L’amica di Platone

Per l'uomo che vive nell'era scientifica tutti i problemi culturali, morali, politici possono assumere caratte

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Italian Pages 367 [372] Year 1985

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L’amica di Platone

Table of contents :
L’amico di Platone......Page 1
Colophon......Page 6
Premessa......Page 7
Parte prima: La scienza in mezzo a noi......Page 17
É possibile la divulgazione scientifica?......Page 19
Scienza, cultura, ideologia......Page 29
Come s’inventa il sifone......Page 37
Quando non c’è una ragione......Page 45
Come accertare se in Cina ci sono pecore nere......Page 49
Leopardi, Magalotti e le mezze stagioni......Page 53
Le carte geografiche e la ragione umana......Page 57
Tutto è stato detto......Page 63
Il nostro laboratorio è l’universo......Page 71
A cena con Max Born......Page 75
Anche la luce può diventare fossile......Page 79
Quando gli astronomi ci vedono doppio......Page 85
Il problema delle particelle eguali......Page 89
Che cosa significa «significato»?......Page 93
L’universo è una «cosa» sola......Page 99
Secondo Goethe la natura è indivisibile......Page 105
La struttura macroscopica del mondo e le interazioni delle particelle......Page 109
La vita sulla Terra è venuta dallo spazio?......Page 113
Sciocchezze volanti......Page 117
E sciocchezze terrestri......Page 121
Guerra nucleare: l’anno dopo......Page 129
La poesia fossile......Page 135
Scienza e storia della scienza......Page 139
Integriamo la scienza nella cultura generale......Page 143
Parte seconda: «Minima moralia»......Page 147
Credo proprio di avere un’anima......Page 149
Impariamo a convivere con noi stessi......Page 151
Dove andrà la nostra nave?......Page 155
I mostri che sfuggono al controllo......Page 159
Lo stato scientificamente impreparato......Page 165
I verdi e lo sciroppo per la tosse......Page 169
La vita razionata......Page 173
Il sogno di Nabucodonosor......Page 177
Burro e cannoni......Page 181
La guerra non è un comportamento innato dell’uomo......Page 185
Il sermone della montagna e la bomba H......Page 191
I morti tornano......Page 197
Il tribunale della scienza......Page 201
La morale di fronte a problemi sempre nuovi......Page 207
Libertà di morire......Page 211
Il dio ignoto......Page 215
Excusatio non petita......Page 221
Moltiplicare gli affamati......Page 227
Torturare i colpevoli......Page 231
Santificare le feste......Page 235
Vendicare i propri morti......Page 239
Ascoltare i carcerati......Page 243
Tradire i cornuti......Page 247
Paese di tolleranza......Page 251
L’impero di Cambronne......Page 255
L’arancia meccanica......Page 259
Che cosa sono le elezioni democratiche......Page 263
Siamo tutti emarginati......Page 267
Il mito del tempo libero......Page 271
Scuola a cinque anni......Page 275
Tornare o no al latino?......Page 279
Nozioni, cultura, maturità......Page 283
La cultura degli omogeneizzati......Page 287
Diventeremo una palla con un dito?......Page 291
Chi programma il passato?......Page 295
Scienza dialettale......Page 299
Per venti grammi di oro......Page 303
La città sconosciuta......Page 307
Parte terza: L’ottava meraviglia......Page 313
È difficile fare lo scienziato in Italia......Page 315
Due parole sul tempo......Page 323
Che cosa tento di fare......Page 327
Responsabilità della scienza......Page 335
Care, oneste enciclopedie di una volta......Page 341
La scheda bianca......Page 347
Non ci credo quando è assurdo......Page 353
L’ottava meraviglia siamo noi......Page 359

Citation preview

Per l'uomo che vive nell'era scien­ tifica tutti i problemi culturali, mo­ rali, politici possono assumere ca­ ratteri profondamente diversi da quelli tradizionali . Sorgono anche nuovi problemi, non sospettati qualche secolo o decennio addie­ tro . Il cittadino di cultura media non specializzata si sente spesso spaesato, disorientato; non sa co­ me farsi un' opinione fondata sulle piccole e grandi decisioni della so­ cietà. Con questa raccolta di scrit­ ti l' autore stimola la riflessione cri­ tica su un buon numero di punti salienti. Senza minimamente sva­ lutare l' apporto della cultura uma­ nistica (di qui l' amicizia con Pla­ tone) , si vale della sua formazione di scienziato per tentare di raggiun­ gere la verità con mezzi adeguati all'epoca moderna. E dove la veri­ tà è dubbia o non raggiungibile preferisce, ancora con atteggiamen­ to scientifico, sospendere il giudi­ ZIO.

L 'illustrazione in copertina è Cristiano Taraldo di Francia.

di:

L'AMICO DI PLATONE

GIULIANO TORALDO DI FRANCIA

L'AMICO DI PLATONE L'UOMO NELL'ERA SCIENTIFICA

VALLECCHI

EDITORE

© Copyright 1 985 Vallecchi Editore S.p.A. - Firenze

PREMESSA

«Tutta la filosofia si fonda su queste tre cose: che ab­ biamo lo spirito curioso e gli occhi cattivi; poiché se ave­ ste occhi migliori di quelli che avete, vedreste bene se le Stelle sono Soli che illuminano altrettanti Mondi, o se non lo sono; se d' altro canto aveste meno curiosità, non vi curereste di sapere di più di quello che si vede, ecco la difficoltà. Ancora, se quello che si vede lo si vedesse bene, sa­ rebbe sempre qualcosa di conosciuto, ma lo si vede ben diversamente da come è. Cosl i veri Filosofi passano la loro vita a non credere quello che vedono, e a cercare d'indovinare ciò che non vedono, e questa condizione, mi sembra, non è molto da invidiare. Per questo mi fi­ guro sempre che la N atura sia un grande Spettacolo so­ migliante a quello dell' Opera. Dal luogo in cui sedete all' Opera voi non vedete il Teatro esattamente come è; le Decorazioni e le Macchine sono state disposte per fare un effetto gradevole, mentre si nascondono alla vostra vista quelle ruote e quei contrappesi che effettuano tutti i movimenti. Voi non vi curate d'indovinare come tut­ to ciò funziona. Forse non c'è che qualche Macchinista nascosto in Platea, che si preoccupa di un Volo che gli è parso straordinario, e che vuole assolutamente stabi­ lire come è stato effettuato. Vedete bene che quel mac­ chinista è fatto proprio come i Filosofi. Ma nel caso dei

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Filosofi quello che aumenta la difficoltà è che nelle Mac­ chine che la Natura presenta ai nostri occhi le corde so­ no perfettamente nascoste, tanto che c'è voluto molto per indovinare che cosa causasse i movimenti dell'Uni­ verso. Infatti immaginatevi tutti i Saggi all'Opera, questi Pitagora, questi Platone, questi Aristotele e tutti colo­ ro i cui nomi risuonano alle nostre orecchie; supponia­ mo che essi vedano il Volo di Fetonte trasportato dai Venti, senza poter scoprire le corde e se_nza sapere co­ me è fatto il retroscena. L'uno direbbe: E una certa Vir­ tù segreta che trasporta Fetonte. L'altro: Fetonte è com­ posto di certi numeri che lo fanno risalire. L' altro: Feton­

te ha una certa amicizia per l'alto del Teatro; non è a suo agio quando non si trova lì. L'altro: Fetonte non è fatto per volare, ma preferisce volare, piuttosto che lasciare vuoto l'alto del Teatro; e cento altre fantasticherie che mi stu­

pisco che non abbiano perduto di reputazione per tutta l'Antichità. Alla fine sono venuti Descartes e alcuni al­ tri Moderni, che hanno detto: Fetonte sale perché è tira­ to da corde, mentre un contrappeso discende. Cosl non si crede più che un corpo si muova se non è tirato, o piut­ tosto spinto da altri corpi, non si crede più che salga o scenda, se non per l'effetto di un contrappeso o di una molla; e chi vedesse la Natura tal quale è, non ve­ drebbe che il retro del Teatro dell' Opera». Questo passo di Fontenelle può far capire l' atteggia­ mento di molti scienziati dinanzi al mondo che ci cir­ conda. Ci si può limitare a seguire l' azione scenica, im­ medesimarsi dei personaggi, soffrire o gioire delle varie situazioni. Su quella vicenda si possono impostare pro­ fonde riflessioni di carattere umano, filosofico, psico­ logico, estetico. Che si vuole di più? Perché abbando­ nare un mondo cosl ricco e scintillante e cercare, nella penombra che regna dietro le quinte, i freddi marchin­ gegni dei macchinisti del teatro? La risposta è sempli­ ce . Per molti di noi è irresistibile la spinta a conoscere

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la verità che sta dietro al palcoscenico, dietro a quegli orpelli e a quei voli di fantasia. Ma ciò non toglie che - quando lo spettacolo è valido- siamo dispostissimi anche ad ammirare la bravura degli attori, o commuo­ verci, a cogliere e meditare il messaggio trasmessoci dal­ l' autore. Ebbene, io mi riconosco fatto così. Vado ripetendo: «Amicus Plato, sed magis amica veritas», come suona la massima (che veniva attribuita ad Aristotele) . Poiché io la intendo un po' a modo mio, sarà bene chiarire che cosa chiamo Platone e che cosa chiamo verità. Prima di tutto diciamo che è una questione di priori­ tà, non di esclusività, checché ne pensino alcuni critici che accusano gli scienziati di essere sordi ai problemi umani, artistici, filosofici. (A volte costoro sembrano addirittura dire degli scienziati quello che Cicerone di­ ceva dei Pitagorici: «Errare, mehercule, malo cum Pla­ tone . . . , quam cum istis vera sentire») . Per quanto mi riguarda, purché non si rinunci alla ri­ cerca della pura e semplice verità delle cose concrete con mezzi adeguati, ben venga l' amico Platone con tutto ciò che si porta dietro. Se mai c'è il fatto che- come scrisse Oscar Wilde- «la verità raramente è pura e non è mai semplice». Inoltre c'è il problema di sapere quando i mezzi d'indagine sono veramente adeguati. Ma questi sono altri discorsi, che esigono una riflessione non troppo sbrigativa. Dai filosofi greci abbiamo ereditato due esigenze, che nel corso dei secoli si sono sempre rivelate inconciliabi­ li. Da un lato vorremmo arrivare a una verità onnicom­ prensiva; tentiamo di risolvere i grandi problemi del per­ ché del mondo e della nostra esistenza, del monismo o dualismo, dell'immanente o trascendente, e così via. Ma dall' altro desideriamo che la soluzione non sia soltanto doxa; vogliamo l'episteme, cioè una dottrina rigorosamen­ te dimostrabile, che possa essere riconosciuta valida og­ gettivamente da tutti. L'impresa, come abbiamo detto,

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è risultata disperata. Ciascuno può avere la sua soluzio­ ne- o non soluzione- dei massimi problemi, ma non ha modo di provarla e di farla riconoscere valida agli al­ tri. La conseguenza di questo può essere la caduta in un totale scetticismo, cioè n�ll' opinione che l'uomo non può sapere veramente nulla. E spiacevole, ma- dicono i se­ guaci di quell'opinione - bisogna contentarsi . Col sorgere della scienza è nato un nuovo atteggia­ mento . Invece di continuare a parlare del problema to­ tale, essendo poi costretti a limitare la validità delle so­ luzioni, perché non limitare invece il problema stesso ad un ambito in cui si può sperare di ottenere soluzioni sicure e dimostrabili? Esistono ambiti siffatti? La scoperta della matematica, in particolare della geo­ metria, rese sicuri che almeno un campo di quel genere esiste. I problemi che affronta Euclide non esauriscono certo le grandi domande sul mondo dell'uomo . Costi­ tuiscono un ambito molto limitato . Ma in compenso la loro soluzione è episteme, non doxa ! A questo punto è inevitabile chiarire - per inciso - un malinteso che spesso affiora quando si parla di queste cose . Molti ritengono che la scoperta delle geo­ metrie non euclidee dimostri che Euclide aveva sbaglia­ to ! Non è cosl. Se si assume il quinto postulato di Eu­ clide, ne consegue necessariamente la geometria euclidea, questa è episteme. L' avere scoperto che tale postulato è indipendente dagli altri e che, facendone a meno, si può creare una geometria più generale - che include anche quella euclidea - non infirma affatto le dimo­ strazioni di Euclide . Per secoli la matematica fu l'unico ambito di proble­ mi in cui le soluzioni avevano validità intersoggettiva, potendosifor,zare l' assenso dell'interlocutore con una di­ mostrazione. La grande scoperta che fu fatta agli albori della rivoluzione scientifica, con l'instaurazione del me-

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todo sperimentale, fu proprio che esisteva un altro am­ bito nel quale era possibile forzare l' assenso dell'inter­ locutore . Io non mi stanco mai di ricordare il passo in cui Galileo dice: «Ma per dar soprabbondante soddisfa­ zione al Sig. Simplicio e torio, se è possibile, di errore, dico che noi aviamo nel nostro secolo accidenti ed os­ servazioni nuove e tali, ch'io non dubito punto che se Aristotile fusse all'età nostra, muterebbe oppinione . Il che manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperocché mentre egli scrive di stimare i cieli inalterabili etc . , perché nissuna cosa nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle vecchie, viene implicita­ mente a lasciarsi intendere che quando egli avesse ve­ duto uno di tali accidenti, avrebbe stimato il contrario ed anteposto, come conviene, la sensata esperienza al natura! discorso . . . ». Dunque la «sensata esperienza»- come la chiamava Galileo- ha, al pari delle «certe dimostrazioni», la virtù di forzare l' assenso di Aristotele e di chiunque altro sia disposto a guardare e a giudicare spassionatamente. La scienza moderna è, in un certo senso, molto mo­ desta. Non ha la pretesa di risolvere tutti i problemi o i massimi problemi . Ma quelli che risolve li risolve con sicurezza. In fondo la migliore definizione della scien­ za la dette Confucio: «Sapere che si sa quello che si sa e sapere che non si sa quello che non si sa». Infatti la scienza non solo abitua a credere in quello che si sa di­ mostrare, ma anche - e questo è di capitale importan­ za- a sospendere il giudizio su quello che non si cono­ sce con certezza. Naturalmente sospendere il giudizio non vuoi dire rinunciare a formulare ipotesi. Ma dare per verità dimostrata quella che qualsiasi scienziato se­ rio sa essere solo ipotesi è fonte di grossi equivoci. Certo nessuno dei problemi risolti è problema ulti­ mo. Anzi sappiamo bene che ogni soluzione crea un nuo­ vo problema. Ma chi ha detto che per sapere qualcosa

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bisogna sapere tutto? Quando vedo un angelo calare dal­ l' alto in un palcoscenico, so che è sospeso con fili e che c'è una macchina che lo fa calare . E allora nasce il pro­ blema di come è fatta la macchina e di chi la mette in moto. Risolti quei problemi, ne nasceranno altri e non arriverò mai in fondo. Ma, anche senza arrivare in fon­ do, io preferisco essere un uomo civilizzato che sa con sicurezza che quello non è un angelo vero, piuttosto che un selvaggio che lo crede un' apparizione divina. «Quan­ do l' acqua curva un bastone, la mia ragione lo raddriz­ za», dice La Fontaine . E veniamo alla «vexata quaestio» dell'attendibilità dei risultati della scienza. Qui oggi regna una grande con­ fusione. In un lontano passato, presi da illuministico en­ tusiasmo, si tendeva a dare validità illimitata e incon­ trovertibile agli enunciati scientifici. Ma nel nostro se­ colo una salutare riflessione critica ha portato a giudizi più prudenti. Senonché, come succede spesso nella sto­ ria delle idee, una volta partiti da un serio desiderio di fondatezza e una volta messe a punto varie questioni che ne avevano bisogno, si è finito per andare troppo in là e per creare un mondo molto, molto più fantastico di quello a cui, forse ingenuamente, credevano gl'illu­ ministi. Una parte cospicua della «filosofia della scien­ za» degli ultimi decenni è volta a dimostrare la non as­ solutezza e la provvisorietà dei risultati scientifici. Sia­ mo stati afflitti da un'orgia di termini magici, come : fal­ sificazione, rivoluzione scientifica, paradigma, program­ ma di ricerca, cintura di protezione, morte del metodo, catastrofe, cambiamento di significato, scienza specchio della società o dei rapporti di produzione; e chi più ne ha più ne metta. Secondo non pochi «studiosi» baste­ rebbe soltanto pronunciare uno di tali termini magici per dimostrare la scarsa fondatezza della scienza. Gli scienziati- quelli che hanno vera familiarità con i la­ boratori - di solito rimangono poco impressionati da

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questa orgia; ma non manca qualche autolesionista. Comunque, se reagire a quella che appare mostruosa esagerazione vuoi dire essere reazionari, io- in questo campo- mi proclamo reazionario . Secondo me molti critici sbagliano obiettivo . Lasciamo pure stare le scel­ te tendenziose e gli stiracchiamenti della storia della scienza a cui devono ricorrere questi autori. In fondo, come diceva Anatole France: «Tutti i libri storici che non contengono menzogne sono mortalmente noiosi». Ed è comprensibile che non si voglia apparire noiosi. Ma quello che colpisce è la drammatizzazione del sem­ plice fatto che la scienza si sviluppa e quindi cambia. A parer mio, non sono i cambiamenti che costituiscono il significato e il valore della scienza, bensl le permanen­ ze. Questo soprattutto dovrebbero interessare lo stori­ co e il filosofo. Tucidide, nell'accingersi a narrare la guer­ ra del Peloponneso, dice che lo fa affinché la sua storia costituisca «un possesso per sempre». Che nella scienza non esistano possessi per sempre è semplicemente fal­ so. «La molecola di acqua è formata da due atomi d'i­ drogeno e uno di ossigeno»; ecco un enunciato che è va­ lido oggi come ieri, che sarà valido fra cento anni. Non sarà mai falsificato. E non importa se fra cento anni al posto di «molecola» si dirà un' altra parola (o se si ac­ certerà, per esempio, che alcune molecole si uniscono polimericamente) . Dunque l'uomo può sapere qualche cosa. Certamente non è tutto . Volendo, si potrà anche dire che è poco . Ma io sono convinto che è meglio sapere quel poco, an­ che per tentare di capire quello che va al di là della scien­ za. Non si tratterà di applicare lo stesso metodo, dove non è applicabile. Ma si tratterà di procedere con lo stes­ so spirito di razionalità spassionata. E qui (sia pure con un certo fastidio, lo confesso) bi­ sognerà occuparsi brevemente anche dell'attacco che da tante parti viene mosso alla razionalità. Anch'essa sa-

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rebbe un mito illuministico ormai sfatato . È proprio ve­ ro? Uno dei padri riconosciuti dell'irrazionalismo moder­ no è Nietzsche . Ebbene la storia c'insegna che nel 1 889 l' autore di Zaratustra piombò nella follia. Che differenza c'è fra Nietzsche prima dell889 e Nietzsche dopo tale data? Prima era un irrazionalista razionale, poi fu un irrazionalista irrazionale ! Ricorro a quest'immagine un po' paradossale per ricordare che tante «rinunce alla ra­ gione» sono soltanto conclamate e non corrispondono a nulla di reale. Rinunciare alla ragione vuoi dire, né più né meno, usare la ragione in un modo che si ritiene migliore . E questo è perfettamente ammissibile . Del resto si può ricordare che lo stesso Husserl un pensatore non certo sospetto di troppo ingenue sim­ patie scientiste- afferma: «Noi ora siamo ben certi che il razionalismo del XVIII secolo, il suo modo di cercare un terreno su cui l'umanità europea potesse radicarsi, era un'ingenuità. Ma con la rinuncia a questo razionali­ smo ingenuo, il quale, sviluppato conseguentemente, ri­ sulta addirittura controsenso, occorre forse rinunciare al senso autentico del razionalismo? E che dire di un se­ rio chiarimento di quell'ingenuità, del suo controsen­ so, e che dire della razionalità di quell'irrazionalismo che è tanto celebrato e che oltretutto si vuole da noi? O la sua irrazionalità non è per caso, in definitiva, un' an­ gusta e cattiva razionalità, peggiore di quella del vec­ chio razionalismo?». Dunque usiamo la ragione e usia­ mola nel modo migliore possibile . Questi cenni basteranno per comprendere lo spirito che anima gli scritti che raccolgo in questo volume . Al­ cuni sono comparsi in vari quotidiani e periodici, altri sono inediti. Sono riflessioni sulla scienza e sulla socie­ tà, che prendono lo spunto da argomenti molto vari. Ma credo che l)On sia difficile accorgersi di un filo che li lega tutti. E l' amicizia con Platone, unita a un insop-

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primibile desiderio di verità. È l'invito a ragionare, co­ stantemente rivolto al lettore . In una prima parte sono raccolti temi più particolar­ mente scientifici e filosofici; in una seconda parte si passa a considerazioni morali, sociologiche, pedagogiche, po­ litiche, ma quasi sempre collegate con la scienza; la ter­ za parte riporta alcune interviste su temi generali . Sono molto grato a Giorgio Luti, che con tanta com­ petenza e amicizia mi ha seguito e consigliato in questa raccolta. Ringrazio anche coloro che mi hanno intervi­ stato : R. C atola, B . Fantini, G . Ferrara, C . Fratelloni, B. Gravagnuolo, L. Lilli, M. Neri, G . Ferrara, A. Te­ disco . Le loro domande mi hanno spesso stimolato a più precise riflessioni e a nuovi approfondimenti .

Parte prima: LA SCIENZA IN MEZZO A NOI

È possibile la divulgazione scientifica?

Uno dei fondatori della pedagogia moderna, Jan Amos Komensky - più noto da noi con la latinizzazione del nome, Comenio- studioso ceco della prima metà del XVII secolo, in un' opera monumentale che non riusd a finire, intitolata la Pansofia, sosteneva quello che er,a diventato per lui unç slogan: insegnare tutto a tutti. E un bellissimo slogan. E il principio della democrazia cul­ turale, ma rappresentava anche una prima linea chiara di che cosa debba essere veramente una cultura. Una cultura non è tale se è limitata ad un settore, se è stret­ tamente circoscritta. Naturalmente sorge il problema: è possibile insegna­ re tutto a tutti? A quei tempi la questione era limitata al settore filologico, storico : infatti Comenio insisteva moltissimo sullo studio delle lingue moderne . Ma oggi il problema si pone in termini ancora più angosciosi, dato che da allora lo scibile è aumentato in modo tale che porsi lo scopo di insegnare tutto a tutti può sembrare puramente fantastico . Inoltre lo scibile non è aumentato solo in un senso quantitativo, orizzontale . Con la nascita della scienza moderna, si è venuta a creare una nuova situazione che, in un certo senso, prima non esisteva. Una parte della cultura - parte che oggi è diventata fondamentale, ha caratteristiche che non erano possedute dalla cultu-

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ra anteriore, o non erano possedute in quel grado . Si tratta del carattere costruttivo, per cui si edifica piano per piano, e non sembra possibile far visitare il quinto piano se non si sono costruite le fondamenta e i piani precedenti. Per questo si ritiene spesso che si debba rinunciare a insegnare la scienza a tutti e che ci si debba acconten­ tare della divulgazione. A me quel termine, che ricorda il «profanum vulgus» di Orazio, non piace molto; pre­ ferirei parlare di diffusione. Ma per non complicare le cose atteniamoci pure all'uso corrente e diciamo divul­ gazione . Non sembra che le idee correnti a proposito della di­ vulgazione scientifica siano chiarissime; anzi, non è im­ probabile che un'immagine errata dell' attività divulga­ tiva sia all'origine dell'atteggiamento poco benevolo che alcuni scienziati hanno ancora nei confronti di essa. La considerano un' attività meno pregevole della ricerca e decisamente di livello inferiore. Arrivano qualche vol­ ta a dire (ma più spesso si limitano a pensarlo senza dir­ lo) che la divulgazione si addice soprattutto a coloro che non sono capaci di condurre una ricerca scientifica se­ ria e di avanguardia. E, paradossalmente, non tengono conto dei fatti che li smentiscono in modo clamoroso, additando Galileo, Darwin, Einstein, Schrodinger, Mo­ nod e tanti altri scienziati nella schiera degli ottimi di­ vulgatori. Né, per converso, riflettono adeguatamente sul fenomeno, noto a tutti coloro che operano nella scien­ za, per cui molti giovani alle prime armi, anche capaci di condurre egregiamente una ricerca specializzata, fal­ liscono miseramente quando tentano di spiegare le co­ se al non competente. Una preoccupazione che molto spesso manifestano co­ loro che sono addetti ai lavori è che la divulgazione, sem­ plificando gli argomenti e il modo in cui sono esposti, arrivi a generare idee errate e a falsare la verità. Il loro

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rifiuto di divulgare riflette spesso la paura di rendersi complici di quelle falsificazioni. Tutto questo è frutto di una curiosa deformazione professionale e di una buona dose d'ingenuità. Che vuoi dire divulgare? Vuoi dire por­ tare a conoscenza di coloro che non lavorano in una da­ ta disciplina scientifica i risultati ottenuti in quella di­ sciplina. Per chi si accinge a questo compito ci sono due ordini di difficoltà, del resto strettamente connessi tra loro : le difficoltà relative al linguaggio e quelle relative ai concetti. Ogni scienza ha un suo proprio linguaggio, che viene inteso dai competenti, ma non dagli estranei. Per me­ glio dire, ogni scienza fa uso del linguaggio comune, al quale aggiunge alcuni termini tecnici, che non vengono intesi dagli estranei. A questa difficoltà sembra si pos­ sa ovviare facilmente fornendo preliminarmente un elen­ co di definizioni, che fissino chiaramente il significato dei termini usati . Ma purtroppo le cose non sono cosl semplici. Prima di tutto sta il fatto che, appena una scienza è un po' sviluppata, l'elenco dei termini tecnici è lunghis­ simo . Il lettore che non sia costretto a impararlo per po­ ter esercitare il suo mestiere, come fa lo studente di quel­ la disciplina, ben presto si stufa e passa ad altro . Ma questo non è tutto . Vi è anche qualcosa di più profon­ do da considerare, qualcosa di cui si è diventati sempre più coscienti nei tempi moderni. La definizione tradizionale, esplicita, non può quasi mai esaurire il significato di un termine. Qualunque ter­ mine è, in grado maggiore o minore, anche termine pri­ mitivo, il cui significato è dato dal modo in cui lo si usa di fatto nei vari contesti. Si tratta di una definizione implicita o contestuale, alla quale si affidano larghissi­ mamente i bambini per imparare a parlare. Infatti non è difficile notare quante volte un bambino usa un ter­ mine, del quale secondo i criteri tradizionali diremmo

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che non conosce il significato, sforzandosi di dargli nel contesto la stessa collocazione che ha sentito dargli da­ gli adulti. Sarebbe ragionevole riconoscere che, appena il bambino fa questo, viene a possedere in un certo gra­ do preliminare il significato del termine . Notiamo per inciso, non per lodare o biasimare alcu­ no, ma per constatare un fenomeno, che un linguaggio tecnico personale, da apprendere unicamente dall'uso fatto nel testo, è caratteristico di numerosi scrittori mo­ derni. Non dovrebbe quindi esser difficile oggi capire di che si tratta. Ebbene ogni scienza ha il suo modo caratteristico di usare i termini tecnici, modo che non pu� venire ap­ preso attraverso una semplice definizione. E chiaro che tutto questo viene a implicare necessariamente un aspet­ to storico del linguaggio scientifico; il significato dei ter­ mini cambia a seconda di come i termini stessi vengono usati dagli scienziati delle varie generazioni . In un cer­ to senso si può dire che uno stesso termine viene a cor­ rispondere via via a concetti diversi . Non vogliamo qui entrare nel dibattito che si è svi­ luppato attorno all'importanza che il cambiamento del significato avrebbe nei riguardi del valore e dell' ogget­ tività della scienza; su questo argomento ci limiteremo a dire che non di rado si ha l'impressione che da una constatazione semplicemente ovvia qualcuno voglia trar­ re profonde conseguenze, piuttosto ingiustificate e ten­ denziose . Ma, tornando a noi, è certo che quando lo scienziato specializzato parla al non competente, la fa­ miliarità che egli e il suo interlocutore hanno con con­ testi diversi e con una diversa collocazione dei termini pone un grosso ostacolo alla comunicazione . Quando dai termini e dai concetti che essi designano si passa alla capacità d'intendere le teorie, ci si scontra con difficoltà perfettamente analoghe, anche se più gra­ vi . Chi non sa che certe filosofie si capiscono soprat-

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tutto con l'uso, cioè a forza di parlarne, di leggerle, di prendere familiarità con le frasi che si vanno ripeten­ do? Non per niente qualcuno ha detto: «Hegel si può spiegare solo agli hegeliani». Nello stesso spirito si può anche ricordare che Albert Camus una volta scrisse che «a parlare di ciò che non si conosce si finisce con l'im­ pararlo». Era una frase scherzosa, ma contiene, secon­ do me, una grossa verità. Quindi, quando si affronta il problema della divulgazione scientifica, occorre rifarsi a un diverso tipo di pedagogia. Siccome io credo che questo sia possibile, sono per un moderato ottimismo : bisogna saper scegliere volta per volta che cosa dire, co­ me dirlo . La difficoltà di spiegare la scienza può essere esami­ nata da diversi punti di vista. Particolarmente interes­ sante può essere quello dello sviluppo conoscitivo e delle teorie piagettiane . Appare molto plausibile che, alme­ no dentro certi limiti, le strutture mentali nelle quali noi inquadriamo la realtà non siano puramente innate, ma si sviluppino proprio al contatto di quelle realtà che sono chiamate ad assimilare . Se è vero che questo feno­ meno è particolarmente cospicuo nella formazione del­ l'intelligenza del bambino, non bisogna tuttavia pensa­ re che cessi completamente a una certa età e che non si manifesti anche nell' adulto. Chi ha pratica dell'inse­ gnamento delle scienze sa che il discente non è chiama­ to solo a calare nuove nozioni in strutture preesistenti della sua mente, ma anche, e nello stesso tempo, a per­ fezionare quelle strutture o a crearne addirittura delle nuove . L'età c'entra soprattutto per il fatto che, men­ tre la plasticità della mente infantile è tale da consenti­ re questa formazione senza particolare difficoltà, la men­ te dell'adulto va progressivamente irrigidendosi su sche­ mi già acquisiti. In questo campo l'allenamento può avere un ruolo decisivo . Chi fa un lavoro intellettuale, che lo costringe a un continuo studio, può conservare un cer-

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to grado di plasticità fino ad età relativamente avanza­ ta. Ma chi cessa di studiare subito dopo l'infanzia può diventare addirittura irrecuperabile. Queste considerazioni sembrerebbero portare alla con­ clusione che la divulgazione è impossibile. Di conseguenza avrebbero ragione quegli scienziati che evitano di spor­ carsi le mani con essa e che accusano il divulgatore di propalare nozioni inesatte e false. Invece è vero esattamente il contrario. Tutto quello che abbiamo detto fa vedere soltanto che le difficoltà della divulgazione scientifica, sono né più né meno quelle di qualsiasi comunicazione. E per questo che chi storce il naso dinanzi a un'opera di divulgazione assume quel­ l' atteggiamento poco saggio, ma tanto frequente, per cui alcune particolarità generali della nostra natura o della condizione umana che non ci soddisfano vengono sot­ tolineate in un dato settore di attività, come se quel­ l' attività ne fosse responsabile. Tutti coloro che hanno paura delle distorsioni e delle falsificazioni a cui porta la divulgazione farebbero be­ ne a riflettere che ognuno, appena parla, distorce e fal­ sifica il proprio pensiero. Infatti ciascuno ha il suo lin­ guaggio, usa e colloca i termini in un suo modo partico­ larissimo; i termini del linguaggio comune divengono in qualche grado i suoi termini tecnici. E poiché i termini tecnici dell'interlocutore sono necessariamente alquan­ to diversi, quest'ultimo afferra il pensiero di chi parla in modo distorto. Naturalmente la distorsione può via via diminuire con la familiarità fra i due, ma non spari­ sce mai interamente. Non solo, ma il linguaggio tecnico di ognuno di noi varia col tempo. Per questo è possibile che quando due amici si rivedono dopo una lunga sepa­ razione uno dica all'altro: non ti capisco più! Ma sarebbe mostruoso che tutto questo c'inducesse a rinunciare a comunicare. In particolare non possiamo rinunciare a comunicare con i bambini o con le persone

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di basso livello culturale. Dobbiamo sforzarci di ade­ guare il nostro linguaggio al loro, anche se sappi�mo che l'impresa può avere un successo solo parziale. E passa­ to il tempo in cui si diceva continuamente ai bambini: questo lo capirai quando sarai più grande. Ma deve ces­ sare anche l' abitudine di dire: questo non lo può capire chi non ha studiato scienza. Quanto alle semplificazioni a cui costringe la divulga­ zione, non è difficile vedere che la situazione è esatta­ mente la stessa. Tutte le volte che parliamo effettuia­ mo una drastica semplificazione. Ogni nostra espressione è frutto di una scelta; fra le infinite cose, circostanze, idee, che costituiscono il nostro mondo, noi scegliamo di esprimerne alcune. Il guaio è che tutti questi fattori del nostro mondo sono inseparabilmente collegati fra lo­ ro e non è possibile afferrarne pienamente nessuno se non nel contesto generale. Ogni nostra espressione è una forma di violenza verso noi stessi. Se volessimo vera­ mente esprimerci dovremmo pronunciare una frase in­ finita; ma in realtà anche questo non andrebbe, perché dopo un certo tempo il nostro mondo sarebbe cambia­ to rispetto a quanto espresso al principio della frase. Dunque, se seguiamo questo punto di vista fino in fon­ do, dobbiamo concludere che l'unica espressione possi­ bile della verità è il silenzio. Ma non è meglio invece riconoscere che nell'insegui­ re quell'espressione totalmente fedele e non semplifi­ cata della verità inseguiamo un fantasma? Non è me­ glio riconoscere, rinunciando a ingenui schematismi, qual è la realtà umana e in che modo ci è dato di operare al di dentro di essa? Perché nel caso della diffusione delle conoscenze scientifiche dovremmo pensare a un tipo di comunicazione esente da tutte le difficoltà e i pericoli inerenti a qualunque comunicazione? Certo, le difficoltà possono essere più notevoli per questo che per altri argomenti di comunicazione. Ma

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ciò non fa che sottolineare la necessità che proprio le migliori menti operanti nella scienza si dedichino al com­ pito della diffusione e si abituino a pensare che in esso non è minore «gloria» che nella ricerca. Soprattutto è necessario che gli ambienti scientifici rinuncino a quell'ingenua concezione della scienza co­ me verità totale e totalmente comunicabile che tanto ne intralcia la diffusione e l'insegnamento. Forse la pe­ dagogia della scienza è ancora tutta da rifare, proprio perché esige un superamento di quelle vecchie conce­ zioni. Anche la questione delle propedeuticità, cosi cara a molti scienziati, va riveduta interamente, con buon senso si, ma anche con coraggio . Chi, avendo studiato scienze esatte, non è stato afflitto da qualche professo­ re che voleva che ignorasse qualunque concetto di deri­ vata, prima di avere approfondito la teoria degli insie­ mi, dei limiti, delle serie e cosi via? Queste cose oggi cominciano a far sorridere molti, ma c'è chi vi resta at­ taccato tenacemente . Ma, tornando alle semplificazioni a cui porta l a di­ vulgazione, si può fare un'osservazione molto curiosa. Uno scienziato moderno è costretto a divulgare la scienza non solo al pubblico in genere o agli studenti, ma anche a se stesso . E precisamente ciò che fa quando si crea un modello . In questo caso egli è ben conscio che l'oggetto che tratta non corrisponde in tutto e per tutto alla real­ tà ed è quindi, in un certo senso, unfa lso . Ma allo stes­ so tempo sa che quel modello può essere sufficiente per comprendere almeno alcune particolarità dell'oggetto reale e per compiere un primo passo verso teorie più va­ lide. Dinanzi a una realtà estremamente complessa, non ancora perfettamente inquadrabile nell' ambito dei ter­ mini e dei concetti tecnici a lui noti, sceglie la via del­ l' autodivulgazione. Preferisce farsi un'idea non del tutto corretta sull' argomento, piuttosto che non averne alcu­ na.

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È un atteggiamento saggio e pieno di giustificazioni. Ma quello scienziato diventa sciocco quando ammette che sia lecito soltanto il suo grado di semplificazione e non anche quello di chi dispone di un patrimonio di ter­ mini e d! concetti tecnici più ristretto e più primitivo del suo. E sciocco quando non ammette che si divulghi il modello dell' atomo di Bohr soltanto perché lui oggi si trova a uno stadio più avanzato di quello a cui era Bohr nel 1 9 1 3 . Ma per chi è arrivato ad avere a mala pena qualche nozione di fisica ottocentesca, l' acquisi­ zione del modello Bohr ha un valore inestimabile. L'esigenza della propedeuticità va molto ridimensio­ nata. Si tratta di riconoscere che non esiste il linguag­ gio assoluto e finale da insegnare prima di parlare di scienza con chiunque. Con ciascuno va usato il linguag­ gio adatto, cominciando da noi stessi. La divulgazione ha inizio appena tentiamo di mettere la scienza in pa­ role e deve proseguire per piccoli salti successivi, anzi­ ché con un unico grande salto dalla casta degli iniziati al volgo. Si potrebbe continuare per un pezzo con questo tipo di considerazioni e scavare più a fondo nei tanti pre­ giudizi che frenano la trasmissione e la diffusione della scienza. Ma forse l'idea di base che vogliamo sostenere risulta già chiara e non ha bisogno di ulteriori commen­ ti. La divulgazione è possibile nel senso in cui è possibi­ le qualunque forma di comunicazione. Le difficoltà a cui va incontro sono appunto quelle relative ad ogni scambio d'idee fra due esseri pensanti. Se non rinunciamo a qualsiasi altra forma di comuni­ cazione, non dobbiamo nemmeno rinunciare a comuni­ care la scienza.

Scienza, cultura, ideologia

Che contenuti deve avere la divulgazione scientifica per essere utile ed efficace? Certamente non credo che aiuti, se non marginalmen­ te, il fare leva sugli istinti di curiosità più banali, che possono animare l'uomo, sul dato sensazionale, su quello che fa notizia. Credo che, a volte, questo possa essere più fuorviante che altro. Si parli della scienza senza bi­ sogno di dare notizie emozionanti. La gente oggi è cu­ riosa, desiderosa di imparare, c'è un buon senso ormai abbastanza diffuso, che la rende vogliosa di sapere di che cosa si tratta. C'è a volte una tendenza a fare la cronaca della scien­ za, informando via via delle varie scoperte settoriali che vengono alla ribalta. Ma questi risultati settoriali,scissi da tutto il contesto, secondo me, non sono ancora cul­ tura scientifica. Possono costituire la base sulla quale poi fare la sintesi e la riflessione, ma certamente, non sono ancora cultura. Molti scienziati, quando si danno alla divulgazione, hanno proprio questa colpa. Non rinunciano in nessun modo a una severità di impostazione che ha le sue giu­ stificazioni, ma è molto parente della didattica che vuole procedere per gradi. Pensano che non sia permesso ten­ tare qualche sintesi globale, dato che loro si intendono di quel dato settore e che non è serio uscire da esso.

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Ecco il punto. Infatti molto spesso hanno ragione: non sono preparati ad uscirne. E qui si innesta la considera­ zione che la scienza non va diffusa solo tra il pubblico, ma anche tra gli scienziati. Essi troppo spesso sono estre­ mamente ignoranti di tutto quello che non riguarda il loro settore. Molti giovani, per esempio, sono portati a specializzarsi, ad aggrapparsi a quel dato settore di cui conoscono o andranno a conoscere tutto e ad ignorare il resto . Costoro sono di solito pessimi divulgatori, pro­ prio perché mancano di quella preparazione scientifica e filosofica abbastanza larga, necessaria per parlare ai non specialisti. Per esempio, la famosa storia che l'esperienza sotto­ determina la teoria è una banalità filosofica, che ormai gli scienziati non dovrebbero più meravigliarsi di tro­ vare sul loro cammino. La teoria non è mai necessaria: è sufficiente. La verità di una teoria risiede proprio nel­ l' essere sufficiente per quel dato ambito di fenomeni a cui si applica. E non ci si deve scandalizzare o meravi­ gliare, quando, uscendo da quel dato ambito, si trova che essa non è più sufficiente. Tutte queste cose sono purtroppo ignorate da molti scienziati: per questo, quan­ do ci si trovano dinanzi, sono portati a tirar fuori qual­ siasi conclusione, la più fantasiosa, sulla natura della scienza. Non sono abbastanza informati su quale sia l'es­ senza del metodo scientifico, che ormai secoli di storia hanno messo in luce. La divulgazione deve quindi ri­ volgersi anche a loro. Per quanto riguarda la capacità di sintesi e di globa­ lità, io vorrei, a questo punto, citare un politico. Hel­ mut Schmidt ex cancelliere, che alla società «Max Planck» qualche tempo fa diceva: «Ci sono nella storia alcuni luminosi esempi di per­ sone, che hanno unito la grandezza nella scienza all'u­ niversalismo. Si può obiettare che le cose sono ormai cosl complicate che ciò non è più possibile. Vorrei op-

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pormi a tale visione e dire che la responsabilità e la mo­ ralità sociale dello scienziato rende indispensabile la ri­ cerca di una visione generale. Faccio appello agli scien­ ziati affinché non evitino lo sforzo di raggiungere una prospettiva universale». E più in là diceva: «Come in­ fatti possiamo noi profani raggiungere tale concezione complessiva, se i privilegiati in questo campo, gli scien­ ziati stessi non possiedono una visione globale? Che av­ viene se gli scienziati non vogliono quella visione, per­ ché le loro azioni e i loro pensieri sono concentrati sulla specializzazione e sull'essere pionieri nella loro disciplina, se rifiutano di presentare o comunicare la sintesi agli altri? Ma quello di presentare la scienza non è dovere solo dello scienziato. - Ecco un punto importante, se­ condo me -; come controparte è necessario che coloro ai quali la presentazione è indirizzata, non solo i politi­ ci e gli altri scienziati, ma l'opinione pubblica intera, siano pronti ad accettarla. Devono essere preparati a svi­ luppare una sorta di cultura scientifica dei non addetti ai lavori, non solo per ricompensare lo scienziato che fornisce la visione globale, ma anche e soprattutto per poterla assimilare e darle il posto che le spetta». Dunque questo dovere sociale deve essere affrontato dalle due parti: ci deve essere lo scienziato divulgatore, ma ci deve essere anche una cultura scientifica dei non addetti ai lavori. Ci deve essere un humus che, purtrop­ po, a tutt'oggi in molti Paesi del mondo manca, e non parliamo di quanto manca nel nostro Paese. Il punto è qui: bisogna fare di tutto perché la scienza diventi cul­ tura e che la cultura non possa fare a meno della forma­ zione e dell'informazione scientifica. Allora è il momento in cui la divulgazione, intesa in quel senso superiore di diffusione, diventa efficace: prima no, sono solo notizie che appagano una curiosità momentanea ma non for­ mano cultura. Poiché il periodo storico che stiamo vivendo è carat-

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terizzato dall'enorme sviluppo delle conoscenze scien­ tifiche, dovrebbe essere fin troppo ovvia la necessità che la cultura generale del cittadino sia adeguata ad esso . Ma possiamo essere più specifici sulle ragioni che con­ sigliano in particolare la diffusione della cultura scien­ tifica. È proprio la grande disponibilità di «beni» consenti­ ta dallo sviluppo tecnologico che ha portato la necessi­ tà di continue scelte. E le scelte possono essere effet­ tuate tanto più correttamente quanto più si ha familia­ rità con l'analisi razionale delle cause e degli effetti. Non c'è nessun bene che non possa tramutarsi in un male se non viene usato con discernimento; basta pensare a tutto il male provocato dall'uso irrazionale dei farmaci, dei cibi, dell'automobile, della televisione, del telefono. Pa­ radossalmente, i frutti della scienza rischiano di rovi­ nare l'umanità a causa della scarsa diffusione della co­ scienza scientifica. E si badi bene che è già al livello delle scelte indivi­ duali che si comprende quanto sia errato confidare cie­ camente negli esperti. Infatti l' «esperto» ha quasi sem­ pre il suo interesse personale coinvolto nella scelta. Chi non sa che il mondo moderno è afflitto da torme di «esperti» che consigliano i più diversi prodotti e le più diverse soluzioni scientifiche ai problemi? Chi non sa che al chirurgo, anche animato dai propositi più onesti, rimane difficile pronunciarsi in modo totalmente distac­ cato sull'opportunità di un'operazione che egli stesso do­ vrà eseguire? Si tenga presente che l'interesse dell'esperto non è sempre necessariamente economico. Può essere interesse di gruppo, di prestigio, di potere, o anche puramente intellettuale. Chi è interessato a un dato ramo della scien­ za ne vede con particolare soddisfazione le applicazio­ ni. Queste considerazioni ci fanno capire fra l'altro per­ ché la difficoltà di reperire l'esperto imparziale non ri-

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guarda soltanto il mondo capitalista, m a s i manifesta ovunque, anche se è certo che il sistema capitalista ren­ de il problema più grave. Naturalmente le scelte diventano specialmente dram­ matiche quando non concernono singoli individui, ma interi gruppi o Stati. E come volete che il fisico nuclea­ re non sia istintivamente portato a consigliare lo sviluppo dell'energia nucleare, oppure, con fenomeno opposto ma analogo, ad esagerarne i pericoli? Come volete che chi progetta sistemi per la captazione dell'energia solare non sia istintivamente portato a dichiarare che l'energia so­ lare può essere una valida alternativa? Che può fare il cittadino comune privo di una qualsiasi formazione scientifica e schiacciato fra questi esperti? Come evita­ re che si abbandoni a scelte puramente viscerali, che han­ no a che fare molto più con la sua psicologia, che con ponderata analisi dei pro e dei contro? Fra l' altro l'ignoranza favorisce in modo mostruoso le scelte negative, il conservatorismo. Intendiamoci: quando si è ignoranti, la scelta negativa è istintiva sag­ gezza, una difesa fornitaci dalla stessa natura. I bambi­ ni dicono una volta sl e novantanove volte no. Le mas­ sime conservatrici, come quella di non lasciare la via vec­ chia per la nuova, sono specialmente accreditate presso gli strati meno istruiti e più sfruttati della popolazione. (E, naturalmente, questo non è in contraddizione col fatto che tali strati siano «progressisti» in politica; per niente contenti della loro condizione, aspirano giusta­ mente a cambiarla con quella degli sfruttatori) . Perché il conservatorismo dell'ignoranza è saggezza? Per spie­ garlo basterà ricordare alcune nozioni di dominio co­ mune. Tutti sanno che un sistema organizzato è lontano dal­ l' avere massima entropia, cioè dall'essere il risultato di una serie di scelte casuali. È un sistema altamente im­ probabile. Noi siamo sistemi improbabili, e per vivere

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abbiamo bisogno di una grande quantità di cose impro­ babili. Facendo una scelta a caso, come più o meno è costretto a fare l'ignorante, di solito scegliamo una co­ sa molto probabile, ben diversa da quella altamente im­ probabile di cui avevamo bisogno; quasi sempre è una scelta nociva. Per fare una scelta proficua abbiamo quindi bisogno di una certa quantità d'informazione. L'igno­ rante questa informazione riguardo alla via nuova non ce l'ha,mentre sa già che cosa comporta, per averla spe­ rimentata, la via vecchia . Il minimo che sa sulla via vec­ chia è che, seguendola, non è morto . Dal punto di vista della teoria della decisione, la sua scelta della via vec­ chia è quindi perfettamente corretta. V'è poi un altro pericolo insito nella diffusa mancan­ za di formazione scientifica, pericolo che, sempre pre­ sente nel corso della storia, è divenuto particolarmente acuto nel mondo contemporaneo, cosl potentemente do­ minato dalle ideologie . Non vogliamo certo esaminare qui (perché non di questo ci stiamo occupando) se e in quale misura il trionfo dell'ideologizzazione politica sia un bene o sia un male. Lo prendiamo come un dato di fatto di cui si deve tener conto. Ebbene, in questa si­ tuazione è diventato molto difficile per il cittadino co­ mune capire quando uno scienziato parla come tale e quando invece parla come ideologo . Certamente, è facile osservare che uno ha sempre un'i­ deologia (anche il non averne nessuna è un'ideologia) , che l'ideologia influenza, in misura maggiore o minore, tutt� quello che facciamo, compresa l' attività teorizzan­ te . E facile osservare che il medioevo cristiano è là per dimostrare quale invadenza può avere l'ideologia sulla scienza. Ma è difficile non riconoscere che dalla rivolu­ zione scientifica in poi l'etica professionale dello scien­ ziato ha prescritto di stare ai fatti e di giudicare spas­ sionatamente, in base alla ragione. Quel credere ai «fatti» e quel reputare possibile il giudizio assolutamente «og-

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gettivo» poteva comportare, e comportava, una certa ac­ cettazione acritica. Ma la norma era là e si tentava di seguirla per quanto era possibile . Le trasgressioni era­ no soprattutto inconscie . Oggi si ha un fenomeno nuovo . Quell' etica profes­ sionale è ripudiata da un certo numero di scienziati . Pa­ radossalmente, l' avere capito che è molto difficile esa­ minare la realtà senza influenze ideologiche, sembra ave­ re autorizzato a capovolgere la norma: si rinunzi a qua­ lunque sforzo di oggettività, purché si affermi l'ideolo­ gia. La volontà sta invadendo sempre più i domini della ragione: «le cose stanno così non perché stanno così, ma perché voglio che stiano così». I guai nascono quando uno di questi scienziati si rivolge al pubblico non infor­ mato; quelli credono che parli in base alla sua ragione e alla sua informazione e invece lui esprime solo la sua volontà. Non è chiaro in che modo il cittadino potrà desumere in quale scelta sta la convenienza sua e della società. Che si può fare? Si dovrà pretendere che tutti i citta­ dini diventino scienziati? No, non c'è bisogno di que­ sto assurdo massimalismo . Basta molto meno (ma è sem­ pre tanto) . Bisogna che tutti i cittadini acquistino un' a­ deguata coscienza scientifica . Certo dovranno avere un minimo di informazione sui contenuti della scienza. Ma più ancora è necessario che sappiano che cos 'è la scien­ za, qual è il suo metodo, qual è la sua razionalità. In modo specialissimo bisogna che si rendano conto di quali sono i limiti della scienza; e questo non solo per evitare la sciocca fiducia totale, ma anche e forse più per non rimanere vittime di un' altrettanto sciocca sfiducia. Bi­ sogna che il cittadino trovi in sé le risorse per giudicare fino a che punto siano da sentire gli «esperti». Bisogna che impari a distinguere bene fra il mettere la scienza al servizio dell'ideologia e il mortificare la verità a fa­ vore (spesso presunto) dell'ideologia.

Come s 'inventa il sifone

La mia grande scoperta di fisica la feci quando avevo quattro anni. Era una scoperta bellissima e prometteva di tornare quanto mai utile. Mi sentivo proprio fiero. C 'era soltanto un piccolo neo: quello della priorità. In­ fatti, come ebbi a sapere subito, quella scoperta era stata già fatta e da tempo immemorabile . Ma vediamo come andò . Chi ama la pastasciutta sa che esistono ancora i bu­ catini a «U»; ma a quei tempi era molto più frequente di oggi trovarli in qualunque cucina. A me era proibito giocare in cucina, ma un giorno mi ci intrufolai lo stesso e cominciai a darmi da fare con uno di quegli strani tubicini. Non avevo affatto proget­ tato quel che intendevo fare e fu solo un caso che quel bucatino avesse un ramo della «U» molto più lungo del­ l' altro. Io introdussi il ramo più corto nel collo di una bottiglia piena di acqua fino all'orlo, quindi aspirai dal­ l'estremità del ramo più lungo, fino a riempire di acqua tutto il tubicino. Quando mi allontanai l' acqua conti­ nuò a gocciolare indefinitamente da quella estremità. Eccitato e divertito corsi a chiamare mio padre e lo invitai a osservare: «Guarda che cosa ho inventato ! » . Mio padre, anche lui divertito, sorrise dolcemente e mi disse: «Bravo, hai inventato il sifone». Senza stare a sen­ tirlo, io proseguii: «Vedi, io so perché fa cosl. L'acqua

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dalla parte più lunga pesa di più e tira su l' acqua dalla parte più corta». Mio padre sempre sorridendo, disse: «Sl, potresti avere ragione, ma in realtà non hai ragio­ ne». E facendo sforzi immani per semplificare l' argo­ mento, mi spiegò che c'era la pressione atmosferica che premeva su tutto: alla sommità dell' «U» la pressione ve­ niva diminuita meno da una parte e più dall' altra per il peso dell' acqua nei due tubi; quindi non vi era equili­ brio e il liquido scorreva. Nonostante tutta la sua buo­ na volontà, mio padre non riuscl nell'intento . Il grande scienziato di quattro anni non capl proprio nulla e ri­ mase del parere di avere trovato lui la spiegazione giu­ sta� l'acqua da una parte «tirava» quella dall' altra. E questo un esempio di come un bambino possa sa­ per fare con piena lucidità un certo tipo di ragionamen­ to, pur essendo assolut�mente incapace di seguirne uno di carattere superiore. E una tesi che, sostenuta con do­ vizia di osservazioni sperimentali, ha informato per tutta la vita il lavoro del grande psicologo ginevrino Jean Pia­ get ( 1 896- 1 980) , creatore della «epistemologia geneti­ ca». Piaget è universalmente noto per la sua opera di psicologo, mentre è meno largamente apprezzato come epistemologo. Ma per chi vuole insegnare le scienze le sue idee possono fornire spunti illuminanti. Secondo Piaget la conoscenza va concepita come un processo e non come uno stato. Il soggetto «assimila» i dati percettivi che gli vengono dalla realtà esterna alle sue «strutture» psichiche. Queste strutture preesistono rispetto alla singola esperienza, quindi sono imposte a priori dal soggetto, ma non sono immutabili come le for­ me pure della sensibilità o le categorie kantiane. Com­ paiono alle varie età dell'infanzia sotto lo stimolo del­ l' esperienza «accomodandosi» ad esperienze sempre più complesse. Ogni soggetto percorrerà naturalmente una storia percettiva diversa, ma il risultato sarà invariabil­ mente la costruzione, a certe età caratteristiche, delle

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nuove strutture più avanzate e comuni a quel gruppo di coetanei. Tanto per fare un esempio, secondo Piaget «un bambino di 5-6 anni ignora ancora la transitività e rifiuterà di concludere che A è minore di C se ha vi­ sto A minore di B e B minore di C , ma non ha percepi­ to insieme A e C». Soltanto a 7-8 anni, formatasi la relativa struttura, sarà in grado di comprendere che la cosa è necessaria. Non sta a me giudicare se e quanto le conclusioni di Piaget sulle successive tappe che il fanciullo percorre alle diverse età siano corrette. Osservo solo che chi ha pra­ tica d'insegnamento scientifico ha dovuto constatare più volte come si vengano a formare nuove strutture psi­ chiche nel discente, e non solo durante l'infanzia. Per un fisico dovrebbe essere illuminante soprattutto l' esem­ pio della meccanica quantistica. Come è noto, tale teo­ ria, introducendo l' indeterminismo e la concezione pro­ babilistica della natura, è sembrata ad alcuni andare con­ tro il «senso comune». Ma andava molto più contro il senso comune una volta di quanto non avvenga oggi. In realtà un buono studente di fisica, specie se ha un professore all' altezza del compito, ci metterà solo qual­ che mese ad adattarsi ai nuovi concetti e un bel giorno ci si accorgerà che ha cominciato a «pensare» la realtà microfisica in quel modo. Le regole della meccanica quantistica sono calate dal livello del ragionamento astratto a quello psicologico. E si potrebbero portare molti altri esempi di tale fenomeno . Tutto questo non può mancare di sollevare una quan­ tità di problemi dal punto di vista scientifico, filosofi­ co, pedagogico. Per esempio ci si può domandare a par­ tire da quale età ha senso cominciare a insegnare certe cose; oppure, per converso, fino a quale età la mente conserva la necessaria elasticità perché si formino certe strutture. Questioni ancora in gran parte aperte. Que­ stioni sulle quali il pensiero di Piaget può suggerire al-

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meno interessanti e proficue ipotesi di lavoro . Che cos'è il fenomeno QZERTY? E un fenomeno che si verifica nelle macchine da scrivere. Le prime lettere della tastiera hanno proprio quella sequenza. Pare che siano state scelte in tal modo per ovviare ad un incon­ veniente che un tempo si verificava spesso. Due tasti battuti successivamente potevano urtarsi e incepparsi. Allora si scelse la contiguità delle varie lettere in modo tale da ridurre al minimo la possibilità di quegl'incon­ tri. Oggi la precauzione non sarebbe più necessaria, per­ ché le moderne macchine da scrivere non presentano quel pericolo. Ma sarebbe possibile passare ad un altro tipo di disposizione, ora che milioni e milioni di perso­ ne sono abituate a battere velocemente con quella ta­ stiera? Il costo dell'operazione sarebbe enorme e il gio­ co non varrebbe la candela. Secondo Seymour Papert il fenomeno QZERTY si verifica largamente negli attuali sistemi d'insegnamen­ to, che perpetuano dannosamente schemi e strategie, for­ se utili un tempo, ma sostituibili oggi con altri più pro­ ficui, grazie all' avanzamento tecnologico e soprattutto grazie al diffondersi della cultura informatica. Papert è un matematico che ha collaborato per alcu­ ni anni con Jean Piaget al Centro Internazionale di Epi­ stemologia Genetica di Ginevra e che si trova attual­ mente al Laboratorio di Intelligenza Artificiale del MIT negli Stati Uniti. Dal connubio fra l'impostazione piagetiana e il mon­ do dell'informatica nasce qualcosa di altamente sugge­ stivo. L' ambizione dichiarata di Papert è addirittura sconcertante: «Il Piaget della teoria degli stadi è essen­ zialmente conservatore, quasi reazionario, nell'enfatiz­ zare ciò che i bambini non possono fare. Io cerco di ri­ velare un Piaget più rivoluzionario, le cui idee episte­ mologiche potrebbero estendere i limiti conosciuti del­ la mente umana. In tutti questi anni esse non l'hanno

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potuto fare, in quanto prive di un mezzo per essere rea­ lizzate, di una tecnologia che l'elaboratore matematico or� comincia a rendere disponibile». E noto che da molti anni i mezzi audiovisivi e gli ela­ boratori elettronici vengono applicati all'insegnamento di tutti i livelli. Ma Papert contesta le forme correnti di queste applicazioni. Secondo lui si usa il mezzo mo­ derno per sviluppare e potenziare modi d'insegnamen­ to antiquato. Non è approfondendo il funzionamento delle carrozze a cavalli ed analizzandolo nei dettagli che s'inventa l' automobile. E, una volta inventata l'auto­ mobile, è un errore fare quello che si fece inizialmente, costruendola come una carrozza tradizionale, ma senza cavalli. Un punto centrale della concezione piagetiana è che il bambino costruisce le sue strutture intellettuali diri­ gendo la sua attività sensomotoria in continua intera­ zione con l' ambiente. Cosl elabora il suo pensiero «con­ creto» che è già formato a sei anni. Solo molto più tar­ di, verso i dodici anni, quando è già a scuola, conquista il pensiero «formale» e diventa capace di ordinare siste­ maticamente concetti astratti. L'idea di Papert è che l'uso del calcolatore possa ren­ dere concreto il formale, accelerando e migliorando tutto il processo. Come inizialmente il bambino impara pro­ grammando il proprio corpo, cosl potrà naturalmente entrare nel mondo della matematica programmando un opportuno calcolatore, che diventa quasi un'estensione del proprio corpo. Se la «matofobia», cioè la paura del­ la matematica (o dell'imparare in genere) è cosl larga­ mente diffusa, ciò è frutto di un errato metodo d'inse­ gnamento astratto e dissociato dall' attività dello scola­ ro. «