La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio 9788842094333

"Quando il Silvio, raccontatore di miracoli impareggiabile, si affacciò sulla scena politica, ancora si ripeteva in

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La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio
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Contromano

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

Beppe Sebaste Oggetti smarriti e altre apparizioni

Franco Arminio Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta

Luca Ricci Come scrivere un best seller in 57 giorni

Antonio Pascale Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?

Tiziano Scarpa La vita, non il mondo

Paolo Cognetti New York è una finestra senza tende

Romolo Bugaro Bea vita! Crudo Nordest

Giorgio Vasta Spaesamento

Vitaliano Trevisan Tristissimi giardini

Sandra Petrignani E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma

Chiara Valerio Spiaggia libera tutti

DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Antonio Pennacchi Le iene del Circeo. Vita, morte e miracoli di un Uomo di Neandertal

Enrico Brizzi

La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9433-3

a Marta, la rondinella

Non mi è mai successo di leggere un libro con i miei figli, poche volte mi è capitato di commentare un giornale con loro. Silvio Berlusconi (citato in Gianni Mura, Ecco due personaggi da zero in condotta, «la Repubblica», 23 febbraio 1986)

Gli italiani sono fatti così: vogliono che qualcuno pensi per loro. E poi... Se va bene, va bene. Se va male, ecco che lo impiccano a testa sotto. Questo è l’italiano. Mario Monicelli (intervista a Rai per una notte, 25 marzo 2010)

Indice

Miracolo alla radio

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Prima Repubblica

5

Una lettera da Pertini, p. 6 - Berlinguer, ti voglio bene?, p. 12 - Craxi, Forattini, Arbore, p. 20 - Scopare Carmen Russo, p. 25

Un mondo a colori

33

Quarto potere, p. 34 - Un catechista fortunato, p. 42 Veline, pupazzi e pornostar, p. 49 - Il gladio e il piccone, p. 55

Arriva il Silvio

67

La televisione intelligente, p. 68 - Lo Stato gambe all’aria, p. 77 - Millenovecentonovantaquattro, p. 87 - Andare in televisione (I), p. 97

Seconda Repubblica

115

La maledizione del Gattopardo, p. 116 - Andare in televisione (II), p. 125 - Lavorare per la televisione?, p. 131 - Sparire dalla televisione, p. 142

Il ritorno del Silvio

151

Qualcosa di buono per il paese, p. 152 - La Casa degli italiani, p. 163 - Squadra di governo, p. 172 - Unità di crisi, p. 182

IX

Il Silvio colpisce ancora

193

L’Italia divisa, p. 194 - Sotto il segno del Caimano, p. 207 - Terremoti, p. 217 - Andare in televisione (III), p. 226

La fine del mito

239

La calda estate di papi, p. 240 - L’autunno del nostro scontento, p. 261 - L’Italia in letargo, p. 273 - Un’altra primavera?, p. 283 - SOS. Summer of Silvio, p. 291

Nota bibliografica

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La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio

Un ringraziamento a Cristina Gaspodini, Tony Farinelli, Marcello Fini, Yu Guerra, Andrea Insulla, Marty Mezzamano, Max Moccia e Samuele Zamuner.

Miracolo alla radio

Nel 1948, dopo l’attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, mezzo paese si trovava pronto ad insorgere. Secondo una fola che ogni sportivo italiano ha sentito ripetere, i comunisti si sarebbero astenuti dal principiare la rivolta grazie a una vittoria di Gino Bartali al Tour de France; la notizia, portata dalla radio in ogni angolo della giovane Repubblica, avrebbe infatti mandato in sollucchero i «Rossi», facendoli sentire finalmente fratelli di ogni altro italiano. Se rivolta non vi fu, naturalmente, è perché non fu comandata dal Partito; in caso contrario, che quel giorno Bartali vincesse per distacco o che rovinasse bestemmiando in una scarpata pirenaica, nessuno avrebbe impedito scontri su larga scala fra militanti e forze dell’ordine. Eppure, nella coscienza collettiva degli italiani, è stato un ciclista a salvare il paese dal caos. Com’è possibile? Il fatto è che la Storia la scrive chi vince, ma saperne inventare di nuove aiuta a mantenere il Potere. Negli ambienti democristiani, raccontare che Bartali aveva paralizzato a distanza gli scalmanati comunisti pronti al peggio suonava rassicurante. Era la conferma che la Provvidenza può manifestarsi nelle maniere più inattese, persino attraverso le

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pedalate d’un campione (purché non immorale come Fausto Coppi). Gino Bartali sapeva bene di non essere un santo dell’antichità, eppure se ne ritrovò cucita addosso la nomea: che se ne rendesse conto o meno, aveva compiuto un miracolo, il primo avvenuto via radio. Di quanti e quali sarebbe stata capace la televisione italiana, all’epoca ancora non si sospettava niente. Col tempo, invece, ci saremmo abituati a una qualità nuova di emozioni: avremmo visto Raffaella Carrà propiziare l’incontro di fratelli separati da cinquant’anni, e restituire la parola in diretta a una bambina muta. Avremmo visto Enzo Tortora finire in carcere, e riapparire in tivù poco prima di morire, papa Giovanni Paolo II cadere sotto i colpi dell’attentatore, ristabilirsi e viaggiare per tutto il mondo, mentre Iva Zanicchi ci sfidava a indovinare il prezzo giusto e Mino Damato camminava sui carboni ardenti. Grazie alla televisione avremmo potuto seguire la seconda vita di Paolo Bonolis senza il pupazzo Uan, e tante nostre impacciate coetanee si sarebbero trasformate in vallette e cubiste, o almeno ci avrebbero provato. Come il presunto miracolo radiofonico di Bartali, anche quelli della televisione italiana avrebbero avuto talora l’effetto collaterale di nuocere all’onorabilità, al morale e all’esistenza stessa della Sinistra italiana – ma i miracoli son miracoli, mica si può restituirli al mittente. Semmai, bisogna essere capaci di raccontarli. Quando il Silvio, raccontatore di miracoli impareggiabile, si affacciò sulla scena politica, ancora si ripeteva in giro che la televisione era lo specchio della società. Era un’interpretazione ormai inadeguata: presto la società italiana sarebbe entrata dentro quello strano specchio, tutta intera come Alice e, come lei, sarebbe partita per il viaggio più colorato e spaventoso della propria Storia.

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Prima Repubblica

UNA LETTERA DA PERTINI In casa mia, ai tempi della Prima Repubblica, il voto era segreto. Benché fosse evidente che i nostri genitori votassero a Sinistra, mai dalle loro labbra uscì una dichiarazione ufficiale a favore di questo o quel partito. Per non influenzare mio fratello e il sottoscritto, diceva nostro padre, ché ce n’era già troppa, di gente che delegava i propri rapporti sociali e lavorativi a un’appartenenza politica. Per non dare a noi figli l’idea che il Bene andasse identificato con un partito, mamma chiudeva da par suo il cerchio degli argomenti: per lei bisognava dar credito agli animi onesti, non alle bandiere. Di certo entrambi chiamavano i missini «fascisti», solidarizzavano col popolo cileno e quello argentino, e pronunciavano sottovoce, con malcelato disprezzo, i nomi dei principali notabili democristiani (Andreotti in testa). Ma come potevano i manifesti di Salvador Allende appesi in studio da babbo, e i suoi vinili degli Inti Illimani, convivere con la critica feroce al «conformismo» – sembrava, questo, il suo vero nemico – degli apparati comunisti? Per lui la primavera di Praga gridava ancora vendetta, e se Reagan era un cowboy paz-

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zo, non amava certo Brežnev e la dittatura dei burocrati sul proletariato. E perché mamma, nonostante gli scaffali colmi di testi resistenziali che faceva leggere ai suoi studenti delle medie, parlava con eguale disistima dei dirigenti scolastici politicizzati, comunisti e democristiani, sempre pronti a spartirsi i posti chiave in provveditorato? Chi diavolo votavano, allora, i nostri genitori? Quale partito incarnava i loro ideali di giustizia sociale, onestà, meritocrazia e non-allineamento? La mia curiosità, espressa ad ogni tornata elettorale con domande dirette e rudimentali trabocchetti ad excludendum, non ottenne mai soddisfazione. In compenso ero ammesso al culto di Sandro Pertini, ex partigiano, settimo presidente della Repubblica – primo socialista – e simbolo vivente dell’unità nazionale. I meriti del presidente erano sotto gli occhi di tutti: aveva retto la barra del paese negli anni più difficili del dopoguerra, fra il sequestro di Moro, le stragi terroristiche e i relativi insabbiamenti ad opera dei soliti «settori infedeli dei servizi segreti». Quando il pubblico scandalo della P2 aveva minacciato d’inghiottire il sistema di potere democristiano, Pertini, per la prima volta nel dopoguerra, aveva affidato a un laico – il repubblicano Spadolini – l’incarico di formare il governo. Ma cos’era, quella P2 di cui tanto si parlava al telegiornale? Richieste spiegazioni in merito, appresi che era un’entità segreta e terribile, come il terrorismo, ma ancor più difficile da estirpare. Perché? Perché raduna uomini potenti e bricconi. Potenti e bricconi come il principe Giovanni in Robin Hood?

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Come lui, e lo sceriffo cattivo. Ah. Ma Robin è più furbo. Certo. È furbo e agile. Adesso fai silenzio, per favore? Quando viene Robin Hood a sistemare la P2? Adesso vediamo. Su, torna a giocare. E re Riccardo? Non torna, lui? Ma porca paletta! Ci lasci guardare il Tigì? Non sarebbero arrivati né Robin né re Riccardo, ma la stima che i miei tributavano a Pertini non me li faceva rimpiangere: era lui, il nostro eroe. Pertini aveva patito prigionia e umiliazioni sotto la dittatura; Pertini lottava duramente contro il terrorismo, la mafia e le logge massoniche deviate; Pertini, infine, severissimo con gli adulti disonesti, era amico di tutti i bambini d’Italia. Tanto bastava per evidenziare sul calendario appeso nel cucinotto – omaggio del Centro Carni Stadio – la data del suo genetliaco, il 25 settembre. Era del 1896, il vecchio Pert, cinque anni più vecchio del mio già anziano nonno Agostino Brizzi, che a quel punto della sua vita faceva il pensionato e il patriarca. A lui andavo a porgere gli auguri di persona insieme al resto della famiglia – sette figli, gli aveva messo al mondo nonna Bruna, e vi lascio immaginare il nipotame. Mi accostavo alle guance ruvide del padre di mio padre per baciarlo, lievemente intimorito dalla figura massiccia, e dal fatto che l’ottuagenario «Agustinèn» se ne uscisse all’improvviso con battute in dialetto. Gli allegri motteggi risultavano incomprensibili a me, povero italofono, ma spesso erano in grado di fare arrossire le nuore. Nonna Bruna serviva i passatelli fumanti, i bicchieri erano sempre colmi di vino, e intorno al vecchio tavolo – che immaginavo tutt’uno col pavimento, come il letto di Odisseo e Pene-

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lope – fiorivano i racconti della prima metà del secolo e della seconda. Pertini, invece, non si poteva andare a trovare, e nemmeno si era in confidenza bastante con la moglie per farcelo passare al telefono: a lui serviva scrivere una lettera in buon italiano, sforzandosi di camuffare la grafia da zampa-di-gallina in qualcosa di aggraziato, plausibilmente leggibile da un anziano. Vergato il messaggio di auguri, si era liberi d’istoriarlo con un disegno naïf, per poi chiuderlo in una solenne busta da indirizzare al Quirinale. Scrivevo già una volta all’anno a Babbo Natale, Lapponia, per cui non ci trovavo niente di stravagante. Per qualche tempo fui lasciato libero di seguire Supergulp!, senza dover scrivere a nessuna alta carica dello Stato. Il contenitore di «fumetti in tivù», creato da Guido De Maria col contributo determinante di Bonvi, aveva il suo ambasciatore nello stralunato e piriforme Giumbolo, mentre era presentato da Nick Carter e i suoi assistenti Patsy e Ten. Il detective era incaricato di lanciare i cartoni animati che si succedevano, strabilianti: quando non erano storie dello stesso Carter, andavano in scena le Sturmtruppen, Alan Ford, Coccobill o Corto Maltese. Si usciva definitivamente dai confini patri con Asterix e Tintin, per varcare l’oceano delle possibilità con Thor, l’Uomo Ragno e i Fantastici Quattro. Un mondo immensamente più rassicurante di quello, contemporaneo e parallelo, rappresentato dai primi cartoni animati giapponesi: mamma non mi lasciava volentieri da solo con il mio amico Atlas Ufo Robot, e c’era da capirla. Quel tipetto dalle corna gialle, noto agli amici come Goldrake, era alto trenta metri e pesava duecentottanta tonnellate. Capace di correre a settecento chilometri orari, quando lo facevano arrabbiare diventava irrefrenabile: scatenava – sempre di-

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chiarandolo in anticipo – magli perforanti e boomerang elettronici, lame rotanti e disintegratori paralleli. «Alabarda spaziale!» invocavo anch’io, in piedi sul divano, desolato che mio fratello fosse ancora in fasce, troppo delicato per testare la mia potenza. Poi la notte sognavo i cattivi e le loro sembianze deformi, ma si dirà che qualcosa di spaventoso – che sia il lupo cattivo o il feroce Gorman della Toei animation – i bambini hanno pur da sognarlo. I più spaventosi degli spaventosi erano i demoniaci nemici di Jeeg robot d’acciaio: avrei imparato solo molti anni dopo che la serie era infarcita di riferimenti alla mitologia giapponese, e che quindi i suoi dèmoni arrivavano da molto lontano. Non sarebbe bastato, per interrompere la nostra dipendenza, chiamare un comune esorcista cattolico; lo si doveva far venire dai templi intorno ai quali fiorisce il ciliegio e nuotano le carpe sacre. «È la loro vendetta per la bomba atomica» suggerì qualcuno; «I Jap entrano nella mente dei nostri figli e la riempiono dei loro incubi». Ma non gli diedero retta. Abbandonati a noi stessi, per sfuggire ai dèmoni che vivevano sottoterra sin dall’inizio dei tempi portavamo su di noi i segni di riconoscimento della nostra fazione, i Buoni: spille di Goldrake, felpe di Mazinga Z e Daltanius, e fosse stato per noi avremmo indossato tutto l’anno i carnevaleschi full-suits con tanto di corna in gommapiuma. Mai come allora il merchandising ufficiale mi apparve qualcosa di magico e necessario, in grado di salvare l’anima dall’abisso. Non compresi del tutto lo sbigottimento dei miei quando il presidente rispose al mio biglietto di auguri. Per qualche motivo, i doni portati dal grande Nord con una slitta volante trainata da renne non li avevano mai stupiti quan-

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to la piccola busta color avorio carica di timbri, che ora mio padre stringeva tremante in mano. «Enrico...» balbettò mamma indicandola. «Ti ha scritto Pertini.» Sapevo già che grazie alle Poste accadevano miracoli piccoli e grandi – bastava raccogliere i punti sulle confezioni di biscotti e spedirli al Mulino Bianco per ricevere in cambio la scodella di coccio per la colazione – così non riuscii a sbalordirmi. Ero solo compiaciuto e curioso: che volesse invitarmi a Roma, a giocare con lui nei giardini del suo palazzo? «Be’, leggiamo!» proposi, e la lama d’un tagliacarte dischiuse la missiva presidenziale. Quando videro il biglietto, arretrarono insieme di mezzo passo: «È scritto di suo pugno!» annunciò babbo. «Su, leggi, Paolo!» mormorò mamma con una voce sottile che non le conoscevo. Mio padre, che non aveva neppure fatto la naja causa esubero di fratelli maggiori, mi apparve sull’attenti, ad eccezione del braccio con cui reggeva, incredulo, la prova che Pertini era davvero amico di tutti i bambini d’Italia. «Roma» prese a leggere, «palazzo del Quirinale. Carissimo Enrico Brizzi», e si arrestò per sorridere a mamma. «Sentitamente ringrazio dei graditissimi auguri. Sandro Pertini.» Diede un sospiro profondo, e mamma mi scompigliò i capelli. «Tutto qui?» allungai le mani verso il biglietto. «È una cosa specialissima» spiegò mio padre. «Trattalo con le mani della festa!» «Con tutte le cose che ha da fare, ha trovato il tempo di scriverti...» parve riflettere ad alta voce mamma. Con le mani della festa, presi possesso del biglietto: mi trovai combattuto fra la solennità del momento e la delusione più acuta. Una riga e mezza, mi aveva scritto l’amico di penna dal Quirinale, e senza disegni – io mi ero pur prodotto in un suo ingenuo ritratto, che lo vedeva intento a soffiare sulle candeline a forma di pipa della sua torta di compleanno.

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Il presidente non faceva neppure accenno alla possibilità d’incontrarci, ma dovevo ben capirlo: non era più giovane e aveva un sacco di cose da seguire, fra logge massoniche deviate, brigatisti, mafiosi e minacce nucleari; io, invece, avevo l’agenda sgombra sino a ora di cena, così fui condannato a telefonare a tutti i parenti e gli amici di famiglia per annunciare che mi aveva scritto il Capo dello Stato. Se non mi presero per pazzo quella volta, ci sono ragionevoli speranze che non accada mai più.

BERLINGUER, TI VOGLIO BENE? Solo la scomparsa di Berlinguer avrebbe indotto mamma e babbo a cantarsela: il partito perfetto non era mai esistito. Tuttavia ammisero che il Partito comunista era stato fin lì il soggetto col quale dialogare, confrontarsi, prendersela e tornare a fare la pace: senza il Pci la nostra terra non sarebbe stata la nostra terra, Bologna sarebbe stata una semplice città di provincia, non un «laboratorio politico» e nemmeno «la città più libera del mondo». Senza il Pci, l’Italia intera si sarebbe ridotta a feudo cattolico di Washington, marca orientale della Nato, cinquantunesima stella degli Stati Uniti. Bassezze e maneggi andavano così contestualizzati: grazie al partito avevamo organizzazione e buon governo, noi. Se ogni tanto il prete sbaglia, mica è colpa di Nostro Signore; allo stesso modo, se qualcuno approfittava della tessera del partito per fare carriera o concludere accordi, questo non intaccava punto l’icona di Enrico Berlinguer, il Portatore della Nostra Idea. Prima di lui il Pci aveva conosciuto la clandestinità, la Resistenza e la Costituente sotto la guida di Togliatti; il «Migliore» aveva condotto il partito per mano sino alla sua morte, poi c’era stato il «Comandante» Luigi Longo, eroe della Guerra di

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Spagna, quindi capo partigiano e – ad ascoltare i sussurri fuori controllo – vero giustiziere di Mussolini. Niente che si potesse scrivere sui giornali, ma la leggenda non suonava affatto scandalosa alle orecchie dei militanti. Il Partito era figlio della Resistenza, monolitico, e Berlinguer, asceso alla segreteria di Botteghe Oscure nel 1972 su designazione dello stesso Longo, era il primo leader del Pci che non avesse avuto un ruolo centrale, per età anagrafica, nella stagione della Resistenza e della Guerra civile. Dei suoi meriti maturati negli anni Settanta sapevo solo de relato, ma si riassumevano in tre grandi parabole: lo strappo con Mosca, l’avvicinamento ai cattolici e la semileggendaria capacità di sorridere. Si riconosceva a Berlinguer il coraggio fuori dal comune di cantarla chiara ai dirigenti del Pcus, ché la finissero di comandarsela sui partiti fratelli d’Oriente e Occidente. Una cosa, aveva fatto sapere a Mosca, è governare nel paese dei Soviet, un’altra essere condannati a non farlo in Italia. Come ringraziamento per la svolta «eurocomunista», nel corso di una missione a Sofia qualche compagno dell’Est aveva spedito un camion militare addosso alla sua Gaz di rappresentanza. L’interprete era morto, Berlinguer ne era uscito ammaccato ma deciso a non demordere. Se il Kgb lo voleva morto, avrebbe dovuto vedersela con noi: i compagni italiani erano pronti a fargli scudo con i propri corpi. A differenza dei suoi predecessori, poi, Berlinguer aveva provato ad avvicinare il Pci al governo del paese, instaurando un dialogo col vescovo d’Ivrea, monsignor Bettazzi, che aveva allarmato la destra democristiana e i falchi di Washington. Ecco perché, se il Kgb non lo amava, c’era il sospetto che settori della Cia lo avrebbero volentieri spedito su Saturno. Perché non lo facevano, allora? Perché il Pci, a differenza della Sinistra di oggi, era in grado di mobilitare mezzo paese e bloc-

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care l’Italia come un rubinetto che si chiude: se avessero eliminato il suo segretario, non sarebbe bastato nessun Bartali a rimediare. E poi, terza parabola, Berlinguer era «il più amato»: potevamo dimenticare le facce da mastino e i cipigli dei vecchi dirigenti, cresciuti in tempi emergenziali e portatori di segreti irriferibili. Berlinguer era forte e pulito, capace di compattare le folle ma anche di sorridere. Solo molti anni dopo ci saremmo resi conto di quanti punti percentuali poteva far guadagnare a un politico italiano il fatto di schiudere le labbra per innalzarne gli angoli, a suggerire cordialità e caldezza di spirito, ma Berlinguer sorrideva senza bisogno di vedersi puntate addosso le telecamere, né risulta che abbia mai fatto ricorso a scarpe col tacco rialzato, trapianti di capelli o make-up. Il suo era un carisma dolce, umano, rassicurante, eurocomunista di nome e italianissimo nel suo manifestarsi; i compagni sognavano d’incontrarlo in fabbrica oppure alla Casa del Popolo, non nella sua fantomatica villa (solo Forattini osò disegnarlo in pantofole come un «padrone» e fu scandalo). Era uno di noi e per questo, ancora oggi, chiunque creda a una Sinistra italiana lo rimpiange. Il giorno in cui si accasciò sul palco di Padova l’Italia rimase col fiato sospeso: era il 7 giugno 1984, e presto fu chiaro che le sue condizioni erano molto gravi. Si spense l’11, dando il tempo a metà del paese di ripensare con malinconia struggente ai suoi comizi, al suo coraggio e al suo sorriso. Addio titolò a caratteri cubitali «l’Unità», e l’ex partigiano Pertini volle condurre la salma a Roma a bordo dell’aereo presidenziale. Il giorno 13 uno straordinario bagno di folla diede l’ultimo saluto al segretario del più grande partito comunista d’Occidente: ora che se n’era andato, chi avrebbe protetto la parte sa-

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na del paese dalle manovre clerico-fasciste di stampo sudamericano orchestrate dal Pentagono? Strano a credersi ma, nelle stagioni immediatamente successive, più d’uno avrebbe risposto: «Ce l’ho! È Bettino Craxi!». Eravamo dunque, noi di via Brigate Partigiane, antiamericani? Non si sarebbe detto, a giudicare da arredi e decorazioni della mia cameretta: a fianco della carta muta d’Italia ne era appesa una – fin troppo parlante – degli States, con tanto di allegorie del Nebraska e del Wyoming, vedute di città avveniristiche, orsi grizzly, Mustang e coyote a profusione. Baton Rouge, Milwaukee e Des Moines erano per me luoghi dell’anima, veri e intangibili quanto Chieti, Biella e le altre città nostrane che non avevo mai avuto il piacere di visitare. Più in là, l’angolo della parete era presidiato dai pennant triangolari dei San Francisco 49ers e dei Pittsburgh Steelers, le mie squadre preferite di football americano; agli idoli personali Joe Montana e Franco Harris erano dedicati poster a parte. Nel basket prediligevo gli eleganti Celtics di Boston ai Lakers: più facile immedesimarsi nel viso pallido Larry Bird che non nel gigante di colore Kareem Abdul Jabbar, inventore dell’epocale «gancio-cielo», colpo che i più infervorati col minibasket tentavano di riprodurre in palestra, a prezzo di risultati disastrosi. Vogliamo poi parlare del mio personal trainer attitudinale? Di origine italiana, ma americanizzato sino al midollo, il buon Arthur Fonzarelli aveva ufficio nei bagni d’un fast food, un locale a metà fra il bar e il circolo ricreativo, su dalle parti di Milwaukee – Grandi Laghi, non lontano dal Canada, come ben mostrava la mappa degli States. In attesa di conoscerlo di persona, suggevo i suoi consigli e mi beavo del di lui carisma: sapeva bene come mettere in riga il giuggiolone Ricky Cunningham, e quegli allegri sfighé in cardigan collegiale dei suoi amici Potsie e Ralph. Il mio Fon-

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zie otteneva rispetto da chiunque, e le ragazze più carine del Wisconsin gli cascavano ai piedi come pere mature. Non guardavo Happy days. Lo studiavo: a otto anni pretendevo cornflakes a colazione, berretti da baseball, felpe con le scritte ad arco, e agognavo le giubbe – traslucide o in panno – col monogramma del team sul cuore. Non dubitavo neppure un istante che, al tardi quattordicenne, mi sarei trasferito laggiù per frequentare la high school: magari avrei trovato come classmates Willis, il fratello più grande di Arnold, e qualche cugino giovane di Bo e Luke. Un giorno scoprii finalmente un posto dove si poteva mangiare alla Happy days. Era un ristorante senza camerieri e menu, dove si faceva la fila per ordinare cheeseburger, milk shake e patate fritte, rappresentati a grandezza inverosimile sul pannello luminoso alle spalle dei cassieri. Mai più ho assaporato un cibo sì divino, capace di farti viaggiare nel tempo e nello spazio – nell’attimo in cui intingevo le patatine nella salsa ketchup mi sentivo davvero Arthur Fonzarelli giovane; una robusta suzione di milk shake, due rutti inverecondi, ed eccomi camionista giovane uscito da un romanzo di Steinbeck sulla Grande depressione. Purtroppo questo fast food, che aveva come insegna un’arcuata M gialla in campo rosso, sorgeva a Parigi, su boulevard Saint-Michel: al termine di quella vacanza insieme alla mia famiglia dovetti salutare, oltre alla Tour Eiffel, anche le straordinarie pietanze di Ronald McDonald, viatico per sensazioni estreme d’immedesimazione. Enorme fu la sorpresa nello scoprire, al ritorno in patria, che esistevano porte magiche di quel tipo anche da noi. A Milano, giuravano le mie cugine, c’era un posto così, chiamato Wendy. Un altro, centralissimo, aveva nome Burghy: lo

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infestavano mocciosi della Milano-bene che giocavano ai teddy boys, ma con uno stile tutto nuovo, particolari vestiti costosi (per rubare un piumino Moncler non si esitava a mostrare la lama) e una specialissima lingua di loro invenzione. Nel giro di poco i paninari arrivarono anche a Bologna, Firenze, Roma. «Fighetti fascisti figli della pubblicità» me li presentò, con cartesiana capacità d’analisi, mio padre. Io li odiai da subito, ché si frapponevano fra me e il sogno di diventare il nuovo Fonzie: con quei tangheri abbronzati in giro, non sarebbe stato semplice farsi incoronare – a dieci anni ancora da compiere – il re del fast food. E se non potevo esserne il re, né installare il mio ufficio nei bagni, cosa cavolo ci andavo a fare? A guardare i galli di dio mano nella mano con le loro sfitinzie? La televisione, già allora, leniva le malinconie e insegnava a vivere nel modo particolare che hanno i corsi solo teorici: per seguirli dovevi stare seduto, e sottrarti alle pratiche della vita reale. Come potessimo essere, al contempo, sinceri democratici eredi della Resistenza e una banda di pazzi fanatici per le stelle e strisce, è il particolare mistero della vita quotidiana a Bologna negli anni Ottanta. Un simile gioco di contrappesi si aveva solo nelle regioni rosse: altrove il verbo di Washington non conosceva altri freni che non fossero la tradizione cattolica, o una generica consapevolezza nazionale, che nel nostro paese si potrebbe dire diffusa a macchia di leopardo, e talora venata di nostalgie littorie: la Sinistra l’ha sempre temuta, al punto di considerare a lungo il tricolore come una bandiera da non esporre troppo, e l’inno di Mameli il fratello appena più presentabile dell’empia Giovinezza.

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Difficile, con queste premesse, che un popolo sappia fare argine comune a un’invasione culturale, tanto che i nostri padri – chi incolpando i democristiani, e chi i comunisti – ben se ne guardarono. Non ovunque andava così, e non serviva essere adulti per capirlo. Persino quegli antipatici dei francesi, filoamericani al punto di aprire i fast food prima di noi, si dimostravano intransigenti su un punto: erano fierissimi di essere francesi. I tedeschi – con tutti i disastri che avevano combinato – erano orgogliosi della loro Germania, gli inglesi erano pronti a morire alle Falkland per la regina e l’Union Jack, e noi? Ci odiavamo troppo, come ai tempi di guelfi e ghibellini, per ammettere che l’Italia intera andava salvata. Nessuno si girava dall’altra parte – tutti, nella Prima Repubblica, erano ancorati alla propria – ma intanto le radio e le televisioni private, né comuniste né democristiane, si occupavano d’insufflare in maniera scientifica dosi d’America nei nostri tinelli odorosi d’aglio e cipolle. All’epoca la Rai non era una, né trina: i canali «veri» erano due, la rete ammiraglia affidata alla Dc e il «secondo programma» controllato dai socialisti (Rai Tre, nata nel ’79, sarebbe rimasta un contenitore di informazioni regionali sino all’avvento di Guglielmi). La concorrenza era tutta interna: l’informazione del Tg1 contro quella del Tg2, Domenica in e Giochi senza frontiere contro L’altra domenica e Mixer, gli ecumenici Pippo Baudo e Mike Bongiorno contro gli eretici Renzo Arbore ed Enzo Tortora. Questi, già volto del primo canale, riammesso in Rai dopo un tempestoso allontanamento per avere osato definire l’Azienda come «un jet supersonico pilotato da un gruppo di boy scout che litigano ai comandi».

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Dopo l’esilio, consumato fra carta stampata e tivù private, si era trasformato in un’icona della Rete Due col suo Portobello. Il programma, un «mercato pazzerello dove trovi questo e quello», fu il primo esempio di come la televisione potesse davvero rappresentare l’intera società – e non per farsi beffe delle persone comuni. Da Tortora arrivavano il reduce di Russia e il giovane capellone, la casalinga e la ragazza yè-yè. Qualcuno scriveva alla ricerca di una dolce metà, e il dubbio se il pappagallo che dava il nome alla trasmissione avrebbe finalmente parlato era di quelli gravi, in grado di tenere banco nelle conversazioni fra adulti. Non ci si stupiva facilmente, in un’epoca in cui accadeva quasi tutto: guerre fra Iran e Iraq, in Afghanistan e in Libano, quindici anni di terrorismo senza colpevoli in Italia, un attentato quasi fatale al papa, il rapimento inspiegabile di una giovane cittadina vaticana, e un ex attore alla presidenza Usa. Eppure, quando Enzo Tortora venne arrestato di punto in bianco, si restò tutti senza parole. Poteva una così brava persona, amica del più celebre pennuto della tivù, essere davvero un criminale comune, un camorrista spacciatore di droga, come sostenevano i pentiti che l’accusavano? Le sue foto nel cortile del carcere fecero il giro d’Italia, e ci si spaccò fra colpevolisti e innocentisti, anche se della colpa non esisteva che una ricostruzione fantasiosa e persecutoria, nient’altro che una frottola architettata da esponenti già in detenzione della Nuova Camorra Organizzata per ottenere uno sconto di pena, e kafkianamente avallata dai pubblici ministeri, forse più eccitati dalla notorietà dell’accusato che dalla ricerca del vero. Mentre Tortora tentava disperatamente di dimostrare la propria innocenza, ricevendo l’unico appoggio pratico dal Partito radicale, che lo candidò eurodeputato, si fece strada su Rai Due un nuovo tipo di programma, la telerissa.

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Abboccaperta, condotto da Gianfranco Funari tanto nelle edizioni originali su Telemontecarlo quanto nelle nuove sul secondo programma nazionale, era impossibile da ignorare: per la prima volta da quando esisteva la tivù in Italia, la gente in trasmissione gridava, gemeva, si mandava a quel paese. Non sapevamo ancora a cosa, ma ci stavamo preparando. Nella prima metà degli anni Ottanta l’Italia cominciava a non specchiarsi più solo nella televisione di Stato: nei telecomandi dei nuovi tv color, vero oggetto del piacere per milioni di casalinghe, il quarto pulsante corrispondeva quasi sempre all’emittente della Mondadori Rete Quattro, e il tasto successivo a Canale 5, proprietà di un costruttore del Nord – «quello di Milano 2» –, che mandava in onda un sacco di telefilm. Non le distinguevi ancora bene una dall’altra, le varie emittenti: non era chiaro, ad esempio, che TV Elefante o EuroTv sarebbero state destinate a una sorte meno gloriosa della neonata Italia Uno, di proprietà Rusconi. Ci avevano spiegato che la tivù andava guardata al massimo mezz’ora al giorno, ma i primi a cadere furono gli adulti, che presero a parlare dei personaggi di Dallas e Dinasty come di gente reale: li sentivi discutere di cos’aveva fatto «la» Pamela e cos’aveva detto Bobby, che non era un cane, ma il fratello dello stronzo e carismatico J.R. Come stupirsi che i più piccoli, con genitori del genere, reclamassero l’esposizione pomeridiana ai raggi-B di Paolo Bonolis e del suo Bim Bum Bam?

CRAXI, FORATTINI, ARBORE L’Italia non era governata da Pertini, né tanto meno dall’erede già anziano di Berlinguer, il poco affascinante Alessandro Natta.

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A guardia del Potere c’era sempre la vecchia Dc con le sue correnti, le sue contraddizioni interne e i suoi segreti. I potenti di allora – Andreotti, Cossiga, Forlani e compagnia – erano accomunati dalla discrezione, un tratto stilistico cui la Dc rinunciò soltanto con l’ascesa di Cirino Pomicino, quasi barocco per gli standard della casa. Poiché sin da Yalta era scritto nel destino che in Italia non potessero andare al potere i comunisti, la Dc era eternamente chiamata a formare governi che li escludessero; poiché non prendeva abbastanza voti per governare da sola, si contrattavano adeguate spartizioni delle cariche pubbliche d’ogni ordine e grado con i partiti minori, per primo il Psi, in grado di garantire a Piazza del Gesù il diritto-dovere di governare. Il più antico partito della Sinistra italiana, oltre al garofano, nello stemma aveva ancora la falce e il martello posati sul Capitale squadernato al cielo, ma ormai da tempo era guidato dal più innovativo e discusso degli uomini politici italiani, Bettino Craxi. Craxi era presidenzialista, e non serviva molta fantasia per immaginare che vedesse se stesso come presidente. Sfidava un tabù italiano del dopoguerra, quello dell’uomo forte, e Forattini, quando ancora era in sé, lo disegnava su «Repubblica» nei panni del Duce. In giro se ne satireggiava il decisionismo, l’oratoria inframmezzata da pause teatrali, e certo anche la mancanza di sobrietà dei suoi dinamici gerarchi, a proprio agio nella stagione dell’edonismo reaganiano come squali in un tratto di mare ricco di prede. I socialisti erano di sinistra, almeno in teoria, erano pochi ma votati bene – sino a coincidere con il tipo antropologico del «rampante» –, e s’imbufalivano se qualcuno, anche un comico come Beppe Grillo, osava chiamarli «ladri». Coda di paglia?

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Si è detto di come controllassero una delle due reti pubbliche, e questo favorì lo svilupparsi nel paese di un bizzarro culto della personalità. A sentire gli opinionisti da bar, mentre De Michelis danzava sino all’alba con le sue buone amiche, e Martelli volava a darsi al bel tempo in Kenya, Craxi lavorava per noi sino a tardi e conduceva una vita relativamente sobria, limitandosi a poche decine di supposte amanti. Anche buona parte degli avversari gli riconosceva l’elemento novità: pragmatismo, nessun atteggiamento da baciapile e un buon piglio nel difendere l’interesse nazionale anche in faccia all’America. Se qualcuno sbagliava non era lui, il primo capo del governo socialista, ma i suoi accoliti, Dio ce ne scampasse. Per puntellare la maggioranza democristiano-socialista e dar vita alla creatura mitologica nota come «pentapartito», erano regolarmente invitati – al banchetto, vien da dire – tre piccoli partiti, collettivamente chiamati «laici». Assommavano pochi punti percentuali di preferenze, e avevano nome repubblicani, socialdemocratici e liberali. Personalmente li distinguevo solo grazie ai rispettivi simboli, e alle fattezze dei segretari che mi erano note attraverso le vignette del solito Forattini, autore anche di un utile mazzo di carte da poker dove segretari e capicorrente prendevano il posto di re, donne e jack. I repubblicani, fortissimi in Riviera e ancor di più nella Romagna interna, vantavano come simbolo una foglia d’edera, che il disegnatore poneva – minuscola – a coprire le vergogne del pingue segretario Spadolini. Equivocando, immaginavo che il buon Spadolini si presentasse in costume adamitico anche al Senato, e mi sentii più sicuro sul suo conto solo quando lo vidi al telegiornale, in giacca e cravatta come tutti gli altri. Fra le icone del glorioso passato, i repubblicani vantavano un La Malfa;

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inconsapevoli del disastroso futuro, ne crescevano come capitano in pectore un secondo, il figlio Giorgio. I socialdemocratici, poi, mi apparivano un ibrido già dal nome; la loro frequentazione delle aule giudiziarie era prassi invalsa da prima ch’io affacciassi il ciglio curioso sulle patrie gazzette, e non potevano difendersi con la stessa virulenza dei craxiani dall’accusa, velata ma sempre nell’aria, di essere dei ladri matricolati; il loro uomo di punta, Pietro Longo, era di una bruttezza proverbiale, inesprimibile a parole, paradossalmente perfetta; fu un piccolo shock scoprire che, per una volta, un politico appariva identico in video e nei disegni satirici. I liberali non erano più guidati da Giolitti come ai tempi d’oro, ma dal calvo e dentuto Renato Altissimo, un tizio dalle insospettabili doti di action man che si spinse – o raccontò di averlo fatto, ma io stesso ricordo delle confuse riprese video di un uomo su un cammello – nel cuore dell’Afghanistan per portare armi ai mujaheddin; per molti e molti anni non conobbi dal vivo nessuno che votasse Pli, così mi convinsi che fosse qualcosa di simile a una one-man-band composta dal solo Altissimo. Le infografiche del «Resto del Carlino», con le aule parlamentari divise in spicchi, gli assegnavano una porzione sottilissima di seggi, bastevole comunque a farlo allungare comodo. Più in là di lui, spingendosi a destra oltre i confini della coalizione di governo, c’era solo il Movimento sociale italiano, con la sua sigla che riecheggiava minacciosamente la Rsi e Almirante – irriducibile di Salò – segretario: a loro, secondo mio padre, andava riconosciuto l’unico merito di non partecipare al sacco d’Italia condotto senza vergogna dal pentapartito. «Haaaas...» ti mettevano alla prova nel cortile delle elementari. «Fidanken!» si rispondeva, pavlovianamente, a completare la parola d’ordine.

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Per quanto ricordo è cominciata così, la ripetizione acritica di slogan, ritornelli e cazzate belle e buone portate alla ribalta negli anni dalle televisioni del Silvio. Nessuno, all’epoca, sospettava quanto in là ci saremmo spinti. Sembrava ancora un fatto naturale e senza conseguenze, che i bambini si aggirassero per il paese imitando le voci di Greggio, Faletti e Braschi come altrettanti posseduti. Non lo facevano forse anche prima, con Paolo Villaggio e il suo «Come è umano, lei»? Massì, eran falsi problemi da moralisti. Ormai i ragazzini sanno tutto: che problema c’era nel lasciarli guardare Drive in? Forse i meloni in bella mostra delle cameriere Carmen Russo e Lory Del Santo? Maddài! Quelli sono creature! Oggi li vedono, e domani se li sono già dimenticati. Eh, proprio. La carne nuda – col pretesto di parodiare le vallette altrui – non mancava nemmeno nei più irriverenti programmi della tivù di Stato, firmati da Renzo Arbore. In un’epoca in cui sembrare intelligenti era ancora di moda, Quelli della notte occupò la ribalta pubblica per 33 puntate, che i miei genitori mi concedevano talvolta di seguire insieme a loro, nonostante l’orario scandalosamente tardo. La messa alla berlina dei salotti televisivi, fra sketch surreali, monologhi e canzoni, ne fece un evento del costume nazionale, e segnò un successo senza precedenti per la seconda rete. Arbore e il suo vecchio compare Andy Luotto, il comunista Ferrini, il frate Frassica, Catalano e i suoi aforismi, e ancora Pazzaglia, D’Agostino, Marchini, Benson, Bracardi e Marisa Laurito: ogni ospite di Quelli della notte interpretava al meglio una maschera italiana degli anni Ottanta.

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Gli adulti si sbellicavano, e persino noi bambini cantavamo a memoria Ma la notte no. Due anni e mezzo dopo, con Luigi Locatelli alla guida di Rai Due, Arbore concederà il bis: nuova uniforme da capitano di marina, e altro botto con Indietro tutta!, il cui sponsor immaginario, il cacao meravigliao, veniva richiesto nei negozi dai telespettatori dabbene. Le ragazze coccodè e le ballerine brasiliane, lo sfarzo della scenografia, il finto confronto fra Nord e Sud, il presentatore teleguidato dalla regia e l’ossessivo tormentone «Volante uno a volante due» caratterizzavano il nuovo show, che irruppe nelle case dei telespettatori come una domanda scomoda: cosa c’è di vero in televisione? All’interrogativo di Arbore avrebbe risposto, in maniera ambigua e roboante, il suo vecchio compare Gianni Boncompagni. Noi più giovani mica avremmo saputo rispondere da soli. Per noi la televisione era qualcosa di certo ed eterno che scandiva le stagioni. Fu lei a far scomparire le oscurità nippodemoniache di Jeeg robot d’acciaio, insieme ai ricordi di febbri infantili e pipì addosso. Via la paura, l’incertezza, le superstizioni! Spazio alle mille luci del varietà, al sorriso incantevole di Heather Parisi, ai suoi balletti, alle battute di Baudo e alle barzellette di Bramieri! Spazio al futuro, che avanza elegante e calca il proscenio a passo di danza. ...Eccolo che arriva, gente! È luccicante come un musical. Carico di promesse. Fantastico.

SCOPARE CARMEN RUSSO La prima televisione a colori era entrata in casa di nonna Pina il 29 giugno 1982, per consentirci di seguire in maniera accettabile il confronto mondiale Italia-Argentina (2 a 1, con gol in

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quadricromia di Tardelli e Cabrini). La partita, destinata a essere eclissata nel ricordo collettivo dalla successiva e ancor più roboante vittoria sul Brasile, segnò il punto di svolta dell’avventura azzurra e del nostro rapporto con la televisione. Ce l’eravamo procurata per vedere i mondiali, li avevamo vinti, e in Italia non ci si sbarazza mai dei portafortuna: la tenemmo lì, la bestiona a colori, anche se mancavano ventiquattro mesi alle Olimpiadi di Los Angeles e quattro anni pieni al «mundial» successivo. E, giacché era lì, perché tenerla spenta? Faceva tanta compagnia... Bastava resistere alla tentazione di andare a toccare lo schermo per sentirsi sfrigolare le dita come l’Uomo torcia dei Fantastici 4; bisognava, anzi, mantenersi a una distanza di circa due metri. Nessuno sospettava che la tivù potesse balzarti addosso e morderti, ma la novità tecnica suggeriva cautele: qualcuno parlava di radiazioni misteriose, qualcuno di immagini subliminali proiettate per indurre gli ascoltatori all’acquisto. Senza scendere nel terreno della negromanzia, era evidente che i nuovi schermi dal «colore sempre vivo», combinati ai nuovi standard audio, rapivano i sensi delle persone in maniera ben diversa rispetto ai televisori degli anni Settanta: vista e udito dello spettatore erano saturati, il tatto inibito dalla posizione immobile. Dei cinque sensi restavano liberi solo l’olfatto e il gusto, problema tecnico al quale si ovviava mangiando davanti allo schermo acceso: così l’idea di casa e protezione divennero un tutt’uno con la tivù e i suoi programmi, versione fredda e moderna del focolare domestico. A mezzogiorno andava in onda Bis con Mike Bongiorno, seguito a ruota dal Pranzo è servito di Corrado. A casa di nonna Pina me ne riempivo gli occhi in technico-

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lor e con pieno sapore di proibito, ché in via Brigate Partigiane si era rimasti ancorati al vetero-Brionvega in bianco e nero con le sue manopole cromate, e «non più di mezz’ora al giorno!» era il diktat dei compagni genitori. Chez nonna, invece, il signor Mike era libero d’imperversare, svampito e autorevole nel porre le sue domande ai concorrenti. Non ricordo che nonna m’incoraggiasse a rispondere, eppure io lo facevo anche a nome suo. «La capitale del Perù... Cosa gli diciamo? Lima, vero?» Era come se il quiz si svolgesse direttamente in casa, e potevi figurarti i premi accumularsi ad ogni risposta esatta. «Dovrei andarci sul serio, un giorno» considerai. «Si vincono un sacco di soldi.» «So mica se son soldi veri» m’invitò alla cautela nonna. Ma come? Se si vedevano i totalizzatori dei premi correre in avanti come i numerini del distributore Agip quando babbo faceva benzina! «È il signor Mike, nonna!» obiettai indignato. «Un patriota che ha rischiato la fucilazione dai tedeschi! E secondo te distribuisce soldi finti?» «Non dico questo, ma... Sto meglio col poco che ho.» La giovane repubblica cresciuta con la Rai credeva nel piccolo risparmio e nella televisione. Insieme ai giornali, la tivù era la principale fonte d’informazione popolare; unica dea, insieme a Totocalcio e Lotto, capace di regalare cifre in grado di cambiare una vita. Era percepita insomma come una divinità benevola, e nessuno sospettava che il principale del caro signor Mike potesse impiegarla per raggiungere il cuore del potere. (Ma chi, il Silvio? Eh, proprio lui. Ma quale potere? Scendi dalla pianta! A lui interessa solo arricchirsi con la pubblicità!)

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Impegnato a decifrare il cruciverba finale di Bis, non pensavo né al Silvio né al signor Mike: tentavo disperatamente, quasi sempre senza costrutto, di risolverlo per sbalordire le due donne della mia vita di allora. Nonna, appunto, e Susanna Messaggio. Amavo la valletta di un amore casto e segreto: mi sognavo cullato dalle sue braccia, sull’erba tenera d’un prato, appagato di baci sulla fronte. Avrei saputo dove portarla: conoscevo parco Lambro e il Sempione, i giardini pubblici e quelli di piazza Aspromonte, io, forse l’unico fra i bambini italiani felice di trascorrere settimane di vacanza a Milano. In via Ricordi abitava la sorella maggiore di mamma, zia Francesca, insieme a zio Gianni e a una piccola tribù di quattro cugine femmine, tutte maggiori di me e divise quanto a fede calcistica. Grazie ai miei trascorsi lassù, sapevo bene dove condurla, la mia Susy: se non sull’erba verde, nel buio del Planetario, sui tetti panoramici dei palazzoni di periferia, o ancora a ridosso della recinzione che cinge le piste di Linate, per guardare insieme gli aerei che partivano e atterravano, come nella realtà mi capitava solo con mio zio. Antonio Ricci crebbe nel Ponente ligure portando su di sé le stimmate del ragazzo prodigio: un’ammirevole carriera negli studi lo portò a divenire a soli 28 anni il più giovane preside del paese, ma un tipo come lui non si accontentava certo di coordinare gite scolastiche, inscenare reprimende e gestire i rapporti col Provveditorato di Genova. La televisione era il suo sogno, e la scrittura il grimaldello per entrare in quel mondo. Si cimentò nell’impresa con l’abituale energia, e non aveva ancora compiuto trent’anni quando apparve accreditato fra gli autori della prima edizione di Fantastico,

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condotta dall’amico Beppe Grillo insieme a Loretta Goggi e Heather Parisi. Ricci avrebbe replicato nella seconda e terza edizione, assumendo nel frattempo un ruolo centrale in un progetto per la prima rete che vedeva Grillo mattatore assoluto: nel 1981 andò in onda Te la do io l’America, con testi di Ricci, del regista Enzo Trapani e dello stesso comico genovese. New York e l’affascinante melting pot in marcia lungo i suoi marciapiedi si materializzarono nelle case italiane, e all’improvviso apparvero qualcosa di tangibile e vero tanto alla casalinga di Voghera quanto allo studente di Brindisi. Se ci andava Beppe Grillo, scherzando da par suo «in the street» senza che nessuno lo accoltellasse, perché non saremmo potuti andarci anche noi? Tre anni dopo, nel fatidico 1984 delle profezie orwelliane e delle Olimpiadi a Los Angeles, la squadra era sempre la stessa, ma Grillo, Ricci e Trapani si spostarono nell’emisfero sud del nuovo continente. Te lo do io il Brasile fu un altro successo fragoroso: chi fra noi aveva mai calcato l’erba leggendaria del Maracanà? E chi aveva mai visto prima quante belle ragazze poteva ospitare un sambodromo? Ricetta riuscita non si cambia. Anche questa era una trasmissione che si seguiva con passione e una certa invidia nei confronti del conduttore, spesso attorniato da bellezze mozzafiato: una costante dei programmi che Ricci avrebbe firmato nel trentennio a venire. Mentre noialtri telespettatori Rai ci beavamo di splendide mulatte e facezie grilliane, l’ubiquo Ricci si stava già esprimendo su Canale 5 con la sua nuova, luccicante creatura: Drive in. La situation era così emblematica da indurre ogni italiano a riconoscervi elementi della vita reale: Enrico Beruschi, in fuga da una moglie insopportabile, si rifugiava nel locale che dava il

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titolo alla trasmissione, per corteggiare l’esplosiva cassiera Carmen Russo. A rendergli la vita difficile, un gestore furbetto interpretato da Gianfranco D’Angelo, e un quasi imberbe Ezio Greggio che gli faceva da spalla. Su questo esile – ed esemplare – canovaccio da commedia all’italiana, si innestavano le gag dei vari personaggi, interpretati dagli stessi tenutari e da una vasta schiera di attori comici. Ovunque, nel paese, risuonavano le imitazioni del banditore d’aste toste, e i tormentoni-nonsense: «quirk, quork, quark», «spetteguless!», «due baffetti da sparviero»; semileggendario era anche il «giumbotto» regalato a Giorgio Faletti dalla cognata, quella «con due roberti così» sul davanti. Numeri da cabaret e improbabili sketch delle procaci ragazze fast food procedevano a braccetto, senza mai abbassarsi sotto la soglia di decenza media: Ricci si preparava direttamente a ridisegnarla. Coi tormentoni arrivavano i primi tormenti condivisi a livello nazionale: Carmen Russo era la vera diva televisiva di quegli anni, e non perché eccellesse nella recitazione. Mezza Italia sognava di sprofondare fra le sue immani tette, e a livello onirico furono da premio Hot d’or anche Lory Del Santo e Tinì Cansino; però ancora mi sveglio urlando, nelle notti d’estate, quando sogno D’Angelo nei panni del roseo Tenerone, che avanza a balzelli pigolando il suo inquietante «pippo, pippo, pippo...». Antonio Ricci, il ragazzo prodigio del Ponente ligure, sarebbe andato avanti col «fast food televisivo» sino al 1988, e non certo per fermarsi lì. Un giorno, sorpresi il mio amico Iuri Giacobbi impegnato in una serie di voluttuose flessioni sul fondo asfaltato del cortile. «Che stai facendo?» indagai. Non mi guardò neppure: continuava a stantuffare su e giù, gli occhi ben chiusi e un’espressione beata in volto.

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«Scopo Carmen Russo» m’informò quando lo ritenne opportuno. «Ah» incassai, e le mie guance avvamparono. Non potevo più nutrire alcun dubbio: il mio amico stava facendo proprio quello che sembrava, anche se aveva appena nove anni, i suoi pantaloni erano chiusi, e Carmen continuava ad essere invisibile. «Mi piace da impazzire, quella tettona», confessò Iuri, lasciandosi cadere al suolo ormai senza forze. «A me Susanna Messaggio» confidai. «La valletta del signor Mike.» «Bella gnocca» concesse, e aggiunse in tono da intenditore: «Solo un po’ freddina». «Dici? A me piace.» «Verrà il giorno in cui ce le faremo tutte e due» profetizzò. «Magari» sospirai. «Ce le sbattiamo per bene, quelle gallinelle» disse come Ajax nei Guerrieri della notte. «E quando ci siamo stufati, ce le scambiamo.» Mi stava facendo ingelosire, coi suoi modi da playboy rotto a ogni perversione. Cosa voleva, dalla mia Susy? «Poi vediamo», risposi senza sbilanciarmi. «Be’, sempre che non siano diventate delle carampane piene di rughe» si premunì Iuri. Raggelai. Tempo di crescere, e le nostre fidanzate immaginarie, vallette e showgirl, sarebbero state donne mature. Non lo si sarebbe detto, a prima vista, ché in televisione tutto sembrava bloccato, pietrificato sul «qui e adesso»: il signor Mike era identico a se stesso, puntata dopo puntata, e Corrado idem; nessuno sospettava che, un giorno, Columbro e Predolin, Barbareschi e Gerry Scotti avrebbero smesso di essere ragazzi. Eppure le cagioni d’inquietudine non mancavano: Tortora

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era finito in carcere – per me e i radicali, da strainnocente – e avevo sentito dire che qualcuno, in passato, era addirittura venuto a mancare. Di Alighiero Noschese, ad esempio, sapevo che era stato un arci-imitatore della Tv di Stato, e che Gigi Sabani era incaricato di colmare l’enorme vuoto lasciato dalla sua scomparsa. Era però rigorosamente escluso che, un giorno, ci potesse lasciare anche Sabani. La monumentale immobilità che la televisione lasciava percepire era di conforto a noi alunni delle elementari, ancora bambini nonostante le prime fregole, e quindi creature conservatrici, tradizionaliste, bisognose di sicurezza. Regalando queste illusioni agli elettori qualcuno, anni dopo, avrebbe preso la guida del paese: molte stagioni di televisione avrebbero fatto regredire gli italiani a bambini, felici di rituali e rassicurazioni, e a quel punto non sarebbe servito conquistare il potere con un colpo di mano, ché il popolo sarebbe stato ben lieto di mettersi in fila e seguire il Pifferaio magico. Ma come potevamo immaginare quale trappola si preparava? Tuttalpiù, fra gente seria, ci si raccomandava l’un l’altro di non lasciarsi abbindolare dalla pubblicità. Subito dopo, però, si sintonizzava l’apparecchio su Rete Quattro per non perdersi Quo vadiz?, lo show di Nichetti con quelle sagome di Smaila (il grasso dei Gatti di vicolo miracoli), Oppini (il magro) e Luca Barbareschi (quello che si diceva avesse sparato a un maiale durante le riprese di Cannibal holocaust). Avevamo tutti voglia di ridere e tirarci su; il futuro poteva aspettare la fine delle trasmissioni.

Un mondo a colori

QUARTO POTERE Il pentapartito governava, i panozzi cuccavano le sfitinzie, e le televisioni private continuavano a dipingere nuovi mondi dalle tinte ricchissime. Che fossero lo specchio del paese di allora non lo poteva più dire nessuno: ne erano semmai la prefigurazione. La Rai descriveva il presente con tutte le pastoie retoriche del passato, mentre le reti private lanciavano mode, decretavano in perfetta autonomia il successo di cantanti, prodotti e stili di vita: più che il presente, riflettevano magicamente il futuro. Per non sbagliare, il Silvio le aveva comprate tutte, o almeno le due concorrenti principali del suo Canale 5: Italia Uno nel 1983 e Rete Quattro – con Maurizio Costanzo in dote – l’anno successivo. Nessun soggetto era in grado di esercitare una concorrenza così forte nei confronti della televisione di Stato, nonostante i vincoli tecnici – primo fra tutti il divieto di diretta – comuni a tutte le emittenti private. A dire la verità, nessun soggetto privato avrebbe avuto i titoli per disporre d’un simile volume di fuoco mediatico ma, in assenza di regole in materia chiare e condivise, il governo di fatto

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si trovò a legiferare – non sarebbe stata l’ultima volta – ad personam. Furono tre, i decreti-salva-Silvio approvati dal governo Craxi, disposizioni grazie alle quali il Nostro poté continuare a godere di una situazione di straordinario privilegio. Benché fosse risultato iscritto alla P2 – che nel suo «Piano di rinascita democratica» si proponeva letteralmente di «smantellare la Rai» – solo lui poté muovere guerra alle tre reti di Stato, forte di altrettanti canali. Se il mondo delle televisioni private era stato fino ad allora un Far West, Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro fecero il loro ingresso fra i pionieri solitari con la forza senza appello di tre reggimenti di giacche blu. Le altre televisioni private si trovavano ormai all’angolo: la loro capacità d’incidere sul dibattito pubblico era ridotta a una voce fievole. I loro erano solo suggerimenti, ipotesi, mentre i programmi del Silvio e i suoi consigli per gli acquisti si facevano strada nel costume nazionale. Bastava guardare cosa avveniva nella musica: la Rai, nel 1984, aveva rinunciato al visionario Mr. Fantasy, il programma di Carlo Massarini dedicato a videoarte e videoclip. Così, una generazione di rocker cresceva semiclandestinamente intorno ai programmi no-stop di Videomusic, captati solo in alcune regioni e non sempre al meglio; intanto, però, Deejay television irruppe in tutte le case con la forza dei progetti finanziati dai grandi network. Del programma di Claudio Cecchetto, irradiato prima da Canale 5 e poi da Italia Uno, esistevano ampi riscontri nel mondo reale, dai tour della Deejay’s Gang – la bellissima Kay Rush, Sandy Marton da Ibiza, il jolly Gerry Scotti e gli emergenti Linus, Albertino, Fiorello e Amadeus – giù giù fino ai capi d’ab-

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bigliamento ufficiali, passando per gomme e quaderni disponibili in ogni cartoleria. Tutto ciò che veniva promosso da Videomusic era indirizzato a una comunità ridotta e orgogliosa di carbonari del rock’ n’ roll; quel che arrivava da Deejay television era destinato al successo commerciale perché sarebbe piaciuto, più o meno, a tutti. Da quelle parti vero e falso si mescolavano, ché con la potenza di fuoco garantita dal Silvio potevi far bere ai ragazzi ogni cosa, persino che Jovanotti fosse un credibile modello d’eleganza. Ci cascò Iuri Giacobbi, che prese a mostrarsi in giro con una stella della Mercedes appesa alla spalla del giubbotto, le Adidas Top Ten slacciate e un berretto degli Yankees portato al contrario. «Sono un wild boy al passo coi tempi», si vantava. «Pari uscito dalla televisione» fui costretto ad ammettere. «Ma lo stemma da spalla dove l’hai trovato?» «Questo?» arrossì mentre indicava la stella a tre punte. «Esattamente.» «Che resti fra noi» si fece più vicino. «Sradicato di prepotenza dalla Mercedes di LucaPietro.» «S’incazzerà a puntino, il signor Niccolis» calcolai a spanne. «Peggio per lui e per quel paninaro fallito di suo figlio» annunciò Iuri. Poi controllò che nessuno ci guardasse, e aggiunse a mezza voce: «Dovrò pur farlo, qualcosa di selvaggio. Altrimenti che razza di wild boy sono?». Dopo un sabato pomeriggio trascorso insieme a lui, consumando il lastricato dei portici di via Indipendenza a forza di vasche avanti e indietro, compresi che l’essenziale per essere wild boys era attaccare briga con altri wild boys, per ricavarne tipicamente minacce, sberle e scappellotti. Il divertimento era ridotto veramente al minimo, specie se la tua tribù era composta da due soli tredicenni: forse c’erano vie meno dolorose, per attirare l’attenzione delle ragazze.

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Fatta eccezione per gli scapestrati a contratto della Deejay’s Gang, i ragazzi del Silvio mantenevano un certo stile. I più promettenti conduttori di casa Fininvest erano guasconi ma educati, al passo coi tempi e insieme all’antica: studiati in ogni posa e teleguidati dalla regia per piacere a madri e figlie, ai giovani e alle nonne, imperversavano Gerry Scotti e Marco Columbro, già doppiatore del pupazzo Five, la mascotte di Canale 5. Battute a profusione, Gerry e Marco, mai però una parola fuori posto. Tanto miele, poco pepe, e una continua, implicita, richiesta di benevolenza. Chi non li avrebbe voluti come amici, zii, fidanzati? Che alcune trasmissioni Fininvest tentassero d’apparire rassicuranti era quasi una necessità: mai si era visto prima un programma che esponesse tante bellezze seminude come Drive in, né un quiz apertamente libertino come Il gioco delle coppie, condotto da Marco Predolin. Il moralismo italico delle sacrestie era sempre in agguato, pronto a tuonare contro chi regalasse gettoni d’oro o sfruttasse ai propri fini l’esposizione delle poppe altrui. Ma come faceva il Silvio a resistere alle proteste quotidiane di prelati, presidi e pretori? Perché va ricordato: taluni, ignorando che un giorno il loro bersaglio sarebbe stato l’uomo più potente del paese, lo bollavano impunemente di immorale e diseducativo, e ne rimarcavano addirittura la presunta posizione delicatissima. (Delicatissima, a loro dire, per il semplice fatto di possedere tre emittenti private... Cos’erano, comunisti invidiosi?) Vi furono pressioni e interferenze, inutile negarlo, eppure il Silvio tirò dritto per la sua strada con la tenacia dei grandi capitani d’industria: per lui il lavoro era la cosa più importante, e Craxi gliene aveva appena garantito a non finire. Sordo a maldicenze e gelosie, «quello di Milano 2» continuò senza paura a mettere sotto contratto i volti più noti della Rai.

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Il signor Mike era migrato già nel 1982, Vianello e la Mondaini l’avevano fatto l’anno successivo per presentare Zig Zag, ma il vero annus horribilis della Rai fu il 1987. Fu allora che crollarono le ultime certezze: se ne andò la Carrà, padrona di casa degli italiani col suo Pronto, Raffaella?, per trasferirsi a Fininvest con la sua erede Enrica Bonaccorti e, fatto vissuto come un autentico tradimento della patria, insieme a loro levò le tende Pippo Baudo. Se anche il conduttore siciliano di Sanremo, Canzonissima e Domenica in era pronto a lasciare la vecchia strada per la nuova, significava che le vie del Silvio dovevano essere lastricate di oro massiccio. Era un vero imprenditore televisivo, lui, ma non si dimenticava mai di essere italiano: la sua vera abilità era quella di ottenere il massimo non mettendo mai in gioco niente più del dovuto. Per non pagare i diritti sul format originale di Wheel of fortune, padre riconosciuto o naturale di centinaia di telequiz in tutto il pianeta, il Silvio faceva allestire programmi simili ma non così tanto da violare il copyright: si mossero su questa linea sottile gli autori di Pentatlon, fra i quali il baffuto Ludovico Peregrini, il popolare «signor no» degli show precedenti. (Che l’ultimo per la Rai si fosse chiamato Flash, e il primo su Canale 5 Superflash, è indicativo di come il Silvio ti facesse crescere sotto gli occhi di tutti; la forte assonanza fra i titoli dimostra inoltre che in Fininvest si temevano forse gli avvocati americani di Wheel of fortune, ma pochissimo quelli romani della Rai.) Fosse come fosse, ogni giovedì sera ci si sintonizzava sulle frequenze del benessere e dell’abbondanza: si partiva con una sigla a cartone animato, nella quale la caricatura robotizzata di Mike Bongiorno inseguiva un tedoforo con la fiamma olimpica. Subito dopo appariva un’avveniristica scenografia comprensiva di postazioni trasparenti e pareti retroilluminate, capace di

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ricordare la scheda di una calcolatrice Texas Instruments precipitata dal terzo piano: faceva da cangiante sfondo alla figura del presentatore, questa volta in carne e ossa, incaricato di regalare milioni per conto del Silvio. Poiché le domande erano legate all’attualità, Bongiorno definiva lo show «settimanale di quiz e informazione»: poteva sembrare un tentativo per assottigliare il confine fra diretta e differita, fra il mondo della televisione giornalistica, chiamata ad essere sempre sul pezzo, e quello senza tempo dei quiz; Pentatlon rappresentava un’ibridazione nuova fra ciò che era la Rai – una tivù tenuta, almeno nominalmente, a dire sempre la verità – e il puro intrattenimento dei programmi che il signor Mike aveva condotto fin lì sulla Fininvest. Lo spirito della televisione privata non si accontentava del salotto di Maurizio Costanzo: anche grazie a un quiz il Silvio poteva dire la sua, diffondere opinioni, fare informazione. Che la delegasse a uno showman, assistito dal ventriloquo José Moreno con il suo Rockfeller, non scandalizzò nessuno, parve anzi simpatico e moderno. Cominciò così, fra giochi di dadi, bonus e scintillare d’oro, la lunga e acrobatica ascensione del primo uomo, diretto, in solitaria e senza scorte d’ossigeno, verso la vetta del Quarto potere. Sempre nel 1987, il Silvio comprò una grande squadra semidecaduta come il Milan e la infarcì di campioni e buoni professionisti che non avrebbero quasi mai visto il campo, tanto per lasciare a secco la concorrenza; in breve costruì, investendo più d’ogni altro presidente, la squadra più vincente di fine millennio. In un paese composto da trenta milioni di aspiranti commissari tecnici, chi capisce di calcio è apprezzato e chi sa vincere è tenuto in palmo di mano: lo scudetto di Sacchi e il «triennio d’oro» dei rossoneri a livello internazionale avrebbero consa-

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crato il Silvio come presidente più vittorioso, in barba alla Juve, al Napoli di Maradona e all’Inter dei record. Chi sembrava, allora, il Silvio? Un nuovo Agnelli con le televisioni al posto della Fiat, un Moratti senza petrolio, un Lauro senza flotta. A ben vedere, però, la televisione influenzava il calcio ben più delle Panda, della benzina o delle navi: da anni Valenti e De Laurentiis, Martellini e Ciotti lo raccontavano, lo portavano nelle case, ne facevano storia popolare e patrimonio comune. Proprio per questo nessuno avrebbe osato contestare alla Rai il diritto primevo sulle trasmissioni legate alla serie A: sarebbe stato il colmo, che un presidente se la cantasse e se la suonasse da solo, con la sua squadra, i suoi giornalisti e le sue televisioni... Invece i successivi trionfi rossoneri, guidati da Capello e celebrati da Pressing di Italia Uno la domenica sera, sarebbero stati il viatico del Silvio per la definitiva conquista del primato nazionale. Riavvolgendo il nastro sul crepuscolo degli anni Ottanta, il Milan «olandese» giocava un calcio nuovo, Columbro e Predolin avevano una lunga lista di ammiratrici e i socialisti, con i loro 11-12 e 13%, se la comandavano: la Dc aveva bisogno di loro come dell’ossigeno, e i piccoli alleati laici erano in posizione subordinata rispetto ad entrambi. Il sistema della politica si autodesignava, autofinanziava e autocelebrava in faccia agli orfani di Berlinguer e agli esclusi dalle spartizioni, danzando fino all’alba sui brandelli della questione morale che il segretario del Pci aveva definito «prima ed essenziale» nella vita italiana, «perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico». Parole recenti ma già fruste, almeno per Gianni De Michelis: nel suo faraonico staff pare non mancassero le signorine di

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incerta professionalità, e la sua passione per le discoteche lo portò a solcare ogni pista, tanto che nel 1988 avrebbe dato alle stampe un fondamentale testo per Mondadori. Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane, comprensivo di una prefazione dello sbarazzino presentatore di Smile e deputato Psi Virginio «Gerry» Scotti, resta una delle più chiare testimonianze di come e quando la politica, in Italia, ha rinunciato al suo ruolo guida sulle coscienze civili per saldarsi esplicitamente col mondo dello spettacolo. Quale immenso potere stava raggiungendo, il mondo a colori della Fininvest, se era in grado di esprimere direttamente deputati a Montecitorio? Va detto che c’era riuscito anche il meno esposto circus del porno, con l’elezione di Cicciolina per il Partito radicale e la conseguente fondazione, da parte della stessa Ilona Staller, del «Partito dell’Amore» – spunto geniale rielaborato in chiave castigata e strumentale dalla politica di oggi. I radicali, però, erano irriverenti e minoritari per Dna. Invece il partito di Nenni e Pertini... Perché mai, dalle posizioni di governo, si affannava tanto a legittimare il proprietario di tre importanti televisioni private? (Ma di cosa mai avevamo paura, noi paranoici di Sinistra? La P2 era acqua passata, la sua tessera numero 1816 una fra le tante. E poi era un privato imprenditore, il Silvio, mica un uomo pubblico. A lui la politica non interessava. E perché avrebbe dovuto sporcarcisi ulteriormente le mani, poi? Era già ricco di suo; in Parlamento, al massimo, ci mandava Gerry Scotti.)

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UN CATECHISTA FORTUNATO I tempi stavano cambiando. Tabù s’incrinavano col rumore sordo d’una cascata di ghiaccio pronta a rovinare a valle: adesso i compagni leggevano sotto l’ombrellone Bon ton di Lina Sotis e Come vivere – e bene – senza i comunisti. Lo spiritoso volume era opera di Roberto D’Agostino, lo stesso che – vestito da bagonghi della new wave – faceva l’esperto di look per Renzo Arbore. Altre sue fatiche letterarie furono Libidine e Sbucciando piselli, prima che formasse per breve tempo la prima coppia trash della televisione italiana insieme a Vittorio Sgarbi, al quale negli anni Novanta avrebbe definitivamente ceduto la palma del «più sopravvalutato d’Italia». Per consolarsi della perdita D’Agostino si cimentò nella regia, ma la sua pellicola Mutande pazze ottenne un’accoglienza sì entusiasta da indurre il mondo del cinema a non riavvicinarlo mai più; solo un nuovo mezzo di comunicazione anonimo e discreto come internet gli avrebbe riaperto una linea di credito, che il «lookologo» anni dopo sfruttò da par suo, creando il portale di gossip Dagospia. Per andare in tivù, insomma, non serviva essere un genio: era lei, eventualmente, a farti apparire come tale. E se la tivù decretava che tu eri un genio, ti potevi chiamare Roberto D’Agostino o Frittello Maria Quaterni che tanto non cambiava un granché: eri tenuto in ogni caso a pubblicare, e al più presto, un libro d’inevitabile successo. John Gardner, nel suo ingenuo Il mestiere dello scrittore, non ci aveva pensato. E nemmeno il suo ex discepolo Raymond Carver, il leggendario padre del minimalismo americano, quando si era trovato a scrivere le sue indicazioni per aspiranti narratori, aveva fatto il benché minimo riferimento al consiglio più ovvio ed elementare: andare in televisione.

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Furono il Silvio e Maurizio Costanzo ad aprirci gli occhi. (Se hai un romanzo nel cassetto, perché affannarti a spedirlo agli editori? Quelli rischiano di non capirlo! E se lo capiscono è anche peggio, perché dopo vogliono pubblicarlo loro, che parlano difficile e ne vendono sì e no trenta copie! Il dottor Costanzo, invece, parla chiaro ed è in grado di lanciarlo a dovere; lo sbatte davanti alle telecamere e il tuo libro entra in tutte le case italiane, evitando il farraginoso giro di editori, critici e altra gente pallosa.) Si imparò così che illustri carriere letterarie, almeno in termini di copie vendute, potevano avere inizio da un casting. Sì, i tempi stavano cambiando davvero: guardare la televisione non era più peccato. Persino nell’imminenza della cresima, o confermazione, ci si poteva distrarre con Superclassifica show, o ammirare i secchioni in felpa Best Company alle prese con il Doppio slalom di Corrado Tedeschi. Il mio gruppo del catechismo era composto da telemaniaci gravi, e io stesso arrivavo sempre in ritardo per non perdermi il finale dell’incontro di catch, presentato su Euro Tv dalle voci senza volto di Tony Fusaro e Cristina Piras. Sul ring chiamato tatami si alternavano gli idoli Antonio Inoki e Gigante Baba, Tiger Mask – e cioè l’Uomo Tigre in carne e ossa – e un giovane visopallido di nome Hulk Hogan; erano belli, forti, battibili solo ricorrendo a qualche colpo basso, di quelli che non mancavano nel repertorio dei cattivissimi Animal Amagouchi e Rusher Kimura, André the Giant e Abdullah the Butcher. Fra prese classiche, voli d’angelo, capriole e sediate in testa, il mio animo si preparava a migrare verso la rivelazione sa-

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cramentale, e io a farmi in qualche modo soldato di Cristo, come si era raccomandato il cardinal Biffi durante la sua visita in parrocchia. Una volta scoperto se Inoki avrebbe mantenuto la cintura di campione, mi precipitavo fuori con la mia Bibbia sottobraccio: in ritardo ancora una volta! Scampanellavo a casa di Iuri Giacobbi, anch’egli reduce dalla visione della violenza made in Japan, e percorrevamo di mezza corsa la salita verso gli archi dei portici di via Saragozza, un po’ ripassando i misteri gloriosi e un po’ gridando al vento i nomi esotici – «Enzugiri! Kizagiri! Spinning kick!» – delle nuove mosse appena apprese. Il cardinale poteva essere fiero di noi. Un sabato pomeriggio venimmo a sapere che il nostro catechista Lello Baracchi, un ventenne dalla lingua sciolta e il fisico bombato alla Balanzone, era stato selezionato per partecipare a un quiz in prima serata. Finalmente qualcuno che conoscevo andava a trovare il signor Mike! Noi più giovani spargemmo la notizia ai quattro venti, frati e diaconi si mobilitarono, e vennero organizzati gruppi d’ascolto in casa dei parrocchiani illustri per seguire la sua performance. Qualcosa di straordinario stava per accadere. Forse il ricordo è trasfigurato dall’enorme emozione, ma lo rivedo nettamente prendere posizione nello studio di Pentatlon, interloquire col massimo presentatore italiano e, subito prima di cimentarsi nel quiz, salutare tutta la parrocchia di San Giuseppe sposo, Bologna. Stava succedendo davvero! E mica si lasciava mettere in castagna, il nostro Lello: rispondeva sicuro, evitava trabocchetti, avanzava sul ghiaccio sempre più sottile; lo vedemmo tutti, ammantato di sapere, mentre otteneva i complimenti del condut-

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tore di quiz per eccellenza, e si proiettava verso premi sempre più prestigiosi. La domenica seguente, dopo la messa delle ore dieci, trovammo posteggiata di traverso sul sagrato l’automobile lucidissima che il Baracchi aveva vinto in televisione. Se volevamo, potevamo toccarla: era lì apposta, offerta ai fedeli come la prova concreta e incontrovertibile dell’esistenza del signor Mike. Gli avessero suggerito o no le risposte – come insinuavano gli invidiosi – il mio catechista tornò da quell’esperienza cambiato: lo s’indicava a dito per la strada come con i calciatori e i cantanti («lui è quello di Mike Bongiorno!»), e fatalmente inorgoglì. Da ragazzo umile qual era, adesso Lello vantava contatti con Columbro e Predolin, confidava retroscena, vaticinava. Non fosse stato un catechista, ti avrebbe raccontato anche di essersi scopato Carmen Russo. A me Lello promise una partecipazione a Doppio slalom se solo avessi superato una prova di cultura generale da tenersi in parrocchia: trionfai, ed ero già pronto a far acquistare ai miei l’adatta felpa Best Company, ma purtroppo Corrado Tedeschi non mi fece mai sapere nulla. Che andare in televisione fosse desiderabile mi sembrava ovvio – ti coprivano di regali! – ma solo allora mi resi conto che quel viaggio cambiava le persone, e il modo in cui gli altri le guardavano. Si diventava speciali, senza fatica e di colpo. Ecco perché la lista d’attesa era tanto lunga. Per non trascurare alcun aspetto della mia preparazione artistica, Lello mi coinvolse nello spettacolo del gruppo parrocchiale. Lui che aveva stretto la mano al signor Mike, e ancora ne riluceva, era ben lieto di condividere con noi young boys il suo know-how da outsider dello show business. ’Sti cazzi!

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Nello specifico, il nostro gruppo di cresimandi avrebbe calcato il palco del cinema-teatro Bellinzona cimentandosi con un testo ai limiti dell’impossibile: non già Ibsen o Brecht, ma esattamente una parodia dello show televisivo Pronto, è la Rai?. Non ricordo a chi toccarono i panni di Enrica Bonaccorti, ma per certo il sottoscritto si trovò a interpretare, davanti a un pubblico attonito di parenti e amici, Giancarlo Magalli. Sorrisi tutto il tempo, anche mentre parlavo con un improbabile accento romano, e me la cavai così. D’altronde non avevo lunghi monologhi: dovevo intervistare Iuri Giacobbi nei panni di un esausto Rocky Balboa – lui rispondeva solo: «Adrianaaa!» – e inscenare un duetto con LucaPietro Niccolis, che a sua volta aveva un incarico degno d’un camaleonte: imitare Gigi Sabani. Dalla buca del suggeritore, la testa rotonda di Lello ci fissava senza tradire un’emozione: si alterò solo quando LucaPietro scordò la parte di Sabani che imitava Toto Cutugno, e rimase piantato al centro del palco, muto e fermo come una bitta sul molo. «Italiano» prese a sussurrare, sperando che LucaPietro facesse due più due, e attaccasse come previsto «Lasciatemi cantare...». «Tt Ctgn» gli suggerivo anch’io fra i denti, senza smettere di sorridere con la mia calotta da calvo sulla testa; il mio partner, però, stava per dare un significato nuovo al termine «défaillance». «Lascià-temì cantàààre» aveva intonato a mezza voce Lello Baracchi, ormai disperato; avesse potuto sfondare la copertura della buca per salire sul palco, l’avrebbe fatto; così presi il toro per le corna e annunciai a gran voce: «Signore e signori, ora Gigi Sabani ci presenterà l’imitazione di Toto Cutugno!». In quel momento preciso, però, LucaPietro, piangendo di stizza, stava abbandonando di corsa il proscenio per andarsi a nascondere.

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L’onda di disapprovazione del pubblico fu qualcosa che potei percepire sulla mia pelle. Lello Baracchi, prigioniero dentro la sua buca, mi fissava con uno sguardo da infartuato. «L’emozione ha giocato a Sabani un brutto scherzo!» improvvisai. «Proseguiamo con lo spettacolo, Enrica Bonaccorti!» Alla fine non ci piovvero addosso né fischi né petali di rosa, ma un ciclo storico si era compiuto sopra le nostre zucche di debuttanti: ormai era il teatro, persino quello parrocchiale, che imitava la televisione. Guardare la televisione non era peccato, s’è detto, ma c’era una cospicua eccezione di nome Colpo grosso. Umberto Smaila, dopo la lunga esperienza coi Gatti di vicolo miracoli e quella breve ma determinante di Quo vadiz?, era ormai uno showman maturo, perfettamente credibile nei panni di tenutario di casinò circondato da ragazze discinte. Poiché le reti maggiori non avevano da offrirgli un ruolo del genere, Smaila migrò con sotterraneo ma fragoroso successo su Italia 7, con la quale Fininvest aveva un contratto di fornitura programmi. Giochi e scommesse dei concorrenti avevano come scopo quello di accumulare punti, che consentivano di spogliare progressivamente le «mascherine» o «ragazze Cin-cin», procaci bellezze perlopiù straniere, fra le quali la futura pornostar Zara White. L’atmosfera apertamente lasciva del programma, i prolungati piani-sequenza della regia su cosce e seni nudi assecondavano la formula del gioco, che garantiva numerosi spogliarelli culminanti nel sospirato «colpo grosso»: la ragazza del caso restava allora completamente nuda, e vi lascio immaginare che razza di pugnalate fra casa mia e quella di Iuri Giacobbi.

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L’indomani, le palpebre a mezz’asta, ripassavamo ad alta voce gli attimi salienti della trasmissione, ripercorrendo al rallentatore le curve della ragazza-ciliegia o di quella che sul reggiseno portava i mandarini, di «Esagerata» e «Scappatella»; fantasticavamo su un futuro nel quale il nostro benefattore Smaila ci avrebbe invitato nel suo locale, senza immaginare che un giorno ne avrebbe posseduto davvero uno, costoso e sempre affollato dai suoi tanti fan di allora. E poi il miracolo accadde sotto i nostri occhi. Come regalo per la cresima, a LucaPietro Niccolis era stato donato un sontuoso videoregistratore; passarono pochi giorni che Iuri ed io fummo invitati a toccarlo e odorarlo di persona. «Be’, adesso facci vedere qualcosa» se ne uscì Iuri, mentre io proseguivo a saggiare la superficie lucida dell’oggetto per compiacere il padrone di casa. «Si può vedere Rambo col finale cambiato?» proposi. «Quello dove perde, dico.» Mi guardarono, non senza un perché, come fossi uno scemo. «Non si può cambiare il finale dei film!» annunciò Iuri. «Lo sanno tutti!» «Però si possono vedere all’indietro» puntualizzò LucaPietro. Poi, con la sua vocina gentile, mi domandò se potevo smettere di lordargli il videoregistratore con le mie ditate. Mi ritrassi e osservai l’aggeggio in controluce: di qualunque materiale fosse fatto, conservava memoria di chi l’aveva toccato. «Ho Rocky IV» annunciò LucaPietro. «Possiamo vedercelo al contrario.» «No, al rallentatore!» strillò Iuri. «Come i veri incontri di boxe, che dopo si vede la R sull’angolo dello schermo!» «Qui non si vede» mise le mani avanti LucaPietro, e sfoderò la videocassetta. «Io preferirei farlo andare avanti normalmente» chiarii. «Non l’ho ancora visto» mi giustificai.

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«Così che gusto c’è, però!» fece il sofisticato Iuri. Fermare l’immagine, riavvolgerla, rivedere una scena a piacimento: quel pomeriggio sperimentammo il miracolo facendo combattere all’infinito Rocky Balboa e Ivan Drago, ma presto imparammo che era ancora più divertente giocare di moviola e fast forward con Marina Lothar, Teresa Orlowski, l’onorevole Cicciolina e Moana Pozzi.

VELINE, PUPAZZI E PORNOSTAR Restava al Silvio un ostacolo cruciale: la proibizione di trasmettere in diretta. Senza diretta, niente telegiornali. Senza telegiornali, gravi buchi negli ascolti e corrispondenti guadagni mancati nella raccolta pubblicitaria. Fino a quando un paese libero come l’Italia del pentapartito avrebbe tollerato quegli insopportabili lacci e lacciuoli? Fino a quando la Fininvest avrebbe dovuto limitare l’informazione e l’attualità alle domande in differita del signor Mike? Una norma che solo il Silvio, inizialmente, poteva vedere come un’ingiustizia ai propri danni finì per essere recepita da buona parte della popolazione: perché mai non lasciavano che quel buon uomo trasmettesse in diretta? Avevano paura? Erano comunisti? Senza contare che, da un po’ di sana concorrenza, avrebbe tratto giovamento la stessa Rai... Argomenti strumentali si fecero strada pian piano travestiti da buon senso. Ma poi, dev’essersi detto qualcuno dalle parti di Cologno Monzese, agli italiani non è sempre piaciuto ridere? Allora, se un telegiornale vero non si poteva avere, avanti coi carri verso il nuovo obiettivo: il primo telegiornale satirico d’Italia.

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Antonio Ricci, al quale il Silvio doveva tantissimo per Drive in, ebbe modo di sperimentare programmi nuovi e dichiaratamente intelligenti come nessun altro autore Fininvest: Lupo solitario non lo guardai per principio, ché ero un appassionato del libro-game dallo stesso nome, e mi era stato assicurato che la trasmissione non aveva nulla a che fare con le avventure, piene di bivi e partite a dadi dagli esiti teoricamente fatali, del mio eroe fantasy preferito. Solo quando seppi che nella seconda edizione Ricci aveva cambiato il titolo con un russofono Matrjoska accettai di dare un’occhiata. Voci incontrollate – che sospettavo messe in giro dal solito Iuri Giacobbi – promettevano un nudo integrale di Moana Pozzi in trasmissione, evento destabilizzante, in grado di oscurare ai nostri occhi il bolognesissimo cast di concittadini. Erano cresciuti artisticamente – come si dice – alle soglie del quartiere, i ragazzi del Gran pavese varietà: si chiamavano Patrizio Roversi (era lui, il sedicente «Lupo solitario») e Syusy Blady, Vito e «i gemelli Ruggeri», affiancati per l’occasione da un’altra straordinaria creatura di via del Pratello, Eva Robin’s. Il programma affrontava di petto tre tabù dell’epoca: il comunismo, ormai trasformatosi da nemico in zimbello; la sgradevolezza esplicita, portata in scena dall’orripilante e volgarissimo pupazzo Scrondo; infine, ma non ultimo nei pensieri maschili, il porno – mai nessuno prima d’allora aveva visto Moana in tivù senza l’aiuto di un videoregistratore. Eravamo cresciuti con le sue televisioni, ma il Silvio tentennò: che Ricci gl’imponesse un passo più lungo della gamba? Fra polemiche roventi, litigi di cui non v’è traccia ufficiale e segreti accomodamenti, il giovane segretario del Ponente ligure mantenne la barra dritta e riuscì a imporre la sua linea al comitato centrale di Cologno Monzese: pare che l’unico accomodamento concesso alla proprietà sia stato il cambiamento del titolo, da Matrjoska a L’Araba fenice.

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Mentre andavano in onda le imitazioni dei dirigenti bolscevichi di Croda, nel mondo reale Gorbaˇcëv aveva già avviato la sua perestrojka, ma il Muro di Berlino era ancora in piedi. L’impero orientale scricchiolava, e il Silvio si preparava guardando, a modo suo, verso Est; in patria, molto pragmaticamente, aveva avviato un nuovo capitolo della colonizzazione dell’immaginario. Grazie a quella brillante canaglia di Ricci e alla presenza dei compagni comici bolognesi, adesso anche i comunisti italiani guardavano Italia Uno. Per attirarli, lo spregiudicato Silvio mise da parte ogni scaramanzia, e autorizzò Ricci a mandare in onda un burlesco funerale del Silvio. Per i non-comunisti, Ricci scrisse il più convenzionale Odiens, trasmesso da Canale 5: col senno di poi, il vero snodo fra il successo giovanile di Drive in e la definitiva consacrazione come autore di Striscia la notizia. Stavolta il materiale era potenzialente nocivo, anche per esperti iconoclasti del calibro di Ricci e dello stesso Silvio: avrebbe accettato la rancorosa classe politica italiana di farsi mettere alla berlina dall’ex autore di Beppe Grillo e dall’ex tessera 1816 di una nota loggia massonica deviata? Striscia la notizia fu varato nell’autunno del 1988 con il meritevole proposito di surclassare «la comicità di Bruno Vespa» – the face dell’informazione di Stato già in quel tramonto di Prima Repubblica. A riprova delle aspettative del Silvio, dal dicembre dell’anno successivo «il primo telegiornale satirico» trovò stabile collocazione su Canale 5, nella fascia oraria in cui i milanesi finiscono di cenare e i romani vi si dispongono, la stessa che ancora oggi occupa sulle guide tv. Per non lasciare ai soli mezzibusti – i soliti D’Angelo e Greggio – il compito di reggere l’attenzione del pubblico, gli annunci di misfatti, eventi carnevaleschi e pseudocalamità erano rav-

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vivati dall’ingresso in scena di un pupazzo rosso dalle sembianze già familiari, e da due improbabili segretarie di redazione, le giovani e dinamiche veline: le fascinazioni verbali filosovietiche di Croda avevano lasciato il posto prima alle «littorine», le vallette di Odiens, ed ora i tempi erano maturi per tirare in ballo suggestioni da Minculpop. Esercitando il diritto alla satira garantito dalla legislazione democratica, Ricci fu il primo ad evocare sulle televisioni del Silvio l’impronunciabile rimosso della vita nazionale: il ventennio fascista. Che questa nube nera sia apparsa sullo schermo per battezzare due avvenenti signorine suona scanzonato a determinate orecchie, lugubre e premonitore ad altre. (Ma quand’è che la finite di preoccuparvi, voi comunisti? I tempi sono cambiati! La Guerra fredda è finita! Rilassatevi anche voi! O il problema è per caso che non vi piace la figa?) La bellezza femminile, a Striscia, non mancò mai: nelle prime edizioni alle veline, che arrivavano scendendo da uno scivolo, si affiancavano le sexy infermiere, figure senza equivalenti nella maggior parte delle vere redazioni; Angela Cavagna, «erede naturale» di Carmen Russo a livello di scollatura, con una succinta divisa da corsia ospedaliera oscurò brevemente le stesse veline, che si rilanciarono grazie a Fanny Cadeo, spigliata a Striscia ma davvero perfetta sulle mute pagine di «Playmen». Solo nel 1994-95, contestualmente al primo governo del Nostro, sarebbe stata introdotta la formula «una bionda e una mora», riecheggiante l’aurea proporzione escogitata in Rai per le vallette di Sanremo. Quell’anno furono scelte rispettivamente Laura Freddi e Miriana Trevisan, due giovanissime vecchie glorie di un programma di Gianni Boncompagni che aveva per protagonista una legione di minorenni.

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Quale fosse il suo nome, e che razza d’impulsi suscitasse in noialtri liceali, lo ricorderemo nel giro di poche pagine. Per ora basti dire che le veline diventarono autentiche istituzioni del costume italico – Iuri Giacobbi comprava «Tv sorrisi e canzoni» per scoprire in anticipo quali sarebbero state le nuove prescelte, mentre i calciatori di serie A si affollavano intorno alle veline uscenti e alle ex delle stagioni precedenti. «Diventare velina» sostituì «diventare Miss Italia» in testa ai desideri delle adolescenti senza troppa fantasia, e nel giro di poco sarebbe caduto l’ennesimo tabù: a quel punto anche le ragazzine di buona famiglia potevano esibirsi senza troppo scandalo davanti a Ezio Greggio ed Enzo Iachetti in movenze e coreografie un tempo riservate alle odalische. Tornando al pupazzo rosso di Striscia la notizia, che parlava con accento genovese e aveva nome «il Gabibbo», all’inizio era un vero impiastro: irrompeva a disturbare le trasmissioni come un Cavallo pazzo qualsiasi, ma presto maturò e assunse l’identità di un grottesco raddrizzatorti al servizio della cittadinanza. Somigliava come una goccia d’acqua a Big Red, la mascotte dell’università americana del Western Kentucky, famoso dai primi anni Ottanta per le sue evoluzioni a bordo-parquet durante gli incontri di basket, al punto da essere premiato per tre volte come più efficace fomentatore del tifo nelle leghe universitarie. Il sospetto che un’icona della televisione italiana debba i suoi natali a un volgare plagio si affaccia ancor oggi alla mente di chiunque abbia confrontato le fattezze del Gabibbo a quelle di Big Red, reperibile su internet a un paio di click di distanza dal parente italiano; eppure, nonostante si somiglino come gemelli omozigoti persino nel disegno delle sopracciglia, sbaglieremmo di grosso a fidarci dei nostri sensi.

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A ingarbugliare le cose, nel 1991 «Novella 2000» aveva interrogato Ricci in proposito, e allora l’autore aveva ammesso che il Gabibbo non era, almeno limitatamente alle fattezze, farina del proprio sacco. «E chi l’ha mai detto? Io l’ho adottato» aveva spiegato. «In aridi termini legali, ne ho i diritti per l’Italia... C’era questo pupazzo, Big Red si chiamava, che faceva la mascotte di una squadra di basket in America. La squadra è la Western Kentucky University. Gioca in tornei minori, ma il pupazzo era simpatico... Big Red è diventato Gabibbo.» Dodici anni dopo l’ex ragazzo prodigio del Ponente ligure avrebbe smentito la circostanza ch’egli stesso aveva così riccamente documentato. Flashback improvviso, o effetto della causa da 250 milioni di dollari mossa dai licenziatari per l’Italia di Big Red? La straordinaria somiglianza non si poteva sottacere: i giornali dell’epoca ne parlarono come di una seria tegola che pioveva in testa all’ex ragazzo prodigio del Ponente ligure e, di rimbalzo, allo stesso Silvio. «Anche Ricci assomiglia a Sean Connery, e da giovane a Franco Nero. Ma non è nessuno dei due» dichiarò con logica stringente Gero Cardarelli, «movitore» del pupazzo. Gli argomenti concreti a difesa dell’originalità del Gabibbo latitavano, e la «confessione» di Ricci nel 1991 complicava le cose. «Si trattava di una risposta scherzosa concordata con l’intervistatore» avrebbe ricostruito infine l’autore: dopo quattro anni col fiato sospeso, la sua suggestiva tesi sarebbe stata accolta definitivamente nel 2007 dal tribunale di Lugo di Romagna, scagionando da ogni ombra lui e la sua straordinaria invenzione. Apprendiamo così che la differenza fra i due non sarebbe tanto nel fatto che Big Red è «nudo» mentre il Gabibbo indossa – ma non dai suoi esordi – una «finta camicia», e nemmeno

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nelle impercettibili differenze nel disegno della bocca, quanto nel fatto che «suscitano nella gente emozioni diverse: da un lato, infatti, una mascotte; dall’altra un personaggio che è showman, giornalista, cittadino indignato». Sentenza ad pupazzum?

IL GLADIO E IL PICCONE Alla fine degli anni Ottanta, nel paese giravano soldi come mai prima. I fornitori si accapigliavano per consegnare la merce ai clienti, e nessuno si formalizzava per i pagamenti in ritardo: la macchina dell’economia nazionale viaggiava col vento in poppa, e tutti avrebbero finito per saldare i loro debiti, a rate o in un colpo solo. Fra i più ambiti clienti c’erano le amministrazioni locali e gli enti controllati direttamente dai partiti: i contratti con loro erano così remunerativi da giustificare ampiamente il pagamento di tangenti, tipicamente pari al 10% dell’intera commessa, da versarsi ai manager pubblici in cambio dell’appalto. (Ma scendi dalla pianta! Quella era modernità: la società italiana è sempre stata migliore dei suoi politici, e anche la privatizzazione dei servizi pubblici, da noi, era ben più avanzata di quanto non apparisse in teoria!) Così andava il sistema, fra lottizzazioni ispirate al manuale Cencelli e una penetrazione indiscriminata di denaro sporco negli affari pubblici. Per sporco che fosse, era sempre denaro. A breve sarebbe finito sia quello pulito che quello sporco, e tutti avrebbero cominciato la corsa al recupero dei crediti, fra tonfi paurosi, avvisi di garanzia, tentativi di corruzione – alcuni riuscitissimi – ai danni delle Fiamme Gialle, e una scia di suicidi eccellenti.

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Perché nessuno fermava la «bolla» prima della sua esplosione, allora ritenuta solo un’eventualità, ma pur sempre un’eventualità drammatica? Perché a reggere il gioco c’era la politica, in primis i partiti di governo, definiti «monasteri poveri» dal socialista Rino Formica, che invece vedeva i colleghi, e cioè i politici in carne ed ossa, come «frati ricchi». Tutti, insomma, vedevamo le crepe dello scafo, ma anziché ricoverarlo nel porto più vicino preferimmo raccontarci a vicenda che avrebbe potuto – con un pizzico di fortuna – vincere altre importanti regate. «Italians do it better», come diceva miss Ciccone. Ad aumentare l’inquietudine sulla situazione nazionale contribuì un altro ex studente prodigio, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Diplomatosi nella natìa Sassari a 16 anni, laureato a 20, era anticomunista da sempre e cugino di Enrico Berlinguer; si era messo in luce come capofila dei «Giovani Turchi» della Dc sarda; lo si diceva non ostile alla massoneria. A Roma si era fatto strada sino a ottenere nel 1976 l’incarico di ministro degli Interni, dal quale si era dimesso dopo l’uccisione di Aldo Moro, ma solo per essere «promosso» l’anno successivo a presidente del Consiglio. Ancora all’alba degli anni Ottanta il suo nome compariva su tutti i muri d’Italia, scritto con la Kappa e le Esse runiche, di frequente accompagnato dall’apposizione «boia» per celebrarne con affetto e ironia l’efficacia di repressore d’ogni moto reale o immaginario. Qualcuno gli era stato grato del suo zelo, e Cossiga aveva superato senza danni uno scandalo che avrebbe stroncato qualsiasi carriera politica «normale»: era stato accusato – a ragione, come egli stesso avrebbe ammesso nel 2007 al «Corriere della Sera» – di avere favorito la latitanza di Mar-

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co Donat-Cattin, membro di Prima Linea e figlio del senatore Carlo, capocorrente della sinistra Dc. L’eccezionalità del cursus honorum di Cossiga, assai conservatore in politica, moderato nelle dichiarazioni pubbliche e massimalista nella loro applicazione, era testimoniata dal fatto che gli era bastata una brevissima pausa dalla vita pubblica per essere richiamato in pochi mesi alla presidenza del Senato; ancor più curiosamente, nonostante il Pci lo avesse messo in stato d’accusa per l’affare Donat-Cattin, anche i comunisti avevano votato per lui nel 1985, contribuendo a farlo diventare al primo ballottaggio il più giovane presidente della Repubblica italiana. I buoni contatti, insomma, non gli mancavano. Di certo Cossiga aveva amici sinceri nelle Forze armate: anni prima era stato insignito del grado di capitano di corvetta con provvedimento presidenziale, e si era voluto dimostrare ligio ai regolamenti interni della Marina anche il giorno dell’insediamento a capo dello Stato: presentatosi all’appuntamento in divisa, prima di salire al Colle aveva deviato il corteo per chiedere formale autorizzazione al superiore gerarchico. A parte il puntiglioso rispetto delle norme costituzionali e dei regolamenti interni della Marina militare, nei primi anni del suo mandato Cossiga non si segnalò per nulla di rilevante; l’unica eccezione era stata la sua visita bolognese in via Spataro, giusto di fronte a casa di nonna Pina. Il quartiere era stato solcato per ore dall’elicottero della polizia, e le anziane affacciate alle finestre continuavano a domandare: «Con chi gioca, oggi, il Bologna?». «Con nessuno!» assicurammo Iuri ed io. Ci eravamo spinti in bicicletta allo stadio per controllare che non andasse in scena una partita di cui «Carlino» e «Repubblica» non sapevano niente, ma i giornali avevano ragione: il catino in mattoni del Dall’Ara era muto e deserto, ad eccezione dei

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frequentatori delle palestre. Qualcuno ci aveva addirittura garantito che i giocatori del Bologna erano poco lontani, impegnati in una serie di ripetute lungo le rampe del portico di San Luca: se si stavano allenando alla fatica, era segno certo che per quel giorno non avrebbero giocato. «Ci sarà stata una rapina» considerò Iuri mentre rientravamo. Doveva urlare per farsi sentire, ché quel coso continuava a volarci sulla testa, basso come Tuono blu nel film omonimo, e il fragore delle pale si mangiava metà delle parole. Poteva avere ragione: all’angolo fra via XXI aprile e via Paolo Martini era ferma una macchina dei Carabinieri coi lampeggianti accesi, e prima di arrivare di fronte al bar Ulfo incrociammo una coppia di vigili urbani motociclisti decisamente su di giri: spalettavano a tutt’andare, anche se non comprendemmo cosa volevano da noi che tornavamo semplicemente a casa. «Giù dalle bici un cazzo!» imprecò Iuri, poi domandò indignato: «L’hai sentito, cosa ci hanno detto i Chips?». «No» confessai, pedalando a ritmo ridotto. «‘Giù dalle bici, cinno!’» imitò la voce del tutore dell’ordine. «Io non l’ho proprio sentito» confessai, e presi a disegnare la curva che ci avrebbe inseriti sul rettifilo in discesa di via Turati. «Cioè, cazzo vogliono?» domandò ancora alle mie spalle. «Questa è casa nostra!» Il suo ragionamento non faceva una grinza, ma all’improvviso ero impegnato a frenare con tutta la forza a disposizione: un nugolo di auto blu, azzurre e color della notte ci arrivava incontro a sirene spiegate, inarrestabile come una mandria di bisonti. «Via!» gridò Iuri alle mie spalle, «sono gli elmetti!», ma ormai la torma lampeggiante era vicinissima, e alla nostra destra c’era solo il cordolo continuo del marciapiede. In qualche modo bloccai le ruote, schizzai giù di sella e, il cuore in gola, trascinai la bicicletta al sicuro.

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Per qualche secondo passarono solo auto delle forze dell’ordine, troppo veloci perché qualcuno potesse scendere a sculacciare Iuri. «Andiamocene» suggerii. «Piano piano lungo il marciapiede, e nessuno ci dice niente.» «Quanti cazzo sono?» domandò ancora, e io presi a scendere verso piazza Volta come se non l’avessi mai conosciuto. Bisognava usare quella tecnica, per farsi seguire dai bambini capricciosi e da Iuri Giacobbi. «Ehi, aspetta!» mi strillò da dietro. «Vengo anch’io!» Non avevo ancora girato l’angolo che mi raggiunse: trovammo la piazzetta del quartiere gremita di capannelli d’adulti, e persino il branco di lupetti «Candida Luna» appariva schierato all’imboccatura di via Spataro, in attesa di un qualche evento difficile da indovinare. Erano i miei fratellini, e andai a domandare ad Akela cosa stesse accadendo. «C’è il presidente Cossiga!» rivelò, fra il solenne e il divertito. «È in visita privata a certi amici, o parenti forse, che stanno proprio lì.» Indicò tre auto color della notte, posteggiate in fila davanti al palazzo di fronte a quello di nonna: avevano ancora i lampeggianti in funzione, e solo allora mi resi conto che il traffico della via era stato deviato. Peccato che Pertini non fosse mai venuto. «Ecco perché gira l’elicottero e gli elmetti sono così nervosi» sospirò Iuri. «Elmetti?» domandò Akela. Poi mi guardò negli occhi e domandò sottovoce: «Come parla, il tuo amico?». Non feci in tempo ad arrossire: bastò un movimento d’uomini in uscita dal palazzo che i fratellini della Candida Luna gridarono tutti insieme «C’è il presidente!», e si slanciarono in avanti porgendo i quaderni di caccia per un autografo. «Lupi!» li richiamò Akela.

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«Iau!» risposero all’unisono, come pietrificati, e io stesso dovetti farmi forza per non unirmi al coro: ero appena passato esploratore, e lo «iau» non mi competeva più. «Sul marciapiede, adesso!» ordinò Akela. «Il presidente va di fretta, e non può fare l’autografo a tutti!» I più piccoli si guardarono l’un l’altro, smarriti. «Chiediamogliene uno per tutto il branco!» propose il caposestiglia dei Lupi Bruni. «No, cantiamogli ‘Partiamo col branco in caccia!’» replicò il pari grado dei Lupi Bianchi. «Ho io un’idea», strillò quello dei Grigi, e intonò: «Laurenzia, cara Laurenzia...». «Facciamogli la piramide umana!» coprì la sua voce il capo dei Neri. «Dài, piramide per il presidente!» Akela ebbe un bel daffare per contenere l’entusiasmo scatenato dalla prima carica dello Stato, e io non sapevo se restare vicino a lui oppure seguire Iuri Giacobbi, che avanzava con passo da sonnambulo nel bel mezzo della carreggiata, dardeggiando l’aria con l’indice: «È lui! – gridò come un posseduto – È Cossiga!», e un elegantone della scorta balzò in strada per vedere chi aveva gridato. Quando prese le misure a Iuri parve tirare un sospiro di sollievo, ma intanto gl’intimò con un gesto nettissimo di levarsi di torno. Allora, per una frazione di secondo, vidi Cossiga nel cuore del cuore del quartiere: la leggendaria chioma, fattasi canuta nello spazio d’una notte per lo strazio di sapere Moro in mano ai sequestratori, ondeggiò appena sotto la brezza artificiale causata dal frullo dell’elicottero, un applauso scrosciante salì dai lupetti della Candida Luna, e il presidente della Repubblica rivolse un gesto di saluto a loro e ai curiosi affacciati alle finestre. Il suo magico fluido presidenziale, non ne dubitavamo, ci avrebbe reso tutti cittadini migliori.

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Solo Iuri Giacobbi, sordo all’esultanza generale, se ne stava da un canto, le mani in tasca e torvo come Franti. Cossiga entrò in auto, il piccolo corteo accese le sirene e sparì per sempre da via Spataro; l’elicottero seguì il drappello dall’alto e, nel giro di poco, il normale traffico pomeridiano riprese. Anche i lupetti se ne andarono, e io restai da solo con Iuri e le nostre biciclette. «Visto che organizzazione?» lo scossi per una spalla. «Eh!» ammise con un’aria scontenta. «Voglio diventare presidente, da grande» lo informai. «Dopo, quando ti vengo a trovare, arrivo a casa tua con le macchine dai vetri oscurati e l’elicottero.» «Ti ci vedo» disse, ma non capivo se scherzasse o no. «Ehi, Iuri. Ci sei rimasto male perché quello della scorta ti ha urlato contro?» «Volevo parlare al presidente» confessò. «Se non sbucava fuori quel gorilla all’ultimo momento, ce l’avevo praticamente fatta.» «E cosa volevi dirgli?» domandai stupito. «Consigliargli di cuore che non può andare avanti così! È noioso! Quando parla non si capisce! E non sorride mai!» Mi dissi che era stata una fortuna, per Iuri e per tutti noi, che l’uomo della scorta avesse fatto il suo lavoro. «L’hai visto? Se veniva qui Pertini, come minimo si fermava a giocare a bocce coi vecchi giù in cortile» proseguì nella sua invettiva. «E lui, invece, fa ciao con la manina e tela via. Non si sa proprio comportare!» Nel giro di poche stagioni, il crollo del Muro di Berlino avrebbe segnato per sempre il corso della Storia; il fremito che ne conseguì, da Washington agli avamposti anatolici della Nato, passando per Roma contagiò anche il presidente Cossiga e lo trasformò in una persona nuova, estroversa, in grado di riempire la scena e stupire un po’ tutti.

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Le immagini delle folle berlinesi in delirio entrarono nelle nostre case portate dai telegiornali: non sapevamo ancora che sarebbe stato l’ultimo grande evento storico trasmesso in esclusiva dalla Rai. Le povere folle dell’Est, conciate come negli anni Settanta e sbalordite d’ogni luminaria, apparvero il monito più terribile contro ogni tentazione collettivistica, e fecero da pietra tombale all’idea dell’internazionalismo rosso. L’America, Ronald Reagan, Walt Disney e la Cia avevano trionfato su tutta la linea: il gigante sovietico era in ginocchio, i suoi satelliti decisi a ribaltare gli ultimi dispotici regimi mantenuti in vita da Mosca. Ormai era ufficiale: un giorno avrebbero potuto mangiare hamburger anche a Budapest e Praga, forse addirittura in Bulgaria o all’ombra del Cremlino. Sarebbe arrivata pian piano anche laggiù, la civiltà del commercio, della pubblicità e delle televisioni: persino i compagni agricoltori avrebbero levato un giorno i pesanti valenki di feltro, ché lo Stato non li avrebbe più privati del loro giusto guadagno; adesso che sulle pianure sterminate dell’Ucraina soffiava il vento allegro del capitalismo, anche loro, risparmiando come formichine, si sarebbero potuti permettere un paio di civili Adidas, Puma o Nike. Avrebbero avuto, quei poveretti defraudati dal Partito persino dei sogni, il giusto risarcimento: la loro Carmen Russo e il loro Beruschi, una Deejay’s Gang e un Gerry Scotti, forse addirittura Colpo grosso in versione sottotitolata. Inutile, quindi, sentirci in colpa per la loro povertà e le loro orribili città di cemento armato abbandonate al gelo: presto si sarebbero rifatti. Qualcuno profetizzava che fra rive del Dnepr e della Moscova sarebbe sorto presto anche un Silvio, o forse più d’uno: a giudicare dalla velocità con cui laggiù si smantellavano pezzi interi di Stato per assegnarli agli oligarchi comunisti di ieri, trasfor-

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matisi in un batter d’occhio in cinici imprenditori, era ampiamente possibile. Cossiga picconava il sistema con le sue dichiarazioni improvvisamente roboanti, scandalose, inaccettabili per il senso comune. L’unico modo che il nostro paese aveva di salvarsi l’anima era quello di abbattere il sistema per ricostruirne uno nuovo di zecca, ma all’epoca sfuggiva – e non solo a me – che modello di Stato avesse in mente il costituzionalista Cossiga: qualcosa di minaccioso aleggiava nelle sue parole, che alcuni dicevano deliri d’un matto e altri messaggi in codice per la massoneria, le Forze armate e chissà chi altri. A forza di picconate, la nazione si dovette rendere conto di almeno due cose: la prima era che la bolla della pubblica corruttela si avvicinava all’inevitabile esplosione. La seconda che la Nato e la Cia non si sarebbero sciolte in segno di giubilo per la fine del grande nemico sovietico: l’America, adesso, non avrebbe avuto nessun contraltare nei suoi tentativi di influenzare la politica italiana. Nel 1990, l’esistenza sempre negata di reti paramilitari anticomuniste, mantenute per quarant’anni da Washington in Italia come in quasi tutti i paesi della Nato, venne fuori con un rumore assordante: se mai il Pci avesse preso il potere, i «gladiatori» non sarebbero rimasti a guardare, e il governo non poteva continuare a negare ciò che sapeva da sempre. La tensione con Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio per la sesta volta, assunse risvolti drammatici, in grado di lacerare dall’interno la Democrazia cristiana: il 24 ottobre 1990 il Divo Giulio riconobbe pubblicamente l’esistenza dell’organizzazione Gladio, che affondava le sue radici in una precedente operazione «Duca», concordata fra l’intelligence americana

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e i servizi italiani – ancora fitti di fascisti – nei primissimi anni del dopoguerra. L’organizzazione paramilitare era esistita eccome, aveva anzi accompagnato l’intera storia repubblicana, ché il governo ne aveva ordinato il definitivo scioglimento meno di novanta giorni prima, il 27 luglio. Andreotti rese noto un elenco – sospettato di essere ampiamente incompleto – di 622 «gladiatori»: pochini per fermare un’eventuale rivoluzione, e infatti lo stesso Cossiga e altri anticomunisti intervennero e rivendicarono con orgoglio di avere militato in questo o quel nucleo di Gladio, la «struttura di informazione, risposta e salvaguardia» che da decenni affiancava le forze di sicurezza dello Stato, pronta a rispondere direttamente a Washington qualora il governo di Roma si fosse spostato troppo a Sinistra. L’incredulità si mescolava all’euforia; i più accorti percepivano lo scontro di potere sotterraneo fra le due anime della Repubblica (l’«atlantico» Cossiga contro i «mediterranei» Craxi e Andreotti) e ne avevano paura: paura di altre bombe, o di ritrovarsi i carri armati all’angolo delle strade – e presto Palermo avrebbe sperimentato entrambi i drammi. Allo stesso tempo andavano aprendosi gli armadi segretissimi, e a quel punto sarebbe bastato fare due più due per scoprire la verità su tutti i misteri d’Italia: sarebbero venuti fuori d’incanto autori, istigatori e complici delle stragi. Avremmo conosciuto i nomi dei loro referenti politici, militari, nei servizi. La verità sulle Brigate Rosse e sul sequestro di Aldo Moro; sulla morte più che sospetta di papa Luciani e sull’attentato a Wojtyla; sul rapimento di Emanuela Orlandi e sulle impronunciabili triangolazioni fra prelati, imprenditori e criminali. Be’, se non proprio le risposte, almeno avrebbero potuto darci qualche indizio.

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(Quello che voi comunisti del menga non riuscirete mai a capire è che avevamo davvero paura di voi. Noi eravamo buoni italiani, cittadini leali senza grilli per il capo, e in qualche caso anche buoni cristiani. Siete voi che ci avete costretto a tenere alta la tensione. Siete voi i veri colpevoli. Era una guerra, e in guerra si combatte. Ma adesso che il comunismo si è trasformato in una barzelletta e l’Est in un bordello a cielo aperto, siamo pronti a tendervi la mano per offrirvi una sincera stretta di riconciliazione nazionale. Potete sfuggirla, da permalosi che siete, o addirittura fingere orrore, ma non dimenticate mai che dovete a noi la libertà, la sicurezza e il fatto stesso che nessuno vi sia ancora venuto a prendere di notte per caricarvi su un’auto senza targa. Rifiutate la nostra amicizia, allora, ma guardatevi intorno e dite con la mano sul cuore se vi fa così schifo, andare in giro liberi per città dalle vetrine piene, poter possedere un’auto e scegliere cosa vedere alla televisione. Poi tornate a pensare ai poveracci di Berlino Est che sbucavano in Occidente con le pezze al culo. Solo allora imparerete che una cosa ce la dovrete per sempre: la gratitudine.)

Arriva il Silvio

LA TELEVISIONE INTELLIGENTE Il 24 gennaio 1990 era stata rettificata l’ultima imperfezione, il dettaglio che depotenziava le tre reti del Silvio rispetto alla televisione pubblica: assecondando lo spirito della prima legge generale sulle telecomunicazioni firmata dal repubblicano Oscar Mammì, la Fininvest fu ammessa a trasmettere in diretta. Era un regalo incommensurabile che il pentapartito lasciava in dote al Cavaliere, e avrebbe cambiato per sempre il paese grazie all’uso moderno, massiccio e spregiudicato che il Silvio avrebbe fatto del «Quarto potere». A chi se ne preoccupava si faceva notare che gli altri tre, se quello alzava troppo la cresta, lo avrebbero messo al suo posto. Il potere giudiziario, in particolare, sembrava destinato a entrare in rotta di collisione con l’impero mediatico e finanziario del Silvio. C’erano magistrati che stavano conducendo inchieste suggestive su di lui, e non erano esattamente i suoi primi contatti con la Legge. Nel gestirli, però, era sempre stato un maestro del gioco all’italiana. Nel 1979 il Silvio, nel corso di un’ispezione della Guardia di Finanza ai cantieri di Milano 2, si era presentato come sempli-

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ce consulente alla progettazione. Le anomalie erano apparse tali e tante da indurre le Fiamme Gialle a ulteriori indagini: i misteriosi soci svizzeri menzionati dal Silvio, però, non furono identificati. Dopo la chiusura dell’ispezione, se il capopattuglia Massimo Maria Berruti e i militari Salvatore Gallo (iscritto alla P2) e Alberto Corrado cambiarono vita, non fu certo in peggio: Berruti lasciò le Fiamme Gialle e venne assunto dalla Fininvest, fu arrestato e poi assolto nel 1985, e sarà carcerato nuovamente con l’ex sottoposto Corrado nel 1994, nell’ambito delle indagini sui depistaggi relativi alle «Fiamme sporche», i militari corrotti della Guardia di Finanza dei quali essi stessi rappresentavano i discutibili capofila. Ritenuto degno d’un seggio da deputato di Forza Italia, l’ex capopattuglia Massimo Maria Berruti siede ancor oggi in Parlamento. Un altro ramo d’indagine fu avviato nel 1987 su querela dello stesso Silvio: i giornalisti Giovanni Ruggeri e Mario Guarino avevano scritto che la sua affiliazione alla P2 risaliva a ben prima del 1981, pochi mesi prima dello scandalo che aveva segnato la fine della loggia, come lo stesso Silvio aveva sostenuto. Il tribunale di Verona, però, gli diede torto: la sua affiliazione all’organizzazione di Gelli era da collocarsi nel 1978, a monte dell’ispezione ai cantieri di Milano 2 e di svariati misteri italiani nei quali Gelli ebbe un ruolo non secondario. La sentenza stabilì inoltre che il Silvio aveva mentito a proposito dei suoi rapporti con il Venerabile: benché l’avesse sempre negato, fu acclarato che aveva corrisposto una congrua «quota d’iscrizione» al momento del suo ingresso nella P2. Non c’era poi troppo da stupirsene: se voi foste Licio Gelli, dominus di un’organizzazione che ha fra i suoi obiettivi quello di smantellare la Rai, ammettereste gratis gli imprenditori delle

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televisioni private, e cioè coloro che dalla vostra eventuale riuscita trarrebbero il massimo vantaggio? La P2, a sentire il vero Gelli, aveva avuto in mano l’Italia: «Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia». Egli stesso era stato condannato nel 1987, e il Silvio non era riuscito a dimostrare di averlo conosciuto solo al tramonto della P2. Da qualunque punto la si guardasse, era una brutta storia: andava riscritta, un capitolo alla volta e senza troppo clamore. Per nulla intimorito dalle precedenti esperienze giudiziarie, il Silvio procedeva inarrestabile. Nel 1991, con la cosiddetta «guerra di Segrate», che lo contrappose a Carlo De Benedetti, riuscì a impadronirsi della Mondadori, la prima casa editrice del paese: si completava così l’assetto mediatico che ancora al momento di andare in stampa – sedici anni dopo la storica «discesa in campo» – compone l’impero privato del presidente del Consiglio. Lui, naturalmente, dalla gestione del potere non si è punto avvantaggiato; solo un giornale di pignoli e invidiosi come «Il Fatto Quotidiano», ancora nel 2010, può contestare quest’affermazione, ricordando che nel 1993 Fininvest aveva 4,5 lire di debito per ogni lira di patrimonio, mentre nel 2010 l’impero Mediaset vale in borsa (fu quotato all’epoca del primo governo Prodi) oltre 6 miliardi di dollari. E che volete che sia, in un ventennio di depressione economica, avere come presidente del Consiglio un uomo che ogni anno scala posti nella graduatoria di «Forbes» dedicata agli uomini più ricchi del pianeta? Nel ’93 era a serio rischio di bancarotta, nel 2010 è secondo solo al signor Ferrero, quello della Nutella, che qui ringraziamo per la sua deliziosa crema alle nocciole, ma soprattutto per non essere mai sceso nel campo della

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politica. Eppure, nella percezione degli italiani, Silvio ricco era e ricco è rimasto. (E chi vi dice, a voi comunisti, che tenendosi fuori dalla politica non avrebbe incassato ancora di più? Avete una vaga idea di quanto tempo gli abbiano fatto perdere, le beghe parlamentari?) Per i fan del Silvio, la vita stessa del leader è una fiaba che va ascoltata dalla viva voce di Lui; l’unico punto a favore del centrosinistra, in una prospettiva a medio-lungo termine, è che nessun esponente dell’attuale maggioranza appare narrativamente forte come il Cavaliere. È un discorso che approfondiremo più avanti, ché per ora siamo fermi al 16 gennaio 1991, quando risuonò per la prima volta la sigla di Studio Aperto. Benché non disponesse ancora della diretta, il direttore Emilio Fede (ex mezzobusto Rai e già conduttore dello show interattivo Test) riuscì a comunicare celermente la notizia dell’attacco americano contro l’Iraq, atto d’apertura della prima Guerra del Golfo. Fu una guerra, qualcuno ricorderà, che cercarono di far passare come il conflitto più giustificato, intelligente e telegenico della storia. Il petrolio non c’entrava. Volevamo solo aiutare i poveri kuwaitiani, che in realtà la gente non sapeva nemmeno dove stessero di casa. La televisione ci mostrò cosa vede il pilota d’un bombardiere al momento di sganciare: un mirino sovrapposto a una città a due dimensioni, le stesse cose che vedevamo noi quando ci sfidavamo a qualche videogame del genere «sparatutto». Che là sotto ci fossero persone vere, quasi non lo credevi; la tecnologia informatica aveva reso il groviglio di dolori d’una strage simile a un videogame, almeno per chi s’immedesimava nei top gun americani, e questo la dice lunga sulla mirata intelligenza di quella guerra. Nonostante la facilità con la quale Schwarzkopf sfondò le linee difensive irachene, nel nostro paese il conflitto suscitò emo-

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zioni ambivalenti: basti dire che assursero al rango di eroi nazionali due piloti della nostra aeronautica, Bellini e Cocciolone, che avevano conquistato le prime pagine per essere stati abbattuti. Eravamo ancora lontani dal marciare compatti come un grande popolo sa fare; che ci servisse una strigliata? Magari un La Russa ministro della Difesa? Il 13 gennaio del 1992 esordì il Tg5 di Enrico Mentana, destinato a imporsi come il secondo telegiornale più seguito dopo il Tg1; il 1° giugno dello stesso anno debuttò anche il Telegiornale 4, affidato – in apparenza a vita – al solito Emilio Fede. Nel giro di ventiquattro mesi sarebbe andata in onda la più grande anomalia italiana dai tempi della dittatura, e metà dei telegiornali erano predisposti a parlarne con gli ovvi riguardi che si devono a un padrone; se pure il Silvio non si fosse mai candidato, il suo enorme potere nel campo dei media sarebbe bastato a farne l’uomo più temuto d’Italia, in grado di affossare carriere politiche e di lanciare nuove stelle in Parlamento. Poiché degli altri si fidava sino a un certo punto, presto avrebbe sfruttato il formidabile trampolino per lanciare direttamente se stesso. Per fortuna, si diceva, che esiste anche un’altra televisione, una televisione intelligente. A lei si aggrappava strumentalmente la retorica della Fininvest: le televisioni del Silvio saranno anche state disimpegnate e un filo zuzzurellone, ma mica nessuno ti costringeva a guardarle. (Cos’è, ve l’aveva ordinato il dottore? Se non vi piacevano, bastava cambiare canale e sintonizzarsi su Dipartimento Scuola Educazione, oppure su Protestantesimo. La verità è che le guardavate anche voi, col senso di colpa tipico dei comunisti quando sono felici. E le guardavate perché la vostra amata Rai Tre, sciatta e povera di mezzi, al di là del telegiornale faceva schifo anche a voi.)

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Mica vero: io, personalmente, ero affezionato per motivi diversi a tutti e tre i canali Rai. Nella seconda metà degli anni Ottanta persino la prima rete mi era parsa brevemente imboccare un circolo virtuoso affidando la conduzione del programma mielestrazio per eccellenza, Domenica in, a Mino Damato (avevo undici anni, e a quell’età un giornalista che sfida i carboni ardenti ti sembra ancora coraggioso, più che esibizionista); prima di cena, poi, era inevitabile l’appuntamento con Parola mia, il gioco sulla lingua italiana condotto da Luciano Rispoli con il professor Beccaria e Anna Carlucci; e poi la sigla di Lunedì cinema suonata dagli Stadio, vera e propria intro alla magia dei grandi film in televisione. Nel 1990, quando anche i miei genitori cedettero alle lusinghe di un normale televisore a colori, resisteva solo Lunedì cinema, ma c’erano pur sempre gli altri due canali. Su Rai Due potevi seguire i soliti approfondimenti e i «faccia a faccia» del socialista colto Minoli; premendo il terzo tasto del telecomando, invece, ti materializzavi, pur con qualche disturbo nella ricezione, nella fiabesca Telekabul, l’orgoglio di tutta la Sinistra italiana. Tutto era iniziato in un anno denso di eventi per le vicende televisive italiane, il 1987: i decreti che consentivano al Silvio di proseguire le trasmissioni su tre canali erano in vigore da poco, e i malumori del Partito comunista erano stati tacitati con la «devoluzione» di Rai Tre, che passò dall’influenza governativa a quella del Pci. Angelo Guglielmi fu incaricato della direzione di rete, mentre alla guida del telegiornale fu scelto Alessandro Curzi. L’avventura della «televisione comunista» dimostrò due cose: che un altro modo di fare informazione era possibile, e che gli show potevano essere divertenti anche senza scenografie milionarie, ospiti d’oltreoceano e sprechi da basso impero.

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Certo, un difetto l’aveva anche la mitica Telekabul, nonostante il suo telegiornale fuori dal coro, i programmi a difesa del consumatore e i fuori sincro di Ghezzi introdotti da una Because the night da pelle d’oca: i varietà, talvolta geniali, erano leggermente ripetitivi. Faccio per dire: già nel 1988 le parodie di Francesca Dellera e Sabrina Salerno su La tv delle ragazze erano da sbellicarsi, benché lardellati da interventi della conduttrice, forse scelta per il ruolo perché era l’unica che non facesse ridere. Ad ogni modo, potevi restare incollato fino ai sottotitoli di coda a scorrimento rapido per scoprire che il programma era nato da un’idea della conduttrice stessa, la contessa radical chic Serena Dandini De Sylva, supportata da Valentina Amurri e Linda Brunetta. La regia, per completezza d’informazione, risultava a firma di Franza Di Rosa. Passa qualche anno, e comincia Avanzi: solita banda di imitatrici e attrici brillanti, con prestazioni significative di Loche, Masciarelli, dei Broncoviz (fra loro il futuro solista Crozza) e di due figli del giornalista di «Repubblica» Paolo Guzzanti: la già nota Sabina e il mai visto, dirompente, Corrado. Il suo studente coatto Lorenzo («maddechè, ao?») mi ha regalato le risate più liberatorie ai tempi del liceo, e la mia generazione non potrà che ricordarle con piacere; per la cronaca, il programma era firmato nuovamente da Dandini-Amurri-Brunetta, con Franza Di Rosa sempre alla regia. Maddechè, ao? divenne anche una striscia autonoma, mandata in onda mentre io stesso mi apprestavo all’esame di maturità. Crediti: un programma di Serena Dandini e Corrado Guzzanti; con un cambio alla regia: al posto di Franza Di Rosa si schiera la già esperta Valentina Amurri. Ritorno al classico con Tunnel, nel 1994: i due Guzzanti, Loche, Masciarelli e i Broncoviz nel cast, la Dandini a presentare, e il rassicurante ritorno alla regia di Franza Di Rosa.

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A un certo punto sembrava impossibile vedere un programma di Rai Tre senza la Dandini in scena e le sue fedeli compagne a fare quadrato. Non è la Rai fu un programma televisivo di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo, per molti aspetti rivoluzionario: mai prima di allora le televisioni del Silvio avevano mandato in scena una congrega di minorenni carine e poco vestite, ingestibili da qualsiasi presentatore e liete di esibire i propri talenti artistici. Qualcuno disse che stavolta il Nostro si era spinto troppo in là, qualcuno che era caduto in basso, ma gli ascolti premiarono oltre ogni aspettativa la simpatia e la malizia adolescenziale di Ambra, Pamela, e di tutte le altre ragazze che affollavano lo studio Palatino. Per certo il Silvio non si sarebbe più sognato di riproporre niente del genere una volta calatosi nell’arena della politica: un conto è rintuzzare certe polemiche nei panni di tycoon della televisione, un altro sarebbe farlo da presidente del Consiglio – un ruolo che, almeno implicitamente, avrebbe anche una valenza pedagogica d’esempio e guida. Che ci trovassimo di fronte a qualcosa di sconvolgente e nuovo, era fuori discussione: Iuri Giacobbi, pazzo d’amore per la «modella» del programma Antonella Mosetti, scappò di casa per consegnarle un ridicolo orso di peluche e una missiva che potevo presumere piena di errori. I suoi, disperati, stavano per chiamare Chi l’ha visto?, ma Iuri tornò da solo prima della mezzanotte, in treno come se n’era andato, scuro in volto e incazzato come una pantera. «Eravamo in sette-ottocento, e avevamo avuto tutti la stessa idea: un pupazzo e una lettera» mi spiegò sconsolato. «Botte, grida, spintoni... Impossibile avvicinare Antonella, così ho finito per stracciare la lettera. Ho buttato i pezzi dentro una

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grata delle fogne con la scritta SPQR, e l’orso l’ho regalato a un’altra.» «Un’altra delle ragazze?» «Credo, ma non l’ho riconosciuta... Alla fine mi sa che passava di lì e basta... Nemmeno ‘grazie’, mi ha detto.» «Povero Iuri.» «Adesso, però, ho aperto gli occhi.» «Finalmente.» «L’ho capito, che Antonella, Ambra e le altre non esistono.» «Ah no?» «In televisione sembrano bellissime, in mezzo a tutto quello spazio, e invece, se vai a Roma, vedi che appena fuori dagli studi c’è un casino immondo. Pioveva pure, e sapere che Antonella era in mezzo a quella bolgia mi ha fatto scendere la scimmia.» «Se te l’ha fatta scendere...» considerai. «L’importante è quello.» Non è la Rai fu un titolo indovinato, che funzionava anche da slogan, capace di suggestionare in ambiti più vasti del programma o del suo articolato merchandising: la televisione del Silvio era al suo apice, potente di mezzi, moderna, da sempre senza tabù e ora senza più vincoli tecnici. Il paese era cambiato anche grazie a Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro. Le televisioni del Silvio sapevano suggestionare gli italiani molto meglio della vecchia, imbolsita e lottizzata Rai; il Biscione poteva combattere ad armi pari, e ora se la voleva mangiare in un boccone, la televisione di Stato, coi cavalli di viale Mazzini e tutta Saxa Rubra. Quel che il Silvio ti mostrava non era più il presente, era il futuro al quale tutti noi eravamo destinati: non avremmo più potuto ignorarlo cambiando canale, né bastava sprangare le porte, perché sarebbe entrato nelle vite di tutti noi dal camino, come Babbo Natale e il Lupo cattivo.

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Molto presto la sua idea d’Italia avrebbe riguardato tutti – tanto chi seguiva di buon grado Ambra e Pamela, quanto chi puntava i piedi alla disperata contro la civiltà del video.

LO STATO GAMBE ALL’ARIA A un certo punto si udì un sinistro scricchiolio. Ci fu giusto il tempo di millantare in coro «L’avevo detto, ricordate?», e di colpo venne giù tutto: governo, ministri e partiti, prima ognuno per proprio conto e poi tutti insieme. Pertini se n’era andato da un anno appena, e Cossiga aveva vibrato l’estrema picconata rassegnando le dimissioni in anticipo, quando ci lasciarono anche le ultime certezze. Forse ricorderete: lo Stato gambe all’aria, le istituzioni a catafascio, il Parlamento a carte quarantotto, le requisitorie di Antonio Di Pietro trasmesse in televisione con share eclatanti, e la speranza condivisa di una nuova Italia, più serena e pulita, che prendesse il posto della vecchia. Viene quasi da sorridere della nostra ingenuità di allora. Le prime elezioni commentate dai telegiornali del Silvio, il 5 e 6 aprile 1992, furono le ultime col sistema proporzionale e le ultime in assoluto della Prima Repubblica. La Democrazia cristiana, pur conservando il ruolo di primo partito del paese, fece registrare il minimo storico dei consensi, fermandosi sotto il 30%. Il Partito democratico della sinistra, subita la scissione della Sinistra interna che aveva dato vita a Rifondazione comunista, non andò molto oltre il 16% (nel 1987 il Pci aveva preso il 26% alla Camera e il 28 al Senato), poco meglio dei socialisti; la Lega Nord si affermò a sorpresa come quarto partito d’Italia con un 8% abbondante a livello nazionale che significava il trionfo

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in diverse province del Nord, le prime in cui i moderati voltavano le spalle alla Dc rapace e ormai inguardabile dei Gava e dei Cirino Pomicino. Il 24 aprile si insediò la nuova Camera dei deputati: a presiederla il democristiano bianco come la neve Oscar Luigi Scalfaro, che un mese dopo venne scelto come presidente della Repubblica. Nella nuova veste, si rifiutò di affidare l’incarico di governo ai leader in odore di indagini, e segnatamente a Bettino Craxi. C’è chi dice no, e se anche Oscar Luigi è uno di loro, significa che le cose si sono spinte davvero troppo in là. Nel tentativo quasi disperato di rinnovare la maggioranza dall’interno e salvare il paese da una crisi economica che si annunciava devastante, Scalfaro assegnò l’incarico di formare il governo al socialista Giuliano Amato. Cercò di propiziare una soluzione omeopatica anche ai problemi dei principali partiti di coalizione: Enzo Scotti alla guida della Dc e Claudio Martelli a quella del Psi avrebbero potuto garantire lunga vita alle rispettive formazioni e stabilità politica, purché accettassero di buttare a mare le rispettive «vecchie guardie». Non ne avrebbero avuto nemmeno il tempo. La gente, a Destra e a Sinistra, era furibonda. Missini e leghisti seppellivano d’insulti la rapacità del sistema craxiano-andreottiano, chi sventolando capestri in Parlamento e chi accerchiando minacciosamente i palazzi del potere. «Arrendetevi, siete circondati» recitavano le magliette con la celtica che il Fronte della Gioventù, dopo la manifestazione romana, fece arrivare in tutta Italia, e la Lega fece il suo primo pieno di consensi all’insegna dell’alternativa alla «vecchia politica degli inquisiti». Che i principali inquisiti a livello nazionale fossero uomini del potere democristiano, socialista e dei satelliti laici che com-

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pletavano il pentapartito storico era allora chiarissimo, tanto che nessuna delle formazioni – nemmeno il Pri, estraneo agli ultimi esecutivi – sopravvisse al nuovo, inaudito, scandalo; l’eroe nazionale che allora anche missini e leghisti tenevano in palmo di mano era il pm di Milano Antonio Di Pietro; si era tutti pronti a fare il vuoto intorno a eventuali risorgenze craxiane, forlaniane, andreottiane. Prima, però, bisognava fare piazza pulita dei politici corrotti. Mani pulite era già percepita come il cuore delle vicende nazionali quando, il 23 maggio del 1992, un’entità subito identificata con «la Mafia» fece saltare in aria un tratto d’autostrada all’altezza di Capaci, uccidendo il giudice Falcone prima ancora che rimettesse piede a Palermo. La Piovra, ormai alle strette, tirava il suo colpo di coda? O era il vuoto di potere che stava dando alla testa a tanti, a troppi? Quaranta giorni dopo la strage di Capaci, il 3 luglio, Craxi tenne la sua celebre arringa con la quale chiamava in correità tutto il Parlamento della Repubblica: chi avesse negato il ricorso al finanziamento illecito dei partiti era «uno spergiuro». Solo un silenzio «reticente e ambiguo» – secondo la successiva definizione che ne diede Piero Fassino – accolse le sue parole. Il 19 luglio, a Palermo, un’altra bomba uccise il giudice Paolo Borsellino in visita alla madre in via d’Amelio. «Mafia che spara è mafia che ha paura», così dicevano gli esperti e ripetevano i mafiologi improvvisati, eppure i killer non apparivano così intimoriti: puntavano in alto, miravano ai simboli, in un quadro in cui sembrava che non ci fossero più certezze, se non quella che i partiti di governo non erano più in grado di fare da sponda politica per gli interessi di Cosa Nostra. Sei giorni dopo, con il varo dell’operazione «Vespri siciliani», il governo inviò l’esercito in Sicilia.

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Iuri Giacobbi, fresco di maturità all’Itis, fece domanda per anticipare il servizio di leva con la speranza di essere assegnato laggiù. La tempesta ai piani alti della politica non si placò con l’estate, e col ritorno del freddo si fece impetuosa: il 15 dicembre Craxi ricevette il primo avviso di garanzia dalla Procura di Milano; l’11 febbraio del 1993 si vide costretto a dimettersi dalla segreteria del Psi, e il presidente Oscar Luigi ne stigmatizzò la riluttanza con pretesca perfidia: «Chi ha salito le scale del potere – suggerì – deve saperle discendere con uguale dignità». Iuri mi chiamava, di tanto in tanto, dalla città di Caltanissetta. «Significa ‘Castello delle donne’» mi aveva spiegato. «Le ragazze sono davvero bellissime, ma a noi non ci considerano.» Non mi parlava al telefono di dettagli operativi, ma quando tornò per una licenza passabilmente lunga, abbronzato come un marinaio e rasato in testa come avesse avuto i pidocchi, dalla sua bocca uscirono storie ai limiti del paranormale: effettuando posti di blocco in mezzo alla campagna, si erano imbattuti in automobilisti che risultavano, in teoria, ciechi; non pochi erano privi di patente e altri ancora si presentavano dichiarando identità fittizie; solo una volta, però, si erano imbattuti in un vero e proprio latitante. «Per fortuna noi l’abbiamo scoperto il giorno dopo, dai giornali» tirò un sospiro di sollievo. «L’avevano arrestato i carabinieri, in paese, mezz’ora dopo che ci aveva mostrato i documenti.» «E perché non lo avete fermato voi?» «Perché il suo nome, sulla nostra lista di sospetti, non c’era.» Non sembrava più orgoglioso di rappresentare lo Stato in Sicilia, e anzi diceva che l’esercito, impiegato a quel modo, non serviva a niente. «Ti ricordi quando ripetevamo che questa città era la nostra città, e questo quartiere il nostro quartiere?» do-

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mandò a mezza voce passandosi una mano sul cranio liscio come velluto. «Certo.» «Be’, quella è la loro isola. Non sono mica tanto sicuro che dobbiamo andare lì armi in pugno a spiegar loro come devono vivere.» Per un attimo ebbi paura che stesse diventando mafioso anche lui, ma era un abbaglio: Iuri sarebbe tornato dai suoi «Vespri siciliani» con il sospirato foglio di «congedo illimitato provvisorio», e la discutibile intenzione di votare Lega Nord. Il 23 marzo gli avvisi di garanzia per Craxi ammontavano a undici. L’ex uomo più potente del paese veniva ormai insultato per la strada: i ragazzi lo sfottevano mostrando i polsi incrociati, altri gli gridavano alle spalle «Ladro!», e si racconta che persino il suo sosia televisivo Zerbinati dovette sfuggire a una folla minacciosa cercando scampo dentro un’automobile. Nei mesi seguenti tutto il Psi venne travolto dagli avvisi di garanzia e si trovò con la dirigenza virtualmente decapitata: solo Oscar Luigi avrebbe potuto salvare il governo firmando un «decreto-salvapartiti» proposto dal ministro della Giustizia Conso, ma si rifiutò di farlo, diventando in un solo anno di presidenza il secondo idolo delle folle dopo il pm di Milano Antonio Di Pietro. Ormai Oscar Luigi si era trasformato da ex censore per conto di Scelba in simbolo vivente della politica pulita contro il «Parlamento dei corrotti»: aveva visto con favore il referendum di Mariotto Segni abrogativo del sistema proporzionale, e si spese con tutta la sua autorità per una nuova legge elettorale in senso maggioritario. Paradossalmente, l’idea craxiana di «governabilità» cominciava ad attecchire nel paese grazie al tramonto dello stesso Bettino. Il 28 aprile 1993 il governo del «tecnico» Carlo Azeglio Ciampi si insediò al posto di quello defunto a guida socialista:

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oltre agli esponenti più presentabili dei vari partiti, per la prima volta entrarono nella squadra di governo anche membri del Pds (Visco, Berlinguer) e dei Verdi (Rutelli, ex radicale e futuro leader di un centrosinistra destinato a cocenti delusioni). Tutti e tre avrebbero lasciato l’incarico subito dopo il giuramento, per essere sostituiti da personalità indipendenti: tirava una bruttissima aria su tutta la politica italiana, e a Sinistra non si voleva rischiare di schizzarsi col fango dei corrotti. Meglio aspettare, e provare a sfondare al centro nelle successive elezioni politiche: allora sì, che il Pds avrebbe potuto aspirare a diventare il primo partito del paese, ché la Dc era destinata ad affondare e i socialisti, probabilmente, all’estinzione. L’indomani, 29 aprile, un Craxi in gravissima difficoltà tuonò in Parlamento contro l’ipocrisia dei partiti. Tutti si erano fondati sul finanziamento pubblico e conoscevano la pratica delle tangenti, «anche quelli che qui dentro fanno i moralisti». Il Parlamento negò l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, la gente gridò allo scandalo, e per qualche ora in Italia si rischiò seriamente la sommossa. Il 30 aprile, a Roma, il popolo della Sinistra affluì in piazza Navona, dove Occhetto, Rutelli e Ayala confermarono ciò che ognuno sentiva: il Parlamento andava sciolto. Anche i missini organizzarono un loro corteo, e persino la Lega Nord scese nelle strade della Capitale: drappelli provenienti dai tre raduni, ingrossati da torme di passanti e perfino di turisti, andarono ad aspettare Craxi sotto la sua abituale dimora romana, l’hotel Raphaël. L’uomo che Forattini aveva disegnato per tanti anni nei panni del Duce stava per conoscere il suo simbolico piazzale Loreto: prima la folla sventolò banconote cantando in coro sulle note di Guantanamera «Vuoi anche queste, Bettino, vuoi anche queste?», quindi Craxi apparve. Un’onda minacciò di travolgere il cordone della sicurezza, e l’ex uomo più potente d’Italia fu

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bersagliato con sputi, accendini e monete a centinaia: non c’era dubbio che, se lo avessero abbandonato in quel momento nelle mani della gente, sarebbe stato fatto a pezzi. Solo la visione incredibile e liberatoria di quel linciaggio al telegiornale placò l’indignazione degli italiani nei confronti di una classe politica che tutti, in quei giorni, consideravano colpevole di alto tradimento verso il paese. «Mai più», si disse tutti insieme, compresi i compagni che sbagliavano della Sinistra-giovanile-ex-Fgci, le teste calde del Fronte della Gioventù e il neobossiano Iuri Giacobbi. «Mai più ombre e insabbiamenti sulla nostra Storia. Mai più esponenti di partito indegni e ricattabili. Mai più collusioni fra criminalità, politica e affari. E ora, facciamo giustizia fino in fondo.» Due settimane dopo, il 14 maggio, un’autobomba carica di tritolo esplose vicino al teatro Parioli al passaggio delle due autovetture che trasportavano Maurizio Costanzo e le sue guardie del corpo; l’esplosione non causò vittime, così la s’interpretò come un avvertimento al conduttore, ché la finisse di occuparsi di lotta alla criminalità organizzata nei suoi programmi. I feroci Corleonesi erano visti come responsabili di ogni male: non si esitò ad incolparli anche per i cinque morti e le decine di feriti dell’autobomba che esplose a Firenze nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, presso la sede dell’Accademia dei Georgofili. E chi se non gli uomini di Totò Riina poteva avere piazzato, due mesi più tardi, la bomba al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano – altre cinque vittime – e gli ordigni fatti esplodere la stessa notte d’estate contro San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro? Ma la mafia agiva esclusivamente di propria iniziativa in quell’escalation di violenza contro gli innocenti, in stile libanese? Difficile darsi una risposta, e ancor più difficile ricostruire a chi facesse riferimento, in quei settecento giorni marcati da un

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vuoto di potere senza precedenti, ciascun appartenente ai segreti apparati di sicurezza dello Stato. Per non restare con le mani in mano, nell’estate del 1993 i capi scout del Bologna 16 organizzarono per noi diciottenni del «clan» un’attività estiva di alto profilo civile. La cosiddetta «route antimafia» in Sicilia era stata propiziata da Beppe, un universitario di origine palermitana associato al nostro gruppo, e prevedeva spostamenti a piedi fra il capoluogo, il bosco della Ficuzza e la stessa Corleone. Volevamo celebrare la memoria di Falcone e Borsellino, e capire meglio cosa stesse accadendo laggiù, ma a leggere i giornali di quei giorni ci stavamo andando a cacciare nella tana del lupo. Giunti a Palermo in treno con un viaggio prossimo alle quindici ore, trovammo una città meravigliosa e dai nervi tesi: pattuglie di carabinieri, poliziotti, veterani del Libano e semplici Iurigiacobbi di leva presidiavano gli incroci; benché le sirene lacerassero l’aria ogni pochi minuti, la vita della città sembrava proseguire fuori dal tempo, e i richiami levantini della Vuccirìa non spegnevano né la musica disco in uscita dalle autoradio, né l’agghiacciante lamento delle donne in nero che affollavano i cortei funebri. Dovunque fossimo capitati, dovevamo prepararci a gettare a mare un po’ di pregiudizi. E a levarci la divisa, se non volevamo attirare troppo attenzioni indesiderate. Qualcuno, nel quartiere, aveva le palle piene di forestieri in uniforme. ...Quindi? Quindi potevamo restare, non c’era nessun problema e nessuno voleva male ai boy scout di Bologna ospiti della parrocchia... Ma le nostre camicie azzurre cariche di distintivi era meglio se le lasciavamo dentro lo zaino. Alla fine cosa vi costa, ragazzi? Non siete mica sbirri, no?

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Era così: non dipendevamo dal ministro degli Interni, e forse proprio per questo tutti furono gentilissimi con noi, anche a Corleone. Ci ricevette, nella sua chiesa, un parroco. Ammise che la mafia esisteva, come d’altronde il Demonio, e talvolta gli uomini si lasciavano prendere la mano; benché assentisse gravemente alle sue parole, il rappresentante degli studenti locali ci parlò di Cosa Nostra come di un’entità semisconosciuta in quei paraggi da molti e molti anni: se c’era stata qualche mela marcia, non per questo gli abitanti di Corleone e i siciliani in generale dovevano essere considerati cattiva gente, come li dipingevano i giornali e la televisione. Io ripensavo alle parole di Iuri, quando mi aveva spiegato che ognuno dev’essere padrone a casa propria. Anche se non avrei mai votato per Bossi, c’era qualcosa di inquietante nel suo messaggio, proprio perché condiviso da ampie parti della popolazione, anche molto lontano dalle valli bergamasche. «In fondo che cazzo volete da noi?» sembrava domandare, dietro la cortesia impeccabile, il rappresentante degli studenti di Corleone. «Fate la vostra passeggiata, tornate a casa e lasciateci in pace.» Ancora più inquietante, benché non fossi siciliano, era il fatto che mi immedesimavo totalmente in lui: fossi nato in certe famiglie del paese che ci circondava, chissà chi sarebbero stati i miei amici a quattordici anni, e quali le prove di iniziazione alle quali mi sarei volentieri sottoposto. Ero confuso a dovere, anzi perfettamente scisso, quando uscimmo dalla chiesa e c’imbattemmo in un anziano che trascinava sul sagrato una carretta carica di meloni. «Siete i boy scout di Bologna?» domandò con un pesante accento del luogo, e salutò rispettosamente il parroco che ci aveva scortati all’esterno. «Ho portato qualcosa di fresco per i ragazzi.»

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«Vedete?» fece il religioso. «Ci sono uomini che sbagliano e uomini dal cuore gentile, anche nella stessa famiglia.» «Anche quelli che sbagliano possono cambiare» osservò l’uomo, e c’invitò a rompere gli indugi: «Sono per voi, i meloni! Su, prendete!». «È il cugino del famoso Bernardo Provenzano» spiegò il parroco in tono neutrale. «Su, ragazzi. Prendete i meloni, ché sono buonissimi.» Nell’ottobre del 1993 Oscar Luigi dovette difendersi da un’accusa insidiosa. L’ex direttore del Sisde, Malpica, agli arresti da due giorni nell’ambito di un’inchiesta su una presunta gestione allegra di fondi riservati, tirò in ballo il presidente accusandolo di averlo indotto a mentire. Qualcuno dovette suggerirgli che ormai le opinioni diventavano verità solo in televisione, e Scalfaro apparve a reti unificate e incazzato come una pantera per pronunciare il suo celebre «Non ci sto!». Parlò di «gioco al massacro» e spiegò lo scandalo come una rappresaglia della vecchia classe politica, architettata per far pagare al Quirinale la durezza dimostrata contro corrotti e corruttori. Sconvolti da stragi firmate, bombe di dubbia provenienza e anonimi tentativi di profittare della confusione generale, reclamavamo tutti giustizia. Peccato che qualcuno cominciasse a gridare contro i presunti complotti delle «toghe rosse», o si affannasse a cercare scheletri nell’armadio del dottor Di Pietro. Peccato anche che qualcun altro, con ancora meno clamore, fosse al lavoro per l’obiettivo cruciale di sempre: impedire alla Sinistra, in un modo o nell’altro, di assumere la guida del paese. Se la Dc era affondata nel maremoto di Tangentopoli, gli eredi del Pci erano ancora in sella: adesso si chiamavano Democra-

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tici di Sinistra, avevano un’aria rispettabile agli occhi di Washington, e non li si poteva più tenere lontani dal cuore del potere a suon di bombe. Come fare, dunque? Per sbarrare la strada al Pds alle elezioni politiche, previste per la primavera 1994, sarebbe servito un partito moderato nuovo di zecca, con un uomo potente e carismatico alla guida. Ma chi?

MILLENOVECENTONOVANTAQUATTRO Ancora un attimo prima che accadesse, sembrava impossibile. E invece è successo, non una ma tre volte, che il paese si sia affidato al Silvio, un imprenditore scafato e di successo che solo le barzellette, prima di Tangentopoli, avrebbero visto come capo del governo. La sua stessa «discesa in campo», che le agiografie vogliono maturata nello spazio di poche settimane, ha più di un aspetto paradossale, a cominciare dalla motivazione: il Silvio dichiarò di entrare in politica per non abbandonare il centro moderato alla mercè delle Sinistre – un anelito ideale mai confessato prima in pubblico ma che appariva, all’improvviso, sentitissimo. La coincidenza fra questa scoperta dell’impegno civile e le numerose beghe giudiziarie che si addensavano sulla Fininvest non passò inosservata: fu così necessario sparare ad alzo zero sulla magistratura politicizzata, gridare al complotto delle toghe rosse contro la libertà d’impresa e solleticare l’istinto anarcoide degli italiani, che sono abituati a temere ogni documento con impresso lo stemma di Stato, figurarsi una convocazione a Palazzo di Giustizia. Portati come siamo a prendere idealmente le parti della vittima, la riconosciamo senza fatica anche nell’imputato per rea-

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ti finanziari costretto a rispondere agli interrogatori incalzanti del pubblico ministero. (Sarà bene un marito e un padre anche l’interrogato, povero cristiano. Mettetevi nei suoi panni e rabbrividite: se non risponde a puntino, quelli in toga sono in grado di rovinargli la vita per sempre. E, alla fine, non è mica un assassino.) Il nuovo «uomo della provvidenza» ruppe gli indugi a tre mesi dalle elezioni. La sua discesa in campo non fu il solito evento palloso, destinato a essere raccontato da una sparuta pattuglia di giornalisti accreditati: il 26 gennaio 1994, bello come sapeva essere bello lui a soli cinquantanove anni, il Silvio apparve sui teleschermi per formalizzare, gli occhi negli occhi degli italiani, la propria candidatura alla testa di un nuovo movimento politico che – dettaglio non secondario in quella stagione – non avrebbe pesato per una lira sui bilanci pubblici, in quanto interamente sostenuto dalle finanze personali del leader e patron. Che si chiamasse «Forza Italia» apparve astuto. Che il logo fosse tricolore lo si giudicò subdolo. Ma che il colore dei suoi esponenti nell’araldica parlamentare fosse l’azzurro, fu la goccia che fece traboccare il vaso: prima ancora di definire i candidati nei diversi collegi, la creatura politica del Silvio era già il più italiano fra i partiti in lizza. Anche se Forza Italia era qualcosa di così nuovo, moderno ed efficiente da non poter nemmeno essere chiamato «partito»: era un vento fresco, un effluvio balsamico, la promessa della quiete domestica e del prestigio internazionale. Forza Italia era un’operazione di marketing su una scala mai tentata prima, e destinata al successo in ogni caso: anche se il Silvio fosse stato eletto con una pattuglia ridotta di deputati e

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senatori, si sarebbe trovato a recitare la parte del nuovo Psi, l’ago della bilancia e l’asso pigliatutto del nuovo Parlamento, e forse sarebbe stato già abbastanza perché riuscisse a difendere i propri interessi. «Forza Italia» nel 1994 erano due parole che suonavano come la politica e l’antipolitica insieme, erano il nome del nuovo e del vecchio insieme, qualcosa di così vago da somigliare a un sogno. Con quelle credenziali, in un paese di sognatori irriducibili come il nostro, il Silvio rischiava di stravincere le elezioni. Aveva creato un pantheon di amici virtuali a ognuno di noi, persone speciali delle quali ci fidavamo. Per anni ci avevano coperti di soldi, chiedendoci in cambio solo di non cambiare canale. Mike, Bonolis e Gerry si erano trasformati in semidèi buoni per la maggioranza degli italiani, e a quel punto è bastato un attimo. Vuoi non dare retta a un semidio che dispensa ricchezze, quando rompe il tabù stantìo della segretezza e ti consiglia di votare per un partito nuovo di zecca? Cosa vuoi fare, se gli altri sono tutti ladri, non votare per il disinteressato mecenate che manda in scena Raimondo Vianello, quelle peperine di Non è la Rai e il Gabibbo? Dopo dieci anni fra Drive in, Non è la Rai e telequiz assortiti, in Italia un partito così lo si vota, e lo si vota anche volentieri, un po’ per gratitudine e un po’ come dovere patriottico, ché tutto resti com’è almeno in televisione, e il signor Mike non debba smettere di lanciare il suo eterno «Allegria!». Il Silvio aveva cresciuto i propri fans giorno dopo giorno. Che all’inizio li pensasse come clienti di televendite, e non come elettori, è un mero dettaglio della Storia: ormai la lista era compilata, la squadra dei rappresentanti motivatissima, la gente pronta a credere. Ma a cosa?

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Oggi alcuni dissidenti ingrati e antitaliani accusano il Silvio di manchevolezze e promesse non mantenute. Io stesso devo ammettere che lo ricordo, anni dopo, mentre giurava sotto gli occhi del dottor Vespa e di tutti noi che avrebbe creato un milione di posti di lavoro. Benché in ambiti secondari l’applicazione del suo «patto con gli italiani» abbia conosciuto innegabili sbavature, per amor di verità non va dimenticato il successo del Silvio in un’impresa che all’inizio degli anni Novanta non sarebbe apparsa meno acrobatica: riconciliare a tempo di record gli autonomisti neopagani della Lega e i militanti nazionalisti in bomber nero con gli ex votanti democristiani e socialisti. Egli lo fece: in una stagione di massima incertezza della politica nazionale, coincidente con la massima incertezza sulle sorti del proprio impero personale, inquadrò gli orfani del pentapartito e cooptò quelli che volevano farne piazza pulita – in primis Bossi e Fini – convincendo tutti in men che non si dica a scagliarsi contro le Sinistre postcomuniste, in ultima analisi responsabili morali dei crimini stalinisti, e contro i suoi nemici personali. Se non sono miracoli questi, di cosa mai sapremo ancora provare meraviglia? Nel 1994, uscito senza danni permanenti dal liceo, mi ero iscritto da Umberto Eco a Scienze della comunicazione. Studiavo semiotica e, per colmo delle opportunità, un mio racconto venne prescelto fra i vincitori d’un concorso letterario. La tenzone, nominata My generation, era promossa dal mensile «King», editato nella redazione milanese di via Stilicone insieme alla testata sorella «Moda»; entrambi, e forse l’intera palazzina, dipendevano dalla Nuova Eri, sigla editoriale della Rai. Ammessovi non senza palpitazioni, feci la conoscenza del direttore Fumagalli, dell’editorialista Casamonti e del celebre in-

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tellettuale di Sinistra Goffredo Fofi, che componevano ai miei occhi una laica trinità, chiamata a presiedere sulla cultura giovanile di quell’epoca di mezzo. Fofi, a dirla tutta, sembrava dardeggiarmi con una certa aria di sospetto, forse per via delle tematiche rock ’n’ roll, disimpegnate e onnivore nei confronti della droga che caratterizzavano il mio racconto, di fatto il primo nucleo del futuro romanzo Bastogne. Casamonti invece mi invitò a casa sua per farmi ascoltare la sua collezione di vinili rari e bootleg su cd, mentre Fumagalli – mai gliene sarò abbastanza grato – nel giro di poco si sbilanciò al punto di commissionarmi un articolo: «Scrivi di quello che interessa ai giovani» fu la prima, sibillina, indicazione di quell’uomo che esibiva basette e camicie impeccabili. «Cosa fanno i giovani? Guardano Non è la Rai?» «Io veramente no» mentii. «Cioè, solo una volta ogni tanto.» «Chi non l’ha guardato, prima o poi...» mormorò comprensivo. «Comunque è un programma che fa schifo!» «Appunto!» parve illuminarsi. «Se la gente guardasse un programma bello, non ci sarebbe niente da scrivere! Invece può essere interessante, scoprire perché ama la televisione-spazzatura.» Lievemente mortificato, ma carico come una molla, lasciai Milano per rincasare e mettermi al lavoro. Per documentarmi a dovere sull’edizione in corso del programma, architettai un piano stoico e rischioso: avrei registrato una settimana intera di trasmissione, comprese le canzoni di Ambra, e poi mi sarei sottoposto alla visione continuativa, in solitaria e senza contatti con l’esterno, del materiale risultante. Solo così trovai la forza d’indagare il mistero della televisione anni Novanta, e riuscii nitidamente a leggervi in filigrana il progetto politico a medio e lungo termine del Silvio. Un paio di mesi dopo, sul numero 73 della rivista, una foto

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di Ambra Angiolini accompagnava il mio articolo d’esordio, che io avevo intitolato Ambra la technofascista, e la redazione aveva ribattezzato più cautamente Elettrosciocca. Era il marzo del 1994, a metà strada esatta fra la «discesa in campo» televisiva e le elezioni che avrebbero cambiato la storia del paese. Tutto il programma è ispirato all’Armageddon under diciotto, alla festa analcoolica finale, alla domenica pomeriggio sognata da tutti i quindicenni d’Italia, gioco della ceralacca e ballare sui cubi col vestitino regalato dalla migliore amica, ma è proprio qui che Boncompagni bara (è qui che sta il suo colpo di genio): i maschi stanno a vedere, ma in sala non ci entrano. Le ragazze in studio si lasciano andare come lo yorkshire che abbaia infuriato al mastino napoletano dietro le sbarre. «Guardateci ma non toccate», dicono le ragazze di Non è la Rai. «Fate tutto quello che volete», raccomanda Boncompagni, «anche quello che alla festa delle vostre compagne di classe non fareste mai perché vi accuserebbero di essere esibizioniste e un po’ troie». «Percaritadiddìo, fateci entrare», urlano le centinaia di ragazzi che spingono fuori dagli studi di Italia Uno trattenuti a stento dai poliziotti.

Lo ammetto, pensavo alla gita a Roma di Iuri Giacobbi. Non è la Rai, technofascismo militante: pensieri pochi risate tante. Ai ragazzi della politica non frega niente, e quelli che guardano Non è la Rai senza esprit de finesse, quelli che lo giudicano per pura primità animale soggiogati dal cavallo alto di Ambra e dal sorrisetto di Francesca, dal bacino e dal «ciao ci vediamo dopo la pubblicità» accarezzando sogni irriferibili sono la carne da cannone di domani, sono quelli che opportunamente istruiti voteranno Forza Italia. Questo sa Boncompagni, questo sa il Silvio. Qui c’è qualcosa di più del vecchio panem et circenses, non mi basta più la vecchia professoressa di greco che inveisce contro la scarsa

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qualità dei programmi televisivi e «tutti sono contenti che la gente non pensi e si lasci guidare da chi gli offre l’aumento di stipendio». Qui non si parla di una generica classe politica, della borghesia o di Roma o Milano, qui (e nell’abominio senza nome del programma domenicale con Gerry Scotti e Gabriella Carlucci, e in Beverly Hills e nelle altre serie per teenagers globali) è la Fininvest che cerca né più né meno di imporre un certo stile di vita, colpire uno per uno i soggetti più deboli a Pordenone, Cefalù, Pescara e Ponte Ronca insegnando il pomeriggio cos’è il sesso e il rock and roll, il giovedì sera come è bello essere Dylan McKay, diciottenni eredi di un patrimonio sterminato e dire a Brenda «Da piccolo giravo in limousine, l’autista ci portava perfino al picnic in campagna. Un giorno spero di poterti offrire una vita del genere» e baciarla piano piano. Quella del Silvio è la scommessa più affascinante di sempre, perché sul piatto c’è una generazione intera, che adesso non vota ancora, ma il tempo è tutto dalla sua. Possono crescere andando alla Standa, mangiando panettoni Motta, tifando Milan, e al limite leggendo «il Giornale».

Riconsiderare i miei vecchi scritti di solito non mi emoziona in maniera particolare, ma questo articolo mi sta proiettando in una spirale d’incubo. Questa è un’altra storia, ma tanto vale porsi l’interrogativo. Il Silvio può vincere la scommessa? Non credo. Mi sembra chiaro che se la sua battaglia è quella per l’ignoranza e l’inconsapevolezza, è persa in partenza. Persone colte e consapevoli esistono, no? Sua Emittenza si trova di fronte a un’alternativa: o li compra tutti o no. Se non lo fa, avrà sempre di fronte un gruppo di intellettuali, artisti e opinion leader lieti di sputtanarlo col suo circo volante di sputasentenze isterici. Se li compra tutti, nessuno se ne può rendere conto e nessuno potrà sancire la sua vittoria, togliendogli tutto il gusto della competizione. Se c’è la morte non ci siamo noi, se ci siamo noi non c’è la morte, come diceva quel tale.

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Lette queste parole, e ricordato che «King» non ebbe vita lunga nella Seconda Repubblica, ogni gesto scaramantico è ammesso. Il 27 e il 28 marzo 1994 si tennero le prime elezioni politiche col nuovo sistema elettorale (un maggioritario all’italiana con correttivo proporzionale, noto ai tecnici come «Mattarellum»). Quando arrivarono al quartier generale di Forza Italia i primi dati, il Silvio non dovette credere alle proprie capaci orecchie: la nuova formazione stava facendo il pieno di voti, e i principali soci di coalizione, la Lega e Alleanza Nazionale, non erano da meno. Alla fine, però, si arrese all’evidenza: la maggioranza relativa degli italiani, esattamente il 21%, aveva votato per un partito ch’era sinonimo del suo nome e cognome. Il temutissimo balzo in avanti del Pds si era arrestato più indietro di qualche punto percentuale, in ogni caso alle sue spalle. Per effetto della nuova legge elettorale, a Forza Italia toccarono 107 seggi alla Camera, agli ex missini 109, alla Lega addirittura 117; con i voti sicuri del Centro cristiano democratico e della Lista Pannella, bizzarramente fianco a fianco come suoi alleati, adesso al capocoalizione Silvio sarebbe toccato governare. Era il 10 maggio quando il governo Silvio I fece il proprio giuramento: al vedere Maroni ministro degli Interni, il più che discusso Cesare Previti alla Difesa, e un drappello di postfascisti ammessi per la prima volta al governo della Repubblica, qualcuno annunciò che se ne andava in Francia, a Londra o a Berlino, ma erano le solite cose che si dicevano per rendersi interessanti. Alla fine non se ne andò praticamente nessuno, anzi continuava ad arrivare gente da fuori, attirata dalla voce che in Italia accadevano cose straordinarie: nemmeno al loro paese avevano mai visto un imprenditore televisivo diventare presidente del Consiglio.

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Sarebbe durato otto mesi, il Silvio I, nel corso dei quali si diffuse la voce che essere stati comunisti era una colpa non inestinguibile. L’Italia era sempre l’Italia: bastava ravvedersi per tempo, come aveva fatto Giuliano Ferrara. Erano passati meno di dodici mesi dal linciaggio sotto il Raphaël e Craxi non si poteva ancora nominare a cuor leggero, ma si cominciò a dire anche che erano esistiti socialisti onesti. Pochi, forse, ma c’erano stati. E anche i nostalgici democristiani, quelli con la coscienza a posto, mica dovevano vergognarsi: lontani da quegli impostori del Partito popolare amico dei Rossi, abiura e anatema! Tornassero all’ovile, tutti e al più presto, ché al Centro cristiano democratico li attendeva l’abbraccio rassicurante di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella. Fra tutti i ragazzi che conoscevo, l’unico a votare con entusiasmo per il Silvio era stato LucaPietro Niccolis, il mio ex compagno di catechismo figlio di notai: a Giurisprudenza era sorto un nucleo di «studenti azzurri», riconoscibili per le camicie di quel colore, le cravatte reggimentali e i tagli di capelli antiquati, e lui vi si era tuffato a pesce. Per il momento, in zona universitaria, dovevano tenere la cresta bassa: fuori dal portone di Giurisprudenza li attendevano barbudos e punk, dai quali gli «studenti azzurri» avevano cagione di temere male parole, sputi e calci nel culo. Eppure erano ragazzi anche loro, nonostante i maglioncini da villeggianti di mezza età: mica facevano del male a nessuno, semplicemente meditavano di offrire agli universitari conservatori una terza proposta dopo quelle tradizionali dei Ciellini e di Azione studentesca; per meglio raggiungere il proprio obiettivo e non rischiare spiacevoli incidenti, organizzavano aperitivi nei bar più riparati e festicciole nei club dell’hinterland.

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Quando monsignor Bettazzi, l’arcivescovo di Ivrea, dichiarò che il programma di governo del Silvio era ripreso dal «Piano di rinascita democratica» della loggia P2, ripensai a LucaPietro Niccolis e ne provai un brivido. Chissà come la metteva, adesso, con la sua coscienza cattolica. Aveva ragione l’arcivescovo o aveva ragione il Silvio? E i suoi amici come la pensavano? Meglio seguire i miti insegnamenti di Gesù, oppure i progetti segreti d’un Venerabile? Riscrivere la storia è un’attività propedeutica al cambiare il presente e ridiscutere il futuro. Fu in quegli otto mesi, prima che il Silvio I affondasse in Parlamento per le defezioni interne alla Lega, che venne gettato il seme del revisionismo, destinato a germogliare nel nuovo millennio. Al potere in Italia c’erano stati, segretamente e fino all’altro ieri, i comunisti. Non lo sapevano le giovani generazioni? E non si rendevano conto, gli elettori, che il Silvio era una vittima del sistema? Scelto dalla gente, non era stato messo in condizioni di governare. Era lui, il capro espiatorio della vecchia classe politica, che aveva sobillato la Lega per farlo cadere e mettere al suo posto il banchiere di Stato Lamberto Dini, nuovo presidente del Consiglio con l’appoggio del Pds, dei Popolari e dei traditori in camicia verde. Sì, era lui, il Silvio, l’obiettivo delle più irriferibili macchinazioni. Era lui che, non appena il «governo dei tecnici» si fosse levato di torno, avrebbe meritato un risarcimento dal popolo italiano: se le urne lo avevano incredibilmente premiato una volta, perché non sarebbe potuto accadere di nuovo?

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ANDARE IN TELEVISIONE (I) Nel luglio del ’94, con il Silvio ancora al governo, uscì il mio romanzetto d’esordio per l’editore Transeuropa. Il tradimento della Lega ai suoi danni andava forse maturando, quando mi segnalai all’attenzione del presentatore acculturato e rock di Videomusic Lerri Bolognesi. Lo feci scalando una struttura di tubi metallici col mio libro fra i denti, e l’inusitata impresa gli diede la curiosità necessaria per affrontare le pagine di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. La storia dovette piacergli sul serio, se mi fece arrivare a stretto giro un invito per raggiungerlo, seppur brevemente, nel magico mondo della televisione. Ospite di una trasmissione! Seduto davanti alle telecamere! Io proprio io? E cosa dovevo fare? «O Brizzino, l’è la cosa più facile di questo mondo! Te scendi dal treno a Firenze, ti viene a prendere una vettura della signora Marcucci, e in un ette ti ritrovi al Ciocco. Lassù, poi, ce la si sbriga in fretta: ti siedi e parli con la conduttrice del tuo libro, e un po’ anche di questo, codesto e quello. È tutto dimolto semplice, vedrai.» Il mio editore Massimo Canalini era refrattario ai viaggi non indispensabili, e considerava gli studi del Ciocco, sprofondati nel verde della Garfagnana, troppo distanti dalla sua Ancona per mettersi in viaggio con me. Tuttavia, alla vigilia della mia trasmutazione alchemica in personaggio televisivo, mi bombardò al telefono di raccomandazioni: «Niente sigarette, mentre sei ripreso dalle telecamere! Parla della casa editrice, soprattutto! E, te supplico, mettiti una giacca!». Il ricordo non è così netto, ma giurerei di non avere addosso nessuna giacca quando sbarco a Firenze ed entro nel mondo tutto al presente della televisione.

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Il mio Caronte è un autista di Videomusic che mi attende, come da accordi, sotto l’albergo Baglioni, a un tiro di voce dai binari. È lui, il primo al quale faccio presente di essere amico di Lerri Bolognesi. «Bene» fa lui, più condiscendente che altro, mentre scivola nel traffico della città di Antognoni e Batistuta. Sta a vedere che mi sono messo in cattiva luce da solo, mi dico. Invece no. Lerri piace anche all’autista. Solo che non lo porta mai da nessuna parte. «Si muove con la sua vespa, quello, così non lo conosco tanto bene.» Mi racconta chi frequenta fra i volti della mia televisione musicale preferita; prendiamo la più antica autostrada italiana mentre snocciola aneddoti su Rick e Clive, Elisa Jane Satta, Attilio Grilloni e Lorenzo Scoles. Tempo di arrivare in Garfagnana e mi sta raccontando improbabili storie a tre che vedono protagonisti manager, aspiranti celebrità e cantanti di prima fascia. Mi dispiace lasciare l’auto e Caronte, ma è ora di entrare negli studi, isolati come il Berghof fra le montagne coperte di foresta. Sono atteso, mi presento, stringo mani, apprendo che la conduttrice è figlia della scrittrice Rosetta Loy, e che insieme a me è ospite Guido Viale, con un saggio brillante dedicato al tema dello smaltimento dei rifiuti nella civiltà occidentale. Mi sento, tutto sommato, a mio agio. Le telecamere ronzano in un silenzio irreale, ma è giusto un attimo: la presentatrice lancia la nuova puntata, presenta Viale e me, ed è come essere ospiti in casa d’altri, fortunatamente educati e aperti di mentalità: quando mi si fa una domanda rispondo senza tremiti o bagni di sudore, taccio quando non vengo interpellato, e mezz’ora dopo finisce tutto. È stato più facile del previsto, mi dispiace solo che Lerri non sia qui, ma potrà vedere la puntata in televisione come tutti gli altri.

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Saluto Viale e la gentile conduttrice, esco a fumarmi un sigaretta con Caronte. Mentre mi trasporta di nuovo a Firenze, mi diverto a pensare che faccia faranno i miei amici quando mi vedranno senza preavviso in televisione. Al mio editore venne un mezzo colpo quando, nel giro di pochi giorni, apparvi sui teleschermi senza di lui. E dire che, almeno un po’, doveva aspettarsela. L’occasione di rimediare venne offerta dallo stesso Lerri: il mio libro meritava più di un passaggio in trasmissione. Quella storia piena di rock meritava un vero e proprio approfondimento: ci sarebbero stati, a farsi intervistare per Videomusic, i miei amici e il mio editore? «Come no» garantii. «Come no.» Stabilimmo di incontrarci a Falconara Marittima, dove il sottoscritto e la band di amici Frida Frenner si sarebbero esibiti in un reading rock ’n’ roll – un nuovo genere musicale per voce e band che ci affannammo a codificare durante il non lungo viaggio di andata: l’unica cosa certa era che ci sentivamo influenzati tanto dai tellurici spoken words di Henry Rollins quanto dalle vecchie storie intorno al fuoco di bivacco. Tutto sembrava mettersi al meglio: noi avremmo suonato un genere musicale nuovo davanti a decine di ragazze carine e alcuni maschi; Lerri, per conto suo, ci avrebbe ripresi in azione e intervistati; non ultimo, Max sarebbe riuscito a coronare il suo sogno di andare in televisione senza uscire dalla provincia di Ancona. Tutto troppo geometrico perché non sorgessero intoppi. Ci presentammo in scena con abiti improbabili e tagli di capelli da inchiesta; suonammo, cantammo e declamammo a volume altissimo; tentammo di sedurre ragazze e da altre fummo sedotti. Fin lì tutto bene, mi sembra anzi che il buon Lerri fosse particolarmente soddisfatto, mentre Max – appassionato chi-

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tarrista sin dall’adolescenza – aveva da ridire tanto sul nostro approccio col pubblico quanto sullo stile ritmico di John. Quasi quasi, sembrava gli rodesse non esserci stato lui, sul palco. «L’intervista a me quando la facciamo?» s’informava con Lerri. Si stabilì di registrarla nell’ameno agriturismo che ci avrebbe ospitati per il pranzo, e lì ebbe principio il disastro. Esaltati dal primo live portato a termine, mangiammo il giusto e bevemmo come non eravamo abituati a bere. Quando il verdicchio entrò in circolo, e cioè nel giro di pochi minuti, perdemmo ogni rispettabilità residua: con grave sconcerto di Max, mentre Lerri gli puntava addosso la telecamera accesa, fra i più giovani non si fece silenzio. «Quelli della banda» proseguirono anzi a lanciarsi allegramente costolette e olive all’ascolana da un lato all’altro del tavolo; una di queste delizie farcite, lanciata impiegando un laccio da anfibio a mo’ di fionda, centrò il mio editore sul revers della giacca proprio mentre spiegava l’importanza della sua missione di talent scout. «Il mio Armani!» perse le staffe. «’Ndo stemo, porca puttana, all’asilo?» Quella volta aveva tutte le ragioni del mondo per arrabbiarsi, ma era stato lui a mettere sotto contratto un under 21 praticante di reading rock ’n’ roll. «Ve pare che uno se veste in un certo modo, e se becca addosso le olive?» fece notare in tono più composto. Un nuovo fremito di stizza parve scuoterlo quando vide che gli si rideva in faccia: «Bravi, po’ chi la paga, la lavasecco?». Qualcuno della band si era fatto cianotico, quando Max diede un profondo sospiro, levò l’indice e chiamò in causa la cameriera: «Scusi, signorina. Avete uno smacchiatore?». Quella scomparve dalla parte delle cucine, e solo allora Max parve accorgersi della telecamera sempre accesa a due palmi

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da sé. «Spegni, spegni» si raccomandò, «ché questa la rifacciamo». «Per me è bella così» disse Lerri. «Teniamola», e solo allora il mio editore parve davvero impaurito. Trascorsi un paio di mesi, Lamberto Dini aveva preso il posto del Silvio come presidente del Consiglio, ma non certo come patron della Fininvest: in televisione tutto procedeva, almeno in apparenza, come se le cose non potessero andare meglio. Il signor Mike conduceva Supermike, Corrado La corrida, il Gabibbo animava Striscia, e anche Maurizio Costanzo, scampato all’attentato del ’93, continuava ad andare in onda – mica bisognava per forza parlare di mafia – col suo seguitissimo show. Il mio editore, abituato a perorare di persona le ospitate dei suoi autori, era riuscito a far chiamare in trasmissione Silvia Ballestra, e non nascondeva di sperare in una convocazione anche per il sottoscritto. «Però te devi comportare be’... Mi risale l’incazzatura se ripenso a come te sei comportato l’altra volta, quando m’avete tirato le olive co’ gli amici tui.» La redazione del dottor Costanzo non doveva saperne niente, perché mi convocarono poche settimane dopo nei panni di me stesso, un ventenne che aveva scritto un libro del quale si cominciava a parlare come d’un caso editoriale. «Sono stato convocato» informai Max al telefono. «E da chi? Mondadori?» domandò speranzoso. «Costanzo. Vado a Roma la settimana prossima.» «Ma questa è una grande notizia! Altroché Lerri e Videomusic! Stavolta famo veni’ giù pure el cibborio!» Era, el cibborio, un’entità che Max nominava solo quando era vinto dallo stupore più sincero. Presto si riprese, sospirò che Roma era un po’ troppo lontana, altrimenti mi avrebbe

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accompagnato volentieri, e poi cominciò a sgranare il rosario delle raccomandazioni: «Siedite in mezzo, che te se vede meglio». «Non sono sicuro che mi lascino scegliere il posto» misi le mani avanti. «Vedi di metterti una giacca da personcina ammodo, e prendi esempio da Silvia che è giudiziosa e grata, e parla sempre della casa editrice, no de Andrea Pazienza come fai tu... Ce la devo avere, la puntata con Silvia, registrata su Vhs... Te va di venirtela a studià in Ancona, prima di scendere al Parioli?» «Mah» dissi. «Magari improvviso.» Questa volta la porta che varco per entrare nel mondo della televisione è quella romana dell’hotel Ritz, a due passi da piazza Euclide. Secondo i patti, mi devo rintanare in stanza in attesa che squilli il telefono; purtroppo, però, una spostata giovanile, che riconosco subito come ospite abituale del Costanzo Show, mi intercetta nella hall. In qualche modo sa già che sarò suo compagno in trasmissione, e mi si appiccica addosso per fornirmi informazioni dettagliate sullo stress che l’attanaglia, ogni volta, prima di entrare al Parioli. «Mi scaldo tutta» garantisce. «Senti la mia guancia.» Mi sembra al tatto che abbia ancora una temperatura accettabile, così la rassicuro: «Ma no, che stai bene». «Sono così agitata, che farei non so cosa» insiste, gli occhi cerulei da pazza puntati nei miei. Non mento: a questo punto indovino cosa la calmerebbe. Credo anzi d’immaginarlo alla perfezione, e la mia ipotesi si invera in una salda certezza non appena la sciroccata domanda: «In che stanza sei, scrittore?». Mostro la chiave per puro spirito di cortesia, e già preoccupato: la spostata giovanile del Costanzo Show non somiglia esat-

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tamente a Miss Italia, e neppure a Miss Muretto. Senza scendere nei particolari, diciamo che non accende il sacro fuoco della passione erotica nemmeno nel ventenne, più o meno single e in trasferta, che mi trovo ad essere questo pomeriggio. Colpa mia, naturalmente. Diciamo che sono emozionato, stanco, o che ho bevuto troppo – anche se sono perfettamente sobrio, e ancor più che sobrio, vigile. Sono disposto a prendermi tutte le responsabilità del caso verso la sciroccata e l’intero genere femminile, giuro, ma preferirei di cuore che questa ragazza bisognosa di affetto non entrasse con me nell’ascensore dell’hotel Ritz. Lo fa, invece. Ecco che la situazione si fa imbarazzante per tutti, mi dico. «Si vede che è la prima volta» osserva lei, maliziosa, appena premo il pulsante del piano. Le porte a sipario della cabina si chiudono con una lentezza che pare languidità, e noi due restiamo soli, in viaggio verticale e invisibili al mondo. «Perché, dici?» domando. Sbuffa, cerca il mio sguardo. «Così» risponde vaga. «Ti vedo nervoso.» Calcolo che, se la intrattengo a parole fino all’arrivo al piano, sono quasi salvo. «Lo so io come potresti rilassarti» annuncia passandosi l’indice sulle labbra, e il colpo basso mi mette alle corde. Sento la voce del mio secondo, il maestro Superio Es, che m’incoraggia dall’angolo: «Non cedere ora, figliolo, ché ai punti siamo sopra! Boxa, cazzo, boxa!». Mi vedo già colpire la sciroccata del Costanzo Show con un preciso gancio alla mandibola, poi torno in me e mi rendo conto che l’ascensore sta arrivando al piano. Non serve colpire nessuno, nella realtà; basta schivare un abbraccio, svicolare in corridoio, correre alla stanza giusta e scrollarsi di dosso la sciroccata quel tanto che basta ad aprire la por-

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ta, con la delicatezza che le donne meritano e sempre meriteranno. «Finocchio!» mi urla contro la fanciulla, mentre tento di richiudere l’uscio senza ferirla. «Sì, sì» le do corda. «Ma lasciami in pace, per favore!» Non vuole proprio levare il piede, ’sta pazza, e adesso mi grida contro, a tutto volume e in quest’ordine: «Frocio! Munnezza! Gay!». Sto per chiederle perché «gay», in un contesto retorico e sonoro che si configura chiaramente come un climax, venga dopo «frocio» e «munnezza», ma adesso ho l’impressione che stia per sputarmi, così abolisco ogni garbo e la chiudo fuori di prepotenza. Per un po’ continua a gratificarmi con i suoi epiteti dal corridoio. Troppo sollevato per darmene pena, appoggio i bagagli e comincio a prendere confidenza col mio rifugio a prova di sciroccate. L’importante, rifletto, è che quella strega e io non ci ritroviamo in macchina insieme nel tragitto verso il teatro. O, il Cielo non voglia, seduti vicini in trasmissione. Possono essere le cinque di pomeriggio, quando accedo sano e salvo al Parioli. Nel fermento del backstage, noi ospiti apprendiamo da qualcuno della redazione le linee guida della imminente trasmutazione alchemica: tanto per cominciare, la trasmissione sarà registrata, notizia che mi sbalordisce come una novità assoluta. Le otto sedute sul palco, in secundis, sono già assegnate, ed è inutile che il signor editore da Ancona continui a telefonare per chiedere che il suo protegé ne occupi una centrale. Per finire, ciascuno di noi può godere di un breve colloquio col dottor Costanzo subito prima di iniziare i giochi veri e propri.

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Sbalordito dall’accappatoio di paillette che il pianista Bracardi sfoggia senza ritegno, attendo il mio turno. Nel traffico dietro le quinte ancora non ho capito chi sarà ospite in trasmissione con me e chi invece non apparirà in video. Di certo oltre il pesante sipario – basta prestare orecchio – il teatro va riempiendosi. Quando tocca a me, vengo scortato al camerino dove Costanzo, molto più stanco di come si vede in tivù, mi attende in compagnia di un pastore tedesco. «Lui è Brizzi, quello di Jack Frusciante» mi si presenta al dottore. Faccio il mio mezzo inchino, dico «Piacere». Il presentatore dev’essere reduce da una giornata impegnativa, perché mi stringe la mano senza nessuna gioia, e torna a carezzare il cane. «Giovanissimo» osserva. «Bella bestia, però» dico per compiacerlo. «Quanti anni ha?» «Parlavo di lei» mi folgora il presentatore. Poi assume un’aria bonaria per levarmi dall’imbarazzo, e considera: «Ho letto sulla scheda che quella del suo libro è una storia vera». Non sapendo chi aveva preparato la scheda, mi limito a dire la verità: «Direi proprio di sì. In pratica ho solo cambiato dei nomi, e neanche tutti». «Lei è amico di quella scrittrice brava, la Ballestra.» Sapeva tutto! «Sì. Anche lei pubblicava per Transeuropa, prima.» «Con l’editore di Ancona, quello bravo e un po’ suonato» spiega la donna che mi scorta. Suonato? È così che si parla del mio editore, a Roma? «Ed è vero che lei» m’incalza Costanzo, «non riesce più a scollarsi di dosso il soprannome ‘Jack Frusciante’?». «Nessuno mi ha mai chiamato così» confesso, e rifletto ad al-

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ta voce: «Non sarebbe assurdo? È come se Manzoni fosse soprannominato ‘I promessi’». «Suona bene, ‘Jack Frusciante’» stabilisce Costanzo, sordo alla mia osservazione. «È molto musicale.» «Per forza...» commento mortificato, ma rinuncio a spiegargli tutta la pappardella di chi sia il vero Frusciante, e di perché sia omaggiato come Jack e non col suo vero nome, John. «Lei è una specie di portavoce dei giovani, mi raccomando a quel che dice» spiega Costanzo. «Con rispetto parlando» faccio presente, «lo stesso Kurt Cobain dei Nirvana ha sempre rifiutato il ruolo di portavoce. E se lo rifiuta lui, in che senso io, che ho solo scritto una piccola storia...». «Benissimo» m’interrompe Costanzo. «Ci vediamo in trasmissione, signor Jack Frusciante.» Il pastore tedesco ha intuito perfettamente come il tempo a mia disposizione sia finito, e il suo sguardo m’induce a ritirarmi senza replicare. Di quel che accade dopo, ho pochi ricordi sicuri: essere ospiti al Costanzo Show è un’attività impegnativa, ché non sei semplicemente davanti alle telecamere – e di fianco al dottor Costanzo – ma di fronte a te c’è una platea gremita da centinaia di persone. Serve restare concentrati, e questo nuoce alla rammemorazione dei dettagli. Per certo, nell’arco delle sedute destinate agli ospiti, occupo una postazione che gli osservatori potrebbero localizzare sull’ala sinistra; appena più centrale, per fortuna, non c’è la spostata giovanile ma lo showman Luca Barbareschi. Più in là, la chitarra già pronta, Dario Vergassola; cerco di non guardarlo perché ha vicino la spostata, e temo sottilmente che, se i nostri sguardi si incrociassero, quella riprenderebbe a gridarmi contro i suoi insulti.

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In teoria si parla uno alla volta, rispondendo alle domande del dottor Costanzo. In pratica il pubblico applaude e spinge avanti solo chi la spara grossa. Il mio romanzo-verità dove non si scopa mai non ha le marche del clamoroso, almeno non agli occhi del pubblico del Parioli, così il giovane «Jack Frusciante» Brizzi risponde, se non di malanimo, intimamente seccato ché non lo si lascia sviluppare a dovere il suo discorso sull’influenza di Andrea Pazienza e Kurt Cobain. Non secondario, sul palco c’è un monitor, invisibile dalla platea, impostato sul conto alla rovescia: i minuti e i secondi che ci separano dal prossimo blocco pubblicitario scorrono all’indietro, e gli ospiti più consumati attendono il momento propizio per coprire la tua voce con una gag a orologeria, che sposti l’attenzione da te a loro in prossimità del break. Durante le pause, fisso il pubblico per non guardare Vergassola, dietro il quale si cela la Medusa in grado di pietrificarmi. Decido che non mi sta così simpatico, il pubblico. Penso a Sid Vicious e alla sua pistola, ma la voce del mio invisibile coach, il maestro Superio Es, mi giunge in soccorso: «Boxa, cazzo, boxa. E invece di startene impalato, attacca discorso con Barbareschi: chissà quante ne ha viste». Mi ci metto, e scopro qualcosa di indimenticabile: qualcuno è perfetto. Perfetto, naturalmente, per le televisioni del Silvio. La levigatezza grafica della figura del Barbareschi, infatti, da vicino appare accentuata dalla perfezione del kombinat capelli-basette, né è disgiunta da una dizione perfetta e da un impiego consapevole del ventaglio lessicale. È davvero stato capace, questo signore sorridente e sornione, di sparare a un maiale durante le riprese di Cannibal holocaust? E davvero è di Destra?

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Ossì, e per questo motivo viene perseguitato dai dirigenti della televisione nazionale! Non lo si fa lavorare! E dire che, conosciuto in un break pubblicitario al Parioli, pare una persona così perbene. Simpatica, anzi. Non puoi che metterti nei suoi panni, anche se non sei di Destra, e convenire che escludere un attore per le sue idee politiche è una vigliaccata. In un mondo migliore, mi dico, questo non solo torna a lavorare in Rai, ma merita di finire in Parlamento. Era fatta. Il libro era apparso al Costanzo Show, qualcuno mi riconosceva per la strada, e già fioccavano le richieste di rifornimento, le ristampe e i nuovi inviti. Max Canalini non si teneva più: anche se in televisione non avevo parlato a dovere di Transeuropa, il mio titolo stava riscuotendo un successo senza precedenti nella giovane storia della casa editrice, e lui fissava di continuo interviste e incontri col pubblico, i distributori e i librai, imponendomi ogni appuntamento come «altamente strategico». Poiché il mio stile di vita bolognese non lo rassicurava, né giudicava utile per me l’università, mi invitò più volte a prendere casa in Ancona, un’ipotesi semplicemente pazzesca: vivevo nomade, fra casa di nonna Pina, quella di una ragazza e gli appartamenti degli amici; mi piaceva frequentare Ancona come Milano, Firenze o Venezia, tutti posti nei quali avevo buoni soci. Era l’idea di fermarmi più di una settimana consecutiva che sembrava l’anticamera della morte, e chi mi voleva bene lo sapeva. Così per i miei soggiorni anconitani, numerosi e piacevoli benché contrassegnati da litigi feroci con Max, scendevo al «due stelle» sopra il ristorante Giardino, lungo il viale alberato che conduce al «Passetto», o alla mansarda dell’hotel Viale riservata – de facto – ai giovani forestieri che gravitavano intorno a Transeuropa.

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Max e i suoi soci di allora, Giorgio Mangani ed Ennio Montanari, erano soliti pranzare in trattoria con noi ragazzi: dopo una mattinata di lavoro spesa a «interrogare l’anima dei testi», scendevamo volentieri al Giardino, oppure al bar-ristorante Diana, di fianco alle Poste. Negli anni successivi, senza più Giorgio – uscito dalla società – e con Ennio che appariva di rado, il nostro luogo d’elezione per pranzo e cena divenne il ristorante Tredici cannelle, di fronte alla fontana omonima, con rare eccezioni dettate dalla presenza di ospiti illustri, che si conduceva a mangiare il brodetto tipico ai piedi della cattedrale di San Ciriaco. Solo se l’ora si faceva tarda per le cucine delle Tredici, migravamo verso la cosiddetta Pizzeria de Diabolik, sopra la Galleria. Il discorrere proseguiva poi, furioso, nel pomeriggio; i dubbi sulla vera natura filosofica del minimalismo non ci abbandonavano nemmeno a tarda sera, mentre bevevamo al pub di Mauro, di fronte alla più costosa osteria-teatro Strabacco, con la quale Max aveva un contenzioso morale ancora aperto. Con il giusto tenore alcolico a sostenerci, scendevamo al ricercato Liberty, tempio del barman Fabiùs; fra i tavolini capitava di trovare coppie di teneri ventenni, ma più spesso erano occupati da coppie in pelliccia e loden dell’Ancona-bene, alle quali Max non mancava di regalare perle della sua arte performativa. «Voi che non leggete niente» li apostrofava quando gli girava storto. «Pettinati come la merda.» Non mirava a venire alle mani, anzi rifuggiva discretamente l’eventualità, ma come editor e attaccabrighe, in quelle notti dei secondi anni Novanta, sapeva essere impagabile. Ripensando a determinati episodi e provocazioni, è un mezzo miracolo che nessuno ci abbia mai gonfiato di botte. Una volta, in trasferta a Bologna per la presentazione di Jack Frusciante alla festa dell’Unità, s’impuntò sul fatto che le melanzane in umido servite al ristorante facevano schifo, e pretese di vedere il cuoco.

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Sembrava uno scherzo, ma quello si palesò, democraticamente risentito. «Siamo tutti volontari, qui» mise in chiaro. «Però ve fate pagare lo stesso» puntualizzò Max. Il cuoco lo fissò per capire dove volesse arrivare. «Ora, se mi servi qualcosa di ontologicamente immangiabile, siamo oltre i discorsi sul volontariato e il professionismo! Immangiabile, come dice la parola stessa, me pare troppo.» Intorno a noi, il gelo della tavolata. «Immangiabile» ripeté il cuoco, imbarazzato. «Non so dove è abituato a cenare, lei, ma...» «Guarda!» intimò Max, e chiarì in tono isterico: «Io non le ho toccate!». Guardammo tutti le melanzane intatte, simili a sirene spiaggiate su un lido di purè in fiocchi. «Non vedi che sono asciutte?» s’infervorò il mio editore. «Te pare che un cristiano può mangiare le melanzane in umido asciutte?» Qualcuno, intorno a noi, bisbigliava allarmato. Altri osservarono che, in effetti, le melanzane non sapevano d’un granché. «Su, che non sono asciutte!» negò l’evidenza il cuoco. «Te sfido!» annunciò Max. «Mettici il naso e vediamo se si sporca o no!» «Tranquilla, amore» sentii una voce d’uomo che rassicurava la compagna. «È un comico.» Prima ancora che il cuoco potesse accennare una qualche forma di difesa, la mano di Max era guizzata a pinzargli il naso. «Signore!» protestò l’uomo, ma ormai la presa del forestiero lo stava trascinando verso il piatto. Solo quando la punta del suo naso ebbe toccato una melanzana, Max lo lasciò andare. «Visto che è pulito?» replicò alle rimostranze del cuoco. «Cosa dicevo? Le melanzane sono asciutte!»

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Il desiderio del mio editore di occupare il centro della scena era istintivo e irrefrenabile. Quasi impazzì di gioia quando, nonostante la mia opaca prestazione, mi giunse un secondo invito per il teatro Parioli. Forse Barbareschi non ci sarebbe stato, ma io ero confermato all’ala sinistra, mentre Silvia e lo stesso editore erano convocati a sostenermi dalla prima fila della platea. «Devo mettermi una giacca meravigliosa!» rifletté ad alta voce Max quando lo informai dell’appuntamento. «Non fumare davanti alle telecamere! E, non appena mi danno la parola, parlare un casino della casa editrice!» «E se rifiutassi?» proposi timidamente. «Non mi sono divertito granché, l’altra volta. C’era anche una pazza, in albergo, che...» «Stai scherzando, voglio sperare» m’interruppe. Potevo immaginarlo con gli occhi sgranati e proteso sulle punte come un matador. «Dico davvero. Andate tu e Silvia.» «Matuseiunpazzoingrato!» mi travolse la sua voce. «Illavorodiuncasinodipersonedipendedate!» «Ascolta» m’impuntai. «Abbiamo un contratto, e sul contratto non si dice da nessuna parte che...» «Tu non puoi capire!» virò sul patetico. «La casa editrice è nelle tue mani, adesso! Non ci pensi, a me?» «Su, Max, cosa c’entra?» «C’entra eccome, perché nessun uomo è un’isola, e alla fine il tutto si tiene!» «Potrò decidere io, se andare o no?» «E Silvia?» insistette. «Cosa?» «Non è una tua buona amica? Ti ha pure scritto la prefazione! Perché la vuoi deludere, adesso?» «E va bene!» capitolai. «Però sia chiaro che è l’ultima volta!»

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Sapendo ch’è l’ultima volta, mi ripresento al Parioli a cuor leggero. Dopo il matrimonio con una ragazza di Roma, mi troverò a celebrare le vigilie di Natale in un appartamento del Lungotevere Flaminio non lontano. Finirò per pensare alla Capitale come all’ennesima città in cui sentirmi a casa, ma ora come ora non ho la minima contezza del futuro, nemmeno di cosa accadrà quando il sipario si aprirà, e il pubblico si accorgerà che Luca non c’è. Poi si comincia, e non c’è più tempo per i ricordi e per i «se». Bilancio i sensi sul presente, pronto alla nuova trasmutazione, non presto orecchio a quasi nulla. Di fianco a me, sul palco, stavolta c’è un alto ufficiale dei Carabinieri; sull’altro lato ho l’onorevole sardo Luigi Manconi. Costanzo saluta. Il pubblico applaude. Il timer rivolto al palco comincia il primo conto alla rovescia. Max e Silvia, in prima fila, sembrano felici. Non c’è neanche la sciroccata del Ritz: va tutto alla grande. «Del suo romanzo sono state realizzate migliaia di copie con le copertine colorate a mano» dice Costanzo, rivolto a qualcuno che ha avuto la mia stessa idea. Mi guardo intorno, e vedo che il presentatore fissa proprio me. «Eh, certo!» rinvengo. «Diciamo che è stata una scommessa fra l’editore e il sottoscritto.» Dal pubblico sale un brusio che sembra denotare interesse, mentre Max mi fissa sconcertato. «E come sarebbe a dire?» «Io volevo realizzare le copertine a mano sin dalla prima edizione» rivelo. «Lui ha promesso che l’avremmo fatto, eventualmente, con la seconda.» «E come vi siete messi? Con le pitturine?» domanda una voce di donna. Il pubblico ride.

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«Più o meno» ammetto. «Abbiamo scambiato venti copie del libro in cambio di un secchiello di pennarelli.» «E dove?» insiste la voce, che non capisco da dove arrivi. «Alla fiera dell’Est?» Nuove risate. Anche Max e Silvia, li vedo nettamente, ridono. Di me. Che sono qui, senza neanche sapere che a Roma troverò moglie, unicamente per far piacere a loro. «Non alla fiera dell’Est. In una cartolibreria di Ancona» mi rabbuio. «Comunque mi piacerebbe parlare anche del libro, oltre che delle sue copertine.» «Cioè, ma fateme capì!» riesplode la disturbatrice invisibile. Dev’essere vicino il break pubblicitario. «Qualcuno s’è messo lì, come gli amanuensi, a colorasse le copertine una per una! Che ormai stamo nel Dumila!» Boati dal pubblico, io medito seriamente di andarmene come ho già visto fare a qualcuno in altre trasmissioni. «Mi faccia capire, Brizzi» mi raggiunge la voce di Costanzo. «Ma chi le ha colorate, tutte ’ste copertine?» «Intanto ci sono collage, disegni e diverse categorie di...» «E quante sono?» «No, dicevo, non sono tutte colorate...» «Il numero!» reclama il dottor Costanzo. «Dica un numero, per dare l’idea al pubblico...» È come essere convocato in presidenza, senza nemmeno poter contare sulla solidarietà dei correi: qui è il preside che suscita a piacimento risate o riprovazione, e gli basta corrugare la fronte o inclinare il mento in avanti per farti apparire un imbecille davanti a mezza Italia. «Millecinquecento, credo» lo accontento. «E quanto tempo è stato necessario dedicare a ciascuna?» «Be’, dipende, come dicevo...» «Senza fare la storia dell’Arte! Ci dica una media!» «Un quarto d’ora di media» sparo a caso.

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«E chi se n’è occupato?» m’incalza, ormai apertamente spiacevole. «In parte io, e in parte l’editore.» «È qui con noi, se non sbaglio, insieme a una bravissima scrittrice giovane...» annuncia Costanzo. Cerca d’individuare in platea Max e Silvia, ma non ce la fa e mi domanda d’indicarli. Mi hanno riso dietro fino a un minuto fa, e adesso stanno lì compiti. «Lui è Massimo Canalini...» rendo la pariglia. «Quel signore con gli occhiali e una cravatta inguardabile.» La regia inquadra la cravatta di Max, invero normalissima, ma la mia notazione sciocca fa ridere il pubblico; considero così di avere pareggiato i conti, ma lui mi fissa come l’avessi pugnalato. «Un quarto d’ora per millecinquecento copie» considera Costanzo dal palco. «È un bel lavoro, per un editore che deve anche occuparsi d’altro.» «Che nun ce l’ha le chiamate al telefono da risponne, e i libri da stampà?» s’infervora la disturbatrice. Finalmente capisco che occupa una seduta all’estremità opposta del palco: è una comica televisiva professionista, non bella, specializzata in queste tirate stile pescivendola di Trilussa. «Uno pensa che chi fa i libri ha da esse una persona seria, e invece no! Il signore dipinge!» incalza. «E allora nun è editore, è pittore! Beato lei che è un cuorcontento!» Il teatro sembra venir giù dalle risate, e Max si ritrova a essere lo zimbello generale prima ancora di avere detto: «Buonasera». Per fortuna, mi dico, che questa è l’ultima volta.

Seconda Repubblica

LA MALEDIZIONE DEL GATTOPARDO Non sono trascorsi sei mesi dal mio ultimo passaggio al Parioli quando, rimangiata ogni promessa, mi accingo a tornare in televisione. Questa volta Max non c’entra: adesso che ho cambiato editore, dice che la televisione è una merda, e che non esiste una ragione al mondo perché uno scrittore debba imbrancarsi con i più deficienti del paese. L’esperienza al Costanzo Show condiziona ancora la sua serenità nel giudizio, mentre il mio nuovo editore, Alessandro Dalai di Baldini&Castoldi, si raccomanda di accettare ogni invito. È  irremovibile, in particolare, sul fatto ch’io mi presenti a Venezia in tempo per la conferenza stampa, i cocktail e la serata finale – teletrasmessa – del Premio Campiello. Poiché il mio romanzo d’esordio appare effettivamente incluso nella cinquina dei finalisti, concordo che mancare sarebbe uno sgarbo immotivato; senza farmi troppe domande calo a Lugo di Romagna, faccio incetta di giacche rare all’Angelo Vintage Palace, e da lì raggiungo comodamente la Laguna. Dalai mi aspetta laggiù, e – a quanto pare – anche Mara Venier.

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La conferenza-stampa si rivela imbarazzante: mi chiedono tutti se sono contento di essere lì, e se per caso mi rendo conto di cosa significhi essere il più giovane finalista del Campiello. Per non sbagliare rispondo «sì» a entrambe le domande, e come premio mi scattano una quantità di foto. Quando poi arriva la serata finale, il sottoscritto e gli altri finalisti, fra i quali giganteggia ai miei occhi Daniele Del Giudice, vengono sbarcati sull’isola di San Giorgio e affidati alle mani sapienti della regia Rai. Non ho la minima speranza di vincere, per cui mi godo ogni minuto della serata, dalla partecipazione di Alberto Sordi alla Venier che lancia le microinterviste registrate in precedenza coi diversi finalisti, fra i quali il mio sosia. Per tutto il resto del tempo Mara intrattiene personalmente il pubblico, e noialtri seduti sul palco ce la godiamo di spalle. La prospettiva insolita mi fa riflettere sul fatto che in televisione le presentatrici ci appaiono invariabilmente di fronte, anche quelle nettamente tridimensionali come la Venier, e questa inedita vicinanza alle sue forme generose mi rassicura. Come sempre, nel corso delle dirette, medito qualcosa di clamoroso che l’allenatore Superio Es, al dunque, m’impedirà. Stavolta – perché negarlo dopo tanti anni? – carezzo l’idea di lanciarmi in ginocchio sul palco a baciare il culone di Mara, per lodarlo di fronte al mondo e ringraziarlo di farmi sentire a casa anche qui. Grazie al mio coach, non succede niente del genere: il Campiello lo vince Maggiani al posto di Del Giudice, e io arrivo secondo senza incidenti di rilievo, a parte il furto delle coperte destinate ai profughi di Bosnia, saccheggiate a fine serata dalle signore-bene. È andata anche stavolta, e un istante più tardi mi ritrovo a cena all’Harry’s Bar con Dalai, Max Canalini e la regista Enza Negroni. A fare gli onori di casa è lo stesso Arrigo Cipriani, e solo

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dopo alcuni drink l’allegra tavolata concede qualcosa alla malinconia: sta arrivando a sedersi con noi Lino Toffolo, meno sobrio di chiunque all’intorno, e qualcuno già lo invita a intonare la sua vecchia hit Chi ha rubato la marmellata?. Nella seconda metà degli anni Novanta mi abituai a non stupirmi di nulla. La mobilitazione a favore di Romano Prodi, che coinvolse attivamente entrambi i miei genitori, sembrò segnare un ritorno alla passione politica, che la deriva dei partiti aveva minacciato di estinguere. Le elezioni politiche del 21 aprile ’96 parvero dimostrare che il futuro non era ancora scritto, e il paese, forse, era migliore di come immaginavo: la coalizione di centrosinistra raccolta dietro l’insegna dell’Ulivo ottenne 285 seggi alla Camera e 157 al Senato, contro i 246 alla Camera e 117 al Senato guadagnati dal Polo per le Libertà, orfano della Lega che prese il 10% correndo da sola. Cos’era mancato, stavolta, al Silvio? Solo i voti di Bossi? Sul piano dei numeri, Forza Italia era passata da 107 a 123 seggi alla Camera, mentre Alleanza Nazionale – reduce dalla svolta di Fiuggi – era scesa da 109 a 93. L’equilibrio quasi perfetto della coalizione si era rotto insieme al sogno di tornare al governo: da quel mese di aprile Gianfranco Fini si ritrovò in posizione subordinata al Silvio. Quanto a Prodi, varò il suo primo esecutivo con esponenti del trionfante Pds, dei Popolari, del Rinnovamento italiano di Lamberto Dini e dei Verdi, con l’inserimento di personalità indipendenti. Il governo, però, poteva reggersi in aula solo grazie all’accordo di desistenza stipulato con Rifondazione comunista, forte di 35 seggi a Montecitorio e 10 a Palazzo Madama che si riveleranno decisivi verso metà legislatura.

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Per il momento, però, anche i deputati di Bertinotti erano d’accordo col Professore: la priorità era quella di risistemare i conti pubblici, per allineare il paese agli standard che ci avrebbero consentito di entrare nell’area della moneta comune. Chi, dall’opposizione, mugugnava contro le tasse ebbe vita fin troppo facile: un mese dopo il giuramento, il governo varò una manovra correttiva che ammontava a 16mila miliardi di lire, e il 27 ottobre fu resa esecutiva una «finanziaria» da 62.500 miliardi; altri 4.000 furono racimolati a fine anno con l’eurotassa e i provvedimenti connessi. Il Silvio, tornato all’opposizione, non si dimostrò molto grato verso chi finalmente stava raddrizzando le casse dello Stato; le sue televisioni, ed Emilio Fede in particolare, tennero anzi un contegno non sempre sportivo nei confronti del nuovo governo. E, sarà stato un caso, sempre nel ’96 Striscia divenne più satirica del solito, e prese ad assegnare i suoi Tapiri d’oro: ben presto, e non c’è da stupirsene, Staffelli ne consegnò uno al Professore. La nuova Italia del centrosinistra, però, si dimostrò superiore a queste bassezze, e legittimò di fatto le aspirazioni del Silvio a recitare stabilmente da leader del centrodestra. Come accadde? Già nel ’94, più d’uno aveva sollevato eccezioni sulla candidabilità del Nostro, citando l’articolo 10 della legge n. 361 del 1957, secondo cui «non sono eleggibili [...] coloro che [...] risultino vincolati con lo Stato [...] per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». La legge sembrava parlare chiaro, eppure nel luglio la Giunta per le elezioni (con un terzo dei deputati assenti) respinse a maggioranza i ricorsi che lamentavano l’illegittimità dell’elezione del Silvio.

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Si saranno lasciati influenzare dal fatto che era presidente del Consiglio, aveva suggerito maliziosamente qualche commentatore. Quando se ne riparlò, nell’ottobre ’96, al governo c’era l’Ulivo, eppure la Giunta per le elezioni diede nuovamente ragione al Silvio, e stabilì a maggioranza di archiviare definitivamente i reclami, giudicati quasi incredibilmente colpevoli di «manifesta infondatezza». Che qualcuno, anche nell’odiata Sinistra, si cominciasse ad affezionare a lui? Le strane assonanze ideali fra il governo e l’opposizione si fecero quasi clamorose sul tema della giustizia. L’Ulivo affidò il ministero competente all’onorevole Flick, che presentò un pacchetto di norme intese ad accelerare i processi, contro la corruzione e a favore di una magistratura maggiormente indipendente dal potere politico. Qualcuno osservò che le norme votate in aula, però, erano diverse da quelle descritte nel programma, e altri suggerirono che Flick fosse stato ostacolato nell’attuazione delle sue riforme da un velenoso fuoco amico, orchestrato da esponenti dello stesso governo. Ulteriori voci fuori controllo sostennero addirittura che le norme effettivamente sottoposte a votazione avrebbero ripreso alcune proposte del centrodestra, ispirate da Cesare Previti. Cosa ci fosse di vero e cosa fosse prodotto da una maliziosa disinformazione, il pubblico a casa lo ignorava; anche gli osservatori più attenti, però, si meravigliarono della straordinaria unanimità che si registrò fra Polo e Ulivo al momento di approvare le nuove disposizioni. Le crudeli finezze politiche della Prima Repubblica avevano lasciato il posto ai segreti sofismi della Seconda, ma era come se l’antica maledizione del Gattopardo aleggiasse sui palazzi del

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potere romano: tutto era cambiato, in apparenza, perché nel profondo potesse restare com’era. Per capire chi fosse il colpevole, procedetti per esclusione. Avevo una cieca fiducia nel Professor Romano, del cui nipote Andrea ero divenuto amico fuggendo lungo il ballatoio d’un albergo, episodio che ho narrato in La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco. E poi il Professore aveva dalla sua la sincerità: lui mica lo nascondeva, di essere debitore alla tradizione cattolica. Quelli che mi stavano insospettendo, personalmente, erano gli ex compagni del Pds. Loro, in teoria, dovevano essere debitori alla tradizione del Pci, ma si comportavano in modo strano: mentre Veltroni e il suo gruppo apparivano fedelmente prodiani, una parte cospicua del partito sembrava intenzionata soprattutto a legittimare l’ingresso nei dizionari del termine romanesco «inciucio», e dell’inquietante neologismo «bipartisan». «Io non capisco proprio» si lamentava il leghista Iuri Giacobbi. «Quando il Silvio era al governo insieme a noi, per voi di Sinistra era il diavolo. Poi il Bossi scopre dei suoi rapporti con la mafia, così noi lo scarichiamo, e voi vincete le elezioni. E ora che siete al governo, invece di lasciare che la giustizia faccia il suo corso, lo andate ad aiutare?» Non sapevo cosa rispondergli. «Pure il regalo della Bicamerale gli avete fatto, tanto per renderlo più autorevole». Proprio non sapevo cosa rispondergli. «Perché il Pds, secondo te, insiste tanto a lanciargli un salvagente?» Continuavo a non sapere cosa rispondergli, ma in segreto mi convinsi che qualcuno, a noi di Sinistra, non ce la contava giusta.

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Eravamo sempre stati capaci di ribattere a dovere su tutti gli argomenti del Creato, e adesso bastavano tre domande di un giovane leghista per ammutolirci. Qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto spiegare cosa ci stava succedendo. Massimo D’Alema c’era sempre, nelle foto di gruppo, ma non sorrideva quasi mai, come gravato da troppe verità. Era scaltro, poco loquace, diversamente simpatico. Gli piaceva la vela, d’accordo, ma cosa sapevamo, in fondo, di lui? Figlio di un dirigente del partito, si era concesso un’infanzia da bambino prodigio non rara fra i protagonisti di queste pagine; nel sentirlo pronunciare un discorso come rappresentante dei pionieri romani, il vecchio Togliatti avrebbe esclamato: «Capirai, se tanto mi dà tanto, questo farà strada». Accompagnato dalla precocità densa di presagi che è propria ai futuri Grandi della Storia, Massimo si era iscritto alla Fgci appena quattordicenne, in tempo per organizzare il movimento studentesco nel suo liceo e manifestare con la giusta veemenza contro la guerra in Vietnam. Non per questo, però, perse il gusto del confronto con le componenti tradizionali della società: narrano le odierne agiografie che il giovane compagno Massimo trascorresse lunghe ore a discutere con il parroco di tematiche sociali, quasi a comporre un toccante tableau vivant ispirato al compromesso storico. Maturato anzitempo come Cossiga, il D’Alema era finito alla Normale di Pisa, dove aveva presto fatto banda fissa con il compagno Mussi. Sì, il futuro onorevole Mussi. Quello che nel ’96-97 si preoccupava, secondo alcuni notisti, di mettere in difficoltà dai banchi della maggioranza il povero Flick. Nel 1975 Massimo fu scelto come segretario della Fgci: fondamentale nella scelta sarebbe stato l’appoggio dell’amico di famiglia Chiaromonte, della corrente migliorista (la destra inter-

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na del partito, riformista e socialdemocratica, cresciuta nel solco del moderatismo di Amendola). Le posizioni del nuovo segretario non mancarono di destare polemiche: se da un lato il D’Alema cresceva, da buon dirigente, una nuova covata di quadri di partito, dall’altro le sue posizioni ritenute troppo conciliatorie nei confronti dell’estremismo gli procurarono l’ira degli stessi leader miglioristi, a cominciare dal futuro presidente della Repubblica Napolitano. Spedito in Puglia senza un incarico, il futuro «Baffino» ricominciò a maturare meriti poco a poco. Nel 1983 fu ammesso alla direzione nazionale e l’anno dopo, benché fosse solo un giovane dirigente, Berlinguer lo volle con sé a Mosca per i funerali del leader sovietico Andropov: nelle grammatiche interne al Pci, qualcosa di molto simile a un’investitura. L’anno dopo scomparve anche «il dolce Enrico» e durante la segreteria di transizione, affidata ad Alessandro Natta, D’Alema scalò le gerarchie del partito dall’interno. Non è dato sapere se si sia opposto alle dimissioni imposte allo stesso Natta nel 1988, né chi sia stato il vero ispiratore delle medesime, estremo mistero del Pci per come lo conoscevamo. Dopo la svolta della Bolognina, guidata dal compagno-rivale Achille Occhetto, il Massimo divenne coordinatore della segreteria del neonato Pds, acquistandovi una posizione eminente al punto da mettere in ombra lo stesso segretario. Amici e nemici concordavano nel vedere D’Alema come «più comunista», «più freddo» e «più scaltro» di Occhetto, e forse per questo motivo apparve a entrambi gli schieramenti una figura di garanzia, egualmente rassicurante per i militanti e i leader avversari. Fosse come fosse, quando il Silvio nel ’94 prese il potere a Palazzo Madama, lo sconfitto Occhetto fu praticamente defenestrato, e Massimo conquistò la segreteria di Botteghe Oscure. La profezia di Togliatti si era dunque avverata.

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Ma D’Alema aveva ancora lo stesso cuore puro di quando, bambino, militava nei pionieri? O trent’anni di guida e organizzazione delle coscienze altrui l’avevano indurito e raffreddato al punto da renderlo un’altra persona? Quale cattivo sortilegio indusse il D’Alema a legittimare la figura politica del Silvio? Perché, invece di lasciare che la giustizia facesse il proprio corso, lo chiamò addirittura a riformare la Costituzione? Gliel’aveva prescritto il dottore, di istituire la Bicamerale? E che schifo di crostata si mangiò, il 18 giugno ’97, a casa di Gianni Letta? Fu lì che Pds, Popolari, Forza Italia e An, i quattro principali partiti italiani ad esclusione della Lega, si misero d’accordo per una riforma elettorale a doppio turno e una presidenza di garanzia; saltò tutto il 1° febbraio del ’98, quando il Silvio, all’epoca leader dell’opposizione, reclamò il cancellierato e il ritorno alla proporzionale: praticamente una beffa a Massimo e alle sue pazienti operazioni bipartisan. Qualche mese dopo, a Bicamerale ormai sciolta, l’ex compagno di studi del Massimo, il solito Mussi, dichiarò che il killer delle riforme era il Silvio. La base ancora non aveva capito perché mai lo avessero coinvolto. Avrebbe scritto nel 2001 Paolo Sylos Labini: «La legittimazione politica scattò automaticamente quando fu varata la Bicamerale: non era possibile combattere Berlusconi avendolo come partner per riformare, niente meno, che la Costituzione [...]. E la responsabilità dei leader dei Ds è gravissima». Delle riforme costituzionali condivise non si fece nulla, ma un risultato era stato raggiunto: il Silvio era un autorevole leader, adesso. Anziché ritirarsi dignitosamente a vita privata, e forse senza

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riflettere sui danni permanenti causati all’autostima di milioni di democratici, D’Alema puntò in alto: forte dei suoi ambigui meriti, si sentiva pronto ad elevarsi sino alla presidenza del Consiglio.

ANDARE IN TELEVISIONE (II) Un autore Baldini&Castoldi come me, nella seconda metà degli anni Novanta, non poteva astenersi dal mostrarsi, di tanto in tanto, in video. Passasse per le interviste a Videomusic con Elisa Jane Satta, o quelle condotte sulle reti maggiori dai volti nuovi Sveva Sagramola e Daria Bignardi; passasse per la radio e anche per le interviste incrociate sulla carta stampata con Vasco Rossi; i miei detrattori – categoria che nasce e si sviluppa insieme agli aficionados, secondo l’accettabile costante D=√1/A – stigmatizzarono però con vigore la partecipazione del sottoscritto al Tappeto volante di Luciano Rispoli. Probabilmente ignoravano che ero un suo fan sin dai tempi di Parola mia, e che il Rispoli era un signore d’una gentilezza squisita, pari solo alla determinazione con la quale Melba Ruffo mi colmava il calice di bollicine ad ogni break pubblicitario. Verso la fine della trasmissione, ormai ebbro, ero pronto a sdraiarmi sul tappeto volante col signor Luciano e tutte le sue amiche, per canticchiare inebetito L’uselin de la comare. Se ero così a mio agio in televisione, argomentavano i detrattori da casa, significava che ero uno schifoso autore nazionalpopolare. Io solo conoscevo la verità: benché rifiutassi con tutte le mie forze un destino da giovane tuttologo alla Pierluigi Diaco, una sottile linea marrone era stata superata.

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A quel punto, potevo persino andare a fare l’uomo misterioso nell’Harem di Catherine Spaak. Vi andai, infatti. Il tranquillo pomeriggio postatomico che culla Roma è solcato da quattro capaci auto blu dell’azienda radiotelevisiva statale. Tre volano a raccogliere le incipriabili ospiti dell’harem settimanale della Spaak. La quarta si incunea tra scorciatoie e preferenziali fino agli storici stabilimenti di doppiaggio Fonoroma. Ferma in doppia fila. L’autista, un discreto esemplare d’irriducibile tifoso laziale in giacchetto husky, entra nel palazzo e si rivolge alla portiera: «Che è qui, l’omo misterioso della signora Spaak?». Secondo le informazioni in possesso dell’irriducibile dipendente Rai, l’uomo misterioso si aggirerebbe per lo stabile, labirinto di moviole e sale di doppiaggio, viluppo di controcorridoi e tunnel insidiosissimi. «Se è quel tipo che dico io, è entrato due ore fa al bar e non si è ancora visto uscire», sussurra la portiera. «Vuole... vuole che lo faccia chiamare...?» Vagamente inquietante la marmorea immobilità che l’autista, lontano nipote in giubbotto husky dei fieri volsci, inalbera a mo’ di risposta. La portiera capisce al volo, afferra il ricevitore bauhaus e fa chiamare l’uomo misterioso temporaneamente ospite della struttura. Ci trasferiamo ora pochi metri più in là (forse quindici, in linea d’aria, ma irti di curve a gomito). L’uomo misterioso viene avvicinato da un dipendente del bar, dove sta consumando una coca-cola tiepida e un centinaio di sigarette, presissimo dall’ultimo numero di «Wolverine». L’uomo misterioso capisce che è il momento di andare, si alza, salda il conto, inforca il pastrano da capitain courageux e ca-

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la gli occhiali da rave-party; un fremito si diffonde tra gli avventori del bar, fino a quel momento assorti in altri pensieri. «È dunque lui?», sembra chiedere dal tavolo vicino Marco Columbro a Sandra Mondaini, ambedue più stanchi di quanto non si possa dire osservandoli in video. «È dunque lui?», sembrano sussurrare interrogativi i camerieri in felpa genere Amici. «Ebbene sì, amici, son io» rivela commosso l’uomo misterioso, un certo tizio con basette e zaino similmilitare. Trattiene un singhiozzo. «Sono uomo certo misterioso, ma anche di parola. E loro avevano la mia parola che sarei andato. Devo farlo per quelle tre creature ospiti dell’Harem. Devo farlo per la nostra Catherine.» È ormai inondato di una certa aureola, e attraversa liquido la stanza, diretto all’auto, goletta diesel della flotta da diporto di madame Morattì. Chi si cela sotto i panni improbabili dell’uomo misterioso? Perché abbandona gli slums del grande schermo per andare a nascondersi dietro un tramezzo nel salotto arabeggiante di casa Spaak? Quali donne spierà nell’harem? Quali superpoteri ha? E quali rischia di perdere, a forza di fare il giovane scrittore che va in televisione? «Era un carcere, questo», introduce amaro l’autista in vista del canyon di Saxa. «Oooh», spalanca la bocca il misterioso, che mai prima vi si era recato, e si ritrova fuori dall’auto, solo. Alla dogana Italia-Rai, tenta di accreditarsi sussurando il nome della signora Catherine, ma si ritrova a fare i conti con la diffidenza di due guardie di frontiera. «Gino, il giovinastro dice di essere ospite della Spaak», fa il più anziano al collega. «Dice di essere il nuovo uomo misterioso.» «Strano.»

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«Molto strano.» «Solitamente fa venire signori famosi ed eccentrici. Aldo Busi, Luca Barbareschi, o quello dei ‘Cuggini de campagna’.» «Già. Oppure Everardo Della Noce, o ancora Tinto Brass.» «Oh, ma io sono eccentrico: ho scritto un libro in cui non scopano mai per quasi centottanta pagine... Capite?» «Sentito, Gino? Il ragazzo è un eccentrico!» «Signore, signore, se è per questo una volta ho anche arrotolato un gatto in un tappeto e l’ho maltrattato... Ho fatto esperienze estreme io, fortissime, che mi hanno segnato un casino. Una volta all’Alpe di Siusi...» «Va bene, va bene, basta così. Supera il cancello, vai di qui e di là, e poi laggiù, lassù e dabbasso, e sei quasi arrivato.» «Magari chiedo.» La soave redattrice fiorentina introduce nel camerino, mostra appendiabiti e cassetti, informa: «Era un carcere, questo». «Maddài!», finge stupore l’uomo misterioso fissandosi le punte delle scarpe, ché in mano ha solo un fumetto e gli occhiali da sole, e non sa proprio con quali accessori riempire i cassetti o invadere il tavolo della specchiera. Irrompe una costumista ex samurai, gli suggerisce minacciosamente di indossare una giacca al posto del giubbino acid jazz in lana. «Ma se è stupendo! È un regalo di una sbarba! Costa anche parecchio!», protesta invano il misterioso. Niente da fare, viene trascinato in catene a provare le giacche del buontempone Luca Giurato, di casa da quelle parti, ma ci sono almeno tre taglie di differenza: le maniche della giacca quasi strisciano sul linoleum che riveste il pavimento, e la costumista deve ammettere che così non va. Sotto la sua guida, l’uomo misterioso è costretto a vestirsi da messicano, da tamburo maggiore della banda, da carabiniere, ma nessuna tenuta pare convincere la dispotica ex samurai.

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Alla fine si resta ancorati al giubbino iniziale; la soave redattrice fiorentina invita l’uomo misterioso a sedersi, solo e negletto, dietro il tramezzo fatale: da lì, morbidamente accoccolato sui cuscini, dovrà seguire le evoluzioni verbali delle tre ospiti odierne: Rossana Campo, scrittrice; Eva Grimaldi, attrice; Claudia Gerini, pure attrice ma più giovane. Poco prima dell’inizio, si presenta all’interno del suo munitissimo fortilizio in stile algerino Catherine Spaak in persona. «Buonasera, siamo oltremodo liete...» lo saluta. «Così giovane! Una scelta coraggiosa invitare un uomo misterioso così... Giovane! Solo una precisazione: niente parolacce silvuplè!» Scompare in una scia di frettolosa cortesia, e l’uomo misterioso è di nuovo solo e invisibile, così come ci si aspetterebbe da un angry young man del suo calibro. La voce di Rossana Campo dice: «I miei personaggi sono donne che parlano come le donne vere, con tanta crudezza, senza l’ipocrisia dei periodici femminili». Catherine Spaak, col tipico accento e modi circolari: «Sappiamo che nell’Inghilterra della regina Vittoria le donne hanno dovuto fingere». Rossana Campo: «Quando le amiche stanno insieme a confidarsi è un momento molto liberatorio». Eva Grimaldi, rauca come un alpino: «C’è da dire che, nell’amore, siamo rimaste nel Settecento». Catherine Spaak: «Tu, Claudia, racconti tutto alle tue amiche?». Rossana Campo: «Eh, poi l’uomo racconta per vantarsi, la donna per compiangersi». Claudia Gerini: «No, è che in questi anni tra giovani uomini e giovani donne si sviluppa un rapporto di tipo paritario... Ognuno però secondo le proprie prerogative».

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Coro: «Aaaah, sì, certo. Ci mancherebbe altro! Altrimenti sarebbe proprio un finimondo!». L’idea è che ognuna parli per conto proprio. Ogni luogo comune è salutato da battimani, ogni marachella ai danni di qualche malcapitato maschio celebrata da sgomitate maliziose. «Quante ne abbiamo combinate, eh, signora Spaak! Nel nome dell’emancipazione, poi, se n’è fatte di tutti i colori», pensa il muto ospite nascosto dietro il tramezzo da pesanti lenzuoli berberi. Pensa, ma non dice, giacché tanto è invisibile. Ché se parlasse si penserebbe che una delle ospiti è ventriloqua e chissà quali polemiche, dopo. Dopo mezz’oretta di donne che si strappano la parola come neanche i peggio sbicchieratori al bar, a colpi di «ad esempio a me è successo...» e chiamandosi cordialmente per nome in quanto accomunate dall’appartenenza allo stesso genere e quindi stesse gioie stessi dolori stesse sofferenze, finalmente è il mio turno. «L’ospite maschile di questa sera è giovanissimo», risuona la voce della Spaak. «Caso letterario, giovanissimo, solo ventun anni, caso letterario. Nato a Nizza il 20 novembre 1974, ecco a voi l’unico e inimitabile Enrico Brizzi.» O qualcosa del genere, tanto per far capire che l’uomo misterioso sarei io. Comparendo da dietro il tramezzo per scivolare sul divano dell’Harem con il mio giubbino acid jazz in lana, penso a John Belushi coi soci della Delta House, e a quale casino si potrebbe combinare qui dentro con una banda di amici facinorosi. Poi mi guardo attorno semiaccecato dai fari dello studio televisivo, e appuro che sono ancora una volta completamente solo nelle mani del nemico. «Buonasera a tutti», dico composto, sedato, addomesticato.

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LAVORARE PER LA TELEVISIONE? Nel 1996 Carlo Freccero, già responsabile dei palinsesti della prima Fininvest, tornò dalla Francia e s’installò alla direzione di Rai Due. Era circondato dalla fama del fuoriclasse: colto, situazionista (sua la prefazione ai Commentari sulla società dello spettacolo di Debord), lo si diceva insofferente alle marcature che l’Azienda imponeva, in un eterno sistema di pesi e contrappesi politici, persino ai direttori di rete. Freccero sembrava avanti anni luce rispetto a molti colleghi; quasi svenni, quando mi convocò insieme agli amici Silvia Ballestra e Michele Dalai, il figlio maggiore del mio editore, giornalista e futuro opinionista televisivo per Tatami. Cosa avrà voluto, da noi, il mitico Freccero? «Cerco idee per la televisione che verrà!» annunciò egli stesso, non appena lo raggiungemmo nel suo ufficio milanese, alla Rai di corso Sempione. Il mitico indossava un maglioncino color pastello, aveva labbra straordinariamente carnose, e non smetteva un momento di sistemarsi la frangia corvina. «Su, quale sarebbe il vostro programma ideale? E perché non vi piace la televisione così com’è?» Qualcuno doveva averlo informato. «Ho un grande progetto» vuotò il sacco. «Un nuovo contenitore pomeridiano per i giovani, pieno di scambi d’opinioni e musica dal vivo.» Si aggiustò la frangia e proclamò: «Sarà un programma fresco». Ci guardò come se dovessimo applaudire, poi spiegò: «Siete ragazzi di talento. È col vostro aiuto, che penso di metterlo su». Guardai Silvia. Guardai Michele. Poi guardai il mitico Freccero e dissi: «Sarebbe magnifico. Ma l’Azienda ci lascerà lavorare in autonomia?». «Sono direttore di rete» spiegò Freccero, meravigliato. «Ve la garantisco io, l’autonomia.»

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In quella bussarono alla porta dell’ufficio. «Entrez!» rispose il mitico, poi si corresse: «Avanti!». «Buongiorno» si presentò cauto un dirigente dai capelli crespi. «Carissimo!» lo salutò il mitico. «Sono loro i ragazzi che reinventeranno i pomeriggi di Rai Due!» «Eccovi qui» fece quello, soppesandoci con un sorriso bizantino, poi concesse: «Avete un’aria simpatica. Lavoreremo bene, insieme». La trasmissione alla quale lavorammo per riavvicinare i ragazzi alla programmazione pomeridiana di Rai Due prese nome Supergiovane, in onore d’un personaggio cantato da Elio e le Storie tese. Il budget a disposizione, per quanto contenuto rispetto ad altre produzioni Rai, ci apparve faraonico: mettemmo insieme un format che prevedeva una carovana di musicisti, attori brillanti e opinionisti in giro per l’Italia. Nel nostro programma ci sarebbe stato spazio per il rock dal vivo e per le inchieste sul malaffare, per i monologhi comici e i flash sui misteri d’Italia. Il mitico Freccero approvò l’idea: il nostro Supergiovane sembrava abbastanza intelligente, divertente e fresco. Ora non restava che confezionare la trasmissione, e qui cominciò la nostra personale tragedia. Ai miei occhi, aveva i capelli crespi e il sorriso bizantino del dirigente incaricato di controllarci: fra una pacca sulla spalla e la spiegazione dettagliata di cosa avrebbe spaventato gli sponsor, era chiaro che la sua missione era quella di normalizzare il nostro format, e smussarne quegli angoli che coincidevano, però, con le sue caratteristiche fondamentali. «Se volevate fare il nuovo Karaoke, che bisogno c’era di chiamare noi?» m’indignai a un certo punto. «Ne avete già a bizzeffe, di autori orientati in quella direzione!»

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«Ma quanto t’arrabbi!» mi si fece notare. «Stai tranquillo, Brizi, sei un autore fondamentale per la trasmissione, e nessuno ti prende sottogamba!» Mi calmai, infatti, e come premio appresi che avremmo dovuto inserire un ospite irrinunciabile nel nostro palinsesto. «Sarà qualche valletta con le tette al silicone amica d’un dirigente» mi preparai al colpo. Niente di più sbagliato: era un prete. «Ma come?» m’indignai. «Qui si passa dal Karaoke alla messa cantata!» «È un personaggio bellissimo» mi venne spiegato. «In tivù funziona. Lui sa come parlare ai giovani.» «E di cosa dovrebbe parlare?» domandai con un filo di voce. «Beh... Porta messaggi positivi! Ha aiutato un sacco di ragazzi ad abbandonare la droga, e a tornare alla vita vera attraverso un percorso in comunità.» «Gli faremo una statua! Ma cosa c’entra con Supergiovane?» La domanda imbarazzò il mio interlocutore. Ridacchiò e disse: «Ma cosa sei, un anticattolico?». «Non so cosa mi vuole far dire» protestai. «Ci è stata garantita autonomia, e adesso ci volete imporre un personaggio che non so nemmeno chi sia. Freccero è al corrente?» «Sì» rispose vago l’altro. «Fossi in lei, comunque, non lo disturberei per queste bazzecole. Lo sa quanti progetti deve seguire, il direttore?» «Ci siamo capiti perfettamente» lo rassicurai. «Bravo, Brizi» mi si disse. «Nei prossimi giorni ti arriverà il contratto.» Ci pensai su, ne parlai con Silvia e ne parlai con Michele. Quel prete in trasmissione continuava a sembrarmi una cattiva idea, e l’unico potere che ho nel mio mestiere è quello di tenere lontane le cattive idee dal cuore del lavoro.

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«Mi sa che rifiuto» annunciai ai ragazzi, dopo avere tentato senza esito di parlare al telefono con Freccero. «Se ci impongono gli ospiti-educatori, non ci sto più.» Arrivò ugualmente da viale Mazzini, carico di timbri e firme, il mio contratto. Bastava una firma e avrei lavorato per la Rai. Riprovai a parlare con Freccero. Era in riunione. Così decisi: anziché firmare, cerchiai sulla prima pagina dell’accordo i due punti che mi apparivano disattesi dai comportamenti dell’Azienda, li unii con due archi che solcavano metà pagina per incontrarsi sul margine destro del foglio, e lì vergai un punto interrogativo. Infilai il documento nel fax, e trasmisi in viale Mazzini. Qualche guastatore si era messo di traverso fra il sottoscritto e il sogno frecceriano d’una nuova tivù: ora però – mi dicevo – il mio punto interrogativo, sobrio come le dimissioni di Cincinnato, lo avrebbe fatto sprofondare di vergogna. Invece, nel giro di pochi giorni, appresi dalle pagine degli spettacoli d’un noto rotocalco che il progetto di portarmi in Rai come autore sarebbe naufragato per colpa mia: per inchiodarmi alle mie responsabilità, un dirigente dell’Azienda citava addirittura il contratto che avrei reinviato – per la prima volta nella storia della televisione pubblica, pareva – non debitamente compilato e, anzi, decorato per sfregio con un abbondante membro maschile. Allora ripensai ai cerchi che avevo tracciato intorno ai due punti dolenti del contratto, e mi tornarono in mente gli archi che li univano. Non potevo credere che qualcuno potesse avere scambiato i miei freghi per il pittogramma infantile «uccello coi maroni». Con un punto interrogativo in cima alla cappella, eventualmente? Imparai così che, se qualcosa in televisione non funziona, occorre trovare all’istante un capro espiatorio. Che il ruolo tocchi

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sempre a chi ha il culo meno parato, e quasi mai ai dirigenti, non meraviglia nessuno. Tempo dopo vidi andare in onda su Rai Due la versione riveduta e corretta del programma che avevo concepito con Silvia e Michele; era così annacquato e traballante che ricordava a malapena il ritmo e l’intenzione del format originale, e quando sparì dai palinsesti lo rimpiansero in pochi. Benché accusato a mezzo stampa di vergare cazzi sui documenti ufficiali dell’Azienda, mi si offrì un lavoro per RadioRai. Il programma si chiamava Giornale in classe, e aveva una formula semplice ma suggestiva: ogni mattina, dal lunedì al venerdì, il conduttore avrebbe presentato in diretta la rassegna stampa del giorno insieme a un gruppo di studenti superiori interessati al giornalismo. La trasmissione si svolgeva, a rotazione settimanale, in diversi licei d’Italia: fui ingaggiato per la tranche veronese, ospite del liceo classico «Maffei». S’instaurò un buon rapporto con i ragazzi, la trasmissione funzionò a dovere, e fui confermato per altre due tappe, in onda dal «Carducci» di Comiso e dal «Siotto» di Cagliari. A parte la drammatica semifinale di Coppa Italia tra la Fiorentina e il mio Bologna, seguita in un ristorante del capoluogo sardo, ho solo ricordi positivi di quell’esperienza: che fare radio fosse più intuitivo e divertente rispetto all’andare in televisione? Ci ero tornato, a un certo punto, per andare da Santoro. Si parlava di ecstasy, e di come evitare danni e tragedie legati al suo consumo. Il pathos era garantito dalla presenza in studio di un’intera scolaresca bresciana che aveva appena perso un compagno, non ricordo se in discoteca o nel corso di un rave. Santoro era un’icona della televisione di Sinistra, uno che la mia parte considerava una sorta di profeta. Ero contento che mi avesse chiamato, anche se l’argomento era di quelli che fanno

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sparire i potenziali ospiti. In quel periodo frequentavo discoteche e rave, e sapevo di cosa si parlava forse meglio – sia detto senza superbia – dello stesso conduttore. Non ne tenne gran conto. Quando poi mi attentai a uscire dal coro, abbandonando i binari della condanna unanime verso qualsivoglia sostanza, Santoro strabuzzò gli occhi. E dire che non lo stavo insultando. Stavo solo spiegando che, a mio avviso, un conto è parlare della prevenzione, sacrosanta, nei confronti dei minorenni. Ma i maggiorenni non possono essere considerati soggetti sotto tutela. Ognuno dovrebbe essere libero di farsi i propri conti e, purché non adotti comportamenti dannosi per gli altri, chi siamo noi per dirgli cosa deve bere o fumare? Me lo ricordo reagire indignato, l’indice all’insù, come un Giovanardi ante litteram. Il mio era un messaggio pericoloso, e a un certo punto temetti che mi accusasse di parlare per conto della mafia, della P2 o delle Bestie di Satana. Per evitare altre grane, o ragionamenti recepiti come tali, meglio concedermi la parola col contagocce, fissandomi accigliato come persino i veri democratici sanno fissare, quando di fronte hanno un ignorante molesto che non siede in Parlamento. I dogmi del proibizionismo non andavano toccati, nemmeno nella trasmissione del dottor Michele, e con la Sinistra saldamente al potere. Anche se avevo conosciuto persone più umili, negli anni a venire mi sarebbe dispiaciuto sapere Santoro bandito dalla televisione; per un po’ avrebbe girato l’Italia off video, rilasciando interviste di fuoco contro la televisione di Stato silvizzata, che non lasciava più lavorare lui, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi in quanto di Sinistra. A me sembrava di riascoltare, decontestualizzata e ricontestualizzata come in un incubo francese di Carlo Freccero, la voce del buon Luca Barbareschi.

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Ad ogni modo, non appena Biagi e Santoro furono giustamente reintegrati in servizio, di Luttazzi si scordarono tutti: la levata di scudi aveva sostanzialmente avuto successo, e peggio per il povero Daniele se era rimasto chiuso fuori. Sarebbero passati otto anni, prima di rivederlo nel monitor del computer a Raiperunanotte, con Santoro trasformato in capopopolo, Travaglio in icona vivente e un intervento da brividi di Mario Monicelli. Come saremmo arrivati a quel punto? Un giorno alla volta, come al solito. Come fu che Massimo D’Alema riuscì a sostituirsi a Prodi prima di metà legislatura? In teoria accadde per via di Rifondazione, che fece mancare i voti necessari a sostenere in aula il Professore. In realtà non fu secondario il ruolo dei cattolici, Cossiga e Mastella in primis, che promisero la fiducia a un nuovo esecutivo di centrosinistra «purché non guidato da Prodi». Fu in questo quadro che il Massimo formò, nel 1998, il suo primo governo. Che Prodi e i suoi sostenitori si sentissero traditi era nelle cose; la colpa, però, era di Rifondazione. «È stato necessario, Prodi navigava troppo al centro» considerarono, benché stupiti, i militanti col paraocchi. «Spiace per il buon Romano, ma almeno ora avremo un governo davvero di Sinistra.» È quel che avrebbe sempre detto, negli anni a venire, lo stesso Massimo. A sentir lui, infatti, il proprio governo sarebbe stato il secondo nella storia repubblicana guidato da un uomo politico di Sinistra. E quale sarebbe stato, secondo D’Alema, il primo? Sorpresa! Non Prodi, grazie al quale lo stesso D’Alema aveva ottenuto la maggioranza in Parlamento, ma Craxi, uno che i comunisti li aveva respinti lontano dal governo a forconate.

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Strano tipo, il Massimo: la sua idea di riformismo somigliava paurosamente al masochismo. Da un lato aveva aperto l’esecutivo al Partito dei comunisti italiani, dall’altro conferiva un notevole potere a forze eredi dirette del pentapartito: quattro ministeri andarono all’Udr di Cossiga, nuovo tentativo di ricostruzione di un «Grande centro» bianco, e un altro – coerentemente all’impostazione di apertura agli ex Psi «onesti» – ai Socialisti democratici di Enrico Boselli. C’era da domandarsi a quali principi s’ispirasse l’idea di governo del Massimo, e quando sostenne l’intervento della Nato nella guerra del Kosovo se lo domandarono anche i pacifisti italiani che, col loro voto, avevano permesso all’ex pioniere-prodigio di arrivare alla presidenza del Consiglio. Ormai, però, era tardi: la Sinistra di governo era pronta a mostrare il suo vero volto, certo più presentabile del sorriso smodato del Silvio e più responsabile dal punto di vista delle politiche economiche, ma incapace anch’essa di liberarsi dall’approccio partitocratico, dal calcolo e dalla convivenza ravvicinata con la Chiesa e il mondo affaristico. All’uscita da mezzo secolo di opposizione, ci aspettavamo qualcosa di meglio: dopo la grande disillusione di Tangentopoli e la speranza condivisa di una nuova Italia, credere nella politica tornò a essere complicato, e proprio negli anni della Sinistra al potere. Una sera, fermo in vespa al semaforo, un cretino dalla frenata problematica mi tamponò a bassa velocità. Mi ressi fortunatamente in piedi, tanto che nel giro di poco issai la vespa sul cavalletto e, disposto nell’animo come un antico abitatore del nostro Appennino al quale si fosse storpiata una pecora, mi preparai all’incontro con un conducente ubriaco.

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Le lettere azzurre della targa sanmarinese, l’indugiare a bordo del pilota e, soprattutto, le risate folli della passeggera che intravedevo alla sua destra non mi calmarono. Finirono, anzi, per indurmi a sporgere le sembianze verso il finestrino, bussando con le nocche sul cristallo ché il tipo si convincesse a scendere. «Ma tu guarda che faccia di culo» lo incoraggiai. «Mi tamponi in mezzo a una strada deserta e resti lì a ridere con quell’altra stronza?» Solo quando assunse un’aria mesta, inserì le quattro frecce e si degnò di aprire lo sportello, un barlume attraversò la mia mente. «Brizzi!» mi indicò incredulo il deficiente, e finalmente lo riconobbi. Era il mio vecchio compagno di catechismo LucaPietro Niccolis, in giacca e cravatta, e qualcosa mi diceva che la Golf con targa sanmarinese doveva arrivare da qualche magheggio del notaio suo padre. «Come cazzo guidi, LucaPietro?» lo accolsi. «Perdonami, ma ero un po’ allegro» si strinse nelle spalle. «Fortuna che eri tu» considerò. «Con certa gente che gira per strada la notte...» Non seppi cosa rispondergli. «Sistemiamo tutto fra noi, vero?» saggiò il terreno. Poi abbassò la voce e aggiunse: «Sono con una signorina». «Una vera dama» considerai stizzito. «Se mi spedivate per terra, si ammazzava dalle risate.» LucaPietro arrossì fino alle orecchie e rivelò: «È una accompagnatrice». «Un bravo ragazzo come te insieme a una fornicatrice» lo provocai. «E non farmi sentire in colpa, cacchio!» s’inalberò. «Oggi è il mio compleanno, e mi sono fatto un regalo da solo.» Si passò i pugni sugli occhi come per risvegliarsi, fissò la tar-

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ga ammaccata della vespa a due passi dal radiatore della Golf, poi almanaccò: «Se devo uscire tutti i sabati con una che si fa pagare la cena e poi non me la dà nemmeno, tanto vale uscire una volta al mese con una bella gnocca che sa il fatto suo». «Ma quanto ti devo per la vespa?» Me lo rividi a nove anni, egoista e viziato, e gli posai una mano sulla spalla mentre tirava fuori il portafogli. «Lascia stare» gli dissi. «Siamo a posto così, noi due.» Mi ringraziò. Tornava verso la Golf, adesso, le spalle curve, già gravate dai vizi dei vecchi. Nell’autunno del ’98 non conoscevo più la paura: andai a Sottovoce, da Gigi Marzullo. Mi ritrovai nello stesso camerino – «Vi dispiace stringervi?» – di un’attrice bionda e attraente. Coi tacchi mi sovrastava di mezza testa, e mi svelò quasi subito di essere fidanzata con un attore moro e attraente, forse Stefano Dionisi. «Ti spiace se mi trucco?» mi fece. Poiché sembravo in imbarazzo solo io, il coach Superio Es m’invitò a sciogliermi. «Ti pare?» le dissi. «Siamo in un camerino della Rai. Se non ci si trucca qui...» «Sto troppo in paranoia» mi fece, in una nuvola di cipria. «E perché?» «Lo sai com’è, Marzullo. Ti chiede di farti una domanda e darti una risposta.» «Fa così» ammisi. Se volevo parlarle senza fissare il suo sedere, dovevo cercare lo sguardo di lei nello specchio. Ora, però, si stava truccando gli occhi. «Non te la sei preparata, la domanda?» le faccio, schietto e disponibile. «Possiamo pensarci insieme, se vuoi.» «La mia vita è un casino» dice, senza tono interrogativo. «Mi dispiace. Però potrebbe essere una buona domanda: ‘La mia vita è un casino?’, e poi ti rispondi da sola.»

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«Ammazza!» ride. «Ecco cosa dovrei rispondere. Ma tu cosa sei, uno che scrive?» «Sì, eh.» «E cosa scrivi?» «Svegliati, bella! sugli specchi dei camerini», mi vien da dire. Invece confesso: «Romanzi». Se adesso mi chiede «E che genere di romanzi?», sono già pronto a rispondere «Classici». «Ammazza!» fa invece. «Sei un romanziere.» Lo constata. «Sai che non sembravi?» Mi esce una risatina del menga. «E cosa sembravo?» Si gira, fissa l’enorme bersaglio blu, bianco e rosso che campeggia sulla mia felpa, e dice: «Boh! Uno normale!». Credo abbia ragione lei, almeno fino a quando non mi accomodo sul divanetto di Sottovoce, e sento il vento tiepido della storia della televisione che mi avvolge: è un abbraccio, quel «Benvenuti cari amici della notte» che Marzullo fa risuonare nel cuore del pomeriggio romano, e io zitto, per non svelare il trucco, anzi quasi sbadiglio per accreditare l’ipotesi narrativa che Gigi e io ci troviamo nella notte più fonda, quando un giorno non è ancora finito, l’altro deve ancora cominciare, e i sogni ci riveleranno la loro natura di messaggi grazie all’aiuto di una psicanalista. Se non sbaglio, mi astengo dal confessare che il mio sogno ricorrente è quello di giacere con decine di donne e possederle a sazietà. Per non imbarazzare Gigi, ovviamente, ché la psicanalista ne avrà sentite di cotte e di crude. Un po’ mi mangio le mani, però, perché sono sicuro che almeno un leader politico italiano ha le mie stesse fantasie. Mi rifaccio quando Marzullo mi domanda, in una stringente logica da bivio obbligato, se preferisco Roberto Benigni o Nanni Moretti. «Roberto Baggio» rispondo senza esitare, nella stagione in cui il fuoriclasse stabilisce il suo record personale di marcature con la maglia del Bologna.

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E, nonostante questo, mi convocano come giudice di qualità al quarantanovesimo, imminentissimo, Festival di Sanremo.

SPARIRE DALLA TELEVISIONE La mia avventura sanremese meriterebbe un breve romanzo in seconda persona. La trama potrebbe basarsi su questa fedele ricostruzione dei fatti.

Intro – Quello che ancora non hai capito Quello che ancora non hai capito è perché sul sito ufficiale del Festival di Sanremo, gestito dalla Rai, si accrediti senza alcuna prova la fantasiosa ipotesi secondo la quale tu, Enrico Brizzi, avresti falsato la competizione del Festival 1999 a favore di Anna Oxa. È una versione dei fatti inventata di sana pianta; non hai mai conosciuto la cantante né alcuno del suo entourage, e ti domandi come mai Dario Salvatori, un presentatore che da anni studia senza risultati apprezzabili per diventare il nuovo Arbore, si accanisca a diffondere anche per via televisiva questa voce senza fondamento che danneggia la tua reputazione. Forse perché è lui, lo «storico» del Festival, che non ha mai raccontato cosa accadde davvero quella sera all’Ariston.

Capitolo primo «Tutti d’accordo», si raccomanda il dirigente Rai dopo avere salutato i presenti riuniti in conclave in una stanzetta annessa all’Ariston. «Abbiamo scelto voi come giurati di qualità perché, ognuno nel suo genere, rappresentate il meglio dei gusti musicali della nazione.»

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Anche il brasiliano Toquinho?, ti domandi sbigottito. Anche il maestro Carreras? «Avete a disposizione per ogni canzone un voto da zero a dieci. Voterete su un’apposita pulsantiera personale. Il voto è segreto, e voi andate pure senza paura anche verso gli estremi. Se usate solo i voti fra il cinque e il sette, rischiate di non premiare davvero le canzoni che vi appaiono più meritevoli.» Insieme a Toquinho, Carreras e il giovane scrittore bolognese in parka nero, ascoltano attoniti le parole del Dirigente Rai gli altri giurati: Ennio Morricone, Fernanda Pivano, Amadeus, Carlo Verdone, Umberto Bindi, Dario Salvatori e Maurizio De Angelis. Caspita, ti dici. Stai a vedere che non vengono affatto tessuti, gli intrighi di cui sospettavi. Stai a vedere che è una competizione pulita, proprio come dice il neo-presentatore Fabio Fazio.

Capitolo secondo Siedi fra il presidente della giuria Ennio Morricone e Fernanda Pivano, una donna cui Hemingway si rivolgeva per vezzeggiativo. Una muraglia di fiori rende il vostro palco simile a un ridotto inespugnabile nel fortilizio dell’Ariston. Allo scoperto stanno i cantanti, che escono sul palco uno alla volta. Per fortuna una cesura sul fianco sinistro della muraglia di petali vi consente di ammirare le esibizioni, così come le performance del trio Fazio-Casta-Dulbecco. Quei tre insieme sono fantastici. Da qualunque angolazione li guardi, non riesci a capire chi sia il presentatore. Composto, ti disponi ad ascoltare le canzoni una ad una, e al termine di ogni esibizione, quando il display della pulsantiera segnala che è tempo di votare, senza spiare nel display di Morricone assegni il tuo voto.

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Non ti sfugge, nel buio del palco, che ti trovi ad essere giudice di esibizioni dalle quali dipende la sorte di più famiglie e gruppi discografici, ma anche, più semplicemente, giudice di una gara fra canzoni. Zero ne assegni pochi – nessuno, giureresti – ma voti bassi in quantità. A tutte le canzoni che, a un rapido esame, appaiono il naturale prolungamento della stantia estetica cuore-amore. E voti alti, anche. Ne partono non pochi, dal tuo display. I più alti di tutti – fra big e nuove proposte distribuiti nelle due serate da giurato – saranno per Nada, Silvestri, Quintorigo e Soerba.

Capitolo terzo Di nuovo nella saletta del conclave insieme ai nove illustri colleghi per rivedere in cassetta le esibizioni dei big. Si assegnano per votazione i premi della critica, e prevale la sensazione che nessun artista in gara sia in grado di portare a casa il risultato pieno di una vittoria al Festival e una canzone memorabile in classifica. Resta inteso che la sera, nei vostri palchi, ognuno voterà secondo coscienza. Dal tuo punto di vista la competizione è apertissima, fino a quando il solito stimatissimo dirigente Rai fa il suo ingresso annunciando che, secondo i tabulati relativi al voto demoscopico, attualmente ci sarebbe un terzetto in fuga composto – in ordine non specificato – dalle cantanti Mariella Nava, Anna Oxa e Antonella Ruggiero. Cazzo, pensi, questo arriva proprio a rovinare la suspense. In ogni caso, ti dici rientrando in albergo per indossare l’abito da gran serata, siamo dieci e può accadere qualunque cosa. Alla tua bella mente cartesiana non sfugge che, secondo il regolamento, i voti della giuria di qualità peseranno esattamente quanto il risultato complessivo dei voti demoscopici.

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In pratica, la classifica popolare potrebbe anche uscire perfettamente ribaltata dai pronunciamenti di voialtri giurati di qualità, e nel caso di un basso gradimento da parte dei giurati nessun cantante, neppure se incoronato dalla giuria demoscopica, potrebbe avvicinarsi alla zona del podio. Quindi, a ripensarci, ti sembra che il dirigente Rai, annunciando che questi tre, e non altri, erano i nomi degli artisti in vantaggio, abbia favorito tutte e tre le cantanti rispetto agli altri concorrenti, ma forse è solo un calcolo sbagliato. In ogni caso l’abito da gran serata è un completo tre bottoni color sabbia garantito contro l’effetto stropicciato che all’esterno, doc marten’s modello gaucho ai piedi, sciarpa al collo e occhiali calati sulla forca del naso, ti dona una certa aura aggressiva e sospetta, un po’ tipo nipote illegittimo di Rommel. Comunque arrivi in ritardo, e farsi largo nel mare di teste e schiene fra gli stucchi del foyer non è un gioco da ragazzi. Occhieggiano colletti alla Wellington alti sei dita, nel cuore cieco della folla, risplendono chiome rese barocche da schiume e spray, e simili a scogli si profilano svariate scollature semplicemente inaggirabili. Hai un bel sventolare il pass da giurato, in mezzo agli spettatori che hanno pagato un milione a poltrona. Ci sono le famiglie numerose – i ragazzini conciati da cresima e nonna, un turbante da rajah in testa, portata a braccia. Ci tiene tanto, poverina, a non perdersi il ritorno della Vanoni. Ci sono i terzetti d’amiche zitelle vestite come le caramelle Rossana. Ci sono spaventose matrone del profondo Nord che portano al collo svariati stipendi d’operaio e per mano mariti imprenditori ricchissimi e nani. Sei sul punto di rinunciare, oh sì. La folla è troppa e tumultuosa. Stai proprio per rinunciare. Poi, come accecato da un interiore lampo al magnesio ti la-

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sci assalire dal pensiero insopportabile di abbandonare il maestro Morricone a fianco di una poltrona deserta. Così, a tratti biascicando scuse, a tratti simulando orrendi accessi di tosse degni di un personaggio dickensiano, riesci a farti largo anche fra i gruppi più gagliardi nel mantenere un’intima compattezza. «Sono il giurato Enrico Brizzi», mormori alla hostess che veglia alla base della scala che conduce ai palchi. All’inizio, ne sei quasi sicuro, ti guarda come una donna decisa a chiamare aiuto. «Mi segua», soffia piegandosi in modo appena percettibile verso di te. «Si stavano chiedendo tutti dove accipicchia si era cacciato.»

Capitolo quarto Eurovisione, per la serata finale del Festival. Ma quale eurovisione. Mondovisione. Spettatori a frotte in cinque continenti. Se Fabio Fazio prendesse le cose un po’ di petto e proclamasse in diretta lo Sciopero degli Eventi subito prima di scendere dal palco e allontanarsi in silenzio, lo verrebbero a sapere persino in Kamchatka. Invece è tutto molto più soffuso. I cantanti cantano. Il pubblico applaude. I giurati votano. Nelle pause, su insistenti richieste, Fernanda Pivano ti confida circa venticinque aneddoti impagabili su Hemingway, tre dei quali, putroppo, dimentichi quasi subito. Quando si tratta di votare le esibizioni del trio in presunta fuga, ti attieni al nudo principio raccomandato dal dirigente Rai: impiegare per intero la gamma dei voti al fine di marcare una vera differenza.

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In particolare, e senza essere affatto sicuro che il trio sia un vero trio, assegni un voto alto (8, ti sembra di ricordare) alla grintosa interpretazione di Anna Oxa e voti più bassi (non gli unici che hai impiegato, e non i più bassi) a Mariella Nava e Antonella Ruggiero. Di quel che votano gli altri giurati, non essendo uso a sbirciare i display del prossimo tuo – e tantomeno quelli di Morricone e della Pivano – tutto ignori. Per quel che sai fino a un attimo prima della proclamazione, i tuoi colleghi potrebbero avere votato en masse per gli Stadio consegnando all’équipe di Gaetano Curreri la vittoria del Festival. Quando Fabio Fazio, senza dimenticare di trovarsi in mondovisione, snocciola a ritroso la classifica, sulle prime appare chiaro che la rivelazione del dirigente Rai aveva un suo fondamento. Tutti i nomi sono stati pronunciati da Fazio ad eccezione degli artisti che occuperanno il podio, e i nomi mancanti sono proprio quelli del noto trio: Mariella Nava, Anna Oxa, Antonella Ruggiero. Nava, Oxa, Ruggiero. Per te pari è. Ti sembra meglio la canzone della Oxa, ma se anche arriva terza non ti butterai di sotto a capofitto per il dispiacere. Anzi. «Terza classificata del Festival di Sanremo è», annuncia Fabio Fazio dal palco. Fate conto che la tensione, all’Ariston, sia alle stelle.

Capitolo quinto Sarebbe interessante ricordare chi arrivò terza. Mariella Nava, ti sembra di ricordare. O forse Antonella Ruggiero. Gli amanti delle statistiche potranno verificare.

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La Oxa vinse, su questo non c’è dubbio. Ma se devi ricordare quale fosse il pezzo che la Oxa cantava, buio completo. Brivido, forse. Mistero? Freddo? Un titolo di una parola sola, ti sembra. Ma dopo più di dieci anni potresti anche sbagliarti. In ogni caso Fabio Fazio dice: «Terza classificata del Festival di Sanremo è» – fate conto – «Mariella Nava». Nel tuo palco tutto bene. Vorresti unicamente sbucare dal retropalco, scendere la scala e raggiungere la tua fidanzata nella torma che immagini pronta a popolare di nuovo il foyer. Sì, vuoi baciarla, domandarle se si è divertita almeno un poco e portarla a cena, prima di ogni altra cosa, che è mezzanotte o giù di lì ed è passato un medioevo da quando hai allungato l’ultima volta le gambe sotto un tavolo. Anche Morricone e la Pivano non vedono l’ora di andarsene. Poi Fazio annuncia: «Seconda classificata, Antonella Ruggiero!». «Ha vinto la Oxa, alla fine» deduce Morricone. In platea i boati di scontento si mescolano alle grida di esultanza e agli applausi generici. «Possiamo andare, no?» s’informa la Pivano, ma nel palco a fianco, che ospita gli altri cinque colleghi, qualcuno perde la calma. «No, no, la Oxa no» sono le trafelate parole con le quali il giurato isterico si precipita nel piccolo focolare del vostro palco. «Ci deve essere un errore», afferma. «Dobbiamo fermare Fazio prima della proclamazione.» Sei senza parole. Come cavolo fa, quello, a sapere che ci sarebbe un errore? Ognuno ha votato in segreto, e lui è un giurato, mica un notaio. Eppure appare molto sicuro del fatto suo. Pronto a inveire e gridare come fosse andato storto qualcosa che dava per scontato. «Per carità! Bisogna dire a Fazio di fermarsi», tenta di coinvolgervi.

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Morricone e la Pivano sembrano fissarlo senza capire cosa voglia, ma quello insiste con gli occhi fuori dalla testa: «Bisogna ricontare i voti». Bravissimo, ti dici. Mettiti a urlare, pazzo scatenato che non sei altro. Sporgiti dalla muraglia di fiori e, sbracciandoti, mettiti a strillare in mondovisione che Anna Oxa sta per essere proclamata vincitrice del Festival per sbaglio. Preghi e speri che il giurato isterico lo faccia. Che si sporga verso il palco e gridi: «Fabio, c’è un errore, e solo io so qual è». Comprensibilmente gli manca il coraggio, così inveisce e si allontana verso il palco originario, senza spiegare in nessun modo perché le cose non sarebbero andate per il verso giusto. Ti sarebbe piaciuto sul serio, che te lo spiegasse. Almeno avresti avuto qualcosa da raccontare ai giornalisti che, nei giorni successivi, ti hanno dato invano la caccia.

Capitolo sesto Quello che ancora non hai capito è perché qualcuno si è affrettato a far sapere che il Festival ad Anna Oxa l’avresti fatto vincere proprio tu. Se i voti che trasmettevate all’elaboratore centrale tramite la pulsantiera erano segreti, o almeno segreti fra notai e funzionari, e se tu sei ripartito da Sanremo senza rilasciare interviste, in che senso i giornali hanno scritto che sarebbero stati i tuoi voti – o i tuoi e quelli di Fernanda Pivano – a far vincere la Oxa? Da parte tua, la cantante avrebbe ricevuto «il massimo dei voti», mentre avresti dato «zero a tutti gli altri». Ancora più grave, dal tuo punto di vista, che una simile fandonia sia tuttora accreditata sul sito ufficiale della Rai nella pagina dedicata alla storia del Festival. Chissà se il giurato che diede in escandescenze quella sera al-

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l’Ariston era l’unico della compagnia a trovarsi, diciamo così, irritato per la vittoria della Oxa. Sei un bravo ragazzo e credi di sì. L’importante è che, a proclamazione avvenuta, trovasti il modo di salutare con garbo Morricone, la Pivano e Verdone subito prima di proiettarti in platea a ricongiungerti con la tua bella. Servì schivare orde di fans imbizzarriti di Enzo Gragnaniello, per guadagnare l’uscita dell’Ariston. Sono passati anni e hai pagato pegno. Però, se pure qualcuno era dispiaciuto che il suo cavallo non avesse vinto, poteva risparmiarsi di scatenare quella canea dietro alle tue giovani chiappe. Su quali basi o prove si può sostenere che sarebbe stato il sottoscritto a far vincere il Festival del 1999 alla Oxa? Quali interessi, o conflitti d’interesse, può mai avere un romanziere di venticinque anni che ascolta i Beastie Boys e i Faith No More nel mondo della musica pop sanremese? Quali invece un aspirante Arbore, conduttore radiofonico e televisivo di medio corso, e quindi in rapporti consolidati con artisti e dirigenti discografici? Su queste tre domande, anziché perdere tempo a diffondere corbellerie, dovrebbe ragionare lo storico semiufficiale del Festival: finché di nome si chiama Dario, le risposte le ha già in casa.

Il ritorno del Silvio

QUALCOSA DI BUONO PER IL PAESE Nel 1999, pochi mesi dopo il successo di Anna Oxa a Sanremo, Oscar Luigi Scalfaro terminò il proprio mandato al Quirinale. Nuovo presidente della Repubblica fu eletto l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi; era fresco dei successi come ministro del Tesoro nei governi di Prodi e D’Alema, ruolo nel quale era riuscito a contenere il debito pubblico sino a farci rientrare negli esigenti «parametri di Maastricht», garantendo così all’Italia l’accesso nell’area della moneta unica. Poiché era vicino all’Ulivo, la Lega lo attaccò come fosse la personificazione delle speculazioni – gli aumenti di prezzi furono talora incredibili – legate all’entrata in vigore dell’euro; tutti gli altri lo sostennero, compresi Massimo D’Alema e alcuni ex colleghi che sedevano nei consigli d’amministrazione di banche importanti. Il suo senso di responsabilità in economia lasciò spazio, dopo la salita al Quirinale, a una spiccata predilezione per il tema della Resistenza, della quale lo stesso Ciampi aveva esperienza diretta: appena ventitreenne, si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, per raggiungere il Sud in mano alleata con una difficoltosa marcia attraverso i monti d’Abruzzo. Con sé il fu-

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turo presidente portava il «catechismo liberalsocialista del Partito d’azione» del filosofo Guido Calogero, che una volta a Bari consegnò come pattuito al dotto antifascista Tommaso Fiore. L’ex superbanchiere di Stato, insomma, era stato un ragazzo dal cuore coraggioso, pronto a rischiare la vita per consentire alle idee nelle quali credeva di varcare le linee: poteva non darti fiducia, uno così? Nel 1999 il mio contratto con Baldini&Castoldi era in scadenza, e in quel periodo ricevetti una proposta di contratto dalla maggiore casa editrice del paese. A cinque anni dal mio esordio, suonava come una promozione: un ricco anticipo per tre titoli mi avrebbe garantito di potermi dedicare a tempo pieno alla scrittura e alle mie ricerche, almeno per qualche anno. In un mestiere che non ti concede certezze, quella proposta arrivava come la manna dal cielo, ma... Non era del Silvio, la Mondadori? «Ma cosa ci vai a fare?» ti domandavano increduli certi maestrini dalla barba rada. «Quello era della P2!» «Perché, Rizzoli no?» replicavo. «Cosa devo, morire di fame perché gli editori erano della P2?» Ti guardavano delusi: per loro era il minimo, che un vero scrittore provasse a morire di fame. L’incredulità montava oltre il livello di guardia se facevi notare che nel discutibile edificio di Segrate non lavoravano mostri gelatinosi e centauri a due teste, ma persone in carne ed ossa di nome Antonio, Raffaella o Giulia, e nessuno di loro ti era apparso men che colto, gentile e democratico. «Mi garantiscono autonomia artistica! Ho un sacco di progetti e loro ci credono! E Antonio Franchini, se viene qui, vi fa vedere come combatte un napoletano democratico abituato a faticare in palestra!» enumeravo, mentre i maestrini dalla barba rada si allontanavano in preda all’imbarazzo. «Ah, scappate?»

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«Aspetta solo che il Silvio torni presidente del Consiglio» mi gridavano una volta raggiunta la distanza di sicurezza. «Allora te la faremo vedere noi, come si trattano i traditori.» Non capivo perché dovessero aspettare, e nemmeno perché sperassero che il Silvio tornasse al governo; forse si sentivano a proprio agio solo all’opposizione. Nell’aprile del 2000, a poco più di un anno dalle future elezioni politiche, D’Alema fu sostituito alla presidenza del Consiglio da Giuliano Amato, al secondo incarico a Palazzo Chigi dopo quello ricoperto nei giorni caldi di Tangentopoli. Il «dottor Sottile» doveva essere un uomo di pietra pomice, a giudicare dalle sue capacità di galleggiamento: partito come oppositore di Craxi all’interno del Psi, ne aveva poi salutato la leadership, e si diceva che avesse vergato personalmente i decreti salva-Fininvest promossi nell’84 dal Bettino; da lì in poi, senza mai avere contezza di come venisse finanziato il Partito socialista, ricoprì l’incarico di ministro del Tesoro, sino alla già ricordata ascesa a Palazzo Chigi al posto dello stesso Craxi. Dopo la tempesta degli avvisi di garanzia e i «settecento giorni», Amato annunciò con la mano sul cuore: «Lascio la politica. Solo i mandarini vogliono restare sempre, e io sono in Parlamento da dieci anni». Trascorse sì e no un anno, e il Silvio lo nominò garante dell’Antitrust: Amato avrebbe dovuto controllare per conto del governo del Silvio che l’impero mediatico del medesimo non assumesse una posizione preponderante. Infatti mica l’aveva assunta, a sentire il professor Giuliano Amato: solo noi che non avevamo studiato alla Normale di Pisa potevamo credere – erroneamente – che tre reti televisive, la maggiore casa editrice nazionale e la capacità di controllare due terzi del mercato pubblicitario mettessero il Silvio in una posizione di indubbio vantaggio. Ministro del Tesoro negli anni del massimo indebitamento

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pubblico; ultimo presidente del Consiglio della disastrata Prima Repubblica; garante dell’Antitrust per conto del Silvio: era questo il curriculum dell’uomo che D’Alema aveva cooptato nella sua «Sinistra allargata», suscitando qualche fremito tra i militanti più affezionati a Berlinguer e l’ira funesta di un Craxi ormai esiliato. L’ex segretario del Psi, da Hammamet, aveva definito Amato «un opportunista che strisciava ai miei piedi, e ora striscia a quelli degli altri per salvarsi la pelle». Il dottor Sottile, colto da lieve imbarazzo, apparve deciso a ritirarsi sul serio: «Torno all’insegnamento, non potrò avere altri incarichi». In realtà gli era bastato immergersi per un po’, esattamente fino alla morte di Craxi, quindi Amato era tornato verso la superficie con la gioia di un archeologo sommozzatore che abbia appena ritrovato un tesoro sottomarino: ora che Bettino non c’era più si sentiva pronto a fare il presidente del Consiglio per la seconda volta. Il sottile Amato fu sostenuto in aula da una maggioranza pressoché identica a quella del precedente governo, e la sua azione si svolse di fatto nell’ambito di una lunghissima campagna elettorale: lo stesso imprenditore che l’aveva scelto come garante dell’Antitrust, costretto all’opposizione per cinque lunghi anni, era deciso a rimontare in sella. Il desiderio di fare qualcosa di buono per il paese doveva ardere nel petto del mio nuovo editore come un sacro fuoco, ché in vista delle elezioni del 2001 non trascurò un singolo dettaglio. La coalizione aveva cambiato nome dal gelido «Polo delle Libertà» a un più rassicurante «Casa delle Libertà», con omaggio trasversale alla celebre «Casa del Grande Fratello», che proprio l’anno prima aveva cominciato a risucchiare l’attenzione e le speranze degli italiani. La formazione del centrodestra tornava, per l’occasione, al-

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le tre punte: la Lega era tornata alla casa madre, Alleanza Nazionale sembrava decisa a fare meglio delle ultime elezioni, e Forza Italia era tirata a lucido. Quarto terminale della nuova offensiva silviesca era l’arcipelago bianco degli ex democristiani del Ccd-Cdu – più che una sigla di partito uno scioglilingua – governati dal tandem Casini-Buttiglione. Ciliegine sulla torta, il Pri dell’inossidabile La Malfa junior e un Psi nuovo di zecca, risorto come la fenice a pochi mesi dalle elezioni grazie alla fusione di due movimenti fin lì rivali, l’uno facente capo a Gianni De Michelis e l’altro a Claudio Martelli e Bobo Craxi. L’idea silviesca di riscrivere le pagine buie che il paese aveva traversato con Tangentopoli non sarebbe potuta essere più esplicita sin dai nomi dei suoi alleati, perfetta sintesi di ex forcaioli e di transfughi da partiti franati sotto le inchieste giudiziarie. Si sentiva, a Sinistra, lo scontro epocale nell’aria? Eccome, se lo si sentiva: l’Ulivo schierò un ventaglio di forze per certi versi impressionante, che dai Ds spaziava a destra verso gli ex popolari della Margherita e i «socialisti buoni» di Boselli, mentre a sinistra coinvolgeva Verdi e Comunisti italiani. Un preventivo accordo di non belligeranza fu raggiunto con Rifondazione e, per farla breve, ce la si andava a giocare a testa alta. Mancava niente?... Accidenti! Mancava il leader! Come fu che la scelta cadde sul nome di Francesco Rutelli? D’accordo che Prodi era impegnato a Bruxelles, ma quali misteri della politica parlamentare si celavano dietro la scelta di non contrapporre al Silvio lo stesso D’Alema, o Walter Veltroni, dirottato a fare il sindaco di Roma? Si temeva davvero che potessero perdere, sporcandosi gravemente il curriculum? O era più forte la curiosità di vedere cos’avrebbe combinato quell’imprevedibile mattatore del Silvio una volta tornato al governo?

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Non lo sapevo allora e non me lo spiego oggi, perché fu designato Rutelli, già radicale e verde che si era fatto democristiano di sinistra nelle file della Margherita. Un discreto trapezista della vita parlamentare, che appariva destinato a uscire stritolato dal confronto col sorridente padrone del più importante circo italiano. Il bel Francesco era evidentemente lontano dalla statura di leader all’interno dello stesso Ulivo, il che gli valse le considerazioni beffarde del Silvio, che lo definì «un portavoce» e gli negò la soddisfazione di un confronto televisivo. In compenso sua moglie, la giornalista Barbara Palombelli, avrebbe presto affiancato Giuliano Ferrara sul piccolo schermo, per ottenere più avanti una collaborazione al Tg5. Credibilissimi, quei due sposi che conducevano carriere indipendenti e – solo in apparenza – contraddittorie. Umani, moderni, praticamente la coppia simbolo della Sinistra italiana del Duemila, quella stessa che aveva legittimato politicamente il Silvio e ora si apprestava a riconsegnargli le chiavi del paese. (Ma di cos’avevamo paura? Di un po’ di sana alternanza?) Il 13 maggio votammo col dubbio atroce che si andasse a perdere apposta, per insipienza o masochismo o divisioni interne o ideologie non ancora sopite o so io cosa. Beghe da primedonne della vita pubblica, comunque, in un momento nel quale una maggiore serietà e un genuino spirito di servizio avrebbero evitato al paese danni incalcolabili. Perdemmo, infatti, e malamente: la Casa delle Libertà ottenne 368 seggi alla Camera contro i 246 dell’Ulivo, e 176 contro 127 al Senato. I Ds si erano inabissati dal 21 al 16%: il paese era di nuovo nelle mani del Silvio, e ci sarebbe rimasto cinque anni interi. In una democrazia diversa dall’Italia, i responsabili di una simile débâcle avrebbero chiesto perdono al popolo di Sinistra

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per poi rassegnare le dimissioni dalla vita politica, ma l’Italia è grande perché sa perdonare: Veltroni aveva da fare il sindaco, poveretto, mentre D’Alema e Rutelli a ritirarsi non ci pensarono nemmeno, ché in fondo erano giovani e si sentivano in grado di dare ancora tanto al paese. Festeggiarono i forzaitalioti, i leghisti, i fieri alleati nazionali, Casini, Buttiglione e il nuovo Psi. Festeggiarono i costruttori, gli imprenditori, i finanzieri, i settori più retrogradi della Curia pontificia, Emilio Fede e Bruno Vespa. Festeggiarono, in segreto, anche i maestrini dalle barbe rade: adesso che il Silvio era di nuovo al potere, si poteva calare daccapo la livella, partire il paese in buoni e cattivi, e avviare alla pubblica gogna i veri responsabili della situazione: i narratori di Sinistra che pubblicavano per Mondadori. Pubblicavo già per Mondadori, e il Silvio era appena tornato al potere, quando si decise con due buoni amici di spingerci a Genova nei giorni del G8. Quando la Storia ti passa di fianco, mi dicevo, mica puoi restare a guardarla in televisione. Andammo come fosse una trasferta, da soli e senza distintivi in vista, evitando i treni organizzati per un anonimo interregionale; ci stupimmo quando il convoglio si arrestò alle porte della città blindata, e ai viaggiatori diretti al G8 venne offerto un passaggio – facoltativo – su un pullman della Polizia. Poiché non appariva esserci miglior modo per scendere rapidamente a Genova, uscimmo dall’ombra e ci palesammo a quegli agenti gentilissimi: «Prego, prego» c’invitarono a salire. «Bene arrivati», e poco mancò che ci domandassero se avevamo fatto un buon viaggio. Con nostra maggior meraviglia, adusi com’eravamo ai controlli e alle presunzioni di colpevolezza frequenti intorno agli

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stadi, fummo lasciati montare sul mezzo della Polizia senza che nessuno venisse perquisito. «La stragrande maggioranza è gente tranquilla come voi» ci spiegò durante il viaggio l’agente giovane che scortava l’autista. «Quelli che ci preoccupano sono i Black bloc.» Ci controllammo furtivamente gli abiti: come d’accordo, nessuno di noi tre portava capi neri. «Siamo venuti per il concerto di Manu Chao» minimizzò il più loquace dei miei amici. «Piace anche a me, Manu Chao» confessò l’agente a mezza voce. Dopo tutto quello che avevano scritto i giornali, l’atmosfera sembrava straordinariamente distesa. Fu una sera di festa, e iniziò in maniera quasi poetica anche il giorno seguente: ci svegliammo sulle gradinate dello stadio Carlini, dove ci eravamo accomodati in mancanza di una tenda, e un vento tiepido portò con sé l’apparizione dell’amico Giovanni, del collettivo di scrittura Wu Ming. Pubblicavano anche loro per il Silvio ma erano zapatisti convinti: dopo un caffè e una porzione fuori orario di focaccia di Recco, si schierarono a fianco di Luca Casarini e degli altri leader disobbedienti per leggere un comunicato di fronte alle telecamere, e scandire in coro gli slogan del comandante Marcos. Noialtri tre casuals, invece, fraternizzammo soprattutto con i ragazzi che dispiegavano magliette o tatuaggi rivelatori: Fossa dei Grifoni, Ultras Granata, gente della Ternana, del Livorno e dell’Atalanta. Li avevamo già incontrati, alcuni di loro, nelle stazioni e nei piazzali degli autogrill, ma allora avevamo i volti nascosti dalle sciarpe, così fu come conoscersi per la prima volta. Erano più le cose che ci univano di quelle che ci dividevano, e non serviva avere un tatuaggio di Che Guevara sull’avambraccio – noi, ad esempio, non l’avevamo – per intuire che il G8 era il condensato del potere mondiale, l’Arcipalazzo, il Supremo

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forziere e il Perfetto tavolo delle ingiustizie: altroché la Federcalcio di via Allegri! Liberi da schemi mentali come mai prima, continuammo ad incontrare potenziali amici anche nel nostro pellegrinaggio verso la zona rossa, che i Disobbedienti si ripromettevano di violare simbolicamente entro il termine del summit. Parlammo con genovesi al limite della crisi di nervi per i divieti e le limitazioni in vigore da mesi; un signore ci confessò che secondo lui non sarebbe accaduto niente. «Andate a vedere le grate in fondo alla via, e ditemi come le sfonda, Casarini. A testate?» Erano davvero impressionanti, come se il meglio dei sistemi di sicurezza a disposizione negli stadi italiani fosse stato condensato in un unico, maestoso, progetto di cittadella fortificata. A differenza dei fatiscenti settori-ospiti cui eravamo abituati, però, qui tutto era nuovo fiammante, dalle migliaia e migliaia di grate che sigillavano l’area proibita alle distese chilometriche di barriere new jersey. «Qualcuno ci ha già guadagnato» osservò il meno loquace dei miei amici. Quando le cose non gli tornavano, seguiva sempre la scia dei soldi: in un altro paese, sarebbe stato un ottimo giornalista. «Excuse me» c’interruppe la voce delicata, quasi femminea, d’un ragazzo straniero. Era vestito di nero da capo a piedi, sul braccio portava scritto un numero a pennarello che ricordava i tatuaggi dei lager, e ci sventolava sotto il naso una tessera plastificata. «Do you know where I can find a cash machine?» domandò con accento scandinavo. «Che vuole il black bloc?» domandò il mio socio più loquace. «Un bancomat» rispose disgustato l’altro, poi posò la destra sulla spalla del forestiero e gli intimò in inglese maccheronico di scegliere cosa fare nella vita: «Or you make riot, or you find cash machine. You can’t have all two. I mean: the barrel full and the wife drunk».

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«Italian police?» domandò quello mentre si ritraeva, e partì come una lepre. «Che tipo» commentò il mio socio. «Viene a fare gli scontri, e s’impressiona per due proverbi.» Il ragazzo in nero ancora fuggiva di buona lena, girandosi di tanto in tanto per mostrarci le dita a forbice e urlare i suoi: «Fuck off, you pigs!». «Povero scemo» ghignò l’amico che aveva imparato l’inglese da poco. «In caso di tafferugli – pronosticò l’altro – questo è il classico che si fa male da solo.» Ci rendemmo conto della gigantesca trappola che si preparava solo quando ci apparve dall’alto d’una rampa sopraelevata l’immane schieramento dei mezzi designati per contenere i manifestanti: erano centinaia e centinaia, inquadrati in riva al mare, vecchi Ducato e Land-Rover fianco a fianco ai superbi Magnum, volanti della Polizia, gazzelle dei Carabinieri, camionette dei baschi verdi della Finanza e cellulari della Penitenziaria, elicotteri e corriere per il trasporto truppe. Solo nei film sullo sbarco in Normandia avevo visto un dispiegamento del genere. «Paura di un attentato?» domandò sarcastico l’amico loquace quando ci fummo ripresi da quella vista impressionante. «Sono tutti qui per noi» lo ignorò l’altro. «Aspettano solo una provocazione per farci il culo come una capanna. E quando si muovono in così tanti, la provocazione arriva sempre.» «Entro ventiquattr’ore qui scoppierà l’inferno» parve riflettere ad alta voce l’amico loquace. «Lo sapete cosa intendo. Cariche e controcariche, in mezzo a una marea di persone che non sa dove andare.» «Loro sono qui» considerò l’amico che aveva imparato l’inglese da poco, e allargò un gesto verso il più minaccioso autoparco della storia. «E dall’altra parte chi c’è?»

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«Saranno travolti, i ragazzi con gli scudi di cartone e le protezioni di gommapiuma. Scoppierà il finimondo, e non c’è la minima possibilità di entrare nella zona rossa.» «Te ne vuoi andare?» domandai. «Guardali!» m’invitò. «Qui non basterebbero tutti gli ultras d’Italia.» Ce ne andammo da Genova come eravamo arrivati, da soli e senza distintivi in vista, raggiungendo a piedi Brignole per montare su un anonimo interregionale. «Tornate a casa proprio stasera?» ci domandò un agente della Polfer con un sorrisetto strano. «Non vi è piaciuta, l’aria di qui?». Vidi in televisione da Bologna, con la morte nel cuore, il materializzarsi di tutte le nostre previsioni più fosche, dal corteo piombato nel caos al lugubre tentativo di fare indossare una maglietta nera al cadavere del povero Carlo Giuliani, dall’assalto alla Diaz sotto l’occhio delle telecamere ai tentativi del governo di minimizzare le gravissime colpe di chi avrebbe dovuto gestire non già uno scontro a base di colpi proibiti, ma l’ordine pubblico. La presenza di onorevoli della maggioranza nelle stesse caserme dove si pestavano i fermati inneggiando al Duce, ai miei occhi sarebbe stato abbastanza per provocare le dimissioni dell’intero governo. Figurarsi, però, se il Silvio si lasciava intimidire dalle mie private cogitazioni: a suon di proclami dalla televisione privata e pubblica, l’Italia imparò che quanti erano stati minacciati, picchiati, umiliati e accusati ingiustamente, be’, se l’erano cercata. E poi, se qualcuno aveva calcato troppo la mano, avrebbe eventualmente pagato con moderazione le proprie veniali colpe. Nel dubbio, a tutti i ragazzi delle forze dell’ordine andava la gratitudine di un paese intero. Anche dei boy scout, dei disa-

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bili e delle pericolose militanti cattoliche di mezz’età presi a manganellate senza risparmio. (E certo, ché quando comincia la rumba le forze dell’ordine non possono mica domandare a ciascuno: «Scusi, lei sarebbe un black bloc?».) Come volevasi dimostrare, vaffanculo: da allora molta gente avrebbe considerato più salutare seguirle in televisione, certe adunate. Per anni mi sarei astenuto dal tornare a Genova, interrompendo persino la bella consuetudine delle trasferte a Marassi: avrei fatto ritorno laggiù solo nel 2006, per un reading insieme alla band Frida X, mentre la stagione seguente avrei cominciato una collaborazione con gli indie-rocker locali Numero6. Dopo il grande calcio di serie A e la grande repressione di Scajola, la musica sarebbe apparsa finalmente un motivo valido per frequentare la metropoli ligure a cuor leggero. Prima, però, bisognava bere fino in fondo l’amaro calice: dai fatti del G8 al termine del mandato mancavano quattro anni abbondanti. Sarebbe bastato anche meno, per rivoltare il paese come un calzino, ma la missione del Silvio si annunciava enormemente più facile: per uno intuitivo e disinvolto come lui, si trattava semplicemente di sorridere alla maggioranza degli italiani e assecondarne le naturali inclinazioni.

LA CASA DEGLI ITALIANI In un paese sempre pronto a commuoversi per le apparizioni, in televisione apparivano un po’ tutti, dal Silvio all’ultimo dei cantanti di provincia. Ogni volta che il miracolo non-stop toccava una landa remo-

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ta, foss’anche per uno speciale di Mengacci, i suoi abitanti si facevano sensibili al partito della televisione. Chi non veniva lambito dalla grazia di una partecipazione o d’un’ospitata, cominciava a sentirsi parte d’una rognata minoranza. «Posso sapere, di grazia, cosa fa Pietro Taricone che io non posso fare?» domandò a un bel punto Iuri Giacobbi. «Niente di niente!» «Infatti» dissi per consolarlo. «È solo che Taricone, quel niente, lo fa davanti alle telecamere.» «Lo vedi?» sbottò. «È come dico io, accidenti! Se non vai in televisione non sei nessuno!» «Dici?» Mi guardò di traverso, e domandò: «Tu, a proposito. Perché non ci vai più?». «Lascia perdere.» «Be’, a scrivere sei sempre capace» aggiunse in tono non del tutto convinto. «Allora?» «Pensa che coppia!» esclamò sognante. «Che coppia chi?» «Noi due, il braccio e la mente! Se ci presentiamo al casting, vuoi che non ci prendano, al Grande Fratello?» Non feci in tempo a rispondergli. «Lascia perdere» fece dietrofront. «Non ci prenderanno mai, in due. E non provare a fregarmi: l’idea è stata mia.» Era come impazzito, e nei mesi seguenti mi resi conto che, pur di realizzare il proprio sogno, era pronto a quasi tutto: si iscrisse a un corso di step, si depilò elettricamente il petto e prese a portare magliette attillatissime. Smise persino di praticare la boxe thailandese per prendere lezioni di ballo funky: credevo che il passo successivo sarebbe stata l’iscrizione all’Arcigay,

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invece gli sarebbe servito un buon gruppo d’ascolto dei Teledipendenti Anonimi. La sua prima esibizione come danzatore si concluse con una spettacolare culata di fronte a un palazzetto gremito, ma ormai Iuri aveva deciso d’imboccare la strada dello spettacolo, e tanto valeva non lasciare nulla d’intentato. «Tutto fa curriculum» divenne il suo motto, da pronunciarsi con fare stoico, mentre si controllava la ricrescita delle sopracciglia. Partecipò a un concorso per barzellettieri, rispolverò la vecchia imitazione di Rocky Balboa, si cimentò in una edizione non ufficiale di «mister Tintarella», e prese parte – ufficialmente per documentarsi – a una convention-spettacolo di illusionisti, dalla quale tornò entusiasta e alleggerito di due o trecento euro. Era sul punto di tagliare ogni ponte col passato per abbracciare la carriera della prestidigitazione, nel solco dei grandi Silvan e Binarelli, quando imparò che presto, molto presto, avremmo avuto in città l’unico e inimitabile casting ufficiale del GF. «Cazz’è, il Gieffe?» domandai. «Il Grande Fratello! E io sento qualcosa, dentro, che mi dice: ‘Vai, Iuri, è il tuo momento’!» Se lo sentiva dentro, quel qualcosa, così andò. A quei provini si presentò anche, appresi poi, il nostro ex compagno di catechismo LucaPietro Niccolis. Benché figlio di notai e prossimo alla laurea in giurisprudenza, si era messo in testa di poter dire la sua nel mondo del rock ’n’ roll. Come chitarrista, gli s’invidiava solo la Rickenbaker da settemila dollari comprata a New York e la sala prove attrezzata di tutto punto: i «Wild boys», la sua ributtante cover band di grandi successi anni Ottanta, si esibivano perlopiù alle feste di laurea, solitamente come gruppo-spalla di qualche altra cover band appena meno vomitevole.

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Memorabili le grigliate di gamberi che LucaPietro allestiva nel giardino di casa sua, dietro via dell’Arcoveggio, allorquando i presenti erano costretti a sorbirsi ore intere di cover dei Simple Minds, rese in maniera così pretenziosa e approssimativa da risultare irriconoscibili; LucaPietro, anziché limitarsi a naufragare col resto di laureandi e praticanti prestati alla musica, ci teneva ad affondare in bella vista. Nessuno dei presenti ha dimenticato gli assoli di chitarra da due o tre minuti che infliggeva agli astanti, la camicia azzurra aperta in via straordinaria sino al secondo bottone, prima che si potesse finalmente mettere mano ai gamberi grigliati. Invano il Niccolis, coccolato dal suo ristretto pubblico di affamati adulatori, tentò di guadagnare credito presso la scena rock autentica. Visto che i soldi, la chitarra e il microfono li aveva, ma i compagni di avventura non gli sembravano all’altezza, si mise in testa di darsi alla carriera solista. Skyless bird, il suo struggente debutto, dev’essere ancora da qualche parte tra i files musicali del mio computer: il disco gliel’avevano pagato i genitori, il locale per il live release del cd anche, ma LucaPietro restò schiacciato dal doppio impegno di strimpellare la chitarra in modo passabile e, contemporaneamente, cantare. «Dove l’hanno trovato, ’sto qui?» domandò uno dei baristi del locale. «Nel bidone del rusco?», e fu una delle critiche più benevoli che la serata suscitò. Non ci fu mai un secondo concerto, né Skyless bird scalò le classifiche di gradimento, neppure quelle indipendenti. La musica non valse a LucaPietro l’amore di qualche poetica fanciulla; dimorò anzi intorno al suo nome una indelebile fama di sfigato. Se pure il mondo non lo capiva, il mio vecchio compagno di studi giudicò che al Grande Fratello avrebbero apprezzato la sua vena di rocker-poeta venata di suoni della West Coast.

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Non ricevendo rassicurazioni dagli addetti al casting sulla presenza di un’adeguata backline nell’albergo scelto per i provini, pensò bene di presentarsi con la Rickenbaker a tracolla e un facchino col carrello incaricato di trasportargli la pesante testata Marshall. Senza successo neppure quella volta, come d’altronde Iuri Giacobbi: la sua imitazione di Rocky Balboa conclusa da un’improbabile spaccata non aveva impressionato nessuno. Cos’era, poi, ’sto Grande Fratello che faceva impazzire tutti? Edizione italiana del format olandese Big Brother, a prima vista lo spettacolo prodotto dalla Endemol si basava su un radicale ribaltamento di ruoli: sostituire ai volti noti della televisione dei semplici sconosciuti, che avrebbero occupato gli schermi tanto a lungo da diventare essi stessi volti noti. La Casa era, insomma, una fabbrica di celebrità, e questo aizzava migliaia di Iurigiacobbi desiderosi di migrare dall’anonimato alla fama, e da una vita lavorativa senza troppe speranze al bel mondo di attori, veline e calciatori. Non tutti, però, seguivano il Grande Fratello sperando di finire nella Casa. Ai più bastava spiare, grazie alla diretta sul satellite e alla striscia preserale in chiaro su Canale 5. Avevo spiato anch’io, e quel che avevo visto non mi era piaciuto: non mi riferivo ai concorrenti, ma alla mia immagine riflessa sullo schermo della televisione. All’improvviso mi ero visto come un secondino, un controllore o, contando che si poteva contribuire ad eliminare i concorrenti tramite un’onerosa telefonata, un giovane boia a metà dell’apprendistato. Chiudere delle persone in uno spazio limitato, sottoporle a prove e non perderle mai di vista non era forse un’attività di routine, nelle carceri? Cos’eravamo diventati, per divertirci a vedere gli altri – quel-

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li stessi che ci eravamo disabituati a salutare per la strada – chiusi in una galera televisiva, e scommettere sulle loro reazioni? Inutile domandare in giro: la gente era troppo occupata a domandarsi se le privazioni inflitte agli inquilini della Casa fossero dure come sembravano in video o se invece, ogni tanto, qualcuno allungava di nascosto ai ragazzi un wafer o una sigaretta. Si discuteva se il carcere fosse carino o no, non se fosse giusto spiare chi ci stava dentro. Per seguire le evoluzioni dei detenuti volontari, o forse in segno di solidarietà, si autocarcerarono un po’ tutti, ciascuno davanti al proprio televisore con il decoder nuovo di zecca. Il 12 gennaio 2002, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli pronunciò parole destinate a restare celebri: «Ai guasti d’un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave». Era il grido d’allarme d’un magistrato che vedeva il potere giudiziario attaccato frontalmente dal nuovo governo del Silvio, ma il triplice «resistere» di Borrelli era anche un invito alla riscossa diretto alla società civile, o a quello che ne restava in tempi segnati da un egoismo orgoglioso, rivendicato, elevato a fondamento istituzionale. Una settimana dopo, a Roma, un’ottantina di persone si riunirono davanti al ministero di Grazia e Giustizia per condannare le ingerenze dell’esecutivo in ambito giudiziario; ancora sette giorni, e un corteo di forse quindicimila persone sfilò a Firenze dietro ai professori «Pancho» Pardi e Paul Ginsborg, promotori della manifestazione a difesa della «democrazia in pericolo».

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Sorsero come funghi in tutta Italia, i comitati autoconvocati di cittadini a tutela della democrazia e della legalità, e quarantott’ore dopo la marcia dei professori fiorentini, il 26 gennaio, a Milano si tenne una nuova, massiccia, dimostrazione di fronte al Palazzo di Giustizia: anziché limitarsi a scandire cori o inscenare un sit-in, a qualcuno venne l’idea d’improvvisare un girotondo, gioco innocente e sempre aperto a nuovi partecipanti, a differenza della politica – o almeno di quella italiana. Perché, tanto per dire, a Stoccolma di fronte al Parlamento c’è un caffè aperto a tutti, dove un pomeriggio alla settimana i portavoce dei diversi partiti incontrano l’elettorato per fronteggiarne richieste, aspettative ed eventuali malumori; per contro, da noi, la distanza fra elettori ed eletti è la pietra di volta dell’intera vita sociale, e la mutua assistenza fra partiti di qualunque idea e schieramento aggiunge un tocco di colore locale: in un paese votato al turismo, non guasta mai. Tornando ai girotondi, si moltiplicavano giorno dopo giorno con la forza dei movimenti che riescono a leggere l’attimo: era il caso di scendere in piazza contro una nuova forma di autoritarismo, e di farlo subito, senza aspettare che le manifestazioni venissero proibite per legge. La sorpresa era che la gente non ne aveva solo per il Silvio, ma anche per D’Alema e il resto dei leader di centrosinistra, bollati come «finta opposizione». Si imputava loro la sospetta flemma e la colpevole leggerezza che avevano esibito l’anno prima, al momento di riconsegnare il paese al Silvio. Così non ero il solo, a odiare le parole «inciucio» e «bipartisan». Fra quelli che alle parole avevano sempre prestato attenzione, c’era il regista Nanni Moretti. Fu lui che i girotondini del paese elessero per acclamazione primus inter pares: il 2 febbraio, in piazza Navona, prese la parola dal palco dopo che i dirigenti dell’Ulivo si erano alternati al microfono con i leader naturali della protesta. Il regista tracciò una

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distinzione molto severa fra i primi e i secondi: secondo Moretti ormai il vero numero uno dell’opposizione era il professor Pardi, non i parlamentari responsabili della Caporetto politica del 2001, che si affannavano a mettere il loro cappello sulla protesta. L’Italia di sinistra tornava a sognare, e l’attenzione dei politici era altissima: il 17 febbraio il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto, si unì a Moretti per un girotondo romano a piazzale Clodio. Nell’occasione garantì che «vi è ancora molta voglia di combattere per una giustizia uguale per tutti, e contro l’involuzione autoritaria del nostro paese». Non passò un’altra settimana che anche il segretario Ds Fassino sentì il bisogno di confrontarsi con Nanni, seguito nel giro di tre giorni dal Massimo in persona. D’Alema andò a Canossa, anzi a Firenze, a beccarsi i fischi dei professori e dei loro allievi più indignati come non gli capitava dai tempi della Fgci, per poi tentare una ricucitura, naturalmente nell’interesse comune. Non era di temperamento umile, ma stavolta c’era da capirlo: il leader della Cgil Sergio Cofferati aveva chiamato in piazza una folla di quasi tre milioni di lavoratori per la più grande manifestazione della storia nazionale, almeno a memoria di venticinquenne. Che la leadership della Sinistra stesse scivolando dagli apparati di partito verso il sindacato e i comitati di base? Nemmeno quelli si fermavano più: quarantamila persone celebrarono i dieci anni di Mani pulite a Milano, centinaia di presidi per la democrazia sorsero dall’Alto Adige alla Sicilia, accompagnati da una pletora d’iniziative tese ad accendere l’attenzione pubblica sulle leggi ad personam che il Parlamento si apprestava a convalidare per maggior gloria del Silvio. Nel mirino c’era la proposta di Frattini, che avrebbe definito a favore del leader la questione del conflitto d’interessi, e si manifestò persino nel cuore dell’estate contro la famigerata legge Cirami.

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Dopo una stagione nella quale un arcipelago di club, associazioni informali e semplici blogger aveva incarnato l’autentica opposizione politica al governo, il 14 settembre in piazza San Giovanni il movimento celebrò il proprio zenit e la propria fine: l’opposizione parlamentare pareva avere ripreso coraggio, e si disse che ormai poteva camminare con le proprie gambe. Parlarono alla piazza gremita Nanni Moretti e «Pancho» Pardi, don Ciotti e Gino Strada, Rita Borsellino e Paolo Flores D’Arcais, Furio Colombo e Vittorio Foa. Raccontò dal palco il regista di Palombella rossa: «Hanno detto che siamo estremisti. I nostri movimenti hanno mostrato sì intransigenza, ma sui principi fondamentali della democrazia. Siamo moderati, ma essere moderati non significa essere passivi, abituarsi alle peggiori anormalità italiane, vivere nell’assuefazione. Ci piace la Costituzione e in quanto moderati siamo rimasti prima perplessi, poi esterrefatti, poi incazzati per quello che sta succedendo in Italia». E spiegò: «Io dopo le elezioni del maggio 2001 m’ero rassegnato a un’intera legislatura, cinque anni di terribile e tranquillo governo di centrodestra, anche perché pensavo che fossero diventati meno peggio rispetto al ’94, più politici, più democratici. E invece si sono rivelati più arroganti e più incapaci del previsto. Più sfacciati nell’assecondare gli interessi personali di Berlusconi e di alcuni suoi amici». Dopo un nuovo appello ai valori della Costituzione, ricordò: «Nel contratto con gli italiani che Berlusconi firmò in una trasmissione tv non c’era la legge sul rientro dei capitali illecitamente esportati all’estero, non c’era la legge sulla depenalizzazione per il falso in bilancio, non c’era la legge sulle rogatorie internazionali. Gli italiani hanno votato Berlusconi inseguendo un sogno e si sono risvegliati dentro un incubo». Parole sante, che anche gli onesti cittadini di Destra e gl’imparziali servitori delle istituzioni avrebbero potuto condividere.

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Ma le aveva pronunciate un comunistaccio barbuto, quindi le condivisero solo in privato, per non dispiacere il Silvio che aveva già tanti pensieri. Organizzare l’opposizione: era una patata bollente, ma D’Alema l’afferrò stoicamente a mani nude. Quel che aveva visto coi girotondi non gli era piaciuto, il carisma di Cofferati gli dava l’orticaria, e i fischi fiorentini bruciavano ancora sottopelle. Così si mise in gioco di persona, architettando la propria partecipazione alle elezioni europee del 2004: mancavano ancora venti mesi, ma si sa che la prudenza non è mai troppa. Perché poi attaccare il Silvio frontalmente, alla Di Pietro, quando si poteva lavorarlo ai fianchi, per innervosirlo con ganci da formica e sfiatati montanti? A quel modo, nel giro di dieci o quindici anni avrebbe dovuto arrendersi, e nessuno si sarebbe fatto male sul serio...

SQUADRA DI GOVERNO I partner principali che componevano il governo del Silvio erano tre: Forza Italia, Alleanza Nazionale e la Lega Nord, ai quali si aggiungevano i «blancos» del Ciccidì-Cidiù, e i nostalgici del Garofano di scuola craxiana. Come potessero essere alleati gli eredi del nazionalismo missino e i fautori dell’indipendenza padana era un mistero buffo, ma non certo l’unico: figurarsi che i leghisti, nel ’95, avevano fatto cadere il primo governo del Silvio, gratificando il sedicente «primo ministro» con l’epiteto di «mafioso», e adesso sedevano al suo fianco come nulla fosse, il fazzoletto verde d’ordinanza a mo’ di foglia di fico. Cosa avessero da spartire le fabbrichette del Nord e la decorosa quiete reclamata nei paesini profondamente cattolici della

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provincia lombarda con gli interessi transnazionali e le rumorose feste del Silvio, proprio non lo capivo. Se come forza di opposizione la Lega era apparsa folkloristica, e nel ’95 era risultato un partito malleabile dalle alte cariche istituzionali, adesso che era tornata al governo col Silvio poteva finalmente mettere in pratica la sua idea di gestione del potere: aveva la voce rassicurante di Maroni – il primo ministro degli Interni con alle spalle una condanna per avere tentato di mordere un poliziotto – e gli occhi spiritati di Calderoli, il sensuale calore umano di Castelli e il vivace curriculum di Borghezio. Appariva, l’onorevole Mario, il trait d’union fra alcune delle più inquietanti tradizioni patrie: non ancora trentenne era stato fermato dalle autorità nei pressi della frontiera di Ventimiglia, e trovato in possesso di una scanzonata cartolina postale a firma Ordine nuovo. Poiché due giorni prima era caduto in un agguato il giudice Vittorio Occorsio, titolare di importanti inchieste relative al terrorismo nero, la missiva apparve meritevole di ulteriore analisi. Casualmente era indirizzata «al bastardo Luciano Violante», anch’egli magistrato in prima fila nelle inchieste sulle trame neofasciste. Il testo del messaggio, accompagnato da una svastica e un «Viva Hitler», recitava: «1, 10, 100, 1000 Occorsio». Ma che sarà mai una cartolina? Un peccatuccio di gioventù, niente di grave per chi si sappia emendare in nome della Vera Fede. Vicino alla destra ultracattolica, ma anche leghista di rito celtico; federalista, ma anche indipendentista; rondista ante litteram ma anche autocandidato al ruolo di capo della Polizia: contraddizioni solo apparenti, per un uomo che afferrò e trattenne coraggiosamente un ambulante dodicenne, rimediando una condanna a 750.000 lire per violenza privata.

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Altra condanna lo colpì per una nuova, significativa, azione a favore dell’identità occidentale: nel 2000, insieme ad alcuni militanti leghisti, appiccò il fuoco ai pagliericci di alcuni senzatetto. Avrebbe sfidato con sprezzo del pericolo anche la susseguente persecuzione da parte delle toghe rosse, pronte a infliggergli una condanna a due mesi e venti giorni, commutati in una più rassicurante multa pecuniaria da 3.040 euro. La popolarità del Mario era alle stelle, specie nella sua Torino; un anonimo fan lo riconobbe in tram e, commosso dal grande impegno del Mario per i valori tradizionali del Vecchio Continente, lo colpì con forza prima di darsi alla fuga. Metodi terroristici che non misero paura a chi portava con sé certe cartoline nel bel mezzo degli anni di piombo; tirò dritto per la sua strada, il Borghezio, «un metro e 76 di altezza, tre di circonferenza poiché abbina a salutistici menu di verdurine pinte schiumose di birra e devastanti container di agnolotti e tortiglioni», almeno secondo la definizione di Gian Antonio Stella. Nonostante la mole aveva la schiena dritta e un cervello non disprezzabile: quando propose di impiegare i proiettili di gomma contro gli assembramenti di extracomunitari, lo si accusò di razzismo, ma il Mario portò alla ribalta argomenti in grado di spegnere ogni polemica: a lui piacevano le donne di colore. «Le nere le ho provate quando sono stato in Africa, nello Zaire» confessò al «Corriere», sospirando subito dopo: «Ah, le katanghesi! Le katanghesi! Prodotto notevole. Mica come le bruttone nigeriane che battono da noi. Quello che ho assaggiato lì era proprio un prodotto locale notevole». Come noto, sotto i panni di ogni grande politico c’è sempre un grande uomo. Va detto che non tutti i leghisti erano come lui (alcuni, in effetti, somigliavano più a Calderoli). In ogni caso, a mediare fra l’ala più xenofoba e quella meno xenofoba della Lega, c’era pur sempre Umberto Bossi.

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Il leone di Cassano Magnago ruggiva a tutto spiano, e di fronte a lui tutti i vassalli, valvassori e valvassini della Padania abbassavano intimoriti le orecchie. Almeno sino al marzo del 2004, quando Bossi venne ricoverato in Svizzera in seguito a un ictus cerebrale che lo mise per qualche tempo fuori gara. Sulle circostanze dell’incidente s’intrecciarono da subito leggende a sfondo rosa e inchieste giornalistiche destinate a non scalfire la giusta privacy dell’infortunato. Per oltre un anno il Senatùr non fu in grado di tenere un comizio pubblico, e la Lega apparve sprofondata nell’incertezza sul proprio futuro, con grave affanno di alleati e oppositori, che la temevano prossima a una svolta ideologica – se di ideologia si può parlare – da Mississippi burning. Chi dalla tradizione autoritaria discendeva direttamente, almeno dal punto di vista culturale, era Gianfranco Fini. Se D’Alema era stato scelto come delfino da Berlinguer, lui era noto da giovane come pupillo di Almirante, che l’aveva nominato motu proprio segretario del Fronte della Gioventù, e questo benché Fini fosse risultato appena quinto nelle preferenze al congresso giovanile: a Destra come a Sinistra, la democrazia interna ai partiti era un’idea molto soffusa, ed essere il prescelto del Capo valeva più di qualsiasi titolo o merito. La gestione del potere in Italia è un’arte complessa, per questo va tramandata a voce dal maestro all’allievo; l’ex camerata Fini se n’era accorto sulla propria pelle, al momento di traghettare il Movimento sociale dalla fase della militanza a quella della proposta di governo: non era cambiato solo il nome, c’erano state scissioni dolorose da affrontare e il ripudio da parte di chi, per un motivo o per l’altro, di dimenticare il Duce non ne voleva sapere. Tuttavia era riuscito a tenere la barra dritta, il giovane Gianfranco, guadagnandosi persino la stima inattesa (e non richie-

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sta) di tanti elettori di centrosinistra: se dal Silvio e dalla Lega non sapevi cosa aspettarti, almeno Fini appariva una persona seria, che percepiva la sacralità delle istituzioni. Pian piano, stava facendo dimenticare il suo passato anche agli oppositori, finendo per apparire il volto più presentabile del governo. Del politico di classe aveva tutto: eleganza, loquela e, come Veltroni, aveva l’accortezza di tifare per due diverse squadre di calcio. Se lo juventino Walter non perdeva occasione per farsi fotografare con la sciarpa giallorossa, il pettinato Gianfranco andava a periodi: quand’era nella natìa Bologna, non mancava di mostrarsi in tribuna al Dall’Ara per sostenere i rossoblu con una fede granitica, incrollabile, quasi pasoliniana; a Roma, invece, tifava Lazio e si commuoveva ricordando lo scudetto di Chinaglia come l’avesse vissuto a bordocampo, nei panni di giovane fotografo o raccattapalle: anche visto da Sinistra, uno così sembrava troppo italiano per volergli male davvero. Fu Nanni Moretti, di fronte ai suoi girotondini, a stigmatizzare il diffuso errore di prospettiva nei confronti del pettinato. «Nella mia ingenuità un po’ beota – ammise Moretti davanti alla folla di piazza San Giovanni, il 14 settembre 2002 – in questi anni ho creduto che Fini prima o poi si rendesse autonomo da Berlusconi. Pensavo: ecco ora dice una cosa in contrasto con Berlusconi; Fini almeno il senso dello Stato ce lo dovrebbe avere. Ecco, ora dice che sul conflitto d’interessi o sulla legge antitrust Berlusconi ha torto...» Gli ascoltatori risero amaro, prim’ancora che Moretti cambiasse tono: «Non avevo capito niente. Non avevo capito che con cinismo, all’ombra di Berlusconi, Fini lo stava usando politicamente per avere dei pezzettini di potere. Fini l’ho sottovalutato politicamente anche perché l’avevo sopravvalutato moralmente». Dopo il vetriolo, la chiamata in causa: «Ma valeva la pena dedicare tutta la vita alla politica, energie, tempo, sforzi per diven-

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tare democratico, strappi, discussioni, litigate, lacerazioni? Tutta la vita per poi diventare nemmeno l’unico, ma uno dei tanti signorsì di Berlusconi?». Parole indubbiamente velate da odio politico, di classe, religioso, e che solo una parte del paese condivise. Per buona parte degli italiani, Fini restava un politico di classe e un uomo pettinato benissimo: ci rimasero male un po’ tutti, quando si seppe che tra lui e la sua frizzante sposa romana le cose non giravano più come un tempo. Noi che frequentavamo il Dall’Ara, il sospetto l’avevamo da un po’: la signora, a vedere il Bologna, non era venuta quasi mai. Eppure sentivamo confusamente che presto il nostro concittadino avrebbe trovato la compagna in grado di dargli la serenità necessaria. Per uno destinato a Farefuturo, sembrava il minimo. Ma chi erano gli uomini che, con gusto squisitamente ellenistico, An vedeva definire dai giornali come i propri «colonnelli»? Tre erano le correnti, che proprio nel 2004 Fini scioglie d’imperio, ma che sarebbero sopravvissute sino alla fusione sotto le bandiere del Silvio: Nuova alleanza, guidata da Altero Matteoli e Domenico Nania, incarnava l’anima liberal del partito e quella più legata alla leadership dello stesso Fini, mentre Alemanno e Storace rappresentavano la corrente della Destra sociale, portatrice di idee economiche in assoluto contrasto con l’estensione di privilegi e tutele per i multimilionari. A fare da polena al naviglio di An diretto verso i porti sicuri del Silvio era la terza corrente, Destra protagonista, ispirata da Pinuccio Tatarella e orgogliosa dei propri alfieri La Russa e Gasparri, quest’ultimo ansioso di mettere fine alle aporìe della legge Mammì con un nuovo testo unico per la televisione firmato di proprio pugno. Se questi esponenti di An guardavano verso il Silvio – i maliziosi non osassero nemmeno pensare qualcosa di diverso –

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il motivo era che ne condividevano la visione economica, e in particolare l’impostazione liberal-conservatrice. Erano cresciuti negli anni delle sprangate e dei cortei, questi colonnelli, ma col tempo erano diventati sensibilissimi all’economia: segno certo che si erano fatti persone responsabili. Di Martelli e De Michelis diffidavamo per esperienza diretta, così si preferiva guardare ai «blancos», che qualcuno vedeva come l’anello debole della coalizione silviesca: in teoria, per la posizione che occupavano in Parlamento, erano i più inclini a contatti con il centrosinistra. Quel che gli oscuri tessitori di trame parlamentari ancora non sapevano, era che si sarebbero dovuti scontrare con la tempra di due autentici campioni di coerenza come Rocco Buttiglione e Pierferdinando Casini. Buttiglione, va detto, era un filosofo coi fiocchi: nel lontano 1986 aveva contribuito a fondare l’Accademia internazionale di filosofia, la cui sede era stata posta in quel di Vaduz, Liechtenstein, un’agorà stretta culturalmente fra i pragmatisti degli alpeggi del Voralberg e i neokantiani maestri di sci dell’Engadina. Senza nulla togliere ai meriti del prestigioso istituto, il secondo Rocco più celebre d’Italia deve avere visto come una promozione, nel ’94, la nomina a membro della Pontificia Accademia di Scienze sociali: finalmente un episodio rassicurante, dopo la burrascosa fine della Dc. Confortato dall’approvazione vaticana nei confronti della sua dotta opera di ricerca ed insegnamento, Buttiglione si spese per ricreare una casa comune democristiana. Poiché nello stesso periodo vi si stavano cimentando in parecchi, intercettò solo una minima parte del bacino elettorale, che gli preferì il Partito popolare, schierato con Prodi: Buttiglione vi entrò, tentò di pilotarlo verso il centrodestra e, a tentativo fallito, guidò una scissione per fondare il suo Udc filosilviesco.

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Premiato col ministero delle Politiche comunitarie, Buttiglione si diede da fare in Europa: rischiò di mandare all’aria prima ancora del suo insediamento l’intera commissione Barroso, che lo vedeva designato a ricoprire le deleghe su giustizia, libertà e sicurezza. La sua coerenza, quel giorno, apparve improntitudine o malizia: fece esplodere un caso mediatico definendo l’omosessualità «un peccato, ma non un crimine», quindi, a mo’ di rettifica, la definì «indice di disordine morale». Qualcuno comprensibilmente se la prese, la nomina di Buttiglione fu respinta dal Parlamento europeo, e l’intera commissione si tirò addosso una marea di polemiche. Ma l’unica colpa di Rocco, ormai si è detto, era la molta – forse troppa – coerenza. Lui mica lo nascondeva, quel che pensava. Era un filosofo, e i suoi discorsi spaziavano dall’omosessualità all’eterosessualità senza che lui arrossisse mai, nemmeno quando gli toccava affrontare il tema delle ragazze-madri: «I bambini che hanno solo una madre e non hanno padre sono figli di una madre non molto buona». Uno che parlava così bene era sprecato come ministro delle Politiche comunitarie: meritava almeno i Beni culturali, dicastero che gli venne assegnato col rimpasto di governo del 2005. Anche in mezzo a una simile compagnia, Pierferdinando Casini non perdeva la sua aria da viso pallido della Bologna bene. Democristiano sin dalla nascita, era la bandiera della nuova generazione di «blancos» irriducibili, gli estremisti di centro cresciuti politicamente negli anni di Tangentopoli, già pronti due anni dopo a ricordare, sospirando, di quando i cattolici si erano dovuti nascondere nelle catacombe per la sola colpa di avere creduto in Forlani. Un sopravvissuto da subito, il Pier, postdemocristiano sbarazzino ma sempre attento alle indicazioni del Vaticano. Difen-

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deva la famiglia a spada tratta da qualsivoglia ingerenza, eccezion fatta per le sentenze della Sacra Rota: non si era certo opposto, infatti, quando il supremo tribunale ecclesiastico gli aveva annullato un lungo matrimonio benedetto dalla nascita di prole, portandolo quasi fatalmente a risposarsi con Azzurra Caltagirone. La coerenza che Casini dimostrava sui temi della famiglia, supportato dal divorziato Silvio e da un Gianfranco improvvisamente single, non era seconda alla forza unanime, da falange d’opliti, che il suo Ciccidì dimostrò al momento della fusione con i cugini buttiglioniani della Cidiù, per dare vita a un nuovo partito eufonicamente siglato Udc. Divenne la casa comune di tutti i cattolici che non trovavano contraddizione tra la fede nel Vangelo e quella nella leadership terrena del Silvio. Chi avesse perso la seconda, come Follini, sarebbe stato messo di fronte al bivio fra l’abiura e l’esilio. Coerentemente. Cosa ne sapeva, l’80% degli italiani che s’informava esclusivamente attraverso la televisione, delle lotte al coltello all’interno dei partiti, dell’inquietudine che, in Vaticano, accompagnava gli ultimi mesi di passione di papa Wojtyla, o delle segrete manovre ordite per infangare Prodi e Fassino nell’ambito del caso-bufala Telekom Serbia? Ne percepivano solo un’eco lontana, dottamente analizzata dai telegiornali e da Bruno Vespa, celebrata dalle consegne dei Tapiri d’oro e oscurata senza pietà dai veri appuntamenti irrinunciabili della vita nazionale: i quiz di Pupo, La vita in diretta, e una quantità di altri programmi che non si capiva più se fossero della Rai o di Mediaset. Anche gli omicidi li tenevano molto occupati, almeno quelli graditi alla televisione. Non tutti, infatti, risultavano popolari come il giallo di Cogne. Si parlò pochissimo, ad esempio, della fi-

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ne senza un perché del diciottenne Federico Aldrovandi, pestato a morte su un marciapiede di Ferrara durante un controllo di polizia. Ci sarebbero voluti il delitto di Perugia e quello di Garlasco, per consentire alla patria informazione di scatenarsi a piacimento: quelli sì che erano omicidi interessanti, con belle ragazze coinvolte e tanta tanta morbosità da riversare sui dettagli delle indagini. Mica ci si scaldava più con poco. Ormai al pubblico non bastava un poliziotto che spara attraverso l’autostrada, o un nero ammazzato di botte sulla pubblica via. Quelli erano casi estremi, sgradevoli, inadatti ai format; il pubblico a casa voleva soprattutto immedesimarsi, foss’anche nei delitti, e ne pretendeva di sempre più complessi, pruriginosi e – a modo loro – pop: i più richiesti avevano al centro i segreti d’una giovane coppia, e possibilmente dovevano accadere in una casa normale ma ariosa, come quella del Grande Fratello, che gli attrezzisti di Vespa potessero ricostruire senza troppe difficoltà. Turbati dalle ricostruzioni degli omicidi, e di molto in pena per i micetti trascurati di cui li informava Studio Aperto, i compatrioti erano alla mercè di un’informazione nazionale controllata a pieno titolo dal Silvio: metà come privato cittadino e metà come leader della coalizione di governo. Eppure lui non perdeva l’occasione di sostenere, contro ogni evidenza, che l’informazione era in mano alla Sinistra, un ritornello che non lo abbandonerà mai, e che buona parte degli italiani prese in quegli anni a ripetere per osmosi; tuttalpiù i compatrioti subodoravano qualcosa della dubbia fama internazionale del Silvio, che nemmeno i commentatori più compiacenti riuscivano a indorare. Fece il giro del mondo il battibecco fra il Nostro e il socialista tedesco Martin Schulz, invitato a candidarsi per interpretare il ruolo di un kapò; le corna, le battute, le barzellette, i colpi di scena da cabaret si sprecavano ad ogni conferenza, summit o

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incontro bilaterale, in un progressivo inabissarsi della politica verso il regno dell’indeterminazione, dove farsa e tragedia sono tutt’uno, e si può sostenere senza vergogna tutto e il contrario di tutto, naturalmente a patto di avere la voce più grossa degli altri. Il Silvio, in quanto a questo, non vedeva – né vede ancora – rivali all’orizzonte. La sua leadership era così solida, coerente e sorda a tentennamenti da suscitare le parole d’approvazione del suo maestro Venerabile di riferimento: dai domiciliari a Villa Wanda, il vecchio Gelli aveva sentito il bisogno di complimentarsi con lui tramite un’intervista concessa a «Repubblica»: «Guardo il paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Si era realizzato il Piano di rinascita democratica, e a decretarne il successo non erano stati pallosi ideologi o minacciosi graduati delle Forze armate, ma i presentatori di quiz e le sculettanti vallette, i ragazzi-calendario e gli aspiranti qualcosa di Maria De Filippi. Non era stato necessario sparare un colpo; era stato il popolo sovrano, lo stesso che aveva prima scelto e poi umiliato Andreotti e Craxi, a gettarsi fra le braccia del Silvio per compiere un inedito autogolpe.

UNITÀ DI CRISI La sfida fra le parole appassionate di Moretti e i sorridenti luoghi comuni del Silvio non aveva lasciato il paese indifferente; nonostante i gran galà in televisione, la gente cominciava a sentire gli effetti della crisi economica sulla propria pelle.

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Per colmo della sfortuna, tanto Prodi quanto Fassino erano usciti a testa alta dal caso Telekom Serbia: una volta provata la macchinazione dell’accusatore Igor Marini, il dirigente dei Ds aveva rilasciato una dichiarazione che, finalmente, suonava come un vero atto di belligeranza politica: «Il burattinaio di Igor Marini è a Palazzo Chigi e dovrà rispondere anche lui». Il Silvio lo querelò per calunnia allegando una richiesta di risarcimento per 15 milioni di euro. Fassino rinunciò all’immunità parlamentare per affrontare il procedimento per calunnia: non appena fu prosciolto, sfidò il capo del governo ad imitarlo per affrontare i suoi numerosi processi. Svicolò adducendo motivazioni poco plausibili: per un leader che aveva fondato tutto sull’immagine, non fu una bella figura. Ormai si parlava di un ritorno del Professore alla guida del centrosinistra in vista delle elezioni regionali dell’anno successivo, e un osservatore sensibile come il Silvio sentiva una dannata puzza di bruciato. Il 30 marzo 2005 papa Wojtyla si affacciò per l’ultima volta su piazza San Pietro, tentando, senza riuscirci, di parlare alla folla: aveva ottantacinque anni e le ultime settimane di passione avevano aggravato drammaticamente la sua consunzione fisica. Nei giorni immediatamente successivi la sua salute precipitò, e il 2 aprile, poco dopo mezzogiorno, un portavoce vaticano annunciò che il Santo Padre aveva ricevuto l’estrema unzione. La sera stessa monsignor Leonardo Sandri, sostituto alla segreteria di Stato, comunicò in via ufficiale la morte del pontefice: «Carissimi fratelli e sorelle, alle 21,37 il nostro amatissimo Santo Padre Giovanni Paolo II è tornato alla Casa del Padre, preghiamo per lui». Le campane di San Pietro suonavano a lutto e una folla piangente si stringeva intorno alla Basilica, ma nelle più laiche reda-

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zioni giornalistiche correva una domanda sola: «Non toccherà davvero a Ratzinger, adesso?». Inutile domandarselo: sarebbe stato, come sempre, lo Spirito Santo a decidere. Nel dubbio su chi sarebbe divenuto il nuovo erede di Pietro, l’organizzazione delle esequie fu affidata a Guido Bertolaso, già responsabile della logistica giubilare e numero uno della Protezione civile. Lo dicevano tutti che quel medico era una brava persona, anche se nessuno l’aveva mai visto in giacca e cravatta. Garantivano per lui il Silvio e Francesco Rutelli. Era stato proprio l’allora sindaco di Roma ad affidare al dottor Guido la logistica del Giubileo 2000, un incarico per il quale è impensabile una nomina non gradita ai vertici ecclesiastici. Bertolaso, infatti, poteva vantare solidi contatti tanto con l’ala più conservatrice della Curia pontificia quanto con i «modernisti»: l’avrebbe scritto anche Aldo Cazzullo sul «Corriere della Sera», omettendo con professionalità un dettaglio mai confermato dei rapporti fra Bertolaso e la Chiesa cattolica: voci ricorrenti suggerivano che il dottor Guido sarebbe stato il nipote del cardinal Ruini. Dicerie, appunto, che lo stesso cardinale avrebbe smentito a tempo debito. Ruini ricopriva la carica di cardinale vicario della diocesi di Roma e presidente della Cei – in termini laici, era «il capo» dei vescovi italiani – nell’anno del Giubileo e lo era ancora nel 2005, quando il dottor Guido coordinò le esequie pontificie trasmesse in mondovisione. Fu un trionfo logistico e mediatico che gli valse i complimenti delle più alte istituzioni, ma non per questo Bertolaso smarrì l’abituale umiltà: «Quando tutto sarà finito, tornerò in Africa. Resto il medico dei dannati della Terra» avrebbe ripetuto spesso. «Prestato alla Protezione civile. Destra o sinistra, non importa.»

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Nel fine settimana compreso tra la scomparsa di Wojtyla e i suoi funerali, si votò in quattordici regioni d’Italia per le elezioni regionali: l’Unione del cattolico Prodi sbaragliò le forze del libertino Silvio, conquistando dodici regioni su quattordici. Solo Formigoni e Galan salvarono la poltrona, in un LombardoVeneto inaspettatamente circondato da regioni rosse. Gli alleati, An e Udc in primis, strepitarono a più non posso: o il Silvio si dava una regolata, o si rischiava di perdere il controllo del paese. Ci fu un rimpasto di governo, e il leader formò il terzo esecutivo a lui intestato nella storia repubblicana. Il Silvio III si reggeva sulla solita maggioranza, e aveva l’incarico di traghettare il paese verso le elezioni politiche, previste nel giro di dodici mesi; le televisioni, nel frattempo, avevano l’incarico di dipingere la realtà di rosa e d’azzurro: in fondo, non eravamo felici? (E allora perché cambiare, e ridare spazio a quel noioso del Professore – quello che porta le tasse! – quando si poteva vivere così bene con il Pifferaio, un tipo finalmente vitale e divertente?) In quel 2005, però, tutti i sorrisi e le barzellette di Silvio sembravano destinati a ritorcersi contro di lui: la gente si stava impoverendo, non vedeva scendere le tasse né fiorire le offerte di lavoro. Vedeva, in compenso, le proprietà del Silvio crescere, e il suo fisico farsi sempre più levigato e artificioso, in un distacco progressivo dalla comune esperienza umana. Invecchiava al contrario, come un nuovo Dorian Gray, e come lui teneva nascoste le immagini in grado di raccontare una verità sgradevole: da quando era ringiovanito, non perdeva l’occasione di fare il cumenda galante, gratificando le signore coi suoi complimenti un po’ grossolani e parlando di sé come di un vigoroso giovanotto nel fiore degli anni. (Che fossero chiacchiere da bar, o c’era del vero? Scopava sul serio, il Silvio? E chi?

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Nel caso, la signora Veronica lo sapeva? Ed era vero che lei – una così bella donna! – aveva un debole per il barbuto e comunista Massimo Cacciari?) Presto gli italiani sarebbero stati invitati ad accostare l’occhio al buco della serratura: la repubblica democratica aveva lasciato il posto al regno del gossip, e i cittadini avrebbero potuto spiare, per la prima volta, le vite private dei politici. Purtroppo non avrebbero mai potuto eliminarli, nemmeno ricorrendo al televoto. «Sicuro che non vuoi perdere peso?» mi domandò Iuri Giacobbi. «Guarda che funzionano, i miei integratori!» «Lo so, ma non è il mio genere» sviai il discorso. «Magari faccio una camminata in montagna.» «Cammini in montagna!» esultò. «Ho anche della creatina super!» Non lo vedevo da un pezzo, però mi stava facendo rimpiangere d’averlo incontrato. Dopo i suoi fallimentari tentativi di entrare nel mondo dello spettacolo, era entrato nella stessa ditta meccanica per la quale lavorava suo fratello. Si dava da fare al tornio, ma continuava a sognare una vita diversa. Per questo aveva comprato al modico prezzo di duecento euro una valigetta piena di flaconi e boccette colmi di un liquido immondo; grazie all’oculato investimento iniziale, ora era libero di venderli qualificandosi come agente della compagnia. «E l’afrodisiaco della tigre?» domandò spingendomi in mano un bussolotto coperto d’ideogrammi. «Te lo lascio in omaggio, guarda, tanto so già che me ne ordinerai una dozzina!» «Be’, allora grazie» dissi facendolo scivolare in tasca per non offendere Iuri. «E tu come stai?» mi domandò solo allora. «Bene, bene. Mi sono sposato e abbiamo una bambina.»

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«Io invece ho ricominciato con la boxe.» «Ne fai anche tu, di cose» ammisi. «Siamo cresciuti insieme» considerò lui, «e ormai ti vedo solo in tivù». «Ma dove?» domandai, e la voce uscì come volessi scusarmi. «Ovunque!» esclamò. «Anche a cucinare da Andrea Pezzi, a Kitchen. Non hai nemmeno lavato il sedano!» «Il sedano, in televisione, è già lavato!» inventai lì per lì. Mi guardò come volesse memorizzare a fondo quel particolare, poi riprese: «E poi ti ho beccato seduto di fianco a ‘Fontolino’ Fontolan, a parlare di calcio su È Tv! Proprio tu che hai sempre avuto due piedi di marmo!». «Che c’entra?» obiettai irritato, ma ormai Iuri era incontenibile. «E ancora un’intervista a notte fonda su Sky: rientro a casa ubriaco fradicio, accendo la tele e vedo te insieme a una gnocca fuori dalla grazia di Dio.» Per qualche motivo, il ricordo lo faceva sorridere. «Sì, un tocco di prugna da restarci secchi, e tu a parlare di romanzi come niente fosse.» Poteva avere ragione. A ben vedere ci si capitava ancora, di fronte alle telecamere. Ero io che non mi rivedevo mai, mentre chi mi conosceva poteva stupire di ogni apparizione, e giudicarla. «Ti va un caffè?» proposi, prima che Iuri mi domandasse il numero privato di Andrea Pezzi, di Fontolan, o della gnocca fuori dalla grazia di Dio. Gli andava, entrammo nel primo bar e, mentre il titolare preparava i nostri caffè, il mio amico tentò di vendere creatina e integratori anche a lui. Senza risultato. «Questo paese non cambierà mai» rimarcò stizzito mentre le tazzine fumanti planavano verso il bancone. «A proposito, hai visto che torna il tuo amico Mortadella?» «È già tornato» gli feci presente. «Alle regionali vi ha castigato, e presto manderà a casa il Silvio.»

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«Come fa a piacerti Prodi?» indagò Iuri decapitando una bustina di zucchero. «Metterà le tasse anche sull’aria che respiriamo!» «Di sicuro non farà leggi per le sue televisioni. Dovrebbe restargli abbastanza tempo per lavorare serenamente.» «Serenamente la minchia!» reagì, e versò metà dello zucchero fuori dalla tazza. «Se vince il Mortadella, va a finire che l’economia la controllano i comunisti!» «Ma quali comunisti! Se c’erano ancora i comunisti, al Silvio, sai cosa gli facevano?» Controllai il barista: si faceva gli affari suoi. «Sei come mio fratello!» sbottò Iuri. «Anzi, peggio: lui avvita bulloni e basta, mentre tu lavori per il Silvio, e intanto gli parli dietro!» Ora il titolare mi guardava con tanto d’occhi. «Mi paga per scrivere romanzi» misi in chiaro, «mica per lodarlo». «Resta il fatto che parli male del tuo datore di lavoro! Dovresti esserne fiero, invece! Ma voi di Sinistra, ’ste cose da operai non le capite più.» Su questo punto, poteva avere ragione. «Oggi in ditta siamo in tanti a votare Forza Italia» riprese. «Anche stranieri.» «Fammi capire» insistetti col mio vecchio amico. «Non eri della Lega, tu?» Il barista agitò una mano come volesse raffreddarla, e disse sottovoce: «Andiamo bene!». «E allora?» lo ignorò Iuri. «Sono alleati, la Lega e il Silvio!» «Sì, ma spiegami come mai, prima...» «Il Silvio lo attaccano tutti perché è scomodo» m’interruppe. «E io voglio dare fiducia all’uomo, piuttosto che ai partiti.» Mise su un’espressione ispirata, e concluse: «All’idea. È quella che mi piace».

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«Dai mo’ fiducia all’idea!» sbottò il barista. «Adoràtelo, anzi, il vostro Banana! Ma ho l’impressione che siate sempre di meno.» Iuri fece le corna per allontanare il malocchio, si sfregò il cavallo con energia e disse: «Ma va’ in Russia, compagno!». Non doveva essere al corrente dei buoni rapporti che il Silvio intratteneva con Putin, né poteva prevedere lo sbocciare dell’amicizia fra l’anticomunista numero uno e il tiranno di Minsk Lukašenko. A gennaio del 2006 Alessia Marcuzzi conduceva la sesta edizione del Grande Fratello, destinata a scortare il paese sino alle politiche di primavera. I sondaggi davano le forze governative in grave affanno, quando il Silvio rilasciò una destabilizzante intervista a «Repubblica»: «Nel 1994 ci fu un golpe. Scalfaro disse a Bossi: ‘Berlusconi è nel baratro, i giudici di Milano lo condanneranno. In quel baratro non finirci anche tu’». Era una storia che il Silvio aveva già raccontato oltre due anni prima alla «Voce di Cremona»: «Nel 1994 il mio governo è caduto perché mi hanno accusato di corruzione e poi io sono stato assolto in appello e in cassazione, dopo sei anni, per non aver commesso il fatto. Eppure hanno fatto cadere il mio governo con quelle accuse. Perché il capo dello Stato di allora ha chiamato Bossi e gli ha detto ‘Guarda che è sicuro che Berlusconi cade e ti porta con lui nel baratro’». A parte il bizzarro uso della consecutio attribuito al presidente Scalfaro, in questa prima occasione si era preferito fare orecchie da mercante, ma ora il Silvio propalava la sua verità su tutti i mezzi di comunicazione, servendosi anche dell’ostile «Repubblica» per far meglio risuonare la nuova versione dei fatti, alla quale tutti i suoi amici si sarebbero dovuti attenere per non scontentarlo: nel 1994, come no, c’era stato un golpe.

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Aveva cresciuto gli italiani a pane e televisione, così quelli non reagirono come intellettuali engagé: se pure dodici anni prima c’era stato un golpe, in fondo a chi fregava? Nessuno scese in piazza per solidarizzare con la vittima, forse perché la gente si rese conto che i leader deposti dai veri golpe non tornano mai a fare i capi del governo. Al paese rimase addosso la sensazione amara che si potesse accusare chiunque, e di qualunque cosa, nella sostanziale impunità. Al Silvio, l’angoscia di vedere l’Unione avanti con un buon margine in tutti i sondaggi: al suo governo continuavano a cadere addosso tegole d’una certa entità, dalle dimissioni di Calderoli dopo la sommossa causata in Libia dalla sua maglietta blasfema nei confronti dell’Islam, a quelle di Storace, nel mirino per avere disposto intercettazioni ai danni del proprio rivale nelle regionali dell’anno precedente, l’ex mezzobusto Rai Piero Marrazzo. Erano comportamenti irresponsabili che, in piena campagna elettorale, danneggiavano l’immagine del Silvio. Per motivare il proprio elettorato, commissionò alcuni sondaggi lui, e finalmente qualcuno disse che la Casa delle Libertà era in lieve vantaggio: una notizia perfetta per la televisione. Poiché sapeva come stavano veramente le cose, accettò non uno ma due dibattiti televisivi con Romano Prodi. Il primo fu accuratamente sezionato dagli esperti di comunicazione: qualcuno osservò che il Silvio denotava paura di perdere, ma fu bollato come il solito comunista. Era andato benissimo, invece, a sentire i commenti su Mediaset, mentre Prodi era apparso bolso. Nel secondo dibattito, tuttavia, il Silvio sentì il bisogno di giocarsi il jolly: negli ultimi minuti di trasmissione annunciò a sorpresa di volere abolire l’Ici sulla prima casa, una misura che avrebbe toccato buona parte delle famiglie italiane.

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Sentiva il potere sfuggirgli fra le dita come una sabbia impalpabile, e spinse a fondo il pedale del populismo: negli ultimi giorni comunicò che voleva eliminare anche la tassa sui rifiuti, senza spiegare da dove i Comuni italiani avrebbero recuperato il denaro destinato a svanire insieme alle imposte. Stavolta non gli sarebbe bastato: dopo cinque anni nel corso dei quali era stato libero di governare a piacimento, troppi italiani avevano deciso di voltare pagina.

Il Silvio colpisce ancora

L’ITALIA DIVISA Nel 2006 ero ormai padre di tre figliole e speravo di poterle crescere in un paese meno spaventato ed egoista. Si andò al voto il 9 e il 10 aprile, in un clima reso incandescente dalle ultime promesse elettorali del Silvio: si riteneva che le dichiarazioni in extremis gli avessero consentito di recuperare buona parte dello svantaggio, e appariva plausibile che lo «spareggio» tra il Professore e il Cavaliere si decidesse per un pugno di voti. La sera del 10 aprile, gli italiani restarono invano di fronte ai teleschermi: le proiezioni si susseguivano con risultati sempre più prossimi a un pareggio, ma i dati ufficiali del Viminale, in maniera alquanto sospetta, continuavano a non arrivare. Il mistero s’infittisce se si considera che, nel pieno degli scrutini, il ministro degli Interni Pisanu abbandonò il ministero per conferire con il Silvio nell’abitazione romana di quest’ultimo; solo una volta rientrato al Viminale acconsentì alla pubblicazione dei risultati definitivi. Le ragioni di questa visita fuori da ogni protocollo non sono mai state spiegate in maniera convincente; non è servita troppa fantasia per sospettare un tentativo di addomesticare i

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risultati elettorali, fallito alla prova dei risultati: l’Unione si era aggiudicata il premio di maggioranza alla Camera per meno di 26.000 voti, e la nuova legge approvata dal centrodestra, atta a garantire una migliore governabilità e la rappresentanza dei compatrioti residenti all’estero, aveva colpito il Silvio come un boomerang. Prodi aveva vinto ancora, di un soffio ma aveva vinto: alla Camera il premio di maggioranza gli garantiva un vantaggio incolmabile di 340 seggi contro i 277 della Casa delle Libertà, mentre a Palazzo Madama un seppur minimo vantaggio era garantito dai senatori a vita e da quelli eletti nelle circoscrizioni estere. Tuttavia, il protrarsi delle operazioni di scrutinio e il progressivo assottigliarsi del vantaggio a favore dell’Unione insospettirono più d’uno: il giornalista Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani vi lessero in controluce un tentativo di brogli elettorali su larga scala da parte del centrodestra, tema che costituisce l’oggetto del film reportage Uccidete la democrazia!. L’indomani, il Silvio tirò su un putiferio: i brogli c’erano stati eccome, e anche «tantissimi», ma – udite, udite – a suo danno. Domandava con forze il riconteggio delle schede. Si rifiutava di riconoscere la vittoria di Prodi, che aveva già ricevuto le telefonate di congratulazioni da diversi leader mondiali. Il Silvio tuonava contro la regolarità delle elezioni e il vincitore designato direttamente da Palazzo Chigi: avrebbe rassegnato le dimissioni solo il 2 maggio, ma in quei giorni di mezze verità e madornali bugie qualcuno temeva che non l’avrebbe fatto più. Abituati com’eravamo alle coincidenze, non ci stupimmo più di tanto quando, la sera dello stesso 11 aprile, i telegiornali ci informarono che era stato catturato, dopo quarantatré anni di latitanza, il boss dei boss Bernardo Provenzano: come già Totò Riina, nemmeno lui si era mai allontanato troppo da Corleone.

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A una mente razionale, i casi sembravano due: o fino ad allora non l’avevano neppure cercato, il cugino famoso del signore gentilissimo che ci aveva regalato i meloni, oppure qualcuno sapeva già dove trovarlo, come avrebbe raccontato nel 2010 Massimo Ciancimino nel libro Don Vito. Però le menti razionali non capiranno mai questo paese, così incline ai miracoli e ai colpi di teatro. Poiché la televisione non dava certezze su Provenzano, né sul Silvio, per qualche giorno tornammo a riversarci sulla carta stampata. Scrisse «Repubblica» nei giorni caldissimi del dopovoto: Lunedì notte a scrutinio in corso Pisanu dichiara al Tg2 che le «operazioni di voto sono state regolari». Berlusconi lo convoca subito. Pisanu dice che non può lasciare il Viminale, si presenta a mezzanotte. Berlusconi gli chiede di invalidare il voto. Ci sono Fini, Pera, Letta, Cesa. Nelle anticamere un continuo via vai di sottosegretari. Pisanu risponde che non può far nulla di simile, che bisogna aspettare la fine delle operazioni di scrutinio e contestare semmai dopo le schede nulle. È una riunione molto tesa, finisce all’una e un quarto. Francesco Cossiga, avvertitissimo di quel che accade nei palazzi, detta in quei minuti una dichiarazione apparentemente fuori tempo che dice: «Bisognerebbe che Berlusconi facesse un passo indietro, vedrei bene Pisanu premier». È un riconoscimento, chi vuol capire capisca. La mattina dopo, martedì, il presidente Ciampi chiama il ministro dell’Interno, gli chiede una parola definitiva sul voto, la ottiene. La nota del Quirinale dice che Ciampi «si compiace per lo svolgimento ordinato e regolare delle operazioni di voto». È il sigillo di legittimità.

Secondo l’articolo, apparso a firma di Concita De Gregorio, nella notte fra il 10 e l’11 aprile si è insomma sfiorato uno scenario agghiacciante, col Silvio deciso a non ammettere la sconfitta, e pronto a esercitare tutto il proprio peso in barba a qual-

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siasi regola democratica: per un uomo che aveva intrapreso la campagna elettorale agitando fantasmi di golpe, un finale col botto, scongiurato dalla fermezza di Ciampi e dalla lealtà istituzionale di Pisanu. «È un momento delicato» conclude la De Gregorio. «Bisognerebbe conoscere i fatti e Pisanu non è in grado, non ora, di raccontare come le cose siano andate davvero.» Nelle ore successive il Silvio scese a più miti consigli: giudicò l’esito delle urne un «sostanziale pareggio», e indossò daccapo i panni di statista per suggerire la formazione di un governo istituzionale che non lo escludesse. Un attimo prima si rotolava a terra come un bambino che non vuole più giocare perché ha perso la partita, ma all’improvviso era maturato: adesso si sentiva ispiratissimo dalla Große Koalition tedesca. (Cioè, mi consenta, non si poteva fare come in Germania, dove bianchi e rossi governavano insieme? Ah, non si poteva? Sicuri? Sicurissimi? Niente da fare: Ciampi aveva già conferito l’incarico a Prodi, e al Silvio toccava proprio tornare all’opposizione. Come volevano. Avrebbe dimostrato ai comunistacci antipatici che sapeva farla assai meglio di loro.) Il secondo esecutivo del Professore venne presentato il 10 giugno, a Grande Fratello terminato: nonostante i proclami relativi allo snellimento istituzionale, contava centodue membri fra ministri, viceministri e sottosegretari. Sostenuto da una pletora di sigle diverse, aveva dovuto accontentare un po’ tutti, dalla doppia anima dell’Unione agli alleati minori: nove ministeri andarono ai Ds, sette agli ex popolari di Dl-La Margherita, mentre ne ebbero uno a testa Ri-

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fondazione comunista, i Comunisti italiani, la Rosa nel Pugno, l’Italia dei Valori, i Verdi e l’Udeur di Clemente Mastella, che ottenne fra le polemiche la delicata nomina di ministro di Grazia e Giustizia. Lo spettro dell’ingovernabilità si palesò già a fine estate: con il passaggio all’opposizione di Sergio De Gregorio, il governo perse la maggioranza in Senato, e risultò appeso al voto dei senatori a vita. Trascorsero pochi giorni e Angelo Rovati, consigliere della presidenza del Consiglio e amico di Prodi, si dimise in seguito ad una presunta ingerenza sui futuri assetti di Telecom. In autunno i giornali di centrodestra attaccarono la nuova legge finanziaria come ispirata da odio sociale, il ritiro – imposto da Parisi, lo si ricordi! – dei nostri militari dall’Iraq, e il rischio concreto che i gay vedessero riconosciuti i propri diritti civili. C’era davvero di che preoccuparsi, almeno a sentire Emilio Fede. Per scavare la fossa al secondo governo Prodi era indispensabile un piccolo ribaltamento degli equilibri al Senato, e una grande opera di persuasione delegata alla televisione e ai giornali di famiglia: non se ne accorgevano, parevano domandare i telegiornali, che dal ritorno del Professore le cose andavano a rotoli? La visione color pastello della realtà, adattissima durante i periodi di governo del Silvio, venne sostituita da uno sguardo nuovo, mediato dai filtri più foschi: all’improvviso la sicurezza era un disastro, gli immigrati clandestini erano padroni delle nostre strade, e aumentavano persino gli abbandoni di cuccioli durante le vacanze estive. C’era, in giro per il paese, qualche squilibrato che prometteva un’apocalisse imminente? Lo si chiamasse in televisione, presto!

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Qualche neofascista aveva tirato pomodori all’onorevole Vladimir Luxuria? In prima serata a reti unificate! Rapine in villa? Pazzi armati? Satanisti? Costruiamoci sopra un bel format da prima serata: Robberies in villas, madmen with weapons and satanists!... Come sarebbe che il titolo è troppo lungo? Allora chiamiamolo semplicemente Danger!... Cosa stavolta? Dicono dall’ufficio marketing che il format inquieta troppo la gente? Vabbè, spazio allora alla protesta di tassisti e camionisti contro il ministro dello Sviluppo economico Bersani... Molto spazio! Si deve vedere che sono belli incazzati! A giudicare dai palinsesti faceva tutto brodo pur di screditare il Professore, quell’antipatico pretastro che aveva appena stangato il Silvio per la seconda volta. Gli atti giudiziari di Vallettopoli, lo scandalo che costò il posto all’onorevole Mele dell’Udc e intaccò ulteriormente l’immagine di Vittorio Emanuele di Savoia, costituivano un perfetto campionario antropologico di italiani vecchi e nuovi alle prese con un ventaglio di vizi senza tempo. Le chiacchieratissime indagini di Woodcock delineavano meglio di tanti film l’Italia disposta a tutto pur di apparire in video, e il suo sfarzoso analfabetismo di ritorno. Era in agguato su tutti noi la Vita smeralda del redivivo Jerry Calà, di cui avremmo scoperto l’ideale backstage grazie a Videocracy: il film di Erik Gandini mostra distese di maschi muscolosi e abbronzati, felici ospiti del dominus televisivo Lele Mora, a sua volta orgoglioso di mostrare alla telecamera il proprio cellulare, ebbro di gioia per le suonerie del ventennio fascista; il nuovo quarto stato sono le legioni di voyeur dipendenti dagli scoop di Signorini, appostati con le macchinette digitali a Porto Cervo; mostri levigati e trasandati fantozzi di un’Italia che nell’anima è sempre uguale, ma ultimamente alza la voce e si depila più del solito.

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Poiché ero affezionato alla Sardegna, avevo qualche ritegno a considerare la Costa Smeralda una sua contrada; era piuttosto, ai miei occhi, un angolo d’isola espropriato della sua anima e condannato a ospitare, estate dopo estate, il governo telecratico d’Italia: quasi una capitale estiva, come in certi antichi regni, opposta a una capitale invernale che non si collocava esattamente né a Roma né a Milano, ma diffusa fra gli studi e le agende dei pochissimi potenti in grado di stabilire cosa meritava di andare in televisione e cosa invece era destinato a restare per sempre un prodotto di nicchia, un personaggio emergente, o una causa poco sentita. Fra quelle sentitissime c’era, come sempre, il gioco del calcio. Fu un brutto colpo scoprire che il sistema era marcio sin dalle fondamenta, e ancor peggio averne contezza così a ridosso dei Mondiali in Germania. E poi dicevano che il problema del calcio erano gli ultras. Be’, meglio spedire la Juve in B, comminare qualche punto di penalizzazione ai rossoneri del Silvio e dimenticare tutto il più in fretta possibile. Avevamo o non avevamo vinto il Mondiale? Sì, in faccia alla Francia, alla Germania e a tutto il pianeta! E allora cosa volevamo, rovinarci la festa da soli? Quel che cambiò davvero, nei dodici mesi del Prodi II, fu la percezione del rischio. Una ricerca condotta per conto della Fondazione Unipolis, destinata a essere pubblicata nel novembre 2008, lo avrebbe dimostrato sulla base di dati molto concreti. La sicurezza in Italia: significati, immagine e realtà avrebbe preso in esame il rapporto tra il numero di reati commessi in Italia tra il 2005 e il 2008, il numero di notizie relative a questi crimini sui principali notiziari televisivi, e la percezione di minaccia alla sicurezza personale, quest’ultimo dato ottenuto tra-

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mite un sondaggio su un campione rappresentativo della popolazione italiana. Incrociando i tre dati, apparivano alcune innegabili anomalie: benché nel corso del 2007 i reati fossero calati rispetto all’anno precedente, la rappresentazione mediatica dei medesimi fenomeni aveva conosciuto una brusca impennata, sino al punto di raddoppiare in due semestri le notizie di cronaca nera. Più le elezioni si avvicinavano, più gli italiani venivano sommersi di dettagli truculenti, e lo sballo continuava dopo il tiggì, con i procedimenti giudiziari in differita e le interviste-choc ai vicini di casa o alle ex fidanzate di qualsiasi assassino di provincia. «La sovrarappresentazione del fenomeno sicurezza nel corso del 2007, rispetto al corrispondente evolversi dei dati reali, vede in prima linea i telegiornali del gruppo Mediaset, ma la dinamica, pur con un numero assoluto di notizie inferiore, si estende anche all’informazione del servizio pubblico Rai, che nei diversi semestri considerati segue un profilo temporale molto simile» si può leggere nel commento alla ricerca. «La percezione che i cittadini si formano circa la gravità del fenomeno e le minacce alla propria sicurezza personale ha seguito, con un ritardo di circa un semestre, il trend dell’informazione televisiva, e appare invece del tutto scollegata rispetto ai dati reali del fenomeno criminalità». Ecco come funzionavano, nel 2007, le televisioni private e di Stato: raddoppiando le razioni di cronaca nera, caso mai potesse servire a orientare il paese verso un Uomo forte. Perché poi il Silvio riuscisse a monopolizzare persino il settore «Uomini forti a disposizione del paese» è un altro mistero degno dell’Antitrust. Economia e giustizia abbisognavano di profonde riforme, sempre più famiglie faticavano ad arrivare a fine mese, eppure

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la massima preoccupazione dei partiti di governo sembrava la definizione dello status delle coppie di fatto: radicali e Sinistra sembravano diventati portavoce del movimento gay, mentre la Margherita arrossiva, i Ds sbiancavano, e Clemente Mastella faceva pesare – coerentemente – il suo veto preventivo su ogni concessione. A sentire certa stampa nostrana, presto i gay avrebbero potuto sposarsi e adottare figli a piacimento; «Anatema! Anatema! Tre volte anatema!» tuonavano i cardinali dalla colonna a fianco, supportati da una generosa foto in piano americano. «Altroché classe operaia! Quelli pensano solo ai busoni!» si offese qualche working class hero vecchia maniera, ancora propenso a considere l’omosessualità il vizietto dei ricchi annoiati. Solo le dichiarazioni d’apertura della Cei e le apparizioni ironiche e misurate di Grillini sembravano riportare la questione nei giusti binari, quelli di un dibattito sereno che troppi volevano far deragliare, per diffusa incultura ancora prima che per precisa volontà politica. Nichi Vendola l’avrebbe dimostrato: se per farsi eleggere un politico dev’essere popolare, un politico dichiaratamente gay dev’essere adorato dai suoi, ché solo una tempra fuori dal comune può smuovere i pregiudizi che ancora allignano nell’anima profonda del paese e, contemporaneamente, resistere alle tempeste d’alta quota della politica romana, sempre pronta a suggerire candidati più rassicuranti – un po’ come certe trasmissioni per ragazzi, che invece di pescare la cultura giovanile in strada, cercano di farsela raccontare da portavoce recalcitranti o raccomandati, rapiti dentro uno studio dalla scenografia in cartongesso, e chiamati a raccontare la loro verità davanti a un pubblico di figuranti abituali, obliquamente disinteressati al rock ’n’ roll come all’hip-hop, e alla nuova narrativa come a quella vecchia.

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L’aiuto più inatteso al Professore giunse dalla famiglia del Silvio: il 31 gennaio 2007 «Repubblica» pubblicò una lettera scritta dalla seconda moglie. Raffaella detta Miriam, in arte Veronica Lario, appariva piuttosto irritata per le galanterie che il Silvio aveva rivolto ad alcune ospiti durante la cerimonia dei Telegatti, e reclamava pubbliche scuse. Sorrise mezzo mondo, di fronte al grande maschio italiano rampognato dalla sua signora, e non smise di farlo nemmeno l’indomani, quando il Silvio le rispose da marito amorevole, ben lieto di scusarsi pur di circoscrivere l’immane figuraccia. Più avanti la signora Veronica avrebbe ricevuto attestati di stima da Walter Veltroni, che si augurò di averla nella propria squadra. Il Professore, per il momento, aveva altro a cui pensare: per mettere fine alle dichiarazioni fuori controllo dei diversi leader della coalizione, nel febbraio 2007 nominò Silvio Sircana portavoce unico della presidenza del Consiglio; le televisioni del Silvio, forse disturbato dall’omonimia, gli concessero a sorpresa uno spazio enorme. Più che a lui, a dire il vero, a uno scatto che mostrava la sua auto, e un individuo fermo al bordo della carreggiata: si disse che il portavoce di Prodi era stato sorpreso mentre contrattava una prestazione con un transessuale. Cosa ci fosse di vero non era dato saperlo: anche Sircana si dimise, e l’unico Silvio rimasto sulla scena politica si fregava le mani. Funzionava alla grande, accostare il nome di un potente ai trans; magari, più avanti, si poteva riciclare il metodo per fregare qualcun altro. Dove avevamo lasciato Beppe Grillo? In Rai col suo amico Antonio Ricci? Erano passati secoli da allora! Grillo, dopo Fantastico e la pubblicità dello yogurt, aveva aperto gli occhi sulle realtà na-

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scoste fin dall’inizio dei tempi, e da anni ormai riempiva piazze e teatri coi suoi show di denuncia. La sua eccezionalità, nel panorama degli uomini di spettacolo che giravano i teatri della nazione, stava nel semplice fatto che era l’unico ad esercitare la propria libertà di parola sui temi scottanti dell’economia e della politica, attirando su di sé ammirazione, stizza e cause milionarie. Il suo blog era da tempo il più seguito d’Italia e uno dei primi dieci al mondo; era il perfetto esempio di come si potesse fare un’informazione precisa e urticante senza passare dalla televisione, tanto che nel 2005 il comico genovese era stato incluso dall’edizione europea del settimanale «Time» fra gli eroi dell’anno. Il 26 giugno 2007, a riconoscimento di una carriera davvero atipica, venne chiamato a tenere un discorso al Parlamento europeo: spaziò dalle nuove tecnologie all’anomalia tutta italiana di ritrovarsi 25 condannati in via definitiva seduti a legiferare in Parlamento. Già che c’era, sfruttò la grande esposizione mediatica per annunciare l’organizzazione del Vaffanculo Day, più garbatamente ribattezzato V-Day, che avrebbe raccolto l’8 settembre centinaia di migliaia di persone in diverse città italiane. Nel corso della manifestazione, la prima nel nostro paese promossa attraverso il web, Grillo avrebbe informato il proprio popolo e l’avrebbe guidato in un corale, liberatorio, insulto ai politici italiani. La Rai non ospitava Grillo dal 1993, Mediaset aveva varie cause pendenti contro di lui: non stupisce che i loro telegiornali si siano occupati con parsimonia del V-Day, preferendo sottolineare il folklore connesso all’evento piuttosto che rimarcare le oltre trecentomila firme raccolte a sostegno di tre proposte di legge invise all’intera classe politica. Le richieste di esclusione dal Parlamento dei condannati, il

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limite delle due legislature in Parlamento e la preferenza diretta ai candidati, infatti, non convinsero appieno il governo di centrosinistra: benché consegnate brevi manu al presidente del Senato Marini, e protocollate come di rito, le proposte di Grillo non sarebbero mai state discusse. Troppo breve, infatti, era la vita che attendeva l’esecutivo: le nostre speranze stavano per essere affondate ancora una volta. Nel gennaio 2008 scoppiò l’emergenza rifiuti a Napoli: la città era letteralmente sommersa di munnezza, che nessuno sapeva come – e dove – smaltire. Dopo avere sepolto mediaticamente il sindaco Rosa Russo Iervolino e il presidente regionale Bassolino, entrambi del Pd, quella montagna di spazzatura sembrava sbarrare definitivamente la strada al governo Prodi. Blocchi stradali e roghi di rifiuti fiorivano sera dopo sera, e i telegiornali restituivano l’idea di un’area metropolitana abbandonata a se stessa: la gente protestava contro i rifiuti, eppure si scagliava contro la polizia non appena si annunciava la costruzione di un inceneritore. Il Silvio ebbe buon gioco a sostenere che il ministro dell’Ambiente, Pecoraro Scanio, avrebbe dovuto dare le dimissioni all’istante, e che il governo di Prodi non sapeva mantenere l’ordine pubblico. Che gli italiani concedessero daccapo la fiducia a lui, e i tumulti si sarebbero placati in un istante! Clemente Mastella era un uomo di sani principi: centrista convinto, non aveva trovato contraddizioni fra l’appoggio al Silvio, nel cui primo governo era stato ministro del Lavoro, e la carica di ministro della Giustizia per Prodi. In fondo, il Centro stava in mezzo per definizione, come la virtù, e da lì si potevano governare meglio le oscillazioni dell’intero scafo.

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Chi avesse accusato Mastella di trasformismo e attaccamento alle poltrone, insomma, era un superficiale: lui migrava da una coalizione all’altra spinto dal senso di responsabilità e dall’amore per l’equilibrio; non fosse stato fieramente cattolico e sannita, l’avresti detto un asceta orientale. Il distacco dalle passioni terrene, benché inficiato dai leggendari pranzi serviti dalla signora Sandra, era per Mastella un’attitudine innata, una filosofia e uno stile di vita: nonostante il collegio elettorale beneventano gli fosse devoto nella buona come nella cattiva sorte, egli era in fondo umile come un qualsiasi cittadino di buoni principi. Non ci stava, Clemente, a farsi mettere sotto il naso le leggi da firmare, oh no! L’indultino che gli stava a cuore, quello sì: non era forse cosa buona e giusta, dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato? Ma le nozze gay, proprio non ci teneva a celebrarle, e nemmeno a creare i presupposti perché le celebrasse qualcun altro. Per cui era perfettamente inutile che gli mettessero pressione: non avrebbe mai firmato. Altrimenti con quale coraggio ci tornava, a casa? I suoi elettori l’avrebbero considerato come minimo con sospetto, e invece per lui era fondamentale poter guardare in faccia la sua gente. Ceppaloni, San Giorgio nel Sannio e Venticano non sono mica San Francisco: lo tenevano presente, questo, i radicali e i comunisti che premevano per i Pacs? Cosa volevano, rovinarlo? Isolato dal punto di vista politico, non incassò alcuna solidarietà dai colleghi dell’esecutivo quando un’inchiesta giudiziaria lo colpì insieme alla signora Sandra, allora presidente del Consiglio regionale della Campania. Così tutto precipitò in pochi giorni: indignato, il 16 gennaio 2008 Mastella presentò le dimissioni da ministro; l’indomani promise l’appoggio esterno a Prodi; il 21 aveva già cambiato

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idea: lasciava la maggioranza, sprofondando il paese nell’ennesima crisi di governo. Il 23 il suo Udeur si astenne dal votare la fiducia alla Camera; l’indomani, al Senato, Prodi cadde sotto il tiro incrociato dei mastelliani, dei liberaldemocratici e dei senatori Fisichella, Turigliatto e De Gregorio, che gli negarono la fiducia benché eletti nella coalizione di centrosinistra. Uomo di sani principi, Mastella si ritirò dalla politica attiva. Meno di dodici mesi dopo, tuttavia, il giorno di San Valentino del 2009, l’inossidabile Clemente sarebbe tornato in lizza, annunciando la sua candidatura alle europee, fatalmente nelle schiere del Partito della Libertà. Chi lo accusasse di opportunismo, però, dovrà ricredersi ancora una volta: la diaria di eurodeputato assomma, infatti, ad appena 290 euro. «’Sta miseria! Non ci si sta dentro!» avrebbe commentato Clemente sbraitando in ascensore coi suoi collaboratori, secondo un articolo di Marco Marozzi apparso su «Repubblica». «Questi non sanno cosa si prende al Parlamento italiano!» Che l’aria di Strasburgo non gli garbi granché, s’è già capito: al momento non figura fra i deputati più presenti alle votazioni plenarie. Il fatto è che lassù, sulle gelide rive del Reno, diventa complicato garantire il benessere dei propri elettori; se solo trasferissero l’assemblea a Benevento, però, siamo sicuri che Mastella non mancherebbe più una seduta. Peccato che l’Europa s’incaponisca a negargli questa soddisfazione.

SOTTO IL SEGNO DEL CAIMANO Il Silvio consumò la sua vendetta ancora tiepida: il secondo governo del Professore, uscito vincitore dalle urne, non era so-

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pravvissuto due anni al clima di Palazzo Madama, ventilato di natura e reso tempestoso ad arte. Se l’era portato via lo scirocco, l’esecutivo di centrosinistra, avvolto da un polverone di presunte rivelazioni in arrivo e «si dice», dall’irresponsabilità di una minoranza di eletti e dai fotoricatti minacciati, annunciati, smentiti, semplicemente immaginari. La fine del Prodi II, un governo nato in una notte più buia delle altre, era stata determinata dalle raffiche violente della politica romana e dal venticello delle maldicenze, ma adesso al Silvio serviva vincere le nuove elezioni, e per farlo gli occorreva ogni refolo d’aria a disposizione: dalla bora garantita dai telegiornali ai monsoni del moralismo, dai gelidi venti boreali che portavano con sé sentori d’orgoglio padano al tiepido garbino, o libeccio, caro agli agricoltori del nostro Mezzogiorno. Fiato alle celtiche cornamuse inneggiando a Eridanio, ma anche nacchere, cavigliere sonore e tamburelli, gli ottoni delle bande di villaggio e le percussioni delle più colorite tradizioni regionali! «Per fortuna» si gridasse ad ogni canto di strada «che il Silvio c’è!». Suonasse la fisarmonica senza trascurare una singola nota, e si danzasse con la rabbia e l’orgoglio di essere tutti italiani! Si poteva anche baciarsi, rotolarsi a terra oppure organizzare una ronda, purché da ultimo emergesse la verità: il Pifferaio era tornato più bello che mai, proprio in forma splendida, ed era prontissimo a vincere le elezioni per la terza volta. Ci avrebbe protetto lui, dallo schifo che riempiva le nostre strade. Bastava che lo lasciassimo lavorare, e avrebbe ripreso il controllo della situazione. Per qualunque problema, ci pensava lui. Diciamo la verità, gente: non avevamo una fortuna sfacciata?

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Le elezioni vennero fissate per il 13 e 14 aprile 2008. Il Silvio e Gianfranco Fini inaugurarono per l’occasione una federazione tra Forza Italia e An, destinate alla fusione sotto l’insegna comune «Il Popolo della Libertà-Berlusconi presidente». (A Fini, nell’intestazione del nuovo soggetto politico, per il momento non si faceva riferimento.) Il Partito democratico, invece, entrò in campagna elettorale con la certezza di perdere malamente. Le liste vennero calate dall’alto, un po’ alla carlona, e quando furono presentate alla stampa scoppiò un putiferio: Ciriaco De Mita non ci stava ad essere fatto fuori, qualcuno si sentiva ostaggio dell’ex eroe nazionale Antonio Di Pietro, e i radicali protestavano perché i loro candidati non avevano l’elezione assicurata. L’ex senatore bolognese Gianfranco Pasquino descrisse così la situazione: «Le liste del Partito democratico, redatte secondo principi di marketing e di rappresentanza settorializzata, ‘ma anche’ burocratico-partitocratica, sono già di per sé pessime». Con una temperatura preelettorale prossima allo zero, al popolo della Sinistra non restava che compiere un atto di fede, e sperare intensamente che una bassa partecipazione elettorale favorisse il Pd. Votò il 3% di italiani in meno rispetto alle politiche precedenti, segnale di disaffezione ulteriore verso la classe politica nel suo insieme. Rispetto alla notte misteriosa dell’aprile 2006, i telespettatori ebbero l’impressione di qualcosa di chiaro, pulito, scientifico. Le cifre affluivano, venivano sommate, e nessuno confondeva una proiezione con un dato definitivo: la colonnina azzurra dei grafici saliva e saliva, mentre quella rossa le arrancava dietro. Il Pd e l’Italia dei Valori non andarono oltre il 38% delle preferenze, mentre la coalizione di centrodestra incassò il

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47%, facendo suonare tutte le campanelle del jackpot: 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, contro i 247 e 134 della coalizione guidata da Veltroni, garantivano al Popolo della Libertà una salda maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. E tre! Il Silvio aveva colpito ancora! Non servivano le convocazioni di Pisanu nel cuore della notte: era la gente che lo richiamava a gran voce a Palazzo Chigi, e gli domandava per cortesia di restarci altri cinque anni. Non avevamo perso: eravamo stati sbaragliati. Per la prima volta nella storia repubblicana si ebbe, e si ha ancora al momento di congedare questo volume, un Parlamento senza alcuna rappresentanza delle Sinistre storiche: il cartello della Sinistra arcobaleno, formato da Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sd (anche Mussi aveva litigato con D’Alema, alla fine), aveva candidato a capo del governo lo storico leader di Rifondazione Fausto Bertinotti, ma si era fermato fatalmente al di sotto della soglia di sbarramento, causando le dimissioni del raffinato Fausto e una profonda crisi d’identità nelle forze politiche che l’avevano sostenuto. Se a sinistra del Pd non c’era più nessuno, l’Italia dei Valori poteva vantare una discreta rappresentanza parlamentare, ma la seconda sigla dell’opposizione era quella dell’Udc di Casini. Dal primo giorno della nuova legislatura partì il tormentone che accompagna il Pd ancor oggi: stringere l’alleanza instaurata con l’Idv, e sperare magari in una resurrezione delle forze di Sinistra, oppure sganciarsi dal massimalista Di Pietro e lasciarsi trascinare verso i solitari «blancos», per formare una inedita Santa Alleanza contro il Silvio? Il prudente Pierferdinando sarà mai della partita? O questo Parlamento senza comunisti gli piace troppo così com’è?

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Il quarto governo del Silvio prestò giuramento l’8 maggio, e l’Italia scoprì con un brivido i suoi nuovi ministri: Maroni agli Interni, Frattini agli Esteri, e il dinamico «reggente» di Alleanza Nazionale La Russa alla Difesa, con il figlio di Cossiga come sottosegretario. Tornava Tremonti, ma anche – non erano forse da premiare? – Calderoli e Scajola; tornava anche la Prestigiacomo, insignita del pomposo titolo di ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Alla Giustizia il Silvio schierava il poco noto Angelino Alfano; alla Pubblica istruzione un’altra new entry, Mariastella Gelmini, non ancora trentacinquenne e già vestita da preside: due anni prima doveva ancora entrare in Parlamento, e si mormorava che fosse addirittura stata sfiduciata come presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda (con delibera del 31 marzo 2000). In qualche modo, però, aveva recuperato alla grande. Con meno clamore Giorgia Meloni, in quota An con credenziali di militante tosta, diventava a poco più di trent’anni ministro della Gioventù. Quando ci si accorse che, schierata per la foto di rito, c’era anche l’ex showgirl Mara Carfagna, qualcuno osservò che avevamo la ministra più bella del mondo, mentre altri notarono sapidamente che mancavano solo Bonolis e il Gabibbo. Il nuovo ministro per la Pubblica amministrazione, l’ex socialista Brunetta, aprì le ostilità il 25 giugno: il suo decreto anti-fannulloni, che sembrava studiato per rompere ogni dialogo coi sindacati, fu seguito da una pletora di circolari e provvedimenti attuativi. Nella primavera del 2008 il Silvio era tornato presidente del Consiglio; in compenso non pubblicava più i miei romanzi. Mica si può avere tutto, dalla vita. Avevo fatto ritorno alla mia prima casa editrice milanese, ora

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rinominata Baldini Castoldi Dalai: per festeggiare, diedi alle stampe un vertiginoso romanzo dal titolo L’inattesa piega degli eventi e subito dopo partii a piedi da Roma alla volta di Gerusalemme. Per un mese avanzai a passo d’uomo insieme al socio Marcello Fini fra i monti d’Abruzzo, le pendici del Vulture e la piana di Metaponto. Eravamo diretti in un posto speciale: alcuni ci avevano affidato preghiere da portare in Terrasanta mentre, a parere d’altri, stavamo andando a fare un’irresponsabile scampagnata attraverso un campo minato. Quando giungemmo a Brindisi, decisi a imbarcarci per il Levante su uno scafo di nome Macondo, arrivò un invito interessante dalla televisione. «Proprio adesso, dovevi partire per le tue maratone?» mi domandò, scorato, Alessandro Dalai. «Con le mani scrivi, e coi piedi disfi!» «Ma ci sono già andato, in tivù!» protestai. «E quando, che non ti ho visto?» «Da Carlo Gallucci, subito prima di partire!» rievocai. «Rubrica dei libri del Tg5! Dura pochissimo, ma vanta milioni di telespettatori!» «Va bene!» incassò Alessandro. «Ma se la prossima volta mi parti sotto l’uscita, ti strozzo!» Traversammo il Mediterraneo con scali a Corfù, Atene, Rodi e Cipro. Il Macondo era rientrato in Italia col timoniere Nicola, e il servizio di traghetti verso Israele risultava sospeso sino a data da destinarsi: compimmo l’ultimo balzo verso la Terrasanta in aereo, e lì camminammo otto giorni con la squadra di amici Francigena XXI, da ‘Akko, l’antica San Giovanni d’Acri, sino a Gerusalemme. Fu un viaggio nello spazio e un viaggio nel tempo, ma anche un’incursione lenta e dolorosa in una dimensione nuova: eravamo partiti dal regno della televisione, dove più nulla è sacro, e

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anzi il Silvio può raccontare barzellette in cui si paragona a Gesù senza che questo pregiudichi i suoi buoni rapporti con la Curia vaticana, ed eravamo diretti a una città tre volte santa, mura di pietra candida nel cuore di una terra mistica e insanguinata. Laggiù, fra le aspre colline di Giudea, tutti i Cesari del mondo apparivano piccoli, miseri, pilateschi; figurarsi i Silvii, coi loro codazzi di presentatori, vallette e senatori della Repubblica. L’estate del 2008 si consumò in fretta con il solito rituale: esodi, incendi e film di Totò alle due di pomeriggio; vegliava dall’alto, su tutti noi, la Protezione civile. Già il 1° settembre, però, la new entry Gelmini varò il suo primo provvedimento: le sue Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università, convertite in legge dal Senato il 29 ottobre 2008, furono percepite come il più clamoroso assist della storia repubblicana a favore delle scuole private. Da un lato, per fare risparmiare al ministero una cifra vicina agli otto miliardi di euro, si pensò bene di evitare l’immissione in ruolo di ottantacinquemila docenti precari, tuttora a spasso dopo anni di esami e attesa in graduatoria; dall’altro, anche grazie al ricorso a leggi regionali, nelle aree governate dal Pdl come la Lombardia piovvero sovvenzioni «per la libertà di scelta», di fatto borse di studio regionali a disposizione di chi avesse optato per le private, come ricostruito dalla trasmissione Report nel febbraio 2010. Che il ministro ricordasse ancora con piacere il passaggio dal liceo pubblico di Desenzano alla scuola privata «Arici», dove aveva ottenuto il suo diploma? Laureatasi in giurisprudenza a Brescia, vicinissima secondo alcuni agli ambienti di Cl, Mariastella si era trasferita a Reggio Calabria per affrontare con meno patemi l’esame di Stato: metodo sin troppo noto agli aspiranti avvocati del paese, perfettamente legale eppure poco consono alla personalità di un ministro della Pubblica istruzione. Quando glielo fecero notare, si

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difese sdegnata: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare». Gli insegnanti invecchiati in attesa di una chiamata dalla scuola pubblica, invece, grazie alla sua legge non cominceranno mai. Fra le altre peculiarità della riforma Gelmini c’era quella di sprofondare nel caos l’ordinamento della scuola primaria: chi doveva iscrivere un figliolo alla prima elementare, si trovò di fronte a un groviglio kafkiano. Impossibile conoscere un particolare fondamentale come le ore settimanali di lezione: la scuola era diventata à la carte. Se le classi avrebbero avuto 27 ore settimanali o 40 adesso dipendeva dalle richieste dei genitori. Avremmo dovuto accordarci senza nemmeno conoscerci, noi genitori dei futuri scolari di prima, e concordare il numero di ore richiesto; dopo il lavoro e la sanità, diventava flessibile anche la scuola. Di fatto le coppie di lavoratori avrebbero voluto tutte, o quasi, il massimo numero di ore consentito: chi avrebbe potuto smettere di lavorare alle 12 per andare a ritirare i figli, li mandava già alla scuola privata, e a ritirarli delegava la colf. Per i lavoratori dipendenti e tutti i non milionari, fu una doccia fredda scoprire che sì, forse sarebbero stati accontentati sul numero di ore, ma i loro figli avrebbero dovuto arrangiarsi con gli insegnanti che c’erano già, né si poteva sperare in finanziamenti pubblici per restaurare gli istituti, o acquistare materiale didattico. Per le spese straordinarie dovevano mettere mano al portafoglio gli stessi insegnanti e i genitori; condizioni di favore erano riservate solo a chi guadagnava meno di 15.000 euro all’anno, scrupolosamente verificati dagli uffici competenti. Negli stessi mesi, in Lombardia, la Regione concedeva un migliaio di euro all’anno per chi avesse scelto le scuole private, con la so-

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la accortezza di autocertificare – senza nessun controllo in merito – un reddito inferiore ai 45.000 euro annui. E continuavano a chiamarla «libertà di scelta». La scuola dei nostri figli stava lentamente scivolando in serie B, ma gli illuminati come l’onorevole Giuliano Cazzola del Pdl trovarono lo scandalo solo nelle manifestazioni contro la riforma: alcuni genitori avevano infatti portato i bambini in piazza. Come osavano? In una lettera al dorso emiliano del «Corriere», l’onorevole li definì «pedofili che abusano dell’intelletto, vili al pari di chi violenta i minori nel corpo e in tal guisa da punirsi». L’intemerata suscitò l’approvazione della responsabile della rubrica, e un’ovvia ondata di sdegno dal centrosinistra. Nell’Italia del Silvio ci eravamo abituati a quasi tutto, ma che un onorevole infangasse a tal punto dei cittadini solo perché non la pensavano come lui, pareva sinceramente troppo. Che un certo limite fosse stato superato, era sotto gli occhi di tutti: la sanità pubblica era al collasso, la scuola subiva colpi durissimi, «L’espresso» e «Repubblica» venivano trattati dal governo come agenti d’una misteriosa potenza ostile, anti-italiani da isolare. In compenso si iniziò a valutare, più o meno in segreto, di privatizzare la Protezione civile. Nell’autunno del 2008, in seguito alla pubblicazione del già citato La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco, mi trovai a tenere una presentazione romana del volume. Ero scortato, per l’occasione, da due relatori d’eccezionale calibro: sedeva alla mia destra il presentatore di Ballarò Giovanni Floris, alla sinistra il leader in pectore del Partito democratico, Pierluigi Bersani. Floris non si fece pregare per rammentare i tempi del liceo, quando adorava i Cure e si presentava a scuola col cappottone nero, capo d’ordinanza per i dark, mentre Bersani ripercorse le

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sue esperienze giovanili di rocker e celebrò la passione sempre viva per l’energia di Vasco Rossi, che l’ex ministro della Programmazione economica aveva addirittura seguito in tour. Luca Telese, presente all’evento, ne trasse un articolo gustoso per «il Giornale»: E poi, a metà presentazione, lo dice: «Vasco ha questa cosa fantastica che avevano anche Verdi e Pavarotti. Gente di cui si diceva, come si dice di lui, che erano volgari e che si buttavano via. Ma che quando aprono lo spartito ti arrivano dritti in testa come pallottole». E poi Pierluigi Bersani lo dice, chiaro e tondo. Qualcuno aprirà polemiche, qualcuno osserverà che ha ragione, in ogni caso sarà una piccola battaglia di egemonia culturale e nazionalpopolare intorno al più famoso rocker italiano, che l’ex ministro del Pd vuole arruolare nel suo schieramento: «Ohè, c’è poco da fare... Io nella ricerca di efficacia, nella sua chiarezza, nella sua onestà comunicativa e nella sua capacità di essere normale... Beh, mi sembra proprio che Vasco per questo sia senza dubbio di sinistra». Ore 19.00 circa, Roma: dibattito che parte con pubblico sparuto e che alla fine raccoglie una piccola folla al Palazzo delle Esposizioni. Si presenta un bel libro di Enrico Brizzi, che già dal titolo intriga e predispone la speculazione politico-musicologica. [...] I ricordi di Floris parlano di una Roma a metà fra il punk e il dark, che tira un sospiro di sollievo per la fine degli anni di piombo, che vive la politica senza partiti, «ma non per questo senza passioni generose». E sulla vascomania Floris aggiunge: «Leggendo la ricostruzione di Brizzi ho ritrovato la storia dell’arresto di Vasco. Ecco, credo che sia un indizio rivelatore. Non me la ricordavo. E se non la ricordavo è perché Vasco è cambiato. La sua grandezza è di aver cambiato se stesso senza che ce ne accorgessimo. Di essere legato a tutte le epoche che abbiamo attraversato, di parlare a più generazioni aumentando consensi. [...] Per Brizzi Vasco resta sulla cresta dell’onda «perché ha saputo centellinarsi e ha vissuto da star senza allontanarsi dalla gente». E qui Bersani torna alla carica: «C’è più di una gestione intelligente! C’è un

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grande lavoro di fatica, ma anche semplificazione. C’è la scelta di assumere come postulato la volontà di esser sincero». Poi, sorridendo: «Per questo Vasco è sicuramente progressista: con la semplicità e le sue storie aiuta la gente a vivere. È un servizio sociale. Ed è addirittura terapeutico». Chi sa che ne pensa Tremonti...

A prescindere da Tremonti, tanto Floris quanto Bersani mi erano apparsi sinceri e appassionati. Il Pierluigi, in particolare, non sarebbe potuto essere caratterialmente più lontano dallo stile compassato e circospetto di Massimo D’Alema, che pure lo sosteneva nella sua corsa a segretario del Pd. Saranno stati pure amici, quei due, ma se il Massimo ispirava timore, sospetti e brutti ricordi, Bersani comunicava un ruvido ma immediato calore umano: forse non ero l’unico elettore del paese ad averlo notato. Fuori faceva già un buio pesto, ma il traffico di turisti lungo via Nazionale era in pieno fermento: cercavano tutti un typical restaurant nella zona meno indicata. Personalmente mi allontanai dal Palazzo delle Esposizioni di buon umore: che il futuro del nostro paese non fosse ancora scritto?

TERREMOTI L’arrivo del 2009 fu salutato, durante i veglioni televisivi, come lo scacciacrisi definitivo: il Silvio era tornato a sorridere, e il tempo delle vacche magre doveva considerarsi finito per sempre. La sera del 3 gennaio, invece, i telegiornali ci restituirono le immagini agghiaccianti delle truppe israeliane che entravano in armi nella striscia di Gaza. Erano gli stessi ventenni in divisa color oliva che, l’estate precedente, ci offrivano acqua fresca e buoni consigli mentre marciavamo verso Gerusalemme?

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Il nome dell’operazione, «Piombo fuso», era l’efficace sintesi della tempesta di ordigni che aveva colpito dal cielo la striscia di Gaza, ma non era ancora finita: tank e mitragliatrici spararono per dodici giorni, ci furono centinaia di vittime fra i miliziani di Hamas, e certo non meno fra i civili, compresi quelli riparati in una scuola dell’Onu teoricamente adibita a rifugio. Per chi aveva visto la Terrasanta da pellegrino, imparando a liberarsi di tanti pregiudizi mutuati dalla tivù, fu uno strazio vero e la certificazione che la pace era ancora lontanissima. In mancanza di dati certi, si leggeva sul web che le cifre oscillavano fra le seicento vittime valutate dall’Idf – le Forze armate israeliane – e le oltre milletrecento lamentate dai media arabi, che ridefinirono l’operazione «il massacro di Gaza». Solo i colloqui di pace urgentemente richiesti dalla comunità internazionale, che si tennero a Sharm el-Sheikh il 18 gennaio, scongiurarono il proseguire dell’operazione, che d’altronde il governo israeliano considerava conclusa. Due giorni dopo, a Washington, Barack Obama pronunciò il suo giuramento come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti: era il primo uomo di colore a raggiungere la carica, e il suo avvento fu salutato come una nuova età dell’Acquario, turbata solo da paranoie d’attentati e da una definizione irriverente coniata dal nostro presidente del Consiglio. Il Silvio, va detto, era un uomo di mondo: quando veniva ammesso alla Casa Bianca da un Bush sempre più smarrito, giurava eterna, eternissima, fedeltà alla Nato. Lui i rossi li odiava più di tutti, che fosse chiaro a George W. e all’intero Republican party! Quando invece viaggiava verso Est, rinunciava alla pregiudiziale anticomunista per frequentare l’ex ufficiale del Kgb Vladimir Putin. Non era solo il numero uno di un paese che poteva rivelarsi un buon mercato per il Made in Italy, oh no: Vladi-

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mir era proprio un suo buon amico. Uno di quelli che s’invitano in vacanza nella propria villa, se la villa è in Costa Smeralda, un po’ perché fa sempre piacere circondarsi di bella gente, e un po’ perché farà chic indicare alle amiche i giacigli che hanno accolto quei Grandi. Adesso, però, c’era da sistemare la diplomazia atlantica: come gratificare quel Barack senza sembrare provinciali? Il Silvio ci pensò bene: da quando aveva salutato l’elezione di Obama con un moto di spiritosaggine passato alla storia, gli americani si erano fatti maliziosi nei suoi confronti. Ma, a ben vedere, cosa aveva poi detto? Riavvolgiamo il nastro sino al 6 novembre: Obama era stato appena designato vincitore delle presidenziali, e il mondo intero era a bocca aperta per il primo afro-americano alla Casa Bianca. Il Silvio, anche in quell’occasione a Mosca, aveva sbigottito gli inviati e fatto impazzire le agenzie di stampa. Non meno disorientati di altri colleghi, scrissero su «Bloomberg.com» Steve Scherer e Lyubov Pronina: «Italian Prime Minister Silvio Berlusconi today praised Barack Obama, saying the U.S. presidentelect is ‘young, handsome and also tanned’. Berlusconi, speaking in Italian during a press conference with Russian President Dmitry Medvedev in Moscow, said he was sure he would get along well with Obama because he is ‘giovane, bello, e abbronzato’». Grandi risate nella Russia di Putin e Medvedev, sconcerto in Italia, gelo diplomatico dal Nuovo Mondo, nonostante la puntuale smentita del Silvio, che aveva spento l’incendio a modo suo: «If some people don’t have a sense of humor, then it’s their problem», si era sentito in dovere di chiarire, per concludere trionfante: «God save us from the imbeciles». Proseguivano Scherer e Pronina: «Berlusconi, President George W. Bush’s most loyal ally in Europe, has a reputation

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for making controversial comments»: ormai gli avevano preso tutti le misure, e continuava a stupire solo noi italiani. Pensa che ti ripensa, al Silvio venne un’idea: perché non recarsi in visita alla Casa Bianca, e ringraziare Obama per tutto quello che l’America aveva fatto per il nostro paese? Sembrava un’idea adattissima: chi non si autoinviterebbe a casa di un nero che ha appena definito «abbronzato»? Per qualche motivo, benché l’Italia stesse organizzando un suggestivo G8 sull’isola della Maddalena, a Washington non si trovò un buco in agenda da lì a molti mesi. Nella primavera del 2009 ero al lavoro su un nuovo romanzo e, al pari dell’anno precedente, mi apprestavo a una camminata con i moderni viandanti di Francigena XXI. Insieme a Marcello Fini, Francesco Monti e gli altri amici che si sarebbero alternati al nostro fianco, avrei ripercorso la cosiddetta Linea Gotica fra Rimini e Marina di Massa, così questa volta si sentivano tutti più tranquilli: i nostri cari giudicavano una traversata appenninica relativamente sicura, almeno al confronto d’una marcia a ridosso del muro di demarcazione fra Israele e i territori dell’Autorità nazionale palestinese. Quanto ad Alessandro Dalai, non aspettava il nuovo romanzo prima di settembre: sembrava la situazione ideale per staccare una ventina di giorni, mettendo un passo dietro l’altro tra boschi profumati e salite baciate dal vento. Quando arrivò la notizia che l’Abruzzo era stato colpito da un terremoto, ci domandammo per prima cosa se erano stati toccati il Fucino, la Valle Rosa e il cuore del Parco nazionale, i luoghi che avevamo traversato nella primavera precedente: pareva di no, ma in compenso il sisma aveva colpito in maniera devastante il centro storico dell’Aquila e alcune delle sue numerose frazioni. Le immagini televisive ci restituirono un’idea della forza con cui il disastro aveva squassato le opere dell’uomo; riemer-

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sero nel ricordo le immagini del terremoto del ’97 che aveva colpito Umbria e Marche. Poi ripensai alle brumose montagne d’Irpinia, che avevamo traversato diretti alla Città santa, e ai disagi che ancora lamentavano gli abitanti per il terremoto del 1981. Non erano apache in una riserva, ma famiglie italiane che lavoravano e mandavano i figli a scuola; solo, per qualche accidente, alcuni di loro non avevano più trovato una casa. Mi domandai quale Steinbeck nostrano avrebbe raccontato l’epica vicenda dei terremotati, colpiti prima dalla natura e poi dalla rapacità dei soccorritori, per essere alfine dimenticati col loro furore, almeno dalla televisione. E poi, nel giro di un paio di telefonate, mi resi conto che anche Marcello e Francesco avevano avuto pensieri simili ai miei; eravamo cresciuti con un pantheon di miti comuni, e gli «Angeli del fango» di Firenze ne facevano parte a pieno titolo, così decidemmo di imitarli. Sapevamo cosa mettere nello zaino, spalare detriti non c’intimoriva, e dormire in tenda nemmeno. Contattammo qualche vecchio amico degli scout: si stava giusto formando un gruppo di volontari decisi a raggiungere l’Abruzzo. Avremmo potuto noleggiare un pullman, per evitare di intasare le strade con le nostre auto. Per qualche minuto apparve certo che saremmo partiti l’indomani, non appena trovato il mezzo e stabilito un collegamento con le autorità preposte ai soccorsi. «Bertolaso non ci vuole, leggi su internet»: l’sms di Francesco mi raggiunse quando ormai stavo facendo la cernita del materiale. Controllai: il numero uno della Protezione civile si raccomandava che «volontari improvvisati» evitassero in ogni modo di convergere verso l’Abruzzo, pena il peggioramento della situazione. Non ci feci caso. Eravamo stati scout, noi, e dal momento che nessuno aveva sciolto la nostra promessa, lo eravamo ancora. Che c’entravamo, coi volontari improvvisati?

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Andai a letto convinto che l’indomani avremmo compiuto una buona azione, ma quando mi svegliai fu chiaro che non saremmo partiti: né noi, né gli altri gruppi di volontari delle regioni vicine eravamo ammessi, ché servivano tecnici e manodopera qualificata, forze dell’ordine e genieri dell’esercito, non l’equivalente di un esercito di braccianti. Ce ne rammaricammo un po’ tutti: agli «Angeli del fango» nessuno aveva chiesto il tesserino della Protezione civile. Non ci restò che seguire l’evolversi degli eventi in televisione, dalle interviste ai profughi attendati alla dichiarazione clamorosa del Silvio che il G8 non si sarebbe più tenuto alla Maddalena, bensì all’Aquila, in segno di solidarietà con le popolazioni colpite dal sisma. Chi obiettò che alla Maddalena erano ormai in corso lavori da molti milioni di euro, fu messo a tacere: era forse un cinico egoista, che voleva negare ai poveri abruzzesi il giusto riscatto? Avrebbe sistemato tutto lui, in pochi mesi e facendo ricorso allo straordinario patrimonio umano e professionale della Protezione civile. Quel che non si comprese appieno, nel generale afflato di solidarietà, era perché il filantropo dottor Guido, sedicente «medico dei dannati», godesse di poteri sempre più straordinari, e non solo in occasione di terremoti e tsunami: poiché si ricorreva alla definizione di «emergenza» anche per l’organizzazione dei mondiali di nuoto, sulle scrivanie della Protezione civile si decidevano lavori pubblici con un sistema la cui trasparenza era a forte rischio di condizionamenti politici e personali. Con quali risultati, lo stabilirà la giustizia: le intercettazioni diffuse nel febbraio 2010 restituiscono un domino di corruttele, favoritismi e bieco cinismo che ha poco da invidiare, come vedremo tra poche pagine, a quello della Prima Repubblica.

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Al momento, però, Bertolaso non aveva niente da farsi perdonare. Era Obama, quello che si divertiva a tenere il Silvio sulle spine; era lui, il cattivone abbronzato che faceva tardare l’invito alla Casa Bianca, quello da biasimare; quando arrivò un’offerta di aiuto dall’America per la ricostruzione, sui giornali uscì la notizia che il Silvio aveva declinato: il nostro paese non aveva bisogno di aiuti finanziari, e qualche commentatore fazioso si spingeva a definire l’offerta del cattivo Obama «una miseria». Gliele aveva cantate, il Silvio, ah sì: gli aveva suggerito di adottare una chiesa, o un monumento, e che se ne stesse lontano dall’Abruzzo come tutti i volontari improvvisati. Ci pensavano lui e Guido, a sistemare le cose: avrebbe visto al G8, quell’antipatico del Barack, di quale spartana meraviglia è capace l’ingegno italico quando si tratta di risollevarsi dalle catastrofi! Il secondo terremoto del 2009 si produsse a meno di trenta giorni dal primo, ed ebbe come epicentro le forme di una giovanissima showgirl-ballerina di Rete A. Già il 31 marzo «il Giornale» aveva dato la notizia della candidatura imminente di una «velina», Barbara Matera, alle elezioni europee di giugno. La notizia passa più o meno inosservata al grande pubblico, così «Libero» la ribadisce il 22 aprile: «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl». Nelle redazioni fervono lavori delicatissimi: il 28 aprile su «Repubblica» esce la notizia della recentissima partecipazione del Silvio alla festa dei diciott’anni di una giovane napoletana, Noemi Letizia; lo stesso giorno appare un’intervista della ragazza sul «Corriere del Mezzogiorno». Dichiara la stessa Noemi, affiancata dalla madre: «È stata la sorpresa più bella, quella di papi Silvio». «Noemi» domanda l’inviato Angelo Agrippa, forse intuendo lo scoop d’inizio millennio, «lei chiama ‘papi’ il presidente Berlusconi?».

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«Sì, per me è come se fosse un secondo padre. Mi ha allevata.» Insiste Agrippa: «Ha mai conosciuto qualcuno dei figli del Cavaliere?». «No, mai. Anche se lui mi ripete che gli ricordo Barbara, sua figlia. Che ora studia in America.» Ormai è fatta: Noemi si lascia andare a un crescendo di dichiarazioni che testimoniano via via grande vicinanza al Silvio e inducono a sospettare sulla natura dei loro rapporti: «Fa tanto per il popolo. È il politico numero uno. Non dorme mai», «Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte», «Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore». «Noemi» gongola Agrippa quando il suo tempo sta per scadere, «quando la vedremo in politica, alle prossime regionali?». «No, preferisco candidarmi alla Camera, al Parlamento» conclude Noemi coi fuochi d’artificio. «Ci penserà papi Silvio.» Lo stesso giorno Veronica Lario dichiara all’Ansa cosa pensa dell’uso delle candidature femminili in vista delle europee: «Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere». A proposito della partecipazione, resa nota in giornata, di suo marito alla festa di Noemi Letizia, Veronica Lario commenta amaramente: «La cosa ha sorpreso molto anche me, perché non è venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo invitato». All’improvviso l’imperatore era nudo: ai suoi fedeli, sarebbe piaciuto anche così? Il Silvio, nel frattempo, aveva detto che Elio Letizia, padre di Noemi, era stato autista di Craxi, ma il figlio Bobo aveva smenti-

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to. Per cavarsi d’impiccio, il presidente del Consiglio replicò l’indomani con una doppia intervista a «Stampa» e «Corriere», e la sera apparve in studio da Bruno Vespa per raccontare, di persona e senza scomode interruzioni, la propria versione dei fatti. Il 10 maggio uscì un’intervista di un ex assessore socialista al Comune di Napoli, Arcangelo Martino, che raddrizzava il tiro: si era ricordato di essere stato lui stesso, molti anni prima, a presentare Letizia al Silvio in quel dell’hotel Raphaël. Così la palla tornò a Bobo Craxi: «Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell’hotel Raphaël». Confermò Gianni De Michelis: «Mai sentito nominare Letizia». Se Martino aveva mentito, la verità poteva raccontarcela solo il Silvio. Invece, il 14 maggio, preferì accusare i giornalisti che facevano il proprio lavoro di essere i registi di una campagna d’odio: come al solito, quando non lo si adulava a dovere, prima alzava la voce e poi faceva la vittima. Ezio Mauro rispose l’indomani dalle pagine di «Repubblica», e il 21 il suo giornale raccontò che Noemi aveva partecipato a una festa a Villa Madama col Silvio e alcuni importanti imprenditori della moda; il giorno dopo pubblicò le foto di Noemi e sua madre alla festa di Natale del Milan. Altre settantadue ore e conquistò il centro della scena Gino Flaminio, ex fidanzato di Noemi: assicurava che, nel rapporto fra la ragazza e il Silvio, l’attività politica del padre di lei non aveva alcun ruolo. «I genitori di Noemi non c’entrano niente» furono le sue parole. «Il legame era proprio con lei. È nato tra Berlusconi e Noemi.» Il misterioso rapporto fra l’uomo più potente d’Italia e un’aspirante showgirl, all’epoca dei primi incontri minorenne, non poteva lasciare indifferente il paese. Elio Letizia si affrettò a smentire, «il Giornale» pubblicò la notizia che Flaminio aveva un precedente penale per furto e che

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aveva rilasciato le sue dichiarazioni a pagamento, onde screditarlo davanti all’opinione pubblica; benché i giornalisti in contatto con lui smentissero la circostanza, per l’inizio di maggio il giovane Gino fece pervenire le sue scuse tanto a Noemi quanto al presidente del Consiglio. Quando però l’Italia apprese da «Repubblica» che Veronica Lario aveva chiesto il divorzio, ogni solidarietà nei confronti del Silvio scemò: stava per cominciare uno spettacolo senza precedenti, e anche i militanti cessarono le ostilità per cercare un posto in prima fila.

ANDARE IN TELEVISIONE (III) A pochi giorni dalla partenza per la nuova passeggiata lungo la Linea Gotica, Marcello e io fummo convocati a Roma. Qualcuno, in televisione, voleva vederci chiaro: cos’era, questa mania di camminare? Il nostro ufficio stampa riuscì a condensare per noi tre appuntamenti in meno di ventiquattr’ore: la sera il mio socio e io saremmo intervenuti insieme a una trasmissione di RaiSat, da registrarsi a Saxa Rubra con termine fissato a pochi minuti prima della mezzanotte; a quel punto, mi avrebbero scortato per corridoi sino allo studio di Linea Notte, forse l’unico programma che ancora seguissi con regolarità: un’ora con Maurizio Mannoni, Roberta Serdoz e i loro ospiti, quindi una vettura dell’Azienda ci avrebbe ricondotti in albergo. L’indomani, ci attendeva l’inedito appuntamento con Fabrizio Frizzi, la risata più tellurica della televisione italiana, e il suo contenitore mattutino Cominciamo bene. «Con un nome così, non si poteva rifiutare» osservai con Marcello.

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«A quell’ora, ci guarderanno solo le mie zie» pronosticò. «Comunque andrà tutto bene: Fabrizio Frizzi non tifa Bologna?» Dovevo averlo letto anch’io da qualche parte. «Andrà tutto bene sì» confermai. «E poi nulla più si frapporrà tra noi e i nostri zaini.» Durante le due ore e quaranta minuti di viaggio in Eurostar, non vedemmo niente di quell’Appennino che avremmo presto solcato a piedi. Un taxi ci condusse all’albergo, un posto tranquillo dalle parti di piazza Sempione. Doveva essere un luogo abituale per gli ospiti dell’Azienda, ché subito dopo di noi entrò Bruno Gambarotta. «Signorgambarotta, chepiacere!» lo salutò l’uomo alla reception. «Èsemprebellorivederla!» A noi non aveva detto «beo», e proseguì a ignorarci per domandare: «Fattobuonviaggio, signorgambarotta?» «Ottimo, grazie» rispose il canuto e brevilineo Bruno. «Se è ancora a disposizione, mi potrebbe dare la camera dell’altra volta?» Sembrava un uomo di una cortesia rara. Poiché nessuno ci aveva presentati, però, ci guardò come fossimo due cacciatori d’autografi troppo timidi. «’Sera» ci salutò in ogni caso. «Buonasera» salutammo in coro, e poi vedemmo l’uomo alla reception aprirsi in un sorriso. «C’è!» annunciò. «Era proprio destino!» e consegnò all’autore de Il codice gianduiotto la chiave magnetica della solita stanza. «Ubi maior» commentò con filosofia Marcello. «E voi?» indagò il maestro di chiavi mentre Gambarotta si allontanava. «Siamo ospiti anche noi» feci presente. «Brizzi e Fini. Ci dovrebbero essere due stanze prenotate.»

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Quello controllò il foglio della prenotazione che riportava i nostri cognomi. «È lei, Fini?» indagò spostando l’indice dall’uno all’altro. «Io, io» si qualificò Marcello. «Ma che è, parente de...» si fece piccino il maestro di chiavi. «Dell’onorevole, dico?» Poco mancava che s’inchinasse. «No» confessò Marcello, a mio avviso sbagliando. «Semplice omonimia.» L’appuntamento con l’auto aziendale era fissato per l’ora del tramonto: cosa avremmo fatto a Saxa Rubra sino alle undici, era un mistero. «Senti, Marcello, disdiciamola e prendiamo un taxi a un’ora più civile: che ci stiamo a fare, laggiù, per due ore?» Il mio socio, però, era uno stoico e non aveva mai visto il Centro di produzione Rai dall’interno: ci lasciammo trasportare verso nord mentre il crepuscolo avvolgeva la Città Eterna. All’ingresso, Marcello chiarì nuovamente di non essere parente dell’onorevole, e nemmeno del giornalista Massimo Fini; ciononostante, venimmo ammessi all’interno del recinto e avviati alla giusta palazzina. «Che buio!» osservò il mio amico. «M’immaginavo un gran traffico, e invece qui è un deserto.» «A quest’ora» sospirai. «Cosa ti avevo detto?» «Be’, mancano quaranta minuti alla convocazione» osservò dopo avere controllato l’orologio. «Fumiamoci una sigaretta.» Fermi nel buio davanti all’ingresso della palazzina, sentivamo fatalmente di avere un che di sospetto; nel caso una guardia ci domandasse qualcosa, però, avevamo i nostri badge da mostrare. Così ci rilassammo, e fumammo le nostre sigarette come fossimo davanti all’università, o sotto l’ufficio.

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Solo il profumo vegetale della campagna e il canto degli uccelli notturni sembravano dirti che c’era qualcosa di ancora vivo, nella notte tiepida e dolce che avvolgeva le cubature mute di Saxa Rubra. La porta della palazzina si aprì all’improvviso: ci venne incontro una ragazza, e domandò se noi eravamo proprio noi, e dove ci eravamo cacciati. Era l’assistente di produzione incaricata di reperirci, e l’avevamo fatta stare in pensiero. «Ora che vi ho visto, però, sto molto meglio» ci assicurò. «Fumate pure con calma. Quando volete entrare, ci trovate al piano tale, in fondo al corridoio lungo, e poi tutto a sinistra.» O qualcosa del genere. Si allontanò con un sorriso, e Marcello disse che la trovava ansiosa ma simpatica. Restò a bocca aperta, quando entrammo nella palazzina e vide il corridoio presidiato sulla destra da una teoria senza fine d’armadi in alluminio beige, ciascuno chiuso con catena e lucchetto, che contengono le registrazioni dei programmi trasmessi anno dopo anno. «Guarda che roba!» esclamò. «C’è tutta la storia d’Italia, qui!» È sempre stato un ragazzo preciso e di mestiere fa il bibliotecario: la catalogazione è un’arte che conosce a menadito, e le collezioni non lo lasciano mai indifferente, ma non serviva essere degli specialisti per restare impressionati di fronte alla quantità di registrazioni accumulate dietro quelle ante metalliche. «Scommetto che a Mediaset la tengono meglio, la roba» sussurrò a metà del corridoio. Poi prese a spiegarmi nel dettaglio come funzionava il servizio Teche Rai, che ci avrebbe fatto comodo per la nostra documentazione. «Posso aiutarvi?» domandò una voce femminile proveniente dalla nostra sinistra. Ci arrestammo, guardammo da quella parte, e vedemmo che la sequenza di porte chiuse su quel lato conosceva un varco: la

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voce ci parlava dal buio, rischiarato solo da due braci di sigaretta, della piattaforma d’una scala antincendio. Spiegammo dove eravamo diretti. Una delle braci si abbassò con un sospiro, la voce di prima si fece più morbida: «Siete al piano sbagliato, regà». Ci spiegò daccapo la strada, e noi ringraziammo per tornare sui nostri passi, senza poter vedere chi ci aveva parlato, né chi era insieme a lei. Per un po’ vagammo nel labirinto, rimbalzati da informazioni in apparenza contraddittorie, sentendoci come Asterix e Obelix nella Casa che rende folli. Alla fine, però, approdammo alla nostra meta: eravamo ancora in anticipo, così accettammo volentieri l’ospitalità di alcune redattrici. Mentre lavoravano fra telefoni e computer, ci sistemammo in un angolo a discutere del nostro viaggio imminente. Quando emerse la possibilità di ordinare una pizza, erano le dieci e mezza passate: non avevamo mangiato niente dall’ora di pranzo, così ci unimmo senza indugio alla più informale delle cene di lavoro. Quando le pizze arrivarono, divorai la mia a quattro palmenti. «Fame, eh?» notò una delle ragazze. Spiegai che Maurizio Mannoni era uno dei pochi volti rassicuranti della televisione italiana, e non ci tenevo a svenire in diretta di fronte a lui. Quella domandò comprensiva: «Hai problemi di pressione?». «È un modo di dire» la tranquillizzai. «Avevo solo una gran fame.» «Ah be’» fece lei. «Perché ogni tanto capita.» «Cosa?» indagò Marcello. «Che qualche ospite abbia un mancamento» fece lei. «A volte l’emozione gioca brutti scherzi, ma di solito basta un bicchiere di acqua e zucchero.»

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Controllai Marcello: non sembrava pallido. «Sai com’è» minimizzai. «Ne capitano tante.» Con RaiSat ce la cavammo in un quarto d’ora: quando finì l’intervista, ci eravamo appena scaldati. L’assistente di prima, risbucata dai meandri del Centro di produzione, ci scortò sicura come Arianna verso la nostra nuova meta. Da Mannoni, prima della diretta, si respirava un’aria distesa e cordiale; il conduttore scherzò con me e l’ospite abituale Bruno Trefiletti, rappresentante dei consumatori, che occupava la seduta alla mia sinistra; mentre ci aggiustavano i microfoni comparve anche Roberta Serdoz, più bella che in video: non capii se indossava un paio di scarpe nuove o se le avevano abbassato il touchscreen orizzontale, ché per lanciare le notizie sfiorandolo con le dita doveva chinarsi. L’inconveniente, tuttavia, sembrava divertirla più che dispiacerle. Quando la luce rossa della diretta si accende, tutto torna al presente. A trentacinque anni, è un presente da vivere in seconda persona: non senti più sommovimenti alle viscere o gambe molli: ascolti e dici la tua come se le telecamere non ci fossero, senza levare la parola agli altri e sforzandoti solo di non perdere il filo del discorso, come faresti in qualsiasi ufficio d’altri, oppure a un pranzo di lavoro. Maurizio Mannoni non sostiene a vanvera che parenti e amici ti chiamano «Jack Frusciante»: si comporta come un ospite gentile e puntuale, e questa assenza di cinismo basta a farti sentire a casa sino alla fine della trasmissione. «Ci lasci all’Angolo russo, se è aperto» spieghi all’autista che vi riconduce verso piazza Sempione. «Di fianco all’Horus, poi in albergo ci andiamo a piedi in cinque minuti.» «Potrebbe essere aperto» non si sbilancia lui.

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Marcello ti guarda con una certa apprensione: non sa che l’Angolo russo è un semplice bar, e chissà cosa si immagina. «Birra e cornetto?» gli proponi quando l’auto svolta sulla piazza e vedete le vetrine illuminate. «Perché no» fa lui, sollevato. «Poi a nanna di corsa, sennò domani gli sbadigliamo in faccia, a Fabrizio Frizzi.» Sette ore più tardi siamo di nuovo alla Rai, sbarbati e freschi come avessimo risalito il Tevere a nuoto. Nel backstage di Cominciamo bene, tra un caffè e l’altro, facciamo la conoscenza dei colleghi ospiti che, nel giro di dieci minuti, siederanno con noi nel salotto televisivo di Rai Tre, opportunamente interrogati da Frizzi e dalla sua compagna d’avventura, la giornalista Elsa Di Gati. Tema della puntata, primaverile come l’aria di Roma quest’oggi, sono le vacanze. Oltre a Marcello e al sottoscritto, rappresentanti di tutti i picchiatelli che viaggiano a piedi, il ventaglio di nature umane che s’apprestano a entrare in studio è quasi sterminato: v’è una signora che gira l’orbe terracqueo senza mai scendere in albergo, ché sfrutta le abitazioni degli iscritti a un’apposita comunità, e del pari mette a disposizione casa propria per quanti vogliano visitare il Veneto; v’è Bruno Gambarotta, a proprio agio da queste parti come un costumista o un cameraman dell’Azienda, che invece sosterrà il partito di chi in vacanza non ci va proprio; v’è certo qualcun altro che non riesco a individuare, ché la stanza appare all’improvviso gremita di giovani fricchettoni con barbe e capelli alla Woodstock. «Loro viaggiano solo in autostop» spiega compresa una redattrice che mi è fiorita accanto. «Arrivano dalla Sicilia.» «Minchia!» esclamo per farli sentire a casa. «Veramente, ragazzi?» Mi guardano in sette o otto tutti insieme, e solo uno rispon-

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de, fuori sincro come Ghezzi, un asciutto «Sì». È il più anziano del gruppo, e i suoi capelli raccolti a coda mostrano qualche filo d’argento. «È un’esperienza che dovrebbero provare tutti» aggiunge, e i soci fanno di sì con la testa come avesse parlato l’oracolo dei Saraceni. «Ma quanto ci avete messo?» domanda Marcello, la voce increspata d’orrore. Gli autostoppisti fissano il loro leader, scelto forse per l’irriducibile stoicismo, e quello risponde per tutti: «La gente non sempre si fida. A volte aspettiamo anche otto ore». «Ot-to?» balbetta palindromo il mio amico, muovendo un passo avanti e uno indietro come un pugile suonato. È lo stesso tempo nel quale solitamente copriamo una tappa delle nostre, senza bisogno di aspettare nessuno che ci carichi, e all’improvviso mi rendo conto che il rock ’n’ roll ha avuto influenze diversissime, talora di segno opposto, sulla mia generazione: ciò che per qualcuno è stato un pungolo, per altri è risuonato come un invito alla resa. «Ma chi è tutta sta bella ggente?» spunta un tecnico, le mani a coppa colme di scatolotti neri avvolti da fili, come un artificiere o un kamikaze. «Per cortesia, chi nun deve esse microfonato levasse le tende, ché qui pare de sta’ a Porta Portese!» Nel giro di un attimo restiamo Marcello, io, Gambarotta, la pimpante signora veneta che organizza scambi di case, e un rappresentante degli autostoppisti che si guarda intorno atterrito. Non è chiaro perché il leader mandi avanti lui anziché esporsi in prima persona: il povero ragazzo trema come Edgar Allan Poe a fine carriera, e mentre viene sottoposto al rito del microfono mi si aggrappa come fossi suo fratello maggiore. «Non mi piace qui» sibila, e solo allora mi accorgo che i suoi occhi sono infiammati da far paura. «Perché?» gli domando serafico.

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«Non la guardo mai, la televisione...» sembra scusarsi nei confronti del sottoscritto. «Con me caschi in piedi» tento di rassicurarlo. «...Però conosco un sacco di gente che la guarda» conclude il suo ragionamento. «Ce n’è» conferma Marcello. «Cioè, non è pazzesco che adesso andiamo di là e in Sicilia ci vedono tutti?» tenta di spiegarsi il ragazzo dagli occhi di fuoco. Non so se abbia bevuto tre grappe o fumato del pessimo pakistano, ma sembra meravigliato di ogni cosa, al punto da risvegliare in me un istinto di protezione. «Stai tranquillo» gli raccomando. «È come sedersi a cena, solo che non si mangia. Si chiacchiera e basta.» Il giovane mi guarda con i suoi occhi sbarrati, come vedesse uno scoglio in mezzo alla burrasca, e adesso mi sembra che voglia piangere. «Grazie» balbetta. Poi l’onda della paranoia lo sommerge da capo: «Cioè, minchia...» sibila. «Io non ci voglio andare, di là.» Bruno Gambarotta, forte della sua decennale esperienza, lo fissa a metà fra il divertito e il preoccupato. «Non sarà meglio servirgli acqua e zucchero?» domanda la signora che non va mai in albergo. «Ospiti, in studio!» taglia corto una voce. È un omone che ricorda un granatiere, e fa l’appello come a scuola. «Come il signor Gambarotta sa bene, dentro non si fiata. Aspettate in fila finché Frizzi non vi chiama, e allora entrate in video e dite ‘Buongiorno’.» Quando ha finito, lo seguiamo in fila indiana attraverso una porta che si apre su una parete di cartongesso, e adesso solo i pannelli della scenografia ci separano dal salotto di Cominciamo bene. Fabrizio Frizzi ed Elsa Di Gati, già in onda sui teleschermi d’Italia da svariati minuti, annunciano che nel prossimo blocco si parlerà di vacanze con alcuni ospiti molto particolari.

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Fiorisce un applauso, parte forse uno stacchetto musicale, Frizzi parla di nuovo, ma io sono distratto dalle farneticazioni a mezza voce dell’autostoppista dagli occhi di fuoco. «...Madonna, che ci faccio io qui?» borbotta come una litania. Il granatiere gli si fa sotto raccomandando il rispetto del silenzio: «Semo in diretta!» sillaba a fior di labbra, indicando il sottile pannello che ci separa dalle case degli italiani. «Ciafà o nunciafà?» domanda con voce appena percettibile un piccoletto della Rai sbucato da chissà dove. «Pemmè unciafà!» sussurra il granatiere, e poi Fabrizio Frizzi comincia a chiamarci in studio. «...È qui con noi Bruno Gambarotta!» «Dentro, signore!» lo esorta il granatiere, e il canuto torinese scivola oltre la bocca del proscenio accolto da un applauso degno di un padre della patria. Nel giro di pochi secondi anche Marcello ed io siamo introdotti al pubblico e fatti accomodare su due poltroncine sullo stesso lato dell’autostoppista, mentre Gambarotta e la signora che detesta gli alberghi siedono di fronte a noi. Frizzi e la sua compagna d’avventura ci rivolgono una domanda a testa; quando è il mio turno noto nel monitor che le mie sembianze sono accompagnate da un sottopancia sbagliato: secondo Cominciamo bene mi chiamerei non ricordo se Maurizio Brizzi, o Enea Frizzi, in ogni caso la professione di scrittore è indicata correttamente, quindi proseguo senza indugi a spiegare che un viaggio a piedi è uno spostamento nello spazio ma anche nel tempo; aggiungo poi che l’uomo che arriva è sempre diverso da quello che è partito. «Giustissimo. Ma c’è anche chi le vacanze le fa in autostop... Qualcuno lo giudicherà pericoloso, ma per i giovani con pochi soldi in tasca è un modo per vedere il mondo. Non è vero?» L’attenzione di tutti si punta sull’autostoppista. Sotto il suo

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viso spaurito e i suoi occhi di fuoco appare in monitor un sottopancia, che l’esperienza mi fa giudicare inattendibile. Lui, però, non parla. «È vero» balbetta dopo un tempo che mi appare non finire mai. Quindi abbassa lo sguardo, pago della risposta fornita. Devo sforzarmi di non ridere, come a scuola, mentre Frizzi recupera in corner e passa la parola alla signora degli scambi di case. Un altro giro di domande fornisce a Gambarotta l’occasione per parlare del suo ultimo libro Galline in fuga; Marcello spiega cosa significa rispettare una tabella di marcia e io mi faccio bello con le piume del pavone, ricordando che quando aprile, con le sue dolci piogge, ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo, impregnando ogni vena della terra di quell’umore che ha la virtù di dare la vita ai fiori, la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio. «Parole bellissime! Ma cosa ne pensa chi passa lunghe ore fermo in una piazzola di sosta?» «Io...» risponde l’autostoppista dagli occhi di fuoco. «Io penso che...» Reclina nuovamente il capo, si fa forza, guarda Fabrizio Frizzi e guarda Elsa Di Gati con la tristezza del deportato. «Tranquillo» fa la conduttrice, poi riempie il monitor con un sorriso quasi materno. «Il nostro ospite è un po’ agitato. Vuole un bicchiere d’acqua?» «Magari» fa quello, poi lo vedo sollevarsi lentamente dalla poltroncina, il filo del microfono che sbuca dal bordo della maglietta e finisce in tasca. «...Posso?» domanda, e inquadro una signora del pubblico che lo fissa con gli occhi sbarrati e la bocca a forma di cerchio: quel ragazzo sta abbandonando la postazione, violando ogni regola d’ingaggio delle dirette televisive! «Posso?» balbetta nuovamente l’autostoppista. Ormai è in piedi, e muove un passo malcerto via da Fabrizio Frizzi. «Acqua e zucchero!» comanda qualcuno, ma ormai è trop-

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po tardi: il ragazzo si guarda intorno, cerca a occhiate disperate la via della salvezza e supplica: «...Posso uscire dalla trasmissione?». Rientrammo a Bologna rinfrancati: esisteva ancora, il bello della diretta. Nel corso dei primi tre giorni del viaggio lungo la Linea Gotica coprimmo un centinaio di chilometri, che ci portarono dalla spiaggia di Rimini ai boschi del Monte Fumaiolo: lassù i giornali non si trovavano, e la televisione non c’era. Per qualche tempo, lasciammo a valle l’attualità e respirammo l’aria fresca dei sentieri partigiani.

La fine del mito

LA CALDA ESTATE DI PAPI Un pomeriggio, di fronte alla tabaccheria di via Guidotti, m’imbattei nel mio vecchio amico Iuri Giacobbi. L’Italia del Silvio non era un paese per fessi, e Iuri si era ritagliato la sua fettina di benessere: era passato dalla vendita di prodotti per il dimagrimento all’attività di promotore finanziario. Quando lo vidi io era abbronzatissimo, e sembrava su tutte le furie. «Bella, vecchio» mi salutò e, dopo i baci sulle guance, restò a guardarmi come ce l’avesse con me. «Tutto bene, Iuri?» domandai. Mi mostrò il pugno destro: aveva le nocche spellate di fresco, e un rivolo di sangue gli disegnava il dito medio. «Mi sono appena preso a manate con un talebano» sospirò. «Un lavavetri del cazzo. Gli avevo detto di non toccare la mia Classe A, e quello niente. Ride, e mi sporca il parabrezza di schiuma.» Imprecai, intuendo cosa stava per raccontarmi. «E c’era bisogno di alzare le mani?» «Io non sono razzista e tu lo sai», mi piantò l’indice sullo sterno. «In fabbrica c’era gente di tutti i colori, ma stavano al loro

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posto. Ma chi cazzo sei, tu, per arrivare lì e sporcare la macchina che mi sto pagando un mese alla volta?» Me lo domandò furioso, come fossi stato io a gettargli la schiuma sul parabrezza, poi scoppiò a ridere e ricordò: «Mentre scendevo, l’infame ha provato anche a colpirmi col bastone. Si vede che usa così, al suo paese». Con gli occhi che sembravano schizzare fuori dalla testa, ammise: «Ah, ma gliele ho date per bene». «Chissà che bella scena» sospirai. «Se non mi fermavano, gli spaccavo quella faccia di merda contro il palo del semaforo» notò. «Iuri, era solo un povero...» «Anche tu!» s’indignò. «Ma finitela! Cosa devo, farmi pisciare nel culo solo perché è straniero? Se era italiano lo trattavo uguale, te lo giuro!» Poi si guardò attorno, sospirò e disse: «Spero solo non mi abbiano fatto un bel film. Con tutte le telecamere del cazzo che ci sono in giro, capace che all’inizio la madama mi lascia tranquillo, e poi si fa sentire al telefono tra qualche settimana». Stavo per ricordargli che un tempo gli piacevano, le telecamere, ma era troppo su di giri. «Io mi faccio i cazzi miei» ribadì. «Ma, se vogliono lo scontro, sono qui. E tu?» mi riscosse per una spalla. «Non dirmi che ti sei trasformato in un cagasotto! Proprio ora che serve tenere la guardia alta!» «Contro i lavavetri?» lo provocai. «Cosa vuoi che ti dica, vecchio» sospirò deluso. «Non son tipo da lasciarmi pestare i piedi.» La paranoia nei confronti degli immigrati aveva terreno fertile, con teste calde come lui. Non mi risulta che sia mai stato indagato per la rissa col lavavetri; in compenso, pochi mesi dopo si accapigliò con un barista italiano in una stazione di servizio sull’A14. Quello aveva

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osato accusare Iuri di avere pagato con cinquanta euro falsi, e lui era impazzito. Li dovettero separare due agenti della Stradale: per la cronaca, appurarono che la banconota era contraffatta, e ne trovarono altre tre con lo stesso numero di serie nel portafogli del mio amico. Iuri passò una notte in cella di sicurezza, e se ne andò con un paio di denunce sul groppone. «Si vede che non ho ancora imparato a vivere» fu il suo unico commento, agro e autoironico, prima di celebrare gli eventi facendosi tatuare sull’avambraccio la scritta – dal discutibile spelling – «One agaist all». Walter Veltroni, primo segretario nazionale, se n’era andato a febbraio dopo avere auspicato un governo di larghe intese alla tedesca: era stato proprio il Silvio ad importare l’idea in Italia, ma stavolta aveva respinto l’ipotesi con una pernacchia. Perso il segretario a poche settimane dal voto, Dario Franceschini ne aveva preso con abnegazione il posto in corsa; poiché veniva dalla Margherita, molti ex Ds gli avrebbero preferito Bersani, ma non c’era più tempo per organizzarsi. Alle settime elezioni europee di giugno l’Italia aveva a disposizione 72 seggi: nonostante l’inquietante condotta del Silvio, il Popolo della Libertà se ne aggiudicò 29, e altri 9 andarono alla Lega. Contando che il Pd si era fermato a 21, e l’Italia dei Valori a 7, suonò come una sostanziale tenuta delle forze governative: i pretoriani del Silvio erano gente di principi, e non avrebbero mai abbandonato il proprio leader solo perché frequentava delle minorenni. (E poi che ne sapevamo, noialtri? Magari era semplicemente sua figlia. E chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni!) Quando finalmente il loro campione venne ricevuto alla Ca-

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sa Bianca, noialtri di Francigena XXI avevamo fatto in tempo a raggiungere a piedi il Tirreno, i nuovi eurodeputati avevano già fatto la loro prima visita a Bruxelles e Obama si apprestava a festeggiare i primi cinque mesi da presidente. Si sapeva che il Barack era un tipo informale, ma restammo tutti stupiti quando lo vedemmo accogliere il Silvio torreggiando su di lui, per poi posargli entrambe le mani sulle spalle. «Adesso lo sculaccia!» gridai, invece l’uomo più potente del mondo s’incurvò per cercare lo sguardo dell’uomo più potente d’Italia e lo salutò con un gioviale: «Great to see you, my friend». Perlomeno non portava rancore verso il nostro paese. Dopo un’ora e mezza di colloqui riservati, i due statisti si ripresentarono alle telecamere: Obama ribadì che l’Italia era un alleato cruciale degli Stati Uniti, e il Silvio garantì a sua volta: «Sono qui a collaborare con il presidente Obama, così come è successo in precedenza con i presidenti Clinton e Bush». Sembrava stranamente fuori fase, meno sorridente del solito, ed evitava lo sguardo del Barack: che avesse dei pensieri? «Sarei molto lieto» aggiunse col solito tocco creativo nella consecutio «se continuando i nostri rapporti si possa arrivare ad una amicizia». Manco a dirlo, rientrò in patria raccontando che aveva trionfato: a sentire i suoi sostenitori, anche per la fusione fra Fiat e Chrysler – già annunciata dal Barack a fine aprile – i meriti maggiori andavano riconosciuti al Silvio. Per quasi settantadue ore l’immagine del nostro leader tornò a rifulgere: aveva fermato i comunisti, salvato Alitalia, ripulito Napoli in una notte, e adesso anche Obama si era inchinato – non l’avevamo visto, in tivù? – di fronte alla sua maestà! Elogi e panegirici della stampa amica si sprecavano. La stagione del Silvio sembrava avviata alla salvezza con quel gol in

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trasferta a Washington, ma il destino crudele era in agguato: all’ultima giornata di campionato entrò in campo una bionda fuoriclasse di Bari, tale Patrizia d’Addario. La donna si mise subito in luce con un’intervista ubriacante, nella quale sosteneva di avere trascorso una notte a pagamento col Silvio. Poiché all’inizio non era chiaro se fosse una escort o una candidata del Pdl, o entrambe le cose, la stagione ne risultò compromessa senza rimedio. Come benzina sul fuoco, uscirono sui siti web di alcuni giornali esteri le foto delle vacanze del Silvio in Costa Smeralda. Ormai potevamo spiare il leader dal buco della serratura: si vedeva una escort che reclamava attenzione per la propria candidatura, una ex partecipante del Grande Fratello seduta sulle ginocchia del presidente del Consiglio e qualche valletta chiusa in bagno, attenta a immortalarsi con la fotocamera del cellulare, per poter documentare l’unica sera in cui era stata ospite a casa del leader. Fra bassezze assortite, un dubbio prese a serpeggiare anche tra i fedelissimi: che avesse ragione Veronica Lario, a volersi separare da un marito così? Quell’estate, per colmo della sfortuna, non c’erano né mondiali né olimpiadi a catalizzare l’attenzione pubblica. Va detto, però, che si svolsero almeno tre raduni di altissimo livello: i Giochi del Mediterraneo a Pescara, i Mondiali di nuoto a Roma, e il XV Aiba World Championship di pugilato a Milano. Con quali dinamiche si fossero gestiti gli appalti relativi ad alcuni di questi eventi, sarebbe stato reso noto pochi mesi più avanti da un’inchiesta della Procura di Firenze. Nuoto, atletica e boxe, tuttavia, non bastavano a distogliere del tutto gli sguardi dalla spettacolare mancanza di etica familiare che sembrava caratterizzare le ferie del Silvio e delle sue favorite.

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Pareva le gratificasse con gioielli a forma di farfalla, o di tartaruga, se solo facevano finta di stupirsi quando lui faceva eruttare il vulcano finto costruito in giardino, e dopo si dimostravano carine con lui. In privato il suo modello comportamentale sembrava richiamarsi a Hugh Hefner, il patron di «Playboy», anche se le «conigliette» originali non erano mai diventate onorevoli: qualcuno, fra i prelati della Chiesa cattolica, non esitò a giudicare sconveniente una simile condotta di vita. Per noi laici, un miliardario di settantaquattro anni circondato da ragazze leggere era uno spettacolo così ovvio da apparire noioso: il Silvio in fondo al cuore era rimasto un ragazzo, con tutte le sue ville e l’implicita pretesa di soddisfare ogni femmina in vista. I suoi continui accenni a una vitalità insaziabile, quasi mussoliniana, avrebbero sollevato solo sorrisetti di circostanza, se il Nostro non fosse stato il presidente del Consiglio. E a noi cosa fregava mai, di quel che faceva il Silvio mentre era in ferie? A me, personalmente, un fico secco; fino a che punto fosse ricattabile il presidente del Consiglio, da quali e quante persone, erano le vere domande che si doveva porre chiunque avesse a cuore il destino del paese. Dal 2005 al marzo 2009 «Pigi» Battista, ex di «Epoca», «La Stampa» e «Panorama», aveva ricoperto la carica di vicedirettore del «Corriere della Sera» con delega per le pagine culturali, inframezzando l’attività giornalistica a frequenti apparizioni televisive. Nell’aprile 2009 era tornato a Roma come inviato editorialista del quotidiano di via Solferino, e il 27 luglio sferzò la voyeuristica estate italiana con un articolo che forse qualcuno giudicò il capolavoro del giornalista in quanto a coraggio e consapevolezza civile; personalmente, Quel Pasolini da dimenticare mi la-

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sciò verde di bile fra gli alpeggi dell’Alto Adige, indeciso se telefonare indignato in via Solferino, scrivere alla rubrica dei lettori o, semplicemente, contenere il fremito che aveva colto le mie mani e m’impediva di proseguire nella lettura. Aveva scritto «Pigi»: Periodicamente si riaffaccia il celebre verdetto di Pier Paolo Pasolini: «Io so, ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale [...] che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico». Lodato come luminoso esempio di coraggio civile e di temerarietà culturale, la famosa invettiva dell’«Io so, ma non ho le prove», ancorché concepita nel periodo più buio dello stragismo italiano, è l’espressione del peggior Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano: lo schematismo dottrinario e ideologico («che mette insieme i pezzi in un quadro coerente»). La noncuranza per i fatti. Il disinteresse politico e, ciò che è peggio, giuridico per le «prove». La realtà deformata come narrazione di parte. La ferocia giustizialista. Il manicheismo morale. La debordante sopravvalutazione di sé, del proprio ruolo, della propria abnorme missione profetica. Formulando quella sentenza, l’anticonformista, eretico Pasolini si piegava ai dettami del conformismo più corrivo.

Conformista e feroce, il mite intellettuale eretico e omosessuale Pasolini? La sua barbara uccisione sarebbe dovuta bastare a opporre un pietoso freno alla vis polemica, ma Battista non si tratteneva e incalzava le spoglie del Poeta: «Cosa sapeva Pasolini? Niente. Ma anche tutto, dal punto di vista della religione di cui era guardiano». Quindi l’amabile «Pigi» concludeva maramaldeggiando: Come Saint-Just che chiedeva la condanna capitale di Luigi XVI non perché fosse colpevole di una singola e «provata» azione criminosa ma per il crimine supremo e inappellabile di essere Re, così Pasolini tuonava contro il Nemico da schiacciare come un mostro. Il peggior

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Pasolini. Che va dimenticato, per la disperazione dei suoi troppi epigoni, pessimi allievi di un cattivo maestro.

Chissà se Pigi ricordava i tempi in cui il «Corriere» ospitava proprio Pasolini, e l’ultima intervista rilasciata da quest’ultimo a Furio Colombo, poche ore prima di essere trucidato. «Siamo tutti in pericolo», l’avrebbe voluta intitolare. «Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo» erano state le sue ultime parole. «Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.» Il giorno seguente, domenica 2 novembre, il suo corpo senza vita era all’obitorio della polizia. Questo lo sapevano proprio tutti; cosa poteva avere guidato il bravo Battista ad accanirsi contro un glorioso esponente delle patrie lettere? Poiché dimenticare un poeta, giornalista, narratore e regista massacrato in una notte di barbarie e misteri mi sembrava una pratica infausta per la nazione, respirai profondamente l’aria sottile delle Dolomiti e decisi di dimenticare, piuttosto, «Pigi» Battista. Ero solo un narratore con la passione del trekking, ma dovevano essere in montagna anche i grandi intellettuali, perché l’unica replica degna di nota all’incendiaria riesumazione di Pasolini arrivò da Vittorio Sgarbi: era felice come Franti di sostenere che lui invece lo sapeva benissimo, chi erano i mandanti degli scempi italiani. A differenza di Pasolini, lui ne aveva pure le prove: secondo il nervoso critico d’arte di Ferrara, i colpevoli erano perlopiù gli amministratori locali del centrosinistra, e in particolare quelli che avevano installato pannelli solari. Quasi incredibilmente, sui giornali che mi passarono per le mani in quei giorni, non si andò oltre la sua boutade.

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Solo in Rete, e dopo ferragosto, trovai interventi puntuali e sdegnati. Quello che mi colpì maggiormente si trovava sul sito www.pasolini.net, ed era a firma della curatrice di quelle «pagine corsare» in Rete, Angela Molteni: C’è un libro di Pasolini, l’incompiuto Petrolio, in cui lo scrittore, dopo quelle che Battista definisce frettolosamente «invettive», inizia a fare nomi e a formulare indizi [...] In Petrolio (come e ancor più che in altre opere di Pasolini) è contenuta la storia dell’Italia delle morti violente, delle stragi, delle concussioni, delle appropriazioni indebite, dei tentativi golpisti; vi sono descritti personaggi e misfatti reali, che Pasolini non esita a smascherare e a denunciare. [...] Se qualcuno ha mostrato coraggio e capacità di analizzare con attenzione i fatti che si svolgevano intorno a lui, e di trarne, grazie a una mente guidata dall’intelligenza (dote rara), le logiche conseguenze e previsioni, si può perlomeno essere certissimi che non si tratti di Pierluigi Battista.

Una sera di fine estate, sul treno ad alta velocità Milano-Bologna, incontrai il mio vecchio amico LucaPietro Niccolis. Non lo vedevo da secoli, eppure ci riconoscemmo subito. «Carissimo!» esordì, stempiato come suo padre quando eravamo bambini. «Come stai?» «Benone» lo rassicurai, e per un attimo piantò gli occhi nei miei, come volesse dire qualcosa. Nel suo abito bianco di garza mi apparve elegante e spaesato come un turista inglese dell’Ottocento. «Ti offrirei volentieri un caffè al vagone-ristorante, ma ho il laptop in ricarica», si giustificò indicando il computer portatile aperto sul mezzo tavolino. Lo schermo mostrava un sito di quotazioni di borsa fitto di virgole e decimali. «Siediti qui sul bracciolo, se non ti dispiace.»

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«Tranquillo, sono stato seduto fino ad ora» declinai l’invito. «Ma dimmi» fece, con un fremito fuori controllo delle narici. E ripeté: «Come stai?». «Bene, bene. E tu, LucaPietro?» «Eh!» si strinse nelle spalle, umile e falso. «Si va, si va. Adesso, sulla targa dello studio, c’è anche il mio nome.» Notaio. Come entrambi i genitori, come nonno Aristodemo Niccolis, e il padre di lui Aristarco; fors’erano stati notai anche i Niccolis medievali, quelli romani e persino gli antenati etruschi dall’incomprensibile pronuncia. «So dalle mie fonti che ti sei sposato» disse con aria misteriosa. «Sette anni fa» confermai. «Abbiamo tre figlie.» Ignorò la notizia, e rivelò: «Mi sposo anch’io, sai?». «Complimenti.» Immaginai di domandargli «E chi è la fortunata?». Magari si sentiva preso per il culo, così mi trattenni. «Trentamila euro solo di rinfresco, ’sti ladri!» se ne venne fuori. «Accidenti, LucaPietro! E chi è la fortunata?» Fece il nome di una ragazza che aveva studiato nel mio liceo; la ricordavo poco diligente, ma vivace e generosa di prodezze in gita scolastica. «Ma dài!» mascherai a malapena lo stupore. «Si ricorda benissimo di te» rivelò LucaPietro, lo sguardo cerchiato da profonde occhiaie. «Be’, salutamela...» balbettai, e ad ogni sillaba mi tornavano in mente episodi contro la pubblica decenza di cui la futura signora Niccolis si era resa protagonista. «È dentro una nuvola, lei» sospirò il promesso sposo. «Andiamo in Polinesia, in viaggio di nozze.» «Sarà magnifico» mentii, e già immaginavo la giovane signora sotto le palme, alle prese con un equipaggio intero di rematori polinesiani, mentre LucaPietro consultava felice le quota-

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zioni dello stock exchange, vestito come in città nell’ombra accogliente del bungalow, un ambientino rustico ma cablato in fibra ottica, capace di costare i suoi mille dollari a notte. «Tu scrivi ancora?» mi raggelò il cornuto del Pacifico, seduto a due passi da me. «Ogni tanto» minimizzai. «Quando arriva l’ispirazione.» «Abbiamo bisogno di gente che sa tenere in mano la penna» annunciò, e mi domandai se parlava di se stesso e della futura moglie. «Chi ne ha bisogno?» chiesi lumi. Per tutta risposta, digitò una furiosa combinazione alfanumerica sulla tastiera del computer: si materializzò la homepage di un sito in costruzione. «Noi!» rispose LucaPietro indicando lo schermo. Sulla pagina, pressoché intonsa, si notava solo un misero banner rettangolare. Vi si leggeva «Forum per l’Integrità Civile». «Che è?» domandai. LucaPietro deglutì, poi attaccò a memoria: «Siamo una piattaforma di esponenti della società civile, professionisti e semplici cittadini perbene, svincolati da partiti o movimenti, che intendono riflettere sull’attuale momento storico che l’Italia sta traversando, alla luce della degenerazione del dialogo istituzioni-società, ormai denunciato a chiare lettere anche dalla voce super partes della Chiesa». Mi domandai in quale circolo esclusivo si trovassero a riflettere su quel complesso di argomenti, poi guardai le narici frementi di LucaPietro e domandai: «Quindi siete contro l’attuale governo». Prudente, si guardò intorno. Un omaccio sulla cinquantina lo osservava, in attesa, come un balestriere pronto a scoccare il colpo. «Si è superato il limite, non trovi?» balbettò LucaPietro con

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un filo di voce. «Sono un cristiano, io. E non posso credere a questo malcostume delle escort... Si parla di minorenni, ti rendi conto?» «Ti ho sentito, sai?» si levò il vocione dell’attaccabrighe. «E Marrazzo che va a trans? Silvio almeno chiava delle fighe che voialtri vi sognate!» «Perché te, invece, stasera esci con Belen Rodriguez!» lo riportai sulla terra. Il tanghero non fece neanche finta di controllare l’agenda, prova certa che avevo colto nel segno, e se la prese con il mio amico. «Chi preferisci, dottorino? Uno che tromba delle belle fighe o uno che va a trans?» «Se è questo il discrimine per scegliere un politico...» afferrò il coraggio a due mani LucaPietro. «Ma parla come mangi!» ribatté l’omaccio. «Perché se parli come scopi, devi stare muto.» LucaPietro, investito da quella scarica d’insulti, non fece altro che afferrare il cellulare: era pronto a telefonare a qualcuno, ma non capivo se intendesse chiamare la polizia, la promessa sposa oppure la madre. «Be’, si diceva?» tentai di riprendere il filo con LucaPietro, ma era come paralizzato. «E metti via quel telefono!» L’omaccio borbottò una mezza frase a proposito di Vendola e dei ricchioni, e il mio amico notaio sussurrò: «Andiamo a parlare al vagone-ristorante, ti va?». Se il suo Forum meditava di battersi con lo stesso coraggio, aveva un futuro molto incerto. «E il computer?» gl’indicai il prezioso laptop. «Si è ricaricato, ormai» considerò levandosi in piedi, poi staccò la macchina dalla corrente, la richiuse e la prese sottobraccio avviandosi lungo il corridoio. «Che gente!» considerò quando l’attaccabrighe non poteva più sentirci. «Ma la prossima volta gliene canto quattro.»

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«Come no» mi sforzai di mascherare il buonumore che tornava in superficie. «Almeno quattro, LucaPietro.» Nell’Italia del XXI secolo, nemmeno la Parola di Dio poteva fare a meno di uffici stampa, reporter e addetti alla disinformazione; ancora nessuno, però, immaginava che «il Giornale» del Silvio avrebbe avuto un ruolo non secondario nell’imminente guerra intestina che avrebbe cambiato il volto dell’informazione cattolica. Si diceva che la parte più moderna della Chiesa italiana, rappresentata dalla Conferenza episcopale italiana, fosse stanca di bugie propagandistiche e di eccessi sibariti e auspicasse il ritorno a una politica meno gridata: fosse vero o no, certa stampa di centrodestra vedeva nel cardinale Bagnasco, presidente della Cei, l’inquietante campione dei cattolici refrattari al Silvio, e nell’«Avvenire» un foglio ingiustamente ostile. «Continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all’anima del paese» scriveva infatti il suo direttore Dino Boffo, una vita trascorsa fra l’Azione cattolica e la redazione del giornale della Cei, che guidava dai tempi di Ruini. Sul versante opposto, le forze tradizionaliste della Curia vaticana opponevano una netta condanna ad ogni speculazione riguardo al loro coinvolgimento nelle vicende politiche italiane. La Chiesa aveva altro a cui pensare; se e quando fosse stato opportuno diffondere le parole del Santo Padre, ci avrebbe pensato l’«Osservatore romano». Si diceva che fra il suo direttore, Giovanni Maria Vian, e l’omologo dell’«Avvenire» non corresse buon sangue. Forse erano solo voci, come quelle che volevano Boffo coinvolto in un misterioso processo a Terni, ad ogni modo sul finire di luglio l’«Avvenire» pubblicò tre messaggi di altrettanti lettori mortificati dalle rivelazioni sulla vita privata del Silvio.

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Commentò il direttore: «Le ‘rivelazioni’ – non sappiamo quanto autentiche –, che si succedono, a disposizione di chi ha la curiosità di continuare a leggerle o ad ascoltarle, non aggiungono (probabilmente) nulla a uno scenario che già era apparso nella sua potenziale desolazione». Quello che i lettori non sapevano e che Boffo, invece, sapeva certamente, è che un dossier imbarazzante che lo riguardava era stato inoltrato a tutti i vescovi italiani. Se era un avvertimento, non lo prese in considerazione. Pochi giorni dopo, sollecitato dalla lettera di un sacerdote amareggiato per il fatto che l’«Avvenire» e la Chiesa non assumessero posizioni nette riguardo lo stile di vita del Silvio, Boffo scrisse: «Sia il presidente cardinal Bagnasco sia il segretario generale monsignor Crociata hanno colto le occasioni pastorali che si sono presentate per prendere posizione in modo netto sul piano dei contenuti come della prassi. Chiunque è stato raggiunto dai loro interventi ha capito quello che si doveva capire: alla comunità cristiana tocca tenere alto il contenuto della fede, e non cedere a compromessi». Più esplicito di così, un uomo di chiesa, per quanto laico, non può proprio essere. Gli risponde, di lì a pochi giorni, Vittorio Feltri, direttore del «Giornale»: giudica inopportuno l’atteggiamento censorio adottato da Boffo, quindi lo mette alla berlina divulgando riferimenti alla presunta omosessualità dello stesso direttore di «Avvenire», che a suo dire sarebbe stato condannato per molestie sessuali: Boffo avrebbe esercitato pressioni moleste su una donna, per convincerla a lasciare il compagno, di cui lo stesso direttore di «Avvenire» sarebbe stato amante. I documenti sui quali Feltri fondava le sue affermazioni erano una lettera anonima e un certificato del casellario giudiziale di Terni che lo stesso giornalista avrebbe dichiarato provenire da una «personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istitu-

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zionalmente», aggiungendo di non aver «dubitato neppure per un attimo di questa persona perché non si poteva dubitare di lei». Per il momento, però, Feltri gettava fango e non rivelava le proprie fonti. Boffo gridò al «killeraggio giornalistico», parlò di «patacca» riferendosi a quella documentazione addotta dal «Giornale» che certificherebbe il suo passato di molestatore. Il 1° settembre fu reso noto un decreto penale del 2004, nel quale si parlava di Boffo in quanto imputato «del reato di cui all’articolo 660 c.p. perché, effettuando ripetute chiamate sulle sue utenze telefoniche, nel corso delle quali la ingiuriava, anche alludendo ai rapporti sessuali con il suo compagno (condotta di reato per la quale è stata presentata remissione di querela), per petulanza e biasimevoli motivi recava molestia a [omissis]». L’indomani il quotidiano della Cei pubblicò un articolo leggermente ingessato che sottolineava la differenza tra una sentenza di condanna in seguito a un processo e un decreto penale che poteva determinare una pena pecuniaria. Quasi sottigliezze, rispetto alle bombe di Feltri, che lo stesso 2 settembre sostenne alla radio una versione dei fatti che sembrava strappata dalle pagine di Dan Brown: la documentazione da lui pubblicata, rivelò, gli sarebbe giunta dai servizi segreti vaticani. Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, negò che oltretevere esistesse un simile apparato, e accusò Feltri di voler «fomentare il caos». Il 3 settembre Dino Boffo rassegnò le dimissioni da direttore di «Avvenire», della piattaforma satellitare cattolica Sat2000 e del network radiofonico Radio inBlu: l’informazione cattolica nel nostro paese era stata decapitata da una «velina» anonima, e al cardinal Bagnasco non rimase che esprimere «rammarico, profonda gratitudine e stima» nei confronti di Boffo. Se solo l’80% degli italiani non avesse avuto come fonte pri-

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maria d’informazioni la televisione, si sarebbe reso conto di essere di fronte a un gravissimo e indegno attacco personale architettato per zittire una voce antigovernativa. Minzolini, tuttavia, non ritenne coerenti ai propri standard di «notiziabilità» le voci, fattesi indiscrezioni e infine articoli firmati, che facevano risalire all’ispirazione di Giovanni Maria Vian dell’«Osservatore romano» la «velina» fatale alla carriera di Boffo. Molti – ignorando colpevolmente la grande storia del giornalismo italiano – consideravano Vittorio Feltri sbocciato sotto un cavolo nel giardino di Arcore. Invece si era fatto le ossa fra «L’Eco di Bergamo», «La Notte» e «Il Corriere d’Informazione»; nel 1977 approdò a un «Corriere della Sera» in pieno fermento, sospeso fra l’impostazione rivoluzionaria di Piero Ottone e la normalizzazione guidata dalla longa manus della P2, che avrebbe condotto alla più grave crisi mai affrontata in via Solferino; Feltri sopravvisse ad ogni scossone come un campione di rodeo, e rimase al «Corriere» dodici anni. Sul finire della Prima Repubblica, l’eminente firma ottenne i primi incarichi da direttore: prima all’«Europeo», quindi all’«Indipendente», un giovane quotidiano bisognoso di «un’iniezione di merda» (parole dell’editore) per sopravvivere sul mercato. Era il 1992, infuriava la burrasca di Tangentopoli, e Feltri cavalcò la protesta con editoriali feroci contro corrotti e corruttori. Memorabile fu il suo elogio del pm Di Pietro in occasione del primo avviso di garanzia recapitato a Craxi: «Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi... Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l’appesantito

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Bettino è campione suonato)... Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria. Craxi ha commesso l’errore... di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti... È una menzogna, onorevole». Il successo fu tale che l’«Indipendente» superò le centomila copie quotidiane, e a Feltri s’interessò direttamente il Paolino, fratello minore del Silvio. Il vecchio Montanelli, infatti, occupava con sempre meno convinzione il ruolo di nocchiero del «Giornale», proprietà della famiglia Berlusconi sin dal 1987; la sua figura super partes nella stagione di Mani pulite e la pervicace indipendenza dalla politica avevano giovato alla reputazione personale del grande Indro, ma non alle vendite del quotidiano. Il Paolino non era contento neanche un po’, ma chi era lui per spiegare a Indro Montanelli come doveva fare il suo «Giornale»? La rottura insanabile fra direzione ed editore arrivò con la nascita di Forza Italia e la visita dello stesso Silvio in redazione per dettare la linea nuova: appoggio incondizionato alla formazione politica germinata dalla Fininvest. Montanelli, disgustato, decise di andarsene seguito dai suoi vicedirettori e decine di giornalisti: fra i papabili alla successione, apparve ideale la figura del bravo Feltri. Quello s’indignò: «M’incazzo all’idea che io, proprio io, sembro voler fare la forca a Montanelli. Io qui a l’‘Indipendente’ mi diverto, guadagno copie, faccio il padrone e il politico. Mi spiegate perché devo fare certe cazzate? A carico di Montanelli, poi...». Forse qualcuno gli spiegò perché doveva farle, certe cazzate: due mesi dopo Feltri era direttore del «Giornale». Rimase in sella circa tre anni, validamente supportato dal suo vice Maurizio, finché nel ’97 se ne uscì con un articolo relativo

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a un presunto tesoro occultato dal suo vecchio idolo, il dottor Di Pietro: poiché non era specificato che si trattava di una storia di fantascienza, la polemica che ne seguì valse a Feltri le inevitabili dimissioni. Per qualche tempo il grande giornalista liberal-conservatore resse i destini del «Quotidiano Nazionale», la testata del gruppo Monti-Riffeser che comprende «Il Resto del Carlino», «La Nazione» e «Il Giorno», nomi carichi di una storia secolare che non si addicevano sino in fondo a uno spirito libero come lui: nel 2000 trovò fondi e fiducia per varare l’avventura pionieristica di «Libero», un quotidiano così nuovo nella formula da apparire la versione filogovernativa dello sfrenato «Vernacoliere» di Livorno. L’autorevolezza non era il suo forte, ma restano indimenticabili i contributi di personaggi ambigui come il Luciano di Calciopoli e Renato Farina, l’editorialista a libro paga dei servizi segreti; notevoli anche le inclinazioni degli illustratori promossi in prima pagina, ben riassunte da un disegno di Prodi nudo a quattro zampe, pronto a farsi sodomizzare da un tappo di champagne con le fattezze del Silvio. Ormai, pur di vendere una copia in più, sui giornali si potevano pubblicare anche i disegnini da scuole medie e i temini raffazzonati, purché pertinenti alla tesi, che era sempre quella: il Silvio ha ragione, e i suoi avversari sono degni di disprezzo. Lo stile giornalistico di Feltri, con le sue apparenti contraddizioni, arrivava da lontano, come l’idea che in Italia ci siano cittadini intoccabili, capaci di restare in sella anche quando cambia il cavallo. Il suo amico Farina era stato radiato dall’Ordine dei giornalisti per la sua doppia vita come «agente Betulla», eppure continuava a scrivere. L’altro amico, Luciano, era stato condannato a starsene lontano dalle vicende calcistiche per un certo numero di anni – pu-

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re il suo fantasma continuava ad aleggiare sulla serie A, tanto che nel luglio 2009, a Bologna, manifestammo contro la proprietà del club rossoblu che lo definiva «un amico». Quanto al Vittorio, nel mese di agosto fu richiamato dopo dodici anni come direttore del «Giornale». La credibilità che caratterizzava la sua intera attività professionale venne sintetizzata da Alessandro Gilioli, sull’«Espresso» del 2 settembre. Il titolo della breve monografia? Feltri e una mandria di bufale. Ricostruiva Gilioli: La prima patacca accertata è del 1990, ai tempi in cui Vittorio Feltri dirige «L’Europeo»: un’intervista sul rapimento Moro a tale Davide, «carabiniere infiltrato nelle Br» che avrebbe fatto irruzione nel covo di via Montenevoso. È un racconto «esplosivo» su presunti memoriali e audio di Moro dalla prigionia, con tanto di dettagli erotici sui brigatisti Franco Bonisoli e Nadia Mantovani sorpresi nudi a letto. Peccato che sia tutto falso, dalla prima all’ultima riga, e il «Davide» in questione non esista neppure. Nasce così, quasi vent’anni fa, il fenomeno Feltri: un misto di bufale (come quella su Alceste Campanile «assassinato da Lotta Continua», mentre è stato ucciso da Avanguardia nazionale), rivalutazioni del fascismo («Peccato che a scuola si continui a studiare la Resistenza») e linguaggio da bar (vale per tutti il titolo sul calcio negli Usa: «Agli uomini piace, alle donne no, ma i negri non lo sopportano»).

Con queste credenziali era giunto nel ’94 al «Giornale», abbandonato da Montanelli e dai suoi. «Qui Feltri si fa riconoscere subito per i titoli farlocchi tra cui un mitico ‘La lebbra sbarca in Sicilia, contagiati a Messina quattro italiani’ (vero niente). Notevole anche ‘Berlusconi vende la Fininvest’, così come la patacca sui miliardi di Milosevic ‘trasportati in sacchi di juta dalla Serbia all’Italia’». Gilioli ricostruisce gli anni allegri e sfrenati alla guida di «Li-

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bero», e mentre scrive Feltri è appena tornato, con la serietà che gli compete, alla guida del quotidiano del Paolino e del Silvio: Richiamato in agosto al «Giornale», Feltri parte subito con la campagna più desiderata dal suo editore, puntando a tre obiettivi: intimidire i giornalisti non allineati (occhio che se critichi il premier ma poi paghi la colf in nero o non versi gli alimenti all’ex moglie, io lo scrivo in prima pagina); livellare tutti nel fango per provare che Berlusconi non è peggiore di chi lo attacca, in base al «così fan tutti» autoassolutorio; far fuori quanti nella Chiesa osano criticare il premier. Così in poche settimane «il Giornale» diventa una fabbrica di linciaggi in serie: da Eugenio Scalfari a Enrico Mentana, da Gustavo Zagrebelsky a Concita De Gregorio, da Dino Boffo a Ezio Mauro, fino a Ted Kennedy e Gianni Agnelli (a Feltri infatti piace sparare anche sui morti). A proposito: negli ultimi anni di vita, Indro Montanelli diceva che non riconosceva più il suo «Giornale», gli sembrava «un figlio drogato». Adesso pare entrato in un’overdose senza ritorno.

Forse eccitato da questa lusinghiera descrizione, Feltri mise subito in chiaro chi sarebbe stato il prossimo bersaglio dei suoi attacchi. Da parte degli ex di Forza Italia, della Lega e persino di alcuni reduci di An, la condotta di Gianfranco Fini appariva troppo morbida nei confronti della Sinistra, come se un presidente della Camera dovesse invece mostrarsi per contratto uomo di parte, disposto a calpestare le prerogative e l’onorabilità dell’opposizione parlamentare. I legami con la tradizione democratica della Repubblica, per quanto ricordati da un ex leader del Fronte della Gioventù, non giungevano più ai fans del Silvio come ammantati di autorevolezza, ma suonavano come sgradevoli concessioni al nemico: perché mai obiettare sulla condotta del governo nel caso di Eluana Englaro? E come passava per la bella testa pettinata del Gianfranco l’ipotesi di concedere il voto agli immigrati?

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Per uno strano gioco di prospettive storiche, l’ex fascista Gianfranco sembrava molto più democratico dell’ex socialista Silvio. Dal suo privilegiato osservatorio se n’era accorto anche il puntuale Feltri, che non esitò a correre in aiuto del Capo: il 7 settembre, sul «Giornale», accusò il presidente della Camera di avere cambiato più volte posizione, e lo invitò formalmente a «tornare a destra». Alle rimostranze di Fini, l’uomo della lebbra in Sicilia rispose ventilando l’esistenza di un esplosivo dossier a carico di esponenti dell’ex Alleanza Nazionale. Il riferimento a uno scandalo a luci rosse precedentemente rivelato da «Panorama» parve la fumosa base sulla quale si fondavano le accuse; l’estraneità del presidente della Camera sembrava assodata, eppure la memoria dei lettori del «Giornale» tornò al 2006, quando era emerso che Salvatore Sottile, portavoce di An, aveva avuto incontri con attrici e soubrette negli uffici di Palazzo Chigi e della Farnesina. Qualcosa, però, non stava funzionando per il verso giusto: se ai tempi di Vallettopoli Fini si era trovato in grave imbarazzo, adesso replicava sdegnato che ci si trovava di fronte a «un attacco intimidatorio di inaudita violenza», e querelò Feltri. Il Silvio sconfessò il suo fidato direttore, ma questo non bastò a placare l’ira funesta del felsineo Gianfranco. Il 16 settembre spiegò al «Corriere»: «Non ci può essere il mio nome in quelle carte processuali. Se qualcuno lo tirerà fuori, avrà veicolato una polpetta avvelenata». E perché nessuno avesse dubbi su quanto stava accadendo, aggiunse: «È il metodo scelto da Feltri che voglio combattere, e per questo voglio discuterne in tribunale. È inaccettabile che si tenti di estorcere una posizione o addirittura il consenso politico minacciando rivelazioni imbarazzanti». Ormai gli scrivani del Silvio gettavano il fango riservato agli

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oppositori del leader anche addosso ai suoi alleati più prestigiosi, non appena questi deviavano dalla linea di appoggio incondizionato ai suoi voleri. Il solco che separava gli ex numero uno di Forza Italia e Alleanza Nazionale, ormai avvinti in una sola lista elettorale, minacciava di compromettere la più ovvia delle linee di successione del centrodestra: ci si domandava cosa sarebbe stato del Popolo della Libertà, dal momento che quei due sembravano avere perduto ogni stima reciproca. Fini avrebbe continuato tenacemente per la propria strada? Se l’avesse fatto, al Silvio sarebbe toccato scegliere in quattro e quattr’otto un delfino. Chissà se, durante le ultime vacanze in Sardegna, ne aveva conosciuti di adatti alla bisogna.

L’AUTUNNO DEL NOSTRO SCONTENTO La prima quindicina di ottobre fu terrificante per la leadership del Silvio. Il giorno 3, con sentenza del giudice Raimondo Mesiano, si conclude la causa civile legata alla «guerra di Segrate»: il colossale danno patrimoniale «per perdita di chance» che la Fininvest dovrà risarcire alla Cir di Carlo De Benedetti ammonta a circa 750 milioni di euro. Una mazzata, seguita a ruota da una seconda: il 7 ottobre il lodo Alfano, che prefigura la sospensione di ogni tipo di procedimento penale a carico del presidente del Consiglio per tutta la durata del suo mandato, è dichiarato incostituzionale. Il Silvio accusa la corte di essere «di Sinistra», i suoi accoliti interpretano la sentenza come un affronto al premier e alla democrazia italiana. Bossi ricorda che non si può sfidare l’ira dei popoli: «E il popolo l’abbiamo, sono i vecchi Galli» (replica

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Donadi dell’Idv: «Qualcuno spieghi al Senatùr che Asterix e Obelix non esistono»). Certo le armi più temibili del Silvio non erano le pozioni magiche dei druidi Panoramix, Liberix e Giornalix, ma le televisioni: il 15 ottobre, nell’ambito del contenitore Mattino 5, va in onda un servizio dedicato al giudice Mesiano, ripreso a sua insaputa davanti a una bottega di barbiere. Se ne stigmatizza, fra il serio e il faceto, la cromìa dei calzini e la passione per le sigarette, ma la trasmissione risuona inevitabilmente minacciosa: chi ostacola il Silvio dev’essere pronto ad apparire in televisione con le mani nel sacco, e se non c’è nessun sacco, basta farlo pedinare abbastanza a lungo da sorprenderlo con le dita nel naso. Era l’ultimo stadio della delegittimazione dell’avversario: dalla scanzonata consegna dei Tapiri d’oro si era giunti al minaccioso pedinamento travestito da ridicolizzazione in stile Paperissima o Scherzi a parte. Se una volta andare in televisione era il desiderio di tanti, adesso insistevano solo aspiranti veline di entrambi i sessi: gli altri cominciavano ad avere paura. L’espressione «finire in televisione», un tempo pronunciata fra rosee speranze di successi a venire, cominciò a suonare sinistra come il temuto «finire in prima pagina». Le reazioni alla gogna mediatica di Mesiano furono però durissime, e ancora una volta gli emissari del Silvio dovettero schiaffeggiarsi in pubblico per fare ammenda dell’ennesima lapidazione: il direttore di Videonews Claudio Brachino, già vincitore dei premi Dono dell’umanità e San Siro Gentleman, in un successivo servizio rivolse le proprie scuse al giudice Mesiano, senza per questo evitare un provvedimento disciplinare dall’Ordine dei giornalisti lombardo per «essersi reso responsabile di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali». Poiché il clima di panzane seriali non sembrava destinato a interrompersi, ci si domandava come i pretoriani del Silvio

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avrebbero movimentato gli ultimi giorni che ci separavano dalle attese elezioni primarie del Partito democratico. Nei bar si scommetteva su un direttore di giornale, e su quale dossier inesistente avrebbe minacciato di pubblicare stavolta: fantasiosi trascorsi giovanili di Franceschini tra i mercenari del Congo? Implausibili legami tra Bersani e la Spectre? Che tutto si riducesse alle dichiarazioni di Maroni contro Facebook, reo di ospitare fra le sue centinaia di migliaia di pagine un gruppo intitolato «Uccidiamo Berlusconi»? Secondo il ministro dell’Interno «non esiste un paese al mondo dove qualcuno può scrivere su un sito uccidiamo il premier»: peccato non sia affatto così, ché la caratteristica della Rete è proprio l’assenza di filtri editoriali a monte. Il rischio previsto dal più saggio fra i leghisti è «che poi a qualcuno venga in mente di metterle in atto»: parole quasi profetiche, contando quel che sarebbe accaduto in piazza Duomo di lì a poche settimane. Quella contro Facebook, però, era solo una fiammata (o un presagio): l’incendio vero doveva divampare l’indomani 23 ottobre, presso gli uffici della Regione Lazio. Ad appena quarantott’ore dalle primarie «Repubblica» uscì con un titolo choc: Marrazzo ricattato per un video hard. Il Governatore: è una bufala, non mollo. Spiega l’occhiello: «Arrestati 4 carabinieri. Avrebbero ricevuto assegni per 20/30 mila euro dal presidente. Le immagini lo ritrarrebbero in compagnia di una trans in atteggiamenti intimi». Scorrendo l’articolo, gli sbigottiti lettori appresero d’un sol colpo che alcuni appartenenti all’Arma avrebbero fatto irruzione in una casa – più tardi collocata nella fatidica via Gradoli – sorprendendo Marrazzo con una trans. Si parlava di un ricatto da ottantamila euro ai danni del governatore, che nulla avrebbe denunciato alle autorità, e poche righe più in basso: «Verifi-

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che si stanno svolgendo anche sul modesto quantitativo di sostanza stupefacente che sarebbe stato trovato durante il blitz dei carabinieri. A questo proposito, nel filmato si vedrebbe il tesserino di Marrazzo vicino alla polvere bianca, ma gli inquirenti sembrano ritenere che si tratti di una messa in scena per incastrare il presidente del Lazio». Nello stesso articolo, oltre a sottolineare la pericolosità delle «mele marce» dell’Arma, si raccoglieva la prima opinione di Marrazzo sulla questione: «Mi vogliono colpire alla vigilia delle elezioni. Sono amareggiato e sconcertato per il tentativo di infangare l’uomo per colpire il presidente. Quel filmato, se davvero esiste, è un falso. È stato sventato un tentativo di estorsione basato su una bufala. Non ho mai pagato, nego di aver mai versato soldi. Bisogna vedere se l’assegno che dimostrerebbe il pagamento l’ho firmato io. Occorrerà attendere l’esito delle perizie calligrafiche». Poi ribadisce: «Non ero a conoscenza di questa vicenda, quanto sta accadendo non risponde a verità. Quanto è successo è un atto di una gravità inaudita, e dimostra che nel nostro paese la lotta politica ha raggiunto livelli di barbarie intollerabili. Ma io non mi dimetto e vado avanti». In capo a ventiquattr’ore, a fronte di attacchi personali violentissimi, Marrazzo ammise il fatto e lo definì «una debolezza della mia vita privata», manifestando l’intenzione di autosospendersi da presidente della Regione Lazio; l’indomani, lo stesso giorno delle primarie, il paese si confrontò con le rivelazioni della trans Natalie, che parlava di sé come della «fidanzata» di Marrazzo. Secondo il «Corriere», il politico si sarebbe recato più volte in via Gradoli sull’auto di servizio, scortato da carabinieri sino a un tiro di voce dal luogo dei suoi convegni piccanti; perdipiù si affacciava sulla scena una seconda trans, nota come Brenda: «Non conosco Marrazzo» aveva detto ai giornalisti. Smentita però dal suo fidanzato: «No, lo conosce bene. Ma Brenda non c’entra niente col video: è stata

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messa in mezzo dalle altre perché era l’unica che non rubava, e per questo veniva ricompensata da Marrazzo, che pagava di più». L’ex giornalista si dimise da ogni incarico due giorni più tardi, prostrato e debilitato come un naufrago: «Ora voglio solo sparire, e sparire a lungo». Lo si diceva intenzionato a ritirarsi nell’abbazia di Montecassino, ma il «Corriere» scrisse che ci aveva ripensato per timore dei cronisti, e che nessun monastero lo voleva accogliere. Anche i cinici che raccontavano barzellette su di lui dovettero ammettere la tempra di sua moglie Roberta Serdoz, che aveva ricevuto la notizia del caso da una telefonata in diretta, pochi minuti prima di andare in onda con la consueta rassegna stampa nello studio di Linea notte. Lo stesso giorno in cui Piero Marrazzo era dato per ospite sgradito persino nei monasteri, si registrava l’applauso caloroso tributato a Roberta Serdoz da una platea di donne, in occasione di un convegno sul valore femminile nelle aziende organizzato presso la sede della Provincia di Roma. «Questo convegno ci ha insegnato come andare avanti e non buttarci giù», commentò con stoico understatement, prima di opporre un sorridente «no» alle domande dei cronisti. La vicenda di una famiglia intera finita nel ciclone poteva suscitare scherno o pietà, a seconda dei temperamenti, ma la forza d’animo di una donna, moglie e madre di famiglia, non poteva che lasciare ammirati. Il losco affaire Marrazzo e il nono trionfo di Valentino Rossi nel campionato del mondo di motociclismo non bastavano tuttavia a oscurare la verità: oltre tre milioni di elettori avevano votato per le primarie generali del Partito democratico, e il rocker stempiato Pierluigi Bersani aveva ottenuto la maggioranza assoluta, staccando il vecchio scout Franceschini e l’outsider Ignazio Marino.

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Sarebbe partito lancia in resta, il Pierluigi, con in testa le note di Siamo solo noi, o sarebbe stato contagiato dalla misteriosa prudenza che, da parecchi anni, sembrava caratterizzare la linea delle forze antisilviesche? Dentro di me udivo clangore e strepito di chitarre elettriche, vedevo Vasco in controluce che ruotava le braccia a mulino, e mi raggiungevano cori di centomila e più voci... Che fosse la volta buona? Il 2 novembre la trans Brenda, ritenuta un testimone chiave nel caso Marrazzo, venne ascoltata in procura a Roma, nell’ambito dell’inchiesta sul presunto ricatto ai danni dell’ex presidente della Regione Lazio. L’audizione doveva chiarire, tra l’altro, la questione dell’esistenza di un secondo video in cui apparirebbe Marrazzo e al quale avevano fatto cenno alcuni transessuali. Pochi giorni più tardi venne diffuso un clamoroso «fuorionda» del presidente della Camera: il pettinato Gianfranco, durante un convegno a Pescara, ignorando che i microfoni erano aperti, aveva confidato al procuratore Trifuoggi, sua vecchia conoscenza personale, gravi perplessità sulla tenuta del Silvio. L’incertezza principale appariva legata alle dichiarazioni del pentito di mafia Gaspare Spatuzza e alle loro eventuali conseguenze politiche: «Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza...» spiegava Fini al magistrato. «Speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da... Perché è una bomba atomica.» Gli rispondeva il procuratore: «Assolutamente sì... Non ci si può permettere un errore neanche minimo». «Sì», replicava Fini, «perché non sarebbe solo un errore giudiziario, è una tale bomba che... Lei lo saprà... Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli Interni, e di... Uno è vicepresidente del Csm e l’altro è il presidente del Consiglio!».

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Dopo un paio di scambi puramente rituali, Fini si lasciò andare a un giudizio impietoso sul senso dello Stato coltivato dal Silvio: «No ma lui, l’uomo, confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di... Qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo... Magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento... Siccome è eletto dal popolo...». Replicava Trifuoggi: «È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano». E Fini, più preoccupato che divertito: «Ma io gliel’ho detto... Confonde la leadership con la monarchia assoluta.... Poi in privato gli ho detto... Ricordati che gli hanno tagliato la testa a... Quindi statte quieto». Inquietissimi, invece, apparivano i marciapiedi di Roma. L’8 novembre la trans Brenda fu aggredita e rapinata per strada da un gruppo di presunti sbandati romeni; le venne sottratto uno dei telefoni cellulari e, come si apprenderà più avanti, una copia delle chiavi del monolocale che occupava in via Due Ponti. Il 10 novembre, in seguito alla scoperta di presunti collusioni tra camorra e politica, venne chiesta alla Camera dei deputati l’autorizzazione a procedere nei confronti del coordinatore del Pdl in Campania, Nicola Cosentino, suscitando una levata di scudi nelle file governative. La mattina del 20 novembre Brenda venne trovata senza vita all’interno del proprio monolocale. «Ora temo per l’incolumità di Piero Marrazzo» dichiarò all’Ansa il suo avvocato, Luca Petrucci. La vicenda che coinvolgeva l’ex presidente della Regione Lazio «sta prendendo una svolta tragica e inquietante», e il legale si auspicava tanto che venisse mantenuta la scorta a Marrazzo, quanto che si estendesse la protezione a Natalie. «Forse le indagini stanno scoper-

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chiando un sistema simile a quello della Uno Bianca, dove si mettevano tra l’altro a tacere i testimoni» denunciò Petrucci. Che ci fosse del torbido doveva ammetterlo anche un razionalista cartesiano come Pierluigi Battista: che dire della morte del pusher Gianguarino Cafasso, verificatasi due mesi prima e classificata frettolosamente come overdose? Avrebbe potuto raccontare ben altre verità, se fossero state condotte sin dall’inizio indagini adeguate; invece i giornali scrissero che era stato stroncato da una dose troppo pura, venduta da un misterioso nordafricano; solo nel marzo del 2010 sarebbe stato indagato per il delitto uno dei carabinieri coinvolti. Nel frattempo, però, la notizia scivolò via dai palinsesti e dalle pagine dei giornali. Su via Gradoli e sui loschi legami tra sfruttatori, sfruttati e servitori infedeli dello Stato tornarono la penombra e la tranquillità adatte ai quartieri residenziali della capitale. Il mese di dicembre si aprì con un notevole affondo alla laicità della Scienza: apprendemmo che Roberto de Mattei, numero due del Cnr, era un cattolico antidarwiniano. Pochi mesi prima aveva organizzato un convegno di stampo creazionista, i cui atti erano stati pubblicati sotto il titolo Evoluzionismo. Il tramonto di un’ipotesi. Inevitabile la polemica con Luciano Maiani, presidente dello stesso Consiglio nazionale delle ricerche, ordinario di Fisica teorica ed ex direttore del Cern di Ginevra: gli pareva bizzarro, e non solo a lui, che le posizioni di un alto esponente della scienza nazionale coincidessero con quelle del Catechismo spiegato ai fanciulli. L’imminenza del Natale favorì un’atmosfera di apparente distensione persino fra il bistrattato Dino Boffo e il suo persecutore: dopo le feste, come vedremo, si sarebbero incontrati di persona.

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Il 1° dicembre vennero diffuse le registrazioni del fuorionda di Fini con Trifuoggi, e l’indomani Pierluigi Battista ci ricascò. Stimolato da un saggio di Errico Buonanno, Sarà vero, che ripercorreva le menzogne di successo attraverso la storia, Battista allestì un processo dagli esiti scontati al suo più grande nemico, il complottismo. «I maniaci del complotto non si danno mai per vinti: perfino la smentita delle loro teorie funziona come attestato di autenticità» ricordava, felice di portare i lumi della razionalità in una giungla di pregiudizi e disinformazione. «Per i paranoici della cospirazione universale i fatti fanno parte della congiura. Per il complottista tutto fa parte del complotto: anche l’evidente verità che lo nega. Le pagine di Errico Buonanno [...] non sono solo una straordinaria, avvincente, sarcastica carrellata delle più sconvolgenti imposture che hanno nutrito l’insaziabile immaginazione storica dell’umanità. Sono anche una meticolosa indagine sulla capacità degli uomini di credere alle loro fandonie, di immedesimarsi nelle trame occulte che lavorano instancabili sotto la superficie della storia». Come si intuisce, si era di fronte alla sfida finale fra luce e ombra, fra le verità acclarate del meticoloso giornalista Battista e il regno dell’irrazionalità propagandato da programmi televisivi a sfondo magico-mistico, come quelli di Roberto Giacobbo. Proseguiva Battista: «I complottisti a volte fanno ridere, a volte piangere. Fanno ridere quando la loro ossessione, la loro certezza metafisica, come scrive Buonanno, che esistano dei ‘padroni segreti del mondo che tirano le fila di tutte le cose’ prende una piega comico-maniacale». Il buon Battista, certo mosso dalle migliori intenzioni, rideva di quanti s’infatuano per i Templari, la ricerca del Graal, quella degli extraterrestri, ma finiva – nello spazio d’un paragrafo – coll’accomunarli ai «complottisti» della nostra recente storia patria: «Quante fantastiche invenzioni risarcitorie nella fissazione per

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gli ‘spezzoni dei servizi deviati’ che infiorano il nostro lessico politico-giornalistico, o per ‘mandanti occulti’ o ‘a volto coperto’» scriveva beatamente l’editorialista del più autorevole quotidiano d’Italia, un paese contrassegnato nel dopoguerra dalla più feroce politica della tensione, da stragi senza mandanti e troppe azioni terroristiche dove l’unica cosa inconfutabile appare la vicinanza fra estremisti politici, criminali e uomini dei Servizi. Prendersela coi complotti in Italia è come irritarsi per la libertà di parola negli Stati Uniti o per le patate fritte in Belgio; i più, chi per amicizia nei confronti di Battista e chi per rispetto verso il «Corriere», fecero finta di non aver notato l’inopportuno sfondone. Nelle stesse ore, con buona pace di Battista, tornava alla ribalta uno dei più scottanti misteri italiani, quello relativo alla presunta trattativa fra Stato e mafia avviata nei primi anni Novanta. Secondo le dichiarazioni rilasciate da Massimo Ciancimino (figlio dello scomparso sindaco di Palermo Vito Ciancimino, figura chiave dell’intera vicenda), la presunta trattativa sarebbe proseguita almeno fino al 2000. Il 4 dicembre la nuova deposizione del pentito Spatuzza lascia intravedere scenari agghiaccianti: Spatuzza suggerisce l’esistenza di una regia politica dietro la strage di via dei Georgofili e gli altri attentati del 1993 – compreso uno allo stadio Olimpico, poi fallito, che avrebbe dovuto risolversi in un massacro. Spatuzza sostenne inoltre la presenza di antichi e saldi legami economici fra i boss Filippo e Giuseppe Graviano e il Silvio, indicandolo con Marcello Dell’Utri come mandante delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Il Silvio dietro le morti di Falcone e Borsellino? La semplice ipotesi metteva i brividi. Secondo l’interessato, la deposizione di Spatuzza era ridicola e avrebbe fatto parte dell’ennesima macchinazione ai suoi danni.

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La cittadinanza rimase col fiato sospeso in vista dell’11 dicembre, data prevista per la deposizione dei fratelli Graviano. Il gran giorno, Filippo Graviano smentì in aula Spatuzza, pur mantenendo un rigoroso galateo criminale nei suoi confronti. Il fratello Giuseppe decise invece di non rispondere alle domande dell’accusa lamentando problemi di salute dovuti al 41 bis, quel regime di carcere duro che costituisce oggetto ricorrente di lamentela da parte dei «bravi ragazzi». Nessuno dei due fratelli, poi, commentò la dichiarazione di Spatuzza su un incontro del 1994, in cui si sarebbe detto che Cosa Nostra aveva «il paese in mano» grazie all’imminente avvento del Silvio. In molti giudicarono i loro atteggiamenti come una sorta di rituale avvertimento a proposito di eventuali rivelazioni future. Che la Seconda Repubblica fosse appesa a un cambiamento d’umore di quei signori? Il 13 dicembre, il corrispondente di «Repubblica» Enrico Franceschini riportò la notizia che, nel corso di un recente summit a Bruxelles, il Silvio avrebbe disegnato con grande fervore bozzetti di biancheria intima femminile, poi passati agli altri leader europei perché potessero valutarli. «Berlusconi, imbarazzo a Bruxelles. Al vertice disegna mutande da donna.» Secondo quanto rivelato dal «Mail on Sunday», i leader dell’Unione Europea stavano discutendo le questioni relative al cambiamento climatico, quando hanno notato che il Silvio era intento a vergare qualcosa su dei fogli di carta. In un primo momento, secondo il giornale britannico, ritennero il presidente del Consiglio italiano impegnato a fare calcoli per fornire il suo contributo al dibattito, per poi avvedersi che stava invece disegnando mutandine femminili. Secondo la fonte del «Mail» gli schizzi, fatti passare di mano

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in mano agli altri leader, includevano biancheria intima femminile usata da «donne egiziane, mutandoni dell’era vittoriana britannica, slip di seta di stile francese, tanga e g-string», sotto il titolo Mutandine da donna attraverso i secoli. Per meglio visualizzare la scena, è bene ricordare che fra i presenti vi erano Gordon Brown, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e la baronessa britannica Cathy Ashton, nuovo ministro degli Esteri della Ue. «Nessuno poteva crederci» proseguiva il testimone. «Lui stava scarabocchiando rapidamente e poi ha messo in giro i suoi disegnini di mutandine femminili. Alcuni erano divertiti. Altri no.» Non ci fu il tempo di domandarsi se anche il «Mail on Sunday» facesse parte del cosiddetto «partito dell’odio», questo sì una costruzione mediatica da regime: nel tardo pomeriggio di quello stesso 13 dicembre, il portavoce dell’Amore tenne un comizio nel cuore della sua Milano, al termine del quale venne aggredito da uno squilibrato. L’uomo gli scagliò in volto da distanza ravvicinata una riproduzione in scala del Duomo, ricca di cuspidi e superfici convesse come l’originale. Come tutti ricordano, il Silvio ne rimase offeso in maniera spettacolare e dolorosa, ma non troppo grave: dopo essere stato spinto in auto, uscì sulle proprie gambe a tranquillizzare la folla, ingenerando il grave sospetto di avere una scorta poco reattiva. Ad ogni modo l’attentatore era stato catturato: si chiamava Tartaglia, come il celebre matematico morto nel 1557 – esattamente il 13 dicembre, lo stesso giorno dell’attentato al Silvio, ma non si sottolineò volentieri la coincidenza, temendo di passare per matti agli occhi di Pierluigi Battista. In quei giorni ogni patriota che frequentasse i bar si trasformò in esperto di sicurezza, e tutti erano d’accordo nel confermare che il Silvio non sarebbe dovuto rimanere sul luogo dell’aggressione, ma filarsela con tutto il corteo di auto blu.

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Benché solo i peggiori mestatori al servizio delle potenze del Male potessero osare credere che si era trattata di una messinscena – e le patrie gazzette ben si guardarono dal supporlo – sul web giravano le storie più strampalate. Si evidenziavano ambiguità, incongruenze, piccoli misteri. Quelle partigiane collezioni d’indizi erano la prova inconfutabile che Maroni e Battista ci avevano visto giusto: gli italiani non si sarebbero mai saziati di complotti veri o presunti, ché nessuna rete sarebbe bastata a contenerli tutti. Nel frattempo la popolarità del Silvio, scesa sotto il 50% già all’inizio dell’estate, riprese vigore per effetto della spontanea solidarietà degli italiani, conseguenza quasi inevitabile del folle gesto di cui era stato vittima. Ricoverato in ospedale, dovette accorgersi dell’affetto che lo circondava: decine di migliaia di messaggi di solidarietà, inviati dai Grandi della Terra come dai semplici cittadini, testimoniarono la vicinanza dell’elettorato italiano, delle istituzioni europee e del pianeta intero nei suoi confronti. Per quanto avesse rischiato di morire o di restare sfigurato, con l’approssimarsi della Notte Santa il leader poteva ben dirsi che non tutto il male viene per nuocere.

L’ITALIA IN LETARGO Il centro dell’Aquila era ancora invaso di macerie, e gli ultimi accampamenti erano stati levati solo a dicembre, ma la televisione sottaceva la protesta degli sfollati per i disagi ai quali si dicevano sottoposti dopo mesi di propaganda sulle new towns, versione international delle mussoliniane «città di fondazione»: guai a criticare la Protezione civile, che aveva svolto ovunque un ottimo lavoro ed era la migliore del mondo. Perché poi il Silvio, ormai apertamente autoritario e molto

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più italiano di me e di voi, avesse vergogna ad impiegare le parole-feticcio del Duce, personalmente mi sfuggiva. Chi gliel’avrebbe potuto impedire, ormai? Se non lo faceva, era perché evidentemente non s’ispirava all’ex giornalista di Predappio, come sostenevano i paranoici di Sinistra: lui ch’era nato direttamente editore, era da ritenersi superiore a qualunque uomo che si fosse guadagnato da vivere scrivendo, compreso quell’intraprendente scavezzacollo del Duce degli italiani. Per non dispiacere lui e il dottor Bertolaso, andava trattata coi guanti anche la situazione di Giampilieri, nel Messinese, dove una frana dell’ultimo ottobre aveva provocato trentacinque morti, e gli sfollati aspettavano ancora di sapere dove sarebbero finiti a vivere: grazie alle rapidissime procedure d’urgenza garantite al dottor Bertolaso e ai suoi fidati collaboratori, presto si sarebbe risolta ogni situazione scabrosa, e il luminoso universo dei prefabbricati antisismici avrebbe preso il posto del vecchio mondo abbarbicato alla roccia malferma. Quando, il 12 gennaio 2010, uno spaventoso terremoto devastò la fiabesca e poverissima isola di Haiti, il dottor Guido indossò il maglioncino da crisi e drizzò le antenne: accorruomo! C’era da prestare aiuto qualificato! Gli americani si stavano già muovendo, fatalmente favoriti dalla vicinanza geografica! E noi patrioti si voleva forse essere secondi a qualcuno? No, diamine! Si voleva essere in prima fila con gli aiuti, noialtri irriducibili altruisti, ché avremo anche avuto i nostri difetti, ma il cuore ce l’avevamo sempre grande come una casa. Lo dicevano sempre anche a Telethon, quindi doveva essere vero. Piombammo su Haiti come una speranza inattesa, ma la situazione degli aiuti coordinati dagli americani apparve a Bertolaso poco più che amatoriale: se davano retta a lui, quei dilettanti democratici del Barack e dell’Hillary Clinton, gliela organizzava

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in quattro e quattr’otto, la Civil Protection a stelle e strisce. Il Barack non ritenne opportuno commentare; la Hillary, invece, replicò stizzita di fronte al ministro degli Esteri Frattini: «Queste polemiche mi sembrano come quelle che si fanno il lunedì mattina sulle partite» irrise Bertolaso, e aggiunse che «ovviamente la logistica di Haiti è diversa da quella dell’Aquila». Proprio dell’Aquila e della sua ricostruzione si parlava in numerose telefonate intercettate per conto della Procura di Firenze: qualche imprenditore, alla notizia delle prime scosse di terremoto, aveva riso nel letto pensando ai buoni affari in arrivo. Il lapidatore lodava il capro espiatorio, e il 2 febbraio del 2010 lo incontrò di persona in un ristorante di Milano, presentandosi all’appuntamento in compagnia del solito Renato Farina. Cosa si fossero detti Boffo, Feltri e l’«agente Betulla» rimase un mistero per il grande pubblico, ma esattamente una settimana più tardi un comunicato ufficiale della segreteria di Stato approvato da papa Benedetto XVI, e ripreso l’indomani dall’«Osservatore romano», risuonò come un grave colpo di cembalo: dal soglio di Pietro si condannavano con forza le accuse giornalistiche di teorie del complotto, di coinvolgimento della Gendarmeria vaticana e di Giovanni Maria Vian, di trasmissione di documenti che avevano causato le dimissioni di Boffo. Si accusavano altresì i media di una «campagna diffamatoria contro la Santa Sede», che coinvolgeva lo stesso pontefice, auspicando l’affermazione «della verità e della giustizia». Lo stesso giorno la Conferenza episcopale italiana diramò una nota di adesione al comunicato della Santa Sede, che i vaticanisti giudicarono particolarmente sobria e priva di entusiasmo. La contrapposizione fra i tradizionalisti della Curia e i modernisti della Cei, benché ufficialmente sedata dall’intervento pontificio, era lontana dal ricomporsi.

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Il 10 febbraio 2010 i lettori dei principali quotidiani appresero che Bertolaso era stato raggiunto da un avviso di garanzia nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti del G8, previsto a La Maddalena e poi spostato all’Aquila; che lo stesso dottor Guido aveva rimesso nelle mani del Consiglio dei ministri la sua nomina a capo della Protezione civile e sottosegretario; da ultimo, che le dimissioni erano state già respinte dal Silvio. Secondo l’accusa Bertolaso, insieme a diversi imprenditori e altri membri della Protezione civile, avrebbe fatto parte di un vasto scenario di corruzione con scambi di favori di svariata natura per «aggiustare» gli appalti. L’attenzione si concentrava su alcuni convegni che il Bertolaso avrebbe avuto al Salaria Sport Village con massaggiatrici in grado di soddisfare il suo impellente bisogno di una «ripassata». Bertolaso si difese strenuamente, ricordando che gli abbisognavano periodiche sedute di massoterapia, eppure ammise la possibilità che l’operato di alcuni dei suoi collaboratori potesse essergli sfuggito: sembrava un po’ poco, contando che i contorni dello scandalo ingigantivano giorno dopo giorno. Scattarono le manette ai polsi di Angelo Balducci, «la massima autorità istituzionale in materia di appalti e di realizzazione di opere per conto dello Stato»; nei guai anche Denis Verdini, uno dei tre coordinatori nazionali del Popolo della Libertà, indagato per concorso in corruzione. «Un imprenditore di Cosa Nostra che arriva a Palazzo Chigi. Un giudice, Giuseppe Tesauro, in società con un funzionario ministeriale e anche imprenditore legato al clan dei Casalesi. Un commercialista mafioso, Pietro Di Miceli, che fa da mediatore con la Provincia di Frosinone per procurare un appalto a Riccardo Fusi, presidente di Btp»: così Paolo Berizzi sintetizzava per «Repubblica» il nuovo, inquietante scenario emerso dal rapporto del Ros dei Carabinieri e allegato all’inchiesta sui grandi appalti della Protezione civile.

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Tirava una bruttissima aria, intorno all’irreprensibile dottor Guido, se persino il cardinal Ruini si disturbò per la prima volta a smentire le antiche voci che lo dicevano zio di Bertolaso. Dagli schermi del Tg1, però, l’audace Minzolini difese il capo della Protezione civile con un editoriale ipergarantista: «Basta con la gogna mediatica», invocò. E ammonì: «Il condannato mediatico, se pure dimostra la sua innocenza davanti a un tribunale, la sua pena la sconta già davanti alla società. Cosa che può accadere anche a Bertolaso». Per certo era accaduto a Dino Boffo. Tutta la canea, secondo il direttore del Tg1, non si verificava per la colpevole indegnità di determinati funzionari che gestivano a loro piacimento il denaro pubblico, ma perché «siamo in campagna elettorale e puntualmente le inchieste giudiziarie sostituiscono la campagna elettorale». Parola di Augusto Minzolini, un altro giornalista che detesta le verità nascoste, le teorie non provate e, da grande divulgatore, vede con sospetto anche le spiegazioni difficili; il quarto potere, anziché esercitarlo come sarebbe sua prerogativa, Minzolini sembra subirlo, e forse è proprio questa la virtù che garantisce le più brillanti carriere giornalistiche nell’Italia smemorata del Silvio. Tacessero i giornali, rigassero dritto i giudici, temessero sciagure i reprobi, e non rompesse troppo i coglioni neppure l’opposizione, ché la lista di architetti vicini al Pd che si erano aggiudicati appalti importanti era in arrivo, o almeno così si ventilava! Parve ovvio, a chi ancora scriveva sui giornali per vocazione, che ci si trovasse di fronte a una nuova, devastante, Tangentopoli. «Voglio rassicurare che alle porte non c’è una nuova Tangentopoli, ma casi isolati che vanno perseguitati e sanzionati» giurava in proposito il Silvio il 21 febbraio. «Ricordate i rifiuti a Na-

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poli e il malgoverno di Prodi? I responsabili di quella pagina sono gli stessi che accusano Bertolaso, a cui si dovrebbe fare un monumento.» Poi si scatenò in un duro attacco per delegittimare il Pd: «Noi abbiamo sempre concesso fiducia ai leader della Sinistra, abbiamo sperato in Veltroni, in Bersani, ma alla prova dei fatti ci hanno tradito: le nostre aspettative erano anche aspettative dei cattolici che militano in quel partito e che ora hanno dovuto prenderne atto, che è un partito sempre più estremista e laicista». E, dopo avere parlato di Walter e Pierluigi come di due figlioli suoi che l’hanno deluso, mise in guardia gli eventuali incerti: «Il Pd è al traino di un partito eversivo come quello di Di Pietro e dei radicali e al superpartito di ‘Repubblica’». Mancando in Parlamento qualcuno disposto a dirsi comunista, il Silvio era ridotto a prendersela coi pannelliani e i giornalisti che lo dispiacevano. Qualcuno avrebbe dovuto dirglielo, che stava cadendo nella sindrome maniacale del complottismo, ma «Pigi» era occupato, e nessun altro trovò il coraggio di aprire gli occhi al paese con un buon editoriale. Bertolaso ebbe agio di difendersi a Porta a porta, e scelse di farlo dall’interno di un hangar, dando modo alle telecamere di Vespa di riprendere il suo lungo monologo davanti ai Canadair della Protezione civile e a uno stuolo di gente in divisa. Mentre tanti tacevano per l’imbarazzo, qualcuno ricordò che nel nostro paese un tentativo di golpe aveva coinvolto persino la Guardia forestale; la voce grave del vecchio Scalfari, quella di Concita De Gregorio e le inchieste del «Fatto Quotidiano» – dalle intercettazioni pubblicate emergevano richieste di Bertolaso che ognuno avrebbe trovato bizzarre, almeno nel campo della massoterapia – sembravano intenzionate a scardinare la rassicurante versione del dottor Guido, ma l’appuntamento più atteso era quello televisivo con il più arguto degli antisilvieschi, il dottor Marco Travaglio. Il 18 febbraio, nel corso del suo editoriale ad Annozero, il

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giornalista «liberale montanelliano» parlò diffusamente degli appalti del G8 e delle frequentazioni di Bertolaso, strappando più d’una risata al pubblico. Il buonumore in studio si spense non appena gli ospiti Maurizio Belpietro e Nicola Porro, rispettivamente direttore di «Libero» e vice del «Giornale», attaccarono di concerto lo stesso Travaglio, rinfacciandogli con insistenza la passata frequentazione con persone poi condannate. Nell’era silviesca della comunicazione non servivano più le lettere anonime o i rapporti confidenziali: erano gli stessi giornalisti filogovernativi, mettendoci la faccia in diretta televisiva, che si adoperavano a intimidire i colleghi vicini all’opposizione, spostando l’attenzione dal dibattito in corso alle eventuali colpe del relatore. La tecnica-Feltri applicata alla televisione dava risultati favolosi: il compassato Travaglio prima ribatté giustamente che lui, a differenza degli inquisiti, non amministrava denaro pubblico, poi però perse le staffe, e minacciò di andarsene dalla trasmissione lasciando Porro e Belpietro a gongolare. Nei giorni successivi, Travaglio inscenò una polemica con lo stesso Santoro sulle pagine dei giornali. Se il buon Marco si aspettava che il suo amico Michele lo difendesse era segno che, nonostante la vena critica, doveva essere un inguaribile ottimista. Una settimana più tardi il clima di Tangentopoli era stato dimenticato. Anche la nuova Mani pulite doveva attendere: l’Italia era in pieno clima sanremese, e l’edizione del Festival era stata ravvivata dall’annuncio shock di Morgan, già cantante dei Bluvertigo e giudice del talent show X-factor. L’artista lombardo aveva infatti sostenuto di combattere la depressione facendo uso di stupefacenti (cocaina secondo certi giornali, crack per altri,

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mentre alcuni fogli li impiegavano in maniera sbarazzina come sinonimi). Giovanardi era quasi svenuto, la canzone di Morgan era stata esclusa dal Festival, e tutte le luci si erano opportunamente puntate su Sanremo, condotto da un’Antonella Clerici indecisa se somigliare a Marilyn oppure al ragionier Fantozzi. Mentre all’Ariston andava in scena la gara, Morgan fu accolto da Annozero, sfiorando il 20% di share e suscitando nuovo, malriposto, sdegno in Giovanardi: in realtà il tema della puntata non era se fosse giusto o sbagliato assumere determinate sostanze, ma se fosse corretto che un artista rivelasse le proprie abitudini «proibite» e poi potesse comunque partecipare a un evento pubblico di notevole importanza come il Festival. «Una tv di Stato ha fatto la propaganda alla droga» tuonò il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «Sembrava una specie di fumeria d’oppio.» A lui, forse, sarà piaciuto di più lo spettacolo dell’Ariston: lì cantò il suo amore per l’Italia anche il giovane Savoia che, nonostante l’inespressività quasi assoluta, sostenne di vedersi bene nei panni del nuovo Fiorello, suscitando il giusto sdegno dell’originale. Visto il clima di restaurazione pre-25 luglio, Arisa si presentò con un motivetto che riecheggiava in maniera adatta le arie del Trio Lescano; alla fine, però, vinse un cantante bravo e sconosciuto, emerso grazie a un talent show. Chi notasse un po’ troppi legami fra il Festival, l’estetica del ventennio e i talent show era libero di covare i propri sospetti in amorevole silenzio, come fossero meravigliosi bulbi di tulipano; chi avesse osato sospettare in pubblico, di qualsiasi cosa, avrebbe potuto trovarsi di fronte i lineamenti gelidi di Belpietro e la più mediterranea facies d’un Nicola Porro, pronto ad accusarlo di essere un emerito cretino. Così i complottisti del partito dell’odio tremavano e taceva-

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no, prefigurandosi il portato accusatorio che un Feltri avrebbe potuto riversare loro addosso nella sua fissità da dolmen, sempre che non si rischiasse – vivaddio – il maschio adombrarsi d’un Mario Giordano. Mancava solo una nuova legge sull’esercizio della libertà di stampa, e poi nessuno avrebbe potuto più scherzare a cuor leggero. La nuova legge sull’esercizio della libertà di stampa fece la sua apparizione nel giro di una settimana scarsa. Il 2 marzo, Carlo Tecce firmava sul «Fatto Quotidiano» un articolo intitolato Fine delle trasmissioni: Mannaia del Cda Rai: tagliati i talk-show politici fino al voto regionale. Campo libero a Minzolini Click. Mauro Masi sospende quattro trasmissioni per un mese: Annozero, Ballarò, Porta a Porta e Ultima parola. Rientrato da una settimana di sole tropicale, il direttore generale ha spento con una delibera del consiglio di amministrazione – approvata con 5 sì (la maggioranza) e 4 no (l’opposizione più Garimberti) – gli spazi di approfondimento del servizio pubblico. La Rai doveva applicare la contestata norma sulla par condicio della Vigilanza che, in sintesi, equipara l’informazione giornalistica alla comunicazione politica: alle tribune elettorali anni ’70, una parola ciascuno, un torto a nessuno. I conduttori potevano lavorare trattando con i bisturi – ovvero senza fare riferimento ai partiti – argomenti di cronaca e di attualità. Ci aveva provato Annozero nelle scorse puntate, prima con l’inchiesta sulla Protezione civile e poi con la droga, i giovani e il cantante Morgan. Ci stava provando Ballarò con un dibattito sul costo della vita. Tutto inutile. Masi ha forzato il regolamento della Vigilanza già di per sé incostituzionale rispetto alla legge sulla par condicio e, sperperando milioni di spettatori e di euro (circa 4 in meno di introiti pubblicitari), impone all’azienda il silenzio sulle notizie. Quelle notizie che saranno esclusiva di Augusto Minzolini, del Tg1

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che ha assolto il corrotto David Mills, nonostante la sentenza di prescrizione della Cassazione. I telespettatori dovranno sorbirsi ore e ore di comizi e dichiarazioni di voto: la Rai sarà un’enorme piazza con tanti palchi al centro e nessun professionista – che sia Michele Santoro o Bruno Vespa – che faccia da moderatore e tenga alta la famigerata audience. Missione compiuta per Masi.

La Rai, come entità in grado di produrre informazione e incidere sulla realtà, parve morire quel giorno, esattamente come previsto dai dettami del Piano di rinascita democratica della P2. Su Facebook, uno dei pochi mezzi di comunicazione che il governo non sapeva ancora come imbavagliare, nacque un gruppo chiamato «Io so che oggi in Italia c’è stato un golpe». Sapevamo da un pezzo che, in realtà, era stato un autogolpe: nessun battaglione in mimetica aveva preso la Rai, era stato il popolo sovrano a consegnarne le chiavi al Silvio e ai suoi. Se volevamo prendercela con i responsabili, avremmo dovuto attaccar lite coi nostri vicini di casa, i parenti e tutti i conoscenti che avevano reso possibile questa forma nuova di autoritarismo; ormai era tardi, ché nel volto dei governanti e dei loro potenti sostenitori non vedevamo più brillare l’umanità di persone disposte a confrontarsi, magari anche aspramente, sulle proprie idee; ormai apparivano ammantati dalla consapevolezza farisaica dell’infallibilità del Silvio, e dell’intangibilità propria: da sostenitori si erano trasformati in sacerdoti, adoratori, pretoriani del leader, e chiunque osasse criticarlo doveva avere a che fare con loro, e farsi trovare pronto a sobbarcarsi querele, scherno, accuse infamanti e minacce. Per difendersi servivano soldi e contatti in alto, non un cuore puro o delle buone idee. La Politica era diventata l’ancella della Finanza e la nemica

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della Giustizia; qualcosa che nessuno sapeva più come frenare si avvicinava a grandi passi. Nelle buie notti d’inverno, il fantasma di Pertini gridava vendetta.

UN’ALTRA PRIMAVERA? Arriverà un’altra primavera, nonostante il Silvio e tutte le televisioni, e il paese rifiorirà dalla Vetta d’Italia a Capo Passero. La neve che oggi ammanta le montagne ingrosserà per settimane i ruscelli, e si tingeranno d’una nuova qualità di verde i paesaggi a onde delle Langhe e della Valdorcia, la piramide del Vesuvio e l’altra, immane e misteriosa, dell’Etna che scalda e squassa la terra. Simili a specchi saranno le risaie del Vercellese e della Lomellina, e contro il profilo del Monte Rosa si leveranno in volo gli aironi; immensa è l’Italia, a misurarla a suon di passeggiate, e ancora sconfinato è lo spazio fra due città come Torino e Milano, o fra la prima capitale e Genova, la vecchia repubblica incorniciata fra mare e Appennino. Si riempiranno di voci i Murazzi e il Sempione, le Cascine di Firenze, Villa Ada e Trastevere; al sabato tornerà la folla sulla spiaggia del Poetto, all’Argentario e sui lidi dell’Adriatico, e si popoleranno uno ad uno anche le mille cale e golfi del Tirreno, i lidi dell’Elba e delle isole minori. I ragazzi ricominceranno a fare tardi, e torneranno a vivere le mille piazze, portici e scalinate d’Italia dove è ancora consentito fare conversazione, innamorarsi e scambiare opinioni senza dover pagare un biglietto. Chi è in cerca di compagnia si presenterà alla solita panchina, giù alla villa comunale, o scenderà a prendere l’aperitivo sul corso; altri stazioneranno davanti ai pub, la birra in una mano

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e la sigaretta nell’altra; in primavera fa buio tardi e, se gli amici sono quelli giusti, si può proseguire la baldoria a cena, o anche più in là. Chi suona in città, stasera? E chi s’è visto ieri? Marracash ha fatto l’alba coi ragazzi davanti al Praga, Davide detto Boosta ha firmato un centinaio di autografi non appena si è seduto al tavolino, e Fabri era di ritorno a Senigallia dopo il suo viaggio televisivo per l’Italia; alla serata rockwild del Wake Up c’era mezza Pescara, a Bologna il Covo era stipato, mentre a Catania, alle quattro del mattino, c’erano ancora liceali in giro che giuravano di avere visto Manuel Agnelli, mentre altri dicevano che no, era quello delle Vibrazioni. Peccato solo che Federico si sia convinto di avere inghiottito polvere di vetro, che Lelio abbia pisciato nella hall dell’albergo, e che al batterista degli Zen Circus qualcuno abbia fregato il portafortuna. «...Certo, ma peccato soprattutto che abbiano fermato proprio noi, alle tre e quaranta del mattino, lanciati sul tratto Civitavecchia-Livorno dell’Aurelia. Da una parte mezza band sprofondata nel sonno dei giusti nonostante lo stereo a palla, dall’altra giubbotti antiproiettile, mitragliette e poca voglia di scherzare. All’inizio è stata brutta: pila puntata in faccia ai dormienti, sveglia, giù tutti, e mani in vista! Cosa siete, musicisti? Dico di sì, e quelli cominciano a controllare il furgone come avessi risposto ‘Sbagliato, signore. Siamo il gruppo di fuoco della banda Baader-Meinhoff’. All’inizio è una rottura, poi non viene fuori che uno di loro è un fan degli Iron Maiden? Allora tutti noi a dire quanto spaccano, i merdosi Iron, tanto per creare un dialogo. E alla fine com’è andata? Così così, ma poteva andare peggio.» Fortuna che oggi è un altro giorno, e stasera un’altra notte. Allora che si fa, uh?

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Come ci si veste? E all’Osteria del Sole viene anche l’amica carina di tua sorella? A Fidenza c’è lo spettacolo di Bebo Storti; a Parma il cinema in piazza; a Correggio il monologo di Travaglio, a Carpi Frankie Hi-Nrg; all’Arena del Sole arriva Guzzanti, fortissimo lui lì, al Rock Island si esibisce la cover-band dei Nirvana con mio cugino Caio alla batteria, mentre alla Duna degli Orsi va in scena un gruppo di musica surf spet-ta-co-la-re. No, non californiani. Di Vicenza, ma suonano che è un piacere, e poi ci scappa come niente il bagno di mezzanotte. E il MiAmi Festival com’è stato, quest’anno? Solite perle in mezzo alle zanzare dell’Idroscalo? E a ItaliaWave chi suona? E ad Arezzo, a Lecce, al Sunsplash? E all’Heineken, al Mtv day, al Neapolis? E l’Independent Days... C’è ancora? E le serate folgoranti al teatro Le Cave, sotto la volta stellata dell’Adriatico? E Rock in Idro, il Beach Bum, il festival al Lazzaretto d’Ancona? Perdiamo colpi, altri ne mettiamo a segno, ma qualcuno conosce già le date precise del Mei dell’anno prossimo? E anche, magari, dove si comprano i biglietti per il Premio Tenco? Comunque mi ha scritto un kid dalla provincia di Brescia per organizzare una data; a me la santa ragazza che gestisce la Cantina Mediterraneo a Frosinone; a me, invece, la casa della cultura di Novoli, Lecce: sta’ a vedere che si organizza un piccolo tour prima che sorga l’estate. Non si fermerà il rock ’n’ roll, con le sue testate Marshall e Orange, le Gibson e i Jazzmaster, le batterie da caricare in solitudine, i microfoni che costano un fottìo, i fiumi di birra e le schiene tatuate delle ragazze-angelo. Non si fermerà l’amore che nasce sull’erba tenera, non si spegnerà la forza delle madri, né l’amicizia più forte di ogni legge. L’Italia sarà sempre l’Italia, con Silvio o senza, e questa è forse l’unica rivincita che il paese reale saprà prendersi ai danni del leader.

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Che faccia avremo dopo il Silvio, e con quale voce parleremo, però, possiamo solo provare a immaginarlo. Sempre risorge, identico a se stesso, il ghignante Gattopardo. Ci invita alla pigrizia e alle recinzioni, alla chiusura mentale e alla diffidenza verso i forestieri, i diversi, i dissenzienti, e anche per quelle brutte facce spuntate in paese verso mezzogiorno – anche se, a ben vedere, devono essere solo escursionisti con lo zaino. Se invece sono stranieri in cerca di un ingaggio onesto, magari privi di permesso di soggiorno, comincia la festa! Dopo che ci siamo spaccati la schiena in prima persona, magari a fare il cameriere in Svizzera o Germania, adesso siamo noi i padroni che fanno prezzi e orari, che stabiliscono mansioni, avanzamenti ed eventuali trattenute di stipendio. Ancora ieri avevamo la terra attaccata alle scarpe, ma oggi vogliamo tutti il Suv; a ricordarci che siamo ancora umani, di tanto in tanto ci assale il senso di colpa nel vedere un nero trascinare il suo borsone sotto la pioggia, o quando i nostri fari illuminano una schiera di ragazze dell’Est allineate lungo uno squallido marciapiede. A volte, per rimediare, li avviciniamo offrendo loro un poco del nostro denaro. Più spesso alle ragazze che ai venditori ambulanti, per la verità. (Non è anche questo un segno della nostra mantenuta umanità, sub specie di vigore sessuale?) Anche il tema del vigore sessuale, tanto caro al Silvio, potrebbe finalmente uscire di scena. Una volta si diceva: «Chi lo fa non lo racconta in giro, e chi lo racconta in giro non lo fa». La gente appariva forse più misteriosa, ma anche meno ridicola. Si lasciassero le sembianze e le pose da pornostar alle vere pornostar, che il loro mestiere lo sanno fare benissimo.

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In attesa del processo per la rissa col barista, Iuri osserva il paese e cerca di piazzare i suoi fondi esteri ai grulli. «Tanto, se non danno i soldini a me li regalano a qualche cartomante» si è giustificato l’ultima volta che l’ho visto. «Regalo sogni, io, non solide certezze. E proprio per questo mi affidano i loro risparmi. Non li vedi, in coda per giocare al lotto, o a grattare con la moneta su qualsiasi tesserina che promette di farti diventare ricco?» Li vedevo eccome. «Non siamo francesi, o tedeschi» puntualizzò Iuri. «Qui la gente campa di sogni. È questo che la Sinistra non ha mai capito.» «Una volta, forse, lo capiva fin troppo bene» lo corressi, poi ammisi: «Adesso, però, sembra essersene scordata». «Peggio per voi» scrollò le spalle Iuri. «Te lo dico in amicizia», e mi baciò su entrambe le guance. Mentre risaliva sulla sua Classe A mi avvidi che la sua nuca era spolverata di capelli bianchi. Nato da una famiglia di lavoratori, ci aveva messo mezza vita per comprarsi a rate una macchina da ragazzo ricco; di ogni chilometro percorso, nel suo intimo, ringraziava il Silvio, e per difendere quel po’ di benessere era pronto a colpire e imbrogliare. Purtuttavia, si sentiva nel proprio diritto. Chi ricco lo era sempre stato, invece, come LucaPietro Niccolis, si agitava alla disperata come un pesce tratto fuor d’acqua: la Creatura che li aveva salvati dai comunisti adesso era fuori controllo. L’autoritarismo sembrava dietro l’angolo, sotto specie di regime ad personam; avvertendo l’incrinarsi del mito, i seguaci del Silvio serravano le file. Il ministro della Difesa in persona si occupò di alzare le mani su un contestatore che rivolgeva al Silvio domande impertinenti; ormai poteva accadere che, nella stessa giornata, si rischiasse seriamente un incidente aereo che avrebbe coinvolto il

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presidente della Camera Fini, e che meno di due ore più tardi partisse l’allarme-bomba per un presunto ordigno – inesistente – sull’aereo del Silvio, il tutto alla vigilia della presentazione della nuova corrente politica dello stesso Fini, espressione del dissenso interno al Pdl. I talk show erano sospesi d’imperio sino alle regionali; il Popolo della Libertà aveva manifestato a Roma dichiarando un milione di partecipanti a fronte di una valutazione della Questura che parlava di centocinquantamila presenti. Il governo agiva con prepotenza manifesta, e alla cosiddetta società civile mancava la forza di esprimere con nettezza il proprio dissenso. D’altronde la nostra società civile è composta da gente perbene come la famiglia Niccolis; stimati professionisti inclini al compromesso, membri di una classe sociale che, per propria natura, non dimentica mai la prudenza. Altrimenti mica si può restare sulla cresta dell’onda sotto papi, re, dittatori e presidenti. Meglio nicchiare e covare la propria rabbia, piuttosto che esporsi in piazza a gridare contro l’imperatore prima ancora che venga deposto. Nel caso, si pensa, per festeggiare c’è sempre tempo. In certi ambienti, per il momento, è ancora meglio affidarsi alle allusioni e alle mezze frasi; se ci si trova smascherati, tocca salvarsi in corner sostenendo che il Silvio, se non altro, è ancora simpatico. Oppure con la frase che torna popolare ogni volta che l’Italia conosce simili frangenti d’incertezza: «Io? Io bado al lavoro, e di politica non mi occupo». Il 19 marzo 2010 nonna Pina ha compiuto novant’anni. Le mie figliole, fiere bisnipoti, hanno confezionato per l’occasione dei biscotti al cioccolato, e tutti insieme siamo andati coi nostri vassoi a rendere omaggio alla matriarca.

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Ci ha aperto la porta mia madre, e ancora una volta quattro generazioni si sono riunite nella vecchia casa di famiglia in via Mattei. Nonna Pina ha gradito l’omaggio, e ancor più le esibizioni ginniche delle bambine, che in questo periodo trovano sempre nuovi modi per issarsi in piedi sulle mie spalle; assicurate per le mani, danno la scalata a babbo, e una volta raggiunte le vertiginose altitudini pretendono l’attenzione di tutti. «Bàn bàn bàn, Enrico!» mi ha rimproverato bonariamente nonna. «A me fa una paura!» «Discesa in stile scoiattolo!» ha proclamato la figliola di turno e, senza mollare la presa con le mani, mi si è lasciata scivolare addosso fino all’atterraggio. «Sono brava?» ha domandato subito dopo. «Bravissima, ma mi fate girare la testa.» «Siediti bene, mamma», si è raccomandata mia madre. «Lasciati servire, per un giorno.» A tavola, dopo le tagliatelle e le polpette, è apparsa una torta sacher davanti alla quale si è cantato in coro «tanti auguri a te», e nonna Pina ha spento d’un colpo l’unica candela che torreggiava al suo centro. Esauriti gli applausi, ci siamo resi conto che stava trillando il telefono. Era la sorella di nonna, zia Antonietta; anche lei voleva farle gli auguri. La festeggiata si è proiettata con tutto il vigore a disposizione verso la postazione del telefono fisso in corridoio – il cordless si scarica troppo spesso, e il cellulare non l’ha mai convinta. Se la figura di nonna Pina si è appesantita col tempo, le caviglie sono ancora le stesse, sottili e forti, di quando percorreva ogni giorno viottoli e strade bianche fra Gherghenzano e San Benedetto, le frazioni di San Pietro in Casale dov’è cresciuta

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insieme a zia Antonietta e al primogenito Tonino, pace all’anima sua. Erano piccoli possidenti di famiglia fascista, e dopo l’8 settembre si trovarono presi fra due fuochi: con i tedeschi letteralmente in casa, a svuotare la cantina e pretendere, e gli ex braccianti – improvvisatisi partigiani nelle ultime settimane di conflitto – pronti a ricattare e minacciare ritorsioni orribili. Che un parente membro delle Brigate nere sia stato assassinato e fatto ritrovare dentro un forno, in casa mia non è mai stato un mistero. Era un episodio terribile che andava inquadrato in un’epoca di violenza senza risparmio, e non fece certo di noi dei nostalgici della Rsi. Che si rubasse e minacciasse in casa nostra a nome del Partito comunista, tuttavia, fu un dettaglio che nonna Pina e sua sorella non hanno mai mandato giù: votarono fieramente Democrazia cristiana sino al termine della Prima Repubblica, compiangendo quasi figli, cognati e nipoti traviati dai «Rossi», poi le loro strade si separarono in maniera irrimediabile. Nonna Pina con Prodi, zia Antonietta col Silvio. Col tempo le convinzioni si radicalizzano, e negli ultimi anni nonna si è trasformata in una specie di ultrà del centrosinistra; anche oggi che compie novant’anni, la sentiamo litigare al telefono con la sorella a proposito delle prossime elezioni regionali. «E stavolta vota bene, mi raccomando!» le intima col piglio della maggiore. «Va’ là, Antonia, che lo sai anche tu» riprende dopo una breve pausa, e il suo tono, adesso, rasenta lo scherno. Provo a immaginare la zia che replica debolmente. «Cosa ci hanno insegnato, i nostri genitori?» la incalza nonna Pina. «A stare con gli onesti, o a stare coi ladri?» Dice proprio così, e mamma cerca il mio sguardo mentre mi stringe il polso, come se avesse appena ricevuto la conferma che aspettava.

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Poi guarda le bambine che giocano intorno al tavolo, come faceva lei alla loro età, e come da ragazza ha visto fare a me. Manda a ciascuna un bacio a fior di labbra, poi carezza l’aria come incoraggiasse il destino, sospira e dice: «Speriamo bene, gente mia».

SOS. SUMMER OF SILVIO Alle regionali della primavera 2010 il centrodestra ottenne la vittoria, strappando Piemonte, Lazio, Campania e Calabria al centrosinistra; proprio nel momento in cui il potere del governo appariva destinato a perpetuarsi, però, accadde quello che in tanti non osavamo più sperare. Era passata da poco la Pasqua quando ebbe luogo lo strappo fra il Silvio e Gianfranco Fini, una sfida plateale sotto le telecamere che gli italiani ebbero modo di rivedere da diverse angolazioni nel corso dei telegiornali e su internet. Io ero partito da poco insieme al socio Francesco Monti per un viaggio a piedi dalla Vetta d’Italia a Capo Passero, pensato in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale; la notizia ci raggiunse nelle valli ladine dell’Alto Adige, e lo stillicidio di dichiarazioni ed episodi ostili nell’ambito della lenta separazione fra il pettinato Gianfranco e il suo ex leader ci avrebbe accompagnati, tappa dopo tappa, fino alla Sicilia. Consultando i titoli dei giornali durante le soste nei bar di paese, apparivano nuove ombre di gattopardi, storie pirandelliane di ministeri inventati ad hoc, e le rivelazioni sulle cricche di potenti prosperati all’ombra del governo: era scoppiato il caso «P3». L’Italia che vedevamo ogni giorno, impoverita e sfiduciata, sembrava pronta a lanciare il proprio SOS. I giornali, minacciati dalla legge-bavaglio, già lo stavano facendo.

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Che stessimo vivendo l’ultima estate col Silvio in sella? Più d’un presagio funesto, non ultima la débâcle della nazionale in Sud Africa, sembrava indirizzare il paese verso le ipotesi più impensate. A fine luglio, quando tornammo a leggere i giornali con regolarità, ci rendemmo conto che Gianfranco Fini stava radunando i fedelissimi per formare un gruppo parlamentare indipendente: faceva sul serio, stavolta, e al Silvio – che già l’aveva esortato invano ad abbandonare la carica di presidente della Camera – non restò che scatenare la stampa amica sulle tracce di una compravendita immobiliare in quel di Montecarlo. La vicenda, forse più imbarazzante sul piano personale che non di rilievo politico, ruotava intorno a un appartamento, uscito dal «patrimonio» di An ed entrato, attraverso alcune società, nella disponibilità del fratello di Elisabetta Tulliani, compagna di Fini. «il Giornale» dedicò titoli e titoli alla faccenda, prima e dopo la votazione che vide il governo a corto di numeri proprio per la fuoriuscita dei deputati finiani di Futuro e Libertà. In ogni caso, il 2 agosto il governo non inviò alcun rappresentante a Bologna, per il trentennale della strage della stazione. «Ci avrebbero fischiato» si giustificarono dai ministeri. Forse perché la vera storia della strage non è ancora stata scritta? Per l’Italia si affacciano all’orizzonte nuove elezioni, nelle quali il Silvio dovrà giocarsi la propria sopravvivenza politica. Sono in pochi, oggi, a scommettere che potrà contare in futuro sull’ampio consenso popolare del quale ha beneficiato sin qui: la sua immagine, studiata per suggerire sicurezza e prosperità, appare logora e sovraesposta persino ai commentatori più prudenti. Ancora non è chiaro se si voterà a novembre, oppure a mar-

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zo prossimo, ma, qualunque sia l’esito delle urne, in questa estate del 2010 è finita l’epoca del consenso; con i cattolici di Casini già all’opposizione, lo strappo di Futuro e Libertà ha sancito l’esaurirsi irreversibile di una lunga stagione, quella dell’identificazione del Silvio come unico possibile leader dei moderati italiani. Si costituirà mai una coalizione conservatrice ma antiberlusconiana, un nuovo centrodestra all’insegna della sobrietà, in opposizione a quel Popolo della Libertà sempre più barocco e ostaggio della Lega che ancor oggi fa scudo al presidente del Consiglio? E lui, non dovessero andargli bene i prossimi appuntamenti elettorali, accetterà di farsi da parte secondo una ponderata strategia d’uscita dalla vita pubblica? O punterà i piedi reclamando, quasi fossero un meritato premio alla carriera, le sospirate chiavi del Quirinale? Solo domande di questo tenore, ormai, ci poniamo: che genere d’uscita di scena sarà, la sua? L’opposizione di centrosinistra sarebbe chiamata ad approfittare della congiuntura storica a lungo attesa: lo sfaldarsi delle forze avverse parrebbe il momento migliore per presentare un programma chiaro al paese. Invece il Partito democratico sembra preso per l’ennesima volta alla sprovvista. «Perché non pensare a un governo di larghe intese con Tremonti premier?», arrivava a suggerire qualcuno, destando legittimi sospetti di connivenza con l’avversario politico. Sullo sfondo, D’Alema si liscia i baffi come al solito: ormai, più che suggerire intelligenza tattica, sembra prigioniero del personaggio che si è costruito, quello di eminenza grigia di un’opposizione istituzionalizzata e arrendevole, troppe volte disposta a tendere una mano al Silvio e sempre attenta al «vecchio che avanza». A confondere le acque, torna anche il suo antico rivale Veltroni.

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E Bersani cosa dice? Una volta segretario del Pd, persino un rocker come lui si è fatto più timido. Vorremmo rivederlo con l’abituale grinta, alla guida di un partito capace di contrapporre un sogno diverso a quello, ormai frusto, del «miracolo italiano». Mezza Italia ne ha le tasche piene, del Silvio e della sua retorica a base d’iperboli, effetti speciali e clamorose bugie: la nostra gente meriterebbe un grande partito progressista più amorevole e coraggioso di quello che si vede ormai da troppi anni. Tuona senza risparmio, invece, Di Pietro; Grillo ribadisce a chiare lettere che la sua lista non si trasformerà mai in un partito mentre, dalla Puglia, Nichi Vendola scalda gli animi dicendo le cose di Sinistra che a Roma non si sentono più in bocca a nessuno. Negli ultimi mesi se ne sono andati alcuni dei personaggi che hanno segnato il nostro tempo: in primavera si è spento Edmondo Berselli, che ha saputo raccontare con passione e ironia l’Italia degli ultimi anni attraverso i suoi libri e gli articoli sempre puntuali per «Repubblica» e «L’espresso». Berselli è scomparso quasi contemporaneamente a Raimondo Vianello, così la stampa si è occupata ampiamente del presentatore, e il «Bers» non ha ricevuto tutti gli omaggi che avrebbe meritato; la sua voce ci mancherà. Non è più con noi Mino Damato, ed è perito in seguito a un tragico salto col paracadute Pietro Taricone, il «guerriero» messosi in luce agli albori del Grande Fratello e divenuto poi attore per il piccolo schermo. Con lui se n’è andato uno dei ragazzi più invidiati della mia generazione. È scomparso, infine, Francesco Cossiga. Ha lasciato dietro di sé lettere per le più alte cariche dello Stato, e una lunga scia d’interrogativi sui misteri d’Italia negli anni della «strategia della tensione».

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Che a tutti loro sia lieve la terra, e che ognuno sia ricordato come merita. Com’è cambiata l’Italia dagli anni in cui il Silvio era solo «quello di Milano 2», già lo sappiamo. È cambiata l’Italia, siamo cambiati noi ed è cambiata l’idea che abbiamo della televisione. Rispetto agli anni nei quali ci era consentito seguire i cartoni animati mezz’ora al giorno, abbiamo visto quel fenomenale elettrodomestico assumere un’importanza straordinaria, orientare le preferenze e i discorsi, rendere celebri gli sconosciuti e sancire le sconfitte dei potenti: ha letteralmente illuminato gli anni della nostra giovinezza, sino ad abbagliare l’intero paese. Fa quasi ridere, oggi che l’offerta è frazionata su decine di canali digitali e satellitari, ripensare a quando si riuscivano a vedere solo i canali Rai, quelli dell’attuale Mediaset, Videomusic e qualche emittente locale: quelle poche voci avevano una potenza di persuasione che nessuna tivù del futuro potrà mai più avere. Abbiamo sofferto quando il mondo dello spettacolo, con la discesa nell’arena politica del suo patron più eccellente, è andato a colmare un vuoto che la Sinistra non ha saputo sfruttare; abbiamo sofferto per tutte le indecisioni, i tatticismi e la mancanza di passione degli onorevoli che ci avrebbero dovuto rappresentare; abbiamo sofferto e soffriamo per il degrado della vita civile e il fatalismo che gli anni del Silvio ci lasciano addosso. Finiranno con lui i guai del paese? Difficile da credere. La sua mongolfiera ha avuto bisogno, in tutti questi anni, di gas per sostenersi in volo, ma anche di zavorre che le impedissero di librarsi fuori controllo, a quote insopportabili per un uomo solo. Non era solo, infatti. Una mano lava l’altra: le notizie degli accordi trasversali più impensati, così come quelle sul tramare senza fine di caste e cricche, lasciano noialtri ogni volta più sma-

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liziati, la forbice fra ricchi e poveri minacciosamente aperta, e l’Italia ferma al palo. Gli italiani sanno fin troppo bene che la ‘rivoluzione’ invocata da Mario Monicelli a Rai per una notte è una pratica estranea agli usi nazionali, ma al momento non riescono a sperare nemmeno in una ragionevole riduzione della distanza fra elettori ed eletti. I privilegi che la partitocrazia si riserva sembrano lontani dal conoscere una fine – Elezioni, che pacchia titolava «il Fatto Quotidiano» del 6 agosto. «Se si vota a marzo, i partiti riceveranno altri duecento milioni. Aggiunti ai 600 ottenuti dal 2008 fanno 800. Non è troppo?» I costi della politica italiana sono sempre elevati, a fronte di un rendimento scarso in termini di benessere pubblico; i grandi partiti sono per natura famelici di finanziamenti, e andranno sempre alla ricerca di amicizie nel mondo della grande imprenditoria e delle banche. Il timore storico degli anticomunisti, quello che un giorno la politica potesse controllare direttamente la vita economica del paese, è sedato per sempre; oggi non c’è dubbio che sia l’economia a dettare i tempi alla politica, e non solo perché abbiamo un presidente del Consiglio ricco come Creso. Chi gli succederà, perlomeno, non sarà un magnate della televisione coinvolto in prima persona nell’impoverimento culturale del paese: può capitare a tutti di sbagliare amici, di desiderare donne giovani o di voler essere il re del mondo, ma le briciole di palinsesto dedicate ai libri – a fronte di ore e ore di sculettamenti, telequiz e sbirciate al mondo dei vip – sono una mancanza di stile che al Silvio non si può perdonare. Aveva a disposizione uno strumento fantastico, e l’ha impiegato per sdoganare e generalizzare la volgarità, la furberia, il culto della fortuna e la voglia di esserci a ogni costo. Il successo di internet e della tivù via satellite, con la diffusione generalizzata dei collegamenti ADSL e dei decoder, è sta-

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to direttamente proporzionale alla pochezza dell’offerta televisiva in chiaro: l’accesso alle nuove fonti sta salvando i più giovani dalla «sindrome del telecomando stretto» che ha caratterizzato gli ultimi anni di vita domestica italiana. Solo davanti alla «nuova» televisione del XXI secolo e alla sua molteplicità di offerte ci siamo resi conto che non più di sei o sette canali televisivi – tre dei quali di proprietà del Silvio fin dall’inizio – hanno spadroneggiato liberamente nel nostro immaginario per una generazione intera. Inquinate le poche sorgenti a disposizione, è stato facile dar da bere agli italiani qualsiasi cosa. Quel tempo è finito: complici i palinsesti uniformati al peggio e l’impronta del governo sulle reti pubbliche, ci siamo disaffezionati un po’ tutti al ronzio e ai break pubblicitari dei sei o sette canali che ci hanno accompagnati sin qui. Pochissimi programmi, ormai, sanno raccontarci storie diverse dal solito. Una televisione migliore è possibile, ma la sua voce non sarà più percepita come una misteriosa portatrice di verità, né noi potremo tornare giovani per essere daccapo così ingenui. Chi sarà il prossimo presidente del Consiglio? A questo punto, ci basterebbe che non si sentisse al di sopra delle istituzioni che rappresenta, né del popolo che lo ha eletto. Che non ribattesse a suon di insulti e barzellette ai legittimi dubbi della stampa, né a colpi di leggi ad personam a quelli della magistratura. Stanchi come siamo di fuochi d’artificio e boutade inappropriate, di ville lussuose e machismo da bar, ci accontenteremmo che il prescelto fosse una risorsa del paese, e non cagione d’imbarazzo ad ogni uscita pubblica. Siamo gente che si accontenta di poco, e al nostro premier ideale non chiediamo di essere il nostro idolo, né di occupare ogni giorno la prima pagina e i titoli del tiggì. Preferiremmo, anzi, che il lavoro politico tutto conoscesse una sua dimensione di-

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screta, limitata al servizio delle istituzioni, senza la pretesa di controllare banche o assegnare appalti, e nemmeno d’influenzare il lavoro di redazioni e aule giudiziarie. Quelle che oggi appaiono pie speranze diverranno realtà il giorno in cui la società italiana, senza aspettare incoraggiamenti o sanzioni dall’alto, darà il via alla propria personale rivoluzione davanti allo specchio. Forse non è la stessa di cui parla Monicelli – per lui «speranza» è una brutta parola – ma servirebbe che ciascuno di noi trovasse il coraggio di cambiare se stesso, senza dare per scontato nulla di ciò che ha e di quel che ogni giorno si prende, fosse pure la raccomandazione d’un familiare o un posteggio in seconda fila. Il fatto è che la prepotenza e la volgarità sono state a lungo di moda, in questi anni in cui il regno della televisione strillata sembrava destinato a durare per sempre. Servirà un po’ perché tornino a essere ammirate in società la coerenza, la cortesia e il senso della misura ma, se ci mettiamo tutti d’impegno per dare il buon esempio ai politici, il nostro riscatto avrà inizio prima del previsto. E un giorno qualcuno potrà ricordare in tono compassionevole, sottovoce come si fa con le disavventure imbarazzanti, di quando l’Italia era governata da un uomo potente e bizzoso, che viveva una vita dorata e cambiava le regole dello Stato a proprio vantaggio. A quali meravigliose avventure andranno incontro gli italiani del futuro? In quali nuovi fraintendimenti cadranno? L’unico sollievo, quando pensiamo a loro, è che un altro uguale al Silvio non riusciranno a trovarlo da nessuna parte. Nemmeno a cercarlo con la lanterna.

Nota bibliografica

Le fonti qui elencate sono ordinate secondo criterio cronologico.

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