-69. 14 Cfr. Vivekananda 1969: VII, 6, 341, 347; Vivekananda 1970a: V, 81-82; Vivekananda 1971b: II, 240-253, 430-431. 15 Coward 1989: 4. 11

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

passo: “l’Advaita è l’ultima parola in fatto di religione e filosofia, e l’unica posizione che permette di guardare a tutte le religioni e sette con l’amore” 16. Dire – come sostiene la filosofia Advaita – che esiste un Assoluto Brahman che trascende tutte le categorie (nirguna) ma che al tempo stesso ne ha (saguna) qualificandosi come un dio personale, implica che la stessa e unica Realtà permea tutto il mondo, ‘deificandolo’. Questa divinizzazione vale in particolare per l’essere umano: “ogni essere umano è divino” 17. Il compito di un vero guru, allora, è quello di rendere cosciente l’uomo di questa sua realtà, di modo che la trasformazione dell’individuo possa avere come conseguenza la trasformazione dell’intera società: “Shankara ha lasciato la sua filosofia Advaita sulle colline e nelle foreste, mentre io sono venuto a portarla fuori di lì, a diffonderla e farla conoscere al mondo e alla società” 18. Portare la mistica nella dimensione sociale implica, secondo Vivekanda, la condanna del sistema castale e del principio dell’intoccabilità 19: un vero mistico deve impegnarsi per trovare una soluzione a questo male 20. Lo stesso ideale di impegno sociale della religione è presente nel pensiero di Sarvapelli Radhakrishnan (1888-1975), il quale scrisse che “nessuna religione può pretendere la nostra fedeltà se non produce una tradizione di responsabilità umana e sociale” 21, come nessuna religione può dirsi superiore alle altre perché sono tutte imperfette espressioni della Realtà Ultima: “abbiamo diverse tradizioni religiose che possono essere usate per correggerci e arricchirci. Queste tradizioni non creano la verità, ma la traducono in parole e simboli per aiutare coloro che 16

Vivekananda 1970a: V, 415-416. Vivekananda 1971a: VIII, 186. 18 Vivekananda 1969: VII, 162. 19 Cfr. Vivekananda 1970b: I, 423-427; Vivekananda 1971a: VIII, 166-167; Vivekananda 1972: IV, 175. 20 Cfr. Vivekananda 1969: VII, 246; Vivekananda 1970b: I, 423. 21 Radhakrishnan 1984: 32. 17

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IL PARADIGMA MISTICO

non riescono a vederla da soli” 22. Viene così sottolineata la necessità di procedere dal livello esteriore (religione) a quello interiore (misticismo): se il primo è mutevole e, portato all’estremo, produce fanatismo, il secondo è identico per tutti e fonte di unità fra le varie religioni. La cristologia dei due maestri Radakrishnan e Vivekananda applicarono la loro ‘filosofia’ anche alla persona di Cristo: partendo dal presupposto che il pluralismo è nel codice genetico dell’induismo, essi pretesero di utilizzare questa tolleranza pluralistica per reinterpretare Gesù, il vero punto discriminante nell’incontro induismo-cristianesimo. Vivekandanda proclamò a chiare lettere la sua ammirazione per Gesù, ma non per le Chiese sorte in suo nome. La mia opinione del grande Profeta di Nazareth nasce da una prospettiva orientale. Spesso dimenticate che il Nazareno era un orientale fra orientali. Pur con tutti i vostri tentativi di dipingerlo con gli occhi azzurrri e i capelli biondi, il Nazareno era comunque un orientale 23.

È per questo motivo che l’Occidente non è stato mai in grado di comprendere Gesù Cristo, arrivando a guerre fratricide, eresie e inquisizioni: Gesù era un orientale, e un occidentale non sarebbe mai stato capace di comprenderlo. Era necessario che fosse un orientale a spiegare Gesù agli occidentali, il senso della sua persona e del suo messaggio. In particolare, quello che gli occidentali non avevano capito è che Gesù Cristo era solo una delle tante ‘immagini’ di Dio, non l’unica: “lasciateci dunque trovare Dio non solo in Gesù di Nazareth ma in tutti i Grandi che lo hanno preceduto, in tutti quelli che sono venuti dopo di 22 23

Radhakrishnan 1952: 77. Citato in Yale 1962: 206.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

lui, e in quelli che verranno. La nostra devozione è libera. Sono tutte manifestazioni del medesimo infinito Dio” 24. Gesù Cristo, secondo Vivekananda, è il perfetto esempio di un maestro che ha compreso la verità ultima e la comunica diversamente a seconda dello sviluppo spirituale di chi ha di fronte: “Alle masse che non potevano concepire nulla di più alto che un Dio Personale, egli disse, ‘pregate il Padre vostro in cielo’. A coloro che potevano afferrare un’idea più alta, ‘io sono la vite, voi i tralci’, ma ai suoi discepoli, ai quali rivelò se stesso più profondamente, proclamò la verità più alta, ‘Io e il Padre siamo una cosa sola’” 25. Al livello ultimo è possibile comprendere che il Regno di Dio predicato da Cristo non è altro che l’intima essenza di Dio stesso, la quale racchiusa nel nostro spirito deve essere liberata e sviluppata. Questo è il solo modo, in India, per avvicinarsi a Cristo: “Se io, in quanto orientale, devo adorare Gesù di Nazareth, c’è un solo modo adatto per me, e cioè quello di adorarlo come Dio e nient’altro” 26; il resto “è assurdo” 27. Per Vivekananda il non-senso principale del cristianesimo è la morte in croce di Cristo: “Cristo era Dio incarnato; non potevano ucciderlo. Quel che fu crocifisso fu solo una sembianza, un miraggio” 28. L’Occidente, in poche parole, ha travisato l’insegnamento di Cristo e ha fatto del cristianesimo una religione in cui l’uomo non può sviluppare le sue potenzialità. L’insegnamento di Cristo era differente: Io non sono questo piccolo essere limitato, io sono l’universale. Io sono la vita di tutti i figli del passato. Io sono l’anima di Buddha, di Gesù, di Maometto.... In piedi, dunque; questa è l’adorazione più alta. Tu sei tutt’uno 24

Citato in Yale 1962: 212. Vivekananda 1971b: II, 143. 26 Vivekananda 1972: IV, 147. 27 “much of the rest is nonsense”. Vivekananda 1971a: VIII, 218. 28 Vivekananda 1970b: I, 328. 25

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IL PARADIGMA MISTICO

con l’universo. Questa sola è umiltà – non strisciare su quattro zampe e dirti peccatore 29.

Questo processo di divinizzazione non è realizzabile nel corso di una sola vita: sono necessarie molte reincarnazioni – dottrina che, secondo Vivekananda, sarebbe stata predicata anche da Cristo. Non solo: Cristo stesso è il prodotto di una serie di incarnazioni: “È mia particolare convinzione che lo stesso Buddha divenne Cristo” 30. Anche per Radhakrishnan il cristianesimo ha stravolto il messaggio di Gesù facendolo divenire un insieme di dogmi e precetti, quando invece “Gesù aveva il fastidio più grande per i dogmi, e non ha mai incoraggiato alcun tipo di speculazione metafisica o teologica, che è responsabile solo di casistiche, intolleranza e oscurantismo” 31. Gesù non deve essere ridotto a un evento storico: “Finché la vita di Cristo è considerata solo un evento storico, accaduto millenovecento anni fa, non potremo mai capire che cosa quella vita dovrebbe significare per noi” 32. È proprio qui che l’induismo può aiutare il cristianesimo, facendogli riscoprire la sua dimensione mistica più profonda: “forse il Cristianesimo, che nacque sul suolo orientale e ben presto si sposò con la cultura greco-romana, potrà trovare oggi la sua rinascita nella sapienza indiana” 33. La conclusione di Radhakrishnan è che “per un indù di cultura, Gesù è una dimostrazione suprema della evoluzione dalle origini umane al destino divino” 34; ne consegue che tutti gli uomini sono potenzialmente dei ‘Cristi’: tutti sono potenzialmente in grado di raggiungere la perfezione spirituale. 29

Vivekananda 1970b: I, 341. Vivekananda 1971a: VIII, 180. 31 Radhakrishnan 1940: 271. 32 Radhakrishnan 1940: 59. 33 Radhakrishnan 1940: 305. 34 Radhakrishnan 1952: 507. 30

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Le riflessioni successive Le riflessioni dei due maestri, Vivekananda e Radhakrishan, verranno prese come spunto per elaborazioni ulteriori. Swa\mi Akhilananda (1894-1962) fu il primo intellettuale neo-vedanta a dedicare un intero libro a Gesù Cristo: Hindu view of Christ (1949). Gesù viene visto come una incarnazione di Dio, idea questa presente sia nel cristianesimo sia nell’induismo, e dunque un possibile punto di contatto fra le due religioni. La differenza è precisata: “Il cristianesimo ortodosso crede che Dio si è incarnato una sola volta nella persona di Gesù il Cristo, mentre gli Indù credono che Dio si è incarnato diverse volte per portare a compimento qualche missione particolare e ristabilire lo spirito della religione, ogni qualvolta la religione declina e prevale l’irreligione” 35. L’idea di ‘incarnazione’ di Dio viene ripresa da Swa\mi Prabhavananda (1888-1979), anche se egli concentrò la sua attenzione soprattutto sul ‘Sermone della Montagna’, come mostrato dal titolo del suo libro più celebre: The sermon on the mount according to Vedanta (1979). Come Swa\mi Akhilananda, anche Swa\mi Prabhavananda sottolinea la differenza fra la pretesa di unicità storica dell’evento Gesù e la ripetibilità degli avata\ra nell’induismo. La figura di Gesù deve essere interpretata come uno dei tanti avata\ra: “Se, nella storia del mondo, Gesù fosse stato il solo originatore della verità di Dio, non sarebbe la verità; perché la verità non può essere originata: esiste. Ma se Gesù si limitò semplicemente a svelare e integrare quella verità, allora possiamo tenere conto anche di quelli che lo hanno fatto prima di lui, e lo faranno dopo di lui” 36. Lo stesso concetto venne portato avanti da Swa\mi Ranganathananda (1908-2005) che nella sua opera The Christ we adore (1969) precisò che la differenza fra incarnazione e avata\ra non è solo una questione numerica (una volta invece di 35 36

Akhilananda 1949: 12. Prabhavananda 1979: 48.

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IL PARADIGMA MISTICO

molte), ma anche qualitativa: gli avata\ra valgono nella misura in cui sono vivi e insegnano; l’incarnazione di Cristo invece, nella ‘falsa’ interpretazione delle Chiese, vale solo nella misura della sua morte: il sacrificio redentore per i peccati dell’umanità. Swam \ i Satprakashananda (1888-1979) ipotizzò che questa somiglianza fra la dottrina cristiana dell’incarnazione e quella indù degli avatar\ a non fosse casuale, ma il preciso risultato di un’influenza dell’induismo sul cristianesimo 37. Un avvocato, Bhawani Sankar Chowdhury, nel suo libro The new wine of Jesus: Christ taught Vedanta (1982) porta il discorso ancora più in là, con reminescenze che ricordano dottrine esoteriche: Gesù Cristo insegnò il Vedanta che avrebbe appreso in India 38. È evidente sia nel pensiero di Vivekananda sia in quello di Radhakrishnan e dei vari successori quanto sia stato serio il tentativo di induizzare il fondatore del cristianesimo. Se questo è positivo, nel senso che potrebbe mostrare una certa compatibilità fra i due sistemi a livello filosofico, il risvolto negativo della medaglia è che sia Cristo sia il cristianesimo vengono a perdere la propria specificità: Gesù diventa uno dei tanti avata\ra che hanno voluto trasmetterci l’insegnamento della non-dualità fra a\tman e Brahman 39. Una posizione di questo genere, va da sè, non poteva lasciare indifferenti gli intellettuali cristiani, che subito si misero all’opera per reagire a questa sfida. La risposta cattolica Per presentare la reazione degli intellettuali cristiani alla sfida degli autori finora citati è utile l’analisi di K. P. Aleaz, che nel suo libro Chri37

Cfr. Satprakashananda 1975: 18-21. Cfr. Chowdhury 1982: iii-iv, 16, 18, 137. 39 Precisiamo, in ogni caso, che tutte queste riflessioni non utilizzano il modo ‘tradizionale’ di descrivere la non-dualità, o Advaita. 38

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

stian thought through Advaita Vedan\ ta (1996), dividendo la riflessione cristiana in tre categorie, propone la seguente classificazione: i teologi che accettano (Reception Model) l’Advaita Vedan\ ta, quelli che lo re-interpretano (Reinterpretation Model), e quelli che lo rigettano (Rejection Model). Nel ‘Reception Model’ i teologi cristiani accettano totalmente il pensiero Advaita per giungere a una nuova interpretazione di Gesù. La figura più nota è Brahmabandhavav Upadhyaya, che abbiamo incontrato già diverse volte. Rifacendosi al modello indù dell’Assoluto come sat-cit-a\nanda, egli interpreta il Padre come sat (essere), Cristo come cit (coscienza, o meglio auto-coscienza) e lo Spirito Santo come a\nanda (beatitudine). Vi sarebbe un perfetto parallelismo dunque fra la ‘trinità’ vedica – così come elaborata nelle Upanishad e interpretata da Shankara – e la Trinità cristiana. La Rivelazione cristiana, anzi, può essere considerata un’ulteriore precisazione della ‘trinità’ vedica perché ci permette di passare da un piano meramente speculativo alla conoscenza, mediata dall’insegnamento di Cristo, della vera natura del rapporto all’interno del sat-cit-a\nanda, fra Padre-Figlio-Spirito Santo 40. S. J. Samartha sostiene che l’idea di Brahman come sat-cit-a\nanda e quella di Trinità come Padre, Figlio e Spirito Santo non sono altro che due risposte date, in due differenti contesti culturali, allo stesso mistero. Queste risposte devono essere prese nel loro valore simbolico, non reale: in quanto simboli, cioè, esse rimandano a un Mistero più alto espresso con linguaggi diversi. La conseguenza è che nessuno dei due linguaggi (quello indiano e quello cristiano) può essere utilizzato come metro per giudicare l’altro 41. Per quanto concerne la cristologia e il tema dell’unicità di Cristo, la teoria degli avata\ra è la più adatta per in40 Tutti gli altri cardini della dottrina cristiana (ad esempio grazia, redenzione, peccato, caduta) sono mantenuti nel loro valore tradizionale. Brahmabandhavav Upadhyaya se ne distacca quando segue la dottrina vedantica delle cinque realtà che compongono la natura umana, piuttosto che la classica distinzione cristiana in due (anima e corpo). 41 Cfr. Samartha 1991: 83-84.

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IL PARADIGMA MISTICO

terpretare il rapporto con l’Assoluto 42. La riflessione si sposta su un piano più filosofico con Carl Keller: Cristo è l’apparire di Dio in un mondo di apparenze. La dottrina dell’incarnazione perde qui forza, fatto che Keller conferma sostenendo che il Cristo oggetto della nostra fede non è il Gesù in carne e ossa ma quello esaltato e glorificato nella resurrezione. L’unica realtà dogmatica importante è quella escatologica: il divenire di Dio ‘tutto in tutto’, facendo sì che ogni apparenza perda di valore 43. Il discorso viene portato su un piano più ‘mistico’ da K. Subba Rao, il quale sostiene che è nella rinuncia al sé la chiave per accedere all’Assoluto: Gesù Cristo ci ha insegnato a più riprese l’importanza di rinunciare a se stessi, e questa rinuncia a un sé fenomenico è un insegnamento Advaita a pieno titolo: è un non-senso dualistico parlare di io-tu, un frutto della ma\ya\. Gesù è il guru che ci permette di arrivare alla consapevolezza di questa ignoranza, per poter così procedere sulla strada della perfezione abbandonando tutti i desideri terreni 44. J. G. Arapura sostiene che è stato un errore vedere nella storia il ‘luogo’ di Cristo. Piuttosto, l’evento Cristo deve essere localizzato all’interno della Realtà Ultima 45. Cristo in tal modo diviene un simbolo dell’Assoluto, mentre per R. V. De Smet le idee di Shankara sul rapporto fra Brahman e mondo possono aiutare a comprendere il rapporto fra natura divina e natura umana 46. Nel ‘Rejection Model’ i teologi cristiani rifiutano il pensiero Advaita, sostenendo piuttosto la tesi di una radicale alternativa, un aut aut, fra cristianesimo e Advaita Veda\nta. P. D. Devanandam sostiene che l’Advaita Veda\nta è una filosofia che non può più parlare al moderno uomo indiano, ciò che invece può fare la persona di Cristo. Nell’Advaita infatti il mondo perde ogni rilevanza, mentre nel cristianesimo 42

Cfr. Samartha 1991: 131. Cfr. Keller 1953. 44 Cfr. Rao 1965. 45 Cfr. Arapura 1980; cfr. Arapura 1991: 43-55. 46 De Smet 1965: 11-13. 43

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

troviamo la figura di un Dio che interviene nella storia ponendosi quasi al suo ‘servizio’, per liberare e rinnovare l’intera società – insegnamento trasmesso come modello ed esempio per gli uomini di oggi 47. Surjit Singh riprende le intuizioni di Devanandam affermando che ciò che manca nell’Advaita sono i concetti di personalità, storia e tempo. Soprattutto, l’individuo sembra perdersi e dissolversi nell’Assoluto, mentre Singh vuole salvare la personalità di ognuno nel rapporto con l’Assoluto. Questo può avvenire solo nell’insegnamento di Cristo, che evita di dissolvere la dualità 48. Nel ‘Reinterpetation Model’ i teologi cristiani non accettano il pensiero Advaita così com’è ma lo reinterpretano – o meglio, ne reinterpretano alcuni concetti fondamentali per ‘renderlo’ cristiano. Mark Sunder Rao affronta il tema del non-dualismo avvicinandosi ai misteri della Trinità e dell’Incarnazione: le tre ipostasi (hypostaseis) della Trinità hanno una comune sostanza (ousia), e la loro relazione è mantenuta dalla pericoresi (perichoresis). È questa idea della pericoresi che M. S. Rao utilizza per sviluppare un non-dualismo cristiano: nell’incarnazione la natura divina penetra quella umana, e quella umana poi penetra quella divina. La natura umana assunta nell’incarnazione era quella già penetrata dal divino: se questo è avvenuto per Cristo non può invece accadere per noi, data la condizione decaduta della natura umana. In virtù di questa caduta, quello che l’uomo può ottenere non è l’assoluta non-dualità promessa dall’Advaita, ma l’unio mystica che si realizza solo a livello dello Spirito 49. Raimon Panikkar più che attuare confronti fra Cristo e cit li attua fra Cristo e I |shvara così come I |shvara viene presentato nei Vedanta: il tramite per spiegare la relazione fra l’Assoluto e il mondo, tramite fatto proprio sia da Shankara che da Ra\ma\nuja. Panikkar sostiene che non dobbiamo partire dal Gesù della storia ma dal 47

Cfr. Devanandan 1950; cfr. Devanandan 1958; cfr. Devanandan 1961. Cfr. Singh 1972. 49 Cfr. Rao 1964. 48

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IL PARADIGMA MISTICO

Cristo della fede, ed è questo Cristo della fede che è presente ovunque anche se sconosciuto: il Cristo ‘sconosciuto’ dell’induismo non è altri che I |shvara, l’unico che può realmente spiegare la relazione duale fra Assoluto e mondo senza dissolvere un termine nell’altro 50. Monaci e Mistici Gli aspetti più interessanti di questo ‘reintepretation model’ sono tuttavia quei monaci che fecero dell’esperienza mistica il punto di partenza per un dialogo indù-cristiano, utilizzandola come punto di ‘contatto’ per creare dei monasteri-a\shram cattolico-induisti. Come scrive O. Lacombe: “Per sublimi che siano le manifestazioni e le conquiste speculative dell’induismo, il genio dell’India si è espresso con maggiore intensità nelle forme della vita monastica e nella ricerca mistica che ne costellano l’intera storia. È dunque naturale pensare che il cristianesimo indiano integrale assisterà alla fioritura di un monachesimo che sia, a un tempo, conforme alla tradizione della Chiesa e radicato nella tradizione indiana” 51. I precursori sono due francesi, i padri benedettini Jules Monchanin (1895-1957) e Henry le Saux (1910-1973) che fondano nel 1950 il Saccidananda A|shram a Santivanam (sulle rive del fiume Kaveri, nell’India meridionale). Dall’esperienza trassero un libro, An Indian Benedectine A|shram (1951), nel quale esprimeranno la loro convinzione circa la centralità del monachesimo e dell’esperienza mistica per realizzare un autentico incontro fra cristianesimo e induismo. Padre Monchanin, amico di grandi intellettuali francesi dell’epoca quali Henri de Lubac, fu tra i due quello più cosciente della differenza fra cristianesimo e induismo: pur ritenendo salutare lo ‘scontro’ del cristianesimo con l’India – da lui paragonato a ciò che fu lo ‘scontro’ del 50 51

Cfr. Panikkar 1981. Cfr. anche Infra, pp. 96-98. Lacombe 1996: 616.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

cristianesimo con la Grecia in tempi antichi –, egli rileva come il misticismo cristiano non possa perdere il suo carattere trinitario: proprio per questo sentiva come necessitante e fondamentale che il Saccidananda a\shram fosse dedicato alla contemplazione della Trinità. In particolare, vi era in lui il rifiuto di quell’equivalenza a\tman=Brahman così centrale nell’insegnamento delle Upanishad e in generale della ‘mistica’ indiana. Per sottolineare il carattere ‘cattolico’ del suo approccio assumerà il nome di Parama Arubi Anandam: “Colui la cui beatitudine risiede nel Supremo senza forma”, con riferimento alla sua devozione per lo Spirito Santo. Le Saux assumerà invece il nome di Swa\mi Abhishiktananda: “Colui che trova la propria gioia nel Cristo, l’unto del Signore”. Anche Le Saux rileva come un cristiano che si avvicina all’Advaita – giungendo ad esempio a leggere Cristo alla luce del cit della riflessione Advaita sul modello di Upadhyaya –, difficilmente vedrà nel sat-cit-a\nanda la Trinità: vi vedrà invece un monismo che alla fine si dissolve in un assoluto silenzio. Il pensiero cristiano all’opposto non risolve la Trinità nel monismo ma nella comunione. La comunione è Parola comunicata all’uomo attraverso la Rivelazione, non silenzio mistico. In tal modo, attraverso la persona di Cristo l’esperienza di non-dualità fra uomo e Assoluto diviene un’esperienza di unità nella relazione di un volto (uomo) di fronte a un altro volto (Cristo-Dio) 52. Un esempio di come Le Saux abbia conciliato le due prospettive è in questa sua riflessione: “Nulla può [...] appagare [l’anima] eccetto Dio in se stesso. Tuttavia l’anima è incapace di giungere a tanto finché non si risolve a valicare se stessa per tuffarsi e perdersi nell’abisso stesso di Dio. Allora essa comprende che il silenzio è la più alta e autentica lode: Silentium tibi laus. [L’anima] stessa ora non è che silenzio, un silenzio al quale è giunta raccogliendosi nelle sue più remote profondità e placando la sua attività interna, un silenzio che ora lo spirito fa risuonare dell’eco del Ver52

Cfr. Abhishiktananda 1969; cfr. Abhishiktananda 1974.

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IL PARADIGMA MISTICO

bo eterno, un silenzio che è pieno di attesa, un semplice sguardo verso Colui che è là, semplice attenzione, semplice risveglio” 53. Swa\mi Abhisiktananda sosteneva che Dio ha messo dei semi della vera fede nel cuore degli indù, e compito delle missioni cristiane è quello di farli germinare: “Tutto ciò che fu detto nelle Upanishad fu in realtà detto di Cristo” 54. Questa ‘germinazione’ potrà avvenire non grazie a riflessioni teologiche, ma tramite una profonda esperienza spirituale. Per questo nel suo opuscolo The Church in India (1969) egli critica la mancanza di interiorità della Chiesa cattolica, che non potrà mai nella sua aridità far germinare Cristo nell’induismo: sarà piuttosto l’incontro con l’induismo a risvegliare nel cattolicesimo la dimensione interiore. Le stesse tematiche sono presenti in La rencontre de l’hindouisme et du christianisme (1966), dove in particolare viene sottolineato come il cristianesimo possa essere aiutato in questo risveglio spirituale attraverso una lettura senza pregiudizi delle Upanishad: è infatti l’esperienza Advaita quella che Le Saux, vivendola in prima persona, cerca di mettere in relazione col cristianesimo, tanto che arriverà a scrivere nel suo diario spirituale: “l’esperienza delle Upanishad è vera, io lo so!” 55. Se nella sua vita pratica Le Saux fu in grado di conciliare induismo e cristianesimo, a livello teorico la sintesi non venne invece mai effettuata, e questo creava in lui una forte tensione interiore: “Credo che sia comunque meglio conservare, anche nella tensione estrema, le due forme di un’unica ‘fede’, sino all’apparire dell’alba”, e continuava: “Sono sempre meno convinto che sia giunto il momento di elaborare concetti destinati a facilitare lo scambio di esperienze tra Oriente e Occidente [...]. Penso invece che sia il momento di lasciarsi semplicemente invadere dall’esperienza – dalle due esperienze, se si vuole – e, per coloro che condividono questa destabilizzante condizione, [questo è] il momento 53

Le Saux 1971: 96, citato in Dupuis 2004: 159. Abhishiktananda 1969: 89. 55 Le Saux 2002: 444. Corsivo nel testo. 54

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

giusto per consolidare le fondamenta di un successivo dialogo intellettuale” 56. Il cristianesimo deve spogliarsi del suo abito giudaico-ellenistico, per conseguire questo fine? E come leggere alla luce dell’Advaita l’unicità salvifica di Gesù Cristo? Le Saux arriva a scrivere che “bisogna accettare che [...] tutto sia simbolo (il che non vuol dire che non sia vero): la generazione eterna, la discesa nel tempo, la resurrezione, l’ascensione, l’effusione dello Spirito” 57. In questa ottica Gesù non è il “capo-fondatore di una religione”, ma “il guru che annuncia il mistero” 58. Il Saccidananda as\ hram passerà nel 1968 nelle mani di Alan Richard Griffiths (1906-1993), un inglese che, nato da famiglia anglicana, si convertirà al cattolicesimo divenendo poi monaco benedettino; assumerà il nome di Bede. Autore di un celebre libro dal titolo The Marria\ i ge of East and West (1982), Griffiths continuerà sulla linea di Swam Abhishiktananda: come Cristo (cit) viene dal Padre (sat) e ritorna a lui attraverso lo Spirito Santo (an\ anda) in perfetta comunicazione, così anche noi veniamo dal Padre (sat) per giungere alla perfetta conoscenza (cit) e tornare al Padre (sat) in perfetta beatitudine e amore (an\ anda). La caduta (il peccato originale) è il nostro ingresso nell’ignoranza di un mondo che crediamo duale, dove l’Assoluto e il mondo sono separati; la Redenzione è la riconquista della coscienza dell’unità e il ritorno in questa Unità 59. Partendo dal concetto di una ‘rivelazione primordiale’ poi \ i Dayananda, “Colui corrottasi, Griffiths (che assumerà il nome di Swam che trova la propria gioia nella compassione”) sostiene che tutte le religioni contengono qualche elemento di verità. Quando parliamo di induismo non parliamo allora di una falsa religione ma di “una vera religione, che è stata distorta in alcuni suoi aspetti perdendo così la sua integrità, ma che comunque rimane un’autentica testimone della verità 56

Citato in Dupuis 2004: 160. Le Saux 2002: 405. Corsivo nel testo. 58 Le Saux 2002: 426. 59 Cfr. Griffiths 1973; cfr. Griffiths 1978. 57

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IL PARADIGMA MISTICO

eterna” 60, manifestata nella sua pienezza da Cristo. L’insistenza del monaco più che su argomentazioni teologiche è sull’esperienza mistica: è a questo livello che deve avvenire l’incontro fra induismo e cristianesimo. Questo però non deve portare alla dissoluzione della storia: “C’è una vera creazione, una vera caduta, una vera redenzione” 61; soprattutto, Gesù deve essere visto come una figura storica (e non simbolica al pari di Ra\ma e Krishna). Quando l’India accetterà questo fatto si sarà veramente raggiunto il punto di svolta e si potrà attuare “l’incontro finale dell’Oriente e dell’Occidente in Cristo” 62. Il discorso ‘mistico’ è certamente complesso, anche perché è difficile trovare una giustificazione teologica che possa mettere assieme la mistica cristiana con le mistiche non-cristiane. Se alcuni autori come Bede Griffiths sostengono che è possibile trovare un barlume di luce anche in mistiche non-cristiane perché queste sono frammenti – pur se degenerati – della rivelazione primordiale 63, altri invece, come E. Ancilli, dubitano che possa esistere una mistica fuori dal cristianesimo: la mistica propriamente detta è una esperienza esclusivamente cristiana. Come unione effettiva con Dio, essa non può realizzarsi che in forma di una grazia soprannaturale, il cui luogo normale è la Chiesa e le cui condizioni normali sono la vita di fede e i sacramenti 64

Detto in altri termini: non è così ‘pacifico’ che la mistica possa costituire il terreno d’incontro fra induismo e cristianesimo o ancor di più essere il luogo privilegiato per un dialogo fra le due religioni. Quello che le esperienze dei monaci-mistici ci insegnano, piuttosto, è la possibilità di 60

Griffiths 1966: 92. Griffiths 1966: 174. 62 Griffiths 1966: 178. 63 Cfr. Ancilli 1984: II, 509. 64 Ancilli 1984: II, 511. 61

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

condividere sul piano esperienziale le due ‘religioni’; a livello intellettuale e logico, come ben esemplificato dai drammi interiori di Le Saux, è invece piuttosto difficile trovare un punto di incontro fra induismo e cristianesimo: le barriere teologiche, le differenti espressioni filosofiche, il diverso background culturale costituiscono dei muri a volte così alti che è difficile valicarli e trovare punti di contatto senza dissolvere lo specifico delle due esperienze: il rischio, per usare una nota espressione, è di finire in una notte in cui tutte le vacche sono nere. A livello di vita vissuta, invece, l’esperienza di questi monaci cristiani – e la grande proliferazione poi avvenuta in India di as\ hram indù-cristiani – mostra che è quanto meno possibile tentare una fusione di orizzonti fra i due mondi, quello indiano e quello cristiano. Questi as\ hram possono essere cioè considerati dei laboratori, nei quali si cerca di elaborare dei sistemi di compatibilità fra i due diversi orizzonti, quello cristiano e quello indù 65.

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La loro opera, comunque, non è accettata senza controversia. Se ne può trovare un eccellente esempio nel libro The Paganized Catholic Church in India (1985) di Victor J. F. Kulanday; l’autore del Foreword lo qualifica come un coraggioso tentativo “di fermare il marcio nella Madre Chiesa in India” (“to stop the rot within Mother Church in India”), che Kulanday ben qualifica nel suo Preface: “Invocare il nome del dio Indù Krishna 34 volte (OM) durante la Messa, recitare mantra (parole magiche) pagani, adorare il Sole e il Fuoco con cerimonie e rituali pagani, sviluppare una nuova teologia e una nuova liturgia indiane ispirate all’Induismo e al marxismo, il tutto confezionato in Sanscrito, una lingua che il 99% degli Indù stessi non comprende, non è certamente ciò che il Vaticano II ha prescritto alla Chiesa di fare in nome dell’inculturazione. La cosa più grave accaduta è la totale mancanza di rispetto per il Corpo, l’Anima e la Divinità di Gesù nella Santa Eucarestia adorandolo con la forma più bassa di omaggio nella religione Indù – solo un veloce anjali – che è reso solo fra esseri umani e a divinità minori sui cigli delle strade” [Kulanday 1985 (sia il Foreword sia il Preface sono privi di numerazioni di pagine)]. Questo non è che un ‘assaggio’ di ciò che si trova nel resto del libro, ricco anche di immagini: tra queste, alcune foto che mostrano una croce e un altare presenti (secondo la didascalia dell’autore) proprio nel monastero di Bede Griffiths: sulla croce si vede disegnato anche il segno OM, mentre sull’altare si trova un oggetto che rappresenta un serpente. Evidenti prove, per Kulanday, della paganizzazione (e non inculturazione) del cattolicesimo in India.

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4. ALLA RICERCA DI UN NUOVO PARADIGMA

Abbiamo visto come l’incontro/scontro fra cristianesimo e induismo sia risultato in una serie di ‘reinterpretazioni’. Come sono state recepite dal cristianesimo? E quale meccanismo di rielaborazione della dottrina cristiana hanno messo in moto? La visione teologica predominante nel cristianesimo del XIX secolo – a parte alcune eccezioni 1 – è che l’umanità intera è decaduta dallo stato di grazia, debole e ferita dal peccato. Avvantaggiandosi di questa misera condizione, il demonio può spargere le sue malizie e le sue perversità. La più sottile è quella di ingannare individui di buona volontà con false religioni, le quali pertanto non sono un tentativo abortito di raggiungere Dio, ma un inganno demoniaco per allontanare le anime dal creatore, portandole dritte dritte nel regno di Satana. L’induismo, con la molteplicità delle sue divinità, con le mostruose forme con cui vengono rappresentate, con la corruzione della classe dei brahmani che insegnano ‘assurdità’ quali l’adorazione di vacche, è l’esempio più lampante di questo inganno demoniaco. La logica conclusione è che l’atti1 Una delle più importanti è quella di Frederick Denison Maurice (1805-1872): in The Religions of the World and Their Relation to Christianity (1845) l’autore sostiene che le religioni non-cristiane sono ben più che falsità e idolatria: sono aspirazioni legittime, anche se imperfette e in attesa della pienezza offerta dal cristianesimo (cfr. Sharpe 1977: 13-14). Non è secondario il fatto che quando Keshub Chandra Sen giunse a Londra nel 1870, Maurice fu una delle persone che incontrò.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

vità missionaria del cristianesimo deve essere indirizzata allo svelamento di tale inganno, anche con la forza: distruggere templi e immagini idolatre non è un sopruso ma un disperato tentativo di salvare le anime dal demonio, salvezza che può avvenire unicamente in Cristo tramite la mediazione della sua Chiesa. Si comprende il lamento di Vivekananda: “Voi preparate, educate, vestite e pagate degli uomini per far cosa? Per venire nella mia patria a maledire e offendere i miei antenati, la mia religione, tutto. Camminano nei pressi di un tempio, e dicono, ‘voi idolatri andrete all’inferno’” 2. La direzione era a senso unico: i cristiani portavano la salvezza agli indù. Per questo piuttosto che di dia-logo si dovrebbe parlare di mono-logo: non vi era nulla da imparare dall’induismo, nulla di buono vi era da salvare. Di più: l’induismo era negativo per la sua incapacità di riformare la società indiana, anzi contribuiva a mantenere un rigido e inflessibile sistema sociale fautore di ingiustizie, la più grave delle quali era quel sistema castale obbrobio per le illuminate democrazie europee. Certo, i missionari più attenti avevano rilevato l’esistenza di una riflessione filosofica in India; tuttavia questa perdeva valore di fronte al fatto che la maggioranza della popolazione era immersa in un paganesimo superstizioso privo di valore redentivo, e che anzi spingeva alla licenza sessuale, all’ignoranza, alla crudeltà. Non sorprende che il missionario protestante William Ward (1769-1823) vedesse nell’arrivo degli inglesi in India un fatto provvidenziale (dove Provvidenza è con la P maiuscola), che avrebbe contribuito non solo a salvare le anime dei pagani, ma anche a migliorare la condizione dell’intera società 3. La speranza dei missionari cristiani era di riuscire a infondere dall’esterno nuove idee all’interno dell’induismo. Il metodo migliore per attuare questo progetto era la diffusione del sistema educativo anglosassone, capace di sradicare l’arretratezza e la superstizione: “Promuovere la cristianità richiedeva la 2 3

Vivekananda 1970a: VIII, 212. Cfr. ad esempio Ward 1970: xxi-xxxvi.

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ALLA RICERCA DI UN NUOVO PARADIGMA

diffusione dell’educazione, per contribuire all’attacco contro la superstizione e la schiavitù mentale nutrita dall’ignoranza. Affinché l’istruzione fiorisse, era necessaria a sua volta una letteratura capace di trasmettere e ispirare nuove idee, e un linguaggio sufficientemente ricco e flessibile per esprimerle. All’inizio del diciannovesimo secolo, la maggior parte delle lingue e dei dialetti dell’India non possedevano queste caratteristiche” 4. Non solo dunque la cultura indiana in generale era arretrata: le stesse lingue parlate in India erano incapaci di traghettarla verso la modernità; di qui la necessità dell’ingresso massiccio dello lingua inglese. Con ciò, la superiorità dell’Occidente e del cristianesimo sull’induismo veniva ribadita. L’approccio si ammorbidisce Un altro gruppo di missionari – tra i quali James Long (18141887) e C. H. A. Dall (1816-1886) – sostennero invece che una qualche verità doveva pur essere contenuta nell’induismo, e questa era ragione sufficiente per studiare a fondo quella religione. La sistematizzazione teorica delle posizioni di questa ala ‘progressista’ sarà operata da J. N. Farquhar (un predicatore scozzese che visse in India dal 1891 al 1923), il cui lavoro più importante ha un titolo emblematico: The Crown of Hinduism (1913) 5. L’autore sostiene che se è vero che il Gesù storico ci ha trasmesso una religione etica e spirituale migliore di quanto si possa trovare in tutta la tradizione spirituale indiana, è anche vero che i testi sacri dell’induismo non devono essere considerati meramente una raccolta di errori, quanto la testimonianza del cammino del popolo indiano verso la verità più alta rappresentata da Cristo, ‘corona’ (crown) dell’induismo e di tutte le religioni. La presa di posizione più 4 5

Ingham 1956: 96. Farquhar 1913.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

radicale di Farquhar sta nel sostenere che la salvezza non va collegata alla persona di Cristo ma al Vangelo, visto come compimento (fulfilment) delle aspirazioni espresse in ogni religione. Proprio per il fatto di trovare il loro completamento e la loro pienezza nel Vangelo di Cristo, le altre religioni non devono più essere considerate demoniache, ma parziali espressioni della verità cristiana. Un approccio più conciliante all’induismo fu anche merito del lavoro degli indologi, i quali non solo resero disponibili i testi della tradizione indù, ma spostarono l’attenzione dalle pratiche alle teorie dell’induismo: fino ad allora missionari e burocrati coloniali si erano fermati soprattutto al lato esteriore dell’induismo, alle sue pratiche ‘strane’, alle sue immagini raccapriccianti; ora gli indologi invitavano ad andare oltre, a guardare al patrimonio filosofico e spirituale contenuto nei testi sacri. Senza dubbio il cambiamento di prospettiva fu positivo, perché portò alla scoperta e all’approfondimento di una tradizione spirituale millenaria; tuttavia fu anche all’origine di una svalutazione dell’induismo ‘vivente’, fatto di riti e feste ‘popolari’ – svalutazione presente ancor oggi non solo negli studi accademici, ma anche nei tentativi di dialogo fra cristianesimo e induismo 6. Il più noto fra gli indologi del XIX secolo fu F. Max Müller (18231900): sebbene non visitasse mai l’India, le sue riflessioni vennero considerate il pinnacolo dell’indologia britannica del tempo, e spesso citate anche dagli autori del Rinascimento indiano. Nel pensiero di Max Müller i testi sacri dell’India, in particolar modo i Rig Veda, erano decisivi per comprendere non solo la religione dell’India, ma anche lo sviluppo religioso dell’umanità in generale: partendo da un presupposto evoluzionista, unito all’altro presupposto che con i Rig Veda ci si trovasse all’alba della civiltà umana, Max Müller traeva la conclusione 6 Questa affermazione, tuttavia, non deve essere presa in senso assoluto: esistono eccellenti tentativi di dialogo fra induismo e cristianesimo che prendono spunto proprio dai caratteri ‘popolari’ di queste religioni.

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ALLA RICERCA DI UN NUOVO PARADIGMA

che i testi sacri dell’induismo ci potevano indicare il percorso seguito dall’umanità nel suo cammino religioso, dai primordi fino alla decadenza attuale (in India rappresentata dai Pura\naÛ e dalla religiosità popolare) 7. Max Müller si spinse oltre, affermando che le altissime riflessioni filosofiche contenute nelle Upanishad e nei Veda\nta (ben più profonde di quelle dei romani, dei greci e degli ebrei) potevano essere assimilate a, e anzi erano compatibili con il cristianesimo alessandrino, da lui considerato la punta più alta raggiunta del pensiero religioso dell’umanità. Max Müller non fu il primo studioso ad aprire le porte dell’India all’Occidente. H. T. Colebrooke (1765-1837), ad esempio, aveva già sostenuto che il vero induismo, l’induismo originario, era quello che proponeva una visione monoteista: la deificazione degli eroi e le incarnazioni della divinità erano tutti sviluppi e corruzioni successive. La posizione venne ribadita da H. H. Wilson (1786-1860), il quale sostenne che l’induismo originario era quello dei Veda, mentre l’idolatria, il culto delle immagini e soprattutto i Pura\naÛ erano espressione di una degenerazione. L’indologo più noto, accanto a Max Müller, fu comunque Sir Monier Monier-Williams (1819-1899): pur criticando quelle che definiva ‘superstizioni’, egli seppe riconoscere il valore intrinseco del mondo indiano. Ecco il suo noto ‘appello’: Sono profondamente convinto che, più noi impariamo sulle idee, i sentimenti, le sfumature di pensiero, gli sviluppi religiosi, le eccentricità e persino gli errori e le superstizioni degli indiani, meno inclini saremo a giudicare coi convenzionali parametri europei; meno disposti a considerare noi stessi come gli unici depositari della vera cultura, conoscenza, virtù e raffinatezza esistenti al mondo; meno inclini a disprezzare, come una razza inferiore, gli uomini che hanno redatto le Leggi di Manu, uno dei più straordinari prodotti letterari del mondo; che furono in grado di elaborare sistemi etici degni del cristianesimo; che composero il Ra\ma\yanÛa e il Maha\bha\rata, poemi sotto certi 7

Cfr. Neufeldt 1980.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

aspetti superiori all’Illiade e all’Odissea; che hanno inventato da soli le discipline della grammatica, dell’artimetica, dell’astronomia, della logica, che hanno elaborato indipendentemente sei validi sistemi filosofici. Soprattutto, saremo meno inclinati a stigmatizzare come ‘pagani ignoranti e immorali’ gli autori di due religioni che – per quanto sfortunatamente antagoniste al cristianesimo – sono al momento professate da circa la metà della razza umana 8.

Il presupposto di una superiorità dell’Occidente e del cristianesimo comincia ad ammorbidirsi. Oltre l’adagio All’adagio extra ecclesiam nulla salus ha sempre fatto da contrappeso il facienti quod in se est, Deus non denegat gratiam: Dio non nega la sua grazia a chi fa ciò che è in suo potere per raggiungere la salvezza. La vera questione nella teologia cattolica, cioè, non è il destino dei singoli individui appartenenti ad altre religioni, quanto il valore salvifico in sé delle altre religioni 9. Già prima del Vaticano II diversi teologi s’interrogarono su questa problematica: le riflessioni di Jean Daniélou (1905-1974) e Karl Rahner (1904-1984) ne sono due esempi tipici. Jean Daniélou, ne Le mystère du salut des nations (1946), vede le religioni non-cristiane come 8

Monier-Williams 1978: v-vii. È di un certo interesse ricordare anche la posizione di Jacques Albert Cuttat, per un periodo ambasciatore svizzero a Nuova Delhi. Nella sua opera più celebre, La Rencontre des Religions (1957), egli mette in guardia contro facili sincretismi, in particolare criticando quel sogno tanto caro a molti di creare una religione universale. Distinguendo chiaramente fra la visione monoteistica tipica dell’Occidente e quella metafisico-immanentistica dell’Oriente, Cuttat conclude che l’una è irriducibile all’altra; anzi, la differenza fra le due implica una superiorità della prima sulla seconda. Questo tuttavia non significa rigettare la spiritualità orientale: essa può servire come praeparatio interiore per la grazia divina, la quale rimane comunque ‘esclusiva’ del cristianesimo. 9

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possibili preparazioni (pierres d’attente) al Vangelo, logico compimento di tutto quanto di buono è presente in ogni tradizione religiosa. Allo stesso tempo Daniélou sostiene che alcune religioni possano divenire ostacoli (pierre d’achoppement) al piano salvifico di Dio, in particolare quando il Vangelo è rifiutato e i cristiani perseguitati. Quello che il teologo precisa a chiare lettere è che le religioni in sé non hanno valore salvifico: la salvezza è dovuta esclusivamente a Cristo, il quale è ‘uno col suo corpo’ che è la Chiesa. Le religioni non sono altro che un tentativo dell’uomo di raggiungere Dio, mentre il cristianesimo è Dio che ha raggiunto l’uomo attraverso la sua grazia. Ne consegue che tutte le religioni dovranno trovare il loro compimento nel cristianesimo e ciò per la ragione che Dio – spiega Daniélou – si rivela gradualmente partendo da Abramo (non Adamo, limitando così la rivelazione di Dio all’ambito ebraico-cristiano) fino alla perfezione di Cristo 10. Alcuni anni più tardi uno dei maggiori teologi cattolici del Novecento, Karl Rahner, formulerà la teoria dei ‘cristiani anonimi’: se la volontà salvifica di Dio è universale ne consegue che la sua grazia raggiunge tutti gli uomini in tutte le religioni, le quali dunque sono parte (de iure) del piano provvidenziale di Dio. Tutti gli uomini sono così dei cristiani in potenza e la missione della Chiesa è quello di trasformare questa potenzialità in attualità: “ogni uomo è un cristiano anonimo obbligato però a divenire cristiano effettivo” 11. Interrogandosi sul lungo periodo che intercorre fra Adamo (piuttosto che Abramo) e Mosé, Rahner si chiede come la volontà salvifica universale si sia attuata al di fuori del percorso ‘semita’: la sua risposta è che Cristo è stato e continua a essere presente nella storia tramite lo Spirito: “Cristo è presente e attivo nel credente non cristiano (e quindi nelle religioni non cristiane) attraverso il suo Spirito” 12; l’azione dello Spirito è comunque 10

Cfr. Daniélou 1946. Rahner 1965: 565. 12 Rahner 1990: 405. 11

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orientata fin dagli inizi all’evento Cristo 13. Fino a quando si è allo stadio del ‘cristiano anonimo’, in ogni caso, la salvezza viene veicolata dalla particolare tradizione religiosa alla quale l’individuo appartiene. Heinz Robert Schlette, in Die Religionen als Thema der Theologie (1963), rovescia la terminologia classica affermando che “la via di salvezza delle religioni si può definire come ordinaria e quella della chiesa straordinaria” 14. L’induismo è così una via ordinaria di salvezza, parte del piano provvidenziale di Dio. Se con le riflessioni sistematiche di Daniélou e Rahner si è passati dalla fase del ‘Cristo contro le religioni’ a quella del ‘Cristo nelle religioni’ (Cristo è il compimento delle religioni), con Schlette si è fatto un altro passo in avanti: la distinzione fra via ordinaria e via straordinaria di salvezza implica che al centro della riflessione non vi è ora la figura di Cristo, ma quella di Dio. Dal cristocentrismo si passa al teocentrismo: questo è un cambiamento radicale, che il teologo anglicano John Hick (n. 1922) definirà una ‘rivoluzione copernicana’ all’interno della teologia. In opere quali God and the Universe of Faiths (1973) e God has many Names (1982) egli suggerisce una relativizzazione della cristologia e una sua subordinazione al più vasto disegno di Dio, proprio perché questa rivoluzione copernicana “implica un passaggio dal dogma che il Cristianesimo si trova al centro alla comprensione che è Dio che si trova al centro, e che tutte le religioni dell’umanità, inclusa la nostra, servono e ruotano attorno a lui” 15. Le pretese dogmatiche alla base della centralità del cristianesimo sono vanificate con la categoria del mito: la divinità di Gesù, in particolare, è una costruzione mitologica la cui funzione è quella di indirizzarci verso l’Assoluto. 13

Cfr. Rahner 1990: 408. Schlette 1968: 86. Corsivo nel testo. 15 Hick 1973: 131. Corsivo nel testo. 14

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La tesi teocentrica sarà fondamentale anche per il teologo protestante indiano Stanley Samartha (1920-2001), che nell’opera One Christ – many religions. Toward a Revised Christology (1991) invita ad abbandonare quella che egli definisce una ‘cristologia-elicottero’ (Helicopter Christology), che scende dall’alto indifferente al suolo sul quale atterra, anzi che solleva tanta di quella polvere che alla fine ottiene il solo risultato di oscurare il volto di Gesù. Piuttosto, è necessaria una ‘cristologia da carretto’ (Bullock-cart Christology), le cui ruote sono saldamente a contatto col suolo e dunque in grado, per uscir di metafora, di inculturarsi al mondo indiano e asiatico in generale. Questo significa evitare il cristocentrismo per sviluppare invece un teocentrismo che riconosca Gesù Cristo come una delle tante rivelazioni di Dio: “la teoria dei molteplici avata\ra sembra essere l’atteggiamento più consono in un contesto pluralista, che permette di riconoscere sia il mistero di Dio, sia la libertà degli esseri umani di rispondere alle iniziative divine in modi differenti, in tempi differenti” 16. Una posizione simile è quella dell’indiano M. Thomas Thangaray, il quale nella sua opera The Crucified Guru. An experiment in Cross-Cultural Christology (1994) sostiene che la pretesa salvifica di Cristo non ha alcun senso, se intesa in senso universale: essa deve valere solo per i cristiani 17 e non per coloro che professano altre religioni per le quali l’evento Cristo ha un valore nullo o al limite marginale. Rifacendosi piuttosto alla scuola dello Shaiva Siddha\nta dove il guru rappresenta sì dio per il discepolo, ma rimane uomo nella sua essenza intima, Thangaray suggerisce che Gesù in quanto guru rimane un uomo e la sua pretesa divinità ha solo caratteristiche ‘funzionali’ e non ‘ontologiche’: sono cioè strettamente legate al rapporto che si instaura col discepolo, e al cammino che questo deve compiere sotto la guida del guru verso la liberazione. Va da sé che questa posizione si qualifica come pluralistica, in quan16 17

Samartha 1991: 131. Cfr. Thangaray 1994: 32.

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to Gesù non sarebbe altro che un guru fra i tanti: “Gesù dovrà essere visto come uno dei guru, e non come il solo e unico guru” 18. Quando si parla di una teologia delle religioni applicata al contesto indiano, tuttavia, i nomi che più frequentemente si incontrano sono quelli di Raimon Panikkar e Jacques Dupuis. Il sacerdote Raimon Panikkar è nato il 1918 da padre indiano e indù e da madre cattolica catalana; fino al 1987 ha insegnato all’università di California e Santa Monica (USA), quindi si è ritirato a vita privata in Catalogna. La sua opera principale è The unknown Christ of Induism (1964), nella quale sostiene che induismo e cristianesimo si possono incontrare tramite il Cristo già presente nel mondo indiano: “Cristo è già nell’Induismo nella misura in cui l’Induismo è una vera religione; Cristo è già all’opera in ogni preghiera Indù nella misura in cui è una vera preghiera; Cristo è dietro ogni forma di adorazione nella misura in cui è un’adorazione fatta a Dio” 19. Da ciò ne consegue che il compito del cristianesimo non è predicare un nuovo Cristo, quanto svelare quello nascosto nella tradizione indù: “la missione cristiana, dunque, non è quella di sradicare o sconfiggere l’Induismo, ma, attraverso lo svelamento del Cristo nascosto, quella di aiutarlo a morire e risorgere, trasformato in qualcosa di nuovo” 20. La prospettiva di Pa18 Thangaray 1994: 124. Ricordiamo un altro teologo frutto del contesto indiano: F. Wilfred, che nell’opera Beyond Settled Foundations (1993) suggerisce il valore di complementarietà che avrebbero le varie religioni nel contesto generale del piano salvifico di Dio, nel quale esse non sono altro che diverse strade che – ognuna con la propria specificità –, conducono a quell’unica meta che è Dio. 19 Panikkar 1981: 17. 20 Boyd 1975: 226. Un autore che ha concentrato la sua attenzione su Cristo è stato Klaus Klostermaier. In un opuscolo dal titolo Kristvidya (1967) egli si propone di tracciare le linee di una ‘cristologia indiana’, sostenendo che “quello che dobbiamo fare è esprimere in termini indù Cristo, ossia come la relazione vivente di ognuno con l’Assoluto (the Ultimate)” (Klostermaier 1967: 10): è necessario trovare il significato di Cristo dall’interno dei sistemi religiosi e filosofici indù, in quanto la storia del cristiane-

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nikkar, tuttavia, non è cristocentrica ma teocentrica. Ecco un passo nel quale il teologo espone la sua tesi: Cristo è il simbolo cristiano per parlare di Dio. Dio ha detto una sola parola, Cristo. È un simbolo che ci è stato dato duemila anni fa e che ci dà la possibilità di parlare di Dio, a condizione ovviamente che siamo coscienti dello spessore culturale e storico che ogni simbolo comporta. Per duemila anni il linguaggio cristiano è stato il inguaggio biblico, ricevuto e interpretato prevalentemente all’interno del contesto ellenico. Per linguaggio intendo non solo un idioma, una struttura grammaticale, ma pure l’orizzonte di intelligibilità che è comunicato attraverso il linguaggio. Questo linguaggio deve essere compreso, trasmesso ed eventualmente tradotto. Vi è pertanto una triplice mediazione che ci impedisce di assolutizzare qualunque affermazione umana 21.

Distinguendo fra il Gesù della storia e il Cristo della fede (Gesù storico e Cristo mistero, come preciserà nella nuova edizione di The unknown Christ, del 1981), Panikkar lascia aperta la porta alla possibilità che altri nomi storici o mitologici (come Ra\ma, Krishna, I |shvara, Purusha...) 22 possano esprimere il mistero di Cristo, eccedente quanto espresso dalla teologia occidentale. Il Gesù storico, a questo punto, sembra perdere rilevanza nell’ottica salvifica generale: simo in India è la dimostrazione di quanto sia fallimentare cercare di trovargli un posto dall’esterno. Il tema è ripreso nel suo Hindu and Christian in Vrindaban (1969) con parole particolarmente dure: “Cristo è ben più grande della nostra comprensione – e non si rivela in maniera così goffa e rozza come spesso immaginiamo che sia una ‘præparatio evangelica’. Non ha bisogno della falsificazione di quanti contrabbandano piamente il nome di Cristo nelle scritture pre-cristiane: egli fu con l’umanità fin dal suo inizio, conosce tutte le lingue e guida tutti i cuori, e ha molti nomi a noi sconosciuti” (Klostermaer 1969: 111). Di qui una delle più celebri frasi di Klostermaier: “Cristo viene in India non dall’Europa, ma direttamente dal Padre”. (Klostermaer 1969: 112). 21 Panikkar 1998: 69. 22 Come già rilevato (cfr. Infra, pp. 80-81), I |shvara è il concetto utilizzato da Panikkar: I |shvara altri non è che Cristo “e l’amorevole compito della missione cristiana è di svelare questo Cristo” (Boyd 1975: 223).

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certamente la tradizione cristiana viene da Gesù e se non fosse stato per Gesù oggi non parleremmo in questi termini di tali problemi. Ma non confondiamo Gesù con Cristo. [...]. Questo Cristo non è identico a Gesù. Siamo così avvezzi al ragionamento scientifico-logico che pensiamo che se A è B, allora B è A. Analogamente, se Gesù è Cristo, allora Cristo è Gesù. Ma non è così, perché né Gesù è A né Cristo è B. [...]. Nell’eucarestia c’è la presenza del Cristo reale, ma nell’eucarestia non vi sono le proteine di Gesù, figlio di Maria. La comunione non è antropofagia. Gesù è storico [...], Cristo è metastorico e la realtà non può essere mutilata col ridurla a storia 23.

Questo è il motivo per il quale i cristiani non possono pretendere di avere il monopolio su Cristo 24: i cristiani, in altre parole, conoscono il Cristo attraverso il ‘simbolo storico’ Gesù; altre religioni conosceranno il Cristo attraverso altri simboli 25. L’altro nome famoso nel contesto di un dialogo indu-cristiano è quello del gesuita belga Jacques Dupuis (1927-2004), già emerito della Facoltà teologica della Gregoriana e docente della Facoltà teologica di Delhi. Dupuis ha vissuto diverse esperienze in India dal 1948 al 1984, e anche da quelle ha tratto due libri fondamentali: Jesus-Christ à la rencontre des religions (1989), e Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso (1997). Fu quest’ultimo che meritò a padre Dupuis, il 24 gennaio 2001, una Notificazione da parte della Congregazione della Dottrina e della Fede, presediuta dall’allora cardinale J. Ratzinger 26. In 23

Panikkar 1998: 70-71. Cfr. Panikkar 1992: 5. 25 Seguire tutte le ramificazioni del pensiero di Panikkar eccede lo scopo di quest’opera. Mi limito a ricordare che l’attenzione di Panikkar al tema della Trinità (cfr. Panikkar 1970) si esplica non nell’ottica della classica analogia sat-cit-a\nanda, quanto cercando una relazione fra le tre vie della salvezza dell’induismo – karma, bhakti e jña\na: azione, amore e conoscenza – e le tre persone della Trinità: karma è la spiritualità del Padre (creatore), bhakti quella del Figlio (nel suo amore salva il mondo) e jña\na (intepretata nel senso Advaita non dualista) è connessa allo Spirito Santo. 26 Cinque furono le questioni sollevate: 1) la mediazione salvifica universale, e unica, di Cristo; 2) l’unicità e la pienezza della rivelazione di Gesù Cristo; 3) l’univer24

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quest’opera – i cui primi tre capitoli sono dedicati alla valutazione dell’incontro fra induismo e cristianesimo – Dupuis sostiene che pretendere di possedere in maniera esclusiva la verità su Dio è cosa priva di senso, perché il mistero di Dio è oltre ogni sua possibile manifestazione storica; di conseguenza nessun evento storico – nemmeno l’evento Gesù Cristo – può pretendere di avere carattere assoluto. La radice del problema è stato il ribaltamento operato dalla Chiesa primitiva, indebitamente passata dal teocentrismo fulcro della predicazione di Cristo al cristocentrismo fulcro soprattutto della predicazione di Paolo 27. Come affrontare allora la questione del pluralismo religioso? Dupuis rileva che finora sono state elaborate due vie teoriche: quella del completamento (fulfilment) e quella della presenza mistica di Cristo. Secondo la prima teoria le altre religioni sono positive in quanto propedeutiche alla pienezza della salvezza portata solo dal cristianesimo: è questa la linea di illustri teologi quali Jean Daniélou, Henri de Lubac e Hans U. Von Balthasar. La seconda teoria (quella della presenza mistica di Cristo), ipotizza che i fedeli di altre religioni possono essere salvati rimanendo nelle loro religioni in virtù di una presenza ‘mistica’ di Cristo in esse: è questa la linea di teologi altrettano illustri quali Karl Rahner, Raimon Pannikar, Hans Küng e Gustave Thils 28. Dupuis adotta questa seconda sale azione salvifica dello Spirito Santo; 4) l’ordinazione di tutti gli uomini alla Chiesa; 5) il valore e la funzione salvifica delle tradizioni religiose. [Cfr. Il Regno – Documenti, 45 (2001), pp. 144-145]. 27 Cfr. Dupuis 1997: 379-381. 28 Questa seconda linea di riflessione incontra però lo critiche del documento vaticano Dominus Iesus (2000), che preferisce adottare il modello del fulfilment (cfr. ad esempio no. 12 e no. 21). Nel documento si ribadisce, infatti, 1) la pienezza e la definitività della rivelazione di Cristo; 2) l’unicità e l’universalità della salvezza portata da Cristo e 3) l’unità dell’opera salvifica del Cristo e dello Spirito Santo. Cfr. ad esempio questi passaggi del documento Dominus Iesus, al no. 22: “Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici”. E ancora: “ La parità, che è presupposto

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linea di pensiero, precisando che Dio, agendo per la salvezza dell’umanità, non concentra il suo potere salvifico in un solo evento storico: richiamando alcune riflessioni di Rahner, per Depuis il pluralismo religioso non è infatti solo un evento storico (de facto) ma un qualcosa frutto di una precisa volontà divina (de iure): questa sottile forma di relativismo per cui le religioni non sono un prodotto ‘casuale’ della storia, ma parte di un preciso piano di Dio è tuttavia esplicitamente condannata dal Vaticano 29. Concentrare tutto sull’evento Cristo porterebbe, per il teologo belga, più a un cristomonismo che a un cristocentrismo. Dio invece agisce anche attraverso il Logos, oltre al momento storico Gesù Cristo; ‘staccando’ il Logos da Gesù si fa del Logos una categoria universale in grado di parlare a tutte le religioni in quanto presente in tutte le religioni 30. La del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali né tanto meno a Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto Uomo, in confronto con i fondatori delle altre religioni. La Chiesa infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo”. (Corsivo nel testo). Prendiamo l’occasione di questa nota per ricordare un altro documento vaticano: l’enciclica Redemptoris Missio (1990) di Giovanni Paolo II, che sottolinea tre cardini dell’attività missionaria e conseguentemente dell’approccio ad altre religioni: 1. Gesù Cristo è l’unico salvatore dell’umanità (no. 5); 2. non esiste alcuna scissione fra Gesù e il Cristo (no. 6); 3. il Regno di Dio si identifica con Gesù Cristo (no. 18). 29 Cfr. Dominus Iesus, no. 4. 30 Siamo di fronte a un discorso che può essere definito logocentrico, inteso come un paradigma che “tende a separare l’opera del Verbo di Dio dall’evento Gesù Cristo in due modi diversi: o l’azione distinta del Verbo viene considerata come rappresentante una economia di salvezza distinta da quella in Gesù Cristo e parallela ad essa, oppure, rimanendo l’economia di salvezza una sola, l’azione salvifica viene attribuita non più al Verbo come incarnato e al suo essere umano, ma al Verbo stesso indipendentemente dal suo essere umano, qualunque sia il significato di quest’ultimo nell’ordine della salvezza”. Dupuis 2001: 265-266.

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conclusione è che se il Logos è già presente nelle altre religioni, compito del cristianesimo non è annunciare Cristo ma dialogare con le altre tradizioni religiose allo scopo di svelare quel Logos: tutte le religioni sono fonti di salvezza 31. Di fatto, ricorda Dupuis, l’accento andrebbe piuttosto messo sulla ricchezza e sulla varietà della manifestazione di un Dio che è Amore, e il cui amore si trasforma in azione 32. Il Rubicone teologico Avendo scelto un’ottica storico-religiosa, non vogliamo entrare nel complesso dibattito teologico sollevato dalle affermazioni di Panikkar e 31 Queste fini distinzioni sono esplicitamente condannate dal documento Dominus Iesus, che sottolinea come non sia appropriato far scontrare l’universale funzione salvifica dello Spirito con quella particolare e storica del Verbo incarnato (cfr. no. 912). Un altro punto di scontro è nel fatto che in Dupuis il cristocentrismo è distinto dall’ecclesiocentrismo: Chiesa e Cristo non si equivalgono come paradigmi di salvezza; rigettando il ‘regnocentrismo’ di alcuni teologi indiani (cfr. Amaladoss 1985) e non indiani (cfr. Knitter 1985), egli tuttavia ammette che la realtà escatologica del Regno di Dio è più ampia della Chiesa, che in ogni caso mantiene il suo valore come paradigma di salvezza. 32 Cfr. Dupuis 1997: 518-521. Questa può essere l’occasione per ricordare, brevemente, che se buona parte degli autori fin qui discussi sembrano dare la preferenza, nel cercare punti di contatto fra cristianesimo e induismo, allo jña\na ma\rga, la via della conoscenza, altri autori si sono invece ispirati al bhakti-marga, la via dell’amore. L’intellettuale più conosciuto, in questa linea di pensiero, è il vescovo indiano A. J. Appasamy (1891-1975): se per elaborare una teologia indiana Brahmabandhav Upadhyaya si era servito delle riflessioni di Shankara, il vescovo Appasamy utilizzò invece quelle di Ra\ma\nuja, esponendo le sue riflessioni in opere dai titoli esemplificativi: Christianity as Bhakti ma\rga (1928) e What is Moksa? A study in the Johannine doctrine of life (1931). (Cfr. Appasamy 1928). Oltre a Ra\ma\nuja, una delle principali fonti di ispirazione di A. J. Appasamy fu il poeta Narayan Vaman Tilak (1861-1919), il quale si fece battezzare e fondò una comunità di sannya\sin per diffondere il suo credo: Dio avrebbe preparato lo spirito dell’India al messaggio di Cristo attraverso tutto il movimento che si concentrava sulla bhakti.

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Dupuis, per il quale rimandiamo a trattazioni più specialistiche: ciò che a noi interessa rilevare è come l’incontro col mondo indiano abbia quasi ‘costretto’ un ripensamento delle più basilari verità cristiane. Al riguardo, per completare il discorso, è utile accennare ad altri due teologi che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con l’India, e che in un modo o nell’altro sono stati oggetto pure loro di critiche più o meno aperte da parte di organi ufficiali vaticani: Paul Knitter e Hans Küng. Paul Knitter, docente di teologia alla Xavier University di Cincinnati (USA), nell’opera No Other Name?: A Critical Survey of Christian Attitudes Toward the World Religions (1985) raggruppa e classifica i modelli con cui il cristianesimo è venuto a rapportarsi alle altre religioni: 1. il modello evangelico conservatore si caratterizzerebbe per l’assioma “una sola vera religione” 33: è un esclusivismo totale (Cristo contro le religioni) per il quale la salvezza può venire unicamente dalla rivelazione di Cristo, le altre religioni essendo un tentativo di prendere il posto dell’unica e vera parola di Dio espressa dalla bibbia; 2. il modello protestante classico si caratterizzerebbe per l’assioma “salvezza solo in Cristo” 34, ma un Cristo che in qualche modo può essere presente anche nelle altre religioni (Cristo dentro le religioni). Compito del cristianesimo è quello di svelare tale pienezza per portare l’individuo alla salvezza, offerta solo da Cristo; 3. il modello cattolico romano (aperto) si caratterizzerebbe per l’assioma “molte vie, una norma” 35; definita come ‘la posizione più progressiva in campo cristiano’ 36: in essa, pur riconoscendo il ruolo centrale di Cristo (al di sopra delle religioni), si ha un giudizio positivo sulle altre religioni, volute da Dio (e non dal demonio), e dunque in un certo senso vie di salvezza; 4. il modello teocentrico si caratterizzerebbe per l’assioma “molte vie dirette al centro” 37: in 33

Knitter 1991a: 63. Knitter 1991a: 66. 35 Knitter 1991a: 70. 36 Cfr. Scognamiglio 2001: 162. 37 Knitter 1991a: 76. 34

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esso le religioni sono vie di salvezza il cui fine e norma ultima non è Cristo, ma Dio. Nelle opere successive P. Knitter elaborerà presentazioni più articolare dei vari modelli e della propria linea teologica 38. Ciò che a noi ora interessa rilevare è che in No Other Name? Knitter sostiene che la strada giusta è quella teocentrica. Il messaggio di Gesù riguardava infatti il Regno di Dio e il passaggio dal teocentrismo al cristocentrismo, come già rilevato da altri teologi, è stato frutto della prima comunità cristiana: se in quella le ‘immagini’ di Gesù avevano una funzione simbolica e mitologica – la risurrezione in particolare –, poi esse sono state stravolte in senso ontologico e metafisico, in particolare a causa dell’utilizzo di una filosofia estranea al contesto culturale neotestamentario. Knitter, comprendendo che in tutta la questione il punto discriminante è sempre e solamente l’unicità dell’evento Cristo, si chiede se non sia il caso di rinunciare a questa pretesa di unicità in nome di un teocentrismo pluralista: sono possibili molteplici incarnazioni e molteplici figure di liberatori, come espresso anche da una certa linea della teologia della liberazione: “la cristologia della liberazione permette, anzi, richiede che i cristiani riconoscano la possibilità di altri liberatori o salvatori, di altre incarnazioni” 39. La conseguenza è la proposta di un nuovo modello di dialogo, più consono ai complessi tempi moderni: un modello fortemente relativista, dove la verità di una religione non può esistere senza la verità delle altre religioni. Anzi, il confronto e le relazioni con altre religioni permette a una religione particolare di evolversi continuamente, affrontando sì la verità dal suo proprio peculiare punto di vista, ma anche sempre in relazione con le altre religioni. La conseguen38 Cfr. in particolare Knitter 2005, ove vengono presentati i seguenti modelli di confronto con altre religioni: il modello della sostituzione (“una sola religione vera”); il modello del compimento (“l’Uno dà compimento ai molti”); il modello della reciprocità (“molte religioni vere chiamate al dialogo”); il modello dell’accettazione (“molte religioni vere: e così sia”). 39 Knitter 1991a: 180.

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za è che le religioni non devono combattersi in virtù delle loro differenze, ma vedersi come complementari proprio in virtù di quelle. La stessa volontà di dialogo con una realtà sempre più complessa, pur se espressa con toni diversi, è presente in Hans Küng (n. 1928), docente di teologia fondamentale alla prestigiosa università di Tubinga, e che a seguito della pubblicazione del libro Unfehlbar? Eine Anfrage (1970) vide revocato il suo permesso ecclesiale a insegnare. Già nel 1964, durante il Congresso eucaristico mondiale a Bombay, Hans Küng si interrogava sul rapporto fra cristianesimo e altre religioni, facendo sua la distinzione – già proposta da Schlette – fra cristianesimo come via straordinaria e le altre religioni come vie ordinarie di salvezza. In particolare, ogni uomo deve cercare la salvezza nella religione prodotto del suo contesto storico, almeno fino a quando non viene messo di fronte – in maniera personale e profonda – alla rivelazione di Cristo 40: “Ogni religione del mondo sta sotto l’influsso della grazia di Dio e può quindi essere via di salvezza: sia primitiva che evoluta, mitologica o illuministica, mistica o razionale, teistica o no, religione autentica [eigentliche, lett.: (vera e) ‘propria’] o soltanto una quasi-religione” 41. Venti anni più tardi H. Küng era ancora impegnato nel tentativo di creare un autentico dialogo in un’opera fondamentale: Christentum und Weltreligionen (1984), alla quale farà poi seguito quella che per molti è la sua opera più celebre: Projekt Weltethos (1990). Fra queste due opere si situa Theologie im Aufbruch (1987), pubblicato dopo una disputa (il cui ‘luogo’ fu la rivista Concilium) con P. Knitter. In risposta ai modelli proposti da Knitter, Küng ne elaborò altri quattro per rappresentare le posizioni fondamentali nel dialogo con le altre religioni: la prima è quella ateista, e sostiene che tutte le religioni sono ugualmente false; la seconda posizione è quella fondamentalista ed esclusivista, che sostiene che solo una religione è vera e tutte le altre sono false; 40 41

Cfr. Küng 1967b: 25-67. Küng 1967a: 59, citato in Zamagni 2005: 32.

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ALLA RICERCA DI UN NUOVO PARADIGMA

la terza posizione è quella del relativismo indifferente, che sostiene che tutte le religioni sono ugualmente vere. L’ultima posizione è quella che Küng chiama ‘inclusivismo tollerante e generoso’: una sola è la religione vera, ma le altre condividono frammenti di quella verità: “tutte le religioni non costituiscono altro che piani, aspetti diversi dell’unica, universale verità” 42. Il tentativo di Küng è quello di porre come criterio di verità nel dialogo fra le religioni la dignità umana: “l’Humanum (il rispetto della dignità umana e dei valori fondamentali) è un’esigenza minima di ogni religione” 43, e pertanto il dialogo viene visto soprattutto nelle sue dimensione pratiche, come espresso dai titoli delle tre sezioni dell’opera Projekt Weltethos: “non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni senza il dialogo tra le religioni” 44. Di fatto, in un convegno tenuto nel 1984 alla Temple University di Philadelphia, Paul Knitter si chiede, riferendosi a Hans Küng: “sarebbe disposto a riconoscere che per i musulmani Maometto è ‘la Parola definitiva di Dio’? che per i buddhisti Buddha è ‘la norma definitiva’?.... Se sì, Küng dice qualcosa di diverso da quanto detto nelle sue opere precedenti. Ha attraversato un Rubicone teologico. Ma l’ha fatto?” 45. Knitter parla di un ‘Rubicone teologico’ che segna il confine fra i teologi: il riconoscimento della definitività dell’evento Cristo. Finché l’unicità salvifica dell’uomo di Nazareth resta centrale, fondante e fondamentale, non si potrà attuare un autentico dialogo con le altre religioni (in primis l’induismo). Parlare di ‘dialogo’ quando si pretende di possedere in maniera esclusiva la verità viene a inficiare la sincerità di quello stesso dialogo. Knitter ci riferisce la risposta di Küng alla sua provocazione: 42

Küng 1987: 264. Küng 1987: 284. 44 Cfr. Küng 1991: 7. 45 Knitter 1987: 228. 43

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

“Küng mi ha detto personalmente, ma anche pubblicamente, che anche se il muoversi nella direzione di una cristologia non assolutista potrebbe essere logicamente sensato, egli stesso non potrebbe fare un tale passo, anzitutto per due motivi: per prima cosa questo lo estranierebbe dalla sua comunità di fede e tenderebbe a diminuire la profondità e la fermezza dell’impegno personale da parte dei cristiani verso Gesù Cristo” 46. Nella Presentazione del libro di P. Knitter One Earth, Many Religions. Multifaith Dialogue & Global Responsability (1995) Hans Küng precisa il suo pensiero sulla questione del ‘Rubicone teologico’: “Io ho sempre sostenuto che un teologo cristiano, anche nel dialogo con seguaci di altre religioni, deve difendere la normatività e la definitività di Gesù Cristo quale evento rivelatore di Dio per i cristiani – senza avanzare per altro delle arroganti rivendicazioni di superiorità sulle altre religioni” 47. In tal modo le pretese di verità delle altre religioni possono essere accettate solo condizionatamente: condizionate, cioè, dalla norma-Cristo. Già solo questi brevi accenni mostrano come la questione pluralismo/unicità salvifica è molto più drammatica per un cristiano che non per un indù: la tradizione Advaita ha elaborato sufficienti strumenti per poter assorbire le pretese filosofiche e teologiche di qualsiasi altra religione. Come abbiamo visto nel capitolo II, anche i nuovi movimenti religiosi che si sono rifatti alla millenaria tradizione indù hanno accolto, generalmente, quello stesso spirito di tolleranza pluralista. Il cristianesimo, invece, vive la possibilità del pluralismo religioso in maniera molto più inquietante, come un attacco alla sua stessa essenza, alla sua natura più intima: ‘sfumata’ la divinità di Cristo e la sua unicità salvifica, tutto sembra crollare. Da questo punto di vista il destino riservato a quegli intellettuali che hanno passato, o anche solo accennato di voler passare, quel ‘Rubicone teologico’ è sintomatico: richiamati, notificati, scomunicati....

46 47

Hick-Knitter 1994: 341. Knitter 1998: 7.

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5. USCIRE DAL TEMPIO: VERSO LA LIBERAZIONE

L’incontro/scontro con le vie dell’induismo ha contribuito non solo all’elaborazione di un cristianesimo caratterizzato dagli slanci monastici di Henry le Saux o Bede Griffiths, o dalle sottili disquisizioni teoriche di Raimon Panikkar o Jacques Dupuis: ha portato anche e soprattutto all’aggancio alla realtà della sofferenza umana ed ecologica. Ribadiamo, nuovamente, che la nostra analisi non è teologica ma storico-religiosa: ciò che a noi interessa rilevare è come la riflessione di questa ‘forma’ specifica del cristianesimo, sviluppata dalla c.d. teologia della liberazione, abbia assunto delle caratteristiche sue proprie a seguito dall’incontro/scontro col mondo asiatico in generale, e quello indiano in particolare. La teologia della liberazione Comunemente si fa risalire la nascita della teologia della liberazione alla conferenza di Medellìn (Colombia, 1968), nella quale l’episcopato latino-americano cercò di applicare al proprio contesto socio-culturale le risoluzioni del Concilio Vaticano II. A distanza di pochi anni apparvero i due testi fondamentali di questa corrente teologica: nel 1971 venne pubblicata l’opera La teología de la liberación, del peruviano Gustavo Gutiérrez e nel 1972 Jesus Cristo libertador, del brasiliano Leonardo Boff. 107

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Il termine chiave è liberazione, intesa nella sua opposizione dialettica a dipendenza: si tratta di quella dipendenza del ‘Terzo Mondo’ povero dal mondo occidentale ricco, dalla quale non ci si può più emancipare con la ‘fede’ in uno sviluppo economico e culturale che porti il Terzo mondo al livello del Primo. Di qui l’idea della liberazione come ciò che “esprime il necessario momento di rottura che non si può trovare nell’uso corrente del termine sviluppo” 1. Questa teoria sociologica della dipendenza fu comunque solo uno degli strumenti utilizzati dai teologi della liberazione che sottolinearono, accanto alle cause esterne della povertà (la dipendenza dal Primo Mondo), anche quelle interne (i sistemi feudali e oligarchici presenti nel mondo latino-americano). La teologia della liberazione non si vuole dunque qualificare come una ‘teologia da salotto’ ma come una ‘teologia militante’, e lo vuole fare partendo da quella che, in un linguaggio ormai divenuto classico, è l’opzione preferenziale per i poveri: si tratta di agire per liberare “classi sfruttate, razze emarginate, culture disprezzate” 2 dall’oppressione della quale sono vittime. I poveri diventano in tal modo il luogo storico dal quale partire nella riflessione teologica per rompere con una realtà fonte di ingiustizie. Come scrive H. Assmann: “Se la situazione storica di dipendenza e dominazione dei due terzi dell’umanità, con i suoi 30 milioni, ogni anno, di morti di fame e denutrizione, non diventa oggi il punto di partenza di ogni teologia cristiana, anche nei paesi ricchi e dominatori, la teologia non potrà situare e concretizzare storicamente i suoi temi fondamentali” 3. Nelle parole di Clodovis Boff: “Dopo Marx la teologia non può più mettere tra parentesi le condizioni materiali dell’esistenza, pena il ‘mistificare’ la realtà di situazioni inique” 4. Ancora più chiaro è questo passo di Gutiérrez: dopo aver rilevato come nella 1

Gutiérrez 1972: 34. Gutiérrez 1981: 239-240. 3 Assmann 1974: 37. 4 Boff 1975: 798, citato in Gibellini 1992: 382. 2

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USCIRE DAL TEMPIO: VERSO LA LIBERAZIONE

teologia europea l’interlocutore sia il non credente, il teologo peruviano afferma che invece in un continente come l’America Latina la sfida non viene principalmente dal non credente, bensì dal non uomo, cioè da chi non è riconosciuto come uomo da parte dell’ordine sociale imperante: il povero, lo sfruttato, colui che è sistematicamente e legalmente spogliato del suo essere uomo, colui che a mala pena sa cosa sia un uomo. Il non uomo mette in questione, prima di tutto, non tanto il nostro mondo religioso, quanto il nostro mondo economico, sociale, politico, culturale; per questo spinge alla trasformazione rivoluzionaria delle stesse basi di una società disumanizzante. Pertanto, la domanda non verterà sul come parlare di Dio in un mondo adulto [i.e. il riferimento è al pensiero del teologo D. Bonhoeffer] ma piuttosto sul come annunciarlo Padre in un mondo non umano, sulle implicazioni che comporta il dire al non uomo che è figlio di Dio 5.

Il progetto è ambizioso, in quanto si tratta di riscrivere la teologia partendo dalla storia e non dalla filosofia, e di farlo iniziando dalla storia più umile e disperata: nella teologia della liberazione la priorità viene assunta dalla prassi, e ciò comporta che la riflessione sia portata avanti con strumenti diversi da quelli tradizionali: non più l’elaborazione filosofica (platonica-agostiniana o aristotelico-tomista che sia) che porta la teologia verso l’orizzonte metafisico e metastorico, ma quella offerta dalle scienze sociali – in particolare l’analisi marxista – che la indirizza piuttosto verso quell’orizzonte storico nel quale proporre un’opzione politica, la quale avrà a sua volta risvolti pratici ben precisi. Da queste premesse segue una nuova cristologia, la cui attenzione – come sottolinea Leonardo Boff in Jesus Cristo libertador 6 – sarà rivolta all’uomo (o non uomo, per usare la terminologia di Gutiérrez) e alla realtà nella quale vive: sia perché la prassi di Cristo, i suoi gesti, “sono 5 6

Gutiérrez 1974: 87-88. Corsivo nel testo. Cfr. Boff 1973.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

da intendere come una storicizzazione di ciò che concretamente significa regno di Dio, come la messa in moto di un processo di liberazione” 7, sia perché la sua risurrezione “è l’irruzione anticipata della liberazione definitiva, mediante essa l’u-topia del Regno si fa topia nella storia” 8. L’accento viene dunque posto sul Gesù storico più che sul Cristo della fede: una cristologia della liberazione per essere efficace deve operare la storicizzazione di Gesù, intesa come attenzione per la sua prassi di liberazione e trasformazione della realtà nella quale visse; prassi liberatrice che deve essere continuata, secondo i teologi della liberazione, anche dai cristiani contemporanei. Il Vaticano entrerà ufficialmente nel dibattito sulla teologia della liberazione con l’Istruzione su alcuni aspetti della ‘teologia della liberazione’ (Libertatis Nuntius), che la Congregazione per la dottrina e la fede emanò nel 1983 e rese pubblica nel 1984. Pur riconoscendo alcuni meriti alle riflessioni sorte nell’ambito della teologia della liberazione, le vengono mosse due critiche sostanziali: la prima è quella di assumere acriticamente il modello ermeneutico del marxismo, con la conseguenza di averne portato l’ideologia all’interno della teologia cattolica (con l’implicito pericolo di ridurre il significato di Cristo e del suo messaggio a un mero fatto politico); la seconda è quella di favorire la nascita di una sorta di Chiesa parallela, una Chiesa popolare di comunità di base da contrapporre alla Chiesa gerarchica e ufficiale. Il dibattito, vivace negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, si è oggi affievolito anche per la contingenza storica relativa al destino del marxismo dopo gli eventi del 1989 (caduta del muro di Berlino e alcuni anni dopo la fine dell’URSS). Ciò che a noi interessa, tuttavia, è prendere nota di come le riflessioni della teologia della liberazione abbiano avuto la capacita di estendersi oltre la sua area geografica di nascita (il mondo la7 8

Gibellini 1992: 389. Gibellini 1992: 389.

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tino-americano) giungendo in altri continenti: l’Africa e, ai fini della nostra analisi sul rapporto fra induismo e cristianesimo, l’Asia. L’umanizzazione di M. M. Thomas La figura più nota dell’applicazione della teologia della liberazione al mondo asiatico è il gesuita Aloysius Pieris, che nel 1988 pubblicò l’ormai classico An Asian theology of liberation. Il discorso si era comunque già sviluppato decenni prima, e proprio nel contesto indiano: la prima opera sull’argomento di Madathilparampil Mammen Thomas (1916-1996), Christians in the World Struggle, venne pubblicata nel 1951. Nell’intenzione di Thomas è necessario salvare l’originalità del cristianesimo nel suo approccio all’induismo: non si può ridurre il cristianesimo (sullo stile di Gandhi o Ram Roy) a un mero insegnamento etico né (come Radhakrishnan) dissolverlo in un ‘misticismo naturale’: è piuttosto un insegnamento profetico che ha il suo fondamento nell’ingresso nella storia del Principio Primo; lo scopo, quello di migliorare la concreta situazione del mondo. Di fatto, pur riconoscendo l’esistenza di diversi possibili luoghi d’incontro fra l’orizzonte cristiano e quello indiano, l’analisi di Thomas – che risente fortemente del pensiero marxista – si focalizza proprio sulla realtà sociale con la quale sia l’induismo sia il cristianesimo interagiscono: in The Christian Response to the Asian Revolution (1966) l’autore mette in luce come l’impatto dell’Occidente sul mondo indiano abbia prodotto lo scardinamento di un sistema fino allora considerato come stabile, producendo una sorta di ‘confusione dinamica’. Il fatto, tuttavia, non è interamente negativo: nell’opera The Aknowledged Christ of the Indian Renaissance (1969) 9 Thomas sottolinea come fosse stato proprio il cri9 Il titolo è una voluta parafrasi di quello dell’opera più famosa di Pannikar (Panikkar 1981), e vuole significare che Cristo è non solo presente ma anche all’opera nel contesto indiano: ‘il Cristo della cultura occidentale che risveglia il Cristo nella

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

stianesimo a introdurre – direttamente o indirettamente – elementi nuovi nella riflessione indiana dei neo-riformatori del XIX secolo 10, tra i quali l’attenzione verso la strutture ‘ingiuste’ della società indiana e la conseguente necessità di un’azione per rimediare a squilibri fino ad allora non percepiti come tali nell’ottica del codice di senso induista: la lotta per l’abolizione della satı \ ne è forse l’esempio più lampante. L’analisi storico-religiosa mette così in luce già un primo cortocircuito: se il cristianesimo occidentale ha agito sull’induismo trasmettendogli alcune idee, ora bisognerà vedere come storicamente questo ‘induismo cristianizzato’ (se mi si passa l’espressione) sia stato poi assunto quale materia di riflessione dai teologi della liberazione indiani, e nuovamente trasformato per agire sulla concreta situazione sociale indiana. È possibile anche invertire i soggetti: i riformatori induisti hanno preso dal cristianesimo occidentale alcune idee, producendo una nuova forma di induismo la quale a sua volta viene assunta dai teologi della liberazione nel loro desiderio di suggerire una prassi cristiana in un mondo indiano. Questa riflessione non è secondaria, in quanto mostra come sia stata necessaria la previa mediazione storica dei neo-riformatori induisti per potere poi creare una sorta di ‘interfaccia’ che permettesse a cristiani e induisti di trovare una struttura di compatibilità tale da consentire l’azione sul piano sociale. Viene di fatto spontaneo chiedersi quanto sarebbe stato possibile, o addirittura legittimo, per una teologia della liberazione cristiana inserirsi in maniera così ‘combattiva’ all’interno della struttura sociale indù senza quella mediazione previa: sarebbe stato possibile a un cristianesimo occidentale criticare la satı,\ se prima non l’avesse fatto Ram Roy? Sarebbe stato possibile a un cristianesimo occidentale cricultura indiana, e prepara l’India a una nuova vita e al Vangelo di Cristo’ (cfr. Staffner 1988). 10 Cfr. supra, pp. 30 ss., dove si è mostrato quanto, storicamente, un certo tipo di induismo sia debitore all’Occidente cristiano nell’elaborazione di un nuovo codice interpretativo della propria realtà sociale.

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ticare il matrimonio fra bambini, se prima non l’avesse fatto Keshub Chandra Sen? Sarebbe stato possibile a un cristianesimo occidentale criticare il sistema castale se prima non l’avesse fatto Gandhi? E tutti questi autori hanno portato avanti la loro critica contro quelle realtà perché influenzati (anche) dal codice di valori del cristianesimo occidentale, assunto all’interno di un induismo riformato. La precedente lista di domande si potrebbe allungare; quello che l’approccio storico-religioso rivela è stato tuttavia chiarito: senza quelle previe interazione fra cristianesimo e induismo i due orizzonti avrebbero agito nella estraneità più completa; in tal modo sono stati invece creati dei canali di compatibilità e comunicazione, che hanno permesso al discorso di procedere ulteriormente. Come è proceduto, dunque, il discorso di Thomas? Rivisitando e appropriandosi del pensiero di Keshub Chandra Sen, che teorizzava la ‘divina umanità’ di Cristo, Thomas ne fa il fulcro e il motore di quello che egli definisce un progetto di umanizzazione: nel dipanarsi dell’evento Cristo (incarnazione, passione e risurrezione) è possibile cioè intuire quale deve essere il senso della dignità umana: ne consegue che Cristo e il cristianesimo diventano lo strumento della “lotta per un nuovo umanesimo” 11. L’unione mistica con Dio ha valore solo nella misura in cui sfocia in una azione concreta: “La nostra preoccupazione dovrebbe essere che la spiritualità e la metafisica servano al rinnovamente morale della vita” 12, e questo proprio perché l’umanizzazione è parte centrale del messaggio di Cristo 13. Lo scopo dell’incontro fra gli orizzonti dell’induismo e del cristianesimo non è dunque quello di limitarsi al discorso spirituale, ma di procedere verso un’azione trasformatrice, una “rigenerazione morale della vita individuale e sociale nell’India contemporanea” 14. Questo processo di umanizzazione non im11

Thomas 1969a: 72. Thomas 1969a: 145. 13 Cfr. Thomas 1971a: 10. 14 Thomas 1971a: 148. 12

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plica tuttavia il passaggio da un teocentrismo a un antropocentrismo, come potrebbe apparire da una lettura superficiale che equiparerebbe il discorso di Thomas a quello marxista: in lui è sempre presente la mediazione della cristologia, perché l’umanizzazione non propone un ‘uomo’ astratto e generico, ma l’uomo così come è stato rivelato nella sua pienezza nell’evento-Cristo. Questo ‘Cristo-nocciolo-duro’ porta Thomas a criticare tutti quei teologi che, ispirandosi a Gandhi, pensano che inculturare l’azione del cristianesimo in India significhi ridurlo al solo messaggio etico del ‘Sermone della Montagna’. Piuttosto, per Thomas il grande contributo del cristianesimo in India è stato quello di introdurre ed esaltare il valore assoluto della dignità dell’individuo, considerato nella sua interezza 15, il che implica la lotta contro tutte quelle realtà sociali, politiche, economiche, razziali ma anche religiose che impediscono all’uomo di raggiungere ed esprimere la sua piena umanità: “Con la rivoluzione, nella sua provvidenza Dio sta creando in Asia le condizioni fondamentali di una maggiore dignità, e migliori creatività e condizioni di vita per l’uomo” 16. Per conseguire tale risultato è indispensabile allargare sempre più la compatibilità con altri sistemi: Thomas, con parole che rieccheggiano quelle che anni dopo saranno usate da H. Küng in Projekt Weltethos (1990), ritiene fondamentale la collaborazione fra i cristiani e quelli che egli chiama i secular humanists “nel contesto di una comune preoccupazione per il rinnovamento morale della società umana”, e nello sforzo di realizzare “la dignità della persona e la comunione (fellowship) delle persone quali valori fondamentali della società” 17. 15

Cfr. ad esempio Thomas 1969a: 119. Questo risulta anche dall’enfasi che Thomas pone sul concetto della resurrezione corporale prospettata nell’escatologia cristiana (cfr. ad esempio Thomas 1972: 28), che implica uno sguardo positivo sulla creazione. 16 Thomas 1969b: 29. 17 Thomas 1969a: 162.

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Il Non-dio oggetto di Kappen Si è voluto iniziare con alcune riflessioni di M. M. Thomas perché, sotto molti aspetti, è lui che dà il tono alle riflessioni successive per lo sviluppo di una teologia della liberazione indiana. Pur ammettendo che al centro dell’orizzonte cristiano e di quello induista vi è una “mutual exclusiveness” 18 che gli fa guardare con sospetto ogni tentativo di ‘sintesi mistica’ fra i due sistemi di pensiero (tentativi che in genere pretendono di annullare cultura e storia per trovare un nocciolo unico metastorico), Thomas si è di fatto sforzato di individuare dei canali di comunicazione, e li ha trovati nel karma mar\ ga, nella via dell’azione. In questo modo, egli è riuscito a gettare le basi per un codice di compatibilità che non riduca induismo e cristianesimo a un “sincretismo religioso” quanto a una “sintesi culturale” che abbia come coordinate fondamentali l’essere “secolare nel suo contesto e personale nel suo orientamento” 19. La contemplazione (che porta al nocciolo essenziale della mistica) non è così più considerata la ‘via privilegiata al dialogo cristiano-induista’ 20: il codice di senso prioritario diviene ora l’azione, e le sue basi teoriche sono costruite tramite quella che Thomas definisce una “situazione dialogica” 21. Ciò significa che induismo e cristianesimo non sono monadi autoconcludenti ma un insieme di relazioni, una rete vasta fine e sottile entro la quale si situa il teologo, “camminando sul filo del rasoio fra il kerygma biblico e il processo della sua demitologizzazione, con l’obiettivo di rimitologizzarne la verità e il significato per gli uomini di differenti climi di pensiero e milieux culturali” 22 – sottolineando con quest’ultima affermazione la necessità di una inculturazione del messaggio cristiano. Ecco di nuovo pre18

Cfr. Thomas 1969a: 92. Thomas 1971b: iii, citato in Boyd 1975: 328. 20 L’espressione è ripresa da Calza 2001. 21 Thomas 1969a: 187-188. 22 Thomas 1969a: 301. 19

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cisata l’importanza del pensiero di Thomas: il discorso cristiano in India deve essere influenzato dalla situazione socio-culturale, non può essere una semplice esportazione di idee teologiche elaborate dall’Occidente ma una loro rielaborazione attraverso un inserimento metodologico nella storia – un inserimento che non cerchi di minimizzare le differenze culturali, come invece spesso avviene nelle comparazioni mistiche di cui si è parlato precedentemente. Come per Thomas, anche per il gesuita indiano Sebastian Kappen (1924-1993) centrale è la figura del Gesù storico e la sua prassi liberatrice nei confronti delle masse oppresse. Già i titoli di alcune sue opere sono indicativi: Jesus and Freedom (1977), Jesus and Cultural Revolution: an Asian perspective (1983), Jesus today (1985), Liberation theology and marxism (1986), senza poi contare i vari contributi, fra i quali ricordiamo Toward an Indian Theology of Liberation (1992) 23. Se nel corso dei secoli il cristianesimo si è allontanato dal Gesù storico concentrando la sua attenzione sul culto, sull’istituzione e sul dogma, compito di una teologia della liberazione indiana è quello di ritornare al vero volto di un profeta rivoluzionario teso a realizzare il Regno di Dio, un regno di giustizia che è speranza delle masse diseredate. Il progetto trova una delle sue principali espressioni teoriche nell’opera Jesus and Freedom, dove Kappen espone la triplice alienazione della quale sarebbe vittima Gesù in India: il culto, il dogma e l’istituzione con tutto il loro carico di rituali, leggende, miti, canoni non fanno altro che affossare la realtà storica di Gesù 24. Quella ‘demitologizzazione’ di cui parla Thomas è da Kappen intepretata dunque come la necessità di eliminare tutta la zavorra occidentale per ritrovare la semplicità del messaggio del profeta di Nazareth: l’appello/responsabilità a divenire degli esseri umani autentici 25. Si nota, in una prospettiva storico-religiosa, il circolo ermeneuti23

Cfr. Kappen 1992. Cfr. Kappen 1977: 23. 25 Cfr. Kappen 1977: 134-135. 24

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co che si sta delineando: la metodologia della teologia è condizionata dal contesto socio-culturale, e a sua volta la metodologia viene a influenzare i contenuti della teologia. Questo processo, che in ultima analisi porta a riscrivere il cristianesimo, risulta evidente nell’ultimo elaborato di Sebastian Kappen, il suo testamento spirituale (lo completò due giorni prima di morire, nel 1993): La spiritualità nella nuova era della ricolonizzazione, pubblicato sulla rivista ‘Concilium’ nel 1994. In esso viene sviluppata l’idea, come sintetizza l’Editoriale, “che la costruzione culturale, dogmatica e legale della religione cristiana in Occidente ha prodotto un Non-dio. I compiti dei teologi della liberazione sono stati, secondo lui [i.e. Kappen], quelli di decostruire questo Non-dio tornando all’incontro originale con Gesù e con il Divino” 26, premessa per giungere all’incontro con la sorgente ultima e incondizionata, oltre ogni mediazione. Vediamo nel dettaglio il ragionamento: Kappen inizia l’articolo sostenendo che se letta attraverso l’ottica dei paesi asiatici la fine delle utopie socialiste non è altro che un comodo mito, funzionale agli interessi neo-coloniali dell’Occidente. In realtà il crollo dell’Unione Sovietica ha decretato solo la fine di un certo modo di intendere l’utopia socialista, una modalità tradita nel momento stesso in cui l’URSS divenne uno stato totalitario. L’ascesa dello stalinismo non fu tuttavia la fine dell’utopia concepita da Marx, che Kappen così rilegge: una nuova era, in cui gli esseri umani non saranno più estraniati dalla natura; in cui il frutto del lavoro sarà il vincolo dell’amore; in cui il popolo eserciterà il controllo sulla produzione dei beni, sulla costituzione dell’ordine e sulla creazione di idee e simboli in cui il bisogno più grande di un essere umano sarà il bisogno dei suoi simili; in cui la libertà si realizzerà meno nella produzione dell’utile e più nella creazione della bellezza. In breve, sarà un’era in cui gli esseri umani, vincolati dall’interesse per il bene comune ed impegnati nella creazione del bello forgeranno collettivamente il proprio futuro 27. 26 27

Duquoc-Gutiérrez 1994: 15. Kappen 1994: 54.

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La metodologia applicata all’analisi del rapporto utopia socialistaURSS viene applicata da Kappen al cristianesimo: lo sviluppo di una Chiesa come istituzione monarchica ha decretato la degenerazione e la morte dell’annuncio profetico e utopico di Gesù di Nazareth, che al limite è sopravvissuto solo in alcuni circoli eretici prima di riapparire, continua Kappen, nella tradizione socialista, “specialmente quella espressa da Karl Marx”: subentrando all’utopia ebraico-cristiana al tempo stesso l’ha preservata, impendendone la morte totale 28. Le affermazioni sono forti e radicali (l’Editoriale di ‘Concilium’ aveva messo in guardia il lettore) ma non stupiscono, visto che Sebastian Kappen fin dalla sua tesi di dottorato alla Università Gregoriana nel 1961 (dal titolo: “Praxis and Religious Alienation according to the Economic and Philosophical Manuscripts of Karl Marx”) si era attivamente impegnato in un dialogo col marxismo. Più preoccupante del tradimento stalinista dell’utopia socialista è però per Kappen l’ascesa di quello che egli definisce, parafrasando Roger Garaudy, il monoteismo del capitale, la cui utopia si basa sulla soteriologia del mercato: ‘non c’è salvezza al di fuori del mercato’, scrive Kappen in un’ironica parafrasi dell’adagio extra Ecclesiam nulla salus. I missionari della soteriologia diffondono la loro predicazione nei Paesi del Terzo Mondo, Africa e Asia in primis, attuando un processo di ricolonizzazione: ora non più effettuato con le armi dell’impero britannico, ma con quelle del libero mercato e avendo come garante supremo il non-dio cristiano (christian ungod) 29, fabbricato dai cristiani per i loro scopi: È questo non-dio che indusse re e papi a intraprendere le crociate ed il massacro di milioni di ebrei e turchi; che nella persona del grande inquisitore diede libero corso alle brutalità della caccia alle streghe e ai roghi degli eretici; che autorizzò i re cristiani d’Occidente a colonizzare e ad assoggettare tutte le nazioni ‘pagane’; che diede il via libera alla tratta degli schiavi, che comportò 28 29

Cfr. Kappen 1994: 54. Cfr. Kappen 1994: 55.

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la deportazione al di là dell’Atlantico di venti milioni di africani; che tollerò il brutale sterminio delle tribù indigene delle Americhe e dell’Australia; che rese ferme le mani di coloro che sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki; che nella sua nuova incarnazione in un celebre predicatore si è schierato dalla parte del presidente Bush nel 1991, come l’ultimo profeta inviato ad invocare la benedizione divina sulla programmata guerra con l’Irak, che avrebbe ucciso migliaia di irakeni, uomini, donne e bambini. Si tratta di un dio che non esiterà a vendicare la morte di un solo marine nordamericano con la morte di un numero dieci volte maggiore di somali. In breve, è un dio che sta dalla parte del ricco contro il povero, del potente contro il debole, un dio con le mani grondanti del sangue dell’innocente 30.

Questo non-dio ambiguo (che da un lato parla di amore fra uomini, dall’altro ha ‘le mani grondanti di sangue’) è il risultato di una costruzione umana, i cui primi passi Kappen individua già nella distorsione attuata dai redattori della Genesi che avrebbero creato uno scontro fittizio (ma per loro funzionale) fra un dio maschile e patriarcale e la Grande Madre della civiltà neolitica, simboleggiata dalle acque sottomesse nell’episodio della creazione; e poi in tutto il cammino del Vecchio Testamento, dove l’odio degli ebrei nei confronti degli altri popoli diviene costitutivo di Jahweh, ridotto a un dio tribale; e, nel Nuovo Testamento dove si assiste al passaggio da un Gesù che sfida il potere politico a un Paolo che raccomanda l’obbedienza all’autorità: da profeta rivoluzionario Gesù diviene sacerdote e il suo messaggio viene trasformato in religione, dove il culto assume il ruolo principale. L’analisi di Kappen trova però il suo punto nodale nella dichiarazione della Chiesa che la rivelazione di Dio si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo e con le sistematizzazioni dogmatiche del IV secolo: ridotto Dio al silenzio e negando che potesse parlare con voce altra rispetto a quella espressa dalla Chiesa ufficiale, il cristianesimo iniziò il processo di costruzione del non-dio ormai oggetto, meglio ancora, merce in mano a schiere di teo30

Kappen 1994: 55-56.

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logi i quali hanno prima tentato di elaborare un Cristo re; poi, di fronte al fallimento dell’opera di sottomissione dei ‘pagani’ a quel re, hanno elaborato un discorso più sottile, parlando di un Cristo cosmico che proprio per la sua natura vaga e indistinta poteva includere tutti nel suo regno, credenti e non (vi è qui una non tanto velata critica della riflessione portata avanti da una certa teologia delle religioni). Kappen, va da sé, rifiuta tutta questa costruzione, cosciente che “il non-dio è il risultato finale di una lunga storia di condizionamenti culturali e di interpretazioni distorte” 31; ne consegue la necessità di attuare, proprio come ha tentato di fare la teologia della liberazione, una sorta di decostruzione del non-dio oggetto per arrivare “all’incontro originario di Gesù col Divino” 32. Questo tuttavia non è sufficiente perché tutti i profeti (che si tratti di Gesù, di Buddha, o di chiunque altro) sono a loro volta condizionati storicamente e dunque non potranno mai essere le fonti ultime, ma penultime, per l’incontro col Divino 33. Ribaltando la posizione classica dei fautori del non-dio oggetto che “hanno relegato il Divino lassù in cielo e quaggiù nei tabernacoli, con le chiavi di entrambi ben chiuse al sicuro nelle tasche del clero” 34, Kappen afferma che il Divino continua ancora a parlare nel presente attraverso le due categorie del dono e della sfida. Il dono è inteso come tutte quelle “esperienze che ci rendono capaci di trasportarci al di là di noi stessi, aprendo davanti a noi nuove frontiere di essere e di divenire” 35, in particolare attraverso la mediazione della natura: Kappen parla di una spiritualità tellurica e al tempo stesso erotica (che completerebbe la visione di amore come agape), con ciò manifestando la sua condivisione per quella svolta ‘ecologica’ e ‘femminista’ che ha caratterizzato un certo pensiero teologico cristiano post-moderno e in 31

Kappen 1994: 59. Kappen 1994: 59. 33 Kappen 1994: 59. 34 Kappen 1994: 60. 35 Kappen 1994: 60. 32

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parte, come vedremo, anche il contesto indiano. Connesso a ciò è il concetto di sfida: “il Divino ci incontra come sfida in situazioni in cui l’integrità della terra è minacciata o l’essere umano è calpestato” 36; ne consegue che “l’irruzione del Divino come sfida ha come risultato una prassi trasformante che umanizza la faccia della terra” 37. Tra le sfide moderne egli elenca “le lotte emergenti dei diseredati e degli emarginati come gli aborigeni, i Dalit [membri delle caste basse o arretrate], i tribali e le donne, e gli attuali movimenti ecologisti e antinucleari” 38. Questo processo di umanizzazione non sarà disgiunto anche da una spiritualità estetica, che sia capace di manifestare quell’aspirazione alla bellezza che non può essere separata da una umanità integrale e che si traduce non solo nell’arte ‘classica’ (Kappen parla del Divino che si manifesta nella musica, nella poesia, nella danza, nella pittura e nella scultura) ma anche nell’arte di vivere di un individuo che, seguendo l’insegnamento di L. Dumont, non sarà più considerato il solo ‘io’ ma il più ampio ‘noi’ in un vasto intreccio di relazioni. La ‘teologia’ pratica di Gandhi Sia Thomas sia Kappen risentono fortemente dell’analisi marxista della realtà sociale, e hanno cercato di applicarla al discorso teologico partendo dal contesto indiano. In Thomas si attua il primo passo, quello della rilettura di un induismo cristianizzato alla luce della metodologia della teologia della liberazione; in Kappen vediamo in maniera più evidente come quella metodologia abbia poi modificato i contenuti stessi della teologia. È quel circolo ermeneutico già accennato: la meto36

Kappen 1994: 61. Kappen 1994: 61. 38 Kappen 1994: 61. 37

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dologia della teologia è condizionata dal contesto socio-culturale, e a sua volta la metodologia viene a influenzare i contenuti della teologia. Il contesto indiano ha elaborato tuttavia un’altra linea di sviluppo della teologia della liberazione: una linea di pensiero che prende lo spunto dall’esperienza di Gandhi, piuttosto che dalla riflessione di Marx 39. Per un’analisi storico-religiosa la concettualizzazione è interessante, in quanto assume come punto di partenza un indù che non aveva ‘catene’ dogmatiche nella elaborazione – se non esplicita perlomeno implicita nei suoi scritti e nei suoi detti – di una ‘teologia’ che fosse poi motore di una prassi liberatrice. Allo stesso tempo è interessante per il fatto che la religione non viene interpretata, come in Marx, alla stregua di un mezzo di oppressione e alienazione ma come lo strumento principale per conseguire swara\j (liberazione) 40. Non casualmente, l’accusa principale di Gandhi contro l’Occidente non è lo sfruttamento coloniale 41, ma il fatto che la civiltà moderna ha idolatrato la tecnologia ignorando la religione. Gandhi arriverà addirittura a proporre la contrapposizione fra civiltà occidentale (atea e immorale) e quella indiana (teocentrica ed etica) 42: rispettando i suoi valori religiosi tradizionali, la civiltà indiana avrebbe potuto conseguire la vera libertà. Di fatto, ciò che caratterizza il discorso gandhiano è il suo orientamento teistico, basato su una fede in Dio frutto di una esperienza del cuore: “la fede in Dio non può essere fondata sul ragionamento. Non viene dalla te39

Le riflessioni successive si basano, in larga parte, sullo studio della teologia della liberazione di Gandhi compiuto da I. Jesudasan (cfr. Jesudasan 1986). 40 Il concetto di swara\j è molto ampio. Qui è utilizzato nella sua accezione di ‘liberazione’. Ricordando quanto detto in precedenza a proposito della Teosofia (cfr. Infra, pp. 20-23), non sarà superfluo ricordare che Gandhi, parlando del concetto di swara\j, diede la paternità della sua diffusione alla teosofa A. Besant. 41 Al contrario, Gandhi fa assumere agli indiani le loro responsabilità: “gli inglesi non hanno conquistato l’India, noi l’abbiamo consegnata loro”. Citato in Jesudasan 1986: 91. 42 Cfr. Jesudasan 1986: 93.

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sta, ma dal cuore e ciò che viene dal cuore è spontaneo e istintivo” 43. Questa centralità dell’esperienza interiore si traduce nella negazione della necessità di qualsiasi mediazione fra l’individuo e Dio 44: più che nel culto liturgico di una Chiesa, Dio può essere trovato nel servizio dell’essere umano: “il migliore e più comprensibile posto dove Egli [i.e. Dio] può essere adorato è l’essere umano. Il servizio agli sventurati, agli infelici e agli abbandonati fra gli esseri viventi è un culto a Dio” 45. Anzi, questo servizio all’essere umano è per Gandhi il mezzo migliore per conseguire l’unione con Dio 46: “Se io potessi convincermi che Lo [i.e. Dio] potrei trovare in una grotta dell’Himalaya, io mi recherei là immediatamente. Ma so che non posso incontrarLo lontano dall’umanità” 47. E per Gandhi stare vicino all’umanità per conseguire l’unione con Dio passava attraverso una kenosi, uno svuotamento anche esteriore che significava povertà volontaria: divenire povero coi poveri 48, intoccabile con gli intoccabili, harijan fra gli harijan 49: Tutta la mia attività, che venga definita sociale, politica, umanitaria o etica, è diretta a quel fine. E visto che io so che Dio si trova più spesso nelle sue creature più basse, invece che in quelle più alte e potenti, cerco di raggiungere la condizione di quelle. E non posso farlo che mettendomi al loro servizio. Di qui la mia passione per il servizio alle classi oppresse 50.

Servizio all’umanità più disperata, esperienza mistica, fede e religione sono dunque per Gandhi parte di uno stesso e unico processo: è impossibile separare l’uno dall’altro, e voler conseguire la liberazione 43

Citato in Jesudasan 1986: 119. Cfr. Gandhi 1958: XXX, 216. 45 Citato in Jesudasan 1986: 123. 46 Cfr. Gandhi 1958: LXIV, 79. 47 Gandhi 1958: LXIII, 240. 48 Cfr. Gandhi 1958: III, 278. 49 Cfr. Jesudasan 1986: 139. 50 Citato in Hussain 1959: 35. 44

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degli oppressi con i soli mezzi politici ‘laici’ sarebbe una sorta di capitolazione alla filosofia dell’Occidente ateo. Solo su questo sfondo si possono comprendere i capisaldi della sua azione politica: la non-cooperazione col governo e il programma costruttivo. La non-cooperazione viene così precisata da Gandhi: “La non cooperazione non violenta significa rinuncia ai benefici di un sistema con il quale non intendiamo collaborare. Pertanto rinunciamo a servirci di scuole, tribunali, titoli, camere legislative ed uffici integrati nel sistema. La parte più estesa e più duratura della non collaborazione consiste nella rinuncia alle stoffe straniere che sono la base del sistema perverso che ci schiaccia” 51. L’importanza attribuita al filatoio (charkha) e alla stoffa tessuta a mano (kha\di) come strumento di rottura non violenta (ahimsa\) nei confronti della dipendenza da una potenza coloniale è ciò che permette di passare dalla non-cooperazione a un programma costruttivo, che Gandhi elabora fondandolo su tre basi. La prima è l’esaltazione del filatoio, espressione di un modo di produzione non dipendente dalla tecnologia occidentale, la quale era entrata massicciamente in India provocando forti squilibri e conseguenze sociali in un paese che era costituito per l’80% da contadini. Riportare alla sua antica gloria il filatoio diventava in questo contesto uno strumento con cui sviluppare la coscienza nazionale indiana 52. Soprattutto, utilizzare charkha e kha\di è il modo migliore per servire il povero 53: “A quelli che sono affamati e disoccupati, Iddio può permettersi di rivelarsi soltanto come lavoro, salario e sicurezza di cibo” 54. Gandhi si spinge addirittura a proporre una sorta di sacramentalità del charkha: “Dio è il solo aiuto del povero, ma il filatoio è le Sue mani e i Suoi piedi e pertanto il mi51

Citato in Jesudasan 1986: 130. Oltre che essere un tentativo, perlomeno in quel settore, di raggiungere una indipendenza economica dall’impero britannico. 53 Cfr. Gandhi 1958: LVIII, 250. 54 Citato in Jesudasan 1986: 132. 52

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sero che lo tiene in mano tiene Dio” 55. Il secondo punto del programma costruttivo di Gandhi è l’eliminazione di ciò che egli considera un male interno alla civiltà indù, l’intoccabilità: sarebbe stata infatti un’ipocrisia chiedere libertà da una schiavitù esterna (quella britannica) mantenendone una interna (quella degli ‘intoccabili’), addirittura giustificandola con un discorso di matrice religiosa 56. Gandhi era invece convinto dell’assoluta uguaglianza fra tutti gli uomini, tanto che giunse a scrivere: “Ho sufficienti prove nelle scritture indù per asserire che i Brahmani e gli spazzini sono allo stesso livello agli occhi di Dio” 57. Con un ragionamento più articolato, Gandhi spiega la sua posizione: Io credo che vi è una sola religione nel mondo, ma credo altresì che se essa è un grande albero ha molti rami... E come tutti i rami prendono la loro linfa da una sola sorgente, così tutte le religioni derivano la loro essenza da una sola fonte. Naturalmente non vi può essere che un solo Dio se vi è una sola religione e se Dio è una totalità piena non può avere molti rami. Ma Egli è invisibile e indefinibile e si può dire che ha letteralmente altrettanti nomi quanti sono gli esseri sulla terra. Non ha rilevanza il nome col quale noi Lo descriviamo. Egli è sempre lo stesso e l’Unico e se noi siamo figli dello stesso Creatore evidentemente non vi possono essere caste fra noi. Noi tutti siamo fratelli e sorelle e non vi può essere alcuna distinzione di alto e basso tra noi. Non vi sono savarna e avarna, o tutti siamo savarna o tutti siamo avarna 58.

Gandhi giunge a scrivere che l’intoccabilità era una istituzione escogitata dal diavolo 59, che rischiava di distruggere l’essenza stessa della civiltà indiana 60. Proprio per queste sue posizioni, e per la sua vicinanza a molti 55

Citato in Jesudasan 1986: 133. “L’intoccabilità non aveva un valido posto nella religione indù. Asserire che una persona era nata intoccabile era disonesto, immorale e mostruoso”. Jesudasan 1986: 106. 57 Citato in Jesudasan 1986: 136. 58 Citato in Jesudasan 1986: 135. 59 Cfr. Gandhi 1958: LVI, 485. 60 Cfr. Gandhi 1958: LVI, 486. 56

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harijan, a Gandhi vennero chiuse le porte di alcuni templi indù. L’ultima fase del programma costruttivo di Gandhi era quella di lavorare per l’unità indù-musulmana, se non altro per dimostrare che l’idea di una storica inimicizia fra i due gruppi religiosi era un costrutto artificiale dell’impero britannico, elaborata per chiari scopi politici (divide et impera). Da tutto ciò si evince come il succo del discorso gandhiano stia nel riconoscere la ‘verità’ di una religione in base non già alla sua conformità a un’ortodossia dogmaticamente predefinita (che sia il dogma cattolico o l’autorità dei Veda), ma alla sua ortoprassi liberatoria 61. Passare dalla enfasi sull’ortodossia a quella sull’ortoprassi implica un diverso modo di valutare le religioni: non più facendo riferimento al paradigma del vero/falso, ma in base alla loro operatività nella realtà concreta, in vista della costruzione di un giusto ordine sociale. Cercare la verità praticandola nel servizio agli emarginati e ai poveri: così si potrebbe riassumere la teologia della liberazione di Gandhi; e “con questo atteggiamento di servizio, la religione è salvata dalla sua alienazione, assumendo un nuovo significato e un nuovo orientamento” 62, nel senso che “si assegnano un posto e un ruolo privilegiati alle azioni e ai progetti di liberazione” 63. Questa ‘verità in azione’ è definita da Gandhi satyag\ raha, un neologismo da lui stesso coniato già nel 1906 durante la sua esperienza in Sudafrica, e così spiegato: “La verità (satya) implica amore, e la fermezza (ag\ raha) genera forza e dunque ne è sinonimo. Così ho cominciato a chiamare il movimento indiano ‘Satyag\ raha’, cioè, la forza nata dalla Verità e dall’Amore o dalla non-violenza, e non ho più usato la frase ‘resistenza passiva’ 64. Queste tesi di Gandhi si riflettono anche sulla sua ‘cristologia’. 61

Cfr. Jesudasan 1986: 11. John 1987: 122. 63 John 1987: 122. 64 “Truth (satya) implies love, and firmness (a\graha) engenders and therefore serves as a synomym for force. I thus began to call the Indian movement ‘Satya\graha’ that is to say, the force which is born to Truth and Love or non-violence, and gave up the use of the phrase ‘passive resistence’”. Gandhi 1958: XXIX, 92. 62

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La ‘cristologia’ pratica di Gandhi È possibile comparare Cristo e Gandhi? La domanda, oltre una prima impressione di superficialità, ha una sua giustificazione: si è visto in precedenza come in diversi autori indiani Gesù venga familiarizzato ‘traducendolo’ in un avata\ra dell’Assoluto; in modo analogo, fra molti indù è diffusa la convinzione che Gandhi fosse una incarnazione di Vishnu 65. Il Maha\tma ridimensiona tuttavia la pretesa, spiegando cosa si dovesse intendere per incarnazione di Dio: Colui [Dio] che non ebbe nascita di fatto nacque? Non vi è ragione di credere che una qualche figura storica sia stata l’incarnazione di Dio o Dio come figura storica sia nato in forma umana o altrimenti. Se una persona è dotata di tutte le qualità di Dio, può essere chiamata una incarnazione di Dio 66.

Cristo dunque non poteva essere inteso una ‘incarnazione di Dio’ nel senso dogmatico di ‘vero Dio e vero Uomo’, idea che Gandhi considerava contraria alla ragione 67; tutto doveva invece essere interpretato come un semplice: “ai suoi tempi egli [Gesù] era il più vicino a Dio” 68. Non per nulla Gandhi giunse a scrivere che Gesù era “altrettanto divino come Krishna, o Ra\ma o Maometto o Zoroastro” 69. L’Assoluto, in poche parole, non può assumere un corpo – nel senso di incarnarsi – che per sua natura è soggetto alla legge del karma 70; conseguentemente non vi può essere alcuna pretesa di superiorità di una figura ‘religiosa’ rispetto a un’altra sulla base che in quella è avvenuta la incarnazione di Dio. 65

Cfr. Jesudasan 1986: 187 ss. Citato in Jesudasan 1986: 188. 67 Jesudasan 1986: 190. 68 Citato in Jesudasan 1986: 190. 69 Citato in Jesudasan 1986: 191. 70 Nel pensiero di Gandhi vi è una costante svalutazione dell’elemento corporeo, visto come la sorgente dell’ego e la radice di tutti gli egoismi e conseguentemente di tutti i mali sociali. Cfr. Jesudasan 1986: 188-189. 66

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Di fatto, Gandhi interpreta la figura di Cristo alla luce dell’opzione per i poveri e per gli harijan, non già seguendo disquisizioni dogmatiche; anzi, scartando a priori la dogmatica cristiana, il criterio di valutazione della figura di Cristo diveniva per Gandhi un paradigma di natura morale ed etica: fra tutti primeggia il principio della non violenza, che il Maha\tma considera come qualificante sia le parole (il ‘Sermone della Montagna’) sia l’azione di Cristo 71, fino alla sua massima espressione rappresentata dalla morte in croce. Ciò non è tuttavia una semplice riduzione della religione a etica: in Gandhi è sempre chiaro il principio che il servizio al povero è un mezzo per raggiungere l’unione con Dio: se la cristo-logia diventa cristo-prassi, questa cristo-prassi è sempre teocentricamente orientata. Detto in altri termini: se Gandhi propone altri paradigmi interpretativi della categoria vero/falso, non abbandona mai, anzi rafforza, l’utilizzo del paradigma sacro/profano come chiave di lettura generica dell’intera questione-India, che lui credeva potesse essere risolta solo attraverso una ‘infusione’ di sacro nel profano. Una violenta lotta di classe, sul modello di un certo marxismo, era per lui un tradimento dell’anima del popolo indiano, come tradimento sarebbe stata una ‘decostruzione’ del religioso e del sacro. Anche se riletta attraverso ciò che per Gandhi è lo specifico della civiltà indiana (la priorità del codice religioso), tale ortoprassi liberatrice contiene tuttavia quell’elemento di rottura considerato indispensabile nella riflessione della teologia della liberazione: non stupisce dunque che alcuni teologi cristiani abbiano visto in Gandhi un maestro in grado di indicare una strada, o perlomeno una metodologia, per la liberazione. A ciò viene in soccorso l’analisi storica, che rileva come il cristianesimo abbia influito su Gandhi e sia stato da lui utilizzato, nelle parole di Ignatius Jesudasan, per “trasformare l’induismo” 72. Non solo il concetto precedentemente esposto di satya\graha venne da Gandhi ar71 72

Jesudasan 1986: 193. Cfr. Jesudasan 1986: 229.

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ricchito, oltre che con riflessioni tratte dalla Bhagavad Gı \ta\, anche con altre tratte dal Vangelo (il ‘Sermone della Montagna’) o da autori cresciuti in ambiente cristiano o da esso ispirati (L. Tolstoy e H. D. Thoreau) 73; anche l’idea stessa di una presenza di Dio nei poveri e negli intoccabili è fatta risalire al cristianesimo, così come alla sua influenza può essere ricondotta una visione più ampia del concetto di karma “come espressione sociale, collettiva di peccato e salvezza, piuttosto che una isolata e individualizzata relazione con Dio” 74. Soprattutto, all’influenza del cristianesimo viene ricondotta la necessità dell’amore sofferente (suffering love) come via per la liberazione: “La cristologia gandhiana è espressione di una esperienza di liberazione basata sulla spiritualità di un liberatore che, posto accanto a Gesù, diviene un altro Cristo, senza sostituirlo o rimuoverlo” 75. L’influenza del cristianesimo su Gandhi (o il più vasto circolo ermeneutico cristianesimo-neoinduismo-Gandhi) può dunque essere vista anche in questo passaggio da una visione ‘individualistica’ (usando il termine nel senso inteso dalle riflessioni di L. Dumont) della salvezza a una ‘sociale’, ove essa è connessa al più vasto impegno etico descritto da Gandhi. La conseguenza è una nuova rilettura del concetto tradizionale di religione: la rimozione dei mali della società è la responsabilità del dharma. Il benessere economico di ogni membro della società diventa così un’attività religiosa. Quelle che vengono comunemente tenute per attività circoscritte all’ambito del secolare, si rilevano così dotate di un orientamento trascendente. Esseri umani malnutriti, malvestiti e analfabeti non fanno alcun onore al grande Dio la cui adorazione è la principale preoccupazione dei religiosi di professione (professional religionists) 76. 73

Cfr. John 1987: 130. John 1987: 130. 75 John 1987: 130. 76 John 1987: 128. 74

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Si comprende, alla luce di queste riflessioni, il nuovo significato che Gandhi attribuisce al sacrificio (yajña): non gettare offerte nel sacro fuoco, ma una azione finalizzata al benessere del mondo 77: “se l’acqua è scarsa e dobbiamo andarla a prendere a due miglia di distanza, quell’azione sarebbe yajña” 78. Tornando al nostro tema: il ‘cristianesimo’ di Gandhi, la sua ‘teologia della liberazione’, è legata alla condivisione dell’ortoprassi di Gesù e non all’accettazione dogmatica dell’ortodossia cristologica. Non possiamo dunque parlare di un cristocentrismo di Gandhi, perché Gesù non era altro che un paradigma etico che indirizzava verso Dio (teocentrismo) secondo una modalità comparabile e non ontologicamente superiore a quella di, poniamo, un Krishna. Il fatto però che nella sua pratica non-violenta e, soprattutto, nella sua morte Gandhi sembra ri-attualizzare l’evento delle croce di Gesù ha suggerito ad alcuni teologi la comparabilità fra il Maha\tma e Gesù o, se non altro, a interpretare l’uno alla luce dell’altro per estrapolarne una prassi non-violenta: ciò che fece James Douglass nell’opera The Non-Violent Cross (1970). L’idea è radicalizzata nelle parole di un missionario americano, E. Stanley Jones: Mai nella storia dell’umanità tanta luce è stata proiettata sulla Croce come attraverso questo singolo uomo e questi non era neppure un cristiano. Se il nostro cristianesimo non fosse stato viziato dalla nostra accettazione, nella vita pubblica e privata, di attitudini e comportamenti veramente anticristiani, avremmo visto subito l’affinità fra il metodo di Gandhi e la Croce 79.

Qualcuno si spinse più in là: S. K. George, un teologo cristiano indiano e docente al Bishop’s College di Calcutta, venne allontanato dall’insegnamento per aver sostenuto, fra l’altro, che “Gandhi era il più 77

John 1987: 127. Cfr. Gandhi 1958: XXXII, 164. 79 Jones 1948: 137, citato in Jesudasan 1986: 223. 78

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grande operatore per il Regno di Dio nel mondo oggi”, una persona nella quale “il principio centrale della Croce si è di nuovo incarnato” 80. Gandhi e la conversione Abbiamo detto che il ‘cristianesimo’ di Gandhi è legato alla condivisione dell’ortoprassi di Gesù, non all’accettazione dogmatica dell’ortodossia cristologica: per il Maha\tma non vi può essere alcuna pretesa di unicità nell’evento-Cristo, perché i vari nomi di Dio non sono altro che involucri di un’unica realtà interiore: L’Allah dell’Islam è lo stesso, come il Dio dei cristiani e l’I |shvara degli Indù. Proprio come ci sono nell’Induismo diversi nomi di Dio, così ci sono altrettanti nomi di Dio nell’Islam. I nomi non significano individualità, ma attributi e il piccolo uomo ha cercato, nel suo modo umile di descrivere il grande Dio, di dargli attributi, benché egli sia al di là di ogni attributo, indescrivibile, inconcepibile e immensurabile 81.

Fu proprio questo suo approccio alle religioni che gli fece guardare con sospetto alle conversioni da una religione all’altra. Durante la sua permanenza in Sudafrica Gandhi venne a contatto con molti cristiani protestanti. Alcuni cercarono di convertirlo, ma senza risultato: Gandhi non aveva alcuna intenzione di convertirsi al cristianesimo. Come dicevamo, vi era in lui il rifiuto di riconoscere l’unicità teologica di Cristo; anzi, che Gesù fosse una figura storica o leggendaria era per lui irrilevante: “anche se l’uomo Gesù non fosse mai vissuto... il ‘Discorso della montagna’ sarebbe ancora vero per me” 82. È proprio il ‘Discorso della montagna’ il fulcro del ‘cristianesimo’ di Gandhi: tutta la 80

George 1960: xv, citato in Jesudasan 1986: 225. Citato in Acharaparumbil 1982: 286. 82 Citato in Amaladass 2004: 130. 81

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riflessione teologica su Cristo non aveva per lui alcun valore, come non l’aveva l’idea di una morte in croce per la redenzione dei peccati. Convertirsi al cristianesimo non aveva senso: la vera conversione era quella interiore, non il burocratico cambiamento esteriore di appartenenza. Anzi, Gandhi era fermamente convinto che ognuno doveva essere profondamente radicato nella propria tradizione spirituale e culturale: “la religione è una questione di vita e di morte. Un uomo non cambia religione come cambia d’abito: egli la porta con sé oltre la tomba. Né professa la sua religione per costringere gli altri” 83. Per questo era contrario ai tentativi di conversione operati dai missionari: separare in un individuo religione e cultura era un atto criminale, tanto più grave quanto più semplice la persona che ne era vittima. Gandhi guardava con particolare ‘fastidio’ la conversione degli ‘intoccabili’ al cristianesimo: esse erano ottenute con offerte di denaro o di altri vantaggi materiali, come l’istruzione o l’assistenza medica: Ritengo che fare proselitismo sotto la veste dell’opera umanitaria non è, a dir poco, salutare. Qui, è sicuramente causa di risentimento. La religione, dopo tutto, è un affare profondamente personale, che tocca il cuore. Perché dovrei cambiare la mia religione perché un dottore, che si dice cristiano, mi ha curato da una qualche malattia o perché dovrei prevedere o stimolare questo cambiamento intanto che ne subisco l’influenza? O perché dovrei essere subissato, in una istituzione educativa missionaria, di insegnamenti cristiani? La mia opinione è che questi atteggiamenti non siano educativi, e suscitino diffidenza, se non addirittura una velata ostilità 84.

Alcuni anni dopo precisò a chiare lettere il suo pensiero: “credo che non esista nulla di simile a una conversione da una fede all’altra, nel senso comune del termine. [...]. È una cosa della quale mi convinco ogni giorno di più: che le grandi e ricche missioni cristiane renderanno 83 84

Citato in Rao 1999: 141. Citato in Rao 1999: 144.

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davvero un servizio all’India quando si decideranno a limitare le loro attività a servizi umanitari, senza il motivo aggiuntivo di convertire l’India, o perlomeno i suoi più disarmati abitanti dei villaggi, al cristianesimo, distruggendo così strutture sociali che, nonostante tutti i difetti, hanno resistito da tempo immemorabile ad attacchi interni ed esterni” 85. Non sorprende, alla luce di queste parole, che “Gandhi condividesse lo stereotipo del cristianesimo come presenza aggressiva, aliena e alienante, e degli Indiani convertiti come un’aberrazione insignificante sulla scena sociale indiana” 86. Il circolo ermeneutico Per quanto concerne Gandhi, questo dunque il circolo ermeneutico individuato da un’analisi storico-religiosa: da un lato una metodologia che, partendo dall’analisi della situazione sociale (colonialismo britannico, ateismo della civiltà occidentale, intoccabilità, divisioni fra indù e musulmani, etc.), fa perno sull’interpretazione etica di ogni religione; dall’altro quella stessa metodologia si riflette sul contenuto delle religioni che vedono la chiave di lettura della loro verità ridotta al ‘servizio per il povero’: è solo attraverso la condivisione e la lotta non violenta per una società giusta che la religione diviene vera, e permette di raggiungere l’unione con Dio. Questo insistere sull’aspetto della prassi nell’interpretazione della religione significa far penetrare la religione nella storia, per procedere oltre la storia. Per Gandhi è impossibile costruire un nuovo ‘umanesimo’ senza la religione, e la religione non ha senso se non è capace di incidere sulla storia: “un dharma che non serve a bisogni pratici non è dharma” 87. È proprio questa insistenza sulla prassi, questo valutare la verità di un codice religioso in base alla sua ortoprassi che per85

Citato in Rao 1999: 145. Webster 1989: 81. 87 Cfr. Gandhi 1958: XXX, 152. 86

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

mette di comparare Gandhi e la teologia della liberazione 88: Dio non viene allontanato dal mondo, anzi, attraverso la prassi viene reintrodotto. Questo processo, a sua volta, richiede una riformulazione della religione il cui insegnamento diventa così una sorta di tecnica di azione che permette molteplici strategie (leggi anche: molteplici religioni) per raggiungere lo scopo di una società giusta, e conseguentemente, dell’unione con Dio. Vi è però una conseguenza teorica aggiuntiva: la complessità delle informazioni (ossia la molteplicità delle religioni) viene in Gandhi a trovare una semplificazione attraverso il paradigma della prassi. Letto alla luce della prassi, il molteplice si riduce fino a raggiungere l’unicità: attraverso lo strumento della funzionalità pratica della religione, Gandhi viene a rileggere la pluralità religiosa e a ridurla all’unità, rendendo insignificante e superfluo qualsiasi discorso di conversione da una religione all’altra. In altre parole: esiste un’unica religione la cui verità si riflette sull’etica e attraverso l’etica può essere individuata oltre la sua apparente frammentazione nel molteplice. L’ermeneutica segue così un cammino inverso rispetto a una più accademica teologia delle religioni: è l’ortoprassi che porta Gandhi a postulare l’esistenza di un’unica religione universale. Non si parte dalla constatazione teoretica dell’esistenza di molteplici religioni per poi giungere a postulare un’unica religione, della quale tutte sono solo ‘rami’ secondari e parziali, ma si parte dalla efficacia pratica delle molteplici religioni per giungere, come postulato, all’unica religione universale dalla quale sgorga ‘l’imperativo etico’. È forse in questo circolo ermeneutico – che permette di passare dalla teologia della liberazione alla teologia delle religioni, per poi di nuovo ritornare alla teologia della liberazione –, che in una prospettiva storico-religiosa si può trovare uno dei più importanti risultati dell’interazione fra Gandhi e il cristianesimo. Da un punto di vista più speculativo questo si traduce, per riprendere una terminologia utilizzata nell’Introduzione, più che in una de88

Cfr. ad esempio Chathanatt 2004.

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USCIRE DAL TEMPIO: VERSO LA LIBERAZIONE

cristianizzazione del cristianesimo in una de-cristianizzazione di Gesù: interpretando la figura del profeta di Nazareth alla luce dell’opzione per i poveri e per gli harijan, il Maha\tma rigetta tutte le disquisizioni dogmatiche sottolineando invece la discontinuità fra Gesù e il cristianesimo: “mi ribello contro il cristianesimo ortodosso, poiché sono convinto che ha distorto il messaggio di Gesù. Egli era un asiatico e il suo messaggio venne diffuso attraverso molti mezzi, ma quando ebbe l’appoggio dell’imperatore romano si trasformò in una fede imperialista come è rimasta fino a oggi” 89. In Gandhi non è più la ‘teoria’ del dogma trinitario o dell’incarnazione a essere il punto di esplosione nell’incontro fra cristianesimo e induismo, ma la ‘realtà’ della sofferenza dei poveri e degli intoccabili. Per il Maha\tma il fatto che il cristianesimo dei colonizzatori britannici permettesse la discriminazione degli indiani, o l’induismo dei brahmani l’emarginazione degli intoccabili, era un segno che qualcosa non andava in quelle religioni. E se la realtà sociale offesa si presentava come una anomalia in quel paradigma-religione, essa imponeva la necessità di ripensarlo: guardare con occhi nuovi quei codici di senso attraverso lo strumento della prassi. Il dogma cristiano perde così la sua funzione di criterio interpretativo della figura di Cristo: non è più la teologia elaborata dai padri della Chiesa a dirci chi è Cristo, ma è l’operatività etica del suo messaggio a dircelo; e l’operatività etica del suo messaggio viene a equipararlo a quello di altri grandi maestri del passato. La conseguenza diretta è che il suo messaggio e il messaggio degli altri si equivalgono, il che significa che le religioni fondate sui rispettivi maestri si equivalgono. In questa prospettiva, si diceva, la teologia della liberazione sfocia quasi naturalmente in una ‘teologia delle religioni’, e a sua volta questa teologia delle religioni si riflette sulla teologia della liberazione: se la presa di coscienza della terribile 89 Ctato in Jesudasan 1986: 194. Si possono notare in questa affermazione delle analogie con quanto affermato da S. Kappen, che pur partiva da un’altra prospettiva: quella marxista (cfr. supra, pp. 115 ss.).

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

realtà sociale porta Gandhi a una equivalenza fra le religioni, questa equivalenza poi ritorna sul sociale come equiparazione dei vari codici religiosi nella loro operatività pratica. C’è di più: se la riflessione di Gandhi giunge a proporci un Cristo non più letto attraverso l’ottica del cristianesimo, la riflessione su Gandhi si spinge oltre: un elemento di rottura ancor più importante è il fatto che Gandhi possa venire assunto da alcuni teologi, lo si è visto, come criterio ermeneutico della croce. La domanda sorge spontanea: se un non cristiano (un indù) viene preso come criterio ermeneutico della croce, quali conseguenze ne derivano per la cristologia? Hanno ancora valore i dogmi cristiani? Come deve essere interpretato Cristo alla luce della prassi di Gandhi? Se l’ortoprassi diviene il criterio di definizione per l’ortodossia, se un indù viene considerato il ‘maggior operatore per il Regno di Dio’, non significa forse questo spostare radicalmente l’accento da Cristo al suo Regno, un Regno per di più non monopolizzato dalla Chiesa? Ma se Cristo non occupa il posto centrale, possiamo ancora parlare di cristianesimo?

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6. OLTRE I CONFINI DELL’INDIA

La teologia della liberazione come ermeneutica del pensiero di Gandhi apre al sospetto che il ‘tradizionale’ concetto di Regno di Dio sia limitato dal suo essere cristiano o, meglio ancora, sia limitato da una certa teologia al solo suo essere cristiano: non casualmente una delle accuse rivolte da alcuni teologi della liberazione e delle religioni ad alcuni ambienti ecclesiastici è quella di limitare e anzi identificare il Regno di Dio con la Chiesa, con il conseguente corollario che espandere la Chiesa significa realizzare il Regno di Dio. Una simile attenzione al ‘Regno di Dio’ è individuabile nell’ormai classico An Asian Theology of Liberation (1988), dove il teologo gesuita Aloysius Pieris (n. 1934) critica sia alla teologia ‘romana’ sia a quella della liberazione latino-americano di limitare il senso del Regno di Dio a una ermeneutica occidentale (tomista o marxista che sia), con la conseguente incapacità di riconoscere il valore soteriologico e profetico-politico delle ‘religioni’ asiatiche. Pieris, nativo dello Sri Lanka, è invece assolutamente convinto che quell’ignorare l’esistenza di un pluralismo religioso nel contesto indiano e asiatico è sbagliato: come scrive P. Knitter nell’Introduzione a An Asian Theology of Liberation, la “coscientizaciòn (coscientizzazione liberante) non opererà per la maggior parte dei poveri asiatici se non poggia sui simboli e sulle convinzioni del loro mondo religioso e se non è ispirata da questi” 1. Questo 1

Knitter 1990: 7.

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stretto legame che viene a instaurarsi fra pluralismo religioso e coscientizzazione liberante porta Pieris a criticare quei sostenitori di un dialogo interreligioso e di un pluralismo religioso i cui convegni e “incontri mistico-rituali potrebbero costituire uno schermo di fumo sacro dietro il quale essi evitano, senza rendersene conto, le dure realtà della miseria, dell’ingiustizia e dello sfruttamento, e forse anche la loro complicità religiosa in queste realtà”: mentre mistici e studiosi rimangono sulla vetta della montagna a dialogare fra religioni cercando l’unione con l’Assoluto, “le masse sono lasciate nelle valli a dialogare con la fame, la malattia e la carenza di terra” 2. La conclusione è che una teologia della liberazione asiatica non può separare queste due realtà: povertà e pluralismo religioso. La religione Il discorso di Pieris viene sviluppato partendo dalla prospettiva elaborata da una certa teologia della liberazione latino-americana, in particolare quella del biblista José Miranda per il quale la religione aliena l’individuo e lo allontana dall’impegno nella realtà, e dunque è un male assoluto da eliminare in quanto giustificazione dello status quo 3; e quella del teologo Jon Sobrino, che vede nella religione una degradazione della fede 4. Per Pieris questa prospettiva non può essere accolta da una teologia della liberazione per l’India e l’Asia in generale, in quanto frutto di una tesi occidentale e colonialista. Di fatto, la visione negativa della religione è una tesi occidentale a causa del concetto stesso di religione: “nessuna delle soteriologie asiatiche, neppure quelle bibliche, ci ha offerto una parola comprensibile o un 2

Pieris 1990: 6. Miranda 1976: 47 ss. 4 Sobrino 1978: 275 ss. 3

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concetto chiaro per definire la religione secondo il senso occidentale corrente” 5. Ribadendo concetti ormai assodati nella storia delle religioni, Pieris ricorda come la parola ‘religione’ si insinuò nell’inglese, e forse anche nelle altre lingue mo\ con quella latina derne, dalla Vulgata, che traduceva la parola greca threskéia religio. In Giacomo 1,26 ss. si parla di ‘religione pura’ e in Atti 26,5 la parola è chiaramente riferita al giudaismo. Gli apologisti latini, diversamente da quelli greci, parlavano di una vera religio (intendendo il cristianesimo), in contrasto con la falsa religio, giudizio divenuto aggressivo a causa dei conflitti col giudaismo e l’islam. Così la missiologia romana classica aveva messo Cristo contro le altre (cioè false) religioni, diversamente da alcuni liberazionisti contemporanei che sono andati più avanti e hanno messo Cristo contro la religione in quanto tale 6.

Mettere Cristo contro la religione, continua Pieris, è un debito dei teologi latinoamericani (che lui chiama liberazionalisti) nei confronti sia di Marx (che pone la religione contro la rivoluzione) sia del teologo protestante Karl Barth (che mette la religione contro la rivelazione): pur partendo da prospettive diverse, in entrambe le riflessioni la religione non è altro che una manipolazione (della rivoluzione o della rivelazione) che funge da ostacolo alla liberazione e/o alla salvezza. Pieris vede in entrambe le riflessioni delle elaborazioni occidentali: in particolare, nella prima non si fa altro che sostituire una occidentalizzazione portata avanti dalla teologia cattolica con una occidentalizzazione portata avanti dal marxismo: “il grido a favore di un internazionalismo proletario, valido di per sé, fu in pratica un impegno per l’occidentalismo” 7 ben evidente nel tentativo di diffondere attraverso la lotta di classe la più occidentale fra le idee: quella del progresso. Le riflessioni di Pieris 5

Pieris 1990: 158. Pieris 1990: 159. Corsivo nel testo. 7 Pieris 1990: 162-163. 6

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continuano su questa linea, ma già si intuisce la direzione del suo pensiero: applicare la metodologia marxista all’analisi della realtà sociale asiatica non è che un altro modo di occidentalizzare l’Asia; e applicare il marxismo all’analisi delle tradizioni spirituali dell’Asia significa occidentalizzarle, trasformarle in religioni alienanti alla stregua del cristianesimo. In termini storico-religiosi: l’analisi marxista della realtà, applicata a un discorso teologico, ha portato a ‘trasformare’ le tradizioni spirituali asiatiche in ‘religione’; una volta trasformate in religione, il discorso sulle ‘religioni’ asiatiche è stato equiparato a quello sul cristianesimo, e così come il cristianesimo è fonte di alienazione e dunque da eliminare, allo stesso modo tutte le ‘religioni’ asiatiche sono fonte di alienazione e dunque da eliminare. Oltre alla discussione sulla matrice occidentale della tesi di una negatività della ‘religione’, Pieris affronta quella del suo essere colonialista: se la prospettiva colonialista vera e propria di un Cristo contro le religioni (tesi esclusivista) è durata fino al XIX secolo, le cose sono cambiate con l’affermarsi “del Cristo gnostico che apparve nelle opere di teologi sia indù sia cristiani”: il riferimento è alla cristologia degli autori del Rinascimento indiano che anticiparono il Vaticano II 8. Se nelle elaborazioni di quegli intellettuali Cristo appariva come il compimento delle religioni, non vi era però alcun riferimento sostanziale alle masse dei poveri. Questo cambiò a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, quando si poté assistere all’arrivo di un “Cristo neocolonialista nella persona del missionario con la jeep. Ora la ‘civilizzazione’ occidentale cede il passo allo ‘sviluppo’ occidentale come strumento della presenza salvifica di Cristo” 9. A questa ‘laicizzazione’ della religione trasformata in sviluppo (era l’idea allora diffusa della pre-evangelizzazione) 10 rispose il 8

Pieris 1990: 165. In nota Pieris rimanda a Thomas 1969a, e a Samartha 1974. Pieris 1990: 166. 10 Cfr. Pieris 1990: 83. 9

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‘misticismo’ della tesi del Cristo delle religioni, ossia quel Cristo che veniva ‘elaborato’ soprattutto negli a\shram come strumento per vincere il male dentro l’individuo 11 e portare l’anima all’unione con Dio; tuttavia questo “Cristo ashramico non sembrava più sensibile alle richieste di giustizia del Cristo neo-colonialista” 12. Si comprende allora la critica di Pieris a quei teologi asiatici che, non accorgendosi di ciò che vi stava dietro, avevano accolto quelle riflessioni occidentali e colonialiste non solo elaborando un ‘Cristo guida-mistica’ che spingeva a una fuga dalla realtà verso il metastorico, ma pure costruendo un “Cristo liberatore che redimeva i poveri non solo dalla loro povertà”, il che non sarebbe stato negativo, “ma anche dalle loro religioni tradizionali” le quali erano ritenute complici di “sistemi immorali” 13. Ciò è sbagliato, sostiene con vigore il gesuita: la ‘religione’ è un aspetto costitutivo dell’identità asiatica e in quanto tale non può essere sbrigativamente accantonata in nome di uno ‘sviluppo’ che vuole sconfiggere la povertà; allo stesso tempo la riflessione teologica non può ridursi solamente alla mistica dell’unione con Dio, trascurando “lo scandalo colossale della miseria istituzionalizzata che lancia una sfida a tutte le religioni” 14. È necessario uno sguardo nuovo, che sia nel suo intimo asiatico. 11

Cfr. supra, cap. 3. Pieris 1990: 168. Questo tuttavia non si traduce in una critica a 360° di quelle esperienze: “… penso sia opportuno citare l’esempio del monaco benedettino Swa\mi Abhishiktananda (Henri Le Saux) la cui carnagione bianca e il cui accento francese sono praticamente le sole cose rimaste del suo passato europeo dopo la sua immersione battesimale nelle acque dell’Induismo. Egli aveva assorbito così bene la spiritualità indù (cioè la teologia nel senso primordiale di esperienza di Dio) che le molte cose che ha detto sul mistero di Cristo (teologia nel senso secondario di parlare di Dio) sono diventate segnali stradali indispensabili nella ricerca fatta dalla chiesa sul tema della faccia asiatica di Cristo”. Pieris 1990: 101. Cfr. anche Pieris 1990: 102-106. 13 Pieris 1990: 169. 14 Pieris 1990: 169. 12

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Per una teologia asiatica della liberazione Cosa propone il teologo dello Sri Lanka? Sotto molti aspetti il suo An Asian Theology of Liberation è il tentativo di trovare una sintesi fra la linea espressa da pensatori quali M. M. Thomas e S. Kappen e quella espressa da Gandhi: non si può ridurre l’India alle sue sole contraddizioni sociali, e al tempo stesso non ci si può limitare a sottolineare l’aspetto spirituale delle grandi civiltà asiatiche: occorre trovare un punto di sintesi e raccordo fra le due prospettive. Il trait d’union è individuato in Cristo, attraverso la figura ermeneutica ‘povero monaco’: nel suo essere povero, Cristo condivide la povertà delle masse asiatiche, nel suo essere monaco condivide la spiritualità delle grandi tradizioni asiatiche. Solo in questo modo è possibile superare quel clima di “megalomania cristiana” con la quale “una piccola chiesa minoritaria dichiara di offrire ‘liberazione’ all’Asia senza prima entrare nelle correnti liberanti della religioni asiatica”, anzi, con la pretesa di liberare “l’Asia senza permettere all’Asia di liberarlo dalla sua latinità!” 15. Il progetto può realizzarsi solo tenendo aperti i canali di comunicazione con le altre religioni tramite l’idea di salvezza, concetto fondamentale tanto nel cristianesimo quanto nelle tradizioni spirituali asiatiche: “la spinta comune rimane tuttavia soteriologica, dato che il fine di molte religioni è sempre la liberazione (vimukti, moksha, nirva\naÛ ) piuttosto che la speculazione su un ipotetico liberatore” 16; ne consegue che “la teologia in quanto discorso su Dio o parola di Dio non è necessariamente un punto di partenza universalmente valido, o l’oggetto diretto, o la sola base della collaborazione inter-religiosa nel Terzo Mondo. Ma la liberazione lo è. La soteriologia è il fondamento della teologia” 17. 15

Pieris 1990: 91. Pieris 1990: 189. 17 Pieris 1990: 190. 16

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Se si può parlare così del passaggio da una cristologia a una soteriologia come codice di comunicazione fra le tradizioni spirituali, resta però da vedere se questo significhi un successivo passaggio da un cristocentrismo a un soteriocentrismo. La risposta è individuata da Pieris in un adagio latino: Jesus est totus Christus, non totum Christi: tutto di Gesù è Cristo, ma non tutto di Cristo è Gesù. Questo adagio è punto di partenza non tanto per rinunciare a una sorta di gesucentrismo (se mi si passa l’espressione), ma per affermare la possibilità di parlare di un ‘Cristo-non cristiano’. Questo significa due cose: una a livello teorico e una a livello più pratico. A livello teorico le diramazioni di un ‘Cristo non-cristiano’ sono visibili nella critica alla teologia del ‘cristianesimo anonimo’ elaborata da Rahner: una tesi ‘cripto-colonialista’ che tende a includere tutto nel cristianesimo, riducendo l’alterità religiosa a potenzialità nei confronti dell’atto costituito dal cristianesimo. Questa idea di un ‘cristianesimo anonimo’, scrive Knitter nella sua Introduzione a An Asian Theology of Liberation, può invece essere benissimo cancellata da controindicazioni di ‘induismo anonimo’. Se i cristiani guardano a Buddha come a un precursore di Cristo, devono permettere ai buddhisti di guardare a Gesù come a un bodhisattva che non ha ancora realizzato la buddhità. Così Pieris formula l’ipotesi che ciò che è ‘assoluto’ in Gesù non si debba trovare in titoli come ‘Cristo’ o ‘Figlio di Dio’, ma nel mistero salvifico di salvezza/liberazione che Gesù comunica nella sua persona e nel suo insegnamento e che è riconosciuto in altre religioni e chiamato diversamente 18.

I teologi asiatici contemporanei non si devono dunque sforzare di inventare un Cristo non-occidentale, come fecero gli intellettuali del Rinascimento indiano: un’operazione del genere (la storia del neo-induismo è lì a testimoniarlo), produrrebbe un Cristo in grado di parlare solo a delle élite intellettuali senza alcuna incisività sulla realtà storica. Quel18

Knitter 1990: 8-9.

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lo che occorre fare è invece scoprire la cristicità dei poveri asiatici 19 attraverso un regnocentrismo che non si preoccupi più di collocare Cristo all’interno delle religioni, ma di ‘realizzarlo’ nella giustizia: “L’adagio ‘ubi ecclesia ibi Christus’ (dev’è la Chiesa là è Cristo) non è solo rovesciato in ‘ubi Christus ibi ecclesia’, ma questo Cristo, nella cui compagnia si trova la Chiesa autentica, è chiaramente percepito come il Cristo incarnato nella storia che continua a essere presente ‘sacramentalmente’ nella carne e nel sangue degli esseri umani (i suoi minimi fratelli) che piangono, e forse anche lottano, perché inizi il regno di giustizia e non anzitutto in un Cristo gnostico presente come legittimatore in una comunità istituzionalizzata con un culto istituzionalizzato” 20. Oltre una teologia ‘romana’ L’importanza di un discorso soteriologico e regnocentrico è messo in luce da un altro teologo nativo dello Sri Lanka, il sacerdote cattolico dell’ordine degli Oblati di Maria Immacolata Tissa Balasuriya (n. 1924), al quale fu comminata il 2 gennaio 1997 la scomunica latae sententiae 21 a causa di quanto espresso nell’opera Mary and Human Liberation (1990). Il libro in realtà ebbe una tiratura di poche centinaia di copie, ma venne portato alla ribalta dalle obiezioni e proteste della Conferenza Episcopale dello Sri Lanka: oltre a negare i quattro dogmi mariani e quello connesso al peccato originale, il teologo cingalese aveva relativizzato la pretesa salvifica di Cristo e la necessità di una mediazione, ai fini della salvezza, della Chiesa cattolica 22. L’anno seguente (il 15 gennaio 1998) Tissa Balasuriya si riconciliò con la Chiesa 23. 19

Cfr. Pieris 1993: 71. Pieris 1990: 32. 21 Ossia automatica, derivante dal fatto che si è compiuto un qualcosa di proibito, senza necessità di processi o altre procedure legali. 22 Cfr. Ratzinger @ (1997). 23 Per il processo di riconciliazione, cfr. Osservatore Romano 1998: 2. 20

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T. Balasuriya non era nuovo a trattare l’argomento della Human Liberation, come mostrato dai titoli di un paio di sue opere: The Eucharist and Human Liberation (1977) e Jesus Christ and Human Liberation (1981). Il testo che offre più prospettive per il futuro continua però a rimanere Planetary Theology (1984), che si apre con parole che ricordano quelle dei teologi fin qui trattati: “Mi stupisce e mi rattrista il fatto che tanti che si dicono cristiani si preoccupino così poco dell’immensa miseria e sofferenza umana presenti in quasi tutte le parti del mondo” 24. Come per Thomas, Kappen, Gandhi e Pieris, anche per Balasuriya è la realtà della sofferenza e della povertà l’anomalia che non può più essere riassorbita e neutralizzata all’interno di una teologia tradizionale, e che di conseguenza diviene il motore per un ripensamento dell’intero cristianesimo. La teologia tradizionale è definita senza mezzi termini ‘etnocentrica’, in quanto “proveniva dalle preoccupazioni dell’Occidente e a esse era orientata. Era un manufatto dell’espansione occidentale, un inconsapevole alleato dello sfruttamento dei popoli di altri continenti, prima ad opera degli Europei e in seguito dei Nordamericani” 25. L’esplicita affermazione è che il cristianesimo non è altro che una costruzione culturale storicamente condizionata dall’Occidente, e ciò è ben visibile in alcune sue caratteristiche individuate da Balasuriya 26. In particolare, si tratta di una teologia che non vuole assumere gli strumenti dell’analisi 24

Balasuriya 1986: 7. Balasuriya 1986: 8. 26 1. È una teologia ecclesiocentrica, che tende a equiparare Regno di Dio e Chiesa cattolica; 2. è una teologia maschilista, nel senso che è prevalentemente frutto della riflessione maschile; 3. è una teologia datata, nel senso che la sua ortodossia è decisa da individui che ormai appartengono a generazioni passate; 4. è una teologia procapitalista, nel senso che non ha alcun interesse a modificare il sistema sociale; 5. è una teologia anticomunista, che si ferma unicamente sugli aspetti negativi del marxismo; 6. è una teologia non rivoluzionaria, nel senso che è scesa a patti col modello capitalistico occidentale parlando al massimo di riforme, quando invece ciò che si richiede è “un cambiamento rivoluzionario del sistema mondiale”. Cfr. Balasuriya 1986: 15. 25

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sociale, continuando a rimanere una pura riflessione teorica che deriva le sue conclusioni dalle Scritture e non dalla realtà concreta. L’esplicito richiamo è quello all’azione: Quando la teologia è solo teorica, essa non tiene conto delle esigenze delle situazioni reali e degli sforzi necessari per cambiarle; mentre è solo nell’azione che le molte dimensioni e sfaccettature dei problemi si chiarificano. Quando la riflessione preclude l’azione il pensiero tende a diventare sterile, orientato allo status quo e conservatore. Diventa allora possibile elaborare la teologia in modo puramente accademico, con poca o nulla rilevanza per il corso degli eventi e le forze come si vengono svolgendo nel mondo. Una teologia orientata all’azione invece passa in rassegna le forze che operano in una determinata situazione, pensa in termini di scopi, strategie, tattiche, guadagni e rischi, tempi e alleanze. Cose tutte che richiedono abilità diverse da quelle dei teologi puramente accademici 27.

Essendo le situazioni socioculturali diverse nel tempo e nello spazio, ciò che viene richiesto alla teologia è la sua contestualizzazione, ossia cercare di ‘incarnare’ un valore universale in un contesto particolare: si deve superare la pretesa di universalità di una teologia chiaramente elaborata in un contesto storico occidentale, cercando piuttosto di far parlare ogni singolo contesto fino ad arrivare a contestualizzare la teologia non solo in una particolare nazione, ma anche in un preciso gruppo etnico o situazione sociale (caste, donne, ambiente, etc.). Con questo non si vuole prospettare una frammentazione del discorso teologico fine a se stesso, ove i singoli contesti sono delle monadi autoconcludenti: Balasuriya propone infatti la creazione di un sistema più vasto in grado di far dialogare fra loro tutti i singoli contesti. È questa la teologia planetaria, come recita il titolo del libro, intesa come una teologia globale che nasce dalla intera27 Balasuriya 1986: 16. Sarà bene ricordare, in relazione a quest’ultima affermazione, che Tissa Balasuriya prima di laurearsi in teologia alla Gregoriana aveva conseguito la laurea in economia e scienze agricole all’università di Oxford.

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zione dei singoli contesti, una teologia globale che vada oltre la pretesa universalistica della teologia ‘romana’ proponendo un paradigma che invece di essere un prodotto storico della riflessione occidentale risulti essere il prodotto del continuo scambio fra i molteplici codici di senso elaborati nei più svariati contesti: Il rifiuto dei falsi universalismi del passato non ci dovrebbe distogliere dal tentativo di enucleare le grandi linee generali di una teologia realmente universale, fondata sugli elementi basilari della condizione umana e sulla situazione mondiale generale. Una tale teologia riconoscerebbe le implicazioni globali di molti dei nostri problemi locali o regionali e si comporterebbe di conseguenza 28.

Questa teologia globale non sarà dunque solo un fatto teorico, ma la premessa e la condizione indispensabile per mettere in atto una strategia globale tesa a ottenere un cambiamento sociale 29. Il discorso è completato da Balasuriya con l’affermazione che una teologia planetaria è una teologia che include nel suo codice di senso anche il pianeta Terra stesso, con ciò dando una più vasta dimensione ecologica alla riflessione teologica: “la ricerca umana di senso e di pienezza di vita avviene su questo pianeta, con tutte le sue potenzialità e tutti i suoi limiti. Oggi i destini di tutti i popoli sono intrecciati fra loro e strettamente collegati con il futuro della terra: il suolo, i mari, l’atmosfera e lo spazio oltre l’atmosfera” 30. Oltre il ‘religionismo’ Se la religione si inserisce nel, ed è parte del più ampio contesto socio-economico, ne consegue la necessità di un’analisi attenta di que28

Balasuriya 1986: 23. Viene istintivo un confronto con il ‘progetto per un’etica mondiale’ di H. Küng. Cfr. Küng 1991. 30 Balasuriya 1986: 23. 29

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st’ultimo: ciò che Balasuriya porta avanti per circa metà della sua opera. L’analisi (datata, in quanto si prende in considerazione la situazione planetaria agli inizi degli anni Ottanta del XX secolo) è il passo necessario per contestualizzare il discorso soprattutto alla luce della specifica situazione dell’Asia, parte di quel Terzo Mondo che “ha pagato molto a lungo il prezzo della prosperità del Primo Mondo” 31: è in Asia che si trova oltre l’80% dei poveri del pianeta. Da una lettura effettuata soprattutto in termini economici Balasuriya trae la necessità di un nuovo ordine mondiale, che può essere raggiunto grazie a diverse strategie fra le quali include anche la religione: portando avanti una linea di pensiero le cui tracce abbiamo già trovato in Gandhi, anche il teologo cingalese parla della necessità della “valutazione della religione come forza sociale” 32. Affinchè una religione sia veramente efficace, tuttavia, è necessario che si liberi dal suo ‘religionismo’: con questo termine Balasuriya intende la pretesa di una religione di essere superiore alle altre. Il religionismo è tanto più forte quanto più una religione è legata in maniera esclusivista a una cultura, a una ideologia, a una etnia, con la conseguenza che “le altre religioni vengono considerate sue anticipazioni o riflessi parziali e quindi meno importanti” 33, se non semplicemente tollerate o addirittura perseguitate. Nel religionismo la religione tende ad elaborare una spiegazione della salvezza – una soteriologia – nella quale essa abbia un ruolo importante, prioritario o speciale. Essa tende a vedere Dio come il suo protettore speciale, a preferenza delle altre religioni. Essa può credere che i suoi fedeli sono il ‘popolo eletto’, scelto da Dio a preferenza di tutto il resto dell’umanità. Per cui essa si sente spinta a pretendere una sanzione divina speciale per i suoi insegnamenti, le sue decisioni e i suoi atti, sanzione di cui non godono le altre religioni. Essa può pretendere di avere una 31

Balasuriya 1986: 69. Balasuriya 1986: 141. 33 Balasuriya 1986: 144. 32

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OLTRE I CONFINI DELL’INDIA

comprensione superiore di Dio e del piano divino di salvezza. Può considerare i suoi libri sacri come più sacri, più autenticamente ispirati dei libri sacri di altre religioni. Può avere tendenza a guardare dall’alto in basso i leaders spirituali, le tradizioni, il culto e i valori delle altre religioni. Essa può voler organizzare la vita nazionale e il sistema mondiale secondo le sue prospettive 34.

La conseguenza di questo religionismo è che esso traforma la religione in idolatria, in quanto adora una limitata immagine di Dio creata in un particolare contesto socio-culturale, monopolizzando l’Assoluto con la pretesa di ridurlo a quell’immagine contingente. Di qui la necessità da parte di ogni religione di “purificare il contenuto del suo credo incrostato di religionismo” 35. Applicando questo discorso al cristianesimo, ciò significa distinguere al suo interno tra “il messaggio centrale della fede e il suo condizionamento socioculturale” 36. Qual è il messaggio centrale della fede? Balasuriya precisa che “l’essenza del messaggio di Gesù Cristo è un messaggio di liberazione integrale della persona, della società e del mondo nella verità, nell’autenticità, nella giustizia sociale e nella pace” 37. Per riscoprire quell’essenza è necessario “liberare il cristianesimo dalle sue grettezze e da quell’egoismo di gruppo che esso ha spesso manifestato storicamente in molti settori della sua vita” 38, una essenza sempre più ‘abbandonata’ a causa delle interazioni prima coll’impero romano, poi col colonialismo e il capitalismo. È in questo contesto che entrano in gioco l’Asia in generale e l’India in particolare, in quanto la complessa situazione socio-culturale di quelle realtà si può configurare come lo strumento che permette una purificazione del cristianesimo. Il fatto che vi siano meno del 2% di cristiani in Asia testimonia infatti il fallimento di un cristianesimo che non è stato capace 34

Balasuriya 1986: 145. Balasuriya 1986: 146. 36 Balasuriya 1986: 143. 37 Balasuriya 1986: 143. 38 Balasuriya 1986: 143-144. 35

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

di ‘convertirsi’ all’Asia allo stesso modo con il quale si è ‘convertito’ a Roma, alla Grecia e alla cultura europea 39. In altri termini: l’essenza del cristianesimo, per usare il linguaggio di Balasuriya, ha avuto la capacità di inserirsi in un contesto storico e assumerne il linguaggio e la grammatica culturale; poi quella vitalità si è (oppure: è stata) fermata e cristalizzata in una forma, quella occidentale, impedendole in virtù del proprio religionismo di contestualizzarsi, in senso reale e profondo, altrove; una contestualizzazione che “in India e Sri Lanka” significherebbe accogliere le sfide legate “ai problemi della giustizia socioeconomica e del dialogo religioso e culturale, cercando di far convergere questi due filoni alla ricerca di un approccio più integrale alla liberazione” 40. Nel cristianesimo questo potrà attuarsi quando si passerà da un ecclesiocentrismo a un regnocentrismo, in ciò seguendo l’insegnamento di Cristo – che parlava spesso di Regno di Dio e quasi mai (Balasuriya cita solo due passaggi: Mt. 16,18 e Mt. 18,17) di Chiesa –, che superava “la bigotteria razzista, classista e religiosa, frequentando liberamente peccatori, comprese le donne di cattiva reputazione, pubblicani, zeloti e samaritani. Egli non ha tenuto conto di tradizioni e norme religiose sui cibi, i digiuni, la compagnia a tavola e cose del genere” 41: questa è l’essenza del messaggio liberatore di Cristo, che deve essere contestualizzato in Asia per “promuovere le condizioni per la realizzazione e il pieno svolgimento di tutte le persone e di ognuna di loro in particolare e per un completo sviluppo della natura” 42. La sfida Il discorso di Balasuriya può essere comparato a quello di Kappen: entrambi i teologi sono influenzati dall’analisi marxista della 39

Cfr. Balasuriya 1986: 158 ss. Balasuriya 1986: 20. 41 Balasuriya 1986: 203-204. 42 Balasuriya 1986: 229. 40

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OLTRE I CONFINI DELL’INDIA

realtà e da essa prendono spunti che si riflettono poi sulla teologia; il teologo cingalese arriva addirittura a proporre, come modello di identificazione coi poveri, non solo il Maha\tma Gandhi ma anche Mao Tse-tung, Ho Chi Minh e Lenin 43. Al di là di quelle che possono essere affermazioni legate al contesto degli anni Ottanta del XX secolo, il messaggio centrale di Balasuriya rimane: una seria teologia contestualizzata richiede la capacità di distinguere fra i due livelli, quello dell’essenza del messaggio di Cristo e quello del suo condizionamento socioculturale; il secondo sarà poi valutato – con un criterio che richiama il pensiero di Gandhi – sulla base della sua operatività pratica in una precisa situazione (quella del subcontinente indiano nel nostro caso). La domanda che in un’analisi storico-religiosa ci si pone è tuttavia se sia così pacifico distinguere fra i due livelli, storicizzandone uno e de-storicizzandone l’altro: non è forse l’essenza stessa del messaggio condizionata socioculturalmente? Se Balasuriya fosse andato fino in fondo applicando il metodo storico-religioso, avrebbe problematizzato (e non solo contestualizzato) la stessa essenza del messaggio di Gesù alla luce, poniamo, della realtà palestinese all’epoca della sua predicazione. Il fatto che Balasuriya abbia voluto mantenere ‘inossidabile’ questo nucleo è forse la ragione per la quale Planetary Theology, pur così ricco di provocazioni, ha suscitato meno controversie rispetto a Mary and Human Liberation – testo nel quale si compie più una decostruzione dell’occidentalismo del cattolicesimo che non una vera e propria storicizzazione dell’essenza del messaggio di Cristo 44. Non essendo la nostra una disquisizione teologica, non ci soffermeremo sull’analisi delle proposte giudicate eretiche in Mary and Human 43

Balasuriya 1986: 314. L’Asia sfida il cristianesimo non solo attraverso le sue religioni, ma anche attraverso il ‘suo’ marxismo: ricordiamo che Balasuriya scrisse questo libro nel 1984, quando ancora si poteva sostenere che “circa un terzo della razza umana è sotto regimi marxisti e circa un terzo è cristiano”. Balasuriya 1986: 250. 44 Cfr. Balasuriya 1990.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Liberation 45. Quello che è qualificante per un’analisi storico religiosa è piuttosto l’osservare come il confronto del cristianesimo col mondo asiatico (e con l’induismo in particolare) abbia finito col provocare l’esplosione del cristianesimo come creazione culturale occidentale, facendo sentire la necessità di ripensarlo – o meglio, riscriverlo – in un linguaggio che potesse parlare anche ad altre culture. Il fatto che il tentativo di Balasuriya sia stato oggetto di ‘particolari attenzioni’ da parte della Congregazione per la Dottrina e la Fede indica chiaramente come, nel confronto fra cristianesimo in quanto costruzione occidentale e altre religioni/realtà socioculturali, ciò che avviene non è mai una semplice ‘traduzione’ di una verità occidentale in un’altra ‘lingua’ e in un’altra grammatica, poniamo quelle indiane. Come già visto per S. Kappen e per il circolo ermeneutico della teologia della liberazione, la metodologia che viene utilizzata nell’analisi di un problema non risulta essere neutra, ma viene a riflettersi sul contenuto stesso della realtà, cambiandola a volte in maniera così radicale che sembra non esservi alcun più collegamento fra ciò che si doveva ‘tradurre’ e ciò che è stato ‘tradotto’.

45 Si rimanda alla Notificazione sull’Opera ‘Mary and Human Liberation’ del Padre Tissa Balasuriya (1997), dove vengono analizzate “alcune affermazioni incompatibili con la fede della Chiesa”. Cfr. Ratzinger @ (1997).

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7. LA PROVOCAZIONE DI NUOVI REFERENTI: DALIT, ADIVA | SI, | DONNE E AMBIENTE

L’analisi storico-religiosa ci ha permesso di mettere in luce come la metodologia applicata per ‘tradurre’ il cristianesimo in India corra il rischio di produrre un cristianesimo ‘altro’ da quello comunemente conosciuto. Cosa può accadere, di conseguenza, quando le metodologie della teologia della liberazione e della teologia delle religioni prendono in considerazione il fatto che i Dalit rappresentano il 75% dei cristiani in India? 1 I Dalit sono il quinto gruppo al di fuori delle quattro caste 2 nelle quali è tradizionalmente suddivisa la società indù: i Brahmani (sacer1

Nel 1999 erano il 60%. Secondo il Census of India 1991, i Dalit costituivano il 16,48% dell’intera popolazione indiana (Stanislaus 1999: xxv), percentuale sostanzialmente invariata nel censimento del 2001 (Clarke 2006: 47). I Dalit non sono tuttavia un gruppo omogeneo: l’80% è infatti suddiviso in oltre 900 ja\ti (‘birth-unit’: è l’unità effettiva del sistema castale, il gruppo endogamico nel quale si è nati e nal quale ci si deve sposare) e 600.000 villaggi: “costituiscono differenti gruppi etnici, culturali e linguistici. Hanno distinte caratteristiche regionali. Alcune di queste sono gelosamente custodite e a volte danno origine a conflitti” (Stanislaus 1999: 8). Altri termini per indicare i Dalit sono: Dasa, Dasysu, Raksasa, Asura, Avarna, Nisada, Panchama, Mletcha, Svapaca, Chandala, Achchta, Harijan; in inglese altri termini sono: ‘Exterior Castes, Depressed Classes, Scheduled Castes, Untouchables’; altri termini a livello regionale sono: Chura, Bhangi o Beghi, Mahar, Mala, Paraiyan, Pulayan. 2 Il termine casta venne introdotto dai portoghesi nel XVI secolo, reputandolo il più adatto per indicare quell’istituzione – il sistema castale – il cui scopo era di mantenere la purezza del sangue (cfr. Hutton 1961: 47).

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doti), i Kshatriya (guerrieri), i Vaishya (commercianti) e i Shu\dra (servi) 3. Il termine Dalit (dalla radice sanscrita dal, spezzare) venne coniato da Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956) per indicare le vittime del sistema castale 4; lo spunto per il neologismo venne dal riforma3 L’origine dei Dalit è oggetto di controversia accademica, e due sono le proposte principali: la prima connette l’origine dei Dalit a un discorso razziale, la seconda alla dialettica puro/impuro. Secondo la prima teoria l’origine dei Dalit sarebbe da ricondurre all’invasione degli Ariani, di pelle chiara, che avrebbero sottomesso i nativi (dasa) di carnagione scura: per preservare la propria identità etnica, gli Ariani avrebbero escluso i dasa dal proprio sistema sociale. Alcuni indologi hanno voluto interpretare il sistema dei varna proprio in connessione stretta col significato del termine varna (colore), e dunque in un senso razziale. In questa luce non sono mancate le comparazioni con la situazione statunitense dove un analogo ‘sistema di caste’ produce la discriminazione fra bianchi e neri. Danila Visca rigetta però la comparazione (cfr. Visca 1990: 411), vedendo in quella una chiara elaborazione artificiale di studiosi occidentali: siamo di fronte, cioè, a una ‘invenzione’ degli occidentali che leggendo con proprie categorie (comparazione con la situazione americana) il sistema castale indiano lo hanno equiparato a un razzismo à la Ku Klux Klan: la conclusione inevitabile è che l’induismo, sorgente e giustificazione di questo sistema castale, è una religione razzista, nel senso peggiore del termine. L’altra teoria mette in luce la possibilità che i shu\dra (servi) fossero stati suddivisi in ‘puri’ e ‘impuri’ [la dialettica puro/impuro è solitamente connessa all’esecuzione di lavori impuri (cfr. Leach 1960: 1-10): nel contesto indiano l’impurità è infatti legata all’esercizio di determinate attività ‘contaminanti’, generalmente – ma non esclusivamente – aventi a che fare con la ‘morte’ (quali la macellazione di animali, il trasporto e la cremazione dei cadaveri, ma anche, più semplicemente, la pulizia delle strade) che conferiscono una impurità permanente a chi le esegue], e che poi quelli ‘puri’ furono assorbiti all’interno del sistema delle caste, mentre gli altri lasciati fuori e considerati Panchama (ossia appartenenti al ‘quinto ordine’). Questa sottolineatura di una dialettica puro/impuro trova una parziale giustificazione nel Codice di Manu, secondo il quale i ‘fuori casta’ sarebbero nati dall’impura commistione fra i quattro varna. [Il Codice di Manu indica due gruppi che si trovano al di fuori del sistema dei varna: i vratyas (ossia coloro che non sono passati attraverso i 16 rituali sacramentali) e i Bahya (ossia coloro che sono esclusi dalla comunità). Cfr. Stanislaus 1990: 6]. 4 Cfr. Massey 1994a: 6. Per una panoramica storica sulle radici del fenomeno Dalit, cfr. Massey 1994b: 3-55.

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LA PROVOCAZIONE DI NUOVI REFERENTI: DALIT, A \DIVAS\ I, DONNE E AMBIENTE

tore sociale Maha\tma Jyotirao Phule (1826/7-1890) 5, e raggiunse la popolarità negli anni Settanta del XX secolo grazie al Dalit Panther Movement di Maharashtra 6, movimento che cercò di reagire contro una discriminazione che faceva sì, tra l’altro, che i crimini commessi contro donne Dalit non avessero adeguata giustizia 7. Una visione occidentale della questione Dalit Fino alla prima metà del XX secolo il sistema castale non venne sostanzialmente messo in discussione; fu necessaria la comparsa di due indiani ‘occidentalizzati’, il già citato Dalit Bhimarao Ramiji Ambedkar e il Mahat\ ma Gandhi 8, per dare il via alla critica di un sistema ritenuto fonte di ingiustizie. Ciò è già di per sé degno di nota, come sottolinea D. Visca: i Dalit prendono coscienza della loro situazione come anomala solo quando alcuni indiani, occidentalizzandosi, iniziano a percepirla come anomala. L’avere assorbito dall’Occidente l’idea della fratellanza (in un discorso religioso, nel quale tutti gli uomini sono figli di Dio) o dell’uguaglianza (in un discorso laico, nel quale tutti gli uomini sono parte di un sistema democratico) li rese ‘coscienti’ di quanto ‘peculiare’ fosse la propria condizione di sottomissione ed emarginazione. L’influenza occidentale non si fermò a una generica riprovazione, perché at5

Mahat\ ma Jotiba Phule, come a volte è trascritto il nome, lo utilizzò per descrivere gli intoccabili come ‘vittime spezzate’ dal sistema delle caste (cfr. Zelliot 1992: 271). 6 Cfr. Joshi 1986: 141-147. 7 Si consideri anche questa notizia riportata dalla rivista The week il 20 agosto 1995: “Dhanam, a Dalit girl studying in the first standard, suffered damage in her right eye when her teacher beat her for drinking water from a utensil meant for upper caste students. This incident occurred in a school in Salem, Tamilnadu”. 8 Gandhi coniò per gli ‘intoccabili’ il termine harijan: “figli di Dio”. D. Visca osserva l’ironia della scelta di Gandhi: figlio di Dio non ha in India il valore religioso che ha per l’Occidente: indica il figlio di padre ignoto. Non sorprende dunque che il termine harijan non sia apprezzato dagli stessi Dalit (cfr. Visca 1990: 416).

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tribuendo all’induismo la responsabilità del sistema castale (“secondo le leggi religiose Indù”, sostiene L. Stanislaus, “non avevano diritto di proprietà, di istruzione, di lamentela, ma solo di servire le caste superiori”) 9 ne conseguì una rivolta contro l’induismo stesso 10. Questa connessione fra ‘induismo’ e sistema castale venne studiata, fra gli altri, da Louis Dumont nella sua analisi delle divinità Aiyanar e Karuppan. Il primo è il dio della casta alta che domina sul secondo, dio dei fuori-casta 11: “Aiyanar e Karuppan sono come padrone e servo” 12 scrive Dumont, e giustifica la sua affermazione mostrando come il primo sia un dio vegetariano e il secondo carnivoro, ma soprattutto come il primo sia un dio ‘puro’ e l’altro un dio ‘nero’. Lo studioso prosegue la sua analisi sostenendo che non solo nella sua realtà presente questa dualità religiosa riflette il sistema castale: anche la sua genesi deve essere fatta risalire al sistema castale, in quanto effetto di un “imperialismo brahmanico sopra dèi, culti e rituali di casta inferiore” 13. Rimandando alla teoria dell’invasione degli indo-ariani come spiegazione per l’origine del sistema castale, Dumont sostiene che quelli, ri9

Stanislaus 1999: 9. Nell’utilizzo di questa terminologia, tuttavia, già si comprende e si intuisce una matrice occidentale, come si comprende e si intuisce una matrice occidentale nell’impostazione dell’intera questione Dalit. Di fatto, osserva D. Visca, considerare gli intoccabili come discriminati e penalizzati dal sistema religioso e sociale dell’India è una ‘invenzione’ frutto di “valori occidentali e nel negletto della cultura che le ha espresse” (Visca 1990: 424). Infatti nella cultura religiosa indiana, fortemente gerarchica, “non fa problema chi sta in alto e chi sta in basso: piuttosto fa problema l’uguaglianza, non la differenza – tant’è vero che questa viene riproposta e ristabilita, all’interno di ciascuna casta, mediante la creazione di innumerevoli sotto-caste” (Visca 1990: 424, dove tra l’altro si precisa che questa è un’ottica storico-culturale, che non vuole essere espressione di un giudizio sociale). Sul tema cfr. anche Dumont 1991. 11 Cfr. Dumont 1986: 120 ss. 12 Dumont 1986: 122. 13 Ayrookuzhiel 1986: 180. Dumont puntualizza come il termine aiyar, da cui Aiyanar, è il nome più comune del brahmano. Cfr. Dumont 1986: 123. 10

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fiutandosi di integrare nel loro sistema sociale la cultura aborigena, la resero culturalmente subordinata: in tutta la speculazione successiva Aiyanar rimase così “il Signore come dio di alta casta che comanda dèi di bassa casta. È anzi il dio di alta casta per eccellenza, poichè è insieme il dio puro più in generale che comanda gli dèi impuri e il dio regale che comanda gli dèi sudditi” 14. Un analogo rapporto fra i brahmani e il sistema castale è sottolineato da A. Ayrookuzhiel: queste antiche credenze e pratiche primordiali sono state subordinate in un sistema gerarchico presieduto dai brahmani, che sosteneva l’economia semifeudale del villaggio e gli interessi di potere dei gruppi dominanti. L’ordine nelle processioni, con la rigida regolamentazione dei differenti tipi di offerte per i differenti gruppi di casta, funzioni e lavori assegnati tradizionalmente, il controllo sugli Holeya e i Madiga [n.d.t.: così sono chiamati i Dalit della regione di Bangalore] da parte del sistema rituale dominante dei brahmani e, soprattutto, la loro esclusione dai templi (Devastanam) degli indù di casta, mostrano che il sistema cultural-religioso è al servizio degli interessi dei gruppi dominanti. In altre parole, qui la religione è semplicemente l’ideologia dei gruppi dominanti, dal momento che è un’espressione culturale del potere 15.

Da queste riflessioni consegue che “è abbastanza certo che all’origine di questo gruppo [i.e. i Dalit] vi sia una ragione di natura economica da connettersi a quel tipo di società; più tardi a tutto ciò fu data una legittimazione sociale e religiosa. Ma resta il fatto che i Dalit occupano il livello più basso del sistema castale” 16. La conclusione è che “la religione divenne un comodo strumento per legittimare questo sistema di sfruttamente e farlo accettare agli altri senza proteste” 17. Ne deriva un postulato ancor più radicale, ossia che l’emancipazione dei Dalit è inseparabile dal regresso dell’induismo ‘ufficiale’: non vi può essere 14

Dumont 1986: 126. Ayrookuzhiel 1985: 22. 16 Stanislaus 1999: 7. 17 Kannaikil 1993: 30. 15

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emancipazione dei Dalit senza una rivolta contro la religione che produce siffatti squilibri. Tale rivolta più che in un abbandono della religione in quanto tale (anche se esistono Dalit che hanno abbracciato il marxismo), si è espressa nella conversione ad altre tradizioni spirituali – quali islam, sikhismo, cristianesimo e buddhismo – nelle quali era possibile trovare la possibilità di un riscatto, soprattutto sociale. L’avvicinamento al cristianesimo dei Dalit non deve dunque essere visto come un fatto isolato: i fuori-casta si sono ‘aggrappati’ a chiunque potesse loro fornire una via d’uscita e il cristianesimo, almeno nei suoi principi teorici, sembrava offrire questa possibilità. Come scritto a chiare lettere nello Statement on Caste della Catholic Bishop’s Conference of India: “la casta, con i suoi effetti di discriminazione e ‘mentalità di casta’ non ha posto nel cristianesimo. Anzi, è una negazione del cristianesimo perché è disumana” 18. I Dalit e il cristianesimo La conversione dei Dalit al cristianesimo non significò però un’automatica fine della loro discriminazione: i Dalit infatti continuarono a essere trattati come ‘intoccabili’ dai cristiani non-Dalit 19. Un esempio fra tutti: attorno alla metà del XIX secolo si registrò l’opposizione di diversi cattolici di casta alla creazione di un unico refettorio per tutti i seminaristi, anche per quelli fuori-casta, “sulla base che stare insieme avrebbe significato la contaminazione dei seminaristi di casta” 20. Fu soprattutto il permanere della discriminazione dei Dalit all’interno dello stesso cristianesimo che spinse all’elaborazione di una teologia della li18

CBCI 1982: 45. Cfr. Stanislaus 1999: xxvii. Naturalmente, vi sarebbe da domandarsi se la conversione al cristianesimo di indù di altre caste abbia significato, per loro, la fine di ogni genere di discriminazioni o piuttosto la nascita di nuove forme di discriminazioni. 20 Stanislaus 1999: 109. 19

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berazione ove gli ‘intoccabili’ assumessero il ruolo di protagonisti. M. E. Prabhakar, tra i più noti esponenti della teologia della liberazione dalit, individua una delle cause principali della nascita di questa particolare riflessione teologica nella massiccia conversione dei Dalit dal cristianesimo all’induismo (oppure all’islam), in segno di protesta contro l’ineguaglianza e la discriminazione subita nelle Chiese cristiane: insopportabile era lo scarto fra la retorica cristiana (che parlava di fratellanza e uguaglianza) e la realtà alla quale erano sottoposti (nelle chiese, ad esempio, i Dalit e i non-Dalit sedevano separatamente) 21. Oltre a spingere a una riflessione critica interna al cristianesimo, questa particolare teologia della liberazione si pose subito come meta un progetto ambizioso: “scopo della liberazione è l’abolizione del sistema castale” 22, il che non può realizzarsi solo in virtù di una disquisizione teorica, ma soprattutto mediante una prassi ben precisa. Questa “prassi dei Dalit per la loro liberazione nel contesto indiano” 23, questa “teologia del rifiuto” 24, viene così qualificata da Prabhakar: Il punto di partenza per una teologia dalit è la liberazione dei Dalit dalla loro schiavitù socio-economica e politica. Non è solo una teologia profetica di identificazione con l’oppressione dei Dalit e la loro lotta per uguaglianza e giustizia, ma anche una teologia politica per un’azione sociale che mira a trasformare una struttura ingiusta, non democratica e oppressiva. È fare teologia nel contesto dei sofferenti e delle lotte dei Dalit: ciò attraverso il dialogo, una riflessione critica e un’azione decisa per costruire una nuovo ordine di vita 25.

Questo programma si è tradotto in una posizione esclusivista: se il punto di partenza è la sofferenza dei Dalit, solo loro possono essere il 21

Cfr. Prabhakar 1994: 202 ss. Stanislaus 1999: 182. 23 Demel 1990: 47. 24 Clarke 2006: 56-57. 25 Prabhakar 1988: 45. Corsivo nel testo. 22

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soggetto e l’oggetto di questa teologia, per cui è da rigettare ogni contributo esterno: la teologia dalit è “una teologia di Dalit, dai Dalit, per i Dalit” 26. Questo esclusivismo significa fare divenire tutto ciò che concerne i Dalit il locus theologiae: non solo la loro situazione socio-economica, ma anche le loro tradizioni popolari, le loro storie, le loro canzoni. Si comprende, alla luce di queste riflessioni, la rivolta della teologia della liberazione dalit contro quei tentativi di inculturazione del cristianesimo che hanno preso come referente unico l’induismo dei brahmani, dei quali sono stati esempio i tentavi di coniugare il cristianesimo o col jña\na ma\rga, o col bhakti ma\rga o col karma ma\rga o, in tempi più moderni, il tentativo di Chenchiah di elaborare una sintesi fra il cristianesimo e lo yoga integrale di Aurobindo. Per quanto apprezzabili come tentativi di inculturazione, questi esperimenti sono costruzioni élitarie, senza alcuna utilità per le grandi masse. Commenta il teologo Arvin P. Nirmal, La teologia cristiana indiana nel passato ha cercato di elaborare i suoi sistemi teologici nei termini o dell’Advaita Veda\nta o del Vishista Advaita. In passato la maggior parte dei contributi alla teologia cristiana indiana venivano da convertiti cristiani che appartenevano a caste (superiori). Il risultato è stato che la teologia cristiana indiana ha continuato a perpetuare al suo interno quella che io preferisco chiamare la tradizione brahmanica 27.

Questa “ossessione della tradizione cristiana per la tradizione brahmanica” 28 ha portato a svalutare le tradizioni popolari, oltre che a trascurare un ingiusto sistema sociale – causa delle sofferenze dei Dalit – il quale non poteva essere affrontato con gli stessi strumenti della teologia della liberazione latino-americana, che aveva assunto come strumento metodologico l’analisi marxista della realtà. Il marxismo infatti 26

Prabhakar 1988: 43. Corsivo nel testo. Nirmal 1991a: 55. 28 Nirmal 1991a: 55. 27

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non aveva preso in considerazione il problema delle caste, nodo centrale per una teologia della liberazione dalit, e dunque aveva poco da dire per il contesto indiano: “l’idea di casta, come pure i suoi aspetti morfologici, la natura dell’oppressione e le disuguaglianze perpetuate da quel sistema, la sua persistenza attraverso l’interazione di fattori sociali, culturali, religiosi e economici rimase trascurata nell’analisi marxiana” 29. Se dunque si rigetta la tradizione brahmanica come ‘referente inculturante’ e si accoglie solo in parte la riflessione marxista, come procedere per elaborare una teologia della liberazione che sia specificamente dalit? Per una teologia della liberazione dalit Nirmal anzitutto precisa che la filosofia, ancella principale della riflessione teologica, deve cedere il posto all’analisi sociologica: non si tratta di costruire dei sistemi logici che possano creare compatibilità fra i dogmi cristiani e le intuizioni di Shankara, ma di agire sull’illogicità della realtà nella quale i Dalit vivono e soffrono. Non si tratta cioè di scoprire la verità (movimento verticale: la rivelazione scende dall’alto con cristallina chiarezza), ma di costruire degli strumenti che i Dalit possono utilizzare nella loro lotta per la liberazione (movimento orizzontale: le rivelazioni sono nella realtà quotidiana oscura e contradditoria) 30. La priorità deve essere data non alla teoria, ma al pathos: il nucleo dell’esperienza dei Dalit è infatti la loro sofferenza e il loro dolore, che dunque devono essere il punto di partenza di una teologia dalit; ed essendo questa la loro sofferenza, viene ribadito il principio metodologico dell’esclusivismo: solo i Dalit possono costruire una teologia dalit perché solo loro vivono la sofferenza dei Dalit. I non-Dalit possono al massimo provare empatia per la sofferenza dei Dalit o essere simpateti29 30

Chatterji 1988: 24. Cfr. Nirmal 1991b: 140.

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ci con la loro lotta di liberazione, ma non attori principali di questa peculiare prassi liberatrice. Questo esclusivismo deve essere difeso a tutti i costi, sostiene Nirmal, perché la “tendenza di tutte le tradizioni dominanti – culturali o teologiche – è di accomodare, includere, assimilare e alla fine conquistare le altre” 31: aprire la teologia della liberazione dalit ad altre esperienze significherebbe il suo assorbimento e in ultima analisi la sua dissoluzione. Da queste premesse ne consegue la trasformazione del Dio trinitario cristiano in un Dalit: “Dio è un Dio Dalit, un Dio servo, che non crea altri per fare lavori servili, ma che fa lui stesso il lavoro servile” 32; il figlio Gesù Cristo ha condiviso il destino di tutti i Dalit: stando a contatto con gli impuri, prostitute e pubblicani, ha subito il disprezzo da parte delle caste alte: “è nato come un Dalit e muore come un Dalit” 33; lo Spirito Santo, infine, apre l’intelletto dei Dalit rendendoli in grado “di riconoscere il loro essere-dalit (dalitness) e pure l’essere-dalit di Gesù di Nazareth e l’essere-dalit del Padre” 34. Se il Dio trinitario cristiano è Dalit, ne consegue da un lato l’accusa esplicita alla tradizione spirituale induista: “la storia dei Dalit mostra poca o addirittura nessuna evidenza dell’amore di Dio, del suo interesse per loro, della sua giustizia, presenza o esistenza. I fuori-casta dell’India, privati di tutto, non hanno conosciuto un dio che è sat-cit-an\ anda, che è buono, cosciente, o fonte di benessere, che è veritiero, o si dà pensiero per loro, o fonte di speranza” 35. Dall’altro, si ha l’esaltazione della lotta rivoluzionaria di Cristo: Una gran parte del servizio di Gesù è in funzione dell’abolizione di dèi avversi all’uomo, tutti quei mostri che sono più interessati ad avere per se stessi magnifici templi, con un sacerdozio elaborato e sacrifici costosi, piuttosto che 31

Nirmal 1991a: 58-59. Stanislaus 1999: 188. 33 Stanislaus 1999: 253. 34 Stanislaus 1999: 188. Cfr. anche Nirmal 1991a: 69-70. 35 Rayan 1981: 228. 32

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alla difficile situazione degli schiavi, alla dignità dei fuori-casta, alla terra per i senza-terra, al cibo e alla tenerezza per i bambini, e alla speranza di un futuro più umano per tutti 36.

La riflessione assume una dimensione escatologica nel momento in cui pone al centro della speranza dei Dalit il Regno di Dio, “la più grande visione che il mondo abbia mai conosciuto” 37: la teologia della liberazione dalit è una teologia regnocentrica, piuttosto che cristocentrica o teocentrica: la trasformazione della realtà conseguente al riconoscimento della dalitness del Dio cristiano implicherà infatti la creazione di un giusto ordine sociale. Il paradigma da utilizzare per elaborare la prassi liberatrice non è dunque solo il Dio Dalit che soffre sulla croce ma anche, come sottolinea G. Soares-Prabhu, la ‘table-fellowship’ di Gesù 38: invitando a cena gli ‘intoccabili’ della sua epoca, Gesù diviene il modello di un rivoluzionario che rifiuta e disobbedisce alle norme di purezza che discriminano gli uomini. Il Regno di Dio raggiunge tutti, indipendentemente dal loro status sociale; anzi: “queste differenze di stato sociale non solo diventano irrilevanti, ma devono anche sparire nella nuova comunità del Regno di Dio” 39. In quest’ottica i Dalit diventano i promotori, i veri realizzatori del Regno di Dio: tutti sono chiamati a parteciparvi, ma gli ‘intoccabili’ hanno il compito storico di realizzarlo attraverso la distruzione di un sistema ingiusto. La critica Superando così la ‘fissazione’ della teologia cristiana indiana con la tradizione dei brahmani, la teologia della liberazione dalit viene a porta36

Rayan 1981: 228. Fuellenbach 1995: 15. 38 Cfr. Soares-Prabhu 1992: 140-159; cfr. anche Amaladoss 1994: 110-112. 39 Amaladoss 1997: 43. 37

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re il discorso a dei confini tali che è lecito chiedersi quanto di cristiano in essa rimanga. La risposta di Nirmal è ambigua: “è lo stesso essere Dalit che è ‘cristiano’ nella teologia dalit” 40. Il protagonista del cristianesimo sembra ridursi – proprio in virtù dell’esclusivismo metodologico – al solo Dalit, e al tempo stesso il cristianesimo ‘ufficiale’ non viene considerato ‘vero’ cristianesimo in quanto indifferente alle sofferenze dei Dalit. La teologia della liberazione dalit, in altri termini, viene a trasformare il cristianesimo in una ideologia dei Dalit, e con questa ideologia viene a re-interpretare il cristianesimo in termini Dalit: il cristianesimo diventa, se mi si passa l’espressione, un dalit-esimo al cui interno Cristo è solo un esempio di Dalit; radicalizzando il discorso dalit, la specificità cristiana sembra perdersi: il dogma trinitario e quello dell’incarnazione, tanto per fare un paio di esempi, hanno un valore più funzionale che dogmatico. In altri termini: è la categoria ‘dalit’ che serve per leggere e interpretare Gesù, e non viceversa: l’ottica nella quale viene letta la figura storica di Gesù non è cioè la filosofia tomista, o al limite le riflessioni di Shankara; è piuttosto la realtà socio-economica dei Dalit dalla quale solo i Dalit possono attingere per elaborare una riflessione dalit. Certo, all’esclusivismo metodologico di Nirmal rispondono posizioni più dialogiche: il teologo indiano M. Amaladoss, tanto per iniziare, contesta l’affermazione che il Dio trinitario ‘dalit’ sia esclusivamente per i Dalit: come la teologia della liberazione latino-americana insegna, l’opzione di Dio per i poveri è ‘preferenziale’, non esclusiva. Inoltre se si vuole veramente cambiare la struttura di un’intera società è necessario un dialogo fra tutte le sue parti costituenti, piuttosto che la lotta di una sua parte contro tutte le altre 41: “I Dalit devono avere un ruolo in questa trasformazione, sfidando profeticamente i loro oppressori, e non ritirandosi in sé stessi considerandosi i prescelti di Dio” 42. John Webster, da parte 40

Nirmal 1991a: 58-59. Cfr. Amaladoss 1994: 100 ss. 42 Amaladoss 1994: 44. 41

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sua, ricorda la necessità di non tagliare totalmente i ponti con la teologia cristiana ‘ufficiale’ nella quale, nonostante tutto, sono stati cresciuti ed educati i Dalit: il rischio è di creare una teologia ‘unchristian’ 43 che non è più comprensibile agli stessi Dalit. Timothy Tennent fa notare come l’opposizione alla filosofia dei brahmani abbia portato la teologia dalit troppo lontano dalla tradizione del suo suolo natio, perdendo di vista il fatto che sono esistite molte voci di dissenso nella storia dell’India: il buddhismo ne è il caso più noto. Il suo suggerimento è che si potrebbe attingere (quasi un allearsi) a queste ‘tradizioni di dissenso’ per elaborare una più complessa teologia dalit 44. Questo discorso è fatto proprio dal già citato Amaladoss, il quale ricorda come Buddha abbia proposto una via di liberazione che è percorribile indifferentemente dalla casta di appartenenza, e come i vari rappresentanti del movimento bhakti abbiano continuamente protestato contro il sistema castale 45. Il dibattito è ampliato da K. Wilson: esistono, oltre a Dalit cristiani, anche Dalit marxisti, buddhisti, indù, per cui il punto di partenza non dovrebbe essere strettamente cristiano (e tantomeno esclusivamente Dalit), ma più genericamente ‘umano’: “la realtà rivela che il vero problema dei Dalit non è la casta, ma il loro diritto a essere uomini sul proprio suolo natio [...]. Quella dei Dalit deve essere affrontata come la questione della mutabilità di una condizione umana che può essere cambiata, e certamente non come una questione di casta [...]. È diritto di ogni essere umano vivere in una condizione degna della sua umanità” 46. Si tratta, insomma, di una lotta più vasta per l’affermazione di elementari diritti umani, per cui l’appello di Wilson diventa ancora più esplicito: Il bisogno immediato dei Dalit, ora, è di mettere da parte il problema della casta e portare avanti la questione dei diritti umani, ossia, il proprio diritto di es43

Cfr. Webster 1994: 242-243. Cfr. Tennent 1997: 178 ss. 45 Cfr. Amaladoss 1997: 34-35. 46 Wilson 1994: 270. 44

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sere uomini. Il regno di Dio che è dentro ogni essere umano deve essere portato fuori. Questo svelamento è il compito dei teologi cristiani di fronte ai Dalit 47.

Per concludere: se, come scrive D. Visca, prendiamo atto che nonostante “l’occidentalizzazione” dell’India e delle sue leggi (e potremmo aggiungere: nonostante l’influenza del cristianesimo sui riformatori neo-induisti e sugli intellettuali indiani), gli intoccabili rimangono intoccabili, non possiamo non riconoscere in ciò una prova della “inefficacia degli strumenti occidentali nella lotta a questi fenomeni culturali extra-europei”, o, ancor di più, vedere nella permanenza del sistema castale “una spia della inconciliabilità di fondo dei rispettivi sistemi” 48. Viene così spontaneo domandare se, da un punto di vista storico-religioso, anche la stessa teologia della liberazione dalit non sia un altro di questi ‘inefficaci strumenti occidentali’, che nelle sue critiche e nelle sue elaborazioni marcatamente occidentali viene a mostrare la “inconciliabilità di fondo dei rispettivi sistemi”. Quanto un progetto come questo, che mira a chiare lettere a distruggere il sistema sociale-religioso indù 49 e finisce per identificare non solo Gesù Cristo ma l’intera Trinità coi Dalit e la loro causa, può esser accettato dagli indù? E quanto può essere un metro per creare un sistema di compatibilità con l’induismo? Non sarà piuttosto foriero, nel suo radicalismo ed esclusivismo, di un rinnovato fondamentalismo per il quale Cristo e il cristianesimo sono solo strumenti per la rivolta e il riscatto sociale? L’impressione che rimane, alla fine, è che i teologi della liberazione Dalit, più che cercare di inculturare il cristianesimo, abbiano cercato di strumentalizzarlo: è lo stesso pericolo e la stessa impressione che si ricava dalla lettura della teologia della liberazione applicata al contesto dei tribali (Adiva | \si) in India. 47

Wilson 1994: 274. Visca 1990: 425. 49 Cfr. ad esempio questa affermazione: “Gesù scelse di esser un fuoricasta per risvegliare gli oppressi al fatto che sfidava l’ordine sociale costituito”. Stanislaus 1999: 253. 48

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Gli Adiva | \si In una prospettiva storico-religiosa, la riflessione sulla teologia della liberazione dalit è stata l’occasione per prendere atto di come l’incontro con la realtà indiana abbia portato la riflessione del cristianesimo al di là dei confini del c.d. ‘induismo dei brahmani’. Nel confronto fra cristianesimo e induismo, cioè, si è sentita la necessità di spingersi oltre le riflessioni che prendevano spunto dalle intuizioni di Shankara e Ra\ma\nuja, per accogliere anche quelle di tradizioni solitamente marginalizzate. Fra queste, nel complesso panorama indiano, troviamo non solo i Dalit ma anche quelle dei gruppi aborigeni indiani, generalmente indicati con il termine Adiva | \si. Secondo il censimento del 1981, le ‘Scheduled Tribes’ (così vengono definiti dal governo indiano i gruppi indigeni) rappresentavano il 7,76% dell’intera popolazione, percentuale suddivisa fra 461 ‘communities’ che comprendevano anche 174 ‘sub-tribes’. Il più recente censimento del 2001 ha registrato una percentuale più alta: lo 8,10% 50. L’aspetto più interessante in questo discorso classificatorio è che all’interno di queste ‘scheduled tribes’ sono stati individuati dal governo indiano diversi ‘strati’, quello più basso occupato dalle c.d. ‘primitive tribes’ 51. Nel 1993 erano 74, con differenze notevoli: numeriche (si passa ad esempio dagli oltre sette milioni di Bhil ai 42 membri dei Grandi Andamanesi), razziali (dagli appartenenti al gruppo proto-australoide agli appartenenti al gruppo mongoloide), linguistiche (dalle austroasiatiche a quelle che risentono di influssi cinesi o tibetani), sociali (dalla poliandria alla poliginia, dal sistema matrilineare al patrilineare) ed economiche (da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori o allevatori). Geograficamente, la maggior parte dei gruppi etnici si trova nel50

Clarke 2006: 45, nota 2. Così considerate perché rispondono ad alcuni criteri come l’avere una popolazione in fase di declino demografico e un’economia pre-agricola. 51

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l’India nord-orientale (comunemente conosciuta col nome di Assam), zona di confine con la Cina e il Sudest asiatico continentale. Dal punto di vista religioso, nota U. Mondini, si è assistito invece alla consueta riduzione classificatoria di tutte le ‘religioni tribali’ all’animism oppure al soul worship, senza alcuna considerazione delle caratteristiche peculiari di ciascuna tradizione 52. La forte divisione esistente fra i vari gruppi indigeni, come ci ricorda S. Fuchs 53, ha reso per lungo tempo problematica la difesa dei loro diritti, anche se nel corso degli ultimi due secoli non sono mancati movimenti di ribellione tribale. Ai fini del nostro discorso sarà sufficiente presentare due casi paradigmatici: quello dei Munda e quello del Naga. I Munda sono una tribù del Chotanagpur, protagonisti di una serie di rivolte contro l’amministrazione inglese già a partire dal 1789: privati delle loro terre e sfruttati dai nuovi padroni stranieri, non trovarono altra via per difendersi che la rivolta armata. Presa coscienza delle conseguenze delle continue sconfitte – la superiorità tecnologica e militare degli inglesi era palese –, a partire dalla metà dell’Ottocento iniziarono a convertirsi al cristianesimo: la speranza dei Munda era che, adottando la religione dei dominatori, potessero essere trattati con più rispetto e soprattutto essere aiutati dai missionari cristiani – spesso critici nei confronti dei propri governi di origine – nella difesa dei propri diritti 54. La ‘vera rinascita’ dei Munda avvenne però nel 1895, quando apparve sulla scena politica un giovane leader carismatico chiamato 52

Le informazioni sulle ‘scheduled tribes’ sono tratte da Mondini 2002. “Non esistono praticamente contatti fra i vari gruppi tribali, neppure a livello regionale, e certamente non a livello nazionale”. Fuchs 1986: 199. 54 “Nel Chotanagpur furono dei missionari cattolici, i padri C. Lievens e J. Hoffmann che un secolo fa fecero propria la lotta a favore dei tribali, difendendoli in corte contro i proprietari terrieri e i ‘finanziatori’, convincendo la potenza coloniale britannica che una più equa amministrazione della terra era necessaria. Padre Hoffman fondò anche una banca cooperativa che fu di grande aiuto per i tribali, e che ancora esiste”. Fuchs 1986: 216-217. 53

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Birsa (1875-1900): strenuo difendore della sua gente, Birsa “era tanto contro i diku [i.e. gli ‘outsiders’, coloro che non sono tribali] Indù e Musulmani quanto contro i Britannici” 55; per difendere i diritti dei Munda, Birsa individuò il ‘nemico’ non solo nel cristianesimo dei dominatori stranieri, ma anche nell’induismo della cultura ufficiale indiana e nell’islam. Birsa si sentiva investito da una missione divina: Dio l’aveva scelto per guidare i Munda alla libertà, contro ogni sfruttamento da parte dei diku; per questo elaborò una religione nel cui messaggio, paradossalmente, i ‘puri’ elementi tribali si fusero anche con ‘impure’ suggestioni cristiane e indù. Nel 1898 vi fu una sanguinosa battaglia contro gli inglesi, i quali sconfissero i Munda e fecero prigioniero Birsa, che morì in prigione. Negli anni successivi molti Munda – insieme a membri di altri gruppi indigeni – per difendere la propria identità e i propri diritti si associarono al Jharkhand Movement: il movimento prospettava la creazione di uno stato del quale sarebbero stati ‘cittadini’ i soli tribali dello stato di Jharkhand, senza le interferenze dei diku. Dopo una serie di difficoltà all’indomani dell’indipendenza dell’India, il Jharkhand trovò nuova vitalità negli anni Settanta con la nascita (nel 1973) del Jharkhand Mukti Morcha, il quale fu attivo nell’opposizione ad alcuni progetti, soprattutto governativi, che distruggevano il tradizionale sistema di vita indigeno. Il Jharkhand dette infatti “inizio a una battaglia contro la burocrazia e i prestiti finanziari, s’oppose alla costruzione di dighe e allo sfruttamento commerciale della foresta” 56; opposizione, va da sé, non gradita dal governo indiano. Un secondo caso di ribellione tribale è quello che ha per protagoniste le regioni nord-orientali dell’India – terre di migrazioni di tribù dal Myanmar e dal Tibet – ove la situazione si deteriorò rapidamente quando gli inglesi iniziarono a sviluppare piantagioni di indigo e tè. Questo provocò un massiccio afflusso di lavoratori diku che si impossessarono 55 56

Fuchs 1986: 206 Fuchs 1986: 207.

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delle terre dei tribali, assumendo poi il controllo politico e burocratico della regione. Anche se vi furono tribali che, alla ricerca di un miglioramento sociale contro questi soprusi, cercarono di ‘entrare’ nell’induismo (dove furono accolti come shud\ ra o come ‘intoccabili’) 57 o di collaborare con la causa comunista 58, la maggior parte di essi abbracciò il cristianesimo con la conseguenza che “le colline, che non furono mai induizzate, sono oggi principalmente cristiane, con il Mizoram e il Nagaland costituiti per circa l’80% da Cristiani; il Meghalaya pure ha una vasta popolazione cristiana” 59. Di qui la grande importanza che venne (e viene) ad assumere il cristianesimo in queste regioni di confine: In ogni caso è chiaro che l’insurrezione portata avanti dai movimenti Naga in India, come i comparabili movimenti indipendentisti Chin e Karen nel Myanmar, hanno in parte una base ideologica cristiana. Fin dall’inizio il cristianesimo venne visto come il cemento che avrebbe unito le varie sotto-tribù Naga. Era dunque un fattore costitutivo della loro identità Naga, in contrasto con quanto veniva considerato come il neo-colonialismo dell’India Indù 60. 57

Cfr. Fuchs 1986: 216. Diversi movimenti di ispirazione comunista si infiltrarono nei gruppi tribali, sfruttandone il malcontento per incitarli alla rivolta contro il governo centrale. 59 Parratt @ (n/a). 60 Parratt @ (n/a). Non è casuale parlare di ‘neo-colonialismo’: non va infatti dimenticato che l’attuale conformazione politica dell’India non è stata ereditata dall’impero britannico. Circa 2/5 del territorio è divenuto parte dell’Unione Indiana solo attraverso negoziazioni, spesso ‘sostenute’ da dimostrazioni di forza: è questo il caso di terre note – quali Hyderabad, Kashmir e Goa –, e meno note quali le regioni del nord-est dell’India: solo Assam era amministrata dai britannici, mentre le aree tribali delle Naga Hills (che sono il nucleo dell’attuale Nagaland), Lushai Hills (ora Mizoram), e NEFA (ora Arunachal Pradesh) erano solo ‘loosely administered’ dai britannici. Si comprende la seguente critica: “la pretesa che l’India sia unificata da una tradizione culturale Indù, spesso utilizzata dai fondamentalisti, non convince. Per quanto concerne le aree nordorientali è solo l’area delle valli del Brahmaputra e del Manipur che fu induizzata con un certo vigore”. [Parratt @ (n/a)]. Non va infine dimenticato che se la maggioranza delle popolazioni indiane appartengono al ceppo ‘Aryan-Dravi58

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Non sorprende scoprire come uno dei gridi di guerra’ degli indigeni Naga fosse “Nagaland for Christ” 61 e come “elementi dichiaratamente cristiani siano apparsi nei documenti ufficiali. La Costituzione del Governo Federale del Nagaland, mentre garantiva la libertà di religione, dichiarava che il Cristianesimo sarebbe stato la religione dello stato di Naga” 62. Le accuse Questi sono solo due fra gli esempi più noti di rivolte indigene, che | s\ i al cristianetuttavia ci mostrano già un pattern nel passaggio degli Adiva simo: le conversioni, cioè, sono avvenute soprattutto in gruppi tribali che abitavano le aree più remote e/o caratterizzate da forti conflitti sociali, dove il cristianesimo veniva visto come una ‘ideologia forte’ da contrapporre a un’altra ‘ideologia forte’, l’induismo ‘ufficiale’. Questa è una delle ragioni per le quali si diffusero sospetti e critiche, in particolare da parte di vasti settori del nazionalismo indù, contro l’operato dei missionari: anche se | s\ i era (ed è) cristiano, l’impresa livello statitistico solo il 5% degli Adiva sione che molti fondamentalisti indù ne ricavarono fu quella del cristianesimo come elemento di ‘disturbo’ della ‘stabilità’ della nazione, e soprattutto come una sfida alla supremazia indù. Nella loro ottica questi missionari, con il sostegno della potenza coloniale britannica, gradualmente e fermamente, col loro proselitismo condussero un’invasione culturale ai danni delle tribù autoctone. Usarono con successo la religione come strumento per espandere l’egemonia della Chiesa fra gli ‘indigeni’ della regione. Il dian’, quelle del nord-est sono etnicamente ‘Mongoloid’; anche le loro lingue non sono imparentate con il sanscrito, ma con il gruppo linguistico ‘Tibeto-Burman’. Sul tema del neo-colonialismo indù, cfr. Burman 1997: 21-28. 61 Parratt @ (n/a). 62 Horam 1988: 61.

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loro zelo nell’attaccare le credenze socio-religiose delle popolazioni tribali era solo una manovra mirante a imporre le tradizioni cristiane dell’Occidente nell’India centrale. Nel tempo riuscirono a imporre i propri sentimenti, concetti e immagini a queste tribù ‘indigene’, in tal modo provocando caos in una società tribale omogenea. E così, contrariamente al mito secondo cui i missionari vennero in queste terre mossi da principi di compassione e condivisione – essi in realtà si interessavano solo di chi cambiava la propria adesione dal SARANA (i boschetti sacri che erano i luoghi di culto delle tribù locali) alla GIRJA (la chiesa) 63.

La critica va anche più a fondo: non solo l’interesse dei missionari cristiani per i gruppi indigeni era ‘viziato’ in partenza dall’implicito desiderio che si convertissero al cristianesimo, ma ebbe anche e soprattutto effetti deleteri sull’unità del mondo indiano: i ‘tribali convertiti’ ed educati al/nel cristianesimo occidentale diedero luogo a varie rivolte, giustificandole col presupposto teorico e ideologico (trasmesso loro dai missionari) che le proprie tradizioni – e non quelle professate dagli indù – fossero le tradizioni originarie dell’India (quando invece per molti nazionalisti altro non erano, e sono, che forme primitive della società e della cultura indù): basti pensare al fatto “che quasi tutti i leader del partito Jharkhand, fondato nel 1949 come espressione politica delle istanze tribali, erano cristiani” 64. Quando, attorno alla metà degli anni Ottanta del XX secolo, questo presunto progetto cristiano cominciò a subire duri contraccolpi – soprattutto grazie a “Hindu revivalists” che “furono in grado di ri-convertire un gran numero di tribali” 65 –, i missionari, secondo l’accusa, cambiarono tattica sia alleandosi con estremisti di sinistra 66 sia attuando un sempre più incisivo processo di inculturazione: “Un’altra mossa tattica delle missioni cristiane fu la tri63

Upadhyay @ (n/a). Upadhyay @ (n/a). 65 Upadhyay @ (n/a). 66 Upadhyay @ (n/a). 64

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balizzazione del cristianesimo da una parte e la sanscritizzazione dei nomi delle loro istituzioni dall’altra” 67. La tribalizzazione del cristianesimo: awakening e solidarity La “tribalisation of Christianity” ha avuto un significato più antropologico che teologico: non ci troviamo di fronte a una elaborata riflessione sul modello, ad esempio, di un confronto fra cristianesimo e Advaita Vedan\ ta, quanto a un utilizzo funzionale del cristianesimo per affermare una propria identità etnica separata da quella induista ‘ufficiale’: una “teologia della resistenza” 68. In altri termini: nonostante una situazione esplosiva e dunque potenzialmente foriera di riflessioni ‘liberatorie’, non abbiamo assistito alla nascita di una qualche forma di teologia della liberazione tribale; piuttosto, osserva J. Parrat facendo riferimento alla situazione del nord-est indiano, ciò che possiamo notare è che l’unica teologia tribale di un certo rilievo ad apparire nelle regioni nordorientali dell’India (e una non molto originale, bisogna dire) menziona appena la questione dell’oppressione (Takatemjen 1998: solo verso la fine del libro, a pag. 140, suggerisce che la situazione politica è il punto da cui iniziare). Anche il libro curato da Chatterji nel 1996 (del CISRS, che fin dal suo inizio è stata coinvolta in questioni politiche) contiene solo poche righe di pie speranze a proposito di una preparazione politica 69.

Quale la ragione di questa scarsa riflessione? Più che nell’esiguo nu| \si convertiti al cristianesimo (come già ricordato, solo il mero di Adiva 5% del totale è cristiano), il motivo può essere individuato in una scel67

Upadhyay @ (n/a). Tra l’altro, una delle accuse rivolte dai fondamentalisti indù al cristianesimo è quella di avere causato il passaggio, nelle società tribali, da una mentalità ‘comunitaria’ a una mentalità ‘individualistica’, foriera di tensioni e di conflitti. 68 Longchar 2006: 89. 69 Parratt @ (n/a). I riferimenti sono a Takatemjen 1998 e Chatterji 1996.

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ta di natura ‘diplomatica’: sviluppare una teologia militante nel contesto storico-sociale del sub-continente indiano significherebbe accrescere, soprattutto da parte induista, la percezione del cristianesimo come un fattore destabilizzante: un sistema di pensiero anti-indiano, una religione fautrice di separatismi e rivolte independentiste. Questa attenzione ai risvolti ‘diplomatici’ può forse spiegare perché la c.d. teologia tribale abbia incentrato la propria riflessione attorno a due termini, tutto sommato, piuttosto vaghi e ‘soft’, awakening e solidarity, a differenza della più militante teologia sudamericana che parla molto più liberamente di rivoluzione e lotta. Di fatto, uno dei primi testi a prendere seriamente in considerazione la ‘questione tribale’ si intitolava proprio Tribal Awakening 70. Quando si parla di awakening (risveglio), bisogna fare attenzione a non confonderlo con un semplice ‘revival’ delle tradizioni indigene: awakening è piuttosto inteso come presa di coscienza, da parte dei gruppi indigeni, di una propria identità (awakening to self identity) separata da quella mainstream indù. Ciò che interessa un discorso storico-religioso è il fatto che questo awakening viene imputato all’influsso del cristianesimo, il quale “divenne la ragione del rinnovamento e dello sviluppo” delle lingue tribali e di “codici di vita comunitaria. Lottando per i diritti fondiari delle popolazioni tribali, le missioni cristiane portarono loro la giustizia, e anche senza esserne pienamente coscienti, rinsaldarono la centralità della terra” 71 nel tradizionale sistema di vita indigeno. Questo awakening dei gruppi indigeni favorito dal cristianesimo è stato assimilato al ‘risveglio’ dei Dalit, tanto che diversi teologi hanno suggerito di utilizzare le riflessioni della teologia dalit per elaborare una ‘teologia tribale’: 70

Thomas – Taylor 1965. Parratt lamenta il fatto che dopo quel testo niente di veramente significativo è apparso nella riflessione teologica. Per ridare vitalità al dibattito, Parrat invita a cercare ispirazione nelle riflessioni della teologia sudafricana. 71 Thomas @ 1995.

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Una ventina d’anni fa una bomba venne gettata sul terreno dei teologi indiani. La tradizione teologica sanscrita, che ha avuto una lunga e meritevole storia e ha impegnato diverse menti brillanti, venne sfidata al punto da essere dismessa come irrilevante quando irruppe la teologia dalit. La tradizione teologica sanscrita non pone infatti alcuna minaccia alla cultura dell’India: usa concetti Indù, obbedisce per la maggiore a categorie filosofiche Indù, ed è disponibile a un dialogo. Il suo svantaggio è di essere elitaria, e sostanzialmente irrilevante per la maggioranza dei cristiani, il 70% dei quali circa non appartiene alle caste alte 72.

La teologia dalit, invece, aveva e ha un forte carattere di scontro e di sfida. Tuttavia la specificità del discorso ‘tribale’ ci deve mettere in guardia da una facile comparazione con la situazione dei Dalit: Parratt accusa Nirmal Minz e James Massey, due importanti teologi e pensatori che hanno fatto della situazione tribale l’oggetto della loro indagine 73, di avere ceduto alla tentazione di applicare all’uno i metodi del| \si hanno una difficoltà in più rispetto ai Dalit, l’altro. In realtà gli Adiva che rende piuttosto problematica qualsiasi comparazione e trasposizione di un metodo da una situazione all’altra: non solo sono esclusi da un discorso religioso ‘ufficiale’ (quello indù); sono esclusi pure da un discorso etnico ufficiale, in quanto rappresentano ceppi razziali diversi da quello genericamente definito ‘indù’ 74. Il concetto di awakening può essere usato, in ogni caso e in senso lato, per individuare l’influsso storico del cristianesimo su entrambe le si72 Parratt @ (n/a). Il non-accoglimento di questo approccio ebbe un riflesso anche in politica, con il rifiuto dei Dalit a essere ‘incorporati’ nel sistema sociale e religioso indù come ‘scheduled castes’, reclamando invece una dignità per i Dalit in quanto tali. Anche per gli indigeni si tentò, da parte del governo, un simile processo ‘inclusivo’ attraverso la definizione dei tribali come ‘scheduled tribes’. 73 Cfr. Minz 1994 e Massey 1999. 74 I Dalit, ricordiamolo, sono esclusi da un sistema sociale al quale però in ultima analisi appartengono; le ‘scheduled tribes’, invece, sono distinte e separate e sono divenute parte del sistema statale solo in virtù di scelte (o conquiste) politiche.

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tuazioni, quella dei Dalit e quella dei gruppi indigeni. In altri termini: in entrambe le situazione si è passati da un discorso esclusivista (‘Cristo contro le religioni’: le ‘religioni’ sia dei Dalit, sia dei gruppi etnici) a un discorso funzionalista. Cristo non è che uno strumento paradigmatico per risvegliare le proprie tradizioni etniche, uno strumento per rafforzare la propria identità e farla divenire una ‘ideologia forte’ da contrapporre ad altre ‘ideologie forti’: l’identità religiosa è funzionale all’identità etnica. La ‘delicatezza diplomatica’ della strumentalizzazione politica del cristianesimo porta a sottolineare con più attenzione, di conseguenza, l’altro termine della ‘teologia tribale’: la solidarietà. Oltre a essere uno strumento per l’awakening to self identity, il cristianesimo è un fattore che può stimolare la solidarietà, almeno a tre livelli. A un primo livello, il cristianesimo è un ‘codice’ da utilizzare per sanare e conciliare le divisioni all’interno dei gruppi indigeni: la solidarietà deve cioè svilupparsi fra gli stessi gruppi indigeni, che possono usare il cristianesimo come uno strumento che permette loro di superare o perlomeno mettere da parte le conflittualità ancestrali che da sempre hanno caratterizzato i rapporti intra-tribali, per procedere poi uniti nel cammino dell’affermazione dei propri diritti. A un secondo livello, questa solidarietà viene estesa a tutti i gruppi oppressi; ciò significa che la solidarietà dei tribali si allarga oltre i propri confini ‘etnici’: “nel contesto della politica governativa attuale, basata sull’alta tecnologia e il libero mercato, i Dalit, i tribali e i pescatori vengono sempre più alienati dalle risorse della Terra, della Foresta e dell’Acqua, risorse che hanno dato loro il necessario per vivere; inoltre vengono via via sradicati dai loro costumi e dalla loro cultura; e le donne sono ridotte a merci, la loro sessualità, fertilità e il loro lavoro sempre più commercializzati” 75. In altri termini, la solidarietà significa che una seria teologia tribale deve prendere in considerazione “nella lotta per la giustizia sociale e politica tutte quelle persone che, al pari dei tribali, sono vittime del processo di 75

Parratt @ (n/a).

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modernizzazione” 76. A un terzo livello, questa solidarietà si deve espandere anche alla natura: “in una situazione mondiale in cui la protezione dell’ambiente naturale e i processi organici di produzione e riproduzione sono divenuti cruciali per la continuazione stessa della vita, si sente il bisogno di una rinascita del rispetto per la natura” 77. Di fatto, per le comunità indigene “la cosa più significativa è il rapporto speciale che hanno con la loro terra” 78. Di qui la necessità di rivalutare quella “spiritualità tradizionale precedentemente rigettata” 79. È proprio questo tentativo di allargare la ‘solidarietà’ ad altre categorie a spingere la riflessione cristiana, nel suo confronto con l’India, su altre due dimensioni: la questione femminile e la questione ecologica. Femminismo Se in Occidente la teologia può essere considerata un ‘evidenziatore’ del mutamento culturale – si è visto come nuove ‘mode’ culturali abbiano poi trovato il loro riflesso nelle elaborazioni teologiche: si pensi al marxismo e alla teologia della liberazione, o al revival indigenista e la nascita di una teologia tribale – tanto più lo diverrà in quei contesti extraeuropei caratterizzati da un tradizionalismo culturale di fondo. Nel contesto della nostra analisi (il rapporto fra induismo e cristianesimo), è dunque doveroso prendere nota del fatto che l’affermarsi di un particolare tipo di teologie nel contesto indiano diviene a sua volta un utile segnale indicativo di un mutamento culturale, avvenuto o in processo, all’interno di una società, come quella indiana, comunemente considerata statica. 76

Parratt @ (n/a). Parratt @ (n/a). 78 Longchar 2006: 83. 79 Parratt @ (n/a). Cfr. Longchar 2006: 83-89. 77

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È questo il caso di due ‘mode’ culturali importate dall’Occidente, sulle quali è opportuno soffermarsi: il femminismo e l’ecologismo, le quali hanno dato origine rispettivamente a una teologia femminista e a una teologia ecologista – entrambe già collaudate sul suolo occidentale e da qualche tempo in fase di esportazione nel mondo indiano. Lo sviluppo di una teologia femminista affonda le sue radici negli anni Sessanta del XX secolo 80. L’idea base è quella di introdurre la donna nel circolo ermeneutico dell’interpretazione del cristianesimo: se fino ad allora il cristianesimo era stato letto con categorie maschili e patriarcali, ora il discorso si doveva allargare includendo anche la prospettiva femminile – non un astratto teologizzare, ma un militante impegno per trasformare un cristianesimo androcentrico e patriarcale. Questo progetto è stato portato avanti diversamente dalle varie correnti della teologia femminista, le quali possono essere ricondotte a tre grandi filoni: una prima linea di riflessione rimane all’interno della tradizione biblico-cristiana, una seconda cerca uno spazio post-cristiano, una terza si rifà al c.d. culto della dea 81. La prima corrente si è mossa nella direzione di una depatriarcalizzazione dell’interpretazione biblica 82: rivisitare tutti quei passi (ad es. Gen. 2-3, o l’epistolario paolino) nei quali la donna appare chiaramente subordinata all’uomo. Il risultato dell’operazione è stato duplice: da un lato si è concluso che la bibbia parla di una complementarità fra uomo e donna, con la conseguente necessità di rileggere la teologia cristiana in 80 In realtà alcuni segnali si ebbero già fra il XIX e il XX secolo: basti pensare alla elaborazione della Woman’s Bible (1895-1898) in campo protestante e all’Alleanza Internazionale Giovanna d’Arco (1911) in campo cattolico. 81 Cfr. Gibellini 1992: 454 ss. 82 È sufficiente fare riferimento, per capire l’atmosfera generale, ai titoli dei due testi fondamentali di questa corrente: P. Trible, Depatriarchalizing in Biblical Interpretation, “Journal of the American Academy of Religion”, 41 (1973), pp. 30-49 e L. Russell (ed.), The Liberating Word: A Guide to Nonsexixt Interpretation of the Bible, Westminster, Philadelphia 1976.

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quest’ottica inclusivistica; dall’altro, invece, si è constatata l’irrimediabile marca patriarcale della bibbia, facendo di questa constatazione il punto di partenza per un discorso cristiano post-biblico (esplicitato nella seconda e terza corrente della teologia femminista, come vedremo). L’operazione più interessante, nel contesto di queste esegesi bibliche femministe, è stata quella portata avanti da Elisabeth Schussler Fiorenza nella sua opera In Memory of Her (1983). Contestualizzando il messaggio cristiano al suo momento originario, la studiosa segnala come sia fra i seguaci di Gesù sia nella prima comunità cristiana uomini e donne fossero in una situazione di parità. La rottura di questa prospettiva egualitaria è imputata a san Paolo e all’ambiguità del suo insegnamento: da una parte egli afferma la libertà e l’uguaglianza dei figli di Dio, dall’altra però giunge a subordinare la donna all’uomo, aprendo così la strada alla linea patriarcale nell’interpretazione del cristianesimo – e sarà questa la linea che trionferà nei concili dogmatici del IV secolo, continuando poi a dominare nell’elaborazione teologica dei secoli successivi 83. La seconda corrente ha la sua esponente più nota nella teologa Mary Daly, autrice del primo (e ancora più famoso) testo di teologia femminista (anche se nella prima edizione l’espressione è assente): The Church and the Second Sex (1968). Prendendo spunto dal libro della scrittrice francese Simone de Beauvoir Le Deuxième Sexe (1949) – dove si sosteneva che “l’ideologia cristiana ha contribuito non poco alla schiavitù della donna” 84 – M. Daly analizza la tradizione antifemminista della Chiesa e le sue conseguenze sulla condizione della donna, pro83

Secondo A. Wlosok “sarebbe stato Lattanzio, agli inizi dell’epoca costantiniana, e precisamente nel suo De ira Dei (dove, in polemica con il Dio di Seneca, si sostiene che Dio può adirarsi), a trasferire all’immagine cristiana di Dio la raffigurazione romana del pater-familias. Da qui è seguita una distorsione patriarcale del concetto di Dio: ‘questa commistione tra concetto cristiano e concetto pagano di Dio ha profondamente segnato in senso patriarcale la storia cristiana dell’Europa’”. Così Gibellini 1992: 473, citando una riflessione del teologo tedesco J. Moltmann. 84 De Beauvoir 1961: 125.

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ponendo un progetto di riforma totale che tenga conto della questione femminile. Alcuni anni dopo, constatata l’impossibilità di riformare il cristianesimo, M. Daly si allontanerà dalla Chiesa giungendo a radicali posizioni femministe nell’opera Beyond God the Father. Toward a Philosophy of Women’s Liberation (1973): l’autrice attacca la fede in Dio Padre perché “se Dio è maschio, allora il maschio è Dio” 85, concetto questo rafforzato dal fatto che il salvatore inviato nel mondo, Gesù Cristo, era maschio. Essendo invece Dio al di là di ogni distinzione sessuale, l’espressione ‘Dio Padre’ andrebbe intesa nel suo senso simbolico; solo così si può passare da un linguaggio andro-morfico (maschilista) a uno antropo-morfico (inclusivista). Non vedendo recepito nemmeno questo messaggio, la Daly si sposterà su posizioni ancor più radicali ed esclusiviste, proponendo nell’opera Gyn/Ecology (1978) un discorso gino-morfico nel quale la sororità delle donne viene a creare un mondo lesbico, contrapposto ed estraneo a quello maschile e patriarcale: dall’androcentrismo, insomma, si deve passare al ginecocentrismo 86. La terza corrente si rifà alla spiritualità e alla religione della dea. Parafrasando polemicamente S. de Beauvoir, l’americana Elizabeth GouldDavis pubblicò nel 1971 The First Sex: il sesso femminile non sarebbe il secondo sesso ma il primo, perché storicamente il matriarcato avrebbe preceduto il patriarcato. La tesi, che da un punto di vista antropologico è controversa, aveva trovato uno dei suoi campioni più noti in J. J. Bachofen, che nel 1861 aveva pubblicato il voluminoso Das Mutterrecht. Prendendo solo il nucleo della riflessione di Bachofen ma non le sue elaborazioni successive (Bachofen avrebbe visto nel passaggio dalla ginecocrazia originaria all’androcrazia un segnale di evoluzione culturale e sociale) le teologhe femministe hanno voluto riprendere e rivitalizzare i simboli di quella ginecocrazia originaria, vedendovi i termini più adatti per esprimere la natura di Dio attraverso la chiave ermeneutica del culto 85 86

Daly 1990: 19. Cfr. Gibellini 1992: 457.

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della dea. Merlin Stone, ad esempio, nella sua opera When God Was a Woman (1976) afferma che furono proprio gli imperatori cristiani di epoca romana e bizantina a sopprimere definitivamente il culto della dea, che fino ad allora era sopravvissuto con una certa vitalità. Riprendere il culto della dea (come simbolo del potere delle donne, o sua personificazione) è una scelta che secondo queste teologhe femministe viene a produrre un quadruplice effetto: se il Dio maschio patriarcale subordina la donna all’uomo, la Dea afferma invece il potere delle donne; se il Dio patriarcale ‘negativizza’ la corporeità femminile come fonte del peccato, la Dea esalta invece il corpo delle donne; se il Dio maschio riduce la donna a una realtà passiva, la Dea ne esalta la volontà e il potere; se il Dio maschile sottomette la donna all’uomo allontanandola dalle altre donne, la Dea è lo strumento che permette di tessere la sororità fra tutte le donne, senza mediazioni maschili 87. Per quanto concerne il contesto indiano, ciò che subito si nota è la mancanza di una ‘forte’ riflessione ‘cristiano-femminista’. Se, come detto in precedenza, utilizziamo la teologia come ‘evidenziatore culturale’, questa mancanza è forse il segnale più evidente che la condizione della donna, in India, è ancora soggetta a condizionamenti culturali e religiosi talmente forti da impedire anche lo sviluppo di un’autentica riflessione teologica in ambito cristiano. Certo, questo non significa che mancano totalmente delle elaborazioni in tale direzione 88. In particolare, si è presa coscienza che “le teo87

Cfr. Gibellini 1992: 458. Ecco alcuni testi di teologia femminista indiana: P. Kumari (ed.), A Reader in Femminist Theology, Gurukul, 1993; L. Ralte (ed.), Women Reshaping Theology: Introducing Women’s Studies in Theological Education in India, United Theological College, 1998; R. L. Hnuni (ed.), Transforming Theology for Empowering Women: A Theological and Hermeneutical Reflection in the Context of North East India, Eastern Theological College, Jorhat (Assam) 1999; G. Dietrich, New Things on Earth. Hopes and Fears Facing Feminist Theology: Theological Ruminations of a Feminist Activist, ISPCK, Delhi 88

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logie femministe in Europa e America non sempre riflettono le preoccupazioni asiatiche, e sono spesso incapaci di fornire strumenti per valutare il colonialismo, l’imperialismo culturale, il pluralismo religioso e la violenza orizzontale delle donne sulle donne” 89; è necessario, dunque, ‘tradurre’ la teologia femminista nel contesto indiano. Il progetto, nell’ambito cristiano indiano femminile, viene portato avanti quasi esclusivamente da suore. Questo, di per sé, marca già una differenza significativa rispetto all’Occidente ove la riflessione teologica al femminile è stata sviluppata soprattutto da laiche. Comunque sia è degno di nota il fatto che, per la maggior parte, quelle suore si sono formate all’estero e hanno così potuto cogliere spunti e fermenti delle riflessioni femministe occidentali – anche se queste poi sono state in linea di massima applicate a micro-contesti locali attraverso attività volte alla promozione delle donne, marginalizzate e sfruttate dal sistema sociale indiano 90. A livello più teorico, una riflessione ‘maschile’ della quale prendere nota è stata elaborata dal teologo indiano John D’Mello: constatando la presenza di una paradigma patriarcale e androcentrico nella chiesa, D’Mello suggerisce una “femminizzazione della Chiesa” 91. Infondere nella Chiesa una coscienza femminista non vuole però dire aumentare le ‘quote rosa’, quanto sviluppare “un processo per il quale la Chiesa acquisisce una coscienza egualitaria, reciprocamente rispettosa, cosmopolita, interculturale” 92, che permetterà di porre termine alla discriminazione di genere (gender-discrimination) per elaborare una 2001; J. D’Mello, Dare to See Differently: A Feminist Point of View, St. Paul’s, 2003; M. T. Rani, Assailants of the Spirit and Upholders of Sakti: An Indian Feminist Assessment of the Holy Spirit, South Asia Theological Research Institute, Bangalore 2003. 89 Gomes @ 2004. 90 Cfr. la questione della dote, il problema degli stupri, le continue discriminazioni di donne Dalit o tribali; ancora, si pensi alla prostituzione o alle pressioni psicologiche per abortire feti femmina. 91 D’Mello @ 1999. 92 D’Mello @ 1999.

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specifica teologia femminista indiana: “in questo paradigma la questione della donna, dei contadini, dei lavoratori, dei Dalit, dei tribali e dell’ecologia sono tutte interconnesse. Esiste un’interfaccia e un’interazione fra sessismo, razzismo, castismo, colonialismo, fondamentalismo, distruzione dell’ambiente e violenza. Il patriarcato non è solo il dominio dell’uomo sulla donna, ma un intero sistema socio-politico-culturale di relativo soggiogamento e predominio” 93. Di fatto, “il femminismo non è una entità autarchica, ma un modo di pensare che sviluppa collegamenti fra le forze sociali, e permette l’analisi dei nessi esistenti fra classe, casta, genere e razza” 94, e il suo nemico principale deve essere individuato nel fondamentalismo (di qualsiasi tipo), con la sua fortissima struttura gerarchica e patriarcale. Si vede dunque come la teologia femminista indiana sia solo un pretesto e diventi l’occasione per ripensare l’intera società alla luce della particolare condizione della donna in India: condizione ingiusta che richiede in risposta non già una soluzione settoriale ma olistica e inclusiva, nella quale attraverso la solidarietà fra oppressi si viene a trasformare un sistema sociale ingiusto 95 che distrugge l’ambiente 96. Ecologismo? La carenza di una profonda contestualizzazione della riflessione femminista a pressanti questioni indiane (come quella connessa alla dote) 97 è palese: il discorso è ancora troppo generico per essere consi93

D’Mello @ 1999. Cfr. anche Fiorenza 1984: 71-85. D’Mello @ 1999. 95 Cfr. Dietrich 1996: 155-176. 96 Cfr. Shiva 1988. 97 Se la satı \ è un fenomeno che ormai va scomparendo, le conseguenze sociali del sistema della dote sono ancora vivissime. Anche se da un punto di vista legale il sistema della dote (si tratta di cifre elevate che la famiglia della sposa deve pagare a quella 94

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derato dotato di una propria specificità culturale. Questo ‘povero’ quadro si arricchisce, tuttavia, nel momento in cui la questione femminile viene messa in relazione a quella ecologica. È lo stesso D’Mello a esporre i termini della comparazione: Mentre la teologia femminista libera la teologia dai suoi presupposti androcentrici e patriarcali, e ricostruisce una teologia rispettosa dei rispettivi punti di vista, la teologia ecologista libera la teologia da una prospettiva umanocentrica (una prospettiva che pone gli esseri umani al centro della discussione teologica) e ricostruisce la teologia da una prospettiva cosmocentrica (dove l’intero cosmo, incluse le piante e gli animali, la terra e gli oceani, vengono posti al centro della riflessione teologica). Quando queste due prospettive si combinano abbiamo una teologia eco-femminista, che non solo unisce le preoccupazioni del femminismo a quelle dell’ecologia in base allo straordinario parallelismo fra la violenza recata alla Terra e quella recata alle donne, ma si riappropria pure di stili di vita e di pensiero femministi come i soli mezzi per preservare la salute dell’ambiente 98.

Si comprende in questo contesto quanto sia facile allargare il discorso femminista facendolo confluire in un discorso di teologia ecologista: compito di entrambe le riflessioni è di smascherare tutte le strutture di dominio sociale, che vanno da quelle del maschio sulla femmina a quelle dell’uomo sulla natura (fino a giungere, in un contesto più teorico, alla subordinazione della ‘natura’ allo ‘spirito’) 99. È questo il tema – il parallelismo fra il dominio dell’uomo sulla donna e il dominio dell’uomo sulla natura – sul quale si è soffermata la riflessione femmidello sposo) è stato proibito nel 1961, è una pratica ancora radicata nella tradizione indiana: in particolare, nel corso degli anni Ottanta del XX secolo, la stampa indiana diede risalto non solo alle notizie di giovani spose suicidatesi, ma addirittura di casi di ‘burning brides’, spose bruciate vive dai suoceri per dispute sulla dote. 98 D’Mello @ 1999. 99 Cfr. Ruether 1983: 85.

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nista ed ecologica sorta dal contesto indiano, che ha la sua campionessa più celebre in Vandana Shiva: Le donne indiane sono state in prima linea nelle lotte ambientaliste per preservare le foreste, la terra e l’acqua. Esse hanno sfidato il concetto occidentale di natura quale oggetto da sfruttare, e l’hanno piuttosto interpretata come Prakriti, la forza attiva che sostiene la vita [...]. La loro lotta ecologica in India ha il duplice scopo di liberare la natura dal continuo sfruttamento e loro stesse dalla continua marginalizzazione. Stanno creando una ideologia femminista che trascende la distinzione sessuale e una prassi politica che è umanamente inclusiva; stanno sfidando la pretesa universalistica del patriarcato non proponendo un’altra forma di universalismo, ma la diversità; e stanno sfidando il concetto predominante di potere come violenza con il concetto alternativo di non-violenza come potere 100.

Tutto ciò acquista una sua dimensione non solo teorica ma anche pratica se si prende in considerazione il fatto che l’India è stata testimone di immani disastri ecologici: fra tutti il più famoso fu la fuga di gas letali a Bhopal (1986) con le migliaia di vittime causate dall’incidente. Le altre aree nelle quali si è concentrata la coscienza ecologista ‘indiana’ sono le foreste, i mari e le dighe. Anzitutto la difesa delle foreste vergini: Vandana Shiva ci parla del movimento chipko nel nord dell’India, quando alcune donne impedirono l’abbattimento di alberi alle pendici dell’Himalaya ‘abbracciando’ gli alberi. L’interesse non era semplicemente ecologico, ma anche economico: la foresta era ed è fonte di vita per le popolazioni indigene e quelle rurali. Lo stesso si può dire per la seconda area considerata dall’ecologismo indiano: il mare, sfruttato al limite estremo da moderne tecniche di pesca che non solo distruggono le risorse ittiche, ma gettano nell’indigenza le già povere comunità di pescatori indiani. Infine le proteste contro la costruzione di dighe, che hanno conseguenze a breve e lungo termine sul patrimo100

Shiva 1988: xvii-xviii.

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nio ecologico ed economico di chi vive nelle aree interessate dai progetti di sviluppo idrici – generalmente popolazioni rurali o indigene. Quanto esposto finora è espressione di un generico movimento ecologista di evidente ispirazione occidentale (pur con suggestioni induiste), ma senza una precisa connotazione cristiana indiana. Ossia: si prende atto di un certo ritardo della coscienza ecologista del cristianesimo indiano, anche se il fatto è da imputare in parte alla riflessione teologica occidentale stessa. Il mea culpa dei teologi è onesto: il cristianesimo ha reagito solo tardivamente alla crisi ecologica del XX secolo, barricandosi troppo a lungo dietro il comandamento biblico di Gen. 1,28 (“soggiogate la terra”) trovando in quello la giustificazione per la subordinazione della natura all’uomo 101. Il via per un ripensamente del rapporto fra cristianesimo ed ecologia fu dato da un articolo che Lynn White Jr. pubblicò sulla rivista Science nel 1967 102. In esso si accusava il cristianesimo di essere alla radice dell’attuale crisi ecologica, o perlomeno di condividerne le colpe: il cristianesimo, insomma, non sarebbe stato semplicemente indifferente alle distruzioni ecologiche ma ne avrebbe fornito anche la giustificazione ‘teorica’. Nell’articolo in questione White osserva che mentre le religioni del mondo antico vedevano nella natura una realtà impregnata di spiritualità, la visione biblico/cristiana rende la natura neutra, un oggetto privo di presenza divina e disponibile allo sfruttamento: spogliando la natura dello ‘spirito’, la tradizione biblico/cristiana avrebbe fatto dell’uomo l’unico luogo nel quale lo ‘spirito’ poteva legittimamente risiedere. La conclusione fu che il cristianesimo divenne la religione più antropocentrica in assoluto: la distruzione del paganesimo, insomma, sarebbe stata alla radice della distruzione di una natura ormai oggettivata e privata di ogni valore intrinseco che non fosse riconducibile all’umano. Anche se vi sono accenni a visioni alternative all’interno del cristianesimo (come 101 102

Cfr. Strolz 1995: 10. White 1967. Sul tema cfr. anche Mapelli 2006b.

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quella di san Francesco), White sottolinea la necessità, per uscire da questo vicolo cieco, di ispirarsi ai principi di rispetto per la natura come quelli impliciti nelle ‘religioni’ orientali 103. È in questo contesto che R. Panikkar, sempre alla ricerca di una dialogo fra il cristianesimo e il mondo indiano, parla di ecosofia, intesa come lo sviluppo di una sapienza ecologica che sappia integrare le dimensioni del divino, dell’umano e del cosmico in quella che egli definisce, coniando un neologismo, la realtà cosmoteandrica. Sostiene infatti Panikkar che “l’ecologia ci ha svegliato” 104, rendendoci coscienti della grave situazione nella quale si trova il pianeta. Risvegliati alla tragica realtà dell’ambiente, il primo passo da fare – e qui Panikkar sembra accogliere la critica di White contro la distruzione del paganesimo operata dal cristianesimo – è di recuperare “l’animismo” inteso come “l’esperienza della vita in continuità con la natura” 105. L’operazione – che permetterà di superare il meccanicismo materialista della moderna scienza occidentale con l’affermazione che “non solo le piante e gli animali sono viventi, ma anche le montagne e le rocce; come lo spirito, anche la materia è vivente” 106 – non si riduce però a una generica affermazione di stampo ‘New Age’ 107: se di fronte alla distruzione ecologica del XX secolo la tentazione dell’Occidente è stata ed è quella di cercare la soluzione nella tecnologia, la strada suggerita da Panikkar – il quale fa un rimando al concetto di dharma – è di agire per realizzare un 103

Rileviamo in ogni caso come la riflessione ecologica all’interno del cristianesimo si sia sviluppata in maniera esponenziale dopo la provocazione di White, sostanzialmente seguendo due linee di riflessione: da una parte mantenendo l’antropocentrismo cristiano (come nella prospettiva del teologo A. Auer), dall’altro sviluppando l’ottica di un teocentrismo cosmologico, come ha fatto ad esempio il teologo J. Moltmann. 104 Panikkar 1993a: 115. Anche se inteso diversamente, il termine ecosofia è importante per la Deep Ecology di A. Naess (sulla Deep Ecology, cfr. Mapelli 2006b: 381 ss.). 105 Panikkar 1993a: 150. 106 Panikkar 1993a: 150-151. 107 Sulla tematica ‘New Age’ e il suo rapporto col cristianesimo, cfr. Mapelli 2007a.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

equilibrio e un’armonia fra uomo, natura e cosmo. Questo equilibrio ‘trinitario’, da lui definito per l’appunto realtà cosmoteandrica, è ciò che permette di superare il rapporto dualistico (spirito-materia) tipico dell’Occidente, accogliendo invece un discorso ‘trinitario’ più consono alle tradizioni spirituali asiatiche. In altri termini: nella visione cosmoteandrica cosmo, dio e uomo non sono separati ma uniti in un equilibrio armonico, il quale fa sì che non vi sia un punto di vista ermeneutico privilegiato: né quello teocentrico, né quello cosmocentrico, e neppure quello andropocentrico: “il pluralismo ci dice che nessuno (che sia persona o cultura) si deve assumere il ruolo di direttore dell’orchestra umana, e tanto meno di quella cosmica. È sufficiente che vi sia la musica (il divino), i musicisti (gli esseri umani) e i loro strumenti (il cosmo)” 108. Se vogliamo guardare la realtà con occhi nuovi, sostiene Panikkar, questi devono essere occhi in grado di cogliere la totalità del reale e non solo uno dei suoi aspetti – per quanto importante esso sia. Queste riflessioni di Panikkar non sono certo esenti da critiche: JaiDon Lee, accogliendo le osservazioni di J. Prabhu 109, osserva ad esempio che “il cosmoteandrismo di Panikkar è troppo astratto per proporre una diagnosi delle cause della crisi ecologica e offrire un rimedio” 110. Ciò che a noi interessa rilevare, tuttavia, è che nella visione di Panikkar il divino, l’umano e il cosmico risultano essere non differenti aspetti della realtà, ma – esprimendo una tipica elaborazione della cultura indiana –, l’espressione di una triplice relazione costituiva di tutto 108

Panikkar 1995: 180. “La visione di Panikkar è una possibilità praticabile, o rappresenta piuttosto una visione di grande bellezza [?] […]. Panikkar sottovaluta la rottura creata dalla moderna rivoluzione scientifica ed epistemologica. […] Non basta dire che il mondo moderno è affascinato dal ‘mito della storia’ e che ciò che occorre è un nuovo mito e una nuova visione. Per giustificare la pretesa che la sua visione sia autenticamente postmoderna […] Panikkar dovrà fare qualcosa di più che proporre semplicemente il suo cosmoteandrismo”. Prabhu 1996: 17-19, citato in Lee 2006: 143-144. 110 Lee 2006: 144. 109

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LA PROVOCAZIONE DI NUOVI REFERENTI: DALIT, A \DIVAS\ I, DONNE E AMBIENTE

ciò che esiste 111. L’esistenza stessa, di conseguenza, può essere compresa solo in termini relazionali: sia che parliamo del divino, dell’umano o del cosmo, non vi può essere esistenza senza relazione. Quest’idea di relazione assume un valore inclusivo: di fronte alla morte di dio (prospettata dall’ateismo e dal secolarismo, ad esempio), alla morte dell’uomo (come nella riflessione strutturalista) e a quella del pianeta (la distruzione ecologica) ormai nessuna religione o cultura può pretendere di avere da sola quelle risposte “che siano in grado di salvare l’umanità dalla sua situazione” 112. Scrive senza mezzi termini Panikkar: “nessuna cultura, e nessuna religione, possono risolvere il problema umano da sole” 113. La soluzione è implicita nel problema: “di qui il bisogno di una fertilizzazione reciproca delle tradizioni umane” 114. Questa fertilizzazione reciproca è la necessità imperante del mondo moderno, caratterizzato da una ‘nuova situazione di pluralismo’ 115. In quest’ottica si comprende come per Panikkar il discorso ecologico divenga parte di una dialogo più vasto: al dialogo ‘verticale’ fra uomo, cosmo e dio deve corrispondere anche un dialogo ‘orizzontale’ fra le diverse tradizioni spirituali e culturali. Di qui la necessità dello sviluppo di una rete di relazioni per il tramite di un dialogo inter-religioso e inter-culturale nel quale le diverse tradizioni religiose e culturali – come sostiene G. Hall 116 –, definiscono la propria identità non attraverso lo scontro e la reciproca opposizione (il fondamentalismo), ma attraverso un confronto e uno scambio (dialogo) che affondano le proprie radici nell’esperienza di ciascuna tradizione 117.

111

Cfr. Panikkar 1993b: 54-77. Panikkar 1995: 175. 113 Panikkar 1989: xix. 114 Panikkar 1989: xix. 115 Cfr. Panikkar 1979: 197-230 e Panikkar 1995. 116 Cfr. Hall@ (n/a) 117 Cfr. Panikkar 1999. 112

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8. L’ALTRA LIBERAZIONE

Applicando una prospettiva storico-religiosa, abbiamo potuto prendere atto di come l’incontro fra cristianesimo e induismo abbia costretto un certo cristianesimo a ripensare i propri paradigmi alla luce del confronto con la complessa realtà rappresentata dal sub-continente indiano – giungendo fino agli estremi rappresentati dalla riflessione dei | \si: un cristianesimo che quasi perde la sua identità Dalit e degli Adiva per divenire ‘funzione’ del riscatto dei fuori-casta e dei tribali. Abbiamo quindi ‘allargato’ la visuale alle elaborazioni delle riflessioni femministe ed ecologiste, che a loro volta ci hanno introdotto in un orizzonte ancor più vasto: quello di un dialogo inter-religioso e inter-culturale. Per analizzare questa ‘provocazione’ dobbiamo ora invertire il circolo ermeneutico, e vedere come il concetto di liberazione sia stato utilizzato come chiave ermeneutica ortopratica 1. L’induismo e la liberazione Moksha, intesa come liberazione dal ciclo delle rinascite, è una meta “più ideologica che reale” 2: la maggior parte degli indiani sono in1

Per le riflessioni presentate nella prima parte di questo capitolo, cfr. Amaladoss

1997. 2

Amaladoss 1997: 86.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

fatti persone appartenenti alle caste inferiori, e non dei sannya\sin (i soli ai quali, in condizioni normali, è riservato l’accesso alla liberazione) 3. Vi è dunque legittimamente da chiedersi quanto il concetto di moksha possa essere ritenuto sufficientemente universale per instaurare un sistema inclusivo di cristianesimo e induismo. Allo stesso tempo sorge un’altra domanda: se la liberazione definitiva è liberazione da questo mondo, quanto è valido l’impegno attivo nella realtà, di fronte invece alla rinuncia e alla relativizzazione di ogni sforzo a quell’assoluto rappresentato dalla liberazione dal ciclo delle rinascite? Queste domande non sono sfuggite agli indiani più attenti, e M. Amaladoss riconosce proprio nell’influsso dell’Occidente e del cristianesimo la ragione storica che ha contribuito a spingere l’induismo a rivisitare il proprio concetto di liberazione, qualificandolo anche con una connotazione sociale e politica, oltre che ‘spirituale’: “l’esperienza del colonialismo e l’impatto della civiltà europea da esso mediato ha sfidato la tradizione Indù a cambiare e a dar vita a movimenti di liberazione” 4. Continua: Nel XIX secolo, come reazione all’impatto dell’Occidente e anche in risposta agli sforzi dei missionari di diffondere il cristianesimo, nacque un movimento di riforma cultural-religiosa guidato da individui quali Raja Ram Mohan Roy. Per un verso vi era lo sforzo di purificare la religione dalle varie superstizioni e di mettere l’accento sul monoteismo. Per l’altro, vi furono campagne per abolire pratiche quali la satı \ (il rogo delle vedove sulla pira funeriaria dei loro mariti defunti) e il matrimonio di bambini, e promuovere altre pratiche quali la possibilità di un nuovo matrimonio per le vedove. Questi movimenti a poco a poco causarono anche la nascita di un movimento politico di liberazione, anche se all’inizio il suo obiettivo si limitava alla richiesta di forme di autonomia 5. 3

Cfr. Amaladoss 1997: 86. Amaladoss 1997: 86. Questo comunque non deve far dimenticare che non sono mancate, nella lunga tradizione dell’induismo, varie rivisitazioni del concetto di liberazione: basti pensare ai vari movimenti bhakti e al sikhismo. 5 Amaladoss 1997: 87. 4

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L’ALTRA LIBERAZIONE

Gandhi fu il frutto più eclatante di questo movimento 6. Una figura meno nota, ma centrale in quest’ottica di rinnovamento dell’induismo, è Swa\mi Agnivesh (n. 1939), un sannya\sin membro del movimento Arya Sama\j fondato da Saraswati nel 1875. Lo scopo del movimento era di riportare l’induismo alla purezza originaria dei Veda: pertanto, per fare un esempio, preso atto che nei Veda il concetto di casta era assente si propugnava il rigetto del sistema castale in quanto nonvedico. In questo contesto Agnivesh elaborò quello ch’egli stesso definì vedic socialism, un’ideologia che ha finito con l’ispirare milioni di contadini e altre categorie di lavoratori nelle regioni settentrionali dell’India. Il pensiero di Agnivesh è linerare: ogni religione nel suo momento costitutivo iniziale è sostanzialmente un messaggio di liberazione; nel suo sviluppo istituzionale, tuttavia, quella spinta rivoluzionaria si perde e la religione diviene uno strumento di oppressione: quale prova migliore del fatto che nonostante l’acclamata spiritualità dell’induismo, ingiustizia e povertà sono così diffuse in India? Con ciò Agnivesh non vuole sposare in tutto la critica marxista alla religione, in quanto riconosce un ruolo positivo alle tradizioni spirituali (quando sono strumento di liberazione). Tuttavia il marxismo non è un interlocutore che si possa accantonare a motivo del suo ateismo 7: esso va piuttosto accolto come un paradigma che aiuta a comprendere che “una vera religione e un vero spirito rivoluzionario non sono ostili, ma complementari” 8. Utilizzando tale strumento, egli riconsidera il concetto di karma, che nell’interpretazione popolare è giustificazione di un fatalismo negatore di libertà e rivoluzione. Questa ‘perversione’ del senso del karma è stata 6

Cfr. supra, pp. 121-136. Dopotutto – afferma M. Amaladoss, ripetendo un adagio non del tutto corretto dal punto di vista storico-religioso –, buddhismo e giainismo sono ‘religioni atee’ e dunque se la presenza o assenza di dio dovesse essere un deterrente al dialogo, occorrerebbe bloccare anche tutti i tentativi di dialogo con quelle due ‘religioni’. 8 Agnivesh 1987: 20. 7

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

di fatto elaborata da non meglio precisati, ma chiaramente identificabili, ‘oppressori’ che hanno completamente stravolto la potente teoria del karma e han fatto credere alle masse sofferenti che tutte le loro miserie e le loro sofferenze sono imputabili alle azioni compiute nelle vite precedenti. Un destino siffatto è stabilito dal Dio onnipotente, e non può essere cambiato da nessun mortale. In realtà la filosofia del karma insegna l’opposto. Stabilisce che l’azione umana è al di sopra dei capricci divini, e dice che nemmeno Dio può negare a un essere umano i frutti delle sue azioni. Il karma, in sostanza, esorta a un’azione per la liberazione, con il conseguente risultato certo di un cambiamento sociale 9.

Quanto Agnivesh rimanga inserito nel suo contesto indiano lo dimostra il fatto che la liberazione propugnata dal socialismo vedico si muove in due direzioni. La prima consiste in un cambiamento interiore dell’individuo tramite lo yoga: nel momento in cui questa disciplina permette all’anima di svuotarsi “di tutte le sue percezioni sensoriali, Dio emerge come una esperienza indescrivibile, e l’anima trascende in un regno di pace, assoluta pace” 10. È tuttavia impossibile raggiungere questa pace interiore senza al contempo lottare – e qui è la seconda dimensione del socialismo vedico – contro il negativo esteriore: “la lotta contro la falsità, la schiavitù, un sistema sociale ingiusto basato sulla violenza, l’egoismo e l’usurpazione diviene parte del cammino spirituale di ciascuno” 11 – includendo nelle ingiustizie anche quelle commesse contro la natura (da cui consegue la necessità del vegetarianesimo). In particolare, come già ricordato, Agnivesh sottolinea la necessità di ripensare l’intera struttura indiana alla luce dell’abolizione del sistema castale. L’altra grande figura della ‘liberazione’ indiana è E. V. Ramaswamy (1879-1973), più comunemente conosciuto come Thantay 9

Agnivesh 1987: 19. Agnivesh 1987: 21. 11 Agnivesh 1987: 21. 10

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L’ALTRA LIBERAZIONE

Periyar (‘Father, the Great One’) e famoso per avere dato inizio nel 1929 al Self-respect Movement con il preciso obiettivo di opporsi al dominio dei brahmani e alla religione indù che lo giustificava, tanto più alla luce dell’ingiustizia rappresentata dal sistema castale. Altri intenti erano: “la lotta alla superstizione e alle sue fondamenta, cioè le credenze e le strutture religiose; la liberazione e la promozione delle donne; il sostegno ai lavoratori; il controllo degli abusi connessi ai matrimoni; la promozione del matrimonio fra individui appartenenti a caste diverse e la possibilità di un nuovo matrimonio per le vedove; l’educazione primaria accessibile a tutti...” 12. Tutti i mali in questione – la superstizione, lo sfruttamento di donne e lavoratori, il sistema castale, etc. – s’originavano nella religione, perciò la riforma sociale non poteva esimersi da una lotta contro la religione. Pochi si stupirono quando, nel 1967, Periyar fece ripetere queste sue parole alla folla radunata per ascoltarlo: Dio non esiste. Dio non esiste proprio. Solo uno stupido parla di Dio. Chi diffonde la credenza in Dio è un mascalzone. Chi adora Dio è un incivile 13.

Di qui l’accusa di ateismo spesso rivolta contro Periyar; in realtà ciò che lui criticava era l’aspetto alienante della religione, il suo uso strumentale all’interno di un sistema oppressivo che la religione, con le sue credenze irrazionali, contribuiva a mantenere e giustificare. In altri termini: Periyar nega Dio per affermare l’uomo; critica la funzione alienante della religione, ma non quella profetica di trasformazione del reale. Peryiar “non aveva bisogno di un Dio che avversasse, o disprezzasse o negasse l’umano. Ma non aveva problemi con un Dio che affer12

Amaladoss 1997: 102. Non è stato possibile rintracciare la citazione originale. Amaladoss (Amaladoss 1997: 103) lo cita così nel testo: Jerry 1994, 109, dimenticandosi però di darci precise indicazioni nella bibliografia. 13

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

masse l’umano, che fosse dalla parte dell’uguaglianza, dell’etica, della giustizia e della comunione di sentimenti (fellowship)” 14. Liberazione come progetto interreligioso Abbiamo visto in precedenza come la critica principale mossa da A. Pieris alla teologia della liberazione latino-americana sia che, trasportata in Oriente, essa dimentichi un fattore fortemente caratterizzante l’Asia: l’incidenza dell’elemento spirituale e religioso 15. A ciò va aggiunto che non si tratta di un elemento spirituale che appartiene a una singola religione (come poteva essere il cattolicesimo latino-americano), ma a molteplici religioni e tradizioni spirituali. Infine non va dimenticato, osserva con una certa ironia l’indiano Amaladoss, che “di fatto i cristiani in Asia hanno preso coscienza che la moderna (recente) tradizione di liberazione in Asia, con individui quali Gandhi e Buddhadasa, è più vecchia delle teologie cristiane della liberazione, sia in Asia che altrove” 16. In altri termini: le tradizioni spirituali asiatiche, prima anco14

Amaladoss 1997: 104. Cfr. supra, pp. 137 ss. 16 Amaladoss 1997: 217. Il monaco thailandese Bhikku Buddhadasa (19061993) è il teorizzatore del dhammic socialism, un socialismo ispirato alla tradizione buddhista e che si propone come un modello socio-politico alternativo sia al capitalismo sia al comunismo. Questo socialismo d’ispirazione buddhista va inteso in termini di interdipendenza (il benessere individuale è funzionale a quello sociale, e viceversa) e di compassione: “se ci atteniamo strettamente al Buddhismo, avremo un atteggiamento socialista nel nostro essere stesso. Vedremo la sofferenza dei nostri fratelli e amici – nascita, vecchiaia, malattia, morte – e, dunque, non potremo abbandonarli” (Buddadhasa 1986: 102). Questo atteggiamento permette di superare sia l’egoismo capitalista sia la violenza della lotta di classe comunista, contrari agli scopi del dhammic socialism – che sono pace e armonia –, per fare del mondo il regno del Buddha Maitreya: una realtà senza sofferenza e ingiustizia (cfr. Swearer 1989: 175; 204 ss.). Lo sguardo di Buddhadasa assume dimensioni cosmiche: non solo la razza umana ma 15

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L’ALTRA LIBERAZIONE

ra che dall’America Latina arrivassero le moderne teologie della liberazione, già contenevano e avevano espresso movimenti di liberazione. Alla luce di tutto ciò, e soprattutto tenendo presente che il cristianesimo rappresenta solo una sparuta percentuale della popolazione indiana, si comprende perché Amaladoss sottolinei come la liberazione, nell’intero contesto asiatico, vada intesa primariamente come un progetto interreligioso: In una situazione in cui i fedeli di differenti religioni condividono le medesime strutture politiche, sociali e culturali, se la religione non è confinata nella sfera privata, essi devono essere capaci di collaborare nella difesa e nella promozione dei comuni valori umani e spirituali, anche se ogni gruppo troverà l’ispirazione e la motivazione del suo coinvolgimento nella propria religione 17.

La tesi proposta da Amaladoss è chiara: la religione non è fonte di alienazione e perciò da eliminare, ma strumento di liberazione da strutture sociali opprimenti. In una società multireligiosa, tale funzione liberante può aver luogo solo attraverso un dialogo fra le religioni che si traduce, come già detto, più in una ortoprassi liberante che nella ricerca di una ortodossia comune; l’ortoprassi, a sua volta, diviene una sfida all’ortodossia. Il dialogo dunque non deve limitarsi alle sole astrazioni teoriche, ma deve tradursi in un coinvolgimento pratico nella lotta per la liberazione e nella difesa e promozione di valori comuni. Con coraggio, Amaladoss afferma che tale sfida può indurmi a ripensare le mie stesse prospettive, a vedere nuovi aspetti della mia tradizione che non avevo visto prima, a reinterpretare la mia tradizione, financo ad abbandonare prospettive fino allora date per scontate e “l’intero universo è un sistema socialista. Innumerevoli stelle nel cielo coesistono in un sistema socialista. Proprio perché seguono un sistema socialista, possono sopravvivere. Il nostro piccolo universo con il suo sole e i pianeti, inclusa la terra, è un sistema socialista. Per questo non si scontrano” (Buddadhasa 1986: 34). 17 Amaladoss 1997: 202.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

infine a sviluppare la mia tradizione in nuove direzione, integrandola creativamente con elementi di altre tradizioni. Questo processo mi libera dai condizionamenti sociali, culturali e storici della mia religione – la liberazione della fede e della teologia dalle costrizioni delle mie istituzioni religiose 18.

Il dialogo interreligioso non è solo uno strumento per trovare un ‘terreno comune’ neutro nel quale operare: è ispirazione reciproca, arricchimento e soprattutto critica della propria tradizione religiosa “per uscire dai limiti storici e culturali della propria religione” 19. Amaladoss individua due fondamenti teologici (regnocentrici) per giustificare questo progetto: il primo è che il piano salvifico di Dio si estende a tutta l’umanità, la quale non ha raggiunto nel cristianesimo la pienezza ma è in cammino verso il completamento rappresentato dal Regno di Dio. Il secondo è che in questo cammino verso il Regno di Dio anche le religioni non-cristiane svolgono una qualche funzione positiva. Questa prospettiva regnocentrica è estremamente inclusiva, e ha la sua radice nel fatto che se Dio è uno e uno è il suo progetto salvifico, molteplici sono le culture e i contesti storici nei quali tale progetto si ‘incarna’; di qui la ‘necessità’ di molteplici religioni, capaci di utilizzare simboli e linguaggi diversificati espressioni di quei molteplici contesti. Con queste affermazioni, si può notare, si è già operato il passaggio da una teologia della liberazione a una teologia delle religioni. Ora si può chiudere il circolo ermeneutico e vedere (per l’ennesima volta) come l’incontro/scontro col mondo indiano – dopo aver costretto il cristianesimo a rielaborare i propri codici di senso, prima in una prospettiva di liberazione, quindi in una prospettiva di dialogo interreligioso – abbia finito con l’insidiare le pretese dogmatiche del cristianesimo. Ciò è evidente nel pensiero del teologo americano Paul Knitter, forse la figura più controversa nel dibattito concernente il principio dell’unicità salvifica di Cristo: nella sua ‘teologia degli avverbi’ egli afferma che, sì, 18 19

Amaladoss 1997: 202-203. Amaladoss 1991: 166.

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L’ALTRA LIBERAZIONE

Gesù Cristo è veramente divino e salvatore, ma non è solamente lui il divino e il salvatore 20. La radicalità di questa e di altre affermazioni di Knitter è dimostrata anche dal fatto che un teologo come Hans Küng – certamente non noto per essere sempre in linea con la teologia ufficiale vaticana –, critica fermamente questo suo non attribuire valore normativo e definitivo alla persona di Cristo 21. Paul Knitter Paul Knitter ha elaborato la sua proposta teologica sulla base della propria esperienza nel contesto indiano, da lui definito un “autentico laboratorio per il dialogo” 22: l’esperienza in questo laboratorio gli ha insegnato che non si deve partire dai principi astratti delle varie religioni, ma dalla realtà – così tragicamente presente sul suolo indiano – della sofferenza umana ed ecologica: “sono giunto a comprendere e perfino a percepire non solo le sofferenze degli esseri umani ma di tutti gli esseri senzienti, inclusa la nostra madre Terra. La sofferenza umana ed ecologica è diventata un Altro che ha disturbato la mia vita ancor più dell’Altro religioso” 23. Il rimedio può trovarsi solo in un discorso di liberazione che sia inclusivo della pluralità del religioso 24. Solo in questo contesto si può parlare sia di ‘pluralismo religioso e liberazione’ sia di ‘dialogo e responsabilità globale’: “per essere significativo, un dialogo interreligioso o una teologia delle religioni deve includere una teologia della liberazione” 25. Meglio ancora: “Un dialogo globalmente responsabile è un dialogo consapevole che ogni incontro interreligioso è incom20

Cfr. Knitter 1998: 68-71. Cfr. Küng 1998: 7. 22 Knitter 1998: 264. 23 Knitter 1998: 18-19. 24 Knitter 1998: 31. 25 Knitter 1998: 37. 21

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pleto, forse perfino pericoloso, se non include, in certo qual modo, una preoccupazione e un tentativo per risolvere le sofferenze umane ed ecologiche diffuse nel mondo” 26. Ora, se per portare avanti questo progetto in No Other Name? (1985) Knitter aveva proposto un approccio teocentrico (il dialogo fra le religioni è fruttuoso solo nella misura in cui al centro – come realtà normativa – non si trovino Cristo o la Chiesa, ma Dio) nell’opera che qui prendiamo in esame, One Earth, Many Religions: Multifaith Dialogue and Global Responsibility (1995), l’approccio è invece soteriocentrico: Gesù non è l’unica norma per la salvezza; piuttosto, la strada che permette di avere una chiave ermeneutica funzionale al pluralismo religioso è un dialogo multi-normativo che parte dalla responsabilità, e dalla conseguente necessità di una salvezza, per la sofferenza umana ed ecologica. Per Knitter dunque non si tratta più di cercare un dio ‘comune e nascosto’ nelle varie tradizioni spirituali (perché alla fine ogni religione vedrà nascosto nell’altra religione il proprio dio) o ipotizzare l’esistenza di una religione universale che assume vesti diverse a seconda dei contesti storico-culturali (perché, oltre alla problematica storico-religiosa sull’esistenza della religione, alla fine queste ‘vesti esteriori’ non sono così secondarie all’essenza di ogni singola tradizione religiosa) ma di fare del desiderio di salvezza dalla sofferenza umana ed ecologica il punto di partenza per il dialogo fra le varie tradizioni spirituali. In quest’ottica è necessario superare sia l’esclusivismo (per cui la salvezza si trova solo in Gesù Cristo) sia l’inclusivismo (il Dio rivelato da Cristo è presente anche nelle altre religioni, pur imperfette e corrotte, e perciò necessitanti il compimento offerto da Gesù Cristo) perché in entrambe Cristo è la norma definitiva per la salvezza (ossia Cristo è necessario per conseguire la salvezza). Nelle visioni pluralistiche la normatività di Gesù Cristo è invece relativizzata fino ad affermare, per utilizzare un’espressione di L. Gilkey, una sorta di ‘parità di massima’ 26

Knitter 1998: 39.

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L’ALTRA LIBERAZIONE

fra tutte le religioni 27. Nella proposta di Knitter ciò è da intendersi come riflessione “sulla possibilità e sulla probabilità che la Sorgente della verità e della trasformazione che loro hanno chiamato il Dio di Gesù Cristo possa avere un’altra verità e altre forme di trasformazione da rivelare (accanto a) di quanto sia (è) stato manifestato in Gesù” 28. I cristiani, detto in parole più chiare, potranno iniziare un proficuo dialogo solo nella misura in cui riconosceranno almeno la possibilità che Dio ha comunicato con gli uomini anche in una forma diversa da quella espressa dal cristianesimo, il che non significa annullare le differenze fra le singole tradizioni religiose in un vago relativismo, quanto valorizzarle 29. Oltre i filtri Questo insistere sul valore e sul riconoscimento della differenza fra le religioni (induismo e cristianesimo in primis), piuttosto che su un loro appiattimento fenomenologico è la via che conduce Knitter ad accogliere l’idea postmoderna circa l’esistenza di filtri che incidono sulla nostra interpretazione del reale: esistono degli ‘occhiali storico-culturali’ che ci rendono impossibile conoscere la kantiana ‘cosa in sé’. Knitter riconosce che non v’è un fondamento per, o un’espressione della, o un criterio per la verità che ci venga, per così dire, dato al di fuori della diversità dei filtri storici. Non v’è alcuna prospettiva universale che si libri al di sopra di questi filtri e alla quale ci si possa appellare per la nostra conoscenza della verità. Non esiste nessuna riserva di terreno comune che sia protetta dai limiti della storia o della cultura, dove tutte le differenti culture o religioni possano incontrarsi 27

Cfr. Gilkey 1994: 111-131. Knitter 1998: 61. 29 Knitter 1998: 64. 28

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

per accordarsi sulla verità o per risolvere le loro differenze. E quindi, ogni tentatativo di stabilire tale astorico terreno comune, o tale fondamento universale, dev’essere risolutamente e coraggiosamente decostruito o definito per quello che è: un tentativo di trovare un accesso diretto alla verità che eluda il disordine della diversità e della limitatezza storiche. La diversità non può essere ridotta a un unico fondamento 30.

Radicalizzando il discorso, tutto ciò porrebbe in discussione non solo l’esistenza di un principio ermeneutico di stampo dogmatico, ma anche la possibilità di ‘comparare’ una religione con un’altra: l’impossibilità di gettare i propri filtri renderebbe quantomeno problematica la pretesa di guardare con neutralità metodologica quella ‘parità di massima’ fra le religioni, proprio perché l’una è irriducibilmente diversa dall’altra. Colui che più radicalmente ha applicato questa filosofia postmoderna alla riflessione teologica è stato George Lindbeck il quale, “concependo le religioni come dei filtri che determinano l’esperienza anziché come delle immagini che l’esprimono” 31, trae la conclusione che non vi può essere “un’esperienza intima di Dio comune a tutti gli esseri umani e a tutte le religioni. Non può esservi un centro o un nucleo esperienziale perché, così richiede l’argomentazione, le esperienze che le religioni evocano e plasmano sono tanto varie quanto gli schemi interpretativi che esse incarnano. I seguaci di religioni differenti non tematizzano in modo diverso le medesime esperienze, ma hanno piuttosto esperienze diverse” 32. La religione, in altri termini, non è la ‘traduzione linguistica’ di una esperienza interiore identica per tutte le religioni, ma una ‘costruzione linguistica’ che determina la natura stessa dell’esperienza interiore. Di fronte alla ‘irriducibile diversità’, Knitter si chiede allora quanto sia legittimo portare avanti un dialogo interreligioso: parafrasando un 30

Knitter 1998: 80. Knitter 1998: 82-83. 32 Lindbeck 1984: 40. 31

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esempio sportivo utilizzato dallo stesso teologo americano, sarebbe come volere far dialogare il salto in alto, il calcio, la pallacanestro, la Formula 1, il nuoto, etc., solo in virtù del fatto che sono tutti sport; d’altro canto, nonostante le evidenti differenze, hanno qualcosa in comune. Allo stesso modo, sostengono i teologi pluralisti, le varie religioni hanno qualcosa in comune che può essere la base per il dialogo: nel modello teocentrico, ad esempio, quel qualcosa in comune è dio. Tuttavia “quello di cui questi teologi e filosofi non riescono a rendersi conto è il fatto che stanno concependo questo Dio o questa Realtà stessa mediante dei filtri propri” 33. I pluralisti, in altri termini, credono di pensare in termini universali quando in realtà non fanno altro che imporre la propria particolare visione dell’universale agli altri: per questo Knitter parla dell’imperialismo del pluralismo 34, intendendo con questa espressione il fatto che l’apertura dialogica non risulta essere nient’altro che un modo più sottile e raffinato di affermazione della superiorità di un dio su un altro (o meglio, di una religione sull’altra). Il teocentrismo così si trasformerebbe, secondo l’espressione di Thomas Dean, in un ‘fondamentalismo teocentrico’: la propria comprensione di dio è quella che guida il dialogo 35, non solo snaturandolo ma addirittura aprendosi al rischio di semplificare – come sottolina Panikkar – l’enorme complessità di Dio 36, che viene così ridotto a una sua sola oggetivizzazione particolare pur se ritenuta universale. Questa critica all’universale, la priorità del diverso e del particolare sottolineata dalla critica postmoderna, è presente anche nel discorso sulla liberazione: concetti quali ‘giustizia’, ‘responsabilità globale’, ‘salvezza’ – ma anche lo stesso ‘Regno di Dio’ – risultano concetti vuoti se intesi come universali e non ‘riempiti’ dalle diverse caratterizzazioni culturali e religio33

Knitter 1998: 84. Cfr. Knitter 1998: 83-88. 35 Dean 1987: 24-31. 36 Cfr. Panikkar 1986: 101-120. 34

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

se 37. William Placher, ad esempio, sottolinea come assumendo il concetto di liberazione quale chiave ermeneutica di un dialogo interreligioso, le comparazioni risultano fuorvianti perché liberazione, moksha, mukti e nirva\naÛ non indicano solo ‘vie’, ma anche ‘mete’ radicalmente diverse 38. Un altro esempio di critica all’universale è dato dal teologo Gavin D’Costa, citato da Knitter: “promuovere il benessere umano è inutile comun denominatore [per il dialogo interreligioso], in quanto non specifica nulla in particolare, fino a quando ogni tradizione non si impegni in quello che si intende per ‘umano’ e per ‘benessere’ degli umani [...]. Il ‘regno di Dio e la sua giustizia’ è una frase vuota se non le si dà un contenuto normativo, sia esso cristiano, junghiano o buddhista ecc.” 39. John Milbank ha un approccio simile nei riguardi del concetto di ‘giustizia’, ritenuto tanto occidentale che metterlo al primo posto per giustificare una collaborazione interreligiosa significa occidentalizzare l’intero discorso 40. Il pericolo, insomma, è duplice: o si dà al concetto di liberazione un valore talmente universale che alla fine non vuol dire niente per nessuno; oppure si dà al concetto di liberazione un significato ben preciso, finendo però con l’occidentalizzare anche questo concetto – pur se nella ‘nobile’ direzione offerta dalla cristologia del ‘Sermone della Montagna’, tanto per fare un esempio utilizzando ciò che del cristianesimo ha più ispirato Gandhi. Non va poi dimenticato, osserva il teologo metodista americano John Cobb, che il 37

Cfr. ad esempio MacIntyre 1988. Cfr. Placher 1989: 152. Mark Heim, tuttavia, afferma che proprio questa radicale diversità può essere la base per un dialogo fra religioni: “Il nirva\naÛ e la comunione con Dio sono contradditori soltanto se assumiano che l’uno o l’altra debbano costituire l’unico fato di tutti gli esseri umani”. (Heim 1995: 149). 39 Cfr. D’Costa 1994: 84 ss., citato in Knitter 1998: 88-89. 40 Milbank 1994: 310-336. Knitter comunque critica la radicale dicotomia proposta da Milbank, secondo il quale il modello sociale orientale è basato sull’autoritarismo. Allo stesso tempo, per Knitter è insufficiente il tentativo di John Rawls di trovare una sorta di minimo comun denominatore per il concetto di giustizia nell’idea di offrire a ciascun individuo ‘una chance’ (cfr. Knitter 1998: 89-90). 38

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L’ALTRA LIBERAZIONE

concetto di liberazione e l’impegno per la giustizia in questo mondo, se importanti per un certo cristianesimo, non hanno però un valore altrettanto centrale in altre tradizioni spirituali 41. Per ultimo, un certo assolutismo dato alla categoria della liberazione può essere fastidisamente ipocrita: osserva il teologo indiano S. Anand che “questi teologi [pluralisti] che si rifiutano di giurare in nome di Gesù Cristo sono pronti a giurare in nome della teologia della liberazione” 42, correndo così il rischio di creare un nuovo fondamentalismo. In altre parole: Knitter osserva che la teologia della liberazione, incontrandosi nel contesto indiano con una teologia pluralista delle religioni, finisce con il cadere nelle stesse contraddizioni dei modelli teologici precedenti: se nel modello cristocentrico (e ancor di più in quello ecclesiocentrico classico) “l’occidentalizzazione” della liberazione e della salvezza era palese, e in quello teocentrico appariva in forme più sottili ciò nondimeno smascherate, anche nei modelli regnocentrici e soteriocentrici in definitiva non si fa altro che “occidentalizzare” la liberazione 43. Oltre a questo pericolo di sostituire una normatività palese (Cristo o la Chiesa cattolica) a un’altra mascherata (il concetto di liberazione nel contesto di una teologia pluralista) la critica postmoderna evidenzia come l’invito al pluralismo comporta una occidentalizzazione non solo ‘culturale’, ma anche ‘politico-economica’: il linguaggio non è solo un filtro storico-culturale (come ricordato in precedenza) che ci fa 41

Cfr. Cobb 1994: 177-198. Anand 1991: 404, citato in Knitter 1998: 92. 43 L’onestà intellettuale di Knitter a questo riguardo è mostrata nel suo accogliere la critica fattagli da S. Ogden (che commentava le idee espresse da Knitter in No Other Name?): “mentre gli inclusivisti fanno appello alla salvezza costituita dall’evento di Gesù Cristo, Knitter si appella alla salvezza che si deve realizzare seguendo il Gesù storico nel suo servizio per il Regno di Dio e, quindi, nel promuovere la liberazione e nel trasformare il mondo. In ambedue i casi, comunque, le norme cui ci si richiama sono fornite da una specifica religione o filosofia, che viene pertanto resa normativa per tutti gli altri”. Ogden 1992: 76, citato in Knitter 1998: 91-92. 42

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

leggere/esprimere/costruire la verità in modo storicamente e culturalmente condizionato, ma anche un filtro politico-economico. È stato Michel Foucault a sottolineare con forza la natura politica del linguaggio, e anche se Knitter non condivide tutto del pensiero di Foucault ne accoglie l’idea centrale: “noi collaboriamo con il potere quando facciamo delle asserzioni su ciò che è effettivamente vero, valido, benefico per tutti i membri della società” 44. In altri termini: quando il dialogo interreligioso si sviluppa concentrandosi su concetti ‘occidentali’ quali liberazione e giustizia – o nella parole di H. Küng, di una ‘responsabilità globale’ fondata su ‘un’etica globale’ – non si può non constatare o far finta che non esiste, a monte, una ‘ineguale distribuzione del potere’ dove il manico del coltello è dalla parte occidentale. Dal colonialismo si è passati a un neocolonialismo che è un progetto globale nel quale l’Occidente gioca sempre la parte del leone e il ‘pluralismo’ di cui sopra, annullando o ritenendo marginali le differenze (ad esempio di genere, di razza, di classe, di orientamento sessuale, di identità nazionale e le stesse specificità religiose in quanto prodotti storici e culturali) nella ricerca di una base universale comune per il dialogo, rischia di divenire una pedina in questo gioco di potere 45. Knitter conclude questa sua riflessione facendo riferimento a quei teologi che, ispirati dal pensiero postmoderno fin qui espresso, hanno elaborato un discorso postliberale 46: Knitter lo definisce ‘la politica post-liberale del buon vicinato’ 47. L’idea base è che non esiste alcun terreno comune, 44

Knitter 1998: 95. Cfr. Knitter 1998: 96-98. 46 In particolare: H. Frei, The Eclipse of Biblical Narrative, Yale University Press, New Haven 1974; S. Hauerwas, The Identity of Jesus Christ, Fortress Press, Philadelphia 1975; Id., Against the Nations, Winston Press, Minneapolis 1985; G. Lindbeck, The Nature of Doctrine: Religion and Theology in a Postliberal Age, Westminster Press, Philadelphia 1984; Placher 1989; P. Griffiths, An Apology for Apologetics: A Study in the Logic of Interreligious Dialogue, Orbis Books, New York 1991. 47 Cfr. Knitter 1998: 99 ss. 45

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L’ALTRA LIBERAZIONE

ma solo dei ‘giardini’ (o più filosoficamente: “il loro sistema linguisticoculturale che fornisce le credenze o le norme in virtù delle quali la vita ha un senso”) 48 nei quali si situa ogni tradizione religiosa con i propri occhiali, i propri filtri storici, culturali e politici. Ciò che possiamo fare è prenderne atto e cooperare coi nostri vicini, “senza andare in cerca di norme o di presupposti universali per la conversazione umana in generale” 49, ossia dobbiamo abbandonare il desiderio di elaborare un metodo comune per dialogare a tutti i costi, perché si può correre il rischio, come espresso finora, o di imporre i ‘filtri’ del nostro ‘giardino’ agli altri o di perdere la specificità del nostro ‘giardino’ in quello altrui. Ciò che va fatto invece è da una parte difendere l’identità del proprio ‘giardino’ e dall’altra dialogare solo quando si configura una necessità pratica e concreta 50. L’India e la sofferenza umana ed ecologica Dopo aver accolto gli spunti della riflessione postmoderna, Knitter espone la sua visione per un dialogo globalmente responsabile nel quale la salvezza è vista nell’impegno per il benessere eco-umano: il riconoscimento della radicale diversità esistente nel mondo, cioè, non ci deve portare a una immobilità che è in ultima analisi accettazione delle ingiustizie umane ed ecologiche. È necessario trovare un’esperienza comune da cui partire, e per Knitter questa non è un astratto sistema filosofico ma la concreta realtà della sofferenza: “se è vero che dobbiamo apprezzare la nostra diversità, dobbiamo anche discernere quello che ci può unire in un impegno e un’azione comuni per alleviare le sofferenze degli esseri umani e del pianeta” 51. In altri termini: la responsabilità 48

Knitter 1998: 99. Cfr. Placher 1989: 167-168 e Werpehowski 1986: 282-301, citati in Knitter 1998: 101. 50 Cfr. anche Knitter 2005: 362-368. 51 Knitter 1998: 107. 49

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

politica globale e il riconoscimento della diversità non hanno il medesimo ‘peso’: non possiamo trascurare questa sofferenza planetaria in nome dell’accettazione ermeneutica della diversità di ogni singola religione e cultura. Il compito teologico è piuttosto quello di trovare una via di mezzo fra la modernità (e dunque il riconoscimento dell’universale) e la postmodernità (dunque il riconoscimento del particolare): “sopra gli abissi della diversità si possono costruire dei ponti di comunicazione” 52, e per Knitter questo ponte è, ripetiamolo, la “soteria”: una responsabilità globale per la salvezza dalla sofferenza umana ed ecologica, che a sua volta viene a generare una solidarietà fra gli esseri umani e le religioni – quella solidarietà che David Krieger, rifacendosi a R. Panikkar, chiama ‘cosmoteandrica’ 53. E, afferma Knitter, proprio perché la sofferenza umana ed ecologica è sia universale che immediata può servire a tutte le persone religiose come comune contesto e criterio per valutare le rivendicazioni o pretese di verità avanzate dalle varie religioni. Nella sua universalità, la sofferenza umana ed ecologica interpella e colpisce tutti noi; nella sua immediatezza possiede una realtà cruda ed una sfida che sta in qualche modo al di là delle nostre diverse interpretazioni di esse 54.

Knitter fa un esempio concreto: “l’immagine cruda di un bambino affamato a causa della povertà o di un lago inquinato a causa di uno scarico chimico ha una immediatezza che va ben oltre le nostre interpretazioni culturali di tale fatto. Incombe su di noi e ci interpella prima che lo possiamo comprendere o interpretare pienamente. È questa faccia della sofferenza, che ci interroga, che consente alle religioni di confrontarsi ed interrogarsi a vicenda e di giungere a comuni giudizi concernenti la verità. Quindi, la preoccupazione per criteri etico-politici di fronte alla sofferenza può operare e funzionare trans-culturalmen52

Knitter 1998: 142. Krieger 1990: 231. 54 Knitter 1998: 218. 53

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L’ALTRA LIBERAZIONE

te” 55. Come nella più autentica teologia della liberazione, dunque, questa teologia delle religioni si ritraduce in un discorso pragmatico e politico. Knitter cita queste parole di Gandhi: “posso dire senza la minima esitazione, ed anche in tutta umiltà, che quelli che affermano che le religioni non hanno nulla a che fare con la politica non sanno che cosa significhi religione” 56, per elaborarle poi in un linguaggio più articolato: “in un mondo postmoderno, in cui il nostro riconoscimento della decostruzione ha condotto ad una fervida, ma spesso futile, voglia di ricostruzione, la politica dovrà creare nuove alleanze con la religione e la religione dovrà dare il proprio sostegno etico alla funzione della politica” 57; e tutto questo avviene perché, come ha ricordato il cingalese A. Pieris, “la religione è primordialmente un movimento di liberazione, se vista nel contesto delle sue origini, sebbene essa tenda in seguito ad essere addomesticata da ideologie varie; vale a dire, la religione rimane sempre potenzialmente liberatoria, anche se effettivamente a servizio di strutture non liberatorie” 58. Questo articolato discorso viene infine contestualizzato alla situazione indiana. Lo sviluppo di una teologia della liberazione autenticamente indiana, sostiene Knitter, non può fare a meno di prendere in considerazione il pluralismo religioso che caratterizza l’India; allo stesso tempo il dialogo interreligioso, per essere autentico, deve impegnarsi nella liberazione umana ed ecologica. Knitter cita una risoluzione dell’Indian Theological Association: “ci siamo convinti che ogni autentica e vitale teologia di pluralismo religioso possa emergere solo dal contesto di una prassi interreligiosa di liberazione, di dialogo e d’inculturazione” 59. È in questo contesto che Knitter entra nel merito della questione della ‘rivalità’ – tipicamente indiana – fra contemplativi (che sono rappresentati 55

Knitter 1998: 218-219. Gandhi 1957: 504, citato in Knitter 1998: 179. 57 Falk 1988: 378, citato in Knitter 1998: 134. 58 Pieris 1989: 296, citato in Knitter 1998: 178. Corsivo nel testo. 59 Citato in Knitter 1998: 266. 56

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

dalle esperienze prodotte dagli as\ hram) e liberazionisti (che sono rappresentati dalle esperienze delle ‘comunità di base’): se è vero che la contemplazione delle Realtà Ultime è un tratto tipico di una certa religiosità indiana (e dunque un cristianesimo inculturato non può escluderlo a priori), Knitter non nasconde la sua preferenza per il secondo tipo di esperienza. La ragione è spiegata in un passo che merita di essere riportato nella sua interezza: Sembrano esserci situazioni in cui il dialogo di contemplazione può effettivamente divenire un ostacolo per il dialogo di liberazione. Più precisamente, i proponenti di una religione e di un dialogo orientati alla liberazione fanno rilevare agli ashramiti che, nel dialogare con esponenti dell’induismo tradizionale (com’è capitato in linea di massima nella storia degli a\shram cristiani), essi spesso pregano e meditano con i guardiani di una struttura religiosa che continua a sostenere una casta ed un sistema sociale che detiene i Dalit, le popolazioni tribali e le donne in una ben custodita prigione di sfruttamento e di schiavitù. Come sembrano indicare le testimonianze, i tentativi da parte degli ashramiti cristiani di sollevare queste questioni concernenti la caste e le morti naturali [in nota nel testo: donne vengono ‘accidentalmente’ assassinate dai propri mariti o dalla famiglia del marito quando non è stato pagato un ulteriore incremento di dote richiesto dalla famiglia dello sposo] troppo spesso si imbattono in un cortese, religioso silenzio; nulla in realtà cambia 60.

Continuare un dialogo a queste condizioni vorrebbe dire (indirettamente, ma non troppo), riconoscere un sistema religioso fautore di ingiustizie e sofferenze. Bisogna allora avere il coraggio di prese di posizioni radicali: se davvero l’induismo brahmanico è stato e continua ad essere un bastione o un fondamento per pratiche oppressive, allora il dialogo potrà solo essere condizionato. Un cristiano, mi pare, può dialogare con una tradizione di questo genere solamente se il cristiano – con attenzione e rispetto ma chiaramen60

Knitter 1998: 276-277.

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L’ALTRA LIBERAZIONE

te e fermamente – prima esprima una critica profetica. E se il partner del dialogo si rifiuta di dialogare a motivo di questa critica, di prendere in esame l’uso impropriamente oppressivo della religione, allora il partner cristiano, a mio avviso, deve scuotersi la polvere dai piedi e andare in altre città o villaggi, dove il dialogo può includere la liberazione 61.

La situazione è resa ancor più complessa dal fatto che, nonostante la tanto pubblicizzata ‘tolleranza’ indiana, la religione è stata più un agente di divisione (o, in termini più positivi: di affermazione della propria identità) che di unione, e ciò fin dai tempi dell’invasione degli Arii, quando migliaia di anni fa giunsero in India e assoggettarono i Dravidi dando poi origine, secondo la teoria più comunemente accolta, al sistema castale. Lo stesso schema di un uso strumentale della religione si è poi ripetuto con l’arrivo dei musulmani e dei cristiani, fino a giungere ai fondamentalisti indù contemporanei che vogliono sottomettere i gruppi indigeni in nome dell’induismo. In poche parole: la storia dell’abuso della religione in India è ben documentato, ragion per cui ogni autentico “dialogo di liberazione” potrà avvenire solo dopo una previa ‘purificazione’, come sostiene Samuel Rayan: “il dialogo [in India] non è autentico finchè non conduce alla reinterpretazione o al rifiuto di tutti gli aspetti oppressivi dell’eredità religiosa di ambedue i partecipanti” 62. L’analisi di Knitter prosegue facendo esempi concreti di esperienze di “dialogo di liberazione” in India, proprio perché l’India, come già ricordato, è da lui considerata un laboratorio privilegiato per il dialogo 63. Non ci addentreremo nella casistica dei vari ‘luoghi’ d’incontro: quanto detto può ritenersi sufficiente a chiarire il punto di vista del teologo americano, che conclude il suo discorso con l’auspicio che l’India possa essere davvero la terra dove molte religioni, unite dal61

Knitter 1991b: 29-30. Rayan 1989: 70, citato in Knitter 1998: 272. 63 Knitter 1998: 264. 62

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

la loro responsabilità globale, possano gettare le basi per la creazione di un sistema di compatibilità: Il subcontinente indiano, lo ritengo e lo spero, è chiamato oggi a dare un altro grande contributo alla storia religiosa dell’umanità. Proprio come nelle ere passate è stato il luogo di nascita di alcune delle più ricche tradizioni religiose mondiali e poi la madre che le ha alimentate, così oggi può fornire al mondo nuovi modelli di come i diversi membri della famiglia religiosa possano vivere ed operare insieme. Anche se oppresse, l’India e lo Sri Lanka hanno molto da insegnare al mondo 64.

Al termine di questa analisi appare peraltro chiaro che cosa, per Knitter, esse hanno da insegnare al mondo. Vale a dire: di fronte alla presa di coscienza dell’enorme complessità della situazione s’è abbandonato il tentativo di costruire una sintesi, tutto sommato artificiale e astorica, fra induismo e cristianesimo, passando invece a un obiettivo più realistico e calato nella storia: la sofferenza umana ed ecologica diviene il punto di partenza per favorire la creazione di una compatibilità fra i due orizzonti, senza però volere con questo, né da una parte né dall’altra, forzare alcuna fusione.

64

Knitter 1998: 298.

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CONCLUSIONE *

L’incontro fra gli orizzonti dell’induismo e quelli del cristianesimo è tra i più complessi per un’analisi storico-religiosa 1: tradizioni millenarie con elaborati sistemi di pensiero e ritualità si confrontano su molteplici piani, mostrando all’occhio attento la necessità di un dialogo interreligioso e interculturale inteso come creazione di un sistema di comunicazione nel quale i due orizzonti – quello indiano e quello cristiano –, possono scambiarsi sia le proprie specifiche ermeneutiche del senso sia i processi decisionali che esse generano: ortodossia e ortoprassi non più come monadi isolate e incomunicabili che si scontrano e tendono all’annullamento reciproco, ma tali da aprire canali che siano poi preludio alla creazione di un sistema di compatibilità opposto a un fondamentalismo religioso e culturale. Aprirsi al confronto, volutamente oltrepassando i confini di entrambi gli orizzonti di senso, permette di scardinare quanto di accidentale vi è all’interno dell’induismo e del cristianesimo, di modo che il *

Una versione ridotta di questa Conclusione è stata pubblicata su Prometeo (cfr. Mapelli 2007b). 1 Ricordiamo, come già chiarito nell’Introduzione, che i termini-concetti cristianesimo/i e induismo/i vengono utilizzati anche in questa Conclusione nella loro accezione ermeneutica più vasta, mantenendo sempre sullo sfondo la consapevolezza della complessità dei volti assunti da entrambe le ‘religioni’ sia in una prospettiva diacronica, sia in una prospettiva sincronica.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

dialogo possa attuarsi nella più profonda dimensione sostanziale invece che in quella periferica e formale – senza per questo seguire la ‘sirena’ di un misticismo ove tutte le vacche sono nere, o quella di una superreligione unica e universale, come prospettato da Vivekananda: il luogo di compatibilità dei due orizzonti non sarà cioè un unico ‘mega-orizzonte’ ma i canali stessi che si sono aperti fra induismo e cristianesimo. Proprio per questo il dialogo fra i due orizzonti ha una sua utilità: come sotto la spinta dello strutturalismo e di altre filosofie le principali discipline scientifiche hanno da tempo iniziato a interrogarsi sulla validità dei propri metodi di ricerca e delle proprie prospettive di senso, allo stesso modo l’incontro fra induismo e cristianesimo costringe entrambi gli orizzonti a interrogarsi sulla validità dei propri codici, oltre ogni assolutismo astorico. Lo studio del confronto fra l’orizzonte induista e quello cristiano diviene così un interessante laboratorio che, proprio in virtù della sua complessità, può stimolare la ricerca di quella compatibilità fra codici di senso in grado di soppiantare le pretese universalistiche ed egemonizzanti delle strutture di senso attuali. Siamo favoriti, in ciò, dal fatto che qui non siamo di fronte a uno ‘scontro di civiltà’ che genera il timore che può suscitare – ad esempio – l’incontro fra cristianesimo e islam, quanto a una reale possibilità di incontro che non genera scontro: la proposta di alcuni settori dell’induismo di una ‘riduzione’ della normatività di Gesù Cristo (ossia: Cristo interpretato semplicemente come una delle tante vie per la salvezza), non genera da parte cristiana una rappresaglia terroristica contro i templi indù, allo stesso modo che la centralità assunta dalla questione delle caste, dei Dalit, degli Adiva | \si, delle donne e dell’ecologia nella teologia della liberazione sorta nel contesto indiano non genera da parte induista il desiderio di distruzione di chiese cattoliche. Pur con gli inevitabili irrigidimenti di gruppi estremisti in entrambi gli orizzonti, cristianesimo e induismo hanno la reale possibilità di incontrarsi in una dimensione di sostanziale nonviolenza, anche se il confronto fra i due orizzonti è inevitabilmente causa di contrasti non indifferenti, il principale dei quali concerne il 214

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CONCLUSIONE

ruolo di Cristo, che molti vorrebbero volentieri ridurre a un semplice avata\ra dell’Assoluto. Di fatto, questa riduzione di Cristo a un avata\ra dell’Assoluto è forse la più nota delle provocazioni sorte dal confronto fra orizzonti cristiani e orizzonti indiani, ragion per cui non ci soffermiamo ulteriormente su questa specifica tematica 2; preferiamo piuttosto accennarne altre due, di particolare interesse in un’analisi storicoreligiosa per le conseguenze che potrebbero avere sulla creazione di un sistema di compatibilità fra i due codici di senso (induismo e cristianesimo), sia sul piano dell’ortoprassi sia su quello dell’ortodossia: il rituale e la morte. Di fatto, non sfugge all’osservazione dello storico delle religioni la centralità del rituale nel mondo indiano: come, ad esempio, sviluppare una riflessione sul rapporto fra induismo e cristianesimo senza fare almeno un riferimento alla tematica del sacrificio? L’idea è talmente palese che già uno dei primi riformatori neo-induisti, il brahmano Krishna Mohan Banerjea (poi battezzato al cristianesimo), propose una prima compatibilità fra i due orizzonti affermando che Gesù di Nazareth era il vero Praja\pati, in tal modo cercando di mettere d’accordo prospettiva induista e cristiana 3. Di fatto, come ricorda J.-P. Vernant, se il sacrificio vedico è “il prototipo dell’atto creatore, fondatore, che produce e organizza l’universo nella sua totalità” 4, il confronto col Logos giovanneo e il sacrificio di Cristo risulta immediato. In altri termini: se il rito mette in luce, con chiarezza, i codici di senso interni a un orizzonte (su un terreno in cui teoria e pratica si incontrano e si fondono) allo stesso tempo esso può divenire un vero e proprio laboratorio per generare compatibilità fra orizzonti: si pensi ai tentativi di inculturazione del rituale della messa cattolica al contesto indiano, o si pensi alle esperienze degli a\shram indù-cristiani spesso criticati per le modalità 2

Cfr. supra, pp. 76-77. Cfr. Banerjea 1903. 4 Vernant 1982: 35. 3

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

estreme alle quali, a volte, si sono abbandonati per creare nuovi codici di compatibilità. È innegabile, in altri termini, che ‘allargando’ le modalità di espressione rituale in virtù del confronto fra i due orizzonti si apre anche la strada a un sistema di compatibilità più vasto, la cui complessità teorica viene ‘ridotta’ nella semplicità operativa del rito. In questo confronto né il cristianesimo né l’induismo sono monadi autoconcludenti, ma sistemi che possono costruire storicamente la loro identità non solo in virtù della loro storia interna (diacronica) ma anche grazie alle reciproche relazioni che si sviluppano nell’orizzonte di quel presente in cui i due universi si incontrano. L’accento che così sembra porsi sull’analisi della sincronia non fa comunque dimenticare la dimensione diacronica dell’incontro, perché nell’analisi storico-religiosa si tratterà di individuare come l’interazione fra i due orizzonti abbia generato molteplici codici di senso e possa generarne di nuovi nel continuo cambiamento delle relazioni fra induismo e cristianesimo. In particolare, connesso a questo ultimo punto, compito di analisi future sarà quello di analizzare con onestà come l’esplosione di senso causata dallo scontro fra i due orizzonti possa portare a rivedere realtà che la nostra tradizione ci ha fatto finora interpretare col codice della religione (le caste, ad esempio, e le divinità a esse connesse) e rivederle integrandole con altri codici di senso (per rimanere nell’esempio delle caste, sarà sufficiente ricordare le analisi di L. Dumont del dio tamil Ayanar o quelle di D. Visca sugli ‘intoccabili’) 5. Lo stesso dicasi della ‘questione’ della morte. Certo, l’Occidente ha concettualizzato questo limite estremo attraverso il codice della religione, con la diretta conseguenza che tutto ciò che aveva a che fare con la morte (inteso come datore di senso della morte) veniva automaticamente interpretato come religione. L’analisi storico-religiosa mostra invece che, nel confronto con l’induismo, il problema assume una complessità maggiore: l’evento-limite è risolto, tanto per sollevare una sola fra le tante possibili comparazioni, in modo 5

Cfr. Dumont 1986: 107-126; Visca 1990: 403-426.

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CONCLUSIONE

differente dai due orizzonti: nel cristianesimo in un atto fondante del Principio (Cristo, tramite la sua resurrezione) e dunque in un processo religioso teleologico (la morte dona il senso alla vita inserendola nel metastorico e nel soprannaturale); nell’induismo in un ‘cammino aperto’ attraverso varie dimensioni naturali e sociali dove l’individuo, come ci insegna L. Dumont in Homo Hierarchicus 6, non è una monade autoconcludente ma un progetto frutto di molteplici relazioni non solo sincroniche ma anche diacroniche, queste ultime non necessariamente legate all’umano (si pensi alla possibilità dell’apparire nel cammino del karma in elementi animali e vegetali): in questo caso, dunque, l’esplosione generata dal confronto fra i due orizzonti, cristiano e induista, è quella di imporre un allargamento dei codici di interpretazione dell’evento-morte, non riducendoli al solo metastorico e al soprannaturale come verrebbe spontaneo nel codice della religione occidentale. La globalizzazione del ‘mercato religioso’ Duemila anni di interazioni (se si accolgono le tradizioni che fanno coincidere l’arrivo del cristianesimo in India con la predicazione dell’apostolo Tommaso) non possono essere qui riassunte. Quello che possiamo rilevare è che l’incontro fra i due orizzonti è divenuto sempre più complesso col passare del tempo, e vi sono buone ragioni per ritenere che in futuro la ‘situazione dialogica’ fra cristianesimo e induismo si complicherà ulteriormente. La ragione va ricercata in una globalizzazione che ormai s’è imposta come modello non solo economico, ma anche culturale – coinvolgendo di conseguenza anche i fenomeni religiosi e costringendo a una loro reinterpretazione nel contesto del ‘villaggio globale’. L’effetto principale di questa globalizzazione dei ‘mondi di vita’, per usare l’espressione di J. Habermas, è stato almeno da parte 6

Cfr. Dumont 1991.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

occidentale uno spostamento di accento: dal chiedersi (se mai ci si fosse posti veramente il problema) quale fosse la ‘vera’ tradizione spirituale (con la conseguente necessità di conversione – volontaria o forzata – da quella ‘falsa’ a quella ‘vera’ per assicurarsi la salvezza), si è passati prima a esplorare se fossero possibili delle sintesi fra i diversi orizzonti (ad esempio a livello filosofico o mistico) per poi giungere a domandarsi, sulla linea di teologi quali H. Küng e P. Knitter, come fosse possibile far coabitare pacificamente le varie tradizioni religiose (e laiche) in modo tale che esse potessero contribuire alla costruzione di un’etica di pace e responsabilità globale nei confronti sia dell’umanità sia dell’ambiente; in particolare, la sofferenza umana ed ecologica come punto di partenza per costruire una compatibilità fra i due orizzonti, senza più voler forzare alcuna fusione teorica fra essi 7. La necessità di questa riflessione si è fatta pressante a partire dagli anni Novanta del XX secolo, quando alla conclusione della guerra fredda fra USA e URSS ha fatto seguito un’ondata di nazionalismi etnici e religiosi in ogni parte del mondo, India inclusa 8. M. Juergensmeyer, analizzando il fenomeno, ha parlato della nascita di una nuova guerra, e nemmeno tanto fredda, fra un Occidente laico e i vari nazionalismi religiosi: “come la vecchia Guerra Fredda il confronto tra queste nuove forme di politica basate sulla cultura e lo stato laico è globale nella sua portata, binario nell’opposizione, occasionalmente violento ed essenzialmente basato su una differenza di ideologie” 9. Ciò mette in luce come il discorso fatto finora sul rapporto fra orizzonti cristiani e indiani debba essere considerato in un contesto globale e globalizzante: anche l’India è parte di quel network di comunicazioni fra vari orizzonti 7

Cfr. ad esempio Küng 1991 e Knitter 1998. Come testimoniato non solo dalle tragiche conseguenze della scissione dell’unità indiana fra India e Pakistan o dall’assalto della moschea di Ayodhya da parte di fondamentalisti indù (nel 1992), ma anche dalle difficoltà pratiche dei cristiani e dei gruppi tribali presenti nel subcontinente indiano. 9 Juergensmeyer 1993: 2, citato in Kurtz 2000:14. 8

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CONCLUSIONE

e ne risente l’influsso; anche in India, cioè, non abbiamo solo un incontro/scontro fra tradizioni spirituali (autoctone o ‘importate’), ma pure un incontro/scontro fra queste e una laicità indiana. Allo stesso tempo quelle riflessioni ci suggeriscono una linea metodologica dove, accanto agli strumenti della storia delle religioni, risultano utili quelli della sociologia delle religioni. In particolare, risulta utile ai fini della nostra indagine la ‘riqualificazione’ del concetto di religione come ‘motore’ di quel processo di costruzione di un universo simbolico, allo scopo di esplicitare ciò che una società ritiene, secondo l’espressione del teologo P. Tillich, di ‘fondamentale interesse’. In questa ottica possiamo rilevare come lo scontro/incontro fra cristianesimo e induismo abbia avuto l’effetto, almeno per un osservatore esterno, di mettere in luce come nell’attuale mondo post-moderno nessun ‘motore’ di creazione simbolica abbia più il monopolio sulla storia e sul mondo: la globalizzazione del mercato e la libera concorrenza hanno creato una sorta di globalizzazione della cultura in cui sul mercato religioso le varie tradizioni spirituali sono, o perlomeno appaiono, in concorrenza. Certo, l’espressione ‘mercato religioso’ può essere fonte di equivoci e ad alcuni può addirittura risultare fastidiosa; dai sociologi della religione è ritenuta tuttavia un’utile metafora per indicare il fatto che in una situazione multiculturale va affermandosi la tendenza a non accogliere passivamente un sistema di credenza solo perché è quello tradizionale in una cultura specifica, quanto a sceglierne attivamente uno, allo stesso modo dei consumatori che sul mercato scelgono fra diversi prodotti quello giudicato più rispondente alle proprie esigenze 10. Di qui l’importanza attribuita agli ‘impresari spirituali’ (secondo l’espressione che il sociologo A. M. Greeley utilizza per descrivere il mercato religioso americano) 11 che devono ‘piazzare’ il proprio ‘prodotto’ su un ‘mercato religioso’ altamente competitivo. Se comprensibili in un con10 11

Cfr. Warner 1993: 1044-1093. Cfr. Greeley 1989.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

testo statunitense, dove la massmediazione della religione è un fenomeno molto diffuso, queste metafore parranno un po’ eccessive nel contesto indiano; esse tuttavia esprimono con immagini efficaci gli effetti della situazione pluralistica creatasi in India nel corso della sua lunga storia, situazione resa ancor più complessa dalle interazioni con il cristianesimo e l’Occidente globalizzante. Vi è di più: se è vero che può essere problematico e altamente riduttivo paragonare l’acquisto di un bene di consumo alla opzione per una data religione, è pur vero, come osserva il sociologo L. R. Iannacone 12, che in particolare da parte di certi sottogruppi la scelta di un ‘prodotto’ controverso e in contrasto con quello predominante sul ‘mercato religioso’ produrrà (anche se attraverso sacrifici individuali, stigmatizzazioni, esclusioni e marginalizzazioni), un rafforzamento della propria identità specifica rispetto a quella del gruppo dominante: proprio ciò che in India è accaduto con la scelta, da parte di molti Dalit e tribali, di convertirsi al cristianesimo rifiutando l’induismo ‘ufficiale’. L. R. Iannacone giunge perfino a suggerire che possa esservi una deliberata creazione di tensioni fra varie tradizioni spirituali proprio per rendere più appetibile, ai gruppi marginali, la scelta dell’una rispetto all’altra: in quest’ottica saremmo quasi indotti a guardare con sospetto all’esclusivismo elaborato da una certa teologia della liberazione dalit – che inizia e termina il proprio circolo ermeneutico all’interno della situazione dalit, allo scopo di abolire il sistema castale 13 – o a leggere in una nuova luce le critiche dei fondamentalisti indù all’interesse mostrato dalle Chiese cristiane per il ‘benessere’ dei gruppi tribali. Si comprende in questa prospettiva l’impiego da parte di M. Weber della metafora goethiana delle ‘affinità elettive’ per indicare lo stretto legame che viene a costituirsi fra le idee e gli interessi particolari di un certo ceto sociale – o per dirla in maniera più elaborata, fra una cultura e la struttura sociale, o 12 13

Cfr. Iannacone 1988: 241-268; Iannacone 1992: 271-291. Cfr. Stanislaus 1999: 182.

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CONCLUSIONE

fra una religione e precisi gruppi etnici o strati sociali. Ossia: si finisce per scegliere, dal ‘mercato religioso’, il prodotto che meglio di altri può promuovere i propri interessi: gruppi élitari sceglieranno (o manterranno) una religione che permetta loro di conservare la struttura sociale dalla quale traggono beneficio, mentre gruppi marginali sceglieranno (o manterranno) una religione che permetta loro di sovvertire quella struttura sociale per loro fonte di ingiustizie: è il caso della polemica della teologia della liberazione dalit non solo contro l’induismo brahmanico, sostenitore del sistema delle caste, ma anche contro tutti quei tentativi di dialogo indù-cristiano che muovono dal presupposto che la vera India è quella dell’induismo ufficiale dei brahmani, delle vette delle intuizioni mistiche, e non quella della massa dei diseredati oppressi dal sistema castale, dal caos ecologico e dall’avanzare della ‘occidentalizzazione del mondo’ anche nelle aree più remote. Ciò spiegherebbe, almeno in parte, l’affinità elettiva che si viene a creare fra Dalit e cristianesimo, o fra i gruppi tribali e il cristianesimo. La modernità e la religione ‘borghese’ Detto in altri termini, il confronto fra induismo e cristianesimo deve essere analizzato sullo sfondo di quel complesso fenomeno che è la modernità, fenomeno che l’India iniziò a respirare grazie alla mediazione coloniale britannica. Non si trattò comunque di un assorbimento passivo: tra le varie reazioni alla modernità occidentale la più nota è sicuramente quella di Gandhi, il quale criticava l’Occidente proprio per la sua mancanza di ‘senso religioso’, carenza che gli faceva considerare l’Occidente come una realtà che da un lato diffondeva l’ateismo, e dall’altro propugnava l’abbandono della religione tradizionale indù. Non era infatti mistero che molti britannici (e occidentali in generale) interpretassero l’induismo come una vuota superstizione (superstizione che vedevano confermata da usanze considerate ‘barbare’: la satı,\ il matrimonio dei bambini, il sistema castale e le ‘orribili’ rappresentazioni teriomorfe delle divi221

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

nità) che intralciava lo sviluppo culturale e sociale dell’India. In altre parole: non vi è alcun dubbio che molti indiani avessero visto come un pericolo per la propria identità nazionale la rivolta contro la religione tipica – almeno a partire dall’Illuminismo – di un certo mondo occidentale. Come la scienza e la democrazia avevano scardinato l’ancien régime europeo, allo stesso modo il pericolo che la modernità si diffondesse in India attraverso il ‘cavallo di Troia’ del cristianesimo veniva avvertito come reale: avrebbe cioè la venuta del cristianesimo veicolato quella della modernità, e avrebbe questa prodotto il tracollo della millenaria civiltà indiana? In realtà i timori si mostrarono infondati, e non solo per la condanna del modernismo fatta da Pio X che, almeno su un piano teorico, sembrò separare una certa ‘modernità’ dal cristianesimo. Di fatto, se l’Illuminismo e la modernità sollecitavano la sostituzione del paradigma religioso con quello scientifico, in sostanza il progetto rimase irrealizzato: quello che avvenne fu piuttosto una singolare metamorfosi del ‘religioso’ che, trasponendo il paradigma democratico al proprio interno, cercò di minimizzare i conflitti confinandosi nella sfera privata: l’esito del relativismo modernista fu, in ultima analisi, un appello alla privatizzazione della religione, una interiorizzazione che la allontanò dalla sfera pubblica: un imborghesimento della religione, per dirlo con un linguaggio mutuato dalla teologia della liberazione. L’emergere sempre più prepotente del ‘villaggio globale’ anche nel contesto indiano ha fatto però saltare questa ‘compartimentalizzazione’ degli ambiti (ad esempio: la religione tratta la sfera interiore, la politica e l’economia quella esteriore) che una certa modernità aveva auspicato: in un ‘mercato religioso’ così competitivo e variegato quale quello indiano, infatti, ogni tradizione spirituale si è vista costretta a ripensare i propri codici di senso e di espressione simbolica oltre ogni schema prefissato. In questa luce si potrebbero rileggere, ad esempio, quei tentativi estremi di comunicare a dei ‘consumatori’ indiani la figura ‘indianizzata’ di Cristo, sia facendolo pellegrino alla ricerca della sapienza spirituale indiana alle falde dell’Himalaya (come in certe tradizioni esoteriche) sia riducendolo a uno dei tanti avatar\ a dell’Assoluto; sempre in questa lu222

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CONCLUSIONE

ce, ma da un punto di vista meno estremizzato, si potrebbero rileggere sia gli inviti a ‘uscire dal tempio’ per andare incontro alla sofferenza umana ed ecologica (è l’ottica della teologia della liberazione sorta nel contesto indiano) sia le sollecitazioni ad integrare la liberazione sociale e politica con un dialogo interreligioso (è quanto prospettato dalla teologia delle religioni) alla ricerca di un sistema di compatibilità più vasto, ossia che non si riducesse all’andar d’accordo solo perché si decide di restringere la religione alla sfera privata della propria ‘anima’, o nei confini del proprio tempio o chiesa, evitando in tal modo conflitti esteriori. Anzi, le critiche di S. Kappen al ‘Non-dio’ o di T. Balasuriya al ‘religionismo’, tanto per ricordare solo due fra i teologi che abbiamo presentato, hanno portato il discorso su ambiti più vasti: il pluralismo religioso dell’India è stato sì fonte di crisi nell’incontro/scontro fra codici di senso (giungendo fino agli irrigidimenti dei rispettivi fondamentalismi), ma allo stesso tempo ha offerto l’opportunità di avvicinarsi alla molteplicità dei fenomeni religiosi con un atteggiamento nuovo, capace di spingere alla ricerca di nuove forme sociali e culturali inclusive dei vari universi simbolici: come già si è accennato, la proposta di P. Knitter per una responsabilità globale delle religioni per rispondere alla sofferenza umana ed ecologica, ripensata in un’ottica strutturalista e post-strutturalista, si muove proprio in questa direzione, come già quella H. Küng col suo progetto per un ethos mondiale. L’esito di tutto ciò è stato quello che J. Habermas ha definito una ‘crisi di legittimazione’: di fronte al pluralismo religioso non più visto come mero relativismo interiore ma come reale possibilità di compatibilità fra molteplici codici di senso, l’ortodossia monopolizzante molti universi simbolici è stata messa in crisi. Questa ‘crisi di legittimazione’ ha travalicato i confini dell’India: l’ortodossia cristiana ‘ufficiale’ in India non è differente da quella europea: l’ortodossia è universale, la sua validità immutata ovunque si manifesti, per cui le varie rivisitazioni del cristianesimo effettuate nel contesto indiano risultano necessariamente in una provocazione storica al cristianesimo del ‘Primo Mondo’. In questo contesto si comprende l’attenzione che il Vaticano riserva alle 223

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

disquisizioni teologiche sviluppate nel contesto indiano o dal confronto con esso, e le prese di posizione ufficiali nei confronti delle elaborazioni, non giudicate sufficientemente ortodosse, di alcuni autori (si pensi ad esempio – oltre a quanto accaduto a qualcuno dei teologi finora citati –, alle Notificazioni a proposito degli scritti sia di J. Dupuis 14 sia, in un’ottica differente, di A. de Mello 15). La nostra analisi tuttavia non è teologica, ma storica, e in questa prospettiva buona parte delle critiche mosse dall’orizzonte cristiano indiano a quello occidentale si riducono, dicevamo, sostanzialmente a una sola: quella di avere trasformato il cristianesimo in una religione borghese. Se ai primordi il cristianesimo era una forza rivoluzionaria che irrompeva nello status quo sociale interrompendone il quieto fluire verso il futuro, progressivamente si è venuto trasformando in una religione borghese dell’interiorità dove il messaggio di Cristo, e in parte Cristo stesso, sono divenuti elementi interiorizzati funzionali a una ‘alchimia’ dell’anima per renderla degna d’essere accolta in una realtà metastorica (il paradiso). Di fronte a questa fuga dalla storia, che a molti osservatori è parsa confermata dai tentativi di ‘dialogo mistico’ fra alcune esperienze spirituali indiane e altre cristiane (come quelli portati avanti da monaci famosi quali Henry Le Saux e Bede Griffiths), si comprende la reazione della teologia della liberazione col suo programma di una ‘de-privatizzazione’ del cattolicesimo: far emergere di nuovo il nucleo pratico del cristianesimo (ortoprassi) troppo a lungo nascosto dalla sua veste teorica (ortodossia), ‘liberando’ il cristianesimo dal suo abbraccio con l’interiorità e gettandolo nel caos della storia. Come nell’immediato dopoguerra la teologia politica europea si era confrontata col dramma di Auschwitz giudicando falsa, o perlomeno incompleta, ogni riflessione che non avesse preso in considerazione quell’immane tragedia, allo stesso modo la teologia contemporanea è stata provocata 14 15

Cfr. Dupuis 1997. Cfr. Mapelli 2007a: 126-129.

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CONCLUSIONE

dall’incontro/scontro con l’orizzonte indiano a fare i conti non solo con diverse elaborazioni teoriche dell’Assoluto, ma anche e soprattutto con i conflitti sociali ed ecologici che lacerano quella realtà. Di qui il tentativo di ‘trasformare’ l’ortodossia, interpretata non più come ‘istruzioni per un’alchimia spirituale’ ma come liberazione storica: sia nell’ottica di una liberazione politico-ecologica dalle ingiustizie di questo mondo (teologia della liberazione) sia nell’ottica di una libertà religiosa ‘di fronte’ a Dio (teologia delle religioni). In altri termini: quella “pressione osmotica” 16 esercitata sull’Occidente cristiano dalle riflessioni teologiche maturate nel confronto col contesto indiano ha costretto l’Occidente cristiano perlomeno ad aprirsi alla possibilità di ridefinire – o meglio ripensare – la propria identità allargando il contesto eurocentrico (e occidentale in generale), includendo sia i temi dell’ingiustizia sociale ed ecologica sia quelli sollevati dal pluralismo religioso, ognuno dei quali caratterizzanti il contesto indiano, nella ridefinizione della propria ortodossia. La ‘Totalità Assente’ La constatazione, dunque, è che gli orizzonti cristiani e quelli indiani non sono più considerati come realtà isolate o come identità che si giustappongono alla ricerca di un terreno comune, quanto espressioni di una sorta di “omogeneità funzionale” 17, da analizzarsi in quanto tale: il rapporto fra cristianesimo e induismo, cioè, non deve essere ridotto alla somma delle due parti in quanto la totalità che essi producono (la ‘omogeneità funzionale’) rende problematico pensare una singola parte indipendentemente dalla funzione che essa svolge in quell’insieme. 16 17

Cfr. Metz 1981: 93. Cfr. Foucault 1967: 287.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Il pericolo, in un’operazione del genere, è che si finisca col costruire dei modelli teorici che sommino induismo e cristianesimo in una improbabile struttura teorica, scoprendo il fianco alle critiche della teologia della liberazione che più che all’ortodossia si rivolge all’ortoprassi; ma se è vero che l’uomo si definisce anche a partire dalla sua funzione simbolica, e che la cultura (e dunque anche la religione) è un’espressione di questa funzionalità simbolica, ne consegue che è anche attraverso questi sistemi simbolici che si stabilisce la comunicazione fra uomini e religioni, e che dunque l’analisi delle strutture di questi sistemi simbolici non risulta estranea al nostro campo di interesse. Questo significa spostare l’accento dall’analisi dell’oggetto in sé alla sua rappresentazione o, meglio ancora, alle relazioni che vengono a stabilirsi fra le varie rappresentazioni che costituiscono quella ‘omogeneità funzionale’. Ciò di cui dobbiamo essere coscienti, tuttavia, è che qualsiasi costruzione di modelli si configura solo come una sorta di ‘ipotesi scientifica’, che dovrà essere verificata dai fatti e potrà anche essere vanificata e sostituita da un’altra. Con parole che richiamano il ‘principio di falsificazione’ di K. Popper, il filosofo strutturalista R. Boudon scrive che un’ipotesi scientifica può, in un determinato momento, essere la migliore possibile: “può spiegare più fatti di qualunque altra e soddisfare ad altri criteri ancora. Tuttavia, è essenziale che essa domani possa essere respinta e sostituita da un’ipotesi migliore” 18. Di fatto, è piuttosto facile constatare come nel corso dei secoli le interazioni fra gli orizzonti cristiani e gli orizzonti indiani abbiano prodotto molteplici modelli di sintesi, dialogo, incontro o scontro; e come ciò che era ritenuto valido in un certo contesto storico sia stato se non delegittimato perlomeno accantonato dall’avvento di altri modelli interpretativi. In questa luce è pertinente l’osservazione di un altro filosofo, G. C. Lepschy, che specifica come “il ricorso ad un modello si fonda sull’intuizione di un’analogia tra il modello e alcuni aspetti del fenomeno da descrivere, e quindi sull’astrazio18

Boudon 1970: 132.

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CONCLUSIONE

ne di tali aspetti (che vengono considerati pertinenti) da altri (che vengono considerati non pertinenti)” 19. L’arbitrarietà dell’operazione è proprio ciò che si constata nei diversi modelli di dialogo incontro/scontro: i modelli che avevano elaborato una struttura di compatibilità fra induismo e cristianesimo basandosi sulla mistica avevano astratto gli aspetti mistici da entrambe le tradizioni, ma, come criticato dalla teologia della liberazione, avevano dimenticato la dura realtà sociale; speculare critica potrebbe essere mossa dai sostenitori del ‘modello mistico’ del dialogo fra induismo e cristianesimo ai teologi della liberazione. La sottolineatura di tali critiche è utile non solo perché ci ricorda quanto relativi e contingenti siano stati e siano i vari modelli elaborati, ma anche perché viene messa in luce la necessità di elaborare continuamente dei modelli per rendere ragione della complessità sempre crescente del fenomeno: se prima era sufficiente elaborare un modello che si strutturasse attorno al ‘Sermone della Montagna’ per creare compatibilità fra induismo e cristianesimo (come in molte elaborazioni del neoinduismo), poi fu invece necessario mirare ‘più in alto’ ed elaborare una struttura dialogica che facesse riferimento alle intuizioni mistiche di Shankara; quindi si rese evidente la necessità di rivedere questi modelli strutturali includendo l’ingiustizia sociale ed ecologica, poi di nuovo la molteplicità delle religioni – e via di questo passo, nella continua elaborazione e sostituzione di modelli per dare “un ordine esplicativo in un’incoerenza fenomenica” 20. In altri termini: il grande insegnamento è stato quello di abbandonare l’analisi dei singoli fenomeni in sé, caotici e frammentari, e di esplicitarne la coerenza e il senso all’interno di una totalità: un fenomeno, così, veniva ad assumere senso non in relazione a se stesso ma agli altri fenomeni parte della totalità. Un altro insegnamento recepito è stato quello di evitare di fare di quella totalità una cosa in sé, una realtà autonoma e indipendente dalle sue 19 20

Lepschy 1966: 22. Boudon 1970: 170.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

parti: nessuno di questi modelli di dialogo e compatibilità si è infatti cristallizzato divenendo una ‘religione’ autonoma e indipendente dalle parti che lo costituivano; anzi, sotto certi aspetti quello che si è constatato nel confronto fra induismo e cristianesimo dà più l’impressione di un continuo gioco di costruzioni, i cui mattoni vengono assemblati e disassemblati in base all’arrivo di un mattone nuovo che richiede un ripensamento dell’architettura dell’intero edificio. Questa estrema mobilità dei modelli – certamente non gradita né dai fondamentalisti né dagli organi ufficiali che desidererebbero la coerenza e l’adesione a un modello ben specifico, giustificandolo con presupposti metastorici – fa sì che ai fini di un’analisi del rapporto fra orizzonti cristiani e orizzonti induisti sia più utile il modello strutturalista chiamato ‘genetico’ (quello di J. Piaget, per intenderci) nel quale la totalità è un processo sempre aperto di costruzione, piuttosto che il modello ‘ontologico’ (quello di N. Chomsky o C. Lévi-Strauss, ad esempio) per il quale la totalità ha una sua consistenza oggettiva (ritenuta, rispettivamente, innata o inconscia). Questione metodologica a parte, il discorso fin qui fatto ci permette di chiarire che tutti questi modelli devono essere considerati come strumenti di indagine più che caratteristiche di una realtà metafisicamente concepita; così, quando sono stati elaborati i vari modelli di interazione fra orizzonti cristiani e indiani (ad esempio: quelli sviluppati dai sistemi ‘mistici’ o ‘liberazionisti’), non va dimenticato che essi erano e sono strumenti operativi di una conoscenza, e non svelamento di una oggettiva realtà metafisica. In altri termini: quei modelli sono serviti alla conoscenza reciproca, e in questo senso quella ‘totalità’, quella ‘omogeneità funzionale’, è uno strumento di conoscenza reciproca che permette una conoscenza delle singole parti più ampia che non se le singole parti venissero prese come realtà a sé stanti, o al più interpretate unicamente alla luce di criteri ermeneutici appartenenti alla propria tradizione: il cristianesimo, cioè, giunge a una migliore comprensione di sé facendo parte di questa ‘totalità’ prodotta dall’incontro con gli orizzonti indiani; e lo stesso discorso vale anche per l’induismo. 228

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CONCLUSIONE

Giungiamo così alla conclusione, come scrive U. Eco, che “la struttura vale se funziona come codice che può generare messaggi diversi” 21: i modelli degli incontri cristiano-indiani, cioè, si configurano come diversi codici che generano diversi messaggi per cui, al di là di un’apparente somiglianza ‘fenomenologica’ dobbiamo concludere che ogni modello ha inteso dire qualcosa di diverso dai modelli che lo hanno preceduto e diverso dai modelli che lo avrebbero seguito, per cui una comparazione diacronica, temporale, fra i vari modelli può essere sì rischiata, ma solo a livello morfologico, e non a un più profondo livello di senso: una cosa ha voluto dire il modello elaborato facendo leva sulla mistica, un’altra quello elaborato sull’analisi marxista e le comparazioni fra i due, per quanto utili, rischiano di dimenticare l’irriducibilità ermeneutica dell’uno all’altro pur se gli elementi costitutivi (induismo e cristianesimo) sono sostanzialmente identici. In questo contesto possiamo anche sottoscrivere e riferire al dialogo fra gli orizzonti cristiani e quelli indiani ciò che U. Eco dice a proposito della ‘totalità’, definendola come un “termine ultimo che sempre regredisce man mano che l’indagine pone come trovati i suoi messaggi particolari” 22: non vi è un messaggio ultimo costruito dai vari codici, sempre nuovi codici si formeranno e la totalità sarà sempre un orizzonte sfuggente, che sempre retrocede, lasciando aperta la porta a nuove sintesi, nuovi modelli, nuovi esperimenti di dialogo fra induismo e cristianesimo. In una prospettiva storica, nessuna struttura, nessun codice, nessun modello potrà reclamare un fondamento ontologico assoluto che gli permetta di avere la priorità su altri codici e lo faccia divenire il ‘Codice dei Codici’: “se il Codice dei Codici è un termine ultimo che sempre regredisce man mano che l’indagine pone come trovati i suoi messaggi particolari, le sue apparizioni in cui esso non si esaurisce, la Struttura si proporrà eminentemente co21 22

Eco 1968: 261-262. Corsivo nel testo. Eco 1968: 323.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

me Assenza” 23. Tradotto ai fini della nostra indagine, questo significa che nessun modello di dialogo fra orizzonte cristiano e indiano potrà porsi come definitivo, perché il modello definitivo, la ‘Totalità Assoluta’ è un orizzonte sempre sfuggente, non fondato metastoricamente ma nemmeno raggiungibile storicamente. Oltre la ‘traduzione’ Certo, come sottolineano gli storici delle religioni, queste analisi devono essere condotte tramite una metodologia storico-comparativa, la quale ci impone di rilevare la specificità storica di un “sistema religioso” nel confronto con altri “sistemi religiosi e culturali”, evitando eccessive costruzioni filosofiche che ci farebbero correre il rischio “di teorizzare su paradigmi avulsi dalle concrete e diverse situazioni ambientali indagate” 24; piuttosto, occorre sottolineare la consapevolezza che ogni comparazione si deve misurare col fatto che “ogni particolare produzione o espressione culturale umana va studiata nella sua specifica dimensione, che è storicamente determinata per definizione” 25. È con queste cautele che abbiamo accolto le riflessioni dello strutturalismo e procediamo oltre: interpretare come ‘totalità’ non assolute quelle che sono sorte dal confronto fra gli orizzonti indiani e cristiani ci permette, infatti, di evitare la tentazione di considerare quei modelli come delle ‘strategie d’impianto’, per riprendere l’espressione che D. Visca applica al contesto africano 26. Di fatto, a fronte della complessità della situazione, più che di ‘strategie d’impianto’ del cristianesimo in India si dovrebbe parlare di ‘strategie di comunicazione’: la continua creazione di modelli alla quale abbiamo accennato è cioè da in23

Eco 1968: 323. Visca 2002: 356. 25 Visca 2002: 356. Corsivo nel testo. 26 Visca 2002: 347. 24

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CONCLUSIONE

tendersi come ricerca di un codice che, di volta in volta, avesse la capacità di comunicare un messaggio, non necessariamente di impiantarlo in maniera stabile 27. La problematica si concentra proprio sulla natura di quel messaggio: mentre nelle ‘strategie d’impianto’ si sa sostanzialmente cosa impiantare (ad esempio il culto mariano in Africa), le ‘strategie di contatto’ evidenziano, più che il tentativo di trovare delle pierres d’attente per agganciarvi il messaggio che si vuole esportare, la necessità di ‘giocare’ con quella ‘totalità’ che si è formata dall’interazione fra due ‘mondi di vita’ (quello indiano e quello cristiano) ormai non più scindibili, per trasmettere un messaggio, anzi, dei messaggi che si configurino come novità rispetto ai propri orizzonti di partenza. Le reti di interazioni, i network sono diventati cioè talmente complessi che ormai risulta quasi impossibile distinguere i confini fra l’orizzonte propriamente cristiano e l’orizzonte propriamente indiano. Voler cercare, alla luce di ciò, dei ‘germi di attesa del cristianesimo’ nel contesto indiano non avrebbe molto senso – e non solo per la decostruzione alla quale inevitabilmente molti di questi concetti sono stati/sono/saranno soggetti (si pensi alle categorie di monoteismo o di reincarnazione, tanto per fare un paio di esempi), quanto per il fatto 27 Se vogliamo, a ulteriore conferma della diversità storica fra situazione africana e quella indiana si può rilevare che in India la risposta al cristianesimo tramite la creazione di Chiese indigene al di fuori di un contesto ecclesiastico ‘ufficiale’ fu decisamente limitata, e raramente questi movimenti sopravvissero al loro fondatore. Alcuni esempi. Agli inizi del XX secolo troviamo la Fellowship of the Followers of Jesus, fondata da Kandaswamy Chetti a Madras: pur professando apertamente la loro fede in Cristo, ritenuto il compimento delle aspirazioni indù, essi rifiutavano il battesimo. Nel Kerala, la Kanneett Revival Church (Yuomayam, dal 1881) venne fondata nel 1875 da un brahmano convertito, Justus Joseph, il quale aveva predetto che la seconda venuta di Cristo sarebbe stata nel 1881. In Tamil Nadu, poco dopo la metà del XIX secolo, sorse grazie a Arumainayagan Sattampillai la Hindu Church of Lord Jesus, che univa elementi cristiani (presi soprattutto dall’Antico Testamento) a elementi indù (quali le leggi matrimoniali); questa Chiesa esiste tutt’oggi.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

che la commistione di orizzonti ha ormai allontanato, e in maniera che potremmo dire quasi definitiva, il sogno della ricerca ‘archeologica’ di un ‘originario’ sul quale impiantare il cristianesimo. In altri termini: se nel contesto africano D. Visca osserva come sia presente da alcuni secoli la necessità di uno “sforzo acculturativo e inculturativo esperito, da entrambe le parti in causa [i.e. l’Occidente e l’Africa], per colmare il gap cultural-religioso che divideva gli evangelizzandi dagli evangelizzatori, ed assimilare quanto più consentito il pensiero degli uni a quello degli altri onde promuovere e favorire il radicamento della propria fede” 28, nel mondo indiano – superato il confine delle impressioni esteriori – è apparso chiaro che non si trattava di colmare alcun gap cultural-religioso fra i due ‘mondi di vita’: due culture forti, due civiltà superiori erano l’una di fronte all’altra. Anzi, facendo scorrere la letteratura dell’incontro fra i due orizzonti sembra di assistere quasi a un ribaltamento della situazione africana: ora non è l’Occidente a trovarsi dal lato ‘forte’ e l’Altro dal lato ‘debole’; piuttosto, l’impressione è che da una iniziale svalutazione della ‘profondità’ dell’induismo si sia passati – a mano a mano che la complessità delle elaborazioni induiste appariva chiara – a una progressiva svalutazione della ‘profondità’ del cristianesimo, con la conseguente necessità di aprire dei canali di comunicazione fra i due mondi per far sì che le sapienze di entrambi potessero comunicare, e attraverso un sistema di vasi comunicanti attuare un ‘travasamento’ di sapienza e giungere a una sorta di parità, dinamica e dialogica. Ciò che forse non era stato pianificato era il fatto che, una volta aperti quei canali, sarebbe stato difficile mantenere chiari e distinti i confini e dire dove finisse il cristianesimo e dove iniziasse l’induismo. Penso che non vi sia nulla di più paradigmatico, per esprimere questa situazione, di una frase del monaco H. Le Saux: “non posso essere nello stesso tempo hindu e cristiano, e non posso più essere né semplice28

Visca 2002: 348-349. Corsivo nel testo.

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CONCLUSIONE

mente hindu né semplicemente cristiano” 29. Va da sé che questo intreccio di orizzonti genera una serie di problematiche: se a un livello teorico viene sentita troppo distante, e artificiale, la creazione di una super-religione che unisca i due orizzonti (di nuovo: si pensi al tentativo di Vivekananda), a livello pratico frasi come quella di Le Saux testimoniano quanto sia difficile mantenere intatta la propria identità (‘cattolica’ o ‘indiana’) una volta che si decide di aprire canali di comunicazione ed elaborare modelli di compatibilità e scambio fra i vari orizzonti di senso. È proprio questa complessità del discorso, la molteplicità di orizzonti coinvolti che sottolinea la differenza e la distanza con altre tradizioni ed esperienze di incontro fra cristianesimo e culture altre: se nel contesto africano, nonostante le pretese di nativismo di molti pensatori, è possibile individuare un’operazione di “assimilazione inculturativa” dove la ricerca di una ‘africanità’ del loro pensiero è conseguita attraverso strumenti occidentali e cristiani con il preciso obiettivo di “separare il nucleo del messaggio evangelico dal rivestimento culturale che l’accompagna – cioè spogliarlo della sua fattura occidentale – e inculturarlo, incarnarlo o contestualizzarlo nella cultura del luogo in cui viene annunciato” 30, in India l’incontro/scontro col mondo indiano (sia ‘ufficiale’ che ‘non’) ha portato invece a un ripensamento globale di ciò che veniva importato, e non solo a una sua peculiare traduzione inculturativa – giungendo a posizioni come quelle di S. Kappen e la sua critica al ‘Non-dio’ dei cristiani, o a tutte quelle proposte, criticate dal Vaticano, di un J. Dupuis e di un T. Balasuriya. In altri termini: non si tratta più, a un occhio attento, di inculturare, ma di riscrivere il cristianesimo alla luce di tutte queste interazioni; non dunque di tradurre il dogma affinché sia comprensibile in una cultura diversa da quella che l’ha originato, ma di rielaborarlo per renderlo 29 30

Le Saux 2002: 280. Visca 2002: 367.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

compatibile con quella totalità della quale è venuto a fare a parte. E così, se nel contesto africano si corre il rischio di vedere i teologi come dei “meri recettori di input cultural-religiosi occidentali, cui si adeguerebbero in maniera affatto passiva coartando, tradendo e rinnegando, o semplicemente obliterando, il proprio sistema di pensiero tradizionale” 31, nel mondo indiano il rischio è quello opposto, ossia quello di vedere quei teologi come dei creatori e degli elaboratori di una nuova forma di cristianesimo che non abbia più collegamenti con quella di partenza, dogmaticamente riconosciuta. Proprio quella continua creatività di modelli di cui abbiamo parlato finora allontana comunque il pericolo che uno di essi si cristallizzi in forma definitiva, proponendosi come ‘ortodossia alternativa’ a quella ufficiale – cristiana o indiana che sia. La totalità, come si diceva ricordando il modello strutturalista genetico di Piaget, è in continua costruzione; inoltre, come ricordato da Eco, la totalità si configura come Assente, un orizzonte mai conquistato: è proprio questa duplice consapevolezza di ‘modalità operativa aperta’ e di ‘meta mai raggiunta’ che permette quelle continue rielaborazioni dei dialoghi fra orizzonti cristiani e orizzonti indiani senza che, ripetiamo, si sia attuato un processo di cristallizzazione. Certo, diverso è il caso di quei movimenti religiosi, o meglio, nuovi movimenti religiosi che dalla patria indiana si sono diffusi nel mondo occidentale proponendo nuove sintesi fra i due ‘mondi di vita’; in quei casi, tuttavia, è possibile individuare la precisa volontà di costruire una Weltanschauung religiosa alternativa sia all’induismo sia al cristianesimo ‘ufficiali’, dove la priorità non è data agli orizzonti in quanto tali, ma alla originalità creativa dei fondatori di quei movimenti stessi; e infatti, in buona parte di questi movimenti e nuove religioni (se non in tutte) è ravvisabile un certo ‘culto della personalità’ del fondatore, ciò che è eminentemente assente nel campo della elaborazione teologica: non si è mai assistito alla nascita di qualsivoglia ‘cul31

Visca 2002: 349.

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CONCLUSIONE

to della personalità’ attorno a un teologo a motivo della sua elaborazione teorica (anche se a ciò qualcuno potrebbe obiettare facendo riferimento alla fama raggiunta dagli scritti del gesuita A. de Mello, che in ogni caso non viene solitamente qualificato come teologo). Piuttosto, l’utilizzo di strumenti ‘indiani’ da parte di intellettuali occidentali, e il complementare utilizzo di strumenti ‘occidentali’ da parte di intellettuali indiani ha portato non solo alla elaborazione di nuovi linguaggi religiosi, ma anche di nuove grammatiche religiose 32: non solo l’espressione esteriore e comunicativa, ma anche le regole interne del linguaggio sono cambiate: e il risultato di un nuovo linguaggio e una nuova grammatica è un nuovo orizzonte di senso; non più, ripetiamolo, una semplice traduzione ma una nuova creazione. E infatti, come la frase di H. Le Saux ha indicato, queste commistioni di orizzonti che creano modelli sempre cangianti corrono il rischio di elaborare delle ‘totalità’ che non possono più essere facilmente categorizzate né nell’orizzonte cristiano né in quello indiano: vivono in una sorta di terra di confine dove nei reciproci giochi di interazione cambiano non solo le forme espressive ma anche i loro contenuti. C’è di più: forse giungono a cambiare le stesse esigenze di chi si avvicina a questi modelli alla ricerca di un orizzonte di senso: se la metafora del mercato, che abbiamo usato in precedenza, mostra una sorta di passività da parte di chi offre il prodotto nei confronti di chi lo sceglie, e dunque la necessità di modellare il prodotto in base alle necessità dell’acquirente (inculturazione, traduzione, etc.), l’elaborato processo di costruzione di modelli ha mostrato che lo stesso mercato può, a sua volta, influire sul consumatore creando dei bisogni, non dico artificiali, ma fino ad allora non presenti in lui o al limite sopiti, spiegabili non facendo riferimento a un homo religiosus che esplicita in modi diversi la stessa propensione al ‘sacro’, ma al concreto uomo storico che 32 Si è ripresa una metafora utilizzata da D. Visca per il contesto africano. Cfr. Visca 2002: 353.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

di fronte alla provocazione di un preciso modello riqualifica il proprio orizzonte di senso, paradossalmente ristrutturando, di conseguenza, i propri bisogni. Anche muovendosi in questa direzione, dunque, è possibile attuare, sulla linea di N. Gasbarro, “una sorta di critica dell’economia ideologica delle diverse ricchezze religiose, che nascono e si sviluppano con e nelle relazioni tra le culture, senza fondamento naturalistico, e soprattutto senza una necessità metastorica o metaculturale” 33. La fluidità dei confini Quello che abbiamo storicamente constatato, in questa indagine, è come le dinamiche delle interazioni fra i diversi orizzonti cristiani e indiani abbiano fatto breccia nelle presunte rispettive impermeabilità, fino a giungere da una certa parte cristiana alla messa in discussione di dogmi e principi dottrinari, o da una certa parte indiana alla messa in discussione del sistema castale, tanto per fare un esempio. Certo, occorre domandarsi con quali criteri una parte decida di mettere in discussione l’altra o, ancor meglio, decida di mettere in discussione se stessa partendo dalla provocazione dell’altra: ad esempio è legittimo domandarsi perché, da parte cristiana, invece di criticare il sistema castale non lo si accolga come una provocazione per ripensare una religione che ha fatto dell’uguaglianza uno dei suoi cardini (e rivedere di conseguenza anche la propria concezione di ‘individuo’); o perché, di fronte alla mancanza di un orizzonte teista in diverse elaborazioni indiane, più che sentire il bisogno di una rilettura dei concetti di Dio o Trinità vedendo nel sat-cit-a\nanda una pierre d’attente per la teologia cristiana, o nella distinzione fra nirguna e saguna Brahman un richiamo alla mistica cristiana, non si sia invece passati a rivisitare il cristianesimo nell’ottica di un orizzonte di senso globale, ove il teismo 33

Gasbarro 2002: 168.

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CONCLUSIONE

cristiano accogliesse le provocazioni di sistemi non-teisti o, addirittura, arrivasse a far propria la sfida di posizioni più radicali ad abbandonare l’impiego della religione come codice ermeneutico prioritario per comprendere l’alterità e se stessi 34. La provocazione, insomma, è chiara: se accolti senza preconcetti ermeneutici, gli orizzonti indiani potrebbero influire talmente su quelli cristiani da portare allo scardinamento, o perlomeno alla rivisitazione di concetti chiave, quali quelli connessi al teismo e alla ‘religione’. Fuggire da queste provocazioni e mantenere sullo sfondo le consuete priorità e gli ormai noti concetti universali – come quello di Dio, anima, salvezza, in qualche misura Regno dei Cieli, etc. – vorrebbe dire correre il rischio di dimenticare, come scrive N. Gasbarro, che “gli oggetti intellettuali delle nostre ricerche non sono strutture universali di uno spirito umano che ne stabilisce contenuti omogenei e forme differenziate, ma solo il prodotto storico delle relazioni tra civiltà che hanno dovuto inventare codici specifici e un linguaggio generale capaci di dare regole al loro ‘agire comunicativo’” 35; si correrebbe il rischio, insomma, di perpetuare un ‘colonialismo simbolico’ che ci fa esportare alcuni nostri concetti (quali appunto quello di Dio, anima e religione) ritenendoli universali, senza comprendere che questa universalità non è altro che il prodotto storico di una (nostra) esigenza di comunicazione colla, e comprensione della, alterità. Perpetuare questo ‘colonialismo simbolico’ ci impedirebbe di cogliere sia la complessità del passato sia le differenze del presente (precludendoci inoltre la possibilità di cogliere anche quelle future); ma soprattutto di cogliere noi stessi e di ripensare i nostri orizzonti partendo dalla complessità dell’orizzonte che abbiamo di fronte, e ancor più, dalla complessità delle totalità che si sono formate dall’incontro di questi orizzonti. 34 Cfr. ad esempio gli spunti che si potrebbero elaborare partendo non solo dal buddhismo e dal giainismo, ma anche dalle riflessioni della scuola materialista Carvaka. 35 Gasbarro 2006: 22-23.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Ciò che noi abbiamo constatato è che l’incontro fra orizzonti cristiani e indiani ha generato una esplosione di senso, una molteplicità di orizzonti che ci ha messo in guardia da facili universalismi e che soprattutto ha messo a dura prova la capacità di inclusione delle differenze da parte del cristianesimo: il continuo cambio di moduli avvenuto nel corso della storia dell’incontro fra orizzonti cristiani e orizzonti indiani non è stata infatti la richiesta di una civilizzazione che fosse fulfilment, compimento (come prospettavano anche le prime ‘traduzioni’ del cristianesimo in India), ma, ripetiamolo, un tentativo di costruire qualcosa di nuovo, una originale totalità di senso che non fosse né l’uno né l’altro orizzonte. Insomma, ciò a cui abbiamo assistito e stiamo assistendo non è la costruzione di una cultura meticcia o di un sincretismo religioso, ma quella di una totalità che sia ‘struttura aperta’ e ‘totalità assente’ dove il gioco di interazioni reciproche rende i rispettivi confini, indiano e cristiano, fluidi e mobili – a loro volta generando delle totalità sempre nuove e cangianti: la situazione dialogica ha ormai intrecciato tutti i fili di tutti gli orizzonti, rendendo limitante un discorso che voglia relativizzare diacronicamente le istanze di ‘purezza’, in particolare quelle concernenti la richiesta di decostruire il cristianesimo per giungere a un suo ipotetico ‘nucleo’ originario, a un ‘cristianesimo di Cristo’ spogliato dell’abito occidentale che ha indossato per duemila anni per fecondarlo poi con un ‘puro induismo’, spogliato a sua volta di tutte le sovrastrutture occidentali. Il dialogo interreligioso ci ha mostrato un’altra strada, sincronica, per avvicinarci a questa problematica. In altri termini: il discorso fin qui fatto mette in luce come anche il dialogo interreligioso (e non solo il fondamentalismo, come oggi è di ‘moda’), può essere oggetto di indagine per la storia delle religioni 36. Il processo presenta in questo caso una 36

Sulla metodologia dell’analisi del rapporto fra ‘storia delle religioni’ e ‘dialogo interreligioso’, cfr. ad esempio le differenti posizioni di J. Carman (Carman 1971) e K. Klostermaier (Klostermaier 1989), ma anche le proposte di R. Baird (Baird 1989) e F. Clooney (Clooney 2001 e Clooney 2002).

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CONCLUSIONE

complessità maggiore, in quanto non si tratta di analizzare l’irrigidimento e la chiusura a un orizzonte sempre più piccolo all’interno di una determinata tradizione religiosa, ma l’elasticità e l’apertura a orizzonti sempre più vasti di una o più tradizioni religiose che vengono a interagire, ognuna cercando di porsi, nei limiti della propria struttura interna, il più lontano possibile da una posizione di supremazia e priorità ermeneutica. La conseguenza metodologica è che non è più (o non solo) la diacronicità a storicizzare le pretese del cristianesimo, ma la sincronicità. In altri termini: la relativizzazione storica del cristianesimo non viene fatta attraverso un’analisi diacronica dove, poniamo, si mettono in evidenza le influenze del logos greco o della civitas romana sull’elaborazione teorica del cristianesimo o si sottolinea come il cristianesimo si sia modificato nel corso della storia a seconda delle epoche e delle mode culturali, ma attraverso un’analisi sincronica che ruota attorno al confronto e alle interazioni nel presente con realtà socio-culturali e religiose altre: nel nostro caso, è attraverso il confronto nel presente con gli orizzonti indiani che viene messo in luce come la pretesa universalistica del cristianesimo non sia altro che la pretesa universalistica di un cristianesimo occidentale. Si comprendono in questo contesto i tentativi, pur se incompleti, di teologi come T. Balasuriya o P. Knitter di elaborare, partendo dall’ottica decostruzionista post-moderna, un cristianesimo che vada oltre una sua storicizzazione particolare; o, se vogliamo, possiamo comprendere in questo contesto l’operazione ancora più radicale di S. Kappen e la sua critica al ‘Non-dio’ cristiano, passando oltre la post-modernità per giungere a un abbozzo di surmodernità – il concetto coniato da M. Augé per definire l’esplosione di senso della post-modernità causata da una sua complessità sempre maggiore 37. 37

Cfr. Gasbarro 2002: 139-187. Quando S. Kappen profetizza che la presa di coscienza di una nuova forma di ‘colonialismo’ spingerà le nazioni verso nuove elaborazioni in grado di recuperare le proprie identità culturali, egli integra il suo discorso dicendo che si avrà una nuova ridefinizione dell’assetto mondiale “in cui non ci sarà

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Quanto facilmente un tale discorso surmoderno possa applicarsi all’analisi delle interazioni fra orizzonti indiani e orizzonti cristiani è palese: la moltiplicazione di quelli che possono essere definiti i ‘referenti inculturanti’ (quali la mistica indiana, la questione dalit, quella femminile, i tribali, l’ecologia, l’ingiustizia sociale e altro ancora) ha prodotto una moltiplicazione di riflessioni che hanno evidenziato come ormai non si tratti più, se si vuole far evolvere il discorso, di dare risposte, ma di porre le domande in un altro contesto, globale, pluralistico, surmoderno, senza centro e senza periferia. Il guadagno metodologico, in tutto ciò, non è solo la constatazione dell’inutilità (più che dell’impossibilità) di ricercare un ‘originario storico’ da far dialogare nel presente con l’orizzonte che si ha di fronte, ma soprattutto il riconoscimento che le operazioni di destorificazione eseguite nel corso dei secoli per trasformare delle elaborazioni teoriche storiche in verità eterne 38 – in entrambi gli orizzonti, non solo nel campo dogmatico cristiano: si pensi, ad esempio, alle disquisizioni sull’eternità dei Veda –, possono essere affrontate non solo da una prospettiva diacronica tesa ad analizzare al microscopio il passato, ma anche sincronica, nel presente, attraverso il confronto e il dialogo con altri orizzonti.

più il dualismo di centro e periferia, di sviluppato e in via di sviluppo” (con la sottointesa conseguente necessità della periferia di de-costruire quanto dal centro è stato portato alla periferia: l’ottica strutturalista e post-strutturalistica), ma “un mondo in cui ci saranno tanti centri quanti sono i popoli e le nazioni, ciascuno perseguendo il proprio modello di crescita e rifiutando di misurarsi con livelli di sviluppo assunti dall’esterno o imposti” (l’ottica surmoderna). Non più, applicando il ragionamento al nostro discorso, un incontro dualistico fra centro ‘romano’ e periferia ‘indiana’, ma una totalità caratterizzata da molteplici centri e molteplici periferie; un network di relazioni, cioè, dove sarà impossibile distinguere ciò che è centro e ciò che è periferia (cfr. Kappen 1994: 62). 38 Cfr. sul tema Visca: 2002: 375ss.

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APPENDICE LA STORIA DEL CRISTIANESIMO IN INDIA

Non è possibile sintetizzare la storia del cristianesimo in India senza incorrere nel rischio di eccessive semplificazioni. Possiamo comunque parafrasare le parole di S. Neill e concordare col suo giudizio: la storia del cristianesimo in India è poco più di una increspatura nelle acque tranquille di un oceano 1. L’intento di questa breve Appendice è di segnalare e ricordare che l’incontro-scontro fra cristianesimo e induismo non è iniziato nel periodo del c.d. ‘Rinascimento indiano’. La mia scelta metodologica di iniziare l’analisi delle interazioni fra induismo e cristianesimo proprio con quel periodo, infatti, non ci deve far dimenticare che è esistito un altro momento che può essere ricco di spunti per un’analisi storico-religiosa: l’età moderna, nella quale hanno operato figure di missionari quali Francesco Saverio e Roberto de Nobili, ognuno con proprie metodologie e strategie di comunicazione. Non è opportuno soffermarsi sulla complessa problematica nell’esiguo spazio di una Appendice; piuttosto, prendiamo atto di come le informazioni a nostra disposizione sulla storia del cristianesimo in India prima dell’arrivo dei portoghesi (nel 1498, con il viaggio di Vasco da Gama), siano decisamente limitate. Ricordiamo – a motivo dell’importanza che riveste ancora oggi per molti cristiani indiani –, la tradizione secondo cui il messaggio di Gesù sarebbe arrivato in India grazie alla predica1

Cfr. Neill 1984: I, 63.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

zione dell’apostolo Tommaso 2. L’opera alla quale più spesso si fa riferimento per giustificare questa tradizione è l’Acta Thomae, giunta a noi in alcune versioni sia in greco sia in siriaco, e comunemente attribuita al poeta Bardesanes, che l’avrebbe redatta a Edessa prima del 220 d.C. Diversi studiosi sono propensi a riconosce all’opera un nucleo storico, almeno nel riprendere la tradizione già diffusa in Occidente nel II secolo di una presenza di san Tommaso in India 3: non fu cioè l’autore dell’Acta Thomae a inventare il viaggio dell’apostolo 4. Secondo la tradizione, Tommaso sarebbe giunto in India nel 52 d.C. e lì avrebbe predicato per diversi anni prima di subire il martirio, il suo corpo trafitto da quattro lance. La tradizione data l’evento al 72 d.C. e la tomba dell’aspostolo a Mylapore (Chennai, Tamil Nadu) è ancora oggi meta di pellegrinaggi 5. Già Tertulliano, comunque, aveva parlato dell’India come di una terra governata da cristiani. Il Vangelo Aramaico secondo Matteo (redatto probabilmente attorno al 180) racconta il viaggio missionario verso l’India di Pantaenus di Alessandria. Attorno al 305 lo scrittore cristiano Arnobio descrive l’India come una di quelle terre sotto l’influenza cristiana. Nella lista dei vescovi che parteciparono al Concilio di Nicea (325) troviamo menzione di Giovanni il Persiano, vescovo di Persia e della Grande India. Le Cronache di Seert, un documento siriaco-orientale risalente al VII/VIII secolo, ci informano del vescovo Davide, che nella seconda metà del IV secolo evangelizzò l’India: “durante il patriacato di Shahlufa e Papa, Dudu (Davide), vescovo di Bassora sul golfo persiano, un dottore eminente, lasciò la sua sede e si recò in India, dove evangelizzò molte persone” 6. Di fatto, è alla Chiesa siriaco-orientale 2

In alcune tradizioni la diffusione del cristianesimo in India è legata anche all’apostolo Bartolomeo. 3 Cfr. Mundanan 1984: I, 23 ss. 4 Cfr. Firth 1961: 14. 5 Dal 1258 parte delle (presunte) reliquie dell’apostolo sono conservate nella cattedrale di Ortona, in Abruzzo. 6 Youg 1969: 29.

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LA STORIA DEL CRISTIANESIMO IN INDIA

– che occupava grosso modo le aree dell’antico impero persiano, per cui a volte viene chiamata Chiesa persiana o caldea –, che gli storici fanno comunemente risalire l’origine del cristianesimo in India, e ciò a partire grosso modo dal IV secolo. La loro presenza continuerà anche nell’epoca medioevale quando verranno affiancati, si crede a partire dal XIII secolo, da alcuni rappresentanti della Chiesa latina. Prima di quel secolo regna una certa confusione: non è possibile determinare in molti casi se ‘l’India’ a cui fanno riferimenti i vari racconti o resoconti di viaggio ‘occidentali’ sia effettivamente l’India, o più probabilmente l’odierna Etiopia. Sappiamo con certezza del viaggio del francescano Giovanni di Monte Corvino che in una sua lettera scrive di essersi fermato in India per tredici mesi (ca. 1291), battezzando in diversi luoghi circa cento persone, e del domenicano francese Giordano Catalani che vi giunse nel 1321: nelle sua opera Mirabilia Descripta afferma di aver battezzato circa 10.000 persone nelle regioni settentrionali dell’India. Divenne poi vescovo della prima diocesi indiana a Quilon (1329) 7. Il consolidamento della Chiesa latina e del cristianesimo comincerà con l’arrivo dei portoghesi sul finire del XV secolo. Di fatto, se i portoghesi furono contenti di trovare cristiani in questa parte del mondo, lo furono meno quando scoprirono che essi non avevano alcun vincolo di obbedienza col Papa e soprattutto che alcuni passaggi della loro caratteristica liturgia richiamavano pericolosamente l’eresia nestoriana. Come già si diceva, la scarsità di documenti rende tuttavia difficile una riflessione sui cristiani prima dell’arrivo dei portoghesi. Secondo l’opinione di alcuni storici, la percezione generale in India a riguardo dei cristiani era la seguente: essi erano considerati una ‘setta’ religiosa fra le tante, che se pur originava dal messaggio di un profeta ‘lontano’ e celebrava le proprie liturgie con riti peculiari, rispettava in ogni caso i dettati comuni della tradizione indiana: non voleva distruggere il sistema castale e non voleva imporsi sulle altre visioni ‘religiose’ tradizionali 7

Ricordiamo anche il viaggio di Odorico da Pordennone (1324-1325).

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

con opera di proselitismo. I cristiani presenti in India prima dell’arrivo dei portoghesi, insomma, costituivano un’entità di dimensioni ridotte – essenzialmente costituita da invidivui di casta alta – che aveva trovato la propria nicchia e si conformava ai dettami generali del più ampio tessuto sociale indiano 8.

8

È difficile stimare il numero dei cristiani al momento del contatto con i portoghesi: alcuni storici parlano di circa due milioni di cristiani e 1500 chiese. Le lettere dei gesuiti di Goa ai loro superiori a Roma, redatte attorno alla metà del XVII secolo, parlano di 80.000 cristiani e 92 chiese. Cfr. Amaladass 1989: 14.

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GLOSSARIO *

Adiva | \si

termine che qualifica in senso generico i gruppi tribali dell’India.

Advaita

non-duale; assenza di dualità.

Advaita Veda\nta

una delle tre principali ramificazioni della scuola filosofica Veda\nta (le altre due sono la Dvaita e la Vishishta\dvaita): è un sistema di pensiero il cui assunto più noto concerne l’identità fra a\tman e Brahman. Il principale rappresentante di questa scuola è A|di Shankara (788-820).

Ahimsa\

il termine è comunemente utilizzato per indicare la dottrina della non-violenza. (Anche: ahimÛsa\).

Ananda |

beatitudine.

Anvı | ks \ ikı Û \

ragionamento logico.

*

Per i termini sanscriti, si sono aggiunti alcuni segni diacritici onde evitare deviazioni nel significato di alcune parole. In parentesi vengono indicate alcune varianti di trascrizione. Ringrazio il professore G. Bonazzoli per i preziosi suggerimenti nella redazione del Glossario.

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Ashram |

la residenza di un guru e della sua comunità religiosa. (Anche: a\sr; ama).

| Atman

l’essenza spirituale individuale. (Anche: a\tma).

Avarna

Û e pertanto i senza casta” (Je“quelli senza colore (varna) sudasan 1986: 231). (Anche: avarna). Û

Avata\ra

discesa. Il termine è solitamente utilizzato per indicare la discesa di una entità sovrumana nel piano visibile, dove assume una particolare manifestazione corporale per conseguire un determinato scopo. Il termine è utilizzato quasi sempre in riferimento a Vishnu. (Anche: avatar).

Bhagavad Gı \ta\

Il canto del Divino; Il canto del Beato; Il canto del glorioso Signore: testo sanscrito (ca. 700 versi) facente parte del Maha\bha\rata (Bhishma Parva, capitoli 23-40) e contenente gli insegnamenti di Krishna al devoto Arjuna a riguardo dell’amore divino e del dovere. La datazione del testo – considerato sacro dalla maggior parte degli indù, in particolare dai devoti di Krishna – è ancora oggetto di dibattito.

Bhagava\n

santo, beato, benedetto. Il termine è applicato a diversi maestri spirituali indiani. Come espressione di venerazione, assume anche il significato di ‘Signore’; frequente è l’utilizzo del termine per Shiva e Krishna: Bhagava\n Shiva, Bhagava\n Krishna.

Bhakti yoga

pratica spirituale che implica la devozione a dio (il termine bhakti implica un atteggiamento di devozione amorosa). Fa riferimento in particolare alla Bhagavad Gı \ta\. Nel Bha\gavata Pura\naÛ (conosciuto anche come S :rı \mad Bha\gavatam, o più semplicemente Bha\gavatam)

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GLOSSARIO

è considerata la forma più perfetta di realizzazione spirituale. I principali esponenti del Bhakti yoga sono Sri Ra\ma\nuja Acharya (1017-1137), Madhvacharya (12381317) e Caitanya Mahaprabhu (1486-1534). (Anche: bhakti ma\rga, la devozione come via di salvezza). Bodhisattva

colui che, sulla strada dell’Illuminazione, rinuncia al nirva\naÛ per il bene di coloro che soffrono.

Brahma\

il dio creatore all’interno della Trimu\rti (la concezione secondo la quale l’unico dio ha tre aspetti: creatore, conservatore e distruttore).

Brahman

la Realtà assoluta, totalmente trascendente e incondizionata.

Brahmano

membro della più alta casta del sistema sociale indù. Il termine è anche utilizzato per indicare l’operatore rituale all’interno dei sistemi religiosi indiani. (Il termine sanscrito è brah\ mana, Û in italiano anche reso con bramino).

Charka

il filatoio.

Cit

coscienza.

Dalit

il più recente (e politicamente più corretto) termine per indicare coloro i quali sono esclusi dal sistema castale. In passato erano indicati con altri termini, quali ‘intoccabili’ e harijan.

Darsana ;

visione. Il termine indica ognuno dei sei sistemi filosofici brahmanici, ed è comunemente utilizzato per tradurre il concetto occidentale di filosofia. (Anche: darshana). 247

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Dharma

termine con una molteplicità di significati (legge, dovere, dottrina, etc.), e col quale solitamente si traduce il concetto occidentale di religione.

Diku

il termine indica i ‘non-tribali’. In particolare, indica i ‘non-tribali’ che vivono in un territorio tribale, sfruttandone le risorse.

Dvaita

duale; dualità. In particolare, il termine viene usato per indicare la scuola Veda\nta di Madhva (1238-1317). Dio è identificato totalmente col Brahman, identificato a sua volta con Vishnu o il suo avata\ra Krishna. Brahman e a\tman sono distinti. La bhakti è la via per conseguire la liberazione.

Guru

il maestro, che con il suo insegnamento e il suo esempio indica la via della salvezza.

Harijan

nel senso di ‘figli di dio’ (o Hari, attributo di Vishnu) è il termine utilizzato da Gandhi per indicare gli ‘intoccabili’.

I |shvara

il Signore Supremo. Il termine I |shvara viene comunemente utilizzato per indicare il dio supremo, in un senso quasi monoteistico. A|di Shankara usa la seguente metafora: quando il Brahman si riflette nello specchio di ma\ya\, vede I |shvara. Ossia: I |shvara è Brahman attraverso il filtro ma\ya\: quando l’uomo vuole conoscere Brahman, il velo di ma\ya\ lo fa percepire come I |shvara. (Anche: I |shwara, I |shwar, I |sv; ara).

Ja\ti

nascita; casta.

Jña\na yoga

il termine jña\na significa conoscenza. Nella scuola Veda\nta, jña\na yoga si riferisce alla disciplina che porta

248

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GLOSSARIO

alla conoscenza dell’identità fra a\tman e Brahman, e conseguentemente alla salvezza. (Anche: jña\na ma\rga, la conoscenza come via di salvezza). Kali yuga

è l’ultimo dei quattro stadi attraverso i quali, ciclicamente, passa l’universo. Nel Kali yuga l’umanità è degenerata spiritualmente e moralmente: è l’età oscura nella quale si è alla maggiore distanza dal divino.

Karma

termine dai molteplici significati (azione, effetto, destino, sacrificio, atto morale, atto rituale, etc.). Viene usato anche per indicare la legge di causa ed effetto per la quale un individuo, in virtù della responsabilità per le proprie azioni, è soggetto al ciclo delle rinascite. (Anche: karman).

Karma yoga

è la disciplina dell’azione: l’uomo compiendo il proprio dovere e rimanendo distaccato dagli effetti delle proprie azioni consegue la salvezza. (Anche: karma ma\rga, l’azione come via di salvezza).

Kha\di

stoffa tessuta a mano.

Krishna

l’ottavo avata\ra di Vishnu e figura centrale di tutto il movimento Bhakti. (Anche: Kr ÛsnÛ Ûa).

Kriya Yoga

un sistema yoga reso celebre da Yogananda.

Kshatriya

membro della casta guerriera nel sistema castale indù, Û l’ordine militare-regale. (Anche: ksatriya).

Maha\bha\rata

epica sanscrita delle più importanti, al cui interno si trova la Bhagavad Gı \ta\. La datazione del testo è ancora oggetto di dibattito. 249

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Maha\tma

grande anima. Il termine venne popolarizzato dalla Teosofia. L’epiteto è generalmente riferito a Gandhi.

Maitreya

il bodhisattva destinato a essere il prossimo buddha nel mondo.

Mantra

sillaba o frase, solitamente in lingua sanscrita, il cui uso pur variando da scuola a scuola ha generalmente la funzione di favorire la concentrazione spirituale. È anche la formula usata per il rituale.

Manu

Û è un antico codice di le Leggi di Manu (Manu-smrti) leggi indù attribuito a Manu, il progenitore dell’umanità. Datato al 200 ca.; alcune delle sue leggi codificano il sistema castale.

May\ a\

termine dai molteplici significati. Comunemente viene utilizzato per indicare il velo dell’illusione, ossia il credere che il mondo del molteplice fenomenico sia la vera realtà.

Mleccha

termine spregiativo per indicare coloro che non si conformano alle credenze e alle pratiche indù. Straniero, barbaro.

Moksha

Û la liberazione dal ciclo delle rinascite. (Anche: moksa).

Mukti

sinonimo di moksha.

Nirguna Brahman

l’Assoluto senza qualificazioni. (Anche: NirgunaÛ Brahman).

Nirva\naÛ

la fine della sofferenza; estinzione. (Anche: nirva\na).

250

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GLOSSARIO

OM

la più sacra sillaba dell’induismo. Simbolizza l’infinito Brahman e l’universo. È oggetto di molte riflessioni teologiche e mistiche di varie scuole indù. (Anche: Aum).

Praja\pati

il Signore primordiale di tutte le creature, loro creatore e protettore, e sostegno dell’universo attraverso la sua azione sacrificale, o autosacrificio.

Prakriti

“la forza attiva che sostiene la vita” (Shiva 1988: xvii-xviii). La materia primordiale; la natura. (Anche: Prakrti). Û

Pura\n Ûa

trattati religiosi che contengono insegnamenti di varia natura. Esistono diciotto Pura\n Ûa maggiori (Maha\ Pura\n Ûa) e diciotto Pura\n Ûa minori (Upa Pura\n Ûa). Ogni Pura\n Ûa ha una propria datazione ed evoluzione storica. Composti tra i primi secoli dell’era cristiana e il XIX secolo.

Purusha

uomo cosmico primordiale, dal cui smembramento ha origine l’universo e la struttura sociale indù. (Anche: Purus Ûa).

Ra\ma

il settimo avata\ra di Vishnu. È l’eroe del poema epico Ra\ma\yanÛa.

Ra\ma\yanÛa

una delle più importanti epiche sanscrite, attribuita al poeta Valmiki. La sua popolarità si estese al di fuori dei confini indiani, giungendo fino al Sudest asiatico. La datazione del testo è ancora oggetto di dibattito.

Rigveda

una collezione di inni, composta tra il 1700 a.C. e il 1100 a.C. (probabilmente attorno al 1500 a.C.). La maggior parte concerne rituali sacrificali. (Anche: Rg-Veda). Û

Sa\dhu

un santo uomo; asceta itinerante. 251

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Saguna Brahman

l’Assoluto qualificato; l’Assoluto con attributi. A volte utilizzato come sinonimo di I |shvara. (Anche: SagunaÛ Brahman).

Sama\j

società, associazione.

Sannya\sa

è la condizione di colui che ha rinunciato al mondo materiale per conseguire l’Illuminazione e la liberazione, e che pertanto è un sannya\sin. (Anche: samÛnya\sa e samÛnya\sin).

Sat

essere.

Sat-cit-a\nanda

essere-coscienza-beatitudine. (Anche: saccida\nanda).

Satı \

è la vedova che in alcune caste, specialmente quella dei re e guerrieri (Kshatriya), aveva l’obbligo di immolarsi sulla pira funeraria del marito. Per metonimia indica anche il relativo suicidio rituale.

Satya\graha

neologismo coniato da Gandhi: “uno che pratica la verità” (Jesudasan 1986: 234). L’atto di praticare la verità.

Satya yuga

è il primo dei quattro stadi attraverso i quali, ciclicamente, passa l’universo. Nel Satya yuga l’umanità è governata dagli dèi, e vive nella perfezione spirituale e morale.

Savarna

“i colorati; cioè la gente di casta” (Jesudasan 1986: 234). (Anche: savarna). Û

Shaiva Siddha\nta

un monismo teistico che ruota attorno alla figura di Shiva. Diffuso soprattutto nelle regioni meridionali dell’India e nello Sri Lanka. (Anche: Saiva-Siddha : \nta).

252

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GLOSSARIO

Shiva

il dio distruttore all’interno della Trimu\rti. È il supremo dio nello Shaiva Siddha\nta. (Anche: S :iva).

Shu\dra

la quarta casta all’interno del tradizionale sistema castale indiano; i lavoratori. (Anche: su; \dra).

Swa\mi

titolo onorifico, il cui significato può genericamente tradursi nel senso di Signore; utilizzato in particolare per i sa\dhu in varie parti del’India.

Swara\j

libertà nel senso di autogoverno e autodeterminazione.

Upanishad

scritti di natura religiosa al termine dei Veda. Ne sono considerate l’essenza più intima, mistica e spirituale. Per questo sono conosciute anche come Veda\nta (ossia ‘la fine, o meglio il fine, dei Veda’). Furono composti a partire dal X secolo a.C. (Anche: Upanis Ûad).

Vaishya

la terza delle quattro caste all’interno del sistema sociale indù. Comprende mercanti, artigiani, possidenti terrieri. (Anche: vaisy; a).

Veda

una collezione di libri sacri, che formano la base dell’induismo. Sono considerati Sruti, : ossia testi rivelati. La datazione è varia. Il testo più antico è il Rigveda.

Veda\nta

è la parte all’interno dei Veda che comprende gli A|ranÛyaka (i ‘libri della foresta’ a uso degli asceti) e le Upanishad. Il termine Veda\nta indica anche la scuola filosofica che interpreta le Upanishad, divisa in alcune correnti: Advaita Veda\nta, Vishishta\dvaita e Dvaita sono le tre più conosciute.

Vimukti

stato di libertà, emancipazione (dall’ignoranza, dalla sofferenza). 253

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Vishista Advaita

la scuola Veda\nta di Ra\ma\nuja. Si tratta di un monismo qualificato, per il quale il Brahman possiede attributi. La bhakti è la via principale per conseguire la liberazione. (Anche: Vishishta\dvaita; Visi; stÛ aÛ \dvaita).

Vishnu

il preservatore all’interno della Trimur\ ti. (Anche: Vis ÛnÛu).

Yajña

il rituale vedico del sacrificio.

Yoga

un insieme di antiche pratiche spirituali per conseguire l’Illuminazione. Il termine viene generalmente tradotto nel senso di unione fra l’a\tman individuale e il Parama\tman, l’anima universale.

Yogi

colui che pratica lo yoga; yogin per il maschile, yoginı \ per il femminile.

254

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INDICE DEI NOMI

Abhedananda, Swa\mi 18n. Abhishiktananda (vedi anche: Le Saux, H.) 82-84, 141n. Agnivesh, Swa\mi 193-194. Akhilananda, Swa\mi 76 Aleaz, K. P. 77 Amaladass, A. 26n., 244n. Amaladoss, M. 164, 165, 191n, 192, 196-198 Ambedkar, B. R. 154, 155 Amorth, G. 59-60 Anand, S. 205 Ananda Marga 62 Ancilli, E. 85 Animananda, Swa\mi 67 Appasamy, A. J. 101n. Arapura, J. G. 79 Aristotele 69 Arnobio 242 Arya Sama\j 21n. Assmann, H. 108 Auer, A. 187n. Augé, M. 239 Aurobindo 35, 38, 46-50, 61, 62, 160 Ayrookuzhiel, A. 157

Baago, K. 30 Babaji 55 Bachofen, J. J. 180 Baird, R. 238n. Balasuriya, T. 144-152, 223, 233, 239 Balthasar, H. U. von 99 Banerjea, K. M. 32-33, 36, 215 Bardesanes 242 Barth, K. 139 Bartolomeo (apostolo), 242n. Bergson, H. 46 Besant, A. 22, 122n. Bhaktivedanta Swa\mi Prabhupada (vedi: Prabhupada) Big Muddy Ranch 51 Birsa 168-169 Blavatsky, H. P. 21, 64 Boff, C. 108 Boff, L. 107, 109 Bonazzoli, G. 26-30, 245n. Bonhoeffer, D. 109 Boudon, R. 226 Brahma Kumaris 62 Brahma Sama\j 30, 31, 33 Buddhadasa 196 e n. 295

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Candar, T. M. 27 Carman, J. 238n. Casale (Mons.), G. 58-59n. Caspari, E. 19n. Catalani, G. 243 Chakkarai, V. 35 Chatterjee, P. 10 Chatterji, S. K. 161n., 173 Chenchiah, P. 35-36, 160 Childress, D. H. 18n. Chinmoy, Sri 62 Chipko Movement 185 Chomsky, N. 228 Chowdhury, B. S. 77 Christo Sama\j 35 Churchward, J. 17n. Clooney, F. 238n. Cobb, J. 204-205 Colebrooke, H. T. 91 Cox, H. 63-64, 66 Cuttat, J. A. 92n. Daly, M. 179-180 Dalit Panther Movement 155 Dall, C. H. A. 89 Dalmia, V. 10 Dandoy, G. 68 Daniélou, J. 92-93, 94, 99 Darwin, C. 49 Davide (vescovo) 242 D’Costa, G. 204 Dean, T. 203 Deardorff, J. W. 23n. De Beauvoir, S. 179-180 De Lubac, H. 81, 99

De Mello, A. 224 e n., 235 De Nobili, R. 241 De Smet, R. V. 79 Devanandam, P. D. 79-80 Dietrich, G. 181n. Divine Light Mission 62 D’Mello, J. 182n., 182-183, 184 Douglas, J. A. 18 e n. Douglass, J. 130 Dowling, L. H. 17 e n. Dumont, L. 121, 129, 156-157, 216, 217 Dupuis, J. 96, 98-101, 102, 107, 224, 233 Eco, U. 229-230 Élan Vital (vedi: Divine Light Mission) Erodoto 9 Erskine, N. L. 15-16 Farquhar, J. N. 89-90 Fellowship of the Followers of Jesus 231n. Fiorenza, E. S. 179, 183n. Foucault, M. 206, 225n. Frei, H. 206n. Fuchs, S. 168 e n. Gama, V. da 241 Gandhi 45-46, 62, 111, 113, 114, 121-136, 137, 142, 145, 148, 151, 155 e n., 193, 196, 204, 209, 221 Garaudy, R. 118 Gasbarro, N. 236, 237

296

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INDICE DEI NOMI

George, S. K. 130-131 Gilkey, L. 200-201 Giovanni di Monte Corvino 243 Giovanni il Persiano 242 Giovanni Paolo II 100n. Goreh, N. 34-35 Gould-Davis, E. 180 Gramaglia, P. A. 23, 56n. Greeley, A. M. 219 Griffiths, A. R. (Bede) 84-85, 86n., 107, 224 Griffiths, P. 206n. Gurdjieff, G. I. 52 Gutiérrez, G. 107, 108-109 Habermas, J. 11, 217, 223 Hall, G. 189 Hare Krishna 46, 54, 56-58, 62, 64 Harrison, G. 56n. Hassnain, F. M. 23n. Hauerwas, S. 206n. Hedgewar, K. B. 13n. Heim, S. M. 204n. Hervey (Mrs.) 17n. Hick, J. 94 Hindu Church of Lord Jesus 231n. Hnumi, R. L. 181n. Ho Chi Minh 151 Holdrege, B. A. 11 Iannacone, L. R. 220 Inden, R. 10 ISKCON (vedi: Hare Krishna) Jharkhand Movement 169 Jharkhand Mukti Morcha 169

Jesudasan, I. 122n., 128 Johanns, P. 68 Jones, E. S. 130 Juergensmeyer, M. 218 Kanneett Revival Church 231n. Kappen, S. 115-121, 135n., 142, 145, 150, 152, 223, 233, 239, 239-240n. Keller, C. 79 Kersten, H. 23-25 Kipling, R. 20 Klostermaier, K. 96-97n., 238n. Knitter, P. 102-104, 105-106, 137, 143, 198-212, 218, 223, 239 Krieger, D. 208 Krishnamurti 22-23 Kulanday, V. J. F. 86n. Kulke, H. 10 Kumari, P. 181n. Küng, H. 99, 102, 104-106, 114, 147n., 199, 206, 218, 223 Lacombe, O. 81 Lamparelli, C. 51-52, 53, 58n. Larson, G. J. 10 Lattanzio 179n. Leadbeater, C. W. 22 Lee, J.-D. 188 Lenin, V. I. 151 Lepschy, C. 226-227 Le Saux, H. (vedi anche: Abhishiktananda) 81, 82-84, 86, 107, 141n., 224, 232-233, 235 Lévi-Strauss, C. 228 297

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Lindbeck, G. 202, 206n. Long, J. 89 Lutyens, M. 22 Maharashtra 155 Majumdar, R. C. 21n. Mao Tse-tung 151 Mapelli, N. 17n., 64n., 65n., 187n., 213n., 224n. Maritain, J. 68 Marx, K. 108, 117, 118, 127, 139 Massey, J. 154n., 175 Maurice, F. D. 87n. Max Müller, F. 11n., 12, 18 e n., 34, 90-91 Mazzoleni, M. 58-59 Meditazione Trascendentale 62 Mère (Mirra Alfassa) 46, 49-50 Metz, J. B. 225n. Milbank, J. 204 Minz, N. 175 Miranda, J. 138 Moltmann, J. 179n., 187n. Monchanin, J. 81-82 Mondini, U. 168 e n. Monier-Williams, M. 91-92 Mookenthottam, A. 33 Moozumdar, P. C. 34 Neill, S. 241 Neufeldt, R. 38n., 40 Nirmal, A. P. 160, 161-162, 164 Notovitch, N. 17-20, 20n., 21, 23, 25, 30, 53, 55

Odorico da Pordennone 243n. Olcott, H. S. 21 Order of the Star 22 Osho (Rajneesh, B. S.) 50-54, 62 Pandey, G. 10 Panikkar, R. 33n., 80-81, 96-98, 101, 107, 111-112n., 187-189, 203, 208 Pantaenus 242 Paolo (santo), 24, 119, 179 Parekh, M. 32 Parrat, J. 170n., 173, 174n., 175 Patanjali 58n. Periyar (vedi: Ramaswamy, E. V.) Phule, J. 155 Piaget, J. 228, 234 Piano, S. 42 Piantelli, M. 43 Pieris, A. 111, 137-144, 145, 196, 209 Pio X 222 Pisani (Mons.) 68 Placher, W. 204, 206n. Platone 69 Polo, M. 9 Pondicherry 35, 46 Popper, K. 226 Prabhakar, M. E. 159-160 Prabhavananda, Swa\mi 76 Prabhu, J. 188 e n. Prabhupada, Swa\mi 46, 56 e n., 57 Prophet, E. C. 18n., 19n.

298

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INDICE DEI NOMI

Radhakrishnan 69, 72-73, 75, 77, 111 Rahner, K. 92, 93-94, 99, 100, 143 Rajneesh, B. S. (vedi: Osho) Ralte, L. 181 Ramakrishna 18n., 38, 58n., 61, 6971 Ra\ma\nuja 69, 80, 101n., 167 Ramaswamy, E. V. 194-196 Ranade, M. G. 39 Ranganathananda, Swa\mi 76-77 Rani, M.T. 182n. Rao, K. Subba 79 Rao, M. Sunder 80 Ratzinger, J. 98, 144n., 152n. Rayan, S. 162-163, 211 Renan, E. 20n. Roerich, N. 19n. Roy, R. M. 30-31, 33, 38, 45, 111, 112, 192 RSS 13 e n. Russell, L. 178n. Sabbatucci, D. 10 Saccidananda a\shram 81, 82, 84 Sai Baba 46, 58-61, 62 Samartha, S. J. 78-79, 95 Saraswati D., Swa\mi 21n., 33-34, 38, 193 Satprakashananda, Swa\mi 77 Saverio, F. (santo), 241 Schlegel (fratelli), 9 Schlette, H. R. 94, 104 Self-Realization Fellowship 55 Self-respect Movement 195

Sen, K. C. 31-32, 33, 38, 45, 87n. Seneca 179n. Shankara 12, 33, 69, 72, 78, 79, 80, 101n., 161, 164, 167, 227 Shiva, V. 185 Singh, S. 34, 37, 80 Soares-Prabhu, G. 163 Sobrino, J. 138 Società Teosofica 19n., 20-23, 64 Sontheimer, G. D. 10 Staal, F. 11-12 Staffner, H. 32, 111-112n. Stanislaus, L. 153n., 154n., 156, 166n. Stietencron, H. von 10, 12n., 42 Stone, M. 181 Tagore, D. 45 Tagore, R. 45 Takatenjen, P. 173 Teilhard de Chardin, P. 46, 62 Tennent, T. 165 Tertulliano 242 Thangaray, M. T. 95-96 Thils, G. 99 Thomas, M. M. 111-116, 121, 142, 145, 174n. Thoreau, H. D. 129 Tilak, N. V. 101n. Tolstoy, L. 129 Tommaso (apostolo), 242 e n. Tommaso (santo), 67 Trible, P. 178n. 299

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L’ASSOLUTO E LA STORIA

Upadhyaya, B. 33, 36, 67, 78 e n., 82, 101n. Vernant, J.-P. 215 VHP 13 e n. Vivekananda, Swa\mi 19n., 38, 45, 69, 70-71, 73-75, 76, 77, 88, 214, 233 Visca, D. 64n., 154n., 155 e n., 156n., 166, 216, 230, 232, 235n. Ward, W. 88 Weber, M. 220 Webster, J. 164-165

White, L. 186-187 Wilfred, F. 96n. Wilkins, C. 9 Wilson, K. 165-166 Wilson, H. H. 91 Wlosok, A. 179n. World Parliament of Religion 71 Yogananda 46, 54-56, 62, 64 Yukteswar Giri 54 Yuomayam (vedi: Kanneett Revival Church) Zimmer, H. 41-42

300

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Itinerari di ricerca storico-religiosa Collana diretta da Danila Visca

–1– Danila Visca Nera ma bella Per un’analisi storico-religiosa del culto mariano in Africa –2– Alessandro Saggioro Sardinia - |Ixno†ssa Questioni di metodo per una storia religiosa della Sardegna –3– Claudia Santi Alle radici del sacro Lessico e formule di Roma antica

–6– Danila Visca Sulle tracce del diavolo La scoperta di Satana in Africa –7– Nicola Mapelli Oceania Oltre l’orizzonte dei Mari del Sud –8– Alessandro Cerri – Nicola Mapelli Leornardo Sacco – Claudia Santi Il New Age Volti dal passato, nel presente e per il futuro

–4– Danila Visca La strega e il terrorista Religione e politica in Uganda –5– Leonardo Sacco Kamikaze e Shahı d\ Linee guida per una comparazione storico-religiosa

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