L’amicizia per se stessi. Cura di sé e arte di vivere 9788864117188

L’amicizia verso se stessi è egoismo? Le etiche moderne, unicamente rivolte al rapporto con gli altri, hanno rinunciato

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L’amicizia per se stessi. Cura di sé e arte di vivere
 9788864117188

Table of contents :
Indice......Page 476
Frontespizio......Page 4
Introduzione......Page 5
1. Le paure e le arti. Come inizia l’arte di vivere......Page 19
2. La cura di sé......Page 67
3. La cura del corpo......Page 184
4. La cura dell’anima......Page 263
5. La cura dello spirito......Page 335
6. L’infanzia e la vecchiaia. Inizio e fine dell’arte di vivere......Page 421

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I edizione digitale: luglio 2012 © 2004 Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main © 2012 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Titolo originale: Mit sich selbst befreundet sein. Von der Lebenkunst im Umgang mit sich selbst Traduzione dal tedesco di Federico Ferraguto ISBN: 978-88-6411-718-8 www.fazieditore.it www.campodeifiori.eu

Wilhelm Schmid L’AMICIZIA PER SE STESSI CURA DI SÉ E ARTE DI VIVERE

traduzione di Federico Ferraguto

Introduzione «Di cosa parla dunque questo libro?». «Del rapporto con se stessi». «Ah, quindi dell’egoismo!». «Il rapporto con se stessi è egoismo?». Che cos’è il “rapporto con se stessi”? Un fenomeno notevole, tanto affascinante quanto inquietante. Affascinante, perché questo rapporto è in generale possibile; inquietante, perché può sovrastare i rapporti con gli altri. Molti hanno buone ragioni per essere turbati da un simile fenomeno: perdita della reciprocità, frammentazione, dissoluzione della comunità nei diversi ambiti e a tutti i livelli. Come può allora essere legittimo concentrarcisi? Sembra difficile non ammettere che, anche nella cosiddetta epoca “moderna”, gli uomini siano più che mai rinviati a se stessi. Si vedono posti di fronte al compito di cercare una direzione e di guidare la loro vita, pur non sentendosi sufficientemente attrezzati per farlo. Diverse posizioni teoretiche e pratiche, compresa l’arte di vivere, vengono valutate in funzione della loro capacità di trovare risposte alla situazione fondamentale della modernità. Questo non significa ritenere quella moderna l’unica cultura, o i problemi della modernità gli unici sul pianeta. Ma laddove trova spazio la modernizzazione emergono sempre problemi analoghi, la soluzione dei quali deve essere pretesa dalla cultura stessa della modernità, tanto più nell’epoca della globalizzazione, la quale altro non è che una globale modernizzazione. Con “arte di vivere” non si deve intendere una vita semplice e spensierata, ma una condotta consapevole e accorta. Se viene scelta è faticosa, ma è anche fonte di una pienezza senza pari. A lungo nella storia occidentale l’arte di vivere ha trovato dimora nella filosofia, che ha coniato questo concetto già in età antica: téchnē tou biou, téchnē perì bíon in greco, ars vivendi in latino. Solo la filosofia istituzionale del XIX e XX secolo si è

permessa di rinunciarci, a tutto vantaggio di una modernità che, con l’aiuto della scienza, della tecnica e della libera economia, ha promesso una soluzione a tutti i problemi della vita, riponendo le sue speranze in “sistemi” che hanno reso superflua la condotta individuale: a che serve allora l’arte di vivere? Le esperienze compiute nella modernità hanno dimostrato che quest’epoca ha senz’altro risolto alcuni problemi, creandone però di nuovi, e che nessun sistema può dare risposte ai quesiti vitali dell’essere umano o sgravarlo dalla fatica necessaria a portare avanti la sua esistenza. La filosofia non può certo stabilire come si debba vivere, sebbene possa aiutarci nello sforzo verso una condotta consapevole, spiegando e rischiarando un momento particolare della vita, una paura, un’inquietudine o un’illusione. Da sempre, o almeno dai tempi di Socrate, la domanda «cos’è?» – ti éstin, ti pot’éstin, in greco – ha un valore filosofico: cos’è questo?, cos’è in verità?, cos’è la vita, cos’è quest’epoca, cos’è la vita in quest’epoca, cosa potrebbe essere ancora, cos’è bello, saggio, giusto, importante?, cos’è la felicità, cos’è il senso della vita? La domanda sul senso compenetra tutte le altre. È compito della filosofia, e anche uno degli obiettivi centrali di questo libro, farsene carico e prenderla sul serio. La domanda sul senso coincide con la domanda sui nessi, sulle connessioni che tengono insieme la nostra vita: cosa sta alla base, cosa si nasconde là dietro, a cosa serve, in che rapporto lo si deve vedere, quale significato hanno le parole che usiamo, quali motivi si possono trovare per fare o non fare qualcosa? Le domande di questo genere sono decisive, ma le risposte non sono definitive. Sebbene diano inizio a processi esplicativi validissimi, anche i dialoghi socratici hanno un finale aperto. Assieme alle domande devono infatti essere aperti campi di pensiero e di vita, devono essere conquistate quelle possibilità di dare forma alla vita, ciò che la modernità, completamente irretita nella domanda sulle condizioni del sapere e dell’agire umani, non ha posto in questione, per molto, troppo

tempo, come se la comprensione della vita vissuta possa essere data per scontata. La vita è fondamentalmente legata alle condizioni e alle possibilità di una determinata epoca e di un certo spazio culturale. L’arte di vivere, così come qui viene trattata, tenta (pur traendo una qualche ispirazione dalla tradizione) di rispondere alle sfide dell’epoca moderna. Ma cos’è la modernità, qual è la sua origine, verso dove si dirige? Essa sembra essere una mentalità che attraversa diversi modi di vivere, i quali non sono prodotti a caso, ma frutto di una concezione che si pone degli obiettivi e di cui gli uomini moderni non sono quasi più consapevoli. La modernità, così come viene concepita, tra gli altri, dagli illuministi nel XVII e XVIII secolo, viene innescata dal concetto della libertà, e tuttavia con risultati mediocri. Fino al XXI secolo la libertà viene essenzialmente intesa come “liberazione” e come il rendersi liberi da un vincolo. Nella libertà come liberazione vi è qualcosa di tragico: viene reso libero un individuo incapace di vivere in assenza di condizionamenti e relazioni: come un masso erratico sta nella landa della modernità senza comprendere più se stesso e senza sapere in che modo interagire con sé. La libertà come liberazione rende necessaria una condotta autonoma. Questa è infatti la situazione dell’individuo moderno: libero da vincoli religiosi, perché non può più ancorarsi a una religione o essere consolato da un aldilà – con la conseguenza che ciascuno deve trovare da sé una risposta alle piccole e grandi domande sulla vita e sul senso. Libero da vincoli politici, perché con la liberazione da una qualsivoglia autorità è possibile far valere la propria dignità e i propri diritti contro una determinazione esterna – con la conseguenza che l’autolegislazione sociale (“autonomia” nel senso stretto del termine) diviene un compito tanto faticoso quanto ingestibile. Libero da un vincolo ecologico, perché con la liberazione dalla dominazione della natura per mezzo della tecnica sono nate nuove possibilità di vita – assieme

all’esperienza dolorosa di poter ledere le condizioni vitali di base e all’esigenza di dover rifondare per il proprio interesse (finché qualcuno esiste e per quanto gli è possibile) un contegno ecologico. Libero da un vincolo economico, ponendo anzitutto la libera attività di pochi al servizio dell’incremento del benessere di tutti – qui la liberazione provvede ai costi sociali ed ecologici, il sostegno dei quali richiede una grande fatica. Libero, infine, da vincoli sociali: questo è il processo di liberazione che per primo ha mosso l’individuo moderno, svincolato sessualmente da una rappresentazione morale tramandata e, soprattutto, da una morale e da valori visti come superati, dispensandolo dalla comunità in cui era fuso e liberandolo (“emancipandolo”) da una forzata spartizione dei ruoli. Alla comunità si sostituisce la società come raggruppamento di individui. Tutte le forme di comunità sociale si frammentano; la famiglia allargata si ritira nella microfamiglia, i cui frantumi formano la famiglia-patchwork, portano alla singletudine e rendono possibile, e poi effettivo, non solo l’“individualismo”, ma anche l’autoeliminazione dell’individuo: la liberazione finale. La modernità è una dissoluzione dai nessi e perciò anche dal senso. La liberazione da vincoli interni ed esterni, oltre che dalle relazioni con altri esseri umani, porta a fare esperienza del nichilismo. Nei molti discorsi che professano di essere “alla ricerca” si deve leggere l’indecisione. Invece, la significatività delle connessioni viene pienamente riconosciuta nella loro assenza. Per questo la modernità è un’epoca filosofica, un’epoca caratterizzata di nuovo dalla domanda su ciò che è essenziale, su ciò che in altri tempi restava celato nell’ovvio. Dato che non si può vivere nel nulla, si comincia a lavorare ridisponendo i nessi, anche se inizialmente in maniera ancora ingenua e goffa. Si profila un interregno che, seguendo lo strano ricorrere di un prefisso, può essere chiamato “tempo del ri-” (Re-Zeit): ovunque assistiamo a retrospettive e a “rétros” di ogni genere. Ciò che in un

primo tempo era il riciclo nel contesto ecologico, la rinaturalizzazione dei fiumi, la riduzione delle sostanze tossiche o la ricostruzione di edifici storici, la rinascita di questo e di quello, o a volte anche solo un “remake”, porta sostanzialmente alla riorganizzazione e a riforme di base (ammesso che queste possano essere finanziate in un momento in cui viva è la minaccia di una recessione economica). Nello stesso tempo, il wellness provvede a una rivitalizzazione, rigenerazione, riconvalescenza dell’uomo, con lo scopo di riconquistare risorse andate perdute. A prescindere dalla rassegnazione, diffusa in certi casi, il “tempo del ri-” appare anche come un tempo della riflessione, dell’osservare e del ripensare, dell’attenzione a valori e a vincoli andati perduti. La riflessione filosofica sull’arte di vivere è anche un tentativo di ricostruire criticamente quanto sembra essere necessario per la vita: una cauta riproposizione di rapporti e, di conseguenza, un movimento che va in una direzione opposta a quella della decostruzione, ancora occupata a vagliare la sostenibilità di connessioni di senso reali e presunte. Il “tempo del ri-” è riproposizione, rammemorazione, riscoperta. Per un certo momento dissolve il proto-tempo, che conosce solo un movimento in avanti: solo progresso e progressione, prognosi, progetti, prospetti, processi, profitti, prodotti, produttori, produttività e profanità. Se lo si osserva in retrospettiva, questo è il tempo di una modernità ingenua. Pro e ri-: il moderno oscilla tra due prefissi. Il risultato del “tempo del ri-” può essere una modificazione del moderno, e l’arte di vivere una parte del lavoro necessario a realizzarla. Essa si dedica alla ricerca di una “vita giusta nell’errore” ed è un progetto antinichilistico – sempre che valga la pena spendere fatica per non ridursi al nichilismo. Negli orientamenti della vita moderna potrebbe esserci qualcosa di sbagliato: può essere sbagliato dare per scontate domande religiose, considerare garantiti una volta per tutti i diritti politici, trascurare in misura disastrosa le questioni

ecologiche, attribuire un peso eccessivo alla razionalità economica, dissolvere le connessioni sociali in maniera tanto ampia da minare ogni vivere insieme nella società, a tutto vantaggio di una “felicità” che conduce sistematicamente all’infelicità. Un cambiamento del modo di vivere e di pensare della modernità non può tuttavia essere preordinato dall’alto, ma soltanto crescere dal basso, realizzato da singoli individui che formano le isole della diversità e che «mediante le forme della loro esistenza, con tutte le contraddizioni e i conflitti che appartengono loro, tentano di anticipare la forma esistenziale giusta e autentica», come dice Adorno nelle Lezioni di filosofia morale. Il lavoro per un’altra modernità, o per una modernità diversa, riporta anche in maniera differente l’individuo al centro, non più solo come colui che si libera, ma anche come colui che produce forme di libertà: certamente un progetto nietzscheano. Centrale resta il concetto di libertà, inteso, però, non più in termini negativi come liberazione, come essere libero da, ma come libertà positiva per legami, relazioni, limitazioni scelte e stabilite dall’individuo stesso. In epoca moderna tutto il lavoro per dare forma alla libertà si è concentrato sul diritto, dal quale si è preteso troppo in rapporto all’ampiezza del compito. In tutte le prospettive menzionate – religiosa, politica, ecologica, economica, sociale – le forme della libertà devono ancora essere elaborate e deve ancora essere superata la condizione tipica della semplice liberazione. Anche perché questa condizione, come abbiamo mostrato, attrae forze antimoderne che minacciano il campo della libertà, spinte da una paura mortifera di fronte alla modernità e alla liberazione che la caratterizza. Una modernità diversa, critica, riflessiva può essere sempre intesa quale tentativo di costruire un ponte verso altre culture, invece di considerarle con la solita arroganza come “superate”. Con ciò non si rinuncia alle conquiste centrali della modernità, ad esempio la dignità dell’uomo e i diritti umani. Resta l’impegno per il cambiamento e il miglioramento, mentre

tutto il resto non è che un piegarsi cieco a rapporti arbitrari. Ma il “nuovo” non è una norma quando è possibile attenersi a un “vecchio” che si mostra giusto. L’impegno non necessita più dell’assunto secondo cui ogni danno alla vita è guaribile o evitabile, non più dell’utopia di un mondo ideale nel quale alcuni problemi sarebbero risolti, non più di un sogno di “redenzione”. La fatica propria dell’arte di vivere non è generata dall’attesa della realizzazione di grandi idee o forse di una rivoluzione mondiale prima di “cominciare” a vivere. Nemmeno si devono costringere gli altri ad agire o a non farlo, ma è piuttosto l’individuo a disporre di sé, immediatamente e senza indugio. Con ogni cautela nei confronti dell’incertezza per ciò che è “autenticamente” giusto, diviene possibile uno sforzo autonomo per la vita propria e per quella degli altri. Il fondamento dell’arte di vivere è questa dimensione individuale: ad avere idee o a trasformarle non sono istituzioni anonime o comunità, non strutture o “sistemi”, ma sempre e solo singoli individui, anche se spesso restano nell’ombra. E quindi anche l’individuo moderno non può essere semplicemente presupposto come dato. Un problema-chiave della modernità è il fatto che l’individuo, liberato da se stesso, non ha più un rapporto con il sé, oppure lo perde sempre di nuovo; e questo da due punti di vista: come perdita di sé, che non è una privazione scelta e padrona; e come brama di sé, che non è un rapporto con sé scelto e padrone. Per questo nell’arte di vivere è in gioco la relazione dell’individuo con se stesso, la cui mancanza pregiudica le relazioni con altri. L’arte di vivere è cura di un rapporto controllato e sicuro con il sé, che permette di renderlo stabile e di aprirlo agli altri. Compito fondamentale del rapporto con se stessi è la fondazione di un “noi” – non immediatamente in relazione agli altri, bensì innanzitutto nell’interiorità dell’individuo stesso. Da lungo tempo, ormai, l’individuo non è più qualcosa di indiviso, come invece la parola stessa lascerebbe credere;

per questo si può parlare di lavoro sul noi nel sé. Nella misura in cui è espressione di una molteplicità, l’io stesso contiene tutte le domande e i problemi di una comunità e di una società, da integrare nella forma di un “noi” allo scopo di rendere possibile la vita e il vivere insieme. Da qui il tema vero e proprio di questo libro: la formazione ad arte del sé e della sua esistenza si gioca sulla creazione di legami e relazioni interiori. Il sé conferisce a se stesso struttura e forma, rendendo la sua vita e se stesso un’opera d’arte. Con l’emergere dell’interiorità, anche il lavoro su un noi esteriore può essere rifondato. Solo sulla base di una visione del significato del noi esteriore cresce, infatti, la disponibilità a produrlo e a prendersene cura. Si può inoltre aggiungere che l’uomo è un essere “naturalmente” sociale, ma in epoca moderna questo può essere negato, ignorato, decostruito; le rampogne non cambiano nulla. La modernità ha di certo proclamato, accanto alla libertà, all’uguaglianza e alla fraternità, anche un senso comune e una comunità. Ma le pretese della libertà, intesa come liberazione, può farseli sfuggire. La frantumazione della comunità avviene laddove gli individui hanno motivo di liberarsi da legami e relazioni o li lasciano scomparire passivamente smettendo di preoccuparsene. Solo l’individuo stesso può scegliere se e in che misura vuole lavorare a un noi esteriore, anche perché le forme del noi sono tutt’altro che questioni neutre: regolarmente pongono problemi di repressione, perché il singolo io può essere respinto dal noi comune, oppure può scomparire in esso; pongono problemi di sottomissione, perché dietro al discorso sul noi può nascondersi quell’io singolo che vuole tutto per sé e approfitta degli altri solo per raggiungere questo scopo. Non si tratta di argomentazioni cogenti contro il noi, ma di argomenti in favore di una certa cautela nell’averci a che fare. A tal fine è utile una certa formazione dell’individualità, che, pur non crescendo ciecamente nella comunità, non la liquida semplicemente, ma la rifonda di

propria iniziativa. Il duplice lavoro sul noi è, in definitiva, una ristrutturazione del senso, o dei nessi, all’interno del sé così come al suo esterno. Perché se si dà senso laddove le connessioni sono esperibili e immaginabili, la perdita del noi interiore ed esteriore è esperienza della mancanza di senso. Il lavoro sul noi interiore ed esteriore fonda invece una forte esperienza del senso: le connessioni interiori provvedono a far parlare molte voci all’interno del sé e quelle esteriori connettono il sé con l’esterno. Se il rapporto con se stessi può ordinariamente nascere in parallelo con il rapporto con gli altri, allora, anche nell’epoca della dissoluzione dell’ordinario, è dal sé che si deve cominciare. In casi disperati l’individuo può disporre di sé, non degli altri. Una comprensione “sistemica” del sé, attenta alle relazioni con gli altri, sarebbe il complemento della relazione che un sé intrattiene con se stesso e che progressivamente deve fondarsi. A ragione la filosofia antica considerava l’imparare a conoscersi (Umgang mit sich selbst) come il fondamento per la familiarità con gli altri. Difatti, solo chi sa mettere in forma la cura di sé è anche in grado di dare forma alla confidenza con gli altri. L’etica della cura di sé deve essere artistica, cioè ponderata e formata, e non priva di arte, cioè infondata e casuale. Per indicare tutto questo esiste, fin dai tempi di Aspasia, Socrate e Platone, il concetto di “cura di sé”, epiméleia heautoũ. A ciò si può collegare, per rifletterci sopra, ciò che deriva dalla situazione del moderno e da quella di una diversa modernità. Le etiche moderne hanno, infatti, rinunciato a tutto questo – come se la cura di se stessi fosse ovvia e se la familiarità con gli altri fosse l’unico oggetto che l’etica deve prendere sul serio. Il fatto che ciò sia falso in partenza risulta evidente dalla sfrenata evoluzione dell’egoismo che irride con sarcasmo una simile etica. Ne consegue il tentativo di superare la sollecitazione, infinitamente moralistica e perennemente infruttuosa, a oltrepassare l’io proprio attraverso

il suo rafforzamento, abilitandolo cioè nel suo stesso ego a prescindere da sé. Non per ragioni morali, ma per il suo stesso interesse: dall’egoismo alla sua moderazione e al distacco occasionale da esso, per amore della saggezza, che cerca di rivolgersi agli altri nel proprio interesse, e per amore della libertà, che percepisce fondamentalmente l’incontro con gli altri come degno di approvazione. Dal noi all’io e alla cura che l’io ha di sé per arrivare in maniera differente dall’io al noi e alla cura degli altri: questa è la tesi che deve essere vagliata. Da una simile prospettiva l’io esiste assolutamente e prima di tutto per sé. Ma proprio quando colui che esiste per sé si realizza in misura sufficiente, capisce che non può vivere da solo, che non guadagna ricchezza interiore da sé e che ha bisogno degli altri anche per un motivo diverso: solo nell’apertura agli altri risultano accessibili nuove risorse per la cura di sé. A questo serve la cura degli altri e la creazione di una comunità: per prendersi cura di se stessi. Il sorgere di un rapporto sensato con sé è la base per rapportarsi agli altri, il nucleo di ogni estensione pensabile del noi: coppia, famiglia, circolo di amici, casa, raggruppamento sociale, istituzione, azienda, comunità, città, associazione, nazione, generazione, appartenenza culturale, umanità, essenza. Formando un rapporto con se stesso, il sé diviene al contempo capace di mettere liberamente in forma la relazione con gli altri; è dunque ovvio che il lavoro su di sé non deve essere fine a se stesso. Si deve smettere di considerarlo come un egoismo irresponsabile. Per portare avanti questo lavoro può essere utile un “manuale dell’arte di vivere”: non un aiuto definitivo, ma provvisorio, per la vita moderna e diversamente moderna. Il suo proposito non è normativo, ma ottativo. Non mira a fissare una vita giusta, come in età antica faceva il manualetto di Epitteto (l’Enchirídion), ma ad aprire opzioni: qualcosa che è presente nel momento in cui si pongono questioni vitali, un materiale ermeneutico con l’aiuto del quale è possibile pensare la condotta di ciascuno. La filosofia può

avanzare proposte per la comprensione e la formazione della vita prendendo le mosse dalla duplice domanda su che cosa sia fondamentale e quali siano le possibilità per entrarci in relazione. Il sé sbaglia a intendere la sua situazione come esclusivamente individuale, quando la sua costituzione, la sua vita e il suo pensiero sono influenzati da strutture e concetti molto più ampi – e questo non deve tuttavia indurre a pensare che a vivere la vita siano le strutture e i concetti. Il manuale diviene, invece, un compendio delle condizioni grazie alle quali la vita viene in chiaro su se stessa e delle possibilità per riformarla ancora una volta in base a queste condizioni. Non si pretende, dunque, di offrire qualcosa di nuovo, ma di rendere esplicito ciò che si sa in maniera implicita, fornendo una sinossi, uno sguardo d’insieme su tutto ciò che può essere significativo per una condotta di vita consapevole. Si può così effettuare una panoramica, e avere una visione integrale del sé, uno sguardo sulla distesa complessiva della vita dalla prospettiva dell’arte di vivere. Prendendo le mosse dal sé, e tuttavia superandolo in un percorso che procede per cerchi concentrici, deve essere dischiuso il maggior numero possibile di aspetti del sé e del mondo: pragmatici e scientifici, storici e temporali, culturali e sociali, psicologici e antropologici, terminologici ed epistemologici. Il modo di procedere sarà letteralmente fenomenologico: percepire e cogliere con attenzione il fenomeno (phainómenon) della vita, così come esso appare, nella maniera più precisa possibile, per darne conto in maniera logica: dischiudendo cioè le sue strutture (lógos in senso letterale). Il punto di partenza è una descrizione empiricamente satura: la prossimità al fenomeno, così come se ne può fare esperienza nella vita, diventa un criterio per la formazione dei concetti. Con i concetti il fenomeno ottiene la sua forma; attraverso la forma il fenomeno può essere colto con il pensiero e manipolato a regola d’arte; la concettualità appartiene perciò al mestiere dell’arte di

vivere. Con un continuo via vai tra la prossimità al fenomeno, che può essere molto personale, e la sua visione dall’esterno, che presta attenzione alla distanza, nasce un gioco reciproco di teoria e prassi: nella coscienza si può pensare l’essere per comprenderlo meglio e, talvolta, per cambiarlo. Il procedimento fenomenologico viene perciò modificato da quello ermeneutico, dove ermeneutica significa arte della spiegazione e dell’interpretazione, giacché non è «la verità assoluta della vita» a essere messa in discussione. La domanda sul senso, sui nessi, sulla significatività, sul peso, sull’irrinunciabilità, per il sé e per la sua vita, di procedere interpretando lascia aperte altre fondamentali possibilità di spiegazione. Imbattendosi nel fenomeno della vita, e nel trattarlo e interpretarlo, le fatiche possono essere vinte e i piaceri rafforzati, ciò che costituisce la gioia della pienezza della vita bella, ben oltre la semplicistica concezione, dalla quale qui prescindiamo, di un abbellimento della vita. Per molte ragioni può nascere un disagio nei confronti del rapporto con se stessi, allorché esso viene posto nuovamente al centro. Il concentrarsi sulla cura di sé comporta il pericolo di un isolamento. Anche quando le relazioni con gli altri vengono continuamente prese in considerazione, il discorso è incessantemente riportato a sé – e l’impressione, talvolta glaciale, che ciò genera è un chiaro indizio di quanto poco il sé possa esistere da solo: soltanto nella relazione con altri può divenire certo della sua propria esistenza. Ma il discorso sulla cura di sé rischia di esporsi all’obiezione di una semplificazione del sé e della sua vita anche per altre ragioni: il sé deve essere chiarito in teoria e la vita deve essere studiata teoricamente? Non si tratta esattamente di abbozzare una teoria dalla quale dedurre la vita pratica. Senza dubbio vale il principio che si può imparare a vivere solo nella vita; ma vale anche il fatto che l’osservazione e la riflessione possono talvolta avere senso per trovare una direzione: prima la vita, poi il filosofare, primum vivere,

deinde philosophari. Il riflettere non deve diventare un lambiccarsi infinito, perché non è possibile rinviare il vivere al momento in cui si raggiungono spiegazioni definitive e hanno successo tutti i tentativi di chiarire le domande: i problemi non possono farsi carico della totalità della vita. Tanto irrinunciabile è il processo di chiarificazione e illuminazione, tanto irraggiungibile appare una verità ultima, e questo non solo perché la vita è troppo breve, ma anche perché una verità ultima non è realmente desiderabile. Che cosa sarebbe una vita pienamente trasparente? C’è sempre una certa emozione nel vedere che le cose sono andate diversamente da come si pensava. Resta ancora la domanda se un’artificializzazione del sé non rappresenti una minaccia, soprattutto quando se ne parla come di una tecnica. È inevitabile parlare di “tecniche” per familiarizzare con se stessi, perché sono queste a rispondere alla perdita del “naturale” rapporto con se stessi. Il rapporto con se stessi diviene arte solo quando non presenta più nulla di artificiale, ma diviene una “seconda natura” e conduce a una nuova pienezza che può dispiegarsi quando il sé stringe amicizia con se stesso. Così la confidenza (Umgang) che ciascuno ha con se stesso può essere formata in maniera analoga a quella che si ha con un amico vero: schietta e aperta, ricca e varia, non noiosa e a volte anche enigmatica. Ogni tanto bisogna curarsi, perché senza relax non si può vincere nessuna fatica, mentre a volte è necessario affaticarsi e mettersi alla prova, perché la felicità non sta solo nel godimento. Il sé cerca sempre di prendere nuovamente le distanze da se stesso, per guardarsi come dall’esterno, non solo per acquietarsi, ma anche per uscire da sé, esteticamente ed estaticamente, amorevolmente e con tristezza, con passione e ironia, con paura e coraggio, emotivamente e riflessivamente, in maniera indulgente e implacabile, ponderata e non ponderata, e senza timore di apparire sciocco, perché la saggezza nasce in

questo modo. Questo libro, che tratta della fondazione e della formazione di un rapporto con sé, serve da spunto per realizzare tutto questo. Mantenere salda una concreta confidenza con sé è affare del singolo. Il disagio per il rapporto con se stessi ha però la sua causa in un confronto con la mancanza di fondamento, che prima o poi comincia a farsi sentire e a incutere timore. Sì, con l’esperienza della paura, dell’angoscia, si comincia in generale a prendere confidenza con sé. La spinta decisiva per spiegare la relazione con sé e per fondare l’arte di vivere è data da questo fenomeno.

1. Le paure e le arti. Come inizia l’arte di vivere In principio è la paura Puro divertimento sulla ruota panoramica, insieme agli altri su una navicella. Oscillo su tutto il mondo, il vento mi culla. La ruota si ferma. Laggiù c’è chi sale e chi scende. D’un tratto mi coglie la paura, senza preavviso e senza motivo. La nuda paura. Nel giro di un momento la gioia sfrenata si trasforma nel suo opposto: posso precipitare, mi posso sfracellare, nulla può evitarmelo. «A me?». Di quale demone sono preda? Cosa si è impossessato di me? Non lo so: non “lo” conosco, non l’ho mai incontrato. Una cupa certezza sovrasta le mie forze. La paura della morte mi attraversa, fa impazzire il mio cuore, mi fa sudare freddo; le mani afferrano la panca sulla quale siedo. Tutto inutile. Quel demone può dissolvere la presa in ogni momento e farmi precipitare. Resterebbe sempre un mistero perché proprio lui, perché proprio lì. Sempre e comunque: perché. Come mai non ne faccio parola con nessuno, perché non grido aiuto? Perché ogni secondo è un tormento; devo darmi da fare con quelle poche forze che mi restano – ogni momento di distrazione potrebbe essere quello buono, da un momento all’altro il demone potrebbe assalirmi, un momento di morte, nel quale il demoniaco può vincermi definitivamente. Ora vivere è sopravvivere attimo dopo attimo. Non mi concentro su nient’altro: le mie forze bastano solo a questa sciocchezza. Gli sguardi atterriti degli altri non mi aiutano a lottare contro questo Altro dentro di me che mi vuole per sé. Se ne fossi capace dovrei guardare avanti, a un attimo futuro, e forse superare anche quello… Perché la ruota, questa ruota dell’orrore, ci mette così tanto a tornare indietro? Le torture medievali probabilmente erano simili a questa, che ha distrutto lentamente ogni fibra del sé. Poi, all’improvviso, tutto è passato. Tocco di

nuovo terra, finalmente posso baciare il suolo con grande gioia. Le ginocchia continuano a tremare e non ho ancora capito come si possa vivere così. Intanto decido di lasciare riposare quest’esperienza, di appropriarmene. Cerco di non pensarci, di non analizzarla, evito di parlarne. E invece la ridisposizione del sé, la domanda sul fondamento, dando all’arte di vivere una funzione privilegiata che permette di trovare un contrappeso, di mantenere le abitudini, di trovare qualcosa di bello, sono importanti per controbilanciare l’angoscia. E così ci saranno anche il tempo e la sicurezza per spiegare che cosa è successo – per dire se davvero qualcosa è successo. Quell’angoscia enorme, ineliminabile, perde così la sua forza, pur continuando a farsi viva tutti i giorni, anche solo per poco. Mi assale quando cammino su un marciapiede: ho paura di vivere, ho paura del mondo. Non so proprio che cosa mi stia succedendo. È diffusa come la nebbia. Dentro di me si forma un buco che risucchia il mondo in un triste nulla. Se lo racconto, magari qualcuno mi capisce. Qualcun altro, però, se la svigna, perché la paura è «negativa» e ti «affossa». La paura rende soli. Non ci posso fare niente; mi concedo, mi ci abbandono, almeno per qualche tempo. Basteranno un paio di giorni? Non la voglio nascondere, non la voglio sedare. Devo farmene carico e sopportarla. Comincio perfino ad attribuirle un qualche valore, anche se ancora non arrivo a chiedermi di cosa ho effettivamente paura, o che cosa, in me e nel mondo, la generi. Può esistere una vita senza angoscia? Cos’è l’angoscia e cos’è la paura? Entrambe sono un’occasione per riflettere, un momento eminentemente filosofico, uno sguardo nei fondamenti e nell’abisso. Normalmente viviamo la nostra vita sulla superficie della quotidianità. Sotto la superficie, però, si aprono gli abissi: abissi del dubbio e dell’assurdo, dell’infelicità e della tragedia, del male e dello “spaesamento”, abissi della banalità. L’esperienza dell’abisso infrange l’ordinario e distrugge quelle

abitudini di cui è popolata la nostra quotidianità. Una frattura del genere potrebbe forse essere desiderabile, soprattutto quando viene paragonata al tran-tran di tutti i giorni, irriflesso, monotono e noioso. Ma quando l’abisso irrompe sul serio, la quotidianità muta in qualcosa di diverso: la superficie diviene nuovamente l’indizio dell’oppressione reciproca. L’esperienza dell’abisso che tutti conosciamo è l’angoscia. L’angoscia non è un privilegio; l’angoscia arriva per tutti, soprattutto quando non la si aspetta, e pare essere distribuita tra gli esseri umani in maniera sorprendentemente equa. Ne sono vittima potenti e deboli, poveri e ricchi e, in particolar modo, proprio chi si sente sicuro di fronte a tutto. Ognuno di noi è in grado di parlare delle paure che fin dall’infanzia toccano la vita umana, descrivendo quell’esperienza che già in latino viene indicata con la parola angustia: ‘restrizione’, ‘strettoia’, ‘difficoltà’, ‘pena’. Il sostantivo richiama il verbo greco áncho: ‘essere trattenuti, strozzati, torturati’. L’ampiezza delle possibilità si riduce a un’unica realtà, minacciosa per quanto è ristretta, che non è nemmeno certo sia davvero “reale”, anche se capirlo non servirebbe a comprendere la paura da essa generata. Il sé si sente ristretto al punto da mettere a repentaglio la sua stessa vita, poiché gli viene tolta l’aria per respirare. L’esperienza della paura si concretizza in un sentimento innescato da una minaccia che appare spaesante; un sentimento nel quale il sé, anche se non lo ammetterebbe mai, è estremamente debole e abbandonato a se stesso. In rapporto al gioco di forza interiore del sé, come quando siamo afflitti da un dubbio, la paura è più forte dell’io pensante. Da un punto di vista evolutivo, invece, la paura fa valere il diritto più antico: innesca l’impulso alla fuga e a mettersi in salvo. Il suo strumento di potere consiste nel rendere impossibile ogni pensiero chiaro e nel “generare il panico”. Per comprendere l’incomprensibile si decide di ricondurre le diverse angosce a un’occasione concreta che probabilmente non vale niente. Vengono, cioè, proiettate su un

problema che potrebbe anche non sussistere. Nella società, questa funzione di semplificazione e proiezione è da sempre svolta dagli “emarginati”: singoli soggetti e intere culture cercano di mantenere il loro orgoglio attribuendo ad altri, bollati come “deboli”, il loro sentimento di paura. In rapporto al gioco di forza esteriore tra gli esseri umani, la paura rappresenta la leva per l’esercizio del potere di un singolo sull’altro. Per questo, talvolta, l’io pensante ha ragione a tenersi per sé la paura, a pretendere che sia legittima solo in un caso particolare, a imporre un’analisi sobria delle situazioni nelle quali si presenta, a legarla, come si fa con un cane feroce, e a sfruttare la sua capacità di fiutare situazioni minacciose senza disperdere i suoi impulsi, ossia senza abbaiare con tutta se stessa. Anche se prima o poi la paura tocca tutti, vi sono particolarmente esposti quegli uomini che in età moderna vi si sono disabituati. Si tratta di una constatazione fastidiosa, perché proprio la modernità avrebbe dovuto sconfiggere definitivamente le paure opprimenti e realizzare sulla Terra quella che fu già una pretesa del cristianesimo: nel mondo redento tutti gli esseri umani devono essere liberati dagli affanni. In epoca moderna, invece, il sorgere della paura cresce quanto più si tenta di mettere fuori causa emozioni di questo tipo. La sicurezza ordinaria data dai nessi della tradizione, delle convenzioni, della religione e della natura è andata perduta, cosicché nella modernità, accanto alle vecchie, sorgono nuove paure. A differenza degli spiriti, dei fantasmi o dei diavoli premoderni e preilluministi; a differenza di un Dio che condanna al purgatorio o all’inferno, queste nuove paure si dirigono ora all’isolamento sociale, allo sviluppo tecnico, ai “sistemi” politici ed economici, alla distruzione ecologica, alla metafisica mancanza di senso. Il sogno moderno del controllo e del dominio razionale su ogni cosa genera la nuova paura della sua perdita. Angosciante è, soprattutto, la stessa libertà moderna, che rende possibile

sbagliare in maniera completamente nuova, o perdersi nelle possibilità aperte dalla liberazione, assumendosene pienamente la responsabilità. Nella modernità che ha respinto la paura materiale dell’esistenza si innesta, perciò, la paura ideale di vivere, cioè la paura di vivere senza un senso. La modernità interviene sui nessi e sul senso tramandati dalla tradizione e li problematizza; dissolve i vincoli e le relazioni che li costituiscono; e la stessa produzione dei nessi diviene un compito da portare a termine. Siccome il sé “non trova più la vita”, cioè ha smarrito la tensione tra polarità diverse che la caratterizza in quanto tale, anche l’esperienza “positiva” del benessere può trasformarsi in un’esperienza “negativa” e lasciar sorgere fenomeni di paura e di mancanza di senso. Chi fissa la vita in modo unilaterale a ciò che è “positivo” si angoscia eccessivamente per il fatto di poterlo perdere o per non ottenerlo affatto. Ha paura della paura. Si può dire che nella metà del XX secolo il “fenomeno della paura” non è mai stato così invasivo. La visione moderna implica che la paura sia compresa come malattia o disturbo, cioè come qualcosa di patologico o di disfunzionale. E tuttavia la paura può essere anche fondata e “generare senso”: come presentimento della mancanza di fondamento, della problematicità e transitorietà di tutto. Dato che una delle polarità fondamentali della vita è quella tra la superficie e l’abisso, la paura fa parte, sempre, in qualche forma e in qualche tempo, del fondamento della vita. Eppure si vuole disperatamente venirne a capo. Questa è la comprensione tragica della paura, che confuta quella funzionale, nella cui prospettiva non sarebbe altro che una “disfunzione” alla quale rimediare [cfr. Fritz Riemann, Grundformen der Angst, 1961]. Laddove la comprensione patologica si scontra con i propri limiti, la comprensione tragica diviene plausibile. Per quest’ultima la paura consiste nello sguardo penetrante nella struttura e nella costituzione della realtà e del mondo, cioè nell’essere che si trova a fondamento e nella sua nudità, che contrasta ogni

fenomeno di superficie, che ci affascina e ci salva. Nella paura tutto diventa nulla: il sé, le sue relazioni con gli altri, la totalità del mondo – proprio a questo punto emerge, però, ciò che può essere compreso come senso. Facendone sentire pesantemente la mancanza, la paura insegna che cos’è la vita e quale sia la sua essenza. È significativo il fatto che proprio l’esperienza di ciò che è profondo e di ciò che non lo è sembra rendere il sé capace di scalare, in un certo momento, le alture della vita. Solo chi “ha toccato il fondo” è in grado di raccogliere le forze per risalire. E all’inizio di questa scalata si trova la paura. Mentre nella filosofia antica la paura veniva rifiutata come caratteristica di uno «spirito dipendente» (come afferma Seneca nella quinta delle sue Lettere a Lucilio), i filosofi moderni si sono mostrati disponibili a conferirle un senso e a intenderla antropologicamente come condizione fondamentale dell’essere uomo. Søren Kierkegaard (nel Concetto d’angoscia, 1844) osserva che in epoca moderna nasce una nuova forma di angoscia, dovuta alla dissoluzione di tutti i vincoli sociali e di tutti i rapporti metafisici. L’esperienza dell’angoscia sarebbe «la vertigine della libertà» che nasce nel nulla; ma proprio in questa esperienza l’uomo stabilisce una relazione solida con la libertà di poter determinare se stesso. Secondo Kierkegaard, l’angoscia rappresenta il migliore maestro possibile della vita. Per gli stessi motivi Martin Heidegger (in Essere e tempo, 1927) riteneva l’angoscia qualcosa di indispensabile. Mediante essa, infatti, il singolo si comprende come rimesso a se stesso, come un «solus ipse». Solo su questa via il sé può avere accesso a ciò che è l’esistenza. Solo la possibile fuga dall’essere lo porta a conoscenza dell’essere come tale. L’angoscia viene, così, definita come la «piena accessibilità dell’Esserci». Karl Jaspers (in Filosofia, Chiarificazione dell’esistenza, 1932) parla dell’angoscia come esperienza fondamentale che riguarda gli esseri umani e investe il loro nucleo fondamentale: l’esperienza

della grande vulnerabilità dell’esistenza porta al crollo delle sicurezze superficiali e della possibilità di poter essere autenticamente se stessi. Anche Jaspers prende le mosse dalla comprensione moderna dell’angoscia, risultato della dissoluzione del sostegno che il singolo trova nei vincoli sociali e tradizionali: «un’angoscia per la vita, mai così forte prima d’ora, è la compagna inquietante dell’uomo moderno» (La situazione spirituale del nostro tempo, 1931). Secondo Jaspers, il sentirsi perduti «come un punto disperso nello spazio vuoto» causa una fuga nella malattia dalla quale è possibile ottenere, per lo meno, un sostegno negativo. Talvolta, quando si pone in questione la possibilità stessa di vivere, il peso della paura può aumentare. Che cosa può fare a questo punto l’arte di vivere?

L’arte di vivere comincia con l’angoscia L’esperienza dell’angoscia è perenne, ciò che passa è solo l’atteggiamento che essa provoca. Invece di respingerla è possibile farsene carico per prendere coscienza della vita e conferirle una nuova direzione. Muovendo da un atteggiamento di questo tipo, l’arte di vivere non comincia sul piano intellettuale della coscienza, ma su quello esistenziale, di cui ogni uomo può fare esperienza. Non esiste una necessità stringente di estrarre la spina dell’angoscia dal proprio fianco e, fondamentalmente, nemmeno la possibilità che altri ci costringano a farlo. Ciascuno deve prendere la sua decisione, preparandosi ed esercitandosi preliminarmente in una ermeneutica dell’angoscia, grazie alla quale diviene possibile riflettere sui suoi nessi, sul suo possibile significato e dunque sul suo “senso”. L’angoscia è un elemento della polarità della vita e un momento necessario per trovarne la direzione, proprio perché la mette in questione; nel sé l’angoscia fa nascere la sensibilità, presupposto della saggezza; l’angoscia sfida il sé ad abbandonare l’indifferenza di fronte alla sua vita e a percepire l’importanza del prendersi cura di se stesso. Tramite questa ermeneutica il sé definisce il suo

atteggiamento nei confronti della paura: devo tenerne conto? Devo eliminarla (sconfiggerla) o semplicemente accettarla (assumerla)? Devo utilizzarla (servirmene) per raggiungere un qualche scopo? Oppure devo trasformarla (imprimerle una metamorfosi), ad esempio in una paura “riferita a un oggetto”, per catturare ciò che mi turba, e renderla comprensibile? Il precetto diffuso di superarla è in realtà solo un’opzione, e tuttavia una possibilità che “ha senso” solo in rapporto all’angoscia nei confronti di qualcosa di specifico, ma non in riferimento all’angoscia in generale. Chi vuole semplicemente vincere la paura, non fa che rafforzarla. D’ora in poi, anche la più piccola, quotidiana paura creerà il più grande turbamento. La “vittoria finale”, anche ammesso che riuscisse, sarebbe un problema, giacché implicherebbe la perdita di un correttivo decisivo per vivere: il sé che non prova angoscia è continuamente esposto ai pericoli, perché non è in grado di percepirli. La debolezza della paura è anche la sua forza. Decidendo il suo atteggiamento nei confronti della paura, il sé decide anche del suo atteggiamento nei confronti della vita, perché l’angoscia pone il problema della vita come totalità. L’angoscia è fondamentalmente angoscia della vita: angoscia per la vita, per la vita propria, così come per quella degli altri, nei confronti dei quali il sé è già, sempre, in debito. E anche angoscia di fronte alla vita, alle sue incertezze e alle sue sfide, di fronte ai dolori e alle delusioni che le sono proprie. L’angoscia è in assoluto l’esperienza “negativa”, dolorosa, penosa, brutta, che mette in questione la vita: cos’è propriamente? Cos’è la mia vita? C’è qualcosa nella vita che mi spaventa? È il fatto di dover dare una forma alla mia vita a farmi paura? È possibile cambiare qualcosa in questo senso? La vita stessa pone delle domande, e solo con queste domande comincia la ricerca di una risposta. Impossibile “bypassarle” – oltre ogni singolo dubbio incombe il dubitare, la perdita di ogni fiducia nella vita e la difficoltà di trovare facilmente una ragione per

tutto questo. Ma la preoccupazione angosciosa può anche essere presa sul serio, e quando questo accade, attiva l’interesse del sé e provvede per la prima volta a fare in modo che il sé si appropri di se stesso. Questa autoappropriazione consiste nel non abbandonarsi ai condizionamenti esercitati da altri o da rapporti esteriori. Dalla preoccupazione angosciosa nei confronti di se stessi nasce così la cura per se stessi, caratterizzata da rispetto, circospezione, cautela, accortezza. Passando a questa preoccupazione sapiente, il sé riesce a guadagnare una distanza rispetto a se stesso e alla sua propria situazione, per mettersi così in condizione di riflettere su se stesso e sui rapporti all’interno dei quali vive. Il sé si mette sulla strada della consapevolezza, su quella di una condotta di vita consapevole, sulla via dell’arte di vivere, ammesso e non concesso che egli sia in grado di fissare i momenti di consapevolezza, senza distruggerli di nuovo e in fretta. La sofferenza diviene pensiero. Ma il pensiero porta all’arte di vivere e, in primo luogo, a saper interagire con l’angoscia. L’elemento fondamentale di quest’arte è coltivare l’angoscia, con l’obiettivo di ottenere una misura che consenta di vivere tra il troppo e il troppo poco. Il troppo poco è il problema minore, perché mostra come le occasioni per l’angoscia vengano tanto più cercate quanto più ci si propone di doverle evitare e “vincere”. Quando si scende al di sotto di una soglia minima di angoscia, la vita sembra divenire insopportabilmente piatta e priva di tensione. È quindi possibile che l’esistenza umana ne abbia bisogno, sempre e comunque, a prescindere dall’oggetto che la motiva. È possibile produrre intenzionalmente una data quantità di angoscia esistenziale, mettendosi per esempio in situazioni che la generano – così si può spiegare la passione diffusa per i gialli e per i film dell’orrore, per gli sport pericolosi e per le situazioni estreme. “La vita stessa” riscontra questa mancanza e si affanna a

contrastarla. E se anche io soffrissi di una tale mancanza? Ma chi prova angoscia ne ha spesso troppa, al punto che la sua stessa vita viene posta in questione. La più grande difficoltà che si trova nel coltivare la paura è il dominio del troppo. A volte, e sempre con molta cautela e moderazione, l’arte della confidenza con l’angoscia può essere anche farmacologica: non si deve sottovalutare a tutti i costi la funzione degli psicofarmaci, quantomeno per una sensibile diminuzione delle paure estreme, anche se, per i loro “effetti indesiderati”, non possono dare risposte durature. Un’arte ben più importante è perciò quella dialogica, l’arte del dialogo con se stessi, con gli altri, con amici ed “esperti” con i quali è possibile condurre un simile dialogo. Esso, infatti, restituisce all’angoscia il suo spazio, rappresenta il luogo in cui questa può essere presa sul serio, dove può essere interpellata e dove può esprimersi. L’espressione procura un distanziamento, e dunque un’”oggettivazione”. In ogni sua possibile formulazione dialogica, l’angoscia trova una forma e diviene comprensibile, mentre la presenza degli altri consente a chi prova angoscia di prendersi una pausa. Nel dialogo diviene possibile rintracciare i motivi personali di una paura, e anche il suo possibile significato per la vita del singolo, così come per la vita dell’essere umano in generale. Nel dialogo, il fenomeno viene collocato nell’orizzonte del tempo, allo scopo di depotenziare ciò che viene percepito immediatamente. L’esclusione moderna della paura fa sì che, nel singolo sé, dove viene sopportata in sostituzione di qualcos’altro, venga intesa come qualcosa di eccessivo e, almeno in apparenza, immotivato. Si può guarire dall’angoscia godendo di ciò che si offre ai cinque sensi: vista, udito, olfatto, gusto e in particolare tatto. La confidenza artificiale con l’angoscia necessita perciò di un’arte del contatto, che non ha bisogno di parole; e soprattutto del tatto tenero e delicato, che fa dimenticare ogni paura. «Quando sto vicino a te, non ho più alcuna paura»: questo sentono i genitori

dai loro figli, e il bisogno di una tale vicinanza non va perso, evidentemente, nemmeno tra gli adulti. Il contatto placa l’angoscia, sia che si tratti di quello fisico che di quello tra le anime, spirituale o metafisico; la ragione è, a tutti i livelli, sempre la stessa: ogni contatto comunica un’esperienza della “trascendenza”, di un oltrepassamento dei limiti ristretti dell’io. Il sé non si sente più metafisicamente solo. E a questo sentimento corrisponde chiaramente una realtà concreta, poiché nel contatto con un altro il sé si sporge oltre se stesso. Per rendere sempre possibile il contatto è importante curare i legami e le relazioni: i vincoli di amore e di amicizia, di relazione spirituale e forse anche del rapporto con una dimensione di trascendenza in senso ampio, nella quale la paura, pur non dovendo necessariamente essere “vinta” una volta per tutte, trova il suo posto. Infine, la paura può essere moderata dall’abitudine: abituarsi alla paura, all’occasione e al luogo della paura. L’abitudine riproduce la superficie tipica della vita ordinaria, della relativa stabilità e affidabilità che la caratterizza. Sulla base dell’abitudine è possibile rimettere in piedi la propria vita, quantomeno in uno spazio limitato e per un certo tempo. Lo si può imparare dai bambini, che sono maestri nell’applicare questa pratica. La dimensione abituale e normale della vita viene prodotta attraverso la cura delle abitudini, tanto significativa quanto svalutata. L’abitudine è una stabilità costruita che consente anche di vivere un momento di instabilità. Certo: con la stabilità aumenta il senso di inerzia, sebbene con l’instabilità aumenti anche il senso dell’impossibilità della vita. Le abitudini pongono un freno alla perdita di senso dilagante: ogni soggetto può, infatti, riprodurre i nessi della vita che sono in grado di fondare il senso, il senso della quotidianità, nel cui spazio la vita si rende abitabile, nel cortile quanto nella periferia dell’abisso, e consente di riflettere sulla fragilità del senso perché offre un terreno solido sul quale poggiare i propri piedi.

Non bisogna avere quindi alcun timore ad attribuire volutamente importanza a cose poco importanti, con il solo scopo di aggrapparvisi: vive la bagatelle! Può forse essere importante la bellezza – superficiale, banale, volgare – di un film, di una canzone, di un caffè, di una chiacchierata. Talvolta è molto saggio restare in superficie, intenzionalmente in superficie, e persino dare vita a un’arte della superficialità, anche se pur sempre alla luce di una condotta di vita consapevole e solo a partire dal presupposto che la superficie debba essere sempre compresa come tale. La “coltura” della superficie è già stata proposta da Nietzsche, che nella prefazione della Gaia scienza del 1887, prendendo le mosse da un’esperienza dell’abisso e riferendosi alla tradizione dell’antichità, scrive: «Oh questi greci! Per loro questo è vivere: stare coraggiosamente in superficie, sulle rughe della pelle, adorare l’apparenza, nelle forme, nei toni, nelle parole; credere all’Olimpo dell’apparenza. Questi greci furono superficiali – nel profondo!».

Poter essere deboli, poter sbagliare Alla base dell’esperienza dell’angoscia è possibile, tuttavia, un’altra esperienza: quella della debolezza; senza debolezza non c’è alcuna paura. Anche l’”inizio della filosofia”, arkē philosophías, muove dalla percezione delle proprie debolezze e impotenze, secondo quanto Epitteto scriveva già tra il I e il II secolo d.C. nelle sue Diatribe (Diatribe, II, 11). Infatti accanto, dopo o ancora prima della meraviglia ontologica per ciò che è e per il suo modo di essere, prima della meraviglia ontologica per il fatto stesso che c’è qualcosa piuttosto che nulla, l’esperienza della debolezza antropologica e quella dell’errore nel conseguimento di ciò che è necessario segnano un inizio diverso della filosofia, dell’osservazione e della riflessione. A partire da questo fondamento abissale si sviluppano l’attenzione filosofica e la vita desta con tutte le sue domande, argomentazioni, metodi e discipline. La vita desta consegue dalla debolezza e dalle paure con l’obiettivo di prendersene

cura. Pretende così di superare ogni debolezza, come avviene nel programma stoico di un miglioramento del sé fino alla perfezione? La comprensione stoica dell’essere umano, così come quella cristiana – entrambe ancorate saldamente a una concezione dell’uomo come essere in grado di superare le proprie debolezze – presuppongono tuttavia come fondamentale fenomeno antropologico il concetto di astheneia. Nella modernità, invece, le debolezze diventano elementi dell’immagine di una malattia: l’astenia viene considerata, certo per buone ragioni e tuttavia con conseguenze fatali, alla stregua di una malattia alla quale reagire con i più svariati strumenti medici. Nella modernità si spalanca un abisso tra lo sforzo obbligatorio alla perfezione, che ne definisce la dinamica, e l’esperienza umana universalmente nota, in assoluto non quella della perfezione, bensì della debolezza e dell’errore. Ogni perfezionamento della scienza e della tecnica, da cui la modernità viene tormentata, fa apparire tutto ciò che dell’esperienza umana si lascia alle spalle come insufficiente e incurabile. La debolezza viene esperita quotidianamente come mancanza “di forza e di leggerezza”. E si può anche descrivere più precisamente come perdita di potenza, e la potenza può essere compresa nella forma di un disporre di possibilità, e in questo senso di una capacità (Können). Ciò spiega anche la debolezza specifica dell’errore: non essere capace di qualcosa, e comunque non adesso e forse nemmeno in futuro, o forse anche non esserlo mai stato. La debolezza è dunque l’esperienza dell’impotenza. Questo fenomeno compenetra l’interiorità del sé in maniera sorprendente. L’impotenza si esprime, infatti, non solo nella dimensione fisica e psichica, ma si estende anche alla sfera spirituale, alle strutture ermeneutiche del sé, manifestando i suoi effetti in maniera rovinosa: ciò che ha sempre avuto un senso, ora appare come un nulla. Tutto viene messo in questione, anche il sé per se stesso. È dunque possibile che il problema del “senso”, che è definito da una tensione a

vedere e a tenere insieme connessioni diverse, sia anche un problema di forza? Il motivo della sua allergia alla debolezza può consistere nel fatto che la cultura moderna fa fatica a difendersi dalla mancanza di senso? Non può essere che nella sua più profonda interiorità la cultura moderna sia, di contro alla sua apparenza esteriore, debole e impotente? I singoli uomini portano con sé tali questioni e credono che sia un problema personale a sfinirli. Osserviamo l’atteggiamento dei giovani: si impegnano a non esporsi mai, a non lasciar trasparire nessuna debolezza, a portare meticolosamente a compimento ogni loro prestazione, risolvere perfettamente i loro compiti, “essere completamente normali”, fare carriera, avere successo, essere vincenti e mai perdenti, ma, soprattutto, a essere cool, stoici in maniera completamente non filosofica, apparentemente non toccati da niente, intatti e inscalfibili sotto ogni rispetto. Al contempo, però, sono vittime della debolezza, perché non sono padroni di una capacità. Essere apparentemente forti, conservare la facciata della forza, costituisce senza dubbio un vantaggio immenso in una competizione il cui unico fine è diventare forti, in ogni caso e in maniera duratura. Più che vivere a dispetto di ogni debolezza, “diversamente moderno” è farle qualche concessione, almeno per un momento ammetterla di fronte a se stessi e agli altri, nel circolo delle persone di fiducia o di fronte ai conoscenti, o anche in un contesto terapeutico, per visualizzare l’incapacità o l’errore come una possibilità di essere se stessi. Non in maniera difensiva, ma offensiva, non per indirizzare un’accusa “alla società”, ma per correggere, individualmente o assieme agli altri, il rapporto della società nei confronti della debolezza e dell’errore attuando la propria vita in maniera diversa. Una diversa modernità è debole ma, nella sua debolezza, più forte. Se il nucleo della debolezza consiste nell’esperienza dell’impotenza, allora andarle incontro è una strategia che porta a guadagnare potere. Potere

nel senso dell’essere capaci. Anche se, in virtù di questa capacità, non è possibile lasciarsi dietro le spalle ogni impotenza e ogni incapacità, ci si troverà sempre di fronte a un superamento quantomeno parziale dell’impotenza che, in questo modo, diviene vivibile. Non ci si riferisce a nessuna capacità onnipotente, come quella con cui i giovani si trovano a confrontarsi, ma di una capacità esemplare, culminante in una singola cosa mediante la quale il sé comprende se stesso: essere effettivamente capaci di giocare a calcio, o saper far di conto, o fare l’amore. E anche una capacità in rapporto alla debolezza stessa, una capacità di essere deboli e di poter sbagliare, che è facile quando resta un residuo di forza. Siccome è escluso che si possa conquistare una capacità quando si è deboli, è necessario ottenerla prima. La si può mantenere nell’atteggiamento fondamentale che si assume contro la debolezza, ma per essere disponibile nel momento topico deve essere regolata per tempo. L’atteggiamento in questione mira soprattutto a liberarsi dalla continua fatica di mostrarsi forte e libero dall’onere di dover dissimulare il sentimento della debolezza. Bisognerebbe piuttosto dire a se stessi: «Non devo necessariamente brillare, a che scopo? Per dimostrare qualcosa a me e agli altri? Perché tutto questo deve essere necessariamente un bene?». La perdita della forza può essere un bene, perché è necessario perderla per poterla riconquistare. L’unica possibilità di ritrovare la forza, infatti, non risiede tanto nell’affermare che la si è perduta, quanto nell’ammettere di averla persa. Una dialettica delle forze e delle debolezze si riconosce dal fatto che quanto più il sé cede alle debolezze anziché combatterle, tanto più egli ritrova la forza di venirne a capo, pur non riuscendo forse a oltrepassarle. L’”oltrepassamento” può essere uno scopo solo temporaneo e non persistente, anche perché la debolezza sporadicamente ritorna, è continua, rimane come possibilità, forse addirittura come necessità. Difatti è la

debolezza, e non la presunta forza, a essere creativa e produttiva: lascia emergere la sensibilità, rafforza la coscienza, lavora a quell’opera dal cui compimento ci si aspetta un aumento delle forze del sé. La necessità della debolezza, al posto della forza sconsiderata, rompe le strutture fossilizzate e apre lo spazio dell’altro, cioè lo spazio della trasformazione: le possibilità di ricreazione della vita si presentano a chi sa essere debole. Attraverso la debolezza si intravedono nuove possibilità di incontro, perché chi è debole si apre agli altri anche solo per pura necessità. Chi è forte, al contrario, non ne ha bisogno – finché non viene sopraffatto da una debolezza; ma a quel punto è solo. Gli uomini naufragano a causa delle loro forze tanto quanto per le loro debolezze; la vera forza, perciò, sta nel saper essere deboli. Questo vale anche per la filosofia, quando si spera che ci aiuti a vivere.

Aiuto per la vita? Cosa significa «avere una filosofia» Questa speranza spaventa e atterrisce la dimensione intellettuale della filosofia. In confronto al ribrezzo di quei presuntuosi che non vogliono averci niente a che fare, la ricerca di un “aiuto per la vita” investe un numero sempre crescente di essere umani. Da dove nasce questa richiesta fortissima e da dove il rifiuto risoluto? La richiesta tocca tutti coloro i quali, nel portare avanti la loro vita, si vedono posti di fronte alle conseguenze di una tradizione perduta, di una convenzione, di una religione che arriva a definire, fin nei minimi dettagli, come si debba vivere. Nella modernità, il sapere pratico della vita non viene più trasmesso da persona a persona, da generazione a generazione. La progressiva liberazione ha spezzato questa catena. Così, l’individuo si ritrova a vivere solo e nel suo orizzonte limitato, mentre le risorse della tradizione gli restano precluse. Comincia perciò a chiedersi che cosa possa aiutarlo a vivere. La situazione è acuita dalle paure e da un senso di debolezza nei confronti della complessità delle società

moderne e delle sfide sempre nuove della scienza e della tecnica, alle quali non è possibile dare risposte a priori. Irrompe una vasta gamma di problemi vitali, questioni di principio, domande burocratiche o relative alla forma complessiva della vita, quesiti terapeutici e dilemmi esistenziali. Dal lato burocratico ci sono competenze specifiche, con l’aiuto certo banale delle quali possono essere risolti, nei casi specifici della società moderna, problemi urgenti come quelli finanziari, fiscali e giuridici. Anche per quanto riguarda la forma complessiva della vita, quando si tratta di possibilità di lavoro, della salute, di pianificare i viaggi ecc., ci si può giovare di particolari competenze, le quali sono a disposizione anche sotto il profilo terapeutico per affrontare una malattia fisica o psichica, per rimediare a “difficoltà” di comunicazione o di relazione, oppure, infine, per trovare il giusto atteggiamento nei confronti di sentimenti e passioni, o rispetto a piaceri e angosce. Ma quelli esistenziali, che in una certa misura lambiscono le domande terapeutiche e quelle sulla forma complessiva della vita, e travalicano ampiamente le questioni burocratiche, sono propriamente i problemi vitali: questa vita, individuale, sociale, si trova sulla giusta via? Cos’è per me la vita? Cosa ritengo importante: l’amicizia, l’amore, una vita ritirata o una vita aperta al mondo? Come posso condurla? Che senso hanno i piaceri, le paure, i dolori, la malattia e la sofferenza? Che rapporto ho con la morte? Cosa può dare una direzione alla mia vita? Cosa considero bello e degno d’approvazione, quali sono i valori ai quali intendo dare significato? Cos’è ai miei occhi la felicità e quale il senso della vita? Cosa sono in generale “senso” e “felicità”? Rispondere a queste domande significa trovare uno spazio nel quale è possibile prenderle in considerazione. Tale spazio, del quale gli esseri umani sono sempre più alla ricerca, è offerto dalla teologia, dai diversi tipi di terapie e, naturalmente, dalla filosofia. La filosofia può aiutare a vivere perché

permette, almeno in parte, di disporre lo spazio spirituale e “logico” all’interno del quale è possibile conquistare una capacità di giudizio autonoma, che aiuti a orientare la vita sempre di nuovo. Il fatto che questo spazio di consapevolezza e coscienza di sé sia aperto, e il fatto che, al suo interno, sia possibile vivere la passività della riflessione al di là di ogni attività, sono indubbiamente motivi, costanti nel tempo e presenti fin dall’antichità, per determinare il significato crescente della filosofia in un’epoca che ha smarrito la propria direzione. L’aiuto offerto dalla filosofia non consiste in una forma di terapia. Chi si pone problemi vitali non ha bisogno di terapie, almeno non nel senso stretto e moderno della parola, che presuppone uno sfondo patologico o disfunzionale. Ne avrebbe bisogno, al limite, nel senso lato, di cui si avvalgono anche alcune psicoterapie, indicato dal termine greco therapeía: ‘cura e assistenza’. In questo senso preoccuparsi per una “cura dell’anima” (psichē iatreía) non è necessariamente affare della psichiatria. La filosofia non “tratta” come la medicina, ma contribuisce a spiegare i problemi che investono la vita nel suo complesso. La spiegazione avviene con l’aiuto della filosofia e non per mezzo di essa. Il processo di chiarificazione condotto dalla filosofia non mira a una chiarezza definitiva, ma a quell’accesso operativo che rende nuovamente possibile vivere. L’offerta filosofica di spiegazioni, che a partire da Socrate coincide con la proposta di un dialogo, consiste in una sorta di ostetricia, maieutikē, il cui scopo è quello di far nascere il pensiero autonomo. Chi partecipa al dialogo può trovare una direzione che è andata perduta nel groviglio della vita quotidiana, o che non è stata ancora trovata. In questo dialogo il filosofo può essere un partner, a prescindere dal fatto che tale dialogo sia reale (quando avviene di fatto) o immaginario (quando, cioè, avviene solo nel pensiero). La forza della filosofia consiste nella sua debolezza: è incapace di ottenere una

spiegazione definitiva delle questioni più difficili e non dà alcuna certezza assoluta sulla vita e sul mondo. Migliaia di tentativi nel corso di migliaia di anni non hanno portato a niente. Ma proprio questa sua debolezza rende la filosofia estremamente attraente: essa offre lo spazio per l’esposizione di tutte quelle domande che altrimenti non ne troverebbero; ci fa sapere che esistono domande alle quali non è mai possibile rispondere in modo definitivo; fa capire che l’arte di vivere non consiste in altro che nel sapersi accontentare di questo stato di cose. Il rifiuto del dialogo, invece, spinge gli esseri umani nelle braccia di chi offre controverse forme di “soccorso”, ponendo la mistificazione in luogo della spiegazione. Anche se su questa via non si arriva mai a un parere definitivo, è però possibile dare vita a una consulenza relativa a ciò che si deve fare: un’esposizione degli aspetti in gioco, delle opzioni disponibili e degli argomenti pro e contro tali opzioni. In questo caso, è decisiva l’azione ottativa della filosofia, la quale lascia la responsabilità a colui che vive la propria vita, senza però abbandonarlo ai problemi che si pone. Il rispetto dell’autonomia del singolo è, per molte buone ragioni, un valore imprescindibile, anzi, è una verità esistenziale. Il singolo ha infatti il dovere di non trasferire la responsabilità che ha nei confronti di se stesso e della sua vita a qualche “consulente” che presenta un parere, forse solo contingente e irrilevante. Anche un semplice “consiglio”, o una superficiale raccomandazione, sarebbero troppo normativi; il processo di consulenza resta perciò solo un’esortazione, uno stimolo. Questa pratica può essere molto più utile di un consiglio concreto e, peraltro, non sacrifica la reciprocità tipica del dialogo: un’esortazione può dare occasione a uno dei dialoganti di abbandonare schemi di pensiero consolidati, di vedere una certa situazione con occhi diversi e, conseguentemente, di scorgere nuove possibilità. L’orizzonte storico-sistematico della filosofia offre, in tutta la sua ampiezza,

un po’ di “materiale” per dare stimoli che, per chi riesce a trarne ispirazione, rappresentano un indispensabile “nutrimento spirituale”. Un ruolo significativo in questa dinamica è svolto dall’esempio fornito da uno dei dialoganti. Sebbene resti esplicitamente tale, giacché la propria esperienza non può mai diventare un modello per qualcun altro, l’esempio è capace di dare occasione a un confronto che, sviluppandosi, può a sua volta portare a trovare qualcosa di diverso da quanto si è già acquisito. L’esempio personale rafforza la credibilità del partner di un dialogo, il quale appare ferrato non solo in teoria, ma si rivela capace di indicare anche un modo di vivere valido dal punto di vista pratico. La spiegazione e la consulenza possono portare ad avere una filosofia. A volte, nella vita individuale, così come in quella sociale, nell’economia o nella politica, si parla talvolta senza rifletterci di “filosofia”. Con questa espressione si intende perlopiù un insieme di visioni o di principi, che vi si fondano e che vengono considerati essenziali e, per quanto possibile, osservati nella prassi quotidiana. Nell’arte di vivere a cui si giunge tramite la filosofia, la condotta ponderata o una “filosofia di vita” nascono da una comprensione della vita – delle sue peculiarità e delle sue possibilità – autonoma, riflessiva e consapevole; una comprensione di ciò che nella vita si presenta, di ciò che è importante e “bello”, almeno nei limiti in cui ci appare tale. Il processo riflessivo della chiarificazione consente di guadagnare convinzioni fondamentali che non vengono solo affermate, ma anche dedotte dalla questione filosofica fondamentale: che cosa è davvero “essenziale”? La filosofia risiede nell’atteggiamento fondamentale che viene scelto; e se dovesse essere data innanzitutto dall’educazione e dalla cultura, prima di decidere bisognerebbe capire cosa debba essere mantenuto o cambiato. Avere una filosofia non significa quindi possedere “la verità”, ma solo aver trovato e formulato una verità per la vita, che vale solo per noi stessi e che appare

sufficientemente fondata per poterci costruire sopra la propria esistenza: è possibile vivere senza una simile verità? Per conquistare una propria filosofia di vita serve un filosofare libero, privo di vincoli istituzionali, che, come avveniva ai tempi di Socrate, si muova gomito a gomito con la vita individuale e sociale. Una filosofia di questo tipo offre occasioni e stimoli, abbondantemente presenti nella storia della filosofia, all’apparenza fatta di progetti filosofici nati nel corso del tempo dall’inquietudine e dalla riflessione sulla vita. Quando si rileggono i pensatori antichi, che con una mossa tipicamente moderna vengono dichiarati “superati”, non si ha a che fare con “testi morti”. Già solo la lontananza cronologica che li caratterizza favorisce una presa di distanze dall’attualità che rende più agevole una presa di coscienza del “senso”, dei nessi e dei fenomeni della vita, così come del loro significato e della loro importanza. La filosofia ha giustamente potuto perdurare nel tempo come “amore per la verità” o come desiderio di conoscere ciò che è essenziale. I tratti fondamentali della filosofia antica possono essere nuovamente ripresi per disegnare i contorni della propria arte di vivere: mutuare la passione energica per il bello dalla filosofia di Platone, un’instancabile disponibilità a riflettere dalla scuola di Aristotele, una smaccata franchezza dal cinismo di Diogene, una raffinata capacità di godere dal giardino di Epicuro, un solido scetticismo dalla tradizione di Pirrone, un’inscalfibile imperturbabilità dallo stoicismo, per esempio da Seneca. Tutto questo condito dalla sempre nuova disponibilità a rischiare, così come possiamo gustarcela nella saggistica di un Montaigne, che ha riscoperto nel XVI secolo la ricchezza della filosofia antica come saggezza, e rifinito da una filosofia della cura di sé, di un’abilità nei confronti di se stesso che diviene fondamento della familiarità con gli altri e dell’attenzione nei loro confronti. La maggior parte delle scuole filosofiche dell’antichità presenta chiaramente questa duplice dimensione del prendersi

cura che può tornare a essere importante per l’autocomprensione intellettuale e filosofica in una modernità diversa. Aiutarsi con l’intelletto: il cinismo1 Osserviamo Johnny indossare il mantello del cinico e vagabondare di notte per le luride strade di Londra, trascurato, intelligentissimo, maestro nel discorso forbito, sarcastico. Dorme nell’ingresso luminoso e marmoreo di un palazzo di uffici che definisce «camera a gas postmoderna» e si mette a far discorsi seri con la guardia giurata che sorveglia l’ingresso. Ce l’ha con la noia di un mondo fatto di lusso – proprio come l’antico Diogene – e attende la morte dell’essere umano, perché, ormai, «i giochi sono fatti». Non vede nulla che abbia una qualche consistenza, nulla su cui non si possa sputare. Le sue pretese sono fuori dalla grazia di Dio fino alla cattiveria. Insomma, è un essere insopportabile. «Come sarebbe se Dio ci avesse creato solo per passare il tempo – per avere qualcosa su cui ridere?». E uno, proprio una di quelle creature, ancora peggiore di lui perché non altrettanto intelligente, lo scaccia insultandolo: «Vaffanculo, stronzo!». E Johnny, il cinico, gli risponde lodando il suo inaudito interesse per «il dialogo socratico». Johnny viene preso a calci come un cane randagio e malmenato dalle figure della notte che, accusa, mettono in scena «un nulla pubblico». E lui fa lo stesso con Sophie, una vecchia barbona, che disprezza come tutte le altre donne. Questa è l’unica cosa che Johnny, il cinico, ha in comune con i (distorti) cinici postmoderni, con quello yuppie di Jeremy, che corre in macchina pensando che l’AIDS sia una ghiotta occasione per risolvere il problema della sovrappopolazione del pianeta. Quest’uomo di successo, questo carrierista, è, come Johnny, spudoratamente diretto; ma questo suo talento è cavo e vuoto: è un narciso arrogante che si prostra di fronte alla donna che ha seriamente intenzione di evirarlo, una donna come Sophie, che è la sua compagna di giochi e che lui adora sodomizzare. I due cinici sono

entrambi sfacciati e senza vergogna, fanno schifo. Ma il primo ce l’ha con il disagio sociale, mentre l’altro se lo vive e se lo gusta. Non si può affermare che il primo cinico si preoccupi solo di se stesso o che guardi solo al suo benessere. Per il secondo, invece, non esiste altro. Mentre Jeremy si riduce al puro nulla, Johnny vive nel dubbio costante: qui è almeno ancora riconoscibile un essere umano, anche se privo del minimo barlume di speranza. Tutti e due sono giovanissimi: due cinici nella cosiddetta postmodernità, così come vengono presentati in Naked, un film di Mike Leigh (1993). Una contrapposizione perfetta tra due modi di vivere tipici del mondo moderno e postmoderno. I due personaggi hanno un’intelligenza sopra la norma, ma la usano in maniera diversa. L’intelletto consente a entrambi di vedere e comprendere le relazioni fino al loro fondamento, di vedere le strutture laddove per gli altri esiste solo la superficie e di scoprire nuove possibilità. In questo caso, l’intelletto è una potenza. L’intelletto che caratterizza gli intellettuali può essere in parte una dote naturale e, in parte, frutto dello studio e dell’educazione. È comunque un privilegio e mai una ricompensa. Il cinismo consiste nel lasciare che l’intelletto si occupi, senza uscire da sé, di un qualche sottile e inutile esercizio di pensiero, nello stesso momento in cui altre persone ne hanno bisogno per cercare di uscire da una immeritata condizione di minorità. Un’arte di vivere che non miri, oltre che a migliorare ogni relazione necessaria del sé con se stesso, anche al miglioramento delle condizioni di quelli che non ci riescono con le proprie forze, è cinica. L’arte di vivere sarebbe ancora possibile, sarebbe ancora un’opzione ma, priva di interesse per gli altri e slegata da vincoli e relazioni sensate, resterebbe lontana dalla pienezza dell’esistere. Ammesso che la cura di sé, dopo il postmoderno, consista nella costruzione di una diversa modernità, deve essere chiaro fin da subito che

questo è il riflesso di un particolare cinismo tra i cinismi. Autenticamente cinico (kynisch) è l’atteggiamento che non dedica al proprio benessere un’attenzione eccessiva, che non ritiene la propria condizione come la più importante, ma si preoccupa, ben oltre se stesso, di coloro i quali, al contrario, hanno occasione di provare angoscia per sé e per la loro vita. Questi, il cui volere è sempre pericolosamente vicino a cadere nell’angoscia, hanno bisogno dell’assistenza, quantomeno temporanea, di chi sa che cosa sia l’angoscia e comprende come parte irrinunciabile del suo modo di vivere il prestare aiuto agli altri – allo stesso modo in cui lui ne ha avuto bisogno in passato. L’intelletto ha, al di là della situazione immediata, una natura strategica, poiché mira a chiarificare, a prendere coscienza, a “formare”. Solo con il suo aiuto diventa possibile una liberazione persistente dalle pressanti strettoie delle angosce. «Lei forse trova il mio umanismo fuori moda», diceva in un’intervista nel 2002 la regista iraniana Samira Makhmalbaf, «ma la formazione è l’unica utopia alla quale io credo e per la quale mi batto nei miei film». A differenza dell’inconsistenza che pure può essere attribuita a un certo cinismo distorto (Zynismus), incapace di fissare e stabilire un senso e un valore dell’esistenza, l’atteggiamento autenticamente cinico si distingue come donazione autonoma di senso e di valore. Contro il cinico distorto, il cinico autentico adduce motivi che non sono in prima istanza etici ma esistenziali, e cioè relativi alla sostenibilità della vita e alla felicità: tentativo destinato a fallire, perché lo scandaglio interiore porta il cinico, o il suo sistema, a chiudersi in se stesso. E tentativo poco prudente, perché è il caso che porta a vivere in un certo modo, sicché le relazioni prese in considerazione dal cinico potrebbero capovolgersi da un momento all’altro nel loro contrario, rendendolo sempre dipendente dall’esistenza di altri. Non tutti quelli che sono in possesso dell’arte di vivere devono essere cinici. E non è detto che l’esistenza cinica debba essere identica a quella del

nostro Johnny, la cui peculiarità, come spesso accade ai cinici, non è certo la moderazione: smodato in rapporto a se stesso, non in quanto fissato su di sé, ma, al contrario, perché si lascia andare. Smodato in rapporto agli altri e in particolare nel suo atteggiamento e nel suo rapporto con le donne, ereditati dal cinismo antico. Smodato in rapporto alle “relazioni”, che egli vuole cambiare in direzione della giustizia sociale, sebbene lui stesso non sia in condizione di cambiare nemmeno il suo rapporto con sé in questo senso. Devono cambiare solo le “relazioni”? Ma è qui che sorge il dubbio: anche ammesso che le relazioni mutino, Johnny resterebbe sempre lo stesso, e così anche le relazioni, sebbene, forse, sotto forma di un “altro sistema”. Un atteggiamento critico e controllato consisterebbe, perciò, nel rendere i cambiamenti e i miglioramenti non solo un’esigenza propria della dimensione sociale, ma anche il risultato di un tentativo di condurre la propria esistenza individuale. Non si tratta di portare avanti una polemica petulante, con parole che restano solo tali, ma anche di introdurre argomentazioni esistenziali, le quali rendono argomentazione il modo stesso di condurre la propria esistenza, in un linguaggio universale perché è il linguaggio della vita concretamente vissuta. Questo, infatti, rende chiaramente visibile ciò di cui si è a favore e ciò a cui si è contrari, e non in vacue parole, ma in un’attestazione esistenziale. Ciò potrebbe sembrare impossibile per il singolo, ma quello che conta, come sostiene anche Adorno nei suoi aforismi noti come Minima moralia (1951), è non subire stupidamente la propria impotenza. Ben oltre quanto afferma Adorno, vale anche il contrario: è possibile farsi fregare in maniera non impotente dalla propria stupidità, dalla propria cecità per le connessioni di senso. Il tentativo di vivere in maniera diversa potrebbe anche naufragare, ma il naufragio non è necessariamente un male – male è solo non provarci, accollando agli altri tutta la fatica e il lavoro necessari per cambiare se stessi, come se gli altri fossero lo strumento naturale per ottenere una

migliore comprensione di sé. La verità è che gli autentici cinici, quelli come Johnny, non sentono l’urgenza di un cambiamento e di un miglioramento: si sono acquietati nella loro infelicità e nell’atteggiamento accusatorio nei confronti delle false relazioni esistenti. Anzi, la loro identità nasce con questi atteggiamenti, che si cristallizzano nel corso del tempo. La pigrizia che li caratterizza rappresenta una potenza superiore – contro la quale non è possibile dire nulla di concreto, perché le abitudini sono uno strumento irrinunciabile per disporre la vita individuale. Quello che fa rabbia è solo il fatto che, in questo caso, la vita viene rappresentata come uno scenario fatto di orpelli prodotti dalla critica dell’esistente e perfino da una “critica della civiltà” con il solo scopo di illudere sé e gli altri sulla mancanza di disponibilità al lavoro individuale, a cominciare da se stessi. Ammesso che la possibilità di un cambiamento e di un miglioramento non debba essere persa di vista, è fuor di dubbio che un atteggiamento critico nei confronti di se stessi, degli altri e delle “relazioni” esistenti sia imprescindibile. Ma la critica, che resta necessaria, dovrebbe essere accompagnata da un’etica e un’estetica della misura, certamente non decontestualizzate e onnipresenti, non senza pause e rivolte a tutto, non monotone o prive di una valutazione delle proporzioni dei diversi problemi. Criticare significa “separare” (in greco krínein) ciò che il destinatario della critica (il criticato) sente con dolore. Sarebbe opportuno misurare con precisione la critica in rapporto all’occasione, alla situazione, alla persona, alle prospettive di miglioramento che essa pone, e non esercitarla eccessivamente, con la speranza di colpire qualcosa, con l’unico obiettivo di ferire o di scontrarsi con l’ignoranza. Un’unità di misura affidabile è quella che deriva dalla familiarità con le critiche mosse da altri; in questo modo è facile capire che la critica che vede soltanto cose criticabili è infinita: nello scorrere incontrollato della critica, ciò che viene criticato, in questo caso se

stessi, non trova più alcun appiglio, perché tutto appare come privo di prospettiva, e ogni differenziazione sembra assurda, giacché tutto viene condannato con forza e indifferentemente. La critica che non relativizza nulla crolla su se stessa, mentre quella critica che non si limita alla distruzione dell’esistente, ma manifesta un possibile lavoro esistenziale sull’altro, guadagna in fascino e, quindi, anche in efficacia. In questo senso, pur senza escludere altre opzioni, è possibile formare, in un’accezione molto moderata, una disposizione cinica all’arte di vivere. Ma che cosa si intende con “arte” quando si parla di un’arte di vivere che mira a trovare quel sé che è funestato dalle paure e dalle debolezze?

L’arte nell’arte di vivere Le arti sono ponti sugli abissi. Muovono dalle esperienze dell’abisso e tentano di trovare una risposta alle domande che esse pongono. Questo vale per l’arte di vivere così come per ogni arte. L’abisso si presenta nelle relazioni tra gli uomini, nel rapporto dell’uomo con se stesso, tra culture diverse e all’interno di una cultura specifica e, per esempio, nella stessa “modernità”. Abissi si danno infine anche nell’esistenza umana in generale e si mostrano come costanti nel tempo perché si contrappongono sempre di nuovo al tentativo di comprenderli. Per fare una “vita bella” gli uomini portano avanti da sempre un lavoro artistico o artificiale su se stessi e sulla loro vita, tanto dal punto di vista individuale, quanto da quello sociale e culturale. Un concetto definitivo, generale e prescrittivo di arte non esiste. Se proprio vogliamo parlarne, dobbiamo però definirlo almeno in via provvisoria. Con “arte” si deve intendere innanzitutto un vago miscuglio di “pretesa e capacità”. In riferimento all’arte di vivere come condotta consapevole di vita, la pretesa consiste nella consapevolezza, la capacità, invece, nel formare la propria vita in base a questa pretesa. L’arte di vivere,

come ogni arte, non è facile, bensì difficile, altrimenti non sarebbe arte. Lamentarsi delle difficoltà è molto poco sensato, perché l’arte di vivere, come ogni arte, non è una norma, ma una opzione. Quello che sembra facile è, in realtà, il risultato di un lavoro: fatica, esercizio e impegno. Il talento può addirittura essere un impedimento, perché induce a misconoscere il lavoro necessario a portare a termine l’impresa. L’arte suprema consiste nel far apparire facile quello che inizialmente era difficile. Per ogni arte di vivere, così come per ogni arte in generale, risulta fondamentale scegliere di imboccare il cammino che essa dischiude. Il sé si muove come il pittore, che ha inizialmente un’immagine nel suo occhio interiore e poi ci lavora, dedicandosi alacremente a definirne i dettagli e tornando sempre di nuovo sui suoi passi per osservare a distanza il risultato complessivo della sua opera. Anche la vita futura è una visione, un sogno, una possibilità sognata, o forse anche solo il presentimento di un’idea, di un incontro, di un sentiero da percorrere, di una vita diversa. Il passaggio dal presentimento indeterminato alla forma determinata, dall’”in qualche modo” al “così e non in maniera diversa”, da “un qualcosa” al “questo e non quest’altro” – ecco la via che porta dalla possibilità alla realtà. Essa consiste in una serie di azioni concrete, di singoli passi simili a singole pennellate, che non devono essere concepiti a priori in tutti i loro particolari e, dunque, non hanno bisogno di una preparazione. Si deve piuttosto creare lo spazio dove lavorare; si deve disporre del tempo necessario a raggiungere lo scopo, attraverso una molteplicità di situazioni. Solo nel corso del lavoro diviene possibile acquisire l’abilità (Gekönntheit) per dare forma all’opera, avvalendosi dell’esperienza che deriva dalla conoscenza della cosa, dell’abitudine progressiva alle sfide che si presentano; esercitandosi a effettuare mosse che ricorrono di continuo. L’abilità non rappresenta il frutto di un dovere costrittivo, ma un surplus rispetto alla costrizione. Si tratta di una piena

realizzazione nel senso dell’eccellenza. Ogni aspirazione all’eccellenza è arte. Sui tre piani della possibilità, della realtà e dell’abilità, i presupposti dell’arte sono sensibilità e fiuto, che rappresentano l’orizzonte all’interno del quale l’”arte” può manifestarsi. La sensibilità è innanzitutto virtuale e si esprime in un senso per le possibilità, oltre che nella capacità di fiutare le inquietudini interiori, di intuire i bisogni e le aspirazioni del sé, di scoprire le possibilità che possono soddisfare quei bisogni e quelle aspettative, di ravvisare sia le chance, sia i pericoli, individuali e sociali, evidenti già nello spazio di un attimo. La sensibilità e il fiuto rendono il sé attento a ciò di cui è privo, o, viceversa, a ciò da cui trarrebbe giovamento. Trattengono dal mettersi in una situazione in cui la vita diviene “troppo stretta” e spingono a chiedersi sempre di nuovo quali siano le possibilità grazie alle quali io posso trovare in ogni momento la vita e, qualora non riuscissi a individuarle, come posso inventarmele. Questo discorso vale per tutti gli ambiti e su tutti i piani della vita: per le semplici azioni della quotidianità (fare spese, andare a mangiare, incontrarsi con gli amici), come per le decisioni fondamentali, per esempio in tema di lavoro, famiglia o sul posto dove abitare. Bisogna sempre essere in grado di scoprire o di creare possibilità, forze, potenzialità. Cominciare a lavorare in questo senso consente di acquisire un’accuratezza nei confronti delle possibilità esistenti, aperte, evidenti o nascoste. A questo scopo è necessario informarsi accuratamente, ma anche sfruttare le diverse possibilità offerte dal caso. Per farlo è importante riconoscerle ed essere pronti a dare loro uno spazio. Quindi: tenersi aperti a esse e lasciare che si presentino. Con una creatività ingegnosa il sé diviene capace di scoprire un nuovo che non può essere previsto (o profetizzato), che è ancora ignoto e anche “irreale”. È quindi necessario essere capaci di stabilire connessioni inattese, e tale capacità non deve essere decifrata, ma esercitata nella familiarità produttiva e recettiva attraverso l’arte. Il sé deve sempre tenersi

pronto a sognare, perché è anche nei sogni notturni – e in quelli a occhi aperti – che si scopre e ci si gioca quanto è possibile e quanto non lo è. La funzione dei sogni è quella di creare e dissolvere connessioni, formare costellazioni e disperderle, portare il sé ad avere un’idea, oppure metterlo in guardia dai pericoli che lo minacciano. Questo lavoro termina con il lavoro ascetico che procura nuove possibilità, oltre il tempo della fatica e dell’impegno. In aggiunta a quella virtuale, la concretizzazione di una possibilità può essere preparata e accompagnata dalla sensibilità reale. In questo caso, il senso per la realtà, legato al fiuto, porta a intuire quella possibilità che può e deve essere realizzata in rapporto a certe condizioni date. La domanda è, a questo punto: quale tra le possibilità che mi si presentano è quella che posso realizzare, e come posso farlo effettivamente? Fare spese, andare a mangiare, incontrare amici, non solo pensare o sentire di farlo; decidere concretamente su temi legati al lavoro, alla famiglia, al luogo in cui vivere, e non solo pensare a quanto ho la possibilità di fare. Per una valutazione delle varie situazioni che si presentano, degli altri e di tutta la vita nel mondo, il sé ha bisogno dei sensi, ma anche di una sensibilità che abbia a che vedere con le strutture. È vero: ogni informazione deve essere tratta dai sensi. Ma è anche necessario un impegno teoretico per individuarne le strutture, che non possono essere colte dai sensi e che, tuttavia, costituiscono i veri e propri tratti fondamentali della realtà, tanto di quella esteriore del mondo quanto di quella interiore del sé. Una conoscenza dettagliata delle strutture della realtà data è necessaria per poter scegliere sensatamente una possibilità e per svolgere il lavoro necessario a tradurla in realtà. La vera attenzione e l’accortezza nei confronti della realtà esistente non mirano ad adattarvisi, ma a conoscerla al meglio per poter centrare la realizzazione aspirata. Un incremento della sensibilità reale implica immediatamente una sensibilità eccellente, la cui espressione si trova nel senso per una realtà

creata in piena conformità all’arte, e dunque nel cosiddetto senso artistico. Questa sensibilità prepara la concretizzazione, legata a una determinata abilità, e l’accompagna con una visione particolarmente efficace del campo aperto da quella concretizzazione e della situazione che vi è connessa, con un fiuto marcato per la finezza della realizzazione e con una sottile accortezza nei confronti dei dettagli. Si pone qui il problema di come soddisfare esigenze superiori, come realizzare qualcosa in maniera intelligente. L’eccellenza – aretē in greco antico – è la piena perfezione che può essere raggiunta quando si svolgono certe attività e si assumono certi comportamenti, anche poco appariscenti: nella vita quotidiana, nonostante la quotidianità nella sua inerzia appaia contrapposta all’eccellenza (pur essendo possibile cucinare o conversare in modo eccellente), così come in rapporto all’esistenza nella sua totalità (la fatica di essere genitori eccellenti, esercitare in maniera eccellente la professione che ciascuno di noi si è scelto). Il fiuto per tutto questo nasce sulla base di un’esperienza ricca e di un’altrettanto ricca riflessione su quanto ne deriva, unite alla disponibilità a sbagliare e a imparare dagli errori. Così, il fiuto può espandersi ed essere educato fino a rendere possibile una percezione differenziata di ogni ambito in questione e rendere capaci di fare fronte alla complessità di una problematica, anche se non in tutti gli ambiti della vita e dell’arte, non sempre nella stessa misura e non da ogni singolo soggetto in ogni momento e ovunque: è, infatti, sempre necessario concentrarsi su uno specifico campo da privilegiare. Se in un certo caso si esibisce una sensibilità delicata e sottile, in un altro emerge la grettezza; raggiungere una sensibilità eccellente in tutti gli ambiti della vita e dell’arte è impossibile. Solo sulla base della sensibilità e del fiuto è possibile sviluppare l’arte nel senso dell’essere capaci, e l’arte di vivere come essere capaci di vivere, nuovamente su tre livelli e nella stessa sequenza che abbiamo appena visto.

Alla sensibilità virtuale corrisponde, al primo livello, una capacità virtuale: il sé non sogna più soltanto possibilità, ma le elabora per disporne effettivamente, anche se ancora non le attualizza. «Ne sono capace» significa, in questo caso, essere capaci senza che questa capacità sia ancora reale. Solo al secondo livello si può parlare di una capacità reale, cioè di un’attuazione effettiva. Ora quello che conta è scegliere alcune possibilità tra tante e progettare il modo per tradurle in realtà. «Ne sono capace» significa qui lavorare per realizzare qualcosa ed essere in grado di presentare un risultato. Nella realizzazione non esiste alcuna necessità: possiamo determinare il risultato finale sono in maniera condizionata. Il sé deve, infatti, prevedere la compresenza degli eventi più vari e casuali; per questo motivo deve anche mettere in conto di “non riuscire a realizzare nulla”. Non tutte le possibilità si possono tradurre in realtà, e soprattutto non tutte contemporaneamente; ogni volta che si tenta di farlo ci si imbatte in un fenomeno chiamato “stress”. L’arte è legata alla rinuncia e sollecita a lasciare inutilizzate certe possibilità. In definitiva si tratta della capacità di iniziare qualcosa: trovare il momento topico (kairós) per fissarla e metterla in atto, questo è propriamente il compito della kairologia nelle sue molteplici accezioni. In ogni inizio è insita una magia, e in ogni magia la nascita di una nuova vita. Ciò che può divenire realtà è già posto nella costellazione dell’inizio, che rende possibile questo e, verosimilmente, non quest’altro. Specularmente, all’altra estremità del tempo incombe una capacità di fermarsi e, di nuovo, è importante intuire il momento giusto per farlo, fissarlo e possibilmente fare in modo che arrivi. Se l’inizio è sempre una nascita, l’interruzione è sempre una morte. Incontrare la fine è doloroso. Ma se non la si incontra, prima o poi bisogna aspettarsela, più vicina in un tempo e in condizioni che possono essere controllate sempre meno. Al terzo livello si trova una capacità eccellente. L’impegno per

l’eccellenza non pone più la domanda sul se che si trova alla base di una possibilità, né quella sul che relativo alla sua realizzabilità, ma quella sul come, pienamente artificiale o artistico2, della realtà stessa. «Ne sono capace» qui significa: sono in grado di farlo particolarmente bene. Eccellente è una realizzazione straordinaria, che si tira fuori dal pantano dell’ordinario, che è abnorme in rapporto alla normalità, sofisticata, abile, intelligente, consapevole dei concetti da manipolare in maniera virtuosa, raffinata e puntuale. Anche se il talento può essere considerato un vantaggio, la capacità per l’eccellenza chiama in causa un ascetismo paziente e un esercizio costante che portano a un saper fare talmente sicuro che dà l’impressione che ogni cosa accada da sé. Ma non sta scritto da nessuna parte che da questo tipo di compiutezza derivi necessariamente una totale assenza di errori o che dall’eccellenza nasca la perfezione. In funzione della natura soggettiva e individuale del legame, pure soggettivo e individuale, che sussiste tra la sensibilità, il fiuto e la capacità che ne deriva, anche l’arte può essere connessa, a buon diritto, con la soggettività e con l’individualità. Nella forma dell’arte di vivere, in particolare, l’arte può essere considerata come il processo di formazione3, soggettiva e consapevole, della vita individuale. La formazione non ha necessariamente come conseguenza un’opera compiuta, ma può sempre restare un work in progress. Ancora una volta è possibile distinguere tre livelli: dischiudere possibilità, concretizzarle e farlo con una certa abilità. Quando si parla di lavoro per la formazione, non si intende mai il disporre a proprio piacimento del materiale della vita, delle esperienze, degli incontri, dei pensieri, dei sentimenti o, infine, di speranze, timori, contingenze e tutto il resto. Nel sé e nella sua vita non è possibile formare tutto attivamente, ma molto deve essere assunto, piuttosto, con una certa passività. Il che pone in questione l’atteggiamento che l’accompagna e, di conseguenza, ripropone il

problema della scelta, e dunque della creazione. Ogni aspetto può essere preparato da una riflessione teorica e da un esercizio pratico. Ciò è materia dell’educazione in senso generale, della formazione avanzata, del divenire adulti o anche della filosofia e del lavoro terapeutico in senso lato: tutti aspetti che idealmente si completano a vicenda. In ultima analisi, l’arte di cui parla l’arte di vivere mira non tanto alla produzione (alla vita come arte e come opera d’arte), ma alla ricezione (il significato dell’arte e delle opere d’arte per la vita). L’arte è libera, e lo è anche la sua ricezione: se, cosa, quando, come, perché e a che scopo sono tutte domande relative alla scelta che il sé deve effettuare. L’arte e l’opera d’arte possono essere scelte per trovare stimoli a interpretare l’esistenza e la formazione di una vita: un’immagine, un’installazione o un testo possono essere interpretati e compresi, ma ciò che viene interpretato e compreso è sempre il sé e la propria vita. Possiamo prendere in considerazione l’arte e le opere che ne derivano anche perché attraverso esse veniamo toccati da qualcosa che va “oltre” il nostro mondo e, in questo senso, da una trascendenza, da una “scintilla” che rivela una realtà, e quindi un insieme di possibilità, pensieri e sentimenti diversi da quelli a noi noti, così come aspetti della vita diversi da quelli correnti. L’arte e le opere d’arte rendono possibile anche imparare a vivere esteticamente, con una precisione nella percezione che apre a nuovi modi di vedere le cose; con un’idea del bello di cui è possibile fare esperienza non solo mediante il pensiero, ma anche sulla via delle sensazioni, allo scopo di prestare attenzione alla vulnerabilità dell’essere umano e del suo mondo o alla sua mancanza di fondamento, nascosta sotto la superficie e ineffabile alla quotidianità. Infine, con l’arte è possibile imparare a conoscere le cose in modo diverso, sperimentale e mirabile (cioè capace di sorprendere), opposto all’ovvietà; una modalità contrapposta alla comprensione dominante e a un’interpretazione che riduce

la complessità a unità. Questa è un’occasione per tornare a sognare, ma anche per imparare a scegliere in maniera esemplare, perché l’arte consiste nel poter scegliere, attivamente e passivamente, agendo, ma anche senza farlo. L’interesse per l’arte si nutre essenzialmente della domanda su cosa essa, in quanto messa in opera della libertà nella vita, può rendere possibile, o su che cosa può innescare, anche quando afferma di non voler “aver nulla a che fare” con la vita, proprio mentre in questa sua intenzione riesce a comunicare conoscenza per l’esistenza. L’arte è sempre uno sforzo verso l’arte di vivere. Uno sforzo produttivo, quando si conduce un’esistenza artistica, e recettivo, quando l’arte viene assunta nella vita. Resta da capire “che cos’è” quella vita a cui si rivolgono la sensibilità, il fiuto, la capacità, la formazione e la familiarità con l’arte propria dell’arte di vivere.

La vita è un gioco? «Così è la vita!». Con questa frase ci lustriamo la bocca nelle situazioni più diverse. Ma che cosa significa? Evidentemente, significa che la vita è curiosa, importante, paradossale, contraddittoria, enigmatica, assurda, imprevedibile, matta, ingiusta, bella, e anche tutto il contrario. In poche parole, che la vita non si cura della valutazione e delle classificazioni degli esseri umani. È dunque solo una dinamica irregolare, senza senso e senza scopo, e io sono solo un punto sperduto e confuso in questa dinamica? Certo, non è possibile dire in maniera definitiva che cosa sia la vita. Questo non è necessariamente un male, ma potrebbe anche essere il segno di un’apertura fondamentale, che mantiene la tensione che è propria della vita. Quale sia il senso di tutto ciò è chiaramente comprensibile se immaginiamo un’epoca in cui la vita – la vita in generale, la vita dell’essere umano in particolare, o la mia vita – possa essere studiata, vista e compenetrata nella sua interezza, per esempio da un punto di vista biologico, sociale, psicologico, neurobiologico… Sarebbe un’età della noia come non si sarebbe mai vista su

questo pianeta. Dire questo non significa scagliarsi contro la ricerca sulla vita, ma solo contro le aspettative che vi sono connesse. Accanto all’accesso analitico alla vita, sarebbe perciò importante mantenere aperto anche quello ermeneutico, vale a dire un percorso di interpretazione e comprensione in grado di dischiudere sempre nuovi orizzonti, non solo per la vita stessa, ma anche per le direzioni della ricerca che, al contrario di quanto comunemente si ritiene, non possono risultare sempre evidenti e oggettive. L’accesso ermeneutico alla vita è fondamentale per l’arte di vivere, e una possibile interpretazione in questa direzione è quella della vita come gioco. Qualcuno la ritiene un’idea molto affascinante, e l’arte di vivere pensa di essere in grado di realizzarla. Ci si aspetta, infatti, di poter trovare nella vita una gioia simile a quella che si prova nel gioco – anche se talvolta si trascura di rimarcare che proprio il gioco è anche fonte di grandi delusioni. Ci sono tuttavia buoni motivi per affidarsi a un’interpretazione della vita come gioco, anche se occorre prendere qualche precauzione: in epoca moderna la vita come gioco guadagna in importanza, poiché per gli individui, affrancati da ogni vincolo e da scopi imposti dall’esterno, diviene necessario sperimentare, provare e, in questo senso, anche giocare, sempre dopo aver stabilito le regole del gioco e trovato le forme della libertà che permettono di giocare. Inoltre, la comprensione della vita come gioco libera un’attività ermeneutica eccezionalmente vasta, una notevole riflessione sul vivere, sulle sue condizioni e possibilità, a partire dalla quale possono essere risolte anche ulteriori questioni. Infine, l’entusiasmo che nasce dall’enorme fascino che deriva dalla possibilità di considerare la vita come un gioco può essere utile alla formazione dell’esistenza, perché istituisce un legame intenso con la vita e diviene fonte di una grande fecondità, grazie alla quale la vita può essere sempre ricreata di fronte ad avversità, irritazioni, ostilità e malattie. Legarsi o, addirittura, volendo subire il fascino del significato letterale della parola,

“incatenarsi” a tutto questo è conseguenza di una scelta passiva presa dal singolo individuo, di un abbandonarsi agli eventi, pur sempre nel senso di una condotta cosciente e di una problematizzazione critica, senza mai divenire schiavi delle proprie catene. Per non smarrire troppo presto l’appeal esercitato dalla vita come gioco, e per evitare che si tramuti in fretta nel suo opposto – demotivazione e depressione – è opportuno portare avanti il discorso sul gioco con una certa prudenza. Ma che cos’è un “gioco”? Per riuscire a rendere espliciti tutti gli aspetti che lo rendono tale, e anche quelli che hanno un certo significato per la comprensione della vita come gioco, si potrebbe forse trarre spunto da una partita di calcio. Le questioni vitali sembrano poter essere trattate allo stesso modo di quello che, allo stadio, è il campo di gioco vero e proprio. Anche in quel caso non si tratta di pallone, ma di vita, e la verità del gioco, come si sa, consiste nel prendervi parte. Ecco le sue venti condizioni: uno spazio, il campo di gioco. Un tempo, i 90 minuti. Un oggetto con cui giocare, il pallone. La presenza di più di una persona che partecipa al gioco: deve sempre essere possibile “giocare con qualcuno”. L’esistenza di regole da rispettare e, talvolta, anche da aggirare. Tattica e strategia, che diventano decisive e danno struttura al gioco azione dopo azione. Creatività, per vedere in ogni situazione sempre ulteriori possibilità, oppure per crearne di alternative o tentare qualcosa di nuovo. Apertura all’imprevisto, per giocare al meglio in ogni particolare situazione. Tecnica, fatta di movimenti singoli, sequenze di azioni, schemi, varianti da preparare e perfezionare continuamente senza mai stancarsi. I trucchi, non sempre e non necessariamente conformi alle regole. Un fiuto sottile e “un occhio clinico”, allenato e formato grazie a un’esperienza molteplice e alla riflessione su di essa. Ognuna di queste condizioni deve essere legata alla saggezza: l’emozione come spinta, la cognizione come conoscenza teorica delle

strutture. Un gioco di forza all’interno del sé, perché un giocatore squilibrato prima o poi “smette di giocare”. Un gioco di forze esteriore, diretto contro un “avversario”, che rappresenta senz’altro il problema del gioco, ma che, in realtà, ne è il garante: crea la polarità e quindi anche la tensione. Un gioco di squadra, perché in questo modo si possono realizzare molte più possibilità di quante ce ne potrebbero essere giocando da soli. Uno sguardo esteriore istituzionale (allenatore, arbitro), con l’aiuto del quale la partita può essere modificata e corretta da un metalivello. Spettatori, la cassa di risonanza: senza di loro la partita sarebbe un gioco spettrale, sebbene i giocatori possano essere considerati anche come spettatori della partita che loro stessi stanno giocando. Superare la paura di una sconfitta, di un’incertezza che non dà soddisfazione e, soprattutto, superare la paura di un trionfo, che indebolisce ed espone a ogni sorta di leggerezza e pigrizia. Uno scopo immanente al gioco, come quello di segnare un goal; se si presentano anche scopi esteriori, il gioco ne soffre. E, soprattutto, la libertà e la spontaneità, non la necessità: un gioco non è un obbligo; anche ammettendo che chi gioca sia in grado di amare ciò a cui è obbligato, la pressione dell’obbligo sparirebbe e il giocatore si sentirebbe nuovamente libero. Tutti questi aspetti si ritrovano evidentemente nel gioco della vita. Esiste uno spazio, o “un campo da gioco”: la definizione dei diversi luoghi tra i quali il soggetto preferisce muoversi. Una limitazione temporale, sempre data alla vita, che deve sempre poter esistere, o in singoli frammenti, o anche nella forma di un tutto. L’oggetto del gioco è il materiale molteplice della vita che, come un pallone, cambia continuamente direzione e con il quale bisogna saperci fare nei modi più svariati. La partita è giocata sempre da più di una persona: il soggetto dell’arte di vivere non è mai solo il sé, ma sempre anche gli altri e “la vita” stessa, che provvede a delineare le diverse situazioni, che si presentano al contempo come sfide. Le regole e le consuetudini che devono

essere rispettate, formali o informali che siano, sono poste in essere dal sé, dagli altri e dalla vita stessa e non possono essere violate senza conseguenze. Le regole devono comunque essere “flessibili” in modo tale che la vita possa sempre continuare. L’arte di vivere culmina nella definizione della tattica e della strategia. Lo scopo dell’arte di vivere è infatti quello di strutturare in maniera prudente, non meno che lungimirante, le singole azioni e le situazioni complessive. La creatività si occupa di fare in modo che la conduzione della propria vita possa sempre destare sorpresa, che non possa essere risolta da qualcos’altro, che resti enigmatica, non determinabile, spesso anche sperimentale: la vita diviene un gioco quando è necessario tentare e provare qualcosa indipendentemente dalla riuscita o dal fallimento dei tentativi. Questa è la base per inscrivere la contingenza nella comprensione della vita, allo scopo di non rimanere troppo a lungo dell’idea che la vita possa essere pienamente determinata. Quello che conta è, in ogni caso, apprendere una capacità ed esercitarla esteticamente, allenarla per raggiungere, almeno idealmente, la più alta eleganza nell’affrontare le diverse situazioni; come esercizio per acquisire questa capacità sono adatti tutti i tipi di giochi. La conoscenza dei trucchi così come una certa destrezza sono importanti, ad esempio, per sciogliere un nodo in cui si è aggrovigliata una situazione. L’educazione progressiva, la raffinazione del fiuto mediante l’esperienza e la riflessione sono imprescindibili per non doversi fermare a pensare troppo a ogni passo. Il gioco di forza interno al sé deve essere chiarito per raggiungere una conoscenza di se stessi che tenga conto delle contraddizioni che non possono essere eliminate. Il gioco di forza esteriore è il polo contrario, contraddittorio e tuttavia necessario. Quando si gioca a vivere questo polo è rappresentato dagli altri, che devono essere accettati come dati o perfino affermati come qualcosa che arricchisce la vita. Il gioco di squadra, la cooperazione con gli altri, può essere cercata per formare una

rete di legami che permette di scoprire un numero molto maggiore di possibilità rispetto a quelle dischiuse dalla vita condotta solo per sé. Lo sguardo dall’esterno è importante, perché rende manifesta la figura di colui in cui riponiamo fiducia, dell’amico; per questo il sé si sforza di interiorizzarlo. Ogni azione comprende, infatti, la dimensione dello spettatore, poiché si tratta sempre di condurre la propria vita di fronte agli occhi degli altri, di essere commentati e giudicati dal loro punto di vista. È impossibile che questo non abbia ripercussioni sul modo in cui il sé si autocomprende. Una sfida per il compimento della vita è senz’altro quella rappresentata dalle sconfitte e dagli insuccessi, così come dalle vittorie e dai successi. La vita trova, poi, il suo scopo, cioè la sua pienezza, in se stessa e non al suo esterno. Partecipare al gioco della vita, infine, significa farlo con libertà e spontaneità, mai come costrizione necessaria; non ci si può dunque mettere semplicemente a giocare. Deve essere sempre fondamentalmente possibile scegliere se farlo o meno. Nonostante tutto, tra il gioco e la vita ci sono alcune differenze lampanti: il gioco è normalmente preformato e questa forma data si ripartisce nel ruolo dei singoli giocatori. Nella vita compresa come gioco non è mai possibile dare indicazioni precise, e in molti casi l’individuo stesso deve provvedere lui stesso a costruire una forma, per esempio a darsi delle regole di vita, che egli ha tutta l’intenzione di seguire. La sua libera fondazione della vita richiede un certo rapporto con la limitazione temporale relativa alla sua totalità o ai suoi singoli momenti, allo scopo di prendere la vita “come viene”, ma anche per fare programmi. Il gioco offre la possibilità di smettere, o di trarsene fuori, cosa che però riguarda eventualmente la nostra interpretazione della vita nella sua totalità, sia dal punto di vista ermeneutico, cioè smettere di interpretare la vita come gioco, sia da quello esistenziale, cioè smettere di vivere. Nella vita, infine, esiste un limite, che è quantitativo e qualitativo, relativo alla sua

rivedibilità. Diversamente da quanto accade nel gioco, nella vita non è frequente poter ricominciare tutto daccapo e farlo meglio o diversamente. Quel che è fatto è fatto e condiziona tutto il resto dell’esistenza. Perciò un fallimento può essere più amaro che nel gioco. Certo, si può sempre dire «altro giro, altra corsa», cioè per ogni cambiamento di costellazione si dà anche un’interpretazione diversa, magari anche più efficace di quella precedente. Ineludibile per il gioco della vita è la revisione della regola, sempre parziale e mai totale, e in ogni caso sempre nei limiti della conoscenza umana. Una revisione totale comporterebbe, infatti, la possibilità di una ripetizione, forse di una nuova nascita, di un daccapo almeno nella forma di altri mondi possibili. Significativi per ogni vita sono però soprattutto i seguenti fenomeni: contingenza, resistenza, polarità. Se la vita deve essere compresa come un gioco, allora l’arte di vivere deve venire in chiaro di questi fenomeni. Il fenomeno della contingenza implica che molte cose della vita non siano scelte e pianificate; la vita è così perché è così: l’intera forma della vita nasce da una serie di casualità. E tuttavia, anche in questo caso è in gioco una scelta, decisiva nella misura in cui il sé lasci che il caso si manifesti, intenda piegarlo a suo strumento o tenti di rifiutarlo. Le casualità, che se venissero soltanto pensate manifesterebbero una mancanza di creatività da parte del sé, forniscono piuttosto il materiale per tentativi ed esperimenti. Perciò è importante mettere loro a disposizione uno spazio, al fine di dischiudere possibilità di vita che non possono essere prodotte da nessuna pianificazione, la quale tenderebbe di per sé a escludere il caso. Per fortuna, al culmine di ogni situazione critica, la capacità di accettare le contingenze cresce. La porta attraverso la quale il caso entra nella nostra vita, in alternativa alla richiesta di una disposizione cosciente nei suoi confronti, resta sempre aperta, poiché il sé deve ricorrervi ogniqualvolta intende sfuggire ai vicoli ciechi.

L’incremento del contrapposto atteggiamento offensivo nei confronti del caso spingerebbe a escluderlo e a rendere, di conseguenza, la vita oggetto di una pianificazione totale. Ma è davvero possibile pianificare la vita? «Bene, fatti un piano», dice Bertolt Brecht, nell’Opera da tre soldi: «Sii solo una grande luce! / E fatti anche un secondo piano / tutti e due non possono riuscire». Questo «canto dell’insufficienza dello sforzo umano» è un incomparabile commiato dalla pianificabilità, perché «ciò che arriva nel frattempo» è la vita nella sua imprevedibilità, è menzogna e inganno, è la propria stupidità, è lo schifo della vita, è il fregarsi con le proprie mani. Un casino caotico e ingarbugliato di azioni e reazioni, di fare e non fare, di su e giù, di avanti e indietro, di circoli e cattive strade. Tutto questo è la vita: più una confusione totale che un piano, il cui prezzo sarebbe, in ogni caso, la rinuncia alla tensione e al cambiamento che arrivano dall’inatteso e dall’impossibile. Dobbiamo quindi prescindere da ogni pianificazione? Pianificare è un’opzione, rinunciare ai piani è un’altra. Rinunciandovi si può divenire “il pallone” di altri, che invece hanno i loro piani e li perseguono. Per questo fare i propri piani è sensato, a patto che non ci si aspetti che la vita si strutturi completamente secondo gli schemi previsti, ma col solo intento di produrre una propria rappresentazione della vita e, quindi, per trovare dei correttivi: qui si può riscontrare come le cose vadano “diversamente da quanto si pensi”, per riflettere su cosa si debba tenere con sé e cosa no. Può apparire senz’altro più sensato parlare di un formare che abbia come suo elemento fondamentale un pianificare e che, nello stesso tempo, sia concreto e poroso, ovvero comprensibile, da un lato come attività e come lavoro intenzionale alla realizzazione di un proposito, mentre dall’altro come passività, come un lasciare che qualcosa accada, lasciarsi condurre dalla vita e lasciando, talvolta, che questo qualcosa ci seduca. La formazione del sé e

della propria vita avviene nel doppio registro del fare attivo e di un passivo lasciar perdere. Al posto della pianificazione razionale della vita, si tratta qui più di un concetto poetico della vita, un’arte del concetto che è parte dell’arte di vivere e consente, come sognavano i romantici, di diventare poeti della propria vita e di renderla un romanzo. Altrimenti, come potrebbe muoversi il sé nella landa nebbiosa della vita, che ci si distende davanti a perdita d’occhio e che, tuttavia, non è una mera res extensa, ma un ecosistema in cui confluiscono molte cose? In questo modo è possibile dare spazio al fenomeno della contingenza, uno spazio del quale comunque la contingenza stessa si appropria nei momenti di indecisione. Non è per caso vero che le casualità spesso rivelano un senso sorprendentemente coerente? Non si può comunque misconoscere il fatto che il caso dispone nessi apparentemente sistematici, che in qualche modo “hanno senso”, ma sempre se in qualche modo “ci si confanno”. Quando non è così, preferiamo parlare di “scherzi del destino”, il senso dei quali ci resta ignoto. A volte i casi disegnano linee, dotate di una logica strabiliante, talvolta corrispondono a ciò che avevamo già in mente o, talaltra, ci si contrappongono con le proprie conseguenze. Il principio ordinatore si trova nel sé o fuori dal sé? Che nella forma del caso emerga un “senso nascosto”, una connessione nella forma della contingenza, non si può né escludere definitivamente né, tantomeno, affermare senza riserve: si può solo presagire. I surrealisti, ad esempio, hanno interpretato il caso come qualcosa di magico. Significativa qui non è tanto la magia, ma il lavoro di interpretazione, che porta a interrogare la contingenza e il suo possibile senso. In questo modo, il sé attinge dall’insieme dei possibili significati e lavora per assimilare ciò che appare casuale, anziché passarci sopra con indifferenza. Significativo per la vita è infine il fenomeno, parzialmente in

sovrapposizione alla contingenza e che in parte la oltrepassa, della resistenza, o anche dell’avversità, in opposizione al sé e ai suoi propositi. Gli altri, infatti, hanno piani diversi in conflitto con i propri. In certi casi accade qualcosa che s’impone al di là del volere e del dovere: sofferenza, malattia, morte, indipendenti da una qualche complicità o responsabilità nei loro confronti. Tutto questo condiziona la vita o, addirittura, la cambia completamente, a volte anche in maniera irreversibile, rendendo impossibile fare come se non fosse mai accaduto. Le avversità vengono spesso identificate, anche se non sempre a ragione, con la “realtà”, col rischio di predicare che il sé deve “ancora sbatterci la testa”. E può anche capitare che si “facciano i conti senza l’oste”. E l’oste – che è “la vita”, l’insieme imprevedibile di tutto ciò che può accadere, delle impossibilità sorprendenti, degli sviluppi fatali, delle casualità inattese – fa una croce su tutti i nostri piani, come se fosse un soggetto privo di intenzioni. Prima si parlava di “destino”, ma alla modernità questo concetto non piace più. Non lo usa, perché non vuole perdere l’illusione di una libertà totale da tutte le limitazioni invise alla vita o, che è lo stesso, non avendo intenzione di svegliarsi dal sogno di poter formare la vita a proprio piacimento. Se la vita viene intesa come gioco, l’arte di vivere deve giocare con le avversità. Alla domanda su come ciò sia immaginabile, dal momento che non è possibile influire sul destino, o almeno non sempre, si può rispondere in questo modo: formare non vuol dire soltanto condizionare, ma anche accettare condizionamenti, nel momento in cui questa opzione viene scelta o quando non rimane altro da fare. Accettare significa, di nuovo, mettersi nella condizione di scegliere, stabilire con quale atteggiamento lasciare spazio a quanto si accetta. Per questa scelta, nella quale confluiscono le proprie inclinazioni e riflessioni, sono a disposizione alcune opzioni fondamentali: ignorare l’avversità (anche quando ciò non porta a nulla, perlomeno concede

un momento di respiro), o, in caso contrario, ribellarsi (lo sfogo, che avviene anche quando non si può più fare niente); rassegnarsi (gettare le armi come scelta consapevole e non solo quando si è in difficoltà); accettare (il semplice accettare qualcosa risparmiando le proprie forze: non discutere, non fare polemiche, ma solo sopportare); affermare (arrivare ad approvare tutto ciò che accade, sempre con motivi fondati); servirsene (trarre anche un vantaggio da quanto avviene, con lo scopo di “farci qualcosa”); ironizzarci sopra (prendere le distanze da ciò che avviene, essere “superiori”, con lo scopo di sminuirne l’importanza o tenersene alla larga). Perciò la vita diviene un gioco anche laddove si incontri un dovere scelto da se stessi o imposto dall’esterno, un dovere che sembri non concedere più alcuna possibilità al gioco. In questo modo si può comprendere anche quella frase di Friedrich Schiller (Lettere sull’educazione estetica del genere umano, 1795), divenuta ormai famosa: «L’uomo è veramente uomo, quando gioca», cioè quando non segue la mera necessità, distinguendosi in questo modo dal resto della natura. Schiller comprende il dovere, determinato interiormente come obbligo ed esteriormente come destino, non in contraddizione con la libertà tipica del gioco: la tesi sull’uomo che gioca guadagna piuttosto il suo «significato più alto» quando viene applicata alla grande serietà del dovere e del destino per fare fronte in maniera ludica e creativa alla serietà esistenziale e realizzare la bellezza. Esistenziale è ciò che non può essere rifiutato e nemmeno rivisto. Bello è ciò che può essere apprezzato come risultato dell’azione di un uomo libero e ciò che anima quella «forma vivente» oggetto dell’«impulso di gioco». Così, solo sulla base della tesi sull’uomo che gioca è possibile erigere l’intero edificio dell’arte e, come afferma lo stesso Schiller, «anche della difficile arte di vivere» che ha il compito di trasformare la vita in un gioco. Il fenomeno dell’avversità è, ancora, una parte del più ampio fenomeno

della polarità: sempre e ovunque sono in gioco contrapposizioni e contraddizioni che ci si fanno incontro in un infinito via vai; con un’espressione poetica si potrebbe dire che dondolano da una parte all’altra. In effetti, dalla considerazione di questo fenomeno risulta evidente il principio dell’altalena. La vita è un gioco a fasi alterne: questa non è solo una verità oggettiva, ma anche il risultato dell’osservazione di una certa regolarità che attrae sempre la nostra attenzione. Già all’inizio dell’epoca moderna, per la quale l’eliminazione delle contraddizioni e delle contrapposizioni doveva culminare nell’utopia, pensatori romantici come Novalis conclusero che il sé e il mondo, la vita e la storia, hanno bisogno di una polarità, tra i cui poli fluisce, per così dire, la corrente della vita. Conseguentemente, i romantici riconobbero i lati oscuri dell’esistenza come “poli negativi” contrapposti a quelli “positivi”: tristezza e gioia, dolore e piacere, malattia e salute, follia e normalità, profondità e superficialità. Dato tutto questo, la tanto declamata armonia romantica non arriva a eliminare la polarità più di quanto non apra al tentativo di sopportarla e riequilibrarla, ovvero a definire una armonia ricca di tensione analogamente al palíntropos harmoníē del filosofo Eraclito, che parlava di una connessione fatta di tendenze contrapposte. Anzi, ancora di più: laddove non si incontri la polarità in misura sufficiente, il gioco della vita necessita di un’arte della polarizzazione. In questo modo si può provocare un polo contrapposto o riconoscerlo nel suo significato, e farlo almeno ogni volta in cui si presenta da sé; per esempio il polo contrapposto della paura di me, che ora appare come parte costitutiva della vita. Può anche trattarsi di un’esperienza del “negativo”, ma la vita bella e piena di cui parla l’arte di vivere non può essere costituita, secondo il principio della polarità, solo dal “positivo”. Se un numero crescente di individui riconoscesse un significato maggiore agli aspetti oscuri della vita, cioè al “negativo”, si potrebbe modificare non solo la

vita individuale, ma anche l’intera cultura della modernità in un suo punto fondamentale: bilanciare un’immagine del mondo veramente ottimistica attraverso il polo contrapposto del pessimismo, cioè con una parte costitutiva di una modernità di tipo diverso. La vita compresa come gioco diventa un’arte dell’equilibrio tra contrari e contraddizioni, quantomeno in riferimento a quell’atteggiamento dell’individuo che non esclude “l’altro da sé”. Il sé integra le entità contingenti che, a questo livello, diventano necessità; accetta le inevitabili avversità che condizionano il reale. Può forse accadere solo per un momento, ma proprio quando le contingenze diventano così opprimenti, il momento in questione sostiene l’esistenza. Un’impressione di ciò si ha nella cultura popolare del samba, così come viene documentata nel film del 2002 Moro no Brasil – Vivo in Brasile del regista finlandese Mika Kaurismäki: con l’aiuto di questa cultura il sé supera i fatti insuperabili e opprimenti, e va al di là della realtà moderna e del suo essere votata al raggiungimento di uno scopo. Oltre quest’atteggiamento nei confronti della realtà e dei fatti si trova anche il sé di questa cultura, che dischiude possibilità diverse, e sempre di nuovo diverse, che sono esclusivamente di sua proprietà. Il sé pone il suo scopo da se stesso, anche quando il gioco è privo di scopi, e in questo modo stabilisce legami profondi con la vita, con se stesso e con gli altri. Così la vita diventa arte, e il gioco un elemento fondamentale della dignità umana, oltre che senso autentico della vita: questo è il messaggio di alcuni film di Kaurismäki che parlano di uomini semplici che trovano in maniera curiosa il proprio angolo di mondo e affermano la loro unicità contro tutti “i rapporti dominanti”. Decisivo resta il prendersi cura di sé senza rimanere indifferenti nei confronti di se stessi. Formare consapevolmente la propria vita sulla base di questo prendersi cura richiede risposte personali a domande del tipo: per cosa di bello vale la pena vivere, oltre la mera utilità e i vantaggi immediati? Che

cos’è il senso, cioè la fonte costantemente spumeggiante di questa vita? Come è possibile trovare gioia in quella vita dalla quale non possono essere eliminati gli aspetti tragici? Come si può conoscere la felicità profonda, quella che non dipende dai piaceri contingenti? Come possono essere formate le relazioni con gli altri, nella cui rete si svolge l’intera nostra vita? Per prima cosa, però, è importante curarsi della relazione con se stessi, che rappresenta la base di tutto questo. 1 L’autore gioca con i termini “Kynisch” e “Zynisch”. Entrambi hanno lo stesso significato: ‘cinico’. Ma il primo corrisponde alla formulazione arcaica, considerata autentica, mentre il secondo corrisponde alla traslitterazione moderna, che nel testo viene considerata come espressione di un atteggiamento inautentico. Questo gioco di parole non trova una corrispondenza in italiano. Si è quindi scelto di tradurre con “cinismo autentico” e “cinismo”, o “cinismo distorto”, rispettivamente i termini “Kynisch” e “Zynisch”. 2 Qui l’autore gioca con il termine “Künstlich”, che in italiano può essere tradotto come ‘artistico’ e ‘artificiale’. Qui si tende a privilegiare la seconda accezione per mostrare come la visione proposta da Schmid abbia poco a che fare con una forma di estetismo e molto più con una concezione della vita come pratica che si sviluppa in un progetto con le sue regole e che si concretizza mediante un agire, un “saperci fare” con le regole e con il progetto. 3 Qui l’autore usa il termine “Gestalten”, che propriamente significa ‘creare’ o ‘formare’ nel senso di dare forma a un materiale. Nella traduzione si privilegia quest’ultima accezione per non enfatizzare, come l’autore spiega nel corso del testo, il carattere produttivo dell’arte di vivere, lasciando spazio anche alla sua dimensione passivo-ricettiva.

2. La cura di sé Autorelazione? L’estraneità dell’io nel rapporto con se stesso La cura di cui stiamo parlando è angosciosa. Con essa si pone infatti la questione della relazione dell’io con se stesso. Se, all’improvviso – cioè sempre – nell’ego che conosciamo appare un alter ego completamente estraneo, l’io incontra se stesso con perplessità e profonda sfiducia: «Sono estraneo a me stesso». Non si può mai affermare che questo io altro, estraneo, non abbia nulla a che fare con quello che conosco, perché evidentemente “vive sotto il suo stesso tetto”. Ma nell’io si pone una forza che si dirige contro l’io, talmente potente da poterlo falciare senza indugi e senza preavviso, svuotarlo di se stesso o spegnerlo. È impensabile entrare in una relazione simile, che è una scissione interiore disastrosa. E se si trattasse solo di una chimera del pensiero, di una rappresentazione ossessiva che, appartenente all’io rappresentato, può essere colta solo intenzionalmente? Oppure si tratta di un sentimento, di un affetto; una parte concreta dell’io dato, nel quale accade qualcosa senza che lo si sia scelto, qualcosa di cui il pensiero non sa nulla e che, dunque, non può presentarsi nell’io rappresentato? Le mie angosce sono provocate dal baratro che separa due diverse esperienze dell’io? Nella sua intensità, questa esperienza non è un fatto quotidiano. Ogni giorno ci si presenta invece l’esperienza dell’io che ha confidenza con sé, – la stessa esperienza comunicata da un qualunque specchio. Bettina von Arnim, nel suo libro Il carteggio di Goethe con una bimba (1835), riferisce in maniera molto toccante di una prima esperienza di fronte allo specchio: «Destò in me una grande sorpresa il modo in cui io, a tredici anni, con le mie due sorelle abbracciate dalla nonna, vedevo per la prima volta allo specchio

tutto il gruppo. Riconoscevo tutti, tranne una, che aveva gli occhi di fuoco, le guance ardenti e i capelli neri e finemente crespi [...]; non potevo dubitare a lungo del fatto che mi stavo guardando allo specchio». Non tutti gli incontri allo specchio con il proprio io sono così lieti – un’esperienza meno felice si ha quando ci si guarda tutte le mattine, come se non ci fossimo mai visti prima, come se l’io fosse estraneo a se stesso, completamente estraneo. L’io che guarda, l’io familiare, rappresentato, osserva colui che risponde allo sguardo, l’estraneo che, tuttavia, è presente. Di regola ciò che viene dato dallo specchio non è identico a quanto l’io si rappresenta: «Io mi vedo, ma non mi riconosco». L’io non si riconosce; gli si presentano, per esempio, le rughe o le occhiaie dell’io dato, delle quali l’io rappresentato non vuol sapere nulla, ma che non può rifiutare nel momento in cui torna in sé. In ogni caso, però, la riflessione allo specchio ha lo stesso effetto di uno sguardo che proviene dall’esterno e favorisce la riflessività dell’io. Quando l’io comincia a parlare, la riflessione si scontra con un’ulteriore esperienza estraniante: la voce giunge dal suo interno all’esterno e rimbomba come se venisse da fuori, come una voce estranea, quasi fosse la voce di un altro. Simile a una maschera, l’io porta la sua voce davanti a sé, e in quella voce esperisce se stesso come un altro, assolutamente non identico all’io, nello stesso momento in cui sente chiaramente che quella voce deriva da lui. L’io rappresentato, che parla, viene confrontato con l’io dato, quello di cui si ascolta la voce. «Io è un altro»: non si tratta di una rara esperienza letteraria, ma di un fatto frequente e quotidiano, che ci inquieta subito ogni volta che diveniamo consapevoli di trovarci come in un sogno. E nuovamente l’io ha esperienza di se stesso, come allo specchio, come dall’esterno: un’oggettivazione di se stesso che ha un controeffetto sulla soggettivazione e in seguito alla quale l’io, con tutta la sua inquietudine, non è più lo stesso. La voce è un’”espressione” che trascende i limiti del sé verso l’esterno, mentre

al suo interno probabilmente parlano voci completamente diverse. L’espressione lacera quasi con violenza il silenzio e la quiete dell’identità interiore. Non sarebbe meglio, forse, proteggere quel silenzio, lasciarlo essere identico a sé, e me a me stesso? Ma già solo la voce produce la distanza dell’io da sé, quella stessa distanza che è indispensabile tanto per l’autoriflessione, quanto per la comunicazione. Le paure, lo specchio, la voce: tutti questi elementi, confinati nell’esperienza, procurano una presa di coscienza di sé. Comincio a riflettere su di me e parlo mentalmente con me stesso della mia situazione, della mia storia. I pensieri fanno a pugni con le terribili domande sull’anima, riferite alle angosce che mi spingono ai margini dell’abisso: che cos’è? Perché è così? Posso cambiare qualcosa? Ma tutte le volte che ci penso, mi rivolgo a me stesso: il fenomeno peculiare dell’autoriflessione, tanto ovvio all’apparenza eppure mai pienamente comprensibile, è un tratto distintivo dell’essere umano. Mi rivolgo a me stesso… Si innesta un io nel modo della riflessione, e dunque un “io-sé”. Nello stesso tempo, il sé si rivolge a se stesso come a un oggetto: mi rivolgo a me stesso, e in questo mi ritorna di nuovo l’io, e dunque anche un “sé-io”. L’io parte dal dato e, nella rappresentazione che ne forma, raggiunge un punto che si trova al di fuori di se stesso, un punto che per essere osservato – e quindi per osservarsi – richiede un mutamento dello sguardo: deve rivolgersi al dato come se provenisse dall’esterno. Questo punto esterno, che innesca la riflessione, può essere reale, come nel caso di uno specchio, di uno schermo, di un telo per proiettore, del palcoscenico di un teatro, di un libro, del volto di un altro, della propria voce; ma può anche essere immaginario, o “rappresentato”. Visto dall’esterno, l’io rappresentato può essere estraneo a quello dato, che soltanto può essere visto. Ma non è mai pienamente chiaro che cosa sia l’io dato e cosa quello rappresentato.

Spesso è possibile notare che l’io non è identico a se stesso: nell’esperienza interiore, di fronte allo specchio, nel parlare, nel considerare se stesso. Tutto questo può essere confermato dall’esperienza della lacerazione interiore di un io in io divergenti, una lacerazione che non tocca solo l’io dato e l’io rappresentato, ma avviene all’interno stesso dell’io dato: un certo pensiero e un certo sentimento comandano questo, mentre quell’altro prende ordini da un pensiero diverso o da un diverso sentimento. Sono a casa e voglio uscire, sono fuori e voglio tornare a casa. L’io è presente nel pensiero che sto facendo ora, a casa, ma c’è anche nel pensiero che faccio quando sono fuori; di frequente l’io si trova qua e là nello stesso momento, ma mai realmente. La penso davvero in questo modo, o no? Devo comprare questo o quest’altro? La mia vita deve prendere una strada o l’altra? Sono innamorato di X o di Y? Mi piace stare solo o in compagnia? Ogni spinta viene contrastata da un’altra e ogni argomentazione da quella opposta. I dilemmi non sono una novità, eppure in epoca moderna si moltiplicano. La lacerazione del singolo risulta dalla liberazione, che non è solo un fatto esteriore, ma riguarda anche l’interiorità del sé: sentire così o diversamente, essere capaci di decidere e di pensare, senza che questa libertà possa in qualche modo essere limitata. Al suo culmine esteriore c’è la confusione, mentre le conseguenze sono l’indecisione e l’indecidibilità. Non c’è più nulla a cui l’io possa attenersi, nulla a cui può essere identico; nel sé tutto sembra parimenti estraneo. Nasce così, di contro a quella parziale, una totale estraneità a se stessi che almeno è temporanea e paradossale, poiché non offre più alcun appiglio per poter giudicare qualcosa come estraneo; ma come potrebbe chiamarsi altrimenti un fenomeno di questo tipo? Sebbene la conseguenza immediata sia quella di ritenere penosa la presenza di io divergenti all’interno di uno stesso io, essa è anche la condizione affinché possa in generale darsi qualcosa di simile a una relazione

con se stessi. In ogni tipo di relazione, e in maniera lampante nella relazione tra due termini, si presuppone la presenza di due entità reciprocamente differenti l’una dall’altra, o tra le quali è sempre possibile una distinzione. Lo stesso può dirsi per la relazione tra sé e sé, in cui è meno immediatamente evidente chi sta intrattenendo una relazione con chi: l’io con l’io, l’io con tutte le sue possibili variazioni, l’io rappresentato con quello dato, l’io a cui ci si rivolge con quello al quale si pensava, l’io del pensiero con quello del sentimento, pensieri reciprocamente diversi, sentimenti che si contraddicono a vicenda. L’autorelazione non sarebbe mai possibile se ci fosse un solo io: «Ah! Due anime convivono nel mio petto», fa sospirare Goethe al suo Faust verso la fine della scena “Davanti alla porta” – e meno male che le anime erano solo due. L’autorelazione è assolutamente necessaria? Fondamentalmente è un’opzione, non una norma. Il fatto che un io si intrattenga con se stesso, o abbia intenzione di farlo, non può essere dato per scontato. L’esistenza di «un dovere nei confronti di se stessi» (come afferma Kant, Metafisica dei costumi, 1797) non va da sé. Vi si può rinunciare, in maniera consapevole o meno – sebbene questa autorelazione negativa possa essere vissuta in una delle sue varianti: anzitutto nella forma di una non-relazione, che si palesa come assenza di problematizzazione e come mancanza di evidenza in riferimento alla relazione con sé, ma anche come momentanea interruzione dell’autorelazione per riposarsi da se stessi. Lo si può fare molto meno nella forma di una relazione escludente con se stessi, tipica della fuga o del rifiuto di sé. Che ci piaccia o no, questi atteggiamenti rendono la vita impossibile – come appare chiaro, esplicitamente o implicitamente, nell’autodistruzione, che può essere tenuta nascosta a sé o ad altri. Infine, la non-relazione con se stessi può manifestarsi come la relazione-zero tipica dell’indifferenza; qui il rapporto con sé è puramente funzionale, le diverse parti del sé assolvono,

cioè, solo alla loro funzione senza essere connesse tra loro, a prescindere dalla loro azione organica. L’alternativa è data dalle varianti dell’autorelazione affermativa: qui si tratta di trovare un’azione organica delle diverse parti del sé, così come avviene nella relazione di cooperazione, che pure non prevede una grande partecipazione interiore. Un’autorelazione affidabile e molto libera è quella dell’amicizia con se stessi, che dovremo considerare in maniera ancora più precisa. A quest’ultima si sovrappone l’amore di sé, con tutti i pericoli che questo tipo d’intimità comporta: dipendenza, fissazioni, infatuazioni. Tutte queste forme si intrecciano con un certo agonismo che, a sua volta, può divenire un modo dell’autorelazione e manifestarsi come una sorta di relazione polemica: non si “combatte contro se stessi” solo occasionalmente, ma di continuo, o comunque non ci si rapporta mai in maniera indifferente a sé. Sarà possibile anche parlare di un’autorelazione virtuale di tipo nuovo, in cui il sé si definisce essenzialmente mediante il suo soggiorno nello spazio virtuale delle possibilità dischiuso dai mezzi elettronici? Ogni virtualità tende comunque a farsi nuovamente realtà, e dunque a configurarsi sempre secondo una delle forme di autorelazione che abbiamo visto. I criteri per realizzare una determinata forma di autorelazione possono essere quelli della sostenibilità nella vita concreta e della bellezza, benché anche questi ripropongano il problema della scelta, restando dunque opzioni. La vita dipende forse dalla possibilità di stabilire una relazione con se stessi che renda accessibile un’esperienza di sé in tutti i dettagli, capace di consentire di dubitare di se stessi e di disperarsi, senza tuttavia perdersi e piantarsi in asso, ma sempre con l’obiettivo di prendersi cura di sé. L’occasione per tutto questo nasce dalle esperienze della paura e dell’estraneazione, ma rimane decisivo cogliere o meno questa occasione, ossia capire se l’io è pronto a rivolgersi a se stesso oppure no. Solo a questo

punto, che oltrepassa la cura di sé sorta dall’angoscia, si può passare alla cura sapiente, che si sviluppa secondo un duplice aspetto: cognitivo, con l’autocoscienza (sentire se stesso e sapere di sé), ed estetico, con il lavoro sulla creazione e sulla formazione di sé (uscire da sé e agire su di sé). Una condotta di vita consapevole non può fare a meno di nessuno dei due. Per poter scegliere e creare con consapevolezza una modalità di relazione con se stessi è però necessario, prima di una attenzione sensibile nei confronti di se stessi, un certo sforzo sul versante dell’autocoscienza.

Prestare attenzione a sé, autocoscienza, dialogo con se stessi Un tempo, anche perché ispirata e legittimata dalla filosofia antica, una scoperta felice di me stesso consisteva nella possibilità di dedicarmi attenzione, di prendere coscienza di me, di percepire una cosciente preoccupazione per me stesso. Da tutto questo sono state particolarmente influenzate le Eis heautón, le Considerazioni su se stesso, scritte nel II secolo d.C. dallo stoico Marco Aurelio: «Che cosa avviene ora nelle particelle del mio essere che viene considerato come dominante, e quale anima ho in questo momento?», «La tua presa di coscienza avviene secondo le qualità degli oggetti che tu più frequentemente ti rappresenti; perché l’anima trae il suo colore dai pensieri», «Quando la mattina non hai voglia di alzarti, pensa: mi sveglio per agire come uomo. Perché devo fare senza dignità ciò per cui sono stato creato e inviato nel mondo?», «Io procedo nel mio corso naturale, finché non mi accascio e mi riposo riconsegnando il mio spirito allo stesso elemento dal quale traggo quotidianamente il mio ossigeno», e molte altre cose che possono essere adatte a imparare ad «amare se stessi» (phileĩn heautón), di cui si parla principalmente nella parte V delle Considerazioni. Ho deciso che d’ora in poi devo esercitare tutte le mattine l’attenzione nei confronti di me stesso, perché da ciò dipende un nuovo modo di tornare al

mondo e di trovare un posto stabile per la mia vita: la meditazione prima di alzarsi, l’intrattenersi di fronte allo specchio, la cura del corpo, la ginnastica, la colazione con calma, la passeggiata all’aria fresca, per non essere attanagliato, fin dal primo mattino, dalla sensazione di vedere la mia vita rinchiusa tra quattro mura. Ah, se Nietzsche non avesse detto che non bisogna prestare fede a pensieri «che non siano nati nella libertà» (Ecce Homo, “Perché sono così saggio?”). Forse questo è il privilegio di una vita nella filosofia ma, soprattutto, una questione di divisione del tempo. Solo più tardi ho scoperto il motto che nel XX secolo ha destato l’interesse del filosofo francese Michel Foucault: vindica te tibi, ‘diventa padrone di te stesso’, con il quale inizia l’opera maggiore di Seneca, le Lettere a Lucilio, del I secolo d.C. Per generare un’attenzione nei confronti di se stessi ed essere vigili, Foucault considera il ricorso a se stessi come un’alternativa al discorso su se stessi. Riportare l’attenzione a se stessi non deve significare, a differenza di quanto accade negli stoici, costruire una fortezza interiore che protegge il sé dagli attacchi del mondo esterno. È molto pericoloso reclamare, ritraendosi completamente in se stessi, la sola validità della propria immagine del mondo. Se così fosse, non sarebbe più possibile trovare alcun correttivo nel confronto con il modo di vedere di altri; si procederebbe, invece, alla rigida esclusione degli altri senza correggere la propria immagine del mondo. Non si arriva, perciò, alla sicurezza sperata, bensì a un’estrema vulnerabilità, così come all’aggressività nei confronti di chiunque minacci la consistenza di tutto ciò che ci è proprio. L’attenzione sensibile a sé comprende, perciò, l’attenzione al pericolo che può scaturire dall’essere impegnati esclusivamente con se stessi. Mentre l’essere fissati su se stessi e l’esclusività dell’autorelazione coincidono con il culto di sé, l’attenzione sensibile nei propri confronti e la cura di sé diventano parti costitutive di una cultura del sé. L’attenzione vale

per tutti gli aspetti del sé, per la costituzione del corpo in tutte le sue parti, così come per l’anima e per i suoi sentimenti, per i suoi bisogni e desideri, per lo spirito e i suoi pensieri, per l’inclusione del sé nella relazione con gli altri e con il mondo. L’io trova stimolo e occasione per prestare attenzione a se stesso mediante il suo proprio impulso, o attraverso l’attenzione agli altri, per esempio nel dialogo. L’attenzione appare come una delle risorse più importanti e, nello stesso tempo, anche come una delle più deboli, sia nelle relazioni tra esseri umani, sia nella familiarità che il singolo può avere con se stesso. La debolezza aumenta in particolare nell’epoca moderna, nella quale l’attenzione viene continuamente dispersa in tutte le direzioni e frantumata in elementi sempre più piccoli. Così come l’io che impara a fare a meno dell’attenzione da parte di altri si sente misconosciuto, allo stesso modo, a causa della mancanza di attenzione verso se stesso, l’io smette di riconoscersi. E nella stessa misura in cui difetta di attenzione nei confronti di se stesso, cresce il suo bisogno di attenzione da parte di altri. E se non ne potesse più ottenere? Toccherebbe nuovamente a lui ridare vita a quel processo ridestando la propria attenzione verso di sé. Tuttavia, sembra impossibile essere ininterrottamente attenti. L’attenzione deve riposarsi, e proprio dalla disattenzione può trarre la sua origine: la distrazione esteriore rende possibile il rivolgersi a sé, mentre la distrazione interiore rende possibile il rivolgersi agli altri. Con il termine attenzione si deve intendere l’organizzazione, orientata e intenzionale, delle energie fisiche, psichiche e spirituali verso qualcosa o qualcuno, riconoscibile nella direzione dello sguardo esteriore o della concentrazione interiore. Nell’organizzazione ricettiva dell’attenzione possono essere percepiti già molti dettagli e particolari; ciò è possibile in maniera ancora maggiore nella regolazione produttiva. Questa cura deliberata dell’attenzione può avvenire in modi diversi e su piani differenti, a seconda

del tipo di relazione e di situazione in cui ci si trova: sul piano corporeo, l’attenzione si dispiega nel contatto e nel movimento, in sguardi e gesti; su quello psichico attraverso l’espressione, l’ascolto, il dare; su quello spirituale con la meditazione e la concentrazione. L’attenzione può essere coltivata nel contesto della vita ordinaria o, quando questo non è sufficiente, nel contesto terapeutico; può essere rapportata immediatamente a una situazione concreta (attenzione momentanea) o riferita al tutto con una mediazione, inserendo qualcosa, o la vita intera, in un percorso astrattivo (attenzione strategica). Il potere dell’attenzione consiste nel fatto che l’intensità delle sue energie è tale da far rinascere e rifiorire l’essere umano, il quale, quando queste mancano, tende ad atrofizzarsi e a crollare. Rinunciare a queste energie può rendere malati; farne esperienza può, al contrario, redimere e guarire. L’attenzione è, perciò, una fonte di vita senza pari, e solo in questo modo è possibile spiegare la fatica dura e continua, anzi, l’amara battaglia per conquistarla. Senza attenzione, la vita rischia di dissolversi nel nulla. È legittimo dirigere la propria attenzione verso se stessi e non verso gli altri? Il sé non è sottoposto ad aspettative sociali per le quali deve trovare una giustificazione? Il criterio più importante in questo senso è stato formulato da Baltasar Gracián nell’aforisma 17 e poi nel 33 del suo Oracolo manuale: «Ciascuno di noi non appartiene agli altri nella stessa misura in cui non appartiene a se stesso». Aveva ragione: un sé che perde se stesso non è più capace di attenzione né per sé, né per gli altri. Le aspettative e le pretese nei confronti degli altri sono quindi sensate solo se il sé sceglie o meno di riconoscerle, di trarne conseguenze o di ignorarle. Il sé ha addirittura la possibilità di sfuggire completamente alle pretese degli altri, anche se il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto. Gli altri, dal canto loro, potrebbero decidere di non rispettare le pretese del sé. La situazione si risolve saggiamente grazie a un calcolo preliminare che è proprio il sé a effettuare.

Ancora più saggio sembra essere almeno il percepire le pretese degli altri, per poterle considerare riflessivamente e, all’occorrenza, preoccuparsene: la cura per gli altri cresce dalla cura di sé, e tuttavia sempre in virtù di un’attenzione che deve essere autonomamente scelta e mai determinata dall’esterno. Certo, lo spazio per preoccuparsi di se stessi spesso non è così grande. Come sono dolci le ore trascorse in solitudine, o il tempo in cui ci si dedica attenzione, in cui si esiste solo per sé. Questo è il tempo dell’autocoscienza, che in caso contrario avrebbe bisogno di uno stimolo o anche di uno shock, una delusione, un fallimento, una perdita. L’autocoscienza è la risposta che il sé dà al fatto di essere irritato dalla vita, dallo scontro con gli altri, confuso come Ulisse, sciolto nelle sue stesse lacrime, perso nei suoi dubbi. Nell’autocoscienza il sé si rivolge a se stesso in due sensi: per percepire nel sentimento sensibile e chiarire in un processo concettuale ciò che “è” e ciò che gli “è possibile”; quali forze sono attive in lui e quali desideri giacciono nella sua anima; quali sono le possibilità che possono essere ancora ridestate. L’autocoscienza consiste nel rendere presente ciò che è proprio e ciò che non lo è, le forze e le debolezze, le capacità e le incapacità, le potenzialità e le impotenze, le certezze e le incertezze, le contraddizioni e i timori, le predilezioni e le inclinazioni, le storie e le abitudini, le situazioni spiacevoli e le incomprensioni, i propri limiti e le possibilità del loro superamento. Con l’autocoscienza il sé guadagna una distanza nei confronti di se stesso, in maniera tale da poter vedere tanto se stesso quanto gli altri. La distanza rende possibile sentire ed elaborare in pensieri ciò che è importante e ciò che non lo è, ciò che è bello e degno di approvazione e ciò che deve essere negato o considerato brutto; ci si confronta con se stessi per ridisporsi un’altra volta. Autocoscienza significa, infine, richiamare nuovamente l’attenzione su quelle connessioni che “hanno senso” e nella cui rete è possibile vivere. L’intensificazione dell’autocoscienza avviene nel dialogo consapevole

con se stessi. Come per ogni dialogo, si tratta di una forma di attenzione che sancisce la direzione, anche se non tutto emerge allo stesso modo. Il dialogo con se stessi è in qualche modo automatico, ed è tuttavia decisivo vedere se gli si può conferire consapevolmente uno spazio, oppure se si incaglia su se stesso nella forma problematica di un vacuo circolo. Nel dialogo con se stessi, infatti, ha luogo un discorso interiore che, di regola, non è prestabilito e non è “finalizzato” a nulla, ma è bensì caotico e senza scopo. L’oggetto è l’interiorità: che mi succede? Quali voci si iscrivono a parlare? Che cosa significano? L’oggetto del dialogo interiore è però anche l’esteriorità, in quanto si trova in rapporto all’interiorità: che succede? Che cosa significa per me? Come posso rispondere? In questo modo il sé si mette d’accordo con se stesso. Il verbale di un dialogo interiore che percorre tutta una vita si ritrova, ad esempio, nei diari di Nietzsche, la cui edizione critica è importante per studiarne il processo. L’io “si ascolta”, presta attenzione alle voci che parlano nei pensieri, nelle idee, angosce, delusioni, visioni, fascinazioni, sogni che, però, parlano un linguaggio non sempre comprensibile, espresso piuttosto nella forma di un sentimento “buono” o “cattivo”, di una disposizione d’animo o di un vagheggiamento. L’io rappresentato pone problemi all’io dato e viceversa, mentre al loro interno pensieri e sentimenti conducono le loro battaglie, talché il sé “è occupato con se stesso”. L’io rappresentato cerca di rappresentarsi tutto ciò che si manifesta concretamente in quello dato e, però, non può sperare di giungere alla fine. Così, il vivere se stessi resta avvincente. La comunicazione con sé serve infine alla spiegazione di ciò che il sé è e di ciò che deve essere. Non è mai possibile rinunciare a questa comprensione intrasoggettiva, che rivendica, quando sorgono dei dubbi, il primato su quella intersoggettiva, perché il suo obiettivo è quello di mettere in rapporto le diverse parti del sé e spiegarne le relazioni. Come potrebbe essere possibile

una comunicazione attenta con gli altri se l’io non sa comunicare con se stesso? Lì dove non avviene una spiegazione interiore, il linguaggio diventa violento e i sentimenti esplodono verso l’esterno. Quando le voci interiori non possono più essere udite per via del rumore che c’è fuori, all’interno del sé si diffonde un malessere; l’io teme “di perdersi” e si ritira in sé. Quando il sé si rivolge troppo all’esterno, si esteriorizza e svanisce in una verbosità estenuante; il dialogo con se stessi, quello consapevole così come quello inconsapevole, impegna forze che non sono più disponibili. Spesso il sé comunica con se stesso in quanto comunica con gli altri. In realtà, i dialoghi con gli altri sono spesso dialoghi con se stessi, rappresentano cioè quella reciprocità di cui Bettina von Arnim ha dato un esempio toccante nel suo romanzo epistolare Günderode (1840). Le voci esteriori vengono interiorizzate e, di nuovo, proiettate verso l’esterno. Spostare all’esterno un conflitto esteriore è possibile; in questo modo il conflitto può essere compreso. Ma si dovrebbe aver chiaro che gli altri rappresentano soltanto le voci interiori, quelle voci delle quali non si è riusciti a venire a capo. In caso contrario, gli altri vengono caricati di problemi che non appartengono loro e per i quali non possono fare nulla. Nella psicologia della comunicazione l’attuazione volontaria del dialogo con se stessi viene definita «parlamento interiore». In questo modo è possibile prendere coscienza delle diverse voci, dei loro punti di vista, dei loro conflitti, oltre che porle in relazione reciproca ed esporle all’esterno. Le loro costellazioni e disposizioni, le coalizioni e le opposizioni vengono messe in scena per far decollare la «dinamica di gruppo interiore», che è in grado di portare alla formazione di un “team interiore” (per usare il titolo del volume del 1998 di Friedemann Schulz von Thun). Un esercizio correlato consiste nel mettere di fronte ai propri occhi l’immagine delle voci che sono in gioco e descriverne le relazioni reciproche, perfino chiamarle per nome: il diffidente,

il fiducioso, l’egoista, il solidale, il cauto, l’audace, l’arrogante, quello che si nasconde eccetera. Tutti questi nomi presentano, certo, ascendenze letterarie, ma la letteratura e la poesia di tutti i tempi non hanno fatto altro che trattare di queste voci e del loro rapporto; ogni giorno ne emerge qualcuna meno letteraria. Così, il dialogo con se stessi conduce alla spiegazione dei rapporti possibili e reali che, nei limiti della nostra capacità di venirne a conoscenza, hanno luogo nel sé. Resta tuttavia aperta la domanda se sia in ballo una venerabile “conoscenza di sé”; resta indeciso anche che cosa occorre intendere per “sé” – un concetto di cui finora ci siamo serviti come se fosse immediatamente comprensibile – e rimane infine da chiedersi di quale “conoscenza” si tratti nel momento in cui parliamo di una conoscenza di tale sé.

Conosci te stesso! Ma in che senso? Fondamentalmente, l’esperienza e il concetto del sé sono affare del singolo che si prende cura di se stesso. E tuttavia su di lui agiscono modelli e modi generali di pensare di cui l’individuo è difficilmente consapevole. Perciò nella storia della cultura e dello spirito si cerca, già da molto tempo, di conferire una realtà al concetto del sé che vada oltre quella individuale, di modo che tale concetto possa fungere da punto di riferimento per la conoscenza: si tratta della cosiddetta “conoscenza di sé”. Se nella pratica della conoscenza un soggetto trova normalmente di fronte a sé un oggetto esterno, nel caso della conoscenza di sé il soggetto ha se stesso come oggetto e lo scopo della relazione è quello di ottenere una verità sul sé in generale, dalla quale può essere dedotto ogni sé particolare, che solo in questo modo può esistere. Il concetto di conoscenza di sé si presenta nella storia in maniera persistente e spettacolare nell’esortazione che ogni visitatore trovava all’ingresso del tempio di Delfi: «Conosci te stesso» (gnōthi seautón). Leggendo questo motto il singolo individuo poteva sentirsi chiamato ad

abbandonare un atteggiamento irriflesso e, nello stesso tempo, a vedersi come dall’esterno per conoscersi. Con questo non si intendeva, però, una conoscenza personale, ma una conoscenza antropologica di sé: conosci l’uomo che sei. E cioè: l’uomo non è Dio. È mortale, non immortale. Fragile, non invulnerabile. Capace di sbagliare, non perfetto. Impotente, non onnipotente. Ignorante, non onnisciente. In altre parole, il senso del motto delfico è: conosci le condizioni, le possibilità e i limiti che definiscono la tua vita. E non solo la tua, ma anche quella degli altri. La conoscenza di sé non mira, perciò, a una determinazione positiva di ciò che il sé è, ma alla definizione negativa di ciò che il sé non è: ossia non divino. La stessa pretesa all’autoconoscenza era limitata; il motto delfico doveva condurre a una relazione con se stessi audace ma non arrogante, e dunque doveva anche spingere verso una visione delle debolezze del sé, della sua piccolezza e, talvolta, anche della sua miseria. Il motto delfico viene ripreso da Socrate e Platone nel IV e V secolo a.C. allo scopo di giungere a un rapporto critico con se stessi, per mettersi alla prova e, talvolta, anche per correggersi. Solo che ora il motto delfico viene legato alla pretesa di conoscere positivamente l’essenza dell’essere umano. La conoscenza filosofica di sé trova il sé autentico nella sua anima imperitura e, all’interno dell’anima, trova di nuovo la straordinaria caratteristica della consapevolezza (sōphrosýne), affiancata dalla sapienza, dalla giustizia e dal coraggio (cfr. il dialogo platonico Alcibiade I). Questa conoscenza di sé diviene la base per prendersi cura di se stessi; conduce a coltivare la propria anima con «cura e arte» e a concretizzare le qualità migliori in modo eccellente, tanto nella vita individuale quanto in quella sociale (politica). All’interno dell’anima si può tuttavia localizzare, secondo quanto diranno più tardi gli stoici, un principio egemonico e una guida (hēgemonikón), intesi come il sé autentico: il lógos, la ratio, il pensiero razionale, la riflessione

sobria di un essere umano, e dunque ciò che non segue gli affetti, i desideri e le passioni imprevedibili. Questa razionalizzazione della conoscenza di sé ha come sua conseguenza radicale l’eliminazione di tutto ciò che può mettere in discussione il dominio del principio egemonico nel perfezionamento del sé. Proprio a questo punto si trovano gli inizi di un’osservazione ipocondriaca, di una vigilanza diffidente su se stessi, di sospetti maniacali che, muovendo dalla concezione stoica, restano per tutto il corso della storia occidentale, feroci e senza la minima pietà. In epoca cristiana si arriva all’esigenza, ancora più ampia, «di uccidere gli elementi terreni» e di abbandonare il sé vecchio, mondano e individuale in favore di uno nuovo, consacrato da Dio e solo per questa ragione autentico. Il nuovo sé non ha più nulla di proprio: anzi, deve purificarsi da ogni proprietà per rendersi pronto per Dio e, infine, affidarsi a lui. L’unica cosa che gli resta è il riconoscimento della sua inconsistenza e nullità. Questa è la conoscenza teologica di sé. La realizzazione del rifiuto del sé (árnēsis heautoũ, Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23), che vale come condizione per seguire Cristo, viene esplicitamente affermata nelle Regole diffuse di san Basilio – uno dei padri della Chiesa –, scritte nel IV secolo d.C. e considerate come condizione per intraprendere la strada del monachesimo. Per molto tempo il sé desta il sospetto generale del peccato, e viene allontanato tanto da Dio quanto dagli altri. Siccome non è possibile fidarsi di nessuno, è necessario istituire un «curatore delle anime» che abbia il compito di farsi carico della cura che ciascun uomo deve a se stesso, dissolvendo così l’autorelazione che ciascuno ha con sé e rendendo l’anima pronta per avvicinarsi a Dio. Ma, nello stesso tempo e proprio in funzione di questo sospetto, il monachesimo e con lui l’intero cristianesimo diventano scuole impareggiabili per la conoscenza di sé, per la tensione cognitiva nei confronti di se stessi, per l’autoriflessione, per il dialogo interiore, per la creazione ascetica e il dominio di sé.

Una conseguenza di questo sviluppo, peraltro implicita già nella razionalità stoica, è la conoscenza cartesiana di sé, fondata nel XVII secolo da René Descartes. Anche questa forma di ascesi è orientata in senso cognitivo. Secondo questa concezione, l’io vero deve essere trovato metodologicamente nel pensiero puro, nella res cogitans, depurata da convenzioni, abitudini, sogni, impulsi, corporeità e da ogni genere di sensibilità. Io è una sostanza «la cui essenza completa o la cui natura consiste solo nel pensiero e la quale non necessita né di un luogo nello spazio, né di alcuna cosa materiale» (Discorso sul metodo, 1637). Solo l’ego cogito, privato di corpo e di mondo, è in grado di procurare una certezza che non può più essere revocata e che, agli occhi di Cartesio, soddisfa la più importante condizione per ottenere «un sapere chiaro e sicuro» della vita: «io ero della più ferma convinzione di poter essere in grado di vivere la mia vita molto meglio di quanto non lo fossi stato se l’avessi costruita sulle vecchie fondamenta». Ciò che ne deriva è, tuttavia, la fondazione di una scientificità nella conoscenza di sé che ha poi condizionato l’intera epoca moderna e contemporanea, portando alla svalutazione di concetti del sé che deviavano da questo circolo culturale. In età moderna, e in particolare nel XX secolo e poi ancora in quello successivo, nasce un movimento scientifico autonomo, che investe le scienze dello spirito così come quelle della natura e che inscrive il problema della conoscenza di sé all’interno del processo moderno di liberazione. Inizialmente, la descrizione teoretica del sé integra l’intervento terapeutico. Il suo scopo è quello di analizzare il sé fatto oggetto del suo sguardo secondo il modello proprio delle conoscenze generali. La conoscenza psicologica di sé decifra l’anima, come viene ancora chiamata, o la “psiche”, rintracciando, per esempio nella forma di una psicologia del profondo, i segni e gli «spostamenti» dell’inconscio. In questo modo si dà corpo all’ambizioso progetto di un’«archeologia» delle pulsioni, di una scoperta dei «lati oscuri»

del sé, dei traumi nascosti nella sua storia interiore e, in definitiva, di una liberazione del sé da strutture non coscienti. In questa «estensione» della conoscenza di sé, Sigmund Freud vede esplicitamente una via per «rafforzare l’io indebolito» o almeno «il primo passo» per farlo (Compendio di psicoanalisi, 1939). Il passo ulteriore sarebbe quello di trovare le forme per la libertà conseguita, perché queste non emergono spontaneamente. Freud si impegna quindi a concepire un concetto di arte di vivere: la scelta di una «tecnica dell’arte di vivere» e «la tecnica di vita scelta» consentono di venire a capo della realtà, oltre che di approssimarsi alla «felicità». Tra le possibili tecniche, Freud nomina soprattutto il lavoro e l’attività, l’amore e l’erotismo, l’estetica e la ricerca del bello, l’amore di sé e l’autosufficienza e, addirittura, «la fuga nella nevrosi» (Il disagio della civiltà, 1930). Una terapia nel senso ampio della cura e del trattamento, se così si può dire, sarebbe quella di promuovere l’elaborazione individuale di un’arte di vivere, completando in questo modo l’analisi freudiana per non rischiare di dissolvere il sé nel processo della sua liberazione. Lo scopo autentico della terapia consiste, in ogni caso, nel comprendere la vita come un’opera fatta ad arte dal sé, al quale, tuttavia, deve essere data la capacità per portarla a termine. Con l’arte e con l’arte di vivere dovrebbe forse essere creato anche lo spazio all’interno del quale può essere portata avanti un’analisi con tutte le sue pressioni, ma forse anche quello stesso spazio che la rende superflua. In misura crescente, e parzialmente in parallelo a una psicologia orientata nel senso delle scienze della natura, il sé viene analizzato anche come entità biologica. A partire dagli inizi del XX secolo, la conoscenza biologica di sé lo vede come il prodotto di un processo molecolare e, in particolare, di una dinamica neurobiologica. Ci si trova di fronte alla liberazione definitiva del sé da se stesso. Le connessioni psichiche diventano funzioni fisiologiche misurabili del cervello, i pensieri e i sentimenti appaiono come risultato delle

azioni dei neuroni (cellule nervose) e di sinapsi (contatti tra cellule nervose) che le congiungono, mentre i processi mentali vengono spiegati come prodotto di determinazioni neurologiche. Non esiste più un sé autonomo, in grado di formare se stesso; la sua volontà libera è un’illusione. Nel cervello si può sempre misurare l’attività neurologica attraverso il cosiddetto «potenziale di preparazione motoria», perché solo in questo senso è possibile parlare di un “sé” cosciente della “scelta” che egli crede, e si sente, di voler effettuare. Per altro verso, i neuroni-specchio permettono di emulare il comportamento degli altri, rendendo possibile l’empatia e la compassione. Come la psicologia, anche la neurobiologia vede nella conoscenza di sé l’agire di processi essenzialmente inconsci: i centri di controllo lavorano inconsciamente e solo una minima parte di quanto avviene nel cervello può pervenire a coscienza. Questo significa che, in linea di principio, nessuno è responsabile di ciò che fa, perché l’”io” incarna solo l’istanza esecutiva di ciò che si è sviluppato inconsciamente. La terapia viene condotta chirurgicamente e farmacologicamente attraverso l’intervento su centri specifici e mediante il dosaggio di determinate sostanze. Sulla via della trasmissione biochimica degli stimoli, la “felicità” può allora essere dispensata agli esseri umani, che se ne attribuiscono scioccamente il merito, ma solo per via di un difetto della loro conoscenza di sé o, più precisamente, a causa di una conoscenza manchevole dell’efficacia dell’azione di neurotrasmettitori (ormoni) come adrenalina, dopamina, melatonina e serotonina. Si arriva quasi pure a parlare di una conoscenza del sé oggettiva, scientificamente certa, di fronte alla quale quella soggettiva deve inchinarsi. Molte conoscenze psicologiche e neurobiologiche minano la forma autonoma del sé. Conosci te stesso significa quindi: non sono nient’altro che un conglomerato casuale e contingente di geni e proteine, di neuroni e neuroni-

specchio, di sinapsi e ormoni, di inconscio, di relazioni più o meno riuscite, di ricordi d’infanzia, di esperienze traumatiche, di sentimenti, impulsi, desideri, ma mai di riflessioni e decisioni consapevoli. Ora, non sarebbe più opportuno slegare l’arte di vivere, così come viene concepita dalla filosofia, da una visione del mondo scientista che riesce a spiegare il sé e la sua vita senza possibilità di dubbio e dissolve l’autonomia dei soggetti in un insieme di reti neuronali? La spiegazione delle condizioni inconsce, neurali e ormonali è indubbiamente preziosa per aumentare la nostra consapevolezza della coscienza e dei suoi limiti. Su questa via si arriva persino a spiegare perché il pensiero ci sembra spesso un “sogno”: si ha l’esperienza di un’isola della coscienza nel mare dell’inconscio, nel quale la coscienza gioca e produce associazioni. Può essere utile sapere che i nervi deperiscono se non vengono esercitati attraverso il pensiero e le sensazioni (neurobiotica), che la depressione ha anche cause neurologiche, che l’angoscia può essere causata da uno squilibrio ormonale dovuto a una disfunzione della tiroide. Ma ognuno di questi dati di fatto mostra semplicemente alcuni aspetti del sé, non la definitiva verità del sé, anche qualora si raggiungesse una conoscenza completa. Ma una conoscenza completa del sé è davvero desiderabile? Il sé completamente indagato e tematizzato dalla ricerca scientifica rappresenterebbe la forma umana definitiva? Nietzsche sapeva bene che nella pretesa della conoscenza di sé «si nasconde quasi un male» (La gaia scienza, 335): che noia conoscere il sé perfettamente! Nella definizione della conoscenza di sé è quindi necessaria una duplice cautela: epistemologica ed etica. Innanzitutto, una cautela epistemologica riferita alle esigenze teoretiche del sapere di sé, per almeno quattro motivi. 1. Il sapere è, a differenza di quanto lascia credere il suo concetto, fondamentalmente incerto. Non è una critica contro il lavoro del sapere, le conoscenze che ne risultano valgono tuttavia solo “per un certo tempo”. Il

suo consolidamento, anche nel caso della psicologia e delle conoscenze neurologiche, avviene solo nel lungo periodo. Sarebbe antiscientifico voler affermare che il sapere attuale sia valido “per sempre” e non finché non si impongano nuove conoscenze in grado di rivederlo. Questo entusiasmo per il sapere non implica la demolizione continua delle conoscenze acquisite, ma una moderazione di quella credulità – inadeguata alla sfera del sapere – che vede la sua forma ultima in ogni stadio raggiunto dalla scienza. Il sapere ha una storia che, attraverso le epoche, ci parla di sviluppi, errori madornali, innovazioni che distruggono i fondamenti acquisiti. Non è possibile ammettere che questa storia finisca proprio oggi. Se oggi la scienza ci dice che gli uomini sono “governati”dagli ormoni, conoscenze ulteriori diranno forse che gli esseri umani sono condizionati in parte dagli ormoni e in parte dai pensieri, che i pensieri possono essere in parte spiegati neurologicamente, mentre in parte non possono esserlo, e che è necessario rinnovare il vecchio concetto di autodeterminazione. Certo resta solo il sapere che supera e rivede se stesso di continuo. Sarebbe quindi ingenuo vincolare la comprensione della vita alla forma del sapere attuale. L’impresa di vivere in questa incertezza senza definirsi sulla base di certezze illusorie è affare dell’arte e del saper vivere, proprio nel senso in cui lo intende Antonio Damasio, che considera «l’affinamento dell’arte di vivere» un’operazione compiuta dalla coscienza e vi scorge un processo evoluzionistico, giacché «l’arte di vivere è il risultato positivo della storia naturale» (Emozione e coscienza, 2003). 2. Pertanto, a differenza di quanto pretende, il sapere non può essere oggettivo. Non ne consegue che il sapere sia soggettivo, ma che ogni conoscenza, anche quella del sé, dipende da un intervento dell’uomo, di strumenti e metodi umani, dalla prospettiva e dall’orientamento di ogni campo di ricerca, e ciascuno di questi aspetti è sempre accompagnato da un dato interesse. È impossibile trovare un criterio oggettivo che, in quanto tale,

sarebbe anche disumano. La coscienza, che deve conoscere se stessa e il proprio inconscio, si trova sempre in riferimento al “soggetto”, ma non ammette mai l’esistenza di un assoluto. In riferimento all’oggetto, il percorso analitico fa scomparire l’essenziale, il senso, la connessione che si trova alla sua origine. Per questo la spiegazione neurobiologica può sempre essere accettata con riserva: «Non esiste alcun io», afferma. Ma chi è che sta parlando? Se è un io a farlo, allora la tesi sull’io viene confutata, e se non è un io, allora la spiegazione è irrilevante, perché nessuno ha detto niente. «Non esiste una volontà libera», dice il neurobiologo. Ma sta parlando liberamente o no? Se sì, la sua tesi non vale, altrimenti la verità della sua affermazione tende a zero, perché, non riconoscendo la libertà del volere egli non può nemmeno affermare nulla sulla sua natura. A parte tutto, si può dire che ogni dimostrazione della inconsistenza dell’io deve necessariamente presupporre la sua esistenza. L’”io” non è però nient’altro che un concetto, al quale si può rinunciare, perché può essere pensato come il risultato di una semplificazione; e non è escluso che la formazione di questo concetto abbia una spiegazione neurobiologica. Ma possiamo spiegarlo solo in questo modo? 3. Il sapere dipende da concetti che tendono a rendersi autonomi. Le conoscenze vengono colte, conservate, espresse, applicate e comunicate attraverso concetti. Ma i concetti hanno una vita propria, e perciò la cautela epistemologica deve essere accompagnata anche da una vigilanza terminologica. Per concetti come quelli di “sé”, “inconscio”, “neuroni”, il riferimento a un fenomeno correlato non può essere stabilito senza meno, perché per farlo sarebbe necessario acquisire una posizione neutrale – inaccessibile all’essere umano – sul concetto e sul fenomeno da determinare. Solo così la relazione tra questi due elementi (di identità, somiglianza, convergenza, corrispondenza) potrebbe essere compresa in maniera

affidabile. Senza contare il fatto che ci sono concetti, tipo quello di “complesso di Edipo”, che mettono nei fenomeni, per esempio nei fenomeni dell’infanzia, qualcosa che si può intuire solo successivamente. Allo stesso modo, i dati della libera associazione di idee non consentono una conoscenza affidabile del sé, perché i concetti impiegati stabiliscono alcuni modelli esplicativi tali da trovare come un sé ciò che era stato preliminarmente determinato come tale. Questo processo viene chiamato “circolo ermeneutico” e pare irresolubile; nessun sapere sembra potersene liberare. 4. La scienza non si sostituisce a Dio. La scienza, cioè, non è onnisciente e non è nemmeno sulla via per diventarlo. Solo Dio, ammesso che ne esista uno, coglierebbe una totalità pensabile del sapere, consistente nel complesso delle conoscenze acquisite e di tutte quelle ancora possibili. La scienza umana è comunque nella condizione di determinare il sapere raggiunto fino a un certo momento, ma non quello ancora da conseguire, e quindi non è in grado nemmeno di chiarire il rapporto tra il sapere effettivo e il sapere possibile. Si può assumere che ogni essere, così come ogni essere umano, sia più ampio del livello delle conoscenze attuali, ma anche più ampio di quanto è possibile saperne. La scienza, pertanto, non può acquisire nessun sapere complessivo né sulla totalità dell’essere, né, di conseguenza, sull’essere umano. In base a questa cautela epistemologica è possibile parlare della pretesa, che il sé può dedurre dal sapere, di una certa cautela etica. A. Non si deve aspirare a un perfezionamento del sé. Il sapere produce il desiderio di cambiamento. Il sé, che guadagna un sapere su se stesso, pone necessariamente la domanda relativa alla legittimità di permanere in una condizione data. In caso contrario, come si potrebbe creare una condizione alternativa? Come si può raggiungere, con quali mezzi e con quali conseguenze? Ma dopo un cambiamento che tende al miglioramento non resta nulla. Si sogna spesso un sé perfezionato e una vita perfetta, ma invano:

ogni miglioramento può anche essere un peggioramento, e già solo per questo motivo in ogni miglioramento puntuale e strutturale del sé e della vita non è mai possibile raggiungere la forma ideale e la felicità piena – quantomeno, per migliaia di anni è stato impossibile raggiungerle. Il progresso lineare del miglioramento fino a uno stato finale pienamente ottimizzato resta un’idea; se fosse realizzabile, la vita verrebbe messa a tacere dalla sua stessa perfezione. Che faremmo a quel punto? B. Opporsi a una manipolazione del sé. Il sapere rende possibile una manipolazione. Il sé può essere spiegato e di conseguenza “quantificato”. Le strategie pubblicitarie, per parlare direttamente alle emozioni, mirano al sistema limbico del cervello. Ma il sé è in grado di chiarirsi questo processo e di “inibirle limbicamente”. Il sapere psicologico comporta nuovamente la tentazione di aggiustare il sé sulla base della conoscenza. Nasce allora un sé terapeutico, che usa diligentemente ogni concetto o formula che gli viene imposta. Si vuole “proteggere”, non vuole “spostare” nulla, si affatica a “lasciar perdere” e a “elaborare il lutto”. Non si parla più di che cosa può essere importante per la sua vita – tanto come opzione quanto come norma. Il sé risponde alle direttive della terapia appropriandosi del sapere che essa fornisce, per apprenderne le raffinatezze o anche per sottrarsene in maniera creativa. C. Non negare l’assunzione di responsabilità. Negando la libertà di scelta, il sapere può anche affrancare dalle responsabilità. La scelta e la responsabilità possono anche essere invenzioni umane, ma restano comunque invenzioni utili. Dissolverne il senso comprendendole come saturazioni delle reti neurali potrebbe rendere vana, di fronte a una scelta da effettuare, l’attesa di un qualche “sussulto”. Anche se un’azione è governata in maniera inconscia e vista come il frutto di un’interazione neurologica, le sue conseguenze investono la vita intera di un essere umano, per non parlare di

quella degli altri. Nello spazio sociale, la negazione della libertà e della responsabilità favorisce semplicemente la libertà arbitraria: ogni fatto, commesso o omesso, viene spiegato da un trauma infantile o da una mancanza di serotonina, invece di cambiare la condizione di incoscienza sforzandosi di rendersi coscienti. Un assassino potrebbe spiegare in anticipo la struttura psicologica e neurobiologica che condiziona il suo atto. Ma le vittime ci vedrebbero solo una forma del cinismo più deleterio. D. Tenere in considerazione la conoscenza di sé. Il sapere non ha limiti; questo vale anche per il sapere del sé, che non giunge mai alla fine. La conoscenza di sé trova i suoi limiti solo nella vita, perché questa non mostra solo il “troppo poco” di questa conoscenza, ma anche il “troppo” del sapere o di ciò che presume di essere tale. La cura di sé ha senz’altro il compito di scoprire i nessi inconsci che lo definiscono per non esserne sopraffatti, ma anche per disporne e per renderli opzioni da sfruttare. Il rischio è, tuttavia, quello di sostituire una supercoscienza di tutto questo alla concreta attuazione della propria esistenza: che cosa può essere inconscio quando ci si “lambicca il cervello”? Che cosa si desidera quando ci si “ammorba”? Nell’analisi e nella sua traduzione in discorso pare sensato tenere conto di un criterio, che fa in modo di non rendere il sé una forma “sovraterapeutizzata”, la quale perderebbe, nella sintesi, tutta la sua coerenza. Si potrebbe allora fare un uso sottile del sapere solo quando sembra plausibile, e impiegare il sapere dell’inconscio solo quando smette di essere l’altro, l’estraneo, il non detto, il sorprendente, il perturbante. In questo senso si dovrebbe restituire all’inconscio la possibilità di essere portato allo scoperto. Ma anche la possibilità di rimanere segreto, per mantenere vivi i propri interessi e per non sacrificare in maniera imperdonabile il lavoro della formazione di sé alla conoscenza.

Conoscenza ed ermeneutica del sé

Che cos’è propriamente il sé? Questa domanda deve restare aperta. Interessante è la confessione del neurobiologo James H. Austin che, dopo trent’anni di ricerca, in chiusura del suo libro Zen and the Brain (1998), trae un bilancio: «Che cosa abbiamo trovato? Rapporti complessi». La sequenza storica delle conoscenze relative al sé documenta in particolare che si tratta di qualcosa di molto poco comprensibile. Si può quindi supporre di trovarsi di fronte a concetti che non possono ambire alla verità unica e pura del sé. Ma se si smette di prestar fede all’esistenza di una pretesa verità oggettiva, la produzione di un concetto che avvia alla conduzione della vita diviene compito dell’arte di vivere, esercitata da ogni singolo essere umano. Questo modo di procedere segue anche un ulteriore concetto, cioè quello di una conoscenza ermeneutica del sé, che pure non può essere compresa come una norma, ma come un’opzione. I concetti della conoscenza di sé elaborati nel corso della storia da una prospettiva antropologica, filosofica, teologica, cartesiana, psicologica e biologica possono essere integrati nella conoscenza ermeneutica di sé quali suoi possibili aspetti, senza essere identificati una volta per tutte con la verità del sé. Certo, come ogni sé, anche la conoscenza ermeneutica mira alla generalità. Ciascuno può, tuttavia, decidere in che modo procedere, scegliendo tra una conoscenza autonoma e una eteronoma. Non di una scienza ma di una ermeneutica parla perciò Michel Foucault nelle sue lezioni del 1982, quando descrive un sé che nel costruire e formare se stesso si fa guidare da essa. L’ermeneutica come arte della comprensione e dell’interpretazione, di par suo, non pretende altro che una verità per sé; la scepsi nei confronti di se stessa e dei suoi risultati fa parte del suo programma. Il punto di partenza è la constatazione che un fenomeno, incluso quello del sé, non deve essere compreso tramite una spiegazione unica; tenta quindi di approcciare i suoi diversi aspetti con l’aiuto della comprensione e dell’interpretazione per dare

vita, nel caso che ci interessa, a una ermeneutica interiore del sé. Siccome la conduzione della propria vita non può essere rinviata al momento in cui la conoscenza è completa, quando si parla di ermeneutica non si intende una conoscenza nel senso pieno della parola. Si ottiene, invece, un sapere sempre provvisorio, operativo, al quale sono sufficienti i criteri della plausibilità e dell’evidenza, che si presentano come risultato di un’esperienza ricca e di una considerazione critica di se stessi, effettuata allo scopo di venire in chiaro su se stessi. Nei suoi Saggi, punto di riferimento della moralistica da cui l’arte di vivere trae origine nell’epoca moderna, Michel de Montaigne ha messo in opera questo procedimento in maniera esemplare. Ogni attenzione, presa di coscienza e fedeltà a se stessi mira a conoscere ciò che, prima di tutto questo, è dato come “sé”. Nel pensare, nel sentire e nel condurre la propria esistenza, il sé mette alla prova se stesso; sulla base di questo esame deve arrivare a poter dire, anche se con una certezza solo relativa: «Mi conosco». Il sé mette in conto i limiti di ogni possibile spiegazione e chiarimento e li rispetta, anziché comprimerli in se stesso, con il rischio dell’autodistruzione e dell’autolesionismo. Così questa familiarità con se stessi è una forma moderata e pragmatica di conoscenza, un criterio sostenibile, che si rivela fedele al seguito della formula delfica: «Niente in eccesso». La fatica della conoscenza di sé muove dall’instabilità del concetto del sé e ricorre al fenomeno che gli è legato, cioè all’esperienza di un qualcosa come un sé che si angoscia, che ha bisogno di mangiare e di bere, che ama, che produce escrementi, che sente dolore e prova piacere. Qualcosa come un sé ha bisogno di una coscienza, con l’aiuto della quale portare avanti la propria vita. Questo qualcosa si fa chiamare “sé” per amor di semplicità, per indicare il fatto che si riferisce a sé e che ha familiarità con se stesso. Il sé è ciò che non è mai di qualcun altro; colui che soltanto può vivere questa vita e portarla a termine. Difficile mettere in discussione questo assunto, anche se, riferita al

sé, ogni tesi sull’essere appare problematica. Il sé si accompagna a una serie di datità, ha rappresentazioni di sé, sviluppa una concezione della vita e una prospettiva sul mondo, che non è possibile ritrovare in nessun altro. È il soggetto di esperienze che comunica agli altri e che, foss’anche solo per un momento, condivide con gli altri, anche se il legame con se stesso non può mai andare perduto. Nessun altro può farsi carico di un lavoro sul sé, nessun altro vive questa sua vita, in cui ne va di se stesso, anche quando prova a prescindere da sé, anche quando nega di conoscersi, anche quando riconosce “il sé” come un’illusione o, perfino, lo elimina, o addirittura lo cancella. Certo, il sé può essere un’illusione, ma è un’illusione tale da venire al mondo per permetterci di vivere e che dobbiamo avere a cuore finché ci sembra sensata. L’arte di vivere non può mai togliere il sé a nessuno, così come il rifiuto del proprio sé è sottoposto a una scelta; almeno per poter effettuare questa scelta, sarà necessario costituire un sé che è capace di rifiutarsi. Non è possibile rinviare la conquista di questo sé operativo fino alla spiegazione definitiva dell’esistenza ontologica del sé. È possibile concepire un concetto del sé solo sulla base dell’esperienza fenomenica, mediante un atto di comprensione e interpretazione, ma non attraverso la determinazione di una verità. Nel concetto del sé sono compresi due suoi aspetti: il sé impulsivo, iniziale, in quanto impulso dell’io dato che, a causa di un’angoscia, si prende spontaneamente cura dell’io intero. Da qui emerge subito, con il passaggio alla cura sapiente, il sé integrale e consapevole, che riguarda l’io rappresentato, che corrisponde a un concetto della totalità dell’io e riflette un’istanza di completezza che comprende anche l’inconscio; un’istanza logica che ha sotto gli occhi la cauta conservazione e il prudente potenziamento di tutto l’io. L’io integrale è anche il moderatore interiore, la cui funzione è quella di dare la parola alle diverse voci che tutte insieme dicono «io», di porle in relazione, di mediare il loro dialogo, di

appianare le loro controversie, di decidere nei casi di dubbio. In confronto all’io spontaneo, il sé è un concetto più ampio e più connotato dalla riflessione. Il sé abbraccia la rappresentazione del -si come medio per la presa di coscienza e la formazione del sé, cioè di una riflessione, così come di un lavoro su se stessi. Il -si indica la possibilità del sé di vedersi dall’esterno ed è la condizione di possibilità della riflessività. L’autoriflessione si inserisce nella non-identità tra sé e -si e aiuta il sé a orientare se stesso e a correggersi. L’ermeneutica del sé tiene desta la coscienza per ciò che in prospettiva si dà in ogni sapere e, per il circolo ermeneutico, anche in riferimento a se stesso. Contro la sua piena visibilità e la sua quantificazione, l’ermeneutica fa valere il principio della pienezza ermeneutica, secondo il quale la realtà, anche quella del sé, è sempre più ampia della conoscenza che se ne può avere. Ci sono tempi nei quali pensare che esista qualcos’altro o che la realtà possa anche essere diversa da quella che al momento ci si offre come unica può essere il solo conforto possibile. Ermeneutica significa, in questo senso, mettersi sempre di nuovo alla ricerca di qualcos’altro, riportare alla luce connessioni che finora non erano state poste di fronte ai nostri occhi, dischiudere dimensioni inaspettate; tutto questo mediante un processo di comprensione e interpretazione. Lungo questa strada si ottiene anche il senso per la molteplicità del sé e del mondo, irriducibili a un’evidenza univoca. Per lo stesso motivo l’ermeneutica restituisce al sé un’anima, un possibile atto di comprensione e interpretazione, non nel senso che il discorso sull’anima può finalmente essere determinato in maniera precisa, ma perché può restare indeterminato a sufficienza. L’anima è perciò ermeneuticamente feconda ed evoca un surplus di creatività rispetto al concetto di psiche impiegato dalla psicologia. La rinuncia al discorso sull’anima non ha mai avuto luogo – la rinuncia attesta, piuttosto, quanto il concetto di anima non sia stato colto, anche quando si è creduto di poter dire con precisione che cosa fosse. Ogni

discorso sul sé e sulla sua anima resta provvisorio e “sottodeterminato”. Del resto, il concetto di anima non ha mai preteso di portare a una conoscenza definitiva: la sua inesauribilità ermeneutica apre invece alla sua strutturale infinità, come dice ad esempio Eraclito («Non puoi rendere pienamente evidenti i limiti della tua anima», frammento 45) o Novalis («La via più segreta è quella verso l’interiorità», Polline, frammento 16). Perciò non si deve ottenere la conoscenza di sé attraverso un’introversione, ma piuttosto in un’estroversione, ossia nel rivolgersi verso l’esterno, all’esperienza di incontri e situazioni diverse, di cui il sé deve fare conoscenza e alle quali deve reagire. Siccome l’ermeneutica in generale ha continuamente di fronte agli occhi l’ambiente e il contesto di un fenomeno, l’ermeneutica del sé non riferisce la comprensione e l’interpretazione solo a se stessa, ma anche ai modi attraverso i quali si rivolge al “mondo” e agli altri, per conoscere l’uomo e il mondo nelle loro regolarità, delle quali è sempre necessario tener conto. Questa operazione può essere chiamata ermeneutica esteriore del sé. L’ermeneutica interiore e quella esteriore sono reciprocamente legate: la conoscenza di sé è un presupposto per imparare a conoscere il mondo e gli altri. L’esperienza di ciò che più propriamente ci appartiene ci offre anche la sensibilità per l’altro e per gli altri, dandoci il coraggio di aprirci a loro. Viceversa, la familiarità con gli altri esseri umani e con il mondo richiede una conoscenza di sé, perché nell’incontro con l’altro e con gli altri il sé può capire quanto è simile o diverso da loro. Queste situazioni liberano aspetti di sé che prima erano ignoti, assenti nella rappresentazione che si aveva di sé, e tuttavia presenti, affascinanti o deludenti – talmente deludenti da costringerci a renderne responsabili gli altri. Nell’esperienza, nello scambio e nel confronto con gli altri, il sé impara sempre molto su se stesso; diviene parte di un processo che non può mai essere chiuso e nel cui corso non diviene soltanto un oggetto di studio, ma

anche qualcuno con cui, in qualche modo, fare amicizia. La conoscenza del sé dato è il presupposto per una familiarità sapiente e sensibile con se stessi. Tutti gli aspetti della conoscenza, dell’esperienza, della coscienza e del sentimento di sé sfociano in un più ampio senso di sé nel quale si integrano la sensazione corporea, i sentimenti dell’anima, il sapere cognitivo e la confidenza con se stessi, con gli altri e con il “mondo”. Avere un senso per sé significa conoscere molto bene il dato in sé, ma anche intuire le sue possibilità, che ci piacciano o meno. Ma avere un senso per sé significa inoltre saper trovare la giusta chiave di lettura per una situazione e lavorare per realizzarla. Come per ogni altro senso, anche il senso per sé non è mai semplicemente dato, ma deve essere conquistato e raffinato progressivamente attraverso l’esperienza, così come con la riflessione su di essa, resa possibile dal dialogo con sé e da quello con gli altri. La disponibilità a commettere errori e a trarne insegnamento porta all’estensione e all’approfondimento del senso. Quanto meglio quest’ultimo è armato, tanto più è in grado di lavorare sicuro di se stesso e quindi, come ogni altro senso, in piena autonomia. Potrebbe essere questa una spiegazione dell’origine del «potenziale di preparazione motoria» del cervello? Questo senso, in definitiva, rappresenta lo strumento di cui si serve l’istanza moderatrice del sé integrale che, come abbiamo visto, necessita di prudenza e di una “saggezza superiore”. Tanto in riferimento al sé dato quanto a quello possibile, l’ermeneutica del sé arriva a formulare un’autocomprensione così vasta da mettere in condizione di poter dire «comprendo me stesso, questo e quello». Le connessioni che istituiscono il senso del sé vengono prodotte in modo simile, almeno in parte. Spesso tale produzione avviene per via metaforica, con l’aiuto di immagini le quali, dal punto di vista ermeneutico, rendono meglio dei concetti. Le metafore attraverso le quali si esprime l’autocomprensione

hanno sempre una loro particolare logica interna. Ci sono metafore agonistiche, relative alla battaglia, al conflitto, alla vittoria e alla sconfitta. Ci sono metafore poristiche, della via che viene percorsa e del suo traguardo, del procedere passo dopo passo, delle deviazioni e della cattiva strada o della strada non ancora trovata e della correlata indecisione. Ci sono metafore aritmetiche: calcoli, conti e bilanci. Metafore architettoniche: fondamenta, mura e finestre del sé. Metafore floreali: crescere e maturare, fiorire e sfiorire. Metafore sportive: training, maratona, concorrenza. Metafore nautiche: il porto, la barca in alto mare, il naufragio, di cui talvolta si è vittime. Metafore energetiche: il power, e tutto ciò che elettrizza. Metafore tecniche come il motore, che “gira bene” o balbetta, come il programmare e non programmare, il check-up e la connessione. Le metafore cosmiche: influsso astrale, buchi neri e orbite. Queste sono solo alcune delle immagini tra le quali il sé può scegliere, in maniera consapevole o meno, e che, in quanto campi metaforici, incidono sull’autocomprensione. L’autocomprensione è indispensabile per formare e cambiare se stessi, può essere un correttivo per l’io dato e può diventare un modello per la propria autoformazione. Soprattutto, però, l’autocomprensione è influenzata da cultura, tradizione, religione, società, ambiente, e anche dalle campagne pubblicitarie. Nelle culture premoderne e in generale non-moderne è condizionata da tradizioni sulle quali nessuno ha potere, e viene sostenuta da una comunità, dalla devozione e dalla cieca fede nel destino. Nelle culture moderne, invece, l’autocomprensione consiste nell’essere individui, nella comprensione della libertà come liberazione da realizzare e della felicità come massimizzazione del piacere a cui tendere. Nel momento in cui il sé comprende se stesso, spesso diventa anche dipendente da un modello che non ha creato lui stesso, ma che in qualche modo e per quanto possibile gli è stato lasciato. Per condurre la propria vita in maniera consapevole è cruciale la

capacità di vedere chiaramente tale modello e di decidere della sua validità, di riempirlo con qualcosa di proprio oppure sostituirlo con delle rappresentazioni autonome. Questa è la preoccupazione che accompagna l’impegno necessario ad autocomprendersi e, di conseguenza, a formare se stessi. Con questo si apre, al di là della conoscenza di sé e della familiarità ermeneutica con se stessi, il campo della formazione ascetica di sé.

Lavoro sulla solidità interiore: formazione del sé e potere su se stessi Ogni sé è un essere umano, ma non tutti gli esseri umani sono un sé, ammesso che essere un sé significhi saper condurre la propria vita con consapevolezza. Quando nasce, il sé è un fenomeno precario dell’essere uomo. Al momento della nascita, infatti, il sé appare come qualcosa di estremamente fragile. Si frantuma in esperienze che non riesce a dominare. Proprio nell’epoca moderna, che tanto ha contribuito alla sua liberazione, il sé è caratterizzato dalla distruzione, dalla frammentazione e dalla scissione. Ciò che in generale viene chiamato “pensare” è, in realtà, il fronte su cui lottano pensieri diversi. Ciò che viene chiamato “anima” è il campo di battaglia dei sentimenti. Finanche i muscoli sono in guerra tra loro e producono conflitti. In questo senso la “personalità multipla” non sembra essere un’eccezione patologica, ma un caso ordinario della vita del sé nella modernità, dove è possibile fare esperienza della dissoluzione moderna delle connessioni che determinano il suo rapporto con se stesso, come la mancanza di senso del sé e del mondo. In questo modo il sé trasforma il lavoro sulle connessioni interiori ed esteriori che lo riguardano in una fondazione del “senso”, quale condizione di possibilità per la sua affermazione in quanto tale. La libertà negativa che caratterizza la liberazione, e che porta all’indeterminatezza e alla dissoluzione del sé, viene quindi completata dalla libertà positiva che si manifesta nella capacità stabile e determinata di

produrre forme. Anche questa è una parte costitutiva del lavoro per una modernità diversa. Ma tale lavoro non impedisce necessariamente che il sé perda se stesso. La sua funzione è solo quella di rendere la perdita un po’ meno verosimile, perché, come abbiamo visto, la possibilità di perdere se stessi non può mai essere eliminata del tutto. Anzi, è un rischio che a volte si deve ricercare. Ma come possiamo rappresentare il processo attraverso il quale il sé dà forma a se stesso? Che cosa può fare chi si sveglia la mattina ed è già stanco o si trascina per tutto il giorno o chi, prima ancora di aver cominciato, si avvia già a concludere la sua giornata? Dare una forma a se stessi significa innanzitutto faticare per impadronirsi di sé o, che è lo stesso, esercitare un potere su se stessi. Questo potere, o questa forza, possono essere compresi come atto e potenza relativi all’influenza su qualcosa o qualcuno, a un comportamento o a relazioni, e in questo caso, quindi, al sé. Si tratta, dunque, sia di una capacità che di una facoltà; il potere ha perciò molto a che fare con l’arte. Come quest’ultima, infatti, si sviluppa sui tre piani della capacità che abbiamo già descritto: su quello della possibilità si deve trovare un potenziale, una competenza che si manifesta, per esempio, nella forma del sapere e della conoscenza; in questo senso si può parlare di una capacità virtuale. Sul secondo piano la potenza diviene un atto che porta a realizzare il potenziale, istituendo il difficile passaggio dalla possibilità alla realtà o dal sapere all’agire. Da questo punto di vista la si può anche definire come capacità reale. Sul terzo dei tre piani ne va della concretizzazione abile della realtà, che viene imposta come frutto di un continuo esercizio e che si presenta in tutta la sua eleganza resa a sua volta possibile da un’accurata conoscenza dei dettagli. Questa è la capacità eccellente in senso proprio. Quando il sé si sente impotente nei confronti di se stesso, è sempre opportuno chiedersi su quale di questi tre livelli si sia insediata l’impotenza, allo scopo

di esercitare di più e meglio la capacità corrispondente. Tutti e tre i piani della capacità, e quindi del potere, possono essere realizzati con l’aiuto dell’ascetica, cioè con l’apprendimento pratico e l’abitudine. Il corrispondente termine greco è infatti áskēsis e sta a indicare un vasto campo di esercizi, più o meno dettagliati, e di pratiche differenziate tra loro. L’esercizio è un processo di apprendimento. Inizia con uno studio programmato ed esplicito per confluire, poi, in un apprendere naturale che avviene con ripetizioni sempre uguali a se stesse. Si prenda ad esempio lo scrivere: una capacità virtuale viene conseguita apprendendo le lettere, una capacità reale nasce esercitandosi a scrivere interi testi, mentre la capacità eccellente dipende dall’abilità, che pure può essere ottenuta con un intenso esercizio nella stesura di testi autonomi e originali. Ci si può esercitare a fare qualunque cosa, ci si può abituare a tutto, anche a quello che a prima vista può sembrare una sciocchezza, ma che nel corso del tempo mostra la sua efficacia. L’ascetica divide la via che porta a realizzare uno scopo in porzioni e tappe ben visibili, consente, quindi, di procedere per piccoli scopi singoli e di costruire una scala con un congruo numero di gradini. Un cinico come Diogene si esercitava a sopportare il rifiuto di fronte a una statua di pietra a cui chiedeva l’elemosina. Gli astronauti, i cosmonauti, i taikonauti cercano di abituarsi, già molto prima del loro volo, alla vita in un ambiente terribilmente estraneo e cercano di prenderci confidenza: l’esercizio crea l’abitudine, e questa genera familiarità con una certa pratica. L’esecuzione di esercizi rende possibile verificare praticamente le riflessioni teoretiche e raccogliere esperienze importanti. Nella prassi le cose e gli esseri umani si comportano in maniera imprevedibilmente diversa rispetto a quanto affermato in teoria, e questo senz’altro per via della complessa interazione tra connessioni di vario tipo. Questa interazione non è mai calcolabile in anticipo, anche se presenta alcune regolarità delle quali si può far esperienza nel corso degli esercizi.

Tramite l’esercizio possiamo capire molte cose della vita, anche ciò che è spiacevole e penoso. Questa è la fonte da cui il sé trae il materiale per prepararsi e per dare forma alla sua vita futura. Certo, l’esercizio può essere tremendamente faticoso, ma è anche affascinante, perché promette un guadagno enorme: l’acquisizione di una capacità. Un’ascetica come arte dell’esercizio finalizzata al pieno possesso di se stessi e all’acquisizione di una capacità è qualcosa a cui è impossibile rinunciare. È sempre in gioco un autosuperamento: una parte del sé viene superata da un’altra grazie alla mediazione del sé integrale, e poi concretizzata con l’aiuto dell’esercizio. Si tratta di un intervento nel gioco interiore di forze che riesce con l’aiuto di esercizi semplici, quotidiani e addirittura banali, come per esempio la moderazione del piacere che, stando alla sola natura umana, tenderebbe all’eccesso. Ma quale parte del sé esercita un potere maggiore sull’altra: il forte bisogno o la fredda riflessione? Con l’ascetica ciascuno può trovare la giusta misura, non tanto perché l’eccesso è un male morale, ma perché, come si può riscontrare giorno dopo giorno, è nemico del piacere. Nel conflitto tra la consapevolezza cognitiva e la passione affettiva, l’esercizio concede uno spazio alla consapevolezza e permette di tenere presenti tutti i gradi di piacere che si trovano tra il troppo e il troppo poco. Con il superamento di sé nasce il potere e il controllo di sé, cioè la possibilità di moderare le proprie pretese, di non essere dipendente dagli altri, e in particolare di non esserlo da chi promette la soddisfazione dei bisogni, esercitando con ciò una forza che ha effetti sul sé. Il potere su di sé, che in questo senso diventa autocontrollo, non deve tuttavia essere inteso nel senso di una dominazione o di una sovranità. Dominare significa stabilire un rapporto di potere irreversibile: qualcosa del genere accade quando il pensiero domina sui sentimenti o viceversa. Questa forma di dominazione su se stessi porta anche a un’ostilità nei confronti di se stessi: dove c’è un

sovrano, c’è anche ostilità nei suoi confronti. All’euforia della forza corrisponde l’esperienza dell’impotenza che, sebbene momentaneamente “in svantaggio”, prima o poi si vendicherà. L’autocontrollo, che conserva il gioco reciproco della forza, ha il compito di impedire questa vendetta. E per realizzarsi deve anche riconoscere le diverse parti del sé nel loro significato, metterle in rapporto l’una con l’altra, inserirle nel rapporto di forze e prestare attenzione al fatto che la loro relazione reciproca non porti mai alla rovina. Si potrebbe quasi parlare di una politica interna del sé, o anche di un’organizzazione della sua pòlis interiore. Il dialogo con se stessi porta al raggiungimento dell’accordo tra queste diverse parti, che può essere realizzato attraverso i metodi della divisione dei poteri che ci sono già noti: compromesso, bilanciamento, partizione delle forze, formazione di una scala di priorità. L’opera che ci si deve preoccupare di compiere è la formazione del noi nel sé, cioè una relazione con se stessi che avviene nella forma della cooperazione delle diverse parti che lo costituiscono. La spiegazione dei rapporti di forza interiori consiste in un’organizzazione delle diverse voci che dicono “io”, un’organizzazione volta a formare una società in grado di far fronte a una situazione in cui non solo gli io esteriori, ma anche le diverse voci dell’io interiore non sono più in rapporto tra loro. Solo lì dove emergono una solidità interiore, una forza e un potere su di sé, motivati dalla chiarificazione del gioco di potere che si sviluppa all’interno di se stessi, è possibile pensare di sostenere e gestire anche il gioco di forze esteriori. Il problema del potere, infatti, è la tentazione a esercitarlo in maniera eccessiva. Ha qualcosa di inebriante, che si presenta immancabilmente e al quale è difficile resistere, molto più difficile di quanto può essere resistere all’ebbrezza proveniente da altre fonti. Il potere procura un’istituzione del senso assolutamente pervasiva: chi lo detiene sta come un ragno al centro

della tela delle connessioni che si irraggiano a partire da lui stesso. Per questo “si è attaccati” al potere: al di là della forza che lo qualifica c’è, minaccioso, l’abisso dell’insensatezza. L’ebbrezza è originata soprattutto dalla sensazione di un’espansione che, a seconda della quantità di forza posseduta, può investire i singoli o una molteplicità di individui condizionando la loro vita. Il potere procura un’esperienza della trascendenza, nel senso letterale del temine: reca in sé strutturalmente il carattere dell’eccesso, eccede ogni limitatezza del sé in favore di un’illimitata ampiezza che pare, appunto, infinita e immortale. La possibilità di mantenere la propria esistenza in uno spazio così ampio costituisce la ragione che spinge chi ha conosciuto il potere a non abbandonarlo mai. Il ritorno alle strette feritoie della vita sembra così identico alla morte. Decisiva è in questo senso la possibilità di fare esperienza di tale espansione del sé anche in altri modi, per esempio come espansione delle possibilità di vita, come espansione psichica e spirituale nelle relazioni con gli altri e con l’Altro, cioè come espansione che deriva dalla relazione con una dimensione di trascendenza nel senso più ampio e più ricco che questa parola può assumere. Il potere su di sé deve ora essere riproposto come creazione o formazione del sé, come operazione che mira a renderlo una struttura complessa di esperienze e di incontri, circostanze e casualità, come composizione di elementi diversi tenuti insieme da una consapevolezza di fondo. In questo modo il sé viene fissato, e nondimeno reso capace di cambiamenti, come un insieme di formazione attiva e di passivo essere formato, ossia come una formazione che si organizza a partire dall’esperienza e dall’autoriflessione, e produce una forma che assume le sembianze di una filosofia vissuta o di un tutto strutturato e pienamente configurato. Nelle culture tradizionali il sé ottiene la sua conformazione adattandosi a una forma data. Ma quando il dato della tradizione viene messo in questione, la creazione di una forma diventa

un compito che non può essere mai portato a termine completamente. Il compito può essere assegnato al singolo, che lo porta a termine solo per comprendere se stesso (e in questo caso si tratta di una creazione narcisistica della forma) o, in un senso più ampio, come lavoro su di sé nel confronto con gli altri, rivolto agli altri o, addirittura, che pone una forma da cui sono loro a trarre i benefici maggiori (questa potrebbe dirsi creazione altruistica della forma). Ma mai il modo in cui il sé viene strutturato può essere indifferente, perché la struttura che risulta dalla creazione della forma rende possibile o verosimile una serie di eventi, incontri, esperienze, mentre ne rende impossibili o inverosimili altri, non perché risponda a una legge, ma perché mette in evidenza una regolarità straordinaria, proprio come se la forma avesse una sorta di magnetismo che attrae qualcosa e respinge qualcos’altro. Quello che conta è la capacità di intervenire nel processo in questione in maniera consapevole, come nel caso in cui la forma ci appare troppo porosa, o rimessa a un qualche fattore esterno; quando attira, come per magia, avvenimenti problematici. La creazione della forma consiste nel congegnare il sé in funzione di una coerenza nella quale anche le esperienze estranianti, e perfino la sua lacerazione, possono trovare il loro posto, invece di essere eliminate o escluse. La coerenza è la connessione che si crea all’interno del sé, la sua solidità interiore. Non si tratta tanto della sua “unità”, quanto piuttosto della sua integrità, cioè di una sintesi delle tendenze contrapposte, di una realizzazione del sé integrale, cioè di quel sé all’interno del sé che si prende cura della sua totalità con lungimiranza. In questo modo l’altro e anche l’estraneo possono essere integrati nel sé, anziché venire compresi come minaccia per un’identità immaginaria, che rimane sempre-uguale-a-se-stessa. Il concetto di integrità è un’opzione, come del resto lo è quello di identità, dove, tuttavia, si può notare la menzogna fatale dell’uomo moderno, che

tende ostinatamente a rimanere sempre identico a se stesso senza mai riuscirci, anche perché la modernità non fa altro che chiedergli di cambiare. Così, l’identità diviene la base per il dolore della non-identità. Come concetto giuridico l’identità ha senso: definizione esteriore del sé, determinata da nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza, nazionalità. Al contrario, la sua integrità è una questione ermeneutica che tocca l’interpretazione e la definizione interiore: mettersi in accordo con se stessi e stabilire chi o che cosa è – o deve essere – il sé. Quello che al livello del concetto di identità è un “trovarsi”, al livello dell’integrità diviene un definirsi che, almeno in parte, trae la sua origine da una scelta autonoma, e in parte “emerge” nel corso della vita senza che si possa fare nulla per evitarlo. La fatica iniziale dell’autodeterminazione viene dissolta dalla successiva facilità implicata dall’essere pienamente determinato. Ma a colui il quale il lavoro dell’autodefinizione sembra troppo faticoso, resta una via d’uscita: l’autoidentificazione, ossia l’identificarsi in un esempio, in un’immagine, in un modello offerto dal mercato o in tutto ciò che promette di ridurre la fatica necessaria al lavoro su di sé. Grazie all’autodefinizione il sé diventa nuovamente, o per la prima volta, padrone del suo nucleo interiore. La formazione del sé, infatti, avviene essenzialmente attraverso la determinazione del sé nucleare, a partire dal quale la forma può arrivare alla sua manifestazione completa. I punti fondamentali di questo nucleo, e le loro relazioni reciproche, devono essere definiti in maniera stringente in modo da creare dei riferimenti, certo non immutabili, ma comunque solidi. Diversamente non sarebbe possibile parlare di nucleo o di “nocciolo duro” del sé. Del resto, anche dal punto di vista neurologico è necessaria una certa «massa di invarianza strutturale» del sé (Damasio). Per motivi di chiarezza non si possono isolare più di sette punti fondamentali che determinano questo nucleo e che risultano comuni a ogni

autodeterminazione. 1. Le più importanti relazioni di amicizia e di amore. 2. Le poche esperienze che possono essere considerate come punti fermi. 3. L’idea, o il sogno; il credere in qualcosa, che rappresenta la propria strada e forse anche lo scopo della propria vita; l’aspirazione che costituisce il sé quasi per intero. 4. Quei valori a cui si attribuisce particolare importanza. 5. I tratti peculiari del proprio carattere e le proprie abitudini, di cui ci si deve prendere cura. 6. Un’angoscia specifica, una ferita, un trauma. 7. Ma soprattutto quanto di “bello” può orientare la vita del sé. Per quanto lo si possa definire in senso individuale e in funzione del suo contenuto, il bello consiste, in generale e nella sua forma, in ciò a cui si dice “sì”, anche in rapporto al sé e in rapporto alla sua forma specifica. Bello è qualcosa che costituisce il senso di un lavoro, di un piacere, di un dolore, di un pensiero, di tutto ciò che si ammette nella propria vita e che, pertanto, ne diviene la fonte. Il bello è, infine, tutto ciò che ci permette di superare senza fatica anche le più grandi difficoltà. Un esercizio per percorrere la via che conduce a questo tipo di definizione di sé consiste nel rendere presenti a se stessi o agli altri i punti fondamentali del proprio sé, parlandone, scrivendone, o rappresentandoseli in immagini, per divenirne coscienti, per sviluppare consapevolmente una definizione di sé e, eventualmente, per modificarla. Così, quindi, si formano i vertici e i bordi del sé nucleare, che ora diventano riconoscibili e inequivocabili. A questo livello sono ammessi a pari diritto ambivalenza e polivalenza, frammenti e contraddizioni. Della coerenza può anche far parte una divergenza con la quale il sé riesce a intrattenere una relazione ben definita, arrivando a riconoscerla e a esibirla come tale, proprio in virtù della sua coerenza. Su questa via nasce un sé robusto, che non deve necessariamente “adattarsi” a tutto, ma che può entrare in relazione anche con ciò “che non gli va”, da cui non si sente più messo in discussione e dal quale non si sente più lacerato. L’unica cosa che, a lungo andare, è davvero

insopportabile è la guerra civile interiore. Se si riesce a tenere conto dei problemi che ne derivano, anche uno “spostamento” può rappresentare un elemento fondamentale della coerenza. Lo spostamento deve senz’altro essere consaputo in quanto tale: si seppellisca pure qualcosa dentro di sé, ma si sappia sempre dove e perché. Ai vertici del sé nucleare si trovano anche quei condizionamenti dai quali ci si lascia determinare o meno, che vengono esercitati da qualcun altro, da un gruppo, da una religione o da una scienza. Un’idea può rappresentare la “tematica fondamentale” di una vita; un sogno può essere il sogno di una vita, a cui il sé si sente consegnato; un valore può essere il principio o una regola di vita. Le risorse più importanti vengono, però, ancorate nel nucleo, così come tutte le altre forze di seduzione, di affermazione e anche di negazione, grazie alle quali il sé può vivere la sua vita e a cui può sempre fare ricorso. Accanto a quella del nucleo si deve dare anche la definizione della periferia interiore ed esteriore del sé. Periferici sono gli incontri e le agitazioni quotidiane: lambiscono il sé, ma non toccano il nucleo. I “candidati” al nucleo vengono esaminati in periferia prima di essere ammessi al centro. Una maggiore distanza dal centro è data da opinioni e relazioni mutevoli, da “novità”, frivolezze, mode e colore dei capelli: il sé non si definisce in funzione di questi elementi ma li prova per un po’, tenendosi sempre aperta la possibilità di cambiare. Nel centro, o nel nucleo, si può essere aperti al nuovo con una certa continuità, ma vi si può anche resistere; nella periferia le novità sono invece variabili e flessibili. Si arriva così a una costruzione della società interiore, fatta di pensieri, sentimenti, relazioni, atteggiamenti, comportamenti, che porta alla formazione di un sé equilibrato, qualificato da un rapporto definito con se stesso, nel corpo, nell’anima e nello spirito, in sé capace, su questa base, di pervenire a relazioni chiare anche con gli altri. È questo il sé “autentico”? Proprio questo sé che potrebbe essere

detto “congruente”? Questa è la via che conduce alla sua “autorealizzazione”? Dare forma a se stessi non significa, in ogni caso, portare alla luce un sé che prima era nascosto, e di conseguenza nemmeno assumerlo come modello indiscusso dal quale “farsi vivere”, ritrovandosi, poi, a osservare le macerie di sé e quelle a cui si riducono i rapporti con gli altri determinati da un simile modello. L’integrità interiore favorisce il nascere di quella esteriore, che è rivolta agli altri. Il sé che ora interagisce consapevolmente con se stesso sa anche dare una forma alla sua interazione con gli altri e distinguersi per la sua socievolezza: è sempre pronto al compromesso e a scendere a patti con gli altri, ad ammettere le contraddizioni anche ostinate, all’indulgenza – finché gli è possibile – e alla rinuncia a estremizzare le differenze. Nel fare questo il sé dà alla vita in comune una certa priorità. Nell’interagire con gli altri il sé solido e presente a se stesso impara a respirare e a distendersi tra i due poli dell’apertura e della chiusura e, con il crescere dell’esperienza, acquisisce una sensibilità che gli consente di capire quale sia il criterio da adottare in un dato momento, in una certa situazione, nei confronti di un particolare essere umano. Il sé può intendere la sua integrità in modo ristretto o ampio attraverso il rifiuto o l’assunzione degli altri e dell’altro, non in maniera arbitraria, ma secondo una particolare proporzione che consente di riservare loro uno spazio. E tanto l’”aprirsi” quanto il “chiudersi” sono opzioni da sfruttare ogni volta che la condizione interiore o la situazione esteriore sembrano corrispondere meglio all’una o all’altra. Invivibili, o quantomeno problematici, sono i due estremi: l’apertura assoluta, che nasconde il pericolo dell’estenuazione, e la chiusura totale, che minaccia di soffocare il sé, togliendogli l’ossigeno esistenziale che gli è necessario. L’”aprirsi” viene spacciato come una panacea psicologica, ma quando viene assunto come condizione permanente, porta a un sé evanescente e alla scomparsa di molti

dei suoi elementi fondamentali, da cui ci si salva volgendosi continuamente altrove. Il “chiudersi” rappresenta, in questo senso, un’alternativa per riprendere consapevolezza di se stessi e, quindi, per potersi ridefinire. La forza e la stima di sé derivano dal saper interagire con se stessi e dalla determinatezza della coerenza e del nucleo del sé; il dubbio e la scissione nei confronti di se stessi derivano invece dalla condizione opposta. L’angoscia può forse essere considerata come indice del fatto che nella coerenza del sé “c’è qualcosa che non va”, o del fatto che essa non è fondata in maniera stabile o ha qualche falla, o, ancora, che il nucleo stesso è minacciato, essendo stata messa in discussione la più profonda interiorità, le relazioni centrali, le sue esperienze, le idee, i valori, le abitudini che lo caratterizzano. Dirsi «non sono più fedele a me stesso» non può significare altro che aver perso di vista alcuni punti fondamentali del proprio sé nucleare. Ammettere di aver «smarrito me stesso» può significare non riconoscere più il proprio nucleo, cosa che a volte può essere un momento liberatorio, ma anche emblema della più smaccata scissione. La scissione è causa di indignazione, di amarezza, di cattiveria verso se stessi o verso gli altri, nei confronti del destino, delle relazioni, contro il “sistema” e la vita in generale. Bisognerebbe però stare attenti a non farsi dominare dal risentimento, dal sentimento di vendetta e dall’invidia, con cui il sé rovina la sua stessa vita. Questa è una determinazione negativa di se stessi, che ha luogo quando non può più essere attuata l’autodefinizione positiva. Anche quando ci sono buoni motivi per assumere questo atteggiamento negativo, bisognerebbe capire bene se questo non sia una risposta a un qualche trauma: chi sopporta un dolore è in primo luogo la fonte del risentimento e però, secondariamente, è anche ciò verso cui il risentimento si dirige. L’amarezza della vita tocca molto poco la persona nei confronti della quale si prova un risentimento: se è un “nemico”, non può che gioirne. Ma su questa via si diventa sempre più soli, perché un uomo

amareggiato non ha più alcuna attrattiva. Se c’è ancora una ragione per la quale vale la pena vivere, sarebbe meglio cercare il bello, ciò che è degno di approvazione, e lavorare per portarlo alla luce: anche se i motivi di risentimento non possono mai essere del tutto eliminati, è però sempre possibile superarli, farli impallidire, relativizzarli e forse, addirittura, dimenticarsene. La formazione e la creazione del sé nucleare non è mai questione di un attimo, ma è sempre il risultato di uno sviluppo nel tempo: si devono fare continuamente i conti con la via che è stata percorsa e farsi una rappresentazione della direzione che deve essere intrapresa. Si tratta quindi di un pro-gettare sempre di nuovo, di un formulare possibilità e, parimenti, di un ri-gettare altre possibilità, cioè di una rinuncia motivata sia da un’imposizione che proviene dalla vita stessa, sia in conseguenza di una scelta arbitraria; solo una riduzione delle possibilità, infatti, porta alla realtà. Gli stili del pro-gettare e del ri-gettare sono tanti quanti sono gli stili di vita: energico, esitante, coraggioso, cauto, sognante, fantasioso, pragmatico. E anche l’eventuale incoerenza è sempre una parte fondamentale della coerenza: «Perché a volte l’arte consiste nel procedere contro le sue stesse regole» (Gracián, Oracolo manuale, 66). La traduzione in realtà di un progetto non può mai prescindere dalle circostanze. Quello che conta, infatti, è cercare di capire in quale direzione la via è aperta, se bisogna correggere qualcosa, quali deviazioni si devono fare e quali errori sono leciti nella definizione del percorso. Certo, in gioventù si può dare più spazio a questo tentativo che non nelle fasi successive della vita. Ma l’insicurezza sul proprio progetto e sulla propria esistenza è una condizione per la formazione della vita che non può che essere un processo continuo. Lo strumento essenziale per dare forma a se stessi è la storia, che racconta al sé di se stesso e degli altri ed è frutto della creazione di nessi

narrativi grazie ai quali il sé trova il suo senso: «Questo sono io, questa è la mia storia». Il fatto che si abbia sempre voglia di narrare la propria storia trova la sua ragione nella necessità di una verifica sempre nuova di se stessi ed è, al contempo, un tentativo di concepire se stessi come un tutto, lasciando emergere, così, anche quello che ancora non era presente negli eventi narrati. Il racconto della propria storia non può mai ridursi a reminiscenza. È sempre anche un’invenzione, che ha l’obiettivo di ricombinare in maniera forse “romanzata” la storia del sé e della sua vita. Difatti, nella narrazione della propria storia non vengono presentate con coerenza solo le esperienze reali che l’hanno costituita. Tramite il racconto possono essere compresi anche gli intervalli tra le diverse esperienze; ciò consente di acquisire nuove prospettive, mediante un tessere e filare la coerenza del sé, mettendovi ordine, scegliendo quelle che sono le esperienze significative, stilizzando, dimenticando. La presenza di un ascoltatore stimola, incoraggia, incita al racconto. Così la sofferenza diventa più leggera, perché il suo peso non grava su una sola persona; si sta più volentieri con gli amici perché la loro presenza viene potenziata quando è possibile che più di una persona provi gioia. Il racconto può indicare una strada quando non si sa dove andare: la storia, infatti, “va avanti”. Raccontando il tempo passa, e il tempo cura tutte le ferite. La distanza temporale produce anche la rappresentazione di una lontananza spaziale che fa apparire ciò che è avvenuto come un oggetto nell’orizzonte dell’esistenza. E dalla distanza i nessi che ne costituiscono il senso possono essere visti con maggiore chiarezza e messi più facilmente in relazione tra loro. Bisogna dare molta attenzione a tutti questi “piccoli” racconti individuali che, a loro volta, possono sfuggire alle “grandi” narrazioni tipiche di un’ideologia o di una visione del mondo. Queste piccole storie sono straordinariamente creative e, a volte, anche ispirate da racconti letterari come Il lupo della steppa di Hermann Hesse (1927) o Stiller di Max Frisch

(1954), opere che possono educare al rafforzamento di sé o alla contrapposizione a se stessi. Lo scopo di ogni storia è un racconto “sensato” che può convincere il sé e gli altri. Qui la fiducia in se stessi, l’amicizia con sé e l’amore di sé trovano la loro ragione più profonda.

Fiducia, amicizia, amore di sé C’è fiducia in se stessi dove c’è certezza in se stessi, e quest’ultima sta dove c’è un sé chiaramente definito, che si mantiene coerente attraverso tutte le sue modificazioni. La fiducia in se stessi cresce con il crescere dell’autocontrollo, ma si basa anche sulla capacità, conseguita asceticamente, di interagire con se stessi esercitando una qualche influenza su di sé. Qualità come affidabilità, resistenza e caparbietà emergono innanzitutto in rapporto a se stessi e, da qui, anche nella relazione con gli altri. La fiducia nasce dove la distanza tra parole e azioni, o tra proclami e fatti, non è eccessiva; cresce nel tempo, richiede pazienza e lunghi periodi. Non è mai possibile, tuttavia, liberarsi completamente della sfiducia, anche nei confronti di se stessi; almeno finché non si decide di rinchiudersi nella prigione di una fiducia cieca che non tollera alcuna deviazione, nessuna novità, nessuno sviluppo inatteso. Senza questo residuo di sfiducia, il rapporto con se stessi, così come quello con gli altri, diventa certamente innocuo, ma anche noioso. Ma siccome ogni rapporto con se stessi si risolve spesso in una sfiducia eccessiva, l’entità di quest’ultima deve essere sempre accuratamente ponderata. Così come la base della fiducia è l’amicizia, quella della fiducia in se stessi è l’amicizia con se stessi. Il lavoro sulla coerenza del sé ha come suo scopo ultimo la formazione di un sé bello e positivo, che ha voglia di stringere amicizia con se stesso. Di questo si parla già nell’Etica nicomachea di Aristotele (in particolare nei libri 8 e 9) del IV sec. a.C. Aristotele annovera l’amicizia tra le virtù eccellenti dell’anima. Infatti, la vera amicizia non consiste tanto nell’amore per l’utile o per il piacere, ma nel desiderare il bene

dell’amico. In questo senso, l’amicizia è la relazione tra esseri umani che ha più valore e la più sostenibile tra le altre. Il fondamento di una relazione di questo tipo è, però, l’amicizia con se stessi. Analogamente a quella tra due esseri umani, l’amicizia con se stessi può essere rappresentata come un rapporto tra interessi e desideri uguali, o anche tra elementi contrari e contraddittori, presenti all’interno del sé. Il presupposto per questo tipo di amicizia è l’attenzione nei confronti di se stessi, così come l’autocoscienza e il dialogo con sé, necessari per chiarire le differenze e le divergenze tra le diverse voci, per rendere possibile uno scambio reciproco, e naturalmente per soppesarle l’una in rapporto all’altra, allo scopo di trovare compromessi e punti di convergenza. Come nel caso dell’amicizia tra due esseri umani, si diviene amici di se stessi quando le parti in causa hanno intenzione di condividere un rapporto che perduri nel tempo e costruire qualcosa insieme. Nonostante la loro diversità, i lati contrapposti dell’io possono stringere amicizia e stabilire una tensione creativa, come avviene per esempio nel caso del rapporto tra pensiero e sentimento, tra pensieri reciprocamente contraddittori o tra sentimenti come il terrore e la curiosità, la speranza e la disillusione, l’amore e l’odio, la tenerezza e la collera, la sovranità e la paura, l’urgenza di essere liberi e il bisogno di un vincolo, il lato maschile e quello femminile di un unico sé. Essere amici con se stessi significa anche tollerarne le diverse e insopprimibili “lune”, cioè quei pensieri momentanei, quei sentimenti, quei desideri e quelle angosce che pretendono di investire tutto il sé, proprio come quando i bambini cercano di attirare l’attenzione dei propri genitori. Sarebbe assurdo mettersi in cerca del motivo di ogni luna, anche perché una sua fase non dura più di un’ora, un giorno al massimo. Sarebbe vano anche il tentativo di porre fine a questo gioco di forze interiore: non è possibile darsi una costituzione sempre valida. Sarebbe forse più efficace lasciare agli sbalzi d’umore lo spazio di cui hanno bisogno e vivere secondo

il ritmo della propria luna. La mancanza di un elemento comune a ciascuna delle fasi potrebbe certo indurre il sé a oscillare, ossia a farsi determinare una volta da questo pensiero, un’altra da quel sentimento. Ma nello stesso tempo sembra prudente tenersi per sé tale oscillazione, al fine di evitare di inasprirla proiettandola su qualcuno che non tollera che una vita cambi così in fretta. L’amicizia con se stessi richiede che le parti contraddittorie vengano messe in una relazione produttiva, la quale si regola in funzione della situazione ideale di un’armonia ricchissima di tensione. Come nell’amicizia tra due persone, si deve sempre creare reciprocità e non unilateralità, una reciproca benevolenza, e non malevolenza. Si deve mirare, poi, alla chiarezza della benevolenza e non alla segretezza del silenzio. Non si dà amicizia con se stessi in chi si trova “in disaccordo con sé” o fugge di fronte a se stesso, disgustato dalla vita e teso a dimenticarsene perdendosi in qualcos’altro. Aristotele direbbe che “non ha a cuore se stesso” e, proprio per questo motivo, non può nemmeno provare un sentimento di amicizia per sé. Chi non è amico di sé non è in grado di condividere con se stesso né gioia né dolore: una parte della sua anima si rallegra se l’altra soffre, e le diverse parti lo dilaniano, smettendo solo poco prima di pentirsi. Le cose vanno in maniera completamente diversa in chi ha una chiara relazione con sé, capace di produrre un accordo con se stesso e, come disse Aristotele, «realizzare ciò in cui vede il meglio». In questo si deve vedere il tentativo di prendere contatto con la propria anima, il cui scopo non è quello di superare completamente l’estraneità a se stessi, ma la definizione di un rapporto sostenibile anche con quell’estraneo che si trova all’interno di ogni sé e che permette di farci amicizia – anche se qui non si tratta di estranei e altri in sé e per sé, ma solo del pensiero che questo altro esiste e che alla fin fine non è che una parte di noi stessi. L’amicizia con se stessi mira a evitare un’ostilità distruttiva che potrebbe condurre a un’autodissoluzione, sempre che non si scelga di

affondare prima del tempo. Le riflessioni sull’amicizia nei confronti di se stessi hanno determinato con una certa costanza la storia della filosofia come arte di vivere. Già nel I secolo d.C. Seneca, nella sesta delle sue Lettere a Lucilio, nota l’importanza di «essere amico di me stesso» (amicus esse mihi). E anche secondo Seneca tutte le determinazioni essenziali per un rapporto di amicizia con gli altri si ritrovano in quello che si ha con se stessi: essere amico con sé significa non essere indifferente nei confronti di se stesso, ma preoccuparsi, esserci, impegnarsi nella cura di sé e, in questo modo, non lasciarsi solo, ma vivere assieme a se stesso. Nell’essenza dell’amicizia rientra il consultarsi con se stessi e a volte anche essere sinceri con se stessi, al punto che Seneca raccomanda la schiettezza con un amico così come nei confronti di se stessi. E nel rapporto con un amico ci si deve fidare tanto quanto ci si fida di sé. Senza dubbio le forme di relazione dell’amicizia con gli altri e quelle dell’amicizia con se stessi sono legate tra loro, ma quando ci si chiede da dove iniziare, allora non si può muovere che da se stessi. Per lo stesso motivo, molti secoli dopo Seneca, uno sconosciuto inseriva in un suo libro di enorme successo, scritto nel 1788 e intitolato Sulle relazioni tra gli esseri umani, un capitolo intitolato “La confidenza con sé”. Adolph Freiherr Knigge, l’autore, trattava dell’organizzazione e della riorganizzazione della società interiore che definisce ogni sé, tanto da poter quasi parlare di una coltivazione del proprio io. Guai a chi «non coltiva il suo proprio io», sostiene Knigge, preoccupandosi, invece, di cose estranee e diventando «straniero in casa propria». Questo io che non coltiva se stesso non ha più nessuno a cui rivolgersi e viola l’amicizia con sé («il suo amico più fedele»). La sua vendetta potrebbe essere terribile, perché «ci sono attimi in cui la confidenza con il tuo proprio io è l’unica cosa che può consolarti». Lo scopo è l’amicizia con se stessi, quello di «rapportarti a te stesso, così

come agli altri, con cautela, rettitudine, eleganza e giustizia» e, come si fa con ogni buon amico, essere leale anche nei momenti più difficili, che sono ben diversi «dalle smancerie». Siccome la relazione con se stessi è la base per definire quella con gli altri, non ci si deve mai trascurare. A tal proposito Knigge menziona alcuni «doveri nei confronti di noi stessi», che egli considera addirittura come «i primi e i più importanti». Tali doveri trovano la loro espressione nella cura del corpo e dell’anima. E la cura consiste innanzitutto nell’essere un «uomo di società gradevole»: «non annoiare te stesso!». L’amicizia con sé può crescere ulteriormente e diventare amore di sé. Questa è la forma più intima di autorelazione e, proprio per questo, anche quella meno libera. Il concetto greco di philautía vale, oltre che per l’amicizia, anche per l’amore di sé. Risulta, però, subito incontestabile il fatto che quest’ultima forma sia peggiore della prima, perché, secondo quanto scrive lo stesso Platone nel V libro delle Leggi, trattiene gli esseri umani dalla bontà e dalla giustizia. Certo, non amare se stessi potrebbe essere un male ancora peggiore e un impedimento alla possibilità di rivolgersi agli altri. Ed è proprio questo che Aristotele obietta a Platone: l’amore di sé e l’amicizia con se stessi rappresentano i fondamenti per rivolgersi agli altri; un comportamento che tiene conto anche degli altri, infatti, nasce «dal rapporto dell’essere umano con se stesso». Chi non ha un rapporto con se stesso non può averne nemmeno uno con gli altri. Aristotele sostiene che questo sia il presupposto più importante per ogni relazione tra esseri umani, e in particolare per la relazione di amicizia e di amore: non essere amici di se stessi, infatti, significa che colui il quale non si compiace di se stesso non può compiacersi nemmeno degli altri, tantomeno di un suo amico. Ed è evidente che chi «non va d’accordo con se stesso», cioè chi non ha chiarito la relazione interiore con se stesso, deve ancora occuparsi troppo di sé per poter

volgere la propria attenzione agli altri. Dunque, solo mediante la relazione con sé diviene possibile stabilire una relazione con gli altri. E anche nel cristianesimo, la religione dell’amore, non esiste un passaggio più noto e meno considerato in tutta la sua profondità di quello in cui si comanda «ama il prossimo tuo come te stesso» («agapēseis ton plēsíon sou hōs seautón», Mt 19,19 e 22,39; Lc 10,27; che si richiama a Levitico 19,18)? «Come te stesso»: l’amore di sé è evidentemente il fondamento per amare il prossimo, anche se dal punto di vista teologico questa spiegazione non è sempre valida. Quando è stato separato l’hōs seautón dal resto del passo? È possibile constatare una cesura storica al più tardi intorno al 370 d.C., cioè all’epoca delle Regole diffuse di Basilio: qui il precetto dell’amore nella sua formulazione estesa, cioè amare Dio e il prossimo come se stessi, non è mai citato correttamente, e nell’interpretazione di questo passo il presupposto dell’amore di sé cade, addirittura prima di mettere in guardia il lettore di fronte a esso. Questo modello fondamentale resterà in vigore per molti secoli. Ma perché, nonostante la risoluta proclamazione dell’amore per il prossimo senza amore di sé, l’egoismo non è stato ancora distrutto? Forse perché è inutile rivolgersi agli altri se l’amore per se stessi non mette a disposizione le forze da dedicare e donare loro. Si tratta di una mancanza di etica nel rapporto con gli altri determinata dalla mancanza di un’etica dell’autorelazione. Ma esiste un luogo migliore per apprendere e per esercitare quest’etica dell’amicizia con sé e dell’”amore di sé”? Ancora nel XVII e XVIII secolo il tentativo di riabilitare l’amore di sé (l’amour de soi che, in autori come Malebranche, Vauvenargues e JeanJacques Rousseau, si distingue dall’amour-propre) fallisce. E tuttavia non è mai possibile eliminarlo del tutto, come risulta chiaro nel momento in cui Bettina von Arnim si guarda allo specchio per la prima volta e sente battere il suo cuore, anche contro la sua volontà. Amore (di sé) a prima vista: «Ho

amato questo viso già nei miei sogni, nel suo sguardo c’è qualcosa che mi induce al pianto, devo imprimermi nella mente questo essere, devo promettergli fedeltà e credito; se piange, io voglio essere silenziosamente triste, se è felice, mi metterò silenziosamente al suo servizio» (Il carteggio di Goethe con una bimba). Amarsi significa potersi dire: io ti sarò fedele e resterò sempre vicino a te, resterò con te in tutte le difficoltà, puoi fidarti di me. In questo modo si può istituire una relazione intensa con se stessi; una relazione capace di “fare senso”, mentre la sua assenza coincide con la mancanza di senso. L’amore nei confronti di se stessi può arrivare fino all’intimità permanente: «Amarsi», così Oscar Wilde in Un marito ideale (1895), «è l’inizio di un idillio che dura tutta una vita». Nella realtà prosaica di una vita che somiglia a un romanzo bisogna aspettarsi delle oscillazioni, proprio come avviene in ogni amore: l’amore di sé diminuisce in intensità, ma può rimanere tale o trasformarsi nel suo contrario, l’odio di sé. E questi sono momenti da superare e basta, sempre che si scelga di completare il romanticismo con il pragmatismo: dedicarsi a qualcosa, a uno scopo, all’adempimento di obblighi imposti o assunti autonomamente, alle richieste che provengono da un altro essere umano, alla cura delle abitudini e dei rituali, grazie a cui il sé, nei momenti di incertezza, può essere sostenuto da un’affidabilità e una costanza maggiori di quelle promesse da un amore volubile. Resta solo da chiarire come l’amicizia e l’amore di sé possano essere distinte dalla brama di sé, dall’egocentrismo e dal narcisismo. Non si tratta di un decorso naturale? Per Aristotele tale distinzione può essere condotta in funzione di un unico aspetto: la presenza di uno scopo. Se l’amore di sé viene considerato come un fine in sé, allora è egocentrismo, un amore di sé narcisistico che comporta alcuni problemi, non tanto da un punto di vista morale, ma per il tipo di rapporto che implica: il sé si chiude in se stesso e

l’autorelazione diventa autoreferenzialità. Ma quando l’amore di sé rende possibili anche le relazioni con gli altri, e in particolare i rapporti di amicizia e di amore, allora si tratta di un amore di sé altruistico. In questo caso l’amore procura le risorse per andare verso gli altri ed esserci per loro: l’autorelazione si declina come donazione. Chi si ama in questo modo è capace di stabilire relazioni libere con gli altri e ne ha bisogno non solo come mezzo per trovarsi e soddisfare i propri bisogni. Nello stesso tempo, le relazioni con gli altri guadagnano in ricchezza, in quanto vengono liberate dall’interesse individuale e immediato. L’utilità dell’altruismo è dunque solo mediata, perché la ricchezza interiore viene conseguita non attraverso se stessi, ma grazie agli altri. Il rivolgersi ad altri appare perciò come un atto di pienezza di sé, e non come rinuncia a se stessi. Il nucleo della cura per gli altri è la cura di sé, l’amicizia e l’amore nei confronti di se stessi. Purché si sia liberi di farlo.

Cura della libertà: è davvero possibile autodeterminarsi? Il sé vincolato a legami e identità rigide non può disporre di se stesso, e nemmeno deve farlo: non è necessario prendersi cura di sé quando ci si deve fare carico solo delle ovvietà. Senza farsi domande, dà corpo ai condizionamenti di una tradizione, delle convenzioni o della religione. L’autodeterminazione può invece essere possibile, o addirittura necessaria, solo quando queste determinazioni non sono più in grado, o non hanno più il diritto, di definire il sé. Il passo decisivo viene compiuto dal singolo individuo, allorché sceglie di rivendicare la propria autodeterminazione e percepirla come tale. L’autodeterminazione non è una norma, ma un’opzione. Una possibile autodeterminazione potrebbe consistere anche solo nell’affermazione dei condizionamenti dati. Per negarli è necessaria, infatti, la libertà nella forma della liberazione, che permette di guadagnare lo spazio

in cui collocare una vita che determini se stessa oltre ciò che è dato. La creazione di questo spazio è rimessa a una tensione individuale: «Bisogna, ahimè, versare molto sudore prima di trovare i propri colori, il proprio pennello, la propria tela!», dice Nietzsche in Umano, troppo umano (1878) (“Il viandante e la sua ombra”, 266), «e neanche allora si è maestri nella propria arte di vivere – ma almeno si è padroni nella propria officina». «Padroni nella propria officina»: lo si può dire davvero, non solo quando si è padroni di tutti gli strumenti che vi si trovano, ma anche quando si è capaci di usarli? Non è possibile rimanere nella condizione della semplice liberazione. La vita deve essere ulteriormente determinata e deve esserlo in una forma che la renda possibile come vita vissuta. La tensione creata dalla liberazione viene superata dalla fatica della libertà intesa come dare forma. Autodeterminato, “autonomo”, è non già il sé che si libera, ma solo quello che con la sua libertà può dare forma a qualcosa, e può anzitutto dare una legge a se stesso. Questo è il significato letterale dell’autonomia: dare a se stesso (autós) la legge (nómos). Il formare è ancora più difficile del liberarsi, perché non può più svincolarsi da quanto è già dato; non può più prenderlo solo come resistenza o avversità, ma deve piuttosto porlo e tras-porlo, cioè trasformarlo. Si è autonomi quando si è padroni della formazione di sé e della propria vita, in riferimento a regole che, come nell’arte moderna, non possono o non devono più essere tratte da una tradizione o da una convenzione o, perlomeno, devono esserlo in seguito a una libera scelta. «Il punto pericoloso e inquietante è stato raggiunto», ammette Nietzsche in Al di là del bene e del male (1886, IX, 262), «il punto dove la vita più grande, più varia, più vasta vive al di là della vecchia morale, l’Individuo sta lì, costretto a darsi le proprie leggi». Ma un’autodeterminazione è davvero possibile? Dispongo della libertà necessaria per metterla in atto? Questa tesi non muove da una concezione del

soggetto come libero di decidere, un soggetto che tuttavia non esiste? Non è “determinato già tutto”? Non ci sono ovunque complotti contro il sé, orditi dagli altri o da interi sistemi? Devo fare o non fare ciò che mi chiedono gli altri, e in particolare ciò che è dettato dalle “circostanze”? Talvolta sembra come se in alcune immagini del mondo il ruolo di Dio venga trasferito al “condizionamento esterno”: ineffabile, onnipresente, in grado di vedere qualunque cosa, capace di governare qualunque cosa. Questo può essere vero solo in parte. La verità di ciò che accade, infatti, non può mai fugare ogni dubbio, e di certo non può farlo la teoria del complotto che, da parte sua, complotta contro altri complotti diretti nei suoi confronti. Indubbiamente esistono i condizionamenti esterni, l’eteronomia: si può parlare di condizionamenti ecologici, biologici, sociali, culturali, economici, politici. Il sé ne subisce variamente gli effetti ed è sempre consapevole di essere determinato da qualcos’altro, da strutture anonime e da istituzioni. Il risultato di questi condizionamenti è imprevedibile: chi ne viene toccato si intestardisce e l’impossibilità di controllare il risultato di una singola partita può essere il germe che innesca una potenziale autodeterminazione.

Non si può dare un’effettiva dimostrazione della possibilità dell’autodeterminazione, ma si può solo ammetterla. La tesi secondo la quale “si dà” una libertà di scelta è difficile da fondare tanto quanto quella opposta, e cioè che la libertà “non esiste”. Alla fin fine, la questione appare indecidibile, o decidibile solo dal punto di vista di una divinità e, tuttavia, è una posizione preclusa agli uomini. La prospettiva dell’arte di vivere, dunque, è incline ad accettare la libertà, o almeno ad accettare che si dà qualcosa come la libertà e che il sé, per quanto irretito nella fatalità, spesso si trova a dover effettuare una scelta concreta. È possibile formulare una comprensione del sé che muova da questi assunti e renderla parte costitutiva della propria coerenza. Lo scopo non è quello di privare la determinazione esterna e il condizionamento del proprio oggetto, ma quello di credere, o pretendere, che il sé sia capace di autodeterminarsi. In definitiva, decisivo è l’atteggiamento con il quale il sé percorre la sua vita: o ci si vede circondati da complotti e ci si lascia rapinare la vita da questo modo di considerare le cose, o si respingono questi pensieri per ritenersi temporaneamente liberi, e provare, almeno una volta, il gusto dell’autonomia nel caso in cui quest’ultima si dimostri possibile. Solo con l’autodeterminazione emerge anche la responsabilità nei confronti di se stesso. Essere in grado di percepirla, invece di rifiutarla, significa non rendere gli altri continuamente responsabili per sé. La deresponsabilizzazione è, di fatto, un atteggiamento sempre più diffuso nelle società del benessere, quasi ci si trovasse nuovamente nelle culture fatalistiche, dove tutto il peso grava sulle spalle del “destino” quale che sia la forma in cui si manifesta. Ma chi mette in dubbio la possibilità dell’autodeterminazione e della responsabilità ha tuttavia già scelto in maniera autonoma – e ha scelto anche di essere responsabile per questa sua scelta, così come per la sua intera esistenza. Dopotutto, nessuno può vivere questa vita se non il sé che la sta vivendo.

Ma non è spaventoso dover scegliere sempre e doversi determinare in maniera autonoma? Aiutiamoci considerando l’alternativa: vivere una vita completamente priva di scelta e di autodeterminazione potrebbe essere ancora peggio. I condizionamenti esterni non sono prodotti esclusivamente dalle intenzioni “buone” o “cattive” degli altri, ma anche dalla capacità limitata del sé di disporre di se stesso. Sarebbe troppo stancante doversi determinare sempre, ovunque e al di là di sé. Per poter concentrare le proprie forze è importante far valere di nuovo una vecchia distinzione e tenerla ben presente, tanto in generale quanto nei casi particolari: che cosa è in mio potere e che cosa non lo è, che cosa dipende “da noi” (eph’hēmin) e che cosa non dipende da noi (ouk eph’hēmin)? Questa distinzione, sviluppata nell’epicureismo e nello stoicismo, come per esempio nell’Enchiridion di Epitteto, dovrebbe sgravarci di tutto ciò che, non dipendendo dalla nostra opera, dipende dagli altri e dal destino – come il corpo, la proprietà, la stima – per potersi concentrare su ciò che è in nostro potere e in particolare sul pensare e rappresentare, sulla nostra visione delle cose e sui rapporti, sull’interpretazione e la comprensione dei quali è libera “per natura” e controllabile in ogni momento. Non dipendenti da noi sarebbero i prágmata, cioè le cose nella loro concretezza. Da noi dipenderebbero invece i dógmata, le rappresentazioni che ne facciamo. Le cose sono, dunque, così come sono, ma soltanto nella rappresentazione possono essere giudicate “buone” o “cattive”, dipendenti da chi ha la capacità di governare e orientare le proprie rappresentazioni. Nelle interpretazioni è buona norma non allontanarsi troppo dall’evidenza e dalla plausibilità delle cose: allontanarsene troppo metterebbe a rischio la vivibilità della vita. Il sé moderno e, a maggior ragione, quello diversamente moderno dovrebbero dunque misurare nuovamente l’orizzonte di ciò che è in loro potere e di ciò che non lo è. Rispetto all’antichità, il sé può esercitare in

misura molto maggiore il suo potere sul proprio corpo e gestire la sua proprietà, mentre sotto il profilo sociale sembra decisamente meno condizionato. Ma il prendersi cura della sfera in cui rientra tutto ciò che è in suo potere presuppone la fatica necessaria a portare avanti anche il processo che rende il sé consapevole della sua libertà. E nella stessa misura in cui viene in chiaro di tutto ciò che non è in suo potere, il sé si mette anche nella condizione di trattarlo con libertà e in particolare di accettare o meno lo stato di cose che ne consegue. Volendo estendere la sua forza, oltre la consapevolezza, il sé deve sopportare anche una fatica ascetica che muove dalla domanda relativa a quanto è disposto a fare per conseguire una libertà più ampia. Questo discorso vale anzitutto in rapporto a se stessi: «I miei sentimenti sono più forti di me»; ma, quando è necessario, bisogna anche acquisire una forza che li contrasti. Lo stesso vale in riferimento alle richieste di altri: «Devo farcela». Ma solo finché si dà corpo anche alle proprie esigenze personali, grazie alle quali è possibile ridurre il peso del sacrificio. O in riferimento a relazioni anonime: «Non ci si può fare niente». Forse, ma è importante impegnarsi ed essere disposti a farlo. Autodeterminarsi non può mai significare dominare pienamente se stessi e la propria vita, anche qualora si scegliesse di non vivere. La pretesa di una disponibilità assoluta sulla vita coincide con il tentativo superbo e inutile di voler escludere gli altri che partecipano al gioco e l’altro che ci viene incontro. Un sé padrone non è assolutamente quello che può determinarsi in maniera perfettamente libera sempre e comunque, ma quello che ottiene una chiarezza relativa su quando l’autodeterminazione è possibile e quando non lo è. È padrone nella sua capacità di distinguere una cosa dall’altra e anche nel lasciarsi determinare invece che nel voler determinare a tutti i costi; perché l’autodeterminazione è un processo attivo e passivo, è un fare tanto quanto un accettare o un non fare, un formare autonomo, tanto quanto un

lasciarsi formare da altri, dalle circostanze e dalle situazioni. Il fare si concentra su ciò di cui si può pienamente disporre, ma il non fare è sotteso alla manifestazione di un’impotenza, della remissività e della capacità di accettare tutti i fenomeni significativi, che permettono di non affaticarsi su cose che non si possono, o non si vogliono, dominare. Pertanto l’autodeterminazione è relativa e mai normativa, vale solo in casi puntuali e consente di concentrarsi completamente sull’ambito delle proprie possibilità, risparmiando tentativi inutili in altri settori. Sempre laddove è possibile, e solo quando appare sensato, il sé prende coscienza di se stesso e segue la propria riflessione e il suo fiuto più che le indicazioni date. Il fiuto, in particolare, che emerge dall’esperienza e dalla riflessione su di essa, consiglia il sé sul tempo, sulla situazione, sulle condizioni, sui mezzi per dare corpo alla propria autodeterminazione e sugli interlocutori nei confronti dei quali farla valere. La forza dell’autodeterminazione viene però cancellata dalla palese impotenza che si manifesta nel caso di una lesione. Il fatto che questo accada o meno dipende solo condizionatamente dal sé; la prudenza della prevenzione non garantisce l’immunità. Certo, il sé sogna una vita lontana da ogni pericolo, assolutamente sicura nei confronti di tutto. Ma non si può mai dire con pari certezza che una vita di questo tipo abbia valore. A parte le escoriazioni che intaccano solo la superficie, ogni lesione si incide all’interno del sé. Già le più piccole lesioni fisiche, e ancor di più quelle dell’anima, lo mettono in questione. Un taglio nella carne, un dito che rimane chiuso in una porta, una parola cattiva lacerano in un attimo il tessuto della quotidianità, delle abitudini, delle certezze; l’integrità stabile del sé si rompe. Lo strappo mette a nudo la vita: è un’esperienza traumatica nella quale si percepisce la propria vulnerabilità, che va di pari passo con la comprensione del fatto che la vita è minacciata a ogni piè sospinto, e che sarà così sempre; che una

svista, una disattenzione, una coincidenza, una singola azione buona, cattiva, intenzionale o inconsapevole ha conseguenze enormi. È traumatico sapere che al di sotto della superficie della vita quotidiana si aprono non solo gli abissi, ma anche il baratro dell’incapacità umana. Al sé tocca, però, determinare il modo in cui comportarsi di fronte a tutto questo: ribellarvisi, anche se inutilmente, o adattarvisi e, ciò facendo, trovare le forze per superarlo. Innanzitutto, si rimpiange ancora un mondo ben strutturato, andato ormai perduto; i pensieri e i sentimenti sono pervasi dal risentimento verso se stessi o nei confronti degli altri. La nuova realtà, pur essendo reale, non vuole mai manifestarsi davvero. Tutto deve tornare a essere come prima e non può farlo. Nel tentativo di superare immediatamente questa situazione, nel redimersi dalla fatica necessaria per divenirne consapevoli, si viene sopraffatti da una stanchezza plumbea. Così passa il tempo, che guarisce tutte le ferite: la lontananza dai momenti cruciali rende nuovamente possibile uno sguardo capace, come venisse dall’esterno, di prendere le distanze. Il sé può quindi rapportarsi a quanto accaduto, che, anche per questo motivo, non può più essere considerato come inesistente; l’evento viene conservato nella memoria e integrato nella coerenza del sé alla stregua di una cicatrice del corpo o dell’anima. Esattamente nella coerenza che deve essere nuovamente prodotta. Si comincia a ricucire il tessuto lacerato di se stessi, a ridisporre la vita quotidiana, a ripensare, a raccontare, a comprendere, a interpretare quanto è avvenuto per dargli finalmente “un senso”, riportandolo a una qualche connessione sensata e collocandolo stabilmente nella vita. Questo processo, che può essere inconsapevole e accadere nel sonno, può anche venir concepito con la massima consapevolezza e configurarsi come un compito. Ne risulta un forte sentimento di sé, un’esperienza dell’inconsistenza della vita e, al contempo, una presa di conoscenza delle enormi forze fisiche, psichiche e spirituali che

abitano nel sé e che sono in grado di portare al superamento di quella esperienza assurda. E si capisce così anche quanta forza ci venga trasmessa dagli altri. Ma quell’esperienza trova il suo senso soprattutto nella misura in cui pone la questione circa il “vero essere”.

Cura per la verità: che cos’è il “vero essere”? Quando l’ho vista sullo schermo per la prima volta ho pensato: almeno sa cantare. La gioia tracimava dai suoi occhi. Per il resto tutto sembrava di plastica, il suo sorriso, la sua forma, i suoi movimenti, i suoi testi – tutto aerodinamico, niente era suo. Non veniva fuori il suo sé, ma solo un passepartout. Chissà, forse qualcuno dietro al palcoscenico tirava i fili e abusava della sua gioia, sempre che lei lo permettesse… Poi, nelle “notizie dal mondo”, quella sul suo tentato suicidio. Mariah Carey? Pare si trattasse di una questione di proprietà, ma non di quella valutabile in centinaia e più milioni di dollari, stimati da una qualche casa discografica per un paio di album e che lei ora stava mettendo in discussione. Quella della proprietà materiale sembra essere una questione esteriore, la periferia rispetto al centro del sé. Più decisiva è quella della proprietà ideale, il vero e proprio centro. Questo interrogativo sorge dalla cura di sé, attraverso la quale ci si affatica su se stessi e ci si spinge verso l’autoappropriazione. L’appropriazione ideale è un atto di forza e fonda la proprietà di sé: un’opinione, un atteggiamento, la propria etica, i propri dubbi, sentimenti, idee, interessi, eventi, iniziative, scelte. Perdere questa proprietà è causa della perdita del rispetto per se stessi e ciò deruba chiunque della propria vita. Non è possibile compensare in denaro una simile perdita; i soldi possono tranquillizzare, ma è necessario essere padroni di se stessi. La vita reale consiste nella proprietà ideale? L’autoappropriazione è il vero essere? Ma che cosa si intende con “vero” e cosa con “essere”? Tradizionalmente, essere e verità sono grandi concetti filosofici: molti hanno

tentato di definirli, ma nessuno è mai stato in grado di portare a compimento la riflessione su di essi. Perciò bisogna maneggiarli con cura; troppo semplice dire che il discorso su questi temi si riduce a un circolo. Decisiva è invece la domanda su quale sia il significato di “essere” e “verità” per la vita effettivamente vissuta, senza per questo incappare in una banalizzazione “sublime”. Ma dove possiamo trovare l’essere se non in ogni rispettivo modo di essere? Come si potrebbe modificare il modo di essere se non ponendo il problema del “vero essere”? La domanda ha un senso perché porta alla chiarificazione dei nessi che si trovano alla base della vita, sul suo sfondo e nelle sue profondità. Questi nessi concretizzano il “senso” della vita e aprono le possibilità di una vita diversa. Il fatto che ci siano strutture della vita e dell’esistenza fondamentali, “autentiche”, essenziali è un assunto di base dell’ermeneutica. Una questione d’interpretazione del singolo caso è dunque mirata a stabilire di quale struttura si tratti, e che cosa comporti la sua conoscenza per la vita. La scissione tra l’essere (il modo di essere particolare) e un dovere (un vero essere, così come dovrebbe essere) si può ricomporre attraverso la scelta, la quale deve essere effettuata e mediante la quale il sé decide di orientarsi al “vero essere” e di disporre la sua vita tenendone conto. Se questa scelta non viene effettuata ci si “dimentica dell’essere”. È evidente che già solo il riconoscimento di una differenza tra essere e dovere implica il problema della scelta, anche perché nella vita tutto potrebbe essere consegnato alla mera spinta degli istinti naturali. La rinuncia alla percezione di un dovere può far svanire la sua differenza rispetto all’essere – ed è chiaro che una “soluzione” di questa natura non può essere difendibile, mentre lo sarebbe una proposta che fa perno sulla percezione della propria partecipazione alla costruzione del problema. Ciò che porta alla luce un’”analisi esistenziale” che abbia di mira il vero essere è sempre il fatto che anche l’occuparsi o meno di questo problema è il frutto di una scelta

esistenziale. “Essere” è un concetto e un problema che ha fondamentalmente a che fare con la coscienza. Coscienza significa: poter disporre dell’essere. Solo tramite la coscienza l’essere può diventare il tema di una scelta, la base per una condotta di vita consapevole. In questo senso risulta decisivo capire quale comprensione dell’essere possa risultare sufficientemente plausibile per poterci costruire sopra una vita consapevole, e quale concezione dell’essere possa far apparire la vita come qualcosa di sensato. Se questo è il presupposto per l’indagine sul “vero essere”, che cosa significa allora “essere nel vero” e vivere veramente? La filosofia non può dare indicazioni, anche perché la sua storia è costituita da un’unica serie di verità discorsive, trovate e subito smarrite. Ma quando si parla della vita non ne va mai di una verità discorsiva, magari dischiusa in un agone argomentativo, ma di una verità esistenziale, che emerge nel mondo in cui ciascuno porta avanti la sua vita e che, pertanto, può sempre essere messa in discussione. Il “vero essere” è quella verità che viene vissuta, con tutti i rischi che questo comporta e che chi vive deve correre con ostinazione e resistenza, se necessario. Vivere nella verità può significare realizzare quella vita della quale ci si può rendere responsabili in base al proprio sapere e alla propria coscienza, in seguito a una lunga riflessione e a una continua ponderazione che abbraccia la vita nel suo insieme. Non è dunque in discussione una verità oggettiva ma solo una verità soggettiva, in armonia con il sé, legata a una scelta che deve essere effettuata e alla possibilità di rimanerle fedeli, senza aspettarsi che gli altri possano vedere le cose nello stesso modo: non solo perché si può aspettare troppo a lungo, ma anche perché il proprio modo di vedere le cose può essere errato. In questo senso si deve perseguire la verità anche nei confronti di se stessi: in questo atteggiamento si può trovare il senso, che più di qualunque altra cosa consente di portare avanti la propria vita e mette a disposizione le risorse e le forze attraverso le quali è possibile

superare anche le maggiori difficoltà e sostenere i più grandi pesi. La domanda sul “vero essere” ha un valore principalmente euristico. Serve a mettersi sempre di nuovo alla ricerca, allo scopo di trovare una comprensione della vita che non è solo strumentale, anche perché una tecnica di questo genere non potrebbe mai essere compresa come arte di “vivere”. Con la domanda sul vero essere, invece, la vita stessa diviene arte, e tale arte è, come sostiene anche Erich Fromm, «quella più importante e, al contempo, quella più difficile e varia che l’uomo può mettere in pratica». Come accadeva già nella filosofia antica, anche Fromm mette a confronto il lavoro artistico esercitato in rapporto al sé e alla propria vita di ciascuno con quello di uno scultore o di un medico: «Nell’arte di vivere l’uomo è due cose: l’artista e l’oggetto della sua arte. È lo scultore e il marmo, il medico e il paziente» (Dalla parte dell’uomo. Indagine sulla psicologia della morale, 1947). Una differenza significativa tra l’arte di vivere, così come può essere compresa da un punto di vista filosofico, e l’”arte della vita” teorizzata da Erich Fromm concerne tuttavia la domanda sull’essere, che egli contrappone all’avere. Ma un’arte di vivere deve articolarsi davvero attorno a un essere puro e distinto dall’avere? L’arte di vivere deve in questo senso coincidere con un’”arte dell’essere”? È la contrapposizione tra essere e avere ad apparire problematica. L’essere che esiste per sé e a prescindere dall’avere infatti non è altro che un’idea. Per diventare realtà, l’essere deve “uscir fuori da sé”. In questo senso, l’essere è, ed è immediatamente un avere queste e queste altre qualità. L’essere si articola nell’avere. Essere un sé significa avere sensazioni, pensieri, interessi, opinioni, che sono proprie, cioè in possesso del sé. Da questo punto di vista è assurdo parlare dell’essere come un modo di esistere nel quale «non si ha, e non si desidera avere, nulla» (Erich Fromm, Essere o avere, 1976). Anche se questa concezione è radicata nella tradizione:

riflessioni sull’essere dell’uomo, su cui l’avere non può esercitare alcuna influenza, si trovano già negli Aforismi sulla saggezza di vivere (1851) di Schopenhauer. Più sensato del passare dall’avere all’essere sembra invece spostare il punto fondamentale dell’avere dall’avere materiale a quello ideale – compito dell’arte di vivere che ciascuno deve mettere in pratica – per introdurre, alla fine, una componente ideale anche nell’avere materiale: dal semplice consumo all’uso di ciò che si ha. E, da ultimo, dare all’avere materiale una misura, un limite, esercitandosi a praticare una rinuncia calcolata. Una discussione di rilievo sul senso dell’avere si ebbe già attorno alla metà del XIX secolo, innescata dal libro di Max Stirner, L’unico e la sua proprietà (1845). Quando sostiene che la cosa più importante è disporre di se stessi, «lavorare e formare se stessi» per poter condurre una vita propria, Stirner non fa altro che attualizzare la concezione stoica dell’autoappropriazione, la greca oikeíōsis. Le sue riflessioni mettono al bando la visione dei pensatori socialisti, che hanno prestato attenzione esclusivamente alla proprietà materiale, per l’abolizione della quale essi si ripromettevano di rivoluzionare tutti i rapporti: lo scherno di Marx e Engels (L’ideologia tedesca, 1845-1846) per queste tesi morirà solo nel 1989, sulle labbra di chi ha rivendicato la proprietà della sua stessa vita. Certo, rimane aperta la questione se la forma sociale che risulta da questo processo non conosca metodi ancora più perfidi di espropriare il sé della propria vita. Mariah Carey forse lo sa bene, forse tanto bene da concepire il tentativo di farla finita, l’unica cosa ancora in nostro potere e di nostra proprietà, anche se il prezzo è quello di negare la vita nello stesso momento in cui la si afferma. Compiere o meno questo passo costituisce la prima fondamentale autoappropriazione del sé, da cui segue una vita scelta in maniera autonoma. Con il gesto di Mariah Carey la cura di sé viene fatta valere più di qualche

milione di dollari, pallido gesto se lasciato nelle mani di chi non si prende cura di se stesso. L’autoappropriazione ideale è certamente difficile rispetto all’incremento della proprietà materiale. Non si può dire se Mariah Carey abbia effettivamente percepito una possibilità superiore di appropriarsi della sua vita, di esserci per se stessa, di rifondare la sua “vita privata”. Si crea un falso concetto dell’autonomia di quell’essere umano che, circondato da consulenti, manager e “amici”, non ha chance di potersi definire perché è sempre definito da altri. Perché il suo contratto era così ricco? Perché la vendita dei diritti era legata alla sua persona. Nella vita ordinaria si accettano compromessi chiamati “contratti di lavoro”: si trasferisce una parte di se stessi al datore di lavoro e si ottiene una remunerazione. Ma cosa succede quando questo trasferimento è totale? Una totale espropriazione che avviene attraverso le richieste e le esigenze di altri. Questo problema non tocca solo lo star-system. Perdere un contratto da marionetta potrebbe essere un vantaggio per poter essere Mariah Carey. Il suo percorso di cantante è diventato finalmente libero. Il presupposto è però la scoperta di una bellezza che non si limita a essere solo uno stimolo estetico, ma che rappresenta ciò che è degno di approvazione e ciò per cui vale la pena vivere.

Cura della bellezza: difesa di un’etica estetica La domanda sul “bello” può diventare centrale per ogni sé: che cosa è bello? Che cos’è una vita bella? La mia vita è bella? C’è in generale qualcosa di bello per me? Che cosa è propriamente bello ai miei occhi? Disporre della bellezza, in funzione della quale orientare la propria vita, è uno dei requisiti esistenziali dell’essere umano. Che la vita di chi non conosce il bello sia un fallimento è una convinzione presente in più di una cultura. Da qui non si può certo dedurre la necessità della bellezza, ma l’invito a sperimentare, qualora si mettesse in dubbio la sua funzione positiva, che cosa sia una vita senza

bellezza: astenersi per un po’ dalla bellezza dà più informazioni di un principio dogmaticamente assunto. E, ammesso che si abbia bisogno del bello, resterebbe ancora da spiegare dove possiamo trovarlo. Il bello si incontra innanzitutto come modello culturale: qualcosa viene percepito come bello a causa di influenze sviluppatesi in una certa cultura o di condizionamenti imposti da certa moda o, ancora, da una particolare strategia mediatica. “La bellezza” è ciò che viene presentato e rappresentato come tale. Può manifestarsi in uno stile, o in un modo di abitare il mondo, nel vestiario, in un lifestyle, o nell’idea di un “corpo perfetto”. Ma nella ricerca del bello bisogna sottrarsi all’omologazione e al mercato. L’arte di vivere può consistere proprio nel non seguire ciò che ordinariamente, per convenzione o per tradizione, viene connotato come bello. Il bello o la bellezza non sono che concetti, definiti in maniera più o meno cosciente, ma anche da definire sempre di nuovo. Bello può essere ciò a cui il sé dice sempre di sì, perché questo è il suo significato immediato in ambito sensibile, psichico e spirituale, estetico ed etico, in rapporto all’arte o alla natura, in riferimento alla vita individuale così come a quella collettiva. Il bello non viene al mondo necessariamente sulla via platonica, cioè attraverso un’elevazione al di sopra di ciò che esiste verso l’idea iperuranica, ma tramite la sua determinazione, nella forma di un’approvazione che dipende da una scelta individuale. Ma quando il bello viene compreso come degno di approvazione, allora può anche esserlo nel senso di necessario per la vita; si può quindi formulare un imperativo esistenziale da configurare come segue: forma la tua vita in maniera tale da renderla degna di approvazione. Ciò che dal punto di vista formale può essere definito come approvazione e da quello materiale come bello viene stabilito rispettivamente da ogni individuo. Si possono certamente recepire stimoli che, nel corso di un processo nel quale ci si rende consapevoli di se stessi, permettono anche di

chiarire i risultati della propria scelta: che cosa io ritengo essere bello? Che cosa mi appare degno di approvazione? Il bello artistico, per esempio, appare a chi ama questa poesia, a chi ammira questo dipinto o osserva questa scultura, ascolta questo pezzo, assiste a questa performance e dice che «è bello» – non perché si tratta di arte, ma perché si sente libero di considerarlo tale, e sempre per gli stessi motivi lo ispira, lo irrita, lo stimola, o lo considera formalmente perfetto. Lo stesso vale per il bello naturale: può essere bello un certo paesaggio o un suo aspetto determinato, un albero, il sibilare delle foglie agitate dal vento o la rugiada che gocciola da una foglia, il vapore di un mare calmo come una tavola al mattino, la brezza tra i capelli, il sole in faccia, il brillare delle stelle in un cielo notturno, lo sguardo – anche se reso possibile dai progressi della tecnica – al di là delle nuvole verso gli altri pianeti dell’universo. E per il bello umano, sia che si tratti dell’aspetto di chi è più che “carino”, ha una particolare conformazione, una gestualità peculiare, il viso regolare o segnato dalla vita, un certo modo di parlare; sia che si tratti della sua interiorità, che traluce dai suoi occhi esprimendosi poi nel suo atteggiamento e nei suoi comportamenti, o nel sentimento e nel fiuto per tutto ciò che può essere amato da sé e dagli altri. E in particolare per la bellezza del carattere: qualità come la pazienza e l’indulgenza, l’apertura, l’estroversione e la capacità di affermarsi possono apparire come degne di approvazione, così come altri tratti caratteriali che possono essere stimati da sé o dagli altri, come l’attenzione, l’altruismo, la prontezza nel venire incontro a chi ne ha bisogno. Non si può rinunciare alla bellezza di una relazione. Un rapporto d’amore può essere bello perché rende la vita degna di approvazione come non mai; e questo vale anche per i rapporti di amicizia, che rappresentano una nicchia di bellezza nella vita, mediata da un concetto di etica dove la confidenza con se stessi è accompagnata dalla possibilità di imparare dagli altri stando loro

vicino. Inoltre, è importante anche la bellezza logistica, in cui la relazione è data dai luoghi in cui si vive: casa, città, posto di lavoro. Sono degni di approvazione? Se non lo sono bisogna cercare di capire come possiamo continuare a vivere in un certo modo o in che senso è possibile cambiare. Altrettanto importante è la bellezza di un’esperienza: può essere bella una mattinata sprecata tanto quanto una serata in compagnia; può essere bello andare un paio d’ore al cinema con gli amici, immergersi in un altro mondo ed entrare a far parte di un’altra storia (“cineterapia”). In alternativa alle esperienze ordinarie possono essere considerate belle le cose sorprendenti, comiche o dolorose. C’è anche un bello sensibile: il fascino di un viso, di una forma colta dal senso della vista, una certa melodia per l’udito, un aroma di caffè per l’olfatto, questo cibo o questo vino per il mio palato, questo tipo di contatto per le mie dita. Può esistere anche una bellezza delle cose materiali: un capo d’abbigliamento che indosso volentieri o che mi piace vedere addosso a qualcun altro. La mia tazza preferita. La bellezza di un’architettura. Ogni inclinazione verso le cose materiali che il sé usa per vivere e mediante le quali vive una parte della sua vita. Non esiste solo una bellezza della realtà, ma anche un bello fantastico: una scena onirica, la mia immagine mentale preferita, una proiezione nel futuro o il ricordo di un’esperienza passata. C’è anche una bellezza astratta, che non può essere colta, ma che viene affermata con enfasi: un’idea ardita, un pensiero lucido, un’espressione calzante, una “bella” equazione matematica, una realtà metafisica. E un bello negativo: anche ciò che è spiacevole, doloroso, disarmonico o sbagliato può essere degno di approvazione. Così è possibile comprendere l’essere umano nella sua interezza e prendere le misure alla polarità della vita. Un’esperienza degna di approvazione può servire a superare situazioni “non belle”. Anche la disapprovazione può essere degna di approvazione, tanto che l’uomo moderno qualche volta intraprende una strada di questo tipo.

Risulta però evidente che esiste anche una proporzione del bello: ogni volta che viene superata si rischia la mancanza di senso, giacché il bello è una fonte di senso che non ha eguali. Se la proporzione del bello viene superata, infatti, si fa esperienza del disgusto provocato dall’eccesso: così si spiega la tendenza contrapposta all’onnipresenza e all’esaltazione del bello, unita alla convinzione degli artisti che il bello possa essere sopportato solo grazie alla sua “rifrazione” o interruzione. Il bello si manifesta solo in contrapposizione al non-bello, e non tutto può essere bello allo stesso modo. Pare addirittura che ci siano buone ragioni per essere cauti nel dosare la bellezza e non abusarne. Ed è la bellezza di un singolo fenomeno, che si manifesta in una piccolezza impercettibile, e non tanto il bello che brilla in lontananza, a essere decisiva nei momenti di difficoltà e a gettare quei ponti che ci riconciliano con la vita. Oltre alla bellezza del fenomeno singolo, tuttavia, si pone una domanda fondamentale: considero bella la vita nel suo complesso? E, naturalmente, anche quella opposta: è sufficiente affidarsi al naturale “amore per la vita”? Dietro un simile atteggiamento, che può essere considerato naturale, possono però nascondersi anche una sottile forma di costrizione e il pericolo che colui che non lo assume possa essere bollato come nemico della vita. Il discorso sull’amore per la vita suona bene, ma non cambia il fatto che è sempre il singolo a dover approvare la sua vita. Questa posizione marca la differenza tra una “biofilia”, nascostamente normativa, e un’arte di vivere, compenetrata filosoficamente e il cui modo di procedere è ottativo. Nell’amore per la vita, infatti, si esprime sempre una scelta esistenziale, una scelta fondamentale che spesso viene presa inconsapevolmente, ma che l’arte di vivere porta a chiara coscienza. Questa scelta corrisponde alla domanda: perché vivere? E perché nella vita vale la pena iniziare sempre di nuovo? Perché vivere è bello. Proprio come quando, in un gioco, abbiamo voglia di iniziare sempre una nuova partita: perché ci

piace giocare. L’ambito in cui la domanda sul bello svolge un qualche ruolo è quello cosiddetto estetico. Grazie a questa sua connotazione generale, l’estetico è più ampio dello spazio ristretto dell’arte e abbraccia l’intero complesso delle questioni vitali che toccano sia la dimensione esistenziale, sia quella della quotidianità. L’ambito estetico appare incomparabilmente meno ristretto di quello etico, definito dalla domanda sui valori nei confronti dei quali si devono orientare il proprio comportamento e i propri atteggiamenti. Nel corso della modernità, l’etica e l’estetica sono state nettamente separate, ma i vantaggi apportati da questa separazione possono essere discutibili. Il suo risultato è stato, infatti, solo una specializzazione: specializzazione dell’estetica, che viene confinata nella dimensione dell’arte, e specializzazione dell’etica, relegata nella sfera della fondazione dell’agire morale. In questo modo è raro che entrambe esibiscano un legame concreto con la vita. Un’estetica che risponde alla domanda sul bello in generale e taglia fuori la vita è antiestetica. Antietica è invece un’etica concepibile solo da esperti e priva, pertanto, di un senso per l’individuo e per la società. Ora, è tanto vero che le domande che fanno parte della fondazione teoretica sono imprescindibili quanto è vero che il senso dell’etica non sta in argomentazioni teoricamente coerenti, ma in un agire riflessivo e pratico, oltre che in una condotta di vita consapevole. Antietica è quindi l’attenzione esclusiva alle eccezioni rappresentate dai conflitti morali, che abbandona gli uomini e le loro domande “banali”, escludendoli apoditticamente dal discorso etico. Antietica è un’etica di cui si apprendono i concetti solo in un corso, rivestita da un formulario logico che, a sua volta, presuppone la frequenza a un seminario di logica. Un’etica di questo genere non può che essere ridicola. La riabilitazione del bello apre un accesso estetico all’etica e permette la formazione di un’etica estetica. L’etica estetica è un’introduzione graduale

all’etica che muove da tutto ciò che può essere esperito dai sensi e nella vita quotidiana, con lo scopo di non tenere l’etica “separata” da tutto questo. Così, la problematizzazione dell’etica diviene accessibile anche a coloro ai quali le categorie estetiche, che non sembrano astrattissime, “dicono qualcosa” più di quelle etiche. Anche perché è evidente che la bellezza e una “vita bella” possono essere più immediatamente interessanti, mentre i pretenziosi contenuti di una “vita buona”, con tutte le obiezioni teoriche che vi si collegano, non sono, di per se stessi, facili da comunicare. La vita, compresa in una prospettiva etica come “vita buona”, come “vita orientata secondo un valore”, non si scontra con la comprensione popolare della vita come “benessere”. Chi dice di amare il vivere bene, il più delle volte non ha in mente le conseguenze di una riflessione etica, ma una vita leggera, piacevole, libera dalle preoccupazioni e completamente rivolta ai suoi aspetti positivi. Lo stesso può valere per la vita bella, anche se in questo caso è possibile sviluppare riflessivamente un concetto del bello partendo dalla nozione che ne abbiamo nella vita quotidiana. Il discorso sul bello prende le mosse dal concetto quotidiano del bello, che si presenta innanzitutto – e per lo più – senza il concorso della riflessione e immediatamente determinato dal sentimento. Sebbene la riflessione non sia mai superflua, non si può prescindere da questa accezione che in qualche modo la precede. Avvicinandosi al bello con una disposizione soggettiva e affettiva non se ne ottiene una comprensione capace di coglierlo nella sua pienezza. Sembra invece sensato ripensare a ciò che è stato avvertito come “bello” e problematizzarlo nel pensiero, non tanto per perderlo nuovamente, quanto per essere sempre più certi di ciò che, per ragioni plausibili e per le sue possibili conseguenze, può essere o non essere ritenuto bello. Questa autoproblematizzazione critica avviene dialogando con se se stessi o con gli altri, sempre che si sia disposti a mettere in discussione se stessi. Perché la

cosa fondamentale è accettare se stessi e la propria scelta: non si può costringere nessuno a disputare sul bello, cioè a fornire motivi cogenti e universalmente validi per la bellezza di qualcosa. Ma per guadagnare un concetto riflessivo del bello si deve chiamare in causa la coscienza critica, che può nascere solo nel processo della sua fondazione e impedisce di subirne arbitrariamente la seduzione. Il concetto critico della bellezza diviene criterio di una scelta, che può essere relativa alla vita quotidiana, e quindi non decisiva, ma anche motivo di una scelta esistenziale tra modelli di vita alternativi o, in un senso ancora più ristretto, di una scelta etica che investe la definizione dei valori, la giustizia e l’ingiustizia, la stima e il disprezzo della dignità degli altri. Quando si sceglie il problema è sempre lo stesso: che cosa è bello in prima approssimazione e, poi, in maniera fondata? In questo modo può infatti emergere ciò che è pienamente degno di approvazione e ciò che si deve rifuggire e rifiutare con la massima chiarezza. Quando ci si trova di fronte a un dilemma, invece, bisogna decidersi per ciò che, nel confronto tra le due alternative, può manifestarsi come maggiormente degno di approvazione. Nel dilemma tragico tra alternative parimenti negative bisognerebbe scegliere quella che può essere sentita e considerata come meno negativa dell’altra. Al criterio del bello viene in ogni caso conferito il primato sulle valutazioni e sulle quantificazioni dettate dalla convenienza, ossia dall’utile. Solo dopo aver risposto alla prima questione, di cui abbiamo appena discusso, ci si può chiedere: mi conviene? E anche quando si conferisce un primato alla categoria dell’utile la domanda conclusiva ripropone nuovamente il criterio della bellezza: «Quello che mi conviene è anche bello?». Così il concetto del bello attesta la forza complessiva di un individuo, contrapposta alla violenza e agli abusi della convenienza. La cura per la bellezza manda all’aria la concezione utilitaristica e ogni etica che ne deriva. In particolare, oltre le

ristrettezze proprie della convenienza economica, la cura per la bellezza può fornire un’alternativa, una categoria forte, che limita le accuse sull’inutilità dei rapporti umani e si sottrae all’ossessione dell’economia dominante su ogni altro aspetto della vita. La decisione deve essere presa dall’individuo, sicché è sempre possibile ammettere che il senso della vita si trova nel bello, e non nell’utile o in ciò che viene quantificato in termini economici. La prospettiva è decisiva già per la percezione delle alternative e per l’assunzione del bello come criterio. Le domande della vita quotidiana, così come quelle esistenziali, comprese le questioni strettamente etiche, devono quindi essere formulate innanzitutto in rapporto a se stessi: che possibilità ho? Cosa preferisco? Cosa mi detta il sentimento, cosa le mie convinzioni e il mio intuito? Cosa intendo fare? Cosa deve avere valore per me? Cosa mi appare come bello e degno di approvazione? Cos’è il bello individuale? Bisogna chiarirsi questi punti anzitutto a partire dalla familiarità che si ha con se stessi. Per etica estetica non si intende, quindi, il seguire semplicemente una norma, ma la realizzazione individuale di alcune opzioni. Si tratta, perciò, di un’etica che prende sul serio l’autonomia del singolo e che non può essere fondata in una dimensione normativa, ma soltanto ottativa. Si deve dunque cominciare a temere che un’etica di questo tipo provochi l’abolizione dei valori, della democrazia e dei diritti umani? Come si può passare da un’estetica individuale del bello, o di ciò che è degno di approvazione, a un’etica generale del bene, e dei valori? È davvero necessario farlo? Sì, ci sono buoni motivi per ritenerlo necessario, soprattutto se si tiene conto della questione forse più scomoda alla quale l’etica estetica deve rispondere: è possibile che ciò che io ritengo “bello” offenda qualcun altro? Dal punto di vista soggettivo, non esiste nessuna legge, né una norma, né una sanzione in grado di cambiare qualcosa nella mia percezione. Ma è nel mio interesse impegnarmi a stabilire, assieme agli altri, ciò che, ben oltre la percezione

soggettiva, può essere considerato bello da un punto di vista generale: che cos’è il bello condiviso, quello che non offende gli altri? È mio interesse non essere ferito dagli altri, e lo stesso interesse deve essere presupposto anche negli altri. Dalla fondazione ottativa si giunge allora alla definizione normativa e sanzionatoria, che vale per un noi e che, solo a questo livello, non legittima il non-bello, nonostante quest’ultimo possa ancora darsi. Ma anche nel momento in cui si è concluso il processo di definizione delle norme, ci si può ancora porre il problema se la definizione assunta possa essere accettabile e degna di approvazione. Se la risposta è negativa, è anche opportuno riprendere e riproporre il discorso sulla definizione delle norme. Se anche questo lavoro risulta troppo faticoso o resta senza risultato, allora il sistema di norme vigente deve essere accettato fino a nuovo ordine. Ma anche il “non-bello” deve avere una validità generale? La tentazione di affiancare a una definizione degli obblighi civili e penali, e anche una garanzia contro gli incidenti etici, è grande. Una garanzia di questo genere, però, non potrà mai esistere, e anche la più normativa delle etiche non potrebbe fornirla. Oltre ai processi democratici di formazione delle opinioni e della scelta generale è possibile solo una coniazione sociale del bello. Ma non è mai possibile raggiungere un consenso, perché le rappresentazioni del bello restano, nonostante tutto, individuali. Ammesso che un consenso unanime venga raggiunto, allo stesso modo di quanto avviene su altri piani, si rischierebbe un livellamento degli individui e si impedirebbe il confronto che permette di mantenere il consenso stesso. Per contenere in maniera efficace il “non-bello” è necessaria innanzitutto l’attenzione e la vigilanza di ogni singolo individuo, impegnato a realizzare un’etica estetica e presente a se stesso. Il piano sociale e quello individuale devono, dunque, bilanciarsi a vicenda, giacché è evidente che la validità generale a cui si aspira è di regola più rigorosa e meno indulgente di quanto viene ritenuto valido in rapporto a

se stessi in quanto individui. E però l’elaborazione e l’assunzione di ciò che vale per tutti costituiscono una parte fondamentale della vita del singolo. La normatività esprime un legame sancito dall’obbligazione che solo il singolo può formare e mantenere saldo. Il bello ha un carattere fondativo anche per il bene come riflesso della determinazione dei valori. Nel bello, inteso come degno di approvazione, il tema del valore è implicito, è creato dall’approvazione stessa e, quindi, dalla determinazione di ciò che viene ritenuto bello e, solo di conseguenza, come fornito di valore4. Valori come la libertà, la giustizia, la dignità e i diritti umani trovano il loro fondamento nell’approvazione degli individui. A differenza dei proclami a buon mercato non si tratta di parole vuote, ma di valori che hanno subito una fondazione esistenziale e sono stati autenticati dall’esistenza stessa, pur non essendo sempre manifesti, ma nascosti nei modi di vivere e di comportarsi. Il problema generale del valore può trovare una soluzione attraverso la domanda relativa alla posizione individuale dei valori; un interrogativo che, al contempo, contribuisce alla definizione dei valori legittimi per tutta la società, il cui punto d’arrivo è il passaggio dal “bello” al “bene”. L’etica estetica è in questo senso già un tentativo di amalgamare il bello con il buono, riproponendo quel modello di kalokagathía diffuso nella filosofia antica. Così la vita bella può diventare anche vita orientata secondo i valori. Può allora riemergere un concetto di vita degna dell’essere umano, la cui esistenza è testimoniata già dalla storia che il concetto di “vita bella” ha avuto nella filosofia antica e dal significato che ha assunto nella tradizione occidentale dell’umanismo. Una condizione fondamentale per la vita bella, e nello stesso tempo un valore essenziale proposto dall’etica estetica, è la giustizia. Anche perché cosa c’è di bello nella vita che non può anche essere considerato giusto?

Cura per la giustizia: sulla giustizia del sé nei

confronti di sé La giustizia è un problema fondamentale della vita in comune degli esseri umani. Nell’Etica nicomachea Aristotele considera la realizzazione della dikaiosýnē come la «perfetta eccellenza» (teleía aretē ), giacché produce la coesione di una società. Da sempre l’etica non fa che sforzarsi di trovare soluzioni in questo senso e i suoi tentativi vengono tradotti in realtà dalla politica. La giustizia, però, è innanzitutto un problema del sé in rapporto con se stesso, perché al suo interno si cela un’intera società. È questo il piano su cui deve essere integrata l’etica tradizionale, mentre la traduzione in realtà di queste integrazioni è affare della politica interna del sé. In nessun caso si deve scambiare la giustizia nei confronti di se stessi con «l’autogiustizia», cioè con il farsi giustizia da soli, che trova nel sé la sola fonte del diritto e della correttezza nei confronti degli altri. Tantomeno si tratta di un’appendice alla giustizia sociale, bensì della via che conduce alla realizzazione di quest’ultima. Come potrebbe, infatti, la società impegnarsi per la giustizia, se i valori che essa promuove non sono ancorati prima di tutto nel sé? Nella Repubblica di Platone (433 c-e) la giustizia esteriore appare come una riproduzione di quella interiore: un uomo giusto è «diventato amico con se stesso» e si comporta nello stesso modo nei confronti degli altri. Egli ha posto tutte le parti del suo sé in un rapporto virtuoso; la sua giustizia nei confronti di se stesso deriva da una ponderazione dei diversi elementi presenti in lui, dalla loro coesione interna, dalla loro reciproca coerenza, e solo in questo senso egli può essere giusto anche nella società. Nel corso del tempo la giustizia intrasoggettiva è stata trascurata a tutto vantaggio di quella intersoggettiva. La pretesa di essere giusti viene indirizzata, più che nei confronti di se stessi, verso gli altri, verso la “società”, verso i “rapporti” o i “sistemi”. Ma potrebbe anche darsi che l’incapacità di essere giusti verso se stessi conduca a pretendere con sempre maggiore

frenesia la giustizia da parte degli altri. Porsi il problema della giustizia verso se stessi, al contrario, può contribuire a sviluppare una sensibilità, un fiuto o, in ultima analisi, un senso per la giustizia che vale nei confronti di se stessi, degli altri e in rapporto alle diverse relazioni sociali. La formazione del senso per la giustizia necessita dell’attenzione ai nessi che la domanda sulla giustizia pone in essere. Bisogna, cioè, imparare a guardare le cose da prospettive diverse, al fine di conoscere modalità diverse di vedere il mondo. Il senso per la giustizia esige inoltre la conoscenza dei motivi e delle ragioni necessari a dissolvere le disuguaglianze, e quindi un’esperienza nell’applicazione pratica in grado di testare le possibili realizzazioni della giustizia e di rendere manifeste le loro forze e debolezze. Infine, il senso per la giustizia ha bisogno di una riflessione sull’esperienza, dalla quale trae conclusioni in rapporto alla riuscita o al fallimento dei diversi tentativi e mediante la quale affinare ulteriormente il fiuto per ciò che è giusto. Nell’impegno per una giustizia nei confronti di se stessi ritornano tutti i problemi relativi alla giustizia intersoggettiva, ma anche tutte le possibili soluzioni. I problemi risultano dal fatto che alla base del desiderio di giustizia interiore (così come di quella esteriore) si trovano dei rapporti di forza. Non tutte le voci del sé, non tutti i sentimenti, le idee, le argomentazioni hanno lo stesso peso. Ogni voce rivendica il proprio “diritto” a essere trattata al pari, o meglio, delle altre. C’è bisogno di tutta la saggezza del sé integrale, del moderatore interiore, affiancato dalla sensibilità e dall’intuito, per far dialogare i diversi aspetti del sé, così come i suoi diversi lati, strappando concessioni agli uni nei confronti degli altri, appianando le controversie e, finalmente, giungendo a una nuova fondazione della loro vita in comune. Bisogna porsi domande del tipo: è giusto il modo in cui mi comporto con il mio corpo, non solo nel suo complesso ma anche in riferimento alle più piccole delle sue numerosissime parti? È giusto reprimere i sentimenti o, più

specificamente, questo determinato sentimento? Il rapporto tra corpo, anima e spirito è tarato al meglio? Ogni ingiustizia sentita come tale da una parte del sé rende difficile preservare l’integrità o realizzarla nuovamente. Per non fare torto a se stessi, quindi, è essenziale trovare un modo per far coesistere le diverse parti del sé, tale da poter garantire “a ciascuno il suo”. Ma cosa significa tutto questo? Come deve essere un criterio per la giustizia? Le proposte sono molte. L’ultima, ma non in ordine di importanza, investe la scelta del sé e l’autoimposizione da parte del moderatore interiore – una scelta e un’imposizione dettate da se stessi e per se stessi, ma non in funzione di una norma che viene dall’esterno. Se viene ancorata a una regola e riconosciuta giusta da tutte le parti e da tutti gli aspetti del sé, l’istanza che promuove l’integrazione e la moderazione può restare tale nel migliore dei modi. Il rispetto di questa regola diviene la base per il rapporto con se stessi e per la conoscenza di sé. Un possibile criterio della giustizia interiore, così come di quella esteriore, è dunque rappresentato dal principio dell’equità, che emerge quando la totalità del sé non è consegnata a nessuna delle sue parti, né al pensiero, né ai sentimenti, né ai bisogni fisici, perché ciascuna rinuncia ai propri interessi per scendere a patti con le altre. La messa in discussione dei privilegi che possono essere accordati a una parte attraverso un confronto attento con tutte le altre rappresenta un contributo decisivo per generare l’equità interiore. Allo stesso modo, ogni parte del sé non deve servirsi dei risultati degli sforzi compiuti dalle altre senza dare il proprio contributo per realizzare l’equità. Essere equi significa qui non pretendere per sé cose che non possono essere realizzate e, per questo, anche non aver paura, non mentire, non contraddirsi. Alla base dell’equità si trova il principio di uguaglianza – fondamentale nella giustizia intersoggettiva e sedimentato nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, oltre che nelle costituzioni politiche. Riproposto nella sua

dimensione intrasoggettiva, questo principio discute la possibilità di presupporre un’uguaglianza tra tutte le parti del sé, nel senso di una parità di diritti che riguarda tanto il rapporto tra le diverse parti con il sé integrale, quanto le loro rispettive relazioni reciproche. Si tratta qui di un’uguaglianza nelle pretese di attenzione e rispetto, nella divisione dei poteri, nelle possibilità, opportunità, vantaggi e pesi da sostenere. E tuttavia, per non cancellare le differenze specifiche tra le varie parti e i vari aspetti del sé, il principio di uguaglianza deve, almeno a questo punto delle nostre considerazioni, essere controbilanciato da un principio della disuguaglianza. Per esempio, a una parte del sé che ha oneri maggiori e alla quale è associata una maggiore fatica fisica può anche essere conferito più potere. A sforzi diversi può corrispondere anche una divisione impari dei godimenti. Quanto questa forma di giustizia sia difficile da realizzare si mostra nella distribuzione degli oneri, per la quale non esiste una soluzione di per sé evidente. Chi sostiene il peso maggiore, per esempio negli sforzi intellettuali: il pensiero stesso o il corpo che viene trascurato? Il sé integrale deve tentare di essere giusto con l’uno e con l’altro. La giustizia può essere prodotta fondamentalmente attraverso il riconoscimento della parità dei diritti. Ma anche muovendo da una parità dei diritti del corpo e del pensiero, non ne consegue immediatamente la prassi corrispondente che richiede, piuttosto, attenzione ed esercizio ascetico in pratiche quotidiane, un “agire affermativo” e un riguardo sistematico nei confronti della parte meno privilegiata. Tutto questo, per un certo tempo, sotto la guida del sé integrale. Le difficoltà cominciano a sorgere quando ci si chiede se salute e malattia debbano essere due parti del sé dotate di pari diritti, una questione esposta con la massima serietà già da Montaigne nel suo saggio Dell’esperienza, dove si arriva alla conclusione che è necessario essere gentili con i propri acciacchi perché sono una parte di sé e quindi,

proprio nel sé, hanno diritto di cittadinanza. Quando si risponde alle esigenze che rivela e quando le si rende giustizia, anche una malattia potrebbe essere salutare. Che questi due momenti, salute e malattia, debbano essere parimenti opportuni è una questione diversa, mentre per quanto concerne il rapporto tra mente e corpo la domanda sulla giustizia relativa alla distribuzione delle possibilità o alla parità degli svantaggi nel campo di possibilità spettante all’uno o all’altra, si pone sempre e in ogni caso. Una risposta potrebbe venire da un’educazione egualmente ripartita tra queste due parti del sé, tale, cioè, da rendere il corpo e la mente ugualmente abili a sfruttare le possibilità che si presentano loro. Un “agire affermativo” torna a vantaggio anche delle parti trascurate, migliorando e ampliando la loro sfera di possibilità. Il fatto che si pensi di fornire a ciascuna parte del sé un numero identico di chance non significa averle già sfruttate fattivamente. La giustizia può poi essere prodotta mediante una giustizia compensativa: uno sforzo eccessivo del sé, per esempio attraverso il pensiero, può essere compensato da un’attenzione temporaneamente spostata, e rafforzata, verso il corpo, in conformità al principio del dare e dell’avere, al quale si riconosce la preminenza in vista della realizzazione, su questa via, dell’armonia del sé. La giustizia comparativa ha invece la funzione di confrontare gli svantaggi strutturali, come ad esempio nel caso di un peggioramento della condizione fisica che non può essere ripristinata e nei cui confronti sono tuttavia solidali tutte le parti del sé. Mediante una raffinata sensibilità psichica, per esempio, è possibile riequilibrare un difetto del corpo. Al contrario, il compito della giustizia distributiva è la ripartizione delle poche risorse del sé a tutte le sue parti. Questo è il caso dell’attenzione, cruciale tanto per la confidenza con se stessi quanto per la familiarità con gli altri. Il sé deve infatti decidere attentamente quando e a chi dedicarsi, con quale intensità e per quanto tempo, dal punto di vista fisico e da quello psichico e spirituale, sia in rapporto a sé

che in riferimento agli altri. Il sé si impegna a realizzare anche la giustizia procedurale, la cui funzione è rendere trasparente a tutte le parti del sé il percorso che lo conduce a effettuare una determinata scelta e anche garantire la compresenza di tutti gli affetti e gli aspetti necessari per effettuare la scelta in questione, per considerare le idee che gli vengono in mente e per testare i risultati delle sue riflessioni. Siccome non esiste un’istanza esteriore alla quale appellarsi, tutto dipende dalla disponibilità del moderatore interiore a rendersi parte in causa della giustizia procedurale – spronato, peraltro, dal pericolo che nascerebbe da una sua violazione. E, infine, esiste anche una giustizia partecipativa, che garantisce la partecipazione di ogni parte del sé alla vita comune: sul piano della giustizia intrasoggettiva risulta da una pretesa nei confronti di se stessi, relativa al tentativo di non emarginare, per quanto è possibile, nessun pensiero e nessun sentimento, garantendo a tutti di prendere parte alla vita complessiva del sé. Sentendosi escluso, anche il più piccolo affetto potrebbe infuriarsi e articolarsi selvaggiamente, placandosi solo dopo essersi sfogato. Ma non si può determinare in maniera definitiva e una volta per tutte che cosa sia propriamente la “giustizia”, nemmeno con l’aiuto di una qualche procedura. Anche la giustizia è un concetto mutevole. Un lavoro e una consuetudine millenaria con questo concetto non hanno risposto in maniera soddisfacente all’interrogativo sulla sua essenza. Fino al culmine della tesi permissivista, secondo la quale la giustizia è impossibile. Resta tuttavia immutato il suo compito centrale: produrre la coerenza all’interno del sé, così come nella società, nelle famiglie, nei gruppi, nelle scuole, nelle aziende e in interi Stati, allo scopo di bilanciare le relazioni tra affetti e aspetti del singolo, così come quelle tra individui e gruppi. Ne deriva dunque una tesi pragmatica: la giustizia è irrinunciabile. Tuttavia, tale tesi non porterà mai a risultati soddisfacenti, non tanto per la notoria imperfezione della natura

umana, quanto per via di una contraddizione ineliminabile: gli sforzi per raggiungere la parità di tutti non esauriscono la libertà del singolo. E la giustizia felicemente raggiunta nella prospettiva dell’uno tende all’ingiustizia agli occhi dell’altro. Da qui la tesi scettica: la giustizia produce ingiustizia. È compito del moderatore interiore barcamenarsi in questa triplice problematizzazione della giustizia (permissivista, pragmatica, scettica) e fare in modo che il sé possa dedicarsi alle domande che pongono in questione il modo in cui tirare avanti e portare a compimento la propria esistenza.

Automanagement nella società dei servizi Un giorno, magari in una bella domenica di sole, anche per contenerne le conseguenze, bisognerebbe fare un esperimento: passare un intero giorno senza abitudini. Le abitudini sono fastidiose e trattengono l’uomo dalla vera vita. Dopo aver condotto un lungo esame critico bisognerebbe sbarazzarsene completamente. Le abitudini sono “avanzi del giorno prima”. Questa è la loro natura. Sono rigide, mentre per l’uomo moderno conta solo il futuro e la flessibilità. Facciamo dunque l’esperimento, rendiamoci “assolutamente moderni”! Dal momento in cui ci svegliamo, tutto deve essere nuovamente deciso. E a quel punto non ci si alza proprio, perché senza quelle procedure consolidate bisognerebbe mettersi a riflettere di nuovo su tutto: mi alzo o no, perché, per fare cosa, con quale piede, cosa rischio e in che momento? Solo per questo ci vuole una mezza mattinata e quando, finalmente, ci alziamo, incombe una nuova domanda: preparo il caffè o il tè? Quello che faccio abitualmente deve essere escluso. Il sé non riesce a lasciarsi alle spalle questo tormento della scelta e non può decidersi se prendere proprio quella tazza o un’altra, perché ne possiede molte e l’unica che sembra essere stata usata deve essere esclusa. Alla fine si deve capitolare. L’esperimento mostra che le abitudini hanno la funzione di sgravare dal peso delle scelte, che altrimenti dovrebbero essere effettuate senza sosta. La modernità ha ragione di essere

orgogliosa per aver creato un’enorme gamma di possibilità. Ma scegliere senza sosta è faticoso. E solo per il fatto che gran parte della vita procede in automatico è possibile concentrarsi su “tutto il resto”. Solo le abitudini ci danno una tranquillità, quantomeno temporanea e, ancora di più, rendono possibile il vivere, nel senso di abitare5, perché il sé si sente a casa quando la vita gli pare affidabile e dove si sente protetto. Le abitudini hanno la funzione di produrre tutto questo. Qualche volta sono esagerate, e quindi “bisogna abituarsi” a interromperle, mettendole in questione ed evitando di imbalsamare la propria vita nella loro ripetizione. Ma è anche vero che si può cambiare vita solo se il cambiamento viene sedimentato nelle abitudini. Quindi, se l’essere umano è ancora vivo lo deve alle abitudini. Curarsene senza essere in malafede è parte dell’automanagement. “Automanagement”? Questa parola potrebbe risultare fastidiosa. Bisogna adeguarsi alla moda di un’epoca in cui il termine “management” si applica a tutto. Non si può misconoscere il pericolo che si corre abusando di questo termine, non facendo altro che “porsi obiettivi”, “trarre bilanci”, essere “operativi” ed “efficienti”, in linea con quei libri che spiegano come fare carriera e avere successo. Si rischia di rimanere vittime dell’illusione di un controllo totale, che non può mai essere raggiunto, né in economia né tantomeno nella condotta di vita individuale. Considerarsi come una sorta di azienda presuppone l’esperienza della mancanza di senso, e l’”automanagement” avrebbe la funzione di cancellarla. A questo termine, inoltre, può essere associata una certa accezione positiva: automanagement come governo di se stessi, come organizzazione del sé e della sua vita, grazie alla quale realizzare una cura di sé tanto al livello fondamentale, quanto nella vita quotidiana. E questo investe innanzitutto la domanda sulla costituzione del sé, centrale anche nella “terapia dell’automanagement” (cfr. a tal proposito il volume di Frederick H. Kanfer, Hans Reinecker e Dieter

Schmelzer, del 1990), introdotta per sconfiggere la paura e per venire a capo di molte altre situazioni della vita e dedicata all’analisi dei comportamenti nella vita quotidiana. Lo scopo della terapia consiste nell’acquisire abilità, nel prestare attenzione alla forza del sé, nel dividere le pianificazioni globali in piccoli passi, nel prepararsi ad affrontare il continuo mutare di condizionamenti e ostacoli e nell’invito a «fare i conti con il passato». Ricalcando, almeno in parte, questo percorso è possibile rubricare sotto il concetto di automanagement anche le diverse fasi del processo di autochiarificazione: estraneità a se stessi, attenzione verso se stessi, dialogo interiore, autoconoscenza, autoformazione, amicizia con sé, creazione di uno spazio di gioco per la libertà e per orientare se stessi verso verità, bellezza e giustizia. Si aggiungano anche tutti i dettagli relativi alla dislocazione della vita secondo spazio e tempo, e quindi del “vivere” in tutti i sensi, della vita quotidiana come dell’equilibrio tra preoccupazioni materiali, fisiche, psichiche e spirituali. Ma in questo modo non si uccide la “vita vera”? Ma perché, vita vera significa solo “vita spericolata e selvaggia”? Questa annotazione non si allontana dalla svalutazione della quotidianità e dell’ordine della vita, obiettivo di ogni grande rivoluzione. In altre parole, implica un disprezzo per le abitudini che si installano da sé e che inevitabilmente, nel corso della vita del singolo e di una comunità, si contrappongono all’abbrutimento. Senza le abitudini, i piaceri sensibili, associati il più delle volte alla dimensione animalesca dell’essere umano, non possono persistere nel tempo. E anche una vita all’insegna del principio di piacere non potrebbe essere realizzata. Nulla appare più discutibile del gesto del selvaggio e dello spericolato. Più efficace sarebbe forse contrapporgli lo spazio abituale della vita che, peraltro, consente di vivere anche l’insolito. E farlo con un occhio di riguardo verso le banalità e i truismi, che rappresentano il luogo in cui si esprime il reale essere

dell’uomo. La banalità è la cassa di risonanza della vita umana. In altre parole, la sua sostanza consiste negli accidenti. Chi la ignora rischia di affogarci dentro. Meglio tenerne conto nel dare forma alla propria vita, «a cominciare dalle cose più piccole e quotidiane», come scrive anche Nietzsche (La gaia scienza, 299). Si può così creare lo spazio esteriore che continua a galleggiare anche quando il moto ondoso della vita aumenta fino a diventare tempesta. La domanda sui nessi significativi per la fondazione di una vita individuale, e di quella in comune, conferisce all’automanagement una dimensione filosofica. Il metodo filosofico per seguire queste connessioni consiste nel trattarle come se fossero assenti, tanto nel pensiero quanto in un’attuazione sperimentale della vita per “farne un ritratto” o per esperire concretamente il loro significato, che si rivela solo quando vi si rinuncia. In questo modo emerge il senso delle abitudini, e il sé può ora procedere a immetterle nella vita, a piantare i paletti dell’abitudine, ai quali può ancorare la vita e attorno ai quali la vita stessa può essere organizzata. Questo fornisce un aiuto davvero importante, soprattutto nei momenti difficili. Nella disposizione della propria vita è dunque impossibile rinunciare alle abitudini, ai rituali, per evitare di doversi mettere a riflettere in continuazione, e magari proprio nel momento in cui il pensiero appare come stordito o affaticato nel dare una direzione alla vita che deve essere ancora vissuta. Mi sento abbandonato da tutto il mondo, la vita mi appare senza senso e il mondo un nulla? Non è questo il momento per discuterne. Meglio far passare un po’ di tempo finché non si ritrova la vita e, di conseguenza, non diventa nuovamente possibile riflettere con tutta calma su questa situazione. E questo è possibile già grazie alla cura e alla creazione di abitudini e rituali, ammesso che se ne conosca il significato. E il fatto che non si sia mai parlato di un sapere relativo alla ritualizzazione autonoma della vita, unito al fatto che i rituali sono stati

determinati, per lungo tempo e in gran parte, da un punto di vista religioso, convenzionale, e come tramandati da una tradizione e compresi come eteronomi rispetto alla ragione, costituisce l’ostacolo più grande per comprenderne l’importanza. Una vita all’insegna delle abitudini definisce al contempo il luogo dell’abitare in senso stretto: una parte costitutiva dell’automanagement è quella relativa al management dello spazio, questione ineludibile per l’epoca moderna, in cui ogni vincolo spaziale è dissolto, e la vita, ormai vissuta da qualche parte in uno spazio transitorio, appare di fatto limitata. Stabilire il dove, il luogo o i luoghi del sé, ha che fare con il metodo dell’autoformazione: ogni definizione, in questo senso, torna a influenzare il sé che ha determinato lo spazio nel quale collocarsi e dunque il suo orizzonte sociale. Alla vita all’interno di un certo spazio, anche in uno spazio transitorio, sono legate diverse configurazioni del sé, e questo vale a maggior ragione quando si parla del luogo specifico su cui viene eretta concretamente la propria abitazione. La prima scelta fondamentale, da questo punto di vista, è quella tra un sé stanziale, che vive in un luogo ben definito, il sé nomade, continuamente in viaggio, e il sé oscillante, che oscilla tra luoghi diversi. I possibili criteri per questa scelta sono dati dalle necessità lavorative, ma anche dal fascino esercitato da ciascuna di queste opzioni, con tutte le loro conseguenze. Anche il mantenimento o la trasformazione di ciò che proviene dalla tradizione può divenire oggetto di una scelta di questo tipo. La definizione del luogo permette di non dover scegliere sempre di nuovo il posto in cui soggiornare. Si tratta di un ritorno alla “normalità” in contrapposizione alla modernità? Anche nella modernità la brama di normalità è tutt’altro che inesistente. Quando tutto è possibile, quando tutto è permesso, quando nulla risulta definito, la definizione di un luogo determinato, in un dato spazio e in un certo tempo, appare un momento di

rara felicità, anche perché consente di trovare un po’ di respiro, di fiducia e protezione. È ormai lontano il tempo nel quale «si sopravvaluta la domanda relativa al luogo in cui ci si trova», e ancora più lontana è «l’epoca delle orde», «dove ciascuno doveva trovare i propri pascoli» (Robert Musil, L’uomo senza qualità, 1930-1933). Una parte fondamentale dell’automanagement è, accanto al management dello spazio, anche il management del tempo. La scelta del luogo condiziona la concezione del tempo, diversa se si proviene da questa cultura o da quell’altra, se si vive in una città grande o in una piccola, o magari in campagna. Si tratta soprattutto della divisione del tempo, rispetto alla quale il “vivere durante il giorno” è un’opzione condizionata dall’esperienza del fatto che i compiti non ancora assolti si accumulano – benché qualcuno venga portato a termine quasi inconsapevolmente. Si arriva, perciò, all’opzione complementare di una più precisa divisione della giornata, delle settimane, dell’anno: scadenze date all’eternità. Ci si può aiutare con un calendario: la configurazione spaziale di un’estensione temporale, infatti, alleggerisce la divisione di ciò che deve essere fatto e lo mette in rapporto a un obiettivo da raggiungere, specialmente quando questo è lontano nel tempo. La distribuzione cronologica di un lavoro, ad esempio, rende possibile dosare le forze e raggiungere l’obiettivo passo dopo passo e in maniera rilassata. Ma che cosa succede quando bisogna fare troppo e tutto insieme? A quel punto non resta che scegliere con rigidità e rinunciare prontamente a qualcosa. Necessaria è solo una cosa: vivere, salvagente stoico nel fragore degli impegni. Ma il management del tempo porta a distinguere ciò che è essenziale dall’inessenziale? Il problema è che troppo spesso nell’inessenziale si nasconde l’essenziale; dare temporaneamente il primato al primo è rilassante e dà il coraggio necessario per occuparsi del secondo. Nello spazio di libertà che sorge dall’inessenziale, infatti, le priorità si

dispongono nella loro naturale gerarchia e riflettendoci sopra diviene possibile approntare un percorso metodologico. Il management del tempo rende possibile un attimo di respiro tra i diversi modi di impiegarlo: tra la fatica e il riposo, tra il ritmo frenetico e la lentezza, tra tempi lineari e quelli ciclici, tra tempi condensati e rilassati, determinati e indeterminati, pieni e vuoti. Il management del tempo consente di trovare quelle ore auree nelle quali risulta semplicissimo quel lavoro che in altri momenti può apparire faticoso e stentato. Allo stesso modo rende possibile le ore purpuree, quelle dedicate esclusivamente a godersi la vita. E ci aiuta a non scialacquare le ore che sono a nostra disposizione per poterlo fare al momento giusto, al punto che meno tempo si ha, tanto più significativo risulta questo gesto: regalare tempo per riceverne in regalo. Dare tempo a se stessi, a un altro, a una cosa, a un pensiero rende possibile dosare l’attenzione secondo una scelta ponderata; il criterio è dato, come abbiamo già visto, dai punti fondamentali del sé nucleare. I dettagli della pianificazione del tempo possono essere presi da un libro di automanagement. Sempre che si trovi il tempo per farlo. Ai compiti della gestione di se stessi, nell’orizzonte dell’abitare, nello spazio e nel tempo, si aggiunge, infine, l’organizzazione della quotidianità. È padrone di sé colui il quale riesce a venire a capo della quotidianità. Con quest’ultimo termine si indica l’eccezione che è divenuta regola. Padroneggiarla significa poter cambiare o mantenere la regola, prenderla in ogni caso sul serio venendone in chiaro senza subirla passivamente, soprattutto quando non riflette la forma di esistenza che si è scelta e si desidera per sé. Al posto di un in qualche modo, l’organizzazione della quotidianità richiede la definizione del modo specifico di procedere, dello stile individuale nel manipolare quanto è abituale e sempre uguale a se stesso, ossia di ciò che troppo spesso viene considerato riduttivamente o misconosciuto, ma con il quale non sono stati ancora fatti i conti. Può essere

di aiuto in questo senso la ricerca relativa all’organizzazione della vita quotidiana mediante la “sociologia della vita quotidiana” (i cui maggiori esponenti sono Margit Weihrich e G. Günter Voss), che rivolge la propria attenzione alla regolarità nelle abitudini, a tutti i conflitti che si presentano e si ripresentano costantemente, e a tutte le preoccupazioni, intese come manifestazioni particolari dell’ansia, e alla gestione creativa di situazioni impreviste. Nella pericolosa ineffabilità del mondo, la quotidianità costituisce un rifugio, ricoperto dalla fiducia in ciò che è abituale e interrotto dall’insolito, che a volte viene cercato intenzionalmente mentre altre volte irrompe in maniera inopportuna, trasformandosi tuttavia sempre in quotidianità grazie alla sua regolarità e alle sue ripetizioni. Il destino della quotidianità è quello di evitare di disturbarla anche a causa della paura, proseguendo sui normali binari; nello stesso tempo, però, la monotonia dell’abitudine viene avvertita come fastidiosa fino a essere considerata come la causa dell’impossibilità di sentire la vita. Certo, la quotidianità rimpicciolisce tutto ciò che è grande. Ciò che ha significato scompare e diventa insignificante. Non c’è niente da fare: la forza di gravità del quotidiano attrae tutto. Più che mantenere viva l’illusione di una piena liberazione da tutto questo, sembrerebbe opportuno tentare di rendere tollerabile la vita quotidiana senza temere di uscirne e di variarla di tanto in tanto. In questo modo il sé impara a integrare in se stesso le deviazioni e a dischiudere il senso del quotidiano rinunciandovi per un certo tempo. Per organizzare la vita quotidiana risulta centrale l’economia domestica. Automanagement significa pianificare tutto ciò che è necessario per la vita, non lasciare che nulla rimanga un qualcosa, ma stabilire quello che c’è da fare, cosa bisogna procurarsi e cosa portare a termine. L’atteggiamento che dà significato alle cose della vita quotidiana, che se ne prende cura e se ne appropria, può sembrare offensivo. Difensivo è invece quell’atteggiamento

che svaluta le cose e le misconosce, ciò che tuttavia non provoca altro che un aumento della spesa necessaria a mantenersi, senza comunque smettere del tutto di occuparsene. Decidere di non interessarsi alla vita quotidiana può certo essere un’opzione che alleggerisce il sé, ma non gli altri. Economia domestica significa, in senso lato, produzione, fabbricazione e creazione delle risorse materiali necessarie per la vita di tutti i giorni, per formare l’orizzonte in cui si inscrivono le possibilità del quotidiano, e soprattutto per predisporre lo spazio necessario alla divisione del tempo. Nella sua accezione più ristretta, invece, il concetto di economia domestica indica un lavoro di riproduzione, condotto e sostenuto da un set di pratiche e gesti automatici relativi alla nutrizione e al vestiario, alla conservazione delle cose e alle relazioni, alla preoccupazione complessiva per le risorse fisiche, psichiche e spirituali, che permettono di rigenerare le forze che, a loro volta, rendono possibile il lavoro di produzione. “Amministrare la casa” è la battaglia quotidiana contro il caos delle mille cose, la cui dinamica propria non può mai essere dominata. In casa non comanda l’autonomia, ma l’eteronomia, dominata da costellazioni contingenti di cose materiali, che ci assediano e nella cui confusione è possibile trovare qualche isola di riposo e di attività solo grazie alla libera autodeterminazione. Ma è questo anche il lavoro che tiene insieme, tanto nella vita interiore quanto in quella esteriore, elementi singoli che altrimenti andrebbero alla deriva, in maniera tale da rendere possibile una vita insieme, tanto in casa propria quanto all’interno di una comunità più ampia. Amministrare la casa, quindi, corrisponde alla gestione della vita sgradita e improduttiva: mettere in ordine, creare disordine, mutare la disposizione dei mobili, comunicare con istituzioni o impiegati, tenere in ordine le finanze, pagare affitto, tasse e assicurazione, provvedere al proprio sostentamento e molto altro. Dare a queste cose della vita un certo ordine, al contempo

temporale e spaziale, anche solo per non esserne soffocati, può essere di grande aiuto. L’ordine delle cose della vita quotidiana può anche essere caotico, ma quello che conta è la capacità di venirne a capo. L’ordine migliore sta forse proprio nella sistematicità non sistematica, venuta tuttavia a formarsi in maniera organica. Normalmente, infatti, l’ordine in questione segue una logica tutta sua, nata da casualità, simpatie e antipatie. La sua funzione non deve necessariamente essere razionale, ma riflettere una disposizione della vita che consente di dimenticare se stessi. Non c’è altro modo per superare le pressioni e le fatiche generate da questa dimensione della pianificazione. Una regola possibile per l’ordine è quella di lasciare le cose là dove sono state collocate dalla logica della vita, cioè dall’esperienza. Alle cose che non riusciamo mai a trovare è possibile attribuire una posizione dalla quale possono essere prese e riportate automaticamente, senza deviazioni. Anche se un dato ordine, così come l’ordine nel suo complesso, resta sempre un’opzione, senza mai poter assurgere a norma. L’ordine non è che un ostacolo per chi vuole mantenere viva la sensazione di suspense e di sorpresa relativa alla ricerca di una singola cosa. Quando tutti questi lavori diventano troppo faticosi e a maggior ragione quando non è necessario accordarsi con altri sulla divisione dei compiti necessari al mantenimento della casa, non ha senso ricorrere a imprese e service per approntare una migliore disposizione della propria vita, o per portare a termine i lavori di casa? A parte il fatto che per farlo sono necessarie alcune “risorse”, bisogna stare attenti a mantenere riconoscibile l’autodeterminazione implicita nell’automanagement, evitando di rendere l’insieme dei lavori di casa il prodotto di una determinazione estranea. Farsi servire ha indubbiamente un suo fascino; e senza dubbio gli agi offerti da una società di servizi possono essere parte di una vita tranquilla. Il servizio però non comporta solo un guadagno di tempo, ma anche una perdita: la confisca

della propria vita, strisciante come non mai. L’attesa diviene senza fine e induce a sognare un mondo un cui il sé si fa servire tutto su un piatto d’argento. La mancanza di intoppi che ci si aspetta da una società di servizi ha molto a che fare con la perfezione e poco con la vita. Anche il ricorso a prestazioni esterne per gestire la propria casa comporta la scelta di una misura che possa rivelarsi sostenibile. L’atteggiamento del mero pretendere dovrebbe essere riequilibrato da un impegno, anche perché una vita senza impegno, senza il superamento di difficoltà, ci fa mancare profondamente l’occasione di sentirci vivi. Il sé che non chiede niente a se stesso non riesce a comprendere le possibilità e i limiti che lo caratterizzano in quanto tale e arriva a sentire la sua vita come qualcosa che non gli appartiene più, come qualcosa di estraneo. La soddisfazione dei desideri, privata degli ostacoli che ciascuno deve affrontare per ottenerla, non rende felici, ma fonda un nuovo modo per non esserlo: chi ricorre solo alle società di servizi può soltanto avere qualcosa di cui lamentarsi e storcere il naso. Il correlato della società dei servizi è un sé seccato e irritato, il cui malumore può essere sempre meno compensato dalle prestazioni che richiede. Intanto, la società dei servizi fa progressi elettronici, e presenta possibilità, difficoltà e peculiarità del tutto nuove.

Il soggetto elettronico: e-mail, e-life, e-government Arrivo in una città diversa, ritorno ai miei account di posta elettronica: l’e-mail è la forma di vita dell’”e-nomade” che ha scambi con tutto il mondo, mentre lo gira in lungo e in largo. Comunicazione illimitata: questo è il guadagno dell’universo virtuale. Essere sempre presso di sé e, al contempo, uscire continuamente fuori di sé. Nello spazio transitorio, così come a casa propria, le e-mail e Internet incentivano il chiudersi stoico in se stessi, nel momento esatto in cui ci si garantisce la possibilità di comunicare con tutto il mondo. La posta elettronica è il punto medio ideale tra la posta e il telefono,

tra la fatica necessaria a riempire una pagina, a penna o con la macchina da scrivere, e la facilità con la quale “si fa una telefonata veloce”. È uno strumento facile da usare, ma irrompe nel mondo di qualcun altro senza mediazione e nello spazio di un attimo, come quelle telefonate che spingono a una reazione spontanea, subito, adesso, senza indugi. Così è nata una forma di comunicazione che attraversa lo spazio alla velocità della luce, pur lasciando liberi i partner di gestire a piacimento il loro tempo: apriamo la cassetta virtuale della posta quando vogliamo. Ma il vantaggio incontestabile è nuovamente legato a una perdita irreparabile: diversamente dalla lettera, che può avere una certa peculiarità tipografica dovuta alla macchina che si usa, o a una particolare grafia, l’e-mail ha un carattere standardizzato, che appare sul nostro monitor: una spersonalizzazione che avviene in maniera poco appariscente e tuttavia manifesta. Resta solo l’informazione nuda e cruda, priva della sensibilità del mittente che sceglie una determinata carta da lettera caratterizzata da una certa consistenza e da un certo profumo. Nessuno sa in quali circostanze l’e-mail sia stata scritta. Non è possibile rintracciare nient’altro che il linguaggio che è stato impiegato, il quale, tuttavia, nella fretta della comunicazione, non viene nemmeno percepito. Mentre ogni affermazione presente in una lettera sembra il risultato di una riflessione e di una valutazione concettuale, la leggerezza delle e-mail spinge alla spensieratezza, a espressioni avventate, a un’immediatezza che non rispetta il destinatario; costringe a buttare giù un testo la cui fluidità non è un criterio decisivo per stimare o meno la persona che lo scrive. Da un altro punto di vista, lo scambio elettronico rende visibili i limiti della comunicazione, ricondotti sempre di nuovo a limiti immanenti a se stessi: la vita consiste nell’evadere una corrispondenza elettronica sempre più straripante? Ne consegue anche una standardizzazione delle risposte, che si avvale dei sistemi che riconoscono le macro, i quali rendono sempre più

efficiente la nostra capacità di elaborare e-mail, fino ad arrivare alla risposta automatica, dove a comunicare sono solo le macchine. La comunicazione, quindi, viene resa sempre più difficile dalla sua semplificazione. Dalla fretta si passa al silenzio. La principale conseguenza è la distruzione: distruzione tecnica della comunicazione, perché i PC vengono colpiti da virus che possono infettarli con ogni e-mail – come avviene nel mondo reale ogni volta che si respira, anche se in maniera molto più endemica. Distruzione umana, dovuta alla certezza che, diversamente da quanto accade in una lettera, c’è il rischio che ogni comunicazione privata diventi pubblica. Distruzione storica, perché in futuro ci si chiederà come mai gli uomini dell’epoca elettronica hanno comunicato così poco. È vero: tutto viene salvato, ma non custodito. Il tempo degli epistolari è finito per sempre. La ciberneticità della vita non può concorrere con la magia che da sempre l’ha caratterizzata e che non può essere aggirata. La e-life, la vita elettronica, fa parte della quotidianità dell’uomo del XXI secolo. Richiede di imparare a muoversi nello spazio virtuale, che ci viene incontro nella forma della superficie bidimensionale del monitor, dietro il quale si distende lo spazio a quattro dimensioni della connessione telematica popolato da esseri umani, con le loro relazioni e i loro rapporti di forza. La Rete consente di curare il proprio circolo di relazioni, ampliato in maniera concentrica fino a stabilire connessioni con l’intero pianeta. La società che nasce sotto questo segno è la pólis più grande che sia mai esistita. La sua agorà è Internet. Chi vuole fare vita sociale deve familiarizzare con questa nuova agorà, esplorarla uscendo di casa ma senza muovere alcun passo reale, bensì parlando virtualmente con altri esseri umani, vicini o lontani che siano. Uno scenario che si presenta in maniera lampante e vivida entrando in una chat, negli spazi virtuali per conversare e discutere, che hanno forme specialistiche, ludiche, erotiche, chat nelle quali si può entrare o uscire in ogni momento, ventiquattr’ore su

ventiquattro, rivelando una forma di vita che si sviluppa in uno spazio e in un tempo molto diversi. La capacità di muoversi con prudenza in uno spazio simile richiede l’acquisizione di una sensibilità virtuale: la velocità, l’assenza del volto degli altri, quella della loro voce, spingono all’impulsività e a una deformazione delle relazioni che non tiene conto del modo in cui la nostra identità arriva all’interlocutore. Non per caso ogni momento vengono compilati, anche se invano, breviari per muoversi meglio nella Rete; e non a caso la prima delle vecchie regole d’oro viene riproposta nella nuova formula: «Tratta gli altri chatter con rispetto e cortesia. Loro faranno lo stesso con te». Ma la sensibilità virtuale è necessaria innanzitutto in rapporto a se stessi, per non diventare un “chat-junk”, cioè un ciarpame da chat, o un “vizioso on line”. È possibile determinare un’autorelazione virtuale nella quale il sé definisce se stesso a partire dal rapporto che riesce a stabilire con i mezzi elettronici. La prima conseguenza evidente è l’integrazione della propria vita con la Rete in maniera tale da rendere il sé un cyborg, un “organismo cibernetico” che si perde in infinite connessioni, in miriadi di possibilità di informazione e comunicazione, disponibili senza sosta, la cui presenza deviante, tuttavia, lo sottrae alla realtà. Se nella vita ordinaria lo spettro di possibilità che si offrono può ancora essere dominato con lo sguardo, nello spazio virtuale non esiste più alcuna misura. In confronto allo spazio infinito dell’informazione, la cui estensione non è sicura e la cui ampiezza non può essere oggetto di alcuna esperienza corporea concreta, ogni forma del rapporto con se stessi e con gli altri sembra doversi frantumare. Si perde, cioè, ogni sentimento dello spazio e del tempo. Un precedente storico di questa dimensione è senz’altro lo spazio della fantasia, alla cui traduzione nello spazio della tecnologia il sé non è certo preparato, perché è troppo abituato alle limitazioni naturali del movimento all’interno di una superficie

reale, definita dalle condizioni dello spazio e del tempo. Per ordinare un libro in una biblioteca o per prendere informazioni sulla sua collocazione, per esempio, ci vuole un certo tempo e bisogna percorrere un determinato cammino. Su Internet, invece, basta qualche clic, apparentemente innocuo ma che, se sommato a tutti gli altri, lo è meno: lo si voglia o no, ogni clic attira il sé in questo spazio virtuale e aumenta il rischio di sparirci dentro. Bisogna ritrovare se stessi anche in condizioni simili. Non è mai possibile eliminare il bisogno di se stessi e nessuno riesce mai ad abbandonarsi completamente all’esperienza estatica nella Rete sterminata. La capacità di conoscere se stessi nello spazio virtuale non è stata ancora acquisita, ma ciascuno di noi deve cominciare a provarci e a esercitarsi. Riuscirci richiede un’estrema attenzione, oltre che un lavoro ascetico volto alla definizione di una dimensione virtuale che consenta di rilevare il perimetro dei movimenti utili e salutari all’interno dello spazio virtuale. Virtuoso è chi sa scegliere velocemente tra le possibilità offerte dallo spazio virtuale, chi sa concentrarsi su ciò che sceglie e non rimpiange troppo quanto non è riuscito a sfruttare. Saper sfruttare le possibilità virtuali può senz’altro arrecare un certo numero di vantaggi nella formazione di una vita quotidiana affidabile. Quello che è importante, in questo senso, è la ricerca di un orizzonte in grado di rendere sostenibile l’interazione tra lo spazio della quotidianità, la divisione del tempo che la caratterizza, le abitudini che tutti noi abbiamo e lo spazio privo di forma e unito al tempo destrutturato tipico della realtà virtuale. È un peccato che il mondo delle macchine informatiche sia così poco accogliente. Non significa altro che il mondo esterno di chi si immerge nel mondo interiore di Internet è irrilevante. Ed è anche la prova del fatto che nello spazio virtuale si assiste a un nuovo trionfo del cartesianismo: ogni tecnologia informatica coincide con una manifestazione della res cogitans, del pensiero puro, per il quale il mondo contrapposto, quello della

res extensa, il mondo che ha un’estensione percepibile, scompare e viene privato del suo significato. Anche le relazioni tra gli uomini diventano sempre più “cartesiane” – smaterializzate, incorporee – e non solo nello spazio virtuale, ma anche nel mondo reale. Sarebbe allora decisivo dedicare un po’ di attenzione alla disposizione della vita nel mondo reale ed esterno. Sarebbe così possibile mettere alla prova se stessi nello spazio virtuale e interiore, sperimentare le diverse “identità” sulla Rete, definirsi in riferimento alle proprie rappresentazioni fantastiche, così come in rapporto alle proprie affermazioni e alle reazioni degli altri, senza perdersi in questo gioco. Gli elementi virtuali possono essere inclusi nell’integrità del sé, ma bisognerebbe farlo in maniera calcolata e mirando a rendere la virtualità una parte fondamentale della cura e del management di se stessi. Nel dialogo virtuale con gli altri il sé può dialogare con se stesso, in maniera tale da ottenere chiarimenti sulla propria identità. Il dialogo elettronico può sicuramente essere una peculiare fonte di ispirazione, oltre che rivelarsi ermeneuticamente molto fecondo. Ma sempre e solo quando non viene trascurato lo scambio reale con gli altri, che prevede anche un’interazione con la loro esteriorità (mimica, gestualità, movimenti, abbigliamento). Anche nello spazio virtuale gli sforzi necessari per stabilire un’amicizia con se stessi non sono inutili, e anche a questo livello si pone il problema della giustizia nei confronti di sé. Si giunge quindi al management informatico e alla gestione di se stessi con l’aiuto della comunicazione elettronica nello spazio virtuale. L’”egovernment” non riguarda solo la gestione e la conservazione che si avvale dell’aiuto degli strumenti della comunicazione elettronica di paesi e comunità, industrie e imprese, ma tocca anche l’economia domestica, innanzitutto nel suo senso più vasto. La virtualità, infatti, permette di mandare avanti la produzione delle risorse materiali indipendentemente dal

luogo in cui ci si trova e di aumentare considerevolmente l’efficienza attraverso il monitor di un computer. Le informazioni ottenute in tempo reale possono essere sfruttate per formare la propria vita, l’orizzonte che ne determina le condizioni, le possibilità. Mediante la formazione e la specializzazione che si può ottenere dagli strumenti elettronici è possibile accedere, per caso o anche in seguito a una ricerca sistematica, a possibilità sempre nuove. Ma e-government significa anche utilizzare strumenti virtuali nel senso più stretto della riproduzione, fino al caso-limite di una casa “intelligente”, pienamente informatizzata, nella quale si sperimenta l’uso dell’elettronica per la vita quotidiana grazie a microcomputer piccolissimi che possono portare a una piena espropriazione dell’esistenza. Si può usare lo spazio virtuale per la gestione della vita, per la spesa, per tutte le commissioni, per pagare le bollette, per gestire il proprio conto in banca, sempre che ciascuno riesca a trovare un tipo di ordine che gli si addice senza necessariamente dismettere quello stabilito dalla “logica della vita”, grazie alla quale si può evitare di farsi travolgere dal flusso incontrollato delle informazioni. I mezzi elettronici non sono solo strumenti per gestire la propria vita, ma anche oggetti che devono a loro volta essere gestiti elettronicamente. Ogni momento della loro vita deve contemplare l’esistenza di cookies o spywares. Siccome e-government significa in questo senso anche potere virtuale, è sempre importante alimentare di continuo la perplessità sulla possibilità di affidare se stessi e la propria vita a sistemi di salvataggio di dati. È necessario acquisire un potere persistente e solido sulla Rete elettronica, in relazione al quale si possono apprendere ulteriori aspetti relativi al potere su se stessi; un potere che permette di svincolarsi dal romanticismo virtuale esattamente nel momento in cui, grazie alla Rete, si impone una pragmatica reale sotto forma di interessi economici e politici. È opportuno esercitare la propria autonomia,

anche se è sempre relativa, attraverso un uso della Rete che deve essere ragionato tanto quanto il suo non-uso, o scegliendo in maniera mirata e ponderata le offerte. Bisogna essere davvero un user, cioè un ‘utente’, e non un semplice consumer, un ‘consumatore’. Ma per le autentiche questioni vitali, per le domande che hanno a che fare con la felicità o con il senso della vita, l’uso dei mezzi elettronici non apporta alcuna novità. Impossibile fare a meno di impegnarsi con la propria esistenza, così come di lavorare su se stessi. Anzi, con lo svanire della fatica necessaria a portare avanti la propria vita, grazie agli strumenti elettronici, tali questioni diventano ancora più urgenti.

Esistenza e sussistenza: lavorare su se stessi e lavorare per guadagnare Uno dei problemi principali della vita nella società postindustriale è quello di non avere un lavoro e, quindi, quello del lavoro come base per la produzione di risorse materiali grazie alle quali è possibile trovare sostentamento. Così, la cura per sé diventa cura per il lavoro, o per un “impiego”, quale base per il lavoro: motivazione, flessibilità e formazione continua, necessaria a dimostrare le proprie capacità di imparare, di rinnovarsi, di offrire prestazioni professionali. Si può lavorare nella forma di un’attività libera o dipendente, a tempo determinato, temporanea, part-time, a progetto, mescolando lavori diversi (patchworking) o lavorando il minimo indispensabile. L’opzione borghese consiste nel procurarsi da sé il lavoro necessario al proprio sostentamento, assumendosi, nel farlo, la responsabilità anche nei confronti degli altri. Resta però fondamentalmente aperta anche un’opzione autenticamente cinica, che richiama l’atteggiamento dei filosofi cinici dell’età classica come Diogene: ridurre al minimo i propri bisogni individuali al fine di poter condurre la propria vita con il massimo di autarchia. In questo modo il cinico può “cavarsela” in ogni situazione, grazie

a un’assoluta mancanza di pretese e alla grande disponibilità alla rinuncia e a importanti perdite materiali. Un’opzione di questo tipo può forse apparire troppo radicale. In ogni caso, essa esibisce la necessità di effettuare una scelta fondamentale: occuparsi in generale del proprio sostentamento oppure non farlo. Nelle moderne società del benessere, chi non si impegna a garantirsi una sussistenza, non vuole o non può farlo viene tutelato da una “rete sociale”. Ciò che tuttavia non può essere garantito è il sentimento di espropriazione della vita che nasce quando non si lavora. Chi non è in grado di far fronte alla propria vita lavorando rischia di non sentirla come sua, di percepirla come qualcosa che non gli appartiene e che dipende da istanze anonime. Il problema della libertà dal lavoro si ripropone su un piano materiale superiore ogni volta che ci si “può permettere” di rinunciare a lavorare. Non avere bisogno di lavorare rappresenta l’altra faccia della medaglia. Può essere problematico non solo essere schiavi della necessità di lavorare, ma anche esserne liberi. In entrambi i casi, infatti, resta viva l’impressione di condurre “una vita falsa”, di non poter più rintracciarla; la vita diviene sempre preda della necessità di rendere un servizio a qualcun altro. Ma chi normalmente vive lavorando ha un problema ulteriore: non avere alcun rapporto con il lavoro che svolge. Questo problema enorme potrebbe essere causato dal fatto che, nella straordinaria complessità delle catene produttive, è impossibile scorgere il significato del proprio contributo o attribuire un significato al lavoro stesso; quest’ultimo viene piuttosto inteso come il “lavoretto” necessario per guadagnare qualcosa. Rispetto al quale, tuttavia, “io sono un altro”, strutturalmente definito da una scissione tra il lavoro stesso e io che lo svolgo. Ma chi vive senza senso diventa negativamente cinico, disprezza il mondo e se stesso, si odia per quello che fa. Nient’altro che un modo per autosabotarsi: comincia a diffondersi il sentimento che,

nella propria vita, “non può esserci nulla di sensato”, che la propria anima può essere messa in vendita, ma anche che, pur guadagnandoci al massimo, non è possibile essere più felici di quanto si è. Anzi: l’odio verso se stessi aumenta. «Che senso ha quello che faccio?». Un numero sempre maggiore di esseri umani nella società postindustriale, in tutti i suoi ambiti e su tutti i suoi piani, non riesce più a rispondere a questa domanda. La domanda sul senso, tuttavia, precede quella sul lavoro e coincide con quella sul senso della vita in generale: se non c’è un nesso con il proprio lavoro, non c’è nessun nesso tra il lavoro e la vita, e quindi neanche un nesso nella vita stessa. Chi non riesce a vedere il senso, non solo nel proprio lavoro, ma anche nella propria vita, pur esercitando caparbiamente un “pensiero positivo”, non può colmare i propri vuoti. Se è vero che il senso coincide con la presenza di nessi e che, in quanto tale, rappresenta un punto fermo, è anche vero che l’assenza di nessi porta necessariamente all’esperienza della mancanza di senso e a quella della perdita di punti fermi. Il senso non può essere sostituito dai soldi. Le connessioni di senso materiali sono molto meno feconde di quelle ideali, poiché non liberano le stesse – immense – energie. Si potrebbe dunque dire che l’insensatezza è causata dall’ossessione relativa all’ottimizzazione delle proprie prestazioni, tipica dell’economia e della società moderne, fonte e motivo insopportabile della rovina degli esseri umani? Il problema non è tanto che questa ossessione sta progressivamente crescendo, quanto il fatto che cominciano a sparire le risorse per sopportarla. Al primo posto, tra queste risorse, va messo il “senso”. Costa caro, infatti, l’errore nella scelta degli interlocutori per discutere di questo problema, così come caro è il prezzo che paga chi, ponendo una domanda sul senso, viene liquidato come un complessato, soprattutto da esseri umani che hanno un presentimento fin troppo chiaro del fatto che affrontare una simile questione può condurre a un

livello di profondità che è meglio non raggiungere. Mentre il senso libera forze illimitate, la mancanza di senso rende deboli, spossati, malati. Alla fine, però, la malattia costringe alla riflessione. L’esperienza della “spossatezza” è un indicatore affidabile per stabilire l’urgenza del senso come problema. Lo sfinimento nasce laddove il senso viene distrutto. La questione è seria, anche perché il “senso” è una fonte di vita per il singolo, oltre che per la società intera. Nel lungo periodo, infatti, nemmeno un “sistema” può esistere senza un senso, almeno secondo quanto risulta dal decorso dei sistemi socialisti e, analogamente, dalla vicenda del capitalismo. Dall’oggi al domani la domanda sul senso può ribaltare la vita e portare al crollo di interi sistemi. Da questo punto di vista, la domanda sul senso è come la dinamite: altamente esplosiva e da maneggiare con cura. Gli uomini che si mettono alla ricerca del senso non conoscono pause, perché senza senso non è più possibile vivere, né nella sfera privata né in quella economica o sociale. Molto dipende, quindi, dalla possibilità di attribuire un senso al lavoro che si svolge e alla vita. Tanto più lavoro, vita e senso sono scissi l’uno dall’altro, tanto più è necessario effettuare un “work-lifebalance”, un bilancio della propria vita e del proprio lavoro: lavoro e vita, fatica e piacere; lavoro e famiglia, senso e non-senso. Ciascuno di questi elementi deve essere legato a tutti gli altri. Ma, se solo si presta attenzione al concetto, questa comparazione porta al punto fondamentale: la ragione per cui il lavoro non viene più percepito come parte costitutiva di una vita sensata deve essere necessariamente cercata nel “bilanciamento” di questi due poli. Il problema e, di conseguenza, anche la soluzione possono essere insite nel concetto stesso di lavoro? Ma che cos’è il lavoro? La risposta sembra semplice: avere un posto, portare a termine il compito correlato all’occupazione di una certa posizione per poter vivere dei proventi che ne derivano. Ma questo è solo il concetto nato nella società moderna e del quale

è anche possibile scrivere la storia (come fa Jeremy Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era postmercato, 1997). In riferimento a una diversa modernità si può forse azzardare una definizione alternativa: lavoro è tutto ciò che io posso fare in rapporto a me e alla mia vita per poter condurre una vita bella e degna di approvazione in questo senso. Lavoro può già essere ogni attenzione e ogni dispendio di energia, fisica, psichica o spirituale. Prima di tutto viene il lavoro su se stessi, che porta a stringere amicizia con sé: ciò che rende il sé completamente padrone di se stesso. A questo ci si può dedicare ininterrottamente senza rischiare di rimanere disoccupati, anche perché il lavoro su se stessi rappresenta il presupposto per ogni altra attività. E lo è, per esempio, rispetto al lavoro sull’amicizia, che gli esseri umani della modernità devono portare avanti: è una parte fondamentale per la formazione della libertà e serve a istituire nuovi vincoli – a differenza di quanto accadeva nella cultura premoderna, dove l’amicizia rientrava ancora nel complesso di ovvietà che non era necessario mettere in discussione. O rispetto al lavoro sulla famiglia, cioè alla cura per le relazioni più strette, che ha per oggetto quel tipo di difficile coesistenza legata ai lavori di casa, con la ricerca di un ritmo comune, con la quotidianità familiare e con l’educazione dei bambini. Quanto più la società diventa porosa, tanto più significativo diviene il lavoro civile, a cominciare dalla creazione delle modalità di incontro con gli altri nella vita di tutti i giorni, fino ad arrivare al lavoro nel cosiddetto “terzo settore”, che si trova accanto allo Stato e all’impresa privata, e che ha lo scopo di fornire servizi sociali e organizzare la libera iniziativa. Soprattutto in questi ambiti è possibile comprendere il senso del lavoro assieme al senso della vita. Il nostro campo visivo può ora ampliarsi all’ozio come lavoro, attraverso il quale si possono conseguire punti di vista nuovi: il lavoro non è assolutamente solo un fare, ma anche un non fare; non solo attività, ma anche

passività, quella passività che, proprio in epoca moderna, è stata trascurata, impedendo al sé di pervenire ai nessi relativi alla sua vita e al suo lavoro e quindi di prenderne coscienza. E solo alla fine, dopo essere entrati nei diversi aspetti del lavoro, si può passare al lavoro per guadagnare, dove risulta decisivo capire il rapporto dell’attività con la vita – cosa che rappresenta già di per sé un lavoro. Anche in questo caso, gli altri aspetti del lavoro non vengono eliminati, ma si conservano e vi restano impliciti. Invece di vedere lavoro e vita come due ambiti separati, è sempre più importante trovare un concetto di lavoro quanto più ampio possibile: il lavoro alla vita, dove possono essere integrati appunto lavoro, vita e i diversi aspetti del lavoro stesso. Il lavoro alla vita riproduce quei nessi più ampi che devono prevalere su un concetto determinato dal punto di vista esclusivamente economico: il lavoro non è solo una “produzione di beni”, non è solo una “attività remunerata”, ma un atto di formazione della propria vita, un’ars laborandi come parte costitutiva dell’ars vivendi. Per ogni forma di lavoro vale il principio del fabricando fabricamur. Attraverso il lavoro è il sé che viene lavorato. Il lavoro a qualcosa, il modo di lavorare, l’atteggiamento con cui si lavora: tutto questo ha un effetto tale da influenzare e mutare il carattere di chiunque. Ammesso che questo sia inevitabile, resta da capire se il lavoro può essere compreso come una forma di ascesi, di esercizio su se stessi e, attraverso questo esercizio e tramite le abitudini che grazie a esso si acquisiscono, come modo per darsi una forma. Nelle culture non moderne il lavoro su se stessi non viene mai effettuato consapevolmente, perché il rapporto con la vita, con se stessi e con gli altri risulta ovvio dalla tradizione, dalle convenzioni e dalla religione. Nella cultura moderna, al contrario, gli uomini non sono ancora abituati a svolgerlo. Da qui nasce la soggezione tipica nei confronti del lavoro su se stessi e sulla vita. In effetti il compito è molto pretenzioso: chi comprende se stesso nell’impegno a vivere

correttamente la propria vita ha portato a termine “la più grande delle incombenze”; e con l’aiuto di questo lavoro la vita come opera d’arte diventa “il capolavoro più grande ed evidente”. Oltre agli aspetti che abbiamo menzionato, il lavoro sulla vita comprende, anche e soprattutto, il lavoro sul senso, riferito innanzitutto al lavoro stesso. Si tratta in questo caso della necessità di vedere i nessi del proprio lavoro, così come quelli di ogni lavoro, in uno spazio più ampio. In gioco è, quindi, la possibilità di chiedersi se e quale sia il loro significato per la casa, le istituzioni, la società. Questo passaggio si può compiere molto meglio nei momenti di ozio, nel fuori-tempo, negli anni sabbatici, che non nel pieno delle fatiche quotidiane. In primo piano vengono messe le connessioni teleologiche, relative al “per cosa”, all’“a che pro”, che consentono di elaborare un obiettivo, uno scopo (in greco: télos) come, per esempio, il cambiamento o il miglioramento di uno stato di cose, da ottenere con la propria opera e con l’aiuto degli altri. Molti vogliono “servire” a qualcosa, e soffrono per il fatto che “nessuno è indispensabile” e può quindi essere sostituito, soprattutto dalle macchine. Per non lasciarsi prescrivere lo scopo e l’obiettivo del proprio lavoro da altri, ma per poter decidere da sé per cosa lavorare, bisognerebbe sostituire in primo luogo lo “scopo” eteronomo con uno autonomo. Tema della riflessione individuale sul senso sono inoltre le connessioni sociali, che servono a stabilire relazioni lavorative, non semplicemente funzionali, ma cooperative e, nel migliore dei casi, rapporti di amicizia. Se vengono meno le connessioni teleologiche, infatti, spariscono anche quelle sociali. In ogni lavoro, una simile situazione porta immediatamente all’esperienza di una piena mancanza di senso. La rottura delle relazioni sul piano privato, nella cui rete vengono tenuti insieme i nessi essenziali di una vita, acuisce ancora di più il fenomeno. È evidente, quindi, come in questo contesto la portata dei nessi economici venga ridotta: il lavoro

per i soldi, i soldi in questa impresa, questa stessa impresa, l’economia in generale, tutto questo ha un senso? Anche se ammettessimo che gli unici nessi riconoscibili sono di natura economica, dovremmo subito porci il problema dei nessi etici, che hanno a che fare con il modo in cui lavoro ed economia si rapportano ai valori, oltre che con la responsabilità nei confronti della comunità nella quale si vive, verso la società in generale e rispetto all’ambiente. Anche l’economia non può rinunciare ad “avere senso” e non può rassicurare solo a parole: per una solida definizione del senso i proclami impallidiscono di fronte ai nessi che risultano da una comprensione attenta e da una decisione autonoma. Sostanzialmente la domanda sul senso spinge a trovare una risposta anche a quella su “che cosa ha a che fare il lavoro che faccio con la mia vita”. Il lavoro, qualunque esso sia, non ha un “senso in sé”. Piuttosto lo trova solo nello spazio dei nessi, e in particolare nella sua connessione con la vita. Il lavoro sulla vita investe i nessi ideali e soprattutto le possibilità di diventare, tramite il lavoro, padroni di un valore ideale. Anche quando si lavora per soldi, giacché i soldi sono una parte fondamentale della vita. Questa tesi non va incontro agli interessi del cosiddetto “capitale”, ma mira a definire in maniera chiara l’interesse individuale del sé: la proprietà come atto autonomo in contrasto il pericolo dell’espropriazione che rende il lavoro qualcosa di meramente esteriore, ne copre il senso e fa sprecare tempo. Certo, il sé è sempre libero di lavorare con o senza senso, ma è anche vero che la fatica di un lavoro insensato non può essere sopportata a lungo: richiede troppe energie e non è fonte di forza alcuna. Nel lavoro dipendente ci sono responsabilità maggiori, ma anche maggiori possibilità per tradurre le proprie idee in realtà e appropriarsi, su questa via, del lavoro che si svolge. In questo caso risultano decisive, in particolare, la partecipazione interiore al lavoro e quanto di se stessi si investe per portarlo a termine. Questo non significa

immolarsi al proprio posto di lavoro, né essere troppo motivati, né tantomeno lavorare all’infinito; al contrario: un tempo ridotto può essere funzionale a un aumento dell’interesse. Un lavoro part-time, per esempio, risparmia i nervi e consente di dare importanza anche ad altri aspetti del lavoro sulla vita, offrendo una possibilità di formare in maniera più completa e piena la vita stessa. La piena appropriazione del lavoro e la sua integrazione nel lavoro alla vita pare essere possibile nella libera attività. Qui è in gioco l’intera esistenza, tanto dal punto di vista materiale quanto da quello ideale. Si tratta di una forma di vita rischiosa, ma anche più ampia e pienamente sotto il proprio dominio; una forma di potere su se stessi in cui si è servi e padroni nello stesso tempo, caratterizzata dalla sussistenza – dal latino subsistere, cioè dal sussistere e consistere mediante se stessi –, dalla possibilità di “sorreggere” la propria esistenza individuale, che produce in primo luogo per se stessa e lo fa tanto sotto il profilo ideale quanto sotto quello materiale. Per lungo tempo il termine “sussistenza” è stato impiegato per indicare un livello di sviluppo economico minimale, ma in uno stadio avanzato di sviluppo della società, forse sostenuto anche dal punto di vista elettronico, il medesimo concetto va a connotare l’attività autonoma e libera. A ogni fatica e impegno corrisponde, in questo senso, una possibile gioia nel lavorare, o addirittura la felicità, che gli si può connettere e che spinge a intendere il lavoro nuovamente come una forma di pienezza. Pare tuttavia auspicabile mettersi in condizione di poter vedere pienezza e soddisfazione in ogni lavoro, non solo per essere presso di sé, ma anche per via delle molteplici relazioni con gli altri che ciò consente di stabilire, per stare “in mezzo agli uomini”: le molte esperienze che il lavoro comporta ampliano lo spazio di gioco, il raggio d’azione del sé; le molteplici sfide che si collegano al lavoro, e che vengono cercate e accettate, fanno crescere e aprono lo spazio per raggiungere

l’eccellenza. Il lavoro è un’arte, perché consiste in una concretizzazione mirata di possibilità e impegno volto a una realizzazione eccellente. Ma alla fin fine non si tratta solo di un modo di fare soldi? Certo, almeno quando il discorso verte sui bisogni dell’esistenza – anche perché la sussistenza mette in gioco la vita stessa. Ma in altri casi la chiarificazione delle domande ideali rappresenta il presupposto per poter dare senso anche alle connessioni materiali. Solo su questa base, infatti, il possesso e i soldi possono avere un significato: il senso ideale rappresenta il presupposto per costituire una proprietà materiale e anche per garantirli. Il senso di tutto questo potrebbe essere visto nel fatto che i soldi e il possesso rendono possibile la libertà nel senso della liberazione e, su questa base, rientrano anche nella definizione della condotta di vita e nell’arte di vivere: per poter disporre appieno di possibilità di vita, per non cadere in sgradite forme di dipendenza o per svincolarsene; per creare condizioni di vita sicure per sé e per la propria famiglia e per garantirsi un minimo di sussistenza anche in vecchiaia; ma anche, più semplicemente, per andare al cinema o per potersi permettere un viaggio, un’auto e forse anche una casa. In tutti questi casi i soldi non sono una cosa fine a se stessa, ma un mezzo per poter sfruttare possibilità che ci si presentano e alle quali sono legate anche la sicurezza e l’espansione di sé. È vero che gli esseri umani “farebbero tutto per soldi”? No, fanno tutto per avere delle possibilità. Anche nel momento in cui il denaro e la proprietà venissero aboliti, resterebbe il problema delle possibilità che ogni singolo non potrebbe sfruttare e per le quali egli è rimesso agli altri, riproponendo quanto abbiamo già detto: si passerebbe allora al baratto che, per quanto più personale, è incomparabilmente più difficile da gestire di quella forma di scambio, certamente più astratta, che prevede l’uso della moneta. Se il trafficare con la moneta e con le proprietà non deve restare qualcosa

di arbitrario, è necessario che, dopo la liberazione, si porti a termine il compito che consiste nel dare forma alla libertà. Un’amministrazione sapiente del denaro e delle proprietà è parte integrante di una gestione saggia di se stessi e consiste nella definizione di una misura, non necessariamente su basi morali, ma forse solo a partire dall’esigenza di conservare la libertà conquistata. È possibile percepire la libertà come liberazione solo nel momento in cui si è stabilita una misura, anche non universalmente valida, per il denaro e per la proprietà. Per altro verso, il sé viene nuovamente limitato dalle conseguenze di questo fenomeno: non ci si può fidare di nessuno, si deve stare attenti a quello che si possiede, bisogna tener d’occhio gli altri; si comincia a non essere più liberi di muoversi, ci si rende oggetto di invidia, e l’invidia percorre la spirale del confronto con gli altri spingendo a incrementare sempre più la sfera di ciò che si possiede. La definizione della misura relativa ai soldi e alla proprietà pone sempre due problemi: 1. Il troppo poco; 2. Il troppo. Nel caso del troppo poco, si spera che i problemi della vita vengano risolti dal possesso di tutto ciò che si spera di possedere: «Se avessi i soldi, allora…». Tipica proiezione. Nel caso del troppo, invece, fa male vedere che il superamento delle questioni materiali non tocca assolutamente i problemi della vita ma, al contrario, li acuisce vanificando la risposta che deriva esclusivamente dal soddisfacimento dei bisogni materiali. Fine della proiezione, nuova irruzione dell’angoscia, della domanda sulla capacità di vivere con sé e con gli altri, sulla ricerca della felicità e sul senso della vita. Sarà forse espressione di una giustizia superiore il fatto che i ricchi devono fare i conti con problemi che i poveri nemmeno si pongono vivendo appieno la loro vita, mentre i benestanti, satolli, non avendo più alcuna spinta a vivere, devono lottare per non soccombere a questa situazione. Ogni passo verso il benessere deve essere compiuto con grande cautela, perché è più

facile “ottenere qualcosa” che staccarsene quando è necessario. La cosa più sensata sarebbe quella di disporre di mezzi materiali, pur facendo sempre attenzione a usarli in maniera limitata per non perdersi in un troppo che stroppia. Un possibile punto fermo per la definizione della giusta misura, un principio per la fondazione ideale e materiale della vita, la “grande regola dell’arte di vivere” (gran regla del arte de vivir), viene data da Baltasar Gracián, nell’aforisma 134 del suo Oracolo manuale e arte della prudenza: «Quello che conta è avere due organi per procurarci i beni e le comodità. Così la natura fa in modo che gli organi più importanti del nostro corpo siano due, lo stesso deve fare l’arte con ciò da cui noi dipendiamo». Se perciò ci si assicura «le cause della carriera, della convenienza e del godimento» in maniera doppia, allora si «raddoppia la propria esistenza». È un sogno?

Incuranza, oblio e rinuncia di sé «Tempi duri per i sognatori», dice intanto una donna. E i sognatori sono i romantici. Tempi duri, perché ci troviamo nell’era della pragmatica funzionale e fredda, in cui il sé si esaurisce nel lavoro e nelle preoccupazioni. Il romanticismo è quel movimento che, già all’inizio della modernità, viene fondato proprio per criticarla, cercando di correggerla attraverso dinamiche sempre nuove. Ma il romanticismo non nasce da solo. È piuttosto il frutto di un certo tipo di lavoro. La modernità viene rielaborata in atteggiamenti, modi di comportarsi e di vedere le cose in grado di far esplodere una realtà monotona. Di contro a un’ansia che ormai ci sta troppo stretta, compresa solo come ansia per i vantaggi materiali, si fa valere il disinteresse, che ha un qualcosa di infantile. Viene contrastata la cura, in greco epiméleia, attraverso l’incuranza, améleia, e Amélie Poulain non è che il suo volto e la sua forma. Molti di noi ne saranno stati ammaliati. Il film Il favoloso mondo di Amélie (Jean-Pierre Jeunet, Francia, 2001, Audrey Tatou nel ruolo della protagonista) è espressione dell’anelito a un nuovo romanticismo che

controbilanci la pragmatica. Rendere la vita un’opera d’arte e dedicarsi, come singolo essere umano, al compito di romanticizzare la propria vita e quella degli altri in mezzo al pragmatismo imperante, ecco il significato di questa fiaba moderna: moderna perché narrata in maniera irrequieta e perché la piccola Amélie percepisce il mondo attraverso la tecnologia (cioè attraverso la macchina fotografica); fiaba perché la bambina fotografa nuvolette che somigliano a piccole lepri che si rincorrono. Sua madre è una professoressa e suo padre medico militare; con lui ha contatti solo mediante lo stetoscopio: questa è la pragmatica moderna. Ma il mondo degli adulti le pare così minaccioso che preferisce “sognare la propria vita”. Anche da adulta Amélie si attiene a questo proposito. Il suo lavoro consiste nel rendere romantico il mondo, con pazienza e tuttavia con inflessibile decisione. Ama scoprire i dettagli che nessuno oltre a lei è in grado di cogliere. Al suo disinteresse si aprono porte e cuori e Amélie arriva a conoscere mondi che agli altri restano nascosti: ama il lato assurdo della vita che, ignoto nella quotidianità, le si fa innanzi e vale quanto la sua stessa vita. Amélie porta avanti il suo lavoro senza sosta e in maniera ingegnosa: rendere la vita ancora più assurda e godersi semplicemente lo spettacolo. Così si spiega la sua fatica di rubare il nano dal giardino di suo padre e inviare al proprietario foto del viaggio (del nano) da tutto il mondo. I suoi progetti possono anche fallire, ma questo non la spaventa («il diritto a una vita sicura è intangibile») e lei non fallisce. Amélie sente di «essere pienamente in armonia con se stessa», e questa forte relazione con sé, questo amore nei confronti di se stessa è la fonte inesauribile dell’amore che prova per tutta l’umanità, alla quale vuole offrire aiuto. Per inciso, si deve notare che tutto il film non è che uno studio sulle diverse tipologie del sé e delle loro abitudini (pollo sì, ma solo a fettine!!!). La vita è bella? Sarebbe impensabile al di là delle abitudini che la costituiscono. La vita vera si riempie nel naufragio,

come rimugina un grande scrittore? La vera vita la conosce solo Amélie con il suo disinteresse: ha cercato di scoprire, studiare e forse anche di scontrarsi con la vita nella sua completezza, comprese le sue profondità e i suoi angoli più riposti, senza con ciò aspettarsi di potersela prendere e portare a casa. Non è possibile che tutta questa incuranza e leggerezza siano ispirate al Discorso della Montagna, che quella di Amélie non sia altro che una sua variante secolarizzata? L’idea della rinuncia a tutte le ansie della vita pare a prima vista implicita nel messaggio cristiano così come ci è stato tramandato. Tanto che molti vedono il cristianesimo come la vera arte di vivere: «Non ti preoccupare, vivi». Questa tesi comporta che lì dove si predica il disinteresse venga anche rifiutata ogni preoccupazione presentata nella forma della cura di sé, ciò che dai tempi di Aspasia, Socrate e Platone rappresenta la chiave di volta della filosofia come arte di vivere. «Non affannatevi per la vostra vita» (Mt 6,25). Ma già se si guarda alla traduzione che Lutero ha dato del versetto, questo passaggio controverso del Discorso della Montagna significa: curatevi della vostra anima senza paura. Con questa affermazione non si intende quindi la liberazione da ogni preoccupazione, ma solo dalla preoccupazione angosciosa (mérimna), e non in riferimento alla vita, ma all’anima (psychē): un appello a non lasciarsi paralizzare dalla paura. Anche quando è possibile farne esperienza nella propria vita, la paura non tocca il cuore dell’anima; ed è un pensiero fondamentale anche per l’arte di vivere. Ma a questo punto si può sviluppare, meglio di quanto fa il cristianesimo, la cura sapiente, che tuttavia è inevitabile anche in un contesto cristiano. Si tratta dello strumento che per primo mette il sé sulla via della salvezza – affinato proprio nello spazio dell’arte di vivere, in cui ne va di questa salvezza e che è capace di pensare che tutto ciò che accade è conservato in una totalità più ampia. Secondo la concezione cristiana, Gesù è l’incarnazione di questa arte di vivere, la quale, invece, nella sua forma mondana e secolarizzata si ritrova

nella figura di Amélie. L’incuranza e la leggerezza possono aumentare quando ci si sente liberi da ogni preoccupazione. Questo emerge nel momento in cui ci si dimentica di se stessi, cioè in un’esperienza letteralmente “estatica”: star fuori di sé, “procedere fuori di sé”; un’esperienza assolutamente estraniante dell’io in rapporto a se stesso. Nella filosofia antica, così come nel primo cristianesimo, l’oblio di sé in riferimento alla mancanza di preoccupazioni nei confronti di ciò che è proprio viene visto con sospetto, e tuttavia si tratta di un elemento dell’arte di vivere, tanto di quella cristiana quanto di quella secolarizzata: invece che restare convulsamente presso di sé, trovare riposo da se stessi. Dedicarsi a qualcosa, a un altro essere umano, e tuttavia anche a se stessi, conduce all’oblio di sé. Un gioco può incatenare il sé in misura tale da renderlo libero “da sé”, libero cioè dalle ristrettezze nelle quali si è cacciato. Ci si può concentrare su un lavoro e, nello stesso tempo, prescindere da sé: una tecnica scelta consapevolmente, che permette di non stare a lambiccarsi su se stessi o a rimuginare all’infinito sul medesimo problema, ma di porsi nuovamente e da un punto di vista diverso. Una passione può mettere fuori causa il sé a un punto tale da fargli “dimenticare se stesso”, e quindi da rendergli possibile mollare la fatica dell’autocoscienza o quella necessaria a mantenere insieme tutte le sue parti, anche solo per un momento. Chi si dimentica di sé, dimentica il sé che è stato elaborato con la massima fatica, e fa esperienza di un sé più ampio, che si estende ben oltre ciò che viene esperito come esistente. Da questa esperienza possono nascere una gioia e un piacere estremi, una felicità e una ricchezza alle quali ci si apre solo quando ci si è svuotati del sé in senso stretto. Tutta la mistica ci racconta di una simile esperienza interiore che culmina nel privarsi di se stessi: dall’estensione dello sguardo alla relativizzazione dell’esperienza dello spazio e del tempo fino allo svanire delle condizioni esteriori nel nulla di un

momento. A prescindere dalle ragioni fisiologiche, psicologiche, spirituali e metafisiche per cui lo si fa, si tratta sempre, incontestabilmente, di un’esperienza possibile del sé. La cura di sé, perciò, non conduce a definire il sé a ogni costo, ma può anche significare il disciogliersi da esso e vivere nella mancanza di sé. Il sé non è fine a se stesso, ci si può rinunciare. E innanzitutto si può rinunciare ai vincoli solidi della tradizione, della convenzione e della religione. Tra le condizioni della liberazione da questi vincoli, e per poter prescindere da sé (ammesso che intenda recepire questa opzione), si trova la rinuncia a sé volontaria, che rende possibile volgersi agli altri e all’Altro, per un certo tempo o per un lungo periodo, spinti dalle ragioni del cuore o dai risultati di una riflessione. E questo non dipende dal semplice atto della scelta, ma anche dalla capacità di tradurre la scelta in azione concreta. Buddha, il maestro della rinuncia a se stesso, non si è esibito in un interminabile processo ascetico? Non ha trovato, cioè, la forza di dominare se stesso, così da divenire capace di liberarsi da sé? Dopo ogni appropriazione di sé, la forza interiore culmina nella capacità di rinunciare a se stessi: nella rinuncia a ogni potere e forza, a vantaggio di una forma di pienezza che può essere sentita come vita autenticamente felice. Infine, si può dire che la possibilità di non restare sempre identico a se stesso torna a tutto vantaggio del sé. In questo modo, infatti, è possibile un rafforzarsi dissolvendosi e un dissolversi rafforzandosi. Incuranza, oblio e rinuncia di sé: tutto questo sembra avere senso per l’arte di vivere, o quantomeno per poter sfruttare l’opzione che essa rappresenta. I fondamenti per farlo si trovano, però, nella cura, nell’attenzione, e nella formazione di sé. Non si può eludere la cura di sé sotto il profilo fisico, psichico e spirituale. E perciò bisogna descrivere questi aspetti in maniera più precisa. 4 L’autore gioca qui con i temini “Wert”, ‘valore’ con accezione etica, e

“bejahenswert”, ‘degno di approvazione’. È chiara quindi l’affermazione secondo la quale ciò che è degno di approvazione (bejahenswert) contiene di per sé il tema del valore (cioè del Wert). 5 L’autore gioca qui con i termini “Gewohnheit” (‘abitudine’) e “Wohnen” (‘vivere’, nel senso di ‘abitare’); in italiano, tuttavia, “abitare” è usato in un’accezione più ristretta e riferito solo all’occupare la propria abitazione, mentre in tedesco Wohnen copre un campo semantico che investe tanto la definizione del domicilio, quanto l’intero spettro della vita quotidiana e ordinaria dell’essere umano. E dunque è più vicino all’italiano “vivere in” (così come viene usato nel linguaggio ordinario) che non all’abitare. Per questo si è scelto di tradurre “Wohnen”, in questa circostanza, con ‘vivere in’, nel senso di ‘abitare’.

3. La cura del corpo Il corpo non è il demonio Ma quando la paura è sconvolgente, il vuoto incute timore e la mancanza di punti fermi diviene pervasiva, come possiamo reggere, anche solo per qualche ora? Il corpo trema, anche quando la paura è solo parte dei nostri pensieri. Se fosse un problema esclusivamente cognitivo non bisognerebbe preoccuparsene seriamente. Ma tutti i fenomeni legati alla paura e all’angoscia hanno ripercussioni sul corpo, che rischia di andare in pezzi. Ed è il corpo che, alla fin fine, nei momenti di difficoltà, indica una via d’uscita. La salvezza esige un movimento del corpo: mettersi su una certa via, partire e andare avanti, senza una meta precisa. L’insopportabile tensione interiore si traduce nel lavoro dei muscoli e solo in questo modo può essere scaricata. Il corpo riesce a captare quello che sfugge alla mente e allo spirito. Il corpo restituisce alla vita il suo ritmo elementare e innesca la fiducia nel fatto che “si va avanti”. Tra le possibilità di conoscere se stessi, quelle che hanno a che fare con il corpo sono le più immediatamente comprensibili. Ma che cos’è il corpo? Intanto non è altro che una parola, un sōmā (in greco), ‘contenitore’, ‘involucro’; oppure una phýsis, ‘qualcosa che cresce’, un ‘organismo’. In riferimento all’essere umano, il corpo è un fenomeno relativo all’io dato, che viene trovato dall’io rappresentato. Benché se ne sappia qualcosa solo attraverso la rappresentazione, è verosimile che questo fenomeno esista indipendentemente da essa. Se ne può parlare come dell’essere concreto, ma decisivo è il fatto che questo essere si ripresenta nella percezione del corpo: se, come e cosa viene percepito in questo fenomeno dipende dalla cultura individuale o sociale da cui si proviene, in maniera esplicita o implicita, consapevole o inconsapevole. In molte culture, il fatto che gli esseri umani abbiano un corpo e che questo possa far parte del rapporto quotidiano con sé e della confidenza con gli altri è tanto ovvio,

quanto è evidente che nella cultura occidentale questa ovvietà è andata perduta. Nella filosofia antica, e poi nella teologia cristiana, il corpo non solo viene compreso come contenitore, ma viene considerato anche come una prigione. Da una parte Platone sosteneva la necessità di preoccuparsi del corpo e di curarlo, poiché esso rappresentava l’involucro dell’anima; ma, per altro verso, è lo stesso Platone a contrapporre il corpo all’anima, la psychē, intesa come tratto distintivo dell’essere umano immateriale e immortale. Sul significato del corpo torna ancora il primo cristianesimo, e in particolare Paolo nella sua Lettera ai Romani (Rm 12,1), dove il sacrificio del corpo (sōmā) diviene «culto spirituale» (latreía); Paolo spinge quindi a vedere il corpo come qualcosa di diverso dalla carne mortale (sarx). Nel II secolo, Clemente Alessandrino, nel Paidagogos, vede il corpo alla maniera platonica, come casa dell’anima. Ma, almeno per le varianti occidentali e nordiche del cristianesimo, questo modo di vedere le cose non fu particolarmente determinante, tanto che psiche e “soma” iniziarono ad avere un’esistenza parallela entrando sempre meno in contatto. Questo dualismo resiste nel corso del tempo e arriva fino al XX secolo, quando un’esitante psicosomatica dà il via al tentativo di rendere conto delle relazioni reciproche di corpo e anima. Su questo sfondo è possibile comprendere meglio il problema del corpo come una ferita ancora aperta. Nell’epoca moderna, e in quella diversamente moderna, la percezione del corpo rappresenta un’occasione per condurre la vita in maniera consapevole, soprattutto quando il singolo si sforza di avere una coscienza della propria corporeità. Se è vero che il corpo può distruggere le basi vitali dell’intero sé, e se, al contrario, quest’ultimo può salvarsi dai momenti critici proprio grazie al corpo, allora risulta decisivo dedicargli l’attenzione necessaria e rendergli nuovamente giustizia. Si può trovare facilmente una risposta alla domanda sull’esistenza dei diritti del corpo solo

nella misura in cui il sé glieli attribuisce: diritto all’attenzione, diritto alla cura, diritto a impegnarsi per avere un’eccellente condizione fisica, diritto al riposo come limite a uno sfruttamento eccessivo. Analogamente alla natura esterna, fare i conti con il proprio corpo significa non considerarlo come semplice oggetto, ma rispettarlo anche come organismo, come essere che ha i propri diritti, che afferma la propria forza e che, al contempo, rappresenta uno strumento fondamentale per esperire la vita. Si può così relativizzare il cartesianismo che vede il corpo solo come “una cosa estesa”, oggetto della “cosa pensante”. Avere un rapporto con il proprio corpo è la base per stabilire una relazione con gli altri corpi presenti nel mondo. Il fatto che in epoca moderna il corpo venga percepito come qualcosa con cui stabilire una “relazione” è una diretta conseguenza della liberazione dai vincoli fisiologici stabilita dal cristianesimo e dalla filosofia cartesiana, secondo cui il sé non “ha” un corpo. Questa liberazione rende il corpo un oggetto a disposizione dell’arbitrio individuale e, nel corso della modernità, favorisce un vero e proprio culto del corpo: gli si comincia a correre dietro selvaggiamente, come se non ci si potesse più rivolgere ad alcun altro oggetto. Si assiste così a una reazione radicale all’espropriazione del corpo o all’ostilità nei suoi confronti. Come controreazione a questa reazione è possibile lavorare a una nuova cultura del corpo, a una cura consapevole del corpo che, attraverso l’arte di vivere, si faccia carico di configurare la libertà che emerge nella relazione con esso. Grazie all’acquisizione di una maggiore familiarità con il corpo (somatofilia), questo procedimento dovrebbe dissolvere, da una parte, la paura di esso (somatofobia), e, dall’altra, la schiavitù nei suoi confronti (somatomania). Sarebbe infatti opportuno rimediare alla sua demonizzazione, ampiamente radicata nella storia, ma anche correggere le fissazioni che derivano dalla reazione a essa. Esiste già una quantità enorme di terapie che rispondono a

questa esigenza. L’amicizia con il proprio corpo non richiede solo il riconoscimento delle peculiarità dal punto di vista del sé integrale e cosciente, un riconoscimento che gli lascia la libertà e che, nondimeno, consente di mantenere un legame forte con esso. È infatti necessario non identificarsi, non fondersi, non unificarsi con il proprio corpo. Non bisogna, cioè, ridursi a essere “solo” il proprio corpo, ma anche marcare le distanze rispetto a esso, e questo alla luce di una riflessione che lo assuma come suo tema fondamentale. A che scopo? Per potervisi sottrarre quando è necessario, anche solo nella rappresentazione. È dunque in gioco una forma di possesso del corpo che pare conforme a una relazione di amicizia, dove, per l’appunto, non si “possiede” mai un amico, ma lo si “è”. Solo il possesso cosciente e accurato trasforma l’estraneità in confidenza, l’avere in essere. La relazione sempre più stretta con il proprio corpo, diventato estraneo, conduce a una nuova appropriazione del corpo, sostenuta da una cura sapiente nei suoi confronti e lontana dall’ansia per esso. L’appropriazione fonda un rapporto fisico, psichico e spirituale, affettivo e riflessivo, proprio come avviene con l’amicizia; il sé stabilisce un legame responsabile con il corpo, pienamente consapevole di poterlo dominare, ma anche pronto a rinunciare a ogni dominio. La liberazione dell’uomo dal proprio corpo ne ha fatto l’oggetto di opzioni e operazioni arbitrarie che mirano soprattutto a eliminare quei fenomeni correlati che possono essere considerati come spiacevoli. La nuova appropriazione di cui stiamo parlando, invece, tiene insieme gli aspetti piacevoli e quelli spiacevoli: benessere, gioie, piaceri, impulsi, desideri, ma anche malessere, paure, dolori, ferite, malattie. Solo grazie a queste polarità il corpo è in grado di garantire un’intensa esperienza della vita. Come avviene nell’amicizia, chi si appropria del suo corpo solo per usarlo stabilisce una relazione limitata e relativa, che non può mai diventare dominio assoluto e

unilaterale, come invece avviene nella relazione con il proprio signore. Impossibile manipolare il risultato della relazione stessa: quello che viene fatto al corpo non può essere cancellato come se niente fosse. E ogni gestione del corpo non può evitare che questo sia influenzato anche da altri, o da “rapporti di altro tipo”, nonostante resti sempre disponibile l’atteggiamento che il sé assume nei suoi confronti. Il fondamento imprescindibile del rapporto cosciente con il proprio corpo e della sua appropriazione è una conoscenza intima. Il rifiuto del corpo, che ha dominato nel corso dei secoli, spinge tuttavia verso una asomatognosia, cioè verso una “conoscenza fallace del corpo” che non ha a che fare solo con una particolare immagine neuropatologica, ma che è diventata il tratto distintivo di un’intera cultura. Per questo motivo, e non da ultimo, il sé cosciente si trova spesso di fronte ai propri processi fisiologici, dei quali non è ancora divenuto cosciente, come di fronte a un estraneo. Superare questa situazione attraverso una conoscenza del corpo, cioè attraverso una somatognosia, potrebbe essere difficile: quanto accade nel corpo non può essere materia per una conoscenza oggettiva ed evidente. Un tipo di comprensione che possa anche riorientare l’atteggiamento nei suoi confronti può essere ottenuto con gli strumenti dell’ermeneutica, cioè mediante un’interpretazione del corpo. Il corpo parla e il suo linguaggio deve essere interpretato. Nel farlo si può cominciare dall’idea che il corpo “sa” di se stesso molto più di quanto ne sappia la coscienza e che ogni esperienza corporea e ogni rappresentazione cognitiva della ricchezza di un avvenimento fisico non possono mai essere complete. Al posto di una conoscenza onnicomprensiva, bisogna andare verso una familiarità pragmatica con il proprio corpo; nel farlo ci si può servire dell’intuito, che corrisponde al corpo meglio di qualunque altra cosa. E siccome l’intuito cresce assieme all’esperienza, è necessario raccogliere una grande varietà di esperienze

fisiche. Nonostante i vantaggi offerti dall’ermeneutica, la rappresentazione del nucleo “autentico”, ossia “della verità”, del corpo resta impossibile. In sostanza, quindi, è sufficiente che gli assunti con i quali il sé può operare sul proprio corpo siano plausibili. Bisogna quindi appropriarsi del corpo e curarlo sulla base dell’interpretazione che se ne ricava e con l’aiuto di esercizi. Il primo compito di ogni ascetica è l’esercizio fisico. Mediante l’esercizio è possibile apprendere in maniera esemplare il modo e la capacità di rapportarsi a se stessi ed esercitare la capacità sui tre livelli di cui abbiamo già parlato: possibilità di disporre di se stessi, concretizzazione di singole possibilità e realizzazione eccellente di alcune di queste. L’esercizio fondamentale per la cura del corpo resta, tuttavia, il movimento. È ancora Bettina von Arnim a raccontarci un’esperienza di questo tipo quando parla della sua indolenza a saltare da una parte e dall’altra, come ogni bambino, sebbene «resti certo che questi esercizi, che ci insegnano come è fatta la natura, rappresentino una preparazione per l’anima, poiché, anche nello spirito, tutto è istinto» (Günderode). Dal punto di vista neurobiologico, il movimento, effettuato a sufficienza e in modo vario, è imprescindibile per una rappresentazione ampia e dettagliata del corpo nella coscienza, e questa rappresentazione è a sua volta indispensabile per controllarne anche i gesti più sfumati. Mettere il corpo in movimento, passo dopo passo, porta a un “autosuperamento” in riferimento al quale la penetrazione riflessiva nel senso del movimento si contrappone alla nota fiacchezza del corpo moderno – non fosse altro che per un momento – lasciandolo poi nuovamente in quiete, e magari anche per un periodo consistente. È possibile rinunciare a tutto questo, ma la conseguenza resta sempre quella di una possibilità limitata di disporre della propria corporeità. Chi non avverte una percezione intensa del proprio corpo attraverso questa esperienza, la ritroverà, in maniera certo meno spontanea e

volontaria, nel dolore fisico: negato, il corpo non perdona. Per poter sopravvivere ha bisogno di attenzione e di attenzioni. Nello stesso tempo non può essere inteso come mero corpo, ma deve sempre essere compenetrato dal sé e compenetrarlo esso stesso: ecco il senso dell’amicizia con il proprio corpo. Negargli attenzione e cura ha come conseguenza il suo sfiorire e la sua morte, alla stregua di una pianta a cui non si dà l’acqua. Per un essere umano che ritiene la sua vita un dono di Dio la cura del corpo non può coincidere con un servizio reso al demonio. In età antica tale cura veniva intrapresa addirittura in maniera sistematica, con i festeggiamenti olimpici: un’idea che in epoca moderna ha pian piano riacquistato significato.

Corpo, sport e arte di vivere La cultura del movimento è alla base della cultura del corpo. In un tempo in cui il movimento di ciascuno di noi viene progressivamente sostituito dal movimento tecnico, ciò diventa una necessità. Le tecniche della cultura del corpo sono quegli esercizi che vengono praticati per avere degli effetti su se stessi, per formarsi e trasformarsi. A sua volta, l’esercizio, o il “training”, è ciò che l’uomo della modernità inscrive nell’ambito dello sport, il quale è divenuto non a caso, come la stessa tecnica moderna, un movimento di massa. Lo sport rappresenta il «segmento centrale della cultura moderna» (Volker Caysa, Körperutopien [‘Utopie del corpo’], 2002). Si tratta di una forma di movimento sistematica, spesso condotta agonisticamente, accompagnata da fenomeni come fissazione, manipolazione del corpo, specializzazione e concentrazione su alcune sue parti specifiche, ramificazione commerciale e, per quanto la pratica di uno sport resti sempre un’opzione, anche da una certa normatività. Dal punto di vista mediatico le leggi dello sport vengono comunicate nella forma dei risultati delle competizioni degli sport principali, dei quali non è più possibile intuire la fatica di fondo. Perciò, chi tenta di fornire una prestazione analoga a questi

risultati fa soltanto esperienza di una deficienza, di un infinito restare indietro, che impedisce di vedere nello sport una possibilità di lavoro su se stessi, la quale viene molto prima della formulazione e della scoperta di una norma. Tuttavia lo sport, che dal 1896 e con le sembianze di un nuovo movimento olimpico è diventato un rituale caratteristico della cultura moderna, ha indubbiamente permesso che molti esseri umani scoprissero o riscoprissero il fascino del loro corpo. Le conseguenze non restano limitate all’attività sportiva, ma contribuiscono complessivamente alla formazione della vita individuale e sociale. Nello sport si creano atteggiamenti e ci si appropria di modi di comportarsi che possono essere applicati anche alla vita extrasportiva. Siccome per imparare a vivere c’è bisogno di esercizi ascetici, e siccome la formazione di sé, ben oltre la formazione esteriore, si può interiorizzare, lo sport rappresenta un campo di attività ideale per l’educazione e l’autoeducazione al saper vivere. Nello sport viene richiesto quello che è centrale anche per l’arte di vivere: la cura verso se stessi. Ciò che viene esercitato nello sport, anche se in maniera inconsapevole, è l’attenzione nei confronti di se stessi. Nel momento in cui si dà inizio al lavoro su se stessi, il sé stabilisce una relazione con se stesso, che forse era andata perduta o che non era ancora stata trovata. Si può sempre sospettare che una relazione di questo tipo sia dominata dal narcisismo, e tuttavia essa resta parte costitutiva di una condotta di vita consapevole. In seguito all’appropriazione del corpo avviene un’appropriazione di sé, che comunica un’esperienza intensa di sé e rispetto alla quale l’esercizio fisico e lo sforzo non sono altro che le cinghie di trasmissione. Guadagnare un certo potere su di sé, obiettivo di ogni esercizio fisico, diviene il modello del rapporto con se stessi. Ogni esercizio termina, infatti, appena si è acquisita una padronanza su se stessi, un potere su di sé legato alla moderazione e alla possibilità di essere sovvertito; è

espressione di un modello democratico che contrasta l’autoritarismo tipico della “sovranità su se stessi”. La padronanza di sé rende possibile il disporre di sé. A meno che non si tratti di un’attività mentale, nello sport questo ha sempre a che fare con la gestione di possibilità fisiche. Con un esercizio fisico incessante e regolare nascono le abitudini. Può trattarsi di una determinata sequenza di azioni, di un comportamento, di una gestualità, di un modo di vedere le cose, di un pensiero o di una rinuncia calcolata: mediante l’esercizio viene intessuta un’intera rete di abitudini, una necessità nell’arte del corpo, analoga a quella individuata con l’arte di vivere. La ripetizione di azioni sempre uguali a se stesse, infatti, favorisce una certa ovvietà nella comprensione, la quale permette di fare una cosa senza rifletterci sopra, ma nello stesso tempo di agire in maniera sapiente. Un certo movimento diviene “sapiente” per il fatto che si è allenati a farlo, e il suo esercizio diventa sempre più facile, veloce, preciso, come avviene anche nelle azioni straordinarie; questa è la base ascetica di ogni tipo di arte, e di conseguenza anche dell’arte del corpo. Il processo che porta alla formazione delle abitudini fonda, nel rapporto con il proprio corpo e con l’ambiente nel quale esso si muove, un “abitare”, nel senso stretto e in quello più ampio del termine: la vita può trovare un suo ordine nel momento in cui le abitudini spezzano l’estraneità e si curano di garantire un’affidabilità. Per l’arte di vivere quello che conta è attuare tale processo in maniera consapevole e scegliere il tipo di attività sportiva che si intende lasciar incidere sulla propria vita. La padronanza di sé ottenuta attraverso l’esercizio e l’abitudine rende possibile, quindi, trovare la misura della propria vita, tra il troppo e il troppo poco e da molti punti di vista; la stessa cosa può essere riferita al rapporto con i piaceri seducenti o con emozioni problematiche come la collera e l’aggressività. “Lasciarsi andare” è un’ulteriore opzione che, tuttavia, non

può valere come un’arte o un’arte di vivere particolarmente esaltante. Da un punto di vista esteriore, il lavoro su se stessi può avere a che fare con un repertorio di movimenti e di possibilità di coordinarsi; da quello interiore, invece, si tratta della costruzione e della conservazione dell’integrità del sé, che deve aprirsi ai cambiamenti e agli altri al fine di integrarli nella propria autocomprensione. Il rafforzamento dell’autorelazione non mira soltanto al sé, ma anche agli altri e a fondare intense relazioni con gli altri, non tanto per motivi morali, quanto piuttosto per promuovere la cura di sé, giacché l’avere delle relazioni produttive con altri è una parte costitutiva e favorisce la saggezza nella vita. Lo sport offre un gran numero di possibilità per esercitare l’attenzione verso questi elementi. La correttezza e il fairplay, tipici dello sport, non si manifestano solo come esigenze morali, ma anche come conseguenze di una lucidità che emerge da una chiarezza sui propri interessi. Il sé, infatti, pretende un comportamento corretto anche da parte degli altri. Il significato della giustizia e la difficoltà di applicarla nel singolo caso risultano evidenti proprio nel gioco. Non è un caso che anche l’apprendimento di un comportamento socievole venga inteso come “training sociale”, e che anche questo abbia bisogno di esercizio. Per molti lo sport si colloca in uno strettissimo rapporto con la salute, con la quale viene a volte addirittura identificato. Di fatto, però, lo sport rappresenta anche una possibilità di mettere in pericolo la salute, a volte anche in maniera intenzionale. Essa, però, non è un valore assoluto, ma relativo ed è appunto in relazione a una scelta del sé, che è libero di metterla in pericolo quando conosce per tempo le possibili conseguenze delle sue azioni e riesce, quando queste si presentano, a cessare la propria attività. La scelta deve essere inoltre effettuata per stabilire in che senso, come e quando la salute debba essere riconosciuta come un valore e assunta come misura sana, che determina anche gli esiti di un’attività sportiva e impedisce di

riferire ciecamente le proprie prestazioni a una legge malsana. Certo, niente parla contro la possibilità di sperimentare i propri limiti, di cimentarvisi e saggiarli, anche per arricchire la propria esperienza di sé. Anzi: siccome per l’uomo moderno il modo di vivere non è definito da un punto di vista normativo, la via che deve essere percorsa non può che manifestarsi in maniera sperimentale. Dunque, non sorprende il fatto che per i giovani lo sport rappresenti anche un’esistenza sperimentale: ci si mette alla prova per trovare una forma. Ne consegue l’aumento degli sport estremi e degli sport d’avventura. Per essere sentita, la vita ha bisogno di tensione. Se questa scompare dalla quotidianità, deve essere prodotta in maniera artificiale. Ma anche quando si sceglie liberamente di mettere a repentaglio la propria vita, appare sensato fare in modo che almeno i giovani non lo facciano senza prepararsi, accostandoli pian piano a questa scelta e aiutandoli nel valutare pericoli che, già solo in questo modo, possono essere ridotti in maniera calcolata. Rischio e sicurezza sono due obiettivi che rientrano nel medesimo percorso, la cui funzione è quella di rendere possibili esperienze-limite esistenziali, ma anche quella di limitare i rischi: lo scopo da raggiungere è un esercizio e l’apprendimento delle regole di un gioco dove in ballo c’è la vita stessa. Per quanto sia innegabile che la stella polare della modernità è il piacere senza limiti, è tuttavia anche vero che lo sport insegna a conoscere la polarità della vita. In ogni pratica sportiva, infatti, non si fa mai solo un’esperienza del piacere, ma sempre anche del dolore. Per chi pratica lo sport il corpo non è mai solo quel qualcosa che prova piaceri inaspettati, ma anche quello che si piega al dolore. Il dolore non deve essere cercato, ma si presenta da sé e indica sempre il bisogno di imparare a conoscere se stessi. Quando non è possibile integrarlo, il sé corre il pericolo di “non sentire più se stesso e la sua vita”. In questo senso il dolore rappresenta il mezzo di contrasto che permette

di avvertire il valore del piacere, assumendo quindi una funzione decisiva per orientare la vita: il dolore pone domande urgenti le cui risposte possono essere trovate in una diversa disposizione del proprio modo di vivere. Un contributo a tutto ciò è dato ovviamente dai dolori dell’anima, dovuti per esempio a un fallimento che contrasta con una vita orientata esclusivamente al successo: un naufragio può perciò essere più ricco di esperienze della via che conduce dritta allo scopo. Nello sport è possibile mettere in pratica un atteggiamento che non si concentra esclusivamente sul successo, o su una vita di successo. Non è necessario imporsi di riuscire in tutto ciò che si fa, perché questo non può che comportare crampi dolorosissimi. E, ammesso che ci sia un momento in cui il successo non può più essere evitato, bisognerà essere perfettamente preparati per affrontarne le difficoltà: è necessario imparare anche ad avere successo, per non rimanerne vittima, ma anche per non sprecarlo, con leggerezza, in tempo brevissimo. Dal punto di vista dell’arte di vivere è importante anche non considerare lo sport solo come “prestazione” attiva, ma anche come quel momento di riposo di cui gli esseri umani hanno bisogno per non cadere in una permanente ansia da prestazione. Al programma di attività sportiva dovrebbe corrispondere un programma di passività tale da rendere possibile uno scambio continuo tra polo attivo e polo passivo. Nel programma di passività dovrebbe essere importante sviluppare la capacità di oziare e rilassarsi. È necessario, cioè, allenare anche la capacità di godere in maniera intenzionale della passività. L’arte di vivere, infatti, permette di vedere l’ozio come una forma di sport. In questi momenti il sé si sottrae alla tentazione di realizzare troppe cose nello stesso momento, trovando il tempo per una scelta, per una rinuncia, o per sprecare certe possibilità. E in conseguenza di tutto ritorna in possesso del suo tempo, “ritrova tempo” per sé, per gli altri e per altro. Così arrivano i momenti felici e pieni, quando, come ben sanno tutti gli sportivi, ci

si dimentica del tempo, e per i quali soltanto vale la pena vivere. In queste ore il sé può occuparsi di se stesso e degli altri. Può coltivare la relazione con sé e con gli altri, fondare e conservare i rapporti di amicizia, tanto con sé quanto con gli altri. Questo è anche il tempo in cui è possibile pensare ad altre cose, o fare pensieri diversi, elaborare vecchie esperienze e farne di nuove. In questo tempo si può respirare, ritrovando le risorse per continuare a vivere. L’esito opposto è l’esaurimento, volendo impiegare concetti che non valgono solo per l’ecologia esteriore del mondo, ma anche per quella interiore del sé. Nella sua configurazione esteriore lo sport consiste in un rafforzamento del corpo. Ma i suoi effetti sono importanti anche dal punto di vista dell’interiorità. Per il fisico diventa immediatamente una cura della psiche, perché il corpo può “assimilare” ciò che le mette pressione. Siccome la mente può essere compresa molto meno del corpo, un’opzione fondamentale dell’arte di vivere consiste nel prendersi cura dell’anima attraverso il corpo, scegliere il soma come aggancio per la psiche, in senso inverso a quanto afferma la psicosomatica. Da questo punto di vista la fisioterapia può essere intesa come un’autentica psicoterapia e lo sport come esercizio che ha come scopo la cura dell’anima. In questo orizzonte emergono problemi che investono lo sport nell’epoca della “somatomania”: possiamo comprendere lo sport come fine a se stesso senza farlo degenerare in una forma vuota di contenuto e priva di senso tale da spingere anche il maniaco del fitness a chiedersi: perché lo fai? Quello che è importante è praticare lo sport solo nella quantità che ciascuno considera conveniente alle sue esigenze, contrastare l’esagerazione, che, per quanto dall’esterno possa essere vissuta come una norma, dall’interno viene avvertita come vizio – cosa che lo sport può sempre diventare travolgendo chiunque ne resti vittima. Lo sviluppo ulteriore di uno sport umano può essere utile a tutto questo e anche lo sport, alla fine, può diventare un’arte che contribuisce a dare un senso alla vita, cioè

al tentativo di darle una forma che ce la fa apparire degna di approvazione, e quindi anche al lavoro su se stessi, sulla propria vita, sulla vita assieme e in relazione agli altri e a tutti quelli che ci condizionano, con il solo scopo di realizzare una vita bella e soddisfacente. La cura per tutto questo può essere resa ancora più intensa se si prendono in considerazione anche altri punti di vista.

Wellness? Wellness! L’arte del relax Wellness: una vecchia parola inglese, che verso la metà del XX secolo diventa un nuovo concetto in cui si uniscono benessere psichico (wellbeing) e buona forma fisica (fitness), rispolverata dal medico e sociologo americano L. Dunn (1959), sicuramente con lo scopo di riportare la ricerca della felicità, la pursuit of happiness, all’integrità del corpo e della mente. La ricerca del benessere che si impone nel XXI secolo si può spiegare in mille modi: da un lato può sembrare un indizio della crescente ansia da prestazione delle società moderne e della costrizione che deriva dall’incremento delle risorse fisiche e mentali necessarie; da un altro lato, il benessere appare come una conseguenza dell’aumento dell’età media della popolazione mondiale: gli uomini diventano sempre più vecchi e vogliono spassarsela per più decenni possibile, costi quello che costi. Ma si potrebbe spiegare il fenomeno del wellness anche come prosecuzione conseguente del progetto della modernità, comprensibile come realizzazione della maggiore felicità possibile, sostanzialmente identificata con il benessere fisico, per il numero maggiore di individui. Così, il wellness, che poteva essere una semplice tendenza culturale, è diventato ora una vera e propria industria della società occidentale, oltre che un vero e proprio movimento popolare, prefigurando quello che dovremmo desiderare anche per l’ecologia del mondo esteriore. La particolarità del wellness, dal punto di vista dell’arte di vivere, sta in un mutamento di paradigma, cioè in un mutamento di piani della cura, che

passa dalla cura per le cose, per gli altri o per istituzioni anonime alla cura di sé. In questo appare riconoscibile il fatto che il “wellness” è diverso dalla “cura” tradizionale, cioè dalla possibilità di guarire da una malattia o dalla prescrizione eteronoma di un procedimento che favorisce la realizzazione di questa possibilità. Il termine “wellness” viene impiegato senza ulteriori indicazioni, ha la caratteristica di essere onnicomprensivo e rappresenta l’intenzione di una cura preventiva e autonoma delle malattie. Il wellness poggia dunque sull’iniziativa autonoma del sé e da quest’ultimo viene anche inteso come una cura in senso tradizionale. In tal senso wellness sta per benessere, un benessere a cui il singolo dà il suo contributo, cercando di non trascurarsi più, smettendo di riporre la cura di sé in istanze patriarcali e interessandosi autonomamente alla sua condizione, anche quando questo lo spinge a professare un salutismo narcisistico e ipocondriaco e a incrementare progressivamente il suo benessere. In breve: wellness sta per “positivo”, per “armonia” di corpo, mente e spirito. Si tratta di apprendere in maniera quanto più varia possibile le modalità per curare se stessi, a volte pretendendo, altre rilassandosi, magari trascorrendo un giorno, o anche solo qualche ora, in una SPA, acronimo di “sanus per aquam”, ‘sano con l’acqua’, che in inglese, già da lungo tempo, viene a indicare i bagni termali, curativi, o le fonti di acqua minerale. Nel suo senso ampio e positivo, il termine “wellness” sintetizza un’arte del relax, che si sviluppa su tutti i piani possibili, a cominciare dalla cultura del corpo: viene riscoperta la sensibilità attraverso una festa del vedere, del sentire, dei profumi, del gusto, del tatto, e quindi di tutti i sensi, che vengono stimolati con l’aiuto di colori, vapori, musica, calore, oli, balsami, chiropratica, massaggi, danza e ginnastica, sauna e bagno turco, trattamenti ayurvedici e tecniche respiratorie cinesi, il tutto in un ambiente esteticamente curato e gradevole alla vista. Nella definizione di wellness si tengono presenti

anche le basi della nutrizione e i piaceri che ne derivano, dato che l’ecologia può essere pure ecologia del corpo. Si può poi fare esperienza di un salutare passaggio dalla quiete al movimento, dall’attività alla passività, dalla tensione alla distensione. Il wellness è una forma di relax a cui è sottesa una forma di tensione, che ne rappresenta anche una conseguenza. Sarebbe infatti disastroso voler vivere solo la tensione o solo il relax: nel primo caso saremmo ipertesi, mentre nel secondo ci addormenteremmo ponendo fine alla condizione di wellness. Compito del wellness è quello di rimettere in moto il ritmo di tensione e distensione andato probabilmente perduto; anche perché i ritmi sono il sostegno della vita. Si può inoltre capire che l’esperienza sensibile e corporea si ripercuote sulla mente, libera le sue energie e le dà la possibilità di esprimersi. Il trattamento del corpo può rappresentare un messaggio dato alla mente, cioè il fatto che ci si sta occupando di se stessi, e quindi anche di lei, prendendola sul serio e fornendole quell’assistenza necessaria al suo benessere, anche se si tratta solo di un po’ di riposo che, pur fermandosi sulla superficie della pelle, riesce sempre ad andare molto in profondità. Sul piano mentale, che trova nel corpo il proprio basamento, si arriva a coccolare i sentimenti, così come a una identificazione tra sentirsi bene e felicità, che deve essere rettificata non solo in un rafforzamento del sé, ma anche mediante la ricerca delle risorse necessarie per rivolgersi agli altri e arrecare loro un beneficio. Della distensione della mente si occupano le sensazioni, la cui natura è al contempo corporea e mentale, ma anche il dialogo silenzioso con se stessi, che viene percepito e avvertito più che pensato in forma verbale; e anche quelle conversazioni con gli altri che avvengono nello spazio dell’ozio hanno la loro importanza per il benessere della mente. Va da sé che questo è anche il tempo del lavoro discreto sulla propria interiorità e sulle connessioni esteriori, grazie al quale si può

riprendere nuovamente confidenza con il nucleo della nostra coerenza, capire cosa deve restare alla periferia, che tipo di relazioni vogliamo intrattenere con gli altri e quale di queste merita una particolare attenzione: che cosa è degno di approvazione, che cosa deve essere negato; che cosa è bello nella vita e per cosa vale la pena vivere. Il tempo del benessere qualifica il momento per riequilibrare un sé che ha anche altri tipi di esperienza del tempo. Sarebbe assurdo voler fissare solo il polo del “positivo”. Senza voler essere ipercritici, si deve comunque dire che il godimento che deriva dal benessere diventa un problema solo quando si pretende di farlo coincidere con la “felicità”. Non ci si può aspettare che il wellness mantenga una promessa di salvezza, né che esso costituisca un organo per la comprensione metafisica della felicità. Non bisogna renderlo una norma, ma solo un tipo di relazione da scegliere per realizzare una condotta di vita consapevole, giungendo ad avvertire ancora meglio quella che è la sua giusta misura ed evitando di credere che il sé possa diventare un uomo caratterizzato dal puro benessere, un essere che sente piacevolmente il mondo intero. Oltre a quello del corpo e a quello della mente, bisogna prendere in considerazione anche il piano dello spirito, stimolato da esperienze mentali e fisiche che liberano un’attività intellettuale suscitata intenzionalmente da esercizi di meditazione. La stimolazione dello spirito è ideale, spirituale e potenziale: l’essere toccati da un’idea, da un pensiero, da un sogno, da una sensazione, da una storia inventata, da una rappresentazione fantastica o da una trattazione filosofica. Si può conoscere il fenomeno dello spirituale e la forma spirituale del contatto nel dialogo, in uno scambio di pensieri, così come nel silenzio, inteso come forma muta di contatto tra i pensieri. Anche la lettura rientra in questo genere di fenomeni sebbene, per molti versi, appaia ancora legata agli stimoli sensibili, al prendere in mano un oggetto mediatico e sfogliarne le pagine. Il piano spirituale è influenzato da un’attività di

pensiero multiforme, e in particolare dall’interesse per le domande vitali e da quello per la domanda sul senso, che ha a che fare con le possibilità di portare avanti la propria vita e che, nello stesso tempo, necessita di una preparazione teoretica che le consenta di essere tradotta in pratica. Il piano dello spirituale coincide infine con il domicilio di una felicità più ampia espressa al meglio nella serenità, nata dall’esperienza della vita come campo di tensione, come contraddittorietà e come orizzonte in cui confluiscono elementi diversi e addirittura contrapposti. A differenza della felicità derivante dal senso di benessere, questo altro tipo di felicità non può essere comprato, ma rinvia a una disposizione spirituale e, quindi, all’arte di vivere. Ma la forma di contatto più ampia, che trascende la dimensione fisica e anche quella psichica e spirituale, si può ottenere sul piano metafisico. Il wellness permette di fare esperienza anche di questa dimensione, perché lo spazio del riposo dischiude anche quello del pensare e del sentire. A questo livello viene messo in questione ciò che si trova al di là dei limiti dell’ambito fisico e che va oltre la finitezza dell’esistenza. Non è necessario stabilire con precisione il perimetro di questa dimensione dell’esistenza, perché essa appare come tale proprio in quanto non può essere definita. Importante è solo il fatto che può essere presa in considerazione solo nell’ambito del pensiero, che si estende oltre la vita ordinaria e finita del singolo e rappresenta la volta infinita dell’esistenza, sotto la quale diviene possibile orientare la propria vita. È opportuno percepire con attenzione il modo in cui il sé può essere toccato da tutto questo, perché si deve tenerne conto nella definizione della sua condotta di vita. Solo allora questo tipo di contatto può emergere nel suo significato più pieno, dal punto di vita fisico, psichico, spirituale e metafisico: per amore della completezza dell’essere umano. Alla base di questo modo di comprendere il wellness si trova una visione integrale dell’essere umano, dove gli aspetti del corpo, della mente e dello

spirito vengono tenuti distinti, ma non per questo isolati l’uno dall’altro. Il singolo individuo non deve essere visto come un qualcosa a sé stante, ma come un essere costituito anche da un punto di vista sociale ed ecologico. Per chiarire in una forma concettuale i piani dell’essere umano è anche necessario estendere la psicosomatica oltre la psiche e oltre il soma, in direzione di una noopsicosomatica, che tiene conto del nous, cioè del ‘pensiero’. Il pensiero rappresenta l’origine delle riflessioni sul senso dell’esperienza e dell’esistenza, sulle domande relative alla vita e alla morte. I processi di pensiero e le fatiche intellettuali possono condizionare la vita stessa e dare una direzione alle energie psichiche, ridestandole, facendole uscire allo scoperto, stimolandole e, possibilmente, liberando il loro potenziale curativo, perché curative non sono solo le forze del corpo e dell’anima, ma anche quelle dello spirito. I momenti di wellness sono momenti artistici nei quali la vita trova una sensibilità e un “senso” del tutto nuovi. L’arte consiste nel mettere in questione i nessi della vita, della vita propria, così come della vita in generale, chiarisce i suoi modelli e arriva a una filosofia che li rende possibili e che può essere considerata plausibile in rapporto a se stessi. Un simile concetto di wellness non appare troppo ampio ed esagerato? Per fortuna già da molto tempo il wellness può essere molto più semplice e ridursi a un singolo atto, che contiene in se stesso quanto siamo venuti dicendo. Per metterlo in opera basta solo un altro essere umano, e soprattutto colui che amiamo: fare l’amore coincide con “l’inno all’amore” e, già nell’Antico Testamento, viene identificato con l’arte del contatto su tutti e quattro i piani. Si tratta di un esercizio noopsicosomatico, attraverso il quale il sé fa del bene a se stesso nel momento in cui fa del bene agli altri, fondendo una cosa nell’altra in un’esperienza della trascendenza che può durare anche solo un attimo. Ciò che può accadere fisiologicamente, psicologicamente e sul piano spirituale può essere oggetto di molti anni di

studio e di ricerca scientifica. Aumento della produzione di ormoni estrogeni, che levigano la pelle e la mantengono elastica, produzione di endorfina e serotonina, gli “ingredienti della felicità”, che rafforzano la mente e rendono inviolabile l’autocoscienza, produzione di ormoni come l’adrenalina o il cortisone che eccitano il pensiero e aumentano la capacità di concentrazione e creatività in misura tale che il sé può mettersi all’opera allegramente e fresco, anche quando potrebbe abbattersi e fallire. Questo è quanto può ottenere chi fa dell’ars amandi, dell’‘arte di amare’, la base dell’arte di vivere. In questo senso ‘non è decisiva la verità scientifica, ma la percezione umana, che in questo unico gesto vede esemplificati tutti i piani del sé in misura analoga. Qui la pienezza della vita e la soddisfazione delle sue istanze possono essere conosciute attraverso il contatto e l’essere toccati. L’unica forma di contatto che resta in un mondo altamente tecnologizzato è quella che prevede la mediazione del mezzo tecnico, che sollecita all’automatismo: «touch the screen». Ma toccare uno schermo non prevede una risposta, non sostituisce il contatto con un altro essere umano. Meglio servirsi di uno strumento naturale: per esempio uno specchio d’acqua.

La pienezza traboccante e l’ultima goccia: vivere nell’acqua Il wellness può essere considerato anche come una moda della tarda modernità. Ma l’origine del benessere, che è al contempo il centro del wellness, sta in un istituto arcaico. Nel 1799 un viaggiatore italiano in Finlandia raccontava cose straordinarie, e specialmente che gli uomini di queste terre riuscivano a stare anche per mezz’ora in una piccola stanza riscaldata fino all’estremo. E riportava che, dopo essere stati chiusi in quella stanza, si mettevano all’aria aperta e, in inverno, si rotolavano nella neve. E, ancora, che facevano tutto questo «completamente nudi» e che i maschi non nascondevano le proprie parti intime, nemmeno in presenza di donne. «I

contadini assicurano che senza questo bagno di sudore non è possibile portare avanti le loro fatiche». Quella descritta è senza dubbio la cultura della sauna, una delle invenzioni più geniali dell’umanità. Nella sauna l’uomo antico e quello moderno siedono l’uno di fianco all’altro: arcaica è la nudità; arcaica è una casetta fatta di ceppi dove si sta fermi a sudare; arcaico è il fuoco acceso, anche quando, come nelle saune moderne, si tratta solo di finzione. Vivere tornando alle origini, almeno per un’ora, per un giorno: chi non si prende una pausa da se stesso, dalla modernità, vi resta consegnato senza via di scampo. Il corpo viene toccato dal calore, dal sudore, dall’acqua, dall’aria fresca che respira: questo significa fare una sauna, una tecnica della cultura del corpo che viene impiegata di frequente e che, come può confermare chiunque l’abbia provata, porta con sé importanti conseguenze sul piano mentale e rappresenta un modo per prendersi cura di se stessi tanto semplice quanto efficace. Entrare in sauna significa dedicare attenzione al proprio corpo e prendere nota della sua reazione a dir poco beata, cioè del modo in cui quella che viene chiamata “anima” reagisce a certi stimoli fisiologici. È anche possibile iniziare a far fluttuare i propri pensieri, in maniera tale che quanto prima era solo cura del corpo diventi in realtà un’esperienza noopsicosomatica integrale. E anche la metafisica non tarda ad arrivare: l’inalazione degli aromi che vengono diffusi nella sauna sono un atto quasi religioso, inscenato dal “maestro della sauna”. Il rito consiste nel versare l’acqua sulle pietre calde e nel distribuire, facendo vento, il vapore e gli aromi, se non l’incenso, ai fedeli. Il sé impara così che un problema, che nel caso della sauna è il calore eccessivo, può essere percepito in maniera animalesca, per essere poi dominato dalla coscienza. Non appena si comincia a pensare alla fuga, infatti, il maestro della sauna si inginocchia di fronte alla porta prima di sventolare energicamente, per l’ultima volta, il suo asciugamano a benedire i volti grondanti di sudore. Si inginocchia, perché si

tratta di una vera adorazione del corpo; o forse solo perché l’aria là sotto è più fresca. Il sentimento che si prova quando il calore del corpo dall’esterno penetra all’interno è incomparabile, mentre il calore radicato nell’interiorità comincia a sgocciolare fuori scorrendo in mille rivoli. Solo allora un getto d’acqua fresca restituisce alla pelle il suo limite, porta via tutto il resto e lo diffonde nel vento e nell’atmosfera – pochi piaceri sono paragonabili a questo. Sono sauna anche le docce fredde, i bruschi cambiamenti che danno sollievo al corpo e il benessere che ne deriva: un’esperienza fisica intensa e consistente. Il corpo viene riscaldato finché non va quasi in fiamme, le fiamme vengono spente e congelate nell’acqua, solo per ricomparire di nuovo: si sta seduti al caldo atroce del Sahara e poi, subito dopo, nel lago di Vostok, in Antartide, dove ci si immerge celebrando la resurrezione del corpo. Questo è lo scenario di un esercizio volto a incrementare il potere su di sé, che consiste nel trascendere se stessi in una vasca di acqua gelida, ma solo per proteggere il proprio corpo dal freddo glaciale: un esercizio che viene dalla riflessione lucida capace di persuaderci del fatto che quell’esperienza momentaneamente spiacevole vada a tutto vantaggio di un’altra esperienza piacevole che la segue e che deriva dal contrasto con la precedente. La catarsi fisica purifica, proprio come le passioni amorose, anche l’anima, finché il sé non è esaurito e, dopo un dolce sonno, torna alla vita come rinato. I parallelismi con il gioco della passione amorosa sono immediati. L’unica differenza sta nel fatto che il gioco del corpo nel momento della sauna è più rapido, più estremo e non prevede il coinvolgimento di altri; in questo caso infatti si è schiavi soltanto dell’amore di sé, finché il corpo non si scioglie e, proprio attraverso questo, si tempra fino a renderci capaci di correre nudi sotto la pioggia. Il gioco con le esperienze fisiche estreme porta a ritrovare nuovamente un equilibrio, dal

punto di vista del corpo, da quello dell’anima, e anche da quello spirituale, perché il meditare distesi sulla panca della sauna amplia naturalmente lo sguardo e diventa esercizio di serenità, ammesso che con questo termine si intenda un vivere simmetrico e un bilanciamento di esperienze contrapposte e contraddittorie. Il rilassamento che si ottiene con la sauna porta, infine, a modellare la pelle in senso reale e metaforico: la dermicidina, una proteina prodotta attraverso il sudore, protegge la pelle, cioè la membrana del sé, dalle infezioni. Sudando si produce una patina acida e protettiva che tiene lontani gli agenti patogeni e i materiali tossici, mentre chi fa un uso eccessivo di sapone la indebolisce fino a distruggerla completamente. Nasce in questo modo una “pelle protettiva”, una ridefinizione della soglia che divide il sé dal mondo, tanto dal punto di vista fisico quanto da quello psichico. Oltre a quella fisica, infatti, la sauna aumenta anche la resistenza dell’anima: ora il sé non può essere più toccato da qualunque influsso esterno, non tutto lo colpisce. Con questa forza, ottenuta per la prima volta, il sé regola di nuovo e in maniera eccellente il limite di ciò che dall’esterno si dirige verso l’interno e viceversa: ciò che dall’interno, cioè dall’interiorità, può spingersi verso l’esterno. È possibile provare i benefici dell’acqua anche praticando il nuoto, in parallelo alla sauna o indipendentemente da essa. Anche il nuoto stimola il senso diffuso in tutto corpo, cioè la pelle, e con esso anche l’anima. L’acqua rende leggero ciò che è pesante, il corpo sente la leggerezza dell’essere e l’anima lo segue prontamente. Poiché il corpo consiste in gran parte di acqua, non c’è nulla di più facile che familiarizzare con questo elemento, soprattutto quando si tratta di fare amicizia con se stessi. Il corpo torna nell’acqua, dove in un dato momento è nato ogni singolo essere umano, e ricomincia a vivere nell’acqua. Questa esperienza, che a volte è simile alla trance, è legata anche

a quella di un oscillare senza pesi, cioè di un librarsi leggero. Per adattarsi a questo elemento i movimenti diventano più lenti, ci si muove in maniera rilassata e con tutto il corpo. La pelle viene massaggiata da ogni movimento, l’acqua preme dolcemente sulle vene e spinge tutto il sangue verso il cuore, che a sua volta si espande per raccogliere una maggiore quantità di sangue; la frequenza cardiaca diminuisce, tutto l’organismo si calma e l’anima, riportata a galla grazie a questa esperienza del corpo rilassato nell’acqua, trova senza volerlo la sua consolazione. In questa pienezza traboccante il sé si sente a casa, si fa carico di questa pienezza per disfarsene nuovamente, e lo fa senza sosta, in un continuo scambio, nel ritmo della vita. Per rendersi conto del valore positivo dell’acqua, è importante essere coscienti di quale privilegio sia la grande disponibilità di acqua di cui godiamo, mentre la sua scarsità in altre parti del mondo l’ha resa un “oro blu”. È la sovrabbondanza che consente di accedere tutti i giorni ai benefici arrecati dall’acqua, con un unico gesto. Il presupposto è solo quello di sopportare la lunga procedura dell’alzarsi al mattino, cioè di elevare la parte superiore del corpo, far scendere il piede dal letto e trascinarsi in bagno. La doccia diventa una coperta verticale che prolunga ancora un poco il ritirarsi notturno dal mondo e rappresenta quello spazio che garantisce l’intimità dell’io con se stesso: non si tratta di uno spazio in cui condurre una riflessione impegnativa sul mondo, né tantomeno una riflessione su di sé, ma piuttosto di un momento di sensibilità pura, dell’esserci solo per se stessi, del prendersi premurosamente cura di sé e farlo senza rimorsi. Questo è il momento tanto agognato, che anche per oggi ci permette di riconciliarci con il mondo. La doccia scorre, gorgoglia e ribolle proprio come doveva essere una volta nel ventre materno, e io mi sento completamente avvolto da un’umidità calda e fluida. Che cosa c’è di più bello nella vita? Questo caldo mondo fatto d’acqua – ah, magari durasse in eterno! Intanto cavalco l’onda, e

tento di rinviare ancora la sua pericolosa fine: mi lavo ancora un po’, mi sciacquo e poi ancora un altro piccolo getto caldo dall’alto. Ma alla fine è troppo, non ci si può fare più nulla: giro il rubinetto e il getto comincia a diminuire; tutt’a un tratto comincio a sentire le gocce che coprono la mia pelle. Finché l’ultima goccia non mi tocca e, freddissima, prende a correre giù per le mie spalle torturandomi lentamente. E arriva il momento terribile: apro la cabina della doccia, non posso fare altrimenti. La fredda realtà della giornata incombe, tutta in una volta, facendomi tremare e fremere. Certo, potrei giocare d’anticipo, usando l’acqua fredda poco prima di smettere: una doccia fredda è un ottimo modo per prepararci al mondo così come ci si presenta, ma non esclude il confronto con la realtà. Potrei senz’altro addolcire l’impatto, usando per esempio la tendina al posto della cabina doccia; ma a quel punto l’alito freddo della realtà comincerebbe a farsi sentire già mentre mi godo il getto caldo della doccia e il gusto sarebbe solo a metà: chi vuole provare il piacere completo deve allora essere pronto a sopportare anche tutto il terrore della realtà. Ma che cos’è la realtà? Non è altro che ciò di cui devo venire a capo. Che cos’è una vita bella? La vita pronta a vivere belle esperienze resistendo a quelle brutte. Alla doccia reale segue la doccia della realtà: sì, un’ontologia della cabina doccia. Apriamo il sipario del mondo!

Essere belli e farsi belli: sensibilità del sé La partecipazione quotidiana del sé al mondo non è molto diversa da una pièce teatrale. Il corpo ha una funzione decisiva, non solo nella vita sociale, ma anche nella vita in rapporto a se stessi. Il titolo della pièce è La comparsa del corpo, data sulla scena della coscienza. Ma non per questo il corpo è solo l’attore sulla scena: è anche il ruolo che mette in scena sostanzialmente improvvisando. Pure il sé pensante appare sulla scena, una volta come autore e l’altra come spettatore, lacerato e oscillante tra noia, entusiasmo, orrore,

divertimento. Il prologo del dramma è il guardarsi allo specchio la mattina, il momento in cui ci si chiede a chi appartiene questo corpo, se è bello e, ammesso che non lo sia, come potrebbe diventarlo – non tanto per gli altri, ma innanzitutto per piacere a se stessi. Che cos’è un bel corpo? Un corpo che può essere apprezzato. Per questo tutto il lavoro necessario per essere belli deve mirare a realizzare quella condizione esteriore che permette di riconoscersi come degni di essere apprezzati, cosa che evidentemente dipende altresì da una disposizione interiore. La vanità legata alla domanda imbarazzante «sono bello?» non è mai troppa, perché è sempre importante per stabilire una relazione con se stessi. Se la domanda non venisse posta si rischierebbe un’eccessiva indifferenza nei confronti di sé. Altrettanto pericolosa sarebbe una risposta ingenua, priva di riflessione, o una passiva osservanza di norme date per determinare la bellezza di qualcosa o di qualcuno, ciò che ci si presenta come l’abito della “normalità”. Ma bello non è quel corpo che corrisponde a norme e criteri generali, bensì quello grazie al quale il sé può apprezzare se stesso, con tutte le sue forze e debolezze, con le sue regolarità e i suoi difetti, con la sua insostituibile particolarità, a cui si lega la simpatia che invece scivola via quando si vuole essere diversi da quello che si è. La bellezza fisica si manifesta innanzitutto nella sensibilità del sé. Nel primo atto del dramma il corpo fa la sua prima apparizione nella nuda esistenza sensibile, per vedere, sentire, annusare, gustare se stesso, ma soprattutto per potersi toccare con le sue proprie mani. Il contatto con se stessi, cioè il contatto con il corpo attraverso il corpo, è espressione di un apprezzamento, una forma esteriore dell’amicizia con se stessi e dell’amore per sé, di cui non bisogna essere avari, perché il corpo ne ha fame. La pienezza dei sensi, ma in particolare il contatto, consente di guadagnare un rapporto di tipo erotico con sé e con il proprio corpo, un rapporto che ha a

che fare con l’attenzione, con l’interesse, con un dono e con un’appropriazione. Attraverso il contatto con se stesso, il sé può procurarsi anche un piacere fisico; un piacere che può certamente essere raggiunto in maniera poco spettacolare già la mattina, quando ci si prende tutto il tempo del mondo per curarsi, facendo del bene al corpo e anche all’anima. Si fa esperienza di se stessi già solo toccandosi nell’atto di lavarsi. È strano notare quanto sia frequente, nell’arco di una giornata, la tendenza del sé a cercare un contatto con se stesso, soprattutto attraverso l’impercettibile movimento della mano che scorre lungo il viso, o della testa che si posa sulle mani per sostenere il pensiero; si entra in contatto con se stessi anche quando si prova dolore o quando con le mani cerchiamo di attutire, e magari anche di guarire, quel dolore. Come aggiunta al primo atto va in scena un intermezzo satirico che tratta della forma più discreta del contatto con se stessi: mai a scena aperta, e comunque mai in pubblico, come invece faceva Diogene il Cinico, che, secondo quanto riferisce Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, avrebbe compiuto atti di onanismo nella piazza del mercato di Atene lamentandosi di non riuscire altrettanto facilmente a sconfiggere la fame strofinandosi lo stomaco. Nella storia della filosofia la riflessione su questo tipo di rapporto sessuale con se stessi è praticamente inesistente. Solo verso la fine del XVIII secolo, Immanuel Kant, pienamente figlio del suo tempo, ha parlato della masturbazione come di un atto ripugnante e contro natura. Nelle sue lezioni di pedagogia, che sostanzialmente consistono in un invito alla «schiettezza» o al «guidare se stessi», Kant rifiuta completamente la dimensione erotica dell’autonomia. Nulla indebolisce di più lo spirito e il corpo che «un atto di voluttà diretto nei confronti di se stessi». È chiaro che l’onanismo rappresenta la contraddizione più estrema, ma anche quella più salutare, che affligge l’”io penso” e che, rispetto al «pensiero puro» rappresenta la perdita della purezza,

quella stessa perdita che dà nuovamente valore all’io del corpo. Duecento anni dopo Kant questa forma di piacere conosce, senz’altro a ragione, la sua riabilitazione (cfr. Ludger Lütkehaus, “O Wollust, o Hölle” [‘Oh voluttà, oh inferno’], 1992) e viene intesa come possibilità di intrattenere, con l’aiuto del contatto con se stessi, una relazione intima con il sé. Ma quando il contatto non è più sentito come espressione di un’approvazione, o almeno non da se stessi, allora si tenta di produrlo con la violenza e anche mediante la violenza nei confronti di se stessi: e questa è l’altra faccia della medaglia. L’erotismo nei confronti di se stessi comprende, oltre ogni immediatezza, anche una sensibilità mediata, che permette di sentire se stessi e che viene eccitata, per il piacere dei propri occhi o del tatto, da materiali o vestiti. Nel secondo atto va in scena il dramma del vestirsi: il contatto del corpo con altri mezzi. Il motivo della scelta di un certo abbigliamento può essere il bello, ciò che è degno di apprezzamento; così è l’immagine che si vuole fornire a se stessi e agli altri. Ma vestirsi è soprattutto un lavoro su se stessi e la ricerca di una via verso l’esterno: l’abbigliamento, la sua forma, i suoi colori, rappresentano nella maniera più diretta un’oggettività che incide sulla soggettività, cioè sulla propria condizione soggettiva e sull’intero essere se stessi. Vestiti diversi restituiscono sé diversi. Quando si dice che il sé «non si sente bene nella propria pelle» molto spesso si intende quella seconda pelle costituita dai vestiti, che non gli piacciono e restano meri oggetti senza fondersi con chi li porta. “La moda” è il tentativo di mettere l’oggettività a disposizione della formazione della soggettività in varianti sempre nuove; la moda progetta un modo di essere, un certo tipo di vita che formula e modifica nella forma esteriore le possibilità di essere se stessi. La vita non è mai un nudo fatto, ma sempre anche un fatto determinato e un modo di coprirsi e di esprimersi appieno. Ogni rivestimento del corpo è uno svelamento del sé, una rappresentazione teatrale continua che mette in gioco il proprio sguardo e

quello degli altri. La moda precostituita è, in questo senso, solo un’opzione; un’altra opzione è invece quella di “fare moda”, cioè di imporre il vestirsi e il travestirsi come punto di forza del proprio sé. L’intermezzo satirico rappresenta questo problema da due lati: come una riduzione che si spinge fino al cappotto logoro del cinico, il quale riveste il suo corpo solo per necessità, e come un’esaltazione che si spinge fino alle creazioni degli stilisti e ha i corpi da bambola delle modelle. Il terzo atto del nostro dramma mette in scena i mutamenti del corpo e ha a che fare con il farsi belli usando accessori diversi, ancora una volta per soddisfare non solo gli occhi, ma anche il naso, giacché il sé può essere bello anche se ha un buon odore. Gli ornamenti vengono posati direttamente sul corpo e rendono possibili mutamenti immediati, che tuttavia durano poco: dipingersi le labbra, le palpebre, le ciglia e le sopracciglia, mettersi lo smalto sulle unghie. L’arte della cosmesi, nel senso più ampio possibile, è in grado di soddisfare il diritto del corpo a esprimersi, volgendosi verso l’esterno. Una delle forme privilegiate della modificazione del proprio corpo è il taglio di capelli. Variando continuamente la forma e il colore dei propri capelli si pone immediatamente in essere una mutazione interiore di se stessi, la quale, nondimeno, non può essere ottenuta con altrettanta facilità. Allo stesso modo, con il passare del tempo, la formazione dell’interiorità modella il proprio percorso in rapporto alla formazione dell’esteriorità: questo è il senso profondo della superficialità solo apparente del farsi belli. Solo nell’esteriorità il sé può cogliersi così com’è, ammesso che intenda farlo, e non rimanere ineffabile, tanto per sé quanto per gli altri. In questo senso sono interessanti le differenze tra i generi: le donne sembrano essere più sfrenatamente schiave delle forme mediate del contatto con se stessi, e si preoccupano, con una ciclica regolarità, del contatto con gli altri e del benefico effetto che questo ha su di loro. Da qui la frequenza delle visite al

parrucchiere, metodo e terapia sempre disponibili. Ai maschi non resta che la possibilità di avere un contatto con se stessi attraverso il kit per la rasatura. L’interludio satirico consiste qui nel dipingere scandalosamente il proprio corpo come un clown, addobbandolo con oggetti assurdi, oppure, per contrasto, rinunciare con grande abnegazione a modificare il proprio corpo, abbandonandolo a se stesso, lasciandolo così come ci è stato dato. L’ultimo atto del dramma presenta finalmente tutti i possibili cambiamenti del corpo: la bellezza esteriore e la sua integrità non contano più, mentre si mira a incidere sul corpo in maniera irreversibile. Qualcosa di simile avviene quando si “allenano” certe parti del corpo, più o meno modificate e trasformate a scapito di altre, cercando di rendere il proprio fisico un’opera d’arte creata in piena coscienza. Un esempio di questo tipo è senz’altro la body art, soprattutto nella forma del tatuaggio, che ambisce a far rifiorire il corpo. Ancora più incisivi sono gli effetti della chirurgia estetica, che dà la possibilità di modellare il corpo come si desidera. Quasi come se le energie utopistiche, che un tempo animavano solo i progetti di una società ideale, nel frattempo fossero state tutte convogliate in direzione del perfezionamento fisico. Certo, la liberazione moderna dalle prescrizioni della tradizione, delle convenzioni e della religione ha avuto una certa influenza anche su questo, legittimando un’azione arbitraria sul proprio corpo. Ma nello stesso tempo bisognerebbe pensare a usare questa libertà con cautela e nella giusta misura, nel proprio interesse e con l’obiettivo di non doversi trovare nella condizione di sopportare conseguenze che possono essere ancora più problematiche di quelle legate a un fisico imperfetto. In ogni caso, la perfezione è da escludere, soprattutto quando si tratta di bellezza fisica. Anche perché è inevitabile che svanisca con gli anni e, più che raggiungerla e conservarla con tutte le forze e con tutti i mezzi, si potrebbe passare a lavorare alla bellezza della propria anima che, diversamente, cresce con gli

anni e offusca le deficienze fisiche. L’ultimo interludio satirico ci presenta la tragedia delle modificazioni irreversibili: corpi deturpati, che hanno fallito nel tentativo di diventare perfetti e che ora sembrano degli zombie. E, per contrasto, corpi rimasti impassibili alla seduzione del mutamento, consegnati a una rinuncia a se stessi, serena e sovrana, e soprattutto alla rinuncia a esercitare quelle forze che toccano la formazione della sensibilità, forze che, come abbiamo visto, hanno un significato decisivo, non solo per il corpo, ma anche per l’anima.

Lavoro sulla sensibilità: l’arte dei cinque sensi Il sé è determinato dalla sensibilità in ogni momento della sua vita. Quando i suoi sensi non vengono chiamati in causa, si ribella fortemente, si intristisce e si scoraggia. La sua “razionalità” non si contrappone alla sua ansia di soddisfare i bisogni sensibili. Invece di impiegare le forze mettendosi sulla difensiva per proteggere la sensibilità, è sensato impiegare quelle stesse forze in chiave offensiva, per lavorarci sopra, per affinarla, per rafforzare e rendere più acuti i sensi, non solo per conservarli, ma anche per renderli funzionali a un migliore orientamento del sé. Gli stimoli che si offrono alla sensibilità possono essere sviluppati secondo le tecniche della contrapposizione (contrasto), del rinnovamento (innovazione), del cambiamento (alterazione), del rafforzamento (intensificazione) e della sottrazione (negazione) delle impressioni sensibili. Il sé può concepire autonomamente alcuni esercizi che muovono in ciascuna di queste direzioni, con lo scopo di raggiungere un potere della sensibilità: conquistare con l’aiuto di tutti i sensi una pienezza sensibile e un’analoga pienezza delle informazioni che i sensi possono procurare, per generare percezioni differenziate o per sopperire alla debolezza di un senso mediante il rafforzamento di un altro. Non si tratta con questo di tenere deste la sensibilità e l’attenzione, ma anche di arginarle, per tenere distinti, quando è

necessario, lo stimolo sensibile dall’informazione che proviene dai sensi. Un esercizio per la vista può consistere nel rendersi consapevoli della percezione dei colori, per esempio nel vedere il nero. Il nero, questo colore “senza colore”, sul cui sfondo si stagliano tutti gli altri, è il colore della noia, della tristezza e dell’indifferenza. La percezione differenziata del nero può avvenire quando si impara a dipingere, e in particolare in quella determinata specialità della pittura che lavora con il nero e che si dedica quasi esclusivamente a esso. Nella modernità se ne trova un chiaro esempio nella “pittura nera” di Kasimir Malevič e nei suoi Quadrato nero e Cerchio nero (1914-1915): ciò che a un primo sguardo appare semplicemente nero, a uno sguardo più ravvicinato si mostra come un paesaggio di campagna ricchissimo, attraversato da finissime venature bianche, che sono il risultato di colorazioni successive. Anche i quadri Senza titolo di Mark Rothko, della seconda metà del XX secolo, presentano una struttura monocromatica in nero, accompagnata da incantevoli contrasti con superfici colorate in maniera differente. Infine, anche Mi-Kyung Lee, nei suoi Paesaggi neri (2002), effettua studi sul nero, nei quali si ritrovano sfumature sempre nuove e sempre diverse di grigio e nei quali lo sfondo scuro fa intuire gli orizzonti. Su una parete fatta di nuvole nere come la pece, brilla, quando queste si diradano, una luce bianca accecante. Guardandole, all’oscuro spaesamento cosmico si accompagna, senza volerlo, un sentirsi a casa propria che coincide con la visione dei pianeti blu. Espressione di tutto e di niente, di estasi e di sacrificio, il nero è presente in tutte le sue variazioni: lucido e scuro, opaco e brillante, logoro, elegante, sciatto, curato, per tutti i giorni, per la festa, erotico, serio, respingente, attraente, freddo e vellutato, nero azzurro, rosso, giallo; un nero, insomma, le cui qualità appaiono solo per contrasto. Ascoltare la musica serve a esercitare l’udito. La musica procura, infatti, un’esperienza sensibile intensa e una connessione di nessi diversi tra loro,

ossia un senso, che si comunica a chi ascolta. La possibilità di un esercizio della sensibilità è offerta qui quando ci mettiamo a sentire la Nona sinfonia di Beethoven: questo pezzo abissale, brusco, pieno di crepe è una delle opere più eseguite della musica moderna, e non a caso, se si tiene conto che in esso è presente un’anticipazione di tutta la storia della modernità e delle sue contraddizioni. In questa composizione nata tra il 1822 e il 1824, Beethoven tenta di convincerci dell’idea di libertà, con parole suadenti e melodie di bellezza sovrumana, presenti soprattutto nell’Adagio molto cantabile. Allo stesso modo esprime un pericolo che non si ferma alla pura seduzione, ma procede con un ritmo che marcia inesorabilmente verso quella realizzazione del sogno moderno che non tollera alcuna forma di ostacolo: «Tutti gli uomini diventeranno fratelli», ma Presto. La lirica tenerissima del terzo movimento e il picchiare violento, quasi tirannico, del quarto; lo spegnersi del coro ricco di armonici in un unico movimento della mano che lo spazza via, solo per farlo riprendere nuovamente, ma in maniera diversa; le voci dei solisti, che si sfaldano negli acuti cangianti dopo essersi pienamente armonizzate nel pianto; questa tenerezza, questa violenza, questo senso di lacerazione, la rabbia furente del «bacio di tutto il mondo»: questo è il sogno in musica di un mondo libero e liberato, che si accompagna al presentimento di un abisso tragico implicato dalla stessa affermazione della libertà e aperto dalla dissoluzione di ogni vincolo. Nella modernità si rischia di ridurre l’importanza dei sensi, e in particolare quella dell’olfatto, il cui spettro si restringe sempre più, nella misura in cui la repressione dei cattivi odori comporta anche una percezione più debole dei profumi. Annusare le stagioni è uno dei possibili modi di esercitare l’olfatto, e può essere messo in pratica tutte le mattine quando ci si alza e si apre la finestra, respirando profondamente e, nello stesso momento, pagando il tributo che dà vita all’olfatto stesso: si deve respirare l’aria fresca

che si attacca alle narici, l’odore dolce della colza che fiorisce, il profumo seducente dei campi di cereali, l’alito terroso del tempo in cui cadono le foglie. L’aria del mattino è figlia della notte: quando tutti dormono si spalma sui campi freschi di rugiada e avvolge le foreste ansimanti; non disturbata dai gas di scarico delle auto o dall’aria viziata, esce fuori, si avvicina a seconda delle correnti. Ma al più tardi verso mezzogiorno si è letteralmente dissolta. Per questo è sufficiente già solo il respirare profondamente di primo mattino, quando l’impressione più forte è la prima, mentre già alla seconda o alla terza subentra la pericolosa abitudine. In questa esperienza il sé si inebria come un beone, ubriacato dal giorno ancora giovane, quando ancora l’aria è “buona”, e si disillude quando l’aria comincia a essere cattiva. A volte si impregna del fumo di una qualche ciminiera, il cui odore risulta perfino familiare, e a volte viene saturata da un alto contenuto di ozono che riscalda le narici. L’odore di fogna che si sente vicino ai depuratori rende più sensibili all’aria saporita di un tempo, che sapeva di erba tagliata di fresco, del profumo forte delle pinete o, anche, delle erbe del sud, che si gode ogni molecola del “senso chimico” delle mucose nasali. L’esercizio del gusto pare essere, anche a causa dell’esperienza quotidiana che ne facciamo, quello più facile. Ma anche un atto semplicissimo come quello di gustare la cioccolata deve essere appreso sempre di nuovo. In questo senso molto utili si rivelano anche le conoscenze teoriche, perché la rappresentazione della cioccolata fa dilatare i canali e le pieghe della lingua e rende possibile una connessione diretta delle papille gustative al cervello, che è sempre pronto a ingozzarsi di serotonina. Un esempio convincente di quale divertimento, a buon mercato e salutare, sia la teoria. Per gustare la cioccolata è dunque fondamentale la conoscenza della costruzione e della decostruzione dei cristalli, come quelli Beta-V, che le danno il gusto caratteristico e si costituiscono in maniera eminente proprio

alla temperatura tipica del cavo orale. È straordinario il gusto che si prova quando è tutto il sé a fondersi con la cioccolata; ma resta decisivo il protrarre l’attimo della dissoluzione il più a lungo possibile, gustare per un tempo tale da renderne possibile un ricordo vivido. Peccato far sciogliere i cristalli alla velocità con cui la neve si dissolve al sole senza poterla collegare al ricordo di un qualche evento. Nuovi modi di formare quei cristalli possono essere scoperti solo per tentativi, necessari per far durare ancora più a lungo il godimento che deriva dalla degustazione della cioccolata. Può essere utile anche sapere da dove provengono i semi di cacao e il metodo di lavorazione che li porta a diventare una poltiglia dolcissima in grado di influenzare la scelta e accordare una preferenza al cioccolato fondente piuttosto che a quello al latte, anche perché il fondente ha una minore quantità di grassi e possiede in misura maggiore quegli acidi che entrano nel sangue e tengono lontani i radicali liberi, impedendo loro di provocare gravi malattie. Ma il fatto che ogni piacere abbia una misura emerge con estrema chiarezza proprio nell’esperienza del dolce, anche dal fatto che l’esercizio della giusta misura coincide con il percorso accidentato scandito da deviazioni infinite tra un troppo e un troppo poco, e che la moderazione resta nondimeno la condizione per non far diventare disgusto un certo piacere. Ma il senso più trascurato dalle culture del nord, almeno in rapporto a quelle del sud, è sicuramente il tatto; tanto trascurato quanto importante per potersi trovare di fronte alla pienezza di senso che esso procura. In maniera assolutamente poco appariscente e nella vita di tutti i giorni, il tatto consiste nel toccare la superficie, del proprio corpo e di quello degli altri, di materiali di ogni natura, o di materia nel senso più ampio del termine, di ogni genere di cose: un piatto o una tovaglia, pareti, libri, indumenti, sui quali il sé posa le sue dita, passandoci sopra o fermandosi, esercitando la sua attenzione ed esplorando le qualità di ciò che tocca. Caldo, freddo, ruvido, liscio,

malleabile, resistente, sabbioso, granuloso, robusto, cedevole, inerte, vibrante, attraente o repellente. Si può tastare il pavimento con la suola delle scarpe, e tutto il corpo con un lavoro che mira a stimolare le zone sensibili dei piedi. Il contatto viene reso possibile dalle numerosissime terminazioni nervose della pelle e vivifica tutto il sé, che riesce così a intuire al meglio se stesso. Ogni genere di contatto ha come suo effetto l’attivazione delle energie fisiche che, messe in movimento, ci fanno sentire bene e proteggono la salute, non tanto quando si toccano oggetti esterni, ma soprattutto quando tocchiamo noi stessi, anche solo attraverso gli indumenti che indossiamo: grazie a loro, infatti, è possibile un contatto permanente con il sé – cosa che rappresenta già un buon motivo per sceglierli con cura. Già a partire dallo strato più esterno prende il via un gioco che ha a che fare con il pensiero e con il desiderio di essere toccati in un certo modo da qualcos’altro, e lo stesso pensiero entra in azione quando si guardano i vestiti degli altri o gli altri guardano i nostri. La disamina dei cinque sensi è completa. A questi si aggiunge però un sesto senso, che può essere detto “prospettico”, ossia quello del movimento, il quale può essere fissato dallo studio delle aree del cervello, di cui si occupa la neurobiologia. Sulla scorta delle informazioni che provengono dai cinque sensi e dall’intero apparato fisico che permette di muoversi, fatto di ossa, articolazioni, muscoli e tendini, il sé può mutare in ogni momento la sua posizione nello spazio e determinare in maniera differente la sua relazione con gli altri corpi che pure lo occupano. Ne deriva l’esercizio quotidiano ad andare avanti, nel senso più concreto dell’espressione. Perché non è il sé pensante che cammina, ma quello fisico, che si mette in movimento da sé, di continuo e senza starci troppo a riflettere. In questo modo, si crea una nuova e diversa circolazione delle forze vitali su cui il pensiero non può fare nulla. Camminare è la possibilità di fare la cosa più prossima, ciò che permette di mantenere fisso di fronte ai propri occhi anche l’obiettivo più distante: lo

spazio si apre e si manifesta una distesa con la quale il sé istituisce una relazione più intensa di ogni permanere in un luogo determinato, sia pure quest’ultimo qualcosa di mobile stretto da una semplice lamiera. Il ritmo costante del camminare si trasferisce su tutto il sé e procura, oltre al semplice movimento sensibile, anche la fondazione di una dinamica spirituale: il camminare libera il pensiero, il corpo va e io penso; per questo Michel de Montaigne poteva dire di sé, nel saggio intitolato “Di tre commerci”, «il mio spirito non si muove, se non lo fanno anche le mie gambe». Esiste anche un settimo senso, “introspettivo” e interiore, il cui correlato neurobiologico sta nella capacità di «scoprire microanomalie nei parametri del profilo chimico interiore del corpo» (Damasio). Affinare questo senso significa esercitarsi a essere ipocondriaci, cioè ad ascoltare le profondità del proprio corpo, per sviluppare un intuito per il corpo stesso. Inizialmente può sembrare esagerato, ma deve essere allenato spontaneamente prima che si sia costretti a farlo stimolati da quanto di patologico vi è in una malattia. Queste anomalie interiori, nelle quali si possono rintracciare anche reazioni a rapporti esteriori, valorizzate anche se in maniera soltanto vaga, sono molto significative per il sé, nella misura in cui la stabilità del “milieu interiore” del corpo può essere data da oscillazioni minime dei valori di ormoni, glucosio, acidi, ossido di carbonio, acqua e di molto altro ancora, come la condizione di organi, vasi sanguigni o muscoli. Questi valori vengono misurati costantemente da “sensori” e le informazioni vengono comunicate, elettricamente e chimicamente, per via nervosa o sanguigna, alle diverse aree del cervello in maniera tale da condizionare, consapevolmente o inconsapevolmente, le reazioni, gli atteggiamenti e i comportamenti. Il sé può esercitarsi ad avere una percezione interiore sempre più precisa, abbandonandosi a esperienze del corpo tipiche di altre culture, di altri contesti o di situazioni estreme, nelle quali il corpo non risulta più avvolto

dall’ovvietà e ogni esperienza lo tocca al di là di ogni barriera protettiva. Un metodo più rilassante è il volgersi terapeutico al corpo, che rafforza e affina in maniera graduale la capacità di sentirlo e fornisce al sé la conoscenza di strutture interiori, che, pur essendo sempre state parti di sé, gli sono rimaste troppo a lungo lontane.

Giustizia al piriformis Il mal di schiena: un’esperienza standard per l’uomo moderno, che lo porta immediatamente e inevitabilmente a interrogarsi sul rapporto con il proprio corpo. Ignorarlo non porta a nulla. La speranza che passi da solo non si realizza. Ci si comincia a domandare: non sarà saggio prendersi cura della propria schiena? E non sarà sostanzialmente questione di giustizia, soprattutto quando si vuole prendere sul serio l’etica del rapporto con se stessi? Come si può corrispondere al meglio alle esigenze manifestate dalla nostra schiena? Un modo di riconoscere i suoi diritti, di dedicarle un po’ di attenzione, di prendersene cura, è innanzitutto il movimento, praticare un minimo di sport e, infine, seguire tutte le altre possibilità terapeutiche. L’osteopatia è una di queste; letteralmente significa ‘dolore alle ossa’. Si tratta di una scelta terminologica infelice operata dal fondatore Andrew Taylor Still nel corso del XIX secolo. In realtà, l’osteopatia ha a che fare con legamenti, muscoli e tendini, che tengono insieme tutto lo scheletro (o che non lo fanno come si deve, con tutto il dolore che ne consegue). L’osteopatia è una diagnostica e una terapia “manuale”; consiste nell’imposizione delle mani per tutto il tempo necessario alla diagnosi e alla terapia e ha come scopo quello di provocare reazioni da parte del corpo stesso, mettendolo in condizione di attivare le forze necessarie per guarirsi da solo. La stimolazione di parti del corpo la cui limitata mobilità comporta sofferenza anche in altre aree è il rimedio messo in atto dall’osteopata. Toccando in una certa maniera le parti interessate, il crampo o la contrattura in questione vengono avvertiti

con un dolore ancora maggiore; l’acutizzarsi di quest’ultimo, però, è un richiamo per il corpo intero. Quanto maggiore è il lavoro che il corpo riesce a svolgere, tanto più il sé è maturo, autonomo e responsabile. E solo da questa tensione, fatta aumentare artificialmente, può sorgere una distensione benefica. Nel corso del trattamento si possono fare interessanti scoperte: una di queste è il delicato nervo vago, che si prolunga dalla testa fino alla zona addominale, dove si dispone a raggiera con ramificazioni che assomigliano al plesso solare. Quando le viscere “parlano” è questo il nervo che per primo sente la loro voce, anche se quasi mai in maniera nitida. La tensione di questo nervo è l’origine di quel sentimento “vago”, di quella voce che arriva dallo stomaco. Si incontra poi il musculus trapezius, che si tende dalla vertebra inferiore del torace e, nella forma appunto di un trapezio, corre dietro la testa da una spalla all’altra. Questo è il muscolo che tiene alto il capo e che entra regolarmente in tensione in situazioni di stress. L’osteopata mi tira, mi spinge, fa pressione sul mio corpo, mi stira, mi impasta, mi accarezza, e io imparo a dirigere la mia attenzione su parti del corpo come queste, che per troppo tempo sono state ignorate e che ora si stanno vendicando facendomi soffrire. A un certo punto l’osteopata tocca un muscolo sul mio fondoschiena: urlo dal dolore, perché fa male anche solo sfiorarlo. Questo è il focolaio dei dolori sparsi per tutta la schiena, di cui non è mai possibile trovare né la causa né l’origine. È un muscolo grande quasi quanto una pera e, con un po’ di fantasia, “a forma di pera” – dal latino piriformis, per l’appunto. Invisibile a occhio nudo, il muscolo piriforme compare sui libri di anatomia alla voce musculus piriformis. Si dispone su entrambi i lati del coccige, attorno all’articolazione dell’anca. Il fatto che negli animali questo muscolo sia atrofizzato ne mette in luce la funzione fondamentale nel processo di evoluzione, e in particolare il suo ruolo decisivo per superare quella fatica di

Ercole che è la disposizione del corpo umano in posizione eretta. Il muscolo piriforme contribuisce alla stabilizzazione del corpo in posizione eretta consentendo la cosiddetta “extrarotazione”, cioè la capacità di ruotare le gambe verso l’esterno. Prima di cominciare la terapia ho pensato di essere in grado di ruotare le gambe a sufficienza, ma ora capisco che ho un difetto di extrarotazione. Il piriforme è un muscolo che può essere facilmente trascurato, come tutti quelli che svolgono il loro lavoro in silenzio. Nel gioco di forza dei muscoli, dei quali il soggetto pensante non riesce a intuire nulla, il piriforme rinuncia sovranamente a esercitare qualunque forma di dominio. Nei casi incerti è quello più saggio, cede e si decontrae quando gli altri muscoli si mettono in testa di contrarsi. Il prezzo che paga per tutto questo è però il disprezzo, il misconoscimento nudo e crudo, l’algido disinteresse. Anche quando fa male, tutti parlano della schiena, ma nessuno lo prende mai in considerazione. Che cosa significherebbe per l’equità interiore dedicare un lavoro più ascetico alla cura di sé? Rendere giustizia al piriforme!!! Ma come? Il lavoro alla scrivania è il suo peggior nemico: lo dimentica, lo porta all’esaurimento. Con il lavoro intellettuale la situazione non fa che peggiorare, il piriforme si estenua definitivamente. Quando si sta seduti, infatti, viene schiacciato, viene negato e annichilito come se non fosse mai esistito. Le differenze di genere sono pure importanti: il piriforme delle donne offre spesso delle performance magistrali, per ragioni tutto sommato ovvie: bacino piegato all’indietro, fianchi più mobili, extrarotazioni sfumate. I maschi, al contrario, preferiscono gli estremi: il bacino e i fianchi rigidi, le gambe messe costantemente a quarantacinque gradi, in maniera tale da sollecitarlo di continuo. Famoso per una extrarotazione estrema è Charlie Chaplin, con i suoi piedi ad angolo piatto, probabilmente allenati in maniera sistematica. L’esempio mostra con tutta chiarezza quale sia l’esercizio che rafforza il piriforme e gli rende

finalmente giustizia: farsi almeno una volta al giorno un giro del proprio appartamento camminando come Charlie Chaplin. Questo solo per rafforzare le capacità di contrazione del muscolo, per lasciarlo poi decontrarre quando si sta seduti. E anche ammesso che la sua efficacia sia limitata, tutti quelli che lo fanno con attenzione ne trarranno il giusto giovamento.

Guadagnare terreno Ogni esercizio fisico è, già solo per via della fatica del sentire e del pensare, anche un esercizio per la mente e per lo spirito. Anche il semplice rovesciare la sopravvalutazione cartesiana del pensiero contro ogni elemento del fisico, che relega nell’inconsapevolezza la cura del proprio corpo, può farci bene. Prendersi cura del proprio corpo significa effettuare un numero contenuto di esercizi. Non è forse vero che il pensiero preferisce l’atteggiamento verticale, la posizione eretta? Ma il pensiero non deve necessariamente stare “sopra”. Può anche stare “sotto”, in realtà, e proprio per terra: questo è un importante esercizio per allenarsi alla vita. L’esercizio corrispondente prevede di mettersi sul pavimento, stare fermi e percepirsi, praticare forse solo un po’ di ginnastica stando in orizzontale, allo scopo di rafforzare la schiena e le spalle. I muscoli interessati dalla posizione del corpo e della testa saranno lieti di smettere, almeno per un po’ di tempo, di lottare contro la forza di gravità, e anche il diaframma avrà la possibilità di distendersi respirando profondamente. Aderire al pavimento riduce la paura di cadere e di franare, che emerge solo quando la posizione verticale diventa insopportabile. Non è un caso che la posizione orizzontale sia anche quella privilegiata per i gesti di amore e di tenerezza. Su questo stesso piano è possibile prevedere una nuova caduta che, senza provocare terrore, offre un’ulteriore forma di certezza: quella di non poter cadere troppo in basso. La posizione orizzontale ci ricorda il momento in cui è iniziata la vita: stando distesi (e questa è, alla fine, anche la posizione della morte). Un simile tipo di

esercizio fisico offre, dunque, anche l’occasione per esercitarsi nel pensiero della morte. Lo stare sdraiati, non a letto, ma più in basso, di schiena, proni, di lato, allungati, arrotolati, conferisce al sé, che viene a contatto con il pavimento, la possibilità di ritrovare terra sotto i suoi piedi. Chi giace per terra diventa un altro, diverso da chi sta in piedi e da chi cammina. Un’esperienza di questo genere si può fare ogni giorno quando si va a dormire, e talvolta anche quando si è malati. Diventa però più intensa quando ci si distende non più sul letto, ma a terra. La prospettiva cambia completamente quando si guarda non dall’alto, ma dal basso. Si tratta della posizione dell’abbandono per sé, della quiete, con la quale il sé tocca di nuovo terra e si ricongiunge con il senso di benessere dato dall’”essere messi al tappeto”. La posizione supina lo priva dello sforzo tipico dell’attenzione, che altrimenti deve accompagnare ogni suo passo; la pienezza delle impressioni sensibili si riduce in maniera tale da fare in modo che il mondo possa essere nuovamente abbracciato con un solo sguardo. A tutto questo è forse legato un senso di estradizione da se stessi che interviene più o meno per caso e si manifesta in quelle situazioni alle quali ci si consegna quasi senza volerlo e senza l’influsso di altri: una dormita, qualche giorno di malattia. Lo stare distesi per terra è un esercizio di passività, il necessario contrario di un’attività che si spinge sempre avanti, avvertibile ogni volta che ci si corica, così come tutte le volte che si resta sconfitti. Chi sta disteso non può sfrecciar via, e comunque non all’improvviso; la forza di gravità, alla quale ha ceduto, non lo rende inopinatamente libero, e la forza che egli normalmente oppone alla gravità è ora a disposizione della rigenerazione fisica, mentale e spirituale: per questo lo stare distesi fa così bene ed è così riparatore e creativo. Quando si ritrova il proprio terreno si ha una dimensione creativa, anche se essa non porta alla creazione di un terreno completamente nuovo. Forse

qualcuno sentirà parlare di queste cose per la prima volta, e si chiederà perplesso: «Piegarsi? A terra?». Non abbiamo ancora compreso il tratto essenziale di questa parola, ma come ogni elemento così importante, anche il significato del piegarsi si manifesta nella sua assenza, e peraltro in azioni diverse: il diaframma comincia a far male, perché svolge rispetto agli organi della parte superiore del corpo una funzione paragonabile a quella del pavimento rispetto a quelli della parte inferiore, cioè mantiene tutto al suo posto. È inevitabile che un piegarsi “stancamente” solleciti troppo il diaframma, dove si insaccano tanto gli organi della parte superiore quanto quelli della parte inferiore del corpo. Quando ci si china con maggiore attenzione il diaframma viene quindi sgravato da questa fatica. Questo è anche l’esercizio più semplice per rafforzare i gruppi muscolari che si trovano tra le gambe, anche perché può essere effettuato in ogni momento. Al contempo, l’attenzione nel chinarsi rappresenta una forma di prevenzione dei problemi delle parti del corpo interessate da questo movimento: si rafforzano la vescica e l’intestino, ma anche i muscoli addominali e i glutei. Il piegarsi ha anche un effetto molto più evidente di ogni trattamento farmacologico che abbia a che fare con la circolazione all’interno di quei corpi cavernosi ai quali si deve l’impulso alla vita erotica. Per questo l’esercizio dello stare a terra rinvia all’esercizio del piegarsi e spinge a trovare il suolo da due punti di vista: «La terra sotto di me, e la terra in me». A partire da questo duplice radicamento, il sé dovrà poi cominciare a trovare il suo senso.

Ascetica del respiro E tutto questo senza dimenticarsi di respirare, sempre più profondamente. Presumibilmente gli esseri umani hanno sempre respirato, ma mai nello stesso modo: il respiro superficiale dell’uomo moderno diventa la sua seconda natura, dissolve il respiro pesante che testimonia ancora la fatica propria dello sforzo fisico. Già nel XIX secolo Nietzsche aveva pensato alle

prevedibili conseguenze di questo passaggio: «Chi, per esempio, ogni giorno respira, sia pure in un grado insignificante, troppo debolmente e prendendo poca aria nei polmoni, così che questi non vengono nella loro interezza affaticati e esercitati a sufficienza, alla fine ne riporta un disturbo polmonare cronico» (Aurora, 1881, 462). Il problema consiste soprattutto nel fatto che il respiro potrebbe sembrare uno dei tanti processi fisici ordinari, ma in realtà ne costituisce il presupposto. In passato, ad esempio, il concetto greco di pneuma o quello latino di anima o spiritus, che venivano impiegati per designare il soffio vitale, centravano il significato e, ben oltre la dimensione corporea, nel concetto di respirazione lasciavano risuonare tanto la dimensione psichica quanto quella spirituale e addirittura metafisica: parlavano di irradiarsi delle forze psichiche, di ispirazione del pensiero e dello spirare di questi tre piani in un unico alito divino. Considerati da una prospettiva più sobria, l’inspirare e l’espirare consistono in un semplice “ricambio di gas”, in una compenetrazione reciproca dell’ecologia interiore del corpo e dell’ecologia esteriore del pianeta. Assumendo ossigeno e rilasciando ossido di carbonio, la respirazione si trasforma in un contatto continuo con l’atmosfera. Il fatto che l’afflusso di ossigeno sia una condizione fondamentale per l’esistenza fisica risulta manifesto se si tiene conto del fatto che la sede che ha il controllo su questo processo è il sistema nervoso simpatico, che, com’è noto, prescinde dalla volontà. Se i cinici dell’antichità avessero saputo di essere nella condizione di interrompere volontariamente questo processo, e quindi di uccidersi, se ne sarebbero serviti per illustrare la loro capacità di dominare se stessi, al di là di ogni verità. Altrettanto variabile è il ritmo fondamentale della vita, che coincide con un continuo scambio di espansione e di contrazione di sé. Nella paura e nel dolore, il respiro, e con esso tutto il sé, si blocca regolarmente, in maniera da far sorgere la necessità di respirare e la conseguente paura di

morire; al contrario, quando si prova gioia e piacere, il respiro e il sé si espandono in grandi inspirazioni e sospiri di sollievo. Quando il sé è troppo vincolato al modo di respirare, tutto parla in favore della necessità di una riappropriazione del respiro, non tanto del fatto stesso di respirare, che resta scontato, ma del come, su cui invece si può sempre intervenire. Attraverso l’esercizio consapevole del come facciamo il nostro ingresso nel territorio dell’ascetica del respiro, grazie alla quale è possibile ampliare le risorse che qualificano il processo di respirazione. Se la respirazione avviene in maniera superficiale, allora la «guarigione», volendo impiegare le parole di Nietzsche, «non può aver luogo attraverso nessun’altra via, tranne quella di intraprendere, a nostra volta, innumerevoli piccoli esercizi in senso opposto e contrarre inavvertitamente altre abitudini, per esempio ponendosi come regola di trarre, ogni quarto d’ora, un forte e profondo respiro, se possibile stando sdraiati sul pavimento». Ogni tendersi e stirarsi involontario, che avviene la mattina e durante tutto il giorno come reazione alla mancanza di movimento del corpo, rappresentano già un esercizio che consente di espandere e di rendere più profonda la respirazione. Un altro esercizio è lo spontaneo mettersi a camminare, annusare profondamente e il bisogno di una boccata d’aria. Sono tutti casi in cui il sé non può fare altro che creare il respiro, forse anche solo per fare qualcosa che resta nascosto ma che necessita di una certa forza. Gli esercizi mirano ad ampliare lo “spazio della respirazione”, con il quale può essere posta in relazione una certa forza; ci sono intere dottrine (anzitutto quella esposta da Ilse Middendorf, L’esperienza del respiro, 2005) che ci preparano a questo argomento, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico. La vita consapevole permette di comprendere i diversi modi di esplicarsi dei processi fisiologici inconsapevoli e consente di imprimere loro alcune variazioni. Si può, per esempio, decidere di dirigere il flusso di

ossigeno in regioni diverse del corpo, un esercizio per imparare a controllare l’attenzione interiore, diretta così verso aree fino a quel momento ignorate o trascurate, che in questo modo possono essere sentite: le mani, ogni singolo dito, la loro punta, gli alluci e le loro punte, la zona lombare ecc. A questo non deve essere connesso alcuno sforzo della volontà, ma un “lasciar arrivare” il respiro e il suo flusso nella direzione scelta. Con l’aiuto di questi esercizi si può scoprire gradualmente il modo di respirare che è più consono al proprio corpo e al proprio ritmo, che non richiede uno sforzo consapevole e al quale il sé può abbandonarsi completamente, affidandosi in pieno a quell’elemento che fluisce attraverso tutto il sé. Vivere, agire o non farlo, “respirando profondamente”, significa dunque sentirsi legittimati a rigenerarsi, attraverso la rigenerazione che si compie naturalmente nella respirazione e in una continuità persistente e durevole. Evidentemente la respirazione apporta nuove forze vitali, forze che possono essere inspirate e che possono essere spiegate da un punto di vista esclusivamente biochimico, ma i cui effetti sono riscontrabili innanzitutto nella vita di tutti i giorni. Da qui la pratica di “inspirare” prima di un grande sforzo, ma anche il “fiatone” con cui lo si conclude. Pare che ci siano concezioni, maturate soprattutto in Estremo Oriente più che in Occidente, che permettono di conoscere queste forze. Secondo tali concezioni, il respiro irradia energia o forza vitale, in cinese Chi o Qi, lungo i meridiani del corpo, entra in un punto determinato ed esce da un altro. Esiste quindi tutta una rete di punti sui quali si può lavorare con l’agopuntura e l’agopressura, il cui scopo è quello di stimolare e rimettere in circolo l’energia che ristagna nel corpo e che lo rende vulnerabile alle malattie. Il funzionamento di questa tecnica è tanto inspiegabile quanto incontestabile è la sua efficacia. Il flusso di energia può essere stimolato e bilanciato quotidianamente con il taiji, un misto di ginnastica, respirazione e meditazione, che deve essere legato a

un’educazione spirituale di se stessi. Anche Qi gong significa esercizio permanente delle forze vitali e comprende esercizi di postura, movimenti, tecniche di respirazione che risalgono all’età precristiana e che, alla fin fine, non servono che a praticare una cura della vita, in cinese Yangsheng. Ogni ascetica della respirazione, orientale o occidentale che sia, è fonte di relax e, grazie al respiro tranquillo e al ritmo proprio di ciascuno, produce una chiarezza in cui ci si sente a casa propria. Prima di dedicarsi anche all’alimentazione.

Etica della nutrizione: una nuova diet-etica Le domande sulla nutrizione sono state tenute per molto tempo ai margini della filosofia. Nutrire il “pensiero puro” con i prodotti del “mondo dato” poteva essere del tutto trascurato, e così pure l’idea di procurarsi ossigeno fresco: impensabile assumere il mondo così tanto profondamente dentro di sé. Nietzsche, al contrario, ha sollevato la «questione dell’alimentazione», ritenendola significativa per la vita e arrivando addirittura a porla come un problema teologico: da questo dipenderebbe la «salvezza dell’uomo», che egli stesso avrebbe pregustato, anche se solo in maniera inconsapevole, quando ai tempi in cui studiava Schopenhauer negava la sua volontà molto seriamente con la «cucina di Lipsia» (Ecce Homo, “Perché sono così saggio”). Sempre che la salvezza possa essere ordinata come al ristorante. Come che sia, resta il fatto che l’alimentazione pare un tema significativo per portare avanti la cura di sé, per diventare amici di se stessi e per realizzare una vita degna di approvazione. Se è vero – come è vero – che l’amore passa per lo stomaco, vale lo stesso anche per l’amore di sé. L’alimentazione è espressione di questo amore, l’atto più intimo che il sé compie nei confronti di se stesso, molto più intimo del contatto erotico con qualcun altro, perché nel caso dell’alimentazione ci si fonde con qualcosa che si “assume”, che si “prende per sé”. Il sé ingerisce materiali di vario tipo, li fa arrivare nelle

profondità di se stesso, e li fa andare in giro per tutto il corpo, da sopra a sotto, mentre si mischiano con i succhi del corpo stesso. È una particolarità della vita moderna anche il fatto che le domande sull’alimentazione siano una questione individuale, soprattutto dopo che le risposte tradizionali, convenzionali o religiose hanno perso la loro cogenza: la libertà moderna passa anche per lo stomaco. Nelle società moderne, una delle conquiste storiche di questa libertà è la totale liberazione dalla fame. Ma come ogni liberazione, anche questa non porta a elaborare forme della libertà: i cibi disponibili in eccesso vengono comunque consumati, senza criterio e senza pensarci troppo, in maniera sfrenata, con tutte le conseguenze che ne derivano, soprattutto per il corpo. In questa situazione il sé deve prendere una prima e fondamentale decisione: o comportarsi da perfetto ignorante, senza volerne sapere dei problemi relativi all’alimentazione, o farlo consapevolmente. Oppure seguire, più o meno consapevolmente, l’impulso che deriva dalla paura e trattenersi istericamente da ogni fonte immaginabile di pericolo, varcando, senza porsi altre domande, la soglia epistemica delle conoscenze nutrizionali per passare poi alla dimensione etica dell’agire. Infine, è possibile occuparsi autonomamente della questione della nutrizione affrontandola in maniera per quanto possibile saggia, differenziata e raffinata, oltre che fare uso del sapere relativo a questo campo in funzione della sua plausibilità e sulla base di motivazioni ottative, senza per questo renderlo un fondamento normativo e incondizionato dell’agire. Una maggiore attenzione alle domande sull’alimentazione non coincide con la confusione tra scienza e certezza definitiva. Questa opportuna cautela risponde agli eventuali rischi, ma non pretende di realizzare definitivamente il sogno di una totale assenza di pericoli. A tutti questi problemi può far fronte un’etica della nutrizione. Quest’ultima prende in considerazione i diversi aspetti della nutrizione in

riferimento al sé e al mondo e lega l’etica estetica della relazione con sé a un’etica del rapporto con il mondo. Tutti questi non sono che aspetti della saggezza, in cui atteggiamenti come rispetto, circospezione, cautela e attenzione sono di casa. Impegnarsi per la saggezza significa ponderare, misurare, guadagnare sensibilità, sviluppare un intuito, mettere in campo le conoscenze di cui si è in possesso e sforzarsi per ottenere una chiarificazione dei nessi, al fine di arricchire il sapere acquisito: quali sono le basi per la nutrizione? Che possibilità ho io in questo senso e quale scelta devo effettuare in rapporto a essa? Che cos’è ciò che mangio? Di cosa ha bisogno il mio corpo, di cosa non ha bisogno? Quali sono gli ingredienti di certi alimenti, e come vengono prodotti, conservati, trasportati, consumati? Il sé sta in campana e concentra la sua attenzione su tutti gli elementi che condizionano la sua scelta, per acquisire una maggiore dimestichezza con i loro aspetti più rilevanti. E questo vale tanto per il momento in cui si accumula il sapere che prepara alla sensibilizzazione nei confronti dei problemi alimentari, quanto per la considerazione globale delle conseguenze: perché i prodotti che vengono impiegati per nutrirsi hanno conseguenze, desiderabili o meno, non solo sul corpo, ma anche sul luogo in cui si vive e per la via che ci conduce a noi stessi. Assumendo certi prodotti, il sé stabilisce anche una relazione con il suo luogo d’origine. Le condizioni per la loro produzione e il loro trasporto, le condizioni sociali che derivano da rapporti di lavoro disumani, oppure le condizioni ecologiche della produzione di scorie: tutto questo ha effetti, diretti o indiretti, sulle condizioni di vita del sé. L’etica della nutrizione trova la sua forma concreta in una nuova dietetica, che non coincide primariamente con il “mettersi a dieta”, ma che corrisponde all’originario concetto greco di díaita: disposizione di un certo modo di vivere che si basa su una scelta individuale. Particolarmente

interessante in età antica è l’alternarsi di quiete e moto, di veglia e sonno, così come pure delle domande sul mangiare e sul bere e su quale ruolo debba essere attribuito ai piaceri dell’erotismo, agli aphrodísia, che già all’epoca, nel quadro della definizione dello stile di vita di un individuo, venivano considerati come nutrimenti. Un certo peso è assunto anche dall’atteggiamento che si ha quando si beve e si mangia. Decisivo è capire se lo si fa per piacere o soltanto per motivi razionali dettati dal corpo. Una questione di atteggiamento è il lasciarsi nutrire dal fast food o il preferirgli lo slow food. Solo il sé può decidersi tra queste due alternative, e può farlo chiedendosi: che cosa significa per me fermarmi a mangiare, accordare al mio corpo un po’ di riposo, godermi il momento in cui mangio? Può trovare la risposta solo per se stesso, prestando attenzione a quale sia il modo di mangiare che lo fa stare bene e che aumenta la resistenza del suo corpo. Ci si può gustare qualcosa anche senza rispettare perfettamente i canoni superiori di una nutrizione sana. Alla nuova diet-etica appartiene il godimento indisturbato di ciò che si assume, che si sceglie per se stessi e dal quale ci si fa toccare nel proprio intimo. Questo godimento si intensifica con la piena partecipazione al pasto della vista, dell’olfatto e del tatto, il quale si svolge nel corso del rituale che rende il mangiare una pratica sociale più che un atto individuale. Solo quando non ci si gode il cibo perché si sospetta di mangiare la cosa sbagliata, nel luogo sbagliato, quando non c’è gusto o ci si sente in colpa, solo allora proviamo disgusto e fastidio. Nel momento in cui si opta per un’alimentazione sana, non si deve rispettare in maniera dogmatica nessuno standard attualmente in vigore; appare invece sensato sperimentare il proprio modo di vivere in connessione con le singole componenti alimentari, fino a ottenere una combinazione sostenibile. Per componenti si intende qui l’insieme di sostanze che il corpo deve assumere ed espellere quotidianamente, ed è importante capire quali di

queste devono essere assunte in quale modo e in che proporzione, in maniera tale da trovare una giusta misura tra il troppo, che le rende veleni, e il troppo poco, che può generare insufficienze che mettono a repentaglio, in maniera più o meno latente, la vita stessa. Un segnale che può aiutare il sé a gestire le sue necessità è l’appetito: in questo fenomeno si manifesta l’intuito che il corpo ha nei confronti di se stesso, che può essere ulteriormente affinato con l’esperienza. Questo vale innanzitutto per le sostanze nutritive, fornitrici di energia al corpo e al cervello. Accanto alle proteine vegetali e animali, si trovano i carboidrati e i grassi (contenuti nel pesce, nella carne, nei latticini, nelle uova e nella verdura). Un eccesso di grassi grava sull’apparato cardiocircolatorio causando un restringimento dei vasi sanguigni, mentre un’alimentazione troppo povera di grassi potrebbe provocare, almeno così si pensa, depressione e aggressività. Inoltre bisogna dedicare particolare attenzione a capire quale sia la giusta quantità di principi attivi come vitamine e sali minerali che contrastano la penetrazione nell’organismo di agenti patogeni. E anche alle migliaia di “sostanze vegetali secondarie”, che favoriscono la prevenzione di malattie e che sono contenute nell’insalata, nella verdura, nella frutta, nei prodotti integrali, nel riso, nelle patate, ma non in quei prodotti che crescono in terreni iperconcimati, o trattati con i pesticidi, né tantomeno negli alimenti pronti o precotti. Questi prodotti non devono essere cucinati a lungo, devono essere locali ed essere consumati nella maggiore varietà possibile. Infine, è necessario assumere la giusta quantità di fibre (ancora dall’insalata, dalla verdura, dalla frutta e dai prodotti integrali), che servono a tutelare l’intestino, nelle cui pareti ha sede quasi tutto il sistema immunitario. È sensato inoltre rappresentarsi visivamente quale sia il lavoro che svolge l’intestino, per facilitarlo: prende gli alimenti e li trasforma in energia, ma è anche impegnato nell’affrontare il problema centrale dell’alimentazione moderna, poiché smaltisce tutti gli additivi, coloranti

chimici, conservanti, esaltatori di sapore, o anche i preparati alla frutta, che necessitano a loro volta di aromatizzanti. Il pericolo costante che ne consegue è quello di irritare il sistema immunitario e generare reazioni allergiche di tutto il corpo. Nutrirsi è fondamentale, ma non sempre con prodotti solidi. Anche la fluidità è importante: l’acqua è l’alimento fondamentale, che trasporta sali minerali e diluisce gli scarti. La frequenza con la quale rinnovare la componente d’acqua presente nel nostro organismo non è mai troppa. Gli effetti del troppo poco non sono immediati, ma si manifestano nel corso del tempo: quando il corpo viene privato della giusta quantità di liquidi la pelle diventa rugosa. La sete è il primo segnale del fatto che il cuore sta lavorando troppo per pompare in tutto il corpo un sangue diventato eccessivamente denso. Caffè, tè e alcol sono certamente un piacere, ma non eliminano la sete e ciò che queste sostanze sottraggono al corpo in termini di liquidi deve essere integrato dall’acqua. L’acqua minerale è certamente ricca di minerali specifici, ma berne troppa può portare ad accumularne una quantità eccessiva. Nella maggior parte dei casi, per apportare una sufficiente quantità di minerali all’organismo basta la normalissima acqua del rubinetto. L’eccessiva concentrazione di principi attivi può anche essere causata da un consumo smodato di succhi di frutta multivitaminici. Molti infatti sono concentrati che vanno diluiti con acqua. Il latte, costituito in gran parte di acqua, contiene molte delle sostanze di cui l’organismo ha bisogno, ma in quello pastorizzato le vitamine vengono quasi completamente distrutte e devono essergli aggiunte di nuovo in maniera artificiale. Mangiare regolarmente una zuppa può contribuire ad assicurare una riserva di acqua. La sua dignità non è mai stata celebrata tanto come ha fatto Epicuro, che la considerava pienamente conforme alla sua rappresentazione della vita («Non tutti i piaceri sono degni di essere scelti», Lettera a

Meneceo, 129): la vita ideale non ha bisogno di estenuanti gozzoviglie, ma di una riduzione al minimo dei propri bisogni, per godere al massimo della loro soddisfazione. Quel piacere gli sembra tanto più forte, quanto meno è necessario, e può essere trovato solo nella sfera sensibile e non nei concetti: egli non sa, dice Epicuro contro Platone, che con «l’idea del buono» non ci si potrebbe rappresentare nulla, se non i piaceri dell’amore, quelli dell’udito, quelli che derivano da una bella vista panoramica – e il «piacere che può derivare da una zuppa», di quelle semplici e «modeste» (litoì chyloí) e non di quelle sofisticate e troppo saporite. Allo stesso modo l’epicureo moderno, o quell’epicureo che si fa espressione di una diversa modernità, potrebbe, almeno in parte, vivere di zuppe, ricche di liquidi e sostanze attive. Almeno finché non decide di mettere nella busta della spesa soltanto zuppe pronte. Mangiare una zuppa è il piacere moderato che deriva dall’autarchia e che fa bene all’ascesi; si tratta di una forma di alimentazione ricca di sacrificio e che, nondimeno, consente di raggiungere l’estasi, perché il sé viene portato fuori di sé, verso la contemplazione e verso il gusto che essa provoca. Giusto in tempo, prima dell’epoca del digiuno.

Esperienza del digiuno Chi volesse esercitare l’ascesi nel senso stretto della privazione dovrebbe immediatamente tener presente il fatto che si può rinunciare a tutto meno che ai liquidi. Il corpo consuma riserve di proteine e grassi e trae vitamine e sali minerali da acqua, succhi di frutta, tè alle erbe di ogni tipo o brodi di verdura. La purificazione del corpo che ne deriva è il senso fondamentale dei periodi di digiuno, prescritti dalla religione già nell’antichità. La purificazione del corpo trova la sua prosecuzione in quella della mente, fino ad arrivare a quella dello spirito. La religione non è tuttavia un presupposto necessario per sottoporsi a esercizi di questo tipo. Fondamentale è piuttosto la decisione di fare questa esperienza per giorni singoli, in cui il digiuno è limitato, o magari

per una settimana o per periodi ancora maggiori. Il momento iniziale, quando il digiuno prende avvio con un “giorno di alleggerimento”, è anche quello più difficile. Difficile è imporsi sulla fame che comincia a farsi sentire e a cogliere le forze mentali e spirituali che l’esperienza del corpo porta con sé: questo è l’ostacolo davvero complicato da superare. Quello che accade fisicamente è sostanzialmente una depurazione da tutti i materiali di scarto, cioè da tutti quei materiali che la digestione non riesce a valorizzare e che da tempo, anni o decenni, restano attaccati alle pareti dell’intestino causando intossicazioni alimentari o forti acidità di stomaco. Tutti questi materiali, queste scorie del metabolismo, sostanze nocive, tossiche, ormai diventate una pressione silenziosa, intasano il corpo. L’esperienza del digiuno coincide con una riduzione all’essenziale. Dal punto di vista mentale il digiuno tocca sentimenti diversi e contraddittori che lottano tra loro con forza, prima di acquietarsi e lasciare il passo a un permanente senso di benessere. A questo punto tutto diviene leggero: il corpo, il sentimento, il pensiero. Dal punto di vista spirituale, dopo un primo stato di stordimento, arrivano pensieri di chiarezza inaudita che si giovano di uno sguardo ampio come non mai sulla vita vissuta e su quella che ancora si deve vivere; diventano evidenti tutti i nessi che vi dominano e che le conferiscono “un senso”, dopo l’esperienza della totale assurdità che caratterizzava i primi giorni. Un’esperienza di questo tipo può essere facilitata dalla lettura di un libro sul digiuno, che permette di comprendere meglio i fenomeni che intervengono in questi momenti, utile anche per trarne indicazioni importanti: come iniziare o, ancora di più, come smettere. Perché, come in molti momenti della vita, anche quando si parla di digiuno il momento iniziale viene sempre considerato più importante di quello finale. E dopo che il digiuno è stato finalmente “interrotto” si passa con cautela ai giorni della “ricostituzione”, cioè ad assumere nuovamente

nutrimenti, ma con una consapevolezza, una sensibilità e un rispetto molto maggiori. Prima di ridiventare un’abitudine, il mangiare diventa una festa, mentre restano a lungo le sensazioni di freschezza che conferiscono al sé un aspetto “rosa e vitale”. L’esecuzione di questo tipo di esercizio permette di distogliere l’attenzione da altro e di dirigerla nei confronti di se stessi. Ci si rende conto di essere affidabili passando attraverso tutte le difficoltà e, partendo da questo punto, ci si comincia a ritenere capaci di molte cose. La capacità di divenire padroni di sé garantisce uno spazio di manovra anche in riferimento ad altre questioni e consente di realizzare i propri valori anche laddove il presupposto è quello di oltrepassare se stessi. Nella diet-etica come stile di vita rientra anche l’aspetto erotico, e in particolare quello sessuale. A causa dell’influenza del cristianesimo, per molto tempo l’ascesi è consistita quasi esclusivamente nell’astinenza sessuale. Ma, indipendentemente da questa constatazione storica, anche la rinuncia sessuale può essere nuovamente assunta in funzione dell’esercizio per accrescere il dominio su di sé. Il momento iniziale è difficile quanto quello in cui si rinuncia a mangiare, perché il desiderio comincia a scatenarsi nel corpo, poi nella mente e infine nello spirito, fino a negare qualunque forma di pensiero chiaro; a questo punto il sé si ritrova nuovamente in una condizione di spossatezza pesantissima, che precede di poco un’irrequietezza selvaggia. Nelle sue Confessioni (del IV-V secolo d.C.) ne ha parlato già Agostino. Ma siccome anche qui domina la prospettiva cristiana, l’impostazione della tematica non è una fenomenologia della rinuncia, ma una preparazione a essa. Non trascurabile è, peraltro, il lato neurobiologico: gli ormoni che interessano la sessualità proiettano sulle pareti della coscienza rappresentazioni seducenti, rafforzandone l’intensità attraverso un’impressione coatta che rende gli oggetti rappresentati irresistibili e imprescindibili. Il sé pensante comincia

quindi a credere che una vita senza sesso sia impossibile, che non sia degna di essere vissuta e in nessun caso degna di approvazione. Ma egli comincia improvvisamente a provare piacere nel dominarsi, in un sentimento di forza che si pone in maniera sempre più trionfale; non è più schiavo dei propri desideri, ma gli riesce di rendere la loro apparentemente innegabile necessità solo una possibilità tra le altre; il desiderio diviene un’opzione, ma mai una prescrizione. La “spiritualizzazione” che ne deriva non deve avere come conseguenza una perdita di sensibilità ma, anzi, può servire a rafforzarla e a raffinarla. Ogni capacità di rinunciare consolida la basi per il dominio su se stessi. Si tratta di un momento di liberazione: non doversi aspettare nulla e di conseguenza anche non venir delusi da nulla. Un momento di liberazione, tuttavia, anche rispetto agli altri: non dover corrispondere a nessuna aspettativa e per questo far valere le proprie idee nella maniera migliore. Una volta effettuata, la rinuncia a mangiare e ad assecondare il desiderio sessuale può estendersi a molte altre cose, dalle quali il sé intenda separarsi per un certo tempo, prima di poter dire, proprio come faceva Socrate (secondo Diogene Laerzio): «Ah, sono tante le cose di cui non ho bisogno». Ogni rinuncia rappresenta uno strumento di conoscenza: grazie alla mancanza del fenomeno a cui si rinuncia è possibile conoscerne meglio le qualità e il valore in rapporto al sé, perché solo ora esso si mostra come gradito e non come indispensabile. Solo a questo punto qualcosa ci piace davvero, anche perché solo ora il sé non sta sull’orlo del baratro per la paura di perderlo. La capacità di rinunciare a qualcosa riduce la paura di vivere, nella misura in cui mostra che le poche cose di cui abbiamo bisogno per farlo non sono troppo costose e non stanno troppo lontano. Almeno fino a un certo punto, anche nel caso delle malattie.

Medicina fatta in casa: prevenire e curarsi da sé

Fondamentalmente si tratta di scegliere se preoccuparsi della propria salute o meno. Se si sceglie di farlo, allora si deve scegliere ulteriormente se farlo da sé oppure mettersi nelle mani di un medico o di un terapista. Farlo da sé è un elemento dell’appropriazione di sé, mentre l’affidarsi a un medico rappresenta uno sgravarsi della responsabilità nei confronti di se stessi, esponendosi tuttavia al rischio dell’espropriazione di sé. La salute resta comunque una faccenda del tutto individuale ed è sempre in rapporto con il modo in cui ciascuno di noi conduce la propria vita e con tutte le particolarità che vi si legano: non è possibile che due uomini siano sani allo stesso modo. E la salute va trattata come tutti gli altri valori. Lo sforzo per realizzarli è decisivo, ma la loro realizzazione resta sempre parziale. La via che porta a un perfezionamento totale non lascia speranze. Porre come criterio la salute perfetta e totalizzante, infatti, è una possibilità, ma in riferimento a essa tutti gli uomini, chi più chi meno, non potrebbero che sembrare malati. E pur raggiungendola effettivamente, la salute perfetta non potrebbe che ridursi a una forma di malattia: il prezzo, a sua volta, non potrebbe che coincidere con una forma di patologia. Enorme sarebbe, infatti, l’insieme di ostacoli e di contraddizioni da superare sulla via della perfezione, con la conseguenza di mettere corpo e mente in una condizione di totale torpore e debolezza. La loro vulnerabilità sarebbe piena, e tale sarebbe anche per lo spirito, che senza essere più sfidato dalla critica perderebbe ogni orientamento. In questo senso la malattia non è solo un male, ma anche un bene salutare. Il sé non deve quindi farsi carico dell’atteggiamento moderno, che vede nella malattia soltanto “il negativo” da eliminare. Egli stesso deve effettuare una scelta e definire il proprio atteggiamento, e mai una volta per tutte, ma in ogni singolo caso: combattere alcune malattie e lasciare che altre si manifestino, o lasciare addirittura che abbiano senso, indipendentemente dal fatto che lo abbiano davvero.

Anche quando non c’è ragione di escludere una malattia, quello che conta è assumere un atteggiamento quanto più possibile severo nei suoi confronti. È infatti importante sviluppare una sorta di intuito, non troppo ipocondriaco né troppo trascurato, che dica se c’è “qualcosa che non va”, se “manca qualcosa” e in che modo ciò “si manifesta”. La cura per se stessi si mostra innanzitutto in una forma di prevenzione, la quale assume la configurazione che più si conviene a ciascuno di noi. Tutti gli aspetti e gli esercizi relativi alla confidenza con il proprio corpo esaminati finora contribuiscono alla maturazione di questa forma di prevenzione: la percezione attenta e la cura del corpo, il movimento, lo sport, le forme di fisioterapia, che hanno anche effetti sostanziali sulla mente e sullo spirito, il wellness come arte del relax a tutti i livelli, il nuoto e la sauna, il lavoro sulla propria sensibilità, la diet-etica e l’esercizio all’astinenza. Anche la prevenzione di lungo periodo contro malattie gravi, finché è possibile, è essenzialmente nelle mani del sé; quest’ultimo prende autonomamente l’iniziativa di sottoporsi o meno ai controlli necessari. Prevenzione è ogni forma di tutela del proprio sistema immunitario, ogni “immunomodulazione” intesa come profilassi; questa operazione coincide con il prestare attenzione a miriadi di organismi microscopici che abitano, internamente e esternamente, il nostro corpo, benefici o nocivi, che fanno parte o mettono in pericolo l’integrità del sé. Sulla pelle vivono tanti microbi quanti sono gli uomini sul pianeta, ed esercitano un’influenza costante sulla situazione e sul contesto che definisce il sé. Anche i denti hanno il loro habitat, una loro biosfera, e la stessa cosa vale, ma in misura incomparabilmente maggiore, per l’intestino. Sarebbe quindi più giusto parlare di un noi che non di un io. Quando la prevenzione non è più sufficiente, il sé divenuto malato necessita innanzitutto di un’automedicina, che viene esercitata “privatamente” o in conformità a un qualche “manuale”, condotta da un

medico interiore, cioè dall’intuito, che non solo provvede a capire ciò che manca, ma anche a determinare l’assunzione di certi prodotti e materiali, proprio nel senso di una farmacofagia che si sviluppa in maniera del tutto analoga a quella evidente negli animali e che porta ad assumere precisamente ciò di cui il corpo ha bisogno in un certo momento per gli effetti curativi. Questo sistema non può essere completamente rafforzato dal punto di vista medico, anche perché si tratta di un conglomerato di sostanze di varia natura, di atteggiamenti e di azioni d’importanza vitale: il sé non può ricorrere continuamente e in ogni situazione all’aiuto di un dottore o a una terapia. Così, nel corso del tempo, si escogita una sorta di “medicina fatta in casa”, i cui principi poggiano su antiche abitudini, su esperienze sempre nuove, su informazioni che provengono dai media, dalle proprie riflessioni, non meno che dalle tradizioni familiari – a cominciare dalle potenzialità curative di un brodo di pollo quando si è vittime di un’influenza. La nonna ne era fermamente convinta e la mamma sapeva che ogni forma di calore era in grado di guarire; e da qui la sopravvivenza assicurata per borse d’acqua calda ormai forse antiquate, mentre papà giurava di essere riuscito a eliminare ogni forma di malattia restando a letto a sudare per un giorno intero. La conoscenza dei benefici delle tisane, che consentono di allontanare con un gargarismo il virus dell’influenza già dal primo bruciore alla gola si deve magari a un incontro casuale. Il farmacista rinvia i suoi clienti all’Echinacea, estratto di una pianta, che la scienza ha dimostrato non servire a nulla, mentre nella prassi rinforza sensibilmente il sistema immunitario. Un nostro amico cura le sue incipienti malattie con dosi massicce di vitamina C, e solo a fatica ci si sottrae al suo esempio, peraltro molto convincente. Decisiva per l’efficacia delle medicine fatte in casa è la fede nei loro confronti, che mobilita forze finora ignote e che, tuttavia, deve sempre essere sostenuta dal criterio della plausibilità, che ci convince della sua “evidenza”, possibilmente

con qualche ragione che talvolta emerge andando dal medico, ma quasi sempre senza il suo aiuto. In mancanza di questa fede nessun prodotto può avere effetto, mentre, al contrario, la fede risulta efficace anche senza il ricorso ad altri mezzi; la prova di questo è data dai “palliativi”, materiali suppletivi che hanno spesso gli stessi effetti dei principi attivi che dovrebbero comporli. L’allestimento a casa propria di una farmacia minimale è un’esperienza avventurosa che pone le basi per percepire l’importanza della cura nei confronti di se stessi. Anche se per curarsi non sempre è necessario ricorrere alle medicine. A volte, per esempio, si possono valorizzare semplicemente le proprietà curative del sonno, che la pigrizia concede alle forze della mente e del corpo e che lavora in silenzio e, almeno in apparenza, senza dover faticare più di tanto. In particolare “la stanchezza nelle gambe” è il segno che spinge il sé a non pensare di poter “funzionare” impiegando strumenti chimici o farmaceutici, e lo induce a non spingersi al totale esaurimento delle proprie forze. Invece di lottare contro l’influenza consumando tutte le proprie forze per vincere questa battaglia, sarebbe più sensato consegnarsi a essa finché non le si sopravvive. Il sé può finalmente mettere da parte tutte le sue preoccupazioni e ritirarsi dove gli pare, consegnarsi alla stanchezza, mettersi sotto le coperte, soprattutto perché il corpo ora ha bisogno anche di quelle solitamente necessarie per stare in posizione eretta e quelle necessarie per la concentrazione spirituale, che normalmente permettono una rigenerazione dello spirito, vengono ora impiegate per sconfiggere un’infezione. Il corpo richiede inoltre una riduzione dell’alimentazione, al fine di rendere disponibili al processo di guarigione tutte le forze altrimenti necessarie per la digestione. Il sé sospende il pensiero, che richiede troppe energie e fa soffrire: al suo posto comincia a bere molto per favorire l’autopurificazione del corpo. Anche i sensi costano troppa fatica: la cosa migliore è chiudere gli occhi,

perché già solo la percezione della luce è faticosa; si smette anche di parlare, ogni parola comporta un dispendio di energie assurdo; si smette di ascoltare, per stare nel silenzio assoluto, senza pensare a nulla, abbandonandosi pienamente alla propria malattia. In questo modo la malattia si integra nel sé, che va a sostituirsi all’identità, la quale invece si rapporta alla malattia nella forma della lotta. Nel caso di malattie croniche non c’è altra scelta. Ma quando, con i primi segni della guarigione, il pensiero torna di nuovo in se stesso, quello che conta è dedicargli quel tempo che ancora rimane prima di guarire completamente, mettendosi alla ricerca di risposte alle domande sul “senso”, che per il processo di guarigione possono essere più importanti di qualunque altra medicina. Il sé si mette quindi in cerca di quelle connessioni che rendono possibile la sua vita e riflette sui nessi che la malattia stessa ha reso evidenti; perché non ci sono malattie che esistono per sé, come isolate: ogni malanno è inserito nelle connessioni che definiscono il sé e la sua vita. Il “senso”, tuttavia, aiuta a guarire nella misura in cui produce e riproduce le connessioni interne ed esterne che risultano dalle risposte alla domanda sul senso e che radunano tutte quelle forze necessarie a una profonda guarigione e a una vita futura. Per alzarsi, infine, così come per rimettersi in moto e tornare alla vita dopo aver sopportato il dolore, ci si deve comportare come un bambino che muove i primi passi con la gioia di un tempo. È senz’altro utile conoscere le malattie ordinarie, il modo in cui si manifestano e le possibili risposte che si possono dare loro: per esempio, le infezioni influenzali si manifestano tramite un’infiammazione delle vie respiratorie, con tosse, starnuti e innalzamento della temperatura corporea; l’influenza “ci mette tre giorni ad arrivare, resta tre giorni, e passa dopo tre”, non ci si può fare nulla. Nel caso in cui la sua origine fosse virale, con febbre alta, forti dolori articolari e mal di testa, attacchi di tosse e profonda

debolezza fisica, bisogna consultare un medico e vaccinarsi per prevenirla. Ma anche quando si ricorre a un consulto medico, non bisogna considerarlo diversamente da come lo definisce la parola stessa: una consulenza, e il medico come consulente. In molti casi quest’ultimo, come del resto il terapeuta, dà consigli sensati e invita a una prevenzione e a una cura autonome; la scelta definitiva di seguire o meno i suoi consigli resta, tuttavia, individuale. Fondamentale è poi la scelta del consulente, ricca di conseguenze e determinata più da fattori umani che tecnico-specialistici: il medico o il terapista vanno giudicati innanzitutto come esseri umani, e le loro diagnosi devono sembrare plausibili e in grado di generare fiducia. O così, o niente. Già solo l’atteggiamento del medico deve poter essere una medicina, o è meglio non andarci. È sempre possibile consultare altri medici, anche se facendolo la scelta diventa più urgente, nella misura in cui ci si trova ad ascoltare pareri discordanti, ciascuno dei quali viene sostenuto con argomenti convincenti. Il sé può sempre far valere il suo diritto a sapere, ma anche quello all’ignoranza; entrambi possono essere fonte di guarigione. Ci si può informare, leggere una guida o cercare su Internet, ma quanto si apprende potrebbe, a sua volta, essere contraddittorio rispetto al parere del medico. Ci si può confrontare con l’esperienza di altri, ma in questi casi ciascuno diventa medico dell’altro, giurando sull’affidabilità di altri metodi e mezzi. Una possibile opzione è anche la rinuncia a una scelta autonoma, opzione, quest’ultima, legata inevitabilmente al fatto che le sue conseguenze ricadono esclusivamente su di noi. Per quanto riguarda la scelta del medico, può essere importante la “scuola” alla quale egli appartiene: ci si trova sempre di fronte all’alternativa tra la medicina tradizionale e la medicina naturale, cioè tra una medicina “basata sull’evidenza”, che fa valere soltanto ciò che è confermato da studi scientifici, e una “medicina dell’esperienza”, che si fida soltanto di ciò che si

è concretamente appreso, partendo dal presupposto che gli effetti non possono essere spiegati. Questo non è certo un motivo sufficiente per parlare della sua non scientificità, anche perché le attuali conoscenze scientifiche non rappresentano assolutamente la fine di ogni conoscenza. Il medico si fida solo della “medicina meccanica”, oppure pratica anche una “medicina umana” (cfr. Christian Hess e Annina Hess-Cabalzar, Menschenmedizin, 2001)? Il concetto di medicina complementare sorge dalla constatazione che un certo orientamento medico può essere sensatamente completato da un altro, in maniera tale da non affidarsi a un’unica concezione proprio nel momento in cui si ha a che fare con la vita, che è probabilmente un fenomeno molto più stratificato di un modello medico – per quanto anche quest’ultimo possa esserlo. E non ci si deve aspettare che il confronto tra modelli alternativi possa mai concludersi: ciò contraddirebbe i requisiti della polarità. Il sé sceglie e corrisponde alla sua scelta con il peso della sua stessa esistenza anche quando non è lui a scegliere, ma il medico o il terapeuta, e anche quando decide di non sottoporsi a trattamenti di alcun tipo. In tal senso, la scelta non implica solo un atteggiamento attivo, ma anche una forma di accettazione passiva, nonostante in una società attivistica come la nostra quest’ultima opzione emerga solo di rado. Il medico parla, ma non può assumersi la responsabilità della scelta del paziente. La responsabilità ultima è quella del sé, nessuno può togliergliela. La grande stima che si accorda all’arte medica è sempre il frutto di una scelta di chi vive questa vita e di chi, nel caso più estremo, può anche interromperla. Per amore della vita si può anche ricorrere ad alcuni mezzi, la cui efficacia è senz’altro discutibile.

Pillole? Certi mezzi correggono la mancanza di prevenzione. Invece di disporre il proprio stile di vita in maniera tollerabile per il proprio corpo, con il loro aiuto il sé può condurre una vita totalmente arbitraria; un atto di dominazione

su se stessi più che un modo di essere padroni di sé. È possibile anche correggere ciò che non corrisponde alle norme vigenti della vita, quando i geni o “il destino” non vogliono quello che vuole il sé. Il mercato delle pillole è uno di quelli maggiormente in espansione del XXI secolo: ci sono pillole che cambiano lo stile di vita, per esempio contro le disfunzioni erettili, e con le quali è possibile superare quegli ostacoli che il corpo si trova di fronte a causa di un sovraccarico della circolazione sanguigna. Oppure si possono assumere pillole contro la caduta dei capelli, che non riflette l’ideale di bellezza più diffuso. Pillole dimagranti fanno in modo che una parte del grasso assunto quando si mangia venga smaltito anche senza essere digerito, in maniera tale che il sé si risparmi la fatica di variare alimentazione. Ci sono pillole che tengono svegli, originariamente concepite per sconfiggere la debolezza provocata da certe malattie, che ora rendono possibile superare molto velocemente i problemi legati al fuso orario, oltre che a una vita completamente dedita al lavoro e al divertimento, almeno finché l’insonnia non logora definitivamente il corpo. Ci sono pillole per sentirsi bene, che rischiarano le ombrosità melanconiche e che portano a corrispondere al meglio all’ideale di un atteggiamento “positivo”. Le pillole che allungano la vita realizzano il sogno, antico ma anche molto moderno, di sottrarsi alla brevità dell’esistenza. Pillole per il cervello, le cosiddette “Brain-Booster”, permettono di aumentare le capacità delle sinapsi, chiamate anche intelligenza, non più solo in caso di malattie che portano demenza ma anche, e finalmente, per potenziare le prestazioni della memoria. In ogni caso, tuttavia, si tratta di un intervento chimico sul corpo, che non è mai momentaneo, ma si protrae per un certo tempo o avviene regolarmente. Non è altro che un doping per vivere e, come ogni doping, non ha alcun motivo di esistere ed è gravido di conseguenze di lungo periodo mai pienamente calcolabili. A questo genere di prodotti si connettono effetti in parte noti, in

parte meno noti e, allo stesso modo, reazioni che derivano dalla loro interazione con altri prodotti. Le conseguenze implicite nell’uso di una certa sostanza comportano l’assunzione di altri medicinali, sino a raggiungere un perpetuum mobile farmaceutico che genera una particolare immagine dell’essere umano come animale che ingurgita pillole: una farmacofagia di proporzioni completamente diverse. In ogni singolo caso il sé conduce un esperimento su se stesso e sulla sua vita, il cui esito è incerto. Anche qui vale il principio secondo il quale a essere determinante è la scelta del sé e, seguendo il buon senso, solo quella che avviene dopo una lucida ponderazione, anche perché è soltanto il sé, e non il medico o farmacista, a dover sostenere i rischi e gli effetti collaterali di ciascuna delle sostanze che vengono assunte. La scelta di prodotti di questo genere deve essere prudente, cauta e orientata a un’assunzione misurata. Ogni uso che non rifletta questi canoni rischia di appiattire il sé sulla norma del “positivo”, ossia su quell’imperativo utopico e talvolta mostruoso del “bene” che caratterizza la vita moderna, e che dà l’impressione di essere in grado di distruggere tutto ciò che è “negativo”, che turba e che provoca dolore. Ogni “funzionamento” manchevole del sé conduce inevitabilmente al trauma di una “disfunzione”, da sconfiggere servendosi di una pillola, e che non può più essere contemplato e riconosciuto come una condizione potenziale dell’essere umano. Ma sarà forse anche possibile procurarsi la felicità con una pillola? L’essere umano non ha il diritto di essere felice? Certo, senza con ciò dimenticare che il diritto non è propriamente alla felicità, ma alla ricerca della felicità – anche se nessuno ancora ci ha spiegato che cosa essa sia. Anche qui bisogna fare i conti con la polarità della vita. È possibile infatti che un intervento innocente sul corpo diventi sottobanco un cambiamento del corpo molto meno innocente. Ciò che prima era solo un diverso stile di vita porta improvvisamente a un destino irrevocabile, che si manifesta se

l’intervento chimico, limitato e desiderato, si traduce in effetti permanenti e limitanti, quando non pone bruscamente fine alla vita stessa. Non dovrebbero esserci leggi chiare che regolano il mercato di questi prodotti? Ma non si potrebbero comunque arginare quelle “imitazioni” diffuse illegalmente su scala internazionale. Ancora più significativa sarebbe forse una riflessione su ciò che una cultura, o il sé, comprendono come vita. Lo stile di vita che prevede l’uso sconsiderato di pillole di ogni genere non è altro che il riflesso del tentativo di tradurre il concetto di vita che ciascun essere umano possiede per sé in una vita concretamente vissuta. Siccome si tratta “della vita”, non sembra opportuno porsi il problema dei costi che comporta; da qui la testardaggine dei produttori che alimentano questo mercato, il quale, aperto grazie a una scelta di singoli individui, può essere chiuso nello stesso modo. Ma, lasciando valere il criterio di ciò di cui si è pienamente responsabili, la cosa importante non è la definizione di una legislazione valida per tutti, ma solo per se stessi. Non si può escludere il fatto che nel lavoro su se stessi, almeno nel momento in cui può sembrarci desiderabile, rientri la regolamentazione esteriore del proprio corpo, cioè la sua stilizzazione, la definizione della sua silhouette. La possibilità di manipolare la propria immagine personale, o di essere gli autori del proprio “show”, sposta alcune brutte esperienze mediatiche dall’ambito pubblico a quello privato: non si tratta mai di altro che dell’esperienza di un vuoto immane che si nasconde sotto la superficie. Così si può dire che il fatto che il desiderio persistente di strumenti di questo genere mantenga alto il loro prezzo aiuta in positivo a decidere di non farvi alcun ricorso. Le pillole possono aiutare solo chi “può permettersele”, ma il resto dell’umanità può rinunciare ai loro effetti. Anche se non si può prevedere con certezza una rinuncia universale, almeno non a questo genere di cose: le rivoluzioni imminenti avranno probabilmente come loro rivendicazione principale il

libero accesso a pillole di questo tipo, piuttosto che il contrario. E anche ad altri strumenti per la manipolazione di sé.

Il significato del genoma e del proteoma La promessa utopica che anticipava il 2000 molto prima del suo arrivo fu mantenuta quando, proprio nel giugno di quell’anno, si disse che era stato decifrato il codice genetico dell’essere umano. Senza tener conto del fatto che la decodifica completa richiedeva ancora molto tempo, questa prima decifrazione rese subito possibili tecnologie in grado di modificare e formare liberamente la vita su base molecolare. Non solo la vita in generale, ma anche quella dell’essere umano. Non solo la vita degli altri, ma anche la propria. Modificare geneticamente se stessi è diventato possibile e diventerà reale. Il modo in cui funziona la modernità può, anche in riferimento a questo fenomeno, essere descritto tenendo conto di una serie di tipi ideali: il sapere relativo al funzionamento dei geni rende possibili applicazioni tecniche; il profitto economico che deriva dalla vendita di questa tecnologia è la molla che innesca nuovamente il lavoro sul sapere, anche se si deve tener presente che il correlato di tutto questo è l’aiuto potenziale a chi ne ha bisogno. Chi ne trae vantaggio è il sé, e questa è la prospettiva dalla quale considerare la tecnologia genetica, anche per evitare di perdersi in disquisizioni astratte sul fenomeno. Ma il prezzo di un simile vantaggio è che d’ora in poi il sé deve scegliere, anche quando rifiuta sostanzialmente la tecnologia genetica o la ignora: non c’è più una stringente necessità che ci spinge ad accettare la natura così com’è. Volente o nolente si comincia a calpestare il suolo della libertà genetica, e la scelta diventa una nuova necessità. C’è chi desidera avere sempre una possibilità di scelta e si lamenta quando tale possibilità viene limitata; ma sono molti quelli che ora non riescono a capire in che modo orientare le proprie decisioni in rapporto a questi nuovi fenomeni. Con la tecnologia genetica l’epoca della modernità, sostenuta dalla

speranza della libertà, raggiunge uno dei vertici della liberazione assoluta dalle norme imposte dalla natura. La differenza tra una natura indipendente dall’intervento umano e una cultura fatta dall’uomo scompare per sempre. Dopo le intromissioni della tecnologia genetica, ciò che un tempo era natura non può più essere compreso. Da oggetti implicati nei rapporti naturali, gli esseri umani diventano i loro soggetti. Senza contare il fatto che anche l’antropologia, che può a tutti gli effetti essere considerata una disciplina filosofica, deve trovare nuovi orientamenti. La sua domanda centrale, e cioè quale sia la “natura” dell’uomo, diventa assurda, mentre emerge l’idea di una possibile autoformazione, o autocreazione, dell’essere umano, proprio in linea con quanto Kant teorizzava alle soglie della modernità nella prefazione all’Antropologia dal punto di vista pragmatico del 1798, quando invitava a riflettere su ciò che l’uomo, «in quanto essere in grado di agire liberamente, può e deve fare». Questo principio si può ora applicare anche alla costituzione genetica dell’essere umano. Il suo presupposto è la decifrazione dei geni, che ci ha tenuto con il fiato sospeso per tutto il XXI secolo e mediante la quale si può raggiungere non più la conoscenza dell’ABC, ma quella genetica dell’ACGT (che sta per Adenina, Citosina, Guanina, Timina, la quadruplice base che costituisce il codice genetico): cioè un sapere che non ha più a che fare soltanto con le lettere, ma con le frasi o con interi testi. Per comprendere i romanzi e, all’interno dei romanzi, i singoli episodi scritti nell’alfabeto della genetica è necessaria un’ermeneutica della genetica, il cui sviluppo richiede un certo tempo e che comporta inevitabilmente un sofferto processo di apprendimento. La validità dei principi di questa ermeneutica è la stessa di quelli che regolano l’interpretazione dei testi tradizionali: il fatto che i segni non siano necessariamente identici a ciò che designano; il fatto che non esista certezza su ciò che viene letto, a meno che uno non ce la voglia mettere a forza; il fatto che siano possibili sempre nuove interpretazioni, ma

non una verità definitiva. Si riscontrano, infatti, sempre nuove interazioni tra geni e tra questi ultimi e altri fattori non genetici, altrettanto sorprendenti. Come per le lettere dell’alfabeto greco, pare esistano infinite possibilità combinatorie. Anche per i geni, infatti, si dà un numero infinito di interazioni. Ma i processi non vengono attivati solo da interazioni genetiche. Esse, infatti, vengono a loro volta attivate e disattivate da agenti naturali o artificiali introdotti nelle cellule. Da questo punto di vista, il sé non sembra quindi soltanto un prodotto di condizioni genetiche date, ma è anche in grado di influire su di esse. Un esempio in tal senso è senz’altro la “sindrome metabolica”, la malattia del benessere, che porta a protoforme di diabete, a un’elevata presenza di grassi nel sangue e all’ipertensione: i geni che rendono possibile questa combinazione vengono attivati, evidentemente, dallo stile di vita del soggetto interessato. Essenziali per comprendere questi fenomeni sono le interazioni tra geni e proteine. Queste, che danno una forma plastica al corpo seguendo le direttive dei geni, contribuiscono a scrivere il programma genetico di ciascuno di noi; sicché non si dovrebbe prestare attenzione solo al genoma di un essere umano, cioè alla totalità dei geni che lo definiscono, ma anche al proteoma, ossia all’insieme delle proteine che dà una forma alla loro attività. Geni e proteine formano la base corporea inalienabile del sé, senza la quale il corpo non potrebbe avere una sua impronta specifica. Le proteine, la cui competenza fondamentale consiste nella formazione di ogni singola cellula, e pertanto anche di tutti i processi corporei, sono l’elemento più affascinante: siccome ci sono molte più proteine che geni, la vera sfida di cui la ricerca deve farsi carico è quella relativa, più che ai geni, proprio alle proteine. Una spiegazione completa delle loro interazioni reciproche è ancora molto lontana, così come lontana è una spiegazione di come la loro azione sia condizionata dal “milieu cellulare” nel quale si dispongono. I mutamenti

della loro posizione e il loro trasformarsi in “reti proteiche” hanno effetti su altri punti, e una sciocchezza o una minima insufficienza, un eccesso o un difetto di proteine possono generare molte gravi malattie. Diversamente dai geni, le proteine non tollerano gli eccessi, trovandosi continuamente a dover far fronte a un più o a un meno, nonché a una trasformazione costante: se la vita può essere compresa come un cantiere, può esserlo a maggior ragione, e soprattutto, quando si pensa all’attività che si svolge nelle cellule. Le proteine sono il punto fermo per possibili tecniche, terapie e cure che non riguardino il patrimonio genetico ereditario e che, per questo, possono essere più delicate delle tecnologie genetiche. Per quanto riguarda i geni, si può usare la parola magica, genetica umana, per la quale quello che per qualcuno è “un male”, per un altro è “il bene”; tuttavia, questa prospettiva dualistica non riesce mai a venire a capo dei grandi pericoli e delle opportunità che le si connettono. Grandi speranze vengono riposte nel transfert genetico, tipico della genoterapia somatica, che permette di non lavorare troppo sui sintomi, ma arriva a sconfiggere le malattie alla radice, eliminando la disposizione genetica nei loro confronti. Quali siano le possibilità aperte da questo tipo di terapie e quali le conseguenze che ne derivano può essere dimostrato solo in maniera sperimentale; ma quanti esperimenti sulla vita infantile e su quella adulta dovranno fallire prima di ottenere una conoscenza certa in materia? Nei momenti di disperazione gli esseri umani potranno riporvi tutte le loro speranze, e io, in uno di questi momenti, sarei pronto a sfruttarle anche senza tener conto delle conseguenze imprevedibili: una malattia potrebbe forse venir sconfitta alla radice, ma potrebbe inaspettatamente sorgerne un’altra. Si può pronosticare che la completa libertà da una condizione di malattia, dal dolore e dalla sofferenza non potrà essere raggiunta, nemmeno con gli strumenti della genetica (che rappresenta, piuttosto, un nuovo concetto per definire il dramma del XXI

secolo). E ammesso che si debba creare un “uomo nuovo”, questo non dovrebbe essere fondamentalmente troppo diverso da quello vecchio, contrassegnato ancora una volta dall’impossibilità di guarire dai contrasti e dalle contraddizioni, anche perché la vita si accanisce a mantenere in vigore la sua strutturale polarità, e ad affermarla contro ogni tentativo di usurparla. Una vita completamente libera dal male non sarebbe più una vita piena o, comunque, resterebbe sempre molto lontana dal procurare una condizione di “felicità” per l’essere umano. Bisognerà comunque sopportare un’epoca di tentativi senza fine; per questo sarà anche un’epoca di evoluzione sperimentale che, ben al di là delle terapie, renderà possibile concepire e produrre entità di tipo nuovo. A quale punto sarà necessario tracciare una linea per limitare questo processo? In riferimento alle possibilità sempre più ricche e ai pericoli che ne derivano nasce, dal punto di vista dell’individuo concreto, l’esigenza di prendere parte alla discussione sulla regolamentazione sociale e sulla legislazione che apre e delimita lo spazio della scelta individuale. Il singolo, e la società intera, devono essere liberati dal dominio della natura in funzione di una formazione della libertà; ciascuno con la sua scelta, orientata anche in base alle convinzioni politiche, decide del modo in cui tale formazione della libertà deve potersi attuare. Anche la dignità umana, molto spesso assunta come criterio per la ricerca e per lo sviluppo della tecnologia in questo campo, non rappresenta un ordine di grandezza affidabile, predefinito in maniera assoluta; la dignità, piuttosto, è questione di prese di posizione e di definizione del singolo soggetto ed è quindi riflesso di domande inscrivibili nel quadro di un’etica estetica: che cosa può essere bello e degno di approvazione, prima nel caso singolo e poi in generale? Per poter conservare il concetto di dignità è opportuno stabilire con molta precisione le possibili eccezioni per tutelare i progressi della ricerca scientifica, in maniera restrittiva e passo dopo passo, al

fine di procedere nella maniera più cauta possibile. Un criterio centrale è quello che emerge dalla riflessione su ciò che io riterrei giusto, se io mi trovassi in una data situazione: sarei pronto, io, a rinunciare, nel caso in cui fossi affetto da una malattia incurabile, ai risultati della ricerca? Sarei disposto, io, ad accettare un trapianto di organi prodotti da una “clonazione terapeutica”, cioè dalla coltura dei miei stessi geni, se la mia stessa vita fosse messa a repentaglio? Normalmente tutto questo comporta conseguenze diverse rispetto alla definizione risoluta di ciò che dovrebbe valere per gli altri o per tutti. Vietare genericamente la ricerca e la tecnologia genetica è una possibilità che non può essere nemmeno presa in considerazione. In definitiva si tratta di una situazione che infrange le barriere di una singola società, dovuta anche alla circolazione planetaria di beni e di esseri umani; una situazione che ci pone di fronte al fatto che l’essere umano è membro di una società mondiale. Come è possibile individuare, ed eventualmente cambiare, regole valide per una società mondiale? La causa delle maggiori difficoltà, ma anche il punto fermo per cominciare a trovare qualche soluzione, è la scelta che ciascuno compie quando si trova nella condizione di malato terminale, in rapporto alle condizioni di cui deve rendersi conto e alle rappresentazioni della vita che si costruisce.

Formarsi geneticamente? Senza dubbio la tecnologia genetica coincide, in ultima analisi, con una buona tecnologia del sé, cioè con una tecnologia che possa applicarsi alla vita di ciascuno di noi e diventare una “tecnica della vita” nel senso dell’arte di vivere. Una parte costitutiva di ogni gen-etica è, perciò, fondamentalmente l’arte di vivere del singolo, intesa come condotta e formazione consapevole della propria vita, la quale da un lato si preoccupa della sfera privata, mentre dall’altro si cura della natura del contributo alla vita sociale che proviene dal singolo essere umano. La scelta individuale deve dunque essere effettuata

solo sulla base della saggezza. E il fondamento di questa scelta può, ancora una volta, essere soltanto una sensibilizzazione, in questo caso strutturalmente orientata al sapere scientifico, così come una sensibilizzazione virtualmente coinvolta nel processo di acquisizione di un intuito per le possibilità che ci si presentano e per i pericoli potenziali che vi si connettono. La sensibilizzazione è agevolata dalla partecipazione alla discussione sui rispettivi pro e contro, il cui scopo è quello di chiarire la propria opinione nello scambio e tramite il confronto con gli altri, e in particolare quello di determinare cosa sia plausibile, cosa possa essere ritenuto “giusto” e cosa non lo sia, per definire, infine, il proprio atteggiamento. Il peso dell’esistenza che ciascuno di noi porta sulle spalle, e che grava su ogni scelta, spinge a prendere decisioni consapevoli, sagge e ponderate dal punto di vista argomentativo, cioè tali da fugare lo scrupolo di averle prese in maniera eccessivamente arbitraria. Il sé deve essere sensibile già in riferimento alla sua chiarificazione genetica, ossia ai risultati di quel sapere che ha come oggetto la propria condizione genetica, ottenuto tramite la relativa diagnostica. Solo il sé può rispondere alla domanda: voglio davvero sapere tutto questo? E solo in conseguenza della sua risposta affermativa può porsi immediatamente l’ulteriore domanda sull’opportunità di un intervento genetico. Fondamentalmente il sé può dare una risposta sempre negativa, e la sua rinuncia non può che essere accettata. In linea di principio, la sua scelta può essere sia attiva che passiva: intervenire sulla sua costituzione genetica o lasciarla così com’è. La scelta del singolo, a sua volta, influenza lo sviluppo del mercato genetico. Se nessuno sfrutta le possibilità che esso offre, nessuno continuerà a investirci. Ma l’industria genetica mette a punto ogni tipo di possibilità immaginabile e i suoi effetti sono senz’altro affascinanti, anche perché rendono possibile l’autodeterminazione e la formazione autonoma di

sé in una misura mai presagita prima. Il significato della formazione genetica di sé consiste innanzitutto nell’acquisizione della capacità di svincolarsi dal peggioramento delle proprie condizioni di vita: ciò che il soggetto interessato desidera più di ogni altra cosa. Anche in questo caso, si tratta di una libertà negativa, di un essere libero da qualcosa – a cominciare dall’essere banalmente liberi dalla caduta dei capelli, che ha certo anche una causa genetica, o da una quantità eccessiva di peli in altre parti del corpo – fino alla libertà da qualunque vincolo determinato dalla costituzione dei nostri geni. Con qualche pillola, o forse spalmandosi una pomata che non richiede la presentazione di una ricetta medica, si possono apportare tutte le correzioni possibili: ci sono microparticelle che trasportano geni e sostanze in grado di modificare in maniera mirata la costituzione genetica di chiunque. Molto più seria è, di contro, la liberazione da malattie gravi. Anche chi non sogna un mondo libero dal dolore non chiederebbe mai a nessuno di consegnarsi a patologie come il Parkinson, la sclerosi multipla o la fibrosi cistica – un’ostruzione delle vie respiratorie che conduce rapidamente alla morte – cercando piuttosto di sfruttare ogni possibilità di guarigione. Oltre alla liberazione dal deperimento dovuto a gravi malattie, la genetica umana apre senza dubbio anche a nuove possibilità di formazione genetica che si sedimentano in una libertà positiva, una libertà per qualcosa, che ha come suo scopo ultimo quello di dare a se stessi la forma desiderata, in maniera arbitraria e paragonabile soltanto agli interventi di chirurgia estetica: il design genetico rappresenta una parte costitutiva della formazione di sé e ha l’obiettivo di ottimizzare il proprio corpo in funzione delle norme vigenti o delle proprie rappresentazioni, rendendolo, in questo modo, un’opera d’arte. A cominciare dai cambiamenti plastici del corpo («mi basta cambiare un po’ la mia figura; per il resto sono completamente contrario alla genetica») per finire con la mutazione dei tratti caratteriali. Il gene responsabile del colore

dei capelli può essere manipolato per evitare di doverne mutare continuamente il colore attenendosi ai metodi tradizionali. Allo stesso modo gli atleti potrebbero arrivare a rinunciare al doping. Il sé sarebbe libero di godersi una vita più lunga, e questo grazie a Indy («I’m not dead yet»), un gene scoperto nel 2000, che gli esseri umani hanno in comune con i Drosofilidi, nei quali la sua mutazione raddoppia la lunghezza della vita, pur mantenendone intatta l’aspettativa, che passa da 37 a 70 giorni. Si potrebbe davvero, così, allungare la vita senza correre il rischio di renderla noiosa? Nei confronti di ciascuna singola possibilità il sé può comportarsi in questo o in quest’altro modo. Ma tutto il tempo passato dall’inizio della storia dell’umanità, nel quale la definizione positiva della propria costituzione genetica non era ancora diventata un tema di scelta individuale, appare, almeno in riferimento a queste nuove e tormentose domande, sotto una luce ancora più rosea. In questione non è solo la formazione di se stessi, ma anche la formazione genetica degli altri, che risponde all’idea di modellare l’ambiente circostante a proprio uso e consumo. Questa è sempre stata una parte costitutiva dell’evoluzione dell’umanità: mai adattarsi a circostanze date, ma renderle conformi alle proprie esigenze. Una relativa ingenuità permette di passare dall’atteggiamento che porta dalla manipolazione genetica delle piante (“le piante da salotto, facili da curare, profumate e contro le zanzare”) a quella degli animali (“l’animale domestico ideale”). In maniera meno ingenua si arriva alla formazione genetica di altri uomini, motivata dall’interesse per la forma della propria vita e, soprattutto, per la formazione della prole, che non solo deve essere tenuta lontana dalle malattie ereditarie, ma deve anche riflettere un certo senso morale o determinate qualità (per esempio elevate doti intellettuali). Da molto tempo la diagnosi genetica preimpianto è in grado di riconoscere, già durante la gravidanza, i difetti ereditari di un nascituro. La

diagnostica da preimpianto (PGD) è in grado di far nascere bambini sani da genitori portatori di malattie ereditarie grazie alla fecondazione artificiale; lo stesso può fare l’eugenetica, cioè la scelta di determinate qualità per una vita che sta per venire al mondo – una direzione molto simile a quella intrapresa dal nazionalsocialismo, che impiegava certo un metodo diverso, ma che con l’aiuto di tecniche sofisticate torna a essere possibile. Se si scoprisse un gene responsabile della socievolezza e dell’affabilità, lo si venderebbe entusiasticamente a potenziali genitori che, in questo modo, potrebbero risparmiarsi tutti gli aspetti snervanti dell’educazione dei propri figli. Le leggi possono arginare questo fenomeno solo in parte; molto invece deriva dalla responsabilità individuale nel preservare un criterio degno dell’essere umano. Si pone infine il problema della giustizia genetica. Il diritto all’arte di vivere rientra nella sfera dei diritti umani, e in particolare nel diritto al libero sviluppo della personalità, e pone in essere una disponibilità fondamentale delle possibilità per lo sviluppo del singolo, che deve pur sempre sceglierle concretamente. Sarebbe ingiusto che la società negasse tali possibilità, decisive per guarire da gravi malattie, attraverso una normativa rigida, che si rivelerebbe assolutamente inefficace: chi vi ripone la sua unica speranza di vita riuscirebbe sempre a procurarsi gli strumenti necessari alla manipolazione genetica desiderata. Ma cosa si può intendere con parità di opportunità genetica, ossia cosa può essere compreso come giustizia distributiva, tanto in riferimento alla composizione genetica – che ciascuno di noi trova come data e che può correggere in ogni momento – quanto rispetto a nuove strutture genetiche, che possono essere prodotte ben oltre le capacità naturali? La distribuzione impari delle risorse genetiche naturali, come l’intelligenza o le doti fisiche, non dovrà essere sopportata ancora per molto, sebbene ogni sforzo per un’equità distributiva di queste risorse possa produrre una nuova disuguaglianza – e il significato principale della

costituzione genetica verrebbe nuovamente dissolto da un punto di vista sociale: chi può permettersi certi interventi? Quale contesto sociale è necessario per servirsi di certi rimedi? Per il sé la domanda fondamentale sulla giustizia genetica non si pone primariamente in riferimento al suo rapporto con gli altri, ma già in riferimento a se stesso: è giusto o sbagliato privarsi delle possibilità dischiuse dalla tecnologia genetica? Per quale parte del sé è giusto farlo e per quale non lo è? È doveroso cercare rimedi contro la discriminazione genetica: è possibile che datori di lavoro o assicurazioni sanitarie pretendano da chi cerca un posto di lavoro o da chi aspira a diventare membro di una qualche associazione un Gen-Chip, cioè un codice di identificazione genetica? L’accesso a informazioni sulla predisposizione genetica a certe malattie può comportare la rescissione di un’assicurazione sulla vita? Chi è propriamente in diritto di possedere i dati genetici di una persona? Nello stesso tempo, però, non si può fare nulla contro le persone che al colloquio di lavoro presentano volontariamente il loro codice di identificazione genetica o i risultati di un test genetico, con la speranza di trarne un qualche vantaggio. Solo a certe condizioni è possibile tranquillizzarsi sapendo che non ci sono esseri umani completamente privi di difetti ereditari, o del fatto che la costituzione genetica di ogni essere umano è difettosa – anche se nella maggior parte dei casi questi difetti restano innocui –, o anche del fatto che il rischio ultimo, cioè la possibilità di restare vittime di una certa malattia, non può essere prevenuto una volta per tutte tramite la manipolazione genetica (è sempre possibile che i geni subiscano delle mutazioni). La pressione che gli altri esercitano nei confronti del sé cresce nel caso di malattie condizionate, effettive o solo possibili dal punto di vista genetico. Ogni sofferenza corre il rischio di essere ricondotta a cause genetiche e, quando si intende rifiutare il ricorso a un intervento sui propri geni, viene considerata come insensata. Se

con l’incontro casuale tra due esseri umani potesse essere determinato una volta per tutte il patrimonio genetico del bambino che nascerà dalla loro unione, allora un intervento genetico alla radice sarebbe sempre possibile. La tecnologia genetica potrebbe andare incontro a tutti i desideri, sempre ammesso che qualcuno chieda quali siano. La tecnologia genetica, fondamentalmente, è inarrestabile: non c’è una fantasia che non possa essere realizzata geneticamente; da questo punto di vista non c’è una perversione, un’inversione, nel senso letterale della parola, che sia inconcepibile. Nei confronti di tutte queste prospettive è decisivo, perlomeno, non restare tranquilli rispetto alle opportunità e ai pericoli che tale tecnologia porta con sé. La responsabilità per ciò che ne deriva non si trova solo nelle mani di scienziati, manager o giuristi, ma anche in quelle di molte persone che decidono, in maniera più o meno consapevole, di sfruttare simili possibilità. Il sé contribuisce in questo modo alla responsabilità per l’evoluzione della specie e può sottrarsene solo a costo di trovarsi sempre d’accordo con tutto ciò che “si evolve”; diversamente può rivolgersi a “quelle forze” che probabilmente “tengono tutto nelle loro mani”, ma che in verità non fanno che controllare il comportamento dei singoli individui. E se le paure peggiori divenissero realtà? A quel punto ci troveremmo di fronte al fallimento dell’esperimento dell’esistenza umana sul pianeta Terra. In rapporto al cosmo, questo sarebbe poco importante, mentre sulla Terra l’interruzione dell’esperimento potrebbe creare un certo malcontento. Per non disperare prima del tempo, è forse arrivato il momento di rimettere in gioco l’anima, che in età arcaica – per così dire “pregenetica” – rappresentava il residuo dell’umano e che da un certo punto di vista non è ancora andata in pensione. Ogni familiarità con il corpo, con i suoi cambiamenti e le sue ferite, rinvia al fatto che “c’è qualcosa” che lo anima e che può essere affermato ed esibito in qualche modo; forse solo nell’interazione tra i geni e un’anima può

nascere quell’opera d’arte che è la vita. Questo è il presupposto per rivolgere alla cura dell’anima l’attenzione che merita.

4. La cura dell’anima Congetture sulla forma dell’anima Un rapporto attento con il proprio corpo non è certo fine a se stesso, ma rappresenta il mezzo per raggiungere un fine diverso, e cioè la preparazione di un’abitazione per l’anima. Ma che cos’è l’anima? Evidentemente si tratta di una costruzione nebulosa – e comunque di qualcosa che non può mai trovare contorni definitivi, nemmeno dopo un infinito susseguirsi di spiegazioni. In proposito sono possibili soltanto congetture. Uno dei tratti essenziali dell’anima è proprio il suo sottrarsi a ogni definizione. La sua ampiezza eccede il sé in senso stretto, il sé nucleare e anche le sue periferie. Prendendo le mosse da esperienze individuali e dalle descrizioni che hanno caratterizzato le diverse epoche, l’anima può essere rappresentata come potenzialmente infinita nello spazio, almeno nelle due accezioni di base del termine: lo spazio immaginario della rappresentazione, che può essere ricoperto e occupato solo mediante la comprensione e l’interpretazione, e lo spazio reale di un’energia, riempito e contornato da particelle ionizzate. Entrambi questi aspetti relativi allo spazio dell’anima sono legati in maniera strettissima: le interpretazioni producono campi di tensione e le tensioni forniscono un impulso agli atti interpretativi. Per quanto riguarda la spazialità reale, la forma che ordinariamente si attribuisce all’anima trova il suo punto fermo nello spazio delimitato dal corpo, ma riesce anche a oltrepassarlo, specialmente nel caso della comunicazione mentale tra esseri umani, propria di una dimensione più ampia che ricorda i “fotoni incrociati” della fisica quantistica. L’anima può in ogni caso ritirarsi nel corpo e persino nascondersi al suo interno, in maniera tale che non ci sia più, nemmeno negli occhi, un raggio che ne attesti la presenza. Anche per quanto concerne la temporalità, l’anima appare solo condizionata dal tempo del corpo – almeno finché si crede che prima del suo ingresso nel corpo, e successivamente alla sua morte,

potrà ancora esistere, in una qualsiasi altra forma. Dal punto di vista ermeneutico, così come da quello energetico, all’anima si addice la forma senza forma tipica della sfera, la quale può essere riconosciuta solo in funzione del suo spettro o del suo raggio d’azione, ma che non può mai essere denotata in maniera precisa; proprio per questo alla definizione dell’anima può avvicinarsi più un’ermeneutica che non un’analisi, al punto che quella relativa alla sfera dell’anima diventa più una questione soggettiva che non il prodotto di una conoscenza oggettiva. L’anima corrisponde più all’antico termine greco psychē, sul quale si concentrava ogni preoccupazione filosofica, che non al concetto moderno di “psiche”, alla cui oggettivazione e alla cui conoscenza scientifica sono orientati, almeno a partire dal XX e XXI secolo, gli sforzi della psicologia, della psicoanalisi o della psicoterapia. È questa sfera che può essere sviluppata o persa nella sua aura, ossia nella specifica impronta che la caratterizza. Ben oltre il semplice “alito”, a cui fa riferimento il concetto latino, con aura si intende l’”irradiarsi” che caratterizza il sé, un’opera d’arte o un fenomeno naturale. L’anima può manifestarsi alla percezione sensibile, ma è soprattutto un prodotto dell’interpretazione delle sensazioni, ossia di ciò che può essere visto in un fenomeno e nel sé, in funzione di un’interpretazione, e che appare tanto più “auratica” quanto più ampio risulta lo spettro dell’ermeneutica. L’aura fa in modo che il sé possa essere vicino a qualcun altro o che non gli si avvicini; la simpatia, infatti, si configura come una congruenza auratica, mentre l’antipatia come una divergenza. Nel primo caso, il contatto viene avvertito come piacevole, mentre nel secondo come “spiacevole”. La paura della vicinanza può anche essere fondata, secondo la definizione che ne dà Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936), come «apparire di una distanza», che nella vicinanza va perduta; anche la paura di arrivare troppo vicino a se stessi può

essere motivata in questo modo. Le connessioni ermeneutiche e quelle energetiche definiscono il “senso”, di cui si può fare esperienza molto più nell’anima che nel corpo: questo senso interiore rappresenta la ricchezza delle connessioni interne del sé, la cui pienezza si irraggia verso l’esterno e concorre a determinare la sua radiosità. La ricchezza di tali connessioni si può esprimere già nei racconti e nelle associazioni mentali. Un metodo per rendere concepibile la più ampia ricchezza energetica ed ermeneutica è quello della terapia e dell’analisi. Ci si può trovare a disagio di fronte al tentativo di rendere accessibile la pienezza energetica della propria anima in espressioni verbali, assunte come sostituti della totalità che essa rappresenta, e lo stesso disagio si prova ogni volta che si cerca di tradurre la propria anima in discorso, con l’obiettivo di rendere l’insieme delle sue determinazioni una totalità definita da un punto di vista concettuale. Il sé percepisce che il senso della sua anima oltrepassa ogni atteggiamento proposizionale e capisce di non poterlo esaurire con nessun discorso. Certo, a volte può manifestarsi in una singola parola, ma talaltra può anche risultarne irrimediabilmente compromesso. L’assunzione fondamentale che l’”inconscio”, quale possibile spazio dell’anima, possa essere messo a nudo in maniera affidabile attraverso la sua traduzione discorsiva appare problematica proprio per questo motivo; anche tale certezza, una volta messa a nudo, dovrebbe essere senza dubbio ricondotta a concetti ancora più generali. I varchi mediante i quali l’anima può penetrare e irradiarsi, oltre che avere uno scambio con altre anime, sono i sensi esterni, cioè la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto. Attraverso gli occhi l’anima irrompe all’esterno e si incarna nelle mani, che sono in grado di toccare. Nel movimento del corpo – così come in quello del linguaggio scritto, più che di quello parlato – l’anima si manifesta, mentre viene sentita quale sentimento interiore del

corpo. Ma in proporzione all’indebolirsi dei sensi, fino all’indisponibilità del tatto, l’anima si ritrae nel corpo, si spegne in esso o lo abbandona. Questo avviene non solo nella morte, ma anche nella “morte sociale” e in parte attraverso il “ritirarsi del sé in se stesso”. Per ridare vita all’anima che si è ritirata in sé è decisivo trovare il punto del corpo all’interno del quale è andata a nascondersi: per conservarsi si sarà forse aggrovigliata nel punto in cui proviamo un dolore dovuto a una contrattura. Bisognerebbe liberarla, rimettendo in circolazione le energie bloccate da quel crampo. Il fatto che sia possibile sciogliere una tensione dell’anima attraverso il lavoro sul corpo è un aspetto che è risultato già evidente: ogni lavoro sul corpo distende l’anima, libera le sue energie e le ridona vita. Alla base del contatto intellettuale con gli altri si trova, in linea di principio, un contatto fisico: quest’ultimo svincola l’anima dai limiti del corpo e la spinge a uscire verso l’esterno. Mediante l’apertura che ne deriva è possibile, di converso, che l’anima degli altri entri dentro di noi – e proprio questo è ciò che genera la “paura del contatto”. Anche il contatto più tenero, infatti, può occupare a tal punto lo spazio dell’anima da poter essere avvertito come un’espropriazione, come causa di una condizione di non-libertà, che contraddice la libertà coessenziale all’anima. Anche se la paura del contatto si esprime sul piano fisico, il suo fondamento sta nell’angoscia per il contatto tra le anime; è la paura dell’anima che teme di perdersi, ma è anche la paura di penetrare troppo profondamente nell’anima di qualcun altro, avvicinandoglisi troppo e, in questo modo, perdendolo in quanto altro. Probabilmente quella dimensione dell’anima, sensibile e delicata, ha bisogno di essere protetta per non smarrire la sua ampiezza a causa di qualcun altro che lo occupa; quella stessa ampiezza che lo fa respirare, sia dal punto di vista energetico che da quello ermeneutico. Se queste angosce sono in qualche modo fondate, potrebbe essere impossibile “liberarsene”, mentre

sarebbe decisivo imparare a conviverci e dare loro il giusto peso. L’elemento fondamentale della cura dell’anima sarebbe l’attenzione nei confronti di questo spazio e, inoltre, il lasciare a quelle forme espressive dell’anima, energetiche ed ermeneutiche, che si chiamano “sentimenti”, lo spazio di cui hanno bisogno; un lavoro alla formazione della propria anima, il cui scopo potrebbe essere quello di realizzare un’anima bella, che il sé dovrebbe comprendere come degna di approvazione. Ma è davvero possibile formare la propria anima?

La formazione dei sentimenti: è possibile educarli? Tradizionalmente i sentimenti vengono ascritti all’anima, nella quale si sviluppano. I sentimenti sembrano appunto i suoi esuli e coincidono con il modo in cui l’anima si “muove”: essa vi affiora e quando questi svaniscono muore anche lei. Il sé trae la tensione della sua vita dal fatto che i sentimenti sono reciprocamente contrapposti, mentre dalla grande varietà dei modi in cui si manifestano si evince il loro significato esistenziale: ciascuno di noi può essere costante e volubile, profondo e superficiale, duraturo ed evanescente, consapevole e inconsapevole, fiducioso e angosciato, calmo e terrorizzato, entusiasta ed esaurito, grave e banale, gioviale e addolorato, amorevole e pieno di odio, bramoso e deluso, riconciliato con il mondo e sdegnato, tenero e dubbioso, piacevole e spiacevole, generoso e geloso, orgoglioso e umiliato, imbarazzato e arrabbiato, sublime e commosso, sicuro di sé e timoroso, triste e felice, euforico e melanconico, chiuso e aperto, accogliente e distante, rilassato e nervoso, pudico e frivolo, soddisfatto e insoddisfatto, passionale e indifferente. Una vita piena, cioè una vita che intende attingere a tutte le possibilità che le si presentano e a ogni polarità, non può rinunciare ai sentimenti. L’impossibilità della rinuncia consente quindi di rafforzarli, soprattutto quando diventano troppo deboli. Questo spiega il bisogno di “grandi sentimenti”, in grado di elevarsi rispetto alla

superficie del quotidiano o di penetrare nelle sue profondità. Quanto più si pretende che siano grandi, tanto più piccoli sono nel quotidiano. Del resto, l’eccessivo entusiasmo spinge a moderare i sentimenti per poterli vivere, anche perché essi non rappresentano solo un fenomeno correlato della vita, piacevole o spiacevole che sia, né tantomeno un insieme di rumori di fondo. Sono in grado rapire, esaltare e addirittura di lacerare completamente. Rafforzare e moderare, questi sono i due lati della formazione dei sentimenti, che intervengono non solo, in generale, nella cultura, ma, in particolare, nella cura che il sé deve alla sua anima. Impegnarsi a educarli significa reagire al troppo e al troppo poco sul piano energetico e procedere in parallelo con la loro interpretazione su quello ermeneutico. Per imparare a conoscere i propri sentimenti, la capacità di interpretarli è tanto importante quanto la loro intensità. Ma è possibile che i sentimenti siano semplicemente “natura”? Non è possibile che siano già insiti nel nostro patrimonio genetico? Molti non esiterebbero, a seconda delle interpretazioni, a far intervenire la genetica o a destituirla di valore, trovandosi sempre di nuovo a dover dire se una vita fatta solo di sentimenti “positivi” sia ancora degna di essere vissuta. Ciò che dei sentimenti può essere ascritto alla loro natura non può essere definito una volta per tutte. Il problema, infatti, non è il modo in cui “sono fatti”, ma anche ciò che si pensa e si dice di loro quando li si costituisce in maniera assolutamente dipendente dalle preferenze individuali, dai condizionamenti storici, dalle necessità professionali e dal contesto culturale nel quale si vive. Quando si parla di sentimenti non ci si trova mai, perciò, soltanto sul piano psicologico, ma sempre anche su quello terminologico, sul quale vengono posti in questione i concetti come parti costituenti dei sentimenti. I concetti, infatti, non sono semplicemente l’espressione impiegata per connotare i sentimenti nella loro “autenticità”, ma anche elementi che esercitano un certo

influsso sul modo stesso di sentire. I concetti condizionano la comprensione di ciò che è degno di innescare un certo sentimento, così come il modo in cui un dato sentimento può essere espresso – oltre che il significato da attribuire a tale espressione. Un indizio per capire cosa, in questa situazione, possa essere inteso come natura si può trarre da alcune analogie che si ritrovano negli esseri umani più diversi e che, oltrepassando i limiti delle singole culture, rendono possibile una forma fondamentale di comunicazione. Certo, i sentimenti possono avere anche un ancoraggio biologico e neurobiologico, ma questo non esclude che nel corso del tempo possano subire delle mutazioni in rapporto alla cultura e all’individuo che li prova – ci sono molti studi di storia delle mentalità che se ne occupano. Quanto gli esseri umani possano sentirsi rimessi ai propri sentimenti e quanto possa essere violenta la reazione alla loro forza si può vedere prendendo in considerazione lo sviluppo della storia della filosofia. Solo in questo modo è possibile spiegare l’imperturbabilità (ataraxía) e l’assenza di passioni (apátheia) predicata dagli stoici. Da qui, infatti, si è tentato di soffocare, con una rigida dominazione di sé, l’intera sfera del sentimento: «Non esiste un dominio più importante di quello sui propri affetti: solo questo può portare al trionfo della volontà libera», proclama ancora Baltasar Gracián nel suo Oracolo manuale (aforisma 8). La cultura moderna è erede di questa tradizione. Anche in età moderna, infatti, i sentimenti devono essere trattenuti e considerati come un momento privato della vita. Quest’atteggiamento assume una forma del tutto nuova nel fenomeno della coolness, tipico delle giovani generazioni. Quando si critica la “freddezza” della modernità non si intende altro che la sua apparente insensibilità, proprio nel momento in cui in altre culture la possibilità di esprimere i propri sentimenti viene valorizzata, preferibilmente nello spazio pubblico e in una forma prestabilita. Affermare l’importanza dei sentimenti è

già una prerogativa del romanticismo il quale si contrappone al razionalismo e al pragmatismo moderni – manifesti già intorno alla fine del XVIII secolo e agli inizi del XIX. Secondo i romantici, l’emozione deve completare la cognizione e, in questo modo, evitare una riduzione o addirittura un annullamento della polarità della vita. Uno stimolo, questo, che nel corso della modernità è stato ridotto a semplice emotività. Da qui in poi “romantico” non è altro che il sentimento puro e, in particolare, amore e armonia, desiderio e passione; proprio mentre la drammaturgia romantica si riserva di esaminare anche il “lato oscuro”, il complesso campo di tensioni aperto dal sentimento come problema. La modernità è ricca di esempi relativi ai diversi incroci tra razionalità pragmatica e romanticismo inguaribile, da intendere anche come due fasi della vita, chiamiamole “vite-X”: chi prima si riconosceva apertamente nel romanticismo diventa ora un deciso razionalista, specialmente quando si rende conto che non può vivere di semplice emotività. I razionalisti più decisi diventano, invece, romantici convinti quando non riescono più a sopportare il vuoto di fantasia e la freddezza disumana del mondo moderno. Analogamente, colui che nella modernità subisce lo svuotamento della sfera emotiva e quindi anche della sua interiorità (del suo senso interiore), comincia a porsi nuovamente gli stessi problemi dei romantici: da qui deriva la riabilitazione moderna di un certo modello interpretativo che vede nei sentimenti l’unica “verità” e la sola natura del sé. Si ripropone quindi un nuovo pathos per i sentimenti, che tenta in ogni modo di liberarsi dal dominio della ragione nei loro confronti. Da qui deriva anche la norma implicita di “seguire i sentimenti”, che tuttavia non sempre si rivela essere un esempio di saggezza. Il compito di una vita diversamente moderna è quello di farsi carico dello stimolo a recuperare la sfera dei sentimenti e della sensibilità, ma si propone anche di dare alla libertà ottenuta una nuova forma, oltrepassando la liberazione dei sentimenti

tramite un esercizio dell’anima e la sua ascetica. Questo tipo di lavoro si concentra sulla definizione del “romanticismo pragmatico”, che ha lo scopo di restituire alla vita pratica i sentimenti e la sfera interiore e, per altro verso, di assicurare al romanticismo una certa capacità di inscriversi nell’orizzonte della vita. Una cosa, infatti, è l’emozione, il movimento interiore, che può restare sempre inconsapevole e non essere mai riconosciuto; altra cosa, invece, è l’emozione resa consapevole, conosciuta e percepita come sentimento. Dal punto di vista neurobiologico entrambe queste dimensioni hanno una “funzione regolativa”: ogni fenomeno, ogni situazione interiore ed esteriore viene posta in relazione all’intero organismo e “tinta” emotivamente, cioè valutata come utile o dannosa, per potervi reagire nella maniera più efficace. Le emozioni, tanto quelle positive quanto quelle negative, sono molto utili per “restare in vita”. Rischia solo chi “vede tutto rosa”, perché gli sarebbe impossibile proteggersi da ciò che è dannoso (cfr. Damasio, Emozione e coscienza). Assieme al grado di consapevolezza dei sentimenti cresce anche necessariamente il contributo dato dall’interpretazione nell’avvertirli in un certo modo. E il fatto che mai come nella modernità il rapporto con i sentimenti sia stato tanto consapevole e determinato dal punto di vista della riflessione teorica non resta privo di implicazioni sulla sensazione stessa, che perde progressivamente quell’elemento che in precedenza sembrava costituirla: l’immediatezza. Poiché questo processo è irreversibile, è opportuno far giocare a proprio vantaggio il grado di consapevolezza dei sentimenti, in maniera tale da mettere in condizione il sé di «allenarli, ma senza soffocarli» (Damasio). L’idea di intervenire sui sentimenti con l’obiettivo di dare loro una forma può sembrare a prima vista frutto di un’elaborazione troppo “tecnica”, ma questo procedimento deve mirare proprio a renderla “naturale”, grazie all’affinarsi dell’esercizio e al

consolidarsi dell’abitudine: solo allora la formazione può considerarsi riuscita. E siccome mantenendo fermo il discorso sulla naturalezza dei sentimenti non è mai chiaro che cosa sia la sensazione “autentica”, sarà decisivo ciò che viene assunto come natura: si tratta di un’assunzione deliberata, una rappresentazione la cui funzione è quella di indicare una condizione corrispondente ai propri desideri per sostituire quella data. Nell’assunzione di una natura può confluire anche ciò che è frutto della saggezza e che appare sensato, oltre che, in ultima analisi, ciò che può essere considerato bello e degno di approvazione. Su questa via è possibile fondare un’arte dei sentimenti che non consiste né nel rifiutarne il significato né nel sottomettervisi ciecamente. L’arte dei sentimenti riflette la scansione in tre livelli che abbiamo descritto in riferimento alla capacità necessaria per dare vita a ogni tipo di arte. Il primo atto della formazione dei propri sentimenti mira, dunque, alla loro possibilità; risulta essenziale la capacità di interpretarli, come nel caso dell’amicizia e dell’amore per gli altri e per se stessi: quali possibilità ci sono per questi sentimenti, quale significato bisogna attribuire loro, cosa può essere valutato positivamente e cosa negativamente, quale posto deve essere assegnato loro nella nostra vita? Nel momento in cui avverte un difetto o un eccesso di questi sentimenti nella sua vita, il sé cerca di capire se si tratti di una malattia o di una ferita, oppure, per altro verso, di una conferma o di un rafforzamento di sé, forse i suoi sentimenti sono respinti o forse ne abusa, forse trovano un’espressione sufficiente o forse no. Il concetto che se ne ricava, per esempio il concetto di ciò che può essere compreso come amore o come dolore, resta sempre un elemento che contribuisce a renderli possibili: il sentimento concreto è sempre innanzitutto il prodotto di una risoluzione e, poi, di una riflessione su esperienze già fatte. È il concetto a condizionare il modo in cui si provano certi sentimenti e a rendere così difficile parlare della

loro “veridicità”. Per l’arte di vivere è importante prestare attenzione a questo fenomeno. Credere che la vera vita consista nel provare o meno un certo sentimento non significa necessariamente sacrificare il determinato concetto che di tale sentimento si ha. Educare i sentimenti significa quindi divenire consapevoli del concetto di un certo sentimento e, se necessario, cambiarlo: per esempio nel caso del concetto idealizzato di un amore che si rivela non essere corrisposto e può distruggerci. Così si può trovare un atteggiamento che lascia spazio ad alcuni sentimenti e ne toglie ad altri. Anche quando si è posseduti da una passione “irrefrenabile” è possibile decidere se cedere o meno alla sua forza. A questo si collega il secondo atto della formazione, che mira alla realizzazione delle possibilità e quindi alla realtà dei sentimenti: da una parte è importante “svilupparli”, ridestarli e farli venir fuori, farli vivere e “goderseli”, mentre dall’altro lato è necessario moderarli e limitarli. Amicizia e amore, per esempio, vengono ridestati rivolgendo la propria attenzione all’esterno e poi, grazie a un ostentato dispendio di tempo e di fatica, può nascere un rivolgimento interiore, inteso come simpatia. E non sono soltanto gli altri a poter essere indotti in tentazione, ma anche il sé da se stesso. Lo sviluppo dei sentimenti può essere stimolato dalla natura e venire dalla vita stessa, cioè da situazioni e incontri che accadono a prescindere dal nostro concorso. Ma può anche essere artificiale, indotto volontariamente, per esempio mediante rappresentazioni che il sé si costituisce e che condizionano il presentarsi dell’occasione concreta per provare un certo sentimento. La gioia che precede il verificarsi di qualcosa che è già presente nella nostra rappresentazione può essere molto più forte di quella che si prova quando quel qualcosa ci si presenta in carne e ossa. Certi sentimenti possono essere ridestati, oltre che dalle rappresentazioni, anche da precisi modi di comportarsi: amare ci fa stare bene, litigare ci fa arrabbiare. Il sé può cercare

alcuni contesti o evitarne altri: ci si sente bene in questa casa, o in questo paesaggio, ci fa stare bene frequentare tale o tal altra persona, oppure la evitiamo perché ci mette a disagio. Nel momento in cui i sentimenti vengono ridestati nasce il bisogno di trovare una forma per esprimerli, ma anche per farli vivere e per dare loro una struttura. Una prima espressione possibile è quella involontaria del corpo, nei confronti della quale si può fare ben poco: impallidire, arrossire, respirare in un certo modo, il battito cardiaco lento o accelerato, legato a reazioni nascoste all’interno del corpo e del cervello. Se nelle culture tradizionali ci sono forme prestabilite, in quella moderna ciascuno deve sforzarsi di trovare la propria, traendo spunti dai media, dalla musica pop o da quella popolare, dalle canzonette, dai romanzetti, dalle soap opera, dai film commerciali, dagli stadi e da tutto ciò che può essere prodotto dall’industria del sentimento. La possibilità di sfruttare un gran numero di offerte-cliché indica il pressante bisogno di una via d’accesso ai sentimenti che, nell’epoca moderna, restano come anestetizzati. Particolarmente significativo è il sogno di un amore romantico, che l’industria dei sentimenti offre e mette sul mercato in quantità massiccia. Per il soggetto dell’arte di vivere è decisivo imparare a valutare l’intensità dei sentimenti, per non “rimanerci sotto” – a meno che non si cerchi proprio questo o non lo si abbia in qualche modo messo in conto. Il terzo atto consiste nel dare ai sentimenti incontenibili un’espressione in grado di gestirli, tale da trovare una forma capace di esprimere a regola d’arte e in maniera raffinata la loro intensità. La differenziazione dell’espressione del sentimento è molto importante, perché quanto più è marcata tanto più è possibile avvertire un certo sentimento in maniera sublime. L’espressione è un modo per esternare la forza di un sentimento, così come per renderlo riconoscibile. Il sentimento che non trova un’espressione adeguata cerca di farsi ascoltare urlando e manifestandosi selvaggiamente; quando viene

espresso correttamente, invece, modera la sua energia o la perde del tutto. La regolazione artificiale del sentimento avviene nella forma dell’espressione ogni volta che il respiro subisce una variazione o il corpo viene messo in movimento, a seconda della posizione del capo, del modo di aprire le labbra, di sbattere le sopracciglia e le palpebre o di ruotare gli occhi, di aprire le dita, di toccare il proprio corpo con le mani o di interrompere il contatto. Gli stimoli per lavorare sull’espressione dei propri sentimenti attraverso la mimica, la gestualità e il movimento appaiono sul palco dove si mettono in scena, appunto, i sentimenti: il cinema, il teatro, l’opera. Diversamente possono essere espressi in musica e letteratura, in suoni, parole, frasi, racconti, e in queste forme vengono trattenuti o liberati. La forma in cui si esprime un sentimento incide sul modo di avvertirlo. Il ripercuotersi dell’espressione sulla sensazione è, poi, fortemente dipendente dal linguaggio a nostra disposizione. Lungo tutta la storia della cultura si può rintracciare la presenza di un lavoro di educazione dei sentimenti, e soprattutto di definizione delle loro forme espressive. I risultati di questo lavoro, che peraltro non è ancora giunto al termine, si scorgono sul viso di chiunque.

Formazione del viso: la forza plastica della vita Nel dare forma a se stesso e alla sua vita, il sé si comporta come uno scultore, almeno secondo Epitteto (Diatribe, I, 15). Ma nell’arte di vivere questa relazione viene invertita: l’”artista” cambia prospettiva e conferisce forma alla “vita”, proprio come fa lo scultore con la statua. Solo in questo modo è possibile spiegare perché agli occhi di qualcun altro si possa apparire come fatti di pietra. Chi ci ha lavorato? Intanto, è la vita stessa ad avere una forza plastica, e lo strumento che usa per portare avanti il suo lavoro è l’insieme di esperienze, desideri, aspirazioni, illusioni, dolori, piaceri che ci dà. In questo modo la vita è in grado di tracciare i contorni delle labbra fino a farle coincidere con tutta la bocca o ridurle a una linea sottile, ne solleva gli

angoli facendo sorridere o li piega verso il basso, in un’espressione di fastidio; solleva le sopracciglia con sorpresa, oppure le fa calare stancamente; traccia rughe grandi e piccole sulla fronte e le marca nel corso del tempo, a seconda della frequenza con cui si usano i muscoli che le si nascondono dietro. L’uso prolungato usura l’aspetto dell’essere umano, mutandone la forma, quella del viso, quella del corpo, il modo di muoversi così come la gestualità. Nel viso si manifesta tutta la vita, ma anche la mancanza di vita. Può essere un problema il fatto che il viso resti liscio, troppo liscio per una vita piena che ama di più le rughe, espressione della ricchezza delle sue lande. Molto più di quanto il suo nome possa indicare, il viso è proprietà del sé, nonostante non sia mai in suo esclusivo possesso. Per quanto le sue linee portanti siano individuali, esse sono anche “costruite dalla cultura”, compenetrate dagli usi di una regione e di un’epoca: la semplice osservazione della mimica consente di subordinare le peculiarità di un viso individuale a uno spazio e a un tempo determinati. Il viso parla anche quando la bocca non emette alcun suono e ottiene risposta anche quando non sente nulla. Per questo Emmanuel Lévinas aveva ottimi motivi per fondare la sua etica interamente sul «volto», anche perché, quando non li si guarda in faccia, gli altri restano un’astrazione etica. Un’ermeneutica del volto intende interpretare da un punto di vista individuale e culturale i tratti distintivi del viso, dalle cui profondità echeggiano tristezza e gioia, avvilimento e lucidità, e nelle quali si nascondono difficoltà, dolori, delusioni, desideri proibiti e odio non ancora consumato. Nel suo aspetto esteriore il volto coniuga i diversi aspetti del sé, ma sotto la sua superficie ribolle un vulcano. Dal punto di vista fisico, così come da quello psichico, il viso non è altro che una parte del sé offerta agli altri nella sua nudità. Il viso si protegge, diventando una maschera attraverso la quale non è mai possibile riconoscere chi la indossa, e

a volte non solo se ci si trova di fronte a un estraneo, ma anche quando ci si guarda allo specchio. Si comincia a vivere con una doppia faccia: quella “vera”, che solo pochi possono vedere, e quella “costruita”, che viene smarrita proprio quando diciamo di aver “perso la faccia”. L’arte del volto consiste nel dare una forma al proprio viso, non tanto direttamente, quanto in maniera indiretta. Un intervento diretto ha a che fare con strumenti cosmetici o con interventi chirurgici, ma anche con un esercizio dell’espressione che ha la funzione di “darsi un contegno”. La formazione indiretta, al contrario, riguarda l’influenza che il sé può esercitare sulla costellazione della sua vita, la quale, per l’appunto, ne condiziona la costituzione: si cercano intenzionalmente certi incontri per poter passare del tempo con gli altri in un determinato modo; ci si accosta ad alcune situazioni con l’obiettivo di fare una precisa esperienza; si stabilisce un dato atteggiamento che viene assunto in riferimento a quelle situazioni di cui “si deve venire a capo”. Naturalmente, in questo modo vengono favoriti alcuni sentimenti a scapito di altri; e, dal canto loro, tali sentimenti influenzano l’anima che, a sua volta, si manifesta attraverso il volto; si tratta quindi di un percorso che procede dall’interno verso l’esterno. Il punto di partenza risiede, perciò, all’interno del sé, e offre spazio alle passioni: per esempio rende possibile viversi una gioia e moderare gli affetti, evitando che un’invidia deformi il viso in modo troppo evidente. È nell’interiorità che si chiariscono e vengono riequilibrati i rapporti di forza, la cui particolare costituzione consente di attirare determinate persone e di vivere certe situazioni piuttosto che altre: queste sono le vere “operazioni di bellezza” che incidono in maniera irreversibile sulla conformazione del volto. Così, il sé fa lavorare la propria vita diventando lo scultore di se stesso – con una discrezione esercitata, tuttavia, non solo in rapporto agli altri, ma anche verso se stessi. Ci si sente perciò sollevati dalla fatica e dalla responsabilità nei confronti del

proprio viso. La condotta di vita consapevole ripristina precisamente questa fatica e, quindi, si cura di mettere a disposizione e mantenere un intero repertorio di abitudini che hanno effetti di lungo periodo. «Lente e minuziose sono tutte queste cure», scrive Nietzsche. «Anche chi vuol guarire la sua anima deve riflettere sulla trasformazione delle più piccole abitudini» (Aurora, 462).

Formazione del carattere: il senso della “fortezza” Una volta, in età antica, c’erano concetti che avevano una funzione importante, ma che oggi risultano quasi incomprensibili: “la fortezza”, per esempio, andreía in greco, era parte di un’etica dell’eccellenza, dell’aretē, che era molto più di un’”etica della virtù”, giacché si estendeva, oltre che a quella morale, anche alla perfezione di tutta la sfera extramorale della vita. Aretē, perfezione, eccellenza valevano perciò non semplicemente come date, ma dovevano essere “fatte” mediante un’etica (ethízein) e acquisite grazie all’esercizio e all’abitudine. Solo allora erano in grado di esercitare una peculiare influenza (charaktēr) sull’anima, le cui qualità non potevano perciò essere considerate solo come prodotte dalla natura, ma anche come il risultato di un lavoro del sé. A partire da Platone, sono quattro le qualità che fanno parte della perfezione: accanto alla fortezza si trova la prudenza (sophía), la temperanza (sōphrosýnē) e la giustizia (dikaiosýnē), tramandate poi come virtù “cardinali” e completate dal cristianesimo con fede, carità e speranza. Oggi non avrebbe senso parlare di un nuovo “catalogo delle virtù”. Il sé, piuttosto, effettua la sua scelta, e le eccellenze di cui abbiamo parlato vengono prese in considerazione quando si tratta di dare forma alla sua anima. La virtù della fortezza sembra essere quella più antiquata: può ancora essere una qualità eccellente? E a quale livello della vita può essere ancora efficace? Il suo concetto è certamente diventato equivoco, deturpato dalle

guerre che hanno trascinato soldati valorosi a morire per cause troppo spesso assurde. Ma limitare la fortezza solo al suo significato militare significherebbe rinunciare alle conquiste civili che ha reso possibili. Concetti come coraggio, risolutezza, valore civile prescindono dal sesso del loro soggetto e, diversamente da quanto avveniva nella cultura greca, non possono essere collegate, soprattutto quando si parla della fortezza, all’essere umano maschio. La base della fortezza è la solidità del sé, prodotta dall’etica e dall’ascetica, da un atteggiamento consapevolmente scelto e da un esercizio completo e persistente. Il sé coraggioso trova il suo apice, e anche il suo criterio, nel momento in cui si appropria di abitudini che decidono del suo modo di agire o che, per altro verso, gli permettono di non farlo. In questo modo egli è in grado di sovrastare la paura con il coraggio, ma anche di assumere “coraggiosamente” la paura, proprio nel momento in cui essa si mostra come insuperabile. La fortezza è sostanzialmente una capacità di farsi carico di qualcosa, una disponibilità a sopportare ciò che non può essere cambiato, come una situazione negativa, anche solo temporanea, o un dolore, anche solo come esercizio. Fino a un certo punto, che può essere stabilito soltanto dal sé, la fortezza consiste nel sopportare quelle ferite dell’anima che appaiono inevitabili e che, se si vuole mantenere intatta la polarità della vita, non possono essere eliminate. La fortezza garantisce una persistenza di sé di fronte allo scorrere del tempo, permette di rimanere saldi in una situazione di conflitto e assicura la capacità di resistere alle pretese eccessive. Ma quando si parla di fortezza non ci si riferisce soltanto a se stessi, ma anche a chi non si vuole abbandonare nei momenti di difficoltà: ci sono valori universali come la dignità umana, la libertà e la giustizia che potrebbero correre seri pericoli se non fossero sostenuti da un agire coraggioso del singolo nei casi specifici più diversi. Il presupposto per questo valore civile non è essere, ad esempio, un uomo particolare o addirittura un “uomo

buono”. Non è necessario essere animati da un eccessivo senso morale, né essere eccessivamente inclini verso gli altri, cioè “altruisti”. Non è nemmeno necessaria una riflessività straordinaria: non è detto che un intellettuale sia sempre anche coraggioso. Sembra insensato voler rendere norma il valore civile, anche perché esso riposa sulla forma del sé, sulla sua solidità e sulla formazione del suo intuito, che cresce con le esperienze: ci si può arrivare dopo qualche momento difficile, o dopo esperienze incoraggianti, magari sulla scorta dell’esempio rappresentato da altri. Ma la baldanza o un coraggio eccessivo non coincidono con la fortezza, che non è cieca ai pericoli, non passa sconsideratamente sul cadavere di chiunque e non è affatto una forma incosciente di coraggio, magari innescata dalla reazione al coraggio degli altri, dei quali il sé non può fare a meno. Analogamente a quanto dice Platone nel Lachete la fortezza è una «forza prudente» e proprio per questo motivo può stare insieme a virtù come prudenza, temperanza e giustizia. In definitiva, il valore civile non rappresenta una qualità a sé stante, ma deriva dalle connessioni che definiscono tutta una vita e trova il suo posto nell’insieme delle esperienze e delle rappresentazioni di un essere umano. L’agire coraggioso ha a che fare, come era anticamente per la fortezza, con una vita coraggiosa. In questo senso è decisivo rendere il coraggio un modo di essere che consiste nel coraggio di vivere, di sopportare le difficoltà, di contrapporsi alle situazioni spiacevoli e alle avversità senza pretendere dalla vita ciò che si desidera come fosse dovuto. In gioco è sempre il coraggio del singolo, che non orienta la sua vita in funzione di ciò che “fanno tutti”, ma di ciò che ritiene più giusto e che trova come risultato di un sapere compiuto, dettatogli dalla voce della sua coscienza, allo scopo di trovare in tutto questo la base per la sua intera vita, che resta sempre di sua proprietà, autonoma, impegnata e creativa. E per questo motivo anche nel valore civile la priorità non va mai accordata alla vita degli altri, ma alla propria, legata al pensare in

piena autonomia, al rispetto e alla responsabilità nei confronti di se stessi. Il problema di una “vita propria” non consiste tanto nel fatto che la vita viene resa impossibile da forze anonime o da tutto il sistema, ma nella mancanza del coraggio necessario per realizzarla. Il senso del coraggio di vivere è, dunque, una vita che ha e pretende rispetto nei confronti di se stessi. Rispettare se stessi e la capacità di riconoscersi come degni di rispetto sono condizioni di possibilità per rispettare gli altri e per riconoscerli in quanto tali. L’atteggiamento che motiva il riconoscimento di sé ha, proprio per questo motivo, un primato su quello che porta al riconoscimento degli altri. Da questo punto di vista una “lotta per il riconoscimento” potrebbe apparire anche come compensazione di un mancato riconoscimento di sé. Fondamentale, tuttavia, è sempre la cura per le qualità eccellenti della propria anima, che mette in condizione di prendersi cura anche degli altri e della società intera. Dalla cura deriva la forza e il rispetto nei confronti di se stessi, anche perché rispettare se stessi non significa essere impotenti. È necessario tracciare nella propria esperienza il campo del gioco tra impotenza e forza e, in questo modo, anche mettere alla prova la propria fortezza: è il dolore a dischiuderci questa via, anche quando non sentiamo l’esigenza di percorrerla.

Esiste un’arte del dolore? I sentimenti fondamentali sono dolore e piacere e, proprio perché contrapposti, rinviano l’uno all’altro. Una vita all’insegna del puro piacere, senza quell’esperienza di contrasto costituita dal dolore, non saprebbe niente di sé. Una vita soltanto nel dolore, senza soste, anche solo temporanee, non potrebbe essere vissuta. Dolore e piacere si mostrano come parti costitutive della più ampia polarità della vita, che Gracían descrive in questa maniera: «Il gioco tra contrari rende il mondo più bello, anzi lo sostiene» (Oracolo manuale, 108). L’autentica sfida della vita, perciò, non è tanto il piacere, di cui si può godere anche senz’arte e senza troppa fatica, ma il dolore, che

nessuno desidera per sé e la cui eliminazione non è mai ovvia. Nessuno lo deve cercare, ma naturalmente qualche volta questo si impone: ci assale in forma acuta o cronica, può rinviare a una malattia che lo innesca, può essere localizzato e/o diffuso, se ne può guarire o ribellarvisi. Può essere un dolore fisico, dell’anima o – cosa che accade spesso, anche se raramente viene presa sul serio – di origine spirituale e pertanto “inconsistente”, magari perché causato dalla presa di coscienza di un abisso sul quale non si possono gettare ponti, o da una visione penetrata dalla tragicità di una situazione, di una vita o del mondo. Questa è la sofferenza autentica. Partendo dal corpo, il dolore condiziona l’anima e lo spirito. Partendo dall’anima e dallo spirito, invece, il dolore si “somatizza”. La varietà delle sue forme di manifestazione e la sua resistenza alle cure danno l’impressione che gli si dia più significato di quanto ne abbia. Fondamentalmente, si può dire che il dolore non è un problema del corpo, ma dell’anima che lo prova e dello spirito che gli conferisce una forma rappresentativa. Il corpo può semplicemente reagire a un “disturbo funzionale”, cioè a un danneggiamento effettivo o presunto che si annuncia con dolore. Per farlo non ha bisogno di essere regolato in maniera complessa, tantomeno deve avere una percezione ampia della sua situazione o esercitare un’attenzione preliminare: gli basta sentire il dolore come tale e rappresentarselo per “concludere” che “ha dolore” o che lo avrà. Quando il dolore arriva, bussa alla porta del sentimento e, soprattutto, a quella del pensiero; sul piano dell’anima e su quello dello spirito esiste la possibilità di acquisire una capacità per dare forma al dolore. Basilare è in questo senso la disposizione interiore che diviene oggetto della cura dell’anima e dello spirito, non nel bel mezzo della sensazione di dolore ma prima, perché la sua presenza tirannica e immediata svaluta ogni riflessione. Il dolore può essere riconosciuto come una parte fondamentale della nostra vita? Il sé è pronto ad

accettarlo o mira sempre a evitarlo, minandone le fondamenta? È possibile che la disposizione interiore al dolore faccia parte della sfera che definisce il sé in quanto tale e che gli sia sempre già data in maniera profondamente diversa a seconda della cultura, del gruppo sociale, dell’età, del sesso dell’individuo; condizioni grazie alle quali il sé può trovare se stesso nei momenti difficili. La sua disposizione può sempre restare inconsapevole, ma può anche elevarsi a consapevolezza per stabilire quale sia l’atteggiamento nel quale essa si annuncia e che cosa deve essere mutato. Si giunge così a opzionalizzare il rapporto con il dolore. Non fraintendiamo: indubbiamente dev’esserci sempre la possibilità di intervenire, già solo per evitare che la paura del dolore diventi molto più grande del dolore stesso. Non è in questione il fatto che per ogni individuo ci sia una determinata soglia del dolore. E tuttavia non ogni rapporto con il dolore deve seguire dogmaticamente il concetto di intervento, secondo il quale i dolori vanno sconfitti o, se possibile, eliminati del tutto. Questa è un’opzione, non una norma. Un’altra opzione è quella implicita nel concetto di integrazione, secondo la quale i dolori vanno accettati e integrati nella propria vita allo stesso modo dei piaceri. La scelta tra una di queste opzioni può essere effettuata solo dal sé che, in questo modo, può corrispondere o contrapporsi alle sollecitazioni che gli giungono dall’esterno. Esteriori sono per esempio quelle norme antimoderne che hanno un concetto del dolore e della sofferenza come qualcosa di indissolubile e tragico; o quelle della cultura moderna, che spera di sconfiggere definitivamente i fenomeni tragici legati al dolore e alla sofferenza facendo sopravvivere solo il piacere e la gioia. Gli esseri umani hanno talmente interiorizzato questo modo di vedere che l’esperienza di un intervento teso a modificare l’esperienza del dolore resta loro completamente preclusa, mentre possono tutt’al più arrivare a concepire una forma di intervento che renda la “soglia del dolore” sempre più stretta,

lavorando sul modo in cui si trasmettono i segnali. Con il lavoro del pensiero il sé può sciogliere il nesso tra il suo “pensiero del dolore” e la sensazione che ne prova. Gli interventi medici riducono le capacità di reazione emotiva; le operazioni chirurgiche possono danneggiare l’attività della corteccia cingolata del cervello con il risultato di inibire la rappresentazione del dolore. La duplice via dell’integrazione e dell’intervento, invece, può essere battuta nel momento in cui ci si mette alla ricerca, nel linguaggio oltre che nel movimento e in tutte le altre arti, di un’espressione adeguata: l’espressione che trasferisce il dolore dall’interno verso l’esterno, lo riconosce come parte del sé e può mitigarlo o renderlo sopportabile – anche perché il sé non preferisce mai il silenzio che lo lascia solo con il dolore. Si deve dunque trovare una forma di intimità pienamente evidente anche dall’esterno. Mentre il senso dell’intervento sul dolore risulta quasi ovvio rispetto alla possibilità di “venir meno” al dolore stesso, l’integrazione di questi due aspetti necessita di una spiegazione più approfondita. Scegliendo di sopportare coraggiosamente il dolore il sé può dare soddisfazione all’altra parte di sé. L’esperienza del dolore può essere sfruttata per dare una direzione alla propria vita, poiché ogni dolore è sempre individuale e invita a porsi domande particolarmente spinose: che cosa ho fatto della mia vita? Che cosa penso ancora di fare? Sono cosciente del fatto che la mia vita è limitata? Mi è chiaro che questo dolore può distruggerla? Questo dolore non sarà l’anticipazione della morte? L’occasione esteriore può anche essere ingenua, ma questo dolore cognitivo non può essere sopportato a lungo. E proprio in questo senso il dolore serve per dare una direzione alla propria vita: è possibile che questo significato del dolore venga cercato proprio quando ciascuno di noi, trovandosi disorientato, fa del male a se stesso. Il dolore spinge a preoccuparsi di sé, e questa preoccupazione ha la forza di rimettere il sé sulla propria strada – forse non quando domina completamente e chiede

tutto per sé, ma dopo. Il dolore segnala la presenza di un limite che si incontra nel proprio cammino fino a giungere al limite estremo, la morte di questa vita, il cui valore non deve mai essere perso di vista: ciò che nella vita appare ovvio – la vita stessa – porta con sé il dolore e lo porta a coscienza in quanto tale. Da qui deriva il disagio di coloro i quali, ben oltre la sua svalutazione per mezzo di un intervento dogmatico, devono al dolore la direzione specifica della loro vita. È inevitabile che chi si confronta con il dolore si ponga anche il problema del senso. Il dolore lo implica più di qualunque altra cosa, innanzitutto in riferimento a se stessi, e poi in riferimento al resto della vita, ossia al “dolore” in generale. Una possibile risposta alla domanda sul senso può giungere dalla comprensione della posizione del dolore nella polarità della vita. La domanda sul senso di questo dolore è un calderone che richiede una risposta definitiva: perché lo provo? Perché proprio io, perché proprio ora? A queste domande non si può dare una risposta attraverso la ricerca di un senso oggettivo. Un orizzonte per accedervi può invece essere dischiuso dall’attività soggettiva del comprendere e dell’interpretare, grazie alla quale si può attribuire al dolore un senso che, impiegato come sua chiave di lettura, consente di chiarirne la connessione con la vita vissuta fino a questo momento, con il contesto, con la specifica concezione che si ha della vita in generale, con le prospettive future, come “pietra di paragone”, come sfida. I desideri, gli interessi e tutte le restanti direzioni in cui concentrare la propria attenzione danno un contributo alla definizione del senso di questo dolore. Questo riporta la nostra attenzione al principio della pienezza ermeneutica, secondo il quale il senso da cercare è sostanzialmente molto più ampio di quanto può attestare la nostra visione attuale. Grazie al lavoro interpretativo, il sé si appropria del dolore e della vita che esso ha mutato. In definitiva il dolore è uno strumento per incrementare la nostra conoscenza, un mezzo per guardare

dentro le cose, con quella «spaventosa lucidità» di cui Nietzsche (Aurora, 114, “Sulla conoscenza di chi soffre”) ha fatto esperienza: il senso o il nonsenso di tutto ciò che costringe a rinunciare al dolore ci si apre proprio a questo punto. Dall’esperienza negativa il sé trae una risposta positiva alla domanda su ciò che la vita è nella sua essenza e nella sua concretezza. Trovare senso nel dolore è il presupposto per integrarlo nel sé, così come la familiarità con il dolore impone un lavoro sulla propria integrità. Comprendere il sé come integrità non porta a comporre aspetti dell’io divergenti tra loro, ma a integrare qualcosa come il dolore che è sempre “altro”, diverso e spaventoso. Il fatto che il dolore abbia la facoltà di mettere in questione la rispettiva “identità” di ogni sé e minacciarne tutta la consistenza mostra il suo significato esistenziale: il dolore intacca alla radice la nuda esistenza del sé, che, se ci tiene a sopravvivere, può spuntarla solo scendendovi a patti. Più di qualunque altra cosa il dolore è ciò che è più proprio del sé, ne definisce la sfera della proprietà, così come quella della solitudine; il dolore richiede un pieno ritrarsi in sé: il sé deve preoccuparsi di se stesso, e nessun altro può farlo, a prescindere dall’aiuto che può offrire. Il lavoro di integrazione lo contrasta. L’integrità, infatti, viene sviluppata nell’arte del dolore già solo per poterne distribuire la pressione su tutte le parti del sé, perché tutte le parti si rafforzano l’una in rapporto all’altra e sanno reagire al dolore molto meglio di un singolo organo che si ammala perché sottoposto a una pressione eccessiva e alla fine si rompe. L’integrità non abbandona a se stessa la parte del sé che è interessata dal dolore, ma ripartisce quest’ultimo in tutto il sé e tenta, così, di ridurlo. L’integrità lavora pertanto a una coerenza interiore di tipo nuovo e rende possibile il non perdersi nell’estraneità rappresentata dal dolore – a meno che quest’ultima non venga scelta consapevolmente. Per essere sopportato il dolore ha bisogno che la vita si riequilibri in

rapporto a esso. A ciò serve il godimento dei piaceri: un’arte del piacere è necessariamente una parte costitutiva dell’arte del dolore. Siccome la vita nel dolore causa una tensione enorme, è importante procurarsi delle isole di piacere sulle quali il sé possa rilassarsi almeno per un certo tempo e trovare nuove forze. A disposizione c’è tutta la scala dei piaceri, ma non è scontato che il sé possa essere invaso da ogni tipo di piacere, il quale, piuttosto, deve essere cercato e realizzato. I piaceri possono avere una natura sensibile e impiegare il potenziale di quei sensi che non sono intaccati dal dolore: guardare immagini o volti, gustarsi una pietanza, ascoltare musica, annusare un profumo, toccare una mano, muoversi esteriormente e sentirsi interiormente. Ma il sé può anche godersi piaceri più astratti: quelli che derivano dal pensiero e dalla riflessione, dalla fantasia, dai ricordi. Ci sono piaceri che hanno senso in rapporto agli altri, come quelli del dialogo, del silenzio con se stessi, della lettura, dell’ozio o della mera inerzia. L’intensità dei piaceri permette di sopportare meglio i dolori e apre all’esperienza dell’oltrepassamento di se stessi, per guardarsi come dall’esterno, fare conoscenza del lato doloroso della vita e affrontare il pericolo dello sfinimento. L’esperienza del dolore non pone assolutamente fine alla vita bella, ma la rafforza. Bello è ciò che ci sembra degno di approvazione, che non coincide sempre con ciò che è piacevole, godibile, “positivo”, ma comprende anche lo spiacevole, il doloroso e il “negativo” – perché questo può essere il risultato di un’esperienza più profonda che è in grado di dischiudere il senso della vita, che fa maturare e che ci fa “andare avanti”. Da qui la tesi di Epicuro (Lettera a Meneceo, 129): «Non si devono evitare tutti i dolori». Grazie al dolore la vita bella diventa vita piena, cioè una vita che comprende tutta la pienezza dell’esistenza e che non si illude di poter restare solo nei limiti della sua metà piacevole. La gioia che nasce quando il dolore cessa è

incomparabile, anche se è breve: la vita, che per gli altri è un fatto scontato, appare ora come un dono del cielo. Ma l’atteggiamento che può comprendere sia il cielo che l’abisso è la serenità. Sereno non è chi è sempre allegro, ma chi conosce le esperienze contrastanti dell’allegria e della tristezza ed è in grado di mantenerle in equilibrio. Chi è sereno non deve solo provare a tenere per sé gioia e piacere, ma anche dolore e sofferenza, facendo in modo che ciò che sembra pesante possa arrivare ad apparire leggero. Già da molto tempo si sono diffusi esercizi che rendono possibile sviluppare un atteggiamento sereno nei confronti della vita: si tratta di esercizi fisici che hanno effetti molto maggiori sull’anima.

Imparare a ballare e a cantare «Quest’anima nuova avrebbe dovuto cantare – non argomentare». Nietzsche giungeva a questa tesi nel 1886, molti anni dopo aver pubblicato, nel 1872, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, apponendo a questa sua opera prima una nuova prefazione dal titolo “Tentativo di autocritica”. Nietzsche intendeva ovviamente la poesia, e non certo il canto, come l’espressione udibile dell’anima che, proprio tramite il “canto”, esce letteralmente fuori di sé (ékstasis). Con gli strumenti della voce esteriore, nel canto, il sé fa risuonare la sua voce interiore, comprende tutto il suo corpo come un insieme di vibrazioni e “armonizza” tutte le parti di se stesso in un suono omogeneo, anche se solo momentaneo. Nel rapporto dei suoni tra loro viene resa giustizia a ogni aspetto del sé e ciascuno di questi si pone in rapporto a ogni organo, sentimento, pensiero; l’intuito per se stessi si raffina: così il canto può guarire tutto il sé, che cantando riproduce la sua integrità e la avverte sotto forma di sentimento. Si tratta di una liberazione da ciò che nel sé esiste come vincolato, e al contempo di una formazione della libertà, perché nella struttura che riesce a costruire il sé articola se stesso e la sua vita, scopre nessi sensati, fa esperienza della pienezza della vita. Il piacere che,

proprio per questo motivo, il canto riesce ad arrecare concede una pausa dalle preoccupazioni: chi canta non si preoccupa di nulla, almeno non in quel momento. Cantando in un coro il sé può capire come nello spazio in cui risuona la musica le voci si moltiplichino e le molte voci esteriori si fondano in un unico corpo sonoro: la formazione di un megasoggetto integrato nel quale ogni singolo lascia dietro di sé la propria solitudine sentendosene felicemente sollevato. Toccante è, inoltre, la singola voce umana che si leva dal coro: si staglia su tutto il piano definito dall’orchestrazione, si propaga come se avesse le ali, piange e trionfa su ogni svilimento dell’esistenza umana, proprio come la voce di Lisa della Casa, che nel 1953 canta i Vier letze Lieder (i ‘Quattro ultimi Lieder’) di Richard Strauss, composti nel 1947 su poesie di Hermann Hesse e Joseph von Eichendorff. Certo, la nostra voce non deve raggiungere questo livello di eccellenza per potersi esplicare. Per l’uso quotidiano basta essere cantante e non “cantore”, sussurrare semplicemente qualcosa o cadere nel recitativo tipico del rap. Basta questo a far cantare l’anima. Lo si può fare anche a voce alta, quando non c’è nessuno. Ma, senza misconoscere l’importanza del canto mattutino sotto la doccia, ci si può anche mettere d’accordo su altre “categorie” di canto. Il canto ha in comune con il ballo la profondità del respiro, l’espansione fisica del sé, che diventa espansione anche dell’anima. L’anima gira vorticosamente su se stessa e porta il sé a incontrare gli altri, lo mette di fronte ai loro occhi, toccati dalla sua aura. Ballo con Markus, un giovane uomo che ha un handicap spirituale e che oggi si sente molto giù. Ma il pensiero lo infiamma e vuole provarci: se il corpo impara a ballare, lo fa anche l’anima. L’atelier nel quale lavora si trasforma in un dancing; cominciamo a ballare, ciascuno per sé e poi tutti e due insieme allo stesso ritmo. All’inizio è difficile, perché chi impara a ballare inizia a conoscere la

forza di gravità, che trascina tutto verso il basso. Frena. Le gambe sono pesanti. Tutto cade giù, troppi pesi che dall’anima scivolano nel corpo. Così il ballo diviene un gioco di potere con il peso e con la forza di gravità, contro i quali ci si ribella sentendosi eccessivamente abbandonati al loro influsso. Il corpo trema senza controllo, ma ben presto le membra cominciano a essere cullate dal ritmo, finché non capiscono che la forza di gravità non deve essere vinta, ma bisogna solo giocare con lei. Siamo in ballo, e continuiamo a ballare, soprattutto quando la fatica sparisce! E alla fine ci si eleva al di sopra dell’esistenza ordinaria, che porta il peso della Terra, su, su, fino alla straordinaria leggerezza dell’essere, che permette di percepire in maniera più lieve la forza che ci attrae verso il basso. Anche gli oggetti attorno a noi vengono tirati nel vortice, non appena le gambe che ballano si elevano dal suolo del reale e si piazzano altrove: ebbrezza della realtà. Dove si trovano in questo momento le parti del mio corpo? La magnifica sensazione di un movimento fluido, del movimento ritmico che si sviluppa assieme agli altri cresce fino all’esaltazione, fino al «dolce sogno dell’oblio»: il soggetto, colui che pensa, si dilegua dal corpo, che trema. Nel sentirsi, il sé è “completamente presso di sé” e, nello stesso tempo, molto più lontano. Sente la vita ben oltre quella che gli appartiene; tutto è puro presente, non esiste più alcun pensiero rivolto al passato, nessuno spinto verso il futuro: quale sentimento di felicità, che sensazione di pienezza e di espansione, come ci si riesce a scaricare, anche nel momento in cui ci manca il respiro e le gambe ci fanno male! L’effetto della danza è quello di conoscere se stessi e gli altri in una maniera completamente diversa. Non è importante quale sia il ballo, l’importante è ballare, per sé o assieme ad altri. Nel ritmo il sé comincia a sentirsi in maniera sempre più intensa e a entrare in relazione con gli altri. Il ballo permette di trovare una struttura che conferisce forma alla vita e al nostro stare insieme. Ma quando si balla con qualcun altro entra in

gioco l’arte del contatto, che è al contempo un contatto con se stessi, perché tramite il contatto con gli altri è il sé a essere nuovamente toccato; da qui deriva la gioia che si prova nel toccare gli altri, come ad esempio nel tango, che letteralmente significa: ‘tocco’, ‘tasto’, ‘prendo’ e che rimanda sicuramente alla parola greca thíngano. Ballando possiamo oltrepassare il cartesiano cogito, ergo sum, con qualcosa che non è altro che una formula diversa per identificare l’essere umano: tango, ergo sum, ‘tocco, dunque sono’. Il ballo rappresenta un esempio di come si può percorrere la via che porta a diventare padroni di sé: attraverso un primo esercizio ascetico, il sé elabora nuove possibilità di disporre di sé. Mettendole in pratica le rende realtà. Il ballo placa, regola, riequilibra il rapporto interiore del sé con se stesso e, attraverso quello del corpo, anche l’anima trova il suo equilibrio. Nello stesso modo in cui il movimento interiore si esteriorizza, quello esteriore si interiorizza: il corpo balla e l’anima si mette in movimento. Ora Markus ne è convinto. Ciò che era inerte viene rimesso in moto, anche i sentimenti, che ora, potendosi esprimere, acquistano una forma: possiamo vivere la tristezza, che altrimenti si ferma come un nodo in gola, e dissolverla; anche la rabbia si scioglie nel movimento. Le tensioni tra le forze interiori si distendono e la forza che abbiamo guadagnato può esprimersi all’esterno. Finalmente il movimento coglie il cervello, e anche i pensieri cominciano a ballare. Lo spirito, che ora non riflette più nervosamente, si gode un po’ del relax che si è guadagnato attraverso la danza. Proprio per questo motivo Nietzsche si era messo in testa di imparare a ballare: «La danza è un ideale» (La gaia scienza, 381), l’ideale del filosofo, che tocca il mondo con la punta delle dita dei piedi. L’unico errore potrebbe essere quello di cominciare a ballare solo col cervello.

La giusta misura: evitare gli estremi o cercarli?

Il canto mescola acuto e grave, unifica movimenti contraddittori. Tutta la vita è una danza: come potremmo descrivere altrimenti il tentativo di bilanciare due elementi contrapposti, e precisamente quelli che si trovano ai suoi estremi, più in alto grado e più in profondità, se non come tentativo di cercare di trovare la giusta misura in tutte le cose? Uno sforzo fisico eccessivo o minimo, sentimenti forti o inariditi, troppi pensieri o troppo pochi: quanto sia difficile trovare una misura si mostra nel fatto che non si fa altro che sbagliare, ma sempre da prospettive diverse. Quando si mette alla ricerca della giusta misura il sé ricorda un ubriaco, barcolla lungo la strada, a destra e a sinistra, cercando, però, in questo modo di restare più o meno al centro. O, come sostiene Aristotele, il pensatore della moderazione, è inevitabile «inclinare a volte verso il troppo, e altre verso il troppo poco, perché in questo modo potremo trovare più facilmente il centro e ciò che è più corretto» (Etica Nicomachea, II). Oscillando tra «eccessi» (hyperbolē) e «difetti» (élleipsis), tra esagerazioni e restrizioni, è possibile trovare la misura, ciò che pare adeguato. Questo processo non può concludersi mai, ma oscilla costantemente, proprio come un pendolo. Se così non fosse la vita stessa conoscerebbe la sua fine. Sembra sensato, dunque, non temere gli estremi, ma addirittura cercarli liberamente al fine di andare incontro alla volgarità della vita. I piaceri rappresentano un luogo esemplare per esercitarsi a farlo: occorre rifiutarne anche uno solo per mostrarsi padroni di se stessi, ma non sempre, per non rischiare, secondo Aristotele, di incorrere nell’apatia. Un problema della vita nell’epoca moderna è proprio quello della mancanza di una misura già data dalla cultura, per esempio per quanto riguarda i piaceri del mangiare, del bere e dell’amare. Così, il lavoro necessario per trovare una giusta misura tra il troppo e il troppo poco diventa un compito che solo il sé può portare a termine. La misura, di cui ciascuno è responsabile nella propria arte di vivere, non è mai qualcosa di fisso; a

seconda delle situazioni per giusta misura si può intendere anche un eccesso o un difetto: l’optimum sta a volte nel minimum, a volte nel maximum. Amare o fuggire i due estremi, questi due atteggiamenti fondamentali contrapposti tra loro, sono opzioni dell’arte di vivere: si può essere estremofili o estremofobi. E tuttavia lo sforzo di colui che ama gli estremi non può durare a lungo; arriva un punto in cui c’è bisogno di respirare, e il respiro è dato dalla rinuncia. Altrettanto invivibile è la mancanza assoluta di passioni, tipica di chi tende a fuggire gli eccessi, e che a un certo punto ha bisogno di un qualche impeto che gli restituisca la vita. Un’armonia, o una proporzione stabile – obiettivo, a suo tempo, anche degli stoici – può solo stare in mezzo agli estremi, con il rischio di essere noiosi ogniqualvolta si faccia di tutto per proteggerla. Ma non è possibile rinunciarci, cioè è impossibile fare a meno di una rappresentazione che consenta di prendere le misure agli eccessi e ai difetti e, quindi, di comprenderli in quanto tali. Ma tutto ciò che viene fatto in maniera esagerata prima o poi raggiunge un grado di saturazione o di mancanza tale da riportarlo al suo contrario, e quanto più l’esagerazione è estrema, tanto più violento è il capovolgimento. Anche questo può essere un motivo per cercare gli estremi: capovolgere i rapporti dati. Dell’”eccesso come mezzo di guarigione”, parla Nietzsche (in Umano, troppo umano, “Opinioni e detti diversi”, 365). Proprio nell’eccesso egli vede possibili modi di accedere all’arte di vivere: «Si può ridar sapore al proprio talento ammirando e gustando per qualche tempo, in misura eccessiva, il talento opposto. – Usare l’eccesso come mezzo di guarigione è uno degli artifici più sottili nell’arte di vivere». Un motivo a favore del culto degli estremi, come quello di cui si può fare esperienza negli sport estremi, è senza dubbio la condizione moderna della liberazione da ogni criterio in grado di regolare il rapporto con se stessi, che prima era dato dalla tradizione, dalla religione o dalle convenzioni: nelle

esperienze estreme il sé spera, oltrepassandoli, di trovare autonomamente i suoi limiti, così come di riprendere contatto con quel limite imposto dalla morte, che è in grado di dare una misura alla vita e che nella cultura moderna è stato ormai perso di vista. L’aspirazione a un criterio autonomo e quella, altrettanto immensa, di sottoporsi a un criterio eteronomo, sono particolarmente riconoscibili nel bisogno degli estremi; allo stesso modo diventa urgente anche l’aspirazione, che non può mai essere messa a tacere, all’oltrepassamento, alla “trascendenza”, che in un mondo secolarizzato non può manifestarsi diversamente. Questo culto degli estremi ha a che fare con una “patologia clinica” o con “idioti che mettono a repentaglio la loro vita”? Comprendere questo fenomeno come una malattia o come un comportamento immorale significa ricorrere a una scala di valori tipica dell’età premoderna, inefficace nella prassi e inadatta per rendere conto di uno degli aspetti fondamentali della cultura moderna. Dolore, infelicità e morte nascono in questo modo? Possono nascere, però, anche in maniera diversa e per questo non possono essere eliminati. Possono, infatti, risultare anche dall’indifferenza o dalla neutralità, sebbene gli estremi restino nell’ambito delle possibilità di scelta dell’uomo moderno, che non deve rendere conto a nessuno. Ciò che appare più problematico è il proposito di voler identificare la massimizzazione del piacere con i suoi estremi, cosa che non può che causare sofferenze estreme, anche perché la realizzazione di questo proposito è di fatto impossibile. Solo un senso per la misura, sviluppato grazie all’esperienza del troppo e del troppo poco, evita gli estremismi e, soprattutto, impedisce che l’estremismo diventi un vizio. Gli estremi hanno inoltre la capacità di sfruttare le possibilità che emergono dalle oscillazioni più clamorose e, pertanto, di ampliare lo spettro in cui può oscillare ciò che può essere considerato “normale”. Il sé deve alle esperienze dell’ascesi e dell’estasi la possibilità di «essere capaci di

rinunciare nello stesso modo alle cose e di goderne», proprio come Marco Aurelio diceva di Socrate (Considerazioni, I, 16). In questo processo sono possibili anche alcune ibridazioni come, ad esempio, quella dell’eccesso ascetico: l’esercizio alla rinuncia e quello all’affinamento delle proprie capacità moltiplicano il godimento che ne consegue. Oppure quello di un’ascetica eccessiva: rinunciare a molte cose permette di dedicarsi a un’unica cosa e farne un’esperienza massimamente intensa. Più che togliere contraddizioni, ci si rafforza nel mantenere viva la tensione della vita, la cui esperienza coincide con quella del senso. Sfruttare tutto il campo di tensione della vita nei suoi estremi contribuisce a realizzare una felicità che consiste nella pienezza della vita stessa. Se il sé perde la possibilità di oscillare, avverte quella sensazione dolorosa che consiste nel non sentire più il profumo della vita; e può interromperla qualora la frequenza con la quale oscilla, ormai scarsa, non riesca a dargli più le risposte che cerca. Chi non fa che evitare gli estremi restringe lo spazio all’interno del quale possono muoversi il suo corpo, la sua anima e il suo spirito. Per questo Montaigne (Saggi, III, 13, “Dell’esperienza”) consiglia di cercare gli estremi e di temere gli eccessi; un giovane dovrebbe, anzi, «tirare spesso la corda, altrimenti resta preda degli eccessi più bassi». Soprattutto l’eccesso inebriante si mostra come un paradigma per l’esperienza, alla quale si può difficilmente rinunciare, dell’interruzione di abitudini ormai atrofizzate e della scoperta di una nuova vita.

L’importanza vitale di una sbornia La sbornia consiste nel rompere la misura, nell’esperienza dell’altro all’interno di quell’unità che è rappresentata dalla vita concreta e limitata. Tanto più avanzato è il consolidamento della realtà, tanto più urgente è il bisogno di romperla, per ritrovare la “vita vera”. La sbornia è un’esperienza di liberazione, una sorta di regressione sul sentiero della capacità. Ci si lascia

dietro le spalle ogni eccellenza per oltrepassare i confini della realtà, per “uscire da sé”, andare “oltre di sé”, sul piano della possibilità illimitata. Ogni dissoluzione di una forma di vita, così come ogni passaggio da una forma all’altra, apre lo spazio per esperienze inebrianti, che si manifestano più in generale in ogni situazione di frattura sul piano personale o politico. Si dischiudono nuove possibilità e ci si comincia a sguazzare dentro; particolarmente potente è l’esperienza della “dissoluzione del limite”, una condizione di altissima creatività, ma anche un momento in cui risulta difficile riconoscere il crinale che separa la creazione dalla distruzione. Dal primo livello della capacità, che in questo modo viene ritrovato, vengono distrutti gli altri due con l’intenzione di riportare nel regno della possibilità quella realtà eccellente, ma forse troppo stretta, sulla quale ci siamo adagiati: questo è il potenziale distruttivo di una sbornia. All’interno della forma ormai distrutta, la vita trionfa nella sua trasformazione, resa indistruttibile, potente e molto, molto, piacevole. Il fatto che la sbornia apra nuovamente lo spazio della possibilità che si sostituisce alla limitazione, quello dell’infinità al posto dell’infinitezza, ne fa qualcosa a cui non si può rinunciare. Per questo si tratta di un fenomeno molto indicativo per comprendere la storia dell’essere umano. E, infatti, la storia è piena di ubriachi che barcollano. Si tratta di un’esperienza che tocca tutti i piani della vita umana: fisico, psichico, spirituale, metafisico. Analogamente a quanto detto a proposito dei sentimenti, anche qui la povertà non esiste. Emerge, piuttosto, la vasta gamma dei possibili significati che una sbornia può assumere: piacere, dolore, tenerezza, rabbia, odio, amore, sesso. Oppure ci si avvia alle sostanze o ai fenomeni a cui può essere associata: alcol, nicotina, caffeina, droghe, ritmo, rumore, luce, danza, movimento, velocità, quiete, meditazione, dialogo, gioco, sogno, riflessione, religione, scrittura, lettura, lavoro, acquisti, vette, ampiezza, nazione, potere, violenza,

contrasto, armonia. Quando uno di questi legami crea un problema, ve ne saranno sempre di nuovi. Le eventuali conseguenze problematiche per procurarsi una condizione di ebbrezza impongono la ricerca di un mezzo sostitutivo. E di certo una sbornia non è solo uno “stato emotivo esagerato che emerge in seguito a esperienze eccitanti”; la sua radice non è soltanto “affettiva”, anzi spesso è causata da una mancanza di affetti. Quando si è sbronzi tutto è possibile, ma soprattutto è possibile dimenticarsi di sé, non sapere più “chi sono”; allo stesso modo in cui gli altri dicono «non ti riconosco». Il motivo della sbronza può essere manifesto: schiarirsi le idee, distrarsi, godere, dimenticare, stare in compagnia; sullo sfondo resta invece la forma del sé in questa perdita temporanea di sé, o nella passione per l’autodistruzione, che mostra come il sé sia sempre alla ricerca di un altro in se stesso. L’apparire di questo altro, di questo estraneo, di questo Dioniso, è la contraddizione ambulante di Apollo, il dio del Sole, delle forme e, quindi, anche dei limiti. Per disfarsi di ogni limite il sé pretende di essere “un altro” e fa valere il diritto a sbronzarsi, senza il quale la vita corre il pericolo di diventare una landa arida e desolata. Con l’esperienza dionisiaca ci si prende una pausa da quella condizione di limitatezza che è implicita nel sé in quanto tale. L’io dato e quello rappresentato si liberano da se stessi per ritrovare il “vero sé”, il sé delle possibilità, la “potenza” nel senso pieno del termine; per questo quando si è sbronzi ci si sente onnipotenti e fortissimi e si fa l’esperienza davvero notevole di un sé – fuori di sé – dentro di sé. I limiti della realtà spariscono, la differenza tra soggetto e oggetto viene meno, diventa possibile essere un altro: essere uno con tutto e tutto in uno. Il fatto che i discorsi fatti in stato di ebbrezza, o i pensieri folli che caratterizzano quei momenti, permettano di legare tutto a tutto rende quella della sbronza un’esperienza intensissima del senso, che resta però incontrollata e selvaggia. Difetta, infatti, di argomentazione e le prospettive – mai presagite prima

d’ora, così come le altre realtà che si presentano – risultano semplicemente assurde. Ma il sé ebbro entra in una nuova forma di esperienza del tempo, o nella sua completa dissoluzione; in una nuova forma di esperienza dello spazio che si curva, si raddoppia e infine va in frantumi: libero da ogni vincolo del mondo convenzionale il sé può parlare apertamente e “dire la verità”. Non è possibile fare a meno di una sbornia, perché il sé ha bisogno di possibilità, non solo per realizzarle, ma anche per sapere di avere a sua disposizione un orizzonte più ampio di quello all’interno del quale vive concretamente. Nel quadro rappresentato dall’arte di vivere l’ebbrezza coincide con la capacità di rinnovare e di ampliare una vita che ormai ci sta stretta. I dionisiaci delle culture antiche vi riconoscevano un elemento essenziale. Ma prima o poi la sbronza deve passare, perché la vita è vivibile solo nella sua realtà – altrimenti non sarebbe vita. Restituire all’ebbrezza la sua forma apollinea significa ristabilire nuovamente la vita. Il ritorno alla lucidità rende superabili le difficoltà che derivano dal porre un limite e dall’arginare ogni forma di ebbrezza. Il problema è solo quello di capire se questi limiti possano essere accettati o se non sia necessario passare subito al prossimo “goccetto”: questo può sceglierlo soltanto il sé, e fatale sarà il momento in cui non si rivela in grado di farlo. Solo il sé può arginare l’eccesso se non vuole affondare insieme a lui. Gli eccessi, infatti, sono prestazioni che comportano un grande dispendio di energie: questo è il senso del ritorno alla lucidità, la quale, di par suo, può portare all’ebbrezza della sobrietà. Nessuna sbronza può cambiare il fatto che la realtà, il sé, la vita sono limitate. Ma il tentativo di volerle possedere illimitatamente e il farlo in maniera persistente e con tutti i mezzi possibili incidono sulla forma del sé e della sua vita.

Il vizio e il vizioso: la rovina come forma di vita

A ogni possibile forma di ebbrezza corrisponde un vizio. Il vizio ha qualcosa a che fare con l’aspirazione: si aspira a una vita che si sviluppa esclusivamente sul piano della possibilità e che appiattisce la capacità al suo primo livello. Si diventa dipendenti dalla ricerca dell’altro e tale dipendenza tocca tutto l’essere umano: il corpo si abitua alle sostanze inebrianti senza poterne più fare a meno; l’anima vuole solo godersi quei sentimenti piacevoli che scambia per la felicità tutt’intera; lo spirito non è più in grado di pensare ad altro che a mantenere in vita quella possibilità, di cui tuttavia è necessario evitare che diventi reale o venga limitata. La naturale moderazione dell’esperienza del piacere, ottenuta attraverso il confronto occasionale con i dispiaceri, viene sostituita da un incremento incontrollato del piacere stesso, del quale si pretende una quantità sempre maggiore. Il vizio, allora, non è altro che una sfrenatezza distruttiva, che non può che diventare “malattia cronica”. Il vizio diventa una forza del sé che si sottrae alla riflessione e comincia a operare autonomamente. In questi casi, più che in altri, gli esseri umani arrivano a conoscere gli abissi del sé, degli altri, della vita, del mondo. In misura ancora maggiore gli esseri umani si trovano a confrontarsi con le possibilità e le impossibilità tipiche della vita; con l’oltrepassamento di tutti i valori e con la relatività di tutto ciò che può essere ritenuto stabile; con l’esperienza del nulla, che risulta dalla frantumazione di ogni legame e di ogni relazione. La dipendenza generata dal vizio è comprensibile come produzione di un legame intenso che dà senso e che non è più possibile recidere. Tale legame è ancorato al “corpo”, ma anche alla mente e allo spirito. Può essere dissolto solo con grande difficoltà, sebbene il corpo non patisca effettivamente “l’astinenza”, la quale dura solo pochi giorni. Il vizio esiste probabilmente in tutte le culture, ma non nella stessa misura e non con la stessa funzione. Nella modernità i viziosi sono spesso romantici e nostalgici di un mondo premoderno e si contrappongono al mondo moderno

quasi ne fossero estranei. Ma si potrebbe comprendere in maniera errata la modernità senza sapere come è fatta? Il vizio è una questione di libertà, giacché può svilupparsi in quanto tale solo a partire da una standardizzazione dell’essere liberi. Siccome nella modernità non è chiaro il modo in cui si debba vivere, le domande sul senso della vita si fanno urgenti, acute, e i viziosi, con la loro sensibilità, se le pongono più insistentemente di altri. Rispetto alla vita ordinaria, alle soglie del vizio il sentimento della vita e la riflessione su di essa sono più intensi. La tensione verso il profondo e l’aspirazione all’intensità sono senz’altro ragioni del vizio e motivi della sua evoluzione storica, ancora non pienamente compresa, proprio nella modernità (Claudia Wiesemann, Die heimliche Krankheit. Eine Geschichte des Suchtbegriffs, 2000). I viziosi si pongono più di altri domande circa l’autenticità dell’esistenza o sulla natura della vera vita. Molto meno disposti al compromesso di altri, i viziosi si confrontano con la felicità e con il senso, e nel loro vizio ne fanno un’esperienza assoluta, la quale tuttavia è sempre di nuovo limitata, e perciò contraddittoria proprio rispetto all’aspirazione romantica alla libertà da ogni limite. Le pretese estreme di felicità e di integrità delle relazioni, la rivendicazione di un mondo sacro e incontaminato attirano molte angosce, al punto da rendere impossibile trovare un criterio in grado di darne conto. In maniera più assoluta di altri, i viziosi dubitano di tutto fino alla disperazione. Un presupposto per conoscere meglio il fenomeno del vizio consiste nel prendere sul serio il suo significato esistenziale, e non nel commisurarlo frettolosamente alla norma di una presunta “salute”, con il solo risultato di patologizzarlo. Se l’inquietudine di un uomo viene spiegata come una “malattia”, nei confronti della quale non esiste altra via d’uscita che la guarigione, gli sforzi terapeutici sono votati al fallimento. Se invece un essere umano viene compreso nella sua individualità e in ciò che lo caratterizza in quanto singolo essere umano, è possibile che

sconfigga il vizio da sé, senza bisogno di qualcuno che lo “guarisca”. Siccome a questo livello ne va della felicità e del senso, anche i viziosi non si distanziano troppo da quella rappresentazione che ci è data dalla nostra cultura, pur perseguendola in maniera diversa. Nella cultura moderna, infatti, questa rappresentazione è caricata di tutte le determinazioni “positive” pensabili, e i viziosi non fanno altro che realizzarle tutte e tutte insieme, con l’unica conseguenza di generare in se stessi una forma di aggressività. Piacere, gradevolezza, senso assoluto, assenza di dolore: così deve essere la vita, in ogni suo momento, senza “sosta”. E poiché le fratture che, tuttavia, si presentano non corrispondono alla rappresentazione della felicità, quella condizione di pienezza deve essere realizzata anche con strumenti artificiali. Ma gli effetti di questi strumenti si esauriscono subito. Bisogna allora aumentare la dose. Si deve tendere al senso – che nella cultura moderna ha perso la sua evidenza – con tutte le proprie forze. E siccome non si è capito che il senso viene prodotto da un lavoro costante sulla propria vita, al suo posto viene collocato un senso prodotto proprio dal vizio. Nella misura in cui il senso consiste nel connettere elementi inconciliabili o esperienze della vita divergenti, il vizio produce una fondazione del senso che risulterà fatale perché, condotta alle sue estreme conseguenze, comporterà la dissoluzione di ogni connessione. La grande domanda di ogni istituzione del senso, e cioè come è possibile trovare una relazione con l’infinito oltre la limitatezza e la finitezza, trova la sua risposta solo nella condizione dell’ebbrezza e, al di fuori di questa condizione, non è possibile trovare né soddisfazione, né pace. Il vizio è fondamentalmente una possibile forma di vita, una variante strana, ma senza dubbio possibile, dell’arte di vivere: la capacità di rovinare la propria vita. Anche perché il vizio rende impossibile una vita limitata. Il riconoscimento di questo aspetto rende possibile l’esposizione delle ragioni che parlano in favore di una vita condotta all’interno di certi limiti. Anche in

questo caso è fondamentale scegliere il modo in cui il vizio entra a far parte della nostra vita. Alcol, nicotina, cocaina: di rado si sceglie attivamente di diventare dipendenti da qualcosa, e la scelta passiva che ci porta al vizio non è quasi mai consapevole, ma implicita. Questo non incide solo sulle conseguenze fisiche del vizio, che toccano innanzitutto chi è autore della scelta, ma possono investire anche gli altri. Per l’arte di vivere come arte di condurre la propria vita è necessaria una scelta consapevole, e quindi esplicita, la cui funzione è quella di evitare che qualcosa accada se non lo si desidera davvero o contro la propria volontà, e quindi che non accada qualcosa di cui non si vogliono subire le conseguenze. A questo contribuiscono i dolori che il vizio infligge, prima a se stessi e poi agli altri: la perdita del rispetto di sé che gli si connette permette di non disporre più di se stessi. Quando si sceglie di rendere possibile la vita oltre le sue limitazioni si pone il problema della sua vivibilità, il cui significato potrebbe essere attestato proprio dall’esperienza esistenziale del vizio, notevole perché in questo modo la vita scende, dalla superficie, nelle sue profondità. Non ci si dovrebbe negare a esperienze di questo tipo, e nemmeno tendere a “strapparsi” al vizio, ma farlo apparire, piuttosto, come potenziale rovina della vita umana. Fare questo significa, però, formare una superficie che permette di fare esperienza della profondità che le si cela al di sotto. Ed è qui che torna in gioco il romanticismo pragmatico, una nuova fondazione della vita nella sua banalità quotidiana e nella sua contraddittorietà. Il disabituarsi al vizio pone un problema altrettanto decisivo di quello della formazione di un’abitudine, perché il vizio stesso non era che il tentativo di istituire un più forte legame con l’abitudine, sia pure rovinoso. Le abitudini sono infatti essenziali, ma quello che conta è farle operare in maniera sempre nuova e diversa. Per vivere la vita è fondamentale farsi carico della cura di sé, perché

anche la cura che si deve agli altri emerge in misura proporzionale a quella che si ha per se stessi. I semplici esercizi di ascesi fisica rafforzano l’autocontrollo e portano a una stabilità che consente di irreggimentare in maniera definita quell’”estraneo” che circola liberamente dentro se stessi e che vorrebbe comandare da solo. Così si può riuscire a fondare una forma per l’esercizio della propria libertà e raggiungere su questa via una sorta di amicizia con se stessi, di riconciliazione con sé, che si sostituisce al permanere in quella condizione di assoluta liberazione da tutto che si manifesta nel vizio. Vivere la vita significa, soprattutto, orientarsi al bello: prendendo le mosse dal fatto che il vizioso identifica il bello, ciò che è degno di approvazione, con l’oggetto del suo desiderio, ma lo decontestualizza, è importante trovare un concetto di bello connesso a quello della quotidianità, prodotto da una riflessione eppure capace di dischiudere tutta la bellezza possibile; oltre ai piaceri del vizio questo concetto deve rendere nuovamente disponibili tutti gli altri e preparare in tal modo il sé anche ai dispiaceri, la funzione dei quali è concedere una pausa dal piacere. E, infine, bisogna riprendere in considerazione il fatto che i dolori sono la condizione di possibilità dei piaceri. Questo vale anche per il dolore metafisico, che investe l’uomo in quanto essere finito. In definitiva, l’oltre di cui la modernità soffre la mancanza non è altro che un affare del sentimento e del pensiero. Il sentimento della solitudine, che ancora rimane, trova dunque qui una determinazione ulteriore, che è indipendente dal vizio.

Il diritto di stare soli con se stessi. La solitudine come arte di vivere La solitudine ha due volti. Nella modernità sono entrambi conseguenze della libertà intesa come liberazione. La solitudine è motivata dalla libertà, ma in maniera di volta in volta diversa: come solitudine indesiderata, che è tanto più forte quanto più la liberazione arriva al culmine, ossia alla completa

liberazione degli esseri umani gli uni dagli altri e alla dissoluzione di qualunque forma di liberazione dei legami tra gli uomini; finalmente liberi, e quindi soli. O come solitudine voluta, debitrice in altro modo alle conquiste che derivano dal non dover più sottostare almeno per un po’ alle “pressioni sociali” da cui ci si libera; finalmente soli, e quindi liberi. L’arte di vivere ha come obiettivo la libertà tipica di una solitudine scelta, che protegge, diversamente dalla solitudine indesiderata, il ritirarsi in se stessi e il ritrovarsi. E lo fa sentendosi al sicuro, che significa qualcosa di completamente diverso dal sentirsi soli. Comprendere la solitudine come arte di vivere significa quindi anche prendersene cura, senza passare da una solitudine voluta a un isolamento indesiderato, evitando di rendere improvvisamente l’oggetto di un’aspirazione la cifra di un’esperienza terribile: dalla felicità di essere soli alla miseria di esserlo. Il diritto alla solitudine è una conquista del mondo moderno. Nelle culture premoderne o in quelle antimoderne restare soli con se stessi è infatti meno opportuno, anche solo per questioni logistiche. La formulazione del diritto alla solitudine è dovuta all’esigenza, propria di ogni individuo, di assicurarsi uno spazio che sia soltanto suo. Da qui la protezione giuridica della sfera privata, che non permette l’intervento di nessun altro nello spazio che la delimita, anch’esso tutelato per legge. È difficile capire se questo “ritirarsi nella nicchia del privato”, cioè la solitudine scelta e deliberata, non abbia come conseguenza la “perdita del politico”. Ma la dimensione politica non può diventare una norma; nel momento in cui viene pretesa incondizionatamente, genera piuttosto il terrore del politico. A prescindere dal fatto che resta in ogni caso un’opzione per chi non vuole partecipare esplicitamente alla dimensione della politica, solo l’esigenza di ritirarsi in se stessi può sempre presentarsi. Solo nella nicchia della solitudine, infatti, è possibile trovare quelle forze che rendono possibile “rientrare” nello spazio

definito dalla politica e dalla società. La possibilità di ritirarsi, quella di “non esserci sempre”, è un’autentica opzione dell’arte di vivere, dalla quale consegue un lavoro intenzionale sulla nicchia che porta a configurare quella del “ritiro” come una possibilità spaziale e temporale da realizzare con amore e dedizione. La propria nicchia deve essere corredata di abitudini, le cui pieghe vanno trovate e create nel tessuto del mondo e nelle quali il sé sparisce per un momento – o anche per un tempo maggiore. Nella sfera privata può svilupparsi la cura dell’anima e di quella sfera che le dà forma. Mentre nell’essere con gli altri l’anima viene data all’esterno, la solitudine rende possibile un raccoglimento. Si può essere da soli anche quando si ha una relazione con altri, ma quello del rapporto con se stessi è il tempo della solitudine, in cui si sta presso se stessi come prima si stava presso gli altri. In questo senso, la solitudine può assumere tante forme quante sono quelle dello stare insieme con altri: amicizia e avversione. Quale sia la lotta costante e continua con se stessi, che caratterizza i momenti di solitudine, lo dice già sant’Antonio nelle Tentazioni di cui parla Anastasio. Nel 275 d.C. il fondatore del monachesimo occidentale si ritirò nel deserto egiziano per vivere in assoluta solitudine e nel pieno dominio dei suoi propri impulsi e desideri. Quale sia l’amicizia che è possibile instaurare con se stessi, al contrario, è detto in maniera non meno toccante da Michel de Montaigne nei suoi Saggi, che egli cominciò a scrivere dopo essersi ritirato dalla vita politica nella torre del suo castello, all’età di trentotto anni, il 28 febbraio 1571, per dedicarsi solo a se stesso: Montaigne dà importanza a ogni più piccolo stimolo gli si presenti, per giungere a un controllo di sé che non è altro che un’esplicita rinuncia alla sovranità su se stesso. Alcuni dei suoi saggi (ad esempio I, 39) sono dedicati al tema della solitudine: «Il luogo in cui condurre il nostro dialogo quotidiano con noi stessi». È in un momento di solitudine che prende inizio il lavoro sulla vita.

Perciò Nietzsche, nel 1885, decide di abbandonarsi alla «piena solitudine», di cui peraltro parla nelle sue lettere di quello stesso anno, non da un luogo lontano dal mondo, ma dal centro di Nizza. Lui, il pensatore della solitudine, e ancor di più il suo predicatore, fa esperienza della contraddittorietà della solitudine in epoca moderna, del suo “abisso”. Nietzsche non vuole far altro che liberarsi, non dalla società, ma da un certo prof. Nietzsche: «Diavolo, come non lo sopporto!». Lui, che non vuole più essere nessuno, non ha più alcun posto nel mondo, non ha un tempo, non ha scambi con gli altri e tuttavia ne mantiene ancora uno con se stesso: così funziona la solitudine alla quale anche lui aspirava, e che diventa tuttavia una forma di esistenza insopportabile. Nietzsche non vede la scala che c’è tra la solitudine volontaria o imposta, tra quella temporanea o permanente, tra quella che rende felici o intristisce. Ma a questa fase della sua vita deve lo sguardo dall’esterno, la capacità di osservare la vita a distanza, compresa la sua: rendersi liberi da tutto, e anche da se stessi, diventa segno di una «libertà di spirito». A quest’epoca risale Al di là del bene e del male. Preludio a una filosofia del futuro (1886), con il quale corrisponde alla sua «gioia della solitudine», oltre la semplice liberazione da tutto, per compiere un passo in avanti verso una formazione della libertà, «verso una propria legge», che è opera di coloro che «non sono più solo spiriti liberi», ma «artisti della vita»; gli «ultimi stoici». Nietzsche sogna tutto questo, anche perché, come egli stesso ammette nel 1885, al termine del suo periodo di solitudine, «non sono proprio fatto per stare da solo».

Arte del silenzio, forme del tacere Chiudere la porta dietro di sé. Finalmente soli. Forse in questa stanza c’è qualcun altro, ma ciascuno è solo con se stesso. I rumori che provengono da fuori arrivano come filtrati. Il battere delle tempie si calma piano piano. Percepisco ogni dettaglio del contesto nel quale mi trovo. Suona una

campana, ma la distanza che si rivela nel silenzio relativizza il tempo, anche quello della mia finitezza. Lo sguardo si apre su tutta la giornata appena trascorsa, si distende su tutta la vita. Difficile dire se questa sia realtà o immaginazione, ma non importa, conta solo l’esperienza che ne faccio. Meditare, fare silenzio, “entrare dentro di sé”, condurre un dialogo muto con se stessi, sentire ciò che c’è dentro di sé e tutt’intorno: nel silenzio l’anima è pienamente presso di sé, raccoglie i sentimenti e le parole, ma non li distrugge nel discorso. Tacendo, l’anima apprende cosa significa parlare e che cosa ha da dire. Da qui l’esercizio filosofico del tacere (siopé), diffuso già nelle scuole pitagoriche del VI secolo a.C. Le voci tenui del sé cominciano a parlare dopo molto tempo, dopo essere rimaste a lungo inascoltate mentre altre voci urlavano portando avanti le occupazioni della vita quotidiana. Niente sembra più difficile che tacere, niente più piacevole che esprimersi in qualche modo. Ma «niente è grande se non è anche silenzioso» (Seneca, Sull’ira, I, 21). Le voci che urlano sanno quanto sono piccole, pur non facendone parola con nessuno: questo è il motivo che le spinge a gridare. Le voci silenziose, al contrario, sono alleate dell’ampiezza infinita di cui, senza queste ore di silenzio, si sentirebbe l’amara mancanza. L’arte del silenzio consiste nel dargli spazio, cercarlo, produrlo, tacendo. Riuscire a percepire un motivo più ampio, questa è la felicità insita nel silenzio. Bisogna soltanto lasciare che si manifesti, solo per un momento. E quando improvvisamente arriva, il silenzio precipita sul sé come un meteorite, portandolo, nel giro di un attimo, a esplodere. Le voci interiori attraversano frammentate le orecchie: tutti gridano confusi, selvaggi. Ma il rumore assordante è svanito. Intere galassie di pensieri cominciano a muoversi nella testa, senza che il sé sappia più cos’è e cos’era. Può essere bello sopravvivere e ritrovare il proprio linguaggio, per parlare delle proprie esperienze e affrontare il prossimo problema. Ma chi vuole parlare del

silenzio lo deve interrompere – problema fondamentale di ogni discorso sul silenzio. Ciò che nel tacere si manifesta oscillando nello stato della pura possibilità appare, nella lingua concreta, sotto forma di limitazione. Il linguaggio non è in grado di sostenere la pienezza del silenzio. Il sé ne è consapevole nel momento in cui ne parla e sa anche perché: il linguaggio è figlio del tempo, o pone il tempo come un susseguirsi di momenti. Ogni parola rappresenta un momento e ogni parola parlata è già passato, poiché risveglia l’anelito a un nuovo presente. Nel tacere, invece, il tempo sembra essere fermo. Manifesta “il senso”, la pienezza dei tratti e dei nessi senza porli come separati l’uno dall’altro come fa il linguaggio, non secondo la struttura della successione, non con l’aiuto delle regole della sintassi. Restano compressi nella loro intensità, indifferenziati nella loro complessità, senza perdite e limitazioni: per questo il silenzio si addice così bene a chi si ama, e lo stesso motivo rende così difficile “parlare di un rapporto” quando si cerca di recuperare un amore perduto. L’idea che il silenzio sia l’opposto del linguaggio è frutto di un antico pregiudizio. In realtà anche il parlare è dominato dal silenzio, da tutto quello che non viene detto quando si dice qualcosa. Dietro le parole si nasconde astutamente il non detto. Nello stesso istante in cui menzioniamo qualcosa, c’è qualcos’altro che è altrettanto interessante e di cui non parliamo. E il silenzio può essere molto eloquente, può valere “più di mille parole”. «Qui riposa colui che ha detto tutto senza mai parlare»: sta scritto sulla tomba di Jean-Gaspard Deburau (Jan Kašpar Dvořák, 1796-1846), il più grande di tutti i Pierrot che ora si trova al cimitero Père-Lachaise, a Parigi. Il silenzio non marca affatto il limite della comunicazione, ma lo oltrepassa: quando si tace, forse davvero solo in quel momento è possibile comunicare con gli altri, perché così si crea uno spazio che non appartiene esclusivamente al singolo e al suo discorso, e non solo a una lingua e al suo legame con un insieme di

suoni e con un volume. Allo stesso modo, tacere può significare evitare di parlare, un silenzio nemico, o un sottacere, un nascondere le vere relazioni, uno spostamento del delitto o del crimine che viene commesso in silenzio. Colui al quale si è taciuto qualcosa porta il marchio dell’inferiorità. Il silenzio causa insicurezza, provoca paura. L’invenzione della dimensione pubblica e critica è una risposta a tutto questo: così si tenta di esprimere quanto si vorrebbe passare sotto silenzio e si evita che chi dispone della facoltà di tacere faccia in segreto ciò che più gli aggrada. Il silenzio viene evitato ogniqualvolta si prende la parola. Arte di vivere significa saper gestire due opzioni: parlare e tacere. Se dominasse soltanto il discorso, tutti quelli che preferiscono il silenzio verrebbero messi fuori gioco. Chi non conosce le articolazioni immanenti al silenzio non può esistere. Dire sempre tutto non testimonia altro che una certa inarrestabile loquacità; ma ci si può fidare solo di chi sa anche stare zitto. Chi si comprende in silenzio si appartiene. La giusta misura del silenzio può essere definita soltanto da ciascuno nella sua singolarità. Ciascuno si sceglie una delle forme del silenzio, quando, quanto, per cosa, con chi, in quale situazione, con quale intensità. Il silenzio esistenziale è un silenzio interiore che consente di lasciar manifestare la specificità dell’esistenza di ciascuno di noi e permette di “custodirla”. Per contrasto emerge il silenzio effimero, che è provvisorio, passeggero, e non rimanda ad alcun motivo particolare. Rivolto agli altri o anche contro di loro, in ogni caso sempre fornito di un obiettivo preciso, è il silenzio intenzionale, che può essere benevolo o ignorante. Completamente diverso è il silenzio enigmatico, che resta ambiguo perché non risulta mai chiaro se chi tace abbia detto qualcosa e, se sì, cosa. È possibile anche un silenzio erotico, perché il piacere di un attimo è rimesso al gusto di uno sguardo che distrugge ogni parola. Il silenzio può provenire anche dalla sofferenza: c’è un silenzio doloroso che non ha più le forze,

nemmeno quelle necessarie a proferire verbo. O il silenzio di rassegnazione, quando non ha più senso parlare e si rifiuta ogni discorso. E anche un silenzio finale: non dire più nulla, tenere tutto per sé e andarsene in silenzio da questo mondo. Il silenzio è una delle possibili posizioni nel gioco del potere al quale possono partecipare sia le voci interiori del sé, sia gli altri. In questi casi il silenzio può essere ottriato, eteronomo, non una forma ma una norma: proibito parlare. O, in maniera ancora più sottile: parliamo d’altro. C’è il silenzio di coloro i quali, dopo l’esperienza del campo di concentramento, non sono più in grado di dire nulla di ciò che hanno vissuto. C’è il silenzio di chi sapeva dei lager e non ha detto niente – un silenzio tombale e letale. Per altro verso il silenzio può essere autonomo, cioè non rimesso ad alcuna forza esterna, ma soltanto all’autocontrollo di ciascuno di noi, che si scaglia contro la sfacciataggine e che viene utilizzato per parlare: «Il silenzio nasce da una forte dominazione su di sé, il vero trionfo sta nel raggiungere questo livello», sostiene Gracián, che raccomanda anche di non trascurare la coltivazione di questa capacità: «Tanto si scopre, e tanto si può far fruttare» (Oracolo manuale, 179). Il silenzio che serve a proteggersi è il silenzio murale, l’omertà, che erige il “muro del silenzio”. Questo silenzio non è solo autonomo, ma presenta anche una componente eteronoma. La soglia del silenzio può essere oltrepassata con molta difficoltà, come avviene, per esempio, nel caso di un dialogo giunto a un punto morto o in una società in cui non si parla di qualcosa. Ma il silenzio assoluto, quello a cui qualcuno dice di aspirare, non esiste. Potrebbe essere rappresentato come una sorta di buco nero, in cui ciò che viene detto e tutto il dicibile vengono risucchiati e scompaiono. Anche se fosse reale, nessuno potrebbe saperne nulla e chi non gli si trova di fronte non potrebbe mai parlarne. Così c’è soltanto un silenzio relativo, all’interno del linguaggio, all’interno del rumore. E il silenzio

ontologico, nel quale le cose e il mondo intero rimangono uguali a se stessi e restano indifferenti a tutti i tentativi di dare loro la parola. Nell’arte di ridere e di sorridere l’anima comprende di essere loro complice.

Arte del ridere e del sorridere Che cosa significa ridere? Difficile dirlo, perché il fenomeno non può mai essere catturato dalla riflessione. La neurobiologia moderna sospetta che si tratti di un fenomeno “sottocorticale”, cioè di qualcosa che nasce dallo strato primitivo e irrazionale del cervello. Da qualche parte, sotto la superficie, ribolle ed esplode improvvisamente come un vulcano. Per quanto esistano sismografi in grado di misurare anche i più piccoli movimenti della Terra, nel caso del ridere le cose stanno in maniera diversa: nessuno può prevedere con sicurezza che cosa può generare una risata. Qualche volta scoppia senza motivo. Si manifesta come un’insieme di linee sul volto, prima invisibili, che però si consolidano nel tempo e arrivano a caratterizzare l’aspetto di un uomo, proprio come se fossero la sua firma. La simmetria del viso viene tesa al massimo, fino a lacerarsi: la bocca, che solitamente restituisce suoni sfumati e che rappresenta il luogo del significato e dell’espressione, proprio questa stessa bocca si apre e comincia a rilasciare un rumore fragoroso, ripetuto, ritmico, completamente sproporzionato e irregolare: è raro che il riso rispetti la regola della giusta misura, in quanto è di per sé un eccesso. La via che intraprende è imprevedibile. Può rientrare in ogni momento e ritorcersi contro chi sta ridendo, per esempio quando “lo si trattiene nella gola”. Il soggetto si deforma fino a diventare irriconoscibile, con serie conseguenze per la sua salute, per esempio quando “crepa” o “schiatta dal ridere”. Il crampo descritto da chi osserva qualcuno che sta ridendo non deforma soltanto il viso in una smorfia, ma intacca anche le sinuosità del cervello e le avvicina l’una all’altra in maniera spaventosa. Questa è la costituzione patologica del ridere.

Non esiste una teoria del ridere, né c’è mai stata, ed è un bene: una definizione lo appiattirebbe su una norma prestabilita, dalla quale non sarebbe mai più possibile liberarsi. L’essenza di ogni risata è invece la sua prassi, cioè il modo in cui avviene, e la trattazione delle sue caratteristiche non può che rappresentare uno strumento per imparare a ridere meglio. Parlare di arte, in questo caso, non significa altro che lavorare sulla capacità di ridere: dischiudere possibilità per farlo, farne diventare realtà qualcuna e raffinarla progressivamente. L’arte nasce nel punto medio tra prassi e riflessione, incarnandosi grazie alla pratica costante. Quanto viene perduto con l’infanzia può essere ritrovato solo con molta fatica. «Ridere è un arte molto seria», Nietzsche ne era convinto già in questo frammento del 1882, impegnandosi a prendere il riso sul serio. A Sils-Maria faceva esperimenti mettendosi a ridere con l’aiuto di un prodotto proveniente da Java, che ottenne da un vecchio olandese. Sua sorella racconta che dopo averne preso poco più di un paio di gocce si gettava improvvisamente a terra, perché il divertimento iniziale si trasformava in una sorta di crampo. Senza ricorrere all’aiuto dei farmaci, l’arte della risata consiste, piuttosto, nel mettersi alla ricerca di occasioni che possano regolare la soglia del riso, rendendola più stratificata, in maniera tale che quello che ci si presenta in un attimo possa svilupparsi per gradi. L’arte può anche consistere dell’innalzare la soglia del riso, mirando a evitare che si “scoppi” per la più piccola sciocchezza e inducendo a farlo più raramente, in maniera più profonda, grave, e quindi con un significato maggiore. Nessuno può dire seriamente qualcosa contro il riso, perché in esso agisce una forza sovversiva. Si tratta di quella forza trasversale, che attraversa e incrocia tutti i rapporti di forza. Per questo motivo chi detiene il potere teme chi lo deride molto più di qualunque altro nemico convenzionale. Il riso è contagioso. Può sempre trasformarsi in un’epidemia e addirittura in una

pandemia, anche perché non conosce limiti, è multiculturale e internazionale. Non si può comprendere, né tantomeno ricondurre a concetti, proprio come la sovversione totale, che non può essere annichilita nemmeno dal più totalitario dei regimi. Il regime necessita di armi da fuoco; ma che succede quando queste vengono svalutate dall’arma del ridicolo? Il Führer non avrebbe potuto sopravvivere solo in quella serietà mortale che gli attribuiva una società molto poco abituata a ridere? Non avrebbe potuto liberarsi dal riso nemmeno con la più feroce dittatura; il riso gli sarebbe stato fatale, perché si attacca come una sanguisuga al suo oggetto e la sua eco risuona nel corso della storia, si nasconde in clandestinità, solo per rispuntare di nuovo, a un certo punto e da qualche altra parte. Per questo motivo ridere non è una cosa da ridere, ma un atto che presenta una grande quantità di varianti, ciascuna delle quali è mescolata con un sentimento specifico: ira, amore, odio, invidia e molto altro. Il riso non è assolutamente identico alla gioia, essendo invece spesso legato alla disperazione. Non di rado il riso si impone con sarcasmo e diventa “riso amaro”. Questa variante del riso ricorda forse nella maniera più fedele il significato arcaico, ammesso che la genealogia valga a qualcosa: una forma di grigiore. Il riso spaventa, perché non nasce da una qualche benevolenza, ma da una scepsi abissale e da un altrettanto abissale disprezzo, da una misantropia o da una presa d’atto della natura disperante di ogni forma di relazione. Poi c’è il riso beffardo, sfottente, o il riso critico. Da un altro punto di vista si può pensare al riso liberatorio, cioè quello che fa svanire nel nulla e in un attimo una grande tensione, o al riso che risulta dal semplice humor, cioè da una disposizione assunta intenzionalmente e nella quale la soglia del riso viene posta molto in basso: l’humor è un humus su cui l’essere umano cresce particolarmente bene. C’è però anche il riso folle, di cui nessuno conosce mai completamente il motivo e che è così pervasivo da essere

interminabile. E c’è il riso infantile, che non coincide necessariamente con quello di un bambino, ma che emerge in una situazione di imbarazzo o quando le situazioni sono troppo complesse rispetto al soggetto che deve affrontarle. E infine c’è il riso come fenomeno sociale, tanto importante da spingere a considerare malato chi ride da solo. Questa forma di riso fonda una comunità o una complicità tra esseri umani: nel riso gli amici si ritrovano o si riconoscono, mentre il loro legame si distrugge nel momento in cui uno ride dell’altro e non con lui. Il riso è un elemento fondamentale di ogni cultura. Una storia culturale del riso potrebbe essere uno dei suoi momenti più alti, e tale sarebbe anche la storia delle maschere del carnevale, così come si sono presentate nel corso del tempo e nei luoghi più diversi: siccome nessuno potrebbe ridere in maniera permanente, ci sono maschere in cui il riso viene fissato in maniera stabile. Per molto tempo il cristianesimo ha considerato il riso come una prerogativa del demonio: risuonava dagli abissi del male ed era legato al piacere e al peccato. Il riso satanico perseguitava gli apostoli e i padri della chiesa fino al punto da indurli a negarlo come attributo divino e ad assegnarlo esclusivamente all’inferno. Ma in verità il riso è un fenomeno ambivalente: il riso maligno cancella l’amore cristiano e per la cultura cristiana è inammissibile. Il riso cordiale, al contrario, apre il cuore e costruisce, senza alcuno sforzo, i ponti per arrivare agli altri, punto su cui la cultura cristiana insiste così tanto. Uno dei momenti fondamentali della storia del riso è il Rinascimento, in cui venne scoperta la battuta come arma: sul modello di Plutarco già Petrarca armò di umorismo interi arsenali. Nelle novelle rinascimentali erano contenuti lazzi e burle di una grettezza e di una cattiveria insuperate, tanto che la creazione di storie di questo genere divenne ben presto una professione. In tali racconti è possibile incontrare personaggi come Don Chisciotte e Sancho Panza, autori come Rabelais e François Villon, o

anche Molière, che vivificava l’Illuminismo attraverso convulsioni difficili da creare con ricerche teoriche. Da questa lista non si deve tener fuori Balzac, che dedicò tutta la sua opera alla comédie humaine, e nemmeno Baudelaire, convinto che il comico non potrebbe esistere se gli uomini venissero compresi in base al modello fornito dalla Genesi. Nel XX secolo il riso sopravvive grazie ai film, in modo eminente con personaggi come Buster Keaton e Charlie Chaplin, che anche molto tempo dopo la loro morte sono in grado di assicurare autentici scrosci di ilarità. Anche Karl Valentin sapeva servirsi benissimo dello schermo accendendo la miccia della bomba che era nascosta nella banalità del quotidiano. Dove possiamo imparare che cosa significa ridere? Al cabaret. E nel dadaismo, che già ai suoi albori non è altro che una grassa risata. «Libertà illimitata per HH», così si chiamava un’opera dada del 1919, dove HH stava per la Dadasofa Hannah Höch, ma anche per lo “ha ha” del riso, che doveva contestare i modelli prestabiliti della società borghese. Già allora i dadaisti si pronunciavano in favore di una radicale ristrutturazione del globo terrestre, una parte della loro propaganda è una reazione all’esperienza della prima guerra mondiale, contro la quale indirizzavano il loro sarcasmo: «In quella guerra abbiamo visto il risultato pazzesco dell’ordine sociale vigente», affermava George Grosz nel 1925, che «lo rendeva ridicolo». Era il riso della disperazione, l’unico che poteva dare una risposta alla catastrofe. Il riso è davvero un autarca, pienamente sufficiente a se stesso. In esso si concentra la vera filosofia, l’amore per il riso. Rimbomba dall’orizzonte del possibile e sbotta sul mondo piccolo piccolo che castiga nella sua concretezza. È un riso folle sopra l’assurdità del quotidiano, quel mondo che si ritiene l’unico possibile, dove domani è già ieri; è un riso sull’assurdità dell’essere umano, che dai propri desideri si fa trascinare verso qualunque cosa, senza riuscire assolutamente a tenerli a freno; quello stesso uomo che si

accanisce contro la terra da cui prende vita e la manda in rovina, quello stesso uomo che tenta di impossessarsi di tutto il mondo e che, nello stesso momento, non è capace nemmeno di essere padrone di se stesso. Non c’è dubbio che il riso sia legato all’Illuminismo, perché presenta i nessi che definiscono tutto il mondo con una chiarezza luminosa. E si trova in una certa contrapposizione con il pathos del sublime. Il riso non nasce, per esempio, da un “accordo dei soggetti con se stessi”, non è un gesto identitario, ma, piuttosto, fa irrompere ciò che è radicalmente altro e lo fa apparire nel momento in cui l’interiorità viene completamente spazzata via. Il soggetto dimentica se stesso, abbandona la prigione di sé per conoscersi quasi fosse un altro e come non era mai stato prima d’ora. Fa un salto, appicca il fuoco, si infiamma, e brucia avvampando prima che tutta questa superficie possa essere percorsa nuovamente dalla riflessione. Improvvisamente la testa si volge all’indietro, il torace si espande, il soggetto ride fino a che il motivo delle sue risate non scompare alla vista o all’udito. Anche se mette in crisi il sé con se stesso, si tratta di una crisi salutare: chi ride prende aria e guadagna forza da mettere nuovamente al servizio della vita. Per questo, nel “Tentativo di Autocritica” (1886) alla Nascita della tragedia Nietzsche scrive: «Dovreste imparare innanzitutto l’arte della consolazione dell’al di qua – dovreste imparare a ridere, miei cari amici». Ma chi crede che il riso sia il contrario del pensiero è uno spirito molto semplice, e forse anche un po’ pesante: il riso, infatti, ha bisogno di un pensiero veloce, più rapido di quello tipico di un soggetto che pensa soltanto. Il riso rappresenta uno strumento di conoscenza che compenetra come un lampo ogni oggetto che gli si trova davanti. Democrito rideva su tutto perché sapeva tutto. Per lui tutta la vita, nella sua banalità, non valeva niente. Ma quando la ragione si nega il riso, lo fa solo perché è il riso stesso a far emergere una ragione diversa, una ragione che ride e deride le abitudini, le

norme e le convenzioni, prendendosi gioco di quella ragione che “pretende di avere l’esclusiva sulla ragione”. Il fatto che il riso unifichi facoltà inferiori e superiori si mostra già solo, come del resto sosteneva anche Aristotele, nel fatto che il suo effetto è esilarante6 (zwerchfellerschütternd): il diaframma (Zwerchfell) è la soglia tra la zona inferiore e quella superiore dell’essere umano e le sue vibrazioni si diffondono sia verso l’alto che verso il basso; quando procedono verso il basso toccano gli organi della digestione, mentre quando vanno verso l’alto toccano le vette dello spirito. Questo è il motivo per cui la parte andata perduta della Poetica di Aristotele faceva seguire l’esposizione del riso alla teoria della tragedia. Come nella tragedia, anche nella commedia avviene una catarsi, una purificazione, una guarigione dal dolore e dalla sofferenza, che può avvenire con l’aiuto del riso. La situazione scenica è in entrambi i casi tragica e, in entrambi i casi, gli occhi si riempiono di lacrime. Ma non si tratta mai di un’eliminazione del tragico o del suo superamento, ma solo della vita e del fatto che si deve in qualche modo tirare avanti. Nella quotidianità la commedia non è sempre disponibile, e per questo c’è bisogno dell’arte di ridere, cioè di uno strumento più vivace. Un simile strumento è dato dal Witz, dalla battuta. Il Witz è una macchina per ridere. Già nella retorica antica si disponeva che le comiche andassero messe insieme e radunate tutte da una parte. Ma a differenza di quanto può apparire di primo acchito, non è un’impresa facile: il comico, per essere tale, deve cogliere il momento giusto e il contesto appropriato. La sua tecnica consiste nel dire qualcosa in maniera sorprendente e inattesa. Il suo scopo deve essere la creazione di un punto di svolta. Per questo il comico ha a che fare con connessioni insospettate, con giochi di parole, con rischiaramenti improvvisi di stati di cose, con spiegazioni che si concludono con un occhiolino e dicono tutto con una densità elevatissima. Qualcuno potrebbe anche non ridere alle

battute di un comico, e altri potrebbero smettere anche di ascoltarle. A volte un singolo spostamento semantico rende possibile uscire dall’ordine abituale del discorso, come una finestra che viene aperta e richiusa dopo un attimo. Il Witz è una crepa attraverso la quale il dionisiaco entra, almeno per un momento, nel quotidiano. Il pensiero viene attraversato da un lampo dello spirito, che attanaglia tutto il resto del corpo. Nell’antichità si era consapevoli del fatto che è difficile parlare comicamente del comico, e anche in età moderna molti ritengono possibile fare battute a comando, ma mai fare battute sulle battute. Qualche obiezione viene sollevata da quei clochard che un giorno giunsero alla convinzione che i racconti comici fossero diventati troppo faticosi. Così decisero di numerare i tipi di Witz e di richiamare solo il numero rispettivo su cui tutti avrebbero dovuto ridere obbligatoriamente. Questo fu uno dei primi club comici. Quindi, numeravano le battute, arrivando fino a 100. E il gioco poteva cominciare. «101», disse allora uno. Tutti rimasero in silenzio, attoniti. «Perché non ridete?», disse quello risentito, «questa è nuova!». L’alternativa allo sganasciarsi dalle risate è il sorriso, più controllato e, di conseguenza, anche più sfumato. Non si tratta di una mera espressione affettiva, ma di un atteggiamento di piena consapevolezza, che si esprime in una mimica dominata dalla riflessione. Il sorriso ha la sua sede sulle labbra e gioca con gli angoli della bocca, ma ancora di più risplende dagli occhi. In maniera magica e incantevole si apre agli uomini e diviene accessibile anche agli altri. Ma, quando il sé lo decide, il sorriso è capace di marcare anche una certa distanza rispetto a una situazione e può essere anche adatto a esprimere tale distanza. Tutta la scala del sorriso si può vedere in un film americano (regia di Mike Newell), una storiella da college del 1953, che nel 2003 veniva riproposta per il suo significato politico – e in particolare per avvertire le giovani donne del pericolo relativo alla perdita delle loro libertà in una

società neoconservatrice. Julia Roberts, nel ruolo della storica dell’arte Katherine Watson, incarna la libertà femminile, si afferma in maniera tanto tenera quanto decisa, e sa dare a questa libertà anche le forme che appartengono al re di tutti i sorrisi: il sorriso di Monna Lisa (Mona Lisa Smile è, appunto, il titolo del film). In questo film viene presentata una vera e propria enciclopedia del sorriso: tutte le forme vengono rappresentate dall’attrice, che è in grado di mutarle di momento in momento in maniera straordinaria: timido, imbarazzato, abbozzato, in attesa, abbattuto, disinteressato, nervoso, sorpreso, furbo, ironico, amichevole, felice, triste, fiducioso, tenero, lezioso, lascivo, accusatorio, comprensivo, di approvazione, riflessivo, coraggioso, di sfida, determinato, meditabondo, altezzoso, saggio, preoccupato, liberato, disperato, antipatico, di disapprovazione, indulgente, benevolo, divertito, radioso, trionfante. Il sorriso può essere freddo e sulle prime “aggressivo”, ma poi anche caldo e pacifico. Può essere così sottile da risultare difficilmente percepibile, e non si può mai dire con certezza se sia effettivamente un sorriso: per un momento Julia Roberts riesce anche nel particolarissimo sorriso di Monna Lisa, proprio trovandosi di fronte a una riproduzione del quadro di Leonardo da Vinci. Sorride perché è libera. Un sorriso, forse, pieno di dolore, che esprime nello stesso momento gioia e mestizia: gioia per la libertà, mestizia e melanconia per le limitazioni che incontra. Il sorriso cela la tristezza e appare come l’espressione perfetta della serenità. Ma il polo opposto al riso è il pianto.

Arte di piangere e di essere tristi «La valle delle lacrime è così enigmatica», dice Antoine de SaintExupéry nel suo libro, quando il Piccolo Principe comincia a singhiozzare in seguito all’irruzione del buio. In questa valle enigmatica si avverte il peculiare sentimento della tristezza, che ha un significato antropologico, come ben sanno i poeti, ma anche le ricerche neurobiologiche: mentre le

strutture delle aree cerebrali più vecchie che si trovano sotto la corteccia attivano le emozioni, la dinamica delle aree più giovani del cervello, e soprattutto di quelle della corteccia prefrontale, sembrano essere in particolar modo quelle che interessano la «tristezza» (Damasio). Ma almeno la tristezza profonda può essere intesa come una caratteristica del sentimento specificamente umano, quasi fosse un sentimento metafisico, che trova fondamento in un sapere della limitatezza, in una presentificazione della caducità, sia essa effettuata in riferimento alla vita intera o rapportata a una situazione specifica. Quanto più problematico pare il tentativo di rendere impossibile la tristezza a tutto vantaggio del “positivo” – una rinuncia dissennata a una buona metà della vita – tanto più ciò che rimane non può più avanzare pretese di pienezza. Prima di negare semplicisticamente tristezza e pianto è importante capire precisamente che cosa siano. Il sentimento della tristezza può avere a che fare con la perdita di una condizione, con la connessa reazione inadeguata del sé o degli altri, o con una situazione passata e mancata. Si può diventare tristi quando si considera una situazione disperata, nella quale si trovano il sé o gli altri, una condizione in cui la limitatezza è fonte di delusione e non può essere abbandonata deliberatamente. Di regola la tristezza arriva assieme all’esperienza di un distacco e alla rinuncia a una persona, e comincia con la separazione temporanea da una persona di cui ci si fida, che si ama o da un amico, dai genitori o dai propri figli: un passo nella solitudine che segue a una condizione di sicurezza, un passo nella continuità del tempo che ora viene distinto in un prima e un dopo. Il sé capisce che qualcosa finisce in maniera irreversibile e gli sembra di non poter trovare consolazione nel fatto che c’è qualcos’altro che inizia. Ci si ricorda ben presto del distacco definitivo, un ricordo che procede in parallelo con la vita e che si impone anche nel futuro più lontano. Un ricordo della morte, un presentimento del dolore metafisico

legato a questo distacco. Questo presentimento ruba a ogni “piccolo distacco” il suo candore; ecco quale potrebbe essere il motivo profondo dell’ansia della perdita che non domina solo nei bambini e che, per quanto possa in qualche modo essere placata, non può mai essere definitivamente eliminata. In misura crescente si comincia a prendere contatto con il “grande distacco”: il ricordo della morte, la via verso la solitudine, il taglio netto del tempo, l’irreversibilità di un processo, tanto più evidente quanto più si avvicina il momento della separazione irrevocabile, della perdita di qualcuno o anche solo di qualcosa (un animale che abbiamo imparato ad amare, il luogo natio, una casa, un’abitudine, un oggetto, un’idea). La forma più manifesta di questa separazione e di questa perdita è la morte di qualcun altro, che viene caratterizzata, in mancanza di parole più efficaci, come “perdita”; ciò che si perde è, in ogni caso, la presenza fisica. Il dolore dell’anima, che procede assieme alla tristezza, viene esperito, come avviene in alcune culture e come mostrano alcune ricerche etnologiche, fisicamente attraverso atti di autolesionismo che servono forse a renderlo più concepibile. L’esperienza della commozione può estendersi fino alla tristezza: si capisce che la vita è inconsistente, che tutto passa, che il suolo su cui vive l’essere umano è fragile e che in ogni momento ci si può trovare di fronte a un abisso. Un discorso sull’essere tristi può mostrare che la tristezza non corrisponde a una condizione di insufficienza, magari anche patologica, ma rappresenta un modo di essere dell’uomo: un essere che appartiene essenzialmente all’esistenza umana – anche se questa tesi antropologica non può ambire a fondarsi su una verità unica. Il tempo della tristezza apre la possibilità di lasciar agire su di sé quell’esperienza e conservarla, mentre la cosiddetta “elaborazione del lutto” suggerisce una più marcata distanza oggettiva dall’avvenimento spiacevole, ossia farsi una ragione di quanto è accaduto dopo una sufficiente elaborazione. Una tristezza fondata mette

l’uomo di fronte a ciò che non può più essere cambiato, né ora né mai. È impossibile ripristinare il passato. Non si può cambiare il fatto che tutto sia transitorio. Meno comprensibile è quella che può sembrare una tristezza infondata, legata ad affermazioni del tipo: «Nel complesso va tutto bene, non so che cosa mi succeda». Forse ci si intristisce proprio perché “va tutto bene”: quella vita che conosce soltanto l’armonia tende verso il polo opposto. La gioia incessante stanca e impone di riposarsi, di prendersi quella pausa rappresentata proprio dalla tristezza. L’uomo moderno preferisce identificare la felicità con il “buon umore” e quando “si sente triste” tende a liberarsi di questo disturbo opprimente invece di fare spazio alla tristezza, della quale ha sempre bisogno. Non c’è dubbio che il fenomeno della tristezza sia doloroso: il sé viene svuotato della sua forza interiore, la testa si piega in avanti, gli occhi si abbassano. Una tristezza duratura diventa afflizione, “ti consuma togliendoti le forze”, e proprio il logoramento rappresenta la sua forma esteriore. La tristezza logora, i pensieri e i sentimenti tristi occupano il sé in maniera preponderante, forse a causa della persistente mancanza dell’altro, di colui con il quale si è cresciuti o con cui, attraverso abitudini comuni, si è dato forma a una vita che ora invece deve essere affrontata in piena solitudine. Tanto più dolorosa è la perdita, tanto più peggiora l’esistenza: l’altro era o è il polo altro della vita, non solo in positivo, ma anche in negativo, un punto fermo per sviluppare contrasti e confronti: per questo è così difficile rinunciarvi. Quando la tristezza perdura senza trovare un posto nella struttura del sé può diventare una malattia. A questo punto è importantissimo darle “senso”, cioè capire in che modo sia connessa con la vita di chi la prova. Il senso della tristezza potrebbe trovarsi nell’esigenza di restituire la polarità alla vita e provare nuovamente sentimenti che non siano solo gioia, contentezza, amore e passione. Se non si esaurisce tutta la gamma dei

sentimenti, infatti, il sé incappa nel nichilismo, per il quale tutto sembra indifferente e metafisicamente noioso. Per fare un’esperienza compiuta dell’essere umano c’è bisogno di tutti i sentimenti in tutta la loro contraddittorietà. Non a caso l’Antico Testamento preferisce il pianto al riso (Ecclesiaste 7,3): l’incontro con la grave insondabilità della vita fa maturare il sé come nient’altro. Pur rischiando di essere fraintesi, si potrebbe dire che bisogna gustarsi e provocarsi artificiosamente la tristezza fino a toccare il fondo. Sebbene la tristezza possa assumere forme specifiche, è difficile configurare l’essere della tristezza, anche perché si tratta di un fenomeno per molto tempo disprezzato. Un’arte del rattristarsi potrebbe quindi consistere nel garantire a una giornata triste tutti i suoi diritti, dove importante è cercare accoglienza non nel mondo esterno, ma in se stessi, trovare il fiato per i tempi futuri e diventare consapevoli del suo valore. Il cielo grigio non ci fa vedere nemmeno un raggio di sole. Indifferente alla condizione umana, la tristezza cade dal cielo con una tranquillità snervante, fredda e umida come la pioggia. Le lacrime interiori che il sé consuma scorrono sul lato esterno della finestra, come se rigassero le guance. Oltre al pianto esteriore, visibile, c’è anche quello che avviene nel silenzio, nell’interiorità di un essere umano che si trova solo con se stesso, ma che in ogni caso inumidisce la retina; forse perché ci sono lacrime che abbiamo già pianto o anche perché la tristezza non vuole o non deve passare. Fare posto alla tristezza nella propria vita significa prendersene cura, rapportarvisi con attenzione, a volte magari anche dedicarvisi intenzionalmente. Questo è possibile per esempio con la musica, che rende disponibili tanti pezzi di tristezza composti a regola d’arte, e in particolare la musica romantica, che si è fatta carico spontaneamente dei “lati oscuri” dell’esistenza, come per esempio quella di Johannes Brahms il cui Requiem tedesco è in grado di toccare chiunque servendosi delle parole della

Sacra Scrittura e di corali elegiaci, fin dalla prima esecuzione del 1868-1869. Un coro si leva dal nulla, nel primo movimento che sviluppa una melodia infinita dedicata alla tristezza per la caducità della vita: «Beati quelli che soffrono». Le voci cantano una musica ultraterrena – «com’è bella la tua casa, Zebaoth!» – e si riconciliano nel quinto movimento, aggiunto dal compositore solo all’ultimo e sul testo del vangelo di Giovanni (16,22): “Ora siete tristi”. Il canto sembra apparentemente infinito, e sempre simile a come era iniziato, in pace assoluta, anche nel settimo movimento: una messa in scena della commozione unica nel suo genere. Il tempo della tristezza è anche quello di una sensibilità che cresce, della visione profonda della vita, della sua problematizzazione, ed è il momento per imprimerle una nuova direzione. Dare una forma a questi pensieri e sentimenti di tristezza, all’inizio del tutto spontanei, è una vera e propria arte. Le forme di espressione possono essere introverse – chiusura in se stessi, riservatezza o indifferenza – o estroverse – come, per esempio, lo sbalordimento, la rimozione, l’ira. L’espressione della tristezza può, però, essere anche artefatta e presentata in immagini, testi, gesti, cerimoniali. È possibile notarlo nei detti che provengono dalla tradizione, proferiti sempre nella stessa forma dalle labbra del tempo. Le forme tradizionali di ogni cultura, infatti, rispondono a domande relative a comportamenti e situazioni nelle quali i singoli non sanno più cosa fare. Nell’epoca moderna, in cui si assiste alla dissoluzione di tutti i vincoli, tutto questo si riduce al problema della scelta e a quello dell’arte di vivere propria di ogni singolo individuo. Ciò implica anche la possibilità del rifiuto di ogni forma, così come quella della ripresa delle forme tradizionali, anche se non più in riferimento a tradizioni o convenzioni date per scontate. La tristezza innesca una nuova creatività, proveniente dall’insoddisfazione per la mancanza di forme, e fa il suo ingresso nella vita – anche perché l’assenza di forme non può mai essere

coerente con la dimensione del sentimento. Decisiva in questo processo è la scelta che il sé deve effettuare in riferimento a quell’insieme di avvenimenti che non permettono più di scegliere. E allora la scelta avrà a che fare con l’atteggiamento da assumere e che non solo rende impossibile l’ignoranza o la passiva accettazione, ma si trasforma in un’affermazione, in un dire di sì, in uno scendere a patti con quanto accaduto, anche se in lacrime. L’espressione naturale della tristezza è senz’altro il pianto. Le lacrime vincono il sé, che deve rinunciare temporaneamente alla sua sovranità, e segnatamente a controllare la sua mimica: il sé è stordito e incapace del minimo pensiero. Il rapporto di forza tra pensiero e sentimento si inverte. Le lacrime eliminano la distanza che normalmente rende possibile la comprensione riflessiva di un avvenimento. Lo sguardo sul mondo viene ora filtrato come da un velo, che diventa estraneo e che, però, dopo il pianto e i singhiozzi di tutti gli organi, si fa improvvisamente silenzioso e pacifico. La “debolezza” presupposta nel fenomeno del pianto diventa ora un punto di forza: dolce stanchezza e leggerezza infinita. La distensione dell’anima ammorbidisce la tensione. Per questo motivo alcune culture religiose invocano le lacrime, che rivelano una straordinaria forza purificatrice in grado di riportare il coraggio nella vita. La funzione catartica del pianto potrebbe già essere un valido motivo per piangere, piuttosto che trattenersi. Come alternativa non resta che bere una quantità d’acqua equivalente per sostituire le lacrime, pur senza raggiungere i benefici fisici e psichici che queste sono in grado di assicurare. A compensare il flusso delle lacrime mira istintivamente anche l’assunzione di liquidi tipica dell’alcolismo. Inoltre le lacrime possono rappresentare un modo per comunicare, un cambiamento del piano del discorso, che diviene senz’altro necessario quando si parla di qualcosa nei confronti della quale non si può non reagire. Per non abusare degli effetti del pianto è importante trovare la giusta misura, che oscilla tra il

piangere a ogni occasione indifferentemente e l’apatica anaffettività. Come gesto di rispetto nei confronti di chi ci sta di fronte, e non solo per vergogna, è possibile allontanarsi e piangere per conto proprio o farlo solo di fronte a coloro di cui ci fidiamo di più. Le lacrime, infine, possono testimoniare una commozione, soprattutto per chi non è toccato direttamente dalla situazione per la quale si piange: la prova, la testimonianza di un essere in comune, che permette di condividere un peso e, in questo modo, di renderlo più leggero. È curioso che gli uomini che si trovano ad affrontare gravi difficoltà ridano, mentre la gioia immensa è salutata con il pianto. Sarà forse per rendere ulteriormente giustizia, anche se in maniera inconsapevole, alla polarità della vita. L’eccesso di gioia fa inevitabilmente montare la tristezza, e le nuove gioie rappresentano la conseguenza del superamento di una condizione di tristezza. Ma è possibile essere tristi volontariamente, solo allo scopo di salvaguardare la polarità della vita? Certo, quando ci si ricorda di esperienze dolorose, come una separazione da qualcuno di cui eravamo innamorati, un dolore che, in quanto tale, non perde mai le sue ragioni. E in ogni momento possiamo anche provare il “dolore per il mondo intero”, perché tutte le cose muoiono, anche se il mondo non passa mai davvero. Per altro verso, la tristezza eccessiva deve essere riequilibrata, altrimenti non potrebbe essere conservata in maniera sostenibile. Anche questo fa parte dell’arte di essere tristi: non si deve rinunciare all’arte e all’arte di vivere, che soppesano la tristezza in ogni momento e tengono in equilibrio la bilancia evitando di farci precipitare nella disperazione, quando non abbiamo ancora deciso l’a che pro della tristezza. Arti diverse sono in condizione di far dimenticare la tristezza per qualche tempo: tutte le arti che hanno a che fare con il corpo e con l’anima, il canto, il ballo, l’arte di ridere e tutte le arti che permettono di vivere la bellezza della sensibilità, e prima di tutto l’arte dell’erotismo.

Proprio nel momento in cui la tristezza diventa più grande il pensiero erotico e la sensibilità per la dimensione erotica divengono più forti. Non è un caso che le rappresentazioni della tristezza, e quella del tango come sua espressione danzante, siano condite di frequente con attributi erotici. Ma che succede quando non ci si può consolare della tristezza, quando quest’ultima non è solo un “modo di reagire alle pressioni”, come lasciano credere i dizionari di pensiero positivo?

Arte di essere infelici: stringere amicizia con la melanconia Una forma particolare di tristezza è quella di cui non è mai possibile trovare il motivo: si tratta di una tristezza non specifica, non legata a una situazione e inconsolabile. Una tristezza non specifica, continua, un “dolore cosmico” e sconfortato. Questa tristezza legata alla “vita” e al “cosmo” prende il nome di melanconia, una condizione di infelicità che probabilmente desidera la felicità, senza però ritenerla davvero possibile. La melanconia è un modo di essere di un’anima che soffre costantemente e prova angoscia, senza che questi sentimenti possano essere intesi come espressione di uno stato patologico. La melanconia viene accompagnata e innescata da una coscienza altamente riflessiva, che si concentra sull’esperienza della mancanza di fondamenti, ritenuta incontestabile; una coscienza tragica a cui la vita corrisponde molto più di qualunque rifiuto della tragedia; un sapere della fragilità di tutto ciò che viene creato dall’uomo, della nullità della stessa esistenza umana e della friabilità del terreno che ci sta sotto i piedi. Non si tratta forse di una “depressione reattiva”, magari dovuta a una caduta di tensione cronica o acuta? Oppure di una “depressione endogena”, che deriva dalla costituzione biologica di chi ne è affetto e che, probabilmente, è patologica e imparentata con la psicosi? O, ancora, di una “depressione noogena”, che deriva da pensieri negativi, ma sostanzialmente

falsi, e che pure può essere diagnosticata come “sofferenza per l’assurdo”? Ma la condizione della melanconia deve essere distinta da ogni forma di depressione, da un irrigidirsi del sentimento, e da ogni “abbattimento”, a cui si dedicano le più svariate terapie. La melanconia innescata dal sentimento e dalla riflessione ha molto più a che fare con la sensibilità, la consapevolezza e l’autocoscienza. Il sé melanconico può prendere riflessivamente le distanze da tutto e disfarsi da quelle ovvietà che definiscono l’orizzonte implicito in cui si svolge la vita quotidiana. Il melanconico diventa estraneo persino a se stesso e avverte il collasso della sua “propria identità”. Bisogna però distinguere un concetto clinico di melanconia, identico alla depressione e indice di un fenomeno psicopatologico e neurobiologico, da un concetto letterario di melanconia, che la descrive come fenomeno, e da quello filosofico, che ambisce a spiegarne le premesse, ponendo per esempio in questione la rappresentazione del tempo e quella dell’identità del soggetto, al di là della quale appare «questa dimensione dello spirito umano, indicibile e difficilmente concepibile, ma tuttavia reale» (Toshiaki Kobayashi, Melancholie und Zeit, 1998): l’umano nella sua pienezza abissale. I problemi per i melanconici arrivano con l’epoca moderna, quando cominciano a lottare per la loro liberazione – sì, liberazione dall’umiliazione di vedersi identificati con la scoperta patologica della depressione. La melanconia non è una “malattia” dalla quale si può guarire, ma è una dimensione dello spirito umano di cui prendersi cura. Ben oltre ogni forma patologica, e al di là di ogni esperienza ordinaria, l’arte di vivere vede la melanconia come una vera e propria concezione della vita che permette di porre mente alla problematicità della comprensione del tempo, alla fondamentale assurdità di ogni fare, all’autentica mancanza di significato dell’esistenza umana, e tutto questo solo per porre le basi di una vita bella e degna di approvazione. Il melanconico è infastidito dal tempo in cui vive e, nel caso della

modernità, dall’epoca moderna. Ogni tempo è limitato, mentre la sua coscienza tende all’infinito. Qualunque cosa sia determinata dal tempo gli appare pesante e non ha nulla della leggerezza propria dell’illimitatezza. Il melanconico prova una tristezza originaria per il suo distacco da un’origine senza tempo, per l’unificazione impossibile e tuttavia momentanea con gli altri, per l’assurdità del mondo e della vita. Ludwig Binswanger, nel suo studio Melanconia e mania (1960) comprende la melanconia come un «disturbo» della coscienza del tempo. Ma Binswanger dedica troppa poca attenzione alla domanda relativa all’unità di misura del tempo che permette parlare di un disturbo della coscienza. Certo è che il tempo oggettivo appare come una successione lineare, mentre nella modernità il melanconico torna a una temporalità tipica delle culture non moderne, il cui andamento è ciclico e spiralico. La melanconia, che si diffonde con violenza nella fase avanzata della modernità, può essere interpretata come reazione alla predominanza di una concezione lineare del tempo e alla frenesia estrema del mondo moderno. Il melanconico mette il dito nella piaga del tempo tipico della modernità, che non ha alcun rapporto con la sua esperienza personale. Una situazione melanconica nasce perciò quando si manifesta una divaricazione tra tempi diversi: a quel punto il sé si sente sopraffatto dal passare del tempo e da tutto ciò che è passato, a cui viene rinviato di continuo senza poter più trovare nel presente un atteggiamento per fronteggiare quell’esperienza. L’abisso insuperabile tra le diverse concezioni del tempo porta a una “coscienza infelice”, che chiarisce il significato dell’incessante “rimuginare” dei melanconici. Quando l’infelicità è abissale non è mai possibile superarla “definitivamente”, ma comprenderla come guadagno per impostare una vita diversa, dal cui punto di vista la vita vissuta pare superficiale e insignificante. Resta aperta la questione relativa alla vivibilità dell’infelicità, che porta a indagare le possibilità di stringere amicizia con la melanconia, ammesso che

lo si voglia. Stringere amicizia con la melanconia significa stabilire una relazione con essa, perché esiste anche in quel sé che non vi instaura alcun rapporto. Una relazione di amicizia, perché è necessario fondare un legame forte, che tuttavia conservi la libertà di entrambi i suoi lati. Non un amore, che potrebbe portare alla simbiosi, che implica, da una parte, l’identificazione dei due lati e, dall’altra, un’ostilità, che tende a escludere la melanconia. Il rapporto di amicizia, invece, permette di fondare una vita insieme, tale da garantire la sopravvivenza, tanto del sé, quanto della melanconia. A questo punto è possibile definire i tempi del sé e quelli della melanconia, nei quali si tiene conto della pragmatica e delle abitudini quotidiane che devono essere inscritte in un orizzonte condiviso: passeggiate regolari, nelle quali ci si abbandona a pensieri malinconici, il momento sacro in cui si ascolta la musica che risveglia un sentimento di melanconia; e anche l’apprendimento di danze in cui la melanconia può trovare una forma per esprimersi, così come la confidenza con quadri o poesie, dove la melanconia ha già trovato la sua espressione. Importante è inoltre l’erotismo che, grazie agli stimoli sensibili, fa in modo che la melanconia non perda il filo della vita, e la cura del proprio giardino che, con il suo ciclico nascere e morire, rappresenta un’alternativa alla concezione lineare del tempo. Così, un accomodamento pragmatico per la melanconia romantica può ridurne l’aspetto straziante, che a volte può portare il sé all’autodistruzione. Il tentativo di stringere amicizia con la melanconia non è motivato solo dal modo in cui ciascun individuo porta avanti la sua vita, ma anche perché ci si può prospettare un’epoca della melanconia, una crescente sensazione di assurdità verso tutto e tutti. In questo senso essere amici della melanconia è addirittura necessario. Questa necessità può essere implicata da una certa percezione del mondo moderno, anche se non si può mai dire con certezza che un’interpretazione di questo genere sia data solo da un punto di vista

“negativo”. Pare comunque sensato non ritenere questa percezione come l’unica possibile, anche perché gli stessi fondamenti della melanconia sono relativi e devono perciò essere visti sempre in riferimento al sé melanconico e al suo modo di interpretare il mondo. Non sarà mai necessario affannarsi a “guarirne”, perché farlo significherebbe sconfiggere con strumenti secolarizzati quella che molti autori cristiani hanno già cercato di interpretare come una sventura. Resta aperta la questione se l’abissale infelicità provocata dalla melanconia possa trovare corrispondenza nella concezione cristiana della vita o opporvisi: nel cristianesimo d’oriente, ortodosso, dove la tristezza melanconica ha trovato la sua più piena legittimazione, si assume una posizione diversa rispetto a quello occidentale, cattolico-romano, o quello protestante, che la rigettano sostenendo che la melanconia potrebbe essere tutt’al più un momento di passaggio verso la gioia eterna. Affermazione della tristezza della vita attuale o della gioia futura? Entrambe queste interpretazioni possono richiamarsi al vangelo di Giovanni, che Brahms ha messo in musica: “Ora siete tristi”, si dice, “ma io voglio rivedervi, il vostro cuore deve rallegrarsi e nessuno deve rubare la vostra gioia”. Se tutto questo deve avvenire indipendentemente dalla serenità, è però più preciso parlare di una melanconia purificata, di una melanconia serena, per la quale tristezza e gioia, così come tutti i fenomeni dell’essere umano finito vengono inscritti in un orizzonte di infinitezza. Ma per moderare gli eccessi di tristezza, o anche più semplicemente per “rasserenare il cielo”, il sé può aspirare a fare del bene a se stesso e alla sua anima nella vita quotidiana, sempre ammesso che sia possibile.

«Quello che mi fa bene»: i regali che il sé fa a se stesso “I regalini mantengono l’amicizia”, questo vale anche per l’amicizia con se stessi: e soprattutto regalarsi un po’ di attenzione, evitando di passare

distrattamente sopra i propri desideri e bisogni, sulle proprie paure e angosce. I regali giocano un ruolo importante non solo nei rapporti con gli altri, ma anche nella relazione che si ha con se stessi. I regali rappresentano una possibilità di portare avanti il “lavoro sulla propria anima”, e proprio in questo senso può essere interpretato il fenomeno stesso del dono, ma non anzitutto come lavoro sull’anima degli altri, quanto sulla propria e solo in seguito come condizione di possibilità del lavoro su quella degli altri. Talvolta si tratta soltanto di stare vicini a se stessi, di ascoltarsi, per capire quali sono le voci che stanno parlando e sentire cosa dicono, cosa ci consigliano. Un regalo è l’”indulgenza” verso se stessi. Da sé bisogna pretendere il massimo, ma non la perfezione, almeno non sempre. Pur evitando di affondare nell’autocompiacimento, bisogna essere soddisfatti di se stessi e, talvolta, perfino lodarsi per aver fatto qualcosa che resiste alla critica, e lodarsi tanto più quanto più gli altri ci biasimano. Un regalo è anche il non pretendere troppo da sé senza mettersi di continuo in discussione, prestando attenzione a se stessi con delicatezza e tenerezza. Non basta soltanto sforzarsi e impegnarsi, ma è anche necessario godersi il frutto del proprio lavoro, farsi del bene ricompensando i propri sforzi. I regali possono essere una forma di compenso e di riconoscimento, ma possono anche essere motivati, come accade per i regali che facciamo agli altri, da una semplice simpatia, che in questo caso è diretta verso se stessi. Il regalo autentico è quello ideale e non quello materiale: crearsi un’atmosfera, dedicarsi un po’ di attenzione. L’attenzione, infatti, non è altro che l’essenza del dono. Bisognerebbe sforzarsi di trovare e provare “quello che mi fa contento”, di imparare a conoscerlo in maniera sempre più precisa e di essere in grado di scorgerlo sempre più direttamente. Per questo ci si chiede di cosa abbia bisogno il corpo, e se è possibile assicurargli un po’ di piacere. Lo stesso vale per l’anima: se ha bisogno di un minimo di

distensione, se vuole godersi un bel sonno o muoversi all’aria fresca. Per distendersi si possono mettere in atto quei rituali o coltivare quelle abitudini che ci “fanno bene”, perché niente di tutto questo richiede sforzi della riflessione. È poi possibile regalarsi un’intera mattinata o tutta una sera, magari un giorno intero senza “impegni”, senza lavoro urgente – anche quando lo è – con l’unico scopo di restare presso se stessi. Il regalo resta ideale anche nel momento in cui si manifesta sotto un profilo materiale: una sera al cinema, una chiacchierata con un amico, la musica che più ci piace, un’ora di ozio in un caffè, un invito a cena formulato solo a se stessi, per accordarsi quella stima che forse si sperava ricevere da qualcun altro. Quello che vale per i regali fatti agli altri vale anche per quelli a se stessi: non tanti, non così spesso, non senza un motivo e non a tutte le ore, ma in maniera raffinata ed elegante, conservando l’effetto sorpresa e senza abusarne. Questo può significare anche rinviare la soddisfazione di un desiderio per non rischiare che il regalo venga considerato come privo di valore, solo perché la soddisfazione è troppo vicina al momento in cui sorge il desiderio stesso. Per poter fare dei regali in una giusta misura è necessario dominarsi e raggiungere quell’autocontrollo che permette un ritardo quasi ascetico e riequilibra ogni eccesso, ogni difetto, ogni dare immotivato, così come ogni prendere arbitrario. Il sé si fa dei regali non solo per godersi le cose buone in ogni momento, ma anche per affrontare le esperienze problematiche e cercare intenzionalmente qualcosa di “positivo” quando il “negativo” si fa troppo pressante. Con la ricerca di quello che “mi fa bene” posso scoprire e liberare le mie risorse, che permettono di superare le lacerazioni interiori e di vincere le sfide che provengono dall’esterno. Un regalo ci mette le ali; può avere, almeno dal punto di vista della neurobiologia, gli stessi effetti di una droga: rendere più marcato il sentimento di benessere, stimolare il cervello

aumentando la produzione di dopamina. Dal punto di vista filosofico si tratta invece di una possibilità di percepire la cura fisica e psichica nei confronti di se stessi. E anche di prepararsi alla cura del proprio spirito, che pure ci pone delle sfide. div class="footnotes"> 6 L’autore gioca sul senso della parola “esilarante”, “zwerchfellerschütternd”, che ha una struttura e un’etimologia molto complessa, non restituita immediatamente dall’italiano.

5. La cura dello spirito Pensiero ed esistenza: il ruolo dei concetti per la condotta della propria vita Per portare avanti la propria vita in maniera consapevole sono importanti, infine, gli aspetti concettuali, cioè terminologici. È quindi venuto il momento di volgere il nostro sguardo al lavoro dello “spirito”, inteso come nous: accanto all’impronta che i concetti lasciano sul modo in cui facciamo le nostre esperienze e ne diveniamo coscienti, dobbiamo chiarire anche concetti che si presume siano ovvi, come quelli di “vita”, “arte”, “sé”, “felicità”, “senso”… I concetti possono indurre in errore, possono renderci malati, ma possono anche guarire, soprattutto nel momento in cui vengono definiti in maniera stabile. Oltre la parola, nei concetti si nasconde una precomprensione, una concezione, una rappresentazione, un’idea dell’essenza e del significato di una certa cosa. Infatti, ancora più decisiva della realtà della cosa può essere l’idea che quella cosa veicola. Anzi: l’idea può essere addirittura la causa della realtà della cosa stessa, come per esempio nel caso di una rivoluzione. Molto spesso è la logica interna dei concetti a precostituire il pensiero, organizzandolo senza che nessuno sia in grado di dire da chi o da che cosa quella logica sia stata innescata. I concetti, quindi, hanno in se stessi alcune proprietà che possono essere attribuite alle cose o che devono esserlo diversamente, verità che possono essere vere anche in un senso altro o che possono essere in qualche modo false. Il contenuto dei concetti non è mai normativo, ma sempre operativo: la comprensione di volta in volta dominante è sempre un’opzione. L’arte di vivere consiste nel non restare prigionieri di concetti che si caratterizzano per una presunta “validità esclusiva”. Questo vale soprattutto per il concetto di “vita”, che deriva dal modo in

cui ciascuno di noi porta avanti la sua, sostanzialmente in maniera cosciente, senza aver pensato esplicitamente l’idea che vi si trova alla base. Si comincia a formare il concetto della propria vita per darle una forma comunicabile sulla base delle proprie esperienze (induzione). Per non mettersi a raccontare ogni volta le proprie esperienze nella loro singolarità si procede a una generalizzazione e alla fissazione di una forma: “la vita è…“; e per non dover ripetere sempre e completamente questa definizione resta solo l’espressione “vita”, mentre il resto viene inferito dal nostro interlocutore. Questa è però solo una metà del processo. L’altra consiste nell’effetto che questo concetto ha sul resto della propria vita, in maniera tale che quest’ultima possa essere considerata come un’implicazione di quel concetto (deduzione), finché non risulti ben chiaro che cosa sia nato prima: la vita o il concetto. La reciprocità di questa dinamica non può mai essere dissolta: il concetto segue dalla vita e la vita è una conseguenza del concetto. La vita è una commedia? Allora il sorriso è il tratto che le corrisponde in maniera più precisa. È una tragedia? Allora è meglio piangere. È una battaglia? Allora armiamoci per combatterla. È un fiume tranquillo e lungo? Allora bisogna percorrerlo con tutta calma e con un po’ di pigrizia. Vivere significa essere felici? Allora bisognerebbe spiegare che cosa significa “felicità”. La felicità è il positivo e il successo, la massimizzazione del piacere e l’eliminazione del dolore? Ma vivere significa anche essere infelici e, ammesso che significhi solo essere felici, la felicità ha poco a che fare con il piacere o con l’assenza del dolore. Le definizioni che abbiamo dato riescono soltanto a mostrare quanto possono essere diversi i concetti che ci facciamo della vita, così come le conseguenze che ne derivano. Un concetto può apparire tanto astratto quanto efficace, perché con il suo aiuto il pensiero può influenzare l’esistenza. Quindi, per condurre la propria vita in maniera consapevole è necessario prestare attenzione alla logica interna dei concetti allo scopo di comprenderli e a volte, quando è

necessario, per riformularli. Non c’è alcun motivo per sottomettersi a una comprensione della “vita” dominante e vivere solo in funzione di essa – soprattutto quando non ne siamo soddisfatti –, ma occorre metterla in questione in ogni momento. Relativismo? Ma i concetti non esistono allo scopo di restituire la realtà nella maniera più precisa possibile? Certo. E non finisce qui. Sembra infatti ragionevole commisurare ogni formazione concettuale con i criteri di plausibilità ed evidenza, coerenza e chiarezza, sebbene anche con questi criteri l’efficacia dei concetti resti soggettiva. Si arriva così al punto in cui non esistono due esseri umani che comprendono il concetto di “vita” allo stesso modo, nonostante entrambi abbiano generalizzato le loro esperienze. Solo la parola resta uguale e ci illude sulla possibilità di identificare i concetti che due persone diverse le associano. Dobbiamo senz’altro temere le incomprensioni e le delusioni, le quali, per altro verso, possono rappresentare un’occasione per chiarire i propri concetti nel confronto con qualcun altro e, soprattutto, con se stessi. “Avere un concetto di qualcosa” non significa altro che aver ottenuto una comprensione consapevole di una cosa e del suo significato ed essere in grado di distinguere questa cosa da un’altra. Qualcosa diventa concepibile, “viene afferrato”, in questo modo: un concetto fa più semplice la molteplicità rendendola disponibile e utilizzabile, seppur a costo di essere quasi insufficiente a rendere conto della multiformità della cosa stessa. Chiarire il proprio concetto, per esempio quello della vita, definirlo per se stesso, rende possibile comunicare ad altri questa definizione e mettersi d’accordo su concezioni diverse di uno stesso fenomeno, anche perché nella comunicazione è in gioco proprio l’accordo di chi vi partecipa. La chiarificazione dei concetti e l’accordo con se stessi e con gli altri che ne può conseguire è un addestramento dell’attenzione, e dell’attenzione nei confronti di se stessi; contribuisce alla chiarificazione del sé e dei suoi

rapporti con il mondo e serve, in questo senso, a orientare la vita. Siccome i concetti rappresentano lo strumento dei filosofi, la filosofia offre uno spazio pubblico, un vero e proprio forum, per effettuare questa chiarificazione, anche se nel corso di questo processo la chiarezza stessa è ciò cha va irrimediabilmente perduto. La medicina, la psicologia, la sociologia, la biologia dirigono il loro sguardo verso le strutture somatiche, psichiche, sociali, ecologiche dell’essere umano, mentre la filosofia ha a che fare con le strutture del pensiero, mediante le quali vengono definiti tutti i concetti, che dal canto loro condizionano l’essere uomini. I concetti sono pensieri dotati di una forma e, come scrive anche Bettina von Arnim nel suo romanzo Günderode (1840), «creano gli uomini». La filosofia può essere d’aiuto a trovare la definizione oggettiva – “eteronoma” – di un concetto, a testarla e, talvolta, a modificarla o a ricomprenderla dal punto di vista soggettivo. In questo modo il sé diventa sovrano della sua concettualità. È molto importante studiare la logica generale dei concetti e quella di ciascuno in particolare al fine di appropriarsene e intrattenere una relazione consapevole. Quanto avviene nello spirito dischiude lo spazio di gioco per la vita, allorché diventa possibile pensare e comprendere un’alternativa anche da un punto di vista concettuale. Nello stesso tempo la dinamica spirituale tiene aperto il pensiero alle esperienze dell’esistenza, in maniera tale che queste possano influire sulla formazione dei concetti, per diventare condizioni della concettualità, che deve essere sempre aderente ai fenomeni della vita concreta. Nell’arte di vivere ispirata dalla filosofia la vigilanza sulla propria concettualità è un compito che il singolo, troppo preso dalle urgenze della vita quotidiana, potrebbe aver perso di vista.

Fabricando fabricamur: scrivere la vita Il lavoro su parole e concetti rientra nel lavoro su se stessi e sulla propria vita: esprimersi è necessario per trovarsi, per guardarsi come in uno specchio,

per darsi una forma. È la parola scritta, la scrittura, a mostrarsi come strumento privilegiato per trovare una forma per sé e per la propria vita. La carta su cui si scrive, o anche lo schermo su cui le lettere vengono messe insieme in parole e frasi, diventano specchi nei quali il sé osserva se stesso e l’immagine riflessa influisce su di lui. Chi si confronta con qualcosa attraverso lo scritto si confronta prima di tutto con se stesso. Per la scrittura vale dunque il detto fabricando fabricamur: attraverso il lavoro di formazione è innanzitutto il sé a prendere forma, e attraverso il compimento dello scritto è il sé, innanzitutto, a compiersi. Nello scritto il sé guadagna la distanza necessaria rispetto a se stesso, una distanza che gli consente di vedersi come dall’esterno e di avere effetti su se stesso come su qualcosa che si trova fuori di lui. Nasce così uno spazio di libertà dove il sé gioca con se stesso, si dà una forma e si trasforma, mentre si guarda come se fosse un altro. In ogni traccia che il gesto dello scrivere si lascia alle spalle, il sé intuisce se stesso e si forma, definendo la sua struttura e creando il tessuto in cui avvolgere la sua vita. Nello scritto si ricorda di quello che era, traduce in concetti quello che è in questo momento e comincia a sognare ciò che può diventare. Il racconto e la sua trascrizione diventano un processo di riflessione nel cui corso viene scritta per la prima volta la storia della vita che tuttavia non è mai identica alla storia “vera”. In questo modo quell’opera d’arte che è la vita guadagna i suoi contorni, le sue linee, le sue rotture, le sue tessere e i suoi frammenti. Analogamente a tutte le altre forme di attività, lo scrivere è un esercizio tipico dell’arte di vivere ispirata dalla filosofia, un esercizio dello spirito, un’ascetica che viene portata avanti con lettere, mail, taccuini e piccoli testi che permettono di chiarire il proprio pensiero, ma anche attraverso i lavori scritti che si fanno a scuola, la cui funzione principale è quella di mettere in condizione di realizzare questo lavoro su se stessi, pure nel momento in cui

questo scopo non risulta esplicito. Si tratta di un lavoro legato ad angosce, insicurezze e dubbi, alla disperazione che nasce dalla fatica necessaria a portarlo avanti, soprattutto occupandosi di dettagli che non restituiscono risultati evidenti e generano oscurità piuttosto che eliminarle; allo spaesamento e al fallimento, ma anche all’euforia che nasce quando le cose vanno bene, alla chiarezza, alla determinazione a perseguire una strada non appena la si è trovata, quando riesce, magari non tutto, ma almeno un singolo dettaglio. Scrivere: una calma meditativa e un grido disperato, una battaglia per ogni singola formulazione, per ogni parola, per ogni concetto da trovare e da provare, prima di capire se “lasciarlo o meno”. Sebbene i suoi commenti provochino “l’orticaria”, la lettura di un’altra persona è sempre molto utile, anche perché in questo modo è possibile capire che cosa abbiamo scritto. Nello scritto si esce fuori di sé: un’esperienza estatica sotto ogni profilo. Amare profondamente questo lavoro e un attimo dopo odiarlo con disgusto: questa è l’esperienza della scrittura. È straordinario sperimentare sulla propria pelle quanto un problema puramente spirituale, una formulazione linguistica o concettuale possano ripercuotersi anche sulla condizione del corpo e dell’anima, fino ad avere gli incubi quando “non ubbidiscono”. Come si respira bene, com’è bella la sensazione contraria: «Ah, come mi vengono le parole», una gioia che può essere così straordinaria da ripagare ogni fatica. Questo sconvolgimento può toccare lo spirito, ma anche l’anima o il corpo. In ogni caso è un’esperienza vitale: arrivare a un “punto morto”, a una profonda scissione con se stessi e con il mondo, per risalire nuovamente la china, per ritrovare un accordo pieno con il mondo e con se stessi. Per chi scrive, vita e morte si fondono: non si sa più quale sia la vita e quale la morte; vivere nello scritto, che apparentemente è privo di vita, ma che in verità può vivere ancora quando non si è più al mondo. Lo scritto ha conseguenze sulla costituzione del sé e sulla sua relazione

con il mondo. Fissa la verità – e nello stesso tempo la pone in questione. Chi scrive ha un’impressione intensa della puntualità di ogni realtà e della problematicità di ogni espressione. La realtà di un fenomeno sembra raggomitolata attorno a un punto e lo scritto ha la funzione di sbrogliare la matassa, di sviluppare una serie di parole e frasi che di sicuro non possono restituire esattamente quel punto; ma come potremmo rinunciare a parlare e a scrivere? Ogni espressione cede il passo alla realtà, che deve pur sempre trovare un’espressione; non resta altro che l’inquietudine sulle cose e sulla costruzione del mondo umano in generale, la cui costituzione non è altro che linguistica. Nello stesso tempo il sé si stupisce della molteplicità di tratti che possono essere colti nella scrittura e nel linguaggio, e per le numerose prospettive che dischiudono sul mondo e sulle cose. Il sé si sente mortificato dall’impenetrabilità dei nessi – anche se a volte riesce a trovare di nuovo una chiave che consente di leggerli e comprenderli, a prestare loro fede e a trionfare grazie a loro. Nello scritto nasce un sé ampio, che solo in parte ha a che fare con il sé attuale. Il sé diventa ora la somma di tutti i suoi momenti, che si avvicendano nel tempo dello scritto, dove la loro quantità diventa una nuova qualità, l’insieme della caratteristiche di un sé ampio, ricco, riflesso, meditato e ponderato, dove i momenti di disperazione, che nel sé attuale sono dominanti, sembrano qui soltanto delle macchie di colore nell’immagine complessiva. Non sempre ciò che è scritto è in grado di alimentare la riflessione di chi scrive. Lo scritto non è solo uno strumento del sé, ma si fa carico della funzione complessiva di un soggetto, formula domande e risposte, lega e sposta il discorso in maniera sorprendente. A volte pare che le frasi e le parole si scrivano da sé, quasi automaticamente, in maniera tale che “l’autore” può affermare, a ragione, di «non essere stato lui a scrivere». Ma chi è che scrive? Forse quella molteplicità che trova asilo nel sé e coerenza

nello scritto – e quindi senza giungere mai alla trascendenza? È la macchina a scrivere? Anche. Proprio nel momento in cui io stesso scrivo che la vita ha bisogno di ciò che è degno di approvazione, una macchina programmata si iscrive a parlare, anche se non è stata invitata a farlo: il concetto di “degno di approvazione” non si trova nel “dizionario”, è sconosciuto e quindi non si può scrivere. Come alternativa mi viene dato lamentoso: che la vita ha bisogno di ciò che induce a lamentazioni7. Certo! Perché non ci sono arrivato da solo! L’arte di vivere non si esaurisce nella ricerca di ciò che è degno di approvazione, ma anche in ciò che spinge a lamentarsi e che, pertanto, induce al pianto, rendendo ragione del polo negativo della vita. Poter dire di sì, ma anche essere in grado di piangere: solo in questa tensione la vita può trovare la sua pienezza.

Leggere come arte di vivere La cura per il proprio spirito prevede la produzione di parole e concetti attraverso la scrittura, ma anche la loro ricezione nella lettura. A chiunque legga un romanzo accadono cose strane: la lettura lo trascina, gli fa lasciare il mondo a cui è abituato, e ne comincia a costruire un altro, virtuale, che pretende una realtà non minore di quello attuale. Tutta la realtà circostante trova una disposizione diversa, il sé inizia una nuova vita, alla quale si abbandona in una maniera possibile solo nei rapporti di passione. E si getta nella lettura come quando ama: all’improvviso, bruscamente, di punto in bianco. Ci perde la testa, senza sapere più che cosa gli sta succedendo. Come ogni piacere anche quello che deriva dalla lettura è violento ed eccessivo: non si riesce più a mettere la testa a posto, o ci si sente storditi come dopo un colpo alla nuca. Di solito si vuole continuare a subire il fascino solo per un paio di capoversi, ma poi si scopre di essere arrivati molto più avanti. Le lettere, che sembrano sempre avare, ridestano passioni straripanti per la vita e si trascrivono sul corpo di chi legge, su cui restano impresse per sempre. La

moderazione del piacere di cui parla l’arte di vivere vale anche per la lettura e per la sfrenata penetrazione di candide pagine vagamente colorate di nero. Nella seconda delle sue Lettere a Lucilio, Seneca ammonisce il suo interlocutore: «Eccesso di libri, irritazione dello spirito». Come la scrittura, anche la lettura è simile a un dialogo, una forma di contatto spirituale, un toccare e un essere toccati da pensieri, rappresentazioni, sogni e idee, legate al contatto sensibile che deriva dal tenere in mano un libro e dallo sfogliarne le pagine. Il contatto rende il leggere un’arte, un’arte di produrre e dare forma a se stessi. Il sé si fa soggettivare dal testo, che si tocca e che ci tocca. Si crede di leggere una storia e, facendolo, si trova e si scopre se stessi. Qui prende vita la storia che viene raccontata, ma anche quella di chi legge, che trae spunto da quella scritta: nell’atto della lettura si rende disponibile la storia della vita di colui che legge. Lo scritto regge e dirige il lettore, guidandolo nella chiarezza fuorviante delle lettere attraverso lo spazio ampio, bianco delle possibilità. Nella loro nuda evidenza le lettere – che non possono mai dire a priori se dalla loro composizione nascerà una frase dotata di significato – sono le ombre di un mondo illuminato e producono i contorni che permettono al sé di orientarsi al suo interno. Si può dubitare che la lettura permetta di decifrare il “vero significato” dei segni scritti, ma tutto questo è irrilevante. Si legge, i segni vengono interpretati, e nella loro costellazione il soggetto scopre se stesso trovando la sua strada. Raccogliendo i segni, che rivede e riformula continuamente, il sé diventa poco a poco se stesso. Il dramma della significazione ha come suoi protagonisti il segno e il lettore: il gioco caotico del primo incontro, dell’estraneazione, del riconoscimento, della separazione, del ricordo, del sogno di un nuovo incontro. Le schegge della lettura danno forma al sé, diventano le tessere di un mosaico che, a sua volta, crea un’immagine colorata.

Legere significa assumere, spigolare, raccogliere. Fin da quando è stata inventata, la lettura consiste nel raccogliere i segni che qualcuno, in uno spazio e in un tempo diversi, ha lasciato; significa assumere una traccia e riflettere su cosa indichi. Nel segno si nasconde qualcos’altro e leggere significa far parlare quella voce, oltre il tempo e lo spazio. L’altro parla con me e lascia che io gli ponga delle domande, risponde in maniera evasiva o direttamente, balla fastidiosamente sul palco della pagina o si nasconde, pieno di vergogna, tra le righe. Nella lettura si percepisce sotto forma di segno quanto è stato deposto nel testo, rappresentato dal corpo delle lettere, scritto. La lettura è una vita insieme a un altro, le cui voci parlano attraverso lo scritto. Il suo senso può essere quello di raccogliere in sé una molteplicità di voci, queste cominciano a parlare e il sé deve preoccuparsi di fare in modo che gli entrino dentro, ma senza metterne in pericolo la polifonia. Fino a raggiungere un punto in cui il sé non sa più distinguere tra i singoli segni e le intere frasi nate dal testo che sta leggendo e quelle che sono state lette da altri. Riprendendo in mano il libro in un altro momento è sorprendente trovarci dentro frasi proprie. E nello stesso tempo è il soggetto stesso a diventare quel libro, che forse ora può provare a leggere anche qualcun altro. Guardandolo dall’esterno, il leggere dà l’ingannevole impressione di essere una passività. In maniera poco appariscente eppure efficace, si tratta invece di un’attività, di una praxis della libertà, tanto nel senso della liberazione dal dato quanto in quello di una formazione della libertà: nel corso della lettura il sé trova quasi per caso alcune possibilità per darsi una forma e se ne serve senza pensarci. Le lettere e i segni dicono quello che il sé avrebbe voluto dire già da lungo tempo, e simultaneamente dicono anche qualcos’altro – qualcosa che mette in contatto il sé con un altro, per quanto a volte questa esperienza possa essere deludente o promettente. Nella lettura si ottiene uno spazio della riflessione immenso: stimolato dalla lettura, il sé

resta nello spazio aperto del pensiero anche quando il suo libro si trova già da tempo sullo scaffale. La distanza nei confronti di se stessi e del mondo circostante che è stata ottenuta gli permette di riflettere su se stesso e sui suoi rapporti, la critica dei quali sfocia nel sogno di possibilità diverse, in un cambiamento di sé. Questo è il significato della cultura e dell’erudizione: mediante la lettura si dischiudono possibilità della vita e ci si mette in condizione di prestare attenzione a un più ampio orizzonte del pensare e dell’esistere, nel quale si possono porre domande e formulare risposte, problemi e soluzioni. Ma in nessun caso resta incatenata all’autocomprensione presente del sé. La vita tiene insieme una vasta rete di nessi, un apparato pieno di ramificazioni di rappresentazioni, all’interno delle quali il sé può muoversi in tutta libertà, produrre molteplici relazioni con gli altri e con se stesso, trovare risposte alle domande che lo assillano. In questo modo si viene impressionati, toccati, scritti da quello che si legge: ci si ritrova o ci si estrania. In questo senso si può parlare dell’”influenza” di un libro su di noi o sulla nostra vita. Dopo essere stato altrove il sé torna in se stesso, ma le cose non sono più come prima. In solitudine o in compagnia, la lettura ri-forma il modo di essere di chi la pratica. Già nel XVI secolo Montaigne vede, perciò, il guadagno della lettura nell’esercizio che permette un lavoro su se stessi: «I libri mi sono serviti molto meno a imparare che non a esercitarmi» (Saggi, III, 12). La storia della lettura rende chiari i diversi modi in cui questo esercizio può essere condotto. Per molto tempo la lettura è stata un leggere in comune, esteriore, secondo un’accezione che trova le proprie origini nell’antichità e che, nel corso dei tempi, si è mantenuta viva nei monasteri: una lettura ad alta voce, condotta con un movimento evidente delle labbra è un’esperienza sensibile della voce, mediante la quale il testo parla e risulta efficace, pur restando qualcosa di esterno. In questa esperienza fisica della lettura la

totalità integrale dell’esperienza sembra comunicare anche un persistente contatto spirituale. Il sé è tuttavia coinvolto emotivamente anche nella forma alternativa della lettura individuale, interiore, nella quale egli stesso incarna il testo che legge, formandosi e trasformandosi nell’atto della lettura. In questo caso la lettura non si dirige verso l’esterno ritornando poi verso il sé, ma viene subito interiorizzata e singolarizzata. La lettura ha ora un significato solo per chi legge, in una stanza silenziosa e forse anche nella solitudine della notte. Questo modo di leggere è taciturno. Si resta soli con il testo, ci si ripiega su di sé, ci si delizia nel giardino della sensibilità, anche nel momento in cui viene determinata solo esteriormente nella forma di una lettura in comune. Storicamente, la possibilità di praticare la lettura interiore è stata resa possibile dall’invenzione degli spazi vuoti tra le parole, originariamente scritte l’una di seguito all’altra senza soluzione di continuità: da allora il silenzio ha la sua sede negli spazi che le separano, grazie ai quali è possibile, tuttavia, recepire silenziosamente ogni singola parola. Negli spazi si sviluppano il pensiero e la rappresentazione, ossia la propria interpretazione dello scritto. Probabilmente è in questa separazione, nella quale sboccia l’intelletto, che si può quindi rintracciare l’origine di intellegere, “leggeretra”. In questo modo il leggere diventa quel sordo mormorio grazie al quale il sé interiorizza i segni. E nel momento in cui si comincia a privilegiare questa dimensione interiore, l’esteriorità può ripresentarsi: il corpo rivendica i suoi diritti, pretende un contatto, e preferibilmente il contatto con se stesso. La mano si muove lungo la fronte e tra i capelli cominciando distrattamente a grattare. Lo sguardo devia. Anche i sensi vogliono leggere: una formulazione era sulla punta della lingua, un’altra risulta indigesta, ci fa quasi vomitare. Non ha senso stare seduti in silenzio, bisogna alzarsi, camminare su e giù, ruminare quanto si è letto, ripensarci, incorporarlo. La lectio è soltanto la

base della meditatio, che va oltre ciò che è stato letto per ritornarci sopra e per rapportarcisi in maniera diversa e multiforme. Una passeggiata può trasformare la commozione spirituale in movimento fisico, altrimenti il testo va perduto, senza trovare alcun punto fermo mentre il corpo continua a trastullarsi come in una danza confusa di piccole particelle sconnesse. Il movimento ritmico delle parole, invece, si imprime nella forma complessiva e diventa parte costitutiva del sé, che non riesce più a distinguersi da esso. La lettura individuale, interiore, trionfa a partire dalla prima modernità e nei secoli successivi. La sua diffusione è di certo una nuova forma dell’antica lettura comune, condotta però individualmente. Con la possibilità di toccare in massa i singoli soggetti attraverso il mondo virtuale delle lettere, per esempio, gli illuministi speravano di innescare un cambiamento del mondo reale. Il lavoro del sé su se stesso, tipico della lettura, diventa ora la base per un rinnovamento della società. Nello stesso tempo la forma interiore della lettura si scinde in una dimensione soggettiva, che comprende la lettura come esercizio per la formazione del soggetto e mantiene in vita almeno questo effetto che deriva dalla lettura, e una oggettiva, per la quale il libro rappresenta un mero oggetto da cui si viene toccati e con il quale non si stabilisce mai una relazione stretta. Il testo diventa un oggetto da analizzare, da scomporre e ricomporre; serve a richiamare un sapere che si rivela nella sua lettera, che però non è più un sapere per la vita, ma un sapere obiettivo. Si tratta certo di uno sviluppo della lettura scolastica emerso già nella lettura monastica. Ma ne deriva ora una lettura scientifica che si basa sulla distanza e il cui significato in età moderna cresce fino a inflazionarsi. La lettura non è più un passo verso Dio, non è una chiave per accedere all’altro, non è una finestra sul mondo, e nemmeno la via per la formazione del soggetto. Ma un modo di leggere al quale non si riesce ad attribuire un significato in rapporto a se stessi, che non tocca e non dà forma, che è assurdo, in tutti i sensi. In

Così parlò Zarathustra Nietzsche si prendeva gioco di questo sviluppo obiettivistico della lettura traendone le somme in “Sul leggere e scrivere” in questo modo: «Ancora un secolo di lettori e lo spirito comincerà a puzzare». Con la lettura oggettiva si diffondono tecniche di lettura puntuale e cursoria grazie alle quali diviene possibile estrapolare singoli passaggi di un testo senza tener conto della sua globalità; e in questo modo risulta possibile “lavorare” su un gran numero di scritti. La lettura intensiva e ripetuta di uno stesso testo, tipica di altre epoche, viene sostituita da quella progressiva e per esteso di testi sempre nuovi e diversi: un riflesso del passaggio caratteristico del mondo moderno dalla rappresentazione ciclica a quella lineare del tempo. I tentativi di appropriarsi soggettivamente di un testo, che ciascuno di noi può effettuare, sono riconoscibili nell’abitudine di sottolineare singole frasi, di chiosare o scrivere note a margine. Nel corso del XX secolo si forma, tuttavia, una tecnica che consente di sottrarsi completamente alla fatica della lettura: fotocopiare, un’attività che dà l’impressione di aver compiuto un primo passo, mentre il lavoro “restante”, quello di una lettura accurata, verrà portato a termine in un futuro indeterminato, anche se di fatto non se ne ha mai il tempo. Questo è il modo di leggere obiettivistico, che non ha effetti reali né sul sé, né sul libro, pur lasciando l’impressione di aver svolto un lavoro enorme, perché già dopo una mezz’ora trascorsa alla macchina fotocopiatrice ci si sente prossimi allo sfinimento, una sublimazione impressionante del lavoro su se stessi. La lettura obiettiva domina anche nei media elettronici, il cui spazio virtuale si origina da quello in cui il lettore si muove già da molto tempo. Forse non si dovrebbe temere così tanto la morte del libro, ma parlare di più del problema della lettura per esteso, perché il mero recepire e rielaborare i segni, che non è più comprensibile come lavoro su di sé, non è più legato al libro in quanto tale. In ogni caso resta aperta la questione del se e del come ci

si possa riappropriare di un’arte soggettiva del leggere, di una nuova lettura esistenziale nella quale il sé stabilisce una relazione intima con il testo scritto. Chiunque può fare un simile esperimento per trarre qualche conclusione sul significato di questo contatto sensibile e spirituale, sulla possibilità di rinunciarvi nel mondo virtuale-visuale dei media elettronici. Proprio nell’epoca in cui più fortemente viene messo in discussione, il leggere, e forse anche la lettura ad alta voce, possono diventare nuovamente un’esperienza straordinaria. E ancora una volta, come dice Foucault, «per sognare» non ci sarebbe bisogno di «chiudere gli occhi, ma di leggere» (postfazione del 1966 a Gustave Flaubert, La tentazione di Sant’Antonio, 1874).

Andare incontro all’assurdo. Sul potere dello spirito La lettura porta a esplorare mondi altri e lontani. Il potere dello spirito, che materialmente è costituito dalle lettere, li rende concepibili; fa in modo che la propria vita si manifesti sotto una luce diversa. Ma la situazione in cui vive Salim, che spera soltanto di poter «catturare per un minuto, lungo ed eterno, un raggio di sole», è di fatto inconcepibile. Salim non è cieco, anche se ormai non ne è tanto sicuro, perché non ha nemmeno la possibilità di capirlo davvero. Salim vive in una tomba, in una notte eterna, in una fossa che gli lascia solo la possibilità di respirare. La notte che non conosce giorno diventa il suo mondo, non solo attorno a sé, ma in tutto il suo essere: notte e nient’altro. Senza stelle. Senza una stella fissa. Una vita nella più «estrema privazione». L’aria è umida, puzza di muffa e di urina. La pelle è sparita sotto uno strato di lerciume ormai pienamente tangibile. Dopo molto tempo a pancia sotto e lo sguardo rivolto verso il pavimento, preme la fronte a terra per rinfrescarsi e per sentirsi almeno un po’. Tutta la situazione è stata pensata per farlo soffrire, per protrarre la sua sofferenza all’infinito, per farlo

sopravvivere, ma anche soffrire il più a lungo possibile. Si sottrae l’esistenza a un corpo ancora in vita. Chi è riuscito a escogitare tutto questo? Salim ha preso parte a un complotto contro un re. Era un soldato di vent’anni e i suoi superiori avevano architettato una sommossa che venne poi soffocata nel sangue. Morti e feriti furono caricati indistintamente su un camion e deportati. La fantasia di alcune teste cominciò a funzionare, fino a concepire nei minimi dettagli, medici e psicologici, la pena più atroce. Le prigioni tradizionali non erano sufficienti. Bisognava costruirne una nuova. Non proprio un carcere, ma una galera, sottoterra e da qualche parte nel deserto. Ogni cella lunga tre metri, uno e mezzo di larghezza e di altezza: impossibile stare in piedi. Chi si piega agli ordini del padrone non può camminare a testa alta. Gli escrementi finiscono in un buco posto in un angolo. Da un altro, nascosto dalle parti del tetto, arriva un po’ di aria fresca. Impossibile guardare fuori. Lo spirito ha il potere di realizzare umiliazioni, lesioni disumane, privazioni bestiali della dignità come queste. Ora, però, Salim può raccontarlo e Tahar Ben Jelloun può dare al racconto tutta la forza delle parole arabe e francesi di cui è capace. Per dire l’indicibile nel Libro del buio (2001). Il romanzo si basa sul racconto di un sopravvissuto che nel 1971 partecipò a un colpo di Stato contro il re del Marocco Hassan II. Nel 1991 il governo marocchino cedette alle pressioni internazionali e chiuse il lager segreto di Tazmamart, nel sud del paese. Il racconto è un documento per capire quale sia il potere dello spirito in un senso completamente diverso. Salim, infatti, decise di comprendere la tortura come «esercizio» e come «prova», anche se ciò avesse dovuto condurlo alla morte. Poter vivere, questo dipende solo dal potersi ritirare nel pensiero puro, dal rifiuto della sensibilità che può comunicare al sé soltanto male, dolore e sofferenza e, proprio per questo motivo, rendere impossibile l’esistenza. L’istinto di conservazione viene distrutto e non è più possibile

usarlo come sostegno. «Ben presto decisi di conservare la mia coscienza con tutti i mezzi del mio spirito». Senza saperne nulla, Salim effettuò lo stesso esperimento che Cartesio aveva fatto nel XVII secolo, ma questa volta non solo in teoria, ma anche nella prassi e nella vita: «Un pensiero dissolto da tutto il resto». Dissolto soprattutto da ogni corporeità o sensibilità: «Soffrivo dolori così grandi, torture così atroci, che mi staccai lentamente dal mio corpo vedendomi alle prese con una lotta contro gli scorpioni che erano nella buca dove anche io mi trovavo. Ero oltre. Stavo dall’altro lato della notte». In un caso come questo resta solo il pensiero, e proprio quest’ultimo deve essere rafforzato con parole, pensate e pronunciate, recitando poesie, ricordando storie, inventando racconti. Il pensiero deve raggiungere un’«acutezza assoluta e feconda», senza suscitare illusioni o speranze, che in una situazione del genere possono risultare letali, perché le delusioni portano alla disperazione. Il lettore si ritrova involontariamente a pensare di nuovo a quelle tentazioni nel deserto egizio di sant’Antonio, che tuttavia aveva intrapreso la lotta contro l’“inferno” volontariamente. Perché l’inferno non sono solo gli altri, ma anche i demoni interiori e le chimere. Salim si mette in questa situazione involontariamente, ma le sue armi sono le stesse: quelle del suo spirito. Che si attaccano al corpo: «Per raggiungere lo spirito è necessario innanzitutto preparare il corpo, respirare profondamente fin nello stomaco, concentrarsi attentamente sul lavoro della respirazione». Poi: nessun sentimento, soprattutto nessuna rabbia, odio, o tristezza; nessun ricordo di relazioni o di abbracci, perché ora «ricordare significa morire». Quelli peggiori sono i ricordi dei profumi della «piccola felicità quotidiana»: caffè appena fatto, pane… La nostalgia ti spezza il cuore. Nessun desiderio, ma solo un essere puramente spirituale che si rivela in grado di catapultare il sé fuori da se stesso sollevandolo al di sopra di questa vita. Rientrare nel proprio

pensiero e conservare il proprio nome «come un testamento», «ricostruire tutte le cose nel proprio spirito»: coltivare un giardino con i propri pensieri, costruire una casa, una quotidianità, tale che il sé possa rifugiarvisi in ogni momento senza destare sospetti. Il tempo che passa non esiste più. Salim capisce che il tempo esiste solo quando esistono anche il movimento e il mutamento. Cerca di vivere senza tempo, senza età, «in un istante permanente» «fondendosi con il nulla». Impara i modi più svariati del silenzio e arriva a distinguerli con un fiuto sottile, e lo stesso impara a fare con il canto di ogni singolo uccello che sorvola la piccola presa d’aria della sua cella. Comincia a farsi strada una folle creatività che impara a costruire aghi e rasoi con il metallo di una scopa, a progettare strategie di movimento contro l’inerzia che affligge il corpo costretto a vivere in una fossa angusta, a vincere i dolori con rappresentazioni di dolori ancora maggiori, si inventa un cane che, passando di cella in cella, rende possibile la comunicazione. L’amico fidato diventa la morte, che sta in agguato a ogni angolo. Ma paradossalmente è proprio la morte a riportare la luce, almeno per un momento. È la morte il compagno di cella che, uno dopo l’altro, tutti devono sopportare o quello di cui resta vittima chi comincia a sbattere la testa contro il muro: quelli che restano devono seppellire i morti sotto la luce del giorno: «La morte si trasforma in un magnifico raggio di sole». E anche quando questo privilegio viene tolto, la luce diventa questione di immaginazione. Pensare alla luce e alla primavera rende possibile anche sopportare il fetore degli escrementi e del vomito. Un solo raggio di sole dà una forza che permette di sopportare qualunque cosa. Lo stesso vale per la luce interiore, di cui quella esteriore è soltanto una metafora: la trascendenza, l’oltrepassamento di sé verso qualcosa di totalmente diverso, diventa affare dello spirito, che comincia a farsi il concetto di un nesso, di una connessione,

che abbraccia qualunque cosa e nel cui spazio il sé si sente come annullato. Per Salim, che prima era molto poco credente, questa rappresentazione acquista sempre maggior plausibilità, unita alla convinzione di non dare ascolto a nessuno e nemmeno a se stesso: «In quei momenti sentivo solo Dio». Fino a realizzare un sogno: toccare la pietra nera alla Mecca e testimoniare che un essere umano può vivere vent’anni in una fossa cibandosi soltanto di Dio, parole, fagioli, pane secco e acqua, solo grazie alla forza del proprio spirito. Poi qualche notizia sul lager trapela. Un’attivista dei diritti umani comincia a fare di tutto, i giornalisti informano l’opinione pubblica di una nazione. La forza dello spirito è anche questo… Senza fatica lo spirito si lascia il muro dietro le spalle. Evidentemente esiste una vita dello spirito, che non può essere intaccata dalla morte, un fluido dotato di una ricchezza imperscrutabile in rapporto a spazio, tempo e possibilità, di cui l’individuo può approfittare per fare esperienza della sua «ampiezza spirituale». Ma di cosa è fatto lo spirito per poter sviluppare tutta questa forza? A cosa deve mirare la cura del sé per raggiungere l’autocontrollo anche sotto il profilo spirituale? Lo spirito pare essere ineffabile, ma una possibilità di comprendere il fenomeno è, accanto a quelle offerte dalla filosofia, dalla sociologia e dalla psicologia, anche la sua comprensione fisiologica, per quanto non l’unica. Possiamo saperne ancora di più grazie a una migliore comprensione di noi stessi e, per quanto possibile, esercitando una maggiore cautela nei confronti delle possibili manipolazioni del sé. Ciascuno deve scegliere se appropriarsi del sapere relativo a queste connessioni e metterlo in rapporto con quello che deriva dalla propria esperienza, per rendere sempre più plausibili le proprie riflessioni e per decidere autonomamente quale sia il sapere, e quale il modo di ottenerlo che più gli si addice.

Corteccia e amigdala: la sede della saggezza

Lo spirito non è solo il soggetto che rende possibile la ricerca, ma anche il suo tema, almeno secondo una prospettiva che rinvia a una lunga tradizione della filosofia e della scienza. Con la comparsa della neurologia nel XIX secolo, e poi con il fiorire della neurobiologia nel corso del XX, le operazioni della coscienza vengono identificate in maniera sempre più esclusiva con un «sostrato neuronale dello spirito», cioè con le funzioni delle cellule nervose del cervello. Non tutti gli studiosi sono cauti come Antonio Damasio, che cerca di tenersi lontano dal riduzionismo e parla soltanto di «correlati dello spirito», allo scopo di sostenere che «è possibile evitare di scambiare i correlati con lo spirito stesso» (Emozione e coscienza). La base neuronale dello spirito è, da questo punto di vista, una coscienza di base, molto robusta, che presenta un’attenzione “basale”, momentanea, e un sentimento di se stessa puntiforme, che conosce solo un qui e ora e che dipende da emozioni inconsapevoli, ma non dal pensiero e dal linguaggio. Solo da questa coscienza fondamentale procede un’attenzione permanente “orientata”, che ha a che fare con una coscienza vasta, tipica di un sé “desto e allertato”, continuamente cosciente di se stesso. Questa coscienza si insedia in un tempo che si trova tra il passato e il futuro e viene innescata da una forza rappresentativa dello spazio di ampio respiro e da una capacità concettuale e linguistica che si dimostra capace di una notevole evoluzione nel corso della vita del soggetto a cui appartiene. Nel complesso della coscienza sono attivi modelli neuronali, i quali per parte loro hanno effetti sui modelli mentali, che condizionano i modi di pensare, di sentire, di comportarsi. Spirito significa, tuttavia, non rimanere fermi a modelli neuronali già sempre dati, ma, piuttosto, possibilità di intervenire sul sé – che pure è comprensibile come una sorta di metastruttura neuronale – allo scopo di formare modelli sempre nuovi e diversi. Ben oltre i circuiti neurologici dati è infatti possibile sviluppare strutture neuronali

enormemente vaste e molteplici, che restano individuali, ma che sono pure legate a strutture culturali. Attraverso la produzione di connessioni, attraverso la lettura, lo studio, l’educazione e l’ulteriore formazione della personalità, la rete di queste strutture può essere resa notevolmente più complessa. Con un’importante conseguenza: quanto più ricca diventa la rete neurale, tanto più ampie sono le “possibilità di eludere” le insufficienze di una certa area cerebrale. Per questo motivo è possibile sostenere che attraverso la sua formazione crescente il pericolo di un deperimento della costituzione del cervello pare essere ridotto. Non solo, infatti, dal grado di complessità delle reti neuronali dipende la guarigione da una malattia neurologica, ma anche la riduzione dei suoi effetti: i danni delle funzioni neuronali, come quelli che derivano dal morbo di Alzheimer, possono essere “contrastati”, almeno fino a un certo livello. Il presupposto per tutto questo è la cura di sé, che dipende dall’ampliamento della propria coscienza, dall’impegno a rendere sempre più complesse – non solo nel senso dell’iperspecializzazione – le reti del proprio cervello. Si tratta cioè di mettersi in condizione di «essere determinati dalla cura spirituale della propria vita». Secondo Damasio questa è la più grande conquista che può venire da una condotta di vita consapevole e ciò che differenzia il soggetto che la pratica dalla sua predisposizione alla vita, che è innata e biologica. L’operazione basilare dello spirito, fondata anche sotto il profilo neurologico, è duplice: ci si formano rappresentazioni del dato del corpo, dell’anima, dello spirito stesso, del contesto, ampio o stretto che sia, sociale ed ecologico, del «mondo». Già questa rappresentazione e connessione del reale è un’operazione creativa (giacché non consiste in una mera riproduzione del dato), portata a termine da ogni singolo individuo che fa rappresentazioni del possibile, progetta una realtà diversa, riflette e anticipa nella rappresentazione una realtà futura. Vista da questa prospettiva, la creatività

non è altro che uno sperimentare connessioni nuove e diverse, diverse soprattutto dai modelli neuronali già dati. Ben più di un gioco interessante, che proprio in condizioni difficili e pericolose porta la vita alla sua conservazione e formazione. Salim, che viveva in condizioni pietose dal punto di vista neurologico era in condizione di trovare, mediante connessioni creative, il modello neuronale che gli consentiva di sopravvivere. La sofferenza libera chance di sopravvivenza, perché rappresenta un’occasione per effettuare cambiamenti neuronali, per i quali la normale agiatezza non offre stimoli sufficienti. Da qui deriva anche il discorso sull’”impressione generata dal dolore” come unica condizione per un cambiamento. La creatività che si sviluppa in questi momenti, tuttavia, non è indirizzata a priori verso una direzione prestabilita. La forza dello spirito che si manifesta in queste situazioni può, in questo senso, essere distruttiva e disumana, ma anche costruttiva e umana. Certo, è legittimo voler respingere il “negativo”, ma non si può mai pensare di escluderlo completamente senza mettere in questione la stessa creatività. La sua utilità risiede evidentemente nel rendere possibile un vivere sorprendentemente diverso e nel mettere a disposizione una straordinaria capacità di far fronte alle difficoltà. In questo modo la creatività sembra essere utile all’intero genere umano, perché proprio grazie a essa può essere spiegata la diffusione e l’espansione dell’animale-uomo sul pianeta Terra. Per essere in grado di condurre con consapevolezza la propria vita, sia in riferimento al mondo dato che a quello possibile, il sé ha però bisogno dello spirito – non solo nel senso dell’intelletto, ma anche in quello del sentimento. Entrambi sono parti costitutive di una coscienza vasta, che da una parte è determinata dal flusso dei pensieri e delle parole, ma dall’altra lo è da una corrente di emozioni inconsapevoli e da sentimenti coscienti. Solo con la connessione tra ragione e sentimento può nascere la saggezza, che

rappresenta la realtà in maniera tanto più sapiente quanto più è in grado di sviluppare la creatività, senza mettersi a considerare il suo processo come concluso in un certo punto del tempo. Con il suo aiuto il sé impara e prova sempre di nuovo, sperimenta e tenta, pianifica e previene. In questo processo fluiscono tutte le sensazioni, anche quelle che non trovano un’espressione verbale. Non se ne può prescindere nel giudicare cose, situazioni e persone: senza le informazioni che derivano dal sentimento, il sé disporrebbe solo dell’intelletto logico. Viceversa, senza la partecipazione dell’intelletto si scatenerebbero tutti i sentimenti, la cui intensità e i cui mutamenti repentini non consentirebbero più alcun comportamento prudente e nessun agire cauto e riflessivo. La saggezza dipende da una partecipazione congiunta di sentimenti, sensazioni, pensiero sobrio e avveduto. Ciascuno nella rispettiva giusta misura: tanto più ricco è il sentimento, quanto più è possibile mettere in pratica riflessivamente l’accortezza, la cautela, l’attenzione e la visione previdente. Già nel pensiero greco dell’antichità la phrónēsis – ‘saggezza’ – si configurava come l’operazione centrale dello spirito. Originariamente collegata alla rappresentazione delle facoltà “inferiore” e “superiore” dell’essere umano, la sua sede veniva localizzata nel diaframma, nel phrēn. Oggi la phrónēsis può essere compresa in maniera del tutto nuova come risultato della cooperazione di due aree specifiche del cervello: da una parte l’amigdala, una struttura doppia, a forma di mandorla, localizzata al di sotto della grande corteccia cerebrale (subcorticale), quasi al centro della testa, che rappresenta il centro del sentimento, dove le informazioni “colorate emotivamente” vengono rese avvertibili ed esperibili, motivando l’attenzione e innescando le reazioni. Un proposito e la sua attuazione vengono qui valutati con particolare riferimento a criteri come la paura e il terrore; qui si trova anche la sede che permette di stimare se il sé può sopportare qualcosa o

meno. I danni ai due lati dell’amigdala hanno, infatti, come effetto uno “squilibrio affettivo”. In stretta armonia con l’amigdala si trova la parte anteriore del cervello (a cui appartengono i circuiti corticali del pensiero cosciente), e in particolare l’ambito orbitofrontale della corteccia prefrontale, che è della massima importanza per l’espansione della coscienza. Qui si conserva la storia del sé, vengono salvati i dettagli dei nessi spazio-temporali, esaminati i rapporti sociali e formati i concetti strategici. E qui hanno luogo quelle valutazioni che possono essere ascritte alla saggezza, nelle quali si integrano anche le informazioni che provengono dai sentimenti, i quali vengono tenuti a freno proprio grazie a questa zona del cervello, che contrasta anche l’arbitrio degli affetti, delle passioni e dell’aggressività e testa la legittimità di tali atteggiamenti volta per volta analizzando sempre le possibili conseguenze. In una prospettiva evoluzionistica, si potrebbe sostenere che il pensiero sia nato dall’esigenza di contenere lo straripare dei sentimenti. E i sentimenti sono perfidi: non vengono innescati solo dalla realtà, ma anche da una rappresentazione della realtà, che può anche essere una chimera. Per poter operare, il sé integrale deve tener conto di questa struttura che è anche la sede della ponderazione, o della connessione del pensare e del sentire. Questa parte specifica del sé è quella che coglie cognitivamente ed emotivamente tutto ciò che accade e che, a sua volta, fornisce al pensiero e al sentimento gli impulsi che rendono possibile ciò che deve accadere, ed è anche la sede del sé integrale, dove pensiero e sentimento si incontrano e dove il moderatore interiore può prendersi a cuore una partecipazione adeguata di entrambi questi lati alla vita del sé. La pretesa occasionale di “prendere sul serio i sentimenti” mira alla percezione delle informazioni che si irraggiano dall’amigdala, senza bloccarle o addirittura negarle. “Non seguire sempre i sentimenti” significa invece evitare di farsi imporre di

continuo, e acriticamente, da questa corrente di informazioni l’atteggiamento da assumere nei confronti di una certa situazione. La cooperazione tra il piano corticale e quello subcorticale appare dunque essenziale per la formazione della facoltà della riflessione, che possiamo considerare come quella capacità cognitiva ancorata nella corteccia prefrontale che contribuisce a rendere le emozioni salvate nell’amigdala una motivazione per l’agire del sé. Quali dei due piani ha il primato nelle situazioni incerte? Un’emozione come la paura o l’angoscia è di fatto più forte e la reazione fisica innescata dall’amigdala è più veloce della coscienza. La gestione consapevole delle reazioni provocate dall’amigdala è possibile, ma ha bisogno di una lunga ristrutturazione dei modelli neuronali, percepibile come cambiamento delle abitudini del soggetto. Questo passaggio è necessario per la conquista della saggezza, che però può essere raggiunta anche con altri strumenti.

La stupidità come astuzia della saggezza Il sé, infatti, per essere saggio non ha necessariamente bisogno della consapevolezza. Anche la stupidità inconsapevole può avere una funzione in questo senso. Non solo l’intelletto, ma anche l’irragionevolezza, che si rende disponibile senza grande sfoggio di scienza. La stupidità si presenta essenzialmente in due forme: è grossolana, cioè una stupidità totale, oppure specifica, più o meno raffinata. La stupidità non manca mai: le due forme, infatti, si possono trovare sia nell’individuo sia nella società, tanto che a volte si ha perfino l’impressione che l’arte di vivere esaurisca il suo potenziale proprio nel lavoro sulla stupidità, la quale non fa altro che intossicare il sé e la sua vita. Il lavoro in questa direzione viene sviluppato principalmente in gioventù, ma anche quando si è adulti è necessario prendere congedo da certi pensieri, o estenuare di volta in volta la stupidità che caratterizza la vita. Ma non è detto che la vittoria sulla stupidità debba essere davvero auspicabile: la vita perderebbe così una delle sue fonti di ispirazione più importanti e il sé

verrebbe trasferito «dall’ambito della stupidità, teoricamente molto vario, nel regno del sapere, un desolato deserto e un luogo da evitare» (Robert Musil, “Sulla stupidità”, conferenza del 1937). La cosa sorprendente degli esseri umani (o almeno di me stesso) non è il potenziale implicito nella saggezza o nel sapere, ma la stupidità autentica. Non si dovrebbe temere di esserne schiavi, assicurandole, invece, quel minimo di attenzione a cui ha diritto. Quindi non abbiate paura di dire cazzate. Il debole di spirito è senz’altro più rilassante dell’acuto, di cui si può godere con limiti tipici di una bevanda ad alta gradazione alcolica: solo a piccole dosi. Lo sguardo profondo in un pozzo senza fondo è invece reso possibile dall’Enciclopedia della stupidità di Matthijs van Boxsel (2007), che insegna a meravigliarsi di questo affascinante elemento dell’esistenza umana. Boxsel mette di fronte allo scettico che non crede a tutto questo la creatività, la continuità e la persistenza della stupidità – e senza dubbio anche la sua grandezza, ammesso che qualcuno possa metterla in questione. Si può sospettare che la stupidità viva sotto il cielo di stelle fisse tipico dell’ignoranza per il solo fatto che tutto può essere messo in relazione a essa. Nonostante tutti i tentativi di diffamare la stupidità, di renderla qualcosa di estraneo alla cultura stessa e, addirittura, di eliminarla, essere capaci di essere stupidi, tenere conto della stupidità nell’affrontare tutti gli ostacoli, può essere un’operazione legittima e propria di ogni cultura. La vera sfida da accettare sulla via della saggezza è la riconciliazione con la stupidità – con la propria, così come con quella degli altri – e il riconoscimento della sua importanza nella condotta di vita di ciascuno. Quanto questo sia assolutamente necessario si mostra nella frequenza con cui “si commettono sciocchezze”, proprio quando si presta la massima attenzione nel fare qualcosa. “Stupido” è allora l’esito di cui non si può non prendere atto – ma che in verità, insito nella cosa stessa, può essere usato per

raggiungere uno scopo più distante, sia anche in rapporto a deviazioni o errori considerati impossibili. Per tutte queste buone ragioni Nietzsche (in un frammento presente nel suo lascito dal titolo “La nuova gerarchia” dell’estate-autunno 1884) apprezzava la «sapienza dionisiaca» come quella che «sceglie la via più coraggiosa e difficile», scorgendovi tuttavia anche il «principio della somma stupidità». Si diventa saggi e sapienti in maniera implicita, non in maniera evidente e, così si può concludere, non seguendo una via retta. La stupidità è l’astuzia della saggezza, con la quale è possibile realizzare nonostante tutto una propria rappresentazione, anche perché oltre gli abissi si profilano interessanti alternative che prima apparivano assolutamente inconcepibili. Un’astuzia intenzionale della ragione, posta come forma più ampia di intelligenza, non consisterebbe quindi in altro che nel servirsi del pretesto della stupidità, per fare esperienza di ciò che normalmente resta precluso agli uomini intelligenti, che devono già “sapere tutto”. È sorprendente notare quante volte si scelga la via opposta: addurre come pretesto l’intelligenza per non sembrare stupidi. La stupidità è inevitabile. Ed è divertente vedere come l’intelligenza, misconoscendo questa base della conoscenza, ci faccia desiderare di ricorrere, anche inconsapevolmente, alla stupidità. Peccato che un accesso intelligente alla stupidità sia votato allo scacco prima ancora di essere effettuato: non esiste un’intelligenza in grado di riconoscere la propria stupidità, la sua impossibilità a comprendere la realtà delle relazioni tra se stessa e il mondo; anche perché quand’è che si può dire che queste relazioni sono davvero “reali”? Si può però conquistare un minimo di stupidità, cioè un’intelligenza limitata, ovvero cosciente dei propri limiti. Ancora più comprensibile è la stupidità degli altri, per questo oggetto costante delle nostre minacce: proprio come i cantonieri di Schilda, che smontano tutti i segnali stradali (o si dovrebbe dire “decostruiscono”?) senza poi trovarsi in

imbarazzo a rispondere alla domanda su come ritroveranno la strada di casa: nessun problema, abbiamo con noi tutte le indicazioni8. La cosa convincente della stupidità sono gli sforzi che l’intelligenza umana può compiere per contrapporvisi. Colui che, con la più grande intelligenza, canta le lodi della stupidità (Erasmo da Rotterdam, Elogio della stoltezza, 1511) incappa in un’autocontraddizione performativa, cioè afferma qualcosa nello stesso momento in cui la nega: il plauso spiritoso della stupidità la deride con sarcasmo. Con gli occhi puntati sugli sforzi compiuti dall’intelligenza per evitarla, dovrebbero forse garantirsi i diritti della stupidità, per dare nuova linfa all’antico detto: “fesso e contento”. C’è solo un problema: da uno studio condotto su più di 2000 persone, dal 1932 al 2002, è risultato chiaro che gli uomini intelligenti vivono più a lungo. Resta solo la brutta tragedia: chi dà valore alla stupidità accorcia la sua vita. Chi vuole vivere a lungo non può non rinunciarci, anche se è difficile. Tutto sta a capire quando è il momento di dare spazio alla saggezza e quando alla stupidità. Ma per farlo ci vuole fiuto.

Esperienza e consapevolezza: lavorare sull’intuito Il sé è esistenzialmente rimesso al suo intuito. Non si può davvero vivere in piena consapevolezza, senza fare qualche sconto consapevole alla stupidità inconsapevole. L’intuito, che non è né cosciente né inconscio, è in grado di cogliere una molteplicità di aspetti e di nessi, anzi, ancora di più di vederli nella loro azione collettiva, prevedendola, quando è necessario, anche nel giro di un attimo – allo scopo di disporre la scelta giusta che il sé deve effettuare. L’intuito consiste nel fiutare, nel trovare indizi, indicazioni, segni, nel rappresentarsi la loro ragione e nel seguire la via che tracciano: le tracce del sé, del suo sentire; le tracce del mondo, tra sé e il mondo, tra sé e gli altri; le tracce degli altri, nelle essenze e nelle cose materiali. Capire se le linee convergono o divergono, cooperano o confliggono, se camminano parallele

senza mai incontrarsi o se si scontrano frontalmente, oppure se rischiano di annullarsi a vicenda: si può fiutare in anticipo quale sia l’evoluzione di una relazione interiore o esteriore; e reagirvi, anche quando è difficile, quando le tracce si sono nascoste nella più oscura profondità. Spesso il decorso possibile o reale delle tracce viene rappresentato nelle immagini oniriche – una proiezione dalla quale non segue necessariamente la corrispondenza con la realtà, o la tesi che sogno e realtà coincidano. Solo in seguito è possibile capire se abbiamo interpretato correttamente le tracce e le connessioni, se il calcolo approssimativo che deriva dagli indizi era convincente. Anche gli indizi più evidenti possono fregarci. Però la saggezza dipende completamente dall’intuito, che la rende qualcosa di più di un’intelligenza meramente cognitiva. La sua sensibilità deriva dal fiuto, che si manifesta in rapporto a se stessi, agli altri, alle cose, alle situazioni, al linguaggio e anche in riferimento a valori come la libertà e la giustizia. Ogni aspetto della vita consapevole necessita quindi di un intuito peculiare: per la società, per i piaceri e la loro misura, per il tempo, per i più piccoli dettagli che invece sono così importanti e per molto altro. Ma non si può mai avere intuito per tutto allo stesso modo. Anche le attività e le professioni hanno bisogno di un intuito specifico: quello del giardiniere è diverso da quello di una telefonista o di un falegname, quello di un insegnante è altro rispetto a quello di un medico o di un giudice. E come si può giungere da questo intuito specifico a quello più generale, che comprende i diversi aspetti della vita? La disposizione dell’intuito può essere innata, ma la sua formazione e l’esercizio per affinarlo hanno a che fare con l’esperienza e con la riflessione su di essa. Innanzitutto l’intuito è questione di esperienza, cioè di ciò che l’individuo incontra o contrasta nella vita pratica. Questo si può osservare negli uomini a cui si attribuisce un “grande intuito”: hanno molta esperienza,

che deriva dalla loro vicenda personale o da quella degli altri per i quali hanno interesse. Il sé può fidarsi tanto più del suo intuito quanta più esperienza ha fatto grazie a esso; e tanto più è ricca la sua esperienza tanto più è fine l’intuito. Non si deve aspettare passivamente l’esperienza, che può anche essere cercata attivamente: per guardare dalle prospettive più differenti, per vivere nelle più svariate situazioni e per esplorare l’orizzonte delle esperienze possibili e pensabili. Anche una sciocchezza, e perfino un’esperienza brutta o terribile, sono utili per armare ulteriormente il proprio intuito, che in questo modo può recare ulteriori benefici al contesto complessivo in cui il sé conduce la sua vita, in rapporto agli altri, alle cose materiali e alle più diverse situazioni. Questo processo può essere intensificato dalla consapevolezza, che segue dall’esperienza e la “consolida”, ovvero dalla prontezza a percepire l’esperienza medesima, a rifletterci sopra, a comprenderla e a interpretarla con l’unico obiettivo di appropriarsene. La base della consapevolezza è l’attenzione sensibile. Si traggono indizi da tutti i sensi: le informazioni sensoriali dei “sensi esterni”, che colgono quanto può essere significativo per il corpo e per il contesto in cui vive; e anche ciò che traluce dagli occhi di qualcun altro, quanto “traspare” dalla sua voce e capovolge quello che sta dicendo, la sua “prosodia”; la sua mimica e la sua gestualità e, infine, l’armonia tra tutte queste informazioni, o il fatto che c’è “qualcosa che non va” rispetto a quanto già si sa, a ciò a cui si è abituati o a quello che si desidera e ci si immagina. Inoltre le informazioni somatosensoriali del “senso interno” su tutto ciò che accade nel corpo e del modo in cui reagisce verso l’esterno, e le informazioni sensomotorie che ci vengono fornite dal senso del movimento corporeo in relazione ai movimenti del suo contesto. La consapevolezza pone quindi il problema di un senso più ampio, cioè dei nessi strutturali, delle tracce e delle informazioni nel loro complesso. In

particolare, la consapevolezza pone il problema delle conseguenze da trarre da una certa conclusione, al fine di correggere il proprio intuito laddove si è illuso e di rafforzarlo laddove si è rivelato affidabile. Ci troviamo quindi sul piano della formazione delle teorie, dove è possibile prendere le distanze e guardare dall’esterno tutto quello che ci capita. Le esperienze e le conclusioni che se ne traggono vengono quindi depositate innanzitutto nell’intuito, così da farci trasalire di fronte a un’esperienza simile a un’altra che in passato è stata dolorosa o, per fare un altro esempio, da indurci a non valutare con troppa superficialità gli effetti di una gioia eccessiva. Solo quando si incontrano i due piani della ricchezza di esperienze vissute e quello della pronta consapevolezza di fronte a una situazione è possibile cogliere gli aspetti più diversi di una cosa, di una situazione o di una persona, i dettagli particolari, così come le strutture generali, che a loro volta permettono di raffinare ulteriormente l’intuito. Sembra dunque assurdo “guardare sempre avanti” senza mai acquisire una consapevolezza del proprio vissuto. Viceversa, l’intuito non può mai proteggerci pienamente dagli errori a cui possono indurci le esperienze fatte o pensate: l’intuito è sempre qualcosa di soggettivo, è una disposizione umana e non certo meccanica. Per lo stesso motivo l’intuito garantisce che tutto ciò che riteniamo importante in una situazione si presenti nel momento in cui dobbiamo effettuare una scelta. Si possono fiutare i nessi vitali tanto quanto le molteplici relazioni reciproche che possono facilmente sfuggire all’analisi teorica o a una valutazione artificiale. Si possono utilizzare tutte le capacità conoscitive del soggetto, ma anche quelle non-cognitive e non-discorsive: l’intuito coglie fondamentalmente più di quello che il sapere può sapere. L’intuito nasce tra le due vie della consapevolezza e del sentimento e non è obbligato a seguire né l’una né l’altra. Piuttosto gli è possibile cogliere un’atmosfera, tanto poco concepibile quanto spesso decisiva per creare

confidenza tra gli esseri umani. L’intuito suggerisce quella parola, quello sguardo, quel gesto che può essere giusto per creare un’atmosfera. In questo, infatti, sta la forza di ciascuno di noi: influenzare l’”atmosfera dominante”, che apre o chiude la bocca di un essere umano oppure ostacola i suoi sensi. L’intuito è il senso che coglie le sottili “vibrazioni” degli altri, che incidono anche a distanza, e non solo sull’ambiente più immediatamente circostante. Una “dimostrazione” rigorosa dell’”esistenza” di queste vibrazioni non c’è. Ma è un fatto della vita che il pensare a una certa persona la rende in qualche modo presente. Rintracciare un correlato neuronale dell’intuito è un desideratum della ricerca, anche perché potrebbe permettere una spiegazione del “potenziale di preparazione motoria” che precede un atto consapevole. Le reti neuronali dell’intuito possono essere legate tra le diverse aree che si formano nel corso dell’evoluzione della specie e che vengono poi sostanziate culturalmente, estese a tutte le connessioni che possono essere create mediante una “neurogenesi” individuale e stimolate dal contesto sociale ed ecologico. Non ha quindi origine in una specifica regione del cervello, ma è probabilmente il risultato di un gioco collettivo tra coscienza linguistica e non-linguistica, completato da una memoria straordinariamente lunga dove viene conservato, fin nei più piccoli dettagli, un numero infinito di situazioni. I modelli di base a cui si riferisce l’intuito potrebbero trovarsi nella coscienza fondamentale, che è indispensabile e che lavora in silenzio – pur con la massima efficienza e anche durante le ore di sonno. E tutto ciò che viene intrapreso nella coscienza vasta grazie alla riflessione sull’esperienza può essere poi affidato alla coscienza fondamentale, che non ha bisogno della guida della consapevolezza, l’elemento fondamentale della tranquillità. I sentimenti sono interessati da tutto questo e procedono parallelamente a tale processo. Ma l’intuito va molto oltre i sentimenti e si rapporta anche a

informazioni non-emozionali; si tratta di un sapere implicito («l’ho sempre saputo»), che è quindi intelligibile e può essere esplicitato, quantomeno in un secondo momento. L’intuizione può essere una parte costitutiva o addirittura il fondamento dell’intuito; essa appare tuttavia come qualcosa di dato o, anche quando non sembra tale, non ci si può lavorare sopra. L’intuito viene vissuto spesso come una “voce interiore”, e ciò già ai tempi di Socrate e del suo daimónion. Questa voce, verbale o non-verbale che sia, ammonisce e sprona, tranquillizza o inquieta, annuncia possibilità o la loro mancanza, parla di bisogni e di paure, di idee e aspirazioni (intuito virtuale). Trova le tracce nel presente e racconta della concretezza – anche quando appare controfattuale – e di ciò che bisogna ancora concretizzare (intuito reale). Riferisce di processi complessi e vitali, che possono essere colti solo con la massima perspicacia, e sussurra la risposta esatta e adatta per le questioni che ne derivano (intuito eccellente). E infine intuisce le lacune del sé, riprende, magari anche passando dalla parte del torto, il passato e mantiene il sé sulla strada i cui segnavia sono ancorati nel sé nucleare – senza temere deviazioni o inversioni di marcia. La voce interiore ha sempre un tono che ispira fiducia e che riporta sempre sulla giusta via (intuito poristico). La fiducia nel proprio intuito consente di condurre la vita con una tranquillità sempre maggiore e di poter dare rapidamente una risposta alle sfide che ci si presentano. L’intuito può offrire una direzione complessa, e perciò risulta indispensabile per affrontare la situazione fondamentale della modernità. Tuttavia esso può anche essere profondamente assillante, per esempio quando si ha il sentore di difficoltà, intoppi o incompatibilità. In questi casi è più saggio non dare al proprio intuito il controllo totale, senza “farlo fuori” a tutti i costi, ma tenendolo a distanza per rendere sopportabile il suo referto: controllo dell’intuito. L’artificio della relativizzazione è importante per riportare a una prospettiva umana tutto ciò che pare essere

assolutamente pressante. La relativizzazione è questione di prospettiva e soprattutto della forma dello sguardo esterno su se stessi, sulla situazione da affrontare in un certo momento e, nel complesso, sulla propria vita. Nello stesso tempo questo sguardo è essenziale al corretto operare di ciò che chiamiamo “coscienza” (Gewissen)9.

Sulla fabbricazione della coscienza morale Nella storia si possono riscontrare infiniti tentativi di produrre qualcosa come una “coscienza” morale, intesa quale dote fondamentale di tutti gli esseri umani. Attraverso l’educazione o il contesto sociale, la coscienza avrebbe dovuto maturare nel corso della crescita individuale, portarli alla piena evidenza di un’abitudine (dunque: a certi modelli neuronali). Quelli che non avessero seguito una simile abitudine sarebbero stati tormentati da una “cattiva coscienza”, ossia dalla mancanza di armonia con le norme date del pensiero, del sentire e del comportamento. Un osservatore acuto e sobrio come Michel de Montaigne, tuttavia, fece piena chiarezza sulla sua origine, fino a quel momento identificata con un dono del cielo o, almeno, con una dote naturale: «Le leggi della coscienza, che noi sosteniamo derivare dalla natura, nascono dalle abitudini» (Saggi, I, 23). Nel corso della modernità anche la coscienza viene messa in questione, analogamente a ogni legame con Dio, con la natura o con le convenzioni: grazie alla libertà di coscienza gli individui divennero liberi da qualunque intervento fosse indipendente da loro, cominciando ad avvertire come progressivamente pressanti e ridicole le autorità religiose, quelle politiche e familiari, oltre che le direttive morali che ne derivavano. Al loro posto si poteva pretendere, certo, di seguire ancora le proprie convinzioni. Ma la dinamica della liberazione, come del resto era prevedibile, ha lacerato anche queste ultime facendo sostanzialmente scomparire la coscienza. Ma che cos’è la coscienza? Che cosa viene a mancare quando la

coscienza sparisce? Fin dalla nascita del suo concetto, la coscienza denota un essere, un fare o un agire “sapiente” (syneídēsis nel greco di Epicuro, conscientia nel latino di Seneca). Dunque: un sapere di se stessi, che ha la funzione di trovare i motivi per una certa azione o per non fare una certa cosa, per definirne le conseguenze possibili o verosimili, per mantenere di fronte ai propri occhi il giusto, i valori, le norme considerate “autentiche”. Si potrebbe mostrare che qualcosa come la coscienza morale è indispensabile solo ponendo la questione relativa alla possibilità dell’autonomia, che si manifesta nell’autolegislazione e, secondo la sua forma e il suo contenuto, come un processo mediante il quale “ci si fa una coscienza”. A completare la liberazione, quindi, può intervenire l’altro lato della libertà di coscienza, ovvero il processo che deve portarla ad assumere una forma determinata. Più importante di stabilire se sia in generale possibile una formazione della coscienza morale su basi secolarizzate e individuali deve essere la volontà di cercarle, perché magari le istanze trascendenti ci faranno aspettare troppo e forse inutilmente. E che succederebbe a quel punto? Muovendo innanzitutto dalla propria autonomia, bisognerebbe rinnovare il contenuto, il conglomerato di certezze, che rende tale la coscienza. Senza certezza si rischia una lacerazione permanente del sé, che può risultare in tutte le questioni relative al rapporto che si ha con se stessi, con gli altri e con il mondo. In secondo luogo bisogna tener presente il fatto che nella sfera della coscienza rientrano le certezze ritenute tali dagli altri, “dalla società”, dalla “cultura”, le quali vengono tuttavia filtrate da ciò che l’individuo riconosce consapevolmente e con cui arricchisce consapevolmente la sua coscienza. La coscienza si basa su un accertamento di se stessi, su una chiarificazione di ciò che è possibile far valere come certo, strettamente legato con una comprensione di ciò che il “sé” è e di ciò che non è. La coscienza procede necessariamente assieme a un consolidamento del sé che

arriva fino alla sua integrità, viene costituito da esperienze dalle quali vuole imparare – e che hanno a che fare con il bello, in riferimento al quale il sé orienta la sua vita, con le idee che non devono essere mai “tradite”, con la disposizione dei valori che non devono essere applicati primariamente alla valutazione del comportamento di altri, ma al proprio. La tecnica di cui il sé può servirsi per ottenere la certezza nei confronti di se stesso è il dialogo con sé e con gli altri, condotto in maniera concreta o virtuale; la meditazione e la riflessione sui testi, religiosi o secolarizzati che siano, ritenuti fondamentali. Solo in questo modo si può anche prendere una decisione nei conflitti di coscienza, quando si presentano due valori parimenti legittimi. Decisivo è però non attenersi in anticipo a una particolare forma di certezza, così come comprendere che la certezza non è statica, ma qualcosa da mettere costantemente in questione e da esaminare servendosi di motivazioni, esperienze e consapevolezza. La forma della coscienza, però, è definita essenzialmente da uno sguardo dall’esterno, che è proprio il sé a esercitare, al fine di poter osservare la sua vita, il suo fare o il suo non fare qualcosa. Per lungo tempo nella cultura cristiana questo sguardo esteriore parve essere eteronomo, cioè determinato dall’esterno, da un’istanza sovrumana, sensibilizzata dall’occhio di Dio, che si posava ininterrottamente sul sé. Siccome questo sguardo è indispensabile, è necessario riprodurlo in termini di autonomia, e di certo a partire da una pura cura nei confronti di sé, allo scopo di rendere disponibile un correttivo per il governo di se stessi e per la propria condotta di vita. L’unica cosa a cui si può davvero rinunciare – e che di fatto non si può mai desiderare davvero – è l’eteronomia di questo processo. Una delle principali pretese della cura dello spirito è quella di istituire una coscienza che possa vegliare sul sé con lo stesso sguardo benevolo ed esteriore con il quale si sorvegliano a vicenda due cari amici; con una “voce interiore” che sembra provenire da fuori, ma che si

incontra con la voce interiore dell’intuito senza però identificarsi con essa: l’intuito è ancorato alla coscienza fondamentale, la coscienza morale, invece, alla coscienza vasta, anche quando la sua voce parla del sentimento, “buono” o “cattivo”, che accompagna una certa azione. In questo modo la coscienza può essere compresa come uno sguardo dall’esterno sul dato, cioè su ciò che è accaduto, oppure sul possibile a cui si può aspirare in riferimento alle certezze del sé. E questo non soltanto per quanto riguarda le difficili questioni morali relative al rapporto con gli altri, come per esempio la rettitudine del proprio agire o l’eventuale limitazione della libertà degli altri nell’esercizio della propria, ma anche nelle domande più generali relative al rapporto con se stessi, al rispetto e alla giustizia nei confronti di se stessi, a cominciare da quelle innocue situazioni quotidiane, nelle quali la coscienza trova il campo più adatto per dispiegarsi, anche perché la coscienza morale può essere ricondotta a una questione di ascetica: siamo sedotti da una deviazione dal nostro percorso, ma in che rapporto si trova quest’ultima con il lavoro che si deve ancora fare su se stessi e che può essere annoverato tra le certezze che caratterizzano la nostra vita? Un caso di coscienza, quindi, è ogni domanda che ha a che fare con le certezze del sé e che mette in gioco – e in pericolo – la sua integrità. Il caso di coscienza è una “domanda sul senso”, nella misura in cui la coscienza rappresenta la totalità dei nessi considerati essenziali, che caratterizzano il sé e che vengono ritenuti certi proprio da lui, o almeno sufficientemente plausibili per potervi costruire sopra tutta la vita e l’insieme dei propri atteggiamenti e comportamenti. Senza coscienza e “scriteriato” è chi non dispone di certezze o, pur avendone, non attribuisce loro alcun valore. Coscienzioso, al contrario, è colui che tiene presente tutti questi nessi ogniqualvolta deve agire. La coscienziosità è, pertanto, una sostanziale franchezza e onestà nei confronti di se stessi, cioè un atteggiamento vigile su ogni possibile deviazione da tutto

ciò che può essere considerato certo per se stessi. L’onestà nei confronti di sé, infatti, non può essere sostituita da quella nei confronti degli altri, certamente lodevole, ma alla quale in qualche caso si può rinunciare, anche perché in linea di principio il sé vive principalmente con se stesso: con gli altri “può” comprendersi, ma con se stesso “deve” farlo necessariamente. Fidarsi di se stessi ed essere “presso se stessi” è fondamentale. E non solo per quanto riguarda il rapporto rispetto al sé, ma anche per quello con gli altri. Infatti, soltanto quel sé integro con se stesso può essere integro anche nei confronti degli altri. L’onestà nei confronti di sé non si basa solo su fondamenti morali: il suo significato extramorale, pratico, sta nel fatto che il sé può sempre sbagliare quando si illude troppo nei loro confronti, e perdere la direzione non facendo altro che porsi domande critiche per conquistare una valutazione realistica di se stesso. Ogniqualvolta non viene riferita all’interiorità del sé, ogni direzione va perduta. Tipica è, anzitutto, la rettitudine nei confronti di se stessi, «l’ultima virtù» sulla quale Nietzsche riesce ancora a soffermarsi (in un frammento dal lascito del 1885-1888). Con la cura nei confronti di se stessi è possibile fabbricarsi una coscienza morale, e con quest’ultima è possibile costruire un’ascetica dell’esistenza nella quale risulta decisivo domandarsi, guardando se stessi, se la propria vita e i propri rapporti con gli altri siano belli, sensati e pieni, o in che modo possano diventarlo. La ricerca della coscienza e l’esame di coscienza sono essenziali per una condotta consapevole della vita, per rendere possibile un’analisi sempre nuova della propria condotta e, quando necessario, per correggerla. Non si tratta d’altro che di un’istanza di coerenza del sé e della sua esistenza. Accanto allo sguardo retrospettivo sulla complessità delle proprie esperienze, condotto da un punto di vista individuale e sociale, e accanto alle conseguenze che ne possono risultare, pare significativa la definizione dell’orizzonte del futuro, soprattutto in rapporto ai limiti della

vita, ma anche in riferimento a ogni loro possibile oltrepassamento o al loro potenziale “eterno ritorno”. Coscienza significa innanzitutto: sapere della limitatezza di questa vita, che relativizza ogni condotta arbitraria e, in questo modo, permette di trovare le certezze alle quali affidare la propria vita. È questa esperienza a forzare come non mai la formazione della coscienza morale e un diverso orientamento della propria vita: fare l’esperienza della morte degli altri quando si è in vita, cominciare a pensare alla propria fine. La rinuncia al confronto con la morte, infatti, porta a perdere la bussola della vita. È possibile giungere a una coscienza morale completamente “pura”, cioè a una piena armonia tra la costituzione e il comportamento del sé e le certezze che egli acquisisce? Si tratta di un’eccezione inverosimile, la regola è infatti quella di “mancare” questa situazione ideale, e questo già dal momento in cui la coscienza è stata inventata, con il concetto greco di hamartía. Ma quando le conseguenze di questo fallimento si fanno problematiche, o addirittura fatali, per il sé e per gli altri, cioè quando il sé si riconosce come l’artefice o come l’occasione di tutto questo, allora è possibile parlare di “colpa”. La colpa conduce al metalivello in cui si può pensare a un “mutamento di senso” (in greco metánoia), a un pentimento, a una sanzione o a una più moralmente neutrale nuova direzione del sé e della sua vita. La disponibilità fondamentale ad assumersi una colpa rinvia alla concreta comprensione delle conseguenze che ne derivano. Il sé stabilisce indipendentemente dagli altri le condizioni che permettono di misurare il contrappeso corrispondente alla colpa. Rifiutare questa forma di autoassoluzione o di perdono di sé significa non assumersi la colpa di qualcosa. Da un certo punto di vista si tratta di “farsene una ragione”. Ma per farlo, tuttavia, c’è bisogno del tempo che rende possibile la consapevolezza di se stessi. È grave il fatto che in epoca moderna questo tempo non esista più, mentre la vita comincia ad annoiarci.

Arte dell’ozio: come non annoiarsi? Tra le ombre della vita moderna la noia sembra essere, almeno a prima vista, un fenomeno inoffensivo. Forse non è nemmeno un’invenzione della modernità, anche se è qui che prospera. Il fenomeno, così come la parola, esiste da molto tempo. Ma nella modernità la noia diventa un vero e proprio concetto. Non si tratta infatti di un fenomeno al di là della storia, contemplato da tutti e sempre, ma del «demone di mezzogiorno», così come viene definita negli scritti del monachesimo la noia paralizzante, che funesta gli uomini moderni dalla mattina alla sera e diventa un problema assoluto dell’esistenza. La noia assale chiunque e in ogni momento, aspettando l’autobus, stando soli a casa, a scuola, assistendo a un concerto, sul posto di lavoro, nel tempo libero. A volte anche quando siamo a letto. Un film dura due ore, massimo tre, e poi? Le dimensioni assunte dalla event-culture restituiscono un’impressione fedele di quanto sia temibile la noia. Il fatto che la noia diventi tanto più pesante quanto più intense sono le esperienze che dovrebbero ucciderla è fatale. Questa non è altro che la vendetta della vita, che si rifiuta di diventare quel blocco intenso e compatto, piacevole e godereccio che i moderni non esitano a chiamare “vivere”. La noia non è che un tentativo di sabotare la riduzione della vita al puro piacere. Nel XVII secolo la noia, l’ennui, compare nei Pensieri di Blaise Pascal pubblicati postumi e viene riferita agli sfaccendati dell’aristocrazia, a cui Pascal riservava il privilegio di esperienze simili. Nel mondo democratico moderno, invece, diventa un fenomeno di massa, anche perché non è che il prezzo sgradevole per una vita sempre più comoda. La noia diventa così la caratteristica di una società in cui la soddisfazione dei bisogni è direttamente proporzionale alla riduzione della tensione esistenziale. La noia fa emergere la nudità dell’esistenza, la semplice staticità della vita che può essere vista come un vuoto, come un deserto desolato. Per molte persone la noia assume

una dimensione metafisica e diventa un sentimento della nullità dell’esistenza e del mondo intero. La noia può essere talmente pericolosa, mortale, che il semplice fare qualcosa arriva a essere compreso come un atto di vita. Gli uomini sono in grado di sopportare tutto meno che la loro inesistenza, e già da quando sono ancora vivi; sono in grado di fare qualunque cosa, anche non sempre legittima, per potersi sentire vivi. Per questo la noia si rivela come uno dei più forti motivi per atti come l’amore, l’ambizione o il desiderio di potere. Il tentativo di superarla attraverso l’attivismo, che invece richiama la dinamica della modernità e quindi anche la noia, è tragico. Il sospetto che tutta la società moderna non sia altro che il tentativo di «ricacciare una noia tremenda» è stato sollevato già da Georg Büchner, il drammaturgo della noia, in una lettera del 1936. È il fenomeno stesso ad aiutarci a rispondere alla noia. Contrariamente all’impressione di uniformità che essa ci assicura, la noia può assumere forme diverse: può assalirci occasionalmente, può comprendere tutta la nostra vita, può essere veniale o mortale, voluta o non voluta. La sua forma innocua, occasionale, prende vita da una costellazione e da una situazione momentanea, può riferirsi a un tempo in cui non accade nulla e qualificare qualcosa che ci disgusta. Quando perdura, ogni stimolo o eccitazione si rivelano inutili. Il tempo si allunga all’infinito e non passa mai. Solo ora il tempo viene percepito esattamente in quanto tale, e dimenticato altrettanto in fretta, non appena il divertimento assicurato da qualcos’altro riprende il sopravvento. Un problema enorme è, invece, quello della forma esistenziale della noia, che aggredisce l’intera vita e mette in questione l’esistenza intera nel suo stesso fondamento: alzarsi annoiati la mattina, annoiarsi al lavoro o non lavorare per niente, andare a letto pieni di noia, ricominciare noiosamente tutte le volte una stessa esperienza. Niente ci appassiona, niente di nuovo, nessuna sorpresa. Tutto questo è il nulla che viene avvertito da chi

ha già vissuto tutto. La noia, quel fenomeno tipicamente moderno che porta soprattutto i giovani a pensare al suicidio: non c’è più nessun motivo per vivere, nessuno, ma quel che è peggio è che non ce n’è nemmeno nessuno contro; ci si sente fiacchi, impossibilitati a impegnarsi in qualcosa. Tutto è indifferente, mortale, ma senza mai poter morire davvero. Questa noia veniale, o evitabile, a cui si può sempre porre rimedio, deve essere distinta da quella mortale, o inevitabile, di cui non è possibile fare a meno. Quale sia la forma in cui questa si presenta e con la quale ciascuno di noi deve avere che fare è questione di carattere, e ciò nuovamente dipende da una scelta. Veniale o evitabile è quella noia che può essere sopportata con grandi sforzi, con l’idea di poterla eliminare non appena possibile. Mortale, o inevitabile, è quella noia che il sé lascia manifestare in piena consapevolezza per trovarvi una fonte di ispirazione. Infatti, la noia può essere immediatamente improduttiva e non creativa, ma mediatamente può essere un luogo fecondo e creativo. Proprio perché rappresenta un vuoto e gli dà una forma, può contenere e attrarre molte cose: pensieri mai fatti, incontri imprevisti, esperienze sorprendenti, rappresentazioni nuove, idee acute, connessioni, nessi che improvvisamente rivelano “un senso”. Così tutto ciò che entra lentamente in questo contenitore, in questo vuoto, ne esce inaspettatamente. Il presupposto per tutto questo è mantenere il vuoto veramente tale, senza cercare di riempirlo frettolosamente e prima del tempo con ciò che già si conosce, con distrazioni o con tutte quelle offerte che provengono da quell’industria nata dall’esigenza di uccidere la noia e che non fanno altro che mitigare la paura del vuoto, quell’horror vacui che la noia stessa, in quanto affetto, porta sempre con sé. Due sono le opzioni che restano fondamentalmente disponibili al rapporto con se stessi: la negazione o la lotta contro la noia è altrettanto disponibile dell’affermazione e del riconoscimento di essa. Mentre la prima opzione mira

a dissolverla (col pericolo di non far altro che rafforzarla), la seconda è in condizione di darle senso e significato, oltre che di rendere giustizia alla sua funzione. Quando non è più possibile sopportare l’esperienza della noia, allora si può provare a interpretarla in maniera diversa o a indirizzarla in qualche modo, a cominciare dalla noia occasionale: in epoca moderna non c’è bisogno di prendersi cura del vuoto, per evitare di renderlo traboccante di informazioni, di parole prive di significato, di impressioni superflue? Il tempo vuoto, che la noia è in grado di assicurare, il vuoto che crea all’interno del sé, diventa il polo contrapposto a una pienezza indesiderata, la cui funzione è quella di spingere a trovare una pienezza diversa, una ricchezza e un riempimento di tipo nuovo. Bisogna solo resistere, renderla produttiva e addirittura godersela, piuttosto che farla diventare ancora più noiosa con il consumo di offerte, mediatiche e tecniche, di distrazione. Tutto questo non è un’arringa contro la distrazione, ma solo un’esortazione a limitarla e moderarla: una distrazione limitata può prospettarsi come un compromesso pragmatico per affrontare meglio la noia, ossia per moderare la sofferenza che ne deriva. Porre dei limiti alla distrazione è saggio, anche perché le stesse possibilità che le sono correlate hanno dei limiti: chi le spreca ricomincia ad annoiarsi. Allo stesso modo, più che essere rifiutata, la noia esistenziale dovrebbe essere assunta: il sé può abbandonarsi al pensiero che l’esistenza sia fondamentalmente un nulla, che sia vuota e nuda. Si può tranquillamente sopportare il fatto che niente può consolarci di fronte a questa miserabile nullità, che non c’è nessun argomento metafisico stringente che possa restituire il senso dell’esistenza, ma anche nessun argomento che gli vada contro. Ma dove sta scritto che la presunta nullità dell’esistenza debba necessariamente condurre alla disperazione e alla melanconia? Se “l’essere umano” è davvero caratterizzato da questa nullità, allora la disperazione e la

melanconia si trovano in una contraddizione stridente con le sue orgogliose pretese. La nullità dell’esistenza può scioccare solo quelli che si sono fatti una rappresentazione troppo pretenziosa del senso della loro vita. Questo non è un motivo sufficiente per mettere a tacere la vita allorché la noia decide di entrare in gioco, e certo non è un motivo valido per separarsi arbitrariamente dalla propria vita solo perché non si vuole più sopportare il tormento di quei momenti, che si configura come una morte strisciante. Anche questa, certo, è un’opzione, ma la decisione di sfruttarla potrebbe fondarsi solo su un’illusione prospettica, e sarebbe un peccato giungere a conseguenze tanto gravi sulla base di motivazioni così insufficienti. Quando parliamo di noia, normalmente pensiamo a quella indesiderata che ci assale in un certo momento. Renderla intenzionale, voluta, significa conquistare nuovamente l’ampiezza10 propria della calma, cioè del prendersi tempo: essere in grado di permanere in un luogo, vicino a una persona, presso una cosa, un pensiero o presso un nulla. La noia non è identica alla calma, o all’ozio, ma gli è parente: l’ozio non è altro che una noia procurata ad arte, gradita, che non ha bisogno di essere dissolta. Bisogna consumare la noia finché non si tramuta da sé in una condizione di ozio; sperare in qualcosa di diverso è del tutto inutile. L’ozio può essere una conquista, ma la via che vi conduce non può non passare per la desolazione della noia. Immancabilmente si torna a quella condizione di otium presente nella cultura antica, che considera ogni attività come una negazione della passività, come un negotium opposto all’otium, alla passività dell’ozio. Al contrario, la cultura della modernità legittima soltanto l’attività, la cui negazione non può che essere riprovevole. La cultura moderna, dunque, nobilita l’attivismo dell’agire e per l’agire. Ma anche solo per entrare in possesso di un’opzione diversa, pare sensato imparare a sopportare la noia, cioè tentare di abbandonarsi al passivismo, sia anche soltanto per un’ora o per un quarto d’ora al giorno; non

per dissolvere l’attivismo, ma per riequilibrarlo. Almeno a un certo punto della sera mettersi comodi, stendere le gambe, sfogliare lentamente un giornale che domani sarà già di ieri, e far vagare pensieri e sentimenti. Esserci soltanto per se stessi e, solo in questi momenti, non per gli altri: questo è il tempo di una vacanza scelta senza chiedere il permesso a nessuno, il tempo dell’attenzione e dell’amore di sé che consente di ritrovare le risorse per rivolgersi agli altri; un tempo nel quale è possibile sentire le diverse voci di sé e farle parlare fino a quando non arrivano a organizzarsi in una società interiore. È il tempo vuoto nel quale il sé “si ritrova”, cioè riflette e riorganizza la ricomposizione delle sue diverse parti, la sua coerenza, ossia la propria integrità fisica, psichica e spirituale. In questi momenti si riordinano le impressioni che trovano così il loro posto nel sé o svaniscono. Il sé comincia a considerare la sua esistenza, il suo contesto, la vita in generale, prendendosi tempo per riflettere su quanto avvenuto e su ciò che accadrà. Coltivare e riconfigurare la noia nel tempo dell’ozio è affare della riflessione e, nello stesso tempo, della meditazione e dell’esercizio; ma in questi momenti non sono “io” a riflettere. È il pensiero che si rende autonomo e pensa quello che vuole, a volte concentrandosi, altre “senza senso”, e altre ancora pensando qualcosa che “ha un senso”. Il senso, ogni senso, riempie il vuoto creato dalla noia. Così i tempi dell’ozio diventano tempi della riflessione sul senso delle esperienze avute nel corso di una giornata, e “sul senso” più in generale. Si tratta di tempi in cui si pratica un’ermeneutica dell’esistenza, quell’arte di interpretare la vita, le cose e gli eventi, se stessi e gli altri, con il solo scopo di trovare loro un senso. Accanto al senso ottenuto mediante la riflessione, che può essere dischiuso solo riflettendo su qualcosa, l’ozio offre il vantaggio di poter essere sottomesso dall’immediatezza delle percezioni sensibili: in questo modo è possibile godersi la vita due volte, almeno per un istante.

Per questo motivo appare sensato pensare che una cultura dell’impegno debba precedere quella dell’ozio, perché senza impegno l’ozio non vale niente. Non perché l’ozio senza impegno sia riprovevole, ma solo perché se la fatica non esistesse non ci sarebbe nulla da cui riposarsi: questo è il problema di tutti quelli che, conducendo la loro vita senza faticare, non pensano ad altro che ad abolire l’ozio. Il vero problema è quindi la cultura dell’impegno senza ozio, cioè senza la preparazione di un percorso che si avvalga dei risultati della riflessione, senza rigenerazione e rielaborazione dei dati della propria esperienza. Nella misura in cui completa la vita attiva, l’ozio è quella forma di vita dello spirito nella quale il pensiero può svilupparsi e cedere il passo a un altro pensiero, che non ha uno scopo, che è “inutile”, ma che appare nello stesso tempo una risorsa inesauribile per pensare qualcosa di più, per riflettere, per pensare cose diverse e nuove, per assicurare una base all’arte e alla cultura. Nello spazio dell’ozio è possibile rendere conto della diversa ampiezza dei pensieri, e soprattutto di quelli noiosi, la cui ricchezza si estende ben oltre il momento in cui ci vengono in mente. La meditazione condotta nell’ozio risospinge indietro ciò che appare urgente ed estende involontariamente lo sguardo, non solo dall’oggi al domani, ma anche verso un tempo lungo e imprecisato. Prendere sul serio il diritto alla noia diventa un dovere quando bisogna sforzarsi di condurre consapevolmente la propria vita. Potremmo pentirci amaramente di averci rinunciato. Meglio oziare ancora un po’.

Ferie, finalmente! Come è improvvisamente diverso il mondo! Un piccolo viaggio e tutto si può guardare dall’alto, dalla cima di una montagna, spazzato via da una nuvola, avvolto in veli che svolazzano da tutte le parti. Attraverso le fenditure nella nebbia lo sguardo penetra in profondità: il lago è stoicamente calmo, liscio come una tavola, orlato da piccoli cubetti di legno – i villaggi che gli

stanno intorno – legati da fili sottili sui quali brillano nell’oscurità alcuni punti luminosi, le auto. Ora diventa chiaro che cosa intendevano filosofi come Platone o Marco Aurelio quando parlavano dello sguardo dall’alto, che un tempo era soltanto questione di rappresentazioni: prendere distanza dalle cose e dai rapporti, vederli nelle loro connessioni “autentiche”. L’angustia abituale della quotidianità può essere forzata per fare esperienza di un’ampiezza straordinaria che oltrepassa la realtà per giungere alle possibilità, proprio nel senso dei romantici, e per restituire alla vita depotenziata le sue potenzialità. È sufficiente salire su una montagna per stare, almeno per un momento, “al di sopra delle cose”, dei risentimenti, riuscendo finalmente a guardare dall’alto un litigio, come già scriveva Nietzsche: «6000 piedi sopra Bayreuth» (Ecce homo, “Perché sono così saggio”). Lo sguardo dall’alto ci fa vedere il vapore o, in maniera più poetica, le nuvole e le loro formazioni mutevoli. E ci fa sentire il polifonico scampanio dei collari delle mucche. Le “ferie” ci danno la possibilità di esercitare lo sguardo dall’alto, o dall’esterno, sulle cose e sulle relazioni, nonché su noi stessi: una parte di sé resta alla vita quotidiana, che perciò può essere osservata come dall’esterno. Come dalla cima di una montagna, si può fare esperienza di questo modo di vedere le cose anche stando giù, sul lago, magari in una gita in barca. Anche dall’acqua, infatti, è possibile uno sguardo straordinario sulle cose. Un viaggio in barca, anche se non era proprio una vacanza, è anche quello che porta Johann Gottfried Herder (Diario del mio viaggio del 1769) da Riga a Parigi, metafora del viaggio attraverso l’esistenza, durante il quale ci si può guardare indietro verso la vita vissuta, da un punto che si trova “fuori dal mondo” ed esplorando altri lidi. La brezza fresca, il dondolare ritmico, il costante scivolare in avanti, il brusio delle onde che si rifrangono sulla prua della barca o che sono prodotte dalla stessa chiglia, la quiete dell’ampia

superficie marina, il luogo indeterminato che sembra essere sempre uguale a se stesso e che tuttavia è sempre diverso: questa situazione è necessaria per produrre uno sguardo a distanza su se stessi e sul mondo, su tutta la limitatezza che ci siamo lasciati dietro le spalle e che ci si allinea davanti agli occhi, sulla terraferma. Lì ciascuno vive giorno dopo giorno, nel suo luogo definito. Qui dominano ampiezza e apertura, e solo per un momento il pensiero corre all’abisso che incontreremmo se la nave affondasse: quelli rimasti a terra potrebbero allora essere spettatori interessati di quanto ci sta accadendo. Lo sguardo esterno su se stessi, da cui dipendono molte cose e che altrimenti resterebbe astratto, diventa concreto quando l’ozio gli concede una chance. Solo quando sono inevitabili è possibile guadagnare qualcosa dalle ferie. Perché le “ferie” rappresentano una vera e propria anomalia della vita moderna. Il tratto caratteristico di questa esperienza emerge se ci si rappresenta ad esempio un indiano sioux che, nel corso della caccia, guarda improvvisamente il suo orologio, mette via arco e frecce e annuncia che il suo orario di lavoro è terminato e che ora gli servono “un paio di giorni di riposo”. Siccome il logorio industriale della forza-lavoro costringe a riposarsi regolarmente, in epoca moderna la vacanza è diventata uno standard. Non si può misconoscere il fatto che il concetto di “ferie” abbia un’origine politica: le ferie rappresentano il permesso di astenersi dal turno di lavoro (da qui l’etimologia tedesca del termine11). “Ferie” è una concessione che viene data da un’autorità predisposta, che decide di compensare il lavoro svolto con un periodo di nullafacenza. Da qui si è sviluppata la possibilità di uscire per un certo tempo dalla vita moderna e, a volte, anche dalla sua cultura. Diversamente non potremmo dare una spiegazione delle varie forme di vacanza che ci sono note. Quello delle ferie è un tempo in cui si sospende il mondo moderno dell’attivismo, lasciando al passivismo uno spazio che

somiglia a una riserva naturale. Dal punto di vista politico e storico-culturale si può notare il tentativo di relegare l’ozio in un angolo oscuro dell’anno, in maniera tale da poter legittimare il sacrificio del resto del tempo a tutto ciò che ozio non è. Tutto questo a proposito della forma. Dal punto di vista del contenuto, le ferie rappresentano il riscatto di un sogno di felicità: quello della liberazione dalle fatiche della vita e quello della realizzazione, almeno temporanea, “della più grande felicità per il maggior numero di persone”, come sostenevano gi utilitaristi. Una prima manifestazione dell’omologazione e dell’universalizzazione della felicità moderna. Finalmente è fatta, in vacanza! Peccato che per molti il peggio arrivi proprio adesso: si cambia luogo e si rompe con quel contesto protettivo che caratterizza la vita quotidiana; si fa esperienza del nulla che si sostituisce alla fiducia e alla protezione. La polarizzazione irrompe in quei rapporti nei quali in momenti diversi non ha il tempo per manifestarsi. La normale tensione che regola la vita di tutti i giorni si interrompe bruscamente; è necessario difendersi non più dal rumore, ma dal silenzio. Cielo azzurro, spiaggia bianca, acqua verde-blu, giorno dopo giorno: nessuno è in grado di sopportare a lungo un paradiso simile. L’ozio fa perdere certe abitudini, ma subito dopo si trasforma nella noia e nuovamente nell’attivismo. Si cominciano a prenotare vacanze attive, animazione, rianimazione, all inclusive, a parte qualche riflessione. Sarebbe importante conoscere in anticipo questi problemi, per non esserne sopraffatti, ma mai per evitarli. Anche dalla cima di una montagna, dove in piena tranquillità il vento fresco accarezza le guance, suona il telefonino; c’era da aspettarselo: rispetto all’antichità la modernità pone all’atteggiamento filosofico sfide completamente diverse. Il problema ultimativo, tuttavia, ci sta ancora di fronte: prima o poi si scende dalla montagna. Ricominciano immancabilmente le fatiche della pianura. L’arte di vivere consiste almeno

nella rappresentazione del su e giù da un polo all’altro: un po’ di montagna tutti i giorni, per non precipitare nelle angustie e nelle paure.

L’arte di vivere tranquilli e sereni Ma a chi pratica l’arte di vivere tutto questo sembra ovvio… Come si arriva ad avere questa impressione? A volte è facile: molte cose capitano a fagiolo, si incontra la cosa giusta al momento giusto. Il segreto di questa vita è però la disponibilità all’impegno, alla fatica per la tranquillità, con tutte le varianti disponibili della famiglia del non fare: lasciare aperto, trascurare, lasciare che accada, far maturare, lasciare qualcosa a qualcuno, affidarsi a qualcuno ecc. La tranquillità è il concetto opposto al volontarismo e all’attivismo moderni. Consiste nel non fare, anziché dover sempre volere; nel restare occasionalmente passivi e non essere sempre e solo attivi. Il presupposto necessario per tutto questo è, in linea di principio, la capacità di assumere accanto all’attivismo la passività come un’opzione per la formazione della vita. Il sé diventa quindi padrone di un non fare effettivo, della scelta passiva che viene effettuata per rinunciare a un intervento attivo, pur con la massima consapevolezza: non voler influenzare a tutti i costi cose o relazioni, ma essere in condizione di lasciarle così come sono, di farle sviluppare da sé, magari preoccupandosi del proprio ozio senza cadere nell’iperattività. Il sé che si impegna a stare tranquillo impara a distinguere tra ciò che è in suo potere e ciò che gli si sottrae pienamente, per concentrarsi seriamente a sviluppare la capacità di accettarlo. Non certo nel senso di un’accettazione passiva di tutto, ma proprio in quello di cui parla la “Preghiera per la serenità” scritta nel 1943 dal teologo tedesco-americano Reinhold Niebuhr: «Dio, dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso, e la saggezza nel saper distinguere le une dalle altre». La possibilità di accettare è ciò che resta quando la forza

dell’autodeterminazione viene messa fuori causa, proprio come nel caso del dolore. Ci si esercita ad accettare tutto ciò che non capita al momento giusto (c’è sempre qualcosa che non va), o a essere pronti a cambiare strada quando qualcosa o qualcuno ci sbarra la via che abbiamo deciso di intraprendere; si impara a fare quello che appare necessario, anche ad amare ciò che deve necessariamente essere in un certo modo, e anche a sfruttare ciò che non può più essere cambiato. Anche nei momenti di rabbia c’è sempre una qualche possibilità di cui non avevamo il minimo presentimento, un incontro insperato da cui magari deriva anche un momento magico. Non è mai detto che si spendano tutte le proprie forze nel risentimento, in rimproveri diretti a se stessi o ad altri, inutili perché non possono cambiare nulla, o sul fatto che qualcosa “va male” o che un’occasione è andata sprecata. Altrettanto importante per la tranquillità è la capacità di donarsi agli altri, che confidano nelle nostre cose, idee, compiti, e in generale nella nostra vita. Chi pratica l’arte di vivere opera una rinuncia a voler cambiare le evidenti condizioni della vita concreta dell’essere umano: volubilità, contraddittorietà, fatalità, mortalità. Egli segue il principio del moto ondoso, di un continuo “su e giù”, che si sostituisce all’idea di sprecare le proprie forze resistendogli senza efficacia. Chi pratica l’arte di vivere elabora alternative e lascia decidere alla vita quale di queste debba diventare reale. Non ha soltanto idee, ma fa anche in modo di portare la contingenza nelle idee che partorisce; e sa anche dare un posto nella sua vita alle brutte esperienze, senza più rimuoverle. Così, tutto diventa acqua per il suo mulino: forma la sua vita, lasciandosi formare dalla vita stessa. Può sempre fare altrimenti, affidando alla storia quello che sarà effettivamente realizzato e cosa non lo sarà mai. È nella condizione di farsi guidare, da idee e pensieri che lo convincono; da situazioni nelle quali crede; dai bambini, che ripresentano agli adulti un mondo ormai dimenticato; da chi amano, dagli amici, dagli uomini di cui si

fidano, ma anche dai morti, la cui voce può sempre essere percepita in qualche modo. Non si tratta di dover necessariamente seguire una certa norma, ma di saper sfruttare queste opzioni, per applicarle là dove si rivelano più adatte. E infine chi pratica l’arte di vivere ha bisogno dell’opzione della tranquillità definitiva, che deve tener presente quando viene messa in questione la sua esistenza e, ancor di più, quella dell’essere umano in generale. In questo modo gli si dischiude una dimensione che gli consente di guardare le cose umane da molto lontano e di poter dire, come fa Seneca nella XCI delle sue Lettere a Lucilio, «che infima parte del tutto siamo!». E l’esistenza dell’essere umano, estesa su tutto il pianeta, si riduce a una puntiformità che dal punto di vista cosmico è affascinante, ma evidentemente priva di significato. L’esistenza di chi pratica l’arte di vivere appare implicata in connessioni più ampie, alle quali il sé può abbandonarsi anche senza averle viste effettivamente. Il fatto che non ne parli molto ha poco a che fare con la sua presunta ignoranza. Solo il silenzio pare essere adatto ad argomenti di questo genere: ogni parola determinata non sarebbe altro che fonte di inadeguatezza. Queste connessioni formano il fondamento abissale che rende possibile l’atteggiamento della serenità, il quale, fuso assieme alla tranquillità, produce una “serena tranquillità”. A un primo sguardo la serenità appare come leggerezza dell’essere, contrapposta al suo peso, all’angoscia, al dolore, alla sofferenza e alla morte. La leggerezza dell’essere è insostenibile solo per chi non conosce più il peso e la forza di gravità che caratterizza la vita. La sostenibile leggerezza dell’essere nasce, invece, dal confronto con quel peso; si basa su un atteggiamento che è sempre consapevole dell’esistenza del peso e non tenta di negarlo, ma che nemmeno ne viene schiacciato. Chi pratica l’arte di vivere conosce quel peso, sa quanto l’essere sia abissale, fragile, contraddittorio,

delicato e problematico nel suo fondamento. Ma lo accetta, e questo rende la sua vita più leggera. La serenità si annuncia nell’integrità di chi è “in chiaro con se stesso”, di chi conosce pesanti pressioni, ma tenta di renderle meno gravi grazie all’impegno incessante, forse ossessivo agli occhi degli altri, che proprio per questo vengono tenuti fuori da tale processo. Egli svolge un lavoro su se stesso, che si protrae fin quando la pressione perde il suo peso oppressivo per divenire facile da sopportare. Non è mai possibile essere certi di averla eliminata del tutto. Certa è però la possibilità di integrarla nel sé, di abituarsi al suo peso formando una costituzione che, nonostante tutto, è in grado di sopportare ciò che pesa e che, alla fine, apparirà molto più leggero. Per contro, l’arte di vivere può avere anche il compito di dare peso a una vita troppo leggera; e se si dovesse scegliere una di queste due strade, allora «scegli sempre la più difficile», consiglia la saggezza tibetana: «Risveglierà la parte migliore di te!». L’affermazione dell’inerzia propria della tranquillità rende possibile infine la capacità di lasciar manifestare anche l’abisso e la contraddizione. Ciò vale per l’angoscia opposta alla libertà, per il dolore opposto al piacere, per la sofferenza opposta alla gioia, per la morte opposta alla vita. Questo lasciare che qualcosa si manifesti rappresenta la base della serenità, che si impegna a dare vita a un’arte dell’equilibrio che fa leva sul tentativo di controbilanciare le brutte esperienze per renderle sostenibili e per integrarle nella vita. A volte ci si serve del “pensiero positivo” – che non può non essere tarato che su quello negativo – con l’aiuto del quale è possibile vedere in anticipo una qualche pericolosa avversità. La serenità è un atteggiamento spirituale, non un affetto. Anche ammesso che la sua forma espressiva sia affettiva, l’affetto in questione non è mai la letizia, ma la tristezza. Si tratta, infatti, di un atteggiamento che coinvolge la melanconia, anche se non la rende mai pienamente dominante. Il fatto che una città come Venezia possa

essere detta “serenissima” si spiega con quel tratto fondamentale della serenità che è la capacità di riconoscere e bilanciare l’abisso proprio dell’esistenza umana. Se la serenità rappresenta una via per alleggerire la vita è perché essa non si sottrae al lato fondamentalmente tragico della vita e del mondo, ma anche perché non ne viene annichilita. La serenità si muove su un crinale di contraddizioni inconciliabili, e può svilupparsi proprio nel momento in cui prende consapevolezza della loro insuperabilità. La «pura serenità» che Goethe attribuiva a Shakespeare ha senza dubbio a che vedere con la tranquilla coscienza del tragico che emerge nei suoi drammi. E quando Eckermann vede in Goethe «un essere sublime e sereno» ha in mente quell’atteggiamento che è in grado di tener presente molte cose in uno stesso istante: tempo, spazio, stati di cose, e molto altro, compreso l’abisso e la contraddizione tra la piena consapevolezza della piccolezza estrema del reale e quella del mare insondabile della possibilità. La serenità è il segno di uno “spirito bello”, di una vita nell’equilibrio, nella giusta misura, di una «vita simmetrica», come la chiamava, già nel IV-V secolo a.C., Democrito, il fondatore del concetto filosofico di serenità (euthymía). Con questo termine si intende innanzitutto l’armonia del pensiero, che rende conto delle condizioni esteriori della vita e del mondo e, in secondo luogo, l’armonia nel sentire, l’equilibrio interiore relativo alle sensazioni e agli stati del soggetto; infine, con “serenità” Democrito intende l’armonia tra il pensiero e il sentimento. Dal punto di vista neurobiologico questo stesso concetto può essere configurato nei termini di scambio equilibrato tra regioni del cervello diverse, che rende possibile anche un «sé bilanciato», ossia un processo di regolazione omodinamica. Di regola, la simmetria, il bilanciamento, l’equilibrio e l’armonia non possono essere raggiunti sincronicamente, non in un momento, ma diacronicamente, nel corso del tempo. Sono ben noti gli spostamenti dell’ago della bilancia da una

parte e dall’altra, ma anche il fatto che nel corso del tempo i suoi piatti possono essere di volta in volta riequilibrati, in maniera tale da riportare alla giusta proporzione la polarità della vita. Chi elimina uno dei poli non deve meravigliarsi se poi non è in grado di avvertire nemmeno quello opposto: come stabilire il significato dello “stare bene”, se non si conosce quello dello “star male”? Nessuno, certo, ha il dovere di procurarsi arbitrariamente brutte esperienze. Ma è altrettanto certo che prima o poi queste si imporranno da sé. È allora necessario bilanciare intenzionalmente le brutte esperienze con qualcosa di piacevole. E questo possiamo procurarcelo. La serenità come atteggiamento spirituale è dunque preparata di fronte al precipitare delle cose nel loro contrario, che ha come effetto il trasformarsi naturale del piacere persistente in un dolore. Spesso gli esseri umani non sanno più che cosa sia successo loro, proprio quando “tutto stava andando per il verso giusto”. Il fatto è che la vita stessa richiede un bilanciamento continuo. Proprio quell’attimo di felicità può finire in tragedia. È il sé, in quanto tale, a presentire che non durerà a lungo. Per questo motivo si può dire che la melanconia si innesta al cuore della felicità. Una brutta esperienza che persiste può naturalmente trasformarsi in un momento di gioia. Perciò si può dire che la gioia ha sede nel cuore della tragedia: il sé perde la paura dell’abisso, perché ci sta dentro e perché si rende conto di poter cadere sempre più in profondità; il dolore gli dà un’esperienza della profondità abissale del sé e del mondo, che a questo punto non si può più fingere di ignorare. La serenità ci fa guardare dentro a tutte queste cose. L’atteggiamento fondamentale che lascia campo libero alle contraddizioni è la tranquillità. La tranquillità serena è la consapevolezza che tutto ciò che è in un certo modo può sempre essere anche diverso, che alti e bassi si alternano come il giorno e la notte, come l’inspirazione e l’espirazione; che questo non è altro che il

battito della vita, che la sua tensione è dovuta alla polarità insita in ogni cosa. Si può così giungere a una vita simmetrica, la cui espressione potrebbe ben essere l’armonia, ma un’armonia gravida di tensione, ossimorica, contenente in sé gli opposti inconciliabili tra i quali si dispiega, nella poetica, nella retorica, e anche nell’estetica dell’esistenza. Come ogni altra arte, anche l’arte di vivere trae la creatività e la sua polarità dalla vita nella contraddizione. I romantici come Novalis lo sapevano bene. L’eliminazione della tensione apre solo lo spazio per le bagatelle, peraltro tese a riprodurre la polarità della vita, individuale e sociale. La serenità e la tranquillità non sono mai state concetti moderni. Una modernità diversa potrebbe però arrivare a comprenderle in sé: solo la vita simmetrica rende possibile riequilibrare frenesia e lentezza, integrare l’impazienza con una pazienza di tipo nuovo, il cambiamento con l’inerzia, la funzionalità anonima con un’attenzione personale. È un’illusione?

Vivere con e senza illusioni. La rassegnazione come forma di vita Sarebbe forse consigliabile condurre una vita fondamentalmente illusoria, ma senza farsi illusioni su se stessi, sugli altri, sulla vita e sul mondo. Ammesso che questo sia possibile – anche se manca un criterio affidabile per stabilire precisamente che cosa sia illusione e cosa non lo sia, per quanto sia sempre possibile assumere il criterio della plausibilità – allora si potrebbe condurre una vita nella più perfetta chiarezza sui rapporti e sul modo in cui sono reali. Il presupposto per tutto questo sarebbe una spiegazione e una chiarificazione, un’autocomprensione e un’autochiarificazione, che però non possono mai valere una volta per tutte, perché la chiarezza e la chiarificazione non dicono ancora niente sulla vivibilità della condizione che producono. Non si può vivere avendo di fronte ai propri occhi sempre e solo cattive relazioni, né con la chiara percezione del fatto che mento a me stesso

continuamente, o del fatto che gli altri non fanno altro che mentirmi o, ancora, che tutto il mondo è attraversato da cospirazione, corruzione, nepotismo, che frenano lo sviluppo del sé. La chiarezza su tutto questo rende il mondo un deserto nella cui immensità non si può far altro che affondare. L’illusione, come indica la stessa parola latina, è un gioco e in particolare il gioco dell’inganno, reso possibile dal potenziale implicito nella forza della rappresentazione. Dal punto di vista neurobiologico è, invece, resa possibile da aree cerebrali nelle quali i neuroni si occupano di se stessi, di proiezioni interne del pensiero e del sentimento, e non di rappresentazioni di stati del corpo o di oggetti esteriori. Sarebbe un peccato non sfruttare queste capacità, perché le illusioni assicurano proiezioni visionarie che partono dal dato e si espandono nel regno del possibile, ma anche un pieno ritrarsi in se stessi, per vivere in una realtà fatta a proprio uso e consumo, per isolare la propria interiorità e per renderla intangibile dall’esterno: un atto di autosuggestione, che tuttavia può garantire la sopravvivenza in situazioni difficili e in condizioni disperate, come quella di Salim. In tal modo, quindi, si può rispondere anche a una realtà insopportabile e immutabile. Si può costruire una facciata dietro la quale si sviluppa un mondo interiore, di cui nessuno può minimamente conoscere la ricchezza. Ma la forza dell’illusione non viene impiegata solo quando è necessario, ma anche quando per esempio proviamo gioia nell’attribuirci un ruolo, nell’immedesimarci in esso, nel sentirlo e svilupparlo. Questo mondo è certamente illusorio, nella misura in cui non ha nulla a che fare con la realtà esterna; e per questo l’illusione potrebbe anche essere identificata con una “perdita della realtà”. Un mondo di questo tipo diventa problematico nel momento in cui collide con la realtà esterna che prima o poi ci si impone. E in quel caso si può anche parlare di una perdita della realtà “patologica”. Una saggia limitazione delle illusioni è perciò un elemento della cura spirituale del sé.

Un presupposto necessario per tutto questo è il rapporto consapevole con le proprie illusioni. Una bugia diventa un problema quando il sé non capisce che da inganno diventa delusione, e un autoinganno una delusione procurata da sé a se stesso, soprattutto quando vi si collegano aspettative infondate e non sufficientemente vagliate dalla riflessione. Vivere simmetricamente significa, in questo senso, anche bilanciare le illusioni e la vita illusoria. In questo modo il sé può scegliere in piena coscienza, anche perché si tratta di illusioni, quale tra queste possa essere utile alla vita e quale no. A differenza di quelle ingenue, qui sono in gioco illusioni chiarificate, prodotti di una chiarificazione completa che rivede pragmaticamente la svalutazione sommaria di ogni forma di illusione operata dalla filosofia e dall’illuminismo. Le illusioni sono uno strumento del sé, e possono essere scelte, sostituite e, quando è necessario, revocate e destituite. Le illusioni che non possono essere assunte nella vita vengono sommerse dalla disillusione. E però le illusioni possono perfino salvarla, la vita: il sé può erotizzarla e farla più bella, può darle una superficie di normalità, può decidere di non voler sapere proprio tutto, cercare esperienze che lo rafforzano o deviare, almeno temporaneamente, da quelle che lo irritano. Non c’è nulla che parli contro l’illusione di una libertà di scelta, anche perché pure la non-libertà e il fatalismo possono essere illusioni. È decisivo capire quale sia l’illusione che la vita richiede in un certo momento e quella che, proprio in quel momento, appare come degna di approvazione. Ogni opera d’arte è un’illusione, anche l’opera d’arte del sé e della sua vita. L’arte dell’illusione rientra nell’arte di vivere, profilandosi specificamente come lavoro sull’illusione della vita: essa tiene insieme tutto quello che non si appartiene e fa apparire come una unità tutto quello che non è necessariamente tale. Solo in questo modo è possibile vivere, mentre a ogni sguardo che le oltrepassa si rivelano gli abissi. Le illusioni definiscono le

forme e strutturano a partire dall’orizzonte della possibilità realtà deboli, che hanno la funzione di ammorbidire le dure realtà e renderle vivibili. Non hanno bisogno di essere vicine alla vita; non potersi salvare sulla cima miope del monte dei nudi fatti non significa altro che perdere completamente le illusioni. Per questo è necessario prendersene cura, evitare di abbandonarle imbarazzati o di renderle reali a tutti i costi, anche perché la realtà le uccide. Nonostante a volte sembri necessario, non bisogna mai farsi pienamente dominare dalle illusioni. Le regole dell’arte in grado di gestirle, come succede spesso quando si parla di argomenti simili, sono formulate da Baltasar Gracían nel suo Oracolo manuale (aforisma 24): «Bisogna tenere a freno l’immaginazione, a volte rimproverandola, a volte sostenendola: perché essa dispone di tutta la nostra felicità e perfino la nostra ragione tiene conto delle informazioni che ci trasmette. L’immaginazione può assumere una violenza tirannica e non si accontenta di osservare pigramente, ma è attiva, spesso si impadronisce di tutta la nostra esistenza, che riempie di piacere o di tristezza ogniqualvolta si commette la sciocchezza di andarle dietro: perché ci rende soddisfatti o insoddisfatti di noi stessi, riflette una sofferenza continua e diventa un boia in casa nostra; diversamente non fa altro che mostrare gioie e colpi di fortuna sotto forma di un ondeggiare del capo. È capace di tutto questo quando la vigilanza razionale su noi stessi non la imbriglia». Nonostante tutta la saggezza possibile, che pare essere implicita in ogni uso artificioso delle illusioni, una delle opzioni, possibili e legittime, che possono essere esercitate nello spazio dell’arte di vivere resta la vita senza illusioni. Una vita senza illusioni non è molto lontana dalla rassegnazione, ma anche in questo caso si pone la domanda se, a partire da questo atteggiamento nel quale spesso si cade inconsapevolmente, non sia possibile sviluppare un’arte della rassegnazione intenzionale e consapevole. In epoca moderna qualcosa del genere potrebbe apparire estremamente attraente, soprattutto

come antidoto all’ottimismo sfrenato o al perfezionismo maniacale, anche perché ci sono buoni motivi per non vedere la vita soltanto come qualcosa di “positivo”, ritenendo invece più onesta una prospettiva che integri al suo interno anche la dimensione “negativa”. Non è, infatti, che a volte si ha più motivo di rassegnarsi che non di avere una visione gioiosa e rosea del futuro? Alla rassegnazione arriva anche l’uomo moderno – certamente senza nemmeno esserne consapevole – il quale crede di sapere molte cose, prima di capire di saperne pochissime; che aspetta il senso assoluto, prima di cadere nella disperazione alla più piccola assurdità; che tenta di ottenere una comprensione universale di tutto, prima di non resistere nemmeno di fronte alla minima incomprensione; che non riesce a ritenere valido nulla che non possa essere considerato come il risultato di un successo perfetto e che però molla tutto alla prima difficoltà. Si dovrebbero distinguere una rassegnazione selettiva, che a volte può apparire opportuna e che può nascere in rapporto a un determinato momento della vita, in una relazione con un altro essere umano o di fronte a una cosa; e una rassegnazione totale, riferita alla totalità della propria vita, alla condizione umana in generale o addirittura alla totalità del mondo. Selettiva o totale: queste sono le opzioni tra le quali bisogna scegliere. La rassegnazione è anche sempre disponibile in una di queste sue varianti, almeno dal momento in cui non si dà più alcuna scelta e non si può far altro che accettare la condizione spiacevole nella quale ci si trova. L’”arte” della rassegnazione mira a renderla un atteggiamento assunto con consapevolezza e raffinato in molti dei suoi dettagli. Ogni lavoro su qualcosa le toglie il terreno da sotto i piedi, senza darle il sorriso; cadere nella rassegnazione significa rifiutarne la forza consolatoria. Anche l’atteggiamento scettico appare problematico, perché avanza pretese, forse eccessive, in rapporto al sapere e al senso, che la rassegnazione considera ovviamente superflue. Ma quando è necessario

confrontarsi concretamente con l’imperfezione, con la caducità e con la frammentarietà, le rifiuta, forse, con una convinzione interiore meno ferma.

Stanchezza, schifo e disgusto per la vita L’arte della rassegnazione è la prova del fatto che per poter sviluppare l’arte di vivere non è necessario amare la vita. Arte di vivere può anche significare odiare la vita, detestarla senza tuttavia volersi abbandonare passivamente al suo flusso. L’esempio più chiaro in questo senso è Schopenhauer, che negava la volontà di vivere e che non vedeva alcun senso nel fare o non fare qualcosa, finché non incontrò la traduzione dell’Oracolo manuale di Gracián e fu rapito da quella sorta di coraggio sornione presente in quest’opera. Non c’è una norma in virtù della quale è possibile affermare la vita, e possono esserci buone ragioni per non ritenerla bella, in un certo momento o nella sua interezza. Non tutti, poi, possono ritenere valido il presupposto ontologico, e implicitamente normativo, secondo il quale “è bene essere a favore degli esseri umani”. L’”esperienza del valore fondamentale”, che motiva l’assunzione di questo presupposto, può essere possibile, ma mai vincolante. A dispetto di ogni proclama, molti la considerano frutto di mera finzione e altri non ne fanno certo esperienza tutti i giorni. Anche ammesso che in generale possa essere vissuta un’esperienza del valore della vita, si tratterebbe sempre di valori possibili della vita, che possono senz’altro anche non essere. La vita può sembrare bella – ma può anche essere il contrario. Il distacco dalla bellezza è una possibilità reale. Ma non è insopportabile, anzi, disgustoso, vedere sempre e solo il bello, quello che ci piace? Come ci si dovrebbe difendere se non con il ribrezzo? Non è possibile provare nei confronti del mondo, bello e buono, anche una profonda nausea? A volte si tratta soltanto del fatto che si è stanchi di vivere, una stanchezza che ci si impone e che ha la sua ragione forse solo nel fatto che i materiali chimici necessari per lo svolgimento delle attività neurali del

cervello sono esauriti e che c’è bisogno di tempo per rigenerarsi, cosa possibile soltanto nel sonno. Non si sa se ci si trovi di fronte a una stanchezza temporanea, alla quale si può reagire con un po’ di ozio, riposandosi o “schiacciando un pisolino”, o se si tratti di una stanchezza permanente, che deve essere presa sul serio: non voler più vivere la vita, non poterlo più fare, essere al capolinea. Può essere un lieto fine: si è stanchi come la sera di una giornata piena, quando ci si gode la propria stanchezza finché non è pienamente chiaro che è giunto il momento di andare a dormire. La vita è stata vissuta nella sua completezza e perde ora il suo senso: non la vita in generale, ma solo questa che è giunta alla fine. Qualcosa di diverso dalla stanchezza è il disgusto per la vita, così come si manifesta, ad esempio, nella noia. Mentre in epoche passate era normale (tedium vitae), diventa un vero problema nella moderna società del benessere, in cui tutto è pronto, non c’è più bisogno di lottare per nulla, non ci sono ostacoli da superare, non c’è più nient’altro da fare. Sono a disposizione tutte le possibilità, tranne quella che sta troppo lontano e che ci attrae, per la quale faremmo qualsiasi cosa meno che realizzarla. Ma in questo modo la vita non offre “niente di nuovo”, tutto è già stato, tutto già vissuto: è difficile che gli uomini moderni, fissati sulle novità, come se la vita non fosse altro, possano sottrarsi alle conseguenze di questo loro atteggiamento. Alla fine sono portati a provare risentimento per la vita, che lascia profondamente insoddisfatti e nei confronti della quale vogliono vendicarsi, soprattutto per il fatto che essa, più o meno intensamente, è “sempre la stessa”: proprio come quando si mangia, che più o meno è un gesto sempre uguale a se stesso, anche in questo caso il discorso è quello di vivere in maniera diversa. Chi è disgustato dalla vita non può più vedere alcun senso nella vita stessa, né nella sua, né in generale; la “grande inutilità” si impossessa del pensiero e del sentimento, e quando persiste, cresce fino a rendere il disgusto un vero e proprio schifo.

Schifoso, infatti, è ciò che non può mai piacere, che non può essere amato ma si odia, che non si trova bello ma brutto, che non solo è senza senso ma contro il senso, assurdo, ripugnante. Puzza, fa vomitare, è insopportabile o, per l’appunto, schifoso. Lo schifo per la vita ha a che fare con la vita in generale e consiste non solo nel non trovarvi un senso, ma anche nel vedere l’assurdità, non solo della propria, ma anche di quella di tutti gli altri. Ma quando lo schifo entra a far parte della comprensione della vita in generale, si pone il problema di capire se la vita, non solo ora, ma in ogni momento, sia ancora degna di essere affermata. Inutile richiamare l’attenzione sulle conseguenze che questo dramma porta con sé e che torna con una certa regolarità; o anche ricordare che la vita assicura anche esperienze di tipo diverso. All’orizzonte le si profila la putrefazione della morte, un nulla assoluto, una non-esistenza e un non essere. Tutto ciò che è contiene già in sé la morte, e per questo tutto è solo un lungo periodo di debolezza, e la vita solo un momento insignificante, isolato, che è penoso vivere e che non ha alcun valore. Siccome il confronto con la morte è così cupo, la vita diviene possibile solo se la si dimentica. Ma non è vero che la vita in generale fa schifo? Ci può essere qualche dubbio sul fatto che proprio questo sia l’autentico significato della vita. Ma fuor di dubbio è il fatto che lo schifo porta a espressione almeno una verità, quella verità di cui Nietzsche era il profeta: «Schifo, schifo, schifo» (Così parlò Zarathustra, “Il convalescente”). Nessun uomo ha provato schifo per la vita, per l’essere umano, per il mondo più di Nietzsche, nauseato e schifato da tutto, che riteneva qualunque cosa una negazione della vita, prima di effettuare il passaggio dal no rabbioso della negazione di un certo tipo di vita al sì enfatico a una vita diversa. Lo schifo dominante costringe a questa scelta: dire sì o no alla vita. Per un certo tempo ci si abbandona ai piaceri che hanno il potere di far dimenticare lo schifo, almeno per un po’; ma cosa

succede quando la loro intensità va perduta? Lo schifo non è la fonte di un piacere ultimo e letteralmente perverso? Bisogna considerare la fantasia umana, che provvede a trovare le risorse per vivere la vita, capace di tutto e quindi anche di questo. La domanda fondamentale della vita si pone tuttavia con un’urgenza inevitabile, non appena l’acquietarsi in rapporti piacevoli con gli altri e con il mondo, qualunque sia la loro forma, si rivela inefficace: senza quella quiescenza la vita riappare in tutta la sua ripugnanza. Lo schifo cresce, fa male, lo schifo protegge… Lo schifo è tanto urtante quanto attraente. Quando non resta più nulla, c’è almeno qualcosa che rimane, ossia il ristabilire un rapporto con la vita e il tentativo di riscoprire il valore della vita, almeno per via negativa: lo schifo è un elemento dell’intuito, un indicatore di una vita che non può più essere vissuta, sia che si tratti di quella propria, sentita come disgustosa, sia che si tratti della vita insieme ad altri in questa o in quell’altra forma. È un no assoluto, che ha una forza tale sui sensi e sul pensiero, che l’operazione che permette di orientare la vita in funzione del disgusto, tanto forte quanto negativa, non può essere tralasciata o passata sotto silenzio. Ogni disgusto rinvia a una tenerezza possibile, e viceversa. Dove c’è schifo si nasconde anche una grande passione. Anche lo schifo nei confronti dell’essere umano annuncia la grande passione nei suoi confronti. Da qui la rabbia del misantropo per chi osserva gli uomini, o vuole addirittura renderli felici, usando la logica e la tecnica. Ma anche dagli occhi di invidia, odio, malvagità, cattiveria, malattia traluce molta più vita di quanto la razionalità del disprezzo che provocano possa far apparire in superficie. Proprio di questo parlano le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij (1874). Felice è chi si comprende in funzione di questa misantropia, così come della filantropia che le è correlata, perché l’umanità non può mai lasciar valere soltanto uno di questi due atteggiamenti. Il bilanciamento tra schifo ed enfasi consente,

infine, di poter riflettere nella maniera migliore sul senso o sull’assurdità dell’essere umano e del mondo.

Senso o insensatezza? Il senso della vita La vita ha un senso? O non ce l’ha? Tutto è “sensato” o senza senso? Nessuna domanda più di questa ha impegnato la modernità. L’affermazione del senso e, viceversa, l’accusa di insensatezza dell’esistenza e del mondo è uno dei temi persistenti dell’epoca moderna. Per i sostenitori della prima tesi tutto ha senso, mentre per gli altri si impone la domanda se tutto non sia “indifferente”, “senza senso”. “E il senso?”: “Il senso…“. Questa non è una citazione popolare, diciamo del 2001, ma un passo del dramma di Cˇechov, Tre sorelle, del 1901. Tutto è apparenza, dice il dottore: «Il fatto che esistiamo è solo una parvenza, forse in realtà non siamo nulla», e quindi poco importa se qualcuno smette di esistere, magari per un piccolo errore medico. Di fatto non ci sono conseguenze pratiche. Riflettere sulla vita, sul senso e sull’insensatezza della vita, è stato, sempre e comunque, compito della filosofia. La vita sensata, la vita degna dell’essere umano, la vita nella libertà e quella ricca di tensione è ciò che viene caratterizzato come “vita bella”. L’immagine contraria è la vita assurda, grigia, noiosa. La vita delle tre sorelle, però, si ammala proprio perché si allontana sempre più dal suo senso, da una «vita concreta e onesta», e per questo comincia ad aver bisogno soltanto di «poco, di sapere perché viviamo, perché soffriamo… se solo si potesse sapere, se solo si potesse sapere!». Voler dare una risposta a questa domanda in maniera neutrale e oggettiva porterebbe ad assumere la posizione di Dio, cioè una visione assoluta e universale. Siccome l’essere umano non può vedere le cose da questa prospettiva, la domanda sull’esistenza del senso potrebbe restare senza risposta. Per l’arte di vivere il modo di porre la domanda conta meno della definizione del “senso”, che precede la posizione delle questioni relative a

esso e che ha a che fare con una riflessione che si sviluppa dapprima da un punto di vista formale e, subito dopo, materiale. Si può parlare sempre del fatto che qualcosa “ha senso” quando è possibile riconoscere i nessi, cioè quando le cose, gli esseri umani, le datità, le esperienze non sussistono isolatamente per se stesse, ma si trovano in relazione le une con le altre. Per questo si può affermare che il senso sta nella connessione, mentre l’insensatezza nella sconnessione. E questo da molti punti di vista: ogni relazione che sta a cuore agli esseri umani, gli uni nei confronti degli altri, e condizione di possibilità di una forte connessione reciproca, può essere detta sensata. Mentre insensato può essere un agire che non concordi con quello degli altri e che, proprio per questo motivo, appaia sconnesso. Insensate sono quelle idee che non producono alcuna connessione, né vera né falsa. Le connessioni sbagliate conducono necessariamente a qualcosa che non “ha senso”. Che una connessione di questo tipo corrisponda alla realtà o sia solo il frutto dell’immaginazione è soggettivo e ha a che fare solo con il criterio della plausibilità, ma non può mai essere deciso obiettivamente. “Nessun senso” non significa che non c’è senso – anche se può sembrare così. Il nonsenso (cioè la negazione del senso), infatti, è qualcosa di diverso dalla mancanza di senso (la presunta impossibilità del senso) ed è anche diverso dalla dissennatezza (l’esplosione del senso). Gli esseri umani si trovano costantemente di fronte alla domanda esistenziale sul senso, soprattutto quando viene lacerato il reticolo di connessioni di cui la realtà è costituita, quando si vivono esperienze abissali, quando ci si mette in discussione o ci si trova di fronte a qualcosa di inconcepibile e irrappresentabile, che viene soggettivato dopo essere stato rapportato agli abissi fisici, psichici e spirituali, e poi oggettivato in riferimento agli abissi più generali, interpersonali, sociali e globali. In questi casi si intende innanzitutto la mancanza di senso di ciò che accade o è

accaduto, e in particolare quando si interrompe una relazione, o nel caso della “perdita” di qualcuno che rappresentava una parte essenziale del senso della vita di qualcun altro. Poi c’è la mancanza di senso di tutta la propria vita, oltre a quella della vita dell’essere umano in generale. Anzi, ancora meglio: la mancanza di senso di tutto il mondo. Per comprendere la situazione soggettiva già dal suo interno appare sensato andare incontro a questa esperienza dell’abisso e capire che la vita, la vita dell’uomo e del mondo in generale possono essere senza senso. Con l’obiettivo di istituire, su questa base, un senso di tipo nuovo. Non che la mancanza di senso debba essere superata a ogni costo. È solo che è difficile sopportarla e conviverci, anche perché la coesione della vita del sé, di un’istituzione, di una società diventerebbe porosa e non potrebbe che dissolversi. Gli esseri umani possono convivere con molte cose, ma non con il nulla, cioè con quanto resta dopo aver dissolto una certa connessione. Concludendo che non esiste più alcuna connessione, una vita nella quale prende piede l’esperienza della mancanza di senso è condannata al fallimento. Ed è stupefacente notare come la domanda sul senso assilli, anche solo in segreto, molte persone, ma anche che non sono moltissimi quelli che se ne occupano davvero. Porsi il problema del senso è sintomo di una qualche patologia? Potrebbe essere ancora più patologico non farlo, procedendo in una direzione molto più diretta: la domanda sul senso, che resta senza risposta, è causa di una sofferenza per l’assurdità, che porta con sé malattie ulteriori, da trattare in maniera più o meno convenzionale, ma la cui causa originaria resta efficace anche quando non viene effettivamente riconosciuta. La mancanza di senso, vissuta spesso come “esaurimento nervoso” (burnoutsyndrom), è dovuta allo sfinimento delle fonti vitali ed è causata dall’incapacità di vedere le connessioni del fare e del vivere, dal punto di vista individuale come da quello sociale. Il senso, invece, rappresenta una

risorsa infinita di forze, che lavora come un grande sistema immunitario la cui funzione è quella di parare difficoltà e pericoli di ogni genere. In questo consiste anche la sua importanza: il senso entusiasma e restituisce lo spirito, il senso nutre. Solo questa esperienza genera forze sufficienti per affrontare e portare avanti tutta una vita e le singole situazioni che ci si presentano. Il bisogno di senso viene soddisfatto quando si trova un nesso in grado di tenere insieme tutto e quando il senso stesso viene compreso come tale. C’è qualcosa di più importante del senso? Non sempre la domanda sul senso è stata così urgente e certamente non lo è mai stata nello stesso modo. La questione irrompe laddove vengono problematizzate connessioni che per molto tempo sono apparse ovvie. Ma tale problematizzazione non è altro che una conseguenza della modernità, della libertà finalmente conquistata come liberazione, della frammentazione e della dissoluzione di quelle che un tempo erano connessioni stabilite una volta per tutte. Le sue basi neurobiologiche possono essere intraviste nelle possibilità della coscienza vasta, testate e messe in questione con l’aiuto di un metamodello neuronale. Nella modernità la disponibilità di connessioni culturali trova il suo correlato nella frantumazione delle connessioni neuronali. Le connessioni della religione, del rapporto con Dio, che garantiva per molto tempo un “senso totale e complessivo”, vengono dissolte. Le connessioni della politica, delle gerarchie vincolanti e obbligatorie, in cui gli individui erano imbrigliati, perdono la loro forza. Nell’ecologia scompare il legame con le connessioni della natura grazie alla presunta “liberazione” da essa. La saldatura dell’economia con le connessioni della società e con i suoi obiettivi tramonta nell’affermazione della sua autosufficienza. Le connessioni della società premoderna e non-moderna, pressoché indissolubili e forzose, si frantumano lasciandosi dietro individui singolarizzati e soli. Le connessioni di una tradizione antica, le convenzioni universali, l’etica legata dei valori, la

morale che obbliga, diventano storia. L’anonimizzazione moderna e la funzionalizzazione di molte delle connessioni che abbiamo menzionato hanno come conseguenza l’impossibilità “di intravedere un senso”, sì da far nascere l’impressione che esistano esclusivamente fenomeni singoli e quindi solo assurdità. Viene distrutta ogni forma di relazione, le cui connessioni rendevano possibile la vita degli esseri umani e, infine, si dissolve anche la relazione del singolo con se stesso. Così nasce il vuoto interiore e il freddo esteriore di cui molti si lamentano ma che nessuno affronta davvero. Sicuramente, in una certa fase dell’epoca moderna che si protrae fino al XXI secolo, il senso è stato prodotto dalla liberazione intesa come fine a se stessa. Ma nello stadio successivo alla liberazione subentra l’insensatezza dovuta proprio al dissolvimento di tutte le connessioni, in maniera sempre più evidente e fino a rendere la modernità il luogo specifico in riferimento al quale porre la questione del senso. La risposta può essere soltanto quella di rifondare il senso e riprodurre le connessioni che ne derivano, anche se in maniera tale da non limitarsi a ricostruire connessioni di senso valide in passato, ma con l’obiettivo di dare una forma nuova alla libertà: questo è il compito di una modernità diversa. Per l’arte di vivere questo non significa, come in altre epoche, limitarsi a disporre la vita secondo connessioni date a priori o dissolverle una volta per tutte, ma ricreare quei nessi all’interno dei quali la vita può essere condotta in maniera sostenibile. Come per ogni arte, anche per l’arte di vivere il lavoro sul senso è sostanzialmente duplice: bisogna distruggere il senso, cioè decostruirlo, soprattutto quando le connessioni sembrano troppo fisse, dominanti e a volte anche tiranniche. E costruire e ricostruire il senso, quando il sé ne ha bisogno. Non si può mai parlare di un troppo poco o di un troppo di senso, di un senso pressante e opprimente o di quel senso irregredibile contro il quale i dadaisti puntavano le loro pistole, cariche di un implacabile “non-senso”. Il lavoro di distruzione

e decostruzione è andato – almeno così pare – in profondità, fino a ridicolizzare ogni tentativo di riparlare del problema del senso. La situazione del sé nella modernità avanzata ha quindi molto più a che fare con un troppo poco che non con il troppo, e ciò significa che c’è molto più bisogno di costruzione e ricostruzione del senso che di una distruzione e decostruzione infinite. Con l’aiuto della plausibilità e dell’evidenza bisognerebbe prestare attenzione alla giusta misura del senso, per compensare il troppo poco, ma anche per evitare il troppo e soprattutto, in una prospettiva biografica e storica, per non sottomettere il senso individuale a quello generale: si tende eccessivamente spesso, e con eccessiva facilità, a sacrificare il senso delle proprie esperienze individuali, quello delle proprie relazioni con altri, o quello del rapporto con le persone che amiamo alla fede in un senso onnicomprensivo. In questo modo, però, è la stessa vita umana a perdere il suo valore. C’è un momento in cui il senso non è più disponibile. È allora che comincia il lavoro del sé sulle connessioni della sua vita, anche perché, nonostante tutto, non può evitare di darle un senso. La costruzione e la ricostruzione diventano attività ermeneutiche individuali la cui funzione è quella di porre domande critiche e di creare autonomamente forme, al fine di mettere in opera un’autonomia del senso che va a sostituirsi alle eteronomie vecchie e nuove. La fondazione di un senso per se stessi mira innanzitutto a tenere insieme le connessioni interiori del sé. Questo non significa altro che vedere, trovare, produrre le connessioni che possono segnarlo. Per questo è fondamentale la coerenza del sé e in particolare la definizione dei punti fondamentali del sé nucleare. Con l’aiuto dell’autocontrollo e della forza su se stessi è possibile concretizzare le connessioni inizialmente solo pensate che, a partire dalla forma del sé, costituiscono un “campo di senso”. Il senso più forte si trova però in quella che potrebbe essere detta “amicizia con se

stessi”, o conoscenza di sé. Nel condurre la sua vita, il sé si impegna a creare le connessioni relative alla sua esistenza e lega le sue parti costitutive, diverse e a volte contraddittorie, in maniera tale da costruire una forma complessiva. Tiene presenti le grandi linee, nelle quali si manifesta il senso della sua vita individuale: le idee che possono essere realizzate nel corso di anni e decenni, con grande tenacia e con una serie estenuante di piccoli passi, ma anche gli eventi, con tutte le coincidenze e gli incontri fatali, grazie ai quali la vita, nel corso del tempo, trova se stessa – su questa via si costituiscono le connessioni che fanno il senso della vita. Per questo motivo il senso non è immediatamente senso, ma ci sono gradi diversi di connessione distinti per estensione temporale, per i diversi piani che fanno parte dell’umano, e quindi in funzione di tutto quello che definisce l’esperienza di una pienezza di senso in rapporto a sé o anche a tutti gli altri: 1. Senso sensibile del corpo: il senso si pone con l’esperienza sensibile, organizza i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto) così come pure il sesto senso del movimento e il settimo “senso interno”. In questo caso si tratta di un senso nella vita momentanea, il senso di un attimo, situativo, ma perfettamente riempito, che “ha senso” solo per quel giorno e di cui si deve godere nel momento in cui viene provato (carpe diem): per esempio un buon cibo, una piacevole conversazione, un pezzo musicale, una danza, un evento sportivo – tutte cose che coinvolgono la pienezza del senso e del sentimento. Chi sviluppa appieno i suoi sensi percepisce una vita ricca di pieghe costituite dalle varie forme di manifestazione del mondo: vede volti, edifici, alberi e prati, ode voci, sussurri e rumori, sente il profumo dei fiori e di tutti gli aromi, si gusta l’acqua e tutto ciò che si può mangiare, tocca le superfici, trova il senso nei movimenti del suo corpo e nella sua percezione interna. Il problema della perdita moderna del senso si manifesta già a questo livello. La decadenza dei sensi nel mondo tecnicizzato comporta la scomparsa del senso

sensibile, possibile soltanto nel clima di astrazione tipico della modernità, e determina una vita astratta e dissolta da tutte le connessioni. Per chi, tuttavia, è in grado di percepire le cose con i sensi, la domanda “sul senso” non si pone più. Il senso della vita deve essere trovato nell’esperienza della bellezza sensibile. 2. Senso sentito dell’anima: il sé può essere toccato nelle profondità di se stesso non solo per un momento, ma anche per un tempo maggiore, e forse per tutta la sua vita, dal senso di tutta la vita, che è legato a ciò che ritiene avere un significato di volta in volta preponderante: amore, amicizia, famiglia, patria, società, lavoro con altre persone, professione, attività, produzione di un’opera, musica come forma di vita – ammesso che la vita senza musica possa essere considerata un “errore”, come pensava Nietzsche (Crepuscolo degli idoli, 1889, “Sentenze e frecciate”, 33). Per il senso che si rivela nel sentimento risulta centrale la fondazione e la cura delle connessioni sociali, la cui ovvietà è stata cancellata dalla liberazione moderna da tutti i vincoli. Da questo punto di vista la ricostruzione del senso diventa un vero e proprio compito. Le relazioni “fanno senso”, in quanto fondano quelle connessioni a partire dal contatto tra due persone, che si rivelano in un incontro cercato e voluto, nelle conversazioni, e in tutte le altre forme di comportamento sociale che possono essere osservate. A prescindere dall’oggetto su cui verte, il dialogo dipana il filo della connessione e incarna il senso già nel suo mero accadere. La pienezza del senso si sviluppa nella vita assieme alla persona che si ama, nella relazione forte tra genitori e figli, e addirittura nella negazione delle relazioni nella forma del litigio o del conflitto, che rende possibili gli atteggiamenti negativi promuovendo, anche sotto questo profilo, una marcata istituzione di senso. Un ruolo significativo è quello giocato da un problema o dalle connessioni legate al potere che, per chi ne dispone, ha un senso tale da renderlo qualcosa di cui non si può più

fare a meno. Le connessioni ausiliarie, che hanno a che fare con l’aiuto che si può prestare ad altri, e che si estendono fino considerare l’altruismo come la ragione della propria esistenza, rappresentano a loro volta e nei modi che le caratterizzano una fonte inesauribile di senso, che non è in alcun modo legata a un “sacrificio”, già solo per il fatto che grazie a loro è possibile guadagnare una grande ricchezza interiore: la cura per gli altri relativizza le preoccupazioni private di ogni individuo, bilancia la relazione con se stessi, ci mette davanti agli occhi il regno di possibilità della vita, e consente di imparare molto sulla vita, sulla regolarità e sulle irregolarità del destino. Accanto a quelle sociali, il senso può essere istituito anche dalle connessioni ecologiche: la relazione che ciascuno di noi sente di avere con la natura, che è evidente è può essere continuamente oggetto di esperienza, è gravida di senso. Gli esseri umani cercano consolazione nella natura per “ritrovare le forze” e, di fatto, la natura sensibile può farci trovare un senso, anche perché in essa tutto è chiaramente connesso con tutto il resto. 3. Senso pensato dello spirito: dal punto di vista del pensiero, il sé, tuttavia, si occupa del senso in una dimensione più ampia, che è legata all’intelletto, e che ha il compito di analizzare le connessioni della vita e rendere possibile sintetizzarle nuovamente. Il senso della vita, nei singoli casi, così come nella loro totalità, diventa oggetto di pensiero e di discorso e, di conseguenza, questione di interpretazione e comprensione (connessioni ermeneutiche). L’”intervento” dell’interpretazione si preoccupa di conquistare quella connessione vitale che permette di tenere insieme i frammenti di una cosa, di un avvenimento o di tutta un’esistenza. Ma l’interpretazione si cura anche del fatto che venga aperta una prospettiva sensata: tutto il senso pare essere obbligato ad “aver senso” da un punto di vista prospettico e sotto un certo profilo, ma non da un altro. Possono essere pensate molte connessioni in grado di spiegare in maniera plausibile un

avvenimento o la totalità della vita, in maniera tale che il sé possa trovarvi un senso: se si ha un obiettivo (connessioni intenzionali), come viene pensato (connessioni concezionali), quale sia la prospettiva assunta dal singolo (connessioni soggettive), quale sia la prospettiva generale (connessioni oggettive), in che cosa sia fondata (connessioni argomentative), quale regola ne consegue (connessioni logiche), se ci si imbatta in coincidenze (connessioni contingenti), come si sia giunti a una certa situazione (connessioni causali), il fatto che, anche solo in apparenza, si incappi in un’assurdità (connessioni paradossali), il fatto che qualcosa accada solo a certe condizioni (connessioni condizionali), il fatto che qualcuno si assume la responsabilità (connessioni responsive); e anche il fatto che qualcosa accada anche contro la nostra volontà pur essendo stato, in ogni caso, deciso dal destino, e che è irreversibile (connessioni tragiche), o anche un avvenimento sostanzialmente inspiegabile e irresolubile, la cui enigmaticità non può che essere accettata (connessioni enigmatiche). 4. Senso pensato e sentito della trascendenza: per “trascendenza” si intende letteralmente l’oltrepassamento di una soglia e in questo caso quella del sé, dell’essere umano e della sua finitezza. Senza dubbio la domanda sul senso mira, prendendo le mosse dalle connessioni intra- e inter-soggettive, a quelle trans-soggettive. Questo senso che si trova oltre la vita è questione di certezza sentita o di assunzione pensata, cioè è la conseguenza di un atto di interpretazione e comprensione. La connessione che in questo modo ci si squaderna presenta l’orizzonte più ampio possibile, nel quale si può inscrivere la propria vita e che viene spesso legato alla “religiosità” e alla “spiritualità”, anche se non se ne può mai affermare la verità obiettiva. In ogni caso si tratta di vivere al di là, in un’apertura che eccede ogni limitatezza, nella pienezza di un’infinità possibile che ha da compensare la povertà di una finitezza reale con la funzione di riempire il vuoto

dell’esistenza tramite un’assunzione metafisica, anche solo limitata allo stupore notturno per gli spazi e i tempi infiniti delle stelle. Ogni riferimento che si estende oltre la finitezza può diventare fonte di una vita piena di senso, tanto che il problema della libertà moderna è proprio quello di non poter più riuscire a pensare un’istituzione di senso che si alimenti della dimensione della trascendenza, ma nello stesso tempo quello di rinunciare dolorosamente anche alle forze inesauribili che derivano dal rapporto dell’essere umano con una dimensione che lo oltrepassa. Qui trovano la loro sede domande alle quali non si può mai dare una risposta definitiva, come quella sull’origine e sul destino dell’essere umano (connessioni antropologiche), del mondo (connessioni cosmologiche), della fatalità (connessioni fatalistiche) e della predestinazione (connessioni deterministiche). Tra le connessioni di senso ve ne sono alcune che hanno un’importanza particolare, come quelle, estremamente significative anche per i bambini, che possono essere dette connessioni narrative, in cui tutto ha senso solo perché può essere reso oggetto di una narrazione. Questo si capisce se si tiene conto delle scoperte neurobiologiche, che mostrano come il raccontare storie sia un’«ossessione del cervello» (Damasio). Sviluppando le sue stories, la narrazione produce il senso, che qui si configura in “immagini”, in avvenimenti divergenti dalla realtà e in informazioni sulle connessioni, che devono essere plausibili solo in parte e solo allo scopo di poter essere considerate sensate. Per questo motivo gli esseri umani si entusiasmano a raccontare storie e a sentirne, senza mai riuscire a distinguere tra quanto sia frutto di invenzione e quanto corrisponda effettivamente alla realtà; in ogni caso la narrazione li protegge dall’esperienza abissale della mancanza di senso. Decisiva è in questo senso la conciliazione di ciò che è sconnesso, ovvero la convergenza degli elementi che divergono. Decisivo è, cioè, salvare la nave che affonda portandola sulle sponde dell’isola delle connessioni, che

si trova nel mare della dissoluzione. L’attività correlata all’interpretazione e alla comprensione è potenzialmente infinita; è sempre nuovamente possibile scoprire connessioni ulteriori, diverse, non ancora verificatesi, inaudite: la pienezza ermeneutica è una parte costitutiva della pienezza del senso. Anche quando in un certo momento una cosa, un fatto, la vita possono apparire insensate, è possibile che il senso venga ritrovato, magari proprio nello spazio di un racconto, biografico o storico. Nella ricerca e nell’istituzione del senso sono straordinariamente importanti le connessioni teleologiche, con le quali la parola “senso” può addirittura essere fusa: a che scopo qualcosa è buono, a cosa contribuisce, a che serve – tutte domande che hanno a che fare con il “verso dove”, con l’”a che scopo” e con risposte finalistiche, la cui assenza getterebbe chiunque nella disperazione. Nelle situazioni difficili, in particolare, le posizioni di uno scopo o di un obiettivo indicano la via maestra nella ricerca e nell’istituzione del senso, sia sotto forma di scopi esterni che ci pongono al servizio di altri o di istituzioni anonime, espressi nella forma di un dovere o di un «è necessario che…», di un “richiamo” o di un obbligo (connessioni deontologiche); sia nella forma di un dovere interiore che ci si impone o di un volere a tutti i costi (connessioni volontaristiche); sia nella forma di uno sforzo per l’utile il cui terminus ad quem è stabilito autonomamente o dagli altri (connessioni utilitaristiche). A partire dalla teleologia eteronoma, che per molto tempo ha dominato la storia, la liberazione moderna porta alla teleologia autonoma: dare a se stessi un fine e uno scopo, proporsi di fare qualcosa e realizzarlo. Ma, oltre alla realizzazione di uno scopo, può essere sensata anche la libertà da qualunque fine: una vita può avere senso perseguendo lo scopo della libertà da scopi troppo angusti. L’arte di vivere tiene presenti entrambe le opzioni e tenta di bilanciarle in un regno dei fini, che si dipana secondo molteplici posizioni di scopo, attraverso il ristabilimento di un mondo libero

dai fini e, per esempio, mediante il lavoro libero a cose che sembrano affascinanti o attraverso la rinuncia a chiedersi continuamente se qualcosa sia appropriato per raggiungere qualcos’altro: al posto del “per”, che introduce una finale («lo faccio per guadagnare»), si può inserire un “poiché” («lo faccio poiché mi piace»). Per non perdere la sua libertà sembra indispensabile un minimo di libertà dagli scopi. Per lo stesso motivo la posizione di scopi ideali – una realizzazione di idee, sogni, valori – non può mai essere completamente sostituita da una posizione di scopi materiali, necessaria ma mai sufficiente. Come si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che il benessere materiale produce un’esperienza di mancanza di senso? Il fatto che l’eccedenza di beni sia parallela a una mancanza di senso ha il suo fondamento nel fatto che con la disponibilità di risorse materiali si sviluppa anche un orientamento che mira a migliorare le relazioni; il lavoro che oltrepassa se stesso a favore degli altri e delle generazioni future viene messo in questione. Le connessioni sociali si frantumano in meschini paragoni reciproci. La tensione esistenziale sparisce, perché non è più in gioco l’esistenza e non c’è nulla che può esserne più distante. Nell’eccesso delle “sensazioni” che deriva dal buon cibo o da viaggi costosi sparisce il senso della sensibilità. Ma ogni attività, anche quella meno appariscente, può fondare un senso. Basta solo che il sé vi si dedichi, non più soltanto dal punto di vista materiale, ma anche da quello ideale. Ogni genere di attività, infatti, procura una forte esperienza del senso purché produca anche connessioni ideali. L’obiettivo più importante nella posizione di uno scopo della vita ideale, nella quotidianità come in tutto il percorso della vita individuale, è “il bello”, una fonte di senso inesauribile (connessioni estetiche). Lo sforzo per vivere una vita bella e degna di approvazione fonda a sua volta un orientamento nei confronti dei valori e amplia il senso anche su questo piano (connessioni etiche). Bello è ciò a cui

si può dire sì, da tutti i punti di vista e a partire da tutti i fenomeni che gli sono correlati. Ma il vero scopo della vita non è la “felicità”, non è quello definito dalle connessioni eudemonistiche? Ma che cos’è la felicità?

La felicità è una vita piena Prima di perdersi nella foresta, il viottolo passa per un cimitero. Il luogo è straordinariamente silenzioso. Si riesce persino a sopportare il pensiero della morte. Ma sorgono delle domande: quante speranze di felicità sono sepolte in questo cimitero? Quanta felicità? Quanti di questi uomini hanno cercato la felicità per tutta la loro esistenza e nel farlo hanno dimenticato quale fosse il significato della loro vita? Non sarebbe meglio sotterrare anche il concetto di felicità? Per raggiungere la felicità bisognerebbe forse evitare di parlarne. Ma tutti gli esseri umani tendono verso un bene supremo, come è scritto già all’inizio dell’Etica nicomachea di Aristotele. E il primo bene supremo pare essere proprio la felicità. Così si può dire che la domanda sulla felicità sia da sempre una delle questioni fondamentali dell’arte di vivere ispirata dalla filosofia. Impossibile evitare di rispondere. Così la “felicità”, all’inizio, non è altro che un concetto. Ma con questo concetto si intendono cose molto diverse tra loro. Il suo significato dovrebbe essere stabilito ogni volta da ogni individuo per se stesso. Cioè: non esiste una definizione stringente e unitaria della felicità. Ma il fatto che la felicità sia determinata dal punto di vista individuale non porta a una vita in solitudine. Come sostiene anche Aristotele, invece, la ricerca della felicità può portare piuttosto a una «vita nel coinvolgimento». Una scomposizione del concetto di felicità deve dunque contribuire a chiarire che cosa “felicità” significhi per ciascuno di noi, ossia a trovare una risposta alla domanda: “Che cosa significa per me felicità?”. A uno sguardo più preciso pare siano in gioco tre piani, che potrebbe essere opportuno tenere ben distinti tra loro: 1. La felicità come fortuna: la parola tedesca Glück, ‘fortuna’, ‘felicità’,

rinvia al termine alto-tedesco gelücke, il cui destino è quello di essere stato compreso in maniera sempre diversa. Nella Grecia classica la contingenza di questa forma di felicità veniva caratterizzata con il termine týchē, e in latino come fortuna, conservato nel fortune inglese e francese, che nel corso del tempo si è ristretto fino a limitarsi a indicare il caso a favore e il verificarsi di una combinazione desiderata di eventi: desiderare la felicità per qualcuno è, nella maggior parte dei casi, sperare che una situazione simile si verifichi. Non sappiamo, e continueremo a non saperlo, se il caso fortunato o sfortunato “abbia senso” o possa essere inteso come l’avverarsi di una profezia o come il prodotto di una determinazione intenzionale che lo anticipa nelle premesse che lo rendono possibile. Il filosofo che mette in pratica l’arte di vivere non si nasconde certo dietro le sorprendenti regolarità molto frequenti in casi simili, che potrebbero anche far pensare a un “piano divino” che distribuisce tanto le fortune quanto le sfortune, ma ha spesso tratto conseguenze autonome: «Conoscere i giorni sfortunati, perché ce ne sono: quando non va bene nulla e cambiano le regole del gioco, ma non il suo risultato. Per capire se si è in giornata bisogna provare solo un paio di volte e poi, eventualmente, smettere» (Gracían, Oracolo manuale, 139). Il fatto che uno o due colpi di fortuna abbiano una dinamica tutta loro e ne attirino altri; e il fatto che, al contrario, se uno non ha fortuna, lo coglie anche «la scalogna più nera», si può concludere dalla legge dell’oscillazione, che descrive i movimenti della fortuna. L’essenza di questa forma di felicità è la sua indisponibilità; disponibile è solo l’atteggiamento che si può assumere nei suoi confronti: ci si può chiudere o aprire; all’interno di se stessi, come all’esterno, si può preparare la costellazione della propria condotta di vita, dove si può accettare una certa contingenza oppure rifiutarla a priori. Per sfruttarla è necessario aver pazienza, saper aspettare finché qualcosa non “si sblocca”. La pazienza, infatti, è la facoltà di prendere atto che non è successo

nulla o che le cose sono andate diversamente da quanto si sperava. Ma decisivo è l’atteggiamento dell’apertura, della “spontaneità” che, legata all’attenzione, consente di riconoscere il momento giusto e permette di cogliere la palla al balzo. L’apertura sembra mettere le ali alla fortuna, che si ferma laddove si sente esclusa e quando non viene accusata di “essere arrivata al momento sbagliato”. 2. La felicità come benessere: in epoca moderna il concetto di felicità viene definito in maniera crescente come “positivo”: il benessere, il gradevole, i piaceri, le belle sensazioni sul piano fisico e psichico. Gli uomini moderni preferiscono cercare la felicità nel “buon umore” – e quando sopraggiunge quello “cattivo” diventa necessario liberarsi da questo fastidio pressante il più presto possibile. Quasi sempre in modo inconsapevole, gli utilitaristi ne hanno dato una definizione. Esemplare è quella di Jeremy Bentham (Introduzione ai principi della morale e della legislazione, 1789): la felicità è la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore. Nella modernità non c’è stata concezione filosofica che si sia affermata più di questa. La moderna società del divertimento e delle esperienze straordinarie non può essere compresa senza tener presente questa definizione, che si estende fino all’isteria per la felicità, che già all’inizio del XXI secolo si impone come se le porte del cielo le fossero state finalmente dischiuse. Discutibile non è tanto il fatto che il benessere sia di per sé deprecabile. Il benessere ha il suo tempo, dispone attimi di felicità per i quali ogni individuo è sempre pronto e che si impegna a rendere possibile: si tratta di attimi per i quali vale la pena vivere e che si possono presentare tutti i giorni. Ciascuno può conoscere gli ingredienti di questa felicità, cercarseli e lavorare per dominarli, esercitarsi asceticamente e goderseli talvolta anche in maniera estatica. Anche Gracían parla dell’«Arte di possedere la felicità. Ci sono regole per la felicità: perché per i più saggi non tutto va a caso. La fatica può

aiutare a essere felici» (Oracolo manuale, 21). Quando ordinariamente si parla di “fare la propria felicità” si intende: prendersi cura delle condizioni più convenienti e piacevoli per condurre la vita. Possiamo sentirci bene perché ci è riuscito di fare qualcosa, o perché un successo aumenta il nostro sentimento di pienezza non appena la fatica è stata assorbita. E tuttavia l’arte di vivere ispirata dalla filosofia avverte il pericolo di scambiare il sentimento di benessere che si prova in un singolo caso con la vita intera. Al momento giusto il sé viene messo di fronte al fatto che esistono tempi diversi, che non sempre tutto può essere piacevole, e che non è mai possibile raggiungere una piena libertà dal dolore, fisico o psichico che sia. Cercare la felicità soltanto nel piacere sembra allora la via più sicura per essere infelici. Il piacere, infatti, non può durare: è un bel momento, un’esperienza di beatitudine, ma la brevità fa parte della sua stessa essenza. Il proposito di eliminare il dolore non solo porta alla perdita dell’esperienza di contrasto che rende possibile provare piacere, ma anche alla perdita di una direzione della vita – perché il dolore è il pungolo della riflessione. Il fatto che la vita conosca alti e bassi è noto anche all’uomo moderno che, nondimeno, dà valore solo ai primi relegando i secondi nelle tenebre. Se non è possibile scalzare le paure e tutte le altre esperienze che rientrano nei “bassi” della vita, bisognerebbe fare di tutto per “rialzarsi” e, se necessario, anche usare medicinali. Nella modernità, infatti, la mancanza di felicità può essere pensata solo come una malattia e diagnosticata come anedonia, mancanza di piacere. Però c’è dell’altro, ci sono concezioni più antiche della felicità. 3. La felicità come pienezza: questo tipo di felicità non consiste tanto nel fatto che le cose vadano come si desidera. «Dev’esserci sempre qualcos’altro da desiderare, per non essere infelici a causa della felicità raggiunta. Il corpo ha bisogno di respirare e lo spirito di tendere a qualcosa. Chi possedesse tutto, resterebbe deluso e indispettito da tutto» (Gracían, Oracolo manuale,

200). Piuttosto, la felicità come pienezza è una questione che riguarda una forma di atteggiamento consapevole, che si esprime come tranquillità e serenità e che può essere definito come “animo buono”, dal greco eudaimonía. Questa forma di felicità può essere scelta, infatti, per dare forma alla vita e può essere appresa, in un senso tipicamente aristotelico, tramite l’attenzione alla chiarificazione teorica e all’applicazione pratica. “Pienezza” significa, quindi, che questa forma di felicità non nasce solo dal piacevole, dalla pienezza del piacere sensibile e dal “positivo”. La felicità come pienezza della vita comprende anche il lato dello sgradevole, del doloroso e del “negativo”. La vita piena è, allora, l’oscillazione tra i due poli, l’ampiezza complessiva di un’esperienza che, in generale, si distende tra elementi contrapposti e contraddittori e dalla quale nasce l’impressione di vivere davvero e di sentire concretamente la vita. Mediante cosa è possibile mettere in questione questo tipo di felicità? Ciò che contribuisce alla pienezza della vita rafforza la felicità, indebolita solo dalla riduzione unilaterale dell’esperienza, nella maggior parte dei casi a favore del piacere e determinata, per così dire, a priori e a scapito di tutto il resto. Gli esseri umani, che cercano disperatamente un po’ di divertimento, possono ancora fare un catalogo delle “attività piacevoli”, per aiutarsi, nel caso in cui dovessero compilare anche una lista nera delle “attività sgradevoli”, alle quali dovrebbero dedicarsi per poter continuare a provare piacere per le altre. Il fatto che la felicità come pienezza non coincida con la “letizia” è ben noto a chi continua a conservare la sua “capacità di soffrire”. Questa felicità è molto più ampia della fortuna o del benessere: è la felicità autenticamente filosofica, che non dipende dal mero caso o da sensazioni momentanee, ma piuttosto da un equilibrio da trovare sempre di nuovo e rivolto a tutte le polarità della vita, non necessariamente nello stesso attimo, ma nel corso della vita intera: non solo successo, ma anche fallimenti; non

solo la riuscita, ma anche il mancare un obiettivo; non solo il piacere, ma anche il dolore. Questo è il paradosso della felicità, che non ha a che fare solo con la felicità, ma anche con l’infelicità: della sua pienezza fa parte anche la consapevolezza dell’abisso. Se così non fosse la felicità rischierebbe di diventare superficialità. Questa forma di felicità richiede che si sia d’accordo con la tragedia, che poi può essere ridotta anche a farsa: la pietra della vita rotola giù solo per poter rirotolare su, ricominciando sempre daccapo, come il Sisifo di cui ci ha parlato Albert Camus scrivendo del «modo in cui ci si deve necessariamente rappresentare un essere umano felice» (Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo, 1947). Certo, si tratta di una “rappresentazione” e non necessariamente di una realtà. Ma la rappresentazione è un “dovere necessario” per poter vivere. Non si può rinunciare a nessuno dei piani menzionati, quello della contingenza, del sentimento o quello spirituale, ma la terza forma di felicità è quella che vale per l’arte di vivere e che una modernità diversa può arrivare a scoprire. Tanto la fortuna quanto il benessere si basano su esperienze singole, su episodi grandi e piccoli. Si può dunque parlare di felicità episodica, cioè di una felicità ristretta, che arriva per caso e si manifesta solo occasionalmente, la quale dipende dal fatto che il sé sia aperto a momenti e che solo per un attimo riesca, come potrebbe succedere con un profumo, «a percepire una traccia di Dio nel proprio giardino». Si tratta di un attimo che vorremmo fosse lungo per l’eternità. Ma quando finisce non siamo tristi: prima se ne va, prima torna, anche perché non ha mai voglia di trattenersi troppo nello stesso posto. La volontà di fissare un momento felice rischia di sovraccaricare le proprie forze oltre i propri limiti e di dare vita a quel fenomeno che ordinariamente si chiama “stress”. La felicità come pienezza, al contrario, è qualcosa di stabile e di conchiuso in se stesso, qualcosa che oltrepassa lo scorrere del tempo e che dura a lungo, una felicità epocale, una felicità

generale, che è possibile solo coinvolgendo tutte le polarità che definiscono la vita in quanto tale. Per questo motivo la felicità si presentava, già nella filosofia stoica, come una eúroia bíou, cioè come il ‘buon decorso della vita’ (dove decorso, o flusso, ricalcano il termine flow, invalso nella psicologia della felicità del XX secolo): non tanto nel senso del decorso di un fiume, ma in quello del fluttuare del mare e delle sue maree. Questa forma di felicità non è niente di particolare, nulla di spettacolare; viene resa impossibile dal fatto che non si fa altro che cercare il particolare e lo spettacolare. Ma la felicità come pienezza non esige che la pienezza sia realizzata tutti i giorni; non viene misurata secondo la quantità. La sua qualità, però, è definita dall’intensità dell’esperienza, il che significa che questa forma di felicità ha bisogno anche dell’esperienza del vuoto: molti giorni vuoti sono giustificati da una sola pienezza, lunghe fasi di vuoto per una sola in cui la pienezza può essere esperita. Ma soprattutto la vita piena è una pienezza del senso in tutte le accezioni descritte, e si verifica per amore di tutto l’essere umano. Pienezza del senso significa possibilità di potersi sviluppare e, in questo modo, fare esperienza della felicità. Questa pienezza ermeneutica impedisce che la riflessione sul significato della vita diventi un circolo vizioso e trattiene dalla convinzione che la vita stessa non abbia alcun senso. Il numero delle possibili interpretazioni implica addirittura che tutto abbia un senso e tutto possa rientrare in una qualche connessione. Percepire tutto questo è importante, tanto che la pienezza massima potrebbe coincidere proprio con tale visione del senso assoluto, non solo in rapporto alla vita di un individuo, ma anche in riferimento alla vita in generale. Non sempre la coscienza che è correlata a questa visione può essere presente di continuo. Per questo motivo, a volte, la felicità come pienezza può essere esperita nella forma del ricordo: con lo sguardo a distanza, una distanza dalla quale la vita può essere disposta con coerenza, con tutte le sue luci e ombre che

definiscono la ricchezza di una vita piena, dalla culla alla tomba. 7 Il gioco di parole, che in italiano non trova corrispondenza, è tra “bejahensiwert”, ‘degno di approvazione’, e “bejammenswert”, ‘ciò che induce a una lamentela’. 8 In questo caso il gioco di parole, intraducibile in italiano, è fra “Schilda”, località del Brandeburgo, e “Schilder”, ‘segnali stradali’: i cantonieri di Schilda, che sono di Schilda (cioè “Schilder”), non hanno bisogno di trovare la strada di casa perché hanno con sé tutti i segnali (che però sono anche tutti gli “Schilder”). 9 Questa è la prima occorrenza nel testo del termine “Gewissen”. Come “Bewusstsein”, che è la parola impiegata dall’autore finora, anche “Gewissen” può essere tradotto con ‘coscienza’. Ma a differenza del termine “Bewusstsein”, che indica la struttura teoretica e pratica della coscienza, intesa come consapevolezza di un oggetto o di se stessa (Selbstbewusstsein), “Gewissen” ha una connotazione specificamente morale e spirituale. In altre parole, “Gewissen” è quella parola che in tedesco viene impiegata per identificare la “coscienza pulita” o “sporca”, lo “stare a posto con la propria coscienza”, il “tranquillizzarsi la coscienza”. Normalmente “Gewissen” è tradotto come coscienza morale, ma dato lo specifico contesto in cui viene introdotto, sarebbe limitante dare al termine una connotazione troppo ristretta. Il “Gewissen” che compare qui, piuttosto, sta a indicare quella dimensione della coscienza che unifica ambito teoretico, emotivo e spirituale attraverso l’idea di saggezza, che Schmid, sulla scorta della filosofia antica, comprende anche come prudenza, come sapienza pratica e, solo a un livello di elaborazione successiva, come agire moralmente retto. 10 Qui il gioco di parole intraducibile è tra “Langweile”, ‘noia’, e “lange Weile”, ‘lungo lasso di tempo’: rendere voluta una noia che non si desidera significa tramutarla in un lasso di tempo da vivere in piena tranquillità, nel quale permanere (verweilen) senza angosce. 11 L’autore gioca qui con i termini “Urlaub” ed “Erlaubniss”, ‘ferie,

permesso’, e il verbo “erlauben”, ‘permettere’, ‘concedere’.

6. L’infanzia e la vecchiaia. Inizio e fine dell’arte di vivere L’apprendimento dell’arte di vivere nei bambini La paura è l’inizio dell’arte di vivere, nient’altro. Rappresenta l’occasione per cominciare a preoccuparsi di se stessi. Il sé che la incontra si dedica alla ricerca dell’arte di vivere, scomparsa in età infantile. È sorprendente notare come i bambini ne siano già in possesso. Notevole è anche il fatto che l’arte di vivere non giunge a dispiegarsi pienamente in tutti, forse perché si comincia troppo presto a fare esperienza degli aspetti negativi della vita. Ed è misterioso che quasi tutta l’arte di vivere venga dimenticata in età adulta, potendo poi essere appresa nuovamente solo a fatica e solo se se ne presenta la possibilità. Ma anche per l’arte di vivere dei bambini vale il fatto che la condotta di vita consapevole viene modellata da un sé che forma se stesso e la sua vita? Si tratta davvero di un’espressione della cura di sé? Un bambino può essere capace di tutto questo? Sarebbe insensato voler sostenere una simile tesi in maniera assoluta, ma sarebbe altrettanto insensato rifiutarla del tutto. Un bambino si trova in un momento di passaggio e l’arte di vivere infantile risponde a questa esigenza, cioè a quella di compiere questo passaggio. Si parte dalla totale mancanza di preoccupazioni, che caratterizza la vita del bambino nella pancia della madre: un primo atto di preoccupazione e cura di sé è, invece, l’autoaffermazione, il primo grido, anche se il bambino resta ancora, e per un certo tempo, rimesso alla cura di altri, senza la quale non potrebbe sopravvivere. Lo scopo dell’arte di vivere dei bambini è l’acquisizione della capacità di provvedere a se stessi: analogamente a quanto accade negli adulti, anche il bambino tenta di procedere in avanti, di conoscersi sempre meglio e di mettersi in condizione di prendersi cura di sé, come se da un momento all’altro la sua vita non dovesse più dipendere da nessuno. Si appropria della sua vita mediante la

cura di sé e lì, dove ha luogo un’autoappropriazione, può darsi anche qualcosa come la responsabilità nei confronti di se stesso. Quanto i bambini siano consapevoli di tutto questo si può vedere dal loro entusiasmo per Pippi Calzelunghe, o meglio: per Pippilotta, Paesanella, Tapparella, Victualia, Rolgardinia, Eufrasilla, Ciucciamenta Calzelunghe. Questa figura romanzesca creata da Astrid Lidgrens nel 1945 è l’incarnazione del bambino totalmente libero, che porta avanti la sua vita in maniera spensierata ma mai indifferente, con un coraggio straordinario, anche affrontando senza fatica grandi dolori e arrivando perfino a consolare la madre morente: «Non preoccuparti per me! Ce la faccio da sola». Il passaggio che distingue il bambino dall’adulto viene compiuto nel momento in cui ci si fa carico della propria scelta di vita. Perché la decisione di entrare nella vita non è ancora effettivamente avvenuta nel corso dell’infanzia – almeno per quanto possiamo saperne. Nel corso dell’infanzia questa scelta viene effettuata con una certa leggerezza, soprattutto quando il bambino può trasferire su di sé e riconoscere la scelta che i genitori hanno effettuato al suo posto, anche se la domanda «Perché mi trovo qui?» non può mai essere elusa del tutto. La scelta pare facile anche quando l’esempio dato dai genitori è forte. La scelta viene allora effettuata in silenzio, con la crescente disposizione a preoccuparsi di sé, senza con questo perdere la spensieratezza – il centro dinamico dell’arte di vivere dei bambini – che consiste nel dare per scontato il proprio coinvolgimento in un mondo, lo stupore infinito a ogni passo che si compie al suo interno, l’abbandonarsi alle esperienze che esso offre, la sempre nuova disponibilità al tentativo e al rischio, la grande apertura e la grande curiosità, la vita nella contraddizione, la follia come apertura di nuovi spazi del pensare e del sentire, la spontaneità, il non essere irretiti nella tradizione, il non essere sepolti in qualche trincea, vedendo piuttosto un interlocutore in ogni essere umano e in ogni essere in

generale, vivere giocando e gustandosi il presente, essere presso di sé assolutamente e in ogni momento dimenticandosi di tutto il resto, seguire un impulso incontenibile senza pensare troppo alle sue possibili conseguenze. Il passaggio dalla spensieratezza alla cura di sé è condizionato dalla crescente consapevolezza di dover mettere nelle mani dei bambini la loro stessa vita, di fare in modo che essi se ne approprino e le diano una direzione, che la rendano bella e degna di approvazione. L’educazione può essere compresa come una forma di cura che dà spazio, laddove se ne riconosce l’urgenza, alla cura di sé, che la incoraggia e la sostiene; mentre dove questa urgenza non c’è, la innesca e la incentiva. Si tratta di un avviamento alla libertà, che crea lo spazio per sperimentare se stessi, per svilupparsi nella direzione che si considera più affascinante, ma anche una pratica in grado di eliminare la straripante arbitrarietà del comportamento, per dare alla libertà forme sostenibili nella vita. L’educazione è un’esortazione all’autonomia e nello stesso tempo un ritirarsi graduale che lascia progressivamente il lavoro ancora da compiere nelle mani di chi deve crescere. Chi educa deve fare innanzitutto proposte che, poi, vengono man mano ritirate – anche al prezzo di non dover trovare giusto quello che chi sta crescendo pensa e fa. L’unica cosa importante, infatti, è ciò che chi deve crescere trova giusto in virtù del suo intuito, della sua esperienza e della riflessione, “secondo scienza e coscienza” – e ciò che vive concretamente, perché chi deve crescere accetta come criterio del suo comportamento non i proclami inutili, ma solo l’esemplificazione di ciò che appare giusto. Tutto il “resto” deve essere lasciato all’esperienza: l’esperienza educa come nient’altro. Viceversa, chi educa non ha solo il compito di educare gli altri, ma anche quello di farsi educare. La dinamica educativa, infatti, deve essere reciproca: chi cresce deve imparare da chi lo educa, ma anche quest’ultimo deve imparare dall’arte di vivere dei bambini. In questo modo non solo si cresce, ma torna anche a

essere possibile imparare a vivere la vita e il mondo: questa possibilità è uno degli aspetti che rende così bello passare del tempo insieme ai bambini ed è una delle migliori ricompense per le grandi fatiche e le rinunce che comporta il lavoro educativo. Come ogni arte di vivere, anche quella dei bambini ha a che fare con una capacità. Ogni capacità non ancora visibile in tutta la sua chiarezza procura un’esperienza della propria forza ed è condizione per la nascita di quella che abbiamo chiamato fortezza, mai dell’avvilimento. Ogni gioco diventa esercizio per acquisire una capacità a vivere; per questo ai bambini piace così tanto giocare. Sappiamo che quando si parla di capacità si devono tenere presente i tre livelli di possibilità, realtà e abilità: si devono innanzitutto dischiudere le possibilità, saperle poi tradurre in realtà, e imparare a farlo con la massima abilità. Ciascuno di questi livelli deve poi essere legato a un esercizio infinito e a un impegno inesauribile. L’esercizio per acquisire la capacità comincia nelle piccole cose. Un esempio in questo senso è il tentativo dei neonati di alzare la testa e mantenerla alta, o il modo in cui catturano le cose con lo sguardo trattenendole di fronte ai loro occhi per un certo tempo, o il modo in cui prendono qualcosa in maniera sempre più mirata o, ancora, il modo in cui recepiscono i rumori e i suoni producibili con la voce, arrivando a formarsi una prima forma di linguaggio che, nel corso del tempo, li porterà a parlare. Altro esempio è il modo in cui i bambini imparano a camminare. Gattonano, imparano a sedersi e ad alzarsi in piedi, fino a muovere estaticamente i primi passi: l’entusiasmo che prorompe, gli occhi lucenti per questa prima vittoria sulla forza di gravità producono il sentimento sublime di essere forti, di una forza che è sempre legata alla capacità. Quello che all’inizio accade con consapevolezza ma senza autoriflessione diviene, nel tempo, un procedimento sempre più ponderato, che ricomincia daccapo migliaia di volte. È necessario imparare a fare molte

cose: giocare, andare sull’altalena, andare in bicicletta, nuotare, scrivere, far di conto, farsi degli amici, litigare, fare la pace, cantare, ballare… Tutto il catalogo delle attività che i bambini devono apprendere è già stato compilato (Donata Elschenbroich, Weltwissen der Siebenjährigen, 2001), prova irrefutabile del fatto che i tempi in cui tutto questo poteva risultare ovvio sono ormai trascorsi. La capacità di vivere nel suo complesso è sostanzialmente costituita da capacità singole. Ogni capacità singola deve solo essere appresa ed esercitata; come, per esempio, nel caso del ridere: è estasiante vedere con quale serietà si tenta di raggiungere questo “obiettivo” il più presto possibile; e la rapidità con cui viene appreso questo modo di stare al mondo è prova della sua importanza. All’inizio non si tratta altro che di un riflesso, di una contrazione dei muscoli che regolano la postura degli angoli della bocca. Il piccolo impara velocemente quale sia l’effetto di questa contrazione sul viso dei genitori, e si mette pure a imitare tutto quello che nella loro mimica può essere riconosciuto come frutto del lavoro di quei muscoli. In questo modo il riso balena dapprima in situazioni particolari, per divenire in seguito sempre disponibile. Già il bambino in fasce si appropria ben presto delle diverse varianti del sorriso, fino a riuscire a sorridere in maniera perfettamente volontaria sfoggiando il più grande entusiasmo. In questo modo il riso comincia a essere importante per la vita – mentre nel piangere il bambino è uno specialista per natura. Nella capacità di dare importanza sia al riso che al pianto risiede la serenità dell’arte di vivere del bambino. La serenità, infatti, può essere espressa da entrambi questi atteggiamenti, allo stesso modo in cui quell’atteggiamento filosofico che è in grado di riconoscere il significato del riso e del pianto lascia che entrambi si manifestino rendendo conto della polarità della vita. La felicità infantile può quindi essere vista come superiore a tutte le altre forme, perché, ben oltre la fortuna, o il benessere, si tratta di

una felicità molto più ampia, la felicità della pienezza, che sa integrare in sé elementi contrari e le contraddizioni che ne derivano: essere felici e infelici, gioia irrefrenabile e tristezza mortale, atteggiamento desto e trasognato. Una felicità, dunque, che sembra andare persa nella crescita e che solo a fatica può essere raggiunta di nuovo. Un ruolo importante nel passaggio alla cura di sé deriva dall’apprendimento da parte del bambino delle capacità in rapporto alle cose quotidiane. Solo in parte i bambini accedono alla quotidianità guidati da un interesse autonomo. Vi sono introdotti, infatti, anche da chi non vuole lasciare che le affrontino da soli. Si tratta, infatti, di un insieme di aspetti che condizionano la vita triviale di tutti i giorni, difficilmente trascurabili: andare a fare la spesa, preparare da mangiare, apparecchiare la tavola, ricevere gli ospiti, fare i piatti, lavare, stirare, piegare i panni, mettere a posto i cassetti, rammendare, fare il letto e molte altre cose. In ogni caso singolo si tratta di capacità manuali e tecniche ed è importante che si mostri loro “come si fa”, quale tipo di abilità sia necessaria, quali siano i trucchi e a cosa bisogna prestare particolare attenzione. La capacità di far fronte alle piccole cose, che appare così banale, rappresenta la base per l’appropriazione della vita: sostiene la vita anche quando le cose più promettenti diventano difficili, e impedisce che le onde di una quotidianità di cui non si è padroni possano, prima o poi, abbattersi sul sé. I bambini lavorano variamente alle connessioni che rendono possibile la loro vita. Cominciano a rifletterci molto presto, arrivando a capire che la vita ha bisogno di un suo spazio. Già dal primo giorno iniziano a prendere abitudini e ad amare la regolarità di un’azione compiuta sempre nello stesso modo, un rituale affidabile che rende più facile tirare avanti e che, anzi, rende possibile vivere. Attraverso una serie di mediazioni e con il loro proprio ritmo, ma soprattutto attraverso la ripetizione infinita di un medesimo gesto, i

bambini esercitano le loro abitudini e le fanno proprie. La vita alla quale ci si è abituati procede in maniera automatica. Così, è possibile conservare le forze per affrontare ciò a cui non ci si è ancora abituati e che sembra fuori dall’ordinario. Data la loro presenza costante e affidabile, le abitudini procurano un sentimento di fiducia e di protezione. L’estraneità che nella vita deve ampiamente essere messa in conto e le ansie che si collegano al suo apparire possono essere affrontate molto meglio quando si è in possesso di questa forma di sostegno. Il compito dell’educazione è semplicemente quello di non rendere eccessiva la dipendenza da questo tipo di consolidamento della vita, per evitare che l’interruzione di una serie di abitudini comporti la frantumazione della vita intera. I bambini possono perdere e controllare le loro abitudini con molta più facilità degli adulti, riuscendo peraltro a crearne tranquillamente di nuove. Ma senza abitudini non possono vivere nemmeno loro. Per l’arte di vivere dei bambini è significativa la sicurezza con la quale scoprono le cose di cui hanno bisogno per la loro esistenza e soprattutto la loro attenzione: capiscono il modo in cui nasce un bisogno determinato, ma si intristiscono se questo non viene soddisfatto. Per stimolare la loro attenzione e l’attenzione nei confronti di se stessi è necessaria l’attenzione degli adulti, che si esercita in parole, sguardi, gesti, ascolto, e nel loro modo di rivolgersi, cioè nel modo in cui tentano di attrarre a sé i bambini. All’occorrenza funziona anche l’”iperattività”, che ha il duplice vantaggio di costringere all’attenzione e di produrre un criterio relativo al movimento di cui il corpo dei bambini ha bisogno: il corpo avanza un diritto a divenire oggetto d’attenzione ancora prima che questa diventi una facoltà puramente spirituale. Questo fenomeno può essere spiegato ricorrendo alla neurologia: il movimento fisico stimola la formazione di sinapsi, che poi vengono sfruttate dalla concentrazione spirituale. Voler curare con i farmaci un deficit di

attenzione e la connessa iperattività, anziché dare attenzione e stimoli al movimento, sarebbe poco sensato. I bambini rischiano di essere stritolati tra i due fronti di una nuova lotta per l’attenzione: le troppe possibilità di distrazione la riducono, la mediatizzazione e la motorizzazione paralizzano l’immenso bisogno di muoversi. La mancanza di attenzione da parte degli altri si riflette nella carente attenzione nei confronti di se stessi che, a sua volta, acuisce ulteriormente il bisogno di attenzione da parte degli altri. Ma non bisogna consumarsi nel tentativo di offrire attenzione costante, anche perché nessuno dispone di risorse illimitate, nemmeno chi deve educare, le cui energie possono venir sottoposte a pretese eccessive. Rigenerare l’attenzione è indispensabile e bisogna farlo rivolgendola verso se stessi, in maniera tale da alimentare quella reciprocità che devono apprendere ed esercitare anche i bambini: regalare attenzioni, ma anche riceverne in dono. L’arte di vivere dei bambini si fonda forse già nella paura. I bambini, infatti, la conoscono bene: paura della solitudine, di spiriti e fantasmi, di tuoni e fulmini, tutte paure conosciutissime fin dall’antichità, completate da quelle tipiche dell’epoca moderna. Proprio a causa della paura i bambini si mettono alla ricerca del contatto, che intendono come forma di attenzione e di consolazione. Lo ricercano quando ne hanno bisogno e lo rifuggono quando per loro diventa eccessivo. Come per l’attenzione, il prezzo della rinuncia al contatto è l’inaridirsi e l’avvizzire del corpo e dell’anima. Fin dalla nascita il contatto è talmente importante che il lattante diventa sempre più attivo e sveglio proprio grazie al contatto fisico, aumentando di peso molto rapidamente. Negli “orfanotrofi” americani, all’inizio del XX secolo, si è capito, in seguito a brutte esperienze, che la mancanza di contatto, inizialmente diffusa per motivi igienici (ma anche per una strutturale avversità alla dimensione fisica dell’essere umano), poteva essere letale per i più piccoli. Non solo per motivi psichici ma anche, come si scoprì verso la

fine del secolo, per fattori somatici. Il contatto, le carezze e le coccole rappresentano un complemento alla complessa costruzione delle catene biochimiche del sistema immunitario. Dietro la magia del contatto, nota in tutta la storia della cultura e ancora viva, ci sono motivi psichici e somatici che si manifestano quando, per esempio, si posa la propria mano su qualcuno, ma anche quando si “soffia” su una piccola ferita, gesto richiesto tanto spesso dai bambini. Dai bambini, quindi, gli adulti possono imparare a dare una maggiore importanza al contatto. I bambini cercano di acquisire autonomamente anche una capacità sociale, che si estende dalle relazioni familiari all’interno delle quali si trovano a nascere a quelle con gli altri, e innanzitutto ai rapporti di amicizia con i loro coetanei. Ben presto può nascere un vero e proprio pathos dell’amicizia, che influenza tutta l’infanzia. Nell’amicizia si impara ad avere confidenza e a interagire con gli altri, per il proprio interesse e in conseguenza di una libera scelta, con ripercussioni sul rapporto con se stessi, anche perché nel rapporto con gli altri il piccolo sé diviene capace di stringere amicizia con se stesso. Nello stesso tempo l’amicizia limita il naturale amore di sé, e fa in modo che non si riduca a narcisismo. Tutti questi affetti e aspetti portano a manifestazione lo spettro complessivo del sé dato, così come di quello possibile. Con un amico si può parlare di molte cose e si possono condividere esperienze tanto belle quanto brutte. L’amico si sottrae anche al sospetto di essere un educatore: tanto più che gli amici si educano a vicenda, correggendo in maniera rilevante l’operato degli adulti. Ovvia pare anche la polarizzazione che talvolta risulta necessaria e che produce sempre di nuovo quel campo di tensione che rende possibile la loro vita: ogni dissoluzione della simbiosi rinvia nuovamente a se stessi. Quanto i bambini siano creativi risulta evidente anche da un punto di vista ermeneutico: la loro capacità di comprendere e di interpretare rende

loro possibile la produzione di tutto un mondo di significati, in cui riescono a sentirsi a casa. Questa è la ragione del loro entusiasmo per le storie, che vengono lette loro e che poi iniziano a leggere da soli, che vedono nei film e che magari riescono anche a inventarsi. Le storie offrono loro un materiale ermeneutico, e da queste si può evincere molto di ciò che muove il pensiero e i sentimenti dei bambini. Nelle storie tutto trova il suo senso e il suo significato e attraverso le storie è possibile legare i fili delle diverse connessioni, è possibile cioè connettere tutto con tutto, quasi si trattasse di un gioco. In questa maniera, infatti, è possibile istituire connessioni di senso esemplari, interpretare un evento ed esercitare, su questa base, il lavoro proprio dell’ermeneutica. La fantasia dei bambini è in grado di creare anche tutte le connessioni pensabili, che vengono poi sviluppate come un gioco e, in questo modo, anche testate nella loro sostenibilità. Dal punto di vista neurobiologico tutto ciò aumenta le capacità delle sinapsi, mentre dal punto di vista artistico questa capacità creativa contribuisce sostanzialmente ad aumentare il senso delle possibilità e a realizzare un potenziamento concreto della vita. Il compito di chi deve educare i bambini consiste semplicemente nel rendere disponibile il materiale per possibilità ermeneutiche sempre più vaste e nel contrastare una possibile chiusura del bambino nel suo mondo ermeneutico, dal quale non si è ancora liberato del tutto. A questo serve capire quale sia il significato di certe storie per i bambini, anche allo scopo di mantenere aperto il loro mondo e prender parte alla formazione della sua ricchezza. Il lavoro ermeneutico coincide con la ricerca di una risposta alle domande sul senso, che anche i bambini sono in grado di porre, prima di relegarle sullo sfondo man mano che si verifica il processo di maturazione. Anche i bambini si chiedono come tutte le cose siano connesse tra loro, in piccolo e in grande; fanno domande che spaziano dalla quotidianità alla metafisica per trovare

risposte plausibili, la cui funzione sarebbe quella di mettere di fronte ai loro occhi spiegazioni in grado di trovare conferma nel mondo stesso. In questo senso anche i bambini sono capaci di filosofare o di astenersene, riflettono, fanno domande in continuazione, argomentano e ascoltano argomenti, cambiano punto di vista: che cos’è questo, come funziona? Perché è così e non altrimenti? Che succede se… I bambini vogliono sapere da dove vengono, come nasce un bambino, come sono nati loro, come hanno imparato a camminare e a parlare, quali sono state le loro prime parole o frasi. E come questo mondo è diventato il mondo? Come è nato? Quanto è grande? Che cosa c’è alla sua fine e che cosa viene dopo? E infine si fanno domande sulla morte: perché gli uomini muoiono? Dove si trova il nonno, ora che è morto? I bambini parlano volentieri e liberamente della morte su cui pongono tantissime domande, anche se non è necessario trovare una risposta ultima; l’importante è che vengano poste e discusse – già solo per mettere in chiaro che c’è un enigma nella vita e che questo vale anche per gli adulti. Comprendere la morte come quel limite che può essere sempre al di là del limite è decisivo per la vita. Nel sapere della morte diviene chiara l’essenza della vita e ogni volta che il problema della morte viene spostato e coperto, anche la vita viene persa di vista. Un’operazione ermeneutica tipica dei bambini consiste nel trovare il bello, ciò per cui vale la pena vivere e in cui risiede il senso della vita: il bello, come ciò che è degno di approvazione, deve essere trovato nelle cose piccole come in quelle grandi, per esempio nelle amicizie, nel gioco, in qualcosa di particolarmente gradito; il piatto preferito, il giocattolo preferito, il luogo preferito, un certo rituale, il rapporto con qualcuno in particolare. Il processo può essere forzato con la domanda sul bello, che chi li educa può rivolgere ai bambini, i quali a loro volta possono porre la stessa domanda: «Cosa è bello per te?». E la rappresentazione del bello può essere

condizionata anche da tutto ciò che i bambini trovano nel mondo degli esseri umani, in maniera tale da potersi mettere in condizione di formulare e sostenere le loro valutazioni. I bambini fanno tutto quello che è necessario per inscrivere il bello nella loro vita, anche in condizioni difficili. Nel corso del tempo diventano sicuri del fatto che non tutto nella loro vita può essere bello solo “soggettivamente” e cominciano a familiarizzare con la polarità della vita.

Crescere: la fatica di “trovare se stessi” nella modernità I bambini vorrebbero fare tutto nello stesso momento. Nessun problema, non devono far altro che scindersi. Un gioco da ragazzi: gli occhi fissi sul televisore, impegnatissimi. La lingua indugia su un gelato, leccato con passione. Il capo, da cui gli occhi sono stati “svitati”, è chino sui compiti di matematica; molto meglio, così gli occhi e la lingua non si intromettono. Le orecchie sono catturate dalla radio. I piedi sono già altrove, al parco giochi, ben felici di poter scappare via, e lasciano il resto del corpo ancora seduto in bagno, perché ha perso le mani per lavarsi proprio mentre era concentratissimo a costruire un complicatissimo Lego. Le sue dita stanno ancora nelle mani dei genitori, che cercano di pulirle, attenti a non svitarle. Ma è la bocca la parte più felice che, senza rispetto per tutte le altre, blatera vivacemente cose senza senso, senza prendersi una minima pausa. «Ma io», dice all’improvviso il bambino, sedotto dalla scissione multiforme di se stesso, «dove mi trovo?». E, infatti, questo è l’unico problema: non si può parlare di un io integrato. Ogni parte va per la sua strada. Questa è l’esperienza dell’infanzia: l’”io” corre, salta e fa capriole. Cammina in continuazione su tutti i piani che formano la base del sé che si formerà in futuro, e li prova tutti. Un affetto, una luna storta, uno scopo, una relazione: ciascuna di queste cose occupa di volta in volta tutto l’io, per

un’ora, un giorno o sei mesi. L’io-polo viene fuori e la sua stabilità coincide con l’estrema instabilità. Solo gradualmente è possibile vedere all’opera l’impulso alla costituzione di un sé integrale, e l’io-polo che pian piano viene fuori diventa capace di organizzarla. L’io, che valorizza il fatto di essere un io, non può fare a meno di tenere insieme tutte le parti, in maniera tale da rendere ragione di tutto l’io, ma non necessariamente di ogni parte nello stesso momento. Questo è il lavoro su se stessi, sulla propria “coerenza”. Non un gioco da ragazzi, ma un processo che comporta decisioni dolorose: a cosa dare la priorità? A tutto questo si lega infatti la capacità dell’autoriflessione, richiesta anche dall’educazione o dall’autoeducazione, dalla critica e dall’autocritica, dal rafforzamento di sé e dall’esperienza. La pedagogia teatrale, con tutti gli esercizi che ne fanno parte, consente di dare vita a un’interessante ascetica, che può aiutare a trovare se stessi e a familiarizzare con i più diversi aspetti di se stesso e a metterli in rapporto tra loro come se fosse un gioco, a presentarli e a vedere quali sono i loro effetti. La domanda sul sé irrompe non appena smette di essere ovvia. Assieme all’iniziale esperienza della molteplicità interiore arriva l’autoriflessione, la volontà di sapere: «Chi sono io?». Sulla via dell’accertamento di sé l’io si sforza di rendere presente ciò che è passato, per ritrovarvisi, e si trova nell’incontro con gli altri che lo rafforzano nel suo essere quello che è. Ma gli altri sono anche coloro i quali premono sull’io affinché faccia esperienza della sua solitudine, che rispondono: «Tu non sei me». In questo modo ci si sente soli con se stessi e con il proprio mondo. L’anima soffre, perché logorata dall’anelito all’unità con se stessa. Questi incontri con gli altri e le esperienze dolorose con se se stessi, le illusioni e le delusioni costituiscono il fascino della vita e gettano nuovamente nella disperazione implicita del problema dell’identità. L’autocomprensione e l’accertamento di sé non sono solo i segnavia di un percorso che ha una destinazione precisa. Il lavoro

sull’integrità del sé non può mai concludersi davvero. La definizione del sé è, piuttosto, la via stessa che attraversa il mondo irritante delle esperienze. Impossibile rispondere a quella domanda con un semplice proclama (“io sono questo”). Ogni sé non potrebbe essere semplicemente il sogno di un altro? Sì, ma solo al prezzo di comprenderlo come una candela, che si scioglie completamente quando il sogno finisce. Il lavoro per una prima ricomposizione del sé avviene nel corso dell’infanzia. Consolidandosi, il sé può dare un appuntamento a se stesso ed essere puntuale. L’affidabilità nasce in questo modo. Compiuto questo lavoro, il sé si frantuma nuovamente e deve nuovamente “ritrovarsi” in un processo difficile. Anche la capacità sociale svanisce come se non fosse mai stata acquisita. Sarà necessario molto tempo per conquistarla di nuovo. I singoli punti, che potranno poi marcare il nucleo del sé, vengono fissati per tentativi e per un certo tempo vengono disposti a protezione di una fortezza inespugnabile. Solo per trovare una qualche certezza e una solidità nel tempo della totale incertezza: da qui deriva l’adorazione di un idolo del pop, l’apprezzamento per la propria casa, il ritirarsi nella propria stanza, la musica ad alto volume, sullo sfondo della quale il sé si sente protetto. Nella pubertà tutto ciò che riguarda il sé e la sua vita diventa oggetto di esperimento, tutto viene messo in questione alle sue fondamenta e tutto quello che prima era dato in maniera semplice e naturale ora può essere ritrovato solo con molta fatica. E può essere trovato solo dal sé, perché il lavoro degli altri ora non serve più a nulla. Da un punto di vista neurobiologico, dopo la fase di crescita nei primi anni, tutto questo rappresenta il secondo grande momento di sviluppo del cervello, che si estende sostanzialmente nel secondo decennio di vita e si sviluppa per molto tempo: si forma una grande quantità di sinapsi che danno forma a quella che tanto i romantici quanto i neurobiologi hanno chiamato l’”esuberanza” giovanile; un “cumulo di possibilità” – delle quali

restano solo quelle che hanno una qualche utilità – di cui si affinano solo quelle che vengono in qualche modo sfruttate, in corrispondenza delle esperienze che contribuiscono alla formazione del cervello e in particolare alla sua “plasticità”. Difatti la corteccia prefrontale matura con una certa lentezza. Dal punto di vista individuale questa è la regione del cervello che può essere considerata come una delle più giovani, e negli uomini, in confronto alle altre specie animali, si è evoluta in maniera più marcata. Per tutto il corso del suo sviluppo, la capacità di giudizio posta in questa zona del cervello non è formata. Gli impulsi colpiscono il centro dei sentimenti, cioè l’amigdala non ancora riequilibrata dal comportamento. Questa è la ragione della spontaneità dei bambini o della mancanza di pudore della giovinezza (sui primi risultati della ricerca su temi di questo genere cfr. Barbara Strauch, Capire un adolescente: come cambia il cervello dei ragazzi tra i tredici e i diciotto anni, 2004). In ogni cultura, e a maggior ragione in quella moderna, il passaggio all’età adulta avviene con una violenza inaudita e nel corso di un certo tempo: quanto più progredita è l’età moderna, tanto più lenta sembra essere la conclusione di questo processo. Si può allora formare uno spazio in cui avviene il passaggio all’età adulta, non più caratterizzato da rituali iniziatici puntuali, ma da un lungo rituale della liberazione: la pubertà è il dramma della liberazione, ma anche la tragedia dell’esperienza del nulla, che segue la liberazione e nella quale la vita è impossibile. Nell’adolescenza avviene, quindi, la modernizzazione del bambino: viene messo in scena tutto il programma della libertà negativa rispetto a ogni vincolo, come rifiuto e negazione di tutto e tutti. Continuare ad attenersi ostinatamente a forme determinate o fissare i suoi limiti non fa che aumentare il furore che accompagna la liberazione. La pubertà lancia gli adulti nella modernità e si mostra al contempo come sua forza propulsiva, tanto che nella storia stessa le

spinte modernizzatrici sono sempre debitrici nei confronti di movimenti giovanili. Forse la stessa modernità non è altro che una pubertà collettiva, che non ne vuole sapere nulla né delle infantili forme non moderne né di diventare adulta. Con il passaggio alla libertà negativa della liberazione scompare anche l’arte di vivere dei bambini: tramonta nella riflessione pienamente desta, nell’autoriflessione e nella pretesa di una spiegazione per qualunque cosa. È proprio questa pericolosa curiosità, insita nella stessa volontà di sapere, che caratterizza il bambino ma è anche, tragicamente, ciò che mina le sue fondamenta. In questo senso, l’arte di vivere del bambino non va mai persa del tutto. Rimane nella memoria per tutto il resto della vita e si ripropone in maniera selettiva. Non solo il soggetto artistico, ma anche il soggetto della condotta di vita consapevole sono in grado di ricordare come si affrontava da bambini e, nel farlo, entrambi ne ripropongono elementi accuratamente selezionati e filtrati da una consapevolezza di tipo nuovo, oltre che dall’esercizio ascetico, magari sostenuto da tecniche terapeutiche, per le quali una simile operazione può essere più importante della scoperta di presunti traumi. È possibile menzionare alcuni tratti della cultura moderna che rendono possibile una catalogazione dei problemi dell’infanzia e dell’adolescenza: concezione del tempo, concetto della libertà, comprensione della felicità. L’arte di vivere dei bambini è condizionata da una cultura premoderna dello spazio, che conosce sicuramente una forma di tempo – il quale è, tuttavia, ciclico e non ha nulla a che fare con secondi o ore. Il tempo dei bambini è il ritorno assicurato di stagioni, di compleanni, delle vacanze, di rituali come la Pasqua o il Natale: ecco lo spazio all’interno del quale essi dispongono la loro vita. Questa si svolge, infatti, in un mondo ciclico, e solo con la pubertà il mondo cambia e cade nel tempo. La modernità può essere compresa come una cultura del tempo, e in particolare del tempo lineare e progressivo, dove

conta ogni secondo. Un problema strutturale del rapporto dell’uomo moderno con i bambini sta proprio qui: i due mondi entrano in conflitto laddove entra in gioco la concezione del tempo, per esempio nel “bighellonare” tipico di un ragazzo. Per evitare che i bambini siano eccessivamente di ostacolo allo stile di vita economico e accelerato, e anche alla collisione tra i due mondi con rapide tecniche moderne – come per esempio l’automobile – vengono creati spazi extraterritoriali in cui i bambini possono vivere la loro concezione premoderna del tempo: parchi-giochi, asili, doposcuola. Un numero sempre crescente di uomini moderni rinuncia ad avere dei figli proprio per sfuggire alla collisione fra i due mondi. Soluzioni alternative vengono offerte dalla cultura spazio-temporale di una modernità diversa, che accanto alla concezione del tempo lineare tenta di lasciar sopravvivere anche quella ciclica. Un aiuto in tal senso è offerto dalla consapevolezza di questa problematica, che permette di conoscerla sempre meglio e anche di evitare uno scetticismo inutile. In epoca moderna i bambini e i ragazzi crescono con una libertà della quale devono trovare le forme. Molto spesso sono loro stessi a dover scegliere quella per la quale sono meglio preparati, mentre molti adulti ancora non lo sono. C’è bisogno di avvicinarsi gradualmente al tempo della scelta. È quindi necessaria una formazione e un esercizio della capacità corrispondente alla forma che si sceglie, un rafforzamento della sensibilità per poter percepire quando e dove una certa scelta può essere effettuata e come si può procedere per farlo nel migliore dei modi: rendersi consapevoli delle possibili alternative, informarsi, ponderare, riflettere sulle eventuali conseguenze, e rappresentarsele nei pensieri. Le esperienze implicite in una scelta devono poi essere prese nuovamente sul serio e inserite in un percorso riflessivo, che consente di trarre delle conclusioni e strutturare il proprio intuito, che nel corso del tempo rende possibile ulteriori scelte effettuate anche senza esserne

sempre perfettamente consapevoli, ma sempre con relativa sicurezza. C’è almeno un punto forte dell’arte di vivere dei bambini che dovrebbe essere salvaguardato e che è importante in molte situazioni: la capacità di accettare, di non fare o di lasciare che qualcosa accada. Come abbiamo visto, la formazione della vita non deve essere solo un fare attivo, ma anche un non fare passivo, di cui i bambini sono maestri. Questa caratteristica della loro arte di vivere li mette in condizione di accettare una situazione così come essa viene loro presentata e tentare di volgerla a loro proprio vantaggio; qualità premoderna, che l’essere umano dovrebbe apprendere di nuovo e che gli sarebbe davvero utile. Tutti i problemi nascono dal fatto che i bambini e i ragazzi dell’epoca moderna crescono in un’epoca in cui domina la caccia alla felicità e nella quale la felicità come benessere rappresenta l’unica forma pensabile, associata il più delle volte a uno stato di piacere persistente, pieno e privo di dolore, a un divertimento incessante che riguarda un’unica serie di eventi. Non si vuole rubare il divertimento a nessuno: il godimento dei piaceri è una parte fondamentale dell’arte di vivere e lo è al punto che le due cose potrebbero addirittura coincidere o essere scambiate l’una con l’altra. Problematico è soltanto il fatto che il proposito tipico della modernità – massimizzare i piaceri – potrebbe essere controproducente proprio per il piacere stesso, anche perché i giovani ormai ne fanno esperienza senza sapere come. La capacità di rapportarsi ai piaceri in maniera misurata, pur con qualche eccesso occasionale, non trova spazio nella cultura moderna. E in questo modo i giovani cominciano a imbattersi in limitazioni incomprensibili, che fanno loro credere che la giusta misura sia conseguenza della morale, ma anche che la morale sia qualcosa che appartiene agli adulti. La giusta misura è, come sappiamo, un tema tipico dell’arte di vivere, e ha a che fare con il proposito di non consumare completamente tutto il piacere per non dover

fare, poi, i conti con la sua totale assenza. Il fatto che oltre ai piaceri si debba attribuire importanza anche ai dolori, e il fatto che questa coppia di opposti indichi una polarità fondamentale della vita, non è una concezione che i giovani possono acquisire in età moderna. In questo senso vengono lasciati soli con le sfide della modernità.

Perché i giovani cercano paradisi artificiali Dover fare i conti con la vita, con se stessi e con gli altri senza essere capaci di farlo, non solo in un momento, ma nel lungo periodo. Non poter chiedere aiuto ad autorità di nessun tipo perché bisogna liberarsi da tutto, e quindi rifiutarla ogni volta che si fa avanti. Non desiderare nient’altro che una carezza piena di amore e nello stesso tempo rifuggirla. Questa è la condizione di scissione tipica dei giovani moderni, il tempo della disperazione di molti genitori che non “raggiungono più i loro figli” e che non sanno servirsi nemmeno di un gesto indiretto per approssimarsi a loro. Proprio il momento di frattura scandito dall’autodeterminazione diventa nella maggior parte dei casi quello della determinazione esteriore. Determinati da datità culturali, poiché tutti devono seguire le norme della cultura moderna, che nessuno sceglie autonomamente e le cui prescrizioni non vengono mai percepite come tali. Determinati da datità fisiologiche, che rendono necessaria un’interazione ormonale ormai diventata selvaggia, un “su e giù” del cervello o una “lucidità” estrema, che certo non può essere sopportata per troppo tempo rivestendo i propri nervi di mielina. Il fatto che in quest’epoca nasca un immenso egocentrismo non è tanto causato dal sopravanzare dell’egoismo, ma dalla necessità di fare fronte a tutto quello che accade nel sé a prescindere dal suo volere e dal punto di vista fisico, ormonale, sessuale, ma anche da quello psichico e spirituale. Ci si vede rimessi alle pretese degli altri e nello stesso tempo di fronte alla fluttuazione e alla complessità di un mondo dove i giovani non riescono a

trovare il loro posto. Cominciano a ribollire sentimenti contrastanti, le voci interiori urlano l’una contro l’altra; impossibile fare ordine in questo caos, non solo dentro di sé, ma anche fuori. E, poi, con quale criterio? In parallelo al disordine esteriore, infatti, si manifesta un’infinità interiore, di cui da una parte bisogna rallegrarsi, ma che, dall’altra, è pericolosa. Questo è il momento in cui gli adolescenti cominciano a vivere in un mondo che è frutto dei loro sogni. Per quanto la ricerca di mondi della possibilità – che si trovano oltre quello effettivamente percepibile – sia un fenomeno strutturale della vita umana, è anche vero che i giovani se ne servono in misura molto maggiore rispetto a quelli di altri tempi: il movimento giovanile del romanticismo ne ha fatto una sua caratteristica già all’inizio della modernità. La ricerca di paradisi artificiali si caratterizza per la sua extratemporalità, ma anche per il forte legame con situazioni e tempi determinati. Particolarmente marcate sono poi le basi ontologiche. Queste hanno a che fare con il modo di essere dell’uomo che, come ogni essere vivente, “viene al mondo” da un altro mondo o da un altro modo di essere, da quello della possibilità al confronto con la realtà che diventa ora la sua forma più propria. A partire dalla piena indeterminatezza, l’adolescente percorre una via incerta, che nel corso del tempo porta certezze sempre maggiori e in particolare la certezza che tutto ciò che accade può essere corretto o rivisto sempre meno. Se è vero che tutti i giovani vengono dal regno delle possibilità, allora deve anche essere vero che quello della possibilità è lo spazio dell’adolescenza, quello in cui si sentono a casa. Questa loro origine nella libertà della possibilità si afferma in contrapposizione alla necessità della concretezza, che, come i giovani capiscono ben presto, non significa altro che un congedo dal possibile. Per questo motivo considerano buono solo ciò che si addice al loro status ontologico, come per esempio l’esperienza dell’amore, che procura loro l’impressione di una possibilità infinita e illimitata. E anche

il bisogno di essere sempre “on line”, altro fenomeno enigmatico, può essere spiegato in questo modo: lo spazio virtuale permette di soggiornare nello spazio affascinante delle possibilità, al quale non è possibile contrapporre alcuna forma di realtà. Purezza, assolutezza, infinità: si può fare esperienza di ideali simili solo nel mondo della possibilità. Con ogni realizzazione comincia la relativizzazione e, quindi, ogni finitezza, non necessariamente per via di un complotto, perché ogni possibilità realizzata è relativa e finita in confronto alla pienezza delle possibilità potenziali. Ogni realizzazione individuale, inoltre, si incontra e si scontra con altre. E, a maggior ragione, l’inerzia del quotidiano si contrappone alla realizzazione del possibile. Ma nessuna spiegazione può mutare l’amarezza che deriva da questa esperienza di ogni singolo individuo e della società intera. Peraltro, questo è l’incubo di ogni rivoluzione. Contro l’esperienza della limitatezza e della finitezza, sempre più forti nel corso della vita e sempre più presenti alla coscienza, i giovani pongono l’esperienza dell’oltre: quella dell’utopia, della trascendenza, dell’oltrepassamento grazie a qualunque forma di paradiso artificiale o di mondo fantasticato. Se il mondo perduto della possibilità è il luogo da cui provengono, la loro origine passata, il paradiso artificiale non può che rappresentare il loro futuro, il loro approdo12. A ragione: disporre di possibilità, infatti, è il presupposto di ogni vivere. A favore dell’intimità dei giovani con i paradisi artificiali parla anche l’arte di vivere. Come arte nel senso della capacità, anche l’arte di vivere reclama innanzitutto le possibilità e rivendica la ricerca di mondi fantasticati, tentando di dischiudere proprio uno spazio simile. Per questo è importante imparare a sognare e forse anche forzare i sogni, proprio come facevano i surrealisti. Ma anche il mondo della letteratura, della musica, dei film permette di sognare. E gli esercizi possibili che si possono praticare in questo senso mirano a liberare la propria fantasia e la propria creatività:

vedere storie, leggerle e raccontarle, creare immagini e immagini dei propri sogni, appropriarsi delle tecniche surrealiste o dadaiste, nelle quali rientra anche il mero “almanaccare” senza senso. Oltre a questi esercizi artificiali si trovano ancora altre possibilità in sensi diversi, e forse proprio quando un essere umano ha imparato a sognare in maniera diversa può dedicarsi al “materiale di cui sono fatti i sogni”: le droghe aprono lo spazio della possibilità e rappresentano una fuga da una realtà troppo angusta. Il fatto che precludano altre possibilità non viene preso in considerazione per molto, troppo tempo. Parallelamente al sentimento di onnipotenza, che coincide con quello di essere padroni di tutte le possibilità, le droghe rafforzano fatalmente il senso di impotenza nei confronti di una realtà o di capacità difettose: potenzialmente si può fare tutto, ma in realtà non si può fare nulla, e soprattutto nulla di eccellente. Un aspetto particolarmente frustrante, questo, perché una simile dolorosa discrepanza rinvia alla differenza dei piani della capacità. E qui in questione è la capacità stessa di vivere, ossia quella che permette di passare dalla possibilità alla realtà. Infine, la ricerca moderna di paradisi artificiali rimette in campo questioni che hanno a che fare con il tempo, che è la base della modernità. Perché la vita che trae origine dalla liberazione moderna, priva di connessioni e frammentata, viene esperita come vita nel nulla e rende la ricerca di mondi fantasticati con mezzi artistici e artificiali una ricerca del senso, un tentativo disperato di ordire, proprio nel senso letterale di questa parola, quindi di creare reti, nel tessuto delle quali la vita può essere resa nuovamente possibile. La fantasia mette in scena tutte le combinazioni pensabili che “fanno senso” e l’esperienza procurata dalla “rete” elettronica, cioè il fatto che tutto abbia una connessione, è una base per l’esperienza del senso tipica di molti giovani che vivono nello spazio virtuale. Per quanto l’esperienza del senso possa essere sconvolgente, basta un alito di vento per spazzare via dalla

realtà questi fantasmi. E lo stesso avviene anche con i paradisi artificiali nati dalla ricerca della felicità propria della modernità che tentano di realizzare quella massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore che dal punto di vista neurobiologico non è altro che una questione di serotonina e di dopamina. A tal fine vengono proposti molti strumenti, anche piacevoli: sesso, dolci, caffeina, nicotina, cocaina, alcol e anche la possibilità di pestare oltremodo il piede sull’acceleratore. Non che tutto questo sia in sé necessariamente riprovevole. Quello che tuttavia è problematico è proprio il fatto che l’uso di questi strumenti riesca ad assicurare una “vita vera”. Per quanto il tipo di felicità in questione sia soltanto puntuale e situativa, non lo è la sua limitatezza e nemmeno il suo concetto, resi insufficienti piuttosto dalla sua inadeguatezza alla realtà. Così, quando i piaceri che derivano da tale felicità si esauriscono, bisogna incrementare l’applicazione, rincarare la dose: si varca quindi la soglia del vizio e la massimizzazione del piacere finisce nella massimizzazione del dolore tipica della più grande infelicità. Sarebbe importante una preliminare spiegazione e chiarificazione di queste connessioni, allo scopo di comprendere meglio la vita e condurla nella maniera più appropriata. Bisognerebbe impegnarsi, se necessario anche assieme ad altri, a modificare queste penose strutture fondamentali del moderno. Se l’arte di vivere mantiene questo significato, si pone la domanda di come sia possibile apprenderla. Sulla via per imparare a vivere potrebbe essere d’aiuto una scuola, e non solo per i giovani: nella formazione inferiore, in quella superiore, in quella artistica e in quella per adulti è importante creare un forum sui temi della vita e dare la possibilità ai giovani, così come agli adulti, di esporre le connessioni che definiscono la loro vita, di trovare l’atteggiamento verso la vita che più si addice loro e di imparare l’arte del rapporto con se stessi e con gli altri. Come sarebbe questa scuola dell’arte di vivere? Al momento è possibile definire i seguenti punti.

Scuola dell’arte di vivere 1. La scuola dell’arte di vivere prepara al momento della scelta, tanto decisiva per i tempi moderni, insegnando la sensibilità e, con essa, formando l’intuito. In questo modo si creano le basi per la saggezza sui tre piani che la caratterizzano: quello della sensibilità sensibile, che permette di cogliere con i sensi i dati e le situazioni che di volta in volta si presentano; questa sensibilità può essere esercitata interagendo attentamente con sé e con gli altri, con arte e natura, al fine di percepire intensamente e in maniera quanto più possibile differenziata anche le piccolezze più sfuggenti e mutevoli, dalla conoscenza delle quali dipende la scelta che può essere effettuata anche sul piano sensibile. Segue il piano della sensibilità strutturale, che si basa su conoscenze teoretiche e su un sapere delle strutture. L’obiettivo di questa forma di sapere è quello di cogliere le connessioni subliminali, come ad esempio le strutture di potere che si trovano al di sotto della soglia della percezione sensibile e che incidono sulla produzione di certi fenomeni. Una sensibilità strutturale deve innanzitutto aggirare le strutture mediali e proprio per questo motivo non può farsi illudere dall’impressione visuale che deriva dal “punto di vista della fruizione”. Infine, il piano della sensibilità virtuale, che rende conto delle possibilità delle nuove tecnologie, affina il senso per la realtà virtuale e sostiene il fiuto per il movimento nello spazio virtuale. La sensibilità virtuale comprende anche l’attenzione per le possibilità in generale, per quelle che già esistono, così come per quelle che devono essere create dal nulla, con lo scopo di non chiudersi in una realtà dominante, ma per avere sempre di fronte agli occhi tutto lo spettro del possibile. 2. La sensibilità è il presupposto per conquistare un rinnovato interesse per il sapere, e la scuola dell’arte di vivere è senza dubbio un luogo che rende possibile un’appropriazione del sapere. Questo sapere non è fine a se stesso, ma rappresenta uno strumento per raggiungere il fine della formazione e

dell’educazione, ossia per dischiudere e formare il sé e il mondo. Il sapere compreso in questo modo forma e rafforza la personalità e le sue facoltà in rapporto a se stesse e agli altri; richiede creatività e invita a prendere autonomamente l’iniziativa, a scegliere, ad agire e anche a preoccuparsi di molte altre cose. Nella scuola dell’arte di vivere ci sono “saperi specialistici” come in tutte le altre scuole. Solo che qui vengono disposti in maniera diversa: non sapere per il sapere, ma sapere per saper vivere, ossia per rendere possibile uno sguardo profondo nelle strutture fondamentali della vita e del mondo, per acquisire una consapevolezza delle proprie radici storiche e della struttura sociale del presente. Pare importante coltivare l’amore per il sapere allo stesso modo della possibile distanza nei suoi confronti, cosa che evita che il sé diventi il giocattolo del sapere. In questo caso emerge una capacità di relativizzare il sapere scientifico, che troppo spesso dà l’impressione di coincidere con la verità ultima. La formazione ha bisogno di un sapere teorico ma, soprattutto e ogni volta che è possibile, di un sapere pratico-empirico che insegni a distinguere quale conoscenza possa essere utile e quale no, gettando quei ponti che permettono di tenere insieme la capacità virtuale del sapere e quella reale della vita. Ogni prassi garantisce la formazione di un sapere empirico, che può poi essere compreso al meglio nella riflessione teoretica. Importante è, in questo senso, il metasapere: dove posso trovare un certo sapere quando ne ho bisogno? Il sapere invecchia velocemente. Quello nuovo può essere creato con facilità. Ma è sempre decisivo sapere come e in base a che cosa. È quindi importante tenere libera la testa e decomprimere il pensiero, che non deve ridursi a una banca dati. 3. Un rapporto creativo con sé e con il mondo contribuisce a controllare e padroneggiare se stessi, oltre che a rafforzare gli argini contro i tentativi di autoespropriazione. Questo presuppone tuttavia una capacità creativa che può essere ottenuta nella scuola dell’arte di vivere per mezzo della mediazione

dell’arte: con l’esercizio del disegno, della pittura, della musica, del canto, della danza e del teatro. Analogamente potranno essere scoperte e apprese le possibilità formative della tecnica artistica in senso stretto. La formazione della fantasia e l’esercizio del lavoro artistico liberano potenziali creativi. Questo esercizio rende possibile sviluppare idee a partire da ciò che può essere considerato il loro materiale, che va a sostituirsi all’assunzione passiva di forme date. La triplicità della capacità può essere esperita nell’arte per essere poi trasferita nella vita: l’apertura di possibilità, il lavoro alla loro concretizzazione e infine la realizzazione abile. Il lavoro su un materiale dato dall’esterno è al contempo un lavoro del sé su se stesso e sulla sua propria vita; le esperienze fatte in questo modo rafforzano e ampliano il sé. Non si deve tuttavia apprendere solo la formazione attiva, ma anche il lasciarsi formare passivo. Non si deve solo scegliere attivamente, ma anche farsi scegliere passivamente; dal materiale, dalle idee di un’opera da realizzare, da un colore, da una fascinazione, da un’ispirazione. Si deve attribuire un ruolo particolare allo scritto: in rapporto con questo tessuto esteriore, su cui gli individui hanno lavorato nel corso del tempo, il sé trova la sua propria struttura, e tanto più riesce a giocare e a essere creativo con questo materiale, tanto più impara a farlo su se stesso, a esercitarsi a darsi forma autonomamente – una forma che significa anche autodeterminazione dei propri limiti – per non perdersi nelle infinite possibilità che gli si presentano. 4. Nella scuola dell’arte di vivere, nell’insegnamento dell’arte rientra anche il lavoro sul proprio corpo, e in particolare l’arte del movimento. Nel movimento il sé può esercitare immediatamente l’attenzione su se stesso, avere una coscienza di sé, disporre di se stesso. In questo modo fa un’esperienza elementare di questa sua capacità arrivando addirittura a bearsi della propria corporeità. Non conoscere la forza di questa capacità comporterebbe il rischio di sentirsi rimessi alla propria vita senza poter fare

nulla. Particolarmente importanti sono alcune opzioni per la formazione del corpo, per la conoscenza del proprio corpo e per la prassi da esercitare nei suoi confronti, così come l’educazione motoria e la cura del movimento mediante la pratica del walking, della corsa lenta e veloce, del nuoto, della danza, della ginnastica e, più in generale, dello sport. La pratica di attività sportive è molto importante, soprattutto in un tempo in cui il movimento già nell’infanzia appare sempre meno ovvio, restando tuttavia decisivo per il rapporto con sé e con il mondo, per l’esperienza corporea di se stesso, per la conquista di esperienze psichiche che hanno a che fare con la coordinazione del movimento con gli altri, con la conquista della mobilità spirituale, attraverso la coordinazione di serie complesse di movimenti nello spazio e nel tempo. Ma già lo “sfogarsi”, proprio dello sport e in generale del movimento fisico, crea le basi per la mobilità spirituale, così come, al contrario, ogni tensione spirituale può essere riequilibrata da uno sforzo fisico. 5. Il farsi carico della cura di sé, dal punto di vista fisico, psichico e spirituale, è fondamentale per ogni arte di vivere. Rende infatti possibile una condotta di vita consapevole e si esprime nelle forme di interazione con se stessi che ciascuno sviluppa a partire da sé e con l’aiuto degli stimoli e delle occasioni forniti da altri. In questo modo si rompe l’indifferenza nei confronti di se stessi, che potrebbe essere mantenuta solo al prezzo di una vita non veramente vissuta e dell’amarezza nei confronti di tutti quelli che si presume vivano quella vita che è preclusa al sé. Nella scuola dell’arte di vivere, il processo che mostra come l’attenzione nei confronti di se stessi sia essenzialmente favorita da quella che gli altri ci dedicano, si può approcciare nella reciprocità che lo caratterizza. Il sé viene stimolato e avviato a consultarsi con se stesso, al fine di stabilire autonomamente se è corretto e giusto nei confronti di se stesso, per rafforzarsi e controllarsi e, in generale,

per tutto quanto può essere rubricato sotto il titolo “selfmanagement”, il cui obiettivo ultimo è quello di diventare amici di se stessi. Su questa via si può giungere a una vita ottimale assieme a se stessi e, quindi, anche a evitare per sempre la solitudine. E nello stesso tempo il sé non impara tutto questo esclusivamente per conservare e promuovere se stesso, ma anche con un obiettivo più fortemente sociale, perché nello sviluppo del «potere soggettivo» si rende visibile «il lato oscuro» del processo sociale: già HansJochen Gamm si concentrava su questo passaggio nel suo progetto pedagogico del 1977 dal titolo significativo Umgang mit sich selbst (‘Interagire con se stessi’), soffermandosi in particolare sulla tesi secondo la quale «soltanto una più umana interazione con se stessi può rendere possibile una costruzione dell’umanità su scala sociale». 6. La saggia cura di sé sfocia fondamentalmente in quella per gli altri, anche perché la disposizione di una vita individuale ha sempre bisogno della vita di qualcun altro. Ogni vivere insieme, ogni formazione di una comunità, e da qui anche la formazione della società, in piccolo come in grande, non è sostenuta primariamente da forme giuridiche, ma da forme di interazione con gli altri, alle quali la scuola dell’arte di vivere dedica la sua attenzione. Queste “forme di interazione” sono il rispetto per gli altri, ma anche quello nei confronti di se stessi, la capacità di ascoltare e farsi convincere, l’attenzione agli altri e il riconoscimento delle loro peculiarità, la tolleranza e l’obiettività, l’essere pronti a fare dei favori e ringraziare quando se ne viene beneficiati, la puntualità, il riguardo per le debolezze degli altri, l’essere pronti a garantire per qualcun altro, la capacità di aiutare, il valore civile. Fanno parte della formazione che avviene nell’incontro con altri anche questioni come la cortesia e il modo di litigare. Queste sono le forme più appropriate per apprendere il senso della comunità, cioè per essere “borghese” nel senso stretto e buono del termine. L’esitazione iniziale

nell’affrontare questo tema non è importante; quello che invece è significativo per il sé è “averne sentito parlare”, e questa sua impressione può essere rafforzata attraverso l’esercizio pratico nell’impersonare un certo ruolo. Nel portare avanti la propria vita si arriva poi a farne uso, anche perché ci sono alcune forme che non sono mai disponibili nel momento del bisogno. 7. «Non c’è niente che abbia senso», dice un giovane. «Non dire cazzate», risponde la madre, poco prima che, il 26 aprile 2002, in un liceo di Erfurt, vengano uccisi 16 esseri umani. A volte la mancanza di senso può spingere a uccidere. Perciò è importante insegnare a dare senso alle cose, un’operazione che prima era affidata alla tradizione, alla convenzione e alla religione, ma ora non lo è più. Nella scuola dell’arte di vivere, l’arte dell’ermeneutica che, come accadeva anche nella tradizione, può essere esercitata con l’aiuto dell’interpretazione e della comprensione di testi, viene intesa come elemento fondamentale per la cura di se stessi, e come strumento che garantisce l’abitare in uno spazio ermeneutico, fondamentale per ogni abitare in generale. Con l’aiuto dell’interpretazione si devono produrre le connessioni che danno senso – un senso sensibile, mentale e spirituale – a un testo, a una relazione e infine a tutta una vita. Per questo si può parlare di senso non solo dove se ne fa questione esplicita, ma anche dovunque si possano rintracciare connessioni: all’interno del sé, nell’esteriorità delle relazioni con gli altri, nelle tecnologie strumentali, e in riferimento a molte altre cose. Ogni apprendimento e ogni sapere possono essere fonti di senso, anche perché nell’orizzonte che si forma grazie a loro i singoli dettagli si strutturano come parti di un tutto e i legami fra loro risultano visibili. Anche ammesso che la domanda sul senso debba essere affrontata dal punto di vista neurologico, si può dire che l’ermeneutica permette di incrementare la formazione di sinapsi partendo da una iniziale mancanza di connessioni neuronali. Il senso di questa affermazione risiede nel fatto che l’attività di

comprensione e interpretazione che caratterizza l’ermeneutica rende possibile una migliore circolazione della dopamina, fonte di un sentimento di gioia. La pienezza di senso deve essere intuita nel regno delle possibilità e come scoperta di connessioni. La scuola dell’arte di vivere mira pertanto a mettere nelle mani del sé tutte le potenziali competenze ermeneutiche, che rendono capaci di vedere e formare connessioni, nella cui rete diventa possibile vivere, anche se non tutto nella vita può apparire sensato. 8. Una fonte di senso è la conoscenza del “bello” come ciò che è degno di approvazione. La scuola dell’arte di vivere può indurre a sviluppare un concetto individuale del bello, giacché le diverse possibilità, tanto quelle teoretiche quanto quelle pratiche, vengono fatte oggetto di insegnamento: bello artistico, bello naturale, bello umano, bellezza di un carattere, di una relazione, di un rapporto, di un’esperienza, bellezza sensibile, bellezza di una cosa, di una fantasia, il bello astratto e quello negativo. Il bello non viene definito in maniera normativa, ma viene tenuto aperto in maniera ottativa; è infatti importante trovare alternative per la coniazione del bello attraverso modelli culturali e mediali, così come alternative al pensiero che si basa sulla sola categoria dell’utile. Il fatto che non tutto debba essere necessariamente “bello” porta ad acquisire la capacità di intuirne la giusta misura. Il fatto che un concetto ordinario e irriflesso del bello possa comportare qualche problema, rende evidente il senso di un concetto di riflessione e prepara il passaggio dall’estetica all’etica, dall’”essere degno di approvazione” alla posizione dei valori necessari per orientare i propri atteggiamenti e le proprie relazioni. Risulta altresì evidente che la domanda sul bello non è solo una domanda relativa alla vita individuale, ma può essere proiettata anche nella vita insieme agli altri e in tutti i rapporti sociali. L’imperativo esistenziale dell’arte di vivere, ossia: forma la tua vita in maniera tale da renderla degna di approvazione, diventa impulso critico a giudicare sempre di nuovo tutto

ciò che è, non solo dal punto di vista del singolo individuo, ma anche da quello sociale, e quindi a lavorare a rapporti futuri, che possano essere più degni di approvazione rispetto a quelli attuali. Perché “bello” non è soltanto ciò che ci sta di fronte in questo momento. 9. Infine, il compito effettivo della scuola dell’arte di vivere è quello di insegnare a essere felici. Il fatto che la felicità sia qualcosa che si può imparare – tutti possono farlo – è una convinzione che si trova già nell’Etica nicomachea di Aristotele. Fondamentale è la cura con la quale il sé pone fine all’indifferenza e inizia a impegnarsi a percorrere la sua via verso la felicità, verso l’acquisizione di un’abilità alla perfezione e all’eccellenza. La cura deve essere concretizzata attraverso l’apprendimento teoretico, l’appropriazione del sapere, il guardare attraverso le connessioni, la scomposizione di concetti come quello di “felicità”, evitando di trascurare connessioni delle quali prima non si aveva il minimo presentimento. L’esercizio pratico avviene attraverso la scelta e l’abitudine: la scelta della forma di vita, l’esercizio dell’essere attivi in maniera eccellente, la vita nell’”interdipendenza” con gli altri, il rispetto dei beni materiali, fisici, psichici, e anche la vita “nell’avversità, condotta nel modo più bello possibile”. L’esercizio apre a un atteggiamento pronto a cogliere la fortuna, che si serve del “principio di piacere”, ma che si rivela anche attento alle sue possibilità e ai suoi limiti: da una parte si cercano intenzionalmente i piaceri e il godimento a partire da una formazione della capacità di godere; ma dall’altra si contrasta una riduzione della felicità al mero piacere, anche perché non ci si può aspettare che tutto sia piacevole. Con l’esercizio di questo suo atteggiamento il sé si prepara al fatto che la vita non può essere sempre “leggera”, ma comprende difficoltà che devono essere affrontate, ostacoli, complicazioni, rinunce, conflitti, che devono essere attraversati fino in fondo o sopportati, ma che, per converso, rendono possibile un’esperienza

più ampia della pienezza. In questo modo la felicità diventa bilanciamento continuo di esperienze contrapposte e tentativo di rendere conto della tensione che sussiste tra piacere e dolore, nascita e morte. 10. Già per Aristotele non c’è nulla di più divino della felicità; e non a caso la parola eudaimonía porta con sé il “daimon”, che spinge l’essere umano oltre se stesso. Nella scuola dell’arte di vivere pare sensato familiarizzare con alcune delle forme in cui si esprime questo “oltre” e sviluppare un concetto di trascendenza, o almeno un’impressione della possibilità di comprendersi come parte integrante di una connessione più ampia. Sarà forse possibile incontrare il fenomeno della religiosità e della spiritualità, o forse anche solo una forma in cui si esprime un bisogno dell’essere umano. Una base di partenza per venire incontro a questo bisogno è la riflessione di Novalis sui tre piani della religiosità: al primo livello non si può fare esperienza di alcuna forma di organizzazione, ma solo di un tratto individuale e personale vissuto nella dimensione della trascendenza e inteso come «gioia per tutte le religioni». Al secondo livello si incontra il “medio” della religione, cioè le comunità religiose che rappresentano una prima forma, anche se ancora vaga, di organizzazione della religiosità in comunità. Solo al terzo livello, e solo nella cultura occidentale, appare il cristianesimo come organizzazione dei fedeli attorno a un centro costituito dalla «fede in Cristo». Ciascuno ha il dovere di scegliere, in generale, se, e in particolare su quale piano, vuole portare avanti la propria religiosità (La cristianità o Europa, 1799): questo è l’orizzonte più ampio che può essere dischiuso dall’arte di vivere con l’obiettivo di rendere possibile una vita piena.

Dipingere orizzonti, dare spazio alla vita Gli orizzonti aprono gli spazi della vita. L’esperienza fondamentale del passaggio da uno spazio interno a uno esterno, compiuto dal bambino al momento della sua nascita, resta per tutta la vita: aprirsi sempre di nuovo un

esterno, nuovi orizzonti, spaziali e temporali, orizzonti del pensare e del sentire, nascere sempre di nuovo e avere accesso a tutto un mondo. Gli orizzonti rendono possibile la vita e, nello stesso tempo, la limitano: in questo consiste la loro duplicità. Anche la parola greca horízōn parla di una “linea di confine”. Il tracciare questa linea e quindi il produrre un orizzonte è l’horízein: determinare e fissare qualcosa, prendere una decisione, o anche definire un concetto. Si tratta di un’attività di fondazione, mediante la quale viene delimitato un campo al cui interno può svilupparsi qualcosa, ma al cui esterno si trova qualcosa d’altro, qualcosa di indeterminato. Al di là dei confini, l’orizzonte indica la possibilità dell’assenza di limiti. Vivere davvero in quella dimensione pare difficile: sembra proprio che non si possa fare a meno delle limitazioni, per orientare la vita e per darle una forma – da qui deriva lo sforzo necessario per la scoperta dei limiti, che nella modernità avviene necessariamente per via sperimentale, giacché non è più dato alcun limite cogente dal punto di vista culturale. Per l’arte di vivere la produzione dell’orizzonte diventa un atto consapevole: come nel gesto artistico della pittura, dove l’orizzonte viene disegnato o solo indicato per allusione, e sul suo sfondo la vita può cominciare a consumarsi. Anche solo un’unica scelta può aprire o chiudere un orizzonte. Gli orizzonti possono essere visuali o immaginari. Visuale è quell’orizzonte che delimita i dintorni immediati di un luogo, per esempio una piazza attorno alla quale si trovano edifici o alberi e che viene definita in maniera tale che gli individui possano “sentirsi bene” in questo spazio limitato, senza sapere perché. Immaginario è invece quell’orizzonte che fa la sua apparizione come modello di pensiero e che rende impensabile ciò che non può essere inscritto al suo interno, configurandosi come un complesso di significati ed escludendo ogni significato che lo eccede, pur essendo sempre possibile un “ampliamento dell’orizzonte”, cioè un’apertura a questo altro. In

maniera direttamente proporzionale a quella in cui il sé viene in chiaro delle connessioni che lo definiscono, l’orizzonte assume la sua fisionomia, forma lo spazio all’interno del quale è possibile muoversi. Lo spazio definito dall’orizzonte ha livelli sensibili, strutturali e virtuali. Lo spazio sensibile è quello dato della natura, della cultura e dell’architettura, ma anche quello che deve essere ancora formato, quello dei biotopi e della biosfera, dell’intimità con un luogo, con una stanza o una casa, con una strada o una città, una regione o una nazione, fino ad arrivare al fascino delle distese illimitate con tutta la libertà e lo spaesamento che le caratterizzano. Strutturale è quello spazio che viene aperto e chiuso da una mano invisibile: nella maggior parte dei casi è nascosto e mai riconducibile a uno spazio definito del possibile o dell’impossibile e creato dalle strutture ecologiche della natura, o da quelle economiche del denaro, o da quelle sociali della vita insieme, o da quelle ermeneutiche del significato, ma in particolare dalle strutture di potere. Per prendere coscienza dello spazio strutturale il sé ha bisogno di un sapere e del suo intuito. Ed è possibile anche un mutamento delle strutture che richiede tempo e forze e che probabilmente ha bisogno di più di un individuo. Virtuale è lo spazio tipico del sogno, del presentimento e della fantasia, ma anche quello mediale e tecnologico, che non ha un’estensione reale. Per la vita è decisivo che si dischiudano orizzonti ricchi di possibilità, per trovarne al loro interno almeno una che renda possibile essere un sé, svilupparsi appieno ed evitare di trasporsi in un orizzonte diverso. Imparare a muoversi negli spazi più diversi aperti dai più diversi orizzonti è il risultato dell’esperienza del mondo che il sé può avere attraverso l’arte di vivere. L’orizzonte visuale e immaginario, quello sensibile, strutturale o virtuale formano l’ambito all’interno del quale è possibile disporre e orientare la vita: in relazione a questo ambito tutto acquista la sua peculiare vicinanza o la sua lontananza. E in questo modo nasce la landa della vita. L’orizzonte può

essere ristretto o ampliato: la restrizione comporta una riduzione della complessità che può avvenire solo in seguito a una scelta individuale, che “sceglie una cosa” per trascurarne molte altre. Questa restrizione rende possibile una vita semplice e procura un’esperienza di protezione, che resta però sempre esposta al rischio incarnato dall’alterità e dall’altro. L’ampliamento consente una maggiore complessità e una ricchezza straordinaria della vita del singolo, che si forma in viaggi reali o immaginari, o attraverso una quantità di incontri con altri esseri umani o con altre culture, sebbene in questi casi il prezzo da pagare sia la perdita del senso di orientamento in rapporto al groviglio delle sfide della vita quotidiana. La vita ha bisogno di uno spazio ristretto e sensibile dove ritrovare se stessa, e di alcuni momenti di ampiezza, nei quali arriva a perdersi. Il sé può servirsi degli orizzonti ristretti per quanto riguarda la vita quotidiana, ma al di là di essi si aprono nuovamente orizzonti più ampi. In questo modo ci si prende cura della vivibilità della vita, ma si dà anche corpo all’esigenza del non chiudersi nell’angustia di un orizzonte che non concede più alcun oltre. Il fatto che ogni orizzonte non sia solo una limitazione ma rappresenti anche un’apertura all’altro è molto importante, soprattutto quando il sé decide di non farsi limitare dal tempo. Il confine estremo della sua vita resta la linea della morte, che nel corso della vita diviene sempre più evidente. Quando l’orizzonte temporale che ci sta davanti diventa sempre più ristretto, cominciando addirittura a sbiadire, lo sguardo si rivolge sempre più spesso all’indietro: mentre un giovane non può che rappresentarsi la landa della vita con i tratti poco chiari e confusi della nebbia, perdendosi ogni momento a causa della foschia – una situazione senz’altro incerta e nello stesso tempo affascinante –, l’uomo ormai adulto o anziano vede con chiarezza tutto quanto si trova alle sue spalle, riconosce i sentieri costruiti in parte grazie a lui e in parte senza il suo operato e considera le migliaia di passi che ha

compiuto per arrivare fino a questo punto. Si sorprende di vedere come i sentieri, che all’inizio potevano solo essere intuiti e che presentavano una enorme quantità di ramificazioni, di deviazioni o di inversioni, nel corso del tempo si sono pienamente manifestati fino a formare una direzione ben definita. Lo stesso vale anche per il suo orizzonte attuale, che nella sua interiorità può essere sentito come una limitazione, ma che dall’esterno può anche rappresentare un’apertura. Ancora una volta il sé fa esperienza di quanto sia imponderabile stabilire dove conduca quella via che si spegne all’orizzonte. E allora lo sguardo non si volge più all’indietro. Si distende in avanti, oltre la vita: questa è l’esperienza che caratterizza la vecchiaia.

Vecchi maestri? La felicità e la rabbia di invecchiare Tutta la vita somiglia a un’unica giornata: è faticoso alzarsi al mattino, poi arriva l’euforia per la giornata ancora giovane: tanto tempo a disposizione, tante possibilità aperte. Un paio di impegni, un pranzo opulento che infiacchisce e mette una stanchezza contro la quale si può ben poco. Difficile rimettersi in piedi, il pomeriggio è infinito e vuoto. Si arriva al punto-zero della giornata, finché, all’ora del crepuscolo, non si capisce improvvisamente che c’erano un sacco di cose da fare. Forse ci sarà tempo in serata. Ma di sera si parla con la famiglia e con gli amici, prima che la stanchezza vinca ancora una volta, e le forze spariscano drammaticamente su quel letto che per fortuna siamo riusciti a trovare. Molto simili sono le fasi della vita, anche se dal punto di vista individuale possono avere una cadenza diversissima, molto o solo leggermente differente. Caratteristico è però il fatto che la vecchiaia, così come l’adolescenza, non si sviluppa in maniera continua, ma discreta, in ondate che si susseguono con una velocità che non è proporzionale al tempo che viene concesso per affrontarle, tanto che l’arte di vivere consiste nel darsi il tempo necessario per farlo. Il primo terzo della

vita corrisponde al mattino: nei primi tre decenni della loro esistenza, gli esseri umani possono viversi appieno gli orizzonti che si aprono di fronte a loro e la loro vita pare essere caratterizzata dalla capacità virtuale che corrisponde alla mera possibilità. Vivono le loro possibilità arrivando quasi a sentirsi immortali. Cittadini di un mondo infinito, si creano chance di vita grazie all’educazione e allo studio, con cui cominciano a raccogliere le prime realizzazioni delle loro possibilità. Ma poi, dopo il trentesimo anno, si nota chiaramente che l’orizzonte non può rimanere così aperto ancora a lungo, come invece poteva sembrare. Si percepisce che nel secondo terzo della vita – diciamo nel tardo pomeriggio, dopo la mattinata e l’ora di pranzo – deve essere realizzata definitivamente qualche possibilità, come ad esempio fondare una famiglia o raggiungere un obiettivo professionale, anche perché in generale qualche possibilità bisogna pur realizzarla. Tipica di questa fase della vita è la capacità reale, la capacità della concretezza. È il tempo di chiarire come stanno le cose con se stessi, con gli altri e con il mondo, o di cambiare tutto. Certo, si può ancora fare qualche esperimento, ma non più per tutto il tempo che si desidera. Anche a causa dell’esperienza che è stata fatta si deve aver conquistato un’abilità propria, che ha bisogno di intuito. Nel mezzo della seconda fase, cioè nel pieno di quel pomeriggio infinito, il sé oltrepassa la metà della vita, ammesso che un’aspettativa di vita sugli ottanta o novant’anni non sia più inverosimile. Ora si impone inevitabilmente il fatto che le possibilità della vita cominciano pian piano a diminuire. Si assiste a un radicale cambiamento di prospettiva: se finora lo sguardo si volgeva in avanti («come sarà la mia vita?», «che cosa mi piace fare e quali sono i miei obiettivi?»), adesso si dirige progressivamente verso tutto quello che è stato, verso le occasioni non colte, le perdite dolorose, e anche verso le belle esperienze, che ora brillano molto più di un tempo. L’inversione del punto di vista mette in gioco una vita

diversa, non più una vita in prospettiva, ma un’esistenza retrospettiva, favorita da una crescente consapevolezza della limitatezza della vita. Il nuovo orientamento spirituale risponde a esperienze diverse nel corpo e nell’anima: le forze non sono più disponibili quanto si vorrebbe, cresce la predisposizione al dolore e alle malattie. La salute, che sembrava un’ovvietà, diventa una specie di lavoro. Quegli sbalzi d’umore che una volta erano così eccitanti e mutevoli ora sono più misurati e vengono percepiti con sempre maggior distanza da sé e dagli altri. Ci si prende cura con molta più consapevolezza delle amicizie. E l’amicizia con se stessi diventa ora confidenza con il fenomeno della vecchiaia. Più o meno a sessant’anni comincia l’ultimo terzo della vita, il crepuscolo, come si diceva una volta. Le possibilità che ancora restano vengono selezionate con decisione, e la loro concretizzazione è molto più concentrata e realizzata in funzione del gran numero di esperienze effettuate e sulla base di un intuito sicuro che si avvale della capacità eccellente tipica dell’abilità. Non è la vecchiaia l’età in cui si è maestri e anche quella in cui si completa l’opera a cui conducono le strategie dell’arte di vivere? Non è qui che si trova la forza dell’età? Maestro diviene soltanto chi ha imparato; nell’arte di vivere non ci può essere alcuna maestria, perché la vita si presenta come una serie incessante di sfide, fino all’ultimo. Ci si deve confrontare con esperienze e cambiamenti sempre nuovi, non è mai possibile raggiungere un sapere della vita che sia definitivo. Per questo nell’arte di vivere il sé resta sempre e solo un allievo, e non solo in epoca moderna: «La vita deve imparare a vivere per tutta la sua durata» («vivere tota vita discendum est»), così si esprimeva Seneca nel suo La brevità della vita. Si deve ancora imparare a essere più lenti, a distribuire le forze, a essere soli con se stessi, a riflettere su tutta la propria vita e a mantenere la morte di fronte ai propri occhi. E non ci si trova solo nel tempo della capacità eccellente, ma anche in

quello dell’erosione di ogni capacità: l’abilità svanisce, si riducono le possibilità, fino a quando ne resta solo una, che è quella della concretezza di questa vita, prima che anch’essa vada perduta. Ma forse l’interesse per la vecchiaia non è altro che una reminiscenza storica che avviene nel momento in cui la vita sta per scomparire. L’impressione che l’età sia una malattia da cui guarire è quella comunicata dai consulenti “anti-aging”, che promettono di contrastare il processo di invecchiamento e, senza ironia, elaborano strategie per progettare una “vecchiaia di successo”. Essere “belli senza età” è l’obiettivo principale, anche se la battaglia ostinata contro la vecchia può manifestarsi in maniera meno piacevole del previsto sul volto di chi ambisce a combatterla. Più che impiegare tutte le proprie forze nella battaglia contro l’età è possibile far emergere orgogliosamente tutta la vita che si nasconde nelle rughe. Sarebbe sensato cercare di ridurre i dolorosi effetti collaterali che si associano alla vecchiaia, ma senza volerli eliminare del tutto. Il solo tentativo di farlo, infatti, rende l’individuo un esattore della modernità che non fa altro che privilegiare il nuovo. Come i bambini, anche gli anziani rappresentano un ostacolo alla liberazione moderna. La vita dei bambini non si è ancora assuefatta alla moderna concezione lineare del tempo e quella degli anziani non lo è più. Entrambe le categorie si trovano «al di fuori dell’umanità» (Simone de Beauvoir, La terza età, 1970). Proprio per questo, anche per gli anziani sono stati creati spazi extraterritoriali, come ospizi, case di cura, residenze di vario genere, fino alle confortevolissime “Sun Cities”, i paradisi della vecchiaia che si trovano dietro altissime mura, per esempio in Arizona, Texas, Florida. Può essere molto più saggio crearsi, al momento opportuno e in maniera autonoma, lo spazio per trascorrere la propria vecchiaia, mettendosi nei panni di un anziano per comprendere meglio il fenomeno e chiedersi: qual è l’ambiente nel quale mi piacerebbe invecchiare, vivendo a

casa da solo, magari assistito, curato dalla mia famiglia, che potrebbe fare le veci di un ospizio, in una comunità dove ci sono persone che vivono la mia stessa situazione, o da qualche altra parte? Ma dove? E come posso creare in tempo le basi per sostenere questa mia scelta? A chi posso affidare la mia uscita da una condizione di autonomia, che a volte è causata dalla vecchiaia? Da molti punti di vista si rivive una condizione simile a quella dei primi anni di vita, ma in una direzione inversa. Mentre l’infanzia consisteva nel passaggio dalla cura degli altri nei nostri confronti alla cura per se stessi, la vecchiaia consiste nel passaggio inverso dalla cura di sé alla cura da parte di altri, ai quali il sé ora è completamente rimesso, anche dal punto di vista esistenziale. Risulta nuovamente centrale il concetto di “mobilità”, cioè la capacità di movimento, la disponibilità fisica di se stessi: ma diversamente dai primi trionfi, come quello di alzarsi in piedi e di camminare in posizione eretta, cambiare autonomamente posizione e diventare indipendenti, l’anziano è ora dolorosamente piegato in due, non può più cambiare posizione a suo piacimento. La forza di gravità, che una volta combatteva valorosamente, lo attrae implacabile verso il basso. Le forze, che una volta erano tante e naturalmente sotto controllo, ora sono esaurite; tutto ciò che prima era facile ora diventa difficile. La vecchiaia conosce sforzi che i giovani nemmeno si sognano: salire ogni singolo gradino, che un tempo veniva saltato con un balzo, mettersi nella vasca da bagno e uscirne, imparare a usare macchinari sempre più difficili. La confidenza con il dolore diventa una necessità, e proprio i dolori hanno bisogno, oltre alle possibilità di intervento, anche di una capacità di integrazione alla quale non si può rinunciare, soprattutto in caso di malattie croniche. La cosa migliore sarebbe quella di non cercare di eludere la vecchiaia, ma di assumerla in tutte le sue abitudini e nelle modalità che la caratterizzano; anche perché l’arte di vivere mostra che nella vecchiaia, molto più di prima, è

importante costruirsi quelle abitudini che permettono di continuare a vivere. Il fatto che la modernità sia nemica di tutto ciò che è abitudine tocca in maniera particolare proprio gli anziani, che sono esistenzialmente rimessi proprio all’abitudine. Devono infatti evitare di dover prendere decisioni in continuazione. Solo in questo modo possono dare un ordine alla loro vita. Mediante l’abitudine, come sappiamo, nasce quel senso di protezione che viene garantito dalla ripetizione regolare di certe operazioni, che può essere considerata come espressione della ciclicità della vita. L’intimità con le abitudini e con la propria abitazione condiziona quasi interamente lo spazio nel quale si vive l’ultima parte della vita e nel quale la cosa essenziale non sono più le “quattro mura”, ma proprio le abitudini che possono essere sviluppate in questo contesto. Ogni cambiamento di un ambiente al quale si è abituati, e nel quale si è trascorsa gran parte della propria vita, ogni perdita della confidenza con certe persone, ogni dissoluzione di una relazione sradica gli esseri umani e, allora, quello che conta è impegnarsi nuovamente assieme a loro a ricostituire la rete di abitudini, prendersene cura e preservarla. Oltre a tutti i disagi, la vecchiaia rende possibile anche un’esperienza dei piaceri, «o al posto dei piaceri, la capacità di non desiderarne alcuno», come dice Seneca nella XII delle Lettere a Lucilio. Il potenziale della vecchiaia sta in alcuni piaceri specifici, nella «possibilità di assumerli e amarli», nell’andar loro incontro e nel goderseli, perché, così Seneca, «è molto bello saperne fare uso». Si prova soprattutto il piacere del dialogo e quello che deriva dal contatto spirituale che gli è correlato, che diventa ancora più intenso in vecchiaia, anche perché c’è il tempo per scambiarsi esperienze e riflessioni. Il piacere del ricordo, che giocava un ruolo limitato fino al momento in cui lo sguardo del sé era esclusivamente diretto “in avanti”, riveste invece un’importanza smisurata non appena la direzione dello sguardo s’inverte. Forse ora si potrà dedicare tutto il resto della vita a guardarsi indietro: nella

tenue luce del crepuscolo, quando tutto sembra diverso da com’era prima, diviene possibile una revisione del sé e della sua esistenza. Anche il ricordo melanconico non è solo doloroso e amaro, ma può essere anche piacevole e dolce. Si può poi coltivare il piacere dell’ozio, il tempo del mero essere, dedicato alla spensieratezza o alla riflessione filosofica, che può estendere il proprio sguardo a tutta la vita. Finalmente la cultura moderna può lasciar spazio alla passività: almeno nella vecchiaia è possibile far valere il diritto dell’essere umano a restare passivo. È la vita stessa a spingere in questa direzione, anche perché in vecchiaia ci sono molte cose che devono essere accettate perché non possono più essere cambiate. L’atteggiamento della “fortezza” si fa sempre più prossimo a quello della ribellione. L’arte di vivere nella vecchiaia rende disponibili due opzioni, seguendo le quali si può ancora vivere una vita piena: essere ancora attivi, continuare a formarsi, a impegnarsi e a coltivare la propria socialità; oppure essere totalmente passivi, ritirarsi, esserci solo per sé e per la propria famiglia e considerare la vita sociale da una prospettiva esterna, con quella serena distanza che troppo spesso manca nel turbine della quotidianità. Particolarmente importante nella vecchiaia è il piacere del contatto, proprio nel momento in cui gli altri sensi, come la vista e l’udito, diventano più deboli, ma la comunicazione tattile di base è ancora possibile come nei primi anni di vita. Si può sentire il battito cardiaco troppo veloce, la pressione che si alza quando la mano di un altro tocca delicatamente un braccio, risvegliando una fiducia immediata e persistente. Ma il dramma è che proprio in vecchiaia, quando cresce il bisogno di contatto, diminuisce sensibilmente la disponibilità degli altri. La pelle non è più fonte di attrazione, come per i bambini. È come se si andasse in giro con una scritta sulla fronte: «noli me tangere», ‘non toccarmi’. Gli autori non sono però gli anziani, ma la gioventù di una propaganda culturale che rende i vecchi anche “intoccabili”. Non si

può rischiare di essere contagiati dall’età: pericolo di morte. Ma quantomeno gli anziani fanno esperienza del contatto, tanto più si estraniano da se stessi, dagli altri e, infine, dal mondo intero, esclusi e “distaccati”. Se è vero che il contatto è così importante, se è vero che toccando il corpo si può toccare anche l’anima, allora bisognerebbe garantirsi anche in vecchiaia questo “nutrimento fondamentale”: intanto il contatto fisico, che può consistere in un abbraccio, nelle proprie mani, o nelle mani di qualcun altro che massaggia regolarmente il corpo o in una qualche altra terapia fisica, nel contatto dell’acqua, in un bagno o nel nuoto, o almeno con la possibilità di toccare qualche materiale, sostanza o oggetti di vario genere. Altrettanto importante è il contatto psichico, che può avvenire nelle relazioni di amore e di amicizia e che garantisce uno scambio di attenzioni e di affetto, così come importante è il contatto spirituale, che può avvenire nella lettura o in un dialogo, nel corso del quale si viene toccati dalle idee e dai pensieri di qualcun altro i quali, a loro volta, si fanno toccare. Solo in questa fase della sua vita il sé può avere la possibilità di un contatto metafisico con una dimensione di trascendenza, motivata dalla crescente vicinanza con la morte e dalla progressiva assenza degli altri, con i quali il sé può entrare in contatto. Il confine della vita, il suo orizzonte, la soglia attraverso la quale si passa alla “notte” di questo giorno, che forse è solo la notte di un nuovo mattino, è irrevocabile. Il confronto con la morte diventa occasione per interpretare tutta la propria vita: mai come nella vecchiaia gli esseri umani praticano l’ermeneutica dell’esistenza mettendosi a interpretare e a comprendere la loro vita. Nel dialogo con se stessi o con gli altri, spesso condotto in forma narrativa, si stabiliscono relazioni tra le parti della vita, con gli eventi e le esperienze che l’hanno caratterizzata, e l’obiettivo è quello di trovare una connessione che “faccia senso”. Il senso rappresenta forse il fine di tutta una vita, anche se si tratta di uno scopo che non può essere pienamente perseguito

nemmeno ora. Vi si sostituisce uno sguardo che abbraccia tutta una vita, possibile soltanto ora, nel tempo della pienezza e della soddisfazione, in cui la vita può essere vista, interpretata, considerata con benevolenza, valutata come un tutto in un unico momento, quando non resta molto altro da fare. Questa interpretazione è il tribunale supremo della propria esistenza. Ci si rende conto della propria vita solo di fronte a se stessi. Niente può essere “uguale” alla vita così come è stata vissuta. E nemmeno, per esempio, la verità oggettiva di quanto si è vissuto può mettere in discussione l’interpretazione della propria vita. In questo momento vale solo il senso soggettivo, quello che sembra plausibile e sostenibile di fronte alla morte. Il lavoro necessario per dare un senso alla vita è, almeno in parte, retrospettivo, si rapporta a tutta la vita vissuta ed è legato alla ridisposizione di ciò che viene ritenuto più o meno importante: è stata una vita soddisfacente, un’esistenza bella e degna di approvazione? Che cosa c’è stato di bello, che cosa di brutto? Quali sogni ho realizzato, quali no? In parte si tratta, però, anche di un lavoro prospettico, ma nel senso di una possibile prospettiva che si estende oltre la vita: che cosa c’è dopo? E che cosa resta di questa vita? Nel migliore dei casi la riconoscenza nei confronti della vita prevale su tutte le fatiche dell’età. E questa riconoscenza rappresenta il motivo della tranquilla serenità della vecchiaia, paragonabile solo a quella dei bambini, ma che, a differenza di questi ultimi, si avvale di uno sguardo ampio sulla vita, reso possibile dalla ricchezza delle esperienze vissute: uno sguardo al tempo in cui ci si è evoluti e sviluppati, uno sguardo allo spazio che è stato percorso, uno sguardo alle vie che sono state battute, alle deviazioni, alle inversioni di marcia o a tutte quelle strade che si sono mostrate come quelle più impegnative di tutta la vita. Lo sguardo più ampio fonda la saggezza, che è un privilegio dell’età e riflette una consapevolezza che non è più preda dell’agitazione quotidiana, di una visione d’insieme sulla pienezza

complessiva delle possibilità umane e delle impossibilità dell’esistenza, di una conoscenza delle connessioni e delle regolarità della vita, di un sapere che ha a che fare con la vita in tutta la sua ampiezza e sul quale poggia la chiarezza propria della saggezza. La serenità viene accompagnata dall’esperienza della bellezza, che emerge non appena tutta la propria vita e poi la vita nella sua generalità appaiono come degne di approvazione, con tutte le esperienze positive e negative, piacevoli e spiacevoli, superficiali e profonde che le caratterizzano. La serenità si avvale poi di uno sguardo alle strutture dominanti e agli sviluppi persistenti che si estende oltre la vita e che arriva fino alle generazioni successive. La felicità della vecchiaia è, come quella del bambino, una felicità come pienezza. La pienezza riposa ora sulla base della vita vissuta, sull’esperienza di tutto lo spettro della vita. Una pienezza autunnale, e quindi matura, che può essere raggiunta solo sulla via lunga che ci si è lasciati alle spalle e dopo aver fronteggiato innumerevoli difficoltà. C’è bisogno solo di un ultimo consuntivo: il tempo della gioia definitiva per aver concluso l’opera della vita deve essere fatto prevalere su quello della tristezza definitiva in cui, a un certo punto, ci si congeda da tutto e tutti: nella tensione fra queste due esperienze la vita diventa un’opera d’arte.

“Eutanasia”? Morte e fine-vita come parti dell’arte di vivere L’uomo nasce, vive la sua vita e muore. Si può far fronte in qualche modo alla nascita e alla vita. Ma la morte? Il fatto che nell’ars vivendi rientri anche l’ars moriendi era noto ai filosofi già in età antica: «Bisogna prendersi cura allo stesso modo della vita bella (kalōs zēn) e della morte bella (kalōs apothnēskein)», scrive Epicuro nella Lettera a Meneceo. Pensare alla morte, occuparsi di essa, prepararvisi: caratteristiche fondamentali dell’essere umano che, privato della consapevolezza della morte, rimarrebbe in una condizione

animalesca. Si tratta di essere nuovamente padroni di se stessi e di darsi una forma. Quest’ultima volta la formazione non è tanto un fare, bensì un non fare. Il processo della morte è principalmente questione di una scelta passiva: far arrivare la morte senza resisterle, così come deve essere. Ci si può forse preoccupare di realizzare le condizioni in base alle quali l’incontro con l’abisso assoluto possa apparire come qualcosa di degno d’approvazione e, in questo senso, come qualcosa di bello, anche perché quando non resta altro, quando “non c’è più niente da fare”, resta sempre l’arte di vivere: prendersi cura di sé senza il palliativo (dal latino pallium, ‘mantello’) rappresentato dagli altri; creare da sé o con l’aiuto di altri le condizioni spaziali esteriori (formazione dello spazio, divisione del tempo) necessarie per la quiete e la serenità interiore; garantirsi la possibilità di vivere fino all’ultimo secondo le proprie abitudini e, per quanto è possibile, cercare di non subire uno sradicamento dovuto a un cambiamento di luogo improvviso, rinunciando alle ultime terapie o agli interventi in ospedale e, non da ultimo, stabilire chi avere vicino e chi tenere a distanza. Il contatto è l’unica cosa che rimane, quando non c’è più molto da dire: già il contatto meno visibile con una mano che tocca il dorso dell’altra, o che si posa sulle braccia o sulle spalle, che passa sul viso o sulla fronte. Già solo questo può essere un favore fatto a chi sta morendo: morire nelle braccia di qualcun altro, in braccia dove il capo riposerà per sempre, può essere una consolazione infinita. Chi muore può desiderare che arrivi la sua ora o addirittura stabilirla esplicitamente o implicitamente. Non si tratta di un’attività, ma di un appuntamento interiore del sé con se stesso, proprio come osservano quelle persone che guardano dall’esterno chi sta morendo. Appena definito il contesto in cui si morirà, sono in pochi quelli che vogliono essere attivi fino alla fine. L’arte di vivere considera un’opzione anche l’arte di morire decisa con una scelta autonoma, cioè un atto passivo di suicidio, proprio come quello

praticato nel 2002 da Thor Heyerdahl, un norvegese di ottantasette anni: dopo che gli fu diagnosticato un cancro decise di non assumere più alcun nutrimento, niente acqua, nessuna medicina. Morì a casa sua poco tempo dopo. Al di là dell’atto passivo, si pone subito la questione del suicidio come conseguenza di una scelta attiva: si tratta di una domanda quasi offensiva, che tuttavia è meglio comprendere in questo modo che non come espressione di un “divieto” o come un tabù. Non è opportuno discutere della legittimità di un simile modo di morire? La domanda resta teorica. In pratica si dice: certo, fondamentalmente si tratta di una scelta sempre possibile, e un suicidio non è un delitto o una morte violenta inflitta a se stessi. Ma bisognerebbe comunque riflettere su questo punto: la libertà espressa da una possibile liberazione dalla vita potrebbe essere limitata, per esempio da un’illusione prospettica, che distorce lo sguardo sulla propria vita, che a volte la tinge di nero o di rosa, come nel caso dei problemi di cuore o dell’euforia che nasce quando ci s’innamora. Se l’esperienza del senso è prospettica, deve esserlo anche quella del non senso: l’esigenza di fondare una scelta definitiva resta sempre possibile, ma mai plausibile; se non altro perché nasconde in sé il carattere dell’arbitrarietà, che non ci si deve illudere di poter eliminare. Una morte scelta liberamente può essere sensata solo come risposta a qualcosa che non si può evitare, come le malattie inguaribili, o come nel caso di un terrore insopportabile. Non può mai essere solo frutto di un atteggiamento spontaneo o di una riflessione sobria e matura: lo vediamo se osserviamo il caso di quelle persone a cui non resta un’alternativa alla morte, ma che con il senno di poi sono contente di non averla adottata. Il rispetto di se stessi, nella stessa misura del rispetto per gli altri, che può essere messo in pericolo dalla morte del sé, sia essa fisica o psichica, appare un criterio sensato per la decisione da prendere, anche perché si deve sempre mantenere fermo il proposito di non ferire gli altri, di non segnarli per troppo tempo, di spingerli all’ermeneutica

della morte che è stata eventualmente scelta. Una morte di questo tipo implica una serie infinita di interpretazioni. Una simile scelta comporta problemi molto particolari, che richiedono un aiuto attivo a morire: carica altre persone di una responsabilità che ci si assume nei confronti di se stessi e proprio per questo, cioè per questioni di rispetto per gli altri, deve essere regolamentata. Per tutti i casi di eutanasia si possono mettere in dubbio anche le migliori argomentazioni, e in particolare se in una situazione così estrema una decisione possa davvero essere presa. Ma le domande decisive possono essere poste a chi sta per decidere: lei sa cosa sta facendo? Ci ha riflettuto bene? Ha preso questa decisione a prescindere da ogni tipo di costrizione? L’uomo è un essere vivente che ha anche la capacità di negare la sua vita. Una costrizione a vivere, un dovere necessario che obbliga alla vita non esiste. La vita non rappresenta un “valore in sé”. La scelta di darle un valore di questo genere è, a sua volta, un modo di dare forma alla libertà, sul cui sfondo si trova sempre una possibile disdetta. Senza un simile giudizio di valore, la vita resta indeterminata, esteriore, indifferente, qualcosa di cui non è possibile appropriarsi. Solo nel confronto con la morte la vita trova senso e valore, in maniera tale che la domanda sulla morte è quella che conduce decisamente alla vita. Questa riflessione è pericolosa? Senza dubbio nella riflessione sull’eutanasia è implicito il rischio che comporta la via che apre la scelta di adottare una pratica simile. Ma è possibile impossessarsi della vita senza correre pericoli come questo? «Io non sono malata, so solo che non vale la pena vivere la vita», grida C in Crave (letteralmente: ‘brama’, ‘fame’, cioè desiderio, bisogno disperato), della drammaturga inglese Sarah Kane, che si suicidò nel 1999, un anno dopo averla scritta. Ma C non può mai sapere se è proprio vero che non vale la pena vivere la vita, non può saperlo né soggettivamente né oggettivamente, perché avrebbe bisogno di una visione della vita nella sua interezza, nella sua

complessità reale e possibile, che può darsi solo dal punto di vista di Dio. Nell’altra pièce che ci ha lasciato, 4.48. Psicosi, Sarah Kane stabilisce che niente della vita sulla Terra «ha un qualche senso». Può così programmare la sua morte per le 4.48, «quando sarò sopraffatta dalla disperazione». Ma per quante esperienze sia mai possibile fare, il numero di quelle ancora possibili non è ancora esaurito; come ogni altro uomo, non può lasciarsi alle spalle la sua prospettiva sulla vita, su se stessa e sul mondo. Questo punto di vista è solo affare di una prospettiva che pretende di possedere la “verità” assoluta? Ma l’esperienza nel suo complesso dice che la vita non è mai quello che sembra essere in un certo momento: è sempre possibile una prospettiva diversa e nessuna prospettiva può mai esaurire la pienezza delle possibilità che possono essere aperte dall’interpretazione e dall’esperienza. Quale che sia la scelta da effettuare, si tratta sempre di un’arte di morire. Dal suo punto di vista il concetto di eutanasia corrisponde a quello di una “bella morte” (eu-thánatos), senza che vi siano necessariamente legate rappresentazioni romantiche, perché la morte può essere causa di sofferenze infinite, miserabile e odiosa. La morte può allora diventare arte da due punti di vista: in rapporto a sé, nell’ora dell’estremo bisogno (della necessità assoluta); ma anche in rapporto agli altri, a quelli che muoiono, che non devono essere lasciati soli quando giunge la loro ora. Dal punto di vista individuale può essere modificata la cultura della modernità, che abbandona chi deve morire a se stesso, nel tentativo di negare la morte. Una diversa modernità diventa anche una diversa cultura della vita in rapporto alla morte. Non si tratta necessariamente di tornare ai modi di affrontare la morte diffusi in epoca premoderna, ma solo di una modificazione dell’atteggiamento moderno, che miri non ad abbandonare chi deve morire, ma a rassicurare chi vive, soprattutto nel momento in cui decida di fuggire, preso dal panico per la morte, e prima che la morte colga anche lui. Il vincolo tra gli esseri umani,

che in questo modo può essere rafforzato o fatto risorgere, resta anche dopo la morte. Il morto può aver cessato di vivere nella forma della persona, ma la sua essenza resta in chi continua a vivere, resta nei suoi cari, contribuisce alla loro ricchezza e si mantiene in tutto il decorso della vita. Questa è la più grande consolazione che può essere procurata dalla relazione con la morte: la certezza di non morire davvero, anche quando il corpo, e l’intera soggettività, cadono in questa forma.

Oltre se stessi: c’è una vita dopo la morte? Chi vive incontra la morte come morte degli altri. L’esperienza che se ne fa è quella di un attimo in cui, lacerato ogni velo, la vita resta nuda. Tutta la vita ci appare come morte, nient’altro. Si sente una scossa metafisica, identica per il momento in cui si viene al mondo e per quello in cui lo si lascia, quando quel viaggio attraverso il tempo che è la vita volge al termine. La tensione e il campo in cui essa si dispiega, che si estende tra la nascita e la morte, tutte le paure, le speranze, le delusioni, i piaceri, le fratture, i distacchi, i vincoli, le separazioni, i discorsi infiniti, le riflessioni, le decisioni, le giustificazioni, le scuse, le bellezze, l’odio, tutta la “catastrofe”, tutto ciò si riduce a un trattino che lega il giorno in cui si nasce e quello in cui si muore. Questo era tutto? Ma il fatto che la morte sia la fine della vita è solo il portato di una fede alla quale non corrisponde alcuna forma di sapere. È altrettanto possibile una fede nel fatto che le cose stiano diversamente. Decisiva in questo senso è la propria riflessione, la scelta dell’atteggiamento da assumere nei confronti del problema. Dal punto di vista ontologico la morte può essere compresa come un abbandono dell’unica realtà prevista per questa vita, un ritorno allo spazio infinito della possibilità, un “tornare a casa”, nel senso che il sé è originariamente venuto dal luogo in cui sta tornando. In ogni caso una tale rappresentazione della trascendenza resta un pensiero possibile, indipendente dalla sua corrispondenza con la realtà, e, del

resto, la possibilità che le cose stiano in questo modo è sempre difficile da rifiutare. Più importante che conquistarne il concetto pare l’acquisizione di una consapevolezza che lo oltrepassi; alla fin fine non è più questione di un sapere, ma di un atteggiamento: in questo modo l’arte di vivere diventa un “gioco strutturalmente infinito”. La rappresentazione di un “oltre” comporta il non chiudersi nella finitezza e rappresenta una possibile risposta alla domanda sul senso della vita. La coscienza di essere un uomo che vive in mezzo a beni infiniti può spingere, come pensava lo stesso Epicuro, «a vivere come Dio fra gli uomini» (Lettera a Meneceo, 135). A quei tempi era viva la preoccupazione per una vita che non trova la sua massima ampiezza all’interno di se stessi, o nel senso di solitudine metafisica che caratterizza la condizione dell’uomo moderno. Nel momento di debolezza, quando si capisce che il lavoro sul senso richiede energie delle quali non si è più in possesso, il sé può sentirsi incluso in un’implicazione che tiene insieme finito e infinito, che sta alla larga dall’esperienza della mancanza di senso. Il sé non trae soddisfazione solo da uno sguardo retrospettivo sulla vita bella, ma anche dall’esperienza di una pienezza che si estende oltre la vita, l’esperienza di una protezione che viene dall’infinitezza ma che si manifesta anche nel mondo, in una mistica pienamente sobria. Se è vero che un tempo la vita concreta veniva proiettata nell’aldilà, in seguito a una svalutazione dell’esistenza terrena, è anche vero che la controreazione moderna è stata quella di spostarla e riportarla pienamente nell’aldiquà. Da qui lo stress nei confronti di una vita che non può che essere vissuta negli stretti limiti spazio-temporali di “questa vita”. È nell’aldiquà che ora si apre una possibile “altra vita”. Il sé coltiva la capacità di acquisire una distanza da se stesso, che gli permette di trascendere le ristrettezze della vita vissuta. A una possibile “altra vita” si può ora affidare tutto ciò che non è stato realizzato in questa. Una conseguenza di questo atteggiamento è la

tranquillità che si sostituisce alla brama disperata da cui la modernità è posseduta. Come passaggio a un’altra vita, come possibilità di una nuova vita: in questo senso anche la morte può essere bella e degna di approvazione e in ogni caso comprensibile. Così può anche essere riscoperta una concezione filosofica dell’antichità come quella di Epitteto: l’essere umano, nato «come se il mondo avesse bisogno di lui», morendo diventa «qualcosa di diverso, di cui il mondo ha bisogno in questo momento» (Diatribe, III, 24). L’essere umano si mescola con tutti gli altri elementi e da questi si sviluppa nuovamente ma in una forma diversa: questa è la rappresentazione di una metamorfosi, e forse anche una sorta di “rinascita”. Da un punto di vista soggettivo tutto questo può senz’altro generare qualche dubbio, soprattutto in riferimento all’eventuale esistenza di una prosecuzione della vita. Ma, se non spariscono, dove vanno a finire le parti del sé, quelle fisiche, ma anche quelle psichiche e spirituali? Certo non possono dissolversi nel nulla, cosa assolutamente poco plausibile; resta solo la possibilità di una nuova e diversa ricomposizione e di una vita nuova e diversa. Così si può pensare che “noi” siamo tutto questo e che noi vivremo ancora per cento, mille anni, oltre al fatto che siamo anche “noi” quelli che rielaborano una vita già data: sotto questo aspetto sarebbe quantomeno fatale ogni atteggiamento dissennato, per esempio relativo ai nostri comportamenti ecologici. Con la morte, quindi, non finirebbe tutta la vita, ma solo quella vissuta in questa forma. E anche quando fosse concepibile una prosecuzione della vita in una forma diversa, la vita continuerebbe a operare. E questo non pone fine alla vita vissuta: ogni respiro di ogni essere umano lascia la sua traccia. In qualche modo ogni vita continua a essere efficace anche laddove i suoi effetti restano nascosti: la vita di un essere umano diventa una stella nel firmamento degli altri, e tutta la vita del sé è accompagnata dal presentimento che le cose stiano davvero in questo

modo. L’impressione della trascendenza, infine, è data anche dal possibile sentimento di essere condotti attraverso tutta la nostra vita, e non solo di essere noi a condurla: ma da chi, se non da qualcuno che si trova in una dimensione infinitamente oltre quella del sé, una dimensione in cui dimorano i morti o, piuttosto, il loro “spirito”? Bisogna dare un luogo e un tempo a questa dimensione già nella vita quotidiana. Questo è ciò che raccomanda Gracían nel suo Oracolo manuale: «La prima giornata di viaggio in una vita bella è una chiacchierata con i morti» (aforisma 229). Un elemento dell’arte di vivere può essere la vita con i morti, ai quali il sé offre in qualche modo una casa: i morti conservano il passato, arricchiscono smisuratamente il presente e rafforzano il sentimento del futuro. Nella dimensione spirituale non è possibile trarre svantaggi da una relazione con un altro essere umano morto. Da questo punto di vista la morte appare solo come la fine di un fenomeno esteriore, della forma attualizzata dello spirito, che tuttavia rinasce in una forma diversamente attualizzata: questo è il ciclo della vita spirituale, analogo alla metamorfosi del corpo. Lo spirituale appare come ciò che nel corso della vita parla attraverso i singoli individui, ma che non gli appartiene davvero e che, per questo, non deve essere perduto con la loro morte. In quanto forma dello spirituale, propria di ogni pensiero di questo genere è una temporalità diversa da quella che caratterizza chi sta pensando. L’ampiezza infinita del possibile, di cui si può fare esperienza nello spirituale, la sua indipendenza dai confini dello spazio e del tempo, oltre i quali è possibile il dialogo con i tempi passati, anche a distanza di secoli; non è forse questa una testimonianza del fatto che gli esseri umani abitano una dimensione di trascendenza la cui espressione non è altro che la dimensione spirituale? Forse è su questo sfondo che si può comprendere anche la peculiare esperienza di angosciosa paura che ci coglie sulla ruota panoramica: la paura

di una possibile dissoluzione del sé si mischia al suo fascino. Si tratta di un incontro estraniante con i propri limiti, ma anche di una particolare percezione delle condizioni per il suo oltrepassamento, per la sua autodissoluzione nel punto estremo della vita. Ogni sé detiene questa possibilità, sempre in maniera precaria, fin dall’inizio della sua vita e almeno dal punto di vista psicologico. Una possibilità che con la morte fisica si realizza senza meno: questo è l’altro, l’estraneo, il nemico, ciò che ci sembra tale e che, nondimeno, fa parte di noi e ci appartiene in ogni momento. Da qui il sentimento angosciante del “dissolversi”, il presentimento di qualcosa che sta in agguato, che può dissolvere il sé una volta per tutte, anche solo a vantaggio di una metamorfosi, o di una trasformazione in una serie di connessioni diverse, di una vita diversa e più ampia. Il presentimento di un sé diverso. Attraverso la vita ordinaria è possibile trovare le tracce di un sé diverso, “autentico”, trascendente, di un sé non vulnerabile e caduco come l’io dato, non vincolato allo stesso modo a spazio e tempo, o forse solo una finzione dell’io rappresentato, ma tale da permettere di guardare da lontano l’io dato. Sullo sfondo di questa comprensione appare insensato voler “annientare” l’altro e l’estraneo in sé, o la paura profonda che si sente nei suoi confronti, anche perché ciò significherebbe annientare la vita stessa, la vita che si estende oltre la morte. L’altro e l’estraneo possono anche spaventarci, e tuttavia, se l’interpretazione che ne abbiamo dato è in qualche modo plausibile, possono anche essere compresi come parte costitutiva della vita. Ma non c’è dubbio: questo è l’ambito della speculazione e della fede, non quello della verità suscettibile di prove e dimostrazioni. Per l’arte di vivere è decisiva la base su cui il sé osa fondare la sua vita e la sua morte. Su questa base poggia, infatti, quel peso che da una parte esclude ogni arbitrio nella vita e, dall’altra, fonda una verità esistenziale, la verità di un’esistenza che è

aperta all’altro sotto ogni profilo: una nuova apertura della vita secondo la possibilità, un’esperienza possibile della trascendenza, che spinge a superare limiti troppo angusti. Per questo si deve oltrepassare il punto più estremo, il tratto oppressivo ed esclusivo del sé, quello che gli ruba l’aria per respirare. «È questo il livello più alto di confidenza che si può raggiungere con se stessi?». «Forse». «Ci siamo allontanati parecchio dall’autoreferenzialità». «Forse proprio questo è il senso della relazione con se stessi».

12 Il gioco di parole, che non trova corrispondenza in italiano, è quello tra “Herkunft”, che significa ‘origine’, ‘luogo di provenienza’, e “Zukunft”, ‘futuro’. Il gioco è reso possibile dai prefissi che distinguono le due parole: Her, che indica sempre un ‘da dove’, e Zu, che indica sempre un ‘verso dove’.

Indice Introduzione 1. Le paure e le arti. Come inizia l’arte di vivere 2. La cura di sé 3. La cura del corpo 4. La cura dell’anima 5. La cura dello spirito 6. L’infanzia e la vecchiaia. Inizio e fine dell’arte di vivere