Simbolo dell'America e dell'Occidente, la metropoli per definizione viene spiata da Sharon Zukin con appassion
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Italian Pages 280 [288] Year 2013
Table of contents :
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ai miei studenti e per gli studenti delle città, in ogni luogo
L’inizio di un’opera è il suo vero inizio, oppure esiste un qualche altro punto segreto da cui essa più autenticamente prende il via? E. Said, Beginnings
Sharon Zukin
L’altra New York Alla ricerca della metropoli autentica
il Mulino
Crediti Le foto 6, 7, 8, 16 sono di Richard Rosen. Le foto 11, 12, 13, 14, 17, 18, 19 sono di Sharon Zukin.
ISBN
978-88-15-24164-1
Edizione originale: Naked City. The Death and Life of Authentic Ur ban Places, New York, Oxford University Press, 2010 (eccetto capp. 5-6). Copyright © 2010 by Sharon Zukin. AU rights reserved. Copyright © 2013 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Federica Davolio. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d‘Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
I lettori che desiderano informarsi sui libri e suU’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it Finito di stampare nel mese di gennaio 2013 dalla litosei, via rossini 10, rastignano, bologna, www.litosei.com Stampato su carta Munken Print White Arctic Paper, prodotta nel pieno rispetto del patrimonio boschivo
Indice
Prefazione
p. 7
Introduzione. La città che ha perduto l’anima
15
I.
Come Brooklyn è diventata «cool»
55
IL
Perché Harlem non è un ghetto
95
III.
La vita locale nell’East Village
143
IV.
Union Square e il paradosso dello spazio pubblico 183
Conclusioni. Il «branding» culturale e la crisi dell’autenticità
233
Indice dei nomi
273
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Abbreviazioni Bid
Business Improvement District
Ldc
Local Development Corporation
Lmdc
Lower Manhattan Development Corporation
Mba
Master in Business Administration
Nyu
New York University
Umez
Upper Manhattan Empowerment Zone
Ymca
Young Men’s Christian Association
Wtc
World Trade Center
Prefazione
Questo è un buon momento per fare il bilancio dei cambiamenti che hanno investito di recente città che co nosciamo bene, cambiamenti che ci sorprendono nel tran tran quotidiano mentre attraversiamo i nostri quartieri e che contraddicono le immagini che vediamo nella cultura popolare dei replay televisivi e dei vecchi film noir. Il titolo originale di questo volume, La città nuda (Naked City), de riva da uno di questi film, un poliziesco in bianco e nero del 1948 che segue le orme di un sospettato di omicidio da Park Avenue al Lower East Side fino a un punto senza via d’uscita sul ponte di Williamsburg, in alto sull’East River. Realistico per l’epoca, soprattutto per essere stato girato in esterni, La città nuda contrappone la forza bruta dei grat tacieli di New York alla vitalità culturale delle sue strade e la quotidianità degli uomini e delle donne che lavorano nei negozietti e nei piccoli ristoranti (diners), che guidano taxi, puliscono uffici e risolvono crimini. «Ci sono 8 milioni di storie nella città nuda», sono le famose parole pronunciate dalla voce narrante fuoricampo. Ma avrebbe potuto ugual mente dire: sono queste storie, questi edifici e queste strade che creano la città autentica del nostro tempo. Oggi questa città in bianco e nero sembra meno statica e autentica di quanto non fosse nel 1948. Negli ultimi anni, le città sono diventate i cantieri di una massiccia ricostru zione: i bulldozer demoliscono vecchi edifici, enormi esca vatrici preparano il terreno perché altre grandi macchine possano gettare nuove fondamenta, e le gru sbucano dal suolo come puntine da disegno. Dal 2008, tuttavia, una crisi economica mondiale ha fermato le armi finanziarie della costruzione di massa. Si è trattato di qualcosa di più della periodica frenata nel boom immobiliare che alimen-
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Prefazione
tava la crescita economica globale. Questa crisi ha inter rotto ^alternarsi delle maree delle «origini» e dei «nuovi inizi» che senza sosta bagnano le rive della città, gli alti e bassi della crescita economica, dell’immigrazione e, più recentemente, della gentrific azione. Appena prima che esplodesse la crisi, i newyorkesi si lamentavano del loro disincanto nei riguardi della città. Troppi punti di riferimento a loro cari erano scomparsi, rimpiazzati da anonimi palazzi. Uno dopo l’altro i quartieri avevano perduto le loro dimensioni contenute e la loro iden tità locale. Persone che erano rimaste in un luogo per un tempo che sembrava eterno - affittuari, negozi a conduzione familiare, intere comunità di artisti, lavoratori, persone di colore - all’improvviso erano svanite. Al loro posto ci era vamo trovati davanti «gentrificatori», cocktail bar, Starbucks e H&M. I realisti accantonavano queste lagnanze come pa lese nostalgia e facevano presente che le città sono sempre in cambiamento, ma i cinici - spesso gli innamorati della città più idealisti - insistevano che New York non era più «autentica». La città, dicevano, aveva perso la sua anima. Io sono tra quei newyorkesi. Non sono ancora disin cantata, però ho assistito anch’io con sgomento al modo in cui la città si è trasformata da pesante, goffo gigante moderno ad una replica più raffinata, più patinata e più costosa di ciò che era stata. Ho interpretato tutto ciò non solo come un graduale o addirittura inevitabile processo di rivitalizz azione, ma come un percorso.rotatoe mirato di distruzione, che ha avuto inizio negli anni Ottanta e da allora ha continuato a prendere velocità. Non credo che il mio sgomento sia nostalgia. Non mi manca la crimina lità di strada, lo spaccio di eroina o le carrozze della me tropolitana coperte di graffiti. Non penso che gli inquilini poveri dovrebbero essere condannati a vivere per sempre in appartamenti antiquati, con la vasca da bagno in cucina, perché il padrone di casa si rifiuta di costruire un bagno. Mi mancano però l’aspetto e l’atmosfera di quartieri la cui diversità sociale era tangibile, negli odori e nei suoni delle cucine etniche, nelle gallerie d’arte sperimentale e negli spazi per performance, nelle facce e nelle voci di persone 8
Prefazione
che venivano da ogni, dove a creare il carattere peculiare di quelle strade. Posso ancora trovare questi quartieri a Brooklyn, nel Bronx e nel Queens, dove le vie dei negozi, un tempo popolate da irlandesi, ebrei e italiani, oggi sono mosaici multietnici di cinesi, russi, latinoamericani e pakistani. Il distretto degli artisti di SoHo, la scena controculturale dell’East Village e l’area del rock indipendente a Wil liamsburg si sono semplicemente trasferiti in quartieri più economici e più lontani da Manhattan. Harlem è stata va lorizzata e integrata dal punto di vista razziale. Eppure, la storica diversità cittadina di usi, specialità locali e pic coli negozi, nonché il contatto gomito a gomito di ricchi, poveri e appartenenti all’ampia categoria del ceto medio, come fossero quadrati di una scacchiera tutto ciò è stato spazzato via da una marea di nuovi appartamenti di lusso e catene di negozi. Società d’investimento globali hanno ac quistato migliaia di condomini dove gli affitti sono modesti e si preparano ad alzare la cifra richiesta oppure a vendere gli appartamenti, sfrattando gli inquilini più anziani e più poveri. Il fertile terroir urbano della creazione culturale è stMojmJd^lita.si^ e potere tipiche degli imprenditori immobiliari privati e dei fun zionari pubblici - che costruiscono per i ricchi e sperano che i benefici si diffondano, in un effetto a cascata, fino ai poveri -, siache traduce l’identità di un quartiere in unflnarchio^sia, ancora, dai gusti dellejiuoye classi medie urbaine; attratte inizialmente da questa identità ma destinate infine a distruggerla. Queste forze deha nqualificazione urbana hanno levigato gli strati irregolari dello squallore e deL^Umaur. hantia_spazzato via lgJLyM.cce.di_una storia controversa, hanno sollevato dubbi sull’idea che anche i poveri abbiano dirittoà"iHvefe^Tàvorare qui rendeva la città autentica. La ricostruzione~db^r^airpubWcV^e’dia_avuto inizio copigli anni Ottanta mostra i segni delle medesim^fqrze uniformanti jzhe caratterizzano la riqualificazione. Come il sito del World Trade Center, che è in parte un luogo per piangere il lutto e in parte uno spettacolo offerto al
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Prefazione
consumo di massa, questi spazi sono finanziati da privati e si concentrano sulle due questioni che dal 2001 in poi sono diventate le nostre preoccupazioni: lo shopping e la sicurezza. I parchi pubblici che oggi sono amministrati dai Business Improvement District beneficiano certamente di strade più pulite e di una maggior sicurezza pubblica. Ma paghiamo un prezzo salato per queste comodità, dal momento che esse dipendono da forze che non possiamo controllare - associazioni la macchina buròcràfica della polizia, le aziende di servizi di vigilanza -, segnalandoci che siamo pronti a rinunciare alla nostra in disciplinata democrazia. Questo è un altro modo in cui la città perde la sua anima. Passeggiando per New York vedo persone, strade, quar tieri e spazi pubblici riqualificati, resi raffinati e uniformi al punto di perdere la loro identità originaria. Non tutti sono luoghi storici, dal momento che uno degli elementi distintivi più importanti della città è il suo alimentare un dialogo continuo tra le due facce dell'autenticità: fra i tratti che ogni generazione vede come «originali» poiché sono stati sempre presenti nell’arco della loro vita, e quelli che ogni nuova generazione crea per conto proprio. La tensione tra le .origini e i nuovi inizi produce il desiderio ‘'di preser vare la città -T obiettivo dei còhséfvàzionisti sforici dagli anni Sessanta in poi - e di sviluppare centri di innovazione culturale, che dagli anni Ottanta in poi è stato l’obiettivo dei tanti che volevano trovare una ricetta magica per un rapido sviluppo commerciale. Questa tensione ha reso New York più moderna, più interessante ma anche più vulnerabile di quanto non sembrasse all’epoca in cui fu girato La città nuda, e mi ha anche convinto che non sia ancora chiuso il dibattito tra Robert Moses, lo straordina rio urbanista pubblico che tra gli anni Trenta e Sessanta realizzò parchi, ponti, complessi di edilizia popolare, e la grande scrittrice urbana e organizzatrice di quartiere Jane Jacobs, che alla fine degli anni Cinquanta, insieme ai suoi vicini e ai suoi alleati, sfidò Moses e vinse. Se Moses spin geva per costruire la città degli affari, Jacobs lottava per preservare il villaggio urbano. 10
Prefazione
Anche se Jacobs e il suo gruppo di attivisti riuscirono a fermare i progetti di Moses, che puntavano a distruggere parti significative di Lower Manhattan e a rimpiazzarle con autostrade e alti complessi di edilizia popolare, la battaglia tra la città degli affari e il villaggio urbano prosegue am cora oggi. Viene combattuta non solo nella concretezza dei nuovi progetti edilizi, ma anche nei termini di quali gruppi abbiano il diritto di abitare le varie forme della città, sia quelle vecchie che quelle nuove. Chi bmeficù dell,a„xivitalizzazipne della. città? E riconosciuto a tutti i£dirittp di essere protetti dallo sfratto? Queste questioni, che il teorico sociale Francese "Henri Lefebvre chiama «diritto alla città», rendono importante stabilire come l’autenticità., deha città venga prodotta, interpretata e utilizzata. Né Jane Jacobs né Robert Moses parlavano di «auten ticità». Entrambi, negli anni Cinquanta, avrebbero trovato non indispensabile o addirittura fuorviarne utilizzare questo termine nel loro lavoro. Ma negli ultimi anni esso si è insi nuato nel linguaggio popolare, e lo ritroviamo nelle insegne dei negozi - proprio lì sulla 14a Strada: «Mango Rosso: lo Yogurt autentico» - così come nelle strategie di marketing e nelle critiche culturali. L^ivendicazionm.ddllautenticità diventa predominante in un’epoca in cui le identità sonojnstabili e le persone sono valutate in base alle loro prestazioni più che alla loro storia o al loro carattere innato. A queste condizioni, l’autenticità differenzia una persona, un prodotto o un gruppo dai suoi concorrenti; conferisce un’aura di su periorità morale, un vantaggio strategico che ciascuno può usare a proprio tornaconto. In realtà sono pochi i gruppi che possono essere autentici secondo le accezioni contrad dittorie con cui intendiamo il termine: da un lato l’essere originari, primi da un punto di vista storico o veri rispetto a una concezione tradizionale, e dall’altro l’essere unici, nuovi da un punto di vista storico, innovativi e creativi. Al giorno d’oggi, tuttavia, non è neppure indispensabile per un gruppo essere autentico: potrebbe essere sufficiente affermare di vedere l’autenticità per controllarne i vantaggi. Se l’autenticità ha una natura schizoide, può essere anche deliberatamente fabbricata assemblando frammenti 11
Prefazione
grandi e piccoli di riferimenti culturali: graffiti abilmente dipinti su una vetrina, segatura sul pavimento di un music bar, un domicilio in una parte della città un po’ squallida ma non troppo malfamata. Questi tratti fittizi di autenticità non scmojYmaz hanno un effetto di realtà sul nostro modo dTimmaginare la città, e un effètto altrettanto reale sui nuovi caffè, negozi e luoghi gentrificati dove ci piace vi vere e fare acquisti. Poiché la diffusione del termine riflette l’importanza dei nostri ruoh come consumatori culturali (di arte, di cibo e di immagini della città, così come del suo mercato immobiliare), l’autenticità diventa uno strumento accanto a quelli del potere economico e deTpotere apolitico - per controllare non solo l’aspetto, ma anche l’uso dei veri luoghi urbani? quartièri?' parchi? giardini comunitari strade dello shopping. L’autenticità è quindi una forma culturale di potere sullo spazio che esercita una pressione sulla vec chia working-class e sugli strati inferiori della ~3assè"media, che non’possono piu di vivere o lavorare qui/ Se però ridefinissimo l’autenticitàjome un diritto culturaleMi tutti a fare della città il proprio luogo perma nente in cui vivere è IaVòfàFéf"essa’"potreHBè'trasformarsi in uno stFumènfó" potente per combattere i recenti effètti negativi "di uria créscita ches punta al lusso e all’esclusività. Questo non significa la fine delle battaglie per il controllò degli spazi urbani, di quelle tra gentrificatori e residenti di lunga data, o tra i Business Improvement District e le organizzazioni di quartiere, o ancora tra un sindaco che vuole costruire in grande, nello stile di Robert Moses, e i conservazionisti storici e gli attivisti delle comunità che rifiutano questo genere di edilizia, nello stile di Jane Jacobs. Piuttosto il diritto di produrre luoghi autentici in entrambi i sensi - storicamente vecchio, creativamente nuovo - offre un’alternativa al genere di crescita che provoca l’allontana mento di molti gruppi: rivenicare.auten^^ assicurare un certo potere di controllo a n##/ gruppo. Questo punto di vista aggiorna la riflessione su cul tura e capitale nella città di New York che ho avviato nei miei libri precedenti, Loft Living e Lhe Cultures of Cities.
Prefazione
Oggi dispongo di una prospettiva più ampia per osservare i cambiamenti descritti in questi volumi, soprattutto la pro gressiva affermazione della cultura come strategia e tema della riqualificazione urbana, e lo sviluppo dell’economia simbolica dell’arte, della finanza, del cibo e della moda, che hanno avuto un ruolo determinante sia nell’alimentare che nel distruggere le culture distintive della città. Alcuni lettori potrebbero sentirsi a disagio per il crescente rilievo che la cultura assume in questo approccio, e per il mio concen trarmi su un concetto apparentemente elitario come quello di autenticità. Ma interessarsi dell’autenticità non necessa riamente significa negare le forze del potere. Io credo che non si possa prendere in considerazione il potere di control lare gli spazi urbani, solitamente interpretato come potere ècohbmK^^ di capitali e potere legale dello Stato, senza prendere in considerazione il potere culturale dei media, inclusi quellipTSTZcS^ gusti dei consumatori. Tutti questi fattori oggi danno forma alla battaglia per il controllo del futuro della città. Negli ultimi cinque anni i miei studenti e la mia famiglia hanno dovuto convivere con questo libro, come visione struttu rante e come argomento di conversazione. I miei studenti se la sono cavata meglio ~ o forse voglio pensare che sia così, perché dopotutto non avevano molte alternative. Non avrei potuto scri vere questo libro senza l’aiuto prezioso di Valerie Trujillo, mia assistente di ricerca alla City University Graduate School durante i primi anni, che ha seguito metodicamente ogni mio impeto d’i spirazione, e ha tenuto il nostro progetto in carreggiata; senza il gruppo di ricerca informale degli studenti di dottorato che hanno lavorato fedelmente con me, in particolare Peter Frase, Danielle Jackson, Tim Recuber e Abraham Walker; e senza Kathleen Dunn, che ha condotto interviste approfondite e ulteriori ricer che. Andrew McKinney ha raccolto svariate informazioni, Peter Frase e Colin Ashley hanno condotto studi sul campo a impro babili ore del giorno (e della notte). Durante il suo ultimo anno come studente al Brooklyn College, Dmitri Chitov ha scritto un meraviglioso saggio sulle diverse tipologie di capitale sociale che ha contribuito a chiarire le mie idee. Mentre era studentessa di dottorato, la mia collega Tamara Mose-Brown ha condotto una ricerca indipendente che mi ha aiutato ad analizzare il potere
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Prefazione
culturale dei consumatori della classe media urbana. Non sarei stata in grado di espandere queste riflessioni senza l’opportunità di insegnare a, e imparare da, tutti questi studenti. Sono loro grata, e spero di non aver deluso le loro aspettative. Desidero an che ringraziare il Psc-Cuny Award Program, la cui piccola borsa di ricerca annuale ci ha permesso di continuare il nostro lavoro. Sono grata a David McBride, editor e amico, che ha creduto sin dall’inizio nella tesi di questo libro. Dave ha apportato la sua ampia conoscenza politica e culturale, e la sua specifica esperienza di alcuni quartieri di Brooklyn, alle sue mansioni editoriali, inse gnando a me tanto quanto io ho cercato di insegnare a lui. Niko Pfund ha dimostrato una gentilezza e un amore per i libri che credevo fossero scomparsi con i grandi editori del passato. Sono felice che il mio libro abbia trovato posto in questa famiglia. Per quanto riguarda la mia, di famiglia, continuo a contare sull’occhio fotografico di Richard Rosen e su quello critico di Elisabeth Zukin Rosen. Ho cercato di utilizzarli per il mio lavoro più spesso di quanto non ammetta, anche se - come mi fareb bero notare loro - non sempre ne ho seguito i consigli. Credo sia doveroso informare i lettori che hanno incontrato Elisabeth anche in The Cultures of Cities che ora - ormai studentessa al college -, quando cammina con me nel Lower East Side e nota nuove boutique e appartamenti di lusso, o viene con me al campo sportivo di Red Hook per mangiare empanadas, dimostra un sincero apprezzamento per la città.
Ho avuto l’opportunità di esporre parti della mia argomen tazione in alcuni saggi e articoli che ho pubblicato negli ultimi anni. Alcuni passaggi del capitolo I sono apparsi in Reading «The Urban Villagers» as a Cultural Document: Ethnicity, Modernity, and Capital, in «City and Community», 6, n. 1, marzo 2007, pp. 39-48; Consuming Authenticity: From Outposts ofDifference to Means of Exclusion, in «Cultural Studies», 22, n. 5, settembre 2008, pp. 724-748; e Changing Landscapes of Power: Opulence and the Crisis of Authenticity, in «International Journal of Ur ban and Regional Research», 33, n. 2, giugno 2009, pp. 543-553. Parte del capitolo III è stata pubblicata in un articolo scritto insieme a Ervin Kosta, Bourdieu Off-Broadway: Managing Di stinction on a Shopping Block in the East Village, in «City and Community», 3, n. 2, giugno 2004, pp. 101-114. Ogni errore o omissione è da attribuire solo a me.
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Introduzione
La città che ha perduto l’anima
Era una storia delle origini - una storia della creazio ne, in realtà - una storia sull’ossessione moderna per inizi sempre nuovi, ricominciamenti e trasformazioni. In breve, una storia sulla genesi della genesi.
H. Mus champ, «The New York Times», 28 febbraio 2007
All'inizio del XXI secolo la città di New York ha per duto la sua anima. C’è chi dubita che la città ne abbia mai posseduta una, dal momento che New York è sempre cresciuta facendo a pezzi il suo passato, demolendo vecchi quartieri e costruendone di nuovi al loro posto, solitamente per una sfacciata ricerca del profitto. C’è chi minimizza, dal momento che oggi tutte le grandi città stanno cancel lando la loro vera, concreta, tangibile storia per costruire una scintillante visione del futuro. Pechino, Shanghai e altre città cinesi stanno ripulendo i vicoli fatiscenti dei loro centri, allontanando residenti di lunga data agli estremi margini della città e sostituendo case piccole e vecchie con appartamenti lussuosi e nuovi grattacieli dal design spettacolare. Liverpool e Bilbao hanno demolito le zone antistanti il porto, in abbandono, e hanno trasformato dar sene scalcinate e depositi in musei d’arte contemporanea. A Londra, Parigi e New York, artisti e gentrificatori si in sediano in aree che sono state di immigrazione, decantan done i bar proletari e i locali da asporto per poi sopraffarli con nuovi caffè e boutique, seguiti a breve da catene di negozi di marca. Alla base di questi cambiamenti c’è una retorica univer sale della crescita in direzione di una maggior esclusività, fondata sia sul potere economico. del capitale e dello Stato che stflj^otere cultural^ dei media e d£i ^ustj dei consuma tori. Questa retorica sta portando alla luce" un YonfGttÒTra il desiderio degli abitanti di stabilire origini autentiche - il ;
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Introduzione
desiderio tradizionale, mitico, del mettere radici - e i loro nuovi inizi: la continua reinvenzione dei quartieri1. Anche solo parlare dell’autenticità di una città potrebbe sembrare assurdo. Specialmente in una capitale globale come New York, né le persone né gli edifìci giungono ad ac cumulare la patina degli anni. La maggior parte dei residenti non è nata qui, non vive nella stessa casa per generazioni, e attorno a loro il tessuto fìsico della città è costantemente in cambiamento. Di fatto, ovunque nel mondo il termine «manhattanizzazione» allude a tutto ciò che in una città non è sentito come autentico: edifici che ogni anno svettano più in alto, dense moltitudini tra le quali nessuno conosce il tuo nome, prezzi elevati per condizioni di vita scadenti, e un’intensa competizione per essere alla moda. Di recente, tuttavia, il concetto di autenticità ha assunto un significato diverso, da attributo delle persone ad attributo delle cose e più recentemente delle esperienze. La rivista «Time» ha inserito l’autenticità tra le 10 idee più importanti del 2007, in parte a causa della campagna promozionale di due guru del marketing, James H, Gilmore e B. Joseph Pine II, la cui opera enfatizza proprio il passaggio dalle cose all’espe rienza, e in parte a causa dell’ansietà alimentata da teorici sociali come Walter Benjamin e Jean Baudrillard, i quali hanno sostenuto che l’esperienza è sempre più sedotta dalle apparenze, attraverso la tecnologia, l’imitazione di ciò che è nuovo e l’ordinaria enfasi pubblicitaria della cultura di con sumo. Vista attraverso una qualunque di queste lenti, una città è autentica se riesce a creare l'esperienza delle origini, e questo avviene preservando edifìci e distretti storici, inco raggiando lo sviluppo di piccole boutique e caffè, ed etichet tando i quartieri in termini di identità culturali distintive2. Vera o no, allora, l^uteró . uno strumento Qualunque gruppo che affermi l’autenticità dei propri gusti in contrasto con quelli di altri può rivendicare una superiorità morale. Ma un_gruppo che impone i pro pri gusti su uno spazio urbano - l’aspetto di una strada, ad esempio, o l’atmosfera di un quartiere - può avanzare unariyen^ j?h e. .allont^ma. residenti che vivevano lì da tempo. Chiaramente, un gruppo che può 16
Introduzione
permettersi di pagare affitti più alti può essere anche ragio nevolmente certo che la propria rivendicazione prevarrà: gli artisti trasformano le aziende manifatturiere in loft che di ventano case-studio, e a loro volta sono scalzati da avvocati e magnati dei media che li rimpiazzano con appartamenti di lusso; un negozio gourmet di formaggi o un bar eccentrico sostituisce piccoli esercizi per il cambio di assegni o cibo d'asporto, e a sua volta viene soppiantato da una catena in grado di pagare svariate migliaia di dollari ogni mese per aggiudicarsi quella posizione. Ma il fatto più rilevante è che questo potere esercitato sullo spazio è culturale, oltre che economico. I nuovi gusti subentrano, a queffi dei residenti 1JungaJ[ata_poiché rinforzano le immagini di una retorica politica della crescita^réndéhHo la città un luogo di intrat tenimento permanente, con spazi sicuri, puliti, prevedibili e quartieri moderni ed esclusivi. Secondo il sociologo John Hannigan, i nuovi spazi culturali urbani più spettacolari una Times Square disneyfìcata o un distretto alternativo, hip ster, con gallerie d’arte, spazi per performance e ristorantini vegahi - promettono l’ebbrezza sicura di un «rischio senza rischio». Io preferisco pensarla nei termini di un più ordi nario «addomesticamento dello spazio tramite cappuccino», per cui luoghi desolati diventano esteticamente migliori con l’apertura di uno Starbucks o di un altro nuovo caffè. I gusti che sostengono questi nuovi spazi di consumo sono potenti, poiché mettono i vecchi residenti in una condizione di disa gio nel momento in cui i luoghi che ospitano il loro stile di vita vanno gradualmente a conformarsi a una diversa comu nità culturale. I bistrot sostituiscono i negozietti di alimen tari nei quartieri ispanici, pub vecchio stile si tramutano in cocktail bar, e nel complesso il quartiere dà vita a un diverso tipo di socialità. Al senso delle origini degli abitanti di lungo corso, i nuovi arrivati contrappongono i loro nuovi inizi3. Chi può dire, tuttavia, che questi nuovi spazi non siano autentici? Nuovi residenti,producono,, nuovi terroirs urbani, luoghi con uno specifico prodotto culturale e con un carattere che può essere venduto nel mondo, at tirando turisti e investitori e rendendo la città sicura - an che se certo non economica - per la classe media. Ma non
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Introduzione
è sempre stato così: prima degli anni Sessanta, la vita nel «villaggio urbano» originario dei quartieri etnici e work ing-class era una ri-creazione della tradizione. Nei quartieri gentrifìcati e hipster, che da allora sono divenuti modello di esperienza urbana, l’autenticità è uno stile di vita scelto consapevolmente e u(fa performance^ oltre che uno stru mento di estromissione4? Il desiderio di un'esperienza urbana autentica iniziò come reazione alla crisi degli anni Sessanta, quando le città americane erano normalmente descritte come vittime senza speranza di un morbo fatale: stavano perdendo le loro fa miglie bianche, e più benestanti a vantaggio dei sobborghi; scuole pubbliche, parchi e strade erano fatiscenti e fuori controllo; le autorità erano preoccupate sia dello scarto crescente tra i servizi che erano tenuti a fornire e le tasse che riuscivano a raccogliere da una popolazione più povera, sia della disastrosa differenza di percezione tra l’immagine affascinante e sofisticata del centro della città e quella dei quartieri che erano stati abbandonati da proprietari, resi denti, imprese. Le città stavano effettivamente perdendo terreno nella competizione con i sobborghi. Dopo la Seconda guerra mondiale, le politiche governative avevano sostenuto gli abitanti dei sobborghi più di quelli delle città, e le famiglie di ceto medio che potevano permetterselo - spesso con mu tui garantiti dal governo - uscirono dalle città, per cercare case più grandi con giardino e scuole migliori. Anche le sedi centrali delle aziende abbandonarono le città in favore delle periferie, dove si estesero lungo le autostrade a creare una rete disordinata di nuovi distretti affaristici, circondati da parcheggi. Le banche investirono in nuovi stabilimenti per la lavorazione dell’acciaio e delle automobili in Italia, Corea e Brasile, e l’industria aeronautica, quella dell’abbi gliamento e quella dell’elettronica cercarono ampie superfìci e forza lavoro economica prima in periferia e poi all’estero. I distretti working-class di Detroit, Chicago, Filadelfia, come pure quelli di New York, si trovarono così schiacciati tra l’ottimismo postbellico del progresso sociale e l’incapacità di comprendere e affrontare il loro destino postindustriale. 18
Introduzione
Quando i funzionari pubblici iniziarono a convincersi che le città soffrissero di una crisi d’immagine, contattarono i dirigenti aziendali per creare una nuova strategia di cre scita. Le città avrebbero dovuto attirare investitori e turisti - ovvero chi disponeva di mezzi economici - ricostruendo i loro centri e rendendosi attraenti quanto le periferie. A partire dagli anni Settanta, gli imprenditori edili trasforma rono terreni industriali e portuali in abbandono in centri commerciali, attrazioni remunerative in grado di competere con quelle dei sobborghi. La cultura - i teatri e i musei che mostrano il prodotto creativo esclusivo di una città - cercò di intercettare un pubblico più ampio al di fuori del centro
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Introduzione
urbano. Negli anni Ottanta, mentre le società finanziarie e l’industria immobiliare esercitavano un ruolo centrale nel ri modellare l’economia locale, soprattutto in città globali come New York, i distretti culturali, le zone di turismo etnico e i loft degli artisti offrivano un’immagine pulita della diversità adatta a un consumo di massa. Negli anni Novanta il suc cesso commerciale e la rilevanza mediatica globale di alcuni quartieri di New York, come SoHo e Times Square, sembra vano giustificare la promessa retorica dei loro nuovi inizi5. Ma i funzionari si erano dimenticati delle origini della città. «Origini» non si riferisce al gruppo che per primo si sia insediato in un cèrto quartière - còsa ardua se non ridi cola da dimostrare dal momento che ogni città è costituita su strati di migrazioni storiche - bensì rimanda ja un diritto morale alla città che permette alla popolazione dì mettere radici. Si tratta del dìfiHò di abitare uno spazio, non solo di consumarlo còme ùn’èspèt l’autenti cità non è un palcoscenico di edifici storici come quello di SoHo, oppure uno spettacolo di luci come quello di Times Square, ma piuttosto un continuo processo^fatto di vita e lavoro, un accumulò graduale .di esperienza quotidiana unito all’aspettativa che gli edifici e i dirimpettai di oggi saranno qui anche domani6’ Una città perde la sua anima quando si spezza questa continuità. Tutto ha inizio quando ci àccòfgiànio all’im provviso di piccoli cambiamenti nel nostro quartiere: da un giorno all’altro la ferramenta o il calzolaio chiudono; le sara cinesche si abbassano sulla vetrina dove barattoli di vernice antiruggine e attrezzi giacciono al sole; un cartello «affittasi» sostituisce quello malandato che segnala la realizzazione di suole in cuoio, e quello ancora più vecchio, scritto a mano, che recita «Non siamo responsabili per scarpe non ritirate oltre i trenta giorni». Scompaiono le lavanderie a gettone, dal momento che i nuovi residenti che comprano due piccoli appartamenti o un intero edificio di 4 piani, abbattono le pareti per ampliare le stanze e installare lavatrici e asciuga trici. Il bar italiano con la televisione sempre sintonizzata su una partita di calcio lascia il posto prima a un negozio di videonoleggio e poi a uno Starbucks. La ripetizione seriale
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Introduzione
di piccoli negozi che per tanto tempo ha definito i quartieri della città gradualmente si interrompe per implosione, a causa di nuovi investimenti, nuovi residenti e dei «bulldozer implacabili ddTQmogen^i^azipne» 7 . Questi cambiamenti non sono solo qualcosa che ve diamo: essi trasformano anche la nostra quotidianità. Al cune novità sono benvenute, come poter gustare un cap puccino al posto di un intruglio amaro a base di caffeina, anche se certo possono essere costose: si arriva a pagare il doppio per il cappuccino, il triplo per un paio di suole di gomma dal calzolaio che qualche isolato più in là deve pa gare un affitto più alto per il nuovo negozio. Altri cambia menti invece ci fanno sentire stranieri nel quartiere in cui abbiamo vissuto per anni, come quando il farmacista che conosce a memoria le nostre ricette è rimpiazzato da una catena come CVS in cui non vediamo mai lo stesso com messo due volte. «Ogni quartiere è talmente completo», scriveva E.B. White nel 1949, «ed è così forte il senso di appartenenza dei suoi abitanti che un gran numero di new yorkesi passa la vita in una zona i cui confini sono più pic coli di quelli di un paesetto. Basta che si allontanino un paio di isolati per sentirsi in un paese straniero e stare a disagio finché non rientrano»8. Ma non si tratta soltanto dei negozi: anche le persone sono diverse. In alcuni quartieri artisti, attori, program matori, musicisti - la scena hip - chiacchierano nei caffè all’aperto, si trovano per un brunch alle due di pomeriggio, escono a mezzanotte per recarsi in spazi per performance artistiche allestiti all’interno di ex magazzini e locali con musica dal vivo. In altre aree della città redattori, profes sori, avvocati e scrittori spingono passeggini, parlano al cellulare e guardano le vetrine di piccoli negozi di design: questi «bohémien borghesi» preferiscono condurre una vita confortevole, soprattutto dopo l’arrivo dei figli, ma non vogliono vivere come hanno vissuto i loro genitori soprattutto non nelle periferie - e non li disturba un po’ di sporcizia in strada, a patto che si sentano al sicuro. Nelle aree in cui Jé.jjen t a nuova aria cosmopolita: tollerante, alla moda, informale. Il 21
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che non è male. Eppure pian piano i piccoli quartieri etnici in cui questa popolazione si trasferisce stanno morendo, in sieme agli stabilimenti dove lavoravano i residenti di lunga data e ai pub irlandesi, alle botteghe latinoamericane, ai ristoranti afroamericani dove essi potevano sentirsi a casa, pur essendone lontani. Gli abitanti che sembravano così radicati in questi quartieri scompaiono. Ancora negli anni Ottanta molte di queste aree appa rivano in condizioni di degrado, con case abbandonate e parcheggi vuoti coperti di immondizia, e anche peggio. Si temeva per quartieri che sembravano avviati alla rovina: da case e negozi modesti a povertà, alti tassi di criminalità, strade sporche e turbolente. E ora invece Bowery è passata da via malfamata a viale di boutique hotel, Harlem si è po polata di caffè e Williamsburg di condomini sul lungo fiume. Spesso diamo a questi cambiamenti il nome di «gentrificazione», dal momento che sono associati allo spostamento di fasce di popolazione benestante e colta ~ la gentry - in quar tieri popolari e alla crescita del valore degli immobili che ne consegue, per cui un’area «in declino» si trasforma in un quartiere costoso dotato di fascino storico oppure alla moda. Inizialmente questi cambiamenti sono limitati alle zone circostanti il centro originario della città, dove graziose brownstone houses (le case in arenaria) o edifici in mattoni rossi stanno cedendo all’usura del tempo e dove si trasferi scono artisti, scrittori e talvolta avvocati e professori oppure curatori di musei, musicisti e fumettisti, alla ricerca della bella vita a prezzo contenuto, come afferma il sociologo Pierre Bourdieu a proposito del «consumo aspirazionale» dei professionisti in ambiti culturali. È successo al Gre enwich Village negli anni Venti, a Brooklyn Heights dopo la Seconda guerra mondiale, a Park Slope negli anni Sessanta, a SoHo dopo il 1970. Tuttavia, alcuni anni dopo, a seconda di quanto generosamente i mercati finanziari hanno premiato i grandi investitori e i loro consulenti, i valori delle proprietà immobiliari si alzano in tutta la città, e questi nuovi inizi si allargano dal centro ad altri quartieri. Nelle aree gentrificate i proprietari benestanti delle classi medio-alte vendono le loro case e i loro appartamenti elegantemente ristrutturati
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ai super ricchi. Loretta Lees, geografa britannica, chiama questo processo «supgrge&tt^ Tuttavia, quando un quartiere dopo l’altro cresce di valore e i nuovi residenti non si limitano a sistemare vecchie case e loft ma si trasferiscono in nuovi condomini di lusso, mentre negozi a conduzione familiare vengono sostituiti da filiali di banche, ristoranti di tendenza e catene di negozi di marca, stiamo assistendo a qualcosa di più di uno specifico corso della gentrificazione. Neil Smith definisce questo fenomeno «gentrificazione gei^mhzzatà». Io invece penso che si tratti di un processo ampio di ri-urbahìzzazione,>con cambiamenti che riducono l’influenza delle vecchie industrie e degli stili di vita ad esse associati mentre espandono lo spazio occupato dai colletti bianchi e dalla loro fissazione per lo shopping e altre forme di consumo. Questo processo aggiunge nuovi residenti - con i loro gusti e le loro priorità - all’amalgama cittadino e crea non solo una divisione economica ma anche una barriera xukurale ^2van^ e Questo è xiò che accade..quando ima città perde Ia_s anima9. La nostra non è la prima generazione di cittadini che la menta una perdita delle origini. In Gotham, Edwin Burrows e Mike Wallace evidenziano come New York abbia dovuto affrontare l’erosione della trama fisica della città perlomeno già dal grande boom edilizio di metà Ottocento. Manhat tan è una «moderna città di rovine», scriveva il «New-York Mirror» nel 1853, «un edificio pregevole non fa in tempo ad essere completato che viene subito demolito». E «Har per’s Monthly»: «Un uomo nato a New York quarantanni fa non trova nulla, assolutamente nulla, della New York che conosceva». All’inizio del Novecento, entrando nel porto di New York dalla vecchia Europa lo scrittore Henry James aggiunse la sua voce al coro dei lamenti, criticando gli edifici alti - all’epoca 10 piani - che torreggiavano sulle guglie della Trinity Church vicino a Wall Street. Nonostante la solidità di una costruzione in acciaio e granito, i neonati grattacieli ap parvero ai suoi occhi come spilli sull’affollato «cuscinetto» di Lower Manhattan. Mancano di senso storico, scriveva James: a differenza di «torri, templi, fortezze e palazzi» - potenti ricordi delle origini antiche di una città - agli alti edifici di
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New York manca «non soltanto l’autorità delle cose perma nenti, ma anche quella delle cose durevoli»10. Con queste parole, Henry James toccava corde che ri suonano nel presente: dall’ostilità per l’iperedificazione al desiderio di frenare un cambiamento troppo rapido, al di sgusto per un’estetica della standardizzazione - per città e quartieri tutti simili tra loro. Come i parigini, che a metà Ottocento deploravano la ricostruzione della città sulle sue origini medievali operata dal barone Haussmann, James di pinge con rimpianto il paesaggio della memoria e dei senti menti che era stato distrutto da una nuova ondata edilizia, alimentata dalla crescita economica e dalla grinta degli im prenditori dell’acciaio, dei trasporti ferroviari, delle banche. Meno consapevolmente, lo scrittore testimonia anche l’arro ganza di un’intera epoca di modernizzazione e di un potere statale in base al quale i politici appoggiano gli imprenditori immobiliari, modificando la destinazione d’uso di appezza menti di grande valore con l’obiettivo di fare soldi. I temi critici di Henry James furono affondati prima dalla prosperità e dal credito facile alle imprese edili, poi dalla Grande Depressione e dalla Seconda guerra mondiale. La necessità di spostare capitali su altre priorità impose una pausa di trent’anni nel processo di demolizione ed edifica zione di tutte le città statunitensi. La conversione ad un’eco nomia postbellica portò nuovi investimenti al sistema stradale di grande comunicazione e all’edilizia suburbana, ma anche - in seguito alla pressione di funzionari pubblici e impren ditori edili locali - alla ricostruzione dei centri urbani, che apparivano vecchi e scalcinati al confronto con le villette e i centri commerciali di Levittown e con la valle di San Fer nando, e non riuscivano a proiettare un’immagine degli Stati Uniti come potenza globale. Durante la Grande Depressione, magnati e lobby dell’industria immobiliare fecero pressione affinché il governo si adoperasse per la rimozione della «piaga» di affittuari dimessi, strade a luci rosse e dormitori che si addensavano in zone derelitte e malfamate intorno al cuore economico delle grandi città, dove si trovavano muni cipio, stazione degli autobus, grandi magazzini. A differenza di quanto fece Franklin D. Roosevelt, però, non chiesero 24
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adeguate soluzioni abitative per i poveri. Tuttavia, dopo la guerra capitani d’industria e funzionari statali si dimostra rono disponibili ad accettare fondi federali per progetti di edilizia popolare e per la realizzazione di nuovi centri ammi nistrativi, a patto di essere autorizzati a smantellare quartieri abitati da poveri e classi popolari per costruire immobili per uffici, case di lusso, centri culturali, hotel. Il Titolo 1 della legge per l’edilizia popolare, approvato dal Congresso nel 1949, includeva una disposizione che finanziava questi pro getti, come pure l’espansione delle università urbane, e per metteva a investitori immobiliari e imprenditori del settore pubblico di far crescere la città come desideravano11. Questa visione della città provocò opposizione e addi rittura indignazione. I temi critici sollevati da Henry James riemersero, ma in chiave più populista. Mentre lo scrittore non aveva mai apprezzato gli immigrati - soprattutto ebrei - che al suo tempo affollavano le case popolari del Lower East Side, i critici della riqualificazione urbana aggiunsero quelli che oggi chiameremmo obiettivi positivi di accessibi lità economica e diversità sociale all’ostilità di James verso l’edificazione eccessiva. Nella città di Boston, il sociologo e studioso di urbanistic !
Jay-Z, Biggie Smalls, negri - fatevela sotto, Brooklyn, avanti! Colpiamo e cadete, Siete pazzi, pensate che qualche vostra rima possa tagliarmi fuori? Io vengo da Marcy, squadra titolare, e vi frego, squadra di riserva.
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Jay-Z, Brooklyn's Finest, 1996
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A metà degli anni Novanta, quando Spike Lee adattò il romanzo Clockers per lo schermo e spostò Tambienta zione dalla città immaginaria di Dempsy, nel New Jersey, alle strade reali di Brooklyn, proiettò i quartieri neri e gritty del distretto al centro virtuale della cultura popolare. Lee aveva ambientato i suoi film a Brooklyn e aveva girato lì sin dagli esordi della sua carriera dieci anni prima. La sua prima pellicola, ]oes Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads (1983) è praticamente un film di quartiere. Il suo secondo film, Shes Gotta Have It (1986, uscito in Italia col titolo Lola Darling) si apre con una ripresa del ponte di Brook lyn. A differenza degli altri registi, che tendono a filmare il ponte di fronte allo skyline di Manhattan, Lee si concentra sulla riva di Brooklyn. Utilizza punti di riferimento come il Fulton Mail, la Promenade di Brooklyn Heights e il parco di Fort Greene, dove ambienta una sequenza immaginaria a colori di 6 minuti. Per introdurre il personaggio di Mars, impersonato dallo stesso Lee, il regista ce lo mostra mentre scende in bicicletta un pendio della zona di Dumbo. Nel caso il pubblico avesse bisogno di un segno più palese per 79
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identificare i neri con Brooklyn, Lee fa indossare a Radio Raheem, un personaggio di un suo film successivo [Fa’ la cosa giusta, del 1989) una maglietta con la scritta «BedfordStuyvesant». E la canzone di apertura di Clockers dichiara che «Brooklyn è il distretto». Attraverso tutti questi dispo sitivi, i film di Lee sostituiscono Harlem, icona di lunga data dell’identità urbana afroamericana, con i quartieri neri di Brooklyn30. Le immagini di questi quartieri proposte da Lee se guono un modello stabilito dai registi afroamericani Oscar Michaux e Charles Burnett, che dipingono la vita quoti diana in aree working-class dei quartieri poveri. Ma seguono anche street movies su New York, come Strada sbarrata (1937) e Un albero cresce a Brooklyn (1945), che intendono mostrare l’autentica vita urbana attraverso la lente di un singolo isolato. Tuttavia, a differenza di questi predecessori, girati su set di Hollywood progettati per sembrare strade newyorkesi, sia Fa1 la cosa giusta che Crooklyn (1994) sono ambientati su una vera strada di case in arenaria nella zona di Bedford-Stuyvesant. Lee usa le strade in modo teatrale, come se fossero un set. In questo luogo, che non è tanto diverso dalla strada gentrificata di Park Slope de 11 calamaro e la balena, rabbia e frustrazione traboccano in violenza; Eppure al centro di ciascuno di questi film, famiglie amo revoli e personaggi familiari guardano l’andirivieni di vicini e amici e commentano, come un coro greco. Come afferma Mos Def - artista hip-hop e attore cresciuto a BedfordStuyvesant - facendo eco alla prospettiva odierna su Brook lyn, «Qui si respira ancora quello spirito dei quartieri delle cittadine. La gente si conosce ed è molto leale al proprio quartiere». Ma Fa la cosa giusta non tace le tensioni etniche e sociali cariche di odio così comuni negli anni Ottanta à New York e in altre città americane. La tragedia della co munità nera di Brooklyn all’epoca è il conflitto tra insiders é outsiders, che vede gli afroamericani gli uni contro gli altri; contro gli italiani che posseggono la pizzeria all’angolo e contro il fruttivendolo coreano arrivato di recente31. Lee girò anche video di musicisti hip-hop, ma Brooklyn non era ancora nota per questo genere musicale. I dj che ne
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svilupparono il ritmo e le tecniche di campionamento negli anni Settanta arrivavano dal Bronx. E stato solo negli anni Ottanta e Novanta - quando i rappers improvvisavano testi più che fare ritmo - che una nuova generazione avanzò una rivendicazione verbale deU’«autenticità» degli altri distretti intorno a Manhattan caratterizzati da una significativa po polazione nera: Brooklyn e il Queens. Se Jay-Z e Busta Rhymes «rappresentavano» un quartiere afroamericano come Bedford-Stuyvesant o East Flatbush o un complesso di edilizia popolare come Marcy Houses, questo significava che il loro prodotto era autentico - sia per il pubblico nero che si aspettava una musica «vera» in termini di evocazione dell’esperienza razziale, sia per il pubblico bianco, che la amava perché raccontava il pericolo. Come i film dei registi neri, V hip-hop degli anni Novanta si è spostato dalla rap presentazione di uno spazio astratto chiamato «il ghetto» al nominare strade specifiche e punti di riferimento del quartiere. E alcuni di questi quartieri erano a Brooklyn32. Nominare i quartieri offriva agli artisti hip-hop uno strumento per marcare i loro prodotti in termini di prove nienza, un fatto importante visto che la posta in gioco dal punto di vista economico e culturale per avere successo nel business della musica era molto alta. Proprio come Nike e Adidas avevano atleti neri come testimonial, così altri mar chi di abbigliamento, automobili, cellulari assunsero artisti hip-hop per promuovere i loro prodotti. Questo creò un complesso multimiliardario di sport-moda-intrattenimento che includeva Def Jam, Roc-a-Fella e le case di produzione Bad Boy Records a New York e Death Row Records a Los Angeles, tutte etichette avviate da imprenditori dell’hip-hop. Quando il gangsta rap ha fatto la fortuna di queste etichette alla metà degli anni Novanta, i suoi testi rappresentavano e rinforzavano ^«autenticità» dei quartieri neri, con un’enfasi particolare su Bedford-Stuyvesant, patria di Jay-Z e di Big gie Smalls, il «Notorious B.I.G.», un corpulento rapper che per breve tempo fu l’artista hip-hop più importante della Bad Boy Records. Con un nome d’arte ispirato al personaggio di una com media gangster di Sidney Poitier del 1970, Biggie Smalls
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era maestoso non soltanto per le sue dimensioni. Faceva rap sul fatto di essere uno spacciatore e di aver conosciuto il carcere, usando un linguaggio esplicito per descrivere un quartiere di scontri armati e spaccio di cocaina. Con il suo personaggio non meno che con i suoi testi, rappresentava il distretto da cui proveniva come una culla di cultura hip-hop «autentica» con tutto ciò che questo comportava - il buono, il brutto e il cattivo, dai giri di droga alle catene d’oro. Quando Biggie e Jay-Z tappavano «Di dove sei?» nel coro di Brooklyns Finest (1996), mostravano il loro apprezzamento per i quartieri di Central Brooklyn, che negli anni Sessanta e Settanta avevano conosciuto una trasformazione razziale, da bianchi a neri, e negli anni Ottanta e Novanta avevano svi luppato un’identità etnica complessa con l’aumento dell’immigrazione caraibica e africana. La popolarità in crescita del gangsta rap incoronò questi quartieri come epicentro del cool, anche se in modo diverso da Williamsburg e per una porzione diversa delTopinione pubblica33. Per quanto fosse cool, non era sempre facile sopravvivere nella Brooklyn nera. Biggie Smalls fu ucciso da un proiettile nel 1997 in un presunto scontro legato alla concorrenza le tale tra etichette hip-hop e tra i magnati che le controllavano., Altri artisti rap di Brooklyn venivano arrestati regolarmente per possesso illegale d’armi o per coinvolgimento in risse all’interno dei music club - un’immagine che rispecchiava la violenza espressa da molti dei loro brani. Come gli inter mediari culturali di Williamsburg, gli artisti hip-hop crearono una storia delle origini che divenne il fondamento per la nuova autenticità di Brooklyn. Ma a differenza della Wil liamsburg hipster, la Brooklyn nera era pericolosa. La pellicola di Spike Lee Clockers drammatizza il po tere della Brooklyn nera di intrappolare e immobilizzaré le persone attraverso l’amore contrastato del protagonista per i treni. La studiosa di cinema Paula Massood mette iti relazione l’immagine dei treni nel film con la storia della migrazione nera, a partire dal mercato degli schiavi dall’Africa, continuando con la Grande Migrazione dal sud ru rale al nord industrializzato, per finire con l’inserimento in quartieri precedentemente bianchi. Brooklyn è più di una 82
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fermata temporanea in questa storia: «Brooklyn è, lette ralmente, il capolinea dopo molteplici viaggi», afferma la studiosa. Ma Strike, raffermato spacciatore di crack del quartiere a cui piace giocare con un trenino elettrico nel suo appartamento fatiscente, non è mai stato su un treno. E solo quando Rocco, l’investigatore della omicidi che ha cercato di risolvere il caso di un assassinio nel quartiere, realizza che Strike è innocente e lo aiuta a fuggire, che quest'ultimo è in grado di intraprendere il suo primo viag gio in treno e di lasciare la città. La luce dorata che filtra attraverso il finestrino neirultima scena, osserva Massood, costituisce «una netta differenza dalla cinematografia gritty» del resto del film. Anche questa studiosa, come Lee, in terpreta il contrasto tra la luce dorata e l’atmosfera gritty come una scelta al tempo stesso morale ed estetica34. A differenza di Williamsburg, i quartieri neri di Brook lyn non beneficiano della macchina della crescita rappre sentata dalla produzione culturale: pur essendo i luoghi di nascita di rappers, non hanno il concentrato critico di «club, stazioni radio, stazioni tv via cavo, case discografiche e produttori di compilation» che supporta l’industria musi cale hip-hop di Manhattan. La prospettiva asserita con tanta forza dall’inquadratura iniziale di Lola Darling, quindi, non ha prodotto per la Brooklyn nera lo stesso valore che uno scatto praticamente identico di un altro ponte aveva gene rato per Williamsburg sei anni prima, quando il pezzo di copertina della rivista «New York» aveva stabilito che Wil liamsburg fosse «la nuova Boemia». Se gli artisti e i musici sti «sentono un dialogo con Manhattan», come affermava il pezzo, i rappers di Bedford-Stuyvesant vivono ancora molto lontani da questo confine35. Nella rinascita di Brooklyn come luogo cool, una storia di cosmopolitismo corre in parallelo alla storia delle ori gini. Come gli imprenditori culturali hanno raggiunto Wil liamsburg da altre regioni del mondo, così molte famiglie di artisti rap arrivano a Central Brooklyn dall’Africa e dai Caraibi. E se Williamsburg esporta l’arte, i gruppi musicali, la birra e le magliette di Brooklyn in giro per il mondo, la Brooklyn dell’hip-hop è ugualmente un marchio globale.
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Il cosmopolitismo nero si scontra però con la demografia di una Brooklyn che sta gradualmente diventando bianca. Prima degli anni Ottanta i bianchi che avevano più o meno ventanni appartenevano tendenzialmente alla working-class e lavoravano in quartieri etnici tradizionalmente bianchi come Bensonhurst e Bay Ridge: il villaggio urbano. Dopo gli anni Ottanta, queste concentrazioni di giovani sparirono con l’in vecchiamento della popolazione bianca e la migrazione verso la periferia di quanti tra essi stavano compiendo un’ascesa sociale, ma anche con l’intensificazione deU’immigrazione caraibica, latinoamericana, asiatica e africana. Brooklyn di ventò maggiormente di colore. Intorno al Duemila, però, la mappa di Brooklyn mostrava giovani adulti bianchi residenti in 3 luoghi diversi: i 3 quartieri creativi (Williamsburg, Park Slope e Dumbo), che rappresentano un «villaggio urbano» nuovo, più benestante ed esteticamente più armonioso36. La maggior parte della gente definisce tutto ciò «gentrificazione», ma questo è un termine troppo limitato per descrivere i cambiamenti demografici ed economici che hanno rimodellato sia il tessuto fisico di Brooklyn che la sua reputazione. L’arrivo di persone di pelle bianca nel quartiere e il suo abbandono da parte degli afroamericani suggeriscono un processo di successione etnica rovesciato, con i bianchi che si sostituiscono a neri e latinoamericani e il negozietto all’angolo che inizia a vendere pasta biolo gica di farina integrale. La nuova «autenticità» di Brooklyn riflette un carattere sociale diverso, raffinato, dove ciò si gnifica persone più ricche ed edifici più alti37. -- - ------------------ -■ ।
«Era una sensazione diffusa che Brooklyn fosse una
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sorta di area supergentifricata emergente e un buon posto per genitori con forti ambizioni nei confronti dei figli», ha affermato Mr. Hampton, di origini britanniche.
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«The New York Times», 29 marzo 2009
Nonostante il collasso dei mercati finanziari del 2008 abbia congelato i finanziamenti per nuove construzioni e abbia lasciato molti condomini invenduti, le modifiche 84
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al piano di zonizzazione avviate dall’amministrazione del sindaco Michael Bloomberg tre anni prima stanno infine portando edifici più alti e una maggiore densità abitativa ovvero la «manhattanizzazione» - a Brooklyn. Questo era il sogno di Robert Moses negli anni Cinquanta, un sogno a lungo differito poiché gli immobiliaristi non credevano che le persone benestanti si sarebbero trasferite a Brooklyn. E invece l’hanno fatto. Il conseguente aumento dei prezzi delle case unito alla realizzazione di nuovi appartamenti di lusso ha già dato slancio a un ulteriore cambiamento a Williamsburg: l’affitto della Brooklyn Brewery è triplicato, il Galapagos si è spostato a Dumbo, mentre artisti e musicisti stanno migrando a est - a Bushwick, ancora più lontano nel quartiere di Flatbrush, o addirittura nel Queens - col tivando nuove aree con bar e ristoranti cool man mano che si spostano dal fulcro hipster. Quando ha modificato le destinazioni d’uso di 170 iso lati a Williamsburg nel 2005, la Commissione urbanistica della città di New York puntava esplicitamente a rendere più prestigioso il lungofiume, liberandosi delle destinazioni industriali residue e risanando gli spazi più promettenti per alti edifici ad uso residenziale. Ora condomini dai 20 ai 40 piani si stendono sull’East River, dal vecchio zuccherificio della Domino all’ex birrificio Schaefer, e l’area nella zona più elevata, lontana dal fronte del fiume, è punteggiata di condomini più bassi in acciaio e vetro, come lo Steelworks Loft - un edificio il cui nome riflette solo un interesse estetico nella storia del quartiere. Questo genere di riqua lificazione rappresenta il futuro che l’amministrazione cit tadina desidera. Nel suo intervento sulla zonizzazione l’amministrazione Bloomberg ha rispettato alla lettera le leggi ispirate da Jane Jacobs, ma non ha prestato alcuna attenzione agli obiettivi sociali più ampi di quest’ultima. La Commissione urba nistica ha istituito udienze pubbliche per un progetto di sviluppo relativo alla comunità della 197a Strada creato da residenti del quartiere - una coalizione di famiglie workingclass e artisti che sostenevano con forza l’idea di conservare gli stabilimenti per l’industria leggera e di realizzare edifici 85
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residenziali su pochi piani ed economicamente accessibili. Ma i membri della Commissione respinsero le proposte dei residenti. Al livello successivo di udienze pubbliche, il sindaco Bloomberg e il Consiglio comunale ignorarono una lettera eloquente a sostegno del progetto partecipato, spedita da Jacobs stessa poco prima di morire: Vale la pena di notare ciò che il piano ideato in modo intel ligente dalla comunità stessa non fa. Non polverizza centinaia di posti di lavoro neirindustria manifatturiera [...] Non promuove nuova edilizia a spese di quella esistente o di future soluzioni abi tative economiche alla portata dei residenti Non contrasta con la dimensione attuale della comunità, e non insulta i vantaggi economici ed estetici di quartieri che, è risaputo, attirano artisti e altri artigiani che vivono e lavorano negli stessi spazi.
Ma i membri del Consiglio scelsero di procedere mo dificando le destinazioni d’uso dei terreni sul fronte del fiume, da industriale a residenziale, e permettendo che alti - e probabilmente lussuosi - condomini rimpiazzassero fabbriche vuote e magazzini cadenti38. I membri del Consiglio comunale raggiunsero un com promesso per soddisfare le richieste di alloggi a prezzi ra gionevoli da parte della comunità offrendo sgravi fiscali e il diritto di costruire edifici più grandi agli immobiliaristi che avessero accettato di includere nei loro progetti circa il 20% di appartamenti da mettere in affitto a prezzi «ac cessibili». Questi accordi, però, erano strettamente volon tari, e imprenditori immobiliari e proprietari degli edifici agirono nella maggior parte dei casi ignorando gli incentivi e preferendo alzare gli affitti fin dove il mercato lo permet teva. Per queste ragioni, un immobiliarista fece demolire lo stabilimento della Old Dutch Mustard - senza dubbio uri monumento per la nuova autenticità di Williamsburg - e lo sostituì con condomini strutturati a loft e case a schiera, un «giardino zen privato» e spiagge sul tetto39. La storia di come Brooklyn sia diventata cool e delle conseguenze a livello edilizio mostrano gli effetti dell’inve stimento di capitali e delle politiche del governo della città, certo, ma dimostra anche il potere culturale dei media e 86
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dei gusti dei consumatori del nuovo ceto medio, che hanno prodotto un senso dell’autenticità di Brooklyn diverso da qualunque cosa li abbia preceduti. Se si chiede a Paul M., un uomo di mezza età nato e cresciuto nel distretto, perché Brooklyn è cool oggi, non pensa allo stabilimento della Old Dutch Mustard o alle feste come Rubulad. Sorride timidamente e risponde: «Per ché, Brooklyn non è sempre stata cool?». Paul vede Inauten ticità del quartiere nei film sulla Seconda guerra mondiale con cui è cresciuto, i cui cast bilanciati dal punto di vista etnico - fatta eccezione per l’assenza di neri, che hanno combattuto in unità segregate fino al 1949 - simboleggiava la diversità culturale dell’America. Il soldato che veniva da Brooklyn, afferma Paul, era sempre «il sale della terra». Questa è però un’immagine della vecchia autenticità del quartiere, e parla di un’epoca in cui il distretto non solo era un villaggio urbano, ma era la patria dell’America intera. La nuova Brooklyn è diversa. E un luogo in cui le persone arrivano, non da cui le persone partono, e in cui i residenti non hanno uno stile di vita tradizionale, da villaggio urbano, ma ciononostante sono molto fieri dell’«autenticità» del quartiere in cui hanno scelto di vivere. L’immaginario urbano di Brooklyn oggi combina hipsters e nuovi immigrati, media lifestyle e blog, l’aspirazione a diventare la prossima destinazione culturale e lo strug gimento per un villaggio urbano scomparso dopo la Se conda guerra mondiale. Per ogni generazione, però, l’idea dell’autenticità di Brooklyn mostra il desiderio di con nettere il luogo in cui le persone vivono a un’esperienza urbana senza tempo. La generazione più anziana, che è cresciuta con Jackie Robinson e lo ha visto infrangere la «barriera del colore» nel 1974 è definita dalla nostalgia di ieri. Guardano indie tro, agli anni in cui i Dodgers non avevano ancora lasciato la città, l’arsenale non aveva ancora chiuso i battenti, e molti dei loro vicini non avevano ancora preso il volo per trasferirsi nelle periferie, come all’epoca d’oro di Brooklyn. Ora vivono da pensionati nella zona sud, oppure in quar tieri di classe media-popolare con nuovi vicini immigrati. 87
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La generazione di mezza età dei nuovi immigrati è arri vata a Brooklyn dopo il 1985, quando cambiarono le leggi americane in materia di immigrazione e si allargò il flusso di persone dai Caraibi, dal Messico, dalla Cina e dall’Africa, mentre il crollo delbUnione Sovietica portò nuovi residenti dalla Russia e dall’Asia centrale. Questa genera zione è definita dalla speranza per il domani. Lavorando duro in piccole aziende, guidando taxi, prendendosi cura dei bambini nelle case altrui, guardano avanti, al successo della generazione successiva. La terza generazione è quella dei ventenni e trentenni che si definiscono in base all’nggz. I gentrificatori, così come gli hipsters, trovano gli strumenti per plasmare un’e stetica «senza freni» e più alla moda nel loro quartiere, dalle insegne sbiadite e dagli edifici strutturati a loft alle nuove gallerie d’arte e ai caffè. Per quanto affermino di ammirare la vecchia autenticità delle origini di Brooklyn, hanno creato un’altra autenticità che riflette la loro storia delle origini. Non tutto a Brooklyn è inesorabilmente di fascia alta; Mentre Williamsburg soffre di un eccesso di condomini di lusso invenduti, i concerti gratis tanto popolari sono stati spostati dalla piscina del McCarren Park a un nuovo parco sulla riva del fiume. Pochi quartieri più in là, nella gentrificata Park Slope, la cooperativa di alimentari ci mette almeno tanta dedizione - e idealizzazione della comu nità - quanta ne ispirava il vecchio negozio di dolciumi all’angolo. Il nuovo progetto edilizio pensato per la zona di Atlantic Yards è stato fermato dalla crisi economica, e a Coney Island l’amministrazione sta combattendo contro un immobiliarista che vorrebbe trasformare lo storico ma squallido parco-divertimenti in un parco a tema con centrò commerciale. Eppure la riqualificazione rende cool ogni parte di Brooklyn, afferma il presidente del distretto Marty Markowitz40. In anni recenti la riqualificazione ha portato molti cam biamenti nel distretto. Il tasso di criminalità si è nettamente ridotto, incoraggiando persone di classe media ad avventu rarsi in quartieri in cui prima non si sarebbero mai adden 88
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trati. La razza solitamente era considerata una barriera a questi cambiamenti. Il fatto che negli ultimi anni Brooklyn sia diventata più bianca, però, ha espanso la gentrificazione in quartieri working-class neri, mentre i nuovi immigrati, così come i gentrificatori bianchi, hanno reso altre aree un mosaico etnico. Se ovunque le barriere razziali rallentano ancora la gentrificazione, dovremmo certamente vedere i loro effetti ad Harlem, «la capitale dell’America nera». Il legame storico tra razza e luogo qui dovrebbe essere ancora più «autentico» che in qualunque quartiere di Brooklyn. Note
1 Legale o illegale: cfr. Andrew Naymark, The Evolution of North Brooklyns Art Spaces, in «Block», 11 aprile 2006; si vedano inoltre Melena Ryzik, Dark 2BR Loft? That’s Code for a Club, in «The New York Times», 26 marzo 2006; Tom Breihan, Portable Noise Pollution, in «Vil lage Voice», 20 giugno 2006; Annie Fischer, Brooklyn, a Place to Impress Strangers, in «Village Voice», 29 aprile 2008. 2 Lyle Rexer, Brooklyn, Borough of Writers, in «The New York Times», 8 maggio 1983; Alfred Kazin, A Walker in the City, New York, Harcourt Brace, 1951; Benjamin Luke Marcus, McCarren Pool, in Robert Moses and the Modern City: The Transformation of New York, a cura di Hilary Ballon e Kenneth T. Jackson, New York, Norton, 2007, p. 146. 5 James Agee, Brooklyn Is: Southeast of the Island: Travel Notes (.1939), New York, Fordham University Press, 2005; Suleiman Osman, The Birth of Postmodern New York: Gentrification, Postindustrialization, and Race in South Brooklyn, 1950-1980, tesi di dottorato, Harvard Uni versity, 2006. 4 Betty Smith, Why Brooklyn Is That Way, in «The New York Times», 12 dicembre 1943. 5 Rexer, Brooklyn, Borough of Writers, cit. Questa intervista del 1983 con Paula Fox suggerisce uno sguardo molto più posato e ottimista sulla gentrificazione di quanto non emerga dal suo romanzo Desperate Characters, New York, Norton, 1970; trad. it. Quello che rimane, Roma, Fazi, 2003. Si veda Osman, The Birth of Postmodern New York, cit. Pri ma della fine degli anni Ottanta Brooklyn Heights e Park Slope erano gentrificati e prevalentemente bianchi; Bedford-Stuyvesant e Fort Greene stavano andando in declino ed erano prevalentemente neri. Sulla vicina Clinton Hill, si veda Lance Freeman, There Goes the ’Hood: Views of Gentrification from the Ground Up, Philadelphia, Temple University Press, 2006; su Boerum Hill, si veda Jonathan Lethem, The Fortress of
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Come Brooklyn è diventata «cool» Solitude, New York, Doubleday, 2003; trad. it. La fortezza della solitudi ne, Milano, Marco Tropea Editore, 2004. 6 Intervista di Philip Topate a Noah Baumbach sul dvd di The Squid and the Whale\ trad. it. Il calamaro e la balena, 2005. Sulla densità dei bar: www.freewihiamsburg.com/bars/index.html. 7 Ida Susser, Norman Street: Poverty and Politics in an Urban Neigh borhood, New York, Oxford University Press, 1982; Winifred Curran, «From the Frying Pan to the Oven»: Gentrification and the Experience of Industrial Displacement in Williamsburg, Brooklyn, in «Urban Studies», 44, 2007, pp. 1427-1440; cfr. anche le interviste di Made in Brooklyn, un documentario di Isabel Hill (1993). L’amministrazione cittadina, comun que, sostenne i progetti di edilizia popolare gestiti da organizzazioni della comunità, principalmente portoricane o chassidiche, nella parte sud di Williamsburg. Nicole P. Marwell, Bargaining for Brooklyn: Community Organizations in the Entrepreneurial City, Chicago, Ill., The University of Chicago Press, 2007. 8 Josh Barbanel, Board Acts to Evict Artists Occupying Brooklyn Lofts, in «The New York Times», 21 dicembre 1985; Sharon Zukin, Loft Living: Culture and Capital in Urban Change, Baltimore, Md., The Johns Hopkins University Press, 1982. 9 NYC’s Artists-in-Residence, www.gothamist.com/2006/10/ 30/ nycs_creative_c.php; Mark Rose, Brooklyn Unbound, New York, New York Press, 1991, http://nerve-pool.net/ebinstro2.html, ultimo accesso marzo 2007; www.nycbloggers.com, agosto 2006. Poiché questi blog sono autoregistrati dai loro proprietari, numero e posizione sono ap prossimativi. 10 Holland Cotter, Brooklyn-ness, a State of Mind and Artistic Identi ty in the Un-Chelsea, in «The New York Times», 16 aprile 2004, corsivo aggiunto. 11 Marcus, McCarren Pook, McCarren Park Pool Controversy, http:// gothamist.com, 25 maggio 2006; www.mccarrenpark.com; http://thepoolparties.com. 12 Thaddeus Kromelis, Galapagos, wnvw.11211magazine.com, 1, n. 1, 2000; Rose, Brooklyn Unbound, cit.; Brad Gooch, The New Bohemia: Portrait of an Artists* Colony in Brooklyn, in «New York», 22 giugno 1992, pp. 24-31; Jonathan Fineberg, saggio su catalogo in Out of Town: The Williamsburg Paradigm, Krannert Art Museum, University of Illinois, Urbana-Champaign, 1993. 13 Questa è la stessa dinamica da «distretto industriale» che anima tutti i clusters geografici di attività economiche, incluse quelle fondate sulle arti. Si veda Richard Lloyd, Neo-Bohemia: Art and Commerce in the Post-industrial City, New York, Routledge, 2006; Elizabeth Currid, The Warhol Economy: How Fashion, Art, and Music Drive New York City, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2007.
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Come Brooklyn è diventata «cool» 14 Sulla crescita graduale della comunità degli artisti, si veda la pre sentazione del documentario Brooklyn DIY (2009) diretto da Marcin Ramocki, sul sito www.ramocld.net/brooklyndiy.html. 15 Per una descrizione di questa estetica non raffinata, cfr. Kromelis, Galapagos, cit. 16 http://en.wikipedia.org/wiki/Ebon_Fisher—cite_ref-8; Melissa Rossi, Where Do We Go after the Rave?, in «Newsweek», 26 luglio 1993, p. 58; si veda inoltre www.nervepool.net, ultimo accesso gennaio 2007. 17 Kromelis, Galapagos, cit.; John Korduba, Remembrance of Things Re past, www.11211magazine.com, 4, n. 3, 2004; www.galapagosartspace.com . 18 William Powhida, Williamsburg Art Scene, http ://www. billburg, com, 2003. 19 Eric Asimov, $25 and Under, in «The New York Times», 2 set tembre 1994; Jennifer Bleyer, The Day When Back in the Day Ended, in «The New York Times», 19 giugno 2005; Tara Bahrampour, The Births of the Cool, in «The New York Times», 19 maggio 2002; Joyce Ketterer, L Café, www.11211magazine.com, 3, n. 1, 2002. 20 Greg Sargent, Gentrification s Foamy First Wave, in «New York», 10 maggio 2006; Steve Hindy, cofondatore di Brooklyn Brewery, comu nicazione personale, aprile 2007. 21 www.brooklynindustries.com; Lexy Funk, conferenza alla Science, Industry, and Business Library, New York Public Library, febbraio 2007; Peter Geoghegan, comunicazione personale, giugno 2006. 22 Jason Patch, The Embedded Landscape of Gentrification, in «Vi sual Studies», 19, 2004, pp. 169-186; Jay Walljasper e Daniel Kralcer, Hip Hot Spots: The 15 Hippest Places to Live, in «Utne Reader», novembredicembre 1997, www.utne.com/issues/1999_84/view/948-l.html. 25 Sul cinema noir come rappresentazione della città in trasforma zione nel dopoguerra si veda Edward Dimendberg, Film Noir and the Spaces of Modernity, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2004. 24 Mary Procter e Bill Matuszeski, Gritty Cities: A Second Look at Allentown, Bethlehem, Bridgeport, Hoboken, Lancaster, Norwich, Pa terson, Reading, Trenton, Troy, Waterbury, Wilmington, Philadelphia, Temple University Press, 1978, pp. 4-5. 25 Iver Peterson, Economics and Changing Public Interest Turn Midwest into a Film-Making Center, in «The New York Times», 23 no vembre 1980; Ben A. Franklin, Baltimore Celebrating Its New Leases on City Life, in «The New York Times», 1° luglio 1980. 26 Sharon Conway, The Urban Verbs: Still Waiting for That Big-Time Contract, in «Washington Post», 19 febbraio 1979; Tom Shales, Backyard Palms: How LA. Sees Life, in «Washington Post», 10 agosto 1977. 27 Martin Gottlieb, New York Area Has Not Been Left Behind, in «The New York Times», 25 marzo 1984; Andrew L. Yarrow^ Tribeca:
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Come Brooklyn è diventata «cool» A Guide to Its Old Styles and Its New Life, in «The New York Times», 18 ottobre 1985; Kirk Johnson, About Real Estate: A Census for SoHo and NoHo, in «The New York Times», 31 maggio 1985, e An Artists' Colony Is Emerging in Newark, in «The New York Times», 26 febbraio 1985; Michael deCourcy Hinds, Manhattan's Fringes Getting «Voguish», in «The New York Times», 21 giugno 1987. 28 Catherine Fox, Gritty West Chelsea Winning Over Art Set, in «Atlanta Journal and Constitution», 6 dicembre 1998; Anna Minton, London Property, in «Financial Times», 29 settembre 2000. 29 Shahn: Margarett Loke, Helen Levitt, Who Froze New York Street Life on Film, Is Dead, in «The New York Times», 30 marzo 2009; Cindy Martin, From Grit to Glam, in «Sunday Telegraph» (Sydney, Australia), 24 ottobre 2004; Jeff Schlegel, Neighborhood Wears Its Grit Well, in «The New York Times», 27 novembre 2005; Josh Sens, SoMa, San Fran cisco, in «The New York Times», 3 marzo 2006; Corey Kilgannon, In Hell's Basement, in «The New York Times», 20 maggio 2007; Laurents: Ben Brantley, Our Gangs, in «The New York Times», 20 marzo 2009. 50 Paula J. Massood, Black City Cinema: African American Urban Experiences in Film, Philadelphia, Temple University Press, 2003, p. 128. 31 Street movies'. James Sanders, Celluloid Skyline: New York and the Movies, New York, Knopf, 2003, pp. 161-182; Mos Def: James G. Spady, citando H. Samy Alim, The Fluoroscope of Brooklyn Hiphop: Talib Kweli in Conversation, in «Callaloo», 29, n. 3, 2006. Nel film indipendente Straight Out of Brooklyn (1991), lo sceneggiatore e regista Matty Rich adatta le convenzioni degli street movies utilizzando Red Hook Houses, un complesso di edilizia popolare, al contempo come ambientazione e come metafora, una strategia adottata con un effetto altrettanto forte in Clockers e nella prima stagione della serie tv The Wire (2002-03). 32 Murray Forman, The 'Hood Comes First: Race, Space, and Place in Rap and Hip-Hop, Middletown, Conn., Wesleyan University Press/ 2002, p. 179. 33 Invece di identificare il gangsta rap con il radicamento autentico nel quartiere, Davarian L. Baldwin lo interpreta come un desiderio di fuga attraverso l’ascesa sociale. Black Empires, White Desires: The Spatial Politics of Identity in the Age of Hip-Hop, in That's the Joint! The HipHop Studies Reader, a cura di Murray Forman e Mark Anthony Neal, New York, Routledge, 2004, p. 170. 34 Massood, Black City Cinema, cit., p. 194. 35 Forman, The 'Hood Comes First, cit., p. 328; Gooch, The New Bohemia, cit., p. 28. 36 Si veda il censimento statunitense, anni 1970-2000. Per una pro spettiva sulle tensioni causate dalla trasformazione demografica di Brook lyn a favore dei bianchi, cfr. Adam Stembergh, The What You Are Afraid: Of, in «New York», 2 giugno 2008, www.nymag.com.
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Come Brooklyn è diventata «cool» 37 Sam Roberts, New York City Losing Blacks, Census Shows, in «The New York Times», 3 aprile 2006. Fino agli anni Ottanta, le tenden ze abitative relative ai centri cittadini di tutti gli Stati Uniti mostravano un allontanamento dei bianchi nativi benestanti verso quartieri migliori o verso le periferie e un afflusso di minoranze etniche e immigrati, dai redditi inferiori. 38 I piani di urbanistica partecipata, che prendono il nome dall’arti colo 197a dello Statuto della città di New York, possono essere avanzati da un comitato di quartiere o di distretto, da un presidente di distretto, dal sindaco, dalla Commissione urbanistica o dal Dipartimento di urba nistica. Una volta approvati dalla Commissione e adottati dal Consiglio comunale, i piani non obbligano a costruire, ma devono «guidare le azioni future delle agenzie cittadine», in particolare per quanto riguarda i cambiamenti nella zonizzazione nelle aree in questione. Dipartimento di urbanistica della città di New York, Urbanistica partecipata, www. nyc.gov/html/dcp/html/community_planning/197a.shtml. Per la lette ra di Jane Jacobs, datata 15 aprile 2005, si veda www.thebrooklynrail. org/2005/05/local/. Sulla fine del piano 197a relativo a Williamsburg e sui limiti in generale dei piani 197a, si veda Tom Angotti, New York for sale: ['urbanistica partecipata affronta il mercato immobiliare globale, Firenze-Catania, Edit, 2011. In base alla politica della «zonizzazione inclusiva», utilizzata dai governi locali statunitensi a partire dagli anni Settanta, l’amministrazione della città di New York offre un incentivo agli imprenditori immobiliari, permettendo loro di costruire secondo un più alto indice di edificabilità a patto di riservare permanentemente una certa percentuale della super ficie per appartamenti economicamente «accessibili»: unità abitative che sono ad affitto stabilizzato (ovvero con aumenti annuali fissi) e in cui vivono famiglie a basso reddito (ovvero che guadagnano 1’80% o meno del reddito mediano della zona) e a medio reddito (125% o meno). Lungo le rive del fiume a Williamsburg, in cambio dell’inclusione delle unità «economiche», gli immobiliaristi che hanno iniziato a costruire prima della scadenza della legge ricevono anche esenzioni fiscali per un periodo che va dai dieci ai quindici anni, in base al Programma 421 A. Sulla fabbrica della Old Dutch Mustard Factory, si vedano Williamsburg Developer «Behooved» to Trash the Mustard, www.curbed.com, 7 novem bre 2006; http://80metropolitan.com, aprile 2009. 40 Helen Klein, Trader Joe's Bklyn Bound; Beep Touts Trendy Market's Arrival, in «Brooklyn Graphic», 29 marzo 2007, www.courierlife.net.
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Capitolo secondo
Perché Harlem non è un ghetto
Tutti i presenti si ricorderanno di trentanni fa, quan do Harlem era una comunità dal passato ricco ma dal futuro inquietante; quando era un quartiere fatto di terreni vuoti e di condomini in stato di abbandono, isolato dopo isolato; quando era una comunità che sembrava bloccata in una spirale verso il basso di desolazione e degrado. Guardate Harlem oggi: è diventata uno dei quartieri residenziali più ambiti nei cinque distretti. Le famiglie cercano di accaparrarsi le sue magnifiche case a schiera del XIX secolo. La sua popolazione, che stava calando appena quindici anni fa, è di nuovo in crescita. M.R. Bloomberg, New York/National Housing Conference, dicembre 2002
E mezzogiorno, in un caldo sabato di metà giugno, e un sole splendente illumina il caffè all’aperto Settepani Bakery tra la 120a e Lenox Avenue. Non hai pensato a portarti la crema solare per uscire a fare un brunch ad Harlem, e quindi scegli un tavolo riparato sotto la veranda rossa, ti metti gli occhiali da sole e ti prepari a leggere il menù. I tavolini bianchi quadrati e le seggiole leggere in alluminio ti ricordano un caffè in Italia o al Greenwich Village, e anche i piatti sul menù ti ispirano sogni di luoghi lontani: panino con pane di segale, brie e tacchino affumicato; focaccia al rosmarino ripiena di mozzarella, pomodori e basilico; bucatini con pesto di mandorle, basilico e pomodoro; cap puccino e latte macchiato, ovviamente, ma anche Masala Chai deteinato. Capisci perché Settepani è così popolare tra le persone che contano ad Harlem. Hai sentito dire che Maya Ange lou, la celebre poetessa, sceneggiatrice e attrice che vive in una casa a schiera in arenaria restaurata poco lontana, spesso viene qui a pranzare. Vi è stato visto di passaggio anche il popolare campione di basket e scrittore Kareem
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Abdul-Jabbar. Il sito web del ristorante nomina il presi dente Bill Clinton, che ha un ufficio sulla 125% come cliente aziendale. E quando i tuoi studenti vi si fermano a prendere un caffè mentre svolgono una ricerca per il tuo corso, incontrano Daniel Tisdale, fondatore ed editore della rivista «Harlem World», impegnato in un incontro di lavoro pochi tavoli più in là, ed Eric Woods, direttore fi nanziario della rivista «Uptown» e cofondatore di «Harlem Vintage», la prima enoteca del quartiere. Harlem conta altri ristoranti rinomati: Sylvia’s, il vene rabile ristorante di cucina soul che viene nominato su ogni itinerario turistico e che commercializza bottigliette di salsa con il suo nome; M&G Diner, noto per le sue braciole di maiale alla brace con cavolo e patate dolci candite; e Amy Ruth’s, che propone piatti intitolati a celebrità locali, come le cialde e bacon in onore di Joseph Leake, capo della po lizia in pensione, o il pollo e cialde dedicati al reverendo Al Sharpton, amico dell’ex proprietario. Da quando ha aperto nel 2002, Settepani si è però conquistato - con la sua ve randa rossa, i tavolini all’aperto e la focaccia al rosmarino — un posto speciale in quello che i media chiamano «il nuovo Rinascimento di Harlem». Il primo Rinascimento di Harlem è stato quel periodò; di straordinaria creatività tra gli anni Venti e Trenta in cui scrittori, pittori e intellettuali afroamericani e caraibici si unirono a critici letterari bianchi per creare una «capitale della cultura nera» in Uptown Manhattan. Poeti come Langston Hughes, scrittori come Zora Neale Hurston è critici sociali come W.E.B. Du Bois - oggi figure ammirate nel canone americano moderno - vivevano e lavoravano in un’area gritty della città che era stata pensata per bianchi; del ceto medio ma che, in un susseguirsi concitato di iperedificazione, marketing mirato e sovraffollamento, si era popolata rapidamente di neri working-class. Il razzismo portò alla trasformazione di Harlem in ùn ghetto. Professionisti neri che erano andati al college, im prenditori di successo e celebrità dello spettacolo vivevano in zone esclusive del quartiere, in abitazioni costose circon date da case popolari e condomini presi in affitto da dome96
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stici, portinai e facchini senza qualifiche, operai, spesso di recente immigrazione dal sud. La concentrazione di talento e frustrazione sociale in un unico luogo aprì la strada a sa lotti letterari e riviste politiche, ma anche a chiese influenti, leader del nazionalismo nero e nightclub in cui i proprietari erano bianchi, gli artisti neri e il pubblico esclusivamente bianco proveniente da Downtown Manhattan. In queste condizioni, nella prima metà del XX secolo Harlem plasmò un autentico spazio dell’identità razziale, un «sublime della cultura nera». Era uno spazio che al tempo stesso oppri meva e liberava l’anima1. Oggi invece il concetto si riferisce a un quartiere.gentrificato. Aristocratiche case a schiera in arenaria sono state da poco riportate allo splen dore vittoriano dopo un lungo utilizzo come rifugi di tossico dipendenti e come topaie in affitto. Appartamenti di lusso e condomini stanno spuntando al posto di caseggiati cadenti e terreni liberi. Moderne catene di negozi e accattivanti bouti que e caffè - dopo una lunga, vistosa assenza - punteggiano le strade. Il Rinascimento di Harlem è sia uno slogan per promuovere la nuova crescita commerciale del quartiere che un segno della sua storica distinzione culturale. Come la nobilitazione del lungofiume a Williamsburg, il risanamento graduale di Harlem dipende dall’apporto di 97
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capitale esterno e dallo Stato, con l’aiuto e la complicità dei nuovi media lifestyle. Nei primi anni Duemila, Settepani ricevette un piccolo prestito dalla Upper Manhattan Em powerment Zone (Umez), un’organizzazione non profit isti tuita dal Congresso statunitense durante gli anni Novanta per dare slancio alla rinascita commerciale della zona. Poi, dal momento che il caffè faticava ad allargare la propria clientela, la Fondazione Clinton - istituita dall’ex presi dente dopo la fine del suo mandato nel 2001 - assegnò una borsa di studio per una consulenza da parte di dottorandi della Business School della New York University. Su loro consiglio Settepani aggiunse insalate, panini e pasta alla pasticceria che figurava sul menù. Fu allora che il «New York Times» pubblicò un profilo del locale, descritto come il posto per «una gentry di Harlem alla ricerca del suo latte macchiato», per incontrarsi e scambiarsi cordialità nella «nebbia pallida che esce a spire dalle palline di gelato color pastello in ciotole di porcellana»2. La distanza culturale di Settepani dall’eredità della cu cina soul che Harlem ancora tangibilmente rappresenta la rende una fonte di orgoglio e al tempo stesso di preoccu pazione nella comunità. I proprietari, Nino Settepani e la; moglie Leah Abraham, portano ad Harlem due tradizioni culturali diverse: Nino Settepani proviene da una famiglia italoamericana con una storia trentennale nell’industria dol ciaria newyorkese. Dopo aver lasciato l’attività di famiglia nel Greenwich Village, ancora oggi gestita dal fratello, ha aperto una pasticceria commerciale a East Williamsburg è per qualche tempo condusse ristoranti a Chelsea e nella contea del Westchester. Pur gestendo ancora lo stabilimentò di Brooklyn, oggi dedica la maggior parte delle sue energie al caffè ad Harlem. Leah Abraham, di origini etiopi, è l’im magine pubblica di Settepani. Spesso intervistata dai media, è un’esponente dotata di visibilità della vasta migrazione africana che ha investito Harlem in anni recenti. Abraham - che non è «nativa» al punto da poter essere considerata afroamericana, né così «semplice» da poter dissi pare ogni timore di gentrificazione - ammette che Settepani dà un nuovo tono al quartiere. «Siamo catalizzatori di alcuni 98
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cambiamenti», afferma, e si dispiace del fatto che non tutti diano il benvenuto a queste trasformazioni o siano in grado di adattarvisi: «Tante delle persone che erano qui quando abbiamo aperto i battenti non vengono più o non tanto come prima». Nonostante i suoi sforzi di offrire ai clienti e ai vicini un tocco personale, «che si tratti di un consiglio, di assistenza, di guida - semplicemente facendo conoscere qualcosa di nuovo alle persone», riconosce il risentimento, addirittura la rabbia, che molti residenti di vecchia data provano nei suoi confronti. Per non parlare dell’uomo di Harlem che si lamenta del fatto che l’atmosfera gioviale che Abraham si sforza di creare sia «da finocchi» e per nulla attraente: lui non accoglie favorevolmente questo stile, né si sente accolto favorevolmente da esso. Le transenne di me tallo all’altezza dei fianchi, coperte da quadrati di tela rossa che richiamano il tendone di Settepani, sono una barriera simbolica tra lui e le nuove classi medio-alte di Harlem3. Oggi alcuni membri di queste classi medie sono seduti ai tavoli intorno a te: giovani coppie dalla pelle bruna di cui alcune con le treccine, una famiglia con bimbi piccoli tutti vestiti bene e impegnati a conversare in modo educato. Il tuo cameriere, un giovane con la pelle color miele dorato e capelli scuri rasati, si direbbe nordafricano o mediorien tale, ma ti spiega di essere invece un fotografo freelance dell’America Latina che sta lavorando a un reportage sul restauro di una casa in arenaria di Harlem per una rivista di architettura. E facile immaginare di aver già visto questi consumatori cosmopoliti di brunch nei profili video dei progetti di restauro residenziale che circolano su internet e nelle tv via cavo, come Harlem Homecoming sul canale televisivo della rivista «House and Garden»: «Giovane cop pia di professionisti torna ad Harlem per vivere in una casa centenaria»4. Incorniciato dalla compassata voce fuoricampo del com pianto attore Ossie Davis, questo «ritorno ad Harlem» parla della famiglia di un trentenne afroamericano consulente di una società d’investimento, nato e cresciuto su Strivers’ Row - una strada di case a schiera del XIX secolo, ora parte di un distretto storico monumentale -, educato alla Wharton
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School dell’università della Pennsylvania e alla Business School di Harvard. Con un lavoro a Wall Street, sposato ad un’amministratrice societaria di origini giamaicane, padre di una bella bambina, Howard Sanders loda il valore culturale ed economico che rappresenta il fatto di possedere una casa ad Harlem e dice: «Io sono un po’ tirchio, non mi piace pagare le cose per un prezzo più alto di quel che valgono. Quindi penso che il valore immobiliare migliore della città si trovi ad Harlem». Ossie Davis ribadisce questa opinione: la casa centenaria, «salvata a un passo dalla demolizione», possiede ancora le sue parti originali in mogano, un camino in quasi ogni stanza e un piccolo, delizioso giardino. Offre l’ambientazione per «uno stile di vita elegante». H vero messaggio di questo video, tuttavia, è che Harlem è una patria spirituale per un’ampia diaspora di persone di origini africane cresciute in paesi e culture etniche diversi. «Qui ritroviamo entrambe le culture da cui proveniamo, quella delle Indie occidentali e quella afroamericana», af ferma Sanders, «tutte e due hanno solide radici qui». Da Settepani vedi questo nuovo cosmopolitismo tutto intorno a te, e in un senso anche più ampio. Dopo che la coppia nera di mezza età seduta accanto a te ha finito il suo brunch e si è allontanata, due giovani donne bianche sui vent’anni si siedono al suo posto, e una di loro ti rac conta che vive in un condominio lì vicino. Ti chiedi se si tratti di uno di quegli edifici che il «New York Times» ha descritto come «dormitori urbani», dove giovani laureatibianchi e single condividono grandi appartamenti, poiché non possono permettersi il prezzo degli affitti downtown. La loro migrazione ti ricorda quella delle famiglie nere che arrivarono ad Harlem all’inizio del Novecento5. Questa migrazione oggi però è in parte bianca. Guardi la coppia sulla trentina seduta vicino all’ingresso sotto il tendone rosso: forse sono i nuovi proprietari che hai visto nella serie di video Edificazione sostenibile ad Harlem, sul sito della rivista «Dwell». Sai dal video che, proprio come la famiglia Sanders, questi ragazzi bianchi sono stati attratti da Harlem perché non potevano permettersi di acquistare una casa di quelle dimensioni in nessun altro quartiere di Man100
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hattan. Ma non sono nati qui e non hanno alcun legame con la migrazione africana: hanno trovato la loro strada per Har lem leggendo un articolo sul restauro di una casa a schiera, pubblicato proprio con il titolo II Rinascimento di Harlem6. Dopo aver pagato il conto dai un'ultima occhiata agli altri clienti del caffè ancora seduti ai tavoli al sole. Al tuo arrivo a mezzogiorno, quasi tutte le persone che stavano già consumando il loro brunch mostravano varie tonalità di pelle scura. Ora, anche se è passata soltanto un’ora, la metà degli avventori di Settepani è bianca. Sai che non si devono avanzare conclusioni affrettate. La grande maggioranza dei residenti di Harlem, il 75%, ancora si identifica come nera. Più del 50% delle famiglie rientra nei due quintili più bassi della popolazione della città per reddito, e un altro 20% oscilla intorno alla media. Il tasso di asma nella zona è alto e quello di natalità basso. Per gran parte dei residenti di lunga data, che vivono in al loggi a prezzi agevolati, possedere un immobile su Strivers’ Row, dove il costo di una casa in arenaria restaurata con cura oggi supera i 4 milioni di dollari, oppure pagare mille dollari al mese per dividere con altri un appartamento in un «dormitorio urbano», sono lontane prospettive7. Eppure, le persone benestanti che si trasferiscono ad Harlem sono talmente tante che il quartiere sta rapida mente cambiando il suo carattere. I negozietti a conduzione familiare stanno cessando la locazione, talvolta sfrattati dalle chiese che approfittano degli inaspettati profitti garantiti dalla vendita della loro proprietà per finanziare attività e strutture. L’edilizia di lusso sta portando con sé una nuova borghesia nera. «Riesci ancora a trovare qualche sembianza di Harlem, ma sta svanendo rapidamente», afferma Sikhulu Shange, proprietario del famoso negozio di musica Record Shack sulla 125a Strada, che ha visto scadere il suo con tratto di locazione nel 2007. «Quello che noi abbiamo co struito, adesso lo vogliono loro. Vogliono la cultura»8. Se per molti anni ha rappresentato la doppia coscienza razziale degli afroamericani descritta da W.E.B. Du Bois all’inizio del Novecento, Harlem rappresenta oggi ciò che Henry Louis Gates Jr. chiama «divisione dei neri in base 101
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alla classe sociale». Da un lato ci sono i nuovi grattacieli, per uffici o residenziali, le case a schiera in arenaria da milioni di dollari, e la focaccia al rosmarino: i segni cul turali del «nuovo Rinascimento di Harlem». Dall’altro ci sono i vecchi palazzi di edilizia popolare, le agenzie dei servizi sociali e le rivendite di pollo fritto: il terroir nero del ghetto. La separazione tra questi spazi è così profonda da aver spinto Harlem in una crisi di autenticità9. Questo problema è più vasto della storica «crisi di defi nizione» che i quartieri neri hanno conosciuto fin dai primi del Novecento, con la grande migrazione verso nord dei neri provenienti dalle aree rurali, quando da un lato si tro vavano i residenti del ceto medio, sofisticati e molto istruiti che pensavano se stessi come guardiani della moralità, e dal?altro c’erano i loro cugini poveri di campagna, che ab bracciavano una cultura pubblica turbolenta fatta di alcol, cabaret di scarsa qualità e divertimenti da bassifondi. Oggi lo spettro dei gruppi che rivendicano il ruolo di rappresen tanti dei migliori interessi di Harlem è più ampio: residenti neri vecchi e nuovi sia di classe media che working-class', residenti bianchi, nuovi e a venire, di ceto medio; immo biliaristi, nuovi imprenditori del commercio e dei media e una schiera di agenzie governative - tutti impegnati a far sì che Harlem somigli meno al ghetto del suo recente passato e più agli altri quartieri di Manhattan. Nonostante l’inter ruzione di molti dei nuovi progetti edilizi a causa della crisi finanziaria, i piccoli negozi che servono una clientela nera sono stati costretti a chiudere e alcuni residenti di vecchia data sono stati mandati via. Questi fatti premono perché Harlem si confronti con una sfida prima inimmaginabile: esiste oggi in città un quartiere che ha ancora il diritto di essere sia nero che povero? Harlem ha perduto la sua au tenticità di ghetto nero?10
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Veniva dalla Harlem di Charlie Parker e di LeRoi Jones, di Dizzy Gillespie e W.E.B. Du Bois. M. Hunt a proposito di Kareem Abdul-Jabbar,
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«Milwaukee Journal-Sentinel» online, 20 novembre 2007
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Quando definì Harlem un «ghetto negro» - nel 1965, al?apice del movimento per i diritti civili - lo psicologo Kenneth Clark evocava uno spazio di desolazione quasi privo di speranza, dove uomini e donne nati con la pelle più scura sono condannati a vivere isolati dietro i «muri in visibili» costruiti dai bianchi con gli strumenti del privilegio e del potere. Dietro questi muri le case crollano per assenza di manutenzione, le strade vengono pulite solo raramente, nessuno si prende cura dei parchi e i servizi sono pessimi. Nessuno tra chi ha potere presta attenzione alla «bruttezza cumulativa» di queste «vere e proprie colonie» «sul piano sociale, politico, educativo e, soprattutto, economico», an dando così a rinforzare la lezione imparata quotidianamente dai residenti, ovvero che il loro valore è inferiore a quello dei bianchi sotto ogni aspetto. «L’unica costante», afferma Clark, «è un senso di inadeguatezza»11. Questa è stata Timmagine dominante dei ghetti ameri cani perlomeno a partire dalla Seconda guerra mondiale. E ancora oggi radicata così saldamente nelle percezioni dei bianchi e della cultura popolare, che i quartieri urbani a maggioranza afroamericana non riescono a sottrarsi alla so vrapposizione concettuale di «nerezza» e povertà - ciò che i sociologi chiamano l’«intersezionalità» di razza e classe. Anche John Shaft, l’investigatore privato di successo prota gonista ài Shaft il detective (1971), uno dei primi e meglio riusciti film del genere blaxploitation, di fatto rimarca questo punto. Quando telefona alla sua ragazza per dirle che quella sera non potrà vederla come d’accordo, lei gli chiede: «C’è qualche problema, tesoro?». «Sì, ne ho un paio», risponde Shaft, «Sono nato nero. E sono nato povero». Per un pubblico di massa che non conosceva il libro di Clark, il film offriva una chiave di lettura veloce per com prendere il ghetto nero. L’autenticità di Shaft gli permette di muoversi - non senza attrito - tra due mondi. Vive in un bell’appartamento da single nel Greenwich Village e ha un ufficio a Times Square - aree della città, entrambe, etnicamente varie ma principalmente bianche. Si mescola con facilità a tutti i gruppi sociali emergenti nei film su New York degli anni Settanta: tassisti bianchi e baristi
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gay, attivisti del Black Power, eccentrici personaggi lati noamericani, poliziotti e gangster italoamericani. Eppure, quando i poliziotti bianchi hanno bisogno di raccogliere informazioni su cosa sta avvenendo «su ad Harlem», è lui che mandano. E ancora, quando il boss di Harlem, un per sonaggio di nome Bumpy Jonas - con riferimento al vero gangster Bumpy Johnson, morto nel 1968 -, incarica Shaft di indagare sul rapimento di sua figlia ad opera della mafia, dichiara: «fuori da Harlem, la mia gente non vale niente». Il valore di Shaft su entrambi i fronti rivela l’autenticità complessa del ghetto nero, al tempo stesso impenetrabile e impotente nei confronti di coloro che ne stanno fuori come un tipico villaggio urbano. Per rendere il senso del ghetto in termini visivi, il re gista Gordon Parks, un importante fotografo - oltre che cineasta - afroamericano, fece scelte estetiche precise che richiamano i film noir degli anni Quaranta e Cinquanta e che saranno riprese anche da Martin Scorsese in Mean Streets (1973) e Taxi Driver (1976). Quando Shaft attraversa Times Square o scende al Village, è giorno. Ma quando il film si sposta ad Harlem, è quasi sempre notte. Le scene di strada sono scure e minacciose, come le case popolari di mattone e arenaria visitate da Shaft. L’intonaco delle fac ciate e degli interni degli edifici è scrostato; i numeri civici sono dipinti grossolanamente sulle porte, i vetri e la spazza tura ricoprono i marciapiedi e gli uomini oziano in piccoli gruppi sulla strada. Questo era effettivamente il «ghetto nero» prima che i bianchi riscoprissero il Rinascimento di Harlem: autenticamente nero e povero12. La gente aveva paura della violenza legata al traffico di droga, che aveva raggiunto proporzioni tristemente celebri nella Harlem degli anni Settanta, tra la carriera dell’inve stigatore immaginario Shaft e quella reale dei gangster neri Frank Lucas e Nicky Barnes, quest’ultimo divenuto celebre dopo esser stato definito «Mister Intoccabile» dal «New York Times Magazine»13. I bianchi erano anche intimiditi dalla nuova risolutezza dei neri nel denunciare pubbli camente il paternalismo bianco, soprattutto su questioni che avevano a che fare con F «autentica» rappresentazione 104
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dell’eredità culturale di Harlem: tutti erano consapevoli che si trattava di una battaglia per il controllo. Quando nel 1978, all’apice del movimento Black Power, il Metropolitan Museum of Art organizzò una mostra dal titolo Harlem on My Mind, artisti afroamericani e bianchi sfogarono la loro indignazione per l’immagine «distorta, inadeguata e offensiva» della storia del quartiere costruita dai bianchi, e per l’assenza - in un allestimento all’interno di un museo d’arte - di opere di artisti neri contemporanei. Inoltre, molti neri furono offesi dal fatto che l’esposizione si tenesse al di fuori di Harlem, in un museo sulla 5a Avenue, la fortezza del potere culturale bianco. «Accolta inizial mente con entusiasmo daW establishment culturale di Har lem», a detta del «New York Times», la mostra attirò pro teste feroci alla sua inaugurazione. Durante i primi giorni ci furono picchetti e marce davanti al museo, 3 professionisti afroamericani che avevano lavorato come consulenti nel comitato organizzativo rassegnarono le dimissioni e «van dali» ignoti deturparono diversi quadri di pittori europei della collezione del Metropolitan, incluso un Rembrandt, graffiandovi sopra piccole «H»14. La questione più controversa fu però quella del ca talogo della mostra, che il museo fu costretto a ritirare a causa delle molteplici proteste. Il catalogo conteneva saggi di Allon Schoener, curatore della mostra e membro bianco del Consiglio per le arti dello Stato di New York, Thomas P. Hoving, direttore del museo, anch’egli bianco, e Candy Van Ellison, un’adolescente nera del programma Ghetto Arts Corps del Consiglio per le arti. Ognuno di questi saggi fece infuriare una significativa fetta di pubblico: quello di Schoener perché richiamava l’attenzione sul fatto che un uomo bianco avesse organizzato la prima mostra completa sulla storia di Harlem; quello di Hoving perché dramma tizzava l’assenza di intesa tra i bianchi benestanti e gli afroamericani che lavoravano con, e per, loro; e quello di Van Ellison perché faceva riferimento alle tensioni tra neri ed ebrei nella città di New York15. Quest’ultimo saggio era destinato a creare un fiume di proteste. Come un precedente articolo scritto da James
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Baldwin per il «New York Times Magazine» e come il mo vimento per il controllo delle scuole pubbliche da parte della comunità, che aveva provocato un lungo sciopero degli insegnanti all’epoca della mostra, il pezzo di Van El lison sollevò una fortissima ostilità da parte della comunità ebraica. L’autrice faceva riferimento a una situazione che era già stata raccontata nel 1963 da Nathan Glazer e Da niel Patrick Moynihan nel libro Beyond the Melting Pot: conflitti d’interesse tra proprietari ebrei e affittuari neri, e tra ebrei che avevano avuto successo e neri che stavano ancora cercando lavoro nel settore pubblico. Ma le note a piè di pagina che avrebbero identificato le fonti furono cancellate durante il processo di editing, con il risultato che il saggio ebbe effetti incendiari sia per i neri che per gli ebrei. Entrambi i gruppi manifestarono davanti alla mostra e cercarono il supporto di alleati potenti. Scrisse più tardi Allon Schoener che, con suo grande stupore, il Consiglio comunale minacciò di togliere i finanziamenti ad Harlem on My Mind se il museo non avesse ritirato il catalogo, e il Museo d’arte contemporanea seppellì immediatamente 26.000 copie nei suoi seminterrati16. Alla fine degli anni Settanta la maggior parte dei turisti occasionali aveva smesso di recarsi ad Harlem. L’Apollo, il famoso teatro sulla 125a Strada, aveva chiuso i battenti nel 1976, e resisteva solo qualche jazz club e alcuni buoni ristoranti. Durante gli anni della crisi fiscale, quando l’in tera città sembrò aver toccato il fondo, il quartiere ormai fatiscente, dai caseggiati popolari dell’East Side alle case in arenaria di Sugar Hill, perse la sua speranza nel futuro. Camminando a Central Harlem, un reporter del «New York Times» descrisse negozi vuoti dalle vetrine sprangate lungo il corridoio dello shop ping sulla 125un tempo animato; edifici abbandonati e distrùtti da incendi che abbruttiscono quasi ogni isolato [...]; centinaia di uomini che oziano in gruppi negli incroci, annegando gior nate vuote nel vino e nel whisky; ragazzini a malapena decènni che spacciano droga alla luce del sole, come altri venderebbero giornali17.
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Il livello di degrado era tale da resistere all’attacco dei programmi pubblici di lotta alla povertà. L’ineluttabile so vrapposizione tra razza e povertà caratteristica del ghetto nero si fondava sul commercio illegale di droga - era l’e poca in cui Frank Lucas racconta di aver guadagnato un milione di dollari al giorno spacciando sulla 116a Strada - e sull’assenza di volontà di ricostruzione da parte dell’ammi nistrazione. «E un raccolto magro, dopo dieci anni», diceva l’arcidiacono della diocesi episcopale di New York, «ma guardando ciò che è stato in questi anni, non abbiamo mo tivi per aspettarci qualcosa di diverso. La volontà di cam biare, di cambiare veramente, non c’è mai stata»18. La vita diventò sempre più violenta negli anni Ottanta, con l’epidemia del crack, quando ancora più edifici furono abbandonati e sprangati con pannelli di legno. In questi anni l’amministrazione di New York divenne il maggiore proprietario di immobili ad Harlem, confiscando gli edifici quando i proprietari non pagavano le tasse. Chi possedeva pochi immobili decise che era più conveniente andarsene che impegnarsi nella necessaria manutenzione, dal momento che nessuno voleva comprare questi edifici e i locatari non potevano permettersi di pagare affitti più alti. Gli apparta menti vuoti furono occupati dai tossicodipendenti, e cam minare per strada divenne rischioso per turisti e residenti19. Per tutti questi motivi, gli esperti credevano che Har lem si sarebbe dimostrata immune alla gentrificazione. I proprietari immobiliari bianchi, che costituivano la grande maggioranza dei «pionieri urbani» in tutte le città ameri cane, erano restii a stabilirsi in quartieri poveri e neri. La maggior parte di essi desiderava vivere lontana da spac ciatori, forze dell’ordine corrotte o incompetenti, servizi pubblici inadeguati e negozi di basso profilo. Temevano di essere rapinati o addirittura uccisi. Questi timori erano ali mentati da immagini televisive che periodicamente ripren devano folle di persone di colore che assaltavano i negozi di quartiere, dagli anni Sessanta - quando gli afroamericani in molte città manifestarono per l’uccisione di Martin Lu ther King Jr. e di Malcolm X - agli anni Novanta - quando protestarono per il violento arresto di Rodney King a Los
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Angeles. I bianchi erano intimiditi anche dalle paure dei neri stessi, suscitate dalle aggressioni cariche di odio perpe trate da bianchi a danno di afroamericani che si avventura vano in quartieri bianchi, come Yusuf Hawkins, assassinato da 4 giovani di pelle bianca a Bensonhurst, Brooklyn, nel 1989. Pochi bianchi erano disposti a gentrificare Harlem in questa situazione20. Anche i finanziamenti erano un problema. I prezzi di vendita delle case ad Harlem erano bassi, soprattutto quando l’amministrazione del sindaco Edward I. Koch cercò di metterle all’asta per pochi dollari l’una. Ma a causa delle persistenti pratiche discriminatorie, le banche e le altre agenzie di credito immobiliare non mettevano a disposizione capitali d’investimento per quartieri neri. I potenziali acquirenti - bianchi o neri - di immobili, così come chi era già proprietario, non riuscivano ad ottenere prestiti per sostenere i massicci interventi di ristrutturazione di cui i vecchi edifici di Harlem necessitavano. Quando li ottenevano, spesso erano costretti a ipotecare le loro case; a pagare interessi elevati e ad affrontare il rischio di pigno ramento, proprio come è avvenuto anni dopo con la crisi dei mutui subprime. E anche volendolo, gli imprenditori immobiliari non avrebbero comunque potuto realizzare lo stesso genere di condomini - appartamenti sopra esercizi commerciali - che riempivano l’Upper East e l’Upper West Side, dal momento che buona parte di Harlem era stata destinata a complessi di edilizia popolare del tipo «grattacielo nel parco». Ma soprattutto, non esisteva ancora un ceto medio nero bene stante, un agente di cambiamento potenzialmente significa-; tivo che sarebbe stato attirato dalle maestose case a schiefà in arenaria e dall’autenticità di Harlem, e che avrebbe po tuto assicurare la gentrificazione. Lentamente, tuttavia, un nuovo ceto medio nero; di professionisti e persone impiegate nei media e nella finanza? iniziò ad acquistare le case a buon mercato, fatiscenti nia pur sempre maestose, e ad innescare un piccolo rinnÒW mento culturale. Eric Sawyer, un consulente finanziàrio e attivista nella lotta contro l’Aids, comprò una casa a schiera 108
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ad Harlem per 26.000 dollari nel 1981, quando era uno dei 3 soli edifìci abitati dell’isolato, e decise di «soppor tare stoicamente». Lo Studio Museum, fondato nel 1968 per promuovere l’arte afroamericana, restaurò un edificio di fine Ottocento sulla 125a e vi si trasferì nel 1982. Otto anni dopo, il National Black Theater, fondato anch’esso nel 1968, restaurò un altro vecchio edifìcio vicino e vi si insediò. Entrambe le istituzioni culturali ricevettero un sup porto significativo dall’esterno: il teatro fu sovvenzionato dalla Urban Development Corporation dello Stato di New York, dalla Manufacturers Hanover Bank (ora parte di JP Morgan Chase), dal National Endowment for the Arts, da agenzie comunali e da grandi società di comunicazione i cui quartieri generali si trovavano a New York. Nonostante molti progetti commerciali fossero «vicini ad affondare a causa dell’immagine negativa dell’area agli occhi degli in vestitori, di una mancanza di finanziamenti e di documen tazione governativa», scriveva il «New York Times», i pro getti di riqualificazione iniziarono a guadagnare sostegno, «quasi esclusivamente in virtù della loro tenacia»21. Non fu solo tenacia: ci volle almeno una generazione di,aspkantìdmprendhari^^viIup>pare^il.. In effetti, la traiettoria dalla metropolitana unente a St. Marks Place, ma era possibile an tere la 9a Strada. «Questo isolato è sempre stato », dice Glenna, che ha un negozio di accessori «Anche andando indietro agli anni Cinquanta, agli anni Quaranta: è sempre stata una strada dto eclettica». gerisce che questo senso locale di autenticità :amente dalla storia dei negozi della 9a Strada: i lunga tradizione di negozi qui. Piccoli, di proprietà rtigiani. Negli anni Sessanta e Settanta in questa o tanti artigiani. C’era un tizio che realizzava set di diverso dall’altro. Un altro aveva una pelletteria, e : disegnavano e realizzavano vestiti. Molte di queste bevano anche, qui. Avevano il negozio sulla strada e retro... Non molto diverso da come è ora.
rsi che l’atmosfera nell’isolato somigliasse a >gi, ma i residenti socializzavano in modo di arte ciò rispecchia il declino postbellico del Sano. «Non ci vivevano così tante persone nel rammenta Joe. Come altri villaggi urbani, l’East e residenti quando gli affittuari si trasferirono migliori e i proprietari degli immobili si rifin ire manutenzione ai loro edifici, o addirittura larono. Il numero dei residenti è cresciuto del 80, ma soprattutto oggi ci sono meno persone ni e molto anziane. E prosegue: [uartiere working-class, quindi tutti si alzavano la lavano al lavoro. E il quartiere era molto silenzioso, nto traffico, non c’era molta gente in giro... Pòi, 6 di sera, tutti rientravano. E c’era tanta vita, so state, quando il tempo era bello. La gente portava ole e si sedeva a chiacchierare coi vicini. I bambini strada. C’era un’autorimessa in fondo alla via, e :’erano le macchine in riparazione... Era un mondò strada.
^artieri popolari fanno I sfondo in alcuni film:
| Strada sbarrata, |37, di William Wyler.
j La città nuda, 1948, Jules Dassin, il set.
•La
file,
finestra sul
1954, Alfred Hitchcock, iato al Greenwich
4-5. Recupero di vecchi edifici: lo zuccherificio Domino e l’antica birreria Schaefer a Williamsburg.
6-7. L’« eterno» villaggio urbano: Elizabeth Street, 2001.
8. Una nuova costruzione di lusso su Bowery, 2008.
9. Le case in arenaria di Harlem.
10. La swing dancing cominciata con il «Ri nasci mento di Harlem», 1920 circa.
11. Il «nuovo Ri nasci mento dì Harlem»: il caffè Settepani, sulla Lenox Avenue.
12, «La capitale dell’America nera»: Sikhulu Shange di fronte a Record Shack sulla 125a nel 2006.
13. L’epicentro del cool: Bedford Avenue, Williamsburg.
14. La vecchia sede del Galapagos Artspace, 6a Strada Nord, Williamsburg, in direzione dell’East River.
15. La scena cool di Williamsburg: il Rubulad del 2008,
16. Astor Place «starbucksizzata»; l'Astor Cube, circondato da storia e commercio. 17. Inautentico» East Village; i negozi sulla 9a Strada Est.
18. Una sera d’estate a Union Square Park: ingresso principale, con la statua di George Washington sullo sfondo a destra.
19. Il mantenimento dell’ordine a Union Square Park: ingresso principale in direzione della 14a Strada.
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La vita locale nell’East Village
Decisamente un villaggio urbano. Oggi il ritmo dell'iso lato è scandito dai negozi, più che dalle famiglie. La mag gior parte di essi apre dopo le 11 e rimane aperta fino alle 7 o le 8 di sera, quando i residenti rientrano dal lavoro o da scuola e i visitatori che vengono a cena all’East Vil lage guardano le vetrine. I ristoranti tengono Pisolato vivo giorno e notte. All'inizio degli anni Ottanta, suggerisce ancora Joe, si poteva sentire che questi cambiamenti si stavano prepa rando. Il quartiere diventò più giovane e più popolare [...] In un appartamento in cui magari [avevano vissuto] marito e moglie, ora potevano esserci tre o quattro studenti [.,.] e quindi [c'era] una maggior concentrazione di persone, e una popolazione più giovane. Poi lentamente [...è accaduta] una cosa importantis sima. [C’erano] molte più persone nel quartiere durante il giorno.
Joe si concentra su due grandi cambiamenti nell’East Village dell’epoca: l’invecchiamento dei residenti workingclass e l’arrivo di artisti e yuppy. Lana parla di come l’Nyu abbia iniziato ad espandersi nell’area a partire dal suo cam pus su Washington Square; Joe accenna alle gallerie d’arte. Come gli artisti che ricordano di aver trascorso intere gior nate ritrovandosi presso le gallerie, anche Joe e Lana ram mentano di giovani, studenti, artisti che praticamente si stabilivano nei caffè, che stavano spuntando come funghi nella zona. Poiché gli affitti rimanevano bassi, molti locali riuscivano a sopravvivere nonostante clienti che per ore sorseggiavano la stessa tazza di caffè. Veselka riuscì ad adattarsi a questi cambiamenti e per sino a prosperare. Il primo proprietario del ristorante, il suocero di Joe, era un immigrato fuggito dall’Ucraina con la sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale. Negli anni Cinquanta aveva aperto un negozio di caramelle con edicola sulla 2ft Avenue nel cuore della «Piccola Ucraina». Nel giro di dieci anni si era allargato nella tavola calda a fianco. Nel 1970, quando il Fillmore East - una famosa sala da concerti rock- era ancora aperto, comprò il negozio
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La vita locale nell’East Village
dietro l’angolo sulla 9a Strada e ampliò la zona pranzo. Nel 1992, quando la popolazione ucraina iniziò a ridursi e il numero di studenti universitari a crescere, Veselka modificò il suo menù, aggiungendo i pierogi alla rucola e formaggio di capra ai tradizionali ravioli di maiale o manzo, e intro ducendo piatti vegetariani accanto agli stufati di carne della tradizione ucraina. Pochi anni dopo il ristorante inaugurò uno spazio all’aperto, segno visibile di gentrificazione. Il punto di svolta per il quartiere arrivò a metà degli anni Ottanta, subito dopo che la scena artistica dell’East Village aveva iniziato a esaurirsi, mentre la parte bassa di Manhattan ancora attirava molta attenzione da parte dei media. Nel momento in cui residenti più giovani e creativi si insediavano, imprenditori del commercio altrettanto crea tivi aprivano negozi di arredamento vintage. Al culmine di questa ondata c’erano ben 8 negozi di mobili, il che contri buì a creare la reputazione dell’isolato in fatto di shopping di nicchia. In seguito iniziarono ad aggregarsi negozi di abbigliamento: un jazzista afroamericano ne inaugurò uno nel 1980, e Lana avviò la sua attività di spedizione di ve stiti vintage nel 1986. Eileen Fisher inaugurò il suo negozio intorno al 1984: all’inizio divideva un unico locale con un altro commerciante, poi, con l’aumento delle vendite, si trasferì in un negozio tutto suo dall’altro lato della strada. Alcuni qui credono che la Fisher tenga aperto il primo spa zio di vendita per ragioni sentimentali, ma gli affari non vanno male. Come dice Glenna, «Quando fanno gli sconti, c’è la coda davanti al negozio». Pur con le loro diverse specialità, i nuovi commercianti che arrivarono nell’isolato a metà degli anni Ottanta con dividevano un’estetica moderna: amavano grandi vetrine in vetro laminato, interni vivacemente illuminati, pareti dipinte di bianco. Come The Gap, che all’epoca promuoveva lo stesso concetto di negozio, questi piccoli esercizi sembra vano decisamente moderni. «Prima [i negozi sembravano] molto hippy», ricorda Lana a proposito degli arredamenti scuri e improvvisati, «ma poi iniziarono ad aprire negozi molto carini. Il “New York Times” cominciò a scrivere [dell’isolato], che divenne rinomato».
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I media nazionali e locali avevano già seguito l’ascesa ra pida e spettacolare, come una meteora, degli artisti dell’East Village, Nel 1985 Maureen Dowd scrisse un pezzo da co pertina per il «New York Times» su come il quartiere fosse stato esageratamente pubblicizzato come la nuova Bohème14. All’epoca, comunque, la meteora era già precipitata. Molti artisti erano morti per overdose o Aids, e i sopravvissuti se ne erano andati. La maggior parte delle gallerie d’arte e degli spazi per performance aveva chiuso. Nonostante il traffico di droga fosse una minaccia seria e la prostituzione dilagasse in molti isolati, i giornalisti scrissero dei nuovi ne gozi e ristoranti che spuntavano in mezzo allo squallore. Essi divennero parte del nuovo fenomeno del lifestyle shop ping, un modo di vendere alla successiva generazione di consumatori l’autenticità a cui la controcultura aspirava. Lana ricorda quando The Paris Apartment si trasferì nei locali di fronte al suo negozio. La proprietaria vendeva oggetti scovati al mercato delle pulci, da lei riparati con cura, dipinti e presentati come tesori unici di arte barocca e déco. In un libro sul negozio scritto dalla proprietaria, esso viene raccontato come un luogo «in cui i visitatori possono fare un passo indietro nel tempo e immergersi nella bellezza e nel romanticismo dell’arredamento antico. Riflesso di un mix inusuale di influenze di design [...] e gusto personale, il suo stile è lussuoso, giocoso e totalmente originale». The Paris Apartment, come indica il suo nome, era al tempo stesso dentro l’East Village e separato da esso, bilanciando l’autenticità autocosciente dello squallore urbano e una cul tura di consumo chic, «In netto contrasto con il quartiere tetro», rammenta oggi il sito internet della proprietaria, «[il negozio] fioriva di mobili e accessori da boudoir fran cese». The Paris Apartment attirava sulla 9a Strada clienti sofisticati, arredatori d’interni, giornalisti lifestyle. Quando il negozio sparì (per poi risorgere anni dopo su internet), fu sostituito da un altro, anch’esso di inusuali accessori per la casa. «Li frequentavano tutte le signore ricche», afferma Lana. Dopo essere stato recensito dal «New York Times», anche il secondo negozio «ebbe grande successo», e si spo stò a nord, su Lexington Avenue15. 163
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A detta dei commercianti, il secondo momento di svolta si è avuto a metà anni Novanta. Glenna afferma che E cambiato nel 1996, quando sono comparsi i vestiti da donna. E stato quando io avevo da poco aperto il mio negozio qui [...] Prima di allora qui c’erano attività molto diverse. Questo era un negozio di macchine fotografiche. Un altro vendeva pia noforti. Un altro vendeva candele... Il Paris Apartment... Hex... Ma ora... vestiti, sempre più vestiti.
Una terza ondata di proprietari è arrivata nei primi anni Duemila. Proprio come i clienti, anch’essi erano attirati dalla fama dell’isolato in fatto di distinzione estetica. A que sto punto, la 9a Est non era solo un incubatore di nuove boutique e designer: rappresentava anche un passo avanti rispetto a quartieri più mediocri. «Aveva senso [spostarsi qui, per me]», racconta Eleanor a proposito del suo tra sloco da uno studio nel Lower East Side, «Prima non ci avevo mai neppure pensato all’East Village. Non era abba stanza esclusivo, in passato». I diversi tipi di negozi che si sono avvicendati hanno caratterizzato in modo diverso l’isolato negli anni, ma i loro prodotti sono diventati sempre più di nicchia. «Qui sono tutti designer, e tutti hanno un loro stile», dicono i nego zianti, «Gli stili sono tutti diversi». Come Eileen Fisher agli esordi, molti dei proprietari progettano e addirittura rea lizzano i loro articoli. «Io ho un mio stile, non è uguale a quello degli altri», dice Alexandra, «Io ho studiato design». Come afferma il profilo su Myspace di un altro negozio, c’è un rapporto continuo tra design locale, produzione locale e carattere locale: «I nostri vestiti sono all’avanguardia. Par lano da sé... Disegniamo e realizziamo la nostra linea qui, a New York. La nostra collezione è esclusiva e non può essere trovata da nessun’altra parte». Alexandra, come altri commercianti, è convinta che la merce esclusiva di ciascun negozio rinforzi l’attrattività dell’isolato nel suo complesso e riduca la competizione. «Tutti hanno prodotti unici, e quindi non è un problema/ Nessuno ha i miei articoli perché li progetto io, ovvia
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La vita locale nelLEast Village
mente». Carole, che vende borsette di stoffa fatte a mano dall’altro lato della strada dice, a proposito del suo negozio: «E senza dubbio un negozio “diverso”». Ken, il proprieta rio del negozio di ottica vintage afferma di richiamare tanta attenzione in virtù del fatto che il suo negozio «è così inso lito»: «nessuno ha queste cose [...] Noi abbiamo occhiali del 1600! E [...] chi [altro] ha tenute in pelle da cowboy degli anni Cinquanta?». C’è bisogno dei media, tuttavia, per confermare la qua lità interessante dell’isolato, per suggerire un senso di sco perta. «E per questo che vengono», dice Ken, «pensano di aver scoperto qualcosa, e vogliono scriverne». Il che a sua volta attira altri acquirenti: «Questo isolato è stato recensito nel “New York Times” e nelle guide come un buon isolato per lo shopping», dice Joe, «e così ora molte persone ven gono qui dal [la contea del] Westchester. E diventato una meta». Secondo Maria, che crea e vende abiti da sera, l’isolato richiama due tipi diversi di clienti, entrambi alla ricerca della mise «totalmente 9a Strada». Un tipo è «la ragazzina ricca di Park Avenue» che si presenta con la carta di credito di papà: «Alcuni dei miei clienti badano alle marche, ma qui non si tratta di marca. Alcuni pezzi che faccio sono unici, e mi piace così. Loro apprezzano il fatto che, a differenza degli articoli di marca, quello che prendono qui è speciale... e i loro amici non sapranno da dove viene». Di contro, l’al tro tipo di cliente, vedendo una giovane designer al lavoro in vetrina, si aspetta di comprare un abito da sposa fatto su misura a prezzo stracciato. Prosegue Maria: L’altro giorno una ragazza è entrata dicendomi che deside rava un abito da sposa, e io ho detto ok. Mi ha descritto cosa voleva - i materiali migliori... Ma ha aggiunto che poteva pa garmi al massimo 600 dollari! Le ho risposto che non potevo farlo, e lei era stupita che non accettassi l’affare. Beh, con 600 dollari forse posso coprire [il costo del] materiale, ma lavorare su misura comporta tanto lavoro. Avrei dovuto chiudere il ne gozio per tantissimi giorni [per lavorarci]. Quindi le ho detto, «Senti ragazza, gli abiti fuori serie non sono per tutti. È per questo che si chiamano fuori serie».
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Con questi due generi di acquirenti, la «ragazzina ricca» e il cacciatore di occasioni, risolato porta avanti i prece denti storici del quartiere nel rappresentare due «mondi di classe» contrastanti. Oggi però FEast Village è profon damente scisso non tanto tra persone «alla moda» da una parte e «dandy» e «gangster» dall’altra, quanto piuttosto tra i consumatori che vogliono esperire l’autenticità e quelli che vanno solo in cerca di un affare. Spesso i due tipi si sovrappongono, dal momento che i prezzi sulla 9a Strada Est sono inferiori rispetto a quelli di Upper Manhattan: le occasioni fanno ancora parte del carattere locale. Per gli alloggi il discorso è diverso. Il prezzo attuale per un caseggiato a 6 piani, senza ascensore, con 16 apparta menti e 2 negozi sulla 9a Strada Est è di 6 milioni e mezzo di dollari. A causa dell’affitto controllato non c’era molto interesse nel comprare edifici come questo fino a poco tempo fa. Ma oggi che tanti affittuari di lunga data sono morti o si sono trasferiti e che i proprietari degli immo bili sono stati così decisi nello sfrattare gli inquilini rimasti, molti contratti non sono più a prezzo stabile o controllato. Case popolari come questa sono una scacchiera di oppor tunità speculative. Solo 3 dei 16 appartamenti di questo edificio sono an cora ad affitto controllato, e altri 6 sono ad affitto stabi lizzato; i rimanenti 7 sono a mercato libero. La differenza è drammatica: gli appartamenti ad affitto controllato nel complesso fruttano meno di 200 dollari al mese, mentre quelli sottratti alla regolamentazione sono 10 volte più alti. Non stupisce che il mondo di classe dell’East Village abbia preso la china della gentrificazione16. Ciononostante, i commercianti insistono: l’isolato pos siede ancora un’atmosfera «autentica» da East Village. «Il passato è qui», dice Eleanor, confrontando la 9a Strada Est con le vie dello shopping del Lower East Side e di SoHo. «Mi piace tantissimo il fatto che questa zona non sia totalmente esclusiva. Non come a SoHo. Alcuni ne gozi sono qui da vent’anni». Ma dal momento che Eleanor ha ritenuto l’East Village abbastanza di lusso da trasferire qui il suo negozio nel 2001, l’isolato deve aver trovato un 166
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punto d'equilibrio tra i due mondi sociali su cui, come l’Astor Cube, è precariamente appoggiato. Ironicamente, sono gli inquilini di lungo corso, quelli che vivono negli appartamenti ad affìtto controllato e stabilizzato, a creare quella socialità di cui Eleanor è entusiasta. «Un’altra cosa carina», dice, «sono le persone che vivono in questo iso lato. Quando stavo rinnovando il locale, entravano e si presentavano. Da allora, se mi capita di alzare lo sguardo mentre passano ci salutiamo. Siamo in ottimi rapporti». Soprattutto, ama il fatto che un altro commerciante, un musicista che ha inaugurato il suo negozio nel 1980, la sera si metta a suonare la tastiera sulla strada. Eleanor ha un debito nei confronti del mondo di classe bohémien, fatto di ribelli, artisti, immigrati, che qui hanno cercato un rifugio e che ora temono la gentrificazione. «Penso che sia dovuto, con buona probabilità, al passato dell’East Village», dice, «Tutta questa cultura hippie, la cor dialità, l’apertura. Penso che sia un quartiere molto solido, e questo mi piace moltissimo. Non solo i negozi, ma pro prio il quartiere». Eppure, la socievolezza che Eleanor ammira - e il quar tiere che la alimenta - sono minacciati dall’aumento degli affitti. Su Bowery, il CBGB è passato da 6.000 dollari al mese nel 1973 a 19.000 nel 2004; e l’anno successivo il proprietario dell’immobile, un’organizzazione non profit che aiuta i senzatetto, ha fatto sgombrare il club, per poi alzare l’affitto a 65.000 dollari al mese. Su St. Marks Place, la rata mensile per un piano terra con vetrina sulla strada era di 28 dollari nel 1959, mentre nel 2005 aveva raggiunto quota 10.000 dollari. Sulla 9a Strada Est, dove il traffico pedonale è inferiore, gli affitti sono più bassi, ma di recente aumenti anche del 25% hanno costretto alcuni negozi a chiudere o a trasferirsi17. Se gli affitti continuano a crescere, l’autenticità del quartiere sarà fondata più sull’aspetto storico dei vecchi caseggiati che sul compromesso tra i due mondi sociali contrapposti. E mondo di classe inferiore è già stato spinto verso est, fino alla Avenue D, dove si trovano le case po polari. Quasi tutto ciò che è nuovo all’East Village - i con
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domini, gli hotel, i ristoranti boutique e sicuramente i due Whole Foods Markets ai confini settentrionale e meridio nale del quartiere - è orientato ad un consumo di fascia alta. \ |
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SOLEX: Frederick Twomey, proprietario del gruppo Bar Veloce, e Christophe Chatron-Michaud hanno inaugurato questa enoteca francese, con piatti proposti da Eric Hubert, maestro pasticcere al Ritz Carlton, Indirizzo: 103 P Avenue (incrocio 6a Strada). «The New York Times», 14 novembre 2007
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L’ascesa dell’East Village ha coinciso con la progressiva affermazione dell’America, soprattutto in grandi città come New York, come «nazione di buongustai». Prima degli anni Ottanta pochi newyorkesi, anche coloro che cenavano re golarmente in ristoranti di lusso, conoscevano i nomi degli chef; cucinare era ancora una professione working-class. Ma durante gli anni Settanta una generazione di giovani laureati che avevano viaggiato in Europa e lì avevano imparato ad apprezzare cibo fresco e buon vino decise di diffondere i propri gusti nel resto del paese. Alcuni divennero chef, altri si misero a scrivere di cibo, altri ancora divennero agricoltori biologici o aprirono negozi di specialità alimen tari. Queste persone si impegnarono nel lavoro culturale di ricreare i cibi autentici di altre epoche e altri luoghi a partire dalla disponibilità locale, e di plasmarli in modo da incontrare i gusti contemporanei: erano imprenditori commerciali e culturali al tempo stesso. Giorgio DeLuca, uno dei due fondatori dell’emporio gastronomico Dean and DeLuca che aprì a SoHo all’inizio degli anni Settanta come piccolo negozio di formaggi importati, è felice di ri vendicare questo ruolo: «Cercavo di mostrare qualcosa alle persone», dice, «Un artista mostra alle persone cose che da sole non riescono a vedere»18. Nuovi negozi e ristoranti attiravano gli appassionati di cibo dai quartieri più ricchi e dalle periferie verso aree della città che, come i loft industriali di SoHo e le strade dello
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spaccio delTEast Village, sembravano vietate agli estranei e persino pericolose. Non erano i soli avamposti di cambia mento in queste aree, ma insieme a gallerie d’arte, spazi per performance e loft residenziali, i nuovi negozi di specialità alimentari e i ristoranti presentavano Lower Manhattan come una culla di innovazione culturale per il nuovo ceto medio. Negozi come Dean and DeLuca e il Greenmarket a Union Square attiravano visitatori e turisti di ceto medio che desideravano consumare sia un cibo «autentico» - ov vero formaggi europei e prodotti agricoli appena raccolti - che la città «autentica»: vecchi edifici in mattoni, strade acciottolate e folle animate. Questa attrazione estetica per cibi e luoghi autentici trovò un’eco in architetti e progettisti che pensavano a come ri qualificare le aree abbandonate downtown19. Pike Place Market, sul fronte del porto di Seattle, rap presentava un ottimo esempio di utilizzo del cibo come strumento di riqualificazione urbana. Come molti mercati alimentari all’aperto in centri cittadini, Pike Place era stato fondato all’inizio del Novecento ma era caduto in disuso tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando molti acquirenti disertarono i centri storici in favore dei centri commerciali nelle periferie, o per lo meno di supermercati più moderni e puliti. L’area divenne fatiscente e pericolosa, esattamente come St. Marks Place negli anni Cinquanta, SoHo negli anni Sessanta e Union Square negli anni Settanta. Ma Pike Place aveva i suoi sostenitori locali, che insistevano che sal vare il mercato avrebbe significato «salvare un modo di vivere, e soprattutto la presenza dei contadini locali». Nel 1971 essi convinsero gli elettori di Seattle ad approvare un referendum per rilanciare il mercato. In parte opportunità di comprare prodotti agricoli coltivati localmente e pesce fresco, in parte pittoresca attrazione turistica, Pike Place Market caratterizzò Seattle come una città che apprezza l’autenticità. Ovviamente questa qualità fu più tardi sfrut tata da Starbucks, la catena di maggior successo di Seattle20. Come a Seattle, la decadenza e la distruzione di vecchi quartieri di New York negli anni Settanta ispirarono uomini e donne ad organizzarsi per salvare la città «autentica»: i 169
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conservazionisti storici, molti dei quali mobilitati dall’azione di Jane Jacobs, erano di recente riusciti a persuadere l’amministrazione cittadina a istituire la Commissione per la conservazione dei monumenti, e nuove leggi rendevano più difficile la demolizione dei vecchi edifici che trasmettevano il senso del passato della città. A differenza di Seattle, però, non c’era grande entusiasmo nei confronti di un eventuale rilancio dei vecchi mercati alimentari cittadini aperti al pub blico. Il mercato di frutta e verdura alTingrosso vicino al Wtc era stato trasferito nel Bronx durante gli anni Sessanta, e i mercati coperti al dettaglio realizzati dal sindaco Fiorello La Guardia durante la Grande Depressione in quartieri working-class, dal Lower East Side ad East Harlem, erano stati quasi completamente dismessi. Come i bagni pubblici costruiti dall’amministrazione cittadina erano stati resi pro gressivamente obsoleti dalla disponibilità di una vasca da bagno in ogni appartamento, così i mercati avevano siste maticamente perso clienti a favore dei supermercati e dei centri commerciali nei sobborghi. Poi negli anni Settanta gli attivisti locali che difendevano un’agricoltura regionale fecero pressione sull’amministrazione perché appoggiasse la realizzazione di un nuovo genere di mercato, un mercato contadino all’aperto, che avrebbe portato «cibo vero» ai consumatori della città. Erano anche convinti che avrebbe portato a New York «l’amenità sociale dei mercati europei, “sulla piazza del villaggio”»21. Union Square Park era un luogo al tempo stesso adatto e sbagliato per questo genere di servizio. Sul confine nord dell’East Village e servito da molti autobus e linee metropo litane, questo parco era di proprietà della città e non aveva bisogno di ulteriori, ingenti investimenti per ospitare un mercato all’aperto. Aziende locali come Consolidated Edi son, Guardian Insurance Company e la privata New School University - che si sarebbero presto unite a formare un Bid a Union Square - erano preoccupate della reputazione in calo della zona e pronte ad accogliere qualunque progetto che promettesse di risollevarla. Ma non era certo che con tadini e acquirenti sarebbero stati disposti a recarsi in un luogo così pericoloso anche di sabato mattina. Il primo 170
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Greenmarket, già attivo nella parte alta di Manhattan, an dava così bene che Ron Binaghi, contadino, ricorda che suo padre gli disse che «poteva tenersi tutti i guadagni che avrebbe fatto a Union Square». Oggi ride di cuore, Ron, perché sa di aver ricevuto in sorte la parte più vantaggiosa dell’accordo. Il mercato contadino di Union Square è diventato il fiore all’occhiello della vasta organizzazione cittadina Greenmarket, il più grande degli oltre 50 mercati sparsi nella città. 70 tra contadini, fornai, formaggiai, apicoltori e vignaioli vendono i loro prodotti a Union Square 4 giorni a settimana. Il Greenmarket è un punto di riferimento per la cultura del «mangiare locale» tutto ciò che viene venduto lì deve essere stato cresciuto, allevato o lavorato nella regione di New York, che si estende dal Vermont a nord al New Jersey a sud, e include la parte settentrionale e centrale dello Stato di New York. Alcuni contadini guidano fino a 6 ore per portare mele o pollame al Greenmarket, caricando grandi camion all’ima di notte per arrivare a Union Square all’alba. Allestiscono i banchetti e stanno in piedi tutto il giorno, affrontando domande e commenti degli avventori, prima di tornare alla loro fattoria a tarda notte. Io faccio spesso la spesa al Greenmarket, anche 3 volte a settimana se riesco. Attirata da un amico che ne esaltava la qualità dei pomodori, presto ho iniziato a dipendere da esso per la maggior parte delle mie necessità alimentari du rante l’estate, come pure per una sorta di vita sociale. Le persone che fanno la spesa e i contadini che vendono lì non sono né vicini né estranei, eppure il mercato mi dà un senso di autenticità, di «vivere locale» nel mio quartiere ma anche in stretta connessione con la campagna. Per anni ho visto alcuni contadini ogni settimana, in genere il sa bato mattina, e ci scambiamo sempre un saluto e qualche chiacchiera. Non è la più importante delle conversazioni, certo, ma è una parte rilevante del mio mondo sociale di quartiere, e apporta all’East Village un altro strato di ca rattere locale. Come molti mondi locali, però, in anni recenti anche questo è stato globalizzato. Il Greenmarket si vanta di so 171
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stenere aziende agricole pìccole, regionali, a conduzione familiare garantendo loro un accesso diretto ai consuma tori. Dal momento che siamo nel XXI secolo, pochi dei contadini discendono dalle famiglie olandesi, inglesi, tede sche che migrarono nella valle dell’Hudson o nella parte centrale del New Jersey centinaia di anni fa e che da allora sono rimaste nelle fattorie. Stokes Farm, «dal 1873», come riporta il loro camion bianco, è una delle eccezioni, poiché Ron Binaghi è un agricoltore di quinta generazione. Oltre ai Binaghi, tra i contadini vi sono una famiglia taiwanese che vende fagioli lunghi biologici e cavolo cinese, e un agri coltore del New Jersey che coltiva uchiki kuri - una zucca giapponese - accanto a varietà antiche di pomodori ame ricani. Elizabeth Ryan, cresciuta in una fattoria in Iowa e oggi proprietaria di Breezy Hill Orchards, assume persone dell’America centrale emigrate nella valle dell’Hudson per lavorare nei campi e vendere mele e sidro al mercato. Altri contadini ingaggiano tibetani per lavorare ai banchi22. Accanto a questi cambiamenti che riguardano chi svolge il ruolo di contadino locale al mercato, ve ne sono stati altri nelle pratiche agricole. Le piccole aziende a con duzione familiare sono passate da una produzione all’ingrosso - in cui dipendono da un intermediario per distri buire i loro prodotti e stabilire i prezzi - al commercio al dettaglio, e alcuni si sono spostati su una produzione ridotta per mercati di nicchia, vendendo agli chef dei risto ranti erbe esotiche e polli allevati all’aperto. Apprendono dagli uni e dagli altri, dalle preferenze dei loro consumatori e dai giornalisti gastronomici e di moda che presentano loro le ultime tendenze. Con tutta questa fecondazione in crociata, ora molti dei prodotti in vendita al Greenmarket non sono storicamente prodotti locali, bensì ibridi culturali. Sì, ci sono tonnellate di mele e cipolle bianche, ma ci sono anche lunghe, rosse cipolle di Tropea, rucola selvatica e cavolo nero toscano, cresciuti localmente a partire da semi italiani. I contadini taiwanesi portano al mercato kimchi fatto in casa e il proprietario americano di un caseificio del New Jersey ha imparato a fare il formaggio di capra in Francia. 172
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A differenza della grandissima maggioranza dei mer cati contadini, il sistema del Greenmarket esige che tutte le merci vendute qui siano prodotte localmente. Anche se la ragione di questa scelta è la protezione di un'agri coltura sostenibile nella regione, il «marchio» locale del mercato rinforza anche la sua reputazione in fatto di au tenticità. Ma l’applicazione del regolamento crea problemi, dal momento che è spesso difficile determinare cosa sia veramente, autenticamente locale. Basti pensare alla di sputa scatenatasi quando i proprietari di Coach Farms, un piccolo caseificio a conduzione familiare che produce formaggio di capra nella valle dell’Hudson, hanno ceduto la lavorazione dei formaggi ma hanno conservato l’alleva mento da circa mille capi il cui latte viene utilizzato per il formaggio. Dal momento che «locale», secondo le regole restrittive del Greenmarket, significa che gli ambulanti devono realizzare interamente i loro prodotti dall’inizio alla fine, il nuovo proprietario del caseificio non è stato autorizzato alla vendita al mercato. Gli intenditori affer mano che il formaggio di Coach Farms è fresco, poiché viene prodotto localmente dal latte di capre che vivono in una fattoria ad appena due ore di distanza. Si sa da dove viene, «è stato fatto in una fattoria poco più in là, appena oltre il fiume». Ma per il disciplinare del Greenmarket, dal momento che le capre non sono più di proprietà del caseificio che produce il formaggio, quest’ultimo non è un prodotto locale, e non può essere venduto a Union Square. Questa disputa talmudica sulla definizione non solo romanticizza, ma addirittura feticizza la produzione locale - come l’uomo accanto a me in fila per acquistare una trota allevata nei monti Catskills, che trasporterà in New Jersey dentro una borsa prima in treno e poi in auto per due ore, fino a casa23. In contrasto con l’enfasi ufficiale del Greenmarket sulla tutela dell’agricoltura nella regione, i consumatori apprezzano il mercato per la qualità del cibo e per l’e sperienza del fare acquisti in quel luogo. Un venerdì di inizio autunno all’ora di pranzo, ho chiesto a 18 avventori di Union Square cosa amassero del mercato. Metà di essi 173
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mi ha risposto: «La qualità del cibo», (oppure «La roba è così buona!»). Quattro hanno parlato della freschezza delle verdure. Un uomo di cinquantanni, che faceva acquisti da solo, mi ha detto: «Il mercoledì c’è un banco del pesce che vende il pesce più fresco che si possa trovare». Una donna latino americana sui trentanni mi ha spiegato: «Vengo dal Bronx, e i mercati 11 non reggono il confronto con questo. I contadini non portano tanta varietà come portano qui». Altre persone parlano dell5«autenticità» dell’esperienza so ciale: «Mi piace in generale il senso di comunità», afferma una donna sui cinquant’anni che porta a passeggio il cane, «e anche Union Square. Basta guardarsi intorno: ci sono 10.000 contestatori, e le persone di qui si riuniscono». L’uomo che ama il pesce fresco dice: «E un tale spetta colo. Ti puoi mettere in disparte e goderti il circo della vita cittadina!». Cos’ha il Greenmarket di così locale? Non è che si vada direttamente a raccogliere okra sulle strade dell’East Vil lage. Molti dei venditori, e alcuni dei contadini, sono im migrati da altre regioni del mondo. E non è neppure che si veda l’amichevole interdipendenza tra negozianti, casalinghe e passanti che Jane Jacobs descriveva come il balletto della strada. Si avverte piuttosto una vera socievolezza al Greenmarket, frutto dell’interazione personale, identificata dal prodotto e dalla provenienza, e affinata dalla consuetudine. In un certo senso, il mercato crea una storia delle origini per questa parte del quartiere. Inoltre esso richiama il senso di autenticità locale che visitatori e turisti credono sia «na turale» nei mercati alimentari settimanali in Provenza e in Toscana. Come il Greenmarket, però, quell’autenticità è una costruzione sociale accuratamente prodotta. Nel corso di un anno, l’antropoioga francese Michèle de La Pradelle ha condotto un’osservazione dettagliata del mercato settimanale a Carpentras, una città della Provenza famosa fin dall’antichità. Nota l’aria di festa, il continuo gioco di battute tra acquirenti e ambulanti e la freschezza dei prodotti agricoli, la cui provenienza regionale è indi cata col gesso su piccole lavagne, accanto al prezzo. I ven ditori contribuiscono all’esperienza di autenticità imperso
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nando il ruolo di coltivatori locali: indossano i grembiuli blu da contadino, parlano un misto di francese standard e dialetto locale, e si rendono personalmente garanti della qualità delle fragole, dei fagiolini, dei meloni sui loro ban chetti. Si tratta però di una messa in scena, dal momento che gli ambulanti non coltivano ciò che vendono. I clienti, da parte loro, stanno al gioco: chiedono ansiosi conferma al venditore che le sue pesche siano le migliori degli ultimi anni; dal salumiere vogliono comprare il pàté prodotto da lui stesso^ vanno alla ricerca delle carote che ancora portano qualche traccia di terra. Di fatto, come rivela de La Pradelle, i prodotti «locali» venduti a Carpentras si muovono attraverso un sistema di distribuzione alimen tare nazionale centralizzato e arrivano ai banchetti da un vicino mercato all’ingrosso. Ma acquirenti e ambulanti fin gono che sia locale e che sia venduto dagli agricoltori che l’hanno coltivato, per dare un senso di autenticità all’occasione sociale nel suo complesso e, per estensione, all’in tera città. Sono complici nella costruzione dell’apparenza e dell’atmosfera di un carattere locale per poter esperire l’autenticità24. Forse tutto ciò non è molto diverso da ciò che viviamo come autenticità al Greenmarket. Ci sentiamo legati al no stro quartiere facendo la spesa al mercato contadino, e que sto legame è rafforzato dalla qualità estetica dei prodotti agricoli locali che consumiamo. Sappiamo che «locale» al Greenmarket significa in realtà una distanza che arriva fino ai confini a nord dello Stato di New York oppure il New Jersey, e che la nostra interdipendenza con i contadini è li mitata a una transazione economica e a uno scambio sociale piuttosto succinto. Siamo anche consapevoli che all’East Village il carattere locale può essere manipolato per espan dere la gentrificazione: se il giorno di mercato definisce Carpentras come un’autentica esperienza della Provenza, allora il Greenmarket definisce New York come una città «verde», Union Square come un buon posto in cui vivere e l’East Village come un’ottima zona per «consumare» e «vi vere locale». Un'esperienza autentica di un carattere locale diventa un marchio locale.
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A differenza di molti newyorkesi che abitavano all’East Village negli anni Ottanta, il signor Nersesian sembrava ricordare con affetto ogni aspetto di quell’epoca gritty e spesso pericolosa. Anche mentre descriveva la sfilata infinita di prostitute lungo la 12* Strada Est, o i falò accesi dai senzatetto in Tompkins Square Park, c’era un’evidente tenerezza nella sua voce,
«The New York Times», 14 settembre 2008
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Come Harlem e Williamsburg, l’East Village è stato rimodellato da nuovi gusti e nuovi stili di vita che dipen dono dal continuo scambio di persone, prodotti e capitale. Tuttavia, più l’atmosfera del quartiere sembra locale, più attira l’attenzione dei media; e maggiore è l’attenzione dei media, maggiore è il rischio per il quartiere di diventare un’attrazione culturale: il carattere locale diventerà più costoso, cederà il passo alla standardizzazione e svanirà. La storia di proteste e lotte dell’East Village, il suo essere all’avanguardia senza essere di moda, il suo fascino intellet tuale un po’ capellone sono caratteri sommersi dalla troppa pubblicità sul web, dalle troppe filiali di catene di negozi, da una nobilitazione troppo rapida e radicale di una popo lazione etnicamente variegata e socialmente svantaggiata. Io non rimpiango i vecchi tempi, fatti di spacciatori e crimi nalità, ma mi offende tutto ciò che Starbucks rappresenta, inclusi i nuovi hotel e ristoranti a più piani che rendono Bowery scintillante e costosa, e la speculazione immobiliare che spinge l’aumento folle degli affitti. Piango la fine delle battaglie locali contro ricchezza e potere che hanno gene rato la reputazione dell’East Village in fatto di autenticità. Ovviamente beneficio di molti di questi cambiamenti. Come Hari Kunzru, lo scrittore londinese che abbiamo incontrato nell’introduzione, «ho un debole per un buon pezzo di formaggio radette». Le ruote delle forze del mer cato che fanno crescere di valore entrambi i nostri quartieri sono lubrificate dai nostri gusti - per il formaggio impor tato, per le boutique di tendenza e per i pomodori colti
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vati in zona. All’East Village come nell’East End di Londra stiamo letteralmente consumando ciò che è locale25. A partire dagli anni Settanta i cambiamenti nella cultura di consumo hanno reso più desiderabili quartieri come il nostro. Le persone vengono qui perché vogliono fare espe rienza di un’«autenticità» storica, e quartieri come questo offrono un insieme di strumenti - fatto di luoghi e prodotti - per realizzare questo obiettivo. Visitatori e residenti rag giungono l’East Village per fare shopping in negozi vintage che si possono trovare solo qui, e per respirare l’atmosfera di un passato radicale, intellettuale, artistico. Questo stile di vita solitamente attira uomini e donne dotati di capitale culturale più che di capitale finanziario, e che non si pos sono permettere affitti alti. Ma in ogni caso, essi possono pagare cifre superiori rispetto ai residenti di lunga data. Connessi in qualche modo ai settori in crescita dell’eco nomia mainstream, lavorando come freelance, insegnando all’Nyu, facendo i consulenti per una banca d’investimento - possono e vogliono pagare di più per il consumo di storia rappresentato dall’East Village. Per lungo tempo il quartiere ha costituito un’immagine visibile dei bordi frastagliati dello sviluppo diseguale della città, con i suoi caseggiati e i negozi che si affacciano sulla strada e con le sue strade pericolose in stato di abbandono. Oggi è un altro luogo gentrificato. Quartieri come Harlem, Williamsburg e l’East Village giocano con lo spazio, il tempo, le dimensioni in modi che sfidano le forze uniformanti del modernismo e della riqua lificazione. Nella misura in cui conservano una varietà di scorci, con edifici vecchi e nuovi dagli affitti alti e dagli af fitti bassi, attrarranno, come disse Jane Jacobs, destinazioni d’uso diverse e diversi tipi di persone. Ma questi spazi non comuni offrono qualcosa di più, qualcosa di cui Jacobs non scrisse: offrono immagini kariologiche di un vivere al tempo stesso nel passato e nel presente, e in «mondi di classe» contrastanti, di povertà e privilegio. Come l’Astor Cube, l’East Village è rimasto in bilico tra le sue origini e i nuovi inizi. Le boutique di tendenza e i mercati contadini ci con vincono che stiamo contribuendo a mantenere l’equilibrio della vita locale, ma con l’aumento di valore dei terreni e
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il nostro forte desiderio di consumare, stiamo spingendo il quartiere al punto di rottura. Williamsburg, Harlem e l’East Village non sono quar tieri tipici: ognuno ha una storia peculiare e una popo lazione specifica che gli ha permesso di conservare una straordinaria reputazione di «autenticità», nonostante i re centi cambiamenti verso l’alto. Se ci spostiamo sugli spazi comuni delle strade, dei giardini comunitari e dei parchi, troviamo una situazione diversa: i cambiamenti recenti hanno rafforzato, e non ridotto, l’esperienza dell’autenti cità. E sorprendente, se si considera che la maggior parte di questi cambiamenti hanno «privatizzato» gli spazi pubblici della città, trasferendo il controllo di risorse pubbliche a gruppi privati non profit e attività commerciali. A mio av viso, questo costituisce un cambio di prospettiva sospetto, che contrasta con ciò che penso della privatizzazione, so prattutto quando il mio sguardo si posa su Union Square Park, subito a nord dell’East Village sulla 14a Strada.
Note 1 Talk of the Town, in «The New Yorker», 14 ottobre 1967, p. 49, www.diggers. org/free__store.html; Paul Berger, Witness to What Was, Skeptic of What’s New, in «The New York Times», 28 ottobre 2007. 2 Hilly Kristal, The History of CBGB and OMFUG, www.cbgb.com/ historyZhistoryl3.htm; Marvin J. Taylor (a cura di), The Downtown Book: The New York Art Scene, 1974-1984, Princeton, NJ., Princeton Univer sity Press, 2006. 3 Comunicazione personale, febbraio 2006. 4 Ian Altveer e Jennifer Sudul, An Interview with Carlo McCormick, in The Downtown Show: The New York Art Scene, 1974-1984, in «Grey Gazette», 9, n. 1, 2006; artista gay: comunicazione personale, febbraio 2006. 5 Altveer e Sudul, An Interview with Carlo McCormick, cit. 6 Kevin Hetherington, The Time of the Entrepreneurial City : Mu seum, Heritage and Kairos, in Consuming the Entrepreneurial City: Image,. Memory, Spectacle, a cura di Anne M. Cronin e Kevin Hetherington, New York, Routledge, 2007. 7 James H. Gilmore e B. Joseph Pine II, Authenticity: What Con sumers Really Want, Cambridge, Mass., Harvard Business School Press,
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La vita locale nell’East Village 2007; trad. it. Autenticità: ciò che i consumatori vogliono davvero, Milano, Angeli, 2009. 8 Edwin G. Burrows e Mike Wallace, Gotham, New York, Oxford University Press, 1999, p. 762. 9 Per un'eccellente ricostruzione delia trasformazione delTEast Village dai primi del Novecento agli anni Ottanta, si veda Christopher Mele, Selling the Lower East Side: Culture, Real Estate, and Resistance in New York City, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2000. 10 Consapevolezza mobile: Sam Binkley, Getting Loose: Lifestyle Consumption in the 1970s, Durham, N.C., Duke University Press, 2007, p.51. 11 I limiti sugli affitti residenziali furono inizialmente imposti con la crisi degli alloggi in piena Seconda guerra mondiale, quando molti pro prietari immobiliari furono accusati di alzare gli affitti a livelli insostenibili. Il controllo degli affitti, il sistema più severo, proibisce ai proprietari di aumentare l’affitto a meno che non sia giustificato da migliorie apportate all’immobile, e ogni aumento deve essere approvato dall’ufficio per l’edili zia popolare e la riqualificazione delle comunità dello Stato di New York; gli inquilini di appartamenti ad affitto controllato non possono essere sfrattati. La stabilizzazione degli affitti, nata alla fine degli anni Sessanta, sottopone gli aumenti alla decisione di una commissione estesa all’intera città, nominata da esponenti del settore pubblico e privato, che rappre senta locatori e affittuari; in pratica, un affitto stabilizzato è soggetto ad un aumento annuale o biennale in occasione del rinnovo del contratto, e gli inquilini di unità ad affitto stabilizzato, a differenza di quelli con con tratto ad affitto controllato, possono essere sfrattati in alcune circostanze. Entrambi i tipi di inquilini hanno il diritto di trasferire l’appartamento al loro compagno o compagna, oppure a un membro della famiglia. Quando un appartamento ad affitto regolato si libera, tuttavia, l’affitto viene «de controllato» o «de-stabilizzato». Sotto attacco continuo da parte dell’indu stria immobiliare, la regolazione degli affitti è stata gradualmente eliminata dalla Commissione legislativa statale a partire dagli anni Settanta. 12 Cucina soul ucraina: www.veselka.com; la storia dei negozi e dell’isolato è stata ricostruita attraverso interviste con gli esercenti rea lizzate da Ervin Kosta ed è stata pubblicata in Sharon Zukin ed Ervin Kosta, Bourdieu OffBroadway: Managing Distinction on a Shopping Block in the East Village, in «City and Community», 3, n. 2, 2004, pp. 101114. Ho riportato i veri nomi dei negozi, mentre i proprietari sono sotto pseudonimo. 13 Per prospettive diverse si vedano Neil Smith, The New Urban Frontier: Gentrification and the Revanchist City, New York, Routledge, 1996, e Q. Sakamaki, Tompkins Square Park, New York, Powerhouse Books, 2008. 14 Maureen Dowd, Youth, Art, Hype: A Different Bohemia, in «New York Times Magazine», 17 novembre 1985.
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La vita locale nell’East Village 15 Claudia Strasser, The Paris Apartment: Romantic Decor on a Flea Market Budget, New York, HarperCollins, 1997; www.theparisapartment. com. 16 Affitti residenziali listati su www.prudentialelliman.com nei mesi di ottobre 2007 e febbraio 2009. Oltre alla distinzione tra appartamenti ad affitto controllato e non controllato, gli affitti per le unità ad affitto stabilizzato nell’edificio vanno da 535 a 1.500 dollari, mentre gli affitti de-stabilizzati variano da un minimo di 1.900 dollari al mese per un monolocale ai piani bassi fino ai 2.500 dollari per un appartamento della stessa metratura a piani più alti. 17 Gli affitti commerciali su questo isolato vanno dai 350 ai 1.000 dollari per metro quadro oppure dai 3.500 ai 10.000 dollari al mese. Sugli aumenti recenti, sì veda Eric Marx, East Village Store Rents Go North, http://ny.therealdeal.com, gennaio 2007; sul CBGB: http://vanishingnewyork.blogspot.com, 29 agosto 2007; su St. Marks Place: Lisa Chamberlain, Square Feet/Manhattan; For the East Village, a New Retail Face, in «The New York Times», 30 gennaio 2005. 18 David Kamp, The United States of Arugula: How We Became a Gourmet Nation, New York, Broadway Books, 2006, p. 202; Priscilla Ferguson e Sharon Zukin, The Careers of Chefs, in Eating Culture, a cura di Ron Scapp e Brian Seitz, Albany, State University of New York Press, 1998, pp. 92-111. 19 «Ciò che hanno fatto Dean & DeLuca è stato dare al mercato alimentare un chiaro taglio artigianale che l’ha reso molto attuale, molto legato al momento in cui i riflettori erano puntati su SoHo»: Florence Fa bricant, giornalista alimentare, in «The New York Times», citato in Kamp, United States of Arugula, cit., p. 208. Sull’«autenticità» definita in termini di cibo europeo, si veda Shyon Baumann e Josée Johnston, Foodies: De mocracy and Distinction in the Gourmet Foodscape, New York, Routledge, 2010, e in termini di freschezza, si veda Susanne Friedberg, Fresh: A Peri shable History, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2009. 20 Salvare un modo di vivere: Peter Steinbreuk, figlio di Victor Steinbreuk, «conservazionista e architetto», che si batté per salvare il Pike Place Market, citato in Kamp, United States of Arugula, cit., p. 277. Su Starbucks, si veda James Lyons, «Think Seattle, Act Globally»: Specialty Coffee, Commodity Biographies, and the Promotion of Place, in «Cultural Studies», 19, n. 1, 2005, pp. 14-34. 21 Suzanne Wasserman, The Good Old Days of Poverty: Merchants and the Battle over Pushcart Peddling on the Lower East Side, www.h-net. org/business/bhcweb/publications/BEHprint/v027n2/p033 0-p0339.pdf; Mayor Bloomberg Presents Doris C. Freedman Award to Barry Benepe and Robert Lewis - Founders of the Greenmarket ~ on Its 30 th Anniversary, http://home.nyc.gov, 24 maggio 2006. 22 In base alle regole del Greenmarket, i contadini responsabili (coloro che posseggono le fattorie e coltivano o trasformano i prodotti
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La vita locale nell’East Village venduti ai loro banchetti) devono essere presenti almeno una volta ai mese in ogni mercato in cui espongono. In pratica, molti dei banchi più grandi assumono lavoratori a giornata in città o in campagna. 23 «Fresco significa che pochi giorni fa era ancora latte nella pancia della capra. Con le confezioni sottovuoto non sai quanto è vecchio il prodotto o dove è stato. L’etichetta potrebbe dirti l’origine di un prodot to, ma quanto ha viaggiato? Per noi che siamo nella regione dei Monti Catskill, “non sottovuoto” vuol dire che è stato prodotto poco più in là, appena oltre il fiume», Sally Fairbairn, An Island of Optimism, A Real Farmscape, www.catskillmtn.org/publications/articles/2002-01 -coachfarm, html, corsivo aggiunto. Si veda anche Florence Fabricant, Coach Farm Goats Have a New Cheesemaker, in «The New York Times», 14 marzo 2007. 24 Michèle de La Pradelle, Market Day in Provence, Chicago, 111., The University of Chicago Press, 2006. 25 Hari Kunzru, Market Forces, in «The Guardian», 7 dicembre 2005, www.guardian.co.uk.
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Capitolo quarto
Union Square e il paradosso dello spazio pubblico
Siamo continuamente alla ricerca di una popolazione specifica: consumatori giovani, con disponibilità economica, che conoscono la città di New York sfogliando il «New York»... e guardano Friends. Possiamo educare questi giovani consumatori a pensare il vivere urbano a Union Square.
Portavoce della Union Square Partnership, 2006
Alle 6 di sera di un giorno infrasettimanale di inizio luglio, Union Square è estremamente viva. Il piccolo parco nel suo centro - 3 acri di verde infilati stretti stretti tra 4 ampie strade - pulsa di musica e conversazioni, con le voci che salgono e si gonfiano in un’onda che si unisce al ronzio regolare del traffico su ogni lato. I bambini sotto gli occhi dei genitori dondolano sulle altalene nelle piccole aree attrezzate per i giochi sul confine settentrionale del parco; al confine sud ci si fa strada tra una moltitudine di persone che fanno jogging intorno ai gradini di pietra, bassi e larghi, che portano all’ingresso principale del parco. I turisti curiosano tra i banchetti di T-shirt e oggettini ar tistici, mentre altri acquirenti si fermano al Greenmarket sulla via del ritorno a casa, e una persona su 5 sta facendo una telefonata o leggendo un messaggio sul cellulare. La folla è giovane, principalmente sotto i 35 anni, i visi sono soprattutto bianchi, ma ci sono anche neri e varie tonalità di marrone, e si sente una ragazza al telefono che chiede in giapponese: «Dove sei? All’ingresso?». Accanto all’entrata della metropolitana un dimostrante politico solitario col megafono lancia un discorso contro il presidente degli Stati Uniti; lì vicino, sotto una statua di George Washington a cavallo, due poliziotti, anch’essi a cavallo, interrompono il loro pattugliamento serale per chiacchierare con un addetto alla pulizia del parcheggio in uniforme rossa brillante, e
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Union Square e il paradosso dello spazio pubblico
con una guardia privata che indossa pantaloni e cappello blu marina. Le persone sedute sulle panchine verdi sotto gli alberi sono così tante che è difficile trovare posto per due. La maggior parte di esse guarda la parata dei passanti; alcune ascoltano musica in cuffia, altre leggono un libro, e una o due sonnecchiano. Nel recinto per i cani, gli animali ruz zano mentre i loro padroni ridono e parlano. Un trio di giovani musicisti siede sulle panchine al centro del parco e si sistema con un violoncello e due violini per un’informale prova all’aperto. Pur vedendo il movimento vigoroso degli archetti, è impossibile sentire la musica, anche a soli 6 metri di distanza. E una sera normale a Union Square, ma è in questa normalità che risiede tutto il fascino della vita urbana. A differenza del balletto della strada di Jane Jacobs, i parteci panti non si conoscono per nome o di faccia, e l’interazione tra essi è limitata. In contrasto con la classica descrizione di Georg Simmel della metropoli moderna, non passano di fretta uno accanto all’altro, così rapidi e concentrati sulle loro attività da non riuscire a provare alcun sentimento di relazione. E bello pensare a Union Square come a una gal leria infinita di possibilità, che riflette e affina la capacità creativa degli abitanti della città di dare forma al loro spon taneo spazio sociale. E una vera piazza pubblica: non un luogo di contemplazione della natura, ma un mercato dove ci si incontra, si commercia e si raccolgono informazioni sulla vita sociale. Eppure questo elevato livello di socievo lezza faccia a faccia nasconde un paradosso, dal momento che lo spazio pubblico di Union Square è controllato da un gruppo privato formato dai più importanti proprietari di immobili del quartiere. Union Square è un ese^jo^dpicc^deglijpazijjubblici d^jMtrLdtudmE^ pj&satjjsotj^^^ composte da aziende locali e ricchi benefattori con un interesse legittimo nella loro riqualificazione e nel ripristino di condizioni ci vili. A New York, dove prosperano alcune delle più grandi e influenti associazioni di questo genere, le forme assunte
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possono essere diverse a seconda del genere di spazio so vrinteso - dai Business Improvement Districts, alle Locai Development Corporation, alle commissioni per la tutela dei parchi. La Union Square Partnership, il primo Bid ad essere inaugurato nello Stato di New York all’inizio degli anni Ottanta, è sia un Bid che un Ldc, e sotto entrambe le qualifiche è un’organizzazione privata di proprietari di im mobili commerciali che svolge funzioni pubbliche di finan ziamento, manutenzione e governo dello spazio pubblico1. Lo scopo di tutte queste organizzazioni è di mantenere le vie dello shopping, i distretti commerciali e i parchi pub blici puliti e sicuri in un’epoca in cui i bilanci dell’ammini strazione cittadina sono assetati di fondi e i cittadini sono disgustati e spaventati dallo sporco, dal tanfo, dall’accatto naggio e dagli altri disagi che incontrano non appena var cano la porta di casa. Per finanziare il programma, i mem bri del Bid acconsentono a pagare una piccola percentuale delle loro tasse sulle proprietà in aggiunta a quanto dovuto all’amministrazione cittadina, che raccoglie la tassa volon taria insieme alle altre tasse locali e la restituisce al Bid. Fatto ^cruciale e raramente esplicitato, queste associazioni sLadoperano^pe^'jdefle^groprietà .immpbjLari che si affacciano sugli spazi pubblici e intorno ad essi - un obiettivo che non può realizzarsi se ci sono senzatetto che dormono sulle panchine del parco, se ci sono rapinatori che minacciano chi fa shopping, se muri e lampioni sono ricoperti di graffiti e se le città non riescono a fornire quei servizi fondamentali (dalla pulizia delle strade alla raccolta dei rifiuti, al mantenimento dell’ordine) da cui dipende la popolazione urbana, compreso l’affitto di spazi commerciali. Lajritalijà .dj.JJnion ^Squareè veramente un segno della sconfìtta dell’amministrazione cittadina rispetto alle aspettative della popòlazioKé:~il~pubbÌÌcò si è assicurato l’uso di uno spazio pulito e sicuro, ma al tempo stesso ne ha perso il controllo2. La maggior parte delle persone che frequentano Union Square non vede la situazione in questo modo. A loro piace il senso di sicurezza e ordine offerto da questo spazio pub blico, risultato dell’ingaggio di guardie private e di squadre
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di pulizie che è la Union Square Partnership a finanziare. Per realizzare questo obiettivo, i membri del Bid non si limitano a tassarsi volontariamente: essi aumentano anche le entrate affittando spazi nel parco a promotori privati per dimostrazioni all’aperto di prodotti, servizi fotografici e festival. Queste fonti imprenditoriali di reddito, aggiunte al budget destinato dal Dipartimento dei parchi citta dino che ancora possiede questo spazio, coprono anche la messa a dimora dei fiori in primavera, la semina periodica dell’erba, gli assaggi preparati da chef di ristoranti della zona, i concerti di gruppi locali e le installazioni d’arte pub blica - tutte cose che rendono la frequentazione del parco più piacevole e che ne allargano socialmente l’utilizzo. Molte persone vengono a Union Square per far compere al Greenmarket, che si tiene quattro giorni a settimana. Per quanto non sia stata la Union Square Partnership a conce pire quest’ultima attrazione, il Bid e il mercato contadino hanno beneficiato di una produttiva sinergia sin dai loro esordi indipendenti a metà degli anni Settanta. Gli altri parchi d’élite gestiti da Bid come Bryant Park e Madison Square offrono servizi in qualche misura diversi, ma tutti puntano a rendere il luogo da essi gestito una meta. E tutti operano secondo le medesime regole di gestione privata, proprietà pubblica e accesso pubblico. Quali sono queste regole? I critici sostengono che l’idea in sé di una gestione privata tradisca la fiducia del pub blico; che le organizzazioni private controllino gli spazi pubblici più severamente di quanto le amministrazioni non osino fare, e che queste strategie di controllo escludano gruppi sociali - solitamente senzatetto, ambulanti con i loro carretti, artisti di strada e giovani - che non possono andare altrove. L’esclusione dallo spazio pubblico significa letteralmente espulsione o sfratto, e costituisce un’espres sione tangibile, violenta dei diritti di proprietà più spesso identificati con la proprietà privata. Gli spazi pubblici privatizzati, in altre parole, rafforzano la diseguaglianza sociale. L’esclusione di alcuni gruppi sociali dallo spazio p.ubblico_indeb olisce la diversità di esperienze e contatti che definiscediTÀnì^~TìTbmì^Tended~c^
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simili al principale spazio pubblico di proprietà privata dei nostri giorni, ovvero il centro commerciale delle periferie: pulito, sicuro e prevedibile3. La privatizzazione del controllo di questi spazi pubblici sembrerebbe allora ridurre la loro tradizionale autenticità, le cui origini non affondano in un moderno centro com merciale, ma nell’agorà dell’antica Atene e nel foro deU’antica Roma, luoghi in cui molte tipologie di uomini e donne diverse tra loro si raccoglievano per ragioni politiche e di commercio. Queste città antiche escludevano le donne e gli schiavi dalla cittadinanza e da una partecipazione politica significativa, ma ciononostante hanno rappresentato per noi un modello di spazio pubblico aperto a tutti e proprio per questo democratico, in contrasto con le terme o la sala dei banchetti. In epoca moderna il concetto di democrazia politica è stato sviluppato aprendo gradualmente gli spazi pubblici a tutti. Nel XVIII secolo, prima che la Rivoluzione francese spazzasse via le distinzioni di ceto, il mercato del Palazzo reale nel centro di Parigi permetteva a uomini e donne, aristocratici e plebei, persone rispettabili e criminali di mescolarsi secondo modalità che non erano ammesse negli spazi privati. Nel XVIII secolo, a Londra e a New York, le biblioteche pubbliche, i musei e i parchi misero a disposizione di chiunque gratuitamente le ricchezze cultu rali della città, prima che tutti i gruppi sociali ottenessero il diritto di voto. Anche se il ricco spesso pensava questi spazi pubblici come strumenti per coltivare le menti e migliorare il comportamento delle classi inferiori, e non li progettava in modo da rispondere ai bisogni di tutti, l’ideale del libero accesso confermò questi spazi come «autenticamente» pub blici e allo stesso tempo contribuì a definire i cittadini mo derni. Parchi, musei e biblioteche aperti a tutti infransero le barriere tradizionali che escludevano le donne, i poveri e i bambini dal prendere posto nello spazio pubblico al pari di chiunque altro4, «Autenticità» in questo caso significa democrazia, e la democrazia - in politica così come neTlo spazio fisico - spe^(X_può_essere rumorosa, indisciplinata e impreveSfbjl^^^0XKhe_,perico permettere a persone straniere o 187
Union Scjuare e il paradosso dello spazio pubblico
appartenenti.a^grupjji^ EauraNonostante la recente diminuzione della criminalità abbia ridimensionato il timore di essere fisicamente aggrediti negli spazi pubblici, molti ancora hanno una tale paura di essere infastiditi da forze che vanno oltre il loro controllo, che sputare, elemosinare, bere alcolici e dormire in un luogo pubblico sono avvertiti come qualcosa di profon damente sgradevole, come il dilagare di una corruzione morale: i primi passi lungo l’insidiosa strada che porta al caos. Così come le finestre rotte o le persone che saltano i tornelli della metropolitana - fenomeni che secondo gli esperti conducono, se trascurati, a crimini violenti - questi «spiacevoli, inquietanti incontri» sono il segno della fra gilità dell’ordine sociale. Essi offrono una visione molto più tetra della vita urbana rispetto a quella di Jane Jacobs quando elogia negozianti e casalinghe perché gettano un «occhio sulla strada», garantendo la sicurezza sui marciar piedi5. Il comportamento sgradevole negli spazi pubblici è stato il flagello morale per la rinascita urbana in molte epo che e luoghi, e certamente nella città di New York a pah tire dagli anni Settanta. L’accattonaggio e la prostituzione a Times Square, lo spaccio in Union Square Park, gli atti di vandalismo nei parchi di quartiere, così numerosi da non poter essere citati, hanno costituito i segni visibili sia di una società più permissiva e narcotizzata che di un diffuso al lontanamento dalla duplice disciplina dell’etica del lavoro e del potere statale. Sono anche il segno di una città o di un quartiere allo sbando, in cui uomini e donne non riescono a trovare un buon lavoro nell’economia mainstream, in cui i proprietari immobiliari si rifiutano o non sono in grado di fare manutenzione ai loro edifici, e in cui le aziende fanno i bagagli e se ne vanno. Ciò che inizia come una «crisi di immagine» di una città in abbandono conduce da un lato all’indignazione del ceto medio per la qualità della vita urbana, e dall’altro all’ansia degli uomini d’affari per il clima degli investimenti. Questa indignazione e questa ansia rappresentano le premesse culturali dell’odierna era di privatizzazione6.
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Union Square e il paradòs-sczjlello spazio pubblico
Non è possibile comprendere la battaglia per Tautenticità a Union Square senza mettere in relazione il parco e le strade che lo circondano con gli argomenti economici a favore della privatizzazione in un'epoca in cui le risorse delTamministrazione pubblica si sono fatte esigue. Ma si devono anche prendere in considerazione le fonti culturali di questa battaglia, che risiedono in un’ansia generalizzata per una città che sembra fuori controllo. Si deve osservare Union Square in rapporto al suo passato contraddittorio tra espressione politica e sviluppo immobiliare, ai quartieri che cambiano intorno ad esso, agli altri parchi d’élite ge stiti da Bid e agli spazi commerciali di civilizzazione come Starbucks. Ma soprattutto, si deve comprendere Union Square come un contrasto vivente con lo spazio pubblico più importante e totalmente diverso rispetto al parco - di Lower Manhattan, ovvero Ground Zero. Union Square è oggi, nonostante la privatizzazione, lo spazio pubblico più autentico della città di New York a causa dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. La tesi di Jane Jacobs sullo spazio pubblico autentico si fondava sulle regole microsociali dell’interazione: il balletto della strada. Ma osservando Union Square in una prospettiva più ampia, vediamo che la sua autenticità ri flette anche altri livelli di governance, dalle norme sociali del controllo politico e dell’investimento di capitali, alle norme meta-sociali della cittadinanza e dell’identità nazionale. Un parco pubblico è molto più che uno spazio verde e qualche panchinajLlegnoLl&iua^ dotta dalla cultura locale e dal potere nazionale. I |
Adorabile Quattordicesima: la stiamo trasformando nella strada più viva della città!
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Slogan promozionale, Fourteenth Street-Union Square Local Development Corporation, fine anni Settanta
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Union Square ha un legame storico talmente profondo con la protesta politica che molti pensano che il suo nome
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Union Square e il paradosso dello spazio pubblico
faccia riferimento ai sindacati (unions} o ad altre forme di solidarietà organizzata. Nel XX secolo i sindacati tessili, un tempo influenti, i Partiti socialista e comunista degli Stati Uniti e la Tammany Hall, l’organizzazione cittadina del Partito democratico, avevano tutti sede vicino alla piazza, mentre il nome in realtà riflette, sin dai primi dell’ottocento, la collocazione del parco all’incrocio tra due strade importanti, che poi divennero Broadway e la 4a Avenue. Nel 1831 l’Assemblea legislativa dello Stato di New York dichiarò Union Square luogo pubblico, suggerendo una prospettiva più ambiziosa per i lotti liberi delle ex fosse comuni di sepoltura, destinazione di quei defunti le cui famiglie non potevano permettersi un loculo in un cimi tero privato. All’incirca nello stesso periodo, un avvocato e immobiliarista benestante di nome Samuel Bulkley Ruggles acquistò una concessione sul terreno dell’area e convinse Tamministrazione cittadina a completare le strade intorno alla piazza, recintarla e comprarla dallo Stato come parco pubblico. Precursore delle odierne alleanze pubblico-pri vato, il contratto di Ruggles con l’amministrazione cittadina prevedeva che fosse lui a dover pagare per la realizzazione di cordoli e marciapiedi lungo le strade intorno al parco, e in cambio lo autorizzava a raccogliere gli eventuali profitti che sarebbero derivati dalla crescita dei valori immobiliari7. Quando il parco fu inaugurato verso la fine degli anni Trenta dell’Otttocento, il quartiere che lo circondava era un luogo esclusivo e il progetto del parco richiamava le eleganti piazze private di Londra, con l’ammirevole allesti mento del giardino, la fontana decorativa e la recinzione in ferro. Lo spostamento progressivo del centro commerciale della città verso nord provocò però anche la migrazione delle classi alte. Nell’arco di una generazione le eleganti dimore sulla 14a Strada, al confine meridionale del parco, furono sostituite da teatri, ristoranti, sale da concerto e ho tel, e Union Square divenne un popolare quartiere della vita notturna. Come Times Square è stato lo spazio pub blico centrale della città durante il XX secolo, nell’epoca dei pannelli luminosi animati su cui scorrevano notizie e delle enormi insegne al neon, così Union Square era un
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punto importante per il raduno delle folle e per la raccolta di informazioni in un'epoca in cui i giornali in formato ta bloid e i telegrammi erano i nuovi media. Intorno al 1850 i manifestanti convenivano a Union Square per dimostrare a favore di una varietà di cause: i politici estremisti europei, la distribuzione gratuita di cibo ai poveri e, significativamente, la salvaguardia delTUnione contro la minaccia di secessione da parte degli Stati del sud. La notizia telegrafata dello scoppio della guerra civile mise presto Union Square sotto gli occhi dell’intera nazione: nel 1861, quando i newyorkesi seppero dell’attacco dell’Armata confederata a Fort Sumter, più di 100.000 dimostranti si raccolsero nella piazza per esprimere il loro sostegno alLUnione. Nei quattro anni che seguirono la piazza rimase una sede importante per parate e raduni patriottici, incluso quello che accompagnò il passaggio del corteo funebre del presidente Abraham Lincoln quando la sua salma fu portata a New York da Washington, dove era stato assassinato. Le statue del parco commemorano presidenti ed eroi nazionali: prima George Washington e poi, nel tentativo di rafforzare l’identità nazionale dopo la fine della guerra civile, Lincoln e il marchese La Fayette, che aveva lasciato la Francia per combattere nella Rivoluzione americana. Le manifestazioni di protesta continuarono ad animare il parco, soprattutto durante la crisi economica del 1873. Il Dipartimento dei parchi, che era stato istituito da poco, assunse gli architetti che avevano progettato Central Park perché rinnovassero il design di Union Square: questi rimossero la recinzione, piantarono alberi e crearono una piccola area per le parate, con un podio per gli oratori e una tribuna sul confine set tentrionale «per soddisfare l’esigenza di raduni di massa». Nel 1910, in una nuova epoca di riforme municipali, l’as sessore ai parchi dichiarò che avrebbe dedicato il lato set tentrionale di Union Square ad un «foro all’aria aperta per la popolazione»8. Non sorprende, quindi, che gli incontri di massa a Union Square attirassero migliaia dei nuovi operai inur bati, molti dei quali erano immigrati italiani, russi, ebrei e dell’Europa orientale. Nel 1882 si tenne qui la prima
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parata statunitense per la Festa del lavoro - a settembre però, deliberatamente in contrasto con le celebrazioni del 1° maggio, di impronta socialista, che gli operai immigrati avevano portato con sé dall'Europa. Nel giro di pochi anni, la data di questa celebrazione si trasformò in una fonte di contenziosi sulTutilizzo di Union Square. Un invito dell’Internazionale socialista a organizzare una marcia per la ridu zione della giornata lavorativa a 8 ore attirò i lavoratori nel parco il 1° maggio del 1899, e da allora i Partiti socialista e comunista, insieme ai sindacati e agli anarchici, vi tennero una manifestazione ogni anno in quella data. Anche dopo che il governo statunitense ufficialmente stabilì che la Festa del lavoro fosse il primo lunedì di settembre, i lavoratori continuarono a marciare su Union Square il primo giorno di maggio. Anni dopo, però, quando gli Stati Uniti si lan ciarono nella persecuzione anticomunista durante la guerra fredda, un gruppo di commercianti della zona riuscì a far pressione sul Dipartimento di polizia della città affinché negasse il permesso ai Partiti comunista e socialista di orga nizzare la parata del 1° maggio. Nel 1954 la polizia permise al?associazione di negozianti di prendere il controllo del parco in quella data, per organizzare una giornata di ini ziative patriottiche da essi rinominata Union Square Usa9. Ma la storia di Union Square ha anche un’altra faccia, legata ancora una volta allo sviluppo immobiliare. Mentre i lavoratori protestavano utilizzando la piazza per raduni di massa, l’area intorno ad essa si costruiva una reputa zione per lo shopping di lusso. Il «miglio delle signore» su Broadway offriva una forte concentrazione di sartorie, mo disterie, gioiellerie e negozi di arredamento, mentre tutto intorno, sulle strade secondarie, prosperavano bordelli è pensioni di dubbia reputazione. Agli esordi del Novecento questi luoghi licenziosi e gli operai che ora lavoravano nei nuovi edifici strutturati a loft intorno alla piazza provoca rono l’allontanamento dei negozi di lusso. A sottolineare il basso status sociale della zona, un grande discount di abbigliamento femminile, S. Klein «on the Square», aprì i battenti negli anni Venti giusto di fronte al parco, attirando folle di operai e immigrati che afferravano gli abiti a prezzò
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d’occasione dai banchi senza indugiare nel balletto delle buone maniere. L’umorista James Thurber descriveva il periodo dei saldi al S. Klein come una quasi-sommossa10. Da elegante quartiere residenziale e in seguito quartiere dei teatri e dello shopping, Union Square divenne un polo di negozi economici per i poveri della città, e così è rimasto fino agli anni Settanta, quando, secondo le parole di uno storico dell’architettura della città, la piazza fu «compro messa [...] da un lento declino sociale che la stava trasfor mando in un angolo malfamato e fosco della città»11. Come la privatizzazione di altri servizi prima in carico all’amministrazione, quella dello spazio pubblico nella città di New York inizia con questa storia di declino urbano, ma nfletejmcbeJejd^ matori dimandare altrove. I negozi di lusso e le famiglie ave vano rniziatóTaTasciare le città statunitensi sin dalla Prima guerra mondiale. Negli anni Quaranta, dopo la Grande Depressione e la fine del secondo conflitto mondiale, le zone commerciali downtown apparivano malandate, vec chie e sovraffollate, soprattutto a confronto con i nuovi centri commerciali e amministrativi dei sobborghi. Quando, dopo il 1950, aumentò il ritmo della realizzazione dei cen tri commerciali e, grazie ai mutui agevolati ai veterani di guerra, crebbe il numero di cittadini che si trasferivano in case nuove nelle periferie, le vecchie zone commerciali di downtown persero molti clienti di ceto medio. I grandi magazzini e i negozietti rimasti servivano acquirenti con ridotta disponibilità economica e soprattutto membri di minoranze etniche, non ben accetti nei sobborghi. Negli anni Sessanta e Settanta la 14a Strada divenne molto popolare tra questi consumatori, che venivano da ogni parte della città alla ricerca di un buon affare. Ciò che per loro era uno spazio pubblico confortevole, ad altri sembrava un guazzabuglio di «cianfrusaglie», o un «bazar da terzo mondo», in cui le merci cadevano dai banchi sulla strada, i venditori si rivolgevano agli avventori urlando, e sia i commercianti che i clienti erano spesso afroamericani, latinoamericani o dell’Asia centrale. Sia dal punto di vista etnico che sociale, esisteva un netto contrasto fra i clienti
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dei discount e i residenti del quartiere, generalmente più ricchi e bianchi, che tendevano ad evitare la 14a Strada. L’area non era pericolosa, ma le persone di ceto medio non erano interessate a fare compere nella zona, e non apprez zavano le folle che raggiungevano in metropolitana i ne gozi economici. Le grandi compagnie rimaste nella zona di Union Square - la società di servizi pubblici Consolidated Edison, che forniva gas ed elettricità ai newyorkesi ed era l’azienda che dava lavoro a più persone nella zona, e la Guardian Life Insurance Company, il cui quartier generale si affacciava sulla piazza sin dal 1909 - così come la New School, un’università privata, temevano di perdere poten ziali impiegati e studenti se la reputazione della 14a fosse peggiorata ulteriormente12. I titoli dei giornali degli anni Settanta confermano questa visione pessimista, annunciando con gran clamore che le autorità pubbliche avevano perso il controllo del parco: Il trionfo dei barboni. La città chiude il parco, Di chiarata guerra al crimine a Union Square, Omicidio a Union Square. Centinaia di persone assistono scioccate. Nonostante gli spacciatori considerassero il parco come il loro covo e conducessero i loro loschi affari dietro i larghi cespugli che impedivano di essere visti dalla strada, gli uomini che lavo ravano nel quartiere all’epoca ricordano pause pranzo sulle panchine del parco nelle giornate estive. L’immagine di crisi della città non colpì quest’area più duramente di altre, ma proprio come il più generale senso di declino della città; l’immagine di decadenza di Union Square era soggetta a interpretazioni di versificate13. Per i giovani artisti e musicisti che erano attirati dall’e stetica gritty di Downtown Manhattan, il quartiere era una rampa di lancio per la cultura punk, l’arte di strada e i club musicali. La Andy Warhol’s Factory, con gli attori ec centrici, le modelle e gli appariscenti personaggi che ruo tavano intorno all’artista pop, per diversi anni ebbe sede in un locale in affitto all’interno di un edificio su Union Square; Max’s Kansas City, un ristorante e club musicale nella strada accanto, era un ritrovo per musicisti rock e punk, artisti e scrittori. Gli affitti contenuti e i tipi poco 194
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raccomandabili - tormento dei proprietari degli immobili intorno alla piazza - permisero a hipsters e rockettari di stabilire una scena culturale downtown. Union Square non era il fulcro dell’azione, ma era sufficientemente vicina a SoHo e all’East Village da contare come «downtown»14. Come nell’East Village e ad Harlem, a rendere perico losa Union Square era il traffico di stupefacenti, cresciuto in tutta la città durante gli anni Settanta. Questa forma di attività criminale rendeva Union Square una tangibile im magine di pericolo urbano, proprio come l’isola di traf fico nella parte alta di Broadway raffigurata nel film hol lywoodiano Panico a Needle Park (1971). L’incapacità da parte del Dipartimento di polizia di controllare lo spaccio di droga, aggravatosi durante il lungo regime di austerità fiscale iniziato nel 1975, preparò il terreno per un inaspri mento del regime di sorveglianza e per l’arruolamento di agenti di sicurezza privata. La versione di questa storia raccontata dalla Union Square Partnership elogia la polizia, ma accentua anche il ruolo dell’associazione nel fermare il declino della 14a Strada e invertire la rotta: Dal degrado al boom, recita il sottotitolo di una recente ricostruzione da parte di Robert W. Walsh, direttore esecutivo del Bid negli anni Novanta e poi, su nomina del sindaco Michael Bloomberg, commissa rio per il Dipartimento dei servizi alle piccole imprese, che sovrintende a tutti i Bid della città. «Union Square era un disastro», scrive Walsh a proposito delle origini dell’asso ciazione negli anni Settanta, «gli spacciatori controllavano il parco, le vetrine vuote di negozi sfitti abbruttivano la strada, e gli studenti dell’Nyu controllavano la mappa del campus, codificata con vari colori, per sapere quali strade evitare dopo il tramonto». Queste storie sono tutte vere, Walsh non si sta inventando nulla. I contadini del Greenmarket rammentano di essere stati rapinati di prima mattina da uomini che a loro avviso erano tossicodipendenti. Un poliziotto oggi in pensione che pattugliava questi isolati afferma: «Se fermavi qualcuno per strada dopo mezzanotte, una volta su tre trovavi armi o droga». Il direttore della compagnia teatrale Roundabout, trasferitasi a Union Square
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nel 1983, dice: «Ricordo nettamente una volta in cui stavo prendendo un caffè e un bagel, e oltre la vetrina del bar vidi alcune persone che vendevano droga alla luce del sole. Poi qualcuno cercò di rapinare il bar, e tutti che gridavano, saltando gli uni sugli altri per uscire»15. Non a tutti i residenti del quartiere toccò di vivere una simile, terribile esperienza. Ma per chi fu rapinato, per i proprietari di stabili commerciali e per gli immobiliaristi, questi racconti testimoniano i problemi a cui andava in contro l’avvio di un’attività economica in un quartiere che stava perdendo valore. S. Klein chiuse i battenti nel 1975, lasciando un isolato di edifici vuoti e antiquati sul lato est di Union Square, un’area adibita solo a palazzi di pochi piani. Furono proposti alcuni progetti per nuovi, massicci edifici sul lato nord della piazza, ma non si trovarono mai gli sponsor. I loft a ovest e a sud della piazza iniziarono ad essere convertiti ad uso residenziale come case-studio, e la 14a Strada era affollata durante il giorno. Allo scendere della notte, tuttavia, quando si abbassavano le saracinesche, la strada era tetra e inospitale16. La situazione era resa ancora peggiore da due pro blemi. Innanzitutto, dal momento che l’amministrazione era stata costretta da una commissione di supervisione fi scale a tagliare il bilancio e a ridurre il suo debito, la città non poteva permettersi di migliorare i servizi pubblici. In secondo luogo, poiché la geografia politica di Union Square era frammentata, nessuna agenzia governativa avrebbe po tuto gestire l’area nel suo complesso. La giurisdizione sui 3 acri di parco e sugli isolati circostanti era divisa fra 3 diversi consigli della comunità e 3 distretti di polizia; se qualcosa si rompeva, nessuno aveva la responsabilità dellasua riparazione. Quando Charles Luce, presidente del con siglio di amministrazione di Con Edison dagli anni Ses santa agli anni Ottanta e uno dei fondatori del Bid, parlò di «far confluire le risorse della comunità e quelle private; in un’amministrazione coordinata dei servizi cittadini»; stava chiaramente assegnando alle più importanti istitu zioni private del quartiere il ruolo di zar locale, in grado di svolgere le mansioni che i funzionari statali non riuscivano-
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ad assolvere. Come membro importante della comunità affaristica di New York e democratico liberale, a partire dagli anni Sessanta Luce partecipò senza indugio a molti dibattiti sulle possibili soluzioni per salvare la reputazione in declino della città. Questi dibattiti portarono alla crea zione di società pubblico-private che sostennero campa gne di relazioni pubbliche e turistiche, incluse «La grande mela» e «I V NY», così come, nel giro di pochi anni, agli accordi tra soggetti pubblici e privati alla base dei Business Improvement Districts. Luce fu un elemento trainante nella creazione della Fourteenth Street-Union Square Local De velopment Corporation, avvenuta nel 1976 e poi sfociata nel Bid della 14a Strada nel 1984. Nel giro di pochi anni Union Square divenne un modello per la creazione di altri Bid, più importanti e più ricchi, a Midtown: la Bryant Park Corporation, la Thirty-Fourth Street Partnership e la Grand Central Partnership, intorno alla stazione Grand Central17. I Bid portavano avanti la tradizione di promozione commerciale che era stata istituita dalle associazioni dei negozianti locali nel XIX secolo. Prima della fine degli anni Ottanta, tuttavia, essi rappresentavano uno strumento a disposizione delle grandi imprese, delle aziende come Con Edison e dei proprietari di ampi edifici commerciali, per avere la meglio sui piccoli negozi al dettaglio, soprattutto quelli gestiti da abitanti del quartiere che servivano consu matori dai redditi bassi. Per formare un Bid era infatti necessario un voto di maggioranza da parte dei proprietari di edifici commerciali dell'area, e questi proprietari dovevano poter e voler pagare tasse aggiuntive a favore del Bid perché questo fornisse servizi aggiuntivi. Per queste ragioni i Bid facevano gli in teressi dei proprietari immobiliari più grandi e solidi, che avevano anche la motivazione più forte a impiegare la loro influenza per liberarsi dei negozi al dettaglio economici, e per trovare locatari per spazi commerciali e uffici disposti a pagare affitti più alti. Nonostante Walsh sostenga che Consolidated Edison e Guardian Life stessero agendo come imprese responsabili - John Angle, amministratore delegato di Guardian viveva addirittura vicino a Union Square - è
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chiaro che i vertici di queste società erano motivati a mi gliorare Farea intorno al loro quartier generale per conve nienza economica. Inoltre, come esponenti della leadership imprenditoriale della città, assunsero la responsabilità del loro quartiere nel quadro di un orientamento generale delle aziende ad affrontare in modo diretto i problemi maggior mente visibili della città: crimine e rifiuti. Come gruppo, queste imprese potevano anche esercitare un'influenza di retta sulle agenzie del governo cittadino, soprattutto dopo l’elezione del 1981 che rinnovò il mandato del sindaco pro crescita Edward L Koch. La Union Square Partnership di mostrò la sua capacità di orientare le politiche pubbliche quasi subito, con la modifica della zonizzazione dell’isolato di fronte al lato est di Union Square - dove un tempo si trovava il S. Klein - a favore di una maggior densità abi tativa, nonostante l’opposizione di «commercianti locali e residenti che non volevano palazzi alti - essenzialmente in nome di una resistenza all’aumento della densità abitativa e alla gentrificazione»18. Gli alti condomini delle Zeckendorf Towers, inaugu rati su quel terreno nel 1987, portarono nuovi residenti e, scrive Walsh, «i [loro] occhi, orecchie e portafogli» a Union Square. Nuove catene di negozi al pianterreno sul lato di fronte al parco, incluso un supermercato impressionante per l’epoca, fissarono uno standard più alto per lo shopping nella zona. Il Dipartimento dei parchi dedicò parte delle sue scarse risorse alla realizzazione di un nuovo progettò per il parco e per il suo allestimento, realizzato anche grazie: a volontari e fondi mobilitati dalla Union Square Partner ship. Dopo il crollo del mercato azionario del 1987, quandò il bilancio del Dipartimento tornò ai livelli della crisi fiscale, «Bid e Ldc furono sempre più investiti della responsabilità della manutenzione del parco», assumendo i giardinieri e comprando l’attrezzatura. Fu allora che Union Square cominciò ad attrarre i buongustai, e i media giocarono un ruolo importante nella promozione della nuova identità della zona. La sezione settimanale dedicata al mangiar fuori del «New York Ti mes», la rubrica sui ristoranti del «New York» e articoli
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in altri media lifestyle elogiavano i prodotti di stagione del Greenmarket e le cucine dei ristoranti che vi si rifornivano, soprattutto l’Union Square Café, che aprì nelle vicinanze del parco nel 1985 e rapidamente conquistò il favore dei critici. I gusti di giornalisti, amanti della buona cucina e chef crearono una nuova comunità di consumo il cui punto di riferimento era Union Square. Nel frattempo, residenti di ceto medio e imprenditori immobiliari furono attirati dai prèzzi ancora ragionevoli delle case nella zona. Durante gli anni Ottanta, con l’aumento della disponibilità di buoni posti di lavoro e delle sostanziose gratifiche delle società fi nanziarie della città, nonché con la nascita di nuove aziende di comunicazione nei dintorni di Broadway, l’intera area fiorì. Né il crollo del mercato azionario del 1987 né la de bolezza dei mercati immobiliari che ne seguì impedirono la trasformazione di Union Square in meta per il ceto medio e per i giovani. Anche l’espansione della New School e ancora di più della New York University contribuirono a stabilizzare la rinascita della zona. L’Nyu, un’istituzione privata, si riprese dalla crisi finanziaria alla fine degli anni Settanta e avviò una vasta strategia di crescita, acquistando proprietà in tutto il Greenwich Village e realizzando nuovi alloggi studenteschi a est di Union Square, dopo la modifica alla zonizzazione della 14a Strada a favore di edifici più alti. I nuovi alloggi colmarono un vuoto in un’epoca, l’inizio degli anni Novanta, in cui le imprese immobiliari non riu scivano a raccogliere capitali sufficienti per costruire, e inondarono le strade di studenti universitari benestanti, di giorno e di notte. Nonostante l’assenza di dati precisi, è evidente che le due università provocarono un forte in cremento nella popolazione della zona di giovani single pronti a spendere in abbigliamento e intrattenimento, e che inoltre attirarono l’investimento di capitali dei genitori benestanti che compravano i loro appartamenti. La Union Square Partnership si impegnò ad espandere questo nuovo pubblico di investitori e consumatori. Come ogni Bid, assoldarono un esercito di addetti alla pulizia delle strade e alla sicurezza, assumendo addirittura un ex 199
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poliziotto della città come capo della sicurezza per garan tirsi la cooperazione dei distretti locali di polizia. Insieme al Dipartimento dei parchi cambiarono il progetto e l’archi tettura del paesaggio del parco, aprendolo verso la strada e rimuovendo alberi e cespugli, in modo da permettere una chiara linea di visuale da qualunque punto. Come la Bryant Park Corporation, anche la Union Square Partner ship adottò le idee di William H. Whyte, prima giornalista e poi antropologo urbano, secondo cui il miglior modo per controllare il comportamento in uno spazio pubblico è che ciascuno abbia la possibilità di tenere chiunque altro sotto sorveglianza19. Il Bid incoraggiò lo shopping al Greenmarket, affittò il fronte del parco per una fiera dell’artigianato durante il periodo natalizio e pubblicizzò un numero crescente di negozi, locali che servivano cibo da asporto e ristoranti. Era arrivato il momento giusto per lo sviluppo commerciale: con più residenti di ceto medio nel quartiere, più persone che fruivano della piazza, e addirittura gli hipsters che arri vavano da Williamsburg per fare acquisti sulla 14a Strada, sopraggiunsero le catene di negozi. Barnes & Noble aprì una grande libreria a nord, Kiddie City (oggi Babies «R» Us) aprì un negozio a est, e Whole Foods Market - se guita da due catene nazionali di discount - affittò 3 dei 5 piani di un edificio a sud del parco rimasto vuoto per alcuni anni, dopo difficili trattative con diverse società. Nel 2008 l’ultima istituzione rimasta sulla piazza affiliata con un sindacato, la Amalgamated Bank, vendette la sua sede centrale, che era stata costruita da Tiffany & Co. all’epoca del Ladies Mile, e si trasferì in un locale più piccolo dietro l’angolo. L’edificio fu trasformato in un condominio, con appartamenti messi in vendita a svariati milioni di dollari. I residenti della zona non si opposero alla rinascita commerciale. Nonostante l’afflusso di giovani, o «studentificazione», gli abitanti di vecchia data sentivano di trarre benefici da questo genere di nobilitazione. E non si la mentarono neppure della gentrificazione residenziale. Dal momento che nuovi appartamenti prendevano il posto di fabbriche e altri edifici commerciali, alcuni dei quali già 200
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sfitti, pochi residenti furono costretti ad andarsene. Inoltre, il Bid ebbe modo di ripetere più volte la narrativa secondo la quale il quartiere si era salvato miracolosamente dalla decadenza urbana. In questo modo, l’area pre-Bid veniva rappresentata come poco sicura, nonostante il tasso di cri minalità fosse basso, se messo a confronto con quello di altri quartieri della città. Per tutti questi motivi, la maggior parte dei residenti e delle associazioni della comunità non si dichiararono contrari alla privatizzazione. Anzi, attribui rono al Bid il merito della «svolta spettacolare» di Union Square20. La questione che infine fece sollevare la protesta fu il progetto a lungo covato dal Bid: restaurare un padiglione in pietra che faceva parte della vecchia tribuna al confine settentrionale del parco, e trasformarlo in un ristorante di alto livello. Per anni la struttura in disuso era stata esposta alle intemperie diventando di conseguenza fatiscente, e ne cessitava di un ampio restauro. Offriva rifugio di tanto in tanto a piccioni e senzatetto, ma era evitata da chiunque. Durante gli anni Novanta, la porzione di parco di fronte al padiglione era stata data in affitto a un caffè informale all’aperto attivo di giorno durante il periodo estivo, ma quando quest’ultimo chiuse i battenti, il Bid rivolse la sua attenzione alla creazione di uno spazio coperto per un ri storante permanente, che sarebbe stato aperto tutto l’anno. All’epoca, come sappiamo dall’esperienza di Harlem, sia l’amministrazione Giuliani a New York che l’amministra zione Clinton a Washington incoraggiavano i governi locali a sviluppare un approccio imprenditoriale all’utilizzo delle risorse pubbliche. Il Dipartimento dei parchi era aperto a nuove soluzioni imperniate sul mercato per aumentare le entrate e fare fronte ai continui tagli di bilancio, molto più drastici di quelli imposti su servizi essenziali come polizia e vigili del fuoco. Non solo il Dipartimento innalzò le tasse ai venditori ambulanti in ogni parco della città, ma aumentò anche lo spazio dato in concessione a ristoranti e caffè, ven dette i diritti alle insegne pubblicitarie (cartelloni, essenzial mente) a sponsor aziendali, e incoraggiò l’affitto del parco per eventi speciali. I critici accusarono il Dipartimento dei
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parchi di violare il suo obbligo legale a non mettere in ven dita, o alienare, la proprietà pubblica senza avere un espli cito permesso dall’Assemblea legislativa dello Stato di New York. Ma Bid e associazioni private per la salvaguardia dei parchi alleggerirono la pressione sul Dipartimento gestendo direttamente queste iniziative imprenditoriali21. A Union Square si costituì però un gruppo apertamente critico nei confronti dell’idea di affittare uno spazio a un ristorante elegante, e per questo motivo la disputa si pro lungò per anni. «L’organizzazione sta implodendo» sulla questione, affermava nel 2005 un membro del consiglio della Union Square Community Coalition, quasi dieci anni dopo la prima formulazione dell’idea e appena prima che il gruppo facesse causa al Dipartimento dei parchi per i suoi progetti sul padiglione. Il progetto era, di fatto, legger mente più complesso di una semplice alienazione di suolo pubblico. Sebbene il punto che aveva scatenato la contro versia riguardasse il carattere elitario del nuovo ristorante, il progetto includeva anche nuove tubature dell’acqua e col legamenti elettrici per il mercato all’aria aperta del Greenmarket - così che i contadini potessero avere accesso, per la prima volta, a generatori elettrici e bagni - e migliorie per le aree gioco e per gli uffici del Dipartimento dei parchi. Quest’ultimo avrebbe pagato i costi della ristrutturazione per 12 milioni di dollari, e i rimanenti 8 sarebbero stati raccolti dall’Union Square Partnership, 5 dei quali donati in anticipo da un anonimo. Nonostante la causa in corso, i lavori ebbero inizio nel 200822. Sui blog locali circolarono voci sul tradimento della fi ducia pubblica da parte del Dipartimento dei parchi e del Bid: il numero di alberi che dovevano essere abbattuti, le conseguenze effettive dei lavori per le aree gioco e per il Greenmarket, e l’eventualità che fosse stato il proprietario dell’Union Square Café a donare i misteriosi 5 milioni di dollari nella speranza di accrescere le sue chance di otte nere in locazione il padiglione - tutte queste polemiche, sostanziate o meno, erano legate ad una critica della priva tizzazione. Pochi mesi dopo l’inizio dei lavori, un giudice della Corte suprema dello Stato emise un’ingiunzione par-
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ziale, che permetteva la continuazione dei lavori elettrici e idraulici ma sospendeva la ristrutturazione del padiglione fino ad ulteriori provvedimenti da parte della Corte. Questa decisione fu seguita da proteste nel parco, capitanate dal «reverendo Billy», un attivista le cui frequenti performance teatrali di strada in giro per la città attiravano l’attenzione sul tema delle libertà civili. I manifestanti marciarono attra verso il parco, appesero al padiglione un grande striscione che recava la scritta «Non in vendita», e chiesero che si ponesse fine al processo di privatizzazione. Alcuni mesi più tardi un altro giudice della Corte suprema dello Stato sta bilì che dare in locazione a un ristorante uno spazio all’in terno di un parco pubblico fosse coerente con le finalità pubbliche. Fu però lasciata la porta aperta ai querelanti per un ulteriore ricorso nel momento in cui fossero stati annunciati progetti specifici per il ristorante23. Nonostante la storia travagliata del padiglione, questioni nazionali più scottanti diedero nuovo slancio alla fama di Union Square come luogo di protesta. Nel parco si erano già tenute manifestazioni pacifiste prima, durante e dopo l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 e durante il con gresso nazionale del Partito repubblicano del 2004; c’erano stati raduni per i diritti degli immigrati nel 2007 e 2008; e durante la stagione delle primarie del Partito democratico nel 2008 dal parco erano partite marce a sostegno di Ba rack Obama e Hillary Clinton. Inoltre, ogni anno a novem bre i candidati a cariche locali si recavano al Greenmarket per incontrare gli elettori prima del giorno delle elezioni; di sabato vi si tenevano raccolte di firme per ogni genere di petizione; e i venditori ambulanti che ogni giorno al lestivano i loro banchetti all’esterno del parco vendevano magliette con immagini e slogan politici. Union Square di venne anche rinomata come luogo di raduno per eventi lu dici, come il primo rave silenzioso di New York, e l’annuale Idiotarod, ironico adattamento newyorkese di Iditarod - la famosa competizione per slitte tirate da cani che si tiene in Alaska - in cui i partecipanti gareggiano spingendo carrelli della spesa lungo le strade della città. I ciclisti talvolta vi si danno appuntamento per confluire in Criticai Mass, una 203
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biciclettata serale che si tiene ogni mese per manifestare il sostegno ad un sistema di trasporto ecocompatibile - una manifestazione mobile che, come un rave, annuncia il punto di ritrovo via messaggio telefonico all’ultimo minuto e non cerca di ottenere un permesso dal Dipartimento di polizia della città, I tutori dell’ordine non vedevano di buon occhio il fio rire della protesta politica nella piazza. I poliziotti erano noti per aver usato i manganelli durante le proteste dei lavora tori alla fine del XIX secolo, e avevano trattato duramente chi manifestava contro la guerra in Vietnam negli anni Ses santa e Settanta. Così, durante le amministrazioni Giuliani e Bloomberg negli anni Novanta e nei primi anni Duemila concessero poche autorizzazioni per manifestazioni politiche, limitarono la libertà di movimento dei dimostranti dispo nendo transenne, e aumentarono il numero di arresti, spesso su basi inconsistenti. La polizia impedì all’attivista pacifi sta Cindy Sheehan di parlare durante una protesta a Union Square e arrestò l’organizzatore dell’evento per aver usato senza autorizzazione un dispositivo di amplificazione; Shee han era diventata una figura di riferimento del movimento pacifista, arrivando anche ad accamparsi di fronte al ranch del presidente George W. Bush in Texas dopò la morte di suo figlio, un militare di stanza in Iraq. Il Dipartimento di polizia della città di New York arrestò anche il reverendo Billy a Union Square per aver provocato alcuni agenti reci tando il Primo emendamento durante una protesta contro il nuovo regolamento restrittivo per le autorizzazioni allo svol gimento di Criticai Mass, e dispose un comando mobile vi cino al punto in cui i ciclisti si radunavano nei venerdì sera, Sommato alla sorveglianza esercitata ogni giorno dalle guar die giurate e alle ronde frequenti della polizia, questo giro di vite all’uso della piazza per esprimere dissenso politico corroborò la posizione di chi criticava la privatizzazione24. Mangia. Compra. Visita. Union Square.
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Slogan promozionale, Union Square Partnership, 2008
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Né coerente sotto l’aspetto visivo quanto un parco a tema, né di difficile accesso quanto una comunità recin tata, Union Square fa comunque parte di quelT«arcipelago di enclaves» che gli urbanisti olandesi Maarten Hajer e Arnold Reijndorp descrivono come tipici dei nuovi spazi pubblici che le città hanno realizzato a partire dagli anni Ottanta. Grazie all’offerta di eventi speciali in un contesto piacevole, con un ridotto rischio di «incontri inquietanti», questi luoghi predispongono isole pacifiche in un mondo turbolento, ricreando la vita urbana come ideale di civiltà. Come appunto nei parchi della città, pur non richiedendo il pagamento di una tariffa d’ingresso, vengono utilizzate stra tegie sia esplicite che capziose per incoraggiare la docilità di un pubblico ormai abituato a pagare per un’esperienza di qualità. Questi luoghi rompono col passato, non soltanto perché si fondano passivamente sulla disattenzione civile dei cittadini che ignorano tranquillamente lo sconosciuto seduto sulla panchina accanto, ma anche perché permet tono ad essi di evitare estranei che appaiono come «alieni» ai loro occhi: il senzatetto, la persona psicologicamente confusa, quella al limite della criminalità, o semplicemente rumorosa e fastidiosa25. IBid dei luo ghi pubblici creando «spazi curati individualmente nei dettagli», una sorta di,£archi:^ioco^er consumatori adulti che hanno interiorizzato le norme per un comportamento appropriato e tengono d’occhio gli altri per essere certi che anch’essi si conformino alle regole. In un patto im plicito, il Bid ottiene il potere di esercitare un controllo e in cambio fornisce servizi di qualità che dimostrano agli utenti che ci si sta prendendo cura di loro: pulizia, si curezza, aiuole ben tenute, letture di poesia. Gli esperti di politiche pubbliche sono a favore di questo scambio per il controllo della criminalità e per «un ritorno a un precedente insieme di valori». Non è chiaro, tuttavia, a quali valori essi si riferiscano, e a chi questi valori ap partengano. Un «ritorno» implica nostalgia per gli anni Cinquanta o i primi anni Sessanta, appena prima che i movimenti sociali per i diritti civili, delle donne e degli
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omosessuali rendessero possibile liberarsi da tante ini bizioni storiche per quanto riguarda il comportamento in pubblico, prima che la Corte suprema obbligasse la polizia ad un atteggiamento più formale nel trattare con i civili, e prima che un massiccio aumento del numero di reati gravi riducesse l’attenzione ufficiale su quelli minori - un ritorno, in altre parole, a un tempo in cui le persone si comportavano in modo «civile». Certo, i valori del vi vere civile, come l’educazione e il reciproco rispetto, sono ampiamente condivisi e particolarmente graditi da quei gruppi che potrebbero subire soprusi. Ma le norme del vivere civile sono importanti anche per gruppi elitari che cercano di «civilizzare» gli altri. Nel XIX secolo il museo pubblico era un luogo in cui le mostre illustravano la sto ria morale della nazione, le classi inferiori si supponeva imparassero le regole di un comportamento appropriato da chi era socialmente superiore a loro, e tutti i visitatori erano tenuti a un certo aspetto e modo di muoversi, sotto lo sguardo degli altri. I paralleli con gli spazi pubblici odierni gestiti dai Bid, plasmati dall’idea di Whyte della reciproca sorveglianza e dagli «occhi sulla strada» di Ja cobs, sono notevoli26. L’imposizione da parte dei Bid di comportamenti ap propriati negli spazi pubblici finisce per sollevare validi ar gomenti contro la privatizzazione. Trasferire il controllo da noi stessi e dai dipendenti pubblici - come i poliziotti - a gruppi privati di proprietari immobiliari e ai loro impiegati conferisce a questi ultimi un grande potere. Senza leggi a cui i Bid debbano rispondere, il potere di negare agli indi vidui l’utilizzo dello spazio pubblico potrebbe alienare loro diritti fondamentali, come la libertà di parola e di riunione. I critici mettono in relazione la privatizzazione avviatasi negli anni Settanta con l’affermazione di ideali e pratiche neoliberiste, e con uno Stato sempre più repressivo che impone le leggi del mercato a lavoratori sindacalizzati, di soccupati e beneficiari di sussidi pubblici. Di fatto, dal loro avvio i Bid hanno assunto lavoratori non iscritti a sindacati pagando loro un salario inferiore a quello degli impiegati statali con le stesse mansioni; offrono anche posti di lavoro
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a persone che partecipano a programmi di riabilitazione al lavoro e che vanno direttamente a sostituire impiegati pubblici sindacalizzati. I Bid offrono una risposta anche ad altre spiacevoli ten denze: la paura di vivere in una società più eterogenea, che esige la presenza di autorità in uniforme per mantenere una separazione tra i gruppi, e l’influenza della cultura di consumo, che genera consenso su spazi pubblici organizzati intorno ad esperienze di shopping standardizzate. Come suggerisce Union Square, i Bid traducono queste ampie trasformazioni sociali e culturali in un insieme di strategie orientate al mercato che hanno l’obiettivo di ridurre il nu mero di locali liberi e alzare gli affitti, porre rimedio alle risorse finanziarie inadeguate delle agenzie dell’amministra zione cittadina e creare un’«identità di marchio». In breve, la privatizzazione realizzata dai Bid fa fronte - attraverso l’obiettivo dello sviluppo economico locale - ad una crisi sociale, politica e morale in cui lo~Stato^rinuncia alle sue responsaBjJÙìinffam Darren^Walker vicepresidente della Rockefeller Foundation - durante una tavola rotonda intitolata «New York ha perduto l’anima?» affermava: «C’è qualcosa di profondamente sbagliato quando l’amministrazione non riesce a fornire servizi fon damentali e alcuni privati decidono di costituirsi in gruppi che pagano tasse aggiuntive e ricevono servizi aggiuntivi27». Il sindaco Rudolph Giuliani fu un sostenitore dell’idea dei Bid, ma negli anni Novanta si trovò ad affrontare la questione del loro rapporto con lo Stato, quando accusò la Grand Central Partnership di abuso di autorità e ne ordinò lo scioglimento. La società si era assunta più com piti, e aveva mostrato più arroganza, di quanto pattuito con l’amministrazione cittadina: emetteva obbligazioni per finanziare le sue vaste iniziative senza l’approvazione del governo; conferiva al suo direttore esecutivo, a capo an che di altri due Bid a Midtown Manhattan, uno stipen dio più alto di quello del sindaco; e, secondo le accuse di organizzazioni a tutela dei senzatetto, costringeva uomini che dormivano sulla strada e negli androni dei palazzi del distretto ad accettare di lavorare per il Bid in cambio di 207
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un salario basso. Queste condizioni suscitarono una con troversia politica sui Bid che si placò quando il Consiglio comunale rafforzò la sorveglianza su di essi da parte del Dipartimento dei servizi alle piccole imprese, e il direttore esecutivo dei 3 Bid in questione fu costretto a dimettersi da due dei suoi incarichi28. Nel lungo termine, tuttavia, la crisi si risolse a favore del Bid. Quando fu eletto nel novembre del 2001, il sin daco Bloomberg incoraggiò un’espansione del numero di Bid e permise loro di alzare il tetto di finanziamenti che potevano raccogliere in condizione di autoaccertamento tributario. Non c’era alcuna speranza che il settore pub blico, guidato a questo punto da un sindaco miliardario, cercasse di tenere le redini dell’industria immobiliare o delle leggi di mercato. Con l’incertezza sul futuro econo mico della città che seguì all’ll settembre, il governo locale non avrebbe sfidato aziende e immobiliaristi. E quando la crisi economica del 2008 ridusse le entrate sia delle aziende che dell’amministrazione, quest’ultima tagliò drasticamente il bilancio del Dipartimento dei parchi, rendendolo ulterior mente dipendente dai Bid per il proprio finanziamento29. L’opinione pubblica non è per lo più contraria ai Bid. L’alternativa al controllo privato, perlomeno nella fantasia della maggior parte dei newyorkesi, è un ritorno ai vecchi tempi bui in cui gli spazi pubblici erano invasi dai senza tetto, il gruppo meno privilegiato e più «alieno» in città. Molti newyorkesi ricordano ancora con sgomento gli ac campamenti degli homeless a Tompkins Square nell’East Village tra il 1988 e il 1991, il sostegno politico offerto dà punk, squatters e alcuni altri residenti del quartiere, e la violenza della polizia che ne risultò. Tompkins Square non era l’unico luogo in cui i newyorkesi si sentivano assediati; Nell’estate del 1994, quando uomini e donne senza fìssa di mora realizzarono accampamenti nei parchi pubblici, i Bid cooperarono con il Dipartimento di polizia nelle operazioni di smantellamento dei ripari, chiusura dei parchi e intensi ficazione della sorveglianza per assicurare che gli homeless non sarebbero tornati in alcuna forma organizzata. Robert Walsh, che dirigeva all’epoca il Bid della 14a Strada-Union
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Square, fece erigere anche barricate per il coprifuoco not turno. Ma egli stava in realtà reagendo all’effetto domino, come lo definì il «New York Times», dei senzatetto cacciati da altri parchi della zona che finivano per concentrarsi a Union Square. «Quando una notte ho iniziato a vedere le tende e un centinaio di persone, come se fosse un rico vero all’aperto, ho avuto paura», riportò Walsh al «Times». «Stiamo solo cercando di proteggere il nostro territorio. Ora che gli altri parchi sono chiusi, davvero non abbiamo scelta». I residenti, pur provando compassione per i sen zatetto, appoggiarono la rimozione di questi ultimi dallo spazio pubblico, per garantire un uso pubblico più esteso30. Tuttavia, come accusavano i primi critici, i Bid sono «alleanze diseguali», e questa diseguaglianza si può inten dere in diversi modi: da un lato, essi incarnano il ruolo cre scente del settore privato come autorità al tempo stesso mo rale e pratica, secondo molte persone più efficace di un’am ministrazione pubblica sotto ogni punto di vista. Come scrisse l’esperta di politiche neoliberiste Heather McDonald a proposito dei Bid dopo la caduta del comuniSmo nell’Eu ropa dell’Est, «essi offrono una vitale e dinamica Berlino Ovest alla sclerotica Berlino Est delle amministrazioni cit tadine». D’altro lato, i Bid sono un’oligarchia poiché incar nano la regola secondo cui spetta ai ricchi governare. Prima di tutto, dal momento che le grandi aziende e i proprietari immobiliari hanno più fondi del settore pubblico, è stata loro affidata la responsabilità di pianificare e finanziare al cuni servizi fondamentali. In secondo luogo, poiché i diritti di voto all’interno di ogni Bid riflettono il valore imponibile totale delle proprietà di ciascun membro, chi ha proprietà di maggior valore ha anche più potere. Se sorge un contra sto d’opinione in un Bid, ad esempio sull’eventualità per i locatori di affittare a catene piuttosto che a negozianti della zona, i grandi proprietari prevarranno su chi possiede un solo edificio, e i proprietari sui piccoli affittuari31. Esiste anche una profonda diseguaglianza di risorse tra gli stessi Bid, che rinforza altre diseguaglianze economi che e sociali. Dal momento che gli imponibili auto-valutati sono basati sui valori delle proprietà commerciali, i Bid in
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aree della città dove i valori immobiliari sono alti possono raccogliere più introiti e realizzare progetti più ambiziosi rispetto ai Bid in aree povere. I recenti bilanci annuali va riano dai 53.000 dollari del Distretto dello shopping sulla 180a Strada a Jamaica nel Queens, fino agli 11,25 milioni di dollari nel distretto finanziario a Lower Manhattan, vicino al sito del Wtc. Non sorprende che questa diseguaglianza di risorse rifletta differenze di istruzione e di classe sociale - gli avvocati e dirigenti aziendali predominano nei consi gli d'amministrazione dei Bid più prosperi -, ma anche di reddito tra i residenti, per cui i Bid più ricchi operano nelle aree dove vivono le famiglie più ricche32. Oltre alla massimizzazione dei benefici per i benestanti e la minimizzazione dei benefici per i poveri, i Bid rinfor zano la diseguaglianza nell'esercizio del controllo sociale. I senzatetto sono solo la punta dell’iceberg: se la polizia si assicura che essi non possano realizzare rifugi permanenti per la notte, le guardie giurate dei Bid impediscono loro di sdraiarsi sulle panchine del parco durante il giorno e di frugare nell’immondizia alla ricerca di lattine e bottiglie di vetro da consegnare nei depositi per il riciclaggio in cambio di un rimborso. A Union Square la polizia ha arrestato e allontanato skaters che si allenavano sui larghi gradini fron tali del parco e nell'area asfaltata sul lato nord, zone - va detto - affollate, dove gli skaters rischiano di urtare i pas santi. A parte homeless e skaters, però, l’esercizio selettivo del controllo non è così semplice da prevedere. A Madison Square Park, un pomeriggio, una giovane donna con un completo da ginnastica a due pezzi si allena tranquillamente vicino a una fontana ornamentale, mentre alcune guardie del Dipartimento dei parchi e del Bid chiedono a un’altra donna che sta prendendo il sole sull’erba di raccogliere il suo asciugamano e andarsene. A Bryant Park, la sera, nonostante la regola del Dipartimento dei parchi che vieta di consumare alcol all’esterno dei ristoranti e dei chioschi, le guardie giurate del Bid permettono a uomini e donne in attesa della proiezione cinematografica all’aperto di bere un cocktail durante un picnic sull'erba, un’immagine raffi nata di consumo ricreativo. Nel frattempo, però, la polizia 210
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importuna uomini e donne che bevono birra da lattine na scoste nei sacchetti di carta33. Sia Giuliani che Bloomberg hanno ignorato queste forme di diseguaglianza, preferendo invece elogiare i Bid quali esempio di come il commercio possa essere al servi zio delle comunità locali. Negli anni di Bloomberg il nu mero di Bid ha raggiunto quota 64, sparsi ovunque nella città, in aree sia povere che benestanti. I Bid continuano ad allettare i politici poiché sono meccanismi non solo per spostare sulle spalle dei privati la responsabilità degli spazi pubblici, ma anche per accrescere il valore di un quartiere: l’equivalente di ciò che i caffè Starbucks rappresentano per le strade. Inoltre è probabile che i Bid alzino i valori di proprietà in zone economicamente marginali, come è già accaduto per i distretti affaristici di Midtown e Lower Manhattan. Che poi questo processo estrometta negozianti del quartiere e apra le porte alle grandi catene, come è av venuto ad Harlem, è un’altra questione34. Come la Union Square Partnership e il Bid della 125a, tutti i Bid si compiacciono di essersi sottratti alla narrativa del declino urbano. La Bryant Park Corporation, sulla 42a Strada a Midtown Manhattan, è probabilmente l’esempio di maggior successo. Secondo il «New York Times», Bryant Park negli anni Settanta era «messa al bando e invasa da persone non gradite al punto di essere considerata un sim bolo del declino della città». Oggi nei giorni d’estate pas sano dal parco fino a 5.000 visitatori, per una lettura di poesie all’ora di pranzo o per un panino sull’erba, un film serale, una connessione Wi-Fi gratuita, o per l’uso dei bagni da poco rinnovati secondo un progetto da 200.000 dollari. In inverno, Citigroup sponsorizza una pista di pattinaggio sul ghiaccio ad accesso gratuito. Sono così tante le persone che fruiscono del parco - e così tante quelle che si sono lamentate della sua chiusura al pubblico per la Settimana della moda, che vi si è tenuta per molti anni ogni sei mesi -, che il Bid ha insistito perché la manifestazione dell’in dustria della moda trovasse una diversa sistemazione, e sta seriamente considerando di tagliare anche su altre iniziative. Ma è difficile costruire un’argomentazione convincente: le
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spese annuali complessive per la manutenzione del parco sono cresciute da poco più di un milione di dollari negli anni Novanta agli oltre 6 attuali, e concessioni e canoni di locazione costituiscono la maggior parte dei proventi. Nel quartiere intorno al parco, gli affitti degli uffici sono cresciuti e residenti benestanti si sono trasferiti nei nuovi appartamenti. La gestione imprenditoriale dello spazio pub blico da parte del Bid di Bryant Park ha stabilito uno stan dard elevato di consumo collettivo a cui il settore pubblico, con le sue magre finanze, si deve adeguare, in netto con trasto con le sistematiche carenze delle scuole pubbliche, del sistema della metropolitana e dei parchi pubblici non ancora affidati alla gestione privata35. Nonostante le ingiustizie dei Bid, il loro pesante ca rico di sorveglianza e la commercializzazione degli spazi pubblici sotto il loro controllo, dopo 1’11 settembre 2001 Union Square è emersa come lo spazio pubblico più signi ficativo della città. Quasi subito dopo l’attacco al Wtc, i newyorkesi vi si raccolsero per compiangere i defunti. Si accalcavano lì anche per essere in pubblico, sentirsi circon dati da altre persone, sentire le ultime notizie dopo che la maggior parte delle antenne radio e televisive erano state distrutte con il crollo delle Torri Gemelle, e per dimostrare ciò che può essere soltanto definito solidarietà con gli al tri, in tutto il mondo. Affissero cartelli scritti a mano che chiedevano pace e giustizia in diverse lingue, incluso un messaggio che si dipanava su una lunghissima striscia di tessuto bianco, in ricordo dell’equipaggio che morì sul volo 93 della United Airlines controllato dai dirottatori. Nelle ore successive al crollo delle Torri, il suolo ai piedi della statua di George Washington si riempì di candele accese, fiori e messaggi scritti a matita a formare un santuario improvvisato. Per oltre due settimane le fiammelle conti nuarono ad ardere, mentre si aggiungevano fiori su fiori, candele su candele. Alcuni messaggi furono anche scara bocchiati sulla base della statua, proprio come graffiti, ma in quelle settimane nessuno li rimosse o arrestò gli autori. I poliziotti stavano rispettosamente sul marciapiede di fronte all’ingresso, e guardavano, parlavano, ma non cercavano 212
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di forzare le persone a spostarsi. Il tempo si era fermato. Le persone passeggiavano nel parco, leggevano i cartelli, parlavano a voce bassa. Era una comunità provvisoria spontanea, temporanea, mobile -, ma in un momento di crisi creò il senso di un pubblico «autentico». Le autorità non controllavano lo spazio: era la nostra agorà, il nostro foro, il nostro parco. Perché tutto questo è accaduto a Union Square? In una certa misura era una questione geografica. Dopo l’attacco terroristico la polizia chiuse al pubblico, ad eccezione dei residenti nella zona, l’accesso alla parte bassa di Manhat tan a sud di Canal Street. Permettevano solo alle squadre di soccorso di avvicinarsi al Wtc. Essendo lo spazio pub blico più ampio vicino alle Torri Gemelle - benché oltre 3 chilometri a nord - e più comodo dal punto di vista del trasporto pubblico, Union Square era un logico punto di raccolta per i newyorkesi che non potevano raggiungere Ground Zero. Il parco potrebbe anche aver risposto alle aspettative create dalla costitutiva tradizione di protesta politica. Ma soprattutto fu decisivo lo scarto persistente nella percezione dei newyorkesi, che avvertivano di star co struendo «autenticità» a Union Square mentre si sentivano esclusi dalle decisioni sul sito del Wtc. | j:
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[La Lower Manhattan Development Corporation] sarà lo strumento attraverso cui il governatore Spitzer esprimerà la sua visione e articolerà la sua voce su Lower Manhattan [...]. Con una nuova dirigenza e nuovi obiettivi, una rinvigorita Lmdc contribuirà a rivitalizzare un’area che è importante non solo per i newyorkesi, ma per tutti gli americani.
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Avi Schick, presidente della Lower Manhattan Development Corporation, 2007
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Le circostanze particolari dell’attentato terroristico al Wtc nel 2001 - lo shock di un attacco aereo a civili sul suolo statunitense, la presa di mira di uno dei simboli più riconoscibili del potere americano, il fatto che fosse av venuto a New York, una delle capitali globali dei media
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- resero il sito uno spazio pubblico senza pari nella città. A differenza di Union Square, che ancora oggi potrebbe es sere descritto come un parco di quartiere, il sito delle Torri Gemelle fu immediatamente messo in relazione all’identità nazionale. I commentatori dei media e i funzionari statali, dal presidente degli Stati Uniti al sindaco di New York, così come i leader politici in ogni città e in ogni contea del paese, ne parlavano negli stessi termini in cui la popo lazione parla del campo di battaglia di Gettysburg e della base navale di Pearl Harbor: era il punto zero, sia come obiettivo militare che come terra sacra e venerata su cui gli eroi erano caduti per salvare la nazione. Il sito del Wtc fu trattato con maggior riverenza rispetto al Pentagono, anch’esso attaccato dai terroristi ITI settembre, e al terreno in Pennsylvania su cui il volo 93 si schiantò. A differenza del Pentagono, poche delle quasi 3.000 vittime delle Torri Gemelle lavoravano per un’agenzia governativa statuni tense, il che rendeva ancora più drammatica la perdita di vite innocenti. Inoltre, a differenza delle campagne della Pennsylvania, il fatto di trovarsi a New York garantiva che sarebbe diventata un’importante attrazione turistica. Nonostante le molte differenze tra Union Square e Ground Zero, alcune tendenze simili plasmarono entrambi i luoghi come spazi pubblici. Innanzitutto, anche il sito del Wtc è frammentato tra proprietà pubblica, gestione privata e uso pubblico. Come a Union Square, l’uso pub blico è soggetto a stretti controlli per garantire un gene rale senso di sicurezza da un nemico senza nome. Ancora, come a Union Square il costo per costruire e mantenere lo spazio eccede i mezzi a disposizione dell’amministrazionej rendendo necessaria una dipendenza dal settore privato. In entrambi i casi il programma - i servizi offerti, il rac conto che viene dispiegato e il pubblico servito - riflette una battaglia continua tra diversi gruppi di portatori di interessi del settore privato. Tutte queste sono similitudini forti. Certo, vi sono anche differenze. Innanzitutto, l’uso più o meno commerciale di Union Square come luogo di consumo ricreativo contrasta con gli usi ideologici del sito 214
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del Wtc. Nonostante i controlli sociali sul comportamento imposti dal Bid, la sua privatizzazione è più benevola dei controlli autoritari dello Stato su Ground Zero. Anche in questo caso, tuttavia, è importante comprendere come lo spazio pubblico sia determinato dalla storia di un luogo, dai cambiamenti nei quartieri circostanti e da ampie ten sioni culturali. L’attentato terroristico che ha abbattuto le Torri Ge melle ha concentrato l’attenzione di tutto il mondo sulle origini di questo sito di oltre 6.000 metri quadri. Ci vollero anni per realizzare gli edifici (e decenni per popolarli del tutto). Vennero progettati negli anni Cinquanta per essere al tempo stesso un’espressione del ruolo economico globale di New York e una garanzia nel processo di risanamento dell’economia locale di un quartiere finanziario che iniziava a perdere sedi centrali di banche e studi legali a favore di Midtown Manhattan. In un certo senso, si trattava di un imponente programma di welfare per le operazioni immo biliari del settore finanziario, soprattutto della Chase Man hattan Bank che aveva costruito una nuova sede centrale a Lower Manhattan negli anni Cinquanta ed era guidata da David Rockefeller, il cui fratello - Nelson - era governa tore dello Stato di New York quando il centro affaristico fu inaugurato, nel 1973. La maggior parte dei newyorkesi non trovava attraente l’architettura dell’edificio. Le Torri Gemelle, però, erano alte in modo impressionante, anche a confronto con i grattacieli di Manhattan, e come emblema della città visibile da molte prospettive - attraversando i ponti, arrivando in aereo o semplicemente camminando nei canyon d’asfalto - divennero familiari, rispettate e infine amate36. Il coinvolgimento del governatore Rockefeller nella rea lizzazione del Wtc non rispecchiava soltanto il controllo che la sua famiglia esercitava su Chase o la dimensione del suo ego: affermò anche il ruolo cruciale dello Stato in tutte le fasi del progetto, a partire dall’esercizio del potere statale di esproprio per pubblica utilità per sottrarre a recalcitranti proprietari gli immobili che si trovavano sul terreno del cantiere, e dall’assegnazione della proprietà dei nuovi edifici
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all’Autorità portuale di New York e del New Jersey, un’a genzia pubblica regionale che già possedeva e controllava infrastrutture cruciali come i porti e gli aeroporti. Inoltre, per molti anni lo Stato di New York affittò gli uffici del Wtc ad agenzie statali, compensando l’assenza di domanda di spazi per uffici nell’area di Wall Street che regnò fino alla fine degli anni Novanta, poco prima della distruzione del complesso. Sin dall’inizio, quindi, nonostante benefi ciasse di finanziamenti pubblici, il sito del Wtc fu control lato da un gruppo molto ristretto di persone: il governatore e un’agenzia pubblica, l’Autorità portuale, che era nominata da quest’ultimo e soltanto a lui rispondeva. Ma la proprietà e il controllo pubblici si combinarono con una gestione privata. Come è oggi risaputo, l’Autorità portuale diede in locazione le torri del Wtc all’immobiliari sta Larry Silverstein poche settimane prima dell’ll settem bre. In quanto locatario, Silverstein fu rimborsato dall’as sicurazione dopo la distruzione del complesso, ma per il medesimo motivo egli fu anche l’unico ad avere la respon sabilità della sua ricostruzione. Certo, anche l’amministra zione cittadina e il Consiglio municipale locale avevano forti interessi finanziari nella ricostruzione, ma solo Silverstein e l’Autorità portuale avevano il potere di prendere decisioni; a conferma della regola secondo cui - come scrisse il cri tico di architettura Paul Goldberger - nella città di New York politica e soldi danno sempre forma ai grandi progetti pubblici. A suo modo, quindi, l’amministrazione del sito del Wtc, probabilmente il più importante spazio pubblico sul suolo americano dopo 1’11 settembre, era frammentata quanto quella di Union Square37. La frammentazione divenne problematica non appena il pubblico iniziò a riflettere su come, quando e in che forma il sito sarebbe stato ricostruito. Sia Larry Silverstein ché una società immobiliare australiana - Westfield America -, locataria dell’ampio e redditizio centro commerciale nei sotterranei del Wtc, appoggiavano un progetto per cui il centro affaristico sarebbe stato ricostruito identico a com’era prima dell’ll settembre. Una ricostruzione rapida era an che l’opzione privilegiata dall’amministrazione Bloomberg;;
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dal governatore George Pataki e da altri funzionari statali, in contrasto con alcuni esponenti dell’opinione pubblica - incluso, per una volta, il sindaco Giuliani - che ritene vano che la miglior commemorazione delle vittime uccise nel 2001 consistesse nel lasciare vuota l’area. I funzionari della città puntavano sia a ristabilire l’immagine di New York come centro della finanza globale che a sostenere i valori immobiliari a Lower Manhattan, crollati drasticamente dopo l’attentato. Ma il sindaco non era d’accordo con Sil verstein e con lo Stato sul fatto che il Wtc dovesse essere ricostruito come un complesso per uffici. Il punto di vista di Bloomberg rifletteva il dato di fatto che a partire dagli anni Ottanta la popolazione residente a Lower Manhattan era cresciuta, mentre quella impiegata negli uffici continuava a scendere, a differenza di Midtown e del New Jersey set tentrionale. Il Consiglio di quartiere, che rappresentava più di 30.000 residenti, distribuiti tra i loft di Tribeca, i palazzi sedi di uffici riconvertiti ad uso residenziale intorno a Wall Street e i nuovi condomini di Battery Park City, si espresse a favore della realizzazione di alloggi, complessi culturali e negozi. Per entrambi, tuttavia, fu difficile farsi sentire, dal momento che all’inizio né l’amministrazione cittadina né il Consiglio municipale avevano, incredibilmente, un posto al tavolo della progettazione. Il controllo dello Stato di New York sullo spazio pub blico del Wtc era rappresentato dal governatore George Pataki, dall’Autorità portuale e dai membri di una nuova agenzia statale, la Lower Manhattan Development Cor poration (Lmdc), istituita dal governatore poco dopo 1’11 settembre. Pataki aspirava alla nomina repubblicana per le presidenziali del 2008, e vedeva una rapida ricostruzione del Wtc come un chiaro vantaggio politico. Fu soprattutto per questo motivo che tenne strette le redini del controllo. I precedenti storici corroboravano il ruolo ricoperto da Pataki: come l’Autorità portuale, istituita negli anni Venti, l’Lmdc doveva rendere conto soltanto al governatore. E come le altre agenzie pubbliche dello Stato, poteva pren dere decisioni sull’utilizzo del terreno ed emettere obbli gazioni per la costruzione senza l’approvazione né degli 217
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elettori né dell’assemblea legislativa statale. Oltre a rappre sentare l’autorità dello Stato di New York quando si trat tava di negoziare con il Comune sulla ricostruzione, l’Lmdc era anche, per decisione del governatore, l’unica sovrana agenzia deputata a trattare con tutti i soggetti coinvolti, dal governo federale alle famiglie delle vittime. Ma l’ente non aveva alcuna legittimità di rappresentare il pubblico. Inizialmente nominato da Pataki, era composto esclusivamente da uomini, bianchi, con stretti legami con l’industria della finanza. Cedendo alle pressioni del sindaco Bloomberg e di altri funzionari locali - compreso il porta voce dell’assemblea legislativa statale, un democratico che per anni era stato il rappresentante di Lower Manhattan il governatore Pataki allargò l’Lmdc con la nomina di una donna, presidente del consiglio di comunità, e di alcuni membri proposti da Bloomberg. L’iniziativa del governa tore ampliò la rappresentanza etnica, e assegnò alla co munità locale un ruolo ufficiale nella ricostruzione. Anche su questo, tuttavia, nacquero dei disaccordi, dal momento che nell’Lmdc mancava un delegato per Chinatown, che si trovava a nordest del distretto finanziario e in cui attività commerciali e residenti continuavano a risentire del fatto che l’area fosse stata tagliata fuori dal traffico dopo 1’11 settembre. La questione fu risolta includendo Chinatown in quell’area di Lower Manhattan fino all’altezza di Canal Street che avrebbe potuto beneficiare degli incentivi per la ricostruzione. Il pubblico che veniva toccato dai progetti su Ground Zero era vario: residenti, società finanziarie, grandi pro prietari immobiliari e ovviamente imprese di costruzione facevano pressioni sull’Lmdc e sul governo federale, ag giungendosi ai funzionari statali e ai delegati di Chinatown, Va da sé che questi gruppi raramente erano portatori di interessi simili. Altri due gruppi importanti di interlocutori si formarono in risposta alle specifiche circostanze dell’ll settembre: da un lato le famiglie delle vittime e i sopravvis suti all’attacco terroristico, un gruppo di per sé eterogeneo che includeva repubblicani e democratici; persone a favore dell’attacco statunitense all’Afghanistan e all’Iraq e altre 218
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contrarie alla guerra; professionisti altamente remunerati e analisti finanziari accanto a lavoratori dei servizi e tecnici (molti dei quali immigrati), vigili del fuoco e poliziotti i cui colleglli erano stati uccisi. Dall'altro lato, architetti, ur banisti e progettisti che spingevano affinché si allargasse il numero di professionisti di talento che proponevano progetti per il sito, e per incrementare la partecipazione pubblica nel processo decisionale. Quando l’Lmdc propose uno slogan in 3 parole per esprimere il consenso che spe rava sarebbe emerso fra tutti questi gruppi - «Riflettere, ripristinare, ricostruire» - pur con il massimo impegno non fece altro che trasformare i conflitti di interesse in lunghe dispute. Ogni elemento di questo motto conteneva infatti al suo interno una serie di irriducibili battaglie politiche e culturali che diedero il via a una tumultuosa sequenza di controversie. «Riflettere» avrebbe preso forma concreta nel memo riale per le vittime dell’attacco terroristico. Sin dall’inizio, tuttavia, il conflitto si incentrò sull’opportunità o meno di realizzare un monumento e, in questa eventualità, se la sciare o meno scoperta la pianta rettangolare delle Torri Gemelle, dove era morta la maggioranza delle vittime. Dal momento che molti resti umani erano stati inglobati nelle macerie e nella terra del sito, i familiari di alcune vittime fecero pressione perché il luogo «sacro» fosse lasciato in tatto. Altri volevano preservare la traccia visibile di dove i loro cari erano scomparsi. Dopo molti, lunghi dibattiti condotti sia pubblicamente attraverso i media che a porte chiuse all’interno dell’Lmdc, e dopo un concorso di proget tazione architettonica - che a sua volta generò disaccordi - fu raggiunto un compromesso: l’area precedentemente occupata dalle torri sarebbe divenuta uno specchio d’ac qua, circondato da alberi. Un ulteriore, rilevante scontro nacque a proposito della disposizione dei nomi incisi delle 3.000 vittime: era giusto elencarli casualmente o accanto ai nomi dei loro colleghi, considerando che molti erano morti insieme sul posto di lavoro, o ancora in base al piano e alla torre dove morirono? I nomi dei poliziotti e dei pom pieri dovevano essere raggruppati per unità di comando? 219
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I nomi delle vittime dovevano essere disposti in base al rango, per cui i comandanti di vigili del fuoco e polizia e i dirigenti avrebbero preceduto quelli dei sottoposti? Oppure dovevano tutti, come suggerì il sindaco Bloomberg, essere elencati alfabeticamente, a mostrare che nella morte tutti gli uomini sono uguali? Un altro problema riguardò la tipologia di edifici che un memoriale doveva includere. Sul volgere del XX secolo erano già molti i monumenti commemorativi laici che inclu devano qualche forma di museo, per allestire un racconto e plasmare la memoria storica. I musei dell’olocausto, a com memorazione degli ebrei vittime del nazismo, costituivano l’esempio più influente, ma anche i governi di altri paesi, come il Sudafrica, avevano realizzato musei che rievocavano la condizione di oppressione del passato mostrando oggetti quotidiani - opuscoli politici, carte d’identità, armi, le ca tene degli schiavi - che connettevano le vite dei singoli a una storia più grande. A New York scoppiò un dibattito su quale genere di museo avrebbe potuto trasmettere l’orrore dell’attentato dell’ll settembre e attribuire un alto signifi cato morale alla morte delle vittime. Doveva essere sempli cemente un museo nazionale, che offrisse una narrativa al servizio degli interessi degli Stati Uniti, o doveva in qualche modo comunicare valori universali? Il compromesso dav vero poco lungimirante dell’Lmdc puntava alla nascita di un «Museo della libertà», ma i critici, tra cui i membri delle famiglie delle vittime, ribatterono che sarebbe stato difficile controllare il messaggio di un simile museo. Dopo tutto, sostenevano, i loro cari erano morti a causa dell’intolleranza del fondamentalismo islamico nei confronti dell’occidente: non si doveva offrire «libertà» agli attentatori. Ma come poteva un Museo della libertà limitare la libertà di parola, uno dei diritti fondamentali per l’America? L’incapacità di trovare una soluzione in grado di arginare la controversia si concluse con l’eliminazione dell’idea di un museo nel luogo del memoriale. E chi avrebbe pagato per il monumento? Su questo punto il governo federale seguì il modello stabilito negli anni Ottanta con il restauro del monumento storico dell’im
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migrazione a Ellis Island. La privatizzazione dell’isola, una delle decisioni chiave del?amministrazione Reagan, aveva spostato la responsabilità della gestione di un simbolo importante per l’identità nazionale nelle mani di una fon dazione privata creata ad hoc. In questo modo, il governo aveva tratto profitto dalla gloria del sito e disposto guarda parchi come presenza visibile del settore pubblico, mentre buona parte delle spese era sostenuta da donatori privati. Il conflitto tra identità nazionale e valori universali che provocò l’abbandono dell’idea del museo impedì anche il raggiungimento di un accordo su un altro elemento im portante del sito del Wtc: il centro culturale. Nonostante i residenti della zona volessero strutture per arte e spettacoli per rispondere alle esigenze della loro comunità, l’Lmdc in nescò una competizione tra gruppi culturali per lo spazio a disposizione, e incontrò forti differenze d’opinione su quale genere di attività sarebbe stato più adatto per mantenere il carattere «sacro» del sito. Come per il museo, sorsero interrogativi problematici legati all’eventualità che l’Lmdc limitasse la libertà di parola per proteggere gli interessi del governo, ammansire contribuenti adirati e rispettare la sensibilità delle famiglie delle vittime. Inizialmente l’Lmdc selezionò il Drawing Center, un piccolo museo di successo di SoHo, che però fu escluso dal progetto nel 2005, quando alcuni sostennero che in una mostra passata aveva incluso un’opera d’arte che poteva essere considerata critica delle politiche del governo statunitense durante la guerra in Viet nam. Per il centro culturale come per le altre parti del me moriale, l’obiettivo di «riflettere» non riuscì a fornire un quadro di riferimento per plasmare i diversi interessi in un’unica espressione di cosmopolitismo, come era accaduto spontaneamente a Union Square nei giorni immediatamente successivi all’attentato. «Riflettere» non valse a unificare un pubblico litigioso. Neppure «ripristinare», la seconda parte del motto dell’Lmdc, riuscì a creare un consenso. Da un lato, questioni pratiche rendevano difficile stabilire cosa sarebbe stato rico struito identico a come era prima dell’ll settembre e cosa sarebbe stato cambiato, quando la ricostruzione sarebbe
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potuta iniziare e chi avrebbe sostenuto i costi. Dall’altro, questioni emotive - specialmente le volontà dei rappre sentanti più attivi delle famiglie delle vittime - impedi vano alTLmdc di raggiungere un accordo con Silverstein e Westfield America, gli immobiliaristi privati. Il centro commerciale sotterraneo costituiva un importante pomo della discordia: le famiglie delle vittime non volevano che il banale commercio dello shopping profanasse il luogo sacro in cui erano morti i loro cari, mentre i residenti della comunità avevano un urgente bisogno di strutture commer ciali nella zona. Nel frattempo, gli architetti, i progettisti e gli urbanisti, che partecipavano attivamente come critici pubblici del processo di ricostruzione, facevano pressione perché quest’ultima venisse sfruttata come occasione per ripristinare la vivacità delle strade, collocando il maggior numero di negozi possibile non sottoterra, bensì a livello della strada, e ristabilendo la griglia stradale cancellata dall’enorme isolato del progetto originale del Wtc. Que sti cambiamenti, a loro dire, avrebbero reso la zona viva e attraente, adatta sia per i residenti che per i turisti. Ma la visibilità dei negozi su quel terreno «sacro» divenne una fonte di esasperazione per alcune famiglie delle vittime. Altre dispute riguardavano lo spazio da dedicare agli uffici. Come sostenuto dal sindaco Bloomberg, il passag gio progressivo della parte bassa di Manhattan a uso re sidenziale suggeriva un calo della richiesta di uffici in un distretto finanziario che si andava riducendo. Ma il sindaco non riuscì a persuadere né i proprietari di immobili com merciali della zona rappresentati dalla Downtown Alliance; uno dei Bid più potenti della città, né l’industria immobi liare che voleva poter costruire tanti uffici quanti lo Statò concedeva, né i due senatori dello Stato - soprattutto il senatore Charles Schumer - che difendevano gli interessi delle istituzioni finanziarie. Respingendo la posizione del sindaco, essi sostenevano che ridurre il secondo distretto affaristico più importante della città, nonché il terzo del paese e uno dei più conosciuti al mondo, avrebbe danneg giato l’immagine competitiva di New York come centrò finanziario globale. I due locatari, Silverstein e Westfield
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America, sollevarono un contenzioso giudiziario a propo sito del «ripristinare», affermando che il loro contratto li autorizzava a ricostruire tanti metri quadri di uffici quanti ne avevano in locazione prima dell’ll settembre. Connesso a questo problema c'era quello relativo al «ri pristino» del?altezza delle Due Torri. Per quanto alcuni fa natici volessero che New York riconquistasse il suo primato nel possedere i grattacieli più alti del mondo, non si poteva in alcun modo nascondere il timore diffuso che gli edifici alti fossero ora più che mai vulnerabili. Il problema sfumò davanti al progetto definitivo della Torre della libertà, ele mento centrale del ricostruito sito del Wtc: la sua guglia lo avrebbe reso uno degli edifici più alti al mondo, e gli ultimi piani non sarebbero stati adibiti a uffici. Più tardi i media diffusero la notizia che FAutorità portuale non avrebbe adottato il nome «Torre della libertà» per mettere sul mer cato il complesso di uffici, preferendo semplicemente il numero civico: 1 World Trade Center. «Ricostruire», quindi, la terza parte dello slogan delFLmdc, non offriva strumenti per aggirare i problemi pra tici e i dilemmi culturali e politici posti dalla costruzione di uno spazio pubblico governato dalla privatizzazione dello Stato. La ricostruzione fu determinata innanzitutto dagli in teressi privati degli immobiliaristi della città di New York, e dagli ideologi e dalle grandi aziende petrolifere, meccaniche e chimiche che sostennero l’espansione del potere del pre sidente George W Bush durante il suo mandato alla Casa Bianca. Il governatore George Pataki prima e il governatore Eliot Spitzer poi misero i loro interessi personali davanti a quelli dei residenti. Sia il governo federale che quello statale non tennero in considerazione gli interessi della comunità locale e dell’amministrazione comunale. Anche le famiglie delle vittime ebbero un ruolo troppo preponderante: i loro interessi personali spesso ebbero la precedenza su quelli dei residenti e degli imprenditori della zona, così come sul diritto costituzionale della libertà di parola. La posizione delle famiglie delle vittime come interlocutori cruciali nel processo di ricostruzione impedì al resto del pubblico di esprimere interessi divergenti.
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In virtù della sua storia, il Wtc porterà sempre un far dello superiore alla maggior parte degli altri spazi pubblici per quanto riguarda la disposizione di vistose misure di si curezza. I paletti e le barriere che proteggono ogni edificio governativo e molti uffici aziendali dall’urto di un’automo bile fuori controllo saranno una caratteristica stabile, che creerà un’esperienza dello spazio pubblico piuttosto diversa da quel vivace mix urbano che urbanisti e progettisti im maginavano all’inizio del processo di ricostruzione. Già nel 2008 il 30% dello spazio pubblico nel distretto finanziario e intorno al municipio era vietato al pubblico per ragioni di sicurezza. Inoltre, il Dipartimento di polizia - che ha ottenuto il controllo della sicurezza sul sito del Wtc al po sto della polizia dell’Autorità portuale - sta progettando una rete onnipotente, composta di telecamere di sicurezza, poliziotti e blocchi stradali sul modello dell’«Anello d’ac ciaio» realizzato a Londra negli anni Novanta per sventare gli attentati dell’ira. Con più di 100 telecamere e lettori ottici a monito rare tutte le auto che entrano nella zona di Lower Manhattan a sud di Canal Street, e coordinando 3.000 telecamere pubbliche e private, la polizia ha esteso il suo controllo non solo sul sito del Wtc ma su un’ampia fascia che comprende le strade, i parchi e i marciapiedi circostanti. Un sistema di sicurezza di queste dimensioni non è eco nomico: ci si aspetta che i costi si aggireranno intorno ai 19 milioni di dollari per l’installazione e 8 milioni all’anno per la sua manutenzione. Anche se il Dipartimento della sicurezza interna degli Stati Uniti e l’amministrazione cit tadina contribuiranno a sostenere i costi, il finanziamento dovrà essere privato. L’intero sistema di sicurezza renderà certamente la vita difficile a chi intenda fruire del sito: «il piano per la sicurezza del Wtc», avanza un titolo sul «Daily News», «significa un esercito di poliziotti, barriere e traffico impazzito». E come se questo territorio fortificato non fosse sufficiente, il Dipartimento di polizia ha creato un ulteriore anello d’acciaio composto da lettori ottici di targhe, polizia armata e telecamere di sorveglianza pubbliche e private a Midtown Manhattan. Poco a poco l’accesso illimitato, la 224
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libertà d’espressione e la mobilitazione del dissenso che hanno prodotto l’esperienza dello spazio pubblico «auten tico» nelle città moderne sarà cancellato38.
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Qualcosa si andava preparando vicino a Union Square mercoledì pomeriggio. I testimoni parlano di 50 adolescenti raccolti vicino a McDonald’s, che sembrava stessero aspettando l’inizio di qualcosa - e all’improvviso quel qualcosa è arrivato.
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«The New York Times», 8 dicembre 2006
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Nonostante i migliori sforzi sia di un Bid che del go verno federale, gli^spari^pubblici non possono sottrarsi alle lorp_m che si trovano In^coriffiftoTTil un pomeriggio di dicembre del 2006, alcuni studenti delle scuole superiori di Brooklyn si diedero appuntamento a Union Square con altri studenti della vicina Washington Ir ving High School, e iniziò un combattimento «con bastoni, coltelli, cinture e mazze». Lo scontro era stato provocato da un diverbio avvenuto la settimana precedente tra una ragazza che frequentava la Washington Irving e un ragazzo che l’aveva picchiata. Il fratello di lei era venuto da Brook lyn con alcuni amici per difendere l’onore della ragazza e cercare vendetta. Un diciassettenne fu pugnalato al petto e morì, altri due ragazzi rimasero feriti - le prime vittime a Union Square da anni39. Simili incidenti contrastano con la recente pacifica zione dell’area. Guardie giurate e mezzi di sorveglianza da un lato, festival e shopping dall’altro contribuiscono a mantenere la piazza aperta all’uso di un pubblico ampio. Ma quali sono i fattori più importanti che rendono Union Square, a differenza di Ground Zero, un vero spazio pub blico? Si tratta forse del tasso di criminalità in calo in tutta la città, delle risorse finanziarie del Bid o della capacità degli utenti del parco di tenere d’occhio gli altri? O è ma gari una tranquillizzante visione dell’ordine sociale in cui un pubblico litigioso cede il controllo al potere benevolo e all’autorità del settore privato? I conflitti sulla ricostruzione del Wtc, il modo in cui lo Stato ha escluso il pubblico dal
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processo decisionale, e le fortificazioni intorno al sito non suggeriscono un’alternativa migliore. Il paradosso dello spazio pubblico è che molto spesso il controllo privato lo può rendere più attraente agli occhi di un vasto pubblico, ma il controllo statale lo può rendere più repressivo, più angustamente ideologico e per nulla rappresentativo. La nostra volontà di combattere la violenza del terrorismo e della criminalità con altra violenza ci porta ben oltre le potenzialità dell’ordine microsociale del villag gio urbano. La dimensione delle interazioni pubbliche oggi richiede un livello di fiducia tra sconosciuti che non è più sotto il nostro controllo. Un’alternativa democratica sia al controllo privato che a quello statale è rappresentata dalla creazione di sistemi cooperativi di amministrazione, che incoraggerebbero la responsabilità collettiva nei confronti dello spazio pubblico da parte di normali cittadini piuttosto che di grandi imprese, proprietari di immobili commerciali e agenzie statali. Note
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1 La differenza tra le due organizzazioni che gestiscono Union Squa re è la loro giurisdizione geografica: il Bid è responsabile per la 14a Stra da tra la la e la 6a Avenue e per l’area intorno al parco di Union Square, mentre l’Ldc è responsabile per l’area strettamente circostante il parco, comprese la 17a e la 18a strada a nord di Union Square. 2 Così denominati nello Stato e nella città di New York, i Bid sono forme speciali di distretti finanziati attraverso un incremento autoimpo sto della tassazione, che le amministrazioni locali in Canada e negli Stati Uniti hanno iniziato a implementare negli anni Sessanta come strumento per sovvenzionare aree specifiche, in particolare dei distretti affaristici in affanno nei centri cittadini evitando così di aumentare le imposte è di dedicare a queste zone una quota sproporzionata del gettito fiscale complessivo. Distretti basati analogamente sull’autotassazione sono sorti in alcune nazioni europee, in Australia, in Sudafrica e in Giappone? Si vedano ad esempio «Policies in Motion», Urban Restructuring and State Management: The Trans-local Expansion of Business Improvement Districts, in «International Journal of Urban and Regional Research», 30, n. 1, 2006, pp. 54-75; Malcolm Tait e Ole B. Jensen, Travelling Ideas, Power and Place: The Cases of Urban Villages and Business Improvement Districts, in «International Planning Studies», 12, n. 2, 2007, pp, 107-
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Union Square e il paradosso dello spazio pubblico 128. In virtù della loro forte visibilità, dell’uso dei media per promuovere la loro causa, dell’inevitabile associazione con le politiche della qualità della vita pubblicizzate dall’amministrazione Giuliani e di campagne pubbliche dal profilo volutamente internazionale, i Bid della città di New York sono diventati il modello predominante di questa forma di organizzazione, in un’epoca di pressioni per la privatizzazione diffuse a livello mondiale. 3 Si vedano Setha Low e Neil Smith (a cura di), The Politics of Public Space, New York, Routledge, 2006; Don Mitchell, The Right to the City: Social Justice and the Fight for Public Space, New York, Guil ford, 2003; Sharon Zukin, The Cultures of Cities, Oxford, Blackwell, 1993; cfr. anche l’opera di Rosalyn Deutsche felicemente intitolata Eviction: Art and Spatial Politics, Cambridge, Mass., The Mit Press, 1996. Dagli anni Quaranta in poi, i giudici di diversi Stati hanno cer cato di limitare il controllo da parte dei proprietari privati di immobili su manifestazioni politiche, boicottaggi, volantinaggio politico e altre espressioni di libertà di parola all’interno dei centri commerciali, ma non esistono né leggi federali né standard coerenti a livello statale che stabiliscano in modo definitivo se i centri commerciali siano, in questo senso, spazi pubblici. 4 Questa è una genealogia dello spazio pubblico diversa da quella suggerita da Jiirgen Habermas, che riconduce le origini della moderna sfera pubblica ai raduni di gruppi più elitari (uomini di classe media istruiti) in un luogo di consumo a pagamento quale il caffè. Si vedano Kevin Hetherington, The Badlands of Modernity, London, Routled ge, 1997, pp. 1-19; Tony Bennett, The Birth of the Museum, London, Routledge, 1995; Roy Rosenzweig ed Elizabeth Blackmar, The Park and the People: A History of Central Park, Ithaca, N.Y., Cornell University Press, 1992. Anche se oggi l’attenzione si concentra spesso sulle diffe renze razziali e religiose, si sono combattute battaglie per il diritto di ogni gruppo sociale di accedere allo spazio «pubblico», incluso - per quanto sia difficile da immaginare - il conferimento del permesso di accedere alle biblioteche pubbliche per i bambini sotto i 14 o 16 anni, un secolo fa. 5 Sulle finestre rotte e il salto dei tornelli, il riferimento qui è alla teoria sviluppata dal criminologo George Kelling in New Jersey intorno al 1.980 e resa famosa dal sindaco di New York Rudolph Giuliani e dal capo della polizia William Bratton negli anni Novanta, secondo cui i mi nimi segni di disordine e comportamento riprovevole se ignorati possono portare a una diffusa percezione di declino e a comportamenti ancora peggiori. Incontri inquietanti: George L. Kelling e James Q. Wilson, The Police and Neighborhood Safety: Broken Windows, in «Atlantic Monthly», marzo 1982, www.theatlantic.com/doc/198203/broken-windows . Occhi sulla strada: Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House, 1961; trad. it. Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi, 1969.
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6 Crisi di immagine: Miriam Greenberg, branding New York: How a City in Crisis Was Sold to the World, New York, Routledge, 2008. 7 Edwin G. Burrows e Mike Wallace, Gotham: A History of New York City to 1898, New York, Oxford University Press, 1999, pp. 577578. 8 Raduni di massa: Union Square, Dipartimento dei parchi e delle attività ricreative della città di New York, wvrw.nycgovparks.org; foro per la popolazione: Recreation for All Planned by Stover, in «The New York Times», 15 febbraio 1910. 9 Burrows e Wallace, Gotham, cit., p. 1120; M. Christine Boyer, Manhattan Manners: Architecture and Style, 1850-1900, New York, Riz zoli, 1985, p- 87; Donna Haverty-Stacke, America's Forgotten Holiday: May Day and Nationalism, 1867-1960, New York, New York University Press, 2008. 10 Sul Ladies Mile-. Boyer, Manhattan Manners, cit., pp. 43-129; Ja mes Thurber, Talk of the Town: Mob Scene, in «The New Yorker», 26 ottobre 1929, p. 21. 11 Robert A.M. Stern, Thomas Mellins e David Fishman, New York 1960, New York, Monacelli Press, 1995, pp. 245, 247. 12 Sulla reputazione della 14a Strada si veda Robert W Walsh, Union Square Park: From Blight to Bloom, in «Economic Development Journal», primavera 2006, pp. 39-46; Walsh era direttore esecutivo della Union Square Partnership negli anni Novanta. 13 I titoli dei giornali: ibidem, p. 41. 14 A conferma dell’idea che la separazione geografica tra Uptown e Downtown Manhattan segnali anche una differenza culturale, molti di questi creativi che abitavano downtown affermano ancora oggi di non avventurarsi mai «più in alto della 14a Strada». Si veda Marvin J. Taylor (a cura di), The Downtown Book: The New York Art Scene, 1974-1984, Princeton, N J., Princeton University Press, 2006. 15 Walsh, Union Square Park, cit., p. 39; sui contadini: comunica zioni personali, 2007-08; sul poliziotto: comunicazione personale, lu glio 2008; un caffè e un bagel: Iver Peterson, Union Square: Gritty Past, Bright Future, in «The New York Times», 26 novembre 1989. 16 Stern, Mellins e Fishman, New York 1960, cit., p. 247; sulle sara cinesche: comunicazione personale, dicembre 2007. 17 Sulla geografia frammentata e il «far confluire le risorse»: Walsh, Union Square Park, cit., p. 40. 18 Ibidem, p. 41. 19 William H. Whyte, The Social Life of Small Urban Spaces, Wa shington, D.C., Conservation Foundation, 1980. 20 Janet Allon, Neighborhood Report: Union Square; New Manager Hits Pavement on 14th, in «The New York Times», 11 gennaio 1998.
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21 Douglas Martin, This Time, Parks Mean Business, in «The New York Times», 16 febbraio 1996. 22 L’organizzazione sta implodendo: comunicazione personale, di cembre 2005. 23 Eliot Brown, Judge on Union Square Park: Renovations Ok, but Hold Off on Restaurant, in «New York Observer», 7 maggio 2008; Anemona Hartocollis, A Street Performer Crusades for the First Amendment, in «The New York Times», 26 settembre 2007; http://washingtonsquarepark.wordpress, com/2008/06/05; Union Square Pavilion Restaurant Gets Green Light from Judge, http://gothamist.com, 31 marzo 2009; si vedano inoltre www.revbilly.com e il video della sua apparizione del 1° maggio al parco su www.youtube.com/wateh ?v~HUbUyDnxJQM. 24 Shadi Rahimi, An Antiwar Speech in Union Square Is Stopped by Police Citing Paperwork Rules, in «The New York Times», 20 settembre 2005; Ethan Wilensky-Lanford, A Pretend Preacher, a Real Arrest and a Debate about Free Speech, in «The New York Times», 1° luglio 2007; James Barron, Police and a Cyclists’ Group, and Four Years of Clashes, in «The New York Times», 4 agosto 2008. 25 Maarten Hajer e Arnold Reijndorp, In Search of New Public Do main, Rotterdam, Nai, 2001, p. 53; alieni: Lyn H. Lofland, The Public Realm, New York, De Gruyter, 1998, p. 167. 26 Spazi curati individualmente nei dettagli: Ole B. Jensen, The Bid’s of New York: Power, Place, and the Role of Business Improvement Di stricts, paper presentato al 18° Congresso Aesop, Grenoble, 1-3 luglio 2004, p. 10; un precedente insieme di valori: Heather MacDonald, Why Business Improvement Districts Work, in «Civic Bulletin», n. 4, maggio 1996, www.manhattan-institute.org/html/cb_4.htm ; Bennett, The Birth of the Museum, cit., p. 24. L’uso della sorveglianza per scopi di controllo sociale ha sicuramente preso molte forme nella modernità, a partire dal Panopticon di Jeremy Bentham fino ad arrivare alle telecamere a circuito chiuso e allo screening biometrico dei giorni nostri. 27 Darren Walker citato in Sewell Chan, http://cityroom.blogs.nytimes.com/2007/10/04/has-new-york-lost-its-soul/, 4 ottobre 2007. 28 Thomas J. Lueck, Public Needs, Private Answers - A Special Re port; Business Districts Grow, at Price of Accountability, in «The New York Times», 20 novembre 1994; Dan Barry e Thomas J. Lueck, Control Sought on Districts for Businesses, in «The New York Times», 2 aprile 1998; Thomas J. Lueck, Business Improvement District at Grand Central Is Dissolved, in «The New York Times», 30 luglio 1998; Terry Pristin, Annual Budgets - Increases Refused by Giuliani Administration, in «The New York Times», 27 luglio 1999. 29 Terry Pristin, Mayor Sees Bigger Public Private Partnerships, in «The New York Times», 15 maggio 2002; Rich Calder, Fiscal Crisis Guts City Park Plans, www.nypost.com, 26 maggio 2009.
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Union Square e il paradosso dello spazio pubblico 30 Bruce Lambert, Neighborhood Report: Union Square; Confronted by the Homeless Domino Effect, Another Park Cracks Down, in «The New York Times», 12 giugno 1994. Per una prospettiva contrastante, fortemente critica, si veda Neil Smith, The New Urban Frontier: Gentri fication and the Revanchist City, New York, Routledge, 1996. 31 Gregory Squires (a cura di), Unequal Partnerships: The Political Economy of Urban Redevelopment in Postwar America, New Brunswick, NJ., Rutgers University Press, 1989; MacDonald, Why Business Impro vement Districts Work, cit. 32 Ingrid Gould Ellen, Amy Ellen Schwartz e Ioan Voicu, The Im pact of Business Improvement Districts on Property Values: Evidence from New York City, in «Brookings-Wharton Papers on Urban Affairs», 8, 2007, pp. 1-31; Dipartimento dei servizi alle piccole imprese della città di New York, Introduction to Business Improvement Districts, www.nyc.gov/ html/sbs/downloads/pdf/bid_brochure.pdf, ultimo accesso luglio 2008. 33 Cara Buckley, Ah, the Pleat, the Crowd, the Park, and the Booze, in «The New York Times», 16 luglio 2008. 34 Ellen, Schwartz e Voicu, The Impact of Business Improvement Districts, cit. 35 Glenn Collins, Bryant Park, Towers Rising All Around, Braces for a Tidal Wave of Traffic, in «The New York Times», 5 giugno 2008; Lysandra Ohrstrom, Fashion Week in Bryant Park May Go Out of Style, in «New York Observer», www.observer.com, 5 febbraio 2009. I bilanci operativi dei parchi prestigiosi gestiti dai Bid e dalle associazioni private per la tutela ambientale sono in media molto superiori ai bilanci finanzia ti dal Dipartimento dei parchi. A Bryant Park, ad esempio, il Bid spende oltre mezzo milione di dollari per acro (4.046 m2), mentre la spesa media per acro del Dipartimento dei parchi è meno di 10.000 dollari. Questa differenza di risorse finanziarie assicura un livello di servizi fortemente diseguale: 110 dei 239 agenti di sicurezza impiegati del Dipartimento dei parchi lavorano nei parchi prestigiosi, stipendiati dai Bid. Rich Calder, Raiders of the «Lost» Parks, in «New York Post», 6 luglio 2008, e City’s Park «Row», in «New York Post», 7 luglio 2008. 36 II fatto che le Torri Gemelle siano diventate un’immagine premi nente della città - un’immagine iconica, come si suol dire - riflette anche la campagna concertata di pubbliche relazioni finanziata per molti anni da agenzie pubbliche. Miriam Greenberg, The Limits of Branding: The World Trade Center, Fiscal Crisis and the Marketing of Recovery, in «International Journal of Urban and Regional Research», 27, n. 2, 2003, pp. 386-418. Per un’eccellente storia dell’edifìcio del Wtc, si veda Eric Darton, Divided We Stand: A Biography of New York's World Trade Center, New York, Basic Books, 1999; cfr. inoltre Michael Sorkin e Sharon Zukin (a cura di), After the World Trade Center, New York, Routledge, 2002. 37 La frammentazione ha reso difficile raggiungere una risoluzione armoniosa dei contrasti. Ogni elemento di questa breve descrizione è
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stato oggetto di notevoli controversie, anche legali, e negoziazioni, a partire dall’entità dei rimborsi assicurativi, al ruolo di Silverstein in re lazione all’Autorità portuale, al ruolo dell’Autorità portuale in relazione all’amministrazione cittadina e al ruolo del sindaco in relazione a quello del governatore. Come nota Paul Goldberger, l’opinione pubblica avreb be certamente approvato l’acquisto da parte dello Stato e della città del contratto di locazione assegnato all’immobiliarista, ma il governatore non era propenso a muoversi in questa direzione: Up From Zero: Poli tics, Architecture, and the Rebuilding of New York, New York, Random House, 2004. 38 fl 30%: Theresa Agovino, www.crainsnewyork.com, 11 settembre 2008. Sui piani di sicurezza, si vedano Carrick Mollenkamp e Christine Haughney, «Ring of Steel» for New York? To Protect Lower Manhattan, Police Study London’s Effort: Cameras, Controlling Access, in «Wall Street Journal», 25 gennaio 2006; Cara Buckley, NY Plans Surveillance Veil for Downtown, in «The New York Times», 9 luglio 2007. Esercito di poliziotti: Alison Gendar e Douglas Feiden, Security Plan for Wtc Means Army of Cops, Barriers and Traffic Hell, in «New York Daily News», 6 aprile 2008; Charles V. Bagli, Police Want Tight Security Zone at Ground Zero, in «The New York Times», 12 agosto 2008; Al Baker, Police Seek a Second Zone of High Security in the City, in «The New York Times», 31 marzo 2009. 39 Nel giro di pochi giorni, un sedicenne fu arrestato e accusato di omicidio di secondo grado, aggressione di gruppo e possesso d’armi. Emily Vasquez, Trouble Found Them: Two Groups of Restless Teenagers, in «The New York Times», 8 dicembre 2006; cfr. anche Teen Dead after Stabbing in Union Square, www.wnbc.com, 7 dicembre 2006; www.NYl. com, 13 dicembre 2006.
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Conclusioni
«Destinazione cultura» e la crisi dell’autenticità
I radicali che vorrebbero invertire la rotta guardano forse con affetto alla parte sud del Bronx devastata dagli incendi degli anni Ottanta? Difenderebbero le distese più depresse e derelitte di Brooklyn, o i drogati accovacciati intorno a Tompkins Square, o gli isolati di Harlem dalle vetrine inchiodate con assi di legno? Quella New York non era autentica o caratteristica: era triste e pericolosa. J. Davidson, «New York», 7 settembre 2008
Quando nel 1960 Jane Jacobs scrisse Vita e morte delle grandi città, la morte intorno a lei era fin troppo evidente. Il porto della città di New York stava chiudendo, l’aspetto di fabbriche e quartieri non era cambiato rispetto all’inizio del secolo, e le famiglie di ceto medio fuggivano verso le peri ferie, lontano da servizi pubblici in declino e ghetti neri in espansione. Era evidente che la città fosse nella stretta di due forze malvagie, ovvero governo e immobiliaristi. Ma Jacobs concentrò la sua ira su architetti e burocrati, i cui piani a suo dire distruggevano quartieri vivaci e spegnevano qualunque barlume di vita sociale. Nella prospettiva di Jacobs i monoli tici complessi per uffici, i grandi progetti di edilizia popolare, le invadenti autostrade e i monumentali centri culturali che caratterizzavano le città del dopoguerra erano all’origine della «grande tragedia della monotonia» e riducevano i residenti a pedine passive. Se portati al loro estremo logico, questi non erano piani per la crescita, ma il progetto per una catastrofe. La vita della città, d’altra parte, richiedeva di conservare le vecchie strade, gli edifici e gli isolati che sembravano così antiquati, perché erano loro a sostenere la delicata trama di usi sociali e significati culturali che teneva insieme le persone: da questa autenticità dipendeva il futuro della città1. Il termine «autenticità» non era nel vocabolario di Ja cobs, che parlava piuttosto di densità e diversità, di «ca233
Conclusioni
rattere e vitalità», e di come «evitare la devastazione di quartieri apatici e inermi». In linea di massima, Jacobs si opponeva ad uno sviluppo su larghissima scala e sosteneva che si dovesse favorire una buona progettazione degli spazi urbani per incoraggiare il coinvolgimento della comunità. Non è dato sapere se, seguendo i suoi suggerimenti, le città avrebbero potuto evitare la carenza di investimenti nelle istituzioni pubbliche e il mancato raggiungimento dell’eguaglianza razziale e sociale che depressero tanti quartieri negli anni a venire. Oggi, però, abbiamo suffi ciente distanza critica da quei quartieri per vederli come «autentici», e possiamo usare la nostra visione - influen zata dalle idee di Jacobs - per trasformare la loro autenti cità,jn ,,giustizia.per.tutti. Usiamo già” le strade e gli edifici per creare un racconto fisico delle nostre origini comuni; ora dobbiamo sfruttare più a fondo l’estetica dei nuovi inizi che ispira le nostre emozioni. Il concetto di autenti cità fa riferimento sia aW aspetto e alla sensazione evocata da un luogo, sia alla connessione sociale che quel luogo suggerisce. Ma la sensazione che un quartiere sia fedele alle sue origini e permetta ad una comunità reale di for marsi ha più a che vedere con noi e con le nostre sensibi lità che con un qualsiasi isolato urbano. Il desiderio di autenticità riflette la separazione tra la nostra esperienza dello spazio e la percezione del nostro sé, che è un elemento così importante nella mentalità moderna. Ber quanto pensiamo che «autenticità» faccia riferimento a qualità innate dTmT quartiere, in realtà quéstK concetto esprimòlé^ cam biano.^L’idea di autenticità élmportante in quanto connette il nostro desiderio di radicarci in un tempo e in un luogo specifici con una comprensione complessiva di forze sociali più grandi, che ricostruiscono il nostro mondo a partire da tante piccole, spesso invisibili, azioni. Parlare di autenticità significa essere consapevoli di una tecnologia del potere in mutamento, che intacca uno scenario cognitivo ed emotivo e lo sostituisce con un altro. Scrivendo negli anni Trenta dell’«opera d’arte nell’e poca della sua riproducibilità tecnica», Walter Benjamin
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Conclusi
analizzò il cambiamento radicale nelle tecnologie visive del potere, avvenuto nell’arco della sua vita. Benjamin si chiedeva come potessimo conferire significato a creazioni uniche e originali quando queste sono disponibili anche in fotografia su riviste patinate, o in cartolina, o nei film. La nuova tecnologia di Hollywood distrugge il fascino della Nike di Samotracia e della Gioconda? Che senso ha un ori ginale quando lo vediamo al di fuori della cultura che lo ha prodotto? Cent’anni dopo, in un mondo pieno di copie, cloni e falsi, i suoi interrogativi sull’autenticità delle opere d’arte sono ancora più importanti. E si applicano non sol tanto all’arte, ma ad ogni forma di cultura, incluse le città2. Se ci sembra che le città siano cambiate attraverso il rinnovamento e la rivitalizzazione rispetto all’epoca di Jane Jacobs, e che in questi processi abbiano perso la loro au tenticità, stiamo reagendo a qualcosa di più di un semplice cambiamento misurabile nell’ambiente costruito: stiamo reagendo a un maggior numero di edifici demoliti, sostituiti e rinnovati al punto da essere irriconoscibili. Un cambia mento quantitativo si è evoluto in un cambiamento quali tativo, dal momento che la nostra esperienza sia visiva che emotiva della città è stata alterata. Non si tratta soltanto di un passaggio strutturale da una società industriale a una postindustriale, o del risultato di un boom momentaneo de gli investimenti e dell’edilizia. Sfan^xestinmni oculari di un cambiamento di paradigma da una xiltkdeUa jir^^ a una città del consumo, e da un’accettazione rassegnata del declino a un sorprendente disincanto nei confronti della crescita. Vediamo grattacieli in cui il lavoro si fa invisibile nonostante le facciate di vetro; distretti come SoHo o il Northside a Williamsburg, dove girano gli affari dei media, del turismo e dell’intrattenimento della città; catene e bou tique dove un tempo si trovavano fabbriche clandestine e case abbandonate. Vediamo anche aree come l’East Village e Harlem valorizzarsi, dopo un impoverimento, un abban dono e un declino durato anni, e questo fatto rispecchia da un lato un ritorno di capitali di investimento nel ghetto nero, e dall’altro un allontanamento forzato dei poveri o un avvicendamento etnico rovesciato.
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Conclusioni
Definire questi cambiamenti «gentrificazione» mini mizza e semplifica eccessivamente l’investimento collettivo in atto. Un grande sforzo organizzativo è stato applicato per modellare jgtrasformazioni cui assistiamo. Promotóri immobiliari, collaborazioni tra settore pubblico e settore privato e associazioni di comunità hanno trasformato in oro strade gritty, vecchi edifici strutturati a loft e aree portuali dismesse. Ma questa città scintillante è talmente ricca da farci sentire a disagio. «Non riuscivo a tenere il passo con il ritmo con cui cambiavano le cose», afferma lo scrittore e regista Woody Alien a proposito della New York dagli anni Settanta ad oggi, facendo eco a un’opinione diffusa sulla città da lui spesso ritratta nei suoi film, «e il cambiamento era davvero, sempre, l’avanzamento dell’opulenza». A un livello più profondo, però, affermare che 1a città non è piu autentica riflette la nostra incapacità di afferrare il senso mutevole dello spazio e del tempo. Magari questa non è la fine della stona, ma è certo la fine di culture territoriali e identità locali che erroneamente pensavamo sarebbero durate per sempre3. I presagi del cambiamento, e le pressioni perché questo si realizzi, si accumulano in molti anni. La maggior parte delle città americane fa risalire le proprie origini all’econo mia industriale e all’immigrazione di massa dall’Europa a cavallo fra Otto e Novecento, ma i nuovi inizi a cui oggi assistiamo si sono affacciati furtivamente negli anni Venti, sono stati soffocati dalla Grande Depressione e dalla Se conda guerra mondiale e sono riemersi in forze durante gli anni Cinquanta, negli ultimi giorni del villaggio urbano e nei primi giorni della città degli affari e delle nuove classi medie. Gli esordi degli anni Cinquanta e Sessanta furono caratterizzati sia da enormi progetti di riqualificazione urbana che dilaniarono la città «originale» di inizio No vecento, sia da segni di resistenza a quella marcia forzata verso il progresso da parte di vecchi e nuovi abitanti. Fu solo con gli anni Ottanta però che questi cambiamenti ar rivarono ad una svolta, quando hipsters, gentrificatori, im prenditori creativi del commercio, giardinieri comunitari e nuovi immigrati costruirono nicchie capaci di riplasmare 236
Conclusioni
l’esperienza urbana in molti sensi, rendendo la città nel suo complesso più pulita, più sicura, più interessante e più moderna. Le loro azioni, limitate a singoli quartieri e isolati, furono ampliate dai giornalisti e dai politici, che diedero una voce e un’immagine ai loro sforzi e li divulgarono a livello prima locale poi mondiale. Le trasformazioni furono modellate da diversi tipi di capitale sociale e culturale che oliarono gli ingranaggi di forze politiche ed economiche superiori: la diffusione dei media lifestyle e dei blog; i cam biamenti nei piani di zonizzazione, le strategie politiche e le sovvenzioni governative; l’interesse di funzionari pubblici, immobiliaristi e investitori nel promuovere nuove costru zioni. Infine, la città che conoscevamo sparì. Diventò la città degli affari, delle sedi di multinazionali, megastore e Busi ness Improvement District - la città business class, come la definisce il critico di architettura Herbert Mus champ, che non è più in grado di «distinguere tra creare e consumare». In qualche modo, nell’illusione di smussare gli angoli di uno sviluppo irregolare, la città ha anche perduto la sua autorità morale4. In questo processo gli interessi e le aspirazioni di un gruppo spesso contrastavano con quelli di un altro. Il suolo, dopo tutto, è una risorsa finita, e il mantra degli agenti immobiliari - la posizione prima di tutto - esprime l’eterna competizione per ottenerne il controllo. Gruppi contrapposti trovarono tuttavia un terreno comune nel rein ventare la città, trasformando la sua pervasiva immagine di decadenza in uno stile di vita appagante dal punto di vista emotivo ed estetico, talvolta addirittura cool e affascinante. Gò che creava un divario tra_gssi erano gli strumenti mate. riali e il finguag^TsImEoIi.co_ che r^de^rp^^ffè' qùèsta nuova immagine, un’ondata di investimenti di capifalè che portava ad un innalzamento degli affitti e la rapida diffu sione della cultura di consumo. Ciascuno di questi aspetti incarnava con modalità proprie la spinta neoliberista dell’e conomia di mercato che aveva avuto inizio con gE anni Ot tanta, e la sua connessione globale attraverso investitori internazionali, immobiliaristi e promotori. Insieme, inve
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stimento di capitale e cultura di consumo incoraggiavano sia le amministrazioni che i cittadini a pensare che fosse possibile avere tutto ciò che desideravano, ovvero una città degli affari e un nuovo villaggio urbano: una rivoluzione postindustriale senza costi umani. Facciamo esperienza del conflitto tra la città degli affari e U. villaggio urbano- sottcTformlFc^ cita. Per comprendere la perdita della città che conta, è importante considerare attentamente sia le origini storiche dei cambiamenti economici e demografici che i nuovi inizi delle rappresentazioni culturali, in particolare le immagini mediatiche e la retorica della crescita dei funzionari. E an che cruciale osservare i gusti e gli stili di vita delle classi medio-alte, poiché sono queste a dominare oggi le rappre sentazioni culturali delle città. All’inizio del periodo soglia, intorno agli anni Cin quanta, le fondamenta economiche del vecchio villaggio urbano stavano crollando. La maggior parte delle indu strie pesanti si stava spostando sulla costa ovest, attirata da una legislazione fiscale meno oppressiva e dalle sovven zioni federali per la realizzazione di autostrade nazionali, come pure da un mercato emergente di nuovi consumatori, anch’essi emigrati dalla costa est e dal Midwest. Le aziende manifatturiere più piccole si trasferivano nelle periferie o nelle aree rurali, dove i terreni erano in vendita a prezzi ragionevoli, i salari erano inferiori a quelli della città per lavoratori altrettanto qualificati e gli impiegati tendevano a rispettare maggiormente l’autorità. I proprietari di fabbri che e gli investitori erano anche stanchi di dover trattare con la burocrazia e con l’apparato politico dell’amministra zione cittadina; erano stanchi delle strade e degli edifici che stavano invecchiando, e del traffico. Inoltre gli elettori al di fuori della città spesso sostenevano i costi per realizzare nuovi impianti e modificavano le leggi sulla zonizzazione per fare loro posto. Le nuove industrie non pensavano ad insediarsi all’interno delle città per via delle grandi superfici di cui avevano necessità; formarono piuttosto nuovi agglo merati, talvolta intorno ai grandi nodi del trasporto aereo o delle autostrade, oppure intorno alle università. Con la
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continua riduzione dei posti di lavoro, il villaggio urbano degli operai bianchi, latinoamericani e afroamericani perse la sua vitalità. La sua cultura sopravvisse nelle strade dove ancora abi tava e faceva acquisti la popolazione, e in pieces teatrali, spettacoli televisivi e film celebri. Ancora oggi il villaggio urbano è ben noto a chiunque abbia visto Jackie Glea son e Art Carney nei vecchi episodi di The Honeymooners (1950-1970) o i film di Spike Lee Fa la cosa giusta (1989) e Crooklyn (1994). Quando il teatro della vita sociale è co stituito dalla casa e dall’isolato, le passioni sono profonde, anche per le più piccole cose. Gli alloggi - principalmente in piccoli caseggiati popolari e in modeste case unifamiliari - sono poveri, ma a nessuno manca il cibo, e i figli una volta sposati tendono a stabilirsi vicino ai genitori. I legami forti tra la popolazione sono al tempo stesso una forma di repressione e una ragione d'orgoglio, un po' Quei bravi ra gazzi e un po' Tutti amano Raymond. Senza nuovi posti di lavoro, tuttavia, e senza nuovi investimenti in edilizia resi denziale, questi quartieri working-class cadono in rovina e vengono stigmatizzati come «degradati». Persone influenti in ambito cittadino iniziano a vederli come spazi deviami, e considerano con sufficienza le loro strade ostili come se fossero bassifondi. La rete solida di reciprocità tra residenti viene interpretata come una trappola anche da chi vi è cre sciuto e ora anela a costruirsi una propria rispettabilità. Chi non appartiene alla comunità spesso incolpa i residenti - la loro disorganizzazione ~ della cattiva reputazione di questo genere di quartieri, ma secondo il sociologo William Foote Whyte, che studiò il quartiere italiano working-class del North End a Boston verso la fine degli anni Trenta, il loro «problema» non è la disorganizzazione, bensì il fatto che il peculiare tipo di organizzazione su cui sono strutturati - for temente orientato alla famiglia, sospettoso verso gli estranei e diffidente nei confronti dell’idea di successo - non riesce ad «integrarsi nella struttura della società circostante»5. La riqualificazione di questi vecchi quartieri durante gli anni Cinquanta fu solo una parte della campagna di mo dernizzazione delle città comune a molti paesi nel mondo,
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realizzata dislocando fabbriche, porti e mercati alimentari alTingrosso ed espandendo i distretti finanziari e governa tivi. Se le città che ospitavano i protagonisti della finanza e possedevano le più forti élite nazionali - New York, Londra e Parigi - crearono piani di sviluppo urbano su grandissima scala, anche città più piccole demolirono e riprogettarono con entusiasmo i loro centri. Urbanisti «visionari» che sa pevano come giostrarsi tra le richieste delle burocrazie fe derali e dei capitani d’azienda locali fecero chiudere bar e pensionati dei bassifondi di ogni città e li sostituirono con complessi per uffici, hotel, condomini per il ceto medio, e altri progetti che avrebbero portato prestigio alla città. Rea lizzarono ampliamenti urbani in direzione del sistema auto stradale nazionale che si stava espandendo, con gli annessi onnipresenti raccordi. Parte dei fondi per la riqualificazione fu utilizzata per rinnovare caseggiati «storici», i cui inquilini avrebbero pagato un affitto più alto, e per costruire nuovi alloggi per il personale docente delle università private. I funzionari pubblici di città diverse marciavano tutti allo stesso ritmo. Il sociologo urbano Herbert Gans, che studiò la decadenza del quartiere italiano di West End a Boston negli anni Cinquanta, suggerisce che essi - pur non ammettendolo - fossero spinti soprattutto dal desiderio di attirare residenti benestanti che avrebbero pagato affitti più alti e speso di più nei negozi del centro. Gli amministratori pubblici da un lato desideravano ripulire i quartieri etnici che si erano allargati sui distretti finanziari del centro quasi al punto di invaderli. Dall’altro avevano disperatamente bisogno di compensare la riduzione dei redditi, specchio a Boston come altrove di decenni di abbandono della città da parte di aziende manifatturiere e residenti facoltosi e di una perdita di attrattiva delle aree dello shopping nel cuore dei centri cittadini. I politici desideravano compiacere gli immobiliaristi sostenendo il costo dell’acquisto di terreni del centro e offrendo incentivi per avviare nuovi progetti edili. Presi dal desiderio generalizzato di crescita, di segni: tangibili di progresso che avrebbero attirato nuovi investi menti, e di denaro per sostenere i costi di polizia e vigili del fuoco, scuole pubbliche, strade e tutti gli altri servizi che
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le amministrazioni locali forniscono, sindaci e membri del Consiglio comunale determinarono la fine dei vecchi quar tieri. Il villaggio urbano aveva pochi protettori influenti, certo non tra i sindaci e tra i signori dell’urbanistica come Robert Moses, che dimostrò di essere un maestro nel far incontrare le esigenze delle agenzie del governo federale con quelle degli immobiliaristi locali6. Jane Jacobs osservò il villaggio urbano all’apice di que ste trasformazioni. Al momento del suo arrivo nel West Village, tuttavia, molte delle vecchie famiglie irlandesi e italiane si erano già trasferite, e il porto che aveva loro dato da vivere era ormai in rovina. La giornalista testimoniò an che il cambio della guardia politica, con l’elezione prima di un sindaco riformista che si contrappose all’apparato partitico e si disfece di Moses, e poi di un altro sindaco riformista che inaugurò l’era di New York come «Città del divertimento» e ne impersonò l’ideale di capitale al tempo stesso degli affari e della cultura. In Vita e morte delle grandi città Jacobs raccontò le città in questi frangenti epo cali, inconsapevole dell’impatto che lei stessa avrebbe avuto sulle risposte ai cambiamenti in atto e degli effetti di una più forte economia di mercato. Il mondo è cambiato dai tempi in cui Jacobs elogiava i piccoli commercianti e le casalinghe di Hudson Street e ac cusava Moses di distruggere interi quartieri con autostrade e grandi progetti di edilizia. Le città oggi sono diverse. Il declino ~ o «degrado», per usare il termine adottato da Moses e altri - che sembrava inarrestabile tra gli anni Qua ranta e gli anni Ottanta è stato a sua volta schiacciato da nuovi edifici, dal rilancio dei centri e dalla salvaguardia e dal nuovo utilizzo di monumenti storici. Le parole «bassi fondi» e i suoi affini, «quartiere povero» e «ghetto», sono cadute in disuso, oppure sono state trasformate alternati vamente in marchi o in termini meno connotati negativamente, come «comunità a basso reddito» o «gentrificate». La cosa più sorprendente è che le persone che vivono nelle città sono cambiate. Non tutti sono abitanti dei sobborghi che «tornano» alla città, come alcuni giornalisti pronosti cavano negli anni Ottanta, e non tutte le città hanno be
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neficiato di questa migrazione inversa, tuttavia oggi molti più giovani - soprattutto quelli in possesso di una laurea, una specializzazione o un diploma dell’accademia di belle arti - si trasferiscono in città, e nuovi immigrati da ogni parte del mondo ne rafforzano le fondamenta economiche e culturali. Questi cambiamenti recenti hanno aggiunto nuovi, inattesi inizi alle origini della città, radicate nello sviluppo disomogeneo tra quartieri ricchi e poveri e caratterizzate da antichi conflitti tra detentori del potere e residenti dei villaggi urbani: hanno trasformato l’immagine della città da luogo spaventoso, da cui in molti fuggivano all’epoca di Jacobs e Moses, a destinazione culturale". Secondo un numero recente di «Time Out New York» - una rivista che si rivolge ai venti e trentenni - solo uno dei «quartieri migliori» di New York ha ottenuto un buon punteggio perché economicamente abbordabile. Gli altri hanno ricevuto buoni punteggi per la loro estetica: archi tettura, design, shopping, ristoranti e bar, comunità artistica e diversità etnica legata alla nuova immigrazione8. Questa varietà di aspetti positivi riflette i nuovi inizi di vecchi quar tieri come Williamsburg, Harlem ed East Village, così come pure le nuove attrazioni della cultura di consumo lungo Houston Street, a Reed Hook e Union Square. L’idea di che cosa costituisca un buon quartiere riflette anche l’in fluenza di Jacobs sul nostro approccio al paesaggio fisico. La combinazione di edifici vecchi e nuovi, la limitazione delle dimensioni di molte strade, una varietà nelle destina zioni d’uso che attiri le persone di giorno e di notte: questi sono gli isolati della città vibrante proposta da Jacobs. Ma è stata soprattutto l’elegante descrizione di interdipendenza e controllo sociale - il balletto della strada - a creare un ideale a cui aspirano molti dei nuovi cittadini. Tuttavia,Jacobs_ rqm^icizzò c sociali che stavano^gilTTiy^ta^ cui le descrisse, negli anni Sessanta. Successivamente i negozianti immigrati di seconda generazione furono rimpiazzati da catene di ne< gozi; le casalinghe che avevano tempo di stare alla finestra per vedere cosa succedeva iniziarono o ricominciarono a lavorare. Un miscuglio di officine e piccole fabbriche, ma-
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celiai e lavanderie, proprietari e affittuari fu schiacciato in un primo momento dai vecchi residenti che se andavano, dalle aziende che non riuscivano ad essere competitive, e dai padroni di casa che trascuravano gli appartamenti dove gli affitti erano economici, e in un secondo momento dalle nuove ondate di boutique, condomini, palazzi alti e gentrificatori. Ancora più in profondità, le radici che legavano le persone al luogo furono indebolite da nuove forme di mobilità: i poliziotti che ogni giorno effettuavano ronde a piedi iniziarono di tanto in tanto a pattugliare in automo bile; i bambini che raggiungevano a piedi le scuole pub bliche si dispersero in scuole private - sovvenzionate dallo Stato e non - o iniziarono a prendere l’autobus evitando del tutto la strada. Enormi cartelloni e insegne pubblicita rie facevano pressione sui passanti perché cambiassero le loro abitudini d'acquisto, dai negozi del quartiere ai nuovi prodotti di grandi aziende che avrebbero potuto trovare in negozi di marca. Infine, le ^radici vennerojreci^. quando lo Stato~elim^ affitti controllati, e investitori e imprenditori immobiliari sostituirono alloggi a basso costo con appartamenti di lusso e costosi. Per quanto Jacobs accusasse gli urbanisti della trasfor mazione dei quartieri in bassifondi e della realizzazione di centri affaristici su molti piani e di case popolari che alie navano chi li viveva, era una giornalista troppo intelligente e un’attivista di quartiere troppo esperta per ignorare le forze che strutturavano, e ancora oggi strutturano, ciò che si costruisce e il modo in cui lo si fa: laforza del denaro e de^ potere statale. Jacobs preferiva i flussTdi denaro «gra duali» a quenr