Landscape: una sintesi di elementi diacronici: Metodologie a confronto per l'analisi del territorio
 9781407358581, 9781407358598

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Di relativo interesse
Premessa
Indice
Sezione I
1. Introduzione
2. Note preliminari sul rapporto tra tabernee impianti termali pubblici ad Ostia imperiale
Introduzione
Le Terme di Nettuno (II, iv, 2)
Terme del Foro (I, xii, 6)
Il confronto con Pompei
Le terme di Licinius Sura a Roma
Una soluzione di carattere locale
Bibliografia
3. Urbanistica dell’acqua: gli esempi di Brescia e Verona
Gli acquedotti romani di Brescia e Verona
La conduzione dell’acqua nel suburbium
Distribuzione e parcellizzazione dell’acqua: il contestourbano
Conclusioni
Bibliografia
4. The Impact of Water Management in the Urbanisation andUrban Planning Processes. Some Preliminary Insights from theRoman Eastern Alps
Introduction
Methodological issues
Aquae devorant terras: water drainage and urbanplanning
Timing
Preliminary insights
Bibliografia
Sezione II: Vie di Comunicazione nel mondo antico
5. Vie di comunicazione nel mondo antico
6. La città romana di Neapolis, in Sardegna.Studio topografico sui sistemi di accesso viario all’area urbana
Neapolis, in Sardegna
La via a Tibulas Sulcis
La rete viaria periurbana dei settori est e ovest
Bibliografia
7. Ricerche topografiche e cost surface analysisper la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia
Via Herculia: analisi della documentazione edita
Il contributo delle cost surface analysis allaricostruzione topografica
Le indagini territoriali
Considerazioni conclusive
Bibliografia
8. Θάλαττα, θάλαττα: the way the sea and the wind drew thetrade routes in the Aegean Sea during the Bronze Age
Wind Conditions characterising the Aegean Sea
What about the wind pattern in the Bronze Age?
To sail or not to sail
Conclusions
References
9. Retracing an Ancient Roman Road: Aerial Photographyand Topographical Survey of the Aecas-Siponto Roadin Northern Apulia, Italy
Introduction
Introduction
Methodological issues
Preliminary remarks
The route from Lucera to Arpi
References
10. Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per lacomprensione del territorio antico lungo la via Herculia
Introduzione
Strumenti remote sensing e indagine topografica
Località Bosco di Contra (Scampitella, AV)
Macchiacupa (Ariano Irpino, AV)
Masseria Imbimbo (Ariano Irpino, AV)
Conclusioni
Bibliografia
Sezione III: Nuove tecnologie per lo studio del territorio
11. New Technologies for the Study of Landscape
12. Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contestiarcheologici e bioarcheologici su scala variabile
GIS e documentazione in Archeologia
Il GIS applicato all’archeologia
Le applicazioni del GIS in ambito archeologico ebioarcheologico
Case studies
Il progetto Benabbio
Il progetto Badia Pozzeveri
Conclusioni e stato dell’arte
Bibliografia
13. Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nellaToscana sud-occidentale: studi morfologici ed archeometrici
Introduzione
Metodologia
I campioni ceramici
Le argille
Le analisi archeometriche
Considerazioni conclusive
Bibliografia
14. Racconti di pietre: l’applicazione di metodiarcheometrici portatili allo studio dei paesaggi
Introduzione*
Spunti per l’analisi di taskscapes, il caso diCarcassonne
Archeometria portatile: la rivoluzione dellascienza da campo
Imaging nel vicino Infrarosso
Spettrofotometria a raggi X
Gestione, condivisione e analisi dei dati archeometrici
Dal dato alla narrazione: le metamorfosi delpaesaggio attraverso le lenti della geochimica
Conclusioni
Bibliografia
Sezione IV: Paesaggi antichi: Metodologie a confronto
15. Confronting Methodologies in Ancient Landscape Studies
16. Ricognizioni archeologiche e legacy data in Sicilia orientale:l’integrazione tra metodi per la ricerca sui paesaggirurali in età romana
Introduzione
Ricerche sui sistemi insediativi antichidella Sicilia orientale
Il territorio di Catania come caso studio
Osservazioni sul paesaggio rurale di età romana
Discussione
Bibliografia
17. Methodological Issues for the Integrated Analysisof Landscapes of Power: the Case Study of Volterra(Centuries 1st BC–5th AD)
Introduction: the case study of Volterra
The Volterran settlement and the marginal areas:general overview
Volterran marginal areas and the centuriation
Volterran marginal areas: the sacred places and theimperial presence
Reconsidering the Volterran settlement patterns:mid-2nd and 3rd century AD
Reconsidering the Volterran settlement patterns:centuries 1st-2nd AD
Reconsidering the Volterran settlement patterns:mid-3rd and 4th century AD
The marginal areas: Late Antiquity andthe Christianization of spaces
Conclusion
References
18. Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione: dalla cartaarcheologica d’Italia all’esperienza del progetto Ager Lucerinus
Dalla Carta Archeologica d’Italia al progetto AgerLucerinus: la ricerca topografica in area apulo-lucana
Il metodo della ricerca topografica nel progetto agerLucerinus: i cambiamenti delle applicazioni tecnologiche
Nuovi sistemi di rilevamento nella field archaeologicalsurvey. Tecnologie a confronto in scenari di ricercanazionali ed internazionali, alcuni esempi di metodo
La gestione e il metodo di studio del laboratorio dimateriali in un progetto topografico: l’ager Lucerinuse la ceramica
Bibliografia
19. Ager Grumentinus: ricerche topografiche e tutela del paesaggioarcheologico in Alta Val d’Agri (Basilicata)
Premessa
Il paesaggio dell’Alta Val d’Agri nell’antichità:una lettura diacronica
Dalla lettura delle preesistenze alle odierneesigenze di tutela
Conclusioni
Bibliografia
20. Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna)tra VII e VIII secolo
Introduzione*
I dati
Conclusioni
Bibliografia
21. Conoscere un territorio attraverso il costruito storico:il censimento dell’edilizia medievale nelle valli bergamasche
Introduzione
Contesto geografico
Evoluzione cronologica del costruito
Conclusioni
Bibliografia
Bibliografia
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B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 4 7

2021

Landscape: una sintesi di elementi diacronici Metodologie a confronto per l’analisi del territorio A CURA DI

D AV I D E G A N G A L E R I S O L E O E I P P O L I TA R A I M O N D O

297mm HIGH

B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 4 7

2021

Landscape: una sintesi di elementi diacronici Metodologie a confronto per l’analisi del territorio A CURA DI

D AV I D E G A N G A L E R I S O L E O E I P P O L I TA R A I M O N D O

297mm_BAR Gangale Risoleo TITLE ARTWORK.indd 1

17/09/2021 15:05

Published in 2021 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 3047 Landscape: una sintesi di elementi diacronici ISBN  978 1 4073 5858 1 paperback ISBN  978 1 4073 5859 8   e-format doi  https://doi.org/10.30861/9781407358581 A catalogue record for this book is available from the British Library © the editors and contributors severally 2021 Cover image  Statuina bronzea rappresentante legionario con groma – Bronze figurine representing legionary with groma (Roma, Museo della Civiltà Romana, MCR 3462). © Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. The Authors’ moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in any form digitally, without the written permission of the Publisher. Links to third party websites are provided by BAR Publishing in good faith and for information only. BAR Publishing disclaims any responsibility for the materials contained in any third-party website referenced in this work.

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BAR International Series 2926

Oxford, BAR Publishing, 2019

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Premessa I temi relativi alla Topografia antica risultano di interesse sempre più vasto nel mondo della ricerca archeologica e ne è prova l’entusiasmo con cui è stata accolta la proposta di questo convegno, nata dai dottorandi del Dottorato toscano di Scienze dell’Antichità e Archeologia e dalla sensibilità dell’Ateneo Pisano. Da un punto di vista accademico la disciplina risale al 1878, quando Rodolfo Lanciani iniziò a insegnare Topografia di Roma Antica all’Università di Roma, ma ovviamente essa sì è fortemente evoluta ed ha oggi particolare rilevanza: la pianificazione territoriale e urbana, infatti, può basarsi solo su una conoscenza dettagliata di tutte le presenze archeologiche. Piani paesaggistici, archeologia preventiva e valorizzazione possono avere un effetto positivo sul territorio solo quando questo sia stato esplorato, documentato e compreso nella sua evoluzione topografica di lungo periodo.

stregua di tutti gli altri elementi della geomorfologia, in modo da sviluppare una interpretazione estremamente più fine e avanzata del territorio. Una seconda frontiera in cui la tecnologia non è semplicemente il potenziamento di procedure collaudate, ma innesca un processo di evoluzione e affinamento dell’indagine, è l’impiego sistematico delle indagini geognostiche. Queste erano solitamente limitate alle indagini preliminari o integrative dello scavo archeologico, con tutti i problemi interpretativi che ben conosciamo, ma il loro utilizzo sistematico ed estensivo ha permesso di andare al di là del singolo problema interpretativo strutturale per riconoscere schemi urbani nella loro complessità: si pensi a Falerii Novi, a Selinunte, a Veio. Più di recente si è iniziato a utilizzarli in maniera estensiva anche per il territorio: per riempire i vuoti della documentazione che la ricognizione tradizionale – anche quella ripetuta e capillare – non riusciva a colmare, ottenendo risultati veramente sorprendenti. In futuro possiamo sperare che un’integrazione maggiore tra tecniche tradizionali e geognostiche permetta di affinare la lettura dei dati raggiungendo anche per via geognostica uno spessore stratigrafico e cronologico del dato.

Negli ultimi anni gli studi topografici hanno tentato nuove vie applicando tecnologie avanzate, con una discussione a volte anche molto vivace. Vorrei però qui distinguere tra l’uso di nuove tecnologie e l’evoluzione metodologica della disciplina in senso stretto. Una nuova tecnologia, infatti, può semplificare la vita all’archeologo o a chi deve utilizzare i suoi dati, ma non necessariamente significa un passo avanti metodologico; fare in maniera più veloce o più accurata una qualsiasi operazione non garantisce un avanzamento scientifico se non permette di vedere con occhi nuovi un vecchio problema o di formulare nuove domande.

Infine si profila la possibilità dell’utilizzo estensivo di rilevamenti 3D del tessuto monumentale di un’area. La sperimentazione aveva finora interessato essenzialmente singoli edifici, proponendo anche ricostruzioni virtuali di grande interesse e impatto, ma applicata su vasta scala come si sta iniziando a fare, questa tecnologia permetterebbe da un lato una ricostruzione del tessuto urbano e dell’evoluzione geomorfologica dell’area interessata, esaltando la diacronia della sua evoluzione e superando la disperante bidimensionalità delle piante normalmente impiegate da noi archeologi, dall’altro consentirebbe in prospettiva una gestione della tutela estremamente avanzata: trasformando i modelli 3D in archivi tridimensionali e strumenti di pianificazione. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che in topografia è particolarmente evidente l’esigenza di tenere sempre chiaro in mente il doppio binario degli studi: da un lato abbiamo la comprensione storica, dall’altro il suo impatto nelle operazioni di tutela, pianificazione e valorizzazione. I due aspetti possono essere distinti per ragioni di chiarezza metodologica, ma mai devono essere separati.

Per essere più chiaro farò qualche esempio degli avanzamenti metodologici degli ultimi anni. Innanzitutto c’è un salto di qualità nella cartografia archeologica. Fare una carta archeologica, infatti, significava prendere una carta realizzata – per esempio – dall’Istituto Geografico Militare o da un ente locale (la CTR) e sovrapporvi i dati ricavati dalla ricognizione, dallo scavo, dalla bibliografia e dall’archivio. Anche se la carta archeologica veniva realizzata mediante un GIS, non cambiava in maniera radicale il suo utilizzo, ma solo la praticità e velocità della sua interrogazione. Il salto di qualità si è avuto invece da quando si è iniziato a realizzare carte da parte di fotorestitutori archeologi. L’operatore archeologo è in grado di inserire nella cartografia digitale codificati elementi del terreno che non attirano normalmente l’attenzione del fotorestitutore generico. Mediante l’uso di strisciate differenti e delle foto oblique – opportunamente raddrizzate – è possibile inserire ora nella cartografia anche le tracce archeologiche, in modo che esse non costituiscano semplicemente qualcosa di sovrapposto meccanicamente alla carta, ma ne siano un elemento costitutivo che dunque può essere trattato ed elaborato alla

Ovviamente una simile panoramica non rende giustizia della ricchezza di esperienze e di esperimenti in corso, una parte dei quali sono testimoniati dagli interventi dei colleghi invitati a contribuire al nostro convegno – attori di primo piano nello sviluppo recente della disciplina che

v

Premessa ringrazio per la loro disponibilità. Tale testimonianza, però, è palpabile anche nella molteplice ricchezza delle vie tentate dai colleghi più giovani, i dottorandi che hanno proposto, organizzato, animato e reso viva con le loro proposte le nostre due giornate di studio. Prof. Paolo Liverani Università degli Studi di Firenze Presidente della Consulta Universitaria di Topografia Antica

vi

Indice Sezione I  Urbanistica e gestione delle risorse.................................................................................................................. 1 1. Introduzione.................................................................................................................................................................. 3 Amanda Claridge and Paolo Liverani 2. Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale................................... 5 Beatrice Fochetti 3. Urbanistica dell’acqua: gli esempi di Brescia e Verona............................................................................................ 15 Davide Gangale Risoleo 4. T  he Impact of Water Management in the Urbanisation and Urban Planning Processes. Some Preliminary Insights from the Roman Eastern Alps...................................................................................... 27 Eugenio Tamburrino Sezione II  Vie di Comunicazione nel mondo antico...................................................................................................... 37 5. Vie di comunicazione nel mondo antico..................................................................................................................... 39 Giuseppe Ceraudo 6. L  a città romana di Neapolis, in Sardegna. Studio topografico sui sistemi di accesso viario all’area urbana.................................................................................................................................................. 41 Roberto Busonera 7. R  icerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia............... 51 Paola Guacci 8. Θ  άλαττα, θάλαττα: the way the sea and the wind drew the trade routes in the Aegean Sea during the Bronze Age................................................................................................................................................. 63 Angiolo Querci 9.

 etracing an Ancient Roman Road: Aerial Photography and Topographical Survey R of the Aecas-Siponto Road in Northern Apulia, Italy............................................................................................. 71 Ippolita Raimondo

10. V  ero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio antico lungo la via Herculia....................................................................................................................................... 81 Rosanna Montanaro and Paola Guacci Sezione III  Nuove tecnologie per lo studio del territorio.............................................................................................. 91 11. New Technologies for the Study of Landscape........................................................................................................ 93 Martin Millett and Stefano Campana 12. I l GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile........ 95 Francesco Coschino 13. P  roduzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale: studi morfologici ed archeometrici...................................................................................................................................111 Luisa Russo 14. Racconti di pietre: l’applicazione di metodi archeometrici portatili allo studio dei paesaggi.......................... 121 Claudia Sciuto

vii

Indice Sezione IV  Paesaggi antichi: Metodologie a confronto............................................................................................... 133 15. Confronting Methodologies in Ancient Landscape Studies................................................................................. 135 Frank Vermeulen 16. R  icognizioni archeologiche e legacy data in Sicilia orientale: l’integrazione tra metodi per la ricerca sui paesaggi rurali in età romana................................................................................................................................. 139 Rodolfo Brancato 17. M  ethodological Issues for the Integrated Analysis of Landscapes of Power: the Case Study of Volterra (Centuries 1st BC–5th AD)........................................................................................................................................ 157 Valentina Limina 18. R  icerche topografiche tra tradizione e innovazione: dalla carta archeologica d’Italia all’ esperienza del progetto Ager Lucerinus................................................................................................................. 167 Giovanni Forte, Maddalena La Trofa, Aglaia Piergentili Margani and Grazia Savino 19. A  ger Grumentinus: ricerche topografiche e tutela del paesaggio archeologico in Alta Val d’Agri (Basilicata)............................................................................................................................................. 181 Simonetta Montonato and Francesco Tarlano 20. Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo............................................... 197 Silvia Berrica 21. C  onoscere un territorio attraverso il costruito storico: il censimento dell’edilizia medievale nelle valli bergamasche............................................................................................................................................................. 205 Federica Matteoni

viii

Sezione I Urbanistica e gestione delle risorse

1

1 Introduzione Amanda Claridge1 and Paolo Liverani2 1

Royal Holloway, University of London 2 Università degli Studi di Firenze

Gli atti di questo convegno nascono da una selezione dei contributi al convegno organizzato presso l’Università di Pisa nell’ambito del dottorato di ricerca di Scienze dell’Antichità e Archeologia che associa le tre università toscane: Pisa, Firenze e Siena. Il convegno è stato organizzato – grazie a un finanziamento ad hoc messo a bando dall’Università di Pisa – su impulso dei dottorandi e in particolare se ne sono fatti carico Davide Gangale Risoleo e Ippolita Raimondo. L’intenzione era di render conto delle ricerche di carattere territoriale e topografico avviate dai dottorandi, ponendole in dialogo da un lato con quelle di altri giovani ricercatori per allargare l’orizzonte a un ventaglio più vasto di esperienze e dall’altro con studiosi esperti che potessero fornire stimoli sulla base di ricerche già avanzate e strutturate.

È in questo senso che si muove il primo contributo, di Beatrice Fochetti, incentrato sulla distribuzione e funzione delle tabernae di Ostia e nel loro rapporto con gli impianti termali, di cui è ricca la città antica. L’analisi dei vari impianti termali e di come si inseriscano in essi gli spazi commerciali, secondo una logica che tiene conto dei vincoli architettonici, topografici, economici e giuridici, permette di raggiungere acquisizioni su piani diversi: le considerazioni qui svolte si rivelano utili per comprendere come potessero essere utilizzati gli spazi non limitandosi all’esame planimetrico del pian terreno, come spesso avviene a causa delle condizioni di conservazione degli elevati, ma in relazione alla volumetria complessiva dell’edificio con i suoi piani superiori. Senza un esame complessivo non si potrebbe comprendere la distribuzione delle tabernae stesse e la loro redditività in una gestione globale degli impianti. I risultati si estendono alla distribuzione topografica nonché alla caratterizzazione di Ostia in confronto con altre città come Pompei. Il soggetto merita di essere approfondito e sistematizzato con una campionatura ampia estesa ad altri centri scavati estensivamente, che valorizzi appieno le potenzialità di questo tipo di approccio.

I lavori si sono articolati in sezioni che si sono mantenute anche negli atti e questa premessa vuole introdurre sinteticamente la prima sezione dedicata agli studi dell’urbanistica antica e della gestione delle risorse. Gli interventi che seguono risentono evidentemente dell’evoluzione degli studi sulla città antica, che in passato hanno messo in forte evidenza i caratteri formali della fase di impianto delle città di fondazione a urbanistica regolare. Questa attenzione però rischiava di privilegiare eccessivamente il momento fondativo a scapito della evoluzione successiva dell’organismo urbano e inoltre non può affrontare lo studio delle città che si sono sviluppate in maniera per così dire spontanea e non pianificata, anche se ovviamente possono avere avuto momenti di pianificazione parziale più o meno facilmente riconoscibili. Dunque l’attenzione deve ora orientarsi sugli aspetti funzionali che regolano la vita dei centri urbani attraverso la comprensione delle logiche distributive delle attività, del rapporto tra iniziativa pubblica e privata nella loro storia evolutiva. Un’ottica che potremmo avvicinare alla scuola di morfologia urbana dei geografi, con i quali sarà utile e opportuno instaurare un dialogo serrato. Questo aiuterà a integrare gli studi di urbanistica antica in quelli che esaminano le città medioevali e moderne, due mondi tra i quali sembra esistere oggi una separazione che non è solo cronologica e accademica, ma anche metodologica, mentre è chiaro come una storia urbana non possa raggiungere risultati significativi se non in una considerazione di lungo periodo che integri i risultati degli studi specialistici dei vari periodi e li renda comparabili e intercomunicanti.

Il secondo contributo, a firma di Davide Gangale Risoleo, tocca un altro nodo funzionale della città non meno cruciale: quello del rifornimento idrico. Il campione esaminato è costituito da due città dell’Italia settentrionale: Verona e Brescia. Gli acquedotti delle due città vengono ricostruiti attentamente nel loro percorso evidenziandone caratteristiche, datazione e committenza, proponendo un’interessante stima economica dell’impegno richiesto e discutendo anche i successivi passaggi della distribuzione, per delineare quella che viene definita una urbanistica dell’acqua. L’obbiettivo della ricerca slitta di poco nell’ultimo contributo di Eugenio Tamburrino: dall’adduzione dell’acqua al suo deflusso, ma rimanendo nella X Regio Venetia et Histria con uno sconfinamento nel Norico. Sono considerati diversi centri di quest’area per cercare di comprendere i criteri di pianificazione dei servizi di smaltimento delle acque reflue e come siano stati condizionati da vincoli di natura fisica e topografica da un lato, politica e sociale dall’altro.

3

Amanda Claridge and Paolo Liverani In tutti i contributi lo sforzo è quello di uno studio del fenomeno urbano che superi l’esame tipologico e planimetrico – sia pure indispensabile in un primo approccio – per scendere sotto pelle, se così si può dire, cercando di comprendere l’ossatura e il sistema circolatorio, per continuare nella metafora anatomica, dei centri urbani nelle loro specificità geografiche e nelle connotazioni sociali, con un rinnovamento delle problematiche stimolante e aggiornato.

4

2 Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale Beatrice Fochetti (PhD) Università di Pisa Universität zu Köln Abstract: Preliminary notes concerning the relationship between tabernae and public bath complexes at Imperial Ostia. The aim of this contribution is to investigate the relationships between the shops and the public bath complexes in the city of Ostia. The urban landscape of the city during the 2nd century AD is, in fact, characterized by a significant number of bath complexes, both relating to private and to public baths. Through an assessment of the architectural features of the Terme di Nettuno and the Terme del Foro, used as case studies, it was possible to establish comparisons with other Roman settlements and to understand in more depth the role played by the shops in the public baths of Ostia, in light with the urban development of the city. Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale. In questo contributo viene analizzata la relazione tra le taberne e i complessi termali pubblici nella città di Ostia. Un elemento che caratterizza il tessuto urbano ostiense nel pieno della sua espansione di II secolo d.C. è il numero significativo di impianti termali, sia pubblici che privati. Attraverso lo studio delle caratteristiche architettoniche delle Terme di Nettuno e delle Terme del Foro, utilizzate come casi di studio, è stato possibile stabilire confronti con altre realtà urbane e analizzare il ruolo delle taberne nelle terme pubbliche di Ostia, alla luce dello sviluppo urbanistico della città imperiale. Introduzione

termali non sia caratteristica isolata nel panorama delle terme romane e nonostante la tematica sia stata affrontata solo marginalmente in letteratura, l’analisi del contesto ostiense offre spunti di riflessione circa la derivazione dei modelli architettonici, utili alla contestualizzazione delle evidenze ostiensi nel più generale panorama dei bagni romani.

Un elemento che accomuna sia la palestra delle Terme di Nettuno che quella delle Terme del Foro ad Ostia è la presenza di taberne poste a delimitazione dell’area scoperta.1 In Italia taberne in complessi termali pubblici sono attestate già dal tardo II secolo a.C., nelle Thermae Stabianae di Pompei2, mentre in età imperiale – seppure in misura ridotta rispetto alla casistica generale – taberne annesse a terme pubbliche figurano sia a Roma che nelle Province.3 Nonostante il connubio tra taberne e complessi

In questa breve comunicazione si parlerà di taberne intese come vani dalle potenzialità multifunzionali, destinati allo svolgimento di attività economico-commerciali nel senso più ampio del termine. La stessa parola latina taberna si caratterizza infatti per un utilizzo terminologico estremamente flessibile, essendo essa impiegata almeno dal III secolo a.C. sino alla tarda antichità per indicare variamente ambienti destinati alla conduzione di attività commerciali e/o artigianali, all’offerta di servizi, all’esercizio di professioni e attività finanziarie, o ancora ad indicare un utilizzo promiscuo di tipo commerciale-

1  In questo contributo vengono presentati i risultati preliminari di una tesi di dottorato in Topografia Antica condotta da chi scrive presso l’Università di Pisa e l’Univerität zu Köln sotto la direzione del prof. Paolo Liverani e del prof. Michael Heinzelmann. Tale ricerca utilizza le taberne come caso di studio per approfondire le dinamiche urbanistiche, architettoniche ed economiche della profonda fase di rinnovamento urbano vissuta dalla città di Ostia nel corso del II secolo d.C. Devo a tal riguardo un sentito ringraziamento alla dott.ssa Mariarosaria Barbera, alla dott.ssa Paola Germoni e a tutto il personale del Parco Archeologico di Ostia Antica, per aver consentito e facilitato lo svolgimento delle mie indagini. 2  Per le Thermae Stabianae di Pompei si veda da ultimo Trümper et al. 2019. Precedentemente: Eschebach 1979. 3  Relativamente ai complessi termali editi in: H. Manderscheid, Bibliographie zum römischen Badewesen: Unter besonderer Berücksichtigung der öffentlichen Thermen, München 1988; Nielsen 1990; F.K. Yegül, Baths and Bathing in Classical Antiquity, New York 1992; Roman Baths and Bathing, (a cura di J. DeLaine, D. E. Johnston),

Proceedings of the first International Conference on Roman Baths (Bath 1992), JRA Suppl. 37, Portsmouth 1999; G.G. Fagan, Bathing in Public in the Roman World, Ann Arbor 1999; Y. Thébert, Thermes romains d’Afrique du Nord et leur contexte méditerranéen: études d’histoire et d’archéologie, BEFAR 315, Roma 2003; Le Terme Pubbliche nell’Italia Romana (II secolo a.C. – fine IV d.C.). Architettura, Tecnologia e Società (a cura di A. Pizzo, M. Medri), Seminario interazionale di Studio (Roma 2018), Roma 2019.

5

Beatrice Fochetti rappresentati da impianti di grande impegno, quali le Terme di Nettuno (II, iv, 2) e le Terme del Foro (I, xii, 6)9, che vengono qui utilizzati come casi di studio per approfondire il rapporto fra taberne e thermae publicae nel contesto ostiense.

abitativo.4 Sul piano architettonico tali ambienti, di norma di forma rettangolare e a vano singolo, si caratterizzavano invece per l’ampio ingresso, generalmente prospicente la pubblica via, al quale si associava uno specifico sistema di chiusura con soglia a scorrimento longitudinale. Il vano principale della taberna poteva inoltre essere completato da un retrobottega e/o un mezzanino (pergula).5 Questa forma di architettura urbana era estremamente caratteristica del paesaggio delle città romane. Le taberne sono infatti presenti in qualsiasi tipo di sviluppo urbano, o come entità indipendenti o integrate nella costruzione di edifici pubblici e privati, fra i quali le terme, per le quali Ostia rappresenta un osservatorio privilegiato.

Le Terme di Nettuno (II, iv, 2) Edificato in opus testaceum durante l’età adrianea-antonina nel settore nord-orientale della città, a nord del Decumano Massimo10 (fig. 2.1, n. 14), il complesso termale occupa un’area della regio II interessata da sostanziali adeguamenti urbanistici di età adrianea11 e precedentemente occupata da strutture di età claudia e domizianea.12 Di particolare interesse in questa sede l’esistenza, in età domizianea, di un preesistente impianto termale, probabilmente anch’esso da considerarsi pubblico13, caratterizzato da una fila singola di taberne prospicenti il Decumano Massimo.14

Un forte connotato del tessuto urbano di Ostia6 è infatti la cospicua presenza di edifici termali.7 Escludendo le terme private ad uso esclusivo, le quali ad Ostia non annoverano la presenza di taberne, per la sola area scavata della città sono attestati oltre venti impianti termali, tra i quali figurano sia thermae publicae che terme private ad uso pubblico o semipubblico, caratterizzate dalla presenza di taberne8 (fig. 2.1). I casi più complessi sono certamente

Le Terme di Nettuno furono realizzate per diretto intervento di Adriano e successivamente completate e dedicate da Antonino Pio, nel 139 d.C.15 L’analisi dei bolli laterizi ha permesso di stabilire come i lavori adrianei debbano essersi concentrati nella seconda metà del principato di Adriano, tra gli anni 127–130 d.C.16 Nella fase adrianeo-

4  La questione terminologica relativa al termine latino taberna è ampiamente affrontata in: C. Holleran, Shopping in Ancient Rome. The Retail Trade in the Late Republic and the Principate, Oxford 2012, pp. 100–158. In generale per una definizione architettonico-funzionale delle taberne cfr. da ultimo S.J.R. Ellis, The Roman Retail Revolution. The Socio-Economic World of the Taberna, Oxford 2018, pp. 30–51. 5  Si veda per Ostia il modello di classificazione a suo tempo proposto da Giancarla Girri, la quale definisce quattro tipi di taberne in base alla presenza o assenza del mezzanino e/o del retrobottega: Girri 1956, pp. 3–7. Per un’analisi sulle taberne nella città di Ostia si rimanda a: Girri 1956 e più recentemente Schoevaert 2018, sebbene quest’ultimo presenti talune criticità sia metodologiche che interpretative; si veda a riguardo la recezione di M. Danner, «Julien Schoevaert, Les boutiques d’Ostie: l’économie urbaine au quotidien, Ier S. AV. J.-C. – Ve S. AP. J.C. (Collection de l’École française de Rome 537). Rome 2018», in JRS 110, 2020, pp. 256–257. Si vedano anche: C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, Roma-Bari 1986, pp. 53–64, 227–238; G. Hermansen, Ostia. Aspects of Roman City Life, Alberta 1982, pp. 125–205; J. DeLaine, «The Commercial Landscape of Ostia», in Roman Working Lives and Urban Living (a cura di A. Mac Mahon, J. Price), Oxford 2005, pp. 29–45. 6  La bibliografia dedicata all’urbanistica ostiense è estremamente consistente. Fra i fondamentali contributi di carattere generale si vedano: Scavi di Ostia I; Meiggs 1973; J. E. Packer, The Insulae of Imperial Ostia, MAAR 31, Rome 1971; Pavolini 2006; A. Gering, Ostias vergessene Spätantike. Eine urbanistische Deutung zur Bewältigung von Verfall, Palilia 31, Wiesbaden 2018. Sul boom edilizio ostiense di II secolo d.C. si vedano invece: M. Heinzelmann, «Bauboom und urbanistische Defizite. Zur staedtebaulichen Entwicklung Ostias im 2. Jh.», in Ostia e Portus nelle loro relazioni con Roma (a cura di C. Bruun, A. Gallina Zevi), Atti del Convegno all’Institutum Romanum Finlandiae (Roma 1999), Acta Instituti Romani Finlandiae 27, Roma 2002, pp. 103–122; DeLaine 2002, pp. 41–102; R. Mar, «Una ciudad modelada por el comercio: la construccion del centro de Ostia», in MEFRA 114, 2002, pp. 111–180. 7  In generale, sugli impianti termali ostiensi: Meiggs 1973, pp. 404–420; R. Mar, «Las termas de tipo medio de Ostia y su insercion en el espacio urbano. Estudio preliminar», in Italica. Cuadernos de trabajos de la Escuela española de historia y arqueología en Roma 18, 1990, pp. 31– 63; G. Poccardi, «Thermes et bains de l’Ostie antique», in Ostia: Port et porte de la Rome antique (a cura di J.-P. Descoeudres), Genève 2001, pp. 161–171; Medri, Di Cola 2013, pp. 101–109 e fig. 1.57. 8  Per una classificazione degli impianti termali in base al regime di proprietà e fruizione si veda: Medri, Di Cola 2013, p. 100. Per un tentativo d’identificazione del regime di proprietà delle terme ostiensi: G. Poccardi, «Les bains de l’Ostie tardo-antique (fin IIIe – début VIe siècle)», in Les cités de l’Italie tardo-antique (IVe – VIe siècle): institutions, économie, société, culture et religion (a cura di M. Ghilardi, C. Goddard, P. F. Morena), Actes du colloque international (Rome 2004), CollEcFrR 369, Roma 2006, pp. 167–186, tav. 1.

Oltre alle Terme di Nettuno e le Terme del Foro, tra gli impianti termali di proprietà pubblica con taberne occorre menzionare anche le Terme del Nuotatore – V, x, 3 (fig. 1, n. 4), considerate come thermae publicae da M. Medri: Medri, Di Cola 2013, pp. 95–96. Per lo studio dell’architettura e delle fasi edilizie delle Terme del Nuotatore si veda principalmente: Medri, Di Cola 2013; M. Medri, Le Terme Del Nuotatore in Ostia Antica: Dalla Stratigrafia Alla Ricostruzione, Roma 2020. 10  In generale sull’edificio: Scavi di Ostia I, pp. 132–133, 139, 219–221; Pavolini 2006, pp. 58–61; Pensabene 2007, pp. 233–244 con bibl. prec., figg. 129–131. Per le fasi post-adrianee e tardo-antiche, si vedano anche, rispettivamente: T.L. Heres, «Una ricerca sulla storia edilizia delle Terme di Nettuno ad Ostia Antica (II,4,2) nel periodo post-adrianeo», in Mededelingen van het Nederlands instituut te Rome 40, 1978, pp. 93– 112; T.L. Heres, «La storia edilizia delle Terme di Nettuno (II, 4, 2) ad Ostia: lo sviluppo nei secoli IV-V», in Mededelingen van het Nederlands instituut te Rome 41, 1979, pp. 35–42. 11  Per una sintesi sull’evoluzione urbanistica del quartiere ove insistono le Terme di Nettuno: N. Bauers, Architettura in laterizio a Ostia. Ricerche sulle insulae ‘dell’Ercole bambino’ e ‘del Soffitto dipinto’. Scavi di Ostia XVI, Roma 2018, pp. 22–35. 12  In età claudia, nell’area successivamente occupata dalle Terme di Nettuno, vennero edificati due blocchi edilizi a funzione commercialeartigianale. Al 40–50 d.C. è datata invece l’edificazione delle Terme delle Province sotto Via dei Vigili (II, iii). L’età domizianea vede il totale riassetto dell’area con l’edificazione dell’impianto termale antecedente le Terme di Nettuno e l’obliterazione delle preesistenze, ivi compresi i blocchi commerciali d’età claudia e le adiacenti Terme delle Province. La successione delle fasi edilizie pre-adrianee ci è nota da saggi stratigrafici condotti tra il 1965 e il 1972 da Fausto Zevi e sintetizzati in: F. Zevi, A. Granelli, «Le Terme di Nettuno: Stratigrafia e fasi edilizie pre-adrianee», in Mededelingen van het Nederlands instituut te Rome 58, 1999, pp. 80–82, con bibl. prec.; Pensabene 2007, pp. 233–239, figg. 129–131. Per le Terme delle Province si vedano: Scavi di Ostia I, p. 117; G. Becatti, Mosaici e pavimenti marmorei. Scavi di Ostia IV, Roma 1961, pp. 45–47 n. 68, fig. 14, tavv. CXXII-CXXIII; Pavolini 2006, pp. 57–58. 13  Come sostenuto da F. Zevi: F. Zevi, «Traiano e Ostia», in Trajano. Emperador de Roma (a cura di J. Gonzalez), Roma 2000, pp. 527–529 e nota 38. 14  Cfr. Pensabene 2007, fig. 130b; Medri, Di Cola 2013, fig. 1.12. 15  CIL XIV, 98 = ILS 334. Si veda a riguardo M. Cébeillac-Gervasoni, M. L. Caldelli, F. Zevi, Epigrafia latina. Ostia: cento iscrizioni in contesto, Roma 2010, pp. 148–149. 16  Il 127 d.C. rappresenta il t.p.q. per la posa in opera delle fondamenta del blocco termale, mentre l’edificazione del portico non si data prima del 130 d.C.: DeLaine 2002, pp. 57–64, figg. 9–12; appendice 1, n. 5. 9 

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Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale

Figura 2.1. Ostia, tavola di distribuzione dei principali impianti termali pubblici e privati ad uso pubblico o semipubblico con indicazione delle terme con taberne annesse (rielab. dell’autrice da Scavi di Ostia I).

antonina l’edificio si componeva di un blocco termale ad est e una palaestra porticata su tre lati ad ovest, occupanti complessivamente una superficie di ca. 4500 mq. Un portico in laterizio associato a taberne, il cd. Portico di Nettuno (II, iv, 1), costituiva la fronte monumentale del complesso lungo il Decumano Massimo.17

A questa serie si aggiungono inoltre tre unità su fila singola (D1–3) poste alla terminazione sud-orientale del complesso, anch’esse prospicenti il Portico di Nettuno, e i tre ambienti siti sul lato nord-orientale delle terme, prospicenti Via dei Vigili (F4, F7–8). Il lato occidentale della palestra era invece delimitato da una fila singola di vani, interpretabili come taberne, le quali si aprivano con gli ingressi principali verso il peristilio (L1, L3–4, L9–11).19 In questo settore gli ambienti erano disposti a gruppi di tre vani intercomunicanti, posti rispettivamente a nord (L9–11) e a sud (L1, L3–4) dell’ambiente centrale L6,

In relazione alle taberne, la cui edificazione si ascrive alla medesima fase edilizia del complesso termale, per le Terme di Nettuno si può osservare l’adozione di due distinte soluzioni. Il lato meridionale della palestra era delimitato da una serie di taberne disposte su fila doppia, con parete di fondo comune e gli ingressi rivolti sia verso il Decumano Massimo (fig. 2.2, D7–16) che verso la palestra (H5-10). Scale esterne (D6, D14) indicano la presenza di piani superiori accessibili esclusivamente dalla viabilità.18

veda di contro Schoevaert 2018, cat., pp. 145–147, nn. B10–B16 ove gli ambienti vengono identificati come taberne. Nell’estremità occidentale del Portico di Nettuno si trova inoltre la cd. Caupona di Fortunatus (II, vi, 1), una popina istallatasi successivamente, probabilmente nella prima metà del III secolo d.C., in quello che originariamente era il passaggio tra Decumano Massimo e Via della Fontana. Si vedano a riguardo: Becatti, Mosaici e pavimenti marmorei, op. cit. alla nota 12, p. 63, n. 80; Hermansen, Ostia. Aspects of Roman City Life, op. cit. alla nota 5, pp. 146–147, n. 15; A. Gering, «Plätze und Strassensperren an Promenaden. Zum Funktionswandel Ostias in der Spätantike», in RM 111, 2004, pp. 318–319 e tav. 49. 19  Tali ambienti venivano identificati come taberne dal Vaglieri; la stessa posizione è stata sostenuta e ripresa, più recentemente, da J. Schoevaert: Vaglieri in NS 1909, pp. 197–198; Schoevaert 2018, cat., pp. 145–147, nn. B21–26.

17  Portico a pilastri in opus testaceum, decorato da lesene con basi e capitelli tuscanici: Pensabene 2007, pp. 244–245. Il Portico di Nettuno si estendeva dalla terminazione orientale del blocco II, iii, 1–5, sino alla terminazione occidentale delle Terme di Nettuno. Assieme all’adrianeo Portico del Tetto Spiovente (II, ii, 6), anteposto agli Horrea Antoniniani (II, ii, 7), formava una fronte unitaria e monumentale del tratto nordorientale del Decumano Massimo, con associata una fila ininterrotta di taberne. Si vedano: Scavi di Ostia I, p. 232; Pavolini 2006, pp. 56–60. 18  Gli ambienti D10/H6 sono invece da considerarsi funzionali all’accesso alla palestra dal Portico di Nettuno. Cfr. Girri 1956, p. 20. Si

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Beatrice Fochetti

Figura 2.2. Ostia, Terme di Nettuno, con numerazione degli ambienti e indicazione delle taberne (rielab. dell’autrice da Scavi di Ostia I).

interpretato come exedra.20 Porte secondarie si aprivano ad ovest su Via della Fontana, dove pure vi erano gli ingressi di due scale esterne per i piani superiori accessibili dalla viabilità (L2, L8). Gli ambienti L5 e L7 fungevano infine da ingressi secondari alla palestra da Via della Fontana.

ostiense. Le due varianti, corrispondenti ai sottotipi IA e IB della classificazione di J. Packer, potevano sia figurare isolatamente, che combinate tra loro.21 La variante delle taberne su fila singola è quella che maggiormente caratterizza l’edilizia ostiense di età imperiale. Essa prevedeva l’edificazione di una serie di vani disposti fianco a fianco, con gli ingressi generalmente prospicenti la viabilità pubblica. Trattandosi di una soluzione estremamente versatile, essa trovava margine di diffusione in contesti tra loro differenti: come unità architettonica

La disposizione di taberne secondo una fila singola o una fila doppia di ambienti addossati per il muro di fondo è ampiamente rappresentativa del panorama urbano 20  Per la quale è stata ipotizzata una destinazione a sala di culto imperiale. Nella sala, pavimentata con lastre in marmo, venne rinvenuta una statua di Sabina; è probabile altresì che ospitasse anche una statua di Adriano: Pensabene 2007, p. 237 e nota 745.

21  Cfr. Packer, The Insulae of Imperial Ostia, op. cit. alla nota 6, pp. 6–7, 18–19.

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Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale

Figura 2.3. Ostia, Terme di Nettuno, taberne lungo il Decumano Massimo (foto dell’autrice).

della palestra delle Terme di Nettuno (fig. 2.3), o l’insula I, xii, 10 bordante il lato occidentale della palestra delle Terme del Foro.

indipendente22, annessa al perimetro esterno di insulae polifunzionali23, integrata in contesti di edilizia pubblica.24 Meno frequente era invece l’edificazione di taberne disposte su fila doppia. Se infatti da un lato il vantaggio di questa soluzione risiedeva nella possibilità di raddoppiare il numero dei vani, dall’altro la sua applicazione era soggetta alla possibilità di affaccio, o verso due distinti fronti strada25, o verso corti interne e aree scoperte.26 Data tale caratteristica, ad Ostia taberne su fila doppia trovano attestazione anche presso gli impianti termali, sfruttando l’affaccio interno sulla palestra. È questo del resto il caso delle già citate taberne che delimitano il lato meridionale

Terme del Foro (I, xii, 6) Ad Ostia, l’annessione di serie di taberne alla palestra dell’impianto termale si riscontra infatti anche per le Terme del Foro, edificate in opus testaceum a partire dall’ultima decade del principato di Antonino Pio dal praefectus praetorio M. Gavius Maximus (fig. 2.1, n. 16). Il complesso, sito a sud-est dell’area forense, si sviluppa su una superficie di ca. 7160 mq, palestra inclusa: ne fanno parte il blocco termale a nord (I, xii, 6) e la palestra immediatamente a sud, porticata su tre lati (I, xii, 5).27 L’estensione della palestra è definita da tre blocchi edilizi con taberne, situati nei versanti orientale (I, xii, 7), occidentale (I, xii, 10) e meridionale (I, xii, 8) del complesso (fig. 2.4). La progettazione dei tre blocchi si ascrive alla prima fase edilizia di età antonina, sebbene i lavori verranno ultimati solo in età severiana. La prima fase edilizia del blocco termale, avviata durante il principato di Antonino Pio, copre gli anni che vanno dal 150 d.C. ai principati di Marco Aurelio e Commodo. I lavori nei blocchi a taberne I, xii, 7; I, xii, 10; I, xii, 8 vennero con

22  Si vedano a titolo esemplificativo le taberne III, ix, 23–26 presso il complesso delle Case a Giardino, per il quale si rimanda a: R. Cervi, «Evoluzione architettonica delle cosiddette ‘case a giardino’ ad Ostia», in Città e monumenti nell’Italia antica (a cura di L. Quilici, S. Quilici Gigli), Atlante tematico di topografia antica 7, Roma 1998, pp. 141–156 e fig. 2. 23  Cfr. la fila di taberne V, ii, 1 edificata all’estremità meridionale dell’insula V, ii: J. S. Boersma, Amoenissima Civitas. Block V,ii at Ostia: Description and Analysis of Its Visible Remains, Assen 1985, pp. 25–26 e fig. 23. 24  Si vedano ad esempio le taberne del teatro (II, vii, 2). Sull’edificio: P. Battistelli, G. Greco, «Lo sviluppo architettonico del complesso del teatro di Ostia alla luce delle recenti indagini nell’edificio scenico», in MEFRA 114.1, 2002, pp. 391–420. 25  Cfr. l’edificio I, xvi, 1: Scavi di Ostia I, p. 219. 26  Un esempio di questa circostanza è offerto dal già citato complesso delle Case a Giardino (edifici III, ix, 2; III, ix, 7; III, ix, 11) o dal Caseggiato dell’Ercole (IV, ii, 3). Per il Caseggiato dell’Ercole: H. Stöger, Rethinking Ostia: A Spatial Enquiry into the Urban Society of Rome’s Imperial Port-Town, Leiden 2011, pp. 92–106 e fig. 5.48.

27  Sulle Terme del Foro si vedano: Scavi di Ostia XI; DeLaine 2002, pp. 49–52, fig. 5; appendice 1.2 con bibl. prec. Per una sintesi: Pensabene 2007, pp. 268–276.

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Beatrice Fochetti

Figura 2.4. Ostia, Terme del Foro con numerazione degli ambienti e indicazione della taberne nella I fase edilizia (rielab. dell’autrice da Pensabene 2007, fig. 149).

ogni probabilità avviati tra i principati di Marco Aurelio e Commodo, periodo al quale sono da riferirsi gli interventi di maggiore impegno nella palestra.28

di Nettuno: diverso è sia lo schema distributivo adottato per il blocco termale29, che l’articolazione planimetrica della palestra, il cui sviluppo irregolare si deve alla presenza di due preesistenti assi viari, la Semita dei Cippi a est e il tratto meridionale del Cardine Massimo ad ovest, che ne hanno marcatamente influenzato la progettazione.30 Comune alle Terme di Nettuno è invece l’integrazione delle taberne nel complesso termale. Si tratta in questo caso di tre blocchi edilizi con taberne al piano terreno,

Lo sviluppo architettonico delle Terme del Foro presenta esiti fortemente differenti rispetto alle già osservate Terme 28  Durante la fase severiana vennero invece ultimati i blocchi a taberne sud (I, xii, 8) ed est (I, xii, 7) e apportate modifiche al blocco ovest (I, xii, 10). Si ascrive inoltre alla fase severiana anche l’aggiunta del portico a pilastri laterizi nel blocco est, prospicente la Semita dei Cippi. Il complesso ha ricevuto inoltre una serie di rifacimenti e restauri interessanti un arco cronologico che va dagli inizi del IV secolo d.C. agli inizi del V secolo d.C. Per una sintesi sulle delle fasi edilizie: Scavi di Ostia XI, pp. 21–24; per l’analisi della tecnica edilizia e le successioni delle fasi di cantiere: Scavi di Ostia XI, pp. 135–139, tavv. I a-c. Per una più recente analisi delle fasi tardo antiche della palestra si veda invece: L. Lavan, «Chronology in Late Antiquity: a Lesson from the Palaestra», in Ricerche su Ostia e il suo territorio (a cura di M. Cébeillac-Gervasoni, N. Laubry, F. Zevi), Atti del Terzo Seminario Ostiense (Roma 2015), Roma 2018, pp. 400–439.

29  Le Terme del Foro presentano schema distributivo di tipo anulare, mentre le Terme di Nettuno adottano lo schema distributivo assiale. La classificazione sulla base dello schema distributivo del blocco termale risponde a quella proposta in: D. Krencker, E. Krüger, H. Lehmann, H. Wachtler, Die Trierer Kaiserthermen, Augsburg 1929. Per la distribuzione e descrizione degli ambienti delle Terme del Foro: Scavi di Ostia XI, pp. 29–41, tav. Ic. 30  Per la descrizione del quartiere in cui insistono le Terme del Foro: Scavi di Ostia XI, pp. 20–21, tav. 5. Si veda anche R. Mar, «La formazione dello spazio urbano nella città di Ostia», in RM 98, 1991, pp. 97–103.

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Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale

Figura 2.5. Pompei, Thermae Stabianae, palestra (foto dell’autrice).

disposte su fila singola (I, xii, 7; I, xii, 8) e su fila doppia (I, xii, 10), aperte sia esternamente verso la viabilità che internamente verso la palestra.31 A differenza delle Terme di Nettuno, i tre blocchi edilizi con taberne presentano inoltre scale esterne per i piani superiori accessibili dalla palestra (fig. 2.4, nn. 12, 22, 24).

più antico impianto termale pompeiano annovera una complessa storia edilizia. Uno studio recente ha permesso di mettere in discussione la cronologia di sviluppo a suo tempo proposta da Hans Eschebach e dimostrare come l’edificio sia stato edificato solo dopo il 130/125 a.C. A tale prima fase edilizia apparterrebbe quindi anche la serie di nove taberne su fila singola poste lungo il lato meridionale del complesso, con le aperture su Via dell’Abbondanza.32 In questa sede, l’importanza delle Thermae Stabianae di Pompei risiede nell’introduzione di un elemento, la taberna, prima di allora estraneo al panorama delle terme romane nella penisola italica. In questo senso, la presenza di taberne nelle Thermae Stabianae fissa, inoltre, al II secolo a.C. un possibile terminus post quem per la definizione dei limiti cronologici di una soluzione altrimenti non documentata in ambito ellenistico.33

Il confronto con Pompei L’esistenza ad Ostia di taberne annesse alle thermae publicae qui descritte pone degli interrogativi circa la derivazione dei modelli architettonici e la cronologia di sviluppo delle soluzioni adottate. In Italia, taberne integrate in complessi termali trovano la loro prima attestazione sul finire del II secolo a.C. nelle Thermae Stabianae di Pompei (VII, 1, 8), nella variante della palaestra con taberne prospicenti la viabilità esterna (fig. 2.5). Come noto, il

Rispetto ai limiti cronologici di diffusione, a Pompei il modello della palaestra con annesse taberne aperte verso

31  L’indicazione degli ambienti riportati a fig. 4 e identificati come taberne si riferisce alla prima fase edilizia delle Terme del Foro. In epoca tardo antica l’edificio I, xii, 8 venne trasformato in un complesso a mosaici e opus sectile, nel quale è stato recentemente ipotizzato di potervi riconoscere una domus: Lavan, «Chronology in Late Antiquity: a Lesson from the Palaestra», op. cit. alla nota 28, p. 432 con bibl. prec. Di contro, secondo Carlo Pavolini, la presenza di una loggia rialzata nell’estremità occidentale, attribuibile ai rifacimenti di IV sec. d.C., pare più coerente con l’ipotesi che l’ambiente possa avere svolto la funzione di sala per letture pubbliche: Pavolini 2006, p. 110; C. Pavolini, «Per un riesame del problema di Ostia nella tarda antichità: indice degli argomenti», in Le regole del gioco: tracce, archeologi, racconti. Studi in onore di Clementina Panella (a cura di A. Ferrandes, G. Pardini), Roma 2016, p. 402. Per la descrizione dell’edificio I, xii, 8: Pensabene 2007, pp. 275–276.

32  Trümper et al. 2019, in particolare pp. 146–149 e figg. 31–32. Il modello di sviluppo proposto da Eschebach prevedeva invece una divisione in sette fasi estese su un arco cronologico dal V secolo a.C. fino alla distruzione nel 79 d.C.: Eschebach 1979. Secondo il modello ricostruttivo di Eschebach la serie di taberne su fila singola lungo il lato occidentale della palestra, con aperture verso il Vicolo del Lupanare, venne invece aggiunta in occasione dei lavori di ampliamento della palestra intervenuti nella metà del I secolo a.C.: ‘Period VI ff’ in Eschebach 1979, tav. 37d. 33  Come già evidenziato da Nielsen, non sussiste un modello riferibile all’ambito greco per la presenza di taberne in complessi termali, non esistendo confronti noti di unità commerciali o luoghi di ristoro in connessione con gymnasia e balaneia ellenistici. Cfr. Nielsen 1990, p. 165.

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Beatrice Fochetti Una soluzione di carattere locale

la viabilità esterna troverà successiva applicazione in età sillana, periodo al quale si ascrive l’edificazione delle Terme del Foro (VII, 5).34 Successivamente, due file singole di taberne saranno edificate a delimitazione dei lati sud e ovest delle Terme Centrali di Pompei (IX, 4)35, datate alla seconda metà del I secolo d.C. e rappresentative dell’ultimo sviluppo del tipo termale pompeiano di origine repubblicana.36

Tuttavia, sia nel caso delle terme di Licinius Sura che per i precedenti pompeiani si registra l’esclusiva presenza di taberne aperte verso la viabilità e quindi verso l’esterno dell’edificio pubblico. Quale elemento caratterizzante, sia le Terme di Nettuno che le Terme del Foro ad Ostia presentano invece anche un doppio fronte di taberne, con unità commerciali aperte verso la palestra, ovvero proiettate verso l’interno dell’edificio pubblico, una soluzione apparentemente priva di precedenti nel panorama delle terme romane.39 L’attestazione ostiense di una soluzione così scarsamente rappresentata, pone dei dubbi rispetto alla rintracciabilità dei modelli di sviluppo, suggerendo piuttosto di potervi riconoscere una soluzione di carattere puramente locale, sviluppata in linea con le dinamiche proprie dell’urbanistica ostiense di II secolo d.C. In tal senso un aspetto non secondario da tenere in considerazione risiede nella presenza di scale esterne per i piani superiori, edificati al di sopra delle taberne, elemento che accomuna sia le Terme di Nettuno che le Terme del Foro. Il doppio vantaggio di questa soluzione si traduceva nella possibilità di poter annettere all’edificio pubblico, sia taberne ai piani terreni che cenacula ai piani superiori40, secondo il modello dell’insula multipiano e multifunzionale che tanto caratterizza il panorama urbano ostiense. Tale circostanza è ben rappresentata nelle Terme del Foro, dove il limite imposto dalle preesistenze urbane viene superato integrando nel complesso tre insulae multipiano con taberne (I, xii, 7; I, xii, 8; I, xii, 10), a delimitazione dell’area scoperta. Si tratta di una scelta progettuale di assoluta originalità che non solo marca il netto superamento dell’esperienza pompeiana della palestra con taberne esterne, fisicamente vincolata al blocco termale e costituente con esso un’unica unità architettonica, ma conferisce altresì alla palestra delle Terme del Foro la spazialità di un’area aperta assimilabile ad una piazza pubblica.41

Tornando ad Ostia, la stessa evidenza delle Terme di Nettuno mostra come le già citate terme di età domizianea successivamente obliterate dalle Terme di Nettuno (fig. 2.1, n. 3), presentassero una fila singola di taberne prospicenti il Decumano Massimo, indice che il modello doveva già essere penetrato in area urbana almeno in età flavia. Le terme di Licinius Sura a Roma Per Roma una parziale conferma in questo senso ci è offerta dalle terme di L. Licinius Sura, edificate in età traianea e note attraverso la Forma Urbis severiana.37 Nella pianta marmorea l’edificio viene raffigurato con una fila di 18 taberne disposte su fila singola e aperte verso un porticato a pilastri prospicente la viabilità.38 Poiché tuttavia la Forma Urbis riflette la situazione di epoca severiana, risulta di fatto incerta l’effettiva conformazione dell’edificio traianeo. Ciò nonostante, le terme di Licinius Sura rappresentano per noi un caso d’interesse in quanto permettono quantomeno di ipotizzare la presenza del modello, a Roma, in una fase antecedente all’edificazione delle Terme di Nettuno.

34  La prima fase edilizia si data intorno all’80 a.C. ca. (CIL X, 819), con una fase di ricostruzione sia agli inizi dell’età augustea, che nel 3–4 d.C.; ulteriori restauri si datano al 62 d.C. Sull’edificio: H. Eschebach, «Die Forumsthermen in Pompeji, Regio VII, Insula 5», in Antike Welt. Zeitschrift für Archäologie und Kulturgeschichte 22, 1991, pp. 257–287. Per una sintesi delle fasi edilizie: Nielsen 1990, cat. C 42, fig. 78. 35  Si tratta del più ampio edificio termale pompeiano e l’ultimo edificato prima dell’eruzione del 79 d.C., che intervenne quando le terme non erano state ancora completate. Sul complesso: P. Bargellini, «Le terme centrali di Pompei», in Les thermes romains. Actes de la table ronde organisée par l’Ecole française de Rome (Rome 1988), CollEcFrR 142, Rome 1988, pp. 115–128; N. De Haan, K. Wallat, «Le Terme Centrali a Pompei: Ricerche e scavi 2003–2006», in P.G. Guzzo, M.P. Guidobaldi, Nuove ricerche archeologiche nell’area vesuviana (scavi 2003–2006), Roma 2008, pp. 15–24. 36  Cfr. Bargellini, «Le terme centrali di Pompei», op. cit. alla nota 35, p. 123. 37  Le terme sono note sia attraverso il frammento FUR 21 della Forma Urbis, ove sono denominate balneum Surae, che dai Cataloghi Regionari, ove sono denominate thermas Surae/Syres, che ne riferiscono la localizzazione nella regio XIII. L’impianto termale viene tradizionalmente collocato sull’Aventino, a nord di Via di Santa Prisca. Sul balneum/thermae Surae si vedano: R.A. Staccioli, «Terme Minori e Balnea nella Documentazione della ‘Forma Urbis’», in ArchCl 13, 1961, pp. 94–96; Lexicon topographicum Urbis Romae (a cura di E. M. Steinby), V, Roma 1993–2000, p. 65, s.v. Thermae Surae/Suranae (L. Venditelli). Per il fr. FUR 21: G. Carettoni, A. Colini, L. Cozza, G. Gatti, Forma urbis Romae. La pianta marmorea di Roma antica, Roma 1960, p. 79, fr. 21a-d; tav. 23; E. Rodríguez Almeida, Forma Urbis Marmorea. Aggiornamento Generale 1980, Roma 1981, p. 101, fr. 21, tav. XXIII. 38  Per la tipologia e rappresentazione delle taberne nella Forma Urbis si vedano: R.A. Staccioli, «Le tabernae a Roma attraverso la Forma Urbis», in RAL 14, 1959, pp. 56–66; Carettoni, Colini, Cozza, Gatti, Forma urbis Romae, op. cit. alla nota 37, p. 204.

In estrema sintesi, il binomio taberne-piani superiori che caratterizza le due terme pubbliche ostiensi qui discusse denota un’intenzionalità progettuale volta a porre a vantaggio dell’edificio pubblico unità commerciali e abitative da potersi eventualmente destinare al mercato d’affitto42, nell’ottica della capitalizzazione degli introiti destinabili alle spese di mantenimento dell’edificio Vedi nota 3. Allo stesso modo non si può escludere che i piani superiori associati al settore non termale potessero ospitare anche ambienti destinati a servizi collaterali connessi con le terme, come ad esempio ipotizzato da M. Medri per le Terme del Nuotatore ad Ostia: Medri, Di Cola 2013, p. 86. 41  Cfr. a riguardo la posizione di: Mar, «La formazione dello spazio urbano nella città di Ostia», op. cit. alla nota 30, p. 103. 42  Su questo aspetto si vedano le considerazioni di J. DeLaine circa le Terme di Nettuno: DeLaine 2002, p. 62. Per una definizione del ruolo della taberna nel mercato d’affitto ostiense: M. Heinzelmann, «Die vermietete Stadt. Zur Kommerzialisierung und Standardisierung der Wohnkultur in der kaiserzeitlichen Grosstadtgesellschaft», in Lebenswelten: Bilder und Räume in der römischen Stadt der Kaiserzeit (a cura di R. Neudecker, P. Zanker), Symposium am 24. und 25. Januar 2002 zum Abschluss des von der Gerda Henkel Stiftung geförderten Forschungsprogramms “Stadtkultur in der römischen Kaiserzeit”, Wiesbaden 2005, pp. 113–128. 39  40 

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Note preliminari sul rapporto tra taberne e impianti termali pubblici ad Ostia imperiale pubblico.43 Tale concezione utilitaristica dello spazio pubblico si pone in linea con la tendenza dell’architettura ostiense volta a garantire agli edifici – sia privati che pubblici – il massimo grado di multifunzionalità e versatilità, secondo il modello di sfruttamento economico dell’insula polifunzionale che caratterizza l’espansione urbana di Ostia nella sua fase di boom edilizio ed economico di II secolo d.C.

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43  Il potenziale della capitalizzazione dei ricavi provenienti dal binomio taberne-piani superiori era stato già ben compreso a suo tempo dal Meiggs: Meiggs 1973, pp. 411–412.

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3 Urbanistica dell’acqua: gli esempi di Brescia e Verona Davide Gangale Risoleo (PhD candidate) Università di Pisa Universität Tübingen Abstract: Water urbanism: the example of Brescia and Verona. This paper aims to approach ancient hydraulics in a synthetic way, trying to gather the set of various aspects that this field of studies embraces (technological, social, legal, economic) by comparing two Roman towns in northern Italy: Brixia and Verona. Various sources will be analyzed in order to trace back the water supply system of these cities during the Roman time, also highlighting the differences between the water distribution systems inside the urban context compared to suburban areas. Urbanistica dell’acqua: gli esempi di Brescia e Verona. Il contributo mira ad approcciare in modo sintetico l’idraulica antica, cercando di cogliere l’insieme dei vari aspetti che questo campo di studi racchiude: tecnologico, sociale, giuridico, economico. Viene presentato il confronto tra due città romane del nord Italia: Brixia e Verona. Vengono indagate varie fonti per realizzare una ricostruzione dell’approvvigionamento idrico delle due città durante il periodo romano, introducendo alcuni elementi generali e approfondendo le differenze che emergono tra la distribuzione dell’acqua all’interno del contesto urbano e in quello suburbano. Gli acquedotti romani di Brescia e Verona

un’epigrafe che riconduce l’inizio dei lavori ad Augusto, ma il loro completamento a Tiberio.4 Questo acquedotto (fig. 3.1, 2) – noto anche come Aqua Salsa – adduceva in città le acque provenienti dalla Valle Trompia mentre un secondo, proveniente dalle fonti di Mompiano (fig. 3.1), venne realizzato in un momento successivo. A Verona un acquedotto adduceva in città le acque provenienti da Novare lungo la via Claudia Augusta Padana (fig. 3.2, 1) e un secondo conduceva in città le acque delle sorgive di Montorio (fig. 3.2, 2). La cronologia dei due interventi si aggancia al loro percorso e alla relazione di questi rispetto alla viabilità.5 L’acquedotto di Novare, infatti, dirigendosi verso nord, ricalca perfettamente il tragitto della via Claudia Augusta Padana verso Trento. L’acquedotto di Montorio, invece, in direzione est segue il percorso della via Postumia verso Vicenza. Le due infrastrutture si collocano tra la fine del I sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C. Tutte e quattro le infrastrutture conducevano l’acqua per via sotterranea. In entrambi i centri non è

Le città di Brescia e Verona sono accomunate innanzitutto da un simile sostrato. Per entrambe le città, infatti, le fonti tramandano un’origine celtica cenomane. Di queste popolazioni Brixia era anche il centro più importante1 e la celebre e discussa espressione di Catullo – Brixia Veronae mater2 – sembra porre in un ruolo subalterno il centro veronese. Rientrano nell’orbita romana nel medesimo periodo, dapprima in qualità di coloniae nell’89 a.C. e successivamente come municipia nel 49 a.C. Entrambe disponevano in età romana di due acquedotti, uno dei quali costruito nella seconda metà del I sec. a.C. A Brescia i lavori per il primo acquedotto hanno inizio dopo il 27 a.C. in concomitanza con il riconoscimento del titolo di Colonia Civica Augusta.3 L’evento è celebrato da 1  Liv. XXXII, 30: in vicos cenomanorum Brixiamque quod caput gentis erat. Per approfondimenti vedi F. Sartori, «Verona romana: storia politica, economica, amministrativa», in Verona e il suo territorio, I, Verona 1960, p. 162. 2  Cat. 67, 34: (…) Brixia chinea suppositum specula, flavus quam molli percurrit flumine melo, Brixia Veronae mater amata meae (…). Cfr. L. Degiovanni, «Brixia Catulliana (Catull. 67, 31–34)», in Eikasmos, XXIV, 2013, pp. 159–182. 3  Bonini 2018, p. 301: viene proposta la data del 16 a.C. riprendendo un’ipotesi avanzata da Gregori in merito alla possibilità che il titolo di Colonia Civica Augusta fosse stato conferito a Brixia dopo la conclusione delle campagne militari nelle Alpi [G.L. Gregori, «Il funzionamento delle amministrazioni locali a Brixia e nella res publica Camunnorum», in Le quotidien municipal dans l’Occident romain (a cura di C. Berrendonner, M. Cebeillac-Gervasoni, L. Lamoine), Actes du Colloque (Clermond- Ferrand, 19–21 octobre 2007), Clermond-Ferrand,

pp. 53–65]. G. Bonora Mazzoli [«Acquedotti romani della Cisalpina», in Acque per l’utilitas, per la salubritas, per l’amoenitas (a cura di M. Antico Gallina), Milano 2004, pp. 150–152] sottolinea come il termine aquas debba lasciare intendere la ‘realizzazione di più strutture distinte’, forse realizzate per implementare un sistema di approvvigionamento idrico insufficiente e che poteva contare soltanto su di un acquedotto. 4  Inscr. It. X, 5, 85: Divus Augustus, / Ti(berius) Caesar Divi / Augusti f(ilius), Divi n(epos) / Augustus / aquas in coloniam perduxerunt. 5  Per un approfondimento sulla viabilità di Verona romana vedi P. Basso, B. Bruno, P. Grossi, «Le strade romane del territorio e della città», in Verona e le sue strade 2019, pp. 25–31. Per gli acquedotti: Gangale Risoleo 2017; recentemente Falezza 2020, pp. 217–239.

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Davide Gangale Risoleo

Figura 3.1. Gli acquedotti di Brixia: 1. acquedotto di Mompiano, 2. Aqua Salsa (rielab. da Bonini, Gregori 2005, fig. 1, p. 352).

Figura 3.2. Gli acquedotti di Verona: 1. acquedotto di Novare-Parona, 2. acquedotto di Montorio (rielab. da G. Cavalieri Manasse, «La viabilità nell’immediato suburbio veronese», in Archeologia Veneta, XL, 2017, p. 204).

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Urbanistica dell’acqua stato individuato un grande impianto, interpretabile come ‘terme pubbliche’6 mentre è attestato l’utilizzo dell’acqua all’interno di balnea e domus.7

o al di sotto, imponendo una risistemazione dei basoli.11 Infine, probabilmente anche la realizzazione del ponte Postumio (ora scomparso) fu dettata dall’esigenza di introdurre un’infrastruttura idrica per oltrepassare il fiume Adige. A Verona un’epigrafe ricorda la realizzazione dell’acquedotto e la protagonista del testo è una cittadina veronese: Gavia Maxima.12 L’esponente della nota e potente famiglia veronese dei Gavi ci ricorda, infatti, di aver lasciato in dono per via testamentaria un’ingente somma da destinare all’acquedotto cittadino nella prima metà del I sec. d.C.13: 600.000 sesterzi. L’epigrafe è presente in duplice copia. Una copia è collocata su una parete di un palazzo in via Rosa, mentre una seconda è stata rinvenuta frammentaria nell’Adige14, reimpiegata all’interno della pila di un ponte altomedievale. Oggi è ricomposta all’interno del Museo archeologico di Verona. È stata proposta una ricostruzione che pone le due epigrafi lungo il percorso dell’acquedotto, in particolare la più grande collocata nei pressi del castellum aquae, ipotizzato nei pressi della testata del ponte Postumio.15 Spesso la donazione è stata interpretata come un contributo per la manutenzione di uno dei due acquedotti16, ma una analisi più attenta e un recente contributo di Bruun17, inducono ad una riflessione differente. L’autore, cercando di stimare i costi di realizzazione dell’acquedotto privato di Valerio Vegeto18, pone i dati in nostro possesso in merito alla edificazione dell’Aqua Claudia e dell’Anio Novus a Roma19 in comparazione con quelli relativi all’acquedotto fatto realizzare dal fratello di Cicerone per le sue proprietà.20 Sappiamo che la prima opera costò all’imperatore Claudio 350 milioni di sesterzi, 2,24 milioni per km. L’opera di Quinto, invece, costò 10.100 sesterzi per km, per un investimento totale di quasi 44.844 sesterzi per la realizzazione di un’opera lunga 4,440 km.21 Non sappiamo se Quinto realizzò un acquedotto sotterraneo

La conduzione dell’acqua nel suburbium L’acquedotto di Novare testimonia una stretta correlazione con i lavori di risistemazione della via Claudia Augusta Padana8, suggerendo la possibilità che un intervento imperiale sia stato determinante nella realizzazione dell’infrastruttura idrica. Dopotutto la medesima forza lavoro impiegata nella risistemazione del percorso stradale potrebbe aver contribuito alla realizzazione del resto delle infrastrutture, alla stregua di quanto accaduto per gli argini fluviali. La ricostruzione cronologica proposta dagli studi precedenti, colloca l’acquedotto di Novare in un momento posteriore rispetto all’acquedotto di Montorio, ma in entrambi i casi si ritiene che la loro introduzione non sia stata contemporanea alla creazione del municipium. Tale elemento sembra emergere dalle indagini effettuate lungo il decumano massimo della città9 e in corte Farina10 dove le fistulae sono collocate all’esterno della sede stradale, 6  Spesso l’introduzione di un acquedotto viene connessa con la realizzazione di un impianto termale. Cfr. C. Bruun, «Acquedotti e condizioni sociali di Roma imperiale: immagini e realtà», in La Rome impèriale. Demographie et logistique, Atti della tavola rotonda (Roma 1994), Roma 1997, pp. 124–125; C. Bruun, «Il funzionamento degli acquedotti romani», in Roma imperiale. Una metropoli antica (a cura di E. Lo Cascio), Urbino 2000, pp. 159–162. 7  Gangale Risoleo 2017, pp. 242–243. Inoltre, recenti indagini effettuate in via Cantore hanno individuato la presenza di un vasto impianto termale, forse collocato all’interno di una statio posta all’ingresso della città (cfr. G. Cavalieri Manasse, «Verona: la città oltre le mura», in Anales de Arqueologia Cordobesa, 29, 2018, pp. 60–63; con bibliografia precedente).  Altre strutture murarie, interpretate come resti di un impianto termale, sono emerse in via Fratta, collocate in prossimità di un percorso stradale e forse parte di un complesso suburbano eretto durante l’età augustea [cfr. Cavalieri Manasse, ibidem, p. 62; G. Cavalieri Manasse, «La via Postumia a Verona ‘vent’anni dopo’», in Verona e le sue strade 2019, p. 61, n. 4]. In merito a questo contesto è interessante notare che nel XVIII secolo in corrispondenza di via Fratta vennero rintracciate delle strutture murarie interpretate come acquedotto (Gangale Risoleo Davide 2017, p. 243, nota 98.). In merito a Brixia vedi Bonini 2018, pp. 308–309; inoltre una panoramica sulle domus bresciane in F. Morandini, «Presso il foro e lungo le pendici del colle. Abitare a Brescia in età romana», in Intra illa moenia domus ac penates (Liv. 2, 40, 7). Il tessuto abitativo nelle città della Cisalpina (a cura di M. Ghedini, M. Annibaletto), Roma 2009, pp. 164–169. La presenza di un impianto termale pubblico – datato all’età flavia – è stata ipotizzata nell’area occupata dal Liceo Arnaldo, nella parte orientale della città, a ridosso della cortina meridionale e nei pressi della via Cremonensis (V. Mariotti, «Brescia. Liceo Classico ‘Arnaldo’. Scavo stratigrafico», in NSAL, 1984, pp. 88–92; F. Rossi, «Brescia. Corso Magenta. Area del Liceo ‘Arnaldo’», in NSAL, 1988–89, pp. 241–247; A. Breda, «Brescia tra preistoria e medioevo. Una sintesi di storia urbana», in Brescia, le radici del futuro. Conversazioni su Brescia: passato, presente, futuro (a cura di N. Berlucchi, M. Bonetti), Brescia 2008, p.6). 8  Cavalieri Manasse, «La Postumia…», art. cit. alla nota 7, p. 76: l’inizio dei lavori di risistemazione del percorso stradale vengono ricondotti alla volontà dell’Imperatore Claudio. 9  NSc 1965, p. 42: Giulia Fogolari riporta che “un piccolo tratto di fognatura in mattoni romani e un tubo di piombo per acqua, evidenti tracce di sistemazione posteriore, attraversano la strada”. Cfr. Cavalieri Manasse, «La Postumia…», art. cit. alla nota 7, pp. 60 ss.: le indagini archeologiche hanno permesso di riconoscere importanti interventi di miglioria in età augustea, in particolare il piano di quota della strada venne rialzato di circa un metro. 10  L. Franzoni, «Rinvenimenti archeologici in Verona e provincia negli anni 1963–1964», in Vita Veronese, XVIII, 7–8, 1965, p. 274; NSc 1965, p. 40.

Cfr. Cavalieri Manasse, «Verona», art. cit. alla nota 7, p. 46. CIL V, 3402 = ILS 5757 = EDR 146946; la seconda copia non è presente nel CIL cfr. EDR 085120: Gavia Q(uinti) f(ilia) Maxi̲ ma in aquam HS (sescenta milia) testamento dedit. Cfr. M. De Frenza, Le pietre raccontano. Guida alla vita quotidiana di Verona romana, Verona 2018, pp. 29–32. 13  La cronologia dell’epigrafe è basata sull’analisi paleografica. 14  NSc, 1893, pp. 11–12. 15  Gangale Risoleo 2017, p. 244. 16  Probabilmente quello di Montorio. Cfr. Gangale Risoleo 2017, pp. 244–245 con bibliografia precedente. Il Franzoni («‘Salientes’ presso il teatro romano di Verona», in Nova Historia, 1, XII, gennaio-aprile 1960, p. 56) propendeva invece nell’interpretare la donazione non in favore dell’acquedotto bensì in favore di generiche opere di approvvigionamento idrico. De Frenza («Le pietre», art. cit. alla nota 12, p. 31) non esclude la possibilità che la donazione di Gavia Maxima abbia di fatto permesso la costruzione dell’acquedotto, ma non giustifica la sua ipotesi. Va inoltre menzionata l’iscrizione dedicatoria proveniente da Bergamo che sembra celebrare la costruzione dell’acquedotto e delle terme cittadine da parte di L. Cluvenius Cilo [CIL V, 5136=EDR092046: L(ucius) Cluvienus L(uci) f(ilius) Ani(ensis) / Cìlo / balneum et / aquas dedit]. 17  Bruun 2015, p. 138. 18  Il testo, noto in tre copie, riporta le fasi di edificazione di un acquedotto privato da parte del console Mummio Nigro Valerio Vegeto nei pressi della sua villa nel viterbese: CIL XI, 3003 = ILS 5771 = AE 2002, 471. Cfr. L. Maganzani, «Disposizioni in materia di acque», in Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustinani (FIRA), I (a cura di G. Purpura), Torino 2012, pp. 159–164; Bruun 2015, pp. 136 ss. 19  Cfr. Plin., Hist. Nat., 36, 122. 20  Cfr. Cic., Q. fr., 3, 1, 3. 21  Bruun 2015, p. 138. 11  12 

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Davide Gangale Risoleo o su arcate, ma certamente quello sotterraneo delle due scelte sarebbe stata quella meno costosa.22 Tenendo infine conto del fatto che l’acquedotto di Valerio Vegeto, a differenza di quello di Claudio, non era una infrastruttura urbana, lo studioso ipotizza un ulteriore abbattimento dei costi, riducendoli di un ventesimo, quindi adeguando la stima dei costi dell’intervento di Claudio a quella di Valerio Vegeto: 112.000 sesterzi per km. La stima della spesa del console si aggira pertanto tra 88.880 e 985.000 sesterzi. Cercando di riportare nella dimensione veronese le indicazioni sin qui emerse, il lascito di Gavia Maxima, vista la sua entità, avrebbe quindi potuto permettere non solo la risistemazione dell’acquedotto, ma probabilmente l’intera realizzazione dell’infrastruttura.23

primo contesto è emerso recentemente mentre venivano realizzati alcuni lavori edili presso l’ex Caserma S. MartaPassalacqua (fig. 3.3, B).27 Le indagini condotte dalla Soprintendenza hanno rilevato la presenza di un grande complesso residenziale di età imperiale, provvisto anche di un impianto termale. Le strutture evidenziano un periodo di frequentazione che oscilla tra il I sec. a.C. e la prima metà del IV sec. d.C. I risultati sono ancora inediti, ma dalla relazione preliminare28 è possibile ricostruire il contesto e in particolare sottolineare il rinvenimento di una fistula aquaria che, insieme al rinvenimento dei resti di un impianto termale, certificano la presenza di un allaccio ad un sistema di approvvigionamento idrico, probabilmente quello di Montorio visto la vicinanza del sito con il percorso di quest’ultimo. Il secondo contesto è stato individuato mediante l’analisi di alcune fotografie satellitari. Queste hanno permesso di riconoscere un vasto impianto in via S. Michele (fig. 3.3, A). In precedenza, sporadici ritrovamenti erano ascrivibili all’area ma non era mai stata individuata la presenza di strutture murarie. Le fotografie satellitari permettono di avanzare l’ipotesi della presenza di una vasta villa, ma quello che più interessa la nostra discussione oggi è la vicinanza di queste strutture all’acquedotto.29

Non sappiamo a quale acquedotto si riferisca l’epigrafe ma, ipotizzando una correlazione dell’acquedotto di Novare con un intervento imperiale lungo la via Claudia Augusta Padana, rimane probabile un intervento da parte di Gavia Maxima per l’acquedotto proveniente da Montorio. L’acquedotto non doveva presentare arcate ed era tutto costruito al di sotto del livello stradale. Tenendo conto delle spese sostenute da Quinto, di quelle sottostimate di Claudio e della lunghezza del percorso dell’acquedotto di Montorio, possiamo quindi tentare di stimare il costo per la realizzazione dell’intera opera: una spesa ipotetica che oscilla tra 70.700 e 784.000 sesterzi.24 La forbice è ampia, ma al tempo stesso evidenzia l’importanza dell’investimento sostenuto. Inoltre, bisogna sottolineare che lo specus dell’acquedotto di Montorio non si distingue per accuratezza tecnica e scelta dei materiali. In alcuni punti, infatti, questo era scavato all’interno di una roccia tenera e in parte costruito adoperando ciottoli recuperati nell’Adige.25 Ulteriori riflessioni emergono da alcune recenti scoperte nel suburbium veronese.26 Il

Una riflessione simile può essere proposta a Brescia per l’acquedotto di Mompiano30 che, ritenuto più recente31, raggiunge la città nei pressi della porta Mediolanensis32 (fig. 3.4, 3–4) attraverso due condotti paralleli. Dei due condotti soltanto uno ha inizio in corrispondenza delle fonti (fig. 3.4, 4), e il medesimo condotto è l’unico ad entrare all’interno della città. Del secondo (fig. 3.4, 3), potrebbe ipotizzare che Gavia Maxima rimetta in sesto un sistema di distribuzione idrica già preesistente in ambito suburbano, esclusivamente al servizio delle attività agricole, ammodernandolo e completandone la sua prosecuzione fino all’interno della città. 27  Per un approfondimento sull’area vedi G.M. Varanini, «Là dove c’era l’erba, ora c’è una città. Lo spazio urbano di Veronetta dal tardo medioevo al Rinascimento», in Santa Marta dalla provianda al campus universitario (a cura di V. Terraroli), Verona 2015, pp. 1–14. 28  F. Magani, B. Bruno, Verona, Ex Caserma Santa Marta – Passalacqua, in viale dell’Università 5, Relazione dell’interesse culturale (7 dicembre 2016), http://www.sabap-vr.beniculturali.it/download/43158. Cfr. B. Bruno, «Le strade di Verona: lavori in corso. Notizie dagli interventi 2013–2019», in Verona e le sue strade 2019, pp. 161–163. 29  A questi esempi non bisogna dimenticare di aggiungere il contesto di S. Maria in Stelle dove a cavallo tra II e III sec. d.C. si ipotizza che fosse stato realizzato un acquedotto privato da parte del curator Publio Pomponio Corneliano: D. Gangale Risoleo, «L’acquedotto romano di S. Maria in Stelle a Verona: una concessione privata per la captazione delle acque?», in Cura aquarum. Adduzione e distribuzione dell’acqua nell’antichità, Antichità Altoadriatiche, LXXXVIII, 2018, pp. 265–283. 30  Botturi, Pareccini 1991, pp. 67–76; D. Gallina, «Topografia e archeologia degli antichi acquedotti bresciani», in Carta Archeologica della Lombardia, V, Brescia. La città, Modena 1996, pp. 247–254. 31  Botturi, Pareccini 1991, pp. 69–70: indagini effettuate in via Tazzoli tra il 1960 e 1962 rilevarono che il condotto tagliava i livelli relativi ad una villa suburbana di età imperiale, deducendo una datazione del sistema idrico successiva alla seconda metà del II sec. d.C., desunta dal rinvenimento all’interno della trincea di fondazione di tessere di mosaico forse appartenute al piano pavimentale della struttura. Di diverso avviso è invece Gallina (2002, p. 137; 142), il quale pubblica la documentazione di scavo dell’epoca, mettendone in risalto la poca affidabilità, soprattutto per fini cronologici, tuttavia, ritiene comunque di collocare l’acquedotto in un momento successivo rispetto all’Aqua Salsa. 32  Per un inquadramento topografico dell’area vedi Dell’Acqua 2018, pp. 33–36. Cfr. G.P. Brogiolo, Brescia Altomedievale. Urbanistica ed edilizia dal IV al IX secolo, Mantova 1993, p. 41.

22  Nel caso dell’acquedotto veronese proveniente da Montorio, si tratta di un canale ricavato per lunghi tratti all’interno di trincee scavate in un terreno caratterizzato da banchi di argille e sabbie con lenti ghiaiose. Per un breve tratto, invece, lo specus è ricavato all’interno di una roccia tenera, simile per consistenza al tufo. Si tratta pertanto di un contesto geomorfologico favorevole per la realizzazione dell’infrastruttura. Cfr. Falezza 2020, pp. 227–230. 23  A Verona sono noti altri atti di evergetismo idraulico. Dei salientes sono infatti donati presso il teatro da parte di Licinia nella prima metà del I sec. d.C. (l’iscrizione è nota in duplice copia: CIL V, 3222 = ILS 3264 = EDR093792; AE1990, 410 = EDR081910), senza dimenticare la ricca donazione di 400.000 sesterzi effettuata da Arrio Muciano (III sec. d.C.) in favore delle terme Giovenziane (CIL V, 3342 = ILS 1148 = AE1975, 428 = EDR093811). Cfr. Gangale Risoleo 2017, pp. 230, 243 con bibliografia precedente. 24  Il totale deriva dalla moltiplicazione della lunghezza del tracciato dell’acquedotto (7 km ca.) per le due stime di costo al km precedentemente proposte (10.000/112.000 sesterzi al km). 25  Gangale Risoleo 2017, pp. 240–242. Gavia Maxima con un atto di evergetismo avrebbe donato alla città un’infrastruttura idrica, che al tempo stesso garantiva il rifornimento idrico del suburbium e delle ville qui presenti. Cfr. Falezza 2020, pp. 227–230. 26  Queste nuove scoperte testimoniano la connessione dell’acquedotto di Montorio con il contesto suburbano della città e in particolare la presenza di alcune ville che con molta probabilità si approvvigionavano di queste acque. Un simile intervento potrebbe forse essere messo in connessione con l’organizzazione dello spazio rurale nel suburbio veronese, attestata dai frammenti dei catasti rinvenuti presso il Capitolium, all’interno di uno spazio probabilmente destinato alla sede del tabularium [Cfr. G. Cavalieri Manasse, G. Cresci Marrone, «Frammenti di catasto in bronzo di Verona», in Brixia: Roma e le genti del Po. Un incontro di culture, III-I secolo a.C., catalogo della mostra (a cura di L. Malnati, V. Manzelli), Firenze-Milano 2015, pp. 289–290; con bibliografia precedente]. Si

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Urbanistica dell’acqua

Figura 3.3. L’acquedotto di Montorio nel suburbio veronese: 1. Acquedotto, A. Villa (?) nei pressi di via S. Michele, B. Villa rinvenuta presso l’ex caserma S. Marta-Passalacqua (elab. dell’autore su dati mappa: Google Earth – Image Landsat / Copernicus).

posto a valle, non si conosce invece l’esatta destinazione, né tantomeno l’inizio.33 Il doppio cunicolo forse separava due differenti tipi d’acqua: una proveniente dalla fonte di Mompiano (fig. 3.4, 4) e una proveniente da un corso d’acqua (fig. 3.4, 3) situato lungo il percorso del primo condotto.34 Il condotto destinato alla conduzione dell’acqua non sorgiva dovrebbe essere stato dismesso tra il VI e il VII sec. d.C.35 mentre il condotto destinato alle acque della sorgente di Mompiano venne riattivato nel 76136, rimanendo in funzione fino al 1902. Non conosciamo il punto di arrivo del cunicolo a valle dell’acquedotto, ma in precedenza è stato proposto di porlo in correlazione con l’edificazione dell’anfiteatro di Brixia37 – non ancora rinvenuto – o altrimenti di collocarne la fine del percorso in una mostra d’acqua posta poco fuori la porta per Milano.38

Infine, è stato anche proposto di collocare l’intervento in età tardoantica.39 La soluzione della presenza di una mostra d’acqua appare verosimile e si basa sull’interpretazione di una brusca perdita di quota che il condotto registra nell’ultimo tratto (in particolare tra Casa Cavadini – fig. 3.4, 5 – e piazzetta San Giuseppe – fig. 3.4, 2), lasciando spazio all’idea che la funzione originaria dell’opera non fosse quella di condurre l’acqua verso il centro cittadino, ma piuttosto quella di garantire l’approvvigionamento idrico, lungo il suo percorso nel suburbium.40 In tal senso va forse interpretato il rinvenimento del doppio cunicolo all’inizio degli anni Sessanta nei pressi della domus di S. Rocchino (fig. 3.5)41, in un contesto in cui le indagini non furono abbastanza accurate42, ma di cui, grazie alla pianta realizzata all’epoca, riusciamo a comprendere

Botturi, Pareccini 1991, p. 70; Gallina 2002, pp. 138–143. Gallina 2002, p. 143: l’autore propone tale ipotesi perché non esiste traccia del doppio cunicolo in prossimità delle fonti di Mompiano, inoltre nonostante l’acquedotto sia rimasto in uso fino al 1902, nessuna documentazione accenna all’esistenza di un doppio cunicolo. Infine, è stato evidenziato un differente piano di quota dei due condotti: il condotto a valle corre ad una quota inferiore di 80 cm (cfr. Gallina 2002, p. 147). 35  Gallina 2002, pp. 145, 147: un terminus ante quem viene fornito dalle indagini effettuate all’interno dell’ex monastero di S. Chiara e all’interno della Chiesa di S. Giorgio. All’interno dell’ex convento di S. Chiara è stato possibile rintracciare entrambi i condotti e verificare che quello a valle era stato già abbandonato nel primo altomedioevo e al suo interno vennero recuperati materiali databili tra VI e VII secolo. Al tempo stesso la costruzione della chiesa romanica di S. Giorgio (XI–XII sec.) compromise il funzionamento del condotto a valle, mentre preservò quello a monte. 36  L. De Vanna, «L’area del capitolium tra tardo antico e alto medioevo: case, botteghe, sepolture», in Un luogo per gli dei. L’area del Capitolium a Brescia (a cura di F. Rossi), Firenze 2014, pp. 422, 431 con bibliografia precedente. Cfr. Botturi, Pareccini 1991, pp. 73–76; Gallina, «Topografia…», art. cit. alla nota 29, pp. 249–250. 37  Gallina 2002, pp. 148–149: a nord del Palazzo della Loggia. 38  Gallina 2002, pp. 147–149: l’autore fa riferimento a dalle indagini effettuate nel 1957 nella piazzetta S. Giuseppe (fig. 4, 2), che misero in

luce a 4,5 m di profondità il condotto a valle dell’acquedotto di Mompiano insieme ad un condotto secondario più piccolo (orientato nord-sud). Lo specus di Mompiano, che correva in direzione nord-ovest/sud-est, è stato interpretato come un sistema di scarico verso il torrente Garza di acque di deflusso, forse, provenienti da una mostra d’acqua. Per avvalorare tale ricostruzione vengono inoltre ricordati due toponimi dell’889 e del 1038 (fistula limpheus e fistula que dicitur Ampheo). 39  Gallina 2002, p. 149; A. Baronio, «Brescia altomedievale, tra acquedotti, mura e porte. Il precetto di re Desiderio e la porta dei Ss. Faustino e Giovita», in Inquirere Veritatem. Studi in onore di mons. Antonio Masetti Zannini (a cura di G. Archetti), tomo I, Brescia 2007, pp. 51–61. 40  Di recente è stato proposto di collocare nei pressi anche un arco pomeriale (Dell’Acqua 2018, pp. 50–55). 41  Botturi, Pareccini 1991, pp. 69–70; Gallina 2002, pp. 139–143. 42  Gallina 2002, p. 141: le indagini misero in evidenza due fasi della villa, la seconda collocabile alla fine del II sec. d.C. Lo stesso autore sottolinea come, per via delle indagini poco attente, non fu chiarito (…) il rapporto esistente tra la villa e l’acquedotto. Cfr. M. De Franceschini, Ville romane della X regio (Venetia et Histria): catalogo e carta archeologica dell’insediamento romano nel territorio, dall’età repubblicana al tardo impero, Roma 1998, p. 97, n. 9: la villa viene datata alla prima metà del I sec. d.C. e ristrutturata alla fine del I sec. d.C. e nuovamente alla fine del II sec. d.C.

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Davide Gangale Risoleo

Figura 3.4. Inquadramento dell’area intorno alla porta Mediolanensis: 1. Ipotesi ricostruttiva delle mura; 2. Condotto di deflusso rinvenuto in piazzetta S. Giuseppe; 3. Acquedotto di Mompiano (condotto a valle); 4. Acquedotto di Mompiano (condotto a monte); 5. Casa Cavadini; 6. Ex convento San Giuseppe; 7. Chiesa di S. Giorgio; 8. Ex monastero di S. Chiara (rielab. da Bonini, Gregori 2005, fig. 2, p. 353).

alcuni elementi.43 I condotti aggirano la villa, indicando da una parte la loro posteriorità, dall’altra evidenziando una coerenza distributiva con le fasi successive dell’impianto. Possiamo quindi ipotizzare che soltanto in una fase successiva al primo impianto la villa venne provvista di un allaccio all’impianto di approvvigionamento idrico (attraverso la canaletta? – fig. 3.5, c), forse durante il 150 e il 175 d.C., momento durante il quale la villa viene

interessata da un complessivo intervento di ristrutturazione e all’interno di un vano – triclinium? – un mosaico figurato viene realizzato intorno ad un bacino (fig. 3.5, d).44 Il condotto a valle dell’acquedotto di Mompiano ha una lunghezza inferiore – 1,5 km – pertanto cercando di applicare i medesimi calcoli adoperati per l’acquedotto di Montorio, possiamo stimare un costo di realizzazione Atria longa patescunt. Le forme dell’abitare nella Cisalpina romana (a cura di F. Ghedini, M. Annibaletto), II, Roma 2012, pp. 219–220, Brixia 25.

44 

Gallina 2002, fig. 5, p. 140: l’autore propone il montaggio dei rilievi dell’acquedotto e della villa. 43 

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Urbanistica dell’acqua

Figura 3.5. Planimetria della domus di S. Rocchino (rielab. da Gallina 2002, fig. 5, p. 140). Acquedotto: A. condotto a valle, B. condotto a monte; domus: 1. corte colonnata, 2. ambiente di rappresentanza, d. bacino, 3–5. ambienti di soggiorno, 6. corridoio, c. canaletta, 8. ambiente di rappresentanza, 9, ambiente di rappresentanza.

che oscilla tra 22.500 e 168.000 sesterzi.45 Una spesa che, alla luce dell’esperienza di Gavia Maxima, non appare irraggiungibile per una ricca famiglia di Brixia. Potremmo pertanto ipotizzare che le acque del torrente Garza46 fossero state canalizzate a valle per il rifornimento idrico del suburbium47, magari anche per motivi di irrigazione e, forse, una mostra d’acqua venne collocata a valle per celebrarne la realizzazione. Un altro contesto simile

potrebbe ravvisarsi nell’acquedotto di Cogozzo in località Villa Carcina, che incanalava le acque di una vicina fonte, garantendo anche l’approvvigionamento idrico di una villa suburbana in uso fra il I sec. a.C. e il IV d.C.48 Infine, un’altra villa aveva garantito il proprio rifornimento idrico attraverso un allaccio all’Aqua Salsa nei pressi di Mompiano.49 Distribuzione e parcellizzazione dell’acqua: il contesto urbano

45  La stima va considerata con cautela e ha valore puramente indicativo. Per una definizione più puntuale sarebbe infatti opportuno considerare anche la profondità delle trincee realizzate per collocare il canale dell’acquedotto, la durezza del terreno e vari aspetti cantieristici. Tutti elementi non sempre rilevabili per assenza di dati completi. 46  Dell’Acqua 2018, pp. 35–36. 47  Alcuni rinvenimenti effettuati nei pressi della porta Mediolanensis sembrerebbero confermare tale ipotesi: un balneum (seconda metà del IV sec. d.C.) collocato nei locali cantinati di Casa Cavadini (Bonini, Gregori 2005, con bibliografia precedente); una domus (I–IV sec. d.C.), con peristilio e annessa una vasca monumentale, riconosciuta al di sotto dell’ex convento di S. Giuseppe (I. Venturini, «Brescia, via Gasparo da Salò. Ex convento di S. Giuseppe. Stratificazione urbana», in NSAL, 2001–2002, pp. 47–48). In entrambi i casi, infatti, è stato possibile individuare un condotto secondario che probabilmente derivava le acque del condotto a valle dell’acquedotto di Mompiano [Gallina 2002, pp. 147–149; Dell’Acqua 2018, p. 57]. Breda ritiene, invece, che le acque veicolate fossero quelle del Celato [«Aggiornamento archeologico sul sito di S. Faustino. Una sintesi», in San Faustino Maggiore di Brescia. Il monastero della città (a cura di G. Archetti, A. Baronio), Brescia 2006, pp. 452–453]. Per quanto concerne il balneum di Casa Cavadini, è interessante altresì segnalare la presenza di una tabella epigrafica (CIL V, 4500) che sembrerebbe sottolineare la relazione tra acqua e necessità private. Inserita all’interno di un pavimento a mosaico, la tabella presenta il seguente testo Peripsu=/ma su, interpretato anche come Per ipsu(m) / ma(n)su(m), forse indicante la versione latina tarda di mansio, quindi un ambiente privato annesso ad una proprietà (Bonini, Gregori 2005, p. 367). Da segnalare anche nei pressi il rinvenimento in corrispondenza del convento ex S. Giuseppe (fig. 4, 6) di una vasca intonacata con un condotto idrico largo 2,5 m, proveniente da nord-est e diretto in direzione nord-sud (Dell’Acqua 2018, p. 57), forse il medesimo sistema di derivazione dell’acqua dal condotto principale rinvenuto in piazzetta S. Giuseppe.

Nel 1885 a Brescia è stato rinvenuto, fuori contesto, un partitore d’acqua in piombo riferito all’acquedotto romano Aqua Salsa (fig. 3.6).50 Alto 37 cm e con un diametro di 42 cm, presenta cinque aperture, ognuna di diametro differente. Le più grandi – A, C, E – corrispondono all’innesto di 48  L’acquedotto potrebbe essere stato costruito in modo indipendente da quello proveniente dal Valtrompia, forse per iniziativa privata, altrimenti rappresenterebbe il tentativo di intercettare una nuova fonte per alimentare il principale acquedotto Aqua Salsa. Quest’ultima ricostruzione non è chiara, poiché nel mezzo dei tracciati dei due acquedotti scorre il fiume Mella e, al momento, non è stata accertata la presenza di un pontecanale che permettesse all’acquedotto di Cogozzo di raggiungere l’Aqua Salsa. In merito alla seconda ipotesi: Botturi, Pareccini 1991, pp. 46–47; Botturi, Pareccini 2007, p. 66; S. Solano, «L’acquedotto romano della Valtrompia (BS): recupero e valorizzazione di un nuovo tratto», in Cura aquarum. Adduzione e distribuzione dell’acqua nell’antichità, Antichità Altoadriatiche, LXXXVIII, 2018, p. 289. In merito alla villa: Botturi, Pareccini 2007, p. 67, con bibliografia precedente. 49  Le indagini archeologiche hanno permesso di individuare la presenza di una villa suburbana in via Maternini a Mompiano – a nord di Brescia – cronologicamente collocabile tra il I sec. d.C. e il IV sec. d.C. Due canalette, di cui una provvista di fistula in piombo, erano collegate ad una cisterna di derivazione, posta poco più a monte, lungo il percorso dell’Aqua Salsa. Cfr. Botturi-Pareccini 1991, p. 41; Botturi, Pareccini 2007, pp. 38–39. 50  Il partitore emerse durante l’esecuzione di alcuni lavori presso la sede delle Poste di Brescia in piazza Martiri di Belfiore. Cfr. Botturi, Pareccini 1991, p. 18; Botturi, Pareccini 2007, p. 41.

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Figura 3.6. Il partitore d’acqua di Brixia rinvenuto in piazza Martiri di Belfiore, Brescia: Museo di Santa Giulia (rielab. da Botturi, Pareccini 2007, fig.a p. 41 – aut. de La Compagnia della Stampa s.r.l.).

una fistula vicenaria51 mentre due più piccole presentano un diametro compatibile con l’innesto rispettivamente di una fistula duodenaria e quinaria.52 Presso l’apertura E è presente un manicotto, dove è inserita una parte di fistula di 10 cm, con il diametro di 9 cm. È probabile che il partitore fosse collocato all’interno della distribuzione idrica urbana. Le aperture più grandi e di diametro similare possono essere interpretate come il proseguimento della linea principale di approvvigionamento, mentre le aperture più piccole possono essere riconosciute come diramazioni terminali, la cui diversa portata induce ad ipotizzare luoghi di rifornimento differenti. In merito alla portata delle fistulae bresciane, un altro interessante dato emerge dal contesto individuato in prossimità del Capitolium. Qui infatti, in corrispondenza del decumano massimo della città, è stata recuperata una fistula centenaria53, che per collocazione e dimensioni può essere interpretata come il condotto principale del sistema di approvvigionamento idrico della città. Il breve excursus proposto sottolinea un rapporto a scalare delle quantità del rifornimento idrico dalla conduttura principale alla destinazione finale: da centenaria a vicenaria, da vicenaria a duodenaria e quinaria. Tenendo fede alla gerarchia dei rifornimenti idrici tramandata da Vitruvio54, potremmo infine ipotizzare che la portata più grande fosse riservata al rifornimento dei luoghi pubblici, poi alle fontane pubbliche e poi, forse, agli allacci per i privati. Anche a Verona le indagini archeologiche hanno permesso di riconoscere

un’organizzazione della distribuzione idrica urbana simile. Le condutture principali dei due acquedotti oltrepassavano il fiume Adige attraverso fistulae aquariae collocate lungo i ponti Pietra e Postumio. Lungo questo ponte è stata rinvenuta una fistula di grandi dimensioni55 interpretata come il condotto idrico principale della città (diametro di 30 cm).56 Un’altra fistula è stata rinvenuta nel 195957 trasversalmente al decumano massimo, lunga m. 1,10 e con il diametro di cm 1158, presenta iscrizioni su entrambi i lati. L’iscrizione da una parte sottolinea la proprietà pubblica della conduttura59, dall’altra indica probabilmente i nominativi di curatores incaricati della sovrintendenza ai lavori.60 Infine, una chiara idea della fitta rete di distribuzione idrica presente a Verona può essere derivata dal contesto emerso nel 1963 in Corte Farina, dove vennero riconosciute quattro fistulae aquariae collocate parallelamente. Il diametro esterno delle condutture presentava una dimensione variabile, dagli 8 ai 10 cm. In merito alla terminazione della conduzione idrica, sia 55  Per la precisione si tratta di due segmenti di due condutture plumbee – lunghi rispettivamente 2,70 m e 3,15 m – tenute insieme da un manicotto in piombo. 56  Gangale Risoleo 2017, p. 254, n. 27; con bibliografia precedente. 57  EDR085141: R(ei) p(ublicae) V(eronensium) Clodi Rufini et Val(eri) Crescent(is). Cfr. M. De Frenza, «Una fistula plumbea iscritta da Verona», in Quaderni di Archeologia del Veneto, XXIV, 2008, pp. 195–196; Gangale Risoleo 2017, pp. 242, 251 n. 16. 58  Il diametro della fistula (11 cm) potrebbe farla rientrare nel tipo delle tricenariae (11,42 cm) o delle vicenum quinum (10,43 cm), ma vista l’irregolarità dei bordi è molto probabile che non sia possibile misurare con precisione il suo profilo. Probabile che si tratti di una vicenaria (9,33 cm) simile per dimensione altri esempi rinvenuti a Verona. Di parere differente De Frenza («Una fistula…», art. cit. alla nota 55, p. 195), che la colloca tra le tricenariae. 59  A. Buonopane, «Acquedotti ed epigrafia: la documentazione della Venetia», in Les aqueducs de la Gaule romaine et des régions voisines (a cura di R. Bedon), Limoges 1997, pp. 597–598 e fig. 4, p. 614. 60  Tale interpretazione risulta coerente con la proprietà pubblica della condotta, anche se è da ricordare che in passato è stato proposto di riconoscere nei due nomi quelli di cittadini, probabilmente vicini di casa, che avevano acquisito in consorzio il diritto allo ius aquae ducendae: il diritto di allacciarsi direttamente all’acquedotto cittadino. La conduttura plumbea viene datata al I sec. d.C. e attualmente conservata presso il Museo archeologico di Verona.

51  Bisogna tenere conto che la forma del foro non è sempre regolare, pertanto una misurazione precisa non è possibile. Il diametro corrisponde a circa 10 cm. 52  Il diametro delle fistulae misura rispettivamente 5,5 cm (B) e 2,5 cm (D). 53  L. De Vanna, «Brescia, Via Musei 41, Casa Pallaveri. Strutture del complesso capitolino», in NSAL, 1998, p. 63; F. Rossi, Considerazioni sull’abbandono del Capitolium di Brescia e sulla vita del santuario in età medio e tardoimperiale, in Nuove ricerche sul Capitolium di Brescia. Scavi, studi, restauri (a cura di F. Rossi), Milano 2002, pp. 217–220. La fistula presenta un diametro di 21 cm (fistula centenaria) con una portata di 40 l/s. 54  Vitruv., De Arch, VIII, 6, 1–2. Cfr. P. Gros, Vitruvio De Architectura, II (traduzione e commento di A. Corso ed E. Romano), Torino 1997², pp. 1183–1185, note 233–235.

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Urbanistica dell’acqua per Brixia che per Verona, ulteriori riferimenti sulla portata delle fistulae provengono dai contesti delle domus61 e anche dal teatro.62 Si tratta grosso modo di fistulae sempre inferiori alla tipo quinum denum con un diametro relativamente piccolo che non supera i 7 cm. Tali fistulae erano certamente adoperate per alimentare fontane e giochi d’acqua.63

non è era garantito da un allaccio diretto all’acquedotto, ma era mediato da una cisterna il cui rifornimento poteva essere limitato nella frequenza.68 Emerge quindi un rigido controllo dell’accesso all’acqua all’interno delle mura e la scelta, di una parte di cittadini più abbienti, di superare questi ostacoli edificando una villa nel suburbio e realizzando un sistema di approvvigionamento alternativo. Inoltre, il caso bresciano evidenzia un’attenzione particolare nei confronti di acque non sorgive, forse proprio perché concesse con maggiore facilità per fini privati.69 Cercando di proporre una cronologia, possiamo ritenere che il fenomeno possa essere collocato a partire dalla seconda metà del I sec. d.C. Si tratterebbe pertanto di una seconda ‘stagione degli acquedotti’, diametralmente opposta alla prima fase di età augustea dove invece emerge un preminente impulso imperiale nella realizzazione delle opere. I contesti di Brixia e Verona dimostrano comunque come sia difficile confermare alla lettera la lezione tramandata dalle fonti in merito all’idraulica antica e alle concessioni idriche ai privati. Dopotutto, le fonti di riferimento sull’argomento raccontano una storia molto spesso specchio di Roma e della sua grandezza che non concede spazio a realtà minori. Queste città, lontane da Roma, appaiono come produttrici di un’urbanistica dell’acqua specifica e distintiva70 che soltanto attraverso uno studio sintetico di vari aspetti può essere approfondita e messa in luce.

Conclusioni La ricca presenza di fontane nelle domus bresciane ha portato in precedenza a ipotizzare che l’accesso all’acqua per i privati in città fosse garantito più facilmente rispetto a quanto non venga tramandato da Frontino64, che al contrario sottolinea come fosse raro tale servizio, soggetto a beneficium imperiale.65 Il contributo ha tentato di dimostrare il contrario, confermando in parte quanto tramandato da Frontino, ma mettendo anche in evidenza quanto l’iniziativa privata abbia saputo mettere in campo per superare tali limitazioni. Il contesto urbano concedeva spesso soltanto allacci idrici mirati al funzionamento di fontane e giochi d’acqua, adoperando spesso fistulae quinariae di portata minima.66 Inoltre non bisogna tralasciare la possibilità che queste concessioni idriche non fossero perenni, ma soggette a un controllo secondo turnazioni prefissate, alla stregua di quanto indicato dalla pianta del Priorato nel suburbio di Roma.67 Dopotutto, il rifornimento idrico di queste abitazioni

Bibliografia

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4 The Impact of Water Management in the Urbanisation and Urban Planning Processes. Some Preliminary Insights from the Roman Eastern Alps Eugenio Tamburrino Università degli Studi di Padova, Dipartimento dei Beni Culturali: Archeologia, Storia dell’Arte, del Cinema e della Musica Abstract: Il ruolo della gestione dell’acqua nei processi di urbanizzazione e nella programmazione urbanistica. Primi spunti di riflessione dalle Alpi orientali in età romana. La gestione delle risorse idriche rivestì un ruolo fondamentale nei processi di urbanizzazione e di gestione del tessuto urbano del mondo antico, tanto per l’approvvigionamento d’acqua che risultava fondamentale nello sviluppo economico e sociale delle città, quanto per la corretta amministrazione delle acque reflue. Quest’ultima, in particolare, risultava di peculiare importanza per quegli insediamenti, come quelli sviluppatisi in contesti a clivometria accentuata o in una zona pedecollinare o pedemontana, in cui il deflusso delle acque provenienti da monte doveva essere indirizzato secondo direttrici ben definite, al fine di evitare allagamenti delle zone abitate sottostanti. L’articolo fornirà alcuni spunti di riflessione sulla rilevanza della gestione delle acque reflue nell’urbanizzazione e nella gestione di alcuni centri abitati romani dell’arco alpino orientale, tra la Venetia et Histria ed il Noricum. The impact of water management in the urbanisation and urban planning processes. Some preliminary insights from the Roman Eastern Alps. Water management played a crucial role in the urbanisation and urban planning processes in Antiquity, not only because water supply was essential for the economic and social development of each settlement, but also to guarantee the proper management of wastewater. This latter point was extremely significant for those settlements located on a slope or in the foothills, where a proper wastewater management was a key factor in crucial floods from a terrace to the one below it. The paper aims to provide some insights on the relevance of the wastewater handling in the urban development and management of some Roman settlements in the Eastern Alps, between the Regio X – Venetia et Histria and the Province of Noricum. Introduction

settlements located in the eastern parts of the Alps1 which are equally subdivided between the ancient Augustan Regio X – Venetia et Histria2 and the province of Noricum.3

Proper management of water held (and still holds in modern cities) a great importance in the urban planning and administration of ancient cities, towns and settlements. Even if water supply is often thought of as the main priority of any settlement foundation, a proper management of wastewater and rainwater goes hand in hand with it and, in particular during the Roman period, it was a thoroughly and carefully developed aspect. The planning and management of the sewers had a particular importance for the settlements located on a mountain or hill-side, as well as for those at the foot of slopes in which the routing of waters along predetermined lines was crucial in order to avoid water damage to the parts of settlement located further down.

The towns taken into account can be divided into three macro-classed based on their morphological characteristics: the settlements built on a slope, mainly by means of terracing; those located at the very foot of the hill; and the two cities Feltria and Turnia, which combined The research was carried on for my doctoral dissertation, which I defended at the Università Ca’ Foscari – Venezia under the direction of Luigi Sperti, whon I would like to thank warmly. 2  Precisely, Tridentum (modern Trento), Feltria (Feltre), Bellunum (Belluno) and Iulium Carnicum (Zuglio). 3  Precisely, Aguntum (modern Dölsach), Teurnia (Sankt Peter in Holz), Virunum (Maria Saal) and the Magdalensberg archaeological site (the name of which is still unknown: F. Glaser, «Der Name der Stadt auf dem Magdalensberg», in Rudolfinum. Jahrbuch des Landesmuseums für Kärnten 2003, 2004, pp. 85–88. 1 

The paper aims to provide some insights to these issues based on a geographically uniform sample of eight

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Eugenio Tamburrino the aforementioned (including the main public spaces) built on terraces along the hillside and another part in the foothils.

urban analysis8, and to treat them as part of a complex whole. Thus, this more complicated framework required some more sophisticated tools from a methodological point of view, such as the application of the ‘system approach’ proposed by Gemma Jansen9 and then further developed with a particular focus on fountains and distribution systems by Julian Richard.10 In this view, the water supply, distribution, and drainage network is conceived as an overall system aiming to transform a water input into an output by means of inter-operating subsystems (e.g. supplying, harvesting, distribution, drainage structures or subsystems) each with their specific purpose.11 Such an approach gives the opportunity to identify models of planning and designing hydraulic systems or subsystems on a local or regional scale as well as to evaluate their changing or evolutions in a diachronic perspective.

Space does not allow for a detailed account of each case study4; but it is possible and more suitable disclose the general methodological issues, and some remarks concerning the role that water disposal infrastructures played in the urbanisation processes in the Roman eastern Alps, or that it can play in detecting the overall urban plan of these ancient settlements. Methodological issues In the last twenty years researches concerning hydraulic infrastructures has evolved from a ‘merely’ architectural, technical and engineering point of view to a global perspective, aiming to put in context all the hydraulic features that have been found. A first stimulus in this sense came from a pioneering paper by Brent Shaw5, who studied the structures of water supply in Roman African settlements, stressing the socio-economic complexity that is underlining every urban infrastructure. Trevor Hodge, in the conclusions to the same volume including Shaw’s article, looked at the engineering approach to ancient hydraulic infrastructures and at the social, economic and contextual one as two separate and different perspectives. On the contrary, two later papers, which appeared a few months apart from each other, opened the way for a more holistic view: Andrew Wilson remarked how social issues are entangled with technological aspects to the point of being the ultimate goal of the research concerning ancient hydraulic infrastructures and the technological approach, one of the methods to reach it.6 Italo Riera and Alessandro Pesaro7 proposed a ‘processualist’ approach to the theme, identifying three steps of knowledge in a pyramid scheme: the first step was designed to take into account the topographical and material aspects of the single stretch of the infrastructure or part of the hydraulic system; the second focused on the technical and technological skills required to design the hydraulic system as a whole and the single part as a particular of it; finally, the third step dealt with the socio-economic framework reaching the ultimate goal of the research on hydraulic infrastructures.

Clearly, the approach model thus elaborated opens the way to some further, not secondary, elaborations especially to fit it within the theoretical conceptions of the ancient city as well as several ideas of ancient cities.12 Nevertheless, I will leave those issues aside to focus on a more specific question concerning how the water drainage and disposal networks influenced urban planning and development in the upper Regio X (Venetia et Histria) and in the lower Noricum. Aqueducts or monumental distribution structures were not the only way to allocate the water supply of a settlement, and thus gain a particular political and economic significance13, sewers and drainage are a R. Laurence, «Writing the Roman Metropolis», in Roman urbanism – beyond the Consumer City (H.M. Parkins ed.), London 1997, pp. 17–18; P. Johnson, «Conceptualizing Townscapes: Perception of Urbanism and their Influence on Archaeological Survey Strategies», in Archaeological Survey and the City (P. Johnson, M. Millett eds.), Oxford 2013, pp. 8–23. 9  G.C.M. Jansen, Water in de Romeinse stad Pompeji, Herculaneum, Ostia, Maastricht 2002. On the several connections of water and its concept in Antiquity, see also the recent article by Annette Haug and Ulrich Müller: A. Haug, U. Müller, «Introduction», in The Power of Urban Water (N. Chiarenza, A. Haug, N. Müller eds.), Berlin-Boston 2020, pp. 123–141. 10  J. Richard, Water for the city, fountains for the people. Monumental fountains in the Roman East: an archaeological study of water management, Turhout 2012. 11  Richard, Water for the city…, op. cit., footnote n. 10, pp. 63–80. 12  For a deeper coverage, among the others see: Laurence, Writing the Roman Metropolis..., pap. quot. footnote n. 8, pp. 1–19; R. Raja, «Becoming urban», in Norwegian Archaeological Review, 49, 2016, pp. 76–78; R. Raja, S.M. Sindbæk, Urban network evolutions: Towards a high-definition archaeology, Aarhus 2018. Recently, some remarks on the relationship between water and urbanism in the Roman period, also taking into account urban theories beyond the ‘mere’ Roman world are in A. Rogers, «Water and Decentring Urbanism in the Roman Period: Urban Materiality, Post-Humanism and Identity», in The Power of Urban Water (N. Chiarenza, A. Haug, N. Müller eds.), Berlin-Boston 2020, pp. 1–12. 13  Shaw, «The Noblest Monuments…», pap. quot. footnote n. 5, in juxtaposition to the ‘traditional view’ of aqueducts as basic prerequisite to urban growth (E.C. Semple, «Domestic and Municipal Waterworks in Ancient Mediterranean Lands», in Geographical Review, 1931, 21/3, pp. 466–474). Christer Bruun clarified that aqueducts were for a large extent a beneficium principis, similar to panem and circenses (C. Bruun, «Il funzionamento degli acquedotti imperiali», in Roma imperiale. Una metropoli antica (E. Lo Cascio ed.), Roma 2000, p. 160. More recently, Italo Riera referred to aqueducts as a beneficium principis: I. Riera, E. Tamburrino, «La distribuzione idrica a Lucus Feroniae: riflessi epigrafici e confronti», in Aquam Ducere II – Water and the city: hydraulic systems in the Roman Age (E. Tamburrino ed.), Seren del Grappa (BL) 2018, p. 123. 8 

This approach brings with it the urgency to deal with a greater amount of several types of data, as inherent in 4  A monograph presenting, and in some points increasing, the results of the doctoral thesis is in any case under development. 5  B. Shaw, «The Noblest Monuments and the Smallest Things: Wells, Walls and Aqueducts in the Making of Roman Africa», in Future Currents in Aqueduct Studies (T. Hodge ed.), Leeds 1991, pp. 63–92. 6  A. I. Wilson, «Where to go from here: an epilogue – Roman water usage and distribution», in Water use and hydraulics in the Roman city (A.O. Koloski-Ostrow ed.), Dubuque 2001, pp. 101–104. 7  A. Pesaro, I. Riera, «L’acquedotto romano di Asolo (Treviso): appunti di ‘filosofia’ del rilievo», in In binos actus lumina – Rivista di studi e ricerche sull’idraulica storica, I, 2002, pp. 261–274. Even if the paper had a less impacting circulation, it was a remarkable attempt to put the different approaches to ancient aqueducts and hydraulic structures into a wider system.

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The Impact of Water Management in the Urbanisation and Urban Planning Processes (Tridentum, Feltria, Bellunum, Iulium Carnicum, and partially Teurnia) lasted, seamlessly, from the Roman period downup to the present day and the archaeological evidence is not continuous in terms of time and space. Other settlements are not yet fully investigated. The lack of data deprives us of some important information concerning some infrastructures or features, that at a detail level could have conditioned the design of the drainage in the ancient settlements: micro-topographical features to modify the ‘natural’ direction of the flow; kerbstone blockages; paving stone ramps; modified paving stones; sidewalk ramps; location-specific water management mechanisms.17 Even the analysis carried out on a more complete archaeological record, such as that of Pompeii18, involves human interpolation of data and hypothetical reconstructions and extrapolations.19

valuable companion to evaluate the urban development and planning of every human settlement.14 Even if the modern classification of sewerage into four ‘orders’ currently widely in use15 is potentially anachronistic, there is no doubt that each network of water disposal structures was organised according to a quite strict hierarchic and pyramidal model. The study of Roman sewers has thus not, or not only, to be addressed from a typological point of view, but in the context of the settlement they were designed for and its evolution. Even if the first and second order structures would obviously follow the destiny of the household that hosted them in terms of continuity or abandonment, the third and fourth order structures are more likely refunctioned or reused as the settlement went through changes or planning upheavals. From this perspective it is important to note that the settlements located in upper Regio X and lower Noricum share certain local conditions which influence both the urban plans and the water disposal networks. Firstly, the area can rely on several water sources16 and, at the same time, is subjected to severe and frequent rains, which created the need – more than elsewhere – for an effective drainage network. Secondly, these factors were intensified by the local topography, the mountainous landscape in which these settlements were located. As mentioned above, the towns taken into account can be subdivided into three macro-classes: settlements built on a slope, using a terraced layout; those located at the bottom of the slope; those combining both features, with a part of the settlement (which included the main public spaces) built on terraces on a hill and the rest on the lower ground. In any case, a proper management of the water runoff and sewage was crucial to allow a ‘normal’ regulation of daily urban life: in terraced urban-scapes it was fundamental to avoid floods from an upper terrace to a lower one; in the case of settlement along the foot of a slope, stopping water run-off from the relief to the plain and channelling it into a drainage network was crucial to allow the development of any town.

Nevertheless, since the eastern alpine settlements shared some common environmental and topographical factors, it is possible to identify – despite the irregular data – some models in the urban plans where drainage systems reveal shared development lines. Here I shall first consider settlements located on the foothills, and how they managed the runoff coming from the relief at their back to the plain, then, in the second part of the article, I will discuss the timing of building projects in relation to the drainage networks in these settlements. This aspect, in fact, is crucial to underline the importance drainage had in the urban planning of alpine towns and, in some cases, how long systems maintained their own serviceability, in the face of further developments or changes in the overlaying urban scape. Aquae devorant terras20: water drainage and urban planning The best example of a possible model for the management of the run-off in the foothill settlements is Iulium Carnicum, present-day Zuglio, one of the best-known archaeological sites in the Eastern Alps, as the results of excavations carried out after a calamitous earthquake in 1976.21

The reconstruction of an overall sewer and drainage network is difficult since the archaeological record is nowhere complete. Some of the settlements examinated

17  These categories have been identified by Eric Poehler in an interesting article attempting to reconsider the whole drainage system of Pompeii in an innovative way: E.E. Poehler, «The drainage system at Pompeii: mechanisms, operation and design», in JRA, 25, 2012, pp. 99–104. 18  It is significant to also note the differences between some subsequent attempts to redraw the drainage system of Pompeii: S. Cozzi, A. Sogliano, «La fognatura di Pompei», in NSc, 25, 1900, pp. 587–99; I. Faldager, K. Høyer, Antikke Afløbssystemer. Rapport fra en studierejse til Rom, Pompeji og Ostia, Greve Strand 1985; L. Eschebach, «Wasserwirtschaft in Pompeji», in Cura aquarum in Campania (N. De Haan, G.C.M. Jansen eds.), Leiden 1996, pp. 1–12; Jansen, Water in de Romeinse stad…, pap. quot. footnote n. 9; G. C. M. Jansen, «The water system. Supply and drainage», in The world of Pompeii (J. Dobbins, P. Foss eds.), New York 2007, pp. 257–266; Poehler, «The drainage system…», pap. quot. footnote n. 17. 19  For example, Poehler himself needed to reconstruct the topography of the unexcavated part of the site from previous data and observations on site: Poehler, «The drainage system…», pap. quot. footnote n. 17, p. 98, footnote n. 19. 20  Plin., Hist. Nat., 31, 1. 21  M. Rigoni, «Il caso di Zuglio tra Archeologia e ricostruzione», in Ricostruire la memoria – Il patrimonio culturale del Friuli a quarant’anni dal terremoto (C. Azzolini, G. Carbonara eds.), Udine 2016, pp. 152–161.

14  I. Riera, Le cloache, in Utilitas Necessaria. Sistemi idraulici nell’Italia romana (G. Bodon, I. Riera, P. Zanovello, eds.), Milano 1994, pp. 389– 466; I. Riera, «Classificazione e funzionamento delle fognature romane», in La cloaca maxima e i sistemi fognari di Roma dall’antichità ad oggi (E. Bianchi ed.), Roma 2014, pp. 11–13; E. Bianchi, «Sistemi fognari nelle città romane», in Aquam Ducere II – Water and the city: hydraulic systems in the Roman Age (E. Tamburrino ed.), Seren del Grappa (BL) 2018, pp. 151–176. 15  The ‘first order’ refers to intra-household systems, the ‘second order’ to those which connect and collect the first order, the ‘third’ collect the second order to those of a whole quarter, and finally the ‘fourth order’ refers to a main canalization designed to collect and dispose of all waters (generally, both ‘dirty’ and ‘clean’ ones) of the whole settlement (see the literature cited at the footnote n. 14). 16  Such as it has recently been noted how in Northern Italy «the omnipresence of water must clearly have contributed to the regional urban experience»: P.A. Kreuz, From Nature to Topography. Water in the Cities of Roman Northern Italy, in The Power of Urban Water (N. Chiarenza, A. Haug, N. Müller eds.), Berlin-Boston 2020, p. 13.

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Eugenio Tamburrino

Figure 4.1. Location of drainage systems in Iulium Carnicum [modified after P. Donat, L. Madruzzato, F. Oriolo, S. Vitri, «Nuovi dati sull’organizzazione urbana di Iulium Carnicum», in Intra illa moenia domus ac penates (Liv. 2, 40, 7). Il tessuto abitativo nelle città romane della Cilsapina. Atti delle giornate di studio (Padova, 10-11 aprile 2008) (M. Annibaletto, F. Ghedini, eds.), Padova 2009, p. 80].

also collects the water coming from another channel of a lower order, between 0.25 and 0.28 m wide. The junction between them is made at an angle of about 40 degrees in order to avoid water backflow and for the same reason, the bottom of the smaller channel is about 15 cm higher. North of this first stretch the larger channel flows into a bigger third-order sewer which carried waters eastwards, probably to discharge into to the Bût river; since it has only been partly explored, and the details of its construction are unknown. Nor has it been possible to understand whether it is the continuation of the great sewer located east of the Forum, on which more below. However, the insertion of the smaller channel into the wider one was made at an angle c. 40 degrees, as in other cases.

Space does not allow me to deal in detail with the network of the sewers of the first order that can be traced to the water disposal at a household level found in several points of the town; but although such data can provide valuable information concerning the private management of water disposal within an urban-scale analysis, their absence need not affect the precision and accuracy of the overall picture. An articulated framework of the water disposal structures came to light near the square of the modern village, where in 2011 an archaeological excavation carried out in conjunction with laying of water pipes by the local water provider led to the identification of some ancient sewers (fig. 4.1, a). The excavation brought to light a second-order sewer channel, built with local stones thickened by pinkish mortar, which runs approximately N-S; the width of the channel is about 0.40 m, and its bottom paved with a thick layer of cocciopesto and sloping from S to N. This sewer

The general design of the water disposal in the central area, containing both the Forum and its immediate neighbourhoods, is extremely complicated. As mentioned above, even in the case of Iulium Carnicum, the data are 30

The Impact of Water Management in the Urbanisation and Urban Planning Processes the underground rooms of the civil basilica (fig. 4.1, d). Inside this channel, the water flow was then carried eastwards to the so-called ‘channel VIII’ (fig. 4.1, e), whose deposits have been investigated and clearly show, through the traces of the depositional mechanic, the flow dynamic and the flux direction and force.

very fragmentary, and we do not know anything about settlements on the hills around the main part of the town.22 In this sense, a drain found in 199223 in the area north-west of the Forum is particularly significant, running from the north, where the slope gradient is assumed to have been raised in ancient times. (fig. 4.1, b). The channel was detected for a total length of 7.40 m partially covered with large, smoothly dressed stone slabs. Where some of these slabs were missing, it was possible to observe the western side wall, built – as it is widely attested in this geographic area of river pebbles generously bonded with mortar. The chronological and stratigraphical relationship between this drain and the several phases and modifications of the Forum is still unclear.

Indeed, ‘channel VIII’ was – as far as we can tell – the main sewer of the ancient settlement, located directly beneath the paved road which runs immediately east of the Forum.27 The channel could clearly be re-opened, by removing three stone slabs of the street paving which formed manhole covers for maintenance and unblocking operations. In sum, the whole system can be supposed to have been inspected and maintained at intervals during its life, as shown by some other manholes that were discovered during the excavation of the cryptoporticus of the basilica, reopened on at least two occasions.28 ‘channel VIII’ was apparently built concurrently with the Forum of the late first century AD, while another drain that runs parallel to ‘channel VII’ at a higher altitude (fig. 4.1, f) seems to be more recent.29

This infrastructure was designed to prevent the water coming from north and west entering the Forum, which for topographical reasons formed a sort of natural basin where the part of the water runoff would converge, even when not properly and differently channelled. In addition to the sewers outside the Forum, the square itself needed a developed drainage network in order to avoid waterdamage; this need will have been felt from the earlier phases of the settlement, and since the late Republican period had been served by an open-air drainage channel (fig. 4.1, c) consisting of a gutter paved with local cobbles, running north-south with a total width of 1.5 m.24 In the later Forum, apparently belonging to a second-phase, the water run-off management took on some morphological features attested elsewhere in the small towns of the Gallia Cisalpina: water was channelled – probably thanks to a humpback shaped surfacing, closely resembling the Forum of Veleia25 – into perimetral drain carved out of blocks of local stone 30 cm wide and a height of 15 cm deep.

Furthermore, in 1992, during some excavations30 that helped to clarify the phases of development of the Forum, a lacus located north of the square, first discovered during the1930s31, came to light again. During the operations, a channel running north of the northern wall of the Forum in an east-west direction, with a slight slope to the east, was also investigated (fig. 4.1, g); only the left sidewall was brought to light, with a trace of the corresponding right wall.32 Looking at the general layout of the drainage and sewer system of Iulium Carnicum, some conclusions can be drawn concerning the overall project, both from a hydraulic point of view and in relation to the topography of the site. First of all, it can be noticed that the dimensions of the channels are of considerable size, especially if compared with the comparatively modest size of the town. This feature can obviously be related to the need to manage a flow rate that could heavily and rapidly be increased in case of one of the frequent downpours that characterize the alpine zone.

These channels conveyed the water to the south side of the Forum, where a larger drainage26 was located, protecting 22  No extensive archaeological investigation has at the moment been carried out on the slope located West and North of the Forum. Traces of retaining walls referable to a terraced exploitation of the slope were recognised by Marisa Rigoni during her soundings after the earthquake of 1976 in the foothills of Mount Arvenis, East of the Forum, even if they did not lead to proper and extensive excavations. More recently, during excavations connected with some building activities on the San Pietro Hills, north of the settlement, structures likely pertaining to a Roman villa were found. For the structures on the Mount Arvenis: M. Rigoni, «Zuglio (UD)», in Aquileia nostra, 1978, 49, coll. 248–250; M. Rigoni, «Zuglio (UD)», in Aquileia nostra, 1980, 52, coll. 394–385. The excavation on the northern hill is still unpublished, and I would like to thank Roberto Micheli of the Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Friuli Venezia Giulia, for on passing the information. 23  The excavation was undertaken by Tullia Spanghero; I deeply thank the whole staff of the Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Friuli Venezia Giulia for the chance to access this data and all the other I cite in the paper concerning Iulium Carnicum, in particular Roberto Micheli the person responsible for the site, the former person responsible for this area Serena Vitri, and the archivist Ambra Betic. 24  M. Rigoni, «Edilizia pubblica: il Foro», in Museo archeologico Iulium Carnicum: la città romana e il suo territorio nel percorso espositivo (F. Oriolo, S. Vitri eds.), Trieste 1997, pp. 37–44. 25  E. Tamburrino, «Le opere idrauliche nelle fonti documentarie: il caso di Veleia», in Aquam Ducere I – Materiali della prima International Summer School “Hydraulic systems in the Roman world” (E. Tamburrino ed.), Seren del Grappa (BL) 2016, pp. 133–145. 26  Width about 0.80 m; the structure was detected and excavated for a total length of 21 m: Rigoni 1997, «Edilizia pubblica…», pap. quot. footnote

n. 24; S. Vitri, L. Mandruzzato, F. Oriolo, «Infrastrutture idrauliche a Iulium Carnicum», in Cura Aquarum. Adduzione e distribuzione dell’Acqua nell’Antichità (G. Cuscito ed.), Antichità Altoadriatiche, 88, Trieste 2019, pp. 393–404. 27  Heigth about 1 m, width 0.75 m: Vitri, Mandruzzato, Oriolo 2019, Infrastrutture idrauliche…, pap. quot. footnote n. 26, p. 396. 28  P. Donat, L. Madruzzato, F. Oriolo, S. Vitri, «Nuovi dati sull’organizzazione urbana di Iulium Carnicum», in Intra illa moenia domus ac penates (Liv. 2, 40, 7). Il tessuto abitativo nelle città romane della Cilsapina. Atti delle giornate di studio (Padova, 10–11 aprile 2008) (M. Annibaletto, F. Ghedini eds.), Padova 2009, pp. 79–94. 29  Vitri, Mandruzzato, Oriolo 2019, «Infrastrutture idrauliche…», pap. quot. footnote n. 26. 30  Led by Patrizia Donat and Luciana Mandruzzato. 31  Even if the presence of Roman remains was already known since the Renaissance onwards, some proper excavations were promoted since the 1930s, in conjunction with the support given to Classical studies and excavations by the fascist regime. 32  Data from the archive of the Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Friuli Venezia Giulia.

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Eugenio Tamburrino The main channels were designed to follow the contours of the base of Mount Arvenis, east of the Forum, with the purpose of collecting the run-off flowing downstream. For example: the open-air channel found in the Forum (fig. 4.1, c) and related to its Republican phase; the channels located west of the Forum (fig. 4.1, b) and the ‘channel VIII’ (fig. 4.1, e) built during the last stage of construction of the Forum and city, and lastly, the channel which runs parallel to, but at a higher level (fig. 4.1, f) than ‘channel VIII’, also built during the same period.

two separate terraces, each of them relying on a main drain that followed the contour of the hill, receiving waters from minor drain and sewers and directing them across the plain until they somehow36 converged into the Fressnitzbach37 river close by. Finally, some words on the drainage network in Virunum, which is more articulated, probably because of the status of the city as a capital of the Noricum province. The main part of the city was located on the plain at the foot of Mount Töltschach, bordered by the river Glan; however, some public structures such as the amphitheatre were built in a terrace above the plain, where natural springs emerged. These latter on one hand successfully supplied the settlement38 and on the other hand probably represent an abundance of water in this area that had to be properly managed in order not to flood the lower city. Recent excavations showed that the general drainage plan of the city was developed in accordance to the models already mentioned when taking into account the other case studies: Heimo Dolenz has convincingly proven that the drainage around the Capitolium and its cryptoporticus was planned in order to protect the buildings not only from the the runoff from the hillslope but also from the the water coming from the Sulzmühle spring and its basin on the terrace of the amphitheatre.39 The general plan met the ‘usual’ criteria, with main channels following the contour of the hill and others perpendicular to them, designed either to convey water into the main drain or to lighten its load, or again, to connect the two of them.

Moreover, these channels subdivide the urban area in accordance with different ‘drainage basins’ located upstream to them, that were managed by the sewers in order to avoid the water entering into the basin below.33 To this main network, other drains running perpendicular to the main ones were added in order to convey waters coming from some specific urban sectors or also to lighten their load. Such a planning, concerning both the hydraulic structures and the urban design, appears to be a model for other towns that I studied and, even if they are not built upon evidence of the same quality, some examples in this sense can be given. In the Roman Feltria, on the immediate foothill of the ridge where the main public places were located, during the excavation of the current main archaeological area of the town, a complex part of the drainage system that received the water running from up to down came to light. Here, a major sewer was built below one of the main streets, following the contour of the hill and probably built contemporaneously with the road. Another small drain coming from the hill was later arranged to connect with this main sewer, while another big channel was built downhill from the main one and almost perpendicular to it34, probably in order to lighten its load.

In particular, the case study of Virunum is characterised by the dimensions of the main channels that ran northsouth being bigger than the average of the other towns of the Eastern Alps; by Egger40, Jernej and Gugl41, Harl42 and Fuchs.43 The dimensions of the sewers are evidently influenced by the load they expected to carry, which varies depending on the the urban size and local environmental factors such as the rainfall rate and additional water from springs. In any case, the dimensional consistency of the channels reveals, apart from the functional need to discharge water, a uniformity of the urban drainage

Other evidence has also been found in Teurnia, where the residential area lay at the bottom of the Holzer Berg hill on which public artisanal districts were situated.35 This example is important because it concern a quarter of private-housing in ancient town where the other available examples refer to public or combined private/public quarters. The district was laid out on

36  No evidence of any third-order channel has, at present, still been found or excavated (F. Glaser, Teurnia – Römerstadt und Bischofssitz, Klagenfurt 1992). 37  Gugl, Archäologische Forschungen, pap. quot. footnote 35, pp. 36–86; more accounts concerning this case study will be given in further contributions I am currently developing. 38  Through some wooden pipes departing from the sources towards the lower city: R. Jernej, C. Gugl, Virunum: das römische Amphitheater. Die Grabungen 1998–2001, Klagenfurt 2004, pp. 43, 496–500. 39  Heigth 2,5 m, width 0,9 m: H. Dolenz, «Ein Quellwasserführender Kanal Östlich der Zentralen Area Sacra von Virunum», in Rudolfinum. Jahrbuch des Landesmuseums für Kärnten, 2018, pp. 76–87. 40  Heigth 2 m, width 0,97 m: R. Egger, «Ausgrabungen in Kärnten», in Jahreshefte des Österreichischen Archäologischen Institutes in Wien, 13, 1910, pp. 149–150. 41  Heigth 1,90 m, width 1,20 m: Jenej, Gugl, Virunum…, pap. quot. footnote n. 38. 42  Heigth 1,65 m, width 0,96 m: O. Harl, «Der Stadtplan von Virunum nach Luftaufnahmen und Grabungsberichten», in Jahrbuch des RömischGermanischen Zentralmuseums Mainz, 36/2, 1989 pp. 521–598. 43  Heigth 1,9 m, width 0,9 m: M. Fuchs, Virunum, Klagenfurt 1997, pp. 27–30.

33  Some first attempts at reconstructing the drainage basins in an ancient city have been proposed by Poehler in the case study of Pompeii. Obviously, the size of dataset available there and the likelihood that the channels detected formed part of a single system or subsystem with a coherent chronology facilitate speculation and analysis. In other contexts and with datasets of different and inconsistent quality the analysis might not, obviously, be of the same precision and accuracy. 34  While the junction, similarly to what happened in Zuglio, of one stretch in another was realised at angle of about 40 degrees, in order to avoid water backflow. I particularly thank Marisa Rigoni and Chiara D’Incà for kindly sharing the data with me. 35  This part of the city was excavated from 1971 to 1978, and then published, with several reviews, by Christian Gugl in 2000: C. Gugl, Archäologische Forschungen in Teurnia: die Ausgrabungen in den Wohnterrassen 1971–1978. Die latènezeitlichen Funde vom Holzer Berg, Wien 2000.

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The Impact of Water Management in the Urbanisation and Urban Planning Processes layout that appears to be coherent with the model that has emerged through the comparative analysis carried out so far among the Eastern alpine settlements.

of the water discharge during the first development of the city was not limited to these topographical or microtopographical modifications but it also invested in the realization of structures intended to adapt to new and future needs. A third-order conduit, designed to converge the waters of a whole district into a big open-air moat and used as an interceptor-sewer that directed all the waste waters to the river Adige, proved to have pre-ordained intake spout.48 These intakes were not put in use simultaneously with the construction of the channel but were arranged to be linked with new second-order sewers at some future date.49

Timing Beyond the issues concerning urban layouts and their connection with a drainage network, some observations can be made concerning the timing of the construction of the drainage, as well as the duration of its operability use. Undoubtedly proper water disposal management will have had to be envisaged from the very first phases of the urban planning and obviously also affected any subsequent development. Furthermore, it is important also to investigate the longer history of the use of the channels, through their functional recovery or shift in connection with the changes of the urban area they referred to.

A coincidence between the first urbanisation and the implementation of the urban drainage plan has also been archaeologically attested in Belluno, the Roman Bellunum, in 2011, in the inner courtyard of the previous Santa Maria dei Battuti monastery, currently the local branch of the State Archive. There, a great sewer was found50, built below what probably was one of the main urban streets with an east-west direction.51

The towns considered provide interesting data and insights concerning the timing of the planning and construction phases within the urban development process. For example, the excavations carried out in Trento, the Roman Tridentum, revealed very few traces of pre-Roman settlement, and its urban development is generally dated back to the Augustan period.44 The opening of a wide underground archaeological area below Piazza Cesare Battisti yielded interesting evidence of terrain modeling operations to better manage the runoff. This stretch of the ancient city hosts a paved street and a third-order channel into which some minor sewers serving the buildings on the sides of the road discharged their water.45 The excavations were able to examine the preparation layers for the later development of the district, revealing that the natural slope of the mountain46 was cut into and retaining walls constructed to obtain a flat terraced surface on which to build. During this operation a counter-slope was obtained on the downstream side in order to force the rainfall to converge into the thirdorder channel which ran below the street in the center of the terrace, midway between the slope of the hill and the counter-slope that followed the natural profile, even if that was softened by the terracing process.47 In fact, the planning

In addition to its constructive characteristics, an interesting aspect of the channel is how it can be seen to fit into the greater urban context. The excavation site’s stratigraphic record provides information on the very first stages of Roman urbanisation of this part of the city as well as certain later developments. An almost barren layer, with just a few signs of occasional frequentation, hosted the regular, square-sectioned trench in which the drainage channel was built, during the very early phases of the urbanising process in this area. Once the sewer was built, a scattered fill layer composed of pebbles and glacio-fluvial sands52 was laid out in order to fill the slight difference in height between the top of the conduit and the ground level. Over this layer some other foundation layers for the building of the overlying street were arranged, probably paved with flag-stones that were later robbed out. No major modification to this structure during the Roman period was detected, which can probably be taken as further confirmation of the importance of this street and the underlying sewer to the public buildings of G. Ciurletti, «Trento romana. Archeologia e urbanistica», in Storia del Trentino – vol. II: l’età romana (E. Buchi ed.), Bologna 2000, pp. 287–346, 307; Bassi, «L’acqua e la città romana...», pap. quot. footnote n. 45, p. 412. 49  As evidence of how the long-term planning frequently could not fit with the human behavior, these prearranged intakes remained unused, while later needs to connect new channels to this inceptor were coped with by breaking the vault of the conduit. 50  Heigth: 1.20 m; width: 0.60 m Data provided by the Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Βelluno, Padova e Treviso. I would like to thank once more Chiara D’Incà for the kind permission to take advantage of the data and to Alessandro Facchin for the supporting patience to assist me during my archival survey. 51  For an overall picture of the urban development and the main Roman archaeological features in Bellunum, see: C. Casagrande, «L’età romana», in Belluno – storia di una provincia dolomitica, vol. I: dalla preistoria all’età romana (P. Conte ed.), Udine 2013, in particular pp. 293–307; for some brief notes on the hydraulic structures, see pp. 294–296. 52  For a general overview of the geomorphological condition of the area, see: G.B. Pellegrini, Geomorfologia del territorio bellunese negli scritti di Giovanni Battista Pellegrini, Belluno 2018.

44  C. Bassi, «Nuovi dati sulla fondazione e sull’impianto urbano di Tridentum», in Forme e tempi dell’urbanizzazione nella Cisalpina (I secolo a.C. – I secolo d.C.). Atti delle giornate di studio (Torino 4–6 maggio 2006) (L. Brecciaroli Taborelli, ed.), Firenze 2007, pp. 51–59; for some new insights on the dating of the city establishment: D. Faoro, «M. Appuleius, Sex. filius, legatus. Augusto, Tridentum e le Alpi orientali», in Aevum – Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche, LXXXVIII/1, 2014, pp. 99–124. 45  About the main drainage structures found in Trento, see C. Bassi, «La città di Trento in età romana: l’impianto fognario», in Architettura e pianificazione urbana nell’Italia antica (L. Quilici, S. Quilici Gigli eds.), ATTA, 6, 1997, Roma, pp. 214–227; On the water management in Tridentum, see also: C. Bassi, «L’acqua e la città romana: il caso di Tridentum», in Archeologia del territorio: metodi, materiali, prospettive (M. De Vos ed), Trento 2004, pp. 405–428; C. Bassi, «Le fontane pubbliche e private di Tridentum. …Oraque fontana fervida pulsat aqua… (Ov., Ars. Am., III, 726)», in Studi Trentini di Scienze Storiche, sez. I–1, LXXXII, 2003, pp. 227–238. 46  This part of the ancient city is comprised between the foothill of the Mount Celva and the river Adige. 47  E. Cavada, «Dietro le quinte..scavi archeologici nel Teatro Sociale di Trento», in Strenna Trentina, 71, 1992, pp. 167–171.

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Eugenio Tamburrino Bellunum. The only exception is a wide invasion made in order to connect a second-order sewer to the main channel at some stage after its first phase. The trench of this structure cut the preparation layers and the hole was filled with clayish-loamy soils enriched by pebbles and fragments of bricks and clay. Otherwise, it is remarkable how a structure planned and built since the very early urbanisation in the context of an overall plan that started from the public spaces, continued to function for centuries and was abandoned only when the Roman urban model was shifted to completely different one, at which point the street itself became defunct. This could be a clue to the impact of this initial layout, including all the underground utilities, had on the later urban development.

disposal infrastructures. This is particularly evident when an urbanistic pattern seems to be shared by the sites, or the parts of sites, that were subjected to a Roman urban plan ex nihilo, highlighting how the model groups together several contexts where the Roman management of this territory was applied. Clearly, the close connection between urban and drainage makes it difficult to decide which factor was uppermost. A purely deterministic approach may not be the only one to be pursued, but must be integrated with social, economic and ideological aspects that only a well-developed heuristic model could bring together. Many case studies, in fact, have highlighted how the Roman management of water was the strict reflection of a change of paradigm in the management and exploitation of landscape, and that it had social and ideological references, which cannot be ignored. Thus, the identification of a model proposed here is just the first in a wider research, which will aim to compare other Roman settlements sharing the same topographical issues and to detect regional or site-specific patterns in their water management attempting to understand the relative weight that any aspect playing a role in it may have had (topographical, social, economic, cultural etc.).

Finally, some significant points for reflection can be found in Agunutum, a town that developed within the bigger picture of the creation of a ‘network’ of municipia Claudia promoted by the Emperor Claudius in order to facilitate the control of the region.53 Among the more important structures in the Roman acculturation processes, the fora clearly had a key role, because of the many meanings that these spaces had in the Roman urban concept. In Aguntum the Forum was, indeed, among the earliest structures to be realised, together with the baths and the so-called Atriumhaus. During their construction the need to manage and control the waters that naturally converged in the future Forum from the hill at its back became clear. In this context, it is significant to note some provisional drainage, found during the archaeological excavations, intended for disposal of the water in order to avoid floods in the Forum under construction; at the end of the construction of the square and the laying out of the main streets in the settlement, these provisional measures were no longer required and were blocked, in order not to interfere with the new drainage network.54

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Preliminary insights

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Already at this preliminary stage of the investigation, the data collected and presented here permit some tentative conclusions. First of all, it is worth noting that, although the amount of water these alpine settlements had to manage did not shape the urban form itself, it was nonetheless a crucial fact to be taken into account during the planning phase and in further developments. While water management mechanisms may be site-specific, it is apparently possible to detect a more general model for the urban form of the sites and for the planning of their water

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These municipia were intended to control the lower part of the Noricum, in particular the major street of this area, the Drautalstraße; among these settlements: Aguntum, Teurnia and Virunum, that in this time became the capital of the province. 54  M. Tchurtschenthaler, «Aktuelle Forschungen im Stadtzentrum von Aguntum», in Von Aguntum zu Alkauser See. Zur römischen Geschichte der Siedlungskammer Osttirol (M. Auer, H. Stadler eds.), Wiesbaden 2018, pp. 151–166. The archaeological investigations in Aguntum and in the Forum area are still under way by the equipe led by Michael Tchurtschenthaler (Universität Innsbruck); I warmly thank Martin Auer, responsible for the excavation in Aguntum, for having shared the data with me. 53 

Casagrande, C., «L’età romana», in Belluno – storia di una provincia dolomitica, vol. I: dalla preistoria all’età romana (Conte, P. ed.), Udine 2013. Cavada, E., «Dietro le quinte..scavi archeologici nel Teatro Sociale di Trento», in Strenna Trentina, 71, 1992, pp. 167–171. 34

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Sezione II Vie di Comunicazione nel mondo antico

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5 Vie di comunicazione nel mondo antico Giuseppe Ceraudo Università del Salento Come il filo di un gomitolo che pian piano si srotola, così la rete della viabilità antica, ramificandosi, crea una trama che progressivamente diventa sempre più articolata; un sistema di strade complesso, che, adattandosi al paesaggio che percorre, riflette il rapporto dinamico tra uomo e territorio. La viabilità moderna, che deriva da quella storica da cui spesso ha avuto origine, è il risultato di un dialogo continuo tra l’azione antropica e l’ambiente: le caratteristiche morfologiche del territorio influenzano le strade tanto quanto i fattori socio-culturali che obbediscono a ragioni di funzionalità e che variano a seconda delle epoche. Pertanto, le attuali reti stradali possono essere considerate la struttura di arrivo in cui le tracce delle fasi più antiche rimangono come fossilizzate.

allo stesso tempo si presta molto bene anche per focalizzare tecniche innovative e per sperimentare nuove metodologie per la ricerca archeologica: fonti e strumenti diversi utilizzati per la ricomposizione della viabilità da una parte e per la sua rappresentazione cartografica dall’altra. La rete stradale antica costituisce un sistema così complesso al punto da imporsi come elemento unico e caratteristico del nostro Patrimonio culturale e si inserisce all’interno di un filone peculiare della ricerca topografica, quello della ricostruzione della viabilità, che da sempre ha avuto un ruolo significativo negli studi sul territorio, nel tentativo di arrivare alla ricomposizione analitica dei paesaggi antichi attraverso l’articolata rete dei tracciati che nei diversi comparti ne costituivano l’ossatura; il tutto all’interno di una mai superflua Carta archeologica, strumento sempre essenziale e miglior contenitore dei lavori orientati ad una migliore ricomposizione della storia dei luoghi.

Questi percorsi, nelle varie epoche, non solo hanno rappresentato un fondamentale strumento di affermazione militare e di sviluppo economico, ma anche un importantissimo fattore di civiltà, attraverso lo scambio di pensieri e di idee. Se parliamo del nostro Paese, i contributi e gli influssi culturali ed economici di diversi popoli sono stati veicolati in ogni regione, fusi e trasformati, contribuendo a conferire quella dimensione di universalità che troverà il suo culmine con la civiltà romana. Non a caso Strabone (V, 3, 8), ricorda l’opera di civilizzazione ed il pragmatismo dei romani nella costruzione e nella cura della rete viaria già a partire dall’età repubblicana e per tutta l’età imperiale.

È alla luce di queste molto sintetiche considerazioni di base che si è sviluppata la seconda sessione dell’incontro di Pisa. La giornata di studi ha visto il contributo di giovani studiosi che in questo specifico campo hanno presentato i risultati più interessanti delle loro recenti ricerche; i relatori della sessione si sono mossi ed hanno operato in contesti geografici diversi, sia attraverso gli strumenti tradizionali della disciplina sia attraverso l’utilizzo integrato di nuove metodologie per l’analisi del territorio, raggiungendo tutti risultati significativi.

Il complesso sistema stradale creato dai romani nella penisola italiana, quindi, si basa e riprende un articolato insieme di tracciati, piste e vie di transumanza, realizzato nel corso del tempo da quelle popolazioni che occupavano i territori prima dell’ascesa romana, con percorsi efficaci, nati dalla conoscenza profonda dei luoghi e dei terreni che attraversavano e che hanno costituito un punto di riferimento per Roma. Su questi percorsi gli ingegneri romani si adoperarono con importanti interventi tecnici, raccordando le strade esistenti con le nuove in un sistema organico e centralizzato, per arrivare ad una solidità e stabilità dei tracciati (firmitas), l’efficienza di questi (utilitas) ed un aspetto estetico monumentale (venustas), esteso poi in tutto l’Impero nel momento della massima espansione durante il regno di Traiano attorno ai 120.000 km.

Il primo contributo di Roberto Busonera ha proposto una ricerca finalizzata all’individuazione dei sistemi di accesso alla città romana di Neapolis, centro urbano affacciato sul fronte meridionale del golfo di Oristano in Sardegna. Nella sua presentazione, la definizione dei punti di contatto tra settore urbano ed extraurbano ha consentito di comprendere il rapporto tra città e territorio. Neapolis si mostra quale caposaldo importante di questo tratto di costa, in corrispondenza di assi viari principali e vie di comunicazione naturali in rapporto ad una migliore utilizzazione di spazi e risorse. Ulteriori risultati, ancora da approfondire, sono stati raggiunti in seguito a diverse stagioni della ricerca, comprensive anche di scavo archeologico, e grazie a questi importanti passaggi sono stati riportati in luce due edifici termali, un tratto di strada urbana e un’area, nominata ‘monumentale’, che rimane però ancora priva di un’ipotesi ricostruttiva e funzionale precisa.

L’argomento è così significativo da rivelare quanto il patrimonio della rete stradale antica sia fondamentale per riscoprire ‘paesaggi’ perduti o dimenticati nel tempo, ma 39

Giuseppe Ceraudo A seguire l’intervento di Paola Guacci, con ricerche lungo il tratto irpino della via Herculia. L’indagine a tutto campo ha permesso di mettere in evidenza la corretta integrazione tra i metodi tradizionali dell’indagine topografica sul terreno con un nuovo tipo di analisi spaziale del territorio, attraverso l’uso avanzato di moduli GIS del tipo cost surface analysis. Il tutto per tentare di ricostruire il tracciato della via Herculia nel territorio irpino. La strada, realizzata dai Tetrarchi Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio, che curarono la costruzione o, più verosimilmente, risistemarono il tracciato sfruttando percorsi preesistenti, attraversava da nord a sud le moderne regioni Abruzzo, Molise, Campania (interna) e Basilicata, per collegare il Sannio Pentro (Aufidena) con la Lucania. Il nome di questa via publica deriverebbe dal soprannome di uno dei due Augusti, Massimiano, appunto Erculio, ed è menzionata in forma esplicita in una serie di iscrizioni miliarie con la dedica a Massenzio, figlio dell’Erculio, databili al 309 d.C., attestanti un sicuro intervento di ripristino della strada che riportò la via Herculia ad pristinam faciem, al suo primo aspetto. Lo studio presentato, quindi, partito dall’analisi di dati editi a cui si sono aggiunti i recenti risultati acquisiti grazie ad indagini geospaziali, da ricognizioni topografiche mirate, da revisione della bibliografia storica per la contestualizzazione dei miliari dispersi e dallo studio di infrastrutture potenzialmente legate al passaggio dell’antica via, contribuisce a ricostruire il percorso della via Herculia agevolando, contestualmente, la conoscenza di una parte poco nota del territorio irpino che in età romana finì inevitabilmente per costituire un punto nevralgico di passaggio.

Segue l’interessante contributo di Ippolita Raimondo, che ha trattato di una strada in Apulia settentrionale, tra Aecae (l’attuale Troia) e Sipontum (Siponto), una importante strada di collegamento tra il tracciato della via Traiana e la via Litoranea adriatica, tra i principali assi stradali in Italia sud-orientale. Grazie ad accurate analisi aerotopografiche e a mirate ricognizioni di superficie è stato possibile delineare l’esatto percorso della strada, conosciuta essenzialmente perché rappresentata sulla Tabula Peutingeriana. Nel contributo è stato illustrato in particolare il tratto di 13 miglia che collegava Luceria (Lucera) con Arpi. Lungo questo segmento è stato possibile identificare un insediamento antico per il quale viene proposto l’accostamento con il Pr(a)etorium Lauerianum, riportato sempre sulla Tabula esattamente nove miglia ad ovest di Arpos (Arpi). Per posizione e tipologia il sito corrisponde perfettamente sia alle caratteristiche peculiari dei pretori fino ad oggi conosciuti in Italia, sia alla posizione indicata nella Tabula e mette finalmente luce, con elementi concreti, sull’identificazione del Pretorium Lauerianum, questione che negli ultimi anni era stata oggetto di studio e di dibattito, non sempre con argomentazioni convincenti. Chiude la sessione il lavoro di Rosanna Montanaro e di Paola Guacci, che già a partire dal titolo, in maniera se vogliamo provocatoria, hanno proposto l’integrazione di strumenti di remote sensing per la comprensione di una fascia di territorio lungo il tracciato del ricostruito percorso della via Herculia in Hirpinia (leggi il contributo di P. Guacci), in un’area già interessata dalla presenza di importanti assi viari antichi (Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, via Aemilia, via Traiana). Diverse tracce individuate attraverso l’uso combinato della fotointerpretazione di immagini aeree storiche e recenti e del LiDAR, rivelerebbero la presenza di siti medievali (motte and bailey castle) con una tipologia diffusa in epoca normanna in Capitanata ma non in Irpinia. Questo tipo di approccio, su tre potenziali insediamenti individuati, ha permesso di classificare due casi come non attendibili, mentre nel terzo sito analizzato è stato identificato un inedito insediamento medievale fortificato, per il quale si è avuto un ampio riscontro sul terreno. Questo risultato permette di ribadire che soltanto il controllo autoptico sul campo, la ricognizione topografica di verifica, nei luoghi in cui le ipotetiche tracce erano state individuate, può confermare o smentire il dato, al fine di una corretta ricostruzione dei paesaggi antichi. La puntuale verifica sul campo, quindi, in collegamento diretto con la lettura di immagini aeree, ha dimostrato come le indagini topografiche collegate all’uso virtuoso del remote sensing, può contribuire in maniera sostanziale ed efficace ad aumentare enormemente la conoscenza del territorio e di poter acquisire le necessarie chiavi di lettura delle evidenze riscontrate (tracce) al fine di poter classificare in maniera corretta il dato e di acquisirlo come reale evidenza archeologica.

Angiolo Querci, con il suo Θάλαττα, θάλαττα, ha trattato delle vie di mare e del vento che durante l’età del bronzo tracciavano le rotte commerciali nel Mar Egeo, quelle ‘autostrade liquide’ che certamente costituirono un efficace mezzo di comunicazione fin dal Neolitico. All’interno di questo specifico contesto, molto particolare risulta la situazione nella regione egea, caratterizzata da un numero considerevole di isole poste a piccola distanza le une dalle altre, che favorì navigatori anche in tempi molto antichi che solcarono le acque in cerca delle materie prime. Ma per ricostruire queste rotte, però, non basta prendere in considerazione solo la distribuzione dei reperti archeologici attestanti questi spostamenti, ma è necessario considerare anche il comportamento in mare delle imbarcazioni allora disponibili e le condizioni climatiche locali e regionali delle aree di navigazione. Il lavoro presentato, quindi, aveva l’ambizione di provare a dimostrare che le condizioni meteorologiche ancora presenti ai giorni nostri nell’Egeo possano essere considerate valide per l’Età del Bronzo. Se è vero che anche oggi i venti e le correnti possono condizionare la navigazione, deve essere stato tanto più vero nei tempi passati, soprattutto quelli più antichi, quando i marinai erano costretti a solcare i mari su navi certamente meno idonee, senza carte e senza alcuna strumentazione di bordo. Pertanto, una profonda conoscenza dei venti dominanti e degli schemi delle correnti risulta fondamentale per chi deve affrontare il difficile compito di ricostruire antiche rotte. 40

6 La città romana di Neapolis, in Sardegna. Studio topografico sui sistemi di accesso viario all’area urbana Roberto Busonera Unversità degli Studi di Sassari Abstract: The Roman town of Neapolis, in Sardinia. Topographic survey on the road access systems to the urban area. In attempt to reveal and deepen the territorial dimension of Roman cities in Sardinia, this paper aims at focusing on the large-scale road system and the identification of the Roman town of Neapolis, located in the southern front of the Gulf of Oristano. Here, the analysis of the territorial structures reveals a supra-local road network, that arises from the city access terminals. Moreover, the interpretation of the contact points between the urban and extra-urban areas allows the understanding of the interaction between the city and its territory. Evidence from the study reveals an ancient reading oriented towards a rational adaptation of the urban center in line with the morphology and characteristics of the territory. In order to reach a better exploitation of the space and resources, Neapolis shows itself as a coastal town, designed along the natural communication routes, as a suitable adaptation to the characteristics of the territory. La città romana di Neapolis, in Sardegna. Studio topografico sui sistemi di accesso viario all’area urbana. Nel tentativo di rivelare e approfondire la dimensione territoriale delle città romane in Sardegna, si propone uno studio orientato all’individuazione dei sistemi di accesso alla città romana di Neapolis, centro urbano affacciato sul fronte meridionale del golfo di Oristano. Qui, l’analisi sugli assetti del territorio rivela una rete viaria sovralocale sviluppata in ottica propulsiva rispetto ai terminali di accesso alla città. La definizione dei punti di contatto tra ambito urbano ed extraurbano consente di comprendere il rapporto della città con il territorio, evidente dallo studio di testimonianze che rivelano un’antica lettura territoriale orientata ad un adeguamento razionale del centro urbano alla morfologia e alle caratteristiche del contesto. Nell’ottica di un migliore sfruttamento di spazio e risorse Neapolis si mostra quale caposaldo costiero in corrispondenza di assi viari principali e vie di comunicazione naturale: coerente adeguamento alle caratteristiche del territorio. Neapolis, in Sardegna*

interpretare il singolo dato archeologico (sia esso un’area di spargimento, un tratto di muro, un rinvenimento accidentale) quale elemento sufficiente a circostanziare un preciso ambito culturale e definire le prime fasi di frequentazione di un sito, o la paternità del primo atto di pianificazione di un’area urbana. Un approccio che ha evidentemente condizionato la ricostruzione degli assetti insediativi dell’isola e privilegiato specifiche forbici cronologiche, trascurando una visione d’insieme, capace di privilegiare i processi evolutivi delle comunità (e dunque anche delle aree urbanizzate), la loro capacità di adattarsi alle caratteristiche di un territorio e di sfruttarne le potenzialità. Una lacuna solo parzialmente risolta grazie ad una robusta produzione scientifica che, negli anni, ha dissipato alcune forzature interpretative, ma che non ha comunque interessato vaste aree di territorio, e

Si deve riconoscere che la ricerca topografica orientata alla lettura ed interpretazione dei caratteri dell’urbanistica antica, con specifica attenzione a quella di età romana, ed in particolare in Sardegna, ha dovuto spesso confrontarsi con una tradizione di studi di sicuro rilievo scientifico, ma talvolta ancorata al riconoscimento di modelli insediativi statici, riconoscibili grazie a precisi riferimenti formali.1 Una condizione radicata sulla possibilità di *  Questo contributo rappresenta la sintesi di un più ampio lavoro di ricerca sulla città antica di Neapolis, in Sardegna. Anche in questa sede, colgo l’occasione per ringraziare tutte le figure che, in modo differente, ma in maniera egualmente importante, hanno contribuito alla raccolta dei dati e dei materiali di studio. 1  Una problematica già denunciata in P. Sommella, «Appunti tecnici sull’urbanistica di piano romana in Italia», in Archeologia Classica, XXVIII, 1976, pp. 10–29. Si veda anche P. Sommella, «Topografia urbana, Urbanistica o Urbanologia? Una proposta metodologica e operativa», in Materiali per una topografia urbana. Atti del V Convegno di Studi sull’archeologia tardo-romana e medievale in Sardegna, Oristano

1995, pp. 47–54, per un esame critico sulle ricostruzioni condotte con esclusivo metodo stratigrafico o attraverso una lettura differenziata delle fasi urbane.

41

Roberto Busonera si è concentrata quasi esclusivamente su aree urbane a continuità di vita.2

priva di un’ipotesi ricostruttiva e funzionale chiara e condivisa.5

È evidente che la carta archeologica, strumento essenziale e ‘miglior contenitore’ dei lavori orientati ad una ricostruzione della storia dei territori, potrebbe rappresentare la risorsa più efficace nel tentativo di risolvere questo annoso problema.3 Riporta, d’altra parte, tutti i dati relativi alle ricerche pregresse ‘di un territorio o di una città’. Ecco, è questo il caso in cui sembra necessario sottolineare questa scelta metodologica che, spesso, sottintende ad uno specifico approccio tematico o conduce alla redazione di un documento vincolato ad una particolare scala di analisi.4 Certamente insufficiente, se il vero obiettivo è la contestualizzazione nel territorio delle azioni dell’uomo in antichità e lo spostamento del peso delle informazioni all’interno di un contesto topografico e, a cascata, geografico, ambientale, storico.

È opportuno specificare che la lettura che si propone non coinvolge i risultati di nuovi scavi o nuove scoperte, ma muove dalla rielaborazione e sistematizzazione delle informazioni note dalle fonti e dagli studi pregressi, che sono risultati essenziali per la comprensione dell’assetto urbano di un sito sostanzialmente romano, dove tutte le strutture indagate rimandano all’età romana, ma che è riconosciuto, e rigidamente attribuito, al periodo feniciopunico.6 In questo senso, la possibilità di riorganizzare i dati a disposizione e di poterne verificare l’affidabilità ‘sul terreno’, grazie ad una consistente mole di materiale cartografico e aero-fotografico, ha consentito di costruire un’efficace opportunità di lettura dell’assetto del territorio antico e di connettere tale organizzazione ad aspetti territoriali cui Neapolis deve aver necessariamente fatto riferimento.7 Non si possono tralasciare neppure le difficoltà nella percezione ed interpretazione di quella che è oggi l’area dell’antica città. La mancanza di un erede urbano contemporaneo impedisce di riconoscere permanenze strutturali o tracce in qualche modo sopravvissute al tempo: la riconversione in area agricola, ed il conseguente utilizzo dei vomeri per la lavorazione del terreno, ha gravemente inficiato le possibilità di indagine di nuovi elementi archeologici, danneggiando in più di un’occasione quanto ancora conservato nel sottosuolo.8 Ora, l’attenzione rivolta ai principali percorsi stradali di ingresso alla città consente di focalizzare l’attenzione su un sistema infrastrutturale capace tanto di incidere sull’organizzazione spaziale del centro urbano, quanto di comprendere la complessità insediativa di tutta l’area del golfo di Oristano, ed individuare alcuni criteri essenziali e relativi ad un programma insediativo cui anche Neapolis dev’essersi piegata. In quest’ottica acquista particolare significato la conoscenza dell’andamento del perimetro urbano, il cui sviluppo planimetrico, ad eccezione di poche testimonianze, risulta perlopiù incerto. In seguito alle prime indagini di scavo condotte in area urbana, è Spano

Quanto si propone in questo contributo non è che un tentativo di analisi di un’area urbana antica attraverso un punto di vista che non è certamente nuovo, ma che rimane poco praticato dalla critica. Un approccio che si sviluppa attraverso lo studio del settore periurbano della città di Neapolis, localizzata in prossimità della costa meridionale del golfo di Oristano (fig. 6.1), e che coinvolge i terminali della viabilità extraurbana in ingresso e partenza rispetto alla città, nel tentativo di comprendere forza, influenza e sviluppo di un centro urbano nell’ambito di un assetto territoriale antico coerente con strategie insediative che sembrano vincolare l’urbanizzazione del territorio ad una vocazione specificatamente produttiva. Oggi, a seguito di diverse stagioni di studio e scavo, sono stati riportati in luce due edifici termali, un tratto di strada urbana e un’area, cosiddetta ‘monumentale’, che rimane però

Si ricorda principalmente: S. Angiolillo, L’arte della Sardegna romana, Milano 1987; P. Meloni, La Sardegna romana, Sassari 1990; La Sardegna e la sua storia (a cura di A. Mastino), II, Nuoro 2005 e, più recentemente, S. Angiolillo, R. Martorelli, M. Giuman, A.M. Corda, D. Artizzu, La Sardegna romana e altomedievale. Storia e materiali, Cagliari 2017. Utile sintesi per uno studio sui principali caratteri architettonici della Sardegna romana è Ghiotto 2005. Si rimanda invece al testo per alcuni riferimenti monografici, utili anche per un confronto con i temi sviluppati in questo lavoro. 3  Sfumatura lessicale utile per comprendere il corretto utilizzo dello strumento. Si veda ancora Sommella, «Topografia...», art. cit. alla nota 1, p. 47: “Corredare con una carta archeologica le indicazioni eseguite in un contesto urbano non significa, ad esempio, identificare i criteri della pianificazione che hanno creato le premesse costruttive di quel complesso in quel determinato punto della città antica”. Sui principi e le possibilità di trattamento dei cosiddetti “dati a valenza topografica” si veda in particolare G. Azzena, «Verso un “modello della realtà” archeologico», in Trattamento di dati negli studi archeologici e storici (a cura di P. Moscati), Roma 1990, pp. 57–73 e G. Azzena, «Topografia di Roma antica: ipotesi per una sistematizzazione dei “dati a valenza topografica”», in Archeologia e Calcolatori, V, 1994, pp. 269–292. 4  Condivisibile a questo proposito quanto esposto in G. Azzena, «Una logica prospettiva», in SITAR. Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma. Atti del I Convegno (a cura di M. Serlorenzi), Roma 2011, pp. 29–39 (in particolare a p. 29) e, più recentemente, in G. Azzena, «Un’illogica retrospettiva» in Archeologia e Calcolatori (supplemento 9), 2017, p. 151 in riferimento allo sviluppo di strumenti tecnologici ed informatici che, a volte, risultano più utilitaristici che realmente utili. 2 

Tra i lavori di ricerca sull’area urbana si rimanda principalmente a G. Spano, «Descrizione dell’antica Neapolis», in Bullettino Archeologico Sardo ossia raccolta dei monumenti antichi di ogni genere di tutta l’isola di Sardegna, V, 9, 1859, pp. 129–137 e Zucca 1987. Più recente, si segnala Busonera 2020. 6  Così in Zucca 1987, p. 52. 7  In ambito cartografico, soprattutto la Carta mineraria dell’isola di Sardegna (con l’indicazione delle miniere concesse ed in esplorazione a tutto il 1870, alla scala di 1:250000), consultabile in L. Pintore, L’isola misurata. La cartografia storica della Sardegna da Alberto Ferrero della Marmora all’Istituto Geografico Militare, Sassari 2011, p. 68. Utili riferimenti cartografici sono anche pubblicati in L. Piloni, Carte geografiche della Sardegna, Cagliari 1997. Per quanto riguarda il materiale aero-fotografico si fa riferimento soprattutto alle levate delle fotografie aeree risalenti agli anni 1954, 1968, 1977, consultabili al sito SardegnaFotoAeree: http://www.sardegnageoportale.it/webgis2/ sardegnafotoaeree/ (ultimo accesso 31 ottobre 2020). 8  L’opera di bonifica che nel XX secolo ha interessato il golfo di Oristano ed i territori del comune di Arborea ha chiaramente compromesso la leggibilità archeologica e la possibilità di portare a compimento regolari campagne di survey estensivo. Una sintesi sulle vicende che interessarono il territorio è proposta in G.G. Ortu, «Bonifica agraria e modernizzazione industriale nell’Italia del primo Novecento: il caso sardo», in Rivista Storica Italiana, CXV-I, 2003, pp. 149–170. 5 

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La città romana di Neapolis, in Sardegna

Figura 6.1. Golfo di Oristano. Inquadramento e localizzazione dell’area di Neapolis (elab. dell’autore).

il primo studioso a fornire una descrizione della città antica e suggerire la presenza di una cinta muraria lunga tre miglia romane (dunque, circa quattro km).9 Aggiunge che tale ipotesi sarebbe confermata dal ritrovamento “di doppie costruzioni di massi squadrati di pietra arenaria” in corrispondenza dei salti di quota dovuti ai pendii sui fronti settentrionale ed occidentale dell’area urbana. Diversi anni più tardi non rimarrà traccia delle strutture citate da Spano, ma un rinnovato interesse nei confronti di Neapolis, culminato in una proficua stagione di ricerca coordinata da Raimondo Zucca, condurrà all’individuazione di ulteriori elementi strutturali. Si tratta, nello specifico, di alcuni blocchi di arenaria e calcare di notevoli dimensioni (non squadrati), individuati non in situ, ma in corrispondenza del terrapieno che cinge l’area urbana lungo il suo limite settentrionale.10 Qui, nella sezione artificiale del pianoro 9 

su cui si sviluppò il centro urbano, è stato individuato un ulteriore elemento in arenaria di notevoli dimensioni, provvisto di bugna decentrata, che confermerebbe la presenza di una linea di fortificazione, utile a definire i limiti settentrionali della città.11 Il rinvenimento di un insieme di resti discontinui di muratura, i cui elementi appaiono messi in opera senza l’ausilio di malta o altri leganti, sembra suggerire la presenza di un tratto di mura urbane anche sul versante occidentale, pur in considerazione della sostanziale differenza con la tecnica costruttiva descritta da Spano.12 Le poche attestazioni non consentono di definire 11  Segnalato per la prima volta in F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari 1986, p. 125. 12  Cfr. Zucca 1987, pp. 99–100: l’indicazione di Spano non è sufficiente per comprendere in quale settore dell’area urbana siano stati individuati i resti di mura e, dunque, non è possibile capire se si tratti delle stesse strutture descritte da Zucca. Si aggiungono le difficoltà di assegnare una precisa cronologia ai resti rinvenuti, sebbene si possa anche ipotizzare che la cortina difensiva di Neapolis sia stata costruita in due o più fasi (cfr. Zucca 1987, p. 100). Il tema rimanda ad una più generale discussione

Cfr. Spano, «Descrizione...», art. cit. alla nota 5, p. 130. Cfr. Zucca 1987, p. 99; Busonera 2020, p. 33.

10 

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Roberto Busonera

Figura 6.2. L’immagine aerea (1954) consente di distinguere con chiarezza i probabili confini dell’area urbana. Le ombre e le gradazioni cromatiche permettono di leggere l’andamento del perimetro urbano, orientativamente circolare. (http://www.sardegnageoportale.it/webgis2/sardegnafotoaeree/http://www.sardegnageoportale.it/webgis2/sar degnafotoa ree/ - ultimo accesso 31 ottobre 2020).

un ‘modello costruttivo’13: i rinvenimenti archeologici di Neapolis rimandano ad un riuso (magari parziale) di opere difensive di età precedente, sebbene la testimonianza di Spano riconosca una coerenza tecnica e formale con le strutture studiate a Tharros e Porto Torres (Colonia Iulia Turris Libisonis), entrambe di età imperiale.14

Un’informazione che, seppur meno evidente, traspare anche dalle immagini più recenti e che conferma un andamento tutto sommato circolare del perimetro urbano, conforme alla morfologia del territorio. Non stupisce, allora, che anche la localizzazione delle principali aree di necropoli corrisponda a settori che ora appaiono periurbani sebbene, sovrapposta al presunto limite fortificato di nordest, e parzialmente intra moenia, sia stata rinvenuta un’area destinata a sepolture: un fenomeno consueto in antichità, dovuto a differenti momenti di espansione e contrazione delle città, e che a Neapolis confermerebbe una progressiva sostituzione di aree urbane con altre a destinazione funeraria.15 In sintesi, sebbene non sia possibile una ricostruzione archeologica e puntuale dell’andamento del perimetro urbano, sono comunque disponibili numerose indicazioni che consentono di ipotizzarne l’estensione di massima e che contribuiscono a restituire l’immagine di una città coerente, per forma e dimensioni, con i principali centri costieri della Sardegna romana.16 Una soluzione tecnica e culturale che, pur con alcune distanze dal punto di vista infrastrutturale, indirizza il centro neapolitano verso una

Se i dati archeologici contribuiscono alla ricostruzione dei limiti settentrionale e occidentale della città, l’analisi delle immagini satellitari ed il confronto tra le levate permette di ipotizzare l’andamento del perimetro urbano in corrispondenza dei settori meridionale ed orientale. In particolare, le differenti gradazioni cromatiche e la lettura della divisione dei terreni rappresentate dall’ortofoto risalente al 1954 sono sufficienti a far emergere, da un punto di vista percettivo, l’area dell’antica città (fig. 6.2).

sulle fortificazioni in opera quadrata, frequenti in Sardegna e spesso attribuite a fasi puniche, e per questo si fa riferimento a G. Azzena, «Osservazioni urbanistiche su alcuni centri portuali della Sardegna romana», in L’Africa Romana, XIV (II) (a cura di M. Khanoussi, P. Ruggeri, C. Vismara), Roma 2002, pp. 1100–1101. Per una valutazione sulle opere difensive della Sardegna romana: Ghiotto 2005, pp. 23–31; P.G. Spanu, «L’uso del bugnato nella Sardegna medievale», in Materiali per una topografia urbana, status quaestionis e nuove acquisizioni. Atti del V Convegno sull’archeologia tardoromana in Sardegna (CagliariCuglieri, 24–26 giugno 1988), Oristano 1995, pp. 69–101. 13  Anche in questo caso si dovrà considerare un cospicuo numero di contributi scientifici sulle tecniche edilizie delle fortificazioni di età punica e medievale, ma riscontrare, d’altra parte, una letteratura limitata per le opere difensive di età romana. Cfr. Ghiotto 2005, p. 23. 14  In riferimento all’area di Tharros cfr. E. Acquaro, C. Finzi, Tharros, Sassari 1986 e A. Mezzolani, «Riflessioni sull’impianto urbano di Tharros», in Ocnus, II (1994), pp. 115–127. In relazione alla Colonia Iulia Turris Libisonis si rimanda principalmente a Porto Torres. Colonia Iulia Turris Libisonis. Archeologia Urbana (a cura di A. Boninu, A. Pandolfi), Sassari 2012.

15  Cfr. Zucca 1987, p. 102; Busonera 2020, p. 34. Ad eccezione di materiali ceramici rinvenuti nei settori periurbani della città antica e per cui si rimanda agli studi sviluppati da E. Garau («Da Qrthdsht a Neapolis. Trasformazioni dei paesaggi urbano e periurbano dalla fase fenicia alla fase bizantina», Ortacesus 2006) non sono state individuate aree di sepoltura di epoca punica (cfr. anche Zucca 1987, p. 100). Sulla pianificazione e la scelta delle aree a destinazione funeraria di Turris Libisonis si veda anche: A. Boninu, A. Pandolfi et alii, «Colonia Iulia Turris Libisonis. Dagli scavi archeologici alla composizione urbanistica», in L’Africa Romana. Le ricchezze dell’Africa. Risorse, produzioni, scambi. Atti del XVII convegno di studio (Siviglia, 14–17 dicembre 2006) (a cura di J. González, P. Ruggeri, C. Vismara, R. Zucca), III, Roma 2008, pp. 1776–1818. 16  Si veda la fig. 1 (p. 1105) in Azzena, «Osservazioni...», art. cit. alla nota 12.

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La città romana di Neapolis, in Sardegna

Figura 6.3. Neapolis, le frecce bianche indicano la traccia lasciata dal passaggio della via a Tibulas Sulcis, strada di accesso al settore settentrionale della città (elab. dell’autore).

precisa scelta urbanistica, dipendente dall’interpretazione e dalla possibilità di sfruttamento delle peculiarità del territorio.17 È soprattutto in quest’ottica che lo studio sui principali sistemi di accesso alla città può contribuire ad una seria valutazione sull’attribuzione cronologica del primo atto di reale pianificazione del centro urbano, ed essere preso in considerazione tra i criteri utili alla lettura di un preciso sistema di organizzazione territoriale.

La strada antica si inseriva nella complicata struttura insediativa del golfo di Oristano dopo aver lasciato Tharros e aver raggiunto Othoca, attraverso un percorso litoraneo lungo circa 12 miglia.19 Qui, la via proseguiva in direzione sud, attraversando l’area bonificata di Arborea e raggiungendo Neapolis in corrispondenza del versante settentrionale della città.20 Il suo ingresso in area urbana è ampiamente documentato sia nell’ambito dello studio e dell’osservazione delle immagini aeree, sia in merito alla documentazione archeologica. Nel primo caso, la traccia della strada antica è facilmente percepibile grazie all’osservazione delle immagini satellitari (fig. 6.3): in corrispondenza della parte mediana dei limiti settentrionali

La via a Tibulas Sulcis Neapolis rappresentava una delle tappe del passaggio della via a Tibulas Sulcis, il cui percorso, grossomodo parallelo alla costa occidentale dell’isola, collegava, per l’appunto, le città di Tibula e Sulci.18

Othoca m. p. XII, Neapolis m. p. XVIII, Metalla m. p. XXX, Sulcis m. p. XXX. La città di Tibula è localizzata presso Capo Testa, lungo la costa nord-orientale della Sardegna, mentre la posizione di Sulci corrisponde a quella dell’attuale Sant’Antioco. 19  Una ricostruzione della viabilità antica tra Tharros ed Othoca è proposta in S. Atzori, «Il reticolo viario al servizio dell’attività delle saline nei territori di Cabras e Terralba», in L’Africa Romana, XVIII (a cura di M. Milanese, P. Ruggeri, C. Vismara), III, Roma 2010, pp. 2155–2167. 20  Da Othoca, varie ipotesi concordano nell’indicare una sostanziale coincidenza della strada antica con la via a Turre Carales e l’aggiramento, sul versante est, della piana di Arborea. Recentemente (cfr. Busonera 2020, pp. 54–58) è stato proposto un percorso alternativo, tutto sommato più veloce e comodo, capace di attraversare l’attuale area bonificata, invece che aggirarla.

17  Lo sviluppo urbanistico di Neapolis in un’area tutto sommato pianeggiante non sembra aver avuto bisogno di terrazzamenti, frequenti nelle opere urbanistiche di età romana (cfr. soprattutto P. Sommella, L’urbanistica romana, Roma 1988 e P. Gros, M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Roma-Bari 1988) ed individuati anche a Turris Libisonis, unica città di certa fondazione romana (I sec. a.C.). 18  Per la lettura del percorso antico si rimanda, in particolare, alle annotazioni dell’Itinerarium Antonini (It. Ant. 5, 83, 1–84,6), che riporta: Item a Tibulas Sulcis m. p. CCLX: Viniolas m. p. XII, Erucio m. p. XXIII, Ad Herculem m. p. XXII, Ad Turrem m. p. XVIII, Nure m. p. XVII, Carbia m. p. XVI, Bosa m. p. XXV, Cornos m. p. XVIII, Tharros m. p. XVIII,

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Roberto Busonera del centro urbano, la strada giunge in città lungo una percorrenza tutto sommato rettilinea, che consente di seguirne agilmente il percorso. Tale interpretazione è confermata da un punto di vista archeologico, ed è ancora Spano, che descrive un largo passaggio (7 m ca.) costituito da grandi lastre e con una pavimentazione realizzata in pietrame grezzo di medie e piccole dimensioni, mentre conci più grandi venivano probabilmente utilizzati come rinforzo del bordo stradale.21

porto della città antica.23 Lo stesso porto che Schmiedt, invece, ipotizza lungo la strada, secondo una soluzione apparentemente comune ad altre località della Sardegna, e rimandando alla presenza di un argine che attraverserebbe lo stagno sovrapponendosi, in qualche modo, al percorso stradale.24 In questo momento, le difficoltà di una conferma archeologica non consentono di avvalorare una o l’altra ipotesi. L’unica interpretazione condivisa e prevalente rimanda all’importanza della strada antica, elemento ordinatore di tutto il settore periurbano e settentrionale della città, ma, come si vedrà in seguito, riferimento essenziale anche in merito alla sua organizzazione topografica intra moenia.

Le caratteristiche paludose del fondo su cui la strada poggiava hanno reso particolarmente complicata la conservazione dei materiali lungo tutto il suo percorso di attraversamento della laguna, e sebbene ancora oggi siano percepibili alcune tracce del suo passaggio, rimangono poche testimonianze materiali capaci di confermarne con sicurezza la presenza. È dunque opportuno fare affidamento alle attendibili ricostruzioni di della Marmora, Benetti e Schmiedt, che consentono non solo di ricomporre il percorso viario in prossimità della città, ma di confermarne l’importanza nell’ambito di un assetto territoriale di sicuro rilievo, al punto da conservare un certo grado di funzionalità fino a tempi recenti.22

La rete viaria periurbana dei settori est e ovest Certamente più complessa è la ricostruzione di ulteriori vie di accesso alla città. L’Itinearium Antonini e quello dell’Anonimo Ravennate testimoniano un collegamento viario diretto tra Neapolis e Metalla (la Sartiparias dell’Antonimo Ravennate), distante circa 30 miglia in direzione sud. Anche in questo caso, l’assenza di testimonianze archeologiche non permette di ipotizzare eventuali vie di accesso sul versante meridionale, e la presenza del massiccio montuoso del Sulcis, alle spalle del centro urbano, giustificherebbe ulteriormente l’individuazione di un percorso alternativo, magari aggirante e tangente rispetto alle pendici orientali dell’area montuosa.25 È a tale proposito che può essere utile recuperare un’ulteriore testimonianza di Spano, relativa ad un lungo tratto di strada lastricata visibile ad est della città, a breve distanza da quello che si suppone essere il perimetro urbano.26 Per quanto affidabile, l’indicazione di Spano non ha consentito di individuare con precisione il tratto di strada antica, probabilmente perduto a causa del passaggio (per lungo tempo ed in questo caso dannoso) di macchinari agricoli. Autorizza però alcune ipotesi: prima di tutto permette di immaginare un ingresso in città sul fronte est e di stabilire dunque un ulteriore punto di collegamento

L’autorevole testimonianza di della Marmora, attraverso la Carta mineraria dell’Isola di Sardegna (1854), non solo conferma la localizzazione delle “Rovine di Neapolis”, ma riporta anche la dicitura “Stradone romano”, chiaro riferimento alla via a Tibulas Sulcis e al suo percorso di ingresso alla città, apparentemente indicato con una linea tratteggiata. Più chiara la ricostruzione topografica proposta da Benetti, che rappresenta un ampio areale (Neapolis, chiaramente) attraversato da una larga strada rettilinea proveniente da nord e capace di attraversare la laguna; riporta una suggestiva didascalia, che lascia ipotizzare la presenza di un ponte, oggi non più visibile. Da qui, è possibile leggere, neppure tanto tra le righe, una particolare articolazione nella capacità organizzativa del settore periurbano a nord della città. La presenza di un ponte lungo il percorso stradale, confermata, tra l’altro, da altri studi, è giustificata da necessità di superamento della laguna, ma può altresì indicare un particolare punto di passaggio ed attraversamento in corrispondenza di un ampio bacino circolare (riconoscibile dalla fotografia aerea), cui potrebbe essere anche attribuito il ruolo di

23  Il ponte è probabilmente quello segnalato in: V. Angius, «Guspini», in Dizionario storico, geografico, statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, III (a cura di. G. Casalis), Torino 1841, p. 307; F. Fanari, «L’antico porto di Neapolis – S. Maria di Nabui, Guspini (CA)», in Quaderni della Soprintendenza archeologica di Cagliari, 6, 1989, p. 126. Si veda anche Busonera 2020, pp. 70–72. La morfologia del settore indagato richiama una forma comune e ricorrente negli studi di topografia marittima e nautica, ma in questo caso si tratta di un’ipotesi che ancora attende una conferma archeologica. Si ricorda il confronto proposto da della Marmora tra il porto di Neapolis e quello di Tunisi (della Marmora, Viaggio..., op. cit. alla nota 22, p. 164), utile per giustificare tale ipotesi. 24  È soprattutto in Spano («Descrizione...», art. cit. alla nota 5, pp. 131–132) che viene proposto un confronto con Sulci, dove “il ponte […] serviva da molo”. Sul porto di Sulci cfr. G. Spano, «Descrizione dell’antica città di Sulcis», in Bullettino Archeologico Sardo ossia raccolta dei monumenti antichi di ogni genere di tutta l’isola di Sardegna, III, 4, 1857, pp. 49–55. Un’ulteriore riflessione è proposta in Schmiedt, «Antichi porti...», art. cit. alla nota 22, p. 245. 25  Cfr. Ravennatis Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, (a cura di M. Pinder, G. Partnhey), Berolini1860, p. 411. 26  Così in G. Spano, «Lettera ad Alberto della Marmora e sua risposta sopra un frammento di colonna miliaria», in Bullettino Archeologico Sardo ossia raccolta dei monumenti antichi di ogni genere di tutta l’isola di Sardegna, V, 7, 1859, p. 111: “Questa mia congettura acquista un grado di certezza dall’aver io scoperto un gran tratto di strada ben lastricata, fuori dalla città di Neapolis, alla parte orientale”.

Cfr. Spano, «Descrizione...», art. cit. alla nota 5, pp. 131–132. È certo [G. Artudi, S. Perra, «La viabilità antica nel territorio di Terralba», in Terralba ieri e oggi, VIII, 18, 1995, pp. 48–52] che la strada sia stata utilizzata fino agli inizi del XX secolo, quando ancora risultava ben conservata. Veniva percorsa dai contadini e dagli abitanti del vicino paese di Terralba, quale comodo collegamento per raggiungere la borgata di S. Antonio di Santadi, a breve distanza da Neapolis. Per quanto riguarda le ricerche citate si ricorda principalmente A. della Marmora, Viaggio in Sardegna, II, Nuoro 1995. In questo caso, il riferimento è all’edizione del 1995, tradotta da Manlio Brigaglia. La prima pubblicazione Vojage en Sardaigne risale al 1826, mentre del 1828 è la prima traduzione italiana, ad opera di Valentino Martelli. Un utile contributo è rappresentato dalla ricerca di Benetti, che permise di stendere, nel 1905, uno schizzo topografico della città antica da cui risultano il perimetro urbano, un tempio, le grandi terme di S. Maria di Nabui, l’acquedotto e la strada di ingresso sul fronte nord (cfr. A. Taramelli, Guida del Museo Nazionale di Cagliari, Cagliari 1914, pp. 2–3). Infine, si ricorda anche G. Schmiedt, «Antichi porti d’Italia», in L’Universo, 45, pp. 225–258. 21  22 

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La città romana di Neapolis, in Sardegna

Figura 6.4. Carta mineraria dell’isola di Sardegna (con l’indicazione delle miniere concesse ed in esplorazione a tutto il 1870, alla scala di 1 : 250.000). Nell’immagine è indicata S.M. de Nabui ed una strada che, sul fronte est rispetto alla città, si divide in due percorrenze apparentemente indipendenti. (Piloni, Carte geografiche..., op. cit. alla nota 7, pp. 286–287).

Baccas (località Putzu Nieddu), l’incrocio ‘a forchetta’ (fig. 6.5).27 La strada proveniente dal settore orientale di Neapolis, si divide in due percorrenze separate: una sembra deviare leggermente verso nord, per poi piegare a sud, lungo l’asta del fiume Sitzerri e probabilmente condurre alle Acque Neapolitane28; l’altra si dirige con decisione verso sud, probabilmente giungendo a Metalla lungo una percorrenza coincidente con la Strada Provinciale (SP) 65, che ancora oggi riporta, per un breve tratto, il nome della ‘Strada Santa Maria di Neapolis’.

tra il centro urbano ed il territorio; in secondo luogo, è possibile che la strada, attraverso un percorso più lungo, ma di certo più semplice, seguisse una traiettoria più interna, attraversasse le aree pianeggianti del Campidano e giungesse, dopo circa 30 miglia, a Metalla. Quest’ultima ipotesi sembra confermata dal confronto tra vari documenti cartografici, tutti differenti per tipologia e datazione, ma comunque in grado di restituire una chiara immagine ed alcuni importanti indizi sull’assetto antico del territorio neapolitano. Sul versante orientale di Neapolis, un’insolita conformazione viaria a Y, chiaramente rappresentata dalla Carta mineraria dell’isola di Sardegna (fig. 6.4), consente di individuare un incrocio di traiettorie tra assi viari sovralocali in un settore prossimo ai limiti orientali del centro urbano, ed un’area probabilmente vincolata ad una forte tensione urbanistica, quali sono quelle di convergenza delle strade extraurbane verso passaggi obbligati di ingresso alle città. Le levate cartografiche dell’Istituto Geografico Militare (IGM) relative agli anni 1900, 1919 e 1950 incoraggiano ulteriormente questa lettura, tanto da individuare con chiarezza, in prossimità del nuraghe

Un’ulteriore verifica dei documenti cartografici prodotti dall’IGM consente di individuare la stessa struttura viaria anche nel settore periurbano ed occidentale della città Tutte relative al F. 217 – III. Terralba. Corrispondente all’attuale paese di Sardara, in direzione di Cagliari (Carales). A dispetto dell’affinità toponomastica e dell’appartenenza territoriale, non è accertato un collegamento diretto tra i due centri urbani, ma si sottolinea in questa sede la riflessione in Spano, «Lettera...», art. cit. alla nota 26, p. 112, in cui è comunque ammessa la possibilità di un collegamento diretto tra Neapolis e le Acquae Neapolitane. 27  28 

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Roberto Busonera

Figura 6.6. Un nuovo confronto tra le carte IGM (F. 217 –– III) evidenzia nuovamente la struttura stradale a Y, ma in questo caso ad ovest rispetto alla città antica (elab. dell’autore).

Figura 6.5. Il confronto tra le levate del 1900 (in alto), 1919 (al centro) e 1950 (in basso) della Carta d’Italia dell’IGM (F. 217 –– III) pone in risalto la particolare conformazione stradale a Y, ad est di Neapolis (elab. dell’autore).

extraurbani, prossimi alle più importanti risorse naturali e a cui l’impianto urbano deve essersi necessariamente piegato. Le possibilità di ricostruzione dell’assetto della città di Neapolis sarebbero da rimandare all’incontro di due strade principali, non necessariamente ortogonali, ma convergenti in area urbana e capaci di influenzare gli orientamenti di tutte le strutture indagate fino a questo momento. In particolare, alla percorrenza proveniente da nord (via a Tibulas Sulcis) si potrebbe attribuire il ruolo di asse matrice dell’intero impianto: superato il settore lagunare a nord della città, avrebbe sancito con essa un rapporto funzionale che rimanda non solo ad alcuni, importanti, esempi isolani, ma a numerosi altri casi di città evidentemente influenzati, quando non direttamente originati, da un’importante percorrenza extraurbana.29

antica. Anche in questo caso, a breve distanza dai limiti urbani e provenienti dall’area costiera, sono riconoscibili due percorrenze confluenti in un’unica via che entrerebbe in città sul versante ovest (fig. 6.6). Un nuovo confronto con la carta mineraria non solo conferma tale organizzazione viaria, ma consente di ricostruire un’infrastruttura ‘a specchio’, in cui i due crocicchi (quello ad ovest e quello ad est della città antica) definiscono un’unica percorrenza che attraversa Neapolis collegando fronti urbani opposti e definendo le aree di ingresso e partenza rispetto alla città sui versanti orientale e occidentale (fig. 6.7). È probabile che questa via corrisponda alla strada non asfaltata che oggi attraversa l’area archeologica, potenziale asse antico di definizione spaziale del corpo urbano. Il percorso rettilineo della via appare costante, se si esclude una leggera curvatura verso sud, che potrebbe anche esser causata da un più recente adeguamento alla divisione catastale dei terreni agricoli. Ora, in linea puramente teorica, il probabile incrocio di questa strada con quella proveniente da nord aiuterebbe a definire un’organizzazione solitamente caratteristica per organismi urbani di chiara impostazione romana e permetterebbe di comprendere con lucidità quanto la pianificazione della città non sia dipesa da un rigido modello tecnico, ma da una puntuale cura nella progettazione dei sistemi di collegamento primari ed

29  Si rimanda agli esempi di Sulci dove, superato lo stagno Sant’Antioco, la strada si innesta nell’impianto urbano; Turris Libisonis, evidentemente connessa al settore industriale occidentale per mezzo di un lungo ponte a sette arcate, che rappresenta la principale infrastruttura di ingresso alla città; infine Forum Traiani accessibile anch’essa da un imponente ponte sul versante nord. Per un approfondimento (con relativa bibliografia) sugli impianti urbani di Tarracina, Fundi, Formiae, Minturnae e Sinuessa, si veda anche: G. Azzena, «Il territorio: sistemi di comunicazione ed infrastrutture», in Atlante del Lazio antico. Un approfondimento critico delle conoscenze archeologiche (a cura di P. Sommella), Roma 2003, pp. 109–140.

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49 La città romana di Neapolis, in Sardegna

Figura 6.7. Ricostruzione ipotetica su base IGM del sistema viario in ingresso e partenza rispetto alla città antica (elab. dell’autore).

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7 Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia Paola Guacci Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria, Università del Salento Abstract: Field survey research and cost surface analysis for the study of the via Herculia in Hirpinia. The aim of this paper is to highlight the great results achieved by integrating the traditional research method with GIS spatial analysis in order to reconstruct the ancient via Herculia in Hirpinia (Campania NE, Italy). The route was built by Diocletian and Maximian to connect the Sannio Pentro area, where is located the caput viae of Aufidena, with Lucania, in southern Italy. The route differs from the most famous Irpinian track of via Appia and via Traiana for being less popular in historical sources. Roman Itineraria never expressly mention the via Herculia: its name is known only through some milestones dating back to the age of Maxentius and related to some restorations carried out at the beginning of the 4th century AD. This study analyzes same unpublished data derived from: a cost surface analysis; a review of the historical bibliography in order to reposition the missing milestones; the carrying out of archaeological survey; the analysis of ancient infrastructure potentially linked to the via Herculia such as the remains of a bridge over the Lavella river. Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia. Il contributo vuole sottolineare l’utile integrazione tra il metodo di ricerca tradizionale ed analisi spaziali del tipo cost surface analysis al fine di ricostruire l’antica via Herculia in Hirpinia. La via publica fu realizzata da Diocleziano e Massimiano per collegare il Sannio Pentro, dove si trova il caput viae di Aufidena, con la Lucania, nell’Italia meridionale. In area irpina, il percorso risulta essere meno famoso delle celebri via Appia e via Traiana. Gli itineraria romani, infatti, non menzionano mai espressamente la via: il suo nome è noto solo attraverso alcune pietre miliari risalenti all’età di Massenzio e relative ad alcuni restauri effettuati all’inizio del IV secolo d.C. Lo studio qui presentato muove dall’analisi dei dati editi cui si aggiungono i recenti risultati derivati dalle indagini geospaziali, dalla ricerca territoriale, dalla revisione della bibliografia storica per la contestualizzazione dei miliari dispersi e dallo studio di infrastrutture potenzialmente legate al passaggio dell’antica via. Via Herculia: analisi della documentazione edita

Venusia1: lungo questa traiettoria, infatti, figurano i futuri caput viae di Aufidena ed Aequum Tuticum ed altre località pertinenti al percorso tetrarchico.

Come si apprende dai miliari attribuiti alla via, l’Herculia fu una via publica risistemata dai tetrarchi Diocleziano e Massimiano l’Erculeo (293-305 d.C.) per collegare il Sannio Pentro con la Lucania attraverso gli unici caput viae attualmente noti di Aufidena (Alfedena, AQ) e di Aequum Tuticum (c.da S. Eleuterio di Ariano Irpino, AV).

Se l’Itinerarium identifica un probabile percorso antecedente l’istituzione dell’Herculia, la Tabula Peutingeriana2, che risulterebbe grossomodo coeva nella sua redazione originaria all’istituzione della via, restituisce un quadro differente tanto che le stationes di Aequo Tutico o Potentia sono raffigurate come pertinenti a percorsi viari differenti (fig. 7.1): Aequum Tuticum è posto in relazione al passaggio della via Traiana, posizionato esattamente

Poco altro si conosce della via. Le fonti itinerarie non citano mai espressamente l’Herculia sebbene sia, oramai, opinione comune individuarla nell’Iter quod a Mediolanum per Picenum et Campaniam ad Columnam citato dall’Itinerarium Antonini, con particolare riferimento al tratto Aufidena, Serni, Boviano, Super Thamari fluvium, Aequum Tuticum, Ad Matrem Magnam, In Honoratianum,

It. Ant. 98, 2–104, 2. Tuttavia, l’Itinerarium propone anche il percorso Ab Equo Tutico per Roscianum Regio, passante sempre per Aequum Tuticum e Venusia (It. Ant. 112, 3–6). 2  Tab. Peut. VI, 4-VII, 1. 1 

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Paola Guacci

Figura 7.1. Tabula Peutingeriana, particolare (da F. Prontera, Tabula Peutingeriana. Le antiche vie del mondo, Firenze 2003).

tra Aecae e Forum Novum; Potentia è una statio lungo il tratto lucano della via Herculia, o meglio della via Appia, al pari della stessa Venusia.

a trasmettere il nome antico della via (viam Herculiam ad Pristinam faciem restituit). A dispetto di quanto documenta la Tabula Peutingeriana, quindi, la via Herculia nel IV secolo d.C. era un’arteria esistente ed utilizzata, tanto da necessitare di continui restauri, e l’Hirpinia, da sempre settore nevralgico per gli spostamenti verso il sud della penisola, aveva bisogno di mantenere attivo e fruibile il percorso stradale. Del resto, l’esistenza di altri miliari sempre riferibili a restauri di IV secolo, ma pertinenti alle via Traiana, via Appia e via Herdonitana, ci dà prova che gli interventi di ripristino sull’Herculia non furono estemporanei ma rientrarono in provvedimenti programmatici ed estesi in tutta l’Hirpinia.8 Il posizionamento dei miliari attribuiti all’Herculia tratteggia in maniera efficace il percorso che la via avrebbe effettuato per raggiungere la Basilicata9, passando per l’area irpina dove si conta la maggior parte di termini stradali (fig. 7.2).

Un ulteriore accenno alla via si ricava dagli Acta Sanctorum Septembris3, una raccolta di scritti agiografici raggruppati in epoca moderna. Nella Storia dei dodici martiri di Hadrumentum si legge che dodici cristiani furono martirizzati, durante il loro viaggio dalla città tunisina di Hadrumentum in Italia, lungo il percorso Potentia-Venusia-Velinianum-Sentianum. Tali martirii sarebbero accaduti proprio sotto Massimiano ed è, quindi, suggestivo riconoscere in questo tragitto alcuni segmenti della via Herculia di nuova istituzione. Non solo il silenzio delle fonti storiche. Nel caso dell’Herculia, differentemente dalle più note via Appia e via Traiana sempre passanti per l’Hirpinia, la ricostruzione topografica stenta ad avvalersi dei consueti strumenti di ricerca: né la cartografia storica né la fotografia aerea offrono un concreto indizio, rendendo la via Herculia in Hirpinia un percorso di difficile ricostruzione.

In particolare, dal tratto compreso tra Ariano Irpino e Zungoli/Monteleone di Puglia provengono sei cippi, di cui tre con la doppia distanza da Aufidena e da Aequum Tuticum: il miliario da loc. La Starza Piccola al II miglio da

L’analisi dei miliari attribuiti al tratto irpino della via ha, dunque, rappresentato il vero punto di inizio nello studio dell’antico percorso. Oltre alle nozioni topografiche, che vedremo più avanti, i miliari irpini contengono interessanti informazioni storiche, le uniche in nostro possesso: mi riferisco sicuramente ai miliari relativi all’istituzione della via, quelli posti ‘a firma’ dei tetrarchi Diocleziano e Massimiano4, ma soprattutto quelli riguardanti i periodici restauri che la via necessitò nel corso del IV secolo d.C., dapprima con Massenzio5 (309 d.C.), poi con Flavio Gioviano6 (363-364 d.C.) e, presumibilmente, anche con Teodosio, Arcadio ed Onorio (392-393 d.C.) se consideriamo pertinente all’Herculia il miliario CIL X, 6967 da Melfi. Tra questi, meritano un particolare accenno i quattro miliari dell’epoca di Massenzio, di cui due provenienti dal territorio lucano7, perché sono gli unici

8  All’età di Costantino (306–337 d.C.) si datano le attività di restauro promosse lungo la via Traiana e testimoniate dal miliario rinvenuto in loc. Pietrobove di Casalbore, in provincia di Avellino (cfr. G. Ceraudo, «Miliari della via Traiana in Hirpinia: un aggiornamento epigrafico e topografico», in JAT, XII, 2012, pp. 95–106) e quello schedato in CIL IX, 6006-6007; lungo la via Appia con i miliari da Arpaia (CIL IX, 5987 e 5993). Per il tratto irpino della via Herdonitana, rifacimenti stradali di età costantiniana sono trasmessi dal miliario CIL IX, 6060 e CIL IX, 6061, quest’ultimo attribuito a Licinio. Interventi riconducibili a Gioviano, invece, sono noti per la via Appia con il miliario da loc. San Cumano nei pressi di Benevento (T. Vitale, Storia della Regia Città di Ariano e sua diocesi, Roma 1794, p. 19) e per la via Traiana con il miliario da loc. Santa Maria dei Bossi presso Casalbore (V. Ferrari, «Un nuovo miliario di Gioviano lungo il tracciato della via Traiana in Hirpinia», in Orizzonti. Rassegna di Archeologia, 18, 2017, pp. 115–117). Ulteriori restauri in Hirpinia sono riconducibili al 392–393 d.C., con Teodosio, Arcadio ed Onorio: a questo breve lasso di tempo si datano due miliari da Benevento (CIL IX, 6001–6002); quello proveniente dalla località di Ponte San Marco di Buonalbergo e schedato in CIL IX, 6006–6007 (per uno studio completo: Ceraudo, «Miliari della via Traiana...», art. cit., alla nota 8, pp. 104–105) e quello rinvenuto in loc. San Eleuterio di Ariano Irpino, nei pressi di Aequum Tuticum (CIL IX, 6014), tutti riferibili alla via Traiana. 9  Per il territorio molisano: B. Sardella, «Un nuovo miliario dei Primi Tetrarchi dalla direttrice del tratturo Pescasseroli-Candela: considerazioni sulla Via Herculia in Molise», in Orizzonti. Rassegna di Archeologia, XV, (a cura di L. Quilici, S. Quilici Gigli), Roma 2014, pp. 81–85; per l’area beneventana: J. Patterson, Samnites, Ligurians and Romans, Circello 1988; per l’area lucana: Lungo la via Herculia, (a cura di C.A. Sabia, R. Sileo), Lagonegro 2013, con precedente bibliografia.

Acta Sanct. 1, 129–155. In particolare, CIL IX, 6056; il miliario da Masseria Intonti (Silvestrini 1994) e da loc. Taverna-San Cesareo di Zungoli (Ceraudo, Ferrari 2016). 5  In particolare, il miliario da loc. La Starza Piccola [M. Silvestrini, «Epigraphica: testi inediti dall’agro di Lucera e un nuovo miliario di Massenzio della via Herculia», in Studi in onore di A. Garzetti (a cura di C. Stella, A. Valvo), Brescia 1996, pp. 431–462] e quelli schedati in CIL IX, 6058–6059. 6  CIL IX, 6057. 7  Da Venosa (CIL IX, 6066) e da Lagopesole (CIL IX, 6067). 3  4 

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Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia

Figura 7.2. Posizionamento dei miliari della via Herculia, rinvenuti in Molise (in ciano), in Campania (in rosso), in Puglia (in bianco) ed in Basilicata (in giallo). (elab. dell’autrice; dati mappa: ©2019 Google).

Aequum Tuticum10; il miliario oggi disperso ma posto al VII miglio dallo stesso vicus, almeno secondo le indicazioni del Romanelli11; il successivo miliario da Masseria Intonti all’VIII m.p. da Aequum Tuticum12; il miliario da località Taverna, Contrada San Cesareo di Zungoli posto al XII miglio13; i miliari schedati rispettivamente presso Masseria Susanna di Zungoli14 e presso la chiesa di Monteleone di Puglia15 (FG), privi del numerale di riferimento. Il loro posizionamento, anche in rapporto alle distanze riferite, ha consentito di ipotizzare un percorso differente da quello convenzionale proposto da Buck16, il quale riconosceva il

passaggio della via Herculia, dopo Aequum Tuticum, sul moderno tratturo Foggia-Camporeale (fig. 7.3). In realtà proprio lo studio dei miliari irpini, scoperti e/o pubblicati tutti dopo il lavoro di Buck, ha suggerito che l’Herculia avesse attraversato la valle del Cervaro rasentando il confine tra Campania e Puglia secondo la seguente traiettoria17: superato il caput viae di Aequum Tuticum, l’Herculia si sarebbe diretta verso loc. la Starza Piccola (II m.p.) e da qui, con direzione sud est, loc. Pezza della Spina-Masseria Intonti (VIII m.p.) per poi dirigersi verso la località zungolese di Taverna-San Cesareo di Zungoli (XII m.p.).

Silvestrini, «Epigraphica: testi inediti...», art. cit., alla nota 6. D. Romanelli, Antica topografia istorica del Regno di Napoli, Napoli 1818, pp. 537–538. 12  Gangemi 1987, p. 121, nota 57; Silvestrini 1994. 13  Ceraudo, Ferrari 2016. 14  CIL IX, 6058. 15  CIL IX, 6059. 16  R. J. Buck, «The Via Herculia», in PBSR, 39, 1971, pp. 66–87; R. J. Buck, «The ancient roads of southeastern Lucania», in PBSR, 43, 1975, pp. 98–117. Una prima analisi sulla via Herculia è, tuttavia, contenuta nel Corpus Iscriptionum Latinarum (volume IX), in cui T. Mommsen raccoglie, sotto la voce «Via Herculia ab Aequo Tutico in Lucaniam» tutte le epigrafi relative all’asse viario (CIL IX, pp. 599–600). Oltre a quelli citati in questo contributo, Mommsen censisce i miliari provenienti da: Melfi (CIL IX, 6062, 6063, 6064), Lavello (CIL IX, 6065), Venosa (CIL IX, 6066), Lagopesole (CIL IX, 6067), Sala Consilina (CIL IX, 6068 e 6069), Marsico Nuovo (CIL IX, 6070), San Sossio Baronia (CIL IX, 6060) e Trevico (CIL IX, 6061), questi ultimi due poi riferiti alla via Aurelia Aeclanensis (cfr. Silvestrini 1994 e Gangemi 1987). Si segnalano, inoltre, gli studi di E. Kirsten, «Viaggiatori e vie in epoca greca e romana», in Vie di Magna Grecia, Atti del II Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 14–18 ottobre 1962), Napoli 1963, pp. 145– 146; G. Lugli, «Il sistema stradale della Magna Grecia», in Vie di Magna Grecia, Atti del II Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 14–18 10 

Il contributo delle cost surface analysis alla ricostruzione topografica

11 

Gli studi più recenti relativi al tratto irpino della via Herculia sono orientati a perfezionare l’ipotesi di partenza attraverso l’acquisizione di dati inediti derivati da: a) l’elaborazione di una cost surface analysis o analisi del costo di superficie; b) un riesame della bibliografia storica necessaria per riposizionare i miliari scomparsi18; c) lo svolgimento di indagini territoriali, che per il momento stanno interessando il tratto San Eleuterio di Ariano IrpinoScampitella; d) l’analisi di infrastrutture potenzialmente

ottobre 1962), Napoli 1963, pp. 30–36; K. Miller, Itineraria Romana. Römische Reisewege an der hand der Tabula Peutingeriana, Roma 1964. 17  Ceraudo, Ferrari 2016. 18  Guacci 2020.

53

Paola Guacci

Figura 7.3. Posizionamento dei miliari rinvenuti in area irpina e ricostruzione ipotetica della via Herculia proposta da Buck (elab. dell’autrice).

legate al passaggio della via come i resti di un ponte sul torrente Lavella (fig. 7.4).

least cost path, combinando un insieme di variabili rappresentate dai valori di pendenza del suolo, dalla componente idrografica e dagli elementi storici scelti come punti di passaggio obbligati.

In primo luogo, le cost surface analysis hanno simulato il percorso più efficiente che la via Herculia avrebbe compiuto in area irpina partendo dal vicus di Aequum Tuticum fino all’insediamento di Civita Alta nel comune di San Sossio Baronia.19 Nello specifico, tale elaborazione ha potuto calcolare il tragitto più vantaggioso, il cosiddetto

Le componenti naturali legate all’idrografia ed alla pendenza del terreno, che definiscono il paesaggio attraverso cui transitava la via Herculia in Hirpinia, e le componenti antropiche, rappresentate in primo luogo dai miliari, hanno costituito le variabili di riferimento per la creazione, in ambiente GIS, di un modello di costo.

19  Il tratto attualmente ricostruito con le analisi spaziali è quello da cui provengono i miliari con numerale. Il tratto ricostruito dopo loc. Civita Alta, in direzione Scampitella, è del tutto ipotetico e si basa sull’analisi di preliminari dati inediti recuperati in occasione delle ricognizioni di superficie.

Partendo da un DEM, con risoluzione m 40 × 40, si è generata una ‘mappa Slope’ o ‘mappa delle pendenze’, alla quale si 54

Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia

Figura 7.4. I resti del ponte sul torrente Lavella (foto dell’autrice).

Table 7.1. Gli indici di errore registrati lungo il percorso investigato (elab. dell’autrice) Miliario

Distanza ideale (m)

Distanza simulata (m)

Percentuale di errore (%)

Aequum Tuticum

II m.p.

2.960

2.125,81

16

Aequum Tuticum

VIII m.p.

11.480

11.739,05

2,25

Aequum Tuticum

XII m.p.

17.760

18.134,63

2,10

Caput viae

è sommata la variabile dell’idrografia. Alla rete idrografica è stato attribuito un valore di costo congruo affinché la via potesse attraversare i fiumi solo quando strettamente necessario. Tra le componenti antropiche e come punti di passaggio obbligati con alto valore di costo, sono stati scelti unicamente i miliari con numerale II, VIII, XII. La scelta è stata condizionata proprio dalla trasmissione della distanza in miglia dal vicus di Aequum Tuticum che ha permesso di avere un adeguato confronto metrico nel calcolo del percorso.

via avrebbe compiuto dal caput viae di Aequum Tuticum al miliario di riferimento, e la distanza simulata dall’algoritmo. Bisognerà ricordare che nella stima della percentuale di errore gravano due variabili non trascurabili: innanzitutto, non è noto il punto esatto da cui partiva il conteggio delle miglia in Aequum Tuticum; in secondo luogo, i tre miliari in oggetto rappresentano dei rinvenimenti fortuiti, la cui localizzazione seppur attendibile resta comunque ipotetica e non può corrispondere ad un posizionamento preciso. Se si escludessero tali variabili, il percorso simulato attraverso le analisi di costo restituirebbe un’ipotesi ancora più verosimile.

A tal proposito, la tabella sugli indici di errore dimostra che la ricostruzione derivata dalle analisi di costo conserva una certa affidabilità (tab. 1).

Le cost surface analysis sono risultate del tutto vantaggiose in termini di risultati raggiunti. Innanzitutto, sebbene l’area irpina sia caratterizzata da una geomorfologia irregolare e molto variabile, queste elaborazioni rappresentano il

La percentuale di errore, che in ogni caso si è rivelata molto bassa, deriva dalla differenza tra la distanza reale, che la 55

Paola Guacci primo caso di studio in Irpinia ed hanno, nella fattispecie della via Herculia, aiutato a perfezionare le precedenti ipotesi ricostruttive.

la via Herculia avrebbe proceduto in direzione sudest, verso la collina di Difesa Grande, oltrepassando il Cervaro. In questo tratto compreso tra i due miliari, alcune evidenze reperite sul campo aiuterebbero in una definizione più puntuale del tracciato. Dopo i siti rilevati in loc. La Starza Piccola, un gruppo di insediamenti con necropoli localizzati in loc. Camporeale-Taverna Vitoli sembrerebbero distribuirsi lungo l’ipotetico tracciato che in questo tratto sfrutterebbe il percorso del Regio Tratturo Pescasseroli-Candela proveniente dal territorio di Casalbore-Buonalbergo.

Sfruttando come linea guida il percorso ricostruito attraverso le cost surface analysis, si è potuto inoltre programmare la ricerca sul campo all’interno di uno spazio geografico piuttosto esteso e, allo stesso tempo, si è potuto fruire di un supporto alla ricerca storico-bibliografica necessaria al riposizionamento dei miliari dispersi. Le indagini territoriali

Accanto alle evidenze più sporadiche di materiale edilizio e ceramica comune, si segnalano due siti, localizzati immediatamente a sud della fascia erbosa del Regio Tratturo, già impiantati in età sannitica e sopravvissuti in età romana. Le attestazioni confermano un’occupazione a partire dall’età tardorepubblicana ed imperiale, con estensioni cronologiche fino all’età tardoantica derivate dalla presenza di ceramica sovradipinta. Le testimonianze in loc. Camporeale-Taverna Vitoli riguardano anche due aree di necropoli, in uso in età sannitica ed in età romana e tardoantica, quest’ultima con tombe alla cappuccina.

Le attività di ricognizione territoriale, tutto’ora in corso, interessano attualmente i comuni di Ariano Irpino, Zungoli, San Sossio Baronia, Scampitella, per la provincia avellinese, e Monteleone di Puglia per l’area pugliese. Il punto di inizio delle ricerche territoriali è stato il vicus di Aequum Tuticum in c.da S. Eleuterio di Ariano Irpino, nota mansio lungo la via Traiana e caput viae per la via Herculia. Il survey, le prospezioni geofisiche e mirati voli di ricognizione aerea hanno contribuito a ricostruire l’urbanistica del sito.20 Tra le informazioni acquisite, è il rilevamento in traccia della via Herculia in entrata ed in uscita dal centro romano (figg. 7.5–7.6).

Il nuovo dato emerso dai recenti studi sulla via Herculia in relazione alla possibilità che dopo loc. Camporeale il percorso tardoantico si sarebbe diretto verso la Collina di Difesa Grande, in alternativa a quanto proposto dal Buck, riposa in particolare sul ritrovamento del miliario di Masseria Intonti-Pezza della Spina. Il miliario rinvenuto durante lavori agricoli nel 1962, ma pubblicato solo nel 1994 dalla Silvestrini22, pose subito il dubbio che la via romana avrebbe potuto attraversare la collina di Difesa Grande superando in più punti il Cervaro ed altri piccoli corsi d’acqua.

Oltrepassato Aequum Tuticum, la via si sarebbe diretta verso sud in direzione loc. la Starza Piccola secondo un percorso oggi riproposto da una carrareccia che, seguendo una leggera pendenza, conduce verso l’omonimo vallone. In questa località i rinvenimenti sono relativi alla presenza di alcuni insediamenti rurali, posti a breve distanza l’uno dall’altro, circa m 450 a nord ovest di Masseria La Starza Piccola. Sulla base dei fittili rinvenuti sul campo, il cui limitato spargimento non lascia presupporre un’estensione molto elevata degli insediamenti, si stima un’occupazione dell’area che per il momento non va oltre il II-III secolo d.C. Tali siti si rilevano non lontano dal luogo del rinvenimento del miliario scoperto in loc. La Starza Piccola nel 1994.21 Il cippo, una soglia nella sua originaria funzione, riporta la distanza di circa 77 miglia da Aufidena e per la menzione di Massenzio può essere associato al gruppo di miliari relativi ai restauri sull’Herculia realizzati dall’imperatore nel 309 d.C.

Ora per la collina di Difesa Grande il miliario da Masseria Intonti non sarebbe l’unico. Infatti, esso sarebbe preceduto dal cippo, oggi scomparso, ma segnalato nel XVIII secolo dal Romanelli con la distanza «ab Aufidena LXXXII – ab Aequo M(agno) VII».23 I dati derivati dalle analisi di costo ed un’attenta rilettura della bibliografia storica aiutano ad identificare l’area del probabile rinvenimento/ posizionamento dell’iscrizione con un limitato pianoro (m 685-687 s.l.m.), su cui oggi insistono le Masserie Ciccotti e Sabbatino.24 Il survey condotto nei pressi di Masseria Intonti ha restituito evidenze molto simili a quelle rilevate in loc. Camporeale-Taverna Vitoli per la presenza di insediamenti rurali di età romana non molto estesi, posti a distanza ravvicinata. L’area sembra tuttavia già essere frequentata in età protostorica, mentre le attestazioni più tarde non sembrano andare oltre il III secolo d.C.

Considerando come successivo punto fermo nella ricostruzione del tracciato, il miliario con numerale VIII (da Aequum Tuticum) scoperto presso Masseria Intonti, 20  Per le attività di ricerca sul vicus romano: G. Caldarola, L. Castrianni, G. Ceraudo, I. Ditaranto, V. Ferrari, I. Gennarelli, F. Pericci, «Reading an ancient vicus with non-invasive techniques: integrated terrestrial, aerial and geophysical surveys at Aequum Tuticum (Ariano Irpino-Av)», in APol, 53, 2015, pp. 263–267. 21  La località è nota anche per il rinvenimento dell’iscrizione AECULANIEN[SES] MANIBUS C. CAESARI[S AUG(USTI) F.] DIVI NEPOTIS, una dedica degli abitanti di Aeclanum (Mirabella Eclano) ai Mani di Gaio Cesare, figlio adottivo di Augusto, morto nel 4 d.C. in Licia mentre si apprestava a ritornare in Italia (N. Flammia, Storia della città di Ariano Irpino dalla sua origine sino all’anno 1893, Ariano 1893, p. 119; vedi anche M. Silvestrini, «Relazioni irpine dei Seppii di ordine senatorio e un’epigrafe eclanense per i mani di Gaio Cesare», in MEFRA, 109, n. 1, 1997, p. 14 e ss.).

Segue al miliario di Masseria Intonti il miliario di Taverna-c.da San Cesareo di Zungoli, località sita lungo il Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, a S della collina di Difesa Grande. Nel tratto compreso tra i due Silvestrini 1994. Romanelli, «Antica topografia...», op. cit., alla nota 12. 24  Guacci 2020. 22  23 

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Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia

57 Figura 7.5. Cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia con il posizionamento dei siti noti da survey (elab. dell’autrice).

Paola Guacci

Figura 7.6. Veduta area del pianoro di San Eleuterio di Ariano Irpino (AV). Alcune tracce da vegetazione segnalano il passaggio della via Herculia (A) in uscita da Aequum Tuticum e la presenza di strutture interrate (C) lungo il suo tracciato. Nei pressi, strutture scavate relative al vicus di Aequum Tuticum (B) (foto a cura di G. Ceraudo).

per superare l’idrografia locale. Tuttavia, l’idea che le cost surface analysis presentino questo tratto del torrente Lavella come il più agevole per il suo attraversamento, anche in rapporto alle caratteristiche geomorfologiche e al posizionamento dei miliari VIII e XII, non esclude che la struttura sia stata utilizzata in tempi recenti e che parte delle murature antiche siano state riutilizzate nella costruzione di un ponte moderno.

cippi, il survey condotto sulla collina di Difesa Grande restituisce evidenze convalidanti la presenza antropica in località Capitolo-Pezza la Croce, Masseria Gambacorta, Masseria Ospedale dove si registra l’esistenza di siti attivi in età ellenistico-romana e di un’area di necropoli di età sannitica. Nel tratto Masseria Intonti-Taverna/c.da San Cesareo di Zungoli, un contributo fondamentale per la ricostruzione del tracciato è il rinvenimento dei resti di un ponte sul torrente Lavella, affluente del Cervaro.25 Della struttura si conservano il pilone occidentale, di cui sono rilevabili parti del piedritto, dell’arcata e della muratura di rinfianco, e i resti della spalla orientale. Le dimensioni complessive danno l’idea di un ponte ad arcata unica, di piccola luce, sufficiente ad attraversare il torrente Lavella.

Lasciata la collina di Difesa Grande, la via Herculia proseguirebbe verso sud est in direzione Taverna-c.da San Cesareo di Zungoli, innestandosi proprio in questa località nuovamente con il Regio Tratturo almeno fino al confine Zungoli-San Sossio Baronia. Per il tratto passante per il territorio di Zungoli, al momento vengono in aiuto per la ricostruzione della via solo due cippi: il più interessante, in quanto indicativo della distanza di XII m.p. da Aequum Tuticum, è il miliario rinvenuto reimpiegato presso un’abitazione privata in loc. Taverna-San Cesareo. Il secondo miliario, schedato nel Corpus Iscriptionum Latinarum presso Casa Susanna (CIL IX, 6059), è privo di qualsiasi informazione sulle distanze relative: ciononostante, una rilettura della bibliografia precedente la schedatura del Mommsen ha consentito di identificare il luogo dell’originario posizionamento del miliario con il versante orientale di Piano dell’Olmo, nei

In attesa di una più approfondita analisi tecnica del monumento, il primo dato fruibile è quello derivato dalle cost surface analysis. Sebbene in fase di elaborazione i resti del ponte non siano stati scelti come punto di passaggio obbligato, le analisi di costo propongono questo tratto del torrente Lavella come il punto più conveniente 25  Cfr. AA.VV. Sistema Informativo Geografico Territoriale della Regione Campania: i risultati del progetto, Soveria Mannelli (CZ) 2009, tavola 3 «Presenze archeologiche e vincoli – provincia di Avellino», in cui è contenuta l’unica segnalazione ai resti del ponte.

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Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia

Figura 7.7. Area di confine tra i comuni di Monteleone di Puglia (FG), Zungoli (AV) e San Sossio Baronia (AV), interessata dal passaggio della via Herculia. A sinistra, veduta del pianoro di Civita Alta nel comune di San Sassio Baronia; a destra veduta di località Piano dell’Olmo nel comune di Zungoli (foto dell’autrice).

pressi dell’attuale Masseria Pozzo Nuovo, nel comune di Zungoli.26

comuni di San Sossio Baronia e Vallesaccarda in direzione Scampitella. L’evidenza più rilevante è rappresentata dall’insediamento di loc. Civita Alta, nel comune di San Sossio Baronia, al confine delle regioni di Puglia e Campania. L’insediamento occupa un intero pianoro, alla quota di m 853 s.l.m., oggi sfruttato per il pascolo e per coltivazioni a seminativo da una vicina masseria (fig. 7.7).

Il tratto della via Herculia compreso tra le località Difesa Grande di Ariano Irpino e Piano dell’Olmo di Zungoli corre molto prossimo al torrente Cervaro che qui rappresenta il confine naturale con Monteleone di Puglia (FG), dove risulta schedato il miliario CIL IX, 6058. Le attività di survey, che hanno interessato il territorio monteleonese in destra e sinistra orografica del Cervaro, hanno avuto il merito di rilevare una serie di siti rurali di epoca romana dislocati lungo l’alta valle del fiume, un’area che, a giudicare anche dalla buona percentuale di siti tardoantichi, fu sicuramente rivitalizzata dal passaggio della via Herculia.

La fascia boschiva che delimita il pianoro definisce in maniera piuttosto evidente la forma sub-quadrangolare dell’insediamento, che si estende su una superficie totale di mq 145. Dal sito, che ha restituito evidenze antiche riferibili all’occupazione sannitica e romana27, provengono anche esemplari di industria litica ed impasti protostorici che confermano un’occupazione piuttosto prolungata dell’area. Tale continuità dipende, in primo luogo, dalla posizione strategica e di controllo sul territorio circostante e, soprattutto per l’età romana, dall’essere posto alla confluenza di importanti direttrici viarie quali la via

Per il tratto successivo, attualmente, non si hanno a disposizione dati certi e il passaggio della via in direzione Scampitella è solo ipotizzabile a grandi linee. Dopo Zungoli, la via potrebbe essere sopravvissuta nella rete sentieristica locale, rappresentata in primo luogo dal tratturello segnalato su cartografia IGM attraverso i 26 

27  Da notizie orali recuperate in occasione dei sopralluoghi effettuati in loc. Civita Alta, si apprende del rinvenimento di numerosa suppellettile antica (iscrizioni latine, monete, pesi), in parte custodita presso il Museo Irpino di Avellino. I locali assicurano, inoltre, il rinvenimento di un tratto di strada lastricata di epoca imperiale e strutture murarie.

Guacci 2020.

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Paola Guacci

Figura 7.8. Path Profile della via Herculia nel tratto Aequum Tuticum-Civita Alta (elab. dell’autrice).

Herculia, la via Aurelia Aeclanensis e, non da ultimo, la via Appia.

che in età romana finì inevitabilmente per costituire un punto nevralgico nell’ambito degli spostamenti tra l’Italia centrale e le zone meridionali. Le ricerche intraprese lungo la via Herculia, se da un lato aiutano ad aggiornare i non numerosissimi studi relativi al percorso romano, dall’altro consentono di applicare un metodo al tentativo di ricostruzione.

Oltre l’insediamento di Civita Alta, la via Herculia proseguirebbe verso il territorio di Scampitella, dove i principali insediamenti di età romana sono riferibili a fattorie agricole come quelle rilevate in loc. Piano di Contra (con relativa necropoli28), loc. Petrilli, loc. Cicala ed, in ultimo, loc. Migliano da cui proviene anche un miliario attribuito alla via Aurelia Aeclanensis.29

La collimazione dei dati derivati dalle indagini territoriali con quelli desunti dai testi epigrafici dei miliari, dalle fonti d’archivio, dallo studio di fotografie aeree (quest’ultime soprattutto per il vicus di Aequum Tuticum), dal riesame della letteratura storica per la ricontestualizzazione dei miliari dispersi, supportati dai dati emersi dalle analisi di costo, permettono oggi di riconoscere con una certa attendibilità l’Herculia in un tragitto che attraversava un territorio segnato da pendenze variabili, dalla presenza di corsi d’acqua e che sfruttava per quanto possibile i percorsi tratturali.

L’agro di Scampitella restituisce, inoltre, testimonianze di età medievale che potrebbero lasciar supporre l’uso del percorso anche in età post-romana. In loc. Bosco di Contra, nei pressi del torrente Fiumarella, lungo il confine occidentale del comune di Scampitella, è nota l’esistenza di un insediamento medievale fortificato (motta?)30; per loc. Piano di Contra, nel settore meridionale del centro abitato di Scampitella, invece, si hanno probabili attestazioni già nell’XI secolo essendo la località citata nel Catalogus Baronum come feudo di Riccardus filus Riccardi.31

Dal punto di vista geomorfologico, la via passava per un territorio sicuramente variabile ma non accidentato: la via superava l’area irpina sfruttando un vero e proprio corridoio dalla natura collinare del suolo, un’area meno impervia del territorio posto immediatamente a nord-est (tra Savignano Irpino e Anzano di Puglia) e a sud-ovest (tra gli abitati di Ariano Irpino-Villanova del Battista-Zungoli). Il path profile del tratto Aequum Tuticum (m 580 s.l.m) - pianoro di loc. Civita Alta (m 850 s.l.m.) presenta una via dalla pendenza in costante aumento, calcolabile ad un + 2,5%, ovvero ad un valore molto basso che fa dell’Herculia in Hirpinia un percorso interno ma non di montagna (fig. 7.8).

All’occupazione medievale dell’area attraversata dall’Herculia rientrerebbe la stessa Aequum Tuticum, o meglio il casale medievale di Sant’Eleuterio sorto nei pressi delle rovine del vicus: nel 988 d.C., i principi di Benevento, Pandolfo II e Landolfo V, concessero al conte Potone il territorio di Greci ed altri territori limitrofi ab Arco qui dicitur Sancti Lauteri.32 Considerazioni conclusive In sintesi, i dati emersi stanno contribuendo a ricostruire il percorso della via Herculia agevolando, contestualmente, la conoscenza di una parte poco nota del territorio irpino

Quanto allo sfruttamento della rete tratturale, emerge per l’area irpina una certa correlazione tra il percorso della via tetrarchica e quello del Regio Tratturo Pescasseroli-Candela o di percorsi tratturali minori.33 Com’è stato riscontrato anche per il territorio molisano34 e beneventano35, da un’efficace direttrice di comunicazione interna, sfruttata già in età sannitica, il Regio Tratturo costituì la base nella riorganizzazione del tracciato tetrarchico.

28  E. Giannetta, «Scampitella. Cenni storici», in Vicum, sett.-dic. 2010, pp. 161–176; E. Giannetta, Testimonianze archeologiche nel territorio di Scampitella, Avellino 2010. 29  M. Silvestrini, «Epigraphica: Gneo Pompeo Magno a Taranto. Un inedito miliario irpino», in Mediterraneo Antico, vol. VXI, 2013, pp. 697–717. 30  Sulla probabile motta nell’agro di Scampitella, vedi il capitolo 10. 31  Nel Catalogus Baronum è citata località Contra (E. Jamison, Catalogus baronum, Roma 1972, p. 47), identificata con loc. Contra di Scampitella (Giannetta, «Testimonianze archeologiche», op. cit., alla nota 28, il quale segnala anche un documento, conservato presso la Badia di Cava de’ Tirreni, del 1086 in cui ricorre il toponimo Contra). 32  Documento riportato in S. Borgia, Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII, vol. II, Roma 1764, p. 379.

Sulla questione cfr. Gangemi 1987; Silvestrini 1994. Sardella, «Un nuovo miliario...», art. cit., alla nota 9. 35  W. Johannowsky, «Circello, Casalbore e Flumeri nel quadro della romanizzazione dell’Irpinia», in La Romanisation du Samnium aux II et Ier siècle av. J.-C., Actes du Colloque organisé par le Centre Jean Bérard en collaboration avec la Soprintendenza Archeologica del Molise et la Soprintendenza Archeologica per le Province di Salerno, Avellino e Benevento (Napoli, 4–5 novembre 1988), Napoli 1991, pp. 57–83. 33  34 

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Ricerche topografiche e cost surface analysis per la ricostruzione del tratto irpino della via Herculia Nel caso dell’Hirpinia sembrerebbe che la via Herculia avesse sfruttato il Regio Tratturo solo per brevi tratti, quelli che risultavano più agevoli rispetto ad una qualsiasi alternativa. Gli esempi citati in questo lavoro, ovvero il tratto passante per loc. Camporeale-Taverna Vitoli di Ariano Irpino e quello compreso tra loc. Taverna-c.da San Cesareo e loc. Cervaro nel comune di Zungoli, dimostrano infatti come per l’Herculia si fossero mantenuti attivi i tratti più regolari, privi di dislivelli eccessivi.

Guacci, P., «Nota sul posizionamento di tre miliari dispersi lungo il tratto irpino della via Herculia», in JAT, XXX, 2020, pp. 323–332. Jamison, E., Catalogus baronum, Roma 1972. Johannowsky, W., «Circello, Casalbore e Flumeri nel quadro della romanizzazione dell’Irpinia», in La Romanisation du Samnium aux II et Ier siècle av. J.-C., Actes du Colloque organisé par le Centre Jean Bérard en collaboration avec la Soprintendenza Archeologica del Molise et la Soprintendenza Archeologica per le Province di Salerno, Avellino e Benevento (Napoli, 4–5 novembre 1988), Napoli 1991, pp. 57–83.

Anche in questo caso, il path profile è piuttosto indicativo. I tratti più regolari sono quelli in cui l’antica via sfruttava i percorsi tratturali e quindi dopo il miliario II (tratturo Foggia-Camporeale) e tra il miliario XII e l’insediamento di Civita Alta (tratturo Pescasseroli-Candela). Le quote più basse si registrano necessariamente in corrispondenza degli attraversamenti fluviali rappresentati dal Vallone La Starza (dopo il miliario II), dal fiume Cervaro, superato prima del miliario VIII e prima del miliario XII, dal torrente Lavella laddove sono stati rilevati i resti del ponte.

Kirsten, E., «Viaggiatori e vie in epoca greca e romana», in Vie di Magna Grecia, Atti del II Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 14–18 ottobre 1962), Napoli 1963, pp. 137–158. Lugli, G., «Il sistema stradale della Magna Grecia», in Vie di Magna Grecia, Atti del II Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 14–18 ottobre 1962), Napoli 1963, pp. 23–37.

Bibliografia Borgia, S., Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII, vol. II, Roma 1764.

Miller, K., Itineraria Romana. Römische Reisewege an der hand der Tabula Peutingeriana, Roma 1964. Patterson, J., Samnites, Ligurians and Romans, Circello 1988.

Buck, R.J., «The Via Herculia», in PBSR, 39, 1971, pp. 66–87.

Romanelli, D., Antica topografia istorica del Regno di Napoli, Napoli 1818.

Buck, R.J., «The ancient roads of southeastern Lucania», in PBSR, 43, 1975, pp. 98–117.

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8 Θάλαττα, θάλαττα: the way the sea and the wind drew the trade routes in the Aegean Sea during the Bronze Age Angiolo Querci* Università di Pisa Abstract: Θάλαττα, θάλαττα: il modo in cui il mare e il vento hanno disegnato le rotte commerciali nel Mar Egeo durante l’Età del Bronzo. Anche se considerato da Esiodo come un pericolo, il mare certamente costituì per gli antichi Greci anche – anzi, forse soprattutto - un efficace mezzo di comunicazione in una regione, quale quella egea è, costellata da numerose isole poste a breve distanza le une dalle altre. Per questo sin dal Neolitico audaci navigatori solcarono le acque di questo mare in cerca di materie prime e di quel profitto che tanto spaventava Esiodo. Per comprendere in che modo questa grande autostrada liquida fu utilizzata, però, non è sufficiente prendere in considerazione solo la distribuzione dei reperti archeologici attestanti questi spostamenti. Una rotta, infatti, lo sa bene qualunque marinaio, è qualcosa in più di un semplice segmento che unisce il porto di partenza a quello di arrivo. Al fine di tracciare una rotta antica sulla carta è necessario, infatti, anche considerare il comportamento al mare delle imbarcazioni disponibili e le condizioni climatiche caratterizzanti l’area di interesse. Il presente lavoro, in particolare, ha l’ambizione di provare a dimostrare che le condizioni meteorologiche esperibili ai giorni nostri nell’Egeo possano essere considerate valide per l’Età del Bronzo al fine di ipotizzare in che modo esse possano aver contribuito a disegnare le rotte di collegamento interne al bacino per questo periodo. Θάλαττα, θάλαττα: the way the sea and the wind drew the trade routes in the Aegean Sea during the Bronze Age. Even if Hesiod considers the sea as a danger, it certainly also was – maybe, above all – an effective means of communication in a region, like the Aegean region is, which is dotted by numerous islands lying a short distance one from the other. For this reason, from the Neolithic period onwards brave mariners sailed this sea searching for raw materials and for that profit which scared Hesiod so much. In order to understand in which way this liquid highway was run, however, it is not enough to consider only the distribuition of the archaeological finds attesting these movements. Actually, a route, as every sailor knows, is something more than a simple segment joining the departure harbour to the arrival harbour. In order to draw an ancient route on a chart, it is also necessary to take into account the seaworthiness of the ships available at the time and the climatic conditions characterizing the area. The present paper, in particular, has the ambition 1) to prove that the current climatic conditions of the Aegean basin can be considered valid also for the Bronze Age and 2) to hypothesise in which way these conditions could have contributed to draw the sea-routes in this basin during this period. It is sufficient to get a glimpse to a geographic chart to understand how strong this relation is. Actually despite the limited extension of the country the Greek coast is almost 14000 km long; moreover, wherever you are in Greece, you are no more than 90 km far from the sea.

Θάλαττα, θάλαττα1; the sea, the sea. It was with these words – as Xenophon says in his Anabasis – that the Greek soldiers greeted the Black Sea when they saw it again after a long and stressing march. For those men sea was synonym of home. How could it have been different for men who were born in a land so tightly linked to the sea?

Despite this strong connection, however, ancient Greeks often perceived the sea as a danger. Hesiod, for instance, in his Erga informs his brother, Perseus, that sailing can be δυσπέμφελος, stormy, and calls ἀεσίφρων, crazy, the mind of a man who is searching for a profit in sea-trading. He even adds that δεινὸν γὰρ πόντου μετὰ κύμασι πήματι

I wish to thank the editors for inviting me to partecipate in the conference ‘Landscape: una sintesi di elementi diacronici’ and to contribute to the present volume. I wish also to thank G. Graziadio, M.E. Alberti and C. Caleo for their useful comments on earlier versions of the manuscript of this paper. 1  Xen., An. IV. 7, 24. * 

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Angiolo Querci Spring and autumn are short, intermediate seasons in which both winter and summer climatic conditions can occur.9

κύρσαι2, it is terrible to meet misfortune in the waves of the sea. Apart from θάλαττα, however, there is another Greek word for ‘sea’: πόντος. Πόντος shares the same root as the latin word pons which means bridge. Hence, the sea can also be seen as a link between different lands and different people. The Aegean sea – dotted, as it is, with a lot of islands no more than 20 nM far from each other – surely has been playing this role since the first time men decided to sail it. It is impossible not to quote here Braudel who considered Mediterranean lands as “a series of regions isolated from one another, yet trying to make contact with one another”3 and it is also impossible to forget that when Homer lists the qualities which characterise the human beings and which the Cyclopes lack, he includes shipbuilding and sailing.4

The transition to summer can be placed during the month of June. It is from June onwards, that the so-called meltemi starts to blow. Ancient Greeks called this wind etesians. The adjective ἐτήσιος means ‘annual’ and the etesians are, in fact, seasonal winds which roughly blow from the north due to a “low-pressure system that extends from Turkey to northwest India and of a high-pressure center in the central and south Europe”.10 The seasonal regime of this wind (fig. 8.1) is well-described in R. Heikell and L. Heikell Water Pilot: This wind begins blowing in June and early July, reaches full strength in July and August, and dies off at the end of September and early October. In the northern Aegean the meltemi blows from the NE, in the middle Aegean from the north, and in the southern Aegean from the NW-WNW: in effect the wind describes an arc from the NE through to NW from the northern Aegean to the southern Aegean. In strength it varies from Force 4 to Force 7–8. The meltemi blows less strongly in the north and south that it does in the central Aegean.11

The present paper, then, will consider the Aegean Sea exactly in this sense, as a means of communication more than a physical boundary between people. In order to respect this intention, it includes three main section: 1) a brief description of current Aegean wind’s patterns; 2) a justification for why these conditions can be considered valid also for the Bronze Age; 3) a discussion on how these condictions could have affected the sea-routes in a period when men, for the first time, learned to take advantage of the wind thanks to the use of the sail.

I myself can testify the possibility of experiencing a Force 8 wind in the Aegean during summer. It is worth remembering here that Force 8 – a condition labeled as ‘gale’ in the Beauford scale – means a wind speed up to 40 knots and waves more than five meters high12, conditions which can be considered as stressing also nowadays. In this regard, Tartaron is right when he writes that “although meltemia are fair-weather winds, when blowing strongly they may kick up white squalls, so named after the appearance of agitated water in sunligh”.13 Local effects – i.e. channeling effects due to topographic configurations – can contribute to increase the strength of the wind.14 As far as the occurrence of a stormy meltemi is concerned, Ritossa stresses that it is possible to experience no more than three to seven days of gale-force wind in May and June, ten to fourteen days during July and August and five to seven days during September and October. A gale usually lasts no more than two days in May, June and October, but it can even lasts ten days during July and August.15

Wind Conditions characterising the Aegean Sea The whole Mediterranean basin is characterised by a highly seasonal climatic pattern, a characteristic which is shared by every basin in which it can be subdivided. The Aegean Sea – which is the topic of this paper – is one of them. Its geographical limits are the east coast of the Peloponnese to the west, the Macedonian coast to the north, the Turkish coast to the east and the island of Crete to the south. As far as the weather of this basin is concerned, two main seasons can be identified: winter and summer. During winter the weather is very changeable. While it is true that all over the Mediterranean the prevailing winds are always northern winds throughout the year, it is also true that in this season “the pressure gradients over the eastern Mediterranean are not pronounced at all and the winds are not from any constant direction. An almost equal proportion of northerly and southerly winds can be expected”5 and it is usual to experience “an increase in overcast skies, rainfall and poor visibility”.6 Winter is also characterised by the highest gales frequency throughout the year.7 These gales can easily produce rough seas and high waves which “tend to be choppy, short frequency” ones.8

The prevailing northern winds, however, are not the only winds which a sailor can experience in the Aegean. Southern winds, even if rare, can be encountered especially Ritossa 2011, p. 71. A. Poupkou, P. Zanis, P.N. Nastos, D. Papanastasiou, D. Melas, K. Tourpali, C. Zerefos, «Present climate trand analysis of the Etesian Winds in the Aegean Sea», in Theoretical and Applied Climatology 106, 3, 2011, p. 459. 11  Heikell, Heikell 2018, p. 29. 12  R. Porro, Il manuale del velista. Teoria e tecnica delle manovre e della conduzione della barca, Milano 2010, p. 69. 13  Tartaron 2013, p. 104. 14  Ritossa 2011, p. 74. 15  Ritossa 2011, p. 76. Contra see Beresford 2013, p. 68. The data proposed by Ritossa fits well with my personal sailing experience in the Aegean. 9 

10 

Hes., Op. IV. 618, 646, 691. F. Braudel, The Mediterranean and the Mediterranean World in the Age of Philip II, I, New York2 1972, p. 161. 4  Hom., Od. IX. 129; S. Mark, Homeric Seafaring, Austin 2005, p. 145. 5  Heikell, Heikell 2018, p. 29. 6  Beresford 2013, p. 55. 7  Ritossa 2011, p. 71. 8  Tartaron 2013, p. 101. 2  3 

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Θάλαττα, θάλαττα

Figure 8.1. Winds (white arrows) and currents (red arrows) pattern during the sailing season in the Aegean Sea; (Maps data: Google Earth – Data SIO, NOAA, U.S. Navy, NGA, GEBCO Image Landsat / Copernicus).

during the months of May, June, September and October and throughout the winter.16 In this regard, R. Heikell and L. Heikell stress that “in the spring and autumn the sirocco [which is a southern wind. NoA] may blow strongly from the S. Sometimes it may blow up to gale force and exceptionally to more”.17

here that sea breezes often blow from south-west, south and south-east20, a fact which makes sailing northward easier. Before closing this description of the climatic conditions characterising the Aegean basin, it is also worth focusing briefly on the currents’ pattern (fig. 8.1). Generally speaking, the eastern Mediterranean is characterised by an anticlockwise current which flows northward along the Turkish coast and then westward and southwestward along the Greek coasts. Local topographic effects, however, can affect this flow changing considerably its direction.21 It can easily reach the speed of 2 knots22, a speed high enough to hamper the sailing possibilities of the modern sailing ships.

It is worth remembering here also the importance that land and sea breezes have for sailing. Following Morton, “their occurrence is due to the different rate at which land and sea heat up during the day, and cool off at night, a process known as diurnal heating and cooling”.18 Sea breezes, in particular, can be strong enough “to disrupt or even eliminate the effects of the meltemi”.19 It is worth noting Ritossa 2011, pp. 112–113. Heikell, Heikell 2018, p. 29. 18  J. Morton, The Role of the Physical Environment in Ancient Greek Seafaring, Leiden-Boston-Köln 2001, p. 51. To better understand how these breezes work see S. Gallino, Il meteo per la vela. Manuale per la regata e la crociera, Roma2 2018, pp. 160–200. 19  Tartaron 2013, p. 104. 16  17 

Heikell, Heikell 2018, p. 29. Heikell, Heikell 2018, p. 33. 22  C. Agouridis, «Sea routes and navigation in the third millennium Aegean», in Oxford Journal of Archaeology 16, 1, 1997, p. 3. 20  21 

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Angiolo Querci What about the wind pattern in the Bronze Age?

warmer and more arid than today”.28 Mantzourani and Theodorou gives a more detailed description of weather conditions during the whole Bronze Age; in particular, they write that during the Early Bronze Age “the sea level was about 5 m below its present level. Air temperatures appear to have been warmer by about 1 °C. During the Middle Bronze Age the sea level exhibits a positive oscillation […]. During this time the sea level approaches closely that of today and by Late Bronze Age the sea level is at its present height, whilst the sea surface temperatures had risen to values close to the present ones or possibly higher”.29 As far as the sea-level is concerned30, Vacchi et alii affirm that “the ice-equivalent melt-water input from 4 ka bp to AD 1900 is minimal. Consequently, any changes observed in relative sea level are almost entirely due to vertical movements caused by tectonics and glacial isostatic adjustment”.31 If we keep in mind that a sea-level variation can be considered as eustatic only when the considered portion of coast is stable32, it seems possible to say that this parameter is not so useful in order to detect any climatic changes within the Aegean basin, a region characterised by important tectonic movements.

Any research on ancient sailing and seafaring should try to investigate if the above-mentioned wind conditions were also valid during the Bronze Age. In this regard, Murray is right when he writes that: (...) the winds had a strong influence over human interaction with the sea, and for the ancient cultures of the Mediterranean basin this had far-reaching effects. The winds determined the ease or difficulty of seaborne communications between cities of the same coast, between the mainland and the islands, and indeed, between the different regions of the Mediterranean basin.23 If for historical periods it seems quite easy to answer this question thanks to the information from written sources24, for the Bronze Age things are not so simple because of two sets of problems: first the lack of studies dealing with the reconstruction of ancient wind patterns and second “a lack of high-quality data from three archaeologically important sub-regions”, one of which is Greece.25

It is worth stressing here that the topography of the Mediterranean could be considered an important element affecting the directionality of wind flows. Following Beresford, “the topography of the Mediterranean basin […] dictates the nature and direction of the principal winds entering the region and, as such, suggest that the characteristics of the regional winds encountered by the mariners of antiquity would probably have been similar to those which continue to be experienced by modern-day seafarers”.33 This possibility is confirmed by Poupkou et alii who stress that “the north-south orientation of the narrow Aegean Sea basin and the high mountains in continental Greece, southern Balkans, and Turkey provide a channel for the north direction of the Etesian flow”.34

Actually, there are a number of studies on the Mediterranean paleoclimate, but they usually have their focus on other aspects concerning ancient climatic conditions, i.e. the reconstruction of the mean temperature value or of the mean humidity value. Moreover, it is worth remembering here that there is no indirect information from written sources on the wind pattern for the period of interest for the present paper. Nevertheless, trying to understand if the current wind regime can be considered valid for the Bronze Age is not idle. Holocene, the period in which we are still living, seems to have had been a certain degree of climatic stability. As far as the temperature is concerned, Burroughs stresses that it “rose to something comparable to modern values by around 10 kya”.26 During the period of interest for the present paper, however, it seems possible to assess that the climate was characterised by a sort of optimum with mean temperature 2 to 3 °C higher than today.27 McCoy stresses that at the time of the Thera eruption – an event which can be dated in the last quarter of the seventeenth century BC or in the last quarter of the sixteenth century BC, depending on the use of the high or of the traditional low chronology – the mean temperature was no more than 1 °C higher than today making the climate “only somewhat

Despite the topography can surely affect the wind flow, it does not seem, however, a decisive factor for the comparison of the current wind pattern to the ancient 28  F.W. MacCoy, «Climatic change in the eastern Mediterranean area during the past 240,000 years», in Thera and the Aegean World, London 1980, pp. 79–100. 29  E.K. Mantzourani, A.J. Theodorou, «An attempt to delineate the searoutes between Crete and Cyprus during the Bronze Age», in Proceedings of an International Symposium, The Civilizations of the Aegean and their Diffusion in Cyprus and the Eastern Mediterranean, 2000–600 B.C. (Larnaca 1989), Larnaca 1992, p. 46. 30  About sea-level change in the Aegean since Upper Palaeolithic time see K. Lambeck, «Sea-level change and shore-line evolution in Aegean Greece since Upper Palaeolithic time», in Antiquity 70, 1996, pp. 589– 611. Sea-level was no more than 6 m below the current one 6000 years bp. 31  M. Vacchi, A. Rovere, A. Chatzipetros, N. Zouros, M. Firpo, «An updated database of Holocene relative sea level changes in NE Aegean Sea», in Quaternary International 328, 2014, p. 304. 32  F. Antonioli, C. Baroni, D. Camuffo, C. Carrara, M. Cremaschi, S. Frisia, C. Giraudi, S. Importa, D. Magri, C. Margottini, G. Orombelli, S. Silenzi, «Le fluttuazioni del clima nel corso dell’Olocene: stato dell’arte», in Il Quaternario 13, 1, 2000, p. 95. 33  Beresford 2013, p. 61. 34  Poupkou, Zanis, Nastos, Papanastasiou, Melas, Tourpali, Zerefos, pap. quot. footnote n. 10, p. 459.

23  J. Murray, «Do modern winds equal ancient wind?», in Mediterranean Historical Review 2, 2, 1987, p. 139. 24  Murray, pap. quot. footnote n. 23, pp. 139–167; J. Murray, «Ancient sailing winds in the eastern Mediterranean: the case for Cyprus», in Proceedings of the International Symposium, Cyprus and the See (Nicosia 1993), Nicosia 1995, pp. 33–43. 25  M. Finné, K. Holmgren, H.S. Sundqvist, E. Weiberg, M. Lindblom, «Climate in the eastern Mediterranean, and adjacent regions, during the past 6000 years – A review», in Journal of Archaeological Science 38, 2011, p. 3168. 26  W.J. Burroughs, Climate Change in Prehistory. The end of the Reign of Chaos, Cambridge 2005, p. 47. 27  Beresford 2013; Burroughs, pap. quot. footnote n. 26, p. 48.

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Θάλαττα, θάλαττα one. The temperature variation, on the other hand, seems to be more indicative, since it could affect the strength of the winds and the length of the so-called sailing season. In this regard, Beresford affirms that climatic conditions cooler than the current ones can only strengthen the winds.35 Moreover, it is also worth remembering here that “between the 900s and 1200 AD (and up to about 1300 in Europe) the temperatures in middle latitudes generally had returned to the level of the warm times before 1500 BC”.36 This is the so-called Medieval Warm Period. It is very tempting to equate the wind pattern of the Bronze Age to the one characterising this period on the basis of the climatic similitudes and taking into account that “back to 1000 BC weather was generally as it is now”.37 It is worth stressing here, however, that not all the scholars are convinced of the fact that a climatic optimum took place in the Eastern Mediterranean during this period.38

possible to sail windward. Since this is not the main topic of the present paper, it will suffice to recall that during the Early Bronze Age Aegean boats were probably simple dogouts propelled by paddles and that from the Middle Bronze Age onwards true sailing ships became available; they probably were light displacement ships propelled either by oars or by a square sail suitable for downwind sailing only.41 Hence, for the purposes of the present paper I will assume that only downwind and beam-reach sailing were possible during the Bronze Age which means sailing with an angle to the wind between 90° and 180°. As for the ‘when’ question, taking into account the variability of winter weather, it seems likely that during this period of the year only an opportunistic, short-distance type of sailing was possible; the true offshore sailing needs predictable winds both in strength and in direction.42 In this regard, Broodbank stresses that “for short journeys movement in any direction should have been possible, at least if people were prepared to wait a few days. Longer journeys taking in several locations, and especially those crossing the open seas (what can be termed voyaging), would involved much closer attention to the prevailing patterns”.43 If on the one hand it is true that it is possible to reply to this statement stressing that the many islands dotting the Aegean Sea allow a safe, short-distance sailing, on the other hand it also is true that winter is the season characterised by the highest frequency of gales. Taking into account that a Force 6 wind should be considered a gale wind for ancient ships44, it seems here reasonable to discard the possibility of regular winter sailing during the Bronze Age.

Concluding this brief excursus, even if it seems reasonable to assess that at least since the beginning of the Late Neolithic period the climatic conditions of the Aegean basin were similar to those which can be experienced nowadays39, it is still impossible to give a certain answer to the question “can the current wind pattern be considered valid also for the Bronze Age?” For the time being, however, taking into account that the topography of the basin during the Bronze Age was roughly the same as today and that the available data seem to attest a climate rather similar to the current one, it is not reasonable to think that the winds and currents regimes should have been different from the current ones; hence, quoting Mantzourani and Theodorou, the “fundamental assumption of employing the present as a key to the past is valid”.40

Hypothesising the limits of the true sailing season for the period of interest for the present paper is not a simple goal to achieve because of two types of problems: 1) the length of the period which covers almost two millennia during which different types of boats have been used; 2) the lack of written sources giving information about this particular topic.

To sail or not to sail The very question to which every research dealing with ancient seafaring has to give an answer is “how and when was it possible to sail?” To answer the ‘how’ question implies the necessity to hypothesise the seaworthiness of the ancient ships, i.e. understanding if sailing along running routes was the only option or if it was also

As far as the latter problem is concerned, even if there are written sources directly or indirectly speaking about sailing, none of them is datable to the period of interest

Beresford 2013, p. 61. H.H. Lamb, «Reconstruction of the course of the postglacial climate over the world», in Proceedings of an International Symposium, Climatic Change in Later Prehistory (A. Harding ed.), Edinburgh 1982, p. 31. 37  Agouridis, pap. quot. footnote n. 22, p. 2. 38  I. Telelis, «Medieval Warm Period and the beginning of the Little Ice Age in Eastern Mediterranean. An approach of physical and anthropogenic evidence», in Byzanz als Raum. Zu Methoden und Inhalten der historischen Geographie des östlichen Mittelmeerraumes (B. Klaus, F. Hild, J. Koder, P. Soustal eds.), Wien 2000, p. 232 (with previous bibliography). A climatic optimum, instead, seems to have taken place during this period in Western Europe. It seems highly probable that climatic conditions hotter than today took place also during the so called Roman Warm Period, from 200 BC to the sixth century AD (Beresford 2013, p. 62). In this regard, see also L. Chen, K.A.F. Zonneveld, G.J.M. Versteegh, «Short term climate variability during “Roman Classical Period” in the eastern Mediterranean», in Quaternary Science Reviews 30, 2011, pp. 3880–3891 (with previous bibliography). 39  D. Papageorgiou, «The marine environment and its influence on seafaring and maritime routes in the prehistoric Aegean», in European Journal of Archaeology 11, 2–3, 2009, p. 200. 40  Mantzourani, Theodorou, pap. quot. footnote n. 29, p. 47. 35  36 

About Bronze Age Aegean ships see S. Wachsmann, Seagoing Ships and Seamanship in Bronze Age Levant, Austin2 2009; M. Wedde, Towards a Hermeneutics of Aegean Bronze Age Ship Imagery, Mannheim und Möhnesee 2000. About the difficulty to sail windward see A. Raban, N. Sterlitz, «Experimental sailing with boom-footed square rig – Bronze Age style», in Tropis VII. 7th International Symposium on Ship Construction in Antiquity (Pylos 1999), Athens 2002, pp. 655–670; T. Severin, The Jason Voyage. The Quest for the Golden Fleece, London 1985. The present author and Chiara Caleo presented a paper concerning the seaworthiness of the Late Bronze Age ships at the Symposium on Mediterranean Archaeology 2019 which will be published in the acts of the conference. In the paper we try to demonstrate the impossibility of any windward sailing during the Late Minoan/Late Helladic period. 42  P. Arnaud, Les routes de la navigation antique. Itinéraires en Méditerranée, Paris 2005, p. 17. 43  C. Broodbank, An Island Archaeology of the Early Cyclades, Cambridge 2000, p. 94. 44  R. Heikell, Turchia e Cipro. Dal Mar Nero al confine con la Siria e isola di Cipro. Coste porti e approdi, Verona2 2007, p. 36. 41 

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Angiolo Querci for the present paper.45 The most ancient written source directly giving the limits of the sailing season is Hesiod’s Erga. The Poet – who admitted not to be so confident with the sea – informs his brother, Perseus, that the safe sailing season lasts only 50 days probably during the period running from the end of June to the end of September.46 Vegetius – an author datable at fourth century AD and speaking professionally of sailing – stresses that the true sailing season ran from 27 May to 14 September at least, and from 10 March to 10 November at most.47

sailing were possible? Taking into account the strength up to which meltemi can blow during July and August in the whole Aegean basin, these months probably were devoted only to southward sailing. Northward sailing seems to have been easier in June and September, months which are out of the limits of meltemi season. Actually, when meltemi does not blow, it is possible to take advantage of sea breezes in order to sail northward. It is particularly true along the east coast of the Peloponnese and along the Turkish coast. So, it seems reasonable to reconstruct a route which linked Crete to the Saronic Gulf sailing through Kytera and along the east coast of the Peloponnese and a route which linked Crete to the northern Aegean sailing through Kasos and Karpathos and along the Turkish coast and through the islands which face it (fig. 8.2). The so-called Western String51, instead, seems to have been only a south-bound route also during June and September.52 Before closing this discussion, it is worth remembering here, however, that sailing from north-western Crete to Thera along a beam-reach route is a possibility that can not be ruled out especially during the end of May and the first half of June, a period which is out of the limits of meltemi proper season. A beamreach sailing – i.e. sailing at a right angle to the wind – from Thera to Milos seems also to have been possibile, even if more difficult, during this period. For the same reason, a route linking the north-western Turkish coast to the Saronic and the Argolic Gulfs probably was a viable journey in both directions.53

Raban, writing about the Bronze Age Aegean sailing season assesses that it “was confined to rather short periods in the early summer (mid-April to mid-June) and the early fall (from early September to midOctober)”.48 Broodbank shortens even more the length of the sailing season; in this regard, he stresses the necessity to reconcile the sailing activities with the agricultural tasks because both of them were probably managed by the same people. Hence, “the windows for voyaging without conflict with agricultural demands are the marginal month of April (olives excepting), August, and September (vines excepting)”.49 It is worth stressing here, however, that Broodbank takes into account only the Early Bronze Age. These two latter proposals seem somehow too reductive. Actually, while it is true that during July and August it is possible to experience very strong winds and stormy conditions, it is also true that the predictability of the wind’s pattern and of the weather conditions make planning a route easier allowing to reduce the risks connected with sailing.50 Hence, it seems unreasonable here to cut off from the true sailing season the months of July and August, which are characterised by a high degree of wind conditions predictability; the safer limits proposed by Vegetius – i.e a sailing season running from the end of May to mid-September – seem to represent a good proposal for the Bronze Age too.

Conclusions In conclusion, Gillis is right when he writes that ancient mariners were “at the mercy of wind and current”.54 If it is true that even today winds and currents can heavily affect sailing possibilities of our ships, it must have been all the more true in ancient times when mariners where forced to sail in less seaworthy ships and without any navigation instrument, pilot chart or pilot book. Hence, a deep knowledge of prevailing winds and of currents patterns is of the greatest importance for whoever has to deal with the difficult task of reconstructing ancient routes. In the Aegean Sea, the prevailing winds are northern winds throughout the years and the currents are characterised by a general anticlockwise run. For the time being, considering these conditions as valid also for the Bronze Age seems to be the safest position. Hence, southward sailing was the easiest sailing in the whole basin. North-bound routes, however, were also possible outside of the limits of the meltemi season especially along the east coast of the Peloponnese and the west coast of Turkey.

It is now time to answer the question at the core of this paper: when and where northward and southward 45  The only possible reference to the Aegean Bronze Age sailing season can be traced in Linear B tablet PY Tn 316; in this text a month named po-ro-wi-to-jo is mentioned. Palmer reads this lemma as Plowistos, the month of sailing. There is the possibility that this month has to be placed at the beginning of spring (Wachsmann, pap. quot. footnote n. 41, p. 370 note 1 with previous bibliography). The so-called Report of Wenamun – a text which gives an account of a voyage of a priest of Amun at Karnak, Wenamun, after Byblos – is of limited value for the present paper because it did not take place in the Aegean Sea. The report seems to attest a departure from Tanis during the month of January and an arrival at Byblos during May. About this text see: A. Egberts, «The chronology of the report of Wenamun», in The Journal of Egyptian Archaeology 77, 1991, pp. 57–67; H. Goedicke, The Report of Wenamun, BaltimoreLondon 1975. 46  Hes., Op. 663–684; S. Medas, De rebus nauticis. L’arte della navigazione nel mondo antico, Roma 2004, p. 36. 47  L. Casson, Ships and Seamanship in the Ancient World, Princeton 1971, p. 270. 48  A. Raban, «Minoan and Canaanite Harbours», in THALASSA. L’Egée préhistorique et la mer (Calvi 1990), Liège 1991, p. 130. 49  Broodbank, pap. quot. footnote n. 43, p. 95. 50  Morton, pap. quot. footnote n. 18, p. 255.

About the Western String see J. Davis, «Minos and Dexithea: Crete and the Cyclades in the late Bronze Age», in Papers in Cycladic Prehistory (J. L. Davis, J. F. Cherry eds), Los Angeles 1979, pp. 143–157. 52  About the difficulties concerning route planning in the Cyclades see Heikell, Heikell 2018, p. 253. 53  An account of a quite similar route is given by old King Nestor in Od. III, 157–184. Nestor’s nostos as a possible, real Bronze Age route is the subject of an on going research of mine. 54  J.R. Gillis, The Human Shore, Chicago-London 2012, p. 49. 51 

68

Θάλαττα, θάλαττα

Figure 8.2. The general route pattern in the Aegean Sea during the Bronze Age (green - route sailable in both directions; yellow - route sailable, with some difficulties, in both directons; red - South-bound route only); (Maps data: Google Earth – Data SIO, NOAA, U.S. Navy, NGA, GEBCO Image Landsat /Copernicus).

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9 Retracing an Ancient Roman Road: Aerial Photography and Topographical Survey of the Aecas-Siponto Road in Northern Apulia, Italy Ippolita Raimondo (PhD candidate) Università di Pisa Abstract: Ripercorrendo un’antica strada romana: indagini aerotopografiche e ricognizioni archeologiche lungo la via Aecas-Siponto, Puglia settentrionale, Italia. Nella Regio II Puglia et Calabria, in età imperiale, la strada tra Aecae (l’attuale Troia) e Sipontum (Siponto) era una delle più importanti vie di collegamento tra la via Traiana e la via Litoranea, due dei principali assi stradali dell’Italia sud-orientale. Grazie ad accurate analisi aerotopografiche e mirate ricognizioni di superficie è stato possibile tracciare l’esatto percorso della strada conosciuta essenzialmente poiché rappresentata sulla Tabula Peutingeriana (segmenti VI, 3 – VI, 4). In questo contributo viene illustrato il tratto di tredici miglia che collegava Lucera con Arpi, lungo questo percorso è stato possibile identificare un sito interpretabile come Pr(a)etorium Lauerianum; quest’ultimo è infatti rappresentato sulla Tabula esattamente nove miglia ad ovest di Arpos (Arpi). Retracing an ancient Roman road: aerial photography and topographical survey of the Aecas-Siponto road in Northern Apulia, Italy. In the Regio II Apulia et Calabria, in the Imperial age, the road from Aecae (the modern Troia) to Sipontum (Siponto) was one the most important linking paths that connected the Via Traiana and the Via Litoranea, two major roads of the road network of southeastern Italy. Through aero-topographic analysis and archaeological field surveying, it has been possible to exactly trace the route of this road axis, which is mainly known because of its representation on the Tabula Peutingeriana (segments VI, 3-VI, 4). This contribution illustrates the stretch of about thirteen miles that connects Lucera with Arpi. Along this route it was possible to identify a site interpretable as Pr(a)etorium Lauerianum, which is positioned exactly nine miles west of Arpos (Arpi) on the Tabula. Introduction

age, constituted one of the main junctions between the Via Traiana and the Via Litoranea.

The Aecas-Siponto road is known essentially because it is represented on the Tabula Peutingeriana.1 On the itinerarium we can see a road axis reaching the Adriatic port of Siponto (Sipontum) that connects the cities of Aecas (Aecae), Nucerie Apule (Luceria) and Arpos (Arpi) (fig. 9.1). This route, following the traces of the preRoman period2, provided the whole Benevento area with a rapid outlet to the Adriatic routes3 and, in the Imperial

The Aecas-Siponto road is also partially mentioned in the Anonimo Ravennate item civitas Arpos, Luceria Apulie, Ecas4 and the Guidone Item urbs Arpos quam Diomedes post Troiae condidit excidium iuxta sinum Adriaticum […] Luceria nobilis opulenta, Ecana quae nunc Troia vocatur5; however, only the Tabula Peutigeriana actually shows the

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Ippolita Raimondo

Figure 9.1. The Aecas-Siponto road highlighted in Tabula Peutingeriana (segments VI, 3–4; ed. Weber).

wrote about two road routes used by the Roman army to reach Lucera during the Second Samnite War.9 The first, recognizable in the Via Litoranea, crossed the Apennines to the north and, after skirting the Adriatic coast towards Histonium (the modern Vasto), continued south, moving away from the coast up until the latitude of Siponto. The second passed Benevento and continued through the valleys of the Calore, Miscano and Celone rivers, and entered the Tavoliere of Apulia after passing the heights of Buccolo near Troia.

full route as well as the port of Sipontum, one of the most important harbors on the Adriatic Sea at the time.6 It is widely accepted that the Aecas-Siponto road was rebuilt under the emperor Trajan following the inclusion of Daunia in the Via Traiana. However, most likely the Via Aemilia (commissioned by M. Aemilius Lepidus, consul in 126 B.C.) most likely provided a rapid connection with Siponto already in the Republican age.7 The main written source about the viability in Daunia is given, in Augustan age, by the historian Titus Livius. Livy8

The second route might describe the path of the Via Traiana in the stretch between Benevento and Aecae (the modern Troia), but it could also refer to a large part of the route of the via Aecas-Siponto, in the stretch between Benevento and Lucera.10

6  Mazzei 1999, pp. 412–421; D. Manacorda, «Gli aselli dossuarii di Varrone», in Landuse in the Roman Empire (J. Carlsen, P. Ørsted, J.E. Skydgaard eds.), Rome 1994, pp. 79–90; G. Alvisi «Problemi di topografia tardo antica nella zona di Siponto. La rete viaria», in Puglia paleocristiana III, 1979, p. 32; Volpe 1996, p. 407; M. Chelotti, «Regio II. Apulia et Calabria. Sipontum», in Supplementa Italica 24, Roma 2009, p. 22; C. Laganara, Siponto. Archeologia di una città abbandonata nel Medioevo, Foggia 2011, pp. 22–83; C. Laganara, Case e cose nella Siponto medievale. Da una ricerca archeologica, Foggia 2012; C. Laganara, P. Albrizio, G.A. Panzarino, «Nuovi dati sulla Siponto medievale», in Atti del Convegno sulla Preistoria, Protostoria e Storia della Daunia (A. Gravina ed.), 35 (2014), San Severo 2015, pp. 91–102. 7  Ceraudo, pap. quot. footnote n. 2, pp. 232–233; cfr. A. Fornaro, «Riflessioni sul percorso della via Appia tra Benevento e Taranto», in Rivista di Topografia Antica X, 2000, p. 304. 8  Liv., IX, 2.6: Duae ad Luceriam ferebant uiae, altera praeter oram superi maris, patens apertaque sed quanto tutior tanto fere longior, altera per Furculas Caudinas, breuior; sed ita natus locus est: saltus duo alti angusti siluosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est; sed antequam uenias ad eum, intrandae primae angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaueris retro uia repetenda aut, si ire porro pergas, per alium saltum artiorem impeditioremque euadendum.

Methodological issues The road system is the result of a dialogue between anthropic action and the physical environment: the geomorphology of the territory influences the road network as much as the socio-cultural factors that obey reasons for functionality that vary depending on epoch. Therefore, road networks can be considered a dynamic structure in continuous evolution in which traces of the oldest phases remain almost fossilized within the most recent system. In fact, roads are rather stable elements of the territory and In 320 B.C. the Roman army reached the city of Lucera in order to free the 600 soldiers captured by the Samnites in the battle of Forche Caudine. 10  Alvisi 1970, p. 61, footnote 97. 9 

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Retracing an Ancient Roman Road are frequently used as starting points for the realization of certain anthropic development.11

In the Bronze age, the itineraries seem to be profoundly influenced by river morphologies, with paths running parallel to riverbeds relevant to that era.

By identifying different routes for each itinerary, it is possible to reconstruct the evolution of a road network over time. This type of archaeological-morphological study is generally carried out using maps (ancient and modern) and aerial photographs. Nowadays we have at our disposal a wide range of aerial shots of various kinds, and thanks to these it is possible to trace numerous marks attributable to the ancient road system in Daunia.

The beginning of the Romanization process in Daunia is attested between the end of the 4th and the first half of the 3rd century B.C. with the founding of the colony of Lucera (315–314 B.C.) and a general territorial reorganization. At this time of reorganization, the most important road network was aimed mainly at connecting the new colonies.

The first to notice the enormous wealth of aerotopographic archaeological traces in the Apulian Tavoliere were, after the Second World War, officers John Bradford and Peter Williams-Hunt of the R.A.F. Still today, almost every study on the Daunian plain starts from their shots.12 It has only been possible to carry out new aerial reconnaissance works on Italian territory since 2001, following the repeal of the ‘Royal Decree’ of 1939 that restricted aerial photography. It should be remembered that aerial photography is a resource of data and information that requires direct verification in the survey. For this reason, it is appropriate to consider the photo-interpretative analysis as a part of a wider cognitive process that must be integrated with archaeological field surveys and with the collection of bibliographic and archival data.

The colony of Siponto stood on a small natural rise on the edge of a vast coastal lagoon, which is now buried. The site was in a position of control with respect to both the Adriatic coast and the Gargano ‘tratturi’ network. The Roman colony was imposed on areas where evident traces of the Neolithic age are present (the moat of a village partially investigated by Bertocchi-Tiné14 and substantial concentrations of the lithic industry of the Neolithic age15), as well as faint traces dating from the Daunian period.16 The Daunian town, located about 10 km south of what would later become the Roman port, was identified in the settlement of Cupola-Beccarini, an area abandoned following its gradual swamping.17 The toponym Σιποȗς18 may have originated precisely from an indigenous toponym whose Indo-European root (sap*/sep*) would refer to the lake nature of the area.19 Therefore, even if the foundation of a Roman colony in Siponto surely gave a strong boost to this stretch of coast, the area was already provided with a dense network of pre-Roman age tracks.

By integrating the analysis of aerial photographs with the results of targeted archaeological survey work, it is possible to trace the exact path of some routes that connected the city of Aecae to Lucera, Arpi, and Siponto. Preliminary remarks The first structuring of the road network probably began in the Neolithic age, as the oldest routes identified in the area can be traced back to that time.13

Furthermore, the Cupola-Beccarini site shows traces of life up to the second half of the 2nd century B.C.20, and it is very likely that the Roman colonial foundation of 194 B.C. was to take place in this area. We know thanks to Livy21 that the consul Spurius Postumius Albinus found the city

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Ippolita Raimondo abandoned in 186 B.C., and that, in the same year, the city was renewed in a healthier place.

travellers to avoid the long detour to Lucera by following the natural course of the Celone river valley27, thus making the connection between the Benevento area and the port of Siponto shorter and faster. In 998 A.D. in Lucera a Lombard palatium is attested, but from the beginning of the 11th century the city became part of the Byzantine fortification line against the Lombards. However, a progressive abandonment of the stretch between Lucera and Arpi (most likely due the condition of the city of Arpi from the period of Late Antiquity age) would seem to promote a route from Troia to Siponto that crossed the Tavoliere in a north-eastly direction.28

As a result of the administrative reform of the provinces at the end of the 3rd century A.D. there is a significant variation in the structure of the territory with a centralization of power at the principal poles of attraction. This, in the 4th century A.D., led to the definitive affirmation of the latifundium system with great landed property involved in the production and exploitation system of resources that was increasingly centered on cereal cultivation and transhumant pastoralism. This led to reusing a network of ‘tratturi’ that will continue to strongly characterize the territory.

The route from Lucera to Arpi

The foundation of the micaelico sanctuary on the Gargano (in the 5th century A.D. by the bishop of Siponto)22 and the consolidation of the pilgrimage phenomenon partly changed the road layout of the region. In the early Middle Ages, the Aecas-Siponto road was often associated with the Via Francigena and the Via Peregrinorum.23 The pilgrims followed the ancient route of the Via Traiana to Troia and then from there continued in the direction of the port of Siponto. The Aecas-Siponto road was the main route for reaching the micaelico sanctuary, both as a final destination or as an intermediate step before sailing from one of the many Apulian ports to the Holy Land.

In light of this long premise, reveals the inevitable problem regarding the exact dating of the road axis, I think it is possible to recognize a part of the path represented on the Tabula Peutingeriana in the road that runs east of Lucera towards ancient Arpi (IGM F. 163, I SE - II NE, Lucera; F. 164, III NO - IV SO, Foggia). It is a road axis of almost 13 miles29 that connected Lucera to the northwestern entrance of Arpi located northeast of ‘Posta Arpetta’ (fig. 9.2).30

In the early Middle Ages many changes were made to the road network of the territory, both due to ecclesiastical intervention by the monasteries, and to state mandated intervention through the establishment of the system of Lombard casalia.24 The toponyms ‘Masseria Staffio’ and ‘Posta Staffilo’ located northeast of Troia both derive from the Lombard term staffel which indicates a boundary stone or post.25 The numerous toponyms situated at south of the modern military airport Amendola, between Arpi and Cupola-Beccarini, refer to the Lombard era: ‘Faranillo, Farano, Faraniello, Fara, Faranone, Farano’. They all derive from the term fara which refers to a rural Lombard settlement.26

In detail: leaving behind the Augustan amphitheater of Lucera (fig. 9.2, n. 1) and the necropolis of Carmine Vecchio31 (fig. 9.2, n. 2), the ancient road axis is probably identifiable in survival in ‘Strada Vicinale il Seggio’ (for about 1,5 Km) (fig. 9.2, n. 3). Then, starting from the ‘Motta’ located immediately west of the ‘Masseria il Seggio’32 (fig. 9.2, n. 4), the road is instead visible, for about 6 Km, in numerous aerial photos, in both soilmarks and cropmarks. From the ‘Motta’ to ‘Podere Sacro Cuore del Gesù’ in the Valle Verde area (fig. 9.2, n. 5), it is possible to distinguish through photos the ditches of the ancient roadway that in some places are located 10 m apart from each other.

Over time, the direct connection between Aecae and Arpi became increasingly important; that road allowed a

East to ‘Podere Sacro Cuore di Gesù’, in the Nocelli area33, the marks are no longer visible for about a

M. Sensi, «Santuari e culto di S. Michele nell’Italia centrale», in Culto e santuari di san Michele nell’Europa medievale. Culte et sanctuaires de saint Michel dans l’Europe médiévale (P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez eds.), Bari 2007, pp. 244–245; A. Campione, «Culto e santuari micaelici nell’Italia meridionale e insulare», in Culto e santuari di san Michele nell’Europa medievale. Culte et sanctuaires de saint Michel dans l’Europe médiévale (P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez eds.), Bari 2007, pp. 288–289; M. Trotta, Il santuario di San Michele sul Gargano dal tardoantico all’altomedioevo, Bari 2012. 23  Laganara, pap. quot. footnote n. 6, p. 49. 24  J.-M. Martin, G. Noyé, La Capitanata nella Storia del Mezzogiorno Medievale, Società di Storia Patria per la Puglia, Studi e ricerche IX, Bari 1991; E. Cirelli, G. Noyé, «La Motta di Vaccarizza e le prime fortificazione Normanne di Capitanata», in Archeologia Medievale XL, 2013, p. 70, footnote 12. 25  V. Russi, «Toponimi e insediamenti di epoca longobarda in Capitanata», in Paesaggi e insediamenti rurali in Italia meridionale tra Tardoantico e Medioevo, (G. Volpe, M. Turchiano eds.), Bari 2005, pp. 352, 355. 26  Russi, pap. quot. footnote n. 24, pp. 349, 353.

27  V. Russi, «Contributo agli studi di topografia antica e medievale del Gargano meridionale», in San Matteo: storia, società e tradizioni nel Gargano. Atti del Convegno sulla Presenza Francescana nel Santuario di San Matteo (13–14 Ottobre 1978), San Marco in Lamis 1979, pp. 129 ff.; V. Vecchione et alii, La “Via Francigena della Capitanata”. Studio per un progetto di valorizzazione turistica ed economica del territorio della provincia di Foggia, Quaderno 14/2008, Dipartimento di Scienze Economiche, Matematiche e Statistiche, Università degli Studi di Foggia, 2008, pp. 22–37, 44 ff. 28  Vecchione, pap. quot. footnote n. 26, pp. 62–88. 29  One roman mile is about 1482 metres. 30  Guaitoli 2003, p. 192. 31  M. Mazzei, «Lucera (Foggia): Carmine Vecchio», in Notiziario delle attività di tutela giugno 1990-maggio 1991, in Taras XI (1991), 2, pp. 235–236; E. Lippolis, M. Mazzei, «s.v. Lucera», in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche IX, 1991, pp. 261–269. 32  Guaitoli 2003, tav. 1, n. 20. 33  Jones, pap. quot. footnote n. 12, pp. 94–98.

The orientation of the road axis is different from that of the large centuriation system, therefore we are undoubtedly in the presence of a road axis previous to the centuriatio.

22 

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Retracing an Ancient Roman Road

Figure 9.2. The Aecas-Siponto road, the position of the places mentioned and of the site of the Pr(a)etorium Lauerianum in the Valle Verde area (elab. by the author).

Figure 9.3. Soilmarks both road in the Valle Verde area and in ‘Pietro in Bagno’ and, in black, the site to the east of ‘Podere Sacro Cuore di Gesù’ (elab. by the author; maps data: ESRI, World Imagery, copyright © 2020).

kilometer; however in this area, during the field survey, it was possible to identify an interesting site, of the Imperial and Late Antique periods, located exactly along the road axis that is here hypothesized (fig. 9.2, n. 6; fig. 9.3).

North of the modern train station of Arpi, immediately northwest of ‘Masseria Angiulli’ (fig. 9.2, n. 11), a trace of humidity is clearly visible, which south of ‘Posta Poppi’ (fig. 9.2, n. 12) joins an inter-farm road to be interpreted as a survival of the ancient road system. To confirm this hypothesis, an interesting multi-layered site (of Republican and Imperial ages) was identified during the survey along the road visible in the soilmark, to the east of ‘Vigna Aurelio’ (fig. 9.2, n. 13).

The ancient road is visible again in ‘S. Pietro in Bagno’ (fig. 9.2, n. 7) and can be identified through evidence of alteration in the composition of the soil, as well as a trace of humidity; in this area the dispersion of pebbles is still recognizable on the ground (in two portions of about 300 m each) thanks to the dispersion of the glareatura of the ancient road axis, thanks to unfortunately it is exceptionally sparse and poorly preserved.

The road coming from Lucera, after passing the modern Adriatic highway (A14), seems to merge into a large ancient ‘tratturo’ (fig. 9.2, n. 14) still visible on the soilmark, which continues for about 900 m in a south-southeast direction towards ‘Marana dell’Arpetta’ (fig. 9.2, n. 15).

Going west from ‘Masseria Ratini’ (fig. 9.2, n. 8) the path is lost again, but then reappears in the stretch of Provincial Road 13 (SP 13) that goes from the bridge over the Vulgano river (fig. 9.2, n. 9) to the State Road 16 (SS 16) (fig. 9.2, n. 10).

The trace of the ‘tratturo’34 disappears on the northern bank of the modern Laccio torrent, which flows immediately 34 

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Guaitoli 2003, p. 192.

Ippolita Raimondo

Figure 9.4. A.M. 1954; gateway at the north-east of ‘Posta Arpetta’ and basin at the east of ‘Masseria Arpi’ (elab. by the author).

north of the Celone river. In this area the river valley of the Celone is particularly wide (the traces of variations of the riverbed are evident, as well as the marshland area which has been reclaimed today).35

At the moment the only area suspected to be a river dock is at the east of ‘Masseria Arpi’, where a large basin40 is visible in an aerial photo that goes from the agger towards the interior of the city and almost to ‘Masseria Spagnoli’ (fig. 9.4). In 1956 two chamber tombs41 were found in ‘Masseria Spagnoli’, and in 2009 phases of occupation from the 7th century to the 3rd century B.C. were found through graves in artificial caves and pit graves.42

Between the northern bank of the Laccio torrent and the access to Arpi located north-east of ‘Posta Arpetta’, where we lose track of the road axis, there are 200 meters; here we can presume the presence of a ford, a ferry or even a wooden bridge (maybe only for few metres).36

On the sixth segment of the Tabula Peutingeriana (segm. VI, 3, m; ed. Weber), immediately to the left of the label Nucerie Apule (a late corruption of the toponym Luceria), there is a ‘pictogram’ above which it is possible to read the name Pretorium Lauerianum. As indicated on the Tabula, this was located VIIII miles west of Arpos (fig. 9.1).43

Numerous openings are visible in the agger surrounding Arpi, but at the moment only the entrance of ‘Posta Arpetta’ is configured as ‘monumentalized’ by the fortification systems controlling the access.37 The northwestern sector of the Arpi agger was parallel to the Celone river; it is probable that the river had more points for landing here. It is not excluded that more in-depth studies will lead to identify a river port.38 In this regard it is essential to remember that the Celone, joining with the Candelaro river, grants access to the sea just south of Siponto.39

The identification of Pr(a)etorium Lauerianum in recent years has often been subject of study, but to date the site Pugliese 26, 1973, p. 162; C. Delano Smith, Daunia vetus. Terra, vita e mutamenti sulle coste del Tavoliere, Foggia 1978. 40  Guaitoli 2003, 192, fig. 356. 41  Mazzei, pap. quot. footnote n. 37, p. 57. 42  M. Corrente, et alii, «La ricerca archeologica ad Arpi (Masseria Spagnoli)», in Atti del Convegno sulla Preistoria, Protostoria e Storia della Daunia 30 (2009) (A. Gravina ed.), San Severo 2010, pp. 357–378. 43  Obviously, the reported distances are often the result of indicative calculations, moreover we do not know exactly from which point of the city the distances are calculated. In the absence of milestones in situ, I believe it is correct to calculate the distances from the city gates; cfr. Basso, pap. quot. footnote n. 2, pp. 35–36, footnote 53; G. Ceraudo, V. Ferrari, «Mutatio Aquilonis e Ad Pirum dagli Itineraria al riscontro sul terreno. Nuovi dati da due stationes della via Traiana», in Statio amoena. Sostare e vivere lungo le strade romane (P. Basso, E. Zanini eds.), Oxford 2016, p. 217.

35  Guaitoli 2003, p. 192, footnote 131; C. Pouzadoux, et alii, Arpi. Formes et modes de vie d’une cité italiote (IVe-IIe siècle av. n.è.), Chronique des activités archéologiques de l’École française de Rome. Italie du Sud, Roma 2017, pp. 18–21, https://journals.openedition.org/cefr/1835. 36  Guaitoli 2003, pp. 189–192. 37  Guaitoli 2003, pp. 189, 191, fig. 348. 38  M. Mazzei, Arpi. L’ipogeo della Medusa e la necropoli, Bari 1995, p. 49; Guaitoli 2003, p. 192. 39  G. Schmiedt, «Contributo della fotografia aerea alla ricostruzione della antica laguna compresa fra Siponto e Salapia», in Archivio Storico

76

Retracing an Ancient Roman Road

Figure 9.5. Cropmarks both decumanus ‘H’ and the structures in the Valle Verde area (elab. by the author; maps data: Ortophoto AGEA 2013).

has always been positioned north-north/east of Aecae.44 However, about 700 m east of ‘Masseria Posta del Colle’, in the Valle Verde area (fig. 9.2), 13 Km from the gateway

to Arpi, and therefore just over nine miles from Arpos, a dispersion of material referable to a settlement with traces of occupation from Imperial age to Late Antiquity45 was identified during the survey. Also, the site is partially visible in an AGEA orthophoto of 2013, where it is possible to distinguish some marks related to at least three rooms (approx. 10 x 15 m) overlooking a large vineyard that, on the northwestern side of the hill, sloped down to decumanus ‘H’ of the centurial system for decumanos solos indicated by Schmiedt (fig. 9.5).46 From the site east

Alvisi 1970, pp. 62–63, fig. 37; G. Volpe, A. Biffino, L. Pietropalo, «La villa, la statio, l’ecclesia. Scavi nel sito tardoantico di S. Giusto (Lucera)», in Vetera Christianorum 33, 1996, pp. 207–208; G. Volpe, San Giusto. La villa, le ecclesie, Bari 1998, pp. 312, 328–331; G. Volpe, «Linee di storia del paesaggio dell’Apulia romana: San Giusto e la valle del Celone», Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana (E. Lo Cascio, A. Storchi Marino eds.), Bari 2001, pp. 331, 338–340; A.V. Romano, G. Volpe, «Paesaggi e insediamenti rurali nel comprensorio del Celone tra Tardoantico e Altomedioevo», in Paesaggi e insediamenti rurali in Italia meridionale tra Tardoantico e Medioevo (G. Volpe, M. Turchiano eds.), Bari 2005, pp. 244–246; G. Volpe, «Città e campagna, strutture insediative e strutture ecclesiastiche dell’Italia meridionale: il caso dell’Apulia», in Chiese locali e chiese regionali nell’Alto Medioevo, Spoleto 2014, pp. 1041–1068; C. Corsi «Luoghi di strada e stazioni stradali in Italia tra età tardoantica e alto Medioevo», in Statio amoena. Sostare e vivere lungo le strade romane (P. Basso, E. Zanini eds.), Oxford 2016, pp. 59–60.

44 

45  The site is positioned on the earlier Bronze Age settlement; on that ground there are impasto ware and lithic tools. 46  I. Raimondo, «Proposta per l’identificazione del Pretorium Lauerianum (Tabula Peutingeriana VI, 3)», in ATTA 29, 2019, pp. 302–303, footnote 22, figg. 7, 8, 9; Schmiedt, Le centuriazioni..., pap. quot. at footnote 12, pp. 261, 264, 269.

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Ippolita Raimondo of ‘Masseria Posta del Colle’ it is possible to overlook both the city of Lucera and the wide plain that characterize the area between Foggia and the Gargano slopes. The building was positioned on top of the first visible hill for the travelers coming from the Adriatic coast towards of the Daunian Sub-Apennines along the Aecas-Siponto road. Even though the hill was not particularly high (currently 90 m a.s.l.), a structure such as the Praetorium, placed on the summit, could be visible many miles away, unlike a site located closer to the road axis and therefore on the plain.47

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The site is located 600 m south of the Aecas-Siponto road. The most important stationes, probably those that offered more services, are located a short distance from the main route. Furthermore, the agronomists advise against direct contact with the roads; cfr. E. Zanini, «Qualche appunto per un’archeologia contestuale delle stazioni di sosta nel mondo romano e tardoantico», in Statio amoena. Sostare e vivere lungo le strade romane (P. Basso, E. Zanini eds.), Oxford 2016, p. 72; G. Uggeri, La viabilità romana nel Salento, Mesagne 1983, p. 320.

47 

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10 Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio antico lungo la via Herculia Rosanna Montanaro and Paola Guacci Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria Università del Salento Abstract: True or false? The integration of different remote sensing techniques for the study of the ancient territory along the via Herculia. The Irpinian area (Campania northeast) is a great case study to show how the use of multiple remote sensing tools enriches the analysis of archaeological evidence. Key roads and sites mark this area: Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, via Aemilia, Traiana, Herculia and Aequum Tuticum (S. EleuterioAriano Irpino). Since 2010, the Laboratory of Ancient Topography and Photogrammetry (University of Salento) studies both the vicus and roads. The research led through via Herculia have identified marks that could reveal the presence of medieval sites as the ‘motte and bailey castle’, known in the Norman age in the Capitanata (Apulia N-O), but not in Irpinia. This study has mixed photo-interpretation, LiDAR data and field surveys on three sites: loc. Macchiacupa, loc. Masseria Imbimbo (Ariano Irpino), loc. Bosco di Contra (Scampitella). This approach has helped to classify two of them as false marks, but loc. Bosco di Contra is probably a novel fortified medieval site. Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio antico lungo la via Herculia. L’integrazione di varie tecniche di telerilevamento affina l’interpretazione delle tracce archeologiche, come è provato dai casi proposti, siti in Irpinia (Campania nord-est). L’area è interessata da importanti percorsi: Regio Tratturo PescasseroliCandela, le vie romane Aemilia, Traiana, Herculia e Aequum Tuticum (S. EleuterioAriano Irpino). Dal 2010 il vicus e le sue strade romane sono studiati del Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria (Università del Salento): lungo la via Herculia alcune tracce rivelerebbero la presenza di siti medievali con una tipologia (motte and bailey castle) diffusa in epoca normanna in Capitanata (Puglia N-O) ma non in Irpinia. Si è previsto l’uso di fotointerpretazione, LiDAR e ricognizioni su tre aree: loc. Macchiacupa, loc. Masseria Imbimbo (Ariano Irpino), loc. Bosco di Contra (Scampitella). Tale approccio ha aiutato a classificare due casi come false tracce, mentre in loc. Bosco di Contra vi è probabilmente un sito medievale fortificato inedito.

Introduzione

la via Traiana e la via Herculia, che rendevano il vicus un importante crocevia stradale.

Negli ultimi anni le ricerche topografiche condotte lungo il tratto irpino della via Herculia (nel segmento tra Ariano Irpino e Scampitella, AV) hanno permesso di recuperare importanti informazioni riferibili al popolamento antico del territorio.

Le ricerche più recenti si sono concentrate sulla ricostruzione del tratto irpino della via Herculia, una via publica risistemata tra il 295 ed il 304 d.C. dai tetrarchi Diocleziano e Massimiano nel tentativo di collegare più efficientemente il Sannio Pentro (dove è il caput viae di Aufidena) con le regioni del sud Italia, transitando per Aequum Tuticum.

Le indagini si inseriscono nell’ambito di un progetto di ricognizione sistematica condotto dal Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria dell’Università del Salento (LabTAF) a partire dal 2010 nell’area occupata storicamente dal vicus di Aequum Tuticum, ubicato in loc. contrada San Eleuterio di Ariano Irpino (Avellino), nella Media Valle del Miscano. L’area è interessata dal passaggio di importanti arterie stradali romane, come la via Aemilia,

La ricostruzione più recente, che si avvale dell’elaborazione di dati inediti desunti dallo sviluppo di analisi geospaziali (del tipo cost surface analysis), da un riesame della bibliografia storica per la ricollocazione dei miliari scomparsi e dallo svolgimento di indagini territoriali nel tratto San Eleuterio di Ariano Irpino- Scampitella, vede 81

Rosanna Montanaro and Paola Guacci raccolte le immagini storiche disponibili per l’area indagata, in particolare i voli ESACTA 1964 e 1974, i cui fotogrammi sono stati sottoposti a lettura stereoscopica e successivamente scansionati al fine di ottenere un file raster da inserire nel progetto GIS dedicato. Sono state anche consultate le immagini aeree più recenti (ortofoto) acquisite in bianco e nero nel 1988–89 e 1994–96, e a colori per gli anni 2000, 2006, 2009–2012: queste risorse aerofotografiche sono fornite tramite WMS (Web Map Service) dal Geoportale Nazionale.

oggi possibile il passaggio della via Herculia in Hirpinia lungo l’area di confine tra Campania e Puglia.1 Lo studio topografico legato alla ricostruzione della via Herculia non poteva prescindere dalla fotointerpretazione archeologica, nel tentativo di individuare ulteriori elementi antropici connessi con l’occupazione storica di questo settore dell’Hirpinia. In questa sede, presentiamo quindi esempi inediti di anomalie sul terreno che, nonostante sembrassero indicare la presenza di morfologie archeologicamente promettenti, non è stato sempre possibile classificare come tracce archeologiche.

Un secondo strumento remote sensing che è stato applicato in maniera sistematica è il LiDAR (Light Detection and Ranging) o ALS (Airborne Laser Scanner), che nell’ultimo decennio è stato adottato in maniera sempre più crescente nell’ambito della ricerca storico territoriale, in particolare nord europea.3 Particolarmente idoneo per l’indagine in aree boschive grazie alla sua capacità di penetrare la copertura arborea, il LiDAR è stato anche impiegato con un discreto successo anche in aree non coperte da vegetazione. Questo strumento offre un DTM ad altissima risoluzione, capace di individuare tracce archeologiche da microrilievo, particolarmente evidenti in quei territori che non hanno subito particolari lavorazioni del terreno e livellamenti meccanici (come accade ai territori coperti dai boschi). Inoltre, il promettente impiego di tale tecnologia anche in ambito mediterraneo4 e la disponibilità di dati LiDAR statali anche in Italia ad una risoluzione ottimale di 1 m5, ha indotto a impiegare tale strumento come supporto per la ricerca storico topografica di grandi porzioni di territorio.

Il tentativo è quello di distinguere, attraverso un approccio integrato di indagini topografiche, fotointerpretazione archeologica e dati LiDAR, le tracce archeologiche effettive dai cosiddetti false-marks. Gli esempi che seguono descrivono, quindi, un positive mark (Motta di Scampitella, AV) e due esempi di interessanti false tracce archeologiche (loc. Macchiacupa e loc. Masseria Imbimbo, nel distretto di Ariano Irpino, AV). (P.G.) Strumenti remote sensing e indagine topografica Il termine remote sensing indica un insieme di informazioni raccolte dall’alto da determinati strumenti e senza che ci sia un contatto diretto tra questi e l’oggetto indagato.

Per questo studio sono stati quindi richiesti al Ministero dell’Ambiente e del Territorio i dati LiDAR pertinenti all’area di studio.6

Il primo esempio conosciuto di strumento remote sensing è certamente la fotografia aerea, che, a partire dalla fine del XIX secolo, è stata ampiamente utilizzata nella ricerca archeologica, in particolare nella ricerca storico topografica, in quanto è uno strumento capace di offrire una visione sinottica del territorio e quindi di mostrare gli elementi che caratterizzano il paesaggio sia moderno che antico. Questo risulta essere testimoniato da diversi elementi, ma certamente quelli che più risaltano dalla lettura delle immagini aeree sono le tracce archeologiche apprezzabili solo quando osservate ad una certa quota. Queste possono essere indicate, per esempio, da una differenza di crescita di vegetazione causata da strutture sepolte (traccia da vegetazione), da una conformazione particolare del terreno che si discosta dalla tessitura del paesaggio attorno e che quindi indica la presenza di un manufatto archeologico (traccia da anomalia), o ancora, da piccole variazioni del terreno che contornano la sagoma di manufatti archeologici (traccia da microrilievo).2

Questi sono stati forniti attraverso vari formati: –– DSM first (.ascii): mostra il modello digitale della superficie secondo il primo impulso laser registrato. –– DSM last (.ascii): mostra il modello digitale della superficie secondo l’ultimo impulso laser registrato. Un riferimento per il LiDAR e la sua applicazione in campo archeologico è rappresentato dal volume Interpreting archaeological topography: Lasers, 3D data, observation, visualisation and applications (a cura di R. Opitz, D. Cowley), Oxford 2013. 4  Negli ultimi anni la tecnologia LiDAR ha visto diverse applicazioni, anche di ampio respiro, in diversi paesi del bacino Mediterraneo, come la Spagna, la Francia, la Croazia. 5  In Italia questo tipo di strumento sta prendendo sempre più piede e già da diversi anni vari progetti hanno impiegato sia dati LiDAR appositamente commissionati che quelli prodotti dallo stato italiano, J. García-Sanchez, «Archaeological LiDAR in Italy: enhancing research with publicly accessible data», in Antiquity, 92, 2018, pp. 1–10. 6  I rilievi sono stati condotti in diverse fasi su tutto il territorio italiano tra il 2011 e il 2015 e in relazione alle aree considerate ad alto rischio idrogeologico, avviate con il PST-A (Piano Straordinario di Telerilevamento Ambientale) e successivamente coordinate dal PON (Programma Operativo Nazionale) Sicurezza per lo Sviluppo, Obiettivo Convergenza 2007–2013, che hanno permesso di mappare le aree pertinenti al reticolo idrografico dal 1° al 4°, nonché anche tutte le coste, http://www.pcn.minambiente.it/mattm/progetto-piano-straordinario-ditelerilevamento/. 3 

Il lavoro qui condotto ha quindi previsto l’uso di fotografie aeree, sia storiche che recenti. Innanzitutto, sono state Vedi il capitolo 7. Per un approfondimento sull’argomento, si rimanda ai volumi: F. Piccarreta, G. Ceraudo, Manuale di aerotopografia archeologica, Bari 2000; C. Mussun, R. Palemer, S. Campana, In volo nel passato, Firenze 2005. 1  2 

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Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio

Figura 10.1. Località Bosco di Contra (Scampitella, AV): nuvola di punti, visione 3D in scala di colori gradiente (elab. di R. Montanaro).

–– DTM (.ascii): è il modello digitale del terreno. –– Intensity (.tif): registra l’intensità del segnale emesso dagli impulsi laser. –– Metadata (.xml): sono i metadati di riferimento per la corretta lettura dei dati. –– Punti (.xyz): la nuvola di punti è resa secondo coordinate xyz in formato ‘gridded ascii’. –– Quadro Unione (.shp): shapefile che mostra il grigliato di riferimento per i file tutti i file forniti. –– Nuvola di Punti (.las): nuvola di punti acquisita durante i rilievi e preclassificata.

Tra questi, si è operato principalmente sulla nuvola di punti e sui punti (.las e .xyz). Il lavoro su questa tipologia di dati è stato effettuato tramite diverse fasi. La prima fase ha previsto il processo di analisi e classificazione della nuvola di punti: questa operazione è stata eseguita direttamente sulla nuvola, attraverso la sua dettagliata visualizzazione e l’identificazione dei vari elementi scansionati. Da ciò, si è proceduto con la pulizia della nuvola da quegli elementi che non sono utili al fine dell’identificazione e lasciando, invece, quelli appartenenti al terreno e alle alterazioni di questo legate a testimonianze archeologiche (fig. 10.1).

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Rosanna Montanaro and Paola Guacci

Figura 10.2. Località Bosco di Contra (Scampitella, AV): veduta da nord del poggio dove si localizza il probabile insediamento antico (foto ed elab di P. Guacci).

Il prodotto di questa operazione è successivamente interpolato per creare un DTM7 capace di rendere al meglio i dettagli del territorio in esame e che eviti di creare anche aberrazioni che possano compromettere l’interpretazione delle possibili tracce riscontrate.

terreno che, da manuale, hanno fornito le informazioni necessarie per procedere con la corretta interpretazione desunta dagli strumenti impiegati. (R.M.)

In ultimo, il DTM è stato filtrato attraverso filtri che possono migliorare la sua lettura e, quindi, anche l’interpretazione del territorio e quindi anche delle eventuali evidenze archeologiche riscontrate. Esistono vari filtri che riescono a migliorare la lettura del DTM: hillshading, local dominance, slope, sky view factor, tra i più impiegati. In questo contesto sono stati utilizzati in particolare l’hillshade (con varie direzioni), lo slope e lo sky view factor, ossia dei filtri che riescono a enfatizzare le evidenze legate ad aree caratterizzate da una morfologia complessa, forme articolate e da discreti salti di quota.8

In questa località, alla periferia ovest del centro abitato di Scampitella, è noto il posizionamento di una ‘motta medievale’, lungo la via Herculia (fig. 10.2).9 La notizia sull’esistenza di un insediamento medievale fortificato, sconosciuto e mai esplorato prima, ha rappresentato il momento utile per analizzare la fisionomia di una probabile motta ed il suo rapporto con la viabilità storica. Convergono sull’identificazione di anomalie degne di approfondimento ciò che emerge dallo studio della cartografia storica, delle immagini aeree e dei rilevamenti LiDAR. La cartografia IGM presenta ad ovest di loc. Bosco di Contra un limitato poggio dalla forma ellittica, la cui sommità risulta avere limiti più ripidi e ben distinguibili grazie ai tipici ‘peletti’ utilizzati nelle riproduzioni IGM per simboleggiare una diversa altimetria. Del resto, l’area si eleva a quota m 704 s.l.m., in posizione dominante rispetto al territorio circostante interessato dal passaggio

Località Bosco di Contra (Scampitella, AV)

Gli indizi raccolti dalla cartografia, dalle immagini aeree e dai dati LiDAR sono stati poi oggetto di verifiche sul 7  Esistono diversi algoritmi per creare DTM e la scelta di quello che è più efficace per la resa del territorio in esame è parte del lavoro di analisi di questa tipologia di dati, Ž. Kokalj, R. Hesse, Interpreting archaeological LiDAR, Airborne laser scanning raster data visualization. A Guide to Good Practice, Ljubljana 2017, pp. 27–28. 8  Kokalj, Hesse, op. cit. alla nota 7, pp. 16, 19, 22.

9  Archivio Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Salerno e Avellino: n. prot. 2251/84G1 n. 1.

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Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio del torrente Fiumarella, a ovest, e dell’antico percorso della via Herculia, a sud.

diretto sul campo ha permesso, invece, di classificare l’intero insieme di questi elementi come indicatori di una falsa traccia archeologica. Peraltro, come è stato evinto da testimonianze orali, il microrilievo apprezzabile nella parte occidentale del campo è il risultato di azioni di riporto di terreno effettuate in tempi recenti.

Le immagini aeree riportano la stessa forma ellittica, la presenza di un muro di contenimento visibile lungo il lato sud-est ed il tipo di copertura vegetazionale, incolto con qualche albero sporadico oggi completamente sostituiti da una fitta boscaglia.

Masseria Imbimbo (Ariano Irpino, AV)

Per ovviare alla copertura boschiva e osservare meglio il piano dell’altura, sono stati impiegati i dati LiDAR ministeriali disponibili per l’area. Il DTM generato per il pianoro, visualizzato tramite i vari filtri adottati, mostra alcuni microrilievi di andamenti est-ovest ed un altro di andamento nord-sud (fig. 10.3). Ma l’elemento che emerge in maniera più evidente, anche dalla visualizzazione 3D della nuvola e del DTM, è la presenza di un probabile terrapieno, forse artificiale, dalla forma sub-ellittica, tipica di vari insediamenti fortificati. La fitta vegetazione non ha consentito di perlustrare l’altopiano: solo lungo il suo limite sud è stato possibile rilevare una struttura muraria di contenimento composta da pietre locali semi-squadrate.

Le foto aeree ESACTA del 1964 (nn. 3680–81) mostrano in loc. Masseria Imbimbo di Ariano Irpino, una traccia dalla forma sub-ellittica, di colore chiaro del diametro di circa m 330, delimitante la collina ove è situata la suddetta masseria (fig. 10.5). In prima battuta, la particolare forma e la resa cromatica della traccia avevano fatto ipotizzare la presenza di un insediamento su terrapieno artificiale (motta?). Lo studio di altre immagini aeree e l’elaborazione dei dati LiDAR a disposizione non ha però restituito alcun tipo di traccia. In particolare, soprattutto grazie alla visualizzazione dei dati LiDAR e dalla contestuale verifica sul campo, è emerso che la traccia in questione deriva piuttosto dall’impalcatura geologica sottostante.

L’impossibilità di perlustrare l’altopiano ha reso difficile capire il periodo di occupazione dell’insediamento antico. Ciononostante, è stato possibile effettuare alcuni sopralluoghi nei campi posti lungo il versante est e sudest del poggio. Gli areali fittili, rilevati tra il pianoro e la strada rurale Chirico-Ciccarella, sono caratterizzati da una concentrazione media e hanno restituito del materiale ceramico databile tra l’età altomedievale e il XIII secolo circa.10

L’anomalia riscontrata sui fotogrammi del 1964 può, quindi, essere classificata come una falsa traccia di natura geologica. Conclusioni Diversi progetti, sia all’estero11 che in Italia12, hanno dimostrato come le ricerche topografiche in cui sono stati utilizzati diversi strumenti di indagine remote sensing hanno permesso di ampliare la conoscenza del territorio e di avere più chiavi di lettura delle evidenze riscontrate e di poterle classificare quindi come eventuali evidenze archeologiche, soprattutto in seguito a survey mirati.

La distribuzione dei fittili, senza una particolare concentrazione all’interno dei campi, fa sospettare che il materiale possa essere dilavato da quote più elevate e quindi dall’area occupata dal probabile insediamento fortificato. Macchiacupa (Ariano Irpino, AV)

I casi oggetto di questo studio hanno, quindi, dimostrato come l’utilizzo di un solo strumento (immagini aeree o LiDAR) non può soddisfare in maniera totale la ricerca topografica, ma, al contrario, il suo critico confronto e integrazione con altri strumenti di analisi può chiarire ipotesi ed interpretazioni preliminari. Questa auspicabile integrazione, che tiene conto di diversi strumenti tecnici, è evidenziata nei casi di studio proposti ed in particolare nel sito inedito di Bosco di Contra, presso Scampitella. I dati da immagini aeree non si sono rivelati sufficienti per chiarire la notizia della presenza di un insediamento fortificato, ma l’uso e l’analisi dei dati LiDAR a 1 m di risoluzione ha potuto mostrare sostanziose evidenze circa la presenza di un insediamento. Questo importante

Loc. Macchiacupa si trova circa m 800 a nord-ovest del vicus romano di Aequum Tuticum, su una stretta pianura che digrada dolcemente in direzione nord-ovest, verso il fiume Miscano (fig. 10.4). In questa località è riscontrabile un’anomalia dalla forma sub-rettangolare che costituisce oggi il confine di due campi coltivati, per un’estensione complessiva di poco più di 5 ha. L’anomalia si associa ad un leggero microrilievo rilevato nel campo più a ovest, con una variazione altimetrica di circa m 20. La traccia oggetto di analisi è apprezzabile anche da DTM LiDAR. Foto aeree storiche (1974) e recenti (2016) presentano, inoltre, alcune probabili tracce da vegetazione all’interno dei suddetti campi. Ad una prima analisi, l’insieme delle evidenze ha fatto ben supporre che le tracce in questione potessero essere riferibili ad un insediamento fortificato su terrapieno dotato di sue strutture interne. Il controllo

11  R. Bennett, K. Welham, R.A. Hill, A. Ford, «Making the most of airborne remote sensing techniques for archaeological survey and interpretation», in Remote sensing for archaeological heritage management, Occasional publication of the Aerial Archaeology Research Group n. 3 (a cura di D. Cowley), Brussell, 2011, pp. 99–107. 12  F. Boschi, Tracce di una città sepolta. Aerofotografia e geofisica per l’archeologia di Classe e del suo territorio, Bologna 2012.

10  La ceramica raccolta è ancora in fase di studio, tuttavia si nota una maggiore presenza di materiale ascrivibile al XII secolo.

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Rosanna Montanaro and Paola Guacci

Figura 10.3. Località Bosco di Contra (Scampitella, AV): in alto, ortofoto del 2006 in cui è ben visibile la forma ellittica dell’insediamento; in basso, le frecce indicano i microrilievi individuati tramite il DTM LiDAR (visualizzazione Sky View Factor, R10-D16, Ve2.0, linear stretch; elab.di R. Montanaro).

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Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio

Figura 10.4. Località Macchicupa (Ariano Irpino, AV): in alto, anomalia riscontrabile su foto storica, (ESACTA_174_ str17_9020); in basso, DTM LiDAR visualizzazione hillshade (elab. di P. Guacci, R. Montanaro).

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Rosanna Montanaro and Paola Guacci

Figura 10.5. Località Masseria Imbimbo (Ariano Irpino, AV): a sinistra, le frecce indicano un’anomalia sub-ellittica; a destra il DTM LiDAR (visualizzazione Hillshading A315-H35-Ve2.0, linear stretch; elab. di P. Guacci, R. Montanaro).

apporto, inoltre, potrebbe aggiungere un tassello ulteriore alla comprensione delle dinamiche del popolamento di quest’area in età medievale. Il limite principale della ricerca resta, ad oggi, l’assenza di una datazione più precisa.

Allo stesso modo, l’ipotesi che l’insediamento di loc. Bosco di Contra si possa riferire ad un sito d’altura longobardo, sulla scia della descrizione contenuta nella documentazione d’archivio (dove si legge che fu “utilizzata in epoca longobarda come posto di guardia militare”)15, e alla luce dei risultati desunti dall’analisi dei dati LiDAR e del survey lì condotto, resta altamente probabile, anche se tutt’ora non verificabile per l’impossibilità di perlustrare il poggio sommitale e per l’assenza di modelli di confronto più puntuali. Suggestiva è comunque la vicinanza dell’insediamento qui descritto a località Guardiola, toponimo che alluderebbe alla presenza di posti di vedetta e controllo, di chiara derivazione germanica. Allo stato attuale degli studi, fermo restando la difficoltà di datare l’insediamento di loc. Bosco di Contra, alcune caratteristiche morfologiche e topografiche orienterebbero verso gli esempi di insediamenti normanni tipici del territorio dauno, senza tuttavia escludere forme di occupazioni pregresse. Del resto, l’ubicazione del sito, in posizione sopraelevata rispetto al territorio circostante tale da poter controllare gli spostamenti sul Fiumarella e lungo l’ipotetica via Herculia, poté giocare verosimilmente un ruolo non secondario nella scelta del luogo da occupare già in età altomedievale. Per tali ragioni la funzione di guardia e di controllo sembra essere la più

Sarebbe immediato riconoscere in questa anomalia archeologica una probabile motta, caratterizzata da una forma sub-circolare, che si accompagna ad un rilievo ben apprezzabile sul terreno ed alla posizione dominante rispetto al territorio limitrofo. Questa tipologia di sito, con funzione difensiva e di controllo, è molto diffusa nei vicini Monti Dauni e sul Gargano in età normanna, tra il tardo X e gli inizi dell’XI secolo, secondo modelli insediativi anche piuttosto complessi.13 Per l’alta valle del Cervaro, questa tipologia di insediamento sembra al contrario non attestata archeologicamente per l’età normanna, periodo in cui l’occupazione antropica si traduce nella edificazione di castelli su alture talvolta già occupate in età longobarda.14 Sul tema vedi il volume Fortificazioni di terra in Italia. Motte, tumuli, tumbe, recinti (a cura di A.A. Settia, L. Marasco, F. Saggioro), Atti del Convegno (Scarlino, 14–16 aprile 2011), Archeologia Medievale, XL (2013) ed in particolare i contributi di V. P. Favia, M. Maruotti, «Caratteri insediativi delle recinzioni e fortificazioni di terra nella Capitanata medievale. Diagnostica archeologica, analisi di superficie, casi di studio», in Archeologia Medievale, XL (2013), pp. 91–101, con precedente bibliografia; E. Cirelli, G. Noyé, «La motta di Vaccarizza e le prime fortificazioni normanne della Capitanata», in Archeologia Medievale, XL (2013), pp. 69–90. 14  Come nel caso della vicina Ariano Irpino (vedi M. Rotili, N. Busino, Il castello di Ariano Irpino. Ricerche archeologiche 1988–94 e 2008, Bari 2017) o di Montella (M. Rotili, Archeologia del donjon di Montella, Napoli 1999) dove il castello di età normanna sostituisce la precedente occupazione d’altura di età longobarda. Per un inquadramento sulle dinamiche insediative nella Campania interna in età medievale: N. 13 

Busino, «L’alta valle del Cervaro fra tarda antichità e alto medioevo: dati preliminari per una ricerca topografica», in La Campania fra tarda antichità e alto medioevo. Ricerche di archeologia del territorio. Atti della Giornata di studio (Cimitile, 10 giugno 2008) (a cura di C. Ebanista, M. Rotili), Cimitile 2009, pp. 129–152; N. Busino, La media Valle del Miscano fra tarda antichità e alto medioevo, Napoli 2007; per il comune di Savignano Irpino, un inquadramento tra il tardoantico e l’altomedioevo è contenuto in Carta archeologica e ricerche in Campania (a cura di S. Quilici Gigli, L. Quilici), in ATTA, suppl. XV, fasc. 9, Roma 2016. 15  Vedi nota 9.

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Vero o falso? Integrazione di strumenti remote sensing per la comprensione del territorio plausibile. Probabilmente per l’edificazione di questo insediamento ci si limitò a sistemare il poggio naturale, realizzando qualche muro difensivo forse sul lato orientale e lasciando la difesa del fronte occidentale alla ripidità naturale del pendio. Volendo contestualizzare il sito oggetto di indagine rispetto alle altre evidenze medievali rilevate in occasione degli studi sulla via Herculia (nel tratto Sant’Eleuterio-Scampitella), il quadro di riferimento risulta piuttosto scarso di testimonianze16: le uniche evidenze riferibili all’occupazione medievale dell’area esaminata sono rappresentate dal casale di Sant’Eleuterio, toponimo documentato in un documento del X secolo (ab Arco qui dicitur Sancti Lauteri)17 e, probabilmente, dalla vicina loc. Piano di Contra, nel comune di Scampitella, per l’XI secolo.18 (R.M., P.G.)

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Sezione III Nuove tecnologie per lo studio del territorio

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11 New Technologies for the Study of Landscape Martin Millett1 and Stefano Campana2 University of Cambridge Università degli Studi di Siena 1

2

In recent years there has been a revolution in the archaeological methodologies used for the study of the landscape. A wide variety of remote sensing methods have been developed and are now increasingly widely deployed for archaeological mapping. These vary in their methods, with ground based geophysical techniques and aerial remote sensing both radically expanding our capabilities for generating new archaeological evidence without excavation. In addition to the improvement in technical capabilities which have in part been driven by increased computing power and advances in image processing methods, we have also seen the beginnings of a conceptual change. Archaeology has traditionally been focused upon individual locations – ‘sites’ – which we have sought to identify and then explore through excavation and the analysis of the finds from them. Although pragmatically understandable, the division of the world into a series of isolated “sites” is conceptually problematic as human beings do not just exist at particular points in the landscape, but rather they utilise the whole of the landscape in a wide variety of different ways. Given that the same was true in the past, and that we increasingly have technologies to explore the whole tracts of landscape, archaeology is moving towards changes in approach that seek to explore and understand the reality of total past landscapes. To achieve this goal prospection is essential but not sufficient on its own. Indeed, the extensive and continuous knowledge of landscapes delivered by new prospection methods allows us to address targeted test excavations aimed to understand features but above all to explore physical relationships between them, exploring stratigraphy by involving soil and environmental experts and by deploying archaeometric analyses. In addition, other fields of research are continually expanding, improving our comprehension of the past: big data, quantitative modelling, A-DNA, etc. All these create new opportunities and will allow archaeologists to access completely new understandings, far beyond current expectations.

available to the wider public. He makes a very clear case for both proper data management with full documentation and open access storage. This ideal is surely one to which we would all aspire. Much research in recent years has been focused on the improved mapping of landscapes, but if the outputs from such work were simply better or more complete maps, we would surely be forced to question the extent to which they enhance understanding of human societies. In order to see how past populations utilized whole landscapes, archaeologists must generally rely on proxy data since we rarely have information from the inhabitants themselves. Two papers in this session provide good examples of such research, analysing artefacts not simply for their inherent value, but in order to understand past peoples. Luisa Russo’s paper shows how, by combining petrological studies of early Medieval pottery with typological approaches, and presenting the data in a GIS, we can arrive at important new historical understandings. Such interdisciplinary approaches which draw on applied archaeological science are clearly fundamental to the future of the discipline. An equally interesting and valuable approach to the Medieval world is presented by Claudia Sciuto. Her use of portable geological characterization equipment to study the building stone used at Carcassone provides key insights into the scale and nature of the utilization of quarries in the region, thereby opening up a new approach to understanding landscape exploitation.

Such approaches inevitably create new issues for archaeologists to consider, not least in how to handle and archive the very considerable quantities of data that projects produce. This challenge is shared by both excavations and surveys and is discussed in relation to the former in a paper by Francesco Coschino in this section. These are not simply matters of importance for archaeologists, but should be part of a social obligation to make information and ideas 93





12 Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile Francesco Coschino (PhD) Università di Pisa, Divisione di Paleopatologia, Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Abstract: GIS as a tool for analysis and dissemination of archaeological and bioarchaeological contexts on a variable scale. This article tries to outline an overall picture of the contributions that digital IT tools can provide to archaeological sciences. An attempt was made to highlight the potential that digital space applications may develop within an extremely complex environment, such as bioarchaeological disciplines. This has been done by focusing on the GIS, whose use allowed to develop new data processing standards in archaeological and topographical fields, from both an analytical and interpretative, and a synthetic point of view. Computer science allows not only to combine enormous information potential with traditional disciplines, but also to disseminate the data processed to an audience of non-professionals. Finally, the contribution presents two case studies, the castle of Benabbio and the monastery of Pozzeveri (Lucca, Italy). Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile. Questo articolo cerca di delineare un quadro generale dei contributi che gli strumenti informatici digitali possono fornire alle scienze archeologiche. Si è tentato evidenziare il potenziale che le applicazioni spaziali digitali possono apportare ad un ambiente complesso, come quello delle discipline bioarcheologiche. Si è scelto di focalizzare l’attenzione sul GIS, il cui utilizzo ha permesso di sviluppare nel tempo nuovi standard di elaborazione dei dati in ambito archeologico e topografico, sia dal punto di vista analitico e interpretativo, sia sintetico. L’informatica consente non solo di coniugare enormi potenzialità informative con discipline tradizionali, ma anche di diffondere i dati ad un pubblico di non professionisti. Infine, il contributo presenta due casi studio, il castello di Benabbio e il monastero di Pozzeveri (Lucca, Italia). GIS e documentazione in Archeologia

a registrare, documentare ed interpretare il contesto che loro stessi distruggono sembra essere il cardine ontologico in difesa dell’archeologia stratigrafica e delle branche ad essa attigue. Si può dunque dire che la registrazione delle informazioni è, da un lato, la garanzia che l’oggetto sia stato interpretato e sintetizzato con rigore scientifico e, dall’altro, la chiave per la sua comprensione finale.

Alla base delle moderne discipline archeologiche vi è un paradigma paradossale, che obbliga lo studioso a distruggere il frutto stesso della sua ricerca. La rimozione di un reperto, l’asportazione di un deposito stratigrafico, la dislocazione di uno scheletro, producono sempre l’irreversibile decontestualizzazione dell’oggetto indagato con una inevitabile perdita di informazione.

Parimenti, l’assunto di Philip Barker dello scavo archeologico inteso come “un esperimento irripetibile”2 se paragonato alle altre scienze empiriche, ancorché metaforica, rende bene l’idea di quanto la disciplina archeologica abbia dei limiti pratici ben evidenti, sostanziati proprio nella fragilità del dato, segnatamente nel momento della sua acquisizione sul campo.

Per affrontare questo paradosso deontologico sono state avanzate molte linee apologetiche, a partire dall’assunto positivistico che, se anche lo scavo distrugge fisicamente quello che indaga, compensa questa assenza ricreando, attraverso modelli simbolici e narrazioni, la sequenza storica di cui il principale testimone e il risultato finale è la trasposizione intellettuale del medesimo processo di decontestualizzazione.1 Proprio per questo, il fatto che gli archeologi dedichino buona parte della loro attività 1 

Il paradosso assume tuttavia una sfumatura diversa se si identifica l’idea di passato con l’immagine di un archivio diffuso, che non per forza deve essere sottoposto a distruzione in funzione della sua ricomposizione.

A. Carandini, Storie dalla Terra, Torino 1981, passim.

2 

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P. Barker, Tecniche dello scavo Archeologico, Milano 1966, p. 10.

Francesco Coschino Il GIS applicato all’archeologia

Ci si riferisce alle indagini spaziali, siano esse analisi topografiche e territoriali di scala piccola e media, o prospezioni a larga o larghissima scala che investono aree di scavo o singoli reperti, ovvero a quelle estese narrazioni, sincroniche o diacroniche, in grado di variare lo sguardo dal sito al paesaggio, dall’unità stratigrafica all’unità topografica. In tal senso l’archeologia può contare su alleanze strategiche meta-disciplinari sempre più raffinate, che vedono nell’informatica il principale strumento di azione non soltanto per l’acquisizione del dato, ma anche per i successivi processi di analisi, diagnosi e sintesi. Essa consente oltretutto di effettuare restituzioni interpretate di modelli statistici e ricostruzioni virtuali, che ormai da tempo hanno perso il carattere eminentemente ludico ed estetico-esornativo, per acquisire dignità scientifica e sostituirsi agli stessi rilievi strumentali.

Col progredire delle tecniche e degli approcci disciplinari, lo sforzo conoscitivo archeologico è diventato estremamente elevato: il contesto di ricerca viene ormai sistematicamente sottoposto ad una indagine intensiva in modo che fornisca già durante il processo di scavo o ricognizione il massimo dei risultati possibili, sia in termini quantitativi che qualitativi: non è un caso che, per il post-processualismo, il concetto stesso di manufatto (artifact in inglese) si espanda immensamente nel tempo e venga integrato dalla nozione di ecofatto, andando ad includere olisticamente anche i campi applicativi più propriamente spaziali, territoriali e paesaggistici.5 Ecco che in tale prospettiva l’acquisizione digitale del dato acquisisce un’importanza non soltanto strumentale e logistica ma anche funzionale ad una diagnostica sistemica, poiché consente di gestire un’enorme mole di informazioni provenienti da diversi contesti tra loro interconnessi.

Un altro aspetto di grande rilevanza è legato alla divulgazione dei risultati; nell’ottica di un’archeologia sempre più rivolta al pubblico, tanto da diventare una vera e propria sottodisciplina del post-processualismo3, l’apertura verso l’esterno costituisce ormai una prassi consolidata che non soltanto consente l’inclusione delle comunità all’interno di realtà di ricerca spesso invasive e mal viste, ma legittima anche la bontà e il peso etico dello scavo archeologico stesso. In tal senso, se utilizzata con consapevolezza, l’informatica acquista una profondità estremamente importante al fine di dar vita a un mezzo narrativo condiviso e multidisciplinare. Parafrasando Andrea Carandini, se è vero che l’archeologia deve rimanere in primo luogo scavo del terreno e non scavo di idee4, per non perdere la sua specificità come scienza, d’altra parte, essa cesserà di essere una preziosa opera di distruzione se verrà percepita non solo come un’operazione fisico-esplorativa del sepolto, ma anche, e soprattutto, come disciplina umanistica con il suo apparato filosofico e storiografico e soprattutto con il suo impianto documentario.

Il GIS è senz’altro lo strumento che maggiormente si presta ad una gestione completa del dato spaziale nell’ottica di una restituzione globale, multimediale e multidisciplinare dei moderni scenari di ricerca; esso viene definito come un “produttore di informazioni, concernenti prevalentemente l’assetto territoriale, basate sui dati qualitativi che siano contestualizzati rispetto allo stesso”6, o, secondo l’ormai nota definizione di Burrough, come una piattaforma “composta da una serie di strumenti software per acquisire, memorizzare, estrarre, trasformare e visualizzare dati spaziali dal mondo reale”.7 Si tratta dunque di un sistema informatico in grado di produrre, gestire e analizzare dati spaziali associando a ciascun elemento geografico una o più descrizioni alfanumeriche a loro volta inserite in un modello continuo del territorio, che offre contemporaneamente i dati sulla collocazione delle strutture, sui loro attributi e, soprattutto, sulle loro interrelazioni cronologiche.8 L’utilizzo del GIS in ambiti diversificati e con diverse scale di dettaglio ha consentito nel tempo di sviluppare veri e propri disciplinari di pratica. Al fine di questo contributo si prenderanno in esame due diverse linee di applicazione, la prima in un ambito più prettamente stratigrafico, la seconda bioarcheologico ed antropologico, che troveranno sostanza nel paragrafo intitolato Case studies.

Alla luce di ciò, tutte queste considerazioni evidenziano in maniera indiscutibile ed evidente il rilevante apporto, sia qualitativo che quantitativo, che la tecnologia informatica, primariamente geografica, ha portato alla ricerca spaziale: contestualmente alle notevoli possibilità di condivisione delle informazioni e agli strumenti per la produzione di supporti divulgativi (soprattutto multimediali), questi aspetti rappresentano i principali, e ormai irrinunciabili, vantaggi dell’uso del calcolatore nella pratica della disciplina archeologica nei suo ambiti più prettamente topografico-territoriali. Oltretutto l’informatizzazione digitale standardizza e uniforma i dati raccolti evitando una dispersione e distorsione del dato, mettendo al contempo a disposizione del fruitore dei protocolli di ricerca, reportistica e analisi precisi ed efficaci.

Le applicazioni del GIS in ambito archeologico e bioarcheologico Il GIS ha trovato campi di applicazione internazionali in ambito di topografia antica già all’inizio degli anni 5  P. Renfrew, C. Bahn, Archaeology: Theories, Methods and Practice, Londra, 1991, p. 421. 6  G. Azzena, «Questioni terminologiche – e di merito – sui GIS in archeologia», in A. Gottarelli, Sistemi informativi e reti geografiche in archeologia: GIS-Internet, Firenze 1997, pp. 750–769. 7  P. Burrough, Principles of geographical information systems for land resource assessment, Oxford 1986, p. 194. 8  Azzena, op.cit. nella nota 6, p. 757.

3  M. Valenti, «Archeologia Pubblica in Italia: un tema di grande attualità e una serie di equivoci», in Atti del VIII Congresso nazionale di archeologia medievale, Firenze 2018, pp. 31–34. 4  Carandini, op. cit. alla nota 1, pp. 8–21.

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Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile ’90 del secolo scorso. Per quanto riguarda l’Italia, la nascita di una vera ‘urgenza’ applicativa del modello informatico trae spunto dalla rielaborazione delle Carte Archeologiche di Rischio, precocemente edite a partire dagli anni ’80 del Novecento.9 Il compito di tali strumenti fu, fin dall’inizio, proprio quello di fornire una mappatura di aree a maggiore o minore probabilità di potenzialità archeologica.10 L’aumento degli interventi di archeologia urbana (segnatamente nelle regioni centro-settentrionali della Penisola) ha sensibilizzato il dibattito sulla concreta applicabilità delle carte archeologiche in termini di tutela del territorio, poiché difficili da revisionare e tenere aggiornate: in questa direzione l’informatizzazione si è gradualmente affermata come il più efficace sistema di documentazione per catastare, gestire e trattare i dati prodotti dalle ricerche archeologiche, sempre più frequenti, numerose e complesse.11

Se il GIS ha avuto un enorme impatto praticamente su ciascun campo che gestisca ed analizzi la distribuzione spaziale dei dati, sia in ambito topografico che più prettamente stratigrafico, meno sfruttato è invece il poderoso potenziale che l’elaborazione computerizzata del dato può offrire allo studio dei reperti osteologici umani: al momento l’utilizzo sistematico del GIS nello studio di necropoli è, va detto, ancora piuttosto limitato.14 In particolare, la pratica di vettorializzare ogni singolo elemento scheletrico ed interpretarlo da un punto di vista antropologico, si è diffusa come standard di documentazione universalmente riconosciuto quasi esclusivamente negli scavi anglosassoni e statunitensi. Qui si è sviluppato negli anni un approccio olistico alle sepolture, che ha portato all’elaborazione di protocolli in cui l’informatica si fonde senza ostacoli con lo studio sul campo, ma soprattutto in cui le scienze osteologiche e tafonomiche si integrano rigorosamente con quelle stratigrafiche. Tra gli esempi di maggior peso si possono citare due siti pionieristici, entrambi in Turchia:

Parallelamente si è andato diffondendo, a partire dai primi anni 2000, un sempre più largo impiego di software di facile utilizzabilità anche per i ricercatori di formazione umanistica: ciò è testimoniato dai diversi convegni specialistici organizzati da svariati Dipartimenti di Scienze dell’Antichità12 e dalla nascita di riviste specializzate, come ad esempio Archeologia e Calcolatori.13 Queste legittimazioni accademico-disciplinari hanno permesso il consolidamento e la larga diffusione di numerosi tentativi di ampliare la scala di uso di piattaforme GIS declinate in funzione della documentazione di dettaglio degli stessi cantieri di scavo.

–– quello pre-ellenistico di Kerkenes, in cui sin dal 1993 l’equipe del Prof Ezra Zubrow e del Prof Geoffrey Summers della University at Buffalo (NY) applica sistematicamente l’utilizzo del GIS sia ai reperti archeologici che scheletrici.15 –– Quello neolitico di Çatalhöyük, all’interno del quale C.S. Larsen dell’Ohio State University, direttore antropologico, ha potuto sperimentare in senso pratico i paradigmi di quella disciplina ormai nota come bioarcheologia16: il risultato è un insieme omogeneo, ordinato e perfettamente integrato di dati multidisciplinari.

Lo stato dell’arte vede un utilizzo diffuso ormai capillarmente in pressoché ogni cantiere di scavo e in ogni progetto di analisi territoriale (professionale e di ricerca) di piattaforme GIS per l’acquisizione e l’elaborazione dei dati stratigrafici, da una parte, e topografici, dall’altra: è ormai prassi consolidata sostituire al rilievo CAD quello vettoriale georiferito. Tale pratica presenta, a nostro avviso, soltanto lati positivi, poiché velocizza e rende più precisa la fase di acquisizione e consente un’elaborazione dei dati più efficace ed efficiente.

In Italia è stato ancora una volta il Laboratorio di informatica applicata all’archeologia medievale dell’Università di Siena (LIAAM) a dare un impulso innovatore ed essenziale in questa direzione.17 Nella medesima direzione va l’impegno profuso dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa18 nel dar vita a vasti archivi geografici digitali per 14  Non esiste, va detto, un regesto organico dei tentativi di applicazione delle metodologie geospaziali a contesti cimiteriali, tuttavia si rimarcano alcuni spunti bibliografici interessanti: N. Herrmann, «GIS Applied to Bioarchaeology: An Example from the Río Talgua Caves in Northeast Honduras», in Journal of Cave and Karst Studies, 64 (1), 2002, pp. 17–22; S.J. Steinberg, S.L. Steinberg, Geographic Information Systems for the Social Sciences: Investigating Space and Place, Londra 2005; H. Wilhelmson, N. Dell’Unto, «Virtual Taphonomy: A New Method Integrating Excavation and Postprocessing in an Archaeological Context», in American Journal of Physical Anthropology, 157, 2015, pp. 305–321. 15  F. Summers, N. Atalan, N. Aydin, et alii, «Documentation of Archeological Ruins and Standing Monuments Using Photo‐Rectification and 3D Modeling», in Proceedings of the XIXth International Symposium CIPA 2003 CIPA 2003, New Perspectives to Save Cultural Heritage (a cura di M.O. Altan), Atti del convegno (Antalya, Turkey, 30 September – 04 October 2003), Antalya 2003, pp. 660–668. 16  C.S. Larsen, Bioarchaeology: Interpreting Behavior from the Human Skeleton, Cambridge 1997, passim. 17  R. Francovich, Archeologia medievale ed informatica, Firenze 1999, p. 41. 18  La Divisione, pertinente al Dipartimento di Ricerche Traslazionali e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, è stata fondata dal Prof. Gino Fornaciari ed attualmente diretta dalla Prof.ssa Valentina Giuffra.

Tra le prime applicazioni pratiche di una Carta di rischio archeologico va citato il lavoro di Brogiolo in Lombardia e in Italia Settentrionale: G.P. Brogiolo, Archeologia urbana in Lombardia. Valutazione dei depositi archeologici e inventario dei vincoli, Modena 1983, pp. 18–23. 10  L. Malnati, «Le carte archeologiche di rischio: limiti e prospettive. Qualche considerazione», in Rischio archeologico: se lo conosci lo eviti (a cura di M.P. Guermandi), Atti del convegno di studi su cartografia e tutela del territorio, Ferrara 2001, pp. 107–112. 11  Senza poter entrare nei dettagli, è doveroso quanto meno citare il caso di Pisa, che ha trovato nel Progetto Mappa un brillante strumento di mappatura sistematica delle evidenze archeologiche sottoposte ad indagine negli ultimi decenni, fornendo parallelamente spunti di previsione sulla collocazione potenziale di areali di rischio: F. Anichini, F. Fabiani, G. Gattiglia, M.L. Gualandi, Un database per la registrazione e l’analisi dei dati archeologici, Pisa 2012, pp. 1–20. 12  Tra questi, si cita uno dei primi eventi sistemici, organizzato a Siena nel lontano 2001 (Preatti del Workshop Soluzioni G.I.S. nell’informatizzazione dello scavo archeologico, Siena 9 giugno 2001, edizione digitale: http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/ work31.html). 13  http://www.archcalc.cnr.it 9 

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Francesco Coschino cantieri di scavo di natura cimiteriale. La ricerca sul campo e una serie di implementazioni teoriche e di metodo hanno permesso lo sviluppo di nuovi standard documentativi incentrati su un approccio segnatamente bioarcheologico ai contesti di indagine. Nel prossimo capitolo saranno presentati due casi-studio con la finalità di evidenziare le potenzialità analitico-divulgative che i sistemi informativi geografici possono apportare ad una branca dell’archeologia profondamente multidisciplinare.

La vicenda storica ricostruita dalle fonti scritte.19 Le notizie sul castello nelle fonti scritte edite sono estremamente limitate. Mentre infatti il toponimo nella forma Menabla è ricordato per la prima volta in un documento del 983, ed è menzionato tra X e XI secolo in varie altre carte dell’Archivio Arcivescovile di Lucca come Menablacha o Menablo, un riferimento esplicito al castello si ha solo nel 1334, quando viene decretata la sua distruzione dai Rossi, signori di Parma e reggitori come vicari regi della città di Lucca. Che il castello fosse esistente ben prima degli inizi del XIV secolo lo testimoniano le strutture superstiti e la chiesa stessa di San Michele, la quale porta in facciata la data 1218, ma ciononostante non conosciamo il ruolo giocato dal fortilizio nelle vicende belliche e politiche che pure toccarono, tra XIII e XIV secolo, la regione della montagna lucchese, prima nei lunghi contrasti tra il comune di Lucca e le famiglie dei locali signori territoriali, poi nel periodo di instabilità inaugurato dalla morte di Castruccio.

Case studies L’uso intensivo del GIS come strumento di analisi e di narrazione della ricerca archeologica tout court ha prodotto significativi contributi anche da alcuni scenari di scavo indagati in prima persona dallo scrivente negli ultimi lustri. Si è scelto di portare ad esempio due contesti di scavo sufficientemente contraddistinti per garantire ampio discrimine nella misurazione della portata applicativa delle analisi spaziali effettuate. Si tratta dei siti di Benabbio e Badia Pozzeveri, entrambi siti che condividono in parte l’oggetto della ricerca, investendo anche orizzonti cimiteriali, ma si discostano tra loro per una serie di variabili strutturali, metodologiche e cronologiche. Si tenterà nei prossimi paragrafi di specificare i traguardi che le esperienze di ricerca hanno raggiunto grazie all’implementazione di estensive piattaforme GIS nelle loro diverse scale di applicazione.

Certo si trattò di un investimento signorile notevole e per le dimensioni del castello e per quelle della chiesa. Lucca venne comunque affermando il proprio dominio nella valle nel corso del XIII secolo e, nel secondo e terzo decennio del Trecento Benabbio dovette essere al centro dei territori amministrati e dominati da uno dei più stretti collaboratori di Castruccio, quel Luporo da Menabbio che ebbe un ruolo importante, al seguito di Uguccione della Faggiuola, nella presa e nel sacco della città di Lucca del 1314. Una figura di grande rilevanza che ricoprì incarichi importantissimi per conto del Castracane20, ma che trasfigurata in parte dalla tradizione storiografica ed erudita, soffre della mancanza di una coeva affidabile documentazione. Quel che sembra certo è che, dopo la morte di Castruccio, venne meno anche il dominio di Luporo e di lì a pochi anni il castello venne reso inservibile dal punto di vista militare. Nel gennaio 1334 infatti, nel giro di una settimana, Pertichetto

Il progetto Benabbio Il paese di Benabbio è situato sul fianco destro della profonda vallata del rio Benabbiana, un affluente di sinistra del torrente Lima, e si estende in più nuclei abitati sul versante occidentale del Colle della Bastia, o di Castello, tra le quote di 400 e 520 m s.l.m. Sulla cresta del colle, che domina l’abitato e raggiunge la quota massima di 616 m, si trovano i resti del castello di Benabbio. La sommità si sviluppa come uno stretto pianoro irregolare in forma di semiluna, largo mediamente una trentina di metri e lungo oltre 200, intervallato nella porzione centrale da una piccola foce dove sorge la chiesa di San Michele, unico edificio superstite tra quelli che componevano l’insediamento del castello. Dalle tracce che restano sul terreno e dalle fotografie aeree sembra che tutta la sommità, compresa la chiesa, fosse in origine circondata da una cortina muraria, i cui resti più consistenti sono conservati sul rilievo meridionale, dove è visibile anche l’imboccatura di una cisterna parzialmente colma di detriti. Si stima che lo spazio cinto di mura raggiungesse una superficie pari a circa 6000 m², anche se è molto probabile che l’insediamento si estendesse all’esterno della cortina dalla parte di mezzogiorno, dove il colle degrada dolcemente in falsopiano per un centinaio di metri, fino ad incontrare i ruderi di una torre cisterna a pianta rettangolare rinforzata da un piccolo procinto fortificato, che difendeva da questo lato l’accesso al fortilizio. L’importanza demografica dell’insediamento è testimoniata, oltre che dallo sviluppo planimetrico del castello, anche dalle dimensioni della chiesa di San Michele, che nella sua fase romanica costituiva un edificio di circa 200 m² di superficie.

19  Per tutti i riferimenti bibliografici ed una completa disamina di fonti e risultati si rimanda a A. Fornaciari, F. Coschino, et alii, «Bagni di Lucca (Lu). Benabbio, località Castello: sesta campagna di scavo», in Notiziario della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, Volume 9, 2013, Firenze 2013, pp. 172–175 e A. Fornaciari, F. Coschino, «Il castello di Benabbio in Val di Lima (LU): le trasformazioni insediative tra XII e XIV secolo», in Atti del VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze 2012, pp. 257–264. 20  Un’attestazione inedita mostra Luporo responsabile delle fortificazioni di Pisa nel secondo decennio del XIV secolo, quando egli riceve un rimborso per una cifra da lui anticipata ed impiegata nel riattare gli apparati difensivi della città (ser Luporo de Menabbio officiali custodie Pisane civitatis florinos milleducentos sedecim de auro vel eorum valentiam computato quolibet florenos libris tribus et solidis duobus pisanorum sine cabella quos ipse ser Luporus expendi fecit in fortellitiis et reparationibus civitatis Pisane et eius custodie de mandato domini Lucani) [ASP, Comune A, registro 94, carta 7, verso, cc. 1–81]. Questo documento è di grande rilevanza perché, oltre ad aprire uno squarcio di luce sull’attività svolta dal signore di Benabbio, dimostrerebbe che l’esilio di Luporo a Bologna, ricordato dagli storici, in particolare da Niccolò Tegrimi e da Aldo Manunzio il Giovane, è successivo alla morte di Castruccio, e non è stato causato da una rivolta di Luporo contro il grande condottiero lucchese; infatti il documento pisano è datato all’8 Luglio 1328, neanche due mesi prima della morte del Castracani avvenuta il 3 settembre 1328. Luporo come collaboratore di Castruccio è ricordato anche dal Petrarca nei Rerum Memorandarum Libri (per tutti i riferimenti bibliografici si veda: Fornaciari, Coschino, op. cit. alla nota 19).

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Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile

Figura 12.1. Il paese di Benabbio: localizzazione (a) e sviluppo dell’abitato in rapporto al castello (b). Aree del castello sottoposte a scavo stratigrafico (c) (elab. dell’autore).

da Pontremoli, incaricato dai Rossi, con dieci maestri lapicidi portò a compimento la distruzione dei castelli di Benabbio e di Controne. Non si trattò con ogni probabilità, data la velocità delle operazioni, di una distruzione totale, ma piuttosto della defunzionalizzazione ragionata e programmata delle difese del castello, verosimilmente con l’apertura di brecce nelle mura e forse con l’abbattimento della torre principale. Se il castello perse il proprio ruolo militare, l’abitato non dovette andare incontro ad un immediato abbandono, anche se è probabile che allora abbia avuto inizio una progressiva perdita d’importanza demografica a vantaggio dell’insediamento aperto disteso alle pendici del colle ed intorno alla chiesa parrocchiale. Nel XVI secolo, quando Michel de Montaigne visita il colle del Castello, lo descrive ricco di coltivazioni.

Queste ampie superfici di lavoro hanno consentito, da una parte, di seguire lo sviluppo planimetrico del cimitero ottocentesco destinato ai defunti del colera, di riconoscere la porzione dove erano conservati i resti delle inumazioni medievali e di individuare la presenza di una struttura muraria collocata lungo il limite occidentale dell’area; dall’altra parte hanno poi permesso di comprendere gli orizzonti di vita bassomedievali, la disposizione delle strutture incastellate e l’evoluzione strutturale e cronologica delle mura. Contestualmente si è tentato di applicare a tutto lo scavo una serie di metodologie di indagine interrelate e multidisciplinari (GIS, ortofoto, scansioni al georadar) con lo scopo di acquisire informazioni sulla cronologia delle fortificazioni, sul loro sviluppo planimetrico e sulle fasi di abbandono dell’insediamento.

La strategia di scavo

Apporti multidisciplinari delle analisi geospaziali

La strategia di scavo, portato avanti tra il 2007 e il 2013 dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa in concessione ministeriale e diretto dal dott. Antonio Fornaciari, è stata impostata concentrando gli sforzi su quattro porzioni strategiche della collina (fig. 12.1):

La sistematica mappatura delle evidenze portate alla luce con lo scavo stratigrafico e la contestuale ricognizione spaziale dei siti ad esso correlati per i secoli centrali della sua vita hanno consentito di effettuare la sintesi di due importanti aspetti altrimenti inediti: l’evoluzione strutturale del fortilizio e le sue vicende interne, da una parte, e l’articolazione geopolitica dell’areale nel Medioevo, dall’altra.

1. il pianoro attorno alla chiesa di San Michele, un’area nevralgica per la comprensione della storia del sito, collocata al centro dell’insediamento; 2. gli spazi posti all’interno delle mura, sulla sommità meridionale della sella orografica, dove si conservano i resti più cospicui delle fortificazioni; 3. l’area prospiciente al pozzo del castello, nella propaggine meridionale della sella; 4. una torre-cisterna esterna alla cortina muraria, dislocata circa 300 m a meridione del fortilizio.

Lo scavo intensivo del castello ha permesso di ipotizzare, tra XII e XV secolo, quattro fasi di occupazione e rimodulazione del sito: una fase più antica (fig. 12.2 a), risalente per lo meno alla prima metà del XII secolo, in cui esisteva già una cortina muraria sviluppata sul rilievo settentrionale e nell’area dove poi sarebbe sorta la chiesa, collegata ad una serie di edifici di cui è dato 99

Francesco Coschino di cogliere solo parte della pianta tramite GPR. Una fase meglio documentata, iniziata a fine XII secolo con l’erezione di una nuova cortina muraria estesa su tutta la sommità e comprendente rilievo settentrionale, rilievo meridionale, e spianata centrale dove nel 1218 venne eretta la chiesa di San Michele, con il piccolo sagrato adibito a cimitero (fig. 12.2 b). Una terza fase, tra fine XIII ed inizi XIV secolo, che comportò l’abbattimento parziale delle difese del castello, le quali furono mantenute e ripristinate intorno al solo colle meridionale, diviso dal resto dell’insediamento da una nuova cortina che andò ad inglobare almeno un edificio appartenente alla fase precedente (fig. 12.2 c). Infine, una quarta fase, inaugurata nel 1334 dallo smantellamento delle fortificazioni, i residui delle quali vennero sfruttati per nuove strutture abitative. L’abbandono definitivo dell’insediamento sarebbe sopraggiunto intorno alla metà del XV secolo, oltre un secolo dopo che il sito aveva perduto interesse dal punto di vista strategico-militare. Solo nel 1855 il sagrato prospiciente alla chiesa e la spianata settentrionale, dove un tempo doveva sorgere il dongione del castello, vennero riconvertite per un breve lasso di tempo a sepolcreto atto ad accogliere i cadaveri della grande epidemia di Colera (infra: Il progetto Badia Pozzeveri). Questa indagine intensiva delle evidenze archeologiche del castello ha permesso di ampliare l’analisi storico-topografica anche all’intero areale della Val di Lima ridefinendo la lettura che era stata data in merito alla geografia del potere in Toscana nord-occidentale nei secoli XI-XIII.21

investimento signorile che rimodella il paesaggio della valle con la costruzione pianificata di un imponente insediamento fortificato, adatto ad accentrare la popolazione e ad esercitare un serrato controllo su di essa, la terza fase sembra segnare la fine della pressione signorile ed una rimodulazione in senso militare di una parte del castello. Agli albori del XIV secolo, infatti, Benabbio è ormai assorbito completamente dallo stato lucchese, ed in età castrucciana la politica di guerra della città si riverbera nel rispristino in funzione schiettamente bellica di numerosi castelli, che potrebbero a questo punto essere considerati delle vere e proprie fortezze. Il progetto Badia Pozzeveri Localizzazione del sito La chiesa di San Pietro di Pozzeveri si trova nell’omonima località del comune di Altopascio (LU). Già abbaziale del monastero camaldolese di San Pietro, la chiesa ed il campanile rappresentano gli unici edifici superstiti dell’antico cenobio. L’abbazia era posta a brevissima distanza dal tracciato principale della via Francigena che collegava Lucca con Altopascio, e sorgeva su una leggerissima prominenza di circa 20 m s.l.m. che le permetteva di dominare la distesa lacustre e gli acquitrini circostanti il settore nordorientale del lago di Sesto (fig. 12.4). L’area archeologica è sede, dal 2011, di due iniziative didattiche: il master di primo livello in Antropologia scheletrica, forense e paleopatologia, promosso dalle Università di Bologna, Milano e Pisa e la Fieldschool Pozzeveri in Medieval Archaeology and Bioarchaeology, gestita dall’Università di Pisa e da IRLAB, Institute for Research and Learning in Archaeology and Bioarchaeology di Columbus in Ohio.23

In particolare, è stata rivista la definizione del territorio lucchese come area di ‘signoria’ debole, in cui, a causa della persistenza in Lucca dei rappresentanti del potere pubblico fino alle soglie del XII secolo e della precoce affermazione del comune nel contado, il fenomeno dell’incastellamento, espressione di questi poteri, non sarebbe stato capace di trasformare il paesaggio insediativo in maniera sostanziale. Le indagini storico-archeologiche hanno fatto invece intuire una geografia del potere molto disomogenea, identificando all’interno della diocesi lucchese aree d’impatto diverse del fenomeno della signoria territoriale.22 In questo senso il castello assurge a simbolo stesso della privatizzazione e della localizzazione dell’autorità politica, anche se un rapporto di filiazione diretta tra castello e diritto signorile è tutt’altro che scontato. Sottoponendo ad analisi topologica il territorio all’interno del quale il castello di Benabbio si dovette interfacciare con le altre realtà insediative, è stato possibile tracciare l’assetto geopolitico del paesaggio medievale, definendo le aree di competenza e influenza dei pivieri e dei fortilizi ad essi collegati (fig. 12.3).

La vicenda storica ricostruita dalle fonti scritte.24 La prima menzione della località di Pozzeveri si ha nell’anno 952, quando Uberto, marchese di Tuscia e figlio di Ugo di Provenza, concede a Teudimondo Fraolmi quinque casis set rebus illis massariciis in loco et finibus ubi dicitur Pozeuli, condotte dai massari Flaiperto, Urso, Pietro, Teuzio e Cerbonio. Nel 1039 la località è nuovamente nominata nelle carte lucchesi come un borgo che comprende due edifici ecclesiastici: la chiesa di Santo Stefano que esse videtur in Burgo de Puctieuli, e la chiesa di San Pietro prope suprascripto burgo de Puctieuli. Successivamente al 1044 il borgo di Pozzeveri e la chiesa di Santo Stefano non saranno più nominate nelle carte

A partire da ciò sono state reinterpretate le fasi di trasformazione architettonica succitate in funzione dei macro-eventi che influenzarono le sorti dell’areale. In tal senso se la seconda fase corrisponde ad un grosso

23  Lo scavo vede la direzione scientifica del dott. Antonio Fornaciari. Chi scrive è direttore della documentazione dei rilievi e coordinatore della ‘Fieldschool Pozzeveri’. 24  Le notazioni storiche, per la maggior parte reperite negli Archivi Arcivescovile e Capitolare lucchesi e nella Biblioteca Statale di Lucca, sono state raccolte e sintetizzate nel saggio ad opera di A. Fornaciari e dello scrivente (A. Fornaciari, F. Coschino, et alii, «Badia Pozzeveri (LU). Lo scavo bioarcheologico di un monastero lungo la via Francigena», in Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana 11/Saggi, Firenze 2015, pp. 123–135).

21  C. Wickham, The mountains and the city. The Tuscan Appennines in the Early Middle Ages, Oxford 1988. 22  J.A. Quirós Castillo, El incastellamento en la ciudad de Luca (Italia), siglos X–XII. Poder y territorio entre la Alta Edad Media y el sieglo XII, B.A.R. International Series, 811, BAR Publishing, Oxford, 1999.

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Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile

Figura 12.2. Evoluzione del castello tra XII e XIV sec. (elab. dell’autore).

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Francesco Coschino

102 Figura 12.3. Castelli e plebati nella Val di Lima del XIII sec. (elab. dell’autore).

Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile

Figura 12.4. Localizzazione del sito di Badia Pozzeveri e aree di scavo (elab. dell’autore).

arcivescovili, mentre la chiesa di San Pietro, a partire dal 1056, diventa la sede di una comunità di sacerdoti. La nuova canonica, creata seguendo i dettami della riforma della chiesa che in quegli anni trovava nei vescovi lucchesi e nella città di Lucca particolare vigore, è la terza ad essere istituita nella diocesi lucchese dopo la canonica di Santa Maria a Monte (1025) e la canonica della cattedrale di San Martino (1048). Già nel 1086 i documenti ci parlano di ecclesia et monasterium beati sancti Petri apostoli qui est consctructus in loco ubi dicitur Potieule, ed il riconoscimento della trasformazione della canonica in monastero è sancita nel privilegio del pontefice Urbano II del 1° febbraio 1095, con il quale è stabilito pure il diritto di libera sepoltura. A partire dal 1103 fa la sua comparsa un abbas come rettore del monastero, mentre fino ad allora si era sempre trattato di un rector o di un prior; è probabile che questo cambiamento di titolatura coincida con l’ingresso a Pozzeveri dei Camaldolesi di San Romualdo. Nello stesso anno si ha notizia di un ospedale annesso al monastero e retto da un certo Morando, che sottolinea il rapporto strettissimo dell’istituzione monastica con la viabilità francigena.

molitorie condotte in cinque opifici installati sulla Pescia Minore, a cui vanno aggiunti l’allevamento del bestiame e lo sfruttamento della porzione nordorientale del padule e del lago di Sesto. Il XIV secolo vede l’area dell’abbazia al centro delle vicende belliche toscane con conseguente danneggiamento del suo territorio e degrado dell’istituzione, che comincia allora la propria decadenza. Nel settembre del 1325 l’abbazia è occupata, insieme ai terreni circostanti, dagli accampamenti dell’esercito fiorentino guidato da Ramondo di Cardona, ed il 22 settembre proprio tra la Badia e Altopascio si svolgono le operazioni militari della celebre battaglia che vide il trionfo di Castruccio. L’abbazia è abbandonata per alcuni decenni dalla comunità di monaci a causa delle guerre continue con Firenze; le rendite sono limitate dalle distruzioni e dai saccheggi che causano lo spopolamento delle terre del monastero. La comunità di monaci si è ormai stabilita a Lucca, nella casa dell’Abbazia fuori porta San Gervasio. L’ultimo abate, Agostino, resse l’istituzione camaldolese dal 1388 al 1408, ma rimasto senza monaci sembra operare come un qualsiasi abate commendatario fino alla soppressione definitiva dell’ente che, con bolla pontificia del 3 luglio 1408, è unito da papa Gregorio XII al capitolo della cattedrale lucchese.

L’abbazia, riccamente dotata dai nobili porcaresi, suoi giuspatroni, riceve ulteriori donazioni nel corso del XII e XIII secolo ampliando il proprio patrimonio immobiliare. Tra le attività economiche più redditizie dell’ente, insieme ai proventi delle coltivazioni di numerosi appezzamenti di terra situati nella lucchesia orientale, hanno un posto di particolare rilievo le attività

Nel corso dell’età moderna la chiesa abbaziale di san Pietro divenne la parrocchiale dell’insediamento sparso di Pozzeveri, distribuito tra il rio Tazzera e la fossa navareccia 103

Francesco Coschino di Altopascio, delimitato a nord dalla via Francigena ed a sud dalle paludi del lago di Sesto.25

gestione integrata di elementi di diversa natura provenienti da contesti multidisciplinari. Lo spunto metodologico che sottendeva a questo tentativo è stato reso effettivo grazie ad una raccolta sistematica e completa di ogni tipo di dato proveniente dallo scavo (Unità Stratigrafiche, reperti mobili, reperti osteologici, strutture, ecc.), a partire dal suo posizionamento spaziale, in modo da creare un geoarchivio globale. Ciascun record è stato poi arricchito da una base descrittiva alfanumerica e da una serie di prese fotografiche, multimediali e fotogrammetriche. Un altro aspetto da rimarcare riguarda la natura open source o freeware dei programmi che si è scelto di utilizzare.

Le emergenze monumentali e le tracce sepolte Dell’abbazia medievale si conservano in elevato le strutture della torre campanaria, fino al terzo superiore, e della chiesa (abside, transetto e porzioni dei fianchi). La chiesa e la torre campanaria hanno subito, nel corso del XIX secolo, cospicui interventi di ristrutturazione che ne hanno alterato l’originaria veste romanica, tuttavia, sia la pianta della chiesa, ad unica navata con transetto, che la struttura della porzione inferiore della torre, così come il paramento della tribuna e del transetto della chiesa, risultano ben leggibili. L’abside romanica – realizzata nella porzione inferiore in conci squadrati di verrucano, rifilati a nastrino e spianati a subbia – risulta paragonabile agli esempi migliori del romanico lucchese di XII secolo, e trova i confronti più immediati in alcune fabbriche cittadine quali il San Giusto ed il San Frediano. Il transetto è costruito con una tecnica mista che prevede l’impiego di conci squadrati in verrucano, nei cantonali, e di bozzette di arenaria per i paramenti.

L’applicazione di tali metodologie ha dato vita ad una piattaforma multidimensionale comprendente un GIS bi- e tridimensionale che raccoglie in sé tutti i contesti archeologici, bioarcheologici e topografici, assumendo così il ruolo di ‘memoria storica’ non soltanto della diacronia del sito, ma anche delle azioni stesse che lo scavo stratigrafico ha prodotto negli anni. Al GIS si è aggiunto negli ultimi anni un WebGIS accessibile al pubblico da qualsiasi browser comprendente una parte dei contesti archeologici portati alla luce.26 I dati di scavo sono inoltre stati immessi in un pacchetto di schede che trovano pendant all’interno di un database relazionale unitario sviluppato su web, che garantisce un rapido accesso a un numero illimitato di compilatori senza il pericolo della perdita o della ridondanza dei dati. Grande rilievo è stato inoltre dato alle ricostruzioni tridimensionali, sia a base geo-vettoriale, che fotogrammetrica; in ciò un’attenzione particolare hanno meritato le sepolture, che sono state acquisite attraverso prese fotografiche ed inserite in ambiente geografico attraverso l’impiego di particolari software. Un ultimo aspetto a cui è stata dedicata particolare attenzione è stata la divulgazione dei dati: in tal senso il sito web della Divisione di Paelopatologia27 ha accolto i resoconti quotidiani di tutte le campagne di scavo, con testi (sia in italiano che in inglese), immagini, filmati, ricostruzioni, che, nella loro facilità di accesso, costituiscono una banca dati di immediata consultazione.

La base della torre campanaria, edificata in pietre tagliate e approssimativamente rifilate, murate in corsi irregolari con abbondante impiego di legante, risale probabilmente all’XI secolo, epoca della prima Canonica di Pozzeveri; trova infatti qualche confronto in territorio lucchese con il campanile del San Cassiano di Controne e della Pieve di San Macario. I resti dell’abbazia medievale (refettorio, capitolo, chiostro, ambienti abitativi del monastero) sono completamente sepolti. Dalla presenza comunque di un pozzo, collocato a sud della chiesa e compreso probabilmente nel chiostro del monastero, si può evincere come le strutture abbaziali si sviluppassero a sud dell’edificio sacro. L’intera area sottoposta a indagine stratigrafica (oltre 1000 mq) ha restituito le tracce dell’antico complesso monastico, costituito dal grande chiostro e dalla chiesa abbaziale (10 m più lunga dell’attuale) nonché di cospicui orizzonti cimiteriali, che coprono una diacronia di oltre mille anni ed hanno restituito oltre 400 scheletri. Di particolare rilievo le sette sepolture pertinenti ad una epidemia di colera che, tra l’estate e l’autunno del 1855, uccise 99 persone nel circondario.

Lo scopo di tale lavoro non è stato soltanto quello di incamerare la maggior quantità possibile di dati, in modo da poterli recuperare senza perdita di affidabilità e qualità, ma anche di fornire al pubblico un accesso estremamente trasparente a buona parte di ciò che viene portato in luce.

Apporti multidisciplinari delle analisi geospaziali

Nel dettaglio il GIS ha permesso, seguendo una linearità scalare dal piccolo al grandissimo, di contestualizzare il sito all’interno del paesaggio antico, di ricostruire le fasi architettoniche del monastero e di mappare l’intero campione scheletrico.

Il cantiere di Badia Pozzeveri si è rivelato un ottimo banco di prova per l’applicazione e lo sviluppo di nuove tecnologie informatiche per la gestione del dato archeologico. Il tentativo portato avanti dall’equipe è stato quello di creare una base digitale in grado di raccogliere, analizzare e confrontare le informazioni provenienti dalle diverse attività di ricerca praticate sia in cantiere che in laboratorio. Si trattava, evidentemente, di elaborare dei protocolli di

Per quanto riguarda il primo punto, la sovrapposizione georiferita di carte storiche ha consentito di comprendere 26  Il WebGIS è navigabile da questo indirizzo: https://attivita. paleopatologia.it/Badiapozzeveri/GIS/ [consultato in data 19.12.2020]. 27  https://attivita.paleopatologia.it/Badiapozzeveri [consultato in data 19.12.2020].

Un ampio quadro storico è tracciato da M. Seghieri nel suo volume Pozzeveri. Una Badia: M. Seghieri, Pozzeveri. Una badia, Pescia 1978, passim. 25 

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Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile

Figura 12.5. Siti archeologici a sud-est di Lucca e nel bacino del Bientina tra preistoria ed età romana; in overlay la planimetria ‘Inondazione per la Tura. Disegni della Serezza’ (1755) [Archivio di Stato di Lucca, Offizio sopra i Paduli di Sesto] e i sedimi abitativi e i toponimi tra l’inizio del XIX e il XX [Catasti Storici Regionali ‘Castore’].

a. Fase premonastica (XI-XII sec., fig. 12.6 b): a questa fase cronologica risalgono alcune evidenze archeologiche e bioarcheologiche individuate principalmente di fronte alla facciata della chiesa attuale e nella zona orientale, intorno all’abside. L’immagine restituita dall’indagine archeologica è quella di un complesso di edifici formato da una chiesa ad unica navata orientata ovest-est, demolita e in parte spoliata agli inizi del XII secolo per l’edificazione della nuova abbaziale camaldolese, che ne ha sfruttato i perimetrali, mantenendo la medesima larghezza e allungando verso ovest la navata di oltre 7 m, un campanile situato in prossimità dell’abside della chiesa, il cimitero posto a nord-est dell’edificio religioso. A ovest si ergevano alcuni edifici, forse usati come casa canonicale a partire dal 1056. A sud della chiesa e a sud-est della probabile canonica era stato realizzato un pozzo, probabilmente circondato da altri annessi funzionali alla vita dell’istituzione religiosa. b. Fase monastica (XII-XV sec., fig. 12.6 c): il XII secolo si apre con profonde trasformazioni per il sito di Pozzeveri, che da canonica diventa sede di un monastero. Al cambiamento istituzionale si accompagna una totale ridefinizione dell’impianto architettonico, che assorbe e modifica le strutture già esistenti, sfruttandole per la nuova abbazia camaldolese. Dai ritrovamenti appare evidente che il monastero venne edificato a partire dagli inizi del

l’effettivo areale che, tra XII e XV secolo, cadeva sotto la pertinenza amministrativa del cenobio camaldolese. L’incrocio con i dati storici ricavati dagli archivi lucchesi mostra l’ampiezza della sfera di influenza della congregazione di Pozzeveri, che si estendeva dai confini dello stato Fiorentino sino a sotto le mura di Lucca. Ma rimarca anche i drammatici cambiamenti paesaggistici dell’intero territorio: le ridefinizioni costanti degli assi viari in funzione delle variazioni geopolitiche, la riconfigurazione degli assetti urbanistico-demografici basso- e post-medievali, con la scomparsa di abitati e insediamenti antichi la fondazione di nuovi. Infine, evidenzia i profondissimi mutamenti del territorio, di volta in volta ridisegnato da canalizzazione navigabili, contrazioni ed espansioni del grande lago di Sesto e, infine, ormai nel XIX secolo, il completo prosciugamento e la bonifica di quest’ultimo (fig. 12.5). Ampliando la scala, grazie ad una costante georeferenziazione delle evidenze portate alla luce durante lo scavo (fig. 12.6 a), è stato possibile dare sostanza grafica alle ipotesi evolutive del complesso monastico e della fabbrica sacra durante i suoi secoli di vita (dall’XI al XX secolo). In particolare, sono state identificate tre macrofasi, corrispondenti ad altrettante evoluzioni architettoniche: 105

Francesco Coschino

Figura 12.6. GIS generale di scavo (a) e ricostruzioni planimetriche delle fasi: (b) pre-abbaziale (X–XI sec.), (c) abbaziale (XII–X sec.), (d) parrocchiale moderna e contemporanea (XVI–XX sec.) (elab. dell’autore).

intensificano tra ’400 e ’500. Intorno alla seconda metà del XVI secolo la porzione anteriore della ex chiesa abbaziale è in stato avanzato di crollo, e la chiesa subisce un ridimensionamento. Una nuova facciata viene edificata 10 m ad est della fronte della chiesa medievale, nella forma che possiamo apprezzare ancora oggi. A sud della chiesa gli ambienti del monastero sono un cumulo di macerie e una grossa cava di materiali costruttivi, soltanto lo spazio immediatamente a ridosso del perimetrale meridionale è occupato dagli edifici della nuova canonica parrocchiale, mentre all’abside e al transetto sud viene addossata una casa colonica e una stalla. Di fronte alla facciata della chiesa parrocchiale moderna resta quindi una sorta di recinto rettangolare di 9 × 10 m formato dai perimetrali, rasati a pochi centimetri di altezza, della chiesa camaldolese, utilizzato come sepolcreto sino alla metà del XVIII sec.; a partire dalla fine del secolo e fino alla costruzione del cimitero attuale (1857–1860) questo viene spostato a nord della chiesa e ordinato cimitero parrocchiale del villaggio: in quest’area, nel 1855, vengono deposti 99 cadaveri vittime dell’epidemia di Colera che si diffuse in tutta Europa.

secolo su strutture più antiche, in parte demolite in parte assorbite dai nuovi edifici. L’attività costruttiva promossa dai camaldolesi inizia con l’ampliamento della chiesa e la costruzione di un grande chiostro, a cui subentrano nuovi interventi nella seconda metà dello stesso secolo che sembrano rimarcare una gerarchizzazione degli spazi monastici su modello cistercense. Un muro di cinta circoscrive gli spazi interni al cenobio rispetto allo spazio accessibile ai laici, che usufruivano del sagrato e dell’area a nord della chiesa per ricavare le proprie sepolture. Tra queste si distinguono alcune tombe in cassa litica addossate alla chiesa, o collocate a breve distanza da essa in posizione privilegiata. Lo spazio funerario dei monaci era invece ricavato all’interno del monastero, nei corridoi del chiostro, secondo una precisa pianificazione che prevedeva ampiamente la possibilità di riutilizzare gli spazi sepolcrali con la riduzione degli inumati precedenti. c. Fasi post-medievali e moderna (XV-XX sec., fig. 12.6 d): in seguito alla soppressione dell’abbazia, nel 1408, le strutture del monastero vanno in rovina. Al progressivo crollo delle coperture si accompagnano i primi processi di spoliazione delle murature che si 106

Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile

Figura 12.7. Dettaglio del GIS di scavo: sepolture dell’XI–XII secolo nel sagrato della Canonica di San Pietro a Pozzeveri (elab. dell’autore).

Conclusioni e stato dell’arte

Aumentando ancora lo zoom, sino ad una scala 1:1, è stato realizzato un GIS di cantiere in cui sono state inserite tutte le evidenze rinvenute in fase di scavo; si è scelto di utilizzare una metodologia di rilievo e valorizzazione all’interno della quale tutte le istanze schedate mantenessero lo stesso peso semantico, sia che si trattasse di reperti archeologici, strutture, unità stratigrafiche o unità scheletriche. L’incrocio dei dati stratigrafici e topologici ha permesso così di definire le relazioni spaziali nelle tre dimensioni, creando dunque una mappa di distribuzione sistematica che ha consentito di comprendere la stratigrafia orizzontale dei diversi orizzonti insediativi e cimiteriali e di fasizzare diacronicamente i periodi d’uso e le attività dell’intero sito (fig. 12.7).

Alla luce della disamina effettuata all’interno di questo contributo, si può concludere che le piattaforme geografiche, nella loro applicazione pratica ai beni culturali, abbiano ormai raggiunto la piena maturità e possano apportare, se correttamente declinate, un enorme aiuto nella comprensione e nella sintesi dei risultati prodotti dalle ricerche sul campo. Le moderne tecnologie ci permettono al giorno d’oggi di gestire enormi moli di dati e di trattarle secondo diverse e complementari prospettive ermeneutiche. Certo, ci vuole competenza e capacità per non lasciarsi sopraffare dalla tentazione di delegare al calcolatore ambigue predizioni in merito alla distribuzione geografica degli insediamenti nel passato o al potenziale archeologico di un’areale; con le parole di Robert Clenhall, ci si potrebbe chiedere “will computers serve archaeology, or archaeology computers?”.30 Ebbene siamo sicuri che la risposta dipenda in modo sostanziale dalla consapevolezza e dalla sensibilità del ricercatore, il quale avrà sempre il dominio sulla macchina, se sarà in grado di asservirla ai propri scopi. È infine quantomai opportuno accompagnare i risultati che il calcolatore

Grande importanza è stata infine data alla divulgazione dei dati e alla condivisione dei risultati, primariamente alla comunità locale e, più in generale, a tutti gli interessati. Una buona parte della piattaforma GIS è stata caricata online e resa consultabile da tutti28; si è inoltre attivato un diario di scavo web che raccoglie il resoconto quotidiano delle attività sul campo, filmati, ricostruzioni fotogrammetriche, modelli tridimensionali (fig. 12.8) e fotografie.29

R.G. Chenhall, The Impact of Computers on Archaeological Theory: An Appraisal and Projection. Computers and the Humanities, Londra 1968, pp. 15–24.

Vedi nota 26. Tutto il materiale è disponibile a questo indirizzo: https://attivita. paleopatologia.it/Badiapozzeveri [consultato in data 19.12.2020].

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Francesco Coschino

Figura 12.8. Modello ricostruttivo tridimensionale dell’abbazia di Pozzeveri nel XIII-XIV sec. (elab. dell’autore).

contribuisce a sviluppare ad una sapiente opera di divulgazione: è infatti compito primario dell’archeologo narrare con voce chiara il frutto del proprio lavoro, anche a rischio di subire critiche e appunti. Le moderne branche dell’archeologia post-processuale rimarcano non a torto il crescente peso dell’archeologia pubblica, ponendola su un piano epistemologico non così distante da quello che lo scavo stratigrafico produce nell’interpretazione di un’evidenza archeologica. Produrre una narrazione fruibile dal pubblico non specialista significa, utilizzando le parole di Marco Valenti, dar vita ad un’operazione:

Brogiolo, G.P., Archeologia urbana in Lombardia. Valutazione dei depositi archeologici e inventario dei vincoli, Modena 1983. Burrough, P., Principles of geographical information systems for land resource assessment, Oxford 1986. Carandini, A., Storie dalla Terra, Torino 1981. Chenhall, R.G., The Impact of Computers on Archaeological Theory: An Appraisal and Projection. Computers and the Humanities, Londra 1968. Francovich, R., Archeologia medievale ed informatica, Firenze 1999.

clearly open to everybody, where we capture the attention of the audience through ‘doing’. It becomes therefore possible to communicate scientific data produced by archaeological investigations, often combined with historical facts in order to provide a complete picture of the world we are representing.31

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Il GIS come mezzo di analisi e divulgazione di contesti archeologici e bioarcheologici su scala variabile Larsen, C.S., Bioarchaeology: Interpreting Behavior from the Human Skeleton, Cambridge 1997. Preatti del Workshop Soluzioni G.I.S. nell’informatizzazione dello scavo archeologico, Siena 9 giugno 2001, edizione digitale: http://archeologiamedievale.unisi.it/ NewPages/work31.html. Quirós Castillo, J.A., El incastellamento en la ciudad de Luca (Italia), siglos X–XII. Poder y territorio entre la Alta Edad Media y el sieglo XII, B.A.R. International Series, 811, BAR Publishing, Oxford, 1999. Renfrew, P., Bahn, C., Archaeology: Theories, Methods and Practice, Londra, 1991. Seghieri, M., Pozzeveri. Una badia, Pescia 1978. Steinberg, S.J., Steinberg, S.L., Geographic Information Systems for the Social Sciences: Investigating Space and Place, Londra 2005. Summers, F., Atalan, N., Aydin, N., et alii, «Documentation of Archeological Ruins and Standing Monuments Using Photo‐Rectification and 3D Modeling», in Proceedings of the XIXth International Symposium CIPA 2003 CIPA 2003, New Perspectives to Save Cultural Heritage (a cura di Altan, M.O.), Atti del convegno (Antalya, Turkey, 30 September – 04 October 2003), Antalya 2003, pp. 660‐668. Wickham, C., The mountains and the city. The Tuscan Appennines in the Early Middle Ages, Oxford 1988. Wilhelmson, H., Dell’Unto, N., «Virtual Taphonomy: A New Method Integrating Excavation and Postprocessing in an Archaeological Context», in American Journal of Physical Anthropology, 157, 2015, pp. 305–321. Valenti, M., «“We invest in Public Archaeology”. The Poggibonsi Archaeodrome project: an alliance between people, Municipality and University», in European Journal of Postclassical Archaeologies, 6, Mantova 2016, pp. 422–423. Valenti, M., «Archeologia Pubblica in Italia: un tema di grande attualità e una serie di equivoci», in Atti del VIII Congresso nazionale di archeologia medievale, Firenze 2018, pp. 31–34.

109

13 Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale: studi morfologici ed archeometrici Luisa Russo (PhD candidate) Università di Pisa Abstract: Production and circulation of uncoated medieval ceramics in southwestern Tuscany: morphological and archaeometric studies. The contribution is part of the ERC nEU-Med project with which the Department of Historical Sciences and Cultural Heritage of the University of Siena wants to investigate the dynamics of economic growth in southern Tuscany between the 7th and 12th centuries, through a multidisciplinary study in the sample territory of Colline Metallifere in the province of Grosseto. This research aims to verify the local nature of some ceramic products, to understand the dynamic of supply of raw materials and to identify the diffusion scale of these potteries. 28 ceramic samples were selected, in coarse and selected ware, datable between 7th and 9th/10th centuries, from Monterotondo Marittimo, Scarlino e Roccastrada, and six clay samples from Monterotondo, Riotorto/Follonica, Roccastrada and Bolgheri/Donoratico; these are all investigated by morphological studies first and then by petrographic and chemical analysis, resulting in a good compatibility. Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale: studi morfologici ed archeometrici. Il contributo è parte del progetto ERC nEU-Med, con il quale il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena vuole indagare le dinamiche di crescita economica nella Toscana meridionale tra VII e XII secolo, attraverso uno studio multidisciplinare nel territorio campione delle Colline Metallifere grossetane. La presente ricerca si propone di verificare la natura locale della produzione di alcune ceramiche, di comprendere le modalità di approvvigionamento delle materie prime e di circolazione dei prodotti finiti. Sono stati selezionati 28 campioni ceramici con impasto grezzo e semidepurato, databili tra VII e IX/X secolo, rinvenuti nei siti di Monterotondo Marittimo, Scarlino e Roccastrada, e sei campioni di argilla da Monterotondo, Riotorto/Follonica, Roccastrada e Bolgheri/Donoratico, sottoposti, oltre che allo studio morfologico tradizionale, ad analisi minero-petrografiche, chimiche con ICP-MS e –OES e pXRF, restituendo una buona compatibilità. Introduzione

del comprensorio delle Colline Metallifere grossetane2 (fig. 13.1), un areale da lungo tempo al centro di numerose e diversificate indagini condotte, attraverso scavi e ricognizioni di superficie, dall’Università di Siena, sotto la direzione scientifica del Prof. Riccardo Francovich prima, e successivamente della Prof.ssa Giovanna Bianchi.3 L’importanza di questo comprensorio deriva soprattutto dalla particolare composizione dei suoli ricchi di solfuri misti, oltre che dall’abbondanza di risorse di varia natura, tra le quali quelle idriche, boschive e geologiche

La presente ricerca si inserisce all’interno del progetto ERC nEU-Med in svolgimento dal 2015 presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, che si propone di indagare, grazie alle competenze di un team interdisciplinare, le dinamiche di accrescimento economico intercorse tra VII e XII secolo attraverso un’analisi comparativa che ha il suo focus in una specifica area campione della Toscana meridionale.1 I due principali punti di forza del progetto sono, in primo luogo, la multidisciplinarità, vedendo la partecipazione attiva alle ricerche di vari dipartimenti afferenti ad Atenei italiani ed europei oltre a quello senese, ed in secondo luogo il territorio oggetto dello studio. Si tratta

1 

Il comprensorio ha un’estensione ben più ampia, interessando quattro province (Livorno, Pisa, Siena e Grosseto) e diciassette comuni. Le ricerche dell’Università di Siena si sono concentrate, in particolare per questo lavoro, nei territori comunali di Monterotondo Marittimo, Massa Marittima, Scarlino e Roccastrada, tutti in provincia di Grosseto. 3  Si fa riferimento a questo testo, edito tra i più recenti, in quanto racchiude, in modo esaustivo, la maggior parte della bibliografia relativa alle ricerche pregresse sui territori in esame: G. Bianchi, «Recenti ricerche nelle Colline Metallifere ed alcune riflessioni sul modello toscano», in Archeologia Medievale, XLII, Firenze, 2015, pp. 9–26. 2 

Bianchi, Hodges 2018.

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Luisa Russo

112 Figura 13.1. Il comprensorio toscano delle Colline Metallifere (elab. grafica dell’autrice su base di A. Briano).

Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale Metodologia

(in particolare, come vedremo, è il caso dell’argilla), che sicuramente hanno a lungo influenzato le dinamiche storiche ed economiche di questa zona dalle epoche più antiche sino ai giorni nostri.4

I campioni ceramici Il lavoro è stato condotto partendo dalla selezione dei siti e dei campioni ceramici da essi provenienti. L’areale di riferimento è quello compreso tra i Comuni di Monterotondo Marittimo, Scarlino e Roccastrada (GR). Per quanto riguarda i materiali, innanzitutto è stato effettuato uno studio tradizionale dei reperti: i singoli manufatti sono stati schedati, disegnati a mano, fotografati e, mediante ricerca bibliografica, posti a confronto per tipologia e datazione con esemplari simili, provenienti da siti coevi e geograficamente più prossimi, per includere, quando necessario, insediamenti localizzati in areali più distanti.

I primi risultati delle più recenti ricerche, avviate con l’inizio del progetto nEU-Med nell’ottobre 2015, sono confluiti in due volumi editi tra il 2018 ed il 20205, in alcuni articoli tematici, in tesi di laurea magistrale6 e ricerche di dottorato.7 Alcuni di questi studi in particolare hanno avuto come argomento principale una delle tematiche cardine del progetto: la circolazione di prodotti ceramici acromi di epoca medievale nei territori sopra descritti ed il reperimento delle materie prime. Con il presente contributo si intende affrontare esattamente quest’ultima tematica, seppur in via preliminare in quanto lo studio è parte di un lavoro maggiormente ampio ed articolato.8 In breve, le finalità della ricerca possono essere così elencate:

Il set di campioni ceramici è costituito da ventotto frammenti, databili tra VII/VIII e IX/X secolo11, per lo più in acroma grezza e semidepurata, pochissimi invece in depurata poiché spesso meno caratterizzabili a livello petrografico. Tra le forme sono state selezionate olle (RS24, RS35, RS90, RS91, CSN11), brocchette (MR36, MR40) e catini-coperchio (RA29) per le ceramiche da cucina, brocche (RA4, CSN15, VS_CSN33, VS_CSN38, VS_CSN40), grandi contenitori (MR20, MR21), catini (CSN12), catini-coperchio (RA26) per la ceramica da mensa e dispensa, e infine particolare attenzione è stata rivolta alle anforette12 (RO105, 106, CSN108-115, RA116,117) per la ceramica da stoccaggio o trasporto (fig. 13.2).

–– verificare la natura ‘locale’ di alcune produzioni ceramiche rinvenute nel territorio preso in esame. Tale ipotesi è stata formulata in passato da altri studiosi del settore, ed in parte verificata.9 –– Comprendere le dinamiche di approvvigionamento delle materie prime, in particolare quelle di formazione argillosa, funzionali alla produzione ceramica.10 –– Individuare, infine, la scala di diffusione a livello territoriale delle ceramiche acrome di interesse per questo studio.

I campioni provengono sia da siti indagati con scavo stratigrafico (Rocca degli Alberti a Monterotondo M.mo, Rocchette Pannocchieschi a Massa Marittima, Vetricella a Scarlino), che dal territorio oggetto di ricerche di superficie (Monterotondo M.mo, Roccastrada).

4  L. Dallai, R. Francovich, «Archeologia di miniera ed insediamenti minerari delle Colline Metallifere grossetane nel Medioevo», in Il calore della terra. Contributo alla storia della geotermia in Italia, (a cura di M. Ciardi, R. Cataldi), Pisa, 2005, pp. 126–142; E. Ponta, Il paesaggio e le sue trasformazioni tra IV e VIII secolo d.C. fra costa ed entroterra. Il caso della Toscana centro-meridionale, tesi di dottorato di ricerca in Scienze dell’Antichità e Archeologia, XXX Ciclo, Università di Pisa, a.a. 2014/2015. 5  Bianchi, Hodges 2018; The nEU-Med project: Vetricella, an Early Medieval royal property on Tuscany’s Mediterranean, (a cura di G. Bianchi, R. Hodges), Biblioteca di Archeologia Medievale, 28, Firenze, 2020. 6  Intermite 2018. 7  In particolare si fa riferimento al dottorato Pegaso, XXXII ciclo, discusso nel mese di marzo dalla dott.ssa Arianna Briano, dal titolo La ceramica a vetrina sparsa nella Toscana alto medievale: produzione, cronologia e distribuzione, al lavoro nell’ambito del dottorato di Scienze della Terra dell’Università di Siena, XXXIII ciclo, del Dott Giulio Poggi, Evoluzione del paesaggio storico e dinamiche uomo-ambiente: sistemi di fonti, remote sensing e multi-proxies ambientali (pianura costiera del fiume Cornia, Toscana meridionale, Italia, e alla ricerca condotta dalla scrivente, all’interno del dottorato Pegaso, XXXIII ciclo, Ricerche su di un contenitore da trasporto medievale (VIII-XII secolo): le ‘anforette’ del sito di Vetricella (Scarlino, GR). 8  Si fa riferimento nello specifico al lavoro, sempre all’interno del progetto, portato avanti dalla scrivente insieme a E. Ponta, D. Intermite (Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali), C. Fornacelli (Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’ambiente), V. Volpi (Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Biotecnologie, chimica e farmacia). 9  S. Guideri, «Il popolamento medievale attraverso un’indagine di superficie», in Archeologia a Montemassi: un castello tra storia e storia dell’arte (a cura di R. Parenti, S. Guideri), Firenze, 2000, pp. 11–38; F. Grassi, La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato e le vie di commercio tra VIII e XIV secolo. Il caso della Toscana meridionale, Oxford 2010. 10  Intermite 2018.

Le argille Per quanto riguarda le materie prime, lo studio13 è iniziato con l’esame della Carta Geologica Regionale (scala 1:10000 – Regione Toscana 2003–2006) e della Carta Geologica d’Italia (1:50000)14, al fine di individuare e 11  In alcuni casi si tratta di materiale residuale in stratigrafie più tarde, come ad esempio per i catini-coperchio da Rocca degli Alberti rinvenuti in stratigrafie di XII secolo (L. Russo, La ceramica di Rocca degli Alberti a Monterotondo Marittimo (GR) tra alto e basso medioevo (VIII-XIV secolo), tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Siena, a.a. 2013/2014). 12  Per questa classe di materiali in particolare, Briano, et alii, 2018, pp. 104–115, 200–205. 13  Questo lavoro è stato svolto soprattutto in occasione della tesi di laurea magistrale discussa dal dott. D. Intermite (Intermite 2018), ed implementato per il lavoro di dottorato della dott.ssa A. Briano (op. cit. alla nota 7). 14  A. Cerrina Feroni, S. Da Prato, M. Doveri, A. Ellero, M. Lelli, L. Marini, B. Masetti, B. Raco, «Caratterizzazione geologica, idrogeologica e idrogeochimica dei corpi idrici sotterranei significativi della regione Toscana (CISS): 32CT010 “Acquifero costiero tra Fiume Cecina e San Vincenzo”, 32CT030 “Acquifero costiero tra Fiume Fine e Fiume Cecina”, 32CT050 “Acquifero del Cecina”», in Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia, LXXXIX, 2010, pp. 5–80.

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Luisa Russo

Figura 13.2. Alcuni esempi dei frammenti ceramici sottoposti alle analisi archeometriche. I frammenti provengono da Roccastrada (RS), Rocca degli Alberti (RA), Monterotondo (MR), Rocchette Pannocchieschi (RO), Vetricella (CSN) (elaborazione grafica disegni: A. Briano, E. Ponta, L. Russo).

selezionare le cave in base alla diversa natura dei depositi geologici. In un secondo momento il lavoro si è spostato sul campo per verificare la natura, la visibilità, l’estensione e lo stato attuale degli affioramenti identificati e prelevare il campione necessario (circa 500 gr di materiale), localizzando tramite GPS le coordinate precise del punto di campionatura in ogni giacimento.15

(BOL184), corrispondenti a diverse zone del territorio preso a campione, rispettivamente un transetto centrale tra interno (Monterotondo M.mo – GR) e costa (Riotorto, Follonica – GR), la zona interna di Roccastrada (GR) a sud e la fascia costiera di Bolgheri-Donoratico (LI) a nord (fig. 13.3). La zona di Monterotondo comprende un areale piuttosto ampio, nel quale è possibile riconoscere sicuramente una formazione di Argille Azzurre, molto diffuse in Toscana meridionale e largamente sfruttate nella produzione di manufatti. Queste argille conferiscono agli impasti con cui vengono realizzati i prodotti una forte connotazione

Sono stati selezionati sei campioni di argille secondo la loro diversa natura: marine (MR177/178, PE171, RT167), con presenza di riolite (RS180, TOR183) e ricche in cromo 15 

Intermite 2018.

114

Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale

Figura 13.3. Localizzazione dei giacimenti argillosi campionati: riquadrati nella legenda sono i campioni presi in esame in questa sede; il simbolo riportato accanto al nome della località nella legenda indica i principali siti e territori da cui provengono i materiali analizzati (elab. grafica dell’autrice su base di D. Intermite).

calcarea, che in alcuni casi si manifesta anche come calcite secondaria.16

È significativo osservare come non siano riportate sulla carta (fig. 13.3) fornaci o apparati produttivi: questo perché sul campo non è stata rinvenuta alcuna traccia archeologica19, nonostante nell’intero territorio siano diffusi toponimi che rimandano ad un ambito produttivo anche specifico20 e che sia noto anche dalle fonti storiche lo sfruttamento di una risorsa quale l’argilla sin dall’epoca romana.21 Lo studio tradizionale è stato, poi, affiancato da analisi archeometriche, eseguite sia sui manufatti ceramici selezionati che sui campioni di argilla prelevati in corrispondenza degli affioramenti precedentemente mappati.

La materia prima campionata a Roccastrada, invece, risulta caratterizzata dalla presenza costante di quarzo con dimensioni standardizzate, vulcaniti e riolite; proprio quest’ultima sembra essere il marker distintivo di questa zona di approvvigionamento.17 Infine, la zona di Donoratico risulta ben distinguibile nelle argille per una ulteriore diversa caratterizzazione rispetto ai giacimenti sopra descritti, dovuta alla presenza di cromite.18

16  C. Fornacelli, «“Small amphoras”: preliminary archaeometric investigations», in Briano, et alii, 2018, pp. 107–108, 202. 17  L. Basile, F. Grassi, E. Basso, M.P. Riccardi, «Gli scarichi di fornace di Roccastrada (GR): nuove analisi tipologiche ed archeometriche», in Late Roman coarse wares, cooking wares and amphorae in the Mediterranean: Archeology and archaeometry (a cura di S. Menchelli, S. Santoro, M. Pasquinucci, G. Guiducci), LRCW3, 1, Oxford 2010, pp. 387–396. 18  E. Tassi, M. Grifoni, F. Bardelli, G. Aquilanti, S. La Fenice, A. Iadecola, P. Lattanzi, G. Petruzzelli, «Evidence for the natural origins of anomalously high chromium levels in soil of the Cecina Valley (Italy)», in Environmental Science: Processes and Impacts, 20 (6), Toscana meridionale, Cinisello Balsamo (MI), 2018, pp. 19–81.

Ad eccezione delle UT 102, 105, 111, 112 di Roccastrada, riconosciute come tali in sede di ricognizione di superficie grazie ad una concentrazione di materiale ceramico nel quale erano presenti degli scarti, attribuibili, appunto, ad un’area produttiva altomedievale (Guideri, «Il popolamento...», art. cit. alla nota 9). 20  Intermite 2018, p. 32. 21  E. Ponta, «Dinamiche di formazione e trasformazione del paesaggio fra Tardantichità ed alto Medioevo. Il caso di Monterotondo Marittimo (GR)», in VII Congresso nazionale di archeologia medievale (a cura di P. Arthur, M. Leo Imperiale), Atti del convegno (Lecce, 9–12 settembre 2015), vol. 1, Firenze, 2015, pp. 499–504. 19 

115

Luisa Russo

Figura 13.4. Analisi delle componenti principali (PCA) (C. Fornacelli). Sono rappresentati con un triangolo i campioni di argilla (sigla RS: Roccastrada, TOR: Torniella, BOL: Bolgheri, MR: Monterotondo, PE: Perolla, RT: Riotorto), mentre con un cerchio i campioni ceramici (sigla CSN: Vetricella, RA: Rocca degli Alberti, MR: Monterotondo, RO: Rocchette Pannocchieschi, RS: Roccastrada). L’immagine mostra i tre principali cluster derivati dalla corrispondenza chimica ceramiche/argille, che equivalgono ai tre areali già indicati nella fig. 13.3: l’area di Roccastrada, quella di Monterotondo, che comprende anche il primo entroterra fino alla fascia costiera, ed infine Donoratico. Per i campioni esclusi dai raggruppamenti sono invece necessari ulteriori analisi di approfondimento.

Le analisi archeometriche

delle analisi pXRF sono stati poi elaborati mediante l’analisi statistica delle componenti principali (PCA) (fig. 13.4). Dal grafico della PCA sembra emergere una generale buona compatibilità tra le argille campionate e le ceramiche selezionate, e, allo stesso tempo, risulta possibile leggere anche dei raggruppamenti ben distinti. Si può apprezzare infatti come certi campioni ceramici si avvicinino ad alcune argille piuttosto che ad altre, e ciò è dovuto ad una maggiore corrispondenza tra i rispettivi elementi chimici.

Le indagini archeometriche hanno previsto analisi petrografiche e mineralogiche, finalizzate all’esame dello scheletro dei corpi ceramici, della loro granulometria e porosità, oltre che della natura e distribuzione degli inclusi, mediante l’osservazione di sezioni sottili in microscopia ottica a luce polarizzata. Le analisi chimiche, invece, consentono di indagare in modo più approfondito la loro composizione secondo gli elementi presenti.22 Per questo tipo di analisi è stata utilizzata sia la metodologia tradizionale, con spettrometria di massa (ICP-MS) e ad emissione ottica (ICP-EOS), sia la fluorescenza a raggi X con strumento portatile (pXRF).23 In particolare, i risultati

La maggior parte delle ceramiche da cucina, mensa e dispensa, quindi olle, brocche, catini, catini-coperchio, rinvenute in modo abbastanza uniforme nel territorio in esame, sembra presentare impasti piuttosto omogenei tra loro e trova corrispondenza prevalentemente con l’area monterotondina e massetana, nell’entroterra, fino alla

22  Molto importanti per la definizione della provenienza, per esempio, sono gli elementi in traccia e le terre rare; cfr. Fornacelli, art. cit. alla nota 16, pp. 110; 203. 23  Per quanto riguarda la metodologia delle analisi e relativa bibliografia si fa riferimento al contributo di Fornacelli, art. cit. alla nota 16, pp. 107– 115, 202–205. Mentre tutti i campioni ceramici ed argillosi sono stati

sottoposti ad analisi petrografiche e pXRF, è stato possibile effettuare le analisi chimiche tradizionali (ICP) sulla maggior parte dei campioni ceramici, ma non sulle argille.

116

Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale

Figura 13.5. Ipotesi di circolazione dei manufatti ceramici all’interno del sistema territoriale definito dai siti/areali di provenienza dei reperti ceramici e dai giacimenti di materia prima (elab. grafica dell’autrice su base di D. Intermite).

Considerazioni conclusive

fascia costiera follonichese, e, seppur in numero minore ed in modo meno evidente, anche con i giacimenti di Roccastrada. Per quanto riguarda le anforette, invece, la questione è leggermente diversa. Nel set di campioni qui presentato, le anforette provengono soltanto da due insediamenti dell’areale monterotondino, Rocca degli Alberti e Rocchette Pannocchieschi, dove gli scavi hanno restituito soltanto due frammenti per sito attribuibili a questa forma.24 La restante parte proviene nella sua totalità dal sito di Vetricella. Indipendentemente dal contesto di rinvenimento, osservando il grafico della PCA è possibile notare come le anforette sembrino equamente compatibili sia con il territorio di Monterotondo, che con quello di Roccastrada.

Se i territori di Monterotondo e Roccastrada presentano la maggior parte dei manufatti analizzati prodotta con argille pertinenti soprattutto ai rispettivi areali, e soltanto in numero minore anche alcuni frammenti compatibili con le altre due zone di giacimenti, Vetricella, invece, sembra il sito più predisposto ad accogliere materiale prodotto altrove rispetto al suo potenziale areale di riferimento, mostrando una cultura materiale caratterizzata da una più accentuata eterogeneità in fatto di provenienza, con manufatti attribuibili agli affioramenti argillosi di tutti e tre i bacini qui analizzati (fig. 13.5). Un confronto a sostegno di questa diversificazione tecnologica che caratterizza le ceramiche di Vetricella è costituito dalla quasi totalità dei campioni che nella PCA ‘clusterizzano’ con il territorio di Donoratico: si tratta di frammenti di vetrina sparsa, per la quale è stata recentemente consolidata l’ipotesi di produzione all’interno o nelle immediate vicinanze dell’insediamento del Castello di Donoratico.27 Per questo motivo tali ceramiche, così come le anforette, costituiscono un buon esempio a conferma dell’ipotesi di circolazione di manufatti ceramici su scala ‘locale’.

Questo dato è reso ancor più significativo se rapportato alla diffusione su scala più ampia di questa specifica forma. Come è già stato trattato precedentemente in altra sede, infatti, da ricerche edite si contano circa 50 esemplari distribuiti tra siti e territorio, sempre nell’ambito del medesimo comprensorio25, mentre nel solo sito della Vetricella sono state rinvenute, attualmente, un numero superiore alle 200 forme minime.26

Allo stato attuale dei dati in nostro possesso, nei siti del territorio non sono stati individuati esemplari riconducibili a tale forma. 25  Briano et alii 2018, p. 104. 26  Lo studio di questa tipologia è attualmente ancora in corso nell’ambito della ricerca di dottorato condotta dalla scrivente. 24 

27 

117

Briano, op. cit. alla nota 7.

Luisa Russo In generale, il consistente quantitativo di ceramica rinvenuto nell’insediamento di Vetricella, di cui una parte più che considerevole appartiene alle acrome semidepurate impiegate per lo stoccaggio, sembra confermare le precedenti ipotesi sulla vocazione del sito, cui si attribuisce un ruolo cardine nelle attività economiche e produttive del territorio circostante.28 Con i risultati di queste analisi sembra possibile contribuire ad affinare maggiormente la definizione di quello stesso circuito commerciale, in cui i siti fin qui citati appaiono inseriti ed attivi. Ed è proprio in questo quadro, così delineato, che la quantità, la tipologia di ceramica (anforette) e la natura (provenienza) dei manufatti confluiti alla Vetricella fanno sì che questo insediamento sia posto al centro della rete di scambi e di sfruttamento delle risorse, con un ruolo fondamentale nella gestione delle materie prime, delle merci, del loro stoccaggio e lavorazione.29

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Tra le prospettive di ricerca per il futuro, sicuramente sarà necessario incrementare il numero di campioni ceramici sia nell’ambito delle diverse classi, che nelle tipologie formali, in modo da creare un campione di riferimento più ampio e variegato. Allo stesso modo, anche per le argille sarà necessario campionare ulteriori affioramenti, così da restringere ed affinare sempre di più, laddove possibile, gli areali di provenienza di specifici manufatti, nel tentativo di individuare così le potenziali aree di produzione vere e proprie.

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In ultimo, tutti questi dati andranno ad implementare un database tematico già esistente e collegato alla relativa piattaforma GIS, in modo da poter gestire al meglio questo consistente bagaglio di informazioni e creare un archivio funzionale, sì, alle interrogazioni, ma tale da consentire soprattutto la comparazione dei risultati con altri eventuali progetti affini.

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28  L. Marasco, con contributi di A. Briano, S. Greenslade, S. Leppard, C. Lubritto, P. Ricci, «Investigations at Vetricella: new archaeological findings in anthropic and natural landscapes / Le ricerche a Vetricella: nuove evidenze archeologiche tra paesaggi antropici e naturali», in Bianchi, Hodges 2018, pp. 57–80, pp. 183–195, in part. p. 194. 29  G. Bianchi, S.M. Collavini, «Public estates and economic strategies in Early Medieval Tuscany: towards a new interpretation / Beni fiscali e strategie economiche nell’alto medioevo toscano: verso una nuova lettura», in Bianchi, Hodges 2018, pp. 154, 228.

Marasco, L., con contributi di Briano, A., Greenslade, S., Leppard, S., Lubritto, C., Ricci, P., «Investigations at Vetricella: new archaeological findings in anthropic and natural landscapes», in Bianchi, Hodges 2018, pp. 57–80. 118

Produzione e circolazione di ceramiche acrome medievali nella Toscana sud-occidentale Marasco, L., con contributi di Briano, A., Greenslade, S., Leppard, S., Lubritto, C., Ricci, P., «Le ricerche a Vetricella: nuove evidenze archeologiche tra paesaggi antropici e naturali», in Bianchi, Hodges 2018, pp. 183–195. Ponta, E., «Dinamiche di formazione e trasformazione del paesaggio fra Tardantichità ed alto Medioevo. Il caso di Monterotondo Marittimo (GR)», in VII Congresso nazionale di archeologia medievale (a cura di Arthur, P., Leo Imperiale, M.), Atti del convegno (Lecce, 9–12 settembre 2015), vol. 1, Firenze, 2015, pp. 499–504. Ponta, E., Il paesaggio e le sue trasformazioni tra IV e VIII secolo d.C. fra costa ed entroterra. Il caso della Toscana centro-meridionale, tesi di dottorato di ricerca in Scienze dell’Antichità e Archeologia, XXX Ciclo, Università di Pisa, a.a. 2014/2015. Tassi, E., Grifoni, M., Bardelli, F., Aquilanti, G., La Fenice, S., Iadecola, A., Lattanzi, P., Petruzzelli, G., «Evidence for the natural origins of anomalously high chromium levels in soil of the Cecina Valley (Italy)», in Environmental Science: Processes and Impacts, 20 (6), Toscana meridionale, Cinisello Balsamo (MI), 2018, pp. 19–81.

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14 Racconti di pietre: l’applicazione di metodi archeometrici portatili allo studio dei paesaggi Claudia Sciuto Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Laboratorio MAPPA Abstract: Stone tales: the application of portable archaeometry to landscape studies. Provenance studies on stone artefacts can supply important information to map the displacement of geological resources and outline the evolution of quarrying sites. Therefore, the integration of portable instruments for the in situ geochemical characterization of archaeological materials represents an important novelty for the comprehension of past landscapes. The use of chemical analytical methods has shown to be crucial to identify raw material sources and reconstruct the network of stone supply. The application of Near-Infrared (NIR) imaging and X-ray fluorescence spectroscopy (XRF) allows the classification of stone types, that can be matched to the quarry of provenience. This contribution draws upon a case study: a collaborative project that aims at mapping and characterizing both building materials used in the walls of the citadel of Carcassonne (Aude, France) and their quarries. Racconti di pietre: l’applicazione di metodi archeometrici portatili allo studio dei paesaggi. Gli studi di provenienza sui manufatti lapidei possono fornire importanti informazioni per mappare la rimozione dei depositi geologici e delineare l’evoluzione dei siti estrattivi. L’uso di strumenti portatili per la caratterizzazione geochimica in situ dei materiali archeologici rappresenta un’importante novità per la comprensione dei paesaggi del passato. L’utilizzo di metodi analitici si è rivelato fondamentale per identificare l’origine delle materie prime e ricostruire la rete di approvvigionamento di materiali lapidei. L’applicazione dell’imaging nel vicino infrarosso (NIR) e della spettrofotometria XRF consente la caratterizzazione geochimica dei materiali archeologici, che possono così essere associati alla cava di provenienza. Questo contributo si basa su un caso studio: un progetto collaborativo che mira a mappare e caratterizzare sia i materiali da costruzione impiegati nel sistema difensivo della cittadella di Carcassonne (Aude, Francia) sia le loro cave. Introduzione*

Tuttavia, le rocce e le loro caratteristiche fisico-chimiche sono in grado di raccontare storie che si dipanano sopra e sotto la superficie terrestre. Questo contributo mira a dimostrare l’importanza dell’integrazione di protocolli scientifici analitici nella ricerca archeologica2, soprattutto per l’analisi di materiali geologici, illustrando alcuni tra i metodi non invasivi che possono essere utilizzati per la caratterizzazione geochimica direttamente sul campo. Le tecniche di indagine descritte permettono di elaborare un nuovo paradigma per lo studio dei reperti che possa dar voce al racconto biografico dei materiali lapidei e che costituisca un valido strumento per l’analisi diacronica dei paesaggi.

La pietra, generalmente più resistente di altri materiali ai processi di alterazione, ha caratteristiche meccaniche che la rendono testimone privilegiata delle storie passate e una traccia materiale essenziale per l’interpretazione dei contesti antichi. Nonostante l’abbondanza e la durevolezza dei materiali lapidei nel record archeologico, la sostanza stessa della pietra rimane inascoltata e spesso si ignora il valore informativo del mondo minerale per l’interpretazione di paesaggi e fenomeni socioculturali.1 *  Questo contributo si integra nel progetto di eccellenza del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa per il quinquennio 2018–2022: I tempi delle strutture. Resilienze, accelerazioni e percezioni del cambiamento (nello spazio euro-mediterraneo). Si ringraziano inoltre Marie Elise Gardel che ha guidato il progetto di ricerca su Carcassonne, Dominique Allios che ha coordinato il lavoro sui materiali e il geologo Jean-Claude Capera che ha supportato le attività di ricognizione e l’osservazione dei litotipi in opera. 1  N. Boivin, M.A. Owoc, «From Veneration to Exploitation», in Soils, Stones and Symbols: Cultural Perceptions of the Mineral World (a cura di N. Boivin), Londra 2004, pp. 1–31.

Per una trattazione completa dell’argomento dal punto di vista tecnico e teorico si rimanda a: C. Sciuto, Carved Mountains and Moving Stones: Applications of Near Infrared Spectroscopy for Mineral Characterisation in Provenance Studies, Umeå 2018; C. Sciuto, «Recording Invisible Proofs to Compose Stone Narratives. Applications of Near Infrared Spectroscopy in Provenance Studies», in Technology in the Study of the Past, Digital Humanities Quarterly Special Issue 12 (3) (a cura di A. Foka, A. Chapman, J. Westin), 2018. 2 

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Claudia Sciuto L’attività di estrazione di grandi volumi di roccia, ripetuta nel corso dei secoli, ha contribuito a plasmare la superficie terrestre generando spazi incavati. La trasformazione di materiali prelevati dal sottosuolo roccioso ha spesso dato origine a morfologie caratteristiche, composte da aree di estrazione e zone di accumulo di detriti di scarto, i cosiddetti ravaneti. La creazione di siffatti spazi di cava ha sempre accompagnato l’evoluzione di insediamenti umani che sono vincolati, per la loro espansione, all’estrazione e al trasporto di roccia.3 Nei secoli, la proliferazione di monumenti di pietra ha comportato ingenti operazioni di estrazione di materiali geologici e una diffusa deforestazione con conseguenze attestate sull’equilibrio delle nicchie ecologiche locali.4

Mentre l’archeologia si è dotata di svariati strumenti per l’osservazione e la documentazione tipologica dei manufatti in pietra, la determinazione della provenienza è generalmente effettuata tramite la caratterizzazione geochimica, delegata agli specialisti del settore. La maggior parte dei metodi di routine geochimica e petrografica, usati per stabilire la composizione mineralogica della roccia e quindi determinare la sua provenienza, presuppone la raccolta di campioni di materiale e la conseguente analisi distruttiva in laboratorio. Il protocollo analitico ricorrente si basa su due fasi che avvengono in momenti distinti e che sono spesso condotte da operatori con diverse specializzazioni: il campionamento/prelievo fatto dall’archeologo sul campo e l’analisi condotta dallo specialista (con competenze nel campo delle discipline chimiche e geologiche). La suddivisione del lavoro così descritta spesso causa un’idiosincrasia nell’interpretazione del dato analitico: chi analizza i campioni non è consapevole dei dettagli deposizionali del record archeologico e corre il rischio di misinterpretare risultati che sono invece dovuti alle condizioni del contesto di rinvenimento.6 Va inoltre considerato che le analisi di laboratorio hanno un costo considerevole, dovuto all’impiego di macchinari e personale specializzato, che rende lo studio archeometrico appannaggio di progetti con budget sostanziosi o che beneficiano di collaborazioni interdisciplinari ben stabilite. Analisi distruttive, siano esse elementali, isotopiche o petrografiche, forniscono risultati dettagliati e fondamentali per la determinazione della provenienza dei materiali, tuttavia, il numero dei campioni analizzati nell’ambito di un singolo progetto di ricerca rischia di essere esiguo e poco rappresentativo della totalità dei reperti lapidei. Per determinare produzioni e commerci su larga scala si rende necessaria l’acquisizione di grandi quantità di dati geochimici, preferibilmente tramite l’applicazione di metodi standardizzati e ripetibili. Questa necessità scientifica ha portato alla sperimentazione di nuovi protocolli analitici che facciano uso di strumenti non invasivi e portatili immessi sul mercato durante gli ultimi dieci anni. Il fine di queste sperimentazioni è quello di formalizzare procedure per condurre analisi di screening su vari tipi di materiali quali sedimenti, reperti e materiali da costruzione, in modo da poter veramente integrare la scienza portatile nelle attività di scavo, ricognizione e studio dei materiali.7 Gli strumenti portatili presentano dei limiti tecnici di sensibilità analitica e si prestano a un approccio di fingerprinting, adatto cioè all’identificazione di macrogruppi di litotipi o di specifiche caratteristiche della pietra. L’applicazione di protocolli sperimentali su larga scala necessita di un trattamento trasparente dei dati raccolti e si deve basare su una campionatura estesa, effettuata con la continua collaborazione di specialisti e archeologi.

I siti di cava antichi e moderni sono contraddistinti da morfologie tipiche che li rendono facilmente riconoscibili già dalle attività di ricognizione: affioramenti rocciosi indicati in cartografia che mostrano segni di estrazione e che permettono di documentare l’uso del deposito geologico. In assenza di operazioni di scavo estensive che restituiscano elementi di datazione chiari, pochissimi sono gli indizi per la determinazione dell’orizzonte cronologico dello sfruttamento e la destinazione del prodotto lapideo. Informazioni circa l’organizzazione del lavoro, la tecnica di estrazione e, in alcuni casi, la cronologia, si possono ricavare dall’osservazione di semilavorati (quando presenti) o da uno studio attento delle tracce di utensili impresse sulla superficie rocciosa.5 Operazione più semplice è invece stabilire la cronologia dell’impiego (o reimpiego) di materiali lapidei per via indiretta, tramite datazione delle murature in cui sono messi in opera. L’archeologia dell’architettura costituisce dunque uno strumento indispensabile per la comprensione delle dinamiche di sfruttamento delle risorse geologiche e, di conseguenza, della trasformazione di paesaggi costruiti e paesaggi incisi. La pietra da costruzione può costituire un proxy per l’indagine archeologica paesaggistica a patto che se ne sappiano individuare origine e spostamenti, ricostruendone la narrazione biografica a partire dalle tracce visibili sui corpi rocciosi. 3  Esempi più antichi della trasformazione antropica del substrato geologico sono stati studiati in Africa, dove si documentano superfici estese ricoperte da scarti di schegge litiche. Altro caso di siti di estrazione e lavorazione su larga scala sono le iconiche cave di selce neolitiche del sito britannico di Grimes Graves (Norfolk). R.A. Foley, M. Mirazón Lahr, «Lithic Landscapes: Early Human Impact from Stone Tool Production on the Central Saharan Environment», in PloS One 10 (3), San Francisco 2015; R.J. Mercer, J.G. Evans, Grimes Graves, Norfolk: Excavations 1971–72, 1, Londra 1981. 4  Un esempio dell’impatto su larga scala delle attività estrattive finalizzate alla produzione di materiali da costruzione è stato descritto da D. Jørgensen e riguarda la trasformazione dei paesaggi inglesi come effetto della costruzione delle grandi cattedrali in epoca AngloNormanna: D. Jørgensen, «The Enduring Landscape of Medieval Cathedral Construction», in USGS working papers, Umeå 2014. 5  Si nominano a questo proposito i lavori di Bessac e Rockwell sulla tipologia e cronologia dell’uso degli utensili per a lavorazione della pietra: J.C. Bessac, L’outillage Traditionnel Du Tailleur de Pierres de l’antiquité à Nos Jours, Parigi 1986; J.-C. Bessac, «Traces d’outils Sur La Pierre: Problématique, Méthodes d’études et Interprétation», in Archeologia delle Attivitá Estrattive e Metallurgiche (a cura di R. Francovich), Firenze 1993, pp. 143–176; P. Rockwell, The Art of Stoneworking: A Reference Guide, Cambridge 1993.

Un esempio di quanto enunciato si trova in: C. Sciuto, P. Geladi, L. La Rosa, J. Linderholm, M. Thyrel, «Hyperspectral Imaging for Characterization of Lithic Raw Materials: The Case of a Mesolithic Dwelling in Northern Sweden», in Lithic Technology, Londra 2018, pp. 1–14. 7  K. Milek, «Transdisciplinary Archaeology and the Future of Archaeological Practice: Citizen Science, Portable Science, Ethical Science», in Norwegian Archaeological Review, Oslo 2018, pp. 36–47. 6 

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Racconti di pietre In questo contributo saranno discussi alcuni dettagli tecnici di strumenti analitici portatili, in particolare spettrometri nel vicino infrarosso (Near Infrared-NIR) e analizzatori di fluorescenza a raggi X (XRF), mostrando come la loro applicazione in un progetto di ricerca interdisciplinare abbia permesso la comprensione delle trasformazioni di paesaggi urbani e rurali determinate da estrazione e impiego di volumi di roccia. L’esempio trattato è l’indagine archeologica del sistema difensivo della cittadella fortificata di Carcassonne (Francia).8

materiali ed affinare le tecniche di lavorazione. Di fatto, l’osservazione dettagliata della superficie degli oggetti lapidei restituisce evidenze per la documentazione delle fasi della chaîne opératoire: l’impronta del gesto tecnico sul materiale è una testimonianza preziosa che rimanda all’organizzazione del lavoro artigianale e al suo ruolo all’interno delle società passate.13 Ne consegue che lo studio archeologico dei materiali lapidei debba procedere su due binari paralleli e complementari: da un lato la determinazione della provenienza fornisce indicazioni circa la posizione dell’area di cava, da cui si deducono notizie economiche e commerciali su trasporto e commercio dei pezzi e la cui mappatura permette di comprendere meglio l’accessibilità delle risorse nel territorio; d’altro canto, l’osservazione delle tracce di utensili sul fronte di cava e sui pezzi estratti restituisce informazioni riguardo l’organizzazione del sistema di produzione. Un approccio transdisciplinare, che tenga conto delle proprietà tecniche dei materiali, delle strutture sociali e delle reti commerciali connesse al processo di produzione e distribuzione, è fondamentale per uno studio olistico dei taskscapes antichi. Combinando lo studio degli attributi geologici e formali dei materiali da costruzione, possiamo stabilirne provenienza, processi di lavorazione e commerci, gettando solide basi per la comprensione delle dinamiche di trasmissione del sapere tra diverse maestranze.14

Spunti per l’analisi di taskscapes, il caso di Carcassonne Il processo di documentazione e ricostruzione dei paesaggi antichi sembra essere, troppo spesso, prigioniero di terminologie che fanno riferimento al reiterato dualismo tra ambiente naturale e insediamenti umani. Lo studio dei territori dovrebbe invece procedere seguendo un approccio orizzontale in cui si considerino i paesaggi come sistemi ecologici9 e in cui l’analisi archeologica tenga conto in uguale misura dei contributi di attori umani e non umani. I depositi geologici, in quanto attori non umani con un forte potere materiale10, costituiscono uno dei caratteri distintivi dei paesaggi e un’importante variabile per la comprensione dei mutamenti di un territorio a breve e lungo termine. Si inserisce in questo quadro teorico lo studio delle attività estrattive come traiettorie trasformative, in cui l’azione congiunta di corpi geologici e sapere umano generano profili morfologici (siano essi spazi di estrazione, ravaneti o nuove costruzioni). Il concetto di taskscape come definito da Ingold in un celebre articolo del 199311, sembra pertanto adeguato allo studio di paesaggi in movimento, marcati da una serie di mansioni correlate che costituiscono la rete delle attività produttive.12 Il sistema di mestieri che qualificano una particolare regione si snoda tra biosfera e comunità umane, costituendo un punto d’osservazione particolarmente interessante per l’interpretazione di sistemi sociali e del loro rapporto col territorio. Va inoltre considerata l’interrelazione tra attività produttive e lo sviluppo di conoscenze empiriche e professionali specifiche, necessarie a maneggiare i

Un approccio interdisciplinare è stato adottato durante l’indagine delle mura difensive della cittadella di Carcassonne (Aude, Francia), nell’ambito di un progetto internazionale di ampio respiro.15 Il lavoro di ricerca, guidato dalla cooperativa archeologica Amicale Laïque de Carcassonne e svolto in collaborazione con le università francesi di Rennes, Montpellier, Aix en Provence e l’università svedese di Umeå, si poneva l’obiettivo di ricostruire cronologia e fasi costruttive del sistema difensivo e comprendere lo sviluppo della cinta muraria in relazione all’ambiente circostante. La documentazione delle stratigrafie murarie e la creazione di un atlante tipologico sono state associate alla ricognizione dell’area attorno al sito, al fine di individuare fronti di cava antichi che potessero essere messi in relazione con l’approvvigionamento di materiali da costruzione. Sia gli elementi in opera, sia gli affioramenti sui quali

8  I risultati ottenuti nell’ambito del progetto e tramite la sperimentazione di protocolli analitici condotti con strumenti portatili e non distruttivi sono pubblicati per esteso nei seguenti contributi: D. Allios, R. Bendoula, A. Cocoual, M.-E. Gardel, P. Geladi, A. Gobrecht, N. Guermeur, D. Moura, S. Jay, «Near Infrared Spectra and Hyperspectral Imaging of Medieval Fortress Walls in Carcassonne: A Comprehensive Interdisciplinary Field Study», in NIR News 27 (3), Thousand Oaks 2016, pp. 16–20; C. Sciuto, D. Allios, R. Bendoula, A. Cocoual, M.-E. Gardel, P. Geladi, A. Gobrecht, N. Gorretta, N. Guermeur, S. Jay, «Characterization of Building Materials by Means of Spectral Remote Sensing: The Example of Carcassonne’s Defensive Wall (Aude, France)», in Journal of Archaeological Science: Reports, 23, Amsterdam 2019, pp. 396–405. 9  Milek, «Transdisciplinary Archaeology…», art. cit. alla nota 7. 10  In inglese: material agency. 11  T. Ingold, «The Temporality of the Landscape», in World Archaeology, 25 (2), Abingdon-on-Thames 1993, pp. 152–174. 12  K. Michelaki, G.V. Braun, R.G.V. Hancock, «Local Clay Sources as Histories of Human-Landscape Interactions: A Ceramic Taskscape Perspective», in Journal of Archaeological Method and Theory, 22 (3), New York 2015, pp. 783–827.

13  Si tratta del principio guida della tradizione di studi della scuola di antropologia strutturalista francese inaugurata da Marcel Mauss e formalizzata dagli studi di Andrè Leroi-Gourhan: M. Mauss, Techniques, Technologie et Civilisation, Parigi 2012; A. Leroi Gourhan, L’homme et La Matière, Parigi 1964. 14  Si citano come esempio di quanto enunciato i volumi pubblicati dal gruppo di ricerca su cave e costruzioni dell’università di Parigi 1 Pantheon-Sorbonne: F. Blary, J.-P. Gély, J. Lorenz (a cura di), Pierres Du Patrimoine Européen. Economie de La Pierre de l’antiquité à La Fin Des Temps Modernes, Parigi 2008; J.-P. Gély, J. Lorenz, Carriers et bâtisseurs de la période préindustrielle–Europe et regions limitrophes, Parigi 2011. 15  N. Faucherre, D. Allios, L. Bayrou, M.A. De La Iglesia, M.-C. Ferriol, M.-E. Gardel, H. Hansen, A. Hartmann-Virnich, G. Ripoll, C. Sciuto, Carcassonne, La Cité. Etude, relevé et datation des fortifications. Projet Collectif de Recherche 2014–2016, Montpellier 2016.

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Claudia Sciuto

Figura 14.1. Carta geologica schematizzata dei dintorni del sito. Sono indicate le principali formazioni geologiche, il sito fortificato di Carcassone e i fronti di cava documentati (rielab. da http://infoterre.brgm.fr).

insistono i fronti di cava identificati, sono stati analizzati tramite strumenti portatili e non distruttivi per ottenerne e confrontarne l’impronta geochimica.

Il borgo fortificato di Carcassonne è attorniato da due sistemi di mura concentriche. La cerchia muraria interna costituisce un complicato palinsesto di tecniche costruttive e materiali diversi, risultato di svariate campagne di costruzione e restauro, completate in un ampio orizzonte cronologico: dalla tarda età imperiale fino all’epoca contemporanea. La cinta muraria esterna, invece, fu in gran parte completata in un arco di tempo breve, nel tredicesimo secolo, con poche evidenze di restauri posteriori.17 Della turbolenta storia della città, posta a guardia della viabilità che permette la traversata dei Pirenei, rimane traccia nel sistema difensivo e, in particolare, nella cinta muraria interna (fig. 14.2).

La cittadella fortificata di Carcassonne, patrimonio dell’Unesco dal 1997, è un sito iconico visitato ogni anno da milioni di turisti e offre uno scorcio pittoresco dal gusto medievale fantastico. Il sito di Carcassonne si trova sulla sommità di un promontorio nella valle in cui scorrono il fiume Aude, l’Orbiel e il Canal du Midi. L’ampia vallata si apre tra i rilievi della Montagne Noire e il Massif Central e costituisce un corridoio di passaggio dal porto di Narbona, sulla costa mediterranea, a Tolosa e il litorale atlantico. La geologia del territorio attorno a Carcassonne è caratterizzata dalla presenza di sedimenti fluviali alluvionali e formazioni di arenarie alternate ad argilliti. Nelle immediate vicinanze del sito si trovano tre formazioni principali (fig. 14.1):

Elementi riferibili a una prima fase risalgono al III secolo d.C.18, mentre vari interventi di consolidamento furono eseguiti tra IV e VIII secolo d.C., per far fronte alle ricorrenti incursioni dei Visigoti prima e alle lotte tra Franchi e Omayyadi poi.19 Alla fine dell’XI secolo d.C., Carcassonne e dintorni entrarono a far parte della giurisdizione della famiglia Trincavel che riuscì a mantenere il controllo sul territorio per più di un secolo, mentre l’eresia catara si diffondeva nella città e nelle regioni meridionali del regno di Francia. Nel 1209 Carcassonne fu espugnata dall’esercito crociato guidato da Simon de Monfort, a seguito di un lungo assedio che

–– La Molasse de Carcassonne, formazione fluviale caratterizzata da conglomerati, arenarie, marne sabbiose e limi. Si caratterizza per tracce di pedogenesi risultanti in chiazze rossastre (dovute alla ridistribuzione degli ossidi di ferro) e sporadici noduli calcarei. –– La Molasse di Castelnaudary, sempre di origine fluviale, con strati alternati di materiali a granulometria più fine o grossolana con tracce di pedogenesi meno evidenti. Affiora nella zona collinare a Sud dell’insediamento. –– Depositi di alluvioni eterometriche caratterizzano la sommità della collina su cui sorge il sito. Si tratta di accumuli di blocchi di varie dimensioni (da qualche centimetro a un metro) in sedimento sciolto.16

17  Y. Bruand, «La Cité de Carcassonne. Les Enceintes Fortifiées», in Congrès Archéologique de France 131e Session 1973 Pays d’Aude, Carcassonne 1973, pp. 486–518. 18  T. Bekker-Nielsen, «Colonia Iulia Carcaso? The Barbaira Milestone (CIL XVII2, 299) and the Civic Status of Carcassonne», in Zeitschrift Für Papyrologie Und Epigraphik, 2008, pp. 248–250; J.P. Fourdrin, «Vestiges d’un Parapet Antique Près de La Tour Du Sacraire Saint-Sernin à Carcassonne», in Journal of Roman Archaeology, 15, Cambridge 2002, pp. 310–316. 19  Y. Bruand, «Chronologie et Tracé de l’enceinte “Wisigothique” de La Cité de Carcassonne», in Mélanges d’archéologie et d’histoire Médiévales, Ginevra 1982.

16  G.M. Berger, F. Boyer, P. Debat, M. Demange, P. Freytet, J.P. Marchal, H. Mazeas, C. Vautrelle, Notice Explicative de La Feuille de Carcassonne (n 1037) de La Carte Géologique de La France, Orléans 1993.

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Racconti di pietre

Figura 14.2. Cinta muraria interna, tra la porta Narbonese e la torre di Saint Sernin. Si notano i grossi blocchi di reimpiego usati nelle fondazioni delle torri tardoantiche (foto di D. Allios).

Archeometria portatile: la rivoluzione della scienza da campo

causò la distruzione del faubourg e di buona parte delle mura. Dopo la presa, Carcassonne divenne formalmente parte del regno di Francia e il re Luigi IX (Saint Louis) ordinò il rifacimento delle porzioni di mura distrutte e la costruzione di una seconda cinta attorno a quella già esistente.20 Il progetto di costruzione si protrasse a lungo, per essere completato anni dopo, sotto i regni di Filippo III e Filippo IV. Dal XVI secolo in poi, la cittadella fu gradualmente abbandonata e infine affidata al ministero delle forze armate che ne conservò la direzione fino al XIX secolo. Nel 1853 un’ingente campagna di restauro fu approvata e finanziata sulla base del progetto di Eugene Viollet-le-Duc, che fece della cittadella un manifesto della sua teoria del restauro architettonico.21

L’analisi stratigrafica degli elevati è stata affiancata da analisi geochimiche non distruttive condotte in maniera sistematica sui paramenti murari. Un protocollo sperimentale, elaborato durante il progetto, ha permesso di indagare il complesso architettonico in una prospettiva diacronica, ponendo particolare attenzione all’organizzazione dei cantieri di costruzione e al reperimento di materiali.22 Le mura difensive di Carcassonne sono state realizzate usando per la maggior parte pietra arenaria, materiale che si trova nelle immediate vicinanze del sito e che caratterizza il substrato geologico del bacino dell’Aude. L’analisi in situ di un litotipo estremamente disomogeneo e a tratti incoerente, come l’arenaria, rende difficile l’ottenimento di una chiara impronta geochimica. Strati di sabbie consolidate presentano un’alta variabilità mineralogica e granulometrica che ne rende difficile la caratterizzazione tramite sola osservazione autoptica o sezione sottile. Si rendeva perciò necessario acquisire dati geochimici su una grande quantità di elementi lapidei, utilizzando metodi non invasivi che permettessero di analizzare interi segmenti di murature. La strategia di campionamento è stata calibrata in modo da poter essere adattata alla morfologia irregolare dei paramenti, consentire una copertura analitica ampia e

Il monumento esprime una storia complessa, che si rivela nell’alternanza di murature eseguite con tecniche diverse: dai laterizi dell’opus mixtum tardoantico, al bugnato realizzato dagli architetti di Saint Louis, alle tracce di abitazioni addossate alle mura e fabbricate con elementi di reimpiego provenienti dal crollo delle strutture medievali. Il progetto di ricerca intendeva dunque ripercorrere a ritroso la storia delle pietre di Carcassonne, per ricostruire la travagliata vicenda della costruzione e tracciarne i legami col territorio circostante. 20  J. Blanc, C.-M. Robion, P. Satgé, La Cité de Carcassonne: Des Pierres et Des Hommes, Parigi 1999. 21  E.-E. Viollet-Le-Duc, La Cité de Carcassonne (Aude), Parigi 1881.

22  Sciuto et al., «Characterization of Building Materials...», art. cit. alla nota 8.

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Claudia Sciuto una classificazione affidabile. Si è scelto di combinare tre diversi strumenti analitici portatili: una sonda MicroNIR (JDSU 908-1676nm); un analizzatore XRF portatile (Niton XL3t ED-XRF) e una fotocamera iperspettrale montata su supporto mobile (NEO Hyspex-320m-e, 1000–2500 nm).

spettrale diretta del target, e sono spesso utilizzate per la redazione di carte geologiche e geomorfologiche.25 Oltre a ciò, l’imaging spettrale si è rivelato essere un valido strumento per l’esplorazione di giacimenti metalliferi e bacini di cava, fornendo uno screening accurato per l’individuazione dei filoni.26

Gli strumenti scelti erano stati precedentemente sperimentati su materiali e contesti archeologici nell’ambito del progetto MOBIMA (Mobile Imaging in Archaeology, università di Umeå, Svezia).23 La spettrofotometria a raggi X e la spettroscopia vibrazionale nel vicino infrarosso sono metodi complementari che permettono uno studio di screening, ovvero un’analisi qualitativa (non-targeted) finalizzata alla caratterizzazione geochimica dei materiali, in cui la produzione di dati su larga scala e un campionamento più rappresentativo della variabilità del target di riferimento sono associati a una minore definizione dell’informazione geochimica. I metodi di screening sono generalmente usati per una prima caratterizzazione diagnostica di grandi quantità di materiali e servono a produrre una classificazione geochimica su base qualitativa, utile a definire dei primi cluster di materiali ed eventualmente effettuare analisi quantitative più mirate.

Tuttavia, se le immagini iperspettrali costituiscono uno strumento con un potenziale altissimo per lo studio dei contesti archeologici, le fotocamere in grado di produrre dataset con una risoluzione spettrale sufficiente all’analisi di minerali (1000–2500 nm) hanno un costo elevato e dimensioni cospicue e per questo non sempre adatte ad attività sul campo. L’acquisizione di immagini complete può essere, almeno in parte, sostituita dalla raccolta di dati puntuali tramite sonde portatili come quella utilizzata per questo studio, un MicroNIR (con un range di 900–1700nm). Le sonde portatili sono leggere e maneggevoli e possono essere trasportate facilmente per raccogliere informazioni analitiche anche in contesti di difficile accesso. Spettrofotometria a raggi X Tra le tecniche analitiche portatili disponibili sul mercato ed efficaci per una caratterizzazione geochimica dei materiali archeologici, la più diffusa è sicuramente la spettrofotometria a raggi X o XRF. Questo tipo di analisi elementale si effettua con sensori montati su supporti portatili che emettono radiazioni che colpiscono il target. Il dibattito accademico sull’utilizzo corretto della strumentazione XRF portatile per gli studi di provenienza si è acceso nell’ultimo decennio.27 Tuttavia, mentre ricercatori e professionisti questionano l’accuratezza e l’affidabilità di interpretazioni basate sui risultati di XRF portatili, cresce tra gli archeologi l’entusiasmo per la possibilità di condurre analisi direttamente sul campo. Un aspetto importante che riguarda l’uso di questi dispositivi è l’applicazione indiscriminata dei sistemi di calibrazione integrati negli strumenti portatili che, a fronte di analisi condotte su elementi lapidei, frammenti ceramici o reperti in metallo, restituiscono un dato elementale quantificato grazie ad algoritmi di calibrazione calcolati su materiali standard. Gli standard usati hanno spesso una composizione chimica troppo dissimile da quella dei materiali archeologici e questo causa errori nella quantificazione elementale. La creazione

Imaging nel vicino Infrarosso La spettroscopia nel vicino infrarosso è una tecnica spettroscopica vibrazionale, utilizzata nel campo della chimica analitica per la caratterizzazione dei materiali (soprattutto organici). La spettroscopia NIR viene spesso applicata come tecnica di imaging per la produzione di immagini multispettrali o iperspettrali. Ogni immagine contiene una serie di informazioni spettrali replicate per ogni pixel e diverse bande (solitamente più di un centinaio). Si tratta dunque di dataset tridimensionali, rappresentabili come ipercubi, in cui le coordinate x e y sono determinate dai pixel nell’immagine e la z rappresenta l’informazione spettrale. Il potenziale informativo contenuto in un’immagine iperspettrale è dunque molto elevato ed è necessario applicare algoritmi computazionali e tecniche di classificazione multivariata per estrarre i dati rilevanti. L’imaging spettrale è ampiamente utilizzato in archeologia come tecnica indiretta nel telerilevamento da foto aeree o da satellite, per visualizzare anomalie dovute a tracce archeologiche sepolte.24 L’applicazione delle immagini iperspettrali per l’analisi di materiali da costruzione prende spunto dalle applicazioni di questa stessa tecnica in ambito geologico esplorativo. Le immagini iperspettrali acquisite da satellite permettono infatti di mappare gli affioramenti rocciosi in superficie sulla base della risposta

25  F.A. Kruse, «Mapping Surface Mineralogy Using Imaging Spectrometry», in Geomorphology, 137 (1), Amsterdam 2012, pp. 41– 56; R.N. Greenberger, D.L. Blaney, B.L. Ehlmann, A.A. Fraeman, R.O. Green, J.F. Mustard, J.H. Wilson, «Imaging Spectroscopy of Geological Samples and Outcrops: Novel Insights from Microns to Meters», in GSA Today, 25 (12), 2015, pp. 4–10. 26  T.H. Kurz, S.J. Buckley, J.A. Howell, «Close Range Hyperspectral Imaging Integrated with Terrestrial LiDAR Scanning Applied to Rock Characterization at Centimeter Scale», in International Archives of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, 39 (5), Gottinga 2012, pp. 417–422. 27  R.J. Speakman, M.S. Shackley, «Silo Science and Portable XRF in Archaeology: A Response to Frahm», in Journal of Archaeological Science, 40 (2), Amsterdam 2013, pp. 1435–1443; E. Frahm, «Validity of “off-the-Shelf” Handheld Portable XRF for Sourcing Near Eastern Obsidian Chip Debris», in Journal of Archaeological Science, 40 (2), Amsterdam 2013, pp. 1080–1092.

23  Il progetto, finanziato dalla fondazione Marcus and Amalia Wallenberg, era costruito attorno allo studio di alcuni materiali e contesti specifici selezionati come casi studio. Scopo della ricerca era la creazione di un protocollo ripetibile e sulla sperimentazione di tecniche per analisi geochimiche non invasive su materiali geologici tramite strumenti portatili. 24  S.H. Parcak, Satellite Remote Sensing for Archaeology, Londra 2009; R.M. Cavalli, F. Colosi, A. Palombo, S. Pignatti, M. Poscolieri, «Remote Hyperspectral Imagery as a Support to Archaeological Prospection», in Journal of Cultural Heritage, 8 (3), Amsterdam 2007, pp. 272–83.

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Racconti di pietre componenti principali (PCA) per ridurre la variabilità delle informazioni e identificare i gruppi di materiali con la stessa firma spettrale. Modelli locali hanno consentito la valutazione dei set di dati prodotti, identificando eventuali valori anomali o outliers dovuti a effetti di dispersione (scattering). Dall’analisi delle variabili e l’osservazione delle componenti principali degli spettri nell’infrarosso è stato possibile stabilire che la differenziazione tra diverse fonti di arenaria poteva essere condotta sulla base della variazione dei picchi indicanti minerali argillosi presenti nel deposito.31 Nel caso di immagini iperspettrali, il valore dei componenti calcolato da PCA, in questo caso t[1], può essere visualizzato come falso colore sull’immagine originale.32 Le immagini iperspettrali così create mostrano i dettagli mineralogici di intere porzioni di muratura per cui è possibile distinguere chiaramente ogni blocco di arenaria dal legante di malta ed evidenziare gli inclusi di dimensioni maggiori all’interno di singoli blocchi di pietra. Per ogni immagine iperspettrale è possibile analizzare gli spettri per pixel oppure creare dei raggruppamenti di pixel da cui estrarre il valore spettrale medio. Quest’ultima procedura è stata applicata alle immagini iperspettrali raccolte durante il progetto, ottenendo una firma spettrale per ciascun elemento lapideo e riducendo notevolmente le dimensioni del set di dati senza perdere informazioni importanti (fig. 14.3).

di sistemi di calibrazione ad hoc per determinati materiali geologici permette una quantificazione corretta del dato spettrale. Tuttavia, il procedimento è laborioso e richiede conoscenze dettagliate di chimica analitica e statistica mentre risulta più semplice la lettura degli spettri XRF in chiave qualitativa, con un approccio di fingerprinting. Per l’analisi dei paramenti di Carcassonne è stato utilizzato un analizzatore ED-XRF portatile Niton XL3t. Considerata l’inaffidabilità del sistema di calibrazione integrato, si è deciso di utilizzare gli spettri in formato raw, semplicemente normalizzando ciascun valore spettrale rispetto ai valori dei parametri dello strumento. Gestione, condivisione e analisi dei dati archeometrici La raccolta di informazioni geochimiche tramite gli strumenti e le tecniche descritte è molto veloce e ha come conseguenza la creazione di dataset di grandi dimensioni. La presenza di una mole consistente di nuovi dati pone gli studiosi e i professionisti di fronte al problema dell’analisi di dataset complessi e alla necessità di archiviare le informazioni in maniera sistematica. La produzione di una grande quantità di dati comporta l’elaborazione di sistemi computazionali per l’estrazione di informazioni che siano rilevanti ai fini della ricerca archeologica. Esiste una lunga tradizione di studi chemiometrici sul trattamento di immagini spettrali nel vicino infrarosso28, un’ampia letteratura sulle applicazioni della spettrofotometria XRF a oggetti archeologici29 e tuttavia il dibattito sull’utilizzo di modelli statistici e software specializzati per il trattamento dei dati archeologici è ancora scarso. Un’ampia riflessione sull’applicazione di modelli statistici per interrogare il dato archeometrico è di cruciale importanza per la trasparenza del processo interpretativo e va affiancata a un’accurata descrizione del sistema di campionamento. L’uso di modelli inappropriati per la classificazione dei dati che non tengano conto delle specificità di contesto e materiali potrebbe portare a un’errata interpretazione dei risultati, inficiando l’intera ricerca. È buona prassi avviare l’esame di dataset estesi tramite operazioni di riduzione dimensionale e modelli statistici esplorativi30, in modo da identificare le variabili utili ai fini della classificazione e procedere a operazioni di data fusion e clustering.

I dati archeometrici prodotti nell’ambito di vari progetti di ricerca sono spesso pubblicati in maniera sommaria, necessità dettata da norme editoriali che spesso non permettono la condivisione di set di dati estesi se non come complementari al contributo su rivista specializzata. Esistono tuttavia esempi di riviste scientifiche internazionali per cui la pubblicazione di articoli è associata al deposito di dataset che vengono archiviati online e resi disponibili per la consultazione e il riuso33. L’interoperabilità dei dati archeometrici rimane tuttavia un problema irrisolto poiché ogni strumento ha caratteristiche tecniche specifiche e risulta complesso confrontare dati prodotti con dispositivi diversi senza incorrere in errori. Per questo motivo, i dati archeometrici necessitano di un’abbondante metadatazione che descriva tecniche di acquisizione, ambiente circostante34 e parametri dello strumento. Nonostante i molti problemi che comportano condivisione e riuso dei dati archeometrici, la messa in rete delle banche dati dei singoli laboratori è diventata ormai un’esigenza per il progresso della ricerca. La proliferazione di studi interdisciplinari che includono l’analisi geochimica di sedimenti o reperti comporta una responsabilità di gestione e fruizione del dato grezzo. Gruppi di ricerca internazionali specializzati nell’elaborazione di

I dati raccolti a Carcassonne con ognuno dei tre strumenti utilizzati sono stati esaminati attraverso l’analisi dei 28  K. Esbensen, P. Geladi «Strategy of Multivariate Image Analysis (MIA)», in Chemometrics and Intelligent Laboratory Systems, 7 (1–2), Amsterdam 1989, pp. 67–86; F. Marini, M. Tommassetti, M. Piacentini, L. Campanella, P. Flamini, «Application of near Infrared Spectroscopy (NIR), X-Ray Fluorescence (XRF) and Chemometrics to the Differentiation of Marmora Samples from the Mediterranean Basin», in Natural Product Research, 7, Abingdon-on-Thames 2016, pp. 1–9; B.M. Wise, P. Geladi, «A Brief Introduction to Multivariate Image Analysis (MIA)», in Newsletter for The North American Chapter of the International Chemometrics Society, 22, 2000, pp. 3–7. 29  Si rimanda al manuale di Shackley per una panoramica, anche se datata, sulle possibili applicazioni della spettrofotometria XRF in archeologia: S.M. Shackley, X-Ray Fluorescense Spectometry (XRF), Geoarchaeology, New York 2012. 30  M.J. Baxter, Exploratory Multivariate Analysis in Archaeology, Edinburgo 1994.

31  J. Bowitz, A. Ehling, «Non-Destructive Infrared Analyses: A Method for Provenance Analyses of Sandstones», in Environmental Geology, 56, New York 2008, pp. 623–630. 32  Le immagini così create aiutano a visualizzare le caratteristiche del target poiché a toni di colore simili corrispondono simili qualità geochimiche dell’oggetto. 33  Si fa l’esempio del britannico Journal of Open Archaeology Data e l’italiano ArcheoLogica Data. 34  Sbalzi di temperatura durante la misurazione possono alterare i risultati.

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Figura 14.3. A destra, analisi delle component principali su un’immagine iperspettrale in cui i valori t[1] sono rappresentati come falso colore. A sinistra, gli spettri in riflettanza calcolati sulla media dei pixel per i singoli elementi della muratura (elab. dell’autrice).

Table 14.1. Materiali utilizzati nella cinta muraria di Carcassonne e loro provenienza per cronologia (elab. dell’autrice) Cronologia

Materiale lapideo

Provenienza

I-III secolo (reimpieghi)

Arenaria glauconitica di colore verde

Sconosciuta

I-III secolo

Arenaria argillosa con prevalente illite

Molasse de Carcassonne

IV-VIII secolo

Arenaria argillosa con prevalente illite

Molasse de Carcassonne

XI-XII secolo

Arenaria argillosa con prevalente illite

Molasse de Carcassonne

XIII secolo (reimpieghi ?)

Arenaria argillosa con prevalente illite

Molasse de Carcassonne

XIII secolo

Arenaria argillosa con prevalente caolinite

Molasse de Castelnaudary (?)

XIX secolo

Arenaria compatta di colore grigio

sconosciuta

la caratterizzazione geochimica è stata diretta all’esame di cinque macro-fasi di costruzione, identificate e delimitate lungo tutto il perimetro delle mura (tab. 1).

infrastrutture digitali e linked open data sono al lavoro per creare un protocollo per l’archiviazione dei dati archeometrici.35 La condivisione delle informazioni, che permette di affinare le interpretazioni e ampliare le occasioni di discussione, rimane una responsabilità dei singoli gruppi di ricerca.

L’osservazione delle caratteristiche geochimiche dei materiali di queste fasi ha rivelato l’impiego preponderante di quattro diversi tipi di arenaria, contraddistinti dalla presenza di minerali argillosi (illite, caolinite), altresì dette grovacche, arenarie glauconitiche di colore verde e arenarie compatte di colore grigio. Si possono osservare grandi blocchi di reimpiego utilizzati come elementi di fondazione delle torri tardoantiche (datate al III secolo d.C.)36, costituiti da

Dal dato alla narrazione: le metamorfosi del paesaggio attraverso le lenti della geochimica L’applicazione delle tecniche citate e l’analisi dei dati raccolti tramite procedimenti computazionali, hanno permesso di tracciare una narrazione ad ampio raggio del passato delle pietre di Carcassonne. L’indagine archeologica ha interessato la totalità delle strutture mentre

36  Laterizi di questa fase costruttiva sono stati datati per termoluminescenza alla metà del III secolo d.C.: P. Lanos, C. Mourges, Report, PHL-19962, Carcassonne, Enceinte intérieure de la Citée, tour effondrée prés du Grand-Burlas, 1 lot de briques: 11069-B, CNRS, UMR 153, Rennes 1996.

Esiste un gruppo di lavoro dedicato alla gestione dei dati archeometrici e ambientali all’interno del progetto Ariadne plus (https://ariadneinfrastructure.eu/). 35 

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Racconti di pietre arenaria verde glauconitica. Gli alzati delle medesime torri si compongono di elementi più piccoli di arenaria argillosa con prevalente illite, disposti su corsi regolari che caratterizzano la fase di III secolo. La presenza di grandi blocchi di reimpiego lascia presupporre una loro provenienza da una costruzione monumentale che doveva trovarsi nelle vicinanze del sito. Sulla collina di Monredon, a circa quattro chilometri di distanza dalla cittadella, sono stati trovati i resti di una villa, datata al I secolo d.C., associata al basamento di un mausoleo monumentale costituito da grossi blocchi di arenaria.37 Al momento non ci è possibile verificare se si tratti dello stesso tipo di roccia ma di certo la somiglianza di misure e materiali è suggestiva e ci permette di immaginare qualche elemento del paesaggio della prima età imperiale.

contro terra alla base di torri e muri di cortina.39 A questo lavoro imponente, effettuato sotto indicazioni di squadre di ingegneri al servizio della corona, si deve l’aspetto peculiare della cinta muraria interna, coi grandi blocchi di reimpiego delle fondazioni tardoantiche sospesi a più di un metro di altezza dal piano di calpestio e poggiati su corsi di conci lavorati col caratteristico bugnato, tipico delle costruzioni militari reali dell’epoca. La cinta muraria esterna ricalca l’andamento di quella interna ma le fondazioni poggiano direttamente sulla roccia di base e la tecnica di costruzione omogenea dona al complesso un aspetto organico. Gli interventi iniziati nel tredicesimo secolo cambiano dunque in maniera radicale l’aspetto della fortificazione e del promontorio stesso, cancellando le tracce del faubourg preesistente e risultando in un’opera di ingegneria militare destinata a garantire la difesa dell’avamposto e a rappresentare un simbolo del ristabilito potere reale sulle terre del midi francese attraversate dall’eresia. Dal punto di vista architettonico, il restauro voluto da Saint Louis presenta una notevole omogeneità formale, segno di un controllo continuo delle attività di cantiere al fine di eseguire un progetto tanto ambizioso quanto complicato. Dal punto di vista dei materiali, invece, sembra di poter riconoscere due tipi di arenaria, una riconducibile alla formazione della Molasse de Carcassonne e quindi probabilmente proveniente dal promontorio stesso o dalle dirette vicinanze del sito, e l’altra corrispondente alle caratteristiche geochimiche dei fronti di cava identificati sulla formazione della Molasse de Castelneudary (fig. 14.1). L’apertura di nuovi fronti di cava potrebbe essere stata funzionale alla richiesta di materiale sul cantiere trecentesco, tanto è vero che l’uso di arenaria proveniente dalla formazione di Castelnaudary sembra essere circoscritto ai grandi lavori di rifacimento tra XIII e XIV secolo e il materiale non si ritrova in altre fasi costruttive. Gli affioramenti oggi osservabili mostrano segni di uno sfruttamento sistematico e di lunga durata (fig. 14.4), ma rimane da chiarire se le stesse cave siano servite per l’approvvigionamento di materiali da costruzione per la costruzione della bastide, il nuovo centro abitato sorto tra XII e XIV secolo e che costituisce il cuore dell’odierna cittadina di Carcassone.

Le fasi costruttive seguenti, che corrispondono ai rifacimenti medievali fino al XII secolo, vedono un uso preponderante di arenaria argillosa con prevalente illite. Fronti di cava con simili caratteristiche mineralogiche sono stati indagati alla base della cinta muraria esterna. I piazzali di cava, situati sulle pendici del promontorio, sono obliterati dal sedimento ed è possibile osservare soltanto alcune porzioni degli affioramenti rocciosi situati sotto le fondazioni, con chiare tracce di cunei e tagliate. Seppure sia impossibile datare con certezza questi pochi segni, le misure spettroscopiche condotte sugli affioramenti pertinenti la formazione della Molasse de Carcassonne sembrano corrispondere a quelle condotte sulla maggior parte degli elementi in opera datati tra il IV ed il XII secolo d.C. e costituiti da arenaria argillosa con prevalente illite. Scavi condotti sulle pendici della collina hanno rivelato la presenza di conoidi detritiche di grandi dimensioni datate al XIX secolo e probabilmente accumulate durante il periodo delle ristrutturazioni condotte da Viollet-le-Duc.38 Questi primi dati ci lasciano immaginare che il pendio collinare, prima del recente restauro della cittadella, avesse un aspetto molto diverso da quello odierno: un’area con fronti di cava visibili e sfruttati per la costruzione del borgo fortificato e forse anche per il fauborg medievale. La ricostruzione del sistema difensivo, cominciata nel XIII secolo, fu intrapresa per una chiara necessità militare e per rispondere a un disegno politico e ideologico della monarchia francese. Dopo la presa della cittadella, Carcassonne diventò formalmente parte della giurisdizione della corona di Francia e il re Luigi IX ordinò un rifacimento della cinta difensiva e la costruzione del secondo circuito murario. L’opera ingegneristica assunse proporzioni notevoli e comportò un abbassamento sistematico del piano di camminamento tra le due cinte murarie effettuato inserendo una inzeppatura di muratura

Dal XV secolo in poi iniziò il lento decadimento dell’opera difensiva, con sporadici interventi di restauro mirati a mettere in sicurezza le strutture pericolanti. All’inizio del XIX secolo, lo storico Cros-Mayrevieille e i grandi architetti francesi Mérimée e Viollet-le-Duc trovarono un sito in stato di abbandono.40 Quest’ultimo riuscì a intraprendere una mastodontica opera di restauro che comportò, tra altri interventi, la ricostruzione della parte superiore dei muri di cortina, delle torri e di alcune porte monumentali. I restauri di Viollet-le-Duc, ben riconoscibili

37  Si dà notizia dell’intervento archeologico nell’archivio online dell’Inrap: https://www.inrap.fr/lo-badarel-1143. 38  M.-E. Gardel. M. Enjalbert, «Carcassonne, terroir sud de la Cité: premier bilan archéologique», in Bulletin de la Société d’Etudes Scientifiques de l’Aude, CXV, Carcassonne 2015, pp. 33–46; M.-E. Gardel, S. Chong, L. Cornet, «Carcassonne, la Cité : le site de Porte d’Aude: étude de la céramique et premières interprétations», in Bulletin de la Société d’Etudes Scientifiques de l’Aude, CXVII, Carcassonne 2017, pp. 111–130.

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Figura 14.4. Fronte di cava identificato in località Pech Mary, sulla formazione della Molasse de Castelnaudary. Il fronte di cava visible è alto circa 1,5 m (foto dell’autrice).

nel palinsesto costruttivo, sono costituiti da blocchi di arenaria grigia molto compatta e dalla provenienza sconosciuta che, come scrive Poux nel suo La cité de Carcassonne. Histoire et description, furono impiegati al posto della roccia locale qui quique dur quand on le taille, se dècompose promptement à l’air et à l’humiditè.41

permettendo di scegliere direzioni di ricerca supportate da informazioni in tempo reale. La disponibilità di strumenti analitici portatili potrebbe indurre un cambiamento anche per la didattica archeologica, mettendo a disposizione degli studenti tecniche che prima erano appannaggio dei soli laboratori. La democratizzazione delle tecniche analitiche certamente procede nella direzione di rendere l’archeologia una disciplina veramente transdisciplinare e ‘globale’42, che sappia donare voce alle molte tracce lasciate da esseri umani e sostanze non umane.

Conclusioni L’esempio di Carcassonne mostra come lo studio interdisciplinare dei materiali lapidei in un contesto archeologico possa restituire informazioni importanti per la ricostruzione del paesaggio antico. L’integrazione sistematica di tecniche analitiche nella progettazione della ricerca, tramite l’uso di strumenti portatili e non invasivi, permette di indagare i materiali archeologici in una prospettiva ambientale ponendo l’accento sulle trasformazioni del substrato geologico. La scienza portatile costituisce un’incredibile risorsa per le ricerche archeologiche e il suo impiego su più ampia scala certamente porterà, nei prossimi anni, a una rivoluzione metodologica. I dati analitici posso essere interpretati direttamente sul campo, fornendo informazioni cruciali per una migliore comprensione dei contesti di scavo/ricognizione e

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Sezione IV Paesaggi antichi: Metodologie a confronto

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15 Confronting Methodologies in Ancient Landscape Studies Frank Vermeulen Ghent University The 4th session of the Pisa colloquium assembled a series of studies in progress that are a good reflection of the great variety of approaches and methodological confrontations characterizing Mediterranean landscape archaeology in the second decade of the 21st century. As always, they are the fruit of past experiences in the discipline and, fuelled by excellent research schools and their respective academic leaders, they provide at the same time some innovating and interesting confrontations of new ideas and methods. Simultaneously they highlight very diverse regional experiences in different parts of two countries, Italy and Spain, where much of the action of Mediterranean archaeology is happening today.

only way to achieve meaningful time-depth perspective. Also the concept of settlement chambers (in German ‘Siedlungskammer’) has been recognized as being fundamental, i.e. the search for the spatial migration through time of settlements around small landscape niches is present in more and more approaches in landscape archaeology. A double strategy in this discipline resulting from both the integrated treatment of diachronic processes occurring at different timescales in the landscape – the ‘Annales’ approach of Braudel and others – and the holistic study of settlement dynamics in wider territories has pushed more and more scholars today to study a particular small sector of the landscape that forms a kind of laboratory to observe and try to interpret minor and major changes in the settled landscape over different phases of human occupancy. From here wider geographical views can be developed and broader historical questions can be tackled.

The five Italian studies in this session build further on the very long tradition of ancient topography, landscape archaeology and archaeological mapping and documentation in this country that started far back during the late 19th century. The idea of documenting the past, originally developed by the Directorate of Antiquities and Fine Arts of the Ministry of Education in 1885, and taken up by Giuseppe Lugli in 1923, giving birth to the Archaeological Map of Italy Project – Forma Italiae, still lies at the base of much archaeo-topographic work in the field today. The second main impetus that influenced generations of field archaeologists caring for the ‘wider landscape view’ came after World War II. Very intensive survey-based analyses and subsequent settlement pattern studies in the archaeology of Italy started on a more systematic basis in the 1960s with the South Etruria survey project of the British School at Rome. This seminal project was followed in later decades by a multitude of other regionally based Italian and foreign projects, with generally similar objectives but with a diversity of strategies. Thanks to its ability to identify the remains of small, distributed farms as well as those of larger ones, this survey approach, which is now part of the dominant core of Mediterranean archaeology, had a considerable impact on the study of the rural landscape and of such themes as Roman demography, regional variability of ancient landscapes and societal change in a wider geographical perspective. And even though there are many interpretative problems regarding the surface data, the effects of various biases are now relatively well studied, and most projects apply today correction procedures to efficiently deal with them.

During the past three decades this quest for understanding patterns and change in the archaeological landscape is also much being helped by booming developments in the technology of survey, documentation, and analysis. The explosive impact of Geographic information Systems (GIS), remote sensing (drones, Lidar, satellite imagery, multi-spectral aerial scanning, etc.), geophysical prospection (GPR, geomagnetic and geo-electric survey), digital 3D mapping, etc. have indeed allowed many teams to bring the study of past landscapes to ever higher levels of comprehension. They also allowed improvements in reaching out to the wider audiences and the policy makers, which is very essential for the financially viable development of landscape archaeology and for the role this discipline can and must play in cultural resource management. This does not mean that we must now stop trusting or even using the very valuable legacy data from earlier operations and fieldwork of the past two centuries. Good regional projects can be reborn and rechecked, improved pottery typo-chronologies from excavations now render more subtle analyses of the survey ceramics possible, yielding refined chronological and functional analyses, older and sometimes lost structural data from the field can now be better positioned, linked to new remote sensing imagery and reinterpreted. The current generation of landscape archaeologists has the potential to practice source criticism of their own data gathered over the years and of data from earlier research by others, which can lead to the exploration of the potential for comparison of datasets obtained from

According to many landscape archaeologists, active around the turn of the millennium, the slow and careful study of the longue durée of integral landscapes is the 135

Frank Vermeulen

Figure 15.1. Images of fieldwork in 2018/19 by the team from Ghent University in San Severino Marche (photos by F. Vermeulen).

which makes old and new data comparable at least in the fundamental aspects represented by chronology and topography, ultimately allowing the researcher to produce relevant results for understanding settlement systems during the Roman period in the plain around Catania.

systematic surveys and topographical work, and to use its potential for comparison and for integration. Key to the success of such comparison and integration, and thus for the creation of even better maps and more accurate documentation for landscape and settlement analysis is to be fully aware of all matters of scale (from the local to the regional and to the supra-regional), of matters regarding the quality and quantity of field data, and finally of the relevance of the archaeological data for the historical questions we can and must engage with.

Comparable advances are signalled in the paper by Tarlano and Montonato on the ager Grumentinus in present-day Basilicata. The study allows developing a model of integrated research and heritage protection work on a territorial scale. Here the historical evolution of the landscape has been reconstructed thanks to the crossing of traditional methodologies, such as field survey, analysis of ancient sources, historical cartography and toponymical study, with technologies related to geoarchaeology, like ‘geomatic’ fieldwork, palynological analysis, and radiocarbon dating. The study has disentangled a complex stratification of human and natural factors, which generated the cultural landscape delimited by the proposed study area. The archaeological evidences represent not only a precious testimony of past societies and landscape structures around the ancient town of Grumentum, but they offer also a contemporary reading key of the landscape context, essential for the purposes of regional heritage management and protection.

The paper by Brancato in this session, on archaeological surveys and legacy data in eastern Sicily, exactly explores this integration of methods for his research on Roman rural landscapes. Besides potentially creating a new landmark in topographical studies in the eastern sector of Sicily examined here, this contribution reflects on the chances offered by the integration of different sources of archaeological and topographical data (including field survey, excavation, existing research reports, archives), through digitization and implementation into a geo-database. To overcome problems arising from the inherent heterogeneity of archaeological data, the gazetteer of archaeological sites has been the subject of a long cartographic and semantic elaboration process, 136

Confronting Methodologies in Ancient Landscape Studies Also the paper by Forte, La Trofa, Piergentili and Savino, on the ager Lucerinus, gravitating around the ancient Latin colony of Luceria in Daunian lands, offers good ideas for enrichment both from the point of view of field research and methodology. During the more than a decade long fieldwork by the Ager Lucerinus Project the team of researchers has tried to reconcile the approach of traditional study with increasingly sophisticated technologies to understand and reconstruct the ancient landscapes. The basic topographic evidence gathered within earlier Forma Italiae work has been importantly enriched with the help of modern applications such as drone photography, Lidar scanning, Digital Elevation Mapping, field documenting with mobile devices to share, etc., in this way setting the standards for fieldwork in Italian landscapes for the coming decade. The challenges of bringing together data collected with different methodologies, from site and off-site surveys carried out over more than 30 years, in projects carried out by many different team players, are considerable, but mainly depend on the establishment of sound formal criteria for site and pottery classification.

protect these as part of a heritage management and for the general interest of the wider community. Finally, a paper on Spanish context in this session focus on the landscapes of mineral exploitation that first attracted the powers of Rome to the Iberian Peninsula and later promoted Islamic expansion to these western Mediterranean territories. Silvia Berrica deals with a mining landscape, but one located north of Madrid and intensively exploited during the early Islamic era, in the late 7th and 8th centuries. Her short paper, with still very preliminary results on a restricted area, includes the study of the landscape through historical aerial photos to discover some new structures and possible ancient roads which allow extending the range of occupation of certain mining sites. The work, which includes the processing of structural and material data (ceramics, glass, metal) from excavations and engages with the evolution of early Medieval housing and social organisation of this mining district, demonstrates that landscape archaeology can certainly benefit from a multi-facetted approach, as the necessary diachronic analysis of the material past needs to merge topographic work stricto sensu, material studies on finds and wellaimed stratigraphic excavations.

The contribution by Limina focusses on Volterra and its territory between the 1st century BC and the 5th century AD. The author again shows the effectiveness of a diachronic and multidisciplinary approach, applied to the analysis of ancient landscapes. All available sources were taken into consideration, integrated with the data of the latest archaeological investigations, combined with unpublished data and the most recent theories concerning elite control in the Roman world. The contribution, thanks to a detailed investigation of the marginal areas of the Volterra territory, proposes some alternative solutions to explain the different evolutions of the interior and of the coastal lands. To be noted are for instance the hypothesis of the important role played by sanctuaries in the liminal landscapes in the early phases of Romanisation, as well as the great impact of elite landowners in later Imperial times. The recent intensification of new fieldwork in this area promises interesting answers to crucial historical questions. Of a very different nature, but evenly rewarding, is the fieldwork, ongoing since 2009 in the mountainous area north of Bergamo, presented by Matteoni. Her paper regards the fortified architectures of this region, hitherto studied with methods proper to art history, but now approached with a much more archaeological look, contextualising the still standing architectures spanning from early Middle Ages to the 15th century in their landscape environment. Captivating is the observation that every valley of the studied region has its own ‘constructive panorama’, which again stresses the importance of regional and sub-regional differences in the archaeological spectrum. This is in line with the potential identification of so-called ‘settlement chambers’ in a specific region, a task every landscape archaeologist should envisage. Evenly important is that the research, based on the procedures of the archaeology of architecture within a GIS environment, can now provide local councils with firm data on historical buildings, enabling them to 137

16 Ricognizioni archeologiche e legacy data in Sicilia orientale: l’integrazione tra metodi per la ricerca sui paesaggi rurali in età romana Rodolfo Brancato (Research fellow) Università degli Studi di Catania Abstract: Archaeological surveys and legacy data in eastern Sicily: the integration of methods for research on Roman rural landscapes. This contribution presents an updated overview of current knowledge regarding Roman settlement systems in eastern Sicily. Based on data available for the Catania area, the research reflects on the potential offered by the integration of different sources of archaeological and topographical data (including field survey, excavation, existing research reports, archives), through digitization and implementation into a geo-database. The final results are of extremely relevant for research on rural landscapes of Roman Sicily. Thanks to the analysis of the intensive survey project data carried out in the Plain of Catania (1997–2007) and the creation of a complete archaeological sites gazetteer, a settlement systems analysis over the long term was carried out. The dynamic and complex image of Catania Plain settlement systems through the Roman centuries is very useful for a new understanding of the myth of Sicilia frumentaria. Ricognizioni archeologiche e legacy data in Sicilia orientale: l’integrazione tra metodi per la ricerca sui paesaggi rurali in età romana. Il contributo presenta una panoramica aggiornata sullo stato delle conoscenze sui sistemi insediativi di età romana nella Sicilia orientale; sulla base dei dati disponibili sul territorio di Catania, si riflette sulle potenzialità offerte dall’integrazione tra differenti fonti di dati archeologici e topografici (ricognizione, scavo, precedenti ricerche, archivi), attraverso la digitalizzazione e l’implementazione nel geo-database. La lettura integrata dei risultati delle ricognizioni condotte nella Piana di Catania e dei legacy data disponibili per il territorio permette di disporre di una base informativa significativa, sulla quale avviare l’analisi dell’evoluzione dei sistemi insediativi nella lunga durata. L’elaborazione dei dati permette una prima esposizione dei risultati, che sono di particolare rilevanza per la ricerca sui paesaggi rurali della Sicilia romana. L’immagine dinamica e complessa emersa dei sistemi insediativi della Piana di Catania nel corso dell’età imperiale è assai utile per la comprensione della consistenza del mito della Sicilia frumentaria. Introduzione

di studi disponibili sul territorio nell’ultimo trentennio.2 Effettivamente, come giustamente sollevato da più parti, il grande limite delle sintesi sulla Sicilia romana era stata la nebulosità che caratterizzava le conoscenze sul paesaggio rurale (fig. 16.1).3 Solo a partire dagli anni ’80 del secolo scorso nell’isola sono stati avviati programmi di ricerca specificatamente volti allo studio del territorio. I progetti condotti si sono caratterizzati, tuttavia, per marcata eterogeneità metodologica, in particolare nelle strategie

Il contributo intende valutare lo stato delle conoscenze sui sistemi insediativi di età romana nella Sicilia orientale sulla base dell’integrazione tra fonti eterogenee di dati archeologici e topografici. Attraverso l’uso dei legacy data disponibili, si vuole tentare di colmare il vacuum che affligge la conoscenza sui paesaggi di età romana di ampi settori della Sicilia orientale, importante campo di indagine nel contesto del Mediterraneo antico.1 Nella sua recente riflessione sullo stato delle ricerche di superficie nell’isola, A. Burgio ha sottolineato l’incremento notevole

Per un’analisi sullo stato della ricerca di superficie condotti nell’Isola vedi Burgio 2017, pp. 101–111, con bibliografia. 3  Sulla Sicilia in età romana, vedi Wilson 1990; O. Belvedere, J. Bergemann (a cura di), Römisches Sizilien: Stadt und Land zwischen Monumentalisierung und Ökonomie, Krise und Entwicklung / La Sicilia Romana: Città e Territorio tra monumentalizzazione ed economia, crisi e sviluppo, Palermo 2018; cfr. L. de Ligt, «The Impact of Roman Rule on the Urban System of Sicily», in Regional Urban Systems in the Roman World, 150 BCE – 250 CE (a cura di L. de Ligt, J. Bintliff), LeidenBoston 2019, pp. 217–280. 2 

1  Cfr. P. Horden, N. Purcell, The Corrupting Sea: A Study of Mediterranean History, London 2000; Across the Corrupting Sea: PostBraudelian Approaches to the Ancient Eastern Mediterranean, C. (a cura di C.W. Concannon, L.A. Mazurek), Dorchester 2016.

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Rodolfo Brancato

Figura 16.1. Sicilia romana, l’area ionico-etnea nel contesto dell’isola, con indicazione delle ville e degli insediamenti rurali noti nel 1990 (rielab. da Wilson 1990).

di approccio all’analisi del territorio e delle problematiche storiche connesse, nelle procedure di campionatura, nella rappresentazione dei dati e nell’edizione dei contesti e dei materiali. Fatte tali doverose premesse, tuttavia l’utilità di ogni progetto di ricerca condotto nel territorio è indiscutibile, considerati gli impetuosi processi tafonomici cui gli elementi superstiti dei paesaggi antichi sono soggetti.4

dalla metà degli anni ’90: la metodologia della ricerca era volta alla comprensione delle dinamiche culturali nella transizione tra età preistorica e storica.9 Una metodologia ibrida è stata applicata, in genere, negli altri progetti di survey condotti in questo settore dell’isola10, come nel caso delle ricognizioni condotte nel territorio di Morgantina11, di Troina,12 nell’Upper Simeto Valley

Ricerche sui sistemi insediativi antichi della Sicilia orientale

R.M. Albanese Procelli, F. Alberghina, M. Brancato, E. Procelli, G. Sirena, «The Project and the First Results of the Gornalunga and Margi Valley Survey», in Uplands in Ancient Sicily and Calabria (a cura di M. Fitzjohn), London 2007, pp. 35–48. In Sicilia, la metodologia sistematica e intensiva è stata messa in pratica nelle ricognizioni del territorio di Termini Imerese (V. Alliata, O. Belvedere, A. Cantoni, G. Cusimano, P. Marescalchi, S. Vassallo, Himera III.1. Prospezione archeologica nel territorio, Roma 1988; O. Belvedere, A. Bertini, G. Boschian, A. Burgio, A. Contino, R.M. Cucco, D. Lauro, Himera III. 2. Prospezione archeologica nel territorio, Roma 2002); del sito di Alesa ­– Tusa, Messina – [Il paesaggio agrario nella Sicilia ellenistico-romana. Alesa e il suo territorio (a cura di A. Burgio), Roma 2008]; Cignana Naro-Palma di Montechiaro (A. Burgio, «Dinamiche insediative nel comprensorio di Cignana. Continuità e discontinuità tra l’età imperiale e l’età bizantina», in Sicilia Antiqua 10, 2013, pp. 31–53). 10  Burgio 2017, p. 108. 11  Cfr. S.M. Thompson, A Central Sicilian Landscape: Settlement and Society in the Territory of Ancient Morgantina (5000 BC – AD 50), Tesi di dottorato, University of Virginia 1999; S.M. Thompson, «The Metapontino and Morgantina Archaeological Survey Projects», in New Developments in Italian Landscape Archaeology (a cura di P. Attema, G-.J. Burgers, E. van Jooken, M. Van Leusen, B. Mater), Oxford 2002, pp. 76–82. 12  G. Ayala, C. French, «Holocene landscape dynamics in a Sicilian upland river valley», in Alluvial Archaeology in Europe (a cura di A.J. Howard, M.G. Macklin, D.G. Passmore), Lisse 2003, pp. 229–235; G. Ayala, C. French, «Erosion modeling of past land-use practices in the Fiume di Sotto di Troina river valley, north-central Sicily», in Geoarchaeolgy 20 (2), 2005, pp. 149–168. 9 

L’incremento delle ricerche territoriali in Sicilia orientale è avvenuto nel corso degli anni ’80: progetti di ricognizioni furono avviati nei territori di Centuripe5, Lentini6 e Augusta7 (fig. 16.2). Prospezioni del territorio erano state intraprese già in passato, ma con l’obiettivo del censimento dei siti noti condotto attraverso una serie di sopralluoghi mirati.8 La prima ricognizione a carattere sistematico fu avviata nella valle del Gornalunga a partire 4  Cfr. O. Burger, L. Todd, P. Burnett, «The behavior of surface artifacts: Building a landscape taphonomy on the high plains», in Geomorphology, 98, 2008, pp. 285–315. 5  G. Biondi, «Per una carta archeologica del territorio di Centuripe», in Scavi e ricerche a Centuripe (a cura di G. Rizza), Catania 2002, pp. 41–81. 6  F. Valenti, «Note preliminari per lo studio degli insediamenti di età romana a Sud della Piana di Catania», in Kokalos, 43–44, II, 1, pp. 233–274. 7  R. Lanteri, Augusta e il suo territorio: elementi per una carta archeologica, Catania 1997. 8  Ad esempio, vedi A. Messina, «Ricerca archeologica e topografica nel territorio di Mineo», in CronASA XVIII, 1979, pp. 7–18; A. Messina, Esplorazione archeologica del territorio di Mineo, Trieste 2018.

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Ricognizioni Archeologiche e legacy data in Sicilia orientale

Figura 16.2. Sicilia centro-orientale, areale dei progetti di ricognizione: A) upper Simeto Valley Project ( Leone et al., The Upper…, art. cit. alla nota 15); B) Troina survey (Ayala, French, «Holocene landscape…», art. cit. alla nota 14); C) carta archeologica di Centuripe (Biondi, «Per una carta archeologica…», art. cit. alla nota 5); D) carta archeologica di Catania (Tortorici, Catania antica…, op. cit. alla nota 26), ricognizioni subacquee della costa (Tortorici, «Contributi per una carta…», art. cit. alla nota 26), carta archeologica della valle dell’Aci; E) ricognizioni dei margini occidentali della Piana (Albanese Procelli et al., «The Project and…», art. cit. alla nota 9); F) ricognizione degli Erei (Giannitrapani, «Paesaggi e dinamiche…», art. cit. alla nota 60); G) Morgantina survey (Thompson, A Central Sicilian…, op. cit. alla nota. 13); H) Ricognizione dell’IGM F. 270 III SO (R. Brancato, L. Manganelli, «Contributo alla carta archeologica del territorio tra Catania e Lentini (IGM 270 III SO, Reitano», JAT XXVII, 2017, pp. 87-108); I) carta archeologica di Augusta (Lanteri, Augusta…, op. cit. alla nota. 7); Malfitana, Cacciaguerra (a cura di), Priolo romana…, op. cit. alla nota 16) (elab. dell’autore).

Project13 e nel territorio di Priolo;14 diverso ancora è il caso del Philosophiana Project: qui, la metodologia intensiva è stata focalizzata sul sito della stazione itineraria15 e sulle caratteristiche topografiche delle immediate dipendenze.16 Nonostante il loro potenziale, molte di queste ricerche sono ancora edite in forma preliminare e/o prive di documentazione archeografica adeguata.17 A tale ragione va ricondotta la parziale comprensione della consistenza del paesaggio rurale nell’area che si estendeva tra le importanti città romane di Catania, Centuripe, Enna e Mineo (fig. 16.3). G. Bejor già criticava la qualità dei dati archeologici disponibili

per i contesti rurali; la sua analisi sull’insediamento nella Sicilia romana, basata sulla lettura dei dati disponibili (frutto dello spoglio delle ricerche edite e degli archivi di Musei e Soprintendenze) e delle fonti storiche, fu in grado di evidenziare alcuni trend poi confermati nei decenni successivi, come la persistenza dell’insediamento rurale in età repubblicana rispetto alla decadenza registrata nei coevi contesti urbani.18 Sulla base dei risultati dei progetti in corso, una sintesi sul paesaggio rurale fu tentata da R.J.A. Wilson (1990): per descrivere le forme assunte dall’insediamento rurale nell’isola, nel suo contributo introdusse la fortunata definizione di ‘agro town’, categoria presa in prestito dagli studi geografici.19

13  A. Leone, R. Witcher, F. Privitera, U. Spigo, «The Upper Simeto Valley Project», in Uplands in Ancient Sicily, op. cit. alla nota 9, pp. 49–58. 14  D. Malfitana, G. Cacciaguerra (a cura di), Priolo romana, tardo romana e medievale, Catania 2011. 15  G.F. La Torre, K. Bowes, M. Ghisleni, E. Vaccaro, «Preliminary report on Sofiana/mansio Philosophianis in the hinterland of Piazza Armerina», in JRA 24, 2011, pp. 423–449. 16  M. Sfacteria, Un approccio integrato al problema della ricostruzione della viabilità romana in Sicilia. La via Catania-Agrigento, Oxford 2018. 17  Burgio 2017, p. 104.

18  G. Bejor, «Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologie e sviluppo da un primo inventario dei dati archeologici», in Società Romana e impero tardo-antico. Le merci, gli insediamenti III (a cura di A. Giardina), Bari 1986. pp. 463–519; cfr. G. Bejor, «Gli insediamenti rurali in Sicilia tra Repubblica e Impero», in La Sicilia romana tra Repubblica e Alto Impero. Atti del convegno di studi, Caltanissetta 20–21 maggio 2006 (a cura di C. Miccichè, S. Modeo, L. Santagati), Caltanissetta 2007, pp. 14–26. 19  Wilson 1990, pp. 231–232.

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Rodolfo Brancato

Figura 16.3. Sicilia orientale, veduta sui margini occidentali della Piana di Catania da c.da Castellito, Ramacca (foto dell’autore).

Nel 2005, un primo riassetto dei dati fino ad allora emersi è stato proposto da E.C. Portale: l’analisi sulla Sicilia romana guardava al rapporto tra insediamento urbano e rurale secondo una prospettiva globale, adeguata allo studio della provincia nel contesto del Mediterraneo.20 A queste sintesi su scala regionale, sono seguiti focus sui sistemi insediativi di micro-regioni: ad esempio, i contributi di E. Bonacini sul Calatino (2007)21, di L. Arcifa sul territorio di Mineo (2001)22 e di F. Valbruzzi (2012) sulla Sicilia centrale.23

seguito l’avvio di ricognizioni intensive e sistematiche anche nella pianura alluvionale che si estende a sud-ovest della città (fig. 16.4). Con i suoi 428 km2, la Piana di Catania è la più vasta area pianeggiante dell’isola; estesa tra l’Etna e le propaggini settentrionali dell’Altopiano Ibleo25, si è formata dai depositi dei fiumi Simeto, Dittaino, Gornalunga e San Leonardo che l’attraversano in senso est-ovest in direzione del Mar Ionio, dove essa assume l’aspetto di un litorale diritto e dunoso.26 Il programma di ricognizioni, diretto da E. Tortorici, fu avviato, a partire dal 1997, nel territorio dei comuni di Palagonia, Ramacca e Castel di Iudica, ai margini occidentali dell’area (476 km2).27 Obiettivo programmatico era il censimento delle aree di frammenti e delle strutture di interesse archeologico, elementi superstiti dei paesaggi antichi testimonianza sia delle direttrici che in antico collegavano l’area ionico-etnea agli altri versanti dell’isola sia dei sistemi insediativi che

Il territorio di Catania come caso studio Catania e il suo territorio sono oggetto di ricerche topografiche sistematiche a partire dagli inizi degli anni ’90. Al progetto della carta archeologica della città e della costa24, ha fatto E.C. Portale, «Sicilia», in Le grandi isole del Mediterraneo occidentale. Sicilia Sardinia Corsica, Archeologia delle province romane 1 (a cura di E.C. Portale, S. Angiolillo, C. Vismara), Roma 2005, pp. 11–186; cfr. E. Fentress, S. Fontana, R.B. Hitchner, P.H. Perkins, «Accounting for ARS: fineware and sites in Sicily and Africa», in Side-by-side Survey. Comparative Regional Studies in the Mediterranean World (a cura di S.E. Alcock, J.F. Cherry), Oxford 2014, pp. 147–162; un’analisi esclusivamente dei contesti urbani è quella recentemente proposta da L. Pfuntner, Urbanism and Empire in Roman Sicily, Austin 2019. 21  E. Bonacini, Il territorio calatino nella Sicilia imperiale e tardoromana, Oxford 2007. 22  L. Arcifa, «Dinamiche insediative nel territorio di Mineo tra tardoantico e basso medioevo. Il castrum di Monte Catalfaro», in MÉFRAM 113, pp. 269–311. 23  F. Valbruzzi, «Archeologia dei paesaggi: gli insediamenti rurali di età romana e tardoantica nel territorio degli Erei», in I Quaderni del Patrimonio Culturale Ennese 1, 2012, pp. 205–240. 24  E. Tortorici, «Contributi per una carta archeologica subacquea della costa di Catania», in Archeologia Subacquea 3, 2002, pp. 275–334; E. Tortorici, «Nuovi dati dalla Sicilia Orientale: ricognizioni subacquee a Capo Mulini ed Acitrezza», in JAT XVI, 2006, pp. 129–142; E. Tortorici, «Osservazioni e ipotesi sulla topografia di Catania antica», in ATTA 17, 2008, pp. 91–124; E. Tortorici, Catania antica. La carta archeologica, Roma 2016. 20 

25  E. Guastaldi, A. Carloni, G. Pappalardo, J. Nevini, «Geostatistical Methods for Lithological Aquifer Characterization and Groundwater Flow Modeling of the Catania Plain Quaternary Aquifer (Italy)», in Journal of Water Resource and Protection 272, 2014, pp. 272–296. 26  M. Sorbello, Irrigazione e bonifica nella Piana di Catania, Catania 1992, p. 6 27  Condotte tra il 1997 e il 2007, la ricognizione è stata condotta nel territorio compreso nelle tavolette IGM F. 269 I S.O. Sferro, F. 269 II N.O. Monte Turcisi; F. 269 II S.O. La Callura, F. 269 III N.E. Castel di Iudica (settore meridionale), F. 269 III S.E., Ramacca da E. Tortorici secondo i parametri stabiliti dal progetto Forma Italiae, cfr. F. Castagnoli, «La Carta Archeologica d’Italia e gli studi di topografia antica», in Ricognizione archeologica e documentazione cartografica (Quad. Ist. Top. Roma VI), Roma 1974; R. Francovich, A. Pellicanò, M. Pasquinucci (a cura di), La carta archeologica fra ricerca e pianificazione territoriale, Firenze 2001; M.L. Marchi, «Carta Archeologica D’Italia – Forma Italiae Project: Research Method», in LAC 2014 (Proceedings of the 3rd International Landscape archaeology conference, Roma 2014), http://dx.doi.org/10.5463/lac.2014.42.

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Ricognizioni Archeologiche e legacy data in Sicilia orientale

Figura 16.4. Sicilia orientale, territorio di Catania, con indicazione del settore del territorio coperto dalle ricognizioni (elab. dell’autore).

qui si sono sviluppati attraverso i millenni. L’importanza dei risultati di tali ricognizioni è legata alla consistente mole di dati archeologici e topografici ottenuti nel corso del lavoro condotto nel territorio: le unità topografiche censite (131) e i reperti archeologici raccolti, classificati e catalogati (2753) permettono, infatti, di seguire le fasi salienti dell’evoluzione dell’insediamento dalla preistoria all’età moderna (fig. 16.5).

la georeferenziazione della documentazione archeografica disponibile.30 I dati considerati per la creazione del catalogo si caratterizzavano, ovviamente, per spiccata eterogeneità: generazioni di studiosi avevano applicato diverse metodologie di ricerca, approcciandosi al territorio con interessi scientifici specifici e, molto spesso, pubblicando i risultati soltanto parzialmente.31 Per ovviare a tali inconvenienti si è deciso di usare l’area delle evidenze di interesse archeologico come unità minima di riferimento per la gestione dei dati: l’Unità Topografica (UT), con relative schede e quantificazioni di materiali, è, infatti, l’entità con il maggior grado di dettaglio gestibile nel medesimo sistema di archiviazione. L’analisi comparativa

Il potenziale di questi dati per la lettura stratigrafica del paesaggio poteva essere espresso soltanto attraverso l’inquadramento dell’area della ricerca che comprende sia la Piana di Catania sia le alture che la circondano: l’ampio areale (2.194 Km2), peraltro, non tiene conto soltanto delle caratteristiche geografiche ma anche di quelle culturali che connotano questo settore dell’isola, ragione dalla quale deriva la possibilità di analisi dei sistemi insediativi di questa regione nella prospettiva della lunga durata.28 Quindi, è stato necessario procedere all’integrazione tra i risultati delle ricognizioni e i legacy data29 disponibili per l’area attraverso la digitalizzazione e

Landscapes: GIS and Legacy Survey Data», in Internet Archaeology, 24, 2008. 30  Cfr. M.L. Marchi, «Project for the Census of the archaeological presences in Italy», in 5° Congresso Internazionale su “Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin”, Istanbul 2011, Roma 2012, pp. 274–277; M.L. Marchi, M. Mazzei, «Un Sistema informativo territoriale per i Beni Culturali: Il GIS del Progetto Censimento per la “Cartografia Archeologica d’Italia”», in Digitalia 1, 2012, pp. 106–112; M.L. Marchi, I.M. Muntoni, G. Forte, A. de Leo, «Dalle ricerche topografiche all’archeologia preventiva. Il GIS del “Progetto Ager Lucerinus”: modelli di indagine e strategie di intervento nei Monti Dauni», in Archeologia e Calcolatori 26, 2015, pp. 325–340. 31  Sulla gestione integrata dei dati archeologici vedi V. Fronza, «OpenArcheo. Un sistema di gestione integrata del dato archeologico», in Archeologia dei Paesaggi Medievali. Relazione progetto (2000–2005) (a cura di R. Francovich, M. Valenti), Firenze 2009, pp. 453–463; V. Fronza,  «L’archiviazione del dato in archeologia», Informatica e archeologia medievale I, 2009, pp. 28–43.

28  Notizie preliminari in Albanese Procelli et alii, «The Project and…», art. cit. alla nota 9; G. Sirena, «La viabilità antica ai margini occidentali della Piana di Catania», Topografia Antica. Tradizione, tecnologia e territorio I, 2012, pp. 45–56; E. Tortorici, «Catania antica: territorio costiero ed entroterra produttivo», in Orizzonti 16, 2015, pp. 23–30. 29  Sulle problematiche relative all’integrazione tra dati archeologici eterogenei vedi R.E. Witcher, «(Re)surveying Mediterranean Rural

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Figura 16.5. Sicilia orientale, Ramacca, carta archeologica su IGM (elab. dell’autore).

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Figura 16.6. Diagramma di relazione delle entità comprese nell’ontologia che modella i dati semantici del geo-database (rielaborato da Brancato, et alii 2019).

Osservazioni sul paesaggio rurale di età romana

degli archivi ha previsto anche un complesso processo di normalizzazione semantica: oltre alla creazione di un database relazionale, ciò ha permesso di gettare le basi per lo sviluppo di un’ontologia32, strumento informatico in grado di gestire e mettere in relazione, su base semantica, gli elementi archetipici della realtà, spazio e tempo (fig. 16.6).33

L’integrazione in ambiente GIS36 tra i dati da ricognizione e da precedenti ricerche permette di guardare attraverso una nuova prospettiva alla consistenza dell’insediamento rurale di età romana di questo settore della Sicilia. Per l’area, sono indicizzati 251 siti inquadrabili tra l’età romana e la tarda antichità: interessanti sono gli elementi che emergono sulle tendenze dell’insediamento nell’area nella prospettiva della lunga durata (fig. 16.7). Questo quadro rappresenta chiaramente un’immagine dai contorni ancora sfumati, considerato che di questi siti soltanto una irrisoria percentuale è stata adeguatamente indagata: tuttavia, rispetto al rapporto tra numero di insediamenti per chilometro quadrato proposto nel 1986 da G. Bejor (1 ogni 45 km2), oggi si passa a 1 ogni 8,6 km2, indizio significativo della consistenza dell’insediamento rurale e delle modalità di sfruttamento del territorio (fig. 16.8).37 Come emerge dalla distribuzione delle testimonianze, ampie aree della pianura sembrerebbero da considerare sostanzialmente terra incognita: la mancanza di dati che affligge ancora il settore centrale della pianura e la fascia litoranea a sud della città etnea è da addebitare a una serie di fattori, in particolare all’alto livello di sedimentazione che, certamente, pregiudica considerabilmente la possibile visibilità degli elementi dei paesaggi antichi. Tuttavia, bisogna considerare la possibilità che anche nel corso dell’antichità ampi spazi del territorio non fossero ritenuti adeguati all’insediamento, specialmente i settori più depressi. Infatti, al di là della narrativa che celebrava la fertilità dei campi leontini, con i quali la pianura viene accostata38, qui il suolo alluvionale non è,

Attraverso questo processo è stato possibile, effettivamente, integrare i dataset eterogenei (piani paesaggistici, cataloghi museali, ricognizioni) per gli aspetti costituiti dai campi ‘località’, ‘datazione’ e ‘cultura materiale’, elementi che rendono ogni report comparabile per gli aspetti fondamentali della cronologia e della topografia indipendentemente dal grado di raffinatezza metodologica. Il catalogo ottenuto dall’integrazione dei suddetti dati consta di 385 siti archeologici compresi tra la costa ionica e i margini della Piana di Catania.34 Sul modello di esperienze affini condotte per la gestione dei legacy data per i paesaggi antichi della Sicilia centrale,35 i siti sono stati classificati secondo una gerarchia che li organizza secondo gruppi di insediamenti principali (città), centri secondari ed entità minori (ville, fattorie, villaggi), necropoli, luoghi di culto, latomie, tracce di opere idrauliche ed elementi della viabilità.

32  Cfr. M.T. Biagetti, «Un modello ontologico per l’integrazione delle informazioni del patrimonio culturale: CIDOC-CRM», in JLIS.it, 7 (3), 2016, pp. 43–77. 33  R. Brancato, M. Nicolosi-Asmundo, G. Pagano, D.F. Santamaria, S. Ucchino, «Towards an ontology for investigating on archaeological Sicilian landscapes», in ODOCH 2019 Open Data and Ontologies for Cultural Heritage Proceedings of the First International Workshop on Open Data and Ontologies for Cultural Heritage co-located with the 31st International Conference on Advanced Information Systems Engineering CAiSE 2019 Rome, Italy, June 3 (a cura di A. Poggi), Roma 2019, pp. 85–90 (http://ceur-ws.org/Vol-2375/); R. Brancato, M. NicolosiAsmundo, G. Pagano, D.F. Santamaria, S. Ucchino, «An Ontology for Legacy data on Ancient Ceramics of the Plain of Catania», in CILC 2019. Proceedings of the 34th Italian Conference on Computational Logic Trieste, Italy, June 19–21 (a cura di A. Casagrande, E. Omodeo), Trieste 2019, pp. 59–67. 34  Per i territori di Aidone (Morgantina) e di Centuripe, è stato possibile integrare i dati delle ricognizioni condotte rispettivamente da S. Thompson (Thompson, A Central Sicilian Landscape…, op. cit. alla nota 11) e G. Biondi (Biondi, «Per una carta archeologica…», art. cit. alla nota 5). 35  E. Brienza, «Un approccio per l’archeologia dei paesaggi nel territorio di Enna e Morgantina», in CronASA 37, 2018, pp. 207–230.

36  G. Azzena, «Punto di non-ritorno (cartografia numerica, sistemi informativi territoriali, analisi spaziale)», in ACalc 20, 2009, pp. 169–177; cfr. J. Bogdani, «Gestione dei dati per l’archeologia. GIS per l’archeologia», in Groma 2. In profondità senza scavare. Metodologie di indagine non invasiva e diagnostica per l’archeologia, Atti della Tavola rotonda. Bologna 2008 (a cura di E. Giorgi), Bologna 2009, pp. 421–438, con bibliografia. 37  Nell’area delle ricognizioni intensive e sistematiche, il rapporto è di 1 ogni 5,6 km2, Brancato 2020, p. 344. 38  Per le fonti sui campi leontini, vedi E.A. Freeman, The History of Sicily from the Earliest Times I, Oxford 1891, p. 67; cfr. E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Roma 1981, p. 89.

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Figura 16.7. Sicilia orientale, trend insediativi nella Piana di Catania: dati da ricognizione e da precedenti ricerche a confronti (elab. dell’autore).

Figura 16.8. Sicilia orientale, il territorio della Piana di Catania in età romana, con indicazione di alcuni siti citati nel testo (elab. dell’autore).

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Figura 16.9. Sicilia orientale, paesaggio pre-bonifica del settore meridionale della Piana di Catania da foto d’epoca (A-B) (Archivio del Consorzio della Bonifica di Catania); indicazione dei pantani nella Carta Geologica d’Italia F. 270, (Sciuto Patti, 1879-80) (C) (elab. dell’autore).

per sua natura, interamente adatto all’attività agricola e all’insediamento: esso è, infatti, caratterizzato dall’estrema povertà di scheletro ghiaioso, ragione per la quale risulta impermeabile e compatto.39 Condizioni migliori per la pratica agricola sono nelle colline che cingono la pianura; qui, invece, le caratteristiche del terreno favoriscono il ristagno delle acque, ragione dell’esistenza, fin dall’antichità, di un paesaggio a settori depressi, paludosi e malarici.40 In particolare, zone perennemente impantanate per l’esistenza di sorgive isolate e non incanalate erano la fascia di territorio situata a nord del fiume Simeto, l’area tra il medio corso del Dittaino e del Gornalunga, e l’intero settore meridionale della pianura, attraversato dal torrente Benante41, peraltro indicato come ‘Fosso’ nella prima levata della cartografia IGM (fig. 16.9). Questi fattori hanno reso malsane vaste porzioni della pianura almeno fino al secondo dopoguerra quando si portò a termine il progetto di bonifica avviato nel 1928,42 con la costruzione

della rete di canali e delle arginature di alcuni tratti a valle dei fiumi Simeto, Dittaino e Gornalunga (fig. 16.10).43 La messa a coltura di aree fino ad allora incolte negli anni, infatti, ha messo in luce tracce dell’insediamento sparso che caratterizzò i margini della pianura a partire dalla media età ellenistica. Nella transizione tra IV e III secolo a.C. si è registrato il verificarsi di una modifica notevole nel paesaggio: gli insediamenti di Montagna di Ramacca e di Monte Iudica si spopolarono a favore di forme di insediamento sparso che si localizzava a quote più basse.44 Effettivamente, la maggior parte delle frequentazioni di età ellenistica sembra attestarsi su quote prossime tra i m 100 e 40 slm (UT R13, R67, R97, R102–103), confermando, ancora, la predilezione per l’insediamento su bassi poggi posti in prossimità di corsi d’acqua o sorgenti. La produzione agricola doveva certo beneficiare dell’abbondante presenza d’acqua, non solo dei fiumi ma anche delle aree umide ormai scomparse ma testimoniate ancora nella toponomastica IGM. Il cambiamento più evidente

C. Monaco, S. Catalano, C. De Guidi, S. Gresta, H. Langher, L. Tortorici, «The geological Map of the Urban Area of Catania (Eastern Sicily): Morphotectonic and Seismotectonic Implications», in Memorie Società Geologica Italiana 55, 2000, pp. 118, 425–438. 40  G. Rossi, «Malaria e bonifica nella Piana di Catania», in Annali Scuola Agraria di Portici 1913, pp. 11–22. 41  Cfr. v. «Benante» in G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, I, Palermo 1994, p. 138. 42  C. Formica, La Piana di Catania, Napoli 1970, pp. 18–19; A. Amodeo, Bonificazione di Bonifica della Piana di Catania e zone adiacenti, relazione dattiloscritta in Archivio Consorzio Bonifica di Catania, pc. 15, fasc. A, all. 2. 39 

Cfr. Sorbello, Irrigazione e bonifica…, op. cit. alla nota 26, p. 15; P. Bevilacqua, M. Rossi Doria, Le bonifiche in Italia dal’700 ad oggi, Roma-Bari 1984; S. Salemi Pace, «Il problema delle acque in Sicilia», in Congresso agrario siciliano. Atti del Convegno, Palermo 1918. 44  Sulla Montagna di Ramacca, R.M. Albanese Procelli, E. Procelli, «Ramacca (Catania). Campagne di scavo degli anni 1978, 1981 e 1982», in NSc, 1988–1989; pp. 7–22; su Castel di Iudica, F. Privitera, «Castel di Iudica: scavi nel centro greco-indigeno sul monte Iudica», in Beni Culturali e Ambientali della Sicilia n.s. I–II, 1991–1992 (2), pp. 26–30. 43 

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Figura 16.10. Sicilia orientale, Catania: il pantano (“margio”) di Primosole nel progetto del canale collettore delle acque del Torrente Benante (1926, Archivio del Consorzio della Bonifica di Catania).

avvenuto nel corso dell’età ellenistica è l’installazione di unità produttive proprio lungo il corso dei fiumi, in alcuni casi in aree oggi comprese tra le anse fluviali e nei pressi di aree umide ormai bonificate. In un’area delimitata da un’ampia ansa del fiume del Gornalunga, ad esempio, è stata identificata una probabile villa rustica con materiali riconducibili tra il II e gli inizi del I secolo a.C. (contrada Gelso, UT R77, m 100 × 150).

di aree mai insediate avvenute per la prima volta in età repubblicana: questo è il caso delle aree di frammenti R23, R27, R26 e R25, che si dispongono nei pressi di un settore della pianura che doveva essere afflitta da ampi fenomeni di impaludamento (fig. 16.11).46 Come è noto dalle fonti, lo sviluppo del paesaggio agrario romano beneficiava dall’ampia disponibilità d’acqua, anche palustre: l’integrazione tra attività agricola e allevamento può, effettivamente, spiegare la notevole espansione del sistema insediativo testimoniato in età imperiale, in particolare a partire dal III secolo d.C.47 Un altro caso esemplare è l’area di contrada Castellito (Ramacca), dove il poggio su cui sorgeva una fattoria attiva già nella tarda età repubblicana fu occupata, nel corso della media età imperiale, da una villa.48 Per la sua posizione a cavallo tra le valli del Dittaino e del Gornalunga e le colline, il sito costituì probabilmente il nucleo di un’ampia proprietà, caratterizzata al suo interno da notevoli differenze geomorfologiche: alla produzione cerealicola potevano, infatti, affiancarsi l’allevamento, grazie all’abbondanza

Casi del tutto simili sono testimoniati anche a sud, nell’area prossima alla confluenza tra Gornalunga e Fiume dei Monaci, vale a dire Masseria San Giacomo (UT R87) e Poggio Callura (UT R102–R103). Sembra possibile, in casi come questo, considerare possibile l’ipotesi di forme di gestione del disordine idrografico tipico dell’area: al momento, non sono tuttavia note testimonianze archeologiche che possano testimoniare l’irreggimentazione del fiume o il suo dragaggio, ma la disposizione degli insediamenti rurali rispetto al corso del fiume potrebbe certo costituirne un indizio indiretto.45 In quest’area, numerose sono le occupazioni

46  La natura paludosa dell’area è testimoniata dal toponimo, Lago S. Antonino, e dallo scavo di canali (saie) dei quali è traccia già nella prima levata della cartografia IGM disponibile per l’area. 47  Cfr. M. Pasquinucci, «L’allevamento», in Storia dell’agricoltura italiana I. L’età antica. 2. L’Italia romana (a cura di G. Fomi, A. Marcone), Firenze 2001–2002, pp. 157–224; G. Traina, «L’uso del bosco e degli incolti», in Storia dell’agricoltura…, op. cit., pp. 248–249. 48  Albanese Procelli, Procelli, Ramacca (Catania). Saggi di scavo…, op. cit. alla nota 44, pp. 7–22.

45  Cfr. S. Quilici Gigli, «L’irreggimentazione delle acque nella trasformazione del paesaggio agrario dell’Italia centro-tirrenica», in Uomo, Acqua e Paesaggio. Atti dell’incontro di studi, Irreggimentazione delle acque e trasformazione del paesaggio antico, S. Maria C.V. 1996, s. II ATTA, 1997, pp. 193–212; E. Felici, Nos flumina arcemus, derigimus, avertimus. Canali, lagune, spiagge e porti nel Mediterraneo antico, Bari 2016, pp. 49–56.

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Ricognizioni Archeologiche e legacy data in Sicilia orientale

Figura 16.11. Sicilia orientale, Ramacca, distribuzione dei siti di età romana tra i bacini del Dittaino e del Gornalunga (elab. dell’autore).

d’acqua nella vicina area di contrada Lago (Ramacca), l’arboricoltura e la pastorizia, da praticare nelle colline che si estendono a nord e ad ovest dell’area.

rinvenimento di numerosi frammenti riconducibili a contenitori da trasporto e ceramica fine da mensa in terra sigillata di produzione nordafricana.52

In linea con le recenti acquisizioni sui sistemi insediativi della Sicilia romana, anche nella Piana di Catania si registra un notevole incremento delle testimonianze tra II e IV secolo d.C., in molti casi rinvenute in aree occupate in precedenza soltanto nella Preistoria.49 Il fenomeno più evidente è la generale continuità che ha caratterizzato i nodi della rete insediativa attivi già nell’età repubblicana: si tratta di insediamenti che nel corso dell’età imperiale mantennero posizioni di rilievo in relazione alla viabilità locale e regionale, d’acqua e di terra, nel cuore di aree ad alto potenziale produttivo, come nel caso del suddetto sito di Castellito. Questi insediamenti, insieme alle numerose piccole e medie forme di occupazioni che si disponevano nelle loro dipendenze, caratterizzarono il paesaggio rurale di Catania, e delle ormai deserte Lentini50 e Morgantina,51 almeno fino al VI-VII sec. d.C., come proverebbe il

Discussione L’ipotesi tradizionale del decadimento della vita economica e sociale siciliana nel corso dell’Alto impero era scaturita dalla sostanziale contrazione che si registra in alcuni importanti centri urbani – eclatante il caso di Catania53 – e dal moltiplicarsi di notizie riguardanti la fioritura delle grandi proprietà senatorie nelle fonti antiche.54 A partire dal tardo I sec. d.C., tuttavia, nel territorio di Catania è documentato l’insediamento di porzioni della pianura alluvionale mai insediate, le cui caratteristiche geomorfologiche, probabilmente, ne avevano in passato limitato la resa agricola. Inoltre, la testimonianza dell’esistenza del latifondo imperiale di Domizia Longina nei limiti occidentali dell’area55 va a infoltire il numero dei

49  Cfr. R. Brancato, «Il Territorio di Catina in età imperiale: paesaggio rurale ed economia nella Sicilia romana», in ATTA 29, 2020, pp. 269–290, cui si rimanda per la discussione dei sistemi insediativi e della cultura materiale. Sull’età preistorica, Brancato 2020, pp. 123–180; cfr. E. Giannitrapani, «Paesaggi e dinamiche del popolamento di età preistorica nella Sicilia centrale», in Mappa Data Book 2 (a cura di F. Anichini, M.L. Gualandi), Roma 2017, pp. 43–64. 50  M. Frasca, Leontinoi. Archeologia di una colonia greca, Roma 2009, pp. 147–152. 51  Valbruzzi, «Archeologia…», art. cit. alla nota 23, pp. 211–212.

D. Malfitana, M. Bonifay (a cura di), La ceramica africana nella Sicilia romana, Catania 2016. 53  Tortorici, Catania antica…, op. cit. alla nota 24, pp. 287–288. 54  M. Mazza, «Economia e società nella Sicilia romana», in Kokalos, 26–27, 1980–1981, pp. 339–342; cfr. G. Clemente, «La Sicilia nell’Età imperiale», in La Sicilia Antica II (a cura di G. Vallet, E. Gabba), Napoli 1980, pp. 468–473. 55  G. Salmeri, «Un magister ovium di Domizia Longina in Sicilia», in ASNP III (14), pp. 13–23. 52 

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Rodolfo Brancato grandi proprietari terrieri attestati nell’isola per il I secolo.56 Tra di essi va probabilmente annoverato, in primo luogo, lo stesso imperatore, i cui procuratori e liberti erano presenti in Sicilia fin dal tempo di Augusto57; tra i grandi proprietari, occupò un posto di rilievo lo stesso Vipsanio Agrippa, di cui Orazio ricorda l’amministratore Iccio, addetto nel 20 a.C. alla raccolta dei fructus Siculi del generale.58 È stato ipotizzato che il nucleo delle proprietà del genero del princeps fosse derivato dall’espropriazione del territorio di Leontini,59 ampio territorio che includeva anche porzioni della pianura alluvionale. Certamente compresa nell’ager Leontinus doveva essere la villa di Contrada Cucco (Lentini).60 I ruderi, pertinenti a una villa a peristilio (m. 45 × 29,50) realizzata con conci isodomi di calcare tenero legati con malta, furono scoperti nel corso dei lavori di bonifica: i dati editi permettono di identificare l’edificio come una villa rustica attiva tra il I e il V secolo d.C.61 Ciò che vale la pena sottolineare è che, anche in questo caso, una villa si posizionava in un’area nella quale le condizioni naturali erano estreme: infatti, questo settore della pianura, fino alla prima metà del XX secolo, è stato caratterizzato da un ambiente insalubre, poiché vi confluivano le periodiche esondazioni del Simeto, del Dittaino e del Gornalunga e stagnavano lì per mesi, causa endemica della malaria.

Effettivamente, tra la metà del III e gli inizi del IV sec. d.C., numerosi elementi indicano il rinnovato interesse della classe dirigente romana nei confronti della suburbanitas della Sicilia.63 Sembra, infatti, aver fine l’assenteismo che aveva caratterizzato l’attitudine dei grandi proprietari romani nei confronti dei propri latifundia siciliani: tale fenomeno è strettamente legato all’importanza che la Sicilia ricoprì nel panorama degli interessi economici dell’impero64, soprattutto per la nuova funzione di snodo fondamentale nella gestione dei flussi commerciali mediterranei, dominati dalle esportazioni dall’Africa.65 Le conseguenze sull’economia siciliana dell’assegnazione dell’annona egiziana a Costantinopoli66 sono state oggetto di una lunga disputa storiografica.67 In ogni caso, è innegabile che, nel corso del IV secolo, la Sicilia assunse di nuovo una posizione di rilievo nel rifornimento granario di Roma, affiancando l’Africa che continuava ad essere la principale fonte di approvvigionamento.68 A questa fase va datata la risistemazione del tracciato della via interna Catina Agrigentum, per favorire la deportatio ad aquam nei rispettivi porti, strada che attraversava il territorio in senso nord-est/sud-ovest.69 Nel contesto territoriale della Sicilia centro-orientale, nella seconda metà del IV sec. d.C., si verificarono due fenomeni eclatanti, conseguenza indiretta della formazione di un nuovo assetto della produzione agricola, vale a dire lo sviluppo macroscopico di alcune ville, come nel caso della monumentalizzazione

Nel panorama dei latifundia che caratterizzavano il paesaggio rurale del territorio di Catania tra la prima e la media età imperale, si mantenne ancora vitale la piccola e media proprietà, la cui traccia è stata individuata nel corso delle ricognizioni: fulcro di proprietà rurali di piccola e media estensione erano residenze modeste, fattorie o villae rusticae; la produzione probabilmente non era soltanto cerealicola ma diversificata, volta al sostentamento e alla creazione di surplus. Probabilmente, a tale categoria di insediamento è ascrivibile la prima occupazione di Castellito, cui seguì l’edificazione di una villa nel corso del III secolo.62

Sulla suburbanitas della Sicilia vedi F. Sartori, Suburbanitas Siciliae, in Festschrift für R. Muth I, 1983, pp. 415–423; cfr. L. Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, 1980, pp. 3–96. 64  Il rinnovato interesse delle classi dirigenti romane nei confronti della Sicilia è messo in rilievo in Cracco Ruggini, La Sicilia…, op. cit. alla nota 63, p. 489; cfr. L. Cracco Ruggini, «Sicilia, III–IV secolo, il volto della non-città», in Kokalos, 28–29, 1982–1983, pp. 477–515; C. Molè Ventura, «Catania in Età imperiale», in Catania antica. Atti del Convegno della S.I.S.A.C. Catania 1992 (a cura di B. Gentili), Pisa-Roma 1996, pp. 214–215. 65  G. Clemente, «La Sicilia nell’Età imperale», in Storia della Sicilia II, Napoli, 1979, pp. 469, 474; E. Gabba, «La Sicilia nel III–IV sec. d.C.», in Kokalos, 28–29, 1982–1983, p. 525; cfr. Salmeri, «Sui rapporti…», art. cit. alla nota 56, pp. 404–409; A. Giardina, «Storia e storiografia della Sicilia romana», in Kokalos, 34–35, 1988–1989, pp. 437–449, in part. p. 444. 66  Gabba, «La Sicilia…», art. cit. alla nota 63, pp. 525–526. 67  Clemente G., «Considerazioni sulla Sicilia nell’Impero Romano (III sec. a.C. – V sec. d.C.)», in Kokalos, 26–27, 1980–1981, pp. 192–219, in part. pp. 216–218; Gabba 1982–1983, p. 526; Salmeri, «Sui rapporti…», art. cit. alla nota 56, p. 411; R.J.A. Wilson, «La Sicilia», in Storia di Roma III: l’età tardoantica: i luoghi e le culture, Torino 1993, p. 289; secondo L. Cracco Ruggini («La Sicilia tardoantica e l’Oriente mediterraneo», in Kokalos, 43–44, 1997–1998, pp. 249–251), l’isola avrebbe rivestito ancora nel IV secolo solo il ruolo di possibile sorgente alternativa di rifornimenti granari d’emergenza, pubblici e privati, “allorché carestie, difficoltà metereologiche stagionali, aperte o coperte resistenze di alti funzionari africani o scorrerie di barbari bloccavano più o meno transitoriamente le importazioni cerealicole oltremarine”; cfr. D. Vera, «Fra Egitto ed Africa, fra Roma e Costantinopoli, fra annona e commercio: la Sicilia nel Mediterraneo tardoantico», in Kokalos, 43–44, 1997–1998, pp. 33–73, in part. 43–45, n. 50; per una sintesi e relativa bibliografia vedi Soraci, Sicilia Frumentaria…, op. cit. alla nota 56, pp. 97–115. 68  Soraci, Sicilia Frumentaria…, op. cit. alla nota 56, pp. 185–186. Sul ruolo attivamente annonario dell’Africa nel IV sec. vedi D. Vera, «Horrea e trasporti annonari in Africa e a Roma fra Costantino e Genserico: una complessa organizzazione integrata», in Entrepôts et circuits de distribution en Méditerranée antique (a cura di V. Chankowski, X. Lafon, C. Virlouvet), Athènes 2018, pp. 61–92. 69  G. Uggeri, La viabilità della Sicilia in età romana, Galatina 2004, p. 251; cfr. Clemente, «Considerazioni…», art. cit. alla nota 56, p. 218. 63 

Sui proprietari terrieri siciliani nella prima età imperiale, vedi V.M. Scramuzza, «Roman Sicily», in An Economie Survey of Ancient Rome (a cura di T. Frank), Baltimore 1937, p. 366; Clemente, «La Sicilia…» art. cit. alla nota 54, p. 471; cfr. G. Salmeri, «Sui rapporti tra Sicilia ed Africa in Età Romana repubblicana ed imperiale», in L’Africa romana. Atti del III convegno di studio. Sassari, 13–15 dicembre 1985, Sassari 1986, p. 18, n. 31, C. Soraci, Sicilia Frumentaria. Il grano siciliano e l’annona di Roma V a.C.–V d.C., Roma 2011, pp. 163–167. 57  Scramuzza, «Roman Sicily...», art. cit. alla nota 56, pp. 364–366; Clemente, «La Sicilia…», art. cit. alla nota 54, p. 469; per la lista dei procuratori imperiali di Sicilia: H.G. Pflaum, Les carrières procuratoriennes équestres sous le haut-empire romain, Paris 1960–61, p. 104. 58  Hor. Carm., I, 29; Epist. I, 1. 59  S.C. Stone, «Sextus Pompeius, Octavianus and the Sicily», in Sextus Pompeius (a cura di A. Powell, K. Welch), London 2002, pp. 135–165, p. 161; Salmeri («Un magister…», art. cit. alla nota 55, p. 19) ipotizzava che alla morte di Agrippa, proprio Augusto entrò in possesso dei beni del generale, Cass. Dio 54, 29 60  G. Cultrera, Scavi, scoperte e restauri di monumenti antichi in Sicilia nel quinquennio 1931–1935, Siracusa 1936, p. 10; cfr. U. Spigo, «Note preliminari sugli insediamenti di età imperiale romana nei territori di Lentini, Carlentini, Ramacca, Caltagirone, Grammichele», in Kokalos, 28–29, 1983, p. 342; Bejor, «Gli insediamenti…», art. cit. alla nota 18, p. 506, n. 401. 61  Valenti, «Note preliminari…», art. cit. alla nota 6. 62  Albanese Procelli, Procelli, Ramacca (Catania)…, op. cit. alla nota 44, pp. 21–22; A. Patanè, G. Buscemi Felici, «Scavi e ricerche a Catania, Licodia Eubea, Grammichele, Ramacca», in Kokalos, 43–44, II, 1, 1998, pp. 189–231. 56 

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Ricognizioni Archeologiche e legacy data in Sicilia orientale della villa del Casale di Piazza Armerina, e la perdita, per altre, del ruolo di residenza gentilizia, come nel caso di Castellito, e quindi l’abbandono e lo sviluppo di nuove tipologie di frequentazione, ossia quella del villaggio.70

utili per chiarire i contorni delle produzioni che dovevano costituire la base dell’economia locale. Tale problema, giustamente, pone al centro del dibattito il problema posto dalle componenti dell’economia antica invisibili nel record archeologico76: in particolare, si fa riferimento alla pastorizia, all’allevamento e, in generale, allo sfruttamento dell’incolto produttivo, attività condotte in aree dalle caratteristiche ambientali estreme, tra le quali rientra certamente anche la Piana di Catania.77 Seppur costituendo un indizio indiretto, l’abbondanza di acqua nel territorio è solo uno dei possibili indicatori della pratica dell’allevamento: la recente scoperta dell’allevamento di cavalli della fine del IV secolo presso Gerace (Enna) contribuisce, in tal senso, a chiarire i contorni di un’economia non basata esclusivamente sulla produzione cerealicola.78 Archeologicamente, seppur più antica, l’epigrafe di Abdalas (fine I secolo), rinvenuta proprio nel territorio di Ramacca, costituisce più che un indizio della rilevanza della pastorizia nel contesto della grande proprietà:79 non è certo possibile ipotizzare l’ampiezza del saltus, ma certamente significativo doveva essere il volume della sua produzione, soprattutto della lana, come del resto è desumibile dalle fonti storiche disponibili sulla Sicilia.80 Peraltro, la ricerca sui paesaggi rurali della Sicilia è segnata dalla stretta relazione topografica che emerge tra le vie armentizie e i sistemi insediativi dell’entroterra, strutturatosi lungo le direttrici di tali percorsi attraverso i millenni; come aveva già osservato P. Orsi, la viabilità antica nell’isola si è in parte preservata proprio nella forma delle ‘trazzere’, strade di campagna caratterizzate da percorsi tortuosi, mai rettilinei, il cui uso era legato anche alla transumanza.81

Quindi, grazie ai dati oggi disponibili dal territorio, l’immagine della Sicilia come terra del latifondo può essere compresa nella molteplicità delle forme assunte dalla grande proprietà nel corso della tarda antichità.71 L’aspetto più rilevante del paesaggio agrario siciliano doveva essere, infatti, la caratteristica scansione del territorio in grandi massae fundorum, ossia agglomerati di fondi rustici di vario tipo e misura compresi in un territorio civico costituente un corpus.72 Nel territorio di Catania, risulta evidente la relazione topografica che sussiste tra l’assetto dell’insediamento rurale sviluppatosi nel corso della tarda antichità e il tracciato della via interna che collegava Catania e Agrigento: lungo la via restaurata intorno alla metà del IV sec. d.C. per facilitare la deportatio ad aquam della produzione agricola verso i maggiori porti siciliani, Catania ed Agrigento73, si concentrano i centri deputati allo stoccaggio del prodotto agricolo, insediamenti (villae, vici) da considerare perni del sistema insediativo rurale basato sul sistema della massa. L’alta densità di testimonianze individuate nel corso delle ricognizioni nel territorio ai margini della Piana di Catania può essere messa in relazione ad occupazioni di coloni impiegati nella gestione dei grandi latifondi, estremamente frazionati; il contadino-dipendente non coltivava un intero fundus, bensì frazioni minori, le quali, infatti, si indicavano con nomi diversi quali kasa, colonia, casalis, terrula, agellus, campulis, vineola.74 Una lettura globale dei dati disponibili sulla Piana di Catania impone, peraltro, di superare gli schemi tradizionali entro cui è stata costretta l’immagine della Sicilia romana dedita alla monocoltura cerealicola.75 D’altra parte, pochi sono gli elementi archeologici

Nell’analisi dei paesaggi rurali di età romana, non si devono escludere, quindi, neanche i settori depressi nuovi studi sull’edilizia residenziale tardoantica (a cura di P. Pensabene, C. Sfameni), Bari 2014, pp. 103–111. 76  G. Volpe, «Il paesaggio negato: per un approccio integrato alla marginalità», in Storia e Archeologia globale 2 (a cura di F. Cambi, G. De Venuto, R. Goffredo), Bari 2016, pp. 325–330. 77  Pasquinucci, «L’allevamento...», art. cit. alla nota 47; G. Buscemi, E. Felici, L. Lanteri (a cura di), Produzioni antiche sulla costa sudorientale della Sicilia (pietra, porpora, sale e tonno), Bari 2020. 78  Wilson 1990, p. 331; Patanè, «Quid quartum...», art. cit. alla nota 75; cfr. A.M. Mercuri, M.C. Montecchi, A. Florenzano, E. Rattighieri, M. Torri, D. Dallai, E. Vaccaro, «The Late Antique plant landscape in Sicily: Pollen from the agro-pastoral villa del Casale – Philosophiana system», in Quaternary International, 2017, pp. 1–11. 79  Salmeri, «Un magister...», art. cit. alla nota 55; G. Manganaro, «Iscrizioni rupestri di Sicilia», in Rupes loquentes, Atti del convegno internazionale di studio sulle iscrizioni rupestri di età romana in Italia (Roma-Bomarzo, 13–15 ottobre 1989), Roma, 1992, pp. 459, n. 28, fig. 14b; cfr. Patanè, «Quid quartum…», art. cit. alla nota 75, pp. 104–105. 80  Cic. Verr., II, IV, 58; II, 5; Strab. VI, 2, 7; Descriptio totius mundi et gentium LXV. 81  Cfr. P. Orsi, «Relazione preliminare sulle scoperte archeologiche avvenute nel sud-est della Sicilia nel biennio 1905–1907», in NSc, IV, 1907, pp. 741–778; cfr. V. Trotta, «Percorsi di transumanza nel territorio di Calatafimi-Segesta tra l’età arcaica e la romanizzazione», in Storia e Archeologia…, op. cit. alla nota 76, pp. 269–296; A. Rotolo, «The Trodden Path: GIS-analyses of Settlement and Mobility Patterns in Western Sicily during the Islamic Period», in Journal of Islamic Archaeology 3, 1, 2016, pp. 109–136; sulle forme di allevamento transumante nell’Italia romana, vedi Pasquinucci, «L’allevamento...», art. cit. alla nota 47, pp. 195–224.

70  Cfr. A. Castrorao Barba, «Continuità topografica in discontinuità funzionale: trasformazioni e riusi delle ville romane in Italia tra III e VIII secolo», in European Journal of Post – Classical Archaeologies 4, 2014, pp. 285–286. Sulle ville siciliane vedi C. Sfameni, «Edilizia residenziale tardoantica in Sicilia tra continuità e discontinuità: riflessioni a partire da contributi recenti», in Silenziose rivoluzioni. La Sicilia dalla Tarda Antichità al primo Medioevo, Atti dell’Incontro di Studio (a cura di C. Giuffrida, M. Cassia), Catania 2016, pp. 273–305; cfr. C. Sfameni, Ville residenziali nell’Italia tardoantica, Bari 2006, con bibliografia. 71  D. Crawford, «Imperial Estates», in Studies in Roman Property (a cura di M.I. Finley), Cambridge 1976, pp. 35–70; M. Mazza, «Recenti prospettive sull’economia agraria siciliana in età ciceroniana», in IV Colloquium Tullianum. Atti del convegno, Palermo 1979, in Ciceroniana n.s. IV, 1980, p. 249. 72  D. Vera, «Massa fundorum. Forme della grande proprietà e potere delle città in Italia fra Costantino e Gregorio Magno», in MÉFRA 111 (2), 1999, pp. 991–1025. 73  Uggeri, La viabilità…, op. cit. alla nota 69, p. 251; R. Brancato, «Nuovi dati sul tracciato della Catina Agrigentum: insediamento e viabilità nella Piana di Catania (Sicilia Orientale)», in Journal of Ancient Topography XXVII, 2019, pp. 309–340; cfr. Sfacteria, Un approccio…, op. cit. alla nota 16. 74  Cfr. E. Migliario, «Terminologia e organizzazione agraria tra tardo antico e alto medioevo: ancora su “fundus”, e “casalis/casale”», in Athenaeum 80, 1982, pp. 371–384. 75  Cfr. R.P.A. Patanè, «Quid quartum? Arare. Per l’archeologia dell’ambiente nella Sicilia centro-orientale», in La villa restaurata e i

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Rodolfo Brancato della Piana: se la mancanza di indicatori archeologici relativi all’insediamento impone di ipotizzare che tali aree erano in parte disabitate, bisogna tuttavia tentare di comprenderne la funzione nell’ambito dell’economia antica, sulla base delle loro caratteristiche ambientali estreme. In età romana, infatti, è assodato l’incrocio sistematico tra attività agricole e pratiche dello sfruttamento dell’incolto.82 Come evidenziato da G. Traina, le fonti antiche sono abbastanza esaurienti nella descrizione dei possibili prodotti, ad esempio, della palude: selvaggina, pesce, sale, ma anche particolari colture, a cominciare dalle canne, utilizzate in vario modo nell’edilizia, per eliminare l’eccessiva umidità del terreno83 e la costruzione di soffitti leggeri.84 Tale caratteristica divenne strutturale dell’economia europea nella transizione dalla tarda antichità al medioevo (VI–X secolo).85 La bonifica integrale della pianura è un fatto recente, che potrebbe indurci, quindi, ad un errore di prospettiva nell’approcciarci allo studio dei locali paesaggi rurali di età romana: il panorama verde e parcellizzato che la caratterizza oggi fino agli inizi del XX secolo era assai diverso, privo di copertura arboricola e caratterizzato da una indistinta rada macchia mediterranea bassa. Al di là dei limiti della nostra percezione contemporanea, quindi, bisogna riconsiderare i termini attraverso i quali analizziamo i paesaggi antichi: l’integrazione di tutti i dati oggi disponibili, tra cui i risultati delle ricognizioni del territorio, permette, infatti, di riconsiderare il rapporto tra marginalità e sviluppo dei sistemi insediativi antichi, in particolare nel caso di regioni interessate da condizioni ambientali estreme.

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82  Traina, «L’uso del bosco e degli incolti», art. cit. alla nota 47, pp. 247– 248; sull’incolto produttivo litoraneo, vedi Buscemi, Felici, Lanteri (a cura di), Produzioni antiche…, op. cit. alla nota 77; cfr. S. Quilici Gigli, «Sviluppi e prospettive delle ricerche sul paesaggio agrario antico», in JAT 19, 2009, pp. 87–100. 83  Cato, Agr. VI, 3; Varro, Rust. I, 24. 84  Vitr, De arch., VII, 3; Pallad, op. agr., I, 13. 85  M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Roma-Bari 19932, pp. 36–37; cfr. M. Montanari, Campagne medievali. Strutture produttive, rapporti di lavoro, sistemi alimentari, Torino 1984; sull’economia della Sicilia nel Basso medioevo vedi H. Bresc, Un monde méditerranéen: économie et société en Sicile, 1300–1450, Roma 1984.

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17 Methodological Issues for the Integrated Analysis of Landscapes of Power: the Case Study of Volterra (Centuries 1st BC–5th AD) Valentina Limina Università di Pisa Abstract: Questioni di metodo per un’analisi integrata dei paesaggi del potere: il caso di Volterra (secc. I a.C.-Vd.C.). Il contributo analizza Volterra e il suo territorio nei secoli I a.C.-V d.C. per dimostrare l’efficacia di un approccio metodologico comparativo, diacronico, multidisciplinare applicato all’analisi dei paesaggi antichi. Sono state prese in considerazione tutte le fonti disponibili, integrate ai dati delle ultime indagini archeologiche, combinate con dati inediti e le più recenti teorie inerenti alle élite del mondo romano. Il contributo, grazie a un’indagine dettagliata delle aree marginali del territorio di Volterra, intende proporre soluzioni alternative per spiegare le differenti evoluzioni dell’interno e della costa. L’inserimento dei dati all’interno di un più ampio ambito sociale, economico, culturale ha permesso di comprendere perché i principali cambiamenti insediativi si verificarono proprio nelle aree marginali. In conclusione, il contributo riconsidera l’evoluzione del sistema insediativo reinterpretando la complessità storica del distretto e dei suoi paesaggi. Methodological issues for the integrated analysis of landscapes of power: the case study of Volterra (centuries 1st BC–5th AD). The paper studies Volterra and its territory between the centuries 1st BC–5th AD to show the effectiveness of a comparative, diachronic, multidisciplinary methodological approach applied to ancient landscapes. All available sources were considered, integrating data from the most recent archaeological research and unpublished contexts, and combining them with the new theories on Roman elites. Thanks to a detailed investigation of Volterran marginal areas, the paper suggests solutions to the different evolutive dynamics between the inland areas and the coast. The reassessment of information within a broader social, economic, cultural frame explaines why main changes in settlement distribution occurred in the marginal areas. Finally, the detailed analysis of marginal areas and the integrated approach prompt a full reconsideration of the Volterran settlement pattern evolution, also providing further insights to reconsider the historical complexity of the district and its landscapes. Introduction: the case study of Volterra

and classify archaeological findings, epigraphic data, toponyms, historical and archival sources.

The paper aims to analyze Volterra and its territory between the 1st century BC-5th century AD to show the effectiveness of a comparative, diachronic, multidisciplinary methodological approach applied to the study of ancient landscapes. Recently, Volterra has been the subject of several investigations; despite this, the analysis of landscapes of power in the period examined in this work, 1st century BC-5th century AD1, in the long-term perspective was unexplored. Moreover, the application of an integrated method of investigation has made possible to combine the several approaches previously used to collect

The territory of Volterra was delimited by the Cecina, Era and Elsa Valleys, respectively, to the west, the north and the east, and bordered with the territories of Pisa, Lucca, Florence, Siena and Populonia (plate 17.1, fig. 17.1).2 The ager extended for 2000 sq. km; its estimated population was between 16,000 and 20,000 inhabitants.3 The previous studies on settlement

1  Landscapes of power analysis is intrinsically linked to the study of elites. Gaps in interpretation are often attributable to the lack of comparative synthesis studies. On this topic: A. Augenti, N. Terrenato, «Le sedi del potere nel territorio di Volterra: una lunga prospettiva (secoli VII a.C.-XIII d.C.)», in Atti del II Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Brescia, 28 settembre-1 ottobre, 2000), Firenze 2001, pp. 298–303.

See the pivotal study by E. Fiumi, «I confini della diocesi ecclesiastica, del municipio romano e dello stato etrusco di Volterra», in Archivio Storico Italiano 136, 1968, pp. 23–60. 3  The territory extent and the estimated population were calculated on data from the demographic studies related to the area in the Medieval and Modern Ages. See L. De Ligt, Peasants, Citizens and Soldiers in the Demographic History of Roman Italy 225 BC-AD 100, Cambridge

The Volterran settlement and the marginal areas: general overview

2 

157

Valentina Limina deductio of a colony in the territory;8 the land division between the 1st century BC-1st AD.9

development concluded that the concentration of villas in the coastal area in the 1st century BC-5th AD was linked to the presence of highly conservative elites in control of territories and resources.4 Therefore, the settlement system of the coastal plain would have been characterized by large estates with farms and villages dependent on villas, while independent owners would have inhabited the northern and eastern areas of the ager. Nevertheless, this suggested model does not fully reflect the complexity of settlement evolution in the territory of Volterra in the 1st century BC5th century AD. Moreover, recent archaeological findings underlined the need to reconsider the previous hypotheses, especially for the northern and eastern areas of the district. To increase our knowledge and update evidence regarding the ager Volaterranus the integration of data from the most recent research and the analysis of unpublished archaeological contexts in the northern (Era Valley) and coastal (Cecina Valley) areas were fundamental.5 The study of the unpublished sites confirmed the necessary reassessment of the ancient settlement model to propose sensible solutions explaining the different evolutive dynamics between the valleys of the Rivers Cecina, Era, Elsa and especially between inland areas and the coast. Considering the importance of an alternative approach in settlement analysis, a detailed investigation of marginal areas, namely those close to the community boundaries, proved to be crucial. 6 First, it was necessary to consider some unsolved problems about Sulla’s confiscations of Marius’ supporters’ land in the 1st century BC;7 the

Volterran marginal areas and the centuriation Previous surveys have identified traces of the centuriation in marginal areas, along the eastern and western borders of the district; they suggest that marginal areas obtained the status of ager publicus, or that they belonged to the city. In support of this, toponymy suggests placing in an eastern border area the properties of Caius Curtius (plate 17.1, fig. 17.1, n. 11) whose lands, without Cicero’s intervention, would have been affected by Caesar’s distributions. For this location in a marginal area of the district, where there were traces of centuriation, this data on Curtius’ property 3rd-2nd centuries BC. The discoveries of hidden monetary treasuries (plate I, fig. 1, n. 7; 8; 9) indicate the period of general danger and fear. On this topic, see S. Bruni, Legoli un centro minore del territorio volterrano. Contributi per lo studio del popolamento etrusco nella media val d’Era, Pontedera 1999; G. Ciampoltrini, «Il ripostiglio di Santa Lucia di Scoccolino, 1748», in Erba d’Arno 92–93, 2003, pp. 51–60. Then, an archaeological gap relates to the period between the 1st century BC and the first decades of the 1st century AD. This gap was probably due to the phase of uncertainty and disorder that followed the Augustan reorganization of the territory. On this topic: G. Ciampoltrini, «La Valdera romana fra Pisa e Volterra», in Quaderni Pecciolesi I, 2008, pp. 17–29; G. Ciampoltrini, «Il territorio romano», in Pontedera. Dalle prime testimonianze al Quattrocento (R. Grifoni ed.), Pisa 2004, pp. 55–71. 8  Lib. colon. (I, 214) mentioned Volterra as a colonia triumvirale whose territory was assigned. Although Pliny did not include Volterra in the list of Augustan colonies, its territory was affected by land distribution at the time of Caesar, mostly for the benefit of individual assignees (Cic. Fam, XIII, 4; 5). See also, E. Deniaux, «Les recommendations de Cicéron et la colonisation césarienne: les terres de Volterra», in Cahiers du Centre G. Glotz, II, Paris, 1991, pp. 215–228; G. Migliorati, «Volterra da Silla a Rullo», in Aevum 75, 2001, pp. 71–78. Then, the attribution to Caesar of centuriation seemed reasonable. In 1994, the discovery of an inscription in Montecatini Val di Cecina was crucial (plate I, fig. 2, n. 10). Volterra was a Colonia Augusta (M. Munzi, N. Terrenato, «La colonia di Volterra. La prima attestazione epigrafica ed il quadro storicoarcheologico», in Ostraka 3, 1994, pp. 31–42). The integration with the title Julia Augusta would date the establishment of the colony at the time of the second triumvirate between the battles of Philippi (42 BC) and Actium (31 BC). However, as Lawrence Keppie reiterated, the title Augusta was only introduced in 27 BC, and was often attributed, after that date, to the cities which had distinguished through special favours towards the princeps, or to the colonies which received veterans in 14 BC. (L. Keppie, Colonisation and veteran settlement in Italy. 47–14 BC, London 1987). Perhaps, for Volterra the attribution of the title followed the services rendered to Augustus by that Cecina Volaterranum referred to Cicero (Cic. Att, XVI, 8, 2). On this topic, see R. Avallone, Mecenate, Napoli 1962; A. Maggiani, «Cilnium Genus. La documentazione epigrafica etrusca», in StEtr XII, 1986, pp. 171–196. For Volterra the problem of the dating of the colony and of the centuriation remained closely linked because in any case the foundation of the colony must have taken place before the Flavian Era (when the title of colony became purely honorific) and therefore, until that time, the foundation of a new colony corresponded with the centuriation of the territory (N. Terrenato, «Tam firmum municipium: the Romanization of Volaterrae and its cultural implications», in JRS 88, 1998, pp. 465–480). 9  To assess why the centuriation was carried out in marginal areas rather than in the fertile plains of the Cecina River Valley it was necessary to consider the negotiating power of the local elites vis-à-vis the power of Rome. It was also crucial to evaluate the real productivity/marginality of those areas with the elites’ economic interests. However, the main problem was to reconcile ancient authors’ reports with the archaeological findings. The identification of the areas affected by the confiscations after the Civil Wars and those concerned by the assignments from the mid-1st century BC remained unsolved. For a synthesis about the ager publicus, centuriation and territorial policies in Roman Italy, see A. Marcone, «Il rapporto tra agricoltura e pastorizia nel mondo romano nella storiografia recente», in MEFRA 128-2, 2016, pp. 287–295.

2012; M. Della Pina, «La popolazione della città e del territorio di Volterra nell’età moderna», in Rassegna Volterrana 70, 1994, pp. 309– 331; E. Fiumi, «Il computo della popolazione di Volterra nel medioevo secondo il “sal delle bocche”», in Archivio Storico Italiano 107, 1949, pp. 5–16. 4  Thanks to a reassessment of the available information about the local elites of Volterra, combining prosopography with the new theories on elites in the Roman world, such as those proposed in N. Terrenato, «Private Vis, Public Virtus. Family agendas during the early Roman expansion», in Roman Republican Colonization. New Perspectives from Archaeology and Ancient History, Papers of the Royal Netherlands Institute in Rome, 62 (T.D. Stek, J. Pelgrom, eds.), Rome 2014, pp. 45–59; and in D. Slootjes, «Local “Potentes” in the Roman Empire: a new approach to the concept of Local Elites», in Latomus 68, 2009, pp. 416–32, it was possible to investigate the Volterran elites in depth and to reconsider the previous theories regarding the management of power resources. 5  The study was authorized by the Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Toscana (SABAP). The unpublished archaeological sites selected for analysis were Orceto (plate I, figs. 2–3, n. 3) and Pian di Selva (plate I, figs. 2–3, n. 2) in the Era Valley, La Villana (plate I, figs. 1–4, n. 4), Capodivilla (plate I, figs. 1–4, n. 5), Vallescaia (plate I, figs. 1–4, n. 6) in the Cecina Valley. The study includes the archival research in the Florentine Historical Archive of SABAP and the analysis of archaeological findings at the Laboratory of Ancient Topography of Pisa University, at the Civic Archaeological Museum of Rosignano Marittimo, and the Archaeological Museum of Villa Baciocchi in Capannoli. 6  In these areas between the 1st-2nd, 2nd-3rd, and 4th-5th centuries AD, as the previous investigation on settlement highlighted, the main changes in population occurred. It is difficult to understand the reasons for these changes mostly because of a lack of comparative studies on settlement dynamics within broader social, economic, cultural supra-local phenomena. 7  Ancient authors do not give a single version of the facts after Sulla’s siege of Volterra. Cicero refers to a series of only partially implemented legal measures and land confiscations (Cic. Caecin, 18; 33; 95; 102; Cic. Dom, LXXIX); Granius Licinianus (XXXVI, 8–9) reports the expulsion and physical elimination of the proscribed. Archaeologists remarked that the Civil Wars were probably the cause of the settlement crisis identified with the disappearance of the sites founded in the

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Methodological Issues for the Integrated Analysis of Landscapes of Power is significant. 10 The analysis of the rural site of Pian di Selva (plate 17.1, figs. 2-3, n. 2), located in the Era Valley and selected for closer investigation, reinforced the hypothesis of a coincidence between the marginal areas, the confiscated lands and the centuriated ones.11 The Pian di Selva’s lifespan was investigated through the analysis of its unpublished archaeological findings supplemented by the excavation documentation.12 The excavation brought to light a small farm established at the end of the 1st century BC in the northern area of the ager Volaterranus. The site was restored in the 2nd century AD with the construction of a new rural building. Then it was abandoned after the first decades of the 3rd century AD.13 The site of Pian di Selva is significant because fragments of roof-tiles in the ‘incasso’ cut-out type were found. The presence of this roof-tile type in an area which traditionally used the ‘risega’ cut-out type is significant relevant for two sets of reasons.14 First of all, their use involved the acquisition of technical knowledge different from the local tradition and, therefore, a conscious choice.15 Secondly, as demonstrated by E. Shepherd, these

tiles would indicate the presence of Roman soldiers in centuriated areas16, as well as the local access to military networks or contacts through patronage or veterans. These data, supported by the discovery of centurial traces near Pian di Selva, make the northern area of the district an ager publicus zone then the object of the land distribution. Volterran marginal areas: the sacred places and the imperial presence Thanks to a closer investigation of the marginal areas of the district, it was possible to identify other essential features concerning the settlement system. First, the only two Latin epigraphs with sacred dedications were found in the northern and southern zones of the district.17 The sacred complexes18 of La Giuncaiola (plate 17.1, figs. 1-4, n. 12)19 and Sasso Pisano (plate 17.1, figs. 1-4, n. 13)20 were discovered in the northern and southern marginal areas too. There, the existence of suburban worship complexes and the absence of villas points to the conclusion that the city control of the territory and resources could have been

Deniaux, pap. quot. footnote n. 8, pp. 224–225. Volterra was besieged by Sulla (82–80 BC), and conquered through negotiation with the local elites. The presence of families in both factions, as Marius’ supporters (Carrinas, Perperna), or Sulla’s (Caecina), leads us to assume that the terms of the agreement were blander than those of other cities. The confiscations, therefore, affected only a small part of the territory so as not to harm the interests of Sulla’s supporters. The confiscated lands became ager publicus. In order to avoid the frequent episodes of violence and discontent between the assignees of the lands and the inhabitants of the territories, Caesar and Augustus promoted the division of lands in areas belonging to the ager publicus, of uncertain jurisdiction, or purchased in the territories of the communities. See Deniaux, pap. quot. footnote n. 8; Keppie, pap. quot. footnote n. 8, pp. 54–55. 12  Pian di Selva was discovered during the installation works for the pipeline SNAM Palaia-Livorno. The site was partially investigated in 2010–2013. In preliminary reports, Pian di Selva was interpreted as a precarious settlement with traces of hooves in rough stone and brick fractions with elevations in perishable materials. Moreover, it is inside the centurial grid belonging to the territory of Volterra. G. Ciampoltrini, S. Alberigi, Le acque e il vino. Gli scavi 2010–2011 alla Scafa di Pontedera, Firenze 2012, pp. 58–59; G. Ciampoltrini, «Note sulla colonizzazione augustea nell’Etruria settentrionale», in Studi Classici e Orientali 31, 1981, pp. 48–55. 13  According to archaeologists, the silty layers identified at Pian di Selva were due to poor water management. Ciampoltrini, Alberigi, pap. quot. footnote n. 12, pp. 58–59. The study of the unpublished archaeological findings materials prompted a better chronological definition of the settlement lifespan. A flint instrument, fragments of bucchero and black glazed pottery of Volterran production revealed an early phase dating to the Archaic and Hellenistic period. Fragments of terra sigillata bowls (Consp. 3.3.1; Consp. 7–9; Consp. 22–25; Consp. 31; Consp. 34.2) attest that Pian di Selva was inhabited between the Augustan Age and the mid-1st century AD. Most of the identified pottery forms belonged to the African red slip ware (cup Hayes 14a) and African cooking and tableware productions (Hayes 23b; Hayes 181a; Hayes 197; Hayes 196; Hayes 185b) referring to the 2nd-3rd centuries AD. Therefore, this period could be identified as the principal settlement phase. 14  The terminology is related to the Italian area. The terms ‘risega’ and ‘incasso’ respectively refer to the upper and lower cutaways made to the upper and lower corners of the tiles to facilitate interlocking. On Roman tiles see, P. Hamari, Roman-period roof-tiles in the Eastern Mediterranean. Towards regional typologies, Helsinki 2019; P. Warry, «A dated typology for Roman roof-tiles», in JRA 19, 2006, pp. 246–95; E.J. Shepherd, «Tegole di copertura in età romana: questioni di forma, posa in opera e impiego», in Costruire In Laterizio 168, 2016, pp. 54–58. 15  Although systematic mapping of Roman roof-tiles distribution in Tuscany has not been carried out, roof-tiles with lower cutaways have been found in some sites in the marginal areas of Volterra, significantly in the proximity of centurial traces, as attested by unpublished archaeological findings stored in the Archaeological Museum of Capannoli from the sacred complex of Giuncaiola (plate I, figs. 1–4, 10  11 

n. 12), and near the cemetery of Pontedera. If the discovery of lower cutaway tiles in marginal areas is associated with the discovery of traces of centuriation, and therefore with the status of the ager publicus of these areas, the failure to find lower cutaway tiles in the coastal area, where no traces of centuriation were found, further reinforces the hypothesis of the association of marginal areas with those of the ager publicus. 16  According to E. Shepherd the diffusion of the roof-tiles in the ‘incasso’ cut-out type in the newly founded Roman settlements of the western provinces is connected to the presence of the Roman Army, both directly (military builders), and indirectly (veteran assignees). On this topic, see E.J. Shepherd, «Tegole piane di età romana: una tipologia influenzata dalle culture “locali”, una diffusione stimolata dall’espansione militare», in Atti del I Workshop “Laterizio” (Roma, 27–28 novembre 2014), Roma 2015, pp. 120–132; E.J. Shepherd, «Prosopografia doliare», in Rassegna d’Archeologia 22b, 2008, pp. 276–278. 17  The two epigraphs dating to the 1st-2nd centuries AD, bear dedications to Bona Dea (CIL XI 1735; Fig. 2, n. 16) and Bellona (CIL XI, 1737; Fig. 2, n. 17). The presence of cults and dedications addressed to the wild nature forces and the deities responsible for the protection of the rural and pastoral world, such as Pan, Silvanus, Heracles, Demeter, but also Bona Dea and Bellona, were frequent in those spaces intended for community use and in border areas. See, M.G. Celuzza, «Il territorio della colonia», in Misurare la terra. Centuriazione e coloni nel mondo romano, Modena 1993, pp. 151–155. 18  Since the Archaic period, suburban sanctuaries were centres for economic and productive activities as well as aggregative poles of considerable political importance. In the territory of Volterra sacred complexes arose in areas on the borders, along the hills of the coastal plain, in the proximity of hydrothermal resources, or connected to the road network (A. Furiesi, L’acqua a Volterra. Storia dell’approvvigionamento idrico della città, Siena 1999). As a direct emanation of the urban centre, these complexes consolidated power on the borders by exercising control over the territory and its productive structures (M. Bonamici, «Il sacro nella città», in Etruschi di Volterra. Capolavori da grandi musei europei, Cenate di Sotto 2007, pp. 200–226). 19  The sacred place at La Giuncaiola was probably built around 180 BC. The site was linked to the cult of healthy water and the archaeological findings testify to a life span until the middle of the 3rd century AD. G. Ciampoltrini, Gli Etruschi della bassa Valdera tra Pisa e Volterra. Prolegomeni all’edizione dello scavo della Giuncaiola di Pontedera (2011–2012), Bientina 2014; R. Chellini, Acque sorgive salutari e sacre in Etruria (Italiae Regio VII). Ricerche archeologiche e di topografia antica, Oxford 2002. 20  In Sasso Pisano, a sanctuary has been discovered: it had tanks for health practices related to the cult of water and probably dedicated to Minerva. Archaeologists found a brick stamp bearing the words ‘SPURAL’, that is, ‘of the city’. This stamp led to the site being interpreted as a sanctuary owned by the urban administration of Volterra. Chellini, «Acque sorgive salutari…», pap. quot. footnote n. 19, p. 177.

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Valentina Limina exercised through sanctuaries (until about the end of the 2nd century AD). Sanctuaries, configuring themselves as central places, would manage power in these areas as a real extension of the city administration.21

settlement evolution of the marginal areas between the 1st–2nd centuries AD well reflected a general moment of crisis. After the Civil Wars of 68–69 AD and Vespasian’s rise to power, a crisis affected the Italian Peninsula;24 following the transfer of senatorial gentes from the suburbs to the cities, the end of private euergetism, the increase of latifundia, there was the reorganization of imperial properties.25 The archaeological evidence attests since the mid-1st century AD a new development of rural settlements in the northern and eastern marginal areas of the district (plate 17.1, fig. 17.2). There was a revitalization of the existing sites, as Pian di Selva, but also the establishment of new farms and small kilns in connection with the internal road leading to Volterra. Comparing the evolution of the marginal areas to that of other district zones,26 it is possible to highlight a sort of settlement consolidation. Epigraphy also attests the complementary presence of new landowners.27 Probably, this was a territorial policy that would have been promoted (or supported) by Volterran elite families, perhaps through land alienation especially

Moreover, the local epigraphy analysis has provided important additional indications of the presence of imperial properties in the marginal areas of the territory.22 Toponyms in the same border areas support the hypothesis of the presence of imperial freedmen in marginal zones.23 Because of this, marginal lands revealed their settlement complexity, progressively characterized by a mixed property system. Beside the sacred properties, settled the assignees of the distributed land, but also the independent owners and colonists on behalf of the wealthy landowners, or the imperial freedmen. Then, new landowners settled in new villas, later founded when compared to the coastal plain ones. Reconsidering the Volterran settlement patterns: mid-2nd and 3rd century AD The comparative analysis, the more detailed investigation of marginal areas, and the data updating have prompted a full reconsideration of settlement pattern evolution in its historical complexity. The integration of archaeological data, epigraphy, prosopography, and toponyms increased the historical knowledge of the territory in the Roman Age, but it also showed how local dynamics were linked to the supra-local context. A long-term approach to the case study of Volterra led to the consideration that the

A period of economic crisis in Etruria is also confirmed by an inscription found in Montorsoli, in the territory of Florence (CIL XI, 1602; Fig. 2, n. 22), which recalls a private food donation in favour of the youth of Florence. S. Mrozek, «Le problème de l’annone dans les villes italiennes du Haut Empire romain», in Le ravitaillement de blé de Rome et des centres urbains des début de la République jusqu’au Haut Empire (J. Andreau ed.), Napoli 1994, pp. 95–101. 25  Imperial properties were essential sources of income for the emperor’s household. They could be put up for sale or exploited for exceptional fiscal and agricultural policies. D.J. Crawford, «Imperial Estates», in Studies in Roman Property by the Cambridge University Research Seminar in Ancient History (M. Finley ed.), Cambridge 1976, pp. 35–70. 26  Along the coast, in the Cecina Valley (E. Iacopini, A. Del Rio, L. Cherubini, S. Menchelli, M. Pasquinucci, «Il Sistema Informativo Territoriale dell’ager Volaterranus: metodologia e metadati», in Quaderni del Laboratorio Universitario Volterrano 15, 2012, pp. 55–64), and in the Sterza Valley (R. Mirandola, S. Fontana, «Progetto per l’archeologia di Volterra e del territorio. Archeologia di un’area marginale: la valle dello Sterza», in Agoge I, 1997, pp. 59–86), the majority of sites remained active until the end of the 2nd century AD. Between the 1st-2nd centuries AD, the number of villas doubled; they were considered status symbols like the burial mounds of the 6th-7th century BC. (Augenti, Terrenato, pap. quot. footnote 1). Manufacturing sites producing wine amphorae, pottery, bricks, dolia increased. The site at San Gaetano di Vada, connected with the harbour system (Figg. 1–4, n. 24), then strengthened its role as driving force for the economic and demographic development on the coast. On this topic, see L. Cherubini, A. Del Rio, S. Menchelli, «Paesaggi della produzione: attività agricole e manifatturiere nel territorio pisanovolterrano in età romana», in Territorio e produzioni ceramiche. Paesaggi economia e società in età Romana, Atti del Convegno Internazionale (Pisa, 20–22 ottobre 2005), Pisa 2006, pp. 69–76. The road network was in good condition and the restoration of the via Aemilia Scauri, attested by the milestone discovered at Rimazzano (CIL XI, 6664; Fig. 3, n. 25) and perhaps by a masonry bridge over the River Cecina in an area between Casalgiustri (Fig. 2, n. 26) and Belora (Fig. 2, n. 27), bears witness to the new volumes of commercial traffic in the mid-2nd century AD. See L. Palermo, «Il territorio di Riparbella in età etrusca e romana: appunti per una carta archeologica», in Riparbella terra della Maremma dalle origini ai nostri giorni (G. Biagioli ed.), Riparbella 2004. Moreover, archaeological evidence of this trade flow is the Empoli amphorae (Ostia IV 279) produced, until the 5th century AD, in the settlements along the coast. As for the urban centre, between the 1st-2nd centuries AD, richly decorated domus were built near the forum and the theatre where epigraphs in the proedria attested the presence of new families in the local senate. See M. Pasquinucci, M.L. Ceccarelli Lemut, A. Furiesi, Storia illustrata di Volterra, Pisa 2004; M. Bueno, Mosaici e pavimenti della Toscana, Roma 2011; M. Munzi, N. Terrenato, Volterra. Il teatro e le terme, Firenze 2000. 27  See the prosopography in Munzi, Terrenato, pap. quot. footnote n. 26; M. Torelli, «Senatori etruschi della tarda repubblica e dell’impero», in DdA 3, 1969, pp. 285–363. 24 

21  In the areas of the district characterized by the villa system, there was a gradual abandonment of ancient worship places and the displacement of the inhabited areas with the new residential and productive poles. Regarding the peculiar role of ‘country sanctuaries’ in the territories of Perusia, Cortona, Volaterrae, see G. Colonna, Santuari d’Etruria, MilanoFirenze 1985. 22  Starting from the Augustan Age, imperial properties were acquired, especially at the borders of communities. Their management addressed to procuratores, vilici, conductores and dependent workers. At Volterra, the inscriptions CIL XI, 1753, found near San Miniato (Fig. 2, n. 18), and CIL X, 1737, found in Monteverdi Marittimo (Fig. 2, n. 17), are respectively dated to 50–54 AD and the period between the end of the 1st and the beginning of the 2nd century AD. Inscriptions bear witness to the presence of two imperial freedmen, Domitius Lemnus and Donax, in the marginal areas of the ager. Toponymy also confirms the presence of Domitius Lemnus in the territory. G. De Marinis, «Topografia storica della Valdelsa nel periodo etrusco», in Biblioteca della Miscellanea storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1977; R. Chellini, «La Romanizzazione nel Volterrano», in Aspetti della cultura di Volterra etrusca fra l’età del Ferro e l’età ellenistica e contributi della ricerca antropologica alla conoscenza del popolo etrusco. Atti del XIX Convegno di Studi Etruschi e Italici (Volterra 15–19 ottobre 1995), Firenze 1997, pp. 379–392. Regarding the mensor Donax of CIL XI, 1737, G. Ciampoltrini argues that it could be related to the imperial properties’ reorganization which occurred in Etruria in the Flavian Age following the acquisition of estates belonging to local elites. G. Ciampoltrini, «Note per l’epigrafia di Populonia romana», in Rassegna d’Archeologia 12, 1995, pp. 591–604. 23  These are toponyms such as Pietragosta (>Petra Augusti) at Castellina Marittima (Fig. 2, n. 19), Fontegusciana (>Augustiana) at Montecatini Val di Cecina (Fig. 2. n. 20), Palazzuolo (>Palatium) at Monteverdi Marittimo (Fig. 2, n. 21). S. Pieri, Toponomastica della Toscana Meridionale (valli della Fiora, dell’Ombrone, del Cecina e fiumi minori) e dell’arcipelago toscano, Siena 1969, pp. 60, 95, 352. According to G. Ciampoltrini, the presence of imperial properties near the border between Volterra and Populonia could be proved by the existence of Lombard royal properties which would then follow the legal status of the previous era. Ciampoltrini, «Note per l’epigrafia…», pap. quot. footnote n. 22, pp. 602–603.

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Methodological Issues for the Integrated Analysis of Landscapes of Power of some depopulated or uninhabited peripheral areas.28 Again, local epigraphy evidenced29 that marginal areas of Volaterrae further strengthened their connotation of mixed-ownership lands, and as a consequence of the progressive expansion of latifundia, a new villa was established in Montecalenne between the valleys of the Rivers Era and Elsa (plate 17.1, fig. 17.2, n. 23).30

Archaeology shows that in marginal areas between the Rivers Era and Elsa, several sites were then abandoned, but new rural settlements and kilns for the bricks and pottery production were established instead. Moreover, the high-quality materials found in the necropolis would prove there a constant presence of elite members, owners of increasingly large estates (plate 17.1, fig. 17.3).35 The expansion of the large estates in these areas, together with the establishment of new manufacturing sites, could be linked to the general economic and social changes of the period. The general Italian impoverishment could have stimulated Pertinax’s territorial policies. Even if there is no proof of direct interests of emperor Perinax in northern Etruria, his reorganization of imperial properties36 and the fact that the changes in the Volterran settlement patterns mainly affected the marginal areas, where the imperial properties and ager publicus zones probably were, is an interesting fact for further reflections. In the 3rd century AD the villas at Sant’Antonio (plate 17.1, figs. 3–4, n. 40)37 and AianoTorraccia di Chiusi (plate 17.1, figs. 3–4, n. 14)38 bear witness to the progressive development of latifundia in the marginal areas of the ager.

Reconsidering the Volterran settlement patterns: centuries 1st-2nd AD To contextualize the results of comparing data on settlement distribution it is worth considering that substantial changes occurred between the mid-2nd century and the beginning of the 3rd century AD (plate 17.1, fig. 17.3). From this period onwards, the coastal and peripheral settlement patterns diverged more and more. Aerial photography and archaeological findings pointed to a progressive settlement crisis in the Era Valley, probably due to a demographic crisis linked with increasingly poor water management.31 This piece of evidence would coincide well with a moment of crisis that could be testified by the inscription CIL XI, 1780, found in Peccioli (plate 17.1, fig. 17.3, n. 28). The epigraph, dating to the end of the 2nd and the beginning of the 3rd century AD, mentions the fruition of alimenta publica.32 The analysis of contemporary inscriptions in Volterra attests that new gentes arose in power while others died out. Perhaps, this phenomenon could be related to the spread of the Antonine plague.33

35  In the Era Valley and in the area between the Rivers Era and Elsa various sites survived until the late 4th century AD: those of La Rosa (Figs. 2–4, n. 30), La Catena-Bacoli (Figs. 2–4, n. 31), Stibbio (Figs. 2–4, n. 32), La Fornace (Figs. 2–4, n. 33) Uglioni (Figs. 3–4, n. 34). The necropolis and funerary monuments such as Montalbano d’Egola (Fig. 3, n. 35), Puntone (Fig. 3, n. 52), Petraio (Fig. 3, n. 36), Poggio dei Pini (Fig. 3 n. 38), Podere Sovestro (Fig. 3, n. 39) attested the vitality of the area between the 2nd–3rd centuries AD. Manufacturing sites are attested near the villa of Muraccio-Sant’Antonio, Redoli (Fig. 3, n. 42), Poggio Giulia (Fig. 3, n. 43), Vignale (Fig. 3, n. 44). On these sites, see L. Alderighi, G. Schörner, «La Valdelsa tra romanizzazione e prima età imperiale», in Dalla Valdelsa al Conero. Ricerche di archeologia e topografia storica in onore di Giuliano De Marinis, Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana Supplemento 2, Firenze 2016, pp. 89–104. Cantini, Salvestrini, pap. quot. footnote n. 30, pp. 81–90; M. Castiglioni, A. Pizzigati, «Preliminare ad un’indagine topografica sulla valdera in età romana», in Agogé I, 1997, pp. 13–38; Ciampoltrini, Alberigi, pap. quot. footnote n. 12; De Marinis, pap. quot. footnote n. 22; E. Pack, «M. Anaenius Pharianus, eq. publ. Ex V decuriis: Eine neue Inschrift vom Ager Volaterranus und ihre Probleme», in Historia 43, 1981, pp. 249–270. 36  According to Herodian (II, 4, 1–7), the Emperor Pertinax decided to reorganize the imperial properties, mostly abandoned, giving them in concession to private beneficiaries. In return for cultivating these lands, they would have obtained a ten-year tax exemption and the property right on them. Crawford, pap. quot. footnote n. 25, p. 35. 37  The villa was built by the side of the road leading to Volterra, and it was abandoned only in the 5th century AD. The manufacturing sites of Ponte all’Ebreo (Figs. 1–3, n. 45) and Poggio all’Aglione (Figs. 1–3, n. 46), near the villa, were in function in the previous centuries too. The villa, with its annexed thermal structure, was partially investigated. The dating of the structures was set in the 3rd century AD. Alderighi, Schörner, pap. quot. footnote n. 35, p. 94; Castiglioni, Pizzigati, pap. quot. footnote n. 35, pp. 13–38; De Marinis, pap. quot. footnote n. 22. 38  The villa of Aiano-Torraccia di Chiusi was near to a branch of the road from Volterra to Poggibonsi. The villa was richly monumentalized in the 3rd century AD becoming a centre of territorial control. The structure was architecturally restored and reorganized between between the mid-4th and the 5th centuries AD. Its abandon occurred between the 5th and early 6th centuries AD when the villa turned into a manufacturing site. Aiano was finally abandoned in the first half of the 7th century AD. See M. Cavalieri, «L’alta Valdelsa in età tardoantica: continuità e trasformazione di un paesaggio», in Dalla Valdelsa al Conero. Ricerche di archeologia e topografia storica in ricordo di Giuliano De Marinis, Notiziario della Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana Supplemento 2, Firenze 2016, pp. 105–118.

Although we do not have sufficient information, the occurrence of a local power reorganization in the district, probably due to several factors, seems nothing but unreal.34 28  Significantly, this policy occurred in a period during which the gens Cecina, one of the main ones of the local elite, focused their interest on the territory of Volterra after the deterioration in the relations with the emperor. Probably, they were among the main promoters of this operation. 29  The epigraph CIL XI, 1735 by gens Venuleia and CIL XI, 1734 attesting the presence of the freedmen Lauselii were both found in the same northern area of Volterra (Fig. 2, n. 16). These inscriptions support the idea that next to the properties of independent owners or settlers, large estates were progressively expanding. G. Ciampoltrini, «Un nuovo frammento di CIL XI, 1735. CIL XI, 1734 e 1735 ‘ritrovate’», in Epigraphica 42, 1980, pp. 160–165. 30  The villa, built between the 1st-2nd centuries AD, was richly decorated with mosaic floors, and several coins and fragments of statuary dating to the Flavian Era were also found (F. Cantini, F. Salvestrini, Vicus WallariSan Genesio ricerca storica e indagini archeologiche su una comunità del medio Valdarno inferiore fra alto e pieno medioevo, Firenze 2010). 31  M. Cosci, C. Spataro, «I paesaggi della Valdera romana nel contributo della fotografia aerea», in Quaderni Pecciolesi I, 2008, pp. 33–40. 32  G. Ciampoltrini, «Modelli d’insediamento nel territorio volterrano fra l’età romana e l’alto medioevo: l’alta e media Valdera», in Atti del VI Convegno Beni Ambientali e Culturali nella città storica (Volterra 2003), Pisa, 2004, pp. 87–96. 33  Perhaps, the inscription CIL XI, 1791, dated between the 2nd–3rd centuries AD, found in Montevoltraio (Fig. 3, n. 29), recalling the illness of Squaetinia Maximina domina and that of her freedman’s daughter, could be linked with this phenomenon. B. Michelotti, «L’epigrafe della Fornacchia. Un’ ipotesi interpretativa», in Rassegna Volterrana 92, 2015, pp. 59–82. 34  One could interpret the contemporary monumental restoration of the coastal and urban villas with the addition of thermal complexes and luxury decorations in this sense. Augenti, Terrenato, pap. quot. footnote n. 1.

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Valentina Limina Reconsidering the Volterran settlement patterns: mid-3rd and 4th century AD

such as the Petroni Volusiani,44 and perhaps due to the new fortunes of gentes like the Cecina,45 Volterra experienced a new reorganization of local powers. Then, a small class of landowners who reinvested in latifundia, by facing the new historical, economic, political contingencies, succeeded in managing powers and resources in the territory of Volterra.46 Even though it is difficult to interpret events between the 3rd–5th centuries AD,47 as attested by Symmachus and Rutilius Namazianus, the Volterran district was vital.48

The analysis of Volterra in a long-term perspective leads to rethinking several topics mainly linked to the consideration that only a few data were known until the medieval period. Instead, it could be argued that Late Antiquity was crucial for the development of the Volterran settlement system (plate 17.1, fig. 17.4). The new landscape configuration has still not been thoroughly investigated. Regarding the settlement distribution in the marginal areas, it seems that Late Antiquity landscape features were closely related to the previous ones. Despite the lack of important information, it was possible to highlight a general trend in settlement deconstruction, especially in the marginal areas of the district, between the mid-3rd and the 4th centuries AD.39 This situation could be related to the economic crisis that affected some areas of the territory,40 as would seem to be confirmed by the Historia Augusta when it mentions the presence of uncultivated land under Aurelian’s reign.41 Since the 4th century AD, archaeology indicates not only the revitalization of the marginal areas, but also the survival of the coastal and internal villas, until about the mid-5th century AD (plate 17.1, fig. 17.4). In fact, Diocletian’s reorganization was an essential driving force for the local economy42 and, in contrast to other cities in rapid decline,43 after the rise to power of new families,

The marginal areas: Late Antiquity and the Christianization of spaces To contextualize the Late Antiquity settlement system, it is worth considering data concerning the Christian Church, whose presence undoubtedly influenced the management of local resources. Since the mid-4th century AD, Christian 44  The rise to power of this family was linked with the construction of the two new thermal baths of Vallebuona and San Felice, in Volterra. Munzi, Ricci, Serlorenzi, pap. quot. footnote n. 39, p. 643. 45  The prosopography was crucial in order to study family strategies in the long-term perspective. For a more detailed examination of the gens Cecina, see the synthesis: G. Capdeville, «I Cecina e Volterra», in Aspetti della cultura di Volterra etrusca fra l’età del Ferro e l’età ellenistica e contributi della ricerca archeologica alla conoscenza del popolo etrusco, Atti del XIX Convegno di Studi Etruschi e Italici (Volterra, 15–19 ottobre 1995), Firenze, 1997, pp. 253–311; A. Chastagnol, «La famille de Caecinia Lolliana grande dame paienne du IV siècle après J.-C.», in Latomus 20, 4, 1961, pp. 241–253. However, it is necessary to underline that most of the epigraphs referring to the Cecina family (from the African provinces, where members of the family held the office of consulares) dating to the 4th and 5th centuries AD. The references to family members in Macrobius’, Symmachus’, Rutilius Namazianus’, Jerome’s, Ambrose’s and Cassiodorus’s works, bear witness to the family involvement within the dynamics of power in Late Antiquity, in Rome as well as in the territory of Volterra, where they owned a villa on the coast, identified with the villa of San Vincenzino (Figs. 1–4, n. 47). F. Donati (ed.), La villa romana dei Cecina a San Vincenzino (Livorno), materiali dallo scavo e aggiornamenti sulle ricerche, Pisa 2012. 46  In Tuscia between the 4th-5th centuries AD, there was the significant presence of Vettius Agorius Praetextatus, probably the owner of the villa in Limite (Fig. 4, n. 15) in a marginal area between Florence, Volterra, Empoli (L. Alderighi, F. Cantini, «Capraia e Limite. La villa dei Vetti: nuove e vecchie indagini archeologiche», in Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana 6, 2011, pp. 48–81). Symmachus and Orphitus, involved in the management of arca vinaria, were also landowners in Tuscia, like Vittorino, mentioned by Rutilius Namazianus (I, 491–498) who perhaps resided in the villa discovered at Pieve Vecchia (Figs. 1–4, n. 48). On Pieve vecchia and Vittorino see, E.J. Shepherd, «Portrait of the archaeologist as a young man. Enrico Paribeni e lo scavo di Casale Marittimo», in In memoria di Enrico Paribeni (G. Capecchi ed.), Roma 1998, pp. 427–450; F. Donati, «Il territorio dell’Etruria settentrionale costiera in età romana e la villa di San Vincenzino», in Rassegna d’Archeologia 18b, 2001, pp. 51–75). The presence of this eminent people is even more significant since ties of friendship or kinship linked them with the Cecina family. 47  In Volterra the thermal complex at Vallebuona was abandoned while the acropolis was converted into a new residential area, as can be seen from the amphorae and pottery fragments found. See F. Cantini, B. Fatighenti, G. Tumbiolo, «Ceramiche e merci a Volterra tra la tarda antichità e il Cinquecento. Note preliminari di uno studio in corso», in Quaderni del Laboratorio Universitario Volterrano 18, 2018, pp. 77–78. 48  Due to barbarian invasions and the wars between the Goths and the Byzantines, there was a general trend for the sites to be moved to high areas at a certain distance from the sea. A period of crisis followed and only a few sites, including San Gaetano di Vada (Figs. 1–4, n. 24), San Genesio (Fig. 4, n. 41) and San Mario (Figs. 1–4, n. 53), survived. For San Mario, see L. Motta, L. Camin, N. Terrenato, «Un sito rurale nel territorio di Volterra», in BdA 22–24, 1998, pp. 109–116. In general, the resilient sites were villas, farms near the road network or manufacturing sites producing amphorae and pottery (Fig. 4). See Menchelli, Genovesi, Sangriso, pap. quot. footnote n. 42, pp. 109–116.

39  The urban centre (Figs. 1–4, n. 1) underwent important transformations: the theater was restored but it changed its use, cisterns were out of action the acropolis was progressively abandoned. Then, layers of dark earth deposited in various points of the city. See M. Bonamici, Volterra, l’acropoli e il suo santuario, scavi 1987–1995, Pisa 2003, pp. 84–85; A. Furiesi, Volterra romana: storia, genti, civiltà, Pisa 2008, pp. 102–103, M. Munzi, G. Ricci, M. Serlorenzi, «Volterra fra Tardo Antico e Alto Medioevo», in Archeologia Medievale 21, 1994, pp. 639–656. 40  Because of this difficult moment in the 3rd century AD several farms along the coast were also abandoned (Iacopini, Del Rio, Cherubini, Menchelli, Pasquinucci, pap. quot. footnote n. 26). At San Gaetano di Vada (Figs. 1–4, n. 24) burials inside the site would attest to the lost functionality of some buildings. On this topic, see M. Pasquinucci, S. Menchelli, «Dinamiche tardoantiche nella fascia costiera livornese. I casi di Portus Pisanus (Livorno) e Vada Volaterrana», in Conoscenza e Tutela del patrimonio sommerso, Atti del Convegno Scuola Normale Superiore (Pisa, 11 dicembre 2012), Pisa 2012, pp. 139–152. 41  The passage of Hist. Aug. refers to those uncultivated lands that in Aurelianus’ will should have been entrusted to prisoners of war for cultivation to supply the Roman people with free wine. C. Citter, A. Huyzendvelt, Archeologia urbana a Grosseto, origine e sviluppo di una città medievale nella Toscana delle città deboli. Le ricerche 1997– 2005, Firenze 2007; Pasquinucci, Menchelli, pap. quot. footnote n. 40, pp. 148–150. 42  Diocletian’s fiscal reorganization strengthened the patronage system and was the input for new economic development. On this topic, A. Giardina, «La formazione dell’Italia provinciale», in Storia di Roma (A. Giardina, A. Schiavone eds.), Torino 1999, pp. 549–566. In the mid-4th century AD, the vinum Tuscum was famous among the Italic productions mentioned in the Expositio Totius Mundi (LV). Then, landowners in Tuscia enjoyed the privilege of paying the arca vinaria tax in cash. Moreover, the great diffusion of Empoli amphorae throughout the Western Mediterranean would indicate a flourishing trade of local manufacturing products. See S. Menchelli, S. Genovesi, P. Sangriso, «Le diverse forme dell’abitare nell’ager Volaterranus costiero in età tardoantica», Atti del II Convegno Internazionale CISEM ‘Abitare nel Mediterraneo tardoantico’ (Bologna 2–5 marzo 2016), Bari 2018; Pasquinucci, Menchelli, pap. quot. footnote n. 40, pp. 148–150. 43  C. Citter, E. Vaccaro, «Le costanti dell’urbanesimo altomedievale in Toscana (secoli IV–VIII)», in Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze 2003, pp. 309–313.

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Methodological Issues for the Integrated Analysis of Landscapes of Power References

individuals are attested by epigraphs in the district.49 Even if a diocese was organized only in the second half of the 5th century AD, 50 the Christian community became a more and more influential counterpart in the framework of the local elites. The location of the oldest known diocesan churches dating to the 5th–6th centuries AD,51 namely those of Galognano (plate 17.1, fig. 17.4, n. 49), Cellole (plate 17.1, fig. 17.4, n. 50), and that of Saints Hippolytus and Cassianus (plate 17.1, fig. 17.4, n. 51), at the borders of the territory, is interesting. Although there is only scant archaeological evidence regarding the oldest Christian places of worship,52 the presence of the oldest churches in the marginal areas of the district could relate to the fact that they were established in areas of the ager publicus or within imperial estates. This phenomenon finds confirmation in other Italian cases and could be related to Constantine’s concessions in favour of Christian communities of imperial lands, areas confiscated from pagan temples, or of uncultivated lands from urban estates.53

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Conclusion In conclusion, the integrated approach prompted a full reconsideration of the issue of Volterran landscapes. If the social typology is reflected in the way the landscape has been modelled, 54 it is essential to understand how traces from the past fit in a broader framework of data. A thorough analysis should consider all the available sources in order to reconstruct the economic, political, cultural strategies, thus reaching a better understanding of how local and supra-local powers contributed to shaping ancient landscapes dynamics. In this sense, a better definition of the marginal areas of the ager Volaterranus not only permitted a reassessment of the whole case, but also provided further insights to reconsider the historical complexity of the district and its landscapes.

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Torelli, M., «Senatori etruschi della tarda repubblica e dell’impero», in DdA 3, 1969, pp. 285–363. Warry, P., «A dated typology for Roman roof-tiles», in JRA 19, 2006, pp. 246–95. 165

Valentina Limina

Figura 17.2. 1st–2nd AD

Figura 17.3. 2nd–3rd AD

Figura 17.4. 4th–5th AD

166

Plate 17.1

Figura 17.1. 1st century BC

Plate 17.1. Settlement distribution, QGIS elaboration by the author: 1 Volterra; 2 Pian di Selva; 3 Orceto; 4 La Villana, 5 Capodivilla; 6 Vallescaia; 7 Santa Lucia di Scoccolino; 8 Peccioli; 9 Fornacette; 10 Montecatini val di Cecina; 11 Corsanello; 12 Giuncaiola; 13 Sasso Pisano; 14 Aiano-Torraccia di Chiusi; 15 Limite; 16 Corazzano; 17 Monteverdi Marittimo; 18 Montevarchi; 19 Pietragosta; 20 Fontegusciana; 21 Palazzuolo; 22 Montorsoli; 23 Montecalenne; 24 San Gaetano di Vada; 25 Rimazzano; 26 Casalgiustri; 27 Belora; 28 Peccioli; 29 Montevoltraio; 30 La Rosa; 31 La Catena- Bacoli; 32 Stibbio; 33 La Fornace; 34 Uglioni; 35 Montalbano d’Egola; 36 Petraio; 37 Scorgiano; 38 Poggio Pini; 39 Podere Sovestro; 40 Muraccio-Sant’Antonio; 41 San Genesio; 42 Redoli; 43 Poggio Giulia; 44 Vignale; 45 Ponte all’Ebreo; 46 Poggio all’Aglione; 47 San Vincenzino; 48 Pieve vecchia; 49 Galognano; 50 Santi Ippolito e Cassiano, 51 Cellole; 52 Puntone; 53 San Mario.

18 Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione: dalla carta archeologica d’Italia all’esperienza del progetto Ager Lucerinus Giovanni Forte, Maddalena La Trofa, Aglaia Piergentili Margani and Grazia Savino Università degli Studi di Foggia Abstract: Topographic research between tradition and innovation: from ‘archaeological map’ to the experience of the Ager Lucerinus Project. The Ager Lucerinus project is part of the Carta Archeaologica d’Italia programme, which brings together ground-breaking scientific approaches and methods since the 90s. Gravitating around the ancient Latin colony of Luceria, it has the aim of reconstructing the urban topography, the settlement systems and the ancient landscape of a vast territory from prehistoric occupation, until the medevial period. Following the steps of the Ager Venusinus project’s experience (1989–2000), the scientific study of the archaeological traces identified, adequately documented through georeferenced maps and updated databases, has been perfected over the years by applying modern technological tools to study ancient landscapes: drones, LiDAR, dms and support of tablet/mobile devices to share, record and compare archaeological marks. Lastly, regarding the diacronic interpretation of the landscape, has been given great importance to the typological recognition of every pottery’s class, despite being very fragmentary and often in a poor state of preservation due to the contexts of surface discovery. Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione: dalla carta archeologica d’Italia all’esperienza del progetto Ager Lucerinus. Il progetto Ager Lucerinus si inserisce nell’ambito della trentennale esperienza della Carta Archeologica d’Italia. Il progetto ha lo scopo di ricostruire la topografia urbana, i sistemi insediativi e il paesaggio antico di un vasto territorio, dall’occupazione preistorica, fino al periodo medievale. Dall’esperienza del progetto Ager Venusinus (1989–2000) si è perfezionato in questi anni lo studio scientifico delle tracce archeologiche individuate, adeguatamente documentate attraverso mappe georeferenziate e banche dati aggiornate, con l’ausilio delle moderne applicazioni prestate allo studio di paesaggi antichi: droni, Lidar, dtm e supporto di tablet / dispositivi mobili per condividere, registrare e confrontare i segni archeologici. Infine, in relazione all’interpretazione diacronica del paesaggio, è stata data grande importanza al riconoscimento tipologico di ogni classe di ceramica, pur essendo molto frammentaria e spesso in cattivo stato di conservazione a causa dei contesti di scoperta superficiale. Dalla Carta Archeologica d’Italia al progetto Ager Lucerinus: la ricerca topografica in area apulo-lucana

di Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1885 ma ripreso da Giuseppe Lugli nel 1923.2

Il progetto ager Lucerinus si inserisce nell’ambito di una importante eredità di metodi, approcci e applicazioni ponendosi in continuità con esperienze di ricerca pregresse condotte in altri contesti italiani e allo stesso tempo come ambito di sperimentazione di nuovi metodi e tecnologie di più recente applicazione e diffusione. Il progetto, condotto da oltre un decennio, nasce sulla scorta della ventennale esperienza di ricerche topografiche nel territorio di Venosa (ager Venusinus project 1989–2000)1, sorto in seno al Progetto Carta Archeologica d’Italia – Forma Italiae, progetto di antica tradizione nato da un’idea della Direzione

P. Sommella, «Carta archeologica d’Italia (Forma Italiae). Esperienze a confronto», in Archeologia del Paesaggio (a cura di M. Bernardi), IV Ciclo di Lezioni sulla ricerca applicata in archeologia, Certosa di Pontignano (Siena), 12–16 gennaio 1991, Firenze 1992, pp. 797–801; P. Sommella, «Esperienze documentali sul territorio dagli anni ’80 ad oggi. Alcune considerazioni», in Archeologia e Calcolatori, 20, 2009, pp. 47–59. Per una storia degli studi sull’indagine topografica e la cartografia archeologica si veda G. Azzena, «L’indagine topografica e la Cartografia Archeologica», in Il Mondo dell’Archeologia, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002, pp. 149–152; M.L. Marchi, «‘Carta Archeologica d’Italia – Forma Italiae project’: research method», in 3rd International Landscape Archaeology Conference 2014, Atti del convegno (Rome, Italy, 17th – 20th of September 2014), LAC 2014, Amsterdam 2016, pp. 1–10; M.L. Marchi, G. Forte, «The GIS for the Forma Italiae Project. From the GIS of the Ager Venusinus Project to the GIS of the Ager Lucerinus Project. Evolution of the system», in Keep the Revolution Going, 43rd CAA 2015 (University of Siena, 30 marzo – 3 aprile 2015), Computer Applications and Quantitative Methods in Archaeology, Oxford 2016, pp. 293–301. 2 

M.L. Marchi, G. Sabbatini, Venusia: IGM 187 I NO/I NE, Firenze 1996; M.L. Marchi, Ager Venusinus II: (IGM 175 2. SO; 187 1. NO; 187 1. SE; 188 4. NO; 188 4. SO), Firenze 2010; G. Sabbatini, Ager Venusinus I, Mezzana del Cantore (IGM 175 2. SE), Firenze 2000. 1 

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Forte, La Trofa, Margani and Savino Più di recente, il progetto Carta Archeologica d’Italia è stato ereditato ed esportato in molti contesti italiani e condotto in particolare nel Laboratorio di Cartografia Archeologica Sperimentale dell’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con l’Unione Accademica Nazionale e il CNR, nel Laboratorio di Topografia dell’Università del Salento3, infine nei laboratori dell’Università della Campania L. Vanvitelli, Seconda Università di Napoli4 e di Cartografia Archeologica dell’Università di Foggia.

archeologico territoriale attraverso i metodi e gli strumenti dell’archeologia preventiva, necessariamente da perseguire attraverso il dialogo con i funzionari della Soprintendenza.7 Tale positiva esperienza di collaborazione era stata già sperimentata con buoni risultati ai fini della tutela, ad esempio, nel contesto venosino del sito di Casalini.8 Impulso all’indagine di un territorio, quello ad ovest del centro di Lucera (FG), pressoché sconosciuto dal punto di vista archeologico (erano noti poche decine di punti archeologici), è stato dato dalla nascita del progetto di survey nel 2006 in concomitanza con l’inizio degli scavi archeologici sul sito medievale di Montecorvino.9

Quest’ultimo porta avanti uno dei progetti di ricerca più longevi dell’Università di Foggia, con la direzione scientifica di Maria Luisa Marchi. Il progetto ager Lucerinus, ricerca condotta nel territorio gravitante attorno l’antica colonia latina di Luceria5, ha l’obbiettivo di ricostruire la topografia urbana (figg. 18.1–18.2), i sistemi insediativi e il paesaggio antico di un vasto territorio che corrisponde a quello occupato dai Romani, ma con una storia di trasformazione dei paesaggi ben più antica e che si protrae anche oltre.6

Ad oggi il progetto consta del coinvolgimento dei comuni di Pietramontecorvino, Motta Montecorvino, Volturino, Casalnuovo Monterotaro, Castelnuovo della Daunia, Casalvecchio di Puglia, Biccari, Roseto Valfortore, Celenza Valfortore e Lucera, tutti comuni ricadenti nella provincia di Foggia, in un’area geografica compresa tra la valle del Fortore e il Tavoliere.

Le ricerche sono condotte in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di BAT e FG e con il supporto delle amministrazioni locali che finanziano la ricerca.

Con tutti i comuni sono stati stipulati dei protocolli d’intesa nell’ambito del progetto di ricerca.

Quest’ultimo aspetto favorisce il progetto sotto più aspetti: non solo il supporto economico dei comuni diventa essenziale in un panorama, com’è noto a tutti, di depressione dei finanziamenti alla cultura e alla ricerca, ma permette un dialogo più proficuo con le amministrazioni locali rispetto a temi come la conoscenza e divulgazione della storia della loro città, delle loro campagne e della loro tutela; conoscenza non fine a se stessa ma strumento essenziale per una buona pianificazione e programmazione degli interventi futuri.

L’articolazione metodologica del progetto si basa sulle solide fondamenta della raccolta dei dati di ricerche edite, dei dati custoditi nell’archivio della Soprintendenza, della cartografia storica disponibile, dell’analisi toponomastica e dell’individuazione di tracce del popolamento antico attraverso la fotointerpretazione. Accanto alla tradizione è presente l’innovazione: durante questi anni sono stati sperimentati metodi di ricerca archeologica prestati ed adattati alle specifiche finalità del progetto dalla geofisica e altre discipline. Sono state condotte indagini geomagnetiche in alcuni contesti scelti, ci si è avvalsi delle

La stretta interazione con il competente ente di tutela territoriale rappresenta allo stesso tempo presupposto e naturale conseguenza di uno degli obbiettivi fondamentali della ricerca condotta, la tutela del patrimonio

7  Il territorio dei Monti Dauni è stato per molti anni di competenza del dott. Italo Maria Muntoni, oggi capo area Archeologia della Soprintendenza. La competenza è ora del dott. Domenico Oione. A loro i nostri ringraziamenti. Per i risultati di queste felici collaborazioni si veda M.L. Marchi, I.M. Muntoni, G. Forte, A. De Leo, «Dalle ricerche topografiche all’archeologia preventiva. Il GIS del “Progetto Ager Lucerinus”: modelli di indagine e strategie di intervento nei Monti Dauni», in Archeologia e Calcolatori 26, 2015, pp. 325–340; G. Forte, M. La Trofa, M.L. Marchi, N. Masini, I.M. Muntoni, G. Savino, M. Sileo, «La villa e la necropoli tardoantica di Masseria Romano (Pietramontecorvino FG): tra indagini aero-topografiche e archeologia d’emergenza», in VIII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (SAMI) 2018, Atti del convegno (Matera 12–15 settembre 2018), Firenze 2018, pp. 223–227. 8  M.L. Marchi, «Città, territorio e paesaggi antichi. Il contributo della Carta archeologica per la ricostruzione delle trasformazioni ambientali», in Atti del convegno nazionale. Geositi, geomorfositi e geoarcheositi patrimonio geologico-ambientale del Mediterraneo (a cura di G. Bruno, P. Carveni), Geologia dell’ambiente, Supplemento al n. 3, 2016, pp. 139–145. 9  P. Favia, R. Giuliani, A. Cardone, C. Corvino, M. Maruotti, P. Menanno, V. Valenzano, «La ricerca archeologica sul sito di Montecorvino. Le campagne di scavo 2011–2014», in Atti del 35° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia (San Severo, 15–16 novembre 2014) (a cura di A. Gravina), 2 voll., San Severo 2015, I, pp. 141–164; L. D’Altilia, P. Favia, «Il sito medievale di Montecorvino (FG) e il suo territorio. Analisi spaziali in ambiente Gis Open source», in Archeologia e Calcolatori, 30, Firenze 2019, pp. 507–510.

G. Ceraudo, «Carta archeologica d’Italia, ricerche in Puglia», in Topografia e popolamento nell’Alto Salento. Il territorio di Mesagne dalla Preistoria alla Tarda Antichità (a cura di Cera, G.), Foggia 2015, pp. 5–7. 4  S. Quilici Gigli, «La Carta Archeologica del­la Campania. L’impegno per la promozione di una conoscenza culturale e civile», in Carta Archeologica e ricerche in Campania, ATTA suppl. XV/4, Roma 2010, pp. 11–24; S. Quilici Gigli, «Carta archeologica della Campania: ricerche condotte e in corso per la promozione del territorio», in AA.VV., Carta Archeologica e Ricerche in Cam­pania, ATTA suppl. XV/9, Roma 2016, pp. 7–15. 5  M.L. Marchi, G. Forte, «Luceria. Forma e urbanistica di una colonia latina: nuovi dati per la Carta archeologica», in Atti del 40° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia, San Severo, 15–16–17 novembre 2019 (a cura di A. Gravina), San Severo 2020, pp. 275–286. 6  M.L. Marchi, G. Forte, A. Frangiosa, M. La Trofa, G. Savino, «Ricerche nel territorio di Celenza Valfortore e Castelnuovo della Daunia: contributi allo studio dell’ager Lucerinus», in Atti del 40° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria-Storia della Daunia (15–16–17 novembre 2019), San Severo 2020, pp. 287–302; M.L. Marchi, G. Forte, M. La Trofa, G. Savino, «Paesaggi ritrovati. Storia e archeologia del Monti Dauni: il progetto Ager Lucerinus», in Scienze Umane tra ricerca e didattica, Convegno Internazionale di Studi Scienze Umane tra ricerca e didattica, Dipartimento di Studi Umanistici, Foggia, 24–25–26 settembre 2018 (a cura di G. Cipriani, A. Cagnolati), Campobasso 2019, pp. 397–423. 3 

168

Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione

Figura 18.1. Carta Archeologica di Lucera (Marchi, Forte 2020, fig. 4 a p. 286).

Figura 18.2. La città di Lucera vista dall’alto (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

169

Forte, La Trofa, Margani and Savino

Figura 18.3. Il comprensorio oggetto di indagine con i punti archeologici su ortofoto (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

tecniche LiDAR e DTM, è stato utilizzato sul campo il programma Cartodroid per tablet (accanto alla sempre necessaria ortofotocarta stampata).10

Ovviamente tale elemento non è sufficiente (anche perché siamo presenti poche settimane all’anno) ma rimane un tassello che si inserisce in una idea di sensibilizzazione delle comunità locali.

La ricerca dal 2006 al 2019 ha consentito di individuare circa 1400 punti archeologici, distribuiti cronologicamente dalla Preistoria fino al Medioevo (fig. 18.3).

Il confluire dei dati delle nostre ricerche all’interno dei Piani Urbanistici Generali, come nel caso del comune di Casalnuovo Monterotaro (FG), permette di avere un importante riscontro nell’ambito della pianificazione territoriale con un risvolto utile sia nella tutela dei nuovi siti archeologici individuati sia in una più consapevole programmazione dell’evoluzione delle città e dei loro territori di pertinenza.

L’esperienza del nostro gruppo di lavoro, acquisita nel corso di questi anni, non può che sottolineare la centralità della raccolta diretta dei dati archeologici attraverso la ricognizione sistematica, intensiva ed estensiva, del territorio. Preme sottolineare tale aspetto in questa sede non solo per l’imprescindibile necessità di percorrere direttamente i terreni per un metodo di raccolta scientifica dei dati e per la loro attendibilità ma anche perché si sono potute constatare direttamente le conseguenze positive della nostra presenza sul territorio.

Un nodo pericoloso rimane purtroppo quello della mancanza di controllo in relazione alla presenza di aree di interesse archeologico di tutte le opere per le quali non è prevista la consegna del progetto ai competenti organi di tutela, come nel caso dell’impianto di minieolici presenti in gran quantità sui Monti Dauni o la costruzione da parte di privati di capannoni agricoli di consistenti dimensioni.

In un comprensorio tanto ricco di aree ‘a rischio/potenziale archeologico’ (quelle note e quelle di nuova conoscenza grazie alla ricerca), la presenza diretta è risultata uno strumento di controllo del territorio e delle attività di movimento terra in aree sensibili.

Tra i molteplici obbiettivi della ricerca condotta, infine, vi è lo studio della topografia antica della colonia di Luceria e il suo rapporto con il territorio.11

10  Per una descrizione di dettaglio su questi temi si rimanda agli approfondimenti successivi in questo contributo.

11 

170

Marchi, Forte, «Luceria. Forma e urbanistica...», op. cit. alla nota 5.

Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione

Figura 18.4. Fotogramma tratto dal volo base di J. Bradford 1954–1955 (a); ortofoto a colori del 2006 visualizzata in ambiente G.I.S. con modalità WMS (b) (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

La base cartografica di riferimento è l’ortofoto, affiancata dalla Carta Tecnica Regionale (anche in questo caso, come per il Geoportale Nazionale, si è fatto riferimento ai servizi freeware messi a disposizione dal sito: http://www.sit. puglia.it/), mentre è stata sempre presa in considerazione la mappa catastale indispensabile per eventuali prescrizioni di tutela, sebbene poco utilizzabile nella fase operativa, perché priva di riferimenti altimetrici e spesso assolutamente anacronistica; la carta IGM, insuperabile base di riferimento per il quadro d’insieme, in scala 1:25.000, in numerose situazioni è più utile come cartografia storica che come riferimento diretto sul terreno.14

Nel 2019 l’équipe, nell’ambito del programma di ricerca dal titolo ‘PRA 2018-Roma e le prime colonie: i casi di Alba Fucens e Luceria. Nuovi dati, nuove metodologie e prospettive’ ha condotto una ricognizione urbana nel centro storico della città, esplorando le cantine delle proprietà private e puntualizzando i manufatti di reimpiego presenti in gran numero nelle murature della città. Si è proceduto inoltre al rilievo di alcuni contesti archeologici esplorati nel passato e oggi conviventi con il tessuto urbano moderno, nello specifico parte delle mura romane della città e le sopravvivenze murarie delle terme cd. di San Matteo. Il rilievo topografico è stato effettuato sia con drone12 sia con le tecniche di disegno tradizionale con gli studenti dell’Università di Foggia e della Scuola di Specializzazione di Matera. [G.S.]

È tuttavia l’ortofoto che consente un più puntuale riconoscimento dei luoghi sul campo, consentendo una precisa puntualizzazione dei rinvenimenti archeologici e delle informazioni relative al paesaggio più in generale, alla coltura e alla visibilità archeologica.

Il metodo della ricerca topografica nel progetto ager Lucerinus: i cambiamenti delle applicazioni tecnologiche

Le coperture aeree attualmente disponibili (1954, 1977, 1988–89, 1991, 1994, 1998, 2000, 2004, 2006, 2007, 2010, 2011, 2013, 2016) (fig. 18.4) sono state messe a confronto per verificare il livello di leggibilità delle tracce nel corso del tempo.

L’ampia applicazione dei sistemi informativi al settore archeologico-topografico è dovuta soprattutto al fatto che essi rappresentano uno strumento in grado di risolvere una vasta gamma di problemi relativi alle metodologie di gestione e analisi dei dati raccolti rendendone l’accesso più veloce, preciso e diretto.

Va precisato che delle serie aerofotografiche sopracitate, disponibili per la lettura e l’analisi all’interno del GIS, alcune sono fruibili direttamente online tramite OGC (Open Geospatial Consortium, in precedenza Open GIS Consortium), un’organizzazione internazionale noprofit, basata sul consenso volontario, che si occupa di definire specifiche tecniche per i servizi geo-spaziali e di localizzazione (location based).

Ciò che connota un GIS archeologico non è tanto il suo contenuto, cioè i dati che gestisce, bensì la sua capacità di favorire la loro interpretazione riguardo a tematismi relativi alle fasi cronologiche, delimitazioni geografiche, tipologie insediative, sia dal punto di vista grafico che alfanumerico. Uno dei fattori principali della ricerca e stata l’acquisizione di materiale aerofotografico ai fini della lettura delle tracce di anomalie dovute all’antropizzazione del territorio. Non possiamo dimenticare che questi territori furono già presi in esame da J. Bradford13 e che la copertura aerea da lui realizzata è tuttora alla base delle nostre indagini.

L’ OGC è formato da oltre 280 membri (governi, industria privata, università) con l’obiettivo di sviluppare e implementare standard per il contenuto, i servizi e l’interscambio di dati geografici che siano ‘aperti e

Si ringrazia l’arch. Stefano del Pozzo per il supporto. J. Bradford, «Buriel landscapes in southern Italy», in Antiquity, XXIII, 1949, pp. 58–72.; J. Bradford, «The Apulia expedition: an interim report»,

in Antiquity, XXIV, 1950, pp. 84–95; J. Bradford, Ancient landscapes. Studies in Field Archaeology, London 1957. 14  Marchi, Ager Venusinus..., op. cit. alla nota 1.

12  13 

171

Forte, La Trofa, Margani and Savino estensibili’. Le specifiche definite da OGC sono pubbliche (PAS) e disponibili gratuitamente.

trasformazione, in modo che l’operatore possa agire su quella che meglio si adatta all’immagine da migliorare.

Ad oggi ci sono oltre trenta standard gestiti da OGC. In particolar modo per implementare il progetto Ager Lucerinus ci si è avvalsi dei servizi WMS, WFS, WCS, non solo aerofotografici, presenti sul sito del Geoportale Nazionale (http://www.pcn.minambiente.it/), tramite una procedura presente nei software GIS usati per il progetto (sia di proprietà: ESRI ArcGis, che freeware: QGis), che consente di agganciare i layer informativi messi a disposizione e proiettarli (solo in presenza di un collegamento internet) all’interno del nostro progetto GIS come un normalissimo strato informativo.

La lettura e ove possibile la georeferenziazione della cartografia storica sono imprescindibili per l’analisi e il recupero di elementi del paesaggio, soprattutto nella ricostruzione storica delle infrastrutture, quali la viabilità, o dell’evoluzione e dei cambiamenti geomorfologici del paesaggio. Perciò anche nel nostro progetto sono state recuperate, georeferenziate e infine analizzate una serie di carte storiche, tra cui citiamo, per il loro pregio documentale e storico, la Rizzi Zannoni e le ‘Locazioni’ della ‘Regia dogana della Mena delle pecore di Foggia’ e tutte le produzioni della cartografia IGM. Tra le innovazioni e applicazioni tecnologiche sperimentate negli ultimi anni vi è il DTM (Digital Terrain Model) ottenuto dall’interpolazione delle curve di livello (fig. 18.5). Ciò ha permesso in molti casi di ipotizzare una ricostruzione del paesaggio tridimensionale in antico e quindi una sua eventuale ‘virtualizzazione’, di percepire e individuare in modo più agevole forme sistematiche di insediamento antropico e di porre ulteriori ipotesi di ricerca circa la presenza di strutture e vissuti umani in una determinata posizione altimetrica o su pendenze ed esposizioni particolari rispetto all’ambiente circostante. Non sono mancate le acquisizioni dei dati tramite droni (fig. 18.6). Il settore degli APR vive un momento particolarmente fortunato ed è in continua espansione anche nel settore dei Beni Culturali inteso nel senso più ampio. I droni rappresentano per il settore archeologico una soluzione più veloce e meno dispendiosa delle attività di monitoraggio, di rilevamento e mappatura rispetto alla fotogrammetria tradizionale, inoltre questi velivoli riescono a soddisfare le esigenze di molteplici ambiti di applicazione quali la topografia delle aree archeologiche, i rilievi di monumenti ma anche di scavi, oppure la conoscenza di parti anche vaste di territorio. In definitiva sono sistemi che consentono di produrre in tempi brevi: elaborati cartografici, acquisizione e registrazione di informazioni archeologiche, elaborazioni e ricostruzioni del passaggio naturale e delle trasformazioni antropiche nelle diverse fasi storiche a diverse scale e risoluzioni.

Tale procedura ha permesso di avere dei dati georeferenziati, aggiornati, e con standard di qualità elevati, un chiaro risparmio in termini di tempo e di economia oltre ad avere, al pari di quanto normalmente avviene per le aerofotografie15, la possibilità di cogliere nelle riprese satellitari le tracce di elementi archeologici non visibili o perlomeno difficilmente rintracciabili nell’indagine sul terreno; inoltre, nel caso di oggetti o complessi archeologici in vista, l’immagine, date le sue caratteristiche di veduta d’insieme, può essere sfruttata vantaggiosamente a fini di documentazione e di contestualizzazione, integrando i dati ambientali, geomorfologici, archeologici e paesaggistici. Tutte le tipologie di tracce archeologiche sono visibili nelle riprese telerilevate da satellite: in particolare, quelle da umidità (dampmarks), da vegetazione (grass-weed-crop-marks), da alterazione nella composizione del suolo (soilsites), da sopravvivenza e le anomalie logiche riscontrabili talvolta nell’osservazione di un paesaggio. Tra gli elementi di mediazione che permettono la visibilità delle tracce archeologiche, quello che meno si evidenzia nell’esame delle riprese satellitari utilizzate è senza dubbio il microrilievo (shadow sites), vista l’impossibilità della lettura stereoscopica che esalta anche le minime variazioni altimetriche. Per tentare di evidenziare meglio le tracce archeologiche sono state effettuate elaborazioni semplici incidendo soprattutto sul contrasto dell’immagine, sulla trasparenza e sulla lucentezza, in altri casi si è approfondita l’elaborazione dell’immagine modificando il colour composite RGB delle bande originali, agendo sia sul colore primario (ad esempio spegnendo uno dei tre layer RGB) sia all’interno di ogni colore variando la banda originale di ogni colore.

Con l’ausilio di software di foto modellazione in grado di processare le immagini acquisite durante il volo, è stato possibile, inoltre, produrre modelli tridimensionali, DTM ed ortofoto che vanno ad integrare la consueta documentazione. Particolarmente soddisfacenti sono stati

In altri casi si è elaborata l’immagine agendo sullo stretching della stessa16, in base ad una funzione di

una descrizione statistica della stessa. Le seconde agiscono sui pixel dell’immagine considerando i rapporti degli stessi (uno ad uno) con i pixel vicini. Da un punto di vista statistico un’immagine raster può essere descritta dal suo istogramma. Si tratta di un grafico che presenta sull’asse delle ascisse delle sfumature di grigio, e sull’asse delle ordinate la frequenza con cui i valori occorrono nell’immagine stessa. Aumentare la luminosità di un’immagine significa traslare l’istogramma verso destra. Aumentare il contrasto di un’immagine significa allontanare le barre dell’istogramma le une dalle altre. Equalizzare un’immagine significa ridistribuire i valori di grigio in modo da ‘appiattirne’ l’istogramma, utilizzando tutta la gamma e aumentando il contrasto. Per contrastare l’immagine agendo sull’istogramma, la metodologia sulla quale l’operatore ha il pieno controllo è costituita dalle varie forme di stretching.

15  F. Piccarreta, G. Ceraudo, Manuale di aerofotografia archeologica: metodologia, tecniche e applicazioni, Bari 2000; G. Ceraudo, «Fotografia aerea: tecniche, applicazioni e fotointerpretazione», in Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio (a cura di M. Guaitoli), Roma 2003, pp. 75–85; In volo nel passato. Aerotopografia e cartografia archeologica (a cura di C. Musson, R. Palmer, S. Campana), Firenze 2005, pp. 75–85. 16  Le tecniche di miglioramento delle immagini si dividono in due gruppi principali, basandosi su: operatori globali e operatori locali. Le prime riguardano l’immagine nella sua interezza e si appoggiano su

172

Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione

Figura 18.5. Modello digitale del Terreno (DTM) costruito in ambiente software ArcGis con ortofoto del 2006 e curve di livello ‘spalmate’ sul modello DTM elaborato dall’alto (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

Figura 18.6. Preparazione del volo del drone per la mappatura della villa in località ‘Carpino – Mass. Romano’ individuata durante il survey del progetto Ager Lucerinus (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

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Forte, La Trofa, Margani and Savino i dati in post processing, trattati tramite tecnica LiDAR. LiDAR sta per Light Detection and Ranging o anche per Laser Imaging Detection and Ranging. Raggi laser che misurano la posizione di un punto calcolando il tempo che passa tra l’emissione, l’urto sull’oggetto da rilevare e il rientro, dopo la riflessione, al punto di partenza.

Valfortore (FG), dove era stato segnalato un probabile muro di terrazzamento di un insediamento pluristratificato. La folta presenza di macchia mediterranea (fig. 18.7) non ha permesso di esplorare l’area in questione in maniera sistematica ma si è riuscito seppur con difficoltà a documentare parte del muro di cui purtroppo in prima battuta non si conosceva la reale estensione e funzione. In post processing grazie all’ausilio dei dati LiDAR (fig. 18.7) del Ministero si è potuto ricostruire l’andamento del muro, le sue dimensioni ed avvallare le prime ipotesi che naturalmente andranno integrate con reiterazioni in periodi più opportuni. [G.F.]

Oltre all’altissima velocità di acquisizione dei dati (migliaia di punti al secondo!) i LiDAR più sofisticati permettono di ‘oltrepassare’ la vegetazione ed arrivare a registrare punti sul terreno. In realtà è un po’ più complesso di così. I LiDAR registrano raggi di ritorno di primo impulso (first) e raggi di ultimo impulso (last).

Nuovi sistemi di rilevamento nella field archaeological survey. Tecnologie a confronto in scenari di ricerca nazionali ed internazionali, alcuni esempi di metodo

Oggetti diversi hanno proprietà diverse di assorbimento e riflessione dei raggi laser. Foglie e rami ne riflettono una parte (con determinate frequenze) lasciandone passare altri che continuano la corsa finché non incontrano qualcosa che li riflette di nuovo: asfalto, calcestruzzo, roccia, ecc.

Fin dalle prime applicazioni di piattaforme GIS (Sistemi Informativi Geografici) in ambito archeologico, strettamente necessarie per poter elaborare cartografie che restituissero un determinato territorio nel suo sviluppo diacronico, si è reso indispensabile anche sviluppare ulteriormente adeguate tecniche di rilevamento sul campo e telerilevamento, al fine di documentare ed interpretare le tracce archeologiche presenti sul terreno, integrando ogni informazione utile.17 Proprio per rispondere alla primaria esigenza di sistematizzare la grande mole di dati che progetti di ricerca decennali, come il nostro, racchiudono, si è cercato di adottare programmi semplici ed intuitivi, installati su dispositivi mobili/tablet, in dotazione del Laboratorio di Cartografia dell’Università di Foggia, come ad esempio Cartodroid (fig. 18.8).

Considerando quindi un raggio laser emesso dallo strumento, se questo colpisce un albero ce ne sarà una parte, riflessa dalle foglie, che ritorna indietro subito ed un’altra che continua ad avanzare, viene riflessa dal terreno e rientra un po’ dopo, in ritardo. Lo strumento registra la differenza di tempo tra primo e ultimo arrivo e tramite algoritmi e software di filtro si riesce ad estrarre il dato relativo al terreno, decisamente più rilevante ai fini topografici rispetto, ad esempio, all’altezza delle chiome degli alberi. Il Ministero dell’Ambiente e del Territorio ha avviato una campagna di rilievo topografico del territorio nazionale utilizzando proprio questa tecnologia. Ha montato un LiDAR estremamente sofisticato su un aeroplano, l’ha mandato in giro sopra le nostre teste ed ha mappato parte del territorio nazionale con risoluzioni davvero notevoli. Sfruttando la tecnologia del primo e dell’ultimo impulso è stato possibile elaborare un accurato DTM (Digital Terrain Model – Modello Digitale del Terreno) di risoluzione 1 m.

È importante ricordare infatti che qualsiasi indagine sul campo contiene una grande mole di dati proveniente da tre macrogruppi: posizione, contesto e tracce archeologiche materiali. La combinazione di tutti i dati raccolti per ogni unità topografica individuata, dalla distribuzione quantitativa-qualitativa dei reperti sul terreno al rilievo diretto dell’estensione di ogni UT, viene facilmente sintetizzata in una scheda sito, agganciata alle coordinate geografiche correttamente rilevate.18 Con Cartodroid, e programmi simili open source, è possibile riportare il rilievo delle aree di estensione delle UT effettuato sul campo, ma anche collegare foto dei territori indagati e salvarle, in modo da memorizzare ulteriori informazioni utili alla ricerca.

Si immagini di prendere il territorio italiano (non tutto), di dividerlo con una maglia quadrata di lato 1m e si consideri di avere le coordinate del terreno per ciascun vertice di questa maglia! Inoltre, i dati LiDAR possono essere selezionati per foglio ed essere richiesti tramite una procedura descritta sul sito del Geoportale Nazionale oltre che essere fruiti online tramite i visualizzatori sempre sullo stesso sito.

È del tutto evidente come gli approcci digitali all’archeologia siano diventati sempre più comuni, risolvendo molti problemi tramite l’uso delle innovazioni

Un’informazione topografica così dettagliata è molto utile per studi di fattibilità o progetti di massima, analisi geomorfologiche, analisi geografiche, simulazioni numeriche di fenomeni naturali, pianificazione territoriale ed urbanistica, come base cartografica, ma l’aspetto più interessante per il nostro settore è l’uso predittivo, di conferma dei dati che essi possono svolgere in maniera precisa, veloce e dettagliata. Un caso esemplificativo, proveniente dai dati di survey dell’ager Lucerinus, è stato studiato in località ‘Valva’ nel territorio di Celenza

17  Si veda per una disamina riassuntiva ed esaustiva sulla nascita del GIS archeologico: M. Forte, I sistemi informativi geografici in archeologia, Roma 2002, pp. 39–46. 18  A titolo esemplificativo si vedano tutti i contributi relativi al progetto Ager Lucerinus cfr. supra a nota 6. Per un ulteriore confronto con un progetto di ricognizione e carta archeologica a collaborazione internazionale, in area pugliese, si veda G.-J. Burgers, G. Recchia, Ricognizioni archeologiche sull’altopiano delle Murge. La Carta archeologica del territorio di Cisternino, Foggia 2009, pp. 11–14.

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Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione

Figura 18.7. Analisi post processing di località ‘La Valva’ in agro di Celenza Valfortore (Laboratorio di Cartografia Archeologica, Università di Foggia, elab.di G. Forte).

Figura 18.8. Esempi di applicazione di Cartodroid, utilizzata nel Progetto Ager Lucerinus nelle ultime campagne di ricognizione (ottobre 2019).

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Forte, La Trofa, Margani and Savino

Figura 18.9. Applicazioni sviluppate ed utilizzate nel survey in Mozambico da parte di un gruppo di ricerca internazionale.

nei database spaziali e nei servizi cloud per l’archiviazione e la condivisione di dati.19 A questi si aggiungono interfacce software all’avanguardia per la progettazione di flussi di gestione e raccolta dati affidabili, che confluiscono in database molto efficienti, come Google Fusion Tables. L’esperienza della cd. archeologia computazionale, nata in seno alla New Archaeology ed in seguito alla Post Processual Archaeology (Gran Bretagna e USA), ha portato anche il nostro paese a ricorrere in ambito archeologico alle applicazioni di GPS e GIS sulla fine degli anni ’80. Prima ricerca pioniera in tal senso fu quella condotta sul centro storico di Benevento nel 1988, che venne scelto per applicarvi un sistema territoriale geografico da parte degli architetti Zevi e Rossi.20

di team multidisciplinari ed internazionali. In ambito internazionale possiamo elencare molte realtà di progetti particolarmente virtuosi su questo aspetto, seppur molto lontani da noi geograficamente, tra cui le attività di field survey in Mozambico in corso dal 2011.22 Il progetto, finalizzato ad individuare e posizionare siti paleolitici integrando studio dei manufatti litici con lo studio completo dei particolari contesti di rinvenimento, ha previsto la creazione e l’utilizzo di un nuovo programma basato su servizi Google freeware inventato dall’équipe di ricerca. Il sistema è composto da due applicazioni personalizzate per smartphone/tablet, attraverso le quali è possibile recuperare coordinate geografiche e dati relativi ai manufatti individuati, ma anche di eseguire analisi in loco di artefatti, inclusa l’esecuzione di misurazioni accurate con calibri digitali direttamente collegati ai dispositivi mobili. Il sistema salva tutti i dati recuperati nella memoria interna dei dispositivi, nonché in un database spaziale basato su cloud (Google Fusion Tables), dove i dati possono essere automaticamente condivisi ed esaminati utilizzando un set piuttosto intuitivo di strumenti di visualizzazione per creare istantaneamente mappe o produrre carte esplorative. Le applicazioni di cui il gruppo di ricerca si serve sono ‘ArcheoSurvey’, per registrare schede sito ed ogni informazione legata ai nuovi siti, e ‘LithicsOTG’ (fig. 18.9), sviluppata per lo studio dei reperti sul posto, mettendoli in relazione tra di loro in base a caratteristiche tecnologiche comuni (disponibile anche online http://www.oldstoneage.com/ software/e4.shtml).23 Recentemente sono state anche risolte le problematiche relative, ad esempio, al poter disegnare su Ipad, in dotazione solamente in progetti adeguatamente finanziati, tramite l’impiego di prodotti quali Bamboo Stylus della Wacom, e Adonit Jot Pro

Il Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento – Landscape Archaeology and Remote Sensing (LaP&T) dell’Università di Siena è il primo in Italia ad aver sperimentato a partire dal 1999, e diffuso, l’utilizzo di dispositivi mobili in archeologia, per indagare in modo sempre più efficiente i sistemi insediativi.21 Infatti Stefano Campana, direttore del Laboratorio, ed il suo team riuscirono per primi a riportare i software usati all’Università su Ipad, integrandoli con FileMaker, al fine di ottenere un database completo ed in grado già di soddisfare ogni esigenza di ricerca. A tale prima sperimentazione della fine degli anni ’90 ne seguirono tante altre, che permisero di ottimizzare gli strumenti in maniera sempre più soddisfacente. Uno strumento come il tablet permette infatti di contenere, archiviare, riordinare ed aggiornare in un solo luogo virtuale tutti i dati di una ricerca, con la possibilità di accedervi da qualsiasi parte del mondo, ulteriore elemento funzionale soprattutto ad esperienze

22  N. Bicho, et alii, «Middle and Late Stone Age of the Niassa Region, Northern Mozambique. Preliminary results», in Quaternary International 404, USA 2016, pp. 87–99. Il gruppo è internazionale e multidisciplinare: CArEHB, FCHS, Universidade do Algarve, Campus de Gambelas, 8005–139 Faro, Portugal; Department of Anthropology, University of Louisville, Louisville, USA; Departamento de Arqueologia e Antropologia, Universidade Eduardo Mondlane, Maputo, Mozambico; Department of Geography and Geology, University of North CarolinaWilmington, Wilmington, USA; Department of Human Evolution, Max Plank Institute for Evolutionary Anthropology, Leipzig, Germany. 23  J. Cascalheira, A Google-Based Freeware Solution for Archaeological Survey and On-Site Artifact Analysis, Mendeley Data. Electronic document, 2017, https://data.mendeley.com/datasets/8r8wh8w92m/1.

Mobilizing the Past for a Digital Future (a cura di E.W. Averett, et alii), University of North Dakota Digital Press, 2016. 20  H. Gonzalez, et alii, «Google Fusion Tables: Data Management, Integration and Collaboration in the Cloud», in Proceedings of the 1st ACM Symposium on Cloud Computing, Indianapolis 2010, pp.175– 180; G. Iovino, «Gis. Ricerca geografica e pianificazione urbanistica: un’applicazione sul centro storico di Benevento», in Bollettino A.I.C., 138 (2010), pp. 7–30. 21  S. Campana, «Tecnologie GPS e personal data assistant applicata all’archeologia dei paesaggi», in Archeologia e calcolatori, 2005, pp. 177–197; S. Campana, «Applicazioni Tablet PC alla ricognizione aerea», in In volo..., op. cit. a nota 15, pp. 259–260. 19 

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Ricerche topografiche tra tradizione e innovazione (penne digitali), molto impiegati in attività di scavo archeologico.24

statistico, qualitativo e di interpretazione delle evidenze individuate. A questo si è cercato, per quanto possibile, di porre rimedio adottando diverse strategie, teoriche in laboratorio e pratiche sul campo.

I vantaggi dell’applicazione di questa tecnologia sono molteplici: riduzione del tempo di lavoro, eliminazione di documentazione cartacea, raccolta di dati esaustiva, facile trasportabilità e flessibilità dello strumento, funzionale ad una ricerca sul territorio quale quella ricognitiva. Certamente l’uso delle tecnologie applicate alle ricognizioni archeologiche non può prescindere dal corretto metodo interpretativo delle tracce archeologiche in base all’impostazione tradizionale della ricerca scientifica sui paesaggi antichi, a partire da una adeguata comprensione della visibilità dei resti archeologici, per terminare con il riconoscimento tipologico dei manufatti rinvenuti.25 [A.P.M.]

Di fondamentale importanza è, innanzitutto, preparare il ricognitore-studente a ciò che troverà in campo: in seguito ad un lavoro maturato nell’ambito della lunga esperienza di ricerca in questo determinato comparto del territorio daunio28, si è tentato di costruire un elenco tipologico delle principali classi di manufatti diffuse in zona che, prima dell’inizio dei lavori, viene sottoposto allo studente tramite delle vere e proprie lezioni finalizzate ad istruirli e sensibilizzarli sulle problematiche archeologiche precipue del territorio. Nel fare ciò si pone l’attenzione anche a quei fossili guida alternativi o poco conosciuti, o alla cultura materiale meno evidente, in modo da tentare di limitare il più possibile la perdita di informazioni.29

La gestione e il metodo di studio del laboratorio di materiali in un progetto topografico: l’ager Lucerinus e la ceramica

Successivamente, sul campo, gli studenti sono costantemente seguiti ed affiancati da specialisti esperti nelle diverse classi di manufatti appartenenti a vari periodi, in modo da rendere il più efficace possibile la raccolta di superficie. Questa viene realizzata in maniera sistematica e totale: tutti i reperti ceramici vengono raccolti e non si effettua nessuna distinzione tra classi o i diversi elementi del manufatto. In genere la raccolta dei soli elementi diagnostici viene realizzata nel caso di iterazione della ricognizione, in siti di grandi dimensioni già conosciuti e indagati. Questa permette di registrare una serie di osservazioni sui cambiamenti nel tempo dei siti e sulla diversa distribuzione dei materiali, confermando o reindirizzando l’analisi interpretativa svolta. Per alcune classi di reperti, come quelle presenti in grandi quantità o quelle difficilmente trasportabili, ci si limita ad una campionatura, nel caso dei laterizi, o alla documentazione sul posto. In caso di ritrovamenti eccezionali (epigrafi o iscrizioni murate) se ne dà improvviso avviso alla Soprintendenza competente. La raccolta avviene sia livello ‘infra-sito’ che ‘extra-sito’, considerando queste ultime evidenze, comunque, come indicatori di attività, di frequentazione e di popolamento e cercando di evitare dei pregiudizi che possano produrre immancabilmente delle perdite di informazioni significative. Il riconoscimento e l’attribuzione tra sito e materiale off-site, infatti, viene fatto a posteriori, durante la fase di elaborazione e interpretazione dei dati che tiene presente gli elementi statistici e percentuali e l’associazione, distribuzione e qualità dei materiali al fine di tipologizzare le diverse componenti insediative.

Se è vero che lo studio del materiale ceramico proveniente da contesti di scavo può vantare procedure e metodi ormai standardizzati e consolidati nel tempo, lo stesso non può essere detto per lo studio del materiale rinvenuto durante le ricerche di superficie, in cui i sistemi di raccolta, catalogazione e analisi variano da progetto a progetto, spesso non sono esplicitati e dunque sono difficilmente confrontabili. I recenti dibattiti sul tema26 sono ancora lontani dall’individuare una strategia efficace e condivisibile dalla comunità scientifica.27 Nell’ambito dell’Ager Lucerinus il metodo adottato non può prescindere dalle finalità didattiche del progetto: essendo, infatti, una ricerca promossa dalla cattedra di Topografia Antica del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia, ogni anno si alternano decine di studenti, in molti casi alle prime armi, impegnati nel dare forma e sostanza alle nozioni apprese durante i corsi di metodologia archeologica. Indubbiamente il principale vantaggio consiste nell’avere a disposizione più braccia per la raccolta dei materiali e più gambe per la copertura delle aree da indagare, con lo stesso impiego delle risorse economiche e di tempo. Tuttavia, l’inesperienza nel riconoscimento delle principali classi di manufatti, la selezione tra i diversi gradi di osservazione nonché gli interessi personali dei ricognitori rappresentano degli ostacoli che inevitabilmente potrebbero inficiare la genuinità della ricerca, producendo degli errori di tipo 24  Si veda J. Cascalheira, N. Bicho, C. Gonçalves, «A Google-Based Freeware Solution for Archaeological Field Survey and Onsite Artifact Analysis», in Advances in Archaeological Practice 5, 4, 2017, pp. 328–339. 25  N. Terrenato, «La ricognizione: metodi della ricerca sul campo e interpretazione dei dati», in Ricerca archeologica. L’indagine sul campo. Il Mondo dell’Archeologia, Roma 2002, pp. 149–152. 26  R. Francovich, H. Patterson, Extracting Meaning from Ploughsoil Assemblages, Oxford 2000. 27  Per una recente sintesi E. Cirelli, «Classificazione e quantificazione del materiale ceramico nelle ricerche di superficie», in Medioevo, paesaggi e metodi, Mantova 2006, pp. 169–178.

Tra le indagini ‘infra-sito’ si annovera anche il ricorso alla quadrettatura, condotta in siti di particolare pregio come

Il progetto Ager Lucerinus ha avuto inizio nel lontano 2006. Si pensi a quanto espresso da Wickham in merito al materiale altomedievale (C. Wickham, «L’incastellamento ed i suoi destini, undici anni dopo il Latium di P. Toubert», in G. Noyè, Structures de l’Habitat et Occupatione du Sol dans les Pays Mediterraneens: les Methodes et l’Apport de L’Archeologie Extensive, Rome-Madrid, 1988, p. 417). 28  29 

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Forte, La Trofa, Margani and Savino l’abitato di Chiancone30, o a indagini geognostiche, come le prospezioni condotte a Masseria Romano31 o a Masseria Carpino, utili per comprendere le articolazioni interne dei siti, o le funzioni e destinazioni d’uso di alcune aree.

Bradford, J., «The Apulia expedition: an interim report», in Antiquity, XXIV, 1950, pp. 84–95.

In laboratorio il materiale viene lavato e conteggiato in base a modelli di schede di quantificazione veloce che prendono in considerazione gli elementi formali e tecnologici di ciascuna classe di manufatti. Quanto alla nomenclatura, che ancora risente di specialismi regionali se non addirittura locali, si è deciso di adottare quella prevista dalla Carta Archeologica d’Italia-Forma Italiae. Dopo la documentazione fotografica, il materiale viene già separato nelle diverse classi e periodi per facilitare lo studio analitico condotto dagli specialisti di ciascun settore. Naturalmente si tratta di materiale il più delle volte frantumato e fluitato, soggetto a fenomeni deposizionali e post-deposizionali che abbassano il loro stato di conservazione rendendone sempre più difficile e incerto il riconoscimento.

Burgers, G.-J., Recchia, G., Ricognizioni archeologiche sull’altopiano delle Murge. La Carta archeologica del territorio di Cisternino, Foggia 2009.

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Tra i vari metodi di analisi e quantificazione dei materiali adottati nei diversi progetti, quello che si è rivelato essere il più efficace nel contesto preso in esame è il calcolo delle forme minime (EVE)32 con alcuni adeguamenti metodologici che tengono conto degli aspetti tecnologici, morfologici e formali particolari di ciascuna classe ceramica, nonché della possibilità che gli elementi diagnostici presi in considerazione possano variare in base alla classe stessa. Una volta ottenuta la tipologia ceramica, i confronti utili alla datazione dei manufatti avvengono con i siti noti a livello locale, regionale e interregionale. Il dialogo costante tra i vari specialisti è la chiave indispensabile in grado di permettere considerazioni che coniughino analisi e sintesi, dettagli e quadri d’insieme: sui materiali, sulla cronologia e tipologia dei siti, fino ad arrivare a carte di distribuzione dei manufatti articolate per fasi e alla ricostruzione del sistema della produzione e dei commerci nella zona interna della grande Daunia nei diversi periodi storici. [M.L.T.]

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Marchi, Forte, Muntoni, De Leo, «Dalle ricerche topografiche …», art. cit. a nota 7, pp. 325–340. 31  Forte, La Trofa, Marchi, Masini, Muntoni, Savino, Sileo, «La villa e la necropoli tardoantica…», art. cit. a nota 7, pp. 223–227. 32  C. Orton, P. Tyers, A. Vince, Pottery in Archaeology, Cambridge University Press, 1993, pp. 166–181. 30 

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19 Ager Grumentinus: ricerche topografiche e tutela del paesaggio archeologico in Alta Val d’Agri (Basilicata) Simonetta Montonato and Francesco Tarlano Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Basilicata Abstract: Ager Grumentinus: study of ancient topography for the protection of the archaeological landscape in Upper Agri Valley (Basilicata). The archaeological landscape is one of the founding elements of the territory of the Upper Val d’Agri (Basilicata), strongly integrated into the spatial relationship between archaeological values, morphological, geographical, physical layout, and natural context. We hereby present a ‘virtuous’ model of integrated research and heritage protection work, through which the results of surveys conducted on a territorial scale represent the basis for identifying a homogeneous area that has been recognized as ‘area of archaeological interest’, protected pursuant to art. 142 comma 1 letter m of the ‘Codice dei Beni culturali e del Paesaggio’. The study highlighted the systemic nature of the archaeological heritage pertaining to the identified area, and its profound relationships with the geomorphological characteristics of the area itself. Over time, this heritage and landscape features influenced each other. Knowing this relationship is essential for a proper heritage and landscape protection. Ager Grumentinus: ricerche topografiche e tutela del paesaggio archeologico in Alta Val d’Agri (Basilicata). Il paesaggio archeologico è uno degli elementi fondanti del territorio dell’alta Val d’Agri (Basilicata), fortemente integrato nel rapporto spaziale tra valori archeologici, morfologici, geografici, assetto fisico e contesto naturale. In questa sede sarà presentato un modello ‘virtuoso’ di ricerca integrata e lavoro di tutela del patrimonio, attraverso cui i risultati delle indagini condotte a scala territoriale rappresentano la base per l’individuazione di un’area omogenea che è stata riconosciuta come ‘area di interesse archeologico’, tutelata ai sensi all’art. 142 comma 1 lettera m del ‘Codice dei Beni culturali e del Paesaggio’. Lo studio ha evidenziato la natura sistemica del patrimonio archeologico di pertinenza dell’area individuata e il profondo rapporto con le sue caratteristiche geomorfologiche. Nel tempo, questo patrimonio e i caratteri del paesaggio si sono influenzati a vicenda, conoscere questa relazione è essenziale per una corretta tutela del patrimonio e del paesaggio. Premessa

di presentare, all’interno del Convegno Internazionale ‘Landscape – una sintesi di elementi diacronici’2 e, di rimando, negli Atti scaturiti dalle giornate di studi, un modello ‘virtuoso’ di lavoro di ricerca e di tutela integrate, attraverso il quale i risultati di indagini multidisciplinari, condotte su scala territoriale in Alta Val d’Agri (Basilicata) (fig. 19.1), fungono da base per l’individuazione di un areale omogeneo che è stato riconosciuto come ‘zona d’interesse archeologico’, tutelata ai sensi dell’art. 142 comma 1 lettera m del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Il paesaggio nella sua accezione storica fonde caratteri frutto dei fenomeni della natura con le azioni operate dall’uomo, che costantemente si confronta e interferisce con l’ambiente che lo circonda, percependone alcuni aspetti quali caratteristici di una comunità che lo vive.1 Le ricerche di Topografia antica, che mirano a delinearne l’evoluzione diacronica, attraverso l’analisi delle dinamiche insediative e delle infrastrutture necessarie per la gestione dei territori, e più in generale attraverso la ricostruzione del rapporto tra uomo e ambiente nella storia, costituiscono un bagaglio di conoscenze sulle quali è fondamentale porre le basi anche per un corretto governo dei processi di trasformazione del paesaggio attuale. Partendo da tale assunto, si è deciso

Verrà brevemente delineata l’evoluzione dell’assetto del popolamento antico in Alta Val d’Agri che, tra le vallate che tagliano la Basilicata da ovest verso est, nel settore sudoccidentale della regione, rappresenta una delle principali aree cerniera tra le due coste lucane in epoca storica. Proprio al centro della valle, prospiciente il fiume Agri, si colloca la

1  Secondo quanto normato nell’Art. 131 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, così come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 63 del 2008, alla luce della ratifica, con la legge n. 14/2006, della Convenzione europea del paesaggio, recependo quanto dettato dall’art. 1 della Convenzione stessa.

Cogliamo l’occasione per ringraziare gli organizzatori del Convegno e i Curatori degli Atti per aver accolto nel volume il presente contributo. 2 

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Simonetta Montonato and Francesco Tarlano

Figura 19.1. Grumento Nova: il settore occidentale dell’Alta Val d’Agri visto dal borgo (foto di F. Tarlano).

Figura 19.2. Grumento Nova: il terrazzo alluvionale di Grumentum (con il Foro in primo piano) – e il lago artificiale del Pertusillo sullo sfondo (foto di F. Tarlano).

distribuzione insediativa nella valle è nota soprattutto da recuperi fortuiti e dalle attività di archeologia preventiva operate dalla Soprintendenza, soprattutto in relazione all’imponente rete di raccolta del greggio realizzata negli anni 2000 per lo sfruttamento del noto giacimento petrolifero4. In questo contesto rientra il progetto dell’Alma

città romana di Grumentum, uno dei maggiori centri romani della Lucania antica, oggi sede di un Parco Archeologico e di un Museo Archeologico Nazionale (fig. 19.2). Agli studi sulla città romana, si sono affiancate, specialmente negli ultimi anni, ricerche relative al popolamento rurale e alla distribuzione dei siti nel territorio. Se le ricerche nell’area urbana sono state condotte sistematicamente fin dagli anni ’60 dalla Soprintendenza archeologica di Basilicata, e successivamente da diversi atenei italiani e internazionali3, attraverso scavi in concessione, la

romana – Atti del Convegno di Studi, Grumento Nova (Potenza), 28–29 giugno 2008 (a cura di A. Mastrocinque), Moliterno 2009; Il territorio grumentino e la valle dell’Agri nell’antichità. Atti della Giornata di Studi Grumento Nova (Potenza), 25 aprile 2009 (a cura di F. Tarlano), Bologna 2010; Grumento e il suo territorio nell’antichità, (a cura di A. Mastrocinque), BAR International Series 2531, BAR Publishing, Oxford 2013; Grumentum and Roman cities in Southern Italy (a cura di A. Mastrocinque, C.M. Marchetti, R. Scavone), BAR Internetional Series 2830, BAR Publishing, Oxford 2016. 4  Si vedano ad esempio le notizie degli scavi riportate annualmente dalla Soprintendenza della Basilicata tra il 1999 e il 2010 nelle Rassegne Archeologiche del Convegno di Taranto sull’archeologia della Magna Grecia e, per una breve sintesi, Energia e patrimonio culturale in Basilicata e Puglia (a cura di A. Preite), Villa d’Agri 2016.

Bibliografia essenziale: L. Giardino, Grumentum: la ricerca archeologica in un centro antico – Catalogo della Mostra, Galatina 1981; L. Giardino, «L’abitato di Grumentum in età repubblicana: problemi storici e topografici», in Basilicata. L’espansionismo romano nel Sud-Est d’Italia: il quadro archeologico. Atti del convegno di Venosa 1987, Venosa 1990, pp. 125–157; P. Bottini (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale dell’alta Val d’Agri, Lavello 1997; Grumentum 3 

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Ager Grumentinus Mater Studiorum – Università di Bologna e della Sapienza – Università di Roma ‘Lettura integrata del paesaggio antico dell’Alta Val d’Agri’5, con la finalità di ricostruire l’evoluzione storica e paleoambientale del territorio, analizzando il rapporto diacronico tra geomorfologia e scelte antropiche. Per valutare il condizionamento dell’ambiente sull’uomo nella storia, e le modifiche apportate dall’uomo alla forma del paesaggio, lo studio topografico è stato impostato in maniera multidisciplinare. Alla tradizionale ricerca topografica, che ha previsto l’analisi delle fonti scritte, lo studio della cartografia, delle fotografie aeree storiche e attuali, della toponomastica, il lavoro sul campo con campagne di ricognizioni archeologiche, sono stati affiancati studi geoarcheologici, con la finalità di realizzare la carta geomorfologica dell’area e di porla in relazione con i dati di archeologia territoriale, individuando le unità morfologiche preferenziali per l’insediamento nelle differenti epoche. In questo modo, superando il concetto tradizionale di carta archeologica, si è giunti a valutare il potenziale archeologico del territorio, zonizzandolo e cartografando le aree a maggiore rischio.

vedremo – abbia un peso preponderante nell’evidenziarne i sistemi relazionali. L’Alta Val d’Agri rappresenta infatti uno degli otto ambiti di paesaggio in corso di studio e definizione da parte della Regione Basilicata, individuati in ossequio alla Parte Terza del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. L’ambito di paesaggio è un sistema territoriale sub-regionale, caratterizzato da relazioni tali tra le sue componenti, da caratterizzarne l’identità paesaggistica, sia da un punto di vista fisico-ambientale, che antropico-culturale. Ogni ambito è, a sua volta, articolato in ‘unità’ territoriali minime, ai fini analitici e progettuali che il Piano Paesaggistico si prefigge. Peculiarità dell’ambito dell’Alta Val d’Agri, oltre alla straordinarietà e diffusione di un patrimonio archeologico che vede in Grumentum il suo momento culminante, risiede in una sorta di ‘ricorsività’ nella fruizione dei caratteri distintivi del territorio, favorita sia dalle caratteristiche geologiche e geomorfologiche della valle, che alla tendenza da parte dell’uomo allo sfruttamento di ‘trame’ e infrastrutture esistenti, per evidenti ragioni di economicità. (F.T., S.M.)

I dati del lavoro, in gran parte inediti e sui quali è in corso la preparazione di una pubblicazione organica, sono confluiti nel database geotopografico di metadati finalizzati a individuare le zone di interesse archeologico per la redazione del Piano paesaggistico regionale di Basilicata, redatto congiuntamente da Regione e MIBACT.

Il paesaggio dell’Alta Val d’Agri nell’antichità: una lettura diacronica La Regione Basilicata, che rappresenta il cuore della Magna Grecia e poi ricalca in gran parte la perimetrazione della Regio III: Lucania et Bruttii augustea, è ricchissima di un patrimonio archeologico diffuso, che, per via del suo stretto e indissolubile rapporto con il paesaggio che lo comprende, necessita un’attenzione particolare attraverso una lettura globale delle caratteristiche archeologiche e morfologiche, al fine di attuare una corretta tutela e un proficuo governo del territorio, che tenga in dovuta considerazione lo stretto rapporto tra dato archeologico e ‘contesto di giacenza’, inteso quale porzione di territorio contenitore di bene archeologico. L’alta valle dell’Agri è una delle aree più fertili e pianeggianti di una regione caratterizzata da rilievi collinari e montuosi che da sempre hanno reso difficoltosi i collegamenti influenzando forme e modalità insediative.

Infatti, basandosi sull’assunto che il paesaggio archeologico è uno degli elementi fondanti del territorio italiano, la tutela paesaggistica delle zone di interesse archeologico mira alla protezione della profonda integrazione nella lettura relazionale spaziale tra valori archeologici, assetto morfologico e geografico fisico e contesto naturale di giacenza, superando il solo valore culturale del bene in sé e leggendo il bene in diretta connessione al suo contesto. Come disposto dal Codice, in ossequio a quanto previsto dal Comitato Paritetico Regione Basilicata – MIBACT, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Basilicata, in collaborazione con gli Uffici del Dipartimento Ambiente ed Energia della Regione Basilicata, ha avviato la ricognizione e individuazione delle zone di interesse archeologico in territorio regionale, prendendo proprio l’Ager Grumentinus come progetto pilota.

Questa fascia di territorio presenta attestazioni archeologiche e frequentazioni fin dalla pre-protostoria: i primi siti stabili della Val d’Agri si datano al Neolitico6 e si collocano nell’area pedemontana settentrionale, che guarda a sud, lungo le conoidi di deiezione dell’Alli e del Molinara (fig. 19.3), affluenti di sinistra dell’Agri, su aree fertili nelle quali iniziò a svilupparsi una forma embrionale di agricoltura, grazie alla quale l’uomo cacciatore e raccoglitore diventa gradatamente stanziale.

L’areale individuato sulla base dell’approccio scientifico proprio della Topografia antica include testimonianze archeologiche che coprono un arco temporale molto vasto. Tuttavia, non è al solo dato storico che l’area deve i suoi caratteri paesaggistici fondanti, benché questo – come 5  Il Progetto, svolto tra il 2012 e il 2014 nell’ambito degli insegnamenti di Archeologia del Paesaggio e di Topografia dell’Italia antica, è stato diretto da Enrico Giorgi e Pierluigi Dall’Aglio per l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e da Luisa Migliorati e Alessandra Ten per La Sapienza – Università di Roma; è stato coordinato sul campo da Francesco Tarlano (i cui dati sono stati oggetto della tesi di dottorato L’alta Val d’Agri tra geomorfologia e popolamento antico), Julian Bogdani, Antonio Priore, Nicola Mileo, con la partecipazione di oltre 50 studenti e ricercatori, impegnati in attività di indagini geoarcheologiche e survey di superficie.

S. Bianco, A. Preite, E. Natali, «Antropizzazione pre-protostorica nell’alta valle dell’Agri», in Tarlano (a cura di), Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 21–38; A. Pellegrino, La sepoltura neolitica in località ‘Molinara’, in Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 39–44; Energia…, op. cit. alla nota 4; F. Tarlano, «Analisi topografica e geomorfologica per la ricostruzione delle dinamiche insediative nell’alta Val d’Agri», in La Lucanie entre deux mers. Archèologie et patrimoine. Actes du colloquie international, Paris 5, 6 et 7 novembre 2015 (a cura di O. De Cazanove, A. Duplouy), vol. 1, Napoli 2019, pp. 381–392. 6 

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Simonetta Montonato and Francesco Tarlano

Figura 19.3. La conoide alluvionale dell’Alli: i numeri indicano le evidenze archeologiche individuate – (elab. di F. Tarlano su dati mappa: Google, Immagini ©2021 CNES / Airbus Mazar Technologies).

Si tratta di aree pedemontane, sopraelevate rispetto al piano di campagna circostante, ricche di risorse idriche e ben esposte.

A partire dall’età ellenistico lucana la piana viene insediata capillarmente attraverso fattorie isolate, piccoli villaggi con necropoli annesse, residenze nobiliari e aree sacre8.

Nell’età del Bronzo, e in particolare nel Bronzo medio, con lo sviluppo della cultura appenninica, alcuni insediamenti di fondovalle a carattere agricolo (Masseria Piccinini di Paterno, Porcili di Viggiano), collocati ancora prevalentemente sulle conoidi degli affluenti di sinistra dell’Agri, sono in connessione visiva diretta con insediamenti stagionali su siti d’altura, lungo percorsi di transumanza. I maggiori insediamenti si posizionano su alture isolate, sulla cima o lungo i versanti (ad esempio i siti di loc. Civita di Paterno, di loc. Murgia Sant’Angelo di Moliterno (fig. 19.4), di loc. Civita-Circiello e di loc. Croce di Marsicovetere), in posizioni strategiche.

Il processo di ‘lucanizzazione’ si manifesta attraverso una trasformazione radicale nell’assetto insediativo: le aree abitate vengono separate dalle necropoli, centri fortificati cinti da mura sorgono sulle numerose alture, la campagna circostante si popola di piccole fattorie o nuclei rurali, riflettendo un cambiamento nelle modalità di sfruttamento della terra, con l’introduzione di colture specializzate9, come la vite e l’olivo e con un notevole incremento demografico ben documentato dal notevole numero di attestazioni relative a questo arco cronologico (fig. 19.5).

Per la prima età del ferro i dati si limitano all’areale di Marsico Nuovo7, vera e propria porta di accesso alla vallata, con diversi nuclei di sepolture (siti di loc. Agri, di loc. San Donato) intorno all’abitato attuale, nei cui pressi forse andrebbe ricercato l’insediamento enotrio, a dominio della dorsale che controlla lo sbocco dell’Agri nella piana.

Con il Fuso e la conocchia. La fattoria lucana di Montemurro e l’edilizia domestica nel IV secolo a.C. (a cura di A. Russo), LavelloPotenza 2006; A. Russo, «Modalità insediative in alta Val d’Agri tra IV e III sec. a.C.», in Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 45–48; F. Tarlano, «Ager Grumentinus: una nuova lettura del popolamento antico in alta Val d’Agri», in Dialoghi sull’Archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo. Atti del I Convegno Internazionale di Studi, Paestum, 7–9 settembre 2016 (a cura di A. Pontrandolfo, M. Scafuro), Paestum 2017, pp. 901–912; Tarlano, «Analisi topografica…», art. cit. alla nota 6, p. 386. 9  Secondo un processo ben attestato anche in altre aree della regione: si veda ad es. M. Osanna, «Paesaggi agrari e organizzazione del territorio in Lucania tra IV e III sec. a.C.», in Bollettino di Archeologia Online. XVII International Congress of Classical Archaeology, Roma, 22–26 settembre 2008 I, Roma 2010, pp. 1–15. 8 

Tarlano, «Analisi topografica…», art. cit. alla nota 6, p. 385; la carenza di dati relativa a questa fase sembra debba imputarsi a una documentazione archeologica tuttora lacunosa, e non a un dato rispondente alla realtà. Si veda inoltre: A. Bottini, «Popoli anellenici in Basilicata, mezzo secolo dopo», in Identità e conflitti tra Daunia e Lucania preromane (a cura di M.L. Marchi), Pisa 2016, pp. 7–50.

7 

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Ager Grumentinus

Figura 19.4. Moliterno, loc. Murgia Sant’Angelo. Sullo sperone a dominio della piana dello Sciaura e del settore sud-orientale dell’Alta Val d’Agri si colloca uno dei principali siti appenninici della valle (foto di F. Tarlano).

Figura 19.5. Distribuzione delle evidenze archeologiche ellenistico-lucane in Alta Val d’Agri. Si nota la maggiore concentrazione di siti nell’area pedemontana lungo le conoidi degli affluenti di sinistra del fiume Agri (elab. di F. Tarlano).

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Simonetta Montonato and Francesco Tarlano Tra i siti d’altura insediati in questa fase, sono degni di menzione le aree Castelli a Tramutola, di loc. Madonna del Vetere a Moliterno, di loc. Valdemanna e di loc. Civita a Marsicovetere, di loc. Il Monte a Grumento Nova, di loc. Tempagnata a Spinoso, di loc. Mulino Spolidoro a Viggiano.10 Tuttavia, uno stanziamento capillare nella valle si concretizzò con una vera e propria rete di fattorie, piccoli insediamenti, nuclei abitativi monofamiliari, sui versanti e in area pedecollinare. È ancora una volta la sponda sinistra dell’Agri che, con l’esclusione dell’ultimo ordine di terrazzo, riconosciuto come fascia alluvionabile e quindi non insediata, risulta più densamente popolata. In quest’area, lungo le conoidi dei torrenti Galaino, Molinara, Alli e Casale si collocano infatti (da ovest verso est) le fattorie di loc. Galaino a Marsico Nuovo, di loc. Masseria Piccinini a Paterno, di loc. Barricelle a Marsicovetere, di loc. Capizzo, di loc. Porcili, di loc. Serrone, di loc. La Monaca e di loc. San Giovanni a Viggiano. Sono altresì occupati i versanti e i terrazzi, con i siti di loc. Serio La Civita e di loc. San Giovanni a Marsicovetere, di loc. Campestrini e di loc. Fosso Piano dei Valloni a Grumento Nova, con la residenza nobiliare di loc. Masseria Nigro a Viggiano, con la fattoria di loc. Piani Parete a Montemurro. Questo modello di occupazione sparsa e particolarmente fitta in sinistra idrografica si riflette, anche se con minor densità (per via della meno favorevole esposizione), anche in destra idrografica, lungo la conoide del Rio Cavolo (siti di loc. Costarelle e loc. Sole La Chiesa a Tramutola) e sui terrazzi alluvionali a est e a sud del sito su cui sorgerà Grumentum. Dunque, sono le conoidi alluvionali degli affluenti di sinistra nel settore occidentale della valle e i terrazzi in quello orientale le unità morfologiche preferenziali, in quanto aree sopraelevate, non inondabili, fertili e facilmente lavorabili. Il lungo processo di romanizzazione vede il sopravvivere di alcuni elementi, che danno continuità all’assetto insediativo della valle, come ad esempio l’occupazione capillare tramite una vera e propria rete di nuclei rurali. Tale assetto insediativo infatti in alcuni casi sopravviverà all’avvento romano: la continuità di vita di alcuni di questi insediamenti può rappresentare la base del modello delle grandi masserie, o ‘protoville’, come documentano gli esempi di San Giovanni a Viggiano e Fosso Piano dei Valloni a Grumento Nova11, che continuano fino al I sec. a.C., ma anche in un certo senso le persistenze insediative a Barricelle. A partire dalla fine del IV sec. a.C., emerge gradualmente un nuovo sistema che rende la valle direttamente connessa all’abitato di Grumentum, in una prima fase da ipotizzarsi come possibile central place a cui era connesso il santuario di San Marco.12 La nascita di Grumentum rientra probabilmente in questo trend

culturale che stava già altrove influenzando i Lucani ad adottare modelli insediativi proto-urbani.13 Durante la II guerra punica, l’abitato di Grumentum si schierò probabilmente con Annibale. Fu certamente teatro di più scontri e fu forse sede di zecca: infatti, la monetazione con legenda in greco ΓΡΥ, definitivamente attribuita alla zecca grumentina da Crawford14, databile tra il 215 e il 207 a.C., rappresenterebbe una presa di posizione contro Roma da parte di aristocrazie grumentine filo-puniche. I lotti dei Lucani vengono confiscati a seguito della guerra annibalica, andando a creare un vasto areale di ager publicus. Questo sarà redistribuito dai Romani attraverso una divisione agraria con lotti assegnati ai coloni e più precisamente con assegnazioni viritane, sin dal periodo graccano e poi con riassegnazioni all’epoca della deduzione coloniaria. Le tracce centuriali sono ben visibili nelle persistenze15 (fig. 19.6), attraverso una lettura della cartografia storica e attuale e dell’aerofotografia, e sono diffuse su tutto l’areale proposto per la perimetrazione di zona d’interesse archeologico. La presenza di limiti centuriali, impostati su due blocchi centuriali di differente orientamento fortemente connessi alla situazione fisiografica e alla clivometria, rappresenta un’importante traccia per l’utilizzo antico del territorio in termini di uso agricolo; inoltre la centuriazione si configura come una infrastruttura fondamentale per la gestione dell’assetto del territorio (si pensi alle opere di regimentazione delle acque, ai canali, ai muri poderali, alle strade vicinali), andando a caratterizzare in maniera globale il paesaggio romano della valle, che rappresenta l’area interna della regione con maggiore territorio agricolo pianeggiante. All’interno delle centurie sono state individuate numerose fattorie e ville che rappresenteranno il cuore del sistema produttivo latifondistico romano e che si collocano precipuamente in sinistra idrografica, dal fiume sino alla catena del Massiccio del Volturino – Monte di Viggiano. Tra queste, i siti archeologici più importanti sinora individuati sono la grande villa imperiale di loc. Barricelle16, sulla conoide del Molinara, nel settore occidentale della valle, in un’area pedemontana in sinistra 13  L. Giardino, «Aspetti della viabilità di età romana in Lucania», in Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 49–56; Tarlano, «Ager Grumentinus…», art. cit. alla nota 8, pp. 902–903. 14  M. Crawford, «Coins with ΓΡΥ: the Abbè Bertrand Capmartin de Chaupy and the early study of the coinages of Italy», in Studia in Honorem Iliae Prokopov sexagenario ab amicis et discipulis dedicata, Tirnovi 2012, pp. 187–193. 15  F. Tarlano, «Ipotesi sulle suddivisioni agrarie nell’agro grumentino in età romana», in Agri Centuriati, 7, II, Pisa-Roma 2010, pp. 323–328; F. Tarlano, La centuriazione nel territorio di Grumentum, in Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 77–90. 16  A. Russo, M.P. Gargano, H. Di Giuseppe, «Dalla villa dei Bruttii Praesentes alla proprietà imperiale. Il complesso archeologico di Marsicovetere – Barricelle (PZ)», in Siris, 8, Bari 2007, pp. 81–119; M.P. Gargano, «La villa romana di Marsicovetere-Barricelle (Potenza)», Il territorio…, op. cit. alla nota 3, pp. 67–76; A. Russo, «Archeologia preventiva: un’opportunità di sviluppo sostenibile. Il caso della villa romana di Marsicovetere (Potenza)», in La Lucanie…, op. cit. alla nota 6, pp. 161–164.

Tarlano, «Ager Grumentinus…», art. cit. alla nota 8, p. 902. S. De Vincenzo, «Un complesso rurale di età repubblicana nel territorio di Grumentum: la fattoria in località Valloni», in Siris 4, Bari 2003, pp. 23–62. 12  P. Bottini, «L’area extraurbana di San Marco: da luogo di culto a luogo di sepoltura», in Grumento..., op. cit. alla nota 3, pp. 179–198.; Tarlano 2017, «Ager Grumentinus…», art. cit. alla nota 8, p. 903. 10  11 

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Ager Grumentinus

Figura 19.6. Tracce ipotetiche di limiti centuriali in Alta Val d’Agri (da Tarlano, «Analisi topografica…», art. cit. alla nota 6, p. 388) (elab. di F. Tarlano).

monumentalizzazione di Grumentum, come testimoniato dalle numerose evidenze suburbane e rurali, individuate prevalentemente con le attività di survey18, quali ad esempio i siti di loc. Serra San Pietro, Giardino, Spineta, Fontana-San Vito, Fosso dei Tufi, Rungo, Boschigliuolo, Traversiti a Grumento Nova, di loc. San Laviero, San Giovanni, Monte Petrone, Cotura, Maglianese, Valloni, La Monaca, Lagaridda-Porcili, Case Rosse, Capizzo, Finaita, e Fossato a Viggiano.

idrografica dell’Agri, la villa di loc. Maiorano a Viggiano17, lungo il versante che digrada verso il fiume Alli. Se gli studi tradizionali considerano genericamente l’età romana in Lucania come un periodo di decadenza, i dati relativi all’Alta Val d’Agri vanno abbastanza controcorrente: alla crisi del popolamento rurale in età tardo repubblicana, per l’età imperiale fa da contraltare un notevole sviluppo della campagna in connessione all’espansione e alla A. Russo, «I mosaici della villa tardo-antica di località Maiorano di Viggiano (Potenza). Rapporto preliminare», in Atti del X Colloquio dell’Associazione Italiana per lo studio e la Conservazione del Mosaico (Lecce, 18–21 febbraio 2004), Roma 2005, pp. 241–248.

17 

18  Tarlano, «Ager Grumentinus…», art. cit. alla nota 8, pp. 906–907; Tarlano, «Analisi topografica…», art. cit. alla nota 6, pp. 390–392.

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Simonetta Montonato and Francesco Tarlano Dalla lettura delle preesistenze alle odierne esigenze di tutela

La scelta insediativa di fondare Grumentum sulla destra idrografica ma con un affaccio diretto sul fondovalle è connessa alla sua posizione chiave sia nel sistema viario, con un controllo delle direttrici di fondovalle e intervallive, sia nel controllo difensivo della vallata. La deduzione coloniaria in età triumvirale dà inizio a un importante periodo di sviluppo edilizio e di ampliamento dell’area urbana che assume tra l’età augustea e giulioclaudia le vere e proprie sembianze di tipica città romana, ripercorrendo quell’ideale di adesione da parte delle élites locali a modelli edilizi condivisi in tutta la penisola. Il suo suburbio, riccamente insediato e con imponenti infrastrutture (l’acquedotto, le strade…) nonché con almeno tre vaste necropoli in loc. Spineta, San Laverio e Bosco del Principe, si sviluppa prevalentemente in destra idrografica, con la piana, che raggiunge la catena sudorientale, e in particolar modo le propaggini sulle quali si collocherà l’abitato medievale di Moliterno. L’areale è caratterizzato da terrazzi alluvionali e da incisioni fluviali orientate da sud ovest verso nord est, digrada verso il fiume Agri e si configura come una vasta piana con una morfologia abbastanza nervosa, ricca di saliscendi, ed è delimitato da alture sullo sfondo. Nel suburbio sono numerosissime le attestazioni, dai monumenti sepolcrali (veri e propri mausolei), a ponti, tratti di strade antiche, ville, come il sito di Finaide, sino all’acquedotto, altra imponente infrastruttura che attraversa la campagna grumentina dando una chiara connotazione ‘romana’ al paesaggio. Una serie di ricerche condotte sull’infrastruttura19, tra cui alcuni sondaggi di scavo e il rilievo e l’analisi tecnica del monumento, ha permesso di ricostruire interamente il percorso, di oltre 4 km, in parte sotterraneo e in parte su strutture a vista, di riconoscere il castellum aquae grazie alle indagini geoelettriche 3D, di ricostruire pendenza media (1,2%) e portata massima (2900 mc circa giornalieri), di datarne la realizzazione alla metà del I sec. a.C. (fig. 19.7). L’Alta Val d’Agri sarà interessata in età tardo imperiale dal passaggio della via Herculia che in gran parte riprende percorsi già in uso, per agevolare il trasporto dei maiali con cui i Lucani pagavano le tasse allo stato centrale dalla seconda metà del III secolo.20 Grumentum mantenne intatta la sua posizione di rilievo in ambito regionale, divenendo sede vescovile. Tuttavia, gradualmente, la centralità politica e di controllo della valle venne assunta dalle ville tardo antiche, dove molti proprietari terrieri si ritirarono a vivere, lasciando le residenze cittadine: questa tendenza a risiedere in aree rurali causò uno spopolamento della città, ma non l’abbandono definitivo, visto che la zona del foro sembra essere stata frequentata almeno fino al IX secolo. (F.T.)

Il territorio dell’Alta Val d’Agri rappresenta un’area le cui stratificazioni di carattere antropico e naturale, e le relazioni che tra queste intercorrono, hanno determinato nel tempo il generarsi di caratteri paesaggistici fortemente caratterizzanti. Inquadrata in un contesto geografico e relazionale cronologicamente più ampio, per la particolarità di conformazione e orientamento che la connotano, l’Alta Val d’Agri ha costituito parte fondamentale della direttrice storica, ecologica e ambientale tra Mar Ionio e Appennino. Questo ruolo viene in qualche modo consacrato con la fondazione, nel corso del III sec. a.C., dell’abitato di Grumentum, alla confluenza tra i fiumi Agri e Sciaura e all’incrocio tra la direttrice che successivamente diventerà la via Herculia e la strada di collegamento con la strada Rhegio-Capuam (poi via Popilia). Per condizioni orografiche ed esposizione particolarmente favorevoli, la valle è la più fertile pianura alluvionale interna della regione ed è stata intensamente sfruttata per fini agricoli, con le prime attestazioni stanziali che si ascrivono al Neolitico. Generalmente, la pianura alluvionale costituisce un luogo privilegiato ai fini dell’insediamento, come la letteratura di settore ha in più occasioni evidenziato.21 Nonostante l’esposizione della piana a frequenti fenomeni di inondazione, questo ambiente sedimentario, grazie all’abbondanza di risorse idriche e lapidee (sabbie e detriti, idonei all’impiego come materiale da costruzione) e alla facilità di attraversamento, che la rendono dunque luogo adatto allo sviluppo di vie di comunicazione, ha favorito la nascita di numerosi insediamenti. Nel caso della Val d’Agri, i siti preferenziali a tal fine sono le conoidi alluvionali degli affluenti di sinistra idrografica sul lato a ovest e i terrazzi ad est. Questi ultimi, su cui si sceglieva di fondare gli insediamenti soprattutto per eludere i fenomeni di inondazione di cui sopra, sono unità morfologiche formatesi grazie a fenomeni di deposito e di erosione da parte di corsi d’acqua. I nuclei più antichi di molte città hanno beneficiato della collocazione su terrazzi alluvionali. La stessa Grumentum è stata fondata su un terrazzo alluvionale22 in destra idrografica. La prima delle ‘interrelazioni’ tra uomo stanziale e territorio della Val d’Agri, che contribuiscono alla definizione dei caratteri paesaggistici dell’area, si struttura sulla possibilità di sfruttamento di queste risorse naturali. Le modalità organizzative di questa prima interazione sono di fondamentale importanza per leggere e comprenderne gli sviluppi successivi: Ovunque il Neolitico è la base della prima organizzazione territoriale stabile, che attrarrà a sé nuove e successive forme di occupazione […] Sul piano archeologico ciò equivale a dire sovrapposizione di insediamenti, di aree sfruttabili in paesaggi già valorizzati, già entrati nel novero degli strumenti umani, già tolti, strappati alla natura, sottoposti al controllo dell’uomo, capitalizzati.23

S. Pagliuca, F. Tarlano, «Grumentum: l’acquedotto romano», in ATTA 26, Roma 2016, pp. 93–110. 20  R.J. Buck, «The Via Herculia», in PBSR 39, Cambridge 1971, pp. 66– 87; tavv. XVIII, XXI.; F. Tarlano, «Note sulla via Herculia e la viabilità nella zona di Grumentum», in ATTA 20, Roma 2010, pp. 79–101; F. Tarlano, «Individuare la via Herculia: un esercizio fine a se stesso? Problematiche sulla viabilità romana in alta Val d’Agri», in Antiche vie in Basilicata. Percorsi, ipotesi, osservazioni, note e curiosità (a cura di S. Del Lungo), Firenze 2019, pp. 103–120. 19 

R.F. Legget, Cities and Geology, New York 1973, pp. 65–67. A. Priore, «Geografia e geomorfologia dell’Alta Val d’Agri (Basilicata)», in Il territorio …, op. cit. alla nota 3, pp. 11–19. 23  E. Turri, Antropologia del paesaggio, Venezia 2008, p. 131. 21  22 

188

Ager Grumentinus

Figura 19.7. L’acquedotto di Grumentum. Ricostruzione del tracciato (da Pagliuca, Tarlano, «Grumentum: l’acquedotto…», art. cit. alla nota 19, p. 95) (elab. di F. Tarlano).

Il territorio in esame è tuttora interessato da un mosaico di aree agricole, arbusteti e boschi, la cui suddivisione geometrica rivela – soprattutto nei pressi di Grumentum – l’orientamento di due blocchi di griglie centuriali, già attestati dalle fonti gromatiche e in chiara relazione alla clivometria della piana. L’impronta centuriale romana è

una delle tracce più caratterizzanti del paesaggio agrario italiano. Essa non ne determina solo le forme, ma suggerisce la condizione giuridica di occupazione del territorio, il suo definitivo assoggettamento. Al mosaico agricolo della valle, la cui struttura è rafforzata da muretti e corridoi antropici che seguono la stessa direzione, si sovrappongono diverse 189

Simonetta Montonato and Francesco Tarlano

Figura 19.8. Grumento Nova, un panorama preso dai campi sottostanti. Foto del Comune e B. Stefani (Fonte: Touring Club Italiano, Attraverso l’Italia, Illustrazione delle regioni italiane, Volume ottavo: ‘Puglia, Lucania, Calabria’, Milano, 1937, Anno XV).

quasi una seconda natura, la quale corrisponde agli usi civili, e da quelli ripetono la loro origine l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto. Comprendo ora come avessi ragione nell’odiare tutti gli arbitri, i capricci, quali a cagion d’esempio la casina sul Weissenstein, il nulla per il nulla, tutta quella profusione di ornati meschini, e simili cose. Tutto ciò non ha vita, è morto dalla nascita, imperocché tutto quanto non ha esistenza propria, non ha vita, non può né essere, né diventare grande.25

trame: quella idrografica costituita dagli affluenti dell’Agri, quella dei percorsi storici e quella insediativa, oggi caratterizzata per lo più dalla presenza di edifici rurali (tra cui si annoverano mulini e masserie di pregio), più raramente insediativi e produttivi di recente edificazione (fig. 19.8). La centuriazione è la manifestazione più diffusa dell’influenza romana sul paesaggio agricolo italiano. A questa, Emilio Sereni affianca le grandi opere di infrastrutturazione del territorio24, le ‘azioni antropiche’ che maggiormente avranno contribuito a definire gli aspetti percettivi del paesaggio agrario agli occhi degli antichi, ovvero le strade e gli acquedotti, citando più volte una considerazione fatta da Goethe nel suo ‘Viaggio in Italia’. Il letterato tedesco, riferendosi ai monumenti romani, scrisse che questi, nel coniugare magistralmente firmitas, utilitas e venustas, agivano come ‘una seconda Natura’, che opera a fini civili:

L’acquedotto romano di Grumentum, con uno sviluppo di oltre quattro chilometri, forniva l’acqua alla colonia toccando quelli che oggi sono i comuni di Moliterno, Sarconi e Grumento Nova. Studi recenti26, basati su un’attenta lettura del profilo altimetrico dei terreni su cui insistono le poche evidenze rimaste, ne hanno ipotizzato il percorso, posto in parte lungo un limite centuriale, collocandone la costruzione in una fase di relativo fervore edilizio, successiva alla deduzione coloniale.

Sono salito a Spoleto, e mi sono portato sull’acquedotto il quale serve in pari tempo di ponte, per riunire due monti. I dieci archi che attraversano la valle, sono costrutti in pietra; durano da secoli, e portano l’acqua in ogni punto della città. Ed è questo il terzo monumento che io vedo dell’antichità; desso pure di carattere grandioso. L’architettura di que’ tempi è

Villa D’Agri rappresenta l’unico centro urbano compreso nell’areale individuato come zona di interesse archeologico J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1875, p. 127. Pagliuca, Tarlano, «Grumentum: l’acquedotto…», art. cit. alla nota 19, pp. 93–110.

25  26 

24 

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari 2017, p. 50.

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Ager Grumentinus

Figura 19.9. Grumento Nova. Archeologia e paesaggio: l’anfiteatro romano sull’orlo del terrazzo di Grumentum, che si affaccia sull’invaso del Pertusillo (foto di F. Tarlano).

percettivo (fig. 19.9). Realizzato tra il 1957 e il 1962, insiste su una porzione di territorio che in parte ricalca la più ampia area occupata da un paleolago pleistocenico, gradualmente prosciugato a causa di variazioni nell’assetto tettonico naturale; la conseguente alternanza di fasi erosive e deposizionali dell’Agri e dei suoi affluenti ha disegnato la morfologia della piana.

sulla scorta degli studi esposti nel presente articolo. Ex frazione rurale di Marsicovetere, sorge in corrispondenza di una conoide alluvionale dell’Alli, già occupata in antico, con le evidenze più importanti databili all’età romana (Fattoria di Pedale le Grotte, sottoposta a tutela con D.S.R. del 20–12–2001). D’altra parte, anche le conoidi di deiezione rappresentano un’unità geomorfologica ideale dal punto di vista dell’insediamento27, sia per la posizione altimetricamente favorevole, al riparo da alluvioni e aree insalubri, sia per la disomogeneità dei materiali che la costituiscono, favorendone la fertilità. Villa d’Agri ha acquisito nel tempo carattere strategico, diventando il fulcro di molte attività, ma deve il suo assetto attuale soprattutto alla creazione di servizi legati alla bonifica della Valle, avvenuta negli anni Cinquanta.

Conclusioni Partendo dai suesposti criteri metodologici e dalle basi scientifiche illustrate, con il supporto di una vasta bibliografia specialistica e dei dati d’archivio della Soprintendenza, i dati raccolti sono stati letti in maniera globale, al fine di riconoscere nel rapporto tra geografia fisica e dinamiche insediative una chiave di lettura del paesaggio antico da tutelare quale palinsesto della formazione del paesaggio attuale: su tali presupposti è quindi individuato un vasto areale che comprende la piana dell’Agri e le prime propaggini dei versanti, della catena che delimita la valle, al centro della quale scorre il fiume Agri, da nord ovest verso sud est, con il settore delle conoidi e dei primi versanti in sinistra idrografica, e con il suburbio e i terrazzi alluvionali in destra idrografica (tav. 19.1). La zona d’interesse archeologico Ager Grumentinus presenta l’evoluzione storica omogenea qui descritta e si configura quale un areale vasto e ben caratterizzato come comparto da tutelare per la forte interrelazione tra dato archeologico e geografico fisico, sul quale, con la successiva vestizione del vincolo, sarà possibile attuare una tutela organica, con prescrizioni ben definite e una programmazione e pianificazione di sviluppo territoriale che tenga conto della storia,

Le opere di bonifica in Basilicata sono suddivisibili in due tipologie principali: sottrazione di ampie aree pianeggianti alla palude (area del Metapontino) e interventi di risanamento economico, che hanno comportato la realizzazione di opere di vera e propria regimentazione delle acque, avviate nel secondo dopoguerra, grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno. Entrambe le tipologie di intervento hanno inciso in modo determinante sull’attuale assetto paesaggistico della regione. La Val d’Agri è interessata da queste operazioni con la realizzazione di numerosi invasi. Tra questi, il lago artificiale di Pietra del Pertusillo che, con i suoi 7,5 kmq, tocca i territori di Grumento Nova, Montemurro e Spinoso, è quello che maggiormente caratterizza l’area da un punto di vista La topografia antica ((a cura di P.L. Dall’Aglio), Bologna 2000, pp. 179–181.

27 

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Simonetta Montonato and Francesco Tarlano

192 Tavola 19.1. Ager Grumentinus: in giallo l’areale riconosciuto come zona d’interesse archeologico ai sensi dell’art. 142 l. m del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. In sovrapposizione: tracce centuriali e siti archeologici noti (elab. di F. Tarlano).

Ager Grumentinus

Figura 19.10. Inquadramento geografico dell’Ager Grumentinus sottoposto a tutela paesaggistica (elab. di S. Montonato su dati mappa: ©2015 Google. Source EPSG:3857 - WGS 84 / Pseudo-Mercator Projected).

quali, lo stesso risulterebbe avulso da qualsiasi tentativo di inquadramento storico, relazionale, sistemico. Il cambiamento è insito nella struttura del paesaggio, il quale trova un nuovo equilibrio ad ogni intervento, per questo sarà necessario comprendere quali cambiamenti questo contesto sia in grado di assorbire senza comprometterne l’identità. In conclusione, la complessa stratificazione di fattori umani e naturali, che genera il paesaggio delimitato dall’areale proposto, risulta caratterizzata da costanti di cui le evidenze archeologiche (fig. 19.10) rappresentano non solo una preziosa testimonianza, ma anche una chiave di lettura contemporanea del contesto paesaggistico, imprescindibile ai fini della tutela. (F.T., S.M.)

dell’archeologia, del paesaggio e più in generale delle caratteristiche endemiche dei luoghi presentati. Benché da un punto di vista teorico sia ampiamente riconosciuta la necessità di dover privilegiare la tutela dei sistemi all’episodicità dei singoli manufatti archeologici presenti sul territorio, nella pratica le zone identificate come di interesse archeologico perimetrano sovente un’area di estensione limitata, per la quale si tende a prescrivere la tutela materiale delle testimonianze e delle loro aree di pertinenza. In alcuni casi si fa riferimento alla salvaguardia della morfologia naturale dei luoghi e alla leggibilità dei rapporti tra le diverse evidenze storiche presenti nella zona. L’areale della piana dell’Agri, per estensione e complessità dei rapporti che la caratterizzano, pone una sfida inedita rispetto agli obiettivi della tutela, poiché la vestizione del vincolo, secondo la prassi del Piano Paesaggistico, non potrà prescindere da una corretta lettura della natura sistemica del paesaggio ‘antico’, parte integrante dell’areale in questione, insieme alle singole testimonianze che ne fanno parte. Non potendo la tutela paesaggistica congelare i processi di sviluppo, ma solo guidarli, bisognerà tener presente quali siano i caratteri irrinunciabili, identitari di questo paesaggio, in assenza dei

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20 Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo Silvia Berrica Universidad de Alcalà Abstract: Mining landscape in the north of Madrid (Spain) between the 7ᵗʰ and 8ᵗʰ centuries. In this work, we want to summarize the first results found from the study of two sites located in the mountainous area north of Madrid (Spain). Thanks to this, in fact, it was possible to recognize a series of furnaces and iron productions which allowed the presentation of an unpublished work on early medieval archaeometallurgy in the Iberian Centre. Both villages were probably built during a moment of transition, such as the passage between the Visigoth and Islamic time periods, when the territory is undergoing in social transformation (Islamization). This transition phase, which will develop throughout the 8th century, will lead to the birth of a new state, the Independent Emirate of al-Andalus. Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo. In questo lavoro si vogliono riassumere i primi risultati riscontrati nello studio di due siti situati nella zona montuosa a nord di Madrid (Spagna). La ricerca ha permesso di riconoscere una serie di forni metallurgici e produzioni del ferro che consentono la presentazione di un lavoro inedito sull’archeometallurgia altomedievale nel centro peninsulare iberica in un momento di transizione come il passaggio tra l’epoca visigota e quella islamica, quando il territorio sta subendo una trasformazione sociale: l’islamizzazione. Questa fase di transizione, che si svilupperà per tutto l’VIII secolo, porterà alla nascita di un nuovo stato, l’Emirato Indipendente di al-Andalus. Introduzione*

attività artigianali, in modo da poter capire i diversi modelli economici e sociali della società altomedievale di questo territorio.

Questa indagine sul paesaggio rurale nel centro peninsulare iberico durante il periodo altomedievale di epoca islamica nasce dalla volontà di colmare il vuoto archeologico e storiografico ancora presente tra gli studi che riguardano il territorio di al-Andalus.

Durante il processo di investigazione è stato necessario procedere ad una estensione della cronologia iniziale che permettesse di cogliere le variazioni che si sono susseguite durante il periodo di transizione tra l’epoca visigota e quella islamica, quindi è stato fatto un passo indietro, iniziando lo studio dal VII secolo.

Questo contributo rientra nella ricerca della tesi di dottorato che sto svolgendo sull’argomento e mira a colmare le lacune esistenti nell’analisi di un processo storico che si produce tra i secoli VIII e XI. Durante lo svolgimento dell’indagine è stato necessario uno studio approfondito della Carta Archeologica della Comunità di Madrid e dello studio delle relazioni di scavo, che potessero offrire informazioni (schede US, foto di scavo, piani e materiali ben classificati) e quindi consentissero la elaborazione di un matrix per costruire una cronologia relativa affidabile. Altrettanto indispensabile è stato lo studio esaustivo dei materiali1, che favorisse il riconoscimento delle diverse

Tutto questo ha permesso di elaborare una serie di risultati interessanti provenienti da due siti, la Dehesa de Navalvillar e La Cabilda (fig. 20.1), che si trovano nella zona nord dell’attuale Comunità di Madrid, ai piedi della catena montuosa, la Sierra de Guadarrama, che separa le due grandi valli del centro peninsulare iberico: la Valle del Tajo e la Valle del Duero. Entrambi i siti archeologici presentano una stratigrafia che parte in un momento avanzato della seconda metà del VII secolo e vedono una stabilità fiorente durante il secolo VIII. Mentre La Cabilda sembrerebbe essere abbandonata al principio del secolo IX, la Dehesa de Navalvillar sta apportando nuovi dati che indicano una continuità stratigrafica che raggiunge tutta la prima parte del IX secolo.

Rivolgo i miei sinceri ringraziamenti a Fernando Colmenarejo e Charo Gómez per avermi permesso di poter studiare questi siti archeologici e per avermi dato la grande possibilità di scavare con loro in diverse campagne. Inoltre, voglio ringraziare il direttore del Museo Archeologico Regionale di Alcalá, Enrique Baquedano, per darmi la possibilità di studiare i reperti e a Miguel Contreras. 1  Depositati nel Museo Arqueológico Regional de la Comunidad de Madrid, Alcalá de Henares. *

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Silvia Berrica

Figura 20.1. Situazione geografica dei siti della Dehesa de Navalvillar e La Cabilda (elab. dell’autrice).

I dati

finanziati dal Comune di Colmenar Viejo (Madrid). Queste indagini hanno permesso di ipotizzare che questo territorio fosse connesso con l’attività di estrazione mineraria4 del ferro e di una successiva elaborazione della materia prima, tale da produrre delle competenze artigianali metallurgiche di tipo locale.

La Dehesa de Navalvillar ha avuto due diversi interventi archeologici che pur avendo nomenclatura differente, Navalvillar e Navalahija, secondo la nostra attuale ricerca è possibile affermare che si tratti di un solo villaggio che semplicemente è separato da un ruscello, l’Arroyo de la Tejada. I primi scavi nella zona di Navalvillar sono stati effettuati negli anni ’80 del secolo scorso. Dove le prime interpretazioni considerarono questo sito di epoca visigota e i ricercatori ipotizzarono che presentasse una stratigrafia tra il secolo V e il VII, supponendo che il suo abbandono si collocasse all’inizio del secolo VIII2 per il ritrovamento di una moneta islamica, un dirham d’argento di cui parleremo successivamente.

I recenti studi che si stanno compiendo attraverso l’investigazione della mia tesi di dottorato stanno però apportando nuovi risultati che inquadrano questo sito in un margine più ampio e che permettono di capire un diverso tipo di dinamica territoriale che si estende a livello regionale, insieme ad un nuovo tipo di differenziazione sociale. Lo studio del paesaggio ha permesso tramite foto aeree storiche5 di individuare nuove strutture e strade antiche, permettendo di ampliare il raggio di occupazione del sito e supportando la teoria che era stata

Negli anni successivi si sono susseguite una serie di campagne di scavo nella zona di Navalahija, dove un’impresa di archeologia3 ha eseguito diversi scavi,

F. Colmenarejo García, R. Gómez Osuna, J. Jiménez Guijarro, A. Pozuelo Ruano, C. Rovira Duque, «En busca de la magnetita perdida. Metalurgia del hierro y organización aldeana de la Antigüedad Tardía en Navalvillar y Navalahija (Colmenar Viejo, Madrid)», in Actas de las decimas jornadas de Patrimonio Arqueológico en la Comunidad de Madrid, Madrid 2014, pp. 215–228. 5  Foto aeree (PNOA 2006) che permettono una migliore visione di alcune strutture, durante lo studio si sono anche riconosciute quelle che sembrano strade antiche che spartiscono il sito in diversi rioni, lo studio comunque è ancora in corso quindi i risultati che presentiamo in questo scritto sono assolutamente preliminari. 4 

2  C. Abad Castro, «El poblado de Navalvillar (Colmenar Viejo)», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a La Investigación arqueológica de la época visigoda en la Comunidad de Madrid, N.º 8, Vol. 2, Alcalá de Henares 2006, pp. 389–402; F. Colmenarejo García, C. Rovira Duque, «Los yacimientos arqueológicos de Colmenar Viejo durante la Antigüedad Tardía», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a La Investigación arqueológica de la época visigoda en la Comunidad de Madrid, N.º 8, Vol. 2, Alcalá de Henares 2006, pp. 377–388. 3  Equipo A de Arqueología.

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Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo

Figura 20.2. Le nuove strutture della Dehesa de Navalvillar (elab. dell’autrice).

inizialmente formulata6 secondo cui gli scavi archeologici appartenessero ad un unico sito di notevole estensione, comprendendo quindi anche le due zone minerarie che si trovano non lontano dal villaggio (fig. 20.2).

definire la provenienza del vetro anche se future analisi potrebbero aiutare a far luce sulla questione. Il riciclo del vetro era una pratica già nota durante il periodo romano, ma durante l’epoca altomedievale incominciò ad essere ancora più utilizzata, in quanto aveva il grande vantaggio di poter fondere il materiale anche a temperature più basse.9

Attraverso lo studio è stato è possibile ricostruire l’evoluzione delle abitazioni del sito che mostrano una complessità abbastanza sorprendente specialmente per ciò che riguarda le diverse dimensioni delle case che si susseguono nel tempo. Particolarmente importante e rivelatore è stata l’analisi delle strutture, specialmente delle diverse fornaci metallurgiche (fig. 20.3) e dei materiali riconosciuti: ceramica, vetro e metallo. Questo ha infatti permesso di riconoscere diverse attività artigianali legate a questo sito.

Uno studio dei materiali di metallo ha permesso d’individuare dei lingotti di ferro a barra10 che probabilmente erano quelli che si producevano in maggiore quantità all’interno dei laboratori metallurgici e che poi erano ridistribuiti a livello regionale. Il ritrovamento di alcuni lingotti (fig. 20.4, b) nel sito archeologico di La Cabilda (Hoyo de Manzanares, Madrid) e il riconoscimento di almeno una fornace metallurgica (fig. 20.5)11 per la lavorazione del ferro, sembrano suggerire questa soluzione. Le numerose scorie di metallo ferroso incontrate in ambedue i siti non lasciano dubbi sul lavoro metallurgico che si svolgeva in entrambi i casi, anche se nel caso della Dehesa de Navalvillar le diverse fasi di estrazione e lavorazione permettono di carpire una complessità diversa dal punto di vista socioeconomico.12

Grazie al ritrovamento di un crogiolo (fig. 20.4, a) e di una modesta quantità di frammenti di vetro, si è potuto confermare l’esistenza di un laboratorio vetrario. Il crogiolo ritrovato possiede ancora incrostata la cappa di vetro che ancora non era stata rimossa e presenta uno spessore di 0,5 cm ca. La grande quantità di vetro frammentario è principalmente di color giallognolo, colore che si riscontra a partire del secolo VIII anche in altre zone del centro peninsulare, come nella città di Recópolis.7 É un tipo di colore che si ottiene a causa dell’impurità della sabbia utilizzata, al cui interno è presente una grande quantità di ferro, manganese e titanio.8 Non è stato ancora possibile

La ceramica è senza dubbio il materiale più abbondante che si ritrova nel sito archeologico della Dehesa de Navalvillar. La maggior parte del corpo ceramico è fabbricato in situ, anche se si sono riscontrate ceramiche d’importazione tanto D. Stiaffini, Il vetro nel Medioevo. Tecniche Strutture Manufatti, Roma 1999, p. 34. 10  F. Carrera, Gli scavi degli Ex Laboratori Gentili a Pisa e i manufatti in lega di rame, secoli XII–XIV. Organizzazione delle aree di lavorazione, tecniche produttive e commerci, Tesi di Laurea Scuola di dottorato in Discipline Umanistiche, Università di Pisa 2015, p. 154. 11  Berrica, «¿Quien vivió aqui?...», art. cit. alla nota 6. 12  F. Colmenarejo García, R. Gómez Osuna, J. Jiménez Guijarro, A. Pozuelo Ruano, C. Rovira Duque, «De hierro, cobre y plata. La actividad minero-metalúrgica en la Dehesa de Navalvillar (Colmenar Viejo, Madrid). Desde la antigüedad hasta la modernidad», in Presentes y futuros de los paisajes mineros del pasado, Granada 2017, pp. 165–172. 9 

S. Berrica, «¿Quien vivió aquí? Análisis social de edificio altomedieval (Hoyo de Manzanares, Madrid)», in ArkeoGazte Revista de Arqueología, 9 (2019), Vitoria-Gasteiz 2020, pp. 241–269. 7  A. Gómez de la Torre-Verdejo, «La producción de vidrio en época visigoda: el taller de Recópolis», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a el 711 Arqueología e Historia entre dos mundos, n. 15, vol. 2, Alcalá de Henares 2012, pp. 257–280. 8  A. Gómez de la Torre-Verdejo, El vidrio en la submeseta sur en época visigoda, siglos VI–VII. Tipología, producción y uso en ámbitos urbanos y rural, Tesis doctoral de la Universidad de Alcalá, Alcalá de Henares, 2017, pp. 473–481. 6 

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Silvia Berrica

Figura 20.3. Fornaci della Dehesa de Navalvillar: metà del secolo VIII (a), fine del secolo VIII (b) (elab. dell’autrice).

Figura 20.4. Crogiolo di vetro (a), lingotti a barre (b), spatheion (c), scodella invetriata (d), dirham d’argento (e), (elab. dell’autrice).

Figura 20.5. Fornace della metà del secolo VIII del sito archeologico de La Cabilda (elab. dell’autrice).

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Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo

Figura 20.6. Ceramiche e risultati della datazione con termoluminescenza (elaborazione dell’autrice).

regionale13, quanto pezzi che suggeriscono importazioni più pregiate: per esempio una spatheion (fig. 20.4, c) e delle scodelle entrambi provenienti dal Nordafrica. Sicuramente tra quest’ultime la più interessante è una scodella di pasta fina depurata di color rosato ed invetriata nel bordo esteriore (fig. 20.4, d), proveniente da una unità stratigrafica (US 932002) della prima metà del IX secolo. Analisi future su questi tipi di ceramiche chiariranno punti importanti per capire gli orizzonti commerciali che si sviluppavano tra il secolo VII e IX in al-Andalus.

A questo proposito è interessante anche il ritrovamento di un dirham Omayyade d’argento coniato a Kirmen, nell’anno 97 dell’Egira (715–716 d.C.)15 (fig. 20.2, e). La moneta è stata chiaramente portata dagli arabi durante la prima fase della conquista, ma il dato più rilevante è che questa moneta è stata ritrovata tagliata all’interno del sito e venne restaurata nel 1989 quando venne depositata nel Museo Arqueológico Nacional de Madrid. Questo particolare è utile, perché significherebbe che la moneta venne tagliata in situ. La prassi di tagliare i dirham d’argento si instaura al tempo di Abdurrahman I e con la formazione dell’emirato indipendente16 (756–788 d.C.). Questa pratica viene sempre più utilizzata durante l’emirato di al-Hakam I (796–822 d.C.) ed era una risposta alla mancanza di feluses di bronzo che potessero essere utilizzati nelle transazioni quotidiane.17

La cosa certamente più interessante è il fatto che ci troviamo davanti a un corredo ceramico che poco possiede del bagaglio culturale visigoto e dove tanto le forme come le decorazioni sono più pertinenti al secolo VIII. Olle globulari dal bordo bifido, con escotadura en hombro e pentole dal fondo piatto sono numerose tra le ceramiche da cucina. Tra le ceramiche da mensa appaiono brocche dal bordo trilobato insieme a tazze e scodelle globulari.

Conclusioni Durante il periodo altomedievale nel centro peninsulare appare una società abbastanza complessa che ci permette di capire le dinamiche del territorio. Durante i secoli tra il VII e il IX le città principali della regione erano Toledo, Recópolis (Zorita de los Canes) e Complutum (Alcalá de Henares) quest’ultima anche se era di fondazione romana rimase un centro che mantenne lo status di città grazie all’instaurazione di una sede vescovile, come anche successe in altre città della Meseta Centrale.18 Oltre a questi centri urbani di maggior prestigio troviamo una serie di fortezze costruite in altura che aiutavano nell’amministrazione del territorio e che molte volte erano sede di signori locali che si occupavano della fiscalità del territorio.19 Parte di tale processo sembra riflettersi nel ritrovamento delle famose pizarras: lastre di pietra con annotazioni alfanumeriche, che indicherebbero il

Sono state rinvenute anche ceramiche tipiche di tradizione islamica come il fornetto Tannūr, il tabaq e il frammento di una probabile lucerna a becco a canale. Per quello che concerne le decorazioni le onde incise sono le più utilizzate, ma sulle ceramiche da cucina e da dispensa si sono ritrovate decorazioni pitturate con le dita di color nero, rosso o bianco. Quest’ultima è una decorazione già propria del periodo andalusí e che comincia a fare la sua apparizione verso la fine del secolo VIII. Alcune analisi di termoluminescenza14 effettuate sulle tegole degli edifici o su una ceramica dell’US 4004 hanno fornito una cronologia che sembrerebbe confermare che il villaggio sia stato costruito giusto sul finire del secolo VII, anche se tutto sembra indicare più un inizio nel secolo VIII, dal momento che nell’unità stratigrafica in questione è stato ritrovato anche il frammento di una olla con escotadura en hombro pitturata in nero, come quelle precedentemente descritte (fig. 20.6).

Abad Castro, «El poblado de Navalvillar...», art. cit. alla nota 2. L. Ruiz Quintanar, «La fragmentación de moneda en época Omeya» in Actas del Décimo Congreso de Numismática, Albacete 1998, pp. 533–542. 17  M. Castro Priego, «Una nueva aproximación a las emisiones del Emirato Independiente (138–316 H./755(6)–928 d.C.), y su alcance social», in Arqueología y Territorio Medieval 7, Universidad de Jaén 2000, pp. 171–184: https://doi.org/10.17561/aytm.v7i0.1666. 18  L. Olmo Enciso, M. Castro Priego, J. Checa Herráiz, A. Gómez de la Torre-Verdejo, «Espacios de poder en Recópolis en la época Visogoda y Primitiva Andalusí (siglos VI–IX d.C.)», in La Meseta Sur entre la Tardía Antigüedad y la Alta Edad Media, Toledo 2017, pp. 75–106. 19  L. Olmo Enciso, M. Castro Priego, P. Diarte Blasco, «Transformación social y agrosistema en el interior peninsular durante la Alta Edad Media (s. VI–VIII d.C.): nuevas evidencias desde Recópolis (Zorita de los Canes)», in Lucentum, XXXVIII, Universidad de Alicante 2019, pp. 355–377: http://dx.doi.org/10.14198/LVCENTVM2019.38.17. 15  16 

13  S. Berrica, «Construcción del Paisaje Andalusí en la zona occidental de los Banū Sālim», in Arqueología Medieval en Guadalajara: Agua, Paisaje y Cultura Material, Granada 2018, pp. 113–138. 14  «Datación de materiales cerámicos, mediante la técnica de Termoluminiscencia, pertenecientes al yacimiento denominado ‘Navalahija’», Colmenar Viejo, Madrid», Memoria de Excavación Arqueológica en el Yacimiento de Navalahija Colmenar Viejo, 2008, N.º 0276_08, Equipo A de Arqueología, Sección Anexos.

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Silvia Berrica loro utilizzo a modo di registro.20 Cancho del Confessionario (Manzanares del Real), che si trova a circa a circa 9 km in linea d’area dalla Dehesa di Navalvillar, è una di queste fortezze che possiedono mura e che molte volte sono attestate con la denominazione di castra o castella. Oltre a questo, nelle zone rurali abbiamo una serie di villaggi di diverse dimensioni (las aldeas) e di fattorie che apportano anche in questo caso diverse dimensioni e tipi di costruzioni abitative che possono variare dalla pietra ai in materiali deperibili (cabañas de fondo rehundido) come legno e paglia. Tutto questo era parte di una organizzazione statale che veniva gestita dalle élite e che prevedeva una gerarchizzazione sociale nella regione, soprattutto per quel che riguarda il controllo fiscale e lo scambio di merci e oggetti considerati di lusso.21

abitudini sociali (come ad esempio le sepolture infantile nelle case), mostrano un processo di trasformazione graduale nella società proprio lungo il secolo ottavo e che si consolida nella prima metà del secolo nono.25 L’indagine è ancora in corso di svolgimento, ma inizia già a fornire nuovi spunti su cui riflettere e studiare per poter conseguire una migliore comprensione dei dettagli della trasformazione del territorio durante l’instaurazione dello stato andalusí. Bibliografia Abad Castro, C., «El poblado de Navalvillar (Colmenar Viejo)», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a La Investigación arqueológica de la época visigoda en la Comunidad de Madrid, N.º 8, Vol. 2, Alcalá de Henares 2006, pp. 389–402.

Bisogna inquadrare tanto la Dehesa de Navalvillar come La Cabilda in due villaggi di dimensioni e importanza differenti, che però hanno una relazione economica tra loro molto importante.22

Azkarate Garai-Olaun, A., Solaun Bustinza, J.L., «De ferro de Álava. Metalurgia altomedieval en la llanada alavesa (siglos VII–XI)», Kobie, Serie Anejo, 13 (2014), pp. 161–180.

La Dehesa de Navalvillar è un centro di estrazione mineraria, che possiede diverse attività artigianali di cui certamente la più importante è quella metallurgica. La costruzione di un villaggio di grandi dimensioni come questo e la scelta di dedicarsi all’estrazione del ferro e alle varie attività artigianali non può essere certo stato frutto di una casualità, il tutto è parte di una pianificazione ben organizzata da signori locali23 per lo sfruttamento del territorio e la distribuzione regionale di un bene di consumo che probabilmente era una risorsa economica molto proficua. Tanto l’estrazione, quanto il processo artigianale metallurgico e la distribuzione dei lingotti necessita di manodopera specializzata che si occupi delle varie fasi del processo.24 Se a tutto questo sommiamo artigiani del vetro, della ceramica, mercanti locali, mercanti che portavano i loro prodotti dalla zona sud della Meseta, l’arrivo di prodotti dalle città come la spatheion o la scodella invetriata, ecc., sicuramente capiamo che ci troviamo difronte un’immagine di un centro rurale particolarmente dinamico dove troviamo diverse realtà economiche e sociali, che possono aiutare a comprendere le sfumature della società altomedievale.

Berrica, S., «¿Quien vivió aquí? Análisis social de edificio altomedieval (Hoyo de Manzanares, Madrid)», in ArkeoGazte Revista de Arqueología, 9 (2019), VitoriaGasteiz 2020, pp. 241–269. Berrica, S., «Construcción del Paisaje Andalusí en la zona occidental de los Banū Sālim», in Arqueología Medieval en Guadalajara: Agua, Paisaje y Cultura Material, Granada 2018, pp. 113–138. Carrera, F., Gli scavi degli Ex Laboratori Gentili a Pisa e i manufatti in lega di rame, secoli XII–XIV. Organizzazione delle aree di lavorazione, tecniche produttive e commerci, Tesi di Laurea Scuola di dottorato in Discipline Umanistiche, Università di Pisa 2015. Castro Priego, M., «Una nueva aproximación a las emisiones del Emirato Independiente (138–316 H./755(6)–928 d.C.), y su alcance social», in Arqueología y Territorio Medieval 7, Universidad de Jaén 2000, pp. 171–184: https://doi.org/10.17561/aytm.v7i0.1666.

Quello che lascia più stupefatti è sicuramente il periodo in cui venne pianificato tutto questo, alla fine del settimo secolo o al principio dell’ottavo. Materialità, modificazioni architettoniche in entrambi i siti archeologici citati e nuove

Colmenarejo García, F., Gómez Osuna, R., Jiménez Guijarro, J., Pozuelo Ruano, A., Rovira Duque, C., «En busca de la magnetita perdida. Metalurgia del hierro y organización aldeana de la Antigüedad Tardía en Navalvillar y Navalahija (Colmenar Viejo, Madrid)», in Actas de las decimas jornadas de Patrimonio Arqueológico en la Comunidad de Madrid, Madrid 2014, pp. 215–228.

20  V. Iñaki Martín, «Huellas de poder: Pizarras y poblados campesinos en el centro de la Península Ibérica (siglos V–VII)», in Medievalismo, 25 (2015), pp. 285–314. 21  L. Olmo Enciso, «The Materiality of Complex Landscape: Central Iberia during 6ᵗʰ–8ᵗʰ centuries A.D.», in New Direction in Early Medieval European Archaeology: Spain and Italy compared. Essay for Riccardo Francovich, Turnhout 2015, pp. 15–42. 22  Berrica, «¿Quien vivió aqui?...», art. cit. alla nota 6. 23  R. Francovich, R. Farinelli, «Paesaggi minerari della toscana medievale: Castelli e metalli», in Archéologie des espaces agraires Méditerranéens au moyen âge: Actes du colloque de Murcie (Espagne) 12 mai 1992, Roma 1999, pp. 467–488; Olmo Enciso, «The materiality...», art. cit. alla nota 21. 24  A. Azkarate Garai-Olaun, J.L. Solaun Bustinza, «De ferro de Álava. Metalurgia altomedieval en la llanada alavesa (siglos VII–XI)», Kobie, Serie Anejo, 13 (2014), pp. 161–180.

Colmenarejo García, F., Gómez Osuna, R., Jiménez Guijarro, J., Pozuelo Ruano, A., Rovira Duque, C., «De hierro, cobre y plata. La actividad minero-metalúrgica en la Dehesa de Navalvillar (Colmenar Viejo, Madrid). 25  L. Olmo Enciso, «De Celtiberia a Šantabariyya: la gestación del espacio y el proceso de formación de la sociedad andalusí (ss. VIII–IX)», », in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a el 711 Arqueología e Historia entre dos mundos,n. 15, vol. 2, Alcalá de Henares 2012, pp. 39–64.

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Paesaggio minerario nella zona nord di Madrid (Spagna) tra VII e VIII secolo Desde la antigüedad hasta la modernidad», in Presentes y futuros de los paisajes mineros del pasado, Granada 2017, pp. 165–172. Colmenarejo García, F., Rovira Duque, C., «Los yacimientos arqueológicos de Colmenar Viejo durante la Antigüedad Tardía», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a La Investigación arqueológica de la época visigoda en la Comunidad de Madrid, N.º 8, Vol. 2, Alcalá de Henares 2006, pp. 377–388. Francovich, R., Farinelli, R., «Paesaggi minerari della toscana medievale: Castelli e metalli», in Archéologie des espaces agraires Méditerranéens au moyen âge: Actes du colloque de Murcie (Espagne) 12 mai 1992, Roma 1999, pp. 467–488. Gómez de la Torre-Verdejo, A., «La producción de vidrio en época visigoda: el taller de Recópolis», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a el 711 Arqueología e Historia entre dos mundos, n. 15, vol. 2, Alcalá de Henares 2012, pp. 257–280. Gómez de la Torre-Verdejo, A., El vidrio en la submeseta sur en época visigoda, siglos VI-VII. Tipología, producción y uso en ámbitos urbanos y rural, Tesis doctoral de la Universidad de Alcalá, Alcalá de Henares, 2017. Iñaki Martín, V., «Huellas de poder: Pizarras y poblados campesinos en el centro de la Península Ibérica (siglos V–VII)», in Medievalismo, 25 (2015), pp. 285–314. Olmo Enciso, L., «De Celtiberia a Šantabariyya: la gestación del espacio y el proceso de formación de la sociedad andalusí (ss. VIII–IX)», in Zona Arqueológica ejemplar dedicado a el 711 Arqueología e Historia entre dos mundos,n. 15, vol. 2, Alcalá de Henares 2012, pp. 39–64. Olmo Enciso, L., «The Materiality of Complex Landscape: Central Iberia during 6ᵗʰ–8ᵗʰ centuries A.D.», in New Direction in Early Medieval European Archaeology: Spain and Italy compared. Essay for Riccardo Francovich, Turnhout 2015, pp. 15–42. Olmo Enciso, L., Castro Priego, M., Checa Herráiz, J., Gómez de la Torre-Verdejo, A., «Espacios de poder en Recópolis en la época Visogoda y Primitiva Andalusí (siglos VI–IX d.C.)», in La Meseta Sur entre la Tardía Antigüedad y la Alta Edad Media, Toledo 2017, pp. 75–106. Olmo Enciso, L., Castro Priego, M., Diarte Blasco, P., «Transformación social y agrosistema en el interior peninsular durante la Alta Edad Media (s. VI–VIII d.C.): nuevas evidencias desde Recópolis (Zorita de los Canes)», in Lucentum, XXXVIII, Universidad de Alicante 2019, pp. 355–377: http://dx.doi.org/10.14198/ LVCENTVM2019.38.17. Ruiz Quintanar, L., «La fragmentación de moneda en época Omeya» in Actas del Décimo Congreso de Numismática, Albacete 1998, pp. 533–542. Stiaffini, D., Il vetro nel Medioevo. Tecniche Strutture Manufatti, Roma 1999. 203

21 Conoscere un territorio attraverso il costruito storico: il censimento dell’edilizia medievale nelle valli bergamasche Federica Matteoni Università Cattolica di Milano Abstract: Getting to know a territory through its historical architectures. Registering medieval buildings in the Bergamo valleys. This paper provides an overview of a research project, ongoing since 2009, meant to create a comprehensive map of medieval architectures still existing in the northern province of Bergamo. Spanning from early Middle Ages to the15th century, the project is beneficial to a deeper knowledge of surviving constructions, in view of their enhancement within urban planning activities. This project has been carried out in a ‘Public Archaeology’ perspective, with an active cooperation among the Università Cattolica in Milan, the Fondazione Lemine of Almenno San Bartolomeo, and local public bodies. The final aim of this project is a detailed historical reconstruction of the medieval settlements, starting from the present state of preservation of surviving structures and their mapping. So far, some areas in the eastern part of the province were systematically investigated (Val Cavallina and the western shore of Sebino), and the analysis of the Seriana, Imagna and Brembana valleys are in progress. Conoscere un territorio attraverso il costruito storico: il censimento dell’edilizia medievale nelle valli bergamasche. Il presente contributo intende illustrare il progetto di ricerca — in corso dal 2009 — volto alla mappatura delle evidenze architettoniche di epoca medievale conservate nella provincia a nord della città di Bergamo, comprese tra l’epoca altomedievale e il XV secolo. Tale ricerca, svolta nell’ottica dell’‘Archeologia partecipata’ in collaborazione tra Università Cattolica di Milano, la Fondazione Lemine di Almenno San Bartolomeo e gli enti pubblici locali, prevede lo svolgimento di sopralluoghi mirati sul campo per raccogliere i dati, registrati poi in schedature tecniche. Il lavoro intende operare un’attenta ricostruzione storica dello sviluppo degli insediamenti di epoca medievale, partendo dallo stato attuale delle architetture sopravvissute e mappandole nel territorio; finora sono state condotte in maniera sistematica le indagini in alcune aree della provincia orientale di Bergamo (Val Cavallina e fronte occidentale del Sebino), e sono in corso di analisi i contesti della Valle Seriana, Valle Imagna e Brembana. Introduzione

Durante questi anni di ricerca è stato redatto un protocollo di intervento uniforme, in modo tale da raccogliere e condividere i dati tecnici: questa modalità consente, in fase di ricerca scientifica, di correlare tra loro i risultati, permettendo di effettuare ragionamenti trasversali e su scala extra-comunale. Il gruppo di lavoro è formato da archeologi e tecnici di rilievo che si occupano di raccogliere i dati storici, cartografici e tecnici del costruito religioso, fortificato, civile e rurale inquadrabile tra X e XV secolo nei comuni che aderiscono al progetto.

Dal 2009 ad oggi è in corso un lavoro interdisciplinare volto a censire le architetture storiche della provincia a nord di Bergamo. Il progetto, svolto in collaborazione tra l’Università Cattolica di Milano e la Fondazione Lemine di Almenno San Bartolomeo, prevede la mappatura del costruito di epoca medievale con la finalità di predisporre documentazione utile per la valorizzazione e la programmazione urbanistica nei comuni presi in esame. La ricerca viene condotta nello spirito della cosiddetta ‘archeologia partecipata’ attiva tra università, enti pubblici ed istituzione locali, con una sinergia che porta ad una conoscenza globale del territorio, con la compartecipazione delle risorse locali.1

L’approccio diacronico di conoscenza delle architetture nasce proprio dalla natura stessa di formazione del paesaggio urbanizzato, ovvero la stratificazione del contesto: la genesi di sovrapposizione ha portato a modifiche o cancellazioni di architetture storiche che, solo attraverso specifiche competenze, possono essere riconosciute nel panorama urbanistico attuale.

Tale progetto di ricerca è coordinato dal Prof. Marco Sannazaro (cattedra di Archeologia Medievale – Università Cattolica di Milano) e dalla scrivente, mediante assegno di ricerca. Negli anni è stato definito un gruppo di lavoro con collaboratori (Dott. Riccardo Valente, Politecnico di Milano) e stagisti (Dott. Giovanna Pedrali, Valentina Maj, Chiara Pupella). La ricerca è co-finanziata anche da BIM BG (Consorzio del Bacino Imbrifero Montano del lago di Como e fiumi Brembo e Serio).

1 

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Federica Matteoni Il metodo impiegato parte dagli strumenti comunemente impiegati nell’ambito della archeologia dell’architettura2; il lavoro si articola in diversi steps: una fase preliminare di spogliazione dell’edito, di raccolta e analisi della cartografia storica per individuare le zone occupate già in antico; lo svolgimento dei sopralluoghi mirati sul campo, con una relazione diretta con la comunità che ancora abita, frequenta e conosce il territorio, dalla quale si ricavano informazioni (fonti orali) come retaggio della memoria storica dei luoghi. Durante le uscite sul territorio viene prodotta la documentazione fotografica, destinata alla rielaborazione per la produzione di fotogrammetria (fig. 21.1) e di dati tecnici (rilievi e rapporti stratigrafici che confluiscono in schede tecniche degli edifici) che vengono poi registrati in un database, con un’elaborazione in piattaforma GIS. La gestione dei dati in GIS consente di creare delle interrogazioni per quadri sinottici, scomponibili secondo determinate tematiche (quali tecniche costruttive delle USM e caratteristiche degli EA) e fasi storiche (programmando interrogazioni per contesti cronologici ristretti), costituendo un utile strumento per la visualizzazione dei dati, anche nella prospettiva di una pianificazione urbanistica territoriale.

partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Nell’ultimo decennio si è risvegliato l’interesse per i contesti collinari e montuosi a nord della città di Bergamo, indagati attraverso lo studio dell’edilizia storica4: le fonti archeologiche per ora note per quest’area erano legate a rinvenimenti casuali o rari interventi d’emergenza in occasione di opere pubbliche.5 Le architetture religiose e fortificate, studiate con metodi propri della storia dell’arte6, sono state rilette con sguardo archeologico, mentre è quasi del tutto inedito il costruito civile e rurale, ad eccezione di alcuni studi specifici.7 Finora sono stati censiti in maniera esaustiva il territorio della Valle Cavallina, il fronte occidentale del Sebino e sono in corso di ricerca, sebbene in maniera parziale, la Valle Brembana, la Valle Imagna, l’alta Valle Seriana e l’area del Lemine (a Nord di Bergamo): complessivamente sono stati mappati 36 comuni, i cui dati sono in corso di accorpamento con quelli dei contesti già studiati all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso (fig. 21.2).8 Dal punto di vista costruttivo è complesso delineare delle tendenze generali, proprio perché l’area territoriale indagata finora si presenta molto diversificata, sia dal punto di vista territoriale e geografico (il contesto naturale condiziona la disposizione e l’impianto urbanistico degli insediamenti), sia sotto il profilo storico: sebbene, infatti, si tratti prevalentemente di contesti vallivi, ognuno è caratterizzato da una serie di vicende che hanno influito anche sulle modalità e tipologie costruttive antiche. La presenza delle acque fu certamente uno dei fattori determinanti per la scelta di ubicazione di un abitato e

Tale sistematizzazione dei dati ha aperto nuove prospettive di ricerca, volte a delineare una visione ad ampio raggio delle modalità costruttive nello spazio e nel tempo, restituendo un quadro che progressivamente si definisce come articolato per questa zona pedemontana e collinare della provincia di Bergamo, per la quale le conoscenze sono ancora frammentarie, sebbene negli ultimi anni siano stati prodotti alcuni studi di sintesi.3 Tale lettura interdisciplinare fornisce un importante tassello per la conoscenza di questo territorio: la localizzazione del costruito storico e la sua periodizzazione attraverso l’analisi delle tecniche e delle modalità costruttive ha consentito di ricostruire la progressiva occupazione di quest’area ai piedi delle Orobie, chiarendo anche alcuni aspetti sulle dinamiche di collegamento degli antichi tracciati viari.

Vedi nota precedente. Carta Archeologica della Lombardia, II. La Provincia di Bergamo (a cura di R. Poggiani Keller), Modena 1992; M. Fortunati, «Archeologia del territorio in età romana», in Storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo – Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Istituti di studi e ricerche, II, (a cura di M. Fortunati, R. Poggiani Keller), Cenate Sotto (BG) 2007, pp. 559–645; «Dal Serio al Cherio: ricerche archeologiche lungo il canale di irrigazione del Consorzio di bonifica della Media Pianura Bergamasca: 2005–2009» (a cura di M. Fortunati, R. Poggiani Keller), in Archeologia preventiva e valorizzazione del territorio, 6, Ancora 2016; S. Casini, M. Fortunati, Bergomum: un colle che divenne città. Catalogo della mostra (a cura di R. Poggiani Keller), Bergamo 2019. 6  Si fa riferimento ad alcuni lavori di sintesi: per le architetture religiose Itinerario dell’Anno Mille. Chiese romaniche nel Bergamasco (a cura di P. Capellini, G.M. Labaa), Bergamo s.d.; M. Lorenzi, A. Pellegrini, Sulle tracce del Romanico in Provincia di Bergamo, tra storia, architettura, paesaggio, Bergamo 2003; per le architetture fortificate: F. Conti, V. Hybsch, A. Vincenti, I castelli della Lombardia. Province di Bergamo e Brescia, IV, Novara 1993; Castra bergomensia. Castelli e architetture fortificate di Bergamo e provincia (a cura di G. Colmuto Zanella), Bergamo 2004; Castelli nella bergamasca. Popolamento, difesa, organizzazione del territorio (a cura di O. Franzoni), in Castelli e dimore signorili nelle Alpi lombarde, Breno 2007. 7  Le pubblicazioni anche di carattere scientifico spesso rientravano in volumi di più ampio argomento riguardando le storie dei singoli comuni: questo da una parte ha condizionato la diffusione dei dati, inevitabilmente a livello locale, oltre a rendere più complesso lo spoglio bibliografico dell’edito. 8  La Valle Cavallina e il Sebino bergamasco sono stati oggetto del dottorato di ricerca in Studi Umanistici presso l’Università Cattolica di Milano (2013–2015) intrapreso dalla scrivente; le altre valli menzionate sono inserite nel progetto di ricerca ‘Archeologia dell’edilizia storica in provincia di Bergamo. Ricerche per la valorizzazione e la programmazione urbanistica’ in corso dal 2017 ad oggi. 4  5 

Contesto geografico Il territorio bergamasco è un contesto privilegiato per lo studio dell’edilizia storica, grazie al buono stato di conservazione del sopravvissuto architettonico di epoca medievale, in diversi casi fortunatamente preservato dalla riqualificazione urbanistica che ha interessato la regione a 2  Si rimanda di seguito ad alcuni manuali di riferimento: A. Boato, L’archeologia in architettura. Misurazioni, stratigrafie, datazioni, restauro, Venezia 2008; Archeologia dell’architettura. Metodi e interpretazioni (a cura di G.P. Brogiolo, A. Cagnana), Firenze 2012; A. Cagnana, Archeologia dei materiali da costruzione, Mantova 2000; F. Doglioni, Stratigrafia e restauro. Tra conoscenza e conservazione dell’architettura. Idee, strumenti ed esperienze per il restauro, Trieste 1997; T. Mannoni, Caratteri costruttivi dell’edilizia storica, Genova 1994. 3  Casa abitationis nostre. Archeologia dell’edilizia medievale nelle province di Bergamo e Brescia, (a cura di M. Sannazaro, D. Gallina), NAB, 17 (2009), Ponteranica (BG), 2011; F. Matteoni, Medioevo costruito. Edilizia in Valle Cavallina e Sebino bergamasco tra XII e XV secolo, Almenno San Bartolomeo (BG) 2018.

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Conoscere un territorio attraverso il costruito storico

Figura 21.1. Lettura stratigrafica del Castello di Zandobbio (Matteoni 2018, pp. 362–363).

Figura 21.2. Paesi indagati nel progetto ‘Archeologia dell’Edilizia Storica in Provincia di Bergamo. Ricerche per la valorizzazione e la programmazione urbanistica’ (elab. dell’autrice).

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Federica Matteoni Evoluzione cronologica del costruito

la naturale occupazione degli spazi limitrofi: nell’area in esame sono presenti sia fiumi/torrenti (il Cherio in Valle Cavallina, il Serio, il Brembo e il torrente Imagna che diedero il nome alle rispettive vallate), ma anche i bacini lacustri (Sebino e Endine entrambi all’estremità orientale della provincia). Il Sebino, in particolare, presenta la sponda occidentale morfologicamente molto variegata, connotata a nord dalla sella di Solto – di raccordo e collegamento alla Valle Cavallina – e al centro dalle valli sospese di Fonteno, Parzanica e Vigolo, ambiti morfologici ‘netti’ circondati da creste montuose.9 Il fronte lago è piuttosto aspro e, in epoca medievale, i nuovi stanziamenti predilessero i lembi di pianura costiera (Riva di Solto sorta entro un’insenatura naturale) oppure i conoidi dei torrenti (come Predore e Tavernola).

Nella provincia di Bergamo il paesaggio costruito si va definendo a partire dal X secolo11: sebbene siano praticamente assenti tracce strutturali di edilizia fortificata e civile risalente a quel periodo, attraverso le fonti documentarie è possibile ricostruire il definirsi di insediamenti con elementi difensivi; tale costruito sarà di fatto, assieme a quello di tipo religioso, catalizzatore per la definizione dei nuclei abitativi che caratterizzeranno il paesaggio edilizio dal XII secolo in poi, con la definizione di piccoli comuni rurali. Come già proposto da Settia, Jarnut e Mario Lupo, sulla scorta delle fonti documentarie12, il bisogno di sicurezza nel territorio bergamasco determinò la costruzione di strutture fortificate fin dal IX secolo: non ci sono diplomi regi in riferimento a fortificazioni nell’area bergamasca, tranne per le concessioni fatte al vescovo in città, e nessuna costruzione extraurbana è nota prima del primo decennio del X secolo. La prima attestazione scritta di un castrum nella bergamasca è registrata a Calepio (911) e di poco successivo quello del Lemine (926), per poi passare nel corso del secolo al proliferare di castelli, raggiungendo la quota di 30 complessi13: tutti furono costruiti presso strutture curtensi appartenenti al patrimonio regio, oppure presso un abitato già esistente.14 Tali strutture fortificate non erano frutto di una strategia imperiale predeterminata: è infatti noto che diversi edifici ricevettero la concessione da Berengario I solo dopo l’effettiva erezione, confermando che la fortificazione nasceva con effettiva necessità di difesa locale; questo consentiva la definizione di piccoli centri di potere gestiti da signorie territoriali che assicuravano da una parte una capillare protezione del territorio, e dall’altra frammentavano la gestione del potere centrale.15

In Valle Cavallina i contesti più comunemente sfruttati per l’impianto dei nuovi villaggi erano i terrazzi morfologici, scelti per l’esposizione favorevole e la disponibilità di terreni da coltivare e destinati a prato: nel tratto mediano di questa valle ne fu occupato uno sopraelevato e piuttosto pianeggiante (da Trescore a Grone) ove gli insediamenti erano al riparo dalle possibili esondazioni del fiume Cherio.I conoidi di deiezione del fiume e del lago d’Endine furono altre aree di occupazione: qui sorsero Spinone e Monasterolo in seguito ad azioni di bonifica delle zone umide e paludose. Le ricorrenti piene del fiume Cherio condizionarono anche l’occupazione del fondo valle, dove si stanziarono agglomerati con attività commerciali per le quali era necessario l’utilizzo dell’acqua (Borgo di Terzo per quanto riguarda la presenza di magli e Molini di Colognola con i mulini).10 Differente è il territorio a nord del capoluogo di provincia, i cui insediamenti più antichi (Almenno San Bartolomeo e Almenno San Salvatore) furono fondati lungo le sponde del fiume Brembo, estendendosi in epoca medievale anche sulle zone pedecollinari: qui sorsero edifici fortificati a controllo del territorio, proprio nelle zone di versante rivolte alle colline e verso l’apertura della Valle Imagna e della Valle Seriana. Gli insedianti si impostarono su alture poco rilevate: Sorisole e Ponteranica, ad esempio, si sviluppano sopra pendii ben esposti, a differenza degli altri nuclei limitrofi che si dispongono in sequenza seguendo l’asse degli speroni naturali. Anche in questo contesto, complessivamente povero di acque limitato all’unica presenza del Brembo, la maglia della viabilità rileva uno strettissimo legame con i borghi costruiti, che sono generalmente ubicati proprio presso le percorrenze antiche, che si originavano o attraversavano la città.

La tipologia costruttiva dei primi fortificati era piuttosto semplice: non tutti avevano le mura perché difesi dal fossato, o da una palizzata o da un recinto con terra di riporto (tonimen) da merli in legno o da una siepe in legno.16 Il fossato aveva funzione difensiva e delimitava 11  Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 740–1000, Bergamo 1988; L. Pagani, Territorio, dinamica dei confini, difese (a cura di M. Cortesi), in Colmuto Zanella 2004, pp. 17–52; A.A. Settia, Potere e sicurezza nella bergamasca del X secolo, in Bergamo e il suo territorio nei documenti altomedievali (a cura di M. Cortesi), Atti del Convegno (Bergamo 7–8 aprile 1989), Bergamo 1991, pp. 45–62. 12  A.A. Settia, Proteggere e dominare: fortificazioni e popolamento nell’Italia medievale, Roma 1999, pp. 54–58; J. Jarnut, Bergamo 568– 1098. Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nell’altomedioevo, Bergamo 1981, pp. 75–81; M. Lupo, Codex diplomaticus civitatis et ecclesiae Bergomatis, Bergamo 1784–1799. 13  Settia (Settia 1999, p. 59) riprende Jarnut (Jarnut, Bergamo 568– 1098..., op. cit. alla nota 12, p. 111) in cui si ricordato 27 castelli; con Mazzi (A. Mazzi, Corografia bergomense nei secoli VIII, IX, X, Bergamo 1880, pp. 131–132) si attestavano 26 castelli nella provincia di Bergamo; in Belotti (B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Milano 1989, pp. 245–246) si contano 23 castelli. 14  Jarnut, Bergamo 568–1098…, op. cit. alla nota 12, pp. 118–119; G. Andenna, Lombardia feudale, Torino 1998, p. 55. 15  Settia 1999, pp. 168–176. 16  Settia 1999, pp. 189–206; Andenna 1998, p. 49; si ricordano i castelli di Calepio e Treviolo che erano vici-castra murati (A. Vincenti, «Tecniche fortificatorie e tipologie di architetture», in Colmuto Zanella 2004, pp. 56–57).

9  Le valli sospese sono caratterizzate dall’attraversamento di torrenti che non giungono al lago direttamente, ma attraverso gole o salti di una cascata, come ben visibile lungo la costa lacustre (L. Pagani, «Il lago d’Iseo tra passato e presente», in Atlante del Sebino e della Franciacorta. Uomini, vicende e paesi, Brescia 1983, pp. 125–168). 10  F. Plebani, «Geologia e geomorfologia», in Cavellas. La Valle Cavallina. Una comunità si racconta: i segni del tempo, il lavoro dell’uomo, il territorio (a cura di F. Armanni, M. Suardi), Casazza 1999, pp. 19–34.

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Conoscere un territorio attraverso il costruito storico

Figura 21.3. La torre di Riva di Solto con il recinto annesso (foto dell’autrice).

campi o confini comunali, mentre le case all’interno della cerchia delimitante erano prevalentemente in legno e soltanto l’edificio religioso era in pietra. Dal X secolo si diffonde anche il castello ricetto dotato di mura, una o più torri a forma quadrata: questa tipologia era realizzata per difendere la popolazione, il bestiame e il raccolto, con la torre tramite cui si facevano avvistamenti. Si definiva la delimitazione di uno spazio dove si potevano allestire ricoveri temporanei, diventando progressivamente un polo aggregativo per il territorio annesso.17

la cinta muraria costringeva i contadini a posizionare le loro abitazioni fuori dall’area fortificata, lasciando all’interno la residenza signorile.18 Se per tutto il XII secolo e per i secoli successivi è testimoniata la presenza di castelli recinti, è tuttavia importante il sorgere di torri di committenza nobiliare, volte a manifestare la preminenza sociale delle famiglie locali presenti sul territorio.19 Nell’area presa in esame, vi sono alcuni casi di edifici fortificati dotati di cinte murarie che accolgono strutture: sul Sebino la cosiddetta torre nigra di Riva di Solto era dotata di recinto entro cui sorgeva la residenza dei signori del borgo (fig. 21.3)20, in Valle Cavallina il castello di Monasterolo al lago, sorto nel XIII secolo con funzione

Nel XII secolo continua il processo di estinzione dei centri minori accorpati nei castra e i castelli assumono nuove fisionomie strutturali: le cinte murate sostituiscono le opere difensive in legno, compare il dongione o maschio; all’interno di recinzioni in pietra si delinea il planum castrum (che nella parte bassa racchiude la chiesa, gli edifici sussidiari e di servizio) e il dongione con il palacium castri e la torre. Lo spazio ristretto dentro

18  F. Menant, Campagnes lombardes du Moyen âge. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Cremone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, Roma 1993, p. 56; Andenna 1998, p. 54; L. Pagani, «Territorio, dinamica dei confini, difese», in Colmuto Zanella 2004, pp. 29–30; Settia 1999, pp. 311–331; Menant 1999, pp. 94–97. 19  In merito si rimanda a G. Bianchi, «Archeologia della signoria di castello (X–XIII secolo)», in Archeologia medievale, numero speciale 2014, pp. 157–172. 20  F. Matteoni, «Lo sviluppo urbanistico di Riva di Solto attraverso lo studio dell’edilizia medievale», in Casa abitationis..., op. cit. alla nota 3, pp. 167–179; Matteoni 2018, pp. 216–216; B. Pasinelli, Riva di Solto, Zorzino e Gargarino, Riva di Solto 2013.

17  Andenna 1998, pp. 49–50; Settia, Proteggere e dominare..., op. cit. alla nota 12, pp. 188–213; F. Menant, «Bergamo comunale: storia, economia e società», in Storia economica e sociale di Bergamo. I primi millenni. Il comune e la signoria (a cura di G. Chittolini), Azzano San Paolo 1999, pp. 93–94.

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Federica Matteoni difensiva, si amplia nel XIV secolo trasformandosi in castello-ricetto, accogliendo costruzioni stabili ancora nel XV secolo.21 Numerose e ben documentate, invece, sono le strutture fortificate isolate, sorte a partire dal XII secolo e con un’ampia diffusione nel XIII e XIV secolo.22

l’edilizia civile.26 Ne sono esempio il nucleo di Molini di Colognola, piccolo borgo fortificato sorto al centro della Valle Cavallina alla metà del XIII secolo (fig. 21.4), con edifici in pietra e attività artigianali, poi difesi da una torre costruita alla fine del secolo.

Le dinamiche occupazionali di questo territorio evidenziano una marcata differenza tra i borghi sorti nella zona immediatamente a nord della città, ovvero l’area che interessa Almenno San Salvatore e Almenno San Bartolomeo, Almè e Villa d’Almè, rispetto al comprensorio vallivo che si apre più a settentrione con la Valle Brembana e la Valle Imagna.23

Nelle zone della Val Brembana e della Valle Imagna, attraversate da poche vie di collegamento relegate a zone di crinale, l’occupazione del territorio si organizza tramite piccoli agglomerati demici attorno al costruito religioso o fortificato27, per i quali si hanno costruzioni sorte prevalentemente dalla fine del XIII secolo. A partire dal XIV secolo vi sono diversi contesti sorti attorno all’edilizia fortificata, come Carosso nelle colline di Almenno San Bartolomeo (fig. 21.5)28 e Ca’ Campo, frazione di Strozza in Valle Imagna29, posta in una zona periferica del nucleo, a protezione di un abitato che si articola attorno alla viabilità principale.

Gli insediamenti nelle colline a nord della città ebbero, infatti, un importante ruolo di mediazione tra la zona prettamente di pianura e le valli alpine: tra XI e XII secolo furono fondati i monasteri (San Giacomo a Pontida, San Pietro di Terzo, Sant’Egidio di Fontanella, San Paolo d’Argon, San Sepolcro di Astino e San Benedetto di Vallalta) che implementarono l’impulso economico sul territorio e favorirono un conseguente aumento demografico, acquistando o ricevendo in donazione terre anche lontane dai monasteri stessi. Sebbene sia stata riconosciuta una progressione più lenta di quest’area rispetto a quelle di pianura immediatamente a sud della città, la pressione demografica e l’intensa attività dei monasteri portò allo sfruttamento delle risorse naturali, con un incremento demico e quindi il proliferare di costruito in pietra tra XII e XIII secolo, soprattutto civile.

Con l’istituzione comunale a Bergamo si creò uno stretto legame tra le comunità rurali delle valli e gli esponenti della politica cittadina, che avevano interessi proprio nel controllo decentrato del territorio, riportando anche nell’ambito extraurbano le faide fra guelfi e ghibellini, che nelle zone periurbane si manifestano in maniera più cruenta rispetto all’ambito cittadino.30 La sponda orientale del Sebino, ad esempio, si infittisce di numerosi edifici di difesa commissionati da élites minori, per le quali la costruzione di queste architetture era soprattutto segno di ascesa e distinzione sociale. Le torri, di pianta quadrangolare e con funzione per lo più difensiva, imponevano una gerarchizzazione sociale limitata al piccolo contesto del mondo rurale circostante. L’edilizia fortificata sul lungo lago ha una buona tecnica di realizzazione, con particolare accortezza per le finiture di superficie e una sensibilità per la bicromia a partire dalla seconda metà del XIII secolo: tali accorgimenti tecnici erano frutto di influenze provenienti dall’ambito colto urbano e dai contatti con contesti bresciani intercorsi tramite il lago stesso.31

La popolazione, dunque, si aggrega in nuclei di dimensioni più ridotte, definendo aree a corte che si ingrandiscono poi nel periodo comunale: con la presenza di famiglie cittadine legate al vescovo trasferitesi fuori città, tali agglomerati si ampliano, definendo centri di amministrazione religiosa e signorile, in cui si articoleranno poi gli organismi comunali autonomi.24 Le strutture fortificate di questi centri, gestite da lignaggi signorili, sorgono generalmente isolate o in punti strategici25, diventano modello di costruzione per

Con l’occupazione dei Visconti di Milano e poi l’arrivo dei Veneziani (1426) vi furono delle modifiche non solo politiche e gestionali, ma anche nelle tipologie costruttive, secondo le nuove esigenze di difesa e di espressione del potere locale. È nota l’ordinanza di Venezia che impose lo smantellamento o il riassetto di alcuni edifici fortificati (sia castelli, sia torri), dovuto anche al nuovo

21  Matteoni 2018, p. 167; G.M. Labaa, «Il Castello di Monasterolo: una proposta di rilettura in relazione al sito e al tipo», in Monasterolo del Castello. Una comunità e il suo luogo (a cura di L. Pagani), Clusone 1990, pp. 71–83. 22  Nel territorio esaminato sono state censite oltre 80 torri e casetorri sorte dal XII secolo in continuità fino al XV secolo, periodo in seguito al quale vengono erette prevalentemente case-forti; si rimanga al contributo su Grone [F. Matteoni, «Le torri di Grone (Bergamo): analisi stratigrafica di architetture fortificate», in Notizie Archeologiche Bergomensi, 22, Bergamo 2014, pp. 281–301] e sul Sebino bergamasco [F. Matteoni, «Le fortificazioni della sponda bergamasca del lago d’Iseo», in Castelli e fortificazioni dalla Valcamonica alla Franciacorta. Studi di archeologia e storia dell’arte (a cura di F. Troletti), Capo di Ponte (BS) 2019, pp. 155–163]. 23  G. Feo, «Terra e potere nel Medioevo. Frammentazione e ricomposizione nel territorio del Lemine (XI–XIII secolo)», in Archivio Storico Bergamasco 18/19, 1990, pp. 4–47. 24  C. Contin, Castelli nella bergamasca. Popolamento, difesa, organizzazione del territorio, in Castelli e dimore signorili nelle Alpi lombarde, Breno 2007, p. 191. 25  Menant 1999, pp. 106–108.

Matteoni 2018, pp. 290–293. In riferimento all’occupazione del territorio brembano si veda D. Cerami,«Patrimoni monastici in Valle Brembana (secc. XI–XII)», in Quaderni Brembani, 17, Corponove (BG), 2019, pp. 48–63. 28  P. Manzoni, Almenno San Bartolomeo. Storia religiosa e civile nei secoli XV–XVII, Almenno San Bartolomeo 2009, pp. 210–211; M.T. Piovesan 2004, «Le difese di Lemine», in Colmuto Zanella 2004, pp. 194–200. 29  A. Gualandis, Strozza: storia, arte, tradizioni, Strozza 1986; Conti, Hybsch, Vincenti, I castelli della Lombardia…, op. cit. alla nota 6, p. 117. 30  G. Chittolini, «L’affermazione del comune», in Storia economica e sociale di Bergamo, I primi millenni (a cura di G. Chittolini), II, Azzano San Paolo 1999, pp. 5–13. 31  Matteoni, «Le fortificazioni della sponda bergamasca…», art. cit. alla nota 22, p. 162. 26  27 

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Conoscere un territorio attraverso il costruito storico

Figura 21.4. Il nucleo di Molini di Colognola a Casazza (foto dell’autrice).

Figura 21.5. Nucleo fortificato di Carosso ad Almenno S. Bartolomeo (foto dell’autrice).

ruolo rivestito dalle famiglie nobiliari in questi contesti periferici. Il castello di Luzzana, ad esempio, sorto nel XIII secolo come centro di difesa signorile, ma già dal Trecento probabilmente aveva anche la funzione di ricetto, perché nel borgo non sono attestati edifici ascrivibili a quel periodo, elemento che ha fatto ipotizzare una concentrazione degli spazi abitati proprio dentro la zona fortificata. Dal XV secolo, con il cambio di proprietà si definì una nuova organizzazione degli spazi del castello, tanto che sono attestate le prime costruzioni civili vicine al costruito fortificato, come se la popolazione fosse stata costretta a trovare nuovi luoghi dove abitare, selezionando gli isolati immediatamente vicini alla residenza signorile.32

l’occupazione di un territorio naturalmente discontinuo proprio per la presenza di elementi naturali (colline e rilievi altimetricamente differenziati), con la definizione di un paesaggio costruito vario, con piccoli nuclei abitativi organizzati attorno all’edificio più antico, generalmente fortificato o di rappresentanza delle famiglie nobiliari.33 In questo panorama costruito si rileva una significativa lentezza evolutiva nei processi costruttivi: il ritmo delle variazioni formali e funzionali è lento e tipico della cultura materiale, ancora di più in questi contesti periferici, ove si riscontra una certa resistenza culturale e scarsa apertura verso l’innovazione, che viene accolta con fatica per l’abbandono di consolidate consuetudini costruttive. L’elemento dominante è l’impiego di materiale quasi esclusivamente litico, cavato localmente34: sebbene prevalga in maniera preponderante l’uso di calcare, ampiamente presente nell’area esaminata, si rileva una complessità sia dal punto di vista tecnico, sia formale,

Accanto a queste modifiche si assiste ad una importante diffusione delle case torri sorte già nel XIII secolo e che si diffondono ampiamente nei contesti collinari fino al XV secolo: tale tipologia costruttiva di più ampia superficie rispetto alle torri più antiche, rivestirà la funzione di residenza, proprio per differenti esigenze del contesto sociale mutato rispetto ai secoli precedenti. Accanto a queste si originano piccoli borghi che scandiscono

Contin, Castelli nella bergamasca…, op. cit. alla nota 24, p. 192; A. Vincenti, «Tecniche fortificatorie e tipologie di architetture», in Colmuto Zanella 2004, pp. 53–74. 34  Tranne rari casi (Ranzanico, Almenno San Bartolomeo, Zandobbio, Entratico) non sono note le cave di approvvigionamento: attraverso analisi autoptiche si nota che sono pietre locali usate con continuità fino ai giorni nostri (per esempio Corna Imagna, le cui tecniche costruttive sono continuative dall’epoca medievale fino al secolo scorso); si veda Matteoni 2018, pp. 258–262. 33 

32  Diversi edifici assunsero la tipologia di ville signorili come residenza delle famiglie che definiscono nuovi centri di gestione dei possedimenti rurali [Matteoni 2018, pp. 168–171; Il Castello di Luzzana. Studi e ricerche sull’ex proprietà Giovanelli (a cura di G. Oberti), Luzzana 1992].

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Federica Matteoni

Figura 21.6. Il nucleo di Canito a Corna Imagna (foto dell’autrice).

La stabilità del contesto storico, sociale ed economico di questa vallata, dovuto anche ai limitati traffici commerciali e scambi intervallivi, ha portato ad una sorta di chiusura con conseguente definizione di una cultura autoctona con un’uniformità di caratteri invariata fino al XX secolo e al boom economico del secondo dopo guerra: nella prassi operativa vengono sempre messe in opera grosse bozze spianate nei cantonali (quasi mai con lavorazioni nei nastrini) e bozzette rettangolari lavorate nella faccia a vista o semplicemente spaccate e disposte in corsi suborizzontali sottili; le murature si presentano compatte, con incastri precisi e poca malta di allettamento, che raramente fuoriesce dai corsi, definendo in questo modo murature piene.

dando esito a paramenti murari differenziati, sebbene prodotti nello stesso periodo. Ogni vallata, di fatto, costituisce un ‘panorama costruttivo’ a se stante, dando vita a contesti costruttivi omogenei al loro interno, probabilmente opera delle maestranze attive in loco: questo dato è motivato non solo dai collegamenti tra i diversi contesti territoriali, ‘esplorati’ durante le lotte di fazione o per traffici economici, ma anche per una limitata apertura verso l’altro da sé, che trova un riflesso chiaro nel costruito omogeneo ma solo entro contesti geograficamente definiti. Lo scenario che si va definendo è, dunque, variegato, ma allo stesso tempo coerente entro specifici distretti di appartenenza: tra le costanti, sono state riconosciute tecniche costruttive di pregio per l’edilizia religiosa e per il più antico costruito fortificato, presumibilmente opera di maestranze specializzate, forse itineranti e originate nella città. Con la formazione dei nuclei rurali il costruito civile trova delle differenziazioni a seconda delle aree: in Valle Imagna, ad es., la tipologia degli edifici storici è molto continuativa, grazie all’impiego di materiale esclusivamente locale e moduli di posa in opera che si ripetono fino ai tempi più recenti; qui la stretta connessione tra geologia, architettura e paesaggio con reciproca interdipendenza è continuativa, specialmente nelle frazioni isolate (fig. 21.6). Gli artigiani di questa valle sono quasi esclusivamente operatori locali, forse gli stessi proprietari delle abitazioni, che cavano il materiale in loco per la messa in campo del cantiere.

Differente è la situazione della Valle Cavallina ove le tecniche costruttive con materiale prevalentemente sbozzato o spaccato disposto in corsi suborizzontali (con abbondante malta, spesso stilata) è messo in opera dal XII fino al XV secolo, secondo una continua riproposizione di modelli ormai accolti dalla comunità, evidentemente restia all’innovazione; solo in alcuni paesi, i più sviluppati grazie alle attività commerciali, ancora nel XIV secolo si investe nell’architettura di rappresentanza (si veda a Borgo di Terzo l’opera quadrata impiegata nel Castello di Terzo).35 In questa valle è evidente un attardamento rispetto alle innovazioni tecniche messe in opera nei territori adiacenti, 35 

212

Matteoni 2018, pp. 90–91.

Conoscere un territorio attraverso il costruito storico come la ricerca di bicromia o l’impiego del cotto (introdotto solo nel XV secolo), a fronte del persistere di alcune tipologie note e funzionali. Questo denota il carattere ‘periferico’ dell’architettura di queste aree, dove gli edifici sono frutto di un sapere non compiutamente specializzato, ma che aveva ben presente i modelli dei centri vicini senza averli assimilati del tutto.36

Boato, A., L’archeologia in architettura. Misurazioni, stratigrafie, datazioni, restauro, Venezia 2008.

I paesi del fronte occidentale del Sebino, invece, risentono delle influenze costruttive generate dalla sponda bresciana del lago: i paramenti murari, in pietre ben sbozzate anche di grosse dimensioni, hanno caratteristiche di pregio, come le finiture di superficie già dalla fine del XII secolo e l’impiego di elementi bicromi per connotare edifici di pregio (torri e palazzetti).37

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Conclusioni

Chittolini, G., «L’affermazione del comune», in Storia economica e sociale di Bergamo, I primi millenni (a cura di Chittolini, G.), II, Azzano San Paolo 1999, pp. 5–13.

Tale ricerca, che opera un’attenta ricostruzione storica del territorio in epoca bassomedievale partendo dallo studio delle fonti materiale ancora leggibili sul territorio, non impone né limite in ambito urbanistico né interventi di salvaguardia del patrimonio costruito; tuttavia, se la normativa nazionale non prevede vincoli per la tutela dell’edilizia rurale classificata come ‘minore’, la conoscenza dell’edificato storico costituisce già, di per sé, uno strumento efficace per la sua protezione, nell’ottica di una possibile osservanza del suo valore nell’ambito della progettazione urbanistica. I dati prodotti, infatti, vengono condivisi con le amministrazioni comunali, con l’auspicio che vengano per lo meno valutati e, auspicabilmente, inseriti tra gli strumenti di controllo del territorio e del paesaggio proprio degli enti pubblici.

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Tale diffusione dei dati non avviene solo con gli enti pubblici, ma anche con la popolazione locale, che può trasformarsi in parte attiva nella valorizzazione degli stessi: questa azione condivisa è una proposta di strumento attivo per il controllo del patrimonio costruito, perché mira a stimolare la consapevolezza di beni comuni locali come patrimonio. La correlazione tra i dati archeologici (sia sepolti sia fuori terra), storici e documentari fornisce informazioni a servizio della gestione territoriale dei comuni, cercando di favorire un’amministrazione dello spazio urbanizzato che rispetti e, laddove possibile, valorizzi l’esistente storico.

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BAR INTE R NATIONAL SERIES 3047 “The contributions in this volume add significantly to current knowledge about different cities and territories throughout Italy… The focus on young scholars who are all working on well-defined and original topics makes the volume a welcome addition to the existing corpus of literature on the ancient topography of Italy and the wider Mediterranean.” Dr Gijs Willem Tol, University of Melbourne “Questo lavoro offre una sintesi di ipotesi innovative in molti settori sia a livello geografico che tematico. Senza dubbio propone nuove conoscenze in molteplici campi di ricerca… Questa pubblicazione avrà un’ampia diffusione perché i temi delle metodologie e delle tecnologie avanzate applicate interessano tutti gli archeologi in particolare quelli legati allo studio del territorio (archeologia dei paesaggi, topografia antica, metodologia, urbanistica antica).” Prof.ssa Maria Luisa Marchi. Università di Foggia. Dipartimento di Studi Umanistici Il volume raccoglie i contributi di un convegno organizzato nel 2019 presso l’Università di Pisa in sinergia con la Consulta Universitaria di Topografia Antica. Gli interventi propongono una panoramica molto ampia sulle metodologie applicate allo studio del paesaggio antico. Vengono poste a confronto metodologie più tradizionali - che si inseriscono nel solco della tradizione italiana inaugurata da Rodolfo Lanciani - e tecnologie recenti come il LIDAR, le prospezioni geofisiche e le analisi di laboratorio. Le ricerche presentate sono frutto delle indagini di giovani dottorandi provenienti da università italiane e europee, raccolte in quattro sessioni. Ogni sessione è introdotta da un docente di rilevanza internazionale. This volume collects chapters based on papers presented during a conference held at the University of Pisa in 2019. It offers a wide-ranging overview of the methodologies applied to the study of the ancient landscape through the results of doctoral researchers from Italian and European universities. Davide Gangale Risoleo ha conseguito la laurea triennale e la laurea magistrale presso l’Università degli Studi di Firenze, discutendo in entrambi i casi una tesi in Topografia dell’Italia Antica con la supervisione del Prof. Paolo Liverani. Attualmente sta completando un dottorato di ricerca presso l’Università di Pisa nell’ambito del corso di dottorato in Scienze dell’Antichità e Archeologia. Davide Gangale Risoleo is a PhD student at the University of Pisa. He is currently completing doctorate research in “Sciences of Antiquity and Archaeology”. He received his bachelor’s and master’s degrees at the University of Florence, discussing in both cases a thesis in Topography of Ancient Italy, under the supervision of Prof. Paolo Liverani. Ippolita Raimondo, ha conseguito la Laurea Magistrale in Archeologia presso l’Università di Pisa e il Diploma in Archeologia Classica presso la Scuola di Specializzazione dell’Università del Salento. Attualmente Dottoranda in Scienze dell’Antichità e Archeologia presso l’Università di Pisa, si occupa di Topografia Antica ed Archeologia Preventiva. Ippolita Raimondo is a PhD candidate in Ancient Studies and Archaeology at the University of Pisa. She received her MA in Archaeology at the University of Pisa and her Postgraduate Diploma in Classical Archaeology at the Postgraduate School of Archaeology of the University of Salento. She is a field archaeologist who works extensively in rescue archaeology. Autori: Silvia Berrica, Rodolfo Brancato, Roberto Busonera, Stefano Campana, Giuseppe Ceraudo, Amanda Claridge, Francesco Coschino, Beatrice Fochetti, Giovanni Forte, Davide Gangale Risoleo, Paola Guacci, Valentina Limina, Maddalena La Trofa, Paolo Liverani, Martin Millett, Rosanna Montanaro, Simonetta Montonato, Aglaia Piergentili Margani, Federica Matteoni, Angiolo Querci, Ippolita Raimondo, Luisa Russo, Grazia Savino, Claudia Sciuto, Eugenio Tamburrino, Francesco Tarlano, Frank Vermeulen Printed in England