L'altra Iliade
 9788858770528

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SOMMARIO
Dedica
DITTI DI CRETA - DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA
PREMESSA
INTRODUZIONE
1. Tutti i Cretesi sono bugiardi
2. Ditti e Settimio: un confronto possibile
3. Settimio e Ditti: il ‘traduttore’ all’opera
3.1. Il sacrificio di Ifigenia
3.2. La morte di Aiace Telamonio
4. La fortuna
NOTA CRITICA - LA TRADIZIONE MANOSCRITTA
BIBLIOGRAFIA
DITTI DI CRETA - DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA
LETTERA PREFATORIA - PROLOGO - LIBRO PRIMO
LETTERA
PROLOGO
DIARIO
LIBRO SECONDO
LIBRO TERZO
LIBRO QUARTO
LIBRO QUINTO
LIBRO SESTO
NOTE AL TESTO DI DITTI
NOTE AL LIBRO PRIMO
NOTE AL LIBRO SECONDO
NOTE AL LIBRO TERZO
NOTE AL LIBRO QUARTO
NOTE AL LIBRO QUINTO
NOTE AL LIBRO SESTO
DARETE FRIGIO - STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA
INTRODUZIONE
DARETE FRIGIO - STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA
EPISTOLA PREFATORIA
STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA DI DARETE FRIGIO
TESTI BIZANTINI SULLA GUERRA DI TROIA
GIOVANNI MALALA - DALLA CRONOGRAFIA
GIOVANNI MALALA E LA PRIMA CRONACA UNIVERSALE BIZANTINA
GIOVANNI MALALA - DALLA CRONOGRAFIA - libro V, 1-37
COSTANTINO MANASSE - DAL BREVIARIO DI STORIA
LA CRONACA IN VERSI DI COSTANTINO MANASSE
COSTANTINO MANASSE - DAL BREVIARIO DI STORIA - 1107-1473
GIORGIO CEDRENO - DAL BREVIARIO DI STORIA
GIORGIO CEDRENO: NEL LABORATORIO DI UN CRONISTA BIZANTINO
GIORGIO CEDRENO - DAL BREVIARIO DI STORIA
CIRIACO D’ANCONA - SOMMARIO DEL DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA DI DITTI DI CRETA
DITTI DI CRETA - NELL’ABBRACCIO TRA ORIENTE E OCCIDENTE
CIRIACO D'ANCONA - SOMMARIO DEL DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA DI DITTI DI CRETA
INDICE DEI NOMI NOTEVOLI NEL TESTO DI DITTI DI CRETA

Citation preview

DITTI DI CRETA

L’ALTRA ILIADE IL DIARIO DI GUERRA DI UN SOLDATO GRECO. CON LA STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA DI DARETE FRIGIO E I TESTI BIZANTINI SULLA GUERRA TROIANA Coordinamento di Emanuele Lelli

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Testi greci e latini a fronte

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore

GIOVANNI REALE

l volume raccoglie i seguenti testi: Ditti di Creta, Diario della guerra di Troia Premessa e Introduzione di Valentina Zanusso Nota critica di Lorenzo M. Ciolf i Libro I, di Enrico Cerroni Libro II, di Shanna Rossi (1-27) e Lorenzo Bergerard (28-52) Libro III, di Daniele Mazza Libro IV, di Nicoletta Canzio Libro V, di Lorenzo M. Ciolf i Libro VI, di Valentina Zanusso Darete Frigio, Storia della distruzione di Troia Introduzione e traduzione di Nicoletta Canzio Testi bizantini sulla guerra di Troia Introduzioni di Lorenzo M. Ciolf i, Traduzioni di Lorenzo Bergerard, Lorenzo M. Ciolf i ed Emanuele Lelli

DITTI DI CRETA L’ALTRA ILIADE

IL DIARIO DI GUERRA DI UN SOLDATO GRECO CON LA STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA DI DARETE FRIGIO E I TESTI BIZANTINI SULLA GUERRA TROIANA: GIOVANNI MALALA, COSTANTINO MANASSE, GIORGIO CEDRENO, CIRIACO D’ANCONA

Testi greci e latini a fronte Traduzioni e note di Lorenzo Bergerard, Nicoletta Canzio, Enrico Cerroni, Lorenzo M. Ciolf i, Daniele Mazza, Shanna Rossi, Valentina Zanusso Coordinamento di Emanuele Lelli

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-77052-8 © 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero – Rometta Marea (ME) Prima edizione digitale 2015 da prima edizione Il Pensiero Occidentale marzo 2015

SOMMARIO Ditti di Creta, Diario della guerra di Troia

7

Darete Frigio, Storia della distruzione di Troia

729

Testi bizantini sulla guerra di Troia

827

Indice generale

1011

a Giovanni Reale

DITTI DI CRETA DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

PREMESSA Fino alla primavera del 1907, quando Bernard Pyne Grenfell ed Arthur Surridge Hunt pubblicarono, nel secondo volume dei Tebtynis Papyri, la porzione di un rotolo databile con certezza alle ultime decadi del II secolo d.C., sul cui verso era vergato l’inusitato testo “of the Greek Dyctis”, gli studiosi di quasi cinque secoli si erano interrogati, come accade spesso, persino con accese polemiche, sull’esistenza del testo greco che uno sconosciuto autore, Lucio Settimio, indicava come fonte della sua storia ‘alternativa’ della guerra di Troia: l’Ephemeris belli Troiani. Chi era il Lucius Septimius che compariva in un’epistula dedicatoria presente in una classe di manoscritti medievali dell’opera, e al quale veniva attribuito lo scritto fin dall’editio princeps del 1470, presso l’editore di Colonia Ulrich Zell? Settimio affermava, appunto nell’epistula, di aver “tradotto” dal greco l’opera di un leggendario Ditti Cretese, soldato al seguito di Idomeneo, che avrebbe redatto un “diario” delle vicende troiane, ben fededegno, se solo si pensa al fatto che l’autore sarebbe stato presente agli avvenimenti. A quale epoca apparteneva Settimio? Chi era l’Aradio Rufino a cui aveva dedicato la propria opera? Esisteva uno scritto greco originale, come affermava l’autore latino? E, se sì, si poteva pensare davvero ad un autore ante Homerum? Questi i principali interrogativi che, dagli umanisti italiani del ‘400 e ‘500 fino ai severi filologi prussiani di fine ‘800,

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

avevano ingombrato il campo degli studi su questa interessante e per molti versi disarmante opera1. Gli studiosi si erano innanzitutto divisi tra chi riteneva veritiere le parole di Settimio (Dederich), e chi riteneva che il suo fosse esclusivamente un espediente letterario (Meister, Mommsen). Il testo latino del non altrimenti noto Lucio Settimio, d’altra parte, veniva attribuito ora al III, ora al VI secolo (Dunger, Meister), via via per ragioni di stile, di lingua, di consonanze con altri autori. L’Ephemeris, in altri termini, rappresentò per molti secoli un terreno di esercitazioni accademiche ed incursioni filologiche sul testo latino, con sempre più numerose proposte di emendamenti e congetture (von Hortis, Vonck, Herelius). La scoperta di un Ditti greco, confermata nel 1966 dal ritrovamento – in un papiro ossirinchita – di un altro brandello dell’opera, sgombrò finalmente il campo dalle polemiche e dai dubbi sulla derivazione del testo latino da un originale greco. L’opera cominciò così ad essere studiata e analizzata in modo diverso, e molti interrogativi sembrano aver trovato risposte soddisfacenti. Alan Cameron, ad esempio, ha proposto di identificare il nostro Septimius con il poeta novellus Settimio Sereno (di cui è ignoto il praenomen), operante – sembra – fino alla metà del III secolo: un lemma del catalogo dell’abbazia di Bobbio registra infatti libros Septimii Sereni duos, unum de ruralibus (si tratta sicuramente degli Opuscula ruralia del poeta Settimio Sereno), alterum de Historia Troiana, in quo et habetur historia Daretis2. Un Aradio Rufino, del resto, è noto a Roma come praefectus urbis tra il 312 e il 3133. 1

Rassegna degli studi in Bessi 2005. Cameron 1980. 3 Notato già in Rossbach 1905. 2

PREMESSA

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Altri studiosi si sono rivolti, finalmente, al carattere generale dell’opera4, ai rapporti con le fonti, sia latine5 sia greche – in primis Omero6 – e, recentissimamente, alla fortuna7. L’intento di questo lavoro, sia nell’Introduzione, che nel commento ai singoli libri, è quello di indagare criticamente i modelli dell’originario Ditti greco, analizzando, da una parte gli elementi letterari attribuibili alla tradizione greca e, dall’altra, le inserzioni di Settimio. Valentina Zanusso

4

Merkle 1989, e anche Timpanaro 1987. Ancora e soprattutto Merkle 1989. 6 Venini 1981. 7 Prosperi 2013. 5

INTRODUZIONE 1. Tutti i Cretesi sono bugiardi Che il noto ‘paradosso del mentitore’, attribuito dalla letteratura filosofica ad Eubulide di Mileto, avesse le sue antiche radici nel luogo comune per cui “i Cretesi sono bugiardi”, un luogo comune risalente, per alcuni, al leggendario Epimenide, e già in epoca classica talmente diffuso da far parte, ormai, dell’immaginario collettivo, lo garantiscono numerosissime testimonianze. Forse già in un incertum alcaico (15 Voigt:ȱϳȱ̍ΕχΖȱΘχΑȱ ΌΣΏ΅ΘΘ΅Α), attestato dal paremiografo Zenobio (5,30), si stigmatizzava il tópos della ‘falsità’ dei Cretesi. Callimaco, in apertura del primo Inno (v 8), richiamava apertamente l’incipit dell’“oracolo” attribuito – appunto – ad Epimenide:ȱ̍ΕϛΘΉΖȱΦΉϠȱΜΉІΗΘ΅΍ȱ(3 B 1 D.-K.). Non solo Aristotele (Conf. soph. 180 b2-7) e Diogene Laerzio (2,108, attribuendolo appunto ad Eubulide) avrebbero reso celebre il sillogismo imperfetto, ma anche San Paolo, impiegandolo nell’Epistola a Tito (1,2) e trasmettendolo ai Padri cristiani (Hieron. ep. 70,1; Tert. anim. 20). Anche nel mondo romano, del resto, si alludeva con disinvoltura al motivo, evidentemente assai diffuso (Ov. am. 3,10,19 nec fingunt omnia Cretes; ars 1,298 quamvis sit mendax Creta, negare potest). Plutarco vi fece più volte riferimento (Lys. 20,2; Aem. Paul. 26,2) e, com’era naturale, il proverbio – nella forma canonizzata “tutti i Cretesi sono bugiardi”, o in altre forme – entrò ben presto a far

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

parte delle raccolte paremiografiche e lessicografiche antiche (Hesych.ȱΎ 4086; Zen. 4,62; Diog. 5,58) e bizantine (Sud. Ύȱ 2407; Greg. Cypr. M. 3,87; Apost. 10,7)1. Nell’interpretamentum di Zenobio (4,62), del resto, si attribuiva l’origine del motivo proverbiale alla falsità con cui era stata gestita la famosa contesa per le armi di Achille fra Aiace ed Odisseo, proprio da parte di Idomeneo, il ‘capo’ al cui seguito aveva militato Ditti, il quale “dopo aver ottenuto da ognuno la promessa di conformarsi a ciò che sarebbe stato deciso, designò se stesso come vincitore”. Sembra legittimo, dunque, chiedersi se la scelta di un Ditti proprio di Creta sia casuale. Se cioè – a meno di non prestare una forse acritica fiducia alle parole del narratore di questa Ephemeris – l’anonimo autore che si cela dietro le spoglie del soldato greco al seguito di Idomeneo, appunto, cretese, non abbia intenzionalmente scelto di legare il suo ambiguo destino di ‘storiografo’ ad un alter ego antonomasticamente e pregiudizialmente riconosciuto ‘bugiardo’. Proprio lui che, al termine della prima, più lunga, sezione del racconto, avrebbe dichiarato: quae in bello evenere Graecis ac barbaris, cuncta sciens perpessusque magna ex parte memoriae tradidi.

Il nostro autore segreto voleva forse creare con il suo lettore un ulteriore gioco di specchi? Voleva accentuare la paradossalità di un’opera che – già di per sé – ponendosi prima di Omero e per molti versi (anche se mai apertis verbis) contro Omero, si metteva in evidente confronto con il più letto e apprezzato autore dell’antichità? 1

Vd., per Epimenide, Colli 1978, 263; per la storia dell’espressione nell’immaginario proverbiale (e collettivo) greco: Tosi 287; Proverbi greci, 436.

INTRODUZIONE

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Quasi a voler prendere le distanze dall’irriverente confronto? Quasi a voler sottolinearne il lusus tutto letterario? Quasi, in una metaletteraria tapinósis, a voler far intendere, già tra le righe dell’intestazione dell’opera, che il cretese Ditti avrebbe sì raccontato quam verissime potero (1,13) le vicende della più famosa e importante guerra del mondo antico, ma – tant’è – sempre di un cretese si sarebbe trattato, e dunque… quel che avrebbe letto il suo pubblico avrebbe dovuto essere preso con molta cautela2. Quam verissime potero, che compare in una sorta di ‘prologo ritardato’, a metà del primo (attuale) libro della versio latina, è in effetti l’unica affermazione programmatica che il nostro autore greco – o forse i tagli di Settimio – ci ha lasciato. L’epistula di Settimio, infatti, il quale si professa avidus verae historiae, accentua sicuramente i tratti di veridicità storiografica dell’opera che sta traducendo, secondo i più canonici argumenta di sottolineatura dell’importanza del tema riscontrabili in ogni prefazione. Anche il prologus, attribuito – nella finzione letteraria – non a Ditti, ma all’anonimo traduttore greco che avrebbe redatto il testo di cui abbiamo potuto, dal secolo scorso, leggere alcuni brani, mette in campo l’analogo espediente: Nerone, princeps ellenizzante e illuminato che si rende conto di aver ‘scoperto’ un capolavoro dimenticato della storiografia addirittura preomerica, iussit in Graecum sermonem ista transferri, e quibus Troiani belli verior textus cunctis innotuit. L’insistenza sulla veridicità del racconto, dunque, è più attribuibile al traduttore greco (in realtà, con tutta proba2

Si è soffermata, recentissimamente, proprio su questa possibilità di doppio livello di lettura Prosperi 2012.

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

bilità, il vero e proprio autore segreto dell’Ephemeris) e a quello latino, Settimio. Così sarà anche per i bizantini, da Giovanni Malala a Giorgio Cedreno, che invocheranno l’auctoritas di Ditti proprio come fonte storiografica più veritiera rispetto a Omero3. Nella finzione letteraria della persona scribens, dunque, al cretese Ditti rimane solo quell’unica professione di veridicità, affermata quasi di sfuggita, e che offre – a ben vedere – ancora un terzo livello di lettura: eorum [scil. i duci greci] ego secutus comitatum ea quidem, quae antea apud Troiam gesta sunt, ab Ulixe cognita quam diligentissime rettuli et reliqua, quae deinceps insecuta sunt, quoniam ipse interfui, quam verissime potero exponam.

Se Ditti narrerà i fatti avvenuti a Troia, di cui è stato diretto osservatore, quam verissime poterit, di quel che è avvenuto prima, degli antehomerica di cui non ha avuto parte, egli dichiara di avere una fonte tutta particolare: Ulisse. Proprio l’eroe iliadico che, nella tradizione mitica e nell’immaginario popolare, più di ogni altro era caratterizzato dalla fama di essere un ‘mentitore’ di professione. Proprio l’eroe che, per menzogne e inganni verbali, si era distinto in tanti e tanti episodi, ciclici – come l’inganno per scoprire Achille e l’inganno a Palamede4 – e omerici – 3

Evidenzia il tema della verità in relazione alla “fiction in the form of history” Merkle 1996. Un lavoro che, al di là di un accattivante titolo (The Truth and Nothing but the Truth: Dictys and Dares), appare per molti versi deludente. 4 Nonché, in Ditti, l’inganno per attirare Ifigenia in Aulide all’insaputa di Agamennone: 1,20-21; e ancora, la messa in scena del suicidio di Aiace che le truppe greche sembrano inclini ad attribuire proprio al Laerziade: 5,15. Per entrambi gli episodi vd. infra.

INTRODUZIONE

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basti pensare a Dolone o ai falsi racconti odissiaci appena giunto ad Itaca. Come se l’anonimo autore greco, che per ragioni di datazione del papiro non può essere posto oltre la fine del II secolo5, avesse seguito due binari paralleli di dialogo con i suoi lettori: quello ‘storiografico’, ove seguiva tutti i canoni della storiografia razionalistica, e quello ‘metaletterario’, ove si divertiva a lasciar intendere , fra le righe, che i contenuti del suo racconto potevano non essere veritieri. Intorno al 165 d.C.6 Luciano di Samosata pubblicava un’operetta tutta particolare, dedicata alla storiografia. Stando alle sue parole, si assisteva – in quei tempi – ad una vera e propria ossessione per opere di storia: storia generale, locale, biografia, annalistica. Luciano, esplicitamente schierato in favore di una storiografia tucididea, razionalistica e ‘oggettiva’, prendeva di mira gli storici – o i sedicenti storici – che si davano a partigianeria e faziosità, nonché coloro che adornavano con eccessivi orpelli retorici i propri scritti. L’opuscolo eserciterà un’influenza note5

Vd. già Grenfell-Hunt 1907, 9ss.; Ihm 1909; Jacoby in FGrHist 49 F 7; Eisenhut 1969 e ancora Eisenhut 1973, 134-9. Timpanaro 1987, 169-170, n.7, argomenta, accanto all’evidenza dei papiri, che, per far sì che la storia del ritrovamento dell’opera di Ditti in caratteri fenici, della traslitterazione (o traduzione) in greco, e del collocamento in una biblioteca pubblica, così come narrato nel Prologus, potesse essere creduta (“o almeno ritenuta ‘non male inventata’ anche dai lettori che non vi credevano”), dovevano essere trascorse alcune decine di anni da quei fatti: l’età più adatta è dunque, secondo Timpanaro, l’età degli Antonini. 6 Nel secondo paragrafo dell’operetta Luciano richiama esplicitamente “le attuali vicende militari di Armenia”, riferendosi alla sconfitta di Alegeia (162 d.C.) e alla successiva riconquista dell’Armenia (163), fornendo dunque un inequivocabile terminus per la datazione.

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

vole proprio sulla storiografia bizantina, sui cronografi in particolare, e anche oltre, fino alla riscoperta umanistica7. Ma se si ripercorrono i ‘precetti’ lucianei su “come sia più opportuno comporre un’opera storiografica”, si scopre, altresì, una straordinaria analogia con quanto sembra aver messo in atto proprio il nostro autore segreto dell’Ephemeris. Luciano (7) aveva innanzitutto sottolineato ΦΐΉΏφΗ΅ΑΘΉΖȱ ·ΤΕȱ Γϡȱ ΔΓΏΏΓϠȱ ΅ЁΘЗΑȱ ΘΓІȱ ϡΗΘΓΕΉϧΑȱ ΘΤȱ ·Ή·ΉΑ΋ΐνΑ΅ȱ ΘΓϧΖȱ πΔ΅ϟΑΓ΍Ζȱ ΦΕΛϱΑΘΝΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΗΘΕ΅Θ΋·ЗΑȱ πΑΈ΍΅ΘΕϟΆΓΙΗ΍ǰȱ ΘΓϿΖȱ ΐξΑȱ ΓϢΎΉϟΓΙΖȱ ΉϢΖȱ ЂΜΓΖȱ πΔ΅ϟΕΓΑΘΉΖǰȱ ΘΓϿΖȱ ΔΓΏΉΐϟΓΙΖȱ Έξȱ ΔνΕ΅ȱ ΘΓІȱ ΐΉΘΕϟΓΙȱΎ΅Θ΅ΕΕϟΔΘΓΑΘΉΖǯȱ

“quale enorme sbaglio commettono i più quando, invece di raccontare come siano andati i fatti, si attardano negli elogi dei capi e dei generali, esaltando i propri e deprimendo oltre misura quelli nemici”.

Appare significativo constatare – come del resto è stato più volte fatto – che proprio “Ditti” riserva ai capi achei un trattamento non certo generoso, mettendone in risalto debolezze e avidità, mettendo invece in ottima luce soprattutto uno dei capi avversari (che pure definisce barbari), cioè Antenore8. Luciano aveva proseguito mettendo in guardia lo scrittore di storia dal confondere i propri compiti con quelli del poeta (8): σΘ΍ȱΦ·ΑΓΉϧΑȱπΓϟΎ΅Η΍ΑȱΓϡȱΘΓ΍ΓІΘΓ΍ȱБΖȱΔΓ΍΋Θ΍ΎϛΖȱΐξΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΔΓ΍΋ΐΣΘΝΑȱ ΩΏΏ΅΍ȱ ЀΔΓΗΛνΗΉ΍Ζȱ Ύ΅Ϡȱ Ύ΅ΑϱΑΉΖȱ 7

Ancora fondamentale lo studio (con traduzione, che qui si riproduce) di Canfora 1974, che mette in luce le peculiarità del testo lucianeo. 8 Vd. Timpanaro 1987, 184-7.

INTRODUZIONE

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ϥΈ΍Γ΍ǰȱϡΗΘΓΕϟ΅ΖȱΈξȱΩΏΏΓ΍ǯȱǽǯǯǯǾȱΐν·΅ȱΘΓϟΑΙΑǰȱΐκΏΏΓΑȱ ΈξȱЀΔνΕΐΉ·΅ȱΘΓІΘΓȱΎ΅ΎϱΑǰȱΉϢȱΐχȱΉϢΈΉϟ΋ȱΘ΍ΖȱΛΝΕϟΊΉ΍Αȱ ΘΤȱ ϡΗΘΓΕϟ΅Ζȱ Ύ΅Ϡȱ ΘΤȱ ΔΓ΍΋Θ΍ΎϛΖǰȱ ΦΏΏȝπΔΉ΍ΗΣ·Ή΍ȱ ΘϜȱ ϡΗΘΓΕϟθȱΘΤȱΘϛΖȱοΘνΕ΅ΖȱΎΓΐΐЏΐ΅Θ΅ǰȱΘϲΑȱΐІΌΓΑȱΎ΅Ϡȱ Θϲȱπ·ΎЏΐ΍ΓΑȱΎ΅ϠȱΘΤΖȱπΑȱΘΓϾΘΓ΍ΖȱЀΔΉΕΆΓΏΣΖǯȱ

“Certa gente sembra ignorare che altri sono i presupposti e le regole della poesia, altri della storia. […] È un gran male, anzi grandissimo, se uno non sa distinguere il campo della storia da quello della poesia, ma introduce nella storia i ricercati ornamenti di quella, il mito, l’encomio e le connesse iperboli”.

E ancora, ironicamente (14): ΉϩΖȱ ΐνΑȱ Θ΍Ζȱ ΅ЁΘЗΑȱ ΦΔϲȱ ̏ΓΙΗЗΑȱ ΉЁΌϿΖȱ όΕΒ΅ΘΓȱ Δ΅Ε΅Ύ΅ΏЗΑȱ ΘΤΖȱ ΌΉΤΖȱ ΗΙΑΉΚΣΜ΅ΗΌ΅΍ȱ ΘΓІȱ ΗΙ·Ȭ ·ΕΣΐΐ΅ΘΓΖǯȱ ϳΕλΖȱ БΖȱ πΐΐΉΏχΖȱ ψȱ ΦΕΛχȱ Ύ΅Ϡȱ ΔΉΕϠȱ ΔϱΈ΅ȱΘϜȱϡΗΘΓΕϟθȱΎ΅ϠȱΘХȱΘΓ΍ΓϾΘУȱΉϥΈΉ΍ȱΘЗΑȱΏϱ·ΝΑȱ ΔΕνΔΓΙΗ΅Ъȱ

“Uno di loro, dunque, incominciò subito dalle Muse, esortando le dee a porre mano al suo lavoro. Tu vedi come è pieno di gusto tale esordio, come è calzante in un’opera storica e adatto a tale genere letterario?”.

Proprio l’assenza (o quasi) di divinità e di Muse, del soprannaturale insomma, e la razionalizzazione quasi ossessiva di tutte le vicende che, in Omero e non solo, presentavano aspetti divini, è da tempo9 stata individuata come una delle caratteristiche principali – probabilmente la più contrastivamente evidente – dell’Ephemeris dittiana. “Quanto alla lingua e allo stile – continuava Luciano (43) – incominci il suo scritto astenendosi da quel 9

Già Rossbach 1905, 589, e tutti gli studiosi successivi.

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

modo violento ed emotivo, dai periodoni enormi, dai ragionamenti contorti, insomma da ogni altro ritrovato retorico” (ΘχΑȱ ΈΉȱ ΚΝΑχΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΘχΑȱ ΘϛΖȱ οΕΐ΋ΑΉϟ΅Ζȱ ϢΗΛϾΑǰȱ ΘχΑȱ ΐξΑȱ ΗΚΓΈΕΤΑȱ πΎΉϟΑ΋Αȱ Ύ΅Ϡȱ ΎΣΕΛ΅ΕΓΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΗΙΑΉΛϛȱ Θ΅ϧΖȱ ΔΉΕ΍ϱΈΓ΍Ζȱ Ύ΅Ϡȱ Φ·ΛϾΏ΋Αȱ Θ΅ϧΖȱ πΔ΍ΛΉ΍ΕφΗΉΗ΍ȱ Ύ΅Ϡȱ ΘχΑȱ ΩΏΏ΋Αȱ ΘϛΖȱ Ϲ΋ΘΓΕΉϟ΅Ζȱ ΈΉ΍ΑϱΘ΋Θ΅ȱ ΐχȱ ΎΓΐ΍ΈϜȱ ΘΉΌ΋·ΐνΑΓΖȱ ΦΕΛνΗΌΝȱΘϛΖȱ·Ε΅ΚϛΖ).

Da quando è stato possibile leggere il papiro greco, si è chiaramente potuto constatare quale fosse la linearità, persino, a volte, la eccessiva semplicità, quasi – appunto – diaristica – dello stile di Ditti. La scarsissima presenza di dialoghi nell’opera sembra anch’essa, d’altra parte, trovare un’eco nello scritto di Luciano, che raccomandava di usarli “con parsimonia” (58), e “solo in questo caso impiegare la capacità retorica” (ΔΏχΑȱπΚΉϧΘ΅ϟȱΗΓ΍ȱΘϱΘΉȱΎ΅ϠȱϹ΋ΘΓΕΉІΗ΅΍ȱΎ΅ϠȱπΔ΍ΈΉϧΒ΅΍ȱΘχΑȱ ΘЗΑȱΏϱ·ΝΑȱΈΉ΍ΑϱΘ΋Θ΅). Luciano poi aveva sottolineato (60): Ύ΅ϠȱΐχΑȱΎ΅ϠȱΐІΌΓΖȱΉϥȱΘ΍ΖȱΔ΅ΕΉΐΔνΗΓ΍ǰȱΏΉΎΘνΓΖȱΐνΑǰȱ ΓЁȱ ΐχΑȱ Δ΍ΗΘΝΘνΓΖȱ ΔΣΑΘΝΖǰȱ ΦΏΏȝπΑȱ ΐνΗУȱ ΌΉΘνΓΖȱ ΘΓϧΖȱϵΔΝΖȱΪΑȱπΌνΏΝΗ΍ΑȱΉϢΎΣΗΓΙΗ΍ȱΔΉΕϠȱ΅ЁΘΓІǯȱ

“Se per caso viene in taglio un mito, riferiscilo pure, ma non prendere posizione a sostegno del suo valore: lascia decidere a chi vorrà pensarla, in proposito, a proprio piacimento. Tu non correre rischi e non propendere né per una soluzione né per l’altra”.

È stato notato, e giustamente, che Ditti impiega spesso uno stilema di ‘versioni alternative’, delle quali l’una costituisce la spiegazione di un evento legata ad un qualche fattore divino, l’altra ad un motivo concreto/umano. Senza prendere posizione. Si pensi a quando, per la peste

INTRODUZIONE

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scoppiata in Aulide, si forniscono al lettore due spiegazioni, una ‘umana’ e una ‘divina’ (irane caelesti an ob mutationem aeris: 1,19); o a quando, ancora per una pestilenza, quella cantata anche nel primo libro dell’Iliade, si riproduce lo schema incertum alione casu an, uti omnibus videbatur, ira Apollinis (2,30). Com’è noto, il papiro di Ditti è vergato sul recto di un documento databile intorno al 170 d.C.10 Il nostro autore segreto, che certo intendeva la propria opera come uno scritto di storia, anche se di storia antichissima e avvolta dalla leggenda, aveva forse letto l’opuscolo lucianeo? Volle forse mettere in pratica i precetti del poligrafo di Samosata, quasi punto per punto, pur potendo – invece – comporre un’opera in cui sarebbero potuti comparire iperboli e personaggi divini, dialoghi inverosimili e incontri prodigiosi? L’ipotesi, mi sembra, merita di essere vagliata. Anche alla luce di un ultimo ‘gioco’ che il nostro autore potrebbe aver riservato proprio al suo ‘precettore’ Luciano. Quest’ultimo, fra i vari autori criticati nel libello, aveva preso di mira (16): ΩΏΏΓΖȱ Ένȱ Θ΍Ζȱ ΅ЁΘЗΑȱ ЀΔϱΐΑ΋ΐ΅ȱ ΘЗΑȱ ·Ή·ΓΑϱΘΝΑȱ ·ΙΐΑϲΑȱ ΗΙΑ΅·΅·АΑȱ πΑȱ ·Ε΅ΚϜȱ ΎΓΐ΍ΈϜȱ ΔΉΊϲΑȱ Ύ΅Ϡȱ Λ΅ΐ΅΍ΔΉΘνΖǰȱ ΓϩΓΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΗΘΕ΅Θ΍ЏΘ΋Ζȱ ΩΑȱ Θ΍Ζȱ ΘΤȱ Ύ΅ΌȝψΐνΕ΅ΑȱΦΔΓ·Ε΅ΚϱΐΉΑΓΖȱΗΙΑνΌ΋ΎΉΑǯȱ

“uno che aveva composto un puro e semplice hypòmnema degli avvenimenti, scritto in una prosa quanto mai pedestre, come l’avrebbe potuto comporre un soldato che annotasse i fatti giorno per giorno”. 10

Vd. supra, n. 5.

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

Mi piace ipotizzare che il nostro anonimo autore greco, negli ultimi decenni del II secolo, abbia potuto prendere proprio queste parole di Luciano come una scommessa letteraria in cui misurarsi: comporre un’opera storiografica che rivaleggiasse addirittura con i poemi omerici per il contenuto, seguendo i canoni che Luciano aveva stabilito per quanto riguarda lo stile, i dialoghi, l’obiettività, la presenza del mito e del divino, ma contraddicendo il ‘maestro’ almeno su un punto: il sottogenere storiografico; scegliendo cioè quella forma ‘diaristica’ che Luciano aveva definita inadatta alla storiografia vera e propria, relegandola, al massimo, a “materiale ancora bruto e privo di arti da riordinare e elaborare in un secondo momento” (48)11. Una gara, pertanto, con il maestro e con se stesso, un se stesso anepigraficamente mascherato – per giunta12 – proprio da soldato13, leggendario soldato cretese che gettava, in un ultimo rispecchiamento letterario, un’estrema ombra di credibilità su tutta l’opera. Questi due elementi, che cercherò di mettere in luce nei brani esaminati in questo lavoro, vanno affiancati, a mio avviso, all’impronta di ‘imprevedibilità’ che, secondo Timpanaro, è la cifra peculiare dell’opera, spesso 11

ȱе̗ΔΓΐΑφΐ΅Θ΅, come ‘etichetta’ di scritti di storia, è spesso sinonimo diȱд̈ΚΉΐφΕ΍ΈΉΖ, ad esempio per indicare i più famosi commentarii dell’antichità, quelli di Cesare: cfr. Schanz-Hosius I, 337. 12 Sui canoni e le modalità della letteratura anepigrafica è insostituibile il volume curato da Cerri 2000. 13 Non ci si può “inventare di certo un Ditti ‘democratico’”, come afferma Timpanaro 1987,188. E tuttavia i ripetuti accenni alle angherie e ai soprusi dei capi, che sono i soli a curarsi durante la pestilenza (2,30), che si spartiscono il bottino senza riguardo per le truppe, che addirittura mormorano contro Achille ormai morto per il suo tentativo di ‘vendere’ la vittoria ai Troiani in cambio delle nozze con Polissena, fanno sicuramente della persona scribens una voce più vicina ai soldati semplici che ai capi.

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condotta proprio alla ricerca dell’aprosdóketon che possa ‘stupire’ il lettore, soprattutto quello esperto di Omero14. Il clima letterario e culturale di quegli anni non offriva di certo al nostro autore pochi modelli per opere ‘troiane’ di tipo innovativo o persino antiomerico. Tolomeo Chenno (dei cui rapporti con Ditti avrò modo di parlare presto), nei primi decenni del II secolo, aveva composto un poema in 24 libri, esplicitamente intitolatoȱ ̝ΑΌϱΐ΋ΕΓΖ, di cui il riassunto foziano (Bibl. 190) ci ha conservato le puntuali riscritture e stravaganze. D’altra parte, già Dione di Prusa, sempre tra la fine del I e l’inizio del II secolo, aveva incentrato due orazioni – Su Omero (53) e Il discorso troiano (11) – sulla figura e l’attendibilità del sommo poeta15. Filostrato (probabilmente il Giovane), nell’Eroico, sorride – nei panni di uno scettico Fenicio – di fronte alla credulità ‘omerica’ di un vignaiolo convinto dell’esistenza degli eroi dell’Iliade16. Luciano, nel Gallo, non risparmia battute ironiche sulla credibilità di Omero. Ancora Luciano del resto, e sempre nel De historia conscribenda (40), sentenziava con un sorriso un po’ irriverente: “ad Omero – sebbene abbia per lo più liberamente elaborato il racconto su Achille – si è in genere indotti a credere adducendo questo solo e forte argomento in favore della veridicità: che non scriveva intorno ad un vivente e non si 14

Timpanaro 1987, 175-184. Giustamente Timpanaro critica le tesi di chi – come Gianotti 1979 – vede invece, in opere come quelle di Ditti e Darete, la progressiva perdita di contatto con il materiale omerico arcaico, e dunque la possibilità di interessare il lettore con elaborazioni fantasiose e romanzesche, che preluderanno ai Romances medievali. 15 Si vedano le pagine introduttive di Vagnone 2003 nonché Fornaro 2002. 16 Cfr. Mestre 1990.

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vede dunque perché avrebbe dovuto mentire”17.La seconda sofistica, in altri termini, aveva inserito anche Omero, e con lui la storia della guerra più importante dei Greci, fra i suoi ‘bersagli’ polemici e passibili di riscritture e riletture, come numerosi studi recenti hanno ben messo in luce18. Anche i Posthomerica di Quinto di Smirne, del resto, si presentano in ultima analisi come ‘reazione’ classicista al diffuso anti-omerismo – o para-omerismo, come preferirei definirlo – dell’epoca19: reazione che, come spesso accade, testimonia ancor più chiaramente la ‘rivoluzione’ in corso20. Di queste riscritture para-omeriche il nostro Ditti fece, a mio avviso, pienamente parte, così come a questo filone letterario va assegnato lo scritto che va sotto il nome di Darete Frigio, e che tuttavia potrebbe essere più tardo rispetto alle opere e agli autori finora menzionati21. 17 ȱͳΐφΕУȱ·ΓІΑǰȱΎ΅ϟΘΓ΍ȱΔΕϲΖȱΘϲȱΐΙΌЗΈΉΖȱΘΤȱΔΏΉϧΗΘ΅ȱΗΙ··Ή·Ε΅ΚϱΘ΍ȱ ЀΔξΕȱΘΓІȱ̝Λ΍ΏΏνΝΖǰȱόΈ΋ȱΎ΅ϠȱΔ΍ΗΘΉϾΉ΍ΑȱΘ΍ΑξΖȱЀΔΣ·ΓΑΘ΅΍ǰȱΐϱΑΓΑȱΘΓІΘΓȱ ΉϢΖȱ ΦΔϱΈΉ΍Β΍Αȱ ΘϛΖȱ ΦΏ΋ΌΉϟ΅Ζȱ ΐν·΅ȱ ΘΉΎΐφΕ΍ΓΑȱ Θ΍ΌνΐΉΑΓ΍ǰȱ ϵΘ΍ȱ ΐχȱ ΔΉΕϠȱ ΊЗΑΘΓΖȱ σ·Ε΅ΚΉΑаȱ ΓЁȱ ·ΤΕȱ ΉЀΕϟΗΎΓΙΗ΍Αȱ ΓЈΘ΍ΑΓΖȱ ρΑΉΎ΅ȱ πΜΉϾΈΉΘȝΩΑǯȱ ͳΐφΕУȱ ·ΓІΑǰȱ Ύ΅ϟΘΓ΍ȱ ΔΕϲΖȱ Θϲȱ ΐΙΌЗΈΉΖȱ ΘΤȱ ΔΏΉϧΗΘ΅ȱ ΗΙ··Ή·Ε΅ΚϱΘ΍ȱ ЀΔξΕȱΘΓІȱ̝Λ΍ΏΏνΝΖǰȱόΈ΋ȱΎ΅ϠȱΔ΍ΗΘΉϾΉ΍ΑȱΘ΍ΑξΖȱЀΔΣ·ΓΑΘ΅΍ǰȱΐϱΑΓΑȱΘΓІΘΓȱ ΉϢΖȱ ΦΔϱΈΉ΍Β΍Αȱ ΘϛΖȱ ΦΏ΋ΌΉϟ΅Ζȱ ΐν·΅ȱ ΘΉΎΐφΕ΍ΓΑȱ Θ΍ΌνΐΉΑΓ΍ǰȱ ϵΘ΍ȱ ΐχȱ ΔΉΕϠȱ ΊЗΑΘΓΖȱσ·Ε΅ΚΉΑаȱΓЁȱ·ΤΕȱΉЀΕϟΗΎΓΙΗ΍ΑȱΓЈΘ΍ΑΓΖȱρΑΉΎ΅ȱπΜΉϾΈΉΘȝΩΑǯȱ 18 Si vedano, per tutti, Baumbach-Bär 2007 e, ancora in corso di stampa, Amato-Scafoglio 2014, entrambi con numerosissimi contributi. 19 Mi permetto qui di rinviare all’introduzione del volume Bompiani: Quinto di Smirne, Il seguito dell’Iliade, Milano 2013, dove ho affrontato il rapporto culturale tra Quinto, i suoi modelli, e la seconda sofistica. 20 Si vedano in particolare le pagine LXXVI-LXXIX. 21 Vd. ora Canali-Canzio 2014, nonché, con riferimento anche alla fortuna dell’operetta daretiana, Prosperi 2013. Va detto che Sebastiano Timpanaro fu sempre convinto dell’esistenza di un ‘Darete greco’, e che propese per collocare anche questo autore nello stesso arco temporale del Ditti greco e delle opere para- e anti-omeriche ricordate.

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2. Ditti e Settimio: un confronto possibile A partire dalla scoperta dei Papiri di Tebtynis e di Ossirinco, nella primavera del 1907, è stato possibile accedere a frammenti dell’originario Ditti greco e confrontarvi in maniera serrata e circoscritta la versio latina. Questo è l’intento della seguente sezione, che tenta di indagare criticamente i modelli dell’originario Ditti greco, evidenziando, laddove possibile, da una parte i tasselli attribuibili a richiami e allusioni letterarie alla tradizione greca e, dall’altra, le inserzioni attribuibili a Settimio. Convenzionalmente, al testo greco – quello dei papiri, ma anche quello ‘ricostruito’ ipoteticamente – farò riferimento come “Ditti”; al testo latino, come “Settimio”. Oltre alla versio latina, tre importantissimi autori bizantini – che coprono un arco temporale di oltre settecento anni, dal V al XIII secolo – possono essere impiegati per la ricostruzione dell’Ephemeris greca: Giovanni Malala e Giorgio Cedreno, che tra V e XII secolo ‘saccheggiano’ Ditti per le loro Cronografie, e Costantino Manasse, che nel suo Breviario storico in versi impiega ancora, per molte sezioni, l’Ephemeris greca. I bizantini sembrano essersi attenuti più letteralmente al testo di Ditti: dunque ci consentono di recuperare termini chiave greci che possono servirci ad instaurare analogie e confronti con i modelli greci di Ditti (Omero, i tragici). Dal testo latino possiamo invece recuperare le sequenze dell’ordo narrativo, che offrono interessanti spunti di confronto con le diverse strategie narrative di poemi del ciclo, di Quinto, e ancora dei tragici. In questo modo, dal confronto fra Ditti, Settimio e i bizantini, in due delle sequenze narrative più significative dell’intera opera – la morte di Achille e quella di Euripilo – si ap-

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prezzano chiaramente le modalità di traduzione e riscrittura alle quali il testo di Ditti è stato sottoposto, nonché le possibili intersezioni testuali con i suoi modelli. Vi sono intarsi sicuramente tragici, che Ditti derivava, a quanto pare, non solo dalle tragedie giunte integre fino a noi, ma anche da altri drammi, che dunque dovevano ancora circolare ai suoi tempi (ad esempio l’Euripilo sofocleo). Vi è un confronto puntuale con i poemi del Ciclo, certamente più contenutistico che formale, incentrato soprattutto su attese narrative frustrate (fra tutte: l’arrivo di Neottolemo nella Troade). Vi è, in Settimio, una versio che non sembra contemplare, per questa sezione e, dunque, per i cinque libri dichiaratamente tradotti ad litteram, tagli o modifiche strutturali; ma al tempo stesso sono più che evidenti le trasformazioni stilistiche del testo, da una amplificazione retorica che comporta insistite aggettivazioni e duplicationes di sostantivi e verbi, ad un’attenzione peculiare ad aspetti tecnico-militari, con il ricorso ad un sermo castrensis che appare senz’altro assente in greco. Significative, poi, le coincidenze fra le puntuali traduzioni di alcuni termini, da parte di Settimio, e i Glossarii greco-latini che la tradizione scolastica tardo-antica ci ha conservato: quasi potessimo scorgere il lavoro del traduttore sui ‘dizionari’ dell’epoca. Il papiro di Tebtynis, che ha vergato sul verso un documento databile al 206 d.C., inizia per noi in corrispondenza dell’attuale capitolo nono del quarto libro del testo latino (IV,9 = PTeb I,1-18). Nei primi capitoli del libro si sono consumate le vicende di Pentesilea e di Memnone: i Troiani sono dunque caduti in uno stato di abbattimento, mentre i Greci sono ormai convinti che la caduta di Troia sia imminente.

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At post paucos dies Graeci instructi armis processere in campum lacessentes, si auderent, ad bellandum Troianos. ψΐΉǽΕЗΑȱǯȱǯȱǯȱΓЁȱΔΣǾΑΙȱΔΓΏΏЗΑȱΓϡȱк̈ΏΏ΋ΑΉΖȱΎ΅ǽȱǯȱǯȱǯȱ ΉϢ@ȢIJϲʌİįϟΓΑσΕΛΓΑΘ΅΍ʌȡȠ>țĮȜȠϾΐΉΑΓ΍

Il testo latino sembra innanzitutto semplificare, nella notazione temporale post paucos dies, la litote offerta dal greco (con le sicure integrazioni di Grenfell e Hunt, d’ora in poi G.-H.)ȱψΐΉǽΕЗΑǯȱǯȱǯȱΓЁȱΔΣǾΑΙȱΔΓΏΏЗΑ: un caso piuttosto raro, come vedremo, nella generalizzata tendenza di Settimio ad amplificare retoricamente il suo modello. Anche Malala (5,27,35), tuttavia, riduce la sua fonte in ϴΏϟ·ΝΑȱΈξȱψΐΉΕЗΑȱΈ΍΅ΈΕ΅ΐΓΙΗЗΑ. Per una formula simile vd. invece 3,15: nec multi transacti dies. Il tecnico procedere in campum, invece, che ricalca formule diffuse nella storiografia latina22, sostituisce il più neutroȱ ΉϢǾΖȱ Θϲȱ ΔΉΈϟΓΑȱ σΕΛΓΑΘ΅΍, che tuttavia ha matrice omerica (e.g. Il. 2,465:ȱ πΖȱ ΔΉΈϟΓΑȱ ΔΕΓΛνΓΑΘΓ; 24,401: ώΏΌΓΑȱΔΉΈϟΓΑΈΉ)23; ilȱΔΉΈϟΓΑȱ per eccellenza, del resto, inteso come piana destinata a duelli e battaglie, anche nei tragici, è quello di Troia (Aesch. Ag. 526; Soph. Phil. 1376, 1435), come lo sarà, significativamente, in Const. Man. Syn. 1416. Se appare lecito ipotizzare dalȱΘΓІȱǯǯǯȱв̄Λ΍ΏΏνΝΖȱΔΕΓΎ΅ΏΓΙΐνΑΓΙȱ ’ȱ Š•Š•Šȱ Žȱ Š•ȱ ΘΓϿΖȱ ̖ΕЗ΅Ζȱ в̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ ΉϢΖȱ ΔϱΏΉΐΓΑȱ ΔΕΓΎ΅ΏΓΙΐνΑΓΙ del Cedreno (130 C Dind.) 22

In Livio: procedere ad pugnam: 7,9,8; 36,44,2; in medium campi: 6,23,1; 4,18,4; in aciem: 21,55,2; 9,27,2; 6,22,9; 27,46,12; 4,32,3; 27,13,13; nei Bella del corpus Caesarianum: procedere ad dimicandum: Al. 39, Hisp. 29; ad pugnam: Hisp. 40. Notevole, invece, in Aen. 5,287 tendit…in campum. 23 Vd. ancora Il. 2,801; 3, 252; 24,329.

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che nel lacunoso ΔΕΓǽ del papiro si sia perduto proprio un ΔΕΓΎ΅ΏΓϾΐΉΑΓ΍ riferito ai Greci, va sottolineata l’amplificatio che la pericope offre in Settimio, con l’insistita idea di sfida al valore dei Troiani (si auderent) da parte dei Greci. L’equivalenza di ΔΕΓΎ΅ΏΓІΐ΅΍ e lacesso, d’altra parte, sembra confermata dai Glossari, ove troviamo ΔΕΓΎ΅ΏΓІΐ΅΍: lacesso, provoco (CGL III, p. 418) e lacessit: ΔΕΓΎ΅ΏΉϧΘ΅΍ȱ(p. 120). Le successive pericopi del testo greco davano conto in modo assai succinto degli avvenimenti: era Alessandro a guidare i Troiani, visto che una figura (evidentemente importante) “non c’era più” (forse Memnone? Ettore?); lo seguivano Deifobo e altri fratelli, ma le sorti della battaglia erano sfavorevoli ai Troiani: “molti di loro” venivano evidentemente uccisi e altri “catturati vivi”, tra i quali Troilo e un altro figlio di Priamo (Licaone, come si evince da tutti gli altri autori che seguono Ditti): costoro venivano giustiziati da Achille in persona, al cospetto degli Achei. ψ·ΉϧΘΓȱ Έξȱ ΅Їȱ ΘЗΑȱ Ά΅ΕǽΆΣΕΝΑȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ǾΓΖȱ ΐ΋ΎνΘ΍ȱ ϷΑΘΓΖǰȱ οΔΓΐνǽȱ ǯȱ ǯǾȱ πΔΉΏΌϱΑΘΝΑȱ ο΅ΙΘΓϧΖȱ ΘЗΑȱ ǽȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ǾΘ΅΍ȱ ΔΓΏΏΓϠȱ ΔΣΑΙȱ ΅ЁΘЗΑȱ ΉϢΖȱ ǽǯȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ̉ЗΑΘǾΉΖȱ Έξȱ Ώ΅ΐΆΣΑΓΑΘ΅΍ȱΘЗΑȱΔ΅ϟǽΈΝΑȱǯȱǯȱǯȱǾ̖ΕΝϟΏΓΖǰȱΓЃΖȱπΑȱ ΐνΗУȱΘЗΑȱв̄ǽΛ΅΍ЗΑȱǯȱǯȱǯȱв̄ǾΛ΍ΏΏΉϿΖȱΗΚΣΊΉ΍ǯ

Se Malala e Cedreno offrono una narrazione altrettanto stringata, quello di Settimio è un testo ben più denso. Dai bizantini e da Settimio sembra potersi evincere che in Ditti vi fosse il termineȱΦΈΉΏΚΓϟ. Ma mentre i tre testi greci si limitano ad elencare i nomi dei Priamidi che accorrono ad affrontare Achille (rispettivamente, in Malala: Paride, Deifobo, Licaone e Troilo; in Cedreno: Paride, Deifobo, Troilo e Licaone; in Ditti doveva essere ricordato il solo Alessandro, visto l’ψ·ΉϧΘΓ singolare, e successivamente Li-

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caone e Troilo), Settimio amplifica il sempliceȱψ·ΉϧΘΓȱ con una coppia endiadica: quis dux Alexander cum reliquis fratribus militem ordinat atque adversum pergit.

Il motivo della fuga dei Troiani addirittura prima che i due eserciti piombino l’uno contro l’altro, assente in Malala e Cedreno, e sottolineato da Settimio sed priusquam ferire inter se acies aut iaci tela coepere

era forse presente già in Ditti, come possiamo ricostruire dal lacunosoȱπΔΉΏΌϱΑΘΝΑȱο΅ΙΘΓϧΖȱΘЗΑ, probabilmente ΗΘΕ΅Θ΍ЗΑ oȱ Ώ΅ЗΑ (per acies)24. Ma lo spazio del papiro consente di affermare con sicurezza che, ancora una volta, l’immagine dei dardi che non si iniziano neanche a lanciare è solo del testo latino. Estremamente breve anche lo spazio in cui poteva essere contenuto il motivo della fuga dei Troiani, forse Ά΅ΕΆΣΕΝΑȱΚΙ·ϱΑΘΝΑ, come pensano G.-H. Anche in questo caso Settimio chiosava il testo greco con una coppia di immagini: desolatis ordinibus25, e – forse: ma il nesso è abbastanza comune – con l’allitterante fugam faciunt26. Ancor più esteso il rimaneggiamento di Settimio della stringata notazione di Ditti, seguito invece dai bizantini, Ma vd. CGL, p. 358:ȱΏ΅ϱΖ: populus; p. 438:ȱΗΘΕ΅ΘϱΖ: exercitus. Non sembra trattarsi di un tecnicismo, che nel sermo castrensis latino è perturbatis ordinibus (e.g. Caes. Gall. 2,11; 4,33; 5,37); la iunctura non è attestata né in Livio, né in Sallustio, né in Tacito. Ma è forse di qualche rilievo notare l’analogia con il nesso virgiliano desolati manipli di Aen. 11,870, scena in cui si descrive la ritirata dei Rutuli dopo la morte di Camilla. 26 Cfr. ThLl VI,2, 1470,40ss. (e.g.: Cic. dom. 67; Liv 1,56,4; 10,44,4). 24 25

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sul massacro di “numerosi” Troiani costretti alle rive dello Scamandro: caesique eorum plurimi aut in flumen praeceps dati, cum hinc atque inde ingrueret hostis atque undique adempta fuga esset. Capti etiam Lycaon et Troilus Priamidae, quos in medium productos Achilles iugulari iubet.

Più ad verbum appare la successiva pericope, benché Settimio non ritenga di specificare, attraverso il nesso vivum capere, tipico anche in latino di un certo linguaggio militare27, la sfumatura del grecoȱΊЗΑΘǾΉΖȱΈξȱΏ΅ΐΆΣΑΓΑΘ΅΍, che ricaviamo dalȱΊЗΑΘΉΖȱΈξȱΚ΅ΑΉΕΓϠȱπΏφΚΌ΋Η΅Αȱ di Malala e dalȱΘΓϿΖȱΐξΑȱΊЗΑΘ΅ΖȱΉϨΏΉ del Cedreno. Lo scarto più significativo fra Ditti e Settimio è però la scena in cui vengono ‘giustiziati’ Troilo e Licaone. In Ditti è chiaramente Achille, in persona, a compiere l’esecuzione dei due Priamidi, “in mezzo ai Greci” radunati, come di consueto, lungo le navi. Un particolare confermato dai bizantini. In Settimio, invece, Achille “ordina di giustiziare” i due, in medium productos. Non convince, in proposito, la proposta di Viereck di emendare il papiro inȱΗΚΣΊΉ΍Αȱ ΎΉǽΏΉϾΉ΍, proprio sulla scorta di Settimio ma contra i bizantini. Ci si può chiedere se quella di Settimio sia stata una scelta legata ad un diversa caratterizzazione del personaggio Achille o, più semplicemente, se l’autore latino avesse in mente le immagini delle esecuzioni pubbliche romane, ove la modalità della iugulatio era la più diffusa. Si pensi, infine, alla possibile suggestione della pagina sallustiana in cui Cicerone iubet. . . laqueo gulam fregere i congiu27

Per Livio: 3,8,10; 25,16,23; 28,20,6; 32,30,12; 35,51,4; 42,66,9; per il corpus Caesarianum: Gall. 8,35; Afr. 39, 95; Hisp. 16,23,41.

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rati catilinari (Cat. 55)28. Forse non è un caso che l’analoga iunctura iugulari iubet compaia già in 3,14, allorché Achille fa immolare davanti all’urna che contiene le ceneri di Patroclo alcuni prigionieri troiani. Da notare, infine, la precisione lessicale iugulare/ΗΚΣΊΉ΍Α, ancora confermata dai Glossari:ȱΗΚΣΊΝ: iugulo, interemo, cedo, occido, trucido, neco (p. 448) e iugulat: ΗΚΣΊΉ΍ȱ(p. 93). La scena dei Troiani che fuggono e rimangono bloccati allo Scamandro e quella dell’esecuzione di Troilo e Licaone costituiscono probabilmente un tassello di intertestualità omerica. Nella prima parte di Il. XXII, infatti, Achille, che ancora infuria per vendicare Patroclo, continua l’avanzata nella piana di Troia, in una situazione del tutto analoga a quella di Ditti 4,9 = PTeb I,1-11. Il PelideȱΘΓϿΖȱ ΐξΑȱ ΔΉΈϟΓΑΈΉȱ ΈϟΝΎΉ (3), mentre ψΐϟΗΉΉΖȱ Έξȱ πΖȱ ΔΓΘ΅ΐϱΑȱ ΉϢΏΉІΑΘΓ (8); di quelli che fuggono e si nascondono sotto le ripe del fiume Achille ΊΝΓϿΖȱ . . .ȱΈΙЏΈΉΎ΅ȱΏνΒ΅ΘΓ, e li consegna ai compagni, per immolarli a Patroclo davanti alle navi (27-33); quindi si imbatte proprio in Licaone, che già aveva sconfitto in una precedente occasione e aveva risparmiato: il Priamide lo scongiura anche stavolta di non ucciderlo, ma Achille, benché il nemico sia nudo e in gesto di supplica, gli affonda nel collo la spada (116: ΒϟΚΓΖ; prima il troiano aveva esclamato, rivolto ad Achille, e presago della sua imminente fine,ȱΗϿȱ . . .ȱΈΉ΍ΕΓΘΓΐφΗΉ΍Ζ, 89), una modalità di esecuzione piuttosto rara nell’Iliade, che sembra in qualche modo riecheggiata proprio dalloȱ ΗΚΣΊΉ΍ȱ di Ditti. Achille getta quindi il corpo di Licaone nello Scamandro, in pasto ai pesci (122-135). Diversi elementi, come si vede, fanno pensare che l’autore dell’Ephemeris 28

Sulla matrice sallustiana di molte iuncturae presenti in Settimio vd. Merkle 1989, 118-122.

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tenesse presente questo brano omerico, a cominciare proprio dalla morte di Licaone. Solo uno spunto si offriva invece, nell’Iliade, sulla morte di Troilo (24,257), uno dei più giovani figli di Priamo, al quale è dedicato un brano molto patetico nell’Eneide (1,474 ss.) e una tessera sicuramente intertestuale in Posth. 4,418-435 (ove, durante i giochi in onore di Achille, vengono offerte come premio le armi appunto di Troilo): sia nel brano virgiliano sia in quello di Quinto, la morte di Troilo è paragonata alla falciatura di un papavero o di una spiga di grano29: dunque un’immagine che ancora una volta ricorda loȱΗΚΣΊΉ΍ȱdi Ditti. Nel Troilo di Sofocle e in Apollod. ep. 3,32 il giovane moriva invece in un agguato, sempre per mano di Achille (frr. 618-635 Radt); stando alla versione del mitografo, nella stessa notte, Achille penetrava a Troia e catturava Licaone. Sulla versione della morte di Troilo seguita da Ditti va detto che, se nelle più famose fonti letterarie (da Omero a Virgilio) il Priamide cadeva sconfitto in duello da Achille, nella stragrande maggioranza delle rappresentazioni iconografiche Troilo era vittima di un’imboscata, e la sua uccisione era eseguita sull’altare, spesso con evidenti modalità rituali e cerimoniali: quella di Ditti è dunque una scelta in linea con la tradizione iconografica, ma con l’omissione dell’imboscata da parte del Pelide30. Nell’Excidium Troiae di Darete, infine, Troilo era ucciso da Achille perché, ri29 Una similitudine che compariva – non per Troilo – già in Omero (Il. 8,306-8), quindi nella Gerioneide di Stesicoro (S 15,44-47 Davies), in Apoll. Rh. 3,1396-1403, e probabilmente in Catull. 11,21-24: vd. ora Lazzeri 2008, 254-274. 30 Sull’iconografia di Troilo vd. LIMC s.v Troilos, VIII,1, 91-94 e VIII,2, per le immagini; Paribeni 1966, 1007-11; Zindel 1974, 30-80; D’Agostino 1985, 1-8.

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masto imbrigliato nel proprio cavallo, non riusciva a difendersi dall’eroe né a fuggire (33): dum acriter proeliantur, equus vulneratus corruit, Troilum implicitum excutit. Eum cito Achilles adveniens occidit 31. Ancora un brano di Il. XXII può forse offrire un riscontro per l’integrazione diȱψ·ΉϧΘΓȱΈξȱ΅ЇȱΘЗΑȱΆ΅ΕǽΆΣΕΝΑȱǯȱǯȱǯȱ ǾΓΖȱΐ΋ΎνΘ΍ȱϷΑΘΓΖ: che sia Alessandro a guidare le schiere troiane è certo. Per la figura che “non è più” (notazione assente nei bizantini), dunque è morta, si è pensato a Memnone (̏νΐΑΓΑǾΓΖ: già G.-H.; Jacoby, Eisenhut)32; sembra però più opportuno pensare ad Ettore, che appunto Alessandro sarebbe l’unico ad aver titolo di sostituire nella guida dei Troiani. Proprio in Il. 22,384 si legge la clausola ӥΎΘΓΕΓΖȱΓЁΎνΘвȱπϱΑΘΓΖ, in bocca ad Achille che aspetta di vedere come i Troiani reagiranno, “ora che Ettore non è più”. Si potrebbe dunque integrare il tutto ψ·ΉϧΘΓȱΈξȱ΅Їȱ ΘЗΑȱΆ΅ΕǽΆΣΕΝΑȱв̄ΏνΒ΅ΑΈΕΓΖǰȱӥΎΘΓΕǾΓΖȱΐ΋ΎνΘ΍ȱϷΑΘΓΖ. E si confronti, e contrario, il verso di Quinto di Smirne che descrive i Troiani ancora in preda allo spavento, pur di fronte al corpo di Achille ormai morto (3,184):ȱДΖȱ̖ΕЗΉΖȱ ΚΓΆνΓΑΘΓȱΎ΅ϠȱΓЁΎνΘвπϱΑΘвв̄Λ΍Ώϛ΅ǯȱ

Della brutale esecuzione di Troilo e di Licaone, in Ditti era probabilmente fornita una motivazione precisa, come si può ricostruire dalla versione di Settimio: ΐ΋ΈΉǽȱǯȱǯȱǯǾȱΔ΅ΘΕϲΖȱΔνΐΜ΅ΑΘΓΖȱЀΔνΕȱǽ

indignatus nondum sibi a Priamo super his, quae secum tractaverat, mandatum.

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Vd. Darete, Storia, 121-2. Ihm, 12, chiama in causa un brano di Giovanni di Antiochia (p. 8 Heinrich) per confortare l’integrazioneȱ ̏νΐΑΓΑǾΓΖDZȱ ΔΉΗϱΑΘΓΖȱ ΅ЁΘΓІȱǽscil. ̏νΐΑΓΑΓΖǾȱΚΙ·χȱΘЗΑȱв̌ΑΈЗΑȱΎ΅ϠȱΚϱΑΓΖȱΔΓΏϾΖǯȱ 32

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Al contrario dei bizantini, che omettono il particolare, Settimio appare più attento alla caratterizzazione di Achille come iratus amator: la vicenda sottesa al furore del Pelide è quella del suo amore per Polissena, la giovanissima figlia di Priamo che Achille ha visto per caso durante una tregua, mentre accompagnava ad un sacrificio la madre Ecuba. Achille, captus amore della bellissima fanciulla, ha proposto a Priamo un patto separato in cambio della mano di Polissena. Ma il sovrano di Troia non ha ancora dato seguito alle lettere segrete che l’eroe gli ha inviato. Di qui, dunque, il furor di Achille. Sarà proprio questo il filo conduttore dei capitoli centrali del quarto libro. Da notare, nel testo latino, il chiarimento Priamo per l’originaleȱΔ΅ΘΕϱΖ, un procedimento assai diffuso in Settimio, soprattutto nella specificazione di nomi personali. La pateticità della morte di Troilo, dai tragici a Virgilio e oltre (ma non in Omero!) tratteggiato come uno dei più bei giovani troiani, reciso come un fiore dalla falce della guerra prima ancora che potesse dimostrare il suo valore, era in qualche modo ‘recuperata’ da Ditti, stando alle tracce del papiro e alla versione di Settimio, nella scena dei funerali del giovane figlio di Priamo, e del pianto di lutto su di lui. Ilȱ ΔνΑΌΓΖȱ su Troilo non sembra attestato altrove nella tradizione omerica o para-omerica, neanche nel dramma sofocleo, che – come ipotizzato già da Brunck – poteva essere satiresco (vedi il troppo ardito fr. 620 R. ), ed offre la possibilità di un confronto solo con l’episodio virgiliano di Enea che contempla, commuovendosi, le raffigurazioni del tempio di Giunone a Cartagine, ove riconosce le storie della guerra di Troia, tra le quali – appunto – la morte di Troilo, lì ucciso da Achille, mentre fugge, amissis armis, l’impari duello. Questo dunque il testo di Ditti:

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ΔνΑΌΓΖȱΈǾξȱΓЁȱΐ΍ΎΕϲΑȱΘΓϧΖȱπΑȱв̌ΏϟУȱǽȱǯȱǯȱǯȱΦΔΓΏΓΐνǾ ΑΓΙаȱ ώΑȱ ·ΤΕȱ σΘ΍ȱ ΑνΓΖȱ Ύ΅Ϡȱ ·ǽΉΑΑ΅ϧΓΖȱ ǯȱ ǯȱ ǯǾȱ ΘΓІȱ ΥΔΣΑΘΝΑȱΘЗΑȱǽȱǯȱǯȱǯǾȱ΍ΎΝΑȱǽǯȱǯȱǯȱǾȱΉΗΉΑȱΓЄΘΉȱΉΘΝΗǽȱǯȱǯȱǯȱ ǾȱΘΓϿΖȱΑΉΎΕ˜ϿΖȱ

Nessuna menzione del lutto su Troilo nel Cedreno. Malala sembra avere invece conservato il brano di Ditti quasi ad litteram:ȱ Ύ΅Ϡȱ ΐν·΅ȱ ΔνΑΌΓΖȱ πΑȱ ΘХȱ в̌ΏϟУȱ ΔΉΕϠȱ ̖ΕΝϪΏΓΑȱ ώΑаȱώΑȱ·ΤΕȱσΘ΍ȱΑνΓΖȱΎ΅Ϡȱ·ΉΑΑ΅ϧΓΖȱΎ΅ϠȱБΕ΅ϧΓΖ. La rielaborazione di Settimio punta, come ci si poteva aspettare, ad effetti ancor più patetici33: quae ubi animadvertere Troiani, tollunt gemitum et clamore lugubri Troili casum miserandum in modum deflent recordati aetatem eius admodum immaturam, qui in primis pueritiae annis cum verecundia ac probitate, tum precipue forma corporis amabilis atque acceptus popularibus adolescebat.

Si tratta di una vera e propria riscrittura, da quanto possiamo vedere. La scena del pianto è amplificata in ben tre proposizioni: da notare l’aggettivazione (lugubri … miserandum) assente nel Ditti greco e in Malala. Anche recordati sposta l’ottica della descrizione non sul dato oggettivo della giovane età di Troilo, ma sul sentimento di pietà da parte dei Troiani. Immatura, che non possiamo confrontare con l’eventuale corrispondente greco di Ditti, in lacuna, richiama chiaramente il motivo delle mortes immaturae virgiliane, delle quali Troilo è il primissimo esempio nel poema. Forse nell’ΥΔΣΑΘΝΑȱ originale possiamo scorgere l’apprezzamento di “tutti” i Troiani nei confronti del figlio di Priamo, come pare lecito dal confronto con l’acceptus popularibus di Settimio, mediato da Sallustio34: un motivo 33 34

Vd. Merkle 1989, 115-6. Cfr. Iug. 7,1,3; 7,2,3: già Ihm, 13.

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che doveva risaltare, visto il generale disprezzo del popolo troiano per i Priamidi, insistentemente evidenziato da Ditti. Troilo, in ciò accomunato forse al solo Ettore, era l’unico dei figli di Priamo a godere del favore del popolo: la sua morte è dunque pianta da tutti. L’immagine di Troilo che viene strappato alla giovinezza ha un riscontro, ma – sembra – solo tematico, in Posth. 4,430-2: ДΖȱΙϡϲΑȱ̓Ε΍ΣΐΓ΍ΓȱΌΉΓϧΖȱπΑ΅Ώϟ·Ύ΍ΓΑȱΉϨΈΓΖ ̓΋ΏΉϟΈ΋ΖȱΎ΅ΘνΔΉΚΑΉΑǰȱσΘдΩΛΑΓΓΑǰȱΉϢΗνΘ΍ȱΑϾΐΚ΋Ζȱ Αφ΍Έ΅ǰȱΑ΋Δ΍ΣΛΓ΍Η΍ΑȱϳΐЗΖȱσΘ΍ȱΎΓΙΕϟΊΓΑΘ΅ǯ

Non appare possibile, tuttavia, ipotizzare integrazioni per Ditti dal testo di Quinto. Anche in Darete, ove pure il corpo di Troilo viene recuperato subito dopo la morte da Memnone (il quale nell’Excidium giunge a Troia prima che in altri testi), compare solo un riferimento al magnificum funus con cui Priamo onora suo figlio (e lo stesso Memnone, nel frattempo ucciso da Achille) e al dolore di Ecuba, maesta, quod duo filii eius fortissimi, Hector et Troilus, ab Achille interfecti essent (34). Quest’ultimo elemento, come si vedrà, è funzionale in Darete ad introdurre l’agguato ad Achille. Nell’ultima parte della perduta pericope greca, infine, poteva essere menzionata una scena di funerali o di recupero dei caduti (ΑΉΎΕΓϿΖ). Con l’inizio dell’episodio dell’agguato ad Achille, dall’attuale capitolo decimo del quarto libro di Settimio (IV,10 = PTeb I,18-31), il rapporto fra il testo greco di Ditti e le riscritture latina e bizantine si fa più complesso, segno che la vicenda d’amore e morte che coinvolgeva Achille e Polissena offriva la possibilità di essere retoricamente rielaborata più di altre.

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Le prime pericopi di questa sezione, in realtà, sia in Settimio sia nei bizantini, ricalcano piuttosto da vicino il testo che possiamo ricostruire dalle tracce del papiro: Έ΍΅·ǾΉΑΓΐνΑΝΑȱΈξȱϴΏǽϟ·ΝΑȱψΐΉΕЗΑȱǯȱǯȱǯȱд̄ΔϱǾΏΏΝȬ ΑΓΖȱ̋ΙΐΆΕ΅ϟΓǽΙȱǯȱǯȱǯȱπǾΑȱΈξȱΘХȱΌΙ΍Αǽǯȱǯȱǯȱ̓ǾΕϟ΅ΐΓΖȱ ЀΔξΕȱǽ̓ΓΏΙΒνΑ΋ΖȱǯȱǯȱǯȱΚνǾΕΓΑΘ΅ȱΔΕϲΖȱд̄Λ΍ǽΏΏν΅ȱǯȱǯȱ

da cui: Deinde transactis paucis diebus solemne Thymbraei Apollinis incessit et requies bellandi per indutias interposita. Tum utroque exercitu sacrificio insistente Priamus tempus nactus Idaeum ad Achillem super Polyxena cum mandatis mittit. ̏ΉΘΤȱ Ένȱ Θ΍Α΅Ζȱ ψΐνΕ΅Ζȱ πΑϟΗΘ΅Θ΅΍ȱ ψȱ ΘЗΑȱ ΦΑ΅Ȭ Ό΋ΐΣΘΝΑȱοΓΕΘφǰȱΎ΅ϠȱΦΑΓΛχȱ·ν·ΓΑΉȱΘΓІȱΔΓΏνΐΓΙǰȱ ΌΙΗ΍ЗΑȱ ·ΉΑΓΐνΑΝΑǰȱ ΌΙϱΑΘΝΑȱ ΘХȱ ̋ΙΐΆΕ΅ϟУȱ д̄ΔϱΏȱΏΝΑ΍ȱ πΑȱ ΘХȱ ΩΏΗΉ΍ȱ ΘХȱ ΦΔϲȱ ΐ΍ΎΕΓІȱ ϷΑΘ΍ȱ ΘϛΖȱ ΔϱΏΉΝΖȱΘЗΑȱ̇΅Α΅ЗΑȱΎ΅ϠȱΘЗΑȱ̖ΕЏΝΑǯȱǻŠ•ǯȱśǰŘŞǼ ̏ΉΘΤȱ Θ΅ІΘ΅ȱ ΦΑνΗΘ΋ȱ ψȱ ΘЗΑȱ ΦΑ΅Ό΋ΐΣΘΝΑȱ οΓΕΘφǰȱ ΦΑΓΛχΑȱ ΚνΕΓΙΗ΅ȱ ΔΓΏνΐΓΙǰȱ ϶ΘΉȱ Έχȱ ΔΣΑΘΝΑȱ πΑȱ ΉϢΕφΑϙȱ ΌΙϱΑΘΝΑȱ ΘХȱ ̋ΙΐΆΕ΅ϟУȱ д̄ΔϱΏΏΝΑ΍ǰȱ ̇΅Ȭ Α΅ЗΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΘЗΑȱ ̖ΕЏΝΑǰȱ πΑȱ ΘХȱ ΦΔϲȱ ΐ΍ΎΕΓІȱ ΘϛΖȱ ΔϱΏΉΝΖȱΩΏΗΉ΍ǯȱǻŽ›ǯȱŗŘşȱǼ

All’indicazione temporale (“pochi giorni dopo”) della scena fa seguito quella spaziale: il santuario di Apollo Timbreo, ove sia i Greci sia i Troiani facevano sacrifici, come è detto in III,1 (sine ullo insidiarum metu hi aut illi multis immolationibus Thymbraeo Apollini supplicabant). Qui i testi bizantini forniscono maggiori particolari sulla posizione del tempio, forse riprendendo proprio la prima descrizione di esso posta da Ditti nell’attuale incipit del terzo libro. Lo scarto più sensibile fra Ditti-Settimio e i bi-

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zantini, infatti, avviene proprio sull’impiego del materiale mitico relativo alla storia di Achille e Polissena. Ditti, in ciò seguito fedelmente da Settimio, aveva sapientemente dosato i non numerosi (a dire il vero) elementi narrativi della vicenda in più sequenze del racconto35: prima l’incontro casuale di Achille con la figlia di Priamo, le fasi dell’innamoramento dell’eroe, la confessione ad Automedonte e la trattativa segreta con Priamo ed Ettore per la mano della fanciulla; poi le vicende della morte di Patroclo, dell’ira feroce di Achille e della sua imboscata ad Ettore, la morte di quest’ultimo, e il riscatto del corpo da parte di Priamo, che offre ad Achille anche Polissena, lì presente, ma nell’occasione rifiutata dal Pelide (attuale libro III); quindi, dopo le vicende di Pentesilea e di Memnone, entrambi uccisi in duello da Achille, la conclusione della vicenda, con il tranello ai danni dell’eroe attirato di nuovo nel santuario di Apollo Timbreo per trattare fatalmente della mano di Polissena (libro IV). In questa disposizione degli eventi, il filone ‘erotico’ relativo all’eroe più importante dei Greci si intrecciava in più punti con gli avvenimenti bellici, ne era parte integrante, funzionale a creare una certa suspence narrativa, e costituiva l’occasione per mettere in campo una serie di espedienti retorici d’effetto, a cominciare dal topos dell’amore nato dagli sguardi, fino alla significativa Ringkomposition che vedeva il tempio di Apollo Timbreo scenario iniziale e conclusivo della vicenda36. 35 Le simmetrie strutturali dell’Ephemeris sono studiate in modo dettagliate da Merkle 1989,126 ss.; in particolare, per le vicende di Achille e Polissena, cfr. 206-223. Proprio questo segmento mitico è stato definito “un romanzo nel romanzo”, perché presenta caratteristiche narrative in parte autonome rispetto alla fabula principale (Milazzo 1984). 36 Nelle pur ridotte dimensioni del testo dell’Excidium, si può affermare che anche Darete abbia inteso diluire gli elementi narrativi

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Nulla di tutto ciò nei cronografi bizantini, che liquidano la storia di Achille e Polissena in un’unica sequenza, sintetica, collocata dopo gli avvenimenti bellici più significativi (morte di Patroclo, Ettore, Pentesilea e Memnone), quasi unicamente a giustificare l’agguato e la morte dell’eroe. Una scelta narrativa, certo, in linea con la semplicità e ‘annalisticità’ dei testi in questione. Questo confronto, a livello di strategie narrative, consente di cogliere lo scarto tra la rielaborazione di Ditti condotta dai bizantini e quella condotta da Settimio. Se in Malala e in Cedreno il testo greco preso a modello è spesso più fedelmente impiegato ad litteram, in Settimio la retoricizzazione e amplificazione (spesso patetica) della fonte è una costante; ma mentre nei bizantini l’ordo narrativo è piegato alle esigenze della semplicità cronografica, nella versione latina le strategie narrative di Ditti appaiono rispettate. L’una e le altre riscritture sono quindi utili a due diversi livelli: da Settimio possiamo ricavare, con una certa affidabilità, quale fosse l’organizzazione della materia mitica e quale – soprattutto – l’alternarsi delle sequenze; dai bizantini possiamo trarre spunto per ipotesi di ricostruzione testuale e per l’individuazione di quali relativi ad Achille e Polissena, la cui vicenda si conclude sempre nel tempio di Apollo Timbreo (34). E vd. Darete, Storia, n.181. L’‘innovazione’ di Darete – almeno stando alle nostre fonti – tuttavia, consiste nel fare di Ecuba la protagonista dell’inganno ai danni di Achille: Ecuba, addolorata per la morte dei suoi due più amati figli Troilo e Ettore, decide di adescare il Pelide attraverso Polissena e con l’aiuto di Paride: in tal modo la responsabilità del tranello è attribuita alla perfidia di una donna. Così è anche nel testo dell’Ostrakon di Mons Claudianus 412, un curioso testo in trimetri giambici ed esametri ove si leggono tracce proprio della versione daretiana di questa scena, e che è stato da alcuni indicato come un frammento dell’originale greco dell’Excidium: per la questione vd. Pavano 1998.

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termini pregnanti potessero essere presenti nel Ditti greco perduto. Venendo dunque al confronto fra il papiro e la versione latina, è opportuno evidenziare altri elementi. La lacunosissima sequenza ǯȱǾΑΘΓΖȱΌϱΕΙΆΓΖȱǽΔΓΏϿΖȱǯȱǯȱǯǾȱΔΕΓΈ΍ΈϱΑΘΓΖȱΘǽϲΑȱǯȱǯȱǯǾ ΘΓΙȱΔΓΏϿȱд̄ΏΉΒ΅ǽΑΈΕ

insieme alla considerazione del ristretto spazio in lacuna fra le tracce leggibili, consente di affermare, da una parte, che Settimio ha operato la consueta amplificatio del modello, con un’inedita resa diȱΌϱΕΙΆΓΖȱin indignatio37, e con l’aggiunta di un’intera pericope funzionale a collegare il clima di sospetto dei Greci nei confronti di Achille (o nei confronti di un tranello ai suoi danni: né il testo latino né ovviamente quello greco sono chiari su questo punto) ad un precedente episodio38: ad postremum indignatio exorta (namque antea rumorem proditionis ortum clementer per exercitum in verum traxerant), ob quae simul concitatus militis animus leniretur;

dall’altra, di constatare il ‘taglio’ di una pericope – o, almeno, della menzione – riservata ad Alessandro, inequivocabilmente presente nel testo greco. In che modo Paride potesse essere inserito in questa sequenza, d’altra parte, tra il crescente sospetto nel campo acheo e la decisione di inviare come osservatori Ulisse, Diomede e Aiace, è difficile ipotizzare. Forse proprio un precedente colloquio o incontro o trattativa di Achille con Alessandro, scoperta dai Greci? O forse i Greci (o alcuni di loro) hanno scor37 38

Vd. CGL II, p. 328ȱΌϱΕΙΆΓΖ: tumultus, turba. Sottolineato anche da Merkle 1989, 117-118.

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to aggirarsi vicino al tempio Alessandro, che comparirà in Ditti e in Settimio pochissime righe più avanti? Quest’ultima è l’ipotesi più probabile, che si evince dai testi bizantini, ove sono i capi greci che, scorgendo Ideo [inviato dal re a trattare con Achille] vicino al tempio, si preoccupano per un possibile agguato e inviano Ulisse, Diomede e Aiace ad avvisare il Pelide. Il topico terzetto di ‘ambasciatori’ si apposta davanti al boschetto sacro del tempio, “aspettando” l’eroe per “annunziargli … di non fidarsi dei barbari”: ̄ϥ΅ΖȱΗϿΑȱ̇΍ΓΐφΈΉ΍ȱǽΎ΅Ϡȱд̒ΈΙΗΗΉϧȱǯȱǯȱǯȱΘǾϲΑȱΏϱ·ΓΑȱ σΐΉ΍Α΅Αȱ ΅ЁΘϲǽΑȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ΩΏΗΓǾΙΖȱ БΖȱ Δ΅Ε΅··ΉϟΏΝΗ΍Αȱ ο΅ΙǽȱǯȱǯȱǯȱΐχǾȱΘΓϧΖȱΆ΅ΕΆΣΕΓ΍ΖȱΔΉ΍ΗΘΉІΗ΅΍

Appare difficile contestualizzare ilȱ ΘǾϲΑȱ Ώϱ·ΓΑ immediatamente precedente ad σΐΉ΍Α΅Αȱ ΅ЁΘϲǽΑ (opperientes… Achillem, in Settimio), che potrebbe – stando a Malala: ΘϲΑȱ ΔΉΕϠȱ΅ЁΘϛΖȱΏϱ·ΓΑȱ– essere riferito alle trattative su Polissena (5,28,52): ma ciò richiederebbe un punto prima diȱσΐΉ΍Α΅Α, con la relativa durezza dell’assenza di un soggetto o di una qualsiasi coordinazione (e.g. ΓϡȱΈξ). Ancora in Malala sembra esservi tuttavia la traccia di una specifica decisione presa dal consiglio dei capi Achei, da riferire ad Achille: Ύ΅Ϡȱ πΔνΐΜ΅ΐΉΑȱ ΔΕϲΖȱ ΅ЁΘϲΑȱ ΦΔϱΎΕ΍Η΍Αȱ Έ΍Τȱ ΘΓІȱ ΦΈΉΏΚΓІǯǯǯȱ ϣΑ΅ȱ ΅ЁΘХȱ Δ΅Ε΅··ΉϟΏΝΗ΍ȱ ΐχȱ Ό΅ΕΕΉϧΑȱ ο΅ΙΘϲΑȱΘΓϧΖȱΆ΅ΕΆΣΕΓ΍ΖȱΐϱΑΓΑȱdzȱϣΑ΅ȱ΅ЁΘХȱΉϥΔΝΗ΍ȱ ΘχΑȱΦΔϱΎΕ΍Η΍Αǯȱ

Qui il significato diȱΦΔϱΎΕ΍Η΍Ζ, impiegato due volte a così breve distanza, non può essere quello di “ambasceria”, ma di “risposta”39: evidentemente di un consiglio dei 39

Si vedano CGL II, p. 223:ȱΦΔϱΎΕ΍Η΍Ζ: responsum; p. 367 μνΑΝ: mansito, maneo.

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capi tenuto per far fronte alla situazione di malcontento o sospetto. E si veda la versione latina: Aiax cum Diomede et Ulixe ad lucum pergunt hique ante templum resistunt opperientes, si egrederetur, Achillem, simulque uti rem gestam iuveni referrent, de cetero etiam deterrerent in colloquio clam cum hostibus agere.

Anche Settimio ha forse conservato una traccia di tale episodio? A che cosa fa riferimento la rem gestam che i tre achei dovrebbero riferire ad Achille (iuveni), oltre a metterlo in guardia dall’appartarsi solitario con i nemici? E si noti l’analogia di senso tra il rem gestam … referrent di Settimio e l’ΉϥΔΝΗ΍ȱ ΘχΑ ΦΔϱΎΕ΍Η΍Α di Malala. Si tratta delle spie di un rabberciamento frettoloso e poco chiaro di un episodio originariamente più dettagliato? C’è un collegamento tra queste pericopi e la presenza della figura di Alessandro prima della ‘spedizione’ di Aiace, Ulisse e Diomede nel Ditti greco? L’impressione generale è che in questa sequenza narrativa sia stato operato, dai bizantini ma anche da Settimio, un rimaneggiamento del modello; ma non è escluso che il papiro di Tebtynis appartenga a un ramo della tradizione che presentava un testo greco in questo punto sensibilmente differente da quello seguito dagli altri. Aiace, Ulisse e Diomede, in ogni caso, non riuscivano ad avvisare Achille dell’agguato di Paride. Così, nella più lacunosa parte del papiro (attuale capitolo undicesimo del quarto libro), si consuma la più sorprendente e determinante vicenda dell’opera: l’assassinio di Achille. Sfortunatamente, proprio nella sequenza che più avrebbe potuto fornire spunti per un’analisi dettagliata delle differenze a livello di pathos retorico e narrativo tra il

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testo greco e la versione latina, il papiro si presenta estremamente lacunoso (IV,11 = PTeb I,32-53): Δ΅Ε΅·]ϟΑΉΘ΅΍д̄ΏνΒ΅ΑΈΕΓ>Ȣ@ȕȦȝϲΑ

Se, tuttavia, il riferimento all’altare dove avviene l’agguato ad Achille – in un significativo parallelismo con l’assassinio di Priamo davanti all’altare di Atena da parte di Neottolemo – è posto a così breve distanza dall’arrivo di Alessandro sulla scena, è lecito rilevare come Settimio avesse, come di consueto, inserito elementi nuovi rispetto al modello: Interim Alexander compositis iam cum Deiphobo insidiis pugionem cinctus ad Achillem ingreditur confirmator veluti eorum, quae Priamus pollicebatur moxque ad aram, quo ne hostis dolum persentisceret aversusque a duce, adsistit.

Il particolare di Alessandro “voltato” rispetto al Pelide, quo ne hostis dolum persentisceret, sembra impossibile da collocare nel papiro, spatio brevius. Come fanno evincere proprio Malala e Cedreno, Ditti offriva probabilmente un quadro rapido degli eventi:ȱ ̓ΣΕ΍Ζȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ Δ΅ΕΤȱ ΘϲΑȱ ΆΝΐϲΑȱ ϣΗΘ΅Θ΅΍. Forse in modo estremamente conciso, era presente in Ditti anche la dissimulazione di Paride, menzionata dai bizantini (БΖȱϵΕΎУȱΆΉΆ΅΍ЗΑȱΘΤȱΐΉΘдȱ΅ЁΘΓІȱΎ΅ϠȱΘΓІȱ д̄Λ΍ΏΏνΝΖȱΉϢΕ΋ΐνΑ΅) e da Settimio, ove è tuttavia sicuramente variata con la menzione di Priamo (veluti confirmator eorum, quae Priamus pollicebatur). Seguiva la scena dell’agguato, di cui possiamo leggere, nel papiro, solo la brevissima sequenza di Deifobo che proditoriamente abbraccia Achille: ̇΋΍ΚǾϱΆΓΙȱд̄Λ΍ΏΏΉϧǯȱǯȱǽ

ricostruibile, in quanto identica nell’ordo verborum, soprattutto dal Cedreno (130 A:ȱΔΉΕ΍ΔΏΉΎΓΐνΑΓΙȱΈξȱ̇΋΍ΚϱΆΓΙ

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ΘϲΑȱ д̄Λ΍ΏΏν΅ȱ Ύ΅Ϡȱ Ύ΅Θ΅Κ΍ΏΓІΑΘΓΖ) ma anche da Malala (5,28,65:ȱΔΉΕ΍ΔΏ΅ΎνΑΘΓΖȱΈξȱΘΓІȱ̇΋΍ΚϱΆΓΙȱΘХȱд̄Λ΍ΏΏΉϧ).

Mentre in Cedreno non è chiaro se sia Deifobo a scagliare il primo colpo, e Paride quello fatale (“con il pugnale che si era portato”,ȱ ϶ȱ πΔΉΚνΕΉΘΓȱ ΒϟΚΓΖ, particolare che in Settimio è ‘spostato’ all’inizio della caratterizzazione di Paride: pugionem cinctus), in Malala è chiaramente Paride a colpire due volte Achille, mentre Deifobo lo tiene fermo. Quest’ultimo quadro è anche in Settimio, ove, con tutta probabilità – stando anche al confronto con i bizantini – l’abbondante aggettivazione, e l’insistenza sull’inermità di Achille, sono tratti innovativi e amplificanti rispetto al modello: Dein, ubi tempus visum est, Deiphobus amplexus inermem iuvenem quippe in sacro Apollinis nihil hostile metuentem exosculari gratularique super his, quae consensisset, neque ad eo divelli aut omittere, quoad Alexander librato gladio procurrensque adversum hostem per utrumque latus geminato ictu transfigit.

Questa scena, centrale nell’opera, ricordava sicuramente, almeno al lettore romano, la descrizione svetoniana dell’assassinio di Giulio Cesare: anch’egli avvicinato proditoriamente da un congiurato in gesto di conciliazione, abbracciato, e pugnalato improvvisamente alle spalle (Caes. 82): Assidentem conspirati specie officii circumsteterunt, ilicoque Cimber Tillius, qui prima parte susceperat, quasi aliquid rogaturus propius accessit renuentique et gestu in aliud tempus differenti ab utroque umero togam adprehendit; deinde clamantem “ista quidem vis est!” alter e Cascis aversum vulnerat paulum infra iugulum.

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Settimio, tuttavia, come è chiaro dall’accostamento dei due brani, non tiene presente il passo svetoniano. Un indizio del suo metodo di lavoro, e dello spettro di fonti e modelli impiegati. Quasi nulla è possibile ricostruire delle successive righe del testo greco: è menzionato, probabilmente, di nuovo Achille (38); è indicato poi il momento, sembra, della fuga di Paride e Deifobo dal bosco sacro di Apollo Timbreo (41), o di Odisseo e Aiace che scorgono i due Priamidi allontanarsi dal bosco, come in Malala, che appare riproporre in modo più fedele la sequenza. Nella descrizione della morte, doveva ricorrere in Ditti, con tutta probabilità, il termineȱ σΎΏΙΘΓΖȱ per definire il momento in cui al Pelide “si scioglievano le membra”, come fanno pensare i bizantini e l’altrettanto raro dissolutum di Settimio40. Si trattava, evidentemente, contro l’uso comune o semplicemente denotativo del termine41, di un intarsio omerico, a richiamare l’epico (e formulare) ·ΓϾΑ΅Θ΅Ȧ·Ιϧ΅ȱΏϾΉΗΌ΅΍ȱdi tante descrizioni della morte (Il. 4,469; 5,176; 7,12; 16,400; 22,335, etc.). Un caso esemplare, questo, di come la versio latina e le riscritture bizantine possano fornire un elemento (quasi) sicuro di confronto con i modelli greci di Ditti, per valutarne il grado di allusività letteraria. Alcuni elementi significativi differenziano la scena dell’uccisione di Achille in Ditti-Settimio da quella in Darete: Achille si reca al santuario con Antiloco; l’agguato non è condotto dal solo Alessandro (né è menzionato Deifobo), ma da una schiera di numerosi Troiani 40

Raro nel senso di “infermo”, “ferito”: cfr. ThLl V,1, 1501,75ss.; per dissolvo in senso di infermità o morte di un uomo, ib., 1496-7 (a partire da Lucr. 4,756). 41 Per cui vd. L.-S.-J., s.v.

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contro i quali i due Greci – che dunque non sono armati – si difendono strenuamente, ma alla fine hanno la peggio. Odisseo, come era naturale che volesse la tradizione del carattere dell’eroe, è il primo ad accorgersi che nel bosco è accaduto qualcosa di nefasto: “ΓЁΎȱΦ·΅ΌϱΑȱΘ΍ȱΉϢΗϠΑȱ πΕ·΅ΗΣΐΉΑΓ΍ȱ ΓЈΘΓ΍аȱ ΉϢΗνΏΌΝΐΉΑȱ ΔΕϲΖȱ ΘϲΑȱ в̄Λ΍ΏΏν΅”, esclama rivolto ad Aiace e Diomede, in Malala (5,28,72), a sua volta ripreso da Giovanni di Antiochia “Φ·΅ΌϱΑȱΘ΍ȱ ΉϢΗϠΑȱ πΕ·΅ΗΣΐΉΑΓ΍”, particolare invece ignorato dal Cedreno. E in Settimio: quo visus Ulixes: “non temere est, inquit, quod hi turbati ac trepidi repente prosiluere”.

Sulla base di Malala, già G.-H. proposero di integrare la lacuna del papiro di r. 41ȱΓЁΎȱǽΦ·΅ΌϱΑǾȱΓЁΘΓ΍ȱǯȱǯȱǯȱπΔ΍Ǿ ΛΉ΍Ε΋ΗΣΐΉǽΑΓ΍ȱ ΉϢǾΗΉΏΌϱΑΘΉΖ. Ihm, 18, che pure stampa [Φ·΅ΌϱΑ], si chiede se, sulla base di Tzetze, Posth. 405 ΗΛνΘΏ΍΅ȱσΕ·΅ȱϥΈΝΐΉΑȱ(parla Ulisse), non si possa pensare anche ad altro. Certo è che la versio latina sembra in questo punto distanziarsi notevolmente da Ditti42, introducendo un concetto di fatalità che connota in senso più fosco il testo43. Entrati nel bosco, Ulisse, Aiace e Diomede scoprivano Achille, colpito a morte, ma che “ancora respirava”: ΔΉΕ΍ΗΎΓΔΓϾΐΉΑΓ΍ȱϳΕЗǽǯȱǯȱǯȱǾȱΘϛΖȱΉϡΕΎΘϛΖȱΘΓІȱΆΝΐΓІȱ ǽȱǯȱǯȱǯȱπΐǾΔΑνΓΑΘ΅ǯȱ

Fedeli ad litteram, sembra, le riscritture di Malala e Cedreno, così come il testo di Settimio, ove tuttavia è omesso il 42

Nei Glossari: temere:ȱΦΗΎΉΔΘЗΖǰȱΔ΅Ε΅Ώ΅ΆЗΖȱ(p. 196). Non temere è nesso ricorrente in Sallustio: Iug. 82,1,2; 93,5,2; ep. 2,1,5. 43

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particolare – significativo a quanto si è detto – dell’altare di Apollo come scena del delitto: Dein, ingressi lucum, circumspicientesque universa animadvertunt Achillem stratum humi exanguem atque etiam tum seminecem.

Nel testo greco perduto, sembra certo che vi fosse il riferimento cruento ad Achilles moriens, come si evince dall’exsanguem di Settimio e daȱ Ύ΅Όϙΐ΅·ΐνΑΓΑ e ϐΐ΅·ΐνΑΓΑ dei bizantini. Notevole, infine, la resa e contrario diȱπΐǾΔΑνΓΑΘ΅ȱcon seminecem. Era Aiace, a questo punto, cugino dell’eroe, a rivolgersi ad Achille. Le sue parole, tanto amare quanto severe, sottolineano il carattere straordinario di Achille, ma anche la sua debolezza. E non è un caso, probabilmente, che fosse proprio Aiace a pronunciarle: ΔΕϲΖȱ ϶Αȱ ̄ϥ΅Ζȱ ΉϨǽΔΉΑȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ΩǾΏΏΓΖȱ ΗΉȱ ΦΑΌΕЏΔΝΑȱ ωΈϾΑ΅ǽΘΓȱǯȱǯȱǯΔΣǾΑΘΝΑǰȱΦΏΏвψȱΗχȱΔΕΓΔνΘΉ΍΅ȱǽΦΔЏȬ ΏΉΗνȱΗΉǯȱ

Il testo, riprodotto in maniera, a quanto sembra, molto letterale da Malala e dal Cedreno, che consentono di integrarlo con una certa sicurezza, è in parte amplificato da Settimio44: Tum Aiax: “fuit, inquit, confirmatum ac verum per mortales nullum hominum existere potuisse, qui te vera virtute superaret, sed, ut palam est, tua te inconsulta temeritas prodidit”.

Una duplicatio rende la – probabilmente – singola espressione “era dunque vero che…”, ricostruibile dai 44

Proprio su questo brano si sofferma, con analoghe conclusioni, anche Merkle 1989, 114-5.

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bizantini (ώΑȱΩΕ΅ȱΦΏ΋ΌЗΖ, Malal. 5,28,75;ȱΩΕвȱώΑ: Cedr. 130 B): confirmatum ac verum; il motivo del “nessun altro uomo (avrebbe potuto ucciderti)” è per iperbole ampliato in per mortales nullum hominum existere potuisse. Dobbiamo invece pensare, vista la concordanza fra Malala (ωΈϾΑ΅ΘΓȱ ΎΘΉϧΑ΅ϟȱ ΗΉȱ ΦΏΎϜȱ Έ΍΅ΚνΕΓΑΘ΅) e Settimio (qui te vera virtute superaret), che anche nel Ditti greco fosse menzionata l’idea del ‘superamento in virtù’, accanto a quella della ‘morte’, l’unica che invece, con una semplificazione, si legge nella riduzione di Giorgio Cedreno (130 B). Ma Settimio preferisce evitare il concetto di morte per Achille, e intensificare la pericope con il nesso allitterante vera virtute, di matrice forse liviana (spesso in discorsi diretti: 4,31,5; 32,33,10; 42,47,5; 24,14,7). Sicura aggiunta, anche per ragioni di spazio nel papiro, era in Settimio l’asseverazione ut palam est, assente, del resto, nei bizantini. Ma il centro delle considerazioni di Aiace era senz’altro l’ultima battuta. Quel che da Settimio viene reso con una magistrale sententia, ancora allitterante, tua te inconsulta temeritas prodidit 45, era, in Ditti, un più semplice, ma altrettanto efficace,ȱ ψȱ Ηχȱ ΔΕΓΔνΘΉ΍΅ȱ ǽΦΔЏΏΉΗνȱ ΗΉ, come possiamo con certezza ipotizzare da Malala e Cedreno, che qui riprendono evidentemente ad verbum. Temeritas, nei Glossari, è solo l’ultima scelta per il pregnanteȱΔΕΓΔνΘΉ΍΅, accostato prima di tutto a protervia e procacitas, nonché a petulantia (CGL II, p. 419). Il termine latino si attagliava senz’altro alla situazione e, più in generale, all’ethos di Achille. Ma il termine gre45 Possibile un’eco dall’Invectiva in Sallustium 12: quae si tu mihi ut vitia obicis, temeritas tua reprehendetur, non mea vitia culpabuntur (che, tuttavia, sembra derivare a sua volta da Cic. dom. 88: si populus Romanus… temeritatem atque iniuriam suam restitutione mea reprehendisset.

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co non era stato, sicuramente, scelto a caso dall’autore dell’Ephemeris. Nei capitoli iniziali dell’Etica a Nicomaco (7,8 1150 b19 ss.) Aristotele sta esaminando le deviazioni dalla temperanza; fra queste vi è, appunto, laȱΔΕΓΔνΘΉ΍΅: “Dell’intemperanza (ΦΎΕ΅Ηϟ΅) una forma è l’impetuosità (ΔΕΓΔνΘΉ΍΅), l’altra la debolezza (ΦΗΌνΑΉ΍΅). Alcuni, infatti, dopo aver deliberato, non perseverano in ciò che hanno deliberato a causa della passione; altri invece sono guidati dalla passione per non aver deliberato. Certuni infatti sono come coloro che, essendo stati sollecitati in passato, ora non si lasciano più sollecitare: così essi, o perché avvertono prima la passione, o perché la prevedono, o perché svegliano precedentemente se stessi, vale a dire il loro ragionamento, non se ne lasciano sopraffare, sia essa piacevole o dolorosa. Ma sono soprattutto gli uomini facilmente irritabili e di temperamento sanguigno (ϴΒΉϧΖȱΎ΅ϠȱΐΉΏ΅·ΛΓΏ΍ΎΓϟ) ad essere intemperanti nella forma dell’intemperanza impetuosa (ΔΕΓΔΉΘϛȱΦΎΕ΅Ηϟ΅Α): gli uni, infatti, per la loro precipitazione, gli altri per la loro violenza non persistono nella regola, per il fatto che sono portati a seguire l’immaginazione”.

Uno dei paradigmi dell’intemperanza, nell’immaginario antico, è proprio Achille, da Platone (rep. 3,391c), a Plutarco (quom. ad. poet. 19c; 31b-c), al famoso brano oraziano (finalizzato alla coerenza dell’ethopoia con la tradizione) di ars 119-12146: †honoratum† si forte reponis Achillem, impiger, iracundus, inexorabilis, acer, iura neget sibi nata, nihil non arroget armis. 46

Vd. Brink 1971, 200s.

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Orazio, del resto, aveva impiegato proprio uno dei termini con cui i glossari rendonoȱΔΕΓΔνΘΉ΍΅ in un altro fugace ritratto di Achille: epod. 17,14 pervicacis …Achillei. Già nell’Achilles di Accio si leggeva, dell’eroe, ne tum cum fervat pectus iracundiae (fr. 2 Ribbeck). Ed è sempre dagli acciani Mirmidoni (fr. 1 Ribbeck = 1 D’Antò, da Non. 432,31) che ci è giunto un frammento in cui il Pelide – forse non a caso, se si considera la nota tendenza all’erudizione anche linguistica di Accio47 – discute con il suo interlocutore Antiloco sull’esatta definizione del sentimento che lo ispira: non pertinacia, ma pervicacia. Sembra quasi che l’Achille acciano voglia chiarire il senso della tradizione che attribuiva all’eroe quella ΔΕΓΔνΘΉ΍΅, a volte considerata positiva, a volte negativa48: Tu pertinaciam esse, Antiloche, hanc paredicas, ego pervicaciam aio et ea me uti volo; nam pervicacem dici me esse et vincere perfacile patior, pertinacem nihil moror haec fortis sequitur, illam indocti possident. Tu addis quod vitio est, demis quod laudi datur.

La caratterizzazione del Ditti greco, dunque, rispondeva ad una tradizione culturale ben determinata, e a un lessico, forse, che proprio ad Aristotele si ispirava. Delle parole di Aiace va ancora sottolineata, nella resa di Settimio, la sostituzione dell’idea di ‘tradimento’ a quella di ‘rovina’, presente in Ditti greco, come si evince dai bizantini. Il prodidit di Settimio accentua il carattere fosco della morte di Achille, la dimensione dell’inganno, anticipando in qualche modo la battuta finale che l’eroe, in punto di morte, pronuncia in risposta ad Aiace: 47 48

Vd. Bagordo 2002, 39-50. Sul personaggio di Achille in Accio: Zehnacker 2002.

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Έ΍Τȱ̓ΓΏΙΒνΑǾ΋ΑȱΘ΅ІΘΣȱΐΉȱΉϢΕ·ΣΗ΅ΑΘΓȱд̄ΏνǽΒ΅ΑΈΕΓΖȱΎ΅Ϡȱ̇΋ϟΚΓΆΓΖȱΈϱΏУǯ

Ancora una volta le integrazioni al testo greco sembrano sicure, stando ai bizantini. Le ultime parole di Achille, né solenni né eroiche, suonavano come un atto di accusa ai suoi assassini, e come una denuncia – appunto – dell’inganno subito. Parole che nella loro crudezza fornivano ovviamente l’aggancio narrativo al proseguimento della vicenda. Ulisse, Aiace e Diomede, in un ultimo affettuoso gesto, abbracciavano Achille morente e, una volta spirato, lo prendevano sulle spalle per riportarlo nel campo acheo: ΗΙΐǾΔΏ΅ΎνΑΘΉΖȱΈв΅ЁΘХȱωΗΔΣΗ΅ΑΘΓȱǽǯȱǯȱǯȱǾΉΖȱΑΉΎΕϲΑȱ Έξȱǽ·ΉǾΑϱΐΉΑΓΑȱǽǯȱǯȱǯȱπǾΔвЕΐУȱΚνΕΉ΍Αȱ

Il particolare dell’abbraccio, omesso dai bizantini, è valorizzato da Settimio, e ampliato con un insolito exosculati. Settimio inoltre – come del resto Malala – chiarisce come sia Aiace a portare sulle proprie spalle il corpo del cugino: Tum exspirantem eum duces amplexi cum magno gemitu atque exosculati postremum salutant. Denique Aiax exanimem iam umeris sublatum e luco effert.

L’attuale capitolo dodicesimo del quarto libro di Settimio (IV,12 = PTeb I,52-II,62) ospita la narrazione degli scontri nati per difendere il corpo di Achille: i Troiani, infatti, resisi conto dell’insperata sortita di Paride, si precipitano fuori dalle mura per assalire i tre eroi, ma a difesa di questi giungono finalmente le schiere dei Greci, che nel frattempo hanno compreso quel che è accaduto. L’incipit della sequenza è, nel papiro, all’estremità inferiore, e dunque estremamente lacunoso. Il momento in cui i Greci si

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rendono invece conto dei fatti e intervengono in forze, è il brano meglio conservato: Γϡȱ к̈ΏΏΉΑΉΖȱ Έξȱ ΗΙΑ΍ΈϱΑΘΉΖȱ Θϲȱ ·ΉΑϱΐΉΑΓΑȱ ΦΑ΅Ώ΅ΐΆΣΑΓΙΗ΍Αȱ ΘΤȱ ϵΔΏ΅ȱ Ύ΅Ϡȱ ΘΓϧΖȱ ΘϲΑȱ в̄Λ΍ΏΏν΅ȱ ΎΓΐϟΊΓΙΗ΍Αȱ ȕΗΙΑ΋Δ΅ΑΘΝΑȱ ΈвΦΏΏφΏΓ΍Ζȱ Δ΅Ε΅ΈΓϿΖȱ ̄ϥ΅ΖȱΘΓϧΖȱΔΉΕϠȱΘϲΑȱ̇΍ΓΐφΈ΋ΑȱΚΙΏΣΗΗΉ΍ΑȱΘϲΑȱΑΉΎΕϲΑȱ ΆΣΏΏΉ΍ȱ ΔΕЗΘΓΑȱ ӣΗ΍ΓΑȱ д̄ΈϾΐ΅ΑΘΓΖȱ ёΎΣΆ΋Ζȱ ΦΈΉΏΚϱΑǰȱΐΉΘΤȱΈξȱΘΓІΘΓȱ̐ΣΗΘ΋ΑȱΎ΅Ϡȱд̄ΐΚϟΐ΅ΛΓΑǰȱ ̍΅ΕЗΑȱψ·ΉΐϱΑ΅Ζǯȱ̓΅ΕϟΗΘ΅ΑΘ΅΍ȱΈв΅ЁΘХȱ̄ϥ΅ΖȱΎ΅Ϡȱ ̕ΌνΑΉΏΓΖȱ ΎΘΉϟΑΓΑΘΉΖȱ ΘΓϿΖȱ ΔΕΝΘΓΗΘΣΘ΅Ζǯȱ ̆Ή΍ΘϱΑΝΑȱ Έξȱ ΦΎϱΗΐΝΖȱ ΔΓΏΏЗΑȱ ΚΙ·ǽȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ǾΘ΅΍ȱ ΘЗΑȱ Ά΅ΕΆΣΕΝΑȱ Ύ΅Ϡȱ Φΐ΅ΛΉϠȱ ΦΑϙΕ΋ΐνΑΝΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΐ΋ΎνΘ΍ȱ ΦΑΌϟΗΘ΅ΗΌ΅΍ȱ ΈΙΑ΅ΐνΑΝΑȱ Έ΍ЏΎΓΙΗ΍Αȱ ΅ЁΘΓϿΖȱ ρΝΖȱ πΑȱΘΉϟΛΉΗ΍Αȱπ·νΑΓΑΘΓǯ

Sfortunatamente, come si vede, il brano è però anche uno dei meno significativi del pur breve testo greco che possiamo leggere: una serie di nomi e di duelli, che nel testo latino sono tuttavia amplificati mediante la sottolineatura di particolari tecnici militari49 e l’enfasi nella descrizione della strage: Contra Graeci cognita re arreptis armis tendunt adversum, paulatimque omnes copiae productae, ita utrimque certamen brevi adolevit. Aiax tradito his, qui secum fuerant, cadavere eius infensus Asium Dymantis, Hecubae fratrem, quem primum obvium habuit, interficit. Dein plurimos, uti quemque intra telum, ferit, in quis Nastes et Amphimachus reperti Cariae imperitantes. Iamque duces Aiax Oilei et Sthenelus adiuncti multos fundunt atque in fugam cogunt. Quare Troiani, caesis suorum plurimis nusquam ullo certo ordine aut spe reliqua resistendi 49 Per producere copias: Caes. B.C. 2,1; Tac. ann. 1,63,2; per il nesso certus ordo: Caes. B.C. 3,101; Al. 20.

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dispersi palantesque ruere ad portas neque usquam nisi in muris salutem credere. Quare magna vis hominum ab insequentibus nostris obtruncantur.

Non possiamo avvalerci, inoltre, da questo punto della narrazione, né di Malala né del Cedreno: il primo perché, nella cornice del racconto di Teucro a Neottolemo sui fatti di Troia, proprio con la morte di Achille conclude la narrazione (5,24-28); il secondo perché, dopo la morte di Achille, passa immediatamente al duello tra Filottete e Paride. Darete, invece, fornisce un’altra versione delle vicende immediatamente successive alla morte del Pelide: Alessandro vorrebbe far scempio del corpo dell’eroe, ma Eleno lo convince a restituirlo ai Greci. In modo tanto sintetico quanto in linea con la tradizione (questa volta) omerica, Darete prosegue affermando che Agamemnon eos [scil. Achille e Antiloco] magnifico funere effert Achillique sepulchrum ut faciat a Priamo indutias petit ibique ludos funebres facit (34). Il confronto con il testo di Settimio, d’altra parte, evidenzia, come si è detto, alcuni punti. La struttura sintattica della prima pericope è perfettamente riprodotta da Settimio. Così, anche, per l’immagine di Aiace che consegna ad altri il corpo di Achille per andare a combattere in prima persona; ma mentre in Ditti il Telamonio affidava il corpo del Pelide ai soldati al seguito di Diomede, in Settimio sono indicati più sbrigativamente hi qui secum fuerant. Da questo punto Settimio non risparmia innumerevoli aggiunte alla più semplice struttura del testo greco: Aiace uccide Asio, figlio di Dimante e fratello di Ecuba, per primo. L’aggiunta dein plurimos, uti quemque intra telum, ferit, in quis … serve ad introdurre l’altra coppia uccisa da Aiace: Naste e Anfimaco, capi dei Carii. Intervengono, a dar man forte al Telamonio, Aiace d’Oileo e Stenelo, “uc-

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cidendo quelli delle prime file”, prosegue laconico Ditti. E Settimio, di nuovo con una coppia: multos fundunt atque in fugam cogunt. A questo punto i Troiani, vedendo che molti dei loro alleati – uno stranoȱ·Ή΍ΘϱΑΝΑȱin Ditti, il più neutro suorum in Settimio – hanno la peggio, si ritirano entro le mura: ma la scena, come è chiaro dal confronto fra i due testi, si presenta in modo assolutamente più colorito in Settimio, che a seguire inserisce un’ulteriore intera pericope: quare magna vis hominum ab insequentibus nostris obtruncantur, con quel nostris che non si ritrova nel Ditti greco, né in questo né in altri passi, e che è invece una caratteristica – di ovvia tradizione storiografica latina, e in particolare cesariana – di Settimio. Due i problemi testuali del brano. A fronte del corrotto ΗΙΑ΋Δ΅ΑΘΝΑ del papiro, Viereck ha propostoȱΗΙΑ΅ΔφΑΘΝΑ.ȱǀΗΙΑ΅ΜΣΑΘΝΑǁȱΈвΦΏΏφΏΓ΍Ζ (“andarono incontro. Una volta congiuntisi fra di loro…”): una soluzione accettata da Jacoby, che tuttavia non piace a Ihm, e che – a quanto pare – non sembra compresa da Eisenhut, il quale scrive in apparato:ȱΗΙΑ΅ΔφΑΘΝΑȱ siveȱΗΙΑ΅ΜΣΑΘΝΑ sive simil. Vie., e ritiene che la lezione del papiro sia la corruzione di una glossa scivolata nel testo, e che il senso richiederebbe un ΆΓ΋ΌΓІΗ΍Αǯȱ Per il termine con cui è descritto lo stato di prostrazione dei Troiani e dei loro alleati (ΦΑϙΕ΋ΐνΑΝΑ), si è pensato adȱΦΐ΅ΛΉϟ (G.-H.), ma anche ad Ωΐ΅ȱΐΣΛϙȱ(Ihm, che nel papiro legge la sequenza ΅ΐ΅ΐ΅Λ΋). A livello di tradizioni mitiche, l’episodio della lotta per il corpo di Achille doveva avere grande rilievo già nel ciclo epico, come testimoniano i riassunti di Proclo (Chrest. 172 Seve.), ma anche Quinto di Smirne (3,211ss.): il recupero del corpo del Pelide, infatti, sarebbe stato uno degli argomenti principali sulla base del quale Aiace e Ulisse si

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sarebbero contesi le armi di Achille. Nella versione ‘omerica’ della morte in duello, quella che leggiamo in Quinto, è Aiace, prima di ogni altro, ad accorrere nel punto in cui Glauco, Enea ed Agenore hanno circondato il corpo dell’eroe; Aiace uccide numerosi guerrieri: Agelao, Testore, Occitoo, Agetrato, Aganippo, Zoro, Nisso, Erimanto e Glauco; ferisce anche Enea; accanto a lui sopraggiunge Ulisse, che uccide Pisandro, Areio, Atimnio, Oresbio, prima di essere ferito al ginocchio da Alcone; Aiace, furioso, colpisce Paride, ed è a questo punto che i Troiani si ritirano e i Greci possono riportare alle navi il corpo di Achille. I personaggi troiani nominati in questa scena sembrano derivare invece dalla tradizione omerica. In Il. 16,717-25 è l’unica menzione significativa di Asio, fratello di Ecuba: si tratta in realtà di Apollo che, nelle sembianze di Asio, appare ad Ettore incitandolo ad andarsi a scontrare con Patroclo. Nel brano omerico si insiste sull’anziana età dello zio di Ettore: “Ettore, perché lasci la mischia? Non devi./ Oh se, quanto sono meno forte, tanto fossi più forte di te, sì che malconcio lasceresti la guerra!”. La presenza di Asio come guerriero in campo, dunque, in questo momento della vicenda, ha probabilmente in Ditti il significato del ricorso troiano alle estreme difese, agli ultimi eroi anche anziani che accorrono in battaglia. La specificazione che Asio sia fratello di Ecuba non è superflua: un altro Asio, figlio di Irtaco, era un diverso capo troiano, di cui spesso si fa menzione nell’Iliade. Non appare superflua neanche la menzione di Dimante come padre di Asio (e di Ecuba): sulla genealogia di Ecuba, infatti, già discutevano gli eruditi antichi, tanto che Tiberio amava proporre il tema ai grammatici del suo tempo (Suet. Tib. 70). Le linee genealogiche erano due: una ‘frigia’, che faceva Ecuba e Asio figli di Dimante, e discendenti del

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fiume Sangario; una ‘tracia’, che li riteneva figli del re Cisseo50. Questa seconda versione è quella preferita dai tragici, mentre la prima è omerica. Ditti segue qui, pertanto, la linea omerica, sorprendendo ancora una volta il lettore. Naste e Anfiloco, infine, sono ricordati nel catalogo troiano (Il. 2,867-75), e anche in questo caso si può evidenziare, probabilmente, un senso preciso e pregnante per la loro menzione da parte di Ditti. Di Anfimaco, infatti, “figlio glorioso di Nomione”, Omero afferma che “andava in guerra ricco d’oro come una fanciulla,/ stolto!, ché l’oro non valse a salvarlo da triste rovina,/ ma cadde sotto la mano dell’Eacide, piede rapido,/ nel fiume: il violento Achille si portò via quell’oro”. Pur nella differente fine dell’eroe, dunque, Anfimaco rappresentava – stando all’ipotesto omerico – un esempio di guerriero giovanissimo, che andava in campo agghindato come una fanciulla; per lui Omero aveva riservato una delle apostrofi topicamente rivolte ai giovani guerrieri inesperti (primo fra tutti Patroclo). Ditti sembra farne, proprio collocandolo accanto al vecchio Asio, un ulteriore simbolo delle forze troiane ormai allo stremo, che ricorrono ad anziani e a giovanissimi. Nella sequenza successiva al recupero del corpo di Achille erano narrati il pianto per l’eroe e il suo rogo funebre (IV,13 = PTeb II,64-76). Si trattava, nella tradizione epico-omerica, di uno degli episodi più significativi del ciclo: i capi achei, e con essi tutto l’esercito, nonché le schiave di guerra, e infine la stessa Teti accompagnata dalle Nereidi, piangevano sul feretro di Achille. Dopo il rogo, sul quale venivano sacrificati anche prigionieri troiani, Teti bandiva giochi funebri mettendo in palio le ricchezze del 50

Cfr. Apoll. epit. 3,35; e soprattutto la discussione di Eust. ad Il. 16,717 1082,62ss.

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figlio scomparso. Questa doveva essere la materia degli ultimi libri dell’Etiopide, stando al riassunto di Proclo, e sarebbe stato l’argomento dei libri III e IV dei Posthomerica di Quinto. Il racconto di Ditti, però, che non offre alcuna menzione dei giochi in onore del Pelide, riserva a questo punto una delle differenze più sorprendenti rispetto alla versione omerica. Dopo un brano di ‘raccordo’ tra la scena del campo di battaglia e quella delle navi del campo greco, che sembra tutta attribuibile a Settimio (sed ubi clausis portis finis caedendi factus est), il testo latino – che conviene esaminare per primo, visto che il papiro, in questa sezione, si presenta pesantemente sfigurato – ci dà un quadro ben diverso dello stato d’animo dei Greci per e dopo la morte del Pelide: Graeci Achillem ad naves referunt. Tuncque deflentibus cunctis ducibus casum tanti viri, plurimi militum haud condolere, neque, uti res exposcebat, tristitia commover, quippe quis in animo haeserat Achillem saepe consilia prodendi exercitus inisse cum hostibus; ceterum interfecto eo summam militiae orbatam et ademptum complurimum; et viro egregio bellandi ne honestam quidem mortem aut aliter quam in obscuro oppetere licuerit.

Solo i capi greci sono in lutto per Achille: la maggior parte dei soldati, invece, non sono dispiaciuti, perché serbano il risentimento nei confronti dell’eroe che aveva cercato, per l’amore di Polissena, di tradire l’esercito. L’unica preoccupazione che pervade i soldati è quella di non avere più in forze il più irresistibile campione greco. Il lacunoso testo di Ditti, benché, come di consueto, più scarno rispetto alla versione latina, è altrettanto e chiaramente efficace:

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πΔΉϠȱ ΈвπΑΉ·ΎϱΑΘΉΖȱ ώΏΌΓΑȱ ΉϢΖȱ ΘΤΖȱ ΗΎ΋ΑΤΖȱ ΘϲΑȱ ΑΉΎΕϲΑȱ д̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ ΓЁΈǀΉǁϠΖȱ ΘЗΑȱ Ώ΅ЗΑȱ ΔΣΌΓΙΖȱ ΗΙΑΉΗΘνǽΑ΅ΒΉǯȱǯȱǯȱǾȱΓЁΈξȱǽǾ΅ΑΘΓȱЀΔΓΔΘΉϾΗ΅ΑǽΘΉΖȱǯȱ ǯȱǯǾΎ΅Θв΅ЁΘΓІȱ

Nessuna menzione neanche del lutto dei capi. Solo l’atteggiamento drammaticamente indifferente dei soldati, e il loro rancore per i sospetti di tradimento. A fronte delle amplificazioni di Settimio, che menziona il lutto almeno dei capi, e dalle quali forse trapela un tentativo di edulcorare la brutalità del modello greco (notevole il commento del narratore uti res exposcebat), il testo di Ditti si pone in netto contrasto con la tradizione epico-omerica. Il confronto più puntuale, in questo caso, è con il testo di Quinto, ove l’insistenza sul motivo del ‘compianto’ generale da parte dei Greci è martellante:ȱΔΣΑΘΉΖȱ gemono sul corpo di Achille (3,388), mentre proprio “le genti si sciolgono in lacrime”ȱ Ώ΅ЗΑȱ ΐΙΕΓΐνΑΝΑ (3,401); Δ΅Ηϟȱ si spezza il cuore, e continuamente piangono; e, ancora, davanti alla pira dell’eroe, si dirà:ȱ ΓЁΈνȱ Θ΍Ζȱ ώΉΑȱ ΦΑΤȱ ΗΘΕ΅ΘϲΑȱ ΉЁΕϿΑȱ ΩΈ΅ΎΕΙΖȱ(4,16). Se Quinto ebbe come modello l’Etiopide, possiamo affermare che Ditti prese di mira proprio la sezione del poema attribuito ad Arctino per questa sorprendente e cruda versione paraomerica. È Aiace, sia nel Ditti greco sia in Settimio, a prendersi cura più di ogni altro dei funerali del cugino, raccogliendo per tre interi giorni, sull’Ida, la legna per la pira: πΒ΅ΔνΚΉΕΓǽΑȱ ǯȱ ǯȱ ǯǾȱ ΘϲΑȱ д̄Λ΍ΏΏν΅ǰȱ πΚвǽ϶Αȱ Ύ΅Ϡȱ ΘϲΑȱ ̓ΣΘΕǾΓΎΏΓΑȱπΒνΚΉΕΓǽΑǰȱΎ΅ǾϠȱπΔϠȱΘΕΉϧΖȱψΐνΕ΅ǾΖȱǯȱǯȱǯǾȱ Ά΅ΏΏΓȱǯȱǯȱǯȱΚΓΖȱǯȱǯȱΘϜȱΈξȱΔΙΕλȱΔ΅ΕφΈΕΉΙΗ΅Αȱ̄ϥǽ΅ΖǾȱ Ύ΅ǽϠȱǯȱǯȱǾȱΈ΍΅ΑΙΎΘΉΕΉϾΗ΅ΖȱΘΤΖȱΔΣΗ΅ΖȱψΐνΕ΅Ζ

igitur propere ex Ida adportata ligni vis multa atque in eodem loco, quo antea Patroclo, bustum extruunt.

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Dein imposito cadavere subiectoque igni iusta funeri peragunt Aiace praecipue insistente, qui per triduum continuatis vigiliis labore non destitit, quam reliquiae coadunarentur.

La tradizione omerica, di contro, come possiamo evincere ancora una volta da Quinto, attribuiva ad uno sforzo corale la raccolta della legna per la pira del Pelide (3,675: ΔΣΑΘΉΖȱϳΐЗΖȱπΐϱ·΋Η΅Α). Achille (3,14; così anche in Il. 23,125-6) aveva indicato nel promontorio del Sigeo, ove egli stesso aveva innalzato il tumulo di Patroclo, il luogo in cui avrebbe voluto essere sepolto, se fosse perito a Troia. I Greci, rispettando la sua volontà, erigono la pira funebre proprio in quel luogo. Appare dunque certa l’integrazione (già G.-H.) delle rr. 70-71 del papiro. Sorprende, in Quinto, la mancata menzione del tumulo di Patroclo accanto a quello per Achille, che invece è sepolto insieme ad Antiloco figlio di Nestore (3,739ss.). In Od. 24,78 – nonché in Strab. 13,1,32; Tzetz. Posth. 466s. e Schol. Lyc. 273 – Patroclo, Achille e Antiloco erano sepolti in un tumulo comune al Sigeo. L’ultima pericope dell’attuale capitolo tredicesimo di Settimio era incentrata sul dolore di Aiace per il Pelide, cui era legato da vincoli di sangue, di amicizia, e di enorme ammirazione. Semplice e lineare il testo greco di Ditti: ΍Θ΍ΘΝȱΎ΅ϠȱΚϟΏΓΑȱΎ΅ϠȱΗΙ··ΉΑǽǯǾ΅ȱǯȱǽǯȱǯȱǯǾȱΔΣΑΘ΅ΖȱΘΓϿΖȱ ΏΓ΍ΔΓϿΖȱϊΕΝ΅ΖȱΦΏΎϜȱЀΔΉΕǽΆΣΏΏΓǾΑΘ΅ǯ

Ben più elaborata e complessa la versio di Settimio, che insiste sugli aspetti patetici ed enfatizza ogni particolare che possiamo confrontare (si veda, per tutti, l’esemplare resa diȱΚϟΏΓΑȱ con amicissimum, e l’elaborato sanguine co-

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niunctum per ΗΙ··ΉΑφΖ, nei Glossari chiosato con propinquus 51): solus namque omnium paene ultra virilem modum interitu Achillis consternatus est, quem dilectum praeter ceteros animo summis officiis percoluerat, quippe cum amicissimum et sanguine coniunctum sibi, tum praecipue plurimum virtute ceteros antecedentem.

Il quattordicesimo capitolo del testo latino contiene, in modo piuttosto succinto, due sequenze di diversa importanza e funzione (IV,14 = PTeb II, 76-89). All’entusiasmo dei Troiani per la notizia della morte del Pelide segue l’arrivo di Euripilo, figlio di Telefo, che giunge in soccorso di Priamo con le sue schiere di Misii e Cetei. A entrambe le sequenze la tradizione omerica riserva uno spazio notevole. In Quinto, ad esempio, l’esultanza per la morte di Achille, introdotta da un verso in parte analogo alla pericope del Ditti greco (4,17:ȱ̖ΕЗΉΖȱΈв΅ЇΘвΦΏϟ΅ΗΘΓΑȱ π·φΌΉΓΑ), è descritta attraverso il dialogo fra due anonimi Troiani: il primo si vanta dell’inaspettata gioia (4,20-1: ΩΉΏΔΘΓΑȱǯȱǯȱǯȱΛΣΕΐ΅), sicuro che i Greci, ora che Achille è morto (29: Έ΅΍ΎΘ΅μνΑΓΙȱв̄Λ΍ΏϛΓΖ), si daranno alla fuga; il secondo, più saggio (33: ΔϾΎΑ΅ȱΚΕΓΑνΝΑ), ricorda che i Greci hanno anche altri forti eroi disposti a morire per la vittoria: non è il caso di illudersi sulla fine della guerra. Quinto, in questo modo, gettava un’ombra di presentimento negativo anche sull’esultanza troiana del momento. Non a caso, nei Posthomerica, la narrazione delle vicende in questo punto si ferma, e il resto del quarto libro è dedi51

CGL II, p. 439. Si noti che in Dar. 35, quando Agamennone propone di concedere le armi di Achille ad Aiace, lo fa perché si tratta di un propinquus eius [scil. del Pelide].

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cato all’episodio dei giochi funebri per il Pelide; nel libro successivo, inoltre, proprio la messa in palio delle armi di Achille scatena uno degli episodi più drammatici della versione omerica, il risentimento di Aiace e il suo suicidio. Solo all’inizio del libro sesto (6,116ss.) è collocato l’arrivo di Euripilo, e le sue prime gesta, al fianco di Paride. In sostanza la collocazione dell’arrivo di Euripilo a Troia, come del resto di quello di Neottolemo, era oggetto di varianti funzionali alle strategie narrative dei diversi autori: forse negli Hectoris lytra di Ennio, ad esempio, Euripilo compariva già nell’ambasceria guidata da Priamo per il riscatto del corpo di Ettore, ed era oggetto del commento di un personaggio (Patroclo o Achille) che ne sottolinea il valore: certe Eurupulus hic quidem est: hominem exercitum! (da Cic. Tusc. 2,38)52. Nessuna menzione di Euripilo, infine, in Darete, ove nel duello ‘finale’ Neottolemo combatte con Pentesilea. Profondamente diversa la versione che ritroviamo in Ditti: l’assenza, nella tradizione paraomerica, delle gare in onore di Achille, e la conseguente mancanza di motivazione per il risentimento di Aiace – che solo dopo la caduta di Troia si scontrerà con Odisseo per avere come bottino il Palladio, e, dopo aver subito l’affronto di essere posposto al Laerziade, “sarà trovato morto” (l’esercito sospetterà proprio di Achille e Diomede) – rendevano la narrazione certamente più veloce, e creavano un effetto di potenziamento dell’entusiasmo troiano, in seguito ai due eventi considerati estremamente positivi. Questo dunque il testo, come di consueto semplice ma incisivo, di Ditti, che è vergato su una delle parti più lacunose del papiro di Tebtynis: 52

Fr. CLXXI b Jocelyn, collocato fra gli incerta.

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Λ΅ǽΕΤǾȱΈвώΑȱΔΓΏΏχȱπΔϠȱΘΓϧΖȱ̖ΕΝΗϠΑȱǽǯȱǯȱǯȱǾȱд̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ ΔΉΗϱΑΘΓΖǯȱΓЁȱ·ΤΕȱόΏΔ΍ΊΓΑȱΉǽȱǯȱǯȱǯǾ΅ȱǯȱǯȱǯȱΐ΋ΈǽξǾȱΔΉȬ Ε΍ΓΑΘǽȱǯȱǯȱǯȱΘǾχΑȱд̄ΏΉΒΣΑΈΕΓΙȱπΔϟΑΓ΍΅ΑȱΓΑǽǯȱǯȱǯȱǾȱΐ΋ȱ ΈΙΑΣΐΉΑΓΖȱΉΔǽǯȱǯȱǯȱǾΈΕΓΑȱǽǯȱǯȱǯȱǾΑΘΝΑ

Molti potrebbero essere, come si vede, i confronti con i brani di Quinto citati supra: e probabilmente si può pensare, ancora una volta, ad un ipotesto comune nel ciclo epico. Non ci aiutano, in questo punto, i bizantini, che non menzionano questo episodio. Abbastanza fedele, anche se con le consuete amplificazioni e duplicazioni, la versione di Settimio: Contra apud Troianos laetitia atque gratulatio cunctos incesserat interfecto quam metuendo hoste; hique Alexandri commentum laudantes ad caelum ferunt, scilicet cum insidiis tantum perfecerit, quantum ne in certamine auderet quidem.

Da notare la trasformazione delȱ Λ΅ǽΕΤǾȱ dzȱ ΔΓΏΏφ in coppia endiadica (laetitia atque gratulatio)53; la resa commentum di πΔϟΑΓ΍΅, che si riscontra anche nei Glossari (II, p. 310); la probabile accentuazione del μχȱΈΙΑΣΐΉΑΓΖȱ(scil. “vincere in campo”) in auderet, un concetto attraverso cui Settimio aveva già amplificato un’altra pericope (4,9: lacessentes, si auderent, ad bellandum perȱΔΕΓǽΎ΅ΏΓϾΐΉΑΓ΍). Dopo il quadro dell’esultanza troiana, dunque, è immediatamente introdotto l’arrivo di Euripilo, ma in modo indiretto: a Priamo, che lo aveva chiamato in soccorso, giungono messaggeri per annunciare la presenza del figlio di Telefo, e nipote di Eracle: Ω··ΉΏΓ΍ʌĮȡĮ>ȖϟΑΓΑΘ΅΍ȆȡȚΣΐУǾǰȱΦΔ΅··νΏΏΓΑΘΉΖ ǼЁΕϾΔΙΏΓΑIJ>ϲΑȉȘȜνΚΓΙ@Ȇȡϟ΅ΐΓΖȖΤΕĮЁΘϲΑ 53

Di contro all’equivalenzaȱΛ΅ΕΣ: gaudium attestata nei Glossari: II, p. 475.

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ʌȡϠΑ к̈ΎΘΓΕ΅ ʌ>İıİϧΑ ʌĮȡİțΣΏΉΗΉ@ ϳΐΓΏΓ·φΗ΅Ζ țĮϠȀĮııΣΑΈΕ΅Α>țĮϠʌνΐ@ȥĮȢĮЁΘХIJχΑȤȡȣıϛΑΩΐΔΉΏΓΑ>@πΔвΦΑΈΕΉϟθǯȱ

Ditti sembra dunque non aver sfruttato – almeno esplicitamente – il modulo dell’ ‘arrivo dell’eroe’, attestato fin dall’epica arcaica per Pentesilea (ώΏΌΉȱΈвȱд̄ΐ΅ΊЏΑ)54 e quasi formularmente impiegato da Settimio, per Pentesilea (4,2: per eosdem dies… Penthesilea… supervenit), Memnone (4,4: sequenti die Memnon… supervenit) e ora per Euripilo, in variatio, perché riferito al nuntius: Inter quae nuntius Priamo supervenit Eurypylum Telephi ex Mysia adventare, quem rex multis antea inlectum praemiis, ad postremum oblatione desponsae Cassandrae confirmaverat.

Nella versio latina sono evidenti innanzitutto alcune semplificazioni: nuntius perȱΩ··ΉΏΓ΍, rex perȱ̓Εϟ΅ΐΓΖ. La struttura della prima pericope riproduce il testo greco, ma anticipa – ed enfatizza – il riferimento ai doni che Priamo ha promesso all’eroe, oltre alla mano di Cassandra: così a multis antea inlectum praemiis segue, come aggiuntiva pericope (che modifica la semplice coordinazioneȱ Ύ΅Ϡȱ ǯǯǯȱ Ύ΅Ϡȱ di Ditti): sed inter cetera, quae ei pulcherrima miserat, addiderat etiam vitem quandam auro effectam, et ob id per populos memorabilem. Si tratta, in particolare, del tralcio di vite d’oro che, secondo alcune versioni, Zeus aveva fatto realizzare da Efesto e aveva poi donato a Troo – capostipite della stirpe troiana, padre di Ilo, da cui discendevano Laomedonte e quindi Priamo – in cambio del figlio Ganimede, ‘rapito’ 54

Per Euripilo Quinto impiega l’immagine degli dèi che conducono l’eroe a Troia, in favore di Priamo (6,119-120); si vedano invece Tzetz. Posth. 518:ȱπΔϛΏΌΓΑ; Apollod. ep. 5,12:ȱΦΚ΍ΎΑΉϧΘ΅΍ǯ

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fra gli dèi. Una versione, questa del dono della vite d’oro, che si riscontra – accanto a quella del dono di cavalli ‘fatati’55 – non solo nella scoliastica antica56, ma già nell’Ilias parva (fr. 29 Bernabè). Nella Nékya omerica (Od. 11,521), del resto, l’ombra di Achille ricordava che uno degli avversari più temibili di suo figlio Neottolemo, Euripilo, era stato inviato a Troia, insieme al suo popolo, proprio ·ΙΑ΅ϟΝΑȱΉϣΑΉΎ΅ȱΈЏΕΝΑ. Priamo, che aveva ereditato l’oggetto aureo dall’avo, lo promise in dono ad Astioche, sua sorella e madre (da Telefo) di Euripilo, per convincerla a inviare il figlio in soccorso dei Troiani benché Telefo, oramai morto, avesse giurato ai Greci che nessun Misio avrebbe mosso guerra contro di loro. Astioche, corrotta dal dono, inviò Euripilo a Troia, dove costui avrebbe trovato la morte. Nulla possiamo dire su quale versione fosse contenuta nell’Euripilo di Sofocle, di cui possediamo un papiro (POxy 1175 + 2081b: frr. 206-222 Radt), che si leggeva ancora nel II sec. d.C.57 Difatti, il brano (fr. 211 R. ) in cui un personaggio femminile (chiaramente Astioche), dopo la morte dell’eroe, lamenta la propria sventura attribuendo a se stessa la responsabilità di essersi fatta persuadere (v. 5 σΔΉ΍ΗΉΑ) ad inviare il figlio a Troia, è estremamente lacunoso, e non offre menzione di quali doni siano stati promessi alla donna da Priamo (v. 3 ̓Εϟ΅ΐΓΑ). Uno scolio alla satira sesta di Giovenale (655), piuttosto rabberciato, attribuisce le vicende di Astioche ad Erifile, altro simbolo della corruzione femminile legata all’oro, 55

Schol. ad Eur. Or. 1391. Schol. ad Od. 11,520; ad Eur. Or. 1391; ad Troad. 822; Ptol. Chenn. nov hist. p. 37 Roulez. Non ho trovato riscontri iconografici a tale versione. 57 Vd. ancora, utilissimo, Pearson 1917, I, 146-165; Carden 1974. 56

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per giunta fraintendendo l’origine della vite aurea: ergo cum non posset aliter Priamus eum sollicitare, fecit vitem ex auro et misit ad uxorem eius Eurypilen. Sembra dunque che sul particolare della vite d’oro non vi fosse estrema chiarezza, almeno a partire da un certo periodo (nessuna traccia nei mitografi latini, in primis Igino). Sia Settimio sia Ditti – a quanto dobbiamo concludere dal brevissimo spazio in lacuna del papiro, solo una quindicina di lettere – si limitano ad accennare al prezioso dono, ma con una sensibile differenza. In Ditti la vite aurea sembra indicata come qualcosa di ben noto, con il determinativo. In Settimio, invece, la pericope etiam vitem quandam auro effectam, sembra relativa ad un elemento di cui non solo non si è fatta alcuna precedente menzione, ma di cui si ha una relativa conoscenza anche dal punto di vista del narratore. Si deve pensare che Settimio non conoscesse in modo preciso il retroterra mitico del simbolico oggetto? La successiva pericope, et ob id per populos memorabilem, aumenta i dubbi sull’effettiva comprensione del testo greco da parte di Settimio. Questa specificazione sembra assente in Ditti: si tratta dunque di una sostituzione intenzionale o del tentativo di far fronte ad un riferimento piuttosto oscuro? Oltre ai ricchi doni, Priamo promette ad Euripilo sua figlia Cassandra in sposa: un particolare, anche questo, di cui non abbiamo altre menzioni (nulla si dice nei frammenti del ciclo né in Quinto), e che da Eustazio (ad Od. 11,520s.) sarà semplificato nella promessa da parte di Priamo di concedere all’eroeȱ ΐϟ΅Αȱ ΘЗΑȱ ΌΙ·΅ΘνΕΝΑ. Ma è anche possibile che Ditti abbia enfatizzato, con il nome di Cassandra, una versione in cui la promessa sposa per Euripilo era semplicemente “una delle figlie” di Priamo. Sembra notevole rilevare che, su un piatto bronzeo di età

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imperiale (Londra, Br. Mus. 91), è raffigurata Cassandra che cerca di allontanare Euripilo da Neottolemo: forse una traccia iconografica della rarissima versione esplicitata da Ditti? I Troiani, entusiasti per l’arrivo dell’eroe, lo accolgono benevolmente, con sempre maggiori speranze di vittoria, caduto ormai anche Achille: Ύ΅ϠȱΔ΅Ε΅·ϟΑΉΘ΅΍ȱΉΘǽǯȱǯȱǯΘΓϿΖȱ̏ΙΗΓϿΖȱΎ΅Ϡȱ̍΋ΘνΓΙΖȱ ǯȱ ΉΛΓΑΘΓȱ ΈΉȱ ǽǯȱ ǯȱ ǯǾȱ ΉЁΚΕϱΑΝΖȱ ЀΔ΅ΑΘφΗ΅ΑΘΉΖȱ ΘЗΑȱ ΐΉΏΏϱΑΘΝΑȱ ΦΐΉϟΑΓΙΖȱ πΏΔϟΈ΅Ζȱ д̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ Ύ΅Θ΅Ȭ ΆΏ΋ΌνΑΘΓΖǯȱ

La versio di Settimio, con le consuete amplificazioni, offre un interessante esempio delle modalità di rielaborazione dal greco al latino: ceterum Eurypylus virtute multis clarus Mysiacis modo Ceteisque instructus legionibus summa laetitia a Troianis exceptus spes omnes barbaris in melius converterat.

L’πΔвΦΑΈΕΉϟθȱ di Ditti, infatti, non può non riferirsi ad Euripilo, ma sembra appartenere, nel testo greco, ad una pericope precedente a quella in cui si accenna all’arrivo dell’eroe, introdotta dal Ύ΅Ϡ: costui deve aver “meritato” o “ricevuto in dono (l’oggetto menzionato)” appunto “per il suo valore”. Settimio, a quanto pare, sposta la menzione della virtù di Euripilo nella successiva pericope: virtute multis clarus58. Concludono il quadro della gioia troiana il riferimento (romanizzato: legionibus) alle truppe di Euripilo e quello alle migliori speranze (ΦΐΉϟΑΓΙΖȱ πΏΔϟΈ΅Ζȱ ƿȱ spes omnes … in melius). 58

Sull’equivalenzaȱΦΑΈΕΉϟ΅: virtus cfr. CGL II, p. 225.

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Sul fronte opposto il racconto si focalizza sull’erezione del tumulo di Achille (IV,15 = PTeb II,90-106). Ma alla gioia dei Troiani per la morte dell’eroe non corrisponde, ancora una volta, fra i Greci, un dolore diffuso. Anzi: Aiace, da solo, si vede costretto a “pagare” le genti del promontorio Sigeo per aiutarlo ad innalzare il tumulo al cugino, visto che nessuno vuole farsene carico. Una notazione sorprendente, che muta radicalmente il senso di un dato – d’altra parte ineliminabile – della tradizione mitica, cioè la realizzazione della tomba di Achille al Sigeo, luogo simbolico che doveva essere teatro di eventi importanti della vicenda troiana, quali l’arrivo e il pianto di Neottolemo, il segnale dato da Sinone alla flotta greca, o il sacrificio di Polissena59. La distanza dalla tradizione omerica – rappresentata, ancora una volta, da Quinto: 3,740ss. – era dunque enorme. Il testo di Settimio appare seguire piuttosto da vicino quello di Ditti: ΓϡȱΈξȱк̈ΏΏ΋ΑΉΖȱΗΙΑΏνΒ΅ΑΘΉΖȱΘΤȱϴΗΘν΅ȱд̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ ΉϢΖȱ ЀΈΕϟ΅Αȱ ΚνΕΓΙΗ΍Αȱ ΌΣΔΘΓΑΘΉΖȱ πΑȱ ̕΍·ΉϟУǰȱ ΗϿΑȱ Έв΅ЁΘХȱ Ύ΅Ϡȱ ̓΅ΘΕϱΎΏΓΙȱ ΑΉΙǯȱ ǯȱ ǯȱ Ύ΍ΐΉΓȱ ǯȱ ǯȱ ΑΘΓΖȱ ΘΓϿΖȱ Ώ΅ΓϿΖȱ ̄ϥ΅ΑΘΓΖȱ πΔΉϠȱ ΐ΋ΈξΑȱ ΅ǽȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ Ǿȱ д̄Λ΍ΏΏΉϧȱΔΓ΍φΗ΅ΗΌ΅΍ȱΌ΅ΑϱΑΘ΍ȱ·ΉϟΑΉΗΌ΅΍ȱσΎΈΓΗ΍Ζȱ Α΅ΓІȱ д̄Λ΍ΏΏνΝΖȱ ЀΔϲȱ ̄ϥ΅ΑΘΓΖȱ ΘЗΑȱ πΑȱ ̕΍·ΉϟУȱ Ύ΅Θ΅ΗΎΉΙΣΗ΅΍ȱΐ΍ΗΌϲΑȱΏ΅ΆϱΑΘΝΑǯ

Interim Graeci ossa Achillis urna recondita adiunctaque simul Patrocli in Sigeo sepeliere. cui sepulchrum etiam extruendum ab his, qui in eo loco ha59 Un’altra versione – pare minoritaria – collocava il sepolcro di Achille in un’“isola Bianca” forse nel Ponto Eusino (Apollod. ep. 5,4); qui, e non nelle isole dei Beati, portava invece Achille la madre Teti, nell’Etiopide (come si evince dal riassunto di Proclo Chrest. 172 Seve. = argum. Bernabé).

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bebant, mercede Aiax locat indignatus iam de Graecis, quod nihil in his dignum doloris iuxta amissionem tanti herois animadverteret

Nessuna enfasi sull’urna che raccoglie le ossa di Achille e Patroclo, descritta invece in toni ben diversi sin da Od. 24,71-9 (un’urna d’oro, opera di Efesto e dono di Dioniso) e poi da Quinto (3,731-2: “un’urna molto ampia e solida,/ d’argento, tutta adornata di oro lucente”); notevole lo scioglimento diȱσΎΈΓΗ΍Ζ (locatio nei Glossari 60) in mercede…locat e di ΘΓϿΖȱΏ΅ΓϿΖȱ (ma non possiamo essere sicuri di quale termine vi fosse vicino) in hi qui in eo loco habebant (o habitabant, con EVP). Sicuramente amplificata, infine, la pericope indignatus iam de Graecis, quod nihil in his dignum doloris iuxta amissionem tanti herois animadverteret, che rendeva la ben più semplice (ce lo dice lo spazio del papiro, benché sfortunatamente lacunoso)ȱπΔΉϠȱ ΐ΋ΈξΑǯ

Il leggendario Achilleion della Troade, dunque, che ancora al tempo dei Pisistratidi e oltre continuava ad esercitare un fascino simbolico e ad alimentare rivendicazioni cultuali (ma anche politico-economiche) fra Lesbi e Ateniesi61, che era stato visitato da Alessandro Magno e da Giulio Cesare62, era ridotto, in Ditti, a un forzato – e mercenario – omaggio del solo Aiace. L’ultima sequenza che possiamo leggere sul papiro di Tebtynis è relativa all’arrivo di Neottolemo a Troia. Sul figlio di Achille, nato da Deidamia dopo la partenza del 60

II, p. 289. È quanto sembra evincersi già da una pagina straboniana (13,1,38-39 599-600C). Cfr. Antonelli 2000, 9-58; Aloni 2006, in particolare 87ss. 62 Rispettivamente: Arr. an. 1,2,12; Plut. Alex. 15 e Lucan. 9,95099. 61

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padre per Troia, soprannominato, come il padre, “Pirro”, cioè il rosso (di capelli), la tradizione omerica è piuttosto concorde. Nel ciclo, le vicende che lo riguardano iniziano nella Piccola Iliade, di cui possiamo intuire lo svolgimento seguendo il riassunto di Proclo (206 Seve.), nonché l’argumentum del P. Ryl. 22 (= arg. 2 Bernabè). Dopo la morte del Pelide, Calcante prediceva che Troia sarebbe stata conquistata una volta che Neottolemo e Filottete avessero partecipato alla guerra. A questo punto i Greci inviavano due ambascerie (ove compaiono quasi sempre Odisseo e Diomede), rispettivamente a Sciro nella Ftiotide e a Lemno, per ‘recuperare’ gli eroi. I Troiani, in risposta, invocavano l’aiuto di Euripilo, che però veniva ucciso proprio dal giovanissimo Neottolemo. Le vicende si presentavano in questi termini anche nei drammi attici dedicati al tema, in primis gli Scirii e il Filottete sofoclei. Una variatio dell’ordo degli avvenimenti avrebbe condotto Quinto di Smirne, che nei Posthomerica anticipa il ‘recupero’ di Neottolemo a quello di Filottete (contra il ciclo e Sofocle), probabilmente per dare maggiore risalto alla spedizione sciria, rispetto a quella lemnia, in quanto più suscettibile di effetti patetici (la figura di Deidamia e del vecchio Licomede)63. In Darete, infine, l’arrivo di Neottolemo è legato alla sorte delle armi di Achille, che Agamennone consegna senza avere dubbi ad Aiace, ma che il Telamonio rifiuta, perché nessuno può avere titolo a possederle più di Neottolemo; così Agamennone dà incarico a Menelao di andare a Sciro e portare a Troia il figlio di Achille: vicenda che si conclude nel giro di poche righe, con l’arrivo di Neottolemo (35-36). 63

Mi permetto di rinviare alle pagine dell’introduzione di Quinto, Il seguito..., XL ss.

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Qual è l’atteggiamento di Ditti nella strutturazione degli eventi? Come si è visto, l’arrivo di Euripilo precede, solo in questa versione, l’arrivo di Neottolemo (nonché quello di Filottete): il punto di vista sembra quasi focalizzato sulle speranze dei Troiani, che con la morte di Achille e l’arrivo dell’Eraclide confidano in una rapida vittoria. Ditti sembrerebbe dunque aver accentuato, attraverso questa inversione degli eventi, il rovesciamento repentino dei destini della guerra che avviene dopo l’arrivo di Neottolemo. Tuttavia anche questo momento, come era accaduto per la morte e i funerali del Pelide, non offre spunti epicamente patetici, perché l’arrivo di Neottolemo non è presentato come un intenzionale recupero dei Greci, ma come un evento quasi casuale, o – almeno – del quale non si fornisce alcune spiegazione. Perché Pirro giunge a Troia? Chiamato da chi? Avvisato come? Ditti non offre al lettore nessuno spunto per rispondere a queste domande, ed esclude dal suo orizzonte narrativo gli episodi della profezia di Calcante, dell’ambasceria a Sciro, del saluto fra l’eroe, Deidamia e Licomede. Se ciò è dovuto a una strategia narrativa, va riconosciuto in essa uno spregiudicato antiepicismo; se si tratta invece di una sutura mal riuscita fra gli avvenimenti che erano oggetto della fine dell’Etiopide e quelli dell’inizio della Piccola Iliade, occorre prendere atto di un’operazione letteraria quanto meno discutibile, se non infelice. Pirro, dunque, quasi per caso, “giungeva in quel tempo” a Troia, e trovava sul promontorio del Sigeo la tomba del padre, appena finita di costruire, con un sincronismo che ricorda quelli tipici dei drammi attici. Solo a questo punto apprendeva la tragica fine del padre: πΑȱ Έξȱ ΘХȱ ΅ЁΘХȱ ΛΕϱΑУȱ ̓ϾΕΕΓΖǰȱ ϶Αȱ ̐ΉΓΔΘϱΏΉΐΓΑȱ πΎΣΏΓΙΑǰȱ Ύ΅Θ΅ΑΘφΗ΅Ζȱ ΉЀΕϟΗΎΉ΍ȱ ΘϲΑȱ ΘΣΚΓΑȱ Ύ΅Ϡȱ

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ΘϲΑȱΑ΅ϲΑȱ·΍ΑϱΐΉΑΓΑȱΎ΅ϠȱΔΣΑΘ΅ȱΔΙΌϱΐΉΑΓΑȱ΅ЁΘΓІȱ ΌΣΑ΅ΘΓΑȱΎ΅ΌΓΔΏϟΗ΅ΖȱΘΓϿΖȱΗϿΑȱ΅ЁΘХȱΏ΅ΓϿΖȱǻώΗ΅Αȱ Έξȱ̏ΙΕΐ΍ΈϱΑΉΖȱΓЈΘΓ΍ȱΐΣΛ΍ΐϱΑȱΘ΍ȱσΌΑΓΖǼȱΦΔΓΏΉϟΔΉ΍ȱ πΔ΍ΐΉΏ΋ΘχΑȱΘЗΑȱσΕ·ΝΑȱ̘ΓϟΑ΍Ύ΅ǯȱ

Il lettore rimane ancora una volta frustrato e sorpreso della freddezza con cui Neottolemo affronta l’accaduto. Né segni di pianto né risentimento sono menzionati da Ditti, o aggiunti da Settimio nella rielaborazione latina. Un’immagine di durezza – quasi di distacco – che può essere certamente finalizzata alla caratterizzazione del personaggio Neottolemo nel segno della crudeltà e della spietatezza, ma che certo appare radicalmente meno ‘patetica’ rispetto alla tradizione omerica che faceva della scena di Neottolemo al Sigeo, di fronte alla tomba del padre, una delle più simboliche della vicenda riguardante il figlio di Achille (Posth. 9,46-74). Del resto, anche nel testo di Darete, quando Neottolemo giunge da Sciro a Troia, vehementer circa patris tumulum lamentatus est. E in Malala, al termine del discorso di Teucro, che racconta a Neottolemo la morte di Achille,ȱ̓ϾΕΕΓΖǰȱΦΎΓϾΗ΅Ζ, πΗΘνΑ΅ΒΉȱ Δ΍ΎΕЗΖȱ(5,29,1). Altro elemento della tradizione mitica omerica (ma anche tragica) che scompare nella versione di Ditti è l’apparizione dell’ombra di Achille a Neottlemo, proprio davanti al tumulo: quell’ombra che chiederà a Pirro di ricercare una spietata vendetta sacrificando Polissena. Una scena, invece, presente già nella Piccola Iliade:ȱ Κ΅ΑΘΣΊΉΘ΅΍, riporta Proclo (Chrest. 206 Seve.). Il testo di Ditti, dunque, non sembra amplificato da Settimio, né a livello sostanziale né a livello formale: Per idem tempus Pyrrhus, quem Neoptolemum memorabant, genitus Achille ex Deidamia Lycomedis superveniens offendit tumulum extructum iam ex

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parte maxima. Dein, percontatus exitum paternae mortis, Myrmidonas (gentem fortissimam et inclitam bellandi) armis atque animis confirmat, impositoque faciendo operi Phoenice ad naves atque ad tentoria parentis vadit.

Da notare, oltre alla specificazione exitum paternae mortis perȱ΅ЁΘΓІȱΌΣΑ΅ΘΓΑ, l’insistenza sul tumulus di Achille, “che ancora non è ultimato”, e i cui lavori saranno lasciati in custodia a Fenice. In Ditti manca il particolare ‘tecnico’ della costruzione del sepolcro, espresso – forse – dal semplice ma pregnante participio presenteȱ·΍ΑϱΐΉΑΓΑ, ma compare, con una certa sorpresa, stando al testo di poche righe precedente (tuttavia lacunoso), la coppia ΘϲΑȱΘΣΚΓΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΘϲΑȱ Α΅ϱΑ. Un “tempio” dunque, un “sacrario”, è in fase di costruzione al Sigeo, accanto al tumulo di Achille: forse una traccia di un’autoptica visita al simbolico luogo, dove dal III sec. a.C. l’Achilleion aveva assunto le funzioni, come si è detto, di un vero e proprio ‘luogo sacro’? Ancora da rilevare, infine, la consueta amplificatio dell’apposizione ai Mirmidoni, daȱΐΣΛ΍ΐϱΑȱΘ΍ȱσΌΑΓΖȱa gens fortissima et inclita bellandi, e l’elegante specificazione che Neottolemo, giunto fra i suoi, non li prepara solo militarmente (Ύ΅ΌΓΔΏϟΗ΅Ζ: armis), ma li rincuora: animis. Nell’ultima sequenza che leggiamo sul papiro di Tebtynis si narrano, ancora una volta molto sinteticamente, le vicende successive all’approdo di Neottolemo nella Troade. Il giovanissimo eroe giungeva nell’accampamento greco, alle navi del padre. Qui il primo incontro era con Briseide/Ippodamia. Una scelta, questa del narratore, che rimandava ancora l’incontro di Neottolemo con i duci achei, contrariamente a quanto avviene in Quinto di Smirne. Solo dopo l’omaggio (mancato) al sepolcro di Achille e l’incontro con Briseide, dunque, Neottolemo giungeva

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finalmente dagli Atridi e dagli altri capi, e da questi veniva accolto, rispondendo, a quanto pare dall’ultimo rigo del papiro, anch’egli con un discorso ben composto, sicuramente di incitamento: πΏΌАΑȱ ǽΈξȱ ΉϢΖǾȱ ΘΤΖȱ ΘΓІȱ Δ΅ΘΕϲΖȱ Αϛ΅Ζȱ Ύ΅Ϡȱ ΘχΑȱ ΗΎ΋ΑχΑȱ ǽΉЀΕϟΗΎΉ΍ȱ е̌ΔǾΔΓΈΣΐΉ΍΅Αȱ ΚϾΏ΅Ύ΅ȱ ΘЗΑȱ в̄Λ΍ΏȱΏνΝΖȱ ΔǽΣΑΘΝΑȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ Ǿ΍ΈϱΑΘΉΖȱ ΈвΓϡȱ Ά΅ȱΗ΍ΏΉϧΖȱ ΔΣΑΘΉΖȱ Δ΅Ε΅Ύǽ΅ΏΓІΗ΍ȱ ΘϲΑǾȱ ̐ΉΓΔΘϱȱΏΉΐΓΑȱ ·ΉΑȬ Α΅ϟΝΖȱ ΚνΕΉ΍Αǯȱ ϳȱ Έǽξȱ ΘΓϿΖȱ ΅ЁǾΘϲΑȱ ΔΓ΍ΎϟΏΝΖȱ Δ΅Ε΅ΐΙΌ΋Η΅ΐνΑΓΙΖȱǯȱǯȱǯ

ibi custodem rerum Achillis Hippodamiam animadvertit. Moxque adventu eius cognito in eundem locum a cunctis ducibus concurritur; hique, ut aequum animum haberet, deprecantur. quis benigne respondens etc.

La pericope sull’incontro con Briseide sembra impiegata ad litteram da Malala, nel brevissimo riepilogo delle vicende troiane di Neottolemo inserito nel ritratto dell’eroe (5,9):ȱ̅Ε΍Η΋ϟΈ΅ǰȱΚϾΏ΅Ύ΅ȱΘЗΑȱΘΓІȱв̄Λ΍ΏΏνΝΖȱΔΣΑΘΝΑ. Fedele anche la resa di Settimio, che invece enfatizza il momento dell’incontro con i capi achei, con l’aggiunta della notazione in eundem locum a cunctis ducibus concurritur. Per deprecantur come resa diȱ Δ΅Ε΅Ύǽ΅ΏΓІΗ΍ȱ si veda CGL II, p. 44 deprecantes:ȱΔ΅Ε΅Ύ΅ΏΓІΑΘΉΖ, benché in II, p. 395 si leggaȱΔ΅Ε΅Ύ΅ΏЗ: oro, obsecro, rogo, quaeso. Settimio sembra aver scelto in questo caso l’area semantica più marcata. Sicuramente più forte, invece, ilȱ ·ΉΑΑ΅ϟΝΖȱ ΚνΕΉ΍Αȱ di Ditti rispetto al frequentissimo aequum animum habere impiegato da Settimio64: risuonava certamente, inȱ·ΉΑΑ΅ϟΝΖ, il legame tra padre e figlio che è uno dei Leitmotive della 64

Cfr. CGL II, p. 262:ȱ·ΉΑΑ΅ϟΝΖ: fortiter.

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vicenda di Neottolemo. In tal modo i capi achei rinfrancavano il giovane per la perdita del Pelide, e questo sembra essere, nell’Ephemeris, l’unico spunto in tal senso, per una scena che in Quinto (e probabilmente nell’epos arcaico nonché nel dramma attico) sarà ben altrimenti sviluppata (7,674-734; 8,1-44). Notevole, infine, la resa diȱΔΓ΍ΎϟΏΝΖ in benigne, che di nuovo sposta l’ambito semantico e simbolico della scena: se in Ditti è lecito scorgere un riferimento al fatto che il discorso di Neottolemo sia “ben congegnato”, “fatto ad arte”,ȱΔΓ΍ΎϟΏΝΖ, in Settimio un più neutro benigne fa della risposta dell’eroe un tratto di accondiscendenza65. In realtà, se si guarda proprio al discorso che – indirettamente – Neottolemo rivolge ai capi achei, alla sua strutturazione e alla retorica che chiaramente traspare da esso, sembra quanto mai appropriato il termine di Ditti, e non il benigne di Settimio. Il discorso di Neottolemo, anzi, con la concatenazione quasi sillogistica delle affermazioni, sembra ricordare un monologo di dramma attico, ricco di sententiae e di entimemi. Il papiro ci nega tuttavia la possibilità di ricostruire in termini precisi il testo greco. Il caso ha voluto che gli unici due papiri che ci consentono di leggere porzioni del testo greco di Ditti siano entrambi relativi al libro IV, e quasi contigui. Se infatti il papiro di Tebtynis si interrompe circa a metà dell’attuale capitolo 15, il papiro di Ossirinco 2539 offre un brano – pur estremamente lacunoso – del capitolo diciottesimo. Gli eventi, dall’arrivo di Neottolemo, che arringa i Greci e si distingue subito in battaglia, proseguono in modo serrato: Enea si rifiuta di combattere accanto ad Alessan65 Nei Glossari, ovviamente,ȱΔΓ΍ΎϟΏΓΖȱcorrisponde a varius, al massimo, con sfumatura poetica, a Daedaleus: cfr. CGL II, p. 411.

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dro, che ritiene reo di sacrilegio; i due eserciti si scontrano, ed Euripilo uccide Peneleo e Nireo. A questo punto, nell’ultima sequenza dell’attuale capitolo diciassettesimo, Neottolemo sbalza Euripilo dal carro e, sceso anche lui, lo uccide con la spada. Il cadavere di Euripilo viene portato alle navi, e i Troiani, sconvolti e disperati, si danno alla fuga. Qui inizia il capitolo diciottesimo, e il brano tràdito in P. Oxy. 2539 (editori Barns e Parsons), datato non oltre l’ultimo ventennio del II secolo, dunque di qualche decennio anteriore al papiro di Tebtynis: ǾΘΝΑȱ ЀΔξΕȱ ̈ЁΕǽΙΔϾΏΓΙȱ ǯȱ ǯȱ ǯȱ ΘΓǾϧΖȱ ̖ΕЗΗ΍ȱ Έ΍Έǽȱ ǯȱ ǯȱ Ǿ ΌΣΜ΅ΑΘΉΖȱΔνΐǽΔΓǾΙǽΗ΍ȱǯȱǯȱǯǾΑΘ΅΍ȱΈξȱΎ΅Ϡȱ̓΋ΑνΏΉΝΖȱǽȱ ǯȱǯȱǾ΅ȱΦΔϲȱΘϛΖȱΔϾΕ΅ΖȱΉϢΖȱΘΤȱΗΎǽǯȱǯȱǯ

Il testo offre subito un problema di difficile soluzione (si ricordi, tra l’altro, che né Malala né Cedreno presentano questi avvenimenti), se lo si confronta con la versio di Settimio: igitur postquam fusis hostibus ad naves revertere Graeci, ex consilii sententia Eurypyli cremata ossa atque urnae condita patri remittunt, scilicet memores beneficiorum atque amicitiae. Cremati etiam per suos Nireus atque Peneleus, seorsum singuli.

Manca, come si vede, in Settimio il riferimento ai Troiani, che doveva essere contenuto, probabilmente, in un periodo oveȱǾΘΝΑȱpoteva costituire un participio al genitivo assoluto, riferito all’assemblea dei Greci, e.g. ёΏΏφΑΝΑȱ ΆΓΙΏΉΙΗΣΑǾΘΝΑȱ ЀΔξΕȱ ̈ЁΕǽΙΔϾΏΓΙȱ (decisero di non)ȱ ΘΓǾ ϧΖȱ̖ΕЗΗ΍ȱ˜›œŽȱΈ΍ΈǽϱΑ΅΍ȱ (così già Barns-Parsons). Si deve dunque evincere che Settimio – come in rarissimi altri casi – aveva omesso di menzionare i Troiani. Altro dato che possiamo ricavare dallo spatium dopoȱΉϢΖȱΘΤȱΗΎ[. . . (for-

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seȱΗΎΣΚ΋, come propongono Martin e Stephanie West)66, molto breve, è la sicura assenza, in Ditti, della motivazione per cui i Greci restituiscono a Telefo il corpo di Euripilo, cioè la fedeltà e l’amicizia che avevano con lui a suo tempo sancito: a fronte dell’ampio scilicet memores beneficiorum atque amicitiae, dunque, nel testo greco poteva essere presente, al massimo, un unico sostantivo positivo. Forse proprio lo scilicet di Settimio tradisce questa ennesima amplificatio. Viceversa, alla notazione spaziale su dove fossero recate le ceneri dei due greci, si sostituisce, in Settimio, la specificazione seorsum singuli. Ma c’è ancora un altro problema: la menzione del padre di Euripilo, in questo caso, sembra inopportuna o almeno sorprendente. Telefo, infatti, come si evince anche dal capitolo quindicesimo (ove è alla madre di Euripilo che si rivolge Priamo, non al padre), e come è pacifico in tutte le versioni mitiche a noi note, è a quel tempo oramai morto. Non si vede, dunque, come possano essergli rese le spoglie del figlio. Sulla sorte del corpo di Euripilo la tradizione greca sembra non soffermarsi in modo particolare: nulla si evince dal riassunto di Proclo dell’Ilias parva (206 Seve.); nulla in Apollodoro (ep. 5,12); nulla in Darete e nei bizantini, ove – come si è già detto – è assente l’episodio di Euripilo; nulla, sorprendentemente, in Quinto, che dedica ad Euripilo oltre un libro dei Posthomerica, ma che, dopo la scena dell’uccisione dell’eroe da parte di Neottolemo, con la lancia del padre Achille (8,204-222), non fa più menzione del Telefide. Il solo modello a cui Ditti avrebbe potuto 66

Eisenhut 1969, 117, tuttavia, dalla fotografia del papiro, ritiene che le tracce della lettera seguente il sigma siano compatibili anche con unoȱ Ι: propone dunque ΉϢΖȱ ΘΤΖȱ ЀΈΕϟ΅Ζ, cioè nelle urne di cui spesso si parla in contesti di cremazione.

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attingere, dunque, sembra essere l’Euripilo sofocleo. Nel dramma, da quanto possiamo ricostruire, una delle scene più importanti (almeno quanto a estensione) era incentrata sulla morte dell’eroe: forse in seguito ad un presagio negativo (il canto di un corvo: fr. 208 R.), Astioche attendeva con apprensione l’esito del duello tra il figlio e Neottolemo; giungeva quindi unȱΩ··ΉΏΓΖȱa dare la ferale notizia (fr. 209): Euripilo era stato ucciso dalla stessa lancia di Achille che aveva, a suo tempo, sanato la ferita del padre Telefo (fr. 210,19-28), dunque con una immagine simile a quanto avrebbe scritto Quinto; qui iniziava un kommòs tra Astioche e il Coro (forse di donne troiane o cetee); •ȂΩ··ΉΏΓΖ riprendeva la parola dopo circa venti versi e completava il racconto della morte di Euripilo (fr. 210,49 ss.), rispondendo alla domanda di Astioche sull’eventualità che i Greci avessero fatto scempio del figlio: il corpo di Euripilo era invece salvo, le donne troiane avevano avvolto con drappi e bende il feretro e Priamo, “parlando parole paterne”, lo aveva compianto come un figlio proprio, con un lamento che il messaggero riporta testualmente (fr. 210,76 ss.). La versione sofoclea, come si vede, è dunque diversa da quella di Ditti: probabilmente per sfruttare le potenzialità patetiche del motivo del ΔνΑΌΓΖȱ troiano su Euripilo, Sofocle si soffermava (o introduceva ex novo?) su un segmento mitico che, nel resto della tradizione a noi nota, non sembra essere stato sfruttato. Se Ditti aveva ancora accesso all’Euripilo sofocleo, dunque, intese distanziarsene, con una versione sicuramente meno patetica. Forse non a caso erano scelti i nomi dei due guerrieri uccisi da Euripilo nel suo ultimo assalto, il secondo dei quali è integrabile grazie a Settimio67. Peneleo è, nell’I67

Vd. Pellè 2002.

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liade, un re del contingente beota (2,494): dopo alcune apparizioni, dove si distingue per particolare alterigia insuperbendo contro i Troiani (14,487 ss.), uccide Lìcone (16,335-341), ma nel libro successivo è uno dei Greci che fuggono dall’impeto di Ettore (17,597ss.). Nireo compare solo nel Catalogo (2,671-5): “l’uomo più bello che venne sotto Ilio,/ fra tutti gli altri Danai, dopo il Pelide perfetto./ Debole egli era però; lo seguiva piccolo esercito”. Nel primo sbarco dei Greci in Misia, Nireo aveva ucciso la moglie di Telefo, Iera, che combatteva a fianco del marito. Proprio Nireo e Peneleo sono i due capi greci (oltre a Macaone) uccisi da Euripilo nei Posthomerica di Quinto. Peneleo (7,103-5) è abbattuto con la lancia68. Nireo, a cui Quinto dedica numerosi versi, amplificando il tema della sua bellezza, che però non può giovargli in campo, veniva anch’egli colpito con l’asta (6,372ss.); per il suo corpo si accendeva una mischia furiosa, in cui trovava la morte anche Macaone; erano Teucro e Aiace ad allontanare i Troiani e, finalmente, a dare gli onori funebri a Nireo (e Macaone), non senza un’ultima sottolineatura della sua bellezza, unita però alla fragilità69. La menzione di questi due eroi in quanto uccisi da Euripilo, dunque, accosta il testo di Quinto a quello di Ditti: entrambi, su questo punto, seguivano una medesima tradizione. Nella sequenza successiva iniziava un tassello importante della vicenda troiana: il passaggio di Eleno alla parte greca. Sarà proprio Eleno, nella tradizione paraomerica, a fare da tramite fra i Greci e i ‘traditori’ troiani Enea ed 68

Secondo altri autori (Verg. Aen. 2,424; Tryph. 180) Peneleo sopravviveva fino alla caduta di Troia. 69 In Darete (21) invece, Nireo è ucciso da Enea, senza alcun commento del narratore.

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Antenore. Nella versione omerica, invece, Eleno si sdegna con Priamo perché questi gli ha preferito Deifobo come sposo di Elena, dopo la morte di Paride: così si ritira sull’Ida; ma Calcante rivela ai Greci che solo le sue profezie possono svelare a quali condizioni Troia potrà cadere; l’ennesima spedizione di Odisseo ‘cattura’ o ‘costringe’ Eleno a rivelare questa profezia70. Crise, il sacerdote troiano di Apollo, proprio colui che aveva aperto l’Iliade con la vicenda del riscatto della figlia Criseide, torna ora nel campo greco – quasi a chiudere un cerchio – per informare gli Atridi che Eleno vuole consegnarsi prigioniero. Si tiene un nuovo consiglio, e si decide di inviare da Eleno, che si è rifugiato nel tempio di Apollo (Timbreo?) custodito da Crise, la solita coppia Ulisse e Diomede. Dal testo di Settimio sia gli editori principes del papiro, coadiuvati dai West, sia Eisenhut, hanno cercato di integrare le non poche lacune: At postero die per Chrysem cognoscitur Helenum Priami fugientem scelus Alexandri apud se in templo agere. Moxque ob id missis Diomede et Ulixe tradidit sese ̖Ϝȱ Έξȱ οΒϛΖȱ ΔǾ΅Ε΅·ΉϟΑΉΘ΅΍ȱ ̙ΕϾΗ΋Ζȱ ΉϢΖȱ ΘΓǽϿΖȱ ёΏΏφΑΝΑȱ Ά΅Η΍ΏΉϧΖȱ ΦΔ΅Ǿ··νΏΏΝΑȱ ̸ΏνΑΓΑȱ ΘϲΑȱ ̓ǽΕ΍ΣΐΓΙȱ Δ΅ΕΉϧΑ΅΍Ǿȱ πΑȱ ΘХдȱ ̄ǾΔϱΏΏΝΑΓΖȱ ϡΉΕХȱ ΚΉϾȱ·ǽΓΑΘ΅ȱ Έ΍Τȱ д̄ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑȱ ΦΗΉǾΆφΗ΅ΑΘ΅ȱ ΉϢΖȱ ΘϲΑȱΌΉϲΑǯȱǽǯǯǯȱΓϡȱΆ΅Η΍ΏΉϧΖȱ̇΍ΓǾΐφΈ΋ΑȱΎ΅Ϡȱд̒ΈΙΗΗν΅ȱ ΔΕΓΔǽνΐΔΓΙΗ΍Αȱ ΅ЁΘΓІȱ πΔϠȱ ΗϾΏΏǾ΋Μ΍Αǯȱ д̈ΏΌΓІΗ΍Αȱ Έξȱ΅ЁΘΓϧǽΖȱΔ΅Ε΅ΈϟΈΝΗ΍Αȱ΅ЁΘϱΑȱ

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Quint. 10,345ss.; Apollod. ep. 5,9; Serv ad Aen. 2,166; Tzetz. Posth. 571-579; nella Piccola Iliade (arg. 1 Bernabè) e nel Filottete sofocleo (604-613; 1337-1342) la cattura di Eleno e le sue profezie erano premessa anche per il ‘recupero’ di Filottete.

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Settimio elimina, dal testo greco, alcuni particolari, quali l’indicazione di Apollo come dedicatario del tempio, la specificazione che Crise si rivolge “ai (capi greci)”, sostituita ad un più impersonale cognoscitur; non, però, il riferimento a Priamo, funzionale a distinguere l’Eleno priamide da un pur noto Eleno greco (Il. 5,707). Si noti la possibilità di restaurareȱΦΗΉǾΆφΗ΅ΑΘ΅ȱgrazie alla pregnante resa scelus, che tuttavia non è completato dal sicuroȱΉϢΖȱ ΘϲΑȱΌΉϲΑȱdi Ditti. Di nuovo, nella seconda sequenza, Ditti doveva esplicitare il soggetto del ̇΍ΓǾΐφΈ΋ΑȱΎ΅Ϡȱд̒ΈΙΗΗν΅ȱ ΔΕΓΔǽνΐΔΓΙΗ΍Α, che diviene un implicito missis Diomede et Ulixe in Settimio. L’articolato participio congiunto con cui, nel testo greco, iniziava la scena del dialogo fra Odisseo e Diomede da una parte ed Eleno dall’altra, infine, viene eliminato, non senza una durezza espressiva. Di nuovo il tradidit sese latino consente di ricostruire con una certa sicurezza un originarioȱΔ΅Ε΅ΈϟΈΝΗ΍Αȱ΅ЁΘϱΑ. Più ipotetica, invece, l’integrazione πΔϠȱΗϾΏΏǾ΋Μ΍Α, che in Settimio non sarebbe presente. Si apre a questo punto il problema più grande che emerge (ed emerse già, ovviamente, dall’editio del 1966) dal confronto fra il testo greco e quello latino: una grande porzione di testo – più estesa di quelle a cui pure il confronto fra PTeb e Settimio ci aveva abituati – che compare nella versio, e, al contempo, espressioni greche di cui non sembra esservi traccia nella medesima versio: tradidit sese, deprecatus prius, uti sibi partem aliquam regionis, in qua reliquam vitam degeret semotam ab aliis concederent. Dein ad naves ductus ubi consilio mixtus est, multa prius locutus non metu, ait, se mortis patriam parentesque deserere, sed deorum coactum aversione, quorum delubra violari ab Alexandro neque se neque Aeneam quisse pati qui

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metuens Graecorum iracundiam apud Antenorem agere senemque parentem.

a fronte di ΔΕΓ΅΍ǾΘΓϾΐΉΑΓΖȱ ΓЁȱ ΐνΑΝΑȱ ǽǯǯǯȱ ΆǾ΅Η΍ΏνΝΑȱ σΈΓΒΉΑȱ Ύ΅ΏΉǽΗΣΑΘΝΑȱǯǯǯȱΔ΅ΕǾ΅·ϟΑΉΘ΅΍

Tre ipotesi, tutte legittime, sono possibili, di fronte a questo confronto. Si può pensare, innanzitutto, che sia accaduto un guasto di tipo meccanico nella trasmissione del testo greco (si tratta pur sempre di un textus unicus), tra il rigo 14 e il 15: di qui la mancanza della pericope. Uno scenario, tuttavia, da postulare con estrema cautela. Più plausibile sembra – ed è sembrato agli studiosi – che ci troviamo di fronte ad una pesante rielaborazione di Settimio, il quale ha inteso inserire nel testo un brano incentrato sull’opposizione otium/potere, sul ‘ritiro isolato’ di Eleno, nel solco, forse, di una tematica cara – ad esempio – al Seneca tragico, ma non solo. Una terza possibilità, certamente estrema, è ipotizzare che il brano di Ditti restituito da questo papiro ossirinchita non appartenga al ramo della tradizione dell’Ephemeris greca a cui apparteneva l’antigrafo di Settimio: proprio questo brano sarebbe dunque la prova dell’esistenza di due redazioni distinte dell’opera. Nell’impossibilità di confrontare il papiro con i bizantini, la seconda ipotesi è certamente la più probabile: ma non si possono scartare, a priori, le altre due. In ogni caso, dopo il rigo 15, che contiene appunto una pericope assente in latino, è possibile riscontrare alcuni lemmi che ritroviamo anche in Settimio:ȱ ·ΓΑΉϧΖ per parentes; la menzione di Alessandro; ΔǾ΅ΕΤȱд̄ΑΘφǽΑΓΕ΍ȱ per apud Antenorem.

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Con il tema del venturo tradimento da parte di Enea ed Antenore, che costituiva la svolta della vicenda troiana, si interrompe il papiro e, per noi, la possibilità di confrontare il testo di Settimio e quello di Ditti. Almeno fino ad una prossima ‘scoperta’ papiracea.

3. Settimio e Ditti: il ‘traduttore’ all’opera La modalità di approccio utilizzata nel raffronto tra i papiri e le corrispondenti sezioni della versio latina, può risultare fruttuosa per analizzare due casi – che appaiono chiaramente esemplari – del rapporto fra Ditti e i suoi modelli greci. Nell’episodio del sacrificio di Ifigenia (1,19-23), pur attenendosi alla versione tradizionale del mito, Ditti crea un sorprendente mosaico di fonti mitografiche e letterarie. Ma anche in questo ‘collage’ si possono forse recuperare tessere intertestuali interessanti ed elementi originali in linea con le strategie narrative dell’intera opera. Anche l’episodio del ‘suicidio’ di Aiace è fra i più significativamente alternativi dell’opera (5,14-5): qui Ditti sembra davvero volersi distanziare da tutta la tradizione precedente, epica e tragica, lasciando addirittura la sua ‘firma’ nella spiegazione, indirizzata al lettore doctus, di questa scelta: Aiace non poteva morire prima della presa di Troia; senza di lui, dopo la morte di Achille, i Greci non avrebbero potuto impossessarsi della città.

3.1. Il sacrificio di Ifigenia Il primo libro dell’Ephemeris si conclude con il racconto di uno degli episodi mitici più noti e più ‘frequentati’

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dell’antichità: il sacrificio di Ifigenia alla vigilia della partenza dell’esercito greco radunato in Aulide71. Il passo è successivo ad una sezione riservata ad un sintetico catalogo delle navi (1,17) e ad un breve capitolo nel quale si dà razionalisticamente e ‘geo-morfologicamente’ conto della presenza massiccia di fanti più che di cavalli in virtù della scarsezza di pascoli tipica della Grecia, si rammenta l’assenza del licio Sarpedone (schierato al fianco dei Troiani ma forse troppo noto per non essere menzionato affatto), si chiosa con l’indicazione temporale del quinquennio impiegato per radunare l’esercito (1,18). All’episodio di Aulide Settimio dedica ben cinque capitoli (1,19-23), dotati di una certa articolazione e, sotto diversi aspetti, innovativi rispetto alla copiosa tradizione precedente su questo mitema. In Omero l’episodio del sacrificio non viene menzionato in maniera esplicita: un possibile riferimento obliquo alla vicenda si potrebbe ravvisare in Iliade 1,106-108, ove Agamennone, nel corso della celeberrima assemblea iniziale nella quale viene interrogato Calcante sulle cause della peste che flagella il campo acheo, all’infausto vaticinio dell’indovino, ribatte apostrofandoloȱΐΣΑΘ΍ȱΎ΅ΎЗΑ, “indovino di mali”, poiché le sue profezie gli hanno sempre riservato dei mali. Lo scolio proprio a questo verso (F23 Bernabè = I 41 Erbse) ci conserva una preziosa sintesi del mito72. Altrove nel poema (9,145) compare il nome di Ifigenia (nella più antica variante Ifianassa) tra le figlie di Agamennone, ma nessun accenno a questo particolare segmento mitico. 71 Si vedano in generale le pagine introduttive di Stockert 1992, con ampia bibliografia. 72 Diversamente Pulleyn 2000, 155-156; ma giàȱΓϡȱΔ΅Ώ΅΍Γϟ, come fa notare Eustazio (ad Il. 1, 106 59, 42 ss), percepivano in questa iunctura il riferimento ai fatti di Aulide.

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Nell’ambito del Ciclo, l’episodio doveva essere materia dei perduti Canti Ciprii; la sintesi del brano ci è offerta da Proclo nell’ottavo dei suoi argumenta (EGF p. 32, ll. 55-63 = Chrest. pp. 77-85 Seve.). Il patetismo della vicenda di Ifigenia ispirò gli omonimi drammi delle tre grandi vette del teatro attico di V secolo: oltre ovviamente al celeberrimo racconto che del sacrificio fa il coro dell’Agamennone (vv 184-247), sono note un’Ifigenia attribuita ad Eschilo (TrGrF III F94), una a Sofocle (TrGrF IV F305-312), nonché le Ifigenie euripidee (in Tauride e in Aulide) pervenuteci integralmente73. Anche a Roma i tragediografi della prima stagione teatrale dedicarono all’eroina delle opere che, come di consueto per la tragedia latina arcaica, sono tràdite in veste frammentaria74. Esile quanto sopravvive dell’Ifigenia neviana (fr. 16 Ribbeck), un solo verso che tuttavia sembra denunciare una netta ispirazione alla Taurica euripidea, o meglio, alla versione mitica portata con essa in scena da Euripide: Passo velod hinc vivum, Aquilo, in portum /perferas. Più consistente il lascito dell’Ifigenia enniana (frr. XCIII- CII Joc.) che invece risulta incentrata sull’argomento dell’Ifigenia in Aulide (rispetto alla quale, tuttavia, molteplici sono le divergenze). Imprescindibile, forse anche per Settimio come si vedrà, il ricordo della testimonianza di questo exemplum mitico funzionalizzato ad illustrare vividamente i mala a cui 73

Per l’Ifigenia Taurica, oltre all’oramai classico Platnauer 1938, si vedano ora Cropp 2000 e Kyriakou 2006. Per l’Aulica il già citato Stockert 1992. Si vedano anche gli studi di Lushnig 1988, Kovacs 2003 e Gurd 2005, con osservazioni di carattere generale. 74 Una panoramica nella introduzione al dramma enniano in Jocelyn 1967, 318-24.

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può suadere la religio, in Lucrezio, collocato per di più in apertura, immediatamente successivo al prologo, e dunque in grande evidenza (1,84-100).75 Un breve passaggio del grande poema ovidiano è dedicato al sacrificio della vergine (met. 12,24-38), che nell’atmosfera e nel lessico sembra ricordare il precedente lucreziano, ma che abbraccia la versione del mito con il ‘lieto fine’ del plot della Taurica euripidea e del dramma neviano. Preziosa per valutare quale fosse la versione del mito più diffusa nel I/II secolo d.C. appare la testimonianza dei mitografi greci e latini: Apollodoro, del quale per questa sezione si conserva la sola epitome (3,21-22) in cui si rintraccia per un verso il consueto tentativo di registrare versioni divergenti, per l’altro una distanza significativa da Ditti, come si vedrà, nel ritratto di Agamennone; Igino (fab. 98) nello stile asciutto che lo caratterizza, dà una versione che ingloba un cospicuo numero di dettagli, nella sostanza simile a quella di Settimio, ma distante in alcuni tratti. Tra gli auctores che trattano il mito, rilevante, per converso, risulta l’assenza di questo segmento nella Historia di Darete Frigio, nel quale è sostituito da un genericissimo: Agamemnon Dianam placat. Si è pensato (Canzio 2014, 100-101) che questa omissione intenzionale si situasse nella condotta razionalistica dell’autore e gli consentisse di evitare la menzione dell’intervento divino di Diana, contemplato, come vedremo, in tutte le versioni più tarde. Si è inoltre ipotizzato che Darete, non solo conoscesse ovviamente l’episodio, ma vi alludesse, creando nel lettore una 75

Si veda per questo passo l’ancora fondamentale commento di Bailey 1910, 614-15, nonché Perutelli 1996. Sulla figura di Ifigenia da Ennio a Lucrezio vedi ancora: Rychlewska 1957 e Harrison 2002.

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sorta di orizzonte d’attesa frustrato, utilizzando il verbo placo, che ricorreva anche nell’allusione virgiliana a questo episodio mitico di Aen. 2,116; fondamentale risulterà il commento di Servio a questo locus. Infine, per concludere nella panoramica delle fonti sin qui condotta, anche per questo mitema fertile è il terreno di confronto con i cronografi bizantini, Malala e Cedreno, che riportano entrambi l’episodio. Il primo (5,40 ss.) restituisce una versione più sintetica (circa 16 righe), il secondo (124d-125c) più diffusa (circa 24 righe): se di fatto le varianti mitiche sposate sembrano sostanzialmente congruenti con la versio di Settimio, emergono tuttavia consonanze e dissonanze che inducono ad un’analisi più attenta delle diverse sequenze e dei passaggi del racconto peculiari dell’articolazione che esso assume nell’Ephemeris. Dalle fonti enumerate emergono sostanzialmente due versioni del mito: l’una che presuppone che Ifigenia sia stata effettivamente sacrificata per permettere alla flotta achea di salpare, ma che è, di fatto, rappresentata dal solo Lucrezio, in quanto i famosi versi dell’Agamennone eschileo, a ben vedere, mostrano una certa reticenza nel racconto dell’akmè del sacrificio, pur dandolo per assodato ed essendo esso il motore fondamentale della vendetta di Clitemestra76; l’altra che vede la vergine sostituita in extremis da Artemide con una cerva77, more Biblico, e portata in salvo nel paese dei Tauri, dove presta servizio come sacerdotessa della dea e, in alcuni casi, viene resa persino 76

Ai vv 248-50 il coro sostiene di non aver visto e quindi di rinunciare a narrare il momento concreto dello sgozzamento –ȱΘΤȱΈвȱσΑΌΉΑȱ ΓЄΘвȱΉϨΈΓΑȱΓЄΘвȱπΑΑνΔΝȱ –, pur sostenendo che le téchnai di Calcante non sono prive di compimento. 77 Secondo ulteriori versioni trasformata in gru, in toro o orsa: vd. Anton. Lib. met. 27; schol. Lyc. 183 che si rifà a Nicandro e Fanodemo.

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immortale. Quest’ultima è la variante più diffusa, attestata nel Ciclo, come documentato da Proclo, e che domina le scene greche e romane. Ditti si accorda a questa tradizionale versione del mito, ma non rinuncia ad introdurre elementi e variazioni in linea con i propri caratteri narrativi e con la propria costruzione del racconto. Il capitolo diciannove esordisce con gli antefatti, narra il motivo scatenante dell’ira di Diana: l’uccisione da parte di Agamennone di un animale sacro alla dea. Interessante che Settimio narri innanzitutto l’uccisione dell’animale, ponendola come premessa dell’episodio, dando quindi immediatamente al lettore la chiave della lues che seguirà. Il racconto presenta dunque una sequenzialità logica e cronologica, in accordo con la sistematicità e la razionalità tipiche della costruzione dittiana. Nella maggior parte delle altre trattazioni del mito, all’opposto, il lettore non conosce la causa (qui, come vedremo, della peste) che trattiene gli Achei in Aulide prima che Calcante dia il proprio vaticinio. Il solo Proclo, nell’argumentum che sintetizza questo episodio così come veniva narrato nei Kýpria (EGF p. 32, ll. 55-63 = Chrest. pp. 77-85 Seve.), mostra una sequenza simile (ma contenutisticamente sensibilmente diversa):ȱ Θϲȱ ΈΉϾΘΉΕΓΑȱ ωΌΕΓ΍ΗΐνΑΓΙȱ ΘΓІȱ ΗΘϱΏΓΙȱ πΑȱ ̄ЁΏϟΈ΍ȱ в̄·΅ΐνΐΑΝΑȱ πΔϠȱ Ό΋ΕЗΑȱ Ά΅ΏАΑȱ σΏ΅ΚΓΑȱ ЀΔΉΕΆΣΏΏΉ΍Αȱ σΚ΋ΗΉȱΎ΅ϠȱΘχΑȱ̡ΕΘΉΐ΍Αǯ

Sorprendente quanto i cronografi bizantini omettano questo particolare fondamentale del mito. Se Malala non accenna affatto al colpevole atto di Agamennone, imputando l’impossibilità di salpare esclusivamente ad una tempesta sopraggiunta ex abrupto, per placare la quale Calcante vaticina, senza ulteriori spiegazioni, la necessi-

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tà di sacrificare la figlia del comandante, Cedreno inserisce in maniera quasi avventizia questo elemento come spiegazione secondaria e marginale di “alcuni”:ȱ Γϡȱ Έξȱ ΓЁȱ Έ΍Τȱ ΘϲΑȱ ΛΉ΍ΐЗΑ΅ȱ ΘΓІΘϱȱ Κ΅Η΍ȱ ΗΙΐΆϛΑ΅΍ǰȱ ΦΏΏΤȱ Έ΍Τȱ Θϲȱ ΅Ϩ·΅ȱ ΐΉ·ϟΗΘ΋Αȱ Δ΅ΕΤȱ Θϲȱ ϡΉΕϲΑȱ ΘϛΖȱ ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖȱ ΘΓΒΉІΗ΅΍ȱ Ύ΅Ϡȱ ΦΑΉΏΉϧΑȱ ΘϲΑȱ ̝·΅ΐνΐΑΓΑ΅ǰȱ Ύ΅Ϡȱ πΔϠȱ ΘΓϾΘУȱ ΐκΏΏΓΑȱ ΏΓ΍ΐ΍ΎχΑȱ ΑϱΗΓΑȱ ·ΉΑνΗΌ΅΍ǯȱ Ci si potrebbe chiedere se il

fatto che i bizantini sorvolino su questo aspetto celi una precisa finalità narrativa, poiché in concreto produce l’immediata conseguenza di oscurare la luce negativa in cui viene proiettato, con esso, il personaggio di Agamennone. Tuttavia, appare più sensato pensare, data la notevole sintesi che caratterizza i cronografi rispetto a Settimio in questa sezione, che ciò sia stato dettato dall’esigenza di trascurare una certa dose di particolari. I bizantini avranno probabilmente scelto di includere gli snodi fondamentali della vicenda tralasciando quanto, nella loro prospettiva, avesse un peso minore: un atto di hýbris, come si configura nella maggior parte delle fonti, aveva forse, per il loro retaggio culturale, uno scarso valore e poteva dunque, a buon diritto, essere omesso senza forti ripercussioni sulla coerenza narrativa del brano. Proprio in virtù di questa omissione, non risulta pertanto semplice capire se questa scena fosse contemplata nell’Ephemeris greca, ma considerando la aderenza particolare di Settimio al testo greco per ciò che concerne la tessitura narrativa, tanto più in questa primissima parte dell’opera, sembra si possa comunque ipotizzare che la sequenza avesse un analogo svolgimento anche in Ditti. L’atmosfera che regna tra le schiere achee è quella di impazienza, festinatio, di salpare alla volta di Troia, un’impazienza che farà emergere, per converso, con maggiore forza la frustrazione dell’esercito che domina la scena suc-

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cessiva. L’inquietudine degli Argivi è un tratto che ben focalizzava Ennio, come ci attesta uno dei frammenti più estesi della sua Ifigenia (fr. 200 Jocelyn) tràdito da Gellio (19,10,12): il coro formato da soldati78 lamenta il lungo periodo di inattività neque domi nunc nos nec militiae sumus / imus huc, hinc illuc; quom illuc ventum est, ire illinc lubet.

Di Agamennone si precisa la carica di comandante supremo dell’esercito (quem a cunctis regem omnium declaratum supra docuimus), un ruolo che perderà a causa della propria renitenza al sacrificio, e che riacquisterà solo nel momento in cui gli Achei, che pure lo rispettavano non diversamente da un genitore (optimum consultorem sui non secus quam parentem miles omnis percolebat), si saranno assicurati che i suoi sentimenti paterni non siano più d’intralcio agli interessi della spedizione che, in quanto comandante, ha il compito di curare e preporre ad ogni cosa (1,23). Agamennone è stato nominato pubblicamente e ‘democraticamente’ rector omnium al capitolo sedicesimo, con una modalità di votazione dal sapore realistico (con la quale tuttavia non sembrano esservi riscontri nei testi antichi): ciascun soldato era chiamato ad indicare su tavolette un nome a sua scelta e ne risultava vincitore Agamennone consensu omnium. Questa scelta assolutamente concorde dell’esercito acheo, ribadita anche in questa pericope da a cunctis, viene effettuata su parametri diversi dal valore militare, ma orientati per lo più in senso economico-politico: ancora al capitolo sedicesimo, difatti, Settimio commenta l’elezione di Agamennone giudicandola meritata, per il 78 Una delle maggiori innovazioni rispetto all’Ifigenia in Aulide, a cui il dramma pare ispirato, ove, come si ricorderà, il coro era formato da fanciulle di Calcide.

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fatto che la guerra si muoveva per conto degli interessi di Menelao e propter magnam opum vim, che gli aveva guadagnato la massima considerazione al di sopra degli altri re greci. Si tratta certamente di un tratto, questo, di realismo e pragmatismo militare e politico, eppure non del tutto estraneo alla tradizione precedente: si pensi alle analoghe conclusioni sulla potenza di Agamennone in Tucidide (1,9,3-4): lo storiografo ateniese attribuisce all’Atride un dominio esteso su isole e città, sulla scorta di un noto passo del secondo libro dell’Iliade (2,101-109), e proprio in virtù di tale dominio egli sarebbe stato in grado di radunare l’esercito acheo, al quale avrebbe ispirato terrore79. Le dinamiche di attribuzione e, soprattutto in questo passo, di sottrazione e restituzione della carica di comandante sono un particolare che accomuna in maniera precipua la trattazione dittiano-settimiana con quelle di Malala e Cedreno. Viceversa nelle altre fonti questo particolare tratto, se vogliamo, di impronta squisitamente militare non sembra si possa reperire. Una divergenza si nota tuttavia tra Settimio e Malala: in quest’ultimo difatti, la proclamazione di Agamennone sembra avvenire solo al termine di questa sezione dedicata ad Ifigenia e non prima:ȱΎ΅ϠȱΏΓ΍ΔϲΑȱΦΑ΋·ΓΕΉϾΌ΋ȱΆ΅Η΍ΏΉϿΖȱπΎΉϧȱπΔϠȱΔΣΑΘΝΑȱϳȱ в̄·΅ΐνΐΑΝΑȱπΎȱΘΓІȱπΒΔΉΈϟΘΓΙ. Ciò comporta certamente l’assenza di una ‘macchia’ sull’immagine di questo personaggio che, come si vedrà, in Settimio non risulta sempre così nitida. L’uccisione dell’animale viene qui presentata come evento fortuito e casuale, non all’interno di una battuta di caccia organizzata: 79

Evidenzia il riferimento economico-pragmatico tucidideo già Hornblower 1991, 31-33.

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longius paulo ab exercitu progressus (scil. Agamemnon), forte conspicit circa lucum Dianae pascentem capream etc.

Gli avverbi sottolineano l’accidentalità della circostanza, che non appare tale, viceversa, ad esempio in Proclo, Apollodoro e Igino, ove si sottolinea che l’uccisione dell’animale ha avuto luogo all’interno di una battuta di caccia (rispettivamente:ȱπΔϠȱΌ΋ΕЗΑ in Proclo,ȱΎ΅ΘΣȱΌχΕ΅Α in Apollodoro, in venando in Igino, cum venatur in Servio). Si tratta di un elemento che contribuisce a connotare come ‘preterintenzionale’ l’atto da parte di Agamennone80. Una sfumatura che appare in qualche modo analoga a quanto si legge nella rievocazione che della vicenda fa l’Elettra sofoclea (v. 567): Agamennone, infatti, si allontana momentaneamente dall’accampamento ΌΉκΖȦȱΔ΅ϟΊΝΑȱΎ΅ΘвΩΏΗΓΖǯȱ L’animale che l’eroe iaculo transfigit è da Settimio indicato come caprea. Il significato di questo termine non è assolutamente scontato o banale e oscilla tra quello di “capra selvatica” e di “capriola”81, ma nei glossari risulta essere traduzione diȱΈΓΕΎΣΖ. Le fonti, d’altro canto, ci restituiscono due varianti che ben si accordano l’una proprio al significato di “capra”, l’altra a quello di “capriola”, dunque “cerva”. 80 Sembra risuonare in questa scena dittiana l’eco delle considerazioni aristoteliche sul concetto diȱΥΐ΅ΕΘϟ΅ȱproprio dei protagonisti dei ‘migliori drammi’ (poet. 1453a) e in generale dell’uomo (E.N. 1135b). 81 In Varrone (ling. 5,101): caprea a similitudine quadam caprae, ma nelle numerose occorrenze pliniane sembra sia accostata per lo più alla capriola poiché ricorre spesso in binomio con cervus/i (8,228,06; 10,191,01; 11,124,01; 11,191,04; 11,222,03; 29,067,08). L’assimilazione con il capriolo sembra sia suggerita in maniera particolare anche dall’aggettivo che accompagna il termine in Virgilio (Aen. 10,725, fugax) e da Orazio (epod. 12,26), ove è un paragone antonomastico: “come l’agnello teme il lupo capreaeque leones”.

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Il passo più antico per tradizione diretta è quello dell’Elettra sofoclea (vv 564-69): il drammaturgo si sofferma sul particolare descrivendo persino il manto screziato della cerva (ΗΘ΍ΎΘϲΑȱΎΉΕΣΗΘ΋ΑȱσΏ΅ΚΓΑ). Nel riassunto dei Kýpria Proclo riferisce che Agamennone avrebbe colpito una cerva (Ά΅ΏАΑȱ τΏ΅ΚΓΑ). Apollodoro, dà due diverse interpretazioni dell’ira di Artemide: secondo alcuni proprio l’uccisione di una cerva (σΏ΅ΚΓΑ) durante una battuta di caccia ad Icario, alla quale aveva aggiunto un’espressione dispregiativa alla dea, secondo altri il mancato sacrificio, da parte del padre Atreo, dell’“agnella d’oro”, l’animale nato tra le sue greggi che egli aveva promesso di sacrificare alla dea ma che invece tiene per sé custodendolo in un’urna. In Igino l’ira di Diana trattiene le truppe in Aulide quod Agamemnon in venando cervam eius violavit superbiusque in Dianam est locutus. In Servio infine (in Aen. 2,116), si parla di una cerva sacra alla dea: Agamemnon Dianae cervam cum venatur occidit ignarus. Sul fronte opposto, troviamo la testimonianza di una enigmatica figura di erudito alessandrino, Tolomeo Chenno, che, all’alba del II sec. d.C., nella suaȱΎ΅΍ΑχȱϡΗΘΓΕϟ΅ȱ epitomata da Fozio (cod. 190 ed. Budé), collage mitografico sospettato di para-erudizione, laddove riferisce che al comando dell’esercito acheo vi sarebbe stato Palamede in luogo di Agamennone, dà come motivazione proprio l’omicidio, da parte di costui, di unaȱ΅ϩ·΅ȱΦ·Εϟ΅Αȱ(p. 150b). Lo schol. ad Hom. Il. 1,108-110 (F 23 (I) Bernabé) parla dell’uccisione della “sacra capra allevata nel bosco sacro di Artemide”:ȱ ΘχΑȱ ϡΉΕΤΑȱ ΅Ϩ·΅ȱ ΘχΑȱ ΘΕΉΚΓΐνΑ΋Αȱ πΑȱ ΘХȱ ΩΏΗΉ΍ȱ΅ЁΘϛΖ (cfr. Settimio: circa lucum Dianae). Come si è già accennato, tra i bizantini il solo Cedreno riporta in maniera cursoria e, attribuendolo ad un generico ΓϡȱΈν, questo particolare e, come si è visto, l’animale menzionato è

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una capra, per di più di grandi dimensioni,ȱ΅ϩ·΅ȱΐΉ·ϟΗΘ΋Α (forse perché selvatica e dunque una caprea?). In conclusione sembra si possa inferire che la versione più antica del mito, attestata nei ̍ýpria (per il tramite di Proclo), in Sofocle, nei mitografi (che, come si sa, si accostano al mito con un intento più documentario che non mitopoietico) e in Servio, sia quella che attribuisce ad Agamennone l’uccisione di una cerva. La diffusione di questa variante è confermata anche da un’evidenza iconografica: un affresco pompeiano (Pompei VI 15,1), la sola rappresentazione conservata per questo segmento mitico82, raffigura proprio Agamennone, con la spada sguainata, nell’atto di uccidere quella che appare indubbiamente una cerva. A partire da un certo periodo si sarebbe diffusa una variante alternativa, quella della capra, la cui più antica testimonianza è data da Tolomeo Chenno, seguito dallo scolio iliadico, e dal Cedreno. Questi ultimi si rifanno evidentemente a Ditti: fatto noto per il Cedreno e dichiarato per lo scoliasta che parla dell’episodio come narrato dai ΑΉЏΘΉΕΓ΍ (tecnicamente gli autori da Callimaco in poi) e (appunto) da Ditti: πΑΘΉІΌΉΑȱ Γϡȱ ΑΉЏΘΉΕΓ΍ȱ ϳΕΐ΋ΌνΑΘΉΖȱ ϡΗΘΓΕΓІΗ΍Αȱ ϵΘ΍ȱ ΎΘΏǯȱ e ancora: ψȱ ϡΗΘΓΕϟ΅ȱ Δ΅ΕΤȱ ΔΓΏΏΓϧΖȱ ΘЗΑȱΑΉΝΘνΕΝΑȱΎ΅ϠȱΔ΅ΕΤȱ̇ϟΎΘΙϞȱΘХȱ·ΕΣΜ΅ΑΘ΍ȱΘΤȱ̖ΕΝϞΎΣ. In Ditti si parlava dunque di una ĮϥΒ? È possibile, ma è altresì possibile che lo scoliasta e Cedreno leggessero il Cretese per il tramite della traduzione di Settimio, ove il termine latino caprea, di significato ambivalente, data l’assonanza con il più noto capra, certamente più familiare ad un greco, abbia indotto in confusione. Resterebbe tuttavia escluso da questo quadro Tolomeo Chenno, la cui testimonianza fa invece propendere per la 82

Vedi Touchefeu- Krauskopf 1981, 262.

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diffusione in questa tradizione para-omerica (si ricordi che il Chenno è noto per il poema Antiomero), in cui anche Ditti si inscrive, di una variante che sostituisce peraltro ad un animale nobile come la cerva uno che nell’immaginario collettivo e popolare era ritenuto intemperante e ‘pazzo’83. In Settimio, unica motivazione (in base a questa sezione iniziale) a destare l’ira divina, risulta essere l’abbattimento ‘ingenuo’, come si vedrà, da parte di Agamennone di una capra selvatica/capriola che, trovandosi nel lucus sacro a Diana, era animale consacrato alla dea. L’Atride è difatti descritto come imprudens religionis: l’aggettivo è certamente da intendere come “mancante di prudentia”, di avvedutezza, di cautela. In definitiva non sembra si possa inferire che il comportamento di Agamennone derivi da una hýbris deliberata, dalla precisa volontà di trasgredire un monito divino noto, ma piuttosto da un’imprudenza appunto, quella di chi non ha valutato attentamente le conseguenze del proprio agire. In questo senso ben si accorda al commento di Servio (ad Aen. 2,116), che lo giudica ignarus (vedi supra). Non concorda del tutto con questa interpretazione il Merkle (1988, 154-56), il quale ravvisa in Agamennone il protagonista dell’intera sezione, che si configurerebbe come una sorta di ‘parabola tragica’ dell’eroe, articolata in tre momenti: empietà, oracolo, destituzione dal comando. La tradizione, del resto, conferisce grande rilevanza all’hamartìa, per seguire l’imprinting tragico di Merkle, dell’Atride. Nelle fonti greche e latine, difatti, vi sono due elementi, che si 83 Per questa credenza si vedano Varr. r. r. 2,3,5; Plinio 8,202 (Archelaus) = 28, 153; Geop. 18,9-5. Per la disamina di questa credenza e per un’indagine a tutto campo sul patrimonio folklorico antico in prospettiva comparata con quello del Meridione italiano, si veda ora Lelli 2014.

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combinano tra di loro e si intrecciano in diversi modi, a far scaturire l’ira della dea: l’uccisione di un animale (sacro o meno) e un classico achreios logos, con cui Agamennone si sarebbe vantato di tale uccisione a dispetto di Artemide oppure avrebbe provocato la divinità. Nei Kýpria, stando alla testimonianza di Proclo (Chrest. 80 Seve.), Agamennone, colpita la cerva durante una battuta di caccia (cfr. supra), avrebbe detto di “superare anche Artemide”:ȱ ЀΔΉΕΆΣΏΏΉ΍Αȱ σΚ΋ΗΉȱ Ύ΅Ϡȱ ΘχΑȱ ӣΕΘΉȬ ΐ΍Α. Nell’Elettra sofloclea, dopo aver abbattuto l’animale nel sacro bosco della dea “pronunciò parole di vanto” (vv. 564-69) (πΎΎΓΐΔΣΗ΅ΖȱσΔΓΖȱΘ΍ȱΘΙ·ΛΣΑΉ΍ȱΆ΅ΏЏΑ). In Apollodoro il vanto di Agamennone sembra il solo motore dell’ira della dea: πΔΉϠȱΎ΅ΘΤȱΌφΕ΅ΑȱπΑȱэ̌Ύ΅ΕϟУȱΆ΅ΏАΑȱ σΏ΅ΚΓΑȱ ΉϨΔΉΑȱ ΓЁȱ ΈϾΑ΅ΗΌ΅΍ȱ ΗΝΘ΋Εϟ΅Ζȱ ΅ЁΘχΑȱ ΘΙΛΉϧΑȱ ΓЁΈвв̄ΕΘνΐ΍ΈΓΖȱΌΉΏΓϾΗ΋Ζ, “dopo aver colpito una cerva

durante una battuta di caccia a Icaria, disse che neppure Artemide, se avesse voluto, avrebbe potuto salvarla”. Nello scolio iliadico invece, i due motivi si sommano, con la già citata variante della capra:ȱΈ΍ΤȱΘϲȱΚΓΑΉІΗ΅΍ȱ΅ЁΘϲΑȱ ΘχΑȱϡΉΕΤΑȱ΅Ϩ·΅ȱΘχΑȱΘΕΉΚΓΐνΑ΋ΑȱπΑȱΘХȱΩΏΗΉ΍ȱ΅ЁΘϛΖȱΎ΅Ϡȱ ΔΕϲΖȱ ΘΓϾΘУȱ Ύ΅ΙΛ΋ΗΣΐΉΑΓΑȱ ΉϢΔΉϧΑȱ ϵΘ΍ȱ ΓЁΈξȱ ψȱ ӣΕΘΉΐ΍Ζȱ ΓЂΘΝΖȱ ΪΑȱ πΘϱΒΉΙΉ, “perché aveva ucciso la sacra capra

allevata nel sacro bosco della dea e oltre a ciò si era vantato che neanche Artemide l’avrebbe colpita in questo modo”. In Tolomeo Chenno troviamo la sola uccisione della capra, di cui si è già detto. In Igino il motivo dell’uccisione dell’animale sacro alla dea si combina con quello della superbia: quod Agamemnon in venando cervam eius violavit superbiusque in Dianam est locutus. In Servio, Agamennone colpisce, come si è detto, ignarus, la cerva di Diana, per cui e contrario scompare il motivo della hýbris e anzi si esalta quello della inscitia. Malala (vedi su-

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pra), omette in toto questo elemento, mentre il Cedreno, che, come si ricorderà, lo inserisce come spiegazione alternativa, di pochi, calca sull’abbattimento dell’animale, in questo caso la capra, vicino ad una zona sacra ad Artemide, con un infinito sostantivato che ricorda la pericope dello scolio iliadico:ȱΈ΍ΤȱΘϲȱ΅Ϩ·΅ȱΐΉ·ϟΗΘ΋ΑȱΔ΅ΕΤȱΘϲȱϡΉΕϲΑȱ ΘϛΖȱ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖȱΘΓΒΉІΗ΅΍ȱΎ΅ϠȱΦΑΉΏΉϧΑȱΘϲΑȱ̝·΅ΐνΐΑΓΑ΅. Si segnala la vaghezza al riguardo dell’Agamennone eschileo (vv. 201-202) e delle Ifigenie euripidee (IT. 20-21; IA. 89-91). In definitiva nelle fonti sembra ben attestato l’aspetto della superbia e del vanto di Agamennone, che in Settimio, a giudicare da questa prima sequenza, non trova spazio, a confermare, in linea con quello che sembra essere il significato più calzante di imprudens, la sostanziale involontarietà del gesto e a dare una prima pennellata che, accostandosi ad altre all’interno dell’episodio, comporrà il ritratto dell’Atride ‘padre pietoso’. La seconda sequenza presenta le immediate conseguenze del gesto di Agamennone: Neque multo post irane caelesti an ob mutationem aeris corporibus pertemptatis lues invadit. Atque interim in dies magis magisque saeviens multa milia fatigare et promiscue per pecora atque exercitum grassari. Prorsus nullus funeri modus neque requies; uti quidque malo obvium fuerat, vastabatur. Le primissime parole di questa sezione rappresentano una sorta di aprosdòketon per il lettore, che dopo essere stato indotto a considerare causa certa della lues così vividamente descritta l’uccisione della caprea da parte di Agamennone, apprende, accanto alla spiegazione tradizionale – e irrazionale – (ira deae), anche una motivazione ‘fisiologica’ e che presuppone una prospettiva razionalistica (ob mutationem aeris). Si tratta di un procedimento che

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l’autore mette in campo anche altrove. In 2,30, sezione dedicata al racconto delle vicende che occupano il primo libro dell’Iliade, alla vigilia dell’altra ben più nota pestilenza, Settimio accosta alla motivazione tradizionale dell’ira di Apollo, sulla quale tuttavia tutti sembrano concordi (uti omnibus videbatur), la possibilità che esistesse un’altra non ben circoscrivibile spiegazione: incertum alione casu an, uti omnibus videbatur, ira Apollinis morbus gravissimus exercitum invadit etc.84 Le pericopi appaiono del tutto simili sintatticamente (due disgiuntive) e in entrambi i casi si dà maggior rilevanza alla spiegazione tradizionale e irrazionale: in 1,19 mettendola in prima posizione e legandola alla spiegazione di fatto già fornita nella sequenza precedente; in 2,30 inserendo la precisazione uti omnibus videbatur. Eppure Settimio non rinuncia ad inserire un dubbio di matrice razionalistica, in linea con la sua vocazione alla concretezza e al razionalismo. Timpanaro (1987,174) intravede in questa scelta una sorta di lusus con il lettore, che ben sa, nonostante la motivazione venga presentata come incerta, che essa risiede nell’ira della divinità e la vedrà di fatto confermata dal resto del racconto. Dal punto di vista mitico l’intera sequenza introduce nel mitema di Ifigenia una variante di peso, che presenta rarissimi confronti: il motivo della pestilenza, appunto. La maggior parte della tradizione parla diȱΩΔΏΓ΍΅, “impossibilità di navigare” dovuta a venti contrari o ad una tempesta. Così nei Kýpria epitomati da Proclo: μ΋ΑϟΗ΅Η΅ȱΈξȱψȱ ΌΉϲΖȱπΔνΗΛΉΑȱ΅ЁΘΓϿΖȱΘΓІȱΔΏΓІȱΛΉ΍ΐЗΑ΅ΖȱπΔ΍ΔνΐΔΓΙΗ΅, 84

Vedi anche, più avanti, 3,15, a proposito di Pentesilea quae regina Amazonibus incertum pretio an bellandi cupidine auxiliatum Priamo adventaverat.

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“la dea infuriata li trattenne dalla navigazione inviando tempeste”. Lo scolio omerico più volte citato parla parimenti di ΩΔΏΓ΍΅. Per questa sezione si dispone anche della celeberrimaȱ ΔΣΕΓΈΓΖȱ dell’Agamennone, in cui il coro si dilunga nella descrizione dei venti sfavorevoli che si associano ad una tempesta (vv. 192-197): ΔΑΓ΅ϠȱΈȝΦΔϲȱ ̕ΘΕΙΐϱΑΓΖȱΐΓΏΓІΗ΅΍ȱȦȱΎ΅ΎϱΗΛΓΏΓ΍ǰȱΑφΗΘ΍ΈΉΖǰȱΈϾΗΓΕΐΓ΍ǰȱ Ȧȱ ΆΕΓΘЗΑȱ ΩΏ΅΍ȱ Ȧȱ Α΅ЗΑȱ ΘΉȱ Ύ΅Ϡȱ ΔΉ΍ΗΐΣΘΝΑȱ ΦΚΉΈΉϧΖǰȱ Ȧȱ Δ΅Ώ΍ΐΐφΎ΋ȱ ΛΕϱΑΓΑȱ Θ΍ΌΉϧΗ΅΍ȱ Ȧȱ ΘΕϟΆУȱ Ύ΅ΘνΒ΅΍ΑΓΑȱ ΩΑΌΓΖȱ в̄Ε·ΉϟȬȦΝΑȱ “i venti provenienti dallo Strimone, causa di

cattivo indugio, fame, sosta forzata e sbandamento d’uomini, distruzioni di navi e gomene, allungando il tempo, disseccavano, logorandolo, il fiore degli Argivi”. Come si noterà, la descrizione così vivida e pregnante di Eschilo può essere quasi assimilata a quella di una pestilenza che strazia, mettendoli a dura prova, i corpi degli Achei; unaȱ ΩΔΏΓ΍΅ la sua, che assume quasi i connotati di una lues e che difatti pochi versi prima (v. 188), è definita, con uno degli arditi composti neologismi eschilei,ȱ ΎΉΑ΅··φΖȱ letteralmente “che svuota lo stomaco”85. In Malala è di nuovo unȱΛΉ΍ΐЏΑȱ ad essere d’ostacolo agli Argivi. Cedreno invece, pur attribuendo, come si è detto, la versione dell’abbattimento dell’animale e dell’ira della dèa solo ad “alcuni”, accenna ad unaȱ ΏΓ΍ΐ΍Ύχȱ ΑϱΗΓΖȱ che ne sarebbe conseguita. Si tratta di un tratto che sancisce una significativa distanza tra Settimio e Malala su un particolare estremamente distintivo e avvicina d’altro canto la trattazione del nostro autore a quella di Cedreno. Dalla concordanza dei due autori sembra dunque si possa dedurre che questa fosse la versione di Ditti, anche in base alla estrema sinte85

Fraenkel 1950,115 sintetizza il dibattito sul valore, discusso, di questo aggettivo.

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ticità che si è detto contraddistinguere Malala in questo episodio. Ulteriore testimone di questa variante, tuttavia, si rammenti, successivo, è Servio, che accanto alla scomparsa dei venti per opera della dèa, accenna anche ad una pestilenza: quam ob rem dea irata flatus ventorum, qui ad Troiam ducebant, removit. Quam ob rem cum nec navigare possent, et pestilentiam sustinerent. Il motivo della pestilenza che si abbatte sull’esercito richiama alla mente inanzitutto l’analoga piaga che flagella l’esercito acheo all’incipit dell’Iliade e che nell’Ephemeris viene narrata nel già citato capitolo 30 del secondo libro. Se la peste in Omero viene descritta metaforicamente, attraverso i dardi scagliati da Apollo che colpiscono dapprima il bestiame e poi gli uomini (Il. 1,43-52), in Settimio (e presumibilmente anche in Ditti), il motivo dell’andamento del contagio che dagli animali si diffonde agli esseri umani viene conservato, ma in generale la descrizione del morbo presenta tratti più realistici e numerose affinità, a ben vedere, con la analoga sequenza di Ifigenia: – 1,19: Neque multo post irane caelesti an ob mutationem aeris corporibus pertemptatis lues invadit. Atque interim in dies magis magisque saeviens multa milia fatigare et promiscue per pecora atque exercitum grassari. Prorsus nullus funeri modus neque requies; uti quidque malo obvium fuerat, vastabatur. – 2,30: Neque multi fluxerant dies incertum alione casu an, uti omnibus videbatur, ira Apollinis morbus gravissimus exercitum invadit principio grassandi facto a pecoribus, dein malo paulatim magis magisque ingravescente per homines dispergitur. Tum vero vis magna mortalium corporibus fatigatis pestifera aegritudine infando ad postremum exitio interibat.

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Ad un serrato confronto lessicale, non poche, tanto più in una modesta porzione testuale, appaiono le affinità: se della disgiuntiva iniziale si è già riferito (vedi supra), da notare ancora l’utilizzo in entrambi i casi dei verbi invado e grassor, della locuzione magis magisque, del motivo della diffusione anche al bestiame, che in 1,19 è unito promiscue con l’esercito e in 2,30, più similmente all’Iliade, è il punto di partenza del contagio. Si noti l’analogia, tra corporibus pertemptatis e corporibus fatigatis. La movenza stessa con cui esordiscono i due passi è analoga, litotica e contenutisticamente sovrapponibile: neque multo post in 1,20; neque multi fluxerant dies in 2,30. Affine, in conclusione, la descrizione dell’inasprirsi del morbo: in 1,19 in dies magis magisque saviens; in 2,30 dein malo paulatim magis magisque ingravescente. Sembra dunque indubitabile che i due brani siano in Settimio l’uno il ricordo dell’altro, suggerito all’autore dall’analogo contesto: un morbo che colpisce l’esercito inibendo le operazioni militari. La sequenza successiva introduce altri dettagli innovativi nel mitema in questione: viene qui presentato il motivo tradizionale della consultazione della divinità attraverso la mediazione di un indovino. Il vate degli Achei per eccellenza è, nella tradizione omerica, Calcante. In linea con questa tradizione tutte le altre fonti che si occupano del mito di Ifigenia fanno fronte compatto su questo dettaglio e attribuiscono la profezia del sacrificio proprio al figlio di Testore. In Settimio, viceversa, il profeta acheo viene sostituito da una mulier deo plena. Si tratta di un elemento assolutamente originale, che non ha paralleli, eccezion fatta per il Cedreno (che difatti abbiamo detto essere il più vicino a Settimio in questo episodio). Nel cronografo tuttavia, la scena mostra un’articolazione diversa: dappri-

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ma Calcante vaticina la necessità del sacrificio di Ifigenia; Agamennone si rifiuta; a questo punto interviene una donna, che èȱΗΙΑУΈΤȱΔΕΓΚ΋ΘΉϾΓΙΗ΅ȱcon Calcante e ribadisce l’esigenza assoluta di questa immolazione, condicio sine qua non per stornare la tempesta. In generale, tra due autori che si pensa abbiano attinto ad un modello comune, quello che mostra una maggiore densità del tessuto narrativo e una maggiore articolazione, si considera depositario della versione più vicina al modello in questione; certamente Cedreno è più ricco di particolari per questa sequenza che scandisce in due diverse fasi, costituendo una sorta di trait d’union tra Settimio, in cui compare solo la mulier, e il resto della tradizione, ove appare solo Calcante: nel Compendium del bizantino entrambi i personaggi trovano posto. L’effetto che si produce è quello di un rafforzamento dell’ineluttabilità del sacrificio da un lato, e dall’altro di enfasi sull’immagine di Agamennone come ‘padre pietoso’. Si può dunque a buon diritto ritenere che in Ditti trovassero collocazione entrambe le figure e che Settimio abbia preferito inserire solo quella che, come sembra dal Cedreno, risulta essere risolutiva ai fini della scelta di sacrificare la fanciulla da parte dell’esercito, ma non, come si vedrà, di Agamennone. Merkle (1988,155) sostiene che la sostituzione abbia il precipuo scopo di attribuire ad un estraneo la ‘responsabilità’ degli eventi e ‘assolvere’ Calcante, considerando anche il fatto che la profezia non risulterà del tutto veritiera, mentre un forte connotato del vate è appunto l’attendibilità. Questa osservazione non sembra tener conto che anche nella tradizione omerica, e anzi tanto più in questa, Calcante incarnava per antonomasia l’affidabilità, e, inoltre, come si è detto, Ditti presumibilmente includeva entrambi

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i personaggi. Sembra dunque opportuno ricercare altrove le motivazioni di questa scelta, che in ogni caso appaiono piuttosto oscure; indubbiamente questa mulier deo plena non può non riportare alla mente certe figure di ‘magare ellenistiche’, che al pubblico di Ditti non dovevano sembrare così distanti.86 La profezia della donna viene riportata in maniera obliqua, attraverso delle infinitive che hanno per soggetto la stessa Diana: eam namque ob necem capreae... sacrilegii poenam ab exercitu expetere, nec leniri..., alternate ad una relativa qua maxime laetabatur e ad una temporale priusquam auctor tanti sceleris filiam natu maximam vicariam victimam immolavisset. Sembra che il registro stilistico si elevi ed acquisti solennità, in combinazione con una veste retoricamente più curata: si sottolinea l’espressione auctor tanti sceleris, che sostituisce in Cedreno e in Malala la semplice ripetizione del nome “Agamennone”, e che si distingue per una particolare aulicità, tanto più in un autore genericamente poco incline alle forme ricercate; si osservano inoltre ben due allitterazioni: exercitu expetere e vicariam victimam, quest’ultima iunctura implicata ulteriormente con maximam in un triplice omoteleuto. Si tratta di un registro che ben si addice ad un vaticinio: la donna è ispirata dalla divinità ed è dunque solo un medium tramite il quale il dio si esprime, ovviamente in uno tono comprensibilmente elevato. L’innalzamento stilistico induce a riflettere sulle doti tecniche di Settimio, che sceglie scientemente un registro medio probabilmente 86

Si pensi già agliȱΦ·ϾΕΘ΅΍ȱΎ΅ϠȱΐΣΑΘΉ΍Ζȱ‘di strada’, menzionati sin da Platone (res. 364c) o alla Simeta delle Incantatrici teocritee e al Pellegrino del (coevo) omonimo dialogo lucianeo.

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accordandosi al proprio modello greco, ma non è incapace di sfoderare una certa abilità allorché la situazione lo richieda. Che in questa sezione Settimio abbia compendiato l’intero discorso della donna riportato da Ditti in forma diretta? È di certo una possibilità, che tuttavia non trova conferme o sostegno nei bizantini. Sia Settimio che Cedreno indicano colei che dovrà essere immolata come la primogenita di Agamennone: filiam natu maximam; ΘχΑȱΔΕЏΘ΋Αȱ̝·΅ΐνΐΑΓΑΓΖȱΌΙ·΅ΘνΕ΅. Si tratta di un particolare che non trova riscontri nella tradizione precedente se non in Lucrezio (1,93-94), nell’ambito di un’espressione estremamente patetica ove sembra anzi funzionalizzato a marcare ulteriormente la drammaticità di cui è pregna la scena: nec miserae prodesse in tali tempore quibat / quod patrio princeps donarat nomine regem, “né alla misera poteva essere d’aiuto in quel momento aver donato per prima al re il nome di padre”. Nelle precedenti trattazioni del mito la primogenitura non veniva evocata e si parlava semplicemente di “sua figlia Ifigenia”, (come nello scolio iliadico, in Proclo, in Igino), oppure della più bella tra le figlie dell’Atride. Così, nel prologo dell’Ifigenia in Tauride euripidea (vv. 20-21). Anche tra i mitografi Apollodoro si allinea con il motivo della ‘più bella’: tra le figlie di Agamennone deve essere sacrificata ψȱΎΕ΅Θ΍ΗΘΉϾΓΙΗ΅ȱΎΣΏΏΉ΍. In Settimio e in Cedreno, ancora una volta abbinati in un tratto innovativo, questo motivo tradizionale, estetico e soggetivo, viene sostituito da un criterio oggettivo e razionale, quello della maggiore, che ben si attaglia al contesto in cui, come si vedrà, il patetismo e la soggettività non trovano sfogo. La quarta sequenza illustra le reazione dell’esercito e di Agamennone e la sua conseguente destituzione dal comando.

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Il brano si apre con la diffusione all’intero esercito del vaticinio, dapprima rivelato esclusivamente ai capi preoccupati per l’aggravarsi del morbo (sollicitis ducibus nella sequenza precedente). Merkle (1988,156) individua nell’incipit un’espressione di ascendenza virgiliana: quae vox ut ad exercitum venit: Aen. 2,119 vulgi quea vox ut venit ad auris. In Virgilio, per di più, il verso in questione è immediatamente successivo a quello in cui si fa riferimento al sacrificio di Ifigenia (2,116: Sanguine placastis ventos et virgine caesa). Colpisce in questo passaggio la descrizione della renitenza di Agamennone, il quale non cede alle preghiere, alle ingiunzioni, finanche alle ingiurie degli altri duces, ed è per questo privato del comando. Si tratta di un elemento ancora una volta innovativo rispetto alla maggior parte della tradizione, che non accenna ad una destituzione. Il solo autore precedente a Ditti che mostra un simile riscontro, è Tolomeo Chenno (con il quale altre analogie sono state messe in evidenza, vedi supra), nella suaȱΎ΅΍Αχȱ ϡΗΘΓΕϟ΅ȱ epitomata da Fozio (cod. 190 ed Budè):ȱ ̖ΓІȱ Ένȱ ΐχȱ ΦΑ΅ΗΛΓΐνΑΓΙ (scil. Agamennone), ϴΕ·΍ΗΌνΑΘΉΖȱ Γϡȱ к̈ΏΏ΋ΑΉΖ ΦΚΉϟΏ΅ΑΘΓ ΅ЁΘΓІȱΘϲȱΎΕΣΘΓΖǰȱΎ΅ϠȱΎ΅ΘνΗΘ΋Η΅Αȱ Ά΅Η΍Ών΅ȱ ̓΅Ώ΅ΐφΈ΋Α, “Poiché questi non si rassegnava,

i Greci, irati, gli tolsero il comando, e nominarono capo Palamede”. La similarità nei due autori è accresciuta dalla nomina in entrambi di Palamede (che, come si vedrà, in Settimio sarà seguito da Diomede, Aiace Telamonio e Idomeneo). Anche in questo aspetto si sottolinea la consonanza di Settimio con il Cedreno (di contro Malala per ora non accenna ad una reazione di Agamennone), che consente di attribuire questo tratto al Ditti greco; si legge difatti nel Compendium del bizantino:ȱΎ΅ϠȱΈ΍ΗΘΣΗΉΝΖȱ ·ΉΑΓΐνΑ΋ΖȱΎ΅Ό΅΍ΕΉϧΘ΅΍ȱΐξΑȱ̝·΅ΐνΐΑΝΑȱΘϛΖȱΆ΅Η΍ΏΉϟ΅Ζǰȱ

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̓΅Ώ΅ΐφΈ΋Ζȱ Έξȱ ΦΑΘȝ΅ЁΘΓІȱ ΔΕΓΛΉ΍ΕϟΊΉΘ΅΍, “Ed essendo

sorto un dubbio, Agamennone viene privato del comando, mentre Palamede viene nominato al suo posto”. Ampio spazio è dunque riservato da Settimio alla descrizione dell’ostinazione di Agamennone, e alle fasi successive in cui si articola il tentativo di persuasione degli altri capi: la preghiera (eumque primo orare); la coercizione (recusantemque ad postremum cogere, uti malo obviam properaret); le offese (plurimis conviciis insecuti); la constatazione dell’impossibilità di piegarlo e il ricorso all’arma della destituzione (Sed ubi ostinate renuere vident nec ulla vi queunt flectere, plurimis conviciis insecuti, ad postremum regio honore spoliavere). Una climax il cui vertice risiede proprio nella spoliazione dell’onore del comando che Settimio punta a mostrare come soluzione estrema eppure inevitabile, a fronte di una marcatissima insistenza sull’incapacità da parte di Agamennone di abdicare al ‘padre’ e far prevalere il ‘comandante’. La riluttanza così ferma e tenace di quello che di fatto, come sosteneva Merkle (1988,154), si configura come il protagonista assoluto dell’episodio, è dunque un ulteriore elemento che ne consolida la dimensione di pietas paterna. Specularmente opposte al ritratto settimiano sono le fonti nelle quali risulta più immediato il convincimento di Agamennone e corroborato altresì da un giudizio netto dell’autore. Tra queste figura la celeberrima párodos dell’Agamennone eschileo (vv. 201-27). Non sorprende che in Eschilo vi sia uno svolgimento simile, proprio in virtù del fatto che l’omicidio deliberato di Agamennone costituirà per Clitemestra il principale motivo della propria vendetta e sarà invocato a più riprese in questa veste nel corso dell’intera trilogia. Nell’Elettra di Sofocle, di contro, l’episodio viene brevemente rievocato

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dalla protagonista, che mira a giustificare il gesto paterno, e conseguentemente, a considerare ingiustificata la vendetta materna; questo è il presupposto per il quale l’eroina sottolinea la riluttanza del padre e il suo cedere alle pressioni a cui a lungo è sottoposto: (ΦΑΌȂЙΑȱΆ΍΅ΗΌΉϠΖȱΔΓΏΏΤȱ ΎΦΑΘ΍ΆΤΖȱ ΐϱΏ΍Ζȱ Ȧȱ σΌΙΗΉΑȱ ΅ЁΘφΑǰȱ ΓЁΛϠȱ ̏ΉΑνΏΉΝȱ ΛΣΕ΍Α). L’Ifigenia in Aulide euripidea si impernia in tutta la prima parte, com’è noto, proprio sul dilemma di Agamennone: udito il vaticinio, come rammenta nella sezione prologica sospetta di interpolazione (vv. 49 ss.), non aveva esitato a congedare l’intera armata, non potendo immaginare di osar sacrificare sua figlia (vv. 94-96); crollava infine sotto le pressioni di Menelao, indotto a inviare un messaggio fraudolento a Clitemestra con il ben noto inganno delle nozze con Achille (vv. 97-105); ora però, tornando in sé, si pente del messaggio e affida ad un fedele servo una lettera nella quale rovescia il senso della precedente (vv. 107-63); il messo viene intercettato da Menelao, e, con il sopraggiungere di Agamennone, scaturisce un aspro diverbio tra i due fratelli, interrotto dalla comparsa di un ánghelos che dà la notizia dell’arrivo di Clitemestra. Le parti ora si invertono e, mentre Menelao è mosso a compassione dalle lacrime del fratello e accetta di risparmiare la fanciulla, Agamennone torna al proprio iniziale proposito e si risolve a mettere in atto il piano. L’articolazione risulta perfettamente allineata con i caratteri precipui del teatro euripideo: a fronte di un ‘eroe-non eroe’, come appare Agamennone87 (ma accanto a lui anche Menelao), che perde la monoliticità e la solidità epiche, cedendo ai propri affetti privati, per poi tuttavia celare i propri dubbi per87

Sulla figura e i caratteri di Agamennone nel dramma euripideo vedi Vretska 1961 e Siegel 1981.

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sonali sotto l’egida della guerra e, oramai imbrigliato nella situazione, assecondare in modo meschino e poco ‘virile’ l’inganno meditato, emergerà violentemente il coraggio della fanciulla, la quale, dopo l’iniziale comprensibile esitazione, si avvierà, mostrando un eroismo ben più spiccato di suo padre, incontro al proprio destino. Nel mondo romano, colpisce il celebre passo lucreziano, ove l’exemplum mitico è finalizzato ad illustrare i mali cui possa condurre la religio; proprio la religio rispetto alla quale Agamennone in Settimio è imprudens, rappresenta, nel poeta, la dimensione alla quale l’eroe non può sottrarsi e a cui deve, volente o nolente, cedere. Lo stato di profonda afflizione in cui versa è tuttavia condensato il quel pregnante maestum di v. 89 che non a caso disvela chiaramente a Ifigenia l’inganno in cui è stata tratta. Una religio che evidentemente, viceversa, non costituisce più, in Ditti, un vincolo così coercitivo. Lapidario e sintetico il commento di Ovidio (met. 12,29-30), per il quale Agamennone abdica immediatemente al ruolo di padre preferendo salvaguardare gli interessi pubblici: Postquam pietatem publica causa rexque patrem vicit. Più vicino per alcuni versi alla versione dittiano-settimiana Igino, che accenna ad una prima riluttanza di Agamennone, immediatamente messa da parte dagli astuti convincimenti di Odisseo: re audita Agamemnon recusare coepit. Tunc Ulixes eum consiliis ad rem pulchram transtulit. In definitiva il rifiuto netto e la chiusura totale si registrano in via esclusiva nell’episodio così come ci è trasmesso da Settimio e proprio l’ostinazione del comandante induce i capi a ricorrere a soluzioni estreme anche sul piano militare. Che l’ambito militare sia uno di quelli più curati da Settimio, come riflesso evidentemente del fatto che si pre-

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sumeva che Ditti fosse un soldato semplice al seguito del contingente cretese, è indiscusso. Decisamente alla sfera militare deve essere ricondotto il periodo successivo: Ac ne tanta vis exercitus sine rectore effusius ac sine modo militiae vagaretur, praeficiunt ante omnes Palamedem, dein Diomedem et Aiacem Telamonium, quartum Idomenea. Ita per aequationem numeri atque partium quadripertitur exercitus. L’attenzione al pragmatismo e al realismo militari è manifesta nella considerazione che dà l’avvio al periodo stesso: Ac ne tanta vis exercitus sine rectore effusius ac sine modo militiae vagaretur. .., “E perché un esercito così vasto non vagasse, senza un comandante, in maniera disordinata e senza disciplina miltare...”. Si tratta di un particolare che non compare né in Cedreno né in Tolomeo Chenno, le sole fonti che si prestino ad un confronto sul dettaglio della destituzione. Come si è osservato, nei tre autori in questione, la carica sottratta all’Atride viene attribuita a Palamede, in primis, che in Settimio è affiancato da Diomede, Aiace Telamonio e Idomeneo. È forse un tratto di quello che Forsdyke88 definisce “military rationalism”. L’espressione coniata dallo studioso rimanda del resto a due caratteri precipui dell’opera, imprescindibili dal suo stesso (presunto) statuto: un impianto diaristico e un autore che avrebbe partecipato in prima persona agli eventi narrati in qualità di soldato; tali fattori tra loro combinati avrebbero necessariamente prodotto una particolare enfasi sul dato realistico, immediata conseguenza dell’autopsia, e una attenta cura dell’ambito militare. Caratteristiche che dunque non sorprende rintracciare a più riprese nell’opera. 88

Forsdyke 1956,153-57.

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Ancora come dato di realismo di matrice militare (e forse in particolar modo di ascendenza romana) si può classificare la pericope che chiude la sequenza: Ita per aequationem numeri atque partium quadripertitur exercitus. Emerge con forza la mentalità alla base della gerarchia militare romana che attribuiva a chi era dotato di imperium il comando di un certo numero di uomini, determinando una rigida divisione dell’esercito in unità contraddistinte per l’appunto dal numero dei componenti (in legioni, centurie, manipoli)89. La sequenza successiva introduce nella vicenda un altro personaggio noto alla maggior parte della tradizione: Ulisse, al quale spetta di escogitare un piano per risolvere la situazione di stallo determinata dal rifiuto di Agamennone. È un ruolo, quello di polýtropos o, per dirla con Livio Andronico, di versutus, che questo personaggio eredita dalla tradizione epica, ma che è qui riletto in chiave ‘fraudolenta’, sulla scia della negatività di cui si tinge l’astuzia di Odisseo nella tragedia attica, ove spesso la sagacia e l’intelligenza del Laerzìade si convertono in inganno e slealtà (si pensi, per citare uno dei drammi più marcati in questo senso, al Filottete sofocleo). Non è ignota alla tradizione la figura di Odisseo come medium dell’inganno in cui è tratta Ifigenia, ma non ricorre in modo trasversale nelle diverse fonti. Proclo non vi fa accenno nel proprio resoconto dei Kýpria. Nell’Ifigenia in Tauride euripidea, invece, l’eroina prologhízΓusa fa un puntuale riferimento alle téchnai di Odisseo, mediante le quali era stata sottratta alla madre col celebre pretesto del matrimonio (vv. 24-25). Nell’Aulica, al contrario, non si fa menzione del Laerzìade come latore del messaggio 89

Per questi aspetti tecnici un cofronto possibile in Veg. 2,1-5.

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che Agamennone si rimprovera nel prologo di aver inviato alla moglie, tuttavia costui lo include, assieme a Menelao e a Calcante, tra coloro che sono al corrente dell’inganno (vv. 106-107)90; eppure il ruolo di pressante e malevolo consigliere dell’Atride è svolto da Menelao. Nella perduta Ifigenia sofoclea, che sembra proponesse la materia appunto dell’Aulica euripidea, Odisseo compare similmente tra i personaggi che si fanno complici della frode (fr. 305 Radt). In Apollodoro sembra sia lo stesso Agamennone ad inviare Odisseo e Taltibio da Clitemestra, fingendo di aver promesso Ifigenia ad Achille come ricompensa per aver partecipato alla spedizione. Interessante, tra i Latini, la testimonianza di Igino, ove, analogamente alla Taurica, le astuzie di Ulisse persuadono Agamennone, inizialmente restìo, e lo stesso Ulisse, in questo caso con il tradizionale compagno di avventure Diomede, viene inviato da Clitemestra, che convince con la menzogna. Ancora Servio (ad Aen. 2,116), riconosce ad Ulisse il ruolo di medium del raggiro. Di nuovo, tra i cronografi bizantini, che includono entrambi il personaggio di Odisseo, si constata la maggiore aderenza del racconto di Cedreno a Settimio, a conferma del fatto che questa dovesse essere la versione contenuta in Ditti. In Malala, viceversa, il passaggio risulta assai breve e compendioso. Originale e dettagliata, per converso, la struttura della sequenza in Settimio (e in parte in Cedreno, come si è detto), ove si osserva un’articolazione più complessa, con una sorta di ‘inganno nell’inganno’, ad enfatizzare il carattere menzognero e malevolo della figura di Ulisse. Dapprima il Laerzìade, fingendo di non tollerare l’ostinazione di Agamennone, parte, inducendo a credere in un 90

Stockert 1992,205-06.

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proprio ritorno in patria; dissimula in realtà un piano ben preciso: simulata ex pertinacia Agamemnonis iracundia et ob id domuitionem confirmans magnum atque insperabile cunctis remedium excogitavit. Si noti la focalizzazione sul punto di vista dei soldati che emerge dall’espressione magnum atque insperabile cunctis remedium: il sacrificio rappresenta per l’esercito la sola possibilità di partire e portare a termine l’impresa, di qui l’utilizzo di remedium, che fa luce anche sul giudizio in realtà negativo, come si vedrà, che si cela nella pietas di Agamennone. Un analogo procedimento in Igino, ove Ulixes eum (scil. Agamennone) consiliis ad rem pulchram transtulit. Ulisse si reca dunque in assoluta segretezza a Micene (in netto contrasto con l’ambientazione argiva attestata nei tragici; non così in Cedreno, in cui si parla di Argo), ove consegna a Clitemestra (che Cedreno, per il suo pubblico, ignaro forse oramai del mito, ‘glossa’ essere la moglie di Agamennone) una lettera, fintamente attribuita ad Agamennone, nella quale questi esortava ad inviare la figlia maggiore Ifigenia (il dettaglio della primogenitura si ripete sia in Settimio sia in Cedreno) in Aulide, come promessa sposa del valoroso Achille (il valore dell’eroe viene sottolineato dal Cedreno, di nuovo una glossa destinata ad un pubblico per il quale la figura del Pelìde non era più così familiare), insieme ad una cospicua dote di nozze (particolare originale, attestato anche in Cedreno), per celebrare la promessa di matrimonio prima della partenza. Ulisse riesce così, attraverso varie menzogne, a mettere in scena una ‘commedia’ (argumentum) che persuade Clitemestra, la quale gli affida serenamente la fanciulla (passaggio tagliato in toto dal Cedreno). Grazie alla ben nota abilità ‘oratoria’ di Ulisse, carattere peculiare dell’eroe che emerge con forza sin dall’epos

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omerico (si pensi solo al discorso in assemblea del secondo libro dell’Iliade), e che lo contraddistingue anche in tragedia, dove assume, come si è detto, una dimensione singolarmente negativa, Clitemestra si rasserena e prova sollievo e gioia (laeta) nel consegnare sua figlia all’eroe. Con la consegna della fanciulla ad Ulisse, Ditti esclude una delle più macroscopiche varianti euripidee: come si sa, difatti, nell’Ifigenia in Aulide, è la stessa Clitemestra a condurre la figlia in Aulide, e proprio sulla presenza della regina è costruita tutta la seconda parte del dramma. In questo caso, dunque, Ditti si allinea alla versione tradizionale, mostrando una certa distanza da un dramma che al contrario, come si vedrà, fornirà in altri casi, assonanze e spunti di confronto. Concluso l’‘affare’, Ulisse torna in pochi giorni in Aulide, e si palesa ex improviso sul luogo del sacrificio con Ifigenia. L’effetto che la vista della fanciulla ha su Agamennone sancisce l’akmé della pietas paterna che lo ha fin qui contraddistinto: Quis cognitis Agamemnon affectione paternae pietatis motus an ne tam inlicito immolationis sceleri interesset, fugam parat. Anche in questo passo, come aveva già fatto per spiegare l’abbattersi della lues poche righe prima (vedi supra), Settimio fornisce una duplice spiegazione dell’eccezionalità della reazione, una maggiormente irrazionale ed emotiva, un’altra leggermente più concreta: per un verso la pietas di padre, per l’altro il desiderio, comunque ad essa correlato, di non essere presente al sacrificio. La fuga alla quale l’Atride tenta di darsi è certamente un atto estremo e assolutamente disdicevole per un comandante, e, sebbene il lettore sia indotto a solidarizzare con questo padre che si rifiuta non solo di partecipare ma anche di vedere l’immolazione di sua figlia, il giudizio di chi scrive, che, si ricordi, reputa l’inganno di Ulisse un reme-

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dium magnum et insperabile, non doveva essere certamente positivo. Come segnala anche Timpanaro (1987,186), Agamennone in generale non trova in Ditti-Settimio una raffigurazione positiva (si pensi ai comportamenti sopraffattori con Crise e al sospetto di collusione con l’omicidio di Palamede) e, nonostante, come si vedrà, l’esercito nutra ancora un profondo rispetto nei suoi confronti, l’atteggiamento che qui mostra si può in ultima istanza ricondurre ad incoerenza, indecisione, viltà, che ben si inquadrano in questo profilo negativo. Mentre stupisce l’assenza di questo particolare significativo in Cedreno, deve essere valorizzata, viceversa, la presenza di un elemento analogo in Malala, che consente, in definitiva, di ricondurre questo tratto (nella medesima veste che presenta in Settimio o in una simile) a Ditti. Il retore antiocheno difatti, parla di lacrime amare versate dall’Atride proprio alla vista della fanciulla:ȱ Ύ΅Ϡȱ οΝΕ΅ΎАΖȱ ΅ЁΘχΑȱ ϳȱ ̝·΅ΐνΐΑΝΑȱ πΏΌΓІΗ΅Αȱ σΎΏ΅ΙΗΉȱΔ΍ΎΕЗΖ. Occorre tuttavia notare che Malala condivide questo tratto con l’Aulica euripidea, ove, conformemente all’éthos del personaggio, Agamennone, come ci è rivelato nel racconto finale del sacrificio affidato al messo, scoppia in lacrime alla vista della figlia, coprendosi, secondo la canonica gestualità (o artificio scenico?91) il volto (vv. 1549-50) In Settimio tuttavia, questo rifiuto del sacrificio da parte di Agamennone si traduce in un vero e proprio tentativo di fuga che sarà stornato solo dall’abilità oratoria di Nestore. Risulta così più chiaro come la pietas paterna non sia rappresentata in modo assolutamente positivo ma si traduca in atteggiamenti di viltà e codardia, nonché di scarsa coerenza da parte del rex, il quale non mantiene con fermezza nemmeno la propria iniziale posizione ma, 91

Sul significato di questa gestualità vd. Katsouris 1981,122ss.

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in un’indecisione che ben poco si addice ad un comandante supremo, si lascia convincere a tornare sui propri passi. L’intervento di Nestore il quale, appresa la cosa, tiene un lungo discorso, una vera e propria orazione, che Settimio include (anacronisticamente) nel genere suasorio (ad postremum persuadendi genere), costituisce un ulteriore tratto di innovatività nella trattazione. Non trova riscontro, difatti, in alcuna delle fonti a nostra disposizione, comprese le cronache bizantine. La figura del “cavaliere Gerenio” è certamente, come rileva Timpanaro (1987,185) tra le più positive dell’opera, e presenta connotati squisitamente epici. Lo contraddistinguono, come nell’Iliade, una profonda saggezza e, anche in questo caso, una singolare loquacità e abilità oratorie, doti che, nell’insieme, lo rendono, nell’Ephemeris come lo era nell’epos, un equilibrato e affidabile consigliere, tuttavia forse, in generale più evanescente rispetto alla tradizione epica. Settimio rimarca altresì la vis suasoria di Nestore, come attributo che lo contraddistingue in particolar modo tra gli altri Greci: in quo (scil. persuadendi genere) praeter ceteros Graeciae viros iucundus acceptusque erat. Come non ricordare gli epiteti che già Omero riservava a questo personaggio (ψΈΙΉΔφΖ Il. 248, Ώ΍·ϿΑȱ ̓ΙΏϟΝΑȱ Φ·ΓΕ΋ΘφΑ Il. 4,293) e la fama di abile oratore che egli conserva nell’immaginario collettivo fino ad esempio a Cicerone, il quale, nel Brutus (40), pur osservando che l’eloquenza in qualità di disciplina nacque in Grecia in un periodo relativamente tardo, tuttavia ammette che le abilità oratorie non erano ignote, ma anzi riconosciute ed apprezzate sin da Omero, e menziona per l’appunto la soavità dell’eloquio di Nestore e la potenza di quello di Ulisse? Il brano successivo introduce nell’episodio una dimensione che spesso è stata negata all’Ephemeris, e che in ef-

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fetti in linea generale non appare enfatizzata, ma che in specifiche circostanze, come è chiaro in questo passo, può trovare spazio: quella del divino e dell’irrazionale. La scena si apre sui preparativi del sacrificio, che si svolgono in un luogo appartato (remotis procul omnibus), affidati a tre personaggi che compaiono a più riprese nelle diverse trattazioni del mito: Ulisse (di cui si è già detto), Menelao e Calcante. Nelle fonti che descrivono più diffusamente la scena del sacrificio, questi tre eroi non compaiono (se non altro insieme) tra i ministri del rito, che anzi non hanno un volto e vengono evocati per lo più solo in qualità di officianti: aózoi e thytéres nell’Agamennone eschileo (vv. 231 e 240); in Lucrezio ministros (v. 90), analogamente ministri, in lacrime, in Ovidio (12,31). I tre si trovano menzionati come al corrente del raggiro nell’Aulica euripidea (vv. 106-107). In questo dramma, inoltre, nel racconto del sacrificio (vv. 1532-1614), del quale, come è noto, la porzione finale si giudica frutto di una più tarda elaborazione92, tra gli officianti compaiono Calcante e Achille: il primo (vv. 1565-67). Settimio, forse anche Ditti, ma data l’assenza del particolare nei bizantini appare difficile affermarlo con ragionevole certezza, sceglie invece di esplicitare i nomi degli officianti, che coincidono con quelli di personaggi di primo piano dell’opera. Si potrebbe così inferire che le dinamiche tra i capi, i loro ruoli nella vicenda e i comportamenti che assumono, atti a rivelare aspetti fondamentali del loro éthos, siano i punti focali dell’episodio così come ci viene narrato nell’Ephemeris, ove in generale, ben poco spazio viene concesso ad una delle dimensioni basilari in altre 92

Sulla vexata quaestio del prologo si vedano almeno Stockert 1992,66 ss. e Willink 1971.

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trattazioni del mito, il patetismo. A fronte di descrizioni in cui il dramma e l’emotività hanno il sopravvento (si pensi solo a quelle tragiche e a quella lucreziana), in cui l’episodio si innerva sulla pietas che la fanciulla suscita negli astanti, in vista di un coinvolgimento emotivo del fruitore (lettore/spettatore), nell’Ephemeris questo parametro non emerge affatto, né viene data in alcun modo voce alla fanciulla, ben lungi dall’assumere lo spessore di eroina (come nei drammi euripidei), o di vittima obtorto collo (come in Lucrezio), ma appiattita allo statuto di kophòn prósopon, in balia delle decisioni dei capi e dell’esercito, piegata alla crudele legge militare, senza che tuttavia venga dato alcun rilievo proprio all’efferatezza di questa legge ‘non scritta’, ma tacitamente vigente e vincente. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo Ditti-Settimio abbia scelto di non sfruttare le potenzialità drammatiche offerte dal mito in questione e dare una risposta esaustiva sembra assai impervio. Certamente si osserverà che le trattazioni cui si è fatto riferimento appartengono a generi diversi, poetici, che nel páthos e nel dramma trovano la loro ragion d’essere. Ma in ultima analisi non va dimenticato che le scelte dittiano-settimiane nella trattazione dell’episodio di Ifigenia ben si inquadrano nei caratteri precipui della linea narrativa che emerge dall’opera tout court, ove la crudeltà e l’efferatezza della guerra non sono messe in rilievo e descritte con patetismo, bensì appartengono ad una dimensione biotica in cui l’autore, in quanto soldato, è immerso e alla quale è in qualche modo assuefatto. In questo momento immediatamente precedente al fatale rito, si inserisce una sequenza estremamente innovativa che non trova paralleli nelle fonti sin qui invocate a confronto: una serie di segni atmosferici che turbano la linearità e la razionalità del racconto e vi includono in

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modo massiccio una delle dimensioni da sempre negate all’Ephemeris, quella del soprannaturale. La solennità e l’ineluttabilità del sacrificio vengono infatti interrotte ex abrubto da un turbamento dell’aere: il giorno si oscura, il cielo inizia a coprirsi di nubi, quindi tuoni improvvisi, fulmini, un terremoto e, in ultimo, nel generale turbamento, si ottenebra la luce; infine, un brusco acquazzone e una grandinata. Nonostante nell’Ephemeris le concessioni al soprannaturale, all’irrazionale ed in generale al divino, siano ben poche, tuttavia, come giustamente rileva anche Timpanaro (1987,173-74), non sono in toto soppressi prodigi, oracoli (come quello di Calcante in questo specifico caso) e omina di vario genere93, che affondano le proprie radici in una storiografia aperta al prodigioso e al sorprendente, come quella di matrice erodotea e più tardi tragica, in Grecia e, a Roma, liviana94. Non stupisce tuttavia, nel quadro che è stato così esaminato, che, accanto ad una sezione nella quale fa capolino l’incombere della divinità, si inserisca prepotentemente una dimensione del tutto umana e concreta come quella che emerge nelle righe successive. Menelao e gli altri ministri preposti al sacrificio sono sconvolti dalla tempesta che si è scatenata e vi intravedono una segnale divino, ma le loro preoccupazioni sono rivolte al possibile fallimento dell’impresa che ne potrebbe scaturire e, secondo una prospettiva improntata ad una concretezza e ad un razionalismo di matrice squisitamente militari, al danno che potrebbe essere arrecato all’esercito. In questo 93 Si pensi all’oracolo sul Palladio (5,5), a quello relativo alla guarigione di Telefo (2,10), o sull’invasione delle locuste a Creta (6,11). 94 Per una disamina di alcuni dei principali prodigi atmosferici, si veda Benedetti 2008 che, tra i fenomeni analizzati si sofferma in particolare sui terremoti (3,10,6; 4,21,5; 22,5,8; 24,10,10; 40,45,3).

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improvviso trapasso trapela il “razionalismo militare” di cui si è parlato, che permea l’opera e che non può cedere in toto il passo al timor dèi che pure è affiorato poco prima. Trapela attraverso un’osservazione implicitamente soggettiva del narratore, che attribuisce a Menelao le presumibili angosce di un comandante in una simile circostanza. Appare chiaro così, che Ditti-Settimio, pur non sconvolgendo del tutto il mito tradizionale, in cui la divinità era motore dell’intera vicenda, e concedendo, in tale prospettiva, una certa rilevanza anche a questa dimensione, non rinuncia a corredarlo di una serie di constatazioni ed osservazioni riconducibili, in ultima analisi, alla propria radice militare. Di nuovo, tuttavia, nella sequenza successiva, la divinità si palesa, in una modalità che non può certo dar adito a dubbi: nel turbamento e nell’esitazione generali, giunge un segnale chiaro a fornire la chiave dell’ira divina scatenatasi negli istanti precedenti, una vox quaedam luco emissa. Emanata dal boschetto sacro a Diana (lucus), una voce non ben identificata, comunica le volontà della dèa, in modo inequivocabile: il nume respinge (aspernari) questo genere di sacrificio e per questo bisogna tenersi lontano dal corpo della vergine (abstinuendum a corpore virginis), difatti la dèa ne prova pietà (misereri namque eius deam); d’altronde, a ricompensa di un delitto di tal fatta, Agamennone avrebbe ricevuto la giusta dose di pene da sua moglie dopo aver ottenuto la vittoria a Troia (ceterum pro tanto facinore satis poenarum Agamemnoni ab coniuge eius post Troianam victoriam conparatum); pertanto devono apprestarsi ad immolare ciò che gli si para innanzi al posto della vergine (Itaque curarent id, quod in vicem virginis oblatum animadverterent, immolare). Innanzitutto lo stratagemma della voce che proviene direttamente dal dio appare assolutamente singolare ed

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innovativo, a fronte di una tradizione compatta che non presenta paralleli in questo senso. Nessuna delle fonti sin qui esaminate propone una versione analoga; anche i cronografi bizantini omettono in toto il particolare: Cedreno, in una pericope che ha il sapore di rabberciamento mal riuscito e quasi anacolutico, si limita a dire, immediatamente dopo aver parlato dello stratagemma di Odisseo, che, essendo la fanciulla in procinto di essere sacrificata, si scoperse una cerva in prossimità dell’altare e fu sacrificata al posto della vergine, ma non dà alcuna spiegazione in proposito. Malala, d’altro canto, sembra optare per una soluzione che si avvicina a quanto dirà Settimio nelle righe successive, ma se ne allontana per altri versi: come accadrà qualche riga più in là in Settimio, una cerva irrompe all’improvviso sul luogo del rito; qui in modo ancor più marcato si dice che taglia la strada (Έ΍νΎΓΜΉȱΘχΑȱϳΈϲΑ) correndo in mezzo ai capi, all’esercito, al sacerdote e alla fanciulla stessa. Dinnanzi alla scena che risulta in qualche modo prodigiosa, interviene la spiegazione di Calcante che invita ad immolare la cerva in vece di Ifigenia (Ύ΅ϠȱοΝΕ΅ΎАΖȱ΅ЁΘχΑȱ ϳȱϡΉΕΉϿΖȱΎ΅ϠȱΐΣΑΘ΍Ζȱ“ΘχΑȱσΏ΅ΚΓΑ”ȱΉϨΔΉΑǰȱϵΘ΍ȱ“Δ΍ΣΗ΅ΑΘΉΖȱ ΩΒ΅ΘΉȱΉϢΖȱΌΙΗϟ΅ΑȱΦΑΘϠȱΘϛΖȱΔ΅ΕΌνΑΓΙȱΘϜȱ̝ΕΘνΐ΍Έ΍”). È palese dunque che l’articolazione della scena in Malala sarebbe di per sé più razionalistica, in quanto non implicherebbe un segnale divino così macroscopico come può risultare l’intrusione della voce diretta del dio, eppure Settimio (in tal caso sembra davvero impervio attribuire questa scelta a Ditti data l’incongruenza con i cronografi) preferisce far ricorso ad un elemento diverso ed extra vagante, che apre un nuovo squarcio verso quel mondo soprannaturale negato dalla maggioranza degli studiosi. Un’ulteriore pietra di paragone nel mondo romano può essere individuata in un celeberrimo passo delle Georgiche

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di Virgilio. Nel primo libro, nell’ambito della sezione riservata ai segni celesti (vv. 351-514), ed in particolar modo a quelli riguardanti il sole e la luna, si inserisce la digressione sui presagi delle guerre civili: il sole si nasconde dopo l’assassinio di Giulio Cesare, che prelude alla notte interminabile degli scontri interni alla repubblica. Il brano (vv. 466-88) contempla un accumulo di fatti prodigiosi che sconvolgono l’ordine cosmico e geologico: tra questi si distingue una vox quoque per lucos vulgo exaudita silentis / ingens. Non può non balzare agli occhi e alle orecchie l’analogia con la settimiana vox quaedam luco emissa, che risulta peraltro ancor più densa di significato se si ricorderanno le già citate tessere virgiliane che puntellano i capitoli precedenti (vedi supra). Da non trascurare probabilmente anche un altro locus, forse persino simillimus per contesto e contenuto: il sacrificio di Isacco, narrato in Gen. 22,1-19. Anche in questo caso ad un padre viene richiesto di sacrificare il proprio figlio, e, com’è noto, anche in questo caso, il Dio lo salverà. Il medium della salvazione è una voce, quella dell’Angelo di Dio, che, qui dal cielo, ovviamente, si rivolge direttamente ad Abramo, intimandogli di non colpire il ragazzo. L’originalità di questo tratto in Settimio e l’analogia strutturale e contenutistica con il locus biblico inducono a postulare un raffronto che non sembra eccessivamente peregrino. Il contenuto del messaggio viene riportato in discorso indiretto, analogamente a quanto era avvenuto per la falsa lettera di Odisseo e al suo interno sorprende rintracciare, tra le diverse disposizioni del dio, un’anticipazione sul futuro mitico e narrativo della vicenda: ceterum pro tanto facinore satis poenarum Agamemnoni ab coniuge eius post Troianam victoriam comparatum. Se di primo acchito questa pericope potrebbe apparire un’inserzione dello stesso Settimio, a ben vedere, tuttavia, si potrebbe ritenere che

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fosse essa stessa parte del messaggio divino, una sorta di oracolo sul futuro, che renderebbe, agli occhi di un lettore di certo consapevole degli sviluppi mitici, ancor più veritiera ed affidabile la vox luco emissa. Un espediente, quello dell’anticipazione degli esiti della vicenda, che appartiene in maniera peculiare all’ambito tragico – basti pensare, solo per citare alcuni dei drammi più noti, al prologo dell’Alcesti (vv. 43-6) e dell’Ippolito (vv. 64-71) euripidei – e che qui sembra funzionalizzato a gettare un’ulteriore ombra sul personaggio di Agamennone. Le ultime righe del passo si soffermano su un Leitmotiv che scandirà, in una progressione costante, le restanti sequenze dell’episodio: dein coepere venti atque fulmina aliaque, quae in magno caeli motu oriri solent, consenescere. In seguito allo sconvolgimento dell’aere, e persino dell’ordine cosmico, che si è verificato nei momenti precedenti al sacrificio, una volta che l’intervento della divinità ha stornato il nefando scelus, inizia un ininterrotto percorso verso la luce, in una climax che troverà la propria akmè nella rasserenazione definitiva che segue il sacrificio della cerva e la salvezza della fanciulla (quis peractis, sedata lues, instarque aestivi temporis reseratum est caelum). Un iter progressivo dalla tenebra alla luce che consente di individuare un fil rouge che renda ancor più organico l’episodio. La sequenza successiva prevede un brusco cambiamento di scena e l’ingresso di un nuovo personaggio, sinora solo evocato, Achille. Il coinvolgimento attivo di Achille è una delle caratteristiche più peculiari dell’Ifigenia in Aulide euripidea95 e 95

E dei drammi ad essa ispirati: il fr. 131 Joc. dell’ Ifigenia enniana, coincide con i vv. 956 ss. del modello euripideo, in cui è Achille a parlare, una volta scoperto l’inganno.

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sembrerebbe essere mutuato proprio da questo dramma. D’altro canto, è uno dei tratti di maggior divergenza rispetto ai cronografi bizantini ove il Pelìde non compare. L’intreccio drammatico euripideo, viceversa, non risulta nella sostanza lontano da quello settimiano, ma lo sarà negli esiti e nelle modalità. Come in Settimio, anche in Euripide Achille viene a conoscenza dell’inganno tramato ai danni della fanciulla sfruttando il proprio nome, ma, com’è noto, ciò avviene grazie all’incontro con la stessa regina (che in Euripide aveva accompagnato Ifigenia e aveva insistito per essere presente alle sue presunte nozze): in un dialogo di equivoci e di disvelamenti squisitamente tragico (vv. 801-56), il raggiro sarà progressivamente rivelato. In Settimio (ove la fanciulla, come si ricorderà, è stata affidata ad Ulisse), ciò avviene attraverso una lettera, segretamente (seorsum) inviata dalla Tindaride ad Achille, e corredata da una grande quantità d’oro96, nella quale ella affida sua figlia e, con lei, la propria casata, all’eroe (Achilles litteras seorsum missas sibi a Clytemestra cum auri magno pondere accepit, in quis ei filiam atque omnem domum suam commendaverat). Una volta venuta alla luce la macchinazione di Ulisse, Achille non esita a mettere da parte tutto (omissis omnibus) e ad affrettarsi sul luogo del sacrificio (propere 96

Timpanaro 1987,199, come si è più volte ricordato, include tra i caratteri peculiari dell’opera una complessiva de-eroizzazione, che potrebbe affondare le proprie radici nella generale de-eroizzazione che gli eroi epici hanno subito nell’immaginario collettivo grazie all’influsso del dramma attico ed in particolar modo euripideo. Uno dei tratti di questa de-mitizzazione cui Ditti-Settimio farebbe maggiormente ricorso è la venalità e l’avidità. Se in generale questo aspetto non sembra appartenere ad Achille, tuttavia non può non essere messo in rilievo il fatto che la regina, per raccomandare a lui Ifigenia, senta il bisogno di accompagnare la propria lettera con una cospicua dote in oro.

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ad lucum pergit) ove intima a Menelao e agli altri presenti di non toccare la fanciulla, avanzando anche delle minacce. La salvazione è presente anche in Euripide, come si ricorderà, ma l’intreccio risulta certamente più complesso e inoltre il tentativo del Pelìde fallirà, e sarà anzi uno degli avvenimenti che indurranno Ifigenia a raccogliere il proprio coraggio e ad andare incontro volontariamente al sacrificio, mostrando la temperie eroica di cui si è detto. Ditti-Settimio, facendo tesoro di un personaggio che oramai, a partire dal dramma euripideo, doveva essere entrato nell’immaginario collettivo tra i protagonisti del mitema in questione, lo include nella propria trattazione, ma, ovviamente, lo flette alle proprie esigenze e lo plasma armonizzandolo alle proprie strategie narrative: un Achille che, non più legato agli intrecci del dramma euripideo, si reca d’impulso sulla ‘scena del delitto’ e, essendo già intervenuta la divinità a gettare nel dubbio e nell’esitazione i capi, sfrutta proprio il loro sbalordimento e sbigottimento (mox attonitis his atque obstupefactis), per trascinare via la fanciulla. La scena si tinge dunque di un’allure quasi comica, poiché in realtà, a ben vedere, le minacce e le intimidazioni di Achille non hanno effetto su Menelao e sugli astanti, i quali sembrano esitare e sbalordire piuttosto a causa della vox luco emissa poco prima, e potrebbero persino non aver minimamente percepito l’intervento così acceso dell’eroe, sebbeno lui intenda il contrario. Achille, pertanto, verrebbe impiegato esclusivamente come medium meccanico per sottrarre fisicamente la fanciulla dalla scena del sacrificio, al quale comunque non sarebbe più destinata oramai, non già grazie all’exploit dell’eroe, ma agli ordini chiaramente impartiti dalla divinità.

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Si tratterebbe dunque di uno dei tanti aprosdóketa con i quali Ditti-Settimio attiva il suo lusus metaletterario con il lettore, frustrando i suoi orizzonti di attesa: al pubblico di Ditti era ben nota l’articolazione dell’episodio in Euripide; l’eroismo (vano) di Achille viene qui messo, per così dire alla berlina, apparendo inutile ed, in qualche modo, sopra le righe. Per ciò che concerne la sostituzione di Ifigenia, a fronte di una tradizione nella quale essa è operata dalla dèa in modo ‘spettacolare’ e misterioso, Ditti opta per una scena e una modalità molto più concrete e pragmatiche: semplicemente Achille abstrahit, “trascina via” la fanciulla. Ciò che prenderà il suo posto si presenta in modo misterioso ma senza clamore agli occhi degli astanti nella sequenza successiva: mentre tutti sono ancora incerti sul da farsi, e anzi si interrogano sulle enigmatiche parole della divinità e su che cosa si debba immolare, una bellissima cerva si ferma proprio davanti all’altare97. I presenti dunque, pensando che si tratti della vittima sacrificale che era stata annunciata e che era comparsa per volere divino (divinitus oblatam), la catturano e la sacrificano. Che la loro deduzione sia esatta viene confermato dall’ennesimo 97

Se nelle fonti sin qui esaminate l’animale che prende il posto di Ifigenia è sempre una cerva (Kýpria tramite lo scolio iliadico e Proclo, Apollodoro, Ovidio, Igino, Servio, Ifigenie euripidee), è bene ricordare che in altre versioni, più tarde, del mito, si raccontava altresì che la fanciulla fosse stata trasformata in gru, in toro, in orsa (così in schol. Lycophr. 183) o in agnello (Anton. Lib. met. 27); gli stessi autori raccontano che Artemide la condusse sull’Isola Bianca ove Achille, che vi aveva preso sede dopo la morte, la sposò, trasformandola in una dèa. Secondo un’altra versione le nozze si erano già consumate prima della partenza e Neottolemo sarebbe persino stato figlio proprio di Achille ed Ifigenia.

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passo verso la luce, la rasserenazione del cielo che risulta limpido come nel periodo estivo e, infine, dall’acquietarsi della pestilenza (sedata lues). Simile appare la sequenza in Cedreno (cfr. supra); viceversa affine è l’apparizione della cerva in Malala, ma diversa la modalità con cui viene prescelta come vicaria victima per il sacrificio: in questo caso, difatti, non essendo stata preannunciata come in Settimio da una voce ‘fuori campo’, interviene di nuovo Calcante a rivelare la volontà divina: (Ύ΅ϠȱοΝΕ΅ΎАΖȱ΅ЁΘχΑȱϳȱϡΉΕΉϿΖȱ Ύ΅Ϡȱ ΐΣΑΘ΍Ζȱ “ΘχΑȱ σΏ΅ΚΓΑ”ȱ ΉϨΔΉΑǰȱ ϵΘ΍ȱ “Δ΍ΣΗ΅ΑΘΉΖȱ ΩΒ΅ΘΉȱ ΉϢΗȱΌΙΗϟ΅ΑȱΦΑΘϠȱΘϛΖȱΔ΅ΕΌνΑΓΙȱΘϜȱ̝ΕΘνΐ΍Έ΍”). Si noti come di nuovo il paragone biblico offra uno spunto analogo: in Gen. 22,13, nell’ambito del già citato sacrificio di Isacco, Abramo, alzando gli occhi, improvvisamente vede un montone impigliato in un cespuglio e decide autonomamente di offrirlo a Dio in vece di suo figlio, nonostante la voce dell’Angelo non gli abbia chiesto una vittima in cambio del giovane Isacco. Se la sostituzione con una cerva sembra un elemento ricorrente in diverse versioni, le modalità con cui essa avviene mutano sensibilmente. Nei Kýpria (così nello scolio iliadico e in Proclo) è la stessa Artemide a sottrarla in extremis dall’altare; allo stesso modo in Apollodoro la dèa colloca al suo posto sull’altare una cerbiatta. Le fonti latine (Ovidio e Igino) sfociano ancor più nel magico-esoterico: Diana avviluppa la fanciulla in una nube e la trascina via. Ditti-Settimio dunque, per l’ennesima volta, sembra proporre una versione che escluda una macroscopica ingerenza della divinità, e contemplare invece una massiccia responsabilità da parte dell’uomo.

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3.2. La morte di Aiace Telamonio Protagonista di numerosi episodi dell’Ephemeris, Aiace Telamonio è probabilmente uno dei pochissimi personaggi greci, forse l’unico, ad essere rappresentato con tratti sempre chiaramente positivi, accostabile, in ciò, solo al troiano Antenore98. Nella tradizione omerica, le sue vicende, in particolare dopo la morte di Achille, si erano fissate in un cartone destinato a costituire un punto di riferimento per diversi autori e diversi generi letterari, se pur con alcune varianti: dopo i giochi funebri in onore di Achille, Aiace e Odisseo si contendevano le armi dell’eroe; il giudizio sfavorevole ad Aiace (pronunciato dagli Atridi, dai Greci tutti, o da prigionieri troiani) provocava in questi risentimento e follia (ispirata da Atena), che lo spingevano a tentare una strage e quindi a uccidersi. La gamma delle fonti alle quali Ditti poteva accedere era estremamente ampia e abbracciava svariati generi letterari ed entrambe le culture classiche, quella greca e quella romana. Il primo accenno è già nella Nékyia odissiaca (11,543-547). L’episodio è certamente noto a due poemi del ciclo: la Piccola Iliade e l’Etiopide; dà il titolo ad un perduto dramma eschileo (TrGrF F174-178), ma costituisce anche l’antefatto del dramma sofocleo probabilmente più antico tra quelli giunti sino a noi, l’Aiace. A Roma entrambi gli esponenti di spicco della fase arcaica della tragedia, Pacuvio ed Accio, vi dedicano un’opera, l’Armorum iudicium. Il mito si ritrova inoltre nelle Metamorfosi di Ovidio. Ancora una parte cospicua del quinto libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne sarà dedicata all’episodio. 98

Lo sottolineava già Timpanaro 1987,186s.

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In base a questa ricca tradizione, si possono distinguere tre diverse versioni. La prima, attestata anche in Sofocle, vede Aiace imporsi per il possesso delle armi, Odisseo contrapporvisi con fermezza fin quasi allo scontro fisico che sarà scongiurato dall’istituzione di un ‘tribunale’ da parte di Agamennone, formato dai Greci che assegneranno le armi al Laerziade. Le altre due, più articolate, prevedono l’intervento dei Troiani nel giudizio e sono attestate rispettivamente dalla Piccola Iliade e dall’Etiopide: secondo la prima gli Achei inviavano delle spie ad ascoltare i discorsi delle giovani Troiane che stanno appunto parlando dei meriti dei due eroi, assegnando la vittoria ad Odisseo. Nella seconda versione Agamennone chiedeva un parere ad alcuni prigionieri Troiani su chi dei due avesse provocato più dolori al loro popolo; i prigionieri indicavano Odisseo, e l’Atride lo premiava. Nei Posthomerica, ad esempio, viene istituito un vero e proprio tribunale di prigionieri troiani che sono chiamati a giudicare i meriti dei due eroi reclamati da essi stessi in prima persona, tramite una sofistica contrapposizione di discorsi speculari. Il segmento del dibattito sembra piuttosto diffuso nel versante tragico della tradizione (c’era in Eschilo, nell’Aiace di Teodette, nei due drammi di Pacuvio e Accio), dove l’immediatezza espressiva e la lexis agonistikè favoriscono e incoraggiano l’utilizzo di questo strumento. Ma due importanti scene si ritrovano anche nel XIII libro delle Metamorfosi di Ovidio e nel V libro di Quinto di Smirne. La follia insinuata da Atena e il massacro degli armenti achei sono particolari assenti nell’Etiopide, e compaiono per la prima volta nella Piccola Iliade, ma questa versione è resa celebre e diffusa dall’Aiace di Sofocle, tanto da dive-

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nire comune a tutte le rielaborazioni teatrali successive.99 L’ultimo tratto della vicenda riguarda il compianto dei Danai tutti, tra i quali spiccano Teucro e Tecmessa: si trattava, anche in questo caso, di un modulo che sembra comparire dalla tragedia, e che viene sfruttato in seguito solo nei Posthomerica di Quinto. Questa era dunque la tradizione epico-omerica – ma anche tragica – sulla morte di Aiace, assolutamente sovrapponibile all’immaginario iconografico che ci è dato conoscere100. Aiace, qui, è rappresentato, in decine di testimonianze, in due tipici schemi: di fronte ad Odisseo, con le armi di Achille poggiate in mezzo, e, a volte, Agamennone come giudice dietro di esse; nell’atto di gettarsi sulla propria spada. Assolutamente diverso era, d’altro canto, l’episodio della morte di Aiace in Darete Frigio. Qui, dopo la morte di Achille, un Aiax nudus si lanciava nella mischia contro i Troiani, e riceveva una ferita mortale da Paride, che lo raggiungeva con una freccia sul latus nudum. A questo punto Aiax saucius Alexandrum persequitur, nec destitit, nisi eum occideret. Aiax, fessus vulnere, in castra refertur, sagitta exempta moritur.

Si tratta, com’è chiaro, di un unicum in tutta la tradizione antica (come spesso in Darete): Aiace muore colpito da Paride, ma riesce a vendicare la morte del cugino Achille. Il tutto nel consueto racconto senza pathos e senza commenti di Darete101. 99 Mentre si ignora se questo elemento fosse presente nelle perdute Thrèssai di Eschilo (TrGrF F83-85), ove il F 83 è attribuito ad una rhesis anghelikè che descrive il suicidio di Aiace. 100 Touchefeu 1981. 101 Vd. Canzio 2014,125-6.

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Quanto ci offre il racconto di Settimio, nonché le riscritture di Malala e Cedreno, si fa chiaramente riconoscere come un’operazione letteraria, di stampo ellenistico se non neosofistico, che ‘gioca’ con la precedente tradizione, pressoché concorde, e strizza l’occhio al lettore colto sulle modalità di questo lusus. Lo schema narrativo che costituiva la fabula della vicenda che portava Aiace al suicidio è mantenuto, nei tratti essenziali. Evidenti sono però le varianti con le quali Ditti modifica profondamente non solo i suoi modelli, ma un’intera tradizione culturale che aveva fatto di Aiace il simbolo dell’eroe monoliticamente orgoglioso. Innanzi tutto, il tempo e la scena. Come si è visto nel primo capitolo, alla morte di Achille, “perduto per il suo amore verso Polissena”, stando alle parole dello stesso Aiace, non si svolgono funerali enfaticamente solenni in campo greco: i soldati manifestano un profondo risentimento per colui che avrebbe voluto ‘vendere’ la vittoria a Priamo in cambio di una donna. È ancora Aiace, da solo, assoldando alcuni abitanti del Sigeo, a far erigere un tumulo per suo cugino. È chiaro che, in questo quadro, nessun gioco funebre in onore dell’eroe poteva essere previsto. Non si parla, dunque, delle armi di Achille, presumibilmente rilevate da Neottolemo, giunto in Troade appena dopo la morte del padre (4,15). Non si svolge, subito dopo la morte del Pelide, alcuno scontro fra Aiace ed Odisseo. Aiace continua le sue gesta fino alla presa della città, fino a quando i Greci si impossessano delle ricchezze di Troia e si spartiscono il bottino e le prigioniere. Tra gli oggetti preziosi da dividere fra i capi achei c’è anche il Palladio, lo xóanon antichissimo che Zeus fece precipitare sulla collina dove Ilo stava fondando Ilio. Una delle profezie sulla ca-

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duta di Troia, com’è noto, indicava nel possesso della statuetta un requisito indispensabile per conquistare la città. Nell’Ephemeris tuttavia, nonché nei bizantini, il Palladio non è ‘rapito’ da Odisseo e Diomede, in un’altra delle topiche spedizioni notturne della coppia, ma sottratto proditoriamente ai Troiani da Antenore, in combutta con i capi achei, e consegnato nottetempo proprio ad Odisseo (5,8)102. È a questo punto, di fronte alla questione dell’assegnazione del Palladio, che Ditti colloca e rimodula lo schema del confronto/scontro fra Odisseo e Aiace: entrambi pretendono l’oggetto sacro, e i capi sono indecisi sul da farsi. Si ripropongono nei tratti essenziali i momenti dello scontro verbale fra i due, dell’incertezza nella decisione da parte dei capi, dello sconforto di Aiace dopo l’assegnazione dell’oggetto conteso ad Odisseo, infine della morte del Telamonio. Queste sequenze, però, erano profondamente rimodulate da Ditti, per quanto possiamo ricostruire dalla versio latina e dai bizantini. Già il disinvolto incipit della sequenza, che occupa i capitoli quattordicesimo e quindicesimo del quinto libro, lascia leggere fra le righe una compiaciuta consapevolezza dell’autore nell’offrire al lettore una versione assolutamente diversa della contesa fra Odisseo e Aiace, frustrandone le attese: Interim super Palladio ingens certamen inter se ducibus exortum Aiace Telamonis expostulantes in munus sibi etc. 102 Un ulteriore elemento di distanza rispetto al ciclo omerico: nell’Ilioupersis, in particolare, era contenuto il racconto sull’origine e il rapimento della statuetta sacra. Vd. le distese osservazioni di Debiasi 2004,146-155.

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L’Aiax expostulans che il lettore ‘omerico’ si aspettava forse qualche pagina prima come reclamante le armi di Achille, delle quali invece non si è mai parlato, appare qui reclamare il Palladio, probabilmente proprio il trofeo per ottenere il quale i Greci non hanno ‘speso’ nessuna forza. Aiace lo chiede per i meriti che dichiara di aver raggiunto per l’esercito e per l’impresa. Le allusioni di Ditti alla coscienza letteraria del lettore continuano: “quasi tutti – infatti – sembrano acconsentire alla richiesta”, non solo perché riconoscono i meriti militari del Telamonio, significativamente rappresentati dalle vigiliae da lui compiute accanto alle truppe, ma soprattutto, uti ne laederetur animus tanti viri. Risuona già, in queste parole, il presentimento della fine tragica dell’eroe. Ditti, chiaramente, sta giocando con la ‘maschera’ del personaggio già fissata da secoli di letteratura e iconografia. Alle richieste di Aiace si oppongono, ancora una volta non a caso, Odisseo e Diomede: dunque non il solo Laerziade, ma la coppia al completo, che nella tradizione omerica (non nella versione di Ditti, però!) aveva sottratto ai Troiani il Palladio. Di nuovo Ditti sta alludendo ad un particolare del mito, così come era trattato pressoché in tutta la tradizione letteraria e iconografica, mutandone però il contesto e la funzione. Odisseo e Diomede “insinuano che sia merito loro aver recuperato la statuetta”: ma Aiace, nonché il lettore di Ditti, sa benissimo che così non è: contra Aiax adfirmare non labore aut virtute eorum rem gestam, Antenorem namque contemplatione communis amicitiae abstulisse. A questo punto il primo colpo di scena: Diomede a certamine destitit, riconoscendo ad Aiace l’onore che merita.

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L’attenzione di Ditti si sposta dunque tutta sullo scontro fra Aiace ed Odisseo. Quest’ultimo non solo non desiste dalla richiesta, ma ha in serbo un colpo tanto scorretto quanto micidiale. Se l’esercito greco continua ad apparire totalmente schierato dalla parte del Telamonio, infatti, sono però i capi achei a dover decidere sull’assegnazione, in primis Agamennone e Menelao. Proprio ai due Atridi si rivolge Odisseo, in modo indiretto in Settimio, con un discorso diretto in Malala, sottolineando come solo per il suo intervento Elena sia stata riconsegnata nelle mani di Menelao – che ancora la ama, afferma Settimio con una lieve ironia – dopo esser stata strappata proprio ad un accesso di ira di Aiace, che avendola scorta fra le figlie di Priamo sarebbe stato sul punto di ucciderla per vendicare i tanti dolori e lutti sofferti dai Greci: igitur Ulixes cum Aiace summa vi contendere inter se atque invicem industriae meritis expostulare adnitentibus Ulixi Menelao atque Agamemnone ob servatam paulo ante opera eius Helenam. Namque post captum Ilium Aiax recordatus eorum, quae tanti tempestatibus propter mulierem experti perpessique essent, primus omnium interfici eam iusserat. iamque adprobantibus consilium Aiacis multis bonis Menelaus amorem coniugii etiam tun retinens singulos ambiundo orandoque ad postremum perfecerat, uti intercessu Ulixis Helena incolumis sibi traderetur.

Nel discorso indiretto di Odisseo si distende dunque un’analessi narrativa, che svela la ragione ultima, totalmente ‘privata’ e poco rispettosa dei meriti militari dei due, che deciderà la contesa. L’episodio di Aiace che vorrebbe uccidere Elena non sembra presente nel Ciclo, né vi si fa menzione in altre fon-

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ti, ove invece (ad esempio nell’Ilioupersis, ma non solo) era Menelao che minacciava Elena e la trascinava per i capelli. In uno specchio istoriato di fattura etrusca, della prima metà del IV sec. a.C. (British Museum 627), tuttavia, si vede, accanto al più diffuso schema di Menelao che sembra voler punire Elena, anche la figura di Aiace (AIVAS, nell’inscriptio) in gesto di minaccia: una testimonianza di come questa variante fosse già diffusa anche in occidente in età piuttosto alta103. Proprio questa sequenza – il confronto fra Aiace ed Odisseo – è oggetto di un chiaro rimaneggiamento da parte di Malala. Il cronografo, infatti, amplia in modo macroscopico la sezione dei discorsi diretti dei due eroi, quasi a voler essere fedele alla tradizione omerica e drammatica delle rheseis contrapposte: ad un iniziale discorso di Aiace si oppongono ben due discorsi di Odisseo, in cui egli ripercorre tutti i suoi meriti e insiste, anche in questo caso, sul ‘recupero’ di Elena104. Funzionali anche ad inserire particolari narrativi in flash back che Malala riserva alle narrazioni in prima persona degli eroi, e non alla voce narrante della Chronographia, questi lunghi discorsi di Odisseo sono chiaramente dovuti al bizantino, e non 103

Touchefeu 1981,332. Sul contenuto dei discorsi dei due eroi, nelle fonti che li tramandano (Sofocle, Ovidio, Quinto e Malala, soprattutto), si potrebbe condurre un approfondito studio: ad essere messi in risalto, nell’uno e nell’altro autore, sono di volta in volta le opposizioni forza fisica/intelligenza, lealtà/inganno, o anche le imprese compiute da entrambi; a volte è possibile cogliere strategie ‘oratorie’ precise, come quando l’Odisseo di Quinto, in riposta ad Aiace che gli rinfaccia di aver egli da solo salvato il corpo di Achille dai nemici, sposta il piano dell’attenzione sul concetto generale che sia più efficace l’intelligenza della forza, quasi evitando di tornare sull’argomento. 104

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all’Ephemeris greca da lui comunque seguita nella sostanza narrativa. Ma torniamo alla versio latina. Di nuovo, con una iunctura tutta allusiva allo schema tradizionale del ‘giudizio’ delle armi, che aveva dato il titolo a testi drammatici e moduli iconografici105, Settimio – e, con tutta probabilità, Ditti – introduce la scena in cui gli Atridi decidono di assegnare il Palladio ad Odisseo: itaque, uti iudicio amborum merita expectantes. Come non poteva risuonare, all’orecchio del lettore esperto, il richiamo alle óplon kríseis della tradizione tragica greca e romana?106 In questo tessuto intertestuale, si inserisce tuttavia il pervasivo elemento dittiano della materialità, del realismo bellico che si è sottolineato più volte: l’errore più grande degli Atridi, infatti, è quello di aver sottovalutato non solo la grandezza delle imprese dell’eroe, ma anche l’importante riserva di vettovaglie che Aiace ha procurato all’esercito dalla Tracia. La decisione degli Atridi, del resto, provoca una netta spaccatura fra i duces. Ed è qui che incomincia a farsi strada, in Aiace, l’idea della vendetta: Interim Aiax indignatus et ob id victus dolore animi palam atque in ore omnium vindictam se sanguine eorum a quis impugnatus esset, exacturum denuntiat. 105

Vd. ancora, in particolare, Touchefeu 1981,324-7. Nella versione attestata dall’Etiopide, nella tradizione omerica (cfr. ad esempio gli scholl. ad Od.11, 547) e ripresa dai Posthomerica erano i prigionieri troiani a scegliere fra i due eroi: in questo modo si declinava ogni responsabilità dei Greci in merito al suicidio di Aiace. In Ditti, chiaramente, è assente questo scrupolo, anzi si insiste sulla complicità degli Atridi nella vicenda. Anche il ruolo di moderatore del dibattito non era affidato, nella Piccola Iliade, ad Agamennone, ma a Nestore: elemento che di nuovo sarà ripreso da Quinto. 106

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Ditti vuole di nuovo frustrare le attese del lettore. La narrazione sembrerebbe avviarsi verso il tradizionale finale della follia dell’eroe, ma non è così. Agamennone, Menelao e Odisseo, nel timore che Aiace possa vendicarsi di loro, schierano delle sentinelle intorno alle loro tende. L’atmosfera si fa ancora più cupa, perché, scesa la notte, Aiace continua a inveire contro i duces. Finché il finale ci riserva la sorpresa più notevole: ubi nox aderat, discedentes uno ore omnes lacerare utrumque regem neque abstinere maledictis, quippe quis magis libido desideriumque in femina quam summa militiae potiora forent. At lucis principio Aiacem in medio exanimem offendunt perquirentesque mortis genus animadvertere ferro interfectum. Inde ortus per duces atque exercitum tumultus ingens ac dein seditio brevi adulta, cum ante iam Palamedem virum domi belloque prudentissimum nunc Aiacem, inclitum tot egregiis pugnis, atque utrosque insidiis eorum circumventos ingemescerent. Ob quae supradicti reges, veriti ne qua vis ab exercitu pararetur, intus clausi firmatiue per necessarios manent.

Alle prime luci dell’alba Aiace è trovato morto nella propria tenda, ucciso da una spada che – chiaramente – non è la sua. Coerentemente con lo spirito dell’Ephemeris, non è fatta menzione di interventi divini. La responsabilità della morte dell’eroe, anzi, non solo a livello ‘morale’, ma sul piano concreto della realizzazione, è attribuita dall’esercito agli Atridi e a Odisseo: le truppe, anzi, instaurano un parallelo fra la morte misteriosa di Palamede, narrata nel primo libro, e quella di Aiace. Entrambi personaggi scomodi o invisi a Odisseo, entrambi trovati uccisi in circostanze poco chiare. Il Laerziade e gli Atridi, a questo punto, debbono chiudersi nelle loro tende, circondati dal-

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le truppe in vera e propria rivolta: Odisseo, preoccupato per il risentimento crescente, aspetterà la notte e lascerà il campo greco per fare ritorno in patria. Il Palladio rimarrà in custodia a Diomede. Tutte queste sequenze ricompaiono fedelmente in Giorgio Cedreno, molto sinteticamente, e in Giovanni Malala. È con questo sorprendente finale, dunque, che Ditti ‘rovescia’ il motivo del suicidio di Aiace, riscrivendo un tassello del mito troiano che era divenuto tanto diffuso quanto simbolico nell’immaginario antico107. A conclusione dell’episodio, dopo aver descritto come Neottolemo abbia provveduto ad erigere il tumulo per l’eroe presso il promontorio Reteo108, e senza fare la minima menzione del dolore e del lutto di Tecmessa o Teucro, arriva anche la ‘firma’ alessandrina di Ditti, fortunatamente conservata da Settimio: quae si ante captum Ilium accidere potuissent, profecto magna ex parte promotae res hostium ac dubitatum de summa rerum fuisset.

Come sarebbe stato possibile conquistare Troia senza l’apporto fondamentale di Aiace? È chiaro che, “se le vicende della sua morte fossero accadute prima”, non si sarebbe giunti alla conclusione della guerra. Il fatto stesso 107

Si pensi anche solo al proverbioȱ̄ϢΣΑΘΉ΍ΓΖȱ·νΏΝΖ, “per chi ride irrazionalmente”, riferito proprio al momento in cui Aiace, “dopo aver legato e frustato due montoni credendo che fossero gli Atridi, resosene conto, si uccide” (Zen. 1,43). 108 Sull’atteggiamento dei Greci di fronte alla sepoltura di Aiace si apprezzava la divergenza più netta tra la tradizione epica della Piccola Iliade e quella tragica della pièce sofoclea, ove uno dei motivi più rilevanti, nel finale, era il disaccordo tra i Greci intorno alle spoglie dell’eroe, disaccordo incarnato nella tragedia da Agamennone.

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di porsi una domanda simile rivela l’intento metaletterario di Ditti: in nome del realismo ‘bellico’ che è la nota dominante dell’Ephemeris, Ditti si chiede – e chiede divertito al lettore – come sia possibile che in tutti gli autori prima di lui sia stata ‘raccontata’ una versione così inverosimile della vicenda di Aiace. L’episodio della morte del Telamonio, dunque, si rivela con tutta evidenza uno dei più significativi della modalità di cosciente e allusiva riscrittura della tradizione omerica da parte di Ditti, delle sue strategie narrative ricche di suspance e di attese frustrate e di sorprendenti rovesciamenti di motivi consolidati. Ditti, a questo livello, ci appare senz’altro come autore maturo e capace.

4. La fortuna Quale immagine di Ditti fu consegnata alla successiva tradizione letteraria? È Giovanni Malala, nel V secolo, a darci il primo, più esteso e più lusinghiero ritratto dello storico antehomericus, del quale si serve abbondantemente nella sua Cronografia, spesso citandolo esplicitamente (5,29; 5,31). Quasi al principio della narrazione riguardante i fatti troiani, il retore antiocheno menziona la principale fonte che intende seguire in questa parte dell’opera: ̍΅ΌАΖȱ ϳȱ ΗΓΚЏΘ΅ΘΓΖȱ ̇ϟΎΘΙΖȱ ϳȱ πΎΘϛΖȱ ̍ΕφΘ΋Ζȱ ЀΔΉΐΑ΋ΐΣΘ΍ΗΉΑȱΐΉΘΤȱΦΏ΋ΌΉϟ΅ΖȱΘΤȱΔΕΓ·Ή·Ε΅ΐΐνΑ΅ȱ Ύ΅Ϡȱ ΘΤȱ ΏΓ΍ΔΤȱ ΔΣΑΘ΅ȱ ΘЗΑȱ πΔϠȱ Θϲȱ ͕Ώ΍ΓΑȱ πΔ΍ȱΗΘΕ΅Ȭ ΘΉΙΗΣΑΘΝΑȱ ̴ΏΏφΑΝΑǯȱ ͂Α·ΤΕΐΉΘΤȱ ΘΓІȱ ͑ΈΓΐΉΑνΝΖȱ ΘΓІȱΔΕΓΐΣΎΓΙΘЗΑȱ̇΅Α΅ЗΑΘΓІȱΎ΅ΘΉΏΌϱΑΘΓΖΉϢΖȱΘϲΑȱ ΔϱΏΉΐΓΑȱ Χΐ΅ȱ ΘΓϧΖȱ ΩΏΏΓ΍Ζȱ ̝Λ΅΍ΓϧΖаȱ ЀΔΓ·Ε΅ΚΉϿΖȱ ·ΤΕȱ ΅ЁΘΓІȱ ΘΓІȱ ͑ΈΓΐΉΑνΝΖȱ πΘϾ·Λ΅ΑΉΑȱ ϳȱ ΅ЁΘϲΖȱ

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̇ϟΎΘΙΖȱ Ύ΅Ϡȱ οΝΕ΅ΎАΖȱ ΦΎΕ΍ΆЗΖȱ ΘΤΘΓІȱ ΔΓΏνΐΓΙȱ Ύ΅Ϡȱ ΗΙ··Ε΅ΜΣΐΉΑΓΖǰȱ БΖȱ Δ΅ΕАΑȱ ΘϱΘΉȱ πΑΘΓϧΖȱ ΛΕϱΑΓ΍Ζȱ πΎΉϟΑΓ΍ΖȱΐΉΘΤȱ̴ΏΏφΑΝΑǯȱ

Ditti è dunque caratterizzato dallaȱ ΦΏφΌΉ΍΅, nonché dallaȱΦΎΕ΍Άϟ΅. “Essendo presente agli avvenimenti”, Ditti ha potuto narrarli in modo più veritiero di Omero. Così, tutti gli autori bizantini che seguiranno Ditti come fonte primaria, anche senza citarlo apertamente, in un confronto più o meno esplicito con il sommo poeta affermeranno di voler narrare i fatti “secondo gli storici”, Ύ΅ΌАΖȱ ΘΓϧΖȱ ϡΗΘΓΕφΗ΅Η΍, per esempio, come scrive Costantino Manasse nel suo poema ‘breve’ sulla storia del mondo (Syn. 1111). Nella Costantinopoli del X secolo a Ditti è dedicata una voce del lessico Suda (Έȱ 1117-8), ove accanto alle notizie ricavate da quello che doveva essere il prologo dell’opera greca (con informazioni aggiuntive rispetto a quelle già fornite da Malala, dunque derivate da altra fonte, forse ancora diretta) non si dànno giudizi di merito sulla storiografia del cretese. Nessun giudizio anche in uno scolio di Areta, allievo di Fozio e poi vescovo di Cesarea, ad un passo dell’orazione XI di Dione di Prusa, ove si afferma che Omero fu il primo a narrare i fatti troiani,ȱΓЁΎϷΑȱΘΝΑȱΈξȱοΘνΕΝΑȱΔΓ΍΋ΘЗΑȱ ΓЁΈξȱΗΙ··Ε΅ΚνΝΑ. Significativamente, Areta ‘corregge’ il Crisostomo, ricordando che, se di poeti prima di Omero non vi è traccia, c’è tuttavia almeno unȱ ΗΙ··Ε΅ΚΉϾΖ: proprio Ditti di Creta, che ha narrato le imprese deiȱ ›ŽŒ’ȱ Ά΍ΆΏϟΓ΍ΖȱǯǯǯȱΗΙΐΚЏΑΓ΍ΖȱΎ΅ΘΤȱΔΣΑΘ΅ȱе̒ΐφΕУ. Areta conosceva ancora il testo di Ditti? Forse no. Ma la sua premura di accostarlo ad Omero, mantenendone vivo il valore, ci dice molto della fama di storico veritiero ed importante, nel ‘canone’ tardoantico prima e bizantino poi, di cui ancora godeva il cretese Ditti in quei secoli.

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Di lì a poco, del resto, il Ditti e il Darete latini sarebbero stati presi come punti di riferimento dalla nascente letteratura romanza, che ne avrebbe fatto le fonti privilegiate delle Chansones di argomento troiano: il ‘veritiero’ Ditti, in questo modo, avrebbe per molti secoli – almeno fino all’inizio del Quattrocento, addirittura sostituito Omero nell’Occidente latino109. Le ragioni ultime di questo fenomeno sono difficilmente circoscrivibili. Si è addotta la motivazione della lingua: il latino, nella cui traduzione questi testi sono giunti sino ai nostri giorni, ne avrebbe consentito una diffusione ed una circolazione molto maggiori rispetto allo stesso Omero e ad opere greche di argomento omerico. Parallela e complementare a questa considerazione è sicuramente quella relativa alla scarsissima diffusione dei poemi omerici per tutto il Medioevo. Recentemente poi, Ditti e Darete sono stati inclusi in un sottogenere letterario denominato Pseudo-documentarismo110. Si tratta di opere in cui l’autore presenta dei contenuti (fittizi) come veritieri ed autentici celandosi dietro la loro autorità. Anche questa classificazione, in realtà, non aiuta né fornisce argomenti ulteriori a favore di un riconoscimento della superiorità conferita in particolare a Ditti e a Darete: Hansen, il coniatore del termine ed euretès del sottogenere, in realtà non fa altro che circoscrivere una categoria letteraria all’interno del genere della fiction, e non spiega come mai, viceversa, le versioni mitiche riportate da Ditti e Darete siano state così a lungo trattate come Il capitolo sulla fortuna di Ditti e Darete in età mediolatina è ora affrontato dalla già citata Prosperi 2013 (e già 2012, 45 ss.) dalla quale derivo il materiale relativo alla ricezione di Ditti in età umanistica e nei secoli successivi. 110 Hansen 2003, 302. 109

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vera e propria storia, sia stata loro tribuito uno statuto di veridicità assoluta. Come rileva giustamente la Prosperi111, viceversa, il fenomeno di ricezione dell’Ephemeris può essere compreso solo se si guarda alla tessitura dell’opera e ai presupposti cognitivi che essa implica: Ditti (come anche Darete) mette in campo un finissimo lusus con Omero, un sottile gioco di allusioni e di scarti rispetto alla versione del “divino” che può essere compreso e deve essere indirizzato esclusivamente ad un lettore che coincida con un esperto conoscitore di Omero. Nel momento in cui i fruitori di queste opere (in primis i loro traduttori) persero familiarità con Omero, l’efficacia dell’ironia ad esse sottesa si perse del tutto, e furono inevitabilmente fraintese, considerate, in ultima analisi, delle vere e proprie narrazioni storiche. Lo stesso Settimio presta il fianco a questo meccanismo nel momento in cui fa precedere la propria versio da un’epistola che duplica lo stratagemma autenticativo del prologo112 e ingenera nei lettori un’ulteriore deviazione nella sua ricezione. Una nuova e decisiva consacrazione di Ditti e Darete a veri e propri storici della guerra di Troia è data dai caratteri stessi delle loro opere, che ben poco spazio riservano al soprannaturale e al divino, ma aderiscono (in termini di polemica anti-omerica che tuttavia non viene, come si è detto, più compresa) ai princìpi della storiografia razionalistica di matrice tucididea e al principio definito da Bernard Williams “requisito esplicativo”113, 111

Prosperi 2013,17 ss. Vd. Prosperi 2013,19 con relativi studi sul meccanismo di reduplicatio dell’epistola. 113 Prosperi 2013,20. 112

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in base al quale non esiste evento, per quanto remoto, che possa sottrarsi alle stesse leggi che regolano gli eventi moderni. Fu proprio l’adesione ai dettami della storiografia classica il presupposto fondamentale che consentì a Ditti e a Darete di essere inseriti dai Padri della Chiesa, tra tutti Eusebio, nel novero dei primi storici greci. In dipendenza proprio dalla periodizzazione eusebiana, Isidoro di Siviglia, nel VI secolo, afferma che apud gentiles primus Dares Phrygius … historia medidit, inaugurando un filone di compilazioni medievali di storia universale in cui figurerà costantemente il nome di Darete, a volte accostato a quello di Ditti, i quali, sebbene estremamente diversi, furono naturaliter letti in parallelo, complementari l’uno all’altro, a formare un dittico sulla materia troiana. Proprio nel periodo medievale la diffusione di questi testi subì un incremento notevole, fornendo lo spunto per una serie di opere che ne derivarono in maniera più o meno diretta (si pensi, per il XII secolo, al grande poema in sei libri dell’erudito inglese Giuseppe Iscano, il De bello troiano, o all’Ilias in distici del francese Simon Capra Aurea). Un punto nodale e di svolta per la propagazione delle opere dittiana e daretiana è certamente costituito dalla composizione, ancora nel XII secolo, del Roman de Troie ad opera di Benoît de Sainte-Maure. Si tratta del testo più letto e copiato del tempo, che ispirò a sua volta riprese e rielaborazioni, diede impulso alla tradizione manoscritta dei due testi e agì in maniera determinante sulla fortuna di entrambi, che l’autore dichiara apertamente come modelli, denigrando l’autorità di Omero in quanto non testimone diretto degli eventi. Essi, inoltre, vengono presi in considerazione in maniera complementare da Benoît, il quale attinge all’uno qualora l’altro non

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lo soddisfi, sebbene tuttavia, sembri maggiore l’influenza di Darete114. Un fenomeno ulteriore va certamente rilevato: la fama del Roman non solo lo rese protagonista di riprese, ma allo stesso tempo oggetto di polemiche da parte di chi scelse di travalicarne l’autorità per rivolgersi recta via alle sue fonti. Questo il caso dell’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne (1287 ca.), il quale, optando per un racconto in prosa della distruzione di Troia, in polemica con i poeti e con lo stesso Benoît – che pure non cita mai esplicitamente –, e rifacendosi direttamente ai suoi modelli, restituisce loro quello statuto storiografico che in parte era stato accantonato da opere di fiction come lo stesso Roman. Uno statuto che passerà decisamente in secondo piano nel Trecento, allorché la materia troiana si trasformerà univocamente in leggenda e come tale verrà trattata, ad esempio, dal Boccaccio, autore in età giovanile, del Filostrato, poema in cui, sebbene la cornice si possa dichiarare ispirata al Roman, l’intento risulta decisamente diverso da quello storico-documentario. Ancora inclini ad affermare l’autorità di Darete, ma ora soprattutto di Ditti, due contemporanei di Boccaccio: Benzo d’Alessandria e Guglielmo da Pastrengo, protoumanisti settentrionali, che nelle loro storie universali, guardando direttamente ad Isidoro, si riferiscono ancora e Ditti e Darete come Historiographigentilium. Esemplificativa della fama di veridicità tribuita a Ditti e Darete è la posizione di Petrarca. In questo senso si può richiamare il contributo di Petrarca alla redazione di un codice (Par. Lat. 5690) in cui il vescovo Landolfo Colonna aveva fatto trascrivere l’Ephemeris in apertura di una serie 114

Questa la conclusione di D’Agostino 2006,50.

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di testi storiografici veri e propri (Floro e le Decadi I, III e IV di Livio): un chiaro indizio del fatto che anche lui annoverasse Ditti tra gli storici. Si deve altresì citare il celebre passo del Trionfo della Fama (iia, 107-111) in cui Petrarca cita Darete e Ditti come contraddittori l’uno rispetto all’altro, dichiarando così l’impossibilità di accedere alla assoluta verità dei fatti; in contraddizione sì, ma non di meno storici: e Dare e Dite fra lor discordi e non è chi’l ver cribri; così rimansi ancor l’antica lite di questi e d’altri e gli argomenti interi, ché le certe notizie son fallite

La prima stroncatura decisa ai nostri due autori proviene da uno dei più insigni e celebri umanisti del tempo, Coluccio Salutati, che ne denigrò non solo l’autorità, definendoli apocrifi, ma criticò aspramente anche Guido delle Colonne che li compendiò nella propria opera: In qua quidem re, cum duos habeamus auctores, gnosium Dictym phrigiumque Dareta, tacuit omnino grecus ille quod quaeris; alter vero troianus paucissimis habitum Hectoris explicavit (…) Homerus autem diciteum fuisse terribilem (…) Aliud autem apud Latinos non memini me legisse, nisi penes Guidonem de Columna Messana, qui, Dictym Dareta secutus, librum qui Troianus vulgo dicitur ex dua busillis hystoriis compilavit et ex duobus apochryphis unum fecit, quem omnes quos eruditos vidi flocci faciunt, ut pote carentem tam gravitate quam fide.

Tuttavia, nonostante il lapidario giudizio di uno degli spiriti più illuminati del tempo, la fede nella veridicità di Ditti a Darete sopravvisse anche nella generazione succes-

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siva, come testimonia l’umanista padovano Sicco Polenton, che li colloca tra gli storici e ne mostra una conoscenza diretta. Della diffusione e della fama di Ditti e Darete in età umanistica si è occupato Momigliano115, il quale ha operato una distinzione netta tra ‘alta’ e ‘media’ cultura umanistica, sostenendo che la prima ne avesse immediatamente accantonato la veridicità storica, mentre la seconda ne avesse mantenuto lo statuto di storici sino al XVI secolo. La Prosperi116 si scaglia contro questa rigida divisione di Momigliano, mettendo in evidenza quanto fosse ben più nutrita la schiera dei sostenitori umanistici – se non di alto profilo come i detrattori – dei due autori. Un sostegno, dato da quella “media cultura”, che conferisce nuovo impulso e dignità allo studio di Ditti a Darete nel corso del Quattro e del Cinquecento. A riprova di ciò l’elevato numero di edizioni che si susseguono per tutto il XV secolo (Vd. infra § 5) nonché la prima edizione congiunta dei due testi (Messina 1498, ristampa Venezia 1499): edizioni che professano l’indiscussa veridicità storica dei due testi e la loro capacità di recuperare un segmento di storia remota altrimenti irrimediabilmente offuscato dall’alone del mito. Una svolta decisiva alla consacrazione di Ditti e Darete come storiografi in Italia viene impressa nel 1570 dal poligrafo aretino Tommaso Porcacchi, che li traduce per farne il primo volume di una Collana historica graeca, prima sezione di una Collana historica universale per i tipi di Giolito de’ Ferrari. In questa edizione essi precedevano i massimi storiografi greci (Erodoto, Tucidide, Senofonte, Gemistio Pletone, Polibio, Dionigi di Alicarnasso, Giu115 116

Momigliano 1960,47. Prosperi 2013,28.

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seppe Ebreo, Plutarco, Appiano, Arriano, Dione Cassio): l’indiscutibile attendibilità storica che non solo l’autore, ma anche il pubblico, tributava a questi due testi, emerge dunque nitidamente dalla disposizione e dalla scelta degli autori. Un riflesso della fiducia che letterati e pubblico del tempo accordavano alle opere di Ditti e Darete si può inoltre scorgere nel dibattito che ha animato l’ambiente intellettuale italiano nell’ultima parte del XVI secolo, seguìto alla pubblicazione delle Gerusalemme liberata. Nell’ambito di questa querelle, difatti, si colloca la replica del letterato ferrarese Camillo Pellegrino alla Crusca, nella quale sostiene fermamente la veridicità della guerra di Troia proprio in virtù delle testimonianze di Ditti e Darete: Chiara cosa è, che mi si farà buono, che la guerra di Troja sia stata cosa vera, e reale; e reale parimente lo sdegno d’Achille; reale dico, se non vogliamo, che l’argomento della Iliade sia fondato sopra una cosa del tutto vana (…) E colui, che per avventura volesse questo negarmi, sarà convinto dalla istoria di Darete Frigio, e di Dite Cretense, autori intervenuti nel fatto dell’armi, e ricevuti, e tradotti da Cornelio Nipote, e da Quinto Settimio Romano, che ne’ paralleli di quelle, tirati con la poesia di Omero, si conoscerà l’alterazione di molti particolari, e alcun particolare non alterato.117

Sempre nell’ambito dell’aspro dibattito sul Tasso, in senso del tutto contrario si esprime uno dei più feroci 117

Camillo Pellegrino, Replica di Camillo Pellegrino, alla risposta de gli Accademici della Crusca, fatta contro il Dialogo dell’epica poesia, in Mantova, per Francesco Osanna, 1586, stampato in T. Tasso, Opere, Pisa, 1827, vol. 18,5-6. Vd. anche Prosperi 2013,35.

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detrattori della Gerusalemme, Leonardo Salviati. Questi, proprio facendo leva su Omero, individua la stretta dipendenza di Ditti e Darete dal “divino” poeta, rispetto al quale i due autori si rendono colpevoli di averne solo romanzato il contenuto intrudendovi delle varianti frutto della successiva produzione tragica; sostiene inoltre con due diverse argomentazioni, l’una interna e l’altra esterna alle stesse opere, la loro sostanziale falsità: innanzitutto l’assenza di menzione in Aristotele, il quale, se ne avesse avuto notizia, non l’avrebbe mai passata sotto silenzio; in secondo luogo le grandi incongruenze che presentano l’uno rispetto all’altro, che renderebbe impossibile credere ad una partecipazione di entrambi alla guerra di Troia118. La diffidenza nei confronti di Ditti e Darete viene ribadita e accentuata da un altro grande intellettuale del tempo, Antonio Possevino, il quale alla fine del XVI secolo, nella Sectio quarta, de historicis, vel suppositiis, vel non veracibus della sua Bibliotheca selecta, critica la sterilità delle narrazioni dittiana e daretiana, incompatibile, a suo giudizio, con la ricchezza della materia trattata. Nel XVII secolo la fama di storici affidabili di Ditti e di Darete sembra crollare definitivamente. La condanna definitiva arriverà tuttavia solo all’inizio del XVIII da parte del filologo Giacomo Perizonio, che pubblicherà, agli albori del secolo, una Dissertatio de Historia Belli Troiani, con un sintetico quanto lapidario incipit: Nullus extitit Dictys Cretensis, qui Troianas res illis temporibus scripserit, quod tradiderunt Graeci sequiori saevi, et Recentiores Eruditi.119

118 119

La Prosperi 2013,37-38 riporta per intero gli strali del Salviati. Perizonius 1702. Vd. anche Prosperi 2013,37.

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*** Omero, il “divino” Omero, e con lui tutto il ciclo epico, avevano rappresentato per un millennio – di fatto – la versione ‘ufficiale’ del più importante mito dei Greci: la guerra di Troia e le vicende degli eroi in quella protagonisti. Nonostante il dramma attico avesse sfruttato (e spesso, probabilmente, ideato) versioni differenti da quella omerica, così come, forse, avevano fatto Stesicoro e parte della lirica arcaica – anche se non appare prudente attribuire al Reggino, e in genere ad una datazione ‘alta’, ogni mito divergente da Omero – nonostante Erodoto avesse applicato categorie razionalizzanti ai fatti narrati dall’epos120 e gli alessandrini, da Callimaco ad Apollonio, avessero rintracciato fra le loro fonti antiquarie particolari e rarità ‘antiomeriche’, il “divino poeta” era sempre il più frequentato, il più letto dal grande pubblico, a cominciare dalla scuola, e soprattutto il più rappresentato in tutte le forme artistiche di cui abbiamo testimonianza. Il mito troiano era Omero, e Omero era il mito troiano. Sicuramente per la maggior parte dei lettori antichi e in tutto l’immaginario popolare di antonomasie, proverbi, exempla retorici. Accanto, più spesso che contro, a questa tradizione omerica sul mito troiano, esisteva, come si è detto già dalla lirica arcaica, una tradizione che è stata definita a volte “antiomerica” (Timpanaro) o “antagonista” (Prosperi), ma che è forse più opportuno definire ‘para-omerica’. Innestando nella fabula omerica elementi sorprendenti, all’insegna di una riscrittura che tutti potevano confrontare con il testo del “divino poeta”, molti autori, probabilmen120 In questo senso la Prosperi (2012,44-45) legge nel pur Homerikòtatos Erodoto il primo “storico antiomerico”.

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te molti di più di quanti possiamo anche solo immaginare, tentarono strade nuove nella già tradizionale via maestra del mito troiano: strade spesso colorate a tinte fosche, fatte di agguati e di tradimenti in luogo di duelli campali e leali disfide; strade adombrate da sentimenti ribelli delle truppe e da tradimenti reciproci fra i “capi”; strade che avrebbero portato, dopo la fine del mondo antico, ad esiti romanzeschi fortunatissimi, che in qualche modo avrebbero assicurato anche a questo ‘alternativo’ mito troiano una sopravvivenza non scontata, accanto ad Omero. Di questa tradizione para-omerica, arcaica, classica ed ellenistica, l’anonimo autore che si cela dietro la maschera ambigua del cretese Ditti sembra riannodare (quasi) tutti i fili. Come un grande bacino collettore, la sua Ephemeris ci ha conservato – insieme all’Historia di Darete – un ricchissimo bagaglio di sorprendenti versioni mitiche e allusive tessere intertestuali, che aspettano ancora, per la maggior parte, uno studio moderno che le valorizzi e ne metta in luce le peculiarità letterarie e culturali121. Valentina Zanusso

121

Ancora non pubblicata, e di fatto scarsamente reperibile, la dissertazione di Marblestone 1970.

NOTA CRITICA

LA TRADIZIONE MANOSCRITTA Accantonate per un momento le questioni inerenti al Ditti greco trasmessoci dal Ptebt 268 (Pack2 338) e dal POxy 25391, al passaggio dalla versione in fenicio fino a quella in latino e al numero di libri in cui era originariamente divisa l’opera2, si tenterà ora di offrire una rapida panoramica sulla tradizione medioevale del testo del Ditti settimiano3. Questa, oltre a permettere una migliore comprensione dei problemi filologici delle Ephemerides dell’eroe cretese, aprirà anche la strada alla riflessione e al dibattito sulla loro ricezione e sulla loro fortuna fino ai nostri giorni. In questa prospettiva, è necessario dire subito che Ditti Cretese non godette della felice sorte che arrise invece al “collega” Darete Frigio, nonostante – almeno fino al IX-X secolo – i due compaiano comunemente in coppia. Ad esempio, nei cataloghi delle collezioni librarie medioevali, si può ancora leggere: «192. historia Homeri, ubi dicit Dictys et Dares Phrygius» (inventario della biblioteca di Saint Riquier, anno 831); «25. Hystoriam dictis et daretis. in I sced.» (biblioteca di San Gallo, seconda metà 1

Si vedano, rispettivamente, B. P. Grenfell – A. S. Hunt – E. J. Goodspeed (edd.), The Tebtunis Papyri. Part II, London 1907, e J. W. B. Barns – P. Parsons – J. Rea – E. G. Turner (edd.), The Oxyrhynchus Papyri. Part XXXI, London 1966. 2 Su quest’ultimo punto si rimanda a W. Lapini, I libri dell’Ephemeris di Ditti-Settimio, Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 117/1997, pp. 85-89. 3 Vale la pena sottolineare che, ad oggi, non si ha alcuna notizia di testimoni del Ditti greco oltre ai già menzionati frammenti papiracei. Questa condizione rende ancor più difficile valutare la conoscenza e l’eventuale circolazione delle Ephemerides a Bisanzio.

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del IX secolo); «466.67. libros Septimi Sereni duos, unum de ruralibus, alterum de historia Troiana, in quo et habetur historia Daretis» (biblioteca di Bobbio, fine del IX secolo)4. Il testo di Darete si impose nei gusti del pubblico e venne trascritto in molte copie, mentre di Ditti conosciamo soltanto sei testimoni riferibili al periodo anteriore al XII secolo e fino al XIV secolo. Si tratta, in particolare, di: St. Gallen, Stiftsbibliothek, 197-I, sec. IX (G ovvero ī); Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Vitt. Em. 1613, sec. IX (codex Aesinas, E); Zürich, Zentralbibliothek, Z.XIV.14, sec. IX; Strasbourg, Bibliothèque Universitaire, 14-I, sec. XI (S); Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 72 inf., sec. XIXII (R); Bruxelles, Bibliothèque Royale, 3920-3923, sec. XII (H); Bern, Burgerbibliothek, 367, sec. XIII (B). Comparso già nei lavori di A. Dederich negli anni Trenta del XIX secolo, il manoscritto di San Gallo guadagnò il centro della scena nell’edizione critica di Ditti Cretese, curata da F. Meister nel 1872 per la collezione della Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana5. Considerato dall’editore come codex optimus – secondo schemi lontani da quelli della moderna filologia –, questo venne praticamente utilizzato come unica fonte per la ricostruzione del testo ed oscurò pertanto gli altri testimoni allora noti6. L’anno 1907, come si è detto precedentemente, segnò una svolta importante per il testo dittiano. Non solamente per il ritrovamento del papiro di Tebtunis, ma anche perché in quell’anno C. Annibaldi pubblicò la collazione delle Ephemerides condotta su un nuovo, importante manoscritto, da questi rinvenuto cin4

Rispettivamente, G. Becker, Catalogi Bibliothecarum antiqui, Bonnae 1885, pp. 28, 54 e 69-70. 5 F. O. Meister (ed.), Dictys Cretensis Ephemeridos belli Troiani libri sex, Lipsiae 1872. 6 Scrive S. Timpanaro: «le lezioni di qualche altro codice erano citate dal Meister solo saltuariamente, e col sospetto pregiudiziale che si trattasse di congetture più o meno felici, non di tradizione genuina» (S. Timpanaro, Per la critica testuale dell’Ephemeris di Ditti-Settimio, in Lanx satura Nicolao Terzaghi oblata. Miscellanea philologica, Genova 1963, pp. 325-342, in part. 326).

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que anni prima nella biblioteca del conte Balleani a Jesi (da qui il nome Aesinas, con il quale il codice è universalmente noto)7. Infatti, oltre a veicolare l’unico frammento antico delle opere minori di Tacito – altrimenti leggibili solo in testimoni di età umanistica –, tale volume, conservato da non molti anni presso la Biblioteca Nazionale di Roma sotto la segnatura Vitt. Em. 1631, offriva ai ff. 1r-51v «il testo migliore dell’autore Ditti Cretese»8. La nuova scoperta incentrò il dibattito solamente su quale, traī ed E, fosse testimone di un testo qualitativamente superiore. Per una più attenta valutazione del valore filologico dei manoscritti di Ditti bisognerà però attendere fino al 1958 quan7

Breve notizia ne veniva infatti data già in C. Annibaldi, Di un nuovo codice dell’Agricola e della Germania di Tacito, Atene e Roma, 5/1902, pp. 737-738. 8 C. Annibaldi, L’Agricola e la Germania di Cornelio Tacito nel ms. latino n. 8 della biblioteca del Conte G. Balleani in Jesi, Città di Castello 1907, p. 63. Non sarà inutile ricordare brevemente alcune vicende della storia di questo manoscritto. Nonostante il dibattito sia ancora vivo, sembra ormai lecito ipotizzare che il fascicolo in carolina veicolante una sezione dell’Agricola facesse parte del celeberrimo codice di Hersfeld, sulle tracce del quale molto si affaticò l’umanista Poggio Bracciolini e che giunse in Italia nel 1455 nel bagaglio di Enoch d’Ascoli (su tale argomento si veda F. Stok, Le vicende dei codici hersfeldensi, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. VIII 28/1985, pp. 281-319). Anche in merito all’origine del codex Aesinas le opinioni sono discordi: alcuni sostengono l’ipotesi di una provenienza tedesca (sebbene per il tramite di un antigrafo inglese o italiano; cfr. P. Lehmann, Paläographische Beurteilung des Codex Hersfeldensis, in R. Till [ed.], Handschriftliche Untersuchungen zu Tacitus Agricola und Germania mit einer Photokopie des Codex Aesinas, Berlin-Dahlem 1943 [Deutsches Ahnenerbe, 1], in part. p. 13); altri invece propendono per la Francia (e in particolare la valle della Loira; cfr. B. Bischoff, Das benediktinische Mönchtum und die Überlieferung der klassischen Literatur, Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktiner-Ordens, 92/1981, pp. 165-190, in part. p. 181). Attualmente il codice si presenta come il frutto del restauro cui provvide Stefano Guarnieri (m. 1495), cancelliere perugino e fratello di Francesco che fu scrittore della Camera Apostolica; i danni ora visibili si devono all’alluvione fiorentina del 4 novembre 1966. Per una messa a punto della questione si veda F. Niutta, Sul codice Esinate di Tacito, ora Vitt. Em. 1631 della Biblioteca Nazionale di Roma, Quaderni di Storia, 43/1996, pp. 173-202.

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do W. Eisenhut pubblicò una nuova, e ancor valida, edizione critica delle Ephemerides9. Attento a passare in rassegna tutte le questioni fino ad allora sollevate, lo studioso si concentrò nella prefazione sulla tradizione manoscritta e, con l’intento di superare le sterili diatribe sull’eventuale codex optimus, tentò di ricostruire un preciso stemma codicum. Tra i codici, infatti, egli volle riconoscere due grandi famiglie, denominate Ȗ e İ, facenti riferimento rispettivamente al codice di San Gallo e all’Esinate10:Ȗsi caratterizza per una lunga serie di omissioni e varie corruttele mentre ε mostra pochi errori distintivi e in più passaggi è testimone di varianti di chiara natura congetturale;Ȗ trasmette il prologo dell’opera, omettendo completamente l’epistola di Settimio a Q. Aradio Rufino, mentre ε, al contrario, veicola l’epistola settimiana ma non il prologo11. Purtroppo, in questa sede non è possibile addentrarsi maggiormente nella discussione delle scelte editoriali che sono dietro ogni singola variante. In ogni caso basti segnalare la propensione, di Eisenhut ma fatta propria anche da altri filologi, per il testo della famiglia del Sangallensis. Fu proprio in un simile contesto che S. Timpanaro avanzò acute critiche all’edizione del 1958. Egli non solo mise in dubbio la tenuta della ricostru9 W. Eisenhut (ed.), Dictys Cretensis, Ephemeridos belli Troiani libri a L. Septimio ex Graeco in Latinum sermonem translati, Lipsiae 1958. 10 Non sarà inutile ribadire la singolare casualità che ha fatto sì che fino all’Umanesimo il ramo ε sia rappresentato solamente dal codice Esinate. L’utilizzo della classificazione in famiglie stemmatiche ha contribuito inoltre agli studi sulla riprese del tema troiano nella letteratura medioevale e rinascimentale. A titolo d’esempio: Benzo di Alessandria, autore dell’opera enciclopedica Chronicon, lesse Ditti Cretese nella versione ε (si rimanda per ogni approfondimento all’interessante M. Petoletti, Benzo d’Alessandria e le vicende della guerra troiana: appunti sulla diffusione della Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese, Aevum, 73/1999, pp. 469-491) mentre Benoit de Saint-Maure, autore del celebre e fortunato Roman de Troie, ebbe sotto gli occhi un testo dittiano della famiglia Ȗ. 11 Se – si potrebbe obiettare – il contenuto della lettera e quello del prologo sembrano talvolta potersi sovrapporre, è invece importante sottolineare le forti diversità tra queste due sezioni, sia per la forma che per il contenuto.

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zione della famiglia İ, sulla quale – a suo giudizio – gravava l’ambiguità di alcuni rapporti tra manoscritti profondamente contaminati dall’altro ramo della tradizione, ma inoltre segnalò undici passaggi in cui la lezione di İ era da preferire12. L’importanza e l’influenza di questo contributo appare evidente dal fatto che nella seconda edizione di Eisenhut (1973) ben sette proposte dello studioso italiano furono accolte a testo. Da allora, la situazione del testo di Ditti Cretese non ha fatto significativi passi in avanti13. Questo è il testo qui riprodotto. Per concludere, si vuole accennare a qualche altro testimone dittiano del XIV secolo, degno di nota per le sue caratteristiche o per la sua storia. Della famiglia Ȗ abbiamo: il Vat. lat. 1860 della Biblioteca Apostolica Vaticana (K), posseduto e postillato da Zanobi da Strada (circa 1312-1361) e successivamente da Tommaso Parentucelli (poi papa Niccolò V; 1397-1455), e il Par. lat. 5690 della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, un’ampia enciclopedia storica contenente Ditti, Floro e tre decadi di Tito Livio, allestita per Landolfo Colonna (circa 1250-1331) e quindi passata nelle mani di Francesco Petrarca (1304-1374)14. Della famiglia ε abbiamo invece: il Vat. Urb. lat. 1120 della Biblioteca Apostolica Vaticana (U), il Par. lat. 5691 della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, vergato dal bidello dell’Università di Pavia Pantalemone da Crema, e il codice Aldini 228 della Biblioteca Universitaria di Pavia, quest’ultimo riferibile al XV secolo. Lorenzo M. Ciolfi

12

Per ogni approfondimento si rimanda integralmente a S. Timpanaro, Per la critica testuale…, cit. 13 In questo volume seguiamo, tranne casi segnalati in nota, l’edizione di Eisenhut 1973. 14 La bibliografia su questo splendido manoscritto è assai vasta ed articolata. Basti qui rimandare al contributo di L. Speciale alla voce “Tito Livio” dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale Treccani.

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DICTYS CRETENSIS EPHEMERIS BELLI TROIANI

DITTI DI CRETA DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

EPISTULA PROLOGUS LIBER PRIMUS

LETTERA PREFATORIA PROLOGO LIBRO PRIMO Traduzione e note di Enrico Cerroni

EPISTULA L. SEPTIMIUS Q. ARADIO, S. D. Ephemeridem belli Troiani, Dictys Cretensis, qui in ea militia cum Idomeneo meruit, conscripsit litteris punicis, quae tum Cadmo et Agenore auctoribus per Graeciam frequentabantur. Dein post multa saecula collapso per vetustatem apud Gnosum, olim Cretensis regni sedem, sepulchro eius, pastores cum eo devenissent, forte inter ceteram ruinam loculum stagno affabre clausum offendere ac thesaurum rati mox dissolvunt. Non aurum, neque aliud quicquam praedae, sed libri ex philyra in lucem prodierunt. At ubi spes frustrata est, ad Praxim dominum loci eos deferunt, qui commutatos litteris Atticis, nam oratio Graeca fuerat, Neroni Romano Caesari obtulit, pro quo plurimis ab eo donatus est. Nobis cum in manus forte libelli venissent, avidos verae historiae cupido incessit ea, uti erant, Latine disserere, non magis confisi ingenio, quam ut otiosi animi desidiam discuteremus. Itaque priorum quinque voluminum, quae bello contracta gestaque sunt, eundem numerum servavimus, residua quinque de reditu Graecorum in unum redegimus atque ita ad te misimus. Tu Rufine mi, ut par est, fave coeptis atque in legendo Dictym ...

LETTERA (LUCIO) SETTIMIO SALUTA QUINTO ARADIO RUFINO Ditti di Creta, che aveva militato insieme a Idomeneo1 sotto Troia, compose un diario di quella guerra in lettere fenicie, che allora erano in uso in Grecia, introdotte da Cadmo e Agenore2. Molti secoli dopo, crollato per il peso del tempo il suo sepolcro presso Cnosso, un tempo sede del re cretese3, dei pastori, capitati lì, in mezzo ad altre rovine si imbatterono per caso in una cassa di stagno chiusa ad arte; convinti fosse un tesoro, la aprirono subito. Alla luce vennero4 né oro, né altro che avesse aspetto di un bottino, bensì dei rotoli di tiglio5. Svanite le speranze, consegnarono il reperto a Prassi, signore locale, che fece traslitterare il testo in caratteri greci – infatti si trattava di un discorso scritto in greco – e lo offrì all’imperatore romano Nerone, che per questo lo riempì di doni6. Giuntoci in mano per caso il libretto7, ci prese tal desiderio, già avidi di una storia vera, di tradurre l’opera in latino8, confidando nell’ingegno, non più che per dissipare l’accidia dell’animo ozioso9. Così abbiamo conservato lo stesso numero dei primi cinque libri, sulle cose accadute in guerra, mentre gli altri cinque, sul ritorno dei Greci, li abbiamo riassunti in uno solo10 e li abbiamo mandati a te così. Tu, mio Rufino, seconda l’impresa11 e nel leggere Ditti…12

PROLOGUS Dictys, Cretensis genere, Gnoso civitate, isdem temporibus, quibus et Atridae, fuit, peritus vocis ac litterarum Phoenicum, quae a Cadmo in Achaiam fuerant delatae. Hic fuit socius Idomenei, Deucalionis filii, et Merionis ex Molo, qui duces cum exercitu contra Ilium venerant, a quibus ordinatus est, ut annales belli Troiani conscriberet. Igitur de toto hoc bello sex volumina in tilias digessit Phoeniceis litteris. Quae iam reversus senior in Cretam praecepit moriens, ut secum sepelirentur. Itaque, ut ille iusserat, memoratas tilias in stagnea arcula repositas eius tumulo condiderunt. Verum secutis temporibus, tertio decimo anno Neronis imperii, in Gnoso civitate terrae motus facti cum multa, tum etiam sepulchrum Dictys ita patefecerunt, ut a transeuntibus arcula viseretur. Pastores itaque praetereuntes cum hanc vidissent, thesaurum rati sepulchro abstulerunt. Et aperta ea invenerunt tilias incognitis sibi litteris conscriptas continuoque ad suum dominum, Eupraxidem quendam nomine, pertulerunt. Qui agnitas, quaenam essent, litteras Rutilio Rufo, illius insulae tunc consulari, obtulit. Ille cum ipso Eupraxide ad Neronem oblata sibi transmisit existimans quaedam in his secretiora contineri. Haec igitur cum Nero accepisset advertissetque Punicas esse litteras, harum peritos ad se evocavit. Qui cum venissent, interpretati sunt omnia. Cumque Nero cognosset antiqui viri, qui apud Ilium

PROLOGO13 Ditti, di stirpe cretese della città di Cnosso, visse nella medesima epoca degli Atridi, esperto della lingua e delle lettere fenicie, che erano state portate in Grecia da Cadmo. Fu amico di Idomeneo, figlio di Deucalione, e di Merione14, figlio di Molo, che erano andati come comandanti con l’esercito contro Ilio, e da loro ricevette l’ordine di scrivere annali della guerra di Troia. Compose così in lettere fenicie sei volumi15 in rotoli di tiglio sull’intera guerra. Tornato anziano a Creta, in punto di morte ordinò che fossero sepolti insieme a lui. Perciò, come egli aveva ordinato, chiusero nel suo tumulo le suddette tavolette di legno riposte in una cassa di stagno. Trascorsi i secoli, nel tredicesimo anno dell’impero di Nerone, nella città di Cnosso ci fu un terremoto che aprì molti sepolcri, fra cui quello di Ditti, sicché la cassa fu vista da passanti. Alcuni pastori, passando di lì, dopo aver notato la cosa, pensando fosse un tesoro, la portarono via dal sepolcro. Apertala, vi trovarono tavolette iscritte in lettere loro sconosciute e le portarono subito al loro padrone, un tale di nome Euprasside16. Questi, riconosciuto di che alfabeto si trattasse, consegnò lo scritto a Rutilio Rufo, allora consolare17 di quell’isola. Egli spedì a Nerone quanto gli era stato portato, insieme allo stesso Euprasside, pensando che vi fossero contenuti dei segreti. Quando Nerone le ricevette e si accorse che erano lettere fenicie18, convocò degli esperti di quella lingua, che arrivarono e tradussero19 tutto. Appena Nerone seppe che si trattava delle memorie di un antico

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fuerat, haec esse monumenta, iussit in Graecum sermonem ista transferri, e quibus Troiani belli verior textus cunctis innotuit. Tunc Eupraxidem muneribus et Romana civitate donatum ad propria remisit. Annales vero nomine Dictys inscriptos in Graecam bibliothecam recepit, quorum seriem, qui sequitur, textus ostendit.

PROLOGO

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eroe, che era stato a Troia, ordinò di tradurre l’opera in greco, per offrire a tutti un racconto più veritiero della guerra di Troia. Allora rimandò a casa Euprasside, colmo di doni e della cittadinanza romana. Collocò gli annali a firma di Ditti nella biblioteca greca20; il testo che segue ne riproduce l’ordine narrativo.

1. Cuncti reges, qui Minois Iove geniti pronepotes Graeciae imperitabant, ad dividendas inter se Catrei opes Cretam convenere. Catreus namque ex Minoe postrema sua ordinans, quidquid auri atque argenti, pecorum etiam fuit, nepotibus, quos filiae genuerant, ex aequo dividendum reliquerat, excepto civitatum terrarumque imperio; haec quippe Idomeneus cum Merione, Deucalionis Idomeneus, alter Moli, iussu eius seorsum habuere. Convenere autem Clymenae et Nauplii Palamedes et Oeax. Item Menelaus, Aeropa et Plisthene genitus, a qua Anaxibia soror, quae eo tempore Nestori denupta erat, et Agamemnon maior frater, ut vice sua in divisione uteretur, petiverant. Sed hi non Plisthenis, ut erat, magis quam Atrei dicebantur; ob eam causam quod cum Plisthenes admodum parvus ipse agens in primis annis vita functus, nihil dignum ad memoriam nominis reliquisset, Atreus miseratione aetatis secum eos habuerat neque minus quam regios educaverat. In qua divisione singuli pro nominis celebritate inter se quisque magnifice transiere. 2. Ad eos re cognita omnes ex origine Europae, quae in ea insula summa religione colitur, confluunt benigneque salutatos in templum deducunt. Ibi multarum hostiarum immolatione more patrio celebrata exhibitisque epulis largiter magnificeque eos habuere itemque insecutis

[Adunata dei principi greci a Creta per la spartizione delle ricchezze di Catreo]21 1. Tutti i re discendenti di Minosse, figlio di Zeus, che governavano sulla Grecia, si radunarono a Creta per dividere tra loro le ricchezze di Catreo22. Catreo, infatti, figlio di Minosse, nel dare le sue ultime disposizioni, aveva lasciato da dividere in parti eguali ai nipoti, nati dalle figlie23, quanto avesse in oro e argento, anche bestiame, eccetto il potere su terre e città; questo, infatti, per sua volontà lo ebbero Idomeneo con Merione, il primo figlio di Deucalione, l’altro di Molo. Giunsero dunque Palamede24 ed Eace, figli di Climene e di Nauplio, e Menelao25, figlio di Erope e di Plistene; da questo ramo chiedevano la propria parte nella divisione anche la sorella Anassibia, che in quel tempo era andata in sposa a Nestore, e il fratello maggiore Agamennone. Questi ultimi tre fratelli erano considerati figli non di Plistene, come in effetti erano, ma di Atreo, per questo motivo: quando morì Plistene ancor nel fiore degli anni, senza lasciare disposizione testamentaria, Atreo, mosso a compassione per la loro giovane età, li aveva presi con sé e li aveva educati come fossero figli di re. Così in quella divisione tutti si erano comportati correttamente come la celebrità del loro nome voleva. 2. Appresa la notizia, tutti quelli che erano del casato d’Europa, onorata con gran scrupolo in quell’isola, si unirono ad essi e li accolsero benignamente nel tempio26. Lì, fatto sacrificio di molti animali secondo l’usanza del paese, e apprestato un gran banchetto, offrirono loro un largo e

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diebus. Reges Graeciae etsi ea, quae exhibebantur, cum laetitia accipiebant, tamen multo magis templi eius magnifica pulchritudine pretiosaque exstructione operum afficiebantur, inspicientes repetentesque memoria singula, quae ex Sidona a Phoenice, patre eius, atque nobilibus matronis transmissa magno tum decori erant. 3. Per idem tempus Alexander Phrygius, Priami filius, Aenea aliisque ex consanguinitate comitibus, Spartae in domum Menelai hospitio receptus, indignissimum facinus perpetraverat. Is namque, ubi animadvertit regem abesse, quod erat Helena praeter ceteras Graeciae feminas miranda specie, amore eius captus ipsamque et multas opes domo eius aufert, Aethram etiam et Clymenam, Menelai adfines, quae ob necessitudinem cum Helena agebant. Postquam Cretam nuntius venit et cuncta, quae ab Alexandro adversus domum Menelai commissa erant, aperuit, per omnem insulam, sicut in tali re fieri amat, fama in maius divulgatur: expugnatam quippe domum regis eversumque regnum et alia in talem modum singuli disserebant. 4. Quis cognitis Menelaus, etsi abstractio coniugis animum permoverat, multo amplius tamen ob iniuriam adfinium, quas supra memoravimus, consternabatur. At ubi animadvertit Palamedes regem ira atque indignatione stupefactum consilio excidisse, ipse naves parat atque omni instrumento conpositas terrae adplicat. Dein pro

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magnifico trattamento per molti giorni. I re della Grecia godevano con letizia di ciò che era loro offerto, tuttavia molto di più erano colpiti dalla magnifica bellezza di quel tempio e dal prezioso apparato di opere d’arte, che osservavano una per una, e si ricordavano essere state mandate tutte tramite nobili matrone da Sidone di Fenicia, patria d’Europa, per decorarlo27.

[Rapimento di Elena da parte di Alessandro Paride; allestimento di un’ambasceria greca a Troia] 3. Nel medesimo tempo Alessandro28 frigio, figlio di Priamo, ricevuto come ospite a Sparta a casa di Menelao, insieme a Enea e ad altri compagni legati per consanguineità, aveva perpetrato un fatto gravissimo29. Egli, infatti, notata l’assenza del re, siccome Elena era tra tutte le donne di Grecia di particolare bellezza30, preso da amore31 per lei, la portò via da casa sua, insieme a molte ricchezze, e ad Etra32 e Climene, parenti di Menelao, le quali vivevano con Elena come ancelle. Quando giunse a Creta un messaggero e rivelò tutto quello che Alessandro aveva fatto contro la casa di Menelao, la storia, come al solito in simili casi, si diffuse in tutta l’isola: correva voce che il palazzo reale era stato conquistato, il regno distrutto e altre dicerie simili33. 4. Menelao, messo al corrente di questo, per quanto fosse scosso per il rapimento della moglie, molto più era turbato per l’offesa recata dalle parenti34, che abbiamo su ricordato. Ma Palamede, non appena notò che il re, sconvolto da ira e indignazione, era fuor di senno, fa preparare lui stesso delle navi e, attrezzate di ogni mezzo, le predispone

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tempore regem breviter consolatus, positis etiam ex divisione quae in tali negotio tempus patiebatur, navem ascendere facit atque ita ventis ex sententia flantibus, paucis diebus Spartam pervenere. Eo iam Agamemnon et Nestor omnesque, qui ex origine Pelopis in Graecia regnabant, cognitis rebus confluxerant. Igitur postquam Menelaum advenisse sciunt, omnes in unum coeunt. Et quamquam atrocitas facti ad indignationem ultumque iniurias rapiebat, tamen ex consilii sententia legantur prius ad Troiam Palamedes, Ulysses et Menelaus hisque mandatur, uti conquesti iniurias Helenam, et quae cum ea abrepta erant repeterent. 5. Legati paucis diebus ad Troiiam veniunt. Neque tum Alexandrum in loco offendere; eum namque properatione navigii inconsulte usum venti ad Cyprum appulere, unde sumptis aliquot navibus Phoenicem delapsus Sidoniorum regem, qui eum amice susceperat, noctu insidiis necat, eademque, qua apud Lacedaemonam, cupiditate universam domum eius in scelus proprium convertit. Ita omnia, quae ad ostentationem regiae magnificentiae fuere indigne rapta, ad naves deferri iubet. Sed ubi ex lamentatione eorum, qui casum domini deflentes reliqui praedae aufugerant, tumultus ortus est, populus omnis ad regiam concurrit. Inde, quod iam Alexander abreptis quae cupiebat, ascensionem properabat, pro tempore armati ad naves veniunt ortoque inter eos acri proelio cadunt utrinque plurimi, cum obstinate hi regis necem defenderent, hi, ne

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a salpare. Consolato brevemente il re come la circostanza voleva, lo fece salire sulla nave, insieme alle cose toccategli nella divisione che il tempo permetteva di portare35, e grazie al favore dei venti giunsero a Sparta in pochi giorni. Lì infatti erano confluiti Agamennone e Nestore e tutti quelli della casa di Pelope che regnavano in Grecia. Quando seppero dell’arrivo di Menelao, si radunarono tutti da lui e benché l’atrocità del fatto li spingesse all’indignazione e al desiderio di vendicare l’offesa, tuttavia per decisione del consiglio36 furono prima mandati a Troia in ambasceria Palamede, Ulisse e Menelao perché, deplorate le ingiurie, recuperassero Elena e le cose che erano state sottratte con lei37.

[Avventure di Alessandro a Cipro; l’ambasceria giunge a Troia e Priamo decide di attendere il ritorno di Alessandro] 5. Gli ambasciatori giungono a Troia in pochi giorni, ma lì non trovarono Alessandro; questi, infatti, nella fretta della navigazione, incorso in venti sfavorevoli, era approdato a Cipro38, da dove, prese alcune navi, era finito da Fenice39, re di Sidone, che lo aveva accolto in amicizia; egli però lo uccise di notte a tradimento e derubò la casa con la stessa avidità di cui aveva dato prova a Sparta40. Così ordinò di sottrarre indegnamente e portare alle navi tutte le cose che erano a ostentazione della magnificenza regale. Ma quando dal lamento di quelli che, scampati alla deportazione, compiangevano la sorte del re, sorse un tumulto, il popolo corse tutto alla reggia. Poiché Alessandro già preparava la partenza con le cose che aveva sottratto, uomini armati giungono per tempo alle navi e, sorta un’aspra battaglia tra loro, cadono moltissimi da ambo le parti, mentre tentavano gli uni di vendicare ostinatamente la morte del re

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amitterent partam praedam summis opibus adniterentur. Incensis deinde duabus navibus Troiani reliquas strenue defensas liberant. Atque ita fatigatis iam proelio hostibus evadunt. 6. Interim apud Troiam legatorum Palamedes, cuius maxime ea tempestate domi bellique consilium valuit, ad Priamum adit conductoque consilio, primum de Alexandri iniuria conqueritur, exponens conmunis hospitii eversionem, dein monet, quantas ea res inter duo regna simultates concitatura esset, interiaciens memoriam discordiarum Ili et Pelopis aliorumque, qui ex causis similibus ad internecionem gentium usque pervenissent. Ad postremum belli difficultates contraque pacis commoda adstruens non se ignorare, ait, quantis mortalibus tam atrox facinus indignationem incuteret; ex quo auctores iniuriae ab omnibus derelictos impietatis supplicia subituros. Et cum plura dicere cuperet, Priamus medium eius interrumpens sermonem, «Parcius, quaeso, Palamedes», inquit. Iniquum etenim videtur insimulari eum qui absit, maxime cum fieri possit, uti, quae criminose obiecta sunt, praesenti refutatione diluantur. Haec atque alia huiusmodi inferens differri querelas ad adventum Alexandri iubet. Videbat enim, ut singuli, qui in eo consilio aderant, Palamedis oratione moverentur, ut taciti, vultu tamen admissum facinus condemnarent, cum singula miro genere orationis exponerentur atque in sermone Graeci regis inesset quaedam permixta miserationi vis. Atque ita eo die consilium dimittitur. Sed legatos Antenor, vir hospitalis et praeter ceteros boni honestique sectator, domum ad se volentes deducit.

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e gli altri facevano di tutto pur di non perdere il bottino fatto. Bruciate allora due navi, i Troiani liberarono le altre difese strenuamente. E così, sopraffatti ormai i nemici dalla stanchezza, riescono a fuggire. 6. Frattanto, tra i legati giunti a Troia Palamede, la cui opinione era tenuta a quei tempi in grandissimo conto sia per questioni domestiche sia in affari di guerra, si recò da Priamo e dapprima si lamentò davanti al consiglio dell’offesa di Alessandro, facendo risaltare la violazione dei patti d’ospitalità, poi lo ammonì, quante ostilità la questione avrebbe suscitato tra i due regni; nel discorso richiamava anche la memoria delle discordie tra Ilio e Pelope41 e altri ancora, che per cause simili avevano condotto alla rovina i loro popoli. Infine aggiungendo le difficoltà della guerra e di contro i vantaggi della pace, disse che non ignorava in quanti uomini suscitasse indignazione un misfatto così atroce; perciò gli autori dell’ingiustizia, abbandonati da tutti, avrebbero subito i castighi dell’empietà. E poiché avrebbe voluto dire molte più cose, Priamo, interrompendo a metà il suo discorso42, disse: «desidero più moderazione, Palamede»; sembrava ingiusto accusare chi era assente, soprattutto se, presente, avrebbe potuto facilmente difendersi dalle accuse che gli venivano mosse. Frapponendo queste e altre osservazioni Priamo ordinò di differire la questione fino all’arrivo di Alessandro. Vedeva, infatti, che i presenti al consiglio, pur senza proferir parola, ma con chiari segni sul volto, condannavano il misfatto, catturati dalla straordinaria oratoria del re greco in cui era mescolata decisione a compassione. E così il consiglio quel giorno fu sciolto43. Ma Antenore44, uomo ospitale e più degli altri amante del bene e dell’onore, offrì ospitalità agli ambasciatori, che volentieri l’accettarono.

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7. Interim paucis post diebus Alexander cum supra dictis comitibus venit Helenam secum habens. Cuius adventu, tota civitas cum partim exemplum facinoris exsecrarentur, alii iniurias in Menelaum admissas dolerent, nullo omnium adprobante, postremo cunctis indignantibus tumultus ortus est. Quis rebus anxius Priamus filios convocat eosque, quid super tali agendum negotio videretur, consulit: qui una voce minime reddendam Helenam respondent. Videbant quippe, quantae opes cum ea advectae essent: quae universa, si Helena traderetur, necessario amitterent. Praeter ea permoti forma mulierum, quae cum Helena venerant, nuptias sibi singularum iam animo destinaverant, quippe qui lingua moribusque barbari nihil pensi aut consulti patientes praeda atque libidine transversi agebantur. 8. Igitur Priamus, relictis his senes conducit, sententiam filiorum aperit, dein cunctos, quid agendum esset, consulit. Sed priusquam ex more sententiae dicerentur, reguli repente consilium irrumpunt atque inconditis moribus malum singulis minitantur, si aliter, quam ipsis videretur, decernerent. Interim omnis populus indigne admissam iniuriam atque in hunc modum multa alia cum exsecratione reclamabant. Ob quae Alexander cupidine animi praeceps veritus, ne quid adversum se a popularibus oriretur, stipatus armatis fratribus impetum in multitudinem facit, multos obtruncat. Reliqui interventu procerum, qui in

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[Ritorno di Alessandro a Troia: tumulto della città; Priamo raduna in consiglio i figli e poi gli anziani] 7. Intanto, pochi giorni dopo, giunge Alessandro con i compagni su ricordati e portando con sé Elena45. Al suo arrivo l’intera popolazione in parte si dava a esecrare il misfatto, altri si affliggevano per le offese recate a Menelao, e nessuno approvava la cosa, alla fine per l’indignazione di tutti sorse un tumulto46. Priamo, ansioso per queste ragioni, convocò e consultò i figli, per decidere il da farsi a questo proposito. Questi risposero a una voce che non bisognava in nessun caso restituire Elena. Infatti vedevano quante ricchezze erano state portate insieme a lei, che avrebbero giocoforza perso interamente se Elena fosse stata restituita. Oltre a questo, turbati dalla bellezza delle donne che erano giunte con Elena, ognuno di loro le aveva già destinate in animo suo alle nozze47. Barbari nella lingua e nei modi, non abituati alla riflessione e alla saggezza, erano trascinati dal desiderio di preda e dalla lussuria48. 8. Allora Priamo, congedatili, radunò gli anziani, rivelò loro l’opinione dei figli, poi consultò tutti sul da farsi. Ma prima che, secondo l’uso, fossero espressi i loro pareri, i principi fecero irruzione all’improvviso nel consiglio e minacciarono bruscamente disgrazia ai presenti, nessuno escluso, se avessero deciso diversamente da come sembrava loro opportuno. Nel frattempo il popolo si opponeva compatto contro il misfatto commesso e in questo modo contro molti altri soprusi, con maledizioni. Per tali ragioni Alessandro, acceso dall’ira, temendo che da parte del popolo sorgesse qualcosa contro di lui, seguito dai fratelli armati fece un’irruzione in mezzo alla folla e ne uccise parecchi. Gli altri furono salvati per intervento dei nobili che

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consilio fuerant, duce liberantur Antenore. Ita infectis rebus populus contemptui habitus non sine pernicie sua domum discedit. 9. Dein secuta die rex hortatu Hecubae ad Helenam adit eamque benigne salutans bonum animum uti gereret hortatur. Quae cuiusque esset, requirit. Tum illa Alexandri se adfinem respondit, magisque ad Priamum et Hecubam, quam ad Plisthenis filios genere pertinere, repetens ordinem omnem maiorum. Danaum enim atque Agenorem et sui et Priami generis auctores esse, namque ex Plesiona, Danai filia, et Atlante Electram natam, quam ex Iove gravidam Dardanum genuisse. Ex quo Tros et deinceps insecuti reges Ilii. Agenoris porro Taygetam. Eam ex Iove habuisse Lacedaemona. Ex quo Amiclam natum et ex eo Argalum, patrem Oebali, quem Tyndari, ex quo ipsa genita videretur, patrem constaret. Repetebat etiam cum Hecuba materni generis adfinitatem. Agenoris quippe filium Phoenicem et Dymae, patris Hecubae, et Ledae consanguinitatis originem divisisse. Postquam memoriter cuncta retexuit, ad postremum flens orare, ne, quae semel in fidem eorum recepta esset, prodendam putarent. Ea secum domo Menelai apportata, quae propria fuissent, nihil praeter ea ablatum. Sed utrum immodico amore Alexandri, an poenarum metu, quas ob desertam domum a coniuge metuebat, ita sibi consulere maluerit, parum constabat.

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erano nel consiglio guidati da Antenore49. Così il popolo, senza aver concluso nulla, se ne tornò alle proprie case, disprezzato e non senza sua grave iattura.

[Priamo chiede un parere anche ad Elena, che si rifiuta di tornare in Grecia] 9. Il giorno dopo, il re, su esortazione di Ecuba, andò da Elena e la esortò con saluti benevoli a essere ben disposta, le chiese poi chi fosse e chi fossero i suoi50. Allora lei rispose di essere congiunta di Alessandro e di sentirsi più legata a Primo e a Ecuba che ai figli di Plistene, ripercorrendo così l’origine della sua famiglia. Capostipiti della sua stirpe, e di quella di Priamo, erano Danao51 e Agenore, infatti da Plesione, figlia di Danao, e Atlante era nata Elettra52 che, ingravidata da Giove, aveva generato Dardano53. Da questi nacque Troo54 e i successivi re di Ilio. Da Agenore era nata Taigete55, che aveva avuto da Giove Lacedemone56, da cui era nato Amicla e da cui Argalo, padre di Ebalo57, che era noto fosse padre di Tindaro58, di cui lei era figlia. In aggiunta a questo ricordava la sua parentela con Ecuba da parte di madre. Il figlio di Agenore, Fenice, divideva le origini con Dimante59, padre di Ecuba, e con Leda60. Dopo che ebbe esposto tutto quanto a memoria, alla fine scoppiata in pianto, la pregava che non la tradissero, una volta che fosse stata accolta solennemente da loro61. Dalla casa di Menelao erano state portate via solo le cose che appartenevano a lei, null’altro. Tuttavia non era ben chiaro se avesse deciso di parlare in questo modo per lo sfrenato amore che aveva per Alessandro, o se per paura delle pene che temeva di ricevere per aver abbandonato il tetto coniugale62.

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10. Igitur Hecuba, cognita voluntate, simul ob generis coniunctionem complexa Helenam, ne proderetur, summis opibus adnitebatur, cum iam Priamus et reliqui reguli non amplius differendos legatos dicerent neque resistendum popularium voluntati, solo omnium Deiphobo Hecubae adsenso, quem non aliter atque Alexandrum Helenae desiderium a recto consilio praepediebat. Itaque cum obstinate Hecuba nunc Priamum, modo filios deprecaretur, modo complexu eius nulla rationis divelli posset, omnes qui aderant in voluntatem suam transduxit. Ita ad postremum bonum publicum materna gratia corruptum est. Deinde postero die Menelaus cum suis in contionem venit, coniugem et quae cum ea abrepta essent repetens. Tunc Priamus inter regulos medius adstans facto silentio optionem Helenae, quae ob id in conspectum popularium venerat, offert, si ei videretur domum ad suos regredi. Quam ferunt dixisse neque se invitam navigasse, neque sibi cum Menelai matrimonio convenire. Ita reguli habentes Helenam non sine exsultatione ex contione discedunt. 11. His actis Ulixes contestandi magis gratia quam aliquid ex oratione profuturus cuncta, quae ab Alexandro contra Graeciam indigne commissa essent, retexuit; ob quae ultionem brevi testatus est. Dein Menelaus ira percitus atroci vultu exitium minatus consilium dimittit. Quae ubi ad Priamidas perlata sunt, confirmant inter se clam, uti per

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10. Allora Ecuba, appresa la sua volontà, abbracciatala anche in nome della parentela, si adoperava poi in ogni modo perché non fosse tradita, mentre ormai Priamo e gli altri principi cominciavano a dire che era il caso di soddisfare gli ambasciatori e di non contrastare più la volontà del popolo. Solo Deifobo63 era d’accordo con Ecuba, non diversamente da Alessandro, allontanato da rette vedute per la passione per Elena64. Così Ecuba, supplicando ostinatamente con abbracci Priamo e i figli che Elena non poteva esser strappata per nessuna ragione, riuscì a convincere tutti i presenti65. Per via della grazia di una donna a tal punto fu mandato in rovina il bene pubblico66. Il giorno successivo Menelao andò in assemblea con i suoi per reclamare la moglie e le cose sottrattegli insieme a lei. Allora Priamo, stando in mezzo ai re, fatto silenzio, offrì a Elena, che era venuta per questo al cospetto dei concittadini, la possibilità di tornare a casa dai suoi, se avesse voluto. Tramandano che lei avesse risposto che era arrivata per mare fin lì non senza volerlo e che non le stava bene di tornare unita in matrimonio con Menelao. I principi, pertanto, tenendosi Elena non senza esultare, se ne andarono dal raduno.

[I principi greci lasciano il consiglio avanzando minacce; Antenore storna la congiura ordita dai figli di Priamo] 11. Allora Ulisse, più per volontà di contestare che per sortire qualcosa con la sua orazione, ricordò a tutti le infamie commesse da Alessandro contro la Grecia; alla luce di questo giurò di far presto vendetta. Menelao, acceso d’ira, minacciando rovina con volto durissimo67 lasciò il consiglio. Quando notizie di questi fatti giunsero ai figli

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dolum legatos circumveniant. Credebant quippe, quod non frustra eos habuit, si legati imperfecto negotio revertissent, fore, uti adversum se grande proelium concitaretur. Igitur Antenor, cuius de sanctitate morum supra memoravimus, Priamum convenit, coniurationemque factam conqueritur: filios quippe eius non legatis, sed adversus se insidias parare, neque id se passurum. Dein non multo post legatis rem aperit. Ita exploratis omnibus adhibito praesidio, cum primum opportunum visum est, inviolatos eos dimittit. 12. Dum haec apud Troiam aguntur, disseminata iam per universam Graeciam fama omnes Pelopidae in unum conveniunt atque interposita iuris iurandi religione, ni Helena cum abreptis redderetur, bellum se Priamo inlaturos confirmant. Legati Lacedaemonam redeunt de Helena eiusque voluntate narrant, dein Priami filiorumque eius adversum se dicta gestaque, grande praeconium fidei erga legatos Antenoris praeferentes. Quae ubi accepere, decernitur uti singuli in suis locis atque imperiis opes belli parent. Igitur ex consilii sententia opportunus locus ad conveniendum et in quo de apparatu belli ageretur, Argi, Diomedis regnum, deligitur.

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di Priamo, decisero segretamente di tendere un agguato mortale agli ambasciatori. Credevano, infatti, come poi realmente accadde, che se fossero tornati a casa a mani vuote avrebbero poi scatenato una guerra in grande stile contro di loro. Antenore, allora, della cui probità di costumi abbiamo fatto cenno prima, andò da Priamo e deplorò la congiura: sosteneva che i suoi figli stessero tramando contro di lui, e non contro gli ambasciatori, e che non l’avrebbe dovuto tollerare. Non molto dopo palesò la cosa agli ambasciatori. Dopo una opportuna ricognizione e con una scorta li fece andar via sani e salvi al momento opportuno.

[Tutti i discendenti di Pelope si radunano ad Argo per prepararsi a muovere guerra a Troia] 12. Mentre a Troia si svolgevano questi eventi, sparsasi la fama per tutta la Grecia, tutti i discendenti di Pelope convennero in un sol luogo e giurarono di far guerra a Priamo se non fosse stata restituita Elena con tutto ciò che era stato rubato68. Gli ambasciatori tornarono a Sparta, raccontarono di Elena e della sua volontà, ma anche delle parole e dei gesti offensivi nei loro confronti ricevuti da Priamo e dai suoi figli, lodando molto, invece, la correttezza di Antenore verso di loro. Come ricevettero questi messaggi, si stabilì che ciascuno predisponesse i mezzi necessari alla guerra nella propria città e regno. Per decisione dell’assemblea si scelse allora Argo, regno di Diomede69, come luogo per radunarsi e in cui svolgere i preparativi della guerra.

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13. Ita ubi tempus visum est, primus omnium ingenti nomine virtutis atque corporis Aiax Telamonius advenit, cum eo Teucer frater. Dein haud multo post Idomeneus et Meriones, summa inter se iuncti concordia. Eorum ego secutus comitatum ea quidem, quae antea apud Troiam gesta sunt, ab Ulixe cognita quam diligentissime rettuli, et reliqua, quae deinceps insecuta sunt, quoniam ipse interfui, quam verissime potero exponam. Igitur post eos, quos supra memoravimus, Nestor cum Antilocho et Thrasymede, quos Anaxibia susceperat, supervenit. Eos Peneleus insecutus cum Clonio et Arcesilao consanguineis, dein Prothoenor et Leitus Boeotiae principes, itemque Schedius et Epistrophus Phocenses, Ascalaphus et Ialmenus Orchomenii, tum Diores et Meges Phyleo genitus, Thoas ex Andraemone, Eurypylus Euaemonis Ormenius et Leonteus. 14. Post quos Achilles Pelei et Thetidis, qui imbutus belli ex Chirone dicebatur. Hic in primis adulescentiae annis, procerus, decora facie, studio rerum bellicarum omnes iam tum virtute atque gloria superabat, neque tamen aberat ab eo vis quaedam inconsulta et effera morum impatientia. Cum eo Patroclus et Phoenix, alter propter coniunctionem amicitiae, alter custos atque rector eius. Tlepolemus dein Herculis, eum insecuti sunt Phidippus et Antiphus, insignes armorum specie, avo Hercule, post eos Protesilaus Iphicli cum Podarce fratre. Adfuit et Eumelus Pheraeus, cuius pater Admetus quondam vicaria morte coniugis fata propria protulerat, Podalirius et Machaon Triccenses, Aesculapio geniti, adsciti ad id bellum ob sollertiam medicinae artis. Dein Poeantis Philocteta, qui comes Herculis post

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[Rassegna dei principi che si riuniscono ad Argo] 13. Quando parve giunto il tempo, primo di tutti, famoso per valore e possanza, arrivò Aiace Telamonio, insieme a lui suo fratello Teucro. Poi, dopo non molto, Idomeneo e Merione, uniti in grande amicizia. Giunto anch’io con loro, scrissi con la maggior accuratezza possibile i fatti accaduti a Troia prima del mio arrivo, riferitimi da Ulisse, e d’ora in poi racconterò nel modo più veritiero possibile le cose che seguirono, alle quali partecipai70. Allora, dopo quelli, che ho nominato prima, sopraggiunsero Nestore con i figli Antiloco71 e Trasimede72, nati da Anassibia, poi Peneleo73, con Clonio74 e Arcesilao75, quindi Protenore76 e Leito77, principi di Beozia, così anche Schedio e Epistrofo78 Focesi, Ascalafo e Ialmeno79 di Orcomeno, poi Diore80 e Megete81 nato da Fileo, Toante82 figlio di Andremone, Euripilo83 di Euemone, di Ormeno, e Leonteo84. 14. Dopo di loro fu la volta di Achille, figlio di Peleo e Teti, che si diceva ammaestrato85 da Chirone86. Questi, alto e dal bel volto, già nei primi anni dell’adolescenza superava tutti nell’applicazione all’arte della guerra sia per valore sia per gloria e non gli mancava una forza temeraria e una ferina rozzezza di maniere87. Con lui Patroclo e Fenice, uno per vincolo di amicizia, l’altro suo tutore e precettore. Di seguito vennero Tlepolemo88, Fidippo e Antifo89, insigni per splendore delle armi, discendenti di Ercole; dopo di loro Protesilao90 figlio di Ificlo insieme al fratello Podarce. C’era anche Eumelo91 di Fere, Podalirio e Macaone92 di Tricca, nati da Esculapio, convocati in quella guerra per la loro capacità nell’arte medica. Poi Filottete, figlio di Peante, che come compagno di Ercole dopo la sua

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discessum eius ad deos sagittas divinas industriae praemium consecutus est, Nireus pulcher, ex Athenis Menestheus et Aiax Oilei ex Locride, Argis Amphilochus et Sthenelus, Amphiarai Amphilochus, Capanei alter, cum his Euryalus Mecistei. Dein ex Aetolia Thessandrus Polynicis; postremi omnium Demophoon atque Acamas. Fuere cuncti ex origine Pelopis. Sed eos, quos memoravimus, plures alii ex suis quisque regionibus, partim ex regum comitibus, alii ipsius regni participes insecuti sunt, quorum nomina singillatim exponere haud necessarium visum est. 15. Igitur ubi omnes Argos convenere, Diomedes hospitio cunctos recipit, necessariaque praebet. Dein Agamemnon grande auri pondus Mycenis adportatum per singulos dispertiens promptiores animos omnium ad bellum, quod parabatur, facit. Tum communi consilio super condicione proelii ius iurandum interponi hoc modo placuit. Calchas, Thestoris filius, praescius futurorum, porcum marem in forum medium adferri iubet, quem in duas partes exsectum orienti occidentique dividit, atque singulos nudatis gladiis per medium transire iubet. Dein mucronibus sanguine eius oblitis, adhibitis etiam aliis ad eam rem necessariis, inimicitias sibi cum Priamo per religionem confirmant: neque prius se bellum deserturos, quam Ilium atque omne regnum eruissent. Quis perfectis pure lauti Martem atque Concordiam multis immolationibus sibi adhospitavere.

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ascesa tra gli dèi aveva ottenuto le sue divine saette, quale premio del suo valore, il bel Nireo93, Menesteo94 da Atene e Aiace d’Oileo dalla Locride, da Argo Anfiloco e Stenelo, Anfiloco d’Anfiarao, l’altro Capaneo, con questi Eurialo di Mecisteo. Dopo dall’Etolia arrivò Tessandro95 figlio di Polinice; per ultimi Demofonte e Acamante96. Erano tutti della stirpe di Pelope. A quelli che ho ricordato seguirono parecchi altri, dalle proprie regioni, o perché compagni dei re o partecipi dei regni, ma i loro nomi non mi è parso necessario riportare uno per uno.

[Sacrificio e giuramento] 15. Allora, quando tutti si radunarono ad Argo, Diomede ricevette tutti ospitalmente, e offrì il necessario. Poi Agamennone, che aveva portato da Micene una gran quantità di denaro97, dandone un poco a ciascuno, rincuorò tutti in vista della guerra. Si decise di comune accordo di tenere giuramento per la guerra nel modo seguente. Calcante98, figlio di Testore, indovino, ordinò di portare al centro della piazza un maiale maschio e, squartatolo in due, pose una parte verso oriente, una verso occidente; volle poi che tutti, sguainate la spade, vi passassero in mezzo. Fatto questo, bagnata la punta delle spade nel sangue dell’animale e adempiute altre formalità atte alla situazione, giurarono solennemente inimicizia a Priamo: non avrebbero abbandonato la guerra prima di aver distrutto Ilio e l’intero regno. Assolti questi riti e lavatisi per essere immacolati da impurità, con molti sacrifici placarono il dio Marte e la Concordia99.

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16. Dein in templo Iunonis Argivae rectorem omnium declarari placuit. Igitur singuli in tabellis, quas ad deligendum belli principem quem cuique videretur acceperant, Punicis litteris Agamemnonis nomen designant. Ita consensu omnium secundo rumore summam belli atque exercitus in se suscipit, quod ei et propter germanum, cuius gratia bellum id parabatur, et propter magnam opum vim, quibus praeter ceteros Graeciae reges magnus atque clarus habebatur, merito acciderat. Dein duces praefectosque navium Achillem, Aiacem et Phoenicem destinant. Praeponuntur etiam campestri exercitui Palamedes cum Diomede et Ulixes, ita ut inter se diurnas, vigiliarumque vices dispertiant. His peractis, ad parandas opes atque instrumenta militiae, singuli sua in regna discedunt. Interim belli studio ardebat omnis Graecia: arma, tela, equi, naves, atque haec omnia toto biennio praeparantur, cum iuventus partim sua sponte, alii aequalium ad gloriam aemulatione munia militiae festinarent. Sed inter haec summa cura vis magna navium praecipue fabricatur, scilicet ne multa millia exercituum, undique versum in unum collecta, incuria navigandi tardarentur. 17. Igitur peracto biennio ad Aulidam, Boeotiae, nam is locus delectus fuerat, singuli reges pro facultate opum regnique, instructas classes praemittunt: ex quis primus Agamemnon

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[Elezione di Agamennone a comandante supremo] 16. Poi si decise di proclamare il comandante supremo nel tempio di Giunone Argiva100. Allora indicarono uno per uno in lettere fenicie101 sulle tavolette che avevano ricevuto per eleggere il capo della spedizione, ciascuno in piena libertà di scelta, il nome di Agamennone. Pertanto per consenso unanime egli assunse il comando supremo dell’esercito tra grida di ammirazione, meritamente sia per via del fratello, a causa del quale si preparava quella guerra, sia per la gran ricchezza di beni, per le quali era tenuto in gran considerazione tra gli altri re di Grecia102. In un secondo momento destinarono Achille, Aiace e Fenice al comando delle navi103. All’esercito di terra, invece, fu posto a capo Palamede insieme a Diomede e Ulisse, in modo che si dividessero tra loro i turni di comando del giorno e delle notte. Assolte queste incombenze, ciascuno tornò nel suo regno a preparare le risorse e i mezzi per la guerra. Così ardeva l’intera Grecia per brama di guerra: armi, frecce, cavalli, navi e tutte queste cose vennero preparate nell’arco di due anni, mentre la gioventù affrettava i doveri di guerra in parte di sua volontà, in parte per emulazione nella gloria dei coetanei. Ma frattanto fu fabbricata con estrema cura una gran quantità di navi, affinché la numerosa armata, raccolta da ogni parte, non fosse ritardata per carenza di imbarcazioni.

[Catalogo delle truppe] 17. Allora, trascorsi due anni, ciascun re inviò in Aulide104 di Beozia, infatti quello era il luogo scelto, le flotte armate secondo le risorse del proprio regno105: di questi primo

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ex Mycenis naves C, aliisque LX, quas ex diversis civitatibus, quae sub eo erant, contraxerat, Agapenorem praeficit, Nestor XC navium instructam classem, Menelaus ex omni Lacedaemona naves LX, Menestheus Athenis L, XL Elephenor ex Euboea, Aiax Telamonius Salamina XII, Diomedes Argis LXXX navium classem, Ascalaphus et Ialmenus Orchomenii naves XXX, Oileus Aiax XL, item ex omni Boeotia Arcesilaus, Prothoenor, Peneleus, Leitus, Clonius naves L, XL ex Phocide Schedius et Epistrophus, dein Thalpius et Diores cum Amphimacho et Polyxeno Elide aliisque civitatibus regionis eius naves XL, Thoas ex Aetolia XL, Meges ex Dulichio et ex insulis Echinadibus XL, Idomeneus cum Merione ex omni Creta classem navium LXXX, ex Ithaca Ulixes XII, XL Prothous Magnes, Tlepolemus Rhodo aliisque circa eam insulis IX, XI Eumelus Pheraeus, Achilles ex Argo Pelasgico L, III Nireus ex Syme, Podarces et Protesilaus ex Phylaca aliisque, quibus praeerant, locis, naves XL, XXX Podalirius et Machaon, Philotecta Methona aliisque civitatibus naves VII, Eurypylus Ormenius XL, duas et XX Guneus Perrhaebis, Leonteus et Polypoetes ex suis regionibus XL, XXX ex insulis Co Crapathoque cum Antipho Phidippus, Thessandrus, quem Polynicis supra memoravimus, Thebis naves L, Calchas ex Acarnania XX, Mopsus Colophona XX, Epios ex insulis Cycladibus XXX. Easque magna vi frumenti aliorumque necessariorum cibi replent. Quippe ita ab Agamemnone mandatum acceperant, scilicet ne tanta vis militum necessariorum penuria fatigaretur. 18. Igitur inter tantum classium apparatum equi atque currus bellici ob locorum condicionem multi, sed pedestres milites pars maxima, ob eam causam, quia per omnem Graeciam multo maiore egestate pabuli, equitatus usus

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Agamennone aveva portato cento navi da Micene e poi sessanta che aveva fatto fabbricare in altre sue città, e ne fece capitano Agapenore106. Nestore mandò una flotta di novanta; Menelao da Sparta sessanta; Menesteo da Atene cinquanta; Elpenore d’Eubea quaranta; Aiace Telamonio di Salamina dodici; Diomede da Argo ottanta; Ascalafo e Ialmene da Orcomeno trenta; Aiace Oileo107 quaranta; Archesilao, Protenore, Penelo, Leito e Clonio, da tutta la Beozia108, cinquanta; Schedio e Epistrofo di Focide109 quaranta; Toante d’Etolia110 quaranta; Megete di Dulichio e di altre isole Echinadi111, altre quaranta; Idomeneo e Merione da tutta Creta, ottanta112; Ulisse da Itaca113, dodici; Pròtoo Magnete114 quaranta; Tlepolemo115 da Rodi e dalle altre isole vicine, nove; Eumelo116 undici; dai Pelasgi ne vennero cinquanta; Nireo117 di Sime tre; Podarce e Protesilao118 da Filaca e dalle altre loro terre, quaranta; Podalirio e Macaone119 trenta; Filottete120 da Metone e da altre città, sette; Euripilo di Ormeno121 quarantadue; Guneo122 dai Perrebi ventidue; Leonteo e Polipete123 quaranta dalle loro regioni; Antifo e Fidippo124 dalle isole Nisiro, Cràpato e Coo, trenta; Tessandro125 di Polinice, di cui s’è fatto menzione sopra, da Tebe cinquanta; Calcante d’Acarnania venti; Mopso126 di Colofone venti; Epeo127 dalle isole Cicladi trenta. Caricarono tutte queste navi di grano in grande abbondanza, come pure delle altre cose necessarie per vivere, secondo gli ordini di Agamennone, affinché non mancassero le provvigioni a un così gran numero di soldati. 18. In così grande apparato di imbarcazioni, erano molti i cavalli e i carri da guerra, secondo la tradizione dei vari luoghi, ma la maggior parte erano soldati di fanteria, per la seguente ragione: in tutta la Grecia, a causa della

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prohibetur. Praeterea fuere multi, qui ob artis peritiam necessarii nautico apparatui credebantur. Per idem tempus Lycius Sarpedon neque pretio neque gratia Phalidis, Sidoniorum regis, inlici quivit, ut societatem militiae nostrae adversus Troianos sequeretur, quippe quem iam Priamus donis amplioribus eisque postea duplicatis fidissimum sibi retinuerat. Omnium autem classium numerus, quem ex diversis Graeciae regnis contractum supra exposuimus, toto quinquennio praeparatus instructusque est. Ita cum nulla iam res profectionem, nisi absentia militis retardaret, cuncti duces veluti signo dato una atque eodem tempore Aulida confluunt. 19. Interim in ipsa navigandi festinatione Agamemnon, quem a cuntis regem omnium declaratum supra docuimus, longius paulo ab exercitu progressus forte conspicit circa lucum Dianae pascentem capream imprudensque religionis, quae in eo loco erat, iaculo transfigit. Neque multo post irane caelesti an ob mutationem aeris corporibus pertemptatis lues invadit. Atque interim in dies magis magisque saeviens multa milia fatigare et promiscue per pecora atque exercitum grassari. Prorsus nullus funeri modus neque requies; uti quidquid malo obvium fuerat, vastabatur. Quis rebus sollicitis ducibus mulier

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scarsezza di pascoli, l’allenamento dei cavalli è proibitivo. Furono molti anche gli esperti nella navigazione, necessari a una flotta così grande. Nel medesimo tempo né dietro ricompensa né tramite i favori di Falide128, re di Sidone, fu possibile convincere il licio Sarpedone129 a unirsi alla nostra spedizione contro i Troiani: Priamo se lo era già accattivato con doni maggiori, poi duplicati. Il gran numero di navi, che ho esposto prima, messo assieme dai diversi regni della Grecia, fu preparato e istruito nell’arco di cinque anni. Così, dal momento che nulla ritardava la partenza, se non l’assenza dei soldati, tutti i principi come datosi un segnale arrivarono contemporaneamente ad Aulide.

[Agamennone uccide una cerva sacra a Diana, la quale provoca un’epidemia; un’indovina predice ad Agamennone che per placare la peste deve sacrificare sua figlia e, al suo rifiuto, viene deposto dalla carica] 19. Frattanto, nella fretta dell’avvio della navigazione, Agamennone, che ho detto prima era stato dichiarato da tutti comandante supremo, per caso allontanatosi un po’ dall’esercito scorse in un bosco sacro di Diana una capriola che pascolava e, ignaro della norma del culto che era in quel luogo, la trafisse con un dardo130. Per questo fatto dopo non molto, per ira della dea o per mutazione dell’aria131, una pestilenza invase i corpi messi duramente alla prova132. Di giorno in giorno aggravandosi sempre più l’infezione, colpiva gli uomini a migliaia infuriando indifferentemente sia sugli uomini sia sugli animali e non si vedeva assolutamente requie al male; qualunque cosa fosse toccata dal male, era destinata alla rovina133. Una donna, con poteri trasmessi dal dio134, rivelò ai principi, molto

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quaedam Deo plena Dianae iram fatur: eam namque ob necem capreae, qua maxime laetabatur, sacrilegii poenam ab exercitu expetere, nec leniri, priusquam auctor tanti sceleris filiam natu maximam vicariam victimam immolavisset. Quae vox ut ad exercitum venit, omnes duces Agamemnonem adeunt, eumque primo orare recusantemque ad postremum cogere, uti malo obviam properaret. Sed ubi obstinate renuere vident nec ulla vi queunt flectere, plurimis conviciis insecuti, ad postremum regio honore spoliavere. Ac ne tanta vis exercitus sine rectore effusius ac sine modo militiae vagaretur, praeficiunt ante omnes Palamedem, dein Diomedem et Aiacem Telamonium, quartumque Idomenea. Ita per aequationem numeri atque partium quadripertitur exercitus. 20. Neque interim ullus finis vastitatis, cum Ulixes simulata ex pertinacia Agamemnonis iracundia et ob id domuitionem confirmans magnum atque insperabile cunctis remedium excogitavit. Profectus namque Mycenas nullo consilii participe falsas litteras tamquam ab Agamemnone ad Clytemestram perfert, quarum sententia haec erat: Iphigeniam, nam ea maior natu erat, desponsam Achilli, eumque non prius ad Troiam profecturum, quam promissi fides impleretur; ob quae festinaret eamque et quae nuptiis usui essent, mature mittere. Praeterea multa pro negotio

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preoccupati della cosa, che Diana, sdegnata per l’uccisione della capriola a lei molto cara, pretendeva dall’esercito una punizione per il sacrificio commesso e che non si sarebbe placata prima che l’autore del misfatto avesse in cambio sacrificato la sua figlia maggiore. Come questa notizia arrivò all’esercito135, i principi andarono insieme da Agamennone, lo pregarono a lungo e, benché lui costantemente si tirasse indietro, infine gli ingiunsero di rimediare a così gran flagello. E siccome lui restava ancora in tale ostinazione e non riuscivano con alcun tipo di forza a fargli cambiare idea, passati alle offese, da ultimo gli tolsero l’incarico di condottiero136. Affinché un così grande esercito non restasse senza capo e senza disciplina militare, elessero capo prima di tutti Palamede137, dopo di lui Diomede, e Aiace Telamonio e per quarto Idomeneo; sicché il comando dell’esercito fu diviso fra questi quattro.

[Ulisse si allontana dal campo e, con uno stratagemma, riesce a condurvi Ifigenia; Agamennone sta per fuggire ma è trattenuto da Nestore] 20. Nel frattempo non si vedeva fine della devastazione, quando Ulisse, simulata collera per l’ostinazione di Agamennone, e per questo dicendosi pronto a tornare a casa, escogitò un rimedio grande e insperato alla grande disgrazia. In gran segreto se ne andò a Micene portando a Clitemestra lettere contraffatte a nome di Agamennone, il cui senso era che lui aveva dato in sposa la sua figlia maggiore Ifigenia ad Achille e che non voleva andare a Troia se non avesse prima celebrato la promessa di matrimonio; inoltre scriveva che non indugiasse a mandarla con quanto fosse necessario per le nozze. Aggiungendo

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locutus ementito argumento fidem fecerat. Quae ubi accepit Clytemestra, cum propter gratiam Helenae, tum maxime, quod tam celeberrimi nominis viro filia traderetur, laeta Iphigeniam Ulixi committit. Isque confecto negotio paucis diebus ad exercitum revenit, atque ex inproviso in luco Dianae cum virgine conspicitur. Quis cognitis Agamemnon affectione paternae pietatis motus an ne tam inlicito immolationis sceleri interesset, fugam parat. Eumque, re cognita Nestor, longam exorsus orationem, ad postremum persuadendi genere, in quo praeter ceteros Graeciae viros iucundus acceptusque erat, a proposito prohibuit. 21. Interim virginem Ulixes et Menelaus cum Calchante, quibus id negotium datum erat, remotis procul omnibus sacrificio adornant, cum ecce dies foedari et caelum nubilo tegi coepit, dein repente tonitrua, corusca fulmina et praeterea terrae marisque ingens motus atque ad postremum confusione aeris ereptum lumen. Neque multo post imbrium atque grandinis vis magna praecipitata. Inter quae tam taetra nulla requie tempestatis, Menelaus cum his, qui sacrificium curabant, metu atque haesitatione diversus agebatur, terreri quippe primo subita caeli permutatione idque signum divinum credere, dein, ne inceptum omitteret, detrimento militum commoveri. Igitur inter tantam animi dubitationem vox quaedam luco emissa: aspernari numen sacrificii genus et ob id abstinendum a corpore virginis, misereri namque

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molte altre cose, non senza falsità, aveva reso verosimile la cosa. Clitemestra, accettata la proposta, lieta per motivo di Elena e ancor più lieta che sua figlia sarebbe andata in sposa a un personaggio così famoso, ben volentieri affidò Ifigenia a Ulisse. Sbrigata la cosa, questi tornò con lei in pochi giorni all’esercito138. Fu visto inaspettatamente nel bosco di Diana con la fanciulla; e Agamennone, quando lo venne a sapere, mosso dall’affetto paterno si prepara a fuggire, per non essere presente a quello scellerato sacrificio139. Appresa la cosa, Nestore, che di tutti gli altri greci era il più convincente e brillante oratore140, con molti discorsi lo distolse dal proposito.

[Segni atmosferici precedenti al sacrificio: una voce intima di non sacrificare la fanciulla] 21. Nel mentre Ulisse e Menelao insieme con Calcante, ai quali era stato dato il compito141, allontanati tutti, adornarono la vergine per il sacrificio, quand’ecco il dì iniziò a oscurarsi e il cielo a essere coperto da nuvole, allora all’improvviso tuoni, fulmini corruschi e inoltre un gran moto di terra e mare e alla fine nella confusione dell’aria era sorta una luce. Dopo non molto precipitò una gran scarica di piogge e grandine. Menelao e gli altri che erano pronti per il sacrificio erano presi da paura ed esitazione, temevano sia per l’improvviso mutamento del cielo, che credevano un segno divino, sia per le conseguenze da parte dell’esercito, se il sacrificio non avesse avuto luogo142. In così tanta indecisione, si sentì una voce proveniente dal bosco143: diceva che la dea non teneva più a quel sacrificio, mossasi a compassione della fanciulla, e che dovessero pertanto astenersi dal toccarla, e al suo posto pensassero a sacrifica-

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eius deam; ceterum pro tanto facinore satis poenarum Agamemnoni ab coniuge eius post Troianam victoriam comparatum. Itaque curarent id, quod in vicem virginis oblatum animadverterent, immolare. Dein coepere venti atque fulmina aliaque, quae in magno coeli motu oriri solent, consenescere. 22. Sed cum haec in luco aguntur, Achilles litteras seorsum missas sibi a Clytemestra cum auri magno pondere accepit, in quis ei filiam atque omnem domum suam commendaverat. Quae postquam et Ulixis consilium patefactum est, omissis omnibus propere ad lucum pergit, magna voce Menelaum et qui cum eo erant, inclamans, ab inquietudine Iphigeniae cohiberent sese, comminatus perniciem, ni paruissent. Mox attonitis his atque obstupefactis ipse supervenit reformatoque iam die virginem abstrahit. Interim deliberantibus cunctis, quidnam vel ubi esset, quod immolari iuberetur, cerva forma corporis admiranda ante ipsam aram intrepida consistit. Eam praedictam hostiam rati oblatamque divinitus comprehendere moxque immolant. Quis peractis sedata lues instarque aestivi temporis reseratum est caelum. Ceterum virginem Achilles atque hi, qui sacrificio praefuere, clam omnes regi Scytharum, qui eo tempore aderat, commendavere.

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re quello che lì avessero trovato al posto della vergine; ad Agamennone sarebbe stata poi riservata dalla moglie una conveniente punizione per una così grande scellerataggine, dopo la vittoria sui troiani. Subito iniziarono a placarsi i venti, le saette e tutte le altre perturbazioni che sogliono nascere coi grandi movimenti dei cieli.

[Achille viene a conoscenza dell’inganno e, mentre tutti si interrogano sul da farsi, trascina via Ifigenia] 22. Ma mentre si svolgevano queste cose nel bosco, Achille ricevette la lettera mandatagli da Clitemestra insieme con una gran quantità di oro144, nella quale gli aveva affidato sua figlia e l’intera sua casa. Dopo che la faccenda e il piano di Ulisse gli furono chiari, messa da parte ogni cosa, si recò in fretta al bosco, chiamando a gran voce Menelao e quelli che erano con lui, che non facessero del male ad Ifigenia, minacciando morte se non avessero ubbidito. Mentre quelli se ne stavano ancora attoniti e smarriti, egli sopraggiunse rapidamente e, rischiaratasi già l’aria, condusse fuori la fanciulla145; e intanto mentre tutti si chiedevano che cosa mai e dove fosse ciò che la dea ordinava di sacrificare, in quell’istante si fermò davanti all’altare senza paura una bellissima cerva; immaginando, allora, che quella fosse l’ostia offerta dalla dea per il sacrificio, la presero e la sacrificarono subito146. Non appena ebbero fatto questo la peste cessò e l’aria tornò serena, come di solito l’estate. Achille e quelli che volevano sacrificare Ifigenia la consegnarono in segreto al re degli Sciti che si trovava in quel luogo147.

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23. At ubi duces sedatam vim mali animadvertunt ventorumque flatus navigandi prosperos atque aestivam maris faciem, omnes laeti Agamemnonem adeunt, eumque interitu filiae permaestum consolati honorem regni rursus concelebrant. Quae res pergrata atque accepta per exercitum fuit, eum quippe optimum consultorem sui non secus, quam parentem miles omnis percolebat. Sed Agamemnon sive eorum, quae praecesserant, satis prudens, seu humanarum rerum necessitatem animo reputans, et ob id adversus infortunia firmissimus, dissimulato quod ei acciderat, honorem suscipit, atque eo die duces omnes ad se in convivium deducit. Dein haud multis post diebus exercitus ordinatus per duces, cum opportunum iam tempus navigandi ingrueret, ascendit naves repletas multis rebus pretiosissimis, quae ab incolis regionis eius offerebantur. Ceterum frumenta, vinum aliaque cibi necessaria Anius et eius filiae praebuere, quae Oenotropae et divinae religionis antistites memorabantur. Hoc modo ex Aulide navigatum est.

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[Agamennone ottiene di nuovo il comando e la spedizione parte] 23. Ma quando i comandanti notarono che la peste era cessata e i venti erano tornati favorevoli, tutti quanti lieti andarono da Agamennone, lo confortarono che la figlia si era salvata, e vollero che fosse ancora eletto capo della spedizione, il che avveniva non senza la soddisfazione e la gioia di tutto l’esercito, che molto l’amava stimandolo padre e ottimo consigliere. Agamennone, sia che fosse divenuto lungimirante per l’accaduto, sia che considerasse la fatalità degli eventi umani, fattosi comunque più saldo rispetto alle avversità della sorte, facendo finta di aver dimenticato il fatto, accettò l’incarico e, quello stesso giorno, invitò tutti i principi a un banchetto148. Entro pochi giorni, quando il tempo si fece favorevole alla navigazione, l’esercito si imbarcò sulle navi, nell’ordine impartito dai comandanti; su queste già molte cose di gran valore erano state caricate, offerte dagli abitanti di quel paese. Il grano, il vino e le altre vettovaglie erano state donate all’esercito da Anio e dalle figlie, che erano note come sacerdotesse capaci di trasformare l’acqua in vino149: e così si partì da Aulide.

LIBER SECUNDUS

LIBRO SECONDO Traduzione e note di Shanna Rossi (1-27) e Lorenzo Bergerard (28-52)

1. Postquam ad Mysorum regionem universas classes venti appulere propere omnes signo dato, naves litori admovent. Dein egredi cupientibus, a custodibus loci eius obviam itum est: eos namque Telephus, qui tum Mysiae imperator erat, quo omnis regio ab incursione maritimorum hostium defensaretur, litori praefecerat. Igitur ubi descendere prohibentur, neque prius permittitur terram contingere, quam regi quinam essent, nuntiaretur: nostri primo quae dicebantur neglegere, et singuli navibus egredi. Dein postquam a custodibus nihil remittebatur, et summa vi resisti et prohiberi coeptum est, duces omnes iniuriam manu vindicandam rati arreptis armis evolant navibus, incensique ira custodes caedere, neque versis his atque in fuga parcere, sed uti quisque fugientem comprehenderat, obtruncare. 2. Interim ad Telephum, qui primi fuga Graecos evaserant, veniunt: irruisse multa milia hostium, eosque caesis custodibus litora occupasse multa praeterea singuli pro metu suo adicientes, nuntiant. Dein re cognita Telephus cum his quos circum se habebat, aliisque, qui in ea festinatione in unum conduci potuere, propere Graecis obviam venit, ac statim condensatis utrimque frontibus vi magna concurritur. Dein uti quisque in manus venerat, interficitur. Cum interim his aut illis ex casu suorum perculsis vehementius invicem instaretur. Sed in ea

[I Greci nella Misia di Telefo]1 1. Dopo che i venti fecero approdare tutte le flotte nel paese dei Misii, presto tutte le navi, dato il segnale, si accostarono al lido. Poi, volendo sbarcare, incontrarono i guardiani del luogo. Infatti Telefo, che a quel tempo regnava in Misia,2 li aveva preposti a guardia della costa, per difendere tutta la regione dall’incursione dei nemici provenienti dal mare. Dunque, non appena ai nostri viene proibito di scendere e di toccare terra prima di annunciare al re chi fossero, essi in un primo momento non si curarono delle cose che quelli dicevano e scesero dalle navi uno per uno; ma poiché i guardiani non lo permettevano e cominciarono a resistere e a opporsi a gran forza, tutti i comandanti, pensando di dover vendicare l’offesa, presero le armi, balzarono fuori dalle navi e, accesi d’ira, uccisero i guardiani e non risparmiarono neanche quelli voltisi in fuga, anzi, non appena uno aveva preso un fuggiasco, lo sgozzava. 2. Nel frattempo, coloro che per primi erano sfuggiti ai Greci, giungono da Telefo: gli annunciano che hanno fatto irruzione molte migliaia di nemici e che, uccisi i guardiani, hanno occupato le coste, ciascuno aggiungendo molti dettagli, sotto l’effetto della paura.3 Dunque, compresa la questione, Telefo, con questi che aveva intorno e con altri che in quella concitazione riuscì a radunare, andò rapidamente incontro ai Greci e subito, serrati i fronti da ambo le parti, si viene allo scontro con grande veemenza.4 E non appena uno capitava sotto mano, veniva ucciso. Mentre si incalzava con violenza, a vicenda, percossi questi o quel-

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pugna Thessandrus, quem Polynicis supra memoravimus, congressus cum Telepho, ictusque ab eo cadit, multis tamen hostium ante interfectis, in quis Telephi comitem, quem rex ob industriam virium atque ingenii inter duces habebat, strenue dimicantem obtruncaverat; atque ita paulatim elatus secundo belli eventu et ob id maiora viribus aggressus interficitur. Atque eius cruentum corpus Diomedes, quod ei iam tum a parentibus coeptum cum eo societatis ius perseverabat, umeris extulit: idque igni crematum, quod superfuerat, patrio more sepeliit. 3. At ubi animadvertere Achilles et Aiax Telamonius magno suorum detrimento eventum belli trahi, exercitum in duas partes dispertiunt. Ac pro tempore cohortati suos, tanquam restauratis viribus acrius hostes incurrunt, ipsi duces principes certaminis. Cum modo insequerentur fugientes, modo ingruentibus semet instar muri opponerent. atque ita omni modo primi aut inter primos bellantes praeclaram iam tum virtutis suae famam apud hostes atque inter suos effecere. Interim Teutranius, Teutrante et Auge genitus, frater Telephi uterinus, ubi animadvertit Aiacem tanta adversum suos gloria dimicantem, propere ad eum convertit ibique pugnando ictus telo eius occubuit. Eius casu Telephus non mediocriter perculsus, ultionemque fraternae mortis expetens, infestus aciem invadit atque ibi, fugatis quos adversum ierat, cum obstinate Ulixem inter vineas, quae ei loco adiunctae erant, insequeretur, praepeditus trunco vitis ruit. Id ubi Achilles procul animadvertit, telum iaculatus femur sinistrum regi transfigit. At Telephus

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li, a caso,5 Tessandro, che sopra abbiamo ricordato come figlio di Polinice,6 scontratosi con Telefo e da lui colpito, cadde, dopo aver tuttavia ucciso molti nemici: tra questi aveva sgozzato un compagno di Telefo, che il re stimava tra i capi per l’operosità e l’ingegno, e che combatteva valorosamente. E così Tessandro, a poco a poco insuperbitosi dei primi successi, e per questo, aspirando a cose più grandi delle sue forze, viene ucciso.7 E il suo corpo insanguinato, poiché conservava il vincolo di ospitalità contratto fin dai genitori, se lo caricò sulle spalle Diomede;8 e dopo averlo cremato, seppellì ciò che era rimasto secondo il costume patrio.9 3. Ma quando Achille e Aiace Telamonio si accorgono che la battaglia si protraeva con grande danno dei loro, dividono l’esercito in due parti.10 Ed esortati i soldati secondo le circostanze, dopo aver ricostituito le forze, si scagliano contro i nemici più aspramente, gli stessi comandanti, capi della lotta, ora inseguendo i fuggiaschi, ora opponendosi a guisa di muro a coloro che attaccavano. E così, in ogni modo, per primi, o combattendo tra i primi, si procurarono una fama di virtù, sia presso i nemici, sia presso i loro. Frattanto Teutranio, figlio di Teutrante e Auge, fratello uterino di Telefo,11 non appena vide Aiace che combatteva contro i suoi con vanto tanto grande, in fretta gli si rivolse contro e combattendo lì, morì colpito da un suo dardo. Telefo, colpito non poco dalla caduta di quello, bramando vendetta per la morte fraterna, minaccioso assalì la schiera e là, messi in fuga coloro contro cui era andato, mentre inseguiva ostinatamente Ulisse tra le vigne che erano state introdotte in quel luogo, inciampando in un tronco di vite, cadde. Quando Achille da lontano se ne accorge, scagliato un dardo, trafigge il femore sinistro del re. Ma Telefo, ri-

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impigre resurgens, ferrum ex corpore extrahit, et protectus concursu suorum, ab instanti pernicie liberatus est. 4. Iamque diei plerumque processerat, cum utraque acie intenta proelium sine ulla requie iugi certamine ac strenue adversum se ducibus fatigaretur. Namque nostros multorum dierum navigio aliquantum exhaustos maxime praesentia Telephi debilitaverat. Is namque Hercule genitus, procerus corpore, ac pollens viribus divinis patris virtutibus propriam gloriam aequiperaverat. Igitur adventante nocte cunctis cupientibus requies belli facta. Ac Mysi ad se domum, nostri ad naves digrediuntur. Ceterum in ea pugna utriusque exercitus interfecti multi mortales, sed et vulnerati pars maxima, prorsus nullo aut perpaucis clade belli eius expertibus. Dein secuta die, legati invicem de sepeliendis, qui in bello ceciderant, mittuntur: atque ita indutiis interpositis collecta corpora atque igni cremata sepeliuntur. 5. Interim Tlepolemus et cum fratre Antipho Phidippus, quos Thessalo genitos, nepotes Herculis supra memoravimus, cognito Telephum in iis locis imperitare, fiducia cognationis ad eum veniunt eique quinam essent, et quibuscum navigassent, aperuere. Dein multa invicem consumpta oratione ad postremum nostri acrius incusare, quod tam hostiliter adversum suos versaretur. Agamemnonem namque et Menelaum Pelopidas, non alienos generis sui, eum exercitum contraxisse. Dein quae circa domum Menelai ab Alexandro commissa

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alzandosi prontamente, estrae il ferro dal corpo e, protetto dall’accorrere dei suoi, viene liberato da un’imminente rovina. 4. Era ormai trascorsa la gran parte del giorno, quando entrambe le schiere, intente in una battaglia senza tregua, erano fiaccate dalla lotta inesauribile, combattendo i capi strenuamente l’uno contro l’altro. Infatti soprattutto la presenza di Telefo aveva indebolito i nostri, piuttosto esausti per la navigazione di molti giorni. Egli infatti, nato da Ercole, di alta statura e vigorosa forza, aveva eguagliato con la propria gloria le divine virtù paterne. Pertanto, all’arrivo della notte, visto che tutti lo desideravano, ci fu una tregua dalla guerra. E i Misii tornano a casa loro, i nostri alle navi. Del resto in quella battaglia furono uccisi molti uomini di entrambi gli eserciti, la gran parte furono feriti: nessuno o pochi furono esenti da quella strage12. Poi, il giorno seguente vengono inviati da una parte e dall’altra dei messi a proposito della sepoltura dei caduti. E così, stipulata la tregua, i corpi, radunati e cremati, vengono seppelliti.13 5. Frattanto Tlepolemo e Fidippo, con il fratello Antifonte, che abbiamo ricordato sopra come figli di Tessalo e nipoti di Ercole,14 venuti a sapere che in questi luoghi comandava Telefo, fiduciosi nella parentela, giunsero presso di lui e gli rivelarono chi mai fossero e con chi navigassero. Poi, concluso il lungo colloquio, alla fine i nostri si lamentarono piuttosto aspramente che egli si comportasse da nemico contro propri congiunti: infatti avevano riunito quell’esercito Agamennone e Menelao, discendenti di Pelope, non estranei alla sua stirpe.15 Poi lo rendono edotto su quanto aveva fatto Alessandro intorno nel palazzo di

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essent raptumque Helenae docent. Atque decere eum cum propter consanguinitatem, tum praecipue ob scelus violati communis hospitii Graecis ultro ferre auxilium, in quorum gratiam ipsius etiam Herculis plurima laborum monumenta per totam Graeciam existere. Ad ea Telephus, etsi dolore vulneris inmodice adflictabatur, benigne tamen respondens ipsorum potius ait culpa factum, quod amicissimos et iunctos sibi generis adfinitate regno suo adpulsos ignoraverit; praemittendos etenim fuisse, per quos cognito eorum adventu obviam ire gratulantem oportuerit; atque amice hospitio receptos, donatosque muneribus, cum commodum ipsis videretur, remittere. Ceterum militiam adversum Priamum recusare; Astyochen enim Priami iunctam sibi matrimonio ex qua Eurypylus genitus, artissimum adfinitatis pignus intercederet. Dein propere popularibus, uti ab incepto desisterent, nuntiari iubet. Atque ita nostris liberam egrediendi navibus potestatem permittit. Tlepolemus et qui cum eo venerant Eurypylo traduntur hique perfectis quae cupierant ad naves pergunt nuntiantes Agamemnoni ac reliquis regibus pacem concordiamque cum Telepho. 6. Quae ubi accepere, apparatum belli laeti omittunt. Dein ex consilii sententia Achilles cum Aiace ad Telephum pervenere, eumque iactatum magnis doloribus consolati, ut viriliter incommodum ferret deprecabantur. At Telephus, ubi aliquantum requies doloris intercesserat, Graecos incusare, quod ne nuntium quidem adventus

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Menelao, e sul rapimento di Elena: per tale motivo sarebbe stato opportuno che egli, non solo per il legame di parentela, ma anche e soprattutto per la violazione del vincolo di ospitalità, portasse aiuto di buon grado ai Greci, ad opera dei quali per tutta la Grecia sorgevano numerosissimi monumenti proprio delle fatiche di Ercole.16 A quelle cose Telefo, sebbene fosse smisuratamente afflitto dal dolore della ferita, rispondendo tuttavia gentilmente,17 disse che l’azione malvagia era stata compiuta piuttosto per colpa loro, dato che non era a conoscenza che persone molto amiche e a lui congiunte dal legame di parentela, fossero sbarcate nel suo regno, e disse che si sarebbero dovuti mandare avanti degli ambasciatori grazie ai quali, saputo del loro arrivo, sarebbe stato opportuno andargli incontro rallegrandosi, e dopo averli ricevuti amichevolmente come ospiti, e datogli dei doni, sembrando ad essi stessi un gesto gentile, congedarli.18 Quanto al resto, rifiutava di marciare contro Priamo: Astioche, la figlia di Priamo, si era unita a lui in matrimonio e da essa era nato Euripilo, pegno di profondissimo legame.19 Poi, in fretta ordina che fosse annunciato ai concittadini di abbandonare l’impresa. E così ci concesse la libera facoltà di sbarcare. Tlepolemo e quelli che erano andati con lui, vengono affidati a Euripilo e questi, portato a termine quanto avevano in animo, si dirigono alle navi, annunciando ad Agamennone e agli altri re la pace e la concordia con Telefo. 6. Non appena apprendono tali cose, lieti, tralasciano i preparativi di guerra. Poi, per decisione dell’assemblea, Achille e Aiace andarono da Telefo e, consolato costui, travagliato da grandi dolori, lo pregavano di sopportare il disagio virilmente. Ma Telefo, non appena ebbe un po’ di tregua dal dolore, accusò i Greci di non aver mandato

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sui praemisissent. Dein percontatur, quinam et quanti Pelopidae in ea militia essent doctusque multis precibus orat, ut ad se omnes veniant. Tum nostri facturos se quae vellet polliciti, desiderium regis reliquis nuntiavere. Igitur omnes Pelopidae, praeter Agamemnonem et Menelaum, in unum congregati ad Telephum veniunt, multumque gratulationis atque laetitiae praesentia sua regi obtulere. Ac deinde muneribus largiter donati hospitio recipiuntur. Neque tamen miles reliquus qui apud naves erat, munificentiae regis expers fuit: namque ex numero navium frumentum aliaque necessaria adfatim portabantur. Ceterum rex ubi Agamemnonem fratremque eius abesse animadvertit, multis precibus Ulixem deprecatur, uti ad eos acciendos pergeret. Hi itaque ad Telephum veniunt ac more regio invicem acceptis datisque donis Machaonem et Podalirium, Aesculapii filios, venire ac vulneri mederi iubent; qui inspecta cura, propere apta dolori medicamina inponunt. 7. Sed ubi tritis aliquot diebus tempus navigandi remorari ac ventis adversantibus mare in dies magis magisque saevire occepit, Telephum adeunt eumque de opportunitate temporis consulunt. Atque ab eo docti initio veris ex his locis ad Troiam navigandi tempus esse, reliqua adversa, cunctis volentibus Boeotiam revertuntur ibique subductis navibus singuli in regna sua hiematum discedunt. Interim in eo otio regi Agamemnoni cum Menelao fratre exercere discordias vacuum fuit, ob proditam Iphigeniam. Is namque auctor et veluti causa luctus eius credebatur.

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avanti neppure un messo per il loro arrivo. Poi gli domanda chi mai e quanti Pelopidi ci fossero in quell’esercito e, con molte preghiere, chiede che tutti vadano da lui. Allora i nostri annunciarono agli altri che avrebbero fatto ciò che egli voleva, tenendo fede al desiderio del re. Dunque tutti i Pelopidi, eccetto Agamennone e Menelao, radunatisi in un sol luogo, vanno da Telefo, e danno al re, con la loro presenza, molta gioia e gratitudine.20 E così vengono ricevuti ospitalmente con grandi doni. E nemmeno la truppa rimasta alle navi mancò di conoscere la generosità del re, infatti presso ogni nave veniva portato in abbondanza frumento e altri beni necessari. Tuttavia non appena il re si accorge dell’assenza Agamennone e suo fratello, chiede a Ulisse con molte preghiere di andare a chiamarli21. E così questi giungono da Telefo e, scambiatisi i doni secondo il costume regale, ordinano che Macaone e Podalirio, figli di Esculapio, vengano a medicargli la ferita; questi, dopo averla esaminata con cura, vi pongono medicamenti adatti al dolore.22 7. Ma quando, trascorsi alcuni giorni, il tempo incominciò a impedire la navigazione e il mare a infuriare ogni giorno di più per i venti contrari, vanno da Telefo e gli chiedono consiglio sulla stagione opportuna.23 Ed edotti sul fatto che il tempo di navigare da questi luoghi fino a Troia è l’inizio della primavera e che le altre stagioni sono contrarie, tornano in Beozia tutti d’accordo e là, tirate in secco le navi, ognuno va a svernare nel proprio regno.24 Frattanto in mezzo a quell'ozio ci fu tempo, per il re Agamennone, di venire a lite con il fratello Menelao, per la consegna di Ifigenia. Infatti egli credeva che fosse Menelao l'istigatore e la causa del suo dolore.25

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8. Per idem tempus, ubi de coniuratione universae Graeciae apud Troiam conpertum est, auctoribus nuntii eius Scythis barbaris, qui mercandi gratia per omnem Hellespontum commutare res cum accolis sueti ultro citroque vagabantur, metus atque maeror universos invasere, cum singuli, quibus ab initio Alexandri facinus displicuerat, male actum adversus Graeciam, et ob id paucorum pravitate in communem perniciem praecipitatum iri testarentur. Inter quae tam sollicita, magna cura plurimi ex omni ordine electi ad contrahenda ex finitimis regionibus auxilia ab Alexandro aliisque pessimis consultoribus dimittuntur hisque mandatur, uti quam primum expedito negotio remearent: quod ea gratia maxime a Priamidis festinabatur uti propere instructo exercitu tempus profectionis antecaperent, atque omne quod parabatur bellum, in regiones Graeciae transportaretur. 9. Dum haec apud Troiam geruntur, Diomedes incepti eorum certior factus magna celeritate per omnem Graeciam pervagatus universos duces convenit: eisque consilium Troianorum aperiens monet atque hortatur, uti quam primum instructi rebus bello necessariis ad navigandum festinarent. Neque multo post re cognita Argos ab omnibus convenitur. Ibi Achilles regi indignatus, quod propter filiam renueret profectionem, ab Ulixe in gratiam reductus est. Is namque diu maesto ac luctu

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[Troia si prepara alla guerra] 8. Nel medesimo tempo, quando a Troia si venne a sapere della cospirazione della Grecia intera, grazie alla notizia da parte di alcuni barbari Sciti, i quali in virtù del commercio, avvezzi allo scambio con i popoli vicini per tutto l’Ellesponto, vagavano da una parte e dall’altra,26 la paura e il dolore assalirono tutti, mentre ciascuno, tra quelli che dal principio avevano biasimato il misfatto di Alessandro, dichiarava che a causa della malefatta contro la Grecia e della cattiveria di pochi, sarebbero stati gettati nella disgrazia comune.27 Frattanto, con grande e così sollecita preoccupazione, moltissimi uomini, scelti da ogni rango, vengono mandati da Alessandro e da altri suoi pessimi consiglieri a reclutare aiuti dai popoli confinanti, e a questi viene ordinato, sbrigata la questione, di tornare indietro quanto prima. Quel favore veniva così tanto sollecitato dai Troiani, perché, istruito in fretta l’esercito, potessero anticipare il momento della partenza e trasferire in territorio greco la guerra in preparazione.

[I principi greci allestiscono una flotta di cinquanta navi] 9. Mentre a Troia avvengono queste cose, Diomede, venuto a sapere dell’intenzione di quelli, vagando con grande sollecitudine per tutta la Grecia, va da tutti i comandanti e, spiegandogli la decisione dei Troiani, li ammonisce e li esorta ad affrettarsi a mettersi in mare, disponendo quanto prima il necessario per la guerra. Non molto dopo, appresa la situazione, giungono tutti in Argo. Là Achille, indignato col re, il quale si rifiutava di partire per la faccenda della figlia, fu riconciliato con lui da Ulisse. Infatti egli,

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obsito Agamemnoni insinuans, quae circa filiam eius evenissent, animum atque ornatum regis reformavit. Igitur cunctis praesentibus, quamquam a nullo officia militiae neglegebantur, praecipue tamen Aiax Telamonius et Achilles cum Diomede curam maximam studiumque inportandi belli susceperant; hisque placet, uti praeter contractam classem naves quibus loca hostilia incursarent, praeparentur. Ita diebus paucis, quinquaginta navium classem instructam omni genere conpingunt. Ceterum ab incepto militiae eius octavo iam anno ad hoc usque tempus consumpto, initium noni occeperat. 10. At ubi instructae omni modo classes et mare navigii patiens neque ulla res impedimento erat, Scythas, qui forte mercandi gratia eo adpulerant, conductos mercede, duces profectionis eius delegere. Per idem tempus Telephus dolore vulneris eius, quod in proelio adversum Graecos acceperat, diu adflictatus, cum nullo remedio mederi posset, ad postremum Apollinis oraculo monitus, uti Achillem atque Aesculapii filios adhiberet, propere Argos navigat. Dein cunctis ducibus causam adventus eius admirantibus oraculum refert atque ita orat, ne sibi praedictum remedium, ab amicis negaretur. Quae ubi accepere Achilles cum Machaone et Podalirio adhibentes curam vulneri brevi fidem oraculi firmavere. Ceterum Graeci multis immolationibus deos adiutores incepto invocantes Aulidam cum praedictis navibus veniunt. Atque inde propere navigare incipientibus dux Telephus

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facendo sapere ad Agamennone, da lungo tempo afflitto e avvolto nel dolore, quel che era accaduto a sua figlia, gli restituì vigore e dignità di re.28 Essendo dunque tutti presenti, malgrado i doveri militari non venissero trascurati da nessuno, tuttavia si erano assunti l’incarico grandissimo di portare guerra soprattutto Aiace Telamonio, Achille e Diomede; e a questi sembrò opportuno, oltre alla flotta radunata, di preparare delle navi con cui fare incursioni nei territori nemici. E in pochi giorni costruiscono una flotta di cinquanta navi, fornite d’ogni genere di cose. Del resto, era già trascorso l'anno ottavo dall’inizio dell’impresa, e si era al principio del nono.29

[Guarigione di Telefo; arrivo dei Greci a Troia] 10. E quando le flotte erano perfettamente allestite e il mare calmo, e non vi era alcun impedimento, assoldarono come guide degli Sciti,30 i quali erano approdati là per caso, per scopi commerciali. Nel medesimo tempo Telefo, a lungo tormentato dal dolore della sua ferita, ricevuta in battaglia contro i Greci, poiché non riusciva a guarire con nessun rimedio, alla fine, ammonito dall’oracolo di Apollo a ricorrere ad Achille e ai figli di Esculapio, presto si mette in mare verso Argo. Poi riferisce l’oracolo a tutti i capi che si meravigliavano della sua venuta e li prega affinché non gli sia negato dagli amici il rimedio predetto. Non appena appresero tali cose, Achille, Macaone e Podalirio confermarono la parola dell’oracolo, ponendo rimedio alla ferita in breve tempo.31 Riguardo al resto i Greci, invocando con molti sacrifici dei favorevoli all’impresa, con le navi suddette, giungono in Aulide e da lì, mentre si dava inizio prontamente alla navigazione, viene nominato comandan-

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ob acceptam gratiam factus. Ita ascensis navibus ventos nacti paucis diebus ad Troiam pervenere. 11. Per idem tempus Sarpedon Lycius Xanthi et Laodamiae, frequentibus nuntiis a Priamo accitus cum magna armatorum manu adventabat. Is ubi animadvertit procul magnam vim classium admotam litori, ratus ut negotium erat, propere suos instruit Graecosque degredi incipientes invadit. Neque multo post re cognita Priamidae arreptis armis accurrunt, cum interim Graeci infensis hostibus, et omni modo instantibus neque degredi sine pernicie neque arma capere turbatis omnibus et ob id cuncta impedientibus possent. Ad postremum tamen, hi quibus in ea festinatione armandi semet potestas fuit, confirmati inter se invicem acriter hostes incurrunt. Sed in ea pugna Protesilaus, cuius navis prima omnium terrae admota erat, inter primos bellando ad postremum telo Aeneae ictus ruit. Occidere etiam duo Priami filii neque reliqua multitudo utraque ex parte cladis eius expers fuit. 12. Ceterum Achilles et Aiax Telamonius, quorum virtute Graeci sustentabantur, magna gloria dimicantes metum hostibus et fiduciam suis effecere. Neque amplius resisti

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te Telefo, in virtù del favore ricevuto. E così, saliti sulle navi, approfittando dei venti,32 in pochi giorni arrivarono a Troia.

[Arrivo del contingente licio guidato da Sarpedone; morte di Protesilao] 11. Nel medesimo tempo il licio Sarpèdone33, figlio dello Xanto e di Laodamia, richiamato da Priamo con frequenti messi, si avvicinava con una grande schiera di armati. Egli, non appena scorge da lontano la grande flotta che si accosta al lido, immaginando di che cosa si tratta, prontamente ordina i suoi in battaglia e attacca i Greci che incominciano a sbarcare. Capita la situazione, non molto dopo, prese le armi, accorrono anche i Troiani, mentre i Greci non possono né sbarcare senza danno, data l’ostilità dei nemici e il loro incalzare in ogni modo, né prendere le armi, essendo tutti sconvolti e per questo del tutto impediti. Infine però, coloro ai quali in quella concitazione riuscì di armarsi, fattisi coraggio a vicenda, con ardore affrontarono i nemici. Ma in quello scontro Protesìlao, la cui nave era stata la prima tra tutte ad avvicinarsi al lido, combattendo tra i primi, infine cadde, colpito da un dardo di Enea.34 Morirono anche due figli di Priamo,35 e neppure la restante moltitudine, da entrambe le parti, fu esente dalla strage.

[Aristìe di Achille e Aiace Telamonio; assalto di Cicno] 12. Tuttavia Achille e Aiace Telamonio, dal coraggio dei quali i Greci erano sostenuti, combattendo con grande vanto ispirarono timore nei nemici e fiducia nei loro uo-

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iam apud eos poterat, quin paulatim decedentibus his, quos adversum ierant, ad postremum cuncti fugarentur. Ita libero ab hostibus tempore Graeci subductas naves atque in ordinem compositas tuto collocant. Dein ex omnibus Achillem et Aiacem Telamonium, quorum virtute maxime fidebant, custodes deligunt hisque tutelam classium atque exercitus per latera atque cornua distribuentes tradunt. Igitur ordinatis dispositisque omnibus Telephus, cuius ductu ad Troiam navigatum est, magna sui apud exercitum gratia domum discedit. Neque multo post circa Protesilai sepulturam nostris occupatis, nihilque tali tempore hostile metuentibus Cycnus, cuius haud procul a Troia regnum erat cognito adventu nostro, clam atque insidiis Graecos invadit eosque ancipiti malo territos sine ullo ordine ac disciplina militari fugere coegit. Dein propere reliqui quibus non ea humatio demandata erat, re cognita, armati eunt contra. In quis Achilles congressus cum rege eumque et magnam vim hostium interfecit, conversis in fugam hoc modo liberatis. 13. Ceterum sollicitis ducibus et multorum clade ob crebras hostium incursiones anxiis decernitur, uti primum finitimas Troiae civitates cum parte exercitus adeant, eosque omni modo incursent. Ita omnium primam Cycni regionem invadunt, vastantque circum omnia. Sed ubi Neandriensium civitatem, quae regni caput filiorum Cycni nutrix memorabatur, nullo resistente invasere atque ignem

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mini. E al loro cospetto, ormai, non si poteva resistere più a lungo senza che a poco a poco, retrocedendo coloro contro i quali erano andati, venissero messi tutti in fuga. Così i Greci, mentre sono liberi dai nemici, mettono al sicuro le navi tirate in secco e disposte in ordine. Poi fra tutti scelgono come guardiani Achille e Aiace Telamonio, del cui coraggio si fidavano moltissimo, e a questi affidano la difesa delle flotte e dell’esercito, distribuendo le truppe in ali e corni.36 Dunque ordinata e disposta ogni cosa, Telefo, sotto la cui guida avevano navigato fino a Troia, con grande gratitudine da parte dell’esercito, ritorna a casa. Non molto dopo, essendo i nostri impegnati nella sepoltura di Protesìlao e nulla temendo di ostile in tale circostanza, Cicno, il cui regno non era lontano da Troia, saputo del nostro arrivo, di nascosto e con insidia attaccò i Greci e li costrinse a fuggire senza ordine e disciplina militare, atterriti da una duplice disgrazia.37 Ma presto gli altri, a cui non era stato dato il compito della sepoltura, capita la situazione, si fecero avanti armati; fra questi Achille, scontratosi col re, uccise lui e gran parte dei nemici, liberando in tal modo i Greci in fuga.38

[Assalti dei Greci a popolazioni limitrofe] 13. Quanto al resto, poiché i capi erano preoccupati e in ansia per la strage di molti soldati, dovuta alle frequenti incursioni dei nemici, si decise di assalire dapprima le città confinanti con Troia e di fare in esse incursioni in ogni modo. Così, per prima invadono la regione di Cicno e la devastano tutta intorno. Ma quando invasero la città dei Neandriesi, che si diceva fosse madrepatria dei figli di Cicno, e cominciarono ad appiccare il fuoco non

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subicere coepere, cives eius multis precibus lacrimisque orare, uti ab incepto desisterent; per omnia humana atque divina nixis genibus deprecantes, ne delicta pessimi ducis civitatem innoxiam et paulo post fidam sibi luere paterentur. Hoc modo per miserationem servata civitas. Ceterum regios pueros Cobin et Corianum eorumque sororem Glaucen expetentibus Graecis tradidere, quam nostri Aiaci ob fortia facta eius exceptam reliquae praedae habendam concedunt. Neque multo post Neandrienses supplices et cum pace ad Graecos conveniunt amicitiam et omnia quae imperavissent facturos polliciti. Quis perfectis Graeci Cillam adgressi expugnavere. Neque tamen Carenen, quae haud procul aberat, contingunt in gratiam Neandriorum, qui domini civitatis eius, fideles atque amicissimi nobis ad hoc tempus permanserant. 14. Eadem tempestate oraculum Pythii Graecis perfertur: concedendum ab omnibus, uti per Palamedem Apollini Zminthio sacrificium exhiberetur. Quae res multis grata ob industriam et amorem viri, quem circa omnem exercitum exhibebat, nonnullis ducum dolori fuerat. Ceterum immolatio centum victimarum, sicuti praedictum erat, pro cuncto exercitu exhibebatur praeeunte Chryse, loci eius sacerdote. Interim re cognita Alexander congregata armatorum manu ad prohibendum venit. Eum duo Aiaces,

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incontrando resistenza alcuna, i cittadini li implorarono con molte preghiere e lacrime di desistere dall’impresa, in nome di ogni cosa umana e divina, cingendogli le ginocchia,39 di non permettere che i delitti di un pessimo re distruggessero una città innocente e nell’imminente futuro a loro fedele.40 E in questo modo per pietà la città fu salvata. Tuttavia i Greci chiesero di consegnare loro i figli del re, Cobino e Coriano, e la loro sorella Glauce, la quale i nostri concessero come prigioniera ad Aiace, oltre al restante bottino, per le sue azioni valorose.41 E non molto dopo i Neandriesi, supplici, accordarono ai Greci pace e amicizia e promisero loro che avrebbero fatto ogni cosa gli avessero comandato. Compiute queste imprese, i Greci, assalita Cilla, la espugnarono. Tuttavia non toccarono Corone, che era poco lontano, in grazia dei Neandriesi, i quali erano padroni di quella città e si erano mantenuti fedeli e amici a noi fino a quel momento.

[Sacrificio ad Apollo Sminteo; ferimento di Filottete e sua cacciata] 14. A quel tempo viene annunciato ai Greci un oracolo di Apollo: tutti dovevano concedere che venisse offerto un sacrificio ad Apollo Sminteo tramite Palamede. La qual cosa fu gradita a molti per lo zelo e l’amore che a lui tutto l'esercito dimostrava, ma provocò risentimento in non pochi comandanti.42 Tuttavia l’immolazione delle cento vittime43 fu fatta in favore di tutto l’esercito, così come era stato prescritto, presiedendo Crise, il sacerdote di quel luogo. Nel frattempo Alessandro, venuto a sapere il fatto, radunata una schiera di armati, giunse per impedire la cerimonia44. Ma i due Aiaci, prima che si avvicinasse

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priusquam ad templum adpropinquaret, interfectis plurimis fugavere. Sed Chryses, quem sacerdotem Zminthii Apollinis supra diximus, utriusque exercitus offensam metuens, quisque partium ad eum venerat, cum his se adiunctum esse simulabat. Interim in eo sacrificio Philocteta haud procul ab ara templi eius adstans morsu serpentis forte contingitur. Dein ab omnibus, qui animadverterant, clamore sublato Ulixes adcurrens serpentem interficit. Neque multo post Philocteta cum paucis, uti curaretur, Lemnum insulam mittitur: namque in ea sacri Vulcano antistites dei inhabitare ab accolis dicebatur solitos mederi adversus venena huiusmodi. 15. Per idem tempus Diomedes et Ulixes consilium de interficiendo Palamede ineunt, more ingenii humani, quod imbecillum adversum dolores animi et invidiae plenum anteiri se a meliore haud facile patitur. Igitur simulato quod thesaurum repertum in puteo cum eo partiri vellent, remotis procul omnibus persuadent, uti ipse potius descenderet eumque nihil insidiosum metuentem adminiculo funis usum deponunt ac propere arreptis saxis, quae circum erant, desuper obruunt. Ita vir optimus acceptusque in exercitu, cuius neque consilium umquam neque virtus frustra fuit, circumventus a quibus minime decuerat indigno modo interiit. Sed fuere, qui eius consilii haud expertem Agamemnonem dicerent ob amorem ducis in exercitum et quia pars maxima regi ab eo

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al tempio, uccisi numerosissimi soldati, lo misero in fuga. Ma Crise, che sopra abbiamo ricordato come sacerdote di Apollo Sminteo, temendo un danno di entrambi gli eserciti, fingeva di essere amico con ciascuna delle parti che si avvicinava a lui. Intanto, durante quel sacrificio, Filottete, che stava non lontano dall’altare del tempio, viene morso da un serpente. Quindi, sollevatosi il clamore di tutti coloro che se n’erano accorti, Ulisse, accorrendo, uccide il serpente.45 E non molto dopo Filottete viene mandato sull’isola di Lemno, con pochi uomini, perché fosse curato: infatti in quell’isola sacra a Vulcano si diceva abitassero dei sacerdoti del dio, capaci di curare da veleni di tale specie.46

[Uccisione a tradimento di Palamede da parte di Ulisse e Diomede] 15. Nel medesimo tempo Diomede e Ulisse si consultano sull’uccisione di Palamede, com’è proprio della natura umana, la quale, debole di fronte ai risentimenti dell’animo e piena di invidia, non sopporta facilmente di essere superata da una migliore di lei.47 Dunque, avendo finto di aver trovato in un pozzo un tesoro che volevano spartire con lui, allontanati tutti, lo persuadono a scendere il più possibile e calano quello, che non teme alcuna insidia, con l’aiuto di una fune, e prontamente, afferrati i sassi lì intorno, lo ricoprono dall’alto.48 Così quell’uomo eccellente e caro all’esercito, il cui consiglio e la cui virtù non furono mai vani, ingannato da chi meno doveva, morì in modo indegno.49 Ma ci fu chi diceva che Agamennone avesse partecipato a quella decisione, per via della benevolenza di Palamede nei confronti dell’esercito, e perché la gran

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cupiens tradendum ei imperium palam loquebantur. Igitur a cunctis Graecis veluti publicum funus eius crematum igni, aureo vasculo sepultum est. 16. lnterim Achilles ministras, et veluti officinam belli proximas Troiae civitates ratus sumptis aliquot navibus Lesbum adgreditur, ac sine ulla difficultate eam capit et Phorbanta, loci eius regem, multa adversum Graecos hostiliter molitum interficit atque inde Diomedeam, filiam regis, cum magna praeda abducit. Dein Scyrum et Hierapolim urbes refertas divitiis, cunctis suorum poscentibus vi magna adgressus paucis diebus sine ulla difficultate excindit. Ceterum, qua pergebat, agri referti iugi pace depraedati omnibusque vexati neque quicquam, quod amicum Troianis videretur, non eversum aut vastatum relinqui. Quis cognitis, finitimi populi ultro ad eum cum pace adcurrere ac ne vastarentur agri, dimidio fructuum pacti dant fidem pacis atque ab eo accipiunt. His actis Achilles ad exercitum regreditur, magnam vim gloriae atque praedae adportans. Eodem tempore rex Scytharum cognito adventu nostrorum, cum multis donis adventabat. 17. Ceterum Achilles haud contentus eorum, quae gesserat Cilicas adgreditur; ibique Lyrnesum paucis diebus pugnando cepit. Interfecto deinde Eetione, qui his locis imperitabat, magnis opibus naves replet, abducens Astynomen, Chrysi filiam, quae eo tempore regi denupta

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parte di esso, desiderando di essere guidato da lui, parlava apertamente di affidargliene il comando.50 Dunque da tutti i Greci, come un pubblico funerale, dopo essere stato cremato col fuoco, fu sepolto in un'urna d'oro.51

[Achille assale alcune città limitrofe] 16. Frattanto Achille, convinto che le città vicine fossero alleate di Troia e quasi sue officine di guerra, scelte alcune navi, assale Lesbo e senza alcuna difficoltà la conquista, e uccide Forbante, il re di quel luogo, comportatosi in modo ostile contro i Greci, e da lì porta via Diomedea, la figlia del re, assieme ad un grande bottino.52 Dopo distrugge, in pochi giorni e senza alcuna difficoltà, Sciro e Ierapoli, città colme di ricchezze, assalendole con grande violenza, chiedendoglielo tutti i suoi soldati. D’altronde, ovunque si dirigeva, i campi venivano depredati della loro pace perenne e vessati in ogni modo, e non ve n’era alcuno che, sembrando alleato dei Troiani, non venisse lasciato sconvolto e devastato. Venuti a conoscenza della situazione, i popoli vicini accorrono da lui pacificamente e, affinché i campi non vengano devastati, promettendogli metà del raccolto, gli danno garanzia di pace, e da lui la ricevono. Compiute queste imprese, Achille torna all’esercito, portando con sé gran quantità di gloria e di bottino. Nel frattempo il re degli Sciti, saputo del nostro arrivo, giungeva con molti doni. 17. Tuttavia Achille, non contento di quelle sue imprese, attacca i Cilici, e là combattendo, in pochi giorni prese Lirnesso. Poi, ucciso Eezione, che regnava in quei luoghi, riempie le navi di ogni ricchezza, portandosi via Astinome, la figlia di Crisio, che a quel tempo era sposata col re.53

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erat. Propere inde Pedasum expugnare occoepit, Lelegum urbem, sed eorum rex Brises ubi animadvertit in obsidendo saevire nostros, ratus nulla vi prohiberi hostes aut suos satis defendi posse, desperatione effugii salutisque attentis ceteris adversum hostes domum regressus, laqueo interiit. Neque multo post capta civitas atque interfecti multi mortales et abducta filia regis Hippodamia. 18. Per idem tempus Aiax Telamonius Thracum Chersonesum omni modo infestabat. Sed ubi rex eorum Polymestor virtutem atque gloriam viri cognovit, diffidens rebus suis, deditionem occepit. Tuncque Polydorus, Priami filius, quem rex recens natum clam omnes alendum ei transmiserat, merces pacis ab eo traditur. Aurum etiam, aliaque dona huiuscemodi ad conciliandum hostium animos adfatim praebebantur. Dehinc frumentum per omnem exercitum totius anni pollicitus naves onerarias, quas ob id Aiax secum habuerat, replet. Multis execrationibus amicitiam Priami adversum Graecos renuens in pacis fidem receptus est. His actis Aiax iter ad Phrygas convertit ingressusque eorum regionem Teuthrantem dominum locorum solitario certamine interficit ac post paucis dies expugnata atque incensa civitate magnam vim praedae trahit, abducens Tecmessam, filiam regis.

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Presto da lì comincò a espugnare Pedaso, la città dei Lelegi, ma il loro re Brise, quando si accorse della ferocia dei nostri durante l’assedio, pensando che non era possibile con alcuna forza frenare i nemici e difendere i suoi, disperando di fuggire e salvarsi, mentre gli altri erano impegnati contro i nostri, ritiratosi in casa, s'impiccò. E non molto dopo la città fu conquistata e furono uccisi molti uomini e Ippodamia, la figlia del re, fu portata via.54

[Aiace Telamonio attacca il Chersoneso tracio; Polimestore gli concede in pegno Polidoro; Aiace attacca anche la Frigia] 18. Nel medesimo periodo Aiace Telamonio rovinava in ogni modo il Chersoneso tracio. Ma quando il re di quei luoghi, Polimestore, conobbe il coraggio e la fama dell’uomo, non fidandosi delle proprie forze, si consegnò a lui. E allora Polidoro, il figlio di Priamo, che il re di nascosto, appena nato, affidò a quello perché lo allevasse, venne consegnato ad Aiace come pegno per la pace.55 Venivano offerti in abbondanza anche oro e altri doni di tal specie per ingraziarsi gli animi dei nemici.56 Promettendogli d’ora in poi ogni anno frumento per tutto l’esercito, riempie le navi da carico, che Aiace per quel motivo aveva con sé. Rifiutando con molti giuramenti l’amicizia di Priamo contro i Greci, fu obbligato alla pace.57 Compiute queste cose, Aiace dirige il cammino verso i Frigi e, entrato nella loro regione, uccide in singolar tenzone Teutrante, il padrone di quei luoghi, e dopo pochi giorni, espugnata e incendiata la città, porta via un grande bottino, prendendosi anche Tecmessa, la figlia del re.58

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19. Igitur ambo duces multis vastatis atque expugnatis regionibus ipsi clari atque magnifici ingenti nomine, per diversa loca quasi de industria eodem tempore ad exercitum remeavere. Dein per praecones conductis in unum cunctis militibus ducibusque progressi in medium, singuli laborum atque industriae documenta in conspectu omnium exposuere. Quae ubi Graeci animadvertere, favore ingenti ac laudibus eos prosecuti, mediosque statuentes ramis oleae coronavere. Dein consilium de dividenda praeda haberi coeptum Nestore et Idomeneo in decernendo optimis auctoribus. Itaque cunctorum sententia ex omni praeda, quam Achilles adportaverat, exceptam Eetionis coniugem Astynomen, quam Chrysi filiam supra docuimus, ob honorem regium Agamemnoni obtulere. Ipse etiam Achilles praeter Brisei filiam Hippodamiam, Diomedeam sibi retinuit, quod eiusdem aetatis atque alimonii non sine magno dolore divelli poterant et ob id iam antea genibus Achillis obvolutae, ne separarentur, magnis precibus oraverant. Ceterum reliqua praeda viritim ob singulorum merita distributa est. Dein quae Aiax adportaverat, Ulixes et Diomedes regatu eius in medios intulere. Ex quis auri atque argenti quantum satis videbatur Agamemnoni regi datur; ac deinde Aiaci, ob egregia laborum eius facinora Teuthrantis filiam Tecmessam concedunt. Ita divisis in singulos quae supererant, frumentum per exercitum dispertiunt.

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[Achille ed Aiace tornano tra l’esercito, mostrano il bottino e sono incoronati con rami di ulivo; divisione del bottino e delle prigioniere] 19. Dunque entrambi i capi, illustri e splendenti di gran fama dopo aver devastato ed espugnato molte regioni, attraverso luoghi diversi, ritornarono all’esercito quasi d’accordo, nello stesso momento. Poi, riuniti tramite gli araldi tutti i soldati in un sol luogo, ciascuno, venendo nel mezzo, mostrò al cospetto di tutti le prove delle loro fatiche e del loro zelo. Quando i Greci videro quelle cose, salutandoli con grandissimo favore e lodi, li incoronarono in mezzo all’esercito con rami di ulivo. Poi l’assemblea cominciò a considerare l’opportuna divisione del bottino, affidandolo a Nestore e Idomeneo, ottimi consiglieri.59 E così per decisione unanime, di tutto il bottino che aveva portato Achille, una parte fu offerta ad Agamennone per onore regale, eccetto Astinome, la moglie di Eezione, che sopra abbiamo indicato come figlia di Crisio. Lo stesso Achille oltre alla figlia di Brise, Ippodamia, tenne per sé anche Diomedea, per il fatto che le fanciulle, avendo la stessa età ed essendo cresciute insieme, non potevano esser separate se non con grande dolore, e aggrappate alle sue ginocchia, già lo avevano implorato con grandi preghiere di non separarle. Quanto al resto, il rimanente bottino fu distribuito singolarmente per meriti di ciascuno. Poi, le cose che aveva portato Aiace, Ulisse e Diomede, da lui pregati, portarono nel mezzo. Tra quelle cose tanto oro e argento vengono dati al re Agamennone quanto parve opportuno; e poi ad Aiace, per le sue opere egregie, concedono Tecmessa, la figlia di Teutrante; e così, diviso per ciascuno ciò che era rimasto, distribuiscono il frumento all’esercito.

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20. His actis fidem pacti, quod cum Polymestore intercesserat, traditumque Polydorum refert. Ob quae cunctis decernitur, ut Ulixes cum Diomede profecti ad Priamum Helenam cum abreptis recuperarent, atque ita Polydorum regi traderent. Igitur his pergentibus Menelaus, in cuius gratiam id negotium gerebatur, legationis officium eius pariter cum supradictis capit. Itaque habentes Polydorum ad Troianos veniunt. Sed ubi animadvertere populares electos ac magni nominis viros adventasse, propere senes omnes, quorum consilium haberi solitum erat, in unum conducunt, Priamo a filiis domi retento. Igitur reliquis praesentibus Graecorum Menelaus verba facit: secundo iam se ob eandem causam venisse. Cum multa alia adversum se domumque suam admissa, tum magno cum gemitu filiae orbitatem per absentiam coniugis conqueri, quae cuncta ab amico quondam et hospite non secundum meritum suum evenisse. Eam seniores lamentationem immodicam cum lacrimis accipientes ad omnia quae ab eo dicebantur, tanquam iniuriae eius participes, adnuere. 21. Post quem Ulixes medius adstans huiuscemodi orationem habuit: «Credo ego vos, Troiani principes, satis compertum habere, nihil temere Graecos, nihil inconsultum incipere solere, ac semper his iam tum a maioribus provisum atque elaboratum, uti facta gestaque eorum laus potius, quam culpa sequeretur. Et ut a me consulta omittam, hoc iam licet recognoscere. Iniuriis contumeliisque Alexandri paulo ante laesa Graecia non

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[Tentativo di trattativa con Priamo tramite Polidoro] 20. Stabilita la pace con queste azioni, Aiace riferisce che aveva trattato con Polimestore, e che gli era stato consegnato Polidoro. Per la qual cosa tutti decidono che Ulisse e Diomede vadano da Priamo a riprendersi Elena con i beni rapiti, e che consegnino Polidoro al re.60 Dunque avviandosi questi, Menelao, nel cui interesse quell’affare si svolgeva, al pari loro si assume il compito dell’ambasceria. E così, portando con sé Polidoro, vanno dai Troiani. Ma quando il popolo si accorse che stavano arrivando degli uomini scelti e di gran fama, presto tutti i vecchi, di cui era solito comporsi l’assemblea, si concentrano in un sol luogo, mentre Priamo era trattenuto in casa dai figli. Allora Menelao, presenti gli altri Greci, comincia a parlare: veniva già per la seconda volta per la stessa ragione. Poiché molte altre avversità aveva incontrato, lui e la sua casa, allora lamentava con grande dolore la stato di privazione della figlia per l’assenza della moglie,61 tutte cose accadute a causa di uno un tempo amico e ospite, non per propria colpa. I vecchi, accogliendo quel lamento smisurato con lacrime, annuivano a tutto ciò che egli diceva quasi fossero partecipi della sua ingiuria. 21. Dopo di lui, Ulisse, stando nel mezzo, tenne un discorso di tal fatta: “Io credo che voi, principi Troiani, abbiate appurato a sufficienza che i Greci nulla a caso, nulla di sconsiderato sono soliti intraprendere, ma sempre cose previste e elaborate dai loro antenati, affinché ai loro fatti e imprese segua la lode piuttosto che il biasimo. E per tralasciare le decisioni passate, già questo bisogna riconoscere: pur essendo poco tempo fa la Grecia stata offesa con le ingiurie e le contumelie di Alessandro, non fece ricorso

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ad vim neque ad arma decursum est, quod iracundiae refugium esse solet. Nam de consilii sententia, legati ad recipiendam Helenam, ut meministis, cum Menelao venimus. Quibus praeter superbas verborum minas et insidias occultas nihil a Priamo neque ab eius regulis remissum est. Imperfecta igitur re, ut opinor, consequens fuit arma capere, iusque per vim extorquere, quod amice impetrare nequitum est. Itaque parato exercitu ac tot egregiis atque inclitis ducibus, ne sic quidem proelium adversum vos inire consilium fuit, sed imitati morem modestiamque solitam iterato ad vos ob eandem causam oratum venimus. Cetera in manu vestra sita sunt, Troiani, neque nos pigebit concessisse vobis, si modo sana mens est decretis salubribus priora male consulta corrigere. 22. Per deos immortales , reputate cum animis vestris, quanta clades, et veluti contagio huiusce exempli orbem terrarum occupatura sit. Quis enim posthac, cui virile negotium est, recordatus Alexandri facinus non omnia suspecta atque insidiosa ab amico metuere cogetur? aut quis frater fratri aditum patefaciet? quis hospitem aut cognatum non tamquam hostem cavebit? Denique si haec, quod haud spero, probaritis, omnia foederis iura ac pietatis apud Barbaros et Graecos clausa erunt. Quocirca, Troiani principes, bonum atque utile est Graecos receptis universis, quae per vim extorta sunt amice atque uti par est domum dimitti neque opperiri, quoad duo regna inter se amicissima manus conserant. Quae cum considero, dolendam hercule vicem vestram puto, qui innoxii et culpae eius vacui nati paucorum libidini paulo post alieni sceleris

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alle armi e all’esercito, che sogliono essere il rifugio dell’ira. Con una decisione del consiglio, venimmo come ambasciatori, con Menelao, a riprendere Elena, come ricordate. Ma a quelli non fu reso nulla, da Priamo e dai suoi principi, tranne che superbe minacce e occulte insidie. Dunque, stando così le cose, fu conseguente, come credo, prendere le armi ed estorcere con la forza ciò che non poté essere ottenuto amichevolmente. Pertanto, allestito l’esercito con tanti egregi e illustri comandanti, neppure così abbiamo deciso di attaccare battaglia contro di voi, ma seguendo il costume e la modestia usata, siamo venuti a pregarvi una seconda volta, per la medesima ragione. Il resto, Troiani, è nelle vostre mani, e non rincrescerà a noi l’avervi concesso, se solo la vostra mente è sana, di correggere con salutari decreti le vostre precedenti cattive decisioni. 22. Per gli dei immortali, considerate con l’animo vostro quanta strage potrebbe occupare il mondo intero, con questo cattivo esempio. Chi infatti d’ora in poi, avendo un ruolo di comando, ripensando al misfatto di Alessandro, non sarà costretto a temere ogni cosa dell’amico come sospetta e insidiosa? Quale fratello spalancherà la porta al fratello? Chi non si guarderà dall’ospite o dal cognato come se fosse un nemico?62 Infine, se mai riteneste giuste queste cose – poiché non ci spero – tutti i patti di concordia e di pietà tra greci e barbari, saranno rotti. Di conseguenza, o principi Troiani, è giusto e vantaggioso che i Greci, ricevute indietro tutte le cose che gli furono estorte con la forza, siano amichevolmente mandati a casa, come conviene, e che non aspettino che due regni molto amici giungano allo scontro. Mentre considero tali cose, ritengo la vostra sorte, per Ercole, dolorosa: persone innocenti, nate libere dalla colpa di dissolutezza di pochi, saranno

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poenas subire cogemini. An vos soli ignoratis, ut affectae sint vicinae atque amicae vobis civitates, vel quae in dies residuis praeparentur? Nam captum Polydorum, atque apud Graecos retineri cognitum vobis est. Qui, si Helena cum abreptis nunc saltem revocetur, inviolatus Priamo restitui poterit, alio pacto bellum differri non potest neque finis bellandi fiet, quin aut omnes Graeciae duces, qui singuli ad eruendam civitatem vestram satis idonei sunt, mortem obierint, aut, quod magis spero confore, capto Ilio crematoque igni posteris etiam exemplum impietatis vestrae relinquatur. Quapropter dum adhuc res integra in manibus vobis est, etiam atque etiam providete». 23. Postquam finem loquendi fecit, magno silentio cunctis, ut in tali negotio fieri solet, alienam sententiam expectantibus, cum se quisque minus idoneum auctorem crederet, Panthus clara voce: «Apud eos, ait, Ulixe, versa facis, quibus praeter voluntatem mederi rebus potestas nulla est». Dein post eum Antenor: «Omnia, quae memorata a vobis sunt, scientes prudentesque patiemur neque voluntas consulendi abest, si potestas concederetur. Sed, ut videtis, summae rei alii potiuntur, quibus cupiditas utilitate potior est». Quae ubi disseruit, mox per ordinem duces omnes, qui ob amicitiam Priami quique mercede conducti auxiliarem exercitum duxerant, introduci iubet. Quis ingressis Ulixes secundam exorsus orationem iniquissimos appellare universos, neque dispares Alexandri, quippe qui a bono honestoque elapsi auctorem pessimi facinoris sequerentur. Neque ignorare quemquam, quin, si tam atrox iniuria probanda sit, fore, uti malo

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costrette tra poco a scontare le pene dell’altrui malvagità. Oppure voi soli non sapete come sono state trattate le città vicine e a voi amiche? O che cosa si stia preparando per le restanti? Sapete che Polidoro è prigioniero dei Greci. Egli, se almeno ora verrà restituita Elena con i beni rapiti, potrà essere restituito, inviolato, a Priamo, ma se verrà stabilito altro, la guerra non potrà essere differita e non ci sarà una fine alla guerra, senza che tutti i capi della Grecia, ognuno dei quali basta a distruggere la vostra città, vadano incontro alla morte; o senza che, come spero bene, presa ed incendiata Ilio, sia lasciato anche ai posteri l’esempio della vostra empietà. Pertanto, finché la faccenda è ancora tutta intera nelle vostre mani, più e più volte provvedete.” 23. Dopo che Ulisse finì di parlare, nel grande silenzio generale, come è solito accadere in quelle situazioni, aspettando tutti l’opinione altrui, ciascuno ritenendosi il consigliere meno adatto, Panto, a chiara voce, disse: “Ulisse, parli a coloro che non hanno alcun potere se non la volontà di provvedere alla faccenda.” E dopo di lui Antenore: “Tutte le cose che voi avete ricordate, essendone coscienti, prudenti, ce ne assumeremo la responsabilità, e non ci manca la volontà di deliberare, se ce ne viene concessa la facoltà. Ma, come vedete, altri hanno il potere, per i quali la cupidigia è più efficace del pubblico interesse.” Non appena ebbe esposto tali cose, subito comandò di far entrare in ordine tutti i capi, che avevano condotto delle truppe ausiliarie, per amicizia con Priamo, o assoldati da lui. Questi, una volta entrati, Ulisse, cominciando un secondo discorso, lì chiamò tutti iniquissimi e non diversi da Alessandro, poiché, sottrattisi alla bontà e all’onestà, seguivano il fautore di una pessima scelleratezza. Né alcuno doveva ignorare che, se fosse stata approvata un’in-

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exemplo disseminato per mortales ipsos etiam, qui haud longe abessent, similia aut graviora hisce sequerentur. Ea ut erant atrocia, cuncti inter se taciti reputare animo; atque ita exemplum huiusmodi abhorrentes indignatione rerum permoveri. Dein solito more perrogatis seniorum sententiis pari consensu omnium Menelaum indigne passum iniuriam decernitur, solo omnium Antimacho in gratiam Alexandri adversum reclamante. Ac statim qui de omnibus nuntiatum ad Priamum mitterentur, electi duo hique inter cetera quae mandata erant, etiam de Polydoro docent. 24. Ea ubi rex accepit, maxime consternatus filii nuntio, ante ora omnium corruit. Dein a circumstantibus refectus paulisper erigitur; atque ire in consilium cupiens, ab regulis cohibitus est. Ipsi namque relicto patre conventum inrumpunt ad id tempus quo Antimachus multis in contumeliam Graecorum praeiactis probris tum demum dimitti Menelaum aiebat, si Polydorus redderetur, postremo eundem casum atque exitum utriusque custodiendum. Adversum quae cunctis silentibus Antenor resistere ac ne quid huiusmodi decerneretur, magna vi repugnare. Sed postquam invicem, multa consumpta oratione certamen eorum ad manus processerat, omnes qui aderant inquietum ac seditiosum Antimachum pronuntiantes e curia eiecere. 25. Sed ubi Priamidae ingressi sunt, Panthus Hectorem obsecrans, nam is inter regulos cum virtute tum consilio bonus credebatur, hortari, uti Helena nunc potissimum,

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giuria tanto atroce, sarebbe accaduto che in poco tempo anche i più estranei avrebbero seguito cose simili o più gravi, come per un cattivo esempio diffusosi tra i mortali. Tutti, in silenzio, tra sé e sé ritenevano quelle cose atroci e, provando avversione per un esempio di tal fatta, erano colpiti da indignazione. Poi, completata la votazione dei vecchi, secondo il costume solito, si decide all’unanimità che Menelao era stato indegnamente offeso, tra tutti solo Antimaco opponendosi, in grazia di Alessandro. Ma subito, scelti tra tutti due uomini da mandare ad informare Priamo, questi, oltre alle cose deliberate, lo rendono edotto anche su Polidoro. 24. Non appena il re apprese quelle cose, assai spaventato dalla notizia del figlio, sviene sotto gli occhi di tutti. Poi, fatto rinvenire dagli astanti, a poco a poco si rialza; e, desiderando andare all’assemblea, ne venne impedito dai principi. Infatti, abbandonato lo stesso padre, essi irrompono nel luogo della riunione, nel momento in cui Antimaco, tra le molte offese scagliate contro i Greci, diceva che Menelao sarebbe stato infine lasciato andare, se Polidoro fosse stato restituito: un medesimo destino e una medesima fama sarebbe toccata a entrambi. A queste cose, tacendo tutti, Antenore reagì, e perché non si prendesse una decisione di tal fatta, si oppose con gran vigore. Ma poiché, esauritasi la lunga discussione da entrambe le parti, la disputa era passata alle mani, tutti i presenti cacciarono fuori all’assemblea Antimaco, proclamandolo turbolento e sedizioso. 25. Ma non appena entrarono i figli di Priamo, Panto, scongiurando Ettore – questi infatti tra i principi era ritenuto un uomo buono per saggezza e per virtù – lo esortava a resti-

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cum Graeci supplices ob banc causam venissent, cum amicitia redderetur; neque parum Alexandro ad explendum amorem, si quem circa Helenam habuerat, transactum. Quocirca versari ante omnium oculos oportere praesentiam regum Graecorum eorumque facta fortia ac recens partam gloriam erutis amicissimis Troiae civitatibus. Ob eam etiam causam Polymestorem exemplum admissi abhorrentem ultro Graecis Polydorum tradidisse. Ex quo etiam verendum, ne quid tale commentae ac finitimae regiones perniciosa consilia adversum Troiam molirentur, nihil exploratum neque fidum, contra insidiosa cuncta, atque adversa in obsidione fore. Quae si omnes, ita uti res est, animo reputarent et Helena cum gratia remissa maius atque artius amicitiae pignus inter duo regna coalesceret. Quae ubi accepit Hector, recordatione fraterni facinoris tristior aliquantum suffusisque cum maerore lacrimis, Helenam tamen prodendam minime rebatur, quippe supplicem domus et ob id fide interposita tuendam. Si qua autem cum ea erepta docerentur, cuncta restituenda. Namque pro Helena Cassandram sive Polyxenam, quam legatis videretur, nuptum cum praeclaris donis Menelao tradendam. 26. Ad ea Menelaus iracunde atrox: «Egregie Hercule actum nobis est, siquidem proprio spoliatus commutare matrimonium pro arbitrio hostium meorum cogor». Adversum quem Aeneas: «Ac ne haec quidem, ait, concedentur contradicente ac resistente me reliquisque qui adfines amicique Alexandro in rem eius consulimus.

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tuire pacificamente Elena all’istante, visto che i Greci erano venuti supplici a questo scopo; Alessandro non aveva avuto poco tempo per soddisfare il suo amore, se presso Elena aveva avuto amore; quindi era opportuno occuparsi della presenza dei re Greci sotto gli occhi di tutti, e delle loro violente imprese e della loro recente gloria, riportata con la distruzione delle città amiche a Troia. E anche, che per quella ragione Polimestore aveva seguito l’orribile esempio di consegnare Polidoro ai Greci di propria iniziativa. E anche, che a partire da ciò c’era da aver paura che le regioni vicine, escogitata una cosa di tal genere, macchinassero decisioni dannose contro Troia, e che non c’era nulla di certo e fidato, e che in uno stato di assedio ci sarebbero state tutte insidie e avversità. Se tutti considerassero tali cose per come sono, e non accettassero di lasciar sospesi più a lungo gli ambasciatori, e se Elena venisse restituita con favore, tra i due regni si stringerebbe un maggiore e più saldo vincolo di amicizia.63 Non appena Ettore udì queste cose, piuttosto triste al ricordo dell’azione del fratello e, sparse lacrime con tristezza, tuttavia pensava che Elena non andasse tradita, poiché ella in casa lo aveva supplicato, ed egli si era impegnato a proteggerla. Se invece essi erano informati su quali cose erano state portate via insieme a lei, tuute andavano restituite. E infatti al posto di Elena si sarebbe dovuta dare in sposa a Menelao, con magnifici doni, Cassandra o Polissena, quale sembrava opportuno agli ambasciatori.64 26. A quelle parole Menelao, feroce nell’ira: «Egregiamente mi comporterei, per Ercole, se, spogliato del mio, fossi costretto a cambiare matrimonio, per la volontà dei miei nemici!». E a quello Enea: «Ma neppure questo – disse – ti sarà concesso finché non siamo d’accordo e ci opponiamo io e gli altri, che parenti e amici di Alessandro, decidiamo

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Sunt enim atque erunt semper qui domum regnumque Priami tueantur neque amisso Polydoro orbitas Priamum insequetur tot talibusque filiis superstitibus. An solis qui ex Graecia sunt raptus huiusmodi concederetur, quippe Cretae Europam quidem a Sidona, Ganymedem ex hisce finibus atque imperio rapere licuerit? Quid Medeam ignoratisne a Colchis in Iolcorum fines transvectam? Et ne primum illud rapiendi initium praetermittam, Io ex Sidoniorum regione abducta Argos meavit. Hactenus vobiscum verbis actum, at nisi mox cum omni classe ex hisce locis aufugeritis, iam iamque Troianam virtutem experiemini, domi quippe iuventus perita belli abunde nobis est, atque in dies auxiliorum crescit numerus». Postquam finem loquendi fecit, Ulixes placida oratione: «Et hercules ulterius, ait, differri inimicitias haud integrum vobis est. Date igitur belli signum, atque ut in inferendis iniuriis, ita et in inchoando proelio fite auctores; nos sequemur lacessiti». Talibus invicem consumptis verbis legati consilio abeunt. Ac mox per populum disseminatis quae adversum legatos Aeneas dixerat, tumultus oritur scilicet per eum universam Priami domum odio regni eius pessimo intercedendi exemplo eversum iri. 27. Igitur ubi legati ad exercitum revenere, cunctis ducibus dicta gestaque Troianorum adversum se exponunt. Itaque decernitur, uti Polydorum in conspectu omnium

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sulle sue questioni. Infatti ci sono e ci saranno sempre coloro che difenderanno il regno di Priamo e, se perdessimo Polidoro, Priamo non resterà privo di figli, restandone tanti e tali. Oppure solo ai Greci un rapimento di tal specie è permesso? E perché gli sarebbe stato concesso di rapire Europa da Sidone a Creta, Ganimede da questi confini e da questo dominio? E che dire di Medea? Forse non sapete che essa fu portata via dai confini della Colchide nel paese degli Iolchi? Per non tralasciare quel primo rapimento, quando Io, condotta via dal paese dei Sidoni, andò ad Argo. Fin qui abbiamo agito con voi per mezzo delle parole, ma se non fuggite subito da questi luoghi con tutta la flotta, da un momento all’altro farete esperienza della virtù troiana, giacché abbiamo abbondante gioventù esperta di guerra e di giorno in giorno cresce il numero delle truppe ausiliarie.»65 Dopo che finì di parlare, Ulisse, in tono placido: «Non c’è più possibilità per voi di differire le ostilità. Date, dunque, il segnale di guerra e, come nell’offesa recata, così anche nell’inizio della guerra siate voi gli autori. Noi, una volta assaliti, ci comporteremo di conseguenza.» Esauritesi tali parole da una parte e dall’altra, gli ambasciatori si allontanano dall’assemblea. E subito, diffusesi tra il popolo le cose che Enea aveva detto agli ambasciatori, si alza un tumulto: per lui, tutta la casa di Priamo sarebbe andata in rovina, per avversione contro il suo regno e per la pessima maniera di intervenire in assemblea.

[Uccisione di Polidoro] 27. Dunque, quando i legati tornarono all’esercito, espongono a tutti i comandanti le parole e gli atti dei Troiani contro di loro. E così si decide di uccidere Polidoro al

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atque ante ipsos muros necarent. Neque ulterius dilatum facinus, quippe productus in medium visentibus ex muris plerisque hostium lapidibus ictus fraternae impietatis poenas luit. Ac mox unus ex praeconibus nuntiatum Iliensibus mittitur, uti Polydorum sepeliendum peterent. Missusque ad eam rem Idaeus cum servis regiis foedatum ac dilaniatum lapidibus Polydorum matri eius Hecubae refert. Interim Aiax Telamonius, ne quid quietum finitimis Troiae regionibus, atque amicis relinqueretur, hostiliter eas ingressus Pityam Zeleamque, civitates divitiis nobiles, capit, neque contentus his Gargarum Arisbam, Gergitham, Scepsim, Larissam admiranda celeritate depopulatur. Dein doctus ab incolis, multa cuiusque pecora in Idaeo monte stabulari, exposcentibus, qui cum eo erant, cunctis cito agmine montem ingressus interfectis gregum custodibus magnam vim pecorum abducit. Dein nullo omnium adversante, cunctis qua pergebat in fugam versis, ubi tempus visum est, cum magna praeda ad suos convertit. 28. Per idem tempus Chryses, quem sacerdotem Sminthii Apollinis supra docuimus, cognito filiam suam Astynomen cum Agamemnone degere, fretus religione tanti numinis, ad naves venit, praeferens dei vultus, ac quaedam ornamentorum templi eius, quo facilius recordatione praesentis numinis veneratio sui regibus incuteretur. Dein

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cospetto di tutti e davanti alle stesse mura. E l’azione non venne rimandata oltre. Così fu condotto nel mezzo, dinnanzi a coloro che osservavano dalle mura, colpito da numerose pietre da parte dei nemici, scontò la pena dell’empietà fraterna.66 E subito uno tra gli araldi viene mandato ad annunciare agli abitanti di Ilio che potevano chiedere la sepoltura di Polidoro.67 Ideo, mandato con alcuni servi del re a occuparsi della faccenda, riporta a sua madre Ecuba Polidoro, sporco e dilaniato. Frattanto Aiace Telamonio, perché nulla fosse in quiete nei paesi vicini e amici di Troia, assaltando ostilmente Pitia e Zelea, città nobili per ricchezze, le conquista e, non contento di queste, saccheggia con mirabile celerità Gargaro, Arisba, Gergeta, Scepsi e Larissa. Poi, avvisato dagli abitanti del paese che sul monte Ida vi erano molti capi di bestiame d'ogni genere, per insistente richiesta di quelli che erano con lui, salendo con tutta la truppa sul monte, dopo aver ucciso i custodi delle greggi, porta via una gran quantità di bestie. Poi, non contrastandolo nessuno, volti in fuga tutti ovunque andasse, quando gli sembrò il momento opportuno, torna dai suoi con un grande bottino.

[Crise reclama invano da Agamennone la restituzione di sua figlia] 28. In quel torno di tempo Crise68, che già abbiamo appreso essere sacerdote di Apollo Sminteo, essendosi risaputo che sua figlia Astinome viveva con Agamennone, venne alle navi pieno di fiducia nella sacralità di un così grande nume, e recando innanzi l’effigie del dio e certi ornamenti del suo tempio, al fine di incutere più facilmente rispetto di sé nei sovrani col rammentar loro che la divinità era lì

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oblatis auri atque argenti donis plurimis, redemptionem filiae deprecatur; obsecrans uti magnificarent praesentiam dei, qui secum oratum eos ob sacerdotem proprium venisset. Praeterea commemorat, quae in dies adversum se ab Alexandro eiusque consanguineis, ob exhibitam per se paulo ante immolationem, inimica hostiliaque pararentur. Quae ubi accepere, reddendam filiam sacerdoti, neque ob id accipiendum praemium, universis placet: quippe qui cum per se amicus fidelisque nobis, tum praecipue ob religionem Apollinis nihil non mereri crederetur. Namque multis iam documentis ac fama incolarum, obsequi numini eius per omnia destinaverant. 29. Quae postquam Agamemnon accepit, obviam cunctorum sententiis ire pergit. Itaque atroci vultu exitium sacerdoti comminatus, ni recederet, perterritum senem, atque extrema metuentem, imperfecto negotio ab exercitu dimittit. Hoc modo conventu dissoluto, singuli reges ad Agamemnonem adeunt, eumque multis probris insequuntur quippe qui ob amorem captivae mulieris, seque et, quod indignissimum videretur, tanti numinis deum contemptui habuisset. Ac mox universi exsecrati deseruere, ob idque et memores Palamedis, quem gratum acceptumque in exercitu, haud sine consilio eius, Diomedes atque Ulixes dolo circumventum necavissent. Ceterum Achilles in ore omnium, ipsumque et Menelaum contumeliis lacerabat.

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presente69. Quindi, offerti moltissimi doni d’oro e d’argento, implorò di riscattare la figlia, supplicandoli di onorare la presenza del dio, il quale era venuto a pregarli assieme a lui perché era il suo sacerdote. Inoltre rammentò loro quali azioni odiose e malvagie Alessandro e i suoi fratelli andavano preparando di giorno in giorno a suo danno a causa del sacrificio celebrato poco prima grazie a lui70. Dopo che seppero queste cose, tutti decisero di restituire la figlia al sacerdote, senza per questo accettare nessun riscatto71, giacché egli era ritenuto degno di ogni bene per l’amicizia e la fedeltà dimostrata nei nostri confronti e soprattutto a causa della sacralità di Apollo. Infatti, sulla base di molte prove e di ciò che dicevano gli abitanti del luogo, già avevano stabilito di obbedire in tutto al suo dio. 29. Ma Agamennone72, dopo che seppe tutto ciò, si oppose all’opinione generale. E così, avendo minacciato con la faccia truce di mettere a morte il sacerdote se non se ne fosse andato, mandò via dall’accampamento il vecchio, il quale, terrorizzato e timoroso dell’irreparabile, se ne andò senza aver concluso nulla73. Scioltasi così l’assemblea, i capi uno a uno andarono da Agamennone e lo investirono con ripetuti insulti, perché, per amore di una prigioniera, aveva tenuto in dispregio loro e – cosa che sembrava sommamente indegna – un dio di tale importanza. Subito dopo tutti defezionarono, lanciando maledizioni per questo fatto e perché si ricordavano di Palamede, che fra le truppe era molto amato e che Ulisse e Diomede avevano ucciso con l’inganno – e su indicazione di Agamennone74. Per il resto Achille, che era sulla bocca di tutti, ingiuriava e lui e Menelao.

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30. Igitur Chryses ubi iniuriam perpessus ab Agamemnone domum discessit, neque multi fluxerunt dies, incertum alione casu, an, uti omnibus videbatur, ira Apollinis, morbus gravissimus exercitum invadit, principio grassandi facto a pecoribus: dein malo paulatim magis magisque ingravescente, per homines dispergitur. Tum vero vis magna mortalium corporibus fatigatis pestifera aegritudine infando ad postremum exitio interibat. Sed regum omnino nullus neque mortuus ex hoc malo neque adtemptatus est. Ceterum postquam nullus morbi modus, et in dies plures interibant, cuncti duces converso iam in se quisque timore, in unum coeunt: ac dein flagitare Calchanta, quem futurorum praescium memoravimus, uti causam tanti mali ediceret. Ille enim perspicere se originem huiusce morbi, sed haud liberum esse cuiquam eloqui: ex quo accideret, uti potentissimi regis contraheret offensam. Post quae Achilles reges singulos adigit, ut interposita iurisiurandi religione confirmarent, nequaquam se ob ea offendi. Hoc modo Calchas, ubi cunctorum animos in se conciliavit, Apollinis iram pronuntiat: eum namque ob iniuriam sacerdotis infestum Graecis, poenas ab exercitu expetere. Dein perquirente Achille mali remedium, restitutionem virginis pronunciat. 31. Tum Agamemnon coniectans quod mox accidit, concilio tacitus egressus, cunctos quos secum habuerat, in armis esse iubet. Id ubi Achilles animadvertit, commotus rei indignatione, simul pernicie defessi exercitus anxius,

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[Pestilenza in campo acheo; Calcante ne rivela il motivo] 30. Quindi, dopo che Crise, subíto l’oltraggio da Agamennone, tornò a casa, non passarono molti giorni che (è incerto se per caso o – come pareva a tutti – per l’ira di Apollo75) una gravissima pestilenza penetrò nell’accampamento: dapprima fu attaccato il bestiame, poi, mentre il male a poco a poco si aggravava sempre più, il morbo si propagò tra gli uomini76. Grandissimo era il numero di soldati che, una volta fiaccati nel corpo dalla pestilenza, finivano col perire di una morte atroce. Ma nessuno dei capi morì di questo male né ne fu assalito77. Del resto, dal momento che il morbo era inarrestabile e di giorno in giorno ne morivano sempre più, i comandanti, temendo ormai ognuno per sé stesso, si riunirono78: ed eccoli quindi chiedere insistentemente a Calcante, il quale – come abbiamo detto – conosceva il futuro, di rivelare la causa di cotanto male. Egli diceva di capire l’origine di questo morbo, ma di non essere libero di rivelarlo ad alcuno, perché da ciò si sarebbe attirato l’avversione del più potente tra i re. Dopodiché Achille spinse i capi uno a uno ad affermare, sotto il sacro vincolo del giuramento79, che in nessun modo essi si irritavano di queste cose. E così Calcante, quando si fu guadagnato la benevolenza di tutti gli animi, rivelò la collera di Apollo: costui infatti, adirato coi Greci per l’offesa arrecata al suo sacerdote, reclamava la punizione dell’esercito. Quindi, interrogato da Achille, rivelò che il rimedio di quel male era la restituzione della vergine. 31. Allora Agamennone, prospettatosi ciò che di lì a poco accadde, uscito in silenzio dalla riunione, ordinò a tutti i suoi di armarsi. Ma Achille, non appena se ne accorse, agitato dallo sdegno per quel fatto e nel contempo preoc-

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defunctorum corpora miserandum in modum confecta undique in unum colligi iubet, atque in conventu ante ora omnium proici. Quo spectaculo adeo commoti reges gentesque omnes, uti adversum Agamemnonem ab cunctis pergeretur, duce atque auctore Achille, et si perstaret, suadente exitio vindicandum. Quae ubi regi nunciata, pertinacia animi, an ob amorem captivae, cuncta extrema ratus experiri, nihil remittendum de sententia destinaverat. 32. Ea postquam Troiani cognovere, simul ex muris conflagrationem corporum assiduam crebrasque sepulturas animadvertere, doctique etiam reliquos incommodo cladis eius debiles agere, cohortati inter se arma capiunt, ac propere cum manu auxiliari effusi portis pergunt advorsum. Ac dein per campos exercitu bipartito, Troianis Hector, Sarpedon auxiliaribus duces facti. Tum nostri, visis contra hostibus, armati atque instructi pro negotio simplici fronte aciem composuere, circa cornua divisis ducibus: dextrum Achilles cum Antilocho, alterum Aiax Telamonius cum Diomede curabant, medios accepere Aiax alter, et Idomeneus dux noster. Hoc modo exercitu utrimque composito, pergunt obviam. At ubi in manus

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cupato per il pericolo che l’esercito, esausto com’era, stava correndo, ordinò che i corpi dei morti, ridotti in quello stato pietoso, fossero ammassati in un unico luogo ed esposti agli sguardi di tutti in assemblea. I capi e i contingenti furono a tal punto toccati da questo spettacolo che, come un sol uomo, si diressero contro Agamennone, guidati e incoraggiati da Achille, il quale suggeriva che venisse messo a morte nel caso che si fosse opposto. E il re, quando ciò gli fu annunziato, vuoi per ostinazione vuoi per amore della prigioniera, ritenendo di affrontare tutte le estreme conseguenze, decise di non dover in alcun modo recedere dal proposito80.

[I Troiani approfittano della difficoltà dei Greci per dare battaglia] 32. Quando i Troiani seppero queste cose (dalle mura si accorsero dei continui roghi di cadaveri, e nello stesso tempo furono informati del fatto che anche gli altri erano in condizioni precarie a causa di quel disgraziato flagello), essendosi incoraggiati l’un l’altro, presero le armi e subito, riversatisi fuori dalle porte con un manipolo di ausiliarî, andarono all’attacco81. Quindi, dopo che in campo aperto l’esercito venne diviso in due parti82, Ettore fu a capo dei Troiani e Sarpedone degli ausiliarî. Poi, quando si videro i nemici davanti, i nostri, armati e opportunamente ordinati per la battaglia, si schierarono su un’unica linea di fronte, coi comandanti disposti presso alle ali: di quella destra si occupava Achille con Antiloco; di quella sinistra Aiace Telamonio con Diomede; i soldati di mezzo furono assegnati all’altro Aiace e al nostro capo Idomeneo. Schierato così l’esercito da ambo le parti, avanzarono incontro al nemico;

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ventum est, cohortati suos quisque, acie conflixere. Tum vero in aliquantum tracto certamine plurimi utriusque partis cadunt, praecellentibus in ea pugna Barbarorum Hectore et Sarpedone, Graecorum Diomede cum Menelao. Dein nox, communis amborum requies, proelium diremit. Igitur reducto exercitu corpora suorum cremata igni sepeliunt. 33. Quis perfectis, Graeci statuunt inter se Achillem, cuius in adversis Graecorum casibus sollicitudo praecipua videbatur, regem omnium confirmare. Sed Agamemnon anxius, ne decus regium amitteret, in consilio verba facit: Sibi maxime cordi esse exercitus incolurmitatem; neque ulterius differre, quin Astynome parenti remitteretur, maxime si restitutione eius instantem perniciem subterfugerent: nec quicquam deprecari amplius, si modo in locum eius Hippodamiam, quae cum Achille degeret, vicarium munus amissi honoris acciperet. Quae res, quamquam atrox omnibus et indigna videbatur, tamen connivente Achille cuius id praemium pro multis et egregiis facinoribus fuerat, effectum habuit. Tantus amor erga exercitum curaque in animo egregii adulescentis insederat. Igitur adversa cunctorum voluntate, neque tamen quoquam palam recusante, Agamemnon, tamquam ab omnibus concessa res videretur, lictoribus ut

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e quando si venne allo scontro, mentre ognuno esortava i suoi, si combatté ordinatamente83. Allora, protrattasi la battaglia per un bel pezzo, ci furono moltissimi caduti da ambo le parti; e i migliori furono Ettore e Sarpedone tra i barbari, Diomede e Menelao tra i Greci. Quindi la notte, comune momento di requie per entrambi, fece interrompere i combattimenti; e dunque, ritiratosi l’esercito, seppellirono i corpi dei loro compagni dopo averli cremati.

[Contesa tra Achille ed Agamennone] 33. Al termine di questi eventi84 i Greci stabilirono di comune accordo di nominare capo supremo85 Achille, la cui sollecitudine per loro nelle avversità sembrava straordinaria. Ma Agamennone, timoroso di perdere il prestigioso titolo di re, prese la parola in consiglio e disse che l’incolumità dell’esercito gli stava particolarmente a cuore, che non si sarebbe ulteriormente rimandato il momento di riconsegnare Astinome al padre (soprattutto se per mezzo della sua restituzione fossero sfuggiti all’imminente pericolo)86, e che non chiedeva niente di più, se non di ricevere in luogo di Astinome (in sostituzione del dono perduto e dell’onore che esso rappresentava) quell’Ippodamia che viveva con Achille. E la cosa, sebbene sembrasse a tutti turpe e indegna, fu nondimeno mandata a effetto con l’acquiescenza di Achille87, il quale aveva ricevuto quel premio in ricompensa delle molte e illustri azioni di guerra: tanto grandi nell’animo di quel nobile giovane erano l’amore e la sollecitudine per i soldati88. E pertanto Agamennone, avendo contro di sé la volontà generale, ma senza che nessuno gli opponesse un aperto rifiuto, ordinò ai littori89 – come se la cosa fosse accettata da tutti – di

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Hippodamia abstraheretur imperat; hique brevi iussa efficiunt. Interim Astynomen Graeci per Diomedem atque Ulixem cum magna copia victimarum ad fanum Apollinis transmisere. Dein perfecto sacificio, paulatim vis mali leniri visa, neque amplius adtemptari corpora; et eorum qui antea fatigabantur, tanquam sperato divinitus levamine, relaxari. Ita brevi per universum exercitum salubritas vigorque solitus renovatus est. Mittitur etiam Philoctetae ad Lemnum portio praedae eius, quam Graeci per Aiacem atque Achillem advectam inter se viritim distribuerant. 34. Ceterum Achilles memor iniuriae supradictae abstinendum publico consilio decreverat, odio maxime Agamemnonis, abolitoque amore quem circa Graceos habuerat; scilicet quod eorum patientia post tot bellorum victorias, ac facta fortia, Hippodamia concessum pro laboribus praemium per iniuriam abducta esset. Dein venientes ad se duces, aditu prohibere, neque cuiquam amicorum ignoscere, qui se adversum Agamemnonis contumelias, cum defendere liceret, deseruissent. Intus igitur manens, Patroclum et Phoenicem, hunc morum magistrum, alterum obsequiis amicitiae carum, et aurigam suum Automedontem secum retinebat. 35. Per idem tempus apud Troiam exercitus sociorum, quique mercede conducti auxiliares copias adduxerant, tempore multo frustra trito, taedione an recordatione

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portar via Ippodamia; e costoro eseguirono l’ordine celermente90. Frattanto i Greci, grazie a Diomede e Ulisse, fanno giungere Astinome, con un gran numero di vittime, al tempio di Apollo. Quindi, dopo che fu compiuto il sacrificio, parve che la violenza del male a poco a poco si placasse; che i corpi non venissero più attaccati, e che quanti prima pativano fossero liberati dalle pene, come se gli dèi avessero loro mandato il sollievo sperato. Così in breve tempo il vigore e la salute abituali rinacquero in tutto l’esercito. Anche a Filottete fu inviata una parte di quel bottino che, portato da Aiace e Achille, i Greci si erano spartito tra loro individualmente. 34. D’altra parte Achille, memore dell’offesa di cui si è detto, aveva deciso di non prender parte alla pubblica assemblea, pieno di odio verso Agamennone, e disamorato dai Greci, certo perché avevano tollerato, dopo tante vittorie e azioni coraggiose, che Ippodamia, premio delle sue fatiche, gli venisse ingiustamente sottratta. E dunque si rifiutava di ricevere i capi che venivano da lui, e non perdonava nessuno degli amici che, benché potessero opporsi alle offese di Agamennone, lo avevano lasciato solo. Pertanto, chiuso nella sua tenda, teneva con sé – oltre al suo auriga Automedonte – Patroclo e Fenice91, maestro di buoni costumi quest’ultimo, amico caro e servizievole quello.

[Rivolta in campo troiano di ausiliari e alleati] 35. Intanto presso i Troiani l’esercito degli alleati e le truppe ausiliarie che erano al soldo, trascorso molto tempo in modo inconcludente, per noia o per il ricordo dei loro

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suorum domi seditionem occipiebant. Quod ubi animadvertit Hector, coactus necessitate, militibus, ut in armis essent, iubet; ac mox ubi signum daret, sequerentur sese. Igitur postquam tempus visum est, et omnes in armis nunciabantur, iubet egredi, ipse dux atque imperator militiae. Res postulare videtur eorum reges, qui socii atque amici Troiae, quique ob mercedem auxiliares ex diversis regionibus contracti Priamidarum imperium sequebantur, edicere. Primus igitur portis erumpit Pandarus Lycaone genitus, ex Lycia; dein Hippothous et Pylaeus Lethi, ex Larissa Pelasgidarum; Acamas †. . .† Piros ex Thracia, post quos Euphemus Troezenius Ciconiis imperitans; Pylaemenes Paphlagonius, patre Melio gloriosus; Odius et Epistrophus, filii Minii, Alizonorum reges; Sarpedon, Xantho genitus rector Lyciorum, ex Solemo; Nastes et Amphimachus Nomionis de Caria; Antiphus et Mesthles genitore Talaemene, Maeonii; Glaucus Hippolochi Lycius, quem sibi Sarpedon, quod praeter ceteros regionis eius consilio atque armis pollebat, participem bellicarum rerum adsciverat; Phorcys et Ascanius Phryges; Chromius et Ennomus Mygdones ex Mysia; Pyraechmes Axii Paeonius; Amphius et Adrastus Merope geniti, ex Adrestia; Asius Hyrtaci de Sesto, dein alius Asius, Dymante genitus, Hecubae frater, ex Phrygia. Hos omnes, quos memoravimus, secuti multi mortales inconditis moribus, ac dispari sono vocis, sine ullo ordine aut modo proelia inire soliti.

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cari, stavano dando inizio a una rivolta. Ma non appena Ettore se ne fu accorto, costretto dalla necessità, ordinò ai soldati di tenere le armi a portata di mano, e, quando fosse stato dato il segnale, di seguirlo subito. Così, quando sembrò esser venuto il momento e gli fu annunziato che tutti erano armati, ordinò di avanzare: lui stesso era il comandante in capo delle truppe. L’occasione sembra richiedere92 che si facciano i nomi dei capi di coloro che, come alleati e amici dei Troiani nonché come truppe ausiliarie mercenarie, convenuti da varie regioni, militavano sotto il comando dei Priamidi. Per primo si lanciò fuori dalle porte Pandaro, figlio di Licaone, proveniente dalla Licia, quindi i figli di Leto, Ippotoo e Pileo, Pelasgi di Larissa, e Acamante e Piro dalla Tracia; e dopo di loro Eufemo di Trezene, che comandava sui Ciconii; Pilemene Paflagonio che si gloriava d’esser figlio di Melio; Odio ed Epistrofio, figli di Mino, i re degli Alizoni; Sarpedone, nato da Xanto, capo dei Lici di Solimo; e poi Naste ed Amfimaco, figli di Nomione, dalla Caria; Antifo e Mestle, Meoni, figli di Talemene; e Glauco il Licio, figlio di Ippoloco, che Sarpedone prese con sé facendolo partecipare alle azioni di guerra, perché superava gli altri conterranei per saggezza e bravura nell’uso delle armi; e poi i Frigi Forci e Ascanio; i Migdoni Cromio ed Ennomo, dalla Misia; e Pirecme Peonio, figlio di Axio; Amfio e Adrasto, figli di Merope, da Adrestia; e Asio figlio di Irtaco da Sesto; e quindi l’altro Asio, figlio di Dimante e fratello di Ecuba, dalla Frigia93. Tutti questi che abbiamo ricordato erano seguiti da molti uomini dai rozzi costumi e dalle parlate discordi, che erano abituati a entrare in battaglia senza alcun ordine né maniera94.

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36. Quod ubi nostri animadvertere, in campum progressi more militiae aciem ordinant, magistro ac praeceptore componendi Menestheo Atheniensi: ordinant autem per gentes atque regiones singulas, seorsum manente Achille cum Myrmidonum exercitu. Is namque, quamquam ob illatam ab Agamemnone iniuriam et abductam Hippodamiam, nihil animi remiserat, tamen maxime indignatus quod, reliquis ducibus ad cenam deductis, solus contemptui habitus intermitteretur. Ceterum ordinato exercitu, ac tunc primum omnibus copiis adversum se instructis hostibus, ubi neutra pars committere audet, paulisper in loco retentis militibus, tamquam de industria utrimque receptui canitur. 37. Iamque Graeci regressi ad naves, arma deponere ac singuli per loca solita corpus cibo curare occeperant, cum Achilles ultum ire cupiens iniurias ignaros consilii sui nostros, et ob id otiose agentes, clam invadere temptat. At ubi Ulysses a custodibus, qui eruptionem eius praesenserant, rem comperit, propere duces circumcursans magna voce monet, atque hortatur uti armis

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[I due eserciti schierati a battaglia] 36. I nostri, non appena si accorsero di ciò, una volta entrati in campo secondo la prassi militare95 ordinarono lo schieramento in base alle indicazioni dell’ateniese Menesteo96, cui spettava il compito di comporre le fila; si schierarono quindi secondo il popolo e il luogo di provenienza, mentre Achille con l’esercito dei Mirmidoni restava in disparte. Egli, che peraltro nel suo animo non aveva minimamente deposto il rancore per l’offesa arrecatagli da Agamennone e per il fatto che Ippodamia gli era stata portata via, era tuttavia più che mai indignato perché, mentre gli altri capi erano stati invitati a cena, lui solo, in segno di disprezzo, era stato trascurato97. Ad ogni modo – dopo che l’esercito fu ordinato e i nemici, per la prima volta al completo, gli si furono schierati contro – dal momento che nessuna delle due parti osava ingaggiare la battaglia, i soldati restarono per poco al loro posto e quindi, come a farlo di proposito, da entrambe le parti si suonò la ritirata98.

[Achille tenta un attacco al proprio esercito per vendicarsi dell’offesa ricevuta da Agamennone; i Troiani inviano Dolone] 37. E già i Greci, tornati alle navi, avevano iniziato a deporre le armi e – uno alla volta, secondo l’ordine abituale – a ristorarsi col cibo, quand’ecco che Achille, desideroso di andare a vendicarsi delle offese, tentò di attaccare di nascosto i nostri, che erano ignari della sua intenzione e per questo si comportavano con noncuranza. Ma Ulisse, informato della cosa dalle sentinelle, che si erano accorte per tempo dell’attacco, senza indugio, correndo da un coman-

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arreptis tuerentur sese, dein consilium, inceptumque Achillis singulis aperit: quo cognito, clamor ingens oritur, festinantibus ad arma cunctis ac seorsum sibi singulis consulentibus. Ita Achilles praeverso de se nuncio, ubi omnes in armis sunt, neque conata procedere queunt, intentato negotio ad tentoria regreditur. Ac mox duces nostri rati repentino suorum clamore moveri Ilienses, et ob id novi quid negotii incepturos, augendae custodiae causa, mittunt duos Aiaces, Diomedem atque Ulixem. Hique inter se regionem, qua aditus hostibus erat, dispertiunt. Quae res non frustra eos habuit. Namque apud Troiam Hector causam tumultus eorum cupidus persciscere filium Eumedi Dolonem multis praemiis promissisque inlectum ad postremum, uti exploratum res Graecorum egrederetur, mittit: isque non longe a navibus avidus ignara cognoscendi, dum cupit suscepti negotii fidem complere, in manus Diomedis, qui eum locum cum Ulixe custodiebat, devenit; ac mox ab his comprehensus refert cuncta atque occiditur. 38. Dein diebus aliquot in otio tritis, productio utriusque exercitus praeparatur: divisoque inter se campo, qui medius inter Troiam atque naves interiacet, ubi tempus bellandi videbatur, magna cura universus miles instructus armis utrimque procedere. Dein signo dato, densatis frontibus, conflixere acies, composite Graecis ac singulis

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dante all’altro, li avvisa e li esorta a gran voce a prendere le armi e a proteggersi; quindi rivela ad ognuno l’intenzione e il proposito di Achille. E una volta che ciò fu risaputo si levò un forte clamore, perché tutti insieme si affrettavano a prendere le armi, e ognuno singolarmente si preoccupava per sé stesso. Pertanto Achille, essendo stato preceduto dalla notizia del suo attacco, dal momento che tutti erano armati e il suo piano non poteva aver successo, tornò alle tende avendo rinunciato in partenza all’impresa99. Subito dopo i nostri capi, pensando che i Troiani vengano sollecitati da quell’improvviso clamore, e che dunque intraprenderanno qualche nuova azione, inviano i due Aiaci, Diomede e Ulisse ad aumentare la guardia. Costoro si spartiscono la zona attraverso la quale era possibile l’entrata ai nemici; e questa cosa non fu inutile. Infatti a Troia Ettore, bramoso di conoscere la causa della loro agitazione, invia il figlio di Eumede Dolone a spiare i Greci, dopo averlo allettato con molti premi e promesse. Egli, non lungi dalle navi, volendo ardentemente conoscere ciò che gli era ignoto, nonché rispettare lealmente l’impegno preso, cade nelle mani di Diomede, il quale sorvegliava quel luogo assieme a Ulisse; e così viene subito catturato da loro, rivela ogni cosa ed è ucciso100.

[Scontro tra Greci e Troiani] 38. Quindi, consumati alcuni giorni nell’inattività, entrambi gli eserciti prepararono l’attacco. Si divisero il campo sito a metà strada fra Troia e le navi, e, quando parve giunto il momento di combattere, tutti quanti i soldati, ordinati con grande cura, avanzarono in armi. Quindi, dopo che fu dato il segnale, si serrarono i primi ranghi e le schiere si scontra-

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per distributionem imperia ducum exsequentibus; contra, sine modo atque ordine Barbaris ruentibus. Ceterum in ea pugna interfecti utriusque partis multi mortales, cum neque instantibus cederetur et exemplo strenuissimi cuiusque, qui iuxta steterat, aequiperare gloriam festinaret. Interim vulnerati graviter ex ducibus bello decedere coacti sunt barbarorum, Aeneas, Sarpedon, Glaucus, Helenus, Euphorbus. Polydamas; nostrorum Ulixes, Meriones, Eumelus. 39. Ceterum Menelaus, forte conspicatus Alexandrum, magno impetu inruit, quem evitans neque diutius sustinere ausus Alexander fugam capit. At ubi procul animadvertit Hector, concurrens cum Deiphobo, comprehendere fratrem, eum verbis maledictisque acrioribus insecuti ad postremum cogunt, uti progressus in medias acies eundem Menelaum, conquiescentibus reliquis, solitario certamine lacesseret. Igitur reducto ad bellandum Alexandro, progressoque ante aciem, quod signum lacessentis videbatur, postquam procul animadvertit Menelaus, nunc demum occasionem invadendi inimicissimum sibi maxime oblatam ratus et iamiamque confidens omnium iniuriarum poenas lui sanguine eius, omnibus animis advorsum pergit. Sed ubi eos contra se tendere paratos armis atque animis uterque exercitus animadvertit, signo dato recedunt cuncti.

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rono: i Greci erano disposti con criterio e ognuno seguiva i comandi del generale cui era stato assegnato; invece i barbari si slanciavano senza ordine né maniera. Per il resto in quella battaglia morirono molti uomini da entrambe le parti, poiché non si cedeva agli avversari che incalzavano, e, se si aveva come vicino di posto uno molto coraggioso, si faceva di tutto per seguirne l’esempio ed eguagliarne la gloria. Nel frattempo furono costretti a ritirarsi dal combattimento, perché gravemente feriti, questi comandanti stranieri: Enea, Sarpedone, Glauco, Eleno, Euforbo, Polidamante; e, dei nostri, Ulisse, Merione, Eumelo.

[Duello tra Menelao e Alessandro] 39. Allora Menelao, avendo per caso scorto Alessandro, si slancia con grande impeto; e Alessandro, schivandolo e non osando affrontarlo più a lungo, si dà alla fuga. Ma Ettore, non appena da lontano se ne avvide, accórse con Deifobo: i due afferrarono il fratello, lo investirono con parole e insulti particolarmente pungenti101, e infine lo costrinsero a farsi avanti in mezzo ai soldati e, se gli altri avessero approvato, a sfidare Menelao a singolar tenzone. Così Alessandro fu ricondotto in battaglia e avanzò davanti allo schieramento, il che sembrava un segno di provocazione; allora Menelao se ne accorse da lontano e, ritenendo che finalmente gli si offrisse l’occasione di affrontare il suo più grande nemico e ormai fiducioso che Paride avrebbe pagato col sangue il fio di tutte le offese, si diresse verso di lui pieno di ardore102. E quando sia l’uno che l’altro esercito si accorse che quelli, opportunamente armati e intimamente decisi, andavano allo scontro, dato il segnale, tutti si ritrassero.

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40. Iamque uterque pleno gradu advorsum cedens intra iactum teli pervenerant, cum Alexander praevenire cupiens, simulque ratus primo iaculi eventu locum vulneri inventurum, praemittit hastam, eaque illisa clipeo facile decussa est. Dein Menelaus magno impetu iaculatur, haud sane dissimili casu; namque parato iam ad cavendum ictumque declinante hoste, telum humi figitur. At ubi novis iaculis manus utriusque redarmatae sunt, pergunt. Tum demum Alexander ictus femur cadit ac ne mox hosti ultionem cum summa gloria concederet, pessimo exemplo intercessum est. Namque cum ad interficiendum eum educto gladio prorueret Menelaus, ex occulto sagitta Pandari vulneratus, in ipso impetu repressus est. Igitur ab nostris clamore orto, simulque cum ira indignantibus, quod duobus seorsum adversum se, hisque maxime quorum gratia bellum conflatum esset, decernentibus repente a Troianis pessimo more intercederetur, rursus globus barbarorum ingruens Alexandrum e medio rapit. 41. Interim in ea permixtione, dum nostri haesitant, Pandarus procul adstans multos Graecorum sagittis configit. Neque prius finis factus, quam Diomedes atrocitate rei motus progressusque comminus telo hostem prosterneret. Hoc modo Pandarus certaminis foedere violato atque interemptis multis ad postremum poenas scelestissimae militiae luit. Ceterum corpus eius liberatum

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40. Avanzando l’uno incontro all’altro a passi svelti103, erano già entrambi venuti a tiro, quando Alessandro, desiderando anticiparlo e anche pensando che lo avrebbe ferito al primo lancio dell’arma, scagliò l’asta ed essa, avendo urtato sullo scudo, fu facilmente respinta. Quindi Menelao scagliò la sua con grande violenza, e con esito non dissimile; infatti l’avversario, ormai guardingo, schivò il colpo e l’arma si conficcò in terra104. Ma, come le mani di entrambi furono riarmate di nuovi dardi, continuarono. Allora soltanto Alessandro, colpito alla coscia, cadde e, per non concedere subito al nemico una gloriosissima vendetta, si intervenne nel peggiore dei modi. Infatti Menelao, nel balzare in avanti col gladio sguainato per ucciderlo, raggiunto non si sa come dalla freccia di Pandaro, fu costretto a fermarsi proprio mentre stava attaccando105. E così, tra le urla dei nostri – adirati e indignati per il fatto che i Troiani all’improvviso si frapponevano tra due che si sfidavano a singolar tenzone (tanto più che costoro erano responsabili di aver suscitato la guerra) – un drappello di barbari accorse precipitosamente e strappò Alessandro di lì106.

[Morte di Pandaro; tregua invernale] 41. Frattanto in questa confusione, mentre i nostri esitavano, Pandaro, appostato lontano, trafisse di frecce molti Greci. Né la cosa ebbe fine prima che Diomede, colpito dall’atrocità di quanto stava avvenendo, si avvicinò e abbatté il nemico con l’arma107. In questo modo, essendo stato violato l’accordo tra i due eserciti combattenti e per questo essendo stati uccisi molti uomini, Pandaro pagò il fio della sua scelleratissima milizia108. Poi il suo corpo, dopo essere stato allontanato dal campo di battaglia, fu

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ex acie Priamidae igni cremant: reliquiasque socii traditas sibi Lyciam in solum patrium pertulere. Interim uterque exercitus signo dato manus conserunt pugnantesque vi summa atque ancipiti fortuna bellum ad occasum solis producunt. Sed ubi nox adventabat, utrimque reges subducta haud longe acie custodibus idoneis exercitus communivere. Ita per aliquot dies tempus bellandi opperientes, militem frequentem armatum frustra habuere. Namque ubi hiems adventare, et imbribus crebris compleri coepere campi, barbari intra muros abeunt. At nostri nullo palam hoste digressi ad naves munia hiemis disponunt moxque bipertito campo, qui reliquus non pugnae opportunus erat, utraque pars aratui insistere, serere frumenta aliaque, quae tempus anni patiebatur parare. Interim Aiax Telamonius instructo milite quem secum adduxerat, habens etiam nonnullos de exercitu Achillis, ingressus Phrygiae regionem, multa hostiliter vastat, capit civitates ac post paucos dies praeda auctus ad exercitum victor revenit. 42. Isdem fere diebus barbari, nostris per conditionem hiemis quietis, nihilque hostile suspicantibus, paravere eruptionem, quis Hector dux atque audendi auctor factus. Is namque omnes copias instructas armis cum luce simul porta educit, ac protinus cursu pleno ad naves

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cremato dai Priamidi; i resti furono consegnati agli alleati e trasportati in Licia, nel suolo natìo. Nel frattempo entrambi gli eserciti vennero allo scontro e, combattendo con grandissima foga e con esito incerto, continuarono la guerra fino al tramonto. Ma, come iniziò a farsi notte, da ambo le parti i capi fecero ritirare gli schieramenti a poca distanza, e misero valide sentinelle a difesa degli accampamenti. E così per alcuni giorni, aspettando il momento di combattere, mantennero inutilmente un buon numero di soldati in assetto di guerra. Infatti, come sopraggiunse l’inverno e i campi iniziarono ad allagarsi per le piogge frequenti, i barbari si ritirarono tra le mura. Ma i nostri, poiché il nemico non si faceva vedere, tornarono alle navi e assegnarono i lavori invernali; e poco dopo, essendo stata divisa in due la rimanente porzione di campo – quella non adatta alla battaglia –, entrambe le parti si misero ad arare, procurandosi in questo modo frumento e altro – compatibilmente con la stagione109. Frattanto Aiace Telamonio, quando le milizie che egli aveva condotto con sé furono approntate, spintosi – anche con alcuni uomini dell’esercito di Achille – nel territorio della Frigia, devastò con furia molti luoghi, espugnò città e, pochi giorni dopo, ricco di bottino tornò vincitore all’accampamento.

[Sortita dei Troiani] 42. All’incirca negli stessi giorni i barbari, dato che i nostri per via della tregua invernale110 restavano tranquilli e non sospettavano nessun atto ostile, prepararono una sortita: fu Ettore a guidarli e a spingerli a osare. Egli infatti con la prima luce del giorno fece uscire dalla porta le truppe in assetto di guerra, e senza indugio ordinò che si dirigessero

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tendere atque invadere hostes iubet. At Graii infrequentes tum incuriosique ab armis turbari simul et fugientibus, quos primus hostis incesserat, quo minus arma caperent impediri; tum caesi multi mortales. Iamque fusis qui in medio fuerant, Hector ad naves progressus ignem in proras iacere ac saevire incendiis ceperat nullo nostrorum auso resistere; qui territi atque improviso turnultu exsangues genibus Achillis, auxilium renuentis, tamen advolvebantur: tanta repente mutatio animorum nostros atque hostes incesserat. 43. Interea Aiax Telamonius adveniens, cognito apud naves Hectore, magna armorum specie ibidem apparuit ac dein mole sua urgens hostem multo sudore ad postremum navibus extra vallum detrudit. Tum iam cedentibus acrior insistens, Hectorem, qui adversus eum promptius steterat, ictum immani saxo ac mox consternatum deicit. Sed eum concurrentes undique plurimi multitudine sua tectum bello atque Aiacis manibus eripiunt, seminecemque intra muros ferunt, male prospera eruptione adversus hostes usum. Ceterum Aiax saevior ob ereptam e manibus gloriam assumptis iam Diomede et cum Idomeneo Aiace altero territos dispersosque sequi; ac fugientes nunc telo eminus prosternere, modo apprehensos obterere armis, prorsus

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di gran carriera alle navi e attaccassero i nemici. Allora i Greci, poco numerosi in quel momento e negligentemente disarmati, furono gettati nello scompiglio, e nello stesso tempo i fuggitivi, che erano stati attaccati per primi dal nemico, impedivano loro di prendere le armi: molti uomini furono uccisi in quell’occasione. E quando già erano stati dispersi quelli che stavano nel mezzo, Ettore, essendo avanzato fino alle navi, aveva iniziato a gettare il fuoco alle prore e ad imperversare con gli incendi, mentre nessuno dei nostri osava resistere111. E questi ultimi, pallidi di terrore per l’improvvisa scorreria, si avvinghiavano alle ginocchia di Achille112, benché costui negasse il proprio aiuto. Tanto grande fu il repentino cambiamento di stato d’animo sopravvenuto in noi e nei nemici. 43. Frattanto Aiace Telamonio, al suo ritorno, avendo saputo che Ettore si trovava presso le navi, si mostrò colà nello splendore delle armi e poi, rovesciando sul nemico la massa delle proprie forze, con gran fatica alla fine lo allontanò dalle navi, al di fuori della palizzata113. Allora mentre, sempre più ardimentoso, già inseguiva i fuggitivi, con un enorme masso colpì Ettore, il quale troppo risolutamente gli aveva sbarrato il passo, e lo fece cadere a terra allibito. Ma, accorsi in gran numero da ogni parte e affollatiglisi intorno per proteggerlo, lo sottrassero alla battaglia e alle mani di Aiace, e lo portarono mezzo morto all’interno delle mura114, dopo che aveva tentato la rovinosa sortita contro i nemici. D’altra parte Aiace, ancor più smanioso per il fatto che la gloria gli era stata strappata dalle mani, avendo preso con sé Diomede, Idomeneo e il secondo Aiace, si mise ad inseguire i nemici terrorizzati e dispersi, e ora abbatteva i fuggitivi da lontano coi dardi, ora, quando li afferrava, li massacrava con le sue

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nullo, qui in ea parte fuerat, intacto. Inter quae tam trepida Glaucus Hippolochi, Sarpedon atque Asteropaeus, ad morandum hostem paulisper ausi resistere, mox vulneribus gravati locum amisere. Quis versis, barbari nullam spem reliquam salutis rati sine rectoribus neque usquam certo ordine palantes effusique ruere ad portas, eoque arto et properantium multitudine impedito ingressu, cum super alium alius ruinae modo praecipitarentur, supervenit cum supradictis ducibus Aiax. Tum magna vis barbarorum trepida impeditaque inter se caesa extinctaque, in quis Priami filiorum Antiphus et Polites, Pammon, Mestorque atque Euphemus Troezenius dux egregius Ciconum. 44. Ita Troiani paulo ante victores, ubi adventu Aiacis fortuna belli mutata est, versis ducibus poenas luere militiae inconsultae. At postquam adventante vespera signum nostris receptui datum est, victores laetique ad naves regressi mox ab Agamemnone cenatum deducuntur. Ibi Aiax conlaudatus a rege, donis egregiis honoratur. Neque reliqui duces facta gestaque viri silentio remittunt, quippe singuli extollentes virtutem memorare fortia facta, eversas ab eo tot Phrygiae civitates abductasque praedas et ad postremum in ipsis navibus adversum Hectorem egregiam pugnam liberatasque igni classes. Neque cuiquam dubium, quin ea tempestate, tot egregiis ac pulcherrimis eius facinoribus, spes omnes atque opes militiae in tali viro

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armi: di quanti capitarono da quella parte non se ne salvò proprio nessuno. E in questa grande agitazione, Glauco, figlio di Ippoloco, Sarpedone e Asteropeo, avendo osato resistere per qualche tempo, al fine di fermare il nemico, poco dopo, gravemente feriti, abbandonarono il campo. E quando costoro furono volti in fuga, i barbari, ritenendo che senza i comandanti non vi fosse alcuna speranza di salvezza, senza alcun ordine, smarriti e dispersi si avventarono alle porte, e lì sopraggiunse Aiace coi suddetti capi, mentre i Troiani, come in una frana, cadevano uno sopra l’altro perché l’ingresso era stretto e impedito dalla massa di gente che vi si precipitava. E allora moltissimi barbari, tremando di paura e intralciandosi a vicenda, furono colpiti e uccisi; tra di loro c’erano quattro dei figli di Priamo: Antifo, Polite, Pammone e Mnestore, e poi Eufemo di Trezene, l’illustre capo dei Ciconi. 44. E così, dopo che, con l’arrivo di Aiace, le sorti della battaglia erano cambiate e i capi dell’esercito erano stati volti in fuga, i Troiani, poco prima vittoriosi, pagarono il fio dello sconsiderato attacco.115 Ma quando, sul far della sera, i nostri ricevettero il segnale della ritirata, tornati alle navi lieti e vittoriosi furono subito invitati a cena da Agamennone. Lì il re elogiò Aiace e – in segno di onore – gli fece doni di eccezionale pregio. Né gli altri capi achei tacquero delle sue gesta, ché uno alla volta, esaltando il suo valore, ricordavano le sue audaci imprese: le tante città della Frigia espugnate, i bottini di guerra e infine lo straordinario scontro con Ettore, proprio alle navi, e le flotte salvate dal fuoco. E in quella situazione – viste le tante azioni splendide ed eccezionali da lui compiute – nessuno dubitava che ogni speranza e ogni risorsa dell’esercito fosse posta in un uomo simile.

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sisterentur. Ceterum proras duarum navium, quibus illatus ignis eam partem tantummodo consumpserat, Epios brevi restituit. Tumque Graeci rati post malam pugnam Troianos ulterius nihil hostile ausuros, quieti ac sine terrore egere. 45. Per idem tempus Rhesus Eione genitus, haud alienus a Priami amicitia, pacta mercede cum magnis Thracum copiis adventabat. Is incedente iam vespera paulisper moratus apud paeninsulam, quae anteposita civitati continenti eius adiungitur; secunda circiter vigilia ingressus Troianos campos explicitisque tentoriis ibidem opperiebatur. Quod ubi Diomedes cum Ulixe, vigilias in ea parte curantes procul animadvertere, rati Troianos a Priamo exploratum missos, arreptis armis, mox presso gradu circumspicientesque omnia pergunt ad eum locum. Tum fatigatis ex itinere custodibus, et ob id somno pressis, eosque et interius progressi in ipsis tentoriis regem interficiunt. Dein nihil ultra audendum rati, currum eius, et cum egregiis insignibus equos ad naves ducunt. Ita reliquum noctis in suis quisque tabernaculis requiescentes transigunt. At lucis principio reliquos duces conveniunt, eos facinus ausum expletumque docent. Ac mox rati barbaros incensos caede regis affore, iubent omnes frequentes apud arma agere opperirique hostem.

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Per il resto Epio in poco tempo riparò le due prore di due navi che in quella parte soltanto erano state danneggiate dal fuoco lanciato. E allora i Greci passavano il tempo tranquilli e privi di timore, ritenendo che i Troiani dopo l’infausta battaglia non avrebbero osato un ulteriore attacco.

[Arrivo di Reso; spedizione di Diomede ed Ulisse] 45. In quel torno di tempo Reso, figlio di Eioneo116, visti i rapporti amichevoli che intratteneva con Priamo, avendo pattuito un compenso117, avanzò con un numeroso esercito. Egli, quando ormai imbruniva, si trattenne per un po’ nella penisola che fronteggia la città ed è collegata al suo territorio118; alla seconda vigilia119 entrò nella piana di Troia e lì, dispiegate le tende, si mise ad aspettare120. Ma da lontano si accorsero di ciò Diomede e Ulisse, che si occupavano del servizio di guardia in quella zona, e, pensando che i Troiani fossero stati mandati da Priamo a spiare121, afferrate subito le armi, a passi lenti e con grande circospezione si diressero verso quel luogo. Allora, dopo aver superato le guardie che erano stanche del viaggio e perciò sopraffatte dal sonno, si addentrarono ulteriormente e uccisero il re proprio nel padiglione122. Quindi, non ritenendo di dover prendere altre iniziative audaci, portarono alle navi il suo carro e i cavalli assieme alle preziose insegne123. Così ognuno passò il resto della notte nella propria tenda riposando. Ma sul far del giorno si incontrarono con gli altri capi, e li informarono dell’audace azione compiuta. Poi, pensando che i barbari adirati per l’assassinio del re stessero arrivando, ordinarono a tutti di mettersi diligentemente in assetto di guerra e di aspettare il nemico.

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46. Neque multo post Thraces, ubi expergefacti e somno regem interemptum, foedam faciem intra tentoria animadvertere et vestigia abducti currus manifesta sunt, raptim ac sine ullis ordinibus, ut quemque fors conglobaverat, ad naves evolant. Quibus procul visis, nostri conferti inter se atque imperia servantes eunt obviam. Sed Aiaces duo in aliquantum acie progressi, primos Thracum invadunt atque opprimunt. Dein reliqui duces, ut quisque locum ceperat, caedere singulos et ubi conferti steterant, bini aut amplius congregati impetu suo dissolvere ac mox dispersos palantesque interficere uti nullus reliquus caedis fieret. Ac statim Graii, exstinctis qui adversum ierant, signo dato ad tentoria eorum pergunt. At illi qui custodes castris relicti soli supererant, visis contra hostibus, terrore ipso miserandum in modum effeminati, omnibus amissis ad moenia confugiunt. Tum undique versus nostri inruentes, arma, equos, regias opes et ad postremum uti quidque sors dederat praeripiunt. 47. Hoc modo victores Graii deletis cum imperatore Thracibus, onusti praeda atque victoria, ad naves digrediuntur, cum interim Troiani ex muris respectantes nequicquam pro sociis intra moenia tamen trepidarent. Igitur barbari tot iam adversis rebus fracti legatos inducias postulantes ad Graecos mittunt, ac mox nostris conditionem approbantibus interposito sacrificio fidem

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46. Non passò molto tempo che i Traci, svegliatisi, videro il re ucciso nel padiglione – il volto deturpato – e si palesarono le tracce del carro trascinato via; essi allora si slanciarono verso le navi, precipitosamente e senza un ordine, come la sorte li aveva raggruppati. E non appena essi apparvero da lontano, i nostri, stretti l’uno all’altro e rispettosi dei comandi, si fecero loro incontro. Ma i due Aiaci, essendo avanzati un po’, attaccarono i primi dei Traci e li uccisero. Quindi gli altri comandanti, a seconda del posto occupato, ammazzarono i nemici a uno a uno, e, dove erano rimasti serrati, a gruppi di due o più scompaginavano i nemici col loro impeto e subito li uccidevano dispersi e sparpagliati124, sicché nessuno scampò alla strage125. E come furono eliminati tutti i loro aggressori, fu dato il segnale e immediatamente i Greci si diressero alla volta dei padiglioni dei Traci. Ma quelli che erano stati lasciati da soli a guardia dell’accampamento, all’apparire dei nemici, si trasformarono in pietose femminette per lo spavento, abbandonarono ogni cosa e si rifugiarono presso le mura. Allora i nostri, avventandosi da ogni parte, depredarono le armi, i cavalli, le ricchezze del re e insomma tutto ciò che la sorte offriva.

[I Troiani chiedono una tregua; ritorno di Filottete] 47. E così, dopo che i Traci furono annientati assieme al loro capo, i Greci, carichi di bottino e onusti di gloria, si allontanarono alla volta delle navi, mentre i Troiani, al riparo delle mura, osservavano invano dall’alto, pur trepidando per gli alleati. Allora i barbari, ormai fiaccati da tante avversità, inviarono legati ai Greci a chiedere una tregua e, avendo súbito i nostri approvato le condizioni, sanciro-

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pacti firmavere. Eodem fere tempore Chryses, quem sacerdotem Zminthii Apollinis supra memoravimus, ad exercitum venit actum gratias super his, quae in se recepta filia benigne ab nostris gesta erant, ob quae tam honorifica, simul quod Astynomen liberaliter habitam cognaverat, reductam secum Agamemnoni tradit. Neque multo post Philocteta cum his, qui partem praedae ad eum portaverant, Lemno regreditur invalidus etiam tum neque satis firmo gressu. 48. Interea consilium Graecis agentibus Aiax Telamonius in medium progressus docet oportere mitti ad Achillem praecatores, qui eum imperatorum verbis atque exercitus peterent remittere iras ac repetere solitam cum suis gratiam; minime quippe aspernandum talem virum, nunc vel maxime, cum secundis rebus Graeci et paulo ante victores non ob utilitatem sed honoris merito gratiam eius peterent. Inter quae deprecari etiam Agamemnonem, daret operam simul voluntatemque agendo negotio adhiberet; namque tali tempore in commune ab omnibus consulendum, praesertim procul ab domo, locis alienis atque hostilibus, neque se aliter inter tam gravia bella undique versus inimicis regionibus, quam concordia tutos fore. At ubi finem loquendi fecit, cuncti duces laudare consilium viri simulque praedicantes ad caelum tollere, scilicet quod

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no il rispetto dell’accordo con un sacrificio. Più o meno contemporaneamente Crise, che già abbiamo ricordato essere il sacerdote di Apollo Sminteo, venne all’accampamento a ringraziare degli atti di benevolenza compiuti dai nostri nei suoi confronti dopo la restituzione della figlia; e in cambio di tanto onore, avendo inoltre saputo che Astinome era stata trattata con rispetto, dopo averla presa con sé la restituì ad Agamennone126. Poco dopo Filottete, assieme a coloro che gli avevano portato una parte di bottino, tornò da Lemno ancora invalido e non ben saldo sulle gambe127.

[Ambasceria ad Achille] 48. Frattanto i Greci tennero un consiglio e Aiace Telamonio, fattosi avanti, spiegò che bisognava mandare ad Achille degli ambasciatori128 che, riportando le parole dei comandanti e dell’esercito, gli chiedessero di deporre la collera e riprendere coi suoi gli amichevoli rapporti di sempre; infatti un uomo simile non era affatto da disprezzare, soprattutto ora che la situazione era propizia129 e i Greci, da poco vittoriosi, chiedevano la sua amicizia non perché fosse utile, ma a titolo di onore. Tra l’altro Aiace chiedeva ad Agamennone di adoperarsi e di mettere tutta la sua buona volontà affinché la cosa andasse a buon fine: in una simile circostanza, infatti, bisognava che tutti pensassero al bene comune130, specialmente ora che erano lontano da casa, in luoghi stranieri e ostili; e tra guerre così cruente, in regioni interamente nemiche, soltanto la concordia avrebbe dato loro sicurezza. Alla fine del discorso tutti i comandanti lodarono il suggerimento dell’uomo e, celebrandolo, lo portarono alle stelle perché surclassava tutti

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cum virtute corporis tum ingenio universos anteiret. Post quae Agamemnon docere se et ante ad reconciliandum Achillem multos misisse et nunc nihil aliud cordi esse. Ac mox Ulixem atque ipsum Aiacem orare, susciperent negotium atque ad eum nomine omnium irent, maxime quod Aiax cognatione fretus impetraturus veniam facilius credebatur. Igitur his operam suam pollicentibus, iturum se una Diomedes sponte ait. 49. His actis, Agamemnon afferre hostiam lictores iubet ac mox sublata super terram, cum duo, quibus imperatum erat, suspensam retinerent, gladium vagina educit eoque bifarium excisam hostiam in conspectu, uti diviserat, collocat. Dein ferrum sanguine oblitum manu retinens, inter utramque sacri partem medius invasit. Interim Patroclus, cognito quod parabatur, in consilium supervenit. At rex sicut supra diximus transgressus ad postremum iurat inviolatam a se in eum diem Hippodamiam mansisse; neque cupiditate ulla aut desiderio lapsum, sed ira, qua plurima mala conficiuntur, eo usque processisse. His addit cupere se praeterea, si ipsi etiam videretur, filiarum quae ei cordi esset, in matrimonium dare decimamque regni omnis ac talenta quinquaginta doti adiungit. Quae ubi accepere, qui in consilio erant, admirari magnificentiam regis maximeque Patroclus, qui cum oblatione tantarum opum, tum praecipue laetus, quod intacta Hippodamia affirmaretur, ad Achillem venit eique universa gesta atque acta refert.

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sia nelle virtù fisiche che in quelle intellettuali131. Quindi Agamennone spiegò che anche prima aveva mandato molti da Achille per riconciliarlo, e ora non c’era altro che gli stesse a cuore. E subito chiese ad Ulisse ed Aiace di prender su di sé l’incarico e di andare da lui a nome di tutti, soprattutto perché si credeva che Aiace, potendo contare sulla parentela132, avrebbe ottenuto il perdono con una certa facilità. Allora, mentre costoro garantivano il loro impegno, Diomede133 spontaneamente disse che sarebbe andato anche lui. 49. Dopo di ciò Agamennone diede ordine ai littori di portare una vittima sacrificale e, sollevatala da terra senza indugio, mentre due uomini a ciò designati la tenevano sospesa, egli sguainò il gladio, la tagliò in due e così divisa la mise bene in vista. Quindi tenendo in mano l’arma cosparsa di sangue passò in mezzo alle due parti della vittima134. Frattanto Patroclo, venuto a conoscenza di ciò che si progettava, si presentò in consiglio. Ma il re, dopo aver compiuto il passaggio che dicevamo, alla fine giurò di non aver toccato Ippodamia fino a quel giorno: non aveva sbagliato a causa di una passione amorosa o di un desiderio, ma era arrivato fino a quel punto per colpa dell’ira, che è responsabile della maggior parte del male che si compie135. A ciò aggiunse che, se Achille era d’accordo, desiderava anche dargli in sposa la figlia che lui avesse più cara, e aggiunse in dote la decima parte dell’intero regno e cinquanta talenti136. Quando coloro che erano in consiglio appresero ciò, si meravigliarono della generosità del re, specialmente Patroclo, il quale, lieto per le grandi ricchezze donate e soprattutto per il fatto che si garantiva l’illibatezza di Ippodamia, andò da Achille e gli riferì tutto l’accaduto.

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50. Dein ubi rex ea quae audierat volutare animo ac deliberare secum ipse occepit, supervenit cum supradictis Aiax. Tum ingressos eos ac iam benigne salutatos sedere hortatur iuxtaque se Aiacem. Qui tempus loquendi nactus familiariter et ob id liberius incusare atque increpare, quod in magnis discriminibus suorum nihil iracundiae remiserit, potueritque cladem exercitus perpeti, cum eum multi amici, plurimi etiam affinium obvoluti genibus deprecarentur. Post quem Ulixes illa quidam deorum esse ait, eorum autem, quae in consilio acta essent, ordine exposito, quae etiam Agamemnon pollicitus quaeque iurasset, ad postremum orat, ne preces omnium neve oblatas nuptias aspernaretur; moxque eorum omnium, quae una offerebantur, enumerationem facit. 51. Tum Achilles longam exorsus orationem, primum omnium acta gestaque sua exponere; ac dein admonere, quantas aerumnas pro utilitate omnium pertulerit, quas civitates aggressus ceperit cunctis interim requiescentibus ipse anxius ac dies noctesque bello intentus et, cum neque militibus suis neque sibi ipse parceret, asportatas nihilominus praedas in commune solitum redigere. Pro quis solum omnium se electum, qui tam insigni iniuria dehonestaretur: solum ita contemptum, a quo Hippodamia tot laborum pretium per dedecus abstraheretur neque in ea culpa solum esse Agamemnonem, sed maxime ceteros Graecos, qui immemores benificiorum contumeliam suam silentio praeterierint. Postquam finem loquendi fecit, Diomedes:

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50. Successivamente, quando il re iniziò a considerare e a soppesare tra sé e sé le cose che aveva udito, giunse Aiace coi predetti137. Allora essi entrarono, Achille li accolse benevolmente e ordinò loro di sedere – Aiace al suo fianco. Costui, avendo colto l’opportunità di parlargli in modo amichevole e perciò più libero, prese ad accusarlo e a biasimarlo perché, malgrado i grandi pericoli cui erano esposti i suoi, non aveva minimamente deposto l’ira e aveva potuto sopportare la strage dell’esercito138, mentre molti amici e anche moltissimi parenti lo supplicavano avvinghiandosi alle sue ginocchia. Dopo di lui Ulisse disse che quelle erano cose che competevano agli dei, invece, esposte con ordine le cose che erano accadute in consiglio, quelle che Agamennone aveva promesso e quelle che aveva giurato, gli chiese di non disprezzare le preghiere né la proposta di matrimonio; quindi fece l’elenco di quanto gli veniva offerto tutto insieme139. 51. Allora Achille iniziò un lungo discorso e per prima cosa espose le sue azioni e le sue imprese. Poi rammentò quante fatiche aveva sostenuto a vantaggio di tutti, quali città aveva attaccato e conquistato (anche quando tutti riposavano lui si preoccupava, giorno e notte intento alla guerra); e rammentò altresì che, sebbene non avesse riguardo per i suoi soldati né per sé stesso, tuttavia era solito mettere in comune il bottino che portava. Ma in cambio di ciò egli solo fra tutti era stato scelto per essere disonorato da un affronto così evidente; lui solo disprezzarono al punto di togliergli indegnamente Ippodamia, il compenso di tante fatiche; né Agamennone era l’unico ad aver colpa di ciò, ma colpevoli erano soprattutto gli altri Greci che, dimentichi dei benefici, lasciarono passare sotto silenzio il suo affronto140. Quando egli finì di parlare, Diomede disse:

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«Praeterita, ait, omittenda sunt neque oportet prudentem meminisse transactorum, quando ea, etsi maxime cupias, nequeas revocare». Interea Phoenix et cum eo Patroclus circumstantes genas atque omnem vultum iuvenis, manus adosculari, contingere genua, rediret in gratiam atque animos remitteret, cum propter praesentes, qui eum oratum venissent, tum praecipue ob bene de se meritum reliquum exercitum. 52. Igitur Achilles praesentia talium virorum, precibus familiarium ac recordatione innoxii exercitus tandem flexus ad postremum facturum se quae vellent respondit. Dein hortatu Aiacis tum primum post malam iracundiam Graecis mixtus consilium ingreditur atque ab Agamemnone regio more salutatur. Interea reliquis ducibus favorem attollentibus, gaudio laetitiaque cuncta completa sunt. Igitur Agamemnon manum Achillis retentans eumque et reliquos duces ad cenam deducit. Ac paulo post inter epulas, cum laeti inter se invitarent, rex Patroclum quaesiit, ut Hippodamiam cum ornamentis, quae dederat, ad tentoria Achillis deduceret; isque libens mandata efficit. Ceterum per id tempus hiemis saepe Graeci atque Troiani singuli pluresve, ut fors evenerat, inter se sine ullo metu in luco Thymbraei Apollinis miscebantur.

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“Le cose passate vanno messe da parte e chi è saggio non deve rammentare gli eventi trascorsi giacché, quand’anche tu lo desideri in sommo grado, non potrai farli tornare141.” Frattanto Fenice e Patroclo142 stando attorno al giovane gli baciavano le guance e l’intero volto nonché le mani, e gli toccavano le ginocchia chiedendogli di riconciliarsi e di deporre l’animoso risentimento: lo facesse per i presenti che erano venuti a pregarlo e soprattutto per il resto dell’esercito, che aveva ben meritato di lui. 52. E così Achille, piegato finalmente dalla presenza di uomini simili, dalle preghiere degli amici e dal pensiero che l’esercito era privo di colpe, rispose che avrebbe fatto ciò che volevano143. Allora, su esortazione di Aiace, per la prima volta dopo la sciagurata ira, rientrò nel consiglio, confuso tra gli altri Greci, e Agamennone lo salutò come si conviene a un re. Nel mentre, per le grida di giubilo degli altri comandanti, tutto si riempì di gioia e di letizia. Quindi Agamennone tenendo Achille per mano lo portò a cena assieme agli altri. Poco dopo, durante il banchetto, mentre se la godevano lietamente tra di loro, il re chiese a Patroclo di condurre nella tenda di Achille Ippodamia con i gioielli che le aveva dato, e lui eseguì volentieri l’ordine. Per il resto in quell’inverno spesso i Greci e i Troiani, uno alla volta o a gruppi di più persone – come capitava –, frequentavano promiscuamente il bosco di Apollo Timbreo144 senza alcun timore.

LIBER TERTIUS

LIBRO TERZO Traduzione e note di Daniele Mazza

1. Interim per totam hiemem dilato condicionibus in tempus bello Graeci cuncta, quae in tali otio militia exposcebat, intenti animo summis studiis festinabant. Namque pro vallo multitudo universa variis bellandi generibus per duces populosque instructa et ob id more optimo diversis ad officia sua quibusque, hinc iaculis hastarum vice fabricatis, neque ponderis aut mensurae inferioribus, et quibus ea non erant praeustis sudibus, illinc sagittis certantes inter se invicem ad multum diem exercere, alii saxis utebantur. Sed inter sagittarios maxime anteibant Ulysses, Teucer, Meriones, Epios, Menelaus. Neque dubium, quin inter hos tamen praecelleret Philocteta, quippe Herculis sagittarum dominus et destinata feriundi arte mirabilis. At Troiani cum auxiliaribus laxiores militia neque circa exercitum solliciti socordius agitare ac saepe sine ullo insidiarum metu hi aut illi multis immolationibus Thymbraeo Apollini supplicabant. Isdem fere diebus nuntius adportatur universas prope Asiae civitates descivisse a Priamo atque eius amicitiam execrari. Namque facinoris exemplo suspectis iam per universos populos gentesque circa hospitium omnibus, simul quia omnibus

[Tregua invernale]1 1. Nel frattempo, rimandate per tutta la durata dell’inverno le operazioni belliche in base alla tregua, i Greci, fermi nel proposito, si affrettavano con grandissimi sforzi a tutte quelle attività che, in tale periodo di riposo, la milizia richiedeva2. L’intero esercito fu dunque fatto schierare nelle varie specialità di combattimento, davanti al muro del campo, in base ai capi ed alle genti3, e perciò ognuno con compiti ben precisi, nel modo più opportuno; i soldati si esercitavano per gran parte del giorno, lottando tra di loro: da una parte con giavellotti fabbricati a somiglianza di lance e non minori di peso e dimensione, e quelli che ne erano sprovvisti con pali dalle punte indurite al fuoco; da un’altra parte con frecce; altri ancora si servivano di sassi. Tra gli arcieri erano di gran lunga i primi Ulisse, Teucro, Merione, Epeo, Menelao. Non v’è dubbio che, tra tutti questi, il migliore fosse Filottete, poiché era il detentore delle frecce di Ercole e straordinariamente abile nel colpire il bersaglio4. Invece i Troiani ed i loro alleati, meno disciplinati nel regime militare e trascurati per quel che riguarda l’esercito, se ne stavano in ozio5; e spesso sia i Troiani sia i Greci si recavano – senza alcun timore di imboscate – a supplicare Apollo Timbreo. Più o meno in quei giorni giunse la notizia che quasi tutte le città dell’Asia avevano abbandonato Priamo e rinnegato l’alleanza con lui. Tra la totalità dei popoli e delle genti circostanti infatti tutti quanti, già diffidenti della sua amicizia per l’esempio della prevaricazione compiuta, erano stati impressionati dalla distruzione di molte città nella regione e da ultimo

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proeliis Graecos victores cognitum et eversio multarum in ea regione civitatum in animis haeserat et ad postremum grave odium filiorum regnique eius incesserat. 2. At apud Troiam forte quadam die Hecuba supplicante Apollini Achilles adveniens visere cerimoniarium morem cum paucis comitibus supervenit. Erant praeterea cum Hecuba matronae plurimae, coniuges principalium filiorumque eius, partim honorem atque obsequium reginae tribuentes, reliquae tali obtentu pro se quaeque rogaturae supplicabant. Etiam Hecubae filiae nondum nuptae Polyxena et Cassandra, Minervae atque Apollinis antistites, novo ac barbaro redimitae ornatu effusis hinc atque inde crinibus precabantur suggerente sibi Polyxena apparatum saeri eius. Ac tum forte Achilles versis in Polyxenam oculis pulchritudine virginis capitur. Auctoque in horas desiderio, ubi animus non lenitur, ad naves discedit. Sed ubi dies pauci fluxere et amor magis ingravescit, accito Automedonte aperit ardorem animi; ad postremum quaesiit, uti ad Hectorem virginis causa iret. Hector vero datarum se in matrimonium sororem mandat, si sibi universum exercitum proderet.

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avevano concepito un grave odio nei confronti dei suoi figli e del suo dominio, anche perché si era risaputo che i Greci erano risultati vincitori in tutti gli scontri6.

[Achille si innamora di Polissena] 2. Capitò un giorno che Ecuba si recasse a supplicare Apollo nei pressi di Troia, e Achille sopraggiunse con qualche commilitone per osservare il rituale delle cerimonie7. Erano inoltre presenti insieme ad Ecuba numerose matrone, consorti dei notabili delle città e dei suoi figli: alcune di esse partecipavano alla pubblica adorazione in segno di ossequio e reverenza nei confronti della regina, altre per impetrare – dietro tale pretesto – la grazia per loro stesse8. Anche le figlie ancora nubili di Ecuba, Polissena e Cassandra, in qualità di ministre del culto di Minerva ed Apollo, recitavano delle preghiere, coronate di ornamenti inusitati e barbarici9, agitando qua e là le chiome disciolte: ed era Polissena ad approntare l’apparato di quella cerimonia10. Allora Achille, rivolto casualmente lo sguardo su Polissena, viene rapito dalla bellezza della ragazza11. E accresciutosi il desiderio con il passare delle ore, dal momento che il suo animo non trova sollievo, se ne torna alle navi. Ma dopo che sono passati pochi giorni e l’amore si fa più gravoso da sopportare, fatto venire Automedonte gli rivela la passione che gli infiamma l’animo; infine gli chiede di andare da Ettore per la ragazza12. Ettore allora gli fa sapere che gli avrebbe concesso la sorella in sposa, se gli avesse consegnato a tradimento l’intero esercito.

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3. Dein Achilles soluturum se omne bellum pro Polyxena tradita pollicetur. Tum Hector: aut proditionem ab eo confirmandam, aut filios Plisthenis atque Aiacem interficiendos, alias de tali negotio nihil se auditurum. Ea ubi Achilles accepit, ira concitus exclamat: se, cum primum tempus bellandi foret, primo proelio interempturum. Dein animi iactatione saucius huc atque illuc oberrans interdum tamen, quatenus praesenti negotio utendum esset, consultare. At ubi eum Automedon iactari animo atque in dies magis magisque aestuare desiderio ac pernoctare extra tentoria animadvertit, veritus, ne quid adversum se aut in supradictos reges moliretur, Patroclo atque Aiaci rem cunctam aperit. Hique dissimulato quod audierant cum rege commorantur. Ac forte quodam tempore recordatus sui convocatis Agamemnone et Menelao negotium, ut gestum erat, desideriumque animi aperit: a quis omnibus ut bono animo ageret respondetur, brevi quippe dominum eum fore eius, quam deprecando non impetraverit. Quae res eo habere fidem videbatur, quoniam iam summa rerum Troianarum prope occasum erat. Omnes namque Asiae civitates exsecratae amicitiam Priamidarum ultro nobis auxilium societatemque belli offerebant. Quis ab ducibus nostris benigne respondebatur: satis sibi esse praesentium copiarum neque auxiliorum egere, amicitiam sane, quam

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[Trattative segrete di Achille per avere in sposa Polissena; fallimento] 3. Allora Achille promette di far cessare completamente le ostilità in cambio della consegna di Polissena. Al che Ettore gli risponde di confermare solennemente il suo tradimento oppure di uccidere Aiace e i figli di Plistene, altrimenti non avrebbe voluto più sentir parlare di tale accordo13. Non appena Achille sente queste parole, esclama in preda all’ira che lo avrebbe ammazzato nella prima battaglia, appena venissero riaperte le ostilità. In seguito, aggirandosi qua e là con l’animo tormentato dall’incertezza, si domandava ripetutamente fino a che punto dovesse spingersi in quell’affare. Ma quando Automedonte si rende conto che si arrovellava nell’intimo e avvampava di passione ogni giorno di più, e che trascorreva le notti fuori dalle tende, per assicurarsi che non macchinasse qualche azione contro di sé o contro i re summenzionati rivela l’intera faccenda a Patroclo e ad Aiace. E questi, senza far trapelare quanto hanno appreso, non lasciano più solo il re. E ad un dato momento, ritornato per caso in sé, convoca Agamennone e Menelao e rivela loro come si era svolta la trattativa ed il desiderio del suo animo: e tutti costoro gli rispondono di stare di buon animo, perché a breve sarebbe stato il padrone di colei che con le preghiere non aveva ottenuto. E questa assicurazione gli sembrava avere fondamento, poiché ormai il potere dei Troiani volgeva al declino. Infatti tutte le città dell’Asia, ripudiata l’amicizia con i figli di Priamo, ci offrivano aiuto e alleanza in guerra. Veniva loro cortesemente risposto da parte dei nostri comandanti che erano sufficienti le truppe di cui già disponevano, né avevano penuria di ausiliari; mentre per conto loro accettavano senz’altro l’offerta di amicizia, ed i sovrani

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offerent, ultro suscipere, voluntatemque erorum fore gratam omnibus. Scilicet quia fluxa fides, et animi parum spectati neque tam subita mutatio sine dolo credebatur. 4. Iamque exactis hibernis mensihus ver coeperat cum Grai edicto prius, uti omnis miles in armis esset, mox signo belli edito exercitum in campis productum ordinant; neque ea a Troianis segnius agebantur. Igitur ubi utrimque instructae acies adversum processere atque intra teli iactum ventum est, cohortati suos quisque manus conserunt in medio locatis equitibus et ob id primis congressis. Tumque primum reges nostri atque hostium ascensis curribus bellum ineunt adscito sibi quisque auriga ad regendos equos. Sed primus omnium Diomedes invectus Pyraechmem, regem Paeonum, hasta fronte ictum interficit, dein ceteros, quos ob virtutem rex secum stipatores habuerat, conglobatos inter se atque ausos resistere partim telo eminus fundit, alios curru per medios concito humi obterit. Dein Idomeneus adhibito equis Merione Acamanta Thracum regem deicit, ruentique telo occurrit atque ita inteficit. Sed ubi Hector situs in parte alia medios suorum fundi accipit, dispositis satis strenuis, ubi pugnabat, accurrit auxilio laborantibus

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sarebbero stati grati a tutti loro. Naturalmente risposero così perché la lealtà di quelli sembrava volubile e i loro animi poco affidabili, ed un così repentino mutamento di atteggiamento non privo di insidie.

[Ripresa delle ostilità] 4. Trascorsi i mesi invernali era ormai iniziata la primavera, quando i Greci, dato l’ordine che tutti i soldati si armassero, appena mostrato il segnale d’inizio della guerra fanno avanzare in campo l’esercito e lo dispongono; ed i Troiani non erano in questo meno solleciti. Quando poi da ambo le parti le truppe schierate sono avanzate l’una contro l’altra e giungono a distanza di tiro, dopo l’arringa tutti attaccano battaglia, con i cavalieri (che per questo si erano radunati per primi) disposti al centro14. Allora per prima cosa i nostri re e quelli dei nemici, dopo aver chiamato ciascuno il proprio auriga per condurre i cavalli, montano sui carri ed attaccano battaglia. Primo fra tutti si fa avanti Diomede ed uccide il re dei Peoni Pirecme15, colpendolo alla fronte con l’asta, e poi gli altri, che per il loro valore il re aveva tenuto con sé come scorta, e che avevano serrato le schiere e avevano osato resistergli, in parte uccide a distanza a colpi di lancia e in parte schiaccia a terra, spingendo a tutta velocità il carro in mezzo a loro. Poi Idomeneo, con Merione assegnato ai cavalli16, sbalza a terra il re dei Traci Acamante e lo trafigge con un fulmineo colpo di lancia, e così lo uccide17. Ma quando Ettore (che si trovava in un altro punto) si rende conto che i suoi compagni posti nel mezzo soccombevano, schierato un numero sufficiente di soldati valorosi nella posizione in cui combatteva si precipita in aiuto ai commilitoni in mal partito, prendendo

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Glaucum secum ac Deiphobum et Polydamanta habens. Neque dubium, quin deleta a praedictis regibus ea pars hostium foret, ni adventu suo Hector nostrosque ulterius progredi ac suos fugere cohibuisset. Ita Graeci prohibiti caede reliquorum represso gradu adversum eos, qui supervenerant, constitere. 5. Ac mox cognito per universum exercitum proelio in ea parte reliqui duces confirmati, ubi quisque pugnaverat, undique eo confluunt. Densatur utrimque acies et proelium renovatum est. Igitur Hector ubi plurimos suorum adesse et satis tutum se intellegit, tollit animos. Dein clamore magno singulos suorum nomine appellans confidentius in hostem pugnare hortatur; ac progressus intra aciem Diorem et Polyxenum Elios satis impigre pugnantes vulnerat. At ubi eum Achilles ita in hostem promptum animadvertit, simul subvenire his, quos adversum bellabat, cupiens et memor paulo ante repulsae in Polyxena contra tendit; progressusque in medio Pylaemenem Paphlaganum regem impedimento sibi oppositum comminus fundit non alienum sanguinis Priamidarum. Perhibebatur quippe hic etiam ex his, qui a Phineo Agenoris originem propriam memoria repetebant, a quo etiam Olizonen genitam, postquam adoleverit deductam in matrimonium Dardani.

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con sé Glauco, Deifobo e Polidamante. E senza dubbio quella parte dei nemici sarebbe stata annientata dai re sopra ricordati, se Ettore con il suo arrivo non avesse impedito ai nostri di avanzare ulteriormente, ed ai suoi di darsi alla fuga. Così i Greci, ostacolati nell’uccisione degli altri nemici, frenarono la loro avanzata e ristettero per fronteggiare quelli che erano sopraggiunti.

[Achille cerca il duello con Ettore, ma viene ferito] 5. E appena si è diffusa in tutto l’esercito la notizia della battaglia che si svolgeva in quella parte i restanti capi, preso coraggio, vi accorrono da qualunque punto stessero combattendo. Le fila si infoltiscono da entrambe le parti, e la battaglia si riaccende. Allora Ettore, poiché comprende che sono sopraggiunti molti dei suoi e che è abbastanza sicuro, insuperbisce. Quindi chiama per nome, a gran voce, alcuni dei suoi compagni, e li esorta a combattere con maggiore ardimento contro il nemico; e penetrato in mezzo alla schiera nemica ferisce gli elei Diore e Polisseno18, che stavano combattendo alacremente. Ma Achille, come lo vede così smanioso di battersi col nemico, gli muove contro, sia per il desiderio di soccorrere quelli contro cui combatteva sia memore del rifiuto recentemente ricevuto a proposito di Polissena; e avanzato nel mezzo uccide da breve distanza Pilemene re dei Paflagoni che gli si frapponeva ostacolandolo19, ed era consanguineo della famiglia di Priamo. Infatti anch’egli si fregiava di essere tra quelli che, secondo quanto si tramandava, derivavano l’origine della propria stirpe da Fineo figlio di Agenore, dal quale era nata anche Olizone, che una volta raggiunta l’età da marito era stata concessa in moglie a Dardano20.

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6. Ceterum Hector postquam ad se agmine infesto tendi videt, causas odii recordatus non ulterius impetum viri experiri ausus ex acie subterfugit. Tumque Achilles insecutus quantum acies hostium patiebatur, ad postrernum iaculatus aurigam eius interfecit, postquam Hector per aliam partem relicto curru aufugerat. Dein ereptum sibi e manibus inimicissimum omnium dolens rursus vehementius saevire extractoque ex corpore aurigae iaculo fundere obvios ac prostratos, cum alios invaderet, desuper proculcans obterere. Inter quae tam trepida cunctis fugientibus Helenus quaesitum ex occulto vulneri locum ubi nactus est, manum Achillis procul atque improvisus sagitta transfigit. Ita vir egregius bellandi, cuius adventu territus fugatusque Hector, multi mortales cum ducibus extincti, clam atque ex occulto vulneratus eo die finem bellandi fecit. 7. Interim Agamemnon, et cum eo Aiaces duo inter ceteram stragem ignotorum nacti plurimos Priami filiorum interficiunt, atque Agamemnon Aesacum cum Deiopite, Archemachum, Laudocum et Philenorem, Aiax Oilei et Telamonius Mylium, Astyonoum, Doryclum, Hippothoum atque Hippodamanta. At in alia belli parte Patroclus et Lycius Sarpedon locati in cornibus nullis propinquorum praesentibus signo inter se dato solitarii

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6. Tuttavia Ettore, quando vede la schiera nemica muovergli contro, ricordatosi del motivo dell’ostilità dell’eroe e non osando sostenerne oltre l’attacco, si ritrae alla chetichella dalla mischia. Allora Achille, avendolo inseguito per tutta l’ampiezza dello schieramento nemico, dopo che Ettore aveva abbandonato il carro per cercare rifugio altrove, uccise infine l’auriga con un colpo di lancia21. Poi, rammaricandosi che il nemico che più di tutti osteggiava gli fosse sfuggito dalle mani, tornava ad infierire con maggiore violenza e strappato il giavellotto dal corpo dell’auriga abbatteva tutti quelli che gli si paravano davanti, e una volta a terra li faceva a pezzi, passandoci sopra mentre andava ad assalirne altri. In così gran concitazione, mentre tutti si danno alla fuga, Eleno, appena ha trovato la posizione che cercava per il colpo a tradimento, trafigge da lontano e a sorpresa la mano di Achille22. Così quell’eroe che era maestro nel guerreggiare, dalla cui avanzata Ettore era stato impaurito e volto in fuga, dopo aver sterminato molti uomini con i loro condottieri terminò per quel giorno i combattimenti, per essere stato ferito di nascosto e da un riparo celato.

[Patroclo uccide Sarpedone] 7. Frattanto Agamennone e con lui i due Aiaci raggiungono ed ammazzano, tra l’uccisione di altri combattenti anonimi, molti figli di Priamo: in particolare Agamennone uccide Esaco con Deiopite, Archimaco, Laudaco e Filenore; Aiace Oileo e il Telamonio invece Milio, Astinoo, Doriclo, Ippotoo e Ippodamante23. Ma in un altro settore della battaglia Patroclo e Sarpedone il licio, schierati alle estremità dei due eserciti e senza commilitoni nelle

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certaminis extra aciem processere, moxque telis adversum iactis, ubi uterque intactus est, curru desiliunt atque arreptis gladiis pergunt obviam. Iamque crebris adversum se ictibus congressi, neque vulneratus quisquam, multum diei consumpserant, cum Patroclus amplius audendum ratus colligit sese in arma et cautius contectus ingressusque hostem complectitur, manu dextra poplitem succidens, quo vulnere debilitatum, atque exsectis nervis invalidum propulsat corpore ruentemque interficit. 8. Quod ubi animadvertere Troiani, qui iuxta steterant, gemitu magno clamorem tollunt, relictisque ordinibus signo dato arma in Patroclum vertunt, scilicet Sarpedonis interitu publicam cladem rati. At Patroclus praeviso hostium agmine telum positum humi propere rapit compositusque in armis audentius resistit. Tum ingruentem Deiphobum hasta comminus tibiam ferit atque excedere ex acie coegit interfecto prius Gorgythione fratre eius. Neque multo post adventu Aiacis fusi reliqui, cum interim Hector edoctus quae acciderant, supervenit ac mox conversam suorum aciem pro tempore restituit increpatis ducibus ac plerisque ex fuga reductis. Ita praesentia eius animi tolluntur et proelium incenditur. Tum vero inclitis ex utraque parte ducibus confirmato exercitu, confligunt

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vicinanze, dato tra di loro il segnale del duello individuale escono dalla mischia e subito dopo aver scagliato la lancia uno contro l’altro, poiché erano entrambi illesi, saltano giù dal carro e si fanno incontro con le spade alla mano24. E si erano avventati uno sull’altro con fitti colpi senza che nessuno restasse ferito, ed ormai buona parte del giorno era trascorsa, quando Patroclo prende la decisione di rischiare il tutto e per tutto, si ripara dietro lo scudo e così ben protetto si lancia in avanti e si avvinghia al nemico, troncandogli con la destra il garretto: poi lo incalza, fiaccato com’è da questa ferita e immobilizzato per i legamenti troncati, e lo uccide mentre stramazza a terra. 8. Appena i Troiani che si trovavano nelle vicinanze se ne rendono conto, fanno levare uno strepito per il gran lamentarsi, e rotte le righe al segnale vanno all’attacco di Patroclo, poiché evidentemente consideravano che dall’uccisione di Sarpedone derivasse una sciagura per la comunità25. Ma Patroclo, scorta la schiera nemica prima che arrivi, afferra prontamente la lancia che giaceva al suolo, si dispone in posizione di combattimento e resiste con grande coraggio. Allora da breve distanza ferisce con l’asta Deifobo alla gamba, mentre si stava avventando su di lui, e lo costringe a ritirarsi dal campo, dopo aver ucciso il di lui fratello Gorgitone26. E non molto dopo, poi che gli altri furono sbaragliati dall’arrivo di Aiace, sopraggiunge Ettore (nel frattempo informato dell’accaduto) e consolida per un po’ le posizioni del suo schieramento, che si era appena volto in fuga, redarguendo i comandanti e richiamando la maggior parte di loro dalla fuga27. Così il morale delle truppe viene risollevato dalla sua presenza, e la battaglia si infiamma. Proprio allora le schiere cozzano con particolare violenza, perché i soldati sono rincuorati dalla presenza da

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acies, nunc hinc, nunc inde cedentibus instantes et, ubi acies nutaverat, praesidiis accurrentibus. Interea utriusque exercitus cadunt plurimi neque fortuna belli mutatur. Sed postquam miles per multum diem bello intentus magis magisque fatigabatur, et diei vesper erat, utrisque cupientibus pugna decessum. 9. Tum apud Troiam circa Sarpedonis cadaver cunctis deflentibus ac praecipue feminis luctu atque gemitu omnia completa sunt, quis non alii casus acerbissimi, ne interitus quidem Priamidarum, prae desiderio eius cordi insederant. Tantum in eo viro praesidium et interfecto spes ablata credebatur. At Graeci in castra regressi primum omnium Achillem revisunt eumque de vulnere percontati, ubi sine dolore agere vident, laeti ad postremum narrare occipiunt Patrocli facta fortia, dein reliquos, qui vulnerati erant, per ordinem circumeunt; ita inspectatis omnibus ad tentoria sua quisque digreditur. Interim Achilles regressum Patroclum extollere laudibus, dein monere, uti reliquo quoque bello memor rerum, quas gesserat, hostibus vehementius ingrueret. Hoc modo nox consumitur. At lucis principio corpora suorum quisque collecta igni cremant, dein sepeliunt. Sed postquam dies

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ambo le parti di rinomati condottieri, e quando i nemici indietreggiano da una parte o dall’altra li incalzano, mentre laddove le linee vacillano accorrono i rinforzi. Intanto moltissimi cadono in entrambi gli eserciti, ma le sorti della battaglia non mutano. Ma quando oramai i soldati, che erano stati intenti a combattere per buona parte del giorno, diventavano via via più esausti, e si era fatta sera, lo scontro (come entrambe le parti desideravano) ebbe fine.

[Lamenti a Troia per la morte di Sarpedone. Roghi dei defunti] 9. Allora a Troia l’intera città fu sommersa di lamenti e gemiti, poiché tutti – e soprattutto le donne – piangevano attorno al cadavere di Sarpedone: e nessun’altra miserevole disgrazia, neppure la morte dei figli di Priamo, occupava il loro cuore più del rimpianto che provavano per lui28. Una così gran difesa vedevano in quell’uomo, e nella sua morte la perdita di ogni speranza29. Invece i Greci, rientrati nell’accampamento, si recano a visitare (primo fra tutti) Achille, si informano della sua ferita e infine, quando vedono che non è sofferente, prendono lietamente a raccontare le valorose gesta di Patroclo; poi fanno il giro degli altri che sono stati feriti, secondo l’ordine: dopo che tutti sono stati visitati, ciascuno si ritira nelle proprie tende. Nel frattempo Achille ricopriva di elogi Patroclo, che era tornato, e si raccomandava poi che anche durante il resto della guerra attaccasse con la massima forza i nemici, memore delle imprese che aveva compiuto30. In questo modo trascorre la notte: alle prime luci dell’alba ciascuno raccoglie e brucia sulla pira i corpi dei suoi commilitoni, e poi dà loro sepoltura. Ma dopo che

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aliquot triti et vulnerati convaluerant, arma expedire et producere militem placet. 10. Sed barbari more pessimo nec quicquam compositum, nihil aliud quam turbata atque insidiosa cupientes clam atque ante tempus egressi proelium praevertere. Tuncque effusi ruinae modo clamorem inconditum simul et tela in hostes coniciunt semermes etiam tum atque incompositos. Caesi itaque nostrorum multi, in quis Arcesilaus Boeotius et Schedius Crissaeorum uterque duces optimi; ceterum vulnerata pars maxima, Meges etiam et Agapenor, alter Echinadibus imperator, Agapenor Arcadiae. Inter quae tam foeda tanta inclinatione rerum Patroclus fortunam belli vincere adgressus, dum hortatur suos simul atque instat hostibus promptiore quam bellandi mos est, telo Euphorbi ictus ruit. Statimque Hector advolans opprimit ac desuper vulneribus multis fodit; moxque enititur abstrahere proelio, scilicet insolentia gentis suae inludere cupiens per universa genera dehonestamenti. Quod ubi Aiaci cognitum est, relicto ubi pugnaverat propere accurrit, iamque eripere cadaver occipientem proturbat hasta. Interim Euphorbus a Menelao et Aiace altero summo studio circumventus scilicet auctor interempti ducis morte

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nel giro di qualche giorno i soldati esausti dalla fatica e feriti si furono rimessi, si decide di prepararsi alla battaglia e di far uscire in campo le truppe.

[I Troiani contrattaccano. Ettore uccide Patroclo] 10. Ma i barbari, che non amano nulla che sia secondo le regole e altro non desiderano che confusione e tradimento, erano usciti di nascosto e prima del tempo (comportamento inqualificabile31) e attaccarono in anticipo. Allora, lanciato un urlo belluino pari allo schianto di una frana, scagliano contemporaneamente le aste contro i nemici, che ancora non avevano finito di armarsi e di schierarsi. Così vengono uccisi molti dei nostri, tra cui il beota Arcesilao e Schedio dei Crisseoi, entrambi condottieri eccellenti; degli altri, la maggior parte viene ferita, come anche Mege e Agapenore, il primo generale delle isole Echinadi, Agapenore dell’Arcadia32. Tra così grandi disastri ed in tale critica situazione Patroclo, nel tentativo di rovesciare le sorti della battaglia, mentre sprona i suoi e al contempo si spinge tra i nemici in modo più risoluto di quanto si usi in guerra, viene colpito dalla lancia di Euforbo e cade. Subito Ettore gli si fa sopra, precipitandosi come in volo, e dall’alto lo crivella di molti colpi; si dà subito da fare per trascinarlo fuori dalla mischia, smaniando di accanirsi su di lui con ogni genere di deturpamenti, secondo l’intemperanza tipica del suo popolo33. Non appena Aiace se ne rende conto, abbandonata la posizione in cui combatteva accorre all’istante e lo mette subito in rotta con la sua lancia, mentre cominciava già a trascinar via il cadavere. Intanto Euforbo, circondato con grande sollecitudine da Menelao e dall’altro Aiace in quanto responsabile dell’uccisione del

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poenas luit. Deinde occipiente vespera proelium dirimitur male et cum dedecore plurimis nostrorum interfectis. 11. Sed postquam reductae utrimque acies et iam in tuto miles noster erat, cuncti reges Achillem conveniunt deformatum iam lacrimis atque omni supplicio lamentandi. Qui modo prostratus humi, nunc cadaveri superiacens adeo reliquorum animos pertemptaverat, ut Aiax etiam, qui solandi causa adstiterat, nihil luctui remitteret. Nec Patrocli tantum mors gemitum ilium cunctis incusserat, sed praecipue recordatio vulnerum per loca corporis pudibunda, quod exemplum pessimum per mortales tum primum proditum est numquam antea a Graecis solitum. Igitur reges multis precibus atque omni consolationis modo tandem Achillem flexum humo erigunt. Dein Patrocli corpus elutum mox veste circumtegitur maxime ob tegenda vulnera, quae multimodis impressa haud sine magno gemitu cernebantur. 12. His actis monet, uti custodes vigilias agere curarent, ne qua hostes detentis circa funus nostris more solito inruerent. Ita per distributionem officia sua quisque procurantes igni plurimo in armis pernoctant. At lucis principio placet, uti ex omni ducum numero quinque in

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comandante, ne paga il fio con la morte34. Quindi, sul fare della sera, la battaglia ha termine con danno e disonore, per le moltissime perdite tra i nostri.

[Dolore di Achille e funerali di Patroclo] 11. Ma una volta che da ambo le parti le truppe si sono ritirate, e quando ormai i nostri soldati erano al sicuro, i re si recano tutti insieme da Achille, il cui aspetto era già sconvolto dal pianto e da tutte le pene del lutto. Ed un po’ si buttava a terra, un po’ si lasciava cadere sul cadavere, e aveva turbato gli altri al punto che perfino Aiace (che gli si era messo accanto per consolarlo) si abbandonava completamente al dolore35. E non era stata solo la morte di Patroclo a suscitare in tutti quel grande cordoglio, ma soprattutto il pensiero delle ferite inflitte su parti del corpo di cui si dovrebbe aver pudore, il cui ignobile esempio allora per la prima volta fu diffuso tra i mortali, mentre mai in precedenza i Greci ne avevano avuto esperienza. Con molte preghiere ed incoraggiamenti di ogni genere i re riescono infine a far rialzare Achille, che era prono al suolo. Poi il corpo di Patroclo, dopo essere stato lavato, viene avvolto in una veste, soprattutto per coprire le ferite in vario modo inferte, che era impossibile contemplare senza molto pianto. 12. Fatto questo, Achille dà ordine che le sentinelle si occupino dei turni di guardia, perché i nemici non facciano irruzione da qualche lato (come al loro solito) mentre i nostri sono occupati nella celebrazione del funerale36. Così passano la notte in armi, ciascuno attendendo alle sue mansioni per l’erezione delle grande pira, in base alla

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montem Idam vaderent silvam caesum, qua Patroclus cremaretur, decretum quippe ab omnibus erat, funus eius publice curaretur. Iere igitur Ialmenus, Ascalaphus, Epios et cum Merione Aiax alter. Moxque Ulixes et Diomedes busto locum dimetiuntur quinque hastarum longitudine totidemque in transverum. Advecta deinde ligni copia bustum exstruitur impositumque desuper cadaver igni supposito cremant exornatum iam decore omni pretiosae vestis; id namque Hippodamia et Diomedea curaverant, quarum Diomedea nimium iuveni et omni affectu dilecta fuerat. 13. Ceterum paucis post diebus refectis ex labore vigiliarum ducibus cum luce simul exercitus in campum productus per totum diem in armis agit opperiens barbarorum adventum. Qui muris despectantes postquam nostros paratos proelio vident, eo die certamen distulere. Ita occasu solis Graeci ad naves regressi. At vix principio diei Troiani rati etiam nunc incompositos Graecos, armati portis evolant temere et cum audacia, uti antea soliti, instantesque circa vallum certatim tela iaciunt crebra magis quam cum effectu nostris ad evitandos tantum ictus

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divisione dei compiti. Ma alle prime luci del giorno si decide che cinque tra tutti i capi si rechino sul monte Ida a tagliare gli alberi col cui legno sarebbe stato cremato Patroclo, dal momento che era stato deciso all’unanimità che gli si tributasse un funerale a spese pubbliche. Andarono dunque Ialmeno, Ascalafo, Epio, ed il secondo Aiace insieme a Merione37. Poi Ulisse e Diomede misurano il sito per il rogo, cinque aste di lunghezza e pari larghezza38. Quindi, fatta portare una gran quantità di legna, viene eretta la catasta, vi si pone sopra il cadavere, gli accendono sotto il fuoco e lo cremano, dopo averlo sfarzosamente abbigliato di una ricca veste; quest’ultima cosa a cura di Ippodamia e Diomedea, delle quali Diomedea era stata molto cara al giovane, che l’aveva amata con grande affetto39.

[I Troiani tentano una sortita] 13. Per il resto, dopo qualche giorno che i comandanti si furono riposati dalla fatica delle veglie, l’esercito viene fatto schierare sul campo al sorgere del sole e passa la giornata in armi in attesa dell’arrivo dei barbari. Ma essi, quando vedono, osservando dall’alto delle mura, i nostri pronti alla battaglia, rimandano lo scontro per quel giorno. Così, al calar del sole, i Greci fanno ritorno alle navi. Ma era a stento sorto il giorno seguente quando i Troiani, stimando che i Greci non avessero ancora terminato i preparativi40, si precipitano in armi fuori dalle porte con audacia e avventatezza, come anche in precedenza erano soliti fare, si fermano attorno alla palizzata dell’accampamento e scagliano a gara giavellotti, piuttosto con abbondanza che con efficacia di tiro, poiché i nostri si erano disposti in modo tale da evitare questi colpi così fitti. Quando

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compositis. Igitur ubi ad multum diem barbari intenti iaculis fessi iam neque ita vehementes animadvertuntur, ex parte una nostri erumpunt, incursantesque sinistrum latus fundunt fugantque; neque multo post ex alio abnuentibus iam barbaris, ac sine ulla difficultate versis. 14. Ita plurimi barbarorum, ubi vertere terga, foede et vice inbellium ab insequentibus proculcati ad postremum dispereunt, in quis Asius, Hyrtaco genitus, et cum Hippothoo Pylaeus, hi Larisaeis, Asius Sesto regnantes. Eodem die vivi a Diomede capiuntur duodecim, ab Aiace quadraginta. Captus etiam Pisus et Evander Priamidae. In ea pugna Graecorum Guneus interfectus rex Cyphius, vulneratus etiam Idomeneus dux noster. Ceterum ubi Troiani muros ingressi clausere portas et finis instandi factus est, nostri spoliata armis hostilia cadavera adportataque in flumine praecipitant memores paulo ante in Patroclo insolentiae barbarorum; dein captives omnes, uti quem ceperant, in ordine Achilli offerunt. Isque vino multo sopita iam favilla reliquias in urnam collegerat, decretum quippe animo gerebat, secum in patrium solum uti adveheret vel, si fortuna in se casum mutaret, una atque eadem sepultura cum carissimo sibi omnium contegi. Itaque eos, qui oblati erant, deduci ad bustum, una etiam Priami filios ibique seorsum aliquantum a favilla iugulari iubet, scilicet inferias Patrocli manibus. Ac mox

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dunque i barbari, intenti per gran parte del giorno a scagliare lance, appaiono ormai stanchi e non più tanto impetuosi, i nostri irrompono da un lato e col loro attacco infrangono e disperdono la linea sinistra del nemico; e non molto dopo anche dall’altra parte, mentre i barbari ormai rinunciano al combattimento41 e si volgono in fuga senza alcuna resistenza. 14. Così molti barbari dopo aver volto le spalle, incalzati dagli inseguitori con gran spargimento di sangue ed a guisa di vigliacchi, finiscono per perire: tra costoro Asio figlio di Irtaco e Pileo, insieme ad Ippotoo, questi ultimi sovrani dei Larisei, Asio di Sesto42. Quello stesso giorno vengono catturati vivi dodici nemici da Diomede, e quaranta da Aiace43. Sono fatti prigionieri anche Piso ed Evandro, figli di Priamo44. In quella battaglia, tra i Greci, viene ucciso Guneo re dei Cifii45, e ferito anche il nostro capo Idomeneo. Inoltre una volta che i Troiani, rientrati tra le mura, hanno chiuso le porte ponendo fine all’inseguimento, i nostri, dopo aver spogliato delle armi i cadaveri dei nemici, li trascinano fino al fiume e ve li buttano, memori del recente accanimento dei barbari su di Patroclo; quindi offrono ad Achille tutti i prigionieri nell’ordine in cui li avevano presi. Questi intanto, già spenta con abbondante vino la brace della pira, aveva raccolto i resti in un’urna: aveva infatti in animo l’intenzione di portarla con sé al patrio suolo, oppure, nel caso la sorte volgesse a suo sfavore, di venire ricoperto dalla stessa sepoltura con il compagno a lui più caro tra tutti46. E così dà ordine che i prigionieri che gli erano stati offerti venissero condotti sul luogo del rogo, e insieme anche i figli di Priamo, e che venissero sgozzati un poco in disparte dalla cenere, appunto come offerte funebri ai mani di Patroclo47. Poi getta ai cani i corpi dei

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regulos canibus dilaniandos iacit confirmatque, se non prius desinere pernoctando humi, quam in auctorem tanti luctus sui sanguine vindicasset. 15. Sed nec multi transacti dies, cum repente nuntiatur Hectorem obviam Penthesileae cum paucis profectum. Quae regina Amazonibus incertum pretio an bellandi cupidine auxiliatum Priamo adventaverat, gens bellatrix, et ob id ad finitimos indomita, specie armorum inclita per mortales. Igitur Achilles paucis fidis adiunctis secum insidiatum propere pergit atque hostem securum sui praevortit, tum ingredi flumen occipientem circumvenit. Ita eumque et omnes, qui comites regulo dolum huiusmodi ignoraverant, ex improviso interficit. At quendam filiorum Priami comprehensum mox excisis manibus ad civitatem remittit nuntiatum quae gesta erant. Ipse cum caede inimicissimi, tum memoria doloris ferox spoliatum armis hostem, mox constrictis in unum pedibus vinculo currui postremo adnectit, dein ubi ascendit ipse, Automedonti imperat, daret lora equis. Ita curru concito per campum, qua maxime visi poterat, praevolat hostem mirandum in modum circumtrahens, genus poenae novum miserandumque.

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principi, perché li sbranino, e dichiara solennemente che non avrebbe smesso di dormire per terra prima di essersi vendicato col sangue dell’autore di un lutto per lui così grave48.

[Achille uccide Ettore in un’imboscata] 15. Ma non erano passati molti giorni, quando fu annunciato all’improvviso che Ettore era uscito con pochi compagni incontro a Pentesilea. Non è chiaro se costei, regina delle Amazzoni, fosse venuta ad aiutare Priamo dietro compenso o per desiderio di guerra: si tratta di un popolo bellicoso e per questo feroce nei confronti dei vicini, rinomato tra i mortali per la bellezza delle armi49. Achille allora, presi con sé pochi compagni fidati, si dirige subito a tendergli un’imboscata e passa avanti al nemico ignaro di ogni pericolo, e poi lo circonda mentre si apprestava ad oltrepassare il fiume. Così uccide, cogliendoli di sorpresa, il principe stesso e tutti i suoi compagni, che erano ignari di tale tranello50. Ma rimanda in città uno dei figli di Priamo che aveva catturato, dopo avergli mozzato le mani, perché annunciasse quel che era successo, mentre egli, reso efferato tanto dall’aver ucciso il suo acerrimo nemico, quanto dal ricordo del dolore provato, spogliato delle armi il nemico ne lega poi tra loro i piedi e li collega infine al suo carro, e quando vi sale ordina ad Automedonte di frustare i cavalli. Così, spinto a tutta velocità il carro, vola per il campo (il posto dove meglio poteva essere visto) trascinando tutt’intorno il nemico in modo davvero impressionante, tipo di punizione inusitato e penoso51.

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16. At apud Troiam ubi spolia Hectoris desuper ex muris animadvertere, quae Graeci praecepto regis ante ora hostium praetulerant, et filius Priami praemissus ab Achille rem ut gesta erat disseruit, tantus undique versus per totam civitatem luctus atque clamor editur, ut aves etiam consternatae vocibus alto decidisse crederentur nostris cum insultatione reclamantibus. Ac mox portis ex omni parte urbs clauditur. Foedatur regni habitus atque in modum lugubrem funestumque obducta facies civitatis. Cum sicut in tali nuntio adsolet, repente concursus trepidantium fieret in eundem locum ac statim sine ulla certa ratione per diversum fuga. Nunc planctus crebri, modo urbe tota silentium ex incerto. Inter quae et spes extremas multi credidere cum nocte simul Graecos moenia invasuros excisurosque urbem securos interitu tanti ducis, nonnulli etiam pro confirmato habere Achillem exercitum eum, qui duce Penthesilea Priami rebus auxilio venerat, partibus suorum adiunxisse, postremo omnia adversa hostilia fractas ablatasque opes, nullam salutis spem interempto Hectore in animo habere, quippe is solus omnium in ea civitate adversum tot milia imperatoresque hostium varia semper victoria certaverat. Cui fama bellandi inclito per gentes numquam tamen vires consilio superfuerant.

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[Disperazione a Troia] 16. Ora a Troia, quando scorsero dall’alto delle mura i resti di Ettore che i Greci, per comando del re, avevano esposto innanzi alla vista dei nemici, e quando il figlio di Priamo che era stato inviato da Achille ebbe riportato come erano andate le cose, si levò per tutta la città, da ogni lato, un lamento funebre così alto che anche gli uccelli – si credeva – avevano abbandonato il cielo, spaventati dalle grida, tanto più che urlavano anche i nostri, lanciando insulti52. Subito la città si serra dietro alle porte, da tutti i lati. La disposizione d’animo del popolo si avvilisce, e l’aspetto della città diventa luttuoso e sconsolato. Come capita abitualmente in caso di notizie di questo genere la gente, dopo essere all’improvviso accorsa, trepidante, in uno stesso luogo, subito si disperdeva in direzione opposta, senza alcuna vera ragione. Un attimo prima echeggiavano ovunque i lamenti, e subito dopo per tutta la città regnava un silenzio di sconcerto. In tutto questo molti dettero credito a previsioni esagerate: che appena scesa la notte i Greci, sentendosi sicuri per la morte di un così grande condottiero, sarebbero penetrati tra le mura e avrebbero distrutto la città; alcuni tenevano anche per certo che Achille aveva tratto dalla sua parte l’esercito che era venuto in soccorso a Priamo sotto il comando di Pentesilea, insomma che tutto fosse contro di loro e le loro truppe sconfitte e disperse53. Non nutrivano nell’animo alcuna speranza di salvezza dopo l’uccisione di Ettore, poiché era lui, solo fra tutti in quella città, che aveva combattuto contro tante migliaia di nemici ed i loro capi, con vittorie sempre alterne54. Ed in lui, che pure era illustre tra i popoli stranieri per la sua fama di combattente, la forza bruta mai aveva avuto la meglio sul raziocinio.

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17. Interim apud Graecos, ubi Achilles ad naves redit et cadaver Hectoris in ore omnium est, dolor, quem ob Patrocli interitum paulo ante perceperant, nece metuendi hostis et ob id praecipua laetitia circumscribitur. Ac tum universis placet, uti in honorem eius, quoniam abesset hostilis metus, certamen ludis solitum celebraretur. Neque minus tamen reliqui populi, qui non certaturi spectandi gratia convenerant, instructi armis paratique adessent, ne qua scilicet hostis quamvis fractis rebus solito tamen insidiandi more inrueret. Igitur Achilles victorum praemia, quae ei videbantur maxima, statui imperat. Et postquam nihil reliquum erat, reges omnes ad considendum hortatur, ipse medius atque inter eos excelsior. Tum primum quadriiugis equis Eumelus ante omnes victor declaratur, bigarum praemia Diomedes meruit, secundo post eum Menelaus. 18. Ceterum ad certandum qui sagittarum arte maxime praevalebant Meriones atque Ulixes duos erexere malos, quis religatum linum tenuissimum atque ex transverso extentum utriusque capiti adnectebatur, media columba sparto dependebat; eius contingendae certamen maximum. Tum reliquis incassum tendentibus Ulixes cum Merione destinatum confixere. Quibus cum a reliquis favor attolleretur, Philocteta non columbam se, verum id, quo

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[Giochi funebri in onore di Patroclo] 17. Intanto tra i Greci, quando Achille fa ritorno alle navi ed il cadavere di Ettore si trova al cospetto di tutti, il dolore che avevano poco tempo prima avvertito per la morte di Patroclo viene lenito dall’uccisione di quel temibile nemico e dalla grande gioia che ne deriva. Allora convengono tutti che, dal momento che era venuto meno il timore del nemico, si celebrasse in onore di Patroclo la tradizionale competizione atletica55. Nondimeno si stabilì che quanti erano convenuti non per partecipare alle gare, ma per seguirle da spettatori, presenziassero armati e preparati al combattimento, naturalmente perché il nemico (pur essendo allo sbando) non attaccasse, con una delle sue solite aggressioni a tradimento. Achille comanda dunque che si dispongano quei premi che gli sembravano migliori. E quando non restava più altro da fare, invita tutti i re a sedersi in gruppo, mentre egli sedeva in mezzo a loro, nella posizione più elevata56. Allora, come prima gara, nella corsa con le quadrighe di cavalli viene proclamato vincitore al primo posto Eumelo, mentre per le bighe consegue il premio Diomede, e Menelao arriva secondo dopo di lui57. 18. Poi quelli che più di tutti eccellevano nel tiro con l’arco, Ulisse e Merione, eressero per gareggiare due pali, ai quali era legato, fissato all’estremità di ciascuno, un filo di lino leggerissimo e teso obliquamente, ed a metà una colomba era legata con una corda di sparto; la grande sfida consisteva nel colpirla. Allora, dopo che gli altri avevano provato invano a tirare, Ulisse e Merione colpirono il bersaglio. E mentre a costoro veniva tributato il plauso degli altri, Filottete dichiara che lui invece non avrebbe

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religata esset, sagitta excisurum promittit. Admirantibus deinde difficultatem regibus, fidem promissi non felicius quam sollertius confirmavit; ita dirupto vinculo columba cum maxima populi adclamatione decidit. Praemia certaminis eius Meriones atque Ulixes tulere. Achilles duplici extra ordinem munere Philoctetam donat. 19. Cursu longo certantibus Oilei Aiax victor excipitur, post quem secundus Polipoetes. Duplici campo Machaon, singulari Eurypylus, saltu Tlepolemus, disco Antilochus victores abeunt. Praemia luctandi intacta permansere, quippe Aiax arripiens medium Ulixem deicit, qui ruens pedibus eius circumvertitur, atque ita praepedito obligatoque nixu Aiax paene iam victor ad terram ruit. Cestibus reliquoqus manuum certamine idem Aiax Telamonius palman refert. Cursu in armis postremo Diomedes praevaluit. Dein ubi praemia certaminis persoluta sunt, Achilles primum omnium Agamemnoni domum, quod ei honoratissimum videbatur, offert, secundo Nestori, Idomeneo tertio, post quos Podalirio et Machaoni, dein reliquis pro merito ducibus, ad postremum eorum sociis, qui in bello occiderant; hisque mandatum, uti, cum tempus fuisset, domum ad necessarios eorum perferrent. Postquam certandi praemiorumque finis factus et iam diei vesper erat, ad sua quisque tentoria discessere.

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colpito la colomba, ma reciso con una freccia ciò a cui essa era legata58. Ai re, che erano sorpresi per la difficoltà dell’impresa, egli mostrò non meno rapidamente che con successo il compimento della sua promessa; sicché la colomba, allo spezzarsi della corda, cadde a terra tra altissime grida di approvazione della gente. Merione ed Ulisse riscossero i premi per quella gara; Achille regala a Filottete un dono doppio, fuori programma59. 19. Tra quelli che competono nella corsa lunga risulta vincitore Aiace figlio di Oileo, dopo al quale arriva secondo Polipete. Nella corsa doppia esce vincitore Macaone, in quella singola Euripilo, nel salto Tlepolemo, nel lancio del disco Antiloco60. I premi per la lotta restano non assegnati, poiché Aiace, afferrando alla vita Ulisse, lo fa cadere, ma questi cadendo gli si avvinghia ai piedi, e venendo in tal modo ostacolato, impedito e destabilizzato, Aiace (che quasi aveva già vinto) finisce per crollare a terra61. Nel pugilato, e nell’altra gara di mani, è sempre Aiace Telamonio ad ottenere la palma. Per finire, Diomede vinse nella corsa in armi62. Una volta assegnati i premi per tutte le gare, Achille offre prima di tutti ad Agamennone il dono che gli sembrava più prestigioso, poi per secondo fa un regalo a Nestore, per terzo a Idomeneo, dopo i quali a Podalirio e Macaone, e poi ai restanti comandanti, in base ai loro meriti, ed infine ai compagni di coloro che erano caduti in guerra; a costoro viene assegnato il compito, quando fosse giunto il momento, di recapitarli in patria ai parenti dei defunti63. Dopo di che le competizioni e la premiazione ebbero fine, ed era ormai sera: ciascuno fece ritorno alle proprie tende64.

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20. At lucis principio Priamus lugubri veste miserabile tectus, cui dolor non decus regium, non ullam tanti nominis atque famae speciem reliquam fecerat, manibus vultuque supplicibus ad Achillem venit, quocum Andromacha, non minor quam in Priamo miseratio. Ea quippe deformata multiplici modo Astyanacta, quem nonnulli Scamandrium appellabant, et Laodamanta parvulos admodum filios prae se habens regi adiumentum deprecandi addiderat, qui maeroribus senioque decrepitus filiae Polyxenae umeris innitebatur. Dein sequebatur vehicula plena auri atque argenti pretiosaeque vestis, cum super murum despectantes Troiani comitatum regis oculis prosequerentur. Quo viso repente silentium ex admiratione oritur ac mox reges avidi noscere causas adventus eius procedunt obviam. Priamus ubi ad se tendi videt, protinus in os ruit pulverem reliquaque humi purgamenta capiti aspargens. Dein orat, uti miserati fortunas suas precatores secum ad Achillem veniant. Eius aetatem fortunamque recordatus Nestor dolet, contra Ulixes maledictis insequi et commemorare, quae ad Troiam in consilio ante sumptum bellum ipse adversum legatos dixerat. Ea postquam Achilli nuntiata sunt, per Automedontem eum accersi iubet, ipse retinens gremio urnam cum Patrocli ossibus. 21. Igitur ingressis ducibus nostris cum Priamo rex genua Achilli manibus complexus:

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[Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore] 20. Ma alle prime luci dell’alba Priamo, miserabilmente avvolto in abiti di lutto, a cui il dolore non aveva serbato il fasto regale né alcuna traccia di una reputazione così illustre, si reca da Achille con mani e volto disposti in atteggiamento di supplica; e con lui era Andromaca, che ispirava non meno compassione di Priamo. Ella infatti, sconciato in vario modo il proprio sembiante, tenendo davanti a sé i figlioletti ancora piccoli, Astianatte (che alcuni chiamavano Scamandro) e Laodamante65, forniva un aiuto nella supplica al re, che reso infermo dai lutti e dall’età avanzata si appoggiava sulle spalle della figlia Polissena66. Poi seguivano carri colmi di oro ed argento e di vesti preziose, mentre i Troiani, osservando dall’alto delle mura, seguivano con lo sguardo il corteo del re. A questa vista per lo stupore si diffonde subito il silenzio, poi i re gli si fanno incontro, desiderosi di conoscere le ragioni del suo arrivo. Priamo, come li vede avvicinarsi, subito si getta sul viso la polvere ed il restante sudiciume del suolo, cospargendosene il capo67. Quindi li prega che, compatite le sue sventure, vengano con lui da Achille in qualità di intercessori68. Nestore, considerate la sua età e la sua triste sorte, ne ha pietà; al contrario Ulisse lo attaccava e rammentava le parole che quello stesso Priamo aveva detto in assemblea contro gli ambasciatori, prima dell’inizio della guerra69. Achille, una volta informato di ciò, dà ordine attraverso Automedonte che Priamo venga introdotto: lui intanto teneva in grembo l’urna con le ossa di Patroclo. 21. Poi che furono entrati i nostri comandanti insieme a Priamo, il re strinse tra le sue mani le ginocchia di Achille70

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«Non tu mihi, inquit, causa huiusce fortunae, sed deorum quispiam, qui postremam aetatem meam, cum misereri deberet, in hasce aerumnas deduxit confectam iam ac defatigatam tantis luctibus filiorum. Quippe hi fisi regno per iuventutem, cum semper cupiditates animi quoquo modo explere gestiunt, ultro sibi mihique perniciem machinati sunt. Neque dubium cuiquam, quin contemptui sit adulescentiae senecta aetas. Quod si interitu meo reliqui huiusmodi facinoribus temperabunt, me quoque, si videtur, exhiheo poenae mortis, cui misero confectoque maeroribus omnes aerumnas, quibus nunc depressus infelicissimum spectaculum mortalibus praebeo, cum hoc exiguo spiritu simul auferes. Adsum en ultro, nihil deprecor, vel si ita cordi est, habe in custodia captivitatis, neque enim mihi quicquam iam superioris fortunae reliquum est, quippe interfecto Hectore cuncta regni concidere. Sed si iam Graeciae universae ob meorum male consulta satis poenarum filiorum sanguine et meis aerumnis persolvi, miserere aetatis ac deos recordatus retorque animos ad pietatem: concede parvulis saltem non animam parentis, sed cadaver deprecantibus. Veniat in animum recordatio parentis tui omnes curas vigiliasque in te tuamque salutem impendentis. Sed illi quidem cuncta secundum sua vota proveniant longeque aliter neque mei similem senectam degat».

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e disse: «Non tu sei per me la causa di questa sorte disgraziata, ma qualcuno tra gli dei, che ha trascinato la mia estrema vecchiaia (già affranta ed esausta per la perdita di tanti figli) tra questi travagli, mentre avrebbe dovuto averne pietà . Ma davvero questi miei figli, nutrendo fiducia nella condizione regale per la loro giovane età (quando i desideri dell’animo sempre premono imperiosamente per venire soddisfatti in qualunque modo), hanno ordito di loro iniziativa la rovina per loro stessi e per me. E nessuno può dubitare che l’età avanzata sia oggetto di disprezzo da parte dei giovani72. Giacché se con la mia morte quelli che restano porranno un freno a misfatti di questo tipo, io consegno alla pena capitale (se ciò sembra utile) anche me stesso, che sono infelice e stremato dal cordoglio, e tu mi toglierai, insieme con questo flebile soffio vitale, tutte le pene che mi opprimono, e per cui offro oramai ai mortali uno straordinario spettacolo di infelicità. Ecco, mi presento spontaneamente, non ti chiedo alcuna grazia per me: se ti fa piacere tienimi pure prigioniero. D’altronde nulla più mi rimane della felicità precedente, poiché con la morte di Ettore è crollato il mio intero regno73. Ma se ormai col sangue dei miei figli ed il mio dolore ho pagato all’intera Grecia un risarcimento sufficiente per le scellerate iniziative dei miei, abbi compassione della mia età e, ricordandoti degli dei, volgi il tuo animo alla pietà: non è la vita del padre che devi concedere a questi bimbetti che ti supplicano, ma soltanto il suo cadavere. Ti sovvenga nell’animo il ricordo di tuo padre e di tutte le angosce e le notti insonni in cui è incorso per te e per la tua salvezza. Ma possa a lui riuscire tutto secondo le sue preghiere, e possa trascorrere una vecchiaia radicalmente diversa ed in nulla simile alla mia74».

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22. Interea dum haec commemorat, paulatim animo deficere ac dissolvi membris, dein obmutescere occipit, quod spectaculum longe miserrimum omnibus, qui tum aderant, dolori fuit. Dein Andromacha parvulos Hectoris filios ante Achillem prosternit, ipsa fletu lamentabili orans, uti sibi cadaver coniugis intueri saltem concederetur. Inter haec tam miseranda Phoenix Priamum sustollere atque uti animum reciperet hortari. Tum rex ubi in aliquantum refovit spiritum, nixis genibus atque utraque manu caput dilanians: «Ubi nunc illa est, ait, quae apud Graecos praecipue erat iusta misericordia? an solum in Priamum circumscribitur?». 23. Iamque omnibus dolore permotis Achilles decuisse ait filios eum suos initio ab eo, quod admiserint, facinore cohibere neque ipsum concedendo tanti delicti participem fieri. Ceterum ante id decennium non ita defessum senecta fuisse, ut suis despectui esset, sed obsedisse animos eorum desiderium rerum alienarum, neque ob mulierem solum unam, sed Atrei atque Pelopis divitiis inhiantes raptum res more incondito perrexisse; pro quis aequissimum esse eiusmodi poenas vel etiam graviores pendere. Namque ad id tempus Graecos secutos morem in bellis optimum, quoscumque hostium pugna conficeret, sepulturae restituere solitos, contra Hectorem supergressum humanitatis

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22. Mentre ricorda queste vicende, a poco a poco gli viene meno il coraggio e gli manca la forza nelle membra, e poi comincia a tacere, e questo spettacolo, di gran lunga il più pietoso, riuscì doloroso a tutti i presenti. Quindi Andromaca fa inginocchiare i piccoli figli di Ettore davanti ad Achille, e prega in prima persona, con lacrime degne di compatimento, che perlomeno le si permetta di contemplare il cadavere del marito. In questa situazione così penosa Fenice fa alzare Priamo e lo esorta a farsi coraggio. Allora il re, dacché si fu un po’ rinfrancato, inginocchiatosi e percuotendosi il capo con entrambe le mani, disse: «Che fine ha fatto la ben nota capacità di compatire unita alla giustizia, che soprattutto tra i Greci era dato trovare? O forse è limitata unicamente nei confronti di Priamo75?» 23. Ormai erano tutti commossi per il suo dolore: Achille disse che meglio sarebbe stato se fin dall’inizio avesse distolto i suoi figli dal crimine che avevano commesso, senza rendersi lui stesso, con la sua condiscendenza, complice di un così grande misfatto76. D’altra parte, dieci anni prima, non era ancora stato fiaccato dalla vecchiaia al punto da non venire tenuto in alcun conto dai suoi: invece era la brama dei beni altrui che si era impadronita delle loro menti, e avevano compiuto tali atti non solo per via di una donna, ma con l’aspirazione ad impadronirsi delle ricchezze di Atreo77 e Pelope78, con una condotta inaudita; ed ora era assolutamente giusto che pendessero su di loro pene di tal fatta, o anche più gravi. Infatti i Greci avevano osservato fino a quel momento il migliore costume di guerra, ed avevano l’uso di restituire qualunque nemico avessero ucciso in battaglia perché ricevesse sepoltura, mentre al contrario Ettore, trasgredendo la misura

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modum, Patroclum eripere proelio ausum, scilicet ad inludendum ac foedandum cadaver eius, quod exemplum poenis ac suppliciis eorum eluendum, ut Graeci ac reliquae posthac gentes memores ultionis eius moremque humanae condicionis tuerentur. Non enim Helenae neque Menelai gratia exercitum relictis sedibus parvulisque procul ab domo, cruentum suo hostilique sanguine inter ipsa belli discrimina huiusmodi militiam tolerare, sed cupere dinoscere, barbarine Graecine summa rerum potirentur, quamquam iustam causam fuisse inferendi belli etiam pro muliere. Namque uti ipsi raptu rerum alienarum laetarentur, ita maxime dolori esse his, qui amiserint. Ad haec multa infausta detestandaque imprecari confirmareque se capto Ilio ante omnes tanti admissi poenas sanguine eius expetere, ob quam patria parentibusque carens Patroclum etiam, solitudinis suae levamen maximum amiserit. 24. Dein consiliatum cum supradictis ducibus surgit. Quis omnibus una atque eadem sententia est, scilicet uti acceptis quae allata essent corpus exanime concederet. Quod ubi satis placuit, singuli ad sua tentoria discedunt. Moxque Polyxena ingresso Achille obvoluta genibus eius sponte servitium sui pro absolutione cadaveris pollicetur. Quo spectaculo adeo commotus iuvenis, ut, qui

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dell’umanità, aveva osato portare Patroclo fuori dalla mischia, certo allo scopo di infierire sul suo cadavere e sconciarlo. Era questo esempio che andava cancellato con le loro pene e i loro supplizi, perché da allora in poi i Greci e gli altri popoli, memori del castigo di Ettore, mantenessero un atteggiamento confacente a degli esseri umani79. Non era infatti80 per Elena né per Menelao che l’esercito aveva lasciato le case ed i figli piccoli e sopportava una simile vita militare lontano dalla patria, grondando del sangue proprio e dei nemici, tra pari pericoli di guerra, ma piuttosto per il desiderio di stabilire se a prevalere sarebbero stati i barbari o i Greci81 (per quanto anche una donna fosse una giusta causa per muovere guerra). Infatti come loro si saranno compiaciuti di acquisire col furto i beni altrui, così quello stesso furto era riuscito grandemente doloroso a coloro che dei beni erano stati privati. Riguardo a queste molte, sventurate e detestabili colpe, si augurava e dichiarava solennemente che, caduta Ilio, avrebbe cercato soddisfazione di un così grande misfatto, prima che in ogni altro, nel sangue di colei a causa della quale lui, che già era privato della patria e dei genitori, aveva anche perso Patroclo, principale conforto della sua solitudine. 24. Quindi si alza, per consigliarsi con i summenzionati capi. E tutti hanno la medesima opinione, cioè che, accettati i doni che erano stati portati, restituisse il corpo senza vita di Ettore82. Una volta approvata la proposta, ciascuno di loro se ne va alle proprie tende. Appena Achille rientra, Polissena si getta alle sue ginocchia e spontaneamente promette di diventare sua serva in cambio del rilascio del cadavere83. A questa vista il giovane è tanto commosso da non curarsi neppure di trattenere le lacrime al ricordo del figlio e del padre84, lui che pure, a causa della morte di

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inimicissimus ob mortem Patrocli Priamo eiusque regno esset, tum recordatione filii ac parentis ne lacrimis quidem temperaverit. Itaque manu oblata Polyxenam erigit praedicta prius mandataque cura Phoenici super Priamo. Sed rex nil se luctus neque praesentium miseriarum remissurum ait. Tum Achilles confirmare non prius cupitis eius satis futurum quam mutato in melius habitu cibum etiam secum sumeret. Ita rex veritus, ne quae concessa videbantur, ipse recusando impediret, demisse omnia quaeque imperarentur facienda decrevit. 25. Igitur ubi excussus comis pulvis totusque lautus est, mox a iuvene ipseque et qui cum eo venerant, cibo invitantur. Dein ubi satias omnes tenuit, hoc modo Achilles disseruit: « Refer nunc iam mihi, Priame, quid tantum causae fuerit, cur deficientibus quidem vobis in dies copiis militaribus, ingravescentibus autem calamitatibus atque aerumnis Helenam tamen in hodiernum retinendam putetis neque velut contagionem infausti ominis reppuleritis? quam prodidisse patriam parentesque et, quod indignissimum omnium est, fratres sanctissimos cognoveritis. Namque hi execrati facinus eius ne in militiam quidem nobiscum coniuraverunt, scilicet ne, quam audiri incolumem nollent, ei per se reditum in patriam quaererent. Eam igitur, cum cerneretis malo omnium civitatem intravisse vestram, non eiecistis? Non cum detestationibus extra muros prosecuti

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Patroclo, era acerrimo nemico di Priamo e del suo regno. Così, porgendole la mano, fa alzare Polissena85, dopo aver chiesto a Fenice di prendersi cura di Priamo. Ma il re dice di non voler allentare in nulla il lutto e l’infelicità in cui si trova. Allora Achille dichiara che non avrebbe avuto soddisfazione nelle sue richieste, prima di aver preso anche del cibo con lui, dopo che avesse ricomposto il proprio aspetto. Così il re, temendo di precludersi da solo col suo rifiuto quanto sembrava ormai accordato, decise che andava eseguita con umiltà qualsiasi cosa gli ordinasse86.

[Dialogo tra Achille e Priamo] 25. Quindi, dopo che si fu scossa via dai capelli la polvere e si fu completamente lavato, egli ed il suo seguito vennero subito invitati a prendere del cibo dal giovane. Quando poi furono tutti sazi, Achille così parlò: «Adesso dimmi ormai, Priamo, qual è il motivo così grave per cui, anche se le vostre truppe si assottigliano di giorno in giorno mentre si aggravano le vostre iatture e tribolazioni, nondimeno riteniate fino ad oggi di dover trattenere Elena presso di voi, e non l’abbiate piuttosto cacciata come la contaminazione di un presagio funesto87. Proprio lei che, come sapevate, aveva tradito la patria ed i genitori e, cosa più oltraggiosa di tutte, i suoi divini fratelli. Costoro infatti, in odio al suo crimine, non hanno neppure voluto arruolarsi con noi in questa spedizione militare, evidentemente per non trovarsi a procacciare coi propri sforzi il ritorno in patria a una di cui neppure vorrebbero sentir dire che è sana e salva88. Non l’avete dunque cacciata, costatando che era entrata nella vostra città per la rovina di tutti quanti? Non l’avete scortata fuori dalle mura, in mezzo

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estis? Quid illi senes, quorum filios pugna in dies conficit. Nonne adhuc persenserunt eandem causam extitisse tantorum funerum? Itane ergo divinitus vobis eversa mens est, ut nullus in tanta civitate reperiri possit, qui fortunam labentis patriae dolens de pernicie publica cum exitio eius transigat? Ego quidem aetatis tuae contemplatione atque harum precum cadaver restituam neque unquam committam, ut, quod in hostibus reprehenditur crimen malitiae, ipse subeam». 26. Ad ea Priamus renovato fletu quam miserabili non sine decreto divum adversa hominibus inruere ait, deum quippe auctorem singulis mortalibus boni malique esse neque quoad beatum esse licitum sit, cuiusquam in eum vim inimicitiasque procedere. Ceterum se diversi partus quinquaginta filiorum patrem beatissimum regum omnium habitum, ad postremum Alexandri natalem diem, evitari ne dis quidem praecinentibus potuisse. Namque Hecubam foetu eo gravidam facem per quietem edidisse visam, cuius ignibus conflagravisse Idam ac mox continuante flamma deorum delubra concremari omnemque demum ad cineres conlapsam civitatem intactis inviolatisque Antenoris et Anchisae domibus. Quae denuntiata cum ad perniciem publicam expectare aruspices praecinerent, inter necandum editum partum placuisse. Sed Hecubam more femineae miserationis clam alendum pastoribus in

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alle maledizioni? Che cosa dicono i vecchi, i cui figli la battaglia stermina giorno per giorno? Non si sono ancora resi conto che una sola è stata la causa di tante morti? È dunque a tal punto distorta dalla volontà degli dei la vostra mente, che non si riesca a trovare nessuno, in una città così grande, che commiserando la sorte della patria vacillante voglia sbarazzarsi della rovina comune, sopprimendola? Io, per conto mio, in considerazione della tua età e delle preghiere di costoro restituirò la salma e mai consentirò a macchiarmi di bassezza d’animo, quella tara che si rimprovera nei nemici.» 26. A queste parole Priamo, con lacrime rinnovate e quanto mai degne di commiserazione, dice che non è senza la volontà degli dei che le avversità si abbattono sugli uomini, che è certo un dio che causa il bene e il male per ciascun mortale, e fino a che è permesso che duri la sua felicità nessun effetto possono conseguire contro di lui la forza e l’ostilità di alcuno89. Quanto a lui, padre di cinquanta figli da madri diverse, era stato considerato il più felice tra tutti i re fino al giorno della nascita di Alessandro, che non si era potuta evitare nonostante le rivelazioni profetiche degli dei. Infatti ad Ecuba, che era incinta di lui, parve in sogno di aver partorito una fiaccola, dalle cui fiamme il monte Ida prendeva fuoco e che poi, divampando l’incendio, venivano bruciati i templi degli dei ed infine veniva ridotta in cenere tutta quanta la città, mentre restavano intatte e senza danni le dimore di Antenore ed Anchise. Rese di pubblico dominio queste visioni, dal momento che gli aruspici90 rivelarono che si riferivano alla rovina della comunità, si era frattanto deciso che il bambino, appena nato, venisse soppresso. Ma Ecuba, secondo l’indole compassionevole propria delle donne, lo aveva segretamente affidato a dei

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Idam tradidisse. Eum iam adultum, cum res palam esset, ne hostem quidem quamvis saevissimum, ut interficeret, pati potuisse, tantae scilicet fuisse eum pulchritudinis atque formae. Quem coniugio deinde Oenonae iunctum cupidinem cepisse visendi regiones atque regna procul posita. Eo itinere abductam Helenam urgente atque instigante quodam numine cunctorum civium animis, sibi etiam laetitiae fuisse, neque cuiquam, cum orbari se filio aliove consanguineo cerneret, non acceptam tamen, solo omnium adversante Antenore, qui initio post Alexandri reditum filium suum Glaucum, quod eius comitatum secutus erat, abdicandum a penatibus suis decreverit, vir domi belloque prudentissimus. Ceterum sibi, quoniam ita res ruerent, optatissimum adpropinquare naturae finem omissis iam regni gubernaculis atque cura; tantum se in Hecubae filiarumque recordatione cruciari, quas post excidium patriae captivas incertum cuius domini fastus manerent. 27. Dein omnia, quae ad redimendum filium advectaverat, ante conspectum iuvenis exponi imperat. Ex quis quicquid auri atque argenti fuit tolli Achilles iubet, vestis etiam quod ei visum est; reliquis in unum collectis Polyxenam donat et cadaver tradidit. Quo recepto rex in gratiamne impetrati funeris an si quid Troiae accideret securus iam filiae,

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pastori del monte Ida, perché lo allevassero91. Una volta adulto, anche quando la cosa venne rivelata, neppure il più efferato dei nemici avrebbe sofferto di ucciderlo – tanto era avvenente e ben fatto! Poi, dopo che si fu unito in matrimonio con Enone, si impossessò di costui il desiderio di vedere terre e regni lontani. Elena, rapita durante quel viaggio, per costrizione ed istigazione di qualche divinità divenne motivo di rallegramento per gli animi di tutti i cittadini, e perfino per lui stesso, Priamo, e non risultava sgradita ad alcuno, neppure se la persona in questione si vedeva privare a causa sua di un figlio o di un altro congiunto: l’unico fra tutti ad osteggiarla era Antenore, uomo particolarmente saggio sia nelle faccende di guerra che di pace, il quale subito dopo il ritorno di Alessandro aveva deciso di espellere dalla sua famiglia suo figlio Glauco, che lo aveva seguito come compagno di viaggio92. Per quel che lo riguardava, dal momento che la situazione aveva preso quella piega disastrosa, l’avvicinarsi della morte era per lui una prospettiva graditissima, e aveva ormai abbandonato il timone e la cura del regno; a tormentarlo era solo il pensiero di Ecuba e delle figlie, che dopo la distruzione della patria, ridotte in schiavitù, attendeva l’altero disprezzo di chissà quale padrone93. 27. Quindi dà ordine che si portino al cospetto del giovane tutti i beni che aveva recato per riscattare il figlio. Da essi Achille ordina di prendere tutto l’oro e l’argento, e delle vesti quelle che gli parve opportuno; raccolti insieme gli altri oggetti ne fa dono a Polissena94, e consegna il cadavere. Ricevuto il quale il re, come ringraziamento per aver concesso la sepoltura che aveva richiesto oppure per poter stare finalmente tranquillo della sorte della figlia, nel caso a Troia capitasse qualche sventura, abbraccia le

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amplexus Achillis genua, orat, uti Polyxenam suscipiat sibique habeat. Super qua iuvenis aliud tempus atque alium locum tractatumque fore respondit; interim cum eo reverti iubet. Ita Priamus recepto Hectoris cadavere ascensoque vehiculo cum his, qui se comitati erant, ad Troiam redit.

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ginocchia di Achille e lo prega di prendere e tenere con sé Polissena95. Ma il giovane risponde che di lei si sarebbe discusso in un altro momento ed un altro luogo; dispone che nel frattempo faccia ritorno insieme con lui. Così Priamo, ricevuto il cadavere di Ettore e montato sul carro, rientra a Troia con quelli che lo avevano accompagnato.

LIBER QVARTUS

LIBRO QUARTO Traduzione e note di Nicoletta Canzio

1. Sed postquam Troianis palam est regem perfecto negotio inviolatum atque integro comitatu regredi, admirati laudantesque Graeciae pietatem ad caelum ferunt, quippe quis animo ita haeserat nulla spe impetrandi cadaveris ipsumque et qui cum eo fuissent retineri ab Graecis, maxime ob Helenae, quae non remitteretur, recordationem. Ceterum viso Hectoris funere cuncti cives sociique adcurrentes fletum tollunt, divellentes comam foedantesque ora laniatibus, neque in tanta populi multitudine quisquam in se virtutis aut spei bonae fiduciam credere illo interfecto, qui inclita per gentes fama rerum militarium, in pace etiam praeclara pudicitia, ex qua haud minorem, quam reliquis artibus gloriam adeptus erat. Interea sepelivere eum haud longe a tumulo Ili regis quondam. Dein exorto quam maximo ululatu postrema funeri peragunt, hinc feminis cum Hecuba deflentibus, hinc reclamantibus Troianis viris et ad postremum sociorum gentibus. Quae per dies decem concessa bellandi requie ab ortu solis ad usque vesperam per Troianos gesta nullo usquam remisso lugendi officio.

[Ritorno di Priamo a Troia; funerali di Ettore]1 1. Ma2 dopo che i Troiani ebbero saputo che il re, portata a termine l’impresa, faceva ritorno senza aver subito alcun danno e con il suo seguito al completo, colti dallo stupore e lodando la clemenza dei Greci, li portarono alle stelle, poiché erano convinti che non avrebbero avuto alcuna speranza di riscattare il cadavere, e che proprio il re e coloro che lo avevano seguito sarebbero stati trattenuti dai Greci, soprattutto per il ricordo Elena, che non era stata restituita3. D’altra parte, alla vista del cadavere4 di Ettore tutti quanti i cittadini e gli alleati accorsi levarono un pianto, strappandosi le chiome e sfigurandosi i volti, e in una così grande folla nessuno in cuor suo riponeva fiducia nel valore o sperava in un buon esito, dopo la morte di quell’uomo che5 brillava tra le genti per la fama delle sue imprese in guerra, e che in tempo di pace si distingueva anche per la sua moralità irreprensibile6, dalla quale aveva ottenuto una gloria non minore di quella per le altre sue doti7. Nel frattempo lo seppellirono non lontano dal sepolcro di Ilo8, un tempo re. Poi, levatosi il più alto grido di lamento, portarono a termine gli ultimi riti per la cerimonia funebre, mentre da una parte le donne si struggevano in pianto insieme con Ecuba, dall’altra gli uomini di Troia e infine le genti alleate gridavano9. I Troiani10 poterono occuparsi del rito senza trascurare alcuna pratica di lutto perché erano stati loro concessi dieci giorni di tregua11, dal sorgere del sole fino al tramonto.

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2. Interim per eosdem dies Penthesilea, de qua ante memoravimus, cum magna Amazonum manu reliquisque ex finitimo populis supervenit. Quae postquam interemptum Hectorem cognovit, perculsa morte eius regredi domum cupiens ad postremum multo auro atque argento ab Alexandro inlecta ibidem opperiri decreverat. Dein exactis aliquot diebus copias suas armis instruit. At seorsum ab Troianis ipsa suis modo bellatoribus satis fidens in pugnam pergit: cornu dextro sagittariis, altero peditibus instructo, medios equites collocat; in quis ipsa. Contra ab nostris ita occursum, ut sagittariis Menelaus atque Ulixes et cum Teucro Meriones, peditibus Aiaces duo, Diomedes, Agamemnon, Tlepolemus et cum Ialmeno Ascalaphus opponentur, in equites ab Achille et reliquis ducibus pugnaretur. Hoc modo instructo utrimque exercitu conflixere acies. Cadunt sagittis reginae plurimi neque ab Teucro secus bellatum. Interim Aiaces et qui cum his erant pedites, contra quos steterant, caedere ac restantes detrudere umbonibus, moxque repulsos obtruncare. Neque, quoad deletae peditum copiae, finis fit.

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[L’arrivo di Pentesilea] 2. In quegli stessi giorni sopraggiunse12 Pentesilea13, della quale abbiamo fatto menzione in precedenza14, insieme con un grande drappello di Amazzoni15 e con altre genti provenienti dai territori vicini. Costei, dopo aver appreso che Ettore era stato ucciso, nonostante fosse scossa dalla sua morte e desiderasse far ritorno in patria, aveva infine deciso di trattenersi a Troia dopo essere stata adescata da Alessandro con una gran quantità di oro e argento16. Poi, trascorsi alcuni giorni, armò le proprie truppe. Ella stessa però, poiché riponeva molta fiducia soltanto nei suoi guerrieri, si gettò nella mischia in disparte dai Troiani: dopo aver disposto gli arcieri nell’ala destra e i soldati di fanteria nell’altra, pose nel mezzo i cavalieri17; lei stessa era tra questi. Dall’altra parte i nostri si opposero in modo tale che contro gli arcieri fossero schierati Menelao, Ulisse e Merione insieme con Teucro; contro i soldati di fanteria i due Aiaci, Diomede, Agamennone, Tlepolemo, e Ascalafo insieme con Ialmeno; contro i cavalieri Achille e gli altri comandanti. Con le truppe così disposte da una parte e dall’altra gli eserciti si scontrarono18. Moltissimi caddero sotto le frecce della regina, e non meno valorosamente combatté Teucro19. Nel frattempo i due Aiaci e coloro che li seguivano facevano strage dei fanti, contro i quali si erano schierati, con gli scudi20 scacciavano quelli che facevano resistenza, e subito dopo averli respinti li sgozzavano21. Non si fermarono fino a quando non furono annientate le truppe di fanteria.

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3. Achilles inter equitum turmas Penthesileam nactus hasta petit, neque difficilius quam feminam equo deturbat manu comprehendens comam atque ita graviter vulneratam detrahens. Quod ubi visum est, tum vero nullam spem in armis rati fugam faciunt. Clausisque civitatis portis nostri reliquos, quos fuga bello exemerat, insecuti obtruncant, feminis tamen abstinentes manus parcentesque sexui. Dein uti quisque victor, interfectis quos adversum ierant, regrediebatur, Penthesileam visere seminecem etiam nunc admirarique audaciam. Ita brevi ab omnibus in eundem locum concursum placitumque, uti, quoniam naturae sexusque condicionem superare ausa esset, in fluvium reliquo adhuc ad persentiendum spiritu aut canibus dilanianda iaceretur. Achilles interfectam eam sepelire cupiens mox a Diomede prohibitus est. Is namque percontatus circumstantes, quidnam de ea faciendum esset, consensu omnium pedibus adtractam in Scamandrum praecipitat, scilicet poenam postremae desperationis atque amentiae. Hoc modo Amazonum regina deletis copiis, quibuscum auxiliatum Priamo venerat, ad postremum ipsa spectaculum dignum moribus suis praebuit.

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[Achille uccide Pentesilea] 3. Achille, raggiunta Pentesilea tra le schiere della cavalleria, l’attaccò con l’asta e la disarcionò 22 con la stessa facilità con la quale si disarciona una donna qualsiasi23, afferrandole la chioma con la mano e trascinandola dopo averla ferita in modo così violento. Come i Troiani videro ciò, pensando allora di non poter riporre alcuna speranza nell’aiuto delle truppe alleate, si diedero alla fuga. Una volta chiuse le porte della città24, i nostri, inseguendo i rimanenti che la fuga aveva sottratto allo scontro, li sgozzarono, tenendo tuttavia le mani lontano dalle donne25, con un riguardo per il loro sesso26. In seguito, mentre ciascun vincitore si ritirava dopo aver ucciso i propri nemici, i Greci contemplarono Pentesilea morente27 e persino in quel momento si stupivano della sua insolenza28. Così, in breve tempo, tutti quanti si radunarono dove ella giaceva e decisero che fosse gettata nel fiume mentre le rimaneva l’ultimo soffio di vita per essere cosciente, o che fosse data in pasto ai cani29, poiché aveva osato oltrepassare la condizione della propria natura e del proprio sesso30. Achille, che desiderava seppellirla pur avendola ridotta in fin di vita31, fu subito ostacolato da Diomede32. Questi inoltre, dopo aver chiesto ai presenti cosa bisognasse fare di lei, con il consenso di tutti la gettò nello Scamandro trascinandola per i piedi, ovviamente come castigo per l’ultimo atto di disperazione e follia33. In questo modo la stessa regina delle Amazzoni, dopo l’annientamento delle truppe con le quali era giunta in soccorso di Priamo, offrì infine lo spettacolo34 di una punizione degna del suo carattere.

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4. At sequenti die Memnon, Tithoni atque Aurorae filius, ingentibus Indorum atque Aethiopum copiis supervenit, magna fama, quippe in unum multis milibus armatis vario genere spes etiam votaque de se Priami superaverat. Namque omnia circum Troiam et ultra, quae visi poterant, viris atque equis repleta splendore insignium refulgebant. Eos omnes iugis Caucasi montis ad Troiam duxit, reliquos neque numero inferiores imposito Phala duce atque rectore mari misit. Qui adpulsi Rhodum, ubi animadvertere insulam Graecis sociam, veriti, ne re cognita incenderentur naves, ibidem opperiebantur; ac mox divisi in Camirum et Ialysum, urbes opulentas. Neque multo post Rhodii Phalam incusare, quod paulo ante eversa ab Alexandro Sidona, patria sua, auxilium ei, a quo laesus sit, ferre cuperet. Quo animos exercitus permoverent, confirmare haud dissimiles barbarorum videri eos, qui tam indignum facinus defenderent. Multa praeterea, quae accensura vulgum et pro se facturi essent, disserere. Quae res haud frustra fuit. Phoenices namque, qui in eo exercitu plurimi aderant, permoti querelis Rhodiorum an cupidine diripiendarum rerum, quas secum advexerant, Phalam lapidibus insecuti necant distributique per supradictas urbes aurum ac reliqua praedae inter se dispertiunt.

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[Arrivo di Memnone] 4. Ma il giorno successivo, insieme con le ingenti truppe degli Indiani e degli Etiopi35, giunse36 il figlio di Titone e di Aurora37, Memnone38 dalla nobile fama: aveva infatti superato le attese e persino i voti di Priamo su di lui per aver armato in vario modo e in un solo esercito molte migliaia di uomini39. E infatti tutti i territori che si potevano osservare intorno e al di là di Troia, riempiti di soldati e cavalli, risplendevano per il lustro di uomini distinti. Memnone li condusse tutti a Troia attraverso le creste del monte Caucaso, e inviò per mare i restanti, non inferiori nel numero, dopo aver loro assegnato Falante40 come guida e timoniere. Questi, approdati a Rodi, non appena si accorsero che l’isola era alleata dei Greci, pur temendo che i Rodiesi, una volta venuti a conoscenza della cosa, incendiassero le navi, vi si trattennero, ma in seguito si divisero tra le ricche città di Camiro e Ialiso. Non molto tempo dopo i Rodiesi iniziarono ad accusare Falante perché desiderava prestare soccorso ad Alessandro, colui dal quale era stato oltraggiato con la distruzione, avvenuta poco tempo prima, di Sidone, la sua patria41. Per scuotere gli animi dell’esercito, i Rodiesi affermavano che coloro che difendevano un atto così indegno non sembravano diversi dai barbari42. Sostenevano inoltre molti argomenti per infiammare la folla e per agire a proprio vantaggio. Queste ragioni non furono vane. Infatti i Fenici, che in quell’esercito erano i più numerosi, scossi dalle denunce dei Rodiesi o per il desiderio di impadronirsi dei beni che avevano portato con sé43, uccisero Falante a sassate dopo averlo incalzato, e tra loro si spartirono l’oro e quel che rimaneva del bottino, dopo aver distribuito il resto tra le città sopra menzionate.

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5. Interim exercitus, qui cum Memnone venerat, positis per locos patulos castris – nam intra moenia haud facile tanta vis hominum retineri poterat – diversi suo quisque genere exercebantur. Neque in eadem arte simplex atque idem modus, sed ut quemque regionis suae mos adsuefecerat, ita telis aliis in alium modum formatis, scutorum etiam et galearum multiformi specie horrendam belli faciem praebuerant. At ubi triti aliquot dies et miles bellum cupit, simul cum luce exercitus omnis signo dato in proelium ducitur cumque his Troiani et qui intra moenia socii fuerant. At contra Graeci instructi pro tempore opperiri, debilitati aliquantum animos metu ingentis atque incogniti hostis. Igitur ubi intra teli iactum ventum est, tum vero barbari clamore ingenti ac dissono ruinae in modum inrumpunt, nostri confirmati inter se satis impigre hostium sustentavere. Sed postquam acies renovatae atque in ordinem reformatae sunt et iaci hinc atque inde tela coepere, cadunt utriusque exercitus plurimi, neque finis fit, quoad Memnon curru vectus adhibito secum fortissimo quoque medios Graecorum invadit, primum quemque obvium fundens aut debilitans. Ita iam plurimis nostrorum interfectis duces, ubi fortuna belli eversa neque spes reliqua nisi in fuga est, victoriam concessere. Eo die incensae deletaeque naves omnes forent, ni nox,

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5. Nel frattempo gli uomini armati che erano giunti con Memnone si esercitavano in vario modo, ciascuno secondo la sua abitudine, dopo aver posto l’accampamento in luoghi aperti, giacché l’interno delle mura difficilmente poteva contenere un così grande numero di guerrieri; pur nella medesima arte di esercitarsi, non vi era un solo modo, ma come l’usanza del proprio luogo aveva plasmato ciascuno, così essi, con armi foggiate in modo diverso e con le varie forme degli scudi e degli elmi, avevano mostrato l’orribile volto della guerra44. Ma quando, col trascorrere di alcuni giorni45, i soldati ebbero il desiderio di pugna, una volta dato il segnale46 al sorgere del sole, tutto l’esercito fu condotto sul campo di battaglia, e con questo anche i Troiani e gli alleati che si erano trovati all’interno delle mura. Di contro i Greci, pur essendo pronti ad attendere in base alle circostanze, erano piuttosto scoraggiati dal timore per un numero smisurato di nemici sconosciuti. Pertanto, quando si giunse a tiro di dardo47, i barbari con un grido alto e confuso48 si slanciarono come un turbine, e i nostri, dopo essersi confortati a vicenda, resistettero con sufficiente prontezza all’assalto dei nemici49. Quando però le schiere furono ristabilite e disposte in ordine e si iniziarono a scagliare i dardi da ambo le parti, moltissimi uomini di entrambi gli eserciti caddero a terra, e non si pose fine allo scontro fino a quando pure Memnone non irruppe nel folto dei Greci a bordo del carro assai resistente che aveva portato con sé, respingendo o fiaccando chiunque si trovasse dinanzi. Così, alla morte di moltissimi tra i nostri, quando le sorti dello scontro erano rovesciate e non rimaneva alcuna speranza se non quella della fuga, i comandanti concessero la vittoria. Quel giorno tutte quante le navi sarebbero state incendiate e distrutte, se la notte, rifugio per chi è in affanno50, non avesse fatto

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perfugium laborantium, ingruentes hostes ab incepto cohibuisset. Tanta in Memnone bellandi vis peritiaque et nostris adversae res. 6. Igitur Graeci, postquam requies est, perculsi inter se ac summae rerum diffidentes per universam noctem quos in bello amiserant sepelivere. Dein consilium futuri certaminis adversum Memnonem ineunt; ac placet sorte eligi nomen ducis cum eo bellaturi. Tunc Agamemnon Menelaum excipit, Ulixem, Idomeneum; reliquorum sors agi coepta Aiacem Telamonium votis omnium deligit. Ita refectis cibo corporibus reliquum noctis cum quiete transigunt. At lucis principio armati instructique pro negotio egrediuntur. Neque segnius a Memnone actum, cum quo Troiani omnes. Ita hinc atque inde ordinato exercitu proelium initum. Plurimi utriusque partis, ut in tali certamine, cadunt aut icti graviter proelio decedunt. In quo bello Antilochus Nestoris obvius forte Memnoni interficitur. Moxque Aiax, ubi tempus visum est, inter utramque aciem progressus lacessit regem, praedicto prius Ulixi et Idomeneo, ab ceteris uti se defenderent. Igitur Memnon ubi ad se tendi videt, curru desilit confligitque

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desistere dal loro proposito i nemici all’assalto51. Così grandi erano il vigore e l’abilità di Memnone in guerra, e così avversa era ai nostri la situazione.

[Memnone è ucciso da Achille. Sconforto dei Troiani] 6. Allora i Greci, dopo aver stabilito una tregua, seppellirono durante tutta la notte coloro che avevano perso in battaglia, sconvolti dall’orrore della carneficina52 e senza alcuna fiducia nell’esito dell’impresa. Dunque presero una decisione sul futuro scontro con Memnone, e sembrò loro opportuno che il nome del comandante che avrebbe combattuto contro di lui fosse scelto tirando a sorte. Allora Agamennone escluse Menelao, Ulisse e Idomeneo; il sorteggio da parte degli altri guerrieri, che aveva avuto inizio, designò Aiace Telamonio, come tutti desideravano53. Così, dopo aver ristorato i corpi con il cibo, trascorsero il resto della notte riposando. Ma allo spuntare del giorno uscirono armati e schierati per il proprio compito, e lo stesso fece con eguale prontezza Memnone, al cui fianco erano tutti i Troiani. E così, schierati gli eserciti da entrambe le parti, la battaglia ebbe inizio. Come di solito avviene in uno scontro del genere, moltissimi caddero da entrambe le parti o si ritirarono dal combattimento perché gravemente feriti. In quella battaglia Antiloco, figlio di Nestore, trovatosi per caso faccia a faccia con Memnone, fu ucciso54, e in seguito Aiace, quando gli parve il momento opportuno, avanzato nello spazio tra i due eserciti, assalì il re dopo aver ordinato a Ulisse e a Idomeneo di difenderlo dagli attacchi degli altri. Allora Memnone, come si accorse che si tendeva un agguato contro di lui, saltò giù dal carro e si schierò a piè

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pedes cum Aiace magno utriusque partis metu atque expectatione, cum dux noster summa vi umbonem scuti eius telo in aliquantum foratum gravis atque summis viribus ingruens impulit vertitque in latus. Quo viso regis comites adcurrere Aiacem exturbare nitentes. Tum Achilles, ubi barbaris intercedi videt, pergit contra et nudatum scuto hostis iugulum hasta transfigit. 7. Ita praeter spem interfecto Memnone animi hostium commutantur et Graecis aucta fiducia. Iamque Aethiopum versa acie nostri instantes caedunt plurimos. Tum Polydamas renovare proelium cupiens circumventus ad postremum atque ictus inguina ab Aiace interficitur, Glaucus Antenoris adversum Diomedem adstans Agamemnonis telo cadit. Tum vero cerneres hinc Aethiopas cum Troianis per omnem campum sine ordine atque imperio fugientes multitudine ac festinatione inter se implicari cadere ac mox palantibus equis proculcari, hinc Graecos resumptis animis sequi caedere impeditosque dissolvere atque ita confodere laxatos. Redundant circa muros campi sanguine et omnia, qua hostis intraverat, armis atque cadaveribus completa sunt. In ea pugna Priami filiorum Aretus et Echemmon ab Ulixe interfecti, Dryops, Bias et † Chorithan ab Idomeneo, ab Aiace Oilei Ilioneus cum Philenore, itemque Thyestes et Telestes a Diomede,

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fermo contro Aiace, con grande timore e trepidazione da entrambe le parti, quando il nostro comandante55, slanciandosi con tutte le sue forze e smisurato impeto, colpì l’umbone del pesante scudo del nemico, che fu trapassato in buona parte da una freccia, e lo fece cadere a lato. Alla vista di ciò i compagni d’armi del re corsero in suo aiuto nello sforzo di scacciare Aiace. Allora Achille, quando vide i barbari dirigersi contro di lui, si volse dalla parte opposta e trapassò con la lancia la gola del nemico, priva della protezione dello scudo56. 7. Così, contro ogni aspettativa, in seguito all’uccisione di Memnone l’ardore dei nemici venne meno e crebbe il coraggio nel cuore dei Greci, e subito i nostri, dopo aver rovesciato lo schieramento degli Etiopi, fecero strage di moltissimi uomini incalzandoli. E allora Polidamante, che desiderava rinnovare lo scontro, fu alla fine ucciso da Aiace dopo essere stato sopraffatto e colpito al basso ventre57, e Glauco, figlio di Antenore, cadde colpito da una freccia di Agamennone mentre si opponeva a Diomede. In quel momento avresti potuto vedere da una parte gli Etiopi58 in fuga con i Troiani lungo tutto il campo di battaglia, in disordine e privi di un comandante, mentre in massa e in tutta fretta si mescolavano tra loro, cadevano e subito erano schiacciati dagli zoccoli dei cavalli che vagavano senza meta; dall’altra i Greci, che con rinnovato coraggio li seguivano, li sterminavano, liberavano gli uomini carichi di bagagli e li colpivano dopo averli alleggeriti59. I campi intorno alle mura grondarono di sangue e tutti i luoghi attraverso i quali il nemico era penetrato si riempirono di armi e cadaveri60. In quello scontro tra i figli di Priamo Areto ed Echemmone furono uccisi da Ulisse, Driapsi, Bia e † Corita61 da Idomeneo, Ilioneo e Filenore da Aiace

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ab Aiace altero Antiphus, Agavus, Agathon atque Glaucus ab Achille Asteropaeus. Neque prius finis factus, quam Graecos satias et ad postremum fatigatio incessit. 8. At ubi ab nostris in castra recessum est, missi ab Troianis, qui peterent eorum, qui in bello ceciderant, humandi veniam. Collectos suos quisque igni cremant et more patrio sepeliunt seorsum ab ceteris cremato Memnone, cuius reliquias urnae conditas per necessarios regis remisere in patrium solum. At Graeci lautum bene cadavere Antilochi iustisque factis Nestori tradunt eumque orant, ferret animo aequo fortunae bellique adversa. Ita ad postremum corpora sua quisque curantes vino atque epulis per multam noctem Aiacem simulque Achillem laudibus celebrant atque ad caelum ferunt. At apud Troiam, ubi requies funerum est, non iam dolor in casu Memnonis, sed metus summae rerum et desperatio incesserat, cum hinc Sarpedonis interitus, inde secuta paulo post Hectoris clades spes reliquas animis abstulissent neque, quod postremum in Memnone fortuna obtulerat, reliquum iam existeret. Ita confluentibus in unum tot adversis curam omnem exsurgendi omiserant.

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Oileo, e parimenti Tieste e Teleste perirono per mano di Diomede, Antifo per mano dell’altro Aiace, e Agavo, Agatone, Glauco e Asteropeo furono uccisi da Achille62. E ciò non cessò prima che la sazietà e poi la stanchezza si impadronissero dei Greci63. 8. Ma quando i nostri si ritirarono nell’accampamento, furono inviati degli uomini dai Troiani per chiedere il permesso di seppellire coloro che erano caduti in battaglia. Dopo averli radunati, una volta cremato in disparte il corpo di Memnone, le cui ceneri, raccolte in un’urna, furono inviate in patria tramite i familiari del re, ognuno bruciò i propri cadaveri o li seppellì, secondo l’uso patrio. I Greci, invece, dopo aver reso i dovuti onori funebri, consegnarono a Nestore il corpo di Antiloco, ben lavato, e lo pregarono di sopportare di buon grado le avversità della sorte e della guerra. Così infine, mentre ciascuno onorava i corpi dei propri caduti, per buona parte della notte, con il vino e un banchetto, essi colmarono di lodi Aiace e Achille e li innalzarono al cielo. Ma a Troia, una volta terminate le cerimonie funebri64, non si era diffuso soltanto il dolore per la morte di Memnone, ma anche la paura e la disperazione per l’esito dell’impresa, poiché prima l’uccisione di Sarpedone, poi la sconfitta di Ettore, avvenuta poco dopo, avevano sottratto agli animi le speranze rimaste, e non rimaneva più nulla, poiché la sorte aveva offerto un ultimo appiglio nell’aiuto di Memnone. Così, nel confluire di così tante avversità, i Troiani avevano rinunciato a ogni intento di risollevarsi65.

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9. At post paucos dies Graeci instructi armis processere in campum lacessentes, si auderent, ad bellandum Troianos. Quis dux Alexander cum reliquis fratribus militem ordinat atque adversum pergit. Sed priusquam ferire inter se acies aut iaci tela coepere, barbari desolatis ordinibus fugam faciunt. Caesique eorum plurimi aut in flumen praeceps dati, cum hinc atque inde ingrueret hostis atque undique adempta fuga esset. Capti etiam Lycaon et Troilus Priamidae, quos in medium productos Achilles iugulari iubet indignatus nondum sibi a Priamo super his, quae secum tractaverat, mandatum. Quae ubi animadvertere Troiani, tollunt gemitus et clamore lugubri Troili casum

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[Riprende lo scontro. Achille uccide Troilo]66 9. Pochi giorni dopo67 però i Greci, schierati in armi, avanzarono nel campo di battaglia68 con il proposito di incitare i Troiani a combattere, se mai questi avessero osato69. Alla loro testa Alessandro, insieme con i fratelli rimasti, dispose i soldati e avanzò, ma prima che gli schieramenti iniziassero a colpirsi tra loro o a scagliare dardi, i barbari si diedero alla fuga dopo aver abbandonato le file70. Tra loro moltissimi furono sterminati o gettati a capofitto nel fiume, mentre il nemico incombeva da una parte e dall’altra e dovunque era preclusa ogni possibilità di fuga. Furono catturati anche Licaone71 e Troilo72, figli di Priamo, che Achille, dopo averli fatti avanzare, ordinò di sgozzare sotto gli occhi di tutti, adirato per il fatto che Priamo non gli avesse dato alcuna risposta su ciò di cui avevano discusso73. Quando i Troiani vennero a conoscenza dell’accaduto, levarono gemiti74 e con grida di

[……….] a questi il vigore / trascorsi [non molti giorni] i Greci [armati...] giunsero sul campo di battaglia pro[vocando (i Troiani) allo scontro...] [...] guidava poi i bar[bari Alessandro, poiché Ettore] era morto [e poiché gli eserciti al seguito di quest’ultimo non] erano ancora giunti in loro aiuto, / [moltissimi tra i barbari che si erano dati alla fuga] furono colpiti (e) nel [fiume Scamandro, ancora vivi,] furono gettati. Tra i fi[gli di Priamo Licaone e] Troilo, che [subito, una volta condotti in mezzo agli Achei,] Achille sgozzò, e non [...] dopo che il padre aveva inviato un messaggero (per discutere) degli accordi [che aveva preso con lui. Un dolore] non lieve nel cuore di coloro (che erano) a Ilio

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miserandum in modum deflent recordati aetatem eius admodum immaturam, qui in primis pueritiae annis cum verecundia ac probitate, tum praecipue forma corporis amabilis atque acceptus popularibus adolescebat. 10. Deinde transactis paucis diebus solemne Thymbraei Apollinis incessit et requies bellandi per indutias interposita. Tum utroque exercitu sacrificio insistente Priamus tempus nactus Idaeum ad Achillem super Polyxena cum mandatis mittit. Sed ubi Achilles in luco ea, quae inlata erant, cum Idaeo separatim ab aliis recognoscit, cognita re apud naves suspicio alienati ducis et ad postremum indignatio exorta.

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dolore piansero la morte di Troilo, degna di compassione, ricordando la vita ancora acerba di colui che viveva i primi anni della sua giovinezza con modestia e onestà, e in quel tempo cresceva amato e gradito al popolo75, soprattutto per il suo piacevole aspetto76.

[Achille ferito a morte in un agguato] 10. In seguito, trascorsi pochi giorni, si celebrò una cerimonia in onore di Apollo Timbreo e grazie a una tregua si cessò di combattere. Allora, mentre entrambi gli eserciti si occupavano dei sacrifici, Priamo, colta l’occasione, mandò Ideo presso Achille con l’incarico di discutere del matrimonio con Polissena77. Quando però Achille si appartò nel bosco con Ideo, in disparte dagli altri, per discutere di ciò che era stato addotto come pretesto, presso le navi, tra i soldati venuti a conoscenza della cosa, sorse il sospetto, cui seguì l’indignazione, che il comandante fosse un traditore78.

[sorse alla morte di Troilo] poiché era ancora giovane e no[bile e ...] ... tra tutti quanti […………] […………] e non [...] […………] i morti [...] [… trascorsi] pochi [giorni si celebrò una festa in onore] di Apollo Timbreo e [si stabilì una tregua dallo scontro] nel [...] [...] Priamo a causa di Polissena [inviò Ideo per riferire un messaggio] ad Achille [quando quest’ultimo] si ritirò nel boschetto sacro con lui, un grande turbamento [si levò tra i Greci, come se Achille] avesse tradito l’esercito

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Namque antea rumorem proditionis ortum clementer per exercitum in verum traxerant. Ob quae simul uti concitatus militis animus leniretur, Aiax cum Diomede et Ulixe ad lucum pergunt hique ante templum resistunt opperientes, si egrederetur, Achillem, simulque uti rem gestam iuveni referrent, de cetero etiam deterrerent in colloquio clam cum hostibus agere. 11. Interim Alexander compositis iam cum Deiphobo insidiis pugionem cinctus ad Achillem ingreditur confirmator veluti eorum, quae Priamus pollicebatur moxque ad aram, quo ne hostis dolum persentisceret aversusque a duce, adsistit. Dein ubi tempus visum est, Deiphobus amplexus inermem iuvenem quippe in sacro Apollinis nihil hostile metuentem exosculari gratularique super his, quae consensisset, neque ab eo divelli aut omittere, quoad Alexander librato gladio procurrensque adversum hostem per utrumque latus geminato ictu

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In precedenza, infatti, avevano diffuso come vera la voce di un tradimento, che si era sparsa lentamente tra le file dell’esercito. Per questo motivo, per acquietare gli animi adirati dei soldati, Aiace si recò con Diomede e Ulisse nel bosco, e lì79 essi si fermarono dinanzi al tempio in attesa che uscisse Achille, sia per riferire al giovane l’accaduto, sia per dissuaderlo dall’avere colloqui segreti con i nemici80. 11. Nel frattempo Alessandro81, quando ormai l’agguato con Deifobo era stato teso, cintosi col pugnale si avvicinò ad Achille fingendosi garante delle promesse di Priamo82, e subito dopo si fermò presso l’altare83, di spalle rispetto al comandante, perché questi non potesse accorgersi dell’inganno del nemico84. Allora, quando il momento parve opportuno, Deifobo, abbracciato il giovane inerme85, poiché questi non temeva alcun attacco nel tempio di Apollo, lo baciava e si congratulava con lui per gli accordi raggiunti, e non si separava da lui né lo lasciava andare, finché Alessandro, facendo oscillare la spada e scagliandosi contro il nemico, non lo trapassò da parte a parte con un doppio fendente86. Quando però

[…] molto Alessandro […] […] con […] […] Aiace, Diomede [e Odisseo ...] rimasero ad aspettarlo […] [... fuori dal boschetto sacro] per riferirgli la risposta [e per intimargli] di non fidarsi dei barbari […] e […] […] sopraggiunse Alessandro […] l’altare di Apollo […] [… dopo che Deifobo ebbe abbracciato(?)] Achille […] […]

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transfigit. At ubi dissolutum vulneribus animadvertere, e parte alia, quam venerant, proruunt, re ita maxima et super vota omnium perfecta, in civitatem recurrunt. Quos visos Ulixes: “non temere est, inquit, quod hi turbati ac trepidi repente prosiluere”. Dein ingressi lucum circumspicientesque universa animadvertunt Achillem stratum humi exsanguem atque etiam tum seminecem. Tum Aiax: “fuit, inquit, confirmatum ac verum per mortales nullum hominum existere potuisse, qui te vera virtute superaret, sed, ut palam est, tua te inconsulta temeritas prodidit”. Dein Achilles extremum adhuc retentans spiritum: “dolo me atque insidiis, inquit, Deiphobus atque Alexander Polyxenae gratia circumvenere”. Tum

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compresero che Achille era stato indebolito dalle ferite, si precipitarono verso una strada diversa rispetto a quella da dove erano giunti, e in fretta tornarono in città, dopo aver portato a termine un compito così arduo in un modo al di sopra delle aspettative di tutti. Nel vederli87 Ulisse disse: “Non mi pare un caso che costoro88 ad un tratto si affrettino in preda al turbamento e all’inquietudine”89. Allora, inoltratisi nel bosco90 con aria assai circospetta, videro Achille steso a terra, pallido e ancora con un soffio di vita91. In quel momento Aiace disse: “È certo, e senza ombra di dubbio, che presso i mortali non sia esistito alcun uomo in grado di superarti in valore, ma, come è chiaro, la tua avventata sconsideratezza ti ha tradito”92. Allora Achille, conservando ancora l’ultimo soffio di vita che gli rimaneva, disse: “Con l’inganno e con un agguato Deifobo e Alessandro mi hanno accerchiato a causa del mio amore per Polissena”93. Poi, mentre esalava l’ultimo

[…] […] […] Achille […] del boschetto […] [... dopo averli visti Odisseo disse] «non è un buon segno che questi […] dopo aver attaccato» una volta recatisi [dunque nel boschetto e] guardandosi intorno con massima cautela, (i tre) videro [Achille che giaceva al di qua] dell’altare [mentre sanguinava e respirava ancora] Aiace gli disse: [«era proprio vero che nessun altro] tra gli uomini poteva [ucciderti, poiché per valore primeggiavi tra tutti], ma la temerarietà ti [ha mandato in rovina»; quello rispose: «a causa di Polissena] mi fecero questo

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exspirantem eum duces amplexi cum magno gemitu atque exosculati postremum salutant. Denique Aiax exanimem iam umeris sublatum e luco effert. 12. Quod ubi animadvertere Troiani, omnes simul portis proruunt eripere Achillem nitentes atque auferre intra moenia scilicet more solito inludere cadaveri eius gestientes. Contra Graeci cognita re arreptis armis tendunt adversum, paulatimque omnes copiae productae, ita utrimque certamen brevi adolevit. Aiax tradito his, qui secum fuerant, cadavere eius infensus Asium Dymantis, Hecubae fratrem, quem primum obvium habuit, interficit. Dein plurimos, uti quemque intra telum, ferit, in quis

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respiro, i due comandanti lo abbracciarono con profondi gemiti, e con un bacio gli diedero l’estremo saluto. Infine Aiace, dopo averlo caricato sulle spalle, ormai privo di vita, lo portò via dal bosco94.

[Scontro per il corpo di Achille]95 12. Quando i Troiani videro ciò, si precipitarono tutti insieme verso le porte con l’intento di sottrarre Achille e portarlo all’interno delle mura96, impazienti di oltraggiare il suo cadavere, naturalmente secondo le loro consuete abitudini97. Di contro i Greci, venuti a conoscenza del loro proposito e afferrate le armi, li attaccarono e a poco a poco furono condotte fuori tutte le truppe, così in breve tempo scoppiò uno scontro da entrambe le parti. Aiace, dopo aver consegnato il cadavere di Achille a coloro che lo avevano accompagnato, in preda all’ira uccise Asio98, figlio di Dimante e fratello di Ecuba, che per primo si trovò dinanzi. In seguito colpì moltissimi uomini, chiunque fosse a portata di freccia: tra questi furono rinvenuti i

[Alessandro e Deifobo, dopo avermi attirato con l’inganno.] / Lo abbracciarono [per l’ultima volta i capi,] quando ormai era morto [e Aiace ...] dopo averlo sollevato per portarlo sulle spalle [...] [... i Troiani, dopo aver visto ciò] il cadavere ... [... per oltraggiarlo (?)] ma i Greci, dopo aver compreso ciò che stava succedendo presero le armi e (accorsero in aiuto di) coloro che si prendevano cura del cadavere di Achille / dopo che si furono uniti tra loro Aiace, una volta affidato agli uomini al seguito di Diomede il compito di sorvegliare il corpo

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

Nastes et Amphimachus reperti Cariae imperitantes. Iamque duces Aiax Oilei et Sthenelus adiuncti multos fundunt atque in fugam cogunt. Quare Troiani caesis suorum plurimis nusquam ullo certo ordine aut spe reliqua resistendi dispersi palantesque ruere ad portas neque usquam nisi in muris salutem credere. Quare magna vis hominum ab insequentibus nostris obtruncantur. 13. Sed ubi clausis portis finis caedendi factus est, Graeci Achillem ad naves referunt. Tuncque deflentibus cunctis ducibus casum tanti viri plurimi militum haud condolere, neque, uti res exposcebat, tristitia commoveri, quippe quis in animo haeserat Achillem saepe consilia prodendi

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corpi di Naste e Anfimaco99, alla guida dell’esercito della Caria. Così i comandanti Aiace d’Oileo e Stenelo insieme dispersero molti tra i nemici e li costrinsero alla fuga. Per questo motivo i Troiani, dopo aver perso moltissimi dei loro uomini, sparsi in disordine ed errando senza alcuna speranza di resistenza a loro rimasta, si lanciavano verso le porte e non riponevano fiducia in alcuna via di salvezza se non nella protezione delle mura100. Per questo motivo un gran numero di uomini fu sterminato mentre i nostri li incalzavano101.

[Funerali e sepoltura di Achille] 13. Ma quando, una volta chiuse le porte, si pose fine allo scontro, i Greci portarono Achille verso le navi. E allora, nonostante tutti i comandanti piangessero la morte di un uomo così importante, moltissimi tra i soldati non si dolevano, né erano sconvolti dalla tristezza, come la situazione richiedeva, poiché erano sicuri in cuor loro che in precedenza Achille avesse elaborato un piano coi nemici per tradire l’esercito102; d’altronde, dopo il suo

uccise per primo Asio, figlio di Dimante e fratello di Ecuba, e dopo di lui Naste e Anfimaco, capi della Caria. Giunsero in suo aiuto Aiace Oileo e Stenelo, che uccisero coloro che si trovavano nelle prime file, dopo che molti uomini vicini si furono dati a una disordinata fuga e i barbari furono uccisi senza avere la possibilità di combattere, poiché ormai non erano più in grado di opporsi, (i Greci) inseguirono i restanti finché essi non furono all’interno delle mura. Quando giunsero nell’accampamento (portando) il cadavere di Achille, nessuno

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exercitus inisse cum hostibus; ceterum interfecto eo summam militiae orbatam et ademptum complurimum; et viro egregio bellandi ne honestam quidem mortem aut aliter quam in obscuro oppetere licuerit. Igitur propere ex Ida adportata ligni vis multa atque in eodem loco, quo antea Patroclo, bustum extruunt. Dein imposito cadavere subiectoque igni iusta funeri peragunt Aiace praecipue insistente, qui per triduum continuatis vigiliis labore non destitit, quam reliquiae coadunarentur. Solus namque omnium paene ultra virilem modum interitu Achillis consternatus est, quem dilectum praetere ceteros animo summis officiis percoluerat, quippe cum amicissimum et sanguine coniunctum sibi, tum praecipue plurimum virtute ceteros antecedentem.

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assassinio, pensavano che la totalità dell’esercito avesse perso la propria guida e che fosse stata sottratta la cosa più importante; si dolevano anche del fatto che a un uomo eccellente in battaglia non fosse stato neppure permesso di andare incontro a una morte dignitosa, o diversa da una fine senza gloria. Dunque portarono in fretta una gran quantità di legna dal monte Ida, e innalzarono una pira nello stesso luogo in cui in precedenza ne avevano costruita una per Patroclo. In seguito, una volta posto il cadavere su di essa e appiccato il fuoco, portarono a termine i riti funebri103, soprattutto per l’insistenza di Aiace, che dopo aver vegliato per tre giorni senza sosta non si piegò alla fatica fino a quando i resti di Achille non furono raccolti in un’urna104. Infatti lui solo tra tutti si costernò – quasi oltre la misura che si addice a un uomo – per la morte di Achille, che con affetto in cuor suo aveva rispettato più degli altri negli estremi onori, non solo perché era un amico assai stretto, legato a lui da vincoli di sangue105, ma anche, e soprattutto, perché superava di gran lunga gli altri guerrieri col suo coraggio.

tra gli eserciti gemette per il dolore […] nemmeno […] poiché avevano sospettato che […] […] riguardo a lui […] […] dell’uomo […] […] […] davano la sepoltura ad Achille, accanto al quale portavano [...] anche Patroclo e per tre giorni... […] Aiace sorvegliò la pira e […] […] dopo aver vegliato tutti i giorni […] […] (Achille) amico e parente […] che superava tutti gli altri eroi in valore.

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14. Contra apud Troianos laetitia atque gratulatio cunctos incesserat interfecto quam metuendo hoste; hique Alexandri commentum laudantes ad caelum ferunt, scilicet cum insidiis tantum perfecerit, quantum ne in certamine auderet quidem. Inter quae nuntius Priamo supervenit Eurypylum Telephi ex Mysia adventare, quem rex multis antea inlectum praemiis, ad postremum oblatione desponsae Cassandrae confirmaverat. Sed inter cetera, quae ei pulcherrima miserat, addiderat etiam vitem quandam auro effectam, et ob id per populos memorabilem. Ceterum Eurypylus virtute multis clarus Mysiacis modo Ceteiisque instructus legionibus summa laetitia a Troianis exceptus spes omnes barbaris in melius converterat.

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[Esultanza a Troia per la morte di Achille. Arrivo di Euripilo] 14. Al contrario, nell’animo di tutti quanti i Troiani si erano diffusi giubilo e gioia per un nemico ucciso piuttosto che da temere106; costoro portarono alle stelle Alessandro lodandone l’astuzia, naturalmente tanto per aver ucciso Achille con un agguato, quanto per non aver osato nemmeno sfidarlo107. Nel frattempo giunse un messo al cospetto di Priamo per informarlo dell’arrivo del figlio di Telefo dalla Misia, Euripilo108, che il re di Troia, dopo aver allettato con molti doni in precedenza, aveva infine convinto offrendogli la mano di Cassandra. Ma tra le altre cose assai belle che gli aveva inviato, aveva aggiunto pure un tralcio di vite d’oro, per questo degno di memoria presso quei popoli109. D’altronde Euripilo, noto a molti110 per il suo coraggio e pur avvalendosi soltanto dell’aiuto di truppe provenienti dalla Misia e da altri paesi, dopo essere stato accolto con somma gioia tra i Troiani aveva mutato in meglio tutte le speranze dei barbari111. Era grande la gioia nel cuore dei Troiani […] […] dopo la morte di Achille non speravano infatti […] […] che non eccelleva (?) […] il proposito di Alessandro […] […] che non poteva […] […] giunsero dei messaggeri presso Priamo annunciando l’arrivo di Euripilo, figlio di Telefo. Priamo infatti lo aveva chiamato in aiuto prima che Ettore morisse, dopo essersi impegnato a dargli la mano di Cassandra e dopo avergli inviato il tralcio di vite d’oro […] per il suo valore e giunse […] i Misii e i Cetei. Lo accoglievano [...] benevolmente […] andando incontro a lui, poiché le circostanze facevano sperare in una sorte migliore dopo la morte di Achille. I Greci,

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15. Interim Graeci ossa Achillis urna recondita adiunctaque simul Patrocli in Sigeo sepelivere. Cui sepulchrum etiam extruendum ab his, qui in eo loco habebant, mercede Aiax locat indignatus iam de Graecis, quod nihil in his dignum doloris iuxta amissionem tanti herois animadverteret. Per idem tempus Pyrrhus, quem Neoptolemum memorabant, genitus Achille ex Deidamia Lycomedis superveniens offendit tumulum extructum iam ex parte maxima. Dein percontatus exitum paternae mortis Myrmidonas gentem fortissimam et inclitam bellandi armis aque animis confirmat, impositoque faciendo operi Phoenice ad naves atque ad tentoria parentis vadit. Ibi custodem rerum Achillis Hippodamiam animadvertit. Moxque adventu eius

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[Neottolemo giunge fra i Greci] 15. Nel frattempo i Greci seppellirono le ossa di Achille presso il Sigeo, dopo averle raccolte in un’urna e unite a quelle di Patroclo112. Per lui Aiace dietro compenso fece costruire a coloro che risiedevano in quel luogo anche un sepolcro113: costui era ormai sdegnato per il comportamento dei Greci, poiché comprendeva che nessun sentimento nel loro animo fosse indice di afflizione114 per la perdita di un così valoroso eroe115. Nello stesso tempo, al suo arrivo Pirro, che altri ricordavano con il nome di Neottolemo, nato da Achille e Deidamia, figlia di Licomede116, trovò il sepolcro ormai costruito quasi del tutto. Dunque, dopo aver fatto alcune domande sulla morte di suo padre, rincuorò e rafforzò con le armi i Mirmidoni, popolo assai valoroso e famoso per la sua arte di combattere117, e una volta affidato a Fenice l’incarico di occuparsi dell’opera, si diresse verso le navi e le tende di suo padre. Lì seppe che Ippodamia custodiva i beni di Achille118. In seguito, dopo dopo aver raccolto le ossa di Achille in un’urna, le portarono presso il Sigeo per seppellirle insieme con quelle di Patroclo, […] di Aiace che voleva punire (?) gli eserciti per il fatto che non […] (avessero mostrato alcun segno di dolore?) […] di creare per il defunto Achille [...] che da Aiace il compito di costruire un tempio per Achille fosse affidato agli abitanti del Sigeo, che avevano preso un compenso per il loro lavoro. In quel tempo giunse Pirro, che chiamavano anche Neottolemo, il quale, una volta arrivato, trovò il sepolcro e il tempio già costruiti, e dopo essersi informato su ogni cosa, come pure sulla morte di Achille, una volta armati i soldati che erano con lui – erano questi Mirmidoni un popolo bellicoso –, ne affidò la guida a Fenice. Una volta giunto presso le navi e la tenda del padre trovò Ippodamia, incaricata di custodire tutti i beni di Achille [...]

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cognito in eundem locum a cunctis ducibus concurritur; hique, uti animum aequum haberet, deprecantur. Quis benigne respondens nec sibi ait ignoratum esse omnia, quae divinitus confierent, forti pectore patienda, neque cuiquam super fatum vivendi concessam legem, turpem namque ac detestandam viris fortibus condicionem senectae, contra imbellibus optabilem. Ceterum sibi eo leviorem dolorem esse, quod non in certamine neque in luce belli Achilles interfectus esset, quo fortiorem ne optasse quidem quemquam existere nunc vel in praeteritum excepto uno illo Hercule. Addit praeterea: solum virum dignum ea tempestate, sub cuius manibuse exscindi Troiam deceret, neque tamen abnuere, quod imperfectum a patre relictum esset, a se atque a circumstantibus perfici. 16. Postquam finem loquendi fecit, in proximum diem certamen pronuntiatum. Duces omnes, ubi tempus visum est, solito ad Agamemnonem cenatum veniunt, in quis Aiax cum Neoptolemo, Diomedes, Ulixes et Menelaus hique inter se eundem locum cenandi capiunt. Interim inter epulas plurima iuveni patris fortia facinora numerare virtutemque eius commemorando efferre laudibus. Quis

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aver saputo del suo arrivo, tutti i comandanti si radunarono nello stesso luogo; costoro lo pregarono di rassegnarsi alla morte del padre. A questi Neottolemo, rispondendo con benevolenza, disse di sapere che tutto ciò che accade per volontà divina deve essere sopportato con animo forte, e che a nessuno è concessa la condizione di vivere oltre quanto stabilito dal fato, poiché per gli uomini valorosi la condizione di vecchio è vergognosa e degna di disprezzo, mentre è, al contrario, preferibile per i vili. Del resto, per lui il dolore sarebbe stato più sopportabile poiché Achille, del quale pensava che né allora né in precedenza potesse esistere guerriero più forte, fatta eccezione per il solo Eracle, non era stato ucciso in un duello, e nemmeno nello splendore della pugna119. Aggiunse inoltre che soltanto quell’uomo era degno di quel momento cruciale, sotto le cui mani era giusto che Troia fosse distrutta, e tuttavia non negava che quanto era stato lasciato incompiuto dal padre sarebbe stato portato a termine da lui e da coloro che lo circondavano. 16. Dopo che Neottolemo ebbe finito di parlare, lo scontro fu annunciato per il giorno successivo. Quando parve il momento opportuno, tutti i comandanti, tra i quali erano Aiace, Neottolemo, Diomede, Ulisse e Menelao, si recarono presso la tenda di Agamennone per prendere parte a un banchetto, come loro solito, e occuparono posti vicini tra loro. Nel frattempo, durante il pranzo, narravano al giovane Neottolemo le gesta valorose di suo padre, assai numerose, ed esaltavano Achille con elogi, ricordandone […] tutti i re incoraggiarono Neottolemo a sopportare nobilmente (la situazione), ed egli […] coloro che con molte parole lo avevano confortato […]

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DITTI, DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

Pyrrhus non mediocriter laetus accensusque industria enisurum se omni opere respondit, quo ne indignus patris meritis existeret. Dein ad sua quisque tentoria quietum abeunt. At postero die simul cum luce iuvenis castris egressus offendit Diomedem cum Ulixe. Quos salutatos quid causae foret; hique aiunt interponendam dierum moram ad reficiendos militum eius animos, longo itinere maris torpentibus etiam nunc membris et ob id nequaquam satis firmo nisu, ut solitis viribus agerent. 17. Itaque ex eorum sententia biduum interpositum, quo transacto omnes duces regesque suis quisque militibus instructis exercitum ordinant atque ad pugnam vadunt. In quis Neoptolemus regens medios circum se Myrmidonas statuit atque Aiacem, quem adfinitatis merito parentis loco percolebat. Interim Troiani vehementer moventur, maxime quod suis in dies deficientibus auxiliis novus adversum se miles pararetur cum memorando duce. Tamen Eurypyli hortatu arma capiunt; is namque adiunctis secum regulis copias suas Troianis mixtas porta educit. Atque ita ordinata acie medium sese locat. Tum primum Aeneas parato certamine intra muros manet execratus quippe Alexandri

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il coraggio. A costoro Pirro, assai lieto e ardente di zelo, rispose che si sarebbe impegnato con tutte le sue forze non per essere indegno dei meriti di suo padre. In seguito ciascuno si ritirò nella sua tenda per riposare. L’indomani però il giovane, uscito dall’accampamento in pieno giorno, si imbatté in Diomede e Ulisse. Dopo averli salutati chiese il motivo del loro arrivo, e questi risposero che era necessario frapporre un indugio di alcuni giorni per ristorare gli animi dei suoi soldati, poiché i loro corpi erano ancora intorpiditi dal lungo viaggio per mare, e non potevano sopportare lo sforzo per attaccare con il loro consueto vigore.

[Neottolemo uccide Euripilo] 17. E così, secondo la loro richiesta, fu frapposta una tregua di due giorni, trascorsi i quali tutti i comandanti e i sovrani, ciascuno dopo aver schierato le proprie truppe, ordinarono l’esercito e marciarono verso lo scontro. Tra questi Neottolemo, che era a capo delle file centrali dell’esercito, stabilì che lo circondassero i Mirmidoni e Aiace, che egli meritatamente onorava come un padre in virtù della loro parentela120. Nel frattempo i Troiani rimasero assai turbati, soprattutto perché un nuovo nemico si schierava al fianco di un glorioso comandante, mentre le loro truppe ausiliarie erano decimate di giorno in giorno. Tuttavia, per esortazione di Euripilo presero le armi; costui infatti, dopo aver stretto un’alleanza con i figli del re, condusse fuori dalle porte le proprie truppe unite a quelle dei Troiani, e così, una volta disposto questo schieramento, si pose nel mezzo. Allora per la prima volta Enea, nonostante fossero stati fatti i preparativi per lo scontro, rimase all’interno delle mura, poiché aveva

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facinus commissum in Apollinem, cuius sacra is praecipue tuebatur. Sed ubi signum bellandi datum est, manus conserunt magna vi utrimque decertantes caduntque plurimi. Interim Eurypylus obvium forte nactus Peneleum proturbat hasta atque interficit; inde multo saevior Nirea adgressus moxque obtruncat. Iamque deturbatis, qui in acie steterant, medios adgrediebatur, cum Neoptolemus re cognita comminus advolat deiectumque curru hostem et ipse desiliens gladio impigre interficit. Tum ablatum propere cadaver atque ad naves iussu eius perlatum. Quod ubi animadvertere barbari, quibus spes omnis in Eurypylo fuerat, sine certo ordine aut rectore fuga proelium deserunt atque ad muros revolant; tum plurimi eorum in fuga interfecti. 18. Igitur postquam fusis hostibus ad naves revertere Graeci, ex consilii sententia Eurypyli cremata ossa atque urnae condita patri remittunt, scilicet memores bene-

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condannato il gesto di Alessandro contro Apollo121, di cui egli guidava soprattutto i sacrifici122. Ma quando fu dato il segnale, attaccarono battaglia combattendo con grande coraggio da entrambe le parti, e moltissimi perirono. Intanto Euripilo, venuto a trovarsi per caso dinanzi a Penelo, lo respinse con la lancia e lo uccise; da lì si rivolse contro Nireo con ancor più furia, e lo uccise subito dopo. E ormai, una volta scacciati coloro che erano in prima fila123, attaccava i soldati al centro dello schieramento, quand’ecco che Neottolemo, resosi conto della situazione, si precipitò per combattere corpo a corpo e, scendendo con un balzo lui stesso dopo aver gettato giù dal carro il nemico, lo uccise con la spada senza esitazione124. Allora il cadavere fu in fretta portato via dal campo di battaglia e condotto presso le navi per ordine di Neottolemo. Quando i barbari, che avevano riposto ogni speranza in Euripilo, compresero quanto era accaduto, abbandonarono lo scontro fuggendo in ordine sparso e senza una guida, e corsero indietro in direzione delle mura; allora moltissimi tra loro furono uccisi durante la fuga.

[I Greci restituiscono il corpo di Euripilo a Telefo. Eleno si rifugia presso i Greci]125 18. Dunque i Greci, una volta messi in fuga i nemici, fecero ritorno presso le loro navi, e dopo aver cremato e riposto in un’urna i resti di Euripilo126, secondo il parere […] […] […] a proposito di Euripilo […] di restituire il suo corpo] ai Troiani. [(I Greci,) dopo aver raccolto le ossa in un’urna

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ficiorum atque amicitiae. Cremati etiam per suos Nireus atque Peneleus, seorsum singuli. At postero die per Chrysem cognoscitur Helenum Priami fugientem scelus Alexandri apud se in templo agere. Moxque ob id missis Diomede et Ulixe traditit sese deprecatus prius, uti sibi partem aliquam regionis, in qua reliquam vitam degeret semotam ab aliis concederent. Dein ad naves ductus ubi consilio mixtus est, multa prius locutus non metu, ait, se mortis patriam parentesque deserere, sed deorum coactum aversione, quorum delubra violari ab Alexandro neque se neque

ΕΉϧǾȱΌщΣΜ΅ΑΘΉΖȱΔνΐǽΔΓǾΙщǽΗ΍ΑȱΐΑφΐΓΑΉΖȱΘϛΖȱΚ΍Ώϟ΅ΖǯȱΗΙΏȬ Ών·ΓǾΑΘ΅΍ȱΈξȱΎ΅Ϡȱ̓΋ΑνщΏщΉΝΖщȱǽΎ΅Ϡȱ̐΍ΕνΝΖȱȱΓϢΎΉϧΓ΍ȱΘΤȱϴΗȬ ΘщνщǾ΅щȱΦщΔщϲщȱΘϛΖȱȱΔΙΕκΖȱΉϢΖȱΘΤȱΗΎǽΣΚ΋ǯȱΘϜȱΈξȱπΒϛΖȱȱψΐνΕθ ΔǾ΅щΕщ΅щ·щΉщϟΑΉΘ΅΍ȱ̙ΕϾΗ΋ΖȱΉϢΖȱΘΓǽϿΖȱΘЗΑȱ̴ΏΏφΑΝΑȱΆ΅Η΍ΏΉϧΖȱ ΦΔ΅Ǿ·ǽ·ǾνΏΏΝΑȱ̸ΏΉΑΓΑȱΘϲΑȱ̓щǽΕ΍ΣΐΓΙȱΔ΅ΕȂ΅ЁΘХȱΉϨΑ΅΍ȱπΑ ΘХȱ̝ǾΔщϱΏΏΝΑΓΖȱϡΉΕǽХǾȱΚΉϾ·ǽΓΑΘ΅ȱΈ΍ΤȱΘϲΑȱ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑ ΦΗΉǾΆщφΗ΅ΑΘ΅ȱΉϢΖȱΘϲΑȱΌΉϱΑǯȱΓщǽϡȱΈξȱΘ΅ІΘ΅ȱΐ΅ΌϱΑΘΉΖȱ̇΍ΓȬ ΐщφщΈщ΋ΑȱΎ΅Ϡȱ͞ΈΙΗΗν΅щȱΔΕΓΔщǽνΐΔΓΙΗ΍Αȱ΅ЁΘΓІȱπΔϠȱΘχΑȱ ΗϾΏΏǾ΋щΜ΍ΑǯȱπΏΌΓІΗщ΍ΑȱΈξщȱ΅ЁΘΓϧщǽΖȱΔ΅Ε΅ΈϟΈΝΗ΍Αȱ΅ЁΘϲΑ ΔΕΓ΅΍ǾΘΓϾΐΉΑΓщΖǰȱΓЈȱΐνΑΝΑщȱǽΘϲȱΏΓ΍ΔϲΑȱΈ΍Σ·Γ΍ǰȱΧȱΘ΍Η΍ȱΘЗΑ ΆǾ΅щΗщ΍ΏνΝΑщȱσщΈΓΒщΉΑǰȱΎ΅ΏΉǽΗΣΑΘΝΑȱΈξȱΔΕϲΖȱΘΤΖȱΑ΅ІΖȱΔ΅Ȭ ΕǾ΅щ·ΉϟщΑΉΘ΅΍ȱΐ΋ΈщǽξΑȱπΑΑΓЗΑǯȱπΔΉϠȱΈξȱΉϢΖȱǻΘϲǼȱΗΙΑνΈΕ΍ΓΑ πΑνΔǾΉΗщΉщΑщȱǽσǾΚщ΋ΘщǽϜȱΘЗΑȱΌΉЗΑȱΦΔΓΗΘΕΓΚϜȱπΔ΅ΕΌΉϠΖȱΔ΅ΘΕϟȬȱ Έ΅ȱΎ΅ǾϠщȱ·ΓΑΉϧΖȱΦщǽΔΓΏΉϟΔΉ΍Α ȱȱȱȱȱȱȱȱȱȱǾΉΗΓΐΉΑщǽ ̝ΏνΒǾ΅ΑΈΕΓΑȱΉǽȱȱȱȱȱȱȱȱȱǻ̄ϢΑΉϟ΅ΖǼ

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dell’assemblea, li restituirono a suo padre, naturalmente memori dei favori e dei rapporti di amicizia con lui. Dai rispettivi soldati furono cremati anche i corpi di Nireo e Penelo, ciascuno per conto proprio. Il giorno successivo però l’esercito greco venne a sapere da Crise127 che Eleno, il figlio di Priamo, si trovava presso di lui nel tempio128, poiché voleva sottrarsi all’empietà di Alessandro. In seguito, inviati Diomede e Ulisse per questo motivo129, Eleno si consegnò a loro, non senza averli prima implorati di concedergli una parte della regione dove potesse trascorrere il tempo che gli rimaneva da vivere in disparte dagli altri130. Infine fu condotto presso le navi, ove si unì all’assemblea, e dopo aver parlato a lungo disse di non aver abbandonato la patria e i genitori per paura della morte, ma perché costretto dall’avversione degli dèi, i cui templi disse che erano stati profanati da Alessandro, (le) inviarono al padre [memori del legame d’amicizia. I compagni riunirono anche le ossa di Penelo e [Nireo (per portarle) dalla pira presso le navi. [ Il giorno seguente Crise giunse presso [i capi dei Greci annunciando che Eleno, il figlio di Priamo, [si trovava presso di lui nel] tempio di Apollo, dove si era rifugiato [a causa dell’empietà di Alessandro] nei confronti del dio. [Costoro, dopo aver saputo ciò, mandarono Diomede e Odisseo [a catturarlo. Una volta arrivati (Eleno) [si consegnò a loro chiedendo prima (un posto) dove stare [e trascorrere quanto gli rimaneva, cosa che ad alcuni tra i capi parve opportuna. [Dopo che costoro lo ebbero chiamato presso le navi (Eleno) giunse senza [alcuna preoccupazione. Quando partecipò all’assemblea diceva [che, spinto dall’avversione degli dèi abbandonava la patria] e i parenti […] Alessandro […] [Enea?

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Aeneam quisse pati. Qui metuens Graecorum iracundiam apud Antenorem agere senemque parentem. De cuius oraculo imminentia Troianis mala cum cognovisset, ultro supplicem ad eos decurrere. Tunc nostris festinantibus secreta dinoscere, Chryses nutu uti silentium ageretur significat atque Helenum secum abducit. A quo doctus cuncta Graecis uti audierat refert, addit praeterea tempus Troiani excidii idque administris Aenea atque Antenore fore. Tum recordati eorum, quae Calchas edixerat, eadem cuncta congruentiaque animadvertunt. 19. Dein postero die egresso utrimque milite ad bellandum plurimi Troianorum cadunt, sed ex sociis pars maxima. At ubi vehementius ab nostris instatur et omni ope bellum finire in animo est, signo dato dux duci occurrit atque in se proelium convertunt. Tunc Philocteta progressus adversus Alexandrum lacessit, si auderet, sagittario certamine. Ita concessu utriusque partis Ulixes atque Deiphobus spatium certaminis definiunt. Igitur primus

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gesto che né lui né Enea avevano potuto tollerare131. Costui, poiché temeva la collera dei Greci, si era rifugiato presso Antenore con l’anziano padre, ma – diceva Eleno – dopo aver appreso dei mali che incombevano sui Troiani attraverso un vaticinio di quest’ultimo, stava per giunta accorrendo da loro per implorarli. Allora, sebbene i nostri fossero impazienti di conoscere le oscure parole dell’oracolo, Crise con un cenno chiese di far silenzio e condusse Eleno via con sé. Dopo essere stato informato il sacerdote riferì ai Greci ogni cosa così come l’aveva udita, aggiungendo inoltre che il momento della caduta di Troia era vicino, e che questa sarebbe avvenuta con l’aiuto di Enea e Antenore. Quindi i Greci, memori di quel che Calcante aveva annunciato, si resero conto che le due profezie coincidevano perfettamente.

[Filottete uccide Alessandro] 19. Allora il giorno seguente, una volta usciti i soldati di entrambe le parti per combattere, moltissimi tra i Troiani caddero, ma perì un altissimo numero di alleati. Anzi, quando i nostri incalzarono con maggior violenza e furono risoluti a porre fine alla guerra con ogni sforzo, dato il segnale si decise che un comandante si opponesse all’altro, assumendosi le sorti dello scontro. Quindi Filottete, avanzando, sfidò Alessandro in un combattimento con le frecce, se mai questi avesse osato raccogliere la sfida132.

[…] [temendo l’ira dei Greci si trovava] presso Ante[nore e l’anziano padre, grazie a un oracolo conoscendo [ i mali che incombevano […] sulla patria […]

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Alexander incassum sagittam contendit, dein Philocteta insecutus sinistram manum hosti transfigit, reclamanti per dolorem dextrum oculum perforat ac iam fugientem tertio consecutus vulnere per utrumque pedem traicit fatigatumque ad postremum interficit, quippe Herculis armatus sagittis, quae infectae Hydrae sanguine haud sine exitio corpori figebantur. 20. Quod ubi animadvertere barbari, magna vi inruunt, eripere Alexandrum cupientes, multisque suorum interfectis a Philocteta negotium tamen peragunt, atque in civitatem reportant. Tumque Aiax Telamonius insecutus fugientes ad usque portam pergit. Ibi caesa vis multa hostium, cum festinantibus inter se et singulis evadere inter primos cupientibus magis in ipso aditu multitudine sua detinerentur. Interim multi eorum, qui primi evaserant, super muros siti collecta undique cuiuscemodi saxa super clipeum Aiacis deicere congestamque quam plurimam terram desuper volvere, scilicet ad depellandum hostem. Cum supra modum gravaretur egregius dux, facile scuto decutiens haud segnius imminere. Denique Philocteta eos, qui in muris locati erant, eminus sagittis proturbat

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Così, col permesso di entrambe le parti Ulisse e Deifobo delimitarono lo spazio per lo scontro. Allora Alessandro per primo scagliò una freccia a vuoto, poi Filottete attaccandolo trapassò con la freccia la mano sinistra del nemico, e mentre questi gridava per il dolore gli perforò l’occhio destro. Dopo averlo subito raggiunto durante la fuga con un terzo colpo lo trascinò per entrambi i piedi, e infine lo uccise quando ormai era sfiancato dagli attacchi133, perché davvero era armato delle frecce di Ercole, che ferivano mortalmente poiché intinte nel sangue dell’Idra134.

[Attacco dei Greci alle mura di Troia] 20. Non appena i barbari si resero conto di ciò, si precipitarono con grande violenza con l’intento di portar via il cadavere di Alessandro, e sebbene molti tra loro fossero stati uccisi da Filottete, riuscirono tuttavia a portare a termine l’impresa e lo ricondussero in città. Quindi Aiace Telamonio, incalzati i fuggitivi, proseguì fino alla porta. Lì fu uccisa una moltitudine di nemici, dal momento che questi, sebbene si affrettassero tutti insieme e ciascuno desiderasse essere tra i primi ad evadere, si accalcavano presso la stessa entrata a causa del loro grande numero135. Nel frattempo molti tra coloro che per primi erano evasi, dopo essere saliti sulle mura, lanciavano contro lo scudo di Aiace pietre di ogni sorta raccolte qua e là, e dall’alto facevano rotolare mucchi di guerra nel maggior numero possibile, naturalmente per respingere il nemico. Nonostante il nobile condottiero fosse gravato oltre misura dai cumuli di terra, liberandosene con un semplice movimento dello scudo continuava a incombere con pari violenza. Infine Filottete respinse lontano coi suoi dardi coloro che si erano appostati

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multosque interficit. Neque secus ab reliquis in parte alia res gestae. Atque eo die excisa eversaque moenia hostium forent, ni nox iam ingruens nostros ab incepto cohibuisset. Qui ubi ad naves regressi sunt, laeti Philoctetae facinoribus et ob id maximam animo fiduciam gestantes, summo favore ac laudibus ducem celebrant. Qui simul cum luce adiunctis sibi reliquis ducibus in proelium egressus hostes metu sui adeo deterruit, ut vix se moenibus defensarent. 21. Interim Neoptolemus apud tumulum Achillis, postquam in auctorem paternae caedis vindicatum est, initium lugendi sumit, una cum Phoenice atque omni Myrmidonum exercitu comas sepulchro deponit pernoctatque in loco. Per idem tempus filii Antimachi, de quo supra memoravimus, adiuncti Priami rebus ad Helenum veniunt eumque ut ad amicitiam cum suis redeat deprecati, ubi nihil proficiunt, ad suos remeantes Diomedi atque Aiaci alteri itineris medio occurrunt. Ab quis comprehensi perductique ad naves, quinam essent et rem ob quam venerant omnem expediunt. Tum recordati patris eorum et quae adversum legatos dixerit molitusque sit, tradi eos popularibus atque ante conspectum barbarorum produci iubent, dein lapidibus iniectis necari. Interim Alexandri funus per † partem aliam portae † ad Oenonem,

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sulle mura, e ne uccise molti; dalla parte opposta gli altri fecero lo stesso. Quel giorno le mura dei nemici sarebbero state abbattute e distrutte, se subito la notte incombente non avesse trattenuto i nostri dal loro proposito. Non appena questi fecero ritorno presso le loro navi, felici per le gesta di Filottete e riponendo per questo la massima fiducia nel loro animo, celebrarono il loro comandante con lodi e con il massimo appoggio. Questi, unitosi agli altri comandanti allo spuntar del giorno e uscito con l’esercito per combattere, con il timore che incuteva spaventò i nemici a tal punto che questi a stento riuscivano a difendersi sulle mura.

[Pianto di Neottolemo sulla tomba di Achille. Enone muore di dolore per Paride] 21. Nel frattempo Neottolemo, dopo essersi vendicato dell’assassino di suo padre, iniziò a piangere presso la tomba di Achille, e insieme con Fenice e tutto l’esercito dei Mirmidoni depose delle ciocche di capelli136 presso il sepolcro e trascorse lì la notte. Nello stesso momento i figli di Antimaco, che abbiamo ricordato in precedenza, dopo essersi accordati con Priamo, giunsero presso Eleno e lo supplicarono di riconciliarsi coi suoi compatrioti, e mentre tornavano senza successo presso i loro compagni incontrarono Diomede e Aiace. Da questi furono catturati e condotti presso le navi, e rivelarono la loro identità e ogni motivo per il quale erano giunti. Allora Diomede e Aiace, ricordando il loro padre, le parole da lui rivolte agli ambasciatori e ciò che aveva fatto, ordinarono che questi fossero consegnati ai compagni e che fossero condotti al cospetto dei barbari, e infine che fossero uccisi a sassate. Frattanto i familiari condussero il cadavere di Alessandro,

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quae ei ante Helenae raptum nupserat, necessarii sui, uti sepeliretur, perferunt. Sed fertur Oenonem viso cadavere Alexandri adeo commotam, uti amissa mente obstupefieret, ac paulatim per maerorem deficiente animo concideret. Atque ita uno eodem funere cum Alexandro contegitur. 22. Ceterum Troiani, ubi hostis muris infestus magis magisque saevit, neque iam resistendi moenibus spes ulterius est aut vires valent, cuncti proceres seditionem adversus Priamum extollunt atque eius regulos. Denique accito Aenea filiisque Antenoris decernunt inter se, uti Helena cum his, quae ablata erant, ad Menelaum duceretur. Quod postquam Deiphobus cognovit, traductam ad se Helenam matrimonio sibi adiungit. Ceterum ingressus consilium Priamus, ubi multa ab Aenea contumeliosa ingesta sunt, ad postremum ex consilii sententia iubet ad Graecos cum mandatis belli deponendi ire Antenorem. Qui ex muris signum ostendens legationis, ubi a nostris recessum est, ad naves venit. Ubi benigne salutatus atque exceptus summum fidei benevolentiaeque erga Graeciam testimonium capit maximeque a Nestore, quod Menelaum insidiis Troianorum appetitum consilio suo atque auxilio filiorum servaverit; pro quis Troia eversa

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attraverso †un’altra facciata della porta†137, presso Enone – che egli aveva sposato prima di rapire Elena – perché fosse seppellito. Si dice però che alla vista del cadavere di Alessandro Enone fu turbata a tal punto da rimanere accecata dalla follia, fino a morire per il dolore poiché le forze a poco a poco le venivano meno. Così fu seppellita insieme col cadavere di Alessandro138.

[Antenore ed Enea stringono un patto segreto con i Greci] 22. Del resto i nobili troiani, mentre i nemici infierivano sempre più dinanzi alle mura, e quando ormai non vi era più alcuna speranza di continuare a resistere all’interno della città o le forze non bastavano, guidarono tutti una rivolta139 contro Priamo e i re suoi figli140. In seguito, dopo aver mandato a chiamare Enea e i figli di Antenore decisero tra loro di restituire a Menelao Elena e ciò che era stato sottratto141. Dopo che Deifobo ebbe saputo ciò, condusse Elena con sé e si unì a lei in matrimonio. D’altronde Priamo, che aveva preso parte all’assemblea, nella quale Enea disse molte cose infamanti, per volere del consiglio ordinò alla fine che Antenore si recasse presso i Greci con l’incarico di comunicare la resa. Costui giunse presso le navi mostrando dalle mura il segnale dell’ambasceria, dopo che i nostri si furono allontanati. Antenore fu salutato e accolto amichevolmente, e soprattutto Nestore diede prova della sua totale fiducia e delle sue buone intenzioni nei confronti della Grecia, poiché proprio lui, grazie alla propria saggezza e all’aiuto dei figli, aveva salvato Menelao, minacciato dalle insidie dei Troiani; prometteva molti vantaggi per i Greci in seguito

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multa praeclara polliceri hortarique, uti dignum memoria pro amicis adversum perfidos moliretur. Tunc longam exorsus orationem semper, ait, principes Troiae poenam ob male consulta divinitus consequi. Dein subiungit Laomedontis adversum Herculem famosa periuria insecutamque eius regni eversionem. Qua tempestate Priamus parvulus admodum atque expers omnium, quae gesta erant, petitu Hesionae regno impositus est. Eum male iam inde desipientem cunctos sanguine et iniuriis insectari solitum, parcum in suo atque appetentem alieni, quo exemplo veluti pessima contagione imbutos filios eius neque sacro neque profano abstinuisse. Ceterum se eadem stirpe, qua Priamum Graecis conciunctum, animo semper ab eo discerni. Hesionam quippe Danai filiam Electram genuisse, ex qua ortus Dardanus Olizonae Phinei iunctus Erichthonium dederit, eius Tros, dein ex eo Ilus, Ganymedes et Cleomestra, ex Cleomestra Assaracus atque ex eo Capys Anchisae pater. Ilum dein Tithonum et Laomedontem genuisse, ex Laomedonte Hicetaonem, Clytium, Lampum, Thymoetem, Bucolionem atque Priamum genitos rursusque ex Cleomestra et Aesyete se genitum. Ceterum Priamum cuncta iura adfinitatis proculcantem magis in suos superbiam atque odium exercuisse. Postquam finem loquendi fecit, postulat, uti, quoniam a senibus legatus pacis missus esset, darent de suo numero, cum quis super tali negotio disceptaret. Electique

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alla distruzione di Troia, e li esortava a intraprendere per gli amici qualcosa che fosse degno di essere ricordato, ordendo un piano contro i Troiani sleali. Allora, durante il suo lungo discorso, disse che per volere divino i sovrani di Troia avevano sempre pagato il prezzo delle loro cattive decisioni142. Continuò narrando il famoso tradimento di Laomedonte ai danni di Ercole e la successiva distruzione del suo regno143. In quel tempo Priamo, che era piuttosto giovane e non aveva partecipato alle operazioni condotte, fu messo a capo del regno su richiesta di Esione. Antenore diceva inoltre che costui, ormai in preda alla follia, fosse solito perseguitare tutti con stragi e offese, che fosse parsimonioso coi suoi beni e avido di quelli altrui, e che con il suo esempio i figli non avevano risparmiato né le cose sacre né quelle profane, come se fossero infettati dal morbo di una depravazione senza limiti144. Egli affermava di essersi sempre distinto da Priamo nelle inclinazioni, pur appartenendo a quella stessa stirpe per la quale Priamo era legato ai Greci. Infatti Esione, figlia di Danao, aveva generato Elettra, dalla quale era nato Dardano: costui, unitosi a Olizona, figlia di Fineo, generò Erittonio; da lui nacque Troo, e da questi Ilo, Ganimede e Cleomestra, e da Cleomestra Assaraco, e da lui Capi, padre di Anchise145. Dunque da Ilo nacquero Titone e Laomedonte, da Laomedonte Icetàone, Clitìo, Lampo, Timete, Bucolione e Priamo, mentre lui, Antenore, era nato da Cleomestra e da Esiete146. Diceva del resto che Priamo, poiché disprezzava tutti le leggi imposte dal vincolo di parentela, era stato superbo e aveva sfogato il proprio odio più verso i suoi familiari che verso gli estranei. Dopo aver posto fine al suo discorso, chiese di scegliere alcuni uomini dell’esercito con i quali si potesse discutere di questi accordi, poiché lui era stato inviato dagli anziani come ambasciatore di pace.

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Agamemnon, Idomeneus, Ulixes atque Diomedes, qui secreto ab aliis proditionem componunt. Praeterea placet, uti Aeneae, si permanere in fide vellet, pars praedae et domus universa eius incolumis, ipsi autem Antenori dimidium bonorum Priami regnumque uni filiorum eius, quem elegisset, concederetur. Ubi satis tractatum visum est, Antenor ad civitatem dimittitur, referens ad suos composita inter se longe alia, in quis, donum Minervae parari a Graecis eosque cum gratia cupere recepta Helena acceptoque auro bellum omittere atque ad suos regredi. Ita composito negotio Antenor traditoque sibi Talthybio, quo res fidem acciperet, ad Troiam venit.

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Furono scelti Agamennone, Idomeneo, Ulisse e Diomede, che in disparte dagli altri ordirono il tradimento. Si decise inoltre che a Enea, se avesse voluto prestar fede alla parola data, fosse concessa una parte del bottino e che tutta la sua famiglia fosse risparmiata, ma che allo stesso Antenore fossero destinati la metà dei beni di Priamo e il regno per uno dei suoi figli, che lui avrebbe scelto. Quando parve che le condizioni fossero state trattate a sufficienza, Antenore fu rimandato in città, riferendo ai suoi di aver raggiunto ben altri accordi: disse che i Greci stavano preparando un dono in onore di Minerva e che desideravano porre fine alla guerra e tornare presso i loro familiari, non senza aver ripreso Elena e ricevuto dell’oro. Così, dopo aver concluso questi accordi, Antenore giunse a Troia portando con sé Taltibio, perché la cosa fosse credibile.

LIBER QUINTUS

LIBRO QUINTO Traduzione e note di Lorenzo M. Ciolf i

1. Antenore Talthybioque civitatem ingressis cuncti populares sociique cognita re propere concurrunt, cupientes dinoscere, quae apud Graecos actitata essent. Quis Antenor in proximum diem relata differt; atque ita dimisso conventu disceditur. Cum inter epulas Talthybius interesset, filios suos monere Antenor nihil his in vita custodiendum, quam uti antiquissimam ducerent cum Graecis amicitiam, dein singulorum probitatem, fidem atque innocentiam commemorando admiratur. Ita finito convivio tum disceditur. At lucis principio, omnibus iam in consilio expectantibus audire, si quis modus tantis malis fieret, cum Talthybio ipse venit neque multo post Aeneas, dein Priamus cum residuis regulis. Denique ubi ea, quae a Graecis audierat, dicere iussus est, hoc modo disseruit: 2. «Grave, Troiani principes vosque socii, grave bellum nobis extitisse adversum Graeciam, gravius vero multoque

[Ritorno a Troia di Antenore e banchetto da lui organizzato]1 1. Antenore e Taltibio2 erano appena rientrati in città quando, diffusasi la notizia, tutti i cittadini e gli alleati si radunano frettolosamente con il desiderio di conoscere quanto fosse stato trattato presso i Greci. Antenore differisce al giorno successivo il resoconto; così, sciolta l’adunanza, si torna a casa. Dal momento che anche Taltibio stava partecipando al banchetto, Antenore esortava i propri figli a non curarsi d’altro nel corso della vita più dell’antichissimo rapporto di amicizia con i Greci e poi, passandole in rassegna, apprezzava la probità, la lealtà e l’integrità di ognuno di loro3. E così terminato il ricevimento, si fa ritorno a casa. [Convocazione dell’assemblea] Ma alle prime luci del giorno, quando nell’assemblea tutti i convenuti ormai attendevano di conoscere se ci fosse una qualche soluzione per quei mali così gravosi, quello si presentò insieme con Taltibio; non molto dopo arrivò Enea, quindi Priamo con il resto dei principi. Dunque, non appena gli fu ordinato di riportare ciò che aveva ascoltato dai Greci, Antenore parlò in questo modo4: [Discorso di Antenore] 2. «Dannoso, principi troiani e voi alleati, dannoso è stato per noi lo scatenarsi della guerra contro la Grecia, e anco-

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durius, mulieris causa hostes effectos quam amicissimos, qui inde iam a Pelope orti adfinitatis etiam iure nobis coniuncti sunt. Namque si praeterita mala summatim attingere oporteat, en unquam civitas nostra depressa aerumnis ad requiem emersit? Unquamne nobis defuere fletus aut sociis imminutae calamitates? Quando non amici parentes propinqui filii denique in bello amissi? Et, ut ex me reliquorum luctuum memoriam recenseam, quidnam in Glauco filio toleravi? Cuius interitus, quamquam acerbus mihi, tamen non ita dolori fuit, quam tempus illud, quo adiunctus Alexandro ad raptum Helenae comitatum sui praebuit. Sed praeteritorum satias, futuris saltem parcendum ac consulendum est. Graeci homines custodes fidei ac veritatis, principes benevolentiae atque officiorum. Testis his rebus Priamus, qui ipso strepitu discordiarum fructum tamen misericordiae eorum tulit; neque inferendo bellum quicquam prius temeratum ab his, quam perfidiam in ipsa legatione insidiasque ab nostris experti sunt. In qua re, dico enim quod sentio, Priamus eiusque filii auctores, in his etiam Antimachus, qui recens amissis liberis iniquitatis suae poenas luit. Haec omnia in gratia Helenae gesta, scilicet eius mulieris, quam ne Graeci quidem recipere gestiunt. Retineatur igitur in civitate ea foemina, ob quam nulla gens, nulli usquam populi amici aut non infesti huic regno. Nonne sponte supplices, ut recipiant eam, rogabimus? Non omni modo satisfaciemus laesis iam totiens per nos? Non in futurum saltem reconciliabimus tales viros? Ego quidem

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ra più dannoso e molto più duro l’aver reso a causa di una donna nemici e non amici intimi coloro che, discendenti della stirpe di Pelope, ci sono legati per parentela5! E infatti, se fosse necessario ripercorrere per sommi capi i mali passati, quando mai la nostra città oppressa dalle calamità ebbe un po’ di pace? Quando mai ci sono mancate le lacrime o gli alleati hanno avuto una tregua dalle sofferenze? Quando non abbiamo perso in guerra amici, genitori, parenti e addirittura figli? E, per riportare alla memoria attraverso il mio lutto quelli altrui, cosa ho sopportato per mio figlio Glauco? Sebbene dolorosa per me, la sua morte non fu la causa del mio male quanto l’occasione stessa nella quale, facendo da spalla ad Alessandro, egli offrì il suo supporto per il rapimento di Elena6. Ma mettiamo da parte il passato: facciamo per lo meno attenzione e prendiamo buone decisioni per il futuro! I Greci sono uomini di parola e leali, campioni di benevolenza e di senso del dovere7. Testimone di ciò è Priamo che, pur in un momento cruciale della contesa, ha ottenuto prova della loro misericordia8; e dichiarate le ostilità, nessuno di loro mosse all’attacco prima di aver avuto prova della nostra perfidia e delle insidie da noi macchinate contro la loro ambasceria9. Di quell’episodio – dico infatti ciò che penso – Priamo e i suoi figli sono responsabili10, e fra questi Antimaco che ora paga il fio della sua iniquità attraverso la scomparsa dei figli. E tutte queste cose sono state compiute per Elena, di quella donna cioè che nemmeno i Greci desiderano riprendersi12! Ma ammettiamo pure che resti in città, lei per la quale alcun popolo ci è più amico o non è in contrasto con questo regno. Supplici, non chiederemo forse che se la riprendano? Non ci scuseremo in ogni modo con quelli che sono stati lesi così tante volte da noi? Non ci riconcilieremo con tali uomini almeno per il futuro? Quanto a

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abibo hinc iam et discedam longius neque committam, ut ulterius intersim malis nostris. Fuit tempus, quo manere in hac civitate iucundum erat; socii, amici, propinquorum salus, patria denique incolumis adtinuere in hunc diem. Contra nunc quid horum non imminutum aut in totum sublatum nobis est? Non feram me cum his morari, quorum opera cuncta mihi cum patria concidere. Et eos quidem, quos in bello fortuna eripuit, utcumque iam sepelivimus, concedentibus ultro veniam hostibus, sed postquam deorum arae atque delubra sanguine humano per scelus infecta sunt, hoc etiam amisimus, quippe, quis maiora supplicia post mortem carissimorum, quam in amissione subeunda sunt. Quae ne accidant, nunc saltem providete. Auro atque huiusmodi aliis praemiis redimenda patria est. Multae in hac civitate dites domus, singuli pro facultatibus in medium consulamus, postremo offeratur pro vita hostibus, quod mox interitu nostro ipsorum futurum est. Templorum etiam, si necesse erit, ornamentis pro incolumitate patriae utendum est. Solus suas opes intus custodiat Priamus, solus divitias potiores civibus suis teneat, his etiam, quae cum Helena rapta sunt, incubet, videritque, quem ad finem utendum putet patriae calamitatibus. Nos victi iam sumus malis nostris».

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me, partirò da qui, me ne andrò lontano e farò in modo di non partecipare ulteriormente ai nostri mali. Ci fu un tempo in cui era dolce stare in questa città; fino ad oggi ci hanno trattenuto gli alleati, gli amici, il benessere della famiglia, in breve una patria incolume13. Al contrario, ora, quali di queste cose non sono state violate o non ci sono state sottratte nella loro interezza? Non sopporterei di trattenermi con gli uomini a causa dei quali tutti i miei beni stanno seguendo il destino della patria14. Grazie alla concessione dei nemici abbiamo potuto seppellire in qualche modo quelli che il destino ci ha strappato durante la guerra ma, dopo che le are degli dei e i santuari sono stati contaminati dal sangue umano per il nostro crimine15, abbiamo perso anche questo: dopo la morte degli affetti più cari, ci saranno sofferenze più grandi di quelle provate nell’averli persi. Ora almeno fate in modo che ciò non accada16! Con l’oro e con altre offerte di questo tenore si deve affrancare la patria17. In questa città ci sono molte case ricche: che ognuno di noi contribuisca per il pubblico interesse secondo le proprie disponibilità, poi si offra ai nemici, in cambio della vita, quello che gli apparterrebbe in ogni caso subito dopo il nostro annientamento. Se sarà necessario, bisogna investire per la salvezza della patria anche le decorazioni dei templi! Soltanto Priamo trattenga le proprie ricchezze, lui solo salvaguardi l’oro che ha messo avanti ai propri concittadini, vegli pure su quegli oggetti che sono stati saccheggiati insieme ad Elena: vedrà come sfruttare al meglio le calamità della patria18! Siamo ormai vinti dai nostri stessi mali!19».

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3. Haec atque alia cum lacrimis disserente eo cuncti simul gemitum edunt, tendentes ad caelum manus annuere, tot adversis rebus Priamum singuli vel inter se omnes finem miseriarum deprecantes, ad postremum uno ore patriam redimendam clamant. In quis Priamus dilanians caput fletu quam miserabili non solum iam se ait odio dis, verum suis hostem effectum, quippe cui non amicus antea, non propinquus, non denique civis inveniri posset, qui aerumnis suis ingemesceret. Namque optasse haec non nunc demum, verum vivis Alexandro atque Hectore agi coepta. Sed quoniam praeterita revocare nulli concessum, praesentium habendam rationem spemque futuris adhibendam. Se namque omnium, quae haberet, ad redemptionem patriae potestatem dare. Quam rem Antenori agendam permittere. Ceterum se, quoniam odio iam suis esset, abire e conspectu consentientem his, quae inter se decernerent. 4. Tum separato rege placet, uti Antenor ad Graecos redeat exploratum voluntatem certam adiunctusque ei, uti voluerat, Aeneas. Ita composita re disceditur. Sed media ferme nocte Helena clam ad Antenorem venit suspicans

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[Reazione di Priamo] 3. Mentre illustrava tra le lacrime queste e altre cose, tutti quanti emettono in coro un lamento e si mostrano d’accordo levando le mani al cielo e implorando Priamo – individualmente e collettivamente – perché dopo così tanti mali ponesse fine alle avversità; infine chiedono gridando all’unisono che la patria venga riscattata20. In questa circostanza Priamo, strappandosi i capelli e in un pianto alquanto miserabile, non solo ritiene di essere odiato dagli dei ma anche di essere divenuto un nemico per i suoi Troiani dal momento che non si poteva trovare nessuno, né dei vecchi amici né dei parenti né tantomeno un concittadino che piangesse per le sue afflizioni. Infatti avrebbe voluto che tali discorsi non fossero intrapresi soltanto ora, ma quando erano ancora vivi Alessandro e Ettore. Ma poiché a nessuno è concesso di far rivivere il passato, si deve provvedere al presente e sperare per il futuro. Pertanto consegnò tutto ciò che era in suo possesso per salvare la patria ed affidò la gestione di tale affare ad Antenore. Quindi, visto l’odio dei concittadini nei suoi confronti, sparì dal loro cospetto, deciso ad accettare tutto ciò che avrebbero deliberato tra di loro21.

[Elena chiede ad Antenore di intercedere per lei] 4. Allontanatosi il re, allora si deliberò che Antenore ritornasse dai Greci per capire le loro vere intenzioni, e che Enea lo accompagnasse come lui stesso aveva desiderato22. Così sistemata la faccenda, si scioglie l’adunata23. Ma verso la mezzanotte Elena fa una visita clandestina ad Antenore perché sospettava che sarebbe stata

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tradi se Menelao et ob id iram derelictae domus metuens. Itaque eum orat, uti inter cetera sui quoque apud Graecos commemorationem faceret ac pro se deprecaretur. Ceterum, ut cognitum est, post Alexandri interitum invisa ei apud Troiam fuere omnia desideratusque ad suos reditus. At lucis initio, quibus imperatum erat, ad naves veniunt, decretum civium cunctis narrant. Itaque, cum quis antea, ad confirmanda, quae tempus monebat, secedunt. Ibi cum multa de republica ac summa rerum dissererent, voluntatem quoque Helenae docent veniamque orant et ad postremum confirmant inter se proditionis pactionem. Dein ubi tempus visum est, cum Ulixe et Diomede ad Troiam veniunt cohibito Aiace ab Aenea, scilicet ne qua insidiis opprimeretur talis vir, quem solum barbari non secus quam Achillem metuebant. Igitur postquam duces Graeci in civitate conspecti sunt, cuncti cives tollunt spe animos existimantes finem belli atque discordiarum. Itaque propere senatus habitus, ubi nostris praesentibus decernitur primum omnium Antimachum ex omni Phrygia exulandum, scilicet auctorem tanti mali. Dein super condicione pacis tractari coeptum.

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riconsegnata a Menelao e temeva pertanto l’ira suscitata dalla circostanza di aver abbandonato la propria casa. Pertanto lo prega di ricordare ai Greci anche lei tra le altre cose e di intercedere per la sua salvezza24: d’altro canto, come si sapeva, successivamente alla morte di Alessandro detestava ogni cosa di Troia e desiderava tornare dai suoi25. [Primo incontro dei negoziati di pace] Sul fare del giorno, quando cioè era stato stabilito, i due eroi si presentano alle navi e riferiscono a tutti la decisione dei concittadini; dunque si appartano con gli stessi interlocutori di prima26 per discutere delle azioni che le circostanze richiedevano. In tale occasione, dopo aver dibattuto molti punti sulla città27 e sulla situazione generale, li informano anche della volontà di Elena e chiedono perdono per lei; infine, concordano tra loro le modalità di consegna della città. Poi, quando sembrò opportuno, fanno ritorno a Troia insieme ad Ulisse e Diomede; ad Aiace ciò fu impedito da Enea come se temesse che tale eroe – il solo che i barbari temevano alla stregua di Achille28 – potesse cadere vittima di un qualche agguato. Allora, dopo che i comandanti greci furono avvistati in città, tutti i cittadini riempiono il cuore di speranza confidando ormai nella fine delle ostilità e delle disgrazie. Quindi l’assemblea fu convocata in fretta e lì, alla presenza dei nostri, si decreta come prima cosa che Antimaco dovesse essere bandito dall’intera Frigia in quanto responsabile di una così grande disgrazia29. Poi si cominciò a trattare delle condizioni di pace.

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5. Inter quae repente strepitus ex Pergamo, ubi regia Priamo erat, clamorque ingens editur. Qua re turbati, qui in consilio erant, foras prosiliunt, credentes insidias temptatas solito ab regulis; itaque in templum Minervae propere concedunt. At paulo post ex his, qui ex arce descenderant, cognoscitur Alexandri filios, quos ex Helena susceperat, casu camerae extinctos. Hique erant † Bunomus, Corythus atque Idaeus. Quare consilio dilato duces nostri ad Antenorem abeunt ibique acceptis epulis pernoctant. Praeterea cognoscunt ab Antenore editum quondam oraculum Troianis maximo exitio civitati fore, si Palladium, quod in templo Minervae esset, extra moenia tolleretur. Namque id antiquissimum signum caelo lapsum, qua tempestate Ilus templum Minervae extruens prope summum fastigium pervenerat ibique inter opera, cum necdum tegumen superpositum esset, sedem sui occupavisse; idque signum ligno fabrefactum esse. Hortantibus dein nostris, uti secum ad ea omnia eniteretur, facturum se, quae cuperent, respondit. Atque his praedicit publice se in consilio super qualitate eorum, quae postulaturi essent, exertius disserturum, scilicet ne qua suspicio sui apud barbaros oriretur. Ita composito negotio cum luce simul Antenor ac reliqui proceres ad Priamum vadunt, nostri ad naves redeunt.

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[Morte dei figli di Elena. La profezia del Palladio] 5. In quel mentre si diffonde all’improvviso un gran clamore e uno strepito si leva da Pergamo30, lì dove si trovava la reggia di Priamo. Turbati da questo accadimento, quelli che erano nel consiglio si riversano in strada, credendo si trattasse di uno di quegli attentati orditi solitamente dai principi, e si recano correndo al tempio di Minerva31. Ma poco dopo si viene a sapere da quelli che di corsa erano scesi dalla rocca che i figli di Alessandro, quelli che aveva avuto da Elena, erano morti per il crollo del soffitto della loro stanza. Si trattava di Bunomo, di Corito e di Ideo32. Dopo che per questo fatto la seduta venne sospesa, i nostri comandanti si recano a casa di Antenore e, una volta cenato, si fermano lì per la notte. Inoltre, apprendono da Antenore dell’esistenza di un certo oracolo che riguardava i Troiani: la città sarebbe andata incontro alla più totale rovina se il Palladio che era conservato nel tempio di Minerva, fosse stato portato fuori dalla cinta muraria33. Si trattava appunto di un’antichissima statua caduta dal cielo proprio quando Ilio era giunto quasi alla sommità del tempio che stava edificando per Minerva e, dal momento che non era stato ancora realizzato il tetto, aveva trovato la propria collocazione nel mezzo della costruzione34. La statua era realizzata in legno35. Dal momento che i nostri lo pressavano perché collaborasse con loro per impadronirsi di quell’oggetto, Antenore rispose che avrebbe fatto ciò che desideravano. E inoltre anticipò loro che in consiglio avrebbe parlato apertamente e con grande energia contro il contenuto delle proposte che loro avevano formulato così da non far nascere nei barbari un sospetto nei propri confronti36. Sistemata così la questione, alle prime luci del giorno Antenore e gli altri notabili fanno visita a Priamo mentre i nostri ritornano alle navi.

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6. Dein, ubi iusta pueris facta sunt, post diem tertium Idaeus supradictos duces accitum venit. Quis praesentibus Panthus ceterique, quorum consilium praevalebat, multa disserere atque docere ea, quae antea gesta essent temere et inconsulta, non per se, quippe qui contempti disiectique ab regulis arbitrio alieno agerent. Ceterum quod arma adversus Graecos tulissent, non sponte factum, namque qui sub imperio alieno agerent, expectandum his atque exsequendum esse nutum eius, qui teneat. Ob quae dignum esse Graecos data venia consulere eis, qui semper auctores pacis fuerint. Ceterum a Troianis ob male consulta satis poenarum exactum. Dein multo hinc atque inde habito sermone ad postremum de modo praemiorum agi coeptum. Tum Diomedes quinque milia talentorum auri ac totidem argenti optat, praeterea tritici centena milia; eaque per annos decem. Tum silentio habito a cunctis Antenor non Graecorum more agere eos adversum se ait, sed barbaro, namque quod impossibilia postularent, palam fieri praetextu pacis bellum eos instruere. Ceterum auri tantum atque argenti ne tum quidem, priusquam in auxilia conducta dilaceraretur, civitati fuisse. Quod si permanere in eadem avaritia vellent, superesse Troianis, uti clausis portis incensisque intus deorum aedificiis ad postremum idem sibi cum patria exitium peterent. Contra Diomedes: «Non civitatem vestram consideratum Argis venimus, verum adversum vos dimicaturi. Quocirca, siue

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[Secondo incontro dei negoziati di pace] 6. Dopo tre giorni da quando si erano concluse le esequie di quei ragazzi37, Ideo viene ad annunciare l’arrivo dei suddetti capi38. Alla loro presenza, Panto39 ed altri, dei quali era riconosciuta l’avvedutezza, discussero di molte cose e spiegarono che ciò che si era verificato fino ad allora era stato fatto con avventatezza, senza un disegno preciso e non per loro volontà dal momento che, spregiati e divisi dai principi, avevano agito secondo il desiderio altrui40. Non avevano preso le armi contro i Greci spontaneamente: infatti chi vive agli ordini di qualcuno deve attenersi alle disposizioni ed eseguire la volontà di chi è al comando. Per tali ragioni era giusto che i Greci, concessa la pace, perdonassero coloro che erano stati da sempre sostenitori della pace41. D’altra parte i Troiani avevano già sofferto molte pene a causa di errate decisioni42. Quindi, dopo che il discorso ebbe toccato molti e diversi argomenti, si cominciò infine a trattare su come pagare il riscatto. Allora Diomede si dichiara favorevole alla somma di cinquemila talenti d’oro ed altrettanti d’argento, oltre a centomila misure di grano: il tutto versabile in dieci anni43. Tutti quindi rimasero in silenzio. Antenore disse loro apertamente che non si stavano comportando da Greci bensì da barbari44 e, chiedendo cose impossibili, sotto il pretesto della pace creavano in maniera chiara presupposti per la guerra. La città non aveva una tale quantità di oro e di argento, neppure prima delle spese per ingaggiare i rinforzi alleati45. Nel caso avessero voluto continuare con una siffatta cupidigia, ai Troiani non sarebbe rimasto altro che attendere alla fine la propria distruzione con quella della patria, dopo aver serrato le porte e dato fuoco ai santuari cittadini46. Risponde Diomede47: «Non siamo giunti da Argo48 per prenderci cura della vostra città ma per combattere contro

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etiam nunc bellare in animo est, parati Graeci, sive, ut ais, igni dabitis Ilium, non prohibebimus, quippe Graecis affectis iniuria ulcisci hostes suos finis est». Tum Panthus in proximum diem veniam deliberandi orat. Ita nostri ad Antenorem abeunt atque inde in aedem Minervae. 7. Interim cognoscitur in apparatu rerum divinarum portentum ingens, namque aris composita sacrorum consueta, mox subiectus ignis non comprehendere neque consumere, uti antea, sed aspernari. Qua re turbati populares, simul uti fidem nuntii noscerent, ad aram Apollinis confluunt. Atque ibi superpositis extorum partibus ubi flamma admota est, repente cuncta, quae inerant, disturbata ad terram decidunt. Quo spectaculo perculsis atque attonitis omnibus subito avis aquila stridore magno immittit sese atque extorum partem eripit moxque supervolans ad naves Graecorum pergit, ibique raptum omittit. Id vero barbari non iam leve aut in obscuro, sed palam perniciosum credere. Interim Diomedes cum Ulixe dissimulantes, quae gerebantur, obambulare in foro circumspicientes laudantesque praeclara operum civitatis eius. At apud naves auspicio tali monitis omnium animis Calchas, uti bonum animum gererent, hortatur, brevi quippe dominos fore eorum, quae apud Troiam essent.

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di voi! Di conseguenza se ora avete intenzione di battervi, i Greci sono pronti; altrimenti, se come dici darete fuoco ad Ilio, non ci opporremo: poiché per dei Greci che, come noi, hanno subito un’ingiustizia, il fine è la vendetta sui nemici». Allora Panto chiede il permesso di procrastinare la discussione al giorno successivo. Così i nostri si recano da Antenore, e di lì al tempio di Minerva.

[Infausti presagi per Troia] 7. Nel frattempo si viene a conoscenza di un grande prodigio durante l’allestimento dei sacrifici religiosi: infatti il fuoco prontamente acceso non avvolgeva né consumava le vittime rituali disposte sugli altari – come sempre prima di allora – ma se ne teneva lontano. Turbati da questo avvenimento, i cittadini si precipitano all’ara di Apollo49 per sapere se fosse vero ciò che viene loro raccontato. E non appena viene portata la fiamma sulle parti di interiora accatastate lì sopra, tutte le offerte presenti cadono improvvisamente a terra sconquassate50. Proprio quando tutti erano stati sconvolti da questa visione ed erano rimasti attoniti51, ecco che un’aquila piomba all’improvviso e con grande stridore, strappa una parte di interiora, si dirige in volo verso le navi dei Greci dove lascia cadere la sua preda52. I barbari non ritennero certo l’episodio di poco conto o di oscuro valore ma lo considerarono chiaramente un segno catastrofico53. Celando le proprie intenzioni54, Diomede e Ulisse intanto passeggiavano per il foro osservando e lodando le meraviglie dell’architettura di quella città. Tuttavia, alle navi, Calcante esortava all’ottimismo gli animi eccitati da un tale prodigio: in breve tempo sarebbero stati padroni di ciò che si trovava a Troia55.

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8. Ceterum Hecuba re cognita placatum deos egreditur ac praecipue Minervam atque Apollinem, quis cum dona multa, tum victimas opimas admovet. Sed in adolendo, quae sacra aris reddebantur, eodem modo restingui ignes ac repente interire visi. Inter quae tam sollicita Cassandra deo plena victimas ad Hectoris tumulum transferri imperat, deos quippe aspernari iam sacrificia indignatos ob commissum paulo ante scelus in Apollinem. Ita tauris, qui immolati erant, ad rogum Hectoris, sicuti imperabatur, adportatis moxque igni subiecto, consumuntur cuncta. Inde, ubi iam vesperarat, domum discessum. Atque eadem nocte Antenor clam in templum Minervae venit. Ibi multis precibus vi mixtis Theano, quae ei templo sacerdos erat, persuasit, ut Palladium sibi traderet, habituram namque magna eius rei praemia. Ita perfecto negotio ad nostros venit hisque promissum offert, verum id Graeci obvolutum bene, quo ne intellegi a quoquam posset, vehiculo ad tentoria Ulixis per necessarios fidosque suos remittunt. At lucis principio postquam senatus coactus et nostri ingressi sunt, Antenor veluti iracundiam Graecorum metuens veniam eorum orare, quae adversum eos pro patria exertius disseruisset. Dein Ulixes: non se his moveri neque indignari, sed quod finis in tractando non adhiberetur,

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856. Informata dei fatti, Ecuba esce per placare gli dei, soprattutto Minerva ed Apollo ai quali porta molti doni e sacrifica splendide vittime57. Ma allo stesso modo, nel bruciare le offerte consacrate che erano state disposte sugli altari, le fiamme sembrano affievolirsi e spegnersi velocemente. Nel corso di eventi così preoccupanti Cassandra, invasata da un dio, ordina di spostare le vittime al tumulo di Ettore dal momento che gli dei indignati disprezzavano i sacrifici per il crimine commesso poco prima contro Apollo58. E così come era stato comandato, quando i tori immolati furono trasportati alla tomba di Ettore, tutto si consuma velocemente una volta acceso il fuoco. [Il ratto del Palladio] Quindi, siccome si era già sul far della sera, ognuno rientra a casa. Ma in quella stessa notte Antenore si recò di nascosto al tempio di Minerva e lì, con molte preghiere e prepotenze, convinse la sacerdotessa di quel tempio, Teano59, a consegnargli il Palladio con la promessa che avrebbe ottenuto una grande ricompensa per quell’azione60. Portata a termine l’impresa, egli torna dai nostri e gli offre quanto promesso; dopo aver ben coperto la statua cosicché nessuno potesse riconoscerla, i Greci la inviano su un carro alle tende di Ulisse attraverso suoi uomini fidati61. [Terzo e conclusivo incontro dei negoziati di pace] Alle prime luci dell’alba, dopo che il consiglio si fu riunito e che i nostri furono entrati, Antenore chiede perdono ai Greci per aver parlato con grande irruenza contro di loro nella difesa della sua patria, come temesse la loro collera. Poi fu il turno di Ulisse: egli non si è impressionato né adirato per tali parole ma solo perché quelle creavano ostacoli

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maxime cum opportunum ad navigandum tempus brevi praetervolet. Tum multo invicem habito sermone ad postremum binis milibus talentorum auri atque argenti rem decidunt. Quod uti ad suos referrent, Graeci ad naves abeunt. Ibi conductis ducibus cuncta dicta gestaque exponunt. Palladium ablatum per Antenorem docent. Dein ex omnium sententia reliquus miles rem cognoscit. 9. Ob quae placet universis mitti Minervae donum quam honoratissimum. Tum accitus ad eam rem Helenus cuncta, quae clam se gesta erant, ac si praesens adfuisset, ordine exponit additque finem iam advenisse Troianarum rerum, quippe quo maxime sustentaretur summa civitatis eius, Palladium fuisse; quo ablato exitium ingruere. Ceterum donum Minervae fatale Troianis esse, equum ligno fabrefactum forma ingenti, cuius magnitudine muri solvendi essent, adnitente atque administro Antenore. Dein recordatus parentem Priamum residuosque fratres fletum edit miserabilem, consternatus per dolorem atque obstupefactus ruit. Tum Pyrrhus collectum eum refectumque animi ad se deducit custodesque addit veritus, ne qua per eum hostibus, quae gesta erant, patefierent. Quod ubi Helenus persensit, Pyrrhum, uti bonum animum gereret, hortatur, securum sui secretorumque; namque se cum eo etiam post patriae excidium multis tempestatibus

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alla conclusione delle trattative... tanto più che a breve la stagione adatta alla navigazione sarebbe volata via! Allora rianimata dalle due parti la discussione, ci si accorda alla fine per la somma di duemila talenti d’oro e una quantità pari d’argento62. I Greci fanno ritorno alle navi per riferire la cosa ai compagni. Riuniti lì i comandanti, espongono tutto ciò che era stato detto e fatto: li informano che il Palladio è stato sottratto da Antenore. Quindi, per decisione unanime, anche il resto della truppa è informato dei fatti.

[La costruzione del cavallo] 9. Per queste ragioni tutti stabiliscono di inviare a Minerva il più splendido dono possibile. Mandato a chiamare per tal fine, Eleno espone in ordine tutto ciò che era stato fatto in sua assenza come se fosse stato presente e aggiunge inoltre che era ormai arrivata la fine della potenza troiana poiché il Palladio era il massimo sostegno della città: portato via quello, incombeva la rovina63. D’altronde il dono per Minerva sarebbe stato fatale per i Troiani: un cavallo64 in legno di enormi dimensioni, la cui grandezza sarebbe stata la ragione – su proposta e pressione di Antenore – dell’abbattimento delle mura65. Poi, ricordandosi di suo padre Priamo e dei fratelli ancora in vita, il principe scoppia in un pianto miserevole e crolla a terra costernato e stordito dal dolore66. Dopo averlo fatto alzare e ritornare in sé, Pirro lo porta alla propria tenda e assegna delle guardie alla sua custodia, temendo che attraverso di lui i nemici potessero venire a conoscenza di ciò che era stato escogitato. Non appena Eleno se ne rese conto, invita Pirro a stare tranquillo e senza paura, per se stesso e per i loro segreti: infatti, anche dopo la caduta di Troia, egli sarebbe

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in Graecia moraturum. Itaque ut Heleno placuerat, multa materies, quae apta huiusmodi fabricae videbatur, per Epium atque Aiacem Oilei advecta. 10. Interim firmatores pactae pacis ad Troiam eunt decem lecti duces, Diomedes, Ulixes, Idomeneus, Aiax Telamonius, Nestor, Meriones, Thoas, Philocteta, Neoptolemus atque Eumelus. Quos ubi in foro animadvertere populares, laeti animos tollunt finem iam aerumnarum credentes. Itaque singuli pluresve, uti quisque occurrerat, benigne adeunt, salutant gratulantes atque exosculantur. Tum Priamus pro Heleno orare Graecos multisque adhibitis precibus commendare carissimum sibi et inter ceteros dilectum magis propter prudentiam. Dein ubi tempus visum est, convivium publice coeptum in honore ducum adscitaeque pacis Antenore deserviente Graecis atque omni modo benigne exhibente cuncta. At lucis initio senes omnes in aedem Minervae conveniunt, in quis Antenor refert missos a Graecis super conditionibus praedictae pacis decem legatos viros. Quos ubi deduci in senatum placuit et dextrae invicem datae atque acceptae sunt, statuunt inter se, uti proximo die campi medio atque in ore omnium aras statuant, in quis fidem pacis iurisiurandi religionibus firmarent. Quis perfectis Diomedes atque Ulixes iurare occipiunt permansuros se in eo, quod sibi cum Antenore convenisset, testesque in eam rem Iovem

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restato con lui in Grecia per molti anni67. Dunque, come aveva stabilito Eleno, Epeo ed Aiace Oileo trasportano i molti materiali ritenuti adatti ad una siffatta opera68.

[Si sigla il trattato di pace] 10. Nel frattempo Diomede, Ulisse, Idomeneo, Aiace Telamonio, Nestore, Merione, Thoante, Filottete, Neottolemo ed Eumelo, i dieci comandanti scelti per firmare il trattato di pace, si recano a Troia69. Non appena i cittadini si accorsero della loro presenza nel foro, felici si ripresero d’animo confidando ormai nella fine dei dolori70. Dunque, singolarmente o a gruppi, non appena ne avevano incrociato uno, si avvicinavano con gioia, lo salutavano e lo baciavano con gratitudine. Allora Priamo prega i Greci per la salvezza di Eleno e con molte preghiere affida loro il figlio che gli era carissimo e più amato fra tutti, soprattutto per la saggezza71. Quindi, quando giunse il momento, in onore dei comandanti e della pace conclusa si diede inizio ad un banchetto ufficiale durante il quale Antenore serviva i Greci e si adoperava affinché tutto si svolgesse al meglio sotto ogni aspetto. All’alba tutti gli anziani si riuniscono al tempio di Minerva72: a quelli Antenore illustra che quei dieci ambasciatori erano stati inviati dai Greci per ratificare le predette condizioni di pace. Non appena fu deciso di farli entrare nell’assemblea e vennero strette reciprocamente le destre, stabiliscono di comune accordo di allestire il giorno seguente al centro della piana, e quindi visibili a tutti, gli altari sui quali sancire con sacri giuramenti il trattato di pace. Una volta preparato il tutto, Diomede e Ulisse73 per primi giurano che avrebbero mantenuto fede a ciò che era stato concordato con Antenore74

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summum Terramque matrem, Solem, Lunam atque Oceanum fore. Dein excisis in partes duas hostiis, quae ad eam rem admotae erant, ita uti pars ad solem, residuum ad naves spectaret, per medium transeunt. Dein Antenor in eadem verba placitum confirmat. Ita perfecto negotio ad suos quisque abeunt. Ceterum barbari Antenorem summis efferre laudibus, advenientem singuli quasi deum venerari, solum quippe omnium credere auctorem pacis eius adscitaeque cum Graecis amicitiae. Ita sopito iam exinde bello passim, uti quisque partium voluerat, nunc Graeci cum Troianis rursusque hi apud naves amice agere. Interim ubi foedus intervenerat, cuncti barbarorum socii, qui bello residui erant, gratulantes interventu pacis ad suos discedunt ne opperientes quidem praemia tantorum discriminum atque aerumnarum, scilicet veriti, ne qua pacti fides apud barbaros dissolveretur. 11. Interim apud naves, uti Heleno placuerat, equus tabulatis extruitur per Epium fabricatorem eius operis. Cui edito in immensum ima, quae sub pedibus erant, rotis interpositis suspenderat, scilicet quo adtractu motus facilius foret. Quem offerri donum Minervae maximum omnium ore agitabatur. Ceterum apud Troiam auri atque argenti praedictum pondus per Antenorem atque

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e che il sommo Giove, la madre Terra, il Sole, la Luna e l’Oceano ne sarebbero stati testimoni. Dunque, tagliate in due parti le vittime che erano state portate per questo scopo e disposte l’una verso il sole e l’altra verso le navi, vi passano in mezzo75. Poi Antenore conferma il patto con le stesse parole. Concluso il rito, ognuno torna da dove era venuto. I barbari esaltavano Antenore con grandissime lodi76 e, quando si avvicinava, lo onoravano quasi come un dio perché lo ritenevano tra tutti l’unico fautore di quella pace e dell’amicizia sancita con i Greci. Così, chiuse le ostilità da entrambi gli schieramenti come le parti avevano stabilito, i Greci frequentavano ora amichevolmente gli abitanti di Troia mentre questi ultimi si spingevano fino alle navi77. Nel torno di tempo in cui l’accordo era stato siglato, tutti gli alleati dei barbari che erano sopravvissuti alla guerra78, felicitandosi per l’arrivo della pace, fanno ritorno in patria senza nemmeno attendere la ricompensa per un così grande impegno e per così tante sofferenze, come se avessero paura che i barbari non avrebbero mantenuto fede al patto79.

[Il cavallo viene condotto in città] 1180. Nel frattempo presso le navi, come era stato stabilito da Eleno, con tavole di legno il cavallo viene assemblato da Epeo, il realizzatore dell’opera81. Una volta completato, era di notevole altezza ed era stato collocato su ruote, fissate poi sotto gli zoccoli, cosicché fosse più facile spostarlo per trazione82. A detta di tutti si trattava della più grande offerta votiva mai fatta a Minerva83. A Troia, invece, nel tempio di Minerva, si stava accumulando la quantità di oro e di argento pattuita con estrema attenzione e per

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Aeneam summo studio in aedem Minervae portabatur. Et Graeci, postquam auxilia sociorum dimissa cognitum est, impensius pacem atque amicitiam agitavere nullo exinde barbarorum interfecto aut vulnerato, quo magis sine ulla discordiarum suspicione apud hostes fuere. Dein equum compactum adfabre confixumque ad muras movent praenuntiato Troianis, uti cum religione susciperent, Minervae scilicet sacrum dicatumque. Quare magna vis hominum portis egressa summa laetitia sacrificioque donum excipit attrahitque propius moenia. Sed postquam magnitudine operis impediri per portas ingressum animadvertere, consilium destruendorum desuper murorum capiunt, neque quisquam secus prae tali studio decernebat. Ita inviolatum multis tempestatibus murorum opus Neptunique, ut perhibebatur, atque Apollinis maxima monumenta nullo dilectu civium manibus dissolvuntur. Sed postquam maior pars operis deiecta est, consulto a Graecis intercessum, confirmantibus non se passuros intra moenia induci equum, priusquam praedictum auri atque argenti pondus susceperint. Ita intermisso opere semirutisque moenibus Ulixes cunctos civitatis Troianae artifices ad reficiendas naves conducit. Composita dein universa classe, ubi cuncta navigia instructa et praemium persolutum est, iubent nostri peragere incepta. Itaque destructa murorum parte cum ioco lasciviaque induxere equum feminis inter se atque viris certatim adtrahere festinantibus.

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mezzo dello zelo di Antenore ed Enea84. E i Greci, venuti a conoscenza della partenza delle truppe degli alleati, si compiacquero della pace e dell’amicizia con grandissimo entusiasmo, senza più uccidere né ferire alcuno dei barbari così da non fornire ai nemici il pretesto per sospettare una loro ribellione. Quindi spingono fin sotto le mura il cavallo, portato a termine e rifinito con grande maestria, avendo già chiesto ai Troiani di accoglierlo con la massima devozione in quanto oggetto consacrato per dedica a Minerva85. Pertanto una moltitudine di uomini uscita dalle porte riceve il dono con grande letizia e sacrifici e lo trascina più vicino alle mura. Ma poiché tutti si erano resi conto che era impossibile far passare il manufatto attraverso le porte a causa della mole, prendono la decisione di abbattere completamente un tratto di mura. Nessuno esprimeva pareri contrari in merito a tale deliberazione. Così le mura inviolate per così tanti secoli86, magnifica opera monumentale di Nettuno – come si racconta – e di Apollo87, vengono sbriciolate senza alcun rispetto dalle mani degli stessi cittadini. Ma allorché la maggior parte della costruzione era stata abbattuta, fu imposta dai Greci un’interruzione dei lavori: infatti non avrebbero loro permesso di portare il cavallo all’interno delle mura prima di aver percepito la quantità d’oro e d’argento prestabilita88. Arrestate così le attività e abbattute parzialmente le mura, Ulisse conduce tutti i carpentieri della città di Troia a fare la manutenzione delle navi89. Riparata quindi l’intera flotta, non appena tutte le imbarcazioni furono equipaggiate e il riscatto fu saldato, i nostri ordinano di terminare quanto era stato cominciato. Quando il tratto di mura fu distrutto, il cavallo fu trainato all’interno con gioia e spensieratezza da donne e uomini che rivaleggiavano tra di loro per ardore.

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12. Interim Graeci, ubi cuncta navibus imposita sunt, incensis omnium tabernaculis ad Sigeum secedunt, ibique noctem opperiuntur. Fessis dein multo vino atque somno barbaris, quae utraque per laetitiam securitatemque pacis intervenerant, multo silentio ad civitatem navigant, servantes signum, quod igni elato Sinon ad eam rem clam positus sustulerat. Moxque omnes postquam intravere moenia divisis inter se civitatis locis, ubi signum datum est, magna vi caedere eos, quos fors obiecerat, atque obtruncare passim per domos atque vias, loca sacra profanaque et, si qui persenserant, priusquam armare se aut aliud pro salute capere quirent, opprimere. Prorsus nulla requies stragis atque funerum, cum palam et in ore suorum liberi parentesque magno inspectantium gemitu necarentur moxque ipsi, qui spectaculo carissimorum corporum interfuerant, miserandum in modum interirent. Neque segnius per totam urbem incendiis gestum positis prius defensoribus ad domum Aeneae atque Antenoris. Interim Priamus re cognita ad aram Iovis anteaedificialis confugit, multique ex eo loco ad reliqua deorum templa, in quis

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[La caduta di Troia] 12. Nel frattempo i Greci, non appena tutti i loro averi furono caricati sulle navi, danno fuoco alle loro tende, si ritirano al capo Sigeo90 e lì attendono la notte. Una volta che i barbari furono sfiniti dal molto vino e dal sonno – entrambe conseguenze del rilassamento e della sicurezza della pace91 –, i Greci salpano molto silenziosamente verso la città tenendo d’occhio il segnale che, con una torcia accesa, Sinone aveva discretamente collocato in una posizione sopraelevata per servire allo scopo92. E subito dopo che tutti entrarono all’interno della cinta muraria e si divisero tra loro i settori della città, al segnale stabilito fecero strage con grande violenza di quelli che il caso gli aveva fatto trovare davanti. Dappertutto compivano massacri: nelle case, nelle strade, nei luoghi sacri e in quelli profani. E qualora qualcuno si fosse reso conto degli eventi, lo uccidevano prima che potesse armarsi o afferrare qualcosa per difendersi. Per di più non ci fu alcuna tregua alla strage e alle uccisioni. Nemmeno quando, crudamente e sotto lo sguardo dei propri cari, figli e genitori venivano uccisi tra i profondi lamenti di coloro che guardavano; subito dopo, anche coloro che erano stati presenti al massacro di quegli amatissimi corpi trovavano la morte in una maniera miserevole93. Non meno alacremente si procedette ad appiccare incendi in ogni parte della città, ma solo dopo aver collocato delle guardie a difesa delle dimore di Enea e di Antenore94. [Destino di Priamo, Deifobo e Cassandra] Priamo nel frattempo, resosi conto della situazione, si precipita all’altare di Giove che si trovava davanti al suo pa-

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Cassandra in aedem Minervae. Sed postquam universos, qui in manus venerant, foede atque inultos obtruncavere, occipiente luce domum, in qua Helena erat, adgrediuntur. Ibi Menelaus Deiphobum, quem post Alexandri interitum Helenae matrimonium intercepisse supra docuimus, exsectis primo auribus brachiisque ablatis deinde naribus ad postremum truncatum omni ex parte foedatumque summo cruciatu necat. Dein Priamum Neoptolemus sine ullo aetatis atque honoris dilectu retinentem utraque manu aram iugulat. Ceterum Cassandram Oilei Aiax e sacro Minervae captivam abstrahit. 13. Hoc modo consumptis cum civitate barbaris, deliberatio inita super his, qui ab deorum aris auxilium vitae imploraverant decretumque ab omnibus, uti per vim avulsi necarentur: tantus dolor iniuriae et ob id studium extinguendi Troiani nominis incesserat. Ita comprehensi, qui cruciatum praedictae noctis subterfugerant, trepidantes ac vice pecorum interficiuntur. Dein more belli per templa ac semiustas domos populatio rerum omnium et per dies plurimos, ne quis hostium evaderet, studium in requirendo. Interim ad coacervandum auri atque argenti materiam opportuna loca destinantur et alia ob pretiosam

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lazzo95; molti altri si erano spostati dalla reggia verso gli altri templi degli dei: tra questi, Cassandra si rifugiò in quello dedicato a Minerva96. Ma, sul far del giorno, dopo che ebbero sterminato orribilmente tutti quelli che gli erano capitati sotto mano senza che nessuno potesse vendicarli97, i Greci fanno irruzione nella casa in cui c’era Elena. Lì Menelao uccide tra grandissimi tormenti Deifobo98 (di cui abbiamo precedentemente ricordato il matrimonio con Elena, dopo la scomparsa di Alessandro99): dopo avergli reciso prima le orecchie, poi le braccia e il naso, fu massacrato e dilaniato in ogni parte del corpo100. Quindi, senza alcun rispetto per l’età ed il rango, Neottolemo sgozza Priamo mentre costui si aggrappava con entrambe le mani all’altare. Quanto a Cassandra, Aiace d’Oileo la porta via dal sacello di Minerva come prigioniera101.

[Stragi e saccheggi a Troia] 13. Eliminati in questo modo i barbari insieme con la città , si aprì la discussione in merito a quelli che avevano implorato protezione presso gli altari degli dei e si decise all’unanimità di prenderli con la forza e di metterli a morte: il dolore dell’affronto era stato tanto grande e, per tale motivo, era sorto il desiderio di far sparire il nome stesso di Troia103. Catturati in questo modo, quelli che erano scampati ai tormenti della notte sono uccisi tremanti di paura, come bestiame104. Poi, come si è soliti fare in guerra, nei templi e nelle case consumate a metà dalle fiamme si fece saccheggio di ogni cosa e per parecchi giorni ci si adoperò nelle ricerche affinché nessun nemico si salvasse105. Intanto spazi adeguati sono destinati all’accumulo degli oggetti in oro e in argento, altri alle vesti preziose.

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vestem. Igitur ubi satias Troiani sanguinis tenuit et urbs incendiis complanata est, initium solvendae per praedam militiae capiunt, primo a feminis captivis puerisque adhuc imbellibus. Itaque ex his prima omnium Helena sine sorte Menelao conceditur, dein Polyxena suadente Ulixe per Neoptelemum Achilli inferias missa, Agamemnoni Cassandra datur, postquam forma eius captus, quin palam desiderium fateretur, dissimulare nequiverat, Aethram et Clymenam Demophoon atque Acamas habuere. Reliquarum sors agi coepta atque ita Neoptolemo Andromacha adiunctis, postquam id evenerat, filiis eius in honorem tanti ducis, Ulixi Hecuba obvenere. Hactenus nobilium feminarum cessere servitia. Alii, ut quemque sors contigerat, praedam aut ex captivis, quantum pro merito distribuebatur, habuere. 14. Interim super Palladio ingens certamen inter se ducibus exortum Aiace Telamonis expostulante in munus sibi pro his, quae in singulos universosque virtute atque industria sua contulerat. Qua re coacti paene omnes, simul uti ne laederetur animus tanti viri, cuius praeclara facinora vigiliasque pro exercitu in animo retinebant, concedunt Aiaci renitentibus solis omnium Diomede atque Ulixe

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[La distribuzione dei prigionieri] Dunque quando furono sazi del sangue troiano e la città fu spianata dagli incendi106, iniziano a congedare gli effettivi con il bottino, cominciando prima dalle prigioniere e dai fanciulli ancora inermi. Fra loro, prima di tutti, Elena è assegnata a Menelao senza sorteggio107, poi Polissena – su consiglio di Ulisse108 – è inviata ad Achille negli Inferi per mano di Neottolemo109; Cassandra è destinata ad Agamennone che, catturato dalla bellezza di lei, non aveva potuto esimersi dal manifestare palesemente tale desiderio. Demofonte e Acamante ebbero Aethra e Climene110. Delle altre si cominciò a tirare a sorte: così a Neottolemo toccarono Andromaca e i figli di lei che gli vennero assegnati dopo che era stato già effettuato il sorteggio in considerazione del valore di un così grande condottiero111; Ulisse ebbe Ecuba. A questo punto cominciò la schiavitù delle donne dell’aristocrazia troiana. In accordo con quello che la sorte aveva stabilito, gli altri ebbero bottino o schiavi, distribuiti secondo il merito di ciascuno.

[Contesa per il Palladio tra Aiace ed Ulisse] 14. Nel frattempo scoppiò tra i comandanti un'accesa contesa per il Palladio112 poiché Aiace Telamonio lo chiedeva per sé in dono a fronte di ciò che era stato compiuto per i singoli e per tutta la collettività grazie alla sua virtù e alla sua caparbietà. Quasi tutti si sentivano obbligati a non recare offesa all’animo di un così valente eroe e, dal momento che custodivano nel cuore le celebri imprese e i sacrifici di quell’uomo per la salvezza dell’esercito, lo concedono ad Aiace. Fra tutti solamente Diomede ed Ulisse113

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sua quippe opera insinuantibus id ablatum. Contra Aiax adfirmare non labore aut virtute eorum rem gestam, Antenorem namque contemplatione communis amicitiae abstulisse. Tum Diomedes honori eius per verecundiam concedens a certamine destitit. Igitur Ulixes cum Aiace summa vi contendere inter se atque invicem industriae meritis expostulare adnitentibus Ulixi Menelao atque Agamemnone ob servatam paulo ante opera eius Helenam. Namque post captum Ilium Aiax recordatus eorum, quae tantis tempestatibus propter mulierem experti perpessique essent, primus omnium interfici eam iusserat. Iamque adprobantibus consilium Aiacis multis bonis Menelaus amorem coniugii etiam tunc retinens singulos ambiundo orandoque ad postremum perfecerat, uti intercessu Ulixis Helena incolumis sibi traderetur. Itaque uti iudicio amborum merita expectantes, quis etiam nunc bellum in manibus atque hostiles multae nationes circumstreperent, nullo dilectu virorum fortium, spretisque Aiacis egregiis facinoribus ac frumenti, quod ex Thracia advexerat, per totum exercitum distributione Ulixi Palladium tradunt. 15. Quare cuncti duces, qui memores virtutum Aiacis nihil praeferendum ei censuerant quique secuti gratiam Ulixi

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si mostrarono contrari, facendo presente che il Palladio era stato sottratto grazie a loro. Al contrario, Aiace sosteneva che l’impresa era stata portata a termine non per l’intelligenza e la mano di quelli ma per il fatto che Antenore aveva rubato il Palladio in nome della loro reciproca amicizia. Allora Diomede rinuncia alla contesa, facendo per rispetto un passo indietro davanti al prestigio di quello. Dunque Ulisse e Aiace si contendevano con estremo impeto la preda e la esigevano per i meriti delle proprie azioni. Menelao ed Agamennone si schierarono a favore di Ulisse per il fatto che Elena era stata tratta in salvo poco prima per suo intervento114. Dopo la presa di Ilio, infatti, ricordandosi di quello che in così tante circostanze avevano patito e sopportato per colpa di quella donna, Aiace primo fra tutti aveva fatto pressioni per ucciderla e, pur se molti valorosi già approvavano la proposta di Aiace, alla fine Menelao, che conservava anche allora l’amore per la sposa, dopo essersi avvicinato ad ognuno per pregarlo, aveva ottenuto che Elena gli fosse consegnata incolume proprio grazie all’intercessione di Ulisse. [Il Palladio è attribuito ad Ulisse] E dunque valutando come in un processo i meriti di entrambi, nonostante la guerra fosse ancora in corso115 e molti popoli facessero sentire la propria voce ostile, senza alcuna valutazione critica dei due eroi e con disprezzo per le splendide imprese di Aiace e per la distribuzione all’intero esercito del grano che costui aveva fatto arrivare dalla Tracia116, consegnano il Palladio ad Ulisse117. 15. Per tale motivo tutti i comandanti si dividono in fazioni secondo le proprie convinzioni: chi memore delle virtù

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impugnaverant talem virum, studio in partes discedunt. Interim Aiax indignatus et ob id victus dolore animi palam atque in ore omnium vindictam se sanguine eorum a quis impugnatus esset, exacturum denuntiat. Itaque ex eo Ulixes, Agamemnon ac Menelaus custodiam sui augere et quo tutiores essent, summa ope invigilare. At ubi nox aderat, discedentes uno ore omnes lacerare utrumque regem neque abstinere maledictis, quippe quis magis libido desideriumque in femina quam summa militiae potiora forent. At lucis principio Aiacem in medio exanimem offendunt perquirentesque mortis genus animadvertere ferro interfectum. Inde ortus per duces atque exercitum tumultus ingens ac dein seditio brevi adulta, cum ante iam Palamedem virum domi belloque prudentissimum nunc Aiacem, inclitum tot egregiis pugnis, atque utrosque insidiis eorum circumventos ingemescerent. Ob quae supradicti reges veriti, ne qua vis ab exercitu pararetur, intus clausi firmatique per necessarios manent. Interim Neoptolemus advecta ligni materia Aiacem cremat reliquiasque urnae aureae conditas in Rhoeteo sepeliendas procurat brevique tumulum extructum consecrat in honorem tanti ducis.

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di Aiace aveva stabilito che nulla si dovesse porre davanti a lui e chi aveva contestato quell’eroe così valoroso per ottenere il favore di Ulisse. Nel frattempo, indignato e vinto nell’intimo dal dolore per questo fatto, Aiace dichiara apertamente e alla presenza di tutti che si sarebbe vendicato con il sangue di quelli dai quali era stato avversato. E per questo motivo Ulisse, Agamennone e Menelao rinforzarono la propria scorta e si preoccuparono per la propria incolumità con ingenti mezzi. Non appena scesero le tenebre, mentre si allontanavano tutti quanti denigravano ad una sola voce i due re, senza risparmiare le imprecazioni dal momento che quelli avevano considerato la passione e il desiderio per una donna più importanti dell’intera campagna militare. [La morte misteriosa di Aiace] Allora sul fare del giorno trovano Aiace esanime nel mezzo dell’accampamento e, ricercando la causa della morte, si accorsero che era stato ucciso da un colpo di spada118. Un grande tumulto scoppiò quindi tra i comandanti e l’esercito e, nell’arco di un breve tempo, una vera e propria ribellione poiché già prima avevano pianto Palamede, uomo assai coscienzioso in tempo di pace e in tempo di guerra, e ora si trovavano a piangere Aiace, illustre per i combattimenti tanto straordinari: entrambi sopraffatti dalle macchinazioni di quelli. Dunque, temendo che fosse preparata dall’esercito qualche rappresaglia, i suddetti re si barricano nelle tende con la protezione degli amici. Nel frattempo, dopo aver trasportato del legname, Neottolemo si occupa della cremazione di Aiace, fa in modo che i resti raccolti in un’urna d’oro fossero seppelliti al Reteo119 e consacra al sì valente condottiero il tumulo che in breve

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Quae si ante captum Ilium accidere potuissent, profecto magna ex parte promotae res hostium ac dubitatum de summa rerum fuisset. Igitur Ulixes veritus vim offensi exercitus clam Ismarum aufugit atque ita Palladium apud Diomedem manet. 16. Ceterum post abscessum Ulixi Hecuba, quo servitium morte solveret, multa ingerere maledicta imprecarique infesta omina in exercitum. Qua re motus miles lapidus obrutam eam necat sepulchrumque apud Abydum statuitur appellatum Cynossema ob linguae protervam impudentemque petulantiam. Per idem tempus Cassandra deo repleta multa in Agamemnonem adversa praenuntiat: insidias quippe ei ex occulto caedemque domi per suos compositam; praeterea universo exercitui profectionem ad suos incommodam exitialemque. Inter quae Antenor cum suis Graecos orare, omitterent iras atque urgente navigii tempore in commune consulant. Praeterea omnes duces ad se epulatum deducit ibique singulos quam maximis donis replet. Tunc Graeci Aeneae suadent, secum uti in Graeciam naviget, ibi namque ei simile cum

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tempo aveva fatto costruire120. Se tali eventi si fossero verificati prima della caduta di Ilio, certamente la situazione dei nemici sarebbe in gran parte migliorata e si sarebbe dubitato addirittura dell’esito degli eventi. Dunque, temendo la forza distruttiva di un esercito indignato, Ulisse fugge in segreto a Ismaro121 e in questo modo il Palladio resta a Diomede122.

[Infauste profezie sul ritorno dei Greci. Morte di Ecuba] 16. Dopo la partenza di Ulisse, Ecuba, desiderosa di mettere fine alla schiavitù con la morte, scaglia molte maledizioni e nelle preghiere invoca terribili sciagure sull’esercito. Provocate da quelle parole, le truppe la uccidono sommergendola di pietre e le innalzano presso Abido un sepolcro, chiamato Cinossema in ricordo dell’esuberanza insolente ed impudente della lingua di lei123. Allo stesso tempo Cassandra, invasata dal dio124, annuncia molte avversità ad Agamennone (si tramavano segretamente delle insidie contro di lui e a casa i suoi cari preparavano il suo omicidio125) e inoltre un ritorno in patria gravoso e funesto per tutto l’esercito. [I preparativi della partenza dei Greci] Tra questi avvenimenti Antenore, per sé ed i suoi uomini, invita i Greci a mettere da parte la collera e a prendere delle decisioni in comune visto che il momento di salpare si avvicinava126. Poi invita tutti i comandanti a mangiare alla sua tenda e lì riempie ognuno di quanti più doni possibile127. Allora i Greci consigliano ad Enea di prendere il largo con loro per la Grecia: lì infatti avrebbe avuto le stesse

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ceteris ducibus ius regnique eandem potestatem fore. Neoptolemus filios Hectoris Heleno concedit, praeterea reliqui duces auri atque argenti quantum singulis visum est. Dein consilio habito decernitur, uti per triduum funus Aiacis publice susciperetur. Itaque exactis his diebus cuncti reges comam tumulo eius deponunt. Atque exin contumeliis Agamemnonem fratremque agere eosque non Atrei sed Plisthenidas et ob id ignobiles appellare. Quare coacti, simul uti odium sui apud exercitum per absentiam leniretur, orant, uti sibi abire e conspectu eorum sine noxa concedant. Itaque consensu omnium primi navigant deturbati expulsique ab ducibus. Ceterum Aiacis filii, Aeantides Glauca genitus atque Eurysaces ex Tecmessa, Teucro traditi. 17. Dein Graeci veriti, ne per moram interventu hiemis, quae ingruebat, ab navigando excluderentur, deductas in mare naves remigibus reliquisque nauticis instrumentis complent. Atque ita cum his, quae singuli praeda multorum annorum quaesiverant, discedunt. Aeneas apud Troiam manet. Qui post Graecorum profectionem cunctos ex Dardano atque ex proxima paene insula adit, orat, uti secum Antenorem regno exigerent. Quae postquam praeverso de se nuntio Antenori cognita sunt, regrediens ad Troiam imperfecto negotio aditu prohibetur. Ita coactus

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prerogative degli altri comandanti e la loro stessa autorità . Neottolemo concede ad Eleno i figli di Ettore129 mentre gli altri comandanti gli attribuirono quanto oro e argento sembrò opportuno ad ognuno. In seguito, tenutasi un’assemblea, si decide di celebrare per tre giorni i funerali solenni di Aiace. Così, passati questi giorni, tutti quanti i re depongono la propria chioma sulla tomba di lui130; quindi ricoprono di insulti Agamennone e il fratello, li chiamano figli non di Atreo ma di Plistene, e pertanto ignobili131. Colpiti da quest’insulto ma anche per lenire l’odio dell’esercito nei loro confronti con la loro partenza, chiedono il permesso di congedarsi incolumi da lì. Dunque con l’approvazione di tutti salpano per primi, espulsi e scacciati dai comandanti132. Quanto ai figli di Aiace – Eantide, figlio di Glauca, ed Eurisace, figlio di Tecmessa133 –, essi sono affidati a Teucro134. 17. Quindi i Greci, temendo che con l’indugiare avrebbero perso l’occasione di mettersi in mare per l’arrivo imminente dell’inverno135, mettono le navi in acqua e le riforniscono di remi e di tutti gli altri strumenti di navigazione. E così partono, ognuno con il bottino che aveva accumulato nei molti anni. [Vicende di Enea e di Antenore] Enea rimane a Troia136. Dopo la partenza dei Greci, si reca da tutte le genti della stirpe di Dardano137 e della vicinissima penisola138 e li esorta a scacciare insieme a lui Antenore dal regno. Ma dopo che ciò fu saputo da Antenore – che era stato informato di ciò da un messaggero –, al suo ritorno e senza aver portato a termine la missione, ad Enea fu precluso l’accesso in città139. Così, senza altra possibili-

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cum omni patrimonio ab Troia navigat devenitque ad mare Hadriaticum multas interim gentes barbaras praevectus. Ibi cum his, qui secum navigaverant, civitatem condit appellatam Corcyram Melaenam. Ceterum apud Troiam postquam fama est Antenorem regno potitum, cuncti, qui bello residui nocturnam civitatis cladem evaserant, ad eum confluunt brevique ingens coalita multitudo. Tantus amor erga Antenorem atque opinio sapientiae incesserat. Fitque princeps amicitiae eius rex Cebrenorum Oenideus. Haec ego Gnosius Dictys comes Idomenei conscripsi oratione ea, quam maxime inter tam diversa loquendi genera consequi ac comprehendere potui, litteris Punicis ab Cadmo Danaoque traditis. Neque sit mirum cuiquam, si quamvis Graeci omnes diverso tamen inter se sermone agunt, cum ne nos quidem unius eiusdemque insulae simili lingua sed varia permixtaque utamur. Igitur ea, quae in bello evenere Graecis ac barbaris, cuncta sciens perpessusque magna ex parte memoriae tradidi. De Antenore eiusque regno quae audieram retuli. Nunc reditum nostrorum narrare iuvat.

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tà, egli salpa da Troia con tutti i suoi averi e, dopo esser passato per molti popoli barbari, giunge al mare Adriatico140. Lì insieme ai compagni con i quali aveva affrontato la navigazione fonda una città chiamata Corcira Melena141. D’altronde, dopo che a Troia si sparse la voce che Antenore aveva preso il potere, tutti quelli che nel conflitto erano scampati alla distruzione notturna della città si recano da lui e in breve tempo un enorme numero di uomini si raduna142: tanto grande era l’amore per Antenore e la fama della sua saggezza143! Enideo, il re dei Cebreni, diviene il primo tra i suoi amici144. [Epilogo] Io, Ditti di Cnosso, compagno di Idomeneo145, ho scritto queste cose nella forma che ho potuto comprendere e padroneggiare tra così tante e differenti lingue, nell’alfabeto punico che ci è stato donato da Cadmo e Danao146. Che nessuno si meravigli se i Greci, si esprimono tra di loro ognuno in lingue diverse: neppure noi di una stessa isola utilizziamo una sola lingua ma qualcosa di variegato e composito! Dunque conoscendo tutto quello che durante la guerra è capitato ai Greci e ai barbari e avendolo vissuto in prima persona, in larga parte lo ho trasmesso a futura memoria. Di Antenore e del suo regno ho riferito quanto sono venuto a sapere147. Ora è il caso di narrare il ritorno dei nostri148.

LIBER SEXTUS

LIBRO SESTO Traduzione e note di Valentina Zanusso

1. Postquam impositis cunctis, quae singuli bello quaesiverant, ascendere ipsi, solutis anchoralibus navigant. Dein a puppi secundante vento paucis diebus pervenere ad Aegaeum mare, ibi malta imbribus ventisque, et ob id saeviente mari indigna experti passim, uti fors tulerat, dispalantur. In quis Locrorum classis, perturbatis per tempestatem officiis nautarum et inter se implicatis ad postremum fulmine comminuta aut incensa est, et rex Locrorum Aiax, postquam natando evadere naufragium enisus est, aliique per noctem tabulis aut alio levamine fluitantes, postquam ad Euboeam devenere, Choeradibus scopulis appulsi pereunt. Eos namque re cognita Nauplius ultum ire cupiens Palamedis necem, per noctem igni elato ad ea loca deflectere tamquam ad portum, coegerat. 2. Per idem tempus Oeax Naupli filius, Palamedis frater cognito Graecos ad suos remeare Argos venit, ibi Aegialen atque Clytemestram falsis nuntiis adversum maritos armat praedicto ducere eos secum ex Troia uxores praelatas his.

[Tempeste in mare disperdono la flotta; morte di Aiace; inganno di Nauplio]1 1. Poi che, caricato sulle navi ciò che ciascuno aveva conquistato in guerra, vi salgono anch’essi, levate le ancore, prendono il mare2. In seguito, con il vento a favore da poppa, in pochi giorni, giungono nel mare Egeo, dove, tra piogge e venti, subendo pertanto a più riprese molte sciagure immeritate, nel mare in burrasca, come la sorte aveva deciso, si disperdono. Tra costoro, la flotta locrese, sconvolti e confusi tra loro i compiti dei marinai durante la tempesta, viene infine fatta a pezzi e incendiata da un fulmine, e il re dei Locresi Aiace3, dopo aver tentato di scampare a nuoto il naufragio, e altri nella notte che si mantenevano a galla con tavole o con altro fasciame, spinti sugli scogli Cheradi4, periscono. Nauplio5, difatti, saputo ciò, desideroso di vendicare l’uccisione di Palamede, agitando del fuoco nella notte li aveva deviati verso quei luoghi e li aveva spinti lì come fosse un porto6.

[Ritorni travagliati di altri eroi greci: Diomede, Agamennone, Menesteo, Demofonte e Acamante; Diomede salva Eneo e torna in patria; ritorno di Idomeneo] 2. Nello stesso momento Eace7, figlio di Nauplio e fratello di Palamede, saputo che i Greci tornavano dai loro familiari, giunge ad Argo, dove, con false notizie, arma contro i mariti Egialea e Clitemestra8, dicendo loro che essi portavano con sé da Troia concubine a quelli sottratte. Ag-

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Praeterea addere ea, quis mobile suasu natura muliebre ingenium magis adversum suos incenderetur. Itaque Aegiale advenientem Diomedem per cives aditu prohibet. Clytemestra per Aegisthum adulterio sibi cognitum Agamemnonem insidiis capit eumque interficit. Brevique denupta adultero Erigonen ex eo edit. Interim Talthybius Orestem Agamemnonis filium manibus Aegisthi ereptum Idomeneo, qui apud Corinthum agebat, tradit. Eo Diomedes expulsus regno et Teucrus prohibitus Salamina a Telamone, scilicet quod fratrem insidiis circumventum non defendisset, conveniunt. Interim Menestheus cum Aethra Pitthei et Clymena filia eius ab Atheniensibus recipitur, Demophoon atque Acamas foris manent. Ceterum ubi plures eorum qui mare insidiasque suorum evaserant, apud Corinthum fuere, cavent, uti iuncti inter se singula aggrederentur regna belloque aditum ad suos patefacerent. Eam rem Nestor prohibet suadens temptandos prius civium animos neque committendum, uti per seditionem Graecia omnis intestinis discordiis corrumperetur. Neque multo post cognoscit Diomedes in Aetolia ab his, qui per absentiam eius regnum infestabant, Oeneum multimodis afflictari. Ob quae profectus ad ea loca omnes, quos auctores iniuriae reppererat, interficit metuque omnibus circum locis iniecto facile ab suis receptus est. Inde per omnem Graeciam fama orta suos quisque reges accipiunt summam in his, qui apud Troiam bellaverant, virtutem, neque in resistendo cuiusquam

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giungeva inoltre quanto potesse ancor di più infiammare contro i mariti la mente femminile, per sua stessa natura incline a lasciarsi persuadere9. Così Egialea, tramite i cittadini, impedisce a Diomede, che stava tornando, di entrare in città . Clitemestra11, tramite Egisto12, guadagnato alla propria causa con l’adulterio, prende Agamennone nelle proprie trame13 e lo uccide. Sposata in breve tempo all’adultero14, da lui partorisce Erigone15. Frattanto Taltibio consegna Oreste16, figlio di Agamennone17, sottratto alle mani di Egisto, a Idomeneo, che si trovava presso Corinto18. Qui si radunano Diomede, espulso dal regno, e Teucro, allontanato da Salamina da Telamone, poiché non aveva vendicato il fratello travolto in agguato19. Frattanto20 Menesteo21, con Etra, figlia di Pitteo, e Climene22, sua figlia, viene accolto dagli Ateniesi, mentre Demofonte e Acamante23 rimangono fuori. Inoltre, molti di coloro che avevano scampato il mare e le trame dei familiari24, dopo essersi ritrovati a Corinto, stabiliscono di attaccare, stretti in alleanza, i diversi regni, e aprono così la strada della guerra ai propri familiari. Cosa che Nestore impedisce convincendo a mettere prima alla prova gli animi dei cittadini25, e a non fare in modo che, con una rivolta, tutta la Grecia sia corrotta da discordie intestine. Non molto tempo dopo, Diomede viene a sapere che in Etolia Eneo26 veniva maltrattato in diversi modi da coloro che, per la sua assenza, ne devastavano il regno. Perciò, partito per quei luoghi, uccide tutti coloro che aveva scoperto essere responsabili delle offese e, diffuso il terrore in tutte le regioni circostanti, viene infine accolto di buon grado dai suoi27. Essendosene diffusa notizia in tutta la Grecia, ciascuno accoglie i propri re, considerando grande il coraggio in coloro che combatterono presso Troia e pensando che nessuno avesse forze a sufficienza per opporre loro

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vires idoneas existimantes. Ita nos quoque cum Idomeneo rege Cretam patrium solum summa gratulatione civium remeavimus. 3. Dein ubi Orestes transactis pueritiae annis officia viri exsequi coepit, orat Idomeneum, uti secum ex ea insula quam plurimos mitteret; cupere namque se Athenas navigare. Itaque collecto numero eorum, quos idoneos credebat, Athenas venit; ab his auxilium contra Aegisthum orat. Dein ad oraculum adit responsumque fert, uti matrem et cum ea Aegistum interficiat; ex quo fore, uti regnum patrium reciperet. Huiusmodi numine armatus cum praedicta manu ad Strophium venit. Is namque Phocensis, cuius filia in matrimonium Aegisthi denupserat, indignatus, quod spreto priore coniugio Clytemestram superduxerit et regem omnium Agamemnonem insidiis interfecerit, ultro ei auxilium adversum inimicissimos obtulerat. Itaque conspirato inter se cum magna manu Mycenas veniunt statimque, quod Aegisthus aberat, primo Clytemestram interficiunt multosque alios, qui resistere ausi erant. Dein cognito Aegisthum adventare, insidias ponunt eumque circumveniunt. Inde per omnem Argivorum populum dissensio animorum exorta, quod diversa inter se cupientes ad postremum in partes discederent. Per idem tempus Menelaus adpulsus Cretam cuncta super Agamemnone regnoque eius cognoscit.

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resistenza. Così anche noi, insieme ad Idomeneo, abbiamo fatto ritorno al patrio suolo di Creta con grande gioia dei cittadini28.

[Vendetta di Oreste; arrivo di Menelao a Creta e conclusione delle vicende di Oreste] 3. In seguito quando Oreste, trascorsi gli anni della fanciullezza, ha iniziato a perseguire i doveri di un uomo, prega Idomeneo di inviare da quell’isola quanti più uomini possibili; desiderava infatti salpare per Atene. Perciò, radunato un certo numero di uomini che credeva idonei, giunge ad Atene e chiede aiuto a costoro contro Egisto. Poi fa visita all’oracolo e ne riporta questo responso: uccidere sua madre e, con essa, Egisto; grazie a ciò avrebbe ottenuto il regno paterno. Armato di un tale nume, si reca da Strofio con il suddetto manipolo. Difatti questo focese, la cui figlia si era unita in matrimonio ad Egisto, indignato poiché, ripudiata la prima unione, questi aveva risposato Clitemestra e aveva ucciso a tradimento Agamennone, sovrano assoluto, gli aveva offerto ulteriore aiuto contro i suoi acerrimi nemici. Perciò, accordatisi sul da farsi, raggiungono Micene con un folto esercito e subito, dal momento che Egisto era assente, uccidono per prima Clitemestra e molti altri che avevano osato opporre resistenza. Poi, saputo che Egisto tornava, lo uccidono tendendogli un agguato. Insorse di qui discordia negli animi di tutti i cittadini poiché, avendo pareri tra loro diversi, finiscono per dividersi in fazioni. Nello stesso momento, Menelao, approdato a Creta, viene a conoscenza di tutte le vicende di Agamennone e del suo regno29.

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4. Interea per omnem insulam, postquam cognitum Helenam eo venisse, multi undique virile ac muliebre secus confluunt advenientes dignoscere, cuius gratia orbis paene omnis ad bellum conspiravisset. Ibi inter cetera Menelaus perfert Teucrum expulsum patria civitatem apud Cyprum Salamina nomine condidisse. Multa etiam apud Aegyptum miranda refert et Canopi gubernatoris sui, qui ibi morsu serpentium interierat, extructum magnificum monumentum. Dein ubi tempus visum est, Mycenas navigat. Ibi multa adversum Orestem molitur. Ad postremum multitudine popularium cohibitus ab eo quod coeperat negotio restitit. Inde placet cunctis Orestem super eo facinore causam dicere apud Athenienses, ubi Ariopagitarum iudicium severissimum per omnem Graeciam memorabatur. Apud quos dicta causa iuvenis absolvitur. Erigona quae ex Aegistho edita erat, ubi fratrem absolutum intellegit, victa dolore immodico laqueo interiit. Menestheus liberatum Orestem parricidii crimine purgatumque more patrio cunctis remediis, quae ad oblivionem huiusmodi facinoris adhiberi solita erant, Mycenas remittit; ibique regnum ei concessum. Dein transacto tempore accitu Idomenei Cretam venit neque multo post Menelaus. Ibi multa in patruum severe per eum ingesta, quod sibi per dissensionem popularium multimodis periclitanti ipse etiam insidiatus esset. Ad postremum intercessu Idomenei uterque conciliatus sibi Lacedaemona discedit. Ibi Menelaus, sicuti convenerat, Hermionam in matrimonium Oresti despondit.

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4. Frattanto poi che si viene a sapere in tutta l’isola che Elena era arrivata lì, in molti, maschi e femmine, vi si riversano per venire a contemplare per quale oggetto la quasi totalità del mondo sia venuta a battaglia. Qui Menelao, tra le altre cose, racconta che Teucro, espulso dalla patria, aveva fondato presso Cipro una città di nome Salamina30. Racconta anche molte cose stupefacenti sull’Egitto, e che era stato edificato uno splendido monumento funebre in onore del suo timoniere Canopo, morto per il morso di un serpente31. Poi, quando gli sembra essere il momento opportuno, salpa per Micene. Qui ordisce molte trame contro Oreste. In ultimo, ostacolato dalla folla dei cittadini, desistette dal piano che aveva concepito. Dunque, per volere di tutti, si decreta che Oreste debba pronunciare un discorso su quel crimine, in propria difesa, davanti agli Ateniesi, ove si tramanda vi fosse il tribunale degli Areopagiti, il più severo di tutta la Grecia. Dopo aver pronunciato il discorso al loro cospetto, il giovane viene assolto; Erigone, che era nata da Egisto, quando viene a conoscenza dell’assoluzione del fratello, vinta dal dolore, si dà la morte con iniquo laccio32. Menesteo33 rispedisce Oreste, liberato dall’accusa di parricidio e depurato con tutti i rimedi previsti dal costume dei padri, che erano solitamente impiegati per cancellare un crimine di questo genere, a Micene; qui gli viene affidato il regno. Poi, trascorso del tempo, su invito di Idomeneo, giunge a Creta, e poco dopo arriva anche Menelao. Lì Oreste scaglia molte accuse contro lo zio paterno, poiché anche lui lo aveva insidiato mentre era in pericolo in vari modi a causa del disaccordo del popolo. In ultimo i due, riconciliatisi per mediazione di Idomeneo, partono per Sparta. Qui Menelao, come d’accordo, promette Ermione in sposa ad Oreste34.

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5. Per idem tempus Ulixes Cretam appulsus est duabus Phoenicum navibus mercedis pacto acceptis, namque suas cum sociis atque omnibus, quae ex Troia habuerat, per vim Telamonis amiserat scilicet infesti ob inlatam per eum filio necem, vix ipse liberatus industria sui. Percontantique Idomeneo, quibus ex causis in tantas miserias devenisset, erroris initium narrare occipit: quo pacto appulsus Ismarum multa inde per bellum quaesita praeda navigaverit adpulsusque ad Lotophagos atque adversa usus fortuna devenerit in Siciliam, ubi per Cyclopa et Lestrygona fratres multa indigna expertus ad postremum ab eorum filiis Antiphate et Polyphemo plurimos sociorum amiserit. Dein per misericordiam Polyphemi in amicitiam receptus filiam regis Arenen, postquam Alphenoris socii eius amore deperibat, rapere conatus. Ubi res cognita est, interventu parentis puella ablata per vim, exactus per Aeoli insulas devenerit ad Circen atque inde ad Calypso utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris animos hospitum ad amorem sui inlicientes. Inde liberatus pervenerit ad eum locum, in quo exhibitis quibusdam sacris futura defunctorum animis dignoscerentur. Post quae adpulsus Sirenarum scopulis, ubi per industriam liberatus sit. Ad postremum inter Scyllam et Charybdim mare saevissimum et inlata sorbere solitum plurimas navium cum sociis amiserit. Ita se cum residuis in manus Phoenicum per maria praedantium incurrisse atque ab his per misericordiam reservatum. Igitur, uti voluerat, acceptis ab rege nostro duabus navibus

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[Ulisse a Creta presso Idomeneo racconta il suo nostos] 5. Nello stesso momento Ulisse35 giunse a Creta con due navi Fenicie, acquistate dietro certo compenso; infatti aveva perso le proprie, assieme ai compagni e a quanto aveva portato via da Troia, per l’attacco di Telamone36, accanitosi ovviamente per l’omicidio del figlio avvenuto a causa sua, e lui stesso era riuscito a malapena a salvarsi, grazie alla propria astuzia. Ad Idomeneo, che lo interrogava37 sulle cause per le quali fosse caduto in tale disgrazia, iniziò a narrare il principio del suo errare: in che modo, raggiunto l’Ismaro38, si fosse imbarcato con un ingente bottino di guerra e, raggiunti i Lotofagi, colpito da una sorte avversa39, approdò in Sicilia, ove, subendo offese immeritate da parte dei fratelli Ciclope e Lestrigone, in ultimo perse moltissimi compagni a causa dei figli di quelli: Antifate e Polifemo40. Poi, accolto in amicizia grazie al buon cuore di Polifemo, tentò di rapire Arene, la figlia del re, poi che quella si consumava per amore del suo compagno Alfenore41. Quando la cosa venne alla luce, e la fanciulla, per intervento del padre, fu portata via a forza, passato per le isole di Eolo42, giunse presso Circe e di qui presso Calipso, entrambe regine di isole nelle quali dimoravano, inducendo con qualche artificio gli animi dei visitatori all’amore43. Liberato da qui, giunse nel luogo in cui veniva disvelato il futuro mediante l’apparizione di alcuni divini simulacri di defunti44. In seguito raggiunse gli scogli delle Sirene45, da cui si salvò grazie alla propria astuzia. In ultimo, tra Scilla e Cariddi, un tratto di mare crudelissimo, solito inghiottire quanto vi si spinge, perse la maggior parte delle navi, insieme ai compagni46. Così cadde, lui e i sopravvissuti, nelle mani dei Fenici, predatori dei mari, e fu salvato dal buon cuore di costoro47. Dunque, per suo desiderio, prese due

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donatusque multa praeda ad Alcinoum regem Phaeacum remittitur. 6. Ibi ob celebritatem nominis per multos dies benigne acceptus cognoscit Penelopam ab triginta illustribus viris diversis ex locis in matrimonium postulari; hique erant ab Zacyntho, Echinadibus, Leucata, Ithaca. Ob quae multis precibus persuadet regi, uti secum ad vindicandam matrimonii iniuriam navigaret. Sed postquam devenere ad eum locum paulisper occultato Ulyxe, ubi Telemachum rem, quae parabatur, edocuere, domum ad Ulixem clam veniunt; ubi multo vino atque epulis repletos iam procos ingressi interficiunt. Dein per civitatem Ulixem adventasse popularibus cognitum est, a quis benigne et cum favore exceptus cuncta, quae domi gesta erant, cognoscit; meritos donis aut suppliciis afficit. De Penelopa eiusque pudicitia praeclara fama. Neque multo post precibus atque hortatu Ulixis Alcinoi filia Nausica Telemacho denubit. Per idem tempus Idomeneus dux noster apud Cretam interiit tradito per successionem Merioni regno. Et Laerta triennio, post quam filius domum redit, finem vitae fecit. Telemacho ex Nausica natum filium Ulixes Ptoliporthum appellat. 7. Dum haec apud Ithacam aguntur, Neoptolemus apud Molossos naves quassatas tempestatibus reficit. Atque inde, postquam cognitum ab Acasto expulsum regno

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navi dal nostro re e ricevuto in dono un cospicuo bottino, viene inviato dal re dei Feaci Alcinoo48. 6. Essendo in questa terra accolto benevolmente grazie alla fama del suo nome49, viene a sapere50 che Penelope era chiesta in matrimonio da trenta51 illustri uomini di diversa provenienza; costoro venivano infatti da Zacinto, dalle Echinadi, da Leucate, da Itaca. Per questo, con molte preghiere, persuade il re a partire insieme a lui per vendicare l’offesa arrecata al proprio matrimonio52. Dopo essere giunti in quella terra, tenuto Ulisse in incognito per qualche tempo, non appena hanno informato Telemaco del piano che veniva approntato, in segreto si recano nella dimora di Ulisse; ove, una volta entrati, uccidono i proci, rimpinzati di vino e cibo53. In seguito la notizia del ritorno di Ulisse si è diffusa ai cittadini, dai quali l’eroe, accolto di buon grado e con entusiasmo, viene a conoscenza di tutto ciò che era avvenuto in patria; ricompensa dunque i meritevoli con doni e ringraziamenti. Gloriosa era la fama di Penelope e del suo pudore54. Non molto tempo dopo, grazie alle preghiere e su esortazione di Ulisse, Nausicaa, figlia di Alcinoo, è andata in sposa a Telemaco55. Nello stesso momento il nostro comandante Idomeneo muore a Creta, mentre il regno passa, secondo la successione, a Merione56. Inoltre Laerte, tre anni dopo il ritorno del figlio, morì57. Ulisse chiama il figlio generato a Telemaco da Nausicaa, Ptoliporto.

[Avventure di Neottolemo e Peleo] 7. Mentre a Itaca accadono queste cose, Neottolemo ripara, presso i Molossi, le navi squassate dalle tempeste58. E di qui, saputo che Peleo era stato espulso dal regno per ope-

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Pelea, ultum ire iniurias avi cupiens primo exploratum duos quam fidissimos et incognitos illis locis Chrysippum et Aratum Thessaliam mittit hique cuncta, quae gerebantur, insidiasque ei paratas per Acastum ab Assandro non alieno Pelei cognoscunt. Is namque Assandrus iniquitatem tyranni evitans, Peleo consenserat notusque adeo eius domus, uti inter cetera originem etiam nuptiarum Pelei cum Thetide Chironis filia Chrysippo atque Arato narraverit. Qua tempestate multi undique reges acciti domum Chironis inter ipsas epulas novam nuptam magnis laudibus veluti deam celebraverant, parentem eius Chirona appellantes Nerea ipsamque Nereidam; et ut quisque eorum regum, qui convivio interfuerant, choro modulisque carminum praevaluerat, ita Apollinem Liberumque, ex feminis plurimas Musas cognominaverant. Unde ad id tempus convivium illud deorum appellatum. 8. Itaque ubi cuncta, quae voluerant, cognovere, ad regem redeunt, ei singula per ordinem narrant. Ob quae coactus Neoptolemus adverso mari et multis regionis eius prohibentibus classem exornat ascenditque ipse. Dein saevitia hiemis multum mari fatigatus adpulsusque ad Sepiadum litus, quod propter saxorum difficultatem nomen eiusmodi quaesiverat, omnes fere naves amittit vix ipse cum his, qui in eodem navigio fuerant, liberatus. Ibi Pelea avum repperit occultatum spelunca abdita et tenebrosa, ubi senex vim atque insidias Acasti evitans

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ra di Acasto59, desiderando vendicare l’offesa subita dal nonno, per prima cosa invia in esplorazione in Tessaglia due uomini quanto mai fidati e non conosciuti in quei luoghi: Crisippo e Arato. Costoro vengono a sapere tutto ciò che avveniva e le trappole a lui tese per opera di Acasto, da Assandro, non estraneo a Peleo. Questo Assandro, difatti, si era accordato con Peleo nel tentativo di scampare l’ingiustizia del tiranno e la sua famiglia gli era così nota che, tra le altre cose, raccontò a Crisippo e Arato anche l’origine delle nozze di Peleo con Teti, figlia di Chirone60. In quell’occasione molti re provenienti da ogni parte del mondo, invitati a casa di Chirone, tra lauti banchetti avevano celebrato la novella sposa con grandi lodi, come una dèa, ribattezzando suo padre Chirone, “Nereo”, e lei “Nereide”; e quando ciascuno di quei re che partecipavano al banchetto si distingueva nel coro e nella modulazione dei canti, allora lo chiamavano “Apollo” o “Libero” e, tra le donne, moltissime le chiamavano “Muse”. Per questo, da allora fino ad oggi quel banchetto è chiamato “convivio degli dèi”. 8. Dopo aver saputo tutto ciò che gli interessava, tornano dal re e gli riportano con ordine ogni cosa. Spinto da ciò Neottolemo, sebbene il mare sia ostile e molti siano gli impedimenti della sua terra, allestisce una flotta e si imbarca lui stesso. In seguito, stremato dal mare, per la durezza dell’inverno, e approdato sulla spiaggia delle Sepiadi61 – che aveva guadagnato un appellativo simile a causa della scabrosità dei suoi scogli62 –, perde quasi tutte le navi e si salva a stento lui stesso con quelli che erano sulla sua stessa barca. Qui trova suo nonno Peleo nascosto in un antro recondito e tenebroso, ove, ormai vecchio, tentando di fuggire la violenza e le trame di Acasto, per nostalgia del

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assidue nepotis desiderio navigantes et si forte eo adpulsi essent speculari consuerat. Dein ubi cuncta domus fortunarumque edoctus est, consilium adgrediendi hostes inire occipit, cum forte cognoscit filios Acasti Menalippum et Plisthenem venatum profectos devenisse ad ea loca. Itaque mutata veste Iolcum simulans iuvenibus offert sese eisque cupitum sui interitum refert. Ob quae iunctus his in venando, ubi seorsum ab ceteris Menalippumn videt, eumque et paulo post fratrem eius insecutus interficit. In quorum inquisitionem servus quidam Cinyras nomine perquam fidus profectus in manus iuvenis devenit comprehensusque Acastum adfore nuntiat atque ita occiditur. 9. ltaque Neoptolemus mutata Phrygia veste tamquam filius Priami Mestor, qui captivus cum Pyrrho ad ea loca navigaverat, Acasto obvius venit eique, quinam esset, et Neoptolemum in spelunca fatigatum navigio somnoque iacere. Ob quae anxius Acastus opprimere quam inimicissimum cupiens ad speluncam pergit atque in ipso aditu a Thetide, quae ad ea loca inquisitum Pelea venerat, re cognita reprimitur. Dein cunctis, quae adversum domum Achillis inique et adversum fas gesserat, enumeratis increpatisque ad postremum intercessu suo manibus iuvenis liberat persuadens nepoti, ut ne sanguine ulterius ulcisci cuperet ea, quae antecesserant. Itaque Acastus ubi se praeter spem liberatum animadvertit, sponte et in eo loco cuncta regni Neoptolemo tradit. Inde iuvenis

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nipote, aveva preso l’abitudine di osservare spesso i naviganti, e di chiedersi se si fossero spinti lì per caso. In seguito, dopo essere stato informato sulla famiglia e sulle sue vicende, prende la decisione di attaccare i nemici, quando per caso viene a sapere che i figli di Acasto, Menalippo e Plistene, partiti per una battuta di caccia, erano approdati in quel luogo. Perciò, travestitosi, fingendo di essere un abitante di Iolco, gli si para dinnanzi e gli racconta la propria morte come essi la desideravano63. Perciò, unitosi a loro nella caccia, quando scorge Menalippo isolato dagli altri, uccide lui e, poco dopo, inseguendolo, suo fratello. Un servo, tal Cinira, come rivela il nome assolutamente fedele64, partito alla ricerca di quelli, cade nelle mani del giovane e, una volta catturato, gli annuncia che anche Acasto sarebbe arrivato, poi viene ucciso. 9. Così Neottolemo, mutata la propria veste in frigia, simile a quella del figlio di Priamo Mestore65, che, fatto prigioniero, navigava lungo quei lidi con Pirro, si fa incontro ad Acasto e indica a quello la propria identità e che Neottolemo riposava nella grotta, stremato dalla navigazione e dal sonno. Perciò Acasto, inquieto, desideroso di uccidere il suo acerrimo nemico, si dirige verso l’antro e, proprio all’ingresso, viene fermato da Teti che era giunta lì alla ricerca di Peleo. Poi, elencate e rimproverate tutte le macchinazioni che in modo iniquo aveva compiuto, contro la casata di Achille e contro il diritto, in ultimo, con il proprio intervento, lo libera dalle mani del giovane, persuadendo il nipote a non desiderare ancora una vendetta nel sangue per avvenimenti passati66. Perciò Acasto, quando capisce di essere stato inaspettatamente salvato, consegna spontaneamente in quel luogo ogni possedimento del proprio regno a Neottolemo67. Per

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cum avo ac Thetide reliquisque, qui secum navigaverant, summam regni adeptus in civitatem venit. Ibi a cunctis popularibus quique iuxta inhabitantes sub imperio eius agebant benigne et cum gratulatione exceptus amorem sui brevi confirmat. 10. Haec ego cuncta a Neoptolemo cognita mihi memoriae mandavi accitus ab eo, qua tempestate Hermionam Menelai in matrimontum susceperat. Ab eo etiam de reliquiis Memnonis cognitum mihi, uti tradita ossa eius apud Paphum his, qui cum Pallante duce Memnonis mari ad Troiam profecti ductore interfecto ablataque praeda ibidem morabantur, utque Himera, quam nonnulli materno nomine Hemeram appellabant, soror Memnonis, ad investigandum cadaver fratris eo profecta, postquam reliquias repperit et de intercepta praeda Memnonis palam ei factum est, utrumque recipere cupiens intercessu Phoenicum, qui in eo exercitu plurimi fuerant, optionem rerum omnium ac seorsum fratris acceperit, praelataque sanguinis affectione recepta urna Phoenicem navigaverit. Delata dein ad regionem eius Phalliothim nomine sepultisque fratris reliquiis nusquam repente comparuerit. Cuius opinio exorta triplex, seu quod post occasum solis cum matre Himera ex conspectu hominis excesserit, sive super modum doIore affecta fraternae mortis ultro praeceps ierit, vel ab his, qui incolebant, ob eripienda, quae secum habuerat, circumventa interierit. Haec de Memnone eiusque sorore comperta mihi per Neoptolemum.

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cui il giovane, con suo nonno, Teti e gli altri compagni di navigazione, ottenuto il potere regale, fa il suo arrivo in città. Qui, accolto benevolmente e con gioia da tutti i cittadini e dagli abitanti delle terre circostanti, rafforza in breve il loro affetto nei suoi confronti.

[Le spoglie di Memnone] 10. Ho trascritto tutto ciò che ho saputo da Neottolemo, da lui invitato in occasione del suo matrimonio con Ermione, figlia di Menelao68. Da lui ho saputo anche dei resti di Memnone69, come le sue ossa fossero state portate a Pafo da quelli che, salpati alla volta di Troia al seguito di Memnone, con Pallante70, ucciso il proprio comandante e sottrattone il bottino, sostavano nello stesso luogo, e come Imera, sorella di Memnone – che alcuni chiamavano Emera dal nome di sua madre71 – partita per cercare il corpo del fratello72, dopo averne trovati i resti e aver scoperto il furto del bottino, desiderosa di recuperare entrambe le cose con la mediazione dei Fenici, che in quel contingente erano moltissimi, abbia avuto la possibilità di ottenere entrambe le cose e specialmente i resti del fratello e, prevalso in lei il legame di sangue, presa l’urna, è salpata per la Fenicia. Portata nella sua terra, di nome Falliotide73, e sepolti i resti del fratello, è scomparsa all’improvviso. Questo avvenimento è stato interpretato in tre modi: o pensando che dopo il tramonto del sole, Imera sia sparita con sua madre dalla vista degli uomini; o che, sopraffatta dal dolore per la morte del fratello, si sia uccisa; oppure che sia morta, vittima di un agguato da parte degli abitanti di quel luogo, con lo scopo di rubare ciò che portava con sé74. Questo è quanto sono venuto a sapere da Neottolemo su Memnone e su sua sorella.

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11. Post quae profectus Cretam, anno post nomine publico cum duobus aliis ad oraculum Apollinis remedium petitum venio. Namque nulla certa causa ex improviso tanta vis lucustarum insulam eam invaserat, uti cuncta fructuum, quae in agris erant, corrumperentur. Itaque multis precibus suppliciisque responso editur, divina ope animalia interitura insulamque provectu frugum brevi redundaturam. Dein navigare cupientes ab his, qui apud Delphos erant, prohibemur: importunum namque et perniciosum tempus esse. Lycophron et Ixaeus, qui una ad oraculum venerant, contemptui habentes escendunt navem medioque fere spatio fulmine icti intereunt. Interim, uti praedictum divinitus erat, eodem ictu fulminum sedata vis mali inmersaque mari et regio omnis repleta frugibus. 12. Per idem tempus Neoptolemus confirmato iam cum Hermiona matrimonio Delphos ad Apollinem gratulatum, quod in auctorem paternae caedis Alexandrum vindicatum esset, proficiscitu relicta in domo Andromacha eiusque filio Laodamante, qui reliquis iam filiorum Hectoris superfuerat. Sed Hermiona post abscessum viri victa dolore animi neque pelicatum captivae patiens parentem

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[Ditti consulta l’oracolo di Apollo per porre fine all’invasione di locuste che ha colpito Creta] 11. Dopo questi avvenimenti, sono partito per Creta e, dopo un anno, su incarico del popolo, vengo, con altri due uomini, a cercare una soluzione presso l’oracolo di Apollo. Difatti, senza una causa certa, all’improvviso, una grande invasione di locuste aveva devastato quell’isola, al punto tale da guastare tutti i tipi di frutti che erano nei campi75. Pertanto, dopo molte preghiere e suppliche, viene rivelato dal responso oracolare che per forza divina quegli animali moriranno e l’isola, con una repentina crescita di frutti, in breve ne abbonderà. Poi, desiderosi di riprendere il mare, veniamo dissuasi dagli abitanti di Delfi: dicono che il tempo non sia opportuno e anzi pericoloso. Licofrone ed Isseo, che erano venuti con me a consultare l’oracolo, tenendo in spregio gli avvertimenti, si imbarcano e, più o meno a metà del tragitto, muoiono colpiti da un fulmine. Frattanto, come era stato predetto dalla divinità, con la medesima scarica di fulmini, la violenza della calamità viene sedata e, sommersa dal mare, tutta la terra si riempie di frutti.

[Avventure di Neottolemo, Ermione ed Oreste] 12. Nello stesso momento Neottolemo, consumato già il matrimonio con Ermione, parte alla volta di Delfi76, per ringraziare Apollo per aver punito l’autore dell’omicidio di suo padre, Alessandro, lasciando a casa Andromaca e il figlio di questa, Laodamante77, che era sopravvissuto agli altri figli di Ettore. Ma Ermione, dopo la partenza del marito, vinta dal dolore e non sopportando il concubinato

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suum Menelaum accitum mittit; cui multa conquesta super iniuria praelatae sibi a viro captivae mulieris persuadet, uti filium Hectoris necet. Ceterum Andromacha re cognita instantis periculi vim subterfugit auxilio popularium liberata; qui miserati fortunas eius ultro Menelaum contumeliis prosecuti vix a pernicie viri retenti sunt. 13. Interim Orestes adveniens rem cunctam cognoscit, hortatur Menelaum, ut incepta perageret, ipse dolens praereptum sibi a Neoptolemo Hermionae matrimonium insidias advenienti parare occipit. Itaque primo ex his, quos secum habebat quam fidissimos, speculatum de adventu Neoptolemi Delphos mittit. Quis cognitis Menelaus vitare huiuscemodi facinus cupiens Spartam concedit. Sed illi, qui praemissi erant, regressi Neoptolemum Delphis esse negant. Quare coactus Orestes ipse ad inquisitionem viri profectus alio quam ierat die remeat, ut sermo hominum ferebatur, negotio perfecto. Dein post paucos dies fama perfertur interisse Neoptolemum eumque, sermone omnium circumventum insidiis Orestis per populum disseminatur. Ita iuvenis, ubi de Pyrrho palam est, recepta Hermiona, quae sibi antea desponsa erat, Mycenas discedit. Interim Peleus cum Thetide cognito nepotis interitu, ad investigationem eius profecti cognoscunt iuvenem Delphis sepultum. Ibi, ut mos erat, iusta persolvunt cognoscuntque in his locis interisse, ubi visus Orestes negabatur. Ea res per populum haud

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con la prigioniera, manda a chiamare suo padre Menelao. Lamentandosi della grande ingiuria della concubina, portatale in casa dal marito, lo convince a uccidere il figlio di Ettore. Poi Andromaca, dopo esserne venuta a conoscenza, fugge il potenziale pericolo che incombeva su di lei, salvandosi grazie all’aiuto dei cittadini, che, provando pena per le sue vicende e perseguendo con insulti Menelao, si sono trattenuti a stento dall’ucciderlo78. 13. Frattanto Oreste, giungendo in città, viene a conoscenza di tutta la vicenda ed esorta Menelao a portare a termine il suo piano, e, dolendosi del fatto che gli era stato sottratto da Neottolemo il matrimonio con Ermione, inizia a tramare contro di lui che stava tornando in patria. Perciò, per prima cosa, invia uno tra i suoi uomini più fidati a Delfi, per raccogliere informazioni sul ritorno di Neottolemo. Saputo ciò, Menelao, desiderando evitare un crimine di tal fatta, fa ritorno a Sparta. Ma quelli che erano stati inviati in spedizione, una volta tornati, negano che Neottolemo fosse a Delfi. Spinto da ciò, Oreste, partito in persona alla ricerca dell’uomo, torna in un giorno diverso da quello in cui era partito, dopo aver concluso l’affare, a quanto diceva la voce del popolo. Poi, dopo pochi giorni, si diffonde tra la popolazione la notizia che Neottolemo era morto, e si sparge tra tutti la voce che fosse incappato nelle trame di Oreste. Così il giovane, quando la morte di Pirro divenne pubblica, presa Ermione, che già prima gli era stata promessa in sposa, parte per Micene. Frattanto Peleo, con Teti, appresa la notizia della morte del nipote, partiti alla sua ricerca, vengono a sapere che il giovane è sepolto a Delfi. Qui, compiono le onoranze che spettavano al defunto secondo l’uso, e vengono a sapere che era morto in luoghi in cui non si diceva fosse stato avvistato Oreste. A

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credita, adeo praesumpta ante iam opinio de Orestis insidiis cunctorum animis inhaeserat. Ceterum Thetis ubi Hermionam Oresti iunctam videt, Andromacham partu gravidam ex Neoptolemo Molossos mittit dolum Orestis eiusque coniugis insidias de interimendo fetu evitans. 14. Per idem tempus Ulixes territus crebris auguriis somniisque adversis omnes undique regionis eius interpretandi somnia peritissimos conducit. Hisque refert inter cetera visum sibi saepius simulacrum quoddam inter humanum divinumque vultum formae perlaudabilis ex eodem loco repente edi. Quod complecti summo desiderio cupienti sibi porrigentique manus responsum ab eo humana voce sceleratam huiusmodi coniunctionem quippe eiusdem sanguinis atque originis; namque ex eo alterum alterius opera interiturum. Dein versanti sibi vehementius cupientique causam eius rei perdiscere signum quoddam mari editum intervenire visum. Idque secundum imperium eius in se iactum, utrumque diiunxisse. Quam rem cuncti qui aderant uno ore exitialem pronuntiant adduntque, caveret ab insidiis filii. Ita suspectus parentis animo Telemachus agris, qui in Cephalenia erant, relegatur additis ei quam fidissimis custodibus. Praeterea Ulixes secedens in alia loca abdita remotaque quantum poterat somniorum vim evitare nitebatur.

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questa notizia il popolo non prestò fede, a tal punto si era già annidata nei loro animi la convinzione che fosse morto per le trame di Oreste79. Poi Teti, quando vede Ermione unita ad Oreste, invia Andromaca, incinta di Neottolemo, presso i Molossi, scongiurando le trame di Oreste e di sua moglie per uccidere il feto80.

[Uccisione di Ulisse da parte di suo figlio Telegono] 14. Nello stesso momento81 Ulisse82, atterrito da fitti presagi e da sogni infausti, riunisce tutti i massimi esperti nell’interpretazione di sogni, provenienti da ogni parte della regione. Riferisce loro, tra le altre cose, che gli appariva molto spesso un simulacro, un volto a metà tra l’umano e il divino, di bellissimo aspetto, emanato all’improvviso, sempre dal medesimo luogo. Preso dal grande desiderio di abbracciarlo e protendendo le mani, gli fu detto da una voce umana che quell’unione era scellerata poiché avevano lo stesso sangue e la stessa origine; difatti per questo l’uno sarebbe morto per mano dell’altro. A lui poi, che aveva una reazione alquanto impetuosa e desiderava comprendere la causa di quelle parole, sembrò sopraggiungere un’immagine venuta dal mare: questa, secondo un suo ordine, scagliatasi contro di lui, li separava. Tutti gli esperti convenuti, all’unisono, interpretano ciò come un segno infausto e aggiungono di guardarsi dalle insidie di suo figlio. Così Telemaco, entrato in sospetto all’animo del padre, viene esiliato nelle terre che erano a Cefalonia, sotto la sorveglianza delle guardie più fidate. Inoltre Ulisse, ritirandosi in altri luoghi remoti e reconditi, cercava, per quanto poteva, di evitare il turbamento dei sogni83.

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15. Per idem tempus Telegonus, quem Circe editum ex Ulixe apud Aeaeam insulam educaverat, ubi adolevit, ad inquisitionem patris profectus, Ithacam venit gerens manibus quoddam hastile, cui summitas marinae turturis osse armabatur, scilicet insigne insulae eius in qua genitus erat. Dein edoctus, ubi Ulixes ageret, ad eum venit. Ibi per custodes agri patrio aditu prohibitus, ubi vehementius perstat et e diverso repellitur, clamare occipit indignum facinus prohiberi se a parentis complexu. Ita credito Telemachum ad inferendam vim regi adventare acrius resistitur, nulli quippe compertum esse alterum etiam Ulixi filium. Dein iuvenis ubi se vehementius et per vim repelli videt, dolore elatus multos custodum interficit aut graviter vulneratos debilitat. Quae postquam Ulixi cognita sunt, existimans iuvenem a Telemacho inmissum, egressus lanceam, quam ob tutelam sui gerere consueverat, adversum Telegonum iaculatur. Sed postquam huiusmodi ictum iuvenis casu quodam intercipit, ipse in parentem insigne iaculum emittit infelicissimum casum vulneri contemplatus. At ubi ictu eo Ulixes concidit, gratulari cum fortuna confiterique optime secum actum, quod per vim externi hominis interemptus parricidii scelere Telemachum carissimum sibi liberavisset. Dein reliquum adhuc retentans spiritum iuvenem percontari quisnam et ex quo ortus loco se domi belloque inclitum UIixem Laertae filium interficere ausus esset. Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam per se patri necem. Itaque Ulixi, uti voluerat, nomen suum atque matris, insulam, in qua ortus erat et

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15. Nello stesso momento Telegono84, che Circe, generatolo da Ulisse, allevava presso l’isola Eea, essendo diventato un uomo, partito alla ricerca del padre, giunge ad Itaca, impugnando un’asta dotata in punta di un osso di tortora marina85. Simbolo, evidentemente, dell’isola in cui era stato generato. Poi, saputo dove si trovava Ulisse, si reca da lui. Qui, poiché gli viene proibito dai custodi del campo di entrare dal padre, giacché insisteva con forza e veniva ricacciato indietro, inizia ad additare come misfatto indegno che gli sia proibito l’abbraccio del padre. Così credendo che Telemaco muovesse attacco al re, si oppone una resistenza ancora maggiore, poiché nessuno sa che Ulisse abbia un altro figlio. In seguito, quando il giovane si vede respinto con violenza e durezza, spinto dal dolore, uccide molte delle guardie o le ferisce gravemente. Quando Ulisse viene a sapere tutto ciò, pensando che il ragazzo sia stato inviato da Telemaco, uscito fuori, scaglia una lancia, che era solito portare per difendersi, contro Telegono. Ma, giacché il giovane, per caso, intercetta questo colpo, lui stesso a sua volta, scaglia la propria particolare lancia contro il padre, pensando, ferendolo, di colpirlo gravemente. Quando tuttavia, raggiunto da quel colpo, Ulisse cade, ringrazia la sua sorte e ammette tra sé e sé che sia andata nel migliore dei modi perché, morto per l’attacco di un estraneo, aveva liberato il carissimo Telemaco dal crimine di parricidio86. Poi, trattenendo l’ultimo alito di vita, chiede al giovane chi sia e da dove venga, lui, che aveva osato uccidere Ulisse, figlio di Laerte, glorioso in pace e in guerra. Allora Telegono, saputo che era suo padre e graffiandosi il capo con entrambe le mani, scoppiò in un pianto quanto mai compassionevole, tormentandosi terribilmente per aver dato la morte a suo padre87. Così rivela ad Ulisse, come desiderava, il proprio nome e quello

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ad postremum insigne iaculi ostendit. Ita Ulixes ubi vim ingruentium somniorum praedictumque ab interpretibus vitae exitium animo recordatus est, vulneratus ab eo, quem minime crediderat, triduo post mortem obiit senior iam provectae aetatis neque tamen invalidus virium.

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di sua madre e l’isola in cui era nato, ed infine gli mostra quella particolare lancia. E Ulisse, a cui venne in mente la violenza dei sogni che incombevano su di lui, e la morte predetta dagli interpreti, ferito da colui che mai avrebbe sospettato, morì tre giorni dopo, anziano ormai, in età avanzata, tuttavia non ancora privo di forze88.

NOTE AL TESTO DI DITTI

NOTE AL LIBRO PRIMO 1

Idomeneo, figlio di Deucalione e nipote di Minosse. In Omero era re per eccellenza di tutta Creta (̍Ε΋ΘЗΑ ΆΓΙΏ΋ΚϱΕΓΖ in Il. 13,219, ̍Ε΋ΘЗΑ Φ·ϱΖ in Il. 13,221, 259, 274); in Il. 13,361-454 era dedicato spazio alla sua ΦΕ΍ΗΘΉϟ΅. 2 Agenore, figlio di Libia e Poseidone (schol. ad Hom. Il. 1,42), era re di Tiro o Sidone. Da Telefassa (o Argiope) generò Cadmo, cui era attribuita l’introduzione delle lettere fenicie in Grecia. Erodoto (5,58), per esempio, attribuiva l’introduzione dell’alfabeto (̘Γ΍Α΍Ύφ΍΅ ·ΕΣΐΐ΅Θ΅) ai Gefirei, un gruppo di Fenici guidati da Cadmo stabiliti in Beozia. 3 L’indicazione storica relativa a Cnosso, olim Cretensis regis sedem, potrebbe essere un aiuto reso a un pubblico non greco, visto che per i Romani la capitale della provincia Creta et Cyrenae (perciò verosimilmente più conosciuta) era Gortina; in tal senso si può accogliere la proposta di Merkle 1988, 106 di vedere in questo inciso una aggiunta di Settimio al testo di Ditti. 4 Il passo pone problemi testuali: la tradizione, costituita per l’epistola soltanto dalla famiglia Ή, riporta sed libros ex philyra in lucem †prodierunt†, con la sola eccezione di P (cod. Berolinensis misc. Lat. octav. 71), che dà prodituri, lezione che veniva ancora accolta dal Meister, penultimo editore (Leipzig 1872) prima di Eisenhut. Timpanaro 1978, 421 ha brillantemente suggerito come soluzione al problema dell’anacoluto sintattico (accusativo libros e verbo intransitivo prodierunt, che vorrebbe invece un nominativo del soggetto) un intervento correttore su libros, da sostituire con libri, e il mantenimento di prodierunt: «siccome i verbi precedenti offendere, dissolvunt e il seguente deferunt hanno per soggetto i pastori, non è improbabile che il copista abbia macchinalmente attribuito lo stesso soggetto anche a prodierunt, e abbia quindi sostituito a libri l’accusativo libros». Senza tenere conto di queste osservazioni, Cataudella 1976, 205 partiva proprio dalla variante isolata di P prodituri per avanzare un poco probabile prodi erant. Grillo ha proposto una diversa emendatio, che mantiene libros in accusativo e i pastori come soggetto di un verbo che

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NOTE AL TESTO DI DITTI

non è più prodierunt, bensì protulerunt, paleograficamente simile alla forma tràdita e parallelo al sinonimo invenerunt del prologo seguente, di cui l’espressione in lucem protulerunt costituisce un perfetto equivalente sintattico-semantico (Grillo 1991, 1266). 5 Settimio usa qui il grecismo philyra, più prezioso, per indicare rotoli di corteccia di tiglio, mentre nel prologo preferisce la parola latina tilia. 6 La storia del ritrovamento dell’ephemeris è riferita con indicazioni diverse dalle fonti bizantine: la Suda s.v. si limita a ricondurre la scoperta alla fortunosa apertura di molti sepolcri sull’isola di Creta a seguito di un terremoto avvenuto sotto l’impero di Claudio (41-54 d.C.). Il più antico Malala (chron. 5.1) forniva più dati: la datazione dell’evento (invece di un terremoto il cronista riferiva più vagamente della ΌΉΓΐ΋Αϟ΅ abbattutasi sull’isola) al tredicesimo anno di regno di Claudio e l’interessante definizione dell’opera come σΎΌΉΗ΍Ζ ΘΓІ ̖ΕΓ΍ΎΓІ ΔΓΏνΐΓΙ ΐΉΘΤ ΦΏ΋ΌΉϟ΅Ζ ΗΙ··Ε΅ΚΉϧΗ΅ ΔκΗ΅. Tzetzes, che scrive in piena età bizantina (XII sec.), probabilmente indipendente da Malala, è invece solidale con Ditti nella cronologia neroniana (Merkle 1989, 100), la quale sarà maggiormente approfondita nel prologo, che «è, sia pure non smaccatamente, filoneroniano; vi si riflette quella simpatia che per Nerone, atteggiatosi a benefattore e ’liberatore’ dei Greci e ad ammiratore e imitatore dell’arte greca, i greci ebbero anche dopo la sua morte» (Timpanaro 1987, 209). 7 Settimio cerca da subito di presentare il suo lavoro di traduzione come frutto di una serie concomitante di fattori: anche la lettura dell’opera di Ditti è presentata come fatto del tutto casuale (nobis cum in manus forte libelli venissent); diversamente il traduttore di Darete (epist. 1, 1-4) scrive di essere arrivato in possesso del libro spinto da personale curiosità (Merkle 1989: 87). 8 La iunctura di Settimio Latine disserere nel significato di ’tradurre in lingua latina’ è piuttosto rara; il confronto della versione di Settimio con l’originale greco dei papiri ha peraltro dimostrato che disserere non implica qui alcun tipo di riduzione o riassunto. 9 Settimio indica due principali ragioni del suo cimento letterario, entrambe piuttosto convenzionali: «da un lato egli mostra di credere alla veridicità dei fatti narrati nell’Ephemeris (p. 1,15 avidos verae historiae, sott. nos); dall’altro dichiara di essersi accinto alla traduzione come ad un lusus (p. 1,14 s. non magis confisi ingenio quam ut otiosi animi desidiam dicuteremus; naturalmente bisogna tener conto della

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tipica affettazione di modestia che è consueta negli scritti dedicatorii, ma un aspetto di sincerità rimane; anche il sallustianesimo dello stile è un lusus, un’ostentazione di bravura)» (Timpanaro 1987, 202). In filigrana dietro questa dichiarazione di modestia, in cui l’attività letteraria è presentata come modo di contrastare la desidia, sembra potersi individuare un ipotesto sallustiano (Cat. 4): Igitur ubi … mihi relicuam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, … sed res gestas populi Romani … perscribere (Merkle 1989, 87). 10 Un aspetto della questione del rapporto tra epistola e prologo è nel numero dei libri, visto che l’epistola ne indica dieci, il prologo ne considera sei, la Suda nella prima delle due notizie su Ditti ne ricorda nove: σ·Ε΅ΜΉΑ ̳Κ΋ΐΉΕϟΈ΅ (…) πΑ Ά΍ΆΏϟΓ΍Ζ ΌȂ. Una soluzione brillante è stata proposta da Lapini 1997, che invita a metter da parte l’informazione dei sex volumina del prologo, probabilmente aggiunta per confusione dei volumi dell’Urdiktys con i libri del Ditti latino, e spiega la divergenza tra nove e dieci tra Suda e lettera come frutto della concorrenza tra il sistema di numerazione in cifre milesie (che indicava il numero 6 con il segno detto stigma) e il sistema alfabetico in uso per i canti di Omero, senza stigma. La fonte della Suda «doveva far finire il Ditti con il ’libro iota’, cioè libro decimo secondo il sistema normale; evidentemente, questo libro fu preso per libro nono perché, nel sistema omerico il libro iota è appunto il nono» (Lapini 1997). Al ragionamento di Lapini va comunque aggiunto un passaggio: una successiva fonte intermedia deve aver frainteso questa numerazione e non direttamente la Suda, che non avrebbe potuto errare nel trasformare l’indicazione in cifra (da ΍ a Ό), né errare nel riportare in cifra un’indicazione sciolta (da ΈνΎ΅ a Ό). Questa soluzione permette di conservare il testo tràdito dell’epistola, che riferiva del primo blocco di cinque libri, mantenuti da Settimio, e dei residua de reditu Graecorum quinque, variamente corretto dagli interpreti, ora con quattuor invece del quinque tràdito, ora con quidem. Così, prima di Lapini, già invitava alla prudenza Timpanaro 1987, 206: «Ad ogni modo, nel passo citato dell’Epist. bisogna o, col Dederich e col Meister, porre nel testo quat(t)uor invece di quinque dei codici, o, se si vuol essere molto prudenti, lasciare quinque nel testo e menzionare quattuor nell’apparato: in nessun caso, come fecero alcuni dei primi editori e come di nuovo ha fatto Eisenhut, mutare quinque in quidem, che è un modo immetodico e (se la parola non fosse troppo forte) ’pusillanime’

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NOTE AL TESTO DI DITTI

di evitare la difficoltà con una congettura banalizzante e superflua per il senso». 11 Fave coeptis è una tipica terminologia proemiale; Merkle 1989, 88 propone come esempio Ovidio (ars am. 1,30 e met. 1,2). 12 L’epistola è mutila della fine. Secondo Timpanaro 1987, 202 si può agevolmente immaginare siano cadute poche parole, per es. . 13 La lettera di Settimio ad Aradio Rufino precede l’opera nei codici della famiglia Ή, mentre la famiglia · presenta solo il prologo. Il rapporto tra queste due parti è problematico, di complementarità ma anche di reciproca esclusione. Tra i punti di contraddizione: a) come già visto, il numero di libri dell’opera; b) la tomba di Ditti nel prologo crolla a causa di un terremoto nel 13° anno dell’impero di Nerone, mentre la lettera fa cenno alla vetustà; b) il padrone dei pastori è chiamato Prassi nell’epistola, Euprasside nel prologo; c) nella lettera Prassi si reca direttamente a Roma, mentre nel prologo c’è prima un passaggio dall’amministratore romano dell’isola; d) nell’epistola l’introduzione dell’alfabeto fenicio in Grecia è attribuita a Cadmo e Agenore, nel prologo al solo Cadmo; e) infine, last but not least, la lettera descrive un testo composto in alfabeto fenicio e lingua greca, il prologo un’opera redatta in alfabeto e lingua fenicia. Timpanaro 1987, 208, partendo dalla considerazione che prologo ed epistola non potevano essere coesistiti in un’unica edizione del Ditti latino, ha pensato che Settimio possa aver prima tradotto (per gli ultimi libri riassunto) l’operetta greca, prologo incluso, senza premettere l’epistola. «Questa prima redazione avrà avuto una sua diffusione, della quale serbano testimonianza (non sappiamo attraverso quali precise vicende di storia della tradizione) i codici della classe Ȗ. In un secondo tempo aggiunse all’inizio l’Epistola a Aradio Rufino, soppresse il Prologo e nell’Epistola incluse, in forma molto abbreviata e in parte modificata, ciò che di quanto narrava il Prologo era strettamente necessario a un lettore della tarda romanità. Questa seconda edizione (che non è detto, e non è nemmeno probabile, abbia implicato notevoli modifiche di tutta la traduzione dell’Ephemeris) ha lasciato traccia nei codici della classe Ή» (Timpanaro 1987, 208-209). Ciò spiegherebbe anche perché rispetto a un prologo così filoneroniano, corrispondente alla valutazione positiva che aveva di Nerone il mondo greco, l’epistola, di area occidentale, sia invece sbrigativa nel menzionare un imperatore ricordato, nell’ambiente tardo latino di Settimio, in termini

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perlopiù negativi. Tra le negligenze compiute da Settimio in questa seconda edizione è da ricordare un’altra divergenza tra epistola e prologo (punto d): nel prologo l’introduzione dell’alfabeto fenicio in Grecia era attribuita al solo Cadmo, secondo la tradizione più diffusa, nell’epistola a Cadmo e Agenore (forse sfoggio di dottrina di Settimio con la citazione di un altro personaggio fenicio). In questa seconda edizione, Settimio avrebbe anche eliminato il riferimento al terremoto, non per lapsus, come voleva il Dederich, bensì, secondo Timpanaro, per recuperare un motivo, quello della vetustas dei monumenti contrapposta all’immortalità della poesia, che aumentava il prestigio dovuto all’antichità così remota di Ditti. Quanto all’ultimo punto (e), gli interpreti (Allacci, Perizonius, Dederich fino a Timpanaro) hanno in genere accettato la versione della lettera, cioè di un testo scritto in lingua greca ma in lettere fenicie. È del resto ipotesi più agevole che Ditti, cretese, avesse scritto la sua opera nella sua lingua madre, piuttosto che in una lingua straniera. Questo significa che Settimio, traducendo il prologo, si sarebbe dapprima sbagliato e avrebbe inteso come ’traduzione’ ciò che probabilmente nel Ditti greco doveva essere espresso dal verbo ΐΉΘ΅·ΕΣΚΉ΍Α (suscettibile di indicare sia la ’traslitterazione’, sia la ’traduzione’) e che solo in seguito, nell’epistola, avrebbe correttamente inteso che si trattasse di una traslitterazione dal fenicio, come l’epistola precisa, di un testo scritto però in greco (nam oratio Graeca fuerat). 14 Merione, figlio di Molo, a sua volta figlio bastardo di Deucalione (Apollod. 3,3,1: ̇ΉΙΎ΅ΏϟΝΑ΍ Έξ π·νΑΓΑΘΓ ͑ΈΓΐΉΑΉϾΖ ΘΉ Ύ΅Ϡ ̍ΕφΘ΋ Ύ΅Ϡ ΑϱΌΓΖ ̏ϱΏΓΖ). 15 Non c’è ragione di emendare sex in novem, come è stato fatto dal Dederich e dal Meister fino allo Eisenhut, visto che può trattarsi di una indicazione valida solo per la versione dell’opera in fenicio. «Gli studiosi hanno spesso confuso le fasi di questa fiabesca Textgeschichte, e in particolare non si sono accorti che il sex del Prologo si riferisce al Ditti I, cioè al mitico originale in fenicio, e non al Ditti IV, cioè l’esemplare scritto in greco che fu utilizzato da Settimio. Perciò questo sex non ha niente a che fare con il quinque + quinque dell’Epistola e con il ΌȂ della Suda: sarà semplicemente un dettaglio archeologico ispirato dal Wahrheittopos (maggiore è la precisione, maggiore è la credibilità)» (Lapini 1997: 86-87. Lo stesso Lapini immagina, inoltre, possibile un’aggiunta di sex per ragioni di completezza fatta dai copisti di ·, che non avevano accesso all’Epistola e avevano sotto gli occhi

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NOTE AL TESTO DI DITTI

una didascalia de toto bello volumina in tilias digessit a introduzione di un’opera, quella di Settimio, che davvero contava sei libri. 16 Difficile dire se il nominativo fosse qui Eupraxis o Eupraxides, visto che il nome è riportato in accusativo. «Cfr. Pape-Benseler, Wörterbuch der griechischen Eigennamen3, I, 418, dove è registrato (da iscrizioni) il maschile ̈ЁΔΕ΅ΒϟΈ΋Ζ e il femminile ̈ЄΔΕ΅Β΍Ζ (genit. Ȭ΍ΈΓΖ). Nell’Epist. (1,11) si legga Praxim: un ̓ΕκΒ΍Ζ maschile (genit. Ȭ΍ΓΖ) si trova in Eliano, var. hist. 14,24 e in iscrizioni» (Timpanaro 1987, 207). 17 Il titolo di consularis, al posto del più comune proconsul, per indicare l’amministratore di una provincia romana si lascia attestare non prima del IV sec. d.C. (si tratta forse di una innovazione costantiniana, osserva Merkle 1989, 86). 18 Sembra esserci una reduplicazione nel racconto: Nerone «si accorge che si tratta di lettere fenicie (cum … advertisset Punicas esse litteras) come se non se ne fosse già accorto Euprasside» (Timpanaro 1987, 207, il quale proporrebbe anche una possibile soluzione all’incongruenza integrando advertissetque ). 19 Il Dederich pensava fosse più congruo tradurre il verbo interpretari con ’traslitterare’, benché di questo uso in latino non vi siano esempi, per evitare la sovrabbondanza del testo latino: non si spiega, infatti, perché nella frase seguente Nerone desse nuovamente incarico di tradurre l’opera (iussit in Graecum sermonem ista transferri), visto che già i periti interpretati sunt omnia. «Bisognerà intendere che in un primo tempo gli "esperti" tradussero oralmente il testo fenicio, in modo che Nerone ebbe un’idea della sua importanza; in un secondo tempo ebbero da Nerone stesso l’incarico di farne una traduzione scritta» (Timpanaro 1987, 207). 20 Questa fuggevole indicazione di una biblioteca solleva domande più che dare informazioni: probabilmente si tratta della biblioteca imperiale (Timpanaro 1987, 203), che era stata fondata da Augusto nel portico del tempio di Apollo sul Palatino. All’epoca di Nerone a Roma esistevano ormai numerose biblioteche pubbliche: la prima era stata quella di Asinio Pollione, poeta e storico deluso nelle sue ambizioni di uomo politico, nel 39 a.C., poi quelle volute da Augusto, la palatina nel 28 a.C. e la bibliotheca Octaviae nel portico d’Ottavia cinque anni dopo (informazioni in Andrisano 2007). 21 Il libro si apre con la grande adunata a Creta dei principi greci, giunti a dividersi le ricchezze del defunto Catreo (1). Proprio durante l’assenza di Menelao, impegnato a Creta (2), si svolge la visita a Spar-

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ta di Alessandro Paride, figlio di Priamo, che occasiona il rapimento della donna più bella (3). I principi greci si danno intanto convegno a Sparta e decidono l’invio a Troia di una ambasceria, per la quale delegano Ulisse, Palamede e Menelao (4). Nel frattempo Paride approda a Sidone, dove si dà a nuove razzie a uccide a tradimento il re Fenice (5). A Troia Priamo riceve i delegati greci, ma rimanda la questione al ritorno di Paride (6); quando questi ricompare a casa, Priamo discute il problema con i figli (7) e con i vecchi del regno, mentre la popolazione dà luogo a disordini (8). Il re vuol sentire anche l’opinione di Elena (9), che si riconosce parente del casato troiano e ottiene speciale protezione di Ecuba (10). Gli ambasciatori greci vengono quindi licenziati dal re, ma la diplomazia di Antenore li salva da un’imboscata (11). I principi greci decidono, dunque, di far guerra a Troia (12), il che determina l’arrivo ad Argo dei discendenti di Pelope (13) e di altre stirpi greche (14). L’arrivo di Agamennone (15), al quale verrà affidato il supremo comando (16), è salutato come momento particolarmente importante. L’autore si dilunga nel catalogo delle navi (17) e nella descrizione dei preparativi (18). La partenza, tuttavia, è rimandata, a causa di una pestilenza dovuta all’ira di Artemide: Agamennone ha ucciso una cerva sacra alla dea. Una donna predice che per placare la dea si debba sacrificare la figlia maggiore di Agamennone, che rifiuta (19). Ulisse inventa uno stratagemma per condurre in porto ugualmente il sacrificio (20), ma poco prima dell’immolazione Artemide fa comparire un’altra vittima sacrificale (21). Achille interviene allora per salvare la fanciulla e la pestilenza può finalmente cessare (22). Ristabilito Agamennone nel comando, si può partire per Troia (23). 22 Catreo, uno dei quattro figli di Minosse (Apollod. 3,7, Diod. 4,60,4), come sarà poi ricordato, e di Pasifae, eponimo della città cretese di Catre, era stato ucciso dal figlio Altemene, nonostante questi fosse fuggito a Rodi per evitare il compimento di un oracolo che aveva avvertito che il padre sarebbe morto per mano di uno dei suoi figli (Apollod. 3,12-16). Nel passo di Settimio, la lezione tràdita del testo è però Atrei e subito dopo Atreus. La necessità della correzione con Catrei e Catreus era stata sostenuta già dal Meursis (Jan van Meurs; cfr. Dederich p. 10 ad loc.). Più che pensare a un lapsus di Ditti o di Settimio, si tratta con maggior probabilità di una corruttela banalizzante, facilmente spiegabile con la rarità delle attestazioni di Catreo in greco (Venini 1980, 194-196; Timpanaro 1987, 177-178). Eisenhut nella sua prima edizione accettava Atreo, senza accennare al problema.

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Catreo aveva avuto tre figlie, Erope, Climene, Apemosine e un figlio maschio, Altemene (Apollod. 3,2). 24 Palamede, uno dei tre figli di Nauplio e Climene, personaggio importante nell’ephemeris (al cap. 4, per esempio, sarà lui a consolare Menelao dopo il rapimento di Elena), assente del tutto dalla narrazione dell’Iliade e dell’Odissea, ma presente nei Canti Cipri, valeva come incarnazione mitica del ΗΓΚϱΖ e ΗΓΚ΍ΗΘφΖ alternativa a Ulisse. «Figura del tutto assente in entrambi i poeti omerici, Palamede è nei Kypria – come nella tradizione seriore – antagonista di Ulisse, dalle prime battute poetiche alle ultime, se si presta fede al sommario di Proclo. Il quale ricorda come, riunitisi ormai i condottieri, la finta follia messa in scena da Ulisse per non prendere parte alla guerra fu smascherata a opera di Palamede, non appena Telemaco fu strappato ad Ulisse per punizione» (Debiasi 2004, 118). Antichi e moderni hanno speculato su di un silenzio intenzionale di Omero su Palamede, per evitare di mettere in ombra Ulisse (Szarmach 1974, 37-38). Euripide gli dedicò una tragedia nel 415 a.C.; Platone nel Fedro (261 d) citava la sua proverbiale capacità inventiva. Fra le tante scoperte in seguito attribuitegli è quella delle lettere dell’alfabeto: ΘΤ ̘Γ΍ΑϟΎ΍΅ Έ΍ΈΣΒ΅Ζ ·ΕΣΐΐ΅Θ΅ ΅ЁΘΓϾΖ, come si legge in uno scolio a Euripide (Schol. ad Eur. Or. 432), notizia più tardi registrata da Igino (fab. 277) e Tacito (ann. 11,14); Pausania lo vuole anche inventore dei dadi (10,31,1). Una ricca trattazione del personaggio di Palamede è quella di E. Wüst in RE, 18, 2501 ss. 25 Secondo la versione più comune, Menelao era figlio di Atreo, re di Micene, e della cretese Erope, figlia di Catreo, condotta a Micene da Nauplio; il padre l’aveva cacciata dopo che si era data a uno schiavo. Settimio/Ditti seguono una tradizione più recente, che voleva che il padre di Agamennone e Menelao fosse Plistene, figlio di Pelope e Ippodamia. Questa genealogia sembra si sia sviluppata successivamente, in Esiodo ed Eschilo (come riferisce uno scolio omerico, riportato in Hes, fr. 194 M.-W.: ̝·΅ΐνΐΑΝΑ Ύ΅ΘΤ ΐξΑ ͣΐ΋ΕΓΑ ̝ΘΕνΝΖ ΘΓІ ̓νΏΓΔΓΖǰ ΐ΋ΘΕϲΖ Έξ ̝ΉΕϱΔ΋Ζǰ Ύ΅ΘΤ Έξ ̽ΗϟΓΈΓΑ ̓ΏΉ΍ΗΌνΑΓΙΖ): per conciliare le due versioni, si era poi pensato che Plistene fosse sì il padre dei due eroi, e anche il figlio di Atreo, ma che fosse morto giovane a causa di una costituzione gracile; per questo i due figli maschi (e la figlia Anassibia, talora aggiunta, come in Settimio) erano stati affidati al nonno Atreo (Tzetzes, exeg. Iliad. p. 68,19 Hermann). 26 Europa era figlia di Agenore, re di Tiro. Il mito e la genealogia sono riassunti da Apollodoro (3,1). Zeus se ne innamorò, vedendola

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insieme ad altre coetanee raccogliere dei fiori. Per conquistarla inventò uno dei suoi travestimenti: ordinò a Ermes di guidare i buoi del padre di Europa verso la spiaggia dove si intratteneva la fanciulla. Intanto, prese le sembianze di un toro bianco, le si avvicinò e si stese ai suoi piedi, cosicché la fanciulla salì sul dorso dell’animale, e questi la portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Zeus rivelò quindi la sua vera identità e tentò di usarle violenza, ma Europa non cedette. Zeus si trasformò quindi in aquila e riuscì a sopraffare Europa in un boschetto di salici o, secondo altri, sotto un platano sempre verde. Nel frattempo Agenore aveva mandato i suoi figli in cerca della sorella. Il fratello Fenice, dopo varie peregrinazioni, divenne il capostipite dei Fenici. Un altro fratello, Cilice, si instaurò in un’area sulla costa sudorientale dell’Asia Minore a nord di Cipro e divenne il capostipite dei Cilici. Cadmo, il fratello più famoso, invece, arrivò in Grecia dove fondò la città di Tebe. Europa, andata poi in sposa ad Asterio, signore di Creta, divenne la prima regina dell’isola. Da Zeus ebbe tre figli: Minosse, Radamanto, Sarpedonte (che in Omero era figlio invece di Zeus e di Laodamia). 27 Prima della scoperta del Ditti greco era stata avanzata l’ipotesi (Rossbach 1901, 590) che la descrizione del tempio qui fatta tradisse una descrizione approfondita di un tempio cretese nell’originale. Piuttosto sembra che Settimio, nel tracciare una descrizione così sommaria del tempio, crei ad arte un’attesa di σΎΚΕ΅Η΍Ζ, poi frustrata per ragioni di sintesi. 28 Settimio introduce qui senza particolare enfasi, come è nel suo stile, il personaggio di Alessandro, noto anche come Paride (questo nome ricorre 11 volte nell’Iliade, 13 contando anche il composto ΈϾΗΔ΅Ε΍Ζ, mentre Alessandro è più frequente, con 46 attestazioni; anche nella pittura vascolare è più frequente Alessandro). Il figlio di Priamo nell’Iliade non godeva di una buona presentazione: il fratello Ettore gli rimproverava di essere un bellimbusto e donnaiolo, bello d’aspetto, ma privo di forza e coraggio nell’animo (Il. 3, 39-57, in particolare ai versi 39-45: ̇ϾΗΔ΅Ε΍ ΉϨΈΓΖ ΩΕ΍ΗΘΉ ·ΙΑ΅΍ΐ΅ΑνΖ ωΔΉΕΓΔΉΙΘΤ / ΅ϥΌв ϷΚΉΏΉΖ Ω·ΓΑϱΖ Θв σΐΉΑ΅΍ Ω·΅ΐϱΖ Θв ΦΔΓΏνΗΌ΅΍: / Ύ΅ϟ ΎΉ Θϲ ΆΓΙΏΓϟΐ΋Αǰ Ύ΅ϟ ΎΉΑ ΔΓΏϿ ΎνΕΈ΍ΓΑ ώΉΑ / ύ ΓЂΘΝ ΏЏΆ΋Α Θв σΐΉΑ΅΍ Ύ΅Ϡ ЀΔϱΜ΍ΓΑ ΩΏΏΝΑǯ / ώ ΔΓΙ Ύ΅·Λ΅ΏϱΝΗ΍ ΎΣΕ΋ ΎΓΐϱΝΑΘΉΖ ̝Λ΅΍ΓϠ / ΚΣΑΘΉΖ ΦΕ΍ΗΘϛ΅ ΔΕϱΐΓΑ σΐΐΉΑ΅΍ǰ ΓЂΑΉΎ΅ Ύ΅ΏϲΑ / ΉϨΈΓΖ σΔвǰ ΦΏΏв ΓЁΎ σΗΘ΍ Άϟ΋ ΚΕΉΗϠΑ ΓЁΈν Θ΍Ζ ΦΏΎφ). 29

Settimio è piuttosto parco di notizie sul viaggio di Paride a Sparta e sull’accoglienza riservatagli da Menelao; glissa del tutto, per

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NOTE AL TESTO DI DITTI

esempio, sulle ragioni del viaggio e sul mito della gara di bellezza tra le dee (Apollod. epit. 3,2), a favore di una narrazione il più possibile razionalistica. Giunto in Grecia, Alessandro si sarebbe trattenuto a Sparta per ben nove giorni, prima che Menelao partisse per Creta (Apollod. epit. 3,3). Fra le fonti tarde Malala (5,2) si sofferma, invece, di più sul periodo trascorso dal troiano nel palazzo di Menelao: ϳ Έξ ̏ΉΑνΏ΅ΓΖ ρΘΓ΍ΐΓΖ ώΑ ΦΔΓΔΏνΉ΍Α ΉЁΌνΝΖ πΑ ΘϜ ̍ΕφΘϙ Χΐ΅ ΘΓϧΖ ΗΙ··ΉΑΉІΗ΍Α ΅ЁΘΓІ ϴΚΉϟΏΝΑ ΌΙΗ΍ΣΗ΅΍ ΘХ ̝ΗΘΉΕϟУ ̇΍Ϡ Ύ΅Ϡ ΘϜ ̈ЁΕЏΔϙ πΑ ΘϜ ̆ΓΕΘϾΑϙ ΔϱΏΉ΍ ΘϛΖ ̍ΕφΘ΋Ζ ϵΘΉ ώΏΌΉΑ ϳ ̓ΣΕ΍Ζ πΑ ΘϜ ̕ΔΣΕΘУ ΔϱΏΉ΍ ΔΕϲΖ ΅ЁΘϱΑǯ σΌΓΖ ·ΤΕ ΉϥΛΉΑ ϳ ̏ΉΑνΏ΅ΓΖ ΔΓ΍ΉϧΑ οΓΕΘΤΖ Ύ΅Ϡ ΌΙΗϟ΅Ζ πΑ ΘХ ΅ЁΘХ ΛΕϱΑУ Ύ΅ΘȂ σΘΓΖ ΉϢΖ ΐΑφΐ΋Α ΘϛΖ ̈ЁΕЏΔ΋Ζǰ БΖ πΎ ·νΑΓΙΖ ΅ЁΘϛΖǯ ΈΉΒΣΐΉΑΓΖ Έξ ΘϲΑ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑ ΘϲΑ Ύ΅Ϡ ̓ΣΕ΍Έ΅ Ύ΅Ϡ ·ΕΣΐΐ΅Θ΅ ΘΓІ Ά΅Η΍ΏνΝΖ ̓Ε΍ΣΐΓΙ ΘϛΖ ̘ΕΙ·ϟ΅Ζ Ύ΅Ϡ ̝Ηϟ΅Ζ Ύ΅Ϡ ΘΤ Ά΅Η΍Ώ΍ΎΤ ΈЗΕ΅ ΘΤ Δ΅ΕȂ΅ЁΘΓІ ΈΓΌνΑΘ΅ǰ ΔΉΕ΍ΉΔΘϾΒ΅ΘΓ ΘϲΑ ̓ΣΕ΍Έ΅ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑ Ύ΅Ϡ ΉЁΐΉΑЗΖ ΈΉΒΣΐΉΑΓΖ ΅ЁΘϱΑǰ БΖ ϥΈ΍ΓΑ ΙϡϱΑǰ πΑ ΔΣΗϙ Θ΍ΐϜ ΦΚЏΕ΍ΗΉΑ ΅ЁΘХ πΑ ΘХ ϢΈϟУ Δ΅Ώ΅ΘϟУ Έϟ΅΍Θ΅Α Ύ΅Ϡ Δ΅ΑΘΓϧ΅ ΦΑ΅ΏЏΐ΅Θ΅ Ύ΅Ϡ ΘΓϧΖ ΅ЁΘΓІ Ύ΅Ϡ ΔκΗ΅Α ΌΉΕ΅ΔΉϟ΅Αǰ ΉϢΕ΋ΎАΖ ΅ЁΘХ Έ΍΅ΘΕϧΜ΅΍ πΑ ΘϜ ΅ЁΘϜ ΔϱΏΉ΍ ϵΗ΅Ζ πΤΑ ΆΓϾΏΉΘ΅΍ ψΐνΕ΅Ζǰ ΅ϢΘЗΑ ΅ЁΘϲΑ ΐΉϟΑ΅ΑΘ΅ ΦΑΉΌϛΑ΅΍ Έ΍Τ ΘχΑ ΘΓІ ΔΏΓϲΖ ΦΌΙΐϟ΅Α Ύ΅Ϡ ΉϨΌȂ ΓЂΘΝΖ ΦΔΉΏΌΉϧΑ ΔΏ΋ΕЗΗ΅΍ Θϲ ΘΣ·ΐ΅ ΘϛΖ ΌΙΗϟ΅Ζ ΉϢΖ Θϲ ϡΉΕϲΑ ΘΓІ ̝ΔϱΏΏΝΑΓΖǯ Ύ΅Ϡ ΉЁΌνΝΖ ϳ ̏ΉΑνΏ΅ΓΖ Ύ΅Θ΅ΗΘφΗ΅Ζ ΅ЁΘϲΑ πΑ ΔΓΏΏϜ ΌΉΕ΅ΔΉϟθ ΦΔνΔΏΉΙΗΉΑ πΔϠ ΘχΑ ̍ΕφΘ΋Αǰ πΣΗ΅Ζ ΅ЁΘϲΑ ΉϢΖ Θϲ ϥΈ΍ΓΑ Δ΅ΏΣΘ΍ΓΑǯ 30

La brevitas di Settimio non concede spazio neanche alla bellezza di Elena, uno dei temi centrali in tanti autori della letteratura greca: i vecchi troiani in Il. 3,156-60 commentavano la bellezza della donna, simile a una dea immortale, come motivo sufficiente a spiegare il male della guerra troiana (ΓЁ ΑνΐΉΗ΍Ζ ̖ΕЗ΅Ζ Ύ΅Ϡ πϼΎΑφΐ΍Έ΅Ζ ̝Λ΅΍ΓϿΖ / ΘΓ΍ϜΈв ΦΐΚϠ ·ΙΑ΅΍ΎϠ ΔΓΏϿΑ ΛΕϱΑΓΑ ΩΏ·Ή΅ ΔΣΗΛΉ΍Α: / ΅ϢΑЗΖ ΦΌ΅ΑΣΘϙΗ΍ ΌΉϜΖ ΉϢΖ ИΔ΅ σΓ΍ΎΉΑDZ / ΦΏΏΤ Ύ΅Ϡ ЙΖ ΘΓϟ΋ ΔΉΕ πΓІΗв πΑ Α΋ΙΗϠ ΑΉνΗΌΝǰ / ΐ΋Έв ψΐϧΑ ΘΉΎνΉΗΗϟ Θв ϴΔϟΗΗΝ Δϛΐ΅ ΏϟΔΓ΍ΘΓ). Nel-

le Troiane euripidee (890-894) Ecuba descrive la bellezza di Elena come causa di fascino rovinoso, usando un lessico quasi bellico: ΅ϢΑЗ ΗΉǰ ̏ΉΑνΏ΅вǰ ΉϢ ΎΘΉΑΉϧΖ ΈΣΐ΅ΕΘ΅ ΗφΑǯ / ϳΕκΑ Έξ ΘφΑΈΉ ΚΉІ·Ήǰ ΐφ Ηв ρΏϙ ΔϱΌУǯ / ΅ϡΕΉϧ ·ΤΕ ΦΑΈΕЗΑ Ϸΐΐ΅Θвǰ πΒ΅΍ΕΉϧ ΔϱΏΉ΍Ζǰ / ΔϟΐΔΕ΋Η΍Α ΓϥΎΓΙΖDZ ЙΈв σΛΉ΍ Ύ΋Ώφΐ΅Θ΅ǯ / π·Џ Α΍Α ΓϨΈ΅ǰ Ύ΅Ϡ ΗϾǰ ΛΓϡ ΔΉΔΓΑΌϱΘΉΖ.

Anche Aristofane nella Lisistrata (v. 155) ricorda la potenza del desiderio da lei suscitato in Menelao ancora durante la caduta di Troia. Della donna più bella di Grecia Settimio si limita a indicare la miranda species, causa dell’innamoramento di Alessandro. Darete (12) forniva,

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invece, alcuni dettagli fisici: formosam animi simplicis blandam cruribus optimis notam inter duo supercilia habentem ore pusillo. Il Medioevo bizantino, così attratto dal brivido sensuale della bellezza terrena, primo gradino verso la bellezza ideale, ci ha lasciato descrizioni approfondite del corpo di Elena. Malala (5,1), per esempio, in una delle sue compiaciute accumulazioni di aggettivi, di Elena decantava varie qualità: ΘΉΏΉϟ΅ǰ ΉЄΗΘΓΏΓΖǰ ΉЄΐ΅ΗΌΓΖǰ ΏΉΙΎχ БΗΉϠ Λ΍ЏΑǰ ΉЄΓΚΕΙΖǰ ΉЄΕ΍ΑΓΖǰ ΉЁΛ΅ΕΣΎΘ΋ΕΓΖǰ ΓЁΏϱΌΕ΍Βǰ ЀΔϱΒ΅ΑΌΓΖǰ ΐΉ·ΣΏΓΙΖ σΛΓΙΗ΅ ϴΚΌ΅ΏΐΓϾΖǰ ΉЄΛ΅Ε΍Ζǰ Ύ΅ΏΏϟΚΝΑΓΖǰ ΚΓΆΉΕϲΑ Όν΅ΐ΅ ΉϢΖ ·ΙΑ΅ϧΎ΅Ζǯ Cedreno riduce di poco il catalogo degli ŠŽĴ’Ÿ’DZ ΉЄΗΘΓΏΓΖǰ ΉЄΐ΅ΗΘΓΖǰ ΏΉΙΎχ БΗΉϠ Λ΍ЏΑǰ ΉЄΓΚΕΙΖǰ ΉЄΕ΍ΑΓΖǰ ΓЁΏϱΌΕ΍Βǰ ЀΔϱΒ΅ΑΌΓΖǰ σΛΓΙΗ΅ ϴΚΌ΅ΏΐΓϾΖ ΐΉ·ΣΏΓΙΖ. Sul mito di Elena: Bettini-Brillante 2002. 31

Molto sbrigativa è la descrizione dell’innamoramento di Alessandro per Elena, limitata a un amore eius captus, e della successiva fuga. Nell’Iliade (3,438-447) Paride, appena sconfitto da Menelao, preso da incontenibile desiderio, ricordava alla donna la loro prima unione, nell’isola Cranae, sulla via da Sparta verso Troia (in particolare ai vv. 442-446: ΓЁ ·ΣΕ ΔЏ ΔΓΘν ΐв ЙΈν ·в σΕΝΖ ΚΕνΑ΅Ζ ΦΐΚΉΎΣΏΙΜΉΑǰ / ΓЁΈв ϵΘΉ ΗΉ ΔΕЗΘΓΑ ̎΅ΎΉΈ΅ϟΐΓΑΓΖ πΒ πΕ΅ΘΉ΍ΑϛΖ / σΔΏΉΓΑ ΥΕΔΣΒ΅Ζ πΑ ΔΓΑΘΓΔϱΕΓ΍Η΍ ΑνΉΗΗ΍ǰ / ΑφΗУ Έв πΑ ̍Ε΅Α΅Ϝ πΐϟ·΋Α Κ΍ΏϱΘ΋Θ΍ Ύ΅Ϡ ΉЁΑϜǰ / ГΖ ΗΉΓ ΑІΑ σΕ΅ΐ΅΍ Ύ΅ϟ ΐΉ ·ΏΙΎϿΖ ϣΐΉΕΓΖ ΅ϡΕΉϧ). A far in-

namorare Elena del troiano dovettero essere sia la bellezza fisica, sia l’eleganza delle vesti (Eur. Iph. A. 73, Tr. 991). Luogo del rapimento era per Licofrone (106 e sgg.) una spiaggia della Laconia, per Ovidio Amicle (ars am. 2,5) o il capo Tenaro (her. 15,30), in Darete (10), che si compiaceva di ricostruire le circostanze dell’incontro tra i due, l’isola di Citera. A Citera Alessandro era attraccato di ritorno da Sparta, dove si era recato in ambasceria per negoziare la restituzione di Esione rapita da Eracle. At Helena vero Menelai uxor, cum Alexander in insula Cythrea esset, placuit ei eo ire. Qua de causa ad litus processit. Oppidum ad mare est Helaea, ubi Dianae et Apollinis fanum est. Ibi rem divinam Helena facere disposuerat. Quod ubi Alexander nuntiatum est Helenam ad mare venisse, conscius formae suae in conspectu eius ambulare coepit cupiens eam videre. Helenae nuntiatum est Alexandrum Priami regis filium ad Helaeam oppidum, ubi ipsa erat, venisse. Quem etiam ipsa videre cupiebat. Et cum se utrique respexissent, ambo forma sua incensi tempus dederunt, ut gratiam referrent. Gli autori bizantini sono concordi nella ricostruzione dell’episodio, centrato sulle seguenti scene: ingresso di Paride nel giardino dove si intrattiene la fanciulla,

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NOTE AL TESTO DI DITTI

colpo di fulmine, aiuto della mezzana, fuga. Così Malala (5,3): ϳ Έξ ̓ΣΕ΍Ζ Δ΅Ε΅ΎϾΜ΅Ζ ΉϢΖ ΘϲΑ Δ΅ΕΣΈΉ΍ΗΓΑ Ύ΅Ϡ ΔΕΓΗΉΗΛ΋ΎАΖ ΘХ ΎΣΏΏΉ΍ ΘϛΖ ̴ΏνΑ΋Ζ Ύ΅Ϡ ΘχΑ ΑΉϱΘ΋Θ΅ǰ ΆΏ΋ΌΉϠΖ σΕΝΘ΍ ΉϢΖ ΅ЁΘχΑ Ύ΅Ϡ Έ΍Τ ΘϛΖ ̄ϥΌΕ΅Ζ ΘϛΖ ΗΙ··ΉΑϟΈΓΖ ̏ΉΑΉΏΣΓΙ ΘϛΖ ̓ΉΏΓΔϟΈΓΖ Ύ΅Ϡ ΘϛΖ ̍ΏΙΐνΑ΋Ζ πΎ ·νΑΓΙΖ ΘϛΖ ̈ЁΕЏΔ΋Ζ ЀΔΓΑΓΌΉϾΗ΅Ζ ΘχΑ ̴ΏνΑ΋Αǰ σΏ΅ΆΉΑ ΅ЁΘχΑ Ύ΅Ϡ σΚΙ·ΉΑ Έ΍Τ ΘЗΑ ΉϨΛΉΑ ΐΉΌȂο΅ЁΘΓІ ΔΏΓϟΝΑ πΎ ΘϛΖ ̖ΕΓϟ΋Ζ ΐΉΘΤ ΛΕ΋ΐΣΘΝΑ Ώ΍ΘΕЗΑ ΘΕ΍΅ΎΓΗϟΝΑ Ύ΅Ϡ ΎϱΗΐΓΙ ΔΓΏΏΓІ ΔΓΏΙΘϟΐΓΙ Ύ΅Ϡ ΦΕ·ϾΕΓΙ Χΐ΅ ΘϛΖ ̄ϥΌΕ΅Ζ ΘϛΖ πΎ ·νΑΓΙΖ ΘΓІ ̓νΏΓΔΓΖ Ύ΅Ϡ ΘϛΖ ̍ΏΙΐνΑ΋Ζ ΘϛΖ πΎ ·νΑΓΙΖ ̈ЁΕЏΔ΋Ζ Ύ΅Ϡ ΉȂ ΈΓΙΏϟΈΝΑ ΎΓΙΆ΍ΎΓΙΏ΅ΕϟΝΑ ΅ЁΘϛΖ. Non diver-

samente Cedreno (p. 217,18-21), che allude come Malala allo sguardo furtivo di Paride nel giardino di Elena (ΉϢΖ ΘϲΑ ΘϛΖ ̴ΏφΑ΋Ζ Δ΅ΕΣΈΉ΍ΗΓΑ π·ΎϾΜ΅Ζ ϳΕλ ΅ЁΘχΑ ΘХ ΎΣΏΏΉ΍ ΦΐφΛ΅ΑΓΑ ΓЇΗ΅Α) e all’immediata sopraffazione a opera di σΕΝΖ (ΘΕΝΌΉϠΖ ΘХ Θ΅ϾΘ΋Ζ σΕΝΘ΍). 32 Etra, figlia di Pitteo, madre di Teseo. Aveva ricevuto Elena in affidamento dal figlio Teseo, quando questi intraprese il viaggio agli Inferi. Castore e Polluce, tuttavia, quando liberarono Elena, loro sorella, avevano preso come concubina anche Etra (Apollod. 3,10,7). Anche nell’Iliade le due donne figurano come ancelle di Elena (3,144). 33 Dopo la presentazione delle vicende cretesi e della nobiltà di stirpe dei discendenti di Plistene, si coglie in questo passo dedicato alle reazioni al rapimento di Elena «una raffigurazione alquanto negativa del vulgus (non possiamo ancora parlare di soldati semplici, perché la guerra non è ancora scoppiata): quando giunge a Creta la notizia delle malefatte compiute da Paride, per omnem insulam, sicut in tali re fieri amat, fama in maius divulgatur: si diffonde addirittura la notizia che la reggia di Menelao è stata “espugnata” e che il suo regno è stato rovesciato. Qui il volgo è inconsapevole o semimalevolo diffusore di notizie allarmistiche» (Timpanaro 1987, 187). Un quadro simile, di saccheggio e devastazione portate da Alessandro contestualmente al rapimento di Elena, non a Sparta, bensì a Citera, è in Darete (10), che probabilmente risentiva del modello rappresentato dall’Ephemeris (Canzio 2014: 84). Malala (5,3,87-89) riferiva di una ambasceria a Creta di tre soldati per annunciare a Menelao ΘχΑ ΎΏΓΔχΑ ΘϛΖ ̴ΏνΑ΋Ζ. 34 L’interpretazione del testo latino è problematica. Nel caso in cui in iniuria adfinium fosse da vedere un genitivo oggettivo (vale a dire ’l’offesa recata alle affini’, cioè Etra e Climene), sarebbe difficile spiegare come potesse Menelao essere più irritato per questa offesa fatta alle due donne che per il rapimento della moglie. La soluzione è

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venuta dal confronto con il testo di Malala (5,3,91), derivato probabilmente da Ditti, che testimonia un ruolo attivo soltanto di Etra nel tradimento, «perché ̍ΏΙΐνΑ΋, per errore suo o della fonte intermedia, è diventata ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅» (Timpanaro 1987, 178): alla luce di questo dato, il genitivo è da intendere come soggettivo, come sostenuto già dal Perizonius (J. Voorbroek 1651-1715) nella sua Dissertatio de Dictye Cretensi, e non come oggettivo, come pure la sintassi porterebbe erroneamente a intendere. Strano è, però, che di questa azione delle due donne non sia fatta menzione nella sezione precedente dell’ephemeris (3,6), dedicata al rapimento, in cui pure Etra e Climene sono nominate. Quanto alla reazione di Menelao, irritato per il tradimento perpetrato da Etra (così anche in Malala 5,3,92: ΔΓΏϿ ·ΤΕ πΏΙΔφΌ΋ Έ΍Τ ΘχΑ ̄ϥΌΕ΅Αȉ ώΑ ·ΤΕ σΛΓΙΗ΅ ЀΔϱΏ΋Μ΍Α Δ΅ΕȂ΅ЁΘΓІ ΗЏΚΕΓΑΓΖ ΔΣΑΙ) quasi più che per l’infedeltà della moglie, valga l’interpretazione raffinata di Timpanaro 1987, 179, che pensa a «una finezza psicologica alquanto forzata e, nel contempo, sottintesa: Menelao ama ancora Elena ed è quindi portato a dar tutta la colpa ad Etra e Climene». 35 Settimio è tanto sbrigativo nella descrizione dei sentimenti dei personaggi, quanto attento a non perder di vista le ricchezze che entrano in gioco nella storia. Così anche nelle circostanze del dolore per il rapimento della moglie, il Menelao di Settimio ha cura di prendere con sé la parte di eredità che gli spettava, prima di correre a Sparta. 36 È caratteristica dell’atteggiamento di Ditti la sottolineatura della concordia dei Greci rispetto alla divisione nel fronte troiano: la decisione dell’invio dell’ambasciata a Troia è presa ex consilii sententia (Merkle 1988, 151). L’immediata solidarietà dei Pelopidi nei confronti di Menelao, inoltre, è una differenza rispetto alla versione dei Canti Cipri (Procl. Chrest. 80 Seve), in cui Menelao in un primo momento tornava a Sparta per pianificare insieme al fratello Agamennone la spedizione contro Troia, poi si recava da Nestore e insieme ad Agamennone girava per la Grecia (πΔΉΏΌϱΑΘΉΖ ΘχΑ ̴ΏΏΣΈ΅) a chiedere il sostegno degli altri príncipi (osservazioni in merito in Merkle 1988, 151). Analogamente Apollodoro (epit. 3,6) riferiva di un viaggio di Menelao a Micene da Agamennone e di un ruolo centrale di quest’ultimo nel mobilitare la Grecia: ϳ ̏ΉΑνΏ΅ΓΖ ΅ϢΗΌϱΐΉΑΓΖ ΘχΑ ΥΕΔ΅·χΑ ϏΎΉΑ ΉϢΖ ̏ΙΎφΑ΅Ζ ΔΕϲΖ ̝·΅ΐνΐΑΓΑ΅ǰ Ύ΅Ϡ ΈΉϧΘ΅΍ ΗΘΕ΅ΘΉϟ΅Α πΔϠ ̖ΕΓϟ΅Α ΦΌΕΓϟΊΉ΍Α Ύ΅Ϡ ΗΘΕ΅ΘΓΏΓ·ΉϧΑ ΘχΑ ̴ΏΏΣΈ΅. È stato osservato anche

per questo che Ditti mostra perlopiù maggior panellenismo di Omero o dei poeti ciclici (Marblestone 1970, 74).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Il motivo dell’ambasceria prima dello scoppio della guerra era già nell’Iliade (3,205-224) e in Erodoto (1,3,2; 2,118,3), dove delegati erano solo Menelao e Ulisse (così anche in Ovid. met. 13,196 e Serv. ad Aen. 1,242): la novità qui è nell’aggiunta di Palamede. Anche Darete (16-17) riferisce di un’ambasceria, composta da Diomede e Ulisse, inviata da Agamennone a Priamo ut Helena et praeda reddatur satisque Graecis fiat (17). Secondo Malala (5,5) Agamennone e Menelao avrebbero inviato più di una volta (ΔΓΏΏΣΎ΍Ζ) degli ambasciatori per negoziare la restituzione di Elena; un ruolo avrebbe giocato anche Clitemestra, autrice di lettere fatte avere alla sorella per il tramite di Menelao. 38 La fuga di Alessandro ed Elena da Sparta e le successive peregrinazioni erano una vicenda antichissima del mito troiano, tanto che uno storico come Erodoto (2,112-117) nel V sec. a.C. già faceva lavoro critico sulle fonti epiche per sceverare il vero della storia. Omero, secondo Erodoto, doveva essere a conoscenza dell’arrivo della coppia di adulteri in Egitto, contiguo alla Siria, dove abitavano i Fenici e dove si trova Sidone (2,116,6), però aveva scartato questa versione, perché non adatta al canto epico (πΖ ΘχΑ πΔΓΔΓ΍ϟ΋Α ΉЁΔΕΉΔφΖ). Il pretesto della digressione su Alessandro ed Elena nel libro egiziano di Erodoto era fornito dalla descrizione del recinto sacro di Proteo a Menfi, a sud del santuario di Efesto. All’interno del recinto si trovava un santuario di Afrodite straniera, da Erodoto attribuito al culto di Elena, figlia di Tindaro. Furono proprio i sacerdoti a raccontare allo storico di Alicarnasso la vicenda di Elena. Il guardiano della bocca canopica del Nilo, di nome Thonis, avrebbe appreso delle ingiustizie commesse dallo straniero Alessandro e le avrebbe riferite al re Proteo, che decise di punire il fedifrago tenendo con sé Elena fino all’arrivo del legittimo marito e scacciando lui e i suoi compagni dalle sue terre. Erodoto traeva indizi di questa peregrinazione di Alessandro ed Elena in Egitto e in Fenicia anche dal racconto omerico (benché questo fosse reticente sui dettagli della storia: cfr. Il. 6,289 e sgg. e Od. 4,227 sgg.) e ne concludeva che i Canti Cipri, nei quali invece Alessandro arrivava a Ilio con Elena il terzo giorno, non potevano essere di Omero. In realtà i testimonia sul poema contraddicono questa asserzione, visto che vedono Paride viaggiare a Cipro e in Fenicia (Apollod. epit. 3,1 ss; Procl. Chrest. 80 Seve.), il che fa pensare che Erodoto avesse confuso i Canti Cipri con un altro poema ciclico (Lloyd 1988, 51), o che i testimonia stessi contenessero interpolazioni posteriori a Erodo-

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to del poema (Robert 1920-26, 1084). Darete (10), invece, racconta di un approdo a Tenedo precedente lo sbarco a Troia, occasione in cui Paride Helenam maestam alloquio mitigat, patri rei gestae nuntium mittit. In Malala è fatto un accenno rapido allo sbarco in Fenicia (5,3,83-84). Altre fonti sul mito: sch. ad Il. 6,291 Dindorf; Alcidam. Odyss. 18-19 (Avezzù); Gorg. Hel. enc. 6-8, 12, 15, 19 (Donadi); Hes. fr. 176-7 M.-W.; Serv. ad Aen. 1,651; 2,592; Collut. 278-325, Tzetzes, antehom. 107-34, 144-6. 39 Fenice era figlio di Agenore e di Telefassa. Il padre Agenore inviò i suoi figli alla ricerca di Europa rapita da Zeus; nel corso delle varie peregrinazioni, Fenice divenne l’eroe eponimo e il capostipite dei fenici (Apollod. 3,1,3). 40 Un riferimento al bottino (non di ricchezze, bensì di schiave) fatto da Alessandro a Sidone, eademque qua apud Lacedaemonam cupiditate era nell’Iliade (6,289-292), dove si trattava delle donne fatte prigioniere in Fenicia e portate a Troia: σΑΌв σΗΣΑ Γϡ ΔνΔΏΓ΍ Δ΅ΐΔΓϟΎ΍Ώ΅ σΕ·΅ ·ΙΑ΅΍ΎЗΑ / ̕΍ΈΓΑϟΝΑǰ ΘΤΖ ΅ЁΘϲΖ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΖ ΌΉΓΉ΍ΈχΖ / ό·΅·Ή ̕΍ΈΓΑϟ΋ΌΉΑ πΔ΍ΔΏАΖ ΉЁΕν΅ ΔϱΑΘΓΑǰ / ΘχΑ ϳΈϲΑ ϋΑ ̴ΏνΑ΋Α ΔΉΕ ΦΑφ·΅·ΉΑ ΉЁΔ΅ΘνΕΉ΍΅Α). Nei Canti Cipri, almeno stando alla citata

testimonianza di Proclo (Chrest. 80 Seve.), Paride avrebbe conquistato la città di Sidone: Ύ΅Ϡ ΔΕΓΗΉΑΉΛΌΉϠΖ ̕΍ΈЗΑ΍ ϳ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΖ ΅ϡΕΉϧ ΘχΑ ΔϱΏ΍Α. 41 Le prime discordie erano sorte dal ratto di Ganimede, fratello di Ilo, a opera di Tantalo, padre di Pelope. Secondo una tradizione raccolta in Pausania (2,22,3), Ilo avrebbe cacciato Pelope dall’Asia minore. Secondo Diodoro (4,74) Tantalo era ancora vivo quando inviò il figlio Pelope in Europa, dopo lo scontro con Ilo. 42 Il discorso di Palamede, riassunto da Settimio/Ditti in modo indiretto, doveva essere un pezzo brillante di oratoria, ora tendente alla conciliazione, ora percorso da velate minacce: punto di partenza era la sottolineatura della più grande colpa di Alessandro rispetto ai valori del mondo greco, cioè la violazione dei vincoli di ospitalità. È nello stile di Settimio l’interruzione intempestiva con un colpo di scena, in questo caso, a opera di Priamo. 43 Si insiste sull’opposizione tra i Priamidae e il consiglio dei senes Troiani, motivo che nella tradizione omerica non c’era. I figli di Priamo, guidati da un barbaro spirito di rapina, sono attratti dalle ricchezze portate da Paride e dalle donne al séguito, a differenza dei senes, disposti sin dall’inizio a più miti consigli. In tutto questo Priamo risulta

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NOTE AL TESTO DI DITTI

un «abulico» (Timpanaro 1987, 192), dapprincipio simpatizzante per la causa della guerra, solo perché condizionato dai figli. 44 Il personaggio di Antenore, figlio di Icetaone (o Aisiete) e Cleomestra (sch. ad Il. 3,201), del quale Settimio darà una compiuta genealogia più avanti (4,22), fa qui la sua prima apparizione nel libro: da subito è caratterizzato da saggezza e moderazione, anche rispetto alle richieste dei Greci (Il. 3,207). Nell’Iliade (3,148) era presente insieme a Priamo e ad altri anziani Troiani sulla torre delle mura presso le porte Scee in occasione della ΘΉ΍ΛΓΗΎΓΔϟ΅, ma soprattutto si era distinto come promotore di una mediazione tra le parti in lotta, volta a restituire Elena ai Greci, proposta destinata a fallire (7,347 sgg.). Queste doti diplomatiche ne avrebbero causato anche la fama di traditore dei Troiani, raccolta dallo stesso Ditti (4,18 e 22; 5,1-18) e prima di lui da Ellanico (FGrHist 4,31,10-71) e da Licofrone (al v. 340 dell’Alessandra, dove il ΛνΏΙΈΕΓΖ ВΐϱΌΕ΍Β che dà il segnale e apre il cavallo di legno dovrebbe essere proprio l’anziano troiano), così Tzetzes, Dionigi di Alicarnasso in ant. 1,46, Sisenna citato da Servio a proposito di Aen. 1,242, Aurelio Vittore in orig. 9. Platone (symp. 221 C) presentava Antenore accanto a Nestore come esempio di politico moderato, paragonabile a Pericle. Darete (6 e 8) lo presenta come l’ambasciatore inviato da Priamo per ottenere dai Greci la restituzione di Esione (ma senza risultati: Antenorem ab eis nihil impetrasse). La sua fama valeva presso Greci e Troiani: a Pausania (10,27) dobbiamo una testimonianza per cui Odisseo avrebbe riconosciuto e salvato il ferito Antenore durante la battaglia notturna. L’Antenore di Ditti «è, per la maggior parte della narrazione, un traditore solo per i bellicisti folli che sacrificano il popolo in una guerra assurda; in verità è un patriota realistico e conservatore (alieno, perciò, come vedremo, dall’appoggiarsi ai populares, verso i quali ha tuttavia sentimenti umanitari). Ha verso i Greci il senso dell’ospitalità (1,7 in fine; 11 in fine) e quindi sente come un’ignominia la violazione dell’ospitalità compiuta da Paride ai danni di Menelao» (Timpanaro 1987, 196-97). 45 Malala (5,4,1-2) riferisce, invece, del ritorno di Paride a Troia ponendo maggior enfasi sui beni da lui riportati: ΐΉΘΤ Έξ ΛΕϱΑΓΑ ώΏΌΉΑ πΑ ΘϛΖ ̄Ϣ·ϾΔΘΓΙ ϳ ̓ΣΕ΍Ζ σΛΝΑ ΘχΑ ̴ΏνΑ΋Α Ύ΅Ϡ ΘΤ ΛΕφΐ΅Θ΅ Ύ΅Ϡ ΘϲΑ ΔΏΓІΘΓΑ ϵΏΓΑ ΘϲΑ ΅ЁΘϛΖǯ Più breve Cedreno (p. 218 B 7): ΐΉΘΤ Έξ ΛΕϱΑΓΑ ϏΎΉΑ ϳ ̓ΣΕ΍Ζ ΦΔϲ ΘϛΖ ̄Ϣ·ϾΔΘΓΙ ΗΝΌΉϟΖ. 46

I populares troiani, come li chiama efficacemente Timpanaro 1987, 191, sono sin dall’inizio ostili alla guerra. «All’arrivo di Paride con Ele-

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na, tota civitas (eccettuati, come vedremo, molti dei capi), cum partim exemplum facinoris exsecrarentur, alii iniurias in Menelaum admissas dolerent, nullo omnium adprobante, postremo cunctis indignantibus, tumultus ortus est (1,7; oltre il non inefficace anacoluto, si noti come quel partim…ali… faccia a una prima occhiata pensare ad una contrapposizione di pareri, mentre la differenza è solo di una sfumatura)». Il populus troiano in Darete (8), invece, è a favore della guerra, fatta eccezione per un tal Panto, figlio di Euforbo, che preconizzava Troianis extremum exitium, anteponendo i vantaggi della vita in pace (pulchrius esse in otio vitam degere, quam in tumultu libertatem amittere). 47 Malala (5,3,83) precisa nella quantità di cinque il numero delle altre prigioniere giunte a Troia (ΉȂ ΈΓΙΏϟΈΉΖ). Cedreno avrebbe mantenuto la stessa cifra (μΉΘΤ … ΔνΑΘΉ ΈΓΙΏϟΈΝΑ ΎΓΕ΅ΗϟΝΑ). 48 Nel moralismo di queste affermazioni sul conto dei Troiani, barbari intemperanti, Settimio «sallustianeggia», per dirla con il Timpanaro 1987, 192, che indica puntuali riprese di Cat. 12,2 nihil pensi neque moderati habere; 23,2 prorsus neque dicere neque facere quicquam pensi habebat (analogamente 5,6) e Iug. 41,9 nihil pensi neque sancti habere; 6,3 transvorsos agit (cfr. 14,20) e, di là dalle suggestioni letterarie del testo latino, presuppone una simile rappresentazione dei principi troiani anche nell’originale greco. 49 Bisognerà intendere col Timpanaro reliqui populares, cioè quelli che non erano stati uccisi da Paride e dagli altri reguli. Il filo-popolarismo di Ditti, espresso qui nel gesto di Antenore, tanto diverso dalla prepotenza di Alessandro, rimarrà piuttosto circoscritto. Antenore, infatti, condurrà sempre un’opposizione interna al gruppo dominante, senza arrivare a una alleanza con i populares per imporsi a Priamo (Timpanaro 1987, 198). 50 Brano simile si trova in Malala (chron. 5,4): Priamo ed Ecuba πΔΙΑΌΣΑΓΑΘΓ Δ΅ΕȂ΅ЁΘϛΖǰ ΘϠΖ Ήϥ΋ ύ ΘϟΑΝΑ ΦΔϱ·ΓΑΓΖǯ Anche i particolari genealogici e il senso generale del brano dello storico antiocheno corrispondono alla versione di Settimio: ψ Έξ ̴ΏνΑ΋ σΚ΋ȉ Ɋ̝ΏΉΒΣΑΈΕΓΙ ΘΓІ Ύ΅Ϡ ̓ΣΕ΍ΈΓΖ Ύ΅Ϡ ̓ΣΕ΍ΈΓΖ ΉϢΐ΍ ΗΙ··ΉΑϟΖэ Ύ΅Ϡ ΐκΏΏΓΑ ΔΕΓΗφΎΉ΍Α ̓Ε΍ΣΐУ Ύ΅Ϡ ΘϜ ̴ΎΣΆϙǰ Ύ΅Ϡ ΓЁ ΘХ ̓ΏΉ΍ΗΌνΑΓΙΖ ΙϡХ ̏ΉΑΉΏΣУȉ ̇΅Α΅ΓІ ·ΤΕ σΚ΋ Ύ΅Ϡ ̝·φΑΓΕΓΖ ΘЗΑ ̕΍ΈΓΑϟΝΑ Ύ΅Ϡ πΎ ·νΑΓΙΖ ΘΓІ ̓Ε΍ΣΐΓΙ Ύ΅Ϡ ΅ЁΘχΑ ЀΔΣΕΛΉ΍Α πΎ ΘΓІ ·νΑΓΙΖ ΅ЁΘΓІǯ πΎ ̓Ώ΋Η΍ϱΑ΋Ζ ·ΤΕ ΘϛΖ ̇΅Α΅ΓІ ΌΙ·΅ΘΕϲΖ π·ΉΑΑφΌ΋ ϳ ̡ΘΏ΅Ζ Ύ΅Ϡ ψ ̼ΏνΎΘΕ΅ǰ πΒ ϏΖ ϳ ̇ΣΕΈ΅ΑΓΖ Ά΅Η΍ΏΉϿΖǰ πΒ ΓЈ ϳ ̖ΕЗΓΖ Ύ΅Ϡ Γϡ ΘΓІ ͑ΏϟΓΙ Ά΅Η΍ΏΉϧΖǯ Ύ΅Ϡ Έ΍Τ ̘ΓϟΑ΍Ύ΅ǰ ΘϲΑ ̝·φΑΓΕΓΖ ΙϡϱΑǰ ΓЈΘ΍ΑΓΖ π·νΑΉΘΓ ΦΔϱ·ΓΑΓΖ ̇Ͼΐ΅Ζ Ά΅Η΍ΏΉϾΖǰ ϳ

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NOTE AL TESTO DI DITTI

̴ΎΣΆ΋Ζ Δ΅ΘφΕȉ πΎ ΘΓІ ·νΑΓΙΖ Έξ ΘΓІ ̇Ͼΐ΅ Ύ΅Ϡ ψ πΐχ ΐφΘ΋Ε ψ ̎φΈ΅ πΏν·ΉΘΓ ΉϨΑ΅΍ǯ Θ΅ІΘ΅ Έξ ΉϢΔΓІΗ΅ ψ ̴ΏνΑ΋ ΘХ ̓Ε΍ΣΐУ Ύ΅Ϡ ΘϜ ̴ΎΣΆϙ ϔΘ΋ΗΉΑ ΅ЁΘΓϿΖ ϳΕΎЏΗ΅Η΅ ΐχ ΔΕΓΈΓΌϛΑ΅΍ǰ Ύ΅Ϡ Ών·ΓΙΗ΅ ΐ΋ΈξΑ ΘЗΑ ̏ΉΑΉΏΣΓΙ ΉϢΏ΋ΚνΑ΅΍ǰ ΦΏΏΤ ΘΤ ϥΈ΍΅ ΐϱΑ΅ σΏΉ·ΉΑ σΛΉ΍Αǯ Ύ΅Ϡ ΏΓ΍ΔϲΑ ψ ̴ΎΣΆ΋ ΔΉΕ΍Ώ΅ΆΓІΗ΅ ΅ЁΘχΑ Ύ΅ΘΉΚϟΏΉ΍ Ύ΅Ϡ ΔΏΉϟΝ ΔΣΐΘΝΑ ΅ЁΘχΖ ΦΑΘΉϟΛΉΘΓǯ 51

Figlio di Belo e Anchinoe, fratello gemello di Egitto (Apollod. 2,1,4), Danao fu insediato dal padre in Libia. Ebbe in tutto cinquanta figlie, note come le Danaidi, assegnate in matrimonio ai cinquanta cugini, figli di Egitto. 52 Elettra, figlia di Plesione e Atlante (Hes. op. 381), legata all’isola di Samotracia, come testimonia Apollonio Rodio (Arg. 1,916), aveva generato Dardano, Iaso, amato da Demetra, e Armonia. 53 Figlio di Zeus e di Elettra, fu il mitico fondatore di Dardania ai piedi del monte Ida (Il. 20,21 ̇ΣΕΈ΅ΑΓΑ ΅Ї ΔΕЗΘΓΑ ΘνΎΉΘΓ ΑΉΚΉΏ΋·ΉΕνΘ΅ ̉ΉϾΖǰ / ΎΘϟΗΗΉ Έξ ̇΅ΕΈ΅Αϟ΋Αǰ πΔΉϠ ΓЄ ΔΝ ͕Ώ΍ΓΖ ϡΕχ / πΑ ΔΉΈϟУ ΔΉΔϱΏ΍ΗΘΓ ΔϱΏ΍Ζ ΐΉΕϱΔΝΑ ΦΑΌΕЏΔΝΑǰ / ΦΏΏв σΌв ЀΔΝΕΉϟ΅Ζ ОΎΉΓΑ ΔΓΏΙΔϟΈ΅ΎΓΖ ͕Έ΋Ζ). Secondo Apollodoro (3,12,1), Dardano, addo-

lorato per la morte del fratello Iasione, fulminato per aver tentato di violentare Demetra, aveva lasciato Samotracia e si era recato nel continente di fronte, dove regnava Teucro, figlio del fiume Scamandro e della ninfa Idea. Ricevuta da questi metà del territorio e la figlia Batia in sposa, fondò la città di Dardano e diede a tutto il paese il nome di Dardania. 54 Nella genealogia di Apollodoro (3,12,2) a Dardano nacquero due figli, Ilo ed Erittonio, di cui il primo morì senza figli, il secondo ereditò il regno, sposò Astioche figlia del Simoenta e generò Troo. Troo, a sua volta, sposò Calliroe, figlia dello Scamandro e generò una figlia, Cleopatra, e tre figli, Ilo, Assaraco e Ganimede. 55 La tradizione genealogica di Ditti non concorda con quella di altre fonti: Taigete in Arato (phae. 263) era figlia di Atlante e di Pleione, cioè era una delle Pleiadi, insieme ad Alcione, Celeno, Elettra, Maia, Merope e Sterope. Nell’Elena euripidea (al v. 381 e sgg.) viene trasformata in cerbiatta, secondo una tradizione registrata anche in scolii al testo di Pindaro (Ol. 3,53); in tal modo avrebbe ottenuto difesa dagli assalti di Zeus. Tornata alla forma umana, Taigete consacrò ad Artemide la cerva di Cerinea. 56 Lacedemone, re dalla Laconia, nato da Zeus e da Taigete, aveva sposato Sparta, figlia di Eurota (schol. Eur. Or. 615) dalla quale ebbe

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un figlio, Amicla (Paus. 7,18,4), e una figlia, Euridice (Apollod. 2,2,2). Amicla sarebbe stato anche fondatore della citta di Amyclae nella Laconia centrale. I personaggi qui ricordati erano citati anche nella lista dei sovrani spartani stilata da Pausania (3,1). 57 Ebalo risulta ora figlio di Cinorta (Paus. 3,1,4), ora di Periere (Apollod. 3,10,4, schol. Eurip. Or. 457), in Ditti di Argalo. Madre doveva essere Gorgofone, figlia di Perseo. Con la naiade Batea generò Ippocoonte, Tindaro, Icario (Apollod. 3,10,4). 58 Figlio di Ebalo e di Gorgofone (in altre versioni, di Ebalo e della ninfa Batea), re di Sparta insieme al fratello Icario. Destituito dal fratellastro Ippocoonte, Tindaro fu ospitato dal re Testio, di cui sposò la figlia Leda, per quanto amata da Zeus. Così riferisce Apollodoro (3,10,5-7) della vicenda matrimoniale di Tindaro e della nascita di Elena: Γϡ Έξ ΚΉϾ·ΓΙΗ΍ ΔΕϲΖ ̋νΗΘ΍ΓΑǰ Ύ΅Ϡ ΗΙΐΐ΅ΛΓІΗ΍Α ΅ЁΘХ ΔΕϲΖ ΘΓϿΖ ϳΐϱΕΓΙΖ ΔϱΏΉΐΓΑ σΛΓΑΘ΍DZ Ύ΅Ϡ ·΅ΐΉϧ ̖ΙΑΈΣΕΉΝΖ ̋ΉΗΘϟΓΙ ΌΙ·΅ΘνΕ΅ ̎φΈ΅Αǯ ΅ЇΌ΍Ζ Ένǰ ϵΘΉ ̽Ε΅ΎΏϛΖ ͒ΔΔΓΎϱΝΑΘ΅ Ύ΅Ϡ ΘΓϿΖ ΘΓϾΘΓΙ Δ΅ϧΈ΅Ζ ΦΔνΎΘΉ΍ΑΉǰ Ύ΅ΘνΕΛΓΑΘ΅΍ǰ Ύ΅Ϡ Δ΅Ε΅Ώ΅ΐΆΣΑΉ΍ ̖ΙΑΈΣΕΉΝΖ ΘχΑ Ά΅Η΍ΏΉϟ΅Αǯ ͑Ύ΅ΕϟΓΙ ΐξΑ ΓЇΑ Ύ΅Ϡ ̓ΉΕ΍ΆΓϟ΅Ζ ΑϾΐΚ΋Ζ Α΋ϟΈΓΖ ̋ϱ΅Ζ ̇΅ΐΣΗ΍ΔΔΓΖ ͑ΐΉϾΗ΍ΐΓΖ ̝ΏφΘ΋Ζ ̓ΉΕϟΏΉΝΖǰ Ύ΅Ϡ ΌΙ·ΣΘ΋Ε ̓΋ΑΉΏϱΔ΋ǰ ϋΑ σ·΋ΐΉΑ ͞ΈΙΗΗΉϾΖDZ ̖ΙΑΈΣΕΉΝ Έξ Ύ΅Ϡ ̎φΈ΅Ζ ̖΍ΐΣΑΈΕ΅ǰ ϋΑ ̷ΛΉΐΓΖ σ·΋ΐΉǰ Ύ΅Ϡ ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅ǰ ϋΑ σ·΋ΐΉΑ ̝·΅ΐνΐΑΝΑǰ σΘ΍ ΘΉ ̘ΙΏΓΑϱ΋ǰ ϋΑ ̡ΕΘΉΐ΍Ζ ΦΌΣΑ΅ΘΓΑ πΔΓϟ΋ΗΉǯ ̇΍ϲΖ Έξ ̎φΈθ ΗΙΑΉΏΌϱΑΘΓΖ ϳΐΓ΍ΝΌνΑΘΓΖ ΎϾΎΑУǰ Ύ΅Ϡ Ύ΅ΘΤ ΘχΑ ΅ЁΘχΑ ΑϾΎΘ΅ ̖ΙΑΈΣΕΉΝǰ ̇΍ϲΖ ΐξΑ π·ΉΑΑφΌ΋ ̓ΓΏΙΈΉϾΎ΋Ζ Ύ΅Ϡ ̴ΏνΑ΋ǰ ̖ΙΑΈΣΕΉΝ Έξ ̍ΣΗΘΝΕ Ύ΅Ϡ ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅ǯ Ών·ΓΙΗ΍ Έξ σΑ΍Γ΍ ̐ΉΐνΗΉΝΖ ̴ΏνΑ΋Α ΉϨΑ΅΍ Ύ΅Ϡ ̇΍ϱΖǯ Θ΅ϾΘ΋Α ·ΤΕ ΘχΑ ̇΍ϲΖ ΚΉϾ·ΓΙΗ΅Α ΗΙΑΓΙΗϟ΅Α ΉϢΖ ΛϛΑ΅ ΘχΑ ΐΓΕΚχΑ ΐΉΘ΅Ά΅ΏΉϧΑǰ ϳΐΓ΍ΝΌνΑΘ΅ Έξ Ύ΅Ϡ ̇ϟ΅ ΎϾΎΑУ ΗΙΑΉΏΌΉϧΑDZ ΘχΑ Έξ КϲΑ πΎ ΘϛΖ ΗΙΑΓΙΗϟ΅Ζ ΦΔΓΘΉΎΉϧΑǰ ΘΓІΘΓ Έξ πΑ ΘΓϧΖ ΩΏΗΉΗ΍Α ΉЀΕϱΑΘ΅ Θ΍ΑΤ ΔΓ΍ΐνΑ΅ ̎φΈθ ΎΓΐϟΗ΅ΑΘ΅ ΈΓІΑ΅΍ǰ ΘχΑ Έξ Ύ΅Θ΅ΌΉΐνΑ΋Α ΉϢΖ ΏΣΕΑ΅Ύ΅ ΚΙΏΣΗΗΉ΍Αǰ Ύ΅Ϡ ΛΕϱΑУ Ύ΅ΌφΎΓΑΘ΍ ·ΉΑΑ΋ΌΉϧΗ΅Α ̴ΏνΑ΋Α БΖ πΒ ΅ЀΘϛΖ ΌΙ·΅ΘνΕ΅ ΘΕνΚΉ΍Αǯ Una volta cre-

sciuta, la piccola Elena era diventata bellissima, oggetto di desiderio di tutti i principi greci. Nel séguito del resoconto, Apollodoro riporta le difficoltà di Tindaro; spaventato dal numero dei pretendenti della figlia, Tindaro fece giurare a tutti, su suggerimento di Ulisse, anch’egli in un primo momento fra i pretendenti alla mano della ragazza, che chiunque fosse stato il fortunato sposo, tutti loro avrebbero dovuto correre in suo aiuto in caso di necessità. Scelse poi lui stesso Menelao. 59 Re di Frigia, padre di Ecuba e di Asio. Nell’Iliade unico riferimento a Dimante, padre di Ecuba, è in occasione del sostegno pre-

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stato a Ettore prima dello scontro con Patroclo da Apollo, apparso nelle sembianze dello zio materno Asio (16,717-719 ϶Ζ ΐφΘΕΝΖ ώΑ ̸ΎΘΓΕΓΖ ϡΔΔΓΈΣΐΓ΍Γ / ΅ЁΘΓΎ΅Ηϟ·Α΋ΘΓΖ ̴ΎΣΆ΋Ζǰ ΙϡϲΖ Έξ ̇Ͼΐ΅ΑΘΓΖǰ / ϶Ζ ̘ΕΙ·ϟϙ Α΅ϟΉΗΎΉ ϹΓϜΖ σΔ΍ ̕΅··΅ΕϟΓ΍Γ). Sua moglie era la ninfa

Eunoe (schol. Eurip. Hec. 3), figlia del sacro fiume Sangario, al quale Dimante sembra strettamente legato (odierno Sakarya, il terzo più lungo dell’attuale Turchia, sfociante nel Mar Nero). Euripide (Hec. 3) invece, seguiva una versione per cui Ecuba era figlia di Chisseo, poi ripresa da Virgilio (Aen. 7,320). 60 Figlia di Testio e moglie di Tindaro, re di Sparta. Zeus, innamoratosi di lei, si trasformò in un cigno e si accoppiò con lei, che generò due uova; da uno di questi sarebbero usciti i Dioscuri, Castore e Polluce, mentre dall’altro Elena e Clitennestra. La tradizione mitica non è concorde riguardo a quale fosse la progenie divina. In Il. 3,426, Od. 4,184, 219, 569 Elena è detta figlia di Zeus; in Il. 3,236 Elena dice di essere sorella di Castore e Polluce. Nell’Iliade Leda non è mai citata, solo nella ΑνΎΙ΍΅ (Od. 11,298) è ricordata come madre dei Dioscuri. 61 L’intero discorso di Elena, teso a muovere gli affetti di Ecuba, poggia in realtà su basi piuttosto deboli. Come ha notato Timpanaro 1987, 178, sembra che Elena si dichiari innamorata di Paride «anche per complicate e un po’ ridicole ragioni genealogiche!». Alla goffaggine dell’esposizione memoriter di questi legami, si aggiunge la preoccupazione di giustificare il furto degli altri oggetti dalla casa del primo marito, presentati come suoi personali. Nell’Iliade erano invece presenti i tratti di una psicologia femminile divisa, combattuta tra la fedeltà frustrata al primo marito e l’attrazione verso il secondo, eroe non altrettanto valoroso. Nella nota scena iliadica della ΘΉ΍ΛΓΗΎΓΔϟ΅ Elena confessa al suocero Priamo che avrebbe preferito scegliere la morte al momento di seguire Paride (Il. 3,172-176). Nello stesso libro la donna è costretta a un confronto tra le virtù dei due uomini, appena dopo la sconfitta di Paride per mano di Menelao, da cui esce un giudizio impietoso sul nuovo marito (Il. 3,383-448, in particolare ai versi 428-436: ȂόΏΙΌΉΖ πΎ ΔΓΏνΐΓΙDZ БΖ ЕΚΉΏΉΖ ΅ЁΘϱΌв ϴΏνΗΌ΅΍ / ΦΑΈΕϠ Έ΅ΐΉϠΖ ΎΕ΅ΘΉΕХǰ ϶Ζ πΐϲΖ ΔΕϱΘΉΕΓΖ ΔϱΗ΍Ζ ώΉΑǯ / ώ ΐξΑ Έχ ΔΕϟΑ ·в ΉЄΛΉв ΦΕ΋ϞΚϟΏΓΙ ̏ΉΑΉΏΣΓΙ / ΗϜ ΘΉ Άϟϙ Ύ΅Ϡ ΛΉΕΗϠ Ύ΅Ϡ σ·ΛΉϞ ΚνΕΘΉΕΓΖ ΉϨΑ΅΍DZ / ΦΏΏв ϥΌ΍ ΑІΑ ΔΕΓΎΣΏΉΗΗ΅΍ ΦΕ΋ϬΚ΍ΏΓΑ ̏ΉΑνΏ΅ΓΑ / πΒ΅ІΘ΍Ζ ΐ΅ΛνΗ΅ΗΌ΅΍ πΑ΅ΑΘϟΓΑDZ ΦΏΏΣ Ηв σ·Ν·Ή / Δ΅ϾΉΗΌ΅΍ ΎνΏΓΐ΅΍ǰ ΐ΋Έξ Β΅ΑΌХ ̏ΉΑΉΏΣУ / ΦΑΘϟΆ΍ΓΑ ΔϱΏΉΐΓΑ ΔΓΏΉΐϟΊΉ΍Α ωΈξ ΐΣΛΉΗΌ΅΍ / ΦΚΕ΅ΈνΝΖǰ ΐφ ΔΝΖ ΘΣΛв ЀΔв ΅ЁΘΓІ ΈΓΙΕϠ Έ΅ΐφϙΖȂ). Di là da Omero,

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la versione di Settimio, al confine tra il legalistico e il patetico, si mostra indipendente dai numerosi tentativi letterari di rivalutazione della figura di Elena condotti fino alla sua epoca. La difesa di Elena era stata svolta brillantemente da Stesicoro e da Gorgia, per esempio, ma anche da Euripide e da Isocrate, pur all’interno di generi letterari diversi. Nell’Encomio di Elena di Gorgia, per esempio, capolavoro della sofistica, l’innocenza della donna era dimostrata con vari argomenti: «Elena può essere stata indotta a partire per Troia dalla volontà del destino, da un ordine degli dèi o dalla stessa Necessità (Ananke). In ciascuno di questi casi essa deve essere considerata innocente perché la natura umana non le consentiva di opporsi con successo a forze così tanto superiori alla sua (cap. 6). Se invece fu rapita con la forza, sarebbe da considerare ugualmente innocente. Colpevole in questo caso sarebbe Paride, il barbaro che le aveva recato violenza; Elena avrebbe diritto alla compassione e non alla cattiva fama (cap. 7). Tuttavia, se anche avesse dato ascolto ai discorsi di Paride lasciandosi persuadere dalle sue parole, non sarebbe ugualmente colpevole. La parola, infatti, è un signore potente (dynastes megas), capace di indurre sulla persona qualsiasi effetto (cap. 8). Operando come un sortilegio, non consente una reale libertà di scelta: l’apparente consenso sarebbe in realtà stato ottenuto con la forza. Resta da considerare un’ultima possibilità: Elena può davvero essersi innamorata di Paride; anche in questo caso, tuttavia, non sarebbe colpevole». Così nella ricostruzione di Brillante (Bettini-Brillante 2002, 126-127). La rivisitazione del personaggio di Elena era iniziata, prima di Gorgia, in un’opera celebre di Stesicoro, la Palinodia, che seguiva ad una Elena ancora legata alla visione tradizionale. Spunti interessanti avrebbe elaborato Euripide nelle Troiane (vv. 919 sgg.), dove Ecuba replicava puntualmente alle osservazioni di Elena, facendo risaltare la sua colpa, nell’Oreste e nell’Elena (BettiniBrillante 2002, 123-26). 62 Possibile ripresa di Verg. Aen. 2,572: (Illa) … et Danaum poenam et deserti coniugis iras/ praemetuens (Merkle 1989, 121). L’espressione di dubbio sulla sincerità delle dichiarazioni di Elena (sed utrum immodico amore Alexandri an poenarum metu, quas ob desertam domum a coniuge metuebat, ita sibi consulere maluerit, parum constabat) è tipica dello stile di Settimio (Timpanaro 1987, 178, che nota parimenti l’assenza di questa «prudente riserva» in Malala 5,4,15); in questo il nostro aspirante storiografo è forse emulo di certo periodare tacitiano, segnato dalla costante messa in discussione delle intenzioni dei personaggi attraverso frasi du-

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bitative che prospettano una alternativa, spesso malevola, a una prima spiegazione più rassicurante (per esempio il noto brano di ann. 14.7 sulla convocazione di Burro e Seneca da parte di un Nerone disperato appena dopo il fallito attentato ad Agrippina: quod contra subsidium sibi? nisi quod Burrus et Seneca expromerent, quos statim acciverat, incertum an ante ignaros). La precisazione finale (parum constabat) corrisponde a un gusto per la messa in rilievo a mo’ di pointe che era caratteristica già dello stile di Tacito (un lavoro specifico è quello di Voss 1963). 63 Secondo Apollodoro (3,12,5), Deifobo era il terzo figlio maschio di Priamo ed Ecuba, dopo Ettore e Paride. La storia dei rapporti, misti di affetto e competizione, tra i tre fratelli è lumeggiata nell’Iliade (per es. in 22,224-237). Il séguito della passione di Deifobo per Elena sarà trattato in 4,22. 64 Discutibile il riecheggiamento di Sallustio indicato da Merkle 1989, 121 (Iug. 30,2: eos potentia Scauri … a vero bonoque inpediebat; interessante anche 28,5). 65 La storia della paventata riconsegna di Elena ai greci da parte dei troiani aveva lunga tradizione, non solo epica. Anche in commedia, per esempio: nel Dionisalessandro di Cratino, datato attorno al 430 a.C., Dionìso, travestito da Alessandro Paride, assegnava ad Afrodite il primato di bellezza, ricevendo in cambio Elena; quando Paride, però, scopriva l’inganno, minacciava di consegnare Dioniso ed Elena ai greci, ma alla fine tratteneva Elena con sé e Dioniso si univa ai satiri del coro. Il ruolo di Ecuba rispetto al destino di Elena, invece, era motivo variamente interpretato in tragedia. Nelle Troiane di Euripide (415 a.C.), per esempio, Ecuba, sul finire della guerra troiana, invitava Menelao a uccidere la donna che era stata causa di tanti mali (in particolare nella ϹϛΗ΍Ζ ai versi 969-1032). 66 Merkle 1989, 120 segnala qui una ripresa variata della sentenza sallustiana (Iug. 25,3): ita bonum publicum… privata gratia devictum. 67 L’uscita di Menelao dal consiglio, ira percitus atroci vultu exitium minatus, ricorda situazioni analoghe di eroi dell’Iliade, capaci di reazioni brusche e sguardi biechi (per es. nell’espressione formulare ΘϲΑ Έв ΩΕв ЀΔϱΈΕ΅ ϢΈАΑ). 68 Il giuramento dei Pelopidi dimostra la reazione concorde della Grecia al rapimento di Elena, senza divisioni o incertezze; la celebre storia dell’iniziale riluttanza di Ulisse a partire (Apollod. epit. 3,7, schol. Lycophr. 815, Od. 24,115-119), per esempio, non poteva che essere omessa da Ditti (Merkle 1989, 153).

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Viene introdotto così Diomede, figlio di Tideo e di Deipile, uno dei principali eroi achei della guerra degli Epigoni e della Guerra di Troia (la sua ΦΕ΍ΗΘΉϟ΅ era descritta in Il. 5) destinato ad assumere un ruolo rilevante anche come diffusore della civiltà, specialmente nell’Adriatico. 70 È qui espressa la professione di metodo di Settimio, basata secondo una tradizione storiografica inaugurata da Erodoto su ΅ЁΘΓΜϟ΅ e ΦΎΓφ, e richiamata alla fine dell’opera, in una sorta di ΗΚΕ΅·ϟΖ conclusivo (5,17 cuncta sciens perpessusque magna ex parte). Analoga era la dichiarazione di veridicità di Darete (12), fondata in parte sulla riproduzione delle cose apprese da altri, in parte sulla registrazione di quelle personalmente viste: Dares Phrygius, qui hanc historiam scripsit, ait se militasse usque dum Troia capta est, hos se vidisse, cum indutiae essent, partim proelio interfuisse, a Dardanis autem audisse qua facie et natura fuissent Castor et Pollux. Alla serietà di intenti dichiarata da Settimio si somma la dotta ripresa sallustiana nella formulazione quam verissume potero exponam: nel de catilinae coniuratione (18.2) lo storico di Amiterno si era prefisso di scrivere il più possibile vicino alla verità (de qua re quam verissume potero dicam). Se anche Ditti avesse impiegato in greco un lessico tecnico, contenente allusioni a modelli classici, così come Settimio, rimane in linea teorica domanda aperta, secondo Merkle 1988, 68, che si mostra favorevole a una risposta affermativa, forte dell’insistenza di Malala (5,107,6) nel presentare Ditti come οΝΕ΅ΎАΖ … ΦΎΕ΍ΆЗΖ … Ύ΅Ϡ ΗΙ··Ε΅ΜΣΐΉΑΓΖ БΖ Δ΅ΕЏΑ. Rimane magistrale, a proposito delle dichiarazioni di metodo di Ditti e Darete, l’interpretazione di Timpanaro 1987, 172-173: «Sembra evidente che questi scrittori, e in particolare il sedicente Ditti che è quello di cui più ci è rimasto, abbiano avuto bene in mente ciò che osserva Tucidide (1,1; 1,3, 3; 1,10, 3; 1,20, 1; 1,21; 1,22) sull’incertezza della storia più remota, sulla scarsa attendibilità di Omero in quanto vissuto molto tempo dopo la guerra di Troia e in quanto poeta tendente ad esagerare e ad abbellire i fatti, sulla non perfetta veridicità anche degli storici più recenti, sul suo proposito di discostarsi dai suoi predecessori e di narrare soltanto i fatti a cui egli stesso fu presente o che ha saputo da testimoni degni di fede». Nella fattispecie il testimone fededegno cui si rivolge Ditti è niente meno che Ulisse, con tutte le implicazioni di veridicità connesse. Eppure, anche in una materia come la guerra troiana, primario resta il bisogno di verità storica: così alla fine dell’opera (5,17) Settimio/Ditti differenzia ancora una volta tra ciò

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che appreso (sciens) e quello che ha vissuto personalmente (perpessus). Questa scientificità tucididea applicata a una materia come quella epica doveva essere uno degli ingredienti antiomerici dell’opera di Ditti e anche dello spiritoso Settimio. Per lo statuto ’storiografico’ di Ditti vd. Introduzione. 71 Figlio di Nestore e di Euridice (Od. 3,451) o di Anassibia (Apollod. 1,9,9), secondo una tradizione raccolta da Igino (fab. 252) Antiloco era stato esposto da neonato sul monte Ida (expositus in Ida monte) ma qui venne miracolosamente allattato da una cagna (ab cane). Nell’Iliade (15,570, 23,756) la sua dote precipua era la velocità. 72 Trasimede era padre di Sillo e nonno di Alcmeone, pertanto progenitore della stirpe attica degli Alcmenonidi (Paus. 2,18,8). 73 Peneleo, nome sulla cui etimologia si è lungo speculato, secondo Igino (fab. 97) era figlio di Ippalco e Asterope. Secondo una tradizione tarda riportata da Apollodoro (1,9,16) un Peneleo figlio di Ippalmo aveva partecipato anche alla spedizione degli Argonauti, insieme a Leito. Nella lista di Settimio/Ditti è il primo dei cinque condottieri a capo delle forze beote. 74 Clonio, in Igino (fab. 97) fratello di Leito, figlio di Lacrito e Cleobula. 75 Arcesilao in Igino (fab. 97) figura essere figlio di Areilico e Teobula. 76 Protenore (̓ΕΓΌΓφΑΝΕ), il cui nome era spiegato da Eustazio ϳ ΔΕΓΌνΝΑ πΑ ωΑΓΕνϙ ό·ΓΙΑ ΦΑΈΕΉϟθ ύ ϳ ΔΕΓΌνΝΑ ΘЗΑ ΦΑΈΕЗΑ πΑ Ύ΅΍ΕХ σΕ·ΓΙ (ad Hom. Il. 264), in Igino (fab. 97) era detto fratello di

Arcesilao e proveniente da Tespie. 77 Figlio di Alettore secondo Apollodoro, che lo ricordava sia come partecipante alla spedizione degli Argonauti (1,9,16), sia come pretendente di Elena (3,10,4). In Omero era invece figlio di Alettrione (Il. 17,601). Ai tempi di Pausania (9,4,3) la sua tomba era mostrata a Platea. 78 Schedio ed Epistrofo, nominati anche nell’Iliade (2,517), erano figli di Ifito e di Ippolita. 79 Ascalafo e Ialmeno, fratelli gemelli, figli di Ares e Astioche, erano anche nell’Iliade (2,511 e sgg.) a capo dell’esercito dei Minii di Orcomeno. In Apollodoro (1,9,16) comparivano anche tra gli Argonauti. 80 Uno dei capi degli Epei, figlio di Amarinceo, ricordato anche da Pausania (5,3,4). 81 Megete, figlio di Fileo, nipote di Augia, conduceva gli eroi da Dulichio, come sarà poi specificato nel catalogo (cap. 17).

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Capo degli Etoli, figlio di Andremone, successore di Eneo e Meleagro nel dominio dell’Etolia (Il. 2,638-644). 83 Eroe tessalo, figlio di Euemone, nipote di Ormeno; quest’ultimo era stato fondatore della città di Ormenio in Tessaglia, ricordata da Omero in Il. 2,734-736. Strabone (9,5,18) in età augustea dava un quadro dell’area di provenienza di Euripilo, soggetta a nuova urbanizzazione all’epoca di Demetrio Poliorcete, e spiegava la mutazione di pronuncia da ͞ΕΐνΑ΍ΓΑ a ͞ΕΐϟΑ΍ΓΑ ǻοΒϛΖ Έξ Ών·Ή΍ ΘχΑ ЀΔв ̈ЁΕΙΔϾΏУ ȂΓϤ Έв σΛΓΑ ͞ΕΐνΑ΍ΓΑ Γϣ ΘΉ ΎΕφΑ΋Α ͩΔνΕΉ΍΅Αǰ Γϣ Θв σΛΓΑ ̝ΗΘνΕ΍ΓΑ ̖΍ΘΣΑΓ΍ϱ ΘΉ ΏΉΙΎΤ ΎΣΕ΋Α΅Ȃǯ Θϲ ΐξΑ ΓЇΑ ͞ΕΐνΑ΍ΓΑ ΑІΑ ͞ΕΐϟΑ΍ΓΑ Ύ΅ΏΉϧΘ΅΍ǰ σΗΘ΍ Έв ЀΔϲ ΘХ ̓΋ΏϟУ ΎЏΐ΋ Ύ΅ΘΤ ΘϲΑ ̓΅·΅Η΍Θ΍ΎϲΑ ΎϱΏΔΓΑ ΘЗΑ ΗΙΑУΎ΍ΗΐνΑΝΑ ΉϢΖ ΘχΑ ̇΋ΐ΋ΘΕ΍ΣΈ΅ ΔϱΏΉΝΑǰ БΖ ΉϥΕ΋Θ΅΍). 84

Leonteo era figlio di Corono, che a sua volta era figlio di Ceneo. Era ricordato nell’Iliade sia nel catalogo delle navi (2,745 e sgg.), sia nei giochi funebri per Patroclo (23,837 e sgg.). 85 Il passo tràdito pone un problema testuale: quae ex Chirone dicebatur si lascia difficilmente interpretare, se non accettando la diversa lezione (qui inbutus bellis ex Chirone dicebatur) recata dal codice esinate, rinvenuto nel 1902 nella biblioteca del conte Balleani di Iesi e pubblicato dall’Annibaldi nel 1907 (problema affrontato variamente da Wünsch 1907, 1026, Löfstedt 1907, 52, Friebe 1909, 28, Franceschini 1937, 151). 86 Chirone, nato da Filira (cioè ’tiglio’ in greco, pianta dai poteri calmanti), figlia di Oceano, e dal Titano Crono, che per sedurla si trasformò in cavallo, era il più saggio dei Centauri, esperto nelle arti, nelle scienze ed in medicina ebbe per allievi numerosi eroi: Aiace, Achille, Aristeo, Asclepio, Atteone, Ceneo, Enea, Eracle, Fenice, Giasone, Oileo, Palamede, Peleo, Telamone, Teseo, e, secondo alcune versioni del mito, anche Dioniso. Dall’unione con la ninfa Cariclo avrebbe generato Ociroe. 87 La presentazione di Achille, eroe centrale delle vicende troiane, è condotta nel solco della tradizione: immancabili il riferimento all’educazione ricevuta dal centauro Chirone e la descrizione del suo carattere, più ferino (effera morum impatientia) di quello di altri Greci. Achille e Aiace sono gli eroi cui Settimio/Ditti dedica maggior attenzione in questa introduzione alla spedizione. Più dettagliato Darete (12) sul conto di Achille: pectorosum ore venusto membris valentibus et magnis iubatum bene crispatum clementem in armis acerrimum vultu hilari largum dapsilem capillo myrteo. Una presentazione di Achille

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simile, ma molto più ricca di aggettivi, è in Malala (5,9,64-65), dove l’eroe è definito anche ΉЁΔΕϱΗΝΔΓΖǰ ΈΉ΍ΑϲΖ ΔΓΏΉΐ΍ΗΘφΖ ed ΉЄΛ΅Ε΍Ζ. 88 Tlepolemo, figlio di Eracle e di Astioche, nel catalogo delle navi iliadico (2,653-670) era protagonista di un breve excursus: costretto alla fuga per aver ucciso uno zio di suo padre, aveva trovato rifugio a Rodi, dove era ricordato in età storica come fondatore dei tre centri urbani più noti (Lindo, Ialiso, Camiro). 89 Figli entrambi del re Tessalo, Eraclide, entrambi ricordati nel successivo catalogo delle navi (cap. 17). 90 In Omero (Il. 2,697-719) Protesilao era figlio maggiore di Ificlo e Astioche, re di Filache in Tessaglia; era noto soprattutto per essere stato il primo Greco ucciso appena sbarcato a Troia, per questo poi sostituito al comando dal fratello Podarce. 91 Eumelo, figlio di Admeto e Alcesti, eroe tessalo (Il. 2,711 e sgg., Apollod. 3,10,8). 92 Podalirio e Macaone (Il. 2,729-733) erano i due eroi medici della spedizione, figli di Asclepio e originari di Tricca in Tessaglia. Una differenziazione di ruoli fra i due, corrispondente alla progressiva specificazione delle competenze dell’arte medica, si notava già nei poemi del ciclo: nella ͑ΏϟΓΙ ̓νΕΗ΍Ζ di Arctino di Mileto (fr. 2 West = 4 Bernabé) Macaone è il chirurgo, Podalirio il diagnostico. Quest’ultimo, in Omero secondario rispetto a Macaone, fu valorizzato nell’epica posteriore. In Quinto di Smirne, per esempio, Podalirio è rappresentato come il vero medico, mentre Macaone sembra amare soprattutto la battaglia (6,396 e sgg., 538-540, 7,56-65, 9,461-472). 93 Nireo, figlio di Aglaia e di Caropo, «l’uomo più bello che venne sotto Ilio, / tra tutti gli altri Danai, dopo il Pelide perfetto» (Il. 2, 673). 94 Figlio di Peteòo (Il. 4,338; 12,355), divenuto re di Atene per volontà dei Dioscuri, allorché invasero l’Attica per recuperare la sorella Elena rapita da Teseo, Menesteo era figura secondaria nell’epos omerico: nel quarto libro dell’Iliade (338-348) Agamennone lo rimprovera di inerzia, nel dodicesimo chiama aiuti contro Sarpedone e Glauco. Plutarco, nella Vita di Teseo (32), aggiunse un dettaglio politico al ritratto del personaggio, il primo che avrebbe parlato alla folla in modo accattivante. 95 In questa elencazione (Anfiloco, Stenelo, Anfiloco figlio di Anfiarao, Capaneo, Eurialo figlio di Mecisteo, Tessandro) Settimio/Ditti inserisce personaggi noti per essere stati guerrieri del ciclo tebano, in particolare della generazione dei Sette (Capaneo) e degli Epigoni (Anfiloco, Stenelo, Tessandro, Eurialo).

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Figli di Teseo e dell’amazzone Antiope o, secondo una versione più tarda, di Fedra (Diod. 4,62), Acamante e Demofonte non erano presenti nell’Iliade. 97 Ancora una volta il motivo economico è messo in primo piano, prima delle virtù guerriere. Sembra quasi che l’oltraggio del rapimento di Elena non sia motivo sufficiente per la scoppio della guerra, ma che determinante sia il dispendio di risorse da parte di Agamennone (Timpanaro 1987, 199). 98 Prima apparizione nel racconto di Calcante, figlio di Testore, il grande indovino originario di Argo o di Megara, l’augure di gran lunga migliore (Il. 1,69-72 ̍ΣΏΛ΅Ζ ̋ΉΗΘΓΕϟΈ΋Ζ ΓϢΝΑΓΔϱΏΝΑ ϷΛв ΩΕ΍ΗΘΓΖǰ / ϶Ζ ϔΈ΋ ΘΣ Θв πϱΑΘ΅ ΘΣ Θв πΗΗϱΐΉΑ΅ ΔΕϱ Θв πϱΑΘ΅ǰ / Ύ΅Ϡ ΑφΉΗΗв ψ·φΗ΅Θв ̝Λ΅΍ЗΑ ͕Ώ΍ΓΑ ΉϥΗΝ / ϋΑ Έ΍Τ ΐ΅ΑΘΓΗϾΑ΋Αǰ ΘφΑ Γϡ ΔϱΕΉ ̘ΓϧΆΓΖ ̝ΔϱΏΏΝΑ). Nell’Iliade era Calcante ad annunciare agli Achei che Cri-

seide, schiava e concubina di Agamennone doveva essere restituita a suo padre Crise per spingere Apollo a fermare la pestilenza che aveva mandato loro come punizione. 99 Prima del ritrovamento di Ditti greco, c’è stato chi ha voluto vedere nel sacrificio alla Concordia un elemento specificamente latino, che dimostrerebbe l’originalità di Settimio rispetto a Ditti (Dunger 1878, 8). Molto più probabile che Concordia sia la naturale traduzione della nozione, frequente anche in greco, di ϳΐϱΑΓ΍΅ (Merkle 1988, 152). 100 Il tempio di Argo, scoperto nel 1831 dall’archeologo inglese T. Gordon, visitato anche da Heinrich Schliemann nel 1874, era uno dei principali luoghi di culto di Era sul suolo greco. In età classica fu interessato da un totale rifacimento a seguito dell’incendio del 423 a.C., che significò la realizzazione di un secondo livello, inferiore al precedente andato distrutto, e di fatto di un nuovo tempio, a opera di Eupolemo di Argo, nel quale fu alloggiata la statua crisoelefantina di Era, tradizionalmente attribuita a Policleto dalle fonti antiche. 101 Questa informazione è stata spesso usata (soprattutto dal Dederich) a dimostrazione della tesi che l’opera di Ditti fosse stata scritta in lingua greca ma in caratteri fenici, come era l’uso nella Grecia preomerica. 102 Nella scelta di Agamennone come comandante della spedizione sembra che come unico criterio di decisione agisca l’aspetto economico, cui Ditti è molto sensibile: propter magnam opum vim, quibus praeter ceteros Graeciae reges magnus atque clarus habebatur. Non ha importanza alcuna la considerazione del valor militare.

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Leggermente diversa la distribuzione degli incarichi in Apollodoro (epit. 3,16), per il quale Agamennone era a capo dell’intero corpo di spedizione, mentre Achille, alla tenera età di quindici anni, si trovava ad essere da solo responsabile della flotta. 104 Aulide, oggi Avlida, località della Beozia di fronte a Calcide, era nella tradizione il porto in cui si erano raccolti i guerrieri greci prima della spedizione, ma soprattutto il vero centro di gestazione dell’epos greco arcaico (West 1988: 168). Gli scavi archeologici vi hanno identificato il santuario di Artemide, più volte rimaneggiato in età romana. In Darete (14), invece, il porto di raccolta delle navi era quello di Atene, probabile trasposizione in epoca mitica del passato glorioso della città (Garbugino 2011: 55; Canzio 2014: 85); sarebbe stato un presagio sfavorevole, solo in un secondo momento, a spingere i Greci a fare ritorno, «permettendo così ad Agamennone di recarsi in Aulide per placare con doni e sacrifici rituali la dea Diana, irritata dalla trascuratezza dei Greci nei suoi confronti» (tr. Canali). 105 La sezione che segue corrisponde al celebre catalogo delle navi contenuto nel II libro dell’Iliade (494-759), tema variamente ripreso in altre fonti (Apollod. epit. 3,11, Hyg. fab. 97, Ilias latina 167-221), anche in tragedia (da Euripide, nell’Ifigenia in Aulide, vv. 253 e sgg.); rispetto al modello omerico, semmai, Ditti può permettersi una dislocazione meglio confacente di questo excursus catalogico, che nell’Iliade era inserito, per ovvie ragioni, in medias res (Venini 1981, 82-166). In Omero il catalogo era preceduto da una invocazione alle Muse, cui il poeta chiedeva aiuto per essere edotto dei nomi dei capi e dei re dei Greci (Il. 2,484-493). Ditti, partecipe delle vicende, può procedere invece a una più oggettiva e asciutta catalogazione. Lo stesso è per Darete (14), in cui pure c’è un catalogo delle navi (Canzio 2014, 86). Lo schema è piuttosto semplice: elencati sono nell’ordine gli eroi, la città o la regione di provenienza e il numero di imbarcazioni. Quanto alle singole informazioni, i numeri dei contingenti in Ditti coincidono con quelli omerici: diversamente in Apollodoro, dove per i Beoti, per esempio, Omero indicava una armata di cinquanta navi, mentre Apollodoro la riduceva a quaranta imbarcazioni. Le divergenze delle indicazioni di Darete rispetto a quelle omeriche, invece, sono piuttosto riconducibili a errori dei copisti (Beschorner 1992, 128). Differenze tra Ditti e Omero, tuttavia, restano: trattasi di omissioni e aggiunte. Il catalogo di Ditti ignora Teucro, Eurialo, Stenelo, che però erano stati già riportati nell’elenco degli eroi greci accorsi ad Argo (capp. 13-14)

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e, probabilmente per esigenze di sintesi e di variatio in una prosa catalogica già piuttosto ripetitiva, non fornisce la provenienza di Nestore, Aiace d’Oileo, Podalirio, Macaone, Leonteo, Polipete, Agapenore. Personaggi aggiunti da Ditti, invece, sono gli eroi elencati alla fine: Tessandro, figlio di Polinice, con cinquanta navi da Tebe, Calcante con venti navi dall’Acarnania, Mopso da Colofone con venti ed Epeo con trenta dalle Cicladi (Venini 1981-82, 177). 106 Agapenore, figlio di Anceo e Io, nipote di Licurgo, nell’Iliade (2,609) era il capo del contingente arcade, forte di sessanta navi. Il dato, seppur vago, di Settimio sulla partecipazione di diversae civitates quae sub eo (Agamennone) erant, coincide con la tradizione omerica, dove era attribuito ad Agamennone, per il tramite di Agapenore, il coinvolgimento degli arcadi, altrimenti inesperti della navigazione (2,614: πΔΉϠ ΓЄ ΗΚ΍ Ό΅ΏΣΗΗ΍΅ σΕ·΅ ΐΉΐφΏΉ΍). In Darete (14) il ramo della tradizione latrice della redazione uberior dell’opera sostituisce Agapenore con Telefo. 107 Su Aiace d’Oileo Ditti/Settimio si mantengono parchi di notizie: per esempio non è indicata l’area di origine, la regione della Locride. Nell’Iliade (2,527-535) era ricordata la sua esiguità fisica rispetto all’altro Aiace, ma anche l’indiscussa superiorità nel maneggiare la lancia. Il dato delle quaranta navi coincide con Omero. 108 La sezione beotica in Omero (Il. 2,494-510) era ricca di dettagli geografici (non senza un lungo elenco di località): Settimio/Ditti conserva invariati sia il numero delle navi sia i nomi dei comandanti. 109 Schedio ed Epistrofo, figli di Ifito, figlio a sua volta del magnanimo Naubolo, erano a capo dei Focesi anche in Omero (Il. 2,517526), con quaranta navi. 110 Toante, figlio di Andremone, era a capo delle quaranta navi del contingente etolo anche in Omero (Il. 2, 638-643), che aggiungeva al solito una piccola rievocazione dei luoghi di provenienza di questi eroi: Pleirone, Oleno, Pilene, Calcide affacciata sul mare e Calidone, luoghi legati al ricordo di Oineo e di Meleagro. 111 Le Echinadi (modernamente note come isole Curzolari) erano e sono tuttora un arcipelago di piccole isole situate a poca distanza dalla costa dell’Etolia, di fronte alla foce del fiume Acheloo. Devono il nome al riccio di mare (πΛϧΑΓΖ), a causa della conformazione frastagliata della costa. L’identificazione di Dulichio resta, invece, ancora incerta. Il dato del numero di navi fornito da Ditti coincide con quello omerico (su Megete e il contingente dalla Echinadi: Il. 2,625-630).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Al solito, Omero (Il. 2, 645-652) era molto più ricco di informazioni sulle località da cui venivano gli eroi: solo su Creta dalle cento città aggiungeva un nutrito elenco di siti: Cnosso, Gortina, Licto, Mileto, Licasto, Festo, Ritio. Il numero di navi, ottanta per l’intera isola, coincide in Omero e Ditti. 113 L’informazione di Ditti coincide con quella del catalogo iliadico, dove Odisseo (Il. 2,631-637) conduce solo dodici navi, poche rispetto a quelle di altri contingenti, e con il dato fornito nell’Odissea (9,159). 114 Pròtoo, figlio di Tentredòne, capo dei Magneti, che abitavano intorno al fiume Peneo e al monte Pelio, era l’ultimo eroe greco elencato da Omero (Il. 2, 756-759). 115 Tlepolemo, figlio di Eracle e di Astioche, già introdotto da Settimio nel capitolo 14, anche nell’Iliade era partito alla volta di Troia a capo di nove vascelli. 116 Eumelo nell’Iliade (2,711-715) era presentato come figlio di Alcesti e Admeto e come condottiero dei guerrieri tessali provenienti da Fere, sul lago Boibeide, da Boibe, Glafire e Iaolco. 117 Nireo, figlio di Aglaia e di Caropo, già introdotto al capitolo 14, anche in Omero guidava tre navi (Il. 2, 673). 118 Anche in Omero (Il. 2,697-710) il contingente guidato da Protesilao e Podarce contava quaranta navi. 119 Podalirio e Macaone, i già nominati medici della spedizione, anche in Omero conducevano trenta navi (Il. 2,729-733). 120 Filottete, arciere espertissimo, era ricordato anche da Omero (Il. 2,716-729) a capo originariamente di un contingente di sette navi provenienti da Metone, Taumachia, Melibea, Olizone; nell’Iliade, come poi nel teatro, il morso di un serpente velenoso durante il viaggio per Troia lo aveva però trattenuto a Lemno in mezzo ad atroci dolori, dove giaceva ancora sofferente, mentre il comando del suo contingente era stato assunto da Medonte, figlio illegittimo di Oileo. 121 Euripilo, capo tessalo, in Omero (Il. 2,734-737) era presentato come «lo splendido figlio di Evèmone», capo degli uomini «che abitavano Ormenio, la sorgente Ipèrea, che avevano Asterio e le bianche cime del Titano». 122 Gunèo in Omero (Il. 2, 748-755) conduceva gli Enieni e i Perrebi, «quelli che intorno a Dodona inclemente si fecero case, quelli che intorno all’amabile Titaresio coltivano i campi, che nel Peneo getta l’acque, belle correnti, ma non si mischia col Peneo flutto d’argento,

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gli scorre di sopra, a fior d’acqua, come olio, perché è un braccio di Stige, l’acqua tremenda del giuramento». 123 In Omero (Il. 2,738-747) Leonteo, uno dei capi dei Lapiti, figlio di Corono e nipote di Ceneo, accompagnava Polipete, figlio di Piritoo, che regnava su Argissa, Girtone, Orte ed Elone, Oloòssono. Identico il numero delle navi in Ditti e in Omero. 124 In Omero erano a capo di trenta navi provenienti da Nisiro, Cràpato, Caso (qui omessa), Coo e le isole Calidne (omesse da Ditti). 125 Tessandro non era nominato nel catalogo omerico, assenza dovuta al fatto che l’eroe era caduto per mano di Telefo in Misia, ancor prima di giungere a Troia (Cypr. 5, 104 Allen; Apollod. epit. 3, 17). 126 Mopso, figlio di Manto, nipote di Tiresia, indovino dell’oracolo di Apollo di Claro, era considerato talvolta figlio di Apollo, talvolta dell’argivo Racio, incontrato da Manto mentre usciva dal tempio di Delfi e indicato dal dio come suo sposo. A Mopso si attribuiva la fondazione della città di Colofone e la tradizione voleva che avesse sconfitto in una sfida nell’arte profetica l’altro grande indovino del suo tempo, Calcante, al ritorno da Troia. Con la citazione di Mopso, Ditti aggiunge al catalogo un personaggio completamente assente dall’Iliade. Cfr. Strab. 9,675, 14,642, sch. ad Apoll. Rod. Arg. 1,308, Paus. 7,3,2, Serv. ad Verg. Ecl. 4,72. Mopso compariva anche in Darete (18), ma nel catalogo dei Troiani: de Colophonia Mopsus, se è da accettare, come fa Meister nella sua edizione, la congettura del Mercier, che aveva aggiunto il nome Mopsus in base a un confronto con questo luogo di Ditti/Settimio (cfr. Canzio 2014, 103). 127 Epeo, figlio di Panopeo, nell’Iliade si era distinto nel combattimento di pugilato durante i giochi funebri in onore di Patroclo (23,653-659), mentre aveva fallito nel lancio del disco (826-849). Era noto soprattutto per essere stato il costruttore del cavallo di legno. 128 L’intero passo è problematico. Alla menzione di tal Falide, re di Sidone, forse parente del re Fenice assassinato da Alessandro (Compagnoni 1819, 24), segue nei codici · inlectus qui virtutis, che è la lezione scelta da Eisenhut, quamquam vix rectior est quam lectio familiae Ή, quae ex coniectura emanare videtur. I codici della famiglia Ή riportano, infatti, inlici potuit virtutis. Timpanaro, contro la prudenza di Eisenhut, accoglie con favore la congettura del Mercier inlici quivit uti, sulla scia del Dederich e del Meister; «e probabilmente Phalidis, genitivo del nome del re di Sidone, non sarà da considerarsi corrotto; se è vero che i nomi propri sono soggetti a corrompersi nella tradi-

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zione manoscritta, è anche vero che nomi rari o non altrove attestati servono a Ditti per épater il lettore» (Timpanaro 1987, 200). 129 Capo dei Lici insieme al cugino Glauco, secondo l’Iliade figlio di Zeus e Laodamia, il Sarpedone dell’Iliade militava con i Troiani (Il. 2,876-877) ed era noto soprattutto per essere stato ucciso da Patroclo, allorché questi aveva indossato le armi di Achille (Il. 16, 667-675; sulle circostanze della morte di Sarpedone, Nagy 1983, 189-217). La gran popolarità del personaggio, legato a varie vicende del mito, è attestata anche dal fiorire di rappresentazioni vascolari, come quella del cratere a figure rosse di Eufronio (515 a.C.), in cui le personificazioni di Hypnos e Thanatos riconducono le spoglie del defunto eroe licio in patria. Un esempio delle riletture moderne della sua storia: a inizio Ottocento sarebbe stato colpito dal tema del luttuoso ritorno in patria dell’eroe morto il pittore svizzero Johann Heinrich Füssli, autore nel 1803 di una tela che rappresenta l’eroe, oggi conservata nella collezione dello «Haus Rechberg» di Zurigo. 130 L’intera sezione che si apre qui (e termina con la fine del primo libro) è dedicata al mito di Ifigenia, figlia maggiore di Agamennone, destinata al sacrificio, come vedremo, da un crudele oracolo al fine di consentire la partenza dei Greci, impedita dall’ira di Artemide. A Proclo (chrest. 80 Seve.) dobbiamo la restituzione della versione dei fatti nei Canti Cipri (contenente l’inganno delle nozze di Ifigenia con Achille, teso a far venire la ragazza in Aulide): Ύ΅Ϡ Θϲ ΈΉϾΘΉΕΓΑ ωΌΕΓ΍ΗΐνΑΓΙ ΘΓІ ΗΘϱΏΓΙ πΑ ̄ЁΏϟΈ΍ ̝·΅ΐνΐΑΝΑ πΔϠ ΌφΕ΅Ζ Ά΅ΏАΑ σΏ΅ΚΓΑ ЀΔΉΕΆΣΏΏΉ΍Α σΚ΋ΗΉ Ύ΅Ϡ ΘχΑ ̡ΕΘΉΐ΍Αȉ ΐ΋ΑϟΗ΅Η΅ Έξ ψ ΌΉϲΖ πΔνΗΛΉΑ ΅ЁΘΓϿΖ ΘΓІ ΔΏΓІ ΛΉ΍ΐЗΑ΅Ζ πΔ΍ΔνΐΔΓΙΗ΅ȉ ̍ΣΏΛ΅ΑΘΓΖ Έξ ΉϢΔϱΑΘΓΖ ΘχΑ ΘϛΖ ΌΉΓІ ΐϛΑ΍Α Ύ΅Ϡ ͑Κ΍·νΑΉ΍΅Α ΎΉΏΉϾΗ΅ΑΘΓΖ ΌϾΉ΍Α ΘϜ ̝ΕΘνΐ΍Έ΍ǰ БΖ πΔϠ ·ΣΐΓΑ ΅ЁΘχΑ ̝Λ΍ΏΏΉϧ ΐΉΘ΅ΔΉΐΜΣΐΉΑΓ΍ ΌϾΉ΍Α πΔ΍ΛΉ΍ΕΓІΗ΍Αȉ ̡ΕΘΉΐ΍Ζ Έξ ΅ЁΘχΑ πΒ΅ΕΔΣΗ΅Η΅ ΉϢΖ ̖΅ϾΕΓΙΖ ΐΉΘ΅ΎΓΐϟΊΉ΍ Ύ΅Ϡ ΦΌΣΑ΅ΘΓΑ ΔΓ΍Ήϧǰ σΏ΅ΚΓΑ Έξ ΦΑΘϠ ΘϛΖ ΎϱΕ΋Ζ Δ΅ΕϟΗΘ΋Η΍ ΘХ ΆΝΐХ. Non

diverso il resoconto di Apollodoro (epit. 3,21-22), che però vedeva Odisseo e Taltibio incaricati di negoziare con Clitemestra per ottenere Ifigenia, con la scusa di destinarla alle nozze con Achille, che altrimenti si rifiutava di partecipare alla guerra. Simile il racconto di Igino (fab. 98), in cui Diomede prende il posto di Taltibio. Quanto al teatro greco, anche Eschilo aveva composto un dramma dal titolo Ifigenia, di cui però non si sa nulla: di quello sofocleo sono conservati pochissimi frammenti. Nel mondo latino, modello per Ennio, autore di una Ifigenia, pare fosse stato con buona probabilità Euripide (Ifigenia in

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Aulide, Ifigenia tra i Tauri), più degli altri due tragediografi. Il mito di Ifigenia sarebbe divenuto vicenda paradigmatica della crudeltà della religione olimpica nella riflessione lucreziana del De rerum natura (1,101 tantum religio potuit suadere malorum). Pur nell’alveo di questa tradizione, Ditti/Settimio riservano, come da aspettarsi, delle sorprese. Per esempio, il mito conosceva una cerva (σΏ΅ΚΓΖ) invece della caprea. Di capra (΅Ϩ·΅ Φ·Εϟ΅Α) è traccia anche nel quinto libro della Ύ΅΍Αχ ϡΗΘΓΕϟ΅ di Tolomeo Chenno (Phot. cod. 190, p. 150 ed. Budé; notizie a proposito in Marblestone 1970: III e Merkle 1989: 154); anche Cedreno (p. 219, 12) riferisce la tradizione sulla capra (Έ΍Τ Θϲ ΅Ϩ·΅ ΐΉ·ϟΗΘ΋Α Δ΅ΕΤ Θϲ ϡΉΕϲΑ ΘϛΖ ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖ ΘΓΒΉІΗ΅΍ Ύ΅Ϡ ΦΑΉΏΉϧΑ ΘϲΑ ̝·΅ΐνΐΑΓΑ΅). Interessante è il ruolo di Agamennone nella vicen-

da iniziale, un Agamennone che Settimio qualifica imprudens religionis, facendone quasi l’eroe tragico dell’episodio dell’intero capitolo, strutturato secondo Merkle 1989, 154-156 in tre momenti, divergenti in qualche modo dalla versione tradizionale del mito: a) empietà di Agamennone; b) oracolo; c) destituzione dell’eroe dal comando. A proposito del sacrilegio, a fronte di un tendenziale allineamento delle fonti nel presentare i tratti empi dell’eroe, il solo Servio (ad Aen. 2,116) descrive un Agamennone ignarus. Per un’approfondita analisi dell’intero episodio di Ifigenia vd. Introduzione, 3.1. 131 È interessante la paritetica presentazione della spiegazione razionalistica e della credenza tradizionale: la pestilenza insorge irane caelesti an ob mutationem aeris. Lo stesso avverrà in un altro caso, sempre di pestilenza (2,30: incertum alione casu an, uti omnibus videbatur, ira Apollinis), come è stato notato da Timpanaro 1987, 174, secondo il quale «autore e lettore si divertono a ’stare al giuoco’; e non a caso, nei due passi di Ditti ora citati in cui l’intervento divino è presentato come incerto, lo svolgimento successivo del racconto è condotto in modo da far apparire tale intervento come confermato dai fatti: data soddisfazione alla divinità, la pestilenza in effetti cessa». 132 Nota Merkle 1989, 154 che le parole pertemptare e lues si trovano abbinate anche in Virgilio (Aen. 7,354). Particolarità di Ditti è nella scelta del tema della peste: per la restante tradizione (Soph. El. 563, Eur. Iph. Aul. 87) era piuttosto la bonaccia il motivo che impediva la partenza della flotta greca per Troia. Alla bonaccia, oppure a venti contrari, sembra alludere anche uno dei pochi frammenti dell’Ifigenia di Sofocle (308 Pearson: ΘϟΎΘΉ΍ ·ΤΕ ΓЁΈξΑ πΗΌΏϲΑ ΉϢΎ΅ϟ΅ ΗΛΓΏφ), dove ΗΛΓΏφ parrebbe indicare proprio il tempo perso in quell’occa-

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sione ad Aulide. In età tarda solo Servio (ad Aen. 2,116) riferiva di una pestilenza: cum nec navigare possent et pestilentiam sustinerent. Nel Medioevo bizantino questa tradizione riaffiora in Giorgio Cedreno (p. 219,13-15): Ύ΅Ϡ πΔϠ ΘΓϾΘУ ΐκΏΏΓΑ ΏΓ΍ΐ΍ΎχΑ ΑϱΗΓΑ ·ΉΑνΗΌ΅΍. 133 A proposito del quadro della devastazione qui tratteggiato è stato fatto un richiamo al testo di Sallustio (Iug. 26,3) relativo alla strage di Cirta dopo la capitolazione della città: deinde omnis puberes Numidas atque negotiatores promiscue, uti quisque armatus obvius fuerat, interficit (Merkle 1989, 155; il rapporto di Ditti con Sallustio è stato impostato da Brünnert 1883). In realtà, l’omerico Ditti doveva aver presente una tradizione letteraria più antica legata alla peste, con inizio proprio in Omero, cui si deve la descrizione della peste suscitata da Apollo nel campo degli Achei per reazione all’offesa recata al sacerdote Crise (Il. 1,43-61). Nella letteratura latina significative descrizioni della peste erano state date da Lucrezio (6,1138-1286), Virgilio (Georg. 3,478-492), Ovidio (met. 7,552-560), Seneca (Oed. 52-70). 134 Ditti sostituisce la più tradizionale figura dell’indovino Calcante (recuperato comunque più tardi) con quella di una mulier quaedam deo plena, nella funzione di indovino che riveli agli Achei la ragione dell’ira di Diana. Si tratta di una figura di maga tipica nella letteratura ellenistica. Secondo Merkle 1989, 155 la sostituzione avrebbe lo scopo di attribuire a un estraneo la responsabilità degli eventi e salvare così la figura di Calcante; a ciò si aggiunga che Calcante era noto come indovino affidabile e in questo caso la profezia della donna risulterà non completamente vera. L’espressione deo plena sarà usata poi anche per Cassandra (5,8). 135 Altra allusione a tessere lessicali virgiliane indicata da Merkle 1989, 156 (Aen. 2.119: vulgi quae vox ut venit ad auris). Settimio crea in questa sequenza un voluto effetto allitterante del suono /v/: vicariam victimam immolavisset. quae vox ut ad exercitum venit. 136 La tradizione di una destituzione di Agamennone dal comando è nota solo a Tolemeo Chenno (Ύ΅΍Αχ ϡΗΘΓΕϟ΅ 5 in Phot. cod. 190, p. 150 ed. Budé) e a Cedreno (p. 219, 14-15: Έ΍ΗΘΣΗΉΝΖ ·ΉΑΓΐνΑ΋Ζ Ύ΅Ό΅΍ΕΉϧΘ΅΍ ΐξΑ ̝·΅ΐνΐΑΝΑ ΘϛΖ Ά΅Η΍ΏΉϟ΅Ζ), non a Malala (5,5,41-56), che riassume molto brevemente la storia dei fatti di Aulide (ΛΉ΍ΐЏΑ e sacrificio espiatorio di Ifigenia). Il cronista antiocheno posticipa, infatti, la proclamazione di Agamennone a comandante supremo al momento successivo alla storia di Ifigenia. Nell’Ifigenia in Aulide euripidea Agamennone, invece, si lasciava infine convincere dagli altri principi greci (vv. 94-98).

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Di nuovo si segnala l’importanza del ruolo di Palamede, uno degli eroi cui va il favore di Settimio/Ditti. «Della sua ΗΓΚϟ΅ Ditti tace gli aspetti di ingegnoso inventore e di scopritore di frodi, mette in luce quelli di uomo probo, equilibrato, amatissimo dai soldati e da questi ritenuto degno, più di Agamennone, di essere il comandante supremo» (Timpanaro 1987, 186). Cedreno (p. 219,15) probabilmente riprende la notizia da Ditti (̓΅Ώ΅ΐφΈ΋Ζ Έξ ΦΑΘȂ ΅ЁΘΓІ ΔΕΓΛΉ΍ΕϟΊΉΘ΅΍). 138 La vicenda narrata qui, fino all’arrivo di Ifigenia all’accampamento dei Greci, corrisponde alla trama dell’Ifigenia in Aulide euripidea (l’idea della lettera è citata da Agamennone ai versi 98 e seguenti). Una prima significativa differenza, però, sta nel fatto che in Euripide Clitemestra accompagna la figlia insieme a Oreste (vv. 590 e sgg.). Probabilmente ha ragione Merkle 1989: 158 nel pensare che la presenza della regina non sarebbe stata adatta alla versione breve della storia che si proponeva Ditti. D’altra parte, questa formula ridotta era già tramandata da Apollodoro (epit. 3,22). Altra differenza è nel ruolo di Ulisse, amplificato da Ditti nel momento in cui presenta l’eroe come unico ideatore e attuatore dell’inganno della lettera, ad insaputa degli altri (profectus namque Mycenas nullo consilii participe falsas litteras tamquam ab Agamennone ad Clytemestram perfert); l’Agamennone di Euripide al v. 106 della tragedia indicava tre soli responsabili dell’inganno: ΐϱΑΓ΍ ΈȂ ̝Λ΅΍ЗΑ ϥΗΐΉΑ БΖ σΛΉ΍ ΘΣΈΉ / ̍ΣΏΛ΅Ζ ͞ΈΙΗΗΉϿΖ ̏ΉΑνΏΉЏΖ ΌȂ). Lo stratagemma di Ulisse sarà riferito anche da Cedreno (p. 219, 16-22), che probabilmente attinge a Ditti: πΚȂ ΓϩΖ ͞ΈΙΗΗΉϿΖ ΈΉ΍ΑЗΖ Έ΍΅ΘΉΌΉϠΖ ΔΕΓΗΔΓ΍ΉϧΘ΅΍ ΐξΑ ΔΕϲΖ ΘχΑ ϢΈϟ΅Α ΛЏΕ΅Α ΦΔΓΔΏΉϧΑǰ Δ΅Ε΅·ϟΑΉΘ΅΍ Έξ ΔΕϲΖ ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅Α ΘχΑ ΘΓІ ̝·΅ΐνΐΑΓΑΓΖ ·ΙΑ΅ϧΎ΅ ΉϢΖ Θϲ ̡Ε·ΓΖǰ Ύ΅Ϡ ΔΏ΅ΗΘΓϧΖ ·ΕΣΐΐ΅Η΍ ΘχΑ ͑Κ΍·νΑΉ΍΅Α Ώ΅ΆАΑ ǻ΅ЂΘ΋ ·ΤΕ ώΑ ΔΕЏΘ΋ ΘЗΑ ΘΓІ ̡·΅ΐνΐΑΓΑΓΖ ΌΙ·΅ΘνΕΝΑǼ БΖ ̝Λ΍ΏΏΉϧ Ύ΅ΘΤ Θϲ ΗΘΕ΅ΘϱΔΉΈΓΑ ΦΕ΍ΗΘΉϾΓΑΘ΍ ΈΓΌ΋ΗΓΐνΑ΋Α ·ΙΑ΅ϧΎ΅ ЀΔΓΗΘΕνΚΉ΍ ΐΉΘΤ σΈΑΝΑǰ Ύ΅Ϡ Δ΅Ε΅ΈϟΈΝΗ΍ Θ΅ϾΘ΋Α ΘΓϧΖ ϡΉΕΉІΗ΍ ΔΕϲΖ ϡΏ΅ΗΐϲΑ ΘϛΖ ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖǯ 139

Questa scena, che vede un pavido Agamennone disposto alla fuga, è parsa un’invenzione di Ditti (Marblestone 1970: 116), il quale assume le vesti di storico oggettivo e indica le possibili ragioni psicologiche del comportamento di Agamennone. In Malala (5,5,45-47), più stringato nella resocontazione dell’intrigo teso da Ulisse, la reazione di Agamennone è resa similmente, con sottolineatura delle paure del comandante (σΎΏ΅ΙΗΉ Δ΍ΎΕЗΖȉ ΚΓΆ΋ΌΉϠΖ Έξ ΘϲΑ ΗΘΕ΅ΘϲΑ Ύ΅Ϡ ΘΓϿΖ ΘΓΔΣΕΛ΅Ζ πΒνΈΝΎΉΑ ΅ЁΘχΑ πΔϠ ΌΙΗϟ΅Α ̝ΕΘνΐ΍Έ΍).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Finalmente Ditti si ricorda dell’eloquenza di Nestore, dote che faceva la specificità dell’eroe nell’Iliade e che ne fa uno dei pochi capi greci «senza macchia» benché ridotto a figura secondaria e «del tutto sbiadita» (Timpanaro 1987, 185). 141 Per l’esecuzione del sacrificio, l’autore riprende il trio maschile della tragedia euripidea (Ulisse, Menelao e Calcante). 142 L’intera scena, descritta con insolita ricchezza di dettagli, è funzionale alla resa della superstizione aleggiante sul rito e della debolezza umana di fronte ai fenomeni naturali in cui si manifesta la divinità. È stato osservato che Ditti racconta con la precisione oggettiva di un commentatore presente ai fatti (Merkle 1989, 159), fino a penetrare il complesso stato d’animo di Menelao, consumato da paura e senso del dovere. Lo stesso Merkle ha ravvisato un passo sallustiano formalmente paragonabile a quello di Settimio (Iug. 25,6: primo commotus metu atque lubidine divorsus agitabatur: timebat iram senatus, ni paruisset legatis; porro animus cupidine caecus ad inceptum scelus rapiebat). 143 La vox quaedam luco emissa introdotta a questo punto della storia (secondo una tradizione collaudata: in primis la vox horrenda di Virgilio Aen. 9,112, che per auras excidit) evita una comparsa diretta della divinità, in omaggio a una concezione che il più possibile razionalizza la funzione e il comportamento degli dèi, d’altra parte indica un gusto per il meraviglioso che riaffiorerà nell’opera dopo la morte di Achille. La voce corregge, peraltro, l’oracolo della mulier deo plena apparsa nel capitolo 19. 144 Ancora un segno dell’avidità di denaro che contraddistingue i personaggi dell’opera: Clitemestra, nel mandare una lettera ad Achille per svelare il piano di Ulisse e salvare la figlia, non può fare a meno di includere auri magnum pondus (Timpanaro 1987: 199). 145 L’intervento di Achille, appreso l’inganno dalla lettera di Clitemestra, segna una svolta nella vicenda. Rispetto al pavido e umano Agamennone, al coscienzioso Menelao e allo spregiudicato Ulisse, Achille si muove rapido e deciso: il suo irrompere sul posto, accompagnato da minacce (magna voce inclamans) indirizzate a Menelao e a quelli con lui, è probabile invenzione di Ditti (Marblestone 1970: 117). Nell’Ifigenia in Aulide euripidea Achille, deciso a salvare Ifigenia (vv. 919-974), doveva scontrarsi con la resistenza dell’esercito e la decisione stessa di Ifigenia di immolarsi per la salvezza della Grecia (vv. 1404-1427). 146 Così nel racconto di Malala (5,5,50) è la cerva (σΏ΅ΚΓΖ) a comparire sul cammino di Ifigenia, in mezzo ai principi, all’esercito,

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alla fanciulla e al sacerdote (Ύ΅Ϡ πΑ ΘХ ΦΔ΍νΑ΅΍ ΅ЁΘχΑ ΉϢΖ Θϲ ϡΉΕϲΑ ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖ Ύ΅Ϡ ΗΚ΅·ϛΑ΅΍ σΏ΅ΚΓΖ Έ΍νΎΓΜΉ ΘχΑ ϳΈϲΑ Έ΍΅ΈΕ΅ΐΓІΗ΅ σΐΔΕΓΗΌΉΑ πΑ ΐνΗУ ΘЗΑ Ά΅Η΍ΏνΝΑ Ύ΅Ϡ ΘΓІ ΗΘΕ΅ΘΓІ Ύ΅Ϡ ΘΓІ ϡΉΕνΝΖ Ύ΅Ϡ ΘϛΖ Δ΅ΕΌνΑΓΙ ͑Κ΍·ΉΑΉϟ΋Ζ). Simile è il racconto di Cedreno (p.

219,22). 147 Ditti evita l’allontanamento di Ifigenia a opera di Artemide, con questo dimostrando la generale tendenza razionalizzatrice dell’Ephemeris, che riduce il ruolo manifesto degli dèi. In Malala (5,5,53) Agamennone lasciò la fanciulla sul posto come sacerdotessa nel tempio di Artemide (ϊΑΘ΍Α΅ ϳ ̝·΅ΐνΐΑΝΑ Ήϥ΅ΗΉΑ πΎΉϧ πΑ ΘХ ϡΉΕХ ̝ΕΘνΐ΍ΈΓΖ ϡνΕΉ΍΅Α). 148 L’intera sezione dedicata alle reazioni di Agamennone è un condensato di tratti dittiani, un misto di suspense, trapassi veloci e maliziosa ironia. Agamennone ancora non sa nulla dell’esito del sacrificio. «Gli altri re greci, ora che di uccidere Ifigenia non c’è più bisogno, si fanno incontro festosi ad Agamennone e gli ridanno il comando, eum interitu filiae permaestum consolati. Per una sorta di scherzosa crudeltà, dunque, non lo informano sulla salvezza della figlia, anzi, come appare da quel consolati (ed è confermato da quel che segue), gliela fanno ancora credere morta, benché quella letizia possa far supporre un esito migliore. E Agamennone, o perché aveva capito a sufficienza ciò che era avvenuto [lo aveva capito dal tono festoso dei re? un momento prima era, come si è veduto, permaestus] o perché aveva riflettuto sull’inevitabilità delle umane sorti ed era perciò di animo saldissimo contro le disgrazie, tenendo in conto di nulla ciò che gli era accaduto, accetta il comando e in quello stesso giorno invita a banchetto tutti i comandanti» (Timpanaro 1987, 182-183). Il lettore, argomenta Timpanaro, è dunque lasciato libero di immaginarsi un Agamennone stoicamente forte rispetto a questo tremendo colpo del destino, che ha già accettato in nome della ‘ragion di Stato’, oppure un padre che ha indovinato la salvezza della figlia ed è perciò sollevato. La storia di Ifigenia non è però così conclusa, visto che tornerà ad essere motivo di alterco tra Agamennone e Menelao nel corso della navigazione per Troia (2,7), episodio noto dall’Ifigenia in Aulide euripidea (vv. 317-413, ripreso da Ennio 222-227 Vahlen2); in quell’occasione sembrerà che Agamennone credesse Ifigenia davvero morta. L’Agamennone permaestus di Settimio forse amplifica il maestum parentem di Lucrezio (1,89). 149 Le figlie di Anio, sacerdote di Apollo, avevano ricevuto da Dioniso il potere di produrre la cosa di cui portavano il nome: Elais

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NOTE AL TESTO DI DITTI

poteva generare olio d’oliva, Spermo il grano, Oinos il vino. Di loro riferisce Apollodoro (epit. 3,15 ϵΘ΍ ΌΙ·΅ΘνΕΉΖ ̝ΑϟΓΙ ΘΓІ ̝ΔϱΏΏΝΑΓΖ ̳Ώ΅ϫΖ ̕ΔΉΕΐА ̒ϢΑЏǰ ΅ϡ ̒ϢΑΓΘΕϱΚΓ΍ ΏΉ·ϱΐΉΑ΅΍ȉ ΅ϩΖ πΛ΅ΕϟΗ΅ΘΓ ̇΍ϱΑΙΗΓΖ ΔΓ΍ΉϧΑ πΎ ·ϛΖ σΏ΅΍ΓΑ ΗϧΘΓΑ ΓϨΑΓΑ). Una tradizione voleva

Palamede inviato da Agamennone a Delo per guadagnare l’aiuto delle figlie di Anio, le ̒ϢΑΓΘΕϱΔΓ΍, giunte in Troade, al promontorio Reteo, per nutrire l’esercito. «È questa una vicenda con ogni verosimiglianza ascrivibile ai Kypria, dove era appunto la storia di Anio, figlio di Apollo e di Reo, che giunta in Eubea lo partorì in una grotta (ψ Έξ ΔΕΓΗΉΔΉΏΣΗΌ΋ ΘϜ ̈ЁΆΓϟθ Ύ΅Ϡ π·νΑΑ΋ΗΉΑ ΅ЁΘϱΌ΍ ΔΉΕϠ Θ΍ ΩΑΘΕΓΑ Δ΅ϧΈ΅ǰ ϶Α ̡Α΍ΓΑ πΎΣΏΉΗΉ…); portato a Delo dal padre, ivi Anio divenne sa-

cerdote di Apollo e profeta, vaticinando tra l’altro agli Achei, salpati alla volta di Troia, che la città sarebbe stata espugnata solo al decimo anno ed offrendo loro di rimanere nove anni nell’isola, mantenuti grazie alle prodigiose virtù delle figlie generategli dalla moglie Dorippe» (Debiasi 2004: 119). Altre fonti: Tzetzes, scholia ad Lycophron, Ov. met. 13, 632-674, Serv. ad Aen. 3,80.

NOTE AL LIBRO SECONDO 1

Il libro si apre con lo sbarco dei Greci in Misia, la regione governata dal re Telefo. Secondo il resoconto mitico di Apollodoro (Ep. 3,17), i Greci approdarono lì per un errore di navigazione: credevano di essere giunti a Troia, non conoscendo la rotta per essa. Di questo errore in Ditti-Settimio non c’è traccia; il racconto comincia serrato; subito i Greci cercano di accostarsi al lido ma si trovano di fronte un territorio ben munito, pieno di sentinelle a guardia della costa. Sentendo l’impedimento a sbarcare come una grande offesa, presto passano alle armi. Il lettore è condotto nel mezzo di uno scontro feroce: la guerra con i barbari, per la quale i Greci si sono a lungo preparati, sembra già iniziata. Ma si tratta solo di episodio passeggero. In realtà l’intero libro si configura come un’ulteriore fase di preparazione allo scontro con i Troiani, pieno di brevi episodi paralleli e di dilazioni spazio-temporali. Se i capitoli 1-6 vedono come protagonista assoluto Telefo e le vicende a lui relative, nel capitolo 7 assistiamo al ritorno in Beozia dell’esercito greco (e del conseguente ‘congedo’ degli eserciti alleati) per lo svernamento e nel capitolo 8 la scena si sposta a Troia, dove, nel frattempo, tramite dei commercianti sciti è arrivata notizia dell’imminente attacco dei Greci. Ma essi arrivano in città non prima del capitolo 12. E, una volta giunti, la guerra non ha inizio poiché l’autore sente l’esigenza di narrarci l’episodio di Palamede, la sua uccisione (14-15) e le violente incursioni di Achille e di Aiace nelle città vicine (16-19). Infine, ai capitoli 20-26 assistiamo alle trattative tra Greci e Troiani in merito alla restituzione di Elena e dei suoi beni. In una lunga e articolata assemblea, i Greci cercano di convincere i nemici a rendere la donna in cambio di Polidoro, il giovane figlio di Priamo tenuto da loro in ostaggio. I Troiani, da parte loro, non cedono e Polidoro viene lapidato di fronte alle mura della città. Ora lo scontro potrebbe davvero iniziare, ma così non sarà. Notiamo come questa prima parte del libro secondo, caratterizzata dalle dilazioni suddette, si concentri non tanto sull’inizio dello scontro (del quale i Greci per primi sembrano non avvertire l’impellenza), quanto sulla trattazione

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NOTE AL TESTO DI DITTI

di tematiche e personaggi estranei alla trama iliadica: Telefo, Palamede e Polidoro sono figure decisamente tragiche, trattate soprattutto da Euripide. Tuttavia, come vedremo nel dettaglio, Ditti-Settimio, anche quando narra i loro deplorevoli destini (come nel caso di Palamede e Polidoro), non lo fa seguendo la versione euripidea. Egli sembra innovare in ogni caso, sia che si tratti di argomenti iliadici, sia che si tratti di episodi appartenenti a tradizioni poetiche diverse. Spesso la novità più grande risiede nella riorganizzazione – rispetto al modello – dei materiali narrativi, nel ‘montaggio’ di essi, come già evidenziò bene Timpanaro 1987 (177 ss.). Negli ultimi sette capitoli dedicati all’assemblea, ad esempio, sebbene essi richiamino esplicitamente analoghe scene iliadiche (3,456-461; 7,345-379), con tanto di discorsi diretti (i primi del libro e tra i pochi dell’intera opera), tuttavia dalla successione degli interventi dei personaggi risulta chiaro l’intento dell’autore di mettere in evidenza il dissidio interno all’esercito troiano, diviso tra bellicisti e pacifisti, tanto più drammatico quanto precede (diversamente dall’Iliade in cui esso si consuma a guerra già iniziata) l’inizio dell’intera guerra. Da esso dipende il destino di un’intera popolazione, nonché del giovane Polidoro. A partire dal capitolo 28, che si apre con l’arrivo di Crise al campo acheo, il libro condensa e rielabora noti episodi dell’Iliade: la pestilenza tra i soldati greci (30), la restituzione coatta di Astinome/Criseide da parte di Agamennone, la sua pretesa di farsi assegnare in cambio Ippodamia/Briseide, la lite con Achille e il ritiro di quest’ultimo (33-36); l’uccisione di Dolone (37); il duello tra Paride e Menelao e la tregua violata da Pandaro (39-40); l’incendio delle navi (42), l’infelice sorte di Reso e dei Traci (45-46), l’ambasceria inviata ad Achille (48-52). Si tratta di una rielaborazione radicale, giacché Ditti, rifacendosi a tradizioni diverse o innovando in modo autonomo, modifica aspetti essenziali del racconto omerico attraverso aggiunte, omissioni (soprattutto di interventi divini) e alterazioni dell’ordine cronologico e causale dei fatti. Lo scarto più significativo si ha nel finale, quando Achille, lasciatosi persuadere dagli emissari di Agamennone, si riconcilia con quest’ultimo e cogli altri Achei ben prima che Patroclo venga ucciso da Ettore. 2 L’erroneo sbarco dei Greci in Misia e la guerra che Telefo fu costretto a fare con loro sono ricordati da Archiloco nel P.Oxy.4708 recentemente scoperto. Gli Argivi “credevano di essere giunti nella città di Troia, dalle alte porte” (v.20 ΚΣΑΘΓ ·ΤΕ ЀΜϟΔΙΏΓΑǯǯǯ ̖ΕЏΝΑ ΔϱΏ΍Α πΒνΔΉΗΓΑ), invece si trovarono di fronte il re della Misia Telefo, “un

LIBRO II, NOTA 2

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uomo implacabile” (ΦΐΉϟΏ΍ΎΘΓΖ ΚАΖ, v.10), capace di annientare – da solo – il loro grande esercito (vv. 5-6) e di metterli in fuga (cfr. anche Pind. Ol. 9,70-76) Nel frammento viene dunque esaltato il coraggio del re, che ha la meglio su di loro in virtù della sua parentela con Eracle, per un “destino divino”. In Ditti-Settimio di intervento divino non c’è traccia né qui né altrove, seppure la parentela con Eracle verrà menzionata al capitolo successivo. Egli è, infatti, figlio di Eracle e, secondo una versione del mito (cfr. Apollod. 2,7,4 e Hyg. Fab. 99 e 100), ignaro su chi fossero i suoi veri genitori, giunge in Misia per cercarli, su indicazioni dell’oracolo di Apollo; trova sua madre Auge, divenuta moglie di Teutrante e regina di Misia. Come vedremo nei capitoli successivi, Telefo si presenta come un personaggio piuttosto complesso: valido condottiero, dai tratti tipici di un generale romano, ma anche protettivo nei confronti dei suoi uomini, ospite sollecito e gentile con i Greci, al pari di un eroe omerico. La sua personalità è di rilievo e il suo aspetto fisico è maestoso (vedi infra). Dopo essere stato informato dello sbarco dei nemici, infatti, partecipa alla battaglia con infaticabile veemenza; poi, mentre insegue Ulisse, inciampa in un tralcio di vite e cade, così Achille lo colpisce con una freccia. Tormentato dal dolore della ferita, Telefo consulterà l’oracolo di Apollo e gli verrà predetto che dovrà essere curato dal suo stesso feritore. In cambio delle cure, i Greci vorranno sapere la rotta per Troia. L’intera vicenda mitica relativa a Telefo viene dispiegata da Ditti-Settimio su più capitoli (egli sarà presente, con intervalli più o meno lunghi, fino al capitolo 11) e trova buona corrispondenza in Apollod. Ep. 3,17; 20 e 5,12 e Hyg. Fab. 101; 162; 244 (cfr. anche Paus. 8,48,7). Il personaggio ebbe molta fortuna in età classica: se ne occuparono – tra gli altri – sia Eschilo (Misi, Telefo), sia Sofocle (Misi, Aleadi, Telefo), che Euripide, (Auge, Telefo), ma solo del Telefo euripideo possediamo un numero di frammenti sufficiente a ricostruire la trama dell’opera e a condurre un approssimativo confronto con il trattamento del mito da parte di Ditti-Settimio. Da esso emerge che, diversamente che in Euripide, dove Telefo, tormentato dal dolore come Filottete, giunge in Aulide vestito di stracci e arriva a rapire Oreste bambino minacciandone l’uccisione per ottenere che i Greci lo ascoltino e acconsentano a guarirlo, in Ditti-Settimio la trattativa avviene pacificamente, in cambio delle informazioni sulla rotta per Troia e della sua partecipazione al viaggio per mare, da lui stesso guidato. In età ellenistica Telefo godé di un culto particolare: fu celebrato capostipite leggendario della dinastia

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NOTE AL TESTO DI DITTI

degli Attalidi, in quanto fondatore della città di Pergamo (cfr. le testimonianze di Pausania in 1,4,6; 3,26,9; 5,13,3). Nel celebre Altare di Zeus è rappresentato l’intero mito, con episodi che vanno dalla nascita alla morte, posti in narrazione continua, in una serie di lastre a bassorilievo. Tra di essi è raffigurata anche la battaglia contro gli Achei, nella quale egli rimane ferito nel tralcio di vite. 3 La paura è dovuta non solo all’improvviso attacco subito, ma soprattutto al fatto che questi uomini non sanno chi sono i nemici e che cosa vogliono. Cfr. Tac. Hist. 2,16: quorum morte exterriti qui aderant, simul ignara et alieni metus socia imperitorum turba […]. 4 Mentre in Omero la tattica oplitica, con schieramenti serrati, è piuttosto eccezionale (un esempio in Il. 13,125 ss.), in Ditti-Settimio è cosa sistematica. 5 L’inizio dello scontro si presenta piuttosto disordinato. Sul diverso modo di combattere di Greci e barbari, vedi infra. 6 Tessandro o Tersandro nato da Polinice e da Argia, figlia del re argivo Adrasto, è uno degli Epigoni, i figli dei sette re caduti che fecero guerra a Tebe per vendicare i loro padri e fu proprio egli, con la consegna a Erifile del peplo di Armonia e la conseguente partecipazione alla guerra di Alcmeone, secondo quanto aveva indicato l’oracolo (cfr. Diod. Sic. 4,66; Apollod. 3,7,2; Hyg. Fab. 69), a far sì che la guerra avesse inizio. Non a caso Pindaro in Ol. 2,46 lo definisce ΦΕΝ·ϱΑ ΈϱΐΓ΍Ζ, “soccorritore della casa”. Tersandro diventa poi re di Tebe, prende parte alla spedizione contro Troia e qui compare come prima vittima di Telefo (cfr. Paus. 9,5,14 e 8,3,1). Così anche in Stat. Theb. 3,683. Tuttavia Virgilio (Aen. 2,261), secondo un’altra tradizione, lo inserisce tra gli eroi che presero parte all’inganno del cavallo. 7 L’autore, sebbene l’eroe sia di parte greca, attribuisce la sua caduta a una sorta di hybris da parte sua. Egli si è spinto più in là delle sue forze e ha trovato la morte. 8 Anche Diomede aveva partecipato alla guerra contro Tebe (cfr. Apollod. 3,7,2). 9 Tradizionale nell’antichità era la cremazione dei defunti e la sepoltura delle ceneri, o la conservazione di esse in un’anfora (cfr. Il. ŘřǰŘŚř πΑ ΛΕΙΗνϙ Κ΍ΣΏϙ). Al contrario dei poemi omerici, dove la sepoltura degli eroi si configura come pratica piuttosto articolata (un esempio tra tutti è costituito dai funerali di Patroclo narrati nel libro ventiquattresimo), in quest’opera a essa vengono dedicate di solito poche righe di descrizione (vedi infra) e la presunta complessità di

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ogni rito viene dall’autore indicata sommariamente con l’espressione patrio more. 10 Cfr. Il. 8,224 ss.; 11,7 ss. Achille e Aiace Telamonio appaiono in questo libro accomunati da più di un tratto. Nei capitoli seguenti li vedremo spesso impegnati in spedizioni nelle città vicine a Troia, dove opereranno saccheggi e devastazioni. Tradizionalmente, secondo l’Iliade, tali operazioni erano prerogativa di Achille. Qui, invece, anche Aiace sembra distinguersi per esse. 11 Teutranio “pari agli dei” (ΦΑΘϟΌΉΓΖ in Il. 5,705), viene ucciso da Ettore in battaglia. In Virgilio, che anche per tale eroe segue, probabilmente, una diversa tradizione mitica, egli partecipa alla guerra tra gli Arcadi e i Latini (Aen. 10,403). Come giustamente sottolinea Settimio, Teutranio è fratello di Telefo solo da parte di madre: suo padre è Teutrante o Teutra, il re di Misia che aveva accolto Auge, vendutagli da Nauplio e che accolse Telefo come figlio adottivo. Secondo la tradizione Teutra morì senza eredi maschi legittimi, così gli successe Telefo. Con l’introduzione di Teutranio, Ditti-Settimio mette in campo una contraddizione rispetto al fatto che Telefo è il re e quindi è succeduto a Teutrante al posto di un erede legittimo. Tuttavia al lettore non è stato ancora esplicitato che Telefo è figlio di Eracle (vedi infra). Per quanto riguarda Auge, non meno di Telefo essa è stata personaggio tragico. Protagonista delle suddette tragedie (vedi nota 1), che conserviamo solo in frammenti, a lei è dedicata un’Auge di Euripide e un’altra di Afareo (IV sec. a.C.). La versione mitica più attestata, seguita da Euripide e da Sofocle, è quella secondo cui Auge, figlia di Aleo, re di Tegea, in Arcadia, fu violentata da Eracle ubriaco, ignaro che ella fosse la figlia del re. L’eroe, mentre andava a Eli a guerreggiare contro Augia, fu ospitato a Tegea da Aleo. Quando il re seppe che la figlia era incinta, volle ucciderla e la mise col bambino in un cofano, che affidò a Nauplio, con l’ordine di gettarlo in mare. Questi la salvò, vendendola al re Teutra. Secondo un’altra versione Auge fu venduta al re dopo il parto e Telefo, rimasto in Arcadia, fu allattato da una cerbiatta su un monte. Divenuto grande, dopo aver consultato l’oracolo di Delfi, Telefo andò in Misia, presso Teutra, e ritrovò sua madre. Cfr. anche Diod. Sic. 4,33; Strab. 13, p.615; Paus. 8,4,8-9; 47,2; 48,7; 10,28,8; Hyg. Fab. 99; 100-101; 162; 252; Antol.Pal. 3,2. 12 Cfr. Tac. Hist. 2,45 nec quisquam adeo mali expers. 13 Tale tregua costituisce la prima pausa narrativa dall’inizio dello scontro, disordinato e improvviso. Nel corso di essa ci sarà una pacificazione tra Telefo e i Greci.

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Tlepolemo, figlio di Eracle e Astiòchea, è capo dei Rodii (Il. 2,653 ss.; 5,628 ss.) e secondo Apollod. 2,7,6, partecipa alla spedizione con nove navi e viene poi ucciso da Sarpèdone, capo dei Lici, dopo un violento diverbio (Il. 5,627 ss.); cfr. anche Pind. Ol. 7,50 ss.; Hyg. Fab. 81; 97; 162; Diod. Sic. 4,36; 57; Paus. 3,19,10; Strab. 14, p.653. Fidippo e Antifonte, figli di Tessalo, compaiono entrambi in Il. 2,678; secondo Apollod. Ep. 3,13, partecipano alla spedizione con trenta navi. 15 Il motivo dell’equivoco, su cui è costruito l’intero episodio dell’ambasceria presso Telefo, viene ripreso dall’autore con la frase cognito Telephum in his locis imperitare, la quale costituisce per il lettore la riprova che i Greci, al loro arrivo in Misia, non sapevano dove fossero capitati né chi governasse quei luoghi. Dopo averlo saputo, con la scusa della parentela col re – tramite Eracle – decidono di andare a parlare con lui per sollecitarlo, proprio in virtù di quel legame di sangue, ai vincoli di ospitalità. 16 Gli argomenti di persuasione sono, oltre al legame di parentela e al vincolo di ospitalità, anche il fatto che proprio i Greci hanno dedicato monumenti a Eracle, il padre del re, e l’hanno quindi onorato. Pausania fornisce varie testimonianze su statue di Eracle in Grecia (ad es.: 3,15,3-6 e 16,4-6). 17 Benigne è l’avverbio che denota la buona disposizione di Telefo verso i suoi interlocutori: egli è gentile, nonostante il forte dolore della ferita. 18 Telefo fa, a sua volta, le sue rimostranze: i Greci stessi, al loro arrivo, avrebbero dovuto mandare dei messi a informarlo su chi fossero. Dal suo discorso, rigorosamente indiretto, capiamo lo stato di ignoranza reciproca di Misii e Greci. 19 Telefo, sebbene riconosca la parentela con i Greci, che non mancherà di onorare (vedi infra), tuttavia si mantiene leale con Priamo. Anche a lui, infatti, è legato da una parentela: sua moglie Astioche qui compare come figlia di Priamo (Astyochen Priami), mentre secondo la tradizione più comune ella è sua sorella (Q.S v. 6,135 ss.; Hyg. Fab. 112; 113). Il loro figlio Euripilo compare in Od. 11,519-520, dove Odisseo lo menziona come uno degli eroi uccisi da Neottolemo e come il più bello dopo Memnone. Molto più spazio ha in Quinto di Smirne: giunge a Troia come re dei Cetei, alleato dei Troiani, ed è il protagonista indiscusso dei libri sesto (dal v. 120 in poi) e settimo (98-167); la morte per mano di Neottolemo è descritta nel libro ottavo ai vv. 204-209. Tuttavia qui Euripilo non è ancora re, del suo coinvol-

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gimento nella guerra nulla si dice, e viene menzionato solo come figlio di Telefo, ragione del rifiuto di combattere contro Priamo e testimone della viva parentela con il re troiano. 20 Telefo, proprio come un malato che si conforta con la sola presenza di persone care, è felice di vedere i suoi parenti e li ringrazia della visita con moltissimi doni. Cfr. Ter. Hec. 826 obtuli adventu meo laetitiam Pamphilo. 21 I capi dell’esercito acheo, anch’essi parenti di Telefo, non si sono ancora recati da lui in visita, sebbene la situazione richieda una conoscenza immediata tra loro e il re. Potremmo annoverare questo ritardo tra quelle stranezze narrative di Ditti-Settimio ben evidenziate da Timpanaro 1987. 22 Notiamo a questo punto della vicenda un’evidente discordanza rispetto al mito, ricordato nella nota 1. L’unico in grado di guarire la ferita di Telefo è Achille, che invece si limita a incoraggiare il re a sopportare il dolore. D’altra parte, Telefo non ha ancora consultato l’oracolo (lo farà nel capitolo decimo) e l’intervento di Macaone e Podalirio a questo punto della narrazione sembra del tutto plausibile nel clima di cortesia e pace finalmente instauratosi: sarebbe controproducente da parte dei Greci, per i buoni rapporti e lo sviluppo dell’azione, non soccorrere Telefo, ospite generosissimo. Per converso, sarebbe incongruo tacere qui della ferita, motivo narrativo così determinante nei capitoli successivi. Macaone e Podalirio sono i medici dell’esercito acheo, valenti guaritori (Ϣ΋ΘϛΕдΦ·΅ΌЏ in Il. 2,732), a esso indispensabili. Cfr. Il. 4, 193 ss.; 11, 506 ss.; 14, 2 s.. In Quinto di Smirne, quando Macaone viene ucciso da Euripilo, Podalirio, nel suo dolore, afferma che il fratello lo allevò, gli fece da padre, e gli insegnò l’arte medica (6,391-397; 7,58-65). In Apoll. 3,10,8 compaiono come pretendenti di Elena, prendono parte alla spedizione a Troia e Podalirio cura la ferita di Filottete (Ep. 3,14). 23 Cfr. Tac. Hist. 2,4: de navigatione primum consuluit. 24 Su consiglio di Telefo, il quale ormai, per riconoscenza verso i Greci, si era proposto loro come guida, l’esercito acheo non prosegue il viaggio verso Troia e decide di svernare in Beozia. Da tale regione, i re vanno a svernare ciascuno nel proprio paese. Si verifica dunque uno strano provvisorio ritorno degli eroi, un vero e proprio congedo da una guerra che, di fatto, non è ancora iniziata. È evidente che l’autore sta adottando la tecnica narrativa del rinvio, della suspense, rispetto all’inizio dello scontro. Cfr. Timpanaro 1987, 183.

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All’interno di tale pausa narrativa e coerentemente con le continue dilazioni dell’inizio della guerra, l’autore si concentra sullo scontro tra Agamennone e Menelao, i signori della guerra, tra i quali è in atto un equivoco (un altro, simile a quello riguardante lo sbarco in Misia, per cui vedi supra), per cui il capo acheo è ancora ignaro del destino della figlia Ifigenia. Egli, probabilmente, crede ancora che ella sia morta. Sarà Ulisse, nel capitolo nono, a spiegargli come stanno le cose e a rassicurarlo. Il malinteso tra i due ricorda il diverbio tra gli stessi nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, ai vv. 317-413; cfr. Enn. sc. 222-227 Vahlen. A ragione Timpanaro sottolinea il modo bizzarro in cui Ditti presenta la lite tra i capi, quasi «come un modo per non annoiarsi troppo durante la sosta» (Timpanaro 1987, 183-184), rispetto al modello euripideo in cui tale scontro risultava un momento molto drammatico e drammaturgicamente fondamentale. 26 Osserviamo come Ditti-Settimio senta l’esigenza di specificare la modalità in cui i Troiani vengono a sapere dell’imminente arrivo dei nemici: l’impersonale compertum est non è sufficiente a soddisfare le intenzioni documentaristiche dell’autore; egli va in cerca di un auctor nuntii, nella fattispecie dei commercianti sciti. Gli Sciti erano una popolazione che viveva sulle coste del Mar Nero, praticavano la navigazione e il commercio. Da notare l’aggettivo barbarus usato dall’autore, a conferma del suo punto di vista filo-greco, accompagnato dall’accezione negativa del verbo vagare. Il dettaglio, apparentemente superfluo, verrà ripreso nel capitolo decimo (gli Sciti, infatti, compariranno ancora come guide dell’esercito greco e poi nel sedicesimo capitolo, all’impazzare di Achille contro i paesi vicini a Troia, un loro re cerca di accattivarsi la benevolenza dei Greci, portandogli dei doni) ed è evidentemente teso a conferire realismo alla narrazione. 27 Come al capitolo secondo (vedi supra), anche qui compare un metus collettivo (universos invasere): prima erano i Misi, ora sono i Troiani a essere assaliti da questo sentimento alla notizia dell’imminente attacco dei Greci. Alla paura, però, si aggiunge un maeror, un dolore, una sorta di risentimento nei confronti di Alessandro da parte di chi aveva già disapprovato il suo comportamento, prevedendo la sciagura ora alle porte. Il motivo della cattiva condotta di Alessandro, sebbene tradizionale, verrà ripreso dal capitolo ventiduesimo in poi, durante l’assemblea di Greci e Troiani (vedi infra). 28 Il malinteso di cui abbiamo già detto finalmente si scioglie, grazie alla parola persuasiva di Ulisse. Agamennone viene finalmente infor-

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mato dei fatti in maniera esaustiva e l’organizzazione della spedizione può riprendere il suo corso. Sicuramente siamo di fronte a una tecnica del rinvio «spinta al massimo» (Timpanaro 1987, 184), per cui la vicenda di Ifigenia viene ‘spezzettata’, ripresa più volte e risolta solo di fronte alla necessità impellente di attaccare i Troiani (Diomede se ne fa sollecito informatore), tuttavia rimane un importante motore degli eventi: di fatto, prima di questa risoluzione, i Greci non si riuniscono ad Argo e non si organizzano a partire. 29 Si tratta dell’unica indicazione temporale dettagliata dei capitoli 1-27. Non è casuale, segna un passaggio importante in questa narrazione diaristica: si conclude qui, infatti, la prima fase – lunghissima, iniziata nel primo libro, ai capitoli 15-18 – della preparazione della Grecia alla spedizione contro Troia. 30 Questo elemento è sicuramente estraneo alla narrazione epica. L’autore sente l’esigenza di fornire dettagli realistici al lettore. Si veda la nota 27. 31 Torna il motivo della ferita e finalmente il caso di Telefo si risolve grazie alla parola dell’oracolo. Le fila del mito in tal modo si ricompongono. Riteniamo importante osservare che il ricorrere due volte di tale elemento, lungi dall’essere segno di contraddizione o distrazione compositiva, appartiene con coerenza alle strategie di narrazione dell’autore. Egli non solo riconduce su un piano realistico la dimensione magica presente nell’episodio tràdito (come potrebbe la freccia di Achille medicare la ferita? Come potrebbe Achille guarire da solo la ferita con quali arti mediche? La parola dell’oracolo, anch’essa, viene sottoposta al setaccio razionalizzante di Ditti), ma lo sfrutta come nucleo di due importanti segmenti di racconto (la pace tra Telefo e i Greci al capitolo sesto e il suo apporto fattivo alla spedizione al capitolo decimo), creando un interessante ‘effetto ripresa’, che dà compattezza e unità all’insieme dei fatti riguardanti questo importante personaggio. 32 Cfr. Caes. B.G. 4,23,6 et ventum et aestum uno tempore nactus. 33 Capo di un contingente licio, alleato dei Troiani, Sarpèdone è nell’Iliade (2,876 ss.) figlio di Zeus, non dello Xanto. Distinguendosi tra gli alleati per il grande coraggio (5,471 ss.; 627 ss.; 6,198 ss.), ha una gran parte nell’attacco del campo acheo e nell’assalto alle mura (12, 101 ss.; 290 ss.; 382 ss.). Viene ucciso da Patroclo e intorno al suo corpo si scatena un violento combattimento (16,419 ss.; 466 ss.; 569 ss.). Attraverso Sarpèdone, Ditti-Settimio opera uno sfumato sposta-

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mento del punto di vista: i Greci sono giunti a Troia e assistiamo al loro arrivo dal campo troiano, già pronto allo scontro. 34 L’eroe tessalo Protesìlao, figlio di Ificlo e Astioche, partecipa alla guerra conducendo un contingente di quaranta navi ed è il primo tra i Greci a essere ucciso durante lo sbarco a Troia (Il. 2,698-710). L’episodio narrato da Ditti-Settimio era narrato nell’Iliade e nei Cypria. In Malala (6) e Cedreno (126), invece, di lui si dice ΔΕϱΐ΅ΛΓΖ ̇΅Α΅ЗΑ. Ancora Apollodoro (Ep. 3,30) narra anche che egli – ΘЗΑ ̴ΏΏφΑΝΑ ΔΕЗΘΓΖ – viene ucciso da Ettore, non da Enea come in Settimio. Il mitografo narra anche che sua moglie Laodamia continuò ad amarlo moltissimo anche dopo la sua morte tanto che si era fabbricata una statua somigliante al marito e si univa ad essa. Gli dei, impietositi, mandarono Ermes nell’Ade a riprendere Protesìlao ed ella, quando lo vide, credette fosse tornato da Troia, ma non appena egli fu ricondotto nel regno infero, la donna si uccise. Il mito fu ripreso da Sofocle (I pastori) e da Euripide (Protesìlao) e venne assunto nella letteratura latina come paradigma dell’amore coniugale, in grado di superare la morte stessa. Il poeta preneoterico Levio scrisse un Protesilaudamia, di cui ci restano pochi frammenti; dedicano attenzione alla vicenda ancora Catullo (carme 68), Properzio (1,19,7-12) e Ovidio (Her. 13). 35 Una lista forse completa dei figli di Priamo, circa cinquanta, è presente in Apollod. Bibl. 3,12,5; ma è in Il. 24,495-497 che Priamo stesso ci dà indicazione sul loro numero e sul loro status «diciannove erano figli di mia moglie/gli altri mi furono generati da grandi donne»; costoro, infatti, nel corso del poema sono definiti ora legittimi (cioè nati da Ecuba), ora bastardi (11,102-104; 11,490; 13,173; 16,738; 20,95). 36 L’espressione per latera et cornua (cfr. Caes. BG 1,25,6) rimanda subito a un contesto di combattimento tra legioni romane. Il sermo castrensis impiegato dall’autore, riscontrabile soprattutto in Cesare, fa parte di una serie di procedimenti di attualizzazione assai frequenti nell’opera. 37 La mancanza di ordine nell’attacco militare solitamente viene attribuita da Ditti-Settimio ai Troiani, barbari anche in questo, per cui preferiscono gli agguati e non rispettano le tregue (2,42; 3,10; 3,13 e 17). In questo brano, con un gioco paradossale, è proprio l’assalto dei Troiani a indurre nei Greci una fuga sine ullo ordine ac disciplina militari. 38 Il nome Cicno appartiene a diversi eroi del mito antico. Qui sembra trattarsi di Cicno figlio di Poseidone, lo stesso eroe invulnerabile

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di Ov. Met. 12,72-145, che Achille riuscirà a uccidere solo colpendolo in viso e facendolo cadere su una pietra, ma che verrà trasformato in cigno dal padre. La sua uccisione da parte di Achille, già nelle nei Cypria, poi menzionata da Pind. Ol. 2,147 ss., trova riscontro in Hyg. Fab. 157; 273, in Malal. 6 e in Cedr. 126 b. Nei cronografi bizantini Cicno è parente di Priamo e alleato dei Troiani, re di Neandres. Egli attacca i Greci nel cuore della notte con un gran contingente e viene presto ucciso da Achille. Apoll. Ep. 3,31 riporta che l’eroe viene ucciso da Achille con un colpo alla testa. Cfr. Pind. Ol. 1,147 ss., dove Cicno viene ricordato con Ettore e Memnone come vittima di Achille. 39 Abbracciare le ginocchia di qualcuno era un gesto usuale di supplica sia nel mondo greco che romano. Un celebre esempio è in Il. 1,500-502, dove Teti prega Zeus di onorare il figlio, offeso da Agamennone per via di Briseide. La dea abbraccia le ginocchia di Zeus con il braccio sinistro e gli prende il mento con la mano destra. 40 Torna il motivo del pessimus dux (al capitolo ottavo erano i consiglieri di Alessandro a essere pessimi, mentre il suo operato è considerato scellerato) che opera per proprio interesse ai danni del suo popolo. 41 Malala (6) sottolinea la bellezza della fanciulla (ΉЁΔΕΉΔφΖ), preda di Diomede (come anche in Cedreno), non di Aiace. 42 Palamède è figlio di Nauplio, nipote di Poseidone; personaggio assente nei poemi omerici, fa la sua prima comparsa nei Cypria, dove smaschera la finta follia di Odisseo prima della partenza per Troia: costui se ne sta a Itaca e non vuole partire, per questo si finge pazzo; Palamede strappa dalle braccia di Penelope il piccolo Telemaco e sguaina la spada contro di lui, Odisseo allora confessa di aver finto (Procl. Chrest. Ep. 166 Severyns = Cypria, argumentum 66 ss. Bernabè; cfr. Apoll. Ep. 3,7); secondo un’altra versione Odisseo guida l’aratro seminando sale, Palamède allora pone davanti all’aratro Telemaco, costringendo Odisseo a fermarsi e a rivelarsi lucido (cfr. Hyg Fab. 95,2,1-5) La figura di Palamede suscitò fino alla tarda antichità sempre un vivo interesse sia tra i poeti che tra i prosatori. Nel V secolo Eschilo, Sofocle, Euripide e Astidamante il giovane gli dedicano ciascuno una tragedia, Gorgia scrive l’Apologia di Palamede, Alcidamante l’Accusa contro Palamede, lo stesso Platone lo menziona come eccellente nell’arte oratoria (Phaedr. 261 b-d) e come inventore delle tattiche di guerra (Resp. 7, 522 d). Nel periodo della seconda sofistica (IV d. C.), Palamede attira l’attenzione di Filostrato che gli

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dedica una parte importante dell’Heroikòs (708,5-716,29; cfr. Tzetzes 154 ss.). Malala (9) ce ne offre una particolareggiata descrizione fisica e morale in cui la bellezza esteriore e le buone qualità caratteriali si uniscono alla sua principale prerogativa, quella di protos euretes (cfr. Cedr.125 c), attestata nelle fonti suddette e in molte altre: Palamede inventò la scrittura, il gioco degli scacchi, dei dadi, interpretò i segni celesti e giovò all’esercito con la sua saggezza e le sue abilità (cfr. Dar. 18, Malal. 9; per una ricostruzione dettagliata delle fonti che menzionano le numerosissime scoperte di Palamede si veda Falcetto 2002; per una riflessione sulla figura del protos euretes si veda Brelich 2010; si noti, infine, il significativo accostamento di Palamede e Protesìlao – entrambi accomunati da un primato – in Eur. Iph. Aul. 195-195, in cui i due eroi giocano insieme a scacchi, muovendo «variopinte pedine»). Notiamo con una certa sorpresa che Settimio non fa menzione di questo importante aspetto del personaggio. Nel nostro testo egli compare come uomo onesto, molto amato dai soldati, i quali lo ritengono più degno di Agamennone del comando supremo; Timpanaro 1987, 187 evidenzia che proprio l’amore e il disamore dei soldati nei confronti dei loro capi è il criterio di valutazione, per Ditti, del valore di un eroe. Non a caso Palamede viene scelto da Apollo per operare il sacrificio e ciò provoca dolor in alcuni comandanti, non meglio specificati. Si tratta di un accenno al risentimento che nel capitolo successivo spingerà Ulisse e Diomede ad agire contro di lui. Per dolor cfr. Caes. B.G. 1,4,2 e Cic. Off. 2,79. 43 L’espressione immolatio centum victimarum è senza dubbio una traduzione del greco πΎ΅ΘϱΐΆ΋, letteralmente il sacrificio di cento buoi, ma più genericamente il termine indica un grande sacrificio: cfr., tra i numerosi esempi, Il. 24, 206 e Od. 1,25. 44 Non sappiamo il motivo per cui Alessandro voglia impedire la cerimonia sacrificale. Il suo attacco ha carattere proditorio, simile agli altri assalti dei barbari, cfr. nota 38. 45 La scena descritta è piuttosto movimentata: prima l’arrivo di Alessandro, poi il combattimento con l’intervento mediatore di Crise, infine Filottete morso dal serpente e soccorso da Ulisse. Sempre più personaggi e fatti si aggiungono nel giro di breve tempo, sempre più ci allontaniamo dal focus su Palamede, vero protagonista dei capitoli 14-15. 46 Ancora una volta Ditti-Settimio si distacca dalla versione omerica: in Il. 2,722 s. di Filottete si dice che sta a Lemno, afflitto da violenti

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dolori, abbandonato lì dagli Achei dopo il morso del serpente. Ditti sceglie una versione più mite dei fatti, senza risvolti tragici, quasi a voler archiviare la questione in fretta, troppo lunga e importante sarebbe la vicenda di questo grande eroe in tale diaristica economia narrativa. Così Filottete qui viene mandato a Lemno per essere curato dai sacerdoti di Vulcano; ne troviamo riscontro in Schol. A. Il. 2,723, Eust. Ad Il. 2,724, Philostr. Her. 28,4, dove la guarigione è dovuta alla potenza benefica della stessa terra dell’isola. 47 Si tratta, forse, di uno dei pochi giudizi morali dell’autore all’interno dell’opera (per un confronto vd. Tac. Hist. 2,20). Ditti-Settimio riprende e sviluppa il tema del dolor anticipato nel capitolo 14: l’invidia di Ulisse, in accordo con l’intera tradizione mitica e letteraria, motiva l’uccisione di Palamede (cfr. Sen. Mem. 4,2,33: «E le disavventure di Palamede non le hai sentite? Tutti invero contano di lui, di come rovinò per aver suscitato l’invidia di Odisseo per la sua saggezza»; Verg. Aen. 2,81-96 con invidia pellacis Ulixis, v.91; Ov. Met. 13,36-62; QS 5,197-199). Osserviamo però che in Ditti-Settimio viene omessa la ragione mitica di tale invidia, o quantomeno sostituita da una generica popolarità di Palamede presso l’esercito: tutto è delimitato e circostanziato nell’ ‘attuale’ primato dell’eroe amato dalle truppe e prescelto da Apollo, più che nei suoi precedenti (cfr. nota 43). Tutto sembra essere ricondotto a una rivalità tra capi in ambito militare. I modelli sembrano essere più in Tacito o in Sallustio che nella tradizione mitografica. 48 Secondo la versione fornitaci da Apollodoro (Ep. 3,8), Odisseo fece prigioniero un Frigio e lo costrinse a scrivere una lettera che pareva indirizzata da Priamo a Palamede e che rivelava un tradimento. Seppellì oro nella sua tenda e fece cadere la lettera in mezzo all’accampamento. Agamennone lesse la lettera, trovò l’oro nella tenda di Palamede e lo consegnò agli alleati perché venisse lapidato come traditore. È interessante la testimonianza di Pausania (10,31,2 = Cypr. fr. 30 b Bernabé ) che sostiene di aver letto nei Cypria che P. viene ucciso da Ulisse e Diomede (la coppia si ritrova anche in Settimio) mentre sta pescando, nel tentativo di rimediare a una grave carestia dell’esercito greco. La morte dell’eroe per lapidazione ci è testimoniata da Servio (ad Aen. 2,81). Palamede, tradizionalmente scopritore di frodi di Ulisse, viene ucciso per mezzo di una frode proprio dello stesso, qualsiasi tradizione si voglia seguire. Cfr. anche Ar. Thesm. 765-784, parodia del Palamede euripideo, dove il personaggio, tentando di escogitare

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un mezzo di comunicazione efficace, decide di scrivere un messaggio sui remi. 49 L’autore ribadisce il sentimento dell’esercito nei confronti di questo buon capo (si veda nota 43), le cui decisioni erano sempre saggie e necessarie: cfr. Sall. Iug. 7,6: (Igurtha)…quoius neque consilium neque inceptum ullum frustra erat; e Iug. 14,22: tibi immaturo ut unde minume decuit vita erepta est. 50 È in tal modo che Ditti recupera la figura di Agamennone, coinvolto nella vicenda mitica per mezzo del dettaglio della lettera (nota 43), menzionandolo tra i sospettati cospiratori contro Palamede, sempre per invidia nei suoi confronti. Cfr. Sall. Cat. 17,7: fuere item ea tempestate qui crederent M.Licinium Crassum non ignarum eius consilii fuisse. 51 Tale publicum funus non viene descritto altrimenti. Non sappiamo se con questa espressione l’autore intenda la cerimonia comprensiva di giochi funebri, come per gli eroi greci, oppure quella con il corteo che espone le imagines degli antenati, tipica del mondo romano. 52 Della presa di Lesbo da parte di Achille v’è traccia in Il. 9, 664665, in cui l’eroe si stende nella tenda proprio insieme a Diomeda. 53 Eezìone, re dei Cilici, è il padre di Andromaca. L’episodio, menzionato brevemente, è narrato dalla donna stessa in Il. 6,414-429: Achille uccise il re, lo fece bruciare con le sue armi e gli versò della terra sopra. Poi uccise i suoi sette figli. 54 Ditti-Settimio non usa il patronimico per nominare le fanciulle. Astinome-Criseide e Ippodamia-Briseide sono, nell’Iliade, l’oggetto della contesa tra Agamennone e Achille. Un resoconto dettagliato della vicenda, seppur parziale, viene fornito da Achille stesso alla madre Teti, in Il. 1,365-392. Sebbene anche qui la sottrazione di Briseide costituirà, nei capitoli successivi, la motivazione dell’ira di Achille, notiamo fin da subito, dato il breve accenno alle fanciulle, che esse non costituiscono, come nell’Iliade, la causa scatenante dello scontro tra i due eroi che, tra l’altro, sembra assumere qui dei contorni molto più sfumati rispetto al racconto omerico. In tal modo la μϛΑ΍Ζ di Achille non è più il motore dei fatti; le cause di essi appaiono in Ditti-Settimio molto più razionali, conformemente agli intenti letterari dell’autore. Da notare, infine, che Ditti-Settimio riporta che Astinome-Criseide è la moglie di Eezione, mentre in Il. 6,396 ss. e 414 ss. la consorte del re della Tebe asiatica, che sorgeva in Misia alle falde del monte Placo, è la madre di Andromaca, di cui non si dice il nome.

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Secondo la tradizione mitica consacrata dall’Ecuba di Euripide, Polimestore, re della Tracia, è l’uomo a cui Priamo, all’inizio della guerra di Troia, affida il proprio figlio Polìdoro, ancora bambino, per preservarlo da ogni rischio, insieme a una grande quantità d’oro, nel caso in cui Troia fosse caduta; quando tale evento si verifica, Polimestore, per potersi tenere il tesoro, uccide il ragazzo e ne getta il cadavere in mare. Questa versione (di cui un riassunto nel prologo, pronunciato dal fantasma di Polìdoro stesso in Eur. Ec. 1-34) viene seguita anche da Virgilio (Aen. 3, 45-68), il quale pronuncia un chiaro giudizio negativo sulla condotta del re tracio (fas omne abrumpit, v. 55; Quid non mortalia pectora cogis,/auri sacra fames!, vv. 56-57). Ditti sembra, invece, raccontare i fatti in modo diverso. Innanzitutto notiamo l’ampio spostamento temporale dell’episodio: nella versione attestata da Euripide il tradimento di Polimestore avviene dopo la caduta di Troia, mentre nella nostra opera – sebbene manchi l’elemento dell’uccisione, sostituito dalla consegna del giovane ai nemici (dunque sempre di tradimento si tratta), siamo molto indietro nel tempo, poiché la guerra deve ancora avere inizio (cfr. Mal. 9 e Cedr. 126 d). In secondo luogo, tale consegna sembra avvenire qui per paura di Polimestore di fronte al nemico così forte, di cui ha potuto sperimentare virtutem et gloriam di contro alle proprie deboli forze (diffidens rebus suis). Così Ditti anche con questo secondo elemento – la mancanza di coraggio del re tracio, del tutto plausibile rispetto ai fatti narrati – modifica sensibilmente la versione mitica tradizionale. 56 Supponiamo che sia lo stesso tesoro che Priamo consegnò a Polimestore come patrimonio futuro del proprio figlio Polidoro. 57 Polimestore, tra l’altro, intrattiene con Priamo dei rapporti di parentela, in quanto ha sposato sua figlia Iliòne. 58 Tecmessa è in realtà figlia di Teleuta: forse si è ingenerata una confusione con il Teutrante padre di Telefo (2,3). Occorre altrimenti pensare che Ditti abbia voluto modificare in modo sorprendente la discendenza mitica: così infatti è anche in Cedreno 126 d. Tecmessa diede ad Aiace un figlio, Eurisace. In Soph. Ai. 485 ss. la donna, fedele e premurosa compagna, ricorda all’eroe la sua condizione di schiava. Cfr. Q.S. 5,5,21 ss.; Hor. Carm. 2,4,5; Ov. Ars 3,517. 59 L’autore non si spinge oltre nel giudizio positivo dei due capi. Né, come nota Venini 1981, 169, la sua provenienza cretese influisce sul giudizio di Idomeneo. Costui, re di Creta, figlio di Deucalione e nipote di Minosse, già tra i pretendenti di Elena, compare nell’Iliade

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a capo del contingente cretese (2,645-651) e si distingue per essere ‘capo consigliere’ (1,144 ss.; 2,404 ss.; 3,230 s.; 4,252 ss.; 6,435 ss.; 13,210 ss.; 19,309 ss.). 60 Nell’Iliade Polidoro è figlio di Priamo e di Laòtoe, il più giovane dei fratelli, e viene ucciso da Achille mentre corre per il campo di battaglia «per fanciullaggine, volendo mostrare la forza» dei piedi (20,411-412), armato di una corazza d’argento, che Achille gli toglie. Posteriormente, presso i tragici e gli alessandrini, egli è figlio di Ecuba. In Ditti il giovane viene usato come ostaggio per richiedere la restituzione di Elena e dei suoi beni. Cfr. Q.S. 4,154 e 586; Ov. Met.13,434 ss.; Hyg. Fab. 109. 61 Secondo Apollodoro (Ep. 3,3), Ermione viene abbandonata dalla madre a nove anni. Le parole di Menelao riecheggiano Saffo (fr. 16 V.). Un significativo confronto si può condurre, inoltre, con Colluth. 387392 in cui Ermione, ignara della partenza della madre, piange disperatamente quando si accorge che ella non è più accanto a lei, nel suo letto, temendo che sia morta. 62 Viene ripreso il motivo dell’Alexandri facinus (capitolo 8), il quale sembra assumere un ruolo paradigmatico universale: provocherà discordie familiari, rapporti sospettosi tra amici e parenti, sarà motivo di rottura di patti realizzati all’insegna della philìa. 63 Il discorso di Panto è lunghissimo, concitato e pieno di ripetizioni. Dal periodare è chiaro che l’autore vuole rendere la concitazione del vecchio, il suo desiderio di convincere Ettore, a tutti i costi. 64 Ettore è cosciente dell’azione compiuta dal fratello e sa che la soluzione migliore sarebbe quella profilata da Panto, tuttavia non se la sente di tradire le decisioni familiari. 65 Enea non cerca una mediazione e, al contrario di Ettore, sembra aderire pienamente ai progetti di Alessandro. Rovescia il punto di vista ed elenca i rapimenti più famosi dell’antichità, tutti compiuti dai Greci. Come se la guerra imminente potesse ispirarsi a quelli e non si facesse, dunque, solo per Elena. Il suo discorso è pieno di minacce. Dà ai Greci un vero e proprio ultimatum di guerra. 66 L’autore sembra qui intervenire con il suo giudizio. Di fronte a un fatto tanto grave ed eseguito a freddo, l’autore sembra condannare l’azione di Alessandro. E forse quell’aggettivo fraternus, concordato con l’empietà, non indica solo quella di Alessandro, ma anche degli altri figli di Priamo, i quali, con il loro ottuso rifiuto a restituire Elena, hanno decretato la morte del giovane fratello. D’altra parte è un epi-

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sodio in cui anche i Greci danno prova di barbarie; tuttavia, qui come altrove, l’atrocità dell’azione è legittimazione della loro buona causa. La morte di Polidoro avviene nell’Iliade molto avanti nel tempo della guerra (20,407 ss.). Il ragazzo, figlio di Laotoe (Il. 21,84 ss.; 22,46 ss.) viene ucciso in modo cruento per mano di Achille, trafitto dalla sua asta. Ditti ci propone una versione completamente diversa: egli è qui figlio di Ecuba (come anche in Eur. Hec. 3;30; Apoll. 3,151; Hyg. Fab. 109) e diviene ostaggio dei Greci dopo la consegna a Polimestore. L’episodio si svolge qui prima dell’inizio della guerra (cfr. Serv. ad Aen. 3,6). Secondo la tradizione più comune, invece (Eur. Hec. 21 ss.; Verg. Aen. 3,53 ss.; Ov. Met. 13,435 ss.), il giovane viene ucciso in concomitanza con la caduta della città. 67 I Greci, con questa azione, sembrano dar prova di pietà. Vogliono forse dimostrare ai Troiani che sono solo loro i responsabili di ciò che sta per accadere. 68 I capitoli 28-34 trattano della pestilenza nel campo acheo, della restituzione di Criseide/Astinome al padre, della pretesa di Agamennone di sottrarre Briseide/Ippodamia ad Achille, del conseguente dissidio tra i due eroi e dei suoi sviluppi: l’argomento – in altre parole – è quello del primo canto dell’Iliade, ma solo a grandi linee, ché molti sono i punti (talora decisivi) nei quali Ditti si è allontanato deliberatamente – e a giudizio di qualcuno anche ostentatamente – dal modello omerico. Tali discrepanze verranno di volta in volta evidenziate e analizzate nelle note sottostanti, ma già uno sguardo sintetico e un confronto sommario mettono in luce alcune tendenze di fondo, che peraltro caratterizzano non solo i paragrafi in questione ma l’intera opera, e che possono essere così schematizzate: 1) la struttura del canto I dell’Iliade è spiccatamente drammatica, rispetto a quella della Ephemeris, che privilegiano il discorso indiretto e addirittura sopprimono alcuni dialoghi, come quello tra Achille e Agamennone (122-303), quello tra Achille e Teti (362-427) o quello tra quest’ultima e Zeus (504-530); 2) Ditti, rispetto a Omero, attribuisce all’intervento divino un peso assai minore (per non dire nullo), al punto da revocare in dubbio finanche la responsabilità di Apollo in relazione allo scoppio della pestilenza; 3) questa razionalizzazione ‘laica’, che si dovrebbe legare alla dichiarata (nonché controversa – e per alcuni apertamente ironica) pretesa dell’autore di fornire una versione dei fatti storicamente più attendibile, è tuttavia lungi dal rendere la narrazione perfettamente coerente e verosimile, se è vero che i protagonisti – a partire da Achille, come vedremo – danno prova nei loro

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comportamenti di una contradditorietà psicologica giudicata da alcuni sconcertante: «Lo scrittore che si nasconde dietro il nome di Ditti, se elimina o riduce l’irrazionale in senso mitologico e religioso, è poi molto più ‘irrazionalista’ di Omero in quanto ha quel gusto dell’incoerenza e dell’assurdo che in Omero non c’è affatto» (Timpanaro 1987, 176). Eppure, a parziale correzione del quadro fin qui delineato, si possono segnalare almeno due elementi di continuità tra Omero e Ditti, il primo dei quali è la caratterizzazione etica di Agamennone, il quale, indiscutibilmente, anche nella Ephemeris è il personaggio egoista e pieno di hybris che conosciamo dall’Iliade. Il secondo elemento è invece l’assenza di moventi erotico-sentimentali: Achille infatti – coerentemente con la versione omerica – non è propriamente innamorato di Briseide e il dolore che patisce è determinato dall’affronto subito, cioè dal disconoscimento del suo status (chi invece interpreta il rapporto AchilleBriseide in termini di passione amorosa è Malala, v. infra 5, 7, 20-30). 69 L’epiteto Sminteo è omerico (Il. 1, 39: significa probabilmente “sterminatore di topi”, ma l’etimologia era controversa già per gli antichi: cfr. Apollonio Sofista, p. 143.9 Bekker) così come omerica è la scena dell’arrivo di Crise presso gli Achei e della sua supplica, sia pure con variazioni: si parla infatti genericamente di quaedam ornamentorum e non specificamente di bende (Il. 1, 15), inoltre compare una non meglio precisata effigie di Apollo (vultus), che si potrebbe immaginare essere una maschera. Ma, al di là di questi dettagli, la vera – ed emblematica – differenza sta nell’atteggiamento verso il sacro: Omero presenta Apollo come un personaggio concreto, e il suo intervento come un dato di fatto di patente evidenza (Il. 1, 44-52); per Ditti invece il dio non esiste in sé e per sé, ma solo all’interno dell’ottica umana, quella cioè di Crise e degli Achei che si lasciano impressionare dall’apparato con cui il sacerdote si presenta loro e dalle dicerie locali (28, 20 fama incolarum) 70 V. supra 2, 14. Si tratta di una motivazione ulteriore e di natura puramente umana, che – non a caso – non figura in Omero. 71 Lo scarto rispetto a Omero è palese: cfr. Il 1, 21-23, dove gli Achei vogliono liberare Briseide, ma non rifiutano il riscatto. 72 La caratterizzazione fortemente hybristica di Agamennone è coerentemente mantenuta, nonostante la maggior sinteticità e l’eliminazione del discorso diretto (cfr. Il. 1, 25-32). 73 L’espressione imperfecto negotio sembra rara e postclassica: compare in Ammiano (31, 6, 1); Livio impiega invece re imperfecta (1, 54, 7).

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Questa effimera rivolta è un’innovazione rispetto al modello omerico, e rientra nella tendenza di Ditti a dar rilievo alla componente propriamente militare, cioè ai capi (reges o duces quale entità collettiva e anonima) e all’esercito nel suo insieme, laddove nell’Iliade la preminenza dei singoli eroi è assoluta. Per l’uccisione di Palamede e la possibile responsabilità di Agamennone cfr. 2, 15. 75 La frase – quanto al contenuto – è emblematica dell’atteggiamento ‘laico-razionalistico’ di Ditti; la forma scelta da Settimio (incertum alione casu an etc) sembra riecheggiare stilemi tipici della storiografia latina (cfr. Tac. Ann. 15, 38,1 forte an dolo principis incertum). 76 Il riferimento a Il. 1, 50-52 (oujrh`a~ me;n prw`ton ejpwv/ceto kai; kuvna~ ajrgouv~/aujta;r e[peit j aujtoi`s i bevlo~ ejcepeuke;~ ejf iei;~/ bavlle) è esplicito, ma con una fondamentale differenza: Ditti attenua fortemente la componente soprannaturale, poiché bestie e uomini sono colpiti dalla malattia (morbus gravissimus), e non dai dardi di Apollo, che è il soggetto della frase citata. 77 Tale notizia è ricavata e silentio dal corrispondente passo iliadico: si può in effetti talora cogliere nella Ephemeris una tendenza a precisare ed esplicitare ciò che in Omero è implicito (cfr. Venini 1981, 176). 78 Significativamente nell’Iliade (1, 53-56) è Achille, ispirato da Era, a convocare l’assemblea: Ditti ancora una volta sostituisce al movente divino quello umano, che in questo caso è addirittura bassamente umano, data la natura egoistica del sentimento dei capi achei. C’è poi da osservare che il costrutto in unum coire sembra tipico del linguaggio militare, riferendosi al ricompattarsi di un esercito o di una coalizione (cfr. Liv. 6, 3, 6; 26, 41, 21 e passim); tuttavia nel passo in oggetto, nel quale sono specificamente i duces – e non tutti i soldati – che coeunt in unum, si sta evidentemente alludendo a una riunione della boulé, cioè del consiglio ‘oligarchico’ di guerra, laddove il corrispondente passo iliadico menziona esplicitamente l’assemblea generale delle truppe, cioè l’agorà: v. Il. 1, 54 («il decimo giorno Achille chiamò l’esercito in assemblea»). Degna di nota, a tal riguardo, è anche la soppressione da parte di Ditti del riferimento cronologico: tipicamente omerico è infatti lo schema narrativo per cui una determinata situazione si protrae per nove giorni, finché al decimo non interviene qualcosa a porvi fine. 79 Anche nel corrispondente passo iliadico Calcante, prima di pronunciarsi, si cautela da eventuali rappresaglie (cfr. Il. 1, 74-91); ma il giuramento coinvolge, nella Ephemeris, tutti i capi achei e non il solo

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Achille, dettaglio peraltro non superfluo e coerente con la tendenza di Ditti alla completezza informativa e alla razionalizzazione: era infatti ragionevole che i timori di Calcante non fossero limitati a un singolo eroe. 80 Il cap. 31 consta interamente di elementi non omerici, che peraltro non verranno sviluppati nel prosieguo della narrazione e si configurano dunque come un’aggiunta del tutto gratuita. Si potrebbe, tutt’al più, sottolineare la caratterizzazione altruistica di Achille (pernicie defessi exercitus anxius), ma neanche questa è un dato coerente e strutturale, dal momento che tra poco vedremo lo stesso Achille armarsi contro i Greci, bramoso di vendetta (v. infra, cap. 37) 81 Omero non fa menzione di questa sortita dei Troiani. La Venini (1981, 173-74) sostiene che con questa aggiunta Ditti abbia operato nel senso di una maggiore razionalità e verosimiglianza rispetto all’Iliade, dove stranamente i Troiani non approfittavano della situazione e restavano inerti; ma sembra che Ditti qui (come ogni volta che aggiunge dettagli e informazioni cronachistiche) abbia più che altro diluito e frammentato l’episodio omerico, della cui struttura compattamente ‘drammatica’ non resta nulla. 82 Peculiare l’impiego di bipertito come participio: in Cesare compare sempre come avverbio (B. G. 1, 25, 7; 5, 31, 1). 83 L’espressione acie confligere, che indica propriamente lo svolgersi della battaglia secondo schieramenti definiti, è tipica di Livio (8, 1, 3; 23, 11, 8; 26, 17, 15; 30, 19, 11) 84 La forma quƯs del pronome relativo, in luogo di quibus, è un arcaismo frequente in Sallustio e Tacito. 85 La traduzione si basa sulla lezione regem del ramo e: poiché Achillem è necessariamente oggetto di confirmare, la frase richiede un predicativo, che, tra le due lezioni, non può che essere regem, malgrado la stranezza della iunctura che viene a crearsi con omnium – stranezza che, per la verità, si aggiunge a quella rappresentata dall’uso di confirmare nell’accezione di declarare, constituere. Maggiori inconvenienti si avrebbero comunque con rem; e del resto quanto viene detto subito dopo circa i timori di Agamennone giustifica la nostra scelta. 86 La hybris di Agamennone sembra ancor più grave che nell’Iliade, dove egli cede subito, seppur a malincuore e con malagrazia, al responso di Calcante (Il. 1, 106-120); qui invece, perché Agamennone venga a più miti consigli, bisogna che gli si prospetti concretamente l’eventualità della destituzione, alla quale peraltro Omero non accenna affatto.

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È questo uno dei più notevoli aprosdoketa dell’opera: sembra infatti che Ditti stia abolendo quello che era l’elemento propulsore dell’intera vicenda iliadica, cioè la mh`ni~. Vedremo peraltro fra breve che l’acquiescenza e la bontà d’animo non sono caratteristiche stabili di Achille, il quale comparirà effettivamente in preda all’ira; ma quest’ultima nelle Ephemerides non assurgerà mai a motivo coerente e dominante quale invece era nell’Iliade. 88 Il commento soggettivo del narratore, che interviene al fine di accrescere il pathos della vicenda, è un modulo tipico della poesia latina, e specialmente dell’Eneide; ma – contrariamente a quanto si è spesso affermato – esso non è sconosciuto neanche all’epica omerica. 89 Settimio dà una patina di romanità traducendo con lictor il termine greco che quasi certamente era kh`rux. Questo traducente, proprio in quanto legato a realtà esclusivamente romane, sarebbe inadatto al contesto, e tuttavia, nella misura in cui suggerisce l’idea dell’ufficialità e della rapida e coattiva esecuzione di una sentenza, è coerente con la versione dei fatti fornita da Ditti (v. nota seguente). 90 Nell’Iliade Taltibio ed Euribate, gli araldi inviati da Agamennone, non sembrano affatto rapidi: essi infatti si recano da Achille controvoglia (Il. 1, 327) e dunque presumibilmente a passo lento; poi, una volta giunti al suo cospetto, anziché comunicargli subito l’ingiunzione, tacciono intimiditi (1, 331-32), finché non interviene il Pelide, che aveva intuito la ragione dell’arrivo dei due (1, 333). 91 Coerentemente con la versione omerica, Ditti fa rimanere Patroclo al fianco di Achille quando questi si ritira dalla guerra; nel complesso però la relazione tra i due non si configura chiaramente come omoerotica, ed è priva dell’importanza decisiva che ha nell’Iliade, dove – all’inizio del canto XVIII – sarà proprio la rabbiosa disperazione per la morte dell’amico, a far sì che Achille decida di riprendere le armi contro i Troiani. Nella Ephemeris invece Patroclo è ucciso abbastanza presto (nel libro III) e – quel che più conta – quando Achille già si è riconciliato con Agamennone. Quanto a Fenice, anche nell’Iliade egli figura come precettore di Achille, ma – stranamente – non rimane con lui dopo la lite con Agamennone; nel IX canto però guiderà l’ambasceria inviata al Pelide e si tratterrà presso di lui, anziché far ritorno da Agamennonne assieme agli altri due delegati, Odisseo e Aiace. Ditti sembra pertanto rendere la vicenda più lineare, presentando fin dall’inizio Fenice accanto al suo discepolo, ed escludendolo quindi dalla triade di ambasciatori (v. infra).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

L’espressione impiegata da Settimio probabilmente riecheggia Sall. Cat. 5, 9 (res ipsa hortari videtur…). 93 Il catalogo, cioè l’elenco di elementi affini disposti in successione in base a un criterio riconoscibile, è una delle più importanti strutture mentali e culturali delle società arcaiche fondate sull’oralità, nelle quali esso aveva la funzione di ordinare il reale – e quindi anche la materia mitica – assegnando a luoghi, eroi, divinità (e a quanto potesse esservi di significativo nel mondo) una collocazione il più possibile chiara e stabile («l’archivio di una società senza scrittura», lo definisce Vernant). L’epica omerica, pur non essendo programmaticamente catalogica come quella esiodea, fa continuamente uso di tale modulo, anche se il Catalogo delle navi (Il. 2, 494-760) è senz’altro l’esempio più noto, per l’eccezionale lunghezza e per il fatto di costituire una delle principali cruces della filologia omerica (non è ovviamente questa la sede per ripercorrere questa vastissima problematica, rispetto alla quale dunque, semplificando brutalmente, ci limitiamo a ricordare le posizioni estreme di quanti scorgono in questo elenco tracce della fase micenea e di quanti, all’opposto, lo considerano una tardiva aggiunta, risalente forse a una fase attica). Assai più breve (e oggettivamente di minor interesse) è invece il catalogo delle forze troiane, con cui si conclude il libro II dell’Iliade (vv. 819-877); ed è appunto a quest’ultimo elenco che qui si rifà Ditti, alterando però la successione dei personaggi e apportandovi dei cambiamenti che segnaliamo: a) il catalogo omerico include i Troiani propriamente detti, guidati da Ettore (2, 816-18), i Dardani, guidati da Enea, Archeloco e Acamante (819-23), e quindi gli alleati provenienti dalla Tracia e dall’Asia Minore; Ditti invece menziona esclusivamente quest’ultima categoria (socii atque amici), sicché Acamas di 35, 9 deve essere necessariamente il guerriero trace compagno di Piroo menzionato al v. 844 del catalogo omerico e non il succitato compagno di Enea del v. 823 (dal che si deduce che la lacuna tra Acamas e Piros ex Thracia nel testo di Settimio deve essere brevissima); b) Ditti segnala esplicitamente – a differenza di Omero – anche la presenza di mercenari (quique ob mercedem…), come del resto già in 1, 18 e 2, 23. c) Prive di riscontri nel catalogo omerico sono inoltre queste notizie fornite da Ditti: i) Pilemene è figlio del vanitoso Melio; ii) Odio ed Epistrofio sono figli di Minuo; iii) Sarpedone proviene ex Solemo (ma Omero conosce i Solimi della Licia: Il. 6, 184, 204); iv) Sarpedone porta con sé Glauco perché questi primeggia su tutti i Lici consilio atque armis (l’eccezionale valore di Glauco è pe-

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raltro riconosciuto da Diomede nella celebre scena dell’incontro tra i due: Il. 6, 123-129; e in Il. 17, 171-172 Ettore rammenta, sia pure per smentirla, la fama di saggezza di cui godeva il guerriero licio: h\ tΔ ejfavmhn se; peri; frevna~ e[mmenai a[llwn / tw`n o{ssoi Lukivhn...); v) Cromio ed Ennomio sono Migdoni; vi) Pirecme è figlio di Axio, mentre in Omero egli proviene dalle rive del fiume Assio (Il. 2, 848-50); vii) oltre ad Asio ‘figlio di Irtaco’ è presente anche un alius Asius, figlio di Dimante e fratello di Ecuba: questo Asio non è incluso nel catalogo omerico, ma è comunque menzionato da Omero in Il. 16, 716 ss. Ma, a parte queste discrepanze – in fondo trascurabili –, è l’assenza di metro a fare dell’elenco di Ditti qualcosa di molto diverso (e, a dire il vero, anche più banale) rispetto a quelli esiodei e omerici, nel cui ritmo si può cogliere la traccia di una struttura antropologica e di una concreta finalità mnemonica. 94 Che gli alleati dei Troiani fossero una realtà plurilinguistica è dato tradizionale (cfr. Il. 2, 803-804); tipico di Ditti è invece l’atteggiamento sprezzantemente etnicista che emerge da questo come da molti altri passaggi. 95 More militiae è locuzione tipica della storiografia (cfr. Sall. Iug. 54, 1; Tac. Ann. 2, 52, 1; 12, 69, 2.) 96 Menesteo, che compare più volte nell’Iliade (2, 552-54; 4, 327 e 338; 13, 195 e 690; 15, 331; e soprattutto 12, 331 ss.), non vi sembra mai avere il compito specifico che gli viene qui attribuito; tuttavia, nel primo dei passi citati, viene lodato per l’eccezionale capacità di «ordinare i cavalli e gli uomini armati di scudi». 97 Il mancato invito a cena potrebbe sembrare una motivazione ostentatamente futile, inventata da Ditti per il gusto dell’aprosdoketon: è questa l’opinione di Timpanaro (1987, 179-80), il quale individua anche un parallelismo, sia formale che contenutistico, con 1, 4 (Menelaus…multo amplius tamen ob iniuriam adfinium costernabatur). Si può tuttavia osservare che nella mitologia greca non sono rari i casi in cui l’esclusione da un banchetto, un trattamento inadeguato durante il banchetto stesso o un indugio nell’invito causano risentimenti anche feroci: il pasto in comune non era soltanto un momento conviviale, bensì un rito, giacché gli animali consumati non venivano semplicemente macellati ma consacrati agli dèi. La Venini evoca a tal riguardo un primo screzio avvenuto presso Tenedo tra Achille e i Greci: cfr. Procl. Chrest. 80, 50 Severyns = Cypriorum argumentum, p. 39 Bernabé (kai; eujwcomevnwn aujtw`n... ΔAcilleu;~ u{steron klhqei;~ dia-

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NOTE AL TESTO DI DITTI

fevretai pro;~ ΔAgamevmnona: «e mentre quelli banchettano…Achille, essendo stato invitato più tardi, litiga con Agamennone»); Arist. Rhet. 2, 1401 b (dia; ga;r to; mh; klhqh`nai oJ ΔAcilleu;~ ejmhvnise toi`~ ΔAcaioi`~: «Achille si adirò cogli Achei per non essere stato invitato»); ed è assai probabile che tale episodio fosse addirittura l’argomento principale di un dramma sofocleo: i Syndeipnoi, (cfr. p. 425 Radt). Si può inoltre ricordare la tradizione secondo cui Edipo si adirò coi figli e li maledisse perché gli fecero servire la coscia anziché la spalla dell’animale sacrificato (cfr. Thebais, fr. 3 Bernabé). Alla luce di tutto questo possiamo concludere che la seconda motivazione dell’ira di Achille non ha in sé e per sé nulla di assurdo o parodistico, ed è perfettamente coerente con la prima, cioè con la sottrazione di Briseide/Ippodamia: si tratta di due analoghi casi di timé negletta (v. nota 68, fine). 98 Qui Ditti indubbiamente gioca col meccanismo dell’attesa frustrata: chi abbia una minima conoscenza dell’Iliade si aspetta una strage, se è vero che l’ira di Achille – e il suo conseguente ritiro – inflisse muriva a[lgea (infiniti dolori) agli Achei; qui invece lo scontro si risolve in un nulla di fatto e la tensione si allenta improvvisamente. 99 Ancora una volta Ditti mostra una predilezione per i tentativi falliti e le sedizioni abortite (cfr. cap. 35); ma questo breve episodio ha specificamente la funzione di sottolineare la capricciosa contraddittorietà di Achille nonché l’inconcludenza del suo agire, e rientra probabilmente in un processo di de-eroizzazione (o almeno di ridimensionamento) del personaggio. 100 Ditti scinde in due parti e modifica radicalmente quanto viene narrato nel libro X dell’Iliade, il quale – com’è noto – costituisce un episodio perfettamente autonomo e in sé concluso (al punto da aver fornito l’argomento a una tragedia: il Reso pseudoeuripideo), e anche per questo viene tradizionalmente considerato un’aggiunta tardiva rispetto al nucleo originario del poema. Questi i fatti: i Greci decidono di inviare nottetempo due di loro al campo dei Troiani per spiarne le intenzioni; Diomede e Ulisse si offrono volontari e partono (Il. 10, 44-298). Contemporaneamente però i Troiani hanno un’idea simile e Dolone, allettato dalle parole di Ettore, che aveva promesso in dono i cavalli e il carro di Achille, si offre volontario. La spia troiana, avviatasi verso le navi achee, si imbatte in Diomede e Odisseo e si dà alla fuga finché non viene raggiunta (Il. 299-377). Dolone è terrorizzato; Odisseo astutamente gli dà a intendere che se parlerà avrà salva la vita; quello vilmente rivela tutto ciò che sa sull’ubicazione del campo troiano e il

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modo in cui è organizzata la sua difesa (vv. 413-431); quindi, spontaneamente, suggerisce loro di attaccare l’accampamento dei Traci, che erano isolati dal resto dei Troiani e dei loro alleati, e avevano portato con sé ricchezze eccezionali (vv. 433-445). A questo punto egli crede che verrà risparmiato ma si sbaglia: Diomede infatti addirittura lo decapita, nonostante egli stesse tentando di afferrargli la barba per supplicarlo (vv. 454-457); e Odisseo subito dopo invoca Atena e le promette di dedicarle le armi del nemico ucciso se li guiderà alle tende dei Traci (vv. 458468). Atena acconsente, sicché i due penetrano nel campo, massacrano dodici Traci dormienti e ritornano alle navi con i celebri cavalli del re trace Reso, che è stato ucciso per tredicesimo. Il canto si conclude con una libagione alla dea. Come si vede Ditti separa l’episodio dell’attacco proditorio al campo dei Traci, che verrà narrato al cap. 45, dai ‘fatti di Dolone’. Del resto questi ultimi, che nell’Iliade avevano ampio sviluppo, sono ridotti a ben poca cosa, a insignificante dettaglio di cronaca, al punto che ci si può chiedere quale sia il senso di queste poche righe finali del cap. 37. La risposta potrebbe essere racchiusa nelle parole dum cupit suscepti negotii fidem complere. Siamo cioè di fronte a uno dei non pochi rovesciamenti (parodici?) della realtà iliadica: nel canto X infatti si sottolinea più volte la viltà e la pochezza morale di Dolone: anzitutto è brutto (v. 316), ed è noto come la bruttezza fisica nel mondo omerico fosse specchio di quella interiore; agisce esclusivamente per avidità e prima di accettare la missione costringe Ettore a giurare formalmente che gli darà i doni promessi (vv. 321 ss.); si dà alla fuga ‘come una lepre o un cerbiatto’ (v. 361); infine quando viene catturato diventa ‘verde per la paura’ (v. 376), non esita ad accusare Ettore (vv. 391 ss. «Con molte follie Ettore mi fece perdere il senno…»), rivela – come si è detto – tutto ciò che gli viene chiesto e dà al nemico l’idea dell’attacco ai Traci. Mi sembra dunque evidente che se c’è un personaggio omerico che non ha nulla a che fare con l’idea di lealtà – di fides, come traduce Settimio – questo è proprio Dolone. Del bieco comportamento non resta che un piccolo ma – per chi sappia coglierlo – significativo accenno nelle parole refert cuncta, che riprendono il tau`ta mavlΔ ajtrekevw~ katalevxw del v. 413. D’altra parte anche Diomede e Achille vengono ‘moralizzati’: l’ellittico e vago occiditur sostituisce il racconto di una vicenda atroce, dalla quale emerge quanto la nozione del bene e del male sia cosa relativa, se è vero che i due eroi alla fine della Dolonia venivano festeggiati per avere (con l’aiuto di una dea) decapitato un quasi supplice e massacrato degli uomini che dormivano.

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NOTE AL TESTO DI DITTI

La situazione corrisponde essenzialmente – tranne che per la presenza di Deifobo – a quella descritta, ben più dettagliatamente, in Il. 3, 20-57. Per gli insulti di Ettore al fratello, qui solo accennati, si vedano i versi 39 ss. del suddetto passo iliadico. La viltà di Paride, già componente fondamentale della sua caratterizzazione omerica (vedasi anche Il. 6, 318-331), può essere considerata un topos della letteratura greco-romana (non riscontrabile tuttavia nell’Eneide): cfr. Hor. Carm. 1, 15, 16-19 (nequiquam thalamo gravis / hastas et calami spicula Cnosii/ vitabis strepitumque et celerem sequi / Aiacem); Ov. Heroid. 5, 109-112 ss. (tu levior foliis…et minus est in te quam summa pondus arista…), Quinto Smirneo, 6, 26 («smidollatissimo concubino»); e soprattutto 10, 284-305, dove si umilia al cospetto di Enone, supplicandola di guarirlo. 102 Nell’Iliade Paride stesso propone che la guerra venga risolta da un duello tra i due diretti interessati, cioè tra lui e Menelao (Il. 3, 5975). Gli Achei e i Troiani accettano quindi entusiasticamente, e il patto, in base al quale il perdente rinuncerà ad Elena e ai suoi beni dotali, viene solennemente sancito da un’invocazione agli dèi e da un sacrificio (cfr. Il. 3, 276-294). Nella Ephemeris non c’è nulla di tutto questo (l’accenno al foedus presente all’inizio del capitolo 41 è infatti troppo vago, oltreché tardivo): Paride viene costretto dai fratelli a farsi avanti e a battersi con Menelao (cogunt uti progressus…), e – in generale – l’intero episodio è narrato in modo sbrigativo e brachiligico (per non dire confuso): il duello infatti non viene formalizzato e il patto non viene esplicitamente definito, sicché viene meno tutta la componente rituale e ‘legalistica’ che tanto rilievo ha nella versione omerica. 103 Qui Settimio rappresenta i due eroi omerici come fossero dei legionari romani: pleno gradu è infatti espressione tecnica indicante un’andatura di circa ventitré miglia ogni cinque ore estive (cfr. Veg. Mil. 1, 9); ricorre spesso in Livio (4, 32, 10; 9, 45, 14 e passim). 104 L’inizio del duello corrisponde, sia pur con qualche approssimazione, a quanto si narra il Il. 3, 346-360; ma è il solito espediente impiegato da Ditti per far meglio risaltare il carattere non omerico di ciò che segue (v. infra). 105 Nell’Iliade è Afrodite a sottrarre Paride alla foga omicida di Menelao, trasportandolo nel «talamo profumato» (Il. 3, 379-382); Pandaro invece interviene solo nel canto successivo, quale strumento attraverso cui si realizza una volontà superiore: Zeus infatti, incalzato dalla filoargiva Era, si impegna a far in modo che i Troiani violino la

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tregua pattuita (formalmente ancora vigente, anche dopo il duello) e che di conseguenza la guerra riprenda, in vista della fatale caduta di Troia (4, 25-67); egli dunque, a tal fine, si rivolge ad Atena, la quale, prese le sembianze del troiano Laodoco, raggiunge Pandaro e, lusingandone la vanità, lo convince a colpire Menelao (Il. 4, 93-96 «Se tu osassi scagliare la rapida freccia contro Menelao, tutti i Troiani ti ringrazierebbero e ti onorerebbero, ma più di tutti il sovrano Alessandro»). Sarà poi la stessa dea a deviare la traiettoria della freccia e a salvare l’Atride. Nella Ephemeris l’aura di ineluttabile fatalità che caratterizzava il celebre episodio omerico della ‘freccia di Pandaro’ si perde completamente: il ferimento di Menelao da parte dell’arciere licio è ora un evento sì importante, ma contingente, legato com’è all’iniziativa estemporanea di un singolo individuo, e privo del rilievo e della memorabilità di cui godeva nell’Iliade. 106 V. nota precedente: Ditti sottolinea il fatto che Paride non deve la salvezza a un intervento divino. 107 Ditti condensa nel tempo e nello spazio avvenimenti che nell’Iliade sono distinti: Diomede uccide Pandaro nel canto V (vv. 290 ss.); e Omero non sembra istituire alcun nesso logico o etico fra tale uccisione e ciò che Pandaro aveva fatto nel canto IV (v. nota successiva). 108 La menzione del foedus violato è tardiva e presuppone da parte del lettore la conoscenza della versione omerica dei fatti (v. note precedenti). Peraltro, col riferimento alla scelestissima militia della quale il guerriero licio paga il fio, Ditti sta introducendo il concetto di responsabilità individuale, che nell’episodio iliadico di Pandaro (e in generale nel mondo omerico) aveva scarsissimo peso, così come vi mancava qualsiasi accenno esplicito di valutazione morale del comportamento di Pandaro: quest’ultimo, infatti, poteva ben esser stato egoisticamente allettato dalla prospettiva di beneficiare della riconoscenza di Paride (v. supra, n. 105), ma chi davvero aveva determinato la violazione della tregua sono gli dèi (ovvero il Fato) e di tale violazione dovevano rispondere tutti i Troiani, non il singolo feritore (cfr. Codino 1974, 90-98). 109 Se nell’Iliade l’unità di tempo – in senso lato – viene sostanzialmente rispettata (fatte salve le frequenti digressioni), nella Ephemeris la narrazione viene spesso interrotta dall’inserimento di questi periodi di sospensione dell’attività bellica (v. infra 2, 52). Peculiare è inoltre è il riferimento alle attività agricole, poco consone allo status dei guerrieri omerici.

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NOTE AL TESTO DI DITTI

La forma classica, attestata in Sallustio e Livio, è per condiciones. L’impiego del singolare è attestato in Tacito ( Hist. 3, 65, 2: mitem virum…de pace ponendisque per condicionem armis agitare). 111 La battaglia presso le navi viene declassata a fatto secondario, e si direbbe quasi insignificante, dal momento che poco dopo, con l’intervento di Aiace, gli Achei cominciano ad avere decisamente la meglio. Nell’Iliade si tratta invece di un evento ‘epico’ nel più alto senso della parola, attorno al quale si sviluppa un blocco narrativo amplissimo: già alla fine del VII canto infatti i Greci costruiscono il celebre muro a difesa della loro flotta; ma è a partire dall’XI canto, fino al XVI, che il racconto si concentra – in modo addirittura monotono – sulla resistenza achea ai tentativi troiani, infine vincenti, di abbattere il muro e di incendiare le navi. Quest’ultimo avvenimento poi assume un’importanza tale che il poeta ritiene opportuno annunciarlo con una nuova invocazione alle Muse: Il. 16, 112-113 «Oh Muse abitatrici delle dimore olimpie, ditemi come il primo fuoco si abbatté sulle navi degli Achei». 112 Ditti trasferisce nella realtà ciò che nell’Iliade era una semplice supposizione di Achille: Il. 11, 609-610 «Penso che gli Achei mi circonderanno le ginocchia supplicandomi». 113 Se nell’Iliade è l’urlo di Achille a far fuggire i Troiani dall’accampamento navale acheo (cfr. 18, 315 ss.), qui invece il merito è di Aiace; e questo – a giudizio della Venini (1981, 171-72) – sarebbe uno degli indizi del fatto che Ditti avrebbe inteso «ridurre le distanze» tra i due eroi. La questione però sembra attenere più che alla caratterizzazione etica alla struttura narrativa: in Il. 18, 315 Achille ha appena saputo della morte di Patroclo e ha deciso di tornare a combattere, mentre in Eph. 2, 43 non si è ancora riconciliato con Agamennone. Ad ogni modo è anche interessante notare che nelle Metamorfosi di Ovidio Aiace in persona si vanta di aver salvato la flotta achea (cfr. Met. 13, 7-8). 114 Anche nell’Iliade (14, 409-439) si racconta che Ettore fu colpito da un masso scagliatogli da Aiace e quindi fu messo in salvo dai suoi compagni. L’aggettivo seminex – già virgiliano (Aen. 5, 275) e liviano (Liv. 23, 15, 8 e passim) – è da intedere alla lettera, se è vero che l’eroe troiano «vomitò sangue nero, poi di nuovo cadde a terra all’indietro e la notte nera gli velò gli occhi» (Il. 14, 437-39). 115 Fry (2004, p. 333, nota ad loc.) osserva che l’espressione militiae inconsultae, affine a scelestissimae militiae di 2, 41, 18, si riferisce alla

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violazione della tregua invernale menzionata poco prima (2, 42 per condicionem hiemis). Peraltro tale tregua non impedisce ai Greci di saccheggiare la Frigia (2, 41). 116 Il re trace Reso, nel panorama della mitologia greca, è forse una figura di secondo piano, ma non per questo priva di interesse; e se nell’Iliade è un personaggio ‘muto’, del quale vengono poste in rilievo esclusivamente le eccezionali ricchezze (Il. 10, 435-39), l’omonima tragedia euripidea (o – com’è più probabile – pseudoeuripidea) trasmette invece di lui un’immagine ricca e problematica. Da una parte infatti Reso è presentato come una sorta di miles gloriosus, un comandante ‘spaccone’ il quale, subito dopo essere giunto a Troia (peraltro assai tardivamente), dichiara di poter distruggere l’esercito nemico in un solo giorno (Rhes. 447 ss.) e addirittura progetta un’invasione dell’Ellade (vv. 469 ss.), salvo poi a morire senza neanche combattere, per aver scioccamente trascurato di schierare nottetempo le sentinelle a difesa del suo accampamento (vv. 765 ss.), col che si determina una contraddizione così patente tra vanterie iniziali e fine ingloriosa da far suonare retrospettivamente parodiche le parole magniloquenti con cui, nel secondo stasimo, il coro ha accolto il re, equiparandolo perfino a Zeus Liberatore (vv. 357-59). D’altra parte l’apparizione finale ex machina della madre di Reso – la Musa – rende l’atmosfera decisamente mistica, al punto che si può anche parlare di apoteosi: ella infatti dichiara che il figlio, pur dopo morto, continuerà a vivere nascosto in un antro come un ajnqrwpodaivmwn (un ‘uomodio’), alla maniera di Orfeo ‘profeta di Bacco’ (vv. 970-73). Che Reso fosse strettamente legato alla dimensione magico-religiosa è del resto confermato da una notizia trasmessaci da Polieno (Stratagem. 6,53) il quale racconta che l’ateniese Agnone, incaricato di fondare una colonia in Tracia, e ligio alle indicazioni dell’ oracolo consultato, si recò prima nella Troade, dove si impossessò dei resti mortali di Reso, e poi li seppellì presso il fiume Strimone, là dove sarebbe sorta Anfipoli, alla cui fondazione la presenza delle spoglie dell’illustre personaggio avrebbe assicurato il successo (Reso, insomma, ebbe un destino non dissimile da quello di Edipo, cioè quello di trasformarsi dopo la morte in una sorta di ‘talismano’). Ma di questo complesso quadro mitico e mitistorico (che potrebbe essere ulteriormente complicato dalla possibilità che nella tragedia pseudoeuripidea Reso adombri l’infido re trace Sitalce, con cui Atene tentò un’alleanza nel 431 a.C.) Ditti non conserva sostanzialmente nulla: di Reso egli ricorda soltanto

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NOTE AL TESTO DI DITTI

la ricchezza (senza neanche insistere troppo su questo dato né sulla qualità straordianria dei cavalli: 45, 9-10 currum eius et cum egregiis insignibus equos; 46, 4 arma, equos, regias opes; 47, 7 onusti praeda) e il fatto che era figlio di Eioneo. A proposito della paternità c’è da dire che le tradizioni erano due: nell’Iliade si afferma appunto che era figlio del suddetto Eioneo (10, 435), mentre da altre fonti sappiamo che era figlio del fiume Strimone (cfr. Apollod. Bibl. 1, 3, 4 e soprattutto Eur. Rhes. 279, 346 e passim). Tuttavia Conone (Narrationes 4) armonizza le testimonianze affermando che il re trace Strimone era chiamato Eioneo dal nome di un fiume. È poi significativo che Ditti, come del resto l’autore del canto X dell’Iliade, non accenni neppure al fatto che Reso era figlio di una Musa pieride (Euterpe o Calliope, cfr. Apollod. Bibl. loc. cit ), il che può essere dovuto a difetto di informazione o piuttosto alla volontà di ridurre il più possibile l’elemento religioso-soprannaturale. 117 La notizia che i Traci vennero in aiuto dei Troiani solo dopo aver pattuito un compenso non trova riscontro nell’Iliade; ma potrebbe essere stata ricavata dal Reso, nel quale Ettore afferma di aver dovuto inviare al re trace numerose ambascerie e molti doni (Rhes. ŚŖř poi`on de; dwvrwn kovsmon oujk ejpevmyamen) prima che questi si decidesse a partire per Troia; d’altra parte Reso si giustifica dicendo che, proprio quando stava per partire, gli Sciti gli avevano mosso guerra (Rhes. 426-433), sicché – a prendere per buona tale giustificazione – il ritardo non fu dovuto ad avidità di doni. 118 La penisola non può che essere il Chersoneso Tracico, che appunto è collegato al territorio di Reso (eius). 119 L’uso del termine vigilia da parte di Settimio si può equiparare, dal punto di vista connotativo, a quello di lictor. La seconda vigilia approssimativamente copre un lasso di tempo che va dalle ventuno a mezzanotte. 120 Perché Ditti menziona esplicitamente la pianura o campagna troiana (questo sembra essere verosimilmente il significato di campos) e sottolinea il fatto che l’esercito di Reso vi si trattenne un qualche tempo (opperiebatur)? Forse tale precisazione vuole essere una smentita della leggenda – a noi nota da Verg. Aen. 1, 469-474 e schol. ad Il. 10, 435 – secondo cui se i cavalli di Reso avessero pascolato a Troia e bevuto l’acqua dello Xanto la città non sarebbe caduta. 121 Qui il ‘gioco’ di Ditti è scoperto, poiché nella versione omerica (o pseudo-omerica) i Troiani intendono veramente spiare gli Achei,

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mentre qui tale intenzione è presentata come mera ipotesi, peraltro erronea, formulata da Diomede e Odisseo. 122 Achille e Diomede risparmiano i soldati dormienti e uccidono il solo Reso: la mancata strage rientra forse in quel processo di umanizzazione e moralizzazione a cui Ditti sottopone i due eroi, rispetto a come si mostravano nell’Iliade (v. supra n. 100, alla fine). 123 Nell’Iliade, come anche nel Reso, Diomede esita, incerto se portar via o meno il carro, finché non interviene Atena, la quale lo invita a rinunciarvi e ad affrettare la fuga (10, 503-514). A parte il dettaglio del carro, è importante sottolineare come nella versione ‘omerica’ Diomede abbia bisogno del consiglio divino, mentre nella Ephemeris i due eroi sappiano esattamente cosa fare e dove fermarsi (nihil ultra audendum rati). 124 Dispersos palantesque sembra iunctura tipica di Settimio (cfr. 4, 12, 4). Il verbo palor, mai impiegato da Cicerone e Cesare, sembra un tipico poetismo del lessico storiografico: cfr. Verg. Aen. 5, 265; Sall. Iug. 21; Liv. 5, 64, 4; 7, 8, 6 e passim; Tac. Hist. 1, 68; 4, 70. 125 La strage dei Traci viene dunque ‘moralizzata’, perché non vengono uccisi nel sonno, anzi sono loro gli aggressori; e inserita entro una scena di battaglia in cui come al solito i Greci, grazie all’organizzazione, alla disciplina (nostri conferti inter se atque imperia servantes), nonché alla valentia degli Aiaci, hanno la meglio di un nemico disordinato o vile (raptim ac sine ullis ordinibus… miserandum in modum effeminati). 126 Questo sorprendente gesto di riconoscenza da parte di Crise sembra rispondere unicamente alla logica della contraddizione rispetto a Omero (cfr. Timpanaro 1987, 181-182). La situazione può perfino far sorridere se si pensa che, secondo una tradizione attestata da Igino (Fab. 121), Agamennone restituì Criseide incinta. 127 Ditti, fedele al suo criterio ‘laicamemte’ cronachistico, mostra ostentatamente di ignorare le complicate vicende, culminanti nella miracolosa apparizione finale di Eracle, che resero possibile il ritorno di Filottete, e che costituiscono l’argomento dell’omonima tragedia sofoclea. (Per il ‘trasferimento’ di Filottete a Lemno v. supra 2, 14) 128 A rigore Settimio parla di ‘intercessori’: precator designa infatti chi prega qualcuno per conto di qualcun altro; è termine preclassico, impiegato da Plauto e Terenzio, ma anche postclassico: cfr. Amm. 18, 2, 18 legationis nomine precator venerat pro Urio et Ursicino et Vestralpo regibus pacem itidem obsecrans.

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Nel IX dell’Iliade la situazione è invece gravissima: i Troiani incalzano, decisi a bruciare la flotta achea, e Agamennone ha addirittura proposto il ritiro (9, 17-28). 130 In commune consulere è costrutto liviano (Liv. 32, 21, 1; 34, 49, 9) e tacitiano (Ann. 12, 5, 3). 131 Nella Ephemeris il primato di Achille sembra essere minacciato da Aiace: già al cap. 43 è stato lui a respingere i Troiani dalle navi (ma v. supra nota 113), e adesso – ancor più sorprendentemente – gli vengono attribuite qualità intellettuali che nell’Iliade competono piuttosto ad altri eroi – specialmente a Nestore. 132 Aiace era in effetti cugino di Achille, dal momento che i loro genitori, Telamone e Peleo, erano fratelli. C’è però da notare che le genealogie mitiche sono a tal punto intrecciate che la cuginanza è una condizione assai comune, e – come tale – spesso taciuta dallo stesso Omero. 133 Nell’Iliade Nestore sceglie come capo della delegazione Fenice, il precettore di Achille (Il. 9, 478-495), al quale affianca Aiace e Odisseo (Il. 9, 165-169). Ditti quindi innova con l’inserimento di Diomede, ma è un’innovazione segnalata dal fatto che costui si aggrega di sua iniziativa, senza essere designato da Agamennone, il quale evidentemente lo considerava meno adatto alla missione. L’autore dunque, pur modificando la composizione dell’ambasceria, sembra tener conto della caratterizzazione omerica del Tidide, il quale, in vari momenti dell’Iliade, mostra chiaramente di essere un personaggio privo di doti diplomatiche: si pensi alla mancanza di riguardi con cui si rivolge ad Agamennone proprio all’inizio del canto nono (Il. 9, 32-49). 134 Anche nell’Iliade i giuramenti vengono sanciti da un sacrificio di tipo particolare, che cioè non contempla il consumo delle carni della vittima (cfr. Il. 3, 271-294). Privo di paralleli omerici è però questo ‘passaggio’ tra le due parti dell’animale (v. infra Eph. 5, 10 e nota ad loc.). Per il giuramento sull’illibatezza di Briseide cfr. Il. 9, 132-134. 135 Anche nell’Iliade Agamennone cerca di giustificarsi (9, 115120), ma anziché parlare genericamente di ira, evoca un concetto tipico della mentalità religiosa arcaica: l’a[th, ossia quella particolare forma di accecamento della ragione che colpisce, rovinosamente, anche uomini privi di malizia. 136 Nell’Iliade la lista di beni che Agamennone promette ad Achille, nella sua esagerazione, ha un che di fiabesco (Il. 9, 122-157); inoltre essa viene ripetuta verbatim da Ulisse quando si rivolge ad Achille (9, 264-99).

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L’episodio dell’ambasceria ad Achille occupa un intero libro dell’Iliade, il nono (che è notoriamente uno dei più problematici dal punto di vista filologico): vi si trovano lunghi discorsi diretti, che potremmo definire ‘orazioni in esametri’ per complessità e ricchezza della costruzione retorica: quello di Ulisse (Il. 9, 225-306), quello di Fenice (434-605) e quello Aiace (624-642), ad ognuno dei quali Achille replica personalmente (308-429, 607-619, 644-655). Eppure, tutto questo gran discorrere degli eroi omerici non mette capo a nulla, giacché le abilità retoriche e diplomatiche dei tre ambasciatori non scalfiranno neppure il duro risentimento di Achille; al contrario in Ditti l’ambasceria avrà esito positivo, ma pochissimo spazio viene attribuito all’attività dei persuasori, interamente sintetizzata nei capp. 50-51, nei quali tutti i discorsi sono indiretti tranne quello di Diomede, che peraltro non è un vero discorso ma una gnome (51, 11-13). Del resto il merito di aver vinto le resistenze di Achille sembra spettare più a Patroclo e Fenice (v. infra) che ai tre rappresentanti di Agamennone. 138 La severità con cui Aiace si rivolge ad Achille trova riscontro anche nell’Iliade: 9, 624-42 (e specialmente 628-630: «Ma Achille, ostinato, ha reso selvaggio il grande animo che ha nel petto, e non gli importa – crudele – dell’amicizia della quale noi compagni lo onoravamo più di tutti presso le navi»). L’Aiace omerico però interviene per ultimo, quando ormai – come lui stesso riconosce subito (Il. 9, 62428) – è chiaro che il Pelide non si lascerà convincere. 139 Con la frase illa quidem deorum esse ait, che sorprendentemente sminuisce l’importanza del rituale della supplica cui poco prima Aiace aveva alluso (50, 17-18 cum eum…obvoluti genibus deprecarentur), Ditti rende Ulisse partecipe di quell’atteggiamento “laico-razionalista” che è peculiare nell’Ephemeris. Ma, per il resto, queste poche righe in cui Ditti sintetizza l’intervento di Ulisse sono sostanzialmente coerenti con la lunga “orazione” di Il. 9, 225-306, la quale effettivamente include la enumeratio dei doni promessi da Agamennone (9, 264-299). 140 Anche nel IX canto Achille sottolinea il fatto che egli, ogni volta che conquistava una città, consegnava lealmente il bottino ad Agamennone, il quale però, oltre ad essere ingeneroso nel fare le parti (9, 330333 «…davo tutto all’Atride Agamennone, ma lui, restando indietro presso le navi veloci, prendeva, distribuiva poco e teneva molto»), fu particolarmente ingiusto verso di lui, l’unico tra i capi greci che si vide ritirare un premio che gli era stato concesso (si tratta ovviamente di

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Briseide: 9, 334-337). Ditti, per il resto, omette le considerazioni ‘filosofiche’ di Achille sul valore della vita e della gloria (Il. 9, 401-416), né accenna all’ intenzione di tornarsene a Ftia che invece l’Achille omerico rivela (9, 427-29). Notiamo inoltre che nella Ephemeris l’ostilità del Pelide, non limitandosi ad Agamennone, si estende anche agli altri capi Achei (neque in ea culpa solum esse Agamemnonem), cosa che dal corrispondente passo iliadico non sembra emergere. 141 A differenza di Fry (2004, p. 335, nota ad loc.) non colgo in questa affermazione nulla di «anacronisticamente stoico». 142 Patroclo era già intervenuto alla fine del cap. 49, dove – in contrasto con la versione omerica – aveva anticipatamente riferito ad Achille le benevole intenzioni degli Achei nei suoi confronti. Ora, col ritorno del medesimo personaggio alla fine dell’episodio, si realizza una ‘composizione ad anello’ nonché un effetto di ‘accumulazione’ che, a giudizio di Fry (2004, 335, nota ad loc.), spiegherebbe il facile consentimento di Achille. 143 Questo repentino e totale cedimento di Achille, che pure non sembra del tutto privo di coerenza interna (v. nota precedente), rappresenta un’altra sorprendente deviazione dal racconto omerico: nell’Iliade infatti il Pelide, insensibile alle disgrazie degli Achei, non si lascia convincere neanche dal lunghissimo discorso di Fenice (9, 434-605), e persiste nel rancore verso Agamennone finché una nuova ira, quella per l’uccisione di Patroclo, non lo spingerà a tornare in battaglia, non tanto per solidarietà verso i compagni, come afferma invece Ditti (recordatione innoxii exercitus), quanto per brama di vendetta nei confronti di Ettore. Ma la ‘bizzarra’ versione dei fatti fornita da Ditti trova un parallelo nella tradizione paraomerica: in Cedreno ad esempio (126 d) «…Agamennone, dopo gravi sconfitte, con molti doni e preghiere lo convinse a tornare a combattere con loro». 144 Timbra (o in ionico Timbre) è località della Troade cui si fa riferimento nel canto X dell’Iliade (ma per la menzione di Apollo ‘timbreo’ cfr. Eur. Rhes. 224, 508; Verg. Aen. 3, 85). Il lucus qui menzionato sembra essere lo stesso che ospita il tempio in cui, secondo la versione di Ditti, Achille sarà ucciso a tradimento (v. infra 4, 10-11), sicché il sine ullo metu può suonare retrospettivamente ironico.

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Il terzo libro si apre con la prosecuzione della tregua invernale tra Greci e Troiani (paragrafi 1-3) e si conclude con il riscatto del corpo di Ettore da parte di Priamo (20-7): la parte centrale del libro è occupata dalle attività belliche, sezione che seguendo Merkle 1989, 134-5, possiamo ulteriormente dividere in tre parti: la ripresa delle operazioni e le oscillanti sorti della battaglia (4-8), in cui Achille viene lievemente ferito da Eleno (6) e Patroclo uccide Sarpedone (7); gli scontri successivi (9-16), che costituiscono il fulcro drammatico del libro, in quanto vi vengono uccisi prima Patroclo e poi Ettore; ed infine i giochi per Patroclo (17-9), che non sono propriamente scene di guerra ma esulano comunque dalla assoluta mancanza di scontri che caratterizza la sezione iniziale e quella finale (i Greci assistono in armi alle competizioni, vista l’abitudine troiana di attaccare i nemici al di fuori delle battaglie e nei momenti di riposo). Alla tematica bellica si intreccia quella amorosa: la libertà di movimento che la tregua iniziale consente a Greci e Troiani permette ad Achille di vedere la principessa troiana Polissena, di cui si innamora perdutamente e la passione per la quale sarà la causa della sua morte nel libro successivo. Ma i due filoni, quello bellico e quello erotico, sono in realtà strettamente uniti, perché l’amore per Polissena influenza notevolmente l’atteggiamento del Pelide nei confronti dei nemici, portandolo prima a intavolare trattative con Ettore perché gli conceda la sorella in sposa (arrivando a sfiorare il tradimento), e subito dopo, quando il capo troiano gli propone condizioni particolarmente gravose e disonorevoli, a sviluppare un odio irriducibile per Ettore, che si riflette nella sua furia sul campo di battaglia e si accresce quando quest’ultimo si rende responsabile dell’uccisione di Patroclo. Fatta astrazione del romanzo sentimentale di Polissena, si può dire che questo libro dell’Ephemeris è incentrato sulla materia che interessa la seconda metà dell’Iliade: in particolare si conclude con il riscatto di Ettore, come il poema omerico, e presenta rielaborazioni di alcuni degli episodi salienti dei libri 16-24 (morte di Sarpedone e suo lamen-

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to funebre, 3,8-9; morte e onori funebri di Patroclo, 3,10-2; vendetta di Achille che non si limita a uccidere Ettore ma ne trascina anche il cadavere davanti alle mura di Troia, 3,15-6; giochi atletici in onore di Patroclo, 3,17-9; ambasciata notturna di Priamo per ottenere la restituzione del corpo del figlio, 3,20-7). L’ordine degli episodi rispetta quello iliadico (cfr. Venini 1981, 164). Naturalmente, come si è già potuto osservare nel libro II, l’atteggiamento di Ditti (poiché questo aspetto generale si può senz’altro far risalire all’originale greco) nei confronti del modello omerico è caratterizzato da grande libertà, anzi da un consapevole desiderio di innovazione e rovesciamento. Questo non solo nelle linee di tendenza generali dell’opera, come l’eliminazione dell’intervento divino e la riduzione ad una statura umana degli eroi del mito, elementi riconducibili in ultima analisi alla ricezione delle critiche razionalistiche mosse da storici e pensatori greci all’inverosimiglianza della narrazione omerica (cfr. Timpanaro 1987, 172-3; Merkle 1989, 36-44; Id., 1996; Dingel 1992), ma specificamente nelle riprese dei singoli episodi omerici, l’approccio ai quali è dominato dalla ricerca dell’aprosdokƝton e del rovesciamento sistematico della versione iliadica ufficiale, nell’ambito di quel gioco letterario ben individuato da Timpanaro 1987. Va peraltro ribadito, come è stato ampiamente argomentato da Venini 1981, che l’operazione di Ditti sul modello omerico è meno semplicistica e sprovveduta di quanto si possa pensare: la transcodificazione e variazione del racconto iliadico tradisce una competenza omerica piuttosto accurata. Mi sembra sintomatico di una comprensione profonda del testo omerico, e non di un semplice gioco a rovesciare i nudi avvenimenti dell’Iliade, il fatto che il principale motore delle vicende narrate nel poema, la ΐφΑ΍Ζ di Achille, abbia un ruolo fondamentale anche nel libro III, ma risulti mutata la sua natura ed il suo oggetto. Nell’Iliade Achille si astiene dal combattimento, con danni disastrosi per l’esercito acheo, per l’affronto infertogli da Agamennone (e tollerato dall’assemblea) della sottrazione di Briseide; nel libro II dell’Ephemeris questo scontro si ripete, e con veemenza perfino maggiore (Achille arriva a prendere le armi contro i commilitoni, ultum ire cupiens iniurias: cfr. 2,37), ma in Ditti il Pelide recede volentieri quando gli viene inviata l’ambasceria di Agamennone, al contrario di quanto accade nel corrispondente episodio omerico di Il. IX. A questo punto il lettore di Ditti/Settimio potrebbe ritenere cassato il tema dell’”ira funesta”, e aspettarsi un’evoluzione del poema, a partire dal libro III, in direzione nettamente

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separata dalla traccia iliadica; e invece esso ritorna prepotentemente in 3,3, dove l’ira è adesso rivolta contro Ettore e causata dall’amore insoddisfatto per Polissena (a cui si unisce a partire da 3,11 lo strazio per la morte ed il tentato sconciamento del cadavere di Patroclo), e come nell’Iliade trova la sua composizione con i ̎ϾΘΕ΅ delle spoglie del nemico sconfitto da parte dell’anziano genitore, che sanciscono la chiusura del libro. Viene anche ripreso il motivo omerico del mutamento di direzione dell’ira, anche se a determinare tale mutamento, e la risoluzione di uccidere Ettore alla prima battaglia (cfr. 3,3), è stavolta la passione amorosa. Sul rapporto con Omero in generale cfr. Allen 1910; Lang 1912; Timpanaro 1987; Venini 1981; Usener 1994. Achille è senza dubbio il protagonista assoluto di questo libro, in controtendenza rispetto al carattere corale che caratterizza la maggior parte dell’opera di Ditti/Settimio. Nel libro II, per esempio, il suo ruolo di migliore tra gli Achei viene controbilanciato dalle imprese eccezionali compiute dall’amico e cugino Aiace, il cui contributo alle vittorie greche non è minore di quello del Pelide, mentre la sua lontananza volontaria dal campo di battaglia non ha, per il campo greco, conseguenze così gravi come nell’Iliade. Nel libro III invece tutto ruota intorno ad Achille, ma la prospettiva in cui sono inquadrate le sue azioni, e tratteggiata la sua psicologia, rispecchia un’ambiguità di fondo del personaggio, la cui emotività risulta eccessivamente pronunciata e potenzialmente pericolosa, tanto da condurlo ad un passo dal tradimento per perseguire l’appagamento della passione erotica, ed in seguito ad affrontare Ettore senza sfidarlo in campo aperto (come in Iliade XXII), ma tendendogli un agguato ad un guado e poi sconciandone il cadavere per vendetta. Questa intemperanza di Achille è tanto più notevole nella misura in cui in Ditti/Settimio, in discontinuità con la tendenziale comunità di valori e mores che si riscontra in Omero tra Greci e Troiani (il progressivo abbrutimento della figura del barbaro sembra essere proprio di fasi più tarde dell’epos, e raggiungere pieno sviluppo nelle Argonautiche di Apollonio Rodio), viene in genere accolta la consueta concezione classica di una frattura culturale e quasi antropologica tra Greci razionali, civili e padroni di sé, e barbari impulsivi, efferati ed incontinenti. Ripetutamente, nelle pagine dell’Ephemeris, si sottolinea la carenza di disciplina, lealtà ed umanità dei Troiani e dei loro alleati: l’abitudine a colpire alle spalle o a tradimento, nonché quella di infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, vengono additate come due delle più eclatanti caratteristiche

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della loro barbarie, e stigmatizzate da Ditti/Settimio con frequenti commenti autoriali. Il fatto che Achille si macchi proprio di queste due colpe indica un suo graduale scadimento verso la condizione di inciviltà propria degli avversari, ed in effetti l’immagine a luci e ombre del Pelide (su cui cfr. Timpanaro 1987, 179-82; Merkle 1989, 202-23; Merkle 1996, 569-70), ed il suo tendenziale imbarbarimento, si possono intendere come anticipazione di un percorso generalizzato di progressivo incrudimento ed adeguamento dell’esercito greco, pure coerentemente presentato come superiore e schierato dalla parte del giusto, al codice di comportamento dei suoi avversari (cfr. Merkle 1989, 201, 231-5, 240-2). In tal modo gli Achei, che nei primi due libri tentano in tutti i modi di giungere ad una composizione pacifica delle controversie sorte in seguito al ratto di Elena e si mostrano rispettosi dei patti, nel quinto espugnano Troia ricorrendo ad un inganno architettato di concerto con Eleno ed Antenore, e si abbandonano poi ad ogni genere di massacri e violenze durante il sacco della città. Achille, per predisposizione d’animo particolarmente incline all’intemperanza e agli eccessi (si veda anche il giudizio sul suo carattere formulato da Aiace al momento del trapasso del cugino, 4,11: tua te inconsulta temeritas prodidit), sembra così essere semplicemente il primo dei Greci a cedere all’abbrutimento. Come si è detto, la tematica amorosa risulta non meno importante di quella bellica, anche se riceve molto meno spazio rispetto alla narrazione delle battaglie (Achille incontra Polissena nel tempio di Apollo Timbreo a 3,2 e poi la rivede alla fine del libro, quando la fanciulla accompagna il padre e la cognata Andromaca a chiedere la restituzione del corpo del fratello). Il tema dell’innamoramento dell’eroe greco per la figlia del re nemico, che trae origine dalla tradizione, presente già nel Ciclo e nella lirica arcaica, del sacrificio della ragazza sul sepolcro dell’eroe dopo l’ΧΏΝΗ΍Ζ, non è semplicemente un motivo erotico inserito di peso da Ditti all’interno di una narrazione a carattere prevalentemente bellico e (pseudo)storiografico. Al contrario, come è stato messo in luce in particolare da Milazzo 1984, l’inserzione di questa storia d’amore comporta anche l’introduzione, in questo libro ed in quello successivo, di alcuni riconoscibili motivi del romanzo greco d’amore e d’avventura (in parte riscontrabili anche nel principale epigono latino del genere, la Metamorfosi di Apuleio): il tema erotico sembra quindi comportare un cambiamento non semplicemente nei contenuti del testo, ma anche nei moduli compositivi di Ditti/Setti-

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mio. A tal proposito si può ricordare il carattere atipico e composito di un’opera come l’Ephemeris Belli Troiani, che se da un lato si presenta come una narrazione storiografica, addirittura contraffazione degli ЀΔΓΐΑφΐ΅Θ΅ di un partecipante cretese alla guerra di Troia, che adotta uno stile adeguato e riprende tutta una serie di topoi storiografici (l’autopsia o comunque la citazioni delle fonti documentarie, l’interesse per i diversi costumi dei barbari, le ambascerie, i discorsi), sempre con un occhio ad Omero ed alla sua ricezione da parte di storici e pensatori razionalisti, dall’altro si può considerare una specie di romanzo mitologico, che presenta al proprio interno anche una trama amorosa sviluppata secondo gli standard del romanzo erotico. Significativa anche la sezione finale dei ̎ϾΘΕ΅: la ripresa di alcuni tratti omerici si accompagna, nel dialogo tra Priamo ed Achille, ad una sostanziale innovazione. Il passaggio dal codice epico a quello storiografico emerge qui con particolare evidenza: per gli antichi, com’è noto, la storia è opus oratorium maxime, e l’inserzione di discorsi fittizi ne è uno degli aspetti più caratteristici. Ditti/Settimio trasforma gli slanci emotivi e la forte umanità della conversazione di Iliade XXIV in una serie di quattro orazioni abbinate a due a due, in ciascuna coppia delle quali una suasoria riportata in discorso diretto è seguita da una controversia in discorso indiretto, che risponde alla prima proponendo un’interpretazione dei moventi ed una valutazione etica del modo di agire delle parti in causa. In particolare, il discorso di Priamo al par. 21 ha il fine concreto di convincere Achille a restituire il corpo di Ettore, e lo persegue toccando le corde dell’emotività e presentando il re troiano come vittima del fato e dei propri figli; Achille risponde con un’implacabile analisi dei veri moventi dei Troiani (che assegna a Priamo piena responsabilità per la guerra) ed una giustificazione etica e politica della missione punitrice dei Greci contro i barbari (23). Riprende poi Achille, dopo la cena consumata in segno di riconciliazione, con un’incalzante serie di domande retoriche, che contengono in sostanza un’esortazione ai Troiani a liberarsi di Elena, a torto tenuta in gran conto dai barbari ed in realtà causa della loro rovina (25); risponde Priamo con un discorso che inscrive quanto accaduto in un piano divinamente preordinato alla rovina del suo popolo, a cominciare dal concepimento di Paride e fino all’inspiegabile benevolenza di tutto il corpo civico per la straniera – argomento tendenzioso, che svia l’attenzione dalla responsabilità dei singoli (26). La ricezione di una serie di motivi erodotei ed isocratei, e la frequenza di riprese

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omeriche, ci suggeriscono che la sostanza delle argomentazioni contrapposte risalga all’originale greco: tuttavia dobbiamo aspettarci una forte rielaborazione da parte di Settimio sul piano del tono retoricamente sostenuto, ed eventualmente nella presenza di singoli tropi, anche perché nei discorsi, meno strettamente legati all’andamento della trama e più propizi al libero abbellimento, possiamo in via ipotetica assegnare maggiore autonomia al traduttore latino. L’uso in questa sede dei concetti di suasoria e controversia non vuole certo essere accurato, ma appare evidente l’influenza della formazione offerta dalle scuole di retorica nella formulazione di questi (modesti) esercizi oratori: durante tutta l’età imperiale gran parte del training retorico avveniva attraverso l’assegnazione di cause fittizie in cui personaggi mitici o storici erano chiamati a difendersi da accuse relative alle loro azioni, o la composizione di orazioni volte a convincere gli stessi ad agire o meno in un determinato modo. Questa educazione era senz’altro uno degli elementi distintivi della cultura di Settimio e del suo pubblico, se non il perno attorno a cui essa ruotava: un’analisi delle influenze della schola sull’operazione di riscrittura della materia troiana in età tardoantica, da altri punti di vista, è stata tentata da Gianotti 1979, che tra l’altro sottolinea (p. 24) come la stesura di colores, ispirati soprattutto a Sallustio (scrittore popolarissimo nella tarda antichità latina, codificato come uno dei quattro auctores da imitare che componevano la ’quadriga’ del grammatico Arusiano Messio: Sallustio e Cicerone per la prosa, Virgilio e Terenzio per la poesia), sia percepibile in particolar modo nei discorsi che ricorrono nell’Ephemeris in occasione di trattative ed ambascerie (1,6; 1,9-10; 1,19; 1,21; 2,5-6; 2,20-22; 2,23; 2,2526; 2,30; 2,33; 2,48-51; 3,2-3; 3,21-23; 3,25-26; 4,11; 4,15-16; 4,18, 22; 5,2-3; 5,6; 5,8; 6,5; 6,14). 2 Il racconto riprende dalla tregua stipulata a 2,47; nel libro precedente i Troiani non avevano dato segno di voler interrompere le ostilità, malgrado l’inizio della cattiva stagione, tant’è vero che avevano attaccato a tradimento i nemici inermi, mentre questi ultimi, approfittando dell’interruzione della battaglia per condicionem hiemis, si erano nel frattempo dedicati ad attività agricole per provvedere al proprio sostentamento (2,41-2). Alla fine è Ettore che si risolve ad inviare un’ambasciata per negoziare una seconda tregua, indotto a ciò dalle sconfitte subite dai Troiani e dalla morte del re alleato Reso, appena giunto ad offrire il proprio soccorso. Si noti che la menzione dell’interruzione invernale delle battaglie al fine di dedicarsi all’agricoltura

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(o ad altre attività necessarie al buon funzionamento della macchina militare) sembra costituire una ricezione del commento razionalistico di Tucidide, 1,11,1, con cui lo storico ateniese spiega il protrarsi per dieci anni della guerra di Troia (malgrado un esercito panellenico dovesse fronteggiare una sola città) con la necessità del corpo di spedizione greco, che non aveva un adeguato sistema di vettovagliamento, di impiegare una parte notevole delle proprie forze in attività legate al sostentamento, tra cui la coltivazione del Chersoneso e la pirateria. All’inizio del III libro vediamo che Ditti aggiunge un’altra attività, altrettanto vitale alla militia, in cui la truppa avrebbe trascorso le pause invernali: l’addestramento e l’esercizio nelle varie discipline guerriere, di modo che il prolungato riposo non infiacchisca i soldati. L’operosità e la diligenza dei Greci, molto enfatizzate da Settimio (intenti animo, summis studiis, festinabant), vengono contrapposte più sotto all’inoperosità ed alla trascuratezza dei barbari, che trascorrono la tregua socordius. 3 Viene mantenuto nelle esercitazioni lo schieramento per unità regionali adottato a 2,36, che a sua volta viene ripreso da Il. 2,362-3. 4 Curiosa questa notazione del narratore sui migliori arcieri del contingente greco, che piuttosto che ad una scena di esercitazioni di massa sembrerebbe appropriata nel contesto agonale dei giochi atletici di 3,16 (dove ritornano in effetti tre dei personaggi qui indicati: Ulisse, Merione e Filottete). Simili notazioni, minuziose e apparentemente gratuite, possono essere intese come componenti di quel Beglaubigungsapparat (apparato di elementi volti a rendere credibile il racconto) che, come mostrato da Merkle 1989, 56-81, ricorre abbondantemente nell’Ephemeris per sostenere la pretesa dell’autopsia e della registrazione storicamente accurata dei fatti. Esse potrebbero anche arieggiare una diversa ma equivalente preoccupazione di stabilire “chi fosse il migliore” in ciascun ambito, caratteristica della tradizione epica ed omerica e testimoniata in particolare nel catalogo omerico, Il. 2,761-2, dove il narratore chiede alla Musa che gli indichi ΘϟΖ ΘȂ ΪΕȂ ΘЗΑ ϷΛȂ ΩΕ΍ΗΘΓΖ σ΋Α, sia tra gli uomini che tra i cavalli. Quanto ai personaggi citati ed alla loro abilità di arcieri, Merione e Teucro sono i contendenti della gara di tiro con l’arco nei giochi funebri per Patroclo in Il. 23,859-83, mentre Ulisse sarà stato certo introdotto per il celebre episodio odissiaco della gara di tiro bandita da Penelope tra i suoi pretendenti, che soltanto Ulisse riesce a superare (Od. XXI-XXII). Quanto a Filottete, già nel catalogo iliadico egli è

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ΘϱΒΝΑ ΉЊ ΉϢΈАΖ (Il. 2,718), così come gli uomini che conduce con sé (2,720); Odisseo, nell’Odissea, dichiara anzi ai Feaci che questo eroe era l’unico a Troia a superarlo nel tiro con l’arco (8,219-20). Altro dato tradizionale che ritorna in Ditti/Settimio è il possesso dell’arco e delle frecce di Eracle (nell’Ephemeris si citano solo queste ultime), ricordate anche nel catalogo dei condottieri greci ad 1,14; invece nella fase più antica della tradizione, a quanto sappiamo, non si faceva riferimento a queste armi. Nel riassunto procliano della Piccola Iliade attribuita a Lesche di Mitilene si menziona solo una profezia di Eleno, in ottemperanza alla quale Diomede va a Lemno a prendere il commilitone malato, ma non si fa riferimento alle frecce o all’arco di Eracle. D’altronde nell’Odissea l’ombra di Eracle che si aggira nell’Ade è ancora in possesso del proprio arco (cfr. Od. 11,606-7). Nel Filottete di Sofocle invece arco e frecce sembrano diventati delle specie di strumenti magici, in grado di garantire, indipendentemente da chi li maneggi, la vittoria (cfr. Soph. Phil. 1055-60, dove tra l’altro ricorre un analogo elenco di abili arcieri achei). La peculiarità di queste armi starebbe nel fatto che con esse il loro proprietario originario era riuscito ad espugnare per la prima volta la città di Troia (cfr. Soph. Phil. 1439-40), ai tempi di Laomedonte, il padre di Priamo (cfr. Il. 5,640-2); inoltre le frecce, secondo una diffusa variante della leggenda, sarebbero state intrise del veleno dell’Idra di Lerna (cfr. Q. S. 9,394-5), e quindi micidiali. L’eroe (o suo padre Peante, secondo Apollod. Bibl. 2,160) sarebbe entrato in possesso delle armi per aver aiutato Eracle a preparare la sua pira funebre sul monte Eta; ma nell’Ephemeris si dice solo che Filottete comes Herculis post discessum eius ad deos sagittas divinas industriae praemio consecutus est (1,14). Come nota Marcos Casquero 2003 ad loc., gli aspetti meravigliosi e prodigiosi delle armi di Eracle vengono espunti nella cronaca razionalista di Ditti, e restano solo delle armi particolarmente illustri. 5 Ritorna la contrapposizione dell’autodisciplina e della rigorosa organizzazione dei Greci in contrasto con la neghittosità ed il disordine dei barbari, che concepiscono la guerra non come scontro tatticamente ordinato ma come una successione di mischie, attacchi a tradimento ed imboscate: vedi per esempio la presentazione delle forze concentrate a Troia di 2,35, ed in particolare degli ausiliari inconditis moribus ac dispari sono vocis, sine ullo ordine aut modo proelia inire soliti. 6 L’odio per i reguli da parte del popolo troiano emerge chiaramente nelle scene di assemblea dei libri I e II: questi contrasti in-

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testini sono visti come scontri tra populares, maggiorenti e sovrani, importando nel mondo del mito troiano categorie e concetti presi dalla tradizione storiografica, in particolare romana (cfr. Timpanaro 1987, 191-5, che tra l’altro nota prestiti sallustiani nella descrizione dei reguli – cfr. p. 192, n. 33). Nel terzo libro apprendiamo che il malcontento non è limitato ai sudditi di Priamo, ma si estende ad alleati e vassalli: il concetto viene ripetuto al termine del paragrafo 3, dove le città dell’Asia propongono paci separate e addirittura alleanze con i Greci. In entrambi i luoghi viene offerta una duplice spiegazione per questo mutato atteggiamento: da un lato la riprovazione morale per il sopruso commesso da Paride e dai suoi fratelli, dall’altro il puro calcolo tattico, che spinge a stare dalla parte di chi si dimostra più forte. L’eversio multarum civitatum fa naturalmente riferimento alle incursioni vittoriose del libro precedente, ad opera di Achille (2,16-7) e Aiace (2,18, 27). Tra l’altro i Troiani sembrano da subito consci della probabilità che gli alleati li tradiscano (cfr. 2,25). 7 Comincia qui il romanzo di Achille e Polissena, che inserisce il tema della passione erotica nella cronaca bellica dell’Ephemeris. Naturalmente l’amore è presente sin dal primo libro, con il ratto di Elena da parte di Paride, tuttavia questo episodio è l’unico ad abbozzare una parvenza di analisi della psicologia dell’innamorato, secondo l’andamento canonico del romanzo greco d’amore: colpo di fulmine – crescita impetuosa del desiderio, che si impadronisce dell’amante (entrambe queste fasi sono contenute nel paragrafo 2) – doloroso arrovellarsi dello stesso, quando l’immancabile ostacolo impedisce l’unione (par. 3). Il fatto che l’amore sia contrastato dalle circostanze esterne è un altro elemento che allontana questo episodio da quello del ratto di Elena, reso possibile dalla connivenza della donna e dall’assenza di Menelao; Achille invece si trova nell’impossibilità di avere Polissena. La storia d’amore risulta tripartita: ai parr. 2-3 abbiamo il primo incontro dei due e l’innamoramento di Achille; ai parr. 20-7 si ha un ulteriore incontro, quando la giovane accompagna il padre a riscattare il corpo di Ettore, spingendosi ad offrire sé stessa in schiava in cambio del rilascio del fratello morto (cfr. par. 24); nel libro successivo, durante la sospensione delle ostilità per la celebrazione della festa di Apollo Timbreo, Priamo entra in contatto con Achille per discutere col nemico della progettata unione, se non che Paride e Deifobo si appostano nel tempio e uccidono il condottiero greco (4,10-11). Questo ritmo tripartito costituisce una delle ragioni per cui Patzig 1925 ha proposto

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che questa storia d’amore tra Achille e Polissena sia stata tratta da una tragedia alessandrina in tre atti, ipotesi che sarebbe d’altronde coerente con il forte patetismo ed il tragisches Schicksal del protagonista. Tuttavia, dal momento che non sappiamo pressoché nulla della produzione tragica della cosiddetta Pleiade alessandrina, non credo che ci siano elementi per avvalorare tale idea; Patzig 1925 sembra basarsi principalmente sull’assunto che una trama così patetica richieda in particolare un poeta tragico, e che d’altronde a un autore pedestre come Ditti non potrebbe venire riconosciuta un’innovazione così originale. Su basi in parti diverse (considerando solo il tema erotico, e non la struttura triparita), già Förster 1882, 199-200, si esprimeva per un’origine ellenistica della storia: ma senza restringere il campo alla sola tragedia. Quale che ne sia stato l’eventuale modello, per la storia dell’innamoramento di Achille Ditti costituisce la più antica fonte nota; e d’altra parte tutte le fonti successive sembrano derivare direttamente o indirettamente da lui. Questo ci impone di esporre brevemente l’evoluzione della storia di Polissena fino all’età di Ditti e di rendere conto almeno delle testimonianze bizantine, che accanto alla piccola e frammentaria porzione del IV libro pervenutaci per tradizione diretta ci aprono uno spiraglio sul perduto originale greco. Il romanzo d’amore tra Achille e Polissena deriva dalla tradizione secondo cui, in seguito alla caduta di Troia, la giovane sarebbe stata immolata da Neottolemo sulla tomba del padre. L’origine della storia è antica: è infatti nota ai poeti del Ciclo, a Stesicoro e ad Ibico. La Iliou Persis si concludeva appunto con il sacrificio della ragazza (cfr. l’argumentum procliano in PEG pars I p. 89: σΔΉ΍Θ΅ πΐΔΕφΗ΅ΑΘΉΖ ΘχΑ ΔϱΏ΍Α ̓ΓΏΙΒνΑ΋Α ΗΚ΅·΍ΣΊΓΙΗ΍Α πΔϠ ΘϲΑ ΘΓІ ̝Λ΍ΏΏνΝΖ ΘΣΚΓΑ), ma non se ne attribuisce direttamente al figlio di Achille l’iniziativa o l’esecuzione, o perché il riassunto lo tralascia o perché così non era. In uno scolio all’Ecuba di Euripide, tragedia che insieme a Q. S. 14,179-328 offre la più ampia rappresentazione letteraria superstite in lingua greca di tale sacrificio, si legge ЀΔϲ ̐ΉΓΔΘΓΏνΐΓΙ Κ΋ΗϠΑ ΅ЁΘχΑ ΗΚ΅·΍΅ΗΌϛΑ΅΍ ̈ЁΕ΍ΔϟΈ΋Ζ Ύ΅Ϡ ͕ΆΙΎΓΖ (Ib. fr. 307)а ϳ Έξ ΘΤ ̍ΙΔΕ΍΅ΎΤ ΔΓ΍φΗ΅Ζ Κ΋ΗϠΑ ЀΔϲ ͞ΈΙΗΗνΝΖ Ύ΅Ϡ ̇΍ΓΐφΈΓΙΖ πΑ ΘϜ ΘϛΖ ΔϱΏΉΝΖ ΥΏЏΗΉ΍ ΘΕ΅Ιΐ΅Θ΍ΗΌΉϧΗ΅Α ΅ΔΓΏνΗΌ΅΍ǰ Θ΅ΚϛΑ΅΍ Έξ ЀΔϲ ̐ΉΓΔΘΓΏνΐΓΙǰ БΖ ̆Ώ΅ІΎΓΖ ·ΕΣΚΉ΍ (Cypria fr. 34 PEG). ΩΏΏΓ΍ Έν Κ΅Η΍ ΗΙΑΌνΐΉΑΓΑ ̓Ε΍ΣΐУ ΘϲΑ ̝Λ΍ΏΏν΅ ΔΉΕϠ ΘΓІ ̓ΓΏΙΒνΑ΋Ζ ·ΣΐΓΙ ΦΑ΅΍ΕΉΌϛΑ΅΍ πΑ ΘХ ΘΓІ ̋ΙΐΆΕ΅ϟΓΙ ̝ΔϱΏΏΝΑΓΖ ΩΏΗΉ΍ (Scholia in Hecubam, 41). Quindi nelle Ci-

prie (si noti che nel poema erano narrati gli antefatti e la prima parte

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della guerra, quindi il fato di Polissena doveva essere contenuto in una prolessi) la ragazza sarebbe stata uccisa da Odisseo e Diomede ed in un secondo tempo sepolta da Neottolemo. A partire da Ibico, ed in particolare nell’Ecuba euripidea, la figura di Neottolemo è dipinta a tinte più fosche, e la pietosa sepoltura (sempre presso il sepolcro del padre?) diventa un efferato sacrificio umano. Questa resterà poi la vulgata, che oltre che nei luoghi già indicati e nella stessa Ephemeris (5,13) incontriamo tra i Greci nella perduta Polissena di Sofocle, TrGF IV 522-8 Radt; Lycophr. Alex. 323-9 (e relativo scolio); Apollod. Epit. 5,23; Paus. 1,22,6; 10,25,10; Philostr. Vita Apollonii 4,16,4; Her. 51,26; Triph. 686. L’episodio è raffigurato anche su una Tabula Iliaca (LIMC VIII.2, p. 408) che la didascalia presenta come un quadro della presa di Troia così com’era narrata da Stesicoro nella sua Iliou Persis (PMG 205: ma l’affidabilità della testimonianza è dibattuta), e un ulteriore riferimento al destino della ragazza in Stesicoro è forse da leggersi nel frammentario testo di P.Oxy. 2803, fr. 3, vv. 4-5 – cfr. West 1971, 264, e Schade 2002, 214. Anche tra i latini l’episodio gode di ampia attestazione: Catull. 64,362-70, Verg. Aen. 3,321-4 (con il commento di Servio a 3,321, 322, 323); Ov. Met. 13,439-80; Sen. Tro. 16896, 938-44, 1118-64; Hyg. Fab. 110; Dares 27. In nessuna delle fonti arcaiche o classiche emerge il dato dell’innamoramento dell’eroe per la ragazza, e per verità neppure dalle fonti di età imperiale indipendenti da Ditti: esso è noto all’Eroico di Filostrato il Giovane, in cui Polissena ricambia addirittura l’amore di Achille (la giovane si immola spontaneamente sulla tomba dell’eroe; lo stesso nella Vita di Apollonio di Tiana, 4,16,4), ma è stato dimostrato che l’operetta riprende Ditti con l’intento di rovesciarlo (indizio principe il fatto che l’eroe Protesilao sostenga che i Troiani di Idomeneo, ai quali appartiene il supposto testimone oculare Ditti, non abbiano mai partecipato alla spedizione, cfr. Huhn – Bethe 1917, 618-9; su Ditti e Filostrato cfr. anche Patzig 1927, 283-6). Il sacrificio viene in genere motivato come semplice parte fatta ad Achille del bottino, e la scelta proprio di Polissena resta non spiegata in tutte le fonti indipendenti. Numerosi studiosi hanno tuttavia pensato (sulla base soprattutto di pitture vascolari che ritraggono i due personaggi insieme ad una fonte) che il sacrificio presupponesse, sin dall’età arcaica e classica, che Achille in vita fosse stato innamorato della vittima (di questa opinione anche Timpanaro 1987, 182). Inoltre, il ricorrere in Euripide, Licofrone e Seneca della simbologia matrimoniale, usata in funzione patetica in relazione

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al sacrificio della vergine, per cui la ragazza andrebbe a celebrare le proprie nozze nell’oltretomba, potrebbe far pensare alla sua morte come ad una sorta di ricongiungimento ultraterreno con il suo spasimante (come sostiene anche Milazzo 1984, 8, relativamente a Ditti 5,13): vd. in particolare la formulazione di Lycophr. 323-4 Ηξ ΈȂВΐΤ ΔΕϲΖ ΑΙΐΚΉϧ΅ Ύ΅Ϡ ·΅ΐ΋ΏϟΓΙΖȦ ΩΒΉ΍ ΌΙ΋ΏΤΖ ΗΘΙ·ΑϲΖ ͕Κ΍ΈΓΖ ΏνΝΑ, che è uno dei principali argomenti proposti da Förster 1882 per avvalorare la sua idea della genesi ellenistica della storia. In realtà, come ha mostrato Callen King 1987, 184-93, le rappresentazioni vascolari in questione fanno riferimento all’uccisione di Troilo da parte di Achille, di cui la sorella Polissena era stata testimone oculare, e non vanno pertanto a testimoniare un legame personale tra Achille e la ragazza in età alta; mentre le metafore matrimoniali sono consuete e perfino stereotipe per le morti premature di giovani non sposate, nel linguaggio della poesia e della tragedia (cfr. Soph. Ant. 813-6) ma ancor prima in quello delle iscrizioni sepolcrali. In definitiva, il tema erotico resta seriore, comunque postclassico, e nasce palesemente dal desiderio di spiegare come mai la scelta fosse caduta proprio su Polissena (cfr. Wüst 1949, 207-9, che lega la nascita della storia d’amore alla progressiva dimenticanza dell’identità originaria di Polissena, nell’era più arcaica non personaggio del ciclo troiano – è ignota a Omero – ma divinità ctonia e probabilmente vendicatrice dell’uccisione di Troilo da parte di Achille). Esista o meno un modello poetico alessandrino, resta il fatto che Ditti (l’originale greco del I secolo dell’era volgare) è la testimonianza più antica di questa variante mitica, ed a partire da essa la storia dell’innamoramento di Achille è stata recepita da una serie di autori bizantini, che costituiscono testimonianze fondamentali per il testo originario rielaborato da Settimio. Le relazioni tra questi testi sono difficili da ricostruire, poiché alcuni autori conoscevano direttamente Ditti, altri avevano accesso principalmente a Giovanni Malala, che nella parte della sua cronica relativa alle vicende troiane contamina Ditti con Sisifo di Cos (a sua volta dipendente da Ditti: cfr. Patzig 1903); altri utilizzano Giovanni Antiocheno, di un secolo seriore a Malala e probabilmente dipendente direttamente da Ditti; e altri (come Tzetzes) sembrano contaminare tutte queste fonti. Un sintetico schema ricostruttivo delle reciproche relazioni tra gli autori bizantini, a mo’ di stemma codicum, è proposto in via ipotetica da Eisenhut 1983, 13, n. 39. Ad ogni modo, tutti questi autori (Malala, Giovanni Antiocheno, Giorgio Cedreno, Costantino Manasse, Isacco Porfiroge-

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nito e Giovanni Tzetzes, disposti su un arco cronologico che va dall’età di Giustiniano a quella dei Comneni) dipendono in vario modo dal Ditti greco. Osserviamo che in tutti costoro la storia dell’innamoramento risulta divisa in due tempi, e non in tre come nella versione di Settimio. Secondo questi autori Achille vede Polissena per la prima volta in occasione del riscatto del cadavere di Ettore, quando essa accompagna il padre e la cognata Andromaca e giunge ad offrirsi come schiava in cambio del fratello defunto, mentre il vecchio padre chiede al nemico di prenderla con sé, perché non abbia a succederle nulla nel caso Troia cada (cfr. il par. 27 di questo libro); successivamente l’eroe rivede di nuovo la ragazza in occasione della tregua per le celebrazioni in onore di Apollo Timbreo, presso l’omonimo santuario fuori dalle mura di Troia, e qui se ne innamora ed entra in contatto con Priamo per averne la mano, finché Paride e Deifobo non ne approfittano per ingannarlo ed ucciderlo a tradimento. In Costantino Manasse, nel momento in cui Achille si invaghisce della ragazza nel corso della festa degli Anathemata, si ricorda esplicitamente che l’occasione del riscatto fu la prima volta in assoluto che i due si videro: πΑ ΏϾΘΕΓ΍Ζ ·ΤΕ ΘΓϧΖ ̸ΎΘΓΕΓΖ ΅ЁΘχΑ ΔΕΓΉΝΕΣΎΉ΍Ȧ Ύ΅Ϡ Ύ΅Θ΅ΗΛΉϧΑ ΈΙΑΣΐΉΑΓΖ ϵΐΝΖ ΓЁΎ πΆΓΙΏφΌ΋ (1384-5). In questa direzione va anche la testimonianza di Philostr. Her. 51,3 (όΕ΅ Έξ Ύ΅Ϡ ψ ̓ΓΏΙΒνΑ΋ ΘΓІ ̝Λ΍ΏΏνΝΖа ΉϨΈΓΑ ΈȂ ΦΏΏφΏΓΙΖ πΑ ΏϾΘΕΓ΍Ζ ̸ΎΘΓΕΓΖ), che come detto dipende da Ditti, sia

pure per contrapporglisi, e Serv. ad Aen. 3,322. Quindi, rispetto ai bizantini (e a Filostrato), la nostra versione dell’Ephemeris contiene un incontro in più, precedente a quello dei ̎ϾΘΕ΅ di Ettore: un primissimo incontro che duplica in buona sostanza quello che in origine era il secondo e decisivo (la festa per Apollo, di cui condivide il contesto rituale), e che offre notevoli vantaggi dal punto di vista narrativo. Infatti, nella versione dei fatti delle cronache bizantine, è poco chiara la dinamica dell’episodio: sembra che Achille resti colpito dalla bellezza di Polissena al momento del loro secondo incontro, e che non la noti durante il primo. Nella versione latina invece il colpo di fulmine si ha da subito, e contribuisce peraltro a determinare le ragioni per cui Achille sviluppa un desiderio di vendetta nei confronti di Ettore, ancora prima che questi uccida Patroclo. In via ipotetica ci sono gli elementi per pensare che Ditti, nell’originale greco, seguisse una linea più vicina a quella dei testimoni bizantini, con un primo convegno nella scena finale del terzo libro e poi l’incontro presso il tempio di Apollo nel quarto, e che Settimio abbia deciso, per ragioni di maggio-

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re coerenza e forse per finalità estetiche proprie, di scorporare dalla materia relativa al libro quarto l’episodio dell’incontro casuale presso il tempio: tale scelta offre l’occasione di variare l’argomento del libro terzo, introducendo il tema erotico e la descrizione del rovello interiore del Pelide. Se le cose stessero così la scelta di riprendere una serie di topoi del romanzo greco, nella concezione generale dei paragrafi 2 e 3 del terzo libro come anche in vari particolari, potrebbe essere attribuita a Settimio piuttosto che a Ditti; d’altronde il traduttore era interessato a testi narrativi greci in prosa, come dimostra il fatto stesso che abbia tradotto l’Ephemeris, e non è quindi azzardato pensare che fosse anche lettore dei romanzi erotici di età imperiale, e pronto a importarne i motivi per variare ed adornare il suo modello, che il papiro ha rivelato piuttosto scarno ed essenziale. Per dare un’idea della precisione delle corrispondenze, vorrei proporre un confronto tra le pene d’amore di Achille in Settimio e la descrizione del processo di innamoramento di Cherea per Calliroe, nel romanzo di Caritone (1,1,4-9): Cherea vede per caso la ragazza mentre esce dal tempio di Afrodite (come Polissena nel tempio di Apollo Timbreo), dove le donne di Siracusa si sono recate a celebrare la dea (cerimonia collettiva femminile, come quella delle matrone troiane); i due si vedono per caso, e nasce l’amore (colpo di fulmine). I giovani vanno alle rispettive case (Achille va alla tenda), sentono crescere in sé la passione (come Achille) e passano la notte nell’insonnia e nell’inquietudine (ancora come il Pelide, allorché riceve risposta da Ettore), finché il ragazzo non trova il coraggio di confidarsi con i genitori (Automedonte), che però dipingono l’unione come irrealizzabile (passione ostacolata). L’unica reale differenza è che nell’Ephemeris il sentimento non è reciproco: Polissena ne resta estranea. 8 La presenza di un gran numero di matrone e delle mogli dei Priamidi dà il tono della grande celebrazione pubblica alla supplica di Ecuba e delle figlie: evidentemente Ditti/Settimio, volendo sdoppiare il tema dell’incontro amoroso presso il tempio, ed essendo le celebrazioni per Apollo Timbreo destinate al libro seguente ed all’episodio della morte di Achille, ha pensato di introdurre una seconda occasione rituale che giustificasse la presenza di Achille e Polissena nello stesso luogo. La celebrazione di una festa con partecipazione di schiere di donne è d’altronde ben attestata nel romanzo, da Caritone 1,1,4 (di cui alla nota precedente) a Senofonte Efesio (1,2-3: le celebrazioni per Artemide a Efeso prevedono un corteo di ragazze, guidato da Anzia,

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ed uno di efebi, con a capo Abrocome: i due si incontrano nel tempio, nel momento del sacrificio comune); è inoltre assai probabile che ci sia una reminescenza della processione di supplica delle donne Troiane al tempio di Atena in Il. 6,286-311, in cui Ecuba, su esortazione del figlio Ettore, conduce una schiera di anziane madri di famiglia a offrire uno splendido peplo alla dea, perché storni dalla città l’assalto di Diomede. Anche in questo caso Ecuba raduna e guida le compagne (Άϛ ΈȂ ϢνΑ΅΍ǰ ΔΓΏΏ΅Ϡ Έξ ΐΉΘΉΗΗΉϾΓΑΘΓ ·ΉΕ΅΍΅ϟ, 6,296), ma poi l’azione rituale, l’offerta ed il voto sono condotte dalla sacerdotessa ufficialmente designata (6,302-10). 9 Si noti il tema della peculiarità esotica dei costumi barbari: è un interesse etnografico (visere cerimoniarum morem) che fa capitare casualmente (forte) Achille al tempio di Apollo. 10 Il fatto che Cassandra sia presentata come sacerdotessa di Apollo è in linea con il tradizionale legame della fanciulla col dio, da cui derivano le doti profetiche della ragazza. Né il legame col dio né la qualità di profetessa sono proprie della Cassandra omerica, ma essi divengono in età seriore la vulgata: le capacità profetiche sono attestate sin dall’argumentum dei Cypria (cfr. PEG pars I, p. 39), mentre la storia della relazione con Apollo (la donna avrebbe ottenuto dal dio il potere profetico come pegno d’amore, e sarebbe poi stata condannata perpetuamente a non venire creduta, per non aver contraccambiato il dio compiacendone il desiderio) risulta già nota ad Aesch. Ag. 120213. Quel che è un’innovazione di Ditti/Settimio è il ruolo sacerdotale di Polissena. Abbiamo ricordato nella nota precedente che l’Iliade conosceva una sacerdotessa di Atena pubblicamente nominata dalla cittadinanza, ma tale onore spettava a Theanò, la moglie di Antenore (Il. 6,298-300: ΘϜΗ΍ ΌϾΕ΅Ζ ЕϞΒΉ ̋Ή΅ΑА Ύ΅ΏΏ΍ΔΣΕϙΓΖȦ ̍΍ΗΗ΋ϫΖǰ ΩΏΓΛΓΖ ̝ΑΘφΑΓΕΓΖ ϡΔΔΓΈΣΐΓ΍ΓаȦ ΘχΑ ·ΤΕ ̖ΕЗΉΖ σΌ΋Ύ΅Α ̝Ό΋Α΅ϟ΋Ζ ϡνΕΉ΍΅Α). D’altronde questa qualifica di Theanò ricorre anche nell’Ephemeris (cfr. 6,8). Che questo sacerdozio di Polissena sia inaspettato e non tradizionale è anche testimoniato dalle aggiunte presenti nel testo offerto dal codice Aesinas, che aggiunge dopo Polyxena et Cassandra le parole quarum Cassandra, e volge poi antistites al singolare antistes, e coerentemente redimitae e precabantur in redimita, precabatur. In questo modo Cassandra sarebbe l’unica sacerdotessa tra le due, al tempo stesso ministra di Apollo e di Minerva (potrebbe aver soccorso il correttore la memoria di Cassandra supplice della dea durante il saccheggio di Troia, dato derivato dall’Iliou Persis e ben noto anche alla letteratura

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latina), e Polissena verrebbe così relegata al ruolo di assistente che porge alla sorella l’apparatum sacri. Se non che l’ablativo assoluto suggerente Polyxena regge un pronome riflessivo al dativo che – ancorché di interpretazione grammaticale faticosa, tant’è vero che le traduzioni moderne propongono rese libere o arbitrarie – evidenzia il ruolo attivo di Polissena nella cerimonia, poiché la ragazza prende per sé stessa (dativus commodi?) gli apparecchi necessari al culto. Ad ogni modo resta il problema: come mai l’Ephemeris fa della ragazza una sacerdotessa? Ciò da un lato giustifica la sua presenza in questa cerimonia a cui partecipano matronae... coniuges principalium filiorumque eius (cioè di Ecuba), ed in cui le uniche due nondum nuptae sono presenti in qualità di sacerdotesse. In secondo luogo, riprende la topica del romanzo d’amore, nel quale il colpo di fulmine avviene spesso durante una celebrazione in cui la ragazza partecipa all’azione rituale in prima persona (Anzia in Senofonte Efesio guida la processione delle vergini al tempio di Artemide, mentre Cariclea nelle Etiopiche di Eliodoro è stabilmente in servizio come ministra del culto nel tempio di Apollo Delfico, di cui il padre adottivo è sacerdote: cfr. Hld. 3,5). 11 Per il tema dell’amore a prima vista nel romanzo: Charit. 1,1,6, 2,3,5-8, 4,1,9-10; Xen. Eph. 1,3,1, 1,9,1; Ach. Tat. 1,4,4; Hld. 3,5,1934. Cfr. anche l’innamoramento di Achille in Darete 27,2-3 Polyxenam contemplatur, figit animum, amare vehementer eam coepit. 12 Ulteriore topos romanzesco (Ach. Tat. 1,9; Hld. 4,6; Apul. Met. 9,15), presente per verità nella letteratura erotica di ogni tempo e paese: quello del confidente, amico o servitore, a cui il giovane innamorato apre il proprio cuore e chiede conforto e aiuto. Nella Nea e nella commedia latina, è soprattutto il servus a prodigarsi per aiutare il padrone e a portare messaggi amorosi. Questo forse potrebbe spiegare la scelta dell’auriga Automedonte, al posto del carissimo compagno Patroclo, come confidente delle pene amorose di Achille: naturalmente un auriga non è uno schiavo, ed anzi è uno dei commilitoni più vicini al condottiero, e d’altronde anche Patroclo è ΌΉΕΣΔΝΑ di Achille. Tuttavia lo strettissimo legame personale tra i due, in Omero, comporta che Achille tratti il compagno sostanzialmente alla pari (come testimonia il suo desiderio che loro due soli possano sopravvivere per spartirsi la gloria della conquista di Troia, vd. Il. 16,97-100), mentre una figura come quella di Automedonte poteva corrispondere meglio a quella del dipendente che si prodiga per il padrone innamorato, familiare dalla commedia. La dinamica dell’intensificarsi della passione

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e del messaggio inviato attraverso persona fidatissima all’amata o alla sua famiglia è presente anche in Darete 27,6-7 cogente amore Phrygio servo fidelissimo mandata dat ferenda ad Hecubam et ab ea sibi uxorem Polyxenam poscit. 13 Il tema del non consumato tradimento di Achille è uno dei più rimarchevoli momenti di distacco dalla tradizione omerica nella rappresentazione che di questo eroe offre Ditti/Settimio. Anche se non arriva a tradire i Greci, il fatto stesso che entri in contatto separatamente con i Troiani e provi a mercanteggiare la cessazione del conflitto in vista di un tornaconto personale lo mette in una luce ambigua. La richiesta esagerata di Ettore, che gli chiede di consegnare a tradimento l’intero esercito o almeno di ammazzare Agamennone, Menelao e Aiace, accende nuovamente (dopo i fatti relativi a Briseide nel libro 2) l’ira dell’eroe, con recupero del tema iliadico per eccellenza. Tuttavia subito dopo questo rifiuto viene narrato come Achille si arrovelli e sia in preda all’incertezza, tanto che il fido Automedonte avverte gli altri capi perché siano pronti, nel caso si lasciasse tentare dall’offerta del nemico. In Darete, cap. 27, Achille entra in accordi con Ecuba per la mano di Polissena e di fatto conclude una pace separata, tenendosi lontano dagli scontri (altro tema iliadico); in Ditti, anche se non compie mai tale passo, perde comunque ogni credibilità presso il grosso dell’esercito, che scoprendolo trattare segretamente con il nemico lo marca tout court come traditore (4,10: suspicio alienati ducis, rumor proditionis), tanto da non dolersi affatto della sua morte (4,13). Shackleton Bailey 1981, 181, propone di correggere la disgiuntiva aut proditionem ab eo confirmandam, aut filios Plisthenis con una finale ad proditionem ab eo confirmandam filios Plisthenis ecc. Il filologo inglese ritiene infatti assurdo che Ettore proponga due alternative che di fatto coincidono, perché uccidere i figli di Plistene (Agamennone e Menelao, secondo la genealogia accettata da Ditti) ed Aiace significa comunque tradire i Greci. La correzione sembra però non necessaria: la proditio da confermare non andrà intesa come un generico tradimento, ma nel senso della richiesta avanzata da Ettore in chiusa al paragrafo precedente, universum exercitum proderet. L’alternativa quindi è effettiva: o Achille consegna a tradimento l’intero esercito ad Ettore, come già richiesto, o almeno deve impegnarsi ad uccidere alcuni dei suoi comandanti più importanti. 14 La menzione degli equites da parte di Settimio (e forse già in Ditti) rappresenta un anacronismo rispetto allo stile di combattimen-

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to omerico, in cui i cavalli venivano utilizzati unicamente per trainare i carri: il carro guidato da un auriga costituisce d’altronde la norma anche nell’Ephemeris. Anacronismi rispetto ai Realien del mondo omerico non sono assenti anche in trattazioni della materia troiana molto più fedeli ad Omero, come testimonia l’adozione della testudo da parte degli Achei in Q. S. 11,358-64. Quanto ad elementi estranei alla guerra omerica, si noti l’accenno all’arringa dei generali alle loro truppe, un elemento standard della narrazione storiografica delle battaglie ma fondamentalmente assente in Omero, dove i capi esortano nei momenti critici i compagni che combattono vicino a loro, ma manca il momento istituzionalizzato del discorso del generale prima dello scontro. 15 Pirecme, re dei Peoni, nell’Iliade era la prima vittima dell’aristeia di Patroclo, durante il contrattacco guidato da questi in risposta all’assalto di Ettore alle navi dei libri XIII-XV: cfr. Il. 16,284-93 (Pirecme vi muore non fronte ictus, ma colpito alla spalla destra: ΘϲΑ ΆΣΏΉ ΈΉΒ΍ϲΑ ИΐΓΑ, 16,289). Notevole che sia Ditti/Settimio sia Omero, dopo aver menzionato l’uccisione di Pirecme, si concentrino sui soldati Peoni che lo circondano, nell’Ephemeris uccisi di lancia o travolti col carro da Diomede, nell’Iliade lasciati in preda a sgomento e paura: ρΘ΅ΕΓ΍ Έν ΐ΍Α ΦΐΚϠ ΚϱΆ΋ΌΉΑȦ ̓΅ϟΓΑΉΖа πΑ ·ΤΕ ̓ΣΘΕΓΎΏΓΖ ΚϱΆΓΑ ϏΎΉΑ ΧΔ΅Η΍ΑȦ ψ·ΉΐϱΑ΅ ΎΘΉϟΑ΅Ζǰ ϶Ζ ΦΕ΍ΗΘΉϾΉΗΎΉ ΐΣΛΉΗΌ΅΍ (16,290-2). Pirecme è qui

considerato figlio di Assio (cfr. 2,35): nel catalogo delle forze troiane contenuto nell’Iliade 2,848-50 si parla semplicemente del fiume Assio che lambisce Amidone, patria del condottiero. Tuttavia l’Iliade conosce un altro condottiero dei Peoni, Asteropeo, presente unicamente durante la battaglia fluviale, nella quale è ucciso da Achille (21,139202), e neppure ricordato nel Catalogo: questo anomalo doppione non era passato inosservato alla critica omerica antica (cfr. Herbse, Scholia Graeca in Iliadem, ̘ 140). Asteropeo stesso espone la propria genealogia ad Achille (21,157-60) ΅ЁΘΤΕ πΐΓϠ ·ΉΑΉχ πΒ ̝Β΍ΓІ ΉЁΕϿ ϹνΓΑΘΓΖǰȦ ̝Β΍ΓІǰ ϶Ζ ΎΣΏΏ΍ΗΘΓΑ ЂΈΝΕ πΔϠ ·΅ϧ΅Α ϣ΋Η΍ΑǰȦ ϶Ζ ΘνΎΉ ̓΋ΏΉ·ϱΑ΅ ΎΏΙΘϲΑ σ·ΛΉϞа ΘϲΑ ΈȂ πΐν Κ΅Η΍Ȧ ·ΉϟΑ΅ΗΌ΅΍. È possibile che Ditti

o la sua fonte confonda le due figure, o che abbia consapevolmente tentato di sanare in un colpo il problema del doppio comandante e quello della stirpe di Pirecme, considerando Asteropeo (nipote del dio fluviale Assio) un congiunto di quest’ultimo. 16 Nel Prologo Idomeneo e Merione vengono citati come condottieri dei Cretesi, presumibilmente con pari dignità; d’altronde anche

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nel catalogo delle navi a 1,17 si parla di Idomeneus cum Merione. In questo luogo, tuttavia, il secondo sembra essere l’auriga del primo, a meno che non si pensi ad un servigio reso occasionalmente da un commilitone ad un suo pari grado, cosa che però risulta improbabile, poiché quello di auriga è solitamente un ruolo fisso. Si veda d’altronde poco sopra quanto scrive Settimio: reges [...] bellum ineunt adscito sibi quisque auriga ad regendos equos – quindi ciascuno con il proprio auriga. Marcos Casquero 2003 ad loc. fa notare come questa oscillazione nel ruolo di Merione sia riscontrabile anche nell’Iliade, dove nel catalogo i due vengono presentati su un piano di parità (Il. 2,650-1 ΘЗΑ ΐξΑ ΩΕȂ ͑ΈΓΐΉΑΉϿΖ ΈΓΙΕ΍ΎΏΙΘϲΖ ψ·ΉΐϱΑΉΙΉȦ ̏΋Ε΍ϱΑ΋Ζ ΘȂ ΦΘΣΏ΅ΑΘΓΖ ̳ΑΙ΅ΏϟУ ΦΑΈΕΉ΍ΚϱΑΘϙ), mentre nel libro XIII Merione viene definito per due volte ΌΉΕΣΔΝΑ di Idomeneo (cfr. vv. 246, 331), quindi una sorta di scudiero, se non proprio il suo ψΑϟΓΛΓΖ. Si potrebbe ipotizzare per Idomeneo e Merione una relazione analoga a quella tra Achille e Patroclo, in cui la formale subordinazione del secondo equivale ad una parità di fatto, in virtù dell’affetto e della stima del primo (cfr. anche Cebrione, figlio bastardo di Priamo, che guida il carro del fratellastro Ettore a 16,737-8); ma Patroclo non viene nominato nel Catalogo come condottiero dei Mirmidoni insieme all’amico. Andrà forse supposta la confluenza nell’Iliade di due filoni tradizionali differenti relativamente alla figura di Merione, e – cosa in questa sede di maggior momento – la ricezione da parte di Ditti di questa ambivalenza omerica. 17 La morte del trace Acamante nell’Iliade avveniva per mano di Aiace Telamonio e con un colpo netto alla testa (Il. 6,5-11). Come fa notare Marcos Casquero 2003 ad loc., un altro Acamante viene però ucciso da Merione, compagno di Idomeneo, in Il. 16,342-5. Nell’Ephemeris tuttavia Merione regge le redini mentre Idomeneo colpisce, laddove nel passo iliadico Merione è a piedi e coglie il secondo Acamante mentre questi salta sul proprio carro. Ciò nondimeno, il modo con cui il testo di Settimio descrive l’uccisione (deicit, ruentique telo occurrit) ha delle somiglianze con Il. 16,343-4: ΑϾΒȂ ϣΔΔΝΑ πΔ΍Ά΋ΗϱΐΉΑΓΑ Ύ΅ΘΤ ΈΉΒ΍ϲΑ ИΐΓΑаȦ όΕ΍ΔΉ ΈȂ πΒ ϴΛνΝΑǰ Ύ΅ΘΤ ΈȂ ϴΚΌ΅ΏΐЗΑ ΎνΛΙΘȂ ΦΛΏϾΖ. Quindi in Omero la vittima viene colpita mentre monta

sul carro, cade a terra e ivi muore; nell’Ephemeris viene analogamente sbalzata, e ferita con un colpo mortale mentre cade a terra. Forse se avessimo il testo greco di Ditti l’eventuale relazione tra i due passi sarebbe più perspicua. Resta comunque il fatto che nell’Iliade l’Aca-

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mante tracio è quello ucciso da Aiace al principio del sesto libro (϶Ζ ΩΕ΍ΗΘΓΖ πΑϠ ̋ΕϚΎΉΗΗ΍ ΘνΘΙΎΘΓ, v. 7), quindi nel caso Ditti starebbe sovrapponendo i due personaggi. 18 Insieme a Talpio ed Anfimaco questi due comandanti sono a capo del contingente dell’Elide (cfr. 1,17 ~ Il. 2,615-24). In Omero, Diore viene ucciso dal tracio Peiros (Il. 4,517-26). Traduco il testo del codice T Diorem et Polyxenum Elios, al posto di Alios, correzione di Eisenhut da aliosque di P: gli etnici sono il normale complemento dei nomi di persona nelle descrizioni di battaglie nel testo di Settimio, ed i due capi vengono per l’appunto Elide aliisque civitatibus regionis eius (1,17). 19 Pilemene, re dei Paflagoni (cfr. 2,35 ~ Il. 2,851; Omero specifica l’appartenenza alla tribù degli Eneti), nell’Iliade viene ucciso da Menelao a 5,576-80. Questa uccisione costituisce una di quelle incongruenze che già nell’antichità, e con rinnovata acribia in età moderna, sono state riscontrate nel testo omerico, e sono state in ultima analisi la radice delle tendenze analitiche nella critica di ogni tempo. In effetti questo stesso Pilemene, morto nel libro quinto dell’Iliade, ritorna ben vivo nel tredicesimo a piangere la morte del figlio Arpalione (cfr. Il. 13,658-9) trafitto da un dardo di Merione, e ne riporta in città il cadavere insieme ai Troiani: uno scolio ci informa che Aristofane atetizzava questo passo, mentre Aristarco proponeva o l’atetesi o di considerare Pilemene padre di Arpalione semplicemente un omonimo del primo (cfr. Herbse Scholia Graeca in Iliadem, ̐ 658-9b). 20 La parentela tra la famiglia di Priamo e Pilemene non è nota ad Omero, che sottolinea bensì i legami personali tra i capi dei Paflagoni e la famiglia reale troiana, ma sotto forma di un rapporto di ospitalità tra Paride ed Arpalione (ΒΉϧΑΓΖ ·ΣΕ Γϡ σ΋Α ΔΓΏνΗ΍Α ΐΉΘΤ ̓΅ΚΏ΅·ϱΑΉΗΗ΍, Il. 13,661): il principe troiano reagisce con ira vendicativa alla sua morte (cfr. Il. 13,660-2). Nell’Iliade l’origine familiare di questo re non viene specificata, mentre in Ditti/Settimio, 2,35, si dice solo che era patre Melio gloriosus; una versione alternativa riporta Apollod. Epit. 3,34, che ne individua il padre in un certo Bilsate. Quanto alla discendenza dalla casa di Agenore, non ne risultano altre attestazioni: e le notizie che i testi antichi ci danno su Fineo sono ricche di varianti ed oscillazioni. Questo Melio potrebbe discenderne in qualche modo, essendone un figlio o nipote, visto che nella cronologia mitica Fineo era ancora in vita al tempo della spedizione Argonautica, avvenuta la generazione precedente rispetto alla guerra di Troia. Nelle Argo-

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nautiche di Apollonio Rodio viene accolta la versione che fa di Fineo uno dei figli di Agenore (cfr. Ap. Rh. Arg. 2,178), che uno scolio al passo apolloniano in questione ci informa essere attestata in Ellanico (4 F 95). Secondo il Catalogo delle donne esiodeo (fr. 138 MerkelbachWest) Fineo sarebbe invece stato figlio di Fenice, figlio a sua volta di Agenore (così, secondo lo scolio, anche in Asclepiade, Antimaco e Ferecide); infine, un’ulteriore variante faceva di Agenore, Fineo e Fenice tre fratelli, figli di Belo (cfr. Nonn. D. 3,294-7; si noti che il poeta di Panopoli adotta in altri luoghi la variante che vuole Fineo figlio di Agenore). Apollodoro riferisce che secondo alcuni sarebbe stato figlio di Poseidone (Bibl. 1,9,21). Agenore, re di Tiro discendente da Zeus ed Io, avrebbe secondo il racconto di Nonno inviato i propri figli alla ricerca della sorella Europa, col risultato che Cadmo, Fineo, Taso, Cefeo e Cilice si sarebbero dispersi per luoghi diversi e avrebbero colonizzato varie zone del bacino dell’Egeo e del Mediterraneo orientale (cfr. D. 2,680-9). Fineo si sarebbe stabilito prima in Tracia, dove avrebbe sposato Cleopatra figlia di Borea; poi presso il Ponto Eusino, sull’isola Tinia (dove lo trovano gli Argonauti nel poema di Apollonio). Ivi avrebbe lasciato, risposatosi, altri due figli, Tino e Mariandino (cfr. Scholia in Ap. Rh. Argonautica 2,140), eponimi di due popolazioni dell’Asia Minore nordoccidentale (confinanti con la Paflagonia). Si può pensare che Ditti recepisca un filone di tradizione che fa discendere i capi dei Paflagoni dai figli avuti da Fineo una volta stabilitosi sul Ponto (la Paflagonia essendo sita tra la Bitinia ed il Ponto vero e proprio): ma non abbiamo informazioni al riguardo, e per converso Apollonio Rodio (Arg. 2,358-9) ci informa che queste genti pretendevano di discendere da Pelope (cfr. F. Vian, Apollonios de Rhodes. Argonautiques, tome Iére, p. 158, n. 5). Non si può d’altronde escludere che la discendenza di Pilemene da Fineo, nella fonte di Ditti, avvenisse per linea matrilineare, come sarebbe il caso anche per i Priamidi discesi da Olizone. Difficile anche collocare quest’ultima, che sarebbe stata sposa di Dardano e presumibilmente madre di Erittonio, da cui discende la famiglia reale troiana: nel paragrafo 1,9 dell’Ephemeris Elena illustra ad Ecuba l’affinità della sua stirpe tanto con Priamo che con la regina stessa, ponendo a chiave di volta dell’unione tra le loro famiglie proprio le figure di Agenore e Danao (anch’egli discendente di Io, e fratello del padre di Agenore) – ma di Olizone non si fa cenno. Omero non aiuta, in quanto il celebre excursus genealogico sulle case di Priamo ed Anchise posto in bocca ad

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Enea in Il. 20,215-240 menziona solo gli ascendenti di sesso maschile. In ogni caso la maggior parte delle fonti cita come sposa di Dardano Bateia figlia di Teucro (cfr. Apollod. 3,12,1-3). Per concludere, si tenga presente che un legame di sangue tra le famiglie di Dardano e di Fineo si riscontra anche in un altro filone della tradizione mitica, ma presenta una situazione completamente invertita rispetto a quella di Ditti: sarebbe stata la seconda moglie di Fineo (Idea) ad essere figlia di Dardano, e non viceversa (cfr. Apollod. Epit. 3,15,3). 21 Questo inseguimento di Ettore da parte del furioso Achille per tutto il campo potrebbe essere una reminescenza della grande scena di inseguimento di Il. 22,135-231, che precede il duello finale in cui il campione troiano finisce per soccombere: ΓЁΈȂ ΩΕȂ σΘȂ σΘΏ΋Ȧ ΅ЇΌ΍ ΐνΑΉ΍Αǰ ϴΔϟΗΝ Έξ ΔϾΏ΅Ζ ΏϟΔΉ (136-7) ~ non ulterius impetum viri experiri ausus ex acie subterfugit. Naturalmente l’Ephemeris trasforma lo scontro delle due individualità eroiche, sole nel campo deserto, in una scena affollata in cui Ettore ed Achille si rincorrono nella mischia, secondo la predilezione per le scene collettive rispetto all’individualismo dell’epos omerico osservata da Venini 1981, 173. Quanto alla morte dell’anonimo auriga di Ettore, anch’essa ha un corrispondente nell’Iliade, dove però a guidare il carro è un fratellastro del principe troiano, Cebrione (vd. n. 17), ucciso da Patroclo a 16,727-54. 22 Questo agguato di Eleno, che offre l’occasione per illustrare una volta di più la differenza tra barbari sleali, che combattono con imboscate e tradimenti, e Greci corretti e valorosi, è anche funzionale nell’economia del libro perché tiene lontano il convalescente Achille dal campo di battaglia nel momento in cui Patroclo viene ucciso, ritardando così il momento della vendetta e consentendo la scena patetica dell’annuncio della morte dell’amico da parte degli altri capi Achei (par. 11). Marcos Casquero 2003 ad loc. ritiene che Ditti stia qui giocando a rovesciare l’episodio iliadico di 13,581-600, in cui è proprio l’arciere Eleno a venire ferito da Menelao, ed a necessitare che un compagno gli fasci poi la mano. 23 Liste di nomi di guerrieri caduti, solitamente senza una vera e propria individualità, si trovano nell’epica omerica in particolare durante le aristeiai dei principali eroi. Tra quelli qui citati sono noti all’Iliade Deiopite (11,420, ucciso da Odisseo), Astinoo (5,144, ucciso da Diomede), Doriclo (11,489-90, ucciso da Aiace), Ippotoo (24,251) e Ippodamante (20,400-6, ucciso da Achille). Per converso Esaco risulta completamente ignoto ad Omero, ma è citato in Apollod. 3,12,3

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come figlio di Priamo ed Arisbe ed interprete di sogni. Il catalogo di nomi ha avuto una trasmissione manoscritta travagliata, come è lecito aspettarsi per personaggi poco noti: il testo che traduciamo è quello adottato da Eisenhut, ma altri, tra cui Marcos Casquero 2003, a partire dal passo di Apollodoro citato a proposito di Esaco, leggono Philemonem anziché Philenorem (trasmesso dai codd.) e Astygonum al posto di Astynoum (Astyochum nei codd. della famiglia · e Astymenem nella famiglia Ή: la lezione a testo è congettura di Fuchs). Con queste forme, scrive Marcos Casquero 2003 ad loc., tutti i figli di Priamo menzionati si ritrovano nella lista offerta da Apollod. 3,12,3-5. Se si trattasse di un catalogo analogo a quello presente, cioè di figli di Priamo uccisi in un determinato combattimento o legati da qualche impresa comune, questo sarebbe un argomento molto cogente: ma il carattere composito di queste liste onnicomprensive deve indurre a prudenza, perché ad esempio Esaco potrebbe essere venuto a Ditti dalle stesse fonti mitografiche da cui lo conosce anche Apollodoro, che facilmente avranno contenuto anche altri nomi, o forme diverse degli stessi: inoltre Ditti ha la tendenza ad attenersi il più possibile all’onomastica omerica, anche quando del personaggio omerico originario non prende altro che il nome ed eventualmente il patronimico e l’etnico, cambiandone per il resto completamente la storia. 24 L’uccisione di Sarpedone da parte di Patroclo costituisce la prima vera ripresa puntuale dell’Iliade da parte di Ditti nel libro terzo; nel poema omerico essa rappresenta (insieme alla successiva lotta per il possesso del cadavere) una parte consistente dell’aristeia del compagno di Achille (Il. 16,419-683). Naturalmente l’episodio viene sottoposto a notevoli rimaneggiamenti, nell’ottica generale di una transcodificazione del racconto epico in prosastica narrazione storica. Così, coerentemente con la generale eliminazione (o comunque forte limitazione) degli elementi divini e sovrannaturali, scompare il ’prologo in cielo’ di Il. 16,431-61, contenente la famosa conversazione tra Zeus ed Era in cui il re degli dei esprime la sua afflizione per il destino di morte che attende il figlio, e la sposa lo mette in guardia dal tentare di intervenire a salvarlo; così come scompare l’altrettanto famoso epilogo, in cui i fratelli divini Sonno e Morte, dietro ordine di Zeus, portano il cadavere (ricomposto da Apollo) nella nativa Licia, dove i compatrioti gli tributeranno insigni onori funebri (16,666-83). Tuttavia Ditti mostra di tener ben presente il precedente omerico, tanto che l’ampio spazio dedicato a questa azione e la prospettiva in-

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dividualistica dello scontro, in controtendenza con lo stile narrativo sintetico di Ditti/Settimio e la sua visuale complessiva delle tattiche militari dei due schieramenti, si possono considerare un abbozzo di ricreazione di un’aristeia eroica nella narrazione fondamentalmente antieroica dell’Ephemeris. La ’singolarità’ di questo episodio rispetto al resto degli scontri in corso viene sottolineata d’altronde dal fatto che i due contendenti, che si trovano già sul margine estremo dei rispettivi schieramenti, di comune accordo escono completamente dalla mischia per affrontarsi in una singolar tenzone formalmente provocata (Settimio lo evidenzia con gli ablativi assoluti: nullis propinquorum praesentibus, signo inter se dato). Si tenga poi presente che anche la scansione generale dell’episodio è a grandi linee rispondente a quella dell’Iliade: a parte l’eliminazione delle scene divine, abbiamo prima lo scontro vero e proprio (par. 7), poi la lotta furibonda che costituisce la reazione di Troiani ed alleati per la perdita del loro campione (8), ed infine la lamentazione sul corpo di Sarpedone (9). Anche la scansione del combattimento in due fasi al par. 7 potrebbe essere dovuta al modello: in Omero Patroclo e Sarpedone falliscono entrambi il primo colpo, colpendo uno lo scudiero del re licio e l’altro un cavallo (vv. 462-9), ed è al secondo tiro di lancia che Sarpedone manca il nemico (vv. 477-9) ed invece Patroclo lo fa stramazzare a terra, dove esala l’ultimo respiro incitando i suoi a non lasciare che le sue armi vengano predate (vv. 479-505). Similmente, in Ditti/Settimio il primo lancio dei giavellotti non sortisce alcun effetto, sicché i due scendono dai carri e si affrontano con le spade (in Omero i combattenti smontano subito, cfr. vv. 426-7); peculiare, in questa versione, è la tecnica di combattimento adottata da Patroclo, che ricorda piuttosto un incontro di lotta che non uno scontro sul campo di battaglia. 25 Analoghe reazioni di dolore e desiderio di vendetta da parte dei commilitoni di Sarpedone si trovano nella narrazione omerica. In Omero il punto è, come detto, evitare che il defunto sia disonorato con la spoliazione delle armi, ed egli stesso prima di morire ne prega il compagno Glauco (ΗΓϠ ·ΤΕ π·А Ύ΅Ϡ σΔΉ΍Θ΅ Ύ΅Θ΋ΚΉϟ΋ Ύ΅Ϡ ϷΑΉ΍ΈΓΖȦ σΗΗΓΐ΅΍ όΐ΅Θ΅ ΔΣΑΘ΅ Έ΍΅ΐΔΉΕνΖǰ Ήϥ Ύν ΐȂ ̝Λ΅΍ΓϠȦ ΘΉϾΛΉ΅ ΗΙΏφΗΝΗ΍ ΑΉЗΑ πΑ Φ·ЗΑ΍ ΔΉΗϱΑΘ΅ Il. 16,498-500). Per questo Glauco attraversa

in fretta lo schieramento annunciando a Lici e Troiani quanto avvenuto, e sollecitandoli a non lasciare il corpo di Sarpedone in balìa del nemico (vv. 532-47). In Omero il dolore dei Troiani all’apprendere della perdita dell’alleato è, come in Ditti/Settimio, grandissimo:

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̖ΕЗ΅Ζ Έξ Ύ΅ΘΤ ΎΕϛΌΉΑ ΏΣΆΉ ΔνΑΌΓΖȦ ΩΗΛΉΘΓΑǰ ΓЁΎ πΔ΍Ή΍ΎΘϱΑǰ πΔΉϟ ΗΚ΍Η΍Α ρΕΐ΅ ΔϱΏ΋ΓΖȦ σΗΎΉ Ύ΅Ϡ ΦΏΏΓΈ΅ΔϱΖ ΔΉΕ πАΑ (16,548-50) –

questo tema del principe straniero, che tuttavia viene molto rimpianto per il formidabile sostegno prestato alla città, torna in Ditti/Settimio al par. 9 (tantum in eo viro praesidium). 26 A Patroclo vengono attribuite le uccisioni di due figli di Priamo, che nell’Iliade avvenivano ad opera di altri combattenti ed in momenti diversi, Deifobo per mano di Merione (13,528-39) e Gorgitione di Teucro (8,302-3). In Iliade XVI d’altronde all’eroe vengono assegnate molte altre vittorie nella mischia che si scatena dopo la morte di Sarpedone, ed anzi egli vi assume il ruolo di vero e proprio condottiero dei Greci; ma nel poema questa serie di vittorie serve a costituire una climax di tensione drammatica, culminante con la morte dell’eroe a 16,786-857. Nell’Ephemeris invece la sua morte viene rimandata allo scontro successivo, nel par. 10; così, dopo aver gratificato Patroclo di altre due vittorie su principi troiani, il narratore volge la sua attenzione al resto dei combattenti, senza peraltro che il protrarsi della battaglia favorisca un esercito più dell’altro. 27 Ettore assolve qui alle sue consuete funzioni di condottiero e leader morale dell’esercito, accorrendo ed incoraggiando i compagni. In Iliade XVI invece, nel punto press’a poco corrispondente a questo (quando cioè il contrattacco di Troiani ed alleati in seguito alla morte di Sarpedone viene duramente ostacolato dagli Achei, incitati e guidati da Patroclo), Zeus inspira terrore nel cuore di Ettore, che si ritira precipitosamente esortando alla fuga i suoi: (Zeus) к̈ΎΘΓΕ΍ Έξ ΔΕΝΘϟΗΘУ ΦΑΣΏΎ΍Έ΅ ΌΙΐϲΑ πΑϛΎΉΑаȦ πΖ ΈϟΚΕΓΑ ΈȂ ΦΑ΅ΆΤΖ ΚϾ·΅ΈȂ σΘΕ΅ΔΉǰ ΎνΎΏΉΘΓ ΈȂ ΩΏΏΓΙΖȦ ̖ΕЗ΅Ζ ΚΉΙ·νΐΉΑ΅΍ (16,656-8). 28

Il racconto razionalistico di Ditti rinuncia agli interventi divini all’interno del dramma di Sarpedone, che nell’Iliade si conclude con il cadavere portato in volo in Licia da Sonno e Morte. Tuttavia viene fornito un equivalente umano e mortale di questo epilogo omerico, con la lamentazione corale dei Troiani e delle loro donne per l’alleato caduto; infatti nell’Iliade, già nella replica di Era allo sposo in 16,440-57, viene esaltata la funzione del lamento tributato al guerriero caduto in battaglia e degli onori funebri, che costituiscono il beneficio di diritto spettante ai defunti: Θϲ ·ΤΕ ·νΕ΅Ζ πΗΘϠ Ό΅ΑϱΑΘΝΑ (457). E infatti Zeus dispone che i due fratelli divini trasportino il corpo in Licia, σΑΌΣ ο Θ΅ΕΛϾΗΓΙΗ΍ Ύ΅Ηϟ·Α΋ΘΓϟ ΘΉ σΘ΅΍ ΘΉȦ ΘϾΐΆУ ΘΉ ΗΘφΏϙ ΘΉа Θϲ ·ΤΕ ·νΕ΅Ζ πΗΘϠ Ό΅ΑϱΑΘΝΑ (674-5), cosa che avviene puntualmente (676-83). Si

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NOTE AL TESTO DI DITTI

noti che il popolo troiano è più afflitto per la perdita di Sarpedone che dell’interitus Priamidarum; in effetti Ettore è l’unico tra i principi reali la cui caduta in battaglia sembri commuovere i sudditi (cfr. 16), e questo sembra coerente con la tensione che si riscontra ripetutamente nel testo di Settimio tra i populares ed i reguli dispotici e prevaricatori. 29 Concetti ed espressioni analoghe al par. 16, per la morte di Ettore: cfr. in particolare nullam salutis spem interempto Hectore in animo habere (16) ~ et interfecto spes ablata credebatur (9). Il parallelismo tra le lamentazioni di Sarpedone ed Ettore (anche se la seconda riceve, naturalmente, maggior spazio) è dovuto anche al fatto che i due sono i capi supremi dell’esercito, rispettivamente degli auxiliarii e dei Troiani (cfr. 2,32) 30 Al lutto dei Troiani per Sarpedone fa da contraltare il clima festoso con cui viene accolto Patroclo. Notevole la reazione di Achille al racconto dei facta fortia del compagno, cioè l’esortazione a continuare a dar prova di simile valore anche per il resto della guerra: si tratta di un rovesciamento completo (sicuramente consapevole, nel senso di quella ricerca dell’effetto sorpresa già sottolineata da Timpanaro 1987) dell’ammonimento che nell’Iliade l’eroe dà a Patroclo, cioè di fermarsi non appena abbia respinto i nemici dall’accampamento, ed usare prudenza: ΉϢ Έν ΎΉΑ ΅Ї ΘΓ΍Ȧ ΈЏϙ ΎІΈΓΖ ΦΕνΗΌ΅΍ πΕϟ·ΈΓΙΔΓΖ ΔϱΗ΍Ζ ́Ε΋ΖǰȦ ΐχ ΗϾ ·Ȃ ΩΑΉΙΌΉΑ πΐΉϧΓ Ώ΍Ώ΅ϟΉΗΌ΅΍ ΔΓΏΉΐϟΊΉ΍ΑȦ ̖ΕΝΗϠ Κ΍ΏΓΔΘΓΏνΐΓ΍Η΍Αа ΦΘ΍ΐϱΘΉΕΓΑ Έν ΐΉ ΌφΗΉ΍ΖаȦ ΐ΋ΈȂ πΔ΅·΅ΏΏϱΐΉΑΓΖ ΔΓΏνΐУ Ύ΅Ϡ Έ΋ϞΓΘϛΘ΍ǰȦ ̖ΕЗ΅Ζ πΑ΅΍ΕϱΐΉΑΓΖǰ ΔΕΓΘϠ ͕Ώ΍ΓΑ ψ·ΉΐΓΑΉϾΉ΍ΑǰȦ ΐφ Θ΍Ζ ΦΔȂ ̒ЁΏϾΐΔΓ΍Γ ΌΉЗΑ ΅ϢΉ΍·ΉΑΉΘΣΝΑȦȱπΐΆφϙ (16,87-94). 31

Ulteriore sottolineatura delle sostanziali differenze di civiltà tra Greci e barbari, a favore naturalmente dei primi: espressioni analoghe vengono utilizzate ripetutamente da Settimio per stigmatizzare il modo sleale e brutale con cui Troiani ed alleati si comportano sul campo di battaglia: cfr. 2,40 pessimo exemplo... pessimo more, 2,41 scelestissimae militiae, 2,44 militiae inconsultae, 3,11 exemplum pessimum, ecc. 32 La morte simultanea di Arcesilao e Stichio è presa da Iliade 15,329-31, se non che in Omero essi vengono uccisi da Ettore in regolare combattimento, e non confusamente travolti dall’attacco a sorpresa della massa indisciplinata di nemici. I nomi degli altri due capi feriti sono invece stati scelti da Ditti senza un criterio particolare: Agapenore non è per Omero che un nome nel catalogo (cfr. Il. 2,609), Mege una figura che ricorre alcune volte, ma sempre con ruoli secondari.

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Il racconto della morte di Patroclo riprende alcuni elementi del celebre episodio omerico di Il. 16,783-861, come lo scagliarsi di Patroclo direttamente sulle fila nemiche (vv. 783-5) e soprattutto la collaborazione di più nemici alla sua uccisione: se non che in Omero sono frequenti gli interventi diretti di divinità, che in Ditti sono banditi. Così in Il. 16,788-804 Apollo è il primo a colpire Patroclo, e a fargli cadere di dosso parte delle armi e delle protezioni; interviene poi Euforbo, che lo colpisce da dietro con la lancia, senza però ucciderlo (805-15); ed infine, al vederlo colpito ed indifeso, sopraggiunge Ettore a finirlo (818-21). Nell’Ephemeris, eliminato il dio, restano Euforbo ed Ettore, che agiscono esattamente come in Omero; anche il precipitarsi tempestivo del comandante troiano (statimque Hector advolans...) richiama la situazione dell’Iliade (к̈ΎΘΝΕ ΈȂ БΖ ΉϨΈΉΑ ̓΅ΘΕΓΎΏϛ΅ ΐΉ·ΣΌΙΐΓΑȦ ΪΜ ΦΑ΅Λ΅ΊϱΐΉΑΓΑǰ ΆΉΆΏ΋ΐνΑΓΑ ϴΒνϞ Λ΅ΏΎХǰȦ Φ·ΛϟΐΓΏϱΑ ϹΣ Γϡ ώΏΌΉ Ύ΅ΘΤ ΗΘϟΛ΅Ζ, 16,818-20). Infine anche in Omero Ettore tenta

di impadronirsi del cadavere per spogliarlo delle armi e poi trascinarlo, decapitarlo e gettarlo ai cani (17,125-7), ma riesce a realizzare solo il primo intento. In Ditti/Settimio il desiderio di Ettore è comunque usato come nuovo esempio del tema sempre ricorrente della diversità di costumi tra Greci e barbari. Si tratterà anche in questo caso di un gioco a rovesciare Omero: nella tradizione epica il caso celebre di sfogo brutale su un corpo morto era proprio quello di Achille sulla salma di Ettore (Iliade, libro XXII), mentre nell’Ephemeris tali iniziative da parte greca vengono presentate come risposte o rappresaglie al cattivo esempio dato da Ettore: vedi il commento di Settimio al par. 14 memores... insolentiae barbarorum per giustificare la scelta di gettare i nemici morti nel fiume, e quanto sostiene il Pelide al par. 23, cioè di aver così agito nei confronti di Ettore per il desiderio di punire in modo esemplare tale costume inumano (cfr. Venini 1981, 163). 34 Il combattimento sul cadavere di Patroclo costituisce ulteriore ripresa omerica: nell’Iliade occupa la prima parte del libro XVII, e si divide come qui in due fasi: un primo scontro di Menelao con Euforbo (17,9-60), che si conclude con la morte del troiano; e un secondo, generalizzato, in cui a Menelao si aggiunge Aiace per presidiare il corpo (128-139), e costringe Ettore a farsi indietro e lasciare il cadavere, dopo averlo spogliato; anche la partecipazione di Aiace di Oileo trova corrispondenza nel poema (256-7). 35 Nell’Iliade la notizia è portata ad Achille dal solo Antiloco (18,1-21). Per la prostrazione e le manifestazioni di dolore in cui cade

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Achille dopo la morte di Patroclo cfr. Il. 18,22-35; trova in particolare corrispondenza, oltre allo scontato pianto, il fatto di giacere prostrato al suolo (prostratus humi ~ ΅ЁΘϲΖ ΈȂ πΑ ΎΓΑϟϙΗ΍ ΐν·΅Ζ ΐΉ·΅ΏΝΗΘϠ Θ΅ΑΙΗΌΉϠΖȦ ΎΉϧΘΓ, 26-7). 36 Si noti che in Ditti gli onori funebri vengono tributati a Patroclo immediatamente dopo la sua morte, e non differiti fino a che Achille non l’abbia vendicata, come nell’Iliade. 37 La spedizione sul monte Ida per la legna: cfr. Il. 23,110-27. In Omero l’unico che viene designato a sorvegliare i lavori è il cretese Merione (124), che in effetti ritroviamo anche qui; ma la preferenza di Ditti per le scene collettive fa salire a cinque gli incaricati. Ascalafo e Ialmeno compaiono insieme e prima di Merione in una lista di capi-sentinella a 9,81-4, che deve aver offerto il materiale onomastico per questo sfoggio di precisione (e quindi credibilità storiografica), con l’aggiunta di Epeo, scelto evidentemente perché carpentiere (futuro artefice del cavallo, cfr. 5,11), quindi qualificato per erigere una catasta di legna. 38 I dettagli tecnici sull’erezione della pira: in Omero è Achille stesso a scegliere sito e foggia (Il. 23,125-6), ma in Ditti i funerali sono organizzati publice, quindi anche per questo vengono designati dalla comunità dei curatori. Si noti poi che la fantasmagorica ΔΙΕχΑ πΎ΅ΘϱΐΔΉΈΓΑ σΑΌ΅ Ύ΅Ϡ σΑΌ΅ dell’epos (23,164) viene ridotta a proporzioni realistiche. 39 Questa relazione di grande affetto tra Diomedea e Patroclo potrebbe essere ispirata a Il. 19,282-300, in cui Briseide lamenta la morte dell’eroe ricordando la sua bontà d’animo ed i molti incoraggiamenti da lui ricevuti durante la sua schiavitù. 40 I Troiani tentano di replicare la sleale tattica di attaccare i nemici prima che si siano preparati e disposti a battaglia, che avevano già seguito al par. 10, piombando però stavolta sul campo greco quando ancora i soldati non sono usciti dal muro protettivo. I Greci hanno finalmente imparato a conoscere gli avversari, e invece di uscire ed affrontarli in campo aperto li lasciano stancare invano, per erompere poi all’improvviso e sbaragliarli. Procede l’assimilazione del modo di combattere dei Greci a quello dei barbari (vd. nota 1): a breve avremo l’imboscata di Achille a danno di Ettore (par. 15). 41 Seguo l’indicazione di Timpanaro 1983, 334, che preferisce la lezione di Ή abnuentibus con il valore intransitivo di abnuere (“desistere dalla lotta”), ben attestato sin da Livio, al posto di adnuentibus di Ȗ (“di buon grado”).

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Nell’Iliade Asio figlio di Irtaco (da non confondere con Asio figlio di Dimante, fratello di Ecuba) muore per mano di Idomeneo (13,383-93), mentre Ippotoo viene ucciso da Aiace Telamonio durante la mischia per le spoglie di Patroclo (17,288-303). Pileo, fratello di Ippotoo, in Omero viene nominato solo nel catalogo degli alleati dei Troiani, come capitano dei Pelasgi (2,840-3). 43 I dodici ostaggi troiani destinati al sacrificio sulla pira di Patroclo, nell’Iliade, erano stati catturati dallo stesso Achille (21,27). Tuttavia in Ditti Achille appare completamente assorbito dal lutto per l’amico morto fino al momento in cui ha occasione di vendicarsi direttamente su Ettore, e così i prigionieri vengono forniti da Diomede, con l’aggiunta di altri quaranta da parte di Aiace. 44 Questi due figli di Priamo non sono noti ad Omero; Piso è, nella tradizione mitografica a noi nota, privo di altre attestazioni, mentre Evandro viene indicato come figlio di Priamo in Apollod. 3,12,5. 45 In Omero questo Guneo non è che un nome nel Catalogo (Il. 2,748). Cifo si trova in Tessaglia. 46 Nell’Iliade è l’ombra stessa di Patroclo (apparsa in sogno ad Achille) a chiedere che, come i due amici sono cresciuti insieme a casa di Peleo, ДΖ Έξ Ύ΅Ϡ ϴΗΘν΅ ΑЗϞΑ ϳΐχ ΗΓΕϲΖ ΦΐΚ΍Ύ΅ΏϾΔΘΓ΍Ȧ ΛΕϾΗΉΓΖ ΦΐΚ΍ΚΓΕΉϾΖ (23,91-2). Ripreso dall’Iliade è anche il dettaglio rituale dello spegnimento dei tizzoni col vino (23,250-1); si noti che in Omero Achille non ha dubbi relativamente al fatto che perirà a Troia e che ivi sarà sepolto insieme all’amico (23,245-8), mentre in Ditti, per il quale la madre del Pelide non è una dea e non ha quindi potuto rivelare al figlio il destino di morte che lo attende, viene lasciata aperta la possibilità che l’eroe faccia ritorno a Ftia. 47 Nell’Ephemeris il sacrificio umano avviene dopo che il rogo ha consumato il corpo di Patroclo, ed i corpi delle vittime vengono poi gettati ai cani; in Omero invece i corpi dei dodici nobili giovani vengono posti sulla pira insieme a varie altre offerte funebri, tra cui cavalli e cani, e bruciati insieme col morto (Il. 23,170-6). Sarà invece il corpo di Ettore che verrà lasciato ai cani, con un deliberato contrasto che lo stesso Achille sottolinea apostrofando l’amico defunto: ΈЏΈΉΎ΅ ΐξΑ ̖ΕЏΝΑ ΐΉ·΅ΌϾΐΝΑ Ιϡν΅Ζ πΗΌΏΓϿΖȦ ΘΓϿΖ Χΐ΅ ΗΓϠ ΔΣΑΘ΅Ζ ΔІΕ πΗΌϟΉ΍а к̈ΎΘΓΕ΅ ΈȂ ΓЄ Θ΍Ȧ ΈЏΗΝ ̓Ε΍΅ΐϟΈ΋Α ΔΙΕϠ Έ΅ΔΘνΐΉΑǰ ΦΏΏΤ ΎϾΑΉΗΗ΍Α

(23,181-3). 48 In Omero un simile voto viene formulato da Achille in Il. 23,446, ma riguarda la pulizia personale (ΓЁ Όνΐ΍Ζ πΗΘϠ ΏΓΉΘΕΤ Ύ΅Εφ΅ΘΓΖ

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NOTE AL TESTO DI DITTI

ΫΗΗΓΑ ϡΎνΗΌ΅΍, 44) e ha come termine il concludersi delle cerimonie funebri dell’amico. 49 Nel Ciclo l’arrivo delle Amazzoni veniva narrato nell’Etiopide; cfr. l’argumentum procliano (PEG pars 1, p. 67) ̝ΐ΅ΊАΑ ̓ΉΑΌΉΗϟΏΉ΍΅ Δ΅Ε΅·ϟΑΉΘ΅΍ ̖ΕΝΗϠ ΗΙΐΐ΅ΛφΗΓΙΗ΅ǰ ̡ΕΉΝΖ ΐξΑ ΌΙ·ΣΘ΋Εǰ ̋ΕλΗΗ΅ Έξ Θϲ ·νΑΓΖа Ύ΅Ϡ ΎΘΉϟΑΉ΍ ΅ЁΘχΑ ΦΕ΍ΗΘΉϾΓΙΗ΅Α ̝Λ΍ΏΏΉϾΖ. Nella sua

pretesa di costituire testimonianza autoptica di un combattente di parte greca, e di avere quindi accesso diretto solo alle vicende del suo campo, l’Ephemeris affetta di non conoscere le ragioni dell’intervento di Pentesilea, e formula due ragionevoli ipotesi storiografiche: ingaggio delle Amazzoni come mercenarie o puro desiderio di combattere, confacente all’ώΌΓΖ del popolo in questione. In Q. S. 1,20-32 si indica come corretto questo secondo motivo, in associazione al desiderio della regina di emendarsi e ristabilire la propria reputazione in seguito all’accidentale uccisione della sorella. Di fatto Paride in Ephemeris 4,2 finirà per comprare il suo intervento. Si noti che nella cronologia vulgata della materia troiana l’arrivo di Pentesilea seguiva a stretto giro la sepoltura di Ettore, mentre qui è l’eroe stesso che esce ad accoglierla: un’inversione nella cronologia mitica introdotta da Ditti senza dubbio per giustificare l’episodio dell’agguato, ma che non sconvolge del tutto la successione tradizionale degli avvenimenti. Infatti l’arrivo vero e proprio della regina delle Amazzoni a Troia si colloca a 4,2, cioè dopo la morte di Ettore, mentre nel libro terzo è il generale troiano che parte per andarle incontro, mentre ella è ancora in viaggio. 50 Si compie il più clamoroso tra i rovesciamenti operati da Ditti sulla versione omerica della guerra di Troia: il grande duello del libro XXII dell’Iliade, che si svolgeva in campo aperto e con la massima visibilità, davanti agli occhi dell’esercito Acheo schierato e dei cittadini di Troia raccolti sugli spalti delle mura, con concorso di divinità e lunghi discorsi tra i due contendenti, viene ridotto ad una imboscata. Giunge a compimento il processo di assuefazione dei Greci all’elemento barbarico, nella persona del loro combattente più gagliardo ma anche più emotivamente instabile e indisciplinato (e quindi, nella prospettiva di Ditti/Settimio, più vicino ai barbari). Il rovesciamento è pertanto relativo non solo al modello omerico, ma anche interno: si veda in particolare la caratterizzazione dell’eroe come Ύ΅ΏϲΖ Ύ΅Ϡ Φ·΅ΌϲΖ in contrasto al subdolo modus operandi del nemico nell’episodio dell’agguato di Eleno a 3,6, in cui vir egregius bellandi... clam atque ex occulto vulneratus eo die finem

LIBRO III, NOTE 49-51

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bellandi fecit. Tocca ora al vir egregius operare un dolum, ed ex improviso. L’episodio trova ampio riscontro nelle cronache bizantine, che adottano preferibilmente la ’veritiera’ ed ’accurata’ versione del teste Ditti piuttosto che gli infingimenti poetici di Omero, con Atena che scende sul campo di battaglia ed eroismi esagerati. Dalla loro testimonianza si evince che in Ditti greco l’agguato doveva oltretutto essere notturno: ϶Ζ (scil. Achille) ΐ΅ΌАΑ ̸ΎΘΓΕ΅ ΑΙΎΘϲΖ ΆΓΙΏϱΐΉΑΓΑ ΦΔ΅ΑΘϛΗ΅΍ ΘϜ Ά΅Η΍ΏϟΈ΍ ̓ΉΑΌΉΗ΍ΏΉϟθǰ ΔΕΓΔΓ΍φΗ΅Ζ ΏΣΌΕ΅ Χΐ΅ ΘХ ϢΈϟУ ΗΘΕ΅ΘХ Ύ΅Ϡ ο΅ΙΘϲΑ ΗϿΑ ΅ЁΘΓϧΖ ΦΔΓΎΕϾΜ΅Ζǰ ΘϲΑ ΔΓΘ΅ΐϲΑ Έ΍΅Ά΅ϟΑΓΑΘ΅ ΘϲΑ ̸ΎΘΓΕ΅ ΎΘΉϟΑΉ΍ Ύ΅Ϡ ΧΔ΅ΑΘ΅Ζ ΘΓϿΖ ΅ЁΘХ οΔΓΐνΑΓΙΖǰ ρΑ΅ ΐϱΑΓΑ Ύ΅Θ΅Ώ΍ΔАΑ ΊЗΑΘ΅а ϵΑΘ΍Α΅ ΛΉ΍ΕΓΎΓΔφΗ΅Ζ ̓Ε΍ΣΐУ σΔΉΐΜΉΑ Φ··ΉΏΏΓІΑΘ΅ ΘϲΑ ̸ΎΘΓΕΓΖ ΌΣΑ΅ΘΓΑ (Io. Malalae Chronographia, 5,24); ϳ Έξ ̝Λ΍ΏΏΉϾΖ ΎΕ΅ΘφΗ΅Ζ Θ΍ΑΤΖ ΘЗΑ Ύ΅Θ΅ΗΎϱΔΝΑ Ύ΅Ϡ ·ΑΓϿΖ πΒ ΅ЁΘЗΑǰ БΖ ЀΔ΅ΑΘφΗΉ΍ Έ΍Τ ΑΙΎΘϲΖ ̸ΎΘΝΕ ΘϜ Ά΅Η΍ΏϟΈ΍ ̓ΉΑΌΉΗ΍ΏΉϟθ ΉϢΖ ΆΓφΌΉ΍΅Α ΅ЁΘϛΖ πΕΛϱΐΉΑΓΖǰ Ώ΅ΌАΑ ΅ЁΘϲΖ Ύ΅Ϡ ЀΔΓΎΕϾΜ΅Ζ ΘΓϿΖ ϢΈϟΓΙΖ ΐνΏΏΓΑΘ΍ ΔΉΕκΗΌ΅΍ ̸ΎΘΓΕ΍ ΔΓΘ΅ΐϲΑ πΔ΍Ά΅ϟΑΉ΍ǰ Ύ΅Ϡ ΅ΔΓ·ΑϱΑΘ΅Ζ ΎΘΉϟΑ΅Ζ ΘΓІΘΓΑ Ύ΅Ϡ ΘΓϿΖ ΗϾΑ ΅ЁΘХǯ ρΑ΅ ΐϱΑΓΑ Ύ΅ΘνΏ΍ΔΉΑǰ ϶Α ΦΎΕΝΘ΋Ε΍ΣΗ΅Ζ σΔΉΐΜΉ ΘХ ̓Ε΍ΣΐУǯ (Io. Antiocheni ͒ΗΘΓΕϟ΅ ΛΕΓΑ΍Ύφ, fr. 43); cfr. inoltre Giorgio Cedreno, Historiarum

Compendium 127 C20-D1. Il Breviarium Chronicum di Costantino Manasse, che si rifà a Ditti per altri aspetti della materia troiana, colloca invece non solo l’arrivo ma anche la richiesta di aiuto di Priamo alle Amazzoni dopo la morte di Ettore, seguendo così la cronologia tradizionale del ciclo; Tzetzes invece tiene conto sia della versione omerica che di quella di Ditti, e le cita entrambe (la variante dell’agguato notturno a Posth. 248-58). 51 Ditti, dopo aver rovesciato completamente Omero con la scena dell’agguato al fiume, rientra nella traccia dell’Iliade riproponendo il famoso trascinamento del cadavere di Ettore davanti alle mura di Troia: ώ Ϲ΅ǰ Ύ΅Ϡ ̸ΎΘΓΕ΅ ΈϧΓΑ ΦΉ΍Ύν΅ ΐφΈΉΘΓ σΕ·΅ǯȦ ΦΐΚΓΘνΕΝΑ ΐΉΘϱΔ΍ΗΌΉ ΔΓΈЗΑ ΘνΘΕ΋ΑΉ ΘνΑΓΑΘΉȦ πΖ ΗΚΙΕϲΑ πΎ ΔΘνΕΑ΋Ζǰ ΆΓνΓΙΖ ΈȂ πΒϛΔΘΉΑ ϡΐΣΑΘ΅ΖǰȦ πΎ ΈϟΚΕΓ΍Γ ΈȂ σΈ΋ΗΉǰ ΎΣΕ΋ ΈȂ ρΏΎΉΗΌ΅΍ σ΅ΗΉΑаȦ πΖ ΈϟΚΕΓΑ ΈȂ ΦΑ΅ΆΤΖ ΦΑΣ ΘΉ ΎΏΙΘΤ ΘΉϾΛΉȂ ΦΉϟΕ΅ΖȦ ΐΣΗΘ΍ΒνΑ ϹȂ πΏΣ΅Αǰ ΘА ΈȂ ΓЁΎ ΦνΎΓΑΘΉ ΔΉΘνΗΌ΋Α (22,395-400). Naturalmente lo seguono

anche i bizantini ai luoghi indicati nella nota precedente. Si noti che l’Ephemeris dice che Ettore viene legato per i piedi al carro e trascinato, ma non si parla delle altre ingiurie subite dal cadavere da parte dei Mirmidoni, narrate in Il. 22,369-74. Invece Giovanni Antiocheno parla di colpi infiniti inflitti al cadavere presso gli attendamenti di Achille,

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NOTE AL TESTO DI DITTI

prima che l’eroe esca a trascinarlo per la piana: Ύ΅Ϡ ΐΙΕϟ΅Ζ ΔΏ΋·ΤΖ ΅ЁΘХ ΔΕΓΗΉΑΉ·ΎАΑ ΦΑφΕΘ΋ΗΉΑ πΔϠ ΘΓІ ΈϟΚΕΓΙ (fr. 43). 52 In Il. 22,405-515) Priamo, Ecuba ed Andromaca lamentano la morte di Ettore mentre lo vedono trascinato dal carro di Achille davanti alle mura di Troia; non hanno bisogno, come in Ditti, di un messo che descriva la scena dell’uccisione, perché essa si è svolta sotto i loro occhi. Nell’Ephemeris la prospettiva, non individualista ma attenta alle reazioni della collettività, trasforma il cenno omerico alla partecipazione della città al lutto della famiglia di Ettore (ΦΐΚϠ Έξ Ώ΅ΓϠȦ ΎΝΎΙΘХ ΘȂ ΉϥΛΓΑΘΓ Ύ΅Ϡ ΓϢΐΝ·Ϝ Ύ΅ΘΤ ΩΗΘΙǯȦ ΘХ Έξ ΐΣΏ΍ΗΘȂ ΩΕȂ σ΋Α πΑ΅Ώϟ·Ύ΍ΓΑǰ БΖ ΉϢ ΧΔ΅Η΅Ȧ ͕Ώ΍ΓΖ ϴΚΕΙϱΉΗΗ΅ ΔΙΕϠ ΗΐϾΛΓ΍ΘΓ Ύ΅ΘȂ ΩΎΕ΋Ζ, 22,408-11) in una vera ondata di cordoglio collettivo. La

curiosa immagine degli uccelli che vengono sconvolti dalle altissime grida dei Troiani e lasciano il cielo appartiene all’originale di Ditti, perché si ritrova in Malala 5,24 (Ύ΅Ϡ ΘΓΗ΅ϾΘ΋ ΆΓχ π·νΑΉΘΓ πΎ ΘΓІ ΔΏφΌΓΙΖ ΘЗΑ ̖ΕЏΝΑǰ ГΗΘΉ Ύ΅Ϡ ΘΤ ΔΉΘΉ΍ΑΤ ΘΓІ ΓЁΕ΅ΑΓІ Θ΅Ε΅ΛΌϛΑ΅΍) e Giovanni Antiocheno fr. 43, il quale nell’altissimo lamento collettivo fa menzione particolare del re Priamo, e specifica che, come dagli uccelli, il grido fu sentito anche dagli Achei nell’accampamento (ΦΎΓϾΗ΅Ζ Έξ ̓Εϟ΅ΐΓΖ ϳ Ά΅Η΍ΏΉϿΖ ΘΓΗΓІΘΓΑ ВΏϱΏΙΒΉ ΐΉΘΤ ΘϛΖ ΔϱΏΉΝΖǰ БΖ Ύ΅Ϡ ΘΣ ΔΉΘΉ΍ΑΤ Θ΅Ε΅ΛΌϛΑ΅΍ǰ Ύ΅Ϡ ΘΓϿΖ ̸ΏΏ΋Α΅Ζ ΦΎΓІΗ΅΍ ΘϛΖ ΦΔϲ ΘΓІ ΌΕφΑΓΙ ΎΕ΅Ι·ϛΖ); vd. anche Tz. Posth. 259-63. Settimio scrive, con

uno degli ablativi assoluti di cui tanto abusa, che al baccano si univano anche le voci degli Achei che gridavano insulti – e qui forse Malala risulta più chiaro della versione latina, aggiungendo al passo citato la coordinata Ύ΅Ϡ Γϡ ̸ΏΏ΋ΑΉΖ Έξ Λ΅ϟΕΓΑΘΉΖ ΦΑΘΉΆϱ΋Η΅Α ϳΐΓϟΝΖ, che spiega il grido dei Greci come grido di trionfo e di scherno, deliberato contraltare al dolore dei Troiani. 53 Dal tema epico del lamento sul guerriero defunto si torna presto alla storiografia, ed in particolare alla descrizione della psicologia collettiva di una comunità assediata in preda al panico, tema noto sin da Tucidide e dalla sua descrizione degli effetti della peste sul comportamento degli Ateniesi (2,53-4). Un parallelo forse più stretto si può trovare nella narrazione liviana della reazione del popolo romano alla notizia delle disfatte subite durante la guerra annibalica, in particolare dopo Canne (22,54,8 numquam salva urbe tantum pavoris tumultusque intra moenia romana fuit; 22,56,4 adeoque totam urbem opplevit luctus ut sacrum anniversarium Cereris intermissum sit, quia nec lugentibus id facere est fas nec ulla in illa tempestate matrona ex-

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pers luctus fuerat), ma anche all’annuncio della caduta di Lucio Postumo in Gallia (23,25,1 hac nuntiata clade cum per dies multos in tanto pavore fuisset civitas ut tabernis clausis velut nocturna solitudine per urbem acta senatus aedilibus negotium daret ut urbem circuirent aperirique tabernas et maestitiae publicae speciem urbi demi iuberent), ed al diffondersi di voci incontrollate mentre il nemico si approssima a Roma nel 211 (26,9,6-7 Romam Fregellanus nuntius diem noctemque itinere continuato ingentem attulit terrorem. tumultuosis quam allatum erat cursu hominum, adfingentium vana auditis totam urbem concitat. ploratus mulierum non ex privatis solum domibus exaudiebatur, sed undique matronae in publicum effusae circa deum delubra discurrunt etc.). Si osservi in particolar modo il proliferare di rumores catastrofici e infondati: esso ricorre nell’Ephemeris anche a 1,3, dove la notizia del ratto di Elena e della rapina dei beni di Menelao si diffonde per tutta Creta (dove sono radunati i principali capi Greci) venendo distorta ed ingigantita dalla tendenza del popolo all’esagerazione, fino ad includere la distruzione della casa del re e la caduta del regno: sicut in tali re fieri amat, fama in maius divulgatur. Timpanaro 1987, 187, vede in questo dettaglio un tratto della concezione negativa del vulgus, “inconsapevole o semi-malevolo diffusore di notizie allarmistiche”, che in Ditti/Settimio abbraccerebbe la massa dei populares di entrambi gli schieramenti (senza peraltro che dei loro capi venga offerto un ritratto più lusinghiero). 54 Deriva ancora da Omero il tema di Ettore unica difesa di Troia (ΓϨΓΖ ·ΤΕ πΕϾΉΘΓ ͕Ώ΍ΓΑ ̸ΎΘΝΕ, Il. 6,403), alla cui caduta seguirà inevitabilmente la rovina della città (Ϲ΋ϬΘΉΕΓ΍ ·ΤΕ ΐκΏΏΓΑ ̝Λ΅΍ΓϧΗ΍Α Έχ σΗΉΗΌΉȦ ΎΉϟΑΓΙ ΘΉΌΑ΋ЗΘΓΖ πΑ΅΍ΕνΐΉΑ, 24,243-4). 55 Altro momento epico per eccellenza introdotto in questo ϳΐΉΕ΍ΎЏΘ΅ΘΓΑ libro terzo dell’Ephemeris: il punto di riferimento è ovviamente Il. 23,257-897, che non costituisce solo la versione ufficiale dei giochi funebri in onore di Patroclo, ma anche il modello assoluto per questo tipo di scene nell’epica greca e latina (si veda il fondamentale contributo di Willis 1941). In effetti la descrizione delle gare per un guerriero defunto divenne sin dall’antichità uno dei tratti caratterizzanti dell’epos eroico, e come tale si ritrova in Virgilio (Aen. 5,109-603), Stazio (Theb. 6,249-946), Silio Italico (16,303-574), Quinto Smirneo (4,110-595), Nonno (Dionysiaca 37,103-778, sdoppiato nei giochi artistici in onore di Stafilo a 19,61-299), e sia pure molto sinteticamente nelle Argonautiche Orfiche (576-93). Almeno un al-

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NOTE AL TESTO DI DITTI

tro esempio arcaico, oltre all’Iliade, era costituito dai giochi in onore di Achille nell’Etiopide (gli stessi narrati poi da Quinto Smirneo). Una prima differenza rispetto ad Omero è il fatto che le gare non si tengano subito dopo la sepoltura, ma che intercorra la vendetta su Ettore – che nell’Iliade avveniva comunque prima dei giochi, perché le cerimonie funebri erano state appositamente differite. Inoltre nell’epica vengono solitamente specificati i premi in palio per ogni gara (in Omero sempre posti davanti ai contendenti prima che essa abbia inizio), mentre l’Ephemeris si limita ad indicare la disciplina ed il vincitore. Quanto all’ordine in cui si succedono i giochi, la prima gara è quasi sempre la corsa coi carri, la più prestigiosa, a cui viene dedicato il maggior numero di versi ed a cui sono destinati i premi più preziosi (cfr. Willis 1941, 416; nell’Eneide essa è sostituita da una regata di navi); lo schema generale di derivazione iliadica prevede poi le varie forma di lotta, le competizioni di corsa, e le specialità che comportano il lancio di un oggetto (vedi Willis 1941, 398-9). Quinto Smirneo costituisce la principale eccezione a questa sequenza, oltre ad innovare con l’eccezionale presenza di una competizione oratoria. L’ordine delle gare in Omero è 1) corsa coi carri, 2) pugilato, 3) lotta, 4) corsa a piedi, 5) combattimento con armi, 6) lancio del disco, 7) tiro con l’arco, 8) lancio del giavellotto; nell’Ephemeris 1) corsa con quadrighe, 2) corsa con bighe, 3) tiro con l’arco, 4) corsa lunga, 5) corsa semplice e 6) doppia, 7) salto, 8) lancio del disco, 9) lotta, 10) pugilato e 11) pancrazio, 12) corsa in armi. Ditti (improbabile che Settimio abbia apportato cambiamenti sostanziali su questo punto) non segue quindi l’andamento omerico se non nella precedenza data al carro, e si direbbe che non abbia in mente alcun criterio ordinatore particolare. 56 Vengono disposti i premi davanti all’assemblea e Achille invita tutti a prendere posto: cfr. Il. 23,257-9 ΅ЁΘΤΕ ̝Λ΍ΏΏΉϿΖȦ ΅ЁΘΓІ Ώ΅ϲΑ σΕΙΎΉ Ύ΅Ϡ ϣΊ΅ΑΉΑ ΉЁΕϿΑ Φ·ЗΑ΅ǰȦ Α΋ЗΑ ΈȂ σΎΚΉΕȂ ΩΉΌΏ΅ǯ 57

L’Iliade non prevede una doppia competizione, con carri a quattro e a due cavalli: si tratta di un’innovazione di Ditti. Quanto ai premiati nelle due gare, sono tutti partecipanti alla corsa col carro omerica, che si era conclusa con Diomede al primo posto (23,538), il secondo premio ad Antiloco, ma con molte contestazioni da parte di Menelao (541-611), e un ricco premio di consolazione per Eumelo (536-62), che di per sé sarebbe stato il migliore di tutti, ma quel giorno, durante la corsa, aveva avuto un incidente causato da Atena (3917). Ditti si è divertito ad eliminare anche questo intervento divino, e

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a far vincere Eumelo. Ditti si distanzia anche dalla prassi epica che prevede un maggior respiro narrativo per la gara con i carri: nell’Ephemeris è il tiro con l’arco a ricevere maggiore attenzione. 58 La gara di tiro con l’arco è nel complesso modellata su Il. 23,85083, come altre scene analoghe nell’epica antica (cfr. Verg. Aen. 5,485544, Nonn. D. 37,703-43). In Omero il bersaglio è una colomba fissata all’albero di una nave con una corda: il primo premio va a chi trafigga l’uccello, il secondo a chi spezzi la corda; sono in gara Teucro e Merione, e quest’ultimo vince, poiché Teucro, sorteggiato perché tiri per primo, sbaglia la colomba ma recide la corda; al che subito Merione tira e abbatte l’animale. Una prima differenza sta nella sostituzione di Teucro con Odisseo, che non è problematica, perché si tratta comunque di uno degli arcieri migliori del campo greco (cfr. 3,1, e la nota 3). In secondo luogo la gerarchia dei colpi viene taciuta: l’unico scopo che la gara propone esplicitamente ai partecipanti è quello di colpire la colomba, e non si fa motto di un bersaglio primario e di uno secondario. Inoltre la competizione sembra aperta ad un numero indefinito di contendenti: Merione ed Odisseo sono gli unici che riescono a centrare il bersaglio, ma prima altri hanno tentato e fallito (reliquis incassum tendentibus). La doppia tipologia ritorna comunque con l’intervento di Filottete, che quando i due hanno già ottenuto le lodi degli spettatori e la gara sembra conclusa recide la corda: dal commento sulla difficultas dell’impresa, dall’acclamazione del popolo e soprattutto dal fatto che Achille lo premia duplici munere si evince che la gerarchia iliadica non è stata dimenticata, ma rovesciata. Si considera maggior virtuosismo (ragionevolmente) colpire la corda che non la colomba, un colpo tanto difficile che da principio non viene neppure contemplato, ed a cui viene assegnato a posteriori un premio extra ordinem. Questa scena di Ditti/Settimio presenta tuttavia alcune incongruenze, che la rendono piuttosto confusa e poco persuasiva. Anzitutto il senso della gara omerica, evidentemente pensata perché il colpo destinato a recidere la corda preceda quello che uccide la colomba e ne abbia minor prestigio, viene stravolto dall’inversione dell’ordine. In Omero (Virgilio, Nonno) il colpo che spezza la corda libera la colomba, che viene poi colpita dal secondo concorrente; questo limita anche il numero dei partecipanti, perché quando la colomba muore cade a terra, ed il gioco finisce. Ditti invece fa colpire due volte la colomba prima di far recidere la corda: per questo è costretto a mutare il sistema omerico della corda legata ad una estremità ad un

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albero di nave, ed all’altra alla colomba (Il. 23,852-5), e fa tendere invece il sottile filo di lino tra le cime di due alberi, con la colomba che viene quindi a trovarsi media, a metà del filo, a cui è collegata con uno spartum: in questo modo, anche morto, l’uccello resterà attaccato alla sua corda, finché il filo resta teso tra i due mali. Sicché la stessa colomba viene colpita due volte, e quando poi Filottete recide la corda, cade al suolo. Un’anticlimax, che porta a strascico con sé alcune altre piccole incongruenze: la presenza di due alberi di nave induce Ditti/ Settimio a farli fissare personalmente da Merione ed Ulisse, come se sin dall’inizio si trattasse di una sfida tra loro due (come in Omero); ma si vede poi che anche altri vi si cimentano, per quanto invano. Un’ulteriore ambiguità potrebbe essere vista nella frase eius contingendae certamen maximum, che sembrerebbe adottare la gerarchia omerica tra il colpo maggiore, quello che abbatte la colomba, e dei certamina minora: si pensi a Virgilio, Aen. 5,541-4, dove Enea assegna premi in ordine decrescente a chi ha colpito la colomba, la corda ed il legno dell’albero. Tuttavia nel paragrafo 18 questo non può reggere, per i motivi che abbiamo indicato (colpire la corda è considerato colpo migliore, non vengono posti premi alternativi): pertanto bisognerà prendere quel maximum non come superlativo relativo ma con valore assoluto (grandissimo cimento). Resta comunque l’impressione che Ditti (o Settimio) abbia adattato in modo poco felice le variazioni da lui introdotte agli elementi tradizionali. 59 Secondo Marcos Casquero 2003 ad loc., questo dono supplementare per un arciere che si introduce nella competizione quando i premi sono già stati assegnati potrebbe essere una reminescenza del munus di Enea ad Aceste in Verg. Aen. 5,533-40. 60 Come nel caso della corsa coi carri, l’unica competizione di corsa a piedi del modello omerico viene divisa in più specialità, corrispondenti alle discipline del ΈΕϱΐΓΖ ΈϱΏ΍ΛΓΖ, ΗΘΣΈ΍ΓΑ e Έϟ΅ΙΏΓΖ. Per il ΈΕϱΐΓΖ gareggiano a Il. 23,748-83 Aiace di Oileo, Odisseo e Antiloco: vince Odisseo malgrado l’iniziale vantaggio di Aiace, perché Atena fa scivolare quest’ultimo (773-7). Come nel caso della corsa con i carri, Ditti ristabilisce il risultato della gara omerica al netto dell’intervento divino. Polipete in Omero vince il premio di lancio del disco (Il. 23,844-9), mentre Macaone, Euripilo e Tlepolemo non partecipano ai giochi. 61 La lotta tra Ulisse e Aiace, che si conclude in sostanziale parità, è tratta da Il. 23,700-39, dove i due eroi si trovano per due volte en-

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trambi a terra senza che uno riesca a sollevare l’altro; opposta però la conclusione, visto che nell’Ephemeris la parità implica che il premio non venga assegnato, mentre in Omero Achille ne assegna uno uguale ad entrambi. Il pugilato ed il pancrazio (reliquoque manuum certamine) sono invece aggiudicati da Aiace: in Omero è presente solo la ΔΙ·ΐ΅Λϟ΋ (Il. 23,653-99), che è vinta dall’oscuro Epeo figlio di Panopeo. 62 Questa specialità non è presente nei giochi di Iliade XXIII; tuttavia si può pensare che Ditti (o forse Settimio, che si sarà magari trovato davanti al testo di Ditti senza avere adeguata familiarità con Omero) stia equivocando la quinta gara omerica, quella del combattimento armato (23,801-25), con la corsa con le armi: nell’Iliade Diomede risulta in vantaggio su Aiace Telamonio, anche se lo scontro viene poi interrotto. A degli scrittori di età imperiale la corsa con le armi (ΈΕϱΐΓΖ ϳΔΏϟΘ΋Ζ), rispettabilissima disciplina nei giochi celebrati in tutto il mondo greco, sarà forse sembrata più confacente a dei prìncipi achei che non una zuffa con armi alle mano, come ai ludi gladiatorii. 63 Nell’Iliade l’unico omaggio concesso a titolo onorifico durante i giochi è quello assegnato a Nestore a 23,617-23, in considerazione dell’età avanzata che non gli consente di partecipare in prima persona; tuttavia anche Agamennone ottiene un premio senza gareggiare, perché quando si alza per la competizione del lancio del giavellotto Achille gli conferisce d’ufficio il primo premio (23,890-7). I restanti omaggi sono frutto dell’invenzione di Ditti: Idomeneo sarà stato onorato in quanto più anziano della maggioranza dei condottieri greci (benché più giovane e vigoroso di Nestore), e forse in virtù della posizione di prestigio che gli viene attribuita dalla (sedicente) fonte filo-cretese; Macaone e Podalirio, i due fratelli guaritori figli di Asclepio, in omaggio al principio omerico Ϣ΋ΘΕϲΖ ·ΤΕ ΦΑχΕ ΔΓΏΏЗΑ ΦΑΘΣΒ΍ΓΖ ΩΏΏΝΑ (Il. 11,514), poiché il medico con la sua arte salva altre vite umane. Infine i doni per i familiari dei defunti vanno intesi come una specie di moderna onorificenza alla memoria. 64 Cfr. Il. 24,1-2 ̎ІΘΓ ΈȂ Φ·ЏΑǰ Ώ΅ΓϠ Έξ ΌΓΤΖ πΔϠ Αϛ΅Ζ ρΎ΅ΗΘΓ΍Ȧ πΗΎϟΈΑ΅ΑΘȂ ϢνΑ΅΍ǯ 65

In Omero (e nei tragici) Andromaca ha un unico figlio, Astianatte: la precisazione sulla duplice onomastica del bambino rovescia diametralmente i dati omerici: ΘϱΑ ϹȂ ̸ΎΘΝΕ Ύ΅ΏνΉΗΎΉ ̕Ύ΅ΐΣΑΈΕ΍ΓΑǰ ΅ЁΘΤΕ Γϡ ΩΏΏΓ΍Ȧ ̝ΗΘΙΣΑ΅ΎΘȂа ΓϨΓΖ ·ΤΕ πΕϾΉΘΓ ͕Ώ΍ΓΑ ̸ΎΘΝΕ (Il. 6,402-3). Laodamante come figlio di Ettore non è attestato, se non dagli autori bizantini che dipendono da Ditti (Malala, Giorgio Cedreno,

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Tzetzes, Costantino Manasse). L’Iliade conosce un nobile troiano di questo nome, figlio di Antenore, che viene ucciso da Aiace a 15,516: può darsi che Ditti (o la sua fonte) si sia basato su questa attestazione nell’onomastica troiana, che d’altronde sembra coerente con una serie di nomi indicanti la signoria sulla città o sul popolo che si ritrovano nella casa di Priamo: ̎΅ΓΈΣΐ΅Ζ, da Ώ΅ϲΑ Έ΅ΐΣΊΝ (o piuttosto Έ΅ΐΣΗΗΝȦΈΣΐΑ΋ΐ΍, forme epiche), potrebbe intendersi come un quasi equivalente del nome del fratello (ΩΗΘΉ΍ȦΩΗΘΉΝΖ ΦΑΣΗΗΝ), e ancor più di quello del padre di Priamo, Laomedonte (< ΐνΈΝ). Va però segnalato che Έ΅ΐΣΊΝ ha primariamente significato ostile (sottomettere), sicché il nome può valere “debellatore di eserciti”. Si ricordi inoltre che il nome ricorre in Odissea, libri VII-VIII, per un figlio di Alcinoo, re dei Feaci, particolarmente caro al padre (7,171). 66 L’ultima sezione di questo libro, e una di quelle che più estesamente dialogano con Omero, è quella dei ̎ϾΘΕ΅. Coerentemente con il suo atteggiamento generale, Ditti elimina completamente gli aspetti che trascendano la dimensione dell’umano e del realistico, in particolare gli interventi divini. La restituzione del corpo di Ettore, nell’Iliade, viene decisa in un concilium deorum (24,31-119) in cui Apollo perora davanti agli dei la causa troiana, e le decisioni divine vengono poi comunicate da Teti ad Achille (120-37) e da Iris a Priamo (144-87). Praticamente tutto lo svolgimento del libro viene deciso da Zeus nella parte iniziale di esso, e le suppliche di Priamo e la commozione di Achille sono principalmente la conseguenza e la realizzazione di questo piano divino, senza che gli argomenti addotti nella loro conversazione abbiano un reale margine di incidenza (cfr. le parole di Achille a 24,560-7). Anche il trasferimento notturno di Priamo al campo degli Achei è reso possibile esclusivamente grazie all’aiuto di Ermes (24,331-467), che gli apre la via e lo cela agli occhi delle sentinelle. In Ditti l’iniziativa è unicamente umana: Priamo si avvia verso l’accampamento greco senza alcuna sicurezza di riscattare il figlio e neppure di aver salva la vita, e senza altra scorta che donne e bambini. Anche il dialogo con Achille ha un tono diversissimo rispetto a quello di Iliade XXIV, per quanto ritornino frequentemente singoli motivi: non si tratta solo o soprattutto di toccare il cuore ma di argomentare, convincere e difendere il proprio operato, perché qui non c’è alcuna volontà divina che il Pelide debba rispettare. Restando al par. 20, notiamo che Priamo è accompagnato da Andromaca, che porta con sé i figli di Ettore, e da Polissena: questo dato contrasta con

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la solitudine del Priamo iliadico, che esce dalla città solo con l’araldo Ideo (24,321-8), e trova invece riscontro in un sepolcro di II-III sec. d. C. conservato al Louvre, già parte della collezione Borghese (Roberts, Die antiken Sarkophagreliefs II, tav. XVII 26c), di cui Patzig 1927, 281-92 (ma cfr. anche Id. 1925, p. 291) ha riconosciuto l’esatta corrispondenza con la scena narrata da Ditti. Tra le fonti letterarie si ritrova naturalmente nei cronografi bizantini: Io. Mal. 5,24,14-6, Io. Antioch. fr. 44 (che però menziona la sola Polissena, senza Andromaca e figli), Georg. Cedr. 127 D5-7, Tz. Posth. 315-9, e come si è detto (vd. n. 8) Philostr. Her. 51,3. Si ricordi infine che il tema del riscatto del corpo di Ettore, dalle evidenti potenzialità patetiche, costituiva l’oggetto di una tragedia di Eschilo nota con il doppio titolo di ̘ΕϾ·ΉΖǰ ύ ̸ΎΘΓΕΓΖ ̎ϾΘΕ΅ (frr. 263-72 Radt). In seguito l’episodio era stato ripreso dal tiranno Dionisio nell’omonima tragedia ̸ΎΘΓΕΓΖ ̎ϾΘΕ΅ (76 F 2a Snell), ed in ambito latino da Ennio (Hectoris Lytra, 156-93 Vahlen = 149-70 Jocelyn). Un’opera intitolata ̘ΕϾ·ΉΖ scrisse anche Sofocle (frr. 724-5 Radt), ma non ci sono elementi per stabilire se trattasse il medesimo argomento di quella di Eschilo. Troppo poco rimane degli adattamenti teatrali per stabilire un paragone con Ditti/Settimio: tuttavia un frammento di Ennio (per vos et vostrum/ imperium et fidem Mirmidonum, vigiles, commiserescite, 186 Vahlen = 161-2 Jocelyn), nel caso appartenesse ad un’allocuzione di Priamo ai soldati di Achille perché lo portino dal loro comandante, potrebbe forse indicare che anche in Ennio il vecchio re troiano non godeva di una protezione divina che gli consentisse di penetrare impunemente nel campo e nella tenda del nemico, ma doveva guadagnarsi da solo accesso ed udienza presso il Pelide (cfr. Jocelyn 1967, 296-9; ma l’interpretazione del frammento è assai controversa). 67 Cfr. Il. 22,414 ΔΣΑΘ΅Ζ Έξ Ώ΍ΘΣΑΉΙΉ ΎΙΏ΍ΑΈϱΐΉΑΓΖ Ύ΅ΘΤ ΎϱΔΕΓΑǰ ŘŚǰŗŜřȬś ΦΐΚϠ Έξ ΔΓΏΏχȦ ΎϱΔΕΓΖ σ΋Α ΎΉΚ΅ΏϜ ΘΉ Ύ΅Ϡ ΅ЁΛνΑ΍ ΘΓϧΓ ·νΕΓΑΘΓΖǰȦ ΘφΑ Ϲ΅ ΎΙΏ΍ΑΈϱΐΉΑΓΖ Ύ΅Θ΅ΐφΗ΅ΘΓ ΛΉΕΗϠΑ οϜΗ΍ǯ 68

Completo rovesciamento della situazione omerica, in cui Priamo deve evitare accuratamente di farsi notare da chiunque eccetto Achille ed i suoi più stretti compagni, perché la notizia della sua presenza non arrivi ad Agamennone e non ne nascano ritardi al riscatto o peggio (cfr. Il. 24,650-5). Qui invece Priamo cerca prima il contatto con gli altri Greci, per acquistarsi degli intercessori. 69 I due prìncipi greci con cui viene in contatto Priamo sono Nestore, comprensibilmente simpatetico con il re troiano per la comune

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età, ed Odisseo, che invece lo attacca per il suo comportamento in occasione dell’ambasciata a Troia di 2,21-6. In Malala 5,24,23-5 (~ Georg. Cedr. 127 D10 – 128 A3) i Greci con cui Priamo entra in contatto sono invece Nestore ed Idomeneo, entrambi benevoli e disposti a diventare ΗΙΑ΍ΎνΘ΅΍ del vecchio presso Achille. 70 Cfr. Il. 24,477-8 ΘΓϿΖ ΈȂ σΏ΅ΌȂ ΉϢΗΉΏΌАΑ ̓Εϟ΅ΐΓΖ ΐν·΅Ζǰ Ω·Λ΍ ΈȂ ΩΕ΅ ΗΘΤΖȦ ΛΉΕΗϠΑ ̝Λ΍ΏΏϛΓΖ ΏΣΆΉ ·ΓϾΑ΅Θ΅ǯ 71

Reminescenza delle parole dello stesso Priamo ad Elena in Il. 3,164-5: ΓЄ Θϟ ΐΓ΍ ΅ϢΘϟ΋ πΗΗϟǰ ΌΉΓϟ ΑϾ ΐΓ΍ ΅ϥΘ΍Γϟ ΉϢΗ΍ΑǰȦ Γϣ ΐΓ΍ πΚЏΕΐ΋Η΅Α ΔϱΏΉΐΓΑ ΔΓΏϾΈ΅ΎΕΙΑ ̝Λ΅΍ЗΑǯ 72

Priamo tenta di alleggerire le proprie responsabilità dipingendosi come un vecchio ignorato e inascoltato dai figli, che hanno preso di fatto il potere a Troia; una situazione che per verità ben si adatterebbe al modo in cui sono dipinti i principi troiani nell’opera. Comunque si tratta di una ripresa delle parole con cui Menelao distingue in Il. 3,105-10 il differente spessore morale del re nemico e dei suoi figli: questi ultimi sono ЀΔΉΕΚϟ΅ΏΓ΍ Ύ΅Ϡ ΩΔ΍ΗΘΓ΍ (106), perché troppo giovani (΅ϢΉϠ ΈȂ ϳΔΏΓΘνΕΝΑ ΦΑΈΕЗΑ ΚΕνΑΉΖ ωΉΕνΌΓΑΘ΅΍, 108). Per questo è necessario che seguano costantemente il consiglio di un anziano (109-10). In ogni caso, il Priamo dell’Ephemeris è deteriorato rispetto al suo corrispettivo omerico, e condivide (ribatte Achille) i vizi dei figli (cfr. Venini 1981, 168). 73 Cfr. nota 54 per il legame tra la morte di Ettore e la caduta di Troia. Il contrasto tra la passata felicità di Priamo e la sua presente disperazione è uno dei temi conduttori dei ̎ϾΘΕ΅ iliadici, ma là esso viene insistito in particolar modo nelle parole di Achille, che in Omero si mostra ben più pietoso e simpatetico che nell’Ephemeris, tanto da accettare volentieri il parallelismo tra il proprio padre e Priamo proposto dal re troiano: cfr. Il. 24,534-50. Qui invece il compito di paragonare in tono denigratorio la passata prosperità al miserabile presente è lasciato al diretto interessato. 74 Uno dei più importanti motivi omerici in questo primo discorso di Priamo. In Iliade XXIV, dove la deliberazione era già stata presa dagli dei, il principale obiettivo delle parole del vecchio re era suscitare commozione nell’interlocutore perché si inducesse ad eseguire i comandi dei celesti, e non sviluppare una perorazione per persuadere chi gli stava davanti. Ed il più efficace strumento per creare empatia fra sé ed il nemico era mostrarglisi nella qualità umana di vecchio padre in pena per i figli, uguale cioè al padre di Achille: ΐΑϛΗ΅΍ Δ΅ΘΕϲΖ ΗΓϧΓǰ ΌΉ-

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ΓϧΖ πΔ΍ΉϟΎΉΏȂ ̝Λ΍ΏΏΉІǰȦ Θ΋ΏϟΎΓΙ ГΖ ΔΉΕ π·ЏΑǰ ϴΏΓХ πΔϠ ·φΕ΅ΓΖ ΓЁΈХаȦ Ύ΅Ϡ ΐνΑ ΔΓΙ ΎΉϧΑΓΑ ΔΉΕ΍Α΅΍νΘ΅΍ ΦΐΚϠΖ πϱΑΘΉΖȦ ΘΉϟΕΓΙΗȂǰ ΓЁΈν ΘϟΖ πΗΘ΍Α ΦΕχΑ Ύ΅Ϡ ΏΓ΍·ϲΑ ΦΐІΑ΅΍ǯȦ ΦΏΏȂ όΘΓ΍ ΎΉϧΑϱΖ ·Ή ΗνΌΉΑ ΊЏΓΑΘΓΖ ΦΎΓϾΝΑȦ Λ΅ϟΕΉ΍ ΘȂ πΑ ΌΙΐХǰ πΔϟ ΘȂ σΏΔΉΘ΅΍ όΐ΅Θ΅ ΔΣΑΘ΅Ȧ ϷΜΉΗΌ΅΍ ΚϟΏΓΑ ΙϡϲΑ ΦΔϲ ̖ΕΓϟ΋ΌΉΑ ϢϱΑΘ΅аȦ ΅ЁΘΤΕ π·А Δ΅ΑΣΔΓΘΐΓΖǰ πΔΉϠ ΘνΎΓΑ Ιϩ΅Ζ ΦΕϟΗΘΓΙΖȦ ̖ΕΓϟϙ πΑ ΉЁΕΉϢϙǰ ΘЗΑ ΈȂ ΓЄ Θ΍ΑΣ Κ΋ΐ΍ ΏΉΏΉϧΚΌ΅΍ (Il. 24,486-94). 75

Il tenore retorico del discorso di Priamo raggiunge il culmine del pathos dopo questa pausa causata dalla commozione, in cui Andromaca si inserisce per rivolgersi a sua volta ad Achille e far prostrare i figli in atto di supplica. La presenza di moglie e figli del defunto che si prostrano e chiedono pietà ricorda la pratica, che può apparire eccessivamente enfatica ma che era ben nota agli avvocati romani, di introdurre davanti ai giudici ed al pubblico la famiglia dell’accusato con donne e bambini in lacrime. Lo stesso Cicerone nell’Orator, trattando dell’importanza fondamentale dell’elemento patetico nell’eloquenza, ricorda con compiacimento la propria abilità nel suscitare la miseratio, ricorrendo ad espedienti come pronunciare una perorazione tenendo in braccio o comunque mostrando ai giudici i figli degli accusati: qua (scil. miseratione) nos ita dolenter uti solemus ut puerum infantem in manibus perorantes tenuerimus, ut alia in causa excitato reo nobili, sublato etiam filio parvo, plangore et lamentatione complerimus forum (Orator 38,131); un esempio concreto di queste tecniche teatrali resta nella Pro Flacco, 42,106, dove si intuisce dalla marcata deissi che un bambino veniva introdotto in atteggiamento di supplice (huic, huic misero puero vestro ac liberorum vestrorum supplici, iudices, hoc iudicio vivendi praecepta dabitis). Anche la domanda retorica che chiude il paragrafo, e che mette in bocca al re barbaro il motivo della superiore umanità del mondo greco, non sarebbe fuori luogo in una perorazione dicanica o anche in un pezzo di oratoria deliberativa. Settimio opera qui un richiamo interno, riprendendo due dei termini (iustitia, misericordia) di quel lessico dei valori positivi della civiltà greca (modestia, misericordia, pietas, probitas, fides, innocentia, benevolentia – cfr. Venini 1981, p. 167) che ricorre in tutta l’opera (vd. per esempio 2,21; 4,1; 5,1; 5,2). 76 Cfr. Malala 5,24,31: ̝Λ΍ΏΏΉϿΖ ΔΕϲΖ ΅ЁΘΓϿΖ σΚ΋а ΎΕ΅ΘΉϧΑ ΅ЁΘϲΑ πΒ ΦΕΛϛΖ σΈΉ΍ ΘЗΑ Δ΅ϟΈΝΑ Ύ΅Ϡ ΐχ ΗΙΑΉΒ΅ΐ΅ΕΘΣΑΉ΍Αа ΦΏΏȂ ΉϨΛΉΑ ΅ЁΘϲΑ σΕΝΖ ΘЗΑ ΦΏΏΓΘΕϟΝΑ ΛΕ΋ΐΣΘΝΑǯ ΓЁ ·ΤΕ ̴ΏφΑ΋Ζ ·ΙΑ΅΍ΎϲΖ ΘχΑ πΔ΍ΌΙΐϟ΅Α ΉϨΛΉΑǰ ΦΏΏΤ ΘЗΑ ̝ΘΕνΝΖ Ύ΅Ϡ ̓νΏΓΔΓΖ ΛΕ΋ΐΣΘΝΑ (~ Io.

Antioch. fr. 44,12-3). La freddezza della risposta di Achille contrasta pienamente con lo spirito pacificatore e tollerante della corrisponden-

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te scena omerica. Essa è non meno del discorso di Priamo apparentata con la retorica ma, invece che sul controllo delle reazioni emotive dell’ascoltatore attraverso il forte patetismo, punta sulla casuistica morale e sull’analisi delle responsabilità che al vecchio re derivano dalla mancata o debole opposizione alle scelleratezze dei figli. L’osservazione che dieci anni prima il re non era ancora tanto indebolito da non potersi opporre costituisce una risposta, anzi una confutazione, dell’argomento addotto a propria discolpa da Priamo nel par. 21, cioè l’insofferenza ai freni da parte dei figli, che la senecta aetas non riesce più a dirigere perché naturalmente oggetto di disprezzo da parte della gioventù. Inoltre la denuncia del degrado morale cui conduce il desiderium rerum alienarum ricorda i toni della storiografia e dell’oratoria romane della tarda repubblica, e può rientrare nei motivi sallustiani sparsamente ripresi da Settimio: si pensi al prologo del De coniuratione Catilinae ed al quadro ivi tracciato dell’evoluzione della società romana, progressivamente divorata e deteriorata dalla cupido pecuniae, diffusasi come un morbo fino a contaminare e distruggere ogni valore e istituto sociale (capp. 10-3). 77 Grillo 1990 propone di correggere Atrei in Catrei, estendendo a questo luogo la proposta di Venini 1980 relativa ad Ephemeris 1,1, di sostituire cioè nelle prime due occorrenze del paragrafo il tràdito nome dell’eroe peloponnesiaco Atreo con quello del meno noto Catreo, in qualità di nonno materno di Agamennone, Menelao e Anassibia, e trait d’union della casa di Pelope con quella di Minosse. Ricordiamo che Ditti accetta la variante mitica secondo cui Agamennone e Menelao sarebbero figli di Plistene ed Erope, principessa cretese figlia di Catreo (secondo la correzione di Venini 1980). La discendenza da Atreo (ed il patronimico Atridae, cfr. Prologus) viene comunque mantenuta da Ditti/Settimio: l’opera riflette la soluzione di compromesso relativamente alle due tradizioni parallele sulla nascita di Agamennone e Menelao (Plistene ed Atreo) testimoniata dalla tradizione scoliastica (schol. ad Eur. Or. 4; schol. ad Hom. Il. 2,249): il padre sarebbe Plistene, figlio di Atreo, ma essendo il primo morto in giovane età i figli sarebbero stati cresciuti dal nonno e ne avrebbero adottato il nome come patronimico. Secondo Grillo 1990 la correzione andrebbe estesa anche a questo passo, benché Venini 1980 faccia notare come al di fuori delle prime due occorrenze di 1,1 le successive menzioni di Atreus in Ditti/Settimio facciano senz’altro riferimento al ben noto eroe argivo, e non vadano pertanto corrette. Sarebbe testimonanza

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della lezione originaria Catrei la presenza in alcuni manoscritti della sequenza priva di senso catradzque (G) e catradz (SHR), da intendersi secondo Grillo 1990 come corruzioni del nome, non compreso dai copisti. Questo pone però un problema logico e cronologico: come potrebbe Achille affermare che i Troiani miravano alle ricchezze di Catreo e di Pelope, se al momento del ratto di Elena e del furto Menelao si trovava a Creta, con altri sovrani suoi cugini, appunto ad divedendas inter se Catrei opes (1,1)? Nella reggia di Sparta ci saranno state bensì le ricchezze ereditate dalla famiglia paterna, discendente da Pelope padre di Atreo, ma non ancora l’eredità materna, che si andava a dividere in quel momento: pertanto l’ipotesi di Grillo che «l’autore dell’Ephemeris abbia fatto riferimento sia a quelle di provenienza paterna (da Pelope, attraverso Plistene) sia a quelle di provenienza materna (da Catreo, tramite Aerope)» (p. 439) è suggestiva, ma impossibile per ragioni di coerenza interna del testo. Si veda poi il parallelo di Malala citato nella nota precedente (ΘЗΑ ̝ΘΕνΝΖ Ύ΅Ϡ ̓νΏΓΔΓΖ ΛΕ΋ΐΣΘΝΑ). Quanto alle sequenze catradz(que) di alcuni testimoni della famiglia ·, se pure si tratta di corruzione da Catrei atque, si è costretti a derogare al principio della lectio difficilior e ipotizzare che un copista o un correttore, ricordatosi del Catreus di 1,1 (poi obliterato dalla tradizione), abbia voluto migliorare il testo normalizzandolo su criteri di coerenza (e non sulla base della maggiore o minore diffusione del nome in questione nella letteratura latina). 78 Il desiderio di non restituire le ricchezze trafugate è in effetti lo stimolo che induce gli altri figli di Priamo ad unirsi a Paride e rifiutare di rimandare in Grecia Elena (cfr. 1,7). 79 Cfr. Io. Antioch. fr. 44.13-4 ΈϱΘΉ ΓЇΑ ΈϟΎ΅Ζǰ ΦΑΌȂ ЙΑ ωΗΉΆφΗ΅ΘΉа ΗΝΚΕΓΑ΍ΊνΗΌΝΗ΅Α Έ΍Ȃ ЀΐЗΑ ̸ΏΏ΋ΑΉΖ ΘΉ Ύ΅Ϡ ΆΣΕΆ΅ΕΓ΍ǯ 80

Shackleton Bailey 1981, 182, propone di correggere enim in autem, «the second sentence having no casual connection with the first». Sembra più prudente mantenere il testo tràdito, considerando il legame tra le due frasi stabilito dall’identico principio etico sottostante tanto alla punizione di Ettore quanto al desiderio conoscitivo di appurare se siano i Greci o i barbari ad essere destinati ad imporsi. Infatti Ettore ha ripagato l’umanità e la correttezza dei Greci dando sfogo all’inciviltà della sua gente, e pertanto è stato castigato allo scopo di offrire un ammonimento a tutti i popoli; mentre la spedizione si è mossa per verificare se la superiorità etica dei Greci debba avere la meglio sulla licenza e la barbarie dei Troiani, vale a dire per porre in

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NOTE AL TESTO DI DITTI

atto, su un piano universale, la stessa operazione che Achille ha perseguito sul piano individuale punendo Ettore. Questo dovrebbe bastare a giustificare l’enim, da intendere come connettivo testuale che sancisce la contiguità e la coerenza tra i due livelli dell’azione castigatrice dei Greci – se non proprio una relazione di casualità tra i due periodi. 81 L’impronta oratoria e moralistica di questo discorso di Achille raggiunge il culmine quando dalle rivendicazioni relative al ratto di Elena ed alla depredazione delle ricchezze di Menelao si passa al piano universale e teorico dello scontro tra civiltà greca e barbara, per stabilire chi debba avere la meglio. I toni del discorso diventano isocratei, ed in effetti viene sovente portato a confronto un passo dell’Elena di Isocrate (cap. 51), che sia pure con intento giocoso ed umoristico riprende alcuni temi genuini del pensiero dell’oratore ateniese: Ύ΅Ϡ Θ΅ІΘȂ πΔΓϟΓΙΑ (scil. Greci e Troiani) ΓЁΛ ЀΔξΕ ̝ΏΉΒΣΑΈΕΓΙ Ύ΅Ϡ ̏ΉΑΉΏΣΓΙ Κ΍ΏΓΑ΍ΎΓϾΑΘΉΖǰ ΦΏΏȂ Γϡ ΐξΑ ЀΔξΕ ΘϛΖ ̝Ηϟ΅Ζǰ Γϡ ΈȂ ЀΔξΕ ΘϛΖ ̈ЁΕЏΔ΋Ζǰ ΑΓΐϟΊΓΑΘΉΖǰ πΑ ϳΔΓΘνΕθ Θϲ ΗЗΐ΅ ΘΓЁΎΉϟΑ΋Ζ Ύ΅ΘΓ΍ΎφΗΉ΍Ήǰ Θ΅ϾΘ΋Α ΉЁΈ΅΍ΐΓΑΉΗΘνΕ΅Α ΘχΑ ΛЏΕ΅Α σΗΉΗΌ΅΍ǯ Si pensi inoltre all’ini-

zio delle Storie erodotee (1,1-4), in cui l’origine prima degli scontri tra Europa (cioè sostanzialmente Grecia) e Oriente, tra cui anche la guerra di Troia, è vista come una serie di ratti femminili di volta in volta vendicati da una parte o dall’altra. Scrive Erodoto che i dotti persiani screditano la spedizione greca a Troia in base al principio che Θϲ ΐνΑ ΑΙΑ ΥΕΔΣΊΉ΍Α ·ΙΑ΅ϧΎ΅Ζ ΦΑΈΕЗΑ ΅ΈϟΎΝΑ ΑΓΐϟΊΉ΍Α σΕ·ΓΑ ΉϨΑ΅΍ǰ Θϲ Έξ ΥΕΔ΅ΗΌΉ΍ΗνΝΑ ΗΔΓΙΈχΑ ΔΓ΍φΗ΅ΗΌ΅΍ Θ΍ΐΝΕνΉ΍Α ΦΑΓφΘΝΑ (1,4,2): la

concessiva quamquam iustam causam fuisse inferendi belli etiam pro muliere dovrebbe essere intesa a prevenire precisamente un’obiezione di questo tipo. D’altronde questa successione erodotea di furti di donne viene ripresa nel discorso di Enea davanti all’assemblea troiana, nel corso della seconda ambasceria (2,26), in funzione antigreca. 82 Ancora una volta, una scelta che in Omero è individuale e potenzialmente in controtendenza rispetto agli interessi comuni viene in Ditti/Settimio sostituita da una scelta collegiale (cfr. Venini 1981, p. 173). 83 Cfr. Io. Mal. 5,24,28-30 ψ Έξ ̓ΓΏΙΒνΑ΋ ΔΉΕ΍ΔΏ΅ΎΉϧΗ΅ ΘΓϧΖ ΔΓΗϠ ΘΓІ ΗΓІ ·ΉΑνΘΓΙ (parla Teucro a Neottolemo, espediente narrativo derivante – come messo in luce da Patzig 1903 – da Sisifo di Cos, a sua volta dipendente da Ditti) ǀπΈνΉΘΓ ΈΣΎΕΙ ΛνΓΙΗ΅ǁ ΔΉΕϠ ΘΓІ ΅ЁΘϛΖ ΦΈΉΏΚΓІ ̸ΎΘΓΕΓΖǰ ΈΓΙΏΉϾΉ΍Α πΔ΅··Ή΍Ώ΅ΐνΑ΋ Ύ΅Ϡ ΐνΑΉ΍Α ΗϿΑ ΅ЁΘХǰ ΉϢ ΦΔΓΈХ ΘϲΑ ΑΉΎΕϱΑ ; ˜ǯ —’˜Œ‘ǯ ›ǯ ŚŚǯŝȬş ̓ΓΏΙΒνΑ΋ ǽΈξ ΔΉΕ΍ǾΔΏ΅-

LIBRO III, NOTE 81-86

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ΎΉϧΗ΅ ΘΓϧΖ ΔΓΗϠ ΘΓІ ̝Λ΍ΏΏνΝΖ πΈνΉΘΓ ΈΓΙΏΉϾΉ΍Α ΅Ё[ΘХ Ύ΅Ϡ] Δ΅Ε΅ΐνΑΉ΍Α ΘХ ΘΓІ к̈ΎΘΓΕΓΖ ΗЏΐ΅Θ΍ (~ Georg. Cedr. 128 A 15-8). Si noti

che Malala e Giovanni Antiocheno non sembrano dire esattamente lo stesso: nel primo, come nell’Ephemeris, la donna si offre in cambio della restituzione del defunto al padre; in Giovanni Antiocheno sembra invece offrirsi come serva per potersi trattenere presso il cadavere del fratello, che Achille tiene presso la sua tenda. È importante segnalare che nei bizantini (e probabilmente nell’originale di Ditti) la supplica di Polissena segue immediatamente quella di Priamo (e di Andromaca in Malala), e si colloca pertanto prima che Achille risponda al discorso di Priamo, e soprattutto prima che i comandanti greci gli consiglino di accettare il riscatto: posizione molto più logica di quanto non sia in Settimio, anche se comunque il Pelide non ha ancora comunicato di essersi già deciso in favore dei supplici, e pertanto il patetico gesto di Polissena non risulta del tutto gratuito. In ogni caso, non concorre alla decisione di Achille, ma solo a rendere meno rigido il suo atteggiamento. Si noti che in Darete il primo incontro di Polissena con Achille è parimenti legato a dei riti funebri per Ettore, ma si tratta della ricorrenza del primo anniversario della morte dell’eroe, in occasione del quale Priamo, Ecuba e Polissena si recano a visitarne il sepolcro, quibus obvius fit Achilles (De Ilii excidio 27). 84 Cfr. Il. 24,511-2 ΅ЁΘΤΕ ̝Λ΍ΏΏΉϿΖ ΎΏ΅ϧΉΑ οϲΑ Δ΅ΘνΕȂǰ ΩΏΏΓΘΉ ΈȂ ΅ЇΘΉȦ ̓ΣΘΕΓΎΏΓΑ, con la sostituzione del figlio Neottolemo al compagno morto. In Omero, per un momento, Priamo ed Achille piangono insieme, ciascuno per i cari che non rivedrà più. Non si capisce che motivo abbia qui Achille di piangere per Neottolemo, o che cosa questo momento di nostalgia abbia a che fare con la commozione suscitata dalla supplica di Polissena. Alcuni codici hanno filiae et parentis (P, ma in margine filii) o filiae parentis (E, F), segno che anche i copisti hanno trovato poco pertinente questa frase e hanno tentato di volgere la pietà di Achille verso la miseranda coppia Priamo/Polissena: ma si tratta di correzioni patentemente assurde, visto che il termine recordatio difficilmente si può adattare a persone che Achille ha davanti a sé in quel momento. Si tratterà piuttosto di una reminescenza omerica collocata un po’ a sproposito, indotta dal denominatore comune ’commozione’. 85 Cfr. Io. Antioch. fr. 44,14-5 ΘϲΑ ̓Εϟ΅ΐΓΑ Χΐ΅ ΘϜ ̓ΓΏΙΒνΑϙ ΦΑϟΗΘ΋Η΍ ΘΓІ πΈΣΚΓΙΖ. 86 Cfr. Io. Mal. 5,25,39-43; Io. Antioch. fr. 44,14-8. In Omero Achille invita Priamo a sedere (Il. 24,522), ma il vecchio re, nell’impa-

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zienza di portar via il figlio, oppone un rifiuto (553-8), al quale Achille si altera e gli ingiunge minaccioso di non mettere alla prova la sua pazienza (560-70), e Priamo obbedisce intimorito (571). Successivamente i due mangiano insieme (621-8). In Ditti la questione sembra riguardare meno la fretta del re troiano e più una questione di principio, l’osservanza di un lutto rigorosissimo fino a che il figlio non abbia sepoltura (analogo d’altronde a quello osservato dallo stesso Achille per Patroclo, cfr. il voto fatto al par. 14): e la minaccia di Achille riguarda lo scopo della visita, cioè l’effettiva restituzione del corpo del figlio, mentre nell’Iliade è chiamata in causa addirittura l’integrità fisica del vecchio re (569-70). 87 Questo incalzare di domande retoriche sul perché Priamo ed i suoi non abbiano restituito Elena, causa di tanti mali alla loro gente, può dipendere da un passo di Erodoto (2,120) in cui lo storico argomenta in favore della supposta tradizione egizia relativa al mancato arrivo della donna a Troia: se infatti Priamo avesse davvero avuto sotto il proprio controllo Elena (cioè se essa non fosse stata trattenuta dall’egiziano Proteo con le ricchezze trafugate da Paride, in attesa di venire restituita a Menelao), come si può pensare che il re sarebbe stato così pazzo da non darla indietro, vedendo l’entità della sciagura da lei causata e soprattutto vedendo morire i propri figli uno dopo l’altro? Cfr. Her. 2,120,2 ΓЁ ·ΤΕ Έχ ΓЂΘΝ ·Ή ΚΕ΅ΑΓΆΏ΅ΆχΖ ώΑ ϳ ̓Εϟ΅ΐΓΖ ΓЁΈξ Γϡ ΩΏΏΓ΍ ǀΓϡǁ ΔΕΓΗφΎΓΑΘΉΖ ΅ЁΘХǰ ГΗΘΉ ΘΓϧΗ΍ ΗΚΉΘνΕΓ΍Η΍ ΗЏΐ΅Η΍ Ύ΅Ϡ ΘΓϧΗ΍ ΘνΎΑΓ΍Η΍ Ύ΅Ϡ ΘϜ ΔϱΏ΍ Ύ΍ΑΈΙΑΉϾΉ΍Α πΆΓϾΏΓΑΘΓǰ ϵΎΝΖ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΖ ̴ΏνΑϙ ΗΙΑΓ΍Ύνϙǯ 88

Achille, nel suo sdegno contro Elena, adotta un’interpretazione dell’assenza di Castore e Polluce dal campo di battaglia simile a quella che la stessa interessata ipotizza in Il. 3,239-42: ύ ΓЁΛ οΗΔνΗΌ΋Α ̎΅ΎΉΈ΅ϟΐΓΑΓΖ πΒ πΕ΅ΘΉ΍ΑϛΖǰȦ ύ ΈΉϾΕΝ ΐξΑ ρΔΓΑΘΓ ΑνΉΗΗȂ σΑ΍ ΔΓΑΘΓΔϱΕΓ΍Η΍ǰȦ ΑІΑ ΅ЇΘȂ ΓЁΎ πΌνΏΓΙΗ΍ ΐΣΛ΋Α Ύ΅Θ΅ΈϾΐΉΑ΅΍ ΦΑΈΕЗΑǰȦ ΅ϥΗΛΉ΅ ΈΉ΍Έ΍ϱΘΉΖ Ύ΅Ϡ ϴΑΉϟΈΉ΅ ΔϱΏΏȂ Χ ΐΓϟ πΗΘ΍Α. Il narratore omerico informa poi che in

realtà i Dioscuri erano assenti dalla spedizione venuta a rivendicare la sorella non per vergogna o disgusto, ma perché erano morti in patria (3,243-4): l’argumentum dei Cypria racconta che si erano scontrati con Ida e Linceo, e avendo Ida ucciso il mortale Castore, Polideuce aveva impetrato dal padre Zeus il celebre compromesso per cui entrambi sarebbero vissuti in parte all’Ade ed in parte sull’Olimpo (PEG pars I, p. 40). Secondo Darete (par. 11) essi si sarebbero invece imbarcati da Lesbo in una spedizione privata alla volta di Troia, per recuperare la

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sorella, ma sarebbero poi scomparsi in una tempesta e così si sarebbe diffusa la fama della loro apoteosi. Si noti che Ditti, per quanto non faccia intervenire direttamente gli dei nelle vicende umane, non censura le storie di mortali divinizzati, quando il loro culto sia un dato di fatto nel mondo greco-romano: così i Dioscuri sono qui sanctissimi, ed a 1,14 si ricorda il discessus ad deos di Ercole. Non si dimentichi che malgrado le correnti evemeristiche e l’affettazione di razionalismo storiografico in Ditti, l’autore ed i suoi lettori vivevano in un mondo dove l’apoteosi post mortem dei sovrani era la norma. Sulle limitazioni all’approccio razionalistico riscontrabili in Ditti/Settimio, che ammette quel genere di soprannaturale che era comunemente accettato dai suoi contemporanei e soprattutto dalla tradizione storiografica (sogni, presagi, oracoli), cfr. Timpanaro 1987, 173-6, e Dingel 1992, 222. 89 Massime pervase di un rassegnato fatalismo e ispirate da Il. 24,525-48. Nel passo in questione tanto i benefici che le sventure che capitano ai mortali vengono ricondotti a Zeus (la famosa immagine dei due ΔϟΌΓ΍, pieno uno di doni buoni e l’altro di doni cattivi, 52733), ed il brusco precipitare di Priamo, dalla fama di ϷΏΆ΍ΓΖ tra tutti i re, detenuta in virtù del numero di figli e della ricchezza, all’infelicità, viene attribuito alla volontà ostile degli dei che lo hanno circondato di nemici: ΅ЁΘΤΕ πΔΉϟ ΘΓ΍ Δϛΐ΅ ΘϱΈȂ ό·΅·ΓΑ ̒ЁΕ΅ΑϟΝΑΉΖǰȦ ΅ϢΉϟ ΘΓ΍ ΔΉΕϠ ΩΗΘΙ ΐΣΛ΅΍ ΘȂ ΦΑΈΕΓΎΘ΅Ηϟ΅΍ ΘΉ (547-8). Ancora una volta assistiamo alla trasformazione di commenti impietositi dell’Achille omerico in affermazioni di Priamo pro domo sua. 90 Settimio, che qui forse traduce un termine generico come ΐΣΑΘ΍ΈΉΖ, introduce un anacronismo: l’aruspicina era una pratica divinatoria (di origine etrusca) propria della religione romana. 91 Numerose le attestazioni di questa leggenda sin da Pindaro Pae. VIIIa (= fr. 52i A) 15-23 e dalla tragedia attica, in particolare Eur. Andr. 293-300 e Tro. 919-922. Vd. inoltre Lycophr. 225, 913 (e schol. 86, 224); Schol. in Hom. Il. 12,93; Apollod. 3,12,5; Enn. Alexander 35-46 Vahlen = 50-61 Jocelyn; Verg. Aen. 7,319-20, 10,704-5 (con relativo commento di Servio); Ov. Her. 16,45-9; Hyg. Fab. 91,3. Le narrazioni troiane di Giovanni Malala (5,3), Giovanni Antiocheno (fr. 40) e Costantino Manasse (1118-44) cominciano ab ovo la loro trattazione proprio dal sogno di Ecuba e dall’educazione di Paride fuori dalla città, per poi ricollegarsi al suo viaggio in Grecia ed al ratto di Elena, che costituisce invece il punto cronologico di partenza della narrazione di Ditti/Settimio.

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Questa versione dell’accoglienza di Elena è piuttosto discutibile, per non dire una palese mistificazione: in realtà lo sbarco della regina greca a Troia era stato accompagnato da proteste e rimproveri, cfr. 1,7 cuius adventu, tota civitas cum partim exemplum facinoris exsecrarentur, alii iniurias in Menelaum admissas dolerent, nullo omnium adprobante, postremo cunctis indignantibus tumultus ortus est. Priamo dipinge un clima di illusoria unanimità, in cui solo una persona fuori dal comune come Antenore riesce a mantere uno sguardo lucido: probabilmente si tratta ancora di una tattica per alleviare la propria responsabilità personale agli occhi di Achille. A questo scopo riprende il tema iliadico dell’AtƝ, l’entità divina che acceca gli uomini tanto da renderli causa di grandi mali per loro stessi: essa era stata evocata in particolar modo da Agamennone in Il. 19,85-138, luogo in cui il capo supremo del corpo di spedizione greco si discolpa con Achille davanti all’esercito per il comportamento arrogante tenuto in assemblea nel primo libro, assegnando di fatto tutta la responsabilità alla volontà divina. Priamo parla invece di un accecamento non personale ma collettivo, comunque operato urgente atque instigante quodam numine. 93 Tema che ispira un celebre passaggio iliadico, quello in cui Ettore immagina il destino servile che attende la moglie Andromaca dopo la caduta di Ilio (6,450-65). 94 Cfr. Io. Mal. 5,25,44-7 Ύ΅Ϡ ΘΉΌνΑΘΝΑ ΘЗΑ ΏϾΘΕΝΑ πΔϠ ΘϛΖ ·ϛΖ ϢΈАΑ ϳ ̝Λ΍ΏΏΉϿΖ Θϲ ΔΏϛΌΓΖ ΘЗΑ ΈЏΕΝΑ ΘϱΑ ΘΉ ΛΕΙΗϲΑ Ύ΅Ϡ ΘϲΑ ΩΕ·ΙΕΓΑ ΈνΛΉΘ΅΍ Ύ΅Ϡ πΎ ΘΓІ ϡΐ΅Θ΍ΗΐΓІ ΐνΕΓΖǰ ΘΤ Έξ ΏΓ΍ΔΤ ̓ΓΏΙΒνΑϙ Λ΅Ε΍ΗΣΐΉΑΓΖ ΦΔνΈΝΎΉ ΘϲΑ ΑΉΎΕϱΑ ~ Georg. Cedr. 128 B21-2; Tz. Posth.

395-401. I doni offerti a Polissena (non ricordati, tra i bizantini, da Giovanni Antiocheno) si possono considerare specie di σΈΑ΅ in vista dell’unione con la ragazza che Achille progetta: Tzetzes addirittura chiama il dono ΐΑϛΐ΅ ·ΣΐΓ΍Γ (v. 399). Ciò non di meno nei bizantini si fa menzione esplicita di un innamoramento di Achille solo in occasione del secondo incontro (Io. Mal. 5,28,48-9; Georg. Cedr. 129 D14ss.; Const. Man. 1382ss.), quello in occasione della festa presso al bosco sacro ed al tempio di Apollo Timbreo, il che lascia perplessi: abbiamo detto sopra (cfr. nota 7) come Settimio (se vogliamo ammettere che i bizantini riflettano fedelmente Ditti) potrebbe aver sdoppiato di sua iniziativa la scena al tempio, anticipandola rispetto ai ΏϾΘΕ΅, per rendere più naturale la sequenza. 95 Ulteriore offerta al re di Ftia che tenga con sé la ragazza, stavolta ad opera del padre (la storia di Achille e Polissena nell’Ephemeris

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è un proliferare di doppioni: due offerte, due messaggi inviati dallo spasimante alla famiglia della ragazza, due incontri al tempio di Apollo Timbreo – cfr. Milazzo 1984, 22 n. 32). Achille rifiuta e rimanda ad altra occasione, il che può sembrare strano (secondo Timpanaro 1987, 182, si tratta del solito atteggiamento ludico di Ditti/Settimio, impegnato ad eludere in continuazione le aspettative dei lettori per sorprenderli – ragion per cui i suoi personaggi appaiono particolarmente volubili, ed il loro comportamento contraddittorio). Una spiegazione plausibile si trova nella versione di Giovanni Antiocheno (fr. 44,19-20): ϳ Έξ ̝Λ΍ΏΏΉϿΖ ΦΑΉΆΣΏΏΉΘΓ ΅ϢΗΛΙΑϱΐΉΑΓΖ ΘΓϿΖ ̸ΏΏ΋Α΅Ζ ΎΕ΅ΘϛΗ΅΍ ΘϱΘΉ ΘχΑ ̓ΓΏΙΒνΑ΋Αǰ ΉϢΔАΑ ΐΉΘȂ ϴΏϟ·ΓΑ ΅ЁΘχΑ ϴΔΣΗΉΗΌ΅΍. Quindi sarebbe il ritegno di fronte ai commilitoni a fermare Achille. Sempre in Giovanni Antiocheno Priamo vuole lasciare la figlia in qualità di serva: questo spiega forse l’assenza, nel cronachista bizantino, del galante dono delle vesti preziose, osservando il quale il vecchio padre avrebbe potuto sperare di lasciare la figlia come consorte, e non come schiava. La versione di Malala (5,25,47-9) combacia invece perfettamente con l’Ephemeris.

NOTE AL LIBRO QUARTO 1

All’interno del IV libro dell’Ephemeris Merkle 1989, 136-138 ha individuato tre blocchi principali che scandiscono il susseguirsi degli eventi: l’arrivo di Pentesilea e di Memnone, che accresce le speranze dei Troiani (capp. 1-9), l’uccisione di Achille nel tempio di Apollo Timbreo per mano di Alessandro e Deifobo (capp. 10-14) e il rovesciamento della situazione a favore dei Greci (capp. 15-22). Tuttavia, all’interno di questi tre nuclei principali sono state individuate ulteriori suddivisioni che permettono di distinguere le relazioni tra i singoli capitoli. Il primo blocco narra dell’arrivo delle truppe ausiliarie schierate dalla parte dei Troiani: il cap. 1, dedicato alla cerimonia funebre in onore di Ettore, si collega al cap. 9, che narra della morte di Troilo; i capp. 2-3, incentrati sull’arrivo delle Amazzoni e sulla loro sconfitta, con la conseguente fuga dei Troiani, si legano all’episodio analogo nei capp. 7-8, con i quali si chiude la parabola di Memnone e del suo esercito. Rimangono isolati il cap. 4, che narra dell’arrivo di Memnone e delle sue truppe, e il cap. 6, relativo al suo scontro con Aiace e all’uccisione per mano di Achille. Gli scontri narrati nel cap. 5 e nei capp. 19-20 (appartenenti al terzo blocco) sono invece accomunati dal fatto che soltanto il sopraggiungere della notte ritarda il saccheggio della città. Il secondo nucleo è incentrato sulla morte di Achille: questi, vittima di un inganno, si reca nel tempio di Apollo mentre tra le file dell’esercito greco si diffonde il sospetto di un tradimento da parte sua, e ciò spinge Aiace, Diomede e Ulisse a seguire l’eroe (cap. 10). Tuttavia essi non riescono a evitare che il Pelide sia ucciso (cap. 11), e grazie all’intervento di Aiace il corpo dell’eroe è sottratto alla furia dei Troiani e riceve una degna sepoltura (capp. 12-13). Il terzo blocco, infine, narra le ultime battaglie: Euripilo giunge in aiuto dei Troiani (cap. 14) e poco dopo Neottolemo si unisce alle file dei Greci (capp. 15-16); Enea si allontana dallo scontro, ove Euripilo trova la morte (cap. 17), ed Eleno predice l’imminente fine di Troia (cap. 18); in un duello con Filottete Paride trova la morte e i Greci rimandano il saccheggio della città a causa del sopraggiungere della notte (capp.

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19-20); i Mirmidoni si recano presso la tomba di Achille mentre il corpo di Paride è restituito a Enone, sua precedente moglie (cap. 21). Il libro si chiude con le trattative segrete avviate da Antenore con i capi greci (cap. 22), che sanciscono l’imminente fine della città. 2 La congiunzione sed in posizione iniziale lega la fine del III libro, incentrata sul riscatto del cadavere di Ettore, all’inizio del IV, il cui primo capitolo è dedicato ai funerali dell’eroe troiano. 3 Nonostante il tentativo di Priamo di riscattare il corpo di suo figlio, i Troiani non avevano riposto alcuna speranza nell’impresa, non tanto per una mancata fiducia nei confronti dei Greci, quanto per la consapevolezza che ciò sarebbe stato assai difficile senza la restituzione di Elena. Differentemente, nella tradizione omerica (Il. 24,201 ss.) Ecuba cerca di dissuadere Priamo dal recarsi presso la tenda di Achille perché teme che il Pelide sia crudele e privo di compassione nei riguardi del re troiano (vv. 206-7: ΉϢ ·ΣΕ ΗȂ΅ϢΕφΗΉ΍ Ύ΅Ϡ πΗϱΜΉΘ΅΍ ϴΚΌ΅ΏΐΓϧΗ΍Αǰ / Вΐ΋ΗΘχΖ Ύ΅Ϡ ΩΔ΍ΗΘΓΖ ΦΑχΕ ϵ ·Ή ΓЄ ΗȂπΏΉφΗΉ΍, «Se ti sorprenderà e ti vedrà coi suoi occhi / sarà un uomo crudele e infido, e non avrà pietà»). Dati questi presupposti, quando Priamo e il suo seguito fanno ritorno con il corpo di Ettore, lo stupore dei Troiani, enfatizzato da Settimio con il susseguirsi dei verbi admiror e laudo e attraverso l’espressione ad caelum ferre, non può che essere notevole, e al tempo stesso l’occasione consente all’autore dell’Ephemeris di mettere in luce la pietas dell’esercito greco. Dal momento che la struttura del periodo è poco chiara, Lackner 1908, 25 aveva pensato a uno dei casi dell’Ephemeris in cui l’ablativo è costruito senza la preposizione in (cfr. ad es. 4,2 e 5,16); Lucarini 2007, 235, invece, propone di leggere spes e di farlo dipendere da haeserat, cui lega ipsumque et qui cum eo fuissent retineri. 4 Il termine funus nell’accezione di «salma» – laddove i codd. R, P ed E attestano la lectio facilior cadavere – è frequente in poesia: cfr. Catull. 64,83; Verg. Aen. 6,510; Hor. C. 1,28,19; Prop. 1,17,8. 5 Marblestone 1970, 2, 202 ritiene che il dativo di possesso cui, attestato dai codd. E, P e F, renda più agevole la lettura rispetto al nominativo qui, che compare sovrascritto nel cod. P. 6 L’amabilità di Ettore è un tratto presente sia nella tradizione omerica (cfr. ad es. Il. 15,440 e 18,335) che in quella paraomerica, in particolare nella descrizione del personaggio offerta da Darete Frigio nella De excidio Troiae Historia (12: in civibus clementem dignum

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NOTE AL TESTO DI DITTI

amore aptum, «clemente verso i suoi concittadini, degno di ricevere e capace di dare amore»). 7 La morte del valoroso figlio di Priamo rappresenta la caduta dell’ultimo baluardo in difesa dei Troiani, e con essa termina anche quella parte dell’Ephemeris che si lega ai fatti dell’Iliade, introducendo, con l’arrivo di Pentesilea e di Memnone, quelli dell’Etiopide. Mentre la narrazione di Settimio – dalla quale emerge un punto di vista filellenico – dedica un certo spazio alla reazione dei nemici in seguito alla vista del cadavere e alla cerimonia funebre (le cui scene di pathos di massa richiamano la storiografia tragica), nei capp. 24 e 25 dell’opera di Darete Frigio – la cui ottica filotroiana è stata anche messa in discussione, cfr. ad es. Lentano 2014 – il medesimo episodio è appena accennato. Dopo la morte di Ettore l’autore della Historia conclude il cap. 24 con l’espressione noctu Troiani Hectorem lamentantur, Graiugenae suos («nella notte i Troiani piansero la morte di Ettore e i Greci i loro defunti») e all’inizio di quello successivo narra soltanto che Priamo avrebbe fatto seppellire il cadavere di suo figlio dinanzi alle porte della città, probabilmente per analogia col suo ruolo di guida per il popolo troiano. Questa versione è attestata anche da Giovanni Malala (Chron. 5,25,52) e dall’anonimo autore dell’̳ΎΏΓ·φ ͒ΗΘΓΕ΍ЗΑ (Cramer Anecd. Par. 2,218,6): «lo seppellirono presso le mura, fuori dalla città di Ilio» (ΌΣΔΘΓΙΗ΍ Δ΅ΕΤ Θϲ ΘΉϧΛΓΖǰ σΒΝ ΘϛΖ ΔϱΏΉΝΖ д̌ΏϟΓΙǼ. Comune a tutte e tre le fonti è la descrizione dell’episodio in Il. 24,776-884 e nell’Ilias Latina (vv. 1045b-1062). 8 Si tratta del fondatore di Troia, figlio di Troo e della ninfa Calliroe: secondo la tradizione (Apollod. Bibl. 3,12,3) si sarebbe recato in Frigia, ove il re aveva indetto dei giochi, e tra i premi per la vittoria ottenuta in una gara di pugilato avrebbe ricevuto anche una mucca. Secondo un oracolo l’animale si sarebbe fermato nel punto in cui Ilo avrebbe potuto costruire la sua città, e fu così che sorse Ilio (Troia). Per la sua presenza nella tradizione omerica cfr. Il. 10,415; 11,166, 371 s.; 24,349. 9 Per la scena di lutto collettivo cfr. Il. 24,720-722: «gli misero accanto i cantori, che diedero inizio al canto funebre; questi intonavano una lamentosa canzone, e tutt’intorno le donne gemevano» (Δ΅ΕΤ ΈȂΉϩΗ΅Α ΦΓ΍ΈΓϿΖ / ΌΕφΑΓΙ πΒΣΕΛΓΙΖǰ Γϣ ΘΉ ΗΘΓΑϱΉΗΗ΅Α ΦΓ΍ΈχΑ / Γϡ ΐξΑ ΩΕȂπΌΕφΑΉΓΑǰ πΔϠ Έξ ΗΘΉΑΣΛΓΑΘΓ ·ΙΑ΅ϧΎΉΖǼǯ Secondo il rito funebre

greco, la salma era dapprima esposta al compianto di parenti e amici

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(ΔΕϱΌΉΗ΍Ζ), dopodiché era condotta verso la pira (πΎΚΓΕΣ), e infine le ceneri erano raccolte in un’urna e riposte in un luogo dove, in occasione di particolari ricorrenze e anniversari, sarebbero stati celebrati dei riti, la cui competenza era esclusivamente femminile (Gagliardi 2007, 24-25). Nell’Ephemeris Settimio dedica ampio spazio alla ΔΕϱΌΉΗ΍Ζ della salma: i gesti dei Troiani e degli alleati, che accorrono, si sciolgono in lacrime, si profondono in manifestazioni di dolore estreme – strappandosi ciocche di capelli e graffiandosi il viso –, fino a ritenere che ormai non rimanga più alcuna speranza di salvezza, sono disposti lungo una climax ascendente che esalta la drammaticità del momento. Al contrario, il rito successivo, quello della cremazione, è del tutto omesso dall’autore, e la sequenza si conclude con un breve cenno alla sepoltura. 10 Il complemento d’agente espresso con per seguito dall’accusativo ricorre in Vulg. Psalm. 32,16 e in Greg. Tur. Hist. 4,4. 11 Poiché in Il. 24,664 e 784 i funerali di Ettore prevedono nove giorni di compianto e due di sepoltura, Marblestone 1970, 2, 203 ha ipotizzato che l’espressione postrema funeri possa indicare la preparazione del tumulo, l’ultima fase del rito. Settimio circoscrive le azioni dei Troiani all’interno di una tregua concessa dai Greci, con la quale non manca di sottolineare ancora una volta la loro pietas nei confronti dell’esercito nemico; diversamente, Darete (25) afferma che i funerali di Ettore si sarebbero svolti in seguito a un’ambasceria di Agamennone presso il re Priamo, al quale il comandante greco avrebbe chiesto una tregua della durata di due mesi. Già attraverso questo confronto è possibile sottolineare come la ricorrenza delle tregue caratterizzi sia l’opera di Settimio che quella di Darete, ove gli armistizi non sono soltanto frequenti, ma si protraggono per mesi (cfr. cap. 25: indutias duum mensium) o addirittura anni (cfr. cap. 20: proelium post biennium repetitum est). Probabilmente all’origine di questa caratteristica comune è il fatto che sia l’Ephemeris che la Historia narrano il conflitto tra Greci e Troiani dal rapimento di Elena fino alla distruzione di Troia, e non gli ultimi cinquantuno giorni di guerra, come accade nell’Iliade. Tuttavia non si può escludere che nella Historia la durata eccessiva delle tregue tenda a conferire ulteriore drammaticità al racconto, oltre ad essere legata, come nell’Ephemeris, alla necessità di seppellire i caduti e di reintegrare le truppe: non sembra un caso infatti che nell’ultimo capitolo dell’opera Darete indichi, con una pretesa di veridicità, il numero esatto

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delle perdite subite da entrambe le parti (cap. 44: Ruerunt ex Argivis, sicut acta diurna indicant quae Dares descripsit, hominum milia DCCCLXXXVI et ex Troianis ruerunt usque ad oppidum proditum hominum milia DCLXXVI). 12 Anche nel testo di Darete Frigio si legge Penthesilea postea supervenit (35), ove il verbo supervenio sembra riecheggiare la sequenza «giunse l’Amazzone» (ώΏΌΉ ΈȂ ̝ΐ΅ΊЏΑ), appartenente a un frammento dell’Etiopide di Arctino di Mileto (fr. 1 Bernabè). 13 Oltre alla testimonianza di Arctino di Mileto, di Pentesilea recano notizia anche Proclo (Chrest. 172 Seve. = arg. p. 67 Bernabè) e alcune occorrenze a carattere epigrafico (IG XIV 1284 I 10 e IG XIV 1285). Con i suoi comportamenti maschili la regina delle Amazzoni riflette un modello contraddistinto dalla rinuncia alla vita coniugale, in virtù del quale la negazione dell’ΓϥΎΓΖ – la famiglia – esprime una netta cesura nei confronti di una società androcentrica. Contravvenendo a una mentalità maschile ed ellenocentrica, le Amazzoni rappresentano una minaccia all’ordine costituito (Bär 2009, 111): la loro femminilità, la cui violenza sfugge al controllo maschile, il loro essere uguali e opposte agli uomini (cfr. Il. 3,189) e la loro origine barbara le rendono tre volte estranee ai Greci (Carlier 1979, 381). Dowden 1997, 99 ha ipotizzato in modo assai suggestivo che il nome di Pentesilea sia legato etimologicamente a quello del Pelide: ΔνΑΌΓΖ, il dolore, riflette l’angoscia (ΩΛΓΖ) di Achille, ed entrambi i nomi terminano con Ώ΅ϱΖ, il popolo in armi, perché è nella guerra che i due personaggi trovano la morte. Nel primo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne (vv. 20-32), completamente dedicato all’aristia dell’Amazzone, il suo arrivo a Troia è motivato dalla necessità di una purificazione per mano di Priamo in seguito all’uccisione involontaria di Ippolita – sorella della regina – durante una battuta di caccia, ma questo episodio è del tutto assente sia nell’Ephemeris di Settimio che nella Historia di Darete. 14 Cfr. 3,15. 15 Secondo la tradizione, le Amazzoni che attorniano Pentesilea sono figlie di Ares e Armonia, stanziate a Temiscra, sul corso del Termodonte in Asia Minore (LIMC, 586-587), sebbene nell’Etiopide la loro patria sia identificata con la Tracia (cfr. Proclo, Chrest. 172 Seve. = arg. p. 67 Bernabè). Diodoro (2,45,3) spiega l’etimologia del loro nome col significato di «senza mammella», in base alla consuetudine di amputare il seno destro durante l’infanzia per

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rendere più facile l’uso dell’arco. Nonostante anche Virgilio (Aen. 1,491-493) parli di un «aureo cinto sotto la mutilata mammella», l’iconografia non porta alcun segno di questa mutilazione, mentre a proposito dei loro costumi lo Pseudo-Ippocrate attesta l’abitudine di lussare le ginocchia dei bambini di sesso maschile per renderli zoppi ed evitare che possano in seguito nuocere alle donne (Art. 4,232,53 Littré). Una curiosa etimologia, risalente a Eustazio (ad Il. 3,189), collega il nome delle Amazzoni al loro uso di nutrirsi di tartarughe, lucertole e serpenti anziché delle comuni focacce (ΐκΊ΅΍), abitudine ripugnante agli occhi di un uomo greco, che accostava queste donne ai Trogloditi menzionati da Erodoto in Hist. 4,183 (Carlier 1979, 400). Studi moderni propendono per un’origine del nome legata a quello di una tribù iranica (*ha-mazan), dalla generica valenza di «guerrieri» (Chantraine 1999, 69). Nella tradizione omerica le Amazzoni sono menzionate già in Il. 3,188-189 a proposito di un loro scontro con un giovane Priamo, e in Il. 6,186, in riferimento alla spedizione di Bellerofonte in Licia. Le Amazzoni sono definite «senza uomini» (ΩΑ΅ΑΈΕΓ΍) in Aesch. Suppl. 287, e rappresentano un assetto socialmente impossibile per la cultura greca (Dowden 1997, 97-98), ma soprattutto la loro stirpe barbara fa sì che siano governate non da un magistrato, bensì da una regina, laddove la tirannide e la regalità rappresentano il polo opposto della democrazia greca (Carlier 1979, 399). Inoltre, sotto una lente sociologica le Amazzoni incarnano una condizione riconducibile alla fase pre-adolescenziale, dai tratti maschili e femminili, riscontrabile nelle feste degli Hybristikà di Argo, durante le quali le donne erano vestite da uomini e imbracciavano le armi: si trattava di un rito di iniziazione seguito dalla separazione dei due sessi nell’età adulta (Du Bois 1979, 45). Nonostante ciò, soprattutto in età classica le Amazzoni finiscono per rappresentare, sia nell’arte che nella letteratura (cfr. ad es. Aesch. Eum. 681-693 e Aristoph. Lys. 672-679), la minaccia di un genere femminile indispensabile ai fini della successione, ormai subordinato alle norme di una società maschile, ma non abbastanza controllato da essere percepito come inoffensivo (Maarten Bremer 2000, 59). 16 Le ricchezze cui fa riferimento Settimio per sottolineare l’avidità della regina – sulla quale un’insinuazione era stata già fatta in 3,15 – sono del tutto assenti nell’opera di Darete Frigio, mentre nel primo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne sono ricordate con

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scherno da Achille come doni che l’Amazzone avrebbe ricevuto in caso di vittoria (vv. 646-648: ͂ ΔΓΙ σΚ΋ΗΌ΅ ΐΣΛ΋Ζ ΦΔΓΑΓΗΘφΗ΅Η΅ / ΓϥΗΉ΍Α ΩΗΔΉΘ΅ ΈЗΕ΅ Δ΅ΕΤ ̓Ε΍ΣΐΓ΍Γ ·νΕΓΑΘΓΖ / ΎΘΉϟΑ΅Ηв ̝Ε·ΉϟΓΙΖDz, «Pensavi forse che di ritorno dalla pugna avresti ricevuto immensi doni dal vecchio Priamo, sterminati gli Argivi?»). Proprio per il carattere cursorio del riferimento nei Posthomerica e per quello esplicito della testimonianza dell’Ephemeris, alcuni studiosi hanno postulato l’esistenza di una variante del mito secondo la quale l’Amazzone era una mercenaria assoldata dai Priamidi (Vian 1963, 16). Tuttavia si può anche ipotizzare che Settimio si sia servito di questo elemento per gettare un’ombra fosca sia sulla regina delle Amazzoni, che dopo aver appreso della morte di Ettore è convinta a restare soltanto dalle generose offerte, sia sui Troiani, in particolare su Alessandro, disposto a tutto pur di ricevere aiuto contro i Greci. Anche nella Chronographia di Malala (5,26,56-57), nell’ְțȜȠȖȒ ͒ΗΘΓΕ΍ЗΑ e nel Compendium Historiarum di Giorgio Cedreno (128 B) si fa riferimento alle ricchezze che Alessandro avrebbe offerto alla regina per convincerla a restare (Cramer, Anecd. Par. 2,218, 10-11: σΔΉ΍ΗΉΑ ΅ЁΘχΑ ΐνΑΉ΍Α ΛΕΙΗϲΑ Έ΍ΈΓϿΖ ϡΎ΅ΑϲΑ ΅ЁΘϜǼǯ 17

Comune a Settimio e a Darete Frigio (3) è l’anacronismo dei combattimenti di cavalleria in riferimento all’età omerica. Per la collocazione di Pentesilea tra i cavalieri cfr. Mal. Chron. 5,26,62 (ΐνΗΓΑ ΘЗΑ ϡΔΔνΝΑ ЀΔϛΕΛΉ ΗϿΑ ΘХ Ηϟ·ΑУǼ e Cramer Anecd. Par. 2,218,15. 18 L’atteggiamento filellenico di Ditti emerge anche dalla descrizione degli schieramenti: all’approssimativa disposizione dei nemici, divisi al loro interno a causa della mancata fiducia di Pentesilea nei guerrieri troiani, si contrappone l’abilità dei Greci, che si distribuiscono in modo omogeneo – ma compatto – su tutti e tre i fronti. Timpanaro 1987, 184 ha inoltre sottolineato come l’ordine silenzioso dei Greci, chiamati a più riprese nostri dall’autore, si contrapponga alle urla e al tumulto dei barbari, e ha indicato come fonte per questa opposizione Il. 3,1-19. 19 Nella Chronographia di Malala (5,26,68Ǽ Teucro afferma di aver ucciso molti uomini e di essere stato oggetto di lode da parte dei Greci (Ύ΅Ϡ ΎΘΉϟΑΝ π·А ̖ΉІΎΕΓΖ ΔΓΏϿ ΔΏϛΌΓΖ ГΗΘΉ πΔ΅΍ΑΉΗΌϛΑ΅΍ ΐΉ БΖ ΦΕ΍ΗΘΉϾΗ΅ΑΘ΅ǯ Stesse parole anche in Cramer Anecd. Par. 2,218,2122). Come ha osservato Marblestone 1970, 2, 205-206, la lezione teucris, presente nel consensus codicum · e nel cod. E, indicherebbe – come in Virgilio – un riferimento ai Troiani, ma dal contesto si evince

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che lo scontro si consuma tra un numero ristretto di guerrieri greci e le Amazzoni, che combattono seorsum ab Troianis. Inoltre, la pericope che segue l’espressione cadunt sagittis reginae plurimi sembra indicare uno schieramento opposto a quello delle Amazzoni, nel quale teucris non sarebbe plausibile. Inoltre, a suffragare la lezione Teucro concorre un altro fattore, ossia la presenza di un combattimento tra arcieri, tra i quali Teucro spiccava. Tuttavia è curioso che Settimio escluda Merione, così come è strana l’assenza di Idomeneo, citato da Malala in Chron. 5,26,66. Differentemente, in Darete Merione compare nel cap. 13, all’interno della galleria dei ritratti (Merionem rufum mediocri statura corpore rotundo viriosum pertinacem crudelem inpatientem: «Merione aveva la chioma rossiccia, di media statura, dal corpo ben proporzionato, impetuoso, ostinato, crudele e impaziente»), nel catalogo delle navi al cap. 14 (Idomeneus et Meriones ex Creta cum navibus numero LXXX) e nel cap. 19, ove si narra della sua morte per mano di Ettore (Hector Patroclum occidit et spoliare parat. Meriones eum ex acie, ne expoliaretur, eripuit. Hector Merionem persequitur et occidit: «Ettore uccise Patroclo e si preparò a spogliarlo delle armi, ma Merione portò via il cadavere perché non gli fossero sottratte le armi. Ettore inseguì Merione e lo uccise»). Teucro invece è citato soltanto nel cap. 14, quando giunge insieme col fratello Aiace (Aiax Telamonius ex Salamina adduxit secum Teucrum fratrem). 20 Gli umboni, le parti sporgenti degli scudi, erano utilizzati per colpire i nemici (cfr. Liv. 9,41,18). 21 L’intensivo obtrunco, frequente in Settimio e dalla macabra connotazione (“to cut to pieces, slaughter, butcher, kill”, OLD s.v.), compare anche nella Historia di Darete in riferimento all’uccisione di Pentesilea per mano di Neottolemo (36). 22 Anche nell’Etiopide Pentesilea era a cavallo, come attestato da diverse testimonianze iconografiche che dichiarano di ispirarsi esplicitamente al poema, tra cui la Tabula Iliaca Capitolina (Sodano 1951, 59-60). Nei Posthomerica di Quinto di Smirne il destriero di Pentesilea, donatole di Borea, è citato più di una volta (cfr. ad es. Posth. 1,166), mentre nell’opera di Darete non compare affatto. 23 Dall’espressione neque difficilius quam feminam emerge tutto il disprezzo dell’autore dell’Ephemeris per questo esercito composto da donne: il fatto che l’Amazzone sia una guerriera non impedisce al Pelide di disarcionarla come una qualunque donna a cavallo. Questa nota di biasimo non compare nella narrazione di Malala (e pari-

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menti in Cramer Anecd. Par. 2,218,24-27), il quale riferisce soltanto che Achille si sarebbe avvicinato al cavallo dell’Amazzone, avrebbe colpito la regina con l’asta e una volta atterrata l’avrebbe trascinata per i capelli ancora viva (5,26,71-73: Ύ΅Ϡ ΔΏ΋ΗϟΓΑ ΘΓІ ϣΔΔΓΙ ΅ЁΘϛΖ ΚΌΣΗ΅Ζ ΈϱΕ΅Θ΍ ΎΕΓϾΗ΅Ζ ΅ЁΘχΑ ΦΔϲ ΘΓІ ϣΔΔΓΙ Ύ΅Θ΅ΆΣΏΏΉ΍ Ύ΅Ϡ σΘ΍ ΊЗΗ΅Α ΅ЁΘχΑ σΏΎΉ΍ ΔΉΗΓІΗ΅Α πΎ ΘϛΖ Ύϱΐ΋Ζ). Tuttavia, né Settimio né

Malala accennano a un’eventuale resa di Pentesilea, presente invece nel primo libro dei Posthomerica (vv. 599-624), quando l’Amazzone, dopo essere stata colpita al seno destro e sentendosi ormai vicina alla morte, osserva il suo avversario mentre questi è in procinto di tirarla giù dal cavallo, e per un attimo pensa di indurlo a risparmiarle la vita offrendogli dei doni. Nonostante il temperamento fiero, l’Amazzone di Quinto di Smirne mostra un atteggiamento del tutto umano. 24 Malala (Chron. 5,26,75) specifica che furono gli stessi fuggitivi a chiudere le porte della città (Έ΍Τ ΘΓϿΖ ΚΉϾ·ΓΑΘ΅Ζ). Cfr. anche Dar. 33, ove, alla morte di Memnone, reliqui in oppidum confugerunt, portas clauserunt. 25 Per l’espressione ab aliquo manum abstinere cfr. Cic. Verr. 1,93, mentre per la costruzione del verbo con l’ablativo semplice cfr. 2,34 e 5,15. 26 Il riguardo dei Greci nei confronti delle donne troiane può avere più di una motivazione. Da una parte esso riflette la consuetudine greca, durante le operazioni belliche, di non uccidere donne e bambini, che sarebbero stati invece tratti in schiavitù: lo stesso Tucidide (7,29,4), infatti, condanna il comportamento dei Traci, il popolo assetato di sangue (·νΑΓΖ ΚΓ΍Α΍ΎЏΘ΅ΘΓΑ) che massacra gli abitanti di Micalesso, senza risparmiare donne e bambini. D’altra parte, questo stesso passo può anche essere letto come lo specchio di una società androcentrica, per la quale le donne che non si sostituiscono agli uomini imbracciando le armi – prerogativa maschile – hanno la possibilità di sopravvivere, mentre le Amazzoni, che contravvengono a questa norma, sono punite con la morte. 27 Cfr. Mal. Chron. 5,26,78 e Cramer, Anecd. Par. 2,218,31-32 (ΘϛΖ Έξ σΘ΍ πΐΔΑΉΓϾΗ΋Ζ: «mentre Pentesilea respirava ancora»). 28 Merkle 1989, 121, n. 100 ha evidenziato la correlazione tra questo passo e Sall. Cat. 61,4, ove si legge Catilina...repertus est, paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivus, in vultu retinens. Nel testo di Settimio il verbo admiror e il sostantivo audacia non possono avere una connotazione positiva, poiché proprio l’aspetto fie-

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ro dell’Amazzone induce i Greci a escogitare un modo per punire la sua tracotanza, anche quando la regina è in fin di vita. Di converso, nei Posthomerica di Quinto di Smirne (1,657-674), quando Achille toglie l’elmo a Pentesilea – ormai morta – gli Argivi si stupiscono del suo aspetto, reso ancora più bello da Afrodite per alimentare il rimorso nel cuore del Pelide, ma non solo: al pari dei suoi commilitoni, anche l’eroe è colto dal pentimento per non averla condotta come sposa a Ftia. Leggendo dunque il passo dell’Ephemeris, ove invece emerge la crudeltà dell’esercito greco (resa ancor più evidente dall’espressione ad persentiendum) persino nei confronti di un nemico che giace sconfitto, sembra che l’unico punto di contatto con l’opera di Quinto sia proprio la figura di Achille. Sebbene qui non si parli esplicitamente di un rimorso né di un sentimento d’amore da parte dell’eroe, questi vuole offrire, con quella stessa pietas che i Troiani avevano lodato dopo la restituzione del corpo di Ettore, una degna sepoltura all’Amazzone. 29 L’immagine del cadavere in pasto ai cani (e agli uccelli) è di ascendenza omerica (cfr. Il. 1,4; 8,379; 13,831 e Od. 14,133, ma anche Q. S. 10, 335 e 354) e rappresenta uno dei tabù più sentiti nelle culture antiche: quello di non avere una morte dignitosa consolidata da un opportuno cerimoniale, ossia morire ΩΎΏ΅ΙΘΓΖ («non compianto») e ΩΌ΅ΔΘΓΖ («insepolto»), come dice Elpenore a Odisseo in Od. 11,54. Se ciò accadesse il defunto sarebbe privato dell’omaggio ai morti, il ·νΕ΅Ζ Ό΅ΑϱΑΘΝΑ, consistente nella cerimonia, nei doni, in un tumulo e infine nella sepoltura, onori riservati agli eroi morti in guerra in grado di conferire loro la gloria imperitura (Gagliardi 2007, 155). 30 Per l’autore dell’Ephemeris la colpa principale di Pentesilea consiste nell’essersi elevata al di sopra dello status di donna, perché, a differenza del ruolo di guerriero, che un uomo può rivestire senza limiti di tempo, quella dell’Amazzone è una condizione transitoria, che può terminare col matrimonio o con la morte (Dowden 1997, 123). La stessa nota di biasimo compare anche in Q. S. 1,651-653, ma è assente in Malala. 31 Poiché Pentesilea non è ancora morta, come emerge dall’aggettivo seminecem e dal fatto che i Greci vogliano gettarla nel fiume o darla in pasto ai cani perché se ne renda conto (ad persentiendum), il verbo interficio in questo caso non può avere il significato di uccidere, semmai quello di «ridurre in fin di vita». Questa interpretazione ha riscontro nella testimonianza di Malala, in Cramer, Anecd. Par.

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2,219,1-4 (Chron. 5,26,82-83: Ύ΅Ϡ ΉЁΌνΝΖ ϳ ̇΍ΓΐφΈ΋Ζ πΔ΍Ώ΅ΆϱΐΉΑΓΖ ΅ЁΘ΋Ζ ΘЗΑ ΔΓΈЗΑ ΉϢΖ ΘϲΑ ̕ΎΣΐ΅ΑΈΕΓΑ ΔΓΘ΅ΐϲΑ ΆΣΏΏΉ΍а Ύ΅Ϡ ΌΑφΗΎΉ΍ Δ΅Ε΅ΛΕφΐ΅, «subito Diomede, dopo averla presa per i piedi, la gettò nel fiume Scamandro, e lei morì all’istante»Ǽ e nel Compendium

Historiarum di Giorgio Cedreno, che narra in modo assai stringato il disarcionamento di Pentesilea e la sua morte per soffocamento nello Scamandro, ma senza fare alcun riferimento alla responsabilità di Diomede (128 C: ̝Λ΍ΏΏΉϿΖ Έξ ΘχΑ ̓ΉΑΌΉΗϟΏΉ΍΅Α ΈϱΕ΅Θ΍ Δ΍ΎΕЗΖ ΐ΅ΛΓΐνΑ΋Α ΎΕΓІΗ΅Ζ ΘΓІ ϣΔΔΓΙ Ύ΅Θ΅ΆΣΏΏΉ΍ȉ ϋΑ ΘϛΖ Ύϱΐ΋Ζ οΏΎϾΗ΅ΑΘΉΖ ΘХ ̕Ύ΅ΐΣΑΈΕУ πΑ΅ΔνΔΑ΍Β΅Α ΔΓΘ΅ΐХ). 32

A differenza della Historia di Darete, ove non compare alcun accenno al funerale di Pentesilea (così come nell’opera di Giorgio Cedreno), e dell’Ephemeris, che narra del desiderio frustrato di Achille di onorare l’Amazzone con una cerimonia funebre (cfr. anche. Mal. Chron. 5,26,80 e Cramer, Anecd. Par. 2,219,1-2), nei Posthomerica sono riportate in modo dettagliato le fasi del rito in seguito alla restituzione del cadavere della regina ai Troiani (1,782-803): dapprima essi depongono il corpo sulla pira, poi spengono il fuoco col vino, cospargono di olio le ossa e le ripongono all’interno di un’urna, e infine, dopo aver avvolto il recipiente nel grasso, seppelliscono i resti dell’Amazzone accanto a quelli di Laomedonte. Circa la presenza di Diomede, sia nei Posthomerica che nella De excidio Troiae Historia l’eroe riveste un ruolo rilevante, ma è animato da propositi differenti. Nell’opera di Quinto di Smirne egli si trova sì a fronteggiare Achille, ma non per opporsi all’idea di onorare Pentesilea con un funerale, bensì per vendicare l’uccisione di Tersite, suo parente, per mano del Pelide (Posth. 1,767-781). Di converso, nel testo di Darete il ruolo di Diomede è accentuato in funzione dell’esaltazione dell’Amazzone: nel cap. 36 si legge infatti che l’ardore di Pentesilea è così forte che soltanto l’eroe riesce a stento a impedire che la regina dia fuoco alle navi e faccia strage degli Argivi (Cui vix Diomedes obsistit, alioquin naves incendisset et Argivorum universum exercitum devastasset). 33 Desperatio e amentia, che nei Glossari corrispondono rispettivamente ad ΦΚΉΏ΍ΗΐϱΖ (CGL II, p. 494) e ΦΚΕΓΗϾΑ΋ (CGL II, 254) – o Δ΅ΕΣΑΓ΍΅ (CGL II, 395) –, sono i due termini chiave che indicano l’impossibilità per Pentesilea di oltrepassare la condizione di subalternità femminile: nello specifico, il primo termine indica quell’audacia che scaturisce dalla disperazione (cfr. Apul. M. 10,26), lasciando intendere quasi una sorta di compassione per il destino di questo per-

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sonaggio, mentre il secondo, amentia, è più marcato, perché indica la totale perdita della ragione. 34 L’uso del termine spectaculum, assente nella Historia e presente nell’Ephemeris in altri due loci (3,21 e 3,22), conferisce drammaticità alla narrazione e richiama il corrispettivo greco Όν΅ΐ΅, usato dai romanzieri (cfr. ad es. Ach. Tat. 1,13,2) per ottenere lo stesso effetto. 35 Le popolazioni delle quali Memnone è a capo rappresentano un orizzonte ben noto alla letteratura precedente, e sono accomunate non soltanto dal fatto che risiedono nelle estreme regioni del mondo, – in un orizzonte talmente lontano da essere permeato dal mito –, ma anche dal loro essere percepite dai Greci come stirpi felici prive di storia (Asheri 1997, 324). La descrizione più articolata – nonché ricca di mirabilia – degli usi e costumi degli Indiani è offerta dalle Storie erodotee (3,98-106, ma cfr. anche Ctesia in FGrHist 688 F 45-52; Strab. 2,3,7; Arr. Anab. 5,4,4 e Philostr. V. Ap. 2,4). Con una nota di incertezza («si dice»), Erodoto descrive gli Indiani come uomini dalla pelle scura, al pari degli Etiopi, frammentati in stirpi che parlano lingue differenti e residenti «verso l’aurora e il sorgere del sole» (3,98: ΔΕϲΖ ωЗ Ύ΅Ϡ ψΏϟΓΙ); alcuni di questi gruppi sono contraddistinti da sinistre abitudini, come i Padei, che sono soliti uccidere i malati e cibarsi del loro corpo prima che la malattia ne guasti la carne, mentre altri non uccidono alcun essere vivente, si nutrono di erbe e sono nomadi (questi ultimi confinano con gli Etiopi in Aesch. Suppl. 284 ss.). Più ricche sono le testimonianze sugli Etiopi, che secondo Omero (Il. 1,423-424 e Od. 1,22-24) vivono in prossimità dell’Oceano, alcuni dimorando dove sorge il sole, altri dove esso tramonta (cfr. anche Hes. Op. 527; Theog. 984-985 e Mimn. fr. 12 West; secondo Aesch. Prom. 808-809 essi vivono in Africa, mentre in Paus. 1,33,2-5 si legge che sono stanziati tra l’Egitto meridionale e la parte nordoccidentale dell’Africa). Sempre in Il. 1,423-425, inoltre, si legge che molte divinità sono solite far loro visita (cfr. anche Diod. 3,2,2-3; 3,3,1). Erodoto, che designa col nome di ̄ϢΌ΍ΓΔϟ΋ la zona a sud di Assuan, annovera gli Etiopi tra gli alleati di Serse (7,69-70), ne descrive l’atteggiamento clemente che li induce rifiutare le condanne a morte (2,137) e, apostrofandoli come ΐ΅ΎΕΓΆϟΓ΍ (3,17,3), ne sottolinea la longevità, che li accosta agli Iperborei. Il loro nome, inoltre, significa «uomini dal viso bruciato», ovviamente a causa del clima delle regioni in cui vivono, e la loro carnagione scura, descritta già da Senofane insieme con la caratteristica del naso schiacciato

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(Fr. 21 B 16 DK), diventerà proverbiale in epoca successiva (cfr. Luc. Ind. 28). Rispetto alla versione tradizionale accolta da Settimio (oltre che da Quinto di Smirne nel secondo libro dei Posthomerica), Darete Frigio narra che Memnone giunse prima di Pentesilea, e lo identifica non come il sovrano degli Etiopi e degli Indiani, bensì come il condottiero dei Persiani (Dar. 33). 36 Come per Pentesilea, anche l’arrivo di Memnone è indicato attraverso il verbo supervenio (cfr. nota 12). 37 Nonostante in questo passo Ditti indichi Memnone come il figlio di Aurora, in 6,10 sua madre è identificata con il nome di Hemera. 38 Citato in Od. 11,522 per la sua straordinaria bellezza, Memnone figura come re degli Etiopi già in Esiodo (Theog. 984-985), Pindaro (N. 3,61-63) e quindi in Quinto di Smirne (Posth. 2,100-110). Sebbene il suo luogo di provenienza sia l’Etiopia (cfr. Hld. 4,8; 10,6), Diodoro (2,22) e Strabone (15,3,2) riportano una seconda versione, secondo la quale egli sarebbe stato originario dell’Asia. A lui inoltre Eschilo avrebbe dedicato due tragedie, dai titoli Memnon e Psychostasia (frr. 127-130; 279-280a Radt), e Sofocle un dramma dal titolo Aithiopes (frr. 28-33 Radt). A Roma Catullo menziona soltanto l’origine etiopica di Memnone (66,52), e parimenti Virgilio (Aen.1,489), Ovidio (Am. 1,8,3-4) e Seneca (Ag. 212) si limitano a descrivere il colore scuro della sua pelle, mentre in epoca tarda Quinto di Smirne dedica al personaggio tutto il secondo libro dei Posthomerica: giunto in soccorso dei Troiani dopo la morte di Pentesilea, Memnone uccide Antiloco e induce i Troiani a sperare in un rovesciamento delle sorti, ma in seguito muore per mano di Achille. La vicenda ha come fonte l’Etiopide di Arctino di Mileto, ove probabilmente era concesso ampio spazio anche al popolo degli Etiopi (cfr. anche Apollod. Ep. 5,3), i quali nell’opera di Quinto, in seguito alla morte di Memnone, sono trasformati in uccelli per intervento di Aurora (Posth. 2,570-573; 642-647, ma il motivo era già presente in Ov. Met. 13,607 ss.). Malala (5,27,90) identifica Memnone come sovrano degli Indiani (cfr. anche Cramer, Anecd. Par. 2,219,9 e Cedr. 128 D). Nel XIII secolo Costantino Manasse (vv. 1353-1372) afferma che Memnone fu chiamato da Priamo non solo dopo la morte di Pentesilea e delle Amazzoni, ma anche dopo che il re di Troia aveva invano chiesto l’aiuto di Davide, re dei Giudei, il quale si era rifiutato di schierarsi contro popoli pagani. 39 Contrariamente a Pentesilea, multo auro atque argento ab Alexandro inlecta, Memnone è l’unico tra gli alleati di Priamo a non

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giungere dietro compenso (Timpanaro 1987, 200). Shackleton Bailey 1981, 182 ipotizza che nella sequenza in unum multis milibus armatis vario genere spes sia caduto un participio come contractis. 40 Il nome di questo timoniere, originario di Sidone, compare soltanto nell’Ephemeris (RE XIX, col. 1653), ma Marblestone 1970, 2, 210211 ipotizza un legame con la forma ellenizzata ̘ΣΏ΅ΑΌΓΖ, presente in Ateneo (Deipn. 8,360e-361e), che a sua volta cita la testimonianza di un certo Ergeias di Rodi (FGrHist 513 F 1). Costui, insieme con la propria gente, avrebbe colonizzato la zona di Ialiso chiamandola ̝Λ΅ϟ΅, ma secondo un oracolo avrebbe dovuto rinunciare al dominio sulla regione qualora avesse visto dei corvi bianchi e avesse trovato dei pesci nei crateri. Ificlo, una volta venuto a conoscenza della profezia, avrebbe dunque messo dei pesci in una brocca chiedendo a Larcas, uomo al seguito di Falante, di versare tutto nel cratere usato per servire il vino, e poco dopo avrebbe preso dei corvi e sbiancato le loro penne con il gesso. Falante, credendo di riconoscere i prodigi menzionati dall’oracolo, si sarebbe dunque ritirato da Ialiso, cercando invano di portare con sé oro e argento, e il potere sulla regione sarebbe passato dai Fenici ai Cari. 41 Cfr. 1,5 e Apollod. Ep. 3,1-4. Secondo la testimonianza di Proclo (Chrest. 80 Seve. = arg. p. 39 Bernabè), la distruzione di Sidone, appena accennata in Il. 6,289-90, figurava anche nei Canti Ciprii, ma nelle Storie erodotee (2,117) si legge che l’autore di questi canti avrebbe narrato dell’approdo a Ilio senza alcuna sosta a Sidone: una volta salpati da Sparta Paride ed Elena sarebbero giunti a destinazione dopo tre giorni di navigazione, grazie ai venti favorevoli e al mare calmo. La spiegazione più probabile è che lo stesso Erodoto abbia fatto confusione tra due diversi poemi che narravano il ritorno di Paride a Troia (Lloyd 2000, 338). 42 È interessante notare il diverso uso del termine barbarus da parte di Ditti e di Darete. Il primo lo adopera per esprimere il punto di vista dei Rodiesi, alleati dei Greci inorriditi al pensiero che gli uomini comandati da Falante, tra i quali spiccano i Fenici, possano recare aiuto a colui che aveva causato la rovina di Sidone. Nell’Ephemeris il termine connota dunque gli alleati dei Troiani e riflette il punto di vista del narratore, il cui atteggiamento filellenico pervade tutta l’opera. Al contrario, nel secondo capitolo della Historia, quando il re troiano Laomedonte intima agli Argonauti di allontanarsi dalle coste, questi si imbarcano in preda al timore di essere sopraffatti da una «folla di barbari» (multitudinem barbarorum). Può sembrare strano che il termine

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sia riferito a Laomedonte e al suo popolo all’interno di un’opera dal carattere filotroiano, ma l’aporia può essere risolta considerando che in questo passo barbarus non indica il punto di vista dell’autore, come in Settimio, bensì quello dei Greci al seguito di Giasone (Garbugino 2011, 37). Per la superiorità dei Greci sui barbari cfr. ad es. Plat. Rep. 5,470 c; Eur. Iph. Aul. 1400-1401; Aristot. Pol. 1,2,4,1252 b, 1.9 e Xenoph. Anab. 3,1,23. 43 Nonostante l’espressione dubitativa, anche i Fenici sono animati dalla sete di ricchezza, al pari degli altri contingenti giunti in soccorso di Priamo dietro compenso (Timpanaro 1987, 200). 44 Per horrendam belli faciem cfr. l’espressione horrida bella in Verg. Aen. 6,86. In 4,3 Settimio aveva parlato della morte di Pentesilea nei termini di uno spectaculum, non senza una nota di disprezzo, reso ancora più evidente dalla formula dignum moribus suis, ma nel descrivere l’aspetto dei soldati al seguito di Memnone l’autore usa il termine facies: se, al pari di uno spettacolo, la punizione di Pentesilea era stata gradita ai Greci per il suo carattere esemplare, la vista del numeroso esercito di Memnone li intimorisce, richiamandoli alla crudele realtà della guerra. 45 Per l’uso di tero in riferimento al tempo cfr. l’espressione teretur interea tempus (Cic. Phil. 5,30). 46 L’ablativo assoluto signo dato compare anche in Cesare (Bell. Gall. 1,52,3; 3,4,2) e in Sallustio (Jug. 69,2). 47 Cfr. l’espressione intra iactum teli in Virgilio (cfr. Aen. 11,608). 48 L’aggettivo dissonus riferito al grido di guerra compare spesso in Livio (4,28,2 e 4,37,9), e l’ululatus è un elemento tipico degli assalti dei barbari: nel descrivere i costumi dei Germani Tacito riporta l’usanza di intonare il barditus, un canto di guerra volto a infiammare gli animi e a spaventare i nemici, oltre che a trarre auspici sull’esito della guerra (Germ. 3,1: sunt illis haec quoque carmina, quorum relatu, quem barditum vocant, accendunt animos futuraeque pugnae fortunam ipso cantu augurantur: terrent enim trepidantve, prout sonuit acies, nec tam voces illae quam virtutis concentus videntur). Questa pratica germanica fu in seguito assimilata dai soldati romani, come testimoniano Ammiano Marcellino (cfr. ad es. 16,12,43), il quale descrive il barritus come un mormorio che, innalzandosi progressivamente e accompagnandosi al clangore delle armi sugli scudi, imita il frangersi delle onde sugli scogli, e Lattanzio Placido, che nel suo commento alla Tebaide di Stazio paragona questo suono all’ululatus delle Amazzoni caucasiche (4,394).

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La Penna 1963, 64 ipotizza un nesso tra questo passo e la descrizione della morte di Spartaco nelle Historiae di Sallustio (Hist. 4 fr. 41: haud inpigre neque inultus occiditur). 50 Per nox perfugium laborantium cfr. l’espressione ciceroniana perfugium videtur omnium laborum et sollicitudinum esse somnus (Div. 2, 150). 51 Una vittoria mancata, seppur rovesciata e a favore dei Greci, compare anche nel cap. 20, e similmente nel cap. 36 della Historia: Darete afferma che Diomede riuscì a stento a fermare Pentesilea prima che questa potesse dare fuoco alle navi (alioquin naves incendisset). Per gli scontri interrotti dal sopraggiungere dell’oscurità cfr. le formule nox communis amborum requies proelium diremit in 2,32 e nox proelium dirimit, ricorrente in Darete (cfr. ad es. cap. 19). 52 Poiché l’espressione inter se risulta poco chiara in questo contesto, dal momento che si sta parlando dello sconforto dei Greci dopo le stragi di Memnone, Lucarini 2007, 236 propone di leggere al posto di inter se l’ablativo di causa efficiente internecione. 53 L’episodio del sorteggio di Aiace non compare né nella Historia di Darete Frigio né nel secondo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne (ma è presente in Mal. Chron. 5,27,11, Cramer, Anecd. Par. 2,219,21-22 e in Cedr. 129 A), e inizialmente sembra contravvenire alla versione tradizionale, presente in entrambi gli autori, secondo la quale Memnone fu ucciso da Achille. Tuttavia si tratta soltanto di una deviazione apparente, perché, come emergerà alla fine del capitolo, dopo essere stato attaccato da Aiace il re degli Etiopi e degli Indiani perirà per mano del Pelide. Il sorteggio di Aiace nell’Ephemeris, inoltre, richiama Il. 7,178 ss., ove il figlio di Telamone è scelto per combattere contro Ettore, ma c’è una notevole differenza, poiché nell’opera di Settimio Achille non si è affatto ritirato dallo scontro. 54 La morte di Antiloco, che sicuramente figurava nell’Etiopide, compare in Od. 4,187-188, è evocata da Pind. Pyth. 6,28-42 come esempio di coraggio e di amore filiale ed è narrata anche da Quinto di Smirne (2,247-259), secondo il quale il figlio di Nestore non venne a trovarsi dinanzi a Memnone, ma si avventò su di lui di proposito per difendere suo padre (cfr. anche Philostr. Imag. 2,7,2). Del tutto differente è invece la versione attestata da Darete nella sua Historia (cap. 34), secondo la quale il figlio di Nestore muore insieme con Achille nell’agguato presso il tempio di Apollo Timbreo. 55 Il fatto che l’epiteto dux noster compaia riferito a Idomeneo, compagno di Ditti, in 2,32; 3,14 e 6,5, ha indotto Greif 1900, 15 e

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Patzig 1903, 234 a pensare che ciò valga anche per questo episodio e che sia proprio il re cretese a privare Memnone dello scudo. Tuttavia, Merkle 1989, 216 n. 309 respinge questa ipotesi con due argomentazioni, delle quali la prima scaturisce direttamente dal testo: poiché in questo episodio Ulisse e Idomeneo sono dei personaggi secondari, ai quali Aiace chiede protezione durante il suo scontro con Memnone, non si spiega il motivo dell’iniziativa da parte di Idomeneo. Oltre a ciò, lo studioso non ritiene che negli scontri dell’Ephemeris sia conferito un certo risalto al personaggio di Idomeneo (cfr. Venini 1981, 169), e considerando che in 5,5 l’espressione duces nostri si riferisce a tutti i comandanti greci, ne deduce che qui il dux noster non sia altri che Aiace, colui che riesce a privare Memnone della protezione dello scudo. Anche nella testimonianza dei Bizantini (Mal. 5,27,20-22; Cramer, Anecd. Par. 2,219, 29-31; Cedr. 129 B) si legge che Aiace Telamonio rovescia lo scudo di Memnone, facilitando l’attacco di Achille. 56 Cfr. Q. S. 2,542-546, ove Achille trafigge Memnone all’altezza dello sterno. Secondo la testimonianza di Proclo (Chrest. 172 Seve. = arg. p. 68 Bernabè), nell’Etiopide Memnone era protetto da un’armatura forgiata da Efesto, ma nell’Ephemeris questo dettaglio è omesso in virtù del razionalismo che pervade l’opera, per il quale è evitato ogni intervento divino. Oltre all’Etiopide, la morte di Memnone per mano di Achille è narrata anche da Pind. N. 6,60-65; Ol. 2,90 s. e da Apollod. Ep. 5,3. 57 La morte di Polidamante è assente nella Historia daretiana perché questo personaggio riveste un ruolo significativo all’interno dei capp. 39-40, quando per decisione di Antenore, di Enea e dei loro sostenitori si reca nell’accampamento greco per avviare segretamente le trattative con i Greci, al fine di consegnare loro la città con la promessa di essere risparmiato insieme con gli altri traditori. 58 L’autore dell’Ephemeris, pur avendo indicato Memnone a capo degli Etiopi e degli Indiani (cap. 4), cita in questo passo soltanto i primi. 59 Diversamente da Darete e in linea con le consuetudini della storiografia tragica, Settimio si compiace della descrizione vivida delle scene di massa: questa è ulteriormente enfatizzata dall’espressione tum vero cerneres, ove si scorge un’allusione allo scontro finale a Fiesole che oppone i catilinari alle truppe consolari (Cat. 61,1). L’immagine dei cavalli imbizzarriti che calpestano gli uomini fa parte della tradizione omerica: cfr. Il. 20,498-499 e Q. S. 1,352.

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Cfr. le espressioni omnia, qua visus erat e humus infecta sanguine in Sall. Iug. 101,11. Quello descritto da Settimio è un massacro del quale la natura è partecipe, e l’immagine della terra impregnata di sangue e cosparsa di cadaveri ricorre più di una volta nei Posthomerica (cfr. ad es. 1,346-347: ΐν·΅ ΈȂσΗΘΉΑΉΑ ΩΗΔΉΘΓΖ ΅Ϩ΅ / ΅ϣΐ΅Θ΍ ΈΉΙΓΐνΑ΋ ΑΉΎϾΉΗΗϟ ΘΉ ΔΉΔΏ΋ΌΙϧ΅ǰ «e molto la terra infinita ne gemeva, impregnata di sangue e ricoperta di morti»). 61 Marblestone 1970, 2, 212-213 non ritiene il nome Corithan (Gorython secondo Mercier) sia necessariamente dovuto a una corruzione (laddove Eisenhut appone la crux), ma ipotizza, come nel caso di Phalis in 1,18, che si tratti di una voce di origine semitica, e che la sua presenza nell’opera di Ditti sia dovuta all’intervento di un autore di origine cretese. 62 Il locus è irrimediabilmente corrotto, e per quanto riguarda questi nomi sono state formulate diverse congetture, ma un buon termine di paragone può essere la lunga lista dei figli di Priamo offerta da Apollodoro in Bibl. 3,12,5, con la quale il passo dell’Ephemeris ha in comune i nomi di Areto, Echemmone, Dryops, Bia, Teleste, Antifo, Glauco e Agatone. Quest’ultimo, inoltre, figura in Il. 24,249 tra i figli che Priamo avrebbe sacrificato al posto di Ettore. Due tra questi personaggi compaiono nella Historia di Darete all’interno del catalogo dei contingenti giunti in soccorso dei Troiani (cap. 18): si tratta di Antifo, che nella Historia giunge dalla Meonia, e di Asteropeo, che proviene dalla Peonia. 63 L’espressione neque prius finis...quam compare anche in Sall. Cat. 51,34. 64 In base al confronto con 4,13 (ubi clausis portis finis caedendi factus est) si può integrare ubi requies funerum est (Lucarini 2007, 236). 65 Grenfell – Hunt 1907, 15 n. 1 (ma cfr. anche Marblestone 1970, 2, 213) ipotizzano che le parole curam exsurgendi omiserant corrispondano alla parte mancante della prima linea del P.Tebt. 268, ma la ricostruzione in base alle lettere restituite dal papiro è assai ardua. 66 Il ritrovamento del P.Tebt. 268 ha permesso di confrontare la redazione latina dell’Ephemeris con quella greca attestata dal manoscritto, costituito da due colonne scritte sul verso di un documento datato al 206 d. C., pertanto si ritiene che il testo dell’Ephemeris risalga alla prima metà del III secolo. La scrittura è un’onciale irregolare,

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senza punteggiatura né accenti, e ogni riga contiene circa quaranta caratteri; della prima colonna sono andate perse le lettere a sinistra, che nella seconda sono più facilmente leggibili; vi sono infine tracce di correzioni da parte del copista (cfr. r. 94) e scambi tra ΅΍ ed Ή, così come tra Ή΍ e ΍. Nonostante si tratti di un papiro molto deteriorato a causa delle cancellature, è possibile tuttavia stabilire un confronto e mettere in evidenza il maggior grado di elaborazione del testo di Settimio rispetto a quello di Ditti. Per la ricostruzione del testo greco, inoltre, prezioso è stato il contributo dei Bizantini: le stringenti corrispondenze tra il P.Tebt. 268 e Giovanni Malala, senza tralasciare l’anonima ̳ΎΏΓ·φ ͒ΗΘΓΕ΍ЗΑ e la testimonianza di Giorgio Cedreno, hanno permesso di evidenziare che l’autore della Chronographia non si è servito della redazione latina di Lucio Settimio, bensì di quella greca attestata dal papiro. Tuttavia, accanto a queste fonti, Ihm 1909, 5, sulla scorta di Dederich, ha suggerito di considerare anche la testimonianza dell’Eroico di Flavio Filostrato, risalente al III secolo, e dunque non troppo lontano dal papiro di Tebtunis, e la ̍΅΍Αχ ϡΗΘΓΕϟ΅ di Tolemeo Chenno, risalente al I sec. d. C. 67 Mentre il P.Tebt. 268 I,1-2, in base alle integrazioni di Grenfell e Hunt, riporta ψΐΉǽΕЗΑ Έξ Έ΍΅ΈΕ΅ΐΓΙΗЗΑ ΓЁ ΔΣǾΑΙ ΔΓΏΏЗΑ («non molti giorni dopo»), Settimio semplifica il testo omettendo la litote (ma cfr. anche Malala 5,27,35, che riporta ϴΏϟ·ΝΑ Έξ ψΐΉΕЗΑ Έ΍΅ΈΕ΅ΐΓΙΗЗΑǰ «pochi giorni dopo»; Cramer Anecd. Par. 2,220,4 che differisce soltanto per il participio Έ΍ΉΏΌΓΙΗЗΑ). Il participio Έ΍΅ΈΕ΅ΐΓΙΗЗΑ è stato ricostruito in base alla testimonianza di Malala, ma Ihm 1909, 12 ipotizza che anche qui, come nel r. 18 del papiro, si possa integrare la lacuna con Έ΍΅·ΉΑΓΐνΑΝΑǯ 68 L’espressione procedere in campum ha riscontro nella storiografia latina (cfr. ad es. procedere ad pugnam in Liv. 7,9,8; 36,44,2; procedere ad dimicandum nei Bella del Corpus Caesarianum, ad es. in Al. 39, e ad pugnam in Hisp. 40), ma il P.Tebt. 268 I,3 riporta ΔΉΈϟΓΑ (in realtà si tratta dell’emendamento di Δ΅΍ΈϟΓΑ, poiché nel papiro sono frequenti gli scambi tra ΅΍ ed Ή), confrontabile ad es. con Il. 2,465, ove Troia è il ΔΉΈϟΓΑ per antonomasia. 69 Il. r. 3 della prima colonna del papiro riporta soltanto ΔΕΓ], e la ricostruzione dell’incipit del rigo successivo con ΔΕΓΎ΅ΏΓϾΐΉΑΓ΍ si è basata sulla testimonianza di Malala (5,27,36) e su quella di Cedreno (129 C), oltre che sulla corrispondenza, all’interno dei Glossari, tra i verbi ΔΕΓΎ΅ΏΓϾΐ΅΍ e lacesso (CGL III, p. 418). Senz’altro emerge

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un maggior grado di elaborazione del testo di Settimio, che con i verbi lacesso e audeo indica l’atto di provocare il nemico e la possibilità che questi abbia il coraggio di accogliere la sfida: il primo compare da solo nel cap. 6, quando Aiace avanza contro Memnone, ma entrambi sono presenti nel cap. 19, quando Filottete decide di sfidare Paride. 70 Il testo greco narra in modo assai stringato gli eventi che precedono la morte di Licaone e Troilo: dall’espressione ΐφΎΉΘ΍ ϷΑΘΓΖ si deduce l’assenza di un personaggio, e le sorti dello scontro appaiono irrimediabilmente avverse ai Troiani, dei quali alcuni sono uccisi e altri catturati vivi. A proposito della figura che non c’è più, difficilmente si può pensare che si tratti di Memnone, dal momento che questi non compare né nel testo di Settimio, né nei Bizantini, ma si può ipotizzare che si tratti di Ettore, non soltanto perché solo Alessandro, suo fratello, avrebbe potuto prendere il suo posto alla guida dei Troiani, ma anche perché nella stessa tradizione omerica (Il. 22,384) compare la formula ̷ΎΘΓΕΓΖ ΓЁΎνΘȂπϱΑΘΓΖ, quando Achille si chiede cosa faranno i Troiani «ora che Ettore non è più» (e vd. Introduzione, 2). A prescindere dalle possibili integrazioni del papiro, si può affermare con certezza che l’immagine dei dardi che non sono stati ancora scagliati è una creazione di Settimio. 71 La morte di Licaone narrata nell’Ephemeris differisce notevolmente da quella attestata dalla tradizione omerica (21,34-135): dopo essere stato venduto come schiavo a Lemno (cfr. Procl. Chrest. 80 Seve. = arg. pp. 42-43 Bernabè) da Patroclo, il figlio di Priamo riesce a tornare in patria, ove però è sorpreso dal Pelide lungo le rive dello Xanto; nonostante Licaone, disarmato, implori il suo nemico di risparmiarlo, questi lo uccide e ne getta il cadavere in acqua. Eppure, nonostante l’episodio sia narrato all’interno dell’Iliade, Settimio lo inserisce subito dopo la morte di Memnone, quando ormai gli eventi ricalcano quelli dell’Etiopide. Come ha osservato Venini 1981, 165 n. 9, inoltre, se nell’Iliade l’uccisione di Licaone è dovuta al risentimento di Achille per la morte di Patroclo, nell’Ephemeris il movente consiste nel rancore per l’esitazione di Priamo a concedere la mano di Polissena (per l’episodio cfr. Apollod. Ep. 3,32; Q. S. 4,158 s.; 381-385 e Nonn. Dion. 22,379-381). Anche in questo punto della narrazione emerge una notevole differenza tra la redazione di Settimio e quella attestata dal P.Tebt. 268 e dai Bizantini: mentre nel testo latino Achille ordina di giustiziare Troilo e Licaone, nel papiro

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(col. I,10: ̝ǾΛ΍ΏΏΉϾΖ ΗΚΣΊΉ΍Ǽ, in Malala (5,27,42: ΦΑ΅΍ΕΉϧ ̝Λ΍ΏΏΉϾΖ Έξ ΘΓϾΖ ̓Ε΍ΣΐΓΙ Δ΅ϧΈ΅ΖǼ e in Giorgio Cedreno (129 C): ̖ΕΝϪΏΓΑ Έξ Ύ΅Ϡ ̎ΙΎΣΓΑ΅ ΦΑΉϧΏΉ) si legge chiaramente che è lo stesso Pelide a prendere l’iniziativa. Inoltre, data la corrispondenza all’interno dei Glossari tra i verbi ΗΚΣΊΝ e iugulo (CGL II, p. 449), si può dedurre che l’autore della redazione latina avesse in mente la pratica dell’esecuzione pubblica attraverso la iugulatio, così come è attestata in Sall. Cat. 55. Infine, è interessante notare che il verbo iugulo, dalla macabra connotazione, compare anche nella Historia daretiana (cap. 43) in riferimento all’uccisione di Polissena per mano di Neottolemo dinanzi alla tomba di Achille (Agamemnon Neoptolemo tradit, is eam ad tumulum patris iugulat). 72 Nel cap. 33 della Historia di Darete la morte di Troilo, che riveste il ruolo di successore di Ettore deciso a vendicare suo fratello, è narrata in modo del tutto differente rispetto alla versione riportata da Settimio: Darete narra infatti che durante lo scontro con Achille Troilo rimase impigliato (inplicitum) tra le briglie del suo cavallo, e grazie a questa circostanza fortuita il Pelide poté approfittare della sua vulnerabilità e ucciderlo. Virgilio (Aen. 1,474-478) non si discosta da questa versione nel momento in cui descrive la visione da parte di Enea di una raffigurazione della guerra di Troia nel tempio di Giunone, ove il figlio di Anchise è in attesa della regina Didone. Tra i vari personaggi che contempla, l’eroe troiano riconosce infatti Troilo, l’infelice ragazzo che combatté impari contro Achille e che fu trascinato dai cavalli del suo stesso carro (v. 475-476: Infelix puer atque impar congressus Achilli, / fertur equis curruque haeret resupinus inani / lora tenens tamen). Tuttavia Servio, nel commentare questi versi, aggiunge un’ulteriore versione, non attestata dagli autori antichi, secondo la quale Achille, innamoratosi di Troilo, gli lanciò delle colombe, assai care al giovane: questi, nel tentativo di afferrarle, fu preso dal Pelide e morì nei suoi amplessi (ad Aen. 1,474). Nonostante ciò, l’attrazione di Achille per Troilo sembra attestata già da Ibico (PMGF S224,7), ove il giovane è definito «simile agli dèi» (Δ΅ϧΈ΅Ǿ ΌΉΓϧΖ ϥΎΉΏΓΑǼ e muore – curiosamente – nel tempio di Apollo Timbreo (vv. 8-10: ΦΑΉϧΏΉΑ ΘϲΑ / ̖ΕΝϟΏΓΑ πΎΘǽϲΖ ΘϛΖ ΔϱǾΏΉΝΖ πΑ ΘХ / ΘΓІ ̋ΙΐΆΕ΅ϟΓΙ ϡΉΕХ). A supporto di questa testimonianza può essere considerata la stessa iconografia, che nel VI secolo mostra frequentemente Achille nell’atto di inseguire Troilo, probabilmente nel vano tentativo di instaurare con lui un rapporto d’amore (Fantuzzi 2012, 15; cfr. anche Boitani 1989,

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16-18). Tuttavia nell’iconografia arcaica non solo Troilo, ma anche Polissena è raffigurata nell’atto di fuggire con suo fratello, mentre alcuni vasi risalenti all’inizio del V secolo mostrano soltanto Achille e Polissena, con l’esclusione di Troilo (Robertson 1990, 64-7). Per quanto riguarda gli antecedenti nel ciclo epico Proclo (Chrest. 80 Seve. = arg. p. 42 Bernabè) riferisce soltanto che nei Canti Ciprii il figlio di Priamo muore per mano di Achille, mentre Apollodoro (Ep. 3,32) narra della sua morte presso il tempio di Apollo Timbreo, durante un’imboscata tesagli dallo stesso nemico. Si può dunque ritenere che, al pari della morte di Licaone, anche quella di Troilo abbia subito una trasposizione: nonostante figurasse nei Canti Ciprii, e dunque in una fase iniziale del conflitto, Ditti l’avrebbe inserita in un contesto cronologicamente posteriore, come è attestato da Tzetzes ad Lyc. 307, anche se una testimonianza implicita della trasposizione di questo evento è ravvisabile già in Plaut. Bacch. 953 ss. (Venini 1981, 165 n. 11). 73 Come è stato osservato da Lapini 1992, 85-88, tra le incoerenze sottese all’Ephemeris – come ad esempio il donum Minervae in 4,22, un evidente riferimento al cavallo di legno, che però sarà costruito soltanto in 5,9 – alcune possono essere giustificate ipotizzando un’errata interpretazione di un testo greco, ma ciò non è possibile se si considera il comportamento assai volubile di Achille, che tuttavia non costituisce un exemplum isolato: al pari di Alcibiade e Catilina l’eroe incarna vizi e virtù belliche, e un simile ritratto del Pelide era stato già proposto da Orazio in A.P. 120-122. Nell’Ephemeris Achille, inizialmente sdegnato a causa del rifiuto di Ettore di concedergli la mano di sua sorella (3,3), aveva in seguito ricevuto la stessa fanciulla da Priamo (3,27, ma già al cap. 24 la fanciulla si era gettata ai piedi dell’eroe implorandolo di trattenerla come schiava in cambio della restituzione del corpo di suo fratello), la cui offerta peraltro era stata pacatamente respinta: nonostante ciò, ora prova risentimento nei confronti del re troiano. Se per alcuni questo atteggiamento rappresenta una incoerenza nell’opera di Settimio, per altri, come Merkle 1994, 187 (ma cfr. anche id. 1996, 570), si tratta del risultato di un’accurata pianificazione da parte dell’autore, per la quale l’imprevedibilità dei comportamenti scaturisce da sentimenti contrastanti: l’amore per Polissena, l’odio nei confronti dei Troiani (in particolare verso Ettore) e infine il senso del dovere. A conferma di ciò, alla crudeltà di Achille sul campo di battaglia l’autore contrappone la commozione e la pacatezza con la quale l’eroe rimanda le trattative per avere la mano di

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Polissena (3,24 e 27) e la cieca fiducia che lo spinge a cadere vittima dell’agguato in 4,10-11. Diversamente, Marblestone 1970, 2, 216 ritiene che tra la fine del terzo libro e questo capitolo qualcosa sia stato taciuto a proposito del fidanzamento con Polissena, aggiungendo che anche nel sesto libro non mancano incoerenze come queste. A prescindere dalle diverse ipotesi, è certo che anche nella redazione greca Achille uccideva i due figli di Priamo per i mancati accordi raggiunti con il re (r. 11: Δ΅ΘΕϲΖ ΔνΐΜ΅ΑΘΓΖǼ, ma questo movente è taciuto dai Bizantini. Pure qui, come in molti altri passi dell’Ephemeris (cfr. ad es. 2,51 e 3,1), Settimio omette l’infinito esse. 74 Cfr. tollunt gemitum in Aen. 11,37. 75 Cfr. le formule ita inter artis bonas integrum ingenium brevi adolevit in Sall. Iug. 64,5; acceptus popularibus in Sall. Iug. 7,1 e tam acceptum esse omni homini in Dar. 1. Se l’amabilità di Troilo accosta quest’ultimo al personaggio di Ettore nella Historia, definito dignum amore aptum (Dar. 12), la verecundia e la probitas cui fa riferimento Ditti paiono opporsi al desiderio di gloria e all’avventatezza che nell’opera di Darete spingono il giovane figlio di Priamo a cercare lo scontro coi Greci, senza dare ascolto agli avvertimenti di Eleno (cap. 7: bellum geri suadebat, et non debere terreri metu verborum Heleni, ma cfr. anche Il. 24,257, ove Troilo è definito «furia di guerra»). Per la sua morte prematura cfr. Verg. Aen. 1,475 e Hor. Carm. 2,9,15-17. 76 Anche nel P.Tebt. 268 I,12-13 e in Malala (Chron.5,27,44) Troilo è descritto come un giovane nobile e di bell’aspetto (ΑνΓΖ Ύ΅Ϡ БΕ΅ϧΓΖ), ma già nell’ode a Policrate di Ibico (PMGF S151, 41-5) l’amabile bellezza del figlio di Priamo (vv. 44-45: πΕϱΉΗΗ΅ ΐΓΕΚΣ) è paragonata all’oro raffinato tre volte rispetto all’oricalco (vv. 42-43: ΛΕΙΗϲΑ ϴΕΉ΍ΛΣΏΎУ ΘΕϠΖ ΩΔΉΚΌΓǽΑǾǼ. Il confronto di questa pericope con la redazione greca dell’Ephemeris ha permesso a Griffin 1908, 332-333 di individuare questo passo come la prova del fatto che quella di Lucio Settimio non è una traduzione letterale, bensì un vero e proprio ampliamento di un originale greco (“to expand the wording of his original”). Inoltre, il riscontro tra la testimonianza di Malala e la redazione dei papiri, insieme con le diverse menzioni di Ditti (cfr. ad es. Chron. 5,10,63) e di un certo Sisifo di Cos (5,19,52, ma cfr. anche Cramer, Anecd. Par. 2,221,16) come fonti dell’erudito bizantino, fa ipotizzare che quest’ultimo abbia sì attinto al testo greco anziché a quello latino, ma non in maniera diretta. È infatti probabile che egli abbia avuto a

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disposizione una fonte intermedia che combinava i materiali di Ditti e quelli di Sisifo (Griffin 1908, 333-334). 77 L’incipit di questo capitolo non soltanto permette di integrare la redazione greca (rr. 18-22: Έ΍΅·ǾΉΑΓΐνΑΝΑ Έξ ϴΏǽϟ·ΝΑ ψΐνΕΝΑǯǯǯ ̝ΔϱΏΏΓΑΓΖ ̋ΙΐΆΕ΅ϟΓǽΙǯǯǯπǾΑ Έξ ΘХ ΌΙ΍Αǽǯǯǯ̓ǾΕϟ΅ΐΓΖ ЀΔξΕ ǽ̓ΓΏΙΒνΑ΋Ζǯǯǯ ΚνǾΕΓΑΘ΅ ΔΕϲΖ ̝Λ΍ǽΏΏν΅ǯǯǯǼ, ma mostra chiare corrispondenze sia con

Mal. 5,28,45-48 che con Cedr. 129 D, che offrono maggiori informazioni sulla posizione del santuario, affermando che si trovava in un bosco non molto distante dalla città. 78 Cfr. l’accostamento clemens / rumor in Sall. Iug. 22,1. Questo tradimento da parte di Achille, per quanto scaturito dal suo amore per Polissena, comparirà anche in Libanio (Decl. 8, 289,22; 338, 14 Förster), e nei Mythographi Vaticani (1,208) e dagli scolii a Licofrone (v. 269): come osserva Milazzo 1984, 24 n. 44, questo ritratto del Pelide avrebbe sorpreso l’orizzonte di attesa del pubblico, avvezzo a identificare l’eroe come Priami regnorum eversor (Verg. Aen. 12,545). Da notare l’amplificazione della redazione latina rispetto all’originale greco: laddove il PTebt 268 I,23 narra di un ΌϱΕΙΆΓΖ, propriamente un «turbamento» tra le file dell’esercito greco (cfr. anche CGL II, p. 328, ΌϱΕΙΆΓΖDZ tumultus, turba), nel testo di Settimio il termine indignatio rappresenta il punto più alto di una climax ascendente, che dal sospetto (rumorem) di un tradimento culmina nello sdegno per il comportamento del Pelide. 79 Poiché Aiace, Ulisse e Diomede si recano nello stesso luogo in cui si trova Achille, Lucarini 2007, 237 propone di emendare hique con ibique. 80 Nel P.Tebt. 268 I,27-28 si legge che Aiace, Diomede e Ulisse decidono di seguire Achille e di aspettarlo davanti al boschetto sacro per intimargli di non fidarsi dei barbari (̄ϥ΅Ζ ΗϿΑ ̇΍ΓΐφΈΉ΍ ǽΎ΅Ϡ ͞ΈΙΗΗΉϧ ǯǯǯ ΘǾϲΑ Ώϱ·ΓΑ σΐΉ΍Α΅Α ΅ЁΘϲǽΑ ǯǯǯ ΩΏΗΓǾΙΖ БΖ Δ΅Ε΅··ΉϟΏΝΗ΍Α ο΅Ιǽǯǯǯ ΐχǾ ΘΓϧΖ Ά΅ΕΆΣΕΓ΍Ζ ΔΉ΍ΗΘΉІΗ΅΍Ǽ. Sembra pertanto che nel papiro non

vi sia alcun riferimento a quella che Settimio indica come rem gestam, probabilmente una decisione da riferire ad Achille, presa all’interno di un’assemblea indetta per porre rimedio al clima di malcontento, della quale sembra recare traccia Malala (5,28,58) attraverso l’espressione ϣΑ΅ ΅ЁΘХ ΉϥΔΝΗ΍ ΘχΑ ΦΔϱΎΕ΍Η΍Α («per comunicargli la risposta»). 81 Contrariamente alla Historia, ove Ecuba si vendica dell’uccisione di Troilo ordendo un piano ai danni di Achille con la complicità di Paride, nell’Ephemeris è lo stesso Paride a prendere l’iniziativa.

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Forse il riferimento alla dissimulazione di Paride era presente nella redazione greca: lo si desume dal fatto che essa compare in Malala (5,28,63-64), nell’̳ΎΏΓ·φ ͒ΗΘΓΕ΍ЗΑ (Cramer Anecd. Par. 2,220,2829) e nell’Historiarum Compendium di Cedreno (130 A). 83 Secondo Servio (ad. Aen. 6,57) Paride si sarebbe nascosto dietro l’immagine di Apollo, da dove avrebbe scagliato il suo dardo. 84 Shackleton Bailey 1981, 182 ritiene che difficilmente duce, che corrisponde all’ablativo Achille, possa seguire hostis, a sua volta corrispondente a un genitivo Achillis, pertanto congettura luce al posto di duce, poiché Paride si nasconde nell’ombra. 85 Se nella narrazione di Settimio emerge che Achille si reca solo e disarmato nel tempio di Apollo, nel cap. 34 della Historia daretiana il Pelide entra nel tempio accompagnato dal figlio di Nestore e in armi, con le quali risponde all’agguato teso contro di lui. Purtroppo in questo punto della narrazione il P.Tebt. 268 è assai deteriorato, ma la scena dell’abbraccio proditorio è ricostruibile attraverso la testimonianza di Malala (5,28,65: ΔΉΕ΍ΔΏΉΎΓΐνΑΓΙ Έξ ̇΋΍ΚϱΆΓΙ ΘϲΑ ̝Λ΍ΏΏν΅ Ύ΅Ϡ Ύ΅Θ΅Κ΍ΏΓІΑΘΓΖ) e di Giorgio Cedreno (130 A: ΔΉΕ΍ΔΏΉΎΓΐνΑΓΙ ̇΋ϟΚϱΆΓΙ ΘϲΑ ̝Λ΍ΏΏν΅Ǽ. 86 Per l’agguato teso ad Achille a causa del suo amore per Polissena cfr. Hyg. Fab. 110; Schol. Eur. Tro. 16; Schol. Eur. Hec. 388; Philostr. Her. 47,4 e 51,1 ss. De Lannoy; Dar. 34; Serv. ad Aen. 3,321 (secondo il quale gli stessi Troiani avrebbero finto di concedere la mano di Polissena ad Achille per attirare quest’ultimo in una trappola) e 6,57; Mythogr. Vat. II,248 (ove si legge che il Pelide, prima di spirare, avrebbe chiesto il sacrificio di Polissena sulla sua tomba una volta espugnata Troia). Sebbene non vi sia alcuna prova concreta, secondo alcuni (cfr. ad es. Gantz 1993,659 e Merkle 1994, 186) la storia d’amore tra il Pelide e la figlia di Priamo, che culmina con l’imboscata tesa all’eroe presso il tempio di Apollo, si sarebbe sviluppata a partire dall’età ellenistica per motivare la richiesta – presente nell’Ecuba euripidea – di sacrificare la giovane sulla tomba del Pelide. Burgess 1995, 239 n. 86 ipotizza invece che questa versione alternativa della morte di Achille sia il risultato dell’incontro di due tradizioni: quella, senz’altro, del sacrificio di Polissena sulla tomba dell’eroe, e quella relativa alla morte di Troilo presso l’altare di Apollo (attestata già da Ibico, cfr. n. 72). Da un punto di vista iconografico è interessante considerare la testimonianza della Tensa Capitolina (Roma, Museo dei Conservatori 966), un carro cerimoniale con placche bronzee risalente al IV sec. d. C., che illustra, tra

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le varie scene legate alla vita di Achille, anche la morte presso il tempio: l’eroe giace senza armatura di fronte a una statua del dio nell’atto di offrire una libagione, ignaro del fatto che alle sue spalle Paride stia prendendo la mira per colpirlo nel punto indicatogli dal dio Apollo, nella parte bassa della gamba. Il figlio di Priamo è riconoscibile dal berretto frigio e dall’arco teso, mentre Apollo è rappresentato con una chioma riccia e il braccio rivolto verso i piedi di Achille. Schwarz 1992, 266-270 (ma cfr. anche Balensiefen 1996, 95-97) ha inoltre esaminato un sarcofago attico conservato presso il museo del Prado di Madrid (182 E), risalente anch’esso al III sec. d. C., che illustra non soltanto la morte di Achille, ma anche il momento che la precede, ossia il suo giuramento. Il lato stretto di sinistra, infatti, è dedicato alla cerimonia di nozze, ove figurano Achille, vestito con un corto chitone e con un piccolo rotolo in mano, forse il contratto di matrimonio, e Polissena. Il fatto che si tratti di un giuramento è esplicitato dalla mano destra dell’eroe, con l’indice e il medio sollevati. Polissena, alla sua destra, indossa un lungo chitone e ha un velo che le copre del tutto la testa. Oltre agli sposi sono presenti anche altre figure, identificate come un amico di Achille, una damigella d’onore e una donna anziana, forse Ecuba. Sul lato stretto di destra, invece, è rappresentata la morte di Achille: questi compare inerme e sorretto da due compagni, mentre una terza figura si inchina per esaminare la sua gamba, colpita dalla freccia. L’eroe si sorregge la testa con la mano in segno di dolore, mentre dalla parte opposta sono riconoscibili Paride, che imbraccia ancora l’arco, e un Troiano, verso il quale il figlio di Priamo volge lo sguardo. Considerando che la maggior parte delle fonti letterarie che attestano l’agguato presso il tempio presuppongono l’episodio dell’immersione nello Stige (cfr. ad es. Hyg. Fab. 107; Serv. ad. Aen. 6,57; Lact. Plac. ad Stat. Ach. 1,134; Mythogr. Vat. I,36; II,248), presente anche nella Tensa Capitolina, si può ritenere che questi due episodi siano correlati. L’eroe infatti non muore sul campo di battaglia colpito, come attestano le rappresentazioni vascolari, da due frecce, una indirizzata alla parte bassa della gamba, che lo avrebbe immobilizzato privandolo della celebre velocità, e l’altra letale, bensì in un luogo sacro, ove egli è privo dell’armatura e fermo dinanzi all’altare. Per mantenere il legame con la tradizione e con l’elemento della ferita in grado di immobilizzare il Pelide, occorreva giustificare quest’ultima in altro modo, e l’invulnerabilità imperfetta poteva essere la soluzione migliore: Achille sarebbe stato colpito al tallone perché si trattava dell’unico punto vulnerabile

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e mortale (Burgess 1995, 238-239). Nelle Mythologiae (3,7; ma cfr. anche Mythogr. Vat. II,249) di Fulgenzio, infine, si legge che Teti aveva cercato di rendere suo figlio immune da ogni fatica, ma non aveva immerso la sua caviglia (talus, che nelle lingue romanze darà origine al celebre luogo comune del tallone di Achille), una parte del corpo legata agli istinti e agli organi sessuali. In questo modo l’eroe, pur incarnando un valore che lo preservava da ogni minaccia, era tuttavia esposto ai pericoli della libidine, e la sua morte a causa dell’amore per Polissena ne fu la diretta conseguenza. 87 La lezione quos visos, accolta da Eisenhut, si differenzia da quella attestata dal consensus codicum Ή e dal ms. R, quo viso, preferita da Lackner 1908, 17, il quale ritiene che l’accusativo sia l’esito dell’inserimento accidentale di una s nel testo durante la sua trasmissione. 88 Il pronome dimostrativo hi non compare nei mss. E e R né all’interno del consensus codicum Δǰ ma la genuinità della lezione è suffragata dal pronome ΓЇΘΓ΍, presente al r. 41 del P.Tebt. 268. 89 La presenza di discorsi diretti, caratteristica stilistica che distingue l’opera di Settimio da quella di Darete (cfr. anche i capp. 15, 16, 18, 22), conferisce maggiore drammaticità al racconto. 90 Nel cap. 11 Aiace, Ulisse e Diomede si trovano già nel bosco, e l’uccisione di Achille avviene senz’altro all’interno del tempio di Apollo Timbreo, quindi è singolare il fatto che compaia l’espressione ingressi lucum. Secondo Lucarini 2007, 237, il problema potrebbe essere risolto emendando lucum con templum. 91 In questo passo (ma cfr. anche 4,15 e 4,18) emerge, grazie a un confronto con il P.Tebt. 268, un profondo interesse per la componente religiosa (Milazzo 1984, 15): nel corrispondente locus del papiro greco (P.Tebt. 268 I,44) si legge che Achille è visto dai suoi compagni mentre giace sdraiato presso l’altare, con un evidente richiamo all’empietà dell’assassinio del Pelide in un luogo sacro. Le parole di Aiace inoltre non rappresentano una condanna isolata delle conseguenze distruttive della passione amorosa, ma hanno precisi riscontri in altri due loci dell’Ephemeris: nella parte iniziale, in riferimento alla storia d’amore tra Elena e Paride, all’origine della guerra, e in quella finale (5,14), nel momento in cui Menelao uccide Aiace in seguito alla proposta da lui avanzata di uccidere Elena una volta espugnata Troia (Merkle 1994, 191). Se da una parte i Troiani sono rappresentati in modo senz’altro negativo, dall’altra emerge nell’Ephemeris un progressivo declino morale dell’esercito greco, del quale la condotta di Achille è una chiara testimonianza.

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Come emerge dal confronto con 3,15 (cfr. anche Milazzo 1984, 24 n. 46), la morte di Ettore (3,15) e quella di Achille sono accomunate dall’essere entrambe causate da un dolus. Le parole di Aiace sulla sconsideratezza di Achille hanno un preciso riscontro nel papiro di Tebtunis (col. I,46-48: ΔΕϲΖ ϵΑ ̄ϥ΅Ζ ΉϨǽΔΉΑ ǯǯǯ ΩǾΏΏΓΖ ΗΉ ΦΑΌΕЏΔΝΑ ωΈϾΑ΅ǽΘΓ ǯǯǯ ΔΣǾΑΘΝΑǰ ΦΏΏȂ ψ Ηχ ΔΕΓΔνΘΉ΍΅ ǽΦΔЏΏΉΗν ΗΉ), e la redazione greca può essere integrata attraverso le testimonianze di Malala (5,27,76) e di Cedreno (130 B), ma se in queste fonti l’accento è posto sulla rovina che si abbatte sull’eroe, il testo di Settimio, attraverso il verbo prodo, richiama significativamente il tradimento. Nella versione latina spicca il nesso allitterante tua te inconsulta temeritas prodidit, ma nei Glossari il sostantivo temeritas è addirittura l’ultimo termine corrispondente al greco ΔΕΓΔνΘΉ΍΅ (CGL II, p. 419), la cui prima resa in latino è protervia, seguito da procacitas e petulantia. È interessante notare che già da Platone (Rep. 3,391 c) fino a Plutarco (quom. ad. poet. 19c; 31 b-c) Achille sia un paradigma di ΔΕΓΔνΘΉ΍΅ (per una descrizione dettagliata di questa deviazione dalla temperanza cfr. Aristot. EN 7,8 1150 b19 ss.). Anche il poeta Orazio, nella sua Ars poetica (119-121) definisce il Pelide iracundus, inexorabilis, acer, e in Epod. 17,14 fa riferimento alla sua pervicacia (pervicacis...Achillei), probabilmente con un richiamo ai Mirmidoni di Accio (fr. 1 Ribbeck, ma cfr. anche fr. 2), ove il Pelide aveva spiegato ad Antiloco il sentimento che lo animava: non una pertinacia, la testardaggine degli indocti, bensì una pervicacia, la dote che accompagna gli uomini coraggiosi (haec fortis sequitur) (e vd. Introduzione, 2). 93 Il motivo delle ultime parole pronunciate dal guerriero prima di spirare appartiene alla tradizione omerica: cfr. Il. 16,492-501 per Sarpedone; 16,844-854 per Patroclo e 22,355-360 per Ettore. La morte di Achille è narrata secondo i moduli di un romanticismo ricco di pathos, con un rovesciamento dell’happy ending tipico del romanzo, per il quale i due protagonisti potranno ricongiungersi soltanto nell’aldilà. 94 La scena dell’abbraccio compariva anche nella redazione greca (P.Tebt. I,49-51: ΗΙΐǾΔΏ΅ΎνΑΘΉΖ ΈȂ΅ЁΘХ ωΗΔΣΗ΅ΑΘΓ [ ǯǯǯ ǾΉΖ ΑΉΎΕϲΑ Έξ ǽ·ΉǾΑϱΐΉΑΓΑ [ ǯǯǯπǾΔȂЕΐУ ΚνΕΉ΍ΑǼ, ma è assente nei Bizantini, laddove, nella redazione di Settimio, si nota un’amplificazione attraverso il particolare del bacio. La presenza del verbo exosculor in questa parte finale del capitolo, nonché nella parte iniziale, quando Deifobo bacia proditoriamente Achille, permette di evidenziare un uso anfibologico del verbo: nella prima pericope esso è utilizzato dall’autore per indica-

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re un tradimento, mentre nella seconda implica un gesto che scaturisce dalla profonda amicizia che lega Aiace, Ulisse e Diomede al Pelide. 95 Il contenuto del cap. 12 coincide con la parte più conservata del P.Tebt. 268 (I,53-II,62), ma purtroppo meno significativa, e non è neppure possibile stabilire un confronto con la tradizione bizantina, poiché in Malala Teucro termina il racconto fatto a Neottolemo con la morte di Achille, mentre Cedreno passa direttamente al duello tra Filottete e Paride. Di converso, un’altra versione è attestata da Darete, il quale narra che soltanto Alessandro avrebbe voluto far scempio del cadavere di Achille, ma sarebbe stato dissuaso da Eleno (cap. 34: quem – scil. Achille – Alexander feris et volucribus proici iubet. Hoc ne faciat Helenus rogat, tunc eos de fano eici iubet et suis tradi). 96 È interessante notare che il nesso tra i verbi eripio e aufero, che hanno rispettivamente il significato di «strappare» e «portare via», compare anche in Dar. 10 in riferimento al rapimento di Elena (Alexander imperat... ut omnes in navibus sint parati, nocte classem solvant, de fano Helenam eripiant, secum eam auferant). 97 Per l’espressione inludere cadaveri eius cfr. Tac. Ann. 1,71. Ancora una nota di aspra critica da parte dell’autore nei confronti dei Troiani: nonostante la morte abbia il potere di annullare le distanze e obblighi al rispetto per il nemico che giace sconfitto (cfr. Q. S. 1,810 e 9,37, ma anche Il. 7,409, Od. 22,412 e Arch. fr. 83 Lasserre), i nemici non provano alcuna compassione per Achille. Anche in Od. 5,310 ss., nell’Etiopide (Proclo, Chrest. 172 Seve. = arg. p. 69 Bernabè) e nell’Epitome di Apollodoro (5,4) è narrata una battaglia per il possesso del corpo di Achille, senza tralasciare la dettagliata descrizione dell’episodio offerta da Quinto di Smirne nel terzo libro dei Posthomerica (vv. 186-387), ove il cadavere del Pelide è sottratto alla furia di Paride e dei Troiani grazie all’intervento di Aiace e Odisseo. Per quanto riguarda la vicenda dell’agguato presso il tempio e i successivi funerali dell’eroe, può essere interessante considerare una fonte bizantina che riporta in maniera differente il medesimo nucleo narrativo, ossia lo scolio di Giovanni Tzetzes al v. 269 dell’Alessandra di Licofrone. In esso l’erudito bizantino mostra Achille in una veste completamente diversa rispetto a quella che emerge dall’Ephemeris, poiché l’eroe, dopo aver visto Polissena, avrebbe promesso a Priamo un’alleanza in cambio della mano della fanciulla (πΈφΏΝΗΉ ΘХ ̓Ε΍ΣΐУ ΗΙΐΐ΅ΛϛΗ΅΍ ΅ЁΘХǰ ΉϢ ΏΤΆΓ΍ ΘχΑ Δ΅ϧΈ΅Ǽ. Egli non è dunque un traditore, ma un eroe che cerca di instaurare un

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clima di pace nel quale le sue nozze possano aver luogo. Patzig 1925, 15-16, in base a questa testimonianza e a quella di Filostrato (Her. 51 De Lannoy), che esalta la natura eroica di Achille attraverso gli onori funebri a lui tributati dai Greci, ha ipotizzato per Settimio e Filostrato l’esistenza di due fonti differenti: la prima avrebbe indicato Achille come un traditore, mentre l’altra ne avrebbe fatto un promotore della pace. Questa seconda versione è attestata anche in Mythogr. Vat. II,248 secondo il quale Achille si sarebbe detto pronto a restituire Ettore se i Troiani a loro volta avessero restituito Elena, in modo da poter stipulare una pace. Pertanto, l’unico a individuare Achille come traditore del suo esercito sarebbe il solo Settimio, ma il fatto che la sua storia d’amore con Polissena sia articolata in tre fasi induce lo studioso a non escludere affatto che la vicenda del Pelide potesse essere oggetto di trattazione da parte dai tragediografi della Pleiade, attivi sotto Tolemeo Filadelfo. Infine, tornando allo scolio di Tzetzes, occorre considerare che secondo l’erudito bizantino i Troiani si sarebbero impossessati del cadavere di Achille per poi restituirlo solo dopo aver ricevuto i doni portati per la restituzione di Ettore (ΔΕϟΑ ΪΑ ΘΤ ΈЗΕ΅ ΘΤ ЀΔξΕ ̸ΎΘΓΕΓΖ ΈΓΌνΑΘ΅ πΒ ΓΔϟΗΝ ΏΣΆΝΗ΍Α), mentre nell’Ephemeris il loro tentativo di portare via il cadavere è reso vano dai Greci capeggiati da Aiace. 98 Asio, fratello di Ecuba (diverso dall’omonimo che compare in Il. 2,837, figlio di Irtaco), compare anche in Il. 16,717-735, ma si tratta di Apollo, che dopo aver assunto le sembianze di Asio appare a Ettore per incitarlo ad attaccare Patroclo. Poiché nel testo omerico si insiste sull’anzianità dello zio di Ettore, la sua presenza in entrambe le redazioni dell’Ephemeris si può spiegare con il disperato tentativo da parte dei Troiani di avvalersi anche dell’aiuto degli anziani. 99 Naste e Anfimaco compaiono nel catalogo troiano (Il. 2,867875): a proposito del secondo, Omero afferma che andava in guerra agghindato come una fanciulla, ma nemmeno l’oro riuscì a sottrarlo alla morte per mano di Achille. Secondo la tradizione omerica, dunque, Anfimaco rappresentava il guerriero inesperto: non a caso è apostrofato come ΑφΔ΍ΓΖ (letteralmente «infante», «bambino»), al pari di Patroclo in Il. 16,46-47, quando decide di imbracciare le armi di Achille, e per entrambi i personaggi l’attributo è un triste presagio di morte. È dunque possibile che Anfimaco, insieme con Asio, rappresenti l’ultima risorsa alla quale ricorrono i Troiani, in una situazione ormai compromessa.

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Come osserva La Penna 1963, 64, l’immagine dei combattenti massacrati perché non tutti riescono a rifugiarsi all’interno delle mura (cfr. anche 2,43; 4,3 e 4,20) fa parte di quel repertorio sallustiano al quale Settimio si ispira (cfr. Hist. 3 fr. 24). 101 Sebbene questo passo non abbia riscontri nella tradizione bizantina, è tuttavia possibile confrontare la scena con quella del P.Tebt. 268, poiché si tratta – fortunatamente – della parte iniziale della seconda colonna, meglio conservata e leggibile rispetto alla prima. La redazione greca dunque consente, ancora una volta, di mettere in evidenza la tendenza di Settimio ad amplificare il suo antecedente: ad esempio, se Ditti riferisce soltanto l’uccisione di Asio, fratello di Dimante (col. II, 57), Settimio collega la sua morte a quella di Naste e Anfimaco attraverso la sequenza dein plurimos, uti quemque intra telum, ferit, in quis. Ancora, dopo l’uccisione dei due capi della Caria, intervengono anche Aiace Oileo e Stenelo, che secondo Ditti uccidono i guerrieri schierati nelle prime file (col. II,59-60: ΎΘΉϟΑΓΑΘΉΖ ΘΓϿΖ ΔΕΝΘΓΗΘΣΘ΅Ζ), mentre in Settimio multos fundunt atque in fugam cogunt. La scena con la quale si chiude il capitolo (quare magna vis hominum ab insequentibus nostris obtruncantur) appartiene infine alla sola redazione latina. 102 Il dolore dell’esercito greco per la perdita di Achille è affievolito dal sospetto che egli avesse avviato delle trattative col nemico, diversamente da quanto attestato dalla tradizione omerica (Od. 24,61-62: σΑΌ΅ ΎΉΑ ΓЄ Θ΍ΑȂ ΦΈΣΎΕΙΘϱΑ ·ȂπΑϱ΋Η΅Ζ ̝Ε·ΉϟΝΑǰ «e allora nessuno potevi veder senza lacrime fra gli Argivi»; per l’insistenza sul dolore delle truppe greche alla morte di Achille cfr. anche Q. S. 3,388-389; 400-403; 421-426). Timpanaro 1987, 189 osserva che i sentimenti nutriti dai soldati nei confronti di Achille seguono un andamento complesso: inizialmente essi sono improntati a un sincero appoggio nei confronti del Pelide quando questi è oltraggiato da Agamennone (2,33), ma nel momento in cui l’eroe tenta di attaccare l’esercito greco (2,37) questo sostegno viene meno, e alla fine i rapporti si deteriorano a causa delle trattative avviate con i nemici per avere la mano di Polissena. Nonostante ciò, il dolore per la perdita permane, ma sarà solo grazie all’intervento di Aiace che Achille potrà ricevere una degna sepoltura. Il corrispondente passo della redazione greca (P.Tebt. 268 II,63-67) attesta anch’esso il risentimento dei soldati alla morte del Pelide (rr. 64-65: ΓЁΈΉϠΖ ΘЗΑ Ώ΅ЗΑ ΔΣΌΓΙΖ ΗΙΑΉΗΘνΑ΅ΒΉ), ma in maniera più concisa rispetto al testo di Settimio, e senza alcun riferimento al lutto dei capi.

LIBRO IV, NOTE 100-103 103

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Molto più dettagliata è la descrizione dei funerali di Achille in Q. S. 3,526-765. Dopo il lamento di Aiace, Fenice e Agamennone, Nestore incoraggia i Greci a provvedere al funerale del Pelide, poiché «non è opportuno disonorare con negligenza i morti per molto tempo» (v. 523-524: ΓЁ ·ΤΕ σΓ΍ΎΉΑ / ΅ϢΗΛϾΑΉ΍Α πΔϠ Έ΋ΕϲΑ ΦΎ΋ΈΉϟϙΗ΍ Ό΅ΑϱΑΘ΅Ζ). Dopo aver lavato il corpo di Achille, i suoi compagni lo rivestono con una veste purpurea, dono di Teti a suo figlio alla partenza per Troia, e lo pongono nella sua tenda. Al v. 533 ha dunque inizio la ΔΕϱΌΉΗ΍Ζ, l’esposizione della salma dell’eroe, durante la quale Atena fa sembrare Achille ancora vivo facendo stillare dalla sua testa ambrosia e ricoprendolo di rugiada, e in questo modo suscita lo stupore degli Achei, ai quali il Pelide pare «simile a chi dorme» (v. 543: ΉЂΈΓΑΘ΍ πФΎΉ΍Ǽ. Intorno al cadavere le prigioniere si graffiano il corpo e si percuotono il petto, e tra loro Briseide rimpiange di non essere morta prima di Achille (v. 572-573: ͳΖ ϷΚΉΏϱΑ ΐΉ / ·΅ϧ΅ ΛΙΘχ πΎΣΏΙΜΉ ΔΣΕΓΖ ΗνΓ ΔϱΘΐΓΑ ϢΈνΗΌ΅΍, «oh, magari / la terra mi avesse coperto prima di vedere la tua morte fatale»). Poco dopo giunge la madre di Achille, Teti, accompagnata dalle Nereidi, la Musa Calliope cerca di attenuare il suo dolore (vv. 582671; l’intervento delle Muse nel lamento funebre era presente anche nell’Etiopide, cfr. Procl. Chrest. 172 Seve. = arg. p. 69 Bernabè) e dopo molti giorni di compianto i Greci procedono all’allestimento del rogo dell’eroeǯ Dopo aver tagliato molta legna sul monte Ida, i compagni di Achille depongono il cadavere sul rogo (πΎΚΓΕΣǼ, accanto al suo corpo bruciano molte vesti e vi pongono anche i cadaveri di giovani troiani sacrificati insieme con degli animali, mentre i Mirmidoni si recidono le chiome per offrirle al loro signore (gesto che, nel testo di Settimio, compare soltanto al cap. 21, dopo l’arrivo di Neottolemo). Zeus, infine, ordina a Eolo, Borea e Zefiro di alimentare le fiamme del rogo di Achille (vv. 699-718), così, quando il fuoco ha consumato il corpo dell’eroe, i Greci lo spengono con il vino. Poco dopo le Nereidi bagnano con ambrosia e altri unguenti le ossa di Achille, distinguibili dalle altre perché poste in disparte (come quelle di Memnone nella narrazione di Settimio, cfr. cap. 8), e le depongono in un’urna fabbricata da Efesto (vv. 723-739). Infine i compagni dell’eroe innalzano un tumulo e una stele nei pressi dell’Ellesponto, senza smettere di compiangere la sua morte, e al loro dolore si uniscono perfino i cavalli di Achille, Xanto e Balio, che si trovano presso le navi (vv. 743-765).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

I funerali di Achille narrati nell’Ephemeris differiscono notevolmente da quanto raccontato dal fantasma di Agamennone in Od. 24,4392 (ma cfr. anche Philostr. Her. 51,7-13 De Lannoy e Q. S. 3,388 ss.): l’Atride riferisce infatti che i Danai versarono molte lacrime e si recisero le chiome (v. 46: ΈΣΎΕΙ΅ ΌΉΕΐΤ ΛνΓΑ ̇΅Α΅ΓϠ ΎΉϟΕ΅ΑΘϱ ΘΉ Λ΅ϟΘ΅ΖǼ, e che poco dopo giunsero Teti e le altre Nereidi, al cui pianto si unirono anche le Muse, che intonarono un canto bellissimo (vv. 60-61: [...] ΦΐΉ΍ΆϱΐΉΑ΅΍ ϴΔϠ Ύ΅ΏϜ / ΌΕφΑΉΓΑǼ. Il compianto intorno alla salma durò diciassette giorni e diciassette notti, dopodiché, al diciottesimo giorno, il corpo fu cremato e le ossa furono raccolte e riposte, insieme con quelle di Patroclo, in un’urna d’oro fabbricata da Efesto (cfr. anche Q. S. 3,731-732), e il tumulo fu innalzato presso una spiaggia prospiciente l’Ellesponto, in modo che fosse visibile da lontano. Ovviamente una versione come questa accordava ampio spazio all’intervento divino nelle vicende umane, che l’Ephemeris respinge in virtù di un razionalismo che la accomuna alla Historia daretiana. Inoltre, il sospetto di un tradimento che aleggia tra i soldati anche dopo la morte di Achille, che li spinge a non compiangerlo come res exposcebat – suscitando lo sdegno di Aiace, che si distingue dal resto dell’esercito per i suoi sentimenti nei riguardi del defunto – fa parte dell’atteggiamento dell’autore nei confronti dei grandi eroi, che lo induce a mettere in dubbio la loro grandezza, se non a diffamarli (Marblestone 1970, 2, 224). Tuttavia, la commossa partecipazione emotiva di Aiace ai funerali di Achille è un tratto presente anche nella descrizione dell’episodio presente nel terzo libro dei Posthomerica (vv. 427-458), ove il Telamonio leva un grido di dolore e lamenta la perdita di un eroe impareggiabile per virtù e uso delle armi. Al suo dolore si uniscono Fenice (vv. 459-489) e Agamennone (vv. 490513): il primo ricorda con dolcezza l’infanzia di Achille, del quale fu precettore, mentre il secondo teme che dopo la morte del Pelide le sorti della guerra siano inesorabilmente a favore dei Troiani. 105 Da notare la resa di ΚϟΏΓΑ e ΗΙ··ΉΑφΖ (P.Tebt. 268 II,74) con amicissimum e sanguine coniunctum. 106 Per l’esultanza dei Troiani in seguito alla morte di Achille cfr. Q. S. 4,17 ss. Nel P.Tebt. 268 II,76) si parla soltanto di «molta gioia» (Λ΅ΕΤ ΔΓΏΏφ) nel cuore dei Troiani, amplificata da Settimio attraverso la coppia laetitia atque gratulatio, così come l’πΔϟΑΓ΍΅ (letteralmente il «pensiero» o il «progetto») di Alessandro è resa con commentum, la «finzione», un accostamento presente anche nei Glossari dopo excogitatio (CGL II, p. 310).

LIBRO IV, NOTE 104-111 107

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Per la viltà di Alessandro cfr. Il. 3,39-57 ss. L’arrivo di Euripilo figurava già nella Piccola Iliade, dopo il giudizio delle armi di Achille e la morte di Alessandro (cfr. Procl. Chrest. 206 Seve. = arg. p. 74 Bernabè, senza tralasciare il P. Rylands), e la sua morte è narrata da Odisseo al fantasma di Achille in Od. 11,519-522, ove il figlio di Telefo è definito «l’eroe più bello visto dopo il glorioso Memnone» (v. 522: ΎΣΏΏ΍ΗΘΓΑ ϥΈΓΑ ΐΉΘΤ ̏νΐΑΓΑ΅ ΈϧΓΑ). Tuttavia, mentre la narrazione di Settimio offre ben poco spazio alle gesta di questo personaggio, una descrizione dettagliata delle sue imprese, fino alla morte per mano di Neottolemo, si snoda tra il sesto e il nono libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne. 109 In uno scolio e nel commento di Eustazio a Od. 11,520 si narra che il re troiano avrebbe cercato invano di indurre sua sorella Astioche (identificata come sua figlia da Settimio in 2,5), moglie di Telefo, a inviare Euripilo in soccorso dei Troiani. In seguito, Priamo sarebbe riuscito nel suo intento soltanto promettendo, tra i vari doni, anche la mano di una delle sue figlie e un tralcio di vite d’oro, che un tempo Zeus aveva dato a Troo in seguito al rapimento di suo figlio Ganimede. Per il tralcio di vite cfr. Schol. Eur. Or. 1391; Schol. Tr. 822; Schol. Iuv. Sat. 6,654 e Ptol. Chenn. Nov. Hist. p. 37 Roulez. Nonostante negli scoli e nel commento di Eustazio a Od.11,520-521 si abbia notizia delle nozze con una delle figlie di Priamo, soltanto in Ditti è specificato il nome di Cassandra. Una notevole differenze tra la redazione greca e quella latina consiste nel fatto che nella prima (P.Tebt. 268 II,86) compare l’espressione ΘχΑ ΛΕΙΗϛΑ ΩΐΔΉΏΓΑ, indicando un ben noto tralcio di vite, laddove Settimio parla vagamente di una vitem quandam auro effectam, lasciando presupporre che la sua conoscenza della leggenda fosse limitata. 110 Lackner 1908, 12 osserva che questo è l’unico caso all’interno dell’Ephemeris ove clarus è costruito col dativo con il significato di notus. 111 Anche nei Posthomerica l’arrivo di Euripilo (vv. 6,119-132) è salutato con gioia dai Troiani, e la loro letizia offre a Quinto di Smirne lo spunto per costruire un’immagine assai originale, che non ha riscontro nella tradizione omerica pur avvalendosi degli stessi modelli espressivi. L’autore infatti paragona la gioia dei Troiani a quella delle oche domestiche quando «vedono un uomo che getti loro del cibo e tutt’intorno starnazzando coi becchi gli fanno le feste, e l’animo di lui si allieta nel guardarle» (vv. 125-127: БΖ ΈȂϳΔϱΌȂρΕΎΉΓΖ πΑΘϲΖ 108

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NOTE AL TESTO DI DITTI

πΉΕ·ΐνΑΓ΍ ΦΌΕφΗΝΗ΍Α / ϊΐΉΕΓ΍ ΦΑνΕ΅ ΛϛΑΉΖ ϵ ΘϟΖ ΗΚ΍Η΍Α ΉϥΈ΅Θ΅ ΆΣΏΏΓ΍ǰ / ΦΐΚϠ Έξ ΐ΍Α ΗΘΓΏΐΣΘΉΗΗ΍ ΔΉΕ΍ΗΘ΅ΈϲΑ ϢϾΊΓΑΘΉΖ / Η΅ϟΑΓΙΗ΍Αǰ ΘΓІ ΈȂώΘΓΕ Ϣ΅ϟΑΉΘ΅΍ ΉϢΗΓΕϱΝΑΘΓΖǼ 112

In Od. 24,77-78, in Strabone (13,1,32), in Giovanni Tzetzes (Posth. 466 ss.) e negli Scholia a Licofrone (v. 273) si legge che Patroclo, Achille e Antiloco furono seppelliti insieme presso il Sigeo, mentre secondo un’altra tradizione (Apollod. Ep. 5,5) Achille sarebbe stato seppellito presso l’isola di Leuca, nel Ponto Eussino, ove Teti avrebbe portato suo figlio nell’Etiopide (cfr. Procl. Chrest. 172 Seve. = arg. p. 69 Bernabè). 113 Nel P.Tebt. 268 II,94 si legge che ad Achille fu dedicato anche un tempio: a tal proposito Venini 1981, 169 n. 17 osserva che questo particolare, se da una parte non denota un’origine divina dell’eroe, dall’altra implica comunque una sua divinizzazione, prova del fatto che – forse – la rimozione di ogni elemento sovrannaturale fosse meno drastica nella versione greca. 114 L’aggettivo dignus, corrispondente al greco ΩΒ΍ΓΖ, è costruito con il genitivo anziché con l’ablativo, come in Cic. ad Att. 8,15. 115 Secondo Lackner 1908, 7, l’uso di un sostantivo verbale concordato con un genitivo, particolarmente diffuso all’interno dell’Ephemeris, rappresenta un calco dal greco, poiché questo tipo di costruzione è in genere evitato dagli scrittori latini. Merkle 1989, 220 osserva che la morte di Achille, con la quale si conclude la parabola della sua storia d’amore con Polissena, rappresenta un espediente grazie al quale emerge uno dei temi ricorrenti dell’Ephemeris, ossia il potere distruttivo dell’amore per le donne. Le conseguenze dell’amore sono catastrofiche nell’opera di Settimio, e il loro susseguirsi percorre tutto il tessuto narrativo dell’Ephemeris: nel primo libro, quando Paride asseconda la propria libido e scatena una guerra in seguito al rapimento di Elena; nel terzo, quando l’amore di Achille per Polissena è all’origine del suo assassinio; nel quinto (5,14), poiché la proposta avanzata da Aiace di uccidere Elena, della quale Menelao è ancora innamorato, è punita con l’uccisione dell’eroe. 116 Nei poemi del Ciclo l’arrivo di Neottolemo figurava nella Piccola Iliade subito dopo il duello tra Paride e Filottete, come si evince dal riassunto di Proclo (Chrest. 206 Seve. = arg. p. 74 Bernabè). Rispetto al P.Tebt. 268 II,96, che riporta solo la variante del suo nome, Settimio preferisce dare ulteriori informazioni al lettore, specificando che si tratta del figlio di Deidamia, e dunque del nipote di Licomede.

LIBRO IV, NOTE 112-123

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La Penna 1963, 64 ipotizza che qui Settimio riprenda Sall. Hist. 1 fr. 55, 24 (tanto agmine atque animis incedit). Da notare che, in linea con il consueto razionalismo, sia Ditti che Settimio omettono la celebre scena dell’apparizione del fantasma di Achille che chiede il sacrificio di Polissena, presente già nella Piccola Iliade (Procl. Chrest. 206 Seve. = arg. p. 74 Bernabè) e nel P. Rylands. 118 Anche Malala (5,9,20-23), che come Settimio indica Briseide col nome di Ippodamia, afferma che alla fanciulla spettava la custodia dei beni di Achille, ai quali in seguito si sarebbero aggiunti quelli di Neottolemo (Ύ΅Ϡ ΦΔΓΔΏΉϾΗ΅Ζ – scil. Neottolemo – Ύ΅ΘνΏ΅ΆΉ ΘχΑ ̖ΕΓϟ΅Α Ύ΅Ϡ ΉЈΕΉΑ ΉϢΖ ΘΤΖ ΗΎ΋ΑΤΖ ΘΓІ ϢΈϟΓΙ Δ΅ΘΕϲΖ ̝Λ΍ΏΏνΝΖ ͒ΔΔΓΈΣΐΉ΍΅Α ΘχΑ Ύ΅Ϡ ̅Ε΍Η΋ϟΈ΅ǰ ΚϾΏ΅Ύ΅ ΘЗΑ ΘΓІ ̝Λ΍ΏΏνΝΖ ΔΣΑΘΝΑǯ ϊΑΘ΍Α΅ ΦΔΓΈΉΒΣΐΉΑΓΖ ΉϨΛΉΑ πΑ ΔΓΏΏϜ Θ΍ΐϜǰ ΅ϢΘφΗ΅Ζ ΅ЁΘχΑ ΚϾΏ΅Ύ΅ ΉϨΑ΅΍ Ύ΅Ϡ ΘЗΑ ο΅ΙΘΓІ πΑ ΘϜ Δ΅ΘΕФθ ΗΎ΋ΑϜ). 119

È sorprendente il fatto che Neottolemo, dopo essersi appellato a topoi di carattere stoicizzante come il disprezzo della vecchiaia, arrivi a consolarsi del fatto che suo padre sia morto in un agguato, così che nessuno potrà dire di averlo sconfitto sul campo di battaglia. 120 La parentela che lega Achille e Aiace non è presente in Omero, bensì in Quinto di Smirne, secondo il quale Telamone, padre di Aiace, sarebbe stato figlio di Eaco e nipote di Zeus, esattamente come Peleo (per questo motivo Aiace sarà chiamato «Eacide» in Q. S. 1,521). Questa genealogia, contestata da Ferecide (fr. 60 Jacoby), si collega sia all’Alcmeonide che all’Etiopide (Vian 1963, 31). 121 Nell’Iliade si fa spesso riferimento a una rivalità tra la famiglia di Priamo e quella di Anchise per il regno su Troia (cfr. 13,460462; 20,178-186, 306 s.), e Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 1,48,3 = FGrHist 769 F 3) riporta la testimonianza di Menecrate di Xanto, secondo il quale Enea sarebbe passato dalla parte dei Greci proprio a causa dei suoi rapporti con Alessandro. 122 A differenza di Eleno, Enea, che ora è talmente scosso dal sacrilegio di Paride da decidere di non combattere contro i nemici, aveva in precedenza fomentato lo scontro con i Greci, sia con la sua partecipazione al rapimento di Elena (1,3; nei Cypria si legge che Afrodite avrebbe esortato Enea a seguire Paride a Sparta: cfr. Procl. Chrest. 80 Seve. = arg. p. 39 Bernabè), sia con il suo rifiuto di ogni compromesso per evitare lo scontro (2,26). 123 Per scontrarsi con Neottolemo, che si trova nella fila centrale dell’esercito, Euripilo deve necessariamente rovesciare la prima fila

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NOTE AL TESTO DI DITTI

dello schieramento, pertanto Lucarini 2007, 236 propone un’integrazione: qui in acie steterant. 124 Di più ampio respiro è il duello tra Euripilo e Neottolemo narrato nell’ottavo libro dei Posthomerica (vv. 130-220): il figlio di Telefo chiede al suo avversario chi egli sia, e dopo che quest’ultimo ha rivendicato le sue divine origini i due guerrieri ingaggiano lo scontro. Dapprima Neottolemo si lancia giù dal carro per attaccare Euripilo con la sua asta, ma questi gli scaglia contro una grossa pietra, che tuttavia non riesce ad abbatterlo. Ha dunque inizio un aspro duello, con il compiacimento delle divinità della guerra, mentre sull’Olimpo persino gli dèi sono divisi, poiché parteggiano alcuni per Neottolemo, altri per Euripilo. Alla fine la lancia del figlio del Pelide attraversa la gola del figlio di Telefo, che cade paragonato a un albero abbattuto da Borea. Una volta annientato il suo avversario, Neottolemo ne rimprovera l’avventatezza, spoglia il cadavere delle armi e ordina agli Achei di portarlo nell’accampamento. 125 Con il ritrovamento del P.Oxy. 2539, datato tra il II e il III secolo d. C., è stato possibile confrontare anche il brano seguente della redazione latina dell’Ephemeris con il testo greco corrispondente. Si tratta di un papiro dalla scrittura arrotondata, con l’inizio e la fine delle righe ormai illeggibili. Questo e il P.Tebt. 268, tuttavia, non appartengono allo stesso rotolo: lo dimostrano non solo le differenti scritture e dimensioni delle colonne, ma anche il fatto che, mentre il P.Tebt. 268 presenta un recto datato con certezza al 206 d. C., lo stesso non si può dire per il P.Oxy. 2359, il cui verso non riporta alcun testo ed è ascrivibile alla seconda metà del II secolo. 126 La terza riga del P.Oxy. 2359, come integrata da Parsons, fa riferimento alle esequie di Euripilo attraverso ΑǾΘΝΑ ЀΔξΕ ̈ЁΕǽΙΔϾΏΓΙ, ove probabilmente la prima parte – secondo le congetture di Martin e Stephanie West, oltre che di Barns e Parsons – era costituita da un verbo di decisione all’interno di un genitivo assoluto avente come soggetto i Greci (cfr. il latino ex consilii sententia). Nel quarto rigo del papiro si legge ΘΓǾϧΖ ̖ΕΝΗϠΑ Έ΍ΈǽϱΑ΅΍, con un riferimento alla consegna del cadavere di Euripilo da parte dei Greci, laddove Settimio non menziona affatto i Troiani. Il r. 5 presenta ΌΣΜ΅ΑΘΉΖ ΔνΐǽΔΓǾΙǽΗ΍Α, cui potrebbe seguire, secondo l’ipotesi di Luppe 2010, 30, la formula ΐΑφΐΓΑΉΖ ΘϛΖ Κ΍Ώϟ΅Ζ, corrispondente alla pericope (amplificata) di Settimio scilicet memores beneficiorum atque amicitiaeǯ Tuttavia entrambe le redazioni presentano un’incongruenza nel momento in cui

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narrano di una consegna delle ceneri di Euripilo a suo padre Telefo, poiché questi è già morto, e non a caso, nel cap. 15, Priamo aveva chiesto ad Astioche anziché a Telefo l’intervento del loro figlio Euripilo. Il r. 6 del papiro, infine, mostra la desinenza di una terza persona plurale ]ΑΘ΅΍, per la quale i West hanno ipotizzato il verbo ΌΣΔΘΝ, che tuttavia sarebbe ridondante, visto l’impiego del medesimo verbo al participio nel rigo precedente. Eisenhut 1969, 117 dunque congettura ΗΙΏΏν·ΓΑΘ΅΍, sia in base al confronto con la formula ΗΙΑΏνΒ΅ΑΘΉΖ ΘΤ ϷΗΘΉ΅ д̄Λ΍ΏΏνΝΖ del P.Tebt. 268 II,90, sia considerando che il nesso ϷΗΘΉ΅ ΗΙΏΏν·Ή΍Α è piuttosto comune. 127 Laddove il testo di Settimio riporta per Chrysem cognoscitur, il r. 8 e l’inizio del r. 9 del P.Oxy. 2359 mostrano ΔǾ΅Ε΅·ΉϟΑΉΘ΅΍ ̙ΕϾΗ΋Ζ ΉϢΖ ΘΓǽϿΖ ёΏΏφΑΝΑ Ά΅Η΍ΏΉϧΖ ΦΔ΅··νΏΏΝΑǯ 128

Come in 4,11, nel locus corrispondente a questo capitolo nel P.Oxy. 2539, r. 11 un forte accento è posto sull’elemento religioso: l’empietà del gesto di Paride, per il quale Eleno prova orrore, è infatti indicata attraverso il participio ΅ΗΉǾΆφΗ΅ΑΘ΅. Proprio questo sgomento indurrà il figlio di Priamo a rifugiarsi presso Crise. 129 Mentre nella redazione di Settimio si legge uno stringato ob id, il r. 11 del P.Oxy. 2539, secondo l’integrazione proposta da Luppe 2010, 30, presenta Γǽϡ Έξ Θ΅ІΘ΅ ΐ΅ΌϱΑΘΉΖ, sottintendendo come soggetto i capi greci. 130 Secondo quanto attestato dalla Piccola Iliade (Procl. Chrest. 206 Seve. = arg. p. 74 Bernabè) Eleno non si sarebbe consegnato deliberatamente, ma sarebbe stato catturato da Odisseo dopo il suicidio di Aiace; tuttavia la versione di Settimio ha riscontro nel P.Oxy. 2539, nel cui testo integrato si legge (rr.13-14) πΏΌΓІΗ΍Α Έξ ΅ЁΘΓϧǽΖ Δ΅Ε΅ΈϟΈΝΗ΍Α ΅ЁΘϲΑ / ΔΕΓ΅΍ǾΘΓϾΐΉΑΓΖǰ ΓЇ ΐνΑΝΑ ǽΘϲ ΏΓ΍ΔϲΑ Έ΍Σ·Γ΍. Anche in questa pericope emerge la tendenza all’amplificazione propria dello stile di Settimio: Eleno non chiede soltanto un posto dove poter trascorrere il tempo che gli rimane (partem aliquam regionis, in qua reliquam vitam degeret), ma anche la possibilità di vivere appartato (semotam ab aliis). Il passaggio di Eleno dalla parte greca rappresenta un momento importante nelle ultime vicende della guerra troiana nella tradizione paraomerica, poiché sarà proprio questo personaggio a stabilire un contatto tra i Greci e i “traditori” Enea e Antenore. Di converso, secondo un’altra versione (cfr. Q. S. 10, 345-349; Apollod. Ep. 5,9; Serv. ad Aen. 2,166) Eleno, risentito per la decisione di suo padre di dare in sposa Elena a Deifobo una volta morto Paride, si sarebbe ritirato

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NOTE AL TESTO DI DITTI

sull’Ida, ma in seguito Calcante avrebbe ammonito i Greci che soltanto le sue profezie avrebbero rivelato a quali condizioni Troia sarebbe caduta. Di conseguenza, Odisseo sarebbe stato incaricato di catturare il sacerdote per estorcergli la profezia. Una considerazione a parte merita la testimonianza di Tzetz. Posth. 572-573, il quale, per giustificare la presenza di Eleno nel campo Acheo, non respinge alcuna delle due ipotesi: l’intervento di Odisseo o una libera iniziativa da parte del sacerdote (ό ϹȂ ͞ΈΙΗϛΓΖ πΑ σΕ·ΐ΅Η΍Α ̝Ε·ΉϟΓ΍Η΍Α πΔΉΏΌЏΑ (scil. Eleno), / ύ ΐϱΑΓΖ ΅ЁΘΓΐϱΏΓ΍Η΍Α πΔ΋ΏΙΗϟϙΗ΍ Ά΅ΈϟΗΗ΅Ζ). 131 Anche in questo passo la versione di Settimio e quella di Ditti attestata dal P.Oxy. 2539 possono essere confrontate soltanto attraverso le integrazioni del papiro, che tuttavia non consentono di ricostruire completamente il testo greco, lasciando un interrogativo sull’entità degli interventi del redattore latino. Il r. 17 presenta la desinenza -ΉΗΉΑ, per la quale Luppe 2010, 31 ha congetturato la subordinata πΔΉϠ ΉϢΖ ǻΘϲǼ ΗΙΑνΈΕ΍ΓΑ / πΑνΔǾΉΗΉΑ (cfr. ubi consilio mixtus est), cui segue il verbo reggente ǽπǾΚ΋. Da questo punto la ricostruzione si fa ancora più problematica, poiché si legge soltanto la parola ·ΓΑΉϧΖ al rigo successivo, pertanto il testo è stato ricostruito in base alla testimonianza latina (si ricordi che, contrariamente al P.Tebt. 268, non possiamo avvalerci delle fonti di epoca bizantina): ΘǽϜ ΘЗΑ ΌΉЗΑ ΦΔΓΗΘΕΓΚϜ πΔ΅ΕΌΉϠΖ Δ΅ΘΕϟΈ΅ Ύ΅ǾϠ ·ΓΑΉϧΖ ΦǽΔΓΏΉϟΔΉ΍Α, corrispondente al latino patriam parentesque deserere, sed deorum coactum aversione. Probabilmente anche al r. 20 del papiro, ove si legge soltanto ̝ΏνΒǾ΅ΑΈΕΓΑ Ήǽ, era presente un riferimento all’empietà del gesto di Alessandro, e il nome di Antenore al r. 22 ha fatto ipotizzare a Luppe 2010, 31 che nel r. 20 comparisse anche Enea, in modo da congetturare le ultime quattro righe del papiro come segue: [ϳ Έξ ΈΉΈ΍АΖ ΘχΑ ΘЗΑ ̴ΏΏφΑΝΑ ϴΕ·χΑ Έ΍Ȭ / Σ·Γ΍ ΔǾ΅ΕΤ ̝ΑΘφǽΑΓΕ΍ Ύ΅Ϡ ΘХ ·ΉΕ΅΍Х Δ΅ΘΕϠ Έ΍Τ ΛΕ΋ΗΐϲΑ / ·Ή΍ΑЏǾΗΎΝΑ ωǽΏϟΎ΅ Ύ΅ΎΤ / ΘχΑ Δ΅ΘǾΕϟΈ΅ǯ 132

Come nota Timpanaro 1987, 173 n. 8, sebbene nell’Ephemeris prevalgano scontri di massa, non mancano tuttavia dei duelli di tipo omerico che diano spazio alle aristie dei singoli eroi. L’episodio del duello tra Paride e Filottete compariva già nella Piccola Iliade (Procl. Chrest. 206 Seve. = arg. p. 74 Bernabè) e nell’Epitome di Apollodoro (5,8-9), ma la sua narrazione all’interno dell’Ephemeris ha come corrispettivo nella tradizione omerica il decimo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne (vv. 207-254), ove la dinamica del combattimento coincide in parte con quella riportata da Settimio. Anche nell’opera

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di Quinto Paride prende l’iniziativa e manca il bersaglio, uccidendo Cleodoro al posto di Filottete, il quale risponde all’attacco ferendo il nemico prima alla mano (v. 238, non è specificato se si tratti della mano sinistra, come nell’Ephemeris) e dopo al di sopra dell’inguine (v. 240). Nei Posthomerica dunque non si parla di una terza ferita, fatale nell’Ephemeris, e di conseguenza Paride non muore sul campo di battaglia, ma si ritira dallo scontro perché gravemente indebolito: questo espediente consente a Quinto di Smirne di narrare della richiesta di aiuto da parte di Paride a Enone (10,255-489), sua precedente moglie, che nell’Ephemeris è soltanto la destinataria del corpo del principe troiano per la celebrazione delle esequie (cfr. 4,21 e Schol. ad Lyc. Alex. 911). Viste le analogie tra l’opera di Settimio e quella di Quinto di Smirne, si può ipotizzare l’esistenza di una fonte comune. Anche Malala (Chron. 5,13,41-56), l’anonimo autore dell’̳ΎΏΓ·φ ͒ΗΘΓΕ΍ЗΑ (Cramer. Anecd. Paris. 2,205,16-206,14) e infine Giorgio Cedreno (130 B – C) narrano del duello tra Paride e Filottete, e attraverso un’analisi di queste tre testimonianze è possibile delineare quegli elementi che verosimilmente dovevano trovarsi nel locus corrispondente della versione greca, per la quale purtroppo non abbiamo un riscontro papirologico. Si tratta del momento in cui Ulisse rivendica il possesso del Palladio in virtù dei suoi meriti, tra i quali figura anche quello di aver spinto Filottete a sfidare Paride. Alla formula lacessit, si auderet del testo di Settimio le fonti bizantine fanno corrispondere il verbo ΔΕΓΎ΅ΏΉϧΘ΅΍, come emerge anche dall’analisi del P.Tebt. 268 in riferimento al cap. 9 (cfr. nota 69). Se tuttavia nella versione latina Paride prende l’iniziativa e scaglia il primo dardo, nelle fonti bizantine ciò avviene in seguito a un sorteggio (Ύ΅Ϡ Ά΅ΏϱΑΘΝΑ ΅ЁΘЗΑ ΎΏϛΕΓΑ σΏ΅ΛΉ ΘХ ʆΣΕ΍Έ΍ ΔΕЏΘУ ΘΓΒΉІΗ΅΍), ma anche in questo caso il dardo non colpisce Filottete, il quale, prima di rispondere all’attacco e ferire il suo avversario alla mano sinistra, è incoraggiato da Ulisse ad aver fiducia (Ό΅ΕΗΉϧΑ Έξ ̘΍ΏΓΎΘφΘϙ ΎΕΣΒ΅Ζ). Le dinamiche del combattimento coincidono, ma anche in questo caso non mancano le consuete amplificazioni tipiche dello stile di Settimio: Filottete colpisce Paride all’occhio destro, e se le testimonianze bizantine riportano l’espressione ΘϲΑ ΈΉΒ΍ϲΑ ΅ЁΘΓІ ϴΚΌ΅ΏΐϲΑ πΔφΕΝΗΉΑ (nesso frequentemente utilizzato per indicare l’atto di privare qualcuno della vista, cfr. ad es. Aristot. HA 498a 32), il testo latino è caratterizzato dal macabro perforo; inoltre, mentre i testi greci narrano in modo sintetico che l’ultima freccia scagliata da Filottete colpisce i piedi di Paride all’altezza dei malleoli,

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facendo cadere quest’ultimo (ΔνΐΜ΅Ζ οΘνΕ΅Α Η΅·ϟΘΘ΅Α ΘΓϿΖ ΅ЁΘΓІ ΔϱΈ΅Ζ Κ΍ΆΏΓϧ πΔϠ ΘΤ ΗΚΙΕΣ Ύ΅Ϡ ΔϟΔΘΉ΍ ϳ ̓ΣΕ΍ΖǼ, notevole è la breve digressione di Settimio sul veleno cosparso sulla punta delle frecce. 133 Mentre l’Ephemeris accoglie la versione tradizionale della morte di Paride, in Dar. 35 il figlio di Priamo muore per mano di Aiace. 134 Per il rapporto tra Eracle e Filottete cfr. Eph. 1,4; Q. S. 10,203-205; Sen. Herc. Oet. 1717; Philostr. Imag. 17; Hyg. Fab. 257; Schol. ad Apoll. Rh. 1,1207b. Filottete aveva ricevuto le frecce in dono da Eracle come segno di riconoscenza: quando l’eroe era salito sul monte Eta per morirvi e aveva chiesto ai suoi servitori di appiccare il fuoco sulla propria pira, soltanto Filottete aveva eseguito gli ordini (cfr. Soph. Phil. 670; 801). 135 Per questa scena cfr. cap. 12. 136 Il gesto di Neottolemo si collega a quello compiuto da suo padre alla morte di Patroclo (Il. 23,140-153, ma cfr. anche Philostr. Her. 51,13 De Lannoy, ove i Greci decidono di recidere le loro chiome in seguito alla morte di Achille): il Pelide aveva promesso di sacrificare la sua chioma e di offrire un’ecatombe al fiume Spercheo una volta tornato a Ftia, ma sapendo di non potervi più fare ritorno, decise di deporre la ciocca di capelli nelle mani di Patroclo. Questo tipo di offerta, che compare anche nell’Elettra euripidea come veicolo di riconoscimento, stabilisce un legame religioso tra l’erede maschio e il padre. 137 Il locus è corrotto: dal momento che la lezione per partem aliam portae non è affatto convincente, l’editore di Settimio, Eisenhut, pone il passo tra cruces, mentre altri editori (Olbrechts; Friebe) espungono portae oppure correggono in per portam aliam (Dederich; Meister). Cataudella 1976, 208, partendo dal presupposto che partem e portae costituiscano una dittografia, preferisce eliminare partem ed emendare in per portam aliam: visto il carattere non ufficiale del personaggio di Enone – senza tralasciare il fatto che Elena non era da tutti ben vista alla corte troiana –, il cadavere di Paride sarebbe stato condotto presso di lei attraverso una porta secondaria della reggia, in quanto aliam avrebbe lo stesso significato eufemistico che ha il corrispettivo greco quando è utilizzato al posto di Ύ΅ΎϱΖ («inferiore», «secondario»). Di converso, Lapini 1992, 97-98, senza conferire ad aliam il significato di «secondario», osserva che si tratterebbe dell’unica porta menzionata, pertanto la scelta obbligatoria consisterebbe nell’interpretare il passo emendando in per partem aliam: se poco prima i figli di Antimaco sono stato lapidati ante conspectum barbarorum, e dun-

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que da una parte del muro troiano rivolta verso il campo nemico, si deduce che le esequie di Paride, che si svolgono nel frattempo, siano state celebrate in un’altra zona della città. Lo studioso tuttavia ipotizza che l’impossibilità di emendare portae sia riconducibile a un guasto prodottosi a causa di meccanismi estranei al latino stesso: dinanzi a un testo già corrotto un traduttore antico non avrebbe potuto fare altro che tentare di emendarlo, anche proponendo soluzioni assai deboli. 138 Cfr. Dar. 35: contrariamente alla versione riportata da Settimio, nella Historia durante la sepoltura di Paride non compare Enone, bensì Elena. La storia tra il figlio di Priamo ed Enone non compare nei poemi omerici, e il nome di questa ninfa non sembra attestato prima di Ellanico (FGrHist 4 F 29; cfr. anche Lyc. Alex. 57-68): secondo la sua testimonianza dalla loro relazione nacque Corito, un giovane di bell’aspetto che, una volta giunto a Troia, si sarebbe innamorato di Elena per poi finire ucciso dopo essere stato scoperto da suo padre. Tuttavia, nello stesso frammento si legge che secondo Nicandro (F 108 Schn) Corito sarebbe nato dalla relazione di Paride con Elena, genealogia che peraltro figura nelle fonti bizantine (vd. infra). Nei Posthomerica di Quinto di Smirne (10,255-489), si legge che Paride, dopo aver appreso da un oracolo che solo Enone avrebbe potuto strapparlo alla morte che la freccia di Filottete gli avrebbe inflitto, si recò da lei per implorarla invano di guarirlo. Nonostante il rifiuto dovuto al rancore per essere stata ripudiata, successivamente Enone si sarebbe gettata tra le fiamme del rogo di Paride, in preda al rimorso per non aver salvato la vita del suo sposo (ma cfr. anche Apollod. Bibl. 3,12,6: Enone, dopo aver cercato invano di convincere Paride a non rapire Elena, gli avrebbe comunque promesso di curarlo se fosse stato ferito; tuttavia in seguito si sarebbe rifiutata e, in preda al rancore, si sarebbe impiccata dopo la morte del figlio di Priamo). Al contrario, nell’Ephemeris il particolare della freccia avvelenata e l’incontro con Enone, sebbene siano presenti, appaiono svuotati del significato che avevano assunto nella tradizione omerica: Paride muore sul campo di battaglia colpito dalle frecce avvelenate di Filottete, senza poter ricorrere – in extremis – all’aiuto di Enone. Il quadro diventa ancor più complesso se si considera la testimonianza dei Bizantini (Malala, Chron. 5,13,52-56; Cramer, Anecd. Par. 2,206,8-9; Cedr. 130 C): Paride infatti non sarebbe morto sul campo di battaglia, bensì la notte seguente, in città, dopo aver visto i tre figli avuti da Elena, Bunimo, Coriteo e Ideo, allora in tenera età; Enone, dopo aver visto il cadavere di Paride, avrebbe deciso di impiccarsi. Anche in questa peri-

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NOTE AL TESTO DI DITTI

cope il testo di Settimio mostra evidenti amplificazioni volte a conferire maggiore drammaticità alla scena: secondo la redazione latina Enone è in preda a un dolore tale da portarla alla morte, ma questo pathos è del tutto assente nelle fonti bizantine. Ciò si può spiegare considerando che la voce narrante, Odisseo, sta semplicemente rivendicando il possesso del Palladio in base ai propri meriti, tra i quali spicca quello di aver spinto Filottete a uccidere Paride. Sembra invece voler fare chiarezza sulla questione Giovanni Tzetzes, che nel suo scolio al v. 61 dell’Alessandra di Licofrone afferma che secondo alcuni Enone avrebbe voluto curare Alessandro, ma sarebbe stata ostacolata da suo padre (Κ΅ΗϠΑ ϵΘ΍ ΘΉΘΕΝΐνΑΓΑ ΆΓΙΏΓΐνΑ΋ ΘϲΑ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑ ψ ̒ϢΑЏΑ΋ ΌΉΕ΅ΔΉІΗ΅΍ πΎΝΏϾΌ΋ πΎ ΘΓІ Δ΅ΘΕϲΖ ΅ЁΘϛΖǼ. In seguito ella avrebbe trovato il ri-

medio alla ferita del figlio di Priamo, quando ormai era troppo tardi, e per questo si sarebbe uccisa – prosegue Tzetzes – gettandosi sul rogo di Priamo secondo Quinto di Smirne (l’erudito cita Posth. 10,467), impiccandosi in base alla testimonianza di Ditti (4,21, ma nel testo dell’Ephemeris non si fa alcun cenno all’impiccagione), o gettandosi da una torre secondo quanto riportato dallo stesso Licofrone (v. 65). 139 La versione seguita da Settimio differisce notevolmente da quella di Darete (37): nella Historia si parla di un’assemblea (e non di una rivolta) convocata da Priamo dietro suggerimento di Antenore, Polidamante ed Enea, nel corso della quale il sovrano non riceve alcun oltraggio da parte di quest’ultimo. Al contrario, le parole del figlio di Anchise sono miti sia quando esortano a concludere la pace coi Greci, sia quando rimproverano Anfimaco per il suo oltranzismo (Aeneas exurgit, lenibus mitibusque dictis Amphimacho repugnat, ab Argivis pacem petendam magnopere suadet). 140 I figli di Priamo sono spesso apostrofati come reguli (cfr. ad es. 1,8), ma non come Priami reguli, pertanto Shackleton Bailey 1981, 182 ipotizza l’integrazione eius regulos. 141 Secondo Timpanaro 1987, 190 la decisione dei Troiani di firmare un trattato di pace dichiarandosi sconfitti rappresenta il primo di due elementi inattesi nella narrazione dell’Ephemeris: nonostante questa resa, i Greci decideranno comunque di attaccare la città a tradimento (5,11-13). 142 Secondo Marblestone 1970, 2, 232-233, le parole di Antenore sembrano collegarsi a quelle pronunciate nell’assemblea di Troiani in Il. 7,348-353, ove egli esorta i suoi compatrioti a restituire Elena e i beni sottratti, scontrandosi con Alessandro, che preferirebbe rendere tutto

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fuorché la donna amata. Sebbene anche nella Historia (37) Antenore si rivolga a un’assemblea di Troiani, ben altre sono le sue intenzioni, dal momento che egli rammenta le perdite subite e, di converso, il folto numero di uomini su cui i Greci possono contare, per poi suggerire, in una situazione ormai compromessa, di concludere la pace. Nell’Ephemeris invece il discorso di Antenore nell’accampamento greco verte su argomenti del tutto differenti: dinanzi ai Greci egli denuncia la natura sleale dei Troiani, ricordando l’offesa recata a Ercole da Laomedonte, e ancora i crimini di Priamo e dei suoi figli. Paradossalmente, colui che accusa i Troiani di slealtà riesce con queste parole a ingraziarsi il favore dei Greci e a ottenere la promessa di essere risparmiato, oltre a quella di ricevere metà dei beni di Priamo una volta che l’esercito argivo avrà espugnato Troia. Secondo Timpanaro 1987, 196-197, tuttavia, la figura di Antenore è quella di un proditor patriae soltanto agli occhi dei fautori di una guerra a oltranza, e non dinanzi a chi aveva ormai compreso che la situazione era compromessa. Il tradimento di Antenore è infine citato da Licofrone (Alex. 340-347, insieme con quello di Sinone),da Dionigi di Alicarnasso (1,46) e da Servio (ad Aen. 1,242 s.). 143 Secondo Apollodoro (Bibl. 2,5,9; 2,6,4; 3,12,5; l’episodio è accennato anche in Il. 7,452 ss. e in 21,441 ss.) Laomedonte, dopo aver ricevuto l’aiuto di Apollo e di Poseidone durante la costruzione delle mura di Troia, si sarebbe rifiutato di ricompensare le due divinità al termine dei lavori. Queste si sarebbero vendicate inviando un mostro contro la città di Troia, e per sconfiggerlo il re troiano avrebbe chiesto l’aiuto di Ercole. Tuttavia neppure l’eroe avrebbe ricevuto alcuna ricompensa per l’aiuto prestato, e si sarebbe vendicato con l’uccisione di Laomedonte e lo sterminio della sua famiglia, risparmiando il solo Priamo. Contrariamente all’atteggiamento razionalizzante di Darete, secondo il quale l’ira di Ercole si abbatte su Laomedonte in seguito al trattamento ostile riservato agli Argonauti, Settimio fa un rapido cenno alla vicenda, nonostante gli elementi prodigiosi che la contraddistinguono. 144 Il ritratto di Priamo che emerge dalle parole di Antenore non ha niente a che vedere con l’immagine del sovrano mite che in Il. 3,106 si contrappone ai figli ЀΔΉΕΚϟ΅ΏΓ΍ Ύ΅Ϡ ΩΔ΍ΗΘΓ΍ («arroganti e infidi»). 145 Secondo Apollodoro (Bibl. 3,12,2) dalla ninfa Calliroe Troo avrebbe avuto Cleopatra, Ilo, Assaraco e Ganimede. 146 Esiete è identificato come il padre di Antenore anche da Eustazio (ad Il. 3,693).

NOTE AL LIBRO QUINTO 1

Ultimo del gruppo dedicato ai fatti quae bello contracta gestaque sunt, questo libro è interamente incentrato sugli eventi relativi alla distruzione di Troia, della quale si descrive la preparazione, e nei passaggi conclusivi offre lo spunto per il racconto dei Ritorni degli eroi. La narrazione si apre sui Troiani, impegnati in una serie di serrate consultazioni per stabilire l’atteggiamento da tenere nei confronti dei Greci: al cuore di questo primo nucleo narrativo c’è senza dubbio un lungo discorso di Antenore (cap. 2; i cui motivi e contenuti torneranno successivamente nello sviluppo delle vicende di questo libro), al quale fanno da cornice la descrizione del suo ritorno in città dal campo acheo (cap. 1) e l’individuazione delle responsabilità dell’ormai decennale conflitto armato nel comportamento arrogante ed irresponsabile di Priamo e, soprattutto, dei principi di Troia (cap. 3). Poiché i cittadini hanno unanimemente optato per la resa e per il pagamento di un tributo di guerra, gli ambasciatori Achei fanno la loro comparsa all’interno della cinta muraria di Ilio e aprono le negoziazioni dell’armistizio. Nel frattempo Elena, recandosi nottetempo e in gran secreto da Antenore, lo implora di intercedere presso i Greci per la sua salvezza, dove, oramai sola, desiderava rifugiarsi (cap. 4). L’improvviso crollo di un soffitto di un’area della reggia è la causa della morte dei figli di Paride ed Elena, così come il racconto della storia del Palladio e della profezia ad esso relativa interrompono per alcuni giorni il procedere delle trattative (cap. 5). Alla ripresa delle discussioni, i Greci fissano perentoriamente condizioni impraticabili per i Troiani che, pertanto, prendono tempo domandando – con successo – la possibilità di riflettere su questa prima proposta (cap. 6; la discussione verrà ripresa e si concluderà solamente alla fine del cap. 8, con l’ottenimento di condizioni più favorevoli ai Troiani). Sulla città si scatenano nuovi infausti presagi (capp. 7-8): una fine cruenta incombe ormai su Troia. I seguenti capp. 9-13 sono specificatamente dedicati alla conquista greca della città: Eleno propone la realizzazione di un cavallo di legno da lasciare a Ilio, le cui dimensioni possano giustificare l’abbattimento di un tratto

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delle mura cittadine (cap. 9). Ratificate le condizioni dell’armistizio (cap. 10) e riscosso il relativo tributo, l’esercito acheo leva le tende e abbandona il campo, simulando il ritorno in patria; tra il giubilo generale della popolazione il manufatto ligneo viene condotto in città (cap. 11). Secondo il piano stabilito, i Greci fanno nottetempo ritorno alla spiaggia di Troia e, sfruttando la breccia aperta dagli stessi cittadini, penetrano nel centro abitato e danno inizio al saccheggio (cap. 12) e al massacro (cap. 13). La devastazione di Ilio si conclude con la spartizione del bottino e dei prigionieri di guerra tra i condottieri greci. Chiuse in questo modo le ostilità, l’attenzione si dirige alla risoluzione di una accesa disputa tra due eroi del campo acheo: Aiace ed Ulisse, infatti, si contendono aspramente il Palladio. La situazione sembra degenerare irrimediabilmente quando Aiace viene trovato morto in circostanze misteriose, dopo che il Palladio è stato attribuito ad Ulisse tra forti malumori della truppa (cap. 14-15). Per placare gli animi, Ulisse e gli Atridi sono costretti a prendere velocemente il mare (cap. 16), nonostante siano stati loro predetti luttuosi destini. Il racconto si chiude con la partenza dell’esercito greco e con quella di Enea, che aveva provato senza successo a scalzare Antenore dal trono di Priamo (cap. 17). Una sorta di sottoscrizione di Ditti sigilla questo quinto libro. 2 Fa qui la sua prima apparizione Taltibio, uno degli araldi e degli scudieri di Agamennone secondo quanto si apprende da Il. 1,320-321 («ΦΏΏȂ ϵ ·Ή ̖΅ΏΌϾΆ΍ϱΑ ΘΉ Ύ΅Ϡ ̈ЁΕΙΆΣΘ΋Α ΔΕΓΗνΉ΍ΔΉǰ / ΘЏ ΑΓϡ σΗ΅Α ΎφΕΙΎΉ Ύ΅Ϡ ϴΘΕ΋ΕА ΌΉΕΣΔΓΑΘΉ»: ma a Taltibio e a Euribate rivolse la parola, / che erano i suoi due araldi e scudieri fedeli). Taltibio è totalmente assente nell’opera di Quinto di Smirne e in quella di Trifiodoro; Ditti gli assegna probabilmente la funzione di «garante» dell’accordo. 3 In quest’ammiccante apostrofe a Taltibio, e quindi verosimilmente a tutti i delegati degli avversari presenti al momento, Antenore mette in luce la propria discendenza: i figli sono perfetti custodi delle virtù che furono di lui, «praeter ceteros boni honestique sectator» (cfr. supra 1,6: qui Antenore è presentato come il solo campione di ospitalità, amico del bene e della giustizia). Molto sottile l’ingegnosità di tale discorso: il padre vuole così sottolineare la perfetta corrispondenza dei valori dei propri figli con quelli dei Greci (cfr. supra 4,22). Un motivo che ritorna molte volte nel corso del poema (cfr. supra 3,22 e 4,1; e infra 5,2). 4 Il discorso che segue richiama direttamente quello che Ulisse tenne in merito al rapimento di Elena (cfr. supra 2,21-22; ma anche quel-

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NOTE AL TESTO DI DITTI

lo di Antimaco, di Antenore e di Enea che seguiranno poi in questo libro): se quello apriva le ostilità tra Greci e Troiani (cfr. supra 2,26), questo ne costituisce il termine. Il parallelismo dei discorsi, caratteristica della struttura narrativa del poema (cfr. anche i due interventi di Panto supra 2,25 ed infra 5,6) costituisce per G. Fry «l’armature causale d’un récit sans dieux» (Fry 1998, 359 n. 13). Così come quello del suo omologo greco Ulisse nel secondo libro, il sermone di Antenore è strutturato secondo i canoni della retorica classica: exordium (= non si deve aggredire chi ci è legato per sangue e/o diritto), narratio (= quadro di insieme degli eventi esposto tramite una serie di interrogative retoriche), propositio (= necessità di trattare con il nemico), argumentatio (nella cui probatio si mette in luce la buona volontà dei Greci mentre nella refutatio si punta il dito contro Priamo e la sua corte negligente) ed infine peroratio (= necessità di comprare la salvezza con l’oro). A riprova del forte legame tra i due interventi, si confrontino le rispettive conclusioni. Sull’arte compositiva di Ditti-Settimio si veda Timpanaro 1987. 5 Ditti ha così modo di completare la genealogia che chiudeva il quarto libro (cfr. supra 4,22): Pelope (figlio di Tantalo e di Clizia o di Dione, capostipite della famiglia dei Pelopidi, dalla quale traevano origine Agamennone e Menelao) sposò Ippodamia, figlia di Enomaos e di Sterope; Dardano (figlio di Zeus e capostipite dei Troiani), invece, è figlio di Giove e di Elettra. Siccome Sterope ed Elettra sono entrambe figlie di Atlante, si poteva dedurre da questa circostanza che Greci e Troiani fossero in qualche modo imparentati. 6 Si veda supra 3,26. Glauco aveva ingaggiato un duello contro Diomede quando venne stroncato da un giavellotto lanciato da Agamennone (cfr. supra 4,7). In Apollodoro (Epit. 5,21), invece, il figlio di Antenore fu salvato da Ulisse e Menelao che lo riconobbero mentre fuggiva durante il saccheggio di Troia (i due Greci erano infatti legati ad Antenore da vincoli di ospitalità già nella tradizione omerica, come lo stesso Antenore ha modo di confermare ad Elena in Il. 3,203207). Nella narrazione della medesima scena in Quinto di Smirne (cfr. 3,258-285), il duellante Glauco è il re di Licia e verrà poi ucciso dalla mano di Aiace Telamonio. 7 Cfr. ancora una volta supra 3,22 e 4,1; si faccia riferimento alla nota 3 di questo libro. Il rispetto della parola data sarà argomento centrale anche in seguito quando, nella stipula dell’armistizio finale, i Greci tengono a sottolineare la propria lealtà agli accordi di pace pur

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impegnandosi, attraverso un abile espediente retorico, alla distruzione totale di Troia. 8 Si fa qui evidentemente riferimento alla consegna del corpo di Ettore a Priamo (cfr. supra 3,20-27). 9 Antenore qui utilizza un’esagerazione retorica nel descrivere il trattamento riservato agli ambasciatori greci in missione diplomatica (in proposito si vedano supra 1,6-8 [prima ambasciata greca a Troia] e 2,24 [seconda ambasciata greca]): l’unico scopo di questa manipolazione è verosimilmente quello di sottolineare l’importanza del proprio ruolo nel corso di tali occasioni (con particolare riferimento alla propria ambasceria presso i Greci, dalla quale prenderà forma il complotto contro la città di Priamo; cfr. supra 4,22). 10 Debolezza caratteriale, abusi di potere e cortigianeria sono alla base della sequenza di eventi cui si accenna qui: Priamo cedette al fascino di Elena, ma soprattutto alle richieste di sua moglie Ecuba (cfr. supra 1,9-10); i principi, e in particolare Paride «accecato dalla passione», fecero pressione – anche fisicamente – sui propri sudditi per far rimanere Elena a Troia (cfr. supra 1,8 e 2,25); Antimaco voltò le spalle al popolo troiano per schierarsi dalla parte di Paride e a favore del conflitto armato (cfr. supra 2,23-24; tale personaggio ebbe lo stesso ruolo anche in Il. 11,123-125 e 138-142). Non sarà inutile ricordare che per il comportamento di quest’ultimo, i suoi figli verranno lapidati sotto le mura della città dopo essere stati catturati durante una missione dai Greci (si veda supra 4,21). 11 Cfr. Tz. Antehom. 158: «Ύ΅Ϡ ΑϾ ΎΉΑ ̝ΑΘ΍ΐΣΛΓ΍Γ Ύ΅ΎϱΚΕΓΑΓΖ σΎΔ΅ΌΉΑ σΕ·Γ΍Ζ». 12 Si ritorna ancora una volta a ciò che Achille aveva detto a Priamo nel corso del loro colloquio privato (cfr. supra 3,23) e che solo un soldato-narratore come Ditti/Settimio poteva riportare con ingenuità: il rapimento di Elena era solo un pretesto per una guerra in cui era messo in palio il dominio sul mondo conosciuto (ragionamento tipico della storiografia greca già dai tempi di Erodoto). In Omero (cfr. Il. 1,149-171), invece, i Greci avevano chiaramente mosso guerra a Troia per dare soddisfazione ad Agamennone, intenzionato a vendicare l’offesa subita dal fratello Menelao. 13 Secondo C. Brakman, l’utilizzo della forma verbale adtinuere, che trova perfetta corrispondenza in Sall. Iug. 108,3, è uno degli elementi che dimostrano l’alto livello della traduzione latina di Settimio (Brakman 1936, 80: «adtinuere ergo optime se habet»).

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Disgustati dal sacrilegio di Paride, anche Eleno ed Enea hanno manifestato prima di Antenore la medesima intenzione di abbandonare Troia (cfr. supra 4,18 ed infra nota successiva di questo libro). L’esagerazione retorica spinge l’eroe a prospettare un futuro radicalmente opposto a quello che sarà lo sviluppo degli eventi: al di là delle minacce qui avanzate, Antenore rimarrà infatti in città (cfr. infra 5,17; in un differente ramo della tradizione, rappresentato ad esempio da Virgilio [cfr. Aen. 1,241-249] e Tito Livio [cfr. 1,1,1-3], invece, l’eroe abbandonerà la patria solamente dopo la sua distruzione). 15 Paride aveva ucciso Achille non solo a tradimento ma anche mentre quest’ultimo si trovava all’interno del tempio di Apollo (cfr. supra 4,11). Si confronti la medesima espressione inerente alla contaminazione degli altari del fr. I,22 del corpus sallustiano: «cum arae et alia deis sacrata supplicum sanguine foedarentur». 16 Cfr. Sall. Cat. 52,4: «hoc nisi provideris ne accidat». 17 Per un pubblico di cultura latina questo passaggio costituisce un ribaltamento della frase «non auro, sed ferro, recuperanda est patria» che, secondo la leggenda, nel 390 a.C. Marco Furio Camillo urlò a Brenno durante l’occupazione del Campidoglio da parte dei Galli. 18 In realtà in tutta l’Ephemeris non esiste alcun passaggio in cui si faccia accenno all’avarizia di Priamo: in questa circostanza l’autore potrebbe aver voluto riferirsi al precedente discorso di Antenore ai Greci (cfr. supra 4,22) durante il quale l’eroe ha avuto l’opportunità di dire qualsiasi cosa ad un pubblico che non poteva affatto conoscere il carattere del re di Troia. Tuttavia Ditti/Settimio sembra dimenticare di aver scaricato tutte le responsabilità del conflitto sugli irresponsabili figli di Priamo (cfr. supra 1,7). 19 Riecheggiano forse qui temi particolarmente cari alla storiografia sallustiana, soprattutto quello dell’avaritia. Si considerino, ad esempio, alcuni passaggi del Bellum Catilinae: «qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere» (10,2-3: per coloro che avevano tollerato facilmente fatiche, pericoli, situazioni gravose e dubbie, la tranquillità e la ricchezza – desiderabili in altre circostanze – furono di peso e rovina. Dunque crebbe dapprima il desiderio di denaro e quindi quello di potere: queste cose furono forse l’origine di tutti i mali) e «postquam divitiae honori esse coepere, et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus,

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paupertas probro haberi, innocentia pro malevolentia duci coepit» (12,1: dopo che le ricchezze cominciarono ad essere ritenute un onore, e ne derivarono prestigio, autorità e potere, la virtù cominciò ad intorpidirsi, la povertà ad essere considerata una vergogna e l’integrità una macchia). 20 Si è già detto delle somiglianze nella costruzione retorica dei discorsi di Antenore e Ulisse. Non sarà inutile sottolineare che la reazione dell’uditorio è totalmente diversa: in quel caso scende sugli astanti un silenzio profondo (cfr. supra 2,23), qui si levano immediatamente alte grida. 21 Ancora un altro richiamo al discorso di Ulisse: anche supra a 2,24 un debole Priamo cedeva all’emozione del momento e rinunciava con ignavia all’esercizio della propria funzione di re. 22 La leggenda di Antenore e di Enea ‘traditori’ risale a tempi antichi e nell’opera di Ditti/Settimio, differentemente da quella di Darete Frigio, non viene esasperata. Su questo tema Debiasi ha scritto: «da questi stessi motivi [ndt la reiterata proposta di restituire Elena e i suoi beni agli Achei – cfr. già Il. 7,347-353 – e l’ospitalità riservata a Menelao ed Ulisse in ambasceria a Troia prima dello scoppio del conflitto – cfr. già Il. 3,207], incentrati su valori fondanti del mondo omerico, non ultimo quello della ΒΉΑϟ΅, scaturisce la tradizione, sviluppata nella Piccola Iliade, della salvezza riservata ad Antenore e ai suoi nel corso del sacco di Troia, interpretata poi, sulla base di un’esegesi distorta e per lo più tendenziosa dei medesimi luoghi, quale prova del tradimento di Antenore ai danni della propria città» (Debiasi 2004, 214; cfr. anche Scuderi 1976, Farrow 1991 e Braccesi 1997, 113-133) 23 Cfr. Sall. Iug. 111,4: «ita composito dolo digrediuntur». 24 Nella vicenda si percepisce chiaramente l’eco della domanda di intercessione avanzata da Elena ad Ulisse quando costui si trova a Troia per spiare le mosse del nemico (si veda l’argumentum della Piccola Iliade redatto da Proclo e Od. 4,240-264). Notevole l’impegno di Ditti/Settimio nell’adattamento dell’episodio alla nuova struttura narrativa. 25 Cfr. supra 4,22. Ampiamente diffusa la notizia secondo cui la donna toccò in sposa a Deifobo dopo la morte di Paride (così anche nella Piccola Iliade, come si può leggere nel riassunto che Proclo fece del poema perduto, e in Od. 4,276 ss.) e proprio nella casa del nuovo marito costei si trovava al momento della presa della città (cfr. infra 5,12). Deifobo dovette contendere la mano della donna ad Eleno che,

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riconosciutosi sconfitto, decise di lasciare la città e rifugiarsi sul monte Ida dove verrà poi catturato da Ulisse (cfr. Apollod7. Epit. 5,9). 26 Si tratta di Agamennone, Idomeneo, Ulisse e Diomede, con i quali era stato organizzato il complotto per far cadere la città di Troia (cfr. supra 4,22). 27 È interessante notare come Settimio utilizzi qui il termine respublica, così lontano dalla concezione politico-sociale del mondo greco. 28 L’allusione alla morte di Achille, trucidato da Paride all’interno del tempio di Apollo (si veda la nota 15 di questo libro) è più che evidente: in quanto capaci di tali azioni scellerate, i Troiani non si farebbero scrupolo di attentare alla vita di un ambasciatore, anche se nel pieno dell’esercizio delle proprie funzioni. 29 Come si è già detto (cfr. supra n. 10), tale eminente troiano si era da sempre distinto per l’odio cieco contro i Greci e rappresentava il principale esponente della fazione favorevole all’intervento armato. Suo diretto avversario politico era Antenore. 30 Pergamo è il nome che in tutta la tradizione epica viene dato alla rocca fortificata nel cuore di Troia (negli autori successivi ai poemi omerici, per sineddoche, il termine andrà ad indicare anche la città stessa). Oltre al palazzo reale, al suo interno era presente anche il tempio di Minerva di cui si parlerà nel corso di questo capitolo. 31 Sui comportamenti sconsiderati dei principi troiani si veda supra 1,8. Il fatto stesso che i personaggi più importanti e rappresentativi della città sotto assedio si rifugino nel tempio di una divinità notoriamente favorevole ai loro attuali nemici, e – in particolare – ai due attivi ideatori della trama del complotto, Ulisse e Diomede, costituisce una chiara anticipazione dell’imminente fine di Troia. 32 Con la morte dei figli di Elena si scioglie l’ultimo legame della Tindaride con la famiglia reale di Troia. Partenio (34) ed uno scolio ad Od. 4,12 menzionano Corito, che Conone tuttavia – da quanto si apprende tramite Phot. Bibl. 186,23 – riteneva essere figlio di Paride e di Enone. Gli altri personaggi menzionati in questo passaggio, che ha tutte le caratteristiche di una glossa esplicativa accolta involontariamente nel testo, sono altrimenti ignoti. Per il primo nome, davanti al quale l’editore di Ditti W. Eisenhut è stato costretto ad optare per una crux, si confrontino le versioni ̅ΓϾΑ΍ΎΓΖ (cfr. Tz. Hom. 442; Schol. ad Lycophr. 851) e ̅ΓϾΑ΍ΐΓΖ (cfr. Malal. 140; Cedr. 130C). Q. Cataudella si era mostrato favorevole all’eliminazione di questa crux (Cataudella 1976, 208-209).

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Secondo la tradizione ripresa anche in QS. 10,350-360, questa profezia viene annunciata da Eleno (conosciuto in Omero, e quindi in tutta la tradizione epica, come interprete divino/indovino; cfr. anche Darete, 7) solamente dopo la cattura del Palladio da parte dei Greci; in Ditti/Settimio una generica anticipazione in merito ad un oracolo sull’imminente caduta della città è già presente supra in 4,18, quando Eleno prende la parola per giustificarsi davanti all’assemblea achea. Il celebre episodio del ‘ratto del Palladio’ è ben conosciuto a molti rami della tradizione epica (ad esempio, l’Ilias parva di Lesche di Mitilene, in PEG 25 Bernabé e Verg. Aen. 2,162-175 e 183-184; tale tema è altresì presente in numerosissime rappresentazioni iconografiche). 34 Secondo l’Ilioupersis di Arctino (cfr. PEG 1 Bernabé) il Palladio fu un dono inviato da Zeus a Dardano quale pegno delle sorti della città. L’oggetto divino era conservato nel riservatissimo ΩΈΙΘΓΑ del tempio mentre nella cella era a disposizione di tutti i fedeli una copia (Dion. 1,68,2, che dichiara di far riferimento all’Ilioupersis di Arctino). 35 Malala e Cedreno offrono una diversa spiegazione della provenienza della statua, dono di un sacerdote di nome Asio (cfr. rispettivamente 137 e 130D). In Apollod7. 3,12,3 abbiamo una sintetica descrizione dell’oggetto (nel racconto di Apollodoro, però, il Palladio cade dal cielo direttamente davanti alla tenda di Ilo, che aveva appunto chiesto al cielo l’aiuto di un segno nella scelta del luogo di fondazione di Troia). Si trattava di una statua raffigurante Minerva stante, a piedi uniti, armata di elmo e scudo; nella mano destra stringeva una lancia nell’atto di vibrarla, nella sinistra aveva una conocchia e un fuso. Sull’aspetto del Palladio, e la storia mitica della sua origine, si vedano: Dion. 1,68 ss.; Con. 34; Paus. 1,28,9 e 2,23,5; Clem. Protr. 4,47; Verg. Aen. 2,162 ss.; Ov. Fast. 6,417-436 e Met. 13,337-349; Sil. 13,30 ss.. Tutte le tradizioni sembrano essere relativamente tarde e differiscono anche sensibilmente tra loro, fatti salvi la provenienza della statua dal cielo e l’invincibilità conferita a Troia attraverso il mantenimento dell’oggetto in città. 36 L’utilizzo della parola ‘barbari’, che la voce narrante fa nell’illustrare il contenuto del futuro intervento dell’eroe, potrebbe anche sottintendere l’esistenza in Antenore di un sentimento di totale estraneità verso la comunità di Troia, in particolare nei confronti della fazione dei folli bellicisti che avevano sacrificato l’intero popolo in una guerra lunga e assurda. Dopo la decisione di collaborare segretamente

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con il nemico, questo passaggio rappresenta il punto più alto nell’escalation degli eventi iniziati con l’allontanamento di Enea ed Eleno irati (cfr. supra 4,18) e con il ritirarsi dei notabili troiani presso il tempio di Minerva. Si tenga presente che, dopo aver elogiato apertamente la lealtà e l’onestà dei Greci, Antenore si accorda con loro per recitare ai propri compatrioti una parte totalmente opposta a tali nobili valori. 37 Cfr. Sall. Iug. 11,2: «postquam illi … iusta magnifice fecerant». 38 Cfr. supra 5,4. Anche in questa circostanza, come era lecito attendersi, Antenore ed Enea guidano l’ambasceria dei Troiani. All’inizio della scena, Panto e gli altri personaggi menzionati di seguito non rappresentano che il corteo di accompagnatori della missione. 39 La lezione tràdita lampus, già al centro delle attenzioni degli studiosi del testo dell’Ephemeris, fu corretta in Panthus da Dederich, confortato dalla sicura presenza del nome del personaggio alla fine di questo stesso capitolo. Costui è autorevole membro dei consiglio troiano, convinto già da tempo della necessità di trovare un accordo di pace con i Greci (non sarà inutile ricordare che fu l’Ilioupersis virgiliana a riscattare Panto dal ruolo marginale che aveva avuto nei poemi omerici). Il suo discorso richiama le parole che Ettore ha indirizzato ad Ulisse nel corso della ambasciata di quest’ultimo a Troia (cfr. supra 2,23-25): ancora una volta un esempio di simmetria nei discorsi nell’opera di Ditti/Settimio. 40 Cfr. Sall. Iug. 41,7: «paucorum arbitrio belli domique agitabatur». 41 Per le virtù greche cfr. supra n. 3. È netto il contrasto con quanto il poeta affermerà poco più oltre e ancora negli ultimi passaggi di questo libro, e cioè che i Greci non hanno alcuna vergogna di dichiararsi animati principalmente dalla furia cieca della vendetta. 42 La conclusione alla quale arriva Panto in questo discorso riprende l’apertura del precedente discorso di Antenore (cfr. supra 5,2): inutile infierire oltre e consumare vite umane sul campo di battaglia, i Troiani hanno già sufficientemente scontato il fio di tutte le loro colpe. 43 Pur ammettendo la possibilità che i numeri qui utilizzati dall’autore rientrino solamente nella finzione letteraria ed abbiano pertanto un mero valore iperbolico, proviamo a dare un’idea delle richieste dei Greci. Il valore del talento variò sensibilmente a seconda del periodo storico e del luogo. Se riportato all’ipotizzabile momento di redazione del poema, e cioè all’Impero romano del II sec. d.C., si può verosimilmente pensare che il talento avesse il valore di circa 20 kg: gli Achei quindi domandarono la quantità di 100 tonnellate d’oro e

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100 tonnellate d’argento. Per quanto concerne il frumento, l’autore non fa menzione alcuna dell’unità di misura di riferimento. In ogni caso le unità in uso all’epoca, il modius romano e l’οΎΘΉϾΖ attico, entrambe corrispondenti a circa 8,75 litri, ci conducono alla quantità di 875.000 litri di grano (valutabili in circa 500 tonnellate). Se per l’oro e l’argento si tratta assolutamente di una cifra molto ragguardevole, anche se frazionata sui dieci anni a disposizione dei Troiani, la quantità di grano richiesta sembra assolutamente più alla portata (facendo un parallelo con quanto riportato da Varrone nel suo De agricoltura [1,44,1-2], 500 tonnellate di grano corrispondevano alla produzione di circa 50 ettari di terreno coltivato in Italia). 44 La mancanza del senso di misura è una caratteristica tipica del “barbaro”, come barbari sono i Troiani (un veloce punto della situazione è in Timpanaro 1987, 184-191). Dal punto di vista dell’Antenore di Settimio, quindi, l’invettiva vuole significare che, andando oltre i limiti loro imposti dai valori di riferimento, i Greci agiscono come farebbero abitualmente i loro avversari incivili. Reazioni assimilabili al comportamento dei barbari si erano già avute in 2,37 (Achille tenta di imporre il proprio punto di vista attraverso l’utilizzo della forza; la scena a sua volta riprende la prepotenza dei principi troiani di 1,8) o in 3,15 (Achille fa scempio del cadavere del suo nemico secondo quella che – per Settimio – è una tipica abitudine dei Troiani; in particolare cfr. 3,10): è lo stesso autore a ricordarci che il più famoso degli eroi schierati dai Greci mancava totalmente di autocontrollo (cfr. supra 1,14). Sulla figura di Achille in questa opera si rimanda a Bobrowski 2004. 45 In tutto il poema la fedeltà e l’impegno degli alleati dei Troiani sono sempre considerati legati ad una ricompensa materiale: si veda supra 1,18, 2,23-35, 4,2 e 4,14. 46 In questa artificiale requisitoria di Antenore contro le richieste troppo esose dei Greci, riecheggia nuovamente la fine del suo discorso con il quale si è aperto questo libro (cfr. supra 5,2). C. M. Lucarini propone di espungere la parola deorum, che specifica la destinazione di culto degli edifici di cui si parla, in quanto non avrebbe senso che i Troiani minacciassero l’incendio dei soli templi: secondo lo studioso, infatti, «in due passi non lontani dal nostro (ndt cfr. supra 5,2 e infra 5,13) la distruzione dei templi e delle ricchezze che vi sono contenute è sempre giustapposta a quella delle case dei Troiani» (Lucarini 2007, 237). Pur comprendendo la logica alla base della proposta di Lucarini

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ed ammettendo che nella versione di Settimio non è lasciato spazio alcuno all’azione delle divinità, rigettiamo una proposta che ci sembra confidare in un assoluto razionalismo della composizione e siamo pertanto propensi a conservare il testo tràdito a favore di un significato allegorico del termine deorum aedificiis. La venerazione degli dei cittadini rappresentava allo stesso tempo la salvaguardia delle proprie radici e delle proprie tradizioni (cioè della propria identità storica) e lo strumento di garanzia della sopravvivenza quotidiana: la distruzione volontaria dei luoghi di culto, quindi, indicherebbe il punto più alto e drammatico di un annientamento suicida. 47 Questo eroe è senza dubbio il più duro e crudele di tutto il campo acheo, ovvero il più ‘barbaro’ se si accetta la definizione impiegata poco prima da Antenore (si vedano a tal proposito le note 36 e 44 di questo libro): solo per citare alcuni episodi esemplificativi, di lui Settimio racconta la bramosia di guerreggiare (cfr. supra 2,9), la crudeltà maniacale nell’uccisione di Palamede (cfr. supra 2,15-29), l’assassinio di Dolone (cfr. supra 2,37) e di Reso (cfr. supra 2,45) e il suo voto contrario alla proposta di una degna sepoltura per il corpo dell’amazzone Pentesilea (cfr. supra 4,3). 48 La spedizione in realtà è partita da Aulide in Beozia, come emerge dal ciclo epico, dai tragici (cfr. Eur. IA.), da Strabone (9,2,8) e da Virgilio (Aen. 4,425-426). Diomede, tuttavia, indica qui la città non solo per il logico nesso con la sua personale provenienza ma anche perché proprio nella città dell’Argolide fu concepito il piano di attacco della spedizione (cfr. supra 1,15). 49 A seguito della morte di Achille nel tempio di Apollo presso Timbra, nella Troade, il dio che era originariamente favorevole ai Troiani divenne loro ostile. 50 Cfr. QS. 12,500-508. Si confronti il racconto di Virgilio sui presagi funesti scatenati dalla stessa Atena contro gli Achei che avevano rapito il Palladio (Aen. 2,172-175). Un tentativo di spiegazione razionale di questi eventi prodigiosi si trova in Ps.-Plat. Alc. 2, 149d-e. 51 L’eccessiva emotività e istintività è caratteristica dei Troiani: esemplare è il comportamento di Antimaco durante l’assemblea dei principi e il giudizio che questi danno di lui, cioè seditiosus, supra in 2,24. 52 Tale episodio riporta alla mente la previsione altrettanto catastrofica raccontata da Omero (cfr. Il. 12,200-250), dove un’aquila ha pressappoco lo stesso comportamento nei confronti di una serpe.

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Pur avendo già annunciato la profezia del ‘ratto del Palladio’, Settimio non resiste alla tentazione di inserire un’ulteriore anticipazione della funesta ed incombente rovina della città. 54 Infatti, così come si può intuire dal riassunto della Piccola Iliade fatto da Proclo, Ulisse era solito dedicarsi ad una vera e propria azione di spionaggio volta al futuro attacco dei Greci. 55 Un presagio relativo allo svolgimento e alla durata della guerra di Troia è in Il. 2,303-332, dove viene presentata l’allegoria del serpente che divora nove passeri nel loro nido. Nella chiusura di questo paragrafo si ha ancora una volta l’eco della conclusione del discorso di Antenore (cfr. supra 5,2). 56 Sebbene in ordine inverso, gli eventi compresi in questo paragrafo vengono ripresi in Cedreno (cfr. 131A-C). 57 Il ruolo di Ecuba come intermediaria tra le divinità e i Troiani (cfr. anche supra 3,2, in cui la regina troiana guida il cerimoniale per le preghiere rituali ad Apollo) è già conosciuto in Omero (cfr., ad esempio, Il. 6,288-311). 58 Cassandra entra in scena per il fatto di essere sacerdotessa di Apollo (era stata già presentata in questo ruolo supra a 3,2) ed è pertanto spontaneamente presente in occasione del prodigio funesto. 59 Si tratta proprio della moglie di Antenore, che era stata presentata in Il. 5,70 («ϵΖ Ϲ΅ ΑϱΌΓΖ ΐξΑ σ΋Αǰ ΔϾΎ΅ ΈȂ σΘΕΉΚΉ Έϧ΅ ̋Ή΅ΑА»: [ndt Pedeo] ch’era bastardo, ma lo crebbe con cura la divina Teano) e in Il. 6,299-300 nel ruolo di sacerdotessa di Minerva («̍΍ΗΗ΋ϪΖǰ ΩΏΓΛΓΖ ̝ΑΘφΑΓΕΓΖ ϡΔΔΓΈΣΐΓ΍Γȉ / ΘχΑ ·ΤΕ ̖ΕЗΉΖ σΌ΋Ύ΅Α ̝ΌφΑϙ ΛΉϧΕ΅Ζ ΦΑνΗΛΓΑ»: Cisseide, la consorte di Antenore domatore di cavalli, /

che i Troiani avevano fatta sacerdotessa d’Atena); in Virgilio (Aen. 10,703), invece, costei è menzionata come moglie di Amico e madre di Mimante. 60 Secondo la tradizione (cfr. Od. 4,245-264, la Piccola Iliade di Lesche di Mitilene nel riassunto che ne fa Proclo e Malal. 138), fu Ulisse ad insinuarsi nel centro abitato di Troia travestito da mendicante e a rubare il Palladio grazie all’aiuto di Elena. Ditti/Settimio quindi opera una semplice sostituzione dei personaggi, introducendo con Antenore e Teano – non si può affermare se consapevolmente o meno – quella che, come si è detto in precedenza, era notoriamente una coppia sposata. Forse sarà proprio per questo loro intimo rapporto che in questo poema Antenore, e non l’Eleno della tradizione classica (cfr. ancora QS. 10,350-354 e Apollod7. Epit. 5,9), è a conoscenza della profezia

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del Palladio, potendo poi rivelarla ai Greci (cfr. supra 5,5). In ogni caso, Settimio non fa alcun cenno al loro status di coppia. 61 Secondo Apollodoro (3,12,3), la dimensione di tre cubiti – all’incirca un attuale metro e mezzo – faceva sì che la statua potesse essere maneggiata da una sola persona con qualche difficoltà, non tanto per l’ingombro quanto per il peso. 62 Oltre all’evidente riduzione del 60% rispetto ai tributi imposti precedentemente ai Troiani (cfr. supra 5,6; la stessa cifra è riportata da Malal. 143 e Cedr. 131C), non siamo in grado di sapere se fosse ancora compresa la quota in frumento né se il tutto fosse ancora ammortizzabile nel corso di dieci anni (se si considerano gli sviluppi narrati infra a 5,11, sembra piuttosto che la cifra dovesse essere versata in un’unica rata). 63 Ditti sembra tralasciare le altre due condizioni che la tradizione aveva fissato per la caduta della città di Priamo (cfr. Apollod7. Epit. 5,10): il furto delle ossa di Pelope e la partecipazione di Neottolemo all’assedio (quando quest’ultimo personaggio verrà introdotto nel poema, non si accennerà affatto a questa circostanza). 64 Con l’attribuzione dell’iniziativa del cavallo ad Eleno, Ditti/ Settimio si discosta notevolmente dalla tradizione che attribuiva tale impresa ora ad Ulisse (cfr. QS. 12,51-65), ora alla stessa Minerva (cfr. Triphiod. 57), ora a Calcante (cfr. Verg. Aen. 2,182-195). Secondo quanto testimoniato da Fozio (cfr. Bibl. 186,34), questa sua versione era presente solamente nell’opera di Conone. Il racconto del cavallo di Troia, notissimo e dal valore quasi proverbiale, affonda le proprie radici in tempi molto antichi: citato tre volte nell’Odissea (4,265 ss.; 8,402 ss.; 11,523 ss.), questo era al centro delle vicende narrate nell’Ilias parva di Lesche di Mitilene, nell’Ilioupersis di Arctino e di quella di Stesicoro e nel dodicesimo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne; venne inoltre ripreso nell’Eneide virgiliana (cfr. 2,13-267). Una recente panoramica sulla ripresa e variatio del tema del ‘cavallo di Troia’ nella letteratura latina è in van Mal-Maeder 2007. 65 A differenza del ‘classico’ cavallo omerico, destinato ad accogliere al suo interno un gruppo scelto di guerrieri achei (le tradizioni antiche e bizantine offrono versioni diverse sugli uomini entrati nel cavallo – si va dai 3000 guerrieri della Piccola Iliade ai 23 di Giovanni Tzetze passando per i 50 di Apollodoro; Quinto di Smirne, il più vicino dei poeti ‘omerici’ di cui sia sopravvissuta l’opera integrale, offriva l’elenco di trenta capi più il costruttore Epeo, arruolato per l’impresa esclusi-

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vamente per ragioni tecniche) e a trasportarli segretamente all’interno della città mentre il grosso dell’esercito si era segretamente appostato presso l’isola di Tenedo, l’artefatto immaginato da Ditti/Settimio servirà solamente come pretesto perché venga creata una breccia lungo la cinta muraria; la stessa versione si può leggere in Palaeph. 16. Virgilio, invece, adottò una versione contaminata (cfr. Aen. 2,234 ss.). 66 Anche in questo caso, un simile comportamento che presuppone la mancanza del controllo delle proprie emozioni è tipico dei barbari (cfr. supra 5,6 e la nota 32 di questo libro). Il poema ci presenta in questo caso un personaggio psicologicamente molto complesso: pur trovandosi da tempo in buoni rapporti con i Greci – che, dopo la distruzione della città e l’annientamento della popolazione troiana, seguirà volentieri –, Eleno cede alla propria emotività e al peso della propria responsabilità in quella che sarà poi la strage della sua famiglia e della sua gente. 67 Sul destino di Eleno si veda infra 5,16; cfr. anche Verg. Aen. 3. 68 In Quinto di Smirne l’architetto Epeo era stato l’unico artefice materiale del cavallo (così come poi appare infra a 5,11): Atena gli aveva concesso una straordinaria capacità ingegneristica e lo affiancò attivamente nella realizzazione dell’impresa, così come è ricordato già in Omero Od. 8,493 («ΈΓΙΕ΅ΘνΓΙǰ ΘϲΑ ̳ΔΉ΍ϲΖ πΔΓϟ΋ΗΉΑ ΗϿΑ ̝ΌφΑϙ»: del cavallo di legno, che Epeo realizzò insieme alla Pallade). Si confrontino inoltre Eur. Tr. 10-11, Verg. Aen. 2,15, Apollod7. Epit. 5,14, Hyg. 108, Philostr. Her. 11 e Triphiod. 57. La raccolta del materiale si svolse sul monte Ida (cfr. Triphiod. 57-61 e Q.S. 12,122-124), in un luogo che Pausania credette di riconoscere ancora ai suoi tempi (3,13,5). Seppur menzionato in questo passaggio, Aiace non prenderà mai parte a tali lavori manuali. 69 Il poeta inventa completamente questa ambasceria composta dagli eroi che, nel ramo principale della tradizione, avrebbero invece dovuto prendere posto all’interno del cavallo (cfr. ad esempio Triphiod. 152-183 e QS. 12,314-335). Ditti/Settimio considera Aiace Telamonio ancora vivente nonostante egli sarebbe dovuto essere morto in seguito alla disputa per le armi di Achille. G. Fry fa notare la curiosa circostanza in cui dieci sono i firmatores chiamati a sancire la fine di un conflitto durato un egual numero di anni (si veda Fry 1998, 362 n. 50). 70 Si ripete lo schema già utilizzato supra a 5,4. 71 Tale comportamento di Priamo ci spinge a pensare che egli considerasse il figlio come semplice prigioniero dei Greci e non fosse a

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conoscenza della connivenza di lui con i nemici: ciò rende ancora più patetico l’intimo strazio del giovane principe troiano. 72 In questo luogo i membri del consiglio si erano già rifugiati in precedenza (cfr. supra 5,5). Con il Palladio e il cavallo, questi continui riferimenti al tempio di Minerva rafforzano la presenza della divinità nel corso della narrazione del quinto libro. 73 I due eroi, topicamente insieme per missioni di rappresentanza (come nella seconda ambasciata presso Priamo per proporre la consegna di Elena e dei beni saccheggiati dai Troiani [cfr. supra 2,20] e nel tentativo di convincere Achille a tornare nuovamente a combattere [cfr. supra 2,48]), hanno certo acquisito un ruolo di preminenza tra i compagni dopo aver conquistato il Palladio (cfr. supra 5,4), che avrebbe finalmente garantito a loro stessi e ai propri compatrioti una conclusione vittoriosa del conflitto. 74 Si tratta di una formula molto ingegnosa, perfettamente calzante con il carattere arguto del ΔΓΏϾΘΕΓΔΓΖ Ulisse, che permetterà ad entrambe le parti (infatti, Antenore presterà il suo giuramento «in eadem verba») di non giurare il falso. Confidando in una pronta partenza dell’esercito nemico, l’uditorio troiano non si rende affatto conto che in tal modo i Greci stanno solennemente giurando che avrebbero preso e distrutto Troia, secondo gli accordi che avevano sancito in separata sede con Antenore. 75 Questa formula di giuramento richiama direttamente quella impiegata in Il. 3,276-280 in occasione del duello tra Paride e Menelao («̉ΉІ ΔΣΘΉΕǰ ͕Έ΋ΌΉΑ ΐΉΈνΝΑǰ ΎϾΈ΍ΗΘΉ ΐν·΍ΗΘΉǰ / ̼νΏ΍ϱΖ ΌȂǰ ϶Ζ ΔΣΑΘȂ

πΚΓΕλΖ Ύ΅Ϡ ΔΣΑΘȂ πΔ΅ΎΓϾΉ΍Ζǰ / Ύ΅Ϡ ΔΓΘ΅ΐΓϠ Ύ΅Ϡ ·΅ϧ΅ǰ Ύ΅Ϡ Γϣ ЀΔνΑΉΕΌΉ Ύ΅ΐϱΑΘ΅Ζ / ΦΑΌΕЏΔΓΙΖ ΘϟΑΙΗΌΓΑǰ ϵΗΘ΍Ζ ΎȂ πΔϟΓΕΎΓΑ ϴΐϱΗΗϙǰ / ЀΐΉϧΖ ΐΣΕΘΙΕΓ΍ σΗΘΉǰ ΚΙΏΣΗΗΉΘΉ ΈȂ ϵΕΎ΍΅ Δ΍ΗΘΣ»: Zeus padre, signo-

re dell’Ida, gloriosissimo, massimo. / Sole, che tutto vedi e tutto ascolti, / e Fiumi, e Terra, e voi due che sotterra i morti / uomini punite, chi trasgredì giuramenti, / siate voi testimoni, serbate il patto leale!). Il particolarissimo rituale di sanzione ricorda ciò che i Greci hanno adottato per confermare l’ingaggio di ogni soldato prima della partenza per Troia (cfr. supra 1,15) e l’offerta sacrificale che Agamennone compie con l’intento di espiare le proprie colpe e propiziarsi il ritorno in battaglia di Achille (cfr. supra 2,49). In queste occorrenze la vittima è sempre un verro. Nell’antichità era consuetudine dividere una vittima in due parti e purificarsi passando attraverso queste due: in Beozia una catarsi pubblica consisteva nello squartare un cane e nel passare

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tra le due parti appena divise (cfr. Plut. Quaest. rom. 111), così come accadeva per la purificazione dell’esercito macedone (cfr. Liv. 41,6 e Curt. 10,9,28). Per una proposta esegetica di tale cerimoniale si veda Frazer 1923, 391 ss. È curioso notare come una pratica simile fosse poi stata adottata anche dai pirati algerini per ottenere aiuto dal Cielo in caso di estremo pericolo (cfr. Pitts 1704, 14). 76 I Troiani esaltano senza saperlo colui che li aveva consegnati al nemico. Per sottolineare l’ironia di questa situazione, Settimio presenta la scena ricorrendo alla medesima formula che era stata impiegata per descrivere l’esaltazione di Paride dopo l’uccisione a tradimento di Achille (cfr. supra 4,14). 77 Greci e Troiani si erano già “frequentati” durante lo svolgimento del conflitto, nei periodi della sospensione invernale dei combattimenti (cfr. supra 3,1-2) e in occasione delle tregue (cfr., ad esempio, supra 4,10 la tregua sancita per i festeggiamenti di Apollo di Timbra, nella Troade). 78 Qui il poeta sembra quasi dimenticare che i soldati Troiani e quelli alleati avevano defezionato già in precedenza (cfr. supra 4,3 quando caddero in preda al terrore per l’inaspettata morte della regina delle Amazzoni Pentesilea). 79 In questo caso, sono gli stessi alleati barbari a temere un comportamento ‘barbaro’ da parte di Troiani – che a loro volta sono considerati barbari dai Greci. 80 Il contenuto di questo e del seguente capitolo è ripreso da Cedreno in 131-132. 81 Cfr. nn. 64 e 68. 82 Di quest’opera, di cui Quinto di Smirne (12,424-427) e soprattutto Trifiodoro (57-102) avevano dato una descrizione particolareggiata, Settimio si limita a richiamare le dimensioni – funzionali allo scopo di rendere necessaria l’apertura della breccia nelle mura troiane – e, di conseguenza, l’intelligente espediente delle ruote che, al pari di un vero e proprio macchinario di guerra, garantiva la possibilità di spostarla più comodamente. 83 Cfr. supra 5,9. Una volta che lo spirito protettivo di Minerva ebbe abbandonato Troia insieme al Palladio, poté schierarsi apertamente al fianco dell’esercito acheo. Come evidenziato da G. Fry, è interessante notare che, una volta allontanatasi dalla città come amica sotto forma di statua, così vi ritorna da nemica (Fry 1998, 363 n. 60). 84 Cfr. supra 5,1 e 5,8.

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Per una narrazione più economica, Ditti/Settimio immagina che durante la conclusione delle trattative di pace fossero stati i Greci a consegnare direttamente ai Troiani le istruzioni relative al trattamento del cavallo. Anche in Quinto di Smirne, che sembrerebbe riprendere l’Eneide virgiliana, la fabbricazione del cavallo veniva collegata alla volontà di placare l’ira di Atena scatenata dal ratto del Palladio (così almeno fanno pensare i passi QS. 12,38 [«̓΅ΏΏΣΈ΍ ΛΝΓΐνΑϙ ̖ΕЏΝΑ ЀΔξΕ ΅ϢΛΐ΋ΘΣΝΑ»: per Pallade adirata, sempre in difesa dei Troiani dalle lunghe picche] e 377-378 [«̍ΣΏΛ΅ΑΘΓΖ ΈȂ ϢϱΘ΋Θ΍ Έ΅ϪΚΕΓΑ΍ ̖Ε΍ΘΓ·ΉΑΉϟϙ / ϣΔΔΓΑ πΘΉΎΘφΑ΅ΑΘΓǰ ΌΉϛΖ ΛϱΏΓΑ ϷΚΕȂ ΦΏνΝΑΘ΅΍»: per volontà di Calcante, alla bellicosa Tritogenia / un cavallo costruirono per eliminare l’ira della dea]; si confronti poi Verg. Aen. 2,162-188). 86 Si tratta certo di un’esagerazione retorica. Sempre secondo lo stesso autore, l’ultimo sacco di Troia risale alla spedizione di Ercole contro Laomedonte, figlio di Ilo e padre di Priamo (cfr. supra 4,22): l’episodio quindi si dovrebbe collocare verosimilmente all’epoca dell’infanzia dell’attuale re di Troia. 87 Cfr. Il. 7,451-453 («ΘΓІ ΈȂ όΘΓ΍ ΎΏνΓΖ σΗΘ΅΍ ϵΗΓΑ ΘȂ πΔ΍ΎϟΈΑ΅Θ΅΍ ωЏΖȉ / ΘΓІ ΈȂ πΔ΍ΏφΗΓΑΘ΅΍ Θϲ π·А Ύ΅Ϡ ̘ΓϧΆΓΖ ̝ΔϱΏΏΝΑ / ϊΕУ ̎΅ΓΐνΈΓΑΘ΍ ΔΓΏϟΗΗ΅ΐΉΑ ΦΌΏφΗ΅ΑΘΉ»: e la gloria di questo sarà vasta quanto

si stende l’Aurora, / e scorderanno l’altro, che Febo Apollo ed io / per l’eroe Laomedonte sudammo a costruire). Si noti che Priamo si rifiutò di pagare le divinità a fronte della realizzazione delle mura, nonostante lo avesse promesso in precedenza. Insieme al torto commesso nei confronti di Ercole (cfr. Il. 5,638-654), questo fatto costituiva il motivo della mala sorte della città. 88 La raccolta dell’oro e dell’argento era già cominciata, come si è visto poco prima, ma evidentemente non era stata ancora conclusa. 89 Settimio è come sempre molto attento ad un dettaglio di realismo tecnico-militare. Nonostante fossero state tirate in secco durante i dieci anni di guerra, le imbarcazioni dovevano comunque essere sottoposte ad un’ispezione di controllo e alle eventuali riparazioni del caso prima di poter riprendere il mare per la lunga traversata dell’Egeo. Dopo averlo liberato dall’iniziativa del cavallo, l’autore compensa Ulisse di tale privazione affidandogli questo nuovo incarico tecnico. 90 In questo caso Settimio è molto più pragmatico rispetto al resto della tradizione che, come si è detto, fa recare i Greci sull’isola di Tenedo, a venti chilometri circa da Troia (si tratta dell’attuale isola turca di Bozcaada). La scelta del promontorio Sigeo, a pochi chilome-

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tri dal centro abitato (il capo omonimo, dirimpetto all’estremità sud del Chersoneso e alla città di Eleunte, era uno dei punti di controllo dell’imboccatura meridionale dello stretto dei Dardanelli), è allo stesso tempo una soluzione più razionale per gli scambi di segnali luminosi che guideranno i Greci all’attacco. 91 Cfr. Sall. Cat. 31,1: «summa laetitia atque lascivia, quae diuturna quies pepererat». 92 Accordandosi con il ramo della tradizione rappresentato da Arctino di Mileto, di cui sappiamo grazie al relativo argumentum di Proclo, e da Apollodoro (Epit. 5,15-19), Ditti/Settimio semplifica notevolmente il ruolo di Sinone e lo presenta solo come spia passiva: egli infatti è del tutto alieno dalle complesse macchinazioni destinate a persuadere i Troiani a portare il cavallo all’interno della città, presenti nei componimenti di Quinto di Smirne (12,353-386), di Trifiodoro (219-304) e di Virgilio (Aen. 2, 57-198) e poi ripresi diffusamente nelle rappresentazioni iconografiche (si pensi, ad esempio, ad una miniatura del celeberrimo “Virgilio romano”, l’attuale manoscritto Vat. lat. 3867). Si potrebbe addirittura pensare che il luogo soprelevato dal quale egli diede il segnale alla flotta achea fosse direttamente fuori dalla cinta muraria della città. Un’interessante panoramica su questo complesso personaggio e sul suo ruolo nello svolgimento della trama è nella Enciclopedia virgiliana, s. v. Sinone. I Troiani rappresentati da Settimio sono del tutto convinti della bontà dei giuramenti di pace degli Achei e completamente rassicurati dalla tempestiva partenza delle truppe nemiche, delle quali hanno peraltro riparato le navi. L’autore provvede anche ad eliminare dal racconto la figura del sacerdote troiano Laocoonte, così importante nell’opera di Virgilio (cfr. Aen. 2,40-56 e 199-227) e in quella di Quinto di Smirne (cfr. 12,390-497). 93 Rispetto a Virgilio (cfr. Aen. 2,332-370), Settimio prende le distanze da un eccesso di descrizioni truculente. Egli aveva forse in mente il giudizio di Polibio, come propone G. Fry (Fry 1998, 364 n. 68): «con la sua storia l’autore non deve impressionare i lettori con racconti prodigiosi, né deve andare in cerca di discorsi che potrebbero essere stati pronunciati o limitarsi a enumerare le conseguenze possibili dei fatti che sono oggetto del racconto – come fanno gli autori di tragedie – ma deve ricordare la pura e semplice verità dei fatti e la versione autentica dei discorsi pronunciati, anche se questi non hanno nulla di sensazionale» (2,56,7-12 e, in particolare, il paragrafo 10; traduzione di R. Palmisciano e C. Tartaglini). Siamo propensi

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ad accettare l’integrazione di caedis come specificazione di spectaculo, proposta da C. M. Lucarini (Lucarini 2007, 237). 94 Si concretizza in questo modo quanto era stato immaginato da Ecuba nel sogno premonitore che aveva fatto sulla nascita del figlio Paride (cfr. supra 3,26; così era nell’Alessandro di Sofocle e nell’omonima tragedia di Euripide, i cui testi non sono giunti integri fino a noi [per il dramma euripideo si veda Di Giuseppe 2012]). Difformemente dalla versione vulgata di tale sogno, Ditti/Settimio pone l’accento sul tradimento di Enea e di Antenore attraverso l’aggiunta del dettaglio della salvaguardia delle loro rispettive dimore (argomento della dramma sofocleo Antenoridi, giuntoci anch’esso in esigui frammenti; cfr. Strab. 13,1,53 e Radt 1997, 160-162). 95 Cfr. Verg. Aen. 2,512-514, per il quale l’altare si trovava all’interno del palazzo reale («aedibus in mediis»). 96 Così anche in Darete 41. 97 Cfr. rispettivamente Sall. Iug. 101,4: «siqui in manus venerat, obtruncare» e Iug. 31,2 «quam foede quamque inulti perierint». 98 Anche in Verg. Aen. 8,515 ss., Odisseo e Menelao si recano da Elena ed uccidono il principe troiano dopo una lunga lotta: la menzione di Elena sulla scena della contesa potrebbe far sospettare una connivenza di lei con il precedente marito. Il racconto dell’uccisione di Deifobo, ben sviluppato nell’Ilioupersis di Arctino di Mileto, venne ripreso ampiamente nell’epica tarda e bizantina: Trifiodoro (45; 163 ss.; 463 ss.; 626 ss.), Quinto di Smirne (13,354-356), Apollodoro (Epit. 5,22) e Tzetzes (Posthom. 729 ss.); in Darete 28, invece, Deifobo è ucciso e straziato da Palamede. 99 Cfr. supra la nota 25 di questo libro. 100 Anche in Verg. Aen. 2, 494-497, la morte di Deifobo è raccontata con una dovizia di particolari che non lascia spazio all’immaginazione. Ditti si permette di arricchire la descrizione con il dettaglio del completo smembramento del cadavere. 101 Nel caso di Priamo, il nostro autore sembra accordarsi con la tradizione (si consideri, ad esempio, la versione dell’Ilioupersis di Arctino di Mileto, che conosciamo tramite il riassunto di Proclo, e Darete 41). Sulla violenza di Cassandra si vedano Paus. 1,15,2, 5,11,5 e 10,31,2; QS. 13,420-429, Triphiod. 647-650; Verg. Aen. 2,403-406. Forse per pudore, invece, Settimio eviterà di menzionare la violenza subita dalla sacerdotessa da parte di Aiace d’Oileo mentre la donna si aggrappava alla statua della divinità nella speranza di fuggire alla

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sorte: egli sembra essere infatti molto attento al rispetto della dignità delle persone, anche se nemiche, come si evince supra a 3,11 (in relazione allo scempio delle pudenda del cadavere di Patroclo) e a 4,3 (in relazione alla morte di Pentesilea). In Apollod7. Epit, 5,22, così come negli scoliasti a Omero e in Quinto di Smirne, si racconta che la statua della divinità levò gli occhi al cielo nel momento della violenza pur di non assistere alla violenza perpetrata nel suo tempio. Interessante notare che sull’arca di Cipselo ad Olimpia (Paus. 5,19,5) e nel grande affresco del saccheggio di Troia realizzato a Delfi da Polignoto (Paus. 10,26,3) era stato rappresentato il dettaglio del simulacro di Minerva che Cassandra aveva fatto cadere mentre veniva trascinata via da Aiace Oileo (così come aveva descritto Arctino nella sua Iliopersis). Sulla figura di Aiace Oileo in Ditti si veda Bracciali Magnini 1998. 102 Con questo capitolo, si può considerare conclusa la narrazione dello svolgimento della guerra di Troia. Tutto ciò che segue potrebbe essere considerato come un epilogo della narrazione, propedeutico alla vera e propria sezione dei Ritorni che debutterà dal prossimo libro. 103 Si concretizza in questa frase la giustificazione delle atrocità perpetuate dai Greci, fino a questo momento presentati solamente come campioni di umanità (cfr. ancora supra 3,22 e la nota 3 di questo libro): il saccheggio della città, le uccisioni spietate e le violenze gratuite li hanno ora accomunati ai barbari, ribaltando gli equilibri finora presentati. 104 Cfr. Sall. fr. II,52: «vice pecorum obtruncabantur». 105 Nel descrivere la ferocia degli Achei Settimio cede all’amplificazione, forse ispirato dallo smembramento di Deifobo, dai sacrilegi nei confronti di Priamo e di Cassandra e dalla selvaggia uccisione della popolazione troiana (allo stesso modo si assiste ad un’amplificazione retorica nella descrizione della morte di Paride supra a 4,19). Nell’opera di Quinto di Smirne (14,1-10) e in quella di Trifiodoro (568-691), i Greci abbandonano Troia il giorno successivo alla conquista. 106 Avendo forse il contenuto della Piccola Iliade come propria fonte, Pausania (10,26,2) ricorda che fu Epeo ad occuparsi della demolizione degli edifici: dopo il suo intervento nessun’opera architettonica a Troia arrivava a sovrastare in altezza il cavallo. 107 Secondo la tradizione, Menelao si accontentò di ritornare in possesso di Elena durante la presa della città dopo aver ucciso Deifobo (cfr. l’argumentum di Proclo all’Ilioupersis di Arctino); forse attratto dalla scena di distribuzione dei prigionieri, Ditti/Settimio preferi-

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sce spostare in questo contesto la scena della nuova unione dei due personaggi, veri e propri ‘motori’ di tutta l’azione. 108 Il sacrificio di Polissena è reclamato dai Mani di Achille in Q.S. 14,209-222. La menzione dell’intervento di Ulisse in Settimio potrebbe essere spiegata attraverso il fatto che in quest’opera Polissena richiama sensibilmente la figura di Ifigenia, e quindi il suo sacrificio, nel quale il Laerziade ebbe un ruolo importante (cfr. supra 1,20-22). 109 Così anche in Darete 43. 110 Su Aetra, nipote di Menelao, e Climene, in Settimio madre di Aetra piuttosto che zia di Menelao come vorrebbe la genealogia tradizionale, si veda supra 1,3 (dove si racconta della loro partenza da Sparta). Sia Pausania (10,25,8) che Actino di Mileto nella sua Ilioupersis descrivono come i due eroi notarono Aetra nella folla di prigionieri e domandarono subito ad Agamennone il permesso di portarla via con loro. 111 Sui figli di Ettore si veda la descrizione dell’ambasciata di Priamo ad Achille per richiedere il cadavere di suo figlio supra a 3,20; successivamente, infra 6,12, si verrà a conoscenza del fatto che era rimasto in vita solamente Laodamante. 112 La contesa per il Palladio sostituisce in Ditti/Settimio quella per le armi di Achille (cfr. Od. 11,542-564, l’intero libro quinto dei Posthomerica di Quinto di Smirne e Cedr. 132B-C). 113 Anche se la presenza di Diomede è un elemento ‘estraneo’ (egli infatti ebbe un ruolo marginale negli eventi che seguirono la morte di Achille e la spartizione dei suoi averi), si deve ricordare che l’eroe giocò un ruolo paritetico nei confronti di Ulisse nel ratto del Palladio e aveva accompagnato sempre il Laerziade in tutte le fasi del poema; inoltre, non si deve trascurare il ramo della tradizione che vede il Palladio arrivare ad Atene proprio grazie all’intervento di Diomede e solo successivamente di Demofoonte (cfr. infra 5,15). 114 Il mitografo romano Igino (107) fa attribuire il Palladio ad Ulisse per intervento dei due re. In Quinto di Smirne (13,385-408) è grazie all’intervento congiunto di Afrodite prima e poi di Agamennone che Menelao rinuncia a vendicarsi su Elena durante il saccheggio della città. 115 Cfr. Sall. Cat. 51,36: «cui item exercitus in manu sit». 116 Si era già fatto cenno alla devastazione e alla sottomissione del Chersoneso e della Tracia da parte di Aiace supra a 2,18; cfr. anche Cedr. 126.

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In occasione dell’attribuzione delle armi di Achille, era stato un gruppo di prigioniere troiane a stabilire la consegna del premio in palio ad Ulisse (cfr. ancora Od. 11,542-564; nella Piccola Iliade, invece, gli stessi Troiani preferiscono di gran lunga Aiace, cfr. PEG 2 Bernabé). 118 Con l’obiettivo di introdurre un motivo di discordia all’interno del campo greco, Ditti sostituisce il suicidio di Aiace successivo alla mancata attribuzione delle armi di Achille (cfr. la Piccola Iliade di Lesche in PEG 3 Bernabé e la tradizione dei tragediografi, con particolare riferimento all’Aiace di Sofocle, e Ov. Met. 13,1-122) con il suo assassinio; per la responsabilità di tale crimine i sospetti sembrano convergere pesantemente su Ulisse e Diomede, che in precedenza si erano già macchiati del sangue di Palamede (vd. infra e supra 2,15, dove viene dettagliatamente descritto il piano per uccidere l’eroe e la morte di lui; cfr. Introduzione, 3.2). Anche altri rami della tradizione ricordano episodi di tensione al momento della partenza dei Greci da Troia (cfr. in particolare il contenuto dei Ritorni, giuntoci attraverso il riassunto di Proclo). 119 Promontorio della Troade, ad oriente della foce dello Scamandro e a Nord del capo Sigeo. La tomba di Aiace e l’altare a lui dedicato, secondo Strabone (13,1,30), si trovavano sulla costa dell’Ellesponto, a circa sei chilometri dal campo acheo. 120 Ad occuparsi del servizio funebre dell’eroe si presenta Neottolemo: egli infatti, in quanto figlio di Achille, è imparentato con Aiace (cfr. supra 2,48 e 4,13) e lo considera alla stregua di un secondo padre (cfr. 4,17). In Quinto di Smirne (3,428), Achille è presentato come il figlio dello zio paterno di Aiace, il cui corpo venne accuratamente cremato (cfr. 5,650-651). L’Epitome di Apollodoro (5,7), invece, riferisce come l’acheo fosse stato tumulato, e non cremato, a causa del fatto di essere morto suicida (interessante anche il confronto con la tradizione della Piccola Iliade in PEG 3 Bernabé). 121 Si tratta della città della Tracia, abitata dai Ciconi, ai piedi dell’omonimo monte – in parte aspro e in parte coltivabile –, a Nord dell’isola di Samotracia; la località fu la prima tappa delle peregrinazioni che Ulisse dovrà affrontare prima di ritornare in patria: l’eroe greco ne saccheggiò l’abitato (cfr. Od. 9,40 ss.) e ricevette da Marone, sacerdote del culto locale di Apollo, dodici anfore di vino dolcissimo attraverso il quale poi riuscì ad far addormentare il ciclope Polifemo (cfr. rispettivamente Od. 9,196 ss. e 346 ss.). Solamente Ditti/Settimio fa un accenno alla fuga precipitosa dell’eroe.

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Non si riesce a comprendere per quale ragione nella fuga Ulisse lasci a Diomede la statua che gli è stata ufficialmente attribuita (cfr. supra 5,14; la tradizione della Piccola Iliade, poi, riferisce di come lo stesso Ulisse avesse cercato di uccidere a tradimento Diomede nei momenti successivi al ratto del Palladio, cfr. PEG 25 Bernabé). Malala (144) racconta una versione differente: la decisione sull’attribuzione del Palladio non era stata ancora presa quando, all’arrivo della notte, la statua è affidata alla custodia di Diomede. Costui viene ucciso dallo stesso Ulisse che, suo malgrado, è costretto ad allontanarsi senza prendere l’ambito bottino a causa dell’arrivo di Neottolemo, desideroso di vendicarsi per la morte di Aiace. Difficile capire se la versione riportata da Ditti/Settimio sia dovuta ad un sunto volontario ovvero sia il risultato di una contaminazione di un ramo della tradizione che aveva già un ‘vuoto’ nella trama. Secondo un’altra versione ampiamente accreditata, il Palladio arrivò a Roma attraverso Enea (Paus. 2,23,5), il quale l’avrebbe avuto direttamente da Diomede (Sil. 13,51-78) ovvero grazie a Naute (Dion. 6,69); esso era conservato nel tempio di Vesta con gli altri pignora imperii. 123 Una tradizione apparentemente recente (Ov. Met. 13,400-575) racconta che la regina, già prostrata per la crudele morte di Polissena, venne lapidata dai Traci dopo essersi vendicata della morte di Polidoro sul loro re, Polimestore: Ecuba, infatti, uccise i figli di questo davanti ai suoi occhi e poi provvide ad accecare lo stesso sovrano (su queste vicende cfr. supra 2,18). Dopo che Polimestore, ispirato da Dioniso, anticipò la trasformazione della donna in una cagna, la regina si gettò in mare da una nave greca (cfr. Eur. Hec. e Tr.). La sua tomba diverrà un segnale per i marinai, costituendo l’aition del ̍ΙΑϲΖ Ηϛΐ΅ (vd. infra). Altre versioni, rispecchiate in Apollod7. Epit. 5,23 e QS. 14,21-22, le fanno lasciare Troia assieme ad Ulisse (così come, per altro, si racconta supra a 5,13) o, come in Darete 43, ad Eleno, e la fanno giungere al Chersoneso, dove si trasforma in cane e muore pietrificata (cfr. QS. 14,347-351). Così è evidente che Ditti/ Settimio presenta nel suo componimento la contaminazione delle due versioni. Il nome del suo sepolcro, che significa letteralmente «tomba del cane», fa a sua volta riferimento alla corrente filosofica dei Cinici, tradizionalmente conosciuti per l’aspra prontezza di lingua. Secondo Strabone (13,1,28), la sepoltura si trovava ad una cinquantina di chilometri ad Est di Troia, sulla costa tracia dell’Ellesponto e, per conseguenza, dirimpetto ad Abido.

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Cassandra era stata precedentemente presentata con questa stessa locuzione supra a 5,8; il riferimento ai ritorni funesti degli eroi achei costituisce l’“attacco” del primo episodio dei Ritorni di Agias di Trezene (cfr. anche Apollod7. Epit. 6,1). 125 Avvenimenti che costituiscono il cuore della celeberrima Orestea di Eschilo, trilogia comprendente le tragedie Agamennone, Coefore ed Eumenidi. 126 Senza che Ditti fornisca ulteriori dettagli, la discussione tra i Greci nasce attorno alle proposte di Menelao e di Agamennone: il primo optava per una partenza immediata mentre il secondo avrebbe preferito placare la collera di Minerva, irata per il ratto del Palladio ovvero per la violenza perpetrata da Aiace Oileo sulla sacerdotessa Cassandra (cfr. Od. 3,130 ss.). In Quinto di Smirne (cfr. 14,336-345) non si ha notizia di questa disputa e sarà invece Nestore a proporre, durante un banchetto, di lasciare al più presto Troia. A questo punto possiamo immaginare che, come già accaduto nella narrazione del primo abboccamento del complotto di Antenore supra a 4,22, anche in questo caso Ditti sostituisca Antenore a Nestore ottenendo uno dei suoi caratteristici ΦΔΕΓΗΈϱΎ΋Θ΅ (i due uomini corrispondono, rispettivamente per i Troiani e per i Greci, allo stesso modello eroico). 127 Questo gesto di Antenore vuole mettere in evidenza le nobili motivazioni che hanno mosso le sue azioni e il suo ambiguo comportamento nei confronti dei suoi compatrioti (lotta serrata contro la fazione dei guerrafondai) ed anticipa il riscatto finale dell’eroe, circondato dall’amore dei Troiani superstiti. 128 Traditore della propria patria, Enea aveva già visto rispettate (supra a 5,12) le promesse che gli erano state fatte (cfr. 4,22). La nuova proposta di partire insieme all’esercito dei Greci non era compresa nei patti iniziali. Egli tuttavia rifiuterà tale invito per seguire i propri progetti di dominio sulla nuova Troia (cfr. infra 5,17). In Apollodoro (Epit. 5,21), Quinto di Smirne (13,315-327) e Virgilio (Aen. 2 634804), il capo troiano fugge dalla città portando il padre Anchise sulle proprie spalle, così come viene sovente rappresentato sui vasi, negli affreschi e nelle miniature dei manoscritti di contenuto epico. 129 Sui figli di Ettore cfr. supra n. 110. 130 È curioso notare come questi funerali si svolgano dopo che si era già proceduto all’inumazione del corpo (cfr. supra 5,15): secondo G. Fry, questa strana collocazione potrebbe essere spiegata come fosse la sostituzione dei riti espiatori che i Greci dovevano a Minerva e

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NOTE AL TESTO DI DITTI

che erano alla base delle dispute dei Greci (Fry 1998, 367 n. 96). La ritualità del taglio di una ciocca di capelli da deporre sulla tomba, già descritta in Settimio supra a 4,21 in occasione della morte di Achille, è uno dei tratti tipici della cultura del ‘lutto’ della Grecia antica (cfr. già Il. 23,140-142). 131 Sull’ascendenza degli Atridi si vedano supra 1,1 e 3,3. Nonostante in questo passaggio il riferimento a Plistene volesse avere solamente un valore ingiurioso, si deve ricordare che tale personaggio era imparentato con lo stesso Atreo; lo stesso Settimio (cfr. supra 1,1) ricorda che a Plistene, morto prematuramente, mancò solamente il tempo per acquisire la meritata gloria. 132 In Darete non si fa alcun riferimento a questo clima teso (cfr. 43). 133 Eurisace è ben conosciuto (Plut. Sol. 10). Il traduttore Settimio potrebbe aver qui commesso un errore per il nome del figlio che Aiace ebbe da Glauca (cfr. supra 2,13; per Diod. 4,72,7, fu il padre di Aiace, Telamone, a sposare una certa Glauca): Eantide, infatti, non significherebbe altro che «figlio di Aiace» (costui potrebbe essere Fileo; cfr. Plut. ibidem e Hdt. 6, 35). Secondo G. Fry un simile errore di confusione si ha infra a 6,1 per la parola Choerades (cfr. nota 4 al sesto libro). 134 Riportando l’opinione di Clearco di Soli, Ateneo (6,16,256b) ci informa sul seguito di Teucro a Cipro, costituto da prigionieri troiani chiamati ̆ΉΕ·ϟΑΓ΍. 135 Virgilio aveva collocato la caduta di Troia all’inizio dell’estate (cfr. Aen. 3,8). 136 Tutto quello che è compreso da qui alla fine del libro non ha paralleli nella tradizione epica classica. Una versione parziale del racconto di Ditti è testimoniato per il ̖ΕΝ΍ΎϲΖ Έ΍ΣΎΓΗΐΓΖ di Demetrio di Scepsi, filologo greco della prima metà del II secolo a.C.: sulla scia della discordia tra Priamo ed il figlio di Anchise (narrata ad esempio in Il. 13,460), l’Enea di Demetrio si fermava infatti nella Troade senza partire alla volta dell’Occidente (cfr. Farrow 1991). 137 Lui stesso discendente di Dardano (padre di Ilo, fondatore di Troia), Enea cerca di compattare tutti i popoli fratelli per la sua campagna militare. La città di Dardania, dalla quale poi partiranno i fondatori di Troia, si trovava a circa trenta chilometri a Nord-Est rispetto a Troia, lungo la costa asiatica dell’Ellesponto (cfr. Il. 20,215217: «̇ΣΕΈ΅ΑΓΑ ΅Ї ΔΕЗΘΓΑ ΘνΎΉΘΓ ΑΉΚΉΏ΋·ΉΕνΘ΅ ̉ΉϾΖǰ / ΎΘϟΗΗΉ Έξ ̇΅ΕΈ΅Αϟ΋Αǰ πΔΉϠ ΓЄ ΔΝ ͕Ώ΍ΓΖ ϡΕχ / πΑ ΔΉΈϟУ ΔΉΔϱΏ΍ΗΘΓǰ ΔϱΏ΍Ζ ΐΉΕϱ-

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ΔΝΑ ΦΑΌΕЏΔΝΑ»: Dardano primo fu generato da Zeus adunatore di

nembi, / e Dardania fondò, ché non ancora Ilio sacra / s’ergeva nella pianura, città di mortali). 138 Si tratta del Chersoneso tracico, dove i Troiani avevano trovato già in precedenza degli alleati (cfr. supra 2,18). 139 Nonostante in precedenza (cfr. supra 4,18) Settimio lasci intendere che Enea si fosse già trasferito fuori dalla cinta muraria, sembrerebbe piuttosto che l’eroe troiano fosse rimasto presso la casa di suo padre Anchise. 140 Darete (44) racconta che Enea si allontanò da Troia con ventidue navi. Nel passo latino multas interim gentes barbaras praevectus si potrebbe intravedere un lontano richiamo all’incipit del celeberrimo poema di Catullo in visita alla sepoltura del fratello (cfr. Catull. 101,1: «multas per gentes … vectus»). 141 Esistono due Corfù: l’una corrisponde all’attuale isola greca del mar Ionio, davanti alle coste dell’Epiro (Strab. 7,5,5) mentre l’altra, quella di cui si parla in questa circostanza, si trova più a settentrione nell’Adriatico, sulla costa dalmata tra le attuali città di Spalato e di Dubrovnik. 142 Rispetto alla tradizione più diffusa, Ditti/Settimio inverte completamente i destini di questi due uomini: Enea sarebbe infatti dovuto diventare il re dei Troiani (cfr. Il. 20,307-308: «ΑІΑ Έξ Έχ ̄ϢΑΉϟ΅Γ Άϟ΋ ̖ΕЏΉΗΗ΍Α ΦΑΣΒΉ΍ / Ύ΅Ϡ Δ΅ϟΈΝΑ Δ΅ϧΈΉΖǰ ΘΓϟ ΎΉΑ ΐΉΘϱΔ΍ΗΌΉ ·νΑΝΑΘ΅΍»: ora la forza d’Enea regnerà sui Troiani / e i figli dei figli e quelli che dopo verranno) mentre la destinazione di Antenore, futuro fondatore di Padova, sarebbe dovuta coincidere proprio con il luogo in cui l’Enea di Ditti ha fondato la sua colonia (cfr. Aen. 1,241-249 e Liv. 1,1,1-3). Per un approfondimento si vedano De Carlos 1994 e Debiasi 2004, 220-227. 143 L’amore del popolo minuto di Troia, avverso alle smanie belliche dell’aristocrazia e dei principi, costituisce qui, alla chiusura del racconto, la vera riabilitazione che Ditti concede al suo Antenore, liberandolo completamente dalla fama di ‘traditore’. 144 La città dei Cebreni, così chiamata dal nome di Cebrione (figlio di Priamo e fondatore dell’insediamento), si trovava ad una trentina di chilometri a Sud di Troia (Strab. 13,1,33; 47); l’Enideo qui menzionato ci è altrimenti ignoto. Si comprende bene come, una volta che Enea si era spinto a Nord nella ricerca di alleati, l’attenzione di Antenore si fosse rivolta verso Sud.

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NOTE AL TESTO DI DITTI

Nel prologo si confermava l’origine del personaggio (nella lettera di Settimio si parla genericamente di Creta) e si aggiunge che fu anche compagno di Merione. Nell’affermazione a chiusura del quinto libro affiora lo stesso slancio orgoglioso che anima lo storico Ammiano Marcellino giunto al termine della sua opera storica: «haec ut miles quondam et Graecus, a principatu Caesaris Nervae exorsus, ad usque Valentis interitum, pro virium explicavi mensura: opus veritatem professum numquam, ut arbitror, sciens silentio ausus corrompere, vel mendacio. Scribant reliqua potiores, aetate doctrinisque florentes. Quos id, si libuerit, adgressuros, procudere linguas ad maiores moneo stilos» (31,16,9; «ho esposto questi avvenimenti dal principato di Nerva Cesare alla morte di Valente nei limiti delle mie forze, come può farlo un vecchio soldato Greco, né mai ho osato, almeno così credo, tacendo o mentendo affermare coscientemente il falso in un’opera che ha per fine la verità. Scrittori più abili e colti, e nel fiore degli anni, scrivano ciò che resta. Ma, se decideranno di affrontare questo compito, li esorto a forgiare la loro lingua ad uno stile più elevato», traduzione di A. Selem). 146 Con il termine “punico” si indica sempre fenicio (nella lettera Settimio parla di litteris Punicis mentre nel prologo si legge litterarum Phoenicum). Per quanto concerne i mitici inventori dell’alfabeto greco, Ditti/Settimio sembra far confluire due differenti tradizioni. In un celeberrimo passo (5,58), infatti, Erodoto racconta che i Fenici guidati dal loro re Cadmo sarebbero giunti in Beozia portandovi le loro ·ΕΣΐΐ΅Θ΅, che fino ad allora erano totalmente ignote ai Greci; fu per questo motivo che le popolazioni di origine ionica chiamarono quei segni ̘Γ΍Α΍Ύφ΍΅, dopo averli modificati ed adattati alle proprie esigenze. Secondo il filosofo Anassimandro e il logografo Ecateo (FGrHist F20 e F9), entrambi provenienti dalla città asiatica di Mileto, la scrittura sarebbe invece arrivata in Grecia dall’Egitto per opera di Danao. Si noti che né la lettera prefatoria di Settimio né il prologo dell’Ephemeris associano l’introduzione dell’alfabeto fenicio a quest’ultimo personaggio; solamente la lettera di Settimio fa un accenno alla figura di Agenore, mitico discendente dell’argiva Io, figlio di Posidone e di Libia (padre, tra gli altri, di Cadmo). 147 In questo passaggio conclusivo, ci si concentra sugli elementi che possono dare autorevolezza all’opera: l’associazione di un personaggio sconosciuto quale Ditti al più celebre ed importante condottiero Idomeneo (cfr. anche Cedr. 127); la testimonianza dell’esisten-

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za di una fonte scritta attraverso la presentazione delle conseguenti difficoltà materiali di lettura ed interpretazione; il metodo autoptico, chiaro rinvio alla tradizione storiografica (al genere storiografico, e in particolare agli scritti di Cesare, fanno implicitamente riferimento nel Nostro anche il titolo dell’opera πΚ΋ΐΉΕϟΈΉΖ / commentarii, il ricorso ai discorsi indiretti e l’omissione di un proemio; cfr. la prefazione dell’edizione di Eisenhut e Canfora 1974). Su quest’ultimo elemento aveva fatto leva anche l’Enea virgiliano prima di procedere al racconto della caduta di Troia: «quaeque ipse miserrima vidi / et quorum pars magna fui» (Aen. 2,5-6: le cose tristi che io vidi, / e ne fui parte grande). 148 Con la fine di questo libro, la narrazione completa perfettamente quanto narrato nelle opere di Quinto di Smirne e di Trifiodoro. Un’ultima frase servirà all’autore per lanciare la nuova sezione dei Ritorni (come già anticipato da Settimio in merito al contenuto del suo sesto libro). Tuttavia in questo caso non c’è una corrispondenza perfetta tra i blocchi in quanto, tradizionalmente, i Ritorni cominciano appunto con la disputa tra Menelao ed Agamennone e la partenza di quest’ultimo da Troia (che è stata descritta supra a 5,16).

NOTE AL LIBRO SESTO 1

Il sesto libro dell’Ephemeris di Settimio, dedicato alle vicende successive alla presa di Troia, ovvero al ritorno in patria degli eroi greci, stando a quanto egli stesso dichiara nell’epistula prefatoria a Rufino, è il risultato della riduzione in unum degli ultimi libri di Ditti (Priorum quinque voluminum, quae bello contracta gestaque sunt, eundem numerum servavimus, residua de reditu Graecorum quinque in unum redegimus;quinque codd. : quidem edd. vet. : quatuor Dederich, Meister). Nel prologus dell’opera, d’altra parte, si legge che Ditti de toto bello sex volumina in tilias digessit (sex codd.: novem Dederich). Quanti sono, dunque, i volumina greci originari che da Settimio sono stati ‘concentrati’ in questo sesto e ultimo libro dell’Ephemeris latina? Il problema del numero originario dei libri di Ditti è complicato dalla testimonianza della Suda: ̇ϟΎΘΙΖǰ ϡΗΘΓΕ΍ΎϱΖǰ σ·Ε΅ΜΉΑ в̈Κ΋ΐΉΕϟΈ΅ǯ σΗΘ΍ Έξ ΘΤ ΐΉΌвк̒ΐ΋ΕΓΑ Ύ΅Θ΅ΏΓ·ΣΈ΋Α πΑ Ά΍ΆΏϟΓ΍Ζ Ό. Molti sono stati, come si vede, i tentativi di correggere il testo, soprattutto di Settimio. Ma un’ipotesi convincente per far quadrare tutti i conti fra le varie testimonianze sul numero originario dei libri di Ditti è stata avanzata da Lapini 1997. Innanzi tutto va sottolineato che la notizia del Prologus si riferisce ai libri dell’originaria opera di Ditti, quella vergata litteris Punicis, e non all’opera poi traslitterata in caratteri (o in lingua) greci. Dunque il numero dei libri può non essere frutto della confusione con l’attuale numero dei libri di Settimio, come postulano gli editori fino a Timpanaro. Per sanare la contraddizione fra il dieci dell’Epistula e il nove della Suda si può pensare invece ad un fraintendimento del sistema di numerazione normale con il sistema ‘omerico’ di numerazione di libri, che indicava le cifre, com’è noto, con le lettere dell’alfabeto: il libro decimo, nella numerazione normale (comprendente anche lo stigma), era indicato con la lettera iota (cioè ΍): la fonte di Ditti doveva dunque recare, in cifra, questa indicazione; una successiva fonte intermedia (non direttamente la Suda: mi sembra che occorra un altro passaggio rispetto a quanto postulato da Lapini, perché la Suda non avrebbe potuto errare nel trasformare l’indicazione in

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cifra, né errare nel riportare in cifra un’indicazione sciolta) fraintese questa numerazione per via del sistema ‘omerico’ (impiegato, come documenta Lapini, anche per altri testi; del resto, per l’(‘anti’)omerico Ditti, ben sarebbe stato appropriato), e sciogliendo la cifra attribuì a Ditti ξΑΑν΅ Ά΍ΆΏϟ΅ (che è quanto si trova, infatti, in Eudocia): nel sistema omerico infatti il libro iota è il nono. La Suda, derivando da quest’ultima fonte, avrebbe dunque riportato a Ό, appunto “nove”, i libri di Ditti. Se questa ricostruzione è giusta, erano cinque i libri che Settimio escerptò nell’unico (attuale) sesto libro dedicato ai ‘ritorni’ degli eroi da Troia. Questo libro, dunque, pone problemi diversi rispetto a quelli relativi alle modalità del vertere posti dai precedenti cinque volumina. Com’è noto, le ‘riduzioni’ di opere procedono, nella metodologia antica, su due strade: quella del vero e proprio riassunto e quella degli excerpta (Vd., per tutti, Geymonat 1990 e Lizzi 1990, per una panoramica dei meccanismi di selezione e conservazione del testo in età imperiale e tardoantica latina). Settimio scelse una precisa modalità operativa? Probabilmente no. Dal confronto con i bizantini, soprattutto Malala e Cedreno, che hanno parimenti seguito le vicende dei nostoi, è possibile individuare la compresenza di sequenze sicuramente riassunte, in modo a volte scolastico, e di brani molto probabilmente escerptati, che ci consentono di rintracciare tasselli letterari confrontabili con quelli dei probabili modelli di Ditti. Il tutto, ovviamente, è ancor più complicato dal fatto che ci troviamo di fronte ad una riduzione di un testo greco in latino. Le vicende successive alla conquista greca di Ilio erano parte integrante della materia troiana, fin dall’epos arcaico. All’Iliou Persis seguivano, nel Ciclo, i Nostoi, attribuiti ad Agia di Trezene, in cinque libri. Vi si narravano (così ricostruiamo da Procl. 277 Seve.) i fatti immediatamente successivi alla presa della città, la spartizione del bottino e delle prigioniere, la lite tra Agamennone e Menelao sui tempi del ritorno in patria, la partenza di un primo contingente di Greci, tra i quali Nestore, Diomede e Menelao, che giungevano a casa dopo alcune peripezie (Menelao in Egitto), l’apparizione dell’ombra di Achille che prediceva ad Agamennone le sue future disgrazie in patria, la punizione di Aiace d’Oileo da parte di Atena e Poseidone, le vicende di Neottolemo in Tracia e fra i Molossi; la sorte di Agamennone e la vendetta di Oreste su Egisto (Debiasi 2004, 229-244; e ora West 2013, 289-313). “Dopo questo poema vi era, nel Ciclo, l’Odissea di Omero”, come sottolineano le parole di Proclo (Chrest. 306 Seve.). E proprio nell’Odissea, dedicata intera-

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mente al nostos più periglioso, i racconti di Nestore nel terzo libro e di Menelao nel quarto, durante i viaggi di Telemaco, aprivano collegamenti, per noi preziosissimi, con le sorti degli altri eroi. Le vicende di Odisseo erano ancora oggetto della Telegonia, in due libri, attribuita ad Eugammone di Cirene. Odisseo sposava la regina di Tesprozia Callidice, conduceva guerra ai Tesproti, e tornava ad Itaca; giungeva nell’isola il figlio che l’eroe aveva avuto da Circe, Telegono, il quale senza saperlo uccideva il padre in modo fortuito; dopo essersi purificato, Telegono sposava Penelope e Telemaco Circe (Debiasi 2004, 249-272; West 2013, 289-313). Com’è chiaro, dunque, tre erano i nuclei principali di quest’ultima sezione del Ciclo Troiano: i difficili e a volte tragici ritorni di molti eroi, soprattutto Aiace d’Oileo e Menelao; le vicende di Odisseo; le vicende di Agamennone e Oreste. Questi tre nuclei tematici erano i principali anche nella produzione tragica, del resto. Basti pensare, per ricordare solo i tre ‘grandi’, ai drammi: Circe, Penelope, Ostologoi, Proteo, I Salamini di Eschilo, nonché ovviamente all’Orestea; Aiace Locrese, Le prigioniere, Antenoridi, Ermione, Clitemestra, Nauplio che ritorna, Nauplio che accende i fuochi, Nausicaa, Nyptra, Odisseo akanthoplex, Odisseo mainomenos, Peleo, Polissena, Teucro, Le Ftiotidi di Sofocle, nonché Aiace ed Elettra; Andromaca, Ecuba, Elena, Elettra, Supplici, Ifigenia in Tauride, Ciclope, Eneo, Oreste e Peleo di Euripide. In tutto, ben trentaquattro drammi. È naturale, dunque, che Ditti si fosse concentrato – stando a quanto leggiamo da Settimio – su queste tre fondamentali tematiche. Notevole, al contrario, rilevare che Quinto, nell’intenzione di realizzare una sintesi di quanto, nel Ciclo, si poneva tradizionalmente fra Iliade e Odissea, dedichi appena un libro, il quattordicesimo, agli avvenimenti dalla presa di Troia fino all’inizio del nostos di Odisseo, riservando un’ampia sezione solo all’episodio di Aiace d’Oileo, ricco di potenzialità patetiche. In Ditti ben quattro libri su nove, quasi la metà dell’opera, erano dedicati ai ‘ritorni’ degli eroi: ciò consentiva sicuramente all’autore di soffermarsi su segmenti mitici tanto rari quanto sorprendenti, probabilmente attingendo molto dalla produzione tragica, che proprio in questo ambito offriva versioni singolari, spesso distanziantisi dall’epos (si pensi, per tutti, all’Ifigenia Taurica euripidea). Si trattava dunque di un materiale cospicuo, che nella versio latina viene ridotto a un quinto. Perché? Si può pensare, ovviamente, a ragioni esterne alle strategie narrative di Settimio (urgenza di dedicarsi ad altre opere, necessità di concludere il volume, altri motivi contingenti): ciò potrebbe spiegare,

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ad esempio, anche alcune incongruenze del libro, che sembrano il frutto di una mancata revisione. È probabile, d’altro canto, che ai tempi di Settimio questa sezione del Ciclo Troiano interessasse meno i lettori latini, e forse ancor meno l’autore, più incline alla materia bellica – quae bello contracta et gestaque sunt (epist.) – come risulta anche dalla sua predilezione per il linguaggio e le descrizioni militari, spesso mutuati da Livio e dal corpus Caesarianum. Non si può escludere, infine, l’intenzione di inserirsi nella tradizione ‘numerologica’ del Ciclo Troiano, che – ai suoi tempi – constava dei 24 libri omerici dell’Iliade, degli altrettanti 24 dell’Odissea, e dei 12 dell’Eneide: 6 libri sarebbero potuti dunque apparire in continuità di reductio con i dodici virgiliani (del resto divisi in due metà da sei libri) e i ventiquattro dell’Iliade. In ogni caso, la riduzione di Settimio appare radicale. Nonostante questo aspetto, sembra possibile rintracciare, in più di un caso, i fili che legavano Ditti ai suoi modelli. Da questa sequenza iniziale, tuttavia, mancano, in Settimio, alcune vicende importanti, presenti in tutti gli altri testi della tradizione omerica. Innanzi tutto l’episodio della lite tra Agamennone e Menelao sull’opportunità di tornare presto in patria o di compiere prima un sacrificio per placare l’ira di Atena, già in Od. 3,135ss., nei Nostoi (arg. 277 Seve.) e nei mitografi (Apollod. ep. 6,1). Quindi, dopo la morte del timoniere Fronti causata da Apollo, la dispersione della flotta di Menelao e l’approdo, con sole cinque navi, in Egitto: anche questa già in Od. 3,276ss., e nei Nostoi. La tappa in Egitto, del resto, aveva offerto lo spunto, in un altro ramo della tradizione troiana, all’episodio del recupero della ‘vera’ Elena: si pensi al dramma euripideo. Quest’ultima versione era sfruttata da Darete, ma non da Ditti. Questi episodi erano assenti anche in Ditti o sono stati ‘tagliati’ da Settimio? In questo, come in altri casi, non è ovviamente possibile prendere posizione, se non di fronte ad evidenti tracce di incongruenze nel testo latino. 2 La sequenza iniziale del primo capitolo sembra ricalcare la movenza con cui inizia il sintetico racconto dei nostoi che Nestore rivolge a Telemaco in Od. 3,130 ss. (΅ЁΘΤΕ πΔΉϠ ̓Ε΍ΣΐΓ΍Γ ΔϱΏ΍Α Έ΍ΉΔνΕΗ΅ΐΉΑ ΅ϢΔφΑǰȦΆϛΐΉΑ ΈвπΑ ΑφΉΗΗ΍ǰ ΌΉϲΖ ΈвπΎνΈ΅ΗΗΉΑ в̄Λ΅΍ΓϾΖ, per cui, in Settimio: Postquam impositis cunctis quae singuli bello quaesiverant, ascendere ipsi, …uti fors tulerat, dispalantur). Il riferimento all’imbarco di prede e bottino si trova, in Omero, pochi versi dopo (Od. 3,154: ΎΘφΐ΅ΘΣ ΘвπΑΘ΍ΌνΐΉΗΌ΅ Ά΅ΌΙΊЏΑΓΙΖ ΘΉ ·ΙΑ΅ϧΎ΅Ζ), ed è una costante in tutti gli autori che rievocano questo segmento mitico, a

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cominciare da Quinto (14,355-7). Proprio con la parte centrale del quattrodicesimo libro dei Posthomerica è possibile riscontrare numerose analogie dal punto di vista dell’ordo narrativo. Dopo aver caricato le ricchezze sulle navi, ΅ЁΘΓϠ ΈвπΑΘϲΖ ϣΎΓΑΘΓ ΑΉЗΑ. Il verso (14,360), formulare (= 9,325), poteva forse esser stato reimpiegato da Quinto a partire dall’epos arcaico, e – proprio se si guarda all’ascendere ipsi di Settimio – è possibile che un sintagma simile fosse presente in una delle scene iniziali dei Nostoi, quella della partenza delle navi. Sicuramente tecnico, nelle descrizioni della partenza di navi, ma ancora significativo, è il riferimento alle ancore, presente sia in Settimio sia in Quinto (14,371: ΑΉЗΑ ΔΉϟΗΐ΅ΘвσΏΙΗ΅Α). Anche il particolare della rapidità del viaggio, fino all’Eubea, è presente in Quinto (14,418), come in Settimio: a puppi secundante vento paucis diebus pervenere ad Aegaeum mare. Tutto lascia credere, in conclusione, che Ditti (e Quinto) seguissero un modello in cui le tappe dell’iniziale viaggio di ritorno degli eroi fossero in qualche modo canonizzate: probabilmente, appunto, i Nostoi. 3 Giunte nell’Egeo, le flotte greche sono protagoniste dei primi due importanti episodi drammatici dei ‘ritorni’: la punizione di Aiace d’Oileo ad opera di Atena e Poseidone, e il naufragio proditorio di altri capi sulle coste dell’Eubea, causato da Nauplio. I due episodi si presentano, nelle fonti, chiaramente distinti, benché contigui. Pochissimo, se non forse l’ordo degli avvenimenti, possiamo ricavare dal riassunto procliano di questa sezione dei Nostoi: ϢΌȝϳ ΔΉΕϠ ΘΤΖ ̍΅ΚφΕ΍Έ΅Ζ ΔνΘΕ΅Ζ Έ΋ΏΓІΘ΅΍ ΛΉ΍ΐАΑ Ύ΅Ϡ ψ ̄ϢΣΑΘΓΖ ΚΌΓΕΤ ΘΓІ ̎ϱΎΕΓΙ. Nel racconto odissiaco che Menelao fa a Telemaco, riportando le parole del Vecchio del Mare incontrato in Egitto, è narrata – per noi il testo più antico – la morte di Aiace d’Oileo (Od. 4,499-511). Aiace è stato prima sbalzato dalle navi contro la rupe Girea (all’estremità dell’Eubea); qui scampa alla violenza del mare, “benché odiato da Atena”, ma “molto fu cieco:/ disse d’aver sfuggito a dispetto dei numi l’abisso/ grande del mare”; perciò è punito da Poseidone, che con il suo tridente spezza la rupe ove è aggrappato Aiace, che cade negli abissi trovando la morte. Questa medesima versione appare nei mitografi e nella scoliastica, con l’aggiunta di un particolare: è Atena, all’inizio della tempesta, che avviene a Tenos (isola a qualche decina di chilometri sotto l’Eubea), a scagliare contro la nave di Aiace un fulmine (dopo averlo ottenuto dal padre Zeus), e Poseidone a completare la vendetta divina; il corpo di Aiace viene trovato sull’isola di Micono, ove Teti lo

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seppellisce (così in Strabo 13,1,40; Apollod. ep. 6,5; cfr. anche Schol. ad Hom. Od. 11,197; ad Eur. Or. 432; Eust. In Od. P.1678,24). Pochissimo, infine, possiamo ricavare dal Cedreno (133 D): ̄ϥ΅Ζ ǯ ǯ ǯ ΐΉΘΤ ΘΓІ ϢΈϟΓΙ ΗΘΕ΅ΘΓІ πΔΓΑΘϟΗΌ΋. Nessuna menzione di Aiace in Malala. Nei Nostoi, come sembra, l’episodio delle rupi Caferidi (e di Nauplio, che tuttavia non viene menzionato da Proclo) precedeva quello della rovina di Aiace. Nell’Odissea, invece, non si fa menzione di Nauplio. Sono le fonti mitografiche a soccorrerci: di notte, ancora sconvolti per la tempesta che ha disperso le navi, i Greci superstiti (ΘЗΑ Έξ ΩΏΏΝΑ, rispetto ai Locresi) sono attirati verso l’Eubea da Nauplio, padre di Palamede, che agita torce fingendo di indicare porti, e in realtà fa scaraventare i Greci sugli scogli Caferidi. Questo episodio, ricordato anche in altri brani della produzione tragica (Soph. Ai. 1295 ss.; Eur. Hel. 1126-1136; Iph. Aul. 198), doveva essere la materia del perduto ̐΅ϾΔΏ΍ΓΖ ̓ΙΕΎ΅ΉϾΖ di Sofocle, sulla cui trama, tuttavia, nulla possiamo dire; i pochissimi frammenti rimastici, inoltre, sono contesi tra questo dramma e un altro, pure citato dai testimoni, intitolato ̐΅ϾΔΏ΍ΓΖ Ύ΅Θ΅ΔΏνΝΑ, ove si trattavano le altre vicende riguardanti la vendetta di Nauplio sui capi greci, che vedremo più avanti. Nessuna menzione di Nauplio nei bizantini. Igino, infine, riassume nella fabula 116 gli avvenimenti sia di Aiace sia di Nauplio, collocando l’inizio della tempesta che sconvolge le navi dei Greci proprio ad saxa Capharea: Ilio capto et divis praeda Danai cum domum redirent, ira deorum, quod fana spoliaverant et quod Cassandram Aiax Locrus a signo Palladio abripuerat, tempestate et flatibus adversis ad saxa Capharea naufragium fecerunt. In qua tempestate Aiax Locrus fulmine est a Minerva ictus; quem fluctus ad saxa illiserunt, unde Aiacis petrae sunt dictae. Ceteri noctu cum fidem deorum implorarent, Nauplius audivit sensitque tempus venisse ad persequendas filii sui Palamedis iniurias. itaque, tamquam auxilium eis afferret, facem ardentem eo loco extulit quo saxa acuta et locus periculosissimus erat. illi credentes humanitatis causa id factum navis eo duxerunt. quo facto plurimae earum confractae sunt militesque plurimi cum ducibus tempestate occisi sunt membraque eorum cum visceribus ad saxa illisa sunt; si qui autem potuerunt ad terram natare, a Nauplio interficiebantur. È Quinto di Smirne ad offrirci l’unico testo di una certa estensione sulle due vicende: un testo che va ripercorso per accertare le numerose coincidenze con quello di Settimio. Atena palesa a Zeus la sua ira proprio quando i Greci giungono in vista dell’Eubea (la patria di Nauplio), ϳΔϱΘв ̈ЁΆΓϟ΋Ζ ΗΛΉΈϲΑ

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NOTE AL TESTO DI DITTI

όΏΙΌΓΑ ωΑΉΐΓνΗΗ΋Ζ (14,423): si noti, in Settimio, postquam ad Euboeam devenere. La scena si sposta, in Quinto, sull’Olimpo, ove Atena convince Zeus a prestarle il fulmine con il quale colpirà la nave di Aiace; la tempesta si scatena, sugli scogli caferei: i nocchieri non hanno più la capacità di governare le navi (14,502-3: ΓЁΈξ ΎΙΆΉΕΑφΘϙΗ΍ ΔνΏΉΑ ΐνΑΓΖ ΉϢΗνΘ΍ Α΋ЗΑ ΛΉΕΗϠΑ πΔ΍Η΅ΐνΑϙΗ΍ ΌΓЗΖ ΓϢφ΍΅ ΑΝΐκΑ), verso che sembra richiamare, in Settimio, perturbatis per tempestatem officiis nautarum. La tempesta disperde i Greci: le navi locresi sono sommerse, ma il re resiste alla forza del mare; osa sfidare gli dèi dichiarandosi superiore a loro, e a questo punto Poseidone spezza la rupe Girea e lo travolge. Segue (14,590 ss.) l’episodio che riguarda l’altra parte della flotta: ДΖ Έξ Ύ΅Ϡ ΩΏΏΓ΍ в̄Λ΅΍ΓϠǯǯǯ: alcuni muoiono inghiottiti dal mare, altri resistono aggrappati a remi e pezzi di chiglia; questi ultimi, però, appunto ingannati da Nauplio – che viene introdotto quasi en passant, evidentemente perché ben noto al lettore (14,613 ss.) – trovano la morte sugli scogli dell’Eubea, nella “notte veloce”. Pur con qualche oscillazione legata alla localizzazione della tempesta e del luogo ove Aiace d’Oileo trova la morte (l’isola di Tenos, per la maggior parte delle fonti; gli scogli Caferidi, come gli altri Greci, in Igino), i due episodi si presentavano comunque distinti. Il testo di Settimio, invece, offre una certa giustapposizione delle sequenze. Se si pone attenzione alla pericope, infatti, anche a partire dalla struttura sintattica, si nota una durezza proprio in relazione alla sorte di Aiace: [scil. Graeci] saeviente mari indigna experti passim, uti fors tulerat, dispalantur. in quis Locrorum classis, perturbatis per tempestatem officiis nautarum et inter se implicatis, ad postremum fulmine comminuta aut incensa est, et rex Locrorum Aiax, A postquam natando evadere naufragium enisus est B aliique [G: reliqui EF] per noctem tabulis aut alio levamine fluitantes,a postquam ad Euboeam devenere,b Choeradibus scopulis adpulsi pereunt. c Eos namque re cognita Nauplius ultum ire cupiens… ad ea loca …coegerat.

Se è chiaro quale sia la struttura del secondo episodio, dove i Greci, “dopo esser giunti nei pressi dell’Eubea”, pereunt per mano di Nauplio, non è perspicua né la costruzione della pericope in cui è soggetto Aiace, né è completo – stando alla tradizione sia omerica sia paraomerica – il suo contenuto. Come muore Aiace? Semplicemente agli

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scogli Caferidi, come tutti gli altri? Pereunt può essere il (necessario) verbo di cui Aiax ha bisogno, dopo la proposizione introdotta da postquam? Tutto lascia credere che il nostro testo contenga un guasto o, quanto meno, un rabberciamento non riuscito. Il passo, del resto, aveva attirato l’attenzione di Friebe 1909, 90, che aveva notato i parallelismi della struttura, e aveva postulato la poziorità della lezione di G aliique, contro reliqui di EF, proprio per ristabilire una coordinazione fra i soggetti delle due pericopi. Le cose stanno forse in modo più complesso. Se di guasto della tradizione si tratta, si potrebbe pensare che dopo postquam …enisus est sia caduta una pericope che indicava la morte di Aiace, schiacciato dal masso fatto precipitare da Poseidone, probabilmente per saut du même au même con un altro perfetto passivo: enisus est, . In questo caso va riesaminata, credo, la scelta fra le lezioni aliique e reliqui: se, infatti, dopo enisus est è caduta la proposizione con il verbo principale di Aiax, appare più plausibile credere che il testo latino iniziasse il nuovo periodo – parallelo al precedente – proprio con reliqui (del resto più adatto anche al contenuto: “tutti gli altri”), e non con un alii congiunto dal debole -que. A questo punto sarebbe stato G ad innovare mutando il reliqui oramai scoordinato in un aliique che rabberciava alla meglio il testo. Se invece la tradizione manoscritta è sana, non si può non vedere in questa sequenza non solo una durezza sintattica, ma un’omissione narrativa pesante e maldestra, che andrebbe, in tal caso, attribuita a Settimio. Sarebbe andato perso, nel riassunto della versio latina, il finale dell’episodio di Aiace punito dagli dèi, e la sorte del Locrese sarebbe stata accomunata a quella degli altri Greci. Ciò, tuttavia, non può essere di certo attribuito a Ditti: la spia del maldestro rabberciamento, infatti, sta proprio nella pericope postquam…enisus est: è introdotto il motivo di Aiace che si salva dalle acque, ma non se ne fornisce la conclusione, cioè l’arroganza dell’eroe e la conseguente punizione degli dèi, presente in tutte le fonti. 4 Da tutte le fonti il promontorio meridionale dell’Eubea che guarda all’Ellesponto, ove è collocata la scena dell’‘agguato’ di Nauplio, è chiaramente indicato con il termine di Cafereo: ̍΅Κ΋ΕΉϾΖǰ Ύ΅ΚφΕ΍ΈΉΖ o Ύ΅ΚφΕΉ΍΅΍ ΔνΘΕ΅΍, in latino Capharea, come in Hyg. 136 e in numerosi altri passi in cui compare la iunctura saxa … Capharea/ -ei (Cfr. già Pacuv. 136 Ribbeck; Culex 354; Prop. 3,7,39, Val. Fl. 1,371, tutti con saxa; Sil. 14,143 (scopulos); per le rocce Caferee in autori latini vd. anche Verg. Aen. 11,260; Ov. rem. 735; met. 14,472; tr. 5,7,36; non-

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ché Mela 2,107), o, con un grecismo, Capherides, in unione a petrae in Sen. Herc. O. 804. Nel testo, concordemente tràdito, di Settimio, troviamo però Choeradibus scopulis adpulsi pereunt. Non vi è traccia, nei geografi o nei trattati di corografia, di questo termine come sinonimo delle rupi Caferee, ma solo come toponimo di alcuni isolotti di fronte a Taranto (Thuc. 7,33,4) o – forse – di fronte a Salamina (ipotesi, tutt’altro che convincente, di Milchhoefer, nella brevissima voce Choerades della RE III, 2358,19, il quale colloca questi presunti isolotti di fronte a Salamina, basandosi su un locus eschileo dei Persiani che, come vedremo, ha ben altro significato: si tratta, a mio avviso, di un autoschediasma, tuttavia recepito dal ThLl onom. II, 403,33: s.v. Choerades: fortasse nomen insularum prope Salamina sitarum). Di nuovo, due spiegazioni sembrano possibili.Il testo potrebbe essere corrotto: forse per errata lettura da maiuscola, un CAPHERIDIBUS (come calco di un ̍΅ΚφΕ΍Η΍ ΔνΘΕ΅΍Ζ in Ditti) potrebbe esser divenuto CHOERADIBUS. Una seconda spiegazione appare però più convincente. Choerades, in latino, come sostantivo comune, sembra impiegato esclusivamente ad indicare un tipo di pustole, “scrofole”. Ma choerades, com’è chiaro, è un esatto calco del greco ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ, “a forma di dorso di porco”, un termine poetico impiegato fin da Archiloco (231 W.) e Teognide (576), e poi in Pindaro (Pyth. 10,52) ed Eschilo (Pers. 421), proprio ad indicare (con o senza ʌνΘΕ΅΍) “scogli a forma di schiena di porco”, dunque pericolosissimi, perché a fior d’acqua. Proprio nei Persiani di Eschilo, nel racconto della disfatta persiana che il messaggero fa ad Atossa, i naufraghi delle navi affondate si schiantano sugli scogli di Salamina, ΩΎΘ΅΍ Έξ ΑΉΎΕЗΑ ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ ΘвπΔΏφΌΙΓΑ. Un’immagine assolutamente analoga a quella del brano dell’Ephemeris. Settimio trovava dunque nel testo greco il termine poeticamente connotato ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ (ΔνΘΕ΅΍)? È probabile. Ditti – forse anche alludendo all’impiego della vox poetica nella tradizione letteraria greca – aveva descritto come “scogli a forma di dorso di porco” quelle rupi ove i Greci, per l’inganno di Nauplio, si erano schiantati. Entrambi i termini, del resto, e anche in sequenza contigua, potevano essere presenti in Ditti (̍΅ΚφΕ΍ΈΉΖ ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ). Dunque, o per un’incomprensione del testo greco (se il toponimo Caferidi non era presente), o per un’omissione (proprio del toponimo), Settimio ricalcò il ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ di Ditti in choerades. Se questo ragionamento coglie nel segno, il testo va almeno stampato in minuscolo – choeradibus scopulis adpulsi – e, in via ipotetica, emendato, e.g., in choeradibus

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scopulis adpulsi. Sempre che, cosa anche possibile, in scopulis non vada visto un ulteriore segno di corruttela: una glossa dell’incompreso choeradibus scivolata nel testo. A questo punto, ad un originale ̍΅ΚφΕ΍ΈΉΖ ΛΓϟΕ΅ΈΉΖ dovrebbe corrispondere, in Settimio, un choeradibus [scopulis] adpulsi. Proprio l’incomprensione che è chiaramente evidente in choeradibus, in ogni caso, ci consente – credo – di recuperare un termine poetico di Ditti: una tessera, pur minima, dei suoi possibili modelli letterari. 5 Con uno hýsteron próteron raffinato – non sappiamo se legato a qualche fonte poetica, forse ancora ai Nostoi – il lettore di Settimio apprende che, alla base del rovinoso approdo dei Greci sugli scogli del Cafareo, è l’inganno di Nauplio. 6 Nauplio, nonostante l’assenza nel riassunto di Proclo, doveva essere, appunto, uno dei protagonisti dei Nostoi, come sembra potersi chiaramente inferire dai mitografi che da quel poema derivano (Debiasi 2004, 235-243, porta argomenti convincenti per la presenza degli episodi di Nauplio nei Nostoi; scettico invece Davies 1989, 83. Vd. ora West 2013, 260-2). Due personaggi, entrambi con questo nome, animavano le leggende euboiche, legandosi in modo particolare all’ambito marinaro e all’elemento ‘acquatico’, che caratterizzava tutta l’onomastica di questa famiglia. Un primo Nauplio era figlio di Poseidone e di Amimone (una delle figlie di Danao): fondatore di Nauplia e sovrano dell’Eubea, aveva avuto due figli: Damastore e Preto. Da quest’ultimo sarebbe nato Naubolo, dunque Clitoneo e Nauplio II. È da questo Nauplio, sposato con Filira – БΖ Έξ ϳ ΘΓϿΖ ̐ϱΗΘΓΙΖ ·ΕΣΜ΅Ζ (Apollod. 2,1,5) – che sarebbero nati Palamede, Eace e Nausimedonte. Secondo alcune fonti, tuttavia, i due Nauplii sarebbero stati un’unica persona: i problemi di cronologia relativa fra le generazioni, del resto, sono abbastanza comuni nell’epos arcaico. Il mare, si è detto, caratterizzava in modo determinante le avventure e l’onomastica di questo ·νΑΓΖ. Nauplio (il primo, stando sempre ad Apollodoro, ma anche il secondo) è marinaio eccellente e spietato pirata; passa le sue giornate sugli scogli del Cafereo, a scrutare notizie che giungano dal mare. Eace, “il manico del timone” (Γϥ΅Β), scrive appunto su un remo quanto avvenuto a Palamede nella Troade, fiducioso che l’attrezzo giunga per mare sulle coste dell’Eubea, dove effettivamente è ritrovato dal padre (schol. ad Ar. Thesm. 769-771). Nulla sappiamo invece di Nausimedonte, “dominatore delle navi”, che tuttavia ripropone il tipo onomastico legato alla marineria ben noto da Nausicaa, nonché da Nausitoo e Nausinoo

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(figli di Odisseo e Calipso). Il figlio più famoso è senz’altro Palamede, anch’egli legato al mare, come “palma della mano” la cui abilità è elemento essenziale per la navigazione; Palamede “scopre i segni celesti, le misure degli astri”, mostrando “ai timonieri i movimenti dell’Orsa e il freddo tramonto del Cane”, come si afferma in un frammento del Palamede sofocleo (432 R.). Proprio la morte di Palamede, ucciso per gelosia da Odisseo e Diomede, come si narrava nei Canti Ciprii (Procl. Chrest. 81 Seve.) e come si racconta nell’Ephemeris (2,15), è lo snodo drammatico della saga di Nauplio. Venuto a sapere della morte del figlio, grazie all’espediente marinaresco ideato da Eace, Nauplio si reca a Troia per avere soddisfazione da Agamennone, ma viene bruscamente liquidato. Tornando in Grecia, architetta allora un piano per vendicarsi dei capi achei, secondo una logica da shame culture tipica di società tradizionali (Griffin 1977): diffonde voci calunniose sul conto dei re, in particolare di Agamennone, di Diomede e di Idomeneo, attribuendo loro relazioni fedifraghe con le concubine troiane, e spingendo le rispettive mogli al tradimento. Questo era, con tutta probabilità, l’argomento del Náuplios katapléon di Sofocle, il primo dramma dedicato dal tragediografo a questo personaggio. Nulla si dice, invece, su questo segmento del mito, in Quinto di Smirne. Il culmine della vendetta era raggiunto, tuttavia, da Nauplio, proprio sulle sue coste euboiche. Resosi conto della tempesta che stava colpendo la flotta greca (re cognita, in Settimio), Nauplio aveva prima pregato a lungo Poseidone che i Greci non riuscissero a scamparne; quindi li aveva attirati ingannevolmente sugli scogli Caferidi accendendo uno o più fuochi per simulare la presenza di un porto; infine aveva colpito a morte con un remo coloro che invocavano soccorso feriti a riva (le numerose fonti sull’episodio sono ripercorse da Vellay 1956, 64-66). Su questo secondo episodio verteva, come si è detto, il Náuplios pyrkaéus ancora di Sofocle e, probabilmente, il Nauplio di un Licofrone che non è certo se sia da identificare con l’autore dell’Alessandra o con un suo antenato (Vd. Suda, s.v. ̎ΙΎϱΚΕΝΑ = Lycophr. test. 3 Snell. E vd. la ricostruzione di Geffcken 1891). Proprio nell’Alessandra, del resto, la figura di Nauplio e l’episodio del Cafereo erano ampiamente valorizzati (373-386; 1093-98; 1214-1225), e in essi si riconosceva, appunto, uno snodo centrale per la ‘diaspora’ dei Greci dopo il naufragio. 7 Il primo dato da rilevare è l’inversione cronologica dei due episodi (la ‘corruzione’ delle mogli e il tranello ai naufraghi), che nella tradizione precedente si presentano chiaramente diversi. Del resto, anche

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ad un semplice rilievo fattuale, se non razionalistico, non vi sarebbe stato tempo di convincere le mogli a tradire i mariti (e ad avere con gli amanti persino dei figli) nel breve giro di tempo che intercorre tra il naufragio e il ritorno a casa degli altri eroi. L’episodio della corruzione delle mogli doveva essere necessariamente collocato proprio nei primi anni di guerra, subito dopo l’assassinio di Palamede. Chiarissimo, in questo senso, lo scolio a Lycophr. Alex. 386, per cui “compiute in un primo tempo queste cose (scil. la corruzione delle mogli)”, “in seguito” Nauplio compì il suo crimine al Cafereo. Siamo dunque di fronte ad un’incongruenza sensibile non solo rispetto alle fonti, ma anche all’ordo naturale degli eventi. Ancora una volta dobbiamo chiederci se ciò sia imputabile al riassunto di Settimio o se fosse già presente in Ditti. Nel primo caso si potrebbe pensare ad una iniziale dimenticanza di Settimio, che avrebbe ‘recuperato’ una sezione che in Ditti precedeva l’episodio del Cafareo inserendola come ‘cerniera’ tra il naufragio e gli altri nostoi. Se l’inversione era già in Ditti, invece, occorre credere che l’autore dell’Ephemeris greca avesse operato questa scelta proprio per ‘dare il là’, in un certo senso, alla serie di avventure che vedono protagonisti gli altri re scampati alla tempesta (perché partiti dopo) nei sucessivi capitoli (originariamente libri?). Forse proprio un particolare – assente, a quanto ci è dato di conoscere, in tutto il resto della tradizione greca – farebbe propendere per questa seconda ipotesi: il fatto che in Settimio, e in questo caso sicuramente anche in Ditti, protagonista dell’episodio della ‘corruzione delle mogli’ non sia Nauplio in prima persona, ma suo figlio Eace. Si trattava, dunque, in Ditti, di due episodi ‘paralleli’, in cui padre e figlio si dividevano i compiti della vendetta di Palamede? Se così è, si potrebbe pensare che solo il nesso per idem tempus sia il frutto di un rabberciamento poco rispettoso dell’originale, in cui sarebbero stati chiariti i reali rapporti cronologici fra i due segmenti narrativi. Il fatto che la presenza di Eace si riscontri anche in Igino (fab. 117), d’altra parte, sembra suggerire l’ipotesi che il modello di Ditti, in questo caso, coincidesse proprio con il perduto Náuplios katapléon di Sofocle. Igino, com’è noto, attinge spesso per le sue fabulae dal materiale del dramma attico. Pausania (1,22,6) ricorda di aver visto, nella Pinacoteca di Atene, un quadro in cui “Oreste uccide Egisto e Pilade (uccide) i figli di Nauplio venuti in soccorso di Egisto”: la tradizione della complicità dei Nauplidi nel tentativo di usurpazione del regno argivo da parte di Egisto era dunque attestata in Attica. Si legge spesso, negli studi (ancora in Willink 1986, ad

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Or. 432), che anche nell’Orestea stesicorea poteva trovarsi la figura di Eace, e si rimanda alla testimonianza 213 Page = Davies: in questa notizia, tutavia, che deriva da uno scolio al grammatico Dionisio Trace (GG 1,3,183 Hilg.), non è citato Eace, ma Palamede, e solo per aver inventato le lettere dell’alfabeto; che Stesicoro “nel secondo libro dell’Orestea” affermasse “che Palamede era l’inventore dell’alfabeto” non è certo prova che anche Eace comparisse nel suo carme lirico. I due tasselli lasciano credere, in modo abbastanza certo, che nel primo Nauplio sofocleo Eace avesse un ruolo da deuteragonista nell’episodio della corruzione delle mogli, e proprio di qui tale variante fosse stata mutuata, nella tradizione letteraria e in quella iconografica. 8 Si apprezza in questo segmento un altro elemento importantissimo. In tutti gli autori che attestano l’istigazione al tradimento da parte di Nauplio tre sono i casi presi in considerazione: Clitemestra, che viene indotta al tradimento con Egisto; Egialea che tradisce Diomede con Comete; e Meda, moglie di Idomeneo, che trova come amante Leuco (Apollod. ep. 6,9; schol. ad Lycophr. Alex. 386; Hyg. fab. 116. Nessuna rappresentazione ci è nota della coppia Idomeneo-Meda: vd. Lochin 1986). Nel testo di Settimio non c’è traccia, né in questa né in successive sezioni dedicate a Idomeneo, del tradimento di Meda. Una scelta che risale certamente a Ditti. L’autore dell’Ephemeris, dobbiamo pensare, impersonando i panni del cretese Ditti, al servizio di Idomeneo, taceva proprio l’episodio più delicato che riguardava il suo sovrano: strizzando l’occhio al lettore, ben erudito dal Ciclo e dalla precedente produzione letteraria, con una reticenza che avrebbe messo in cattiva luce l’entourage della persona scribens. Sull’infelice sorte di Idomeneo, scacciato dalla patria al suo ritorno, ad opera di Leuco, aveva indugiato Licofrone nell’Alessandra (1214-1225); Apollodoro (6,10) attestava anche che il terribile Leuco, dopo essersi impadronito del regno, aveva ucciso Meda e la figlia che i due avevano avuto; persino Virgilio (Aen. 11,264-5: regna Neoptolemi referam versosque penates/ Idomenei?), allude per bocca di Diomede al ritorno infelice del Cretese. Ditti andava intenzionalmente contro la precedente tradizione, facendo risaltare, appunto more Alexandrino, quanto un autore fosse “veritiero” (Troiani belli verior textus, recita il prologo) quando si occupa di argomenti che lo rigurdano da vicino. L’opera di corruzione di Nauplio ed Eace produceva quindi i suoi effetti. Non senza una considerazione misogina – che non sappiamo se riferire anche a Ditti o al solo Settimio – la sezione sulle ‘imprese’ di Nauplio ha ter-

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mine, e con un brusco itaque si introduce un’altra, ben più complessa parte dei nostoi, che nei cinque libri greci doveva essere tanto più estesa quanto più dettagliata. 9 Sul proverbiale topos misogino della ‘mobilità’ femminile si veda Tosi 2011,169-187. Sebbene non sia chiaro e perspicuo se la considerazione si debba attribuire a Settimio o allo stesso Ditti, di certo non stupisce trovare un’osservazione misogina che stigmatizza l’incoerenza femminile in un autore che della coerenza e della solidità fa un valore, poiché indispensabili nella gestione dell’ambito militare di cui è parte il narratore (seppur fittizio). Si pensi alla durezza con cui nel primo libro viene stigmatizzata la mancanza di determinazione di Agamennone, il quale, seppur per pietas paterna, si rifiuta di sacrificare sua figlia, arrecando danno all’intero esercito ed essendo per questo esautorato dal comando (1,19 ss.). 10 Interessante notare che, dopo aver imputato ad Eace il traviamento delle mogli di Agamennone e Diomede (per la significativa omissione di Idomeneo si veda supra) che le ha indotte a tradire i mariti, mentre di Clitemestra si dirà che per Aegisthum ottiene la propria vendetta su Agamennone, di Egialea, in una pericope parallela alla successiva, si dica che per cives impedisce il rientro in patria di Diomede. Si farebbe riferimento pertanto ad una sorta di rivolta popolare e non verrebbe invece fatta menzione del noto Comete, figlio di Stenelo, al quale il Tidide, in partenza per Troia, aveva affidato la protezione della propria casa, e con il quale Egialea lo aveva in seguito tradito. Discussa la versione attestata nei Nostoi (e comunque condivisa da Od. 3,130 ss. e Apollod. ep. 6,1), in cui, stando al riassunto procliano, Diomede e Nestore avrebbero fatto ritorno in patria senza alcuna difficoltà (Chrest. 277 Seve.); testimonianza la cui attendibilità è stata a più riprese messa in dubbio dagli studiosi (vd. Debiasi 2004,242). Secondo una versione diffusa del mito, infatti (scholl. ad Il. 5,412; Mimn. fr. 17 G-P; Tzet. ad Lic. 603; 1093;) il tradimento di Egialea con Comete era stato frutto non della maldicenza di Nauplio/Eace, ma della vendetta di Afrodite, irata per essere stata ferita da Diomede a seguito del proprio intervento a fianco di Enea (Il. 5,334-37); questa la versione che Severyns attribuisce ai Nostoi, mentre Debiasi preferisce riferire ai Kypria, ove vengono narrate appunto le gesta di Palamede (Debiasi 2004 ibidem). Servio (ad Aen. 8,9), che si allinea a questa variante, è tuttavia il solo ad attestare, accanto a Comete, un altro meno diffuso nome, Cylarabis: Diomedes revertens de troia

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postquam repperit ira Veneris a se vulneratae uxorem apud Argos cum Cylaraba, ut Lucilius, vel Cometa, ut plerique tradunt, turpiter vivere, noluit reverti ad patriam: vel, ut dicitur, ab adulteris proturbatus. Gli auctores citati (come pure Ovidio, met. 14,458-511) ricordano anche come Diomede, respinto dalla propria patria, abbia riparato in Italia Meridionale, nella fattispecie in Puglia, dove, accolto da Dauno, ha sposato sua figlia e, in seguito a dissapori sorti con il re, è stato infine da lui (o da uno dei suoi figli) ucciso (per quest’ultimo segmento mitico si vedano in particolare: Mimnermo fr. 17 G-P Tzet. a Lic. 603; 1093; Ant. Lib. met. 37). Significativo il confronto con i cronografi bizantini (Mal. 5,22; Cedr. 133D), che presentano la medesima versione, ove non viene fatta menzione del nome di Comete ma si fa riferimento ad una guerra mossa contro il Tidide all’unisono da Egialea, che l’aveva tradito, e dai cittadini stessi. Si accenna inoltre alla fuga dell’eroe in Calabria e alla fondazione di diverse città costiere. In Settimio, viceversa, Diomede, assieme ad altri eroi espulsi dalle proprie terre, si radunerà a Corinto, dove, en passant, ci viene detto che si trovava anche Idomeneo al quale proprio qui viene affidato, da Taltibio, Oreste, e dunque Ditti, che era al suo seguito. Viene pertanto messo in campo il consueto stratagemma narrativo che consente alla persona scribens, anche in maniera sibillina e indiretta come in questo caso, di vantare un contatto diretto con i protagonisti del proprio racconto, garantendone anche implicitamente la veridicità. 11 Le vicende che seguivano al ritorno in patria di Agamennone, dal suo assassinio fino alla vendetta di Oreste, e quindi alla sua purificazione e alle successive vicissitudini dell’ultimo discendente degli Atridi, erano state oggetto, com’è naturale, di una cospicua produzione letteraria: già sinteticamente menzionate nell’Odissea, costituivano la materia fondamentale degli ultimi libri dei Nostoi; affrontate da Stesicoro nell’Orestea lirica e da Pindaro nella Pitica 11, erano oggetto di numerosi drammi, dall’Orestea di Eschilo all’Elettra, all’Ermione e alla Clitemestra di Sofocle, all’Elettra, all’Oreste e alla Ifigenia in Tauride di Euripide; Ellanico di Lesbo aveva dedicato molta parte dei suoi Troikà al nóstos di Agamennone; il teatro romano, da Livio Andronico ad Accio, nonché a Seneca, aveva visto numerosi drammi incentrati su questa sezione del mito. Di tutta questa produzione, tuttavia, è rimasta a noi una porzione molto ridotta. Solo pochi frammenti possiamo leggere di intere ed estese opere. Di altre non possediamo che i titoli. Per ricostruire così le numerose varianti – e quindi per

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intuire i percorsi che Ditti intese intrecciare con i suoi modelli – dobbiamo spesso basarci su ipotesi, ricostruzioni indirette che si basano, ad esempio, sui mitografi o sulla scoliastica. Anche l’iconografia, che per questa saga è una delle più ricche, può offrire interessanti spunti di riflessione, che tuttavia vanno sempre sfruttati con cautela. Distesi su tre degli attuali paragrafi del testo di Settimio, i brani relativi al nostos di Agamennone sono, nel riassunto della versio latina, piuttosto brevi, nonché insolitamente parchi di notizie in qualche modo ‘sorprendenti’. Settimio ha dunque compendiato in modo radicale proprio una delle sezioni che più erano note al pubblico (anche) romano? A complicare le cose sta la testimonianza di Malala. Giunto a metà della sezione dedicata al nóstos di Agamennone (5,30-37), dopo aver narrato l’episodio del giudizio di Oreste davanti all’Areopago, Malala dichiara: Θ΅ІΘ΅ ̇ϟΎΘΙΖ πΑ ΘϜ ρΎΘϙ ΅ЁΘΓІ Ϲ΅ΜУΈϟθ πΒνΌΉΘΓ. In Settimio questo episodio figura, appunto, nel sesto libro. Malala, però, dovrebbe star parlando del Ditti greco. Dobbiamo dunque pensare che, giunto a questo punto dei nóstoi, l’originale greco si trovasse ancora al primo dei cinque libri dedicati ai ritorni? Se così è, occorre inferirne che anche in Ditti la materia ‘argiva’ dei nóstoi era affrontata in modo più disinvolto e sintetico di altre sezioni mitiche contenute nella seconda parte dell’opera, quali – si è già ricordato – quella odissiaca, quella su Neottolemo e Peleo, quella su Telegono. Il racconto delle vicende ‘orientali’ di Oreste (derivato recta via dall’Ifigenia Taurica euripidea, come si vedrà), che compare – se pur in forma ridotta in Settimio – in modo disteso sia in Malala sia in Cedreno, doveva sicuramente essere svolto con ricchezza di particolari in Ditti: e proprio questa seconda parte del nóstos argivo poteva essere contenuta nell’originario libro settimo, a formare una coppia (6 e 7) probabilmente di pari importanza a quella (8-9?) odissiaca. Noi, in ogni caso, dobbiamo necessariamente fare i conti con la stringata narrazione di Settimio, che solo in parte, e in modo molto problematico, come si vedrà, possiamo integrare con quelle dei bizantini. Per questo segmento mitico, in conclusione, Settimio, Malala e Cedreno sembrano aver sensibilmente e differentemente rielaborato il testo di Ditti, forse per esigenze che ora in gran parte ci sfuggono, forse semplicemente perché si trattava – come del resto nel caso di Odisseo – di uno dei miti più noti dell’antichità. La prima pericope che introduce la sezione argiva dei nóstoi compendia in modo talmente succinto un episodio ricco di sfaccettature e varianti che è di fatto impossibile capire in che

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modo Ditti si rapportasse alla tradizione. Innanzitutto, le motivazioni che spingono Clitemestra ad uccidere Agamennone: un aspetto del mito importantissimo, fondativo, che era stato svolto in diversi modi da poeti e storici, drammaturghi e mitografi. Già Pindaro, proprio nella pitica orestiaca, si interrogava sulle ragioni di Clitemestra: “Forse la persuase Ifigenia,/ sgozzata sull’Euripo, lontano dalla patria,/ sì da metterle in moto la pesante mano/ piena di rancore?/ O sedotta da un altro letto/ la travolsero notturni amori?” (Pyth. 11,35-40). Che Clitemestra maturi l’odio nei confronti del marito perché vittima delle malelingue di Eace (e Nauplio) sembra potersi ricavare dalla pericope precedente nel testo di Settimio. Ma che fosse solo questa la motivazione, non è certo. Negli ultimi paragrafi del primo libro (2022), Ditti aveva narrato le vicende dell’esercito greco fermo in Aulide, seguendo la versione (sembra) più diffusa del mito: Agamennone aveva ucciso per errore (un aristotelico ΥμΣΕΘ΋ΐ΅) una camoscia sacra ad Artemide, e la dea aveva chiesto in cambio – o almeno così aveva rivelato una vecchia chiromante del luogo – il sacrificio della figlia del re; Agamennone però si era rifiutato, ed era stato il solito Odisseo a tramare un inganno, inviando una falsa lettera a Clitemestra con lo scopo di attirare Ifigenia ad un finto matrimonio con Achille; giunta la fanciulla, Agamennone, riluttante fino all’ultimo, si faceva convincere da Nestore ad assistere al sacrificio: la dea, tuttavia, proprio nel momento cruciale, faceva improvvisamente apparire una cerva che i Greci immolavano al posto di Ifigenia, affidando la fanciulla al re degli Sciti, “che era lì di passaggio”. Agamennone, nel racconto di Ditti, non appare affatto responsabile in prima persona del (tentato) delitto: ma la sua remissività di fronte ai capi greci, che decidono di sacrificare la vergine, è indicata come la molla che gli sarebbe costato, una volta in patria, appunto l’odio di Clitemestra: ceterum pro tanto facinore satis poenarum Agamemnoni ab coniuge eius post Troianam victoriam comparatum. Nel testo originale di Ditti, in altri termini, è assai probabile che comparisse, accanto alla gelosia – qui scatenata da Eace verso Cassandra e verso le concubine troiane di Agamennone, anche il risentimento per la vicenda di Ifigenia: benché non uccisa, mai tornata a Micene dalla madre. Né in Malala (5,30) né in Cedreno (133 C), tuttavia, si trova menzionata questa motivazione, o almeno il ricordo dell’episodio di Ifigenia. In Cedreno Agamennone giunge in patria e trova ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅Α ΐΓ΍ΛΉΙΓΐνΑ΋Α ̄Ϣ·ϟΗΌУ, per via del risentimento maturato dalle dicerie (ΦΎΓϾΗ΅Η΅, dice Cedreno)

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sul tradimento di Agamennone con Cassandra. È interessante evidenziare invece come, nel testo di Malala, la pericope che descrive il tradimento di Clitemestra sia introdotta da una notazione che fa apparire la scelta fedifraga della donna come “una scusa”, ΦΚΓΕΐφDZ е̊ Έξ ̍ΏΙΘ΅΍ΐΑφΗΘΕ΅ǰ ψ ·ΙΑχ ΘΓІ в̄·΅ΐνΐΑΓΑΓΖǰ ΔΕФ΋Α ΦΎΓϾΗ΅Η΅ Έ΍Τ ΘϲΑ ο΅ΙΘϛΖ ΩΑΈΕ΅ǰ ϵΘ΍ ΘχΑ ̍΅ΗΣΑΈΕ΅Α Κ΍ΏΉϧǰ Ύ΅Ϡ ΦΚΓΕΐχΑ ΉЀΕ΋ΎΙϧ΅ ΈνΈΖΎΉΑ ο΅ΙΘχΑ ΉϢΖ ΐΓ΍ΛΉϟ΅Α ΘХ ̄Ϣ·ϟΗΌУ ΘХ ΗΙ·ΎΏ΋Θ΍ΎХǰ ΙϡХ ΘΓІ ̋ΙνΗΘΓΙ. Una “scusa”, forse, proprio per il suo piano di vendet-

ta nei confronti del marito: se in questa quasi cursoria notazione di Malala va visto un tassello dell’originale (e più dettagliato) quadro di Ditti, si può pensare forse che l’opera di diffamazione dei Nauplidi e il conseguente tradimento con Egisto fossero dunque, nell’Ephemeris greca, gli elementi catalizzatori di una decisione maturata da Clitemestra fin dall’episodio di Ifigenia. In ogni caso, proprio Malala lascia intravedere, sicuramente, che il ruolo di Clitemestra, in questa parte della vicenda, era assolutamente di primo piano, e che Egisto ricopriva – come era stato, del resto, nell’Orestea eschilea – un ruolo di minore importanza. 12 Egisto, nel racconto di Ditti, sembra presentarsi più come un esecutore dell’assassinio che come vero e proprio complice di Clitemestra. È la regina ad essere la protagonista dell’inganno (il soggetto di insidiis capit), nonché dell’uccisione del marito (eumque interficit). Anche Cedreno, se pur nel compendioso brano che dedica all’episodio, appare confermare il ruolo di assoluta protagonista di Clitemestra: è lei che avvolge il marito in un chitone con le maniche cucite, per immobilizzarlo (una delle varianti più diffuse, dopo Omero), e Δ΅Ε΅ΗΎΉΙΣΊΉ΍ ΘΓІΘΓΑ ЀΔϲ ̄Ϣ·ϟΗΌΓΙ ΗΚ΅·ϛΑ΅΍; e sarà ancora lei che Ώ΅ΐΆΣΑΉ΍ il figlio di Tieste come sposo. Anche in Malala è Clitemestra la protagonista dell’azione: saputo dell’arrivo di Agamennone in città, mentre il popolo e l’assemblea si preparano ad accogliere festosi il sovrano, πΆΓΙΏΉϾΗ΅ΘΓ ΐΉΘΤ ΘΓІ ̄Ϣ·ϟΗΌΓΙ ΔЗΖ ϴΚΉϟΏΉ΍ ΈϱΏУ ΚΓΑΉΙΌϛΑ΅΍. Questo ruolo di Clitemestra è sicuramente un elemento che avvicinava il testo di Ditti alla percezione della Tindaride emersa dai drammi attici, soprattutto eschilei, e lo allontanava da Omero. Proprio il ruolo negativo di Clitemestra, infatti, com’è noto, costituiva una delle più significative innovazioni di Eschilo rispetto alla tradizione epica (Sommerstein 1996,190-205; Davies 1969), forse anticipato di qualche decennio da Stesicoro (per una ricostruzione dell’Orestea lirica vd. Prag 1985 e Neschke 1986) e da Pindaro (la Pitica 11, ove

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Clitemestra compare come indiscussa protagonista dell’assassinio, è relativa ad una vittoria pitica collocabile o al 474 o al 454 a.C.: nel secondo caso Pindaro potrebbe aver risentito della risonanza dell’Orestea eschilea; vd. Robbins 1986; Angeli Bernardini 1993), e aveva iniziato ad influenzare l’iconografia già a metà del V secolo a.C.: accanto alle rappresentazioni, già arcaiche, in cui è Egisto il protagonista unico dell’assassinio di Agamennone, iniziano ad essere testimoniate rappresentazioni che uniscono Clitemestra non solo come complice (che avvolge il marito nel chitone con le maniche cucite: si veda il famoso cratere di Boston), ma come co-esecutrice materiale del delitto. Il cartone più diffuso vede Egisto, sulla sinistra, colpire Agamennone con spada o pugnale, e Clitemestra, da dietro, sulla destra, alzare una scure o una spada contro il marito. Questo tipo iconografico, del resto, è ampiamente dominante nel mondo etrusco-romano, e poi imperiale (Touchefeu-Krauskopf 1981). In Omero era invece Egisto, uomo, ad opporsi ad Agamennone, e ciò sembra di nuovo rispecchiato nell’iconografia arcaica, come si è visto. In Od. 1,35-43 è Zeus in persona che ricorda la vicenda di Egisto: pur avvisato dagli dèi, per mezzo di Hermes, “si prese la donna legittima dell’Atride, contro il dovuto (ЀΔξΕ ΐϱΕΓΑ) e lo massacrò al suo ritorno”: giusta la vendetta di Oreste. È vero che, con un verso quasi formulare, sia in 3,235 (dove è Nestore che racconta a Telemaco dell’accaduto) sia in 11,409-10 (l’ombra di Agamennone racconta ad Odisseo) e ancora in 24,97 (di nuovo l’ombra di Agamennone a colloquio con quella di Achille) si ricorda come Agamennone fosse stato ucciso “per mano di Egisto e della sua sposa”, ma in ogni descrizione della scena in cui il sovrano trova la morte l’indiscusso protagonista è Egisto. Manca, del resto, in Omero, proprio il particolare del chitone fatale, ed è Egisto (in 4,514, dove è Menelao che racconta a Telemaco, addirittura lontano da Micene, e da Clitemestra) ad invitare Agamennone a banchetto e ad ucciderlo, a tradimento, “come un bue alla greppia”, un’espressione che sarebbe rimasta proverbiale (Cfr. Sud. Ά 459; Mac. 2,85; Or. Syb. 3,728; negli autori: Philostr. imag. 2,10; Athen. 8,348f-349a. Il proverbio è censito e commentato anche negli Adagia erasmiani [1039]). Nel racconto di Nestore in Od. 3,254ss., anzi, Clitemestra, in un primo momento, respinge le proposte di Egisto, anche consigliata da un anziano “cantore” che Agamennone le ha posto accanto come consigliere prima della partenza; solo quando Egisto uccide proditoriamente il cantore, Clitemestra si fa convincere al tradimento

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e all’omicidio del marito. E solo nel brano della Nékyia, negli ultimi versi pronunciati, l’ombra di Agamennone si scaglia contro Clitemestra, dopo aver ricordato (421ss.) come la Tindaride avesse ucciso Cassandra (così anche in Pind. Pyth.11,29-34 e in Aesch. Ag. 1440) mentre egli era colpito da Egisto, ingiuriando contro l’infedeltà di lei, e delle donne in generale, e lamentando come la casa di Atreo fosse stata perseguitata da Zeus ·ΙΑ΅ΎΉϟ΅Ζ Έ΍Τ ΆΓΙΏΣΖ. Un vaso databile intorno al 160-150 a.C. (Berlin Antiquar. 4996 = Nosti test. 4 Bernabé) ci consente di ricostruire la scena dei Nosti: l’iscrizione reca infatti l’esplicito richiamo all’д̄·΅μνΐΑΓΑΓΖ ΌΣΑ΅ΘΓΖ così come narrato da Agia di Trezene (Ύ΅ΘΤ ΘϲΑ ΔΓ΍΋ΘχΑ д̄·ϟ΅Α πΎ ΘЗΑ ̐ϱΗΘΝΑ д̄Λ΅΍ЗΑ): a sinistra, Clitemestra uccide Cassandra, sulla destra è Agamennone, a banchetto, che sta per essere colpito da Egisto. Anche in Ellanico di Lesbo, infine – probabilmente nei Troiká (fr. 155 Jacoby = Paus. 2,16,6) – la responsabilità dell’assassinio di Agamennone sembra attribuita al solo Egisto; costui, anzi, con una variante tanto singolare quanto truce che riscontriamo, come in altri casi, solo in Ellanico, uccideva anche i due gemelli, Teledamo e Pelope, Α΋ΔϟΓΙΖ σΘ΍ ϷΑΘ΅Ζ, avuti da Cassandra ed Agamennone: ma nessun cenno su Clitemestra. Se dunque nell’immaginario dell’età arcaica doveva essere Egisto, anche e soprattutto nell’ottica della vendetta di sangue caratteristica del ·νΑΓΖ degli Atridi, ad ideare (come è chiarissimo da Od. 1,35-43) e portare a compimento l’omicidio di Agamennone, dalla tragedia in poi (e forse già dalla lirica) si accentua il ruolo negativo di Clitemestra, in linea con la diversa caratterizzazione dei personaggi tragici femminili. Nessun dramma intitolato o dedicato a Egisto, sia detto per inciso, ci è noto. Ditti, in conclusione, se le ricostruzioni fondate su Settimio, Malala e Cedreno colgono nel segno, su questo elemento scelse di distanziarsi notevolmente da Omero, e di ispirarsi alla produzione tragica. Del resto, il clima letterario della prima età imperiale non avrebbe potuto fare a meno di una figura femminile ‘forte’ come quella di Clitemestra 13 Nulla si può inferire, dal lapidario insidiis capit eumque interficit di Settimio, sul modo in cui si consumava l’assassinio di Agamennone da parte di Clitemestra (e di Egisto): una scena sulla quale Ditti non avrebbe certo potuto essere così stringato, quando si pensi agli innumerevoli altri episodi di morte di eroi descritti con particolari spesso macabri e comunque sorprendenti nell’Ephemeris (Palamede lapidato in un pozzo, Ettore massacrato in un’imboscata, Achille feri-

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to a morte proditoriamente: per fare solo alcuni esempi). Esistevano, come si è detto, due fondamentali versioni della scena: quella ‘omerica’ del banchetto e quella sicuramente ‘tragica’, forse anche ‘lirica’, del chitone imbrigliante. Proprio a quest’ultima versione, però, fa esplicito riferimento il Cedreno, che dunque sembra soccorrerci nella ricostruzione di quanto potesse essere narrato in Ditti: Clitemestra, appunto lei, in prima persona, “fa indossare ad Agamennone, appena tornato, un chitone Δ΅ΑΘ΅ΛϱΌΉΑ ЀΚ΅ΗΐνΑΓΑ”: e in tal modo Δ΅Ε΅ΗΎΉΙΣΊΉ΍ ΘΓІΘΓΑ ЀΔϲ ̄Ϣ·ϟΗΌΓΙ ΗΚ΅·ϛΑ΅΍ (133 C). Era questa, con ogni probabilità, la scena descritta da Ditti, come anche la diffusa iconografia sul tema in età imperiale lascia credere. L’elemento del chitone “inestricabile”, del resto, è in tutta evidenza nel prologo dell’Oreste euripideo (25: ΦΔΉϟΕУ ΔΉΕ΍Ά΅ΏΓІΗдЀΚΣΗΐ΅Θ΍), uno dei drammi, com’è noto, più rappresentati e diffusi nell’antichità: vista la somiglianza col Cedreno, si può ipotizzare che una iunctura simile fosse nel testo di Ditti? Se recuperiamo questo dato dal Cedreno, possiamo con lo stesso grado di affidabilità recuperare da Malala la localizzazione della scena: il retore antiocheno, infatti, che dichiara apertis verbis di seguire Ditti proprio a conclusione del nóstos agamemnonico, afferma che l’eroe ΉϢΗΉΏΌАΑ ΉϢΖ Θϲ ϥΈ΍ΓΑ Δ΅ΏΣΘ΍ΓΑ πΗΚΣ·΋ (5,30). Possiamo in conclusione affermare che, anche in questo caso, sia la ‘rete’ costituita dal chitone fatale sia l’ambientazione ‘interna’, contribuivano ad avvicinare la narrazione di Ditti alla produzione tragica, marcando una distanza con l’epos omerico. Solo dall’attuale capitolo terzo del sesto libro, invece, si recupererà l’indicazione che tutta la vicenda di Agamennone e Oreste si svolge a Micene (Orestes…ad Mycenas venit), dato confermato anche da Malala: πΑ ΘϜ ̏ΙΎ΋Α΅ϟΝΑ ΔϱΏΉ΍. È questo un elemento che, di contro agli altri, e forse proprio per renderne evidenti le altre differenze, accomuna Ditti ad Omero (e ai mitografi che dal Ciclo epico discendono: Apollod. 6,23), e lo distanzia dai lirici (Sparta sia in Stesicoro, fr. 216 Page, sia in Simonide, fr. 549 Page, sia in Pindaro, nonché Hdt. 7,159) e dai tragici (Argo nell’Orestea; nell’Elettra, nelle Troiane e nell’Oreste di Euripide) 14 L’insistenza sulla rapidità del nuovo matrimonio compariva senz’altro in Ditti, come pare certo dagli speculari ΉЁΌνΝΖ/brevique di Malala e Settimio. Non si tratta di un dato accessorio. Il matrimonio tra la regina e un consanguineo del defunto sovrano, anch’egli discendente di Pelope, avrebbe in qualche modo legittimato il potere.

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Va notato, ancora in Malala, che ha conservato probabilmente i particolari più significativi di Ditti, il ΑϱΐУ con cui si celebrano le nozze. È impossibile sapere se questo tassello narrativo fosse già nel Ciclo, o in qualche altro testo, o fosse un’innovazione di Ditti. Tuttavia, se si pensa alla premura con cui Priamo – già nella Piccola Iliade – fa risposare ufficialmente Elena a Deifobo dopo la morte di Alessandro, per tenerla ancora vincolata alla casata troiana, si può ipotizzare che un particolare di questo tipo potesse essere menzionato anche nel Ciclo arcaico. 15 Sulle vicende della figlia di Egisto e Clitemestra, presunta sorella di Alete (personaggio chiave di un’omonima tragedia perduta sofoclea), Settimio tornerà nel paragrafo 4. 16 Si introduce, qui per la prima volta, Oreste. Le versioni sul salvataggio dell’unico figlio maschio del sovrano erano, ancora una volta, molte. Secondo la più diffusa, il piccolo Oreste era stato sottratto a Clitemestra, dopo le sue trame con Egisto, dalla nutrice: così in Ferecide (3 F 134 Jacoby: ove la nutrice si chiama Laodamia) e in Pindaro (Pyth. 11,17: Arsinoa). Secondo un’altra tradizione sarebbe stata Elettra a mettere in salvo il fratello: così in Sofocle (El. 1130), Apollodoro (ep. 6,23) e Igino (fab. 117). In Eschilo quella di inviare Oreste, ancora piccolo, altrove, sembra esser presentata, da Clitemestra, come una propria iniziativa (Ag. 877ss.). Nell’Elettra euripidea, infine, è un Δ΅ΘΕϲΖ ·ΉΕ΅΍ϲΖ ΘΕΓΚΉϾΖ (16) a strappare Oreste da una morte sicura per mano di Egisto. Nulla è possibile evincere dalle poche testimonianze sui Nostoi, né Omero fornisce dettagli in proposito. La menzione di Taltibio, dunque, appare singolare, e in effetti offre una possibilità di confronto solo con quanto possiamo ricostruire dell’Orestea di Stesicoro (fr. 213 Page): qui l’intervento per mettere in salvo Oreste era doppio: la nutrice Laodamia lo salvava da Clitemestra, e lo affidava – appunto – a Taltibio; questi lo portava in Focide da Strofio. Era dunque la versione stesicorea che Ditti aveva preso a modello, almeno per questo segmento narrativo? Stando allo scarno testo di Settimio, sì: nel carme dell’Imerese, infatti, così come sembra nella versio latina dell’Epherimeris, la messa in salvo di Oreste avviene successivamente all’omicidio di Agamennone. Il testo del Cedreno, invece, e ancor più quello di Malala, offrono in proposito un quadro diverso. Se il senso di alcuni termini non ci inganna, l’intreccio narrativo offerto dai bizantini è il seguente: Oreste, venuto a sapere della presenza (Δ΅ΕΓΙΗϟ΅) del padre a Micene, torna in città da Scheneo (̕ΛΓ΍ΑΉϾΖ), al

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quale il padre, prima di partire per Troia, l’aveva affidato perché fosse creciuto e allevato; Elettra, ricevendo il fratello di nascosto, gli rivela che Egisto vuole eliminare anche lui (evidentemente, nel frattempo, Agamennone è stato ucciso), e i due si consigliano sul da farsi; nel frattempo (πΑ ΘХ ΐΉΘ΅ΒϾ) giunge da Creta Strofio, insieme al figlio Pilade, che era stato allevato con Oreste: comprendendo l’accaduto, Strofio decide di aiutare Oreste a rovesciare Egisto. Com’è chiaro, gli elementi sensibilmente differenti rispetto a Settimio sono tre: la presenza di uno Scheneo come primo affidatario del piccolo Oreste al momento della partenza di Agamennone da Troia; l’episodio dell’arrivo a Micene di Oreste subito dopo l’assassinio del padre e l’incontro con Elettra che lo salva dai piani di Egisto; l’assenza di Idomeneo (benché da Creta giunga proprio Strofio, come anche in Settimio). Come vanno giudicate queste differenze? L’iconografia non sembra esserci d’aiuto (vd. Sarian-Machaira 1992). Una prima soluzione, che rischia però di essere un facile escamotage, consisterebbe nell’ipotizzare che i bizantini hanno ‘innovato’ Ditti, inserendo – forse in modo persino maldestro – una differente tradizione (quella derivata dall’Elettra sofoclea) nella sequenza originaria dell’Ephemeris. Una seconda ipotesi sta invece nel postulare che il testo originario di Ditti contenesse, in modo ben più esteso e dettagliato, tutti i particolari che, ora dall’uno ora dall’altro imitatatore/escerptore/traduttore, sono stati trascelti e rielaborati. Proviamo a ricostruire un quadro di questo tipo. Appena dopo l’omicidio, l’attenzione del narratore dell’Ephemeris greca si sposta su Oreste. Costui, saputo del ritorno a Micene del padre, vuole andare ad incontrarlo; Oreste si trova in Focide, dove lo collocano la quasi totalità delle tradizioni mitiche: Agamennone, prima di partire per Troia, lo ha affidato a Scheneo, un personaggio per noi altrimenti ignoto, ma che potrebbe essere un precettore, al servizio di Strofio, che educa, nei dieci anni di assenza di Agamennone, appunto Oreste e Pilade; Oreste dunque arriva a Micene, ma il golpe si è già consumato; la sorella Elettra – forse dopo una scena di riconoscimento – lo mette al corrente dei fatti, e lo sottrae alla furia di Egisto; a questo punto il fedele Taltibio, sopravvissuto alla strage dei compagni di Agamennone, lo affida a Idomeneo, che lo conduce con sé a Creta. Cresciuto, Oreste chiede a Idomeneo di poter vendicare il padre, si reca ad Atene e incontra Strofio, al quale chiede rinforzi. Quindi, con Pilade, giunge a Micene e dà inizio alla vendetta. In questo quadro tutti gli elementi del puzzle narrativo che emergono dalla combinazione dei racconti di

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Malala, Cedreno e Settimio sembrano trovare una collocazione adeguata. Questa, forse, poteva essere la sequenza narrativa di Ditti. E si possono così comprendere le scelte di selezione operate da Settimio e dai bizantini. Il primo ‘tagliò’ la menzione dello sconosciuto Scheneo e l’episodio ‘intermedio’ dell’incontro tra Oreste e Elettra; Malala e Cedreno, in particolare, esclusero dalla concatenazione delle vicende Idomeneo, che non era chiaramente funzionale, nelle loro riscritture, al ruolo di ‘catalizzatore’ delle trame dei nóstoi come lo era nell’Ephemeris greca. Se Taltibio, infatti, consegna Oreste proprio a Idomeneo, al seguito del quale è – appunto – Ditti, ciò avviene, nella finzione narrativa, perché in tal modo l’autore possa raccontare autopticamente anche queste vicende. Presso Idomeneo, a Creta, come in un ante litteram Castello incantato ariostesco, si ritroveranno, uno dopo l’altro, tutti gli eroi scampati a Troia e ai loro infelici ritorni. I bizantini, invece, che hanno ‘eliminato’ Idomeneo dalla narrazione, sono costretti a collocare, in linea con la più tradizionale versione epica, il soggiorno di Oreste presso Strofio. Ma forse, nel rabberciamento narrativo di Malala, una traccia dell’Ephemeris originaria è rimasta proprio nella notazione che Strofio giunge πΎ ̍ΕφΘ΋Ζ quando incontra Oreste a Micene. Comunque siano andate le cose, o nell’ipotesi di un pesante rimaneggiamento da parte di Malala e Cedreno, o nel quadro che si è cercato di ricostruire, nell’Ephemeris di Ditti l’elemento centripeto del racconto e di tutti i fili narrativi dei nóstoi era sicuramente costituito da Idomeneo. L’espediente consentiva al Ditti-narratore di riannodare le diverse storie degli eroi, e di vantare, anche dopo la fine della campagna in Troade e conseguentemente della possibilità di assistere di persona agli avvenimenti, quella veridicità storiografica che gli era fornita, ora, dai racconti diretti che gli eroi rivolgevano ad Idomeneo (e a lui, fedele compagno sempre presente) sulle loro peripezie. Questa tecnica, in effetti, appare rifarsi innanzi tutto, e ancora una volta, ad Omero: basti pensare ai racconti diretti che, nell’Odissea, prima a Telemaco da parte di Nestore e Menelao, poi ad Alcinoo da parte dello stesso Odisseo, consentono di ‘recuperare’ segmenti narrativi che altrimenti il poeta avrebbe dovuto narrare in modo ‘indiretto’. Proprio il modello più contestato, dunque, offriva a Ditti l’espediente narrativo più sfruttato in questa seconda parte dell’opera. È notevole, del resto, che anche Giovanni Malala costruì la seconda parte del quinto libro della Cronografia, appunto quello relativo ai ‘ritorni’ dei Greci da Troia, proprio inserendo un’importante analessi narrativa:

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sarà infatti Teucro, di ritorno dalla guerra, ad incontrare Neottolemo a Cipro, e a narrargli le vicende troiane del padre Achille (24-29), ove saranno condensati gli avvenimenti di parte dell’Iliade e dell’Etiopide 17 Non è un caso, evidentemente, che sia palese un’insistenza sulla patrilinearità del potere: si esplicita che Oreste è “figlio di Agamennone” e che “viene strappato alle mani di Egisto”, il ‘maschio’ che ha preso il suo posto sul trono di Micene. 18 In base ai Nostoi (Proclo fr. 277 Seve.) e all’Odissea 3,191-192, Idomeneo fece ritorno in patria senza subire perdite. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che un’altra tradizione – che Ditti cela abilmente – lo vede subire il già citato tradimento di sua moglie Meda con Leuco (che aveva adottato e al quale aveva affidato il governo in sua assenza). Costui avrebbe successivamente ucciso Meda e i suoi figli, inducendo alla rivolta dieci città cretesi e cacciando Idomeneo al suo ritorno in patria (Apollod. ep. 6, 10-11; Lychophr. Cassandra, 1214 ss.). Si può forse accordare a questa tradizione quanto afferma Virgilio nell’Eneide, (3,121-123): quando Enea giunge a Creta, pensando che fosse la meta predettagli dall’oracolo, fama volat che Idomeneo sia stato espulso dal regno paterno e che sia rimasta deserta. Servio (ad locum) tuttavia, postula una motivazione diversa per l’espulsione del principe cretese, richiamandosi ad un’altra tradizione: quella che Marblestone 1970 chiama «“Homecomer’s Vow” motif», il motivo del “Voto di chi torna in patria”, o, richiamandosi ad un’analoga vicenda narrata nella Bibbia (Giudici 11,34-40), il “motivo di Iefte”. Stando alle parole di Servio, durante il suo nostos alla volta di Creta, la flotta cretese fu colpita da una tempesta e Idomeneo fece voto di sacrificare a Nettuno, qualora fossero giunti sani e salvi in patria, la prima cosa che avrebbe incontrato una volta approdato sull’isola. Poiché per primo gli si parò innanzi suo figlio, alcuni dicono lo abbia immolato, altri che aveva intenzione di farlo, in ogni caso questo scatenò una pestilenza, che indusse i cittadini a esiliarlo. Egli si rifugiò nell’Italia meridionale, nel Sallentinum Calabriae promunctorium, ove fondò una città (che sarà ricordata anche in Aen. 3,401). Marblestone 1970, 257-258 sostiene che dietro la presenza – che in realtà non trova riscontri in altre fonti – di Idomeneo a Corinto, si celi il suddetto motivo. Un motivo che lo studioso imputa ad una ascendenza semitica e che considera un indizio a suffragio della sua ipotesi secondo la quale Ditti sarebbe un Eteocretese. In realtà, se è lecito pensare che l’omissione del riferimento al tradimento di Meda sia riferibile a Ditti (vedi nota 8), si può

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credere che la presenza di Idomeneo a Corinto adombri le tradizioni relative al suo nostos travagliato ma risponda per lo più ad esigenze di tipo narrativo: ancora una volta Ditti, al seguito del principe cretese, si troverebbe in prima persona sul luogo degli avvenimenti, potendo così narrare gli eventi in maniera veritiera. 19 Teucro compare a più riprese nell’Ephemeris, come nell’Iliade, nel ruolo di abile arciere, accanto a Ulisse, Merione, Epeo e Menelao (3,1; 4,2). Il nostos di Teucro si presenta qui in veste assai frammentaria; Settimio vi fa un brevissimo riferimento in questa sede e nel paragrafo 4. In questo primo fugace accenno ricorda l’esilio cui viene costretto da suo padre Telamone, il quale lo accusa di non aver vendicato a dovere suo fratello Aiace, caduto nelle insidie dei Greci (per la morte di Aiace – 5,15 – si vedano il commento ad loc. e l’Introduzione). Servio (ad Aen. 1,619) riporta diverse versioni del mito per cui Telamone avrebbe esiliato Teucro: secondo alcuni per non averne vendicato la morte; secondo altri per non aver riportato in patria le sue ossa; secondo taluni, infine, per non aver portato con sé la concubina di suo fratello Tecmessa o suo figlio Eurisace, preferendogli il bottino di guerra. Proprio dell’abbandono di Eurisace Telamone accuserebbe Teucro nell’omonimo dramma di Pacuvio – per molti ispirato al perduto ̕΅Ώ΅ΐ΍Αϟ΅΍ di Eschilo – (fr.11 Ribbeck): “…neque fratris necis neque eius gnati parvi qui tibi tutelam est traditus…”. Nell’Elena euripidea, invece, Teucro rivela alla protagonista di esser stato colpevole di non aver condiviso il destino di morte del fratello, immolandosi assieme a lui (v.104). Pausania (1,28,11; 8,15,17) narra che Teucro avrebbe pronunciato il discorso in propria difesa a bordo della nave, nella baia attica di Freattide, di fronte ad una giuria e allo stesso Telamone, collocati sulla riva: questa, per il geografo, l’origine del costume invalso in Attica tra gli esiliati, di pronunciare le ultime parole in propria difesa proprio sulla nave in procinto di salpare. Altrove (2,29,10) Pausania nota che anche Telamone fu costretto, ad Egina, a difendersi con le stesse modalità per l’omicidio del fratellastro Foco e, giudicato colpevole, fu condannato all’esilio che lo portò a fondare Salamina. Una inevitabile duplicatio dunque, nella sorte di suo figlio: celebri le parole con cui il Teucro oraziano nelle Odi (1,7,21 ss.) invita i compagni ad allontanare affanni e preoccupazioni, abbandonandosi al dolce piacere del vino e confidando nell’oracolo di Apollo che aveva promesso una futura ambigua Salamina (fondazione che sarà da Ditti ricordata nel paragrafo 4). Nell’omonimo dramma di Tzetzes che la vede protago-

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nista, Cassandra (447; 452) narra la colonizzazione di Cipro ad opera di cinque guerrieri: Teucro, Agapenore, Acamante (che ricorre nel medesimo contesto anche qui in Ditti), Cefeo, Prassandro. Ripercorre poi le vicende dei vari eroi, e per Teucro, che apostrofa come proprio syggenés essendo la madre Esione sorella di Priamo, racconta l’esilio impostogli da suo padre Telamone che lo riteneva responsabile della morte di Aiace, suo fratello (solo per parte di padre opopàtrios). L’indovina ne sottolinea l’indegna espulsione: come un germoglio spurio (ΑϱΌΓΑ ΚϟΘΙΐ΅) e come uccisore del fratello (ϴΔΓΔ΅ΘΕϟΓΙ ΚΓΑΉϿΖ). I cronografi bizantini hanno un comportamento speculare nei confronti del personaggio: mentre in Cedreno risulta assente, grande rilevanza assume in Malala. Qui (5,23 e ss.) l’eroe giunge a Troia in soccorso di Aiace da Salamina (di Cipro), quindi presumibilmente in un momento successivo al proprio nostos, ma, trovato il fratello ormai morto e appreso degli onori tributatigli da Neottolemo, si rivolge a quest’ultimo, narrandogli in prima persona, in una lunga digressio, le ultime avventure di Achille (5,23-28). Al termine del racconto Teucro si congederà da Pirro dal quale otterrà di prendere con sé i figli di suo fratello, sia quelli nati dal primo matrimonio (con Glauce), sia Eurisace, avuto dalla concubina Tecmessa, ed essa stessa. Sarà proprio al termine del successivo capitolo 29 che Malala rivelerà le fonti di questa sezione: Sisifo di Cos, che fu in guerra con Teucro, Omero, e Ditti, per l’appunto. È dunque lecito ipotizzare che Ditti avesse dedicato uno spazio maggiore di Settimio alle vicende del fratellastro di Aiace, che viene invece relegato a vera e propria comparsa nella versio latina: una traccia dei numerosi segmenti mitici che Settimio deve aver cassato nell’impietoso lavoro di excerptio e sintesi che caratterizza in particolare quest’ultimo libro. 20 In questo libro Settimio ricorre spesso, presentando diverse vicende e personaggi, a correlazioni come: per idem tempus, interea, interim. Stabilisce in questo modo dei parallelismi e delle relazioni di contemporaneità tra i diversi nostoi, tentando di conferire organicità e coerenza al nucleo narrativo di un libro che risulterebbe viceversa tendenzialmente centrifugo e disomogeneo. Stabilire delle sincronie tra diversi filoni narrativi sarà un procedimento proprio dei cronografi bizantini, allorché, ad esempio, all’interno della cornice biblica che delinea il filone principale della loro narrazione, si troveranno ad inserire paralleli con la – presunta – corrispondente storia greca: cfr. Mal. 5,1 ̳Α Έξ ΘΓϧΖ ΛΕϱΑΓ΍Ζ ΘΓІ ̇΅ΆϠΈ ΎΘΏ.; Cedr. 123a ͣΘ΍ πΑ ΘΓϧΖ ΛΕϱΑΓ΍Ζ ̕΅ΓϿΏ ΎΘΏ.

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Si tratta peraltro, di uno stilema proprio del linguaggio storico, per lo più Sallustiano: Iug. 63,1,1;70,1,1;114,1,1; ep. 2,5,2. 21 Ditti-Settimio fornisce una versione inedita, a quanto sembra dalle fonti sin qui tràdite, sul nostos di Menesteo. Secondo Plutarco (Tes.32 ss.) egli avrebbe trovato la morte a Troia; per Tzetzes (posth. 88) e Apollodoro (ep. 6,15b) avrebbe ottenuto il governo su Melo alla morte del re Polianace; gli scolii a Tucidide (1,12) infine, parlano di una sua cacciata ad opera dei figli di Teseo. Menesteo non compare nei bizantini. 22 Etra, madre di Teseo, e Climene – che qui parrebbe sua figlia, sebbene questa parentela non trovi altre attestazioni – formano una coppia che ricorre altrove in Ditti-Settimio: nel primo libro (1,3) se ne narra la partenza per Troia al seguito di Elena, della quale erano ancelle (Etra perché già rapita dai Dioscuri vd. nota ad loc.); nel quinto (5,13) si racconta la loro attribuzione come prigioniere di guerra proprio a Demofonte ed Acamante, suoi nipoti, figli di Teseo, che dunque, così facendo, le liberano dalla prigionia riconducibile ai Dioscuri. 23 Demofonte e Acamante sono i figli di Teseo e Fedra, o, secondo versioni diverse, di Teseo e Arianna; per Servio (ad Aen. 2,262), Acamante sarebbe figlio di Demofonte. Nell’Ephemeris figurano tra coloro che prendono parte alla spedizione (1,14); partecipano inoltre alla spartizione del bottino e delle prigioniere di guerra, tra le quali, come si è detto (vd. supra), scelgono la propria ava Etra (5,13), la cui liberazione, secondo Ellanico (FGrHist 4 F143) era il solo obiettivo con cui presero parte alla guerra. Si tratta di due personaggi che spesso si sovrappongono nelle diverse versioni mitiche. Una delle vicende che si colloca nel loro nostos, e che in alcuni vede protagonista Acamante (Tzetz. A Lic. 496) , in altri Demofonte (Apollod. ep. 6,16; Hyg. fab. 59; Serv. in Verg. Buc. 5,10 [da cui dipende anche Boccaccio, genealogiae deorum gentilium 11,25] ), è l’amore con la principessa tracia Fillide, un mito eziologico sul nome della “foglia” (in greco phyllà), che presenta varianti affini nei mitografi. 24 L’opposizione dei familiari e le trame che attendono chi fa ritorno da Troia, sono un tratto comune a diversi ritorni ma, in base all’argumentum procliano, non sembrano riferibili in maniera generalizzata ai Nostoi ove, come si è detto, alcuni capi vivono un viaggio e un’accoglienza positivi. Tucidide (1,12) e Platone (leg. 3,682 d-e) ne parlano come di un fenomeno che colpisce trasversalmente tutti i capi

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greci. Marblestone 1970, 254 vi vede un riflesso del periodo storico di decadimento della potenza micenea che aveva dominato per tutto il tardo bronzo. 25 Interviene a scongiurare scenari infausti per la grecità, la figura del “cavaliere Gerenio”, che è certamente, come rileva Timpanaro (1987, 185) tra le più positive dell’opera, e presenta connotati squisitamente epici. Lo contraddistinguono, nell’Ephemeris come nell’Iliade, una profonda saggezza e una singolare loquacità e abilità oratorie (si pensi ad epiteti come ψΈΙΉΔφΖ di Il.248, Ώ΍·ϿΑ ̓ΙΏϟΝΑ Φ·ΓΕ΋ΘφΑ Il. 4,293), doti che, nell’insieme, lo rendono, come era nell’epos, un equilibrato e affidabile consigliere, tuttavia forse, in generale più evanescente rispetto alla tradizione epica. La vis suasoria di Nestore si era già esplicitata sin da 1,20, in occasione dell’episodio del sacrificio di Ifigenia, allorché aveva persuaso Agamennone, il quale aveva tentato inizialmente la fuga inorridito all’idea di presenziare al sacrificio di sua figlia, a rimanere. 26 Il ritorno di Diomede, che, come si è detto, a giudicare dal riassunto procliano, costituiva una parabola positiva e senza incrinature nei Nostoi di Agia, appare in Ditti-Settimio abbastanza travagliato. Dopo il tradimento di Egialea e la sommossa popolare cui l’eroe va incontro al proprio ritorno in Argo (paragrafo 2), viene narrata una seconda vicenda relativa al periodo successivo all’incontro con gli altri reduci riunitisi a Corinto che vede co-protagonista il nonno Eneo, padre di Tìdeo. Apollodoro (1,8,6) è il solo che colloca l’episodio prima della partenza per Troia: i figli di Agrio, fratello del re, sottraggono il regno ad Eneo (Igino nella fabula 175 è il solo che racconta che sia stato Agrio a cacciare Eneo e non i suoi figli) e lo consegnano al loro padre. In più, imprigionano Eneo da vivo e lo maltrattano. In seguito Diomede, giunto in segreto da Argo con un altro uomo (per Strabo 10,2,25 Alcmeone, per Hyg. 175 il fedele Stenelo), uccide i figli di Agrio, tutti tranne Onchesto e Tersite che riescono a fuggire nel Peloponneso. Diomede, essendo Eneo molto vecchio, ne affida il regno ad Andremone che aveva sposato sua figlia, e porta Eneo con sé nel Peloponneso (viceversa Antonino Liberale (met. 37) sostiene che Diomede ridia a suo nonno il regno). Qui cadrà vittima di un agguato ordito dai due figli di Agrio sopravvissuti (cfr. Ephor. FGrHist 70 F123) e il Tidìde ne trasporterà il corpo in Argolide dove lo seppellirà in una città che ne prenderà il nome, Oinoe. Pausania (2,25,2) narra invece che Eneo si sarebbe rifugiato da Diomede ad Argo, per questo

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l’eroe avrebbe indetto la campagna con lo scopo di liberarne il regno. In seguito Eneo avrebbe abitato ad Argo fino alla sua morte, nella cittadina limitrofa che, come in Apollodoro, avrebbe preso il suo nome. 27 Questo dunque l’epilogo del nostos di Diomede. Ditti-Settimio sembra pertanto in definitiva seguire il versante più antico della tradizione, quello odissiaco (3,180-182) e dei Nostoi di Agia (Chrest. 277 Seve.) – condiviso anche da Apollodoro (ep. 6,1) – in base al quale l’eroe sarebbe tornato, qui dopo varie peripezie, sano e salvo in patria. Settimio inoltre connette la vicenda di Diomede ad un generale fenomeno di resa dei tranelli orditi dai familiari nei confronti dei reduci di Troia, una vera e propria ‘strategia del terrore’ che induce i complottatori a desistere dai propri piani di sommossa valutando pragmaticamente l’inferiorità dei cittadini rispetto a chi era partito per Troia (inde per omnem Graeciam fama orta suos quisque reges accipiunt summam in his, qui apud troiam bellaverant, virtutem neque in resistendo cuiusquam vires idoneas existimantes). 28 Si sancisce così definitivamente il ritorno in patria anche di Idomeneo e dello stesso Ditti, a dispetto della tradizione che ne narrava le disavventure (vedi nota 19). Lo stratagemma narrativo consente così a Ditti di fare di Creta un vero e proprio polo centripeto degli eroi protagonisti delle successive vicende (Oreste e Menelao, nonché Ulisse) e di narrare ancora una volta avvenimenti uditi dalla viva voce dei protagonisti. 29 A Cnosso, dal palazzo di Idomeneo, riprende la vicenda di Oreste, che dopo aver raggiunto la maturità, chiede al sovrano cretese di vendicare il padre e reimpossessarsi del trono di Micene. Il lungo brano, che costituisce la parte centrale dell’‘Orestiade’ dittiana, è condotto, in Settimio, in modo sensibilmente diverso rispetto ai bizantini: la ragione fondamentale, ovviamente, è l’assenza di Idomeneo in Malala e in Cedreno, come si è detto. Su questo particolare sono sicuramente i bizantini ad aver innovato, mediante le fonti che più avevano a disposizione, o ‘tagliando’ pesantemente il racconto. Questa seconda strada è percorsa dal Cedreno, che dedica appena una riga all’episodio del matricidio: “dopo aver saputo [della morte di Agamennone], giunse [a Micene] e, uccisi Egisto e la propria madre, prese il regno”. In Malala Oreste chiede a Strofio (non ad Idomeneo) di potersi recare in patria, insieme all’amico Pilade; Strofio acconsente e i due giungono a Micene; Oreste si presenta di nascosto ad Elettra, e la prega di convincere la madre a riceverlo; Elettra convince (σΔΉ΍ΗΉ) Cliteme-

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stra, e accoglie Oreste; a questo punto – se il testo va inteso in questo modo – Clitemestra, Δ΅Ε΅ΎΏ΋ΌΉϧΗ΅, cioè, “chiamata” o “convinta” da Elettra, “convince Egisto” (πΈΙΗЏΔ΋ΗΉ): allora Oreste, accolto anche da Egisto, “persevera nella sua follia” (ΐ΅΍ΑϱΐΉΑΓΖ πΎ΅ΕΘνΕΉ΍), esclamando davanti a tutti: “il regno è mio!”, uccide la madre ed Egisto; “venne allora in miseria per la sua follia”, Ύ΅Ϡ ΔΓΘξ ΐξΑ πΚΕϱΑΉ΍ Ύ΅Ϡ Έ΍ϛ·ΉΑ πΑ ΦΑνΗΉ΍ǰ ΔΓΘξ Έξ πΐ΅ϟΑΉΘΓ; quindi la città e il ‘senato’ lo inviano a curarsi, poiché vogliono che sia il loro re, e i sacerdoti lo purificano dal matricidio; lo conducono al tempio di Atena, dov’è l’Areopago, e Menesteo giudica la causa, tra Eace e Oreste. Menesteo decreta con il suo voto che Oreste ben ha fatto a vendicare la morte del padre, e fa ciò soprattutto a monito delle altre donne, perché nessuna moglie commetta atti simili; “queste vicende narra Ditti nel sesto libro della sua opera”. Da quale punto della narrazione possiamo attribuire a Ditti la sequenza delle vicende descritta da Malala, e dall’antiocheno attribuita proprio “al sesto libro di Ditti”? Il problema, come si accennava, consiste nel fatto che il testo di Settimio presenta una ben diversa concatenazione di eventi. La sola altra testimonianza antica che può essere in qualche modo accostata alla versione di Malala è nella fabula 119 di Igino. Qui l’erudito romano unisce ad una prima parte dell’episodio – sicuramente derivata dall’Elettra sofoclea: Oreste e Pilade si fingono stranieri che portano l’urna con le ceneri del figlio a Clitemestra, e così sono accolti nel palazzo – un ‘finale’ sorprendentemente simile a Malala: “Egisto, tutto contento [della notizia sulla morte di Oreste], accolse amichevomente entrambi. Cogliendo l’occasione, Oreste uccise nottetempo, con l’aiuto di Pilade, la madre Clitemestra e Egisto”. Secondo Guidorizzi 2000, 384, che tuttavia non cita Malala, Igino «dipende probabilmente da qualche autore tragico di epoca successiva a Euripide, se non anche da un autore tragico latino». Era questa la versione del matricidio seguita da Ditti? L’Ephemeris greca contaminava dunque il dramma sofocleo con un tragico postclassico? La sequenza che vede Oreste (e Pilade) tramare contro Clitemestra, fingersi stranieri e aggredire nottetempo i sovrani è certamente in linea con le scelte strategiche di Ditti sulla deeroicizzazione delle morti dei protagonisti dell’opera: da Palamede a Ettore, a Achille. Una tessera ancora tragica, euripidea, potrebbe essere costituita in Malala dalla rappresentazione della follia di Oreste, contigua all’episodio del matricidio: i termini con cui si descrive lo stato di alterazione di Oreste, infatti, sembrano riprendere quella terminologia

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‘medica’ della patologia nevrotica che era stata uno dei più significativi elementi dell’Oreste euripideo (Vd. per tutti: Porter 1994, 298-313; nonché Medda 2001, 5-46): si pensi a versi quali ϵΘ΅Α ΦΑϜ ΑϱΗΓΖ ΐ΅Αϟ΅Ζǰ ΩΑ΅ΕΌΕϱΖ ΉϢΐ΍ ΎΦΗΌΉΑЗ ΐνΏ΋ (227-8) e Θ΅ΛϿΖ Έξ ΐΉΘνΌΓΙ ΏϾΗΗ΅Αǰ ΩΕΘ΍ ΗΝΚΕΓΑЗΑ (254). Se questa suggestione è corretta, si può affermare che anche Ditti rappresentasse Oreste more Euripideo? La menzione di Eace, come avversario di Oreste, sembra ricondurre di nuovo al dramma di Euripide: quando Menelao chiede al nipote chi lo abbia trascinato di fronte al giudizio (lì, degli Argivi), Oreste risponde (432): ̒ϥ΅Βǰ Θϲ ̖ΕΓϟ΅Ζ ΐϧΗΓΖ ΦΑ΅ΚνΕΝΑ Δ΅ΘΕϟ, “Eace, che attribuisce a mio padre la colpa dell’odio suscitato dai fatti di Troia”. Il verso, che insieme al precedente e alla contigua risposta di Menelao alcuni hanno proposto di espungere come interpolato (Robert 1881, 240), potrebbe proprio confermare l’imitatio di Ditti – o almeno di Malala. Il testo di Settimio ci offre un quadro (quasi) completamente diverso, ponendo così un problema di fatto irrisolvibile su quale versione fosse seguita in Ditti. Ripercorriamo in breve le sequenze narrative dell’‘Orestiade’ così come è raccontata da Settimio: Oreste, raggiunta la maggiore età, chiede ad Idomeneo quam plurimos con cui partire da Creta per Atene; ottenuto un certo numero eorum, quos idoneos credebat, giunge ad Atene; qui chiede aiuto contro Egisto; contemporaneamente, riceve dall’oracolo la risposta di uccidere la madre ed Egisto: così potrà recuperare il regnum patrium; forte del responso, e della praedicta manu, si reca da Strofio; costui, infatti, aveva promesso in sposa la figlia proprio ad Egisto, e, saputo dell’oltraggio compiuto dal promesso genero, concede aiuto ad Oreste; i due, cum magna manu, giungono a Micene; qui, saputo che Egisto è fuori città, uccidono subito Clitemestra multosque alios qui resistere ausi erant; quindi tramano un’imboscata contro Egisto, e lo uccidono; a questo punto sorge un tumulto, quasi una lotta civile, tra gli Argivi, che si dividono in due fazioni. Qui si conclude la sequenza centrale dell’episodio, che, come si vede, presenta numerose discrepanze con il testo di Malala. Si tratta, chiaramente, di due versioni differenti. Non ci sono note altre fonti letterarie – neanche iconografiche – in cui è Strofio che giunge a Micene con Oreste, per compiere la vendetta: ma il testo di Settimio potrebbe essere il frutto di un rabberciamento che ha perduto il nome di Pilade tra il momento della richiesta di aiuto a Strofio e l’arrivo a Micene. Neanche la sequenza di omicidi Clitemestra-Egisto sembra mai attestata: è sempre Egisto ad essere

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NOTE AL TESTO DI DITTI

ucciso per primo, anche nell’Elettra euripidea, dove pure l’omicidio avviene fuori città, e in modo proditorio. Se questi elementi erano in Ditti, dobbiamo vedere in essi, forse, il tentativo di marcare una netta distanza dalla tradizione. Ma l’elemento che più colpisce, nella narrazione di Settimio, è l’insistenza sull’aspetto tecnico-militare dei fatti: Oreste chiede ad Idomeneo quanti più uomini in armi gli possa concedere, e rafforza questo drappello con le truppe di Strofio; a Micene si svolge una vera e propria battaglia, e molti vengono uccisi; al termine dell’ennesimo golpe, infine, sembra iniziare una vera e propria guerra civile. L’intento, chiaramente, è quello di fornire al lettore una dimensione pragmatica e realistica del ritorno di Oreste a Micene: quella scatenata contro Egisto e Citemestra non è l’eroica punizione di un singolo che elimina da solo (o, al massimo, con il fidato Pilade) gli usurpatori del padre, ma una spedizione militare in piena regola, che ha bisogno di alleati e di truppe, e che si concluderà con la presa della città. Anche questo dato, stando alla nostra documentazione, non è attestato da nessuna fonte letteraria e iconografica: e ciò renderebbe ancor più marcata la contrapposizione di Ditti ai suoi predecessori. Renderebbe, occorre dire: che sia questa, infatti, e non quella offerta da Malala, la versione seguita dall’Ephemeris greca è impossibile affermare. Tanto più che, come si è già più volte sottolineato nell’Introduzione, proprio Settimio è manifestamente incline ad aggiungere particolari tecnico-bellici nel testo ‘originario’. 30 Alle vicende iniziali del nostos di Teucro, Settimio ha accennato brevemente al paragrafo 2 (vedi nota 20). Ora, da Menelao giunto a Creta, si viene invece a conoscenza dell’esito delle peregrinazioni dell’eroe: la fondazione dell’ambigua Salamina, per dirla con Orazio, a Cipro, di cui parlano diverse fonti (Strabo 14, 672; 682; Athen. 6,256b; Sil. It. 3,368: 15,192: Cartago Nova in Spagna). Si ha quasi l’impressione che Settimio, nel proprio lavoro di excerptio/traduzione/sintesi abbia voluto in questo modo riannodare sinteticamente le fila di un mito che aveva ormai introdotto, ma che in certo modo era rimasto pendens, riportandone sinteticamente la nota conclusione. 31 Strabone (17,1,17) parla dell’esistenza della città di Canobo, in Egitto, a 120 stadi da Alessandria, che prese il nome dal timoniere di Menelao (per questa città si veda anche Tac. ann. 2,60, nonché Serv. ad Aen. 11,263). Lo storico Conone (FrGrHist 26,1) è il primo a narrare il mito eziologico della città egiziana e della morte del leggendario

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timoniere che diede anche il nome alla foce “canopica” del Nilo. Ditti focalizza qui l’attenzione sul sepolcro del personaggio che non viene altrove citato. 32 La presenza di Erigone al processo è stata ipotizzata in Malala (5,31), nell’ambito di un passo che tuttavia risulta forse irrimediabilmente corrotto. Altre fonti discutono il coinvolgimento di Erigone e Tindaro nel giudizio di Oreste (Apd. ep. 6,25, Hellan. FrGrHist 4 F 169 a-b). Il suicidio della figlia di Egisto costituirà motivo di corruzione per Atene, e costringerà gli Ateniesi a venerarla in una festa col nome di ̄ϡЏΕ΅ “colei che pende (dal laccio)” (vd. Etymologicon Magnum s.v. ̄ϡЏΕ΅). 33 La scelta di porre Menesteo a guida del processo ad Oreste, risulta qui funzionale, e risponde a due esigenze principali: in primo luogo la necessità di eliminare, fin dove possibile, l’intervento della divinità – in questo caso di Atena –; in secondo luogo il tentativo di mantenere la coerenza narrativa, dal momento che al paragrafo 2 si è detto che Menesteo è tornato al governo di Atene. Altrove tuttavia (Athen. 10,437; FrGrHist 239 A 25; schol. Lychophfr. 1374) è Demofonte a coordinare il processo. 34 Nella tradizione Ermione viene contesa tra Oreste e Neottolemo: nell’Andromaca (vv. 966 ss.) si racconta che fosse stata promessa da Menelao ad Oreste prima della guerra di Troia e che in seguito lo stesso Menelao l’avesse promessa a Neottolemo qualora avesse conquistato la città. Viceversa Omero (Od. 4,3 ss.) menziona esclusivamente la promessa a Neottolemo. Nell’Oreste euripideo (1653 ss.), Apollo predice al protagonista che Ermione è destinata a lui e che Neottolemo non l’avrà. Ovidio (her. 13) tenta di compendiare le diverse versioni spiegando che Ermione sarebbe stata promessa ad Oreste da suo nonno Tindaro mentre Menelao era in guerra e che quest’ultimo, ignorandolo, l’avrebbe invece promessa a Neottolemo per convincerlo ad imbarcarsi per Troia. Qui, come si vedrà, Ditti confesserà di esser venuto a conoscenza delle vicende di Neottolemo e Peleo dalla viva voce del loro protagonista, durante il matrimonio con Ermione al quale era stato invitato (paragrafo 10), con un evidente effetto di aprosdóketon sul lettore che non sa in che modo e perché Ermione, promessa a Oreste, abbia in seguito sposato Pirro: si apprezzano evidentemente le conseguenze di un rabberciamento mal riuscito da parte di Settimio (concorda in ciò Marblestone 1970, 264). Che Oreste nutrisse rancore nei confronti di Neottolemo per via di Ermione,

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ci è reso noto solo al paragrafo 13, ove proprio il risentimento per essere stato privato delle nozze (dolens praereptum sibi a Neoptolemo Hermionae matrimonium), lo spingerà a tramare contro il rivale e lo porterà ad ottenere la propria vendetta, in circostanze misteriose, e a sottrargli la sposa. 35 I paragrafi 5 e 6 dell’attuale libro sesto di Settimio sono occupati dalla materia odissiaca. Si tratta di una sezione assai stringata e, soprattutto in alcuni punti, molto distante dal poema omerico. A giudizio di Lopez (2001, 355), l’argomento dell’Odissea sarebbe stato fatto oggetto, da parte di Ditti (ma forse molto più probabilmente da parte di Settimio), di una “rozza razionalizzazione, mescolata con una serie di aggiunte arbitrarie, senza alcun precedente nella tradizione”. Interessante notare come strutturalmente il nostos di Odisseo trovi una diversa collocazione in Settimio e nei bizantini: mentre nella versio latina si colloca solo dopo le vicende di diversi eroi, nelle trattazioni dei cronografi è il primo dei nostoi narrati. Sia in Malala sia in Cedreno Odisseo, subito dopo la contesa per il Palladio (qui narrata alla fine del libro precedente, 5,14-15), è costretto a fuggire a seguito del misterioso ritrovamento del corpo di Aiace, perché sospettato di essere il responsabile dell’assassinio del Telamonio. Cedreno (132 C) precisa che Odisseo fu il primo eroe a lasciare Troia e che questo evento segnò “il principio del ritorno dei Greci”. Ditti accenna alla partenza di Ulisse in 5,15, allorché i sospetti per la morte del Telamonio si concentrano su di lui, ma sceglie di soffermarsi con più agio sulle avventure del Laerzìade solo in un momento successivo al ritorno in patria di Idomeneo. Espediente che gli consente di accogliere anche questo eroe nell’ ‘ariostesco castello’ del re cretese e di farsi testimone uditivo delle sue vicende, a mo’ di nuovo Alcinoo. Dell’Odissea, infatti, viene certamente sfruttato lo strumento tradizionale del flash-back, che in questo libro in particolare conosce un uso estensivo (vd. supra). Marblestone 1970, 264 ipotizza che l’associazione tra Ulisse e Creta sia stata suggerita a Ditti da alcuni loci odissiaci: in Od. 14,199 ss. Odisseo, al suo arrivo ad Itaca, tentando di celare la propria identità ad Eumeo, si dichiara un cretese che fu insieme ad Idomeneo a capo del contingente che partecipò alla guerra di Troia (vv. 235 ss.). Il Laerzìade narra inoltre di essere stato catturato da un fenicio e condotto in schiavitù per un anno: si noti che in Ditti Ulisse giunge a Creta con delle navi acquistate dai Fenici, avendo perduto le proprie in uno scontro con Telamone che lo riteneva responsabile della morte di suo

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figlio Aiace. Marblestone vede in questo binomio Fenicia-Creta il riflesso delle reali rotte commerciali del tempo che inducevano i Fenici a fermarsi spesso a Creta. Inoltre ancora in Od. 19,164 ss. Durante il suo primo incontro con Penelope, Odisseo finge di essere Etone, fratello di Idomeneo. Marblestone, in più, a testimonianza della fortunata ricezione di questa sezione del testo dittiano, riporta un passo di tal Prisco Panize (V sec.) citato dalla Suda sotto la voce ‘Cariddi’, che narra le avventure dell’eroe proprio sulla scia di questi capitoli: si sofferma sulla perdita di tutti i compagni e delle navi nei pressi di Cariddi e sul naufragio che lo costrinse l’eroe a vagare in mare per giorni, aggrappato ad un’asse, per essere infine salvato da alcuni Fenici che lo conducono proprio a Creta da Idomeneo. 36 L’episodio dell’attacco da parte di Telamone per vendicare la morte del figlio, sembra essere una delle aggiunte arbitrarie di cui parla Lopez nel proprio giudizio, poiché non presenta confronti né con la tradizione precedente, né con le trattazioni bizantine. Si noti che anche il Prisco Panize menzionato dalla Suda (vedi nota precedente) attribuisce la perdita delle navi e dei compagni di Odisseo al passaggio per Cariddi e non all’attacco di Telamone 37 Che Ditti abbia narrato di aver appreso le avventure di Odisseo suis ipsissimis verbis sembra trovare un’ulteriore conferma da quanto afferma Giovanni Malala al termine della sua ampissima sezione odissiaca (5,16-20): ΧΘ΍Α΅ Ύ΅Ϡ ϳ ΗΓΚϲΖ ̇ϟΎΘΙΖ Δ΅ΕΤ ΘΓІ ͲΈΙΗΗνΝΖ ΦΎ΋ΎΓАΖ ΗΙΑΉ·ΕΣΜ΅ΘΓ, “anche queste cose le riferì il bravo Ditti avendole udite da Odisseo” 38 L’Ismaro è la prima tappa dell’eroe, di cui Ditti ha già parlato nel libro quinto (fine paragrafo 15, vedi nota ad locum). Di questa tappa non si trova menzione nei bizantini; Malala (5,16) parla viceversa di un temporaneo soggiorno di Odisseo nel Ponto, col fine di smorzare il risentimento dell’esercito nei propri confronti per la morte di Aiace. 39 Sembra che qui si possano individuare gli esiti di un brusco taglio operato da Settimio. La pericope adpulsus ad Lotophagos atque adversa usus fortuna, “giunto presso i Lotofagi e colpito da una sorte avversa”, risulta palesemente ellittica e dura contenutisticamente: “una sorte avversa” implica che in Ditti il racconto contemplasse altre tappe intermedie in cui la sorte aveva arriso all’eroe. In effetti, grazie al confronto con Malala (l’autore che dedica un più ampio spazio a questa sezione rispetto a Settimio e Cedreno), è forse possibile tentare di rintracciare in maniera più puntuale lo sviluppo dittiano.

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Narra Malala (5,16) che Odisseo, dopo una breve sosta nel Ponto, abbia preso il mare facendo rotta per Itaca, ma, giunto nella regione della Maroneade, abbia subito l’attacco degli abitanti del luogo. Tuttavia – continua Malala – avrebbe conseguito assieme ai compagni una schiacciante vittoria su quel popolo, impadronendosi inoltre di un cospicuo bottino. Ciò l’avrebbe spinto ad avviare una ‘campagna di conquista’ sull’intera regione, attaccando progressivamente tutte le regioni costiere, ma, giunto presso i Lotofagi, avrebbe riportato una sonora sconfitta. Grazie dunque alla più dettagliata narrazione bizantina, si è in grado di giustificare e dare maggior senso alla ellittica pericope settimiana. Questa dunque la versione dittiana, che non farebbe riferimento agli elementi della più tradizionale avventura di Odisseo presso i Lotofagi così come ci viene narrata nell’Odissea (8,82-104), con la celeberrima perdita della memoria da parte di molti dei compagni dell’eroe a seguito dell’ingerimento del loto: un tratto, forse, che può essere ancora una volta annoverato nelle scelte che l’autore compie in direzione di un più realistico razionalismo. 40 La tappa siciliana del nostos odissiaco è una delle sezioni di più difficile interpretazione poiché si discosta significativamente sia dall’Odissea omerica, sia dal corrisponde brano in Malala. In Settimio Ciclope e Lestrigone sembrano essere i nomi propri di due fratelli che abitano in Sicilia e che mettono alla prova duramente Odisseo e i suoi compagni; questi ultimi sarebbero poi decimati dai figli dei due fratelli, Antifate e Polifemo. Ben diverso, com’è noto, lo sviluppo omerico: in Omero (Od. 9, 105-542) sono narrate le celeberrime avventure di Odisseo presso Polifemo, appartenente alla selvaggia genìa dei Ciclopi, figlio di Poseidone e della ninfa Toosa. Ancora in Omero Lestrigoni è il nome di una barbara e mostruosa popolazione di giganti (Od. 10,80-132), il cui re è Antifate, presso la quale Odisseo approda subito dopo la tappa in Sicilia e che sembra dunque doversi collocare sulle coste italiche. Tuttavia, non sembra estraneo alla tradizione successiva il tentativo di associare Lestrigoni e Ciclopi e di localizzare entrambi in Sicilia (Eusth. Ad Od. 10,82; Strabo 1,2,9; Plin. 8,89; Tzetz. Ad Lic. 662). Non si dimentichi infine, che anche Tucidide (6,2,1-2) associa Ciclopi e Lestrigoni a popolazioni siciliane. Sorprendente la versione di Malala (5,17-18), il quale parla della suddivisione della Sicilia tra i tre fratelli Ciclope, Antifante e Polifemo, figli del re Sicano, uomini ostili, che uccidevano i visitatori. Giunto dapprima nella porzione dell’isola governata da Antifante, Odisseo si scontra con lui e con il

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suo esercito di Lestrigoni, dai quali riesce a stento, e con molte perdite, a fuggire. Di lì approda nella parte di isola di dominio di Ciclope, che uccide immediatamente molti dei suoi e imprigiona gli altri con l’intenzione di farne strage e depredarli. Grazie alla proverbiale astuzia, Odisseo riesce a farsi liberare e fugge immediatamente, scampando ai macigni che Ciclope ordina di scagliare in mare contro le sue navi. L’ultima tappa è nella porzione di Polifemo, che, come si vedrà, torna a mostrare molte analogie con la versio di Settimio. Si può dunque a buon diritto presumere che anche in questo caso il traduttore abbia operato un rabberciamento tanto brusco quanto deviante, rispetto alla probabile versione originariamente in Ditti. Certamente va rilevato che, anche per questa porzione del nostos odissiaco, minimo comun denominatore tra la versione bizantina esaminata sembra essere la tendenza a razionalizzare l’immagine omerica dei Ciclopi (Od. 1,68 ss.) come creature mostruose, a metà tra il divino e l’umano. Questa tendenza sembra trovare una conferma definitiva nella seppur brevissima menzione dell’episodio in Cedreno (132 D): il cronografo difatti esplicita che i Ciclopi non erano esseri dotati di un solo occhio, Ύ΅ΘΤ ΐΙΌΓΏΓ·ϟ΅Ζ ͟ΐφΕΓΙ, ma creature dalla natura umana, certamente imponenti, selvaggi, misantropi e sanguinari, tuttavia umani. 41 Quest’ ultima sezione relativa alla vicenda del rapimento di Arene, per assecondare l’amore del compagno Alfenore, non ha paralleli nella tradizione precedente, ma mostra significative coincidenze con Malala (5,18). Nel bizantino, tuttavia, la fanciulla, figlia di Polifemo, che qui evidentemente si cela nel poco chiaro filiam regis, è chiamata Elpe e il compagno di Odisseo Leione. Marblestone 1970, 266 ipotizza che Alfenore coincida con il celebre Elpenore odissiaco (Od. 10,190ss.; 11,59 ss.) 42 L’episodio odissiaco del soggiorno presso Eolo e del celeberrimo otre dei venti (Od. 10,1-79) viene qui menzionato en passant, come una breve tappa di transizione tra la Sicilia e le avventure con Circe e Calipso, e depauperato di ogni elemento soprannaturale. In realtà, anche dal punto di vista dell’ordo degli avvenimenti, si riscontra una netta distanza rispetto alla narrazione omerica, ove questo segmento si colloca appena prima dell’avventura presso i Lestrigoni. Anche in Cedreno e in Malala Eolo viene menzionato in questo punto e in maniera similmente superficiale. 43 Le appena accennate permanenze presso Circe e Calipso lasciano emergere con grande nettezza il carattere “evemerista” (Lopez

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2001,357) di Ditti. In Settimio esse risultano brutalmente compresse in una brevissima pericope che forse riesce unicamente a dare al lettore un’idea sommaria della successione degli errores odissiaci così come apparivano in Ditti: Circe e Calipso sono utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris animos hospitum ad amorem sui inlicientes. Si riesce a comprendere che le due divinità dovevano essere in qualche modo appaiate in Ditti, a dispetto, peraltro, della distanza che gli episodi di cui sono protagoniste presentano nell’Odissea. In Omero, difatti, Odisseo affronta numerose avventure tra la permanenza nell’isola Eea da Circe e quella nell’isola di Ogigia da Calipso: il viaggio nell’Ade, l’incontro con le Sirene, l’attraversamento del braccio di mare tra Scilla e Cariddi, l’uccisione dei buoi del Sole. Avventure che qui verranno solo in parte citate, ma successivamente. Anche in questo caso è utile ricorrere ai cronografi bizantini ed in particolare a Malala, per poter ricostruire con maggior dovizia di particolari l’originale tessuto narrativo dittiano. In Malala (5,19) Circe e Calipso sono sorelle figlie di Atlante, re di due isole che in punto di morte lasciò alle sue figlie, che ne divennero regine (in Settimio: utramque reginam insularum). Si specifica inoltre che Circe era sacerdotessa (e non figlia, come nella versione omerica) del Sole. Una simile versione è attestata nell’argumentum dell’Odissea (p. 5 Dindorf), in cui Circe e Calipso sono dette appunto sorelle, figlie di Atlante e si specifica che Circe era sacerdotessa di Elio. Si tratta certamente di una variante tarda, concepita forse in base alla similarità degli episodi che vedono protagoniste le due divinità: entrambe, creature dall’ambiguo statuto a metà tra umano e divino, dominano difatti incontrastate su un’isola nella quale trattengono Odisseo, innamorandosi di lui. Malala prosegue la narrazione soffermandosi sul sentimento di invidia nutrito da Calipso nei confronti di Circe, che starebbe alla base della pratica della maga: temendo di essere attaccata dalla sorella che era a capo di un gran numero di uomini armati sulla propria isola, legava a sé tutti i visitatori delle proprie coste attraverso un filtro magico che li induceva ad amarla. La maga intendeva trattenere anche Odisseo e i suoi compagni, ma costui riuscì a sottrarsi ai suoi artifici poiché fu preventivamente avvertito delle pozioni nascoste in cibi e bevande da alcuni Achei che ne erano stati precedentemente vittima e dimoravano sull’isola. Odisseo fu dunque convocato da Circe nel tempio, dove le offrì dei doni provenienti da Troia. La sacerdotessa, impegnatasi a non far del male all’eroe e ai suoi compagni, lo pregò di rimanere

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finché non fosse giunta la stagione più propizia per riprendere il mare, e costui accettò. Malala si sofferma anche sul concepimento di Telegono e sul dono della punta di pastinaca che giocherà in seguito (vedi infra) un ruolo importante nelle vicende della Telegonia così come sono condensate da Settimio. Viene di seguito dichiarato apertis verbis dal cronografo che la fonte di questa trattazione sarebbe proprio il nostro Ditti: siamo dunque a buon diritto incoraggiati a ritenere che questo fosse lo sviluppo narrativo originario compresso e celato nell’ellittica pericope settimiana. Come si noterà, anche in questo caso, l’avventura dai contorni straordinari e magici di cui è protagonista Odisseo in Omero, viene trasfigurata dall’autore dell’Ephemeris in una vicenda con connotati più marcatamente realistici: le divinità sono trasformate in re e regine (così Circe, Calipso e Atlante), viene del tutto taciuta la pratica di trasformare in animali. In altri termini, come di consueto, l’elemento del divino e del soprannaturale viene fortemente ridimensionato; che questo inducesse a prestar maggior fede al racconto dittiano rispetto a quello omerico, lo si comprende dal corollario che Malala fa all’episodio proprio di Circe: egli infatti dichiara che Omero avrebbe trasfigurato in forma poetica questi contenuti, che dunque andrebbero interpretati, in definitiva, allegoricamente. Ragion per cui viene di seguito riportata per l’appunto l’interpretazione allegorica di tal Fidalio di Corinto, a più riprese invocato dal cronografo come esegeta di Omero. Malala attribuisce a Fidalio una lettura allegorica dell’episodio omerico di Circe secondo la quale la trasformazione in bestie dei malcapitati visitatori rappresenterebbe metaforicamente la bestializzazione cui induce il sentimento amoroso. L’episodio di Calipso è invece molto più ridotto anche nel cronografo, che si limita a dire che la donna (come si è già detto non una ninfa) accolse e trattò con grande riguardo l’eroe. Anche per questa avventura, dunque, si oblia l’intervento divino, in questo caso, di Ermes che nell’Odissea, dietro ordine di Zeus, persuade la ninfa a lasciare andare l’eroe. 44 La celeberrima Nekyia, che occupa per intero l’undicesimo canto dell’Odissea omerica e che viene generalmente considerata un inserimento seriore rispetto al nucleo più antico del poema (si veda su questo Heubeck 1995, 259-262), viene qui compendiata in una pericope estremamente sintetica, che va ad accumularsi alle altre avventure in una struttura elencativa e in definitiva priva di una reale tessitura narrativa. La centralità della catabasi odissiaca, che si colloca significativamente a metà del poema omerico e che viene accura-

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tamente preparata nei libri precedenti e a più riprese richiamata in quelli successivi, non trova alcun riscontro nella versio latina. Appare lecito ipotizzare che a questo episodio fosse concesso uno spazio assai ridotto anche in Ditti, in base a quanto si deduce ancora una volta dal raffronto con i cronografi bizantini. Sia Cedreno (132D) che Malala (5,20) fanno un brevissimo accenno a questa tappa odissiaca. Ciò che stupisce, tuttavia, è la diversa interpretazione che i bizantini danno all’incontro di Odisseo con le anime dei defunti. Entrambi collocano la scena in prossimità di una ΏϟΐΑ΋ “palude” o, più probabilmente “lago”; si tratta di un dettaglio significativo che ci consente di supporre che Ditti segua la scia dei Latini collocando il luogo presso le acque di un lago, come quelle dell’Averno, dalle quali Enea, nella corrispondente catabasi virgiliana (Aen.6, 201-211) penetrerà nel mondo dei morti. Viceversa Omero colloca l’Ade nella caliginosa patria dei Cimmerii (Od. 11, 14-19), che vivono perennemente immersi in una notte funesta. Entrambi i cronografi, inoltre, accennano al nome della palude, con una leggera variante: in Malala Nekyopompos (ma Cramer congettura Nekuopontos), in Cedreno Nekyopon. Marblestone 1970,267 nota l’impiego in Settimio dell’espressione is locus che “elimina qualsiasi aspetto numinoso e terrificante”, ma mostrerebbe consonanze con alcune denominazioni post-bibliche di Dio. A questo punto, però, l’interpretazione dei bizantini diverge sensibilmente: mentre Cedreno sembra concordare maggiormente con Settimio, poiché parla di Κ΅ΑΘΣΗΐ΅Θ΅ (= in Settimio quibusdam sacris…defunctorum animis) tramite i quali l’eroe conobbe ciò che gli sarebbe accaduto, Malala mostra una maggiore razionalizzazione dell’episodio, e lo dipinge come una consultazione di indovini (μΣΑΘΉ΍Ζ) che avrebbero abitato in quei luoghi e che gli avrebbero rivelato il suo futuro. Nota Lopez 2001,357 che la classica catabasi epica sarebbe stata in questo caso trasposta in una scena di consultazione di spiriti di defunti, che, essendo una operazione di magia nera, non era razionalmente ammissibile nella mentalità degli Antichi. 45 Immediatamente successivo al richiamo alla Nekyia è quello al notissimo episodio delle Sirene (Od. 12,165-200). L’ordo omerico nella successione degli avvenimenti viene in questo caso rispettato da Settimio, e dai bizantini (con la lieve omissione della nuova sosta ad Eea presso Circe di Od. 12,1-150, nella quale la maga fornirà all’eroe le preziosissime informazioni e gli artifici per superare nel migliore dei modi le avventure che lo attenderanno): siamo dunque abbastan-

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za certi che gli avvenimenti avessero questa struttura narrativa anche in Ditti. Notevolmente affini anche dal punto di vista linguistico e lessicale risultano i bizantini, nonostante Cedreno appaia in definitiva decisamente più stringato e Malala più articolato e razionale. Mentre il primo si limita ad accennare al passaggio di Odisseo ΉϢΖ ΘΤΖ ̕Ή΍ΕϛΑ΅ΖȱǯǯǯȱΔνΘΕ΅Ζ, il secondo, utilizzando un’espressione analoga (ma razionalizzando ΘΤΖ ̕Ή΍ΕϛΑ΅Ζ in ΘΤΖ ̕ΉΕΉΑϟΈ΅Ζ ΓЂΘΝ Ύ΅ΏΓΙΐνΑ΅Ζ ΔνΘΕ΅Ζ), aggiunge una notazione che si inquadra ancora nella consueta prospettiva maggiormente razionale ed evemerista: ΅Ϥ πΎ ΘЗΑ ΎΕΓΙΗΐΣΘΝΑ ΘЗΑ ΎΙΐΣΘΝΑ ώΛΓΑ ΦΔΓΙΉΏΓІΗ΍Α ϥΈ΍ΓΑ, che emettono un particolare strepito per gli urti delle onde. Per questo episodio si possono rilevare delle dissonanze tra Settimio e le citate versioni bizantine: la iunctura latina scopuli Sirenarum con il genitivo presuppone un’allusione più cogente alle creature omeriche e si allontana dalla razionalistica versione di Malala – adombrata forse anche in Cedreno – che sembra individuare in ̕ΉΕΉΑϟΈ΅Ζ quasi un toponimo. La versio accenna inoltre agli artifici messi in campo da Ulisse per liberarsi (per industriam), ma il tutto in una patina di reticenza e di estrema sintesi, che rende difficoltoso, se non impossibile, comprendere quali fossero i reali connotati della narrazione dittiana. 46 Nella menzione del passaggio tra Scilla e Cariddi la versio latina presenta un più netto riscontro dal punto di vista linguistico con il Compendium del Cedreno, nel quale i due mostri vengono appaiati in un’unica entità, così descritta: ΘχΑ Ύ΅ΏΓΙΐνΑ΋Α ̙ΣΕΙΆΈ΍Α Ύ΅Ϡ ̕ΎϾΏΏ΅Αǰ ϊΘ΍Ζ πΑ ΗΘΉΑХ ΘϱΔУ Έ΍΅ΎΉ΍ΐνΑ΋ ЀΔΓΈνΛΉΘ΅΍ ΘΤ ΘΓІ ͲΎΉ΅ΑΓІ ϹΉϾΐ΅Θ΅ Ύ΅Ϡ ΘΓϿΖ Δ΅Ε΅ΔΏνΓΑΘ΅Ζ ΆΙΌϟΊΉ΍, “la cosiddetta Scilla e

Cariddi che, collocata in uno stretto, assorbe i flutti dell’Oceano e fa affondare i naviganti” = inlata sorbere solitum (sc. mare saevissimum) in Settimio. In Malala, viceversa, compare la sola Cariddi, priva di descrizione. Peraltro, com’è noto, l’episodio presenta un’articolazione diversa in Omero, in cui al passaggio tra Scilla e Cariddi (Od. 12,201259) segue l’episodio dell’uccisione dei buoi sacri al Sole (12,260-417, che non viene citato né da Settimio né dai bizantini), al termine del quale la tempesta punitiva di Zeus disperderà tutti i compagni di Odisseo, e a cui farà seguito un ulteriore passaggio dell’eroe, rimasto solo, presso Cariddi (Od. 12,420-446). In Settimio Odisseo perde plurimae naves cum sociis a causa di Scilla e Cariddi, mentre in Omero (Od. 12,245 ss.) Scilla risucchia solo sei compagni e la perdita delle navi e dei socii viene causata, come si è detto, dalla tempesta inviata da

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Zeus per punire l’uccisione delle mandrie del Sole. Cedreno e Malala enfatizzano le perdite causate da Scilla e Cariddi: non plurimae ma ΔΣΑΘ΅ ΔΏΓϧ΅ perde Odisseo in Cedreno e ΔΣΗ΅Ζ ΘΤΖ ЀΔΓΏΉ΍ΚΌΉϟΗ΅Ζ ΅ЁΘХ Α΅ІΖ in Malala. Marblestone 1970,267 sottolinea una lieve discrepanza con l’inizio del capitolo: Odisseo, si precisava, era giunto a Creta con due imbarcazioni acquistate dai Fenici, per aver perso tutte le proprie navi, con i compagni, a causa dell’attacco di Telamone. Ora la narrazione, in una anularità perfetta, sembra ricongiungersi proprio con l’incipit del capitolo, ove non comparivano residui, “sopravvissuti”, che invece saranno citati proprio immediatamente di seguito (e che neanche i bizantini contemplano). Marblestone ipotizza un rabberciamento mal riuscito, ma non esclude che Settimio stia seguendo due tradizioni diverse. In realtà, forse in maniera pedissequamente razionale, potremmo pensare che all’inizio di questo capitolo il narratore abbia omesso la presenza di altri compagni, che tuttavia potrebbero forse fare capolino dalle due navi con cui Ulisse giunge da Idomeneo, che presuppongono la presenza di un seppur ristretto manipolo. 47 Si tratta di un passaggio assolutamente innovativo e che non presenta alcun riscontro con la tradizione precedente, ma che risulta corroborato come tratto originariamente dittiano dalla consonanza con entrambi i cronografi. 48 Il capitolo sesto si concentrerà sul soggiorno di Ulisse presso i Feaci e sul suo successivo ritorno in patria, seguito dalla celeberrima vendetta contro i Proci e dal riacquisto del trono di Itaca, coronato dalle felici nozze di Nausicaa e Telemaco. La fine del quinto capitolo concede ancora spazio ad un magnanimo ritratto di Idomeneo, che elargisce doni ad Ulisse e lo lascia libero di recarsi presso i Feaci. La tappa a Creta occupa dunque in questa inedita versione dittiano-settimiana il posto che nella struttura omerica apparteneva al soggiorno ad Ogigia presso Calipso, episodio che viene qui anticipato e appaiato con quello ad Eea. Malala termina in questo punto il racconto del nostos odissiaco, precisando inoltre che Idomeneo avrebbe fatto molti doni a Odisseo in quanto suo compagno d’armi (БΖ ΗΙΗΘΕ΅Θφ·У ΅ЁΘΓІ) e quantificando la donazione in due navi (come in Settimio) ed una vera e propria scorta (Έ΍΅ΗЏΊΓΑΘ΅Ζ ΅ЁΘϱΑ Θ΍Α΅Ζ), che avrebbe avuto il compito non di condurlo da Alcinoo, bensì in patria. Il cronografo dichiara poi esplicitamente la sua fonte: proprio il nostro Ditti che scrisse tutto ciò avendolo udito per bocca dello stesso Odisseo (ΧΘ΍Α΅ Ύ΅Ϡ ϳ ΗΓΚϲΖ ̇ϟΎΘΙΖ Δ΅ΕΤ ΘΓІ ͞ΈΙΗΗνΝΖ ΦΎ΋ΎΓАΖ ΗΙΑΉ·ΕΣΜ΅ΘΓ).

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Dopo la partenza di Ulisse da Creta, viene meno la fonte primaria della narrazione così come ci era stata implicitamente rivelata da Settimio (percontantique Idomeneo) e più esplicitamente da Malala (vedi nota precedente: ϳ ΗΓΚϲΖ ̇ϟΎΘΙΖ Δ΅ΕΤ ΘΓІ ͞ΈΙΗΗνΝΖ ΦΎ΋ΎΓАΖ ΗΙΑΉ·ΕΣΜ΅ΘΓ). Tuttavia sia in Settimio che in Cedreno (133 P) il racconto continua con il celeberrimo rientro dell’eroe. Griffin 1907, 113 immagina che nell’originale greco venisse dichiarata una fonte anche per questa porzione del mito. Lopez 2001, 358 ipotizza che Neottolemo, dal quale Ditti dichiarerà al capitolo decimo di aver appreso la vicenda del salvataggio di Peleo, possa essere stata la fonte anche per queste vicende odissiache. 50 L’Odisseo omerico verrà a conoscenza della piaga dei Proci nell’Ade, grazie alle ambigue profezie di Tiresia (Od. 11,115-120), dal quale tuttavia riceverà rassicurazioni sulla sua vendetta. Da Eumeo, infine (Od. 15,351 ss.) riceverà una racconto dettagliato sulle disavventure di Penelope. 51 Nell’Odissea, viceversa, i pretendenti erano 108 con dieci attendenti al seguito. 52 Si tratta di un dettaglio ovviamente non omerico, che trova riscontro in Cedreno (come si ricorderà Malala non riporta questa sezione). Anche nel Compendium del bizantino, difatti, Alcinoo parte assieme ad Odisseo, dopo aver raccolto un gran numero di uomini: ϴ ̝ΏΎϟΑΓΓΖ ΘΓϟΑΙΑ ΐΉΘΤ ΘΓІ ͞ΈΙΗΗνΝΖ ΔΏΉϟΓΑ΅Ζ ΗΘΕ΅Θ΍ЏΘ΅Ζ ΦΑ΅ΏΣΆϱΐΉΑΓΖ Ύ΅Θ΅Ώ΅ΐΆΣΑΉ΍ ΘχΑ ͑ΌΣΎ΋Α. Si tratta di un tratto che si

può dunque a buon diritto attribuire a Ditti, il quale, come si è notato per l’episodio di Oreste (vedi supra), è naturalmente sensibile al motivo della vendetta ottenuta attraverso una campagna militare condotta in modo pragmaticamente realistico, mediante alleanze e reclutamento di uomini. 53 Lopez 2001, 358-59 nota l’omissione di molti dettagli omerici, come l’aiuto prestato dal porcaio Eumeo e la prova dell’arco, nonostante la sequenza non presenti sostanziali discordanze con l’Odissea. Lo studioso giudica inoltre in linea con il razionalismo dittiano l’assenza dell’intervento di Atena, in qualità di paredros dell’eroe. Tuttavia, al contrario, in questo caso parrebbe che Ditti si sia distanziato sensibilmente dalle modalità di vendetta dell’Odisseo omerico, il quale, essendo solo e coadiuvato esclusivamente da Telemaco e da Eumeo, si serve dell’inganno per sconfiggere i Proci. Si ricorderanno le parole di Nestore in Od. 3,217: ϋ ϵ ·Ή ΐΓІΑΓΖ πЏΑǰ ϋ Ύ΅Ϡ ΗϾΐΔ΅ΑΘΉΖ ̝Λ΅΍Γϟ; “forse

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giungendo da solo o anche insieme a tutti gli Achei?”, che sembrano fare il paio con quelle di Tiresia in Od. 11,120: ωξ ΈϱΏУ ϋ ΦΐΚ΅ΈϲΑ ϴΒνϞ Λ΅ΏΎХ “forse con l’inganno o apertamente col bronzo”. In Omero è chiaro che la prima delle due ipotesi in entrambi i casi appaia quella che troverà un effettiva realizzazione, viceversa in Ditti-Settimio Ulisse giunge ad Itaca con un esercito armato e, benché si precisi che in un primo momento la sua presenza sull’isola venga tenuta segreta (paulisper occultato Ulixe), come di fatto avviene in Omero, appare chiaro che la vendetta non possa essere condotta se non con un’azione armata, magari con un certo effetto ‘sorpresa’ sugli avversari. 54 La fama della pudicitia di Penelope si allinea con Omero. Sottolinea giustamente Marblestone 1970, 268 come nella poesia ellenistica avesse fatto la sua comparsa una versione alternativa e bruscamente avversa a quella omerica, che dipingeva Penelope come scandalosa e decisamente non casta: in Licofrone (Cass. 771-72) è appellata come “volpe” che dissipa i beni di Odisseo. 55 Si tratta della prima comparsa di Nausicaa, che tanta parte ha nella vicenda di Odisseo a Scheria come viene narrata da Omero. Il dettaglio del matrimonio tra Telemaco e Nausicaa è sconosciuto al “divino” poeta. Viceversa nell’Odissea (7,311) Alcinoo propone a Odisseo di sposare sua figlia e di rimanere sull’isola. Questa tradizione, che compare solo in Settimio, ma non viene richiamata da Cedreno, sembra possa essere rintracciata da Eustazio (ad Od. 12,118) in Ellanico (FrGrHist 4,F 156), secondo il quale Nausicaa e Telemaco avrebbero generato Perseptoli. Esiodo, tuttavia, (in base a quanto rivela lo scolio eustaziano), avrebbe sostenuto che Perseptoli fosse il figlio di Telemaco e Policaste, figlia di Nestore. Un’ultima versione citata dallo scolio viene infine attribuita ad “un abitante di Colofone che scrisse nostoi”: in essa Telemaco avrebbe sposato Circe. Eustazio però, liquida tutte le versioni riportate giudicandole “vuote sciocchezza” (ΎνΑ΋ ΐΓΛΌΉΕϟ΅). 56 L’ascesa al trono di Merione appare un’innovazione dittiana, non raffrontabile con altre testimonianze. Una successione che risulta assai stravagante in quanto Merione si dice nel Prologo essere figlio di Molo. Costui, secondo Apollodoro (3,1,7) era figlio illegittimo di Deucalione, padre di Idomeneo e dunque fratellastro dello stesso Idomeneo. Pertanto Merione sarebbe un nipote ‘a metà’ del sovrano cretese e dunque non legittimato ad assumerne il potere. 57 Anche la morte di Laerte appare un unicum dittiano. Marblestone 1970, 269 fa notare la vaghezza dell’espressione impiegata da

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Settimio: Laerta…finem vitae fecit, che potrebbe indicare tanto il suicidio (cfr. Liv. 3,48,9 e Sen. ep. 58,32), quanto un sinonimo di morior, particolarmente in Sallustio, che viene peraltro considerato uno dei maggiori referenti stilistico-linguistici di Settimio. 58 I capitoli 7-9 sono occupati da alcune vicende relative al nostos di Neottolemo, che non vengono riportate dai bizantini. Si tratta di una sezione che mostra radicali divergenze rispetto ai Nostoi di Agia e per la quale viene tradizionalmente invocata un’ascendenza dal Peleo, dramma sofocleo tràdito in veste estremamente frammentaria, che narrava le vicende dell’omonimo protagonista in tarda età (si vedano: TrGrFr IV, F 486; Marblestone 1970, 269). Secondo la tradizione che fa capo ai Nostoi di Agia, il viaggio di ritorno di Neottolemo avvenne via terra. L’epitome procliana (Chrest. 277 Seve.) non lascia dubbi in proposito, e sottolinea la vicinanza della nonna Teti: ̐ΉΓΔΘϱΏΉΐΓΖ Έξ ̋νΘ΍ΈΓΖ ЀΔΓΌΉΐνΑ΋Ζ ΔΉΊϜ ΔΓ΍ΉϧΘ΅΍ ΘχΑ ΔΓΕΉϟ΅Α. Si allinea a questa versione il racconto di Apollodoro (ep. 6,12-13: ΔΉΊϜ ΦΔϚΉ΍), che aggiunge il particolare della presenza di Eleno. Un particolare che ci viene più dettagliatamente illustrato da Servio (ad Aen. 2,166): l’indovino troiano, catturato dai Greci, aveva consigliato a Neottolemo di viaggiare per terra poiché aveva previsto il naufragio degli altri Achei (ovviamente per opera di Nauplio): quamquam praestiterit Pyrrho, ut per terram rediret, dicens omnes Graecos, quod et contigit, naufragio esse perituros. Questa versione, tuttavia, cozza con quella attestata dall’Odissea (11,533 ss.): nel corso della Nekyia Odisseo narra all’eidolon di Achille la fine di Troia, mettendo in luce il valore del figlio, e ricorda come, una volta distrutta la rocca, Neottolemo, illeso, πΔϠ Α΋ϲΖ σΆ΅΍ΑΉΑ. In questo caso, dunque, la versio Settimiana sembra concordare proprio con Omero, dal momento che si parla di una sosta di Neottolemo presso i Molossi, con lo scopo di riattare le navi danneggiate dalle diverse tempeste. Marblestone 1970, 270 fa notare come il paese dei Molossi, tradizionalmente collocato nella parte più centrale dell’Epiro, venga qui considerato una regione costiera. In Apollodoro (ep. 6,12-13) Neottolemo si dirige appunto presso il paese dei Molossi, dove si stabilirà, avendoli vinti in battaglia, e generando un figlio, Molosso, dalla concubina Andromaca; secondo Tzetzes (schol. ad Lyc. 902) Neottolemo giunge tra i Molossi in sette giorni; proprio in Epiro si sarebbe stanziato Neottolemo a giudizio di Pausania (1,11,1).

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L’inimicizia tra Peleo e Acasto, re di Iolco, risale all’amore che Astidamia, moglie di Acasto, ebbe per Peleo in gioventù: essendo da questi rifiutata, lo accusò di violenza (Apd. 3,13,3 ss.). Riferimenti alla difficile situazione che Peleo affronta in tarda età, in assenza di suo figlio e suo nipote, compaiono già nell’Iliade (24,486 ss.), ove Priamo, nella sua supplica ad Achille per ottenere il corpo di Ettore, si paragona al suo vecchio padre, che immagina essere accerchiato dai “vicini” che lo tormentano: Ύ΅Ϡ ΐνΑ ΔΓΙ ΎΉϧΑΓΑ ΔΉΕ΍Α΅΍νΘ΅΍ ΦΐΚϠΖ πϱΑΘΉΖȦΘΉϟΕΓΙΗж. Ancora nell’Odissea (11,494 ss.) lo spirito di Achille esprime simili timori per la sicurezza di suo padre, chiedendosi se sia ancora il sovrano dei Mirmidoni oppure se il suo potere venga minacciato a causa dell’età che lo indebolisce: ό σΘжσΛΉ΍ Θ΍ΐχΑ ΔΓΏνΗ΍Α ΐΉΘΤ ̏ΙΕΐ΍ΈϱΑΉΗΗ΍ΑǰȦό ΐ΍Α ΦΘ΍ΐΣΊΓΙΗ΍Α ΦΑж̴ΏΏΣΈ΅ ΘΉ ̘Όϟ΋Α ΘΉǰȦΓЂΑΉΎΣ ΐ΍Α Ύ΅ΘΤ ·ϛΕ΅Ζ σΛΉ΍ ΛΉϧΕΣΖ ΘΉ ΔϱΈ΅Ζ ΘΉ. Nelle Troiane euripidee (vv.

1126-1130) la storia delle macchinazioni di Acasto contro Peleo viene resa nota a Neottolemo mentre questi si trova ancora a Troia. Tuttavia gli scolii (ad locum) individuano più puntualmente i responsabili delle offese a Peleo nei figli di Acasto, Arcandro e Architele, mentre Apollodoro (ep. 6,13) parla della morte di Peleo durante l’esilio imposto da costoro. 60 La descrizione del matrimonio di Peleo e Teti rappresenta un’inserzione assolutamente peculiare, una digressio decisamente accessoria e non necessaria al plot delle vicende di Neottolemo e che appare, in definitiva, un singolare ‘mito eziologico’ a tinte fortemente evemeriste e razionaliste. Si tratta certamente di un brano che si presta dunque ad evidenziare la tendenza al razionalismo che innerva l’opera dittiana, anche in ragione dei caratteri precipui di questo segmento mitico, in cui si addensa la tematica della mistione del divino e dell’umano: l’unione tra una nereide, Teti (sebbene qui sia detta figlia del noto centauro Chirone), ed un mortale, Peleo. Nel mito queste nozze rappresentano una punizione di Zeus alla nereide: secondo Igino (fab. 54) poiché Prometeo aveva rivelato a Zeus che era stato predetto a Teti che avrebbe generato un figlio più forte del padre, il Cronìde, pur preso dall’amore per lei, preferì darla in sposa ad un uomo; in Ovidio (met. 11,221-28) il latore dell’oracolo era Proteo; in base ad una versione diversa (Pind. Isthm. 8,27-48; schol. ad Lyc. 178; Apd. 3,13,5) Temi rivelò la previsione a Zeus e Poseidone, che aspiravano alle nozze con la nereide; secondo Apollonio Rodio (4,790-98) Zeus tentò di sedurre Teti che, in nome del rispetto nei confronti di Era che l’aveva allevata, rifiutò e per

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questo fu unita dal padre degli dèi ad un mortale. Si narra che Teti non avesse accettato di buon grado questo declassamento e avesse tentato di fuggire Peleo trasformandosi in acqua, fuoco, vento, uccello, albero, leone, serpente. Infine si trasformò in seppia (vedi infra) e grazie ai saggi consigli del centauro Chirone, Peleo riuscì ad afferrarla (Pind. Nem. 4,61-65; Pher. FrGrHist, 3 F1 a-c; Eur. Andr. 1276-78; Apollod. 3,13,5). Il lamento di Teti per la punizione del Cronìde diviene lo strumento di persuasione che la divinità impiega per convincere Efesto a fabbricare le celeberrime armi per Achille in Il. 18,432 ss. Il fastoso banchetto delle nozze al quale parteciparono uomini e dèi in totale armonia, costituisce la cornice del celeberrimo epitalamio catulliano (car. 64), in cui la tematica della mistione tra uomini e divinità suggella il poemetto: in quel tempo gli dèi facevano spesso visita ai mortali e non ne disdegnavano la compagnia, ma poi che “la terra s’imbevve di colpa e di male”, gli dèi “non accettano più che il giorno li tocchi” (vv. 382-408). Alla luce di questa forte tradizione, risulta ancor più extra vagans la descrizione dittiano-settimiana delle nozze, nella quale qualsiasi riferimento alle divinità viene obliato e quasi allegoricamente interpretato: l’appellativo convivium deorum trova la sua spiegazione negli epiteti con cui gli invitati venivano elogiati allorché prendevano la parola distinguendosi nel canto (che il canto fosse tradizionalmente protagonista del banchetto si evince inoltre dallo spazio che Catullo riserva al celebre epitalamio delle Parche, vv. 338-381). La stessa natura divina di Teti viene celata, e “Nereide” non è più il suo statuto, bensì l’appellativo che essa ottiene in virtù della propria bellezza; “Nereo” altresì, non è più suo padre, ma l’appellativo di Chirone, che in questa inedita e sovversiva trattazione diviene il suo genitore, giustificato a partire da quello della fanciulla. 61 Sepias era il nome di un promontorio situato sulla costa meridionale della penisola di Magnesia. Qui si trovava l’antro ove Peleo era riuscito ad afferrare Teti al termine della lunga e polimorfica serie di trasformazioni mediante le quali la dèa aveva tentato di sottrarsi all’unione con il mortale. Si tratta di un luogo che desunse il proprio nome dal termine greco per “seppia”, Η΋Δϟ΅, e che divenne sacro alle Nereidi (Hdt. 7,91; schol. Lyc. 175; scho. Apoll. Rhod. 4,790). Sarà inoltre il luogo in cui Teti, sul finale dell’Andromaca euripidea (vv. 1265-66), inviterà Peleo a nascondersi per operarne la definitiva divinizzazione: πΏΌАΑ Δ΅Ώ΅΍κΖ ΛΓ΍ΕΣΈΓΖ ΎΓϧΏΓΑ ΐΙΛϲΑ / ̕΋Δ΍΅ΈϱΖǯǯǯ L’utilizzo da parte di Settimio del plurale Sepiadum litus è parso tuttavia

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singolare a Frazer, che ha supposto l’esistenza di un toponimo “Isole Sepiadi”, privo tuttavia di riscontri, riferibile alle isole antistanti al promontorio. 62 Alla luce del mito così come è stato illustrato, non risulta perspicua l’espressione settimiana. Il toponimo viene qui difatti riferito alla difficultas saxorum, non alla mitica trasformazione di Teti in seppia (vedi nota precedente). Si può dunque concordare con Marblestone 1970,273 che legge in questo appunto un debole tentativo, da parte dell’autore, di demolire l’eziologia mitologica: Sepias deriverebbe per Settimio dal verbo greco ΗφΔΝ, “corrompere, corrodere” e rimanderebbe all’aspra morfologia degli scogli. 63 Sulla difficoltà dell’espressione eisque cupitum sui interitum si veda Marblestone 1970,273, che ne riporta diverse interpretazioni. 64 Il nome Cinira viene qui interpretato alla luce dell’etimologia più evidente: da ΎϾΝΑ, “cane”, emblema antonomastico di fedeltà. 65 In realtà il priamide Mestore è morto in 2,43, nel corso dell’irrefrenabile aristìa di Aiace. 66 L’apparizione di Teti è del tutto simile a quella di una vera e propria dea ex machina, nonostante non assuma in questo brano nessun carattere palesemente divino. Non sorprende notare una similarità con l’analogo intervento ex machina di Teti nell’Andromaca euripidea (sui cui connotati si veda ora Mirto 2012). 67 In realtà, secondo la tradizione attestata nell’Andromaca euripidea (vv. 22 ss.), Neottolemo si rifiuta di prendere il potere finché Peleo rimanga in vita. Anche in questo caso viene dunque invocata dagli studiosi una versione ascrivibile al perduto Peleo sofocleo (vedi Marblestone 1970,274). 68 Ancora una volta Ditti denuncia apertamente la propria fonte – quanto mai attendibile – e l’occasione – verisimile – nella quale è venuto a conoscenza degli avvenimenti che riporta. In questo caso si tratta del racconto in prima persona del protagonista (Neottolemo), ascoltato in occasione del suo matrimonio con Ermione (in merito al cui effetto di sorpresa sul lettore si veda la nota 36). 69 Il capitolo decimo è occupato da un excursus inedito sulle sorti delle spoglie dell’etiope Memnone. La sorte dei resti dell’eroe è al centro del secondo libro dei Posthomerica di Quinto di Smirne, in cui si narra che subito dopo la sua morte, Memnone fu pianto in modo straziante da sua madre Eos, mentre il corpo fu sollevato dai Venti e gli Etiopi furono trasformati in uccelli (Q.S 2,547-666). La morte

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dell’eroe era certamente uno dei nuclei narrativi della perduta Etiopide attribuita ad Arctino di Mileto, ma la scarna sintesi di Proclo (Chrest. 172 Seve.) non ci fornisce dettagli per alcun tipo di comparazione: ΘΓϾΘУ ̼АΖ Δ΅ΕΤ ̇΍ϲΖ ΅ϢΘ΋Η΅ΐνΑ΋ ΦΌ΅Α΅Ηϟ΅Α ΈϟΈΝΗ΍, “perciò Eos avendo implorato da Zeus l’immortalità gliela concede”. La vicenda di Memnone è stata narrata da Ditti nel libro IV, e alla morte del re (4,8), le sue ceneri sono state inviate “in patria attraverso i familiari” (per necessarios in patrium solum). Ora se ne apprende il destino. 70 Pallante (Pallas) è forse da identificare con il Falante (Phalas) menzionato nel libro IV (4,4; si veda la nota ad locum), capo del distaccamento di Etiopi che raggiungono Troia via mare, che fu lapidato dai Fenici per alcune accuse mosse dai Rodiesi, relative ad una presunta interferenza negli interessi commerciali dei Fenici stessi. Lopez 2001,363 ipotizza che la diversità dei nomi possa essere ricondotta ad una erronea lettura dei copisti. Marblestone 1970,274 discute sulla possibilità che in questo locus si faccia riferimento alla città cipria di Pafo o all’isola di Pafo. Nel primo caso lo studioso suppone inoltre che Ditti possa riflettere una tradizione sulla colonizzazione fenicia di Cipro. 71 Il nome della sorella di Memnone, Himera può derivare dal greco ϥΐΉΕΓΖ, “desiderio”, o, più probabilmente, costituire una variante dialettale per ψΐνΕ΅ “giorno” (vedi. LSJ s.v.). Memnone, in 4,4 viene detto Tithoni atque Aurorae filius, in linea con la genealogia tradizionale. La storpiatura del nome Imera in Emera che qui viene puntualizzata, avrebbe dunque una sostanza concettuale: Imera viene spesso detta Emera, “giorno”, in base al nome di sua madre, Aurora. In realtà, nella genealogia tradizionale Emera era figlia della Notte e di Erebo (Hes. theog. 124 ss.). Successivamente Emera fu identificata con Aurora (Paus. 1,3,1; 3,18,12). 72 Marblestone 1970,275 evidenzia la similarità tra il racconto di Imera in cerca dei resti di suo fratello e il mito di Iside ed Osiride e, in Grecia, quello di Io in cerca di suo figlio Epafo. 73 La sepoltura di Memnone nella regione tra la Siria e la Palestina è attestata anche dallo storico Flavio Giuseppe (Bell. Iud. 2,189), che colloca la sua tomba sulle rive del fiume Beleo a due stadii dalla città di Tolemaide. Strabone (15,3,2) cita un ditirambo di Simonide intitolato Memnone in cui il protagonista trova sepoltura nella regione di Palto, un toponimo che a giudizio di Marblestone 1970,276 denuncia

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la medesima radice semitica di Phalliotis. Dal momento tuttavia, che il toponimo non trova altri riscontri, lo studioso ipotizza alternativamente che Phalliotis possa, in una lettura alternativa Phalliochin, essere la corruzione di Ptolemais o di Beleus. 74 Ditti fornisce in questo caso una triplice versione sulla scomparsa di Imera/Emera. La prima ha un fondamento mitologico-naturalistico: Emera, “il giorno”, scompare dopo il tramonto assieme a sua madre, “l’aurora”, per far posto alla notte; la seconda più patetica: il suicidio perché sopraffatta dal dolore per la perdita di suo fratello; la terza più brutale e materiale: l’uccisione da parte degli abitanti del luogo che la assalgono per derubarla. 75 Il capitolo undicesimo è dedicato ad un avvenimento che coinvolge Ditti in prima persona e che si colloca ad un anno dal suo ritorno in patria (anno post): a seguito di una invasione di locuste che ha devastato l’isola e ne ha distrutto il raccolto, egli ha ricevuto l’incarico da parte del popolo (nomine publico) di recarsi presso l’oracolo di Apollo per cercare di porre rimedio alla piaga. Dell’esistenza di una tradizione attestata in Servio (ad Aen. 3,121) che narrava di una pestilenza scatenatasi a seguito del ritorno in patria di Idomeneo si è già detto (vedi nota 18). In questo caso, tuttavia, non viene esplicitamente richiamato il motivo del sacrilego sacrificio cui si era accennato, ma l’invasione di locuste non sembra avere una causa certa (nulla certa causa). Di un’analoga pestilenza scoppiata al ritorno di Idomeneo da Troia, parla anche Erodoto (7,171): la Pizia, consultata dai Cretesi che si interrogavano sull’opportunità o meno di prestare soccorso all’Ellade contro la Persia, ricorda la pestilenza che si abbatté sull’isola in seguito alla partecipazione di Idomeneo alla guerra di Troia al fianco di Menelao e dunque scoraggia i Cretesi a prestare analogo soccorso ai Greci contro Serse. Si noti, tuttavia, che in questo caso si parla precisamente di invasione di locuste, un motivo topico, assai diffuso non solo nelle fonti classiche (Strabo 16,2,12; 17,3,10; Diod. 3,29,1-7), ma anche, e soprattutto nella Bibbia (Ex. 10), ove Dio spinge le cavallette nel Mar Rosso servendosi dei venti marini. Marblestone 1970,277 riflette inoltre sulla possibilità che qui Ditti intenda funzionalizzare la vicenda ad illuminare il proprio ruolo di alto dignitario cretese. 76 I capitoli 12 e 13 sono occupati dalla contesa tra Neottolemo ed Oreste che costituisce il materiale dell’Andromaca euripidea. Qui (vv.49-55; 1086-1165) Neottolemo compie due viaggi a Delfi: il primo per chieder conto ad Apollo della morte di suo padre (che in Ditti

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viene ucciso a tradimento da Paride nel tempio di Apollo – 4,10 ss. – ma in altre tradizioni viene colpito da un dardo lanciato da Paride sotto la guida di Apollo o dal dio stesso – vd. commento ad locum – ); il secondo per chiedere perdono dell’atteggiamento assunto nel corso della prima visita. Apollodoro (ep. 6,14) parla dell’uccisione dell’eroe a Delfi per opera di Oreste; riferisce tuttavia anche una seconda versione secondo la quale Pirro si era recato a Delfi per implorare il dio di vendicare la morte di suo padre, ma, tenuto un comportamento sacrilego, era stato ucciso da Machereo il Focese. Ferecide (FrGrHist 3 F64a) narra che Neottolemo era giunto a Delfi per chiedere alla divinità dei figli da Ermione, ma, avendo scoperto gli abitanti del luogo sottrarre le carni dai propri sacrifici, era stato ucciso (o si era ucciso). Pausania (1,13,9; 4,17,4) parla dell’uccisione di Neottolemo su ordine della Pizia e della sua sepoltura a Delfi, dove gli era stato attribuito un culto eroico. La morte a Delfi di Neottolemo è ricordata nella settima Nemea pindarica, uno scolio alla quale (Nem. 7,62 c) riporta ben tre motivazioni con cui l’eroe sarebbe stato ucciso e sepolto proprio sotto la soglia del santuario (così in Asclepiade di Tragilo FrGrHist 12 F15): perché era destino (Θϲ ΔΉΔΕΝΐνΑΓΑ); perché era opportuno che un Eacide fosse associato ad Apollo; perché avrebbe sorvegliato i sacrifici compiuti in onore degli eroi. 77 Le tradizioni omerica e tragica attribuiscono ad Ettore ed Andromaca un unico figlio. Della presenza di vari figli, invece, Ditti fa a più riprese menzione (vd. 3,20; 5,13; 5,16 con relative note). Sembra che da Ellanico in poi (FrGrHist I,4 F 72) siano stati loro associati diversi figli con diversi nomi. Qui le trame di vendetta di Ermione (che nell’Andromaca euripidea erano mirate a Molosso, figlio che Andromaca aveva generato da Neottolemo a fronte di una mancanza di figli da parte di Ermione stessa e dell’eroe – vv. 60ss.-) si dirigono contro Laodamante, sebbene in 6,13 si faccia riferimento alle presunte insidie che Ermione avrebbe potuto tendere ad Andromaca, incinta di Pirro, preoccupazione che spingerà Teti ad inviare la donna presso i Molossi. 78 Nel dramma euripideo, com’è noto, Andromaca verrà salvata dall’intervento di Peleo, che in Settimio compare solo in un momento successivo, assieme a Teti, per prestare sepoltura al nipote. 79 In Euripide Neottolemo viene ucciso a Delfi, lapidato dagli abitanti del luogo su istigazione di Oreste, il quale aveva diffuso false voci sull’eroe, nel corso della sua seconda visita all’oracolo, da cui

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egli si era recato a chiedere perdono al dio per il comportamento poco rispettoso tenuto nella sua prima consultazione (vv. 1127 ss.). Sulla morte di Neottolemo a Delfi, tuttavia, le tradizioni erano molteplici (vd. nota 78). In Settimio la situazione appare molto confusa e la voce del popolo, sebbene gli indizi sembrino scoraggiare una compromissione di Oreste con l’omicidio dell’eroe, sembra avvalorare la versione più tradizionale del mito in cui il figlio di Agamennone era certamente coinvolto nella morte del rivale in amore. 80 Non viene qui fatta menzione alcuna del futuro matrimonio tra Andromaca ed Eleno, annunciato da Teti ex machina sul finale dell’Andromaca, e alla base del terzo libro dell’Eneide virgiliana (vv. 300 ss.). Marblestone 1970, 278, è tuttavia certo che questa omissione sia il frutto della sintesi settimiana. 81 L’incipit di questo e del prossimo capitolo è contraddistinto dalla già esaminata iunctura: per idem tempus, per la quale si rimanda alla nota 20. 82 Gli ultimi capitoli del VI libro sono incentrati sulla morte di Ulisse. Questa vicenda mitica costituisce il nucleo della Telegonia, poema epico appartenente al Ciclo arcaico (datato al VI sec. a.C.) attribuito ad Eugammone di Cirene, che, al pari degli altri poemi del Ciclo, ci è reso noto dalla scarna epitome di Proclo (Chrest. 306 Seve.). Alla morte di Odisseo faceva riferimento anche la celeberrima profezia dell’eidolon di Tiresia nella Nekyia odissiaca (11,134-136), nella quale molti hanno individuato corrispondenze puntuali con il contenuto della Telegonia così come ci è riferito da Proclo (vd. Debiasi 2004,255-56). Tali corrispondenze sembrano trovare ulteriore sostegno nelle fonti antiche: Apollodoro (ep. 34-37) narra difatti il mito convenendo in più punti con la sintesi procliana e mettendone in relazione alcuni dettagli con la profezia di Tiresia (ep. 7,34: Ύ΅ΘΤ ΘΤΖ ΘΓІ ̖Ή΍ΕΉΗϟΓΙ ΐ΅ΑΘΉϟ΅Ζ). A completare ed integrare il sunto procliano interviene inoltre Igino (fab.127) che offre ulteriori dettagli sulla morte dell’eroe e sull’esito della vicenda di Telegono, che, nel mitografo, sposerà Penelope, e di Telemaco, che si unirà a Circe, nonché sui loro discendenti Latino ed Italo. Il mitema fornì inoltre lo spunto per alcuni drammi, tràditi in veste frammentaria: gli Evocatori di anime (̚ΙΛ΅·Ν·Γϟ) di Eschilo (frr. 273-278 Radt, che gli studiosi considerano piuttosto un dramma satiresco vd. Debiasi 2004,261) e l’Odisseo ferito dalla spina (͞ΈΙΗΗΉϿΖ ΦΎ΅ΑΌΓΔΏϛΒ) di Sofocle (frr. 453-461 Radt). Quest’ultimo sembra essere l’ispiratore dei Lavacri (Niptra) di Pacuvio (frr. 266-

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295 Warmington). La prima parte, probabilmente il primo libro, della Telegonia, narrava le vicende successive all’uccisione dei Proci da parte di Odisseo: la sezione più cospicua di questa porzione doveva collocarsi in Tesprozia: di qui l’appellativo (rintracciabile in Pausania 8,12,5) di Tesprotide. Ripercorriamone le tappe seguendo la sintesi procliana: dapprima l’eroe si recava in Elide a visionare delle mandrie (quelle celeberrime di Augia o le proprie) e trovava ospitalità presso Polisseno (nome parlante che ne rivela la magnanima ΒΉΑϟ΅), dal quale riceveva in dono un cratere a cui probabilmente era dedica un’ampia ekphrasis (vd. Debiasi 2004, 255); successivamente Odisseo faceva ritorno ad Itaca, ove celebrava i sacrifici prescrittigli da Tiresia; partito infine alla volta della Tesprozia, ne sposava la regina Callidice, dalla quale, secondo Apollodoro, generava Polopete. In Tesprozia Odisseo intraprendeva una guerra contro la popolazione dei Brigi, ma veniva sconfitto da Ares, al quale si contrapponeva la paredros dell’eroe, Atena; le due divinità venivano infine pacificate da Apollo. Solo dopo la morte di Callidice e la consegna del regno a Polipete, Odisseo tornava finalmente in patria, ove, aggiunge Apollodoro, trovava un ulteriore figlio a lui generato da Penelope, Poliporte (si noti l’assonanza con il figlio di Telemaco e Nausicaa menzionato da Settimio al capitolo 6, Ptoliporto). Di questa prima parte del poema non si fa accenno in Settimio, ma non si può decisamente escludere che Ditti la includesse nella propria narrazione. 83 Il primo segmento relativo alla vicenda della morte dell’eroe lo vede protagonista di infausti presagi, che lo atterriscono comparendogli in sogno, secondo un modulo topico, che tuttavia non trova riscontro nelle fonti che trattano tale mito. Ulisse, come un erodoteo Serse o Astiage, decide di convocare interpretandi somnia peritissimi. Il primo simulacrum parrebbe essere certamente lo stesso Telegono, che istintivamente Ulisse, pur non riconoscendolo, tenta di abbracciare, ma dalla cui coniunctio è dissuaso perché, pur avendo lo stesso sangue, sarà per lui causa di morte; la seconda immagine viene interpretata da Marblestone 1970, 279 come lo stesso iaculum, che, su ordine della prima immagine, viene scagliato contro Ulisse e li separa (per sempre). Oltre alla già menzionata profezia di Tiresia (che tuttavia non parla esplicitamente di morte per mano del figlio, bensì di una “tacita e dolce morte dal mare” – ΌΣΝ΅ΘΓΖ Έν ΘΓ΍ πΒ ΥΏϲΖ ΅ЁΘХȦ ΦΆΏ΋ΛΕϲΖ ΐΣΏ΅ ΘΓϧΓΖ πΏΉϾΗΉΘ΅΍ – in tarda età ), un oracolo viene citato anche in Igino (Ulixes a Telegono filio est interfectus, quod

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ei responsum fuerat ut a filio caveret mortem). Di una consultazione oracolare doveva parlare anche il dramma sofocleo, dal momento che ben quattro sono i riferimenti all’oracolo di Dodona nel seppur esiguo numero di frammenti tràditi (frr. 455; 456; 460; 461); analogamente ad un oracolo farebbe riferimento un argumentum odissiaco (I p.6 Dindorf); negli Evocatori di anime eschilei, infine, compare una stravagante profezia (probabilmente di Tiresia), che ha indotto gli studiosi a intravedervi un dramma satiresco (fr. 275 Radt): una spina contenuta nello sterco di un uccello marino avrebbe ferito a morte il capo anziano e glabro dell’eroe. 84 Viene in quest’ultimo capitolo compendiata l’ultima parte della Telegonia, il secondo libro come sembra potersi desumere dal riassunto procliano, che narra l’effettiva uccisione di Ulisse da parte di suo figlio. Questo lo sviluppo nel poema ciclico in base a Proclo: Telegono, navigando alla ricerca di suo padre, giunge ad Itaca e la devasta (Apollodoro ricorda più dettagliatamente una razzia di bestiame; Igino parla invece di una tempesta che trascina casualmente Telegono ad Itaca e della fame che lo spinge a saccheggiare i campi finché non viene fermato da Ulisse e Telamco, ignari della sua identità). Successivamente Telegono, non sapendo chi sia (Ύ΅ΘвΩ·ΑΓ΍΅Α) colpisce Odisseo, che era accorso in difesa dei propri possedimenti. Sembra concordare con il riassunto procliano l’intenzionalità con cui Telegono si reca ad Itaca, espressamente alla ricerca di suo padre (ad inquisitionem patris); viceversa colpisce un dettaglio che non trova tracce nelle fonti esaminate: l’esilio volontario dell’eroe in alia loca abdita remotaque, e per converso, l’esilio forzato cui, misinterpretando l’oracolo, costringe Telemaco, nei territori di Cefalonia. Ciò fa sì che in Settimio Telegono faccia dapprima sosta ad Itaca e, saputo dove si trovi suo padre, segua le sue tracce, ma non abbia inizialmente intenzioni bellicose. Viene invece indotto ad averne a seguito del rifiuto oppostogli dalle guardie a difesa di Ulisse. Viene inoltre messo in atto un vero e proprio scontro armato tra padre e figlio, che si lanciano ciascuno la propria arma da tiro, ignari dell’identità reciproca, che avrà come esito la morte del Laerzìade. 85 L’espressione settimiana marina turtur non risulta perspicua. In Apollodoro e in Proclo la lancia è sormontata dalla spina di un pesce detto ΘΕΙ·ЏΑ, che può essere identificato con una tracina (Dasyatis pastinaca), arma donata a Telegono da Efesto (schol. Od. 11,134) e che Eliano (1,56) giudica letale.

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Colpisce la similarità con il mito di Edipo, che diversi studiosi hanno rilevato (vd. Calame 1988, 8-9 e Debiasi 2004, 259). 87 Il lamento di Telegono per la morte di suo padre doveva avere anche nella Telegonia un certo rilievo, se anche Proclo, in maniera più velata, parla di un riconoscimento di amartìa da parte del giovane, che si assume l’onere di seppellire il genitore e di prendersi cura di Penelope e Telemaco. 88 Si avvera dunque la profezia di Tiresia che aveva predetto all’eroe una morte in tarda età (·ΉΕλ ЂΔΓ Ώ΍Δ΅ΕХ ΦΕ΋ΐνΑΓΑ). Non vengono qui narrati i successivi sviluppi della vicenda che compendiano Proclo, Apollodoro e Igino: Circe fece dono a tutti dell’immortalità e sposò Telemaco generando Latino, mentre Telegono si unì a Penelope generando Italico.

DARETE FRIGIO STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA Introduzione e traduzione di Nicoletta Canzio

INTRODUZIONE Sotto il nome di Darete Frigio, personaggio troiano presente in Il. 5,9-11 in veste di sacerdote di Efesto, ci è giunta un’opera in latino dal titolo De excidio Troiae Historia, risalente a un’epoca compresa tra il V e il VI sec. d. C.. In essa l’autore si presenta come testimone oculare della guerra che oppose gli eserciti greci a quelli troiani, facendo della conoscenza autoptica degli eventi la sostanza della sua narrazione e ponendosi l’obiettivo di offrire un resoconto più attendibile e veritiero rispetto alla versione omerica. Questo intento appare esplicitato già nella fittizia epistola prefatoria indirizzata da Cornelio Nepote a Sallustio Crispo, con la quale il mittente intende rendere partecipe il suo amico del ritrovamento fortuito dell’opera di Darete, o meglio, di un testo scritto ipsius manu, vergato da chi – contrariamente a Omero – aveva vissuto la guerra in prima persona. Non solo: lo stesso Nepote afferma di aver immediatamente tradotto l’opera in latino summo amore conplexus, sottolineando al tempo stesso la sua fedeltà al testo ritrovato, che lo ha indotto a evitare ogni tipo di aggiunta od omissione. Questo espediente del manoscritto ritrovato, che ha le sue prime attestazioni nel genere romanzesco (Fusillo 1989, 67), ha indotto gli studiosi a riflettere sulla possibilità che la redazione latina a noi pervenuta sia in realtà la traduzione di un originale greco, come del resto è attestato per l’Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese attraverso i codici papiracei (cfr. ad es. P.Tebt. 268 e P.Oxy. 2359). Tuttavia, un ostrakon

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proveniente dal sito di Mons Claudianus (412), nel quale si è pensato di poter scorgere l’originale greco dell’opera di Darete – nonostante la presenza di trimetri ed esametri e di quello che sembra un discorso diretto – ha attirato l’attenzione di diversi studiosi (Bessi 2005, 199-200, ma cfr. anche Pavano 1998, 214), ma la questione, in virtù della sua complessità, rimane ancora aperta. Oltre a ciò, un tratto distintivo di questa epistola è la polemica nei confronti della narrazione omerica, tendente ad abbellire i fatti senza conservarne la veridicità (Timpanaro 1987, 172), ed è proprio su questa linea che si muove la nostra Historia, che vuole fornire un resoconto attendibile rifiutando ogni elemento prodigioso e qualunque intervento divino nelle vicende umane. Dopo l’epistola si susseguono 44 brevi capitoli, ma la narrazione non ha inizio dal celebre rapimento di Elena, bensì dalla spedizione degli Argonauti. La conquista del vello d’oro nella Colchide da parte di Giasone, inoltre, è un semplice pretesto escogitato da suo zio Pelia per allontanarlo, poiché questi teme di essere privato del trono. Una volta giunti sulla costa troiana (cap. 2), Giasone e i suoi compagni desteranno il timore di Laomedonte, che li costringerà ad allontanarsi perché consapevole del commune periculum che i Troiani avrebbero corso se i Greci avessero preso l’abitudine di approdare ai loro lidi, e questo suo comportamento finirà per provocare l’ira di Ercole. Risalendo a un’epoca anteriore al celebre rapimento di Elena, Darete rifiuta anche tutti gli altri elementi irrazionali legati alla vicenda, riducendo la radice del conflitto al timore scaturito dallo sbarco di un popolo straniero. Ercole, dunque, adiratosi per il comportamento di Laomedonte, organizzerà una spedizione punitiva contro Troia (cap. 3), durante la quale ucciderà il re

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troiano e cederà sua figlia Esione in premio a Telamone. Priamo, dopo aver guidato la ricostruzione di Troia (cap. 4), invierà Antenore in Grecia come ambasciatore per chiedere la restituzione di sua sorella, senza però ottenere alcun risultato, e ciò lo costringerà a organizzare una spedizione troiana contro la Grecia (capp. 5-6). Paride, che nella Historia è menzionato col nome di Alessandro oppure di Alessandro Paride (nel cap. 28), si unirà a questa spedizione confidando nella benevolenza degli dèi, soprattutto di Venere, che in sogno egli aveva designato come vincitrice in una gara di bellezza alla quale partecipavano anche Giunone e Minerva: in cambio della sua vittoria, la dea aveva promesso al giovane figlio di Priamo di concedergli la mano di una bellissima donna greca. È interessante notare che, sebbene l’autore abbia già indicato la mancata restituzione di Esione come causa delle ostilità, il tradizionale motivo del giudizio di Paride è trasformato in un sogno per escludere qualunque intervento divino, secondo uno schema presente già negli Aitia di Callimaco (attestato dal fr. 2 Pfeiffer e dall’epigramma 7,42 dell’Antologia Palatina), ove l’autore narra del suo incontro con le Muse seguendo l’exemplum esiodeo, ma trasferendolo in una dimensione onirica (cfr. Pretagostini 1995). I capitoli 8 e 9 sono dunque dedicati ai preparativi della spedizione, mentre il cap. 10 è incentrato sul fatale incontro tra Paride ed Elena nell’isola di Citera, non a caso sacra a Venere: secondo il consueto topos dell’amore al primo sguardo, dalla ben consolidata tradizione (Cfr. ad es. Il. 14,294; Ap. Rh. 3,275.290; Theoc. 2,82-86; Ov. Am. 1,10,10; Ach. Tat. 1,4,4.), i due personaggi, dopo essersi guardati, si accendono d’amore per poi – forse – unirsi (l’espressione gratiam referre risulta poco chiara anche nel

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Thesaurus Linguae Latinae, ma l’interpretazione di Beschorner 1992, 101, sulla scorta di Schissel 1908, 157, pare quella più plausibile per una situazione del genere). Poco dopo, con una brusca virata che segna il precipitare degli eventi, Paride fa rapire Elena e fa ritorno a Troia, scatenando la violenta reazione delle truppe greche (cap. 11). A questo punto della narrazione subentrano due capitoli (12 e 13) interamente dedicati alla descrizione dei personaggi delle due fazioni avverse, uomini e donne, ma la stessa galleria di ritratti è preceduta da un oscuro Dares Phrygius ait se militasse: come si spiega l’uso di questa terza persona? Se da una parte Beschorner 1992, 107 vi scorge l’influsso del testo di Ditti Cretese (1,3), dall’altra Lentano evidenzia la stretta somiglianza con l’incipit delle Storie tucididee (senza tuttavia escludere che la terza persona possa essere una traccia del proemio di un originale greco). Tornando alla galleria dei ritratti, ogni personaggio è menzionato attraverso caratteristiche fisiche e morali, con interessanti paralleli nel quinto libro della Chronographia del bizantino Malala (9-10 Thurn). Segue poi un catalogo delle navi dell’esercito greco (cap. 14), mentre nel cap. 15 è narrato l’incontro a Delfi tra Achille e Calcante, che sarà accolto dai Greci e li esorterà a recarsi in Aulide: a questo punto il lettore si aspetterebbe di leggere del sacrificio di Ifigenia, ma Darete omette questo particolare – nonostante potesse essere un’occasione per biasimare la condotta dei Greci –, obbedendo al razionalismo che lo spinge a rifiutare ogni intervento divino, come in questo caso l’intervento di Diana a favore della giovane vittima. Tuttavia, prima di attaccare i Troiani, i Greci tentano per l’ultima volta di persuadere Priamo a restituire Elena e quanto sottratto da Paride attraverso un’ambasceria di Diomede e Ulisse (capp. 1617), ma il re rimane sordo alle loro richieste, e finisce per

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allontanarli proclamando lo stato di guerra. Al cap. 18 segue, speculare al cap. 14, un catalogo delle forze schierate dalla parte di Priamo, ma è al cap. 19 che i Greci sferrano il primo attacco, ed è sempre qui che inizia la lunga serie di offensive narrate dall’autore della Historia attraverso espressioni ricorrenti come magna caedes utrimque facta est. Non solo: contrariamente all’Iliade, ove l’uccisione di Patroclo per mano di Ettore determina il ritorno di Achille in battaglia, nella Historia il compagno d’armi di Achille muore prima che il Pelide si ritiri dallo scontro, proprio perché all’origine di questo gesto – nell’opera di Darete – saranno la presa di potere di Palamede e, soprattutto, l’amore per Polissena. La rivolta di Palamede inizia a profilarsi già dal cap. 20, non senza qualche incongruenza, dal momento che nel testo si legge Palamedes non cessat seditionem facere: quando sarebbero iniziati i primi attriti tra Palamede e Agamennone? A tal proposito si può ipotizzare che questa aporia sia da imputare al lavoro di un redattore latino che ha compendiato un originale greco. Tuttavia la seditio di Palamede non sembra attestata dalla tradizione, per la quale il personaggio è principalmente noto per le sue invenzioni (cfr. ad es. Paus. 2,20,3), e le dure parole rivolte all’Atride non paiono suffragate dagli eventi della Historia: nel cap. 29, quando Nestore chiede di ripristinare il potere di Agamennone, asserisce anche – senza essere contraddetto – che sotto il suo comando l’esercito era stato favorito dalla sorte (felicem fuisse exercitum). Inoltre, sebbene Palamede affermi che il potere di Agamennone si basa sul consenso di pochi, in realtà anche questa accusa è puntualmente smentita dagli avvenimenti precedenti, poiché nel cap. 19 si evince che i Greci avevano deciso all’unanimità di affidare il comando ad Agamennone. Bradley

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1991, 240 conclude dunque che all’origine delle apparenti incongruenze sia una voluta esagerazione del personaggio di Palamede. Nel cap. 21 si consuma uno scontro tra Paride e Menelao, che pur avendo un chiaro parallelo nel terzo libro dell’Iliade, è in realtà sviluppato da Darete in modo da omettere qualunque intervento divino: contrariamente alla versione omerica, Paride non indietreggia dinanzi al suo avversario, ma quando a Menelao si unisce Aiace di Locri, Ettore accorre in aiuto di suo fratello, e poco dopo Enea lo conduce lontano dallo scontro. In questo modo l’autore devia dal modello omerico, ma preserva al tempo stesso quell’attitudine razionalizzante che lo induce a escludere qualunque ingerenza da parte degli dèi nelle vicende umane. In seguito, dopo ben ottanta giorni di scontri, i due eserciti decidono di stipulare una breve tregua per poter seppellire i propri caduti (cap. 22), al termine della quale gli scontri riprendono violenti (cap. 23). Andromaca, dopo un sogno premonitore (cap. 24), cerca invano di distogliere Ettore dal cercare lo scontro, ma questi la respinge aspramente apostrofando i suoi consigli come muliebria verba. L’autore ha in mente il sesto libro dell’Iliade (407-494), che tuttavia rielabora in modo del tutto personale: ormai Ettore è insensibile perfino alla vista di suo figlio, e soltanto Priamo, impietosito dal dolore di Andromaca, riesce a contenere – per poco tempo – la sua irruenza. Nella Historia la morte di Ettore, che nell’Iliade è narrata nel XXII libro, trova spazio poco dopo l’episodio dell’incontro con Andromaca, con l’omissione non soltanto dello strazio del cadavere da parte di Achille, ma anche della richiesta di restituzione da parte di Priamo. Queste omissioni potrebbero spiegarsi considerando un’ispirazione filotroiana dell’opera, ma non bisogna escludere, come fa Beschorner 1992, 151, che Darete si sia servito di una

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fonte a noi non pervenuta. Nel capitolo seguente (25) si consuma l’evento cruciale della seditio di Palamede, con la quale non soltanto questo personaggio prende il potere, ma scatena anche l’indignazione di Achille, che si sente messo in secondo piano dai suoi commilitoni. Tuttavia, si parlerà esplicitamente del rancore del Pelide soltanto in un secondo momento, nel cap. 27, poiché per adesso l’autore fa soltanto presagire il suo futuro ritiro dallo scontro. Il capitolo 26 riveste un’importanza cruciale nelle vicende di Achille, poiché dopo un’altra serie di scontri la nuova tregua stipulata permette ai Greci e ai Troiani di circolare liberamente, favorendo anche l’incontro tra l’eroe e Polissena in occasione dell’anniversario della morte di Ettore (cap. 27). Nella Historia la vicenda, articolata secondo le consuetudini del romanzo, è la seconda storia d’amore dopo quella di Elena e Alessandro, con la quale mostra evidenti punti di contatto, ed è narrata – con alcune varianti – anche da Ditti Cretese nell’Ephemeris (3,2 ss.). Risulta di cardinale importanza la tregua dallo scontro stipulata da Greci e Troiani, senza la quale l’incontro tra l’eroe e la figlia di Priamo non avrebbe avuto luogo, ma anche la morte di Ettore riveste un ruolo non meno funzionale, perché l’occasione è rappresentata dalla visita alla sua tomba. Non appena Achille nota Polissena, la scruta attentamente (contemplatur), per poi rendersi conto di essersene perdutamente innamorato (amare vehementer eam coepit). Anche nell’incontro tra Elena e Alessandro (cap. 10) tutto era nato da uno scambio di sguardi, e proprio il gesto di contemplarsi a vicenda (per loro Darete aveva usato il verbo respicio) aveva fatto sì che i due amanti fossero infiammati da un amore reciproco (ambo forma sua incensi). Tuttavia, a differenza del cap. 10, in questo locus l’autore dà spazio soltanto alla reazione di Achille, infiammato

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dall’amore per una fanciulla che appare come un passivo oggetto di contemplazione. Achille, dunque, invia un messaggero presso Ecuba per chiedere la mano di Polissena in cambio del ritiro delle truppe dei Mirmidoni, alle quali si sarebbe aggiunto, secondo l’eroe, anche il resto dell’esercito greco. La regina ne discute con Priamo, il quale però non esaudisce la richiesta di Achille, asserendo che per celebrare un matrimonio occorreva stipulare una pace duratura sancita ufficialmente. Questa decisione genera lo sconforto del Pelide, che dinanzi all’esercito rivendica l’assurdità di una mobilitazione da parte di tutta la Grecia per la sola Elena, chiedendo il ritiro delle truppe. Dopo qualche anno gli scontri riprendono, Palamede trova la morte per mano di Sarpedone (cap. 28), e l’assenza di un comandante spinge Nestore a convocare un’assemblea per chiedere di ripristinare il potere di Agamennone (cap. 29): questi accetta, e poco dopo (cap. 30) decide di inviare un’ambasceria presso Achille per convincerlo a tornare a combattere. Si tratta chiaramente di una ripresa della celebre ambasceria presente in Il. 9,165-713, che nel poema omerico si svolge prima dell’incontro di Ulisse e Diomede con Dolone (cfr. cap. 22), ma la Historia offre una versione per alcuni tratti differente e molto più breve. Innanzitutto, se nell’Iliade Nestore consiglia ad Agamennone di inviare Fenice, Aiace Telamonio e Ulisse, cui si aggiungono due araldi, Darete parla di un’ambasceria composta da Nestore, Ulisse e Diomede. In Omero, inoltre, Achille è ben lieto di accogliere i suoi compagni, ma nonostante Ulisse elenchi i doni che Agamennone è pronto a concedere all’eroe, inclusa Briseide, questi risponde denunciando i pericoli affrontati a causa di Elena – come nella Historia – e affermando che è prossima la sua partenza alla volta

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di Ftia. Diversamente, nell’opera di Darete il Pelide si rifiuta di combattere, sia per la promessa fatta a Ecuba, sia perché, a causa del suo amore per Polissena, il suo valore sarebbe venuto meno. I Greci dunque si vedono costretti a intraprendere gli scontri senza l’aiuto di Achille, ma le stragi del giovane Troilo, figlio di Priamo, li inducono a chiedere un’altra tregua, durante la quale essi cercano invano di persuadere il Pelide a tornare a combattere, ottenendo soltanto l’invio delle truppe dei Mirmidoni (cap. 31). Gli scontri riprendono (cap. 32) e la violenza di Troilo non sembra venir meno, ma nel capitolo seguente lo stesso Achille, dinanzi alla strage dei Mirmidoni, decide di tornare a combattere allo spettacolo della morte di Patroclo. Tuttavia il Pelide riesce ad avere la meglio su Troilo grazie a una casualità, poiché questi rimane impigliato tra le briglie del suo cavallo, e Achille decide di approfittare subito della situazione. Una versione simile della morte di Troilo è narrata anche nell’Eneide (1,474-478), quando Enea contempla una raffigurazione della guerra di Troia nel tempio di Giunone e scorge anche Troilo, l’infelice ragazzo che combatté, impari, con Achille (v. 475) e che fu trascinato dai cavalli del suo stesso carro. Tuttavia Servio riporta una differente versione, secondo la quale Achille, innamoratosi di Troilo, gli lanciò delle colombe, e questi, nel tentativo di afferrarle, fu preso dal Pelide e morì nei suoi amplessi (ad Aen. 1,474). Proclo (Chrest. 80 Seve.) riferisce che anche Canti Ciprii Troilo sarebbe morto per mano di Achille, mentre Apollodoro (Ep. 3,32) narra della sua morte presso il tempio di Apollo Timbreo durante un’imboscata tesagli dallo stesso nemico. Poco dopo la morte di Troilo, Achille annienta anche Memnone, costringendo i Troiani a chiedere una tregua,

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ed è in questo momento che la vendetta di Ecuba prende forma (cap. 34): la regina, addolorata per la perdita di Ettore e Troilo, decide di attirare Achille in una trappola promettendogli la mano di Polissena nel tempio di Apollo Timbreo, e per far sì che il suo piano riesca, chiede aiuto a Paride. Achille è dunque laetus di poter finalmente sposare la figlia di Priamo, ma si reca nel tempio in compagnia di Nestore. Non appena i due entrano nel tempio, i Troiani li attaccano, ma è proprio Paride a infliggere il colpo di grazia al Pelide, e anche in questo caso Darete non manca di omettere ogni elemento prodigioso, come il celebre dettaglio dell’unico punto vulnerabile di Achille, il tallone (cfr. ad es. Eur. Andr. 655, Hec. 387; Serv. ad Aen. 6,57). Inoltre, Darete lascia intendere che Achille e Antiloco erano armati, contrariamente a quanto riportato da Ditti Cretese, che in 4,11 apostrofa Achille come inermem iuvenem. I Greci, dunque, ormai privi dell’aiuto dell’eroe, decidono di affidare le sue armi ad Aiace in virtù del loro vincolo di parentela, ma questi preferisce cederle a Neottolemo, figlio di Achille, che nel frattempo giunge da Sciro (cap. 35). Poco dopo, quando gli scontri riprendono, Aiace riesce a uccidere Paride, contrariamente alla tradizione epica (cfr. Apollod. Ep. 5,8), secondo la quale il figlio di Priamo sarebbe morto trafitto da una delle frecce di Filottete, che erano intinte nel sangue dell’Idra (la stessa versione è riportata in Ditti 4,19). Il giorno seguente ha inizio un’altra battaglia (cap. 36), ma questa volta subentrano anche le Amazzoni, capeggiate da Pentesilea: nonostante la sua furia di guerra, che Diomede riesce a stento a contenere, la regina è sopraffatta dalla forza di Neottolemo. Questa variante del mito, che narra di uno scontro tra Pentesilea e il figlio di Achille (mentre in Dict. 4,3 è narrato il ben noto duello col Pelide, ma cfr. soprattutto Q. S.

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1), ha riscontro soltanto in due fonti letterarie. La prima è Dione di Prusa (Or. 11,117), che narra dell’uccisione della regina mentre questa si dirigeva verso le navi per incendiarle, la seconda è l’epigramma De Penthesilea dell’Anthologia latina (861 Riese): a parlare è la stessa defunta, che narra del soccorso prestato a Priamo dopo la morte di Ettore e della morte sopraggiunta per mano di Neottolemo. È significativo il fatto che Pentesilea giunga a Troia dopo la morte di Achille e che sia sconfitta dal figlio di quest’ultimo, poiché la presenza del Pelide avrebbe comportato l’immediata morte della regina. Facendo di Neottolemo il suo uccisore, invece, l’autore della Historia riesce a conservare un legame con la versione tradizionale. I Troiani, dunque, dopo aver perso ogni speranza riposta nel soccorso di truppe alleate, si riuniscono in assemblea, durante la quale Enea, seguito da Polidamante, consiglia di stipulare una pace con gli Argivi. Priamo però si mostra sordo alle proposte di pace, e insieme con Antimaco, uno dei suoi figli, che in assemblea aveva esortato i Troiani a continuare a combattere, ordisce un piano ai danni dei promotori della pace: li attirerà con un invito a un banchetto, dopodiché suo figlio farà irruzione con altri uomini armati e li ucciderà (cap. 38). Il piano escogitato da Priamo mostra delle notevoli analogie con quello ordito da Ecuba ai danni di Achille, ma, a differenza di quest’ultimo, è rivolto contro uomini della sua stessa gente. Tuttavia, quegli stessi uomini che avevano caldeggiato la pace, come Antenore e Ucalegonte, insospettiti dalla reazione di Priamo, che si era ritirato dall’assemblea in preda all’ira, cominciano a temere le future decisioni del re, pertanto inviano Polidamante presso l’accampamento acheo per trattare con Agamennone, visto che ormai patriam prodendam esse (cap. 39).

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Nell’opera di Darete il tradimento di Enea e degli altri Troiani è dunque una triste necessità, ma non si tratta affatto di un episodio isolato, poiché, oltre alle fonti che indicano Enea come esempio di pietas, ve ne sono altre che lo apostrofano come proditor patriae che avrebbe ottenuto la salvezza passando dalla parte del nemico. Darete conosce e aderisce a questa seconda versione dei fatti, ma giustifica la gravità del gesto ritenendolo inevitabile. I Greci, dopo aver riflettuto, accolgono la richiesta dei traditori troiani (cap. 40), accordandosi con loro affinché questi aprano la porta Scea nella notte, permettendo l’ingresso nella città all’esercito nemico. Ha dunque inizio una strage, e mentre Neottolemo uccide barbaramente Priamo dinanzi all’altare di Giove (cap. 41), quello stesso altare che aveva sancito la rinascita di Troia attraverso la sua ricostruzione dopo la morte di Laomedonte (cfr. cap. 4), Ecuba fugge con Polissena per poi affidare quest’ultima a Enea, mentre Cassandra e Andromaca si rifugiano nel tempio di Minerva. Il giorno seguente i Greci decidono di mantenere la parola data ai traditori, e concedono la libertà anche ad Eleno, Cassandra, Andromaca ed Ecuba (cap. 42). Tuttavia, quando per i Greci arriva il momento della partenza, una tempesta impedisce loro di salpare, e grazie a un vaticinio di Calcante essi comprendono che il regno dei morti non ha ricevuto un dovuto sacrificio (cap. 43). A Neottolemo viene subito in mente che nella reggia non è stata ritrovata Polissena, all’origine dell’attentato a suo padre. Non appena costei viene ritrovata, è barbaramente sgozzata dinanzi alla tomba di Achille, mentre Agamennone, adirato con Enea perché questi aveva cercato di risparmiare la ragazza, lo condanna all’esilio. Elena dunque torna a casa con Menelao, mentre Eleno, insieme con Cassandra, Ecuba e Andromaca, si dirige verso il Chersoneso.

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La Historia termina con il cap. 44, ove si legge che Antenore rimase a Troia con la sua fazione ed Enea partì con ventidue navi, e si conclude con un bilancio delle perdite subite durante la guerra, ennesima prova dell’intento dell’autore di fornire il resoconto attendibile di un’esperienza diretta. Nicoletta Canzio BIBLIOGRAFIA Beschorner 1992 = Beschorner, A., Untersuchungen zu Dares Phrygius, Tübingen, 1992 Bessi 2005 = Bessi, G., Darete Frigio e Ditti Cretese: un bilancio degli studi, «BollStudLat» 35, 2005, 170-209 Bradley 1991 = Bradley, D. R., Troy Revisited, «Hermes» 119, 1991, 232-246 Fusillo 1989 = Fusillo, M., Il romanzo greco. Polifonia ed eros, Venezia 1989 Lentano = Lentano, M., Come si (ri)scrive la storia. Darete Frigio e il mito troiano, in E. Amato – E. Gaucher-Rémond, G. Scafoglio (a cura di), Variations sur le mythe. La légende de Troie de l’Antiquité tardive au Moyen-âge (in corso di stampa) Pavano 1998 = Pavano, A., Le redazioni latine e il presunto originale greco dell’opera di Darete Frigio, «Sileno» 24, 1998, 207-218 Pretagostini 1995 = Pretagostini, R., L’incontro delle Muse sull’Elicona in Esiodo e in Callimaco: modificazioni di un modello, Atti del convegno int. sull’intertestualità, «Lexis» 13, 1995, 157-172 Schissel 1908 = Schissel von Fleschenberg, O., Dares Studien, Halle 1908 Timpanaro 1987 = Timpanaro, S., Sulla composizione e la tecnica narrativa dell’Ephemeris di Ditti-Settimio, «Filologia e forme letterarie» 4, 1987, 169-215

DARETIS PHRYGII DE EXCIDIO TROIAE HISTORIA

DARETE FRIGIO STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA

Cornelius Nepos Sallustio Crispo suo salutem Cum multa ago Athenis curiose, inveni historiam Daretis Phrygii ipsius manu scriptam, ut titulus indicat, quam de Graecis et Troianis memoriae mandavit. Quam ego summo amore conplexus continuo transtuli. Cui nihil adiciendum vel diminuendum rei reformandae causa putavi, alioquin mea posset videri. Optimum ergo duxi ita ut fuit vere et simpliciter perscripta, sic eam ad verbum in latinitatem transvertere, ut legentes cognoscere possent, quomodo res gestae essent: utrum verum magis esse existiment, quod Dares Phrygius memoriae commendavit, qui per id ipsum tempus vixit et militavit, cum Graeci Troianos obpugnarent, anne Homero credendum, qui post multos annos natus est, quam bellum hoc gestum est. De qua re Athenis iudicium fuit, cum pro insano haberetur, quod deos cum hominibus belligerasse scripserit. Sed hactenus ista: nunc ad pollicitum revertamur.

EPISTOLA PREFATORIA Cornelio Nepote saluta il caro Sallustio Crispo Mentre ad Atene mi dedicavo con impegno alle mie diverse attività, ho trovato la storia sui Greci e i Troiani di Darete Frigio, scritta – come indica il titolo – di suo pugno, di cui egli ha tramandato il ricordo. Colto da un grandissimo interesse per quest’opera, l’ho immediatamente tradotta, ma ho pensato che non bisognasse aggiungerle o sottrarle alcunché per migliorarla, altrimenti sarebbe parsa mia. Dunque ho ritenuto che la cosa migliore fosse tradurla in latino parola per parola, così come era stata scritta, con uno stile piano e aderente alla realtà, perché i lettori potessero sapere come si svolsero gli eventi, e giudicare se sia più veridico ciò che affidò alla memoria Darete Frigio, che visse e combatté nello stesso periodo in cui i Greci attaccarono i Troiani, oppure se sia opportuno credere a Omero, che nacque molti anni dopo che questa guerra fu combattuta. A tal proposito gli Ateniesi giudicarono insensato l’aver narrato che gli dèi combatterono assieme agli uomini. Ma basta così: ora torniamo a quanto abbiamo promesso.

DARETIS PHRYGII DE EXCIDIO TROIAE HISTORIA 1. Pelias rex [in Peloponneso] Aesonem fratrem habuit. Aesonis filius erat Iason virtute praestans, et qui sub regno eius erant, omnes hospites habebat et ab eis validissime amabatur. Pelias rex ut vidit Iasonem tam acceptum esse omni homini, veritus est, ne sibi iniurias faceret et se regno eiceret. Dicit Iasoni Colchis pellem inauratam arietis esse dignam eius virtute: ut eam inde auferret, omnia se ei daturum pollicetur. Iason ubi audivit, ut erat animi fortissimi et qui loca omnia nosse volebat et quod clariorem se existimabat futurum, si pellem inauratam Colchis abstulisset, dicit Peliae regi se eo velle ire, si vires sociique non deessent. Pelias rex Argum architectum vocari iussit et ei imperavit, ut navim aedificaret quam pulcherrimam ad voluntatem Iasonis. Per totam Graeciam rumor cucurrit navim aedificari, in qua Colchos eat Iason pellem auream petitum. Amici et hospites ad Iasonem venerunt et pollicentur se una ituros. Iason illis gratias egit et rogavit, ut parati essent cum tempus supervenisset: interea navis aedificatur et cum tempus anni supervenisset, Iason litteras ad eos misit, qui erant polliciti sese una ituros et ilico convenerunt ad navem, cuius nomen erat Argo. Pelias rex quae opus erant in navim imponi iussit et hortatus est

STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA DI DARETE FRIGIO 1. Il re Pelia [nel Peloponneso] ebbe come fratello Esone. Il figlio di Esone era Giasone, insigne per il suo valore, che trattava tutti coloro che erano sotto il suo comando in modo amichevole, e che da questi era assai amato. Come il re Pelia si accorse che Giasone era così benvoluto da ogni uomo, temette che costui potesse fargli un torto e spodestarlo del trono. Disse a Giasone che nella Colchide c’era un vello d’oro degno del suo valore, e promise che gli avrebbe fornito tutto l’occorrente per portarlo via da lì. Come Giasone udì queste parole, di animo assai coraggioso come era, lui che desiderava conoscere ogni luogo, poiché pensava che se avesse portato il vello d’oro via dalla Colchide sarebbe stato ancor più noto, disse al re Pelia di voler andare lì, purché non gli mancassero le risorse e dei compagni. Il re Pelia ordinò di chiamare l’architetto Argo e gli commissionò la costruzione di una nave più bella possibile, come voleva Giasone. Per tutta quanta la Grecia si sparse la voce che si stava costruendo una nave, a bordo della quale Giasone si sarebbe recato nella Colchide alla ricerca del vello d’oro. Giunsero presso Giasone amici e ospiti, promettendo che sarebbero partiti con lui. Giasone li ringraziò e li pregò di essere pronti al momento della partenza: nel frattempo fu costruita la nave, e quando giunse il momento Giasone inviò delle lettere a coloro che avevano promesso di partire con lui, e subito si incontrarono presso la nave, il cui nome era Argo. Il re Pelia ordinò che fosse caricato a bordo tutto ciò che era necessario,

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Iasonem et qui cum eo profecturi erant, ut animo forti ad perficiendum irent, quod conati essent. Ea res claritatem Graeciae et ipsis factura videbatur. Demonstrare eos qui cum Iasone profecti sunt non videtur nostrum esse: sed qui volunt eos cognoscere, Argonautas legant. 2. Iason ubi ad Phrygiam venit, navim admovit ad portum Simoenta: deinde omnes de navi exierunt in terram. Laomedonti regi nuntiatum est mirandam navim in portum Simoenta intrasse et in ea multos iuvenes de Graecia venisse. Ubi audivit Laomedon rex, commotus est: consideravit commune periculum esse, si consuescerent Graeci ad sua litora adventare navibus. Mittit ad portum, qui dicant, ut Graeci de finibus excedant, si non dicto obaudissent, sese armis eos de finibus eiecturum. Iason et qui cum eo venerant graviter tulerunt crudelitatem Laomedontis sic se ab eo tractari, cum nulla ab eis iniuria facta esset. Simul timebant multitudinem barbarorum, si contra imperium conarentur permanere, ne obprimerentur, cum ipsi non essent parati ad proeliandum: navim conscenderunt et a terra recesserunt, Colchos profecti sunt, pellem abstulerunt, domum reversi sunt. 3. Hercules graviter tulit a rege Laomedonte contumeliose se tractatum et eos qui una profecti erant Colchos cum Iasone, Spartam ad Castorem et Pollucem venit, agit cum his, ut secum suas iniurias defendant, ne Laomedon

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ed esortò Giasone e coloro che si accingevano a partire con lui ad andare e a portare a termine con animo saldo ciò per cui si erano preparati. Sembrava che quell’impresa avrebbe conferito gloria alla Grecia e a quegli stessi uomini. Non pare di nostra competenza elencare i nomi degli uomini che partirono con Giasone, ma coloro che desiderano conoscerli leggano le Argonautiche. 2. Come Giasone giunse in Frigia, avvicinò la nave al porto del Simoenta, e così tutti scesero a terra. Al re Laomedonte fu annunciato che una splendida nave era entrata nel porto, e che a bordo di questa molti giovani erano giunti dalla Grecia. Come il re Laomedonte udì ciò, fu in preda al turbamento: considerò un pericolo comune il fatto che i Greci prendessero l’abitudine di raggiungere le sue coste con le navi. Il re mandò degli uomini presso il porto per dire ai Greci di allontanarsi dai suoi territori: se questi non avessero obbedito all’ordine, egli li avrebbe scacciati con le armi. Giasone e coloro che erano giunti con lui mal sopportarono il trattamento crudele a loro riservato da Laomedonte, nonostante essi non gli avessero recato alcuna offesa. Al tempo stesso temevano di essere annientati da quella turba di barbari se fossero rimasti contravvenendo all’ordine, poiché essi stessi non erano preparati allo scontro: salirono a bordo della nave e si ritirarono dalla terraferma, partirono alla volta della Colchide, portarono via il vello e tornarono a casa. 3. Ercole mal sopportò il fatto che il re Laomedonte avesse trattato irrispettosamente lui e coloro che erano partiti alla volta della Colchide insieme con Giasone. Giunse a Sparta presso Castore e Polluce e li indusse a vendicare le offese subite, affinché Laomedonte pagasse il prezzo dell’aver

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inpune ferat, quod illos a terra et portu prohibuisset: multos adiutores futuros, si se accommodassent. Castor et Pollux omnia promiserunt se facturos quae Hercules vellet. Ab his Salaminam profectus ad Telamonem venit: rogat eum, ut secum ad Troiam eat, ut suas suorumque iniurias defendat. Telamon promisit omnibus se paratum esse, quae Hercules facere vellet. Inde ad Phtiam profectus est ad Peleum rogatque eum, ut secum eat ad Troiam. Pollicitusque est ei Peleus se iturum. Inde Pylum ad Nestorem profectus est rogatque eum Nestor, quid venerit. Hercules dicit quod dolore commotus sit, velle se exercitum in Phrygiam ducere. Nestor Herculem conlaudavit operamque suam ei pollicitus est. Hercules, ubi omnium voluntates intellexit, naves paravit, milites elegit. Ubi tempus datum est proficiscendi, litteras ad eos, quos rogaverat, misit ut venirent cum suis omnibus: cum venissent, profecti sunt in Phrygiam: ad Sigeum noctu accesserunt. Inde Hercules Telamon et Peleus exercitum eduxerunt: navibus qui praesidio essent Castorem et Pollucem et Nestorem reliquerunt. Quod ubi Laomedonti regi nuntiatum est classem Graecorum ad Sigeum accessisse, et ipse cum equestri copia ad mare venit et coepit proeliari. Hercules ad Ilium ierat et inprudentes qui erant in oppido urgere coepit. Quod ubi Laomedonti nuntiatum est urgeri ab hostibus Ilium, ilico revertitur et in itinere obvius Graecis factus ab Hercule occiditur. Telamon primus Ilium oppidum introiit, cui Hercules virtutis causa Hesionam Laomedontis regis filiam dono dedit. Ceteri vero qui cum Laomedonte ierant occiduntur. Priamus in Phrygia erat, ubi eum Laomedon eius pater

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allontanato quegli uomini dalla terra e dal porto. Ercole aggiunse che, se fossero stati d’accordo, avrebbero avuto molti uomini su cui contare. Castore e Polluce promisero di fare tutto ciò che Ercole voleva. Questi, congedatosi da loro, si diresse a Salamina, presso Telamone: gli chiese di andare con lui a Troia per vendicare le offese inflitte a lui e ai suoi uomini. Telamone promise di essere pronto per tutto ciò che Ercole voleva che facesse. Da lì partì alla volta di Ftia, presso Peleo, e lo pregò di venire con lui a Troia. Peleo promise che sarebbe partito. Dunque Ercole si recò a Pilo, da Nestore, che gli chiese il motivo della sua visita. Ercole disse di voler condurre l’esercito in Frigia, poiché un dolore lo turbava. Nestore colmò di lodi Ercole e gli promise il suo aiuto. Ercole, come ebbe compreso i pareri di tutti, preparò le navi e arruolò i soldati. Quando giunse il momento di partire, inviò delle lettere a coloro ai quali aveva chiesto aiuto, perché giungessero con tutti i loro uomini: come costoro furono giunti, partirono alla volta della Frigia, e di notte attraccarono al Sigeo. Da lì Ercole, Telamone e Peleo condussero fuori l’esercito, e lasciarono Castore, Polluce e Nestore a far la guardia presso le navi. Quando al re Laomedonte fu annunciato che la flotta dei Greci era entrata nel Sigeo, lui stesso giunse presso la costa con la cavalleria e attaccò battaglia. Ercole, che era giunto a Ilio, attaccò coloro che si trovavano nella città, prendendoli alla sprovvista. Quando Laomedonte seppe che Ilio era sotto attacco nemico, tornò indietro e fu ucciso da Ercole durante il viaggio, dopo aver incrociato i Greci. Telamone per primo entrò nella città di Ilio, ed Ercole premiò il suo valore dandogli Esione, figlia del re Laomedonte, mentre gli altri uomini che erano partiti con Laomedonte furono uccisi. Priamo era in Frigia, dove suo padre gli aveva conferito il comando di un esercito. Ercole

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exercitui praefecerat. Hercules et qui cum eo venerant praedam magnam fecerunt et ad naves deportaverunt. Inde domum proficisci decreverunt, Telamon Hesionam secum convexit. 4. Hoc ubi Priamum nuntiatum est patrem occisum, cives direptos, praedam devectam, Hesionam sororem dono datam, graviter tulit tam contumeliose Phrygiam tractatam esse a Grais, Ilium petit cum uxore Hecuba et liberis Hectore Alexandro Deiphobo Heleno Troilo Andromacha Cassandra Polyxena. Nam erant ei etiam alii filii ex concubinis nati, sed nemo ex regio genere dixit esse nisi eos qui essent ex legitimis uxoribus. Priamus ut Ilium venit, ampliora moenia extruxit, civitatem munitissimam reddidit. Et militum multitudinem ibi esse fecit, ne per ignorantiam opprimeretur, ita ut Laomedon pater eius oppressus est. Regiam quoque aedificavit et ibi aram Iovi statuamque consecravit. Hectorem in Paeoniam misit, Ilio portas fecit, quarum nomina sunt haec: Antenorea Dardania Ilia Scaea Thymbraea Troiana et postquam Ilium stabilitum vidit, tempus expectavit. Ut visum est ei iniurias patris ulcisci, Antenorem vocari iubet dicitque ei velle se eum legatum in Graeciam mittere: graves sibi iniurias ab his qui cum exercitu venerant factas in Laomedontis patris nece et abductione Hesionae: quae omnia tamen aequo se animo passurum, si Hesiona ei reddatur. 5. Antenor, ut Priamus imperavit, navim conscendit et profectus venit Magnesiam ad Peleum: quem Peleus

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e coloro che erano giunti con lui fecero un gran bottino e lo portarono presso le navi. Dunque decisero di tornare a casa, e Telamone portò con sé Esione. 4. Quando a Priamo fu annunciato che suo padre era stato ucciso, la città saccheggiata, il bottino sottratto e la sorella Esione data in dono, mal sopportò che la Frigia fosse stata trattata in modo così oltraggioso dai Greci, così si diresse verso Ilio con sua moglie Ecuba e i figli Ettore, Alessandro, Deifobo, Eleno, Troilo, Andromaca, Cassandra e Polissena. Aveva avuto anche altri figli dalle concubine, ma dichiarò che nessuno apparteneva alla famiglia reale ad eccezione di coloro che erano nati da mogli legittime. Quando Priamo giunse a Ilio, fece costruire delle mura più ampie e rese la città ben fortificata. Vi pose una guarnigione di soldati, in modo che in caso di attacco la città non potesse essere colta alla sprovvista, come era capitato a suo padre. Fece costruire anche un palazzo reale e vi dedicò un altare e un tempio in onore di Giove. Mandò Ettore in Peonia, fece costruire delle porte intorno a Ilio, i cui nomi sono i seguenti: Antenorea, Dardania, Ilia, Scea, Timbrea e Troiana. Quando pensò che Ilio fosse ben fortificata, attese il momento propizio. Come gli parve opportuno vendicare le offese arrecate a suo padre, ordinò di chiamare Antenore e gli disse di volerlo inviare in Grecia in veste di ambasciatore. Aggiunse di aver subito delle gravi offese da parte di coloro che erano giunti con il loro esercito, con la morte di suo padre Laomedonte e la sottrazione di Esione. Tuttavia, avrebbe deposto il suo rancore se gli fosse stata restituita sua sorella Esione. 5. Antenore s’imbarcò, come Priamo aveva ordinato, e una volta partito giunse a Magnesia, presso Peleo: questi

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hospitio triduo recepit, die quarto rogat eum, quid venerit. Antenor dicit quae a Priamo mandata erant, ut Graios postularet, ut Hesiona redderetur. Haec ubi Peleus audivit, graviter tulit et quod haec ad se pertinere videbat, iubet eum de finibus suis discedere. Antenor nihil moratus navim ascendit, secundum Boeotiam iter fecit, Salaminam advectus est ad Telamonem, rogare eum coepit, ut Priamo Hesionam sororem redderet: non enim esse aequum in servitute habere regii generis puellam. Telamon Antenori respondit nihil a se Priamo factum, sed quod virtutis causa sibi donatum sit se nemini daturum: ob hoc Antenorem de insula discedere iubet. Antenor navim conscendit et in Achaiam pervenit. Inde ad Castorem et Pollucem delatus coepit ab his postulare, ut Priamo satisfacerent et ei Hesionam sororem redderent. Castor et Pollux negaverunt iniuriam Priamo factam esse, Antenorem discedere iubent. Inde Pylum ad Nestorem venit, dixit Nestori qua de causa venisset. Qui ut audivit coepit Antenorem obiurgare, cur ausus sit in Graeciam venire, cum a Phrygibus priores Graeci laesi fuissent. Antenor ubi vidit nihil se impetrasse et contumeliose [Priamum] tractari, navim conscendit, domum reversus est. Priamo regi demonstrat, quid unusquisque responderit et quomodo ab illis tractatus sit simulque hortatur Priamum, ut eos bello persequatur. 6. Continuo Priamus filios vocari iubet et omnes amicos suos Antenorem Anchisen Aenean Ucalegonta Bucolionem Panthum Lamponem et omnes filios, qui ex concubinis nati erant. Qui ut convenerunt, dixit eis se Antenorem

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lo ospitò per tre giorni e il quarto gli chiese il motivo del suo arrivo. Antenore gli riferì il messaggio affidatogli da Priamo, ossia chiedere ai Greci di restituire Esione. Come Peleo udì queste parole mostrò risentimento, e poiché comprendeva che queste cose lo riguardavano, ordinò ad Antenore di allontanarsi dai suoi territori. Senza alcun indugio Antenore si imbarcò e fece rotta verso la Beozia, giungendo a Salamina, presso Telamone, e iniziò a pregarlo di restituire a Priamo la sorella Esione: diceva che non era giusto tenere in schiavitù una fanciulla di rango regale. Telamone rispose ad Antenore di non aver fatto alcun torto a Priamo, ma che non avrebbe donato a nessuno ciò che gli era stato dato come premio per il suo valore: per questo motivo ordinò ad Antenore di allontanarsi dall’isola. Antenore s’imbarcò e giunse in Acaia. Lì, dopo essere stato ricevuto presso Castore e Polluce, iniziò a chieder loro di rendere giustizia a Priamo e di restituirgli la sorella Esione. Castore e Polluce negarono di aver recato offesa a Priamo e ordinarono ad Antenore di andar via. Dunque questi giunse a Pilo, da Nestore, e gli rivelò il motivo del suo arrivo. Come questi l’ebbe udito iniziò a rimproverarlo per aver osato venire in Grecia, quando i Greci erano stati i primi ad essere oltraggiati dai Frigi. Quando Antenore capì di non aver ottenuto nulla e di essere stato trattato in modo irrispettoso, si imbarcò e fece ritorno a casa. Riferì a Priamo quanto ciascuno di loro aveva risposto e il trattamento che gli avevano riservato, incitando il re a muovere una guerra contro di loro. 6. Immediatamente Priamo ordinò di chiamare i suoi figli e tutti i suoi amici: Antenore, Anchise, Enea, Ucalegonte, Bucolione, Panto, Lampone e tutti i figli nati dalle concubine. Come essi si furono radunati, egli disse loro di

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legatum in Graeciam misisse, uti hi sibi satisfacerent quod patrem suum necassent, Hesionam sibi redderent: illos contumeliose tractasse Antenorem et Antenorem ab eis nihil impetrasse. Verum quoniam suam voluntatem facere noluissent, videri sibi exercitum in Graeciam mitti qui poenas repeterent ab eis, ne barbaros Graeci inrisui haberent. Hortatusque est Priamus liberos suos, ut eius rei principes forent, maxime Hectorem, erat enim maior natu. Qui coepit dicere se voluntatem patris vindicaturum et Laomedontis avi sui necem et quascumque iniurias Graeci Troianis fecissent, executurum, ne impunitum id Graios foret, sed vereri, ne perficere non possent quod conati essent: multos adiutores Graeciae futuros, Europam bellicosos homines habere, Asiam semper in desidia vitam exercuisse et ob id classem non habere. 7. Alexander cohortari coepit, ut classis praepararetur et in Graeciam mitteretur: se eius rei principem futurum, si pater velit: in deorum benignitate se confidere, victis hostibus laude adepta de Graecia domum rediturum esse. Nam sibi in Ida silva, cum venatum abisset, in somnis Mercurium adduxisse Iunonem Venerem et Minervam, ut inter eas de specie iudicaret: et tunc sibi Venerem pollicitam esse, si suam speciosam faciem iudicaret, daturam se ei uxorem, quae in Graecia speciosissima forma videretur: ubi ita audisset, optimam facie Venerem iudicasse. Unde sperare coepit Priamus Venerem adiutricem Alexandro

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aver inviato Antenore in Grecia in veste di legato, perché questi – i Greci – gli chiedessero perdono per aver ucciso suo padre e gli restituissero Esione. I Greci però lo avevano trattato senza alcun riguardo e Antenore non aveva ottenuto niente da loro. Poiché però i Greci non avevano voluto assecondare il suo intento, al re pareva opportuno muovere l’esercito contro la Grecia, per punire il suo popolo, affinché questo non si facesse beffe dei barbari. Priamo incoraggiò i suoi figli, soprattutto Ettore, il più grande, a farsi promotori dell’iniziativa. Costui iniziò a dire di voler assecondare la volontà del padre e di voler vendicare la morte di suo nonno Laomedonte, insieme con tutte le offese che i Greci avevano arrecato ai Troiani, perché questo gesto da parte loro non restasse impunito, e non potessero portare a termine ciò che avevano tentato di intraprendere. Aggiunse che la Grecia avrebbe avuto molti alleati su cui contare, e che l’Europa era popolata da uomini bellicosi, mentre l’Asia aveva sempre condotto una vita inerte, e per questo motivo non disponeva di una flotta. 7. Alessandro iniziò a spronarli ad allestire una flotta da inviare in Grecia: aggiunse che sarebbe stato il comandante della spedizione, se il padre lo avesse voluto, e che confidava nella benevolenza degli dèi e nel ritorno in patria dalla Grecia, una volta sconfitti i nemici e ottenuta la gloria. Aggiunse infatti che sul monte Ida, dove era andato a caccia, Mercurio gli aveva presentato in sogno Giunone, Venere e Minerva, perché giudicasse tra loro quale fosse la più bella. Venere gli aveva promesso allora che, se avesse scelto lei, gli avrebbe dato in moglie la donna che in Grecia era ritenuta la più bella. Udite queste parole, Alessandro aveva scelto Venere. Dunque Priamo cominciò a sperare che Venere aiutasse Alessandro. Deifobo af-

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futuram. Deiphobus placere sibi dixit Alexandri consilium et sperare Graecos Hesionam reddituros et satisfacturos, si, ut dispositum esset, classis in Graeciam mitteretur. Helenus vaticinari coepit Graios venturos, Ilium eversuros, parentes et fratres hostili manu interituros, si Alexander sibi uxorem de Graecia adduxisset. Troilus minimus natu non minus fortis quam Hector bellum geri suadebat et non debere terreri metu verborum Heleni. Ob quod omnibus placuit classem conparare et in Graeciam proficisci. 8. Priamus Alexandrum et Deiphobum in Paeoniam misit, ut milites legerent. Ad concionem populum venire iubet, commonefacit filios, ut maiores natu minoribus imperarent, monstravit quas iniurias Graeci Troianis fecissent: ob hoc Antenorem legatum in Graeciam misisse, ut sibi Hesionam sororem redderent et satis Troianis facerent: Antenorem a Grais contumeliose tractatum neque ab his quicquam impetrare potuisse: placere sibi Alexandrum in Graeciam mitti cum classe qui avi sui mortem et Troianorum iniurias ulciscatur. Antenorem dicere iussit, quomodo in Graecia tractatus esset. Antenor hortatus est Troianos, ne horrescerent, ad debellandam Graeciam suos alacriores fecit, paucis demonstravit quae in Graecia gesserat. Priamus dixit, si cui displiceret bellum geri, suam voluntatem ediceret. Panthus Priamo et propinquis prodit ea, quae a patre suo Euphorbo audierat, dicere coepit si Alexander uxorem de Graecia adduxisset,

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fermò di essere d’accordo con la decisione di Alessandro e di sperare che i Greci restituissero Esione e chiedessero perdono, qualora, come era stato stabilito, la flotta fosse stata inviata in Grecia. Eleno però iniziò a profetizzare che i Greci sarebbero venuti, avrebbero distrutto Troia e che i genitori e i fratelli sarebbero morti per mano dei nemici, se Alessandro avesse riportato con sé una moglie dalla Grecia. Tuttavia Troilo, il più giovane, ma non meno valoroso di Ettore, incitava a intraprendere lo scontro e a non lasciarsi impaurire dalle parole di Eleno. Per questo motivo decisero all’unanimità di allestire una flotta e di partire alla volta della Grecia. 8. Priamo inviò Alessandro e Deifobo in Peonia per arruolare i soldati. Ordinò che il popolo si riunisse in assemblea, esortò i figli maggiori a esercitare il comando su quelli minori e rese note le offese perpetrate ai Troiani dai Greci; affermò che per questo aveva mandato Antenore in veste di legato in Grecia, perché costoro restituissero la sorella Esione e chiedessero la riparazione dei torti subiti dai Troiani, ma Antenore era stato oltraggiato dai Greci, dai quali non era riuscito ad ottenere alcunché. Voleva dunque inviare Alessandro in Grecia insieme con la flotta, perché vendicasse la morte di suo nonno e le offese subite dai Troiani. Ordinò ad Antenore di parlare e di dire in che modo fosse stato trattato in Grecia. Antenore incitò i Troiani a non aver paura, spronò i suoi uomini a sconfiggere i Greci, e con poche parole illustrò quanto era avvenuto in Grecia. Priamo disse che chiunque fosse contrario alla guerra poteva esprimere il proprio parere. Dinanzi a Priamo e ai suoi parenti si presentò Panto: questi iniziò a dire ciò che aveva udito da suo padre Euforbo, cioè che se Alessandro avesse condotto una sposa dalla Grecia sa-

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Troianis extremum exitium futurum, sed pulchrius esse in otio vitam degere, quam in tumultu libertatem amittere [et periculum inire]. Populus auctoritatem Panthi contempsit, regem dicere iusserunt quid vellet fieri. Priamus dixit naves praeparandas esse, ut eatur in Graeciam, utensilia quoque populo non deesse. Populus conclamavit per se moram non esse, quo minus regis praeceptis pareatur. Priamus illis magnas gratias egit, concionemque dimisit. Ac mox in Idam silvam misit, qui materiem succiderent, naves aedificarent, Hectorem in superiorem Phrygiam misit, ut exercitum pararet [et ita paratus est]. Cassandra postquam audivit patris consilium, dicere coepit quae Troianis futura essent, si Priamus perseveraret classem in Graeciam mittere. 9. Interea tempus supervenit: naves aedificatae sunt, milites supervenerunt, quos Alexander et Deiphobus in Paeonia elegerant. Et ubi visum est navigari posse, Priamus exercitum alloquitur, Alexandrum imperatorem exercitui praeficit, mittit cum eo Deiphobum Aenean Polydamantem imperatque Alexandro, ut primum Spartam accedat, Castorem et Pollucem conveniat et ab his petat, ut Hesiona soror reddatur et satis Troianis fiat: quod si negassent, continuo ad se nuntium mittat, ut exercitum possit in Graeciam mittere. Post haec Alexander in Graeciam navigavit adducto secum duce eo, qui cum Antenore iam navigaverat. Non multos ante dies quam Alexander in Graeciam navigavit, et antequam insulam Cytheream accederet, Menelaus ad Nestorem Pylum proficiscens Alexandro in itinere occurrit et mirabatur classem regiam

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rebbe stata la fine per i Troiani, ma che era meglio vivere in pace piuttosto che perdere la libertà nel tumulto della guerra e andare incontro al pericolo. Il popolo disprezzò l’opinione di Panto e disse al re di dire cosa voleva che si facesse. Priamo rispose che bisognava preparare le navi per andare in Grecia, e che al popolo non mancavano i mezzi per farlo. Il popolo rispose a gran voce che non ci sarebbero stati indugi all’esecuzione degli ordini del re. Priamo rese loro grazie e sciolse l’assemblea. Poco dopo mandò degli uomini nel bosco dell’Ida, perché tagliassero legname e costruissero le navi; inviò Ettore nella Frigia settentrionale per arruolare un esercito [ed esso fu così arruolato]. Come Cassandra ebbe udito la decisione del padre, iniziò a profetizzare i mali che attendevano i Troiani, se Priamo avesse perseverato nella sua decisione di inviare la flotta in Grecia. 9. Nel frattempo giunse il momento: le navi furono costruite e giunsero i soldati che Alessandro e Deifobo avevano arruolato in Peonia. Come parve il momento opportuno per salpare, Priamo si rivolse all’esercito, nominò Alessandro a capo di esso e inviò con lui Deifobo, Enea e Polidamante. Ordinò a suo figlio di recarsi prima a Sparta, per avere un colloquio con Castore e Polluce e per chiedere loro la restituzione della sorella Esione e la riparazione dei torti subiti dai Troiani. Se essi lo avessero negato, avrebbe dovuto subito inviare un messaggero a suo padre, affinché questi potesse inviare l’esercito in Grecia. Dopo queste vicende Alessandro navigò alla volta della Grecia, affiancato dal nocchiero che già aveva navigato con Antenore. Non molti giorni prima che Alessandro salpasse alla volta della Grecia, e prima che approdasse nell’isola di Citera, Menelao incontrò Alessandro durante un viaggio verso Pilo, presso Nestore,

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quo tenderet. Utrique occurrentes aspexerunt se invicem inscii quo quisque iret. Castor et Pollux ad Clytemestram ierant secum Hermionam neptem suam Helenae filiam adduxerant. Argis Iunonis dies festus erat his diebus, quibus Alexander in insulam Cytheream venit, ubi fanum Veneris erat: Dianae sacrificavit. Hi qui in insula erant, mirabantur classem regiam, interrogabant ab illis, qui cum Alexandro venerant, qui essent, quid venissent. Responderunt illi a Priamo rege Alexandrum legatum missum ad Castorem et Pollucem, ut eos conveniret. 10. At Helena vero Menelai uxor, cum Alexander in insula Cytherea esset, placuit ei eo ire. Qua de causa ad litus processit. Oppidum ad mare est Helaea, ubi Dianae et Apollinis fanum est. Ibi rem divinam Helena facere disposuerat. Quod ubi Alexandro nuntiatum est Helenam ad mare venisse, conscius formae suae in conspectu eius ambulare coepit cupiens eam videre. Helenae nuntiatum est Alexandrum Priami regis filium ad Helaeam oppidum, ubi ipsa erat, venisse. Quem etiam ipsa videre cupiebat. Et cum se utrique respexissent, ambo forma sua incensi tempus dederunt, ut gratiam referrent. Alexander imperat, ut omnes in navibus sint parati, nocte classem solvant, de fano Helenam eripiant, secum eam auferant. Signo dato fanum invaserunt, Helenam non invitam eripiunt, in navim deferunt et cum ea mulieres aliquas depraedantur. Quod cum Helenam abreptam oppidani vidissent, diu pugnaverunt cum Alexandro, ne Helenam eripere posset:

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e si chiese meravigliato dove fosse diretta la flotta reale. Entrambi si scrutarono quando si incrociarono, inconsapevoli delle rispettive destinazioni. Castore e Polluce si erano recati presso Clitennestra, e avevano portato con loro la nipote Ermione, figlia di Elena. Nei giorni in cui Alessandro giunse nell’isola Citerea, dove si trovava un tempio di Venere, ad Argo si celebrava una festa in onore di Giunone. Egli fece un sacrificio in onore di Diana, e gli abitanti dell’isola guardarono con stupore la flotta reale, e chiesero ai compagni di Alessandro chi fossero e il motivo del loro arrivo. Quelli risposero che Alessandro era stato inviato dal re Priamo per avere un colloquio con Castore e Polluce. 10. Ma Elena, moglie di Menelao, quando seppe della presenza di Alessandro nell’isola di Citera, volle recarvisi, e per questo motivo giunse presso la costa. Vi è una città sul mare, Elea, luogo di un tempio dedicato a Diana e ad Apollo. Lì Elena aveva deciso di compiere un sacrificio. Quando ad Alessandro fu annunciato che Elena si era recata presso il mare, ben consapevole della sua bellezza, iniziò a passeggiare dinanzi a lei, desideroso di vederla. Ad Elena fu annunciato che Alessandro, figlio di Priamo, era giunto presso la città di Elea, dove lei stessa si trovava, e quando ebbero incrociato i loro sguardi, si accesero entrambi l’uno per la bellezza dell’altra, e colsero l’occasione per scambiarsi dei favori. Alessandro ordinò a tutti i suoi uomini di essere pronti sulle navi, di salpare nella notte, di rapire Elena dal tempio e di portarla con loro. Appena fu dato il segnale essi invasero il tempio, rapirono Elena – senza alcuna resistenza da parte sua -, la fecero salire sulla nave e con lei portarono via altre donne. Quando gli abitanti del luogo ebbero visto che Elena era stata rapita, a lungo combatterono con Alessandro per evitare che

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quos Alexander fretus sociorum multitudine superavit, fanum expoliavit, homines secum quam plurimos captivos abduxit, in naves imposuit, classem solvit, domum reverti disposuit, in portum Tenedon pervenit, ubi Helenam maestam alloquio mitigat, patri rei gestae nuntium mittit. Menelao postquam nuntiatum est Pylum, cum Nestore Spartam profectus est, ad Agamemnonem fratrem misit Argos rogans, ut ad se veniat. 11. Interea Alexander ad patrem suum cum magna praeda pervenit et rei gestae ordinem refert. Priamus gavisus est sperans Graecos ob causam recuperationis Helenae sororem Hesionam reddituros et ea quae inde a Troianis abstulerunt. Helenam maestam consolatus est et eam Alexandro coniugem dedit. Quam ut aspexit Cassandra, vaticinari coepit memorans ea quae ante praedixerat. Quam Priamus abstrahi et includi iussit. Agamemnon postquam Spartam venit, fratrem consolatus est et placuit, ut per totam Graeciam conquisituri mitterentur ad convocandos Graecos et Troianis bellum indicendum. Convenerunt autem hi: Achilles cum Patroclo Euryalus Tlepolemus Diomedes. Postquam Spartam accesserunt, decreverunt iniurias Troianorum persequi, exercitum et classem conparare: Agamemnonem imperatorem et ducem praeficiunt. Hi legatos mittunt, ut tota Graecia conveniant cum classibus et exercitibus ornati paratique ad Atheniensem portum, ut inde pariter ad Troiam proficiscantur ad defendendas suas iniurias. Castor et Pollux in recenti, postquam audierunt Helenam suam sororem raptam, navem conscenderunt et secuti sunt.

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potesse portarla via. Alessandro, confidando nell’aiuto dei suoi numerosi alleati, li sconfisse, depredò il tempio, portò via con sé il più grande numero possibile di prigionieri, li imbarcò sulle navi, salpò, ordinò di tornare a casa e giunse al porto di Tenedo, dove cercò di confortare con le sue parole l’umore di Elena, rattristata, e inviò un messaggero a suo padre per riferirgli l’accaduto. Quando a Pilo Menelao venne a conoscenza di questi avvenimenti, si recò a Sparta insieme con Nestore e inviò un messaggero a suo fratello Agamennone, ad Argo, per chiedergli di raggiungerlo. 11. Nel frattempo Alessandro giunse presso suo padre con un ingente bottino e riferì per filo e per segno quanto era accaduto. Priamo si rallegrò, poiché sperava che i Greci avrebbero restituito Esione e tutto ciò che avevano rubato ai Troiani in cambio di Elena. Consolò Elena, rattristata, e la diede in sposa ad Alessandro. Quando Cassandra iniziò a ricordare le precedenti profezie, e Priamo ordinò che fosse allontanata e rinchiusa. Quando Agamennone giunse a Sparta, consolò suo fratello e volle che degli uomini fossero inviati per tutta la Grecia al fine di riunire i Greci e dichiarare guerra ai Troiani. Si radunarono questi uomini: Achille, Patroclo, Eurialo, Tlepolemo e Diomede. Quando giunsero a Sparta, decisero di vendicare le offese subite dai Troiani e di allestire l’esercito e la flotta, e nominarono Agamennone come capo e guida. Questi inviarono degli ambasciatori affinché da tutta la Grecia si riunissero, insieme con le flotte e gli eserciti, uomini equipaggiati e pronti presso il porto di Atene, da dove, tutti insieme, sarebbero partiti alla volta di Troia per vendicare i torti subiti. Poco dopo Castore e Polluce, quando udirono che la loro sorella Elena era stata rapita, si imbarcarono e li seguirono. All’inizio si credette che,

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Cum in litore Lesbio navem solverent, maxima tempestate exorta nusquam eos conparuisse creditum est, postea dictum est eos immortales factos, itaque Lesbios navibus eos usque ad Troiam quaesitum isse neque eorum usquam vestigium inventum domum renuntiasse. 12. Dares Phrygius, qui hanc historiam scripsit, ait se militasse usque dum Troia capta est, hos se vidisse, cum indutiae essent, partim proelio interfuisse, a Dardanis autem audisse qua facie et natura fuissent Castor et Pollux. Fuerunt autem alter alteri similis capillo flavo oculis magnis facie pura bene figurati corpore deducto. Helenam similem illis formosam animi simplicis blandam cruribus optimis notam inter duo supercilia habentem ore pusillo. Priamum Troianorum regem vultu pulchro magnum voce suavi aquilino corpore. Hectorem blaesum candidum crispum strabum pernicibus membris vultu venerabili barbatum decentem bellicosum animo magno in civibus clementem dignum amore aptum. Deiphobum et Helenum similes patri dissimili natura, Deiphobum fortem Helenum clementem doctum vatem. Troilum magnum pulcherrimum pro aetate valentem fortem cupidum virtutis. Alexandrum candidum longum fortem oculis pulcherrimis capillo molli et flavo ore venusto voce suavi velocem cupidum imperii. Aeneam rufum quadratum facundum affabilem fortem cum consilio pium venustum oculis hilaribus et nigris. Antenorem longum gracilem velocibus membris versutum cautum. Hecubam

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dopo essere salpati dalla costa di Lesbo, a causa di una tempesta assai violenta essi fossero scomparsi, e in seguito circolò la voce che fossero divenuti immortali. I Lesbi sarebbero dunque andati a cercarli con le loro navi fino a Troia, ma, una volta giunti a casa, avrebbero riferito di non aver trovato alcuna traccia di loro. 12. Darete Frigio, che ha scritto questa storia, dice di aver militato fino alla caduta di Troia, di aver visto questi uomini durante le tregue e di aver preso parte ad alcuni combattimenti, ma anche di aver sentito parlare i Dardani dell’aspetto e del carattere di Castore e Polluce. Essi si somigliavano molto per i capelli biondi, i grandi occhi, l’aspetto innocente, le membra proporzionate e il corpo slanciato. Elena era simile a loro, bella, di animo schietto, piacevole, dalle belle gambe, con un neo tra le sopracciglia e la bocca piccola. Priamo, re dei Troiani, aveva un bel viso, era alto, con una voce piacevole e la pelle scura. Ettore era balbuziente, aveva la pelle chiara, la chioma riccia, era strabico e agile, aveva un viso che ispirava rispetto, aveva una bella barba, era bellicoso, di animo generoso e clemente nei confronti dei concittadini, degno di ricevere e capace di dare amore. Deifobo ed Eleno somigliavano al padre ma erano differenti nell’indole: Deifobo era valoroso, Eleno clemente e saggio. Troilo era alto, molto bello e valoroso per la sua età, forte e desideroso di gloria. Alessandro aveva la pelle chiara, era alto, forte, con gli occhi molto belli, i capelli morbidi e biondi, un bel viso, una voce gradevole, scattante e avido di potere. Enea aveva la chioma rossa, un corpo proporzionato, aveva il dono dell’eloquenza, era affabile, coraggioso ma con prudenza, devoto, bello e dagli occhi vivaci e neri. Antenore era alto, magro, dalle membra scattanti, ingegnoso e cauto. Ecuba

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magnam aquilino corpore pulchram mente virili piam iustam. Andromacham oculis claris candidam longam formosam modestam sapientem pudicam blandam. Cassandram mediocri statura ore rotundo rufam oculis micantibus futurorum praesciam. Polyxenam candidam altam formosam collo longo oculis venustis capillis flavis et longis compositam membris digitis prolixis cruribus rectis pedibus optimis, quae forma sua omnes superaret, animo simplici largam dapsilem. 13. Agamemnonem albo corpore magnum membris valentibus facundum prudentem nobilem divitem. Menelaum mediocri statura rufum formosum acceptum gratum. Achillem pectorosum ore venusto membris valentibus et magnis iubatum bene crispatum clementem in armis acerrimum vultu hilari largum dapsilem capillo myrteo. Patroclum pulchro corpore oculis caesiis viribus magnis verecundum certum prudentem dapsilem. Aiacem Oileum quadratum valentibus membris aquilino corpore iocundum fortem. Aiacem Telamonium valentem voce clara capillis nigris coma crispa simplici animo in hostem atrocem. Ulixem firmum dolosum ore hilari statura media eloquentem sapientem. Diomedem fortem quadratum corpore honesto vultu austero in bello acerrimum clamosum cerebro calido inpatientem audacem. Nestorem magnum naso obunco longo latum candidum consiliarium prudentem. Protesilaum corpore candido vultu honesto velocem confidentem temerarium. Neoptolemum magnum viriosum stomachosum blaesum vultu bonum aduncum

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era alta, aveva la pelle scura, era bella e aveva un animo coraggioso come quello di un uomo, devota e giusta. Andromaca aveva gli occhi chiari, la carnagione chiara, era alta, bella, modesta, saggia, pudica e piacevole. Cassandra era di media statura, con la bocca rotonda, la chioma rossiccia, gli occhi scintillanti e prediceva il futuro. Polissena aveva la pelle chiara, era alta, bella, dal collo lungo, gli occhi belli, i capelli biondi e lunghi, le membra proporzionate, le dita lunghe, le gambe dritte e i piedi belli, e superava tutte le altre donne in bellezza. Era di animo schietto, generosa e prodiga. 13. Agamennone aveva la carnagione chiara, era alto, dalle membra robuste, eloquente, prudente, nobile e ricco. Menelao era di media statura, dalla chioma rossiccia, bello, simpatico e gradito. Achille aveva un ampio petto, un bel viso, delle membra robuste e grandi, i capelli lunghi e ricci; era clemente e accanito nei combattimenti, dal volto piacevole, generoso, prodigo e dai capelli color mirto. Patroclo aveva un bel corpo, gli occhi chiari, un corpo forte, discreto, fidato, prudente e prodigo. Aiace Oileo era vigoroso, dalle membra forti, la carnagione scura, allegro e coraggioso. Aiace Telamonio era valoroso, dalla voce squillante, i capelli neri e ricci, di animo schietto e crudele con i nemici. Ulisse era saldo, astuto, dal volto piacevole, di media statura, eloquente e saggio. Diomede era vigoroso, ben proporzionato, aveva un bel corpo e un volto austero, terribile in guerra, con una voce potente, di carattere impetuoso, impaziente e audace. Nestore era alto, dal naso aquilino e lungo, aveva le spalle grandi, la pelle chiara ed era saggio nelle decisioni. Protesilao aveva la carnagione chiara, il volto bello, era scattante, sicuro e temerario. Neottolemo era alto, coraggioso e collerico, balbuziente e

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oculis rotundis superciliosum. Palamedem gracilem longum sapientem animo magnum blandum. Podalirium crassum valentem superbum tristem. Machaonem fortem magnum certum prudentem patientem misericordem. Merionem rufum mediocri statura corpore rotundo viriosum pertinacem crudelem inpatientem. Briseidam formosam non alta statura candidam capillo flavo et molli superciliis iunctis oculis venustis corpore aequali blandam affabilem verecundam animo simplici piam. 14. Deinde ornati cum classe Graeci Athenas convenerunt: Agamemnon ex Mycenis cum navibus numero C, Menelaus ex Sparta cum navibus numero LX Arcesilaus et Prothoenor ex Boeotia cum navibus numero L, Ascalaphus et Ialmenus ex Orchomeno cum navibus numero XXX, Epistrophus et Schedius ex Phocide cum navibus numero XL, Aiax Telamonius ex Salamina adduxit secum Teucrum fratrem, ex Buprasione Amphimachum Diorem Thalpium Polyxenum cum navibus numero XL, Nestor ex Pylo cum navibus numero LXXX, Thoas ex Aetolia cum navibus numero XL, Nireus ex Syme cum navibus numero LIII, Aiax Oileus ex Locris cum navibus numero XXXVII, Antiphus et Phidippus ex Calydna cum navibus numero XXX, Idomeneus et Meriones ex Creta cum navibus numero LXXX, Ulixes ex Ithaca cum navibus numero XII, Eumelus ex Pheris cum navibus numero X, Protesilaus et Podarces ex Phylaca cum navibus numero XL, Podalirius et Machaon Aesculapii filii ex Tricca cum navibus numero XXXII, Achilles cum Patroclo et Myrmidonibus ex Phthia cum navibus numero L, Tlepolemus ex Rhodo cum navibus numero IX, Eurypylus ex Ormenio navibus numero XL, Antiphus et Amphimachus ex Elide navibus numero XI, Polypoetes et Leonteus ex Argisa navibus numero XL, Diomedes Euryalus Sthenelus ex Argis navibus numero LXXX, Philoctetes ex Melibea navibus numero VII, Guneus ex Cypho navibus numero XXI, Prothous ex Magnesia navibus numero

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con un volto piacevole, il naso adunco, gli occhi rotondi e le sopracciglia folte. Palamede era magro, alto, saggio, di animo generoso e gentile. Podalirio era grasso, forte, superbo e austero. Macaone era valoroso, alto, fidato, prudente, paziente e misericordioso. Merione aveva la chioma rossiccia, di media statura, dal corpo ben proporzionato, impetuoso, ostinato, crudele e impaziente. Briseide era di bell’aspetto, non alta, dalla pelle chiara, i capelli biondi e morbidi, le sopracciglia unite, gli occhi belli, il corpo proporzionato, piacevole, affabile, pudica, di animo schietto e devoto. 14. Quando i Greci ebbero allestito l’esercito secondo gli ordini di Agamennone, si radunarono tutti nel porto di Atene. Agamennone da Micene condusse cento navi, Menelao da Sparta sessanta, Arcesilao e Protenore dalla Beozia cinquanta, Ascalafo e Ialmeno da Orcomeno trenta, Epistrofo e Schedio dalla Focide quaranta, Aiace Telamonio portò con sé da Salamina il fratello Teucro, da Buprasione Anfimaco, Diore, Talpio, e Polisseno con quaranta navi. Nestore da Pilo ne condusse ottanta, e Toante dall’Etolia quaranta, Nireo da Sime cinquantatré, Aiace Oileo trentasette da Locri, Antifo e Fidippo trenta da Calidna, Idomeneo e Merione da Creta ne portarono ottanta, Ulisse dodici da Itaca, Eumelo da Fere dieci, Protesilao e Podarce da Filaca quaranta, Podalirio e Macaone, figli di Esculapio, da Tricca con trentadue, Achille con Patroclo e con i suoi Mirmidoni da Ftia cinquanta; Tlepolemo da Rodi nove, Euripilo da Orcomeno quaranta, Antifo e Anfimaco dall’Elide undici, Polipete e Leontio quaranta da Argisa, Diomede, Eurialo e Stenelo da Argo ottanta, Filottete da Melibea sette, Guneo da Cifo ventuno, Proteo di Magnesia quaranta, Agapeno-

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XL, Agapenor ex Arcadia navibus numero XL, Menestheus ex Athenis navibus numero L. Hi fuerunt duces Graecorum numero XLVIIII, qui adduxerunt naves numero mille CXXX.

15. Postquam Athenas venerunt, Agamemnon duces in consilium vocat, conlaudat hortatur, ut quam primum iniurias suas defendant. Rogat, si cui quid placeat suadetque, ut, antequam proficiscerentur, Delphos ad Apollinem consulendum mitterent: cui omnes adsentiunt. Cui rei praeficitur Achilles, hic cum Patroclo proficiscitur. Priamus interea, ut audivit quia hostes parati sunt, mittit per totam Phrygiam qui finitimos exercitus adducant, domique milites magno animo comparat. Achilles cum Delphos venisset, ad oraculum pergit: et ex adyto respondetur Graecos victuros, decimoque anno Troiam capturos. Achilles res divinas, sicut imperatum est, fecit. Et eo tempore venerat Calchas Thestore natus divinus. Dona pro Phrygibus a suo populo missus Apollini portabat, simul consuluit de regno rebusque suis. Huic ex adyto respondetur, ut cum Argivorum classe militum contra Troianos proficiscatur eosque sua intellegentia iuvet, neve inde prius discedant, quam Troia capta sit. Postquam in fanum ventum est, inter se Achilles et Calchas responsa contulerunt, gaudentes hospitio amicitiam confirmant, una Athenas proficiscuntur, perveniunt eo. Achilles eadem in consilio refert, Argivi gaudent, Calchantem secum recipiunt, classem solvunt. Cum eos ibi tempestates

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re dall’Arcadia quaranta, Menesteo di Atene cinquanta. Questi furono i principi greci, in numero di quarantanove, che complessivamente condussero millecentotrenta navi. 15. Quando si riunirono ad Atene, Agamennone convocò i capi in assemblea, li colmò di lodi e li esortò a vendicare le offese subite quanto prima. Chiese loro se avevano qualche suggerimento e li convinse a inviare una delegazione a Delfi prima della partenza, presso il tempio di Apollo, per consultare l’oracolo. Questi acconsentirono tutti. A capo della delegazione fu designato Achille, che partì insieme con Patroclo. Priamo, nel frattempo, quando seppe che i nemici erano pronti, inviò per tutta la Frigia degli uomini per convocare gli eserciti vicini, e in patria preparò i soldati con grande attenzione. Quando Achille giunse a Delfi, si diresse verso l’oracolo, e dai penetrali si udì il responso: i Greci avrebbero vinto e avrebbero espugnato Troia al decimo anno di guerra. Achille celebrò un sacrificio, così come gli era stato ordinato, e in quel tempo era giunto il divino Calcante, nato da Testore. Inviato dal suo popolo, portava dei doni ad Apollo in favore dei Frigi, e al tempo stesso interrogò l’oracolo a proposito delle sorti sue e del regno. Dai penetrali gli fu risposto che, schierandosi contro i Troiani, doveva partire con la flotta degli Argivi e aiutare costoro con la sua preveggenza, e non si sarebbero dovuti allontanare prima della caduta di Troia. Giunti nel tempio, Achille e Calcante confrontarono i rispettivi responsi, e con gioia consolidarono il loro legame d’amicizia con l’ospitalità, partirono e giunsero insieme ad Atene. Achille riferì quanto era accaduto nell’assemblea, gli Argivi gioirono, accolsero tra loro Calcante e sciolsero le vele. Poiché delle tempeste li trattenevano lì, Calcante

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retinerent, Calchas ex augurio respondet, uti revertantur et in Aulidem proficiscantur. Profecti perveniunt. Agamemnon Dianam placat dicitque sociis suis, ut classem solvant, ad Troiam iter faciant. Utuntur duce Philocteta, qui cum Argonautis ad Troiam fuerat. Deinde applicant classem ad oppidum quod sub imperio Priami regis erat, et id expugnant, praedaque facta proficiscuntur. Veniunt Tenedum, ubi omnes occidunt. Agamemnon praedam divisit, consilium convocavit. 16. Inde legatos ad Priamum mittit, si velit Helenam reddere et praedam quam Alexander fecit restituere. Legati eleguntur Diomedes et Ulixes, hi ad Priamum proficiscuntur. Dum legatis, mandatis parent, mittuntur Achilles et Telephus ad praedandam Mysiam. Ad Teuthrantem regem veniunt praedamque faciunt. Teuthras cum exercitu superveniunt. Quem Achilles fugato exercitu vulnerat: quem iacentem Telephus clipeo protexit, ne ab Achille interficeretur. Commemorant inter se hospitium, quod Telephus cum adhuc puer erat, a patre Hercule progenitus, a Teuthrante rege hospitio receptus est. Diomedem regem ferunt eo tempore venantem cum equis potentibus et feris ab Hercule interfectum Teuthranti regnum totum tradidisse: ob hoc eius filium Telephum ei subpetias venisse. Quod cum Teuthras intellegeret se eodem vulnere mortem effugere non posse, regnum suum Mysiam vivus Telepho tradidit et eum regem ordinavit. Tum regem Teuthrantem Telephus magnifice sepelivit. Suadet ei Achilles, ut novum regnum conservet: ait plus multo eum exercitum adiuvaturum, si commeatum frumenti exercitui

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consultò l’oracolo e rispose che bisognava tornare indietro e dirigersi verso l’Aulide, ove, una volta giunti, Agamennone placò Diana e disse ai suoi compagni di sciogliere le vele e di fare rotta per Troia. Come nocchiero scelsero Filottete, che aveva partecipato alla spedizione degli Argonauti a Troia. In seguito sbarcarono in una città che faceva parte del regno di Priamo, la espugnarono e dopo essersi impadroniti del bottino ripartirono. Giunsero a Tenedo, dove sterminarono tutti gli abitanti. Agamennone spartì il bottino e convocò l’assemblea. 16. Da lì inviò degli ambasciatori presso Priamo per chiedergli se volesse restituire Elena e il bottino che Alessandro aveva fatto. Furono scelti come legati Diomede e Ulisse, e questi si recarono presso Priamo. Mentre gli ambasciatori eseguivano i compiti a loro affidati, Achille e Telefo furono mandati a depredare la Misia. Si recarono presso il re Teutrante e fecero il bottino, ma Teutrante giunse con il suo esercito. Achille lo ferì dopo aver messo in fuga le truppe, ma Telefo lo protesse con il suo scudo mentre giaceva ferito, perché Achille non lo uccidesse. Essi ricordavano il vincolo di ospitalità che li legava, poiché quando Telefo, figlio di Ercole, era ancora un fanciullo, fu ospitato dal re Teutrante. Si dice che all’epoca il re Diomede fu ucciso da Ercole mentre cacciava con i suoi cavalli possenti e selvaggi, e che abbia affidato tutto il suo regno a Teutrante: per questo motivo il figlio di Ercole, Telefo, giunse in suo aiuto. Quando Teutrante si rese conto che la sua ferita era mortale, nei suoi ultimi istanti di vita lasciò il suo regno e la Misia a Telefo e lo nominò re. Allora quest’ultimo celebrò un magnifico funerale in onore del re Teutrante. Achille lo convinse a conservare il nuovo regno: disse che sarebbe stato di maggior aiuto per l’esercito se, anziché recarsi a

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praepararet, quam si ad Troiam iret. Itaque Telephus remanet. Achilles cum magno praedae commercio ad exercitum Tenedum revertitur, Agamemnoni rem gestam narrat, Agamemnon adprobat conlaudat. 17. Interea legati missi ad Priamum veniunt. Ulixes mandata Agamemnonis refert, postulat, ut Helena et praeda reddatur satisque Graecis fiat, ut pacifice discedant. Priamus iniurias Argonautarum commemorat, patris interitum, Troiae expugnationem et Hesionae sororis servitutem, denique Antenorem legatum cum miserit, quam contumeliose ab eis tractatus sit, pacem repudiat, bellum indicit, Graecorum legatos de finibus repelli iubet. Legati in castra Tenedum revertuntur renuntiantes responsum. Res consulto geritur. 18. Aderant vero ad auxilium Priamo adversus Graecos ducatores hi cum exercitibus suis, quorum nomina et provincias insinuandas esse duximus : de Zelia Pandarus Amphius Adrastus, de Colophonia Mopsus, de Phrygia Asius, de Caria Amphimachus Nastes, de Lycia Sarpedon Glaucus, de Larisa Hippothous et Cupesus, de Ciconia Euphemus, de Thracia Pirus et Acamas, de Paeonia Pyraechmes et Asteropaeus, de Phrygia Ascanius et Phorcys, de Maeonia Antiphus et Mesthles, de Paphlagonia Pylaemenes, de Aethiopia Perses et Memnon, de Thracia Rhesus et Archilochus, de Adrestia Adrastus et Amphius, de Alizonia Epistrophus et Odius. His ductoribus et exercitibus qui paruerunt praefecit Priamus principem et ductorem Hectorem, dein Deiphobum Alexandrum

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Troia, avesse provveduto al rifornimento di frumento. E così Telefo rimase. Achille fece ritorno a Tenedo, presso il suo esercito, con una grande scorta di frumento, narrò l’accaduto ad Agamennone, che lo elogiò e colmò di lodi. 17. Nel frattempo giunsero gli ambasciatori inviati presso Priamo. Ulisse riferì le parole di Agamennone e chiese la restituzione di Elena e del bottino per dare soddisfazione ai Greci, in modo che questi potessero ritirarsi pacificamente. Priamo ricordò le offese degli Argonauti, la morte del padre, il sacco di Troia e la schiavitù di sua sorella Esione, e infine il trattamento privo di riguardo riservato ad Antenore, quando questi era stato inviato in veste di ambasciatore. Rifiutò la pace, proclamò la guerra e ordinò che gli ambasciatori greci fossero allontanati dalle sue terre. Questi fecero ritorno a Tenedo, sede del loro accampamento, annunciando quanto era accaduto. Ci si consultò sul da farsi. 18. Contro i Greci erano giunti in aiuto di Priamo questi comandanti insieme con i loro eserciti, dei quali abbiamo ritenuto opportuno ricordare il nome e la provenienza: dalla Zelia Pandaro, Anfio e Adrasto, dalla Colofonia Mopso, dalla Frigia Asio, Anfimaco e Naste provenienti dalla Caria, Sarpedone e Glauco dalla Licia, Ippotoo e Cupeso da Larissa, Eufemo dalla Ciconia, Pirro e Acamante dalla Tracia, dalla Peonia Pirecme e Asteropeo, dalla Frigia Ascanio e Forci, dalla Meonia Antifo e Mestle, dalla Paflagonia Pilemene, dall’Etiopia Perse e Memnone, dalla Tracia Reso e Archiloco, dalla Adrestia Adrasto e Anfio, dall’Alizonia Epistrofo e Odio.A capo di questi comandanti ed eserciti, Priamo confermò condottiero supremo Ettore, e in seguito, Deifobo, Alessandro, Troilo,

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Troilum Aeneam Memnonem. Dum Agamemnon consulit de tota re, ex Cormo advenit Naupli filius Palamedes cum navibus XXX. Ille excusavit se morbo adfectum Athenas venire non potuisse: quod venerit, cum primum potuerit, gratias agunt rogantque eum in consilio esse. 19. Deinde cum Argivis non constaret exeundum ad Troiam clam noctu an interdiu foret, Palamedes suadet et rationem reddit luce in Troiam escensionem fieri oportere et manum hostium deduci. Itaque omnes ei adsentiunt. Consulte Agamemnonem praeficiunt. Legatos ad Mysiam ceterisque locis mittunt, ut exercitui commeatus subportandos curent, Thesidas Demophoontem et Acamantem et Anium: deinde exercitum ad concionem convocat conlaudat imperat hortatur monet diligenter, ut dicto obaudientes sint. Signo dato naves solvunt, tota classis ad latitudinem accedit ad Troiae litora. Troiani fortiter defendunt. Protesilaus in terram excursionem facit fugat caedit. Cui Hector obviam venit et eum interfecit, ceteros perturbat. Unde Hector recedebat, ibi Troiani fugabantur. Postquam magna caedes utrimque facta est, advenit Achilles. Is totum exercitum in fugam vertit, redegit in Troiam. Nox proelium dirimit. Agamemnon exercitum totum in terram educit, castra facit. Postera die Hector exercitum ex urbe educit et instruit. Agamemnon contra clamore magno occurrit. Proelium acre iracundumque fit, fortissimus quisque in primis cadit. Hector Patroclum occidit et spoliare parat.

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Enea a Memnone. Mentre Agamennone valutava la situazione, da Cormo giunse Palamede, figlio di Nauplio, con trenta navi. Costui si scusò per non essere giunto prima ad Atene a causa di una malattia. I Greci lo ringraziarono per essere arrivato il prima possibile e lo invitarono a unirsi all’assemblea. 19. In seguito, poiché i Greci non sapevano se avvicinarsi di soppiatto a Troia, di notte o di giorno, Palamede li convinse con le sue motivazioni dell’opportunità di sbarcare sul suolo troiano di giorno, in modo da costringere l’esercito dei nemici a uscire, e così tutti acconsentirono. Dopo un attento esame, decisero di affidare il comando ad Agamennone. Inviarono come ambasciatori in Misia e in altre regioni, perché si occupassero dell’approvvigionamento dell’esercito, i figli di Teseo, Demofonte e Acamante, insieme con Anio: in seguito Agamennone, dopo aver convocato l’esercito in assemblea, lo incoraggiò, diede degli ordini, lo esortò, lo ammonì insistentemente ad obbedire ai comandi. Una volta dato il segnale le navi salparono, tutta la flotta in formazione approdò alle coste troiane. I Troiani si difesero con coraggio. Protesilao scese a terra, mise in fuga alcuni uomini e ne uccise altri, ma gli si fece incontro Ettore, che lo uccise mentre disperdeva gli altri. Dove Ettore si ritirava, da lì i Troiani erano messi in fuga. Consumatosi lo scontro da entrambe le parti, giunse Achille. Questi mise in fuga tutto l’esercito e lo costrinse a tornare a Troia. La notte pose fine al combattimento. Agamennone condusse tutto l’esercito sulla terra ferma e vi pose l’accampamento. Il giorno successivo Ettore condusse l’esercito fuori dalla città e lo schierò. Agamennone si scagliò contro di lui con alte grida. Si combatté aspramente e con rabbia, e i più valorosi caddero nelle

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Meriones eum ex acie, ne expoliaretur, eripuit. Hector Merionem persequitur et occidit. Quem cum similiter spoliare vellet, advenit subpetias Menestheus, Hectori femur sauciat, saucius quoque multa milia occidit et perseverasset Achivos in fugam mittere, nisi obvius illi Aiax Telamonius fuisset. Cum quo cum congrederetur, cognovit eum esse de sanguine suo, erat enim de Hesiona sorore Priami natus. Quo pacto Hector a navibus ignem removeri iussit et utrique se invicem remuneraverunt, et amici discesserunt. 20. Postera die Graiugenae indutias petunt. Achilles Patroclum plangit, Graiugenae suos. Agamemnon Protesilaum magnifico funere effert ceterosque sepeliendos curat. Achilles Patroclo ludos funebres facit. Dum indutiae sunt, Palamedes non cessat seditionem facere: indignum regem Agamemnonem esse, qui exercitui imperaret. Ipse coram exercitu multa sua studia ostendit: primum suam excursionem castrorum munitionem vigiliarum circuitionem signi dationem librarum ponderumque dimensionem exercitusque instructionem. Haec cum a se orta essent, non aequum esse, cum a paucis imperium Agamemnoni datum sit, eum omnibus qui postea convenissent imperare, praesertim cum omnes ingenium virtutemque exspectassent in ducibus suis. Dum Achivi de imperio inter se vicissim certant, proelium post biennium

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prime file dell’esercito. Ettore uccise Patroclo e si preparò a spogliarlo delle armi, ma Merione portò via il cadavere perché non gli fossero sottratte le armi. Ettore inseguì Merione e lo uccise. Mentre si accingeva a spogliare delle armi anche lui, giunse in suo aiuto Menesteo: questi ferì alla coscia Ettore, il quale, pur essendo ferito, uccise molte migliaia di uomini e avrebbe continuato a mettere in fuga gli Achei se Aiace Telamonio non si fosse opposto a lui. Mentre quest’ultimo si accingeva a combattere con Ettore, riconobbe che era del suo stesso sangue, giacché era nato da Esione, sorella di Priamo. Pertanto Ettore ordinò di allontanare il fuoco dalle navi, si scambiò dei doni con Aiace e i due si separarono amichevolmente. 20. Il giorno seguente i Greci chiesero una tregua. Achille pianse la morte di Patroclo, i Greci quella dei propri compagni. Agamennone indisse degli illustri funerali in onore di Protesilao e si occupò della sepoltura degli altri. Achille celebrò i giochi funebri in onore di Patroclo. Durante la tregua Palamede non smise di fomentare una rivolta: diceva che Agamennone non era degno del comando sull’esercito. Lui stesso, dinanzi alle truppe, mostrò le sue numerose invenzioni: prima di tutto le sue sortite, poi la fortificazione dell’accampamento, la ronda delle guardie, lo scambio del segnale, la misurazione in libbre e pesi e l’addestramento dell’esercito. Diceva che, poiché si trattava di sue invenzioni, non era giusto che Agamennone, pur essendo insignito del potere da pochi uomini, avesse il comando anche su tutti coloro che si erano uniti alla spedizione in un secondo momento, in particolare perché tutti si aspettavano intelligenza e valore dai propri comandanti. Poiché gli Achei discussero tra loro sul conferimento del comando, lo scontro fu ripreso dopo due anni. Aga-

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repetitum est. Agamemnon Achilles Diomedes Menelaus exercitum educunt. Contra Hector Troilus Aeneas occurrunt. Fit magna caedes, ex utraque parte fortissimi cadunt: Hector Boetem Arcesilaum Prothoenorem occidit. Nox proelium dirimit. Agamemnon noctu in consilium omnes duces convocat suadet hortatur, ut omnes in aciem prodeant et maxime Hectorem persequatur, quia de his aliquos duces fortissimos occidit. 21. Mane facto Hector Aeneas Alexander exercitum educunt. Omnes duces Achivorum prodeunt. Fit magna caedes. Multa milia invicem Orco dimittuntur. Menelaus Alexandrum persequi coepit: quem respiciens Alexander sagitta Menelai femur transfigit. Ille dolore commotus pariter cum Aiace Locro non cessant eum persequi. Quos ut vidit Hector instanter fratrem suum persequi, subpetias cum Aenea ei venit. Quem Aeneas clipeo protexit, et de proelio ad civitatem secum adduxit. Nox proelium dirimit. Achilles postera die cum Diomede exercitum educit. Contra Hector et Aeneas. Fit magna caedes: Hector Orcomeneum Ialmenum Epistrophum Schedium Elephenorem Dioren Polyxenum duces occidit, Aeneas Amphimachum et Nireum, Achilles Euphemum Hippothoum Pylaeum Asteropaeum, Diomedes Antiphum Mesthlen. Agamemnon ut vidit duces fortissimos cecidisse, pugnam revocavit. Laeti Troiani in castra revertuntur. Agamemnon sollicitus duces in consilium vocavit, hortatur, ut fortiter pugnarent neque desisterent,

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mennone, Achille, Menelao e Diomede condussero fuori l’esercito. Dall’altra parte Ettore, Troilo ed Enea si schierarono. Vi fu una grande strage, e uomini assai valorosi di entrambe le parti perirono. Ettore uccise Bete, Arcesilao e Protoenore. La notte pose fine allo scontro. Nella notte Agamennone convocò in assemblea tutti i comandanti, li spronò e incoraggiò a gettarsi nella mischia e ad attaccare soprattutto Ettore, poiché tra loro aveva ucciso comandanti assai valorosi. 21. Al mattino Ettore, Enea e Alessandro condussero fuori l’esercito, e dall’altra parte tutti i capi degli Achei si fecero avanti. Vi fu una grande strage, e molte migliaia di uomini da entrambe le parti furono spediti nell’Orco. Menelao iniziò a incalzare Alessandro: nel vederlo, il figlio di Priamo ferì con un dardo Menelao a una coscia. Quello, pur essendo in preda al dolore, non smise tuttavia di incalzare Alessandro insieme con Aiace di Locri. Non appena Ettore vide costoro attaccare suo fratello, giunse in suo aiuto con Enea, che protesse Alessandro con il suo scudo e lo portò via dallo scontro, verso la città. La notte pose fine al combattimento. Il giorno seguente Achille portò fuori l’esercito con Diomede. Dall’altra parte uscirono Ettore ed Enea. Vi fu una grande carneficina: Ettore uccise i comandanti Orcomeneo, Ialmeno, Epistrofo, Schedio, Elefenore, Diore e Polisseno, Enea Anfimaco e Nireo, Achille Eufemo, Ippotoo, Pileo, Asteropeo, Diomede, Antifo e Mestle. Come Agamennone si rese conto del fatto che comandanti assai forti avevano perso la vita, ordinò la ritirata. I Troiani tornarono felici nell’accampamento. Agamennone turbato convocò i comandanti in assemblea e li esortò a combattere valorosamente e a non arrendersi per il fatto che la maggior parte dei loro commilitoni era stata

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quoniam maior pars ex suis superata sit, sperare se exercitum ex Mysia cotidie superventurum. 22. Postera die Agamemnon totum exercitum et omnes duces in pugnam prodire coegit. Contra Troiani. Fit magna caedes, acriter ex utraque parte pugnatur, multa milia hinc et inde cadunt nec differebatur pugna, ita ut continuis LXXX diebus animose pugnatum sit. Agamemnon ut vidit multa milia cotidie occidi neque sufficere mortuos sine intermissione funerari, misit legatos Ulixen et Diomedem ad Priamum, ut indutias in triennium peterent, ut suos funerarent, vulneratos curarent, naves reficerent, exercitum compararent, commeatum conveherent. Ulixes et Diomedes noctu ad Priamum vadunt [legati]. Occurrit illis ex Troianis Dolon. Qui cum interrogaret, quid ita armati noctu ad oppidum venissent, dixerunt se ab Agamemnone legatos ad Priamum missos. Quos ut audivit Priamus venisse et desiderium suum exposuisse, in consilium omnes duces convocat, quibus refert legatos venisse ab Agamemnone, ut indutias in triennium peterent. Hectori suspectum videtur quod tam longum tempus postulassent. Priamus dicere imperat, quid cuique videatur. omnibus placitum est indutias in triennium dare. Interim Troiani moenia renovant, suos quisque saucios curant, mortuos cum ingenti honore sepeliunt. 23. Tempus pugnae post triennium supervenit. Hector et Troilus exercitum educunt. Agamemnon Menelaus

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decimata. Affermava inoltre di sperare che da un giorno all’altro giungesse l’esercito dalla Misia. 22. Il giorno seguente Agamennone obbligò tutto l’esercito e tutti i comandanti a uscire in battaglia. Dall’altra parte uscirono i Troiani. Vi fu una grande strage, si combatté aspramente da entrambe le parti, molte migliaia di uomini cadevano da una parte e dall’altra, e la battaglia non si interrompeva, a tal punto che si combatté con coraggio per ottanta giorni. Come Agamennone vide che molte migliaia di uomini morivano di giorno in giorno e che non era possibile dare una sepoltura ai caduti senza una tregua, inviò Ulisse e Diomede come ambasciatori presso Priamo, per chiedergli una tregua di tre anni, affinché potessero seppellire i propri morti, curare i feriti, riparare le navi, rimettere in sesto l’esercito e procurare le vettovaglie. Ulisse e Diomede di notte si recarono da Priamo come ambasciatori, e tra i Troiani gli si fece incontro Dolone. Quando questi chiese loro per quale motivo si fossero recati in città così armati e di notte, essi risposero di essere stati inviati come ambasciatori presso Priamo da Agamennone. Quando Priamo seppe del loro arrivo e udì la loro richiesta, convocò in assemblea tutti i comandanti, ai quali riferì che erano giunti degli ambasciatori da parte di Agamennone per chiedere una tregua di tre anni. A Ettore parve sospetto il fatto che avessero chiesto così tanto tempo. Priamo ordinò a ciascuno di dire ciò che pensava, e tutti vollero concedere tre anni di tregua. Nel frattempo i Troiani ricostruirono le mura, curarono ciascuno i propri feriti e seppellirono i morti con grande onore. 23. Dopo tre anni giunse il momento di combattere. Ettore e Troilo condussero fuori l’esercito. Anche Agamenno-

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Achilles et Diomedes etiam ipsi exercitum educunt. Fit magna caedes. Hector in prima acie Phidippum et Antiphum duces interficit, Achilles Lycaonem et Phorcyn occidit et ex cetera plebe multa milia ex utraque parte cadunt. Acriter pugnatur diebus continuis XXX. Priamus ut vidit multos de suo exercitu cecidisse, mittit legatos ad Agamemnonem, ut indutias peterent mensibus VI et ex consilii sententia Agamemnon concedit indutias. Tempus pugnae supervenit. Acriter per duodecim dies pugnatur. Multi duces fortissimi hinc et inde cadunt, plures vulnerantur, plurimi in curatione moriuntur. Agamemnon mittit ad Priamum legatos et triginta dierum indutias postulat, ut funerare mortuos suos possit. Priamus consulte fecit. 24. At ubi tempus pugnae supervenit, Andromacha uxor Hectoris in somnis vidit Hectorem non debere in pugnam procedere: et cum ad eum visum referret, Hector muliebria verba abicit. Andromacha maesta misit ad Priamum, ut ille prohiberet, ne ea die pugnaret. Priamus Alexandrum Helenum Troilum et Aenean in pugnam misit. Hector ut ista audivit, multa increpans Andromacham arma ut proferret poposcit nec retineri ullo modo potuit. Maesta Andromacha summissis capillis Astyanactem filium protendens ante pedes Hectoris eum revocare non potuit. Tunc planctu femineo oppidum concitat, ad Priamum in regiam currit, refert quae somnis viderit velle Hectorem ueloci saltu in pugnam ire, proiectoque ad genua

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ne, Menelao, Achille e Diomede fecero uscire l’esercito. Vi fu una grande strage. Ettore in prima fila uccise i comandanti Fidippo e Antifo, Achille uccise Licaone e Forci, e dal resto dell’esercito caddero molte migliaia di uomini da entrambe le parti. Si combatté aspramente senza sosta per trenta giorni. Come Priamo vide che molti uomini del suo esercito erano morti, inviò degli ambasciatori da Agamennone per chiedere una tregua di sei mesi, e in base alla decisione del consiglio Agamennone concesse la tregua. Giunse il momento di combattere, e si combatté aspramente per dodici giorni. Molti comandanti assai forti perirono da una parte e dall’altra, ancor di più furono feriti, moltissimi morirono mentre erano curati. Agamennone inviò degli ambasciatori presso Priamo e chiese una tregua di trenta giorni, per avere la possibilità di dare una sepoltura ai propri caduti. Priamo, dopo aver riflettuto, la concesse. 24. Ma quando venne il momento della battaglia Andromaca, moglie di Ettore, vide in sogno che Ettore non doveva prendere parte al combattimento, e quando gli riferì ciò che aveva sognato, Ettore disprezzò quelle parole da donne. Adromaca, rattristata, mandò a dire a Priamo di proibire a suo figlio di combattere. Priamo mandò nella mischia Alessandro, Eleno, Troilo ed Enea. Come Ettore udì queste parole, lanciando molte imprecazioni contro Andromaca, chiese che gli portasse le sue armi, e lei non poté trattenerlo in alcun modo. Andromaca, mesta e con i capelli sciolti, non riuscì a trattenere Ettore nemmeno ponendo dinanzi ai suoi piedi il figlio Astianatte. Allora riempì la città con i suoi pianti di donna, corse alla reggia di Priamo, riferì quanto aveva visto in sogno, che Ettore voleva subito lanciarsi nella mischia, e dopo aver posto

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Astyanacte filio suo eum revocare mandat. Priamus omnes in pugnam prodire iussit, Hectorem retinuit. Agamemnon Achilles Diomedes Aiax Locrus ut viderunt Hectorem in pugna non esse, acriter pugnaverunt multosque duces de Troianorum numero occiderunt. Hector ut audivit tumultum Troianosque in bello saeve laborare, prosiluit in pugnam. Statimque Idomeneum obtruncavit, Iphinoum sauciavit, Leonteum occidit, Stheneli femur iaculo figit. Achilles ut respexit multos duces eius dextera cecidisse, animum in eum dirigebat, ut illi obvius fieret. Considerabat enim Achilles nisi Hectorem occideret plures de Graecorum numero eius dextera perituros. Proelium interea conliditur. Hector Polypoetem ducem fortissimum occidit dumque eum spoliare coepit, Achilles supervenit. Fit pugna maior, clamor ab oppido et a toto exercitu surgit. Hector Achillis femur sauciavit. Achilles dolore accepto magis eum persequi coepit nec destitit, nisi eum occideret. Quo interempto Troianos in fugam vertit et maxima caede laesos usque ad portas persequitur: cui tamen Memnon restitit. Et inter se acriter pugnaverunt, laesi utrique discesserunt. Nox proelium dirimit. Achilles saucius de bello rediit. Noctu Troiani Hectorem lamentantur, Graiugenae suos. 25. Postera die Memnon Troianos educit contra Graecorum exercitum. Agamemnon exercitum consulit suadetque indutias duum mensium postulari, ut suos quisque sepelire possit. Legati ad Priamum Troiam proficiscuntur,

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sulle sue ginocchia il figlio Astianatte gli chiese di farlo richiamare. Priamo ordinò che tutti prendessero parte allo scontro, ma trattenne Ettore. Quando Agamennone, Achille, Diomede, Aiace di Locri videro che Ettore non era sul campo di battaglia, combatterono aspramente e uccisero molti comandanti nel novero dei Troiani. Come Ettore udì il tumulto della guerra e i grandi sforzi dei Troiani, si lanciò nella mischia. Immediatamente sgozzò Idomeneo, ferì Ifinoo, uccise Leonteo, e con il giavellotto colpì la coscia di Stenelo. Quando Achille vide che molti comandanti erano morti per mano sua, si volse in direzione di Ettore, per farglisi incontro: egli infatti riteneva che se non avesse ucciso Ettore un numero maggiore di uomini greci sarebbe morto. Nel frattempo infuriava lo scontro. Ettore uccise Polipete, condottiero assai forte, e Achille sopraggiunse mentre si accingeva a spogliarlo delle armi. Lo scontro divenne più aspro, dalla città e da tutto l’esercito si levò un grido. Ettore ferì Achille alla coscia, e questi, nonostante la ferita, iniziò a incalzarlo ancor di più, e non smise fino a quando non l’ebbe ucciso. Dopo ciò mise in fuga i Troiani e inseguì fino alle porte coloro che erano rimasti feriti, facendone grandissima strage. A lui si oppose Memnone: essi combatterono aspramente, ed entrambi si allontanarono dallo scontro feriti. La notte pose fine al combattimento. Achille tornò ferito dallo scontro, di notte i Troiani piansero la morte di Ettore, i Greci quella dei propri caduti. 25. Il giorno seguente Memnone condusse fuori i Troiani contro l’esercito dei Greci. Agamennone consultò l’esercito e lo convinse a chiedere una tregua di due mesi, in modo che ciascuno potesse seppellire i propri morti. Gli ambasciatori partirono alla volta di Troia, per recarsi da

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venientes desiderium prosecuti sunt, duum mensium indutias accipiunt. Priamus Hectorem suorum more ante portas sepelivit ludosque funebres fecit. Dum indutiae sunt, Palamedes iterum non cessat de imperio conqueri. Itaque Agamemnon seditioni cessit et dixit se de ea re libenter laturum, ut quem vellent imperatorem praeficerent. Postera die populum ad concionem vocat, negat se umquam cupidum imperii fuisse, animo aequo se accipere, si cui vellent dare: se libenter cedere: satis sibi esse, dum hostes ulciscantur et parvi facere cuius id opera fiat. Se tamen regnum Mycenis habere, iubet dicere, si cui quid placeat. Palamedes prodit, suum ingenium ostendit. Itaque Argivi libenter ei imperium tradunt. Palamedes Argivis agit gratias, imperium accipit administrat. Achilles vituperat imperii commutationem. 26. Interea indutiae exeunt. Palamedes ornatum paratumque exercitum educit instruit hortatur: contra Deiphobus. Pugnatur acriter a Troianis. Sarpedon Lycius cum suis inpressionem in Argivos facit caedit prosternit. Obvius ei fit Tlepolemus Rhodius, sed diu stando pugnandoque male vulneratus cadit. Succedit Pheres Admeti filius proelium restituit diuque cum Sarpedone comminus pugnando occiditur. Sarpedon quoque vulneratus de proelio recedit. Itaque per aliquot dies proelia fiunt, ex utraque parte multi ductores occiduntur sed plures a

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Priamo, e una volta arrivati esposero la loro richiesta e ottennero una tregua di due mesi. Priamo seppellì Ettore dinanzi alle porte della città, secondo l’usanza della sua gente, e celebrò i giochi funebri. Durante la tregua Palamede non smise di lamentarsi del comando supremo, così Agamennone pose fine alla rivolta e disse che in merito a questa cosa avrebbe volentieri accettato che l’esercito nominasse comandante chi riteneva opportuno. Il giorno seguente convocò l’esercito in assemblea, affermò di non essere mai stato avido di potere e disse che, se essi avessero voluto dare il potere a qualcuno, egli lo avrebbe accettato di buon grado. Egli cedeva il potere senza obiezioni, poiché gli bastava vendicarsi dei nemici, e poco importava per opera di chi ciò avvenisse. In fin dei conti – affermava – lui aveva il potere su Micene, e ordinò a chi volesse di esporre il proprio parere. Palamede si fece avanti e diede prova del suo ingegno, così gli Argivi gli affidarono volentieri il comando. Palamede li ringraziò, ricevette il comando e lo esercitò, ma Achille condannò questo scambio di potere. 26. Nel frattempo terminò la tregua. Palamede condusse fuori, dispose e incoraggiò l’esercito, equipaggiato e pronto a combattere: dall’altra parte fece altrettanto Deifobo. I Troiani combatterono aspramente. Il licio Sarpedone con i suoi uomini attaccò gli Argivi, ne fece strage e li abbatté. Gli si fece incontro Tlepolemo di Rodi, ma cadde ferito gravemente dopo aver resistito e combattuto a lungo. Fere, il figlio di Admeto, prese il suo posto e rinnovò la battaglia, ma dopo aver combattuto in un lungo corpo a corpo con Sarpedone rimase ucciso. Anche Sarpedone si ritirò dalla battaglia ferito, e così le battaglie si consumarono per alcuni giorni, da entrambe le parti molti comandanti furono uccisi, ma il maggior numero perì per mano

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Priamo. Troiani mittunt legatos, indutias postulant, ut mortuos sepeliant, saucios curent. Palamedes indutias facit in annum, mortuos utrique sepeliunt, saucios curant. Fide data ultro citroque in oppidum et castra Argivorum commeant. Palamedes Agamemnonem legatum mittit ad Thesidas Acamantem et Demophoontem, quos legatos Agamemnon praefecerat, ut commeatus compararent et frumentum de Mysia a Telepho acceptum subportarent. Ut eo venit, seditionem Palamedis narrat. Illi moleste ferunt, Agamemnon ait se moleste non ferre, sua voluntate esse factum. Interea naves onerandas curat Palamedes, castra munit, turribusque circumdat. Troiani exercitum exercent, murum diligenter instaurant, fossam et vallum addunt, cetera diligenter conparant. 27. Postquam anni dies venit, quo Hector sepultus est, Priamus et Hecuba et Polyxena ceterique Troiani ad Hectoris sepulchrum profecti sunt. Quibus obvius fit Achilles: Polyxenam contemplatur, figit animum, amare vehementer eam coepit. Tunc ardore conpulsus odiosam in amore vitam consumit et aegre ferebat ademptum imperium Agamemnoni sibique Palamedem praepositum. Cogente amore Phrygio servo fidelissimo mandata dat ferenda ad Hecubam et ab ea sibi uxorem Polyxenam poscit: si dederit, se cum suis Myrmidonibus domum rediturum, quod cum ipse fecerit, ceteros porro ductores

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di Priamo. I Troiani inviarono degli ambasciatori e chiesero una tregua per seppellire i propri caduti e per curare i feriti. Palamede stabilì una tregua di un anno, entrambi gli eserciti seppellirono i caduti e curarono i feriti. Una volta concluso l’accordo, essi avevano la possibilità di circolare qua e là, verso la città e verso l’accampamento degli Argivi. Palamede inviò Agamennone in ambasceria presso Acamante e Demofonte, figli di Teseo, che Agamennone aveva a sua volta nominato ambasciatori, perché procurassero le vettovaglie e portassero dalla Misia il grano ricevuto da Telefo. Come giunse lì, Agamennone riferì loro della rivolta di Palamede. Quelli mal sopportarono l’accaduto, ma Agamennone disse di non avere alcun risentimento, e che ciò era avvenuto con il suo consenso. Nel frattempo Palamede si occupò del carico delle navi, fortificò l’accampamento e lo circondò di torri. I Troiani addestrarono l’esercito, ricostruirono con cura le mura, aggiunsero un fossato e una palizzata e si occuparono scrupolosamente delle altre cose. 27. Quando giunse il primo anniversario della sepoltura di Ettore, Priamo, Ecuba, Polissena e gli altri Troiani si recarono presso il sepolcro di Ettore. Achille li incontrò, vide Polissena, la sua immagine si impresse nel suo animo e se ne innamorò perdutamente. Allora, sconvolto dal fuoco dell’amore, condusse una vita consumata da quel sentimento, e mal sopportava che il potere supremo fosse stato sottratto ad Agamennone per essere conferito a Palamede, preferito dai Greci a lui, Achille. Spinto dalla passione affidò a un servo frigio un messaggio per Ecuba, e le chiese la mano di Polissena: se lei avesse dato il suo consenso, egli avrebbe fatto ritorno a casa insieme coi suoi Mirmidoni, e affermò che dopo di lui anche gli altri co-

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idem facturos. Servus proficiscitur ad Hecubam convenit mandata dicit. Hecuba respondit velle se, si Priamo placeat viro suo: dum ipsa cum Priamo agat, servum reverti iubet. Servus Achilli quid egerit nuntiat. Agamemnon cum magno comitatu ad castra revertitur. Hecuba cum Priamo de condicione Achillis conloquitur. Priamus respondet fieri non posse, non ideo, quod eum indignum adfinitate existimet, sed si ei dederit et ipse discesserit ceteros non discessuros et iniquum esse filiam suam hosti coniungere. Quapropter si id fieri velit, pax perpetua fiat, et exercitus discedat, foedus iure sanciatur: si id factum sit, se illi filiam libenter daturum. Itaque Achilles ut constitutum erat servum ad Hecubam mittit, ut sciat quid cum Priamo egerit. Hecuba omnia quae cum Priamo egerat mandat servo. Is Achilli refert. Achilles queritur in vulgus, unius mulieris Helenae causa totam Graeciam et Europam convocatam esse, tanto tempore tot milia hominum perisse, libertatem in ancipiti esse, unde oportere pacem fieri, exercitum reducere. 28. Annus circumactus est. Palamedes exercitum educit instruit, Deiphobus contra. Achilles iratus in proelium non prodit. Palamedes occasionem nactus inpressionem in Deiphobum facit eumque obtruncat. Proelium acre insurgit, acriter ab utrisque pugnatur, multa milia hominum cadunt. Palamedes in prima acie versatur hortaturque,

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mandanti avrebbero fatto la stessa cosa. Il servo partì per andare da Ecuba e le riferì il messaggio. Ecuba rispose di essere favorevole se anche Priamo, suo marito, fosse stato dello stesso parere: ordinò al servo di tornare dopo averne discusso con lui. Il servo riferì ad Achille quanto era accaduto. Agamennone fece ritorno nell’accampamento con un grande seguito. Ecuba parlò con Priamo della proposta di Achille, ma Priamo rispose che ciò non era possibile, non perché ritenesse Achille indegno di una parentela, ma perché, se gli avesse dato in moglie sua figlia e lui stesso si fosse ritirato, gli altri non avrebbero fatto altrettanto, e sarebbe stato ingiusto dare una figlia in sposa al nemico. Per questo motivo, se voleva che ciò avvenisse, si doveva stipulare una pace perpetua, l’esercito si doveva allontanare e bisognava sancire un patto secondo diritto. Se ciò fosse stato fatto, Priamo avrebbe concesso volentieri la mano di sua figlia. Così Achille, come era stato stabilito, inviò il servo da Ecuba, per sapere cosa aveva deciso con Priamo. Ecuba riferì al servo tutto ciò di cui aveva discusso con Priamo, e questi lo riferì ad Achille. Achille si lamentò pubblicamente per il fatto che tutta la Grecia e l’Europa si fossero radunate per una sola donna, e che in un così lungo lasso di tempo tante migliaia di uomini fossero morti. Affermò che la libertà era in pericolo, per cui era opportuno stipulare una pace e ritirare le truppe. 28. Trascorse un anno. Palamede condusse fuori l’esercito e lo schierò, e lo stesso fece Deifobo dall’altra parte. Achille non partecipò allo scontro perché adirato. Palamede, colta l’occasione, attaccò Deifobo e lo sgozzò. Lo scontro si fece aspro, con violenza si combatté da entrambe le parti, e molte migliaia di uomini caddero. Palamede si aggirava tra le prime file e le esortava a intraprendere con

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proelium ut fortiter gerant. Contra eum Sarpedon Lycius occurrit eumque Palamedes interficit. Eo facto laetus in acie versatur. Cui exultanti et glorianti Alexander Paris sagitta collum transfigit. Phryges animadvertunt, tela coniciunt atque ita Palamedes occiditur. Rege occiso cuncti hostes inpressionem faciunt Argivi cedunt, in castra confugiunt: Troiani persecuntur, castra obpugnant, naves incendunt. Achilli nuntiatum est, dissimulat. Aiax Telamonius fortiter defendit. Nox proelium dirimit. Argivi in castris Palamedis scientiam aequitatem clementiam bonitatem lamentantur. Troiani Sarpedonem et Deiphobum deflent. 29. Nestor qui maior natu erat noctu ductores in consilium vocat suadet hortatur, ut imperatorem praeficiant et si eis videatur eundem Agamemnonem minima cum discordia fieri posse. Item commemorat, dum ille imperator fuit, res prospere cessisse, felicem fuisse exercitum: si cui quid aliud videatur dicere suadet. Omnes adsentiunt, Agamemnonem summum imperatorem praeficiunt. Postera die Troiani alacres in aciem prodeunt. Agamemnon exercitum contra educit. Proelio commisso uterque exercitus inter se pugnat. Postquam maior pars diei transiit, prodit in primo Troilus, caedit devastat, Argivos in castra fugat. Postera die exercitum Troiani educunt: contra Agamemnon. Fit maxima caedes, uterque exercitus inter se pugnat acriter.

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coraggio lo scontro. Gli si oppose il licio Sarpedone, e Palamede lo uccise. Felice della sua impresa, si muoveva tra le prime file, ma mentre esultava e si vantava Alessandro gli trafisse il collo con una freccia. I Frigi se ne accorsero, scagliarono i loro dardi e così Palamede fu ucciso. Alla morte del re, tutti i nemici attaccarono, gli Argivi si ritirarono e si rifugiarono nell’accampamento: i Troiani li incalzarono, assaltarono l’accampamento e incendiarono le navi. Achille venne a sapere dell’accaduto, ma fece finta di niente. Aiace Telamonio resistette coraggiosamente. La notte pose fine allo scontro. Gli Argivi nell’accampamento ricordarono con dolore la saggezza, la giustizia, la clemenza e la bontà di Palamede. I Troiani piansero la morte di Sarpedone e di Deifobo. 29. Nestore, che era il più anziano, di notte convocò i capi in assemblea, li convinse e li esortò a nominare un capo e disse che, se a loro fosse parso opportuno, lo stesso Agamennone avrebbe potuto essere nominato con il minimo dissenso. Al tempo stesso ricordò che, fintanto che lui era stato al comando dell’esercito, le circostanze erano state favorevoli e l’esercito era stato favorito dalla fortuna, ma esortò chiunque ritenesse opportuno nominare un altro comandante a parlare. Tutti furono d’accordo e posero Agamennone a capo dell’esercito. Il giorno seguente i Troiani, pieni di ardore, avanzarono sul campo di battaglia. Agamennone dall’altra parte condusse fuori l’esercito. Iniziato lo scontro entrambi gli eserciti combatterono l’uno contro l’altro, e trascorsa la maggior parte della giornata, Troilo avanzò nelle prime file, fece strage, devastò e mise in fuga verso l’accampamento gli Argivi. Il giorno seguente i Troiani condussero fuori l’esercito: dall’altra parte fece altrettanto Agamennone. Vi fu una grandissima strage, en-

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Multos duces Argivorum Troilus interficit. Pugnatur continuis diebus VII. Agamemnon indutias petit in duos menses. Palameden magnifico funere effert ceterosque duces ac milites utrique sepeliendos curant. 30. Agamemnon dum indutiae sunt mittit ad Achillem Ulixen Nestorem et Diomeden, ut rogent eum in bellum prodire. Abnegat Achilles maestus, quod iam destinaverat in bellum non prodire ob id quod promiserat Hecubae, aut certe se minus pugnaturum eo quod Polyxenam valde amabat: coepit male eos accipere qui ad eum venerant, dicens debere perpetuam pacem fieri, tanta pericula unius mulieris causa fieri, libertatem periclitari, tanto tempore desidere: pacem expostulat, pugnare negat. Agamemnoni renuntiatur quid cum Achille actum sit, illum pertinaciter negare. Agamemnon omnes duces in consilium vocat, exercitum quid fieri debeat consulit, imperat dicere quid cuique videatur. Menelaus hortari coepit fratrem suum, ut exercitum in pugnam produceret, nec debere terreri, si Achilles se excusaverit, se tamen persuasurum ei, ut in bellum prodeat, nec vereri, si noluerit. Commemorare coepit Troianos non habere alium virum tam forte sicut Hector fuit. Diomedes et Ulixes dicere coeperunt Troilum non minus quam Hectorem virum fortissimum esse. Diomedi et Ulixi Menelaus resistens bellum geri suadebat.

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trambi gli eserciti combatterono con ardore tra loro. Troilo uccise molti condottieri degli Argivi, e si combatté senza sosta per sette giorni. Agamennone chiese una tregua di due mesi, celebrò Palamede con un solenne funerale ed entrambi gli eserciti si occuparono della sepoltura degli altri comandanti e soldati. 30. Durante la tregua Agamennone inviò presso Achille Ulisse, Nestore e Diomede, perché lo convincessero a partecipare allo scontro. Achille, rattristato, si rifiutò, poiché aveva deciso di non partecipare allo scontro a causa della promessa fatta ad Ecuba, o di certo perché avrebbe combattuto con minor ardore a causa del suo amore per Polissena. Egli iniziò con l’accogliere male coloro che gli avevano fatto visita, dicendo che si doveva stipulare una pace perpetua, che si correvano così gravi pericoli a causa di una sola donna, che la libertà era in bilico e che da troppo tempo si trattenevano a Troia: chiese la pace, si rifiutò di combattere. Ad Agamennone fu riferito ciò di cui si era discusso con Achille e che questi si rifiutava ostinatamente di combattere. Agamennone convocò tutti i capi in assemblea, si consultò con l’esercito sul da farsi e ordinò a chiunque di esprimere il proprio parere. Menelao iniziò a incoraggiare suo fratello a condurre l’esercito in battaglia, affermando che non doveva preoccuparsi del rifiuto di Achille, poiché lui, Menelao, lo avrebbe convinto a partecipare allo scontro, ma non c’era niente da temere se egli avesse perseverato nel suo rifiuto. Menelao ricordò che i Troiani non avevano un eroe tanto forte quanto lo era stato Ettore. Diomede e Ulisse però dissero che Troilo era un uomo assai valoroso, non meno forte di Ettore. Menelao, tenendo testa a Diomede e a Ulisse, consigliava di intraprendere lo scontro. Calcante, in base a un auspicio, riferì che si doveva combattere e che

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Calchas ex augurio respondit debere pugnare nec vereri quod modo superiores Troiani fuerint. 31. Tempus pugnae supervenit. Agamemnon Menelaus Diomedes Aiax exercitum educunt. Contra Troiani. Fit magna caedes, pugnatur acriter, uterque exercitus inter se saeviunt. Troilus Menelaum sauciat, multos interficit, ceteros paulatim persequitur. Nox proelium dirimit. Postera die Troilus cum Alexandro exercitum educit, contra omnes Argivi prodeunt, acriter pugnatur. Troilus Diomeden sauciat, in Agamemnonem inpressionem facit nec non et ipsum sauciat, Argivos caedit. Per aliquot dies pugnatur acriter, multa milia hominum ex utraque parte trucidantur. Agamemnon ut vidit maiorem partem exercitus se cotidie amittere nec sufficere posse, petit indutias in sex menses. Priamus consilium cogit, indicat Argivorum desideria. Troilus negat debere dari tam longo tempore indutias, sed potius inpressionem fieri, naves incendi. Priamus quid cuique videatur dicere imperat. Omnibus placitum est debere fieri quod Argivi petunt. Priamus itaque in sex menses indutias dedit. Agamemnon honorifice suos sepeliendos curat, Diomeden Menelaum sauciatos curat. Troiani suos aeque sepeliunt. Dum indutiae sunt, ex consilii sententia Agamemnon ad Achillem proficiscitur, ut eum ad pugnam provocaret. Achilles tristis negare coepit se proditurum, sed pacem peti oportere, conqueri coepit, quod Agamemnoni nihil negare possit:

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i Greci non dovevano aver timore del fatto che i Troiani fossero stati più forti negli ultimi tempi. 31. Giunse il momento di combattere. Agamennone, Menelao, Diomede e Aiace condussero fuori l’esercito. Dall’altra parte i Troiani fecero altrettanto. Si consumò una grande strage, si combatté aspramente, entrambi gli eserciti infierirono l’uno contro l’altro. Troilo ferì Menelao, uccise molti uomini e incalzò gli altri uno dopo l’altro. La notte pose fine allo scontro. Il giorno seguente Troilo condusse fuori l’esercito insieme con Alessandro, dall’altra parte avanzarono tutti gli Argivi, si combatté con violenza. Troilo ferì Diomede, attaccò Agamennone e ferì pure lui, fece strage degli Argivi. Per alcuni giorni si combatté accanitamente, molte migliaia di uomini da entrambe le parti furono trucidati. Quando Agamennone si rese conto del fatto che stava perdendo di giorno in giorno la maggior parte dell’esercito e che non poteva reintegrarla, chiese una tregua di sei mesi. Priamo convocò un’assemblea ed espose le richieste degli Argivi. Troilo disse che non si doveva concedere una tregua così lunga, ma che piuttosto bisognava attaccare e incendiare le navi. Priamo ordinò a ciascuno di esprimere il proprio parere, e tutti furono d’accordo nell’accogliere la richiesta degli Argivi. Così Priamo concesse una tregua di sei mesi. Agamennone si occupò della sepoltura dei suoi con onore e fece curare Diomede e Menelao, che erano rimasti feriti. Parimenti i Troiani seppellirono i propri caduti. Durante la tregua, in base alla decisione dell’assemblea Agamennone si recò da Achille per spingerlo a combattere. Achille, rattristato, iniziò a dire che non avrebbe partecipato agli scontri, ma che era opportuno chiedere la pace, e iniziò a lamentarsi del fatto che ad Agamennone non si potesse negare alcun-

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tamen cum tempus pugnae supervenisset, se milites suos missurum, ipsum excusatum haberet. Agamemnon ei gratias egit. 32. Tempus pugnae supervenit. Troiani exercitum educunt. Contra Argivi prodeunt. Achilles primo Myrmidones instruit, ad Agamemnonem paratos mittit. Fit pugna maior, acriter saevitur. Troilus in prima acie Argivos caedit, Myrmidones fugat, inpressionem usque in castra facit, multos occidit, plurimos sauciat. Aiax Telamonius obstitit. Troiani victores in oppidum revertuntur. Postera die Agamemnon exercitum educit, omnes duces et Myrmidones prodeunt: contra Troiani in aciem laeti exeunt. Proelio commisso uterque exercitus inter se dimicat, acriter per aliquot dies pugnatur, multa milia hominum ex utraque parte cadunt. Troilus Myrmidones persequitur sternit fugat. Agamemnon ut vidit ex sua parte multos occisos, indutias in dies triginta petit, ut suos funerare possit. Priamus indutias dedit. Suos quisque sepeliendos curat. 33. Tempus pugnae supervenit. Troiani exercitum educunt. Contra Agamemnon omnes duces in pugnam cogit. Proelio commisso fit magna caedes, acriter saevitur. / postquam primum diei tempus transiit, prodit in primo Troilus caedit prosternit: Argivi fugam cum clamore fecerunt. Achilles ut animadvertit Troilum iracunde saevire et Argivis insultare simulque sine intermissione Myr-

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ché: tuttavia, una volta giunto il momento di combattere, egli avrebbe inviato i propri soldati, ma Agamennone doveva considerarlo dispensato dalla guerra. Agamennone lo ringraziò. 32. Venne il momento di combattere. I Troiani condussero fuori l’esercito, e dall’altra parte avanzarono gli Argivi. Achille per prima cosa dispose i Mirmidoni e li inviò ad Agamennone pronti a combattere. Lo scontro si fece più sanguinoso, ci si accanì aspramente. Troilo in prima fila fece strage degli Argivi, mise in fuga i Mirmidoni, condusse un attacco fino all’accampamento, uccise molti uomini e ne ferì un gran numero. Aiace Telamonio si oppose a lui. I Troiani tornarono vincitori in città. Il giorno seguente Agamennone condusse fuori l’esercito, tutti i comandanti e i Mirmidoni avanzarono: dall’altra parte i Troiani scesero in campo con baldanza. Una volta intrapreso lo scontro entrambi gli eserciti lottarono tra loro, si combatté aspramente per alcuni giorni, molte migliaia di uomini da entrambe le parti caddero. Troilo incalzò, abbatté e mise in fuga i Mirmidoni. Come Agamennone vide che molti dei suoi erano caduti, chiese una tregua di trenta giorni per poterli seppellire, e Priamo la concesse. Ciascuno si curò della sepoltura dei propri morti. 33. Giunse il momento di combattere. I Troiani condussero fuori l’esercito. Dall’altra parte Agamennone incitò tutti i comandanti alla battaglia. Intrapreso lo scontro si consumò una grande strage, ci si accanì violentemente. Una volta trascorsa la prima parte della giornata Troilo avanzò sulla prima linea, fece strage e uccise: gli Argivi si diedero alla fuga tra le grida. Come Achille vide Troilo che si accaniva crudelmente contro di loro, li ingiuriava e faceva strage dei

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midones prosternere, procedit in bellum. Quem Troilus continuo excipit et sauciat. Achilles de proelio saucius redit. Pugnatur continuis diebus sex. Die septimo dum utrique exercitus proelio facto inter se pugnant, Achilles, qui aliquot dies vexatus in pugnam non prodierat, Myrmidones instruit: alloquitur hortatur, ut fortiter inpressionem in Troilum faciant. Postquam maior pars diei transiit, prodit Troilus ex equo laetus. Argivi maximo clamore fugam faciunt, Myrmidones supervenerunt, inpressionem in Troilum faciunt, de quorum numero multi a Troilo occiduntur: dum acriter proeliantur, equus vulneratus corruit, Troilum inplicitum excutit. Eum cito Achilles adveniens occidit, ex proelio trahere coepit, quod Achilles interventu Memnonis complere non potuit. Adveniens enim Memnon et Troili corpus eripuit et Achillem vulnere sauciavit. Achilles de proelio saucius rediit. Memnon insequi eum cum multis coepit, quem Achilles ut respexit, substitit: curato vulnere et aliquamdiu proeliatus Memnonem multis plagis occidit et ipse vulneratus ab eo ex proelio recessit. Postquam Persarum ductor occisus est, reliqui in oppidum confugerunt, portas clauserunt. Nox proelium dirimit. Postera die a Priamo legati ad Agamemnonem missi sunt qui dierum XX indutias peterent, quod continuo Agamemnon concedit. Priamus igitur Troilum Memnonemque magnifico funere effert: ceterosque milites utrique sepeliendos curant. 34. Hecuba maesta, quod duo filii eius fortissimi Hector et Troilus ab Achille interfecti essent, consilium muliebre

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Mirmidoni senza sosta, si lanciò nella mischia. Troilo subito si oppose a lui e lo ferì. Achille tornò ferito dallo scontro. Si combatté ininterrottamente per sei giorni. Il settimo giorno, mentre entrambi gli eserciti, iniziato lo scontro, combattevano tra loro, Achille, che per alcuni giorni non aveva preso parte alla pugna perché ferito, schierò i Mirmidoni: si rivolse a loro, li esortò affinché attaccassero con coraggio Troilo. Trascorsa la maggior parte del giorno, Troilo avanzò con baldanza a cavallo. Gli Argivi si diedero alla fuga con altissime grida, i Mirmidoni sopraggiunsero, attaccarono Troilo, e tra questi molti furono uccisi da lui: mentre si combatteva con violenza, il suo cavallo cadde a terra ferito e sbalzò dalla sella Troilo, che rimase impigliato tra le briglie. Immediatamente Achille, lanciandosi contro di lui, lo uccise e iniziò a trascinare il suo cadavere fuori dal campo di battaglia, ma non ci riuscì a causa dell’intervento di Memnone. Questi infatti sopraggiunse, strappò il corpo di Troilo ad Achille e lo ferì. Achille tornò ferito dallo scontro. Memnone iniziò a inseguirlo insieme con molti guerrieri: come Achille lo vide si fermò. Una volta curata la ferita, Achille uccise Memnone con molti colpi, dopo un lungo combattimento, e lo stesso Pelide si allontanò ferito dal suo nemico. Dopo la morte del comandante dei Persiani, i rimanenti si rifugiarono in città e chiusero le porte. La notte pose fine allo scontro. Il giorno seguente Priamo inviò degli ambasciatori presso Agamennone per chiedere una tregua di venti giorni, cosa che Agamennone concesse immediatamente. Priamo dunque celebrò con un solenne funerale Troilo e Memnone: i soldati di entrambi gli eserciti si occuparono della sepoltura degli altri corpi. 34. Ecuba, rattristata, poiché i suoi due figli più valorosi, Ettore e Troilo, erano stati uccisi da Achille, escogitò un piano

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temerarium iniit ad ulciscendum dolorem. Alexandrum filium arcessit orat hortatur, ut se et fratres suos vindicaret, insidias Achilli faceret et eum nec opinantem occidat, quoniam ad se miserit et rogaverit, ut sibi Polyxenam daret in matrimonium: se ad eum missuram Priami verbis, pacem inter se foedusque firment constituant in fano Apollinis Thymbraei, quod est ante portam: eo Achillem venturum, conlocuturum ibique se illi insidias collocare, satis sibi victum esse, si eum occideret. Quod temptaturum se Alexander promisit. Noctu de exercitu eliguntur fortissimi et in fano Apollinis collocantur, signum accipiunt. Hecuba ad Achillem, sicuti condixerat, nuntium mittit. Achilles laetus Polyxenam amans postera die ad fanum se venturum constituit. Interea Achilles sequenti die cum Antilocho Nestoris filio ad constitutum veniunt simulque fanum Apollinis ingrediuntur, undique ex insidiis occurrunt, tela coniciunt: Paris hortatur. Achilles cum Antilocho brachio sinistro chlamyde involuto enses dextra tenentes impetum faciunt. Exinde Achilles multos occidit. Alexander Antilochum interimit ipsumque Achillem multis plagis confodit. Ita Achilles animam ex insidiis nequiquam fortiter faciens amisit. Quem Alexander feris et volucribus proici iubet. Hoc ne faciat Helenus rogat, tunc eos de fano eici iubet et suis tradi: quorum corpora accepta Argivi in castra ferunt. Agamemnon eos magnifico funere effert Achillique sepulchrum ut faciat a Priamo indutias petit ibique ludos funebres facit.

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degno della temerarietà femminile per vendicare il suo dolore. Fece chiamare suo figlio Alessandro, lo pregò ed esortò affinché vendicasse i suoi fratelli, tendesse un agguato ad Achille e lo uccidesse prendendolo alla sprovvista, poiché lui le aveva inviato un messo e chiesto la mano di Polissena: lei dunque avrebbe inviato qualcuno presso di lui per proporgli, a nome di Priamo, di stipulare la pace e di stringere un’alleanza tra loro nel tempio di Apollo Timbreo, dinanzi alla porta. Lì Achille sarebbe venuto e avrebbe preso accordi, e proprio lì sarebbe stato teso l’agguato. Ecuba sarebbe vissuta abbastanza se Achille fosse stato ucciso. Alessandro le promise che avrebbe tentato. Di notte tra l’esercito furono scelti uomini assai forti, e dopo essere stati disposti nel tempio di Apollo ricevettero il segnale. Ecuba inviò un messaggero presso Achille, così come aveva annunciato. Achille, felice perché amava Polissena, decise di recarsi presso il tempio il giorno seguente. L’indomani giunse nel luogo che era stato indicato insieme con Antiloco, figlio di Nestore, e non appena essi entrarono nel tempio di Apollo, da ogni direzione degli uomini armati tesero un agguato e scagliarono dei dardi contro di loro: Paride li esortava. Achille, insieme con Antiloco, dopo aver avvolto la clamide intorno al braccio sinistro e impugnando con la destra la spada, attaccò. Achille dunque uccise molti uomini. Alessandro uccise Antiloco e ferì Achille con molti colpi, così Achille morì per un agguato, combattendo invano con valore. Alessandro ordinò che fosse lasciato in pasto alle fiere e agli uccelli, ma Eleno lo pregò di non farlo, così ordinò di portare i corpi fuori dal tempio e di consegnarli ai loro commilitoni. Gli Argivi, dopo aver preso i loro cadaveri, li portarono nell’accampamento. Agamennone li celebrò con un magnifico funerale e chiese a Priamo una tregua per costruire un sepolcro per Achille, ove organizzò i giochi funebri.

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35. Deinde consilium convocat, Argivos alloquitur. Placet omnibus, ut ea quae Achillis essent Aiaci propinquo eius commendaretur atque ita Aiax ait: cum filius Neoptolemus ei supersit, neminem aequius super Myrmidones principatum habere quam eum, oportere eum ad pugnam accersiri eique universa quae patris erant restitui. Consilium idem placuit Agamemnoni et omnibus, datur negotium Menelao. Hic Scyrum proficiscitur ad Lycomedem avum eius, imperat, ut nepotem suum mittat. Quod Argivis Lycomedes libenter concedit. Postquam indutiae exierunt, Agamemnon exercitum educit instruit hortatur. Contra Troiani ex urbe prodeunt. Proelium committitur, in prima acie Aiax nudus versatur. Clamore magno orto multi ex utroque exercitu pereunt. Alexander arcum tetendit, multos interfecit, Aiacis latus nudum figit. Aiax saucius Alexandrum persequitur, nec destitit, nisi eum occideret. Aiax fessus vulnere in castra refertur, sagitta exempta moritur. Alexandri corpus ad urbem refertur. Diomedes virili animo in hostes inpressionem facit. Phryges fessi in urbem confugiunt, quos Diomedes usque in urbem persequitur. Agamemnon exercitum circa oppidum ducit et tota nocte circa murum obsedit, curat, ut alterna vice vigilias agant. Postera die Priamus Alexandrum in oppido sepelit, quem magno ululatu Helena prosecuta est, quoniam ab eo honorifice tractata est. Quam Priamus et Hecuba ut filiam aspexerunt et diligenter curaverunt, quod numquam Troianos despexisset Argivosque non desiderasset.

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35. Dunque convocò l’assemblea e si rivolse agli Argivi. Tutti vollero che le armi di Achille fossero consegnate ad Aiace in virtù della loro parentela, e questi così rispose: dal momento che rimaneva Neottolemo, figlio di Achille, nessuno aveva più diritto di lui di regnare sui Mirmidoni, e dunque era necessario che prendesse parte allo scontro e che gli fossero consegnati tutti gli averi del padre. La stessa decisione piacque sia ad Agamennone che a tutti gli altri, e l’incarico di chiamare Neottolemo fu conferito a Menelao. Questi partì alla volta di Sciro, presso Licomede, suo avo, e gli ordinò di inviare suo nipote, cosa che Licomede concesse volentieri agli Argivi. Terminata la tregua, Agamennone condusse fuori l’esercito, lo schierò e lo incoraggiò. Dall’altra parte i Troiani uscirono dalla città. Si ingaggiò la battaglia, Aiace si muoveva nella prima fila senza armatura. Levatosi un grande clamore molti soldati di entrambi gli eserciti perirono. Alessandro tese l’arco, uccise molti uomini, colpì Aiace al fianco scoperto. Aiace, pur essendo ferito, incalzò Alessandro e non si fermò fino a quando non l’ebbe ucciso. Aiace, affaticato a causa della ferita, fu riportato nell’accampamento, e morì una volta estratta la freccia. Il cadavere di Alessandro fu riportato in città. Diomede assaltò i nemici con coraggio, e i Frigi, spossati, si rifugiarono in città: Diomede li seguì fin lì. Agamennone dispose l’esercito intorno alla città e per tutta la notte lo lasciò appostato intorno alle mura, facendo in modo che le guardie si dessero il cambio. Il giorno seguente Priamo fece seppellire all’interno della città Alessandro, che Elena seguì con alte grida di dolore, poiché da lui era stata trattata con ogni riguardo. Priamo ed Ecuba la considerarono al pari di una figlia ed ebbero grande cura di lei, poiché mai aveva disprezzato i Troiani né aveva rimpianto gli Argivi.

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DARETE, STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA

36. Postera die Agamemnon coepit exercitum ante portas instruere et Dardanos ad proelium provocare. Priamus subsistere, urbem munire et quiescere, usque dum Penthesilea cum Amazonibus superveniret. Penthesilea postea supervenit, exercitum contra Agamemnonem educit. Fit proelium ingens, per aliquot dies pugnatur. Argivi fugantur in castra, obprimuntur. Cui vix Diomedes obsistit, alioquin naves incendisset et Argivorum universum exercitum devastasset. Proelio dirempto Agamemnon se in castris continuit. Penthesilea vero cotidie prodit Argivos devastat et in bellum provocat. Agamemnon ex consilio castra munit tueturque et in bellum non prodit, usque dum Menelaus veniat. Menelaus ad Scyrum venit, arma Achillis Neoptolemo filio eius tradit, quae cum sumpsisset, venit et in Argivorum castris vehementer circa patris tumulum lamentatus est. Penthesilea ex consuetudine aciem instruit et usque ad Argivorum castra prodit. Neoptolemus Myrmidonum princeps contra aciem ducit, Agamemnon exercitum instruit. Pariter ambo concurrunt. Neoptolemus stragem facit. Occurrit Penthesilea et fortiter in proelio versatur, utrique per aliquot dies acriter pugnaverunt, multosque occiderunt. Penthesilea Neoptolemum sauciat: ille dolore accepto Amazonidum ductricem Penthesileam obtruncat. Eo facto totum exercitum Troianorum in fugam convertit, in urbem victi refugiunt, Argivi cum exercitu murum circumdant, ut foras Troiani exire non possent.

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36. Il giorno seguente Agamennone iniziò a disporre l’esercito dinanzi alle porte e a provocare al combattimento i Dardani. Priamo resisteva, fortificava la città e restava tranquillo fino all’arrivo di Pentesilea e delle Amazzoni. In seguito sopraggiunse Pentesilea, la quale condusse l’esercito contro Agamennone. Vi fu un grande combattimento, che si protrasse per alcuni giorni. Gli Argivi furono messi in fuga verso l’accampamento e sopraffatti. A stento Diomede riuscì a opporsi all’amazzone, altrimenti avrebbe incendiato le navi e massacrato tutto quanto l’esercito degli Argivi. Interrotta la battaglia, Agamennone si trattenne nell’accampamento, ma Pentesilea ogni giorno usciva, massacrava gli Argivi e li provocava al combattimento. Agamennone, secondo la decisione dell’assemblea, fortificò l’accampamento, lo difese e non partecipò allo scontro fino all’arrivo di Menelao. Menelao giunse a Sciro, consegnò le armi di Achille a suo figlio Neottolemo, e questi, dopo averle prese, giunse e nell’accampamento degli Argivi pianse a lungo dinanzi alla tomba di suo padre. Pentesilea, come di consueto, schierò le sue truppe e avanzò fino all’accampamento degli Argivi. Neottolemo, a capo dei Mirmidoni, condusse le truppe contro di lei, e Agamennone dispose l’esercito. Da entrambe le parti ci si scagliò nello stesso momento. Neottolemo fece una strage di nemici, Pentesilea gli si oppose e combatté con valore. Entrambi gli eserciti combatterono aspramente per alcuni giorni, e uccisero molti uomini. Pentesilea ferì Neottolemo: quello, scosso dal dolore per la ferita, sgozzò la regina delle Amazzoni. Dopo ciò mise in fuga tutto l’esercito dei Troiani: questi, sconfitti, si rifugiarono in città, gli Argivi circondarono le mura con le loro truppe, affinché i Troiani non potessero uscire.

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37. Hoc postquam Troiani viderunt, Antenor Polydamas Aeneas ad Priamum veniunt, agunt cum eo, ut consilium convocet et deliberet quid de fortunis suis futurum sit. Priamus consilium convocat. Qui postulaverunt sibi loquendi facultatem dari, iubet eis dicere, quid desiderent. Antenor memorat principes defensores Troiae Hectorem ceterosque natos eius cum advenis ductoribus interfectos esse, Argivis remanere fortissimos Agamemnonem Menelaum Neoptolemum non minus fortem quam pater eius fuit. Diomeden Aiacem Locrum ceterosque conplures summaeque prudentiae Nestorem Ulixen, contra Troianos clausos et metu contritos esse. Suadet potius esse, ut Helena his reddatur et ea quae Alexander cum sociis abstulerat et pax fiat. Postquam multis verbis de pace concilianda egerunt, surgit Amphimachus filius Priami adulescens fortissimus, malis verbis Antenorem adortus est et eos qui consenserant, increpare facta eorum, suadere potius educendum exercitum, inruptionem in castra faciendam, usque dum vincant aut victi pro patria occumbant. Postquam is finem fecit, Aeneas exurgit, lenibus mitibusque dictis Amphimacho repugnat, ab Argivis pacem petendam magnopere suadet: Polydamas eadem suadet. 38. Postquam dicendi finis factus est, Priamus magno animo surgit, ingerit multa mala Antenori et Aeneae. Eos belli appetendi auctores fuisse, ut legati in Graeciam mitterentur, Antenorem quidem obiurgat, quia pacem suadeat, cum ipse quoque legatus ierit et renuntiaverit se contumeliose tractatum esse et ipse bellum suaserit,

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37. Dopo che i Troiani ebbero visto ciò, Antenore, Polidamante ed Enea giunsero da Priamo e si accordarono con lui per convocare un’assemblea e decidere cosa fare in merito alla loro situazione. Priamo convocò l’assemblea e ordinò a coloro che lo chiesero la possibilità di intervenire e di dire ciò che pensavano. Antenore ricordò che i principali difensori di Troia, Ettore e gli altri figli di Priamo, erano stati uccisi insieme con i comandanti stranieri, mentre agli Argivi rimanevano uomini assai forti, come Agamennone, Menelao e Neottolemo, non meno valoroso di suo padre. Inoltre ricordò Diomede, Aiace di Locri e molti altri uomini, Nestore, saggio senza pari, e Ulisse, mentre i Troiani erano assediati e logorati dalla paura. Antenore li convinse che era meglio restituire Elena e i beni che Alessandro aveva portato via con sé insieme con i suoi compagni, e stipulare una pace. Dopo che questi ebbero discusso a lungo della necessità di concludere una pace, si levò Anfimaco, giovane figlio di Priamo assai forte, che attaccò aspramente Antenore e coloro che lo avevano appoggiato: criticava la loro condotta, suggerì piuttosto di condurre fuori l’esercito e fare irruzione nell’accampamento, per vincere o morire per la patria. Una volta che questi ebbe finito di parlare, si levò Enea, che con parole miti e serene si oppose ad Anfimaco ed esortò con insistenza i Troiani a chiedere la pace agli Argivi. Polidamante fece altrettanto. 38. Quando ebbe finito di parlare, Priamo si alzò in preda alla rabbia e coprì di insulti Antenore ed Enea. Disse che loro erano stati i promotori della guerra, quando erano stati inviati in Grecia come ambasciatori. Biasimò inoltre Antenore per il suo consiglio di stipulare la pace, quando lui stesso era partito come legato, aveva riferito di essere stato trattato senza rispetto e proprio lui aveva suggerito

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DARETE, STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA

deinde Aeneam qui cum Alexandro Helenam et praedam eripuerit: quapropter certum sibi esse pacem non fieri. Imperatque, uti omnes parati sint, ut cum signum dederit, e portis inruptionem faciant, aut vincere aut mori sibi certum esse. Haec postquam multis verbis dixit hortatusque est eos, consilium dimittit, Amphimachum secum in regiam ducit dicitque ei vereri se ab his qui pacem suaserunt, ne oppidum prodant, eos habere de plebe multos qui una sentiant, opus esse eos interfici. Quod si hoc factum sit, se esse patriam defensurum et Argivos superaturum. Simulque rogat, ut sibi fidelis et obaudiens paratusque cum armatis sit, id sine suspitione posse fieri, postera die se in arce ita uti solet rem divinam facturum eosque ad cenam vocaturum, tunc Amphimachus cum armatis inruptionem faciat eosque interimat. Amphimachus consilium eius approbat seque hoc facturum promittit atque ita ab eo discedit. 39. Eodem die clam conveniunt Antenor Polydamas Ucalegon Dolon, dicunt se mirari regis pertinaciam, qui inclusus cum patria et comitibus perire malit quam pacem facere. Antenor ait se invenisse quod sibi et illis in commune proficiat, quod quo pacto fieri possit dicturum, si sibi fides servaretur. Omnes se in fidem Antenori obstringunt. Antenor ut vidit se obstrictum, mittit ad Aenean, dicit patriam prodendam esse et sibi et suis esse

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di fare la guerra. In seguito riprese Enea, che insieme con Alessandro aveva rapito Elena e si era impadronito del bottino: per questo motivo era impossibile per lui stipulare la pace. Ordinò a tutti di essere pronti allo scontro e di sferrare un attacco dalle porte non appena lui avrebbe dato loro il segnale. Una cosa era per lui certa: vincere o morire. Dopo aver parlato a lungo ed esortato i Troiani, sciolse l’assemblea, condusse Anfimaco con sé nella reggia e gli disse di aver timore che i promotori della pace tradissero la città: questi avevano molti sostenitori nel popolo, pertanto occorreva ucciderli. Una volta portato a termine questo compito, lui, Priamo, avrebbe difeso la patria e avuto la meglio sugli Argivi. Al tempo stesso pregò Anfimaco di essergli fedele, obbediente e di essere pronto a combattere insieme con gli altri uomini. Disse che il piano si poteva realizzare senza alcun sospetto: il giorno seguente lui avrebbe celebrato un sacrificio nella rocca della città, come suo solito, e li avrebbe invitati a cena, dopodiché Anfimaco avrebbe fatto irruzione con degli uomini armati e li avrebbe uccisi. Anfimaco fu d’accordo, promise di portare a termine il suo compito e si congedò da lui. 39. Lo stesso giorno si radunarono di nascosto Antenore, Polidamante, Ucalegonte e Dolone: dissero di essere stupiti dell’ostinazione del re, che preferiva morire assediato insieme con la patria e i suoi compagni, anziché stipulare la pace. Antenore disse di aver escogitato un piano che avrebbe giovato a tutti, ma avrebbe rivelato loro come agire a patto che questi gli fossero stati fedeli. Tutti giurarono la propria fedeltà ad Antenore, e questi, quando capì di essere al sicuro, mandò un messo da Enea e gli disse che bisognava tradire la patria, e al tempo stesso che ognuno doveva curarsi di sé e dei propri cari. Aggiunse che era ne-

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cavendum, ad Agamemnonem de his rebus aliquem esse mittendum, qui id sine suspitione curet, maturandum esse, animadvertisse se Priamum iratum de consilio surrexisse, quia ei pacem suaserit, vereri se, ne quid novi consilii ineat. Itaque omnes promittunt, statim Polydamantem qui ex his minime invidiosus erat ad Agamemnonem clam mittunt. Polydamas in castra Argivorum pervenit, Agamemnonem convenit, dicit ei quae suis placuerint. 40. Agamemnon clam noctu omnes duces in consilium convocat eadem refert, quid cuique videatur dicere imperat. Omnibus placitum est, ut fides proditoribus servaretur. Ulixes et Nestor dixerunt se vereri hanc rem subire, Neoptolemus hos refutat, dum inter se certant, placitum est signum a Polydamante exigi et id ipsum propter Sinonem ad Aenean et Anchisen et Antenorem mitti. Sinon ad Troiam proficiscitur et quia nondum claves portae Amphimachus custodibus tradiderat, signo dato Sinon vocem Aeneae et Anchisae et Antenoris audiendo confirmatus Agamemnoni renuntiat. Tunc placitum est omnibus, ut fides daretur iureiurando confirmaretur, ut si oppidum proxima nocte tradidissent Antenori Ucalegonti Polydamanti Aeneae Doloni suisque omnibus parentibus fides servaretur nec non liberis coniugibus consanguineis amicis propinquis, qui una consenserant suaque omnia incolumia sibi habere liceat. Hoc pacto confirmato et iureiurando adstricto suadet Polydamas noctu exercitum

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cessario affrettarsi a inviare qualcuno da Agamennone per informarlo di queste cose senza destare alcun sospetto: aveva capito che Priamo si era allontanato dall’assemblea in preda all’ira, poiché lui, Antenore, gli aveva consigliato di fare la pace, e temeva che il re stesse tramando contro di lui. Così tutti diedero la propria parola, e subito inviarono di nascosto Polidamante presso Agamennone, poiché tra loro era quello che destava il minimo sospetto. Polidamante giunse nell’accampamento degli Argivi, si incontrò con Agamennone e gli riferì le decisioni dei suoi compagni. 40. Agamennone di nascosto convocò tutti i comandanti in un’assemblea notturna, riferì quelle medesime cose e ordinò a ciascuno di dire ciò che gli sembrava opportuno. Tutti decisero di fidarsi dei traditori. Ulisse e Nestore dissero di andare incontro a questa impresa con timore, ma Neottolemo si oppose. Mentre discutevano tra loro, decisero di chiedere a Polidamante una parola d’ordine e di inviarla tramite Sinone ad Enea, Anchise e Antenore. Sinone partì alla volta di Troia, e poiché Anfimaco non aveva ancora consegnato le chiavi della porta ai custodi, dopo aver pronunciato la parola d’ordine ed essersi accertato di aver udito le voci di Enea,di Anchise e di Antenore, lo riferì ad Agamennone. Allora tutti decisero all’unanimità di prestare fede e di giurare che, se la notte successiva avessero tradito la città, avrebbero mantenuto il patto con Antenore, Ucalegonte, Polidamante, Enea e Dolone, insieme con tutti i loro genitori, figli, mogli, membri delle loro famiglie, amici e parenti che avevano aderito alla congiura; inoltre a loro sarebbe stato permesso di conservare intatti tutti i propri beni. Una volta stretto e confermato attraverso un giuramento questo patto, Polidamante suggerì di condurre di notte l’esercito presso la porta Scea,

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ad portam Scaeam adducant, ubi extrinsecus caput equi sculptum est, ibi praesidia habere noctu Antenorem et Anchisen, exercitui Argivorum portam reseraturos eisque lumen prolaturos, id signum eruptionis fore. 41. Postquam pacta dicta demonstrata sunt, Polydamas in oppidum redit, rem peractam nuntiat dicitque Antenori et Aeneae ceterisque quibus placitum erat, uti suos omnes in eam partem adducant, noctu Scaeam portam aperiant, lumen ostendant, exercitum inducant. Antenor et Aeneas noctu ad portam praesto fuerunt, Neoptolemum susceperunt, exercitui portam reseraverunt, lumen ostenderunt, fugam praesidio sibi suisque ut sit providerunt. Neoptolemus praesidium dat, Antenor eum in regiam ducit, ubi Troianis positum praesidium erat. Neoptolemus in regiam inruptionem facit, Troianos caedit, Priamum persequitur, quem ante aram Iovis obtruncat. Hecuba dum fugit cum Polyxena, Aeneas occurrit: Polyxena tradit se ei, quam Aeneas ad patrem Anchisen abscondit. Andromacha et Cassandra se in aede Minervae occultant. Tota nocte non cessant Argivi devastare praedasque facere. 42. Postquam dies inluxit, Agamemnon universos duces in arce convocat, diis gratias agit, exercitum conlaudat, omnem praedam iubet in medio reponendam, quam cum omnibus partitus est simulque consulit exercitum, an placeat Antenori et Aeneae et his qui una patriam prodiderint, fidem servari. Exercitus totus conclamat placere sibi. Itaque convocatis omnibus sua omnia reddit. Antenor rogat Agamemnonem, ut sibi loqui liceat: Agamemnon dicere iubet. Principio omnibus Graiu-

CAPITOLI 41-42

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dove era scolpita la testa di un cavallo. Lì facevano la guardia di notte Antenore e Anchise: questi avrebbero aperto la porta all’esercito degli Argivi e avrebbero mostrato loro una luce, il segnale per fare irruzione. 41. Dopo aver stabilito queste condizioni, Polidamante tornò in città, riferì l’accaduto e disse ad Antenore, Enea e agli altri che si erano detti d’accordo, di condurre tutti i propri cari in quella parte della città, di aprire di notte la porta Scea, di mostrare il segnale e di far entrare l’esercito. Antenore ed Enea di notte si appostarono lì, presso la porta, ricevettero Neottolemo, aprirono la porta all’esercito, mostrarono la luce e si premurarono affinché la fuga loro e dei propri cari fosse priva di rischi. Neottolemo diede loro una scorta, Antenore lo condusse nella reggia, dove i Troiani avevano posto un presidio. Neottolemo assaltò la reggia, fece strage dei Troiani, inseguì Priamo, che sgozzò dinanzi all’altare di Giove. Mentre Ecuba fuggiva insieme con Polissena, Enea le si fece incontro: Polissena si consegnò a lui, ed Enea la nascose presso il padre Anchise. Andromaca e Cassandra si nascosero nel tempio di Minerva. Per tutta la notte gli Argivi non smisero di compiere stragi e di fare bottino. 42. Quando si fece giorno, Agamennone convocò tutti i comandanti nella rocca, rese grazie agli dèi, colmò di lodi l’esercito, ordinò di porre ogni parte del bottino nel mezzo, che spartì con tutti, e al tempo stesso chiese all’esercito se voleva che si mantenessero i patti con Antenore, Enea e coloro che avevano tradito la patria. Tutto l’esercito manifestò la sua approvazione. Così, dopo aver convocato tutti, restituì loro tutti i beni. Antenore chiese ad Agamennone la facoltà di parlare, e questi la concesse. Per prima cosa ringraziò

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DARETE, STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA

genis gratias agit simulque commemorat Helenum et Cassandram pacem semper patri suasisse, Achillemque suasu Heleni sepulturae redditum fuisse. Agamemnon ex consilii sententia Heleno et Cassandrae libertatem reddit. Helenus pro Hecuba et Andromacha Agamemnonem deprecatur commemoratque semper ab his esse dilectum. Etiam his ex consilii sententia libertas concessa est. Interea praedam omnem exercitui ut decuit divisit, diis gratias egit, hostias immolavit. Quinta die domum reverti constituunt. 43. Ut dies profectionis advenit, tempestates magnae exortae sunt et per aliquot dies remanserunt. Calchas respondit inferis satis factum non esse. Neoptolemo in mentem venit Polyxenam cuius causa pater eius perierat, in regia non esse inventam. Agamemnonem poscit conqueritur, exercitum accusat, Antenorem accersiri iubet imperatque ei, ut inquirat eam inventamque ad se adducat. Antenor ad Aeneam venit et diligentius quaerit, ut, priusquam Argivi proficiscantur, Polyxena Agamemnoni praesentetur. Polyxenam ab eis absconsam invenit, ad Agamemnonem adducit: Agamemnon Neoptolemo tradit, is eam ad tumulum patris iugulat. Agamemnon iratus Aeneae quod Polyxenam absconderat eum cum suis protinus de patria excedere iubet. Aeneas cum suis omnibus proficiscitur. Agamemnon postquam profectus est, Helena post aliquot dies maesta magis quam quando venerat domum reportatur cum suo Menelao. Helenus cum Cassandra sorore et Andromacha Hectoris fratris uxore et Hecuba matre Chersonensum petit.

CAPITOLO 43

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tutti i Greci e al tempo stesso ricordò che Eleno e Cassandra avevano sempre consigliato al padre di fare la pace; disse inoltre che il corpo di Achille era stato restituito per la sepoltura dietro suggerimento di Eleno. Agamennone, secondo il parere dell’assemblea, concesse la libertà ad Eleno e Cassandra. Eleno supplicò Agamennone per la salvezza di Ecuba e Andromaca, e ricordò di essere stato sempre amato da loro. Anche a queste fu concessa la libertà per volere dell’assemblea. Nel frattempo spartì in egual misura tutto il bottino fra i soldati, rese grazie agli dèi e immolò delle vittime. Dopo cinque giorni decisero di far ritorno in patria. 43. Quando giunse il giorno della partenza, scoppiò un grande temporale e si trattennero per alcuni giorni. Calcante riferì in base a un oracolo che non era stata data soddisfazione agli Inferi, e a Neottolemo venne in mente che Polissena, per la quale suo padre era morto, non era stata trovata all’interno della reggia. La chiese ad Agamennone, si rammaricò e accusò l’esercito, ordinò di convocare Antenore e gli ordinò di andarla a cercare e, una volta trovata, di portarla da lui. Antenore giunse da Enea e gli chiese con insistenza di portare Polissena al cospetto di Agamennone prima della partenza degli Argivi. Trovò Polissena, che era stata da loro messa al sicuro, e la condusse da Agamennone: questi la consegnò a Neottolemo, e lui la uccise dinanzi alla tomba del padre. Agamennone, adirato con Enea per aver nascosto Polissena, gli ordinò immediatamente di allontanarsi dalla patria insieme coi suoi. Alcuni giorno dopo la partenza di Agamennone, Elena fu condotta in patria insieme con il suo sposo, Menelao: era più triste che all’andata. Eleno si recò nel Chersoneso insieme con Cassandra, sua sorella, Andromaca, moglie di suo fratello Ettore, ed Ecuba, sua madre.

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DARETE, STORIA DELLA DISTRUZIONE DI TROIA

44. Hactenus Dares Phrygius mandavit litteris, nam is ibidem cum Antenoris factione remansit. Pugnatum est annis decem mensibus sex diebus duodecim ad Troiam. Ruerunt ex Argivis, sicut acta diurna indicant quae Dares descripsit, hominum milia DCCCLXXXVI et ex Troianis ruerunt usque ad oppidum proditum hominum milia DCLXXVI. Aeneas navibus profectus est, in quibus Alexander in Graeciam ierat, numero viginti duabus: quem omnis aetas hominum secuta est in milibus tribus et quadringentis. Antenorem secuti sunt duo milia quingenti, Helenum et Andromacham mille ducenti.

CAPITOLO 44

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44. Fin qui arriva il racconto di Darete Frigio: questi infatti rimase lì con la fazione di Antenore. Davanti a Troia si combatté per dieci anni, sei mesi e dodici giorni. Secondo quanto indicato da Darete all’interno del suo diario, tra gli Argivi perirono ottocentottantaseimila uomini, e tra i Troiani, fino al tradimento della città, seicentosettantaseimila. Enea partì con le ventidue navi a bordo delle quali Alessandro era partito alla volta della Grecia: lo seguirono uomini di tutte le età, per un totale di tremilaquattrocento. Duemilacinquecento uomini seguirono Antenore, milleduecento Eleno e Andromaca.

TESTI BIZANTINI SULLA GUERRA DI TROIA

GIOVANNI MALALA DALLA CRONOGRAFIA Introduzione di Lorenzo M. Ciolf i traduzione di Lorenzo Bergerard

GIOVANNI MALALA E LA PRIMA CRONACA UNIVERSALE BIZANTINA

Quella di Giovanni Malala è la più antica cronaca universale bizantina pervenutaci1. Limitate ed autoreferenziali sono le notizie sull’autore. Verosimilmente di origine antiochena (il suo cognome deriverebbe appunto dalla parola siriaca malal, “avvocato” ovvero “retore”), visse tra il 491 e il 578; in quella importante città della Siria completò la propria formazione ed iniziò la carriera di burocrate prima di trasferirsi, nel secondo quarto del VI secolo, a Costantinopoli. I diciotto libri della sua opera storica intendono ripercorrere la storia del mondo dalla creazione e si articolano così: Adamo, Noè e la sua progenie fino alla cattività in Egitto (libro I); storia primitiva della Grecia (libri II-IV); la guerra di Troia (libro V); la cattività babilonese, i regni dei Lidi e dei Persiani, Enea e i primordi di Roma (libro VI); la fondazione di Roma (libro VII); Alessandro Magno e i regni ellenistici (libro VIII); la storia romana fino ai tempi di Augusto e l’incarnazione di Cristo (libro IX); nascita, infanzia, passione, morte e risurrezione di Cristo, quindi la storia romana fino agli anni di Nerva (libro X); storia romana da Traiano alla Tetrarchia (libri XI-XII); 1

Si può leggere nella recente edizione di J. Thurn (ed.), Ioannis Malalae Chronographia, Berlin-New York 2000 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 35); sono attualmente disponibili traduzioni in lingua inglese (1986) e tedesca (2009).

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

vita e gesta di Costantino il Grande e Teodosio I (libro XIII); vicende dall’epoca di Teodosio II a quella di Leone II (libro XIV); vita e gesta di Zenone (libro XV); vita e gesta di Anastasio (libro XVI); vita e gesta di Giustino I (libro XVII); vita e gesta di Giustiniano (libro XVIII). Anche se nel testimone più autorevole della Cronaca di Malala, il manoscritto Barocci 182 della Bodleian Library di Oxford2, la narrazione si arresta all’anno 563, è lecito ipotizzare che l’autore si fosse spinto almeno fino alla morte di Giustiniano (565) o forse – secondo alcuni studiosi – ancora fino al 574, anno in cui il futuro imperatore Tiberio fu proclamato cesare da Giustino II. Fu lo stesso Malala, nella prefazione, a chiarire ai lettori il proprio obiettivo: ripercorrere il corso della storia sacra così come era stata interpretata dalla tradizione cristiana (nella quale spicca senz’altro la figura e l’opera di Eusebio di Cesarea) e offrire allo stesso tempo un accessibile prontuario storico dai tempi di Adamo a Giustiniano. Non è quindi una casualità se al cuore della Cronaca, vero e proprio snodo della narrazione, venne collocata la nascita di Cristo3. Nell’opera si riscontra solamente una cesura, che spacca in maniera decisa il XVIII libro, la cui origine possiamo verosimilmente attribuire a diversi momenti di composizione o di pubblicazione: infatti, se fino a quel punto il racconto sembra rispecchiare una prospettiva 2

È importante notare che questo codice ha subito danni nelle sue parti iniziale e finale, risultando attualmente sia acefalo che mutilo. 3 Nel 1990 R. Scott propose – sulla base di una precedente ricostruzione di M. Daniel – di suddividere piuttosto l’opera in tre blocchi da sei libri ciascuno. Era così possibile rintracciare nella Cronaca di Malala le supposte tre componenti della civiltà bizantina: “Gerusalemme”, “Roma” e “Costantinopoli” si sarebbero riflettute rispettivamente nei gruppi dei libri I-VI, VII-XII e XIII-XVIII.

INTRODUZIONE

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periferica, con una malcelata propensione per il monofisismo, nell’ultima parte dell’opera è il binomio Costantinopoli-ortodossia a guadagnarsi in maniera prepotente il centro della scena. Complessivamente, la Cronaca di Malala potrebbe essere definita come “popolare”. Non solo per le scelte linguistiche che, dando spazio a forme colorite e pittoresche, si distaccano dalle pretese di una rigida formalità atticista; ma anche per la struttura stessa della narrazione che tende a ridurre al minimo, attraverso drastiche semplificazioni, l’evolversi della Storia. Come hanno scritto U. Albini e E. V. Maltese: «nell’opera di Malala, tutto trono e altare, gli accadimenti e gli elementi fantastici si incrociano con le chiacchiere e i pettegolezzi di un mondo ristretto e riconoscibile, accessibile ai lettori più modesti»4. Il risultato è un’opera disorganica e quasi sempre acritica, sulla cui valutazione pesano le inesattezze, talvolta clamorose, dell’autore5. Ciononostante, le caratteristiche intrinseche del testo, la facilità di lettura e la posizione della Cronaca nella storia della letteratura di Bisanzio ne hanno determinato l’indiscusso successo. Oltre ad influenzare notevolmente la successiva cronografia bizantina, tali elementi ne hanno parimenti garantito la diffusione presso i popoli orientali e slavi, dove si registrano traduzioni dell’opera6. Lorenzo M. Ciolfi

4

U. Albini – E. V. Maltese (edd.), Bisanzio nella sua letteratura, Milano 1984 (I libri della spiga), p. 9. 5 A titolo di esempio, Cicerone è considerato un poeta romano mentre Erodoto è ritenuto successivo a Polibio. 6 In particolare, si fa qui riferimento alle versioni in georgiano e in slavo.

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GIOVANNI MALALA DALLA CRONOGRAFIA LIBRO V, 1-37

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1. Contemporaneamente a Davide, su Ilio – cioè sulla Frigia – regnò Priamo, figlio di Laomedonte. Durante il suo regno Ilio, Dardano, Troia e l’intera regione della Frigia furono distrutte dagli Achei, tra i quali vengono annoverati Agamennone, Achille, Menelao e tutti gli altri – compreso Neottolemo Pirro – che parteciparono alla spedizione contro Ilio, a causa del ratto di Elena compiuto da Paride Alessandro: egli infatti era stato ferito dalla freccia di Amore al cospetto di lei. Elena, infatti, era perfetta, agile, aveva un bel seno, era bianca come la neve, aveva bei sopraccigli, bel naso, bei lineamenti, era riccia, bionda, aveva grandi occhi, era graziosa, aveva una bella voce, e la sua vista faceva paura alle donne. Aveva ventisei anni. Fu il principio dei mali e la causa della rovina di Troia, della Frigia e del suo regno. 2. Quando Ecuba partorì Paride, suo padre Priamo, recatosi presso l’oracolo di Apollo, lo interrogò riguardo al proprio figlio; e gli fu dato questo responso: «Ti è nato come figlio Paride, fanciullo funesto che, giunto all’età di trent’anni, distruggerà il regno dei Frigi». Priamo, avendo ascoltato ciò, subito gli cambiò nome in Alessandro, e lo inviò in una campagna chiamata Amandra perché fosse allevato presso un contadino, finché non fossero trascorsi i trent’anni che aveva detto l’oracolo; e Priamo, suo padre, lasciò lì Paride-Alessandro, ma, avendo costruito in quella medesima campagna un grande muro, fondò la città cui diede nome Pario; e lì Paride rimase, essendovi educato e passandovi il tempo leggendo, sicché divenne eloquente e colto, e compose un encomio di Afrodite, dicendo

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 2

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che non c’era nessuna dea più grande di lei, neanche Era né Atena. Disse infatti che Afrodite è il desiderio: orbene, tutte le cose nascono dal desiderio – disse nella sua esposizione. Per questo raccontano che Paride fece da giudice tra Pallade, Era e Afrodite, e diede ad Afrodite la mela, cioè la vittoria, dicendo che il desiderio, cioè Afrodite, genera ogni cosa: i figli, la sapienza, la saggezza, le arti e tutto il resto, sia nelle creature razionali che in quelle prive di ragione: non c’è cosa più grande né migliore di lei. Lo stesso Paride compose anche un inno in suo onore, chiamato La cintura ricamata. Al compimento del trentaduesimo anno, Priamo, ritenendo che fosse trascorso il tempo di trent’anni indicato dal responso dato circa Paride, lo mandò a chiamare dalla campagna con tutti gli onori, poiché gli voleva bene. Lo stesso Priamo gli venne incontro, assieme ai suoi consiglieri a tutti i suoi fratelli e a tutti i cittadini. E Paride entrò a Troia nel trentatreesimo anno di età, nel mese di Santico, cioè il ventidue di aprile. E Priamo, avendolo visto così distinto – per aspetto, prestanza fisica e modo di parlare – gli ordinò di prendere dei doni e di andare a compiere sacrifici in Grecia in onore di Apollo Dafneo, dicendo: «Abbi pietà della mia vecchiaia e portati via i mali. Ecco che infatti è trascorso il tempo indicato dall’oracolo». E il re Priamo, avendo scritto per Paride delle lettere rivolte a tutti i re, ovvero ai governanti, d’Europa, dimodoché accogliessero suo figlio Paride-Alessandro che andava, per un voto, a fare sacrifici ad Apollo, congedò il suddetto Paride, inviando, per suo tramite, dei doni anche ai re. Partì nel mese di Desio, ovvero il diciotto di giugno, cinquantasette giorni dopo la sua comparsa a Troia, e salpò con molti doni destinati ai re, assieme a cento giovani frigi. Arrivò nella città greca chiamata Sparta, quella su cui regnava, ovvero governava, Menelao, fi-

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 3

841

glio di Plistene, il quale Menelao crebbe nel palazzo di Atreo, re degli Argivi, assieme ad Agamennone, figlio di Atreo; perciò venivano chiamati i due Atridi. Menelao era pronto a salpare direttamente per Creta, insieme ai suoi parenti, poiché doveva fare un sacrificio a Zeus Asterio e ad Europa, a Gortina, città di Creta, quando giunse Paride da lui a Sparta. Menelao aveva infatti l’abitudine di fare celebrazioni e sacrifici ogni anno, in quel periodo, in memoria di Europa, in quanto suo discendente. Ricevette Paride-Alessandro e la lettera di Priamo, il re della Frigia e dell’Asia, e i doni da re che questi gli mandava, quindi abbracciò Paride-Alessandro e, accogliendolo benevolmente, come fosse il suo proprio figlio, con tutti gli onori gli assegnò un alloggio nel proprio palazzo, facendosi carico di ogni genere di spesa e assicurando ogni servizio, anche a quelli del suo seguito, e gli disse di trattenersi in città per quanti giorni volesse, chiedendo che restasse ad attenderlo, giacché non se la sentiva di navigare, e successivamente andasse a compiere il sacrificio prescritto presso il tempio di Apollo. E Menelao, dopo avergli garantito tutte le attenzioni, salpò direttamente per Creta, lasciandolo nel suo palazzo. 3. Mentre Menelao a Creta, nella città di Gortina, indugiava nella celebrazione di sacrifici in onore di Zeus ed Europa, avvenne che Elena scese nel giardino del suo palazzo per distrarsi, assieme ad Etra, la cugina di Menelao, discendente di Pelope e Climene, della stirpe di Europa. Paride allora, affacciatosi in giardino e accortosi della bellezza e della giovinezza di Elena, si innamorò di lei e, avendola corrotta per il tramite di Etra, la cugina di Menelao, discendente di Pelope e Climene, della stirpe di Europa, la prese con sé e fuggì da Troia con le navi che aveva, assieme

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 4

843

a un tesoro di trecento libbre, a molti ornamenti preziosi e denaro, e portandosi via anche Etra e cinque sue schiave da camera. Attraversò il mare fino a Sidone, e da lì si recò presso Proteo, il re dell’Egitto, senza essere andato al tempio di Apollo e senza aver compiuto il sacrificio in Grecia. Le guardie armate del palazzo di Menelao, venute a conoscenza della fuga di Elena, piene di timore mandarono subito tre soldati da Sparta, città della Grecia, a Gortina, città di Creta, perché annunciassero al re Menelao il rapimento di Elena da parte di Paride, e che questi aveva preso assieme a lei anche Etra, sua cugina. Menelao, udito ciò, rimase come inebetito: infatti soffrì molto a causa di Etra, giacché riteneva che fosse una persona molto onesta. E subito tornò indietro in Grecia, a Sparta, e mandò per ogni dove uomini alla ricerca di Elena, Paride e di chi la accompagnava. Ma non li trovarono. 4. Tempo dopo Paride giunse dall’Egitto, portando con sé Elena, gli averi e tutto il danaro di lei. Priamo ed Ecuba, avendo visto Elena assieme a Paride, meravigliandosi che fosse tanto bella le chiesero chi fosse o da chi discendesse. Elena disse: «Sono una consanguinea di Paride-Alessandro», e disse di essere più vicina a Priamo ed Ecuba che non a Menelao, figlio di Plistene. Disse infatti di discendere dai Sidonî Danao e Agenore e di appartenere alla stirpe di Priamo. Infatti da Plesione, figlia di Danao, nacquero Atlante ed Elettra, dalla quale nacque Dardano e da lui Troo e i re di Ilio…e per via di Fenice, figlio di Agenore, da cui discese il re Dimante, il padre di Ecuba. «E si diceva che anche mia madre Leda fosse della stirpe di Dimante». Avendo detto queste cose, Elena chiese a Priamo ed Ecuba, impegnandoli con un giuramento, di non essere tradita, e disse che non aveva preso nulla degli averi di

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CAPITOLO 5

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Menelao, ma che aveva solo ciò che le apparteneva. Quindi Ecuba abbracciandola la baciò e la prese a benvolere più di tutti. 5. Agamennone e Menelao, avendo saputo della presenza di Elena a Troia assieme a Paride, inviarono molte ambascerie perché Elena fosse restituita: sua sorella Clitemestra infatti assillava suo marito Agamennone, il re di Argo, per il fatto che Elena se n’era andata; ella diede a Menelao delle lettere che aveva scritto per lei, e che avrebbero dovuto convincerla. Prima della guerra Menelao andò da Priamo, cercando di ottenere sua moglie Elena; e i Priamidi, non convinti, non gliela resero. E quindi gli Atridi fecero una spedizione contro Troia, esortando i governanti locali a combattere; e importunarono con preghiere Peleo e sua moglie Teti e il padre di lei Chirone, il re filosofo, perché dessero loro Achille, figlio di Teti e di Peleo, e discendente di Chirone. Il quale Chirone lo mandò a chiamare: Achille infatti si stava intrattenendo nell’isola con suo suocero il re Licomede, il padre di Deidamia; e Achille partì assieme agli Atridi, con il suo proprio esercito di tremila Mirmidoni – come li chiamavano allora – o di Bulgari o Unni – come li chiamano adesso –, con Patroclo come capo dell’accampamento e Nestore: essi furono insistentemente pregati da Chirone, Peleo e Teti di stare con Achille. Ma quest’ultimo andò a Ilio da solo, con il suo proprio esercito di Argivi e Mirmidoni. I re Atridi con insistenti preghiere spinsero alla guerra gli altri re, ovvero governanti, e quanti avrebbero combattuto per loro proveniendo da ogni regione d’Europa, ognuno col proprio esercito e con navi. E tutti salparono dopo essersi radunati nella regione chiamata Aulide. Ma poiché scoppiò una tempesta sul mare e l’indovino Calcante disse che Agamennone

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 6

847

doveva sacrificare ad Artemide, dea di quel luogo, la sua propria figlia, Ulisse partì e con l’inganno, sulla base di quanto Agamennone scriveva ad Argo, portò via Ifigenia, la figlia di quello. E Agamennone, vistala arrivare, pianse amaramente, ma temendo l’esercito e i comandanti la consegnò perché fosse sacrificata ad Artemide. E mentre ella avanzava verso il tempio di Artemide per essere sgozzata, una cerva attraversò la via correndo avanti, in mezzo ai re, all’esercito, al sacerdote e alla vergine Ifigenia. Avendola vista, il sacerdote e indovino disse: «Prendete la cerva e sacrificatela ad Artemide in luogo della vergine». E la cerva fu catturata e sgozzata in onore di Artemide; e ad Agamennone egli riconsegnò Ifigenia, che il padre lasciò lì nel tempio come sacerdotessa. E quindi Agamennone fu proclamato comandante generale della spedizione; e, partiti da lì, giunsero a Troia. 6. Quando i Greci furono giunti a Troia, i Troiani si opposero e non consentirono loro di avanzare. Molti furono ammazzati da ambo le parti, tra cui Protesilao, campione dei Danai. E i Danai non si ritirarono, finché non ebbero la meglio. Scesero alla costa troiana e legarono le navi con funi. A sera i Troiani entrarono in città e sbarrarono le porte; nel cuore della notte, un tale di nome Cicno, che apparteneva alla stirpe di Priamo e ad un paese vicino, avendo sentito della presenza dei Greci a Troia, venuto dalla città di Nuova Andro con un grande esercito li attaccò. Si scontrarono di notte; lo stesso Cicno fu ucciso da Achille e i suoi uomini caddero prima che si facesse giorno. I Danai ritennero quindi opportuno conquistare le città vicine a Ilio e a Troia, in quanto alleate di Priamo; e avendo giurato che tutto ciò che avrebbero preso ai nemici lo avrebbero messo in comune perché fossse spartito tra re, guerrieri ed

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CAPITOLO 7

849

esercito, designarono Achille, Aiace Telamonio e Diomede. Diomede partì subito e conquistò la città dello stesso Cicno, Nuova Andro, e depredò la regione circostante. Catturò anche i suoi due figli, Cobe e Coraco, e sua figlia, che si chiamava Glauce, aveva undici anni ed era bellissima; e tutti i beni di Cicno e della regione li mise in comune tra tutto l’esercito. Achille partì subito con gli Argivi e i Mirmidoni, cioè col suo proprio esercito, e giunse nella città di Lesbo e nella sua regione, su cui regnava Forbante, un parente di Priamo, il quale aveva una grande inimicizia coi Greci. Avendo conquistato la regione e la città, Achille uccise Forbante, si impossessò di tutti i beni della sua reggia e portò via anche sua figlia Diomeda: la fanciulla era candida, aveva il viso tondo, gli occhi azzurri, era perfetta, bionda, leggermente camusa, aveva ventidue anni ed era vergine. E tornò consegnando all’esercito greco tutte le ricchezze portate da Lesbo. Quindi, partito nuovamente, andò sul Ponto Eusino, devastò e depredò la regione, conquistò la città di Lirnesso, uccise il re Eezione, che vi governava, e fece prigioniera sua moglie Astinome, la figlia di Crise, il sacerdote di Apollo, che fu soprannominata Criseide; e portò all’accampamento navale le ricchezze di Eezione e del territorio. Astinome, ovvero Criseide, era bassa, sottile, candida, bionda, bel naso e seno piccolo, diciannove anni d’età. Fece strage anche dell’esercito che Eezione aveva indotto a prendere le armi – l’esercito dei cosiddetti Cilici, che venivano per stringere alleanza con lui e coi Troiani. 7. Mossosi da lì, giunse dai figli di Brise, che era il nipote di Priamo, nella città chiamata Legò. Avendo devastato la regione circostante, si mise ad assediare la città, uccise molti uomini, conquistò la città e fece prigioniera – dopo

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CAPITOLO 7

851

averne uccisi i fratelli Andro e Tiante – la figlia di Brise, Ippodamia, soprannominata Briseide, che era la moglie di Minete, re della città di Legò. Minete, il marito di Ippodamia (ovvero di Briseide), non era in città ma era andato a sollecitare un aiuto per gli alleati Frigi dalla Licia e dalla Licaonia. E il re Minete arrivò subito dopo che Achille si era impadronito del suo territorio, della città e di sua moglie Ippodamia-Briseide; e non si ritirò ma subito, pieno di rabbia per la strada fatta, assieme ai suoi uomini si scontrò con Achille in un aspro combattimento, finché non fu ferito dalla lancia di Eurizione, uno dei capi dell’esercito di Achille; e perirono tutti gli uomini di Minete. IppodamiaBriseide era alta, bianca, aveva bel seno, era agile, aveva le sopracciglia unite, aveva bel naso, belle guance, grandi occhi, aveva le palpebre truccate di cinabro, era bionda, riccia, coi capelli lunghi all’indietro, aveva una cicatrice sul naso, rideva spesso, era allegra, aveva ventun anni. Achille, come l’ebbe vista, la desiderò; ed essendosene innamorato, la prese e la nascose nella propria tenda, senza condurla presso l’esercito greco. Invece le ricchezze, Astinome-Criseide e tutto il resto lo aveva depositato vicino ai guerrieri, all’esercito e ai re. Ma tutti, avendo saputo grazie alla figlia di Brise – e moglie di Minete – che Achille la teneva nascosta con i gioielli che portava, si rammaricarono e si adirarono con lui perché aveva spergiurato a causa dell’amore per la giovane. E tutti lo insolentirono per il fatto che la teneva nascosta e, riunitisi in assemblea, vietarono ad Achille di gettarsi nella battaglia, di conquistare città e depredare territori, e designarono altri al posto suo: Teucro, fratello di Aiace Telamonio, e Idomeneo, i quali conquistarono Cipro, la Cilicia e l’Isauria, depredandole e devastandole.

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLI 8-9

853

8. Aiace Telamonio, mossosi in fretta, assediò i Traci del Chersoneso e il loro re Polimnestore. Quest’ultimo, temendo la forza di Aiace, gli diede molto danaro, gli fornì i viveri che l’esercito acheo avrebbe consumato in un anno, e gli consegnò come ostaggio Polidoro, il più piccolo dei figli di Priamo, che gli era stato affidato dallo stesso Priamo assieme a molte ricchezze. Priamo infatti amava Polidoro, poiché era il più piccolo e il più bello di tutti; per questo lo aveva mandato in un altro paese: perché, ragazzino com’era, non venisse turbato dalle notizie di guerra; e Polimnestore fece un accordo scritto con Aiace, in base al quale si impegnava a non combattere a fianco di Priamo. Mossosi in fretta da lì, Aiace giunse dal re Teutrante, si scontrò con lui in battaglia e lo uccise con la spada: distrusse la sua città, si impadronì di tutti i suoi averi e – di notte – consegnò ai Greci sua figlia Tecmessa, il suo denaro e ogni cosa. Tecmessa era agile di corporatura, scura di carnagione, aveva begli occhi, naso sottile, capelli neri, lineamenti fini, era vergine e aveva diciassette anni. E i Danai, avendo messo Polidoro, il figlio di Priamo, davanti alle mura, fecero chiaramente intendere a Priamo di mandare Elena e di prendere suo figlio Polidoro – e ci sarebbe stata la pace («Perché noi lo stiamo per uccidere»). E i Priamidi scelsero di non consegnare Elena, quindi i Danai, adiratisi, subito – lì davanti alle mura – ghermirono il fanciullo e lo ammazzarono, mentre i Troiani guardavano dall’alto. 9. I capi della spedizione contro Ilio erano fatti così: Il re Agamennone era alto, bianco di carnagione, aveva bel naso, barba folta, capelli neri, grandi occhi; era intrepido, nobile e coraggioso.

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CAPITOLO 9

855

Menelao, fratello di quest’ultimo, era basso, ampio di petto, rosso, forte, aveva la barba folta, un bel naso ed un bel volto. Achille era ampio di petto, corpulento, aveva grandi gambe, la barba rada, era biondo, aveva un bel viso, gli occhi ardenti e color del vino, molti capelli, un lungo naso, piedi veloci; era bravo a fare salti, era un formidabile guerriero, era cortese, amante dei piaceri, coraggioso e aveva una bella voce. Alcune di queste sue caratterisctiche particolari sono indizio della sua capacità di azione, altre della sua indole naturale e della sua inclinazione. Patroclo, l’ardente amico di costui, era corpulento e robusto, era proporzionato di corporatura, biondastro e rossiccio, aveva un bel viso, begli occhi, era nobile, era un forte guerriero, era tranquillo, aveva una bella barba. Aiace Telamonio era grande di corporatura, di aspetto assai decoroso, pieno (?), assai robusto, coraggioso, aveva grandi occhi, era riccio, aveva una bella barba, era scuro, aveva un bel naso, le sopracciglia unite, gli occhi neri, era schietto ed era un fortissimo guerriero. Odisseo era due terzi della normale statura, era bianco di carnagione, aveva i capelli lisci, una bella barba, la pelle delicata, era brizzolato, aveva i sopraccigli uniti, un bel naso, era coraggioso, era un forte guerriero, era panciuto, di buon carattere e buona compagnia. Diomede era ben saldo di complessione, robusto, biondo, di aspetto decoroso, aveva l’incarnato color del miele, aveva un bel viso, era un po’ camuso, aveva la barba bionda e gli occhi color del vino, era saggio, aveva il collo corto. Il vecchio Nestore, per l’intelligenza, era il grande consigliere dei Greci; era grande di corporatura, aveva il naso aquilino, era rossiccio, aveva i capelli grigi, gli occhi azzur-

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CAPITOLO 9

857

ri, la barba grigia, il viso allungato, era un buon consigliere ed era saggio. Protesilao aveva i capelli lisci, era biondastro, aveva la barba appena spuntata, era alto, di buona costituzione ed era un guerriero audace. Palamede era alto, sottile, bianco di carnagione, aveva il viso allungato, un bel naso, capelli lisci e neri, occhi piccoli e color del vino, era un gran chiacchierone e un millantatore, ma era intelligente, istruito, dava molti consigli ed era coraggioso. Per primo scoprì il gioco dei dadi, sulla base del movimento dei sette pianeti che, secondo la sorte destinata, portano agli uomini gioie e dolori, definendo la tavola da gioco ‘il mondo terrestre’, le sue dodici parti ‘le case dello zodiaco’, il bussolotto e i sette dadi in esso contenuti ‘i sette astri’, il bussolotto stesso ‘l’altezza del cielo’, da cui il bene e il male vengono assegnati a tutti. Merione era basso, largo, bianco di carnagione, aveva una bella barba, grandi occhi neri, molti capelli ricci, viso largo, naso adunco, era un guerriero coraggioso. Idomeneo era due terzi della normale altezza, era scuro di pelle, aveva begli occhi, era di buona costituzione, robusto, aveva un bel naso, barba folta, bella testa, capelli corti e ricci, ed era un guerriero privo di senso della misura. Filottete era alto, di buona costituzione, scuro di pelle, aveva i sopraccigli uniti, era nobile, aveva begli occhi, bel naso, molti capelli neri, era intelligente, era un arciere infallibile, era coraggioso. Aiace Locrese era alto, forte, aveva la pelle color del miele, era strabico, aveva un bel naso, aveva capelli neri e ricci, barba folta, viso allungato, era un guerriero audace, era coraggioso e donnaiolo. Pirro, ovvero Neottolemo, era giovane, aveva un bel torace, era sottile, bianco di carnagione, aveva un bel

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 10

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naso, capelli rossi e ricci, aveva occhi grandi sull’azurro, aveva sopraccigli biondi, barba bionda e appena spuntata, viso tondo, era avventato, audace, incline a infastidirsi, era un guerriero spietato. Costui era figlio di Achille e Deidamia, la figlia di Licomede: dopo la morte di suo padre, Teti e suo nonno Peleo lo mandarono dagli Achei, i quali – dopo che Achille era stato ucciso con l’inganno – lo reclamarono perché vendicasse il sangue paterno. Armatosi, partecipò alla spedizione contro Ilio con ventidue navi e ricevette da Peleo un esercito di milleseicentocinquanta Mirmidoni. Salpò e raggiunse Troia, dove trovò, nell’accampamento di suo padre Achille, Ippodamia-Briseide, la quale custodiva tutti gli averi di quest’ultimo. Pirro la prese con sé e la ebbe in grande considerazione, chiedendole di custodire anche i suoi propri averi nella tenda del padre. E dopo poco tempo Briseide si ammalò e morì. Calcante era basso, sottile, bianco di carnagione, aveva la testa tutta grigia e la barba folta, era un indovino e un ottimo interprete del volo degli uccelli. 10. I migliori uomini di Troia erano questi: Priamo era alto, grande, aveva un bel viso, la pelle rossiccia, gli occhi azzurrognoli, un lungo naso, le sopracciglia unite, aveva begli occhi, era grigio di pelo, aveva molti capelli, era un uomo tranquillo. Ettore era scuro di pelle, era alto, corpulento, assai forte, aveva un bel naso, capelli neri e ricci, bella barba, era strabico, balbuziente, nobile, era un guerriero formidabile e aveva la voce profonda. Deifobo era due terzi dell’altezza normale, aveva un bel torace, begli occhi, era un po’ camuso, aveva la pelle nera, il volto largo, era nobile, aveva una bella barba.

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 10

861

Eleno era alto, di buona costituzione, di incarnato bianco, forte, biondo, aveva gli occhi color del vino, un lungo naso, lineamenti fini, la barba appena spuntata, era un po’ gobbo, era un guerriero saggio. Troilo era bello, alto, aveva un bel naso, capelli lisci, pelle color del miele, begli occhi, capelli neri, barba folta, era un forte guerriero e un corridore. Paride Alessandro era giovane, pieno di forza, bianco di carnagione, aveva bel naso, occhi belli e neri, capelli ricci e neri, barba appena spuntata, viso allungato, aveva sopracciglia folte, una grande bocca, era cortese, eloquente, agile, era un arciere infallibile, era vile e amante dei piaceri. Enea era basso, grosso, ampio di torace, forte, rossiccio, aveva viso largo, bel naso, era bianco di carnagione, calvo, aveva una bella barba, occhi azzurri, era intelligente, saggio, devoto. Antenore era alto, sottile, bianco di carnagione, biondo, aveva occhi piccoli e azzurri, il naso ricurvo, lineamenti fini, era fraudolento, vile, sicuro di sé, sapeva tante cose, era eloquente. Ecuba aveva la pelle color del miele, aveva begli occhi, era priva di difetti, aveva bel naso, era bella, ambiziosa, di buona compagnia, calma. Andromaca era due terzi della normale altezza, era sottile, agile, aveva bel naso, bel seno, begli occhi, bei sopraccigli, era riccia, biondastra, aveva lunghi capelli portati all’indietro, lineamenti decisi, un bel collo e le fossette alle guance, era cortese e fiera. Cassandra era bassa, aveva il viso tondo, era bianca di carnagione, aveva forme maschili, bel naso, begli occhi neri, era biondastra, riccia, aveva bel collo, seno gonfio, piccoli piedi, era tranquilla, nobile, ieratica, era una pro-

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 11

863

fetessa infallibile e prediceva ogni cosa, era austera ed era una casta vergine. Polissena era alta, raffinata, assai bianca di carnagione, aveva grandi occhi, capelli neri, ricci e portati lunghi all’indietro, aveva bel naso, viso fine, belle guance, piccola bocca, labbra splendenti, piccoli piedi; era vergine, cortese, assai bella; a diciott’anni fu uccisa, secondo il valentissimo Ditti Cretese, che registrò ogni cosa in modo veritiero: quello che già è stato scritto e tutti gli altri eventi che riguardano la spedizione dei Greci ad Ilio. 11. Ditti era infatti del séguito di Idomeneo, campione dei Danai che era venuto a combattere assieme agli Achei: si trovò a fare il segretario di Idomeneo e osservò e registrò accuratamente i fatti della guerra, essendo in quel tempo lì presente assieme ai Greci. Egli elencò coloro che erano stati chiamati dai re Agamennone e Menelao, quelli che avevano preso le armi e che erano giunti con una flotta ad Ilio, ognuno col suo proprio esercito e le sue navi. Prima di tutti partì Agamennone, figlio di Atreo e re di Micene, con cento navi e trenta per i vettovagliamenti; poi Peneleo, Leisto, Arcesilao, Protoenore e Clonio con cinquanta navi; Elpenore, dall’Eubea, con sessanta navi; Menelao, il figlio di Plistene, re di Sparta, con sessanta navi; Diomede da Argo con ottanta navi; Ascalafo e Ialmeno con venti navi; Schedio ed Epistrofo con quaranta navi; Meghete da Dolica, in Grecia, con quaranta navi; Aiace Telamonio da Salamina con dodici navi; Antimaco, Talpio e Dorete con quaranta navi; Nestore con sei navi; Toante con quaranta navi; Agenore e Teutide con sessanta navi; Protoo e Magnite con quaranta navi; Eumeno con undici navi; Nereo, da Micene, con tre navi; Calcante, da Tricca, con trenta navi; Euripilo, da Asterio, con quaranta navi; Leonteo e

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 12

865

Polipete con quaranta navi; Anfigenia, da Ilio, con quarantatré navi; Menesteo, da Atene, con cinquanta navi; Idomeneo e Merione, da Creta, con ottanta navi; Odisseo, da Cefalonia Itaca, con dodici navi; Tlepolemo, da Lindo, con nove navi; Aiace Locrese con nove navi; Achille, da Argo nell’Ellade, assieme a Patroclo, con cinquanta navi; Protesilao e Podarche con quaranta navi; Palamede con dodici navi; Filottete, da Motone, con sessanta navi; Nereo, dal paese dei Perrebi, con ventidue navi; Sorte, Filippo e Antifo con venti navi. Le navi dei Greci erano complessivamente milleduecentocinquanta. Su specifica richiesta dei re essi navigarono dapprima fino ad Aulide, da qui attaccarono la Frigia, distrussero il palazzo reale – come è già stato scritto –, catturarono il re Priamo e lo uccisero assieme alla regina Ecuba; fecero prigionieri i loro figli, depredarono tutte le ricchezze del regno e tornarono nei propri paesi. Il regno di Efeso quindi, per ottocentodiciannove anni, governò tutti i territori dell’Asia, della Frigia e di Troia. 12. Dopo la caduta di Troia gli Achei, spartitisi il bottino e le ricchezze, volendo tornare ognuno al proprio paese, prepararono le navi e alcuni salparono, altri evidentemente restarono con Aiace Telamonio, Odisseo e Diomede, che erano venuti a contesa. Aiace Telamonio infatti cercava di prendere la statua chiamata Palladio, piccolo simulacro di legno che dicevano essere stato fatto per la vittoria, poiché proteggeva la città dove era collocato rendendola inespugnabile. Un certo Asio, filosofo e iniziato, diede il Palladio al re Troo, quando stava per fondare la città. E, in segno di riconoscenza, il re Troo in ricordo di lui chiamò Asia tutta la terra su cui regnava, la quale prima era chiamata Epitropo. Odisseo e Diomede rubarono questa statua secondo il suggerimento di Antenore, un comandante troiano, la

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 13

867

cui moglie, di nome Teanò, era sacerdotessa del tempio di Pallade, dove la statua era collocata. Odisseo e Diomede entrati di notte a Troia e coricatisi nel tempio della dea, in un momento in cui i Frigi celebravano la festa delle offerte votive e i Greci non combattevano, portarono via il simulacro. I Danai fecero ciò perché era stato dato loro un responso oracolare che diceva: «Non è possibile che conquistiate Troia se non portate via il Palladio». Aiace Telamonio in quel tempo cercava dunque di portarlo nella sua patria, dicendo: «Mi è dovuto, poiché io ho penato per gli Achei. Mi basta infatti ricordare la supplica che Ettore mi ha rivolto durante il nostro duello. Poi di nuovo ho aperto la via fino alle porte di Troia, sgominando da solo i Troiani, salvando le navi di tutti i Greci; e ho colpito molti eroi troiani senza mai essere ferito. Ma alla mia fama penso che basti il fatto di aver riportato il corpo di Achille dal tempio di Apollo Timbreo all’accampamento». 13. Ma Odisseo si opponeva dicendo: «Lo porto io nella mia città: tu infatti non hai penato più di me per i Greci. Fin dal principio, dopo il rapimento di Elena da parte di Paride, mi sono recato in fretta ad Ilio con Palamede e Menelao. Sono stato ugualmente io a richiamare re ed eroi da ogni parte. E parimenti sono io l’artefice della morte di Paride. Quando vi fu uno scontro – come sapete – e molti vi perirono, quando i maggiorenti troiani e voi, comandanti greci, vi fronteggiavate e premevate l’uno sull’altro perché la guerra addivenisse a un esito, io esortai l’eroe Filottete a sfidare Paride a un duello con l’arco. E subito Filottete, fattosi avanti in mezzo ai re, sfida Paride a un duello con l’arco. Paride, avendo udito, non indugiò e gli si parò innanzi armato di arco, assieme a Deifobo, suo fratello. Io, fattomi avanti, misurai per loro l’intervallo

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CAPITOLO 14

869

agli estremi del quale dovevano porsi. E avendo essi tirato a sorte, toccò a Paride scoccare la freccia per primo. Paride tira e fallisce, allora Filottete, gridando a se stesso ‘coraggio’, scocca a sua volta una freccia e trafigge la mano sinistra di Paride; e, tirato subito un secondo dardo, gli accecò l’occhio destro; quindi, mentre quello si lamenta e si dà alla fuga, Filottete scaglia ancora una freccia e gli trafigge le caviglie: Paride cade; tutti fuggono, portando via in fretta il corpo di Paride. E questi, entrato in città, chiamò i suoi tre figli che aveva avuto da Elena, Bunimo, Coriteo e Ideo, e vedendoli così piccoli resta senza fiato, e nel cuore della notte rende l’anima. La prima moglie Enoe, avendolo visto, si impicca. Ed Elena fu presa in moglie da Deifobo, l’altro figlio di Priamo, il quale fu mutilato dal re Menelao, come tutti sapete. E io consigliai a Polissena di recarsi alla tomba di Achille, dimodoché venisse ammazzata dall’eroe Pirro». E infine, urlando, Odisseo disse: «A chi posso essere equiparato, io che sono stato l’artefice della morte di Paride, per vendicare Menelao, Achille e tutti i Greci?» 14. Agamennone lo elogiò – e molti soldati fecero lo stesso. E Odisseo parlò di nuovo: «Non tacerò degli altri pericoli che io, assieme a Diomede, ho affrontato, quando abbiamo deciso di sottrarre il simulacro divino; non tacerò di come ci trattenemmo coi barbari e, giungendo di notte all’accampamento, riferimmo a voi re quanto stava loro capitando, raccontando ciò che adesso ripeto: mentre i Troiani celebravano dei sacrifici, in occasione delle offerte rituali, in città, sull’altare di Apollo, si verifica questo prodigio: essi nel corso del sacrificio gettano il fuoco sui pezzi di legno che giacciono sull’altare, ma non ardono. Nonostante il fuoco venga accostato più volte, non ardono, e ogni cosa cade a terra. Poiché si verificano altri prodigi, i

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CAPITOLO 14

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Troiani, avendovi assistito, dicono che si tratta di un presagio negativo per loro. I comandanti troiani, Priamo e l’esercito costringono Antenore a recarsi da voi, che siete i re, e, con una particolare ambasciata, a convincervi ad accettare un riscatto e a porre fine alla guerra. Essendo venuti a sapere tutte queste cose, tornammo e le riferimmo a tutti voi. Antenore quindi arrivò recando l’ambasciata, e disse queste cose a nome di Priamo e di tutti gli altri: “Oh voi che siete i re della Grecia, compite un’azione da amici e non da nemici: noi abbiamo patito tutto ciò che deve patire chi ha sbagliato; Ilio ha pagato il fio delle azioni ingiuste compiute da Alessandro-Paride a danno di Menelao: lo testimoniano le tombe di quanti sono morti in battaglia. Dunque noi superstiti vi offriamo questo riscatto per gli dèi, per la patria e per i figli. Ma voi, che siete greci, in cambio della moneta sonante salvate coloro che prima non si lasciavano persuadere e adesso vi supplicano”. E voi tutti, persuasi dalle parole di Antenore, inviaste me e Diomede a far coniare la quantità di metallo prezioso. Noi quindi andammo a Troia, da Priamo, e, avendo avanzato molti argomenti, ci facemmo coniare duemila talenti d’oro, e altrettanti di argento; e tornammo da voi, con l’annuncio di ciò che era opportuno fare. Consegnammo le monete. Io vi feci giurare, durante i sacrifici, che non saremmo salpati da Ilio prima di aver fatto quanto segue: “costruiremo un cavallo di legno ben connesso, mettendovi dentro tutta la nostra forza militare, e daremo l’impressione di navigare dritti verso Tenedo, bruciando i nostri accampamenti, affinché i barbari, pensando che ce ne siamo andati, se ne stiano spensierati a banchettare, e di notte ritorneremo da Tenedo, li attaccheremo, daremo fuoco alla città, uccideremo Priamo e restituiremo Elena alla reggia di Plistene”. E poiché il mio consiglio prevalse,

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLI 15-17

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gli dèi ci concessero la vittoria sui barbari. Voi dunque, re ed eroi, giudicate quanto ho penato per voi». 15. Agamennone, Diomede e il loro esercito replicarono a Odisseo; ad Aiace si oppose Neottolemo Pirro, in quanto appartenente alla sua stirpe, assieme al suo esercito. Vi furono molte altre polemiche tra di loro, fino a sera, quando infine si decise che Diomede ricevesse il Palladio in deposito e lo custodisse fino al mattino seguente, e che ognuno si calmasse, affinché il giorno seguente si stabilisse formalmente a chi bisognava dare il Palladio. Aiace, pieno di folle rabbia contro Odisseo, Agamennone e Diomede, si ritirò nella sua tenda, e di notte fu ucciso col ferro. Il mattino seguente fu trovato il suo cadavere; e gli eserciti di Aiace e di Pirro entrarono in conflitto con Odisseo, che volevano uccidere. 16. E Odisseo, raggiunte le sue navi, fuggì, facendo vela nottetempo verso il Ponto. Rimasto lì evidentemente per qualche tempo, ripartì con l’intenzione di viaggiare fino alla città di Itaca, sua patria, con le proprie navi e il proprio esercito. Giunto nella regione chiamata Maroneade, subì l’attacco degli abitanti del luogo, li vinse in battaglia e si impadronì di ingenti ricchezze. Ritenendo allora di attaccare su tutta la linea una regione simile, di sconfiggere anche i suoi abitanti e di portarsi via le ricchezze di ogni regione che si fosse scontrata con lui, giunto presso la cosiddetta regione “dei Lotofagi”, diede loro battaglia, ed essi lo sconfissero al punto che per poco non perirono tutti. 17. Fuggito da lì, dopo una lunghissima navigazione fu trasportato da una tempesta fino alla cosiddetta “isola Sicila”,

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CAPITOLO 17

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quella che oggi è chiamata Sicilia. Quest’isola era grandissima, divisa fra tre fratelli grandi, potenti e concordi tra loro, intendo dire Ciclope, Antifante e Polifemo, figli nati da Sicano, il re dell’isola. Questi tre fratelli erano uomini ostili, che non accoglievano mai gli ospiti, anzi li uccidevano. Essendo giunto, con le sue navi e l’esercito, nella parte di isola appartenente ad Antifante, Odisseo fece guerra a lui e al suo esercito di Lestrigoni, i quali uccisero un buon numero di soldati di Odisseo, il quale, riguadagnate le sue navi, salpò e fuggì da lì, fino a raggiungere la parte dell’isola appartenente a Ciclope, là dove si dice che ci siano i Monti Ciclopici. Ciclope, resosi conto di ciò, mosse contro di lui assieme ai propri ausiliari. Egli era grande e brutto. Essendo sopraggiunto proprio nel momento in cui Odisseo si accostava alla sua terra, uccise molti dei suoi. Ciclope catturò Odisseo e alcuni dei suoi soldati; prese uno di questi, chiamato Micalione, un uomo nobile che a Troia si era comportato gloriosamente e guidava l’esercito di Odisseo, lo afferrò per i capelli e, sotto gli occhi di Odisseo e di tutti i suoi compagni, lo sventrò con la spada che portava, come fosse stato un nemico in battaglia. Gli altri li rinchiuse, volendo ucciderli tutti un po’ per volta. Odisseo gli si gettò innanzi e lo persuase, con molte ricchezze e con i doni che aveva portato da Troia, a liberare lui e i suoi uomini superstiti. Ciclope, persuaso a fatica per mezzo delle ricchezze donategli, annunciò che lo avrebbe liberato verso sera. E, con l’intenzione di raggiungerlo nuovamente quella notte, uccidere lui e i suoi compagni, e impossessarsi di tutto il danaro che portava e delle sue navi, verso sera liberò Odisseo e i suoi compagni. Oppure fu liberato solamente Odisseo, il quale, temendo la spietatezza dell’uomo, salpò subito via dalla sua zona. E Ciclope, uscito precipitosamente nella notte, non trovò

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CAPITOLO 18

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le imbarcazioni e, impazzito, ordinò che venissero scagliate pietre nel mare, ritenendo che ancora non avessero ormeggiato in un altro punto della costa. 18. Nel profondo della notte, quando l’oscurità copriva terra e mare, non conoscendo quei luoghi, giunsero nella parte di isola appartenente a Polifemo, il fratello di Ciclope e di Antifante. Il quale Polifemo, venuto a sapere che alcune persone erano approdate di notte e avevano raggiunto la regione di sua competenza, avendo preso con sé dei rinforzi, attaccò Odisseo e ingaggiò con lui una battaglia. Combatterono per tutta la notte e caddero molti uomini di Odisseo. Al mattino Odisseo portò anche a Polifemo dei doni e gli si gettò innanzi, dicendo che era reduce dalle fatiche di Troia, dopo aver vagato costretto dalle onde, e gli enumerò le sciagure che gli erano capitate per mare. Polifemo, commosso dall’eccezionalità delle sue disgrazie, ebbe pietà di lui e lo accolse assieme ai suoi uomini, finché la navigazione non fu agevole. Ma la figlia di Polifemo, Elpe, si innamorò di uno dei compagni di Odisseo, un bell’uomo chiamato Leione; e, quando iniziò a spirare il vento favorevole, essi – all’insaputa di Odisseo – la rapirono e lasciarono la Sicilia. Polifemo inviò contro di loro molti dei suoi uomini ed essi, avendoli raggiunti, li portarono via con la violenza. Queste cose le ha raccontate Sisifo di Cos. Il valente Euripide infatti compose, in forma poetica, un dramma sul Ciclope, e disse che aveva tre occhi (così indicava i tre fratelli, giacché erano concordi, guardavano uno i luoghi dell’altro, combattevano uno a favore dell’altro e si vendicavano a vicenda); disse poi che Odisseo, avendo fatto ubriacare il Ciclope col vino, poté fuggire, poiché fece “ubriacare” il Ciclope con molte ricchezze e doni affinché non mangiasse i suoi compagni,

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 19

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cioè non li ammazzasse; e infine disse che Odisseo con una lampada ardente accecò uno dei suoi occhi, perché rapì la figlia unigenita di suo fratello Polifemo, Elpe, che era vergine ed era stata infiammata dalla lampada del fuoco d’amore, come dire che portando via sua figlia accecò Polifemo, uno degli occhi del Ciclope. Tale interpretazione è data dal valentissimo Fidalio di Corinto, il quale ha detto che il valente Euripide ha riformulato poeticamente tutte queste cose, dissentendo peraltro dal valentissimo Omero riguardo alle peregrinazioni di Odisseo. 19. Odisseo dalla Sicilia andò nelle Isole Eolie, e, accolto benevolmente da Eolo, il re delle isole, fu condotto presso Circe e sua sorella Calipso, figlie di Atlante, re delle isole; il quale, in punto di morte, assegnò le due isole alle figlie, ed esse ne furono regine. Circe era sacerdotessa del Sole, perché suo padre l’aveva condotta bambina nel tempio che c’è nell’isola chiamata Eea, perché vi fosse allevata; e una volta cresciuta divenne una maga esperta di misteri. Era anche bellissima. Sua sorella Calipso, che la invidiava, aveva una grande ostilità nei suoi confronti e – a quanto pare – diceva: «perché disconosce nostro padre Atlante e dice di essere figlia del Titano Sole?» Poiché Calipso nella propria isola aveva un gran numero di uomini valorosi, Circe la temeva e aveva paura che ella, adirata, la attaccasse e le facesse del male. Quindi Circe, non potendo chiamare nessuno che combattesse con lei e la proteggesse, avendo preparato – a quanto si dice – un farmaco con certe piante, accoglieva benevolmente gli stranieri che giungevano da lei e, attraverso la somministrazione di una bevanda cioè di un filtro capace di farli restare lì e di far loro dimenticare la patria, faceva in modo che gli ospiti che lo bevevano stessero con lei. E tutti, straordinariamente in-

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CAPITOLO 19

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namorati di lei, restavano in quell’isola, dimentichi della propria patria; ed ella ne riunì molti. Circe dunque, avendo saputo che le navi di Odisseo erano approdate nella sua isola, ordinò ai suoi che accogliessero con ogni riguardo Odisseo e le sue truppe: ella voleva infatti trattenere lui e i suoi uomini come soldati pronti a combattere in sua difesa. O forse Odisseo soltanto giunse sull’isola: egli vide che c’erano molti uomini di diversa origine e, accortosi che alcuni uomini dell’ esercito acheo si erano accostati a lui, chiese loro: «Perché abitate in quest’isola?» Quelli gli dissero: «Apparteniamo all’esercito acheo e, spinti dalla violenza delle onde marine, siamo giunti su quest’isola, e, avendo bevuto una bevanda stregata offertaci dalla regina Circe, ci siamo terribilmente innamorati di lei, e ora abbiamo questa come patria», e dissero anche altre cose. Odisseo, avendo udito queste cose, radunò tutti i suoi uomini e ordinò loro di non prender nulla dei cibi e delle bevande offerti loro da Circe, poiché contenevano un sortilegio: consumassero invece il vettovagliamento dato loro dal re Eolo e i cibi e le bevande precedentemente riposti nelle navi. Quando Circe portò a lui, all’esercito e ai marinai da mangiare e da bere, essi non accettarono nulla da lei. E Circe, avendo appreso ciò, credette che Odisseo fosse a conoscenza delle sue arti magiche e prevedesse le sue intenzioni, quindi lo fece convocare nel tempio, e lui si recò da lei con una scorta armata (e con la temerità degli Achei), portandole doni provenienti da Troia. Circe, avendo visto lui e gli uomini che lo accompagnavano, gli chiese di rimanere nell’isola finché la stagione invernale non fosse trascorsa, e gli giurò nel tempio che non avrebbe fatto nulla di male a lui o ad alcuno dei suoi. E Odisseo, persuaso, restò con lei per un breve tempo, congiungendosi con lei come fosse stata sua moglie, poiché ella voleva così.

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CAPITOLO 19

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Ma, venuta a sapere che portava in grembo un maschietto (infatti, grazie alla stregoneria, non ignorava nulla), glielo annunciò, e Odisseo le diede una lancia la cui punta era l’aculeo di un pesce pastinaca, come segno di riconoscimento e garanzia dell’incolumità paterna e della sicurezza del figlio. Molto tempo dopo Odisseo, fattosi vecchio, morì a Itaca colpito dalla lancia per mano di suo figlio. Queste cose sul conto di Circe sono spiegate dai valentissimi Sisifo di Cos e Ditti Cretese. Invece il valentissimo Omero disse queste cose in forma poetica: per mezzo di una bevanda magica ella trasformava gli uomini che raccoglieva presso di sé, dando agli uni sembianze di leone o testa di cane, ad altri sembianze di maiale o di orso, ad altri ancora testa di porco. Il già citato sapiente Fidalio di Corinto interpretò questa combinazione poetica spiegando che il trasformare gli uomini in bestie non era affatto coerente col desiderio che ella aveva di avere tanta gente intorno: il poeta indica il modo di fare dei rivali in amore, poiché Circe in quell’isola faceva sì che essi, come belve, digrignassero i denti, impazzissero e fossero in preda alla frenesia del desiderio – così ella ordinava. È infatti naturale che coloro che amano si consacrino alla donna amata e muoiano per lei: tali sono infatti gli amanti. A causa del desiderio si imbestiano, non avendo più alcun pensiero assennato, anzi, cambiando sembianze, diventano come belve anche nel corpo, nell’aspetto e nei modi, aggredendo i rivali in amore: è naturale infatti che i rivali in amore si vedano reciprocamente come belve e si aggrediscano fino a uccidersi. E sono diversi anche per quanto riguarda le modalità di tale desiderio: gli uni infatti si dedicano all’accoppiamento come i cani, congiungendosi più volte, altri, come i leoni, cercano un unico impeto di desiderio, altri ancora, come gli orsi, godono in modo turpe del giacere

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLI 20, 22

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insieme. E costui, nella sua esposizione, lo ha spiegato con maggior chiarezza e verità. 20. Partito dall’isola di Circe, Odisseo fu condotto nell’altra isola, violentemente spinto da venti contrari. Calipso, sorella di Circe, lo accolse e lo trattò con grande riguardo, congiungendosi con lui come fosse anche lei sua moglie. Da lì fu condotto in un luogo prossimo al mare dove c’era un grande lago, chiamato “La guida dei morti”, i cui abitanti erano indovini. Essi gli rivelarono tutto ciò che gli era capitato e che gli sarebbe capitato in futuro. Poi, scoppiata una tempesta sul mare, egli fu strappato da lì e spinto fino alle cosiddette rocce “Serenidi”, che emettono un particolare strepito per gli urti delle onde. Essendone sfuggito, giunse alla cosiddetta Cariddi, in luoghi selvaggi e scoscesi; e lì perse tutte le navi che gli erano rimaste e anche l’esercito; e così Odisseo, da solo, su una tavola dell’imbarcazione era trascinato sul mare, aspettando una morte violenta. Ma alcuni marinai Fenici, durante la navigazione, vedutolo che fluttuava tra le acque e avutane pietà, lo salvarono e lo condussero a Creta presso Idomeneo, il comandante greco. E costui, avendo visto Odisseo nudo e bisognoso, ne ebbe compassione e, avendogli dati moltissimi doni, in quanto suo compagno d’armi, nonché due navi e alcuni uomini di scorta che lo difendessero, lo rimandò a Itaca. Anche queste cose le riferì il bravo Ditti, avendole udite da Odisseo. 22. Anche Diomede, avendo preso il Palladio, salpò da Troia alla volta della sua patria. Agamennone, portando con sé Cassandra, che amava, attraversò il mar di Rodi, volendo raggiungere la città di Micene. E dunque Pirro, avendo visto che se ne erano andati tutti, fece cremare Aiace Telamo-

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CAPITOLI 23-24

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nio e, avendone posto le ceneri in un’urna, la seppellì con grandi onori in un luogo chiamato Sigri, vicino alla tomba di Achille, che era suo padre nonché il cugino di quello. 23. Teucro, fratello di Aiace Telamonio, partito da Salamina di Cipro giunse direttamente a Troia, in soccorso del fratello, e trovò Pirro. Avendo appreso da lui quanto era accaduto, e avendo saputo anche degli onori da lui tributati alle spoglie di Aiace, lodò Pirro e si congratulò con lui, dicendo: «Non hai fatto niente di strano, poiché sei partecipe dell’animo divino di Achille, in quanto figlio. Infatti il tempo non porta via il ricordo che resta degli uomini valorosi, ma la virtù splende pur dopo la morte». Pirro invitò Teucro a mangiare e a bere con lui; e durante il simposio Pirro chiese a Teucro, giacché era suo parente, di raccontargli tutto ciò che fin dal principio era capitato a suo padre, dicendo di non saperlo con precisione. E Teucro incominciò a dire così: 24. «I secoli non cancelleranno la vittoria di Achille contro Ettore. Saputo che Ettore voleva nottetempo andare incontro alla regina delle Amazzoni Pentesilea, tuo padre, avendo preso l’iniziativa, si nascose assieme ai suoi soldati e, mentre Ettore stava attraversando il fiume, uccise lui e tutti gli uomini del suo seguito, lasciandone vivo solo uno, che – dopo avergli tagliato le mani – mandò da Priamo ad annunciargli la morte di Ettore. E quando ancora nessuno dei Greci sapeva dell’accaduto, egli prima dell’alba portò il cadavere di Ettore in un campo; e, avendolo attaccato a un carro, mentre Automedonte guidava i cavalli assieme a lui, tuo padre non smetteva di frustare il corpo di quello». Ma Priamo, avendo udito della sorte di Ettore, lanciò un grido, e tutti con lui; e l’urlo levatosi dalla massa dei Troiani

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CAPITOLO 25

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fu tale che gli uccelli del cielo ne furono sconvolti. E i Greci rispondevano con grida di gioia; le porte di Ilio furono chiuse. Tuo padre organizzò un agone solenne per i re e per tutti, assai desideroso di coprirsi di gloria. Il giorno seguente Priamo, indossando le vesti del lutto, avendo portato con sé sua figlia Polissena, fanciulla vergine, Andromaca, la moglie di Ettore, e Astianatte e Laodamante, i figlioletti di lui, si reca presso i Greci, portando con sé anche molti ornamenti, oro, argento e vestiario. Quando si accostò, nel silenzio dei comandanti greci, tutti ammirarono la sua audacia e gli si fecero incontro, volendo sapere il motivo della sua venuta. Priamo, avendoli visti, si gettò al suolo, coprendosi il capo di polvere e chiedendo loro di supplicare Achille insieme a lui per il corpo di Ettore. Nestore e Idomeneo lo compatirono e pregarono insistentemente tuo padre riguardo a Priamo. E Achille gli ordinò di venire nella sua tenda; Priamo appena arrivato si gettò ai suoi piedi supplicandolo per primo, e così Andromaca coi fanciulli; e Polissena, avvinghiatasi ai piedi di tuo padre, lo implorava, versando lacrime per suo fratello Ettore e annunciando che gli avrebbe fatto da schiava e sarebbe rimasta con lui, se avesse restituito il cadavere. I re, avendo compassione della sua vecchiaia, intecedettero a favore di Priamo. Ma tuo padre Achille disse loro: «Bisognava che egli fin dall’inizio frenasse i suoi figli e non partecipasse della loro colpa; ma lo possedeva la bramosia delle ricchezze altrui: infatti non aveva desiderio di Elena, ma desiderava la roba di Atreo e Pelope. Pagate dunque il fio dei peccati; e che dunque i Greci e i barbari divengano saggi grazie a voi». 25. Essi lo convincono ad accettare il riscatto e a restituire il corpo; egli, avendo pensato all’instabilità della vita e avendo pertanto cambiato atteggiamento, fa alzare Pria-

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 26

891

mo, Polissena e Adromaca e ordina a Priamo di lavarsi e gustare assieme a lui cibo e vino, altrimenti non gli avrebbe restituito il morto. Priamo, preso tra la paura e la speranza del futuro, si lava e, sorretto da Polissena, si avvicina umilmente a tuo padre Achille, e prende da mangiare e da bere. Dopo aver parlato a lungo, si alzarono e, quando fu posto a terra il riscatto, Achille, avendo visto l’abbondanza di doni, l’oro e l’argento, prese anche un pezzo della sua veste, il resto invece lo concesse a Polissena e restituì il morto. Priamo chiese ad Achille di lasciare che Polissena rimanesse presso di lui, e il Pelide gli disse di condurla a Troia, rimandando ad altro momento la questione che la concerneva. Priamo, salito sul carro col corpo di Ettore e accompagnato dal suo seguito, tornò in città. E, avendo cremato il corpo di Ettore, lo seppellirono fuori, presso il muro di Ilio, piangendolo amaramente. 26. Nel frattempo dall’antistante Chersoneso giunge Pentesilea, la quale conduce con sé un gran numero di Amazzoni e di uomini valorosi. Ma, avendo appreso che Ettore era stato ucciso, ella si affrettava a tornare indietro, senonché Paride, appreso ciò, la convinse a restare, dandole oro in gran quantità. Dopo essersi riposata per pochi giorni, assieme al proprio esercito, si arma ed entra nel campo di battaglia con le sue truppe. Diviso l’esercito in due parti, gli arcieri si schierano in modo da occupare la destra e la sinistra, mentre gli opliti di fanteria, che erano più numerosi dei cavalieri, tengono la zona centrale; Pentesilea stava in mezzo ai cavalieri con lo stendardo. E quindi i Danai si schierano in modo che agli arcieri si oppongono Menelao, io – Teucro –, Merione e Odisseo; agli opliti Diomede, Agamennone, Tlepolemo, Ialmeno e Ascalafo; ai cavalieri tuo padre Achille, i due Aiaci, Idomeneo, Fi-

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CAPITOLO 27

893

lottete e gli altri comandanti assieme ai loro eserciti. E io, Teucro, uccido un numero tale di nemici che vengo lodato per la mia eccellenza; gli Aiaci sterminano gli opliti gettandosi in mezzo a loro. Tuo padre Achille, stando tra di loro, teneva d’occhio Pentesilea, cercando di ucciderla, per quanto fosse una temibile combattente. E, accostatosi al suo cavallo, colpitala colla lancia, la getta giù dal cavallo e, ancora viva dopo la caduta, la trascina per i capelli. Avendola vista cadere, gli altri suoi soldati si diedero alla fuga. Dopo che i Troiani hanno chiuso le porte a causa dei fuggitivi, noi Greci inseguiamo i superstiti e li uccidiamo presso al muro, astenendoci dalle donne amazzoni, che l’esercito – nella sua totalità – si spartì, dopo averle ridotte in catene. E poiché Pentesilea era ancora viva, ci venne il desiderio che fosse gettata nel fiume o data in pasto ai cani; Achille però chiedeva che fosse seppellita presso al muro, una volta morta. E la massa, avendolo saputo, gridò che fosse gettata nel fiume. E senza indugio Diomede, afferratala per i piedi, la gettò nello Scamandro: e subito morì. 27. Dopo pochi giorni giunge, chiamato da Priamo, un tale di nome Titone conducendo con sé cavalieri indiani e fanti, e con essi i bellicosissimi Fenici e il loro re Polidamante. Il numero di gente era tale che né Ilio né la pianura potevano contenenerlo interamente. Molti Indiani – e i loro re – giunsero con una flotta. Tutti i re e l’intero esercito, nello schierarsi, erano agli ordini del potente re degli Indi Memnone. Questi aveva con sé molte ricchezze nelle navi. Dopo essersi riposati, entrarono in campo, portando strane spade, fionde e scudi quadrati. Con loro si mischiarono gli alleati di Ilio e i figli di Priamo, e Memnone giunse nella pianura trasportato su un carro. E noi Greci, dopo esserci armati, avanzammo in condizioni terribili sotto ogni

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CAPITOLO 27

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riguardo; infatti, a quella vista, sia noi comandanti che i soldati fummo presi dal panico. E i Troiani, con Memnone e gli altri alleati, ci attaccarono urlando; noi ricevemmo l’assalto e molti vennero feriti. Mentre i nostri cadevano in gran numero, noi comandanti greci indietreggiavamo, non resistendo alla violenza della moltitudine. I barbari avrebbero potuto anche bruciare le nostre navi, se non fosse sopraggiunta la notte. Fattasi notte, l’esercitò greco si radunò e, raccolti i cadaveri, li cremammo. Quella stessa notte decidemmo chi tra i re poteva opporsi a Memnone e attacccarlo, mentre gli altri si sarebbero occupati di combattere contro il grosso dei nemici. Si fece un’estrazione a sorte tra tutti noi capi e per caso sortì Aiace Telamonio, mio fratello. E, prima che il sole sorgesse, tutti noi Greci uscimmo fuori in armi, e lo stesso fecero i Troiani, Memnone, re degli Indiani, e tutte le loro numerose truppe. Dopo che gli eserciti vennero a contatto, quando già molti erano caduti, mio fratello Aiace, avendo ordinato ai re greci di respingere gli altri Indiani e i Troiani, attaccò di nascosto Memnone, re degli Indiani, mentre l’eroe Achille, tuo padre, gli veniva in soccorso da dietro. Memnone, accortosi dell’attacco di Aiace, sceso dal carro, gli si avvicinò, e si tentarono reciprocamente con le lance. Aiace per primo lo priva dello scudo con un colpo di lancia, essendoglisi avventato contro pesantemente. E proprio mentre gli Indiani che stavano presso Memnone si stanno avventando contro Aiace, nel momento in cui questi lo aveva in pugno, tuo padre Achille, avendo visto ciò, scaglia la lancia al collo di Memnone, che era scoperto, e inaspettatamente lo uccide. Caduto il re, nasce subito una gran confusione e i barbari si danno alla fuga; e noi Greci, resici conto di ciò, ci riempiamo di audacia e uccidiamo tutti gli Etiopi. Mentre Polidamante si volge ad Aiace, il Telamonio gli si

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CAPITOLO 28

897

fa contro e, colpitolo all’inguine con la lancia, lo uccide. Dopo la morte di Polidamante e di molti altri, gli Etiopi si danno alla fuga e vengono uccisi, calpestati dai cavalieri. Il campo si riempì di cadaveri e si fece sera; i Troiani quindi chiesero la restituzione dei cadaveri. E poiché noi Greci ci accordammo con loro, entrambi approntammo delle pire e cremammo i morti. I Troiani, avendo assicurato le porte, rimasero a piangere per i loro combattenti e per Memnone. Trascorsi pochi giorni, poiché tuo padre, assieme a noi Achei, sfidava a battaglia i Troiani, Paride, a capo dei barbari, uscì fuori assieme a suo fratello Deifobo. Licaone e Troilo, anch’essi figli di Priamo, li accompagnavano, assieme alle truppe. Il tuo genitore Achille, lanciatosi di nuovo all’attacco, assieme a tutti noi Greci inseguiva i barbari; ed essi, nella fuga, caddero nello Scamandro e molti perirono, e quelli che evidentemente erano vivi furono catturati. Achille uccise i figli di Priamo Troilo e Licaone; noi Achei gli altri. Grande fu il dolore ad Ilio per Troilo; infatti era ancora giovane, e nobile e bello. 28. Dopo alcuni giorni ebbe inizio la festa delle offerte, e vi fu una tregua durante la quale vi furono i sacrifici, giacché i Danai e i Troiani sacrificavano ad Apollo Timbreo nel bosco non lontano dalla città. E quando Polissena, assieme ad Ecuba, giunse al tempio, Achille alla vista di lei fu preso da ammirazione. Priamo, avendo visto Achille nel bosco, gli manda un tale di nome Ideo a riferirgli dei discorsi riguardanti Polissena, mentre Achille camminava da solo avanti e indietro per il bosco di Apollo. E Achille, sentendo parlare di lei, si infiammò; ma noi Greci, vedendo Ideo che si appartava con Achille, entrammo in uno stato di grande agitazione, come se tuo padre Achille ci stesse tradendo. E gli mandammo un’ambasciata per mezzo di

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CAPITOLO 28

899

mio fratello Aiace, di Diomede e di Odisseo, affinché gli intimassero di non arrischiarsi da solo coi barbari. Ed essi lo aspettarono fuori del bosco, per riferirgli l’ambasciata. Ma tuo padre si stava accordando con Ideo per prendere in moglie Polissena; e poco dopo Paride e Deifobo si recarono da Achille senza farsi notare, sollecitandolo riguardo alle nozze con Polissena; e Achille li prese da parte ignaro, senza sospettare nulla di male, per il fatto che si era nel bosco di Apollo. E Paride, come se stesse confermando con un giuramento quanto si era detto tra lui e Achille, stava presso l’altare, ma mentre Deifobo abbraccia e bacia Achille, Paride di fianco affondò la spada che portava con sé. E mentre Deifobo trattiene Achille, Paride gli dà un secondo colpo, e quindi gli cedettero le membra e cadde. Paride e Deifobo se ne vanno senza destare sospetti attraverso un altro sentiero del bosco. Appena furono un po’ distanti si misero a correre a tutta forza e tornarono in città. Odisseo, vedendoli, disse ad Aiace e Diomede: «Costoro non hanno fatto nulla di buono: andiamo da Achille.» Recatisi quindi nel bosco, vedono tuo padre Achille che giace per terra presso l’altare, insanguinato e ancora vivo. Gli disse allora mio fratello Aiace: «Davvero ci fu qualcuno in grado di uccidere te, che per virtù superavi tutti? Ma è stata la tua temerarietà a ucciderti.» Disse Achille: «Paride e Deifobo mi hanno ucciso con l’inganno, a causa di Polissena». E morì. Tra i lamenti portarono il suo corpo, ormai cadavere, all’accampamento, dopo che mio fratello Aiace se lo mise sulle spalle. I Troiani, vedendo ciò, uscirono fuori per portarci via il corpo e straziarlo; e noi Greci, vedendo quanto accadeva in quel momento, fummo in grave difficoltà; ma cremammo il corpo e, avendolo messo in un’urna, lo seppellimmo in silenzio in un luogo chiamato Sigri.

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CAPITOLI 29-30

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29. Pirro, sentendo ciò, gemette amaramente, e Teucro, accortosene, lo elogiò dicendogli: «Chi può dire le tue virtù? Per parte di padre hai il sangue di Peleo, re della città di Ftia, della regione della Tessaglia; per parte di madre hai il sangue di Licomede, re di Sciro. Hai distrutto interamente Ilio e Troia per vendicare tuo padre». E, alzatosi, Teucro abbracciò Pirro e gli chiese il permesso di prendere i figli di suo fratello Aiace, Aiantide, figlio della prima moglie Glauce, ed Eurisace, figlio di Tecmessa, e la stessa Tecmessa; Pirro glielo accordò; e Teucro, avendoli presi, salpò subito per Salamina. Similmente Pirro, con la sua flotta, fece vela; e tutto l’esercito acheo e gli eroi tornarono ognuno alla propria patria. Queste cose le registrò Sisifo di Cos, che fu in guerra insieme a Teucro, e il poeta Omero, avendo trovato la sua relazione scritta, compose l’Iliade, e Virgilio compose il resto; e queste cose si trovano anche nei libri di Ditti, il cui lavoro fu scoperto in una cassetta di stagno molti anni dopo Omero e Virgilio, al tempo dell’imperatore Claudio Nerone. 30. Clitemestra, la moglie di Agamennone, avendo sentito dire tempo prima che suo marito amava Cassandra, colse l’occasione per abbandonarsi a una relazione adulterina con Egisto, uomo di alto rango e figlio di Tieste. E, avendo sentito che Agamennone stava per ripresentarsi a Micene, decise assieme a Egisto il modo in cui Agamennone, appena tornato, doveva essere ucciso con l’inganno per mano dello stesso Egisto. Agamennone arrivò e, dopo che fu accolto dalla città, dal Consiglio e da Egisto, entrato nel proprio palazzo fu ammazzato. Sua moglie Clitemestra fece subito diventare re Egisto e lo sposò legalmente. Ebbe da lui una figlia che chiamò Erigone, la quale, dopo la morte del padre e della madre, temendo Oreste si impiccò.

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 31

903

Il Consiglio, la città e l’esercito odiavano Egisto; e Oreste, il figlio di Agamennone, avendo saputo della presenza di suo padre a Micene, lasciò Scheneo, al quale Agamennone, appena prima di partire per la guerra, lo aveva affidato perché fosse allevato e istruito da lui. E sua sorella, avendolo preso segretamente in disparte, gli rivelò che Egisto voleva ucciderlo. E mentre Oreste meditava sul da farsi, da Creta giunse a Micene Strofio, parente di Agamennone, assieme a suo figlio Pilade, il quale era stato allevato con Oreste e aveva studiato con lui. E Strofio, avendo appreso ciò che era accaduto ad Agamennone, decise assieme a Oreste di dar battaglia ad Egisto. E, avendo preso con sé Oreste, si recò presso l’oracolo di Apollo per interrogarlo riguardo a lui. E ricevette questo responso: «Bisogna che Oreste uccida la madre ed Egisto»; quindi anche Oreste chiese di sapere se si sarebbe salvato dopo averli uccisi; e gli fu detto che avrebbe domimato le terre paterne e tutto il Peloponneso. 31. Chiese quindi a Strofio di tornare nella sua patria e di lasciargli però suo figlio Pilade. Strofio, persuaso, fece così. Quindi Oreste e Pilade, secondo quanto aveva detto l’oracolo, giunsero a Micene. Di nascosto si recò da Elettra, sua sorella, e le chiese di convincere sua madre Clitemestra ad accoglierlo; Elettra convinse sua madre e accolse Oreste. Clitemestra, incoraggiata da lei, pregò insistentemente Egisto; e Oreste, dopo essere stato accolto da Egisto, perseverava nella sua frenesia di voler vendicare il sangue di suo padre, dicendo a tutti: «Il regno è mio». E, avendo trovato un’occasione favorevole, ammazzò sua madre e il re Egisto, suo patrigno. Rimasto solo con se stesso, egli passò dalla frenesia all’ebetudine, e ora ragionava e stava calmo ora smaniava. Allora i sacerdoti, in ossequio ai cittadini e ai membri del Consiglio, giacché essi amavano Oreste e vo-

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CAPITOLO 32

905

levano che regnasse, avendo purificato Oreste e avendolo mondato della contaminazione dell’uccisione della madre, lo portarono nel tempio di Atena, là dove c’era l’Areopago, essendo giudice Menesteo, tra Eaco (?) – quello che stava con il re Tindareo, padre di Clitemestra – e Oreste*. Menesteo sentenziò che Oreste aveva il diritto di vendicare il proprio padre, soprattutto a motivo delle donne, affinché nessun’altra donna facesse qualcosa di così terribile. Queste cose le narrò Ditti nel suo sesto libro. 32. I sacerdoti, dopo il verdetto, portarono Oreste via dal tribunale dell’Areopago e lo condussero a Delfi nel tempio di Apollo: che vi restasse, al fine di regnare dopo essersi liberato della follia. Oreste, dopo essere entrato nel tempio – nel pieno delle sue facoltà –, assieme a Pilade, e aver compiuto un sacrificio, chiese alla Pizia di guarire dalla malattia che lo rendeva folle. Attraverso la Pizia gli fu dato questo responso in versi, che in lingua comune suona così: «Oreste, non c’è altro modo per te di liberarti del tremendo morbo della follia, se non quello di raggiungere la Scizia e l’Aulide, dopo aver attraversato le onde del Ponto. Catturato nel tempio di Artemide, scamperai agli altari del sacrificio e, fuggito dalla terra straniera, avendo attraversato altre terre, raggiungerai la tremante regione della Siria e, innanzi alla valle di Silpe, troverai un monte chiamato Melanzio, dove c’è un gran tempio di Estia: lì deponi la tua rabbiosa follia. Va’ presto! Ho detto ciò che è». Avendo ricevuto questo responso, Oreste ne colse il significato e subito, essendosi imbarcato con Pilade, giunse * Questo passaggio è gravemente corrotto: la traduzione è congetturale (metaxuv comunque è da interpretarsi nel senso di ‘tra le parti in causa’).

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CAPITOLI 33-34

907

in Aulide, regione della Scizia. Una volta sbarcati, Oreste notò un tempio sito a circa due miglia dal mare e delle ossa di uomini morti gettate lì. Disse a Pilade: «Ti sembra che qui, dove siamo approdati, sia la dimora della dea? Vedo anche le ossa degli stranieri morti». E Pilade, che aveva fatto attenzione, disse a Oreste: «Fuggiamo, se vogliamo salvarci». Ma Oreste disse: «Noi non fuggiamo: non abbiamo infatti l’abitudine di fuggire né di disprezzare il responso del dio». 33. Dei pastori, avendoli visti, corsero da Ifigenia, dicendole: «Figlia di Agamennone e Clitemestra, sono giunti due giovani presso la Cianea». Ed ella disse loro: «Che tipi sono? Di che paese sono? Come si chiamano gli stranieri?» A tutti quelli che venivano catturati e condotti al sacrificio Ifigenia chiedeva infatti di quale contrada fossero, e solo allora li uccideva, volendo avere notizie concernenti suo padre Agamennone, i suoi uomini e la guerra combattuta contro i Frigi. I pastori le dicono: «Uno si rivolgeva all’altro chiamandolo ‘Pilade’, ma non sappiamo il nome del compagno, poiché non lo disse». Ed ella a loro: «Che hanno a che fare dei pastori col mare?» Risposero quelli: «Siamo andati a lavare i buoi nell’acqua marina». E, avendo mandato degli Sciti, li catturò: furono condotti in catene al sacrificio, come ha raccontato Euripide nel suo dramma, del quale questi eventi costituiscono una piccola parte. 34. Dopo che furono legati, ella ordinò che uno di loro fosse escluso e l’altro fosse condotto al sacrificio. Gli Sciti, come un sol uomo, esclusero Oreste, e condussero Pilade all’immolazione presso il tempio di Artemide. Ifigenia gli chiese di che paese fosse originario; lui rispose: «Io, mi-

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CAPITOLI 35

909

sero, giungo qui dall’Ellade, dalla città di Micene». Lei, avendo udito il nome del paese e della città su cui aveva regnato suo padre, scoppiò in lacrime; ma, ritenendo che fosse stato istruito dai pastori, gli disse: «Se vieni da Micene sai anche chi vi regna». Quello disse: «Prima vi regnava Agamennone». E lei di nuovo: «Se hai conosciuto bene Agamennone, chi è sua moglie? E quali figli ebbe da lei?» Quello disse: «Da Clitemestra ebbe Oreste, Elettra e Ifigenia, la quale – a quanto dicono – fu offerta in sacrificio ad Artemide, e la dea la salvò: non si è saputo dove fosse. Ebbe anche Crisotemi e Laodice come figlie». Dopo aver udito queste cose, ella ordinò che fosse liberato dalle catene e, avendo scritto su una tavoletta, gliela diede dicendo: «Ecco che la dea, per il mio tramite, ti ridà la vita. Giura su di lei che darai questa tavoletta a Oreste e mi consegnerai la sua rispista scritta». Pilade glielo giurò: «Consegnerò la tavoletta nelle sue mani, e te lo condurrò». Avendo preso la tavoletta si recò davanti al tempio dove Oreste era sorvegliato e chiese agli Sciti di parlare con lui; gli diede quindi la tavoletta dicendo: «Va’ da tua sorella». Gli Sciti rimasero stupiti per l’accaduto, e lo condussero da Ifigenia assieme a Pilade. Questi le disse: «Ecco Oreste». Ma lei non lo riconobbe e, ritenendo che non fosse lui, gli disse: «Mio fratello, quale segno distintivo della stirpe di Pelope, ha un neo a forma di oliva sul dorso», ma, avendo rivolto lo sguardo alla sua scapola destra, vide che aveva quel segno; allora abbracciò Oreste e ordinò che le navi fossero portate a riva, con tutti i marinai; e, avendole tirate in secco, essi trascorsero lì la stagione invernale. 35. Giunta l’estate, Oreste prese furtivamente con sé Ifigenia e la statua d’oro di Artemide, e insieme a Pilade fuggirono sulle loro imbarcazioni. Navigarono fino al paese degli

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CAPITOLO 36

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Adiabeni; e da lì, verso oriente, arrivarono al confine coi Saraceni; e giunsero in Palestina, a Tricomia. Gli abitanti di Tricomia, accortisi dell’abbigliamento sacerdotale di Ifigenia, la accolsero con tutti gli onori; ed essi si trattennero lì mentre Oreste era in preda alla follia. I Tricomiti, avendo costruito un grande tempio di Artemide, esortarono Ifigenia a sacrificare alla dea una fanciulla vergine e a dare il nome di costei al villaggio. Avendole portato una fanciulla di nome Nissa, celebrarono il sacrificio ad Artemide; e dopo che essi ebbero eretto una colonna bronzea dedicata alla fanciulla che ebbe la sorte di essere immolata, Ifigenia diede alla città, che prima era un villaggio, il nome di Nissa, quello della fanciulla da lei immolata, e le fece anche un altare su cui scrisse queste parole, che si leggono ancora oggi: «Divina signora Nissa, accogli coloro che fuggono dalla Scizia». Dopo che Oreste recuperò il senno, Ifigenia ebbe una visione in cui una cerva le diceva: «Fuggi da quel paese». E il mattino dopo, levatasi, fuggì con Oreste e Pilade fino alla costa della Palestina, da dove, avendo fatto vela, giunsero fino in Siria, secondo quanto aveva detto l’oracolo. 36. Il re della Scizia, di nome Toante, avendo saputo che Ifigenia aveva preso la statua aurea di Artemide ed era fuggita, mandò molti Sciti al suo inseguimento, dopo aver detto loro: «Non tornate in Scizia senza riportarmi la statua aurea di Artemide». Essi, dopo averli inseguiti e cercati dappertutto, giunsero in Palestina, presso la città di Nissa, già chiamata Tricomia; e avendo appreso che Ifigenia e Oreste avevano raggiunto la costa ed erano immediatamente salpati, compiaciutisi del sito, della città di Nissa e del tempio di Artemide – e timorosi del loro re – essi restarono ad abitare lì, cambiando il nome della città in ‘Città degli Sciti’.

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CAPITOLO 37

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37. Oreste col suo séguito raggiunse la Siria e, una volta sbarcato, chiese: «Dov’è il monte Melanzio e il tempio di Estia?» Avendolo trovato, entrò nel tempio e, celebrato un sacrificio, rimase lì a dormire. Liberatosi del tremendo morbo, Oreste lasciò lì la follia e uscì dal tempio. Giunto presso i flutti dei due fiumi chiamati ‘Melanti’ dai Siri, poiché scendono dal monte Melanzio, vi si lavò. E dopo aver attraversato il fiume Tifone, che adesso è chiamato Oronte, si recò al monte Silpio per inchinarsi agli Ioniti. Gli Argivi che abitavano la Siria – gli Ioniti –, avendo udito che Oreste si era liberato della malattia, andarono da lui, giacché proveniva dal loro paese ed era di sangue reale. Fattisi incontro a lui, riconobbero quelli che lo accompagnavano, provenienti dal tempio di Estia, e chiesero loro: «Chi è costui?» Essi risposero: «È Oreste, e lo conduciamo a voi». Gli Ioniti subito lo salutarono dicendogli: «Oreste, dove hai deposto la follia?» Ma Oreste, temendo ancora la furia del morbo, non si volse indietro né mostrò loro il tempio o il monte dove era stato guarito dalla malattia, ma, avendo sospeso la mano destra al di sopra del suo capo, col dito indicò loro il monte e il tempio dicendo: «Su quel monte, presso il tempio della divina Estia, ha lasciato la pazzia terribile». Subito gli Ioniti gli fecero un busto di bronzo che lo ritraeva nel gesto con cui aveva dato loro l’indicazione; ed esso è posto su di un’alta colonna in memoria sempiterna e a gloria del paese, del tempio, di Estia: essi indicarono ai posteri il luogo dove Oreste si liberò della rabbiosa frenesia. Questo busto di bronzo si trova ancora lì e gli Ioniti hanno cambiato il nome del monte Melanzio in ‘Amano’ [privo di follia ndt]. Oreste, essendosi inchinato agli Ioniti, raggiunse la spiaggia di quella che prima era chiamata Paleopoli e ora si chiama Seleucia, e, avendovi trovato delle navi, salpò per l’Ellade con Ifigenia e

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MALALA, CRONOGRAFIA (LIBRO V)

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CAPITOLO 37

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Pilade. E dopo aver fatto sposare sua sorella Elettra con Pilade, governò la regione di Micene fino alla morte. Ma i Siri, avendo notato il gesto del busto di Oreste e avendo appreso dagli Ioniti il modo in cui erano andate le cose, si adirarono e lo chiamarono ‘fuggiasco’ perché, dopo che nel loro paese gli era capitata una simile fortuna ed era scampato a una tale minaccia, egli, girato e rivolto da una parte, annunciò gli eventi divini e, per tutta riconoscenza, non mostrò agli Ioniti il tempio di Estia ma, evitando di fare i conti, anziché ringraziare, volgendo indietro il dito indicò il tempio e il monte dove, liberatosi della selvaggia follia, aveva trovato la salvezza. E ancor oggi, presso gli Antiocheni, questo busto di Oreste è chiamato ‘Il fuggiasco’. Questa statua di Oreste si trova a poca distanza dalla città. Il bravo Domnino ha scritto queste cose.

COSTANTINO MANASSE DAL BREVIARIO DI STORIA Introduzione di Lorenzo M. Ciolf i traduzione di Emanuele Lelli

LA CRONACA IN VERSI COSTANTINO MANASSE

DI

Scarsissime sono le notizie biografiche sull’erudito bizantino Costantino Manasse, per lo più desunte dalle sue stesse opere. Sappiamo infatti soltanto che, nato a Costantinopoli attorno al 1130, egli entrò a far parte e fu un membro attivo del circolo di letterati che gravitavano attorno alla figura della sebastocratorissa Irene, moglie di Andronico Comneno, fratello del futuro imperatore Manuele. In questo vivace ambiente ebbe occasione di frequentare Giovanni Tzetzes e Teodoro Prodromo. Salito al trono Manuele (1143), Manasse si legò al nuovo sovrano e venne da lui designato per svolgere alcuni incarichi. Forse nominato vescovo di Panion nel 1170, Costantino morì verosimilmente alla fine degli anni Ottanta del XII secolo; alcuni studiosi hanno proposto di identificare il Nostro con un omonimo metropolita di Naupacto. Alla sua penna si devono: diverse orazioni, alcune note schedografiche, panegirici e cinque ekphraseis – in cui la sua arte eccelleva –, che seguono gli schemi tradizionali dei rispettivi generi; il romanzo in versi Gli amori di Aristandro e di Callitea, di cui si conservano solamente frammenti attraverso Macario Crisocefalo (XIV secolo); una brevissima biografia in versi del poeta del II secolo Oppiano; l’Hodoiporikon, la descrizione in versi della missione diplomatica in Palestina del 1160 guidata dal sebastos Giovanni Contostefano, cui prese parte lo stesso autore.

920

MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

In questo panorama letterario assai interessante e variegato, un posto di rilievo è occupato da una cronaca universale: la ̕ϾΑΓΜ΍Ζȱ ϡΗΘΓΕ΍Ύφ1. Redatta su richiesta della stessa sebastocratorissa, l’opera si proponeva di offrire alla colta donna un’agile sintesi storica, come si può dedurre dai versi proemiali: «πΔΉϠȱ·ΓІΑȱπΔΉΔϱΌ΋Η΅ΖȱΓϩ΅ȱΘΕΓΚϟΐ΋ȱ Ώϱ·ΓΙȱȦȱΉЁΗϾΑΓΔΘϱΑȱΗΓ΍ȱΎ΅ϠȱΗ΅Κϛȱ·Ε΅ΚχΑȱπΎΔΓΑ΋ΌϛΑ΅΍ǰȱ ȦȱΘΕ΅ΑЗΖȱΦΑ΅Έ΍ΈΣΗΎΓΙΗ΅ΑȱΘΤΖȱΦΕΛ΅΍ΓΏΓ·ϟ΅ΖǰȱȦȱΎ΅ϠȱΘϟΑΉΖȱ ώΕΒ΅Αȱ ΦΔȂȱ ΦΕΛϛΖȱ Ύ΅Ϡȱ ΐνΛΕ΍ȱ ΘΓІȱ ΔΕΓϛΏΌΓΑȱ Ȧȱ Ύ΅Ϡȱ ΘϟΑΝΑȱ πΆ΅ΗϟΏΉΙΗ΅ΑǰȱπΘЗΑȱΈξȱΐνΛΕ΍ΖȱΔϱΗΝΑ» (vv. 7-11).

I 6733 versi politici di cui si compone – e il fatto che tale cronaca sia redatta in versi ne fa «un’opera pioneristica»2 – ripercorrono, dalla prospettiva di un partigiano della nobiltà, la storia dalla creazione del mondo e la comparsa di Adamo fino al 1081, anno della morte dell’imperatore Niceforo III Botaniate3. Pur seguendo in maniera evidente l’opera storica di Giovanni Zonara (anche egli attivo nella Costantinopoli del XII secolo), Manasse decise di arrestarsi alla vigilia dell’ascesa al trono della dinastia dei Comneni, dichiarando di sentirsi incapace di presentare le imprese di quei sovrani. Sembra invece più probabile

1

L’edizione critica della Cronaca di Manasse è disponibile in O. Lampsidis, Constantini Manassis Breviarium chronicum, I-II, Athenis 1996; attualmente esiste solamente una traduzione integrale dell’opera, in neogreco, a cura dello stesso Lampsidis (2003). 2 E. S. Kiapidou, ̒ȱΏΓ·ΓΘνΛΑ΋Ζȱ̍ΓΑΗΘ΅ΑΘϟΑΓΖȱΗΙ··ΕΣΚΉ΍ȱ̕ϾΑΓΜ΍Ζ ̙ΕΓΑ΍ΎφDZȱΓ΍ȱΔ΋·νΖȱ·΍΅ȱΉΒ΍ΗΘϱΕ΋Η΋ȱΘ΋ΖȱΔΕΓΘΓΆΙΊ΅ΑΘ΍ΑφΖȱΔΉΕ΍ϱΈΓΙ, in S. Kotzabassi – G. Mavromatis (edd.), Realia Byzantina, Berlin 2009, pp. 57-66, in part. p. 57. 3 Non sarà inutile ricordare che Niceforo III fu deposto proprio a seguito di un colpo di stato del megas domestikos Alessio Comneno, nonno di Manuele I, che conseguentemente prese la porpora con il nome di Alessio I.

INTRODUZIONE

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che l’esclusione del regno di Alessio I Comneno dal piano generale dell’opera si debba al fatto che tale imperatore fosse criticato in più passaggi della fonte Zonara. L’ampio uso di immagini omeriche, la preferenza accordata ad un lessico retoricamente ricercato e la penetrazione di qualche espressione vernacolare nel testo resero e rendono tuttora molto piacevole la lettura della ȈϾȞȠȥȚȢ. Lo straordinario ed immediato successo della Cronaca è indirettamente testimoniato dalla sua fortuna: si annoverano infatti, oltre ad un elevato numero di copie manoscritte, anche una parafrasi, una continuazione e traduzioni in bulgaro4 e in romeno. Lorenzo M. Ciolfi

4

Questa traduzione fu fatta redigere dallo zar Ivan Aleksandr nel XIV secolo.

SUNOYIS CRONIKH

COSTANTINO MANASSE DAL BREVIARIO DI STORIA 1107-1473

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Nel tempo in cui Davide regnava sulle tribù di Israele, fu scatenata dai Greci la guerra contro i Troiani, a causa di Elena, moglie di Menelao. Poiché io intendo narrare questa guerra così come è descritta dagli storici e intendo raccontarla non come la narra Omero, chiederò venia ai benevoli lettori. Omero, infatti, dallo stile di miele, impiegando mezzi sapienti rende ammalianti i suoi canti ma non raramente muta e modifica molti elementi. Si dia comunque inizio al mio racconto. Il figlio di Laomedonte, sovrano regnante su Troia, Priamo, aveva in moglie Ecuba, figlia di Cisseo, che da lui era stata resa madre di molti figli. Di nuovo incinta, prossima alle doglie, fu sconvolta da paure di sogni notturni: le sembrò di vedere una face ardente che usciva dal suo ventre, ed incendiava tutta la città, insieme alle selve dell’Ida. Priamo ascolta il sogno, e ne fa partecipi gli indovini: apprende che si tratta di un oracolo, per lui e la città; esponesse alle belve il figlio che sarebbe nato, altrimenti sarebbe piombato nel fuoco divoratore. Dopo poco tempo venne alla luce Alessandro, pargolo grazioso, ben fatto, di aspetto elegante. Ma Priamo doveva cancellare al più presto quel pargolo, che avrebbe cancellato dalle radici tutta la sua terra. Egli però, vinto dalla natura, risparmia il neonato, e pensando di ingannare la fatalità della sorte,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1137-1168

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lo abbandona in campagna, per farlo allevare ad altri: proprio da Paride quel luogo avrà nome di Paro. Sconsideratamente lo espone, dunque. Lo trovano dei pastori, ne hanno pietà e lo raccolgono. Si prendono cura del piccolo, lo allevano, chiamatolo Paride. E quando egli raggiunge l’età dell’adolescenza, Priamo lo accoglie a palazzo, pensando di essere sfuggito alla rovina che da quello doveva [arrivare. Ma oramai non si potevano disfare i fili della sorte, e da quel che era stato assegnato non si poteva tornare indietro. Alessandro infatti, ucciso un cognato non volontariamente, ma tuttavia compiuto questo omicidio, lasciata Troia si rifugia a Sparta, da Menelao. Costui lo accoglie benevolmente, come un amico, lo consiglia, lo ospita, lo tratta con ogni riguardo. Ed ecco il tuo inganno, Eros, tiranno di tutti, ecco il tuo inganno, e il seme dell’inimicizia, con cui accendesti fulgida fiamma di guerra. Menelao si allontana da Sparta, Paride rimane solo, e scorge a palazzo la moglie di Menelao. Era una donna bellissima, dai bei sopraccigli, dal bel colorito, belle guance, bel volto, sguardo intenso, pelle candida, sopraccigli arcuati, dolce, bosco delle grazie, dalle bianche braccia, tenera, come una viva bellezza. Il volto bianco, le guance pelle di rosa, il volto elegante, lo sguardo profondo, una bellezza non artefatta, genuina, spontanea: una sfumatura di porpora tingeva il bianco volto, come se uno tingesse avorio in splendente porpora. Un collo snello, bianchissimo, da cui si favoleggiava che Elena dal bel volto fosse stata generata da un cigno. Alessandro la scorge: ne è preso dalla bellezza.

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VERSI 1169-1199

929

Che dire o narrare di più o oltre? La rapisce, consenziente, e fugge esule. E non potendo organizzare diversamente la fuga, salito su una nave che solca il mare raggiunge la Fenicia, date le spalle alla rotta che avrebbe portato a Troia. Temeva infatti l’inseguimento di coloro a cui aveva fatto [oltraggio. Abbandonato però da venti forti e frequenti, a stento riesce ad attraccare in una delle bocche del Nilo, chiamata Canobio, in tempi antichi, ove era innalzato un tempio dell’eroe Eracle, che donava immunità ai rifugiati. Fuggiti dunque per paura a questo tempio, coloro che erano sfuggiti in mare insieme a Paride lo travolgevano con molte ingiurie e contumelie, insistendo tragicamente sulle terribili azioni da lui compiute, sulla sua tracotanza, sull’empietà nei confronti dell’ospite, sul rapimento della donna, nonché delle ricchezze. Ode ciò lo stratega, governante del luogo, ode ciò anche Proteo, il re d’Egitto. Paride si reca supplice da costui, con la donna, con i beni, con il suo seguito. Proteo gli chiede chi sia la donna, e a chi appartenga, e venendo da dove, egli sia giunto fin lì. Alessandro allora gli intesse parole mendaci. Ma Proteo, che bene conosce le vicende di Elena, con queste parole risponde ad Alessandro: «Se io non avessi per costume e per legge l’obbligo di non uccidere alcuno straniero di quelli che le onde marine violente gettano su questa terra, con grandi e terribili tormenti ti punirei, perché hai mostrato ingratitudine verso chi ti aveva fatto del bene,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1200-1232

931

e hai calpestato le leggi dell’amicizia reciproca. Ma ora non ti restituirò né i beni né Elena, neanche se mi blandissi con innumerevoli adulazioni, ma la conserverò per il greco a cui hai fatto torto. Quanto a te, allontanati da costei, e fuggi dall’Egitto». Così dunque Proteo scacciò con minacce Paride: ed egli a mani vuote fece ritorno in patria, dopo aver assaporato solo con la punta di un dito il piacere, ed avere acceso un rogo che sarebbe salito fino al cielo. Ciò seguì infatti al rapimento di Elena e alla fuga da Sparta. Menelao fa ritorno dal viaggio, apprende l’accaduto, si strappa le vesti, insieme al padre di Elena, Tindaro. Si recano allora al cospetto dei príncipi greci, affranti nel volto, vestiti di nero. Richiamano alla memoria i terribili giuramenti, che tutti i Greci avevano sancito insieme: se Elena fosse stata rapita da qualcuno, tutti avrebbero combattuto per lei con le proprie forze. Dunque supplicando molto e con molta insistenza convincono i Greci a preparare una spedizione contro i Troiani. Molti giungono dalle isole, dal continente, genti marinare e genti molto distanti dal mare, da Atene, da tutta l’Eubea dalla Tessaglia, dall’Acaia, da tutta la Grecia. Alleate erano le isole di Itaca, Rodi, Sciro e Salamina, e con queste Creta, tre volte più grande. I Corinzi venivano in soccorso, gli Argivi erano alleati, e una flotta di migliaia di navi era da loro condotta. Menesteo veniva da Atene, Nestore da Pilo, Odisseo da Itaca, Aiace da Salamina, da Creta Idomeneo, Tlepolemo da Rodi,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1233-1265

933

tutti portando nel sangue origine nobile, insigni, nati da Zeus, valorosi, nobili, dal cuor di leone, tutti uomini di razza. Achille tuttavia, dalla Ftiotide, rifulgeva su tutti: uomo tessitore di guerre, valoroso, mano valente. E dunque, armata la flotta di mille navi, elessero Agamennone comandante delle navi e dell’esercito, uomo nobile e prestante, eroe valoroso, splendido per prestanza e per forza di mani. Lasciano allora le patrie, i propri cari, i genitori, e con animo deciso navigano verso la guerra. Riunitisi a consiglio, ritengono che sia necessario depredare e distruggere le terre vicino Troia, sia per procurarsi viveri per sé, sia per privare i Troiani di sostegno. Vengono pertanto inviati Achille ed altri eroi: piombano sulle isole, depredano le terre, e devastano completamente le forze nemiche. Allora i Greci udirono quanto era accaduto ad Elena, come il re Proteo l’aveva sottratta a Paride, come la custodiva presso di sé, nella città di Menfi: nonostante ciò, si dice, bramavano di conquistare Troia, perché fra loro era grande la fama dei tesori d’oro che vi erano custoditi, e delle ricchezze di cui abbondava. Volevano anche punire chi li aveva oltraggiati: ritenevano non virile, debole, dappoco non esigere le dovute pene di un affronto. Come dunque i Troiani videro una tale flotta, e argomentarono la moltitudine che vi era imbarcata, chiamati a raccolta quanti più alleati potessero, Carii, Licii, Misii, Meoni e Frigi, stretta amicizia con ogni popolo dell’Asia, sia del continente sia delle coste,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1266-1298

935

schierarono un esercito innumerevole. Molto tempo trascorse nella guerra. Più di cinquantamila uomini abitavano la città di Troia: da subito, dunque, si armarono pronti alla mischia, serrando le fila con coraggiosa decisione; ma quando provarono la potenza di Achille, la sua velocità, come di fiamma rovente, il volto virile e l’audacia furente, si chiusero dentro le mura non osando scontrarsi a battaglia con i Greci, finché colei che tutto stravolge, colei che tutto perturba, la madre di ogni male, l’invidia, dico, spense l’impeto dell’azione di Achille, e incoraggiò di nuovo i Troiani, poiché l’eroe era preso dall’ira. Causa del dolore che esacerbava Achille era l’uccisione di Palamede, ingiustamente ucciso. Come siano andati i fatti, e chi sia il responsabile, narrerò. Odisseo, l’isolano, contro Palamede un implacabile odio nutriva, un’invidia dal profondo dell’animo, perché fra i Greci era grande la fama di Palamede, e tutti, come per un dio, nutrivano per lui una stima e un amore sincero. Egli infatti aveva previsto il dardo infuocato della peste, e a tutti i capi greci lo aveva annunciato, e quando tutti costoro erano tristemente colpiti dal male, solo egli era riuscito a salvare i Greci, ora a parole consigliandoli e rincuorandoli, ora coi fatti insegnando loro quel che fosse utile. Odisseo dunque era consumato dall’invidia per costui, vedendo che Palamede era amato da tutti, e che lui era invece tenuto come uno dei tanti. Perciò ordiva inganni e trame di dolo,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1299-1330

e intesseva progetti pieni di calunnie. Ma finché Achille forte di mano era in campo, nulla potevano i progetti del figlio di Laerte, né quel che tramava contro Palamede, che era come la tela di un ragno. Ma quando Achille fu inviato con altri eroi ad attaccare guerra con alcuni alleati dei Troiani, ed aveva come compagno proprio Palamede (bramava di averlo vicino in ogni circostanza), allora Odisseo, capace di tutto, forte della sua sfrontatezza, si fa beffe dell’ingenuità di Agamennone, e, simulando di essergli amico, «Sovrano,» gli dice, «Achille forte di mano brama il potere sui Greci: lo spinge baldanza di giovane. E come compagno e mezzano si è preso Palamede, straordinario a parlare e ad adulare. Tra poco giungeranno, compiuta l’impresa, e ti recheranno in dono buoi e capi di bestiame, ma si terranno per sé interi scrigni di ricchezze, con i quali si faranno complici i capi greci, e li metteranno contro di te, per rovesciarti dal potere». Il re ascoltò, fu persuaso, fu preso dalla rete, e si affidò all’autore dell’inganno come consigliere. Presto dunque fa ritorno Palamede, ma, lasciato solo, cade nella rete dell’invidia: è calunniato, come se volesse tradire i Greci per i Troiani, e viene lapidato – oh, di che cosa sei capace, invidia! – non potendo dire altro se non queste parole: «O infelice verità, ti piango e ti deploro: prima di me sei tu ad esser uccisa e a morire». Quando anche il figlio di Teti ritorna, con splendidi trofei, capisce quel che è avvenuto, compiange Palamede,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1331-1361

939

profondamente si duole, profondamente si affligge, si adira [con i Greci, decide di astenersi dal combattere e scendere in campo con loro. Torna allora il coraggio ad Ettore e ai suoi alleati, e tornano a scontrarsi con i Greci, forti in battaglia. Ed ecco stragi e morti e spargimenti di sangue, assassinii e grida e fiumi inondati di rosso: cadono come spighe di grano gli sciami dei Greci, e sono abbattuti, e prostrati da infiniti dolori si pentono di quel che hanno ordito. Essi, che prima erano stati superbi, ora con supplici parole pregavano Teti di salvarli. Ma Achille non cedeva loro, non se ne curava, finché Patroclo, che lui amava straordinariamente, caduto per le mani eroiche e nobili di Ettore, lo fece tornare per necessità in campo contro i Troiani. Si lancia dunque alla pugna Achille, spirando fuoco, irrompe nelle falangi, massacra chi combatte nelle prime file, e con loro Ettore, la colonna di Troia, uomo grande, valoroso, allevato nelle armi, che sul petto mostrava cicatrici infinite, procuratesi in lotta con tori selvaggi, prima che giungessero i Greci ad attaccare battaglia. […] Ucciso Ettore dal cuore coraggioso, Priamo chiama in soccorso le Amazzoni. Ed ecco ancora cruenta battaglia: tutte sono massacrate. Privato di esse il vecchio Dardanide manda a chiamare Davide, sovrano di Giudea, chiedendo di lì rinforzi. Ma Davide non li concede, sia perché in quel tempo era in lotta con genti che parlavano lingue straniere, sia perché sdegnava tanto i Greci quanto i barbari,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1362-1394

perché non riconoscevano Dio ma erano idolatri, e ancora temendo che i Giudei non cadessero in errore, se fossero inviati da lui come alleati dei Troiani, poiché erano per natura inclini al peccato. Priamo allora supplica Tantane, re degli Indi, e con un esercito infinito viene inviato a Troia Memnone. L’esercito era composto da Indiani, tutti di pelle scura: a quella inusitata vista, i Greci, sia temendo il loro aspetto e le loro armi, e ritenendoli come bestie che l’India nutre, meditavano di fuggire notte tempo e di lasciare Troia. Ma poi si schierarono contro le genti dalla pelle nera e fecero rosseggiare del sangue degli Indiani i campi, e tinsero di rosso le correnti dello Scamandro. In questi giorni si celebrava anche la festa delle dediche, sia per i Greci sia per i barbari: per tutti era tregua da guerre e travagli. Sia l’esercito greco sia lo sciame dei Troiani si mescolavano fra loro, non osando azioni ostili. Vi era un tempio, fuori le mura di Troia belle torri: Achille, che qui spesso veniva, vide Polissena, e fu acceso dalla fiamma dell’amore per lei. L’aveva già vista durante il riscatto di Ettore, e, pur potendola ottenere, non l’aveva voluta. Ma allora, quando la vide, fu colpito, e al padre Priamo inviò messaggi chiedendo le nozze con Polissena. Il sovrano allora fingeva di assecondarlo, mentre Deifobo e Paride escogitarono un tranello. Come dunque giunsero al tempio di Apollo silvano, avanzando solenni promesse su Polissena, Deifobo, abbracciato il figlio di Peleo, lo bacia, chiamandolo sposo di sua sorella; Alessandro invece, standogli accanto, lo ferisce a morte,

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1395-1425

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fuggendo subito dopo con Deifobo. Intanto Achille, caduto a terra, esalava gli ultimi respiri. Odisseo, che lo aveva accompagnato, venne a sapere dell’accaduto, e con lui Aiace Telamonio, rampollo di Zeus. Dunque, corsi entrambi nel tempio, trovarono l’eroe a terra, rosso di sangue, con un ultimo soffio vitale, che a stento riusciva a parlare; i suoi occhi stavano per essere coperti dalla nebbia. Appena lo videro, gridarono di dolore. Gettatoglisi al petto, il grande Aiace, fra i gemiti, disse al Pelide: “Dunque era vero, gigante fortissimo in guerra, forte di mano, che qualcuno ha potuto ucciderti, mentre eri in preda alla brama”. Ed egli, con voce rotta e incerta, rispose: “Mi uccisero Deifobo e Paride, con l’inganno”. Così dicendo spirò quell’eroe. Aiace, caricatosi sulle spalle il corpo di Achille, gridando di dolore lo ricondusse amaramente alle navi. Subito, allora, i Greci mandarono a chiamare Pirro, il figlio [di Achille, chiamato anche Neottolemo, figlio di Deidamia: E di nuovo stragi e morti, di nuovo assassinii, di nuovo cosparse di sangue le piane di Troia, di nuovo inondate di sangue le correnti dello Scamandro, finché gli indovini non rivelano ai Greci degli oracoli secondo i quali non si sarebbe dovuta prendere Troia [con la guerra, né con le mani né con le spade, ma solo con l’inganno: allora idearono quel famoso cavallo di legno, e fattivi entrare dentro uomini ben armati, simularono di ripartire verso le loro patrie. Lasciarono il cavallo davanti al porto, e si ormeggiarono nell’isola di Tenedo. I Troiani videro quel che era accaduto, videro vuoti gli ormeggi.

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1450

1455

MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1426-1457

945

Scorgendo il solo cavallo rimasero incerti, stupirono. Dapprima, pensando a un inganno, volevano distruggere il cavallo, appiccandovi il fuoco, o anche gettandolo nel fondo del mare, appesantito da pietre. Poi però – poiché era destino che Troia perisse – parve ad essi opportuno prendere il cavallo, come una statua o una spoglia del nemico. Essi dunque lo condussero in città, e con simposi e danze si diedero a un sonno pesante, da cui non ci si sveglia. Allora gli uomini nascosti nel cavallo, pronti all’agguato, usciti in silenzio appiccarono un grande incendio. A quella vista i Greci che si erano ritirati con le navi tornarono a Troia più veloci della parola; aperte le porte da coloro che avevano prima condotto l’agguato, si riversarono nella città come un fiume in piena. Così dunque presa Troia dalle forti torri, le donne venivano rapite da letti ancora caldi, il suolo rosseggiava dal sangue dei caduti, un piccolo ancora in fasce era gettato dalle mura; in poche e semplici parole: il lamento riempiva ogni cosa, ogni tristezza e ogni amarezza invadeva la città. Le mani stillavano di sangue, le spade erano tinte di sangue. Il suolo rosseggiava, i neonati erano calpestati. Infine, quando si furono saziati di rapine e violenze, diedero al fuoco la città, la arsero dalle fondamenta, la città che prima brillava sulle altre, splendeva per fama. Così si svolse dunque tale guerra. Ma la sorte, già sdegnata una volta con Menelao, lo affligge ancora con nuovi mali. E di nuovo una più lunga navigazione, un secondo viaggio [in mare: nuove tribolazioni succedono alle antiche, il mare egizio alla rotta dell’Ellesponto.

1430

1435

1440

1445

1450

1455

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MANASSE, BREVIARIO DI STORIA

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VERSI 1458-1472

Arriva fino in Egitto, misurando terribili mari, sbalzato dalla tempesta e battuto da venti veloci, a stento riesce a toccare quella terra. Si presenta a Proteo, e lì, nella città di Menfi, ritrova anche sua moglie: ospitato e onorato riprende allora Elena, e dopo altre tribolazioni riesce a tornare in patria, nell’ottavo anno dopo la presa di Troia, dopo le sue peregrinazioni fino a Proteo. Scopre allora che suo fratello è stato miseramente ucciso per inganno di una pessima moglie, una vipera adultera; ma scopre che suo nipote Oreste si è vendicato di chi aveva disonorato la stirpe e il letto di suo padre, e, con lui, della svergognata madre Clitemestra. Mi basti aver detto ciò sulla guerra di Troia, in modo succinto e chiaro.

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1460

1465

1470

GIORGIO CEDRENO DAL BREVIARIO DI STORIA Introduzione e traduzione di Lorenzo M. Ciolf i

GIORGIO CEDRENO: NEL LABORATORIO DI UN CRONISTA BIZANTINO

La vita e la condizione sociale di Giorgio Cedreno sono praticamente sconosciute. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, e in attesa dei risultati degli ultimi studi sullo storico e sulla sua opera1, si può solamente supporre che abbia vissuto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo e che sia stato un monaco. Cedreno fu l’autore di una cronaca, intitolata ̕ϾΑΓΜ΍Ζȱ ϡΗΘΓΕ΍ЗΑ, dalla creazione del mondo al tempo dell’imperatore Isacco Comneno (1057), che dalla sorte ebbe un ambiguo privilegio, un unicum nella tradizione storiografica bizantina: siamo, infatti, in possesso della quasi totalità delle fonti dalle quali la Cronaca è totalmente dipendente. Ciò ha fatto sì che, già a partire dall’epoca dello Scaligero – il quale notò causticamente: «idiotam quidam hunc Cedrenum fuisse illius scripta clamant»2 –, agli occhi dei 1

Nel panorama italiano R. Maisano e L. Tartaglia si stanno occupando da diverso tempo di Cedreno e della sua opera, avendo messo in cantiere una nuova edizione critica della Cronaca (si fa altrimenti riferimento alla datata edizione I. Bekker [ed.], Ioannis Scylitzae ope Georgius Cedrenus, Bonnae 1838-1839). Questa breve introduzione deve molto ai loro studi. 2 Eusebii Pamphili Chronicorum canonum libri duo, notae J. J. Scaligeri, Lugdunum Batavorum 1606, p. 241, citato in L. Tartaglia, Meccanismi di compilazione nella Cronaca di Giorgio Cedreno, in F. Conca – G. Fiaccadori (edd.), Bisanzio nell’età dei Macedoni. Forme della produzione letteraria e artistica, VIII Giornata di Studi Bizantini

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

moderni, educati a misurare le doti e l’arte di un autore secondo l’attuale metro dell’originalità, la sua composizione venisse considerata senza alcun valore in quanto non utilizzabile come “fonte primaria”. Tuttavia, proprio questa particolare condizione ci permette di sedere alla scrivania del cronista e di comprendere il suo metodo di lavoro, certo simile a quello di altri storici bizantini – e, più in generale, medioevali – le cui fonti, invece, non sono purtroppo sopravvissute al passare dei secoli3. Risulta immediatamente evidente che l’obiettivo di Cedreno fosse il completamento della storia di Giovanni Scilitze (tardo XI secolo), che copriva l’arco temporale tra l’811 e il 1057, e che nell’opera di Giorgio viene trascritta praticamente ad litteram. Il Nostro quindi si propose di dare alla narrazione scilitziana i relativi antefatti. Che proprio tale progetto fosse nelle sue intenzioni è desumibile non solo dai testimoni manoscritti, nei quali il testo di Scilitze segue direttamente quello della ̕ϾΑΓΜ΍Ζȱ ϡΗΘΓΕ΍ЗΑ, ma anche dal fatto che Cedreno utilizzi per le intenzioni proemiali l’introduzione del suo modello, con solamente qualche leggerissima modifica. Interessante ricostruire il procedimento di stesura della prima parte dell’opera. Lo storico scelse come sua fonte privilegiata la cosiddetta Cronaca di Ps.-Simeone che, tradita dal solo manoscritto Par. gr. 1712 della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, si estende dall’origine del

(Milano, 15-16 marzo 2005), Milano 2007 (Quaderni di Acme, 87), pp. 239-255, in part. p. 239. 3 Si veda, a proposito, R. Maisano, Note su Giorgio Cedreno e la tradizione storiografica bizantina, Rivista di Studi Bizantini e Slavi, 3/1983 (= Miscellanea Agostino Pertusi, 3), pp. 227-248.

INTRODUZIONE

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mondo fino all’anno 962. Questo il testo che Cedreno, secondo le parole di L. Tartaglia, «scelse di tenere costantemente aperto davanti a sé allo scopo di riscriverlo, rielaborarlo, riordinarlo mediante l’uso di varie altre fonti, con un lavoro che fu molto più prossimo alla copia che al compendio»4. Ad un simile sostrato egli affiancò notizie e dati dalla cronaca di Giorgio Monaco (IX secolo)5, e completò poi la propria opera con integrazioni e ampliamenti personali che si concentrano soprattutto su vicende e uomini del mondo religioso e teologico. Alla luce di queste considerazioni, avvalorate dai più recenti studi sull’autore e la sua opera, appare necessario correggere il duro giudizio che pende da secoli su Giorgio Cedreno. Egli, infatti, non può certo offrire informazioni inedite ma può illuminare gli studiosi di oggi su qualcosa di ancor più interessante e sfuggente: la tecnica storiografica di una civiltà del passato. Lorenzo M. Ciolfi

4

L. Tartaglia, Meccanismi…, cit., p. 244. Gli studi di K. Praechter, è importante sottolinearlo, hanno dimostrato che la versione tenuta presente da Cedreno non corrisponde a quella del celebre manoscritto parigino. 5 Verosimilmente perché Cedreno si rese contro che l’autore del IX secolo era stato poco utilizzato dallo Ps.-Simeone.

SUNOYIS ISTORIWN

GIORGIO CEDRENO DAL BREVIARIO DI STORIA

(216.)* ͣΘ΍ȱπΑȱΘΓϧΖȱΛΕϱΑΓ΍Ζȱ̕΅ΓϿΏȱΔΕЗΘΓΑȱΦ·ЗΑ΅ȱΓϡȱ̓΍Η΅ϧΓ΍ȱπΑȱ ͞ΏΙΐΔϟθȱ Ύ΅ΘΉΆΣΏΓΑΘΓȱ Ύ΅Ϡȱ ̇΍Ϡȱ ͞ΏΙΐΔϟУȱ ΎΓΗΐ΍ΎχΑȱ ΔΕЏΘ΋Αȱ πΔΉΘνΏΉΗ΅Αȱ οΓΕΘφΑǯȱ πΑΘΉІΌΉΑȱ Ύ΅ΘΤȱ ΘνΗΗ΅Ε΅ȱ σΘ΋ȱ ΘϲΑȱ Φ·ЗΑ΅ȱ Ύ΅ϠȱΘχΑȱοΓΕΘχΑȱπΔ΍ΘΉΏΓІΑΘΉΖǰȱ͞ΏΙΐΔ΍ΣΈ΅ΖȱΘΤΖȱΘΉΘΕ΅ΉΘ΋ΕϟΈ΅Ζȱ Ύ΅ΌΉΒϛΖȱ ωΕϟΌΐΓΙΑǯȱ πΑȱ ΓϩΖȱ ΛΕϱΑΓ΍Ζȱ Ύ΅Ϡȱ ̍ΓΕϟΑΌ΍Γ΍ȱ ΐΉΘΤȱ ΘΓϿΖȱ ̎΅ΎΉΈ΅΍ΐΓΑϟΓΙΖȱ ΘΓΔ΅ΕΛΓІΑΘΉΖȱ ̴ΏΏφΑΝΑȱ πΆ΅ΗϟΏΉΙΗ΅Αȱ ΘΤȱ ΔΣΑΘ΅ȱ σΘ΋ȱ Θ΍΋Ьǯȱ Ύ΅Ϡȱ ΐΉΘΤȱ ̇ΣΕΈ΅ΑΓΑȱ ΘϲΑȱ ͕ΏΓΙȱ ΙϡϲΑȱ Ύ΅Ϡȱ ΘϲΑȱ ̇΅ΕΈΣΑΓΙȱ ΙϡϲΑȱ ̎΅ΓΐνΈΓΑΘ΅ȱ ̓Εϟ΅ΐΓΖȱ ϳȱ ̎΅ΓΐνΈΓΑΘΓΖȱ ΘϛΖȱ ̘ΕΙ·ЗΑȱΛЏΕ΅ΖȱΦΑ΋·ΓΕΉϾΉΘΓȱΆ΅Η΍ȱΏΉϾΖǯȱΘϱΘΉȱΎ΅ϠȱΘϲȱ̇ΣΕΈ΅ΑΓΑȱ Ύ΅ϠȱΘϲȱ͕Ώ΍ΓΑȱΎ΅Ϡȱψȱ̖ΕΓϟ΅ȱΎ΅ϠȱψȱΔκΗ΅ȱΛЏΕ΅ȱ̘ΕΙ·ϟ΅ΖȱπΔϠȱΘЗΑȱ ψΐΉΕЗΑȱ πΎΔΉΔΓΏ΍ϱΕΎ΋Θ΅΍ȱ ̓Ε΍ΣΐΓΙǯȱ ψȱ Έξȱ ΅ϢΘϟ΅ȱ ΘϛΖȱ Ύ΅Θ΅Ȭ Έ΋ЏΗΉΝΖȱ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΖȱ ϳȱ Ύ΅Ϡȱ ̓ΣΕ΍Ζǯȱ ΘΓϾΘΓΙȱ ·ΤΕȱ ·ΉΑΑ΋ΌνΑΘΓΖȱ ЀΔϲȱ̓Ε΍ΣΐΓΙȱΛΕ΋ΗΐϲΖȱ΅ЁΘХȱΦΑ΅ΈνΈΓΘ΅΍ȱΘΓ΍ΓІΘΓΖȱȈπΘνΛΌ΋ȱΗΓ΍ȱ ̓ΣΕ΍ΖȱΈϾΗΔ΅Ε΍ΖȉȱΘΕ΍΅ΎΓΑΘΓϾΘ΋Ζȱ·ΤΕȱ·ΉΑϱΐΉΑΓΖȱϴΏνΗΉ΍ȱΆ΅Η΍Ȭ ΏΉϟ΅Αȱ ̘ΕΙ·ЗΑǯȈȱ ΉЁΌϿΖȱ ΓЇΑȱ ϳȱ ̓Εϟ΅ΐΓΖȱ ̝ΏνΒ΅ΑΈΕΓΑȱ ΐΉΘΓΑΓȬ ΐΣΗ΅Ζȱ σΔΉΐΜΉΑȱ ΉϢΖȱ Φ·ΕϱΑǰȱ ̏΅ΑΈΕЗȱ ΏΉ·ϱΐΉΑΓΑǰȱ ·΅Ώ΅ΎΘΓȬ ΘΕΓΚ΋ΌϛΑ΅΍ȱ Ύ΅Ϡȱ ΅ЁΒ΋ΌϛΑ΅΍ȱ Δ΅ΕΤȱ ·΋ΔϱΑУȱ Θ΍Αϟǰȱ ΩΛΕ΍Ζȱ ΓЈȱ ΘΤȱ ΘΕ΍ΣΎΓΑΘ΅ȱ σΘ΋ȱ ΘΓІȱ ΛΕ΋ΗΐΓІȱ Δ΅ΕνΏΌϙǯȱ πΔΓϟ΋ΗΉȱ Έξȱ Ύ΅Ϡȱ ΘΉϧΛΓΖȱ ΐν·΅ȱπΑȱΘХΦ·ΕХǰȱ϶ȱΎ΅Ϡȱ̓ΣΕ΍ΓΑȱВΑϱΐ΅ΗΉΑǯȱπΎΉϧȱϳȱ̓ΣΕ΍ΖȱΈ΍Σ·ΝΑǰȱ ΉЁΐ΅ΌφΖȱΘΉȱΔΉΕϠȱΘΤȱ·ΕΣΐΐ΅Θ΅ȱ·ΉΑϱΐΉΑΓΖȱΎ΅ϠȱΔ΅΍ΈΉϟ΅ΖȱΓЁȱΘϛΖȱ ΘΙΛΓϾΗ΋ΖȱΐΉΘ΅ΗΛЏΑǰȱπ·ΎΝΐ΍΅ΗΘ΍ΎϲΑȱΏϱ·ΓΑȱΎ΅ϠȱЂΐΑΓΑȱΉϢΖȱΘχΑȱ ̝ΚΕΓΈϟΘ΋ΑȱΈ΍ΉΘΣΒ΅ΘΓǰȱΘχΑȱπΔ΍ΌΙΐϟ΅Αȱ΅ЁΘχΑȱΏν·ΝΑȱΉϨΑ΅΍ȱπΒȱϏΖȱ Ύ΅ϠȱΘνΎΑ΅ȱΎ΅Ϡȱ(217.)ȱΗΓΚϟ΅ΑȱΎ΅ϠȱΘνΛΑ΅ΖȱπΑȱΏΓ·΍ΎΓϧΖȱΎ΅ϠȱΦΏϱ·Γ΍Ζȱ ΦΔΓΘϟΎΘΉΗΌ΅΍ǰȱ Ύ΅Ϡȱ ΅ЁΘχΑȱ πΑȱ ΗΙ·ΎΕϟΗΉ΍ȱ ΘχΑȱ ̝ΚΕΓΈϟΘ΋Αȱ ̓΅ΏȬ ΏΣΈΓΖȱ ΔΕΓνΎΕ΍ΑΉȱ Ύ΅Ϡȱ ́Ε΅Ζǯȱ Έ΍ϲȱ Ύ΅Ϡȱ πΐΙΌΉϾΗ΅ΑΘΓȱ ΘΓІΘΓΑȱ ΎΕ΍ΘχΑȱΘЗΑȱΘΕ΍ЗΑȱ·ΉΑϱΐΉΑΓΑȱΘϜȱ̝ΚΕΓΈϟΘϙȱΘϲȱΐϛΏΓΑȱό·ΓΙΑȱΘχΑȱ

* La presente numerazione segue quella adottata nel TLG.

(216.) Al tempo di Saul per la prima volta gli abitanti di Pisa istituirono ad Olimpia dei giochi e celebrarono a Zeus Olimpio la prima festa di tutti i Greci. Quindi, ripetendo ogni quattro anni i giochi e la festa, da quel momento contavano i cicli di quattro anni delle Olimpiadi. In quei tempi anche i Corinzi, avendo preso il controllo dopo gli Spartani, governarono i Greci per trecentodiciotto anni. E dopo Dardano, figlio di Ilo, e dopo Laomedonte, figlio di Dardano, fu nominato re della Frigia Priamo, figlio di Laomedonte. In quei tempi, durante il regno di Priamo, finirono per capitolare totalmente Dardano, Ilio, Troia e tutto quanto il territorio della Frigia. La causa della sciagura fu Alessandro, altrimenti detto Paride. Figlio di Priamo, a costui venne annunciato il seguente oracolo al momento della nascita del bambino: «Ti sta nascendo Paride, ma un Paride sventurato: al suo trentesimo anno di età distruggerà il regno di Frigia!». Subito quindi, cambiandogli il nome in Alessandro, egli lo mandò nella tenuta chiamata Mandro e lo affidò ad un contadino perché lo allattasse e lo facesse crescere finché non fossero passati i trent’anni dell’oracolo. E attorno alla tenuta fece costruire anche un imponente muro che chiamò Pario. Mentre passava in quel luogo la vita, dopo aver appreso con facilità le lettere e godendo di una formazione fuori dal comune, Paride compose un inno encomiastico per Afrodite, sostenendo che quella fosse il desiderio stesso dal quale, nel mondo umano e animale, sono generati in qualità di figli (217.) la Sapienza e le Arti e la preferì nel confronto con Pallade ed Era. Per tale motivo è stato raccontato che quegli, scelto come giudice delle tre, avesse attribuito ad Afrodite, in

958

CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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217-218

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quanto migliore delle altre, il pomo che rappresentava la vittoria. Dopo quei trent’anni, avendo pensato che l’oracolo che lo riguardava fosse ormai cosa passata, Priamo lo fece richiamare a cuor leggero. Quindi, avendogli affidato lettere e doni e vittime, lo invitò a recarsi con cento fanciulli frigi presso i re d’Europa e a sacrificare ad Apollo cinto d’alloro; gli suggerì di andare dapprima a Sparta, città dell’Ellade allora governata da Menelao (nonostante fosse in realtà il figlio di Plistene, questi era detto Atride e fratello di Agamennone per il fatto di essere stato allevato dal re degli Argivi, Atreo, insieme appunto al di lui figlio Agamennone). Avendo accolto Paride in maniera assai amichevole, gli riservò ogni attenzione possibile nel suo palazzo, lo invitò a trattenersi per quanto tempo avesse voluto e, in seguito, a partire per il sacrificio. Poi, lo stesso Menelao salpava immediatamente verso Creta con i suoi uomini per compiere dei sacrifici a Zeus Asterio nella città di Gortina. Un giorno dunque, dopo essersi nascosto nel giardino di Elena, Paride vide quella donna di incomparabile bellezza: era difatti slanciata, dal seno florido, candida come la neve, le ciglia ben disegnate, un naso elegante, capelli crespi e color dell’oro, grandi occhi. Preso dall’amore per lei, dopo aver plagiato Elena grazie all’intercessione di Aithra (una donna della casata di Menelao), la portò via prendendo allo stesso tempo molte ricchezze, (218.) ornamenti e cinque servette. Dimenticati i sacrifici per i quali aveva affrontato il viaggio, si diresse a Sidone da Proteo, re dell’Egitto. Non appena si resero conto del rapimento di Elena, quelli che erano stati preposti alla custodia della casa di Menelao gli riferirono subito ogni cosa in quel di Creta. Tra le proteste per questa situazione Menelao ritornò immediatamente a Sparta e quindi fece partire la ricerca di Elena in ogni dove. Qualche tempo dopo Paride fece

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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218-219

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ritorno in patria, sano e salvo, dall’Egitto. Dopo che lo ebbero ricevuto, Priamo ed Ecuba, resisi conto di Elena, rimasero attoniti e chiesero chi fosse e da dove venisse. Lei disse di essere una parente di Alessandro e di essere più legata a Priamo e ad Ecuba che a Menelao, figlio di Plistene: infatti dalla figlia di Danao, Plesione, traevano la propria origine Dardano e Troo e i re discendenti da questo; il re Dima, padre di Ecuba, era discendente di Agenore, zio paterno di Danao; dalla stirpe di Dima e Leda proveniva la madre. Detto ciò, avendo giurato solennemente di non aver preso nulla delle proprietà di Menelao e chiesto a sua volta di giurare sul fatto che non l’avrebbero riconsegnata, rimase lì, amata da loro. Conosciuta la situazione, prima che scoppiasse la guerra, gli uomini di Agamennone inviarono in ambasciata lo stesso Menelao ed Odisseo con delle lettere di Clitennestra, moglie di Agamennone e sorella di Elena, per chiedere che la donna fosse restituita a Menelao. Quelli tuttavia tornarono indietro senza successo. Perciò con una flotta di 1198 navi salparono in formazione da battaglia tutti i re d’Europa, Achille figlio di Teti e Peleo (219.) con la truppa dei Mirmidoni a lui sottoposti, Nestore eleo e Odisseo itacese, i due Aiace, Diomede, Idomeneo e molti altri valorosi. E così lungo la rotta verso Ilio si accamparono per svernare nel luogo chiamato Aulide. Dal momento che il cattivo tempo li bloccava lì da molto tempo, l’indovino Calcante propose ad Agamennone di fare un sacrificio ed offrire sua figlia ad Artemide, che era la divinità della regione. Quello non voleva. Tuttavia una donna, annunciando le stesse cose di Calcante, disse che la tempesta non si sarebbe placata se non dopo aver consegnato ad Artemide la prima figlia di Agamennone. Alcuni sostengono che ciò non accadde a causa della tempesta, ma perché Agamennone aveva colpito con una freccia, e

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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219-220

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quindi ucciso, una grande capra presso l’altare di Artemide, e proprio per questo motivo si era diffusa una pestilenza. Colpito dalla sfiducia, Agamennone fu sollevato dal comando e Palamede venne scelto per prendere il suo posto. Mal sopportando questa situazione, Odisseo simulò di far vela verso la propria terra ma in realtà si recò ad Argo presso Clitennestra, moglie di Agamennone; dopo aver preso Ifigenia grazie ad alcune lettere false (quella era in effetti la prima delle figlie di Agamennone), tornò indietro come se dovesse consegnarla in moglie al campione dell'armata, Achille, con i doni nuziali, ma la consegnò ai sacerdoti al fine di placare Artemide. Non appena dunque questi furono sul punto di condurla al supplizio, al suo posto fu trovata una cerva che capitò davanti all’altare e questa fu uccisa come vittima al posto (220.) della fanciulla. Una volta salvata e riconsegnata viva e vegeta al padre, Agamennone consacrò immediatamente Ifigenia come sacerdotessa presso il tempio di Artemide. Allora Odisseo si adoperò perché il comando fosse restituito ad Agamennone. Dopo poco tempo, servendosi di lettere false e testimoni bugiardi, pose Palamede sotto accusa di tradimento e fece in modo che la truppa lo lapidasse e, dopo averne cremato il corpo, lo rimandasse a suo padre presso Nauplio. Questa è la storia di Palamede che escogitò una tavola da gioco per far rilassare l’esercito e provvide alla sua realizzazione con molti ragionamenti. Infatti strutturò la tavola così da rappresentare la Terra, fece in modo che i dodici trabocchetti rappresentassero il numero dei segni zodiacali, un sacchetto e i dadi contenuti all’interno richiamassero i sette astri dei pianeti, il bossolo di forma conica ricordasse l’altezza del cielo dal quale provengono per tutti eventi buoni e cattivi. Costui inventò anche le sedici lettere dell’alfabeto: ΅ǰȱΆǰȱ·ǰȱΈǰȱΉǰȱ΍ǰȱΎǰȱΏǰȱΐǰȱΑǰȱΓǰȱΔǰȱΕǰȱ

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220-221

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ΗǰȱΘǰȱΙ. Cadmo di Mileto aggiunse poi tre lettere a queste: ΌǰȱΚǰȱΛ. Perciò gli uomini hanno usato per molto tempo diciannove lettere. Ecco per quale motivo gli antichi, che non avevano lo Μ, scrivevano Μ΅ΏϟΈ΅ (“forbici”) con il Δ; diversamente pronunciavano, scandivano e scrivevano molte altre parole. A queste lettere Simonide di Chio ne aggiunse due, ΋ ed Ν; Epicarmo di Siracusa tre, ΊǰȱΒǰȱΜ. E così si raggiunsero i ventiquattro elementi. Quando i Greci si schierarono con le navi davanti a Troia, i Troiani tentarono di impedire loro di gettare l’ancora. Essendosi scatenata un’aspra battaglia (221.) ed essendo caduti molti uomini da entrambi gli schieramenti, tra i quali Protesilao che combatteva sulla prima linea dei Greci, al sopraggiungere della notte i Troiani fecero ritorno in città e vi si barricarono in tutta sicurezza; gli altri, invece, assicurate saldamente le navi alle spiagge del promontorio di Troia, attesero l’aurora. Nel cuore della notte un tale di nome Cicno, parente di Priamo e signore della città di Neandro, preso coraggio, si gettò sui Greci con un gran numero di armati: divampata la battaglia, lo stesso Cicno venne ucciso da Achille così come molti altri che erano con lui. Fattosi il giorno […] sottomisero le città attorno a Troia e a Ilio, alleate di Priamo. E Diomede, figlio di Tideo, dopo aver devastato Neandro, la città del suddetto Cicno, e la sua regione, fece prigionieri i figli di lui e li condusse nel mezzo dell’accampamento; Achille compì una spedizione a Lesbo e nel territorio limitrofo con i Mirmidoni, uccise il re di quei luoghi Forbante, che era parente di Priamo, e portò al campo la figlia di questo, Diomeda, dopo aver depredato tutta la regione. Poi, dopo essersi diretto a Lirnesso, conquistò l’abitato; dopo aver ucciso Ezione che era a protezione di quella città, catturò Astinome, la moglie di questo, e Criseide, figlia del sacer-

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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221-222

967

dote di Apollo Crise, fece razzia di ogni oggetto prezioso e portò tutto al centro dell’accampamento. Quindi dopo aver assaltato la città chiamata Legopoli con i figli […] Ippodamia, figlia di Brise e moglie di Aminta re di quella città, che allora non era presente. In seguito a questi eventi, chiamò i Lici e i Licaoni ad un’alleanza contro (222.) i Greci: dopo che si presentò con molti uomini e con profondo ardimento, essendosi imbattuto in Achille, non solo non diede per niente aiuto alla figlia, ai fratelli di lei e alla città di quello ma lui stesso e i suoi uomini furono vittime della guerra. E tutto il resto del bottino venne distribuito tra l’esercito; fra le vergini, Agamennone si mise d’accordo per avere Criseide mentre Achille ebbe Ippodamia e Briseide. Dal momento che si scatenò una pestilenza tra le truppe, su consiglio profetico di Calcante, Criseide fu riconsegnata al padre e Agamennone strappò ad Achille la sua Briseide per un certo tempo. Quindi, irato, Achille cessò con i Mirmidoni di far guerra ai Troiani fino a quando poi, vinti dal pesante bilancio di guerra, gli uomini di Agamennone furono costretti a chiedergli con molti doni e preghiere di tornare da loro. Aiace Telamonio intanto poneva sotto assedio i Traci del Chersoneso; avendo paura di lui, il re di quelle terre, Polimestore, gli consegnò molto oro e tanto frumento quanto era sufficiente all’esercito acheo per un anno. Lì accolse Polidoro, il più piccolo di tutti i figli di Priamo che il re di Troia aveva inviato a Polimestore per essere allevato. Tuttavia quest’ultimo congedò Aiace dopo avergli consegnato anche il fanciullo e aver prodotto degli accordi scritti secondo i quali mai avrebbe combattuto al fianco di Priamo. Da lì Aiace si diresse con impeto dal re Teuthranto: dopo averlo ucciso, aver saccheggiato la sua città ed aver fatto prigioniera la figlia Tecmessa, spedì nottetempo tutto il bottino all’accampa-

968

CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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222-224

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mento. Il giorno seguente misero davanti alle mura (223.) Polidoro ed indicarono a Priamo di inviar loro Elena e riprendere il ragazzo; ratificando così la pace, sarebbero andati via da lì. Poiché le cose non andarono così, passarono a fil di spada Polidoro sotto gli occhi di tutti quelli che guardavano dalle mura. Del contingente del comandante dei Greci Idomeneo faceva parte in veste di segretario Ditti, uomo straordinario e intelligente, che da Creta era giunto per affiancare quelli che avevano mosso contro Ilio. Costui, trovandosi con Idomeneo per tutto il tempo del conflitto, ne registrò gli eventi in successione attenendosi al vero dall’inizio fino alla fine, descrisse il carattere dei comandanti – dal momento che li vide tutti – ed illustrò il tutto attentamente. Mostrando chiaramente i tempi, i luoghi, le modalità e gli eventi di quella guerra, scrivendone la storia dettagliatamente, indicò per ogni condottiero con quante navi fosse arrivato. Ciò era stato chiarito da Omero nel secondo canto dell’Iliade. Scontrandosi Ettore con il contingente greco ed uccidendo molti uomini, quelli furono costretti ad inviare un’ambasciata presso Achille. Poiché quello non si lasciò convincere, inviò il carissimo compagno Patroclo con i Mirmidoni. Messosi in marcia, costui uccise molti dei barbari, altri ne stava inseguendo quando, combattendo, alle porte stesse della città venne ucciso da Ettore. Dopo essere stato informato di ciò, Achille, sapendo che Ettore aveva intenzione di incontrarsi nottetempo con la regina Pentesilea, avendolo preceduto di nascosto con la propria armata ed essendosi nascosto, lo uccise mentre attraversava un fiume: non solo quello ma anche tutti quelli che lo seguivano (224.) ad eccezione di uno che mandò indietro a Priamo come messaggero con le mani amputate. Egli, appeso il corpo di Ettore al carro senza che qualcuno dei Greci lo sapesse, lo portò trucida-

970

CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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224-225

971

to presso la sua tenda prima delle luci del giorno. L’indomani Priamo, vestito a lutto, portando con sé oro, argento e vesti preziose, e in compagnia della figlia Polissena, fanciulla di bell’aspetto, e della moglie Andromaca e dei figlioli di lei, Astianatte e Laomedonte, osò spingersi tra i comandanti dei Greci e, prostrandosi in terra, implorò tutti di andare come supplici con lui da Achille per riscattare il corpo di Ettore. Nestore ed Idomeneo si commossero, toccati dall’ardore del vecchio: cedettero alla richiesta di precedere Priamo alla tenda e di farlo quindi entrare. Costui, cosparsosi il capo di cenere insieme ad Andromaca e ai bambini, gettandosi a terra con il viso sul pavimento, implorava a gran voce misericordia. Abbracciando i piedi di Achille, Polissena lo supplicava per suo fratello Ettore tra grandi lamenti, anticipandogli che sarebbe rimasta con lui per servirlo se avesse restituito il cadavere. Gli uomini di Nestore incalzavano perché si avesse rispetto e misericordia per la vecchiaia. E dal momento che da entrambe le parti si facevano molti discorsi dello stesso tenore, decise di accettare il riscatto e di concedere il corpo ai familiari. Dopo aver preso dunque l’oro e l’argento e parte delle vesti, offrì il resto a Polissena. Priamo lo pregava sinceramente di tenere anche lei ma l’eroe si impegnò a farlo in un altro momento. (225.) Priamo tornò indietro con tutti quelli che erano con lui e con il cadavere, che, una volta pianto a sufficienza e cremato come d’abitudine, seppellirono fuori dalle mura. Mentre si svolgevano questi eventi che riguardano Ettore, ecco che l’amazzone Pentesilea giunse dall’opposta riva del Chersoneso alla guida di valorosi uomini e di Amazzoni. Venuta a conoscenza delle vicende di Ettore, tentò di andarsene ma Paride la convinse a rimanere con molto oro. Dopo pochi giorni schierò le truppe sul campo di battaglia: avendo diviso l’esercito in

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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due parti (sul lato alla sua destra gli arcieri e sulla sinistra gli opliti appiedati in numero maggiore di quelli a cavallo) e avendolo così disposto, Pentesilea prese posto tra i cavalieri, presso le insegne. Quindi, scoppiata la battaglia, gli uni uccidevano gli altri mentre Achille, dopo aver colpito Pentesilea che tenacemente combatteva con la lancia, la sbalzò dal cavallo; trascinandola per la chioma, l’affogarono nel fiume Scamandro. I due Aiace respinsero gli abitanti della città che, scappando, chiusero le porte. Il resto dei Greci uccise quelli che erano rimasti dopo averli inseguiti fino alle mura. Risparmiando la vita alle Amazzoni, l’esercito se le spartì in catene dopo la guerra. Dopo questi fatti si presentarono, chiamati in alleanza da Priamo, molti cavalieri e fanti Indi e i guerreschi Fenici con i loro re e le loro flotte. E numericamente erano così tanti che né Ilio né l’intera piana li avrebbe potuti contenere. Al comando di Memnone, re degli Indi, molto potente e assai bellicoso, i figli di Priamo, (226.) i Troiani e tutto l’esercito schierato da quell’uomo, che veniva trasportato splendidamente su di un carro, scesero nella piana. I Greci si paralizzarono vedendo le spade, le armi terrificanti, le fionde, gli scudi quadrati e i molti Etiopi che, terribili e tremendi, avanzavano. I Troiani attaccando con molte grida e grandi balzi uccidevano moltissimi dei Greci. I comandanti, non resistendo alla violenza di quella schiera, si ritiravano alle navi che i barbari avrebbero potuto anche incendiare se l’arrivo dell’oscurità non avesse interrotto il loro attacco. Calata dunque la notte, dopo aver cremato i corpi dei caduti ed essersi presi cura dei feriti come era consuetudine, gli eroi achei decisero chi avrebbe osato battersi contro Memnone dal momento che gli altri erano occupati in altre faccende. Capitò a sorte Aiace Telamonio. Prima che sorgesse il sole gli armati scesero sul campo, per primi i Greci

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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quindi anche Memnone e tutti i soldati al suo comando. Gli uni si gettarono sugli altri mentre Aiace, coperto alle spalle da Achille, affronta Memnone. Dopo essere sceso dal carro, Memnone mise alla prova Aiace con la lancia; da parte sua Aiace, dopo avergli strappato lo scudo, lo colpì pesantemente. Mentre tutti gli Indi che erano con quello si gettarono su Aiace, Achille al di là di ogni speranza uccise Memnone dopo avergli infilato una lancia nel collo che era rimasto scoperto. Dopo ciò ci furono la fuga a gambe levate dei barbari, la loro uccisione e i loro lamenti; per i Greci, canti e una vittoria certa e splendida quando anche Polidamante, coraggiosissimo (227.) re dei Fenici, colpito all’inguine dalla lancia di Aiace morì. Un incredibilmente grande numero di barbari e di Etiopi perse la vita in quell’occasione tanto che la piana era piena di cadaveri, di fanti che erano stati calpestati terribilmente dai cavalieri ed erano morti. Dopo questi fatti, spingendo Achille i Troiani alla battaglia, Paride e Deifobo, figli di Priamo, e i fratelli di questo, Troilo e Licaone, scesero in campo alla guida di tutto il resto dell’esercito dei Troiani. Dopo averli inseguiti con gli Achei del suo manipolo, Achille ne catturò alcuni ancora vivi, altri li fece affogare nel fiume Scamandro e uccise Troilo e Licaone. Dopo ciò si celebrò la festa “dei doni” che comportava la tregua dalle ostilità; in quella circostanza tutti quanti, Greci e Troiani, compivano in pace sacrifici ad Apollo Timbreo in un boschetto sacro poco lontano dalla città e, andando al santuario anche Polissena con la madre Ecuba, Achille rimase stupefatto alla vista di lei. Essendosi accorto del comportamento di Achille, Priamo gli mandò presso il boschetto Ideo per parlargli di Polissena. I comandanti greci, avendo visto che quello parlava ad Achille in una maniera del tutto particolare ed essendo confusi, inviarono Aiace e

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Diomede e Odisseo per esortarlo a non cedere ai barbari né a dar fiducia agli estranei. E quelli rimasero fuori dal boschetto ad aspettare Achille per potergli parlare in privato. Egli invece aveva promesso ad Ideo che avrebbe sposato Polissena. Anche per questo motivo si trattenne a passeggiare nel boschetto. Dopo poco giunsero Paride e Deifobo, che lo cercavano proprio in merito al matrimonio. (228.) Non sospettando nulla di male, li ricevette in piedi nel tempio di Apollo. E Paride era davanti presso l’altare per confermare con un giuramento quanto nel frattempo avevano stabilito entrambi quando Deifobo, abbracciando e baciando Achille, affondò la spada che portava con sé nelle viscere di lui. E mentre lo bloccava ancora, Paride sferrò subito un secondo fendente su di lui. Perdendo le forze, spirò. Allontanandosi dal boschetto senza destare sospetti per un'altra via e con una grande corsa – dal momento che non era molto lontana –, si precipitarono in città. Gli uomini di Odisseo, avendoli visti correre, accorsero e trovarono Achille che giaceva presso l’altare in un lago di sangue. Aiace gli disse: «Non è forse vero che nessun uomo avrebbe potuto ucciderti? Solamente la tua avventatezza ti ha vinto!». Gli rispose Achille, esalando l’ultimo respiro: «Per Polissena, Paride e Deifobo mi hanno ucciso con l’inganno». Essendosi immediatamente caricati il corpo sulle spalle e avendolo portato all’accampamento, lo seppellirono nella terra dopo averlo cremato. Poiché era scoppiato il combattimento dopo la morte di Achille e molti erano caduti da entrambi gli schieramenti, Filottete e Paride giunsero a duello. A Paride toccò in sorte di lanciare per primo contro Filottete ma sbagliò il bersaglio. Quest’ultimo, rispondendo con una freccia, trapassò la mano sinistra di Paride e con il secondo tiro gli cavò l’occhio destro e, colpendo con il terzo i piedi e le caviglie, face cadere Paride a

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terra. Avendolo i suoi recuperato ancora moribondo, lo condussero ad Ilio. Ed egli, dopo aver notato davanti ai suoi occhi i tre figli ancora piccoli che aveva avuto da Elena, Bunimo Coriteo (229.) e Ideo, rimase senza voce e spirò nel cuore della notte. La sua prima moglie, Enone, si impiccò. Deifobo quindi prese in moglie Elena (Menelao poi lo fece a pezzi a causa di lei). C’era una statua di legno di Atena chiamata Palladio. Dicevano che questa fosse stata realizzata attraverso riti orribili e demoniaci, fosse il risultato di abominevoli misteri e che, a quanto sembra, avrebbe reso vittoriosa ed inespugnabile la città in cui fosse stata custodita. Un certo filosofo e sacerdote di indicibili culti di nome Asio consegnò con gioia questa statuetta a Troo, re dei Troiani, che stava procedendo alla fondazione della città di Ilio. Per ricambiare il suo gesto, Troo rinominò Asia, dal nome di quello, tutto il territorio sotto il suo controllo (si chiamava in precedenza Epirropo). Dunque, poiché i Greci vennero a sapere che non avrebbero potuto conquistare la città finché la statua lignea fosse rimasta al suo interno, finirono per rubarla dopo che Odisseo e Diomede si introdussero clandestinamente nel tempio di Pallade e vi si trattennero durante i giorni di festa. Su proposta di Antenore, capo dei Troiani, passarono al furto durante la notte grazie all’aiuto della moglie di lui Teano, sacerdotessa di Atena; in quella notte apparvero presagi miserevoli e nefasti ai Troiani, che facendo una sortita la mattina, riferirono ai Greci. Si diceva infatti che, procedendo i Troiani a fare un sacrificio, come consuetudine avevano posto legna e carne sull’altare di Apollo (230.) ma il fuoco appiccato al legno non attecchiva bensì si spegneva. Dopo che ebbero tentato diverse volte di appiccare il fuoco senza riuscivi, tutto ciò che era sull’altare cadde in terra. Dal momen-

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to che i Troiani ritenevano che ciò non fosse per loro un buon presagio, Priamo e gli altri inviarono Antenore come ambasciatore presso i Danai così da porre fine alla guerra attraverso la consegna del riscatto che quelli avrebbero voluto. Nell’ambasciata Antenore disse agli Achei: «Abbiamo subito quanto è necessario subiscano quelli che hanno sbagliato. Delle offese che Paride ha recato a Menelao, egli ha scontato il fio; per quanto riguarda Ilio, le sepolture dei caduti sono una testimonianza. Ora dunque, arrendendoci, noi vi paghiamo un riscatto. Per gli dei, per la patria, per i figli, risparmiate proprio in quanto Greci quelli che prima erano disubbidienti e che ora sono supplici!». Convinti da queste parole, i Greci mandarono Odisseo e Diomede a stabilire la somma di denaro necessaria. E stabilirono duemila talenti d’oro e duemila talenti di argento; avendo ricevuto quanto era stato da loro fissato ed avendo lasciato la città, tornarono all’accampamento. Dopo ciò, mentre i Greci facevano sacrifici e si attrezzavano per riprendere il mare, tra i riti sacrificali Odisseo costrinse tutti al giuramento di non salpare da Ilio prima di aver costruito un cavallo di legno. Quindi, dopo aver messo insieme delle assi che combaciavano perfettamente ed averle ordinate con intelligenza, realizzarono grazie alle doti ingegneristiche di Epeo un’opera straordinariamente meravigliosa per tutti i congegni e la costruirono in maniera che, pur celando comodamente all’interno un manipolo di ventiquattro soldati, (231.) si sarebbe potuta spostare sulle ruote tirando la cavezza; dopo aver bruciato le tende, essere salpati ed essersi nascosti presso l’isola di Tenedo su consiglio di Odisseo, lasciarono un traditore, uomo d’animo generoso che con piacere si era offerto volontario dietro compenso e nella prospettiva di lodi, dopo averlo sfigurato e mutilato un poco. Domandandogli i barbari cosa fosse quell’ogget-

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to lasciato lì davanti e quale fosse il suo scopo, egli rispose dicendo: «I Danai hanno offerto questo al tempio di Atena e hanno deciso che vi si dovesse dedicare sia come dono riparatore dei torti fatti alla sua città che come omaggio per il loro ritorno in patria e per il loro ricordo». Tranquillizzati da queste parole, i Troiani dunque, dopo aver accolto con gioia e spensieratezza il cavallo di legno (piuttosto il motivo della propria rovina), tirandolo con delle funi tra grida di esaltazione, dopo aver abbattuto l’architrave della porta, lo condussero con tutti i nemici nella parte più interna del santuario della loro dea. Nel cuore di quella notte, quelli che attendevano tranquillamente nel cavallo, dopo essere balzati giù, aver ucciso lo stesso Priamo e i suoi figli, mutilato Deifobo e sterminato la più parte degli uomini, fecero tornare la flotta dei Danai da loro richiamandola con dei segnali luminosi molto brillanti e continui fatti dalle mura. Allo spuntare del giorno, anche questi ultimi arrivati presero parte al massacro dei sopravvissuti; avendo fatto prigioniere le donne ed Ecuba e il bestiame, avendo spartito le suppellettili e i beni, (232.) avendo riconsegnato Elena a Menelao, avendo distrutto ed incendiato l’intera città, ripresero il mare. Dopo la distruzione di Troia Aiace Telamonio ed Odisseo si contesero la statua del Palladio, ognuno dicendo che, essendosi distinto più di tutti, avrebbe dovuto averla come oggetto a tutela della propria città dal momento che gli apparteneva. Pur essendo state riferite da entrambi molte azioni, ugualmente il Palladio fu affidato in deposito fino al mattino a Diomede. Durante la notte Aiace venne assassinato misteriosamente. Al mattino, non appena fu trovato il cadavere, scatenatosi un gran tumulto, Odisseo venne sospettato del fatto. Quindi, degenerando l’affare in una ribellione interna, Odisseo per primo lasciò Troia dopo

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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232-233

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aver messo in acqua le proprie imbarcazioni, e con lui i suoi uomini: questo evento fu il principio del ritorno dei Greci. Gli uomini di Odisseo lapidarono Ecuba che imprecava contro l’esercito e la gettarono nel mare nel luogo chiamato Maronia, che chiamarono anche Cinossema. Quindi in Sicilia si imbatté nel Ciclope: non era un essere con un solo occhio come nei racconti di Omero ma aveva natura umana come tutti gli uomini e il resto dei Ciclopi, che erano di aspetto imponenti, selvaggi e abominevoli e di carattere intrattabili, assai misantropi e sanguinari. Poi giunse sulle isole Eolie da Circe e da Calipso, figlie di Atlante. Da questa Circe ebbe il figlio Telegono. Quindi arrivò alla palude (233.) chiamata Necyopo dove, attraverso alcuni spiriti, conobbe ciò che gli sarebbe accaduto. In seguito scagliò pietre contro le Sirene e quelle creature chiamate Cariddi e Scilla che, collocate in uno stretto, assorbono i flutti dell’Oceano e fanno affondare i naviganti che passano da quelle parti. Avendo perso in quel luogo tutte le imbarcazioni con i compagni, lui stesso vagò in balia delle onde del mare attaccato ad un’asse. Dopo averlo raccolto a Creta, dove era arrivato galleggiando, i Fenici lo condussero nudo da Idomeneo. Egli lo mandò da Alcinoo presso l’isola dei Feaci (ora si chiama Corcira), dandogli due navi e cinquanta uomini scelti. Alcinoo dunque, dopo aver assegnato ad Odisseo un numero maggiore di soldati, lo fece giungere ad Itaca. E dopo aver ucciso i pretendenti ed aver liberato la casa da quelli che avevano macchinato contro di lui, recuperò il potere. Dunque, dopo aver vissuto molti anni, Odisseo perse la vita per mano del suo stesso figlio Telegono, che aveva avuto da Circe. Infatti temendo la morte per mano di suo figlio, che gli era stata predetta da certi oracoli, si teneva in guardia da Telemaco ed evitava di stare con lui. Dopo che Telegono giunse ad

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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233-235

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Itaca per presentarsi al padre, poiché non fu ben accolto dalle guardie, al prodursi di alcune voci durante la notte, Odisseo, ritenendo che fosse Telemaco, gli andò incontro con la spada e, dopo essersi imbattuto in Telegono, fu colpito da questo con la punta di una pastinaca e morì in questo modo. Il re Agamennone, dopo aver navigato verso la patria con Cassandra, trovò Clitennestra che lo tradiva con Egisto. Lei (234.) infatti, avendo saputo che Agamennone aveva trovato a Troia Cassandra, escogitò una siffatta fine per il marito: al suo ritorno, dopo avergli fatto indossare un chitone ricamato in ogni parte, fece in modo che fosse ucciso da Egisto, e si sposò con lui. Quindi Oreste, il figlio di Agamennone che da giovane, durante la spedizione contro Ilio, fu lasciato dal proprio padre a Schoeneus perché lo allevasse, dopo aver ucciso Egisto e sua madre, prese il potere. Dopo essere stato cacciato in Egitto ed essere stato condotto a stento a Sparta, Menelao viveva con Elena con grande paura, avendo appreso ciò che era capitato ad Agamennone. Aiace, figlio di Oileo, affondò con la sua armata. Diomede, figlio di Tideo, giunto in nave alla propria città, non vi fu accolto ma, cacciato dalla moglie Egialea e dai concittadini, fuggì in Calabria. Allora fondò in quel luogo una città che chiamò Argirippa (cambiò poi nome in Malevento, quindi Benevento) e visse in quella con il Palladio che portò via da Troia. Dopo aver ucciso sua madre, Oreste divenne pazzo: talvolta riusciva a calmarsi, altre volte degenerava in impeti furiosi. Poiché i cittadini lo amavano, si trasferì a Delfi e ricevette questo oracolo: «Oreste, non puoi liberarti dalla dura malattia della follia se, dopo aver affrontato le onde del mare, (235.) non raggiungi la terra d’Aulide, nella Sci-

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zia. Dopo essere stato posseduto da Artemide durante il sacrificio sugli altari, sarai salvato. Quindi, essendo fuggito dalla terra dei barbari, raggiungi navigando il territorio della Siria. Troverai un monte di nome Melantio davanti alla valle del monte Silpio: in quel luogo c’è un grande tempio di Estia. Liberati lì della follia! Fai presto! Ho detto ciò che sarà». Dopo aver interpretato queste cose, Oreste, preso immediatamente il mare con Pilade, giunse in terra d’Aulide in Scizia. Poi dopo aver attraversato il mare pontico ed essersi incamminati nell’entroterra a due miglia dalla linea di costa, videro il tempio della dea, che in lingua locale si chiama Crustemia, ed ossa umane gettate lì davanti. Si consultarono sul da farsi. I pastori corsero da Ifigenia per dirle: «Arrivano due giovani dal mare!». Quella, avendo chiesto dapprima agli stranieri chi fossero, da dove venissero e i loro nomi, indagava a fondo sul padre Agamennone e sulla guerra di Troia. Poi li fece legare per il sacrificio. Condusse Pilade sull’altare di Artemide e, invece, fece restare Oreste fuori. Ifigenia allora chiese da quale terra e da quale città venisse. Rispose: «Dalla Grecia, sono l’ultimo cittadino di Micene». Avendo ascoltato il nome della sua città e della sua terra, quella si mise a piangere e, poiché sospettava che quello avesse saputo della sua storia dai pastori, chiese: «Chi è il re di Micene? E chi sua moglie? (236.) Chi i suoi figli?». Rispose: «Non molto tempo fa era Agamennone, Clitennestra la moglie e Oreste, Elettra, Ifigenia i figli – di lei si dice che fu offerta come vittima ad Artemide ma, essendo stata sostituita dalla dea, finora non si sa dove sia esattamente. Come figlie ebbe anche Crisotemi e Laodice». Dopo averlo ascoltato, ordina che fosse subito liberato dalle catene. E, avendo scritto una tavoletta, la diede a lui dicendogli: «Ecco, la dea ti ha concesso di vivere per mio intervento. Giura-

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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mi su di lei che, dopo aver consegnato questa tavoletta ad Oreste, mi porterai la sua risposta». Questi promise di recapitare la lettera nelle mani di quello e di portare lo stesso Oreste da lei. Dopo aver preso la tavoletta, uscì dal tempio e, dopo aver raggiunto il luogo dove Oreste era custodito, chiese il permesso alle guardie scite; una volta entrato, gli consegnò la lettera dicendo: «Va’ il prima possibile da tua sorella Ifigenia!». Gli Sciti restarono quindi stupefatti davanti a questo evento. Entrambi andarono subito da Ifigenia e Pilade disse: «Ecco Oreste, tuo fratello!». Quella, da parte sua, non lo riconobbe finché non vide il segno della stirpe di Pelope a forma di oliva che quello aveva sul braccio destro. Dopo averlo abbracciato, li invitò a tirare in secco le imbarcazioni e a trattenersi presso di lei tutto l'inverno. All'arrivo dell'estate, avendo preso furtivamente la statua d'oro massiccio di Artemide e la stessa Ifigenia, Oreste e Pilade fuggirono sui navigli con i quali erano arrivati. Dopo aver fatto la traversata fino a Diabena, puntarono ad Oriente verso (237.) la città saracena di Emet e di lì a Tricomin di Palestina. Essendosi Oreste fermato lì, gli abitanti di Tricomin, dopo aver fondato un grande tempio per Artemide, credevano doveroso che Ifigenia (che onoravano come sacerdotessa) sacrificasse una giovane vergine alla dea. E condussero quindi una fanciulla di nome Nissa, che Ifigenia uccise. Avendo eretto una stele di bronzo, chiamarono quel luogo Nissa. Dopo che Oreste si fu ripreso, Ifigenia vide in sogno una cerva che le disse: «fuggi da questa terra!». Essendo quindi fuggiti subito, raggiunsero la costa della Palestina, da lì la Siria e il monte Melantio. Dopo aver trovato il tempio di Estia ed aver compiuto un sacrificio secondo quanto detto dall'oracolo, Oreste fu liberato dalla terribile pazzia. Quindi, avendo attraversato l'Oronte, giunse al monte Silpio e, avendo

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CEDRENO, BREVIARIO DI STORIA

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salutato gli Argivi della Ionia come parenti, da questi fu condotto al porto di quella città che anticamente era chiamata Paleopolis ed oggi Seleucia. Da lì, avendo trovato una nave, compì la traversata fino alla Grecia. E dopo aver congiunto in matrimonio la sorella Elettra con Pilade, governò il territorio di Micene fino alla morte. Allora il re della Scizia Thoas inviava molti Sciti alla ricerca di Ifigenia a causa della statua sottratta. Giunti a Tricomin, poiché vennero a sapere che quelli che inseguivano avevano già preso il mare, rimasero lì e, avendo fondato una città chiamata Scitopoli, non fecero più ritorno in patria.

CIRIACO D’ANCONA SOMMARIO DEL DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA DI DITTI DI CRETA Introduzione e traduzione di Lorenzo M. Ciolf i

DITTI DI CRETA ORIENTE E OCCIDENTE1

NELL’ABBRACCIO TRA

Nel corso del suo secondo viaggio nel Peloponneso tra il luglio 1447 e l’aprile 1448, Ciriaco Pizzecolli – altrimenti conosciuto come Ciriaco d’Ancona – giunse a Mistrà e fu introdotto alla corte del despota di Morea, Costantino Dragases. Lì ebbe l’occasione di incontrare Laonico Calcondila e il suo maestro, il filosofo Giorgio Gemisto Pletone, la conoscenza del quale aveva già fatto a Firenze nel 1439 durante lo svolgimento del celebre Concilio di Ferrara-Firenze. Costretto dall’arrivo delle avverse condizioni climatiche invernali ad interrompere le ricerche archeologiche “sul campo” e a fare ritorno al castello di Mistrà, l’umanista italiano soddisfò la propria insaziabile curiosità intellettuale intrattenendosi in lunghe conversazioni con Pletone, la cui cultura lo aveva fin da subito affascinato, ed esercitandosi nella pratica della lingua greca sotto la guida delle eminenti personalità che frequentavano la corte. Il frutto di quest’ultima attività si concretizzò nella composizione di tre opuscoletti2, testimoni invero dell’incerta padronanza linguistica di Ciriaco e pertanto non brillanti sul piano stilistico. 1 Le notizie esposte in questa introduzione, nonché il testo critico offerto, si devono a E. V. Maltese: per ogni ulteriore approfondimento, pertanto, si rimanda al suo Il diario della guerra di Troia (Ditti Cretese) tra Ciriaco d’Ancona e Giorgio Gemisto Pletone, Res Publica Litterarum, 10/1987, pp. 209-214. 2 Nella valutazione dell’impatto che questo soggiorno forzato ebbe sull’apprendimento del greco di Ciriaco, è senz’altro interessante notare che tali scritti rappresentano la quasi totalità della sua produzione

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CIRIACO D’ANCONA

Tra questi, uno in particolare si segnala alla nostra attenzione: un succinto sommario delle vicende narrate nelle Ephemerides belli Troiani di Ditti Cretese. Ulteriore interesse per questa testimonianza si deve al fatto che ci sia giunta tra le carte autografe dello stesso Pletone – ff. 118rv del codice Marc. gr. 517 della Biblioteca Marciana di Venezia3 –, nella versione che si deve proprio alla mano di Ciriaco4. Due sono le considerazioni macroscopiche che emergono subito dalla lettura di questa nota. Infatti, non solo risulta evidente che la notizia su Ditti sia derivata esclusivamente dalla versione settimiana delle Ephemerides – basti notare la questione della tradizione del testo, che viene ripercorsa ignorando in toto la fase in lingua greca; ma è inoltre chiaro che alla base di questo testo ci sia stata una comunicazione orale dello stesso Ciriaco che, possessore di una copia manoscritta dello stesso Ditti in latino, offrì agli umanisti bizantini la notizia di un’opera per quelli sconosciuta o, in caso contrario, ritenuta perduta. Mentre la prima affermazione ci permette di giustificare le nette divergenze dal racconto di Ditti, chiamando in causa una difettosa rielaborazione mnemonica di Ciriaco, in greco. Siamo infatti a conoscenza solamente di un’altra opera in greco che l’Anconitano redasse lontano dal Peloponneso. 3 Si faccia riferimento al catalogo E. Mioni, Bibliothecae divi Marci Venetiarum codices Graeci manuscripti. Volumen II. Thesaurus antiquus, codices 300-652, Roma 1985, pp. 384-386. 4 Nonostante l’asserzione autoreferenziale in merito alla fonte del testo, non sono mancati dubbi sulla paternità dell’opera. Il breve opuscolo, infatti, non è compreso nell’autografo diario di viaggio di Ciriaco (manoscritto Ambrosiano-Trotti 373 della Biblioteca Ambrosiana di Milano), comparendo però negli Epigrammata reperta per Illyricum a Cyriaco Anconitano, raccolta composta da Carlo Moroni verso la metà del XVII secolo (p. xxxii), e nel Violarium attribuito all’imperatrice bizantina Eudocia (tale falso fu invece assemblato da Costantino Paleocappa; ed. Flach, pp. 677-679).

INTRODUZIONE

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il secondo dato apre una questione piuttosto articolata. Un dettato troppo elevato sul piano dello stile, una sintassi complessa, un lessico volto al più alto purismo, nonché il fatto che Ciriaco sia citato in terza persona – in questo caso non solo fonte del sunto dittiano ma anche copista – fanno infatti dubitare della ricostruzione fin qui proposta. Tuttavia contribuiscono a far luce su questo punto alcune brevi note marginali, dovute alla mano di Pletone, che intervenne per correggere alcuni errori ortografici di Ciriaco-copista. Così ricostruisce la vicenda E. V. Maltese: «Ciriaco comunicò al suo insigne interlocutore le proprie notizie sul Ditti latino; [...] poi Gemisto stesso condensò (e dettò all’ospite?) i punti salienti dell’informazione, di cui voleva, com’era suo costume, serbare memoria: e nel farlo tributò all’Anconitano il giusto riconoscimento. [...] Il folium fu poi acquisito alle carte di Gemisto»5. Oltre all’indubbio valore per la storia della letteratura, questa nota è la chiara testimonianza dell’amicizia, della collaborazione intellettuale e delle pratiche di lavoro di due grandi eruditi6. Di un abbraccio tra due mondi tanto diversi, l’Oriente e l’Occidente, alla vigilia di irreversibili cambiamenti epocali. E non è forse un caso che Ditti di Creta, il cui testo fin dagli inizi ha fatto incontrare e dialogare culture differenti, da questo abbraccio si sia poi lasciato scivolare verso il nostro tempo. Lorenzo M. Ciolfi 5

E. V. Maltese, Il diario..., cit., p. 213. Le versioni riprodotte negli Epigrammata e nel Violarium non riportano le correzioni di Pletone, avendo come fonte la copia del testo rimasta in possesso di Ciriaco e non corretta dall’erudito bizantino. 6 Si vedano inoltre gli attuali ff. 119rv dello stesso codice Marciano. Qui Ciriaco aveva vergato alcuni estratti dal libro X della Geografia di Strabone, integrati poi nello spazio marginale da Pletone (il quale intervenne ancora con un’ulteriore aggiunta, ora ai ff. 120rv).

Dal manoscritto Marc. gr. 517, f. 118rv ̝·΅ΌϜȱΘϾΛ΋΍ȱ

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Cyr(iacus); Dict(yis Cretensis Ephemeridos belli Troiani libri…, ed. W. Eisenhut, Lipsiae 19732); Epigr(ammata reperta per Illyricum a Cyriaco Anconitano…, s.d., p. XXXXII); Eud(ociae Augustae Violarium, ed. H. Flach, Lipsiae 1880); Gem(istus) 1ȱ ›ž‹›˜ȱ Š›Š–Ž—˜ȱ ȱ 2ȱ ϵΘ΍2ȱ Ȯȱ 5ȱ ΗΙ··Ε΅ΚφΑȱ Œǯȱ ǯȱ Ž™’–’ȱ Ž™’œž•Š–ȱ Žȱ ™›˜•˜ž–ȱŠ™ǯȱ’Œǯȱ™™ǯȱŗȬřȱǯȱȱȩȱȱ2ȱ·ΉΝΕΘΓІȱ¢›ǯȱȱDZȱȱ̆ΉΝΕ·ΓІȱEpigr.ȱȱ4ȱ

Ciriaco d’Ancona SOMMARIO DEL DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA DI DITTI DI CRETA

Alla Fortuna. Ditti di Creta compose per primo una Guerra di Troia. A Creta, durante il regno di Nerone, mentre un contadino era intento a zappare, fu rinvenuta un’urna di piombo, sepolta sottoterra, che conteneva il racconto della guerra di Troia redatto in lingua fenicia da Ditti ovvero Oditti, che aveva personalmente combattuto contro Ilio al fianco di Idomeneo. Trasposta dal fenicio al latino, l’opera si può trovare ora presso i Latini: così ci ha riferito Ciriaco d’Ancona, uomo degno di massima fiducia e per ogni altro aspetto irreprensibile, il quale sostiene di possederne personalmente una copia. La narrazione riportava, come lo stesso Ciriaco precisò, che il ratto di Elena fosse stato riferito dagli Atridi, giunti a Creta da Idomeneo per risolvere tra di loro alcune questioni, e che quindi fosse stato subito deliberato con Idomeneo di punire

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CIRIACO D’ANCONA

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SOMMARIO DEL DIARIO DELLA GUERRA DI TROIA

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tale crimine marciando contro Ilio. Si prepararono per ben nove anni e al decimo salparono contro i Troiani; ebbero bisogno di un solo anno per prendere Ilio. La conquistarono in questo modo: dato che la situazione per i Greci non si sbloccava se questi rimanevano fermi nella Troade, spostarono il campo nel Chersoneso e inviarono quindi ambasciatori ad Ilio – tra i quali c’era Odisseo – per concludere diplomaticamente un accordo sui capi di accusa e, al tempo stesso, studiare praticamente le condizioni dei Troiani. Consegnarono come offerta votiva ad Atena protettrice di Troia un cavallo di legno che, rifinito in tutti i dettagli, i Greci lasciarono lì nella Troade dando l’idea ai Troiani che avrebbero fatto presto ritorno in Grecia. Notando che i Troiani, volti ai festeggiamenti e ai brindisi, avevano allentato la guardia, gli ambasciatori mandarono un segnale ai Greci che erano appostati nel Chersoneso. Piombando nottetempo sui Troiani che non se l’aspettavano, presero così la città. Il racconto ricordava anche Palamede e la sua morte ingiusta e l’amazzone Pentesilea, giunta come alleata dei Troiani. Inoltre, Achille tese un’imboscata lungo il fiume ad Ettore, che aveva fatto una sortita con pochi uomini per incontrare l’amazzone, e lo uccise piombandogli addosso; quindi uccise in duello anche Pentesilea, che aveva trucidato con le frecce molti Greci. Si faceva menzione anche di Memnone, giunto lì da Oriente in aiuto dei Troiani.

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INDICE DEI NOMI NOTEVOLI NEL TESTO DI

DITTI DI CRETA

A cura di Valentina Zanusso

Acamante (capo tracio): II 35; III 4. Acamante (figlio di Teseo): I 14; V 13; VI 2. Acasto: VI 7-9. Achille: I 14, 16-17, 20, 22; II 3, 6, 9-10, 12, 16-17, 19, 29-34, 36-37, 41-42, 48-49, 51-52; III 2-3, 5-6, 9, 11, 14-25, 27; IV 2-3, 6-13, 15, 21; V 4, 13; VI 9. Admeto: I 14. Adrasto: II 35. Agamennone: II 1, 4, 15-17, 1921, 23; II 5-7, 9, 15, 19, 28-31, 33-34, 36, 44, 47-52; III 3, 7, 19; IV 2, 6-7, 16, 22; V 13-16; VI 2, 3. Agapenore: I 17; III 10. Agatone: IV 7. Agavo: IV 7. Agenore: epistola; I 9; III 5. Aiace d’Oileo: I 14, 17; II 14, 32, 37, 43, 46; III 7, 10, 12, 19; IV 2, 7, 12, 21; V 9, 12; VI 1. Aiace Telamonio: I 13, 16-17, 19; II 3, 6, 9, 12-14, 18-19, 27, 3233, 37, 41, 43-44, 46, 48, 50, 52, III 3, 7-8, 10-11, 14, 19; IV 2, 6-8, 10-13, 15-17, 20; V 4, 10, 14-16.

Alcinoo: VI 5-6. Alessandro: I 3, 5-11; II 5, 8, 14, 21-23, 25-26, 28, 39-40; III 26; IV 2, 4, 9, 11, 14, 17-21; V 2-5, 12; VI 12. Alfenore: VI 5. Alizoni: II 35. Amazzoni: III 15; IV 2-3. Amicla: I 9. Anassibia: I 1, 13. Anchise: III 26; IV 22. Andremone: I 13. Andromaca: III 20, 22; V 13; VI 12-13. Anfiarao: I 14. Anfiloco: I 14. Anfimaco (capo del contingente cario): II 35; IV 12. Anfimaco (capo del contingente d’Elide): I 17. Anfio: II 35. Anio: I 23. Antenore: I 6, 8, 11-12; II 23-24; III 26; IV 7, 18, 22; V 1, 3-6, 8-12, 14, 16-17. Antifate: VI 5. Antifo (figlio di Priamo): II 43; IV 7. Antifo (figlio di Talemene): II 35.

1006 Antifo (nipote di Ercole): I 14, 17; II 5. Antiloco: I 13; II 32; III 19; IV 6, 8. Antimaco: II 23-24; IV 21; V 2, 4. Apollo: II 10, 14, 28, 30, 33, 47, 52; III 1-2; IV 10-11, 17; V 7-8, 11; VI 7, 11-12. Aradio: Epistula. Arato: VI 7. Arcesilao: I 13, 17; III 10. Archimaco: III 7. Arene: VI 5. Areto: IV 7. Argalo: I 9. Arisba: II 27. Ascalafo: I 13, 17; III 12; IV 2. Ascanio: II 35. Asio (figlio di Dimante): II 35; III 14; IV 12. Asio (figlio di Irtaco): II 36; III 14. Assandro: VI 7. Assaraco: IV 22. Asteropeo: II 43; IV 7. Astianatte: III 20. Astinome: II 17, 19, 28, 33, 47. Astinoo: III 7. Astioche: II 5. Atlante: I 9. Atreo: I 1; III 23; V 16. Aurora: IV 4. Automedonte: II 34; III 2-3, 15, 20. Biante: IV 7. Brise: II 17, 19. Bucolione: IV 22. Bunomo: V 5.

INDICE DEI NOMI NOTEVOLI

Cadmo: Epistula; Prologo; V 17. Calcante: I 15, 17, 21; II 30; IV 18; V 7. Calipso: VI 5. Camiro: IV 4. Canopo: VI 4. Capaneo: I 14. Capi: IV 22. Carene: II 13. Cariddi: VI 5. Cassandra: II 25; IV 14; V 8, 1213, 16. Chirone: I 14; VI 7. Ciclope: VI 5. Cicno: II 12-13. Cinira: VI 8. Circe: VI 5. Cleomestra: IV 22; V 1. Climene (madre di Palamede): I 1. Climene (schiava di Elena): I 3; V 13; VI 2. Clitemestra: I 20, 22; VI 2-3. Clitìo: IV 22. Clonio: I 13, 17. Cobino: II 13. Concordia: I 15. Coriano: II 13. Corita: IV 7. Corito: V 5. Crise: II 14, 17, 19, 28, 30, 47; IV 18. Crisippo: VI 7. Cromio: II 35. Danao: I 9: IV 22; V 17. Dardano: I 9; III 5; IV 22. Deidamia: IV 15. Deifobo: I 20; II 39; III 4, 8; IV 11, 19, 22; V 12.

INDICE DEI NOMI NOTEVOLI

Deiopite: III 7. Demofonte: I 14; V 13; VI 2. Deucalione: Prologo; I 1. Diana: I 19-20. Dimante: 1 9; II 35; IV 12. Diomede: I 12, 15-17, 19; II 2, 9, 15, 19-20, 29, 32-33, 37, 41, 43, 45, 48, 51; III 4, 12, 14, 17, 19; IV 2-3, 7, 10, 16, 18, 21-22; V 4, 6-7, 10, 14-15; VI 2. Diomedea: II 16, 19; III 12. Diore: I 13, 17; III 5. Dolone: II 37. Doriclo: III 7. Driope: IV 7. Eace: I 1; VI 2. Ebalo: I 9. Echemmone: IV 7. Ecuba: I 9-10; II 27, 35; III 2, 26; IV 1-2, 5; V 6, 8, 16; VI 12. Eezione: II 17, 19. Egialea: VI 2. Egisto: VI 2-4. Eioneo: II 45. Elena: I 3-4, 7, 9-10, 12, 20; II 5, 20-22, 25; III 23, 25-26; IV 1, 21-22; V 2, 4-5, 12-14; VI 4. Eleno: II 38; III 6; IV 18, 21; V 9-11, 16. Elettra: I 9; IV 22. Elpenore: I 17. Emera: VI 10. Enea: I 3; II 11, 26, 38; IV 17-18, 22; V 1, 4, 11-12, 16-17. Eneo: VI 2. Enideo: V 17. Ennomo: II 35. Enone: III 26; IV 21.

1007 Eolo: VI 5. Epeo: I 17; II 44; III 1, 12; V 9, 11. Epistrofo (capo focese): I 13, 17. Epistrofo (re degli Alizoni): II 35. Ercole: I 14; II 4-5; III 1; IV 15, 19, 22. Erigone: VI 2, 4. Erittonio: IV 22. Ermione: VI 4, 10, 12-13. Erope: I 1. Esaco: III 7. Esculapio: I 14; II 6-7. Esiete: IV 22. Esione: IV 22. Etra: I 3; V 13; VI 2. Ettore: II 25, 32, 34, 37, 39, 4244; III 2-6, 8, 10, 15-17, 21-23, 27; IV 1-2, 5; V 3, 8, 16; VI 12. Eufemo: II 35, 43. Euforbo: II 38; III 10. Eumede: II 37. Eumelo: I 14, 17; II 38; III 17; V 10. Euprassi: Prologo. Eurialo: I 14. Euripilo (Figlio di Evemone): I 13, 17; III 19. Euripilo (figlio di Telefo): II 5; IV 14, 17-18. Eurisace: V 16. Europa: I 2; II 26. Evandro: III 14. Evemone: I 13. Falante: IV 4. Falide: I 18. Fenice (aio di Achille): I 14, 16; II 34, 51; III 22, 24; IV 15, 21.

1008 Fenice (figlio di Agenore): III 5; IV 22; VI 10. Fenice (padre di Europa): I 2, 9. Fenice (re dei Sidonii): I 5. Fidippo: I 14, 17; II 5. Filenore: III 7 IV 7. Fileo: I 13. Filottete: I 14, 17; II 14, 33, 47; III 1, 18; IV 19-20; V 10. Fineo: I 13; VI 3. Forbante: II 16. Ganimede: II 26; IV 22. Giove: I 1, 8-9; V 10, 12. Giunone: I 16. Glauce: II 13; V 16. Glauco (figlio di Antenore): III 4, 26; IV 7; V 2. Glauco (figlio di Ippoloco): II 35, 38, 43; III 4. Gluaco (figlio di Priamo): III 4; IV 7. Gorgitone: III 8. Guneo: I 17; III 14. Ialmeno: I 13, 16; III 12; IV 2. Icetàone: IV 22. Ideo (araldo): II 27; IV 10; V 6. Ideo (figlio di Alessandro): V 5. Idomeneo: Epistula; Prologo; I 1, 13, 17, 19; II 19, 32, 43; III 4, 14, 19; IV 6-7, 22; V 10, 17; VI 2-6. Idra: IV 19. Ificlo: I 14. Ifigenia: I 20, 22; II 7. Ilioneo: IV 7. Ilo: I 6; IV 1, 22; V 5. Imera: VI 10.

INDICE DEI NOMI NOTEVOLI

Io: II 26. Ippodamante: III 7. Ippodamia: II 18-19, 33-34, 36, 49, 51-52; III 12; IV 15. Ippoloco: II 35, 43. Ippotoo (figlio di Pileo): II 35; III 14. Ippotoo (figlio di Priamo): III 7. Irtaco: II 35; III 14. Isseo: VI 11. Lacedemone: I 9. Laerte: VI 6, 15. Lampo: IV 22. Laodamante: III 20; VI 12. Laodamia: II 11. Laomedonte: IV 22. Leda: I 9. Leito: I 13, 17. Leonteo: I 13, 17. Libero: VI 7. Licàone (figlio di Priamo): IV 9. Licàone (padre di Pandaro): II 35. Licofrone: VI 11. Licomede: IV 15. Luna: V 10. Macàone: I 14, 17; II 6, 10; III 19. Manelao: I 1-4, 7, 9-11, 17, 2122; II 5-7, 20-21, 23-26, 29, 32, 39-40; III 1, 3, 10, 17, 23; IV 2, 6, 16, 22; V 4, 12-15; VI 3-4, 10, 12-13. Marte: I 15. Mecisteo: I 14. Medea: II 26. Megete: I 13, 17; III 10.

INDICE DEI NOMI NOTEVOLI

Melio: II 35. Memnone: IV 4-8; VI 10. Menalippo: VI 8. Menesteo: I 14, 17; II 36; VI 2, 4. Merione: Prologo; I 1, 13, 17; II 38; III 1, 4, 12, 18; IV 2; V 10; VI 6. Merope: II 35. Mestle: II 35. Mestore: II 43; VI 9. Milio: III 7. Minerva: III 2; IV 22; V 5-6, 8-12. Mino: II 35. Molo: Prologo; I 1. Mopso: I 17. Muse: VI 7. Naste: II 35; IV 12. Nauplio: I 1; VI 1-2. Nausicaa: VI 6. Neottolemo: V 15-17, 21; V 10, 12-13, 15-16; VI 7-10, 12-13. Nereide: VI 7. Nereo: VI 7. Nestore: I 1, 4, 13, 17, 20; II 19; III 19-20; IV 6-77, 22; V 10; VI 2. Nettuno: V 11. Nireo: I 14, 17; IV 17-18. Nomio (ne?): II 35. Oceano: V 10. Odio: II 35. Olizone: III 5; IV 22. Oreste: VI 2-4, 13. Ormeno: I 13, 17. Palamede: I 1, 4, 6, 16, 18; II 1415, 29; V 15; VI 1-2.

1009 Pallante: VI 10. Pamone: II 43. Pandaro: II 35, 40-41. Panto: II 23, 25; V 6. Patroclo: I 14; II 34, 49, 51-52; III 3, 7-12, 14, 17, 20, 23-24; IV 13, 15. Peante: I 14. Peleo: I 14; VI 7-9, 13. Pelope: I 4, 6, 12, 14; III 23; V 2. Peneleo: I 13, 16; IV 17-18. Penelope: VI 6. Pentesilea: III 15-16; IV 2-3. Pilemene: II 35; III 5. Pileo: II 35; III 14. Pirecme: II 35; III 4. Piro: II 35. Pirro: IV 15-16; V 9, 13. Piso: III 14. Piteo: VI 2. Plesione: I 9. Plistene (figlio di Acasto): VI 8. Plistene (padre di Agamennone e Menelao): I 1, 9; III 3; V 16. Podalirio: I 14, 17; II 6, 10; III 19. Podarce: I 14, 17. Polidamante: II 38; III 4; IV 7. Polidoro: II 18, 20, 22-27. Polifemo: VI 5. Polimestore: II 18, 20, 25. Polinice: I 14, 17; II 2. Polipete: II 43. Polissena: II 25; III 2, 5, 20, 24, 27; IV 10-11; V 13. Polisseno: I 17; III 5. Priamo: I 1, 6-12, 14, 18; II 5, 11, 18, 20-23, 25-26, 35, 41, 43, 45; III 1, 3, 7, 9, 14-16, 20-22,

1010 24-27; IV 3-4, 7, 9-11, 14, 18, 21-22; V 1-3, 5, 9-10, 12; VI 9. Protenore: I 13, 17. Protesilao: I 14, 17; II 11-12. Protoo: I 17. Ptoliporto: VI 6. Reso: II 45. Sarpedone: I 18; II 11, 32, 35, 38, 43; III 7-9; IV 8. Scamandrio (altro nome di Astianatte): III 20. Schedio: I 13, 17; III 10. Scilla: VI 5. Sinone: V 12. Sole: V 10. Solimo: II 35. Stenelo: I 14; IV 12. Strofio: VI 3. Taigete: I 9. Talemene: II 35. Taltibio: IV 22; V 1; VI 2. Teano: V 8. Tecmessa: II 18-19; V 16. Telamone: VI 2, 5. Telefo: II 1-7, 10, 12; IV 14. Telegono: VI 15.

INDICE DEI NOMI NOTEVOLI

Telemaco: VI 6, 14-15. Teleste: IV 7. Terra: V 10. Tessalo: II 5. Tessandro: I 14, 17; II 2. Testore: I 15. Teti: I 14; VI 7, 9, 13. Teucro: I 13; III 1; IV 2; V 16; VI 2, 4. Teutranio: II 3. Teutrante: II 3, 18-19. Tieste: IV 7. Timete: IV 22. Tindaro: I 9. Titono: IV 4, 22. Tlepolemo: I 14, 17; II 5; III 19; IV 2. Toante: I 13, 17; V 10. Trasimede: I 13. Troilo: IV 9. Ulisse: I 4, 11, 13, 16-17, 20-22; II 3, 6, 9, 14-15, 19-21, 23, 26, 29, 33, 37-38, 45, 48, 50, III 1, 12, 18-20; IV 2, 6-7, 10-11, 16, 18-19, 22; V 4, 7-8, 10-11, 1316; VI 5-6, 14-15. Vulcano: II 14.