La vita di Cola di Rienzo 8804460903, 9788804460909

Il destino drammatico di Nicola, tribuno medievale che intendeva ripristinare l'antica grandezza di Roma e del suo

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La vita di Cola di Rienzo
 8804460903, 9788804460909

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Nota all’edizione
LA VITA DI COLA DI RIENZO
Ad Annibale Tenneroni
La vita di Cola di Rienzo
Approvazioni
Tavola delle sigle e delle abbreviazioni
Notizia sul testo e note di commento
Cronologia
Le Prose di ricerca di Gabriele d’Annunzio disponibili in ebook
Copyright

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Gabriele d’Annunzio

LA VITA DI COLA DI RIENZO con apparati informativi di Annamaria Andreoli Edizione digitale nel Centocinquantenario della nascita di Gabriele d’Annunzio con il patrocinio della Fondazione «Il Vittoriale degli Italiani»

NOTA ALL’EDIZIONE

La presente edizione digitale ripropone il testo de La vita di Cola di Rienzo raccolto nelle Prose di ricerca, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2005 (2 tomi), edizione a sua volta basata sul testo delle Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, uscite nella collana mondadoriana «I Classici contemporanei italiani», curate tra il 1947 e il 1950 da Egidio Bianchetti sotto gli auspici della Fondazione «Il Vittoriale degli Italiani». Gli apparati informativi riproducono quelli pubblicati nell’edizione dei «Meridiani» e sono interamente a cura di Annamaria Andreoli. Per lo scioglimento delle abbreviazioni bibliografiche si rimanda alla Tavola delle sigle e delle abbreviazioni. Il simbolo utilizzato nelle note contraddistingue una citazione tra virgolette o un più generico rimando testuale interni alla presente edizione.

VITE DI UOMINI ILLUSTRI E DI UOMINI OSCURI

LA VITA DI COLA DI RIENZO1 [1905-1912]

DELLE PROSE DI LIBERAZIONE

LA VITA DI COLA DI RIENZO DESCRITTA DA GABRIELE D’ANNUNZIO E MANDATA AD ANNIBALE TENNERONI SUO AMICISSIMO2

SE tu veda per la prima volta il ritratto di Erasmo dipinto da Hans Holbein, pur dopo aver letto l’Elogio della Follia i Colloquii e le chiliadi degli Adagi, credi di avere per certo dinanzi a te in quel punto la figura intiera del filosofo da Rotterdamo, in carne e in ispirito, quasi per improvviso lume di ragione e di rivelazione, qual non t’era apparsa dal paziente studio delle opere. Forse l’effigie offerta dalle sue scritture alla tua mente non differiva di molto da quella dei tanti Eruditi in berrettone di velluto e in zimarra di vaio, che nella vecchia Basilea degli stampatori curavano le edizioni di Giovan Froben, come ad esempio quel Sebastiano Brandt giuriconsulto e conte palatino il quale di sotto al peso delle Pandette sapeva un pochettin sorridere al pari del Fiammingo cui con la Nave dei Folli aveva pur dato l’idea dell’Elogio. Ma ecco che, a un tratto, l’amico di Aldo Manuzio e di Pietro Bembo assume dinanzi a te aspetto di uomo incomparabile e inimitabile, non somigliando ad alcun altro, immoto nella sua propria verità ed eternità. Guardalo. Egli è là di profilo, con la sua berretta nera in capo, col robone azzurrognolo, nell’atto di scrivere tenendo il foglio sopra il declivio di un volume dalla rilegatura vermiglia. Nell’attenzione le sue palpebre s’abbassano su gli occhi di solito guardinghi; la bocca è chiusa e ripiegata profondamente negli angoli, piena di sapienza, di prudenza e d’ironia; il naso lungo ma scarno, dalle narici ampie e delicate, è come la sede espressiva di un senso acuito e vigile, che fiuta nelle mutazioni della vita il sentore dei più tenui soffii. Delle mani l’una tiene la penna con la facilità della consuetudine; l’altra, inanellata, tiene fermo il foglio sotto le dita chiuse egualmente; ed entrambe vivono esperte e placide nell’esercizio d’ogni giorno. Scrivono forse il comento all’adagio «Nihil inanius quam multa scire»? una epistola adulatoria ma cauta a Leone Decimo o al quarto Adriano o a Carlo Quinto? Esse non vivono men del volto, diverse da tutte le altre mani mortali con le lor dita grinzose le unghie corte le fitte pieghe palmari, come la foglia con le sue nervature dentature spartiture gualcita dal vento rósa dal bruco inargentata dalla chiocciola è dissimile alle miriadi delle sue compagne pendule nella foresta. Ecco che, per virtù d’un prodigio operato sopra una tavola con pennelli e colori pochi, tu hai conosciuto il famoso Erasmo non soltanto in carne ma in anima, non soltanto in vista ma in essenza; cosicché ti sembra che non gli olii abbiano stemprata la materia di quella pittura sì bene i più sottili spiriti dell’umano intelletto. Ora, se un artefice ti dipinge non un uomo illustre ma un oscuro e te lo rappresenta in tutta la sua singolarità vivo con l’energia rivelatrice del disegno, la tua commozione nel mirarlo non è minore dell’altra. Iacopo dei Barbari, su poco più d’una spanna, ti condensa una somma di vita incalcolabile entro una forma precisa che comprende a un tempo tutto il particolare e tutto l’infinito, tutto il reale e tutto l’ideale, quel che è e quel che può essere. Guarda il giovinetto simile

allo sparviere: naso forte e adunco, bocca arcuata a scagliare la sfida e l’oltraggio, occhi resi più torvi dalla piega della palpebra che li restringe, capelli di rossor leonino. È nero vestito sul fondo di una dolce cortina bianca orlata di verde come la tunica della Primavera: là nell’angolo la lucernetta di ferro nutre una fiammella funeraria, e la cortina copre chi sa quale profondità perigliosa. Questi maestri giova che invochi colui il quale si sforzi di ritrovare l’arte latina della biografia; che non è se non l’arte di scegliere e d’incidere tra i lineamenti innumerevoli delle nature umane quelli che esprimono il carattere, che indicano la più rilevata o profonda parte dei sentimenti e degli atti e degli abiti, quelli che appariscono i soli necessarii a stampare una effigie che non somigli ad alcun’altra. Per ciò tra lo storico e il biografo è grande il divario, come tra il frescante e il ritrattista, il primo non considerando gli uomini se non nel più vasto movimento dei fatti complessi e nelle più efficaci attinenze con la vita publica, il secondo non rappresentandoli se non nei più saglienti rilievi della sua persona singolare. Osservato fu già come Plutarco, quando ci dice che Giulio Cesare era magro, di carnagione bianca e molle, soggetto al dolor di testa e al mal caduco, ci tocchi ben più a dentro che con gli ingegni de’ suoi paragoni. Quando Diogene Laerzio ci racconta che il divino Aristotile usava portar su la bocca dello stomaco un sacchetto di cuoio pien d’olio cotto e che, lui morto, fu ritrovata ne’ ripostigli della sua casa gran moltitudine di coppi come in una bottega di Samo, egli incita la nostra imaginativa ben più che con l’esporci non senza grossezza le dottrine del Peripato. Nelle biografie come nei ritratti noi dunque cerchiamo con avidità e gustiamo con gioia tra i segni della vita particolare quelli che più appaiono dissimiglianti dai comuni, quelli che non concernono se non la singola persona, quelli che di un capitano di un poeta di un mercatante fanno sotto il sole un uomo unico nel genere suo. Per ciò consento al giudizio di colui che stima esser fiacco artefice il descrittor di vite il quale rifugga dall’incidere le minuzie e le bizzarrie per ismania di sollevarsi alla solennità della storia cui non è lecito considerare il naso di Cleopatra e la fistola del Re Sole se non nel riferirli all’evento universale. 3 Per ventura non son rare nei nostri biografi, specie ne’ più ingenui, le pennellate di subitaneo risalto, che ci rendono vivo e respirante l’uomo. Guarda questa attitudine e questo movimento còlti all’improvviso da Filippo Villani nella vita di Dino del Garbo: «Era spesse volte usato sedere in sull’uscio della casa sua, e l’uno ginocchio sopra l’altro ponendo, quasi un giuoco di fanciulli velocissimamente girare una stella di sprone intantoché si stimava che con l’animo fosse altrove.» Eccoti Giovanni Boccaccio mentre racconta la novella di Tofano e di Monna Ghita: «Di statura alquanto grassa, ma grande: faccia tonda, ma col naso sopra le nari un poco depresso: labbri alquanto grossi, nientedimeno belli e ben lineati: mento forato, che nel suo ridere mostrava bellezza: giocondo e allegro aspetto in tutto il suo sermone.» Eccoti il buon cancelliere della Città fiorentina Coluccio Salutati: «Di statura più che mezzana ma alquanto chinato, con ossa larghe, colore quasi bianco, faccia tonda, larghe e pandenti mascelle, e con labbro di sotto alquanto più eminente: pronunziazione modesta ma tarda.» Dipinture alquanto rozze queste, lontane dalla maniera di Antonello da Messina o di Alberto Duro, ma pur nella loro semplicità evidenti. E certo il ritratto di Farinata dipinto da Messer Filippo giudice non vale quello che Andrea dal Castagno drizzò su la parete della sala in Legnaia, con gagliardìa dantesca, tra Pippo Spano e Niccolò Acciaiuoli. 4 Però, se ripenso la candid’arte di Vespasiano e se m’imagino di avere a dipingere in tavola a tempera la figura di quell’ottimo cartolaio nostro compare, io ben lo vedo nell’atto di soppesar con

maraviglia e reverenza entro la sua palma rugosa la pietra che Maestro Tomaso avea tolta dall’arnione del cardinal di Santa Croce isparato. «Era di grandezza quanto un uovo d’oca, e di peso once diciotto.» Ben per tal particolarità vorrei significarlo. Te ne ricordi? Il teologo di Serezana glie la dette in mano «a dimostrare la passione che aveva sopportata il cardinale». E credo ch’eglino lacrimassero insieme, evocando sul calcolo sciagurato la fine eroica del monaco di Certosa; il quale «per non voler rompere la sua regola» non prese a rimedio il bicchiere di sangue di becco. «Papa Nicola non veniva mai a questo passo, di tanta costanza d’animo, quant’era nel cardinale, che non lacrimasse.» Or tu comprendi perché in simili tratti io mi compiaccia, se dimenticato non hai la sera dilettosa che leggemmo insieme la Vita di Messer Branda e ce lo vedemmo vivo dinanzi, mentre ei pigliava la sua «scudella di pane molle nella peverada del pollo» e si beveva i suoi «dua mezzi bicchieri di vino». Ambo i nipoti anco eran là, che mangiavan ritti, con un tovagliolino in una spalla. E il famiglio nasuto portava panni di color moscavoliere e in capo una berretta da prete. E, dopo la cenuzza, il prelato se n’andava in camera sua, dov’era «uno semplice letto con un panno d’arazzo, il lettuccio sanza che vi fusse nulla se non il legname; e l’usciale del suo uscio era uno pezzo di panno azzurro, suvvi l’arme sua cucita». E, prima di porsi a sedere su quel lettuccio per leggere il libro delle Sentenze al lume d’una candela di cera, il vecchione tastando cercava gli occhiali ch’ei soleva tenere in una buca. Si direbbe questo un quadretto d’interno, qualcosa come il fondo d’una storietta di Pesello dipinta in un corpo di cassone o in una predellina o in un tondo «a uso di minio». 5 Per ammirare sub dio una grande figura piantata a cavallo con i due piedi ben saldi nelle staffe bisogna attendere che il Machiavelli si proponga di dipingere il Castracani emulando l’Orcagna che già avea posto il bel signore di Lucca nel Trionfo della Morte con un cappuccio azzurro avvolto intorno al capo e con uno sparviere in pugno. Ma il novo artista toglie lo sparviere a quel maraviglioso uccisore, lo arma di ferro battuto a freddo; anco gli toglie il cappuccio ché «sempre, e d’ogni tempo, come che piovessi o nevicasse, andava con il capo scoperto». E lo alza in solidità monumentale, al culmine della sua virtù e della sua fortuna ma pur, come l’Orcagna, all’ombra della Morte; sicché i nostri occhi ora e sempre lo veggono là fermo a mezzodì sopra la porta di Fucecchio per aspettar le sue genti che tórnino dalla vittoria, esposto al vento pestifero che si leva di su l’Arno, il qual ci sembra veramente quel dantesco «impetuoso per gli avversi ardori» preso a imagine del rombo levàtosi di su la schiuma antica dello Stige ove infuria la gente dispetta. Esemplare insigne quant’altri mai questo, mandato dall’incisore del Principe a Zanobi Buondelmonti a Luigi Alamanni e ai suoi discepoli avvenire. I lineamenti gli atteggiamenti i movimenti son quivi scelti e ricomposti con acutissima sagacia, non impedita dal vano scrupolo della realtà esatta che è straniera all’arte eroica. Il disegno vi è semplice e grandioso, qua e là non senza crudezza di contorni opportuna e fierezza di scorti veloce, rilevato da un colorito così sobrio che la figurazione della battaglia tra Castruccio e i Fiorentini al guado dell’Arno fa pensare al cartone della guerra di Pisa condotto di mano di Michelagnolo. Trattata da quest’arte la gran persona esce compiuta nell’interezza del suo vigor naturale e dell’acquistata esperienza, con la sua musculatura e con la sua magnanimità, con i suoi motivi e con i suoi atti, con le norme del suo diritto che sembrano estratte dalla sostanza stessa delle sue midolle e poi constrette in brevità imperiosa, con tutta insomma la sua vita corporale animata dalla passione e dall’eloquenza. 6 Accingendosi allo sforzo insolito, l’autore di queste Vite di uomini illustri e di uomini oscuri non

ha dunque nascosto a sé stesso le difficoltà disperate né ha voluto evitarle. Certo, la condizione più felice per l’opera del biografo è l’essere stato egli testimonio attento e assiduo della vita cui vuol descrivere. Osservando lo studio fedele che delle mani di Erasmo fece Hans Holbein prima di porsi a dipingerle in tavola, tu comprendi di qual nutrimento sia robusta quella immortalità. Ma per ristampar l’effigie dei grandi trapassati noi non possiamo ricercare le dubbie tracce delle lor virtù e dei loro vizii se non nelle croniche, nelle memorie, negli epistolarii, nelle lapidi, in simili materie inerti e consunte. Di tratto in tratto qualche lampo c’illumina e ci forvìa. Su la bocca di Cola di Rienzo «sempre riso appariva in qualche modo fantastico» e in camera sua dopo morte fu trovato uno specchio etrusco in mezzo a talune tavolette cerate con antiche scritture. 7 Gli occhi di Leon Battista Alberti si velavano subitamente di lacrime vedendo le prime fogliette della primavera. 8 Giovanni de’ Medici, ancor che fosse di molto cuore, non ardiva dormir solo in una camera di notte. Ecco che il mistero caldo e mobile della vita ci attira, ci tocca, e ci sfugge. Per ciò io voglio ardirmi di accostare agli uomini illustri taluni uomini oscuri ch’io conobbi da presso e guardai intentissimo, specie quelli che più squallida passione sostennero per aver mancato alle lor alte sorti o per aver peccato contro sé mortalmente. O forse farò una invenzione d’una figura per raccontare coperto alcuna delle mie vite segrete. O forse abbandonerò del tutto questi disegni, per indulgere al mio capriccio e per secondare il tuo sorriso incredulo. Ma non mancherò di mandare a quello de’ miei figli che rinnova il mio nome 9 e che mi parve ancor bello quando lo vidi l’ultima volta su la riva tirrena ignudo e adusto, non mancherò di mandargli una Vita che gli promisi, la Vita di Tomaso dei Cavalieri, 10 per non potere scrivere quella di Michelagnolo. «Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l’uomo dona a chi le riceve: ma…» A te oggi mando la Vita di Cola, composta or è sett’anni: a te e ai quattro o cinque amici che sai, come «al saggio de li buon conoscidori». Sarei contento se tu rispondessi in novembre al fuoruscito insabbiato come in settembre Zanobi Buondelmonti al deposto Cancelliere dei Dieci di Libertà messo in Lucca a curare i negozii dei mercatanti fiorentini in risico pel fallimento di Michele Guinigi. «Leggemola et consideramola un poco insieme: Luigi, il Guidotto, il Diaccetino, Antonfrancesco et io; et generalmente ci risolvemo fussi cosa buona et ben detta.» La composi nella mia villa di Settignano quando, per compiacere a un de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi. Non ch’io m’ingaglioffassi per tutto dì nell’osteria dello Scheggi come Nicolò a San Casciano tra oste beccaio e mugnaio; ma pur tutto dì ero tra stalla e canile con mastro e garzoni, amando la bestia più che l’uomo e non potendo del mio amore darle miglior prova che nel governarla. 11 Sere d’ottobre tra l’Affrico e la Mensola, tra il pian di San Salvi e il poggio di Maiano, tra Rocca Tedalda e le Gualchiere di Girone, tra Montereggi e la fonte de’ Tre Visi, quando tornavamo in brigata con la muta a guinzaglio e co’ cavalli al passo, che fumigavano come la campagna frescamente rotta dagli aratri! Il sole tra i fumi pareva una macina roggia che si volgesse in tondo a frangere; ma per ogni dove intatte pendevano tra le foglie sante le piccole ulive che non avean cominciato ancóra a invaiolare. E le viti, che avean esse già dato il lor frutto, quasi spoglie di pampani si tendevano fra tronco e tronco a guisa di corde; e tanta era talora la musica di tutte le cose, che ci sembrava fossero per vibrare come quelle di uno strumento. La macina in fuoco sprofondandosi, talora le vette di Fiesole restavano accese per alcuni attimi. Poi nuvole eleganti si sedevano su le colline, mutavano attitudine senza parere, e non si sapeva che facessero, ed era da

credere che s’acconciassero o giocassero; quando a un tratto la più chiara sollevava il plenilunio in cima al braccio nudo come chi sollevi la palla che le è balzata in mano e la difenda. Tutta la campagna splendeva di sùbita luce, se ben la luna fosse d’incerta lustrezza. I muri graffiti lungo le strade, e le case dei poderi, e i mucchi delle selci splendevan di non so che candore interno e tacito. Dall’alto della sella scorgevo un acciottolato dinanzi a un porticale, un vivaio colmo in mezzo a un orto, una fossa di calcina presso a una fabbrica. E tutto splendeva di quella luce senza origine, come i pensieri nella mente solitaria. E un silenzio strano si faceva lungo le strade, per entro alle siepi, sopra gli argini, tale che le péste dei cavalli non sembravano interromperlo ma misurarlo. 12 E quel silenzio, che pareva eguale, aveva pel mio sentimento le variazioni espressive dell’ombra che non è la stessa quando s’aduna entro l’occhiaia o nel cavo della gota o sotto la mascella. Lo indovinavo diverso, prima di giungere a uno svolto, sicché al mio lieve fremito la bestia sensibile drizzava le orecchie come in punto d’aombrare. Giuntovi, entravo in esso come in un ricordo e in un presagio. In qualche luogo era così meditativo e così dolce che, sorpassandolo, l’anima mi si volgeva indietro come pel rammarico d’una perduta saggezza o d’un bene non acquistato. In qualche altro luogo, mi saliva sùbito al viso e mi penetrava come l’odore dell’incenso e il fresco della navata penetrano la creatura che entrando nella chiesa sta per essere posseduta dal suo dio. Sensualitade Turbami el vedere; Et carnalitade Nol mi lassa avere…

Hai certo in mente, o amico, il cantico del tuo Iacopone. 13 Ma non così era per me. Non mai era in me «tenzone fra l’anima e ’l corpo»; ché sempre sentivo sorgere dalla profondità della mia carne gli spiriti più puri e coi miei occhi torbidi riconoscevo gli iddii non manifesti in sostanze trasfigurate per me solo. Quanti divini connubii, quante indicibili generazioni di deità senza nome mi si scoprirono su quella sorta di orgoglio carnale che nasce dal vigore esercitato e dal coraggio messo a prova! Se ripenso l’erta che solevo prendere a sera tornando dal Campo di Marte col cavallo in sudore, là sul fianco di quel bello Arcolaio di Bernardo Gondi fiorito d’oleandri sino allo scorcio di settembre, io so come quella fosse la via misteriosa che mi conduceva non a Coverciano né a Poggio Gherardo ma nell’intimo di me stesso, nella mia più remota solitudine. E ancor mi sembra aver lasciato qualcosa di grande pregio laggiù, lungo i fossati ingombri di tritume, per un di que’ sentieri molli che da Malcantone vanno verso il Pino, ove mi mettevo salendo a galoppo su per l’argine erboso dell’Affrico, mentre i cani andavano fiutando come per ritrovare le estremità di non so che rotti legami e per ravvicinarle e rigiugnerle davanti all’ànsito del cavallo che si calmava stazzonato. O Gignoro, luogo di deserta umiltà, dov’è ancor accolta la paziente pace benedettina come la belletta della pozza nel crocicchio, quante volte a sera passando sotto un’onda di campane ti riempii della mia anima più perfettamente che il soffio musicale non riempia una canna d’organo, mentre tutto il mio caldo corpo in un brivido repentino mi diveniva una cosa più fragile di un’ampolla appannata da un’acqua che vi si congeli e traspiri! Ahimè, non mai, per quanto mi sforzi, potrò rappresentar que’ modi del mio sentire, quando ogni mia esperienza era una comunicazione segreta per rinvenire il senso del mondo e la mia cotidiana vita era un’azione mutua e perpetua tra me e i demoni incogniti ch’evocava la mia magia. Ecco, riodo nella mia memoria l’urto dello zoccolo sonoro contro il sasso, 14 in capo della via di Camerata dalla parte di

San Domenico, e dietro me lo stridore del carro elettrico su la rotaia, lo stridore che si prolunga atrocemente nell’ombra come un coltello rimosso nella piaga d’un petto che si lasci torturare senza grido; e mi ricordo come quella mia angoscia improvvisa non mi salisse dal mio proprio cuore ma di più giù che il sasso, di più giù che la radice della collina bella. 15 Tal luogo veniva incontro a me come una creatura eterna che mi fosse parente. Tal altro tratteneva e serbava per me la più volubile delle forze erranti. In un altro ritrovavo la mia oscurità, in un altro il mio splendore, in un altro il mio crepuscolo. Talvolta, senza causa, con la prestezza dell’inspirazione, il mio petto traboccava d’amore così che mi veniva una volontà di gettarmi giù di sella per porre la faccia contro la terra. Poi, come se da non so che tempera potente l’anima mi si freddasse e indurasse, m’accadeva di non esser più se non una sorta di spada nova nella guaina delle mie membra. E non gioivo se non di quello spirito crudo che tante volte appagai nel sangue delle mie tragedie. E una sì forte imaginazione si levava in me, che mi sentivo tutto aspro di quella «bizzarra salvatichezza» ond’eran irti gli uomini di parte in Fiorenza «per lo mal seme venuto di Pistoia». E mi pareva non esser dissimile a Guido Cavalcanti quand’ei spronò contra Messer Corso col dardo in mano, e i compagni non lo secondarono. Ma pur un giorno ci trovammo con il compiuto donzello Simone Donati al ponte ad Affrico per assalire Nicola dei Cerchi bianchi che andava al suo podere e alle sue mulina. E anco un altro giorno in su l’Affrico stesso fummo con Boccaccio Cavicciuli a perseguitare Gherardo Bordoni, e lo raggiungemmo e afferrammo, e gli tagliammo la mano e la recammo nel Corso degli Adimari; e fu confitta all’uscio di Messer Tedici suo consorto, come nottola. E anco ci trovammo sopra a Rovezzano allora che il barone fu giunto e preso; e pur là eravamo allora che, di costa a San Salvi, con un sùbito raccapriccio fiutando la ferocia della bestia plebea ei levò dalle staffe le grandi podagre de’ piedi e si lasciò sfuggir la briglia dalla man gottosa, e piombò giù di sella per restarsi; e là in terra un dei Catalani gli diede della lancia per la gola, al conspetto dei monaci esciti di badia, onde ammirabile getto di sangue fu il motto estremo di sì bello parlatore. 16 Sere d’autunno tra il Monte Ceceri e il Poggio a’ Pini, tra Mugnone e Zambra, quando sopra Borgunto a un tratto s’allargava una nuvola turchina, bassa come un tetto di lavagne, e per tutto era un silenzio molliccio come quel d’una cisterna coperta, e ogni piega della terra era già come un labbro proteso alla prima gorgata, l’odore piovano giungendomi al cuore innanzi che all’orecchia lo stroscio! Giungeva di lontano, e non proprio come un odore terrestro ma come una ricchezza indistinta, ma come un umido spirito che seco rapisse tutte le grazie fiesolane sparse tra Sant’Ansano e Belcanto, tra gli angeli di Luca e le modanature di Michelozzo, avendo toccato la rosa e lo smalto, il marmo e la dàlia. E mi gli volgevo come un poeta in sogno, di su la groppa, inspirato dal fiato di Fiesole medìcea. Ma, quando le fitte aste della pioggia cominciavano a risonare contro le picche dei cipressi, tralasciavamo la delizia come quei partigiani Neri e Bianchi che, stando a godersi in Santa Trinita un ballo di donne, spinsero di sùbito i cavalli l’un contro l’altro e s’azzuffarono. Partivamo a trotto chiuso verso Castel di Poggio, entrando nel fosco della rimbombante selva come nell’ombra ostile del secolo remoto, con l’animo d’una masnada che cavalcasse a vendicare una soperchieria contro un dei Manzecca, risoluta a non tornare indietro se non dopo avergli fatto quel che il masnadiere dei Donati fece in calen di maggio a Ricoverino di Ricovero. Rinforzando il rovescio, senza allentare il trotto giù per la discesa motosa, passavamo sotto i piombatoi di Vincigliata, poi lungo l’intorbidita Mensola sino al Ponte, e dal Borghetto su per l’erta vecchia di Settignano ove risfavillavano le selci. Travedevo i campi inondati, i solchi mutati in rivoli, i fossi traboccanti, qua e là una faccia del cielo riflessa in un di que’ specchi fuggitivi. I lauri del Belritorno aulivano come se la pioggia li avesse dirotti coi suoi mille e mille

coreggiati d’argento. 17 Balzavamo di sella, su lo spiazzo, fradici d’acquazzone e di sudore fino all’osso, palpando il collo della bestia generosa col guanto inzuppato. I garzoni accorrevano. Dai canili i cani rinchiusi abbaiavano rizzandosi contro i cancelli, ficcando tra le sbarre i musi lunghi e gli occhi ardenti. Chiamavo per nome i tornati, che mi saltavano addosso con le zampe lorde di fango, ansandomi in viso. Se taluno de’ più fiacchi rimasto per via mancava alla chiama, era un gran fischiare, un gran vociare, come in una Caccia di Franco Sacchetti o di Nicolò Soldanieri. «Tè, tettè, tettè!» «Ulivo, torna qua!» «Va su, va su, Donnà!» 18

Allora entrava in me una virtù singolare, vigilante e pronta ma pure involta di non so che sogno, di non so che bagliore fantastico, quasi avessi bevuto una qualche stupenda mescolanza. Respiravo in quella calda bestialità con tutti i miei pensieri concitati come nel furore della poesia. Vedevo, nel forte delle faccende, sorgere le figure segrete che si disformano quando l’arte le tocca. V’era luogo per qualche piccola divinità nella posta occupata dall’importanza del cavallo che aveva fatto il suo sforzo e che doveva essere ben governato. I movimenti consueti, resi agevoli ed esatti dalla pratica quotidiana, componevano il ritmo misterioso della perizia, che pareva regolato dalla mia ispirazione. Il palafreniere curvo su la lettiera asciutta, nell’ombra della pancia zaccherosa, e quello che stropicciava il fianco schiumante con una manciata di paglia per ogni mano, e quello che tuffava la spugna nella secchia tenendo la coda o il piede, ognuno accompagnava la bisogna con un certo soffiare ch’era come un suono lieve di persuasione e di blandimento, onde talvolta si formava non so che parola comunicando all’inquietudine della bestia sensibile la pena e l’amore dell’uomo. Credi tu ch’io fossi più ebro di me quando nel Deserto d’Arabia 19 alla sosta della sera abbiadavo con un po’ di crusca o con un pugno d’orzo il mio stornello impastoiato, cominciando la luna appena a segnare tra immensità ed eternità il miracolo della mia ombra? Anche là, in quella stalla chiusa, tutto era lontananze e apparizioni dello spirito, tutto era disegni e scritture dello spirito, azioni mutue tra me e gli iddii subitanei. Anche là sentivo il mio cuore divenire più profondo e il mio occhio riacquistare la limpidità infantile, come nel Deserto, come su la spiaggia pisana, come intra du’ Arni, come al Gombo, come nella Versilia, come quando nasceva dal mio respiro Undulna. Era ben là Undulna, trasfigurata in una grande cavalla baia che meritava il nome della pieghevole dea «dai piè d’ali». Non docile, abbassava le orecchie, increspava le labbra mostrando le gengive, guardava a traverso mostrando il bianco venato di vermiglio; ma per entro i suoi belli occhi biechi scoprivo l’essere sconosciuto e divino che mi spiava come io un giorno tra le canne del Serchio spiavo il Centauro. 20 V’è certo una Musa velata che conferisce un che di simile a quella grazia detta abituale dai teologi. Io ne fui ricco, all’aperto e al coperto. Le mie imaginazioni non erano se non atti di fede. Sapevo come i fantasmi da me veduti fossero più veri dei corpi e dei movimenti che li cagionavano. Tuttavia non mai accadeva che la mia attenzione esterna si interrompesse o si rilasciasse. La cigna sfibbiata, la sella tolta di sul dosso fumante, il riflesso d’una lanterna sopra una groppa lisciata dal torcione, la voce data dall’uomo per far poggiare o per calmare l’impaziente, uno sbuffo strepitoso, un nitrito più tenue che un fremito di gazella, l’odore della canfora, l’odore della farina nel beverone caldo, un bel guizzo di luce sul viso acceso d’un mozzo, la strana cifra segnata dai peli bianchi in un mantello rabicano, ogni gioco delle apparenze mi commoveva come la rivelazione

d’una novità che in me solo toccasse il sommo del suo pregio. 21 Di posta in posta, palpavo con la mano senza guanto la spalla le reni l’anca per sentirle asciutte; e più d’una volta eccitavo lo zelo con l’esempio, in gara di prontezza, ché tu sai quanto mi piaccia fra i destri esser più destro e a tutto mostrarmi accomodato. Nel canile, quasi carponi, in maniche di camicia, serrando il levriere tra le ginocchia, gli stropicciavo le zampe, le costole, la schiena, pel verso del pelo, sentendo con orgoglio le masse formidabili dei muscoli nelle cosce, i secchi tendini tanto possenti e pur tanto delicati. O sedentario amico, qual mai nostra sintassi eguagliò la virtù di quelle strutture? Esaminavo io medesimo, volta per volta, i piedi messi a dura prova dalla strada toscana ov’è re il barocciaio. Se mi parevan sensibili, li bagnavo con una ottima infusione di scorza quercina e d’allume che raccomando ai miei seguaci spedati. 22 D’un tratto, su la paglia fresca dei banchi le risse scoppiavano. Sotto la frusta che non valeva a separare i contendenti, tutto era fuoco d’occhi e ringhio di mascelle armate. Prendevo su le mie braccia il ferito che guaiva; gli trovavo lo sdrucio nella pelle fina, quasi strappo nella seta. Il combattente feroce ora frignava come un bimbo, lasciandosi medicare dalle mie dita leggère. Bisognava parlargli nella sua favella, consolarlo con le sue moine. Certo, amico, non ebbi mai tanta accortezza nel collegare i membri del periodo e nel volgerli alla clausola giusta, quanta ne dimostrai nell’usare l’ago del cerusico e nel mettere le fasce intorno a così difficile irrequietudine. E non mai, veramente, come tuffando le dita nella bacinella, considerai nel sangue un simbolo tanto sublime. 23 Hai tu mai pensato che imbestiare può in un certo senso essere un modo di trasumanare? Non so più dove io abbia trovato, ma mi sembra in un Dialogo del Tasso, un detto il quale io non voglio più ricercare per non esser costretto di trascriverlo con esattezza e d’interpretarlo altrimenti che a mio modo. «Così come vi piacque imbestiarlo, vi piaccia anche deificarlo.» Vedo che il mio segreto lirico è in una sensualità rapita fuor de’ sensi. E questo non può sembrare un semplice bisticcio alla tua mente umbra, o cittadino di Todi. 24 «Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali e curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et ch’io nacqui per lui…» Te ne ricordi? Nel tempo delle nostre letture ad alta voce, una sera, come fui giunto a questo passo, non potei seguitare, tanto la commozione mi vinse. E una gentile donna, quivi presente, ricevette il mio tremito sin nel fondo del suo cuore; e credo che di poi meglio mi amasse. 25 Ma che mai poteva essere per me ogni altro cibo? Mentre su le alte lettiere i cavalli copertati e abbeverati tritavano con agio l’avena, io veramente a mensa non mangiavo se non la mia anima mista, consentendo al medesimo Torquato che «niuna cosa è più soave della mistura». 26 Quivi sedeva la mia compagna per la notte; 27 ma non ero ebro se non di me, come se fossi solo al mondo, dedito a tutto ottenere da me e a rifoggiare in simiglianza di me tutto ciò che intorno viveva, per deificarmi. Mi prolungavo nel passato, mi ricongiungevo alla mia eternità; ma come a dentro mi toccava la bellezza presente di quelle rose d’ottobre che ornavano la tavola, ancor molli di pioggia, un poco malate di freddo e d’ombra, più tènere e più misere che le piccole pugna chiuse dei poppanti assopiti! 28 La mia vita segreta era così bella che ogni giorno più la profondavo nel suo silenzio vivente. Bastava talora un grido in mezzo ai campi o uno stormire di cipressi perché ella si levasse in un

sùbito tutta quanta con l’ansia di prendere la forma dell’arte. 29 Ma le facevo violenza, la ricacciavo nella profondità. «O profondato mare, altura del tuo abisso!» 30

E vivevo in palese un’altra vita, mi sottoponevo a una disciplina avversa, curioso come fui sempre di conciliare l’inconciliabile e di concordare la discordia, per meritare dinanzi a me stesso quel titolo di Amimetobio male usurpato dalla grossezza romana di Antonio e de’ suoi compagni. 31 Per ciò, invece di secondare il mio genio, m’imposi un cómpito determinato, allogai a me stesso un lavoro di lena, impresi a trattare una materia ignuda con la mia maestria, come i miei artieri settignanesi nella mia casa trattavano il legno, il ferro, la pietra. Anche nella scelta fui duro; perché da prima avevo pensato al Re Giannino e a una Siena affrescata con la maniera di Ambrogio Lorenzetti. Avevo di poi pensato a quel Bianco dell’Anciolina che tu ben conosci, al povero gesuato cantore di laudi ebro come Fra Iaco, al giovinetto lanaiuolo distrutto d’amore per l’immacolato Agnello, come apparve «bellissimo e delicato garzone» all’uomo di Dio Giovanni in punto di partirsi da Siena per andare a Viterbo con rami d’ulivo incontro al Papa, quando Caterina Benincasa compieva vent’anni e cantava anch’ella la sua laude nel suo piccolo verziere intrecciando la ghirlanda di rose con le dita insanguinate dalle spine in commemorazione del divin Sangue. Avevo di poi pensato a Gentile Bellini, a Misser Zentil dalla collana turca, e al suo passaggio d’oltremare su la galera di Melchiorre Trevisan, e alla Bisanzio ancor profumata di neo-platonismo dopo la migrazione degli ellenisti, alla Costantinopoli di quel Maometto Secondo il qual non pregiava se non la guerra lo studio e la voluttà. M’ero pur vòlto a quel difficile nodo di vizii e di virtù ch’era Filippo di Filippo Strozzi, spirito diverso e ricco quant’altro mai, fatto a ogni cultura e a ogni licenza; e veduto l’avevo, corrotto e magnanimo, ambizioso e molle, sospetto a tirannide e sospetto a libertà, nella Napoli aragonese, nella Roma di Clemente Settimo, nella Firenze d’Alessandro e d’Ippolito, nella Parigi del Cristianissimo, ai suoi Banchi di Lione, in Vinegia col suo caro Lorenzino dal pollice stronco, verso Montemurlo a cavallo con la zagaglietta in mano, sotto le mura della mia Prato messo in sul ronzino al ludibrio della canaglia, lui, il magnificentissimo, il greculo amatore di putti, il «delitioso paradiso» di Camilla Pisana, il «dimidium animae» dei mignoni e delle meretrici, nelle cui braccia soleva obliare l’agrezza della viragine domestica e smarrire il filo dei Comentarii di Plinio. Ora in un giorno di nebbia e d’uggia, per aver risognato un gran campo di papaveri visto quell’anno nella Campagna che n’era cruentata come d’una carneficina di baroni, e per aver fantasticato d’un nido di poiana scoperto nella medesima state, imbottito di crini di cavallo e putrido dei resti d’una donnola d’una biscia e d’una botta, mi si presentò la maravigliosa figura di Giovanni Vitelleschi propria alla terribilità dell’Agro quanto la vertebra d’un acquedotto o il rudere d’un colombario. Considerandola, mi sembrò che col medesimo punzone fosse coniata la medaglia di Cesare Borgia, al colpo secco del medesimo martello. Con che acerbo e profondo segno era da imprimerlo nella mia materia, quel prete di Corneto che da scrivano del Tartaglia capo di bande s’era fatto despoto irresistibile e «terzo padre» di Roma! L’impresa borgiana delle Marche, l’eccidio di Pietro Gentile in Recanati, l’espugnazione di Vetralla, la grande e radicata schiatta dei Vico quivi tronca di netto, il tagliamento dei Savelli e dei Colonnesi, l’abbattimento delle ròcche in tutto

il Lazio fumante, la statua equestre decretata al trionfatore in Campidoglio, Palestrina rasa di terra e lasciata come stoppia in cenere, Foligno occupata nell’oro e nel sangue dei Trinci, il crollo repentino di tanta potenza al ponte di Sant’Angelo sopra la gialla fiumana ineluttabile come la sorte, l’ultima spronata senza galoppo, l’agonia squallida nella prigione, il cadavere portato alla Minerva di notte «in giupetto, scalzo, e senza brache», la spoliazione e l’infamazione postuma: quanti scorci profili contorni gagliardi per i miei cartoni, quanta convenienza alla maniera secca cruda e tagliente! Ma era alcuna grazia in alcuna di quelle figure, in altra era non so che rispondenza con certi miei sogni e ricordi; sicché le une e le altre avrei potuto amare o ammirare, essendo traboccante d’amore e disposto a donarmi. Per ciò me ne distolsi; e so che la cagione non può esserti chiara, né a qualtivogli. 32 D’un tratto, tra lagno e strido di quel Poncelletto Venerameri capopopolo mandato dal Vitelleschi al supplizio e attanagliato e sbranato in Campo di Fiore, parvemi udir sibilare la pancia del Tribuno di Roma forata dallo stocco di Cecco del Vecchio. Onde avvenne che, quasi vòlto dal Cornetano medesimo verso quell’altro più antico prelato condottiere ch’ebbe nome Albornozzo, io mi rimanessi in Roma e nel Lazio e tra la baronìa facinorosa. 33 Ecco per qual vicenda, o amico, mi costrinsi al lavoro improbo che richiedevano una mia arcana disciplina voluntatis e la comunanza assidua con i miei artieri. Stabilito il cómpito, temperata la penna, composta con tutta pulitezza la prima pagina, mi sembrò far parte del loro corpo e in me raccogliere l’armonia di ognuno. Non ne serbi memoria tu che per me facesti qualche allogazione stando sul tirato più che tu potevi, sicché tu sembrasti «un po’ durettino» al mio buon Romanelli? Di lui non ti rammenti? 34 Aveva un viso di melacotogna che di lanuginosa si fosse fatta setolosa, ché il rasoio non ci poteva, tanto la barba gli si rinfittiva in una notte, anche a luna calante. Ingoiava di continuo la saliva, ragionando e tacendo, quasi quel suo gran pomo d’Adamo gli si riseccasse di continuo nell’andar su e giù per quel collo che non pareva appiccarsi alle spalle ma nascere dal tallone riducendo a sé la lunga magrezza dinoccolata di tutto il corpo. E aveva un sorriso dolce che mi faceva pena, per quell’ingoiare che l’interrompeva sempre in su lo schiudersi; e due occhi umidi innocenti inquieti come quelli d’un lepratto, se bene egli mostrasse amare il Carmignano infiascato più che la rugiada su’ brocchi. Maestro di cazzuola ottimo, sol nel prendere la calcina dal vassoio con la punta della mestola e nello schiacciarla su la commettitura rivelava una mano sapiente nervosa e istintiva come quella d’un violinista; e starlo a guardare nell’opra m’era un diletto quasi musicale che m’arieggiava il mito ritmico delle mura tebane, sicché per baia io lo chiamavo Maestro Anfione da Feliceto e gli promettevo una martellina d’oro massiccio. 35 E il Contri fabbro? Certo egli era stato a bottega col Caparra e, come per me aveva contraffatto a miracolo il famoso alare che mi mancava al paio, così aveva certo lavorato a quel che mandarono a prendere per il donzello i signori Capitani di Parte Guelfa costretti di contare prima i danari sopra l’incudine. 36 Debbo però dire ch’egli mi faceva credenza e l’arra mi chiedeva di rado, tanto lo rapiva il gran sentimento ch’io avevo dell’arte sua e il mio piacere a vederlo battere e tirare il ferro bogliente e rinvenire l’antiche specie. Roco era e fioco e quasi sempre imbacuccato, per un’angustia de’ bronchi de’ polmoni, 37 come direbbe il Redi; col quale credo consentisse anch’egli nel pregiare tanto il vino vermiglio quanto il bianco il dorato ed il mezzo colore. E si lamentava che la cura della Porretta non gli giovasse e si rammaricava che ora avesse a passare per l’acqua un ch’era passato per tanto fuoco. «Si sa: ci vuol tempo» gli diceva il medico, quel nostro caro Andrea Nasini, sodo come il peperino del suo Montamiata, schietto come un fonte di Castel del Piano. Rispondeva

egli, fioco, quasi da una fucina di sotterra: «Il tempo va e il ferro mi si fredda, sor dottore.» Ma con una nuova invenzione d’una beffa, ci venne fatto di prendere vendetta di quel certo vecchio che, al dire di Francesco Bracciolini, «tutto Il giorno sta co ’l polverino in mano». 38 Incomodato dall’aver continuo per casa un goffo smoccolatore di ceri e di lucerne, disperato di scoprir per tutto le macchie delle smoccolature e di soffrire a ogni momento il puzzo delle moccolaie, stufo di star sospeso tutta notte ai capricci del lucignolo e ai ghiribizzi dello stoppino, volli rassegnarmi ad accogliere nel bel palagio con pratello e corte, che fu de’ Tanagli e de’ Capponi, ahimè, l’atroce luce delle vie publiche, delle botteghe, dei teatri, delle stazioni. 39 Or un giorno, considerando un singolare oriuolo a polvere comperato in Colonia, il quale portava otto ampolle racchiuse nella sua bella custodia di ferro battuto, mi percossi la fronte come Galileo dinanzi al lampadario del Duomo pisano. Due, quattro, sei, otto e più lampadine legate a coppia per il picciuolo potevan sostituire nella cassa le ampolle da sabbia e ingannare il vecchio Barba. Che alzata d’ingegno e che beffa luminosa! Corsi dal Contri che mi stava appunto racconciando una torciera lombarda, a cui era ancóra attaccato il cerume in colature. Fece: «Questa è bona.» E, messo da parte l’altro arnese, sùbito ci accingemmo a costruire il primo polverino senza polvere. In breve, su per gli stalli del refettorio, su per gli scaffali della libreria, intorno alle cappe dei camini, lungo le cornici degli armadii, da per tutto erano disposti gli emblemi dell’inesorabile Tempo, gli oriuoli d’arena dai vetri offuscati, dalle custodie arrugginite; ché avevamo perfin ritolto l’arte al guastatore. D’improvviso, a vespro, si rivelava il dolo. Il granello funebre non iscorreva più dall’ampolla nell’ampolla. Fermata era la fuga dell’attimo. La tacita misura era abolita. Tutti gli oriuoli risplendevano e illuminavano. Tu alzavi i tuoi occhi di chiosatore e dicevi in tuo latino: «Tempus lucescit.» Ma posso io non mentovare Maestro Annibale legnaiuolo, del quale ho tuttavia nell’orecchio quel suo peritoso e perpetuo «Io dirrei…» e nel cuore quel suo mite aspetto di Giuseppe nazareno temente di calpestare i trucioli? Mi forniva un banco di canile e mi ristaurava un cassone del Quattrocento, mi componeva un gentil graticolato per sostenere una spalliera di rose e mi rabberciava un tramezzo sfondato dal calcio d’un cavallo. Lo vedo ancóra davanti a me, un poco sgomento, con la matita turchina su la bocca dove le parole gli s’ingarbugliavano, quando volle domandarmi se una certa ruota misteriosa, che io e un suo molto sveglio figliuolo detto il Morino andavamo ingegnando, fosse veramente per doventare la ruota della Fortuna o la quinta del carro. Te ne ricordi? Era di così raro e segreto pregio che l’avevo messa nel penetrale, in un angolo della libreria, dietro a un mappamondo; e tu le passavi accanto in sospetto come se, macchina infernale, dovesse scoppiare da un momento all’altro facendo scempio de’ Testi sacrosanti. Era l’ordegno costrutto con acume leonardesco, munito di molle nascoste che rendevano mobili e agevoli i quarti liberati dal cerchione rigido; e doveva su le vie attonite della terra sottentrare a quella tronfiona della gomma che non si salva dall’insidia dell’astuto chiodo e della vendichevole selce. Nel giorno della prova, cigolava con un suono tanto inaudito che perfino i cani più petulanti e i più tardi paperi fuggivano al passaggio. Sul primo virare, si sconquassò come un vecchio ombrello investito dalla raffica. 40 Il Betti tagliapietra disse giudiziosamente: «To’, gli era meglio una macine.» Io credo che anche a questo mio scarpellatore tu paressi un poco duretto. Te ne ricordi? Aveva una testa risentita, alla maniera di Masaccio; che gli diveniva focosa per lo stare chinato come quella di Piero che cava i danari dal ventre del pesce nella cappella de’ Brancacci. 41 E la sua testa ei l’aveva sopra un paio di brache che gli cascavano infino alle ginocchia; e non riusciva mai a tirarle su bene, in modo che restassero. E, standomi dinanzi bracalone su quelle gambe corte vestite di rigatino grinzo, mi

ragionava della sua pietra bigia o serena e della sua cava di Maiano con tanta possa che pareva egli fosse il fratello minore di Monte Ceceri e che tutte le colonne della fabbrica degli Uffizii e altre innumerevoli di chiese e di palagi in Firenze fossero il suo parentado. Ricevuta l’allogazione, eseguiva coi gesti issofatto il lavoro. Tagliava facile nell’aria il sasso come il pattonaio una targa di pattona: ecco una soglia, ecco due stipiti, ecco un architrave. Ma bisognava vederlo quando alfine giungeva su lo spiazzo precedendo i barocci carichi che s’impuntavano nella carreggiata. Andava pur sempre bracalone; portava seco nondimeno la grana il peso e il polimento della pietra concia, come l’annunziatore porta l’annunzio. E tanto un giorno mi piacque che sorridendo incominciai per lui una Canzone pietrosa nello stile di Dante aspro. Caro il mio Betti, quanto mi aiutò egli a comprendere per che virtù la grande generazione fiorentina degli scultori nascesse dalle cave di macigni e come Michelagnolo sentir potesse d’aver tirato dal latte della sua balia settignanese gli scarpelli e il mazzuolo! 42 Questo lapicida mero, della generazione dei Gamberelli, dei Fancelli, dei Cioli, dei Lorenzi, dei Caprina, era certo l’uomo della sua materia, se altri mai. Ma io ebbi meco anche l’uomo della mia materia inviatomi dalla benignità di San Zanobi Spirito protettore Genio custode Nume conservadore dell’Academia della Crusca; e tu sai con che cirimonia mi fosse condotto dal più grazioso dei linguai e dal più serviziato degli amici, dal nostro Giuseppe Lando Passerini dei patrizii di Cortona litteratissimi. 43 Subitamente parve che un odore di farina e di virtù si spandesse nella casa sospetta. «A gloria adunque di Dio servendo l’Academia serviamo San Zanobi, e insieme con la favella i pensieri e l’opre affinando, e purificando, l’amicizia di lui procuriamo; e se ella il più bel fiore ne coglie di nostra lingua, colga ancora a imitazione di San Zanobi, per meritare l’alta sua protezione, il più bel fiore delle virtù.» 44 Tu sai come io, candidato perpetuo, osservassi e l’una e l’altra regola. Era l’uomo un assistente al Frullone o, come dire, bidello; ovvero, come detto avrebbe con arguzia peregrina il segretario Bastiano de’ Rossi, Sergente del Castaldo, incaricato di trarre il sacco, di versarlo e scoterlo nella Tramoggia, dopo averne registrato la misura il peso e la bulletta al Campione. 45 L’avevo preso perché mi aiutasse, anche co’ piedi, a compiere la mia difficile raccolta de’ Testi di lingua usati a stampa nel Vocabolario. Conosceva le botteghe dei vecchi librai fin sopra le cimase degli scaffali e ne’ ripostigli del banco. Andava fiutando rovistando frugolando per tutto, con quel suo passettino bilenco e scricchiante, con quel suo collo a vite, con quelle sue mani di rematico 46 dalle nocca levigate come l’avorio d’una stecca da tagliare i fogli, con quella sua guardatura biava or di sotto or di sopra le lenti, con quel suo ombrelluccio color pulce ch’egli pareva tenere in pregio come fosse il serviziale 47 dell’abate Anton Maria Salvini, sal mi sia. 48 Un giorno che mi tirò da parte per confidarmi a bassa voce d’essere in traccia dell’Ariosto con le figure di Gerolamo Porro e del rarissimo Pecorone stampato da Gio. Antonio degli Antonii, 49 notai che inchinandosi verso me alzava un piede e lo teneva così in aria alquanto. Da allora non seppi imaginarlo se non in quell’atto, su le soglie dei librai, immobile nel presentimento del testo raro, come il can da fermo dinanzi alla beccaccia; e, nell’imagine, non tenevo più conto delle lenti e dell’ombrello. Non ammetteva si potesse attribuire una qualche importanza ad altri libri che non fossero gli allegati dal Vocabolario. Credo che le più famose Biblioteche del mondo avrebber potuto ardere senza suo rammarico, purché salva rimanesse la raccolta dell’Academia o quella del Tortoli venerato arciconsolo. 50 Se gli accadeva di dover rimettere nel suo luogo un libro vano ch’egli

trovasse su la tavola, non mancava mai di capovolgerlo in segno di condanna. Quando con un inimitabile suono diceva «e’ Citati», tre secoli di stacciature biancheggiavano in lui; e veramente pareva ch’egli avesse in corpo un burattello. Non credo che alcun mio libro gli fosse familiare. Tuttavia mi dimostrava una qualche ammirazione per non conoscere pur tra i virtuosissimi Academici un linguaio più ghiotto di me. Certi giorni, in fatti, quando era per mantenere qualche promessa di cosa eccellente o esquisita, lo aspettavo non senza impazienza. Sorridevo in me di quel sorriso indistinto che dentro mi nasce quando la grazia della mia vita converte una nota inclinazione dell’intelletto in un sentimento di novità inebriante. Quale uomo ignaro mostrava all’ospite frutti di così duro guscio che la sua gente non sapeva usarli se non in luogo di selci per le lapidazioni? Or questi li apriva facile con la lieve unghia, conoscendo e il punto e il modo; e la polpa virginea gli era un nutrimento quasi divino. Anche si racconta di non so qual tribù che non sapeva usare delle sue donne floride e chiuse, palpandole e scrutandole invano. Or avvenne che l’ospite improvviso, nell’ombra della tenda, rivelasse a taluna il piacere e la rendesse ferace; onde tutte poi si partirono in traccia del giacitore. 51 La stanza dei libri dava sul lastrico d’una corticella inverdita dallo scolo delle docce; dove piante dalla fronda lustra, magnolie e camelie, ingrassavano nel terriccio dei larghi vasi di terra invetriati. Un delicatissimo cancellino, del secolo di Giannozzo Manetti, 52 ne’ cui scompartimenti il ferraio aveva imitato a martello la figura del ragnatelo, riferiva a sé tutte le cose naturali con la seduzione dell’arte. Per la sua stessa tenuità pareva rendere più difficile l’adito e affinare il colore verdiccio della luce sino alla chiarezza di quella specie di berillo onde si dice fossero fatti gli occhi della Minerva nel tempio di Vulcano ad Atene. Se ne veniva col fardelletto il mio procacciante; e si soffermava sul limitare alzando un pochettino quel piede. Tentando io di togliergli il tesoro per impazienza, egli si schermiva aggirandosi, secondo il Testo, «al modo della trottola, ovvero ancóra dello stornello, ovvero palèo». 53 Per aizzarlo gli dicevo: «Sa ella, cruscone, che ho messo la mano su La leggenda e vita e penitenzia del grolioso Santo Guiglielmo d’Oringa eremita molto divoto e servo di Dio, il quale fu de’ Reali di Francia e duca de Pitavia?» Egli stava un poco ad ascoltare, con le ciglia inarcate sopra agli occhiali di traverso; poi spallucciava e ghignava rispondendo: «Non è de’ Citati.» Seguitavo io a punzecchiarlo: «Come? come? Ed ecco qua anco il Trattato delle Quattro Stagioni di Messer Aldobrandino da Siena volgarizzato da Zucchero Bencivenni.» 54 Egli levava l’una delle mani libera, con l’indice teso, negando: «Non è de’ Citati. La non si confonda. La guardi quie.» Con infinita cautela disfaceva il nodo delle quattro cocche d’una gran pezzuola rossigna che doveva esser la pezzuola da sudore di Carlo Dati; e metteva fuori un opuscolo impresso su quella bella carta forte del Magheri che al tasto suona, o un volume giuntino che la vacchetta di Moscovia non aveva salvato dalle tarme, o un di quei Testi in carta turchina stampati all’insegna di Dante e distinti con l’impresa del Frullone. «Ci si bei,» diceva «ci si bei.» 55 E la fragranza del beato Trecento si diffondeva fra gli scaffali. Ed egli mi spiava di sotto alle lenti, mentre io riscontravo i capitoli, mentre qua e là prelibavo le pagine; oppure si sedeva, si toglieva gli occhiali di sul naso e si metteva a nettarli con un de’ capi di quella pezzuola, restando fisso ma con l’orecchio teso, quasi ad ascoltare il battito del mio cervello. Ed era come se si fosse tolto una mascheretta; tanto quel suo viso, immiserito dal rinchiuso, dallo stantìo, e dal regime del lesso academico, si faceva più nobile e più dolce, da poterlo assomigliare con qualche indulgenza a una figura della vecchiezza di Giotto, a una di quelle che nella cappella dei Bardi o dei Peruzzi sopravvivono pur sì maltrattate. 56 E mi piaceva allora d’attribuirgli il candore di Ricordano e

d’assegnarlo alla generazione di quei semplici i quali tenevan per fede che la reina Belisea, moglie di Catilina, andasse alla messa nella calonaca di Fiesole. 57 Credeva quel semplice del farinaiuolo che l’officio mio fosse simile a quello dell’assaggiatore il quale scioglie la bocca del sacchetto, soppesa nella sua palma il fior della farina, lo fiuta, lo lecca, lo gusta, lo trova ottimo e gli mette il prezzo! Io dentro di me in quel tempo, o amico, ero giunto al sommo dell’arte magica, in ogni ora e su ogni caso o creatura pronto sempre a fare incantamento nascosto. Contenevo in me la mia poesia, corrente come il mio sangue, affinché non mi divenisse pel metro una forma compiuta e duratura ma mi fosse nei miei giorni una forza della mia vita libera, mi fosse il ritmo stesso della mia libertà e della mia intrepidezza. In ogni occasione tutto avventurare era non soltanto nel mio istinto ma nel mio proposito. Distruggermi e accrescermi a vicenda, talvolta quasi nel tempo medesimo, talvolta nel medesimo atto, era il mio gioco assiduo. Avevo ottenuto nel mio mondo interiore una sì maravigliosa instabilità che non soltanto il più lieve urto ma il soffio più lieve bastava a smuovere e scrollare immensi strati di coscienza, di cultura e di sogno con rivolgimenti mutamenti scioglimenti pari a quelli delle più rapide catastrofi. Professavo e interpretavo per me nel più alto senso quell’eresia che Valentino tentò di propagare nell’isola di Cipri: «Tutto è lecito a chi una volta ha ricevuto la grazia.» La grazia mi si manifestava in un succedersi quasi ininterrotto di epifanie. Ogni pensiero, ogni sentimento rilevati prendevano il carattere delle apparizioni. Certe sere, spiavo dentro me il levarsi della stella Espero, che doveva rendermi visibile il mio cuore. Certe notti, tutto in me era musica; e, come nell’orchestra il motivo passa per le famiglie degli strumenti sviluppandosi e trasformandosi, così mi pareva udir passare il mio tema fugace nell’infinita sinfonia dei secoli e delle genti. Il presagio della possibilità d’una vita divina, dopo tante vite da me vissute e distrutte, mi faceva ansare come su la soglia della morte. Io potevo forse volgere al mio significato umano la parola terribile: «Dai morti giacenti sul mio cammino, riconoscerete che io sono il signore.» Anche, negli alti silenzii fermi che sono i meriggi dello spirito, intendevo l’altra parola: «Non alia sed haec vita sempiterna. Questa tua vita è la tua vita eterna.» Poi sopravveniva l’allegrezza temeraria, quando il poeta gioca a dadi col demone e non sa s’egli creda più nel suo corpo o più nella sua anima, ché l’una è la verità o la menzogna dell’altro. Poi ritrovavo il mio buio; e della mia coscienza non mi rimaneva se non un aspetto misterioso e pauroso, simile a quei muri dei cimiteri monumentali, onde si veggono sopravvanzare soltanto le teste bianche delle statue funerarie. 58 O amatore di libri, un certo mio modo di amarli e di possederli ti sarà sempre sconosciuto; né io saprò mai rendertelo chiaro. Niun d’essi viveva intiero; ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e premere, con la stessa perizia di quel medico di piaghe che in un capitoletto di questa Vita sùbito ritrova l’osso nel collo di Fra Moriale. Allora, per virtù d’intenzione, come già gli asceti seppero ottenere le stimmate, quel punto sensibile si trasponeva in me. E, come da una fitta in un fianco o all’apice d’una scapula nasce una febbre che invade tutto il corpo ed esalta il tono di tutto il sangue, da quello nasceva una potenza impreveduta operante in tutti i cerchi del mio spirito con un tumulto creatore. E forse quella rapida e splendida imagine dell’opera somigliava a quella che lo scrittore aveva avuta prima di comporla. E, dopo, come oggi, pensavo esser vero che l’arte di scrivere libri non fu ancóra scoperta. E consideravo gran parte de’ miei come quei nemici mortali che Ferdinando d’Aragona si piaceva di tener presso di sé bene imbalsamati a guisa di mummie, dopo averli fatti morire con le invenzioni più crudeli. «O Filotete, figliuolo di Pean, tu non saresti nell’isola di Lennos, col nostro peccato!» 59 Coglievo con l’occhio scorrente a piè d’una pagina questo grido e, non so perché, il cuore mi

balzava come se a un tratto avessi udito gridare una voce eroica sul mio capo: mentre l’uomo dabbene con le sue dita nocchiute radunava le schede. Ed ecco s’alzava un compianto sublime. «O Cillaro, la tua bellezza non ricomperò te combattente!» 60 Ed ecco, più oltre, qualche parola s’adeguava al limite del silenzio. «La figliuola di Saturno aperse una porta, e non fece stridore volgendosi il ganghero.» E alcun’altra, ecco, si scioglieva al confine dell’aria. «Finalmente, piagnendo si disfece in fino alle tenere midolle; e a poco a poco diventò vana ne’ lievi venti.» E in queste la voce della profonda saggezza pareva salire come per una vena tortuosa e alfine compirsi in una sentenza tonante. «Tutte le cose si mutano: niuna cosa muore. Lo spirito erra, e non muore in alcuno tempo. E sì come l’agevole cera si segna in nuove figure e non sta ferma com’ella era, e non osserva quelle medesime forme, ma pure ella è una medesima; così ammaestro io che l’anima è sempre una medesima, ma ch’ella va in isvariate figure. Adunque, acciò che la pietà non sia vinta dal desiderio del ventre, non vogliate turbare l’anime, che sono vostre parenti, con crudele morte: e ’l sangue non sia notricato col sangue. E però ch’io tratto di grande materia, e ho date le vele piene a’ venti; niuna cosa è in tutto il mondo che stia ferma.» 61 Ma altrove, in un dialogo più breve del vagito e del rantolo, tra un savio e un eroe entrambi innominati, la crudele morte era impeto di libertà e certezza di vittoria. «Onde venisti? – Del ventre. – Come ci venisti? – Piagnendo e nudo. – Dove se’? – Nel mondo. – Perché ci se’? – Per combattere. – Ove vai? – Alla morte. – Perché vai? – A vincere alfine.» Forse il dabben uomo, in punto di sonnecchiare per la fatica dell’erta vecchia di Settignano, traudiva nel sopore i sussulti e gli intoppi del Frullone; ché di tratto in tratto si riscoteva. Io udivo nel silenzio il rombo dell’Arno gonfio alle Mulina, lo scalpitar d’un cavallo, l’uggiolar d’un cane, lo strillo d’un bimbo ai campi, il rodìo prossimo d’un tarlo, il polso del mio vigore; e divinavo, di là dalla parola impressa, i rapporti musicali della malinconia. Mezzo insonnito, col labbro di sotto un poco penzoloni, imbambolendo come se si ritrovasse su le ginocchia della reina Belisea, il cruscaio biasciava a quando a quando: «Ci si bei, ci si bei.» Or come il divoto del Santo Venerando Fiorentino Pastore Zanobi, quasi fosse untato col zibetto del Demonio, poté egli fare la fine di Messer Pietro divoto del suo Monichio e divotissimo della Zaffetta, della Nanna, della Pippa, della Riccia o di Matrema-non-vuole? 62 Un giorno mi giunse più saltabellante del consueto, con gli occhi vispi, con i pomelli rossi, con un ventoso zimarrino tanè tutto grinze e svolazzi, con un non so che d’insolitamente arzillo nel passo e nei modi, come se venisse dall’annuale Stravizzo academico, mezzo cotticcio e invaso dalle veneri della Cicalata. 63 «Che novità?» Mi rispose con uno schiocco di lingua così sguaiato che me ne scandolezzai. Mi portava una lauta ghiottornia: il Viaggio al Monte Sinai di Simone Sigoli fiorentino del popolo di San Nicolò Oltrarno, un testo del Trecento, e de’ Citati. 64 La lettura del Milione m’aveva già empito d’un diletto e d’una maraviglia non dissimili a quelli che provai sfogliando per la prima volta la raccolta dei disegni di Pisanello e di Iacopo Bellini, lassù, nella stanza del Conservatore, entro il vano d’una finestra a’ cui vetri fumigava la nebbia della Senna grassa di cloache. Avevo cercato avidamente altri Viaggi d’oltremare, quello di Frate Nicolao da Poggibonizzi, quel di Frate Riccoldo da Monte di Croce, quel del Beato Oderico da Pordenone, e quelli del Frescobaldi, del Gucci, di Ser Mariano, prose più saporite assai che le «pomora di paradiso» ivi laudate. 65

Apersi il volume come si apre una mela rosa, misi la stecca nelle pagine intonse come il coltello negli spicchi. «Al nome di Dio amen. Qui appresso faremo menzione delle nobiltà delle Terre d’oltremare quando si va al Santo Sepolcro di Cristo e de’ loro costumi e modi, e appresso quante giornate si fa da una Terra a un’altra e quello si truova in quel mezzo; e tutte le dette cose e condizioni e modi, personalmente le voglio dire io Simone Sigoli negli anni Domini 1384, quando andai a Santa Caterina al Monte Sinai e al Santo Sepolcro e nell’altre sante luogora con questa compagnia cioè Lionardo di Niccolò Frescobaldi, e Andrea di M. Francesco Rinuccini, e Giorgio di Guccio di Dino Gucci, Bartolommeo di Castel Focognano e Antonio di Pagolo Mei lanaiuolo, e Santi del Ricco vinattiere con sei nostri famigli. Partimoci di Firenze a dì 13 d’Agosto…» Il cruscaio s’era seduto, non senza una certa inconvenienza; e mi teneva mente, con i pollici in quelle incavature del panciotto che stanno sotto le ascelle. Io scorrevo le pagine con una curiosità simigliante alla «disordinata vaghezza» che i Padri tacciano di peccato; 66 e mi soffermavo a ogni tratto, ritenuto dai capiversi come da quei freschi tralci che ti s’avvolgono quando entri nel vitalbaio. Mosso dalla delizia, leggevo qua e là ad alta voce. «Poi la sera quando appare il cielo stellato ciascuno comincia a mangiare carne e ogni cosa che a loro piace e manucano tutta la notte. E ciascuno prete d’ogni popolo va la notte tre volte con uno tamburello sonando per lo popolo suo, chiamando i suoi popolani per nome, dicendo: Manucate e non dormite, e fate la tal cosa scolpitamente, cioè di lussuria, acciocché la legge di Macometto si accresca…» A questo punto udii un suono di natura indistinta, che in sul primo mi fece pensare a Barbariccia in Malebolge, 67 poi al primo cigolare di certi congegni vocali nascosti nel corpo di certi autòmati e messi in movimento dalla chiave, poi a un organetto a manovella sconquassato dove qualche canna strida, qualche altra soffii, qualche altra sibili. Ed era uno scoppio di risa! E, come il cruscaio si sforzava di contenere la non decente ilarità, il suo stomaco ne pareva intimpanito. «Ora racconteremo della giraffa che bestia ella è» io lessi, contraffacendo ad arte la mia voce, per una bizzarria subitanea di mettermi al gioco. «La giraffa è fatta quasi come lo struzzolo, salvo che lo ’mbusto suo non ha penne anzi ha lana…» Non avevo più dinanzi a me l’uomo del Buratto ma, sia venia al bisticcio, un vero burattino di cenci e di stecchi agevolissimo i cui fili erano tutti nella mia mano. 68 Lo spiritello della stravaganza, quel «mazzamurello» che ebbe il suo nascondiglio nella carbonaia della mia casa paterna e che fin dall’infanzia m’ha in balìa, era apparito e incominciava a scapricciarsi come suole. 69 Il sentimento della realtà m’abbandonava, una vita fantastica palpitando fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravano a poco a poco inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa. Ma, non so perché, udendo quello strano riso meccanico che pareva dislogare e disarticolare l’armatura del fantoccio su la seggiola scricchiolante, ridendo io medesimo, ben sapevo d’avere dinanzi a me la mia vittima prefissa. «Ancóra diremo del leofante che bestia ella è e come egli è fatto.» Quel pio Simone misurava tutto a braccia, come tutto fosse drappi di seta o pannilani: villate, castella, granai, giardini, torri tonde, gambe code corna di animali, cappelli bàtoli maniche barbe di saraini, cadì turcimanni e preti di moschette: cento braccia, braccia due e mezzo, braccia tre, e due bisanti d’oro al braccio, e il bisanto fiorini uno d’oro e un quarto, e la carne di castrone danari sedici la libbra di nostra moneta, e le quaglie vive denari sei l’una di nostra moneta, e anco pelate dal pollaiuolo. La sua beata goffaggine mi rammentava quella dei miei cucciolotti, più graziosa della grazia stessa. Il riso irrompendo dai precordii mi travolgeva le sillabe nella lettura. Con la

coda dell’occhio sorvegliavo il mazzamurello dal muso di furetto, temendo ch’egli fosse per trascinarmi in una delle sue gighe vertiginose. «Del nìffolo gli esce uno budello quasi fatto a modo d’uno corno da sonare, e quando vuole egli il dilunga bene otto braccia e più quantunque egli vuole; e con questo budello piglia l’acqua che vuole bere; et io il vidi co’ miei occhi che mise questo budello in una bigoncia, e in uno punto con questo budello trasse più d’uno barile d’acqua in meno che tu non avresti bevuto un mezzo bicchiere di vino; e con questo budello piglia ogni cibo e metteselo in bocca. E quando vanno per cammino e trovassono alberi, non è sì grosso albero ovvero ramo, che se il leofante vi gitta suso il budello, incontanente lo schianta e tiralo a terra, tant’è la forza ch’egli ha in questo budello: e se niuno gli s’appressasse per modo ch’egli potesse aggiugnere con questo budello, darebbegli con esso a traverso e gitterebbelo in alto ben venti braccia e più, e poi il riceve sulle sanne, e si è morto.» Il cruscaio, sollevato di su la seggiola e agitato da una ilarità irresistibile da quanto il ballo di San Vito, si sbatteva qua e là fra tavola e scaffali, ora sfondando nell’urto una fila di vocabolarii, ora rovesciando una cassetta di schede, ora roteando e rimbalzando dalla spera celeste al mappamondo terrestre, senza poter più fermare il calcagno, senza poter più serrare le mascelle, mezzo uomo, mezzo autòmato, convulsione umana in carcassa di legno, stridore meccanico in ossatura viva, stravagantissima fra tutte le stravaganze da me imaginate mai. E il mazzamurello ruzzante e beffardo, aggraffate le falde dello zimarrino, me lo spingeva addosso o lo tirava nel canto con tanta facilità che io lo vedevo a vicenda appressarsi e allontanarsi indefinitamente come le figure labili dei sogni. E, appressandosi, il fantoccio levava il suo braccio di stoppa fin sotto al mio naso e barbugliava: «Con questo budello…» E poi si divincolava e quasi pareva spezzarzi in due, a una nuova stretta di riso che lo pigliava pe’ fianchi, gli torceva il bellìco, gli chiudeva lo stomaco. «Se vi gitta suso il budello…» Come schiantato, si riabbandonò di colpo su la seggiola rovesciandosi in dietro; rimase per un attimo in bilico, con quel gorgoglio arido nella gola aperta. Un golino del mazzamurello gli diede il tracollo. Seguì egli nella caduta la spalliera greve, levando all’aria per l’ultima volta il piede cionco; squittì, strise; batté la capata nel duro, non si mosse più. «E si è morto.» Or a chi dunque ero io per confidare i miei quaderni da mettere nella tramoggia? Di quegli spiriti ilari che, come vuole Galeno, «o per titillazione o per allegrezza» diffondendosi riempiono il cervello e storcono la bocca, ahimè, non mi rimaneva se non una inquietudine simile al rimorso. Il lavoro mi diveniva increscioso e vano. Avevo lasciato in mezzo alla vigna impantanata, là fuori di Porta San Lorenzo, il proposto di Marsiglia Pietro di Agapito Colonna, con la pappagorgia segata dalla sguerruccia di Sgariglia beccaio, supino in una pozza d’acqua piovana e di sangue imbelle. 70 Or anche a me, come al signore di Genazzano, non riesciva di sfangare. Udivo la pialla di Maestro Annibale, la martellina del Romanelli, il martello del Contri, lo scarpello del Betti, suoni discreti dell’opera diligente; e io strascinavo la penna, parendomi di non più sapere dove si fosse «la bontà e virtù della locutione», simile a uno scolare svogliato. E sospiravo la ben posta Domasco del buon Simone Sigoli, dove mi sarebbe stato dolce vivere da calligrafo copista, tagliando col temperino affilato il calamo de’ paduli di Bambilonia al modo del rostro dell’aquila, polendo con l’ovo di cristallo la carta di Samarcanda tinta in gruogo, facendo da me il mio inchiostro con la filiggine intrisa di gomma e di miele, avendo meco per ogni mio bene la mia scatola miniata di dentro e di fuori a custodia del calamaio di porcellana, dell’ampolla d’acqua, del crivelletto per la sabbia azzurra, del vasetto per la colla di farina. E avrei seguita la scuola dei Sette Maestri d’Asia Minore, esperto di molte scritture, e anche di scrivere con l’unghia come Nizham-eddin Bokhari; 71 e

domandato avrei mille piastre per pagina e una cogna d’acqua rosa. «Di fuori di Domasco ha di bellissimi giardini ben pomati d’ogni ragione frutti che tu sai divisare,» mi diceva Simone «e quando sono fronzuti è tanta la quantità, che ’l sole non vi può; e per questo gli uomini e le donne vi pigliano grandissimi piaceri. Ancora ne’ detti giardini ha grandissima quantità di rose per tale che vi si fa l’anno molte migliaia di cogna d’acqua rosa, ed è della buona del mondo; e veramente egli è un gran piacere a vedere quella pianura con quelli bellissimi giardini.» Ignava era la luce autunnale che ingiallivano i vetri tondi ne’ piombi. Di tratto in tratto, essendo in amore Piuchebella dagli occhi citrini, tutte le mute ululavano insieme di spasimo come i cinquemila cani di Bernabò Visconti. Un sol pensiero di bellezza lontana bastava perché il cervello costretto mi si sfaldasse come galestro. Non rifioriva in quel tempo il sanguine per i boschi e per le siepi della Versilia? E anche in un luogo dell’Apennino pistoiese ch’io so, lungo la fiumana che muove le cartiere; e anche laggiù, tra Ravi e Tirli, nella Maremma dove in quel tempo cominciavano certo ad arrivare le prime greggi, e i cinghiali abbandonavano i piani per rifugiarsi nei forteti, e tutti i laschi biancicavano di brina, e la beccaccia frullava d’improvviso uscendo dai capannoni di roghi, dai macchioni di sondro e di mortella, dalle felci infoltite sotto le sughere. Che avrei dato per ricamminare nella viottola di sabbia, a Bocca d’Arno, stretta tra ciuffi d’erbe e cannucce pieghevoli, quasi rosea, come una scriminatura! 72 Nulla è tristo quanto questi tedii e disgusti inattesi. La materia ingrata si vendicava contro il rigido artiere. Un flutto errante di poesia pareva a un tratto cancellare tutti i miei rilievi. Quasi iroso, opponevo la resistenza dell’arte volontaria. Per ciò, amico, tu troverai nella Vita di Cola più d’una locuzione risentita e netta come la spica di Metaponto nella moneta incusa. 73 Ti sovviene di quella mia cupa stanza da studio, attigua alla biblioteca? Aveva l’aspetto d’una sacrestia; somigliava, benché tanto minore, nella pàtina dei legni e nel sentimento del silenzio a quella sacrestia di San Giovanni in Parma, che m’è sì cara. Un’alta spalliera di noce ricorreva intorno, con le sue panche da sedere e con le sue tavole lunghe occupate dai leggìi. Un solenne leggìo da coro era nel mezzo; e due altri, d’altra forma, erano addossati a una parete, i quali provenivano da Santa Maria Novella; e ognuno reggeva, secondo la sua grandezza, un Antifonario, un Breviario, un Rituale, un Messale o un Ufiziòlo. E, nelle pagine aperte, le quattro linee parallele in rubrica tagliate dai neumi mi ricordavano di continuo che, dov’è l’arte, quivi è il canto, e che questo mondo non è se non il mondo della Forma misurata. Or dov’è, or a chi serve e a quale uso, quella semplice e massiccia tavola francescana trovata nel refettorio d’un monastero perugino? E quella gentile scrivania, anche monacale, ad uso di scrivere in piedi, che pareva fatta alla mia statura, con tutte le sue comodità per ricevere il calamaio, le penne, la lampada e ogni altro arnese, con i suoi ripostigli per riporvi le carte, gli inchiostri, i libri utili e ogni altra cosa gelosa? Quivi tutta in piedi ardentemente fu scritta la Laus Vitae, con una lena ininterrotta, mentre su l’altra tavola era disteso il ròtolo che recava la figurazione della Sistina, simile per me a quel medesimo che svolge la Sibilla Delfica, simile al ròtolo santo che come vela quadra s’inarca alla banda contraria. 74

E là io composi L’Otre, con sì fermo polso; e là, con mano sì casta, le sette ballate del Fanciullo, e

l’ode Lungo l’Affrico, e quel trasparente Ulivo, e quella fresca Sera fiesolana cinta tre volte col salce come «il fien che odora». 75 Non si fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudìo? E per quante crazie venduto fu dai miei scorticatori 76 quel busto del Machiavelli dinanzi a cui avevo posto per offerta il più difficile dei miei freni, forse nell’intimo pregio non troppo dispàri con l’altro consecrato alla Dea cèsia da Cimone, «per acquistare la cavalleria spirituale»? 77 Debbo, o amico, a tal presenza l’aver descritto con sì strenua sobrietà la fine di Fra Moriale. Il discorso che il Priore tiene ai fratelli per confortarli e per accomiatarli prima d’esser condotto al supplizio, ora che lo rileggo e posso giudicarlo come cosa a me straniera, mi piace quanto l’orazion piccola del Conte di Poppi, abbandonato da Dio e dagli uomini, disceso sopra il ponte di Arno al conspetto di Neri Capponi. «Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano…» È ben questa una maschia parola, se altra mai. Ma spensi alfine il figlio del taverniere, per il fendente di Treio notaro, e lo diedi al rogo ignominioso nel campo dell’Austa. 78 Ero sospeso in quella delusa tristezza che sempre accompagna il termine d’ogni mia fatica, quando riconobbi il passo del cruscaio claudicante sul lastrico della corticella, e poco dopo udii picchiare con le nocca alla vetrata della libreria. Balzai in piedi, titubai per qualche attimo, accorsi: travidi pe’ vetri il zimarrino tanè floscio come se fosse appeso a una conocchia: apersi risoluto. Egli entrò, si soffermò alzando un poco quel piede; e mi guardò di sopra alle lenti sbieche con due occhi che volgendosi in su avevan l’aria di due bocce di porcellana bilicate. Più che mai mi parve un fantoccio fatto di panni e di stecchi. Sbirciai la cimasa dello scaffale per vedere se il mio mazzamurello non si fosse arrampicato lassù a tirare i fili. Non so che vita fantastica ripalpitò fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravan di nuovo inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa. «Mi manda l’Arciconsolo» scilinguò «caso mai La me la volesse dare per la stacciatura.» Su l’ultima sillaba la bazza restò aderente al pomo d’Adamo, come se la mascella dislogata non si potesse più chiudere; e la lingua, carnosa come quella d’un pappagallo, s’agitò senza suono. Mosso da non so che sentimento di necessità, mi volsi; andai verso la tavola, raccolsi tutti i quaderni, ne feci un fascio; tornai con esso verso il cruscaio. «Ecco.» Egli aveva aperto sul burattello del suo cuore con le due mani ossute il zimarrino, a quel modo che s’apre un tabernacoletto di due usciuoli. «Ecco il Componimento» dissi, forzando la voce come per farmi intendere da un sordo, giacché egli era doventato mutolo. E, dopo avergli introdotto in corpo il manoscritto caldo, sul quale il zimarrino si chiuse e abbottonò, volli dargli un leggero sorgozzone per rimettergli al posto la mascella. Sùbito la lingua, che si moveva a vuoto, rifavellò con un rumore di frullone, a salti, a intoppi. «Tre sono i luoghi, o libri, ne’ quali può essere il Componimento registrato; tratti i nomi sempre dal frumento che si macina, l’uno detto lo Stacciato, l’altro il Farina, il terzo il Fiore. Quando il Componimento non passa, si pone nello Stacciato, ove, come nell’infimo luogo, vien condannato. Quando ha ottenuto la

maggior parte de’ vóti favorevoli, si pone nella Farina, per di quindi, quando che sia, dopo un’altra stacciatura, salire nel Fiore.» Su l’ultima sillaba la bazza ricascò, si ricongiunse al pomo d’Adamo. «Salir nel Fiore, salir nel Fiore!» sospirai dal profondo. E gli diedi un secondo sorgozzone più netto, per rincastrarlo ricongegnarlo e riarticolarlo meglio. «La non disperi, sa, La non disperi» squittì dileguandosi come lo spaventacchio d’un orto portato via da un colpo di vento. E mi parve che il mio mazzamurello si desse a inseguirlo, di sotto alle magnolie e alle camelie, passando a traverso il ragnatelo di ferro battuto. Eccoti dunque, o amico, questa mia bene stacciata prosa. La mando, per testimonianza d’una maniera d’amore che non si può rompere, a te che mi fosti sempre congiunto di compagnia da non potere dividere, come direbbe il Beato. 79 Pur quando ero a comporla, mi sembrava da me distante; e nondimeno ogni frase così polita, se la rileggevo attento, mi ammaestrava su la conoscenza di me medesimo; ché sempre lo stile non è se non una incarnazione illuminante, ed ogni pittura non è se non l’imagine del pittore. Sentirai qui più d’una volta, sin nell’ordine sintattico, la stessa mano che stropicciava e soffregava con arte i muscoli del sensibile levriere. Ora, ahimè, per questa mano comprendo come quel nostro antico sonatore di liuto smanioso di superarsi fosse disperato di non somigliare le due figliuole di Marco Volcatio, ciascuna delle quali aveva sei e sei dita! Chi troverà la nuova intavolatura? 80 Giunto al colmo degli anni, avendo già vissuto tante vite, io mi preparo tuttavia a novellamente vivere e a conoscere nuove deità, se la forza m’assista. Ogni notte sento con un brivido l’ora della rugiada, quando l’anima non è contaminata da alcuna grassezza di carne, come direbbe il Beato. 81 Se Lapo di Castiglionchio mandò in dono al Petrarca un buon manoscritto, tu a me hai mandato un raro volgarizzamento della Vita solitaria ricordandomi come esso Poeta fosse solito dire, secondo Leonardo Aretino, che solo il tempo della sua vita solitaria poteva chiamar vita, perché l’altro non gli era stato vita ma pena ed affanno. 82 Questo anch’io so. E so che ancóra v’ha per me molte altre maniere d’esser compreso e incompreso, amato e abominato, glorificato e vituperato. E so che, d’origine libero, fattomi liberissimo, ho ancor da conquistarmi una più ardua libertà. E so che, sempre avendo più che arditamente operato, ancóra a più grandi ardiri ho da trascendere. 83 Forse un discepolo potente e discosto mi rivolgerà domani il detto che gli parrà avere io meritato meglio di Servilio Vatia. «Solus scis vivere.» 84 Intanto una vecchia canzone a ballo della Grande Landa mi ripete nel suo metro barbarico la medesima cosa. «Iou ’n sréy tustém lou méste Menoun, Iou ’n sréy tustém lou méste.» 85

Addio, amico mio lene e invitto. Assai mi son piaciuto di teco rivivere al tempo di già. Ecco, anche stanotte, l’ora della rugiada; che forse non è se non quella «ottima tenebria» o quel «lucente tenebrore» del povero gesuato in cui riecheggiava per le vie d’Italia il canto del tuo Iacopone. 86 Ognissanti, 1912. 87

G. d’A.

LA VITA DI COLA DI RIENZO

I 88

L’UOMO comunale viveva incorporato alla sua famiglia alla sua consorteria alla sua maestranza alla sua parte, in quella guisa che la figura sbozzata di basso rilievo aderisce alla vena del sasso, resta prigione della forza compatta onde nasce. Ma già l’acerrima arte dantesca aveva scolpito figure di tutto tondo, girato grandi ossature umane in attitudini di sdegno solitario, staccato d’ogni banda e fissato in piedestallo la prestanza dell’Eretico disceso da Catilina; ed esso l’artiere grifagno dalla gota macra aveva anco gittato di bronzi, nel più tristo fuoco delle passioni civiche, la sua propria statua e sollevàtala di contro alla Città e al Fato, visibile per sempre sul folto dei secoli come le torri di Dite rosse nella notte infernale. Il Poema per lui composto era il più duro atto di volontà che compiere si potesse in terra da un eroe rimasto solo con gli Elementi e con i suoi Pensieri. Le due mani della creatura terrestre fatta a imagine della Divina Mente non avevano mai operato nel tempo medesimo un prodigio duplice con tal fermezza. Come il venerando restauratore dell’Impero occidentale e liberator della Chiesa, l’alunno di Vergilio reggeva nell’una mano un mondo chiuso e crociato ma nell’altra non la verga dell’oro, sì bene la chiave protesa ad aprir la porta di un mondo caldo di natività urgenti. Quel tirannico spirito, cui fu bello aversi fatta parte per sé stesso, annunciava l’avvento delle volontà singolari, l’esaltazione della virtù soverchiatrice, l’amore effrenato del predominio e della gloria. Come quel suo magnanimo Uberti dalla cintola in su fuor dell’avello roggio, così dalla fornace scoperchiata degli odii cittadini cominciavano a drizzarsi col petto e con la fronte i dominatori. Pareva che, nel suolo già calpestato dalla Lupa e sorvolato dall’Aquila marzia, imbevute di sangue le radici innumerevoli delle genti fossero per produrre alla ima dell’arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti. Per ovunque apparivano anime spaziose, ardue stature, volti d’aspro risalto. La Tirannide e la Libertà si combattevano con l’unghie e coi rostri, entrambi della razza di Anteo giganteggiando ché, atterrate, ribalzavano con furor novello; e avevano fatto vóto di ricementar torri e palagi l’una col sangue dell’altra come quell’antico di murar suo tempio con cranii d’uomini. Nella vicenda degli insediamenti e degli abbattimenti, delle congiure e dei riscatti, delle cacciate e dei racquisti, le virtù si moltiplicavano, il nerbo del braccio e dell’ingegno s’accresceva ognora più di possa e di destrezza, la gioia selvaggia di vincere o di morire ampliava il torace cui pareva angusto il giaco. Forme di vita politica variissime si creavano, alternandosi, intricandosi, soprapponendosi.

Appetivano la novità i popoli come le greggi il sale. Frequenti come le violenze erano le dedizioni. Uguccione riceveva Pisa in dono, prendeva Lucca per forza. In breve giro di tempo Firenze offeriva sé a Roberto d’Angiò, al duca di Calabria, a Gualtieri di Brenna; poi di sùbito si rivendicava in libertà, traeva i grandi dal palagio, rifermava sopra loro gli ordini di giustizia, dava la signoria alle ventuna capitudini dell’arte, in poco più d’un anno mutava quattro stati di reggimento, per tante rivolture passava dalla saviezza del Re da sermone alla mattezza di Messer Andrea bestia. Ma il cittadino costretto a vivere così tra tirannia e stato franco superava in durizia il ferro battuto tra incudine e martello. E se i serragli e le guernigioni di logge e di torri in piazza in crocicchio e in capo di ponte mettevano a pruova ogni ardire e ogni astuzia, l’esilio esaltava la volontà eroica in supremo: l’esilio che già del provvido Priore di Parte Bianca aveva fatto l’Ulisse cristiano, meravigliosamente avido di conoscenza, solo veleggiante su l’oceano d’Eternità. Or, costituite le signorie, si riaccendeva l’amor del vivere ornato. I vincitori, detersi dall’eccidio e assisi, accoglievano con umanità la Poesia e l’Eloquenza ospiti in toga aulica o in saio volgare. Pareva che Federico di Svevia risuscitasse ai ghibellini esempio di cortesia cavalleresca. Già il Polentano amico di Dante aveva composto suoi dolci sonetti; or di mordere anco in rima dilettavasi Castruccio dalla rosa capelliera. Già Franceschino Malaspina aveva nominato il fosco fuoruscito procurator di pace al vescovo di Luni; or Giovanni Visconti e il secondo Galeazzo commettevano ambascerie solenni a Francesco Petrarca. E il nato di gente nuova, con la scorta dei cavalieri colonnesi, recando tra le salmerie la porpora regia donatagli da re Roberto, entrava trionfante in Roma vedova. II 89

ROMA pativa tutti i mali, quasi che sopra la Donna dei regni si fossero abbattute le desolazioni e abominazioni annunciate dal ruggito dei profeti alle città di Giuda stese nella vergogna. Distrutta la magnificenza della sua forza; cadute a terra le statue della sua gloria; la fame e la strage indizii della vita rimasta nell’immensa ruina. Il lamento che la diserta faceva in sul limo del suo fiume non era udito dal Pontefice là nella ventosa Avignone intento a stimar con bilancia d’orafo se ogni fiorini otto gli dessero il peso legittimo di una oncia d’oro. Miserabile e formidabile l’aspetto dell’Urbe quale si rispecchiò negli occhi ceruli del settimo Arrigo giunto alla Porta del Popolo con sì ricco sogno e sì scarso arnese. Un drama più grande che quello cotidiano delle fazioni furenti vi si svolgeva espresso dalle pietre e dal suolo. La funebre voracità dell’Agro, non placata da tanto pasto secolare, pareva che stesse per inghiottire i Fori i Templi i Teatri gli Archi le Terme, tutti i testimonii venerandi che la Republica e l’Imperio con sì stabile fondamento avevan radicato nel tufo primiero. La bellezza dell’Urbe si faceva sotterranea, discendendo a poco a poco nel silenzio degli asfodeli verso i Mani degli Scipioni e de’ Cesari che l’avean creata a imagine della magnanimità loro. Gli sterpeti le vigne gli orti le paludi occupavano i luoghi tra ruina e ruina. Ma, come più andavan profondandosi nel lento seppellimento le moli illustri, la superbia dei nuovi ottimati soprapponeva al marmo scolpito la muraglia rozza di cotto e riconquistava il cielo con le torri inespugnabili che parevano i nudi fantasmi dei colossi antichi. Un’orrida città di guerra cresceva, irta di offese, sul composto lineamento di quella che aveva potuto acquietarsi contemplando l’orbe trionfato. Coi ruderi del Teatro di Pompeo costruivano la rocca gli Orsini; i Pierleoni con

quelli del Teatro di Marcello. I Margani e gli Stazii si afforzavano nel Circo Flaminio, i Millini ed i Sanguigni nello Stadio di Domiziano. Poggiata al fulvo travertino del Colosseo la cittadella dei Frangipani comprendeva in una cintura di torri gli Archi di Giano, di Tito, di Costantino, il Septizonio e gli altri palagi imperiali, e le vestigia sante della Roma quadrata, e forse i santuarii dedicati al culto dei primi Eroi indigeti. Tenevano i Colonnesi il Mausoleo d’Augusto e tutta la valle tra il Monte Pincio e il Quirinale; i Savelli tutto l’Aventino; i Caetani parte dell’Isola Tiberina e il battifolle inalzato intorno al sepolcro di Cecilia Metella, ch’ebbe nome Capo-di-bove dai bucranii, ove il saettame era accumulato intorno al sarcofago illeso della sposa di Crasso. Rivale in potenza all’opere dei Frangipani la cittadella dei Conti abbracciava i Fori d’Augusto di Nerva e di Cesare ergendo incontro al Campidoglio sopra una base di macigni ciclopici la massa tetragona della torre mastra murata di cotto in tre ripiani con guernimento di merli bertesche e piombatoi, l’altissimo dei propugnacoli dominatore di tutta la cerchia, degno d’esser comparato per robustezza austera alle più valide arci della Republica. In tal selva nemica entrava Arrigo, attonito, coi suoi duemila cavalli e coi tre cardinali legati che dovevano incoronarlo. E dal maggio al giugno combatté di torre in torre, di bastita in bastita, di serraglio in serraglio, vanamente, per giungere al Vaticano che Giovanni d’Acaia e gli ottimati guelfi gli contendevano. Per giorni e giorni il sangue arrossò le vie, il fuoco arse le case, i cumuli degli uccisi abbarrarono i ponti: la chiericìa in piastra e maglia con spuntoni e corsesche armeggiò nei crocicchi; il vescovo di Liegi fu fatto prigione, gettato vivo in groppa d’un giannetto come soma, ammazzato dalla ferocia d’un balestriere di Catalogna; i palagi degli Orsini in Campo de’ Fiori furono messi a sacco; i frati francescani diedero il convento di Araceli in potere dei Bavari. Ma il Castel Sant’Angelo resisteva ad ogni assalto, precludendo la via al limitare degli Apostoli. Stanco e scorato, il Re chiese ai cardinali che lo coronassero in Laterano. Quando alfine, dopo la cerimonia non lieta, bianco vestito e in zazzera discese dal caval bianco e sedette a convito su l’Aventino, egli udì gazzarra che le masnade orsine menavano a piè del colle, vide bolzoni e quadrella volar su le mense tratti dalle balestre guelfe. E certo ripensò con mestizia quel globo aureo, insegna dell’Impero, da Benedetto VIII offerto a un altro Arrigo; ch’era pien di cenere. III 90

GRAN tempo di poi corse voce che, compita l’incoronazione in Laterano, all’Imperatore biondo troppo dolesse di partirsi da Roma senz’aver pur veduto la faccia della Casa di Pietro, e ch’ei ricorresse all’astuzia del travestimento per appagare il suo desiderio pio, essendo il quartiere guardato dalle milizie del principe d’Acaia e tutti asserragliati gli sbocchi circostanti. Corse voce che in abito di romeo, condotto da un paesano pratico delle vie, ei s’ardisse di passare per steccati fossi e barre ingannando i presidii e riescisse così a penetrare nella Basilica; ma che non tanto fosse coperto l’inganno da non destar qualche sospetto nei più occhiuti. Onde subitamente si levò rumore tra le genti guelfe, e fu fatta custodia in ogni capo di strada e ad ogni porta, e da banditori messe furono grossissime taglie addosso al Tedesco. Il quale ebbe modo di ridursi col suo compagno alla taverna d’un tavernaio nominato Rienzo, su la ripa del Tevere fra le mulina, dietro San Tomaso dei Cenci, sotto la Sinagoga. E quivi passò la notte, e poi più giorni si rimase celato fingendosi infermo, sinché i nemici non deposero il sospetto e non rallentarono la vigilanza. E quivi era una fresca donna e piacente chiamata Maddalena, moglie dell’oste, che lavava panni a

prezzo e portava acqua alle case; e lontano era in quei giorni il marito. E nella primavera dell’anno vegnente nacque di costei un figliuol maschio; cui fu imposto il nome di Nicolaio. E poiché, partitosi l’Imperatore, il buon Latino che aveva condotto il romeo alla taverna non si tenne dal cianciare, l’acquaiuola conobbe d’aver dato in luce un bastardo di sangue imperiale. IV 91

DI QUESTA favola si valse Cola negli anni della vanagloria quando mirava a rendere perpetua la sua signoria; ma, in verità, egli nacque d’infima plebe né mai poté cancellare da sé il marchio plebeo, ché anzi ne restò impresso ogni suo atto insino alla morte. E, mentre vagiva nella culla quegli che doveva esperimentar poi così crudamente la volubilità delle sorti e la fugacità dei sogni, l’Imperatore mòssosi di Pisa per andare a oste contro l’Angioino scendeva da cavallo a Buonconvento e coricato sul suo letto da campo rendeva lo spirito grave di grandi disegni e di più grandi speranze, là nelle lugubri maremme fumide di febbre sotto l’ardore d’agosto, veleggiando invano sul mare etrusco le settanta galee di Lamba Doria. Visse Cola l’infanzia triste nella casa tiberina, su i ginocchi della madre che sfioriva in lento male, tra i vapori del fiume limoso, sbigottendo egli allo strepito delle risse e al baccano delle gozzoviglie onde risonava la taverna di Rienzo. E, quando la madre passò di vita, fu egli mandato a stare in Anagni con un suo parente contadino; dove rimase fino al ventesimo anno, incolto e solitario ma già agitato dal flutto delle sue passioni e delle sue imaginazioni, in quella terra che serbava il ricordo dell’oltraggio di Sciarra e del cruccio di Bonifacio. Qual fuoco ardeva dentro dalla cerchia, laggiù, in fondo alla pianura deserta che chiudevano i Monti Prenestini e i Laziali accesi dal vespro? Sciarra Colonna, colui che aveva osato trascinar pel braccio il Caetani vacillante sotto il peso della tiara, non era stato eletto Capitano del Popolo e condottiero delle milizie? Di tratto in tratto giungevano le novelle. I Romani avevano cacciato i grandi, riformato la città, chiamato Sciarra che la reggesse col consiglio di cinquantadue popolani, mandato ambasciatori a papa Giovanni in Avignone minacciandolo che, s’ei non fosse tornato con la corte, avrebber ricevuto a signore il Bavaro. Tornava dunque dall’esilio il Papa? Non tornava. Cinque galèe di Genovesi per mandato del re Roberto erano alla foce del Tevere acciocché non entrasse vettovaglia in città per la via del mare. Rotti erano i trattati? Il principe Giovanni e il cardinal degli Orsini con Messer Napoleone avevano rotto le mura del giardino di San Pietro nella Città Leonina, per entrare con fanti e cavalli. Il popolo aveva sonato a stormo la campana di Campidoglio, e alle sbarre fatte gran battaglia s’era combattuta, e il principe e il legato s’eran posti in salvo con danno e disonore. E il Bavaro non veniva? Volevano dargli la signoria senza patti? Sciarra Colonna l’aveva chiamato. Ora passava la Maremma con grande affanno e tempo crudo e scarsità di grasce. Giungeva a Viterbo, si moveva per alla volta di Roma, aveva seco Castruccio duca di Lucca con molta moneta. Oh popolo semplice! I cinquantadue buoni uomini disputavano su i patti; e Sciarra in segreto ordinava e trattava la venuta di Ludovico, che lasciasse ogni indugio e si mettesse in cammino. E, quando gli ambasciatori furono giunti a Viterbo, commise il Bavaro la risposta dell’ambasciata a Castruccio; il quale fece sonare tutte le trombe nel campo e mandò bando che ogni uomo cavalcasse verso Roma; e questa – disse agli ambasciatori di Roma – è la risposta del signore Imperadore. Qual prezzo del negozio aveva egli avuto, Sciarra il capitano? E Jacopo Savelli? e Tebaldo? Giungevano così a quando a quando le faville del fuoco civico fin là su i massi di travertino

tagliati e commessi dall’antichissima forza degli Ernici. E il giovinetto Cola interrogava il suo parente canuto, ricercava i luoghi segnati dal sacrilegio, ritrovava le tracce dell’incendio. Di quivi il Colonna una mattina per tempo era entrato in Anagni a cavallo con le insegne e le bandiere del re di Francia gridando: «Muoia papa Bonifazio!» Quivi il magnanimo vecchio, sentendo il rumore e vedendosi abbandonato da tutti i cardinali e i familiari, aveva detto: «Dacché per tradimento mi conviene morire, almeno voglio morire come papa.» E s’era posto a sedere su la sedia papale parato dell’ammanto di Pietro, cinto della corona di Costantino, con in pugno le chiavi e la croce. E Sciarra lo aveva schernito, minacciato, manomesso, nel palagio dato alle fiamme e alla cupidigia dei saccheggiatori. Il sacrilego non era quegli che, in nome del popolo di Roma, ora incoronava il Bavaro e la sua donna, con rinnovata temerità? Per la prima volta un imperatore cristiano si faceva consacrare non dal Papa o dal Legato ma da un deputato del popolo: evento memorabile. E tutta la città levava grido: «Viva il nostro signore e re dei Romani!» E s’era piena di cherici e prelati e frati di tutti gli ordini, ribelli e scismatici di Santa Chiesa; e si spandeva nell’aria gran lezzo di eresia, e non più si cantava officio sacro né sonava campana, e il sudario di Cristo era stato nascosto da un canonico di San Pietro perché non fosse offeso dallo sguardo degli scomunicati. Quali tempi si approssimavano? Il bello e avventuroso Castruccio nominato senatore di Roma, nel prendere l’officio con grandissima pompa, s’era messa indosso una toga di sciamito cremisi con lettere dinanzi che dicevano: «Egli è quel che Dio vuole», e di dietro: «E’ sarà quel che Dio vorrà.» V 92

L’AVVENIRE appariva come una nube di procella. Il Bavaro aveva gran fame d’oro: dopo aver tolto con martirio la signoria di Viterbo e il tesoro a Salvestro de’ Gatti, fece in Roma una imposta di trentamila fiorini, non senza indegnazione del popolo che dalla presenza dell’Imperatore s’attendeva larghezze e non carichi. Appresso, fece parlamento nella Piazza di San Pietro; vestito di porpora, col globo e la verga, comparve solennemente su i grandi pergami eretti dinanzi alla chiesa; e, al conspetto della moltitudine silenziosa, con una molto lunga sentenza rimosse il prete Jacopo di Caorsa, il quale si faceva chiamare papa Giovanni ventiduesimo, dall’officio del papato e da ogni officio e beneficio temporale e spirituale; in fine promise che fra pochi giorni provvederebbe di dar buono pastore ai Cristiani. E ricongregò in fatti, poco dopo, il popolo a parlamento nel luogo medesimo; e fece venire dinanzi a sé un frate minore chiamato Pietro da Corvara; e lo mostrò ai Romani, e domandò se lo volessero per pontefice; ed eglino risposero gridando, che sì. E l’eletto ebbe nome Nicola quinto, ed entrò in chiesa trionfalmente. E poco dopo ancóra, il dì della Pentecoste, il Bavaro cavalcò verso il Vaticano, all’incontro dell’antipapa e della sua corte di cardinali scismatici; e, smontato in chiesa, mise a quel suo frate minorita la berretta scarlatta e da quello fu egli novamente coronato e confermato imperatore. Il popolo ondeggiava fra l’allegrezza delle pompe e l’orrore delle profanazioni. Ma quando, stretto dalla necessità della moneta e dalle continue scorrerie delle genti napoletane nella Campagna, Ludovico deliberò di partirsi col suo antipapa e i suoi cardinali, l’ira popolare insorse con grande strepito sì che la dipartita fu obbrobriosa come una fuga. La plebe scagliava sassi e scherni gridando: «Muoiano gli scomunicati e viva la Santa Chiesa!» La notte medesima, senza contrasto, la città fu riformata all’obbedienza dell’Avignonese e dell’Angioino. Roma abiurò la fede data all’Imperatore e all’antipapa, riconobbe per suo solo signore Giovanni XXII, rinunciò ad ogni

diritto nella elezione pontificia e imperiale. La morte risparmiò al vecchio Sciarra Colonna l’onta dell’abiura o la pena del bando; ma Jacopo Savelli e Tebaldo cercaron grazia presso il Papa e la trovarono. Tutto si dileguò come fumo. Dalla breve illusione della maestà restituita il popolo ricadde nella tristezza dell’abbandono, si ricolcò nella sua miseria, udendo il rombo delle contese che si riaccendevano con più furore fra le torri dei grandi. Quando l’orfano ventenne Cola di Rienzo, spentosi il tavernaio della Regola, tornavasene da Anagni per la Via Casilina a quella santa e terribile Roma che più d’una notte gli aveva turbato i sonni nel durissimo letto, s’abbatté in una grande compagnia di penitenti vestiti dell’abito di san Domenico, con sul mantello cilestro una colomba bianca intagliata, che venivano gridando pace e misericordia. E si mescolò con costoro, e seppe ch’eran Lombardi, gentili uomini e rubatori, micidiali e religiosi, loici e mentecatti, chiamati fratelli della colomba, condotti da un Frate Venturino bergamasco dell’ordine dei predicatori. E con essi giunse in città, e li vide che si rassegnavano alle chiese e in quelle dinanzi all’altare si spogliavano dalla cintola in su e si flagellavano. Errò per le vie anguste il contadino, smarritamente, oppresso dai ricordi della lontana infanzia; guardò le torri imbertescate, le case arse e disfatte, i palagi deserti, i chiostri invasi dall’erba e dal bestiame; s’arrestò agli sbocchi sbarrati dalle catene e dai serragli, ai capi dei ponti guardati dalle masnade con pavesi e balestre; fu testimone d’assalti, di ruberie, d’arsioni; udì a sera le laudi dei Battuti che passavano sul sangue e su le macerie a stormi tra il biancheggiare delle colombe intagliate, e ogni stormo con sua croce innanzi cantando. Come il frate da Bergamo congregò il popolo in Campidoglio per predicare la penitenza, confuso nella calca il giovine Cola stette ad ascoltare la predica; e forse per la prima volta, mentre la moltitudine gli mareggiava intorno mossa dalla parola, si risvegliarono confusamente in lui gli spiriti dell’eloquenza. Attentissimo egli era; e notò che i più attenti deridevano il frate a quando a quando cogliendolo in peccato di falso latino. VI 93

ORA appunto l’ottavo Bonifacio, che tuttavia copriva della sua grande ombra la natale Anagni, era stato il fondator vero dello Studio romano; e dalla sua terra appunto aveva egli promulgato la bolla statutaria, poco innanzi il tradimento e la prigionia, ai dottori e agli scolari concedendo una giurisdizione lor propria e la esenzione dalle imposte. E già nobili uomini ornati di tutte lettere, come Anibaldo Anibaldi, Romano Orsini, Egidio Colonna, Jacopo Stefaneschi, avevano interrotto con lo splendore di lor dottrina la notte di barbarie addensata su l’Urbe. Meraviglioso fu l’ardore del giovine plebeo nell’apprendere dalla viva voce, dalla tradizione, dall’autorità, dalla natura, da sé stesso. Imparò gramatica e retorica; studiò i poeti gli storici gli oratori; conobbe Sallustio, Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo; in Boezio e in Simmaco venerò la postrema dignità di Roma, l’amoroso uso della sapienza, la norma compiuta del ben vivere; nei Profeti della Bibbia trovò le imagini di fiamma, le sentenze imperiose, le grandi parole di minaccia di esortazione e di promessa. Ma dalle ruine s’ebbe egli il più strenuo insegnamento: gli antichi marmi furono i suoi più severi maestri; l’acume delle inscrizioni latine, ch’egli dilucidava, forte gli punse l’animo incitandolo. Bella e singolare questa giovinezza del figlio di Rienzo, in verità, la più nobile parte di sua vita,

consacrata alla ricerca assidua e taciturna, ansiosamente china sopra le testimonianze della virtù prisca, perdutissimamente innamorata di un simulacro marmoreo, come quell’imberbe Astrolabio che nella leggenda demoniaca dona l’anello alla Statua in segno di amor perenne. VII 94

EGLI vagava tutto il giorno fra le terme gli archi i colonnati, lungo le mura di Aureliano, sotto gli acquedotti omai aridi, nei deserti spiazzi ingombri di ruderi, diseppellendo le lapidi, liberando dalla crosta dei secoli le lettere incise, raccozzando i frammenti sparsi, nudando i volti delle statue mascherati dall’edera, interpretando le istorie scolpite nei bassi rilievi, leggendo ad alta voce i nomi dei consoli e degli imperatori, evocando in quel cimitero formidabile i fantasmi augusti, mentre gli pareva udire a quando a quando nel vento funebre gli urli della Lupa e i gridi dell’Aquila presaghi della seconda vita di Roma. Col favore del silenzio e della solitudine quel mondo sotterraneo gli si animò nella fantasia così fieramente, ch’egli credette esser divenuto quasi il consanguineo dei liberatori e dei pacificatori quiriti. Gli si affievolì o gli si sfigurò allora nello spirito ossesso la contezza della torbida e perigliosa materia su cui voleva egli imprimere l’imagine del suo sogno inefficace. Assai più romano delle sue meditazioni erranti era, in verità, quell’implacabile furore di guerra che insanguinava il tufo del Campidoglio ove il palagio del Comune pativa la mala ombra protesa dalla rocca dei Conti, dalla torre delle Milizie, dalla cittadella dei Frangipani emule dell’arce romùlea. Un gran guerriero era necessario alla gran bisogna, non un rètore facondo. Come la folgore favoleggiata profondandosi nel suolo s’indura a guisa di saetta aguzza, così ogni pensier novo apparito tra gli uomini deve convertirsi in spada silenziosa. Ma il deciferatore di lapidi, intento ad ascoltar ripercossi dalla sua intima eco gli accenti della grandezza, non trovò sotto le macerie la larga lama imperatoria, ottima e di punta e di taglio; anzi neppur quella che Stratone tenne ritta contro la mammella dell’usurario Marco Bruto dopo la disfatta. Se un eroe vero fosse stato espulso dal cuor sepolto di Roma, una sola parola questi avrebbe proferito, veramente romana, nunzia velocissima delle azioni: Eccomi. Adsum. Chi deve lottare per la vita e per la salute, solo con la realtà delle cose e con l’ignobilità degli uomini, non ha il tempo di maturarsi in parola eloquente. Egli è inviato dal fondo dell’Infinito non per recar messaggi come un poeta, ma per condurre eventi come un re. Il plebeo, volgendosi dal silenzio venerando verso la plebe clamorosa, sentì la sua lingua contro i suoi denti vani mossa da un bisogno infrenabile di loquacità. Egli doveva così emettere tutto il suo fumo, prima di averlo convertito in fuoco gagliardo e durevole. I suoi atti eran per aver principio e fine in lettere ed in concioni. Si approssimava non il Magister populi ma il Dictator epistolarum. VIII 95

IL FIGLIO del tavernaio tiberino, apparso a molti eroe da trivio mal travestito in brandelli di porpora, era veramente l’eroe rappresentativo del Trivio medievale, se giovi consacrare ai suoi Mani questo bisticcio in commemorazione di quelli che gli furon cari come ornamenti prescritti dalla Regula dictatoria. Gramatico, retorico, dialettico, egli sembrava quasi incarnare la faticosa aspirazione delle Tre discipline a manifestarsi in un atto di vita e di regno, come se già il presentimento della primavera umanistica ne disciogliesse il rigore e la sterilità. Di quel vano

sforzo creativo egli fu l’aborto ventoso battezzato nel culto tradizionale di Roma; e lo tenne a battesimo innanzi al mondo attonito la lirica illusione di quel Poeta laureato il quale s’era sottoposto all’esame triduano del Re da sermone per farsi degno di ascendere il Campidoglio. L’ars notaria e l’ars dictandi furono le due mammelle che lo nutrirono con sovrabbondanza, quando meglio sarebbegli valso a farlo maschio un solo sorso dell’aspro latte lupigno. Ma assai prima della esaltazione al tribunato non aveva egli scelto lo scettro che più gli conveniva e che sembrò non potersi mai più disgiungere dalle sue dita? quella «penna di fino ariento» con cui era uso esercitare il suo officio di tabellione remunerato. Il biografo antico ci dice che «in sua bocca sempre riso appariva in qualche modo fantastico». E sembra il riso ambiguo dell’àugure apparso a lui medesimo in quello specchio d’acciaio polito in cui si specchiò forse un giorno su l’orlo d’un sarcofago scoperchiato. Ma era un riso rivolto alla faccia del futuro, un riso generato dal sentimento superstizioso della sua predestinazione certa. «Quest’uomo, credetelo, a voi fu mandato dal cielo» doveva i Romani esortare il Petrarca. «Come rarissimo dono di Dio voi veneratelo; e fate di profferire per la salvezza di lui le vite vostre.» Di lui doveva sognare il cantore di Scipione Africano: «Nel mezzo del mondo, e su la cima di una scoscesa montagna parvemi vederti sublime tanto che quasi giungevi a toccare il cielo. Paragonata a quella l’altezza di tutti i monti ch’io vidi, e qualunque altra che descritta lessi o intesi, stata sarebbe profonda e bassa vallèa: l’Olimpo stesso dai poeti nell’una e nell’altra favella tanto esaltato si riduceva a quel confronto umile colle. Basse sotto i piedi a gran distanza avevi le nubi; vicino il Sole ti girava sul capo. Ti circondava uno stuolo d’uomini forti, in mezzo ai quali tu di tutti maggiore sovra uno scoglio luminoso sedevi per sovrumana bellezza così splendente ed augusto, che Febo stesso pareva invidiarti…» L’errante evocatore delle Ombre non incontrò forse il Petrarca quando questi per la prima volta visitava Roma venendo dal castello di Capranica ove lo aveva bene accolto Orso dell’Anguillara sposo di Agnese Colonna e amico delle Camene? Certo lo vide di lontano aggirarsi, in compagnia dei patrizii illustri, pel Gianicolo per l’Aventino pel Monte Sacro, «dove tre volte sdegnosa ai padri si ritrasse la plebe», o assidersi su la volta delle Terme diocleziane a contemplare lo spettacolo delle grandi ruine e a ragionare delle grandi memorie con Giovanni di San Vito. Certo lo acclamò, quattro anni dopo, in quell’inclito aprile che parve illuminare un nuovo e inopinato Natale di Roma, quando il popolo per un giorno scosse da sé l’onta della sua servitù, quando i nobili per un giorno si mondarono del sangue fazioso, e in festante concordia tutta la gente romana sollevò con un sol gesto verso la fronte del Poeta la ghirlanda composta del primo ramo reciso al giovinetto alloro ch’era per divenire l’arbore vittoriosa del Rinascimento. IX 96

UNA BREZZA viva di novità inaspriva l’aria. Non era anco sedata l’ultima onda del tumulto che aveva tolto dal Campidoglio i senatori patrizii di parte orsina e di parte colonnese per insediarvi i tredici Priori delle Arti. Il Comune di Firenze, richiesto, aveva mandato suoi ambasciatori con gli ordini della giustizia «contra i grandi e potenti in difensione dei popolani e meno possenti». Si rinnovellava la memoria delle assemblee popolari convocate dal Bavaro per la elezione delle due potestà supreme; e il popolo sentiva sempre più risvegliarsi la coscienza degli antichi diritti maiestatici ond’era spogliato. Morto nel palagio avignonese il dodicesimo Benedetto, le speranze del racquisto si riagitarono. Un’ambasceria solenne fu inviata a Clemente VI in Avignone,

composta di grandi di mediani e di minuti, per recargli la potestà civica e per supplicarlo di venire a rioccupare la sedia di Pietro. Ma né gli argomenti degli ambasciatori né il carme di Francesco Petrarca valsero a smuovere il Limosino; che da signor magnifico ricompensò il cantore conferendogli un buon priorato in quel di Pisa e fece intendere che a sollievo della fame romana avrebbe concesso l’anticipazione del giubileo. Moriva decrepito intanto il sommo maestro in teologia e divoto avvocato della Chiesa Roberto di Napoli, lasciando erede Giovanna l’adultera; e il Regno era sovvertito da mutazioni impetuose che si propagavano allo stato finitimo. Il governo dei tredici buoni uomini, rinsediato in luogo dei senatori, spediva oratore al Pontefice il notaro dalla penna d’argento Cola di Rienzo. Subitamente il popolo ebbe una voce sonora, un ampio gesto, una maschera cospicua. La prima epistola di Cola, scritta pel ragguaglio dell’ambasceria, fa pensare allo scoppio di una abondanza troppo a lungo compressa, ha gli accenti del delirio e dell’ebrezza, la foga di un salmo senz’arpa. «Exultent in circuito vestro montes: induantur colles gaudio et universe planities… Ecce namque coeli aperti sunt…» Egli già conferisce a sé stesso il titolo di console romano e l’officio di legato popolare unico degli orfani, delle vedove, dei poveri. L’infatuazione lirica gli fa precorrere gli eventi. Nella Babilonia provenzale egli già assume l’aspetto dell’inviato dal Cielo, dell’eroe molto atteso. In tale aspetto compare a Francesco Petrarca, movendosi e atteggiandosi a similitudine del redentore ideale che il Poeta s’era foggiato nel fuoco della sua mente; cosicché questi crede offerta per prodigio ai suoi occhi mortali la incarnazione dell’eterna imagine, e si accende di speranze sublimi, e già vede nel prossimo avvenire restaurato l’ordine con la libertà, riposto il vicario di Cristo nel suo soglio verace, ravvivato l’Impero alla fonte originaria del diritto popolare italico, restituita ai due poteri concordi la romana sede e alla madre Roma la supremazia del mondo. Il mutuo incitamento nei segreti colloquii sollevava il sogno d’entrambi a folle altezza. Eglino ripromettevano all’Urbe la perpetua sovranità che le aveva promesso Enea nel vergiliano: «Imperium sine fine dabit». L’Impero non poteva in nessun modo cessare d’esser romano, ché l’Imperatore – qualunque fosse la sua stirpe e qualunque la sua dimora – non poteva dire che a lui si appartenesse l’autorità venutagli da Roma; né poteva Roma cederla o trasferirla ad altri, avendola ricevuta in retaggio eterno. «Se solo rimanesse nell’Urbe l’ignudo sasso capitolino» diceva il Petrarca «pur quivi durerebbe senza fine l’imperio.» E adduceva la sentenza di Giovanni XXII opposta al suo legato Bertrando del Poggetto che tentava indurlo a togliere di sul Tevere le due potestà per trasferirle in Guascogna: «Vescovi cartucensi noi saremmo allora, e l’imperatore equivarrebbe a un prefetto di Guascogna; mentre sarebbe papa quegli che in Roma esercitasse l’autorità spirituale, imperatore quegli che in Roma temporalmente signoreggiasse. Velimus, nolimus, enim, rerum caput Roma erit.» La fede in questa indissolubile unità di Roma con la Chiesa e con l’Impero accomunava i due spiriti ardenti. «Quanti furono i signori di Roma, se bene ascritti nel novero degli Iddii, chiedevano al Senato e al Popolo licenza di eseguire ciò che volevano intraprendere; e, secondo che fosse o negata o conceduta, le meditate imprese cessavano o proseguivano.» Il tabellione si profferiva al rimatore come l’eroe capace di tradurre in opera l’alto concetto: come colui che voleva restituire al popolo romano tutte le giurisdizioni e tutti gli uffici, tutti i privilegi e tutte le potestà ond’esso in qualunque tempo aveva investito altrui: come colui che voleva risollevare ricommettere e irrobustire di fresco cemento le ruine cagionate dall’orrida barbarie germanica e dalla morbida barbarie avignonese. E il fresco cemento era nel suo pensiero il patto di alleanza tra le città latine, cui non avrebbe egli imposta l’obbedienza, sì

bene con la legittima autorità di Roma confermato e assicurato le libertà e i privilegi, largito inoltre il diritto dell’elezione imperiale. E nel suo pensiero più segreto non considerava egli quel patto come uno strumento efficace a scuotere il giogo alemanno, a ristabilir l’Impero italico, a vestire della porpora imperiale il liberatore, l’uomo novo, sé stesso? Incredibile fervore accendeva l’animo del Petrarca; e l’interna vampa sembrava renderlo cieco: «Quando ripenso» scriveva al notaro della Regola «quando ripenso il gravissimo santo discorso che mi tenesti l’altrieri su la porta di quell’antica chiesa, parmi avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo. Così divinamente deplorasti lo stato presente, anzi lo scadimento e la ruina della repubblica; così a fondo mettesti il dito della tua eloquenza nelle nostre piaghe; che, ogni qualvolta il suono di quelle tue parole mi ritorna alle orecchie, me ne cresce il dolore all’animo, me ne sale la tristezza agli occhi; e il cuore che, mentre tu parlavi, ardeva, ora, mentre pensa, mentre ricorda, mentre prevede, si scioglie in lacrime, non già feminee ma virili, ma d’uomo che all’occasione oserà qualche cosa di pietoso secondo il potere a difensione della giustizia. E se anche per addietro io era col pensiero teco sovente, dopo quel giorno son teco più che sovente; e ora dispero, ora spero, ora ondeggiando tra speranza e timore dico in me stesso: Oh se fosse mai! oh se avvenisse a’ miei giorni! oh se anch’io fossi a parte di sì grande impresa, di tanta gloria!» Ma il legato dei tredici buoni uomini non soltanto ragionava in segreto con l’amico del Colonna; anche difendeva in palese al conspetto del Pontefice la causa della plebe miseranda e si scagliava con indignazione copiosa contro le iniquità dei patrizii. Essendo il Limosino ornato di buone lettere e dedito allo studio dell’eloquenza, come quegli che aveva professato teologia in Parigi ed esercitato l’officio di cancelliere presso Filippo di Valos, ascoltava non senza favore le invettive del giovane romano, e la novitas dicendi gli dava gran diletto. Per mala ventura il cardinal Giovanni Colonna, non tollerando le accuse fatte al suo parentado, prese a perseguitar l’imprudente e seppe contro di lui volgere l’animo del Pontefice. Caduto in disgrazia, Cola visse alcun tempo in povertà, quasi mendico. X 97

LA FORTUNA cominciava a giocare col capo di lui il suo gioco ridevole e tremendo. Come i taciti anni vissuti a cercar tra le ruine le testimonianze della gran Madre, così ci sembrano profondi quei mesi d’esilio sul Rodano vorace che, secondo il lagno petrarchesco, «tutti per sé gli onori del Tevere rodeva e ingoiava». Egli patì la miseria e l’infermità. Per giorni e giorni udì il gran vento di Provenza rintronargli nel cranio vacuo o agitargli pazzamente fra tempia e tempia i sogni d’infermo. Mal coperto di vesti logore, si trascinava sotto le muraglie impenetrabili del palagio babilonico; ove, stando egli «al sole come biscia», gli passava dinanzi agli occhi riarsi d’odio e di febbre alcun prelato corpulento «Cupidinis veteranus, Baccho sacer et Veneri, non armatus sed togatus et pileatus». Non sentì egli allora la debolezza del suo braccio imbelle? la vanità della sua ambizione senza ugne e senza rostro? la disparità lacrimevole tra quel violento sogno imperiale e l’animo suo servile dominato dalla paura della morte? Chi mai gli avrebbe data la leva capace di risollevare alla luce del secolo un mondo caduto nell’abisso delle cose irrevocabili come la prora di Enea e l’ancile di Numa? Come quello scudo vermiglio caduto dal cielo, veggente tutto il popolo di Roma, era per cadergli ai piedi la spada fatale? Ma il fantastico riso vagava ancóra su le sue labbra sporgenti quando, addossato a una colonna pagana nel vestibolo della Cattedrale, egli

guardava l’imagine di Nostra Donna e del Figliuolo dipinta nella lunetta sopra la porta da quel Maestro Simone sanese cui il Petrarca aveva posto in man lo stile per ritrarre Laura. E fu Messer Francesco per certo il grazioso intercessore che gli impetrò il perdono da Giovan Colonna, così che esso cardinale lo rimise dinanzi al Papa. E in breve il dimacrato popolano in giubberello, non senza artificiose lusinghe cortigianesche (scaltro e versatile egli era e fra tante volpi inclinato naturalmente a volpeggiare), seppe racquistarsi presso il dottore in camauro il favor perduto; onde gli fu agevole ottenere l’officio di notaro della Camera urbana, remunerato con cinque fiorini al mese, e non soltanto tornarsene a Roma sul vento della lode, ché il breve papale encomiava i suoi costumi la sua devozione e la sua sapienza, ma esser pur anco difeso da Clemente contro i senatori Matteo Orsini e Paolo Conti i quali per vendicare le risapute infamazioni lo avevan sottoposto a processo. XI 98

POCO dopo la Pasqua dell’anno 1344 Cola di Rienzo, dunque, riassiso al suo banco notarile e ripresa tra le dita la sua penna d’argento, sorrideva sentendo già intorno al capo spirar l’aura popolare; ché assai gli giovava al conspetto del popolo l’aver efficacemente compiuta l’ambasceria, l’aver meritato l’odio degli ottimati, l’esser protetto apertamente dal Pontefice, il ricoprire l’officio più adatto a soprapprendere le soverchierie dei baroni e le baratterie dei giudici. Da allora, mentre il gran sogno romano ardeva custodito nel profondo petto di Francesco Petrarca, queste furono le dicerie e le gesta del demagogo nella Città. Una volta, stando nel Consiglio capitolino, levàtosi in piedi all’improvviso, con la movenza ciceroniana della prima catilinaria, pronunziò d’un fiato una orazione veemente contro i giudici i magistrati i rettori i patrizii che invece di por riparo ai mali della patria la subissavano senza ritegno. «Non siete buoni cittadini voi, ma sì perniciosissimi, che struggete il sangue del popolo, che in ogni strada e in ogni casa esercitate la ruberia e la violenza, che sovvertite ogni ordine, profanate ogni culto, usurpate tutti i diritti, vi arrogate tutti i privilegi, vi sottraete a tutte le leggi.» Lo ascoltavano i consiglieri in cerchio, senza ombra di rossore, con orecchio pacato e attento, come se fossero per istimare il gioco scenico di un istrione illustre. Quando il dicitore ebbe finito, si levò un Colonnese per nome Andreozzo di Normanno, allora camerario urbano, si accostò a colui che ancóra era acceso e ansante della fierissima perorazione, e senza far motto gli stampò una ceffata da maestro. Poi sorse lo scribasenato Tomaso Fortifiocca; e, battendo la manca su la piegatura del destro braccio agitato col pugno chiuso a scherno priapèo, diè la giunta all’uomo dalla gota rossa. Per certo durò nel Consiglio, più che l’effetto della diceria, la risonanza del malo schiaffo. Sgonfiato e sbigottito, Cola rinunziò le catilinarie e tentò le allegorie apocalittiche. I Romani svegliandosi una mattina videro pendere alla parete del palagio senatorio una vasta tavola dipinta di figure e di cartigli; e le figure rappresentavano Roma vedova, le antiche Città flagellate, l’Italia oppressa, le Virtù cardinali, Bestie occhiute pennute cornute, Pietro e Paolo, isole desolate, navi in tempesta, altre cose molte; e ogni cartiglio parlante recava un distico, e la Fede cristiana così favellava: O sommo patre, duca e signor mio, Se Roma pere, dove starò io?

I Romani rimirarono e si maravigliarono. Ma nulla accadde. Allora Cola imaginò una strana pompa. Esploratore di antichità avvedutissimo, egli aveva scoperto in un altare della Basilica Lateranense la tavola di bronzo fatta preziosa quant’altra mai dall’incisa Lex regia, testimonio solenne del senatoconsulto per cui a Vespasiano era stato trasmesso l’imperio. Avendola interpretata, la fece conficcar nel muro dietro il coro, e intórnovi dipingere il Senato nell’atto dell’investitura. Congregò quindi il popolo e i nobili in Laterano a parlamento; e dei nobili vennero Stefano Colonna iuniore e quel figliuol suo Gianni dal Petrarca celebrato «divino giovane pieno dell’antica e vera romana grandezza». Il notaro comparve in guarnacca e cappa alemanna e cappuccio alle gote di fino panno bianco, portando bizzarramente in capo un cappelletto emblematico. Salì sul pergamo e prese a parlare per similitudini. Poi, additando la tavola bronzea, esclamò: «Vedete quanta era la magnificenza del Senato, che conferiva l’autorità all’imperio!» E comandò a uno scriba che leggesse il testo della Legge regia, e lo illustrò delle sue chiose abondanti, riducendosi a memoria i colloquii avignonesi intorno alla perpetuità di quei sovrani diritti. E in fine deplorò la miseria presente, profetò la fame prossima, evocò i campi incolti e deserti, deprecò la guerra e le spade, celebrò la pace e gli aratri. I Romani ascoltarono e plaudirono. Ma nulla accadde. Allora il demagogo moltiplicò le allegorie, le scritture, le discorse. Una nuova tavola dipinta egli appese al muro di Sant’Agnolo in Pescheria, costrutto entro il Portico di Ottavia; su la porta di San Giorgio in Velabro, presso la Cloaca Massima, conficcò un cartiglio con suvvi scritto: «In breve tempo li Romani torneranno al loro antico buono stato.» Ogni occasione gli fu bella a concionare. E i cittadini savii ridevano del notaro smanioso che intendeva riformare la disfatta città con quel suo spaccio di frottole bubbole e pastocchie quotidiano. Più anche ne ridevano i patrizii, non pensandosi che mordere potesse un tanto abbaiatore. Lo convitavano nei lor palagi, gli davano bere e mangiare grassamente dicendogli: «Chi troppo abbaia empie il corpo di vento; or qui ti conviene far del corpo sacco alla vivanda fina. Hai ganascia, bonissima epa, Sere.» E quei giovani asciutti e ferrigni, come Gianni Colonna, ridotti in muscolo e nerbo al mestiero della guerra, partecipanti della balestra e del verruto, lo tastavano, lo palpavano traverso la guarnacca, per sollazzo e per ispregio, valutavano da comperatori quella floscia carne sedentaria che già si gravava di adipe. E sghignazzavano e dicevano: «Senti già del grassetto, sere. Or noi ti vogliamo ben saginare perché tu esser possa in Norcia almen duca, se non puoi in Roma imperadore.» Non turbavano quelle manomessioni il conviva, ché a confronto della gotata di Andreozzo parevangli carezze e lezii. Egli rideva roco, masticando il boccone amaro; e rispondeva: «Certo che sarò imperadore; e guai alla ladronaglia dei baroni! Appiccherò i Colonna, decollerò gli Orsini, squarterò i Savelli, abbacinerò i Normanni, arderò i Caetani.» Le risa scrosciavano intorno alle mense; era lo schiamazzo, da un capo all’altro, più che tavernario. «Fa tuo sermone!» gridavano in coro i commensali. E poi che l’avevan costretto a tracannar la tazza colma, lo alzavano su la tavola in piedi come su pergamo. Ed egli sermonava a gran voce vituperandoli; e quanto più crudi erano i vituperii, tanto più alte le risa. Ma talora sùbito grido di allarme interrompeva la gozzoviglia e il sollazzo. Pronti in arme i nobili correvano alle barre e ai serragli, alle uccisioni e alle arsioni. Il sere, vedendo luccicare tanto ferro, pensava che gli bisognasse in fine esser lesto di mano com’era di lingua; e affrettava l’evento. XII 99

TUTTAVIA concionò pur una volta, prima di dar fiato alla tromba. In un luogo segreto su l’Aventino, sacro per antico alla libertà della plebe, adunò i più maturi de’ suoi partigiani, cavalierotti e mercatanti del popolo grasso, molto desiderosi del «buono stato». A costoro piangendo egli rappresentò anche una volta la miseria, la servitù, il periglio di Roma. Piansero con lui gli adunati, piansero e fremettero. Fu deliberata e giurata l’impresa. Era il 19 di maggio dell’anno 1347, la vigilia della Pentecoste. Stefano Colonna seniore si trovava con la milizia a Corneto per grano. Cola mandò bando in ogni capo di strada a suon di tromba, che il popolo convenisse in Campidoglio senz’armi al primo tocco della campana. Su l’ora di mezza notte, nella chiesa di Sant’Agnolo in Pescheria, udì trenta messe dello Spirito Santo. Su l’ora di mezza terza uscì dalla chiesa tutto armato ma nudo il capo. Gli era al fianco il vicario del Papa, Raimondo vescovo di Orvieto, ch’egli avea saputo trarre alla sua parte; lo seguiva moltitudine di popolani con grandi clamori; lo precedevano tre gonfaloni: il primo amplissimo, tutto vermiglio con in campo l’imagine di Roma sedente su due leoni, ed era il gonfalone della Libertà e lo portava il buon dicitore Cola Guallato; bianco il secondo, con l’effigie di Sire san Paolo, ed era della Giustizia e lo portava Stefanello Magnacuccia notaro; il terzo era della Pace, con Sire san Pietro dalle chiavi d’oro. Il quarto, quel di Sire san Giorgio, non isventolava dispiegato ma sì, come vecchissimo e logoro, era chiuso in una custodia appesa a un’asta lunga. L’ordinanza inerme avanzava verso il Campidoglio, in aspetto di processione piuttosto che di ribellione, col favore del Paràclito. Misurando il suo passo su quello del vescovo tardo, il liberatore prendeva audacia «benché non senza paura», come dice il candido cronachista che forse lo vide troppo aggravato dal ferro inconsueto. Giunto al palagio, arringò il popolo «con savie e ordinate parole come quegli che era di retorica ordinato maestro» e il tuono della sua voce tanto lo rese animoso ch’egli da ultimo fece sacramento di esporre la sua persona «a ogni pericolo» per l’amore del Papa e per la salute dei Romani. Terminata l’arringa, Conte figlio di Cecco Mancino lesse gli ordinamenti del buono stato, che riformavano la città alla signoria del popolo, affievolivano la forza dei grandi, schiantavano la tracotanza dei malefattori. Con grida di allegrezza il parlamento rimise nelle mani dell’uomo novo ogni potestà. I senatori abbandonarono il seggio: gran parte degli ottimati escì dalle mura. La mirabile mutazione fu compiuta senza colpo ferire. Una candida colomba aleggiò su l’assemblea pacifica, quando l’uomo novo si chiamò «Nicolaio Severo e Clemente, per grazia del clementissimo Signor Nostro Gesù Cristo, di libertà di pace di giustizia Tribuno, della sacra romana Republica liberatore». E il Gracco della Regola si sovvenne della lontana sera su la Via Casilina, di Fra Venturino bergamasco e dei Battuti; e indicò la colomba apparita come un fausto messaggio del Paràclito. Il Cielo consacrava l’eletto con quel battito d’ali. XIII 100

OR Messere Stefano Colonna il maggiore, che stava a Corneto per l’incetta del grano, udita la novella, senza indugio cavalcò alla volta di Roma. Ceppo umano della più dura fibra questo vegliardo omai nonagenario che ancor metteva il piede nella staffa senza aiuto e inforcava saldamente il suo stallone. Tal razza di figliuoli e di nepoti era da lui rampollata negli anni, che pareva egli le avesse dato per cuna la sua targa e per nutrice la sua spada a doppio taglio e per battesimo il sangue orsino. Già Nicolò IV il minorita l’aveva fatto conte di Romagna; ed egli era entrato in Rimino l’anno medesimo in cui Gianciotto

Malatesta vi trafiggeva i due cognati. Dalla rudezza del proconsole romano offese le libertà dei Comuni erano insorte; e i figli di Guido da Polenta avevano assalito in Ravenna e imprigionato il rettore. Il reduce in Roma erasi messo al fianco del suo padre Giovanni tratto in Campidoglio dal popolo su carro trionfale e gridato Cesare con grido eguale a quello delle coorti; poi aveva ottenuto la dignità senatoria, combattuto con la parola e con la balestra per l’elezione del nuovo papa, veduto l’anacoreta del Morrone pallido e tremante su l’asina condotta per la capezza da due re, veduto indi a poco Benedetto Caetani cinto di tiara su la chinea bianca pur tra quei due re scarlatti, sostenuto con tutti i suoi la collera taurina del gran prete d’Anagni, opposto alle folgori di Bonifazio l’orgoglio indòmito della colonna eretta, mirato il giullare di Dio Jacopone nella congiura di Lunghezza saltar come capro scagliando la satira pazzesca, udito senza sgomento la furia papale invocare l’universa Cristianità a prender la croce contro il mucchio d’uomini radicato nel sasso inespugnabile di Palestrina, finalmente lasciato dietro di sé nella via dell’esilio la ròcca ciclopica disfatta e rasa come al tempo di Silla, con la corda al collo i due cardinali congiunti, Sciarra errabondo come Caio Mario per macchie e per paludi. Taluno, dopo la ruina delle torri e dei càssari, avevagli domandato: «Or quale fortezza ti rimane, o Stefano?» Risposto aveva l’eroe sorridendo, con la mano sul gran petto: «Questa.» E anco una volta era dalla sorte dimostro quale stupenda disciplina di virtù fosse per i magnanimi l’esilio. Con atroce perticacia il Caetani avea richiesto per ogni dove la testa dell’esule invitto, posto in opera ogni argomento di promesse di minacce di autorità di ricchezze per artigliarlo, errando quegli di terra in terra, oltremonte, oltremare, ospite di re talvolta, sembianza di re egli medesimo sempre, maggiore di ogni più grande sfortuna. Un giorno, nel tenitorio di Arles, caduto in mano di ricercatori prezzolati e richiesto di suo nome, senza indugio aveva risposto: «Sono Stefano Colonna cittadino romano», con sì alto coraggio che i sicarii non s’erano arditi toccarlo. E finalmente il principe dei nuovi Farisei era morto; e la colonna marmorea s’era rialzata più superba, e Stefano era rientrato in Roma ai combattimenti e alle vittorie: aveva rotto gli Orsini, sostenuto Arrigo VII contro Roberto d’Angiò, osteggiato il Bavaro, patito novamente il bando ma breve, ripreso le armi dentro e fuori le mura, dato ai suoi di continuo l’esempio del massimo ardire nel periglio, del massimo senno nel consiglio, del massimo decoro nell’esilio. Or questo gran vecchio, udite le novelle, cavalcava a Roma pensandosi di poter leggermente castigare la pazzia del notaro. Giunto nella Piazza di San Marcello, in prossimità della ròcca colonnese fondata sul luogo ove nelle antiche apoteosi erano arse le salme imperiali, egli si fermò e disse «che queste cose non li piaceano». Il dì seguente, la mattina per tempo, Cola di Rienzo mandò a Messere Stefano comandamento che si partisse da Roma. Il vecchio lacerò la cedola sul viso al messo capitolino, e gridò: «Se questo pazzo mi fa poco d’ira, io lo farò gittare dalle finestre di Campidoglio.» Riferita la minaccia al Tribuno, costui senza por tempo in mezzo sonò la campana a stormo. Tutto il popolo corse alle armi. D’ora in ora cresceva il tumulto. Considerato il pericolo e il suo scarso guernimento, il Colonna rimontò a cavallo, non seguìto se non da un sol fante da piede, e uscì della città per la Porta di San Lorenzo. Giunto alla Basilica, sostò sotto il portico; si sedette sopra un dei leoni che reggono i pilastri della porta, e masticando un pezzo di pane amaro meditò la vendetta. Un oscuro presentimento non gli gravò il cuore ferreo? Lì presso s’incurvava l’ampio arco di travertino costrutto da Augusto per sorreggere i tre acquedotti, sacro alla prossima strage dei Colonnesi e alla doglia del vegliardo superstite. Ben egli sul tramontare di un giorno, molt’anni innanzi, andando per via con Francesco Petrarca, aveva già vaticinato: «Ahi

che, sovvertito l’ordine della natura, di tutti i figli miei sarò io l’erede!» E volto aveva altrove gli occhi gonfi di lacrime. XIV 101

IL TRIBUNO confinò tutti i baroni nelle loro terre e castella; occupò tutti i ponti e li sgombrò delle barre e de’ serragli; fece prendere i capi delle masnade che manteneano le ruberie in Roma e d’intorno; mandò editto ai nobili che venissero al suo conspetto in Campidoglio. Vennero i più, e volle egli giurassero sopra il corpo di Cristo obbedienza alle leggi della Republica. Li accoglieva in lunga cotta color di fiamma su l’arme, sforzandosi di parer terribile, tra gran moltitudine di sollecitatori cui egli rendea ragione con parola infaticata. E dopo i nobili vennero i giudici i notari i mercatanti, e giurarono fedeltà al buono stato perpetuo. Instituì la casa della giustizia e della pace, e piantò in essa il gonfalone di Sire san Paolo, nel quale stava la spada nuda e la palma della vittoria; e vi pose pacieri a comporre inimicizie, giustizieri a punire misfatti. L’ordine fu ristorato, la sicurezza regnò le vie i campi le selve. Il Dictator epistolarum mandò messi latori di epistole a tutti i Comuni e anco alle Signorie, al doge di Venezia, al marchese di Ferrara, a Luchino Visconti, al Sommo Pontefice, all’imperatore Ludovico, al re di Francia. In quelle epistole «luculentissime» egli narrava il felice evento, pregava che gli mandassero sindici e giureconsulti alla solenne assemblea indetta per ragionar delle cose utili al buono stato, convocava gli inviati delle città italiche a concludere in Roma il patto d’alleanza per una impresa di liberazione universale, e stabiliva al gran convegno il dì primo d’agosto. I messi correvano le province in lievissimo arnese, inermi, sol portando per insegna del loro officio una verghetta di legname mondo. Le genti accorrevano curiose alla novità di questi Mercurii senza talari e senza serpi; ai quali pareva il Tribuno avesse insufflato il suo spirito e il suo sermone smisuranti, ché al ritorno essi narravano cose oltremirabili come se magico fosse quel lor bastoncello dipinto. Tornati, ripartivano con nuove epistole. Giorno e notte gli scribi seduti ai lunghi banchi scrivevano sotto la dettatura di Nicolaio severo e clemente. Da prima non s’udiva stridere intorno a lui se non la penna d’oca; di poi s’udì stridere qualche ribechino, ché incominciarono venir d’ogni parte verso la grassa mensa tribunizia buffoni sonettatori cantatori e simil gente di corte a celebrare in rima il Camillo il Bruto il Romolo redivivi nell’Urbe. Forniva il Laureato, di lungi, le iperboli sonore. «Romolo fondò Roma; Bruto, che tante volte già nominai, la libertà; Camillo l’una e l’altra ebbe redintegrata. Or quale, o chiarissimo, da loro a te corre differenza se non questa: che Romolo una meschina città di fragile steccato ricinse, tu la città fra quante furono e sono grandissima d’inespugnabili mura hai circondato? Bruto da un solo, tu da molti tiranni usurpata la libertà rivendicasti? Camillo da recenti e ancor fumanti ruine, tu da rovine antichissime e l’una e l’altra, di cui già disperavasi, facesti risorgere? Salve a noi Camillo, a noi Bruto, a noi Romolo o qualunque altro sia nome onde ti piaccia chiamarti, salve, o fondatore della libertà, della pace, della tranquillità di Roma. Per te quelli che or vivono potranno liberi morire, liberi nasceranno per te quei che vivranno in futuro.» Vento di lode tanto impetuoso gonfiò smisuratamente il figlio del tavernaio e dell’acquaiuola, immemore omai del giubberello sbrandellato che nei giorni della disgrazia avignonese mal gli ricopriva il fianco scarnito dalla fame insonne. Cavalcò alle feste con grande stormo di cavalieri, bianco vestito su palafreno bianco, a simiglianza degli imperatori nelle coronazioni, preceduto dalla sua guardia di cento giovani scelti nel nativo rione della Regola, mentre un gonfalone regio

gli sventolava sul cappelletto di perle. Scavalcò a San Pietro con infinito codazzo di giudici notari camerlenghi cancellieri pacieri sindici marescalchi, con suono di trombe e di nacchere, vestito di velluto mezzo verde e mezzo giallo foderato di vaio, tenendo in pugno una verga di acciaio sormontata da un aureo pomo che nella sua crocetta conteneva una scheggia del Legno santo. Dinanzi a lui Buccio figlio di Giubileo portava la spada nuda in segno di giustizia e Liello Migliaro gittava al popolaccio manate di danari attingendo di continuo alle sacca che due portatori gli sostenevano; dietro a lui Cecco di Alesso palleggiava lo stendardo dal sole d’oro e dalle stelle d’argento in campo cilestro; a destra e a manca gli camminavano cinquanta vassalli da Vitorchiano suoi fedeli, con gli spiedi in mano, irsuti come orsi. Su le scale di San Pietro i canonici con tutta la chiericìa in cotta bianca gli si fecero incontro agitando i turiboli e cantando: Veni creator Spiritus. Tante magnificenze non aveva ostentate il Bavaro. XV 102

MA il villan rifatto andò sempre più oltre. Da buon demagogo egli peccava nel ventre. Già erasi acconciato a rallegrare i conviti dei nobili; ora, per vendicarsi della patita temperanza, si dava a spropositato bere e mangiare. Tutto dì crapulava, rinzeppandosi delle vivande più preziose, delle confetture più ricche, tra buffoni e giullari fràdici che berciavano canzoni e vomivano piacenterie ininterrottamente. Sotto pretesto di riedificare il palagio del Campidoglio, condannò in cento fiorini ciascun barone che per addietro avesse coperto l’officio di senatore. Ricevette l’oro, ma per iscialacquarlo in cene mal digeste e in apparati goffi. Volle che la sua moglie andasse per le vie con una corte di giovincelli adorni, seguita dalle patrizie umiliate, assistita dalle fantesche che le facevano vento, la spruzzavano di essenze, la difendevano dalle mosche. Un suo zio barbiere e cerusico di mezza matricola lasciò rasoio e lanciuola, ranno e mignatte, rizzò la cresta, si chiamò Gianni Rosso, e andò burbanzoso cavalcando a gambe larghe con iscorta d’onore. Una sua sorella vedova si maritò a barone di castella. Simili altri suoi parenti entrarono in grandezze; e scialavano senza pudicizia a spese del buono stato. Romanamente volle egli anche alternare la crapula con la crudeltà; ma la crudeltà sua fu della peggior sorta, come quella che nasceva dalla paura e usava bilance bugiarde. Per dar terrore ai nobili, dannò all’impiccagione un infermo di morbo mortale e accumulò intorno al supplizio le atrocità; ché costui, chiamato Martino di Porto, nepote del cardinale di Ceccano, era idropico: secco il viso, esile il collo, riarso il labbro, enfiato a dismisura il corpo, «liuto da sonare parea». E stavasi in casa rinchiuso con la sua grandissima sete e con la sua molto leggiadra donna, chiamata Amasia degli Alberteschi, supplicando i fisici che lo medicassero. E il Tribuno lo fece pigliare nella propria casa, strappare di tra le mani della moglie, trascinare al Campidoglio come ladrone, spogliare della sua cappa al conspetto della plebaglia, impiccare senza indugio. E una notte e due dì lo lasciò pendere dalle forche, sì che la vedova dal balcone potesse scorgere quel tristo sacco pien d’acqua morta. Così resse Roma in odio ai potenti. Però dei potenti si giovava per mandarli a oste in sua vece, ché egli alle durezze del campo preferiva il suo «onesto e trionfal letto» ove dal solo strepito delle nari era accompagnato il sogno della vittoria. Cola e Giordano Orsini guerreggiarono per lui contro Gianni di Vico prefetto di Viterbo; egli s’addossò il carico di contare la pecunia prodotta dai tributi, la quale in verità era tanta che dava «increscimento e fatica» a noverarla. Avuta per tal modo la ròcca di Respampano, avuti i càssari i passi e i ponti di Roma in tutto, e Ceri e

Vitorchiano e Civitavecchia, «fece core» e ordinò Gianni Colonna capitano contro i ribelli della Campagna. Frattanto egli edificava una cappella, e dentrovi faceva cantare messe solenni con moltitudine di cantori e di luminarie; si poneva a sedere, e faceva stare dinanzi a sé i baroni in piedi e in zucca. Perché un tal giuntatore riuscisse a ciurmare per alcun tempo il mondo era pur necessario il soccorso del malo spirito che dal cerchio polito dello specchio etrusco balzando entrava nella mela d’oro fitta a sommo della verga. Da città e castella veniva gente credula al Campidoglio per giustizia. I Comuni le Signorie i reami rispondevano con ambasciate illustri al dettator di lettere. Un buono bolognese avventuroso, ch’era divenuto schiavo in terra saracina, sùbito dopo il riscatto corse a Roma e raccontò come il Soldano, udito che sul Tevere cresceva in gloria l’uomo novo, gridato avesse con sbigottimento grandissimo: «Sire Maometto aiuti la Saracinia!» La regina Giovanna, già sposa del suo drudo Aloisi, temendo le vendette del re ungaro per l’abominevole uccisione di Andreasso, si raccomandò alla grazia del Liberatore e donò cinquecento fiorini con giunta di gioie alla Tribunessa. Il principe di Taranto richiese d’amicizia il Severo e Clemente, con una legazione condotta da un arcivescovo. Perfino il Bavaro gli mandò – secondo fu bucinato – segreti messi, perché lo riconciliasse con la Chiesa. L’antico ciarlone schernito dal Fortifiocca, ora tronfio in seggio, atteggiato di maestà, col globo crociato in palma di mano, usurpava solennemente il versetto del Salmo: «Giudicherò la rotondità delle terre nella giustizia, e i popoli nell’equità.» XVI 103

IL DÌ primo di agosto, al conspetto degli ambasciatori magnifici e di tutto il popolo romano, Cola di Rienzo prese l’ordine di cavalleria con la più buffonesca cerimonia che abbia mai accompagnato in terra esaltazione di falso eroe. Preceduto e seguito dalla solita mascherata allegorica, cavalcò al Laterano. Affacciatosi alla bella loggia costrutta da Bonifacio VIII e dipinta da Giotto, in gonnella bianca, parlò: «Sappiate che questa notte mi deggio fare cavaliere. Tornate domani, e udrete cose che piaceranno a Dio in cielo e agli uomini in terra.» Come la moltitudine si fu dispersa, discese nella Basilica ch’era l’Aula di Dio; assistette all’ufficio divino; poi, secondo l’usanza dei cavalieri antiqui, si apprestò al bagno che doveva renderlo puro qual pargolo. Il notaro ignudo che «sentiva già del grassetto» si adagiò con tranquilla impudenza nella conca di paragone ov’era fama si fosse bagnato l’imperator Costantino sotto gli occhi santi del pontefice Silvestro per mondarsi dalla paganìa e dalla lebbra. Escito del lavacro, involto in drappi candidi, si appressò al letto alzato entro il recinto ottagono del battistero chiuso tra le colonne di porfido che il terzo Sisto avea tolte ai templi dei Gentili e quivi ordinate. Come fece per coricarsi, il letto crollò se bene era nuovo; e il sonno fu turbato dal tristo presagio. Ma al mattino, riapparso su la loggia di Bonifacio innanzi al popolo, tutto vestito di scarlatto e di vaio, ebbe cinta la spada da Vico Scotto, allacciati gli speroni da un Orsini e da un Armanni. Quindi, assunto il titolo di «Candidato dello Spirito Santo Nicolaio Severo Clemente liberatore della Città zelatore d’Italia amatore del mondo Tribuno augusto», fece leggere da un notaro capitolino un decreto che confermava Roma capo dell’orbe e fondamento della Cristianità, donava la libertà perpetua e la cittadinanza romana alle genti di tutta la sacra Italia, dichiarava l’elezione dell’Imperatore e la signoria dell’Impero appartenersi al romano popolo e all’italico, citava a comparire per la prossima Pentecoste Messer Lodovico duca di Baviera e Messer Carlo re di Boemia come quelli

che si spacciavano per veri imperatori o già eletti all’impero, citava ancóra tutti i prelati i re i duchi i principi i conti i marchesi i popoli le Comunità, minacciandoli di procedere contro di loro in contumacia «secondo l’inspirazione dello Spirito Santo»! Non lo scoppio fragoroso delle risa e delle beffe coprì la fine di questa incredibile buffoneria, ma sì frastuono di trombe trombette nacchere e ciaramelle levato a coprir la protesta del vicario pontificio. E il ciurmadore, tratta fuor della guaina la spada innocua, ferì il vento tre volte per tre bande a indicare le tre parti del mondo, e a ogni colpo vociò: «Questo è mio, questo è mio, e questo è mio.» E tuttavolta risa non s’udirono, né beffe, se bene tra la gente nuova fosse già per ispandersi taluno degli spiriti che in quell’ora fervevano entro l’anima libera del gran dileggiatore Giovanni Boccaccio. Ov’era egli, il Certaldese? A Ravenna, presso Ostasio da Polenta? a Forlì, presso Francesco Ordelaffi? Ah, se come il suo giudeo Abraam, si fosse egli ritrovato in Roma «per quivi vedere e considerare i modi e i costumi di quelli che a Roma vivono», non avrebbe egli forse potuto dare un fratello illustre al notaro da Prato ovunque conosciuto per Ser Ciappelletto? XVII 104

MA la cerimonia della coronazione, annunciata per mezz’agosto, superò in gagliofferia stomachevole la precedente. Il rètore fatuo aveva composto le sei corone tribunizie con ramoscelli colti su per l’Arco di Costantino, e il simbolo di ciascuna aveva illustrato con passi scelti a vànvera in antichi scrittori. Durante la messa, il priore lateranense si fece innanzi e gli offerì la corona di quercia dicendo: «Ricevila, perocché liberasti i cittadini da morte.» Il priore vaticano similmente gli offerì quella di edera dicendo: «Ricevila, perocché della religione fosti zelante.» Il decano di San Paolo gli porse quella di mirto dicendo: «Ricevila, perocché onorasti l’officio e la sapienza e aborristi l’avarizia.» Altri sacerdoti lo cinsero d’altre corone con altri detti. E frattanto un uomo in abito di mendico, con una spada in mano, gli ritoglieva del capo i serti a uno a uno, sogghignando, in ricordanza degli scherni e degli ammonimenti che accompagnavano un tempo i trionfatori quiriti; ma ritogliergli non poté l’ultima, d’argento, offertagli dal priore di Santo Spirito, ché l’arcivescovo di Napoli glie la dovette cerimonialmente ricalcare in capo. La burlesca rappresentazione ebbe termine con un’arringa in cui il Tribuno si paragonò al Nazzareno che nell’età di trentatre anni era salito vittorioso al Cielo com’egli ora, avendo senza spada liberato il popolo, saliva al culmine della gloria. Incredibile a dirsi: non scoppiò a ridere se non l’uomo vestito da mendico, per obbligo d’istrione ammaestrato; ma un monaco in odore di santità, Frate Guglielmo, proruppe in lagrime. Con diadema d’argento e speroni d’oro, Cola sedette a conviti senza fine. Ebbe il guidapopolo così gozzovigliando il sùbito pensiero di mettere in opera contro i baroni, come un buon tirannello di Romagna o della Marca trivigiana, la trappola consueta. Li invitò a cena. Cinque Orsini e due Colonnesi furono i commensali. Stefano Colonna il vecchio, sempre disdegnoso e amaro, mosse disputa se convenisse a rettor popolesco meglio la parsimonia che la prodigalità. A mezzo della contesa, con un gesto rude il potente scosse al Tribuno un lembo della guarnacca e disse: «Meglio ti converrebbe portar vestimenta da bizzocco che queste da principe.» Cola fino a quel punto aveva titubato dinanzi alla perfidia troppo per lui audace. La vanità ferita ebbe tal sussulto che vinse la paura. Egli ritenne prigioni i suoi ospiti. Messere Stefano fu rinchiuso nella sala del Consiglio. Le guardie udirono tutta la notte ansare il suo cruccio leonino e risonare nel passo agitato le sue calcagna di bronzo. Di tratto in tratto egli scrollava col pugno la porta e

comandava a gran voce che gli fosse aperta. Venne l’alba. In suo tenace orgoglio il vegliardo non poteva credere che quel plebeo si ardisse di mandare a ceppo o a laccio il capo della Grande Casata. Increduli eran certo anco gli altri, poiché Giordano e Rainaldo Orsini non poterono comunicarsi per aver mangiato di buon mattino i fichi freschi, essendo il dolce settembre. Ma il Tribuno aveva già disposto che fosse parato di bianco e di vermiglio il parlatorio, in segno di sangue, e che un frate minore ricevesse da ciascun patrizio la confessione e a ciascuno amministrasse il corpo di Cristo. Messer Stefano respinse il conforto, non volle apparecchiarsi alla morte ignobile, non prestò fede al rintocco della campana funebre: coperto della sua canizie eroica come da un’arme inviolabile, stette ad aspettare in silenzio l’evento. Quegli che più a dentro tremava d’incertezza, in verità, era il condannatore; cui la natura non avea dato la tempra di Ezzelino o di Castruccio. Vacillando egli, vennero alcuni cittadini prudenti a consigliargli la clemenza. Di sùbito accolse il consiglio, mutò il proposito. Era ora di terza: i baroni furono condotti al parlatorio, squillarono le trombe, il popolo attese avido e trepido il supplizio. Cola salì alla ringhiera e anche questa volta fece «uno bello sermone» di pace e di perdonanza. Non soltanto scusò i nobili dinanzi agli aspettanti, ma li colmò di officii e di beneficii, li nominò consoli capitani e prefetti, li regalò di ricche robe e di bei gonfaloni, li tenne a mensa senz’altra perfidia, se li trasse dietro a cavallo per le vie, in fine li accomiatò onestamente. Rare volte al mondo tanta rapidità di fortuna nell’acquistar lo Stato si accompagnò con tanta inettitudine nel mantenerlo, e tanta prosunzione di parole con tanta impotenza di fatti. Tra quanti al mondo pervennero d’abietta origine in signoria nuova non vi fu mai alcuno, forse, che men di costui sapesse conoscere e usare la bestia e l’uomo, la frode e la fede, l’arme e la virtù, la crudeltà e la clemenza, il sopruso e la legge. Sùbito che furon liberati, i baroni escirono dalle mura, si ritrassero nella Campagna, afforzarono le ròcche e incominciarono la guerra. XVIII 105

MARINO tenne il nerbo della ribellione e del guernimento. Rainaldo e Giordano Orsini, quelli delle «ficora fresche», vi condussero con grande ardore le opere: rimondarono il fosso, alzarono doppio steccato intorno, abbertescarono le torri, balestri e manganelle posero per tutto, fecero provvisione d’uomini di danari di armi e di vettovaglie. Il Tribuno non stava già su gli avvisi: banchettava tra i suoi giocolari e cavalierotti, commetteva d’ogni sorta drappi ai setaiuoli di Calimala, dettava epistole agli scribi secondo le regole di Boncompagno fiorentino o secondo gli esemplari di Tomaso da Capua. Come i ribelli ebbero fornito l’apparecchio, egli spedì loro un messo che comparissero. Il messo fu rincorso e lasciato mezzo morto tra le vigne di Marino, non altrimenti che quell’altro il quale non avea pur potuto giungere alla corte avignonese e s’era rimasto là su la Durenza con lacerate le scritture e rotte le ossa e la verga. Per risposta Giordano e Rainaldo si presero di osteggiare le terre intorno a Roma e di menar preda ogni giorno fin sotto le mura, con molto sbigottimento dei cittadini. Un’altra volta il Tribuno li citò che venissero a sottomettersi, brandendo le folgori del suo furore; e, per ispaventarli, ordinò che entrambi sopra una parete del Campidoglio fosser dipinti col capo in giù. Allora Giordano si spinse fin su la Porta di San Giovanni a prendere uomini femmine bovi pecore porci, ogni cosa trascinando alla ròcca; Rainaldo passò il Tevere, entrò in Nepi, arse e guastò tutto il territorio alla destra del fiume. Spinto dalle strida e dai lagni, il Severo finalmente bandì l’oste sopra Marino con ottocento cavalli e ventimila pedoni. Era tempo di vendemmia; l’uva matura gravava le belle

vigne; colava il mosto dai tini. L’esercito raccogliticcio, più di saccomanni che di combattenti, si diede in furia a devastare i campi intorno al castello: tagliò le viti e gli alberi, bruciò le capanne, rubò gli ovili, portò il ferro e il fuoco sin nell’ombra dell’antichissima selva ferentina, sacra alla memoria della confederazione laziale che quivi tenne le assemblee solenni. Ma non fu dato l’assalto alle torri; furono bensì dati dal Tribuno per isfregio i nomi di Giordano e di Rainaldo a due veltri innocenti. Era giunto intanto a Roma il cardinale Bertrando di Deucio legato del Papa e aveva spedito lettere al guastatore intimandogli di presentarsi senza tardanza. Cola levò l’assedio; ma, prima di partirsi, in quel rivo medesimo in cui era perito per la perfidia di Tarquinio Superbo il deputato aricino Turno Erdonio, egli affogò i due «cani cavalieri». Rientrò in città con le genti; disfece le case orsine ch’erano in fronte di San Celso; cavalcò al Vaticano. Tutto armato di piastra e maglia come un paladino che non sappia tregue, con manopole e morione, penetrò nella sacrestia, tolse la dalmatica d’oro e di perle imperiale, se la pose sopra l’arme a guisa di sorcotto; brandì la verga tribunizia, si accese di terribilità fantastica, e tra gli squilli delle trombe marziali comparve innanzi al Legato attonito. Aveva dal Pontefice il cardinal Bertrando facoltà piena di togliere a Cola ogni dominio, di riporre in Campidoglio due nuovi senatori eletti, di iniziare contro il deposto un processo per eresia, di usare coercizioni sopra i Romani perché lo rinnegassero entro il più breve termine. Il Santo Padre rimproverava al notaro della Camera urbana il titolo di Tribuno augusto, il folle bagno nella conca di Costantino, l’alleanza con l’Ungaro contro Giovanna di Napoli, le violenze contro gli ottimati e il vicario, la citazione diretta contro Carlo e i principi dell’Impero, la violazione dei diritti chiesastici, l’abolizione di tutte le leggi sancite. Al vedere l’uomo ferrato e scettrato in dalmatica da imperatore, il cardinale restò senza voce. Ma Cola molto ingrossò la sua dicendo con arroganza: «Mandaste per noi. Or che volete mai?» Rispose l’altro: «Abbiamo per voi informazioni di Nostro Signore il Papa.» Tonò il devastatore delle vigne di Marino: «Che informazioni son queste?» Il Legato con prudenza si tacque, pensando di mettersi al sicuro in Montefiascone ove risiedeva il rettore del Patrimonio. Cola escì dal Vaticano senza deporre la dalmatica in sacrestia, rimontò a cavallo, e fece novamente oste sopra Marino. XIX 106

MA la ròcca resisteva; e il cavaliere dello Spirito Santo chiamava invano a soccorso contro la duplice stecconaia i Fiorentini e gli altri alleati del primo patto. L’esercito popolesco ansava già nella fatica inconsueta, travagliato dalle balestre orsine, con scarsa vettovaglia e scarsissimo soldo. I cavalierotti mandavano lettere segrete a Stefano Colonna invitandolo a venire sotto le mura con la sua gente, ché gli avrebbero aperte le porte. Allora i Colonnesi, col favore del cardinal legato che macchinava in Montefiascone a danno del disobbediente, raunarono nella cittadella di Palestrina da cinquecento cinquanta cavalli e pedoni quattromila, per tentare lo sforzo. La novella della raunata mise grande spavento addosso al Tribuno, che «diventò come fosse infermo e matto». Non prendeva più cibo né sonno. Smaniava, farneticava, vedeva da per tutto traditori, faceva a ogni tratto sonare la campana patarina, congregava il popolo per raccontargli i suoi sogni e le sue visioni. Il Prefetto, chiamato, mandò innanzi a sé molte carra di frumento e venne di poi con cento lance, seguìto da quindici baronetti di Toscana, accompagnato dal suo figliuolo

Francesco, che per la prima volta vestiva l’arme. Cola rinnovò con lui l’insidia conviviale, ma senza pentirsi. Lo invitò a mensa co’ suoi; alle frutta lo fece prigione. Gli arnesi e i cavalli distribuì ai Romani. Radunò il popolo una volta per dirgli d’aver udito in sogno san Martino «lo quale fu figlio di tribuno» assicurare la vittoria su i nemici di Dio; un’altra volta per dirgli d’aver udito il santo papa Bonifacio vaticinare la postuma vendetta sopra gli odiati Colonnesi. Come costoro s’erano accampati a quattro miglia dalla città presso un luogo detto Monumento, l’interprete gridò esser questo il segno certo che non solamente sarebbero sconfitti, ma morti avrebbero quivi il lor monumento sepolcrale. E sùbito fece dar nelle trombe nelle nacchere e nelle ciaramelle, e ordinò le genti con l’aiuto di certi degli Orsini di Campo di Fiore e di Ponte Sant’Angelo, e di Giordano dal Monte. Diede per parola d’ordine «Spirito Santo cavaliere». Si mosse verso la Porta di San Lorenzo, contro cui s’apparecchiava lo sforzo ostile. I baroni, sperando di occultare la marcia, s’eran discosti dalla via di Palestrina volgendo a quella di Tivoli e s’erano accampati in vicinanza del Ponte Mammolo. In su la mezzanotte Stefano Colonna iuniore, capitano di tutta l’oste, condusse fanti e cavalli sino al Monastero fuori le mura. Li travagliava la pioggia dirotta e il crudelissimo vento, di tratto in tratto giungendo con le ràffiche lo stormo delle campane di Campidoglio, segno della riscossa. Sotto il portico della basilica, Stefanuccio – che era infermo di vomito e batteva i denti per la terzana ma dominava il malore col grande animo – adunò a consiglio i baroni collegati; i quali erano il suo primogenito Gianni, Pietro di Agapito signore di Genazzano, Giordano Orsini, Cola di Buccio Braccia, Sciarretta orfano di quel tremendo Sciarra castigatore di Bonifazio, Petruccio Frangipane e due Caetani di Fondi. Udivasi tuttavia la campana capitolina nello scroscio della pioggia; e Pietro di Agapito, il quale era grassoccio e alquanto più inclinato alle cautele che agli ardimenti per aver lasciato da giovine l’abito di chierico ma non l’indole, cominciò a disanimarsi e a vacillare. Egli aveva veduto in sogno la sua moglie, una degli Anibaldi, scapigliata in gramaglia vedovile; e temeva il presagio. Nel consiglio tenne per l’abbandono dell’impresa e per la rapida ritirata su Palestrina. Ma Stefanuccio gli mozzò le parole in bocca: prese con seco un sol fante, voltò il cavallo, e fu dinanzi alla porta, poiché sperava che taluno dei cavalierotti avrebbe mantenuta la promessa di aprire. Ad alta voce nella notte chiamò la guardia a nome; disse: «Sono cittadino di Roma; voglio a casa mia tornare; vengo pel buono stato». La guardia nominata non faceva motto. Egli batté con la manopola, iterando il grido. E allora un balestriere dall’androne gli rispose la guardia esser mutata, avere egli Paolo Buffa la custodia, non voler tradire la fede. Per segno di sua fermezza, non potendosi la porta aprire se non di dentro, accomandò la chiave a una verretta e con questa la scagliò a forza di balestro di là dall’arco di travertino. Cadde la chiave nella melma di un pantano. Disse il patrizio: «Buono balestriere, di te si ricorderà Stefano Colonna.» E spronò verso il monasterio. Ai collegati disse: «Entrare non potiamo per via alcuna, ché fummo tratti in inganno. Serrata è la porta e saldissima; difficile abbatterla, difficile appellare quel pazzo alla battaglia fuori mura. Giova rimettere il colpo ad altro giorno con più di forze, ma ritirarsi con onore passando in ordinanza davanti la porta a suon di trombe e a bandiere levate.» Mise fanti e cavalli in tre schiere. Comandò che l’una dopo l’altra movessero verso la porta, quella rasentassero, dessero quindi la volta a man ritta per riprendere la via consolare. La prima, condotta da Sciarretta di Sciarra, si mosse ordinata; giunta sotto la porta sonò le trombe a disfida; voltò senza colpo ferire. Il medesimo fece la seconda, condotta da Petruccio Frangipane. La terza veniva avanti con più baldanza, ché vi s’accoglieva il fiore della cavalleria colonnese, la più animosa gioventù patrizia, la meglio in arme, la meglio in arcione, montata su romani di gran

corpo o su giannetti alla leggiera, esercitata a ogni fazione e tanto ardente al combattere che Stefanuccio prima di muoverla aveva messo bando che sotto pena corporale niuno tentasse l’assalto. Precedevano il grosso gli otto primi feditori in antiguardo, tutti nobili; e tra questi Gianni Colonna il leoncello, arditissimo e fiero oltre misura, occhio del vegliardo. XX 107

COMINCIAVA ad albeggiare tra il nuvolo; meno spessa era la pioggia, ma il terreno tutto melma e pozzanghere, sicché vi s’affondavano i cavalli fino alla grascella. Le genti del Tribuno e del popolo, ond’eran capitani Cola Orsini e Giordano dal Monte, avendo già le due volte udito gli squilli e lo scalpitìo sotto la porta, tumultuavano per appiccar la zuffa; e, come la chiave erasi involata con la verretta di Paolo Buffa e serrame e gangheri erano ben saldi all’urto, incominciarono a maneggiar le scuri contro l’imposta dritta. Udirono i feditori il rimbombo e il tumulto; e Gianni Colonna, credendo che i suoi partigiani sopraggiunti movessero quel romore e fossero a dirompere la porta con i mannaresi e le accette, sùbito imbracciò la rotella, abbassò la lancia su la coscia, prese di terreno alquanto per rincorrere, fu pronto alla spronata e all’impeto. Come l’imposta cadde, fulmineo irruppe nel varco con tanta furia che dinanzi a lui solo tutta la cavalleria avversa diè la volta e tutto il popolo sbigottito s’arretrò per una mezza balestrata alla lunga. Lo stendardo tribunizio cadde a terra di schianto nella belletta sotto le calcagna dei fuggiaschi; e il Tribuno bianco di terrore vide il cavaliere lampeggiante, alzò gli occhi al cielo, credette venuta la sua ultima ora, altra parola non disse se non questa: «Ahi Dio, hammi tu tradito?» Ma i compagni non aveano seguìto il temerario; che si ritrovò solo di là dalla porta, non guardato alle spalle, con in pugno il troncone, su la bestia impennata. Ripreso animo contro l’assalitore singolare, la pedonaglia romana gli si gettò addosso urlando. Il cavallo al clamore spiccò due gran lanci per costa e ricadde in una buca impantanata sul lato manco della porta travolgendo il suo signore che restò preso nella staffa e confitto nella melma negra. Lo sopraffecero i popolari armati di spiedi e di verruti con rabbia grande come quella lor prima paura; e, avidi dell’arme ricca, presero a dispogliarlo innanzi di finirlo. Si dibatteva il giovinetto terribile, sforzandosi di drizzarsi in piedi per tener testa alla canaglia che lo sopraffaceva sol perché atterrato. Gridava sperando essere udito dai suoi: «Colonna, Colonna!» Risonava su lo schiamazzo il grande nome. Strappatogli del capo l’elmetto, di dosso gorzarino spallaccio cosciale, tutto l’arnese pezzo per pezzo, la ferocia ladra lo abbrancava ignudo per dilacerarlo. Fonneraglia di Trevi fu il primo che lo colpì nell’inguinaia, passando il ferro basso tra il viluppo degli abbattitori. Gridava tuttavia l’intrepido: «A me, a me, Colonna!» Il suo padre dinanzi alla porta domandava ansioso: «Dov’è Gianni mio?» Risposto gli era: «Noi non sappiamo che aggia fatto, né dove sia gito.» Allora sospettò Stefano che il suo leoncello fosse balzato pel varco. E, come buon sangue chiama buon sangue, anch’egli spronò, solo entrò nell’androne. Udì l’ultima voce del figlio, vide il figlio stramazzato nella buca melmosa, sopra il corpo sanguinante il viluppo degli uccisori. Come la masnada di Cola Orsini gli corse contro, egli voltò il cavallo, ripassò la soglia. Ma l’amore della creatura fu più forte che l’amor della vita. La febbre autunnale gli agghiadava le midolle e gli scoteva le ossa nell’armatura. Egli strinse i denti; silenzioso e disperato, spronò ancóra una volta a rientrar nelle mura per soccorrere il figlio abbattuto. Lo vide morto, lo vide supino e ignudo, riverso il bellissimo capo, lorda la chioma di

fango e di sangue, lacerato l’inguine pubescente, squarciato il divino coraggio del petto giovenile. I denti non disserrò; silenzioso si rivolse al varco dove splendeva in quel punto il repentino bagliore dei raggi saettati pel rotto dei nuvoli. Dalla torricella del presidio un macigno gli piombò su le spalle, percosse nella groppa lo stallone che impazzato lo sbalzò di sella contro la muraglia. Tramortito dall’urto, restò in terra. Sùbito fu calpesto; tratto fu dal popolo in mezzo alla sozzura; ebbe tronco il piè destro, aperto il viso tra occhi e naso come fauce belluina. Gittato sul cadavere figliale, mescolò il suo sangue maturo con quel virgineo ancor caldo di speranza fallace. XXI 108

MA il fato dei Colonnesi non era compiuto. Imbaldanzito il popolo per le due uccisioni, da queste aizzato a proseguir la strage l’accanimento degli Orsini di Campo di Fiore e di Ponte Sant’Angelo per inimistà dei consorti e per odio dei competitori, costernati i cavalieri della congiura privi del duce magnanimo e soperchiati dal numero stragrande, le sorti della zuffa si volsero in breve contro questi ultimi che debole sforzo tentarono sotto la porta, respinti non ressero, scavalcati balenarono su la melma sdrucciolevole non potendo fermare il piè in terra, caddero l’un sopra all’altro, e l’uno vendette cara la vita e l’altro la domandò salva, e pochi rimasti in sella tornarono in fuga a briglia abbandonata, come Giordano di Marino e un Caetani di Fondi se bene perdessero sangue dalle ferite mortali. Caduto da cavallo il proposto di Marsiglia Pietro di Agapito Colonna, dove la mischia era men folta, cercava lo scampo. La veracità del sogno l’empiva di spavento. Impacciato dall’arme inconsueta e dalla pinguedine chericale, sfangava e ansimava pe’ pantani cercando di riparare a una vigna vicina. Da ribaldi raggiunto, si buttò ginocchione a pregare per Dio e per la Vergine che tutto gli togliessero ma gli lasciassero la pelle. Dei danari lo spogliarono, e poi del sorcotto a oro, e poi d’ogni arnese. Rimasto nudo e scalzo, pregava tuttavia, sperava tuttavia tornare alla sua donna e mai più ritrovarsi allo sbaraglio. Ma Sgariglia beccaio con una sguerruccia gli segò la pappagorgia. Giacque nella vigna supino il proposto, grasso bracato, più che sugna bianco, con la calva cotenna nella pozza del sangue grumoso, non uomo da fazioni ma da prebende. E poco di lungi stette il suo cugino Messer Pietro di Belvedere, e un Frangipani e un Caligaro, e un della famiglia di Lugnano, e Camillo bastardo di Stefanuccio. E dei nobili ottanta altri perirono, macellati furono, mozzi e tronchi: giacquero nella mota cruenta nudi al ludibrio della razzumaglia. XXII 109

IL TRIBUNO non s’era mai ardito escir fuori della porta né distaccarsi dall’ombra dello stendardo bruttato. Sempre la vista e il cozzo del ferro gli davano il tremacuore, perocché assai più familiare ei fosse con gli inchiostri e coi vini che col buon succo delle vene virili. Quando vide Giordano dal Monte ricomparire sotto l’arco ad annunciar col guizzo dello stocco la vittoria piena, egli riprese colore; e rizzatosi dall’arcione fece sonare tutte le sue trombe d’argento a raccolta. Pronta aveva già la corona d’ulivo, e se la pose in capo; pronti già nel suo capo l’ordine e l’apparato del trionfo. Rimise le genti in ischiera e cavalcò a Santa Maria di Araceli con tripudio. Quivi appese in voto alla Vergine la corona d’ulivo e la verga d’acciaio. Rendute le grazie, salì al Campidoglio e si mostrò con la spada in pugno al popolo festante. Non una gocciola rossa interrompeva il nitore della lama imbelle; ma l’eroico mimo fece l’atto di forbirla al lembo della sua cotta cremisina,

rotondamente. Disse: «Hai mozzata orecchia di tal capo, che non la poté tagliare Papa né Imperadore.» E andò a mensa. Su l’imbrunire i cadaveri spogli di Stefano, di Gianni e del proposto furon trasferiti pietosamente dalla Porta di San Lorenzo alla cappella sepolcrale della casata in Araceli. Coperti furon di coltri d’oro, intorniati di torchietti ardenti. Vennero le gentili donne colonnesi in gramaglia, seguite da una moltitudine di lamentatrici scarmigliata e lacera, per fare la lamentazione e l’ululo sopra i cari morti. Echeggiavano le strida e i pianti per l’erta sacra, e turbavano il convito nel palagio accosto. Montò in furore il Tribuno, e comandò che fossero scacciate le vedove col loro stuolo urlante, e negate le esequie agli uccisi. Parve nella minaccia rammemorar le parole da Stefano il Vecchio proferite quando in San Marcello aveva spregiato l’editto; perché gridò: «Se quei tre mi fanno poco d’ira, io li farò gittare nella fossa degli appesi, come maledetti spergiuri ch’ei sono.» Allora i cadaveri nottetempo, senza pompa e senza ploro, furono portati nella chiesa di San Silvestro in Càpite ove i Colonnesi aveano fondato un monasterio per le figliuole di lor sangue. In segreto quivi, tra il virtuosissimo padre e il pusillanime congiunto, ebbe sepoltura e requie dalle pie donne l’imberbe eroe domatore di cavalli, che il Petrarca paragonava a Marcello diletto da Giove Ferètrio. XXIII 110

ERA in funeraria solitudine rimasto il seniore, là sul monte di Palestrina consecrato alle distruzioni dalla prima ferocia di Silla. Nella cittadella per lui medesimo ricostrutta su le ruine sconvolte da Bonifacio, egli ricevette l’annunzio. Già tre figli della sua virtù aveva perduti in tre anni. Ora perdeva d’un tratto il primogenito foggiato a sua imagine e il leoncello sortito a superar tutti. Ascoltò, diritto in piedi, senza vacillare. Colore non mutò, non fece motto, non sparse lacrima, non mosse gesto di cruccio né sospiro d’ambascia. Soltanto gli occhi aridi chinò su l’ombra spaziosa che la sua statura non incurvata dal secolo stampava in terra; fissi li tenne in quella terra ingiusta che già tanta stirpe immatura aveva inghiottito e rifiutava la pace alle vecchissime ossa omai polite dai travagli del destino come le selci dal torrente infaticabile. Disse alfine, riscotendosi: «Sia fatta la volontà di Dio. Meglio è morire che sopportare il giogo di un villano.» E, poiché non anche poteva coricarsi nella fossa, rimase in piedi ferrato ad apprestar le vendette. XXIV 111

CHE taluno ripetesse al Tribuno, dopo il fatto d’arme compiuto dai due Orsini, l’ammonimento di Maharbale al Cartaginese dopo la battaglia di Canne, non è certo. Certo è bensì, che il dettatore né sapeva vincere né sapeva usare la vittoria. Invece di fare oste senza indugi sopra Marino e Palestrina per quivi sradicar di colpo ogni resistenza e ribellione di nobili, egli adunò la sua cavalleria di cavalierotti da lui chiamata sacra milizia e si credette satisfare all’importuna pretesa del soldo con una nuova facezia. Parlò: «Vògliovi dar paga doppia oggi. Venite meco.» Ordinò le schiere. Vestì di drappi bianchi il figliuol suo Lorenzo, lo pose a cavallo, e lo menò seco a suon di nacchere e di trombette. Dov’ei volesse andar a parare con quella mostra, non sapeva alcuno. Cavalcò verso la Porta tiburtina, al luogo della zuffa; ov’era rimasta nel terreno la pozza

atroce con la melma e con l’acqua arrossate dal sangue magnifico di Stefanuccio Colonna e del feditore adolescente. Dinanzi la pozza smontò, fece smontare il figliuolo; inginocchiare lo fece su l’orlo tristo, attinse di quell’acqua sanguigna, ne asperse il prostrato dicendogli impronto: «Sarai Cavaliere della Vittoria.» E gli astanti stupirono e inorridirono. Ed egli volle che i conestabili percotessero col piatto delle spade, secondo l’usanza, l’ignobile battezzato col fango suo pari più che col sangue degli eroi. Sì grande fu il disgusto, allo spettacolo, che i baroni di parte popolare si vergognarono di vestire arme in pro di tal cialtrone. E i cavalierotti e l’altra soldatesca, omai ristucchi di attendere la paga doppia e pur la mezza paga, mormoravano e si sbandavano; mentre il dannato Giordano Orsini, con le ferite ancóra aperte, rinnovava la guerra minuta portando il guasto fin sotto le mura, mentre Sciarretta Colonna collegatosi con Luca Savelli operava senza tregua, sovvenuto di danari e di uomini dal cardinal legato che ne traeva dalle città guelfe d’Umbria e di Toscana. Roma era affamata. I guerreggiatori chiudevano il passo alle vettovaglie. Rubbio di frumento valeva sette libre di moneta. La plebe dal mormorìo passava al tumulto. Lo spocchione, tutto dato alla crapula e al fasto, non vedeva né udiva. Dì e notte era ai conviti, vestito come un satrapo, grasso e rubicondo, esercitando la ganascia che aveva potentissima, inzeppando la ventresca che già diveniva badiale. Alle badìe in fatti toglieva per impinguarsi; sequestrava le entrate delle chiese, le aziende dei mercanti, i beni delle comunità; prendeva l’oro a chi l’aveva, senza ritegno, ammutolendo con le minacce gli spolpati. Il tutto andava in ghiotteria e in scialo, in mantener buffoni e masnadieri. Così, mentre l’Orsino derubava e angariava di fuori, il medesimo egli faceva di dentro. Intollerabile era divenuto anche al popolo il giogo del villano. Costui non più si ardiva tener parlamento, per paura del furore improvviso. Il cardinal legato da Montefiascone minacciava la scomunica e il bando, il Papa da Avignone esortava i cittadini che abbandonassero ai suoi errori l’uomo abominevole «la cui malizia strisciava qual serpe, mordeva qual scorpione, diffondevasi qual tossico». E il Petrarca, riconosciuta non senza rossore la vanità del suo lirico sogno, scriveva moltiplicando nella obiurgazione epistolare le figure e le sentenze: «Oh! che dirti potrei se non quello che Bruto diceva scrivendo a Cicerone? Sento vergogna di coteste vicende, di cotesta fortuna. Te dunque, che ammirò duca de’ buoni, oggi il mondo vedrà fatto satellite de’ ribaldi? Così per noi si mutaron le stelle, così nemico si fece il cielo? Dove n’andò quel Genio tuo salutare, col quale era fama che avessi tu continui convegni? Tanto eran grandi e incredibili le imprese tue. Ma a che m’affanno?… Io verso te correva, or volgo strada. Addio Roma, a te pure addio!» XXV 112

SENZA ciance, i Colonnesi e gli Orsini di Marino lavoravano alla gagliarda. L’aumento su la gabella del sale, imposto dal Tribuno per pagare i mercenarii, esasperò i Romani già tribolati dalla carestia. Allora, pur tra i fumi del vino e i lazzi dei giullari, l’uom delirante udì il rombo della tempesta. E da prima il tremolìo intermesso della paura gli tenne luogo del solletico operato in sommo della gola dalle barbe della penna per vuotar col vomito il sacco e riempierlo ancóra. Ma, poco dopo, il tremolìo gli si converse in serramento che gli attanagliò stomaco e strozza e più non lasciò passar boccone. Finita fu la gran gozzoviglia capitolina. L’uomo non poteva né mangiare né dormire, di continuo agitato dalle larve e dai presagi. A ogni lieve romore, balzava in piedi credendo che crollasse il Campidoglio o che v’irrompessero nemici per uccidere. Al verso degli

uccelli notturni, nascondeva il capo sotto i guanciali raggricchiandosi tutto nelle coltri. Per dodici notti un gufo malauguroso, quantunque scacciato dai servi più volte, tornò su la torre campanaria a gufare sinistramente agghiacciando le vene dell’insonne. Egli si sveniva come una femminetta, piagnucolava come un fantolino. Allora, per placare la sorte, cercò di raumiliarsi, di ritrar le corna in dentro, di farsi mansueto e pieghevole. Ricevette per suo compagno nel governo il vicario papale, si protestò obbedientissimo servo del Pontefice, rinunziò le pretese all’elezione dell’Imperatore, annullò i suoi decreti intorno ai diritti maiestatici del Popolo Romano, revocò le citazioni contro i principi alemanni, depose ogni potestà su i sudditi immediati della Chiesa, si spogliò financo dei titoli augusti per chiamarsi modestamente «Cola cavaliere e rettore per Nostro Signore lo Papa», appese all’altare della Vergine in Araceli tutti gli emblemi e tutte le insegne, infine per allontanare ogni sospetto di tirannide si mise allato un Consiglio di trentanove popolani. Ma sùbito scoppiarono dissidii tra costoro circa la gabella del sale e la nomina del capitano di guerra. Il popolo, mal disposto a un nuovo reggimento pontificio, negò l’ossequio al vicario. Questi accusò di doppiezza il Tribuno; minacciando, lasciò anche una volta la città e riparò a Montefiascone. Cola, rimasto solo, affannosamente si diede a riconciliarsi coi nobili, tolse dal carcere il Prefetto, tentò di stringere le nozze tra il figliuol di costui e la figlia di Giordano dal Monte, negoziò paci alleanze dedizioni. Ma, come più s’agitava, più si sprofondava il pusillo. La sua favola breve era compita. XXVI 113

MOVENDOSI Lodovico re d’Ungheria a vendicare la vituperosa morte fatta in Aversa del suo fratello Andreasso e a racquistare il reame di Puglia, vennero anche in Roma ingaggiatori con mandato di levar soldati per lui. Un conte di Minerbino e paladino di Altamura, chiamato Giovan Pipino, con suoi fratelli conti di Potenza e di Nocera, stando adunque in Roma ad assoldare bande per l’Ungaro, commetteva ogni sorta di ribalderie e di ladrerie. Collegato con Luca Savelli e protetto dal cardinal vicario, si rideva delle citazioni tribunizie e imperversava con arroganza crescente. Ora, ai 15 di decembre, il Savelli fece affiggere alla porta della chiesa di Sant’Angelo un suo bando col quale invitava a una adunanza nelle sue case pel quarto giorno i suoi partigiani. Cola mandò un marescalco a lacerare il bando del sovvertitore e ad affiggere in suo luogo un atto d’intimazione a Luca perché comparisse nel termine di tre dì, sotto grave pena. L’officiale capitolino fu còlto dalle genti del Pugliese e malmenato. Cola citò allora in giudizio il paladino di Altamura. Costui per risposta si afforzò nel Circo Flaminio, alzò serragli e barre sotto l’arco di San Salvatore in Pesoli e in tutta la contrada dei Colonnesi, fece sonare a martello le campane della contrada, ragunò gente assai a cavallo e a piede, gridando: «Popolo! Popolo! Viva la Colonna, e muoia il Tribuno.» Si trattava di menar le mani. Dov’era Giordano Orsini? La paura dirompeva al cavaliere dello Spirito Santo gomiti e ginocchia. Anch’egli fece sonare a stormo le campane. Per un dì e per una notte quella di Pescheria fu sonata del continuo da un giudeo; ma nessuno traeva a disfare le barre. Gli Orsini dal Monte non si mostravano; il popolo al romore si asserragliava nei suoi rioni e aspettava l’evento. Disperato il Tribuno mandò contro la forza dei ribelli un conestabile di nome Scarpetta; che rimase ucciso. E il buon giudeo si scalmanava tuttavia a scampanare a scampanare in Pescheria; e nessuno traeva alle barre; e Cola in Campidoglio «non sapeva che si

facesse, sospirava forte, tutto raffreddato piagnea, sbigottito et annullato suo core era, non avea virtude per uno piccolo garzone». Così l’impresa del Liberatore si discioglieva in lacrimette e in balbettìo. Lacrimava egli e balbettava, lacrimavano e balbettavano i suoi familiari intorno, mentre il buon giudeo di lungi sonava senza riposo. Escito dal palagio, lasciando la sua camera piena zeppa di epistole dettate e non inviate, il notaro della Regola andò a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo; e quivi si stette chiuso e celato alcun tempo, e lo raggiunse la moglie partitasi dalle case dei Lalli in abito di frate minore. XXVII 114

DOPO due dì, rientrò in Roma il vecchio Stefano Colonna con la sua fazione. E diede esempio memorando di magnanimità; ché non corse alle rappresaglie, non rinfocolò le ire, non perseguitò i congiunti del caduto né lui snidò dal suo rifugio, ma per evitare ogni dissenso gli ordinamenti mantenne e per dimostrare la sincerità della sua perdonanza diede in publico il bacio di pace al suocero di colui che aveva osato attinger l’acqua sanguigna dall’orribile pozza ov’era caduto il più bel fiore della virtù colonnese. Indi a poco rientrò anche Bertrando di Deucio e riformò lo Stato abolendo tutti i decreti tribunizii ed eleggendo a senatori Bertoldo Orsini e Luca Savelli. I quali parvero ritrovare in Campidoglio il contagio del folle figuratore, poiché fecero dipingere sul muro Cola di Rienzo col capo in giù e a fianco di costui anche capovolti il cancelliere Cecco Mancino e il nepote Conte che teneva la ròcca di Civitavecchia. A Civitavecchia erasi ricoverato il tremebondo; ma, quando il suo nepote fu dal cardinale costretto alla resa, tornò in Castel Sant’Angelo presso quegli Orsini che avevano combattuto per lui nel tempo delle fortune. Quivi la sua carne saginata, che però in tanto travaglio andava perdendo l’adipe accolto in sette mesi di buona pasciona, fu messa a prezzo. E parve così quasi avverarsi quell’augurio dei lepidi patrizii a cena, quando lui presagirono principe di Norcia se non imperator romano. Francesco Orsini, notaro pontificio in Avignone, mercatò per averlo e ingraziarsi il Papa col darglielo nelle mani; ma perse tempo a stiracchiar la somma. Il suo nepote Nicolao trattava intanto con quel feroce Rainaldo di Marino che, non avendo perso memoria della trista notte di settembre passata in Campidoglio dopo la cena infida, voleva pagar di contanti la gioia del conficcarlo vivo in uno steccone del suo fosso; ma qui anche soverchio fu l’indugio del contratto. Volle il gioco della sorte che ambo i comperatori morissero di sùbito; sicché il mercatato ebbe salva la pelle. E, prima di mettersi al sicuro, trovò tempo e modo di far dipingere sul fianco della chiesa di Santa Maria Maddalena in prossimità del Castello un’ultima allegoria d’un angelo calpestatore di draghi e di aspidi. Ma l’allegoria non ebbe effetto, anzi fu bruttata di loto e di sterco. Perduta ogni speranza di riscossa, Cola escì dalla città alla ventura, lasciando dietro sé la guerra civile la Compagnia del duca Guernieri e la pestilenza. XXVIII 115

DOVE lo condussero il rammarico smanioso della signoria renunziata così stolidamente, il terrore delle persecuzioni papali indette contro l’eretico, la confusa angoscia del peccato, della penitenza, dei castighi celesti? Si bucinò ch’egli entrasse nel Reame per chiedere soccorso al re Lodovico che vi aveva già vendicato Andreasso e riformata la terra. E chi disse che andò per mare sconosciuto

su un legno; e chi disse che trattò col Nemico di Dio per cavalcar con lui sopra Roma e che, raccolto il denaro occorrente, il patto non ebbe séguito, perché il fratello di Cola si fuggì con la cassa; e chi disse perfino averlo visto in Roma aggirarsi ignoto tra i pellegrini accorsi alla perdonanza del Giubileo ed essere egli medesimo l’instigator segreto del verruto balestrato contro il cardinale Anibaldo. Il bandito pellegrinava ben più lontano, pei valichi dell’Apennino, verso quel Morrone petroso ove s’erano inerpicati i tre vescovi per recare al fraticello scalzo l’annuncio terribile della sua assunzione. Certo, un numero sublime regola i passi dell’eroe colpito dal fato iniquo allorché, dopo avere stampata la sua più dura impronta su l’anima della stirpe, si rivolge verso il deserto, verso la rupe, verso la palude, verso la fiumana, tratto dalla necessità di rientrare nel silenzio originario ov’egli rimarrà solo co’ suoi pensieri inespressi che s’appiglieranno alla terra per infinite radici, solo con la sua verità disconosciuta che profondamente custodita nella terra si risolleverà domani fra gli uomini operosa quando il suo primo portatore si sarà disciolto e riconfuso nella malinconia del mondo. Ma l’appressarsi di quell’istrione stracco e rauco dall’aver troppe volte con bocca rotonda gittato al vento e alla plebe il nome ineffabile di Roma, l’appressarsi di quel rètore sgonfio a quell’aspra montagna tutta piena di anelito divino è senza alcuna bellezza, senza alcuna grandezza, in vero. Altare di sacrificio e d’implorazione tra i più venerandi, sollevato dall’ansia dello spirito sotterraneo verso i cieli troppo remoti, quella mole di sasso pareva nei secoli il fulcro dell’estasi umana. Nelle cavità polite e adorne dall’arte dell’acqua umile e casta, viveva un popolo di asceti perpetuamente rivolto verso l’oriental bagliore dell’Eletto ch’era per venire a purificare e rinnovellare il regno profanato. Il loro culto era di aspettazione vigile e trepida. Lo sposo novello della Povertà, il pastore angelico, sarebb’egli apparso nell’alba dell’ultimo orrizzonte? o subitamente illuminato da un mattino paradisiaco sarebbe egli sorto di su la stuoia nella spelonca, risplenduto agli attoniti sul limitare, indi sceso dal monte alla pianura per compiere l’alta profezia? Essi vivevano aspettando, affrettavano con la preghiera la venuta, con la macerazione assottigliavano l’ingombro carnale perché l’anima potesse più facilmente ricevere il lume. E tuttavia talun dei più semplici dal vertice della rupe aprendo le braccia verso l’aurora ripeteva con bocca fedele il Cantico delle creature, o lo cantava a gran voce di giubilo simulando con due legni il gioco del liuto; e forse a vespro vedeva giungere per le vie dell’aria il Serafico e chinarsi con benigna letizia su la scodelletta di scorza a condirgli con l’olio dell’oliva umbra l’odorata erba alpestre o il legume farinoso. XXIX 116

COLA vestì la lana rozza con la stessa vanità con cui erasi composto nelle guarnacche di sciamito e di vaio. Non dimenticò la regula dictatoria per la regula paupertatis. Si rimpinzò di cipolle per farsi modello degli Spirituali; si ingombrò di dottrine profetiche per improvvisarsi teologo. La Concordia il Decacordo il Comento, il Vangelo eterno di Gioachimo da Fiore, i vaticinii di Cirillo e della Sibilla, le Cronache delle sette tribolazioni, le glosse di Giovanni da Parma e di Pier Giovanni Ulivi, tutte le visioni e tutti i sogni suscitati dal turbine dell’Apocalisse in quanti affaticava l’ansia del Futuro, tutti si rimescolarono confusamente in quello spirito ventoso e caliginoso. Divenuto gioachimita ardentissimo, egli per i due primi stadii del mondo – per il «carnale», compreso tra la creazione di Adamo e la natività di Cristo, per il «sacerdotale» fondato

dal divino Figlio – discese al terzo stadio «monacale» che doveva iniziarsi con l’avvento d’un santo uomo eletto a riformar la Chiesa nella povertà. Or chi poteva esser mai questo angelico riformatore se non egli, Cola di Rienzo, lo scavalcato cavaliere del Paràclito? Simulando in fatti la voce di un romito annunziatore dell’èra terza, volle egli persuadere a sé medesimo e ad altrui questa elezione. Non il buon frate Angelo da Monte di Cielo messaggero di Dio lo esortò a dipartirsi dall’eremo e a ridiscendere tra gli uomini per operare i novissimi prodigi, sì bene egli medesimo fu l’esortatore della sua follia ribollita. «O Cola, a che t’indugi? Assai vivesti in solitudine. Or devi ricominciare a vivere per la salute dell’Universo. Il Signore ti ha scelto. Va, rècati all’imperator romano che nell’ordine è il centesimo, e tu assistilo qual precursore col consiglio e con l’opera. E non dubitare che Roma presto s’adorni della papale e imperiale corona, essendo già trascorsi i quarant’anni da che fu tolto a Gerusalemme il tabernacolo del Signore e rimasto per i peccati degli uomini lungi dalla sua vera sede.» E l’industre gonfianùgoli imaginò che il romito per vie più incitarlo gli svolgesse sotto agli occhi i rotoli delle profezie di Merlino e quelli ov’eran trascritti i vaticinii incisi nelle due tavole d’argento offerte dall’Angelo a Cirillo sul Monte Carmelo. In verità, anche questa volta la paura fu il più efficace stimolo al viaggio; ché egli seppe come l’arcivescovo di Napoli, conosciuto il rifugio, pensasse di prenderlo e di consegnarlo al cardinal legato in Roma dove la memoria del Tribuno era tuttora viva e forse faziosa. Il terziario gittò la tonacella in un botro del Morrone e s’incamminò alla volta della Magna; valicate le Alpi, giunse alla città di Praga nel mese di luglio dell’anno 1350. XXX 117

QUIVI capitò nella casa di uno speziale fiorentino; e lo pregò che lo presentasse a Messer Carlo eletto imperatore per la Chiesa di Roma, volendo dirgli cosa di suo onore e di sua utilità. Il Boemo ammise al suo conspetto il pellegrino ignoto e gli consentì di esporre il messaggio. Allora Cola disse: «Fa vita santa in Montecelo un romito per nome Frate Angiolo; il quale ha eletto due ambasciatori, e l’uno ha mandato al Papa in Avignone e l’altro a voi Imperatore. Io sono quello.» Il Boemo si chinò verso lo strano messo per iscrutarlo con que’ suoi grossi occhi di cane sagace, premendo il collo e il viso innanzi, com’era suo costume. Gli disse: «Parla, adunque.» Il gioachimita parlò secondo la dottrina dei tre stadii. «Sappiate, messere Imperatore, che Frate Angiolo vi manda a dire che nel principio regnò sul mondo il Padre e dopo gli succedette il Figliuolo nella possanza; ed ora è la volta dello Spirito Santo, il quale deve regnare sul tempo a venire.» Il gobbetto astuto, ch’era rimasto pelato de’ suoi peli per il beveraggio propinatogli dall’amor geloso della regina onesta, cessò dal tagliuzzar le verghette di salcio col coltelluccio, com’era suo costume e suo diletto nelle udienze. Avendo udito quell’uomo separare il Padre e il Figliuolo dallo Spirito Santo e avendo già notizia delle eresie di Cola, disse: «Sei tu colui, il quale io penso?» E l’altro: «Chi pensate voi ch’io sia?» E l’Imperatore: «Io penso che tu sia il Tribuno di Roma.» E questi: «Veramente io sono quel Cola a cui il Signore diè grazia di poter governare in pace in giustizia e in libertà Roma capo del mondo.» E seguitò suo sermone presagendo una prossima strage di principi della Chiesa, la morte del Pontefice, l’avvenimento di un pastore angelico, di un redivivo Francesco, che doveva iniziare la rinnovazione portentosa, edificando alla gloria del Paràclito un duomo assai più splendido del tempio di Salomone. «Questo pastore coronerà voi in Roma con un serto d’oro e me Tribuno con un diadema argenteo, a voi lasciando

la signoria dell’Occidente, a me quella dell’Oriente. E saremo noi tre in terra l’imagine della santissima Trinità.» Il Boemo, udendo tante favole, ricominciò a tagliuzzar le verghette di salcio e a movere i grossi occhi intorno; sì che pareva non attendesse alla diceria. Ma, com’ebbe finito Cola di sermonare, mandò Carlo per l’arcivescovo di Treviri e per altri vescovi molti, e per gli ambasciatori del re di Scozia, e per tutto il corpo de’ dottori, affinché udissero i savii e giudicassero. Ed eglino giudicarono infette di eresia quelle dottrine e abominarono il dicitore. Il quale fu preso, costretto a distendere per iscritto il messaggio, e dato in custodia all’arcivescovo finché non giungesse la deliberazione del Pontefice a cui l’Imperatore aveva spedito l’empia scrittura sigillata col suo sigillo. XXXI 118

STETTE Cola alcun tempo in Praga, trattato umanamente, passando i giorni a disputare con maestri di teologia. La sua facondia «faceva stordire quelli tedeschi, quelli boemi, quelli schiavoni». L’amico dei conviti, mal disposto alla frugalità francescana, si contentava di mangiare e bere all’alemanna; ché «assai vino, assai vivanda li era data». Per ingraziarsi il Boemo, gli disse: «Io sono del vostro sangue. Come Santo Alessio che, dopo il suo ritorno dal pellegrinaggio e sino alla morte sua visse sconosciuto nella casa paterna vituperato dai servi, io ben voleva tacermi. Ora parlo. Sono figliuolo bastardo di Enrico imperatore; sono del vostro sangue.» E gli raccontò la favola della taverna, e magnificò anche una volta le sue imprese romane perché il Boemo non avesse a vergognarsi del parentado. Il gobbetto astuto aggrinzò nel sorriso le gote rilevate in colmo, e seguitò a tagliuzzare le verghette di salcio. Cola fu condotto in un triste castello su l’Elba; ove, afflitto dalla inclemenza dell’aria e dall’incertezza della sua sorte, passò lunghi mesi di prigionia confortandosi con la scrittura d’innumerevoli epistole, finché giunsero in Praga gli atti della inquisizione diretta contro di lui dal legato papale Giovanni vescovo di Spoleto. Il Boemo allora mandò l’eretico ad Avignone con buona scorta; e il Papa lo ebbe finalmente nelle mani. Come Giovanna di Napoli, egli comparve dinanzi al collegio dei cardinali; ma non fu, come l’adultera, assolto. Fu rinchiuso nella più massiccia torre del palagio, con la catena al piede; e la catena era murata nella volta incrollabile! Narrava il Petrarca a Francesco dei SS. Apostoli avere il Romano evitato il supplizio per l’opinione che si era sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona. Dell’antico laudatore aveva chiesto notizia il prigioniero sul primo entrare nella città, forse sperandone qualche soccorso, o perché la calda amicizia in quegli stessi luoghi nata gli tornasse alla mente; ma erasi ritratto nella solitudine di Valchiusa ad ascoltare la melodia del suo cuore doglioso colui che mirato aveva bella nel bel viso di Laura la morte. «Poteva egli aver compiuto in gloria i suoi giorni sul Campidoglio, e si ridusse invece con onta immensa della Republica e del nome romano ad essere prima da un Boemo e poi da un Limosino in carcere sostenuto!» deplorava colui che un giorno aveva anelato di avvolgere le mani entro i capegli dell’Italia sonnolenta per isvegliarla. Ma il Limosino, con improvvisa fortuna del catenato che pur riceveva «vitto assai sufficiente dalla scodella del Papa» e poteva leggere Tito Livio, si partì dal dolce mondo tralasciando la pompa decenne dispiegata con larghezza di re. E prese l’ammanto di Pietro il vescovo d’Ostia, sotto il nome d’Innocenzo VI, col proposito di

ammendare la disonestà della Curia e di purgarla da ogni vituperio. S’adempiva la profezia di Frate Angiolo? Il nuovo Pastore disposava la Povertà? Così scaltramente seppe maneggiarsi Cola con questo uomo di buona vita e di non grande scienza, che assoluto perdonato benedetto fu posto a fianco del gran cardinale Egidio Albornozzo cui era commesso l’officio di pacificare l’Italia e di restaurare in Roma i diritti della Chiesa. XXXII 119

IN ROMA – corsa ogni giorno da quelle novità che non parevano a Matteo Villani degne di memoria «per i lievi e vili movimenti di quell’antica madre e donna del mondo» – era sorta, sul sangue orsino e colonnese versato alle barre nei tumulti d’agosto, una scimmia del Tribuno. Il popolo aveva gridato rettore della città lo scribasenato Francesco Baroncelli detto lo Schiavo «uomo di piccola e vile nazione, e di poca scienza»; ma, dopo quattro mesi di reggimento riformato su gli statuti toscani, lo aveva deposto a furia. La signoria fu allora offerta al cardinal di Spagna giunto in Montefiascone; restituita fu al Papa la facoltà di porre suoi vicarii nel seggio senatorio. Se bene la novella della liberazione di Cola e il sentore della sua vicinanza già risollevassero nella parte popolare le memorie del primo tribunato e provocassero un certo fermento, il savio Egidio buon conoscitor d’uomini si guardò dal consentire alla designazione e insediò in Campidoglio Guido Patrizi. Memore dei suoi fatti d’arme innanzi a Taliffa e ad Algesira, il Conchese con ardita celerità, accresciuto dei diecimila uomini raccolti sotto la condotta di Giovanni Conti, sostenuto dalla lega di Firenze, di Siena e di Perugia, rinforzò la guerra contro il prefetto di Vico pel recupero del Patrimonio. Vittorioso, coi Monaldeschi entrò in Orvieto; ebbe alfine curva ai suoi piedi calzati di ferro la nuca del ribelle, su cui pesavano tre scomuniche. Cola di Rienzo s’era ritrovato al campo con molti Romani; ai quali il rivederlo sano e salvo fuor di tanti pericoli pareva portento. Lo invitavano a rientrar nelle mura i cittadini «grandi lingue». E parevano ora gonfiarlo con l’arte sua istessa. Gli dicevano: «Torna alla tua Roma, curala di tanto male, siine novamente signore. Noi sovvenirti vorremo di favore e di forza. Non dubitare. Non mai tanto amato e addimandato fosti.» Gli davano di queste vesciche i popolari e non un danaro. A parolaio parole, a promettitore promesse. XXXIII 120

L’ALBORNOZZO lo tenne in Perugia, con scarsissima provvigione. Il reduce dalle spelonche francescane, il seguace della Povertà, fu preso allora dalla fame querula dell’oro, si diede tutto alla ricerca astuta, fu il sollecitatore insidioso dei mercatanti perugini, il frequentatore obliquo dei banchi e dei cambii, l’amico e l’emulo dei barattieri e dei truffardi, non ad altro inteso se non a lavorar buona pània da prendere merlotti. Ma i Perugini delle cinque Porte «feroci e d’agro consiglio», di continuo dediti a fare e a disfare leghe, a prendere e smantellar castella, a ricever terre in obbedienza e a venderle per contante, a batter moneta e a fermar leggi, a erigere Studii ed Archivii, a concedere cittadinanze e podesterìe, a rimetter Guelfi in patria e Priori in palagio, a ordire e a scuoprir congiure, a intraversar di catene e di barre i capi delle strade o a condurre in piazza la vena dell’acqua, a vender grano al Papa o a beffarsi dell’interdetto, non aveano tempo né voglia di dare orecchio al cianciere floscio: governavano, guerreggiavano, mercatavano,

edificavano: popolo di gran nerbo che pur allora dava consigliere al Legato in Viterbo quel Leggieri di Nicoluccio d’Andreotto forte di senno e di mano che doveva poi farsi capo dei Raspanti contro i Nobili. XXXIV 121

NON essendogli riescito di sedurre «con la dolcezza delle parole» i Signori Priori delle Arti che appunto nel giorno della Pentecoste sotto il Magistrato di Leggieri avevano incominciato ad abitare il palagio novellamente fatto, Cola pensò d’introdurre il suo miele e il suo vischio in quello Studio illustre che tra l’imperversare delle passioni civiche fioriva maravigliosamente. Nella scola di Giurisprudenza, già quivi illuminata dall’insegnamento di Cino ed ora dal divino ingegno di Bartolo, egli trovò infatti Messere Arimbaldo dottore di legge e Messere Brettone cavaliero di Narba fratelli carnali di Fra Moriale. L’uccellatore fu in gran giubilo, ché non poteva la sorte mandargli più bella presa. Ben sapeva egli come il friere di San Giovanni avesse dato in deposito ai mercanti di Perugia la molta moneta acquistata con le ruberie e con le taglie. Gli bisognava dunque trovar il modo di spillarne una parte. Se bene il Trivio e il Quadrivio figurati da Nicola Pisano fosser posti a bevere acqua continua intorno la fonte di Fra Bevignate, il notaro teologo si accomandò alla virtù del vin mero. Avviluppando il giovane e litterato Arimbaldo, volle sùbito con lui sedere a cena, trincare con lui. Tra l’una e l’altra coppa, versò la sua liquida eloquenza, rimescolò il latino di Tito Livio e quel dell’Apocalisse nelle celebrazioni della forza romana ripetute omai sì gran numero di volte che perfino il vecchio leone serrato nella gabbia capitolina avrebbe potuto ruggirle a mente. L’effetto su l’animo giovenile fu prontissimo. Arimbaldo credette avere già in pugno la signoria di Roma, vide sé già in vetta al Monte Tarpèo, vestito di porpora. Scrisse al devastatore della Marca: «Onorato fratello, più aggio guadagnato io in uno die, che voi in tutto lo tempo di vostra vita.» E gli domandò licenza di togliere dal banco quattromila fiorini, perché Cola poneva a ogni sua cantafavola un medesimo ritornello: «A ciò fare bisogna moneta. In ciò moneta per cominciare bisogna, messere.» Fra Moriale, uomo solito di far la misura rasa col fil della spada alle moggia dell’oro, tentennò alla richiesta. Egli odorava la follia nell’avventura. Nondimeno, per amor del fratello, consentì; e il consenso accompagnò con l’ammonimento: «In primamente aggiate guardia che li quattro mila fiorini non si perdano.» E anco promise che, in caso di malanno, verrebbe di persona al soccorso e farebbe le cose alla grande, secondo il suo costume. Intascati i fiorini, Cola non capiva nelle cuoia e nei panni per l’allegrezza, per ciò panni mutò senza indugio, ma le cuoia serbò ai giudei dell’Austa. Il terziario del Morrone, pomposamente rivestito di guarnacca e cappa scarlatta foderata di vaio, su palafreno con sella alla gianetta e gualdrappa messa a oro, tra il dottore Arimbaldo e il cavalier di Narba, seguìto da una turba di fanti e di donzelli, si partì per quella via che il figlio di Bernardone aveva stampata delle sue sante vestigia andandosene coi compagni verso Roma – al tempo di un altro guidapopolo chiamato Giovan Capoccio – per proporre al terzo Innocenzo la parabola della Povertà. XXXV 122

IL SUO primo comparire dinanzi al cardinale Egidio, all’ossuto Spagnuolo domatore di tirannelli institutore di leggi e costruttor d’acquedotti, fu di paone tronfio che spieghi la coda e rimiri sue

penne e dica crai-crai. Eccolo, il gesticolatore, figurato nella prosa dell’antico biografo come in una rozza pitturetta che su una parete della Suburra illustri la scena di un’atellana. «Mostravasi grosso, con suo cappuccio in canna di scarlatto e con cappa di scarlatto fodrata di panze di vari; stava superbo, capezzava, menava lo capo nanti e retro, come dicesse: Chi sono io? io chi sono? Poi rizzavasi ne le punte de li piedi, mo si alzava, mo si abbassava.» Allora parlò e disse: «Legato, fammi senatore di Roma. Io vado e pàroti la via.» Il volto ulivigno del Conchese, forte disciplinato nel dissimulare il pensier suo finché non fosse convertito in atto veloce, non mostrò forse né il disdegno né la pietà. Egli era ben l’uomo che, più tardi, richiesto di rendere i conti, doveva rispondere a Urbano V caricando un carro con le chiavi delle recuperate città e inviandoglielo senza motto. Considerò con l’occhio aguzzo il corpulento plebeo e, fattolo senatore, lo mandò volentieri ad bestias ma senza dargli pur un tornese di viatico. Cola spedì un messo ad assoldare coi fiorini di Messere Arimbaldo duecento cinquanta barbute che, licenziate da Malatesta di Rimino, oziavano in Perugia. Con questi cavalli, con una masnada di fanti toscani e con alquanti perugini egli si mosse per alla volta di Roma. La fama lo precedeva. Il popolo si apparecchiava a festeggiarlo; la nobiltà stavasi in disparte, col piede nella staffa della balestra. Era il ferragosto dell’anno 1354, era il settimo anniversario dal giorno del lavacro nella conca di Costantino. XXXVI 123

GLI escirono incontro fino a Monte Mario i cavalierotti con rami d’ulivo e lo scortarono alla porta di Castello. L’entrata fu trionfale. Sotto la porta, nella piazza, sul ponte, per la strada ondeggiavano drappi, piovevano frondi, sonavano plausi e clamori. Giunto al Campidoglio, l’uffiziale del papa francioso rimpannucciato col denaro del ladron narbonese fece sua solita concione e si paragonò al re Nabucodonosor che, essendo la sua signoria giunta al cielo e pervenuta fino all’estremità della terra, fu scacciato d’infra gli uomini e per sette stagioni si rimase con le bestie e rugumò l’erba come i buoi e bagnato fu dalla guazza, tanto che il pelo gli crebbe come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli. Schiamazzava la plebaglia rimirando il notaro della Regola che imbestiatosi era per certo ma non parea già pasciuto d’erba né beverato di guazza, così ventroso e rubicondo, lucido di lardo e di sudore, con quella collottola e quella mascella più che badiali. Cresciuto bensì gli era il pelo ché aveva la barba lunga; e cresciute gli erano anche a tutto aggranfiare le granfie. Scioltissimo pur sempre lo scilinguagnolo ma molto ingrossato il fiato nella gargozza. E sùbito ricominciò egli a mandar suoi epistoloni insulsi per l’universo mondo, a spacciar sue spropositate promesse tra i perdigiorni, a spiccar suoi bandi e comandamenti goffi contro i nobili. Nominò capitani di guerra i due merlotti, Arimbaldo e Brettone; fece un tal Cecco da Perugia suo cavaliere e suo consigliere. Ma sopra ogni altra istituzione curò quella della dispensa, della mensa e della cantina; ché «distemperatissimo bevitore» era diventato, e giustificava la sua spaventevole sete con le scalmane prese nelle prigioni di Boemia. Non volle più conoscer acqua. Non soltanto a ogni ora del giorno e della notte mescolava nel suo otro il dolce e il brusco, il greco e l’ispano, l’albano e il trebbiano, il falerno e la malvasìa, il moscadello e il màmmolo; benanche si lavava con vin pretto le mani e la faccia. XXXVII 124

CHIAMATI all’obbedienza, i baroni non risposero. Dei Colonnesi l’orfano Stefanello, germano di quel Gianni che in un punto aveva lanciato il cavallo e l’animo oltre il limitare di Roma e dell’Eternità, non tralignava dalla sua progenie. Avendo composto nel sepolcro le terribili ossa dell’avo quasi centenni, unico superstite del suo ceppo egli si sforzava di tener ritta sul sasso di Palestrina la gran marmorea colonna contro il secolo procelloso. Come seppe il ritorno del villano battezzatore, si preparò a vendicare il sangue della pozza. Avendogli mandato il beone i cittadini Buccio di Giubileo e Gianni Caffarello per ingiungergli di venire all’omaggio, l’orfano ritenne i due messi, li imprigionò, fece a uno strappare un dente per ispregio, all’altro impose taglia di quattrocento fiorini d’oro. Con guardinga rapidità, condusse fuori della ròcca le sue bande di arcieri, corse la campagna fin sotto le mura, menò gran preda di bestiame, si ritrasse, ricomparve, alternò la beffa e il danno, giocò d’astuzia e di destrezza, combattitore espeditissimo. Costretto dal mormorìo dei Romani, tirato su in arcione con gli argani, attorniato da una banda di famigli e di mercenarii Cola cavalcò fuor della Porta Maggiore, in ambio, ché il peso e l’ànsima non gli consentivano altra andatura. Per la Via Prenestina la sua gente sciamannata faceva vista di cercare tra i ruderi dei sepolcri. Tutta la campagna era muta e deserta, senza traccia di uomini e di bestie. La via tagliata nel tufo discendeva alla bassura del bulicame, risaliva pel dorso di Tor de’ Schiavi. E nulla era più miserevole di quella pinguedine pusillanime dondoloni in groppa a quella chinea grossa (sotto gli zòccoli ambianti risonava il lastrico antichissimo battuto un dì dalle coorti di Quinzio Cincinnato) mentre declinava il sole sul silenzio dell’Agro alla cui selvaggia grandezza s’erano talvolta agguagliati i nuovi sangui almeno per la tenacità degli odii per la ferocia delle oppressure per il dispregio della vita e della morte. Mormorava il tardo persecutore: «Che giova gire qua e là per lòcora senza vie?» E aveva paura del silenzio. Ma il buon mastro di guerra Stefanello co’ suoi lesti arcieri già traversava il taglio della rupe Sabina, passava innanzi alla cella del tempio di Giunone spingendosi innanzi la preda: ricoverava e le bande e le mandre di là dalle ruine dell’acquedotto, nella selva chiamata Pantano, presso il confluente; poi, fatta la notte, traeva il tutto alla ròcca in salvo. Cola volse per Tivoli; là sostò; là seppe, il giorno di poi, che la preda romana era già in Palestrina; furente, sfogò in millanterie, giurò l’ultima distruzione dei Colonnesi, scrisse gran numero di lettere, chiamò a sé le masnade mercenarie, rialzò il suo vecchio stendardo azzurro col sole e le stelle. Vennero i soldati pochi con bandiere trombe cornamuse e nacchere molte; vennero Messer Brettone e Messere Arimbaldo capitani generali che avevano appresa l’arte della guerra dai giureconsulti dello Studio perugino per gareggiare col maggior fratello. Ma le barbute e i conestabili, come furono in conspetto del senatore, gli domandarono a gran voce le paghe; gli gridarono che combattere non poteano, avendo lasciato in pegno l’arnese. Prestamente il litteratissimo con una citazione dell’antiche storie foggiò una ciurmeria e per quella fu buono di trarre dalle borse dei due Narbonesi ancora un migliaio di fiorini. «Trovo nelle antiche storie scritto che in diffalta di pecunia il console adunò i baroni di Roma e disse: – Noi, che teniamo le dignità e gli offici, esser dobbiamo i primi a donare secondo le forze di ciascuno. – Tanta moneta sùbito fu raccolta, che la milizia ebbe tutte le sue paghe. Così voi due cominciate a donare; seguiranno gli altri l’esempio, e avremo denari a furore.» I due impaniati nicchiarono ma non si ardirono contraddire alla dotta citazione; sciolsero di mala voglia le borse, e ciascuno diede cinquecento fiorini. La somma fu distribuita a tutta l’oste. Fatta la ragunata, Cola mosse all’assedio di Palestrina. Dinanzi alla cittadella ciclopica l’espugnatore atellano si diede a «capezzare» come dinanzi al

chiuso cardinale Albornozzo. Levava dunque il capo, considerava le torri e il càssaro eccelso, rammemorava i più ingegnosi stratagemmi storici; poi diceva: «Questo è quel monte, lo quale mi conviene appianare.» Ma le sue genti operavano fiaccamente, a quella calura d’agosto; non tagliavano gli alberi perché si piacevano di meriggiarvi all’ombra sazii di frutta. L’espugnatore seguitava a guatare il monte: vedeva entrar per le porte munite mandre di bestiame, lunghe file di giumenti carichi di salmerie; e domandava: «Quelli somarieri che vonno dicere?» Gli rispondevano: «Portano vettovaglie alla ròcca.» Ed egli: «Non si poterìa fare che non le portassero?» Gli rispondevano che troppo era aspra la fortezza del monte. Egli giurava allora, senza distogliere lo sguardo: «Mai non ti lento finché non ti consumo, o Palestrina.» Una sera giunse al campo una femminetta e chiese udienza. Era la fante di Fra Moriale sopraggiunto in Roma con quaranta conestabili per mantener la promessa ai suoi fratelli e per vedere se fosse il caso di «far le cose magnifiche» secondo il suo costume. La fante, con l’animo di vendicare i mali trattamenti avuti dal suo padrone, riferì avere udito più volte il Narbonese far proposito di riscuoter suoi crediti pigliandosi la pelle lustra del senatore. D’improvviso il senatore levò l’assedio (era l’ottavo giorno) e di buon portante ritornò a Roma, pensandosi essere a lui più facile ordire la frode che condurre la guerra, e la cassa piena del malvagio friere giovargli assai meglio che il saettame del Colonnese scarno. XXXVIII 125

SOTTO colore d’amicizia mandò egli a chiamare il fresco ospite, che venisse in Campidoglio co’ suoi fratelli e conestabili. Adoprato aveva la pània per invescare i due merli implumi; preparò la tagliuola per prendere il lupo rapace. Andò Fra Moriale, senza alcun sospetto, alla lieta accoglienza. Come fu giunto, si accorse d’esser incappato nell’ordigno e bestemmiò la sua balordaggine; ma non ebbe neppur tempo di mordersi le dita ché fu stretto in manette e in ceppi, legato inferrato imprigionato prestissimamente insieme con Brettone e con Arimbaldo. Cola ritrovava la celerità cesàrea. Dissimulando la cupidigia sotto la toga della giustizia, processò senza impaccio e indugio di procedura il friere di San Giovanni «come publico principe di ladroni, il quale aveva assalite le città della Marca, e di Romagna, e le città di Firenze, di Siena e di Arezzo in Toscana, e fatte arsioni e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte uccisioni di uomini innocenti». Conobbe il friere come quello sbracato plebeo avesse più sete dell’oro che del sangue, e cercò maniera di fargli intendere che avrebbe comperata la libertà a qualunque prezzo. Consolava i fratelli con la speranza del riscatto. Rispondevano egli sospirando: «Deh faccialo per Dio!» Discesa la notte, il condottiero si addormentò raccolto in tondo alla guisa dei veltri, come era uso nel campo sotto la tenda, facendo alla gota sostegno del braccio nerbuto; ché il manigoldo lo aveva alleggerito dei ferri infami. Scosso fu di sùbito nel primo sonno, condotto al tormento. Come vide la corda, si sdegnò contro l’audacia dei villani, attestò a gran voce la sua qualità di cavaliere spron d’oro, drizzò contro l’oltraggio il corpo e l’anima; né li curvò più mai fino al trapasso. Fece il novero delle sue imprese. «Capo della Grande Compagnia fui; e, perché cavaliere, venir volli ad onore. Prendere seppi e rivendere città, mettere taglie, terre guastare, uomini uccidere, femmine priemere. Quanto pesi mia spada sanno la Puglia la Toscana e la Marca.» Dinanzi alla morte, la pervicacia del predone si accendeva di magnanimità. Ricondotto nel carcere, il priore dei Gioanniti domandò penitenza; e gli fu dato un confessore per acconciarsi con Domeneddio. Brettone e Arimbaldo nell’ombra si sforzavano di soffocare il singulto e il

gemito, ma non tanto che non l’udisse il primogenito. «Cari fratelli, non vi dolete» parlò a conforto pacata e grave quella voce sì potente in levare e infrenare l’impeto dell’assalto e del saccheggio. «Voi siete anco in sul fiore come io era quando con la galèa di Provenza me ne andava in Levante, e la fortuna cacciò il legno arrenato nella bocca di questo antico Tevere ov’ella oggi m’ha pur ricondotto a perire. Predata e rotta fu la galèa, roba e arnese perdetti, ignudo scampai per la piaggia; dopo cinqu’anni fui vicario del Re d’Ungheria, tenni la città d’Aversa e il tesoro accolto. Di prima barba siete anco, dolci fratelli, e non conoscete ciò che è fortuna: i forti aiuta sebbene è fallace. Pregovi dunque che siate forti e savii e animosi al mondo come io fui, e che vi amiate e vi onoriate. Non temete, ché voi non morirete ora. Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano. Sono contento morire in quella terra dove transirono i beati Pietro e Paolo, nella misericordia di Dio avere pace, sul santo petto di Sire santo Giovanni posare. Su, fratelli, su, sangue mio buono! Per tua colpa, Arimbaldo, io uomo fui condotto in questo inganno come fantolino. Ma non ti dolere di me, non lacrimare. Sì bene vi sovvenga che non v’era pur ieri sopra me, o fratelli, meglio ammaestrato guerriero né meglio in arme né meglio a cavallo né di più sano consiglio né più ridottato.» In questi conforti, la notte si avvicinava al dì e cominciava l’alba ad apparire. Il friere sorse e volle udir messa. Ci stette scalzo, a gambe nude. Su l’ora di mezza terza sonò la campana, fu congregato il popolo. Condotto alla scalea del Campidoglio ov’era la gabbia del leone, il Provenzale ebbe pietà della fiera e fu allegro di morire. S’inginocchiò dinanzi all’imagine di Nostra Donna. Tre fraticelli lo assistevano. Il popolo silenzioso mirava la gentilesca grandigia del cavaliere vestito d’una roba di velluto fosco a liste d’oro. In piedi egli ascoltò la sentenza. Interruppe il lettore gridando: «Ahi Romani, e come consentite alla mia morte? Quale ingiuria da me aveste? E chi mai potrebbe oggi riformare a buono stato la città vostra miserabile, se non io che ridussi all’obbedienza col senno e col ferro Puglia, Marca e Toscana? Per la vostra miseria e per la mia ricchezza debbo oggi morire; ma trist’a voi, trist’a quel sozzo can traditore che m’ha fatto frode.» Sentì fremito del popolo intorno; placato s’inginocchiò novamente innanzi alla Vergine. Come parvegli udire nella sentenza mentovar le forche, balzò di sùbito in piedi, pallido di corruccio, ergendosi di tutta la statura come per respingere l’infamia. Quelli che intorno gli stavano lo confortarono, che non dubitasse, che condannato era certo nel capo. Si acquetò allora; camminò con passo fermissimo al supplizio, verso la spianata del Monte Tarpèo. Il luogo era tristo e selvaggio, aduggiato dall’ombra delle alte forche, pascolo di capre, scalo di cordai, sparso di colonne infrante e d’oleastri contorti; onde scorgevasi la faccia travagliata dell’Urbe con le sue basiliche e i suoi chiostri, con le sue terme e i suoi circhi, con i suoi archi imbertescati e i suoi fòri trincerati, col biancicore dei suoi marmi mezzo sepolti su cui le opere di mattone rosseggiavano quasi fossero costrutte di grumo impietrato. Egli volse in giro gli occhi grifagni; poi li affisò nella torre caetana delle Milizie fondata con possa ciclopica sopra il Fòro di Traiano. Il suo sogno di dominazione ripalpitò per un attimo su la cima del propugnacolo formidabile. Egli vide la sua Grande Compagnia, condotta dal conte Lardo, cavalcare verso le terre lombarde a nuove prede, ignara della iniqua sorte. Disse: «Risollevare io voleva questa città vostra, o Romani. Ingiustamente muoio.» Si accostò al ceppo, s’inginocchiò in terra, posò il capo a prova sul legno; poi si levò e disse: «Non sto bene.» Si volse verso oriente, a Dio si accomandò; di nuovo pose in terra i ginocchi; baciò il ceppo, e disse: «Dio

ti salvi, santa Giustizia.» Fece con la mano il segno della croce là dov’era per lasciar la vita, il segno baciò; si tolse il cappuccio bruno listato d’oro e lo gittò. Come la mannaia gli fu aggiustata sul collo, disse: «Non sto bene.» E chiamò il suo medico di piaghe, ch’eragli presso con altri familiari. Il cerusico gli ritrovò la giuntura dell’osso e la indicò al carnefice. Tutto il popolo era intorno sospeso, rattenendo il respiro; i pastori guatavano da lungi attoniti; i mazzi della canapa risplendevano al sole d’agosto in cima delle aste tenute dai cordai; sì alto era il silenzio che si udiva il brucar delle capre negli sterpi. Al primo colpo mozza, la testa sbalzò. Al getto veemente del sangue si conobbe la potenza di quella vita. Pochi peli della barba rimasero nel ceppo. Sì netto fu il taglio che quando i frati minori rappiccarono al busto il teschio, parve la grande spoglia avere intorno al collo un fil vermiglio. Tumulata fu in Araceli. XXXIX 126

SE Cola di Rienzo avesse avuto cuore di assistere allo spettacolo, avrebbe dal malvagio friere imparato almeno a ben morire. Aveva fatto appiccare Martino di Porto, il marito idropico di Monna Masia, per aver derubato la galèa di Provenza alla bocca del Tevere; e il giovane di Narba scampato al naufragio doveva in quel medesimo spiazzo ridursi sotto la mannaia del medesimo giustiziere! Percossi dalla magnanimità del guerreggiatore dinanzi al supplizio, i Romani mormoravano di rammarico e di corruccio. I più arditi già accusavano d’ingratitudine e d’avarizia colui che rimeritava con le catene il beneficio di Arimbaldo e publicava a sé il tesoro di Fra Moriale. Quegli adunò e arringò il popolo per acquietarlo, proponendo nella dicerìa una parabola impudente. «Faremo come fa lo trescatore: la pula manda al vento, il grano serba tutto per sé. Così noi avemo dannato questo falso uomo; e la moneta sua li suoi cavalli le sue armi terremo per far nostra briga.» Dei centomila fiorini d’oro ebbe egli gran parte, il resto arraffò Messer Gianni di Castello; il Papa ne sequestrò sessantamila nei banchi di Padova per incamerarli; i Fiorentini abbrancarono i depositi ch’eran nei banchi di Perugia. L’Albornozzo volle che Arimbaldo gli fosse mandato sano, e così fu fatto. Brettone rimase nella carcere capitolina, incatenato. Cola tra demenza e paura precipitava alla sua ultima onta. Levò nuove milizie contro i Colonnesi; creò capitano Riccardo Imprendente degli Anibaldi, buon mastro di guerra, poi a mezzo della ben condotta impresa lo cassò dalla capitanìa; pose nuove gabelle sul vino, sul sale, su altre derrate; mercanti e popolani grassi imprigionò per esigere riscatti; ultimamente, dandogli ombra il savio uomo Pandolfo de’ Pandolfucci antico cittadino e di grande autorità nel cospetto del popolo, senza colpa il fece pigliare e decapitare. Perduto ogni ritegno, sempre pieno di vino e di vivanda, attorniato da parassiti e da cagnotti di vilissima sorta, assunse apertamente abito e modi tiranneschi ma senza il nerbo della tirannia. A guardia della sua persona levò cinquanta uomini per rione pronti allo stormo ma non li pagò. La mobilità dell’opinione e del sospetto travagliava la sua corpulenza pigra, come nuvolo d’estri affatica vacca da macello. Sermonando nel Consiglio, dava in crosci di risa in scoppi di singulti. Rideva e lacrimava a un tempo; traballava nelle vertigini, s’arrovesciava nelle sincopi. Sobbalzando nel letto, tendeva l’orecchio alle strida degli uccelli notturni. XL 127

BEN altre strida gli giunsero di sùbito un mattino d’ottobre in su la nona mentre poltriva, essendosi lavata la faccia col greco secondo il costume. «Popolo! Popolo!» L’infamia della morte di Pandolfo aiutava nell’intenzione i Colonnesi e i Savelli. Con rapido movimento, ragunati i partigiani, dai rioni Colonna Trevi Sant’Angelo e Ripa cominciarono a levar rumore, corsero all’arme, escirono in moltitudine contro il Campidoglio gridando: «Popolo! Popolo!» I quattro torrenti ingrossavano e infuriavano sboccando nella piazza, invadendo le scale, cingendo il palagio d’ogni parte, battendo lo steccato e il muro onde Cola aveva chiusi gli intercolonnii della loggia. E la voce si mutava, tra la grandine delle pietre, urlo d’uomini di femmine di fanciulli concorde e implacabile: «Mora, mora il traditore! Mora chi ha fatta la gabella, mora!» Tuttavia intorpidito, levatosi sul cubito ascoltava il poltrone gli strepiti pensandosi che leggiere gli sarebbe sedar la sommossa con una arringa; poiché allora allora eragli giunta la lettera della conferma papale da publicare in Consiglio. Si levò a chiamar la sua gente. Non rispondeva, non veniva alcuno. Giudici notari scribi camarlinghi famigli, tutti avevan già procacciato di campar la pelle fuggendosi; molti di loro s’eran anzi mescolati alla calca dei gridatori e soffiavano nella furia le lor vendette. I richiami affannati echeggiarono nelle sale deserte. La faccia di Cola mutò in livido il vermiglio, sotto il mollore del vin greco, quando gli venne innanzi con due soli fanti il suo parente Lòcciolo pellicciaro, vilissimo barattiere, pidocchio riunto. Crescendo il subbuglio, grandinando in su le mura sassi e quadrella, crepitando già nel legname la vampa, il senatore sbigottito chiedeva consiglio al venditor di fòderi. Cercava anco più disanimarlo costui, deliberato in cuor suo d’ingraziarsi la canaglia cacciandole nelle fauci la vittima obesa. «Non irà così, per la fede mia!» sclamò Cola riscotendosi; e la sua fede fu nella virtù dell’apparato e del sermone. Si vestì di tutt’arme a modo di cavaliere, si cinse il panzerone e il batticulo in tutto il tondo, s’infilò il sorcotto di porpora, si calcò la barbuta su la cuticagna, afferrò il gonfalone del popolo, e così guernito se ne venne alla sala maggiore che aveva balconi di dietro e d’avanti per il traverso del palagio. Solo si affacciò; distese la mano verso il tumulto. Un nembo spesso di urli, di sassi, di dardi lo ributtò contro lo stipite. «Mora, mora!» Tentò egli agitare al vento del furore lo zendado in cima all’asta, additar la leggenda solenne Senatus Populusque Romanus. Un verruto lanciato da una balestra lo colse nella mano; le pietre gli ammaccarono l’arnese. Udiva egli i colpi nelle porte a sconquasso, salire sentiva l’ardor del fuoco appiccato al legname della steccaia e del ponte in sommo della scala perigliosa. Non potendosi più sostenere, si volse; e scorse Brettone di Narba aggrappato come pardo allo spiraglio della carcere, che rispondeva al popolo. Rivide l’odio e il sangue di Fra Moriale negli occhi del fratello superstite. Si ritrasse, preso dal terror gelido, cercando una via qualunque di scampo. L’ànsima lo soffocava, l’inutile ferrame gli impacciava le mosse. Trovò tovaglie da tavola, le annodò insieme, compose una sorte di canapo, se lo legò alla cintola, dai due fanti si fece discendere allo scoperto dinanzi la prigione del Tabulario. I prigionieri alle inferriate gli ulularono contro come lupi bramosi di addentarlo. Egli temette e arretrò, se bene avesse sopra di sé le chiavi. Si sporgeva Lòcciolo intanto dal balcone d’avanti e faceva segni al popolo mastino che la bestia grossa se n’era scesa dall’opposta parte. Poi correva al balcon di dietro e confortava il parente soffiandogli che non dubitasse; e anco tornava alla canea e cennava la via buona per la presa. Stordito dal clamore e dal fragore incessanti (rapinoso ruggiva l’incendio alle porte), disperato della fortuna egli tentennò alcun tempo su le gambiere tra la paura dello strazio e l’ignominia della fuga. Si cavò la barbuta e la gittò a terra; incominciò a spogliarsi dell’arme. La vergogna gli ghiacciò le giunture delle braccia. Si chinò, raccolse i pezzi dell’arnese per rivestirseli. Un’ultima imagine delle antiche storie gli balenò nel cervello sconvolto

e lo trasse al proposito di affrontare il periglio come eroe. Ma fu breve fervore, che la bestialità cieca del ventre vinse ed estinse. Nell’ora in cui il sangue degli uomini non può mentire né ciurmarsi, la severità della sorte inflessibile lo forzò a escir della porpora non sua per rientrar nel suo cencio. Figlio di taverniere tornò dinanzi alla prova il Tribuno augusto. Impiastrata d’olio e di pégola la prima porta fiammeggiava come fascio di sermenti. Le travi del solaio schiantandosi, la loggia era per piombar giù disfatta. Le lingue del fuoco già lambivano la porta seconda, che crepitò, arida come l’esca. Le schegge e le faville rompevano il fumo atro del bitume. L’ardore e il clamore incalzavano. S’udiva a quando a quando il ruggito del leone capitolino superare il tumulto. Il fuoco e la morte, le due purità del mondo, chiamavano l’eroe al gran paragone. E Cola svignò lesto nella casìpola del portinaio; ansando si liberò d’ogni ferro e d’ogni insegna; la spada lasciò per le forbici e per il paiuolo; con le forbici si tagliò la barba, col paiuolo si fregò la faccia. Così tonduto e filigginoso, tolse un tabarro consunto e di quello s’inviluppò; tolse un fascio d’una materassa con altri panni dal letto e sel mise in capo. Escì villano come nato era. Di corsa passò per mezzo all’incendio, traversò la loggia pericolante, scese la prima e la seconda scala senza essere conosciuto. Imitava la parlatura della Campagna dicendo agli altri: «Suso suso a gliu traditore. Suso a rubbare, che c’è robba assai.» Passata l’ultima porta, quando era già quasi al sommo di scampare, l’occhio aguzzo di tal ch’egli aveva offeso, l’occhio infallibile dell’odio così col fascio in capo lo raffigurò. Gli vide il nemico luccicare ai polsi i braccialetti e lo conobbe più certo. «Dove vai tu?» gli fece, abbrancandolo. Sùbito gli strappò di collo quella materassa e il tabarro; lo discoperse al cospetto del popolo, gridando: «Ecco ecco lo traditore.» D’intorno il tumulto cessò a un tratto; le mille e mille braccia, levate a percuotere e ad ardere, ricaddero. Solo il nemico non lentò la presa ma con la branca gagliarda trascinò la vittima anelante giù per la scala fino alla gabbia del leone, dove udito aveva la sentenza il friere prode di Santo Giovanni. Quivi lo spinse e lo lasciò senz’altro dire. Niuno apriva bocca. Stupor grande teneva il popolo. Grande silenzio era fatto intorno. S’udiva il ringhio della belva chiomata e l’ànsito dell’uomo corpulento. Stava costui discinto, sol col giubbetto verde che avea sotto l’arme e con le calze vermiglie: erangli rimasti agli òmeri i musacchini, il cosciale alla destra coscia, una mezza falda su l’anca. Soffiava e guatava, col ceffo impiastrato di filiggine, simile a un fantoccio abbozzato e stoppato per chiasso da quella marmaglia istessa ch’era per isfondarlo. Guatava e biasciava, non potendo formare parola, ché il terrore gli aveva annodata la lingua nella chiostra dei denti. Balzò fuora dalla calca Cecco del Vecchio con lo stocco in pugno, e gli diè un colpo diritto nella ventraia; onde escì l’anima con sibilo come vento da otro forato. Lo spaventacchio barcollò alquanto su le rosse gambe; ma, prima ch’ei stramazzasse, Treio notaro gli spaccò il cranio con un fendente. Piombò giù di schianto la soma, senza motto né gemito. Allora gli si scagliarono sopra urlando i più feroci e tutto lo stamparono co’ ferri, a gara lo crivellarono, le mani gli orecchi il naso le pudende gli mozzarono. Poi, presigli in un cappio corsoio i fùsoli delle gambe, lo trascinarono fino alle case dei Colonnesi in San Marcello. Quivi giunti lo appesero per i piedi a un poggetto, con gran festa e gazzarra lo lapidarono. Penzolava giù senza il teschio, ché quel poco lasciatogli dai ferri erasi logorato nel lungo stràscino. Nudo era, di pelle come femmina bianco dove sangue non l’arrossava; e, al modo dei bùfoli in beccheria, dalla sparata grassezza le interiora ancor fumide sgorgavano mal ricoperte dalla rete lacera. Quivi rimase al publico ludibrio due dì e una notte, finché non ebbe appestato col gran fetore

quel capo di strada. Per comandamento di Giugurta e di Sciarretta Colonna calato giù dal poggiuolo, fu tratto al campo dell’Austa, al luogo del Mausoleo imperiale, e dato alla rabbia dei giudei sozzi che l’ardessero. Gli fecero costoro un rogo di cardi secchi, e in gran numero accorsero intórnogli ad attizzare il fuoco che nudrito dall’adipe vampeggiava forte. I vènti ebbero la cenere, i secoli la memoria, gli uni e gli altri discordi. Così scomparve il Tribuno di Roma. E l’Urbe stette su’ suoi colli sola co’ suoi fati e co’ suoi sepolcri.

APPROVAZIONI128

A dì 30 novembre 1905. Noi appiè sottoscritti Censori, e Deputati, riveduta a forma della Legge prescritta dalla Generale adunanza dell’Anno 1705 un’operetta del Signor Cavaliere Gabriele d’Annunzio, intitolata «La Vita di Cola di Rienzo», non abbiamo in essa osservati errori di lingua. L’INCISCRANNATO – L’INARCOCCHIATO Censori dell’Accademia della Crusca L’INCANCHERITO – L’INCAPOCCHITO Deputati Attesa la sopraddetta relazione, si dà facoltà al Signor Cavaliere Gabriele d’Annunzio di potersi nominare nella pubblicazione di detta sua operetta Candidato perpetuo della Crusca e cognominare in conseguenza Lo Immaturo. IL SOLLECITO ARCICONSOLO Il Signor Filippo Pieruzzi Canonico della Metropolitana Fiorentina si compiaccia di leggere con la sua solita attenzione la presente operetta intitolata «Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec.», e di riconoscere se in essa vi sia cosa alcuna repugnante alla Santa Fede Cattolica, ed a’ buoni costumi, e referisca. Dat. il 7 novembre 1912. IL VICARIO GENERALE Di Commissione di Monsign. Illustrissimo Vicario Generale è stato da me infrascritto letto il libretto intitolato «Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec.», nel quale nulla ho trovato, che alla nostra Santa Fede, o ai buoni costumi repugni; ma bensì sparta per tutto, ed unita alla sceltezza dell’erudizione, una mirabile vaghissima proprietà, e struttura di voci, che senza lasciar di esser prosa, non manca del brio, e della gentilezza del verso; onde parmi potersi dire con verità, non essere in questo componimento disgiunte in alcun modo le Grazie dalle Muse. Di Casa, questo dì 15 novembre 1912. CANONICO FILIPPO PIERUZZI

Attesa la soprascritta relazione si stampi. IL VICARIO GENERALE Il Nobile Sig. Telesforo Cerusichi, Consultore di questo S. Offizio, di Commissione del Padre Reverendissimo Inquisitore, si compiacerà con la sua solita attenzione rivedere la presente operetta intitolata «La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec.», con riferire poi, se si possa permettere alle stampe. Dat. dalla S. Inquisizione di Firenze il dì 28 novembre 1912. FR. BARTOLOMMEO NAPPA DA PULICIANO Minor Conventuale Vic. Gener. del S. Offizio di Firenze Reverendissimo Padre Inquisitore. In ubbidienza dell’ordine datomi dalla Paternità Vostra Reverendissima, ho letto con l’attenzione commessami la presente operetta intitolata «La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio ec.», e non ho in essa trovata cosa veruna repugnante alla nostra Santa Fede, o a’ buoni costumi. Ma con somma mia consolazione ho ammirata l’eloquenza, l’erudizione, e la copia de’ vezzi e delle gentilezze della lingua in sovrano grado posseduta dal chiarissimo Maestro, già noto, e celebre per altre sue opere, applaudite da tutta la Repubblica Letteraria nell’Universo Mondo, avendo unito al dolce di perfetta Lingua Toscana, l’utile di singolarissimi insegnamenti; onde lo giudico degnissimo della pubblica luce della stampa, per comune ammaestramento. Di Casa, 5 decembre 1912. TELESFORO CERUSICHI mano prop. Stante la sopraddetta relazione si stampi. FRA BARTOLOMMEO NAPPA DA PULICIANO Minor Conventuale Vic. Gener. del S. Offizio di Firenze.

TAVOLA DELLE SIGLE E DELLE ABBREVIAZIONI

ACS Archivio Centrale dello Stato, Roma AGV Archivio Generale del Vittoriale APV Archivio Privato del Vittoriale Alatri 1959 P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli, Milano 1959 AT Altri Taccuini (Tutte le opere di G. d’Annunzio), Milano 1976 Atti 1963 AA.VV., Gabriele D’Annunzio nel primo centenario della nascita, Roma 1963 Atti 1976 AA.VV., «Atti del Convegno su d’Annunzio e il simbolismo europeo», Gardone 1973 – Milano 1976 Badoglio 1946 P. Badoglio, Rivelazioni su Fiume, De Luigi, Roma 1946 CG Carte Gentili – Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II, Roma D’Annunzio a Baccara Il befano alla befana, l’epistolario con Luisa Baccara, a cura di P. Sorge, Garzanti, Milano 2003 D’Annunzio-Albertini F. Di Tizio, D’Annunzio e Albertini. Vent’anni di sodalizio, Ianieri, Chieti 2003 D’Annunzio archivista A. Andreoli, D’Annunzio archivista. Le filologie di uno scrittore, Olschki, Firenze 1996 D’Annunzio-De Carolis F. Coletti, Il “Notturno” e Fiume nel Carteggio D’Annunzio-De Carolis, in «Quaderni del Vittoriale», n. 2, aprile 1977, pp. 15-58 D’Annunzio e Prato M.M. Cappellini, «Toscano di Prato e del pulpito». D’Annunzio e Prato. Documenti e lettere ritrovate, Zella, Firenze 1999 D’Annunzio-Gravina Carteggio d’Annunzio-Gravina 1915-1924, a cura di D. Ercolani, Bonacci, Roma 1993 D’Annunzio-Hérelle

Carteggio D’Annunzio-Hérelle (1891-1931), a cura di M. Cimini, Carabba, Lanciano 2004 D’Annunzio-Mussolini Carteggio d’Annunzio-Mussolini 1919-1938, a cura di R. De Felice – E. Mariano, Mondadori, Milano 1971 D’Annunzio-Ojetti Carteggio d’Annunzio-Ojetti (1884-1937), a cura di C. Ceccuti, Le Monnier, Firenze 1979 De Michelis E. De Michelis, Tutto D’Annunzio, Milano 1960 De Michelis 1976 Id., Roma senza lupa, Roma 1976 De Michelis 1978 Lapsus e refusi in D’Annunzio, in «Atti e memorie dell’Arcadia», vol. III, Roma 1978, ora in Ancora D’Annunzio, Pescara 1987 Diari di guerra G. D’Annunzio, Diari di guerra 1914-1918, a cura di A. Andreoli, Mondadori, Milano 2002 Di me a me stesso G. D’Annunzio, Di me a me stesso, a cura di A. Andreoli, Mondadori, Milano 1990 Epistolario Albertini L. Albertini, Epistolario 1911-1926, vol. III, Mondadori, Milano 1968 Fatini 1963 G. Fatini, Il D’Annunzio e il Pascoli e altri amici, Pisa 1963 Gerra 1974 F. Gerra, L’impresa di Fiume, vol. I, Longanesi, Milano 1974 Giuriati 1944 G. Giuriati, Con d’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Sansoni, Firenze 1944 Interviste Interviste a D’Annunzio, a cura di G. Oliva, Carabba, Lanciano 2002 LA Libro ascetico della giovane Italia LT G. D’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di G. Oliva, Garzanti, Milano 1999 Lungo la vita M. Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, a cura di A. Vicinelli, Mondadori, Milano 1961 Omaggio a G.P. AA. VV., Omaggio a Giovanni Pascoli, Mondadori, Milano 1955 [In particolare cfr. A. Vicinelli, Carteggio Pascoli-D’Annunzio, pp. 383-419] Passerini G.L. Passerini, Vocabolario dannunziano, Firenze 1928 Praz-Gerra G. D’Annunzio, Poesie-Teatro-Prose, a cura di M. Praz – F. Gerra, Milano-Napoli 1966 QD «Quaderni dannunziani» QV «Quaderni del Vittoriale» Raimondi E. Raimondi, Il silenzio della Gorgone, Bologna 1980

RDD Raccolta dei Documenti Dannunziani, Archivio Storico del Convitto Nazionale Cicognini, Prato 1984 Ric. Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, con un saggio introduttivo di A. Andreoli, 2 tomi, Mondadori, Milano 2005 Rizzo 1960 G. Rizzo, D’Annunzio e Mussolini. La verità sui loro rapporti, Cappelli, Bologna 1960 Rom. I e II Prose di romanzi, a cura di A. Andreoli – N. Lorenzini, introduzione di E. Raimondi, vol. I, Mondadori, Milano 1988; vol. II, ivi 1989 SdS Sudore di sangue SG I e II Scritti giornalistici 1882-1889, vol. I, a cura di A. Andreoli, testi raccolti da F. Roncoroni, Mondadori, Milano 1996; Scritti giornalistici 1889-1938, vol. II, a cura di A. Andreoli, testi raccolti da G. Zanetti, ivi 2003 T Taccuini (Tutte le opere di G. D’Annunzio), Milano 1976 TN Tutte le novelle, a cura di A. Andreoli e M. De Marco, Mondadori, Milano 1992 Tommaseo-Bellini N. Tommaseo – B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino 1861-1879. Tr. I e II Tragedie, sogni e misteri, (Tutte le opere di G. D’Annunzio), vol. I, Milano 1968 9; vol. II, ivi 1980 8 UI L’Urna Inesausta Versi I e II Versi d’Amore e di Gloria, a cura di A. Andreoli – N. Lorenzini, introduzione di L. Anceschi, vol. I, Mondadori, Milano 1982; vol. II, ivi 1984 Vite G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ giorni nostri, II voll., Einaudi, Torino 1986

NOTIZIA SUL TESTO E NOTE DI COMMENTO a cura di Annamaria Andreoli

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NOTIZIA SUL TESTO

La biografia del Tribuno viene composta in un torno di mesi assai travagliati sullo scorcio del 1905. La malattia «feroce» di Alessandra di Rudinì ha bloccato a lungo l’attività di d’Annunzio: «giorni di spavento», ricorderà, trascorsi sentendo risuonare «per ore e ore nel mio povero cervello le grida dello spasimo». Avrebbe desiderato cimentarsi di nuovo nel romanzo, ma è il tempo morto delle ricapitolazioni esibite nelle Prose scelte, «libro compendiario» offerto al lettore nel 1906 durante una «sosta» creativa. Nonostante il florilegio, che dovrebbe preludere al ritorno del narratore, a riaffacciarsi è invece il drammaturgo della Nave, anche se poi la tragedia patriottica dell’«amarissimo Adriatico» cede il passo alla Fiaccola sotto il moggio, dramma storico ambientato nell’Abruzzo borbonico. L’esito è tutt’altro che felice. Il pubblico grida «Parricida!» al figlio Gabriellino che debutta nel ruolo di Simonetto. Ben altre grida – «Arrestate l’autore!» – e un vero e proprio tumulto susciterà di lì a poco Più che l’amore, tragedia romana culminante con l’uccisione dell’usuraio che intralcia i piani di Corrado Brando. E appunto degli usurai, che chiama «scorticatori», d’Annunzio è vittima da anni, cominciando allora a profilarsi la bancarotta che lo costringerà all’espatrio. Non ultima ragione, i debiti rovinosi, del malessere che egli sa notomizzare con distacco quando dice di «avvertire sotto la pelle delle gote, nell’interno delle pàlpebre, nelle gengive il pallore del sangue impoverito, e qualcosa di convulso nella commettitura delle mascelle, e la sorda pulsazione sopra la nuca, e la vitalità febrile del cervello che non pare custodito dalla scatola del cranio ma come sostenuto in alto tra le dita divaricate d’una mano vacillante». Esaurito e depresso, chi patisce con tanta lucidità la propria condizione ha appena licenziato La vita di Cola di Rienzo, Tribuno fallimentare, vilipeso dalla plebe romana che ne strazia il cadavere, infine «dato alla rabbia dei giudei sozzi che l’ardessero» nel loro quartiere. Visto che si tratta di un esercizio di falso-antico in cui il biografo moderno, fatta eccezione per i due primi capitoli, si limita a trascrivere, riassumendo talora e talaltra ampliando, l’anonima Cronica trecentesca oggi persuasivamente attribuita a Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, si segnala l’aggiunta di «sozzi», assente nell’antigrafo. Già vendicativo, d’Annunzio sembra prevedere la spoliazione della Capponcina, la villa leggendaria che abita a Settignano. Il battitore d’asta farà scempio di quanto contiene aggiudicandolo al migliore offerente? Le più fosche previsioni – vedremo – si avverano e non gli resterà che rimpiangere i «belli arredi» perduti, testimoni, specie le scrivanie, della sua più fervida vena: «Non si fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudìo? E per quante crazie venduto fu dai miei scorticatori […]?». In tanta angustia e accidenti, inaugurale di una serie di Vite di uomini illustri e di uomini oscuri poi eluse, quella di Cola – si avvertiva – non è se non una riscrittura mossa dall’eccellenza della Cronica redatta nel vivido volgare laziale declassato al rango di dialetto dalla nostra annosa questione della lingua, puntualmente risolta, di secolo in

secolo, a favore del fiorentino più e meno illustre. Nella stagione di Francesca da Rimini e delle prime Laudi, quando ha imboccato la via del falso-antico che resta a lungo il suo maggior registro, d’Annunzio la legge in una toscaneggiante trascrizione ottocentesca (La vita di Cola di Rienzo / Tribuno del Popolo Romano / scritta da incerto autore del secolo XIV, ridotta a migliore lezione, / ed illustrata con note ed osservazioni storico-critiche / da Zefirino Re / cesenate: / con un comento del medesimo sulla canzone del Petrarca / Spirto gentil che quelle membra reggi, Le Monnier, Firenze 1854; nella biblioteca del Vittoriale con segni di lettura a matita rossa e blu): uno dei numerosi tesori del «beato Trecento» scandagliato in lungo e in largo sotto la guida esperta, fra gli altri, di un medievista del calibro di Francesco Novati. Ad attestarne la presenza nell’attrezzatissima officina antiquaria dello scrittore è intanto un colloquio con Silvio Benco, a Trieste, nel maggio 1902, allorché il drammaturgo, che grazie alla Duse ha riscosso un notevole successo nella città giuliana (Città morta, Gioconda e Francesca da Rimini), illustra all’amico giornalista la prosecuzione del ciclo dei «Malatesti» – il progetto di Parisina e di Sigismondo – non mancando allora di profilare «innumerevoli tragedie per l’avvenire […] istorie medievali di Firenze e di Milano e perfino un Cola di Rienzi, rinascita della romanità antica» (nell’«Indipendente», 20 maggio 1902). Tracce malatestiane conducono in effetti d’Annunzio al testo trecentesco, che dedica non pochi capitoli a Galeotto e alle vicende di Cesena, Forlì e Faenza intrecciate con quelle del Tribuno. Al lettore infallibile nel percepire un capolavoro (e la Cronica lo è) non sfugge la sapida pronuncia sommersa che subito agisce sul poeta delle Laudi. Nelle «pratora» della Tenzone alcionia («Le lodolette cantan su le pratora / di San Rossore») affiora l’analogo di molinora, lucora, ficora, insomma dei vari neutri plurali dell’Anonimo, per non dire che le pagine su Perugia, dove il Tribuno è di stanza prima dell’ultima avventura, trovano corrispondenza nelle Città del silenzio di Elettra in cui rivive la rissosa civiltà comunale: «Maschia Peroscia»… Davvero non peregrina, la lettura della Cronica doveva risultare persuasiva anche sul piano ideologico, trovandovi d’Annunzio materia fertile per proseguire la predicazione del «nuovo Rinascimento» che lo impegna ormai da anni coinvolgendo ogni sua opera. Il nihil maius della modernità, al culmine della sua militanza d’avanguardia, conta su illustri trascorsi: sui «Rinascimenti anteriori», innanzitutto, dell’età di Pericle e di quella di Leonardo di cui l’Italia è l’erede. Tant’è vero che nella lunga rincorsa per il suo balzo in avanti, i primi tre Libri delle Laudi (Maia, Elettra e Alcyone) recuperano il «Passato augusto» in vista di una «Vita novella» che lo protragga verso più alti traguardi. A ridosso della Vita di Cola di Rienzo, con le 48 quartine del Bronzo e i quattro sonetti A Roma, va poi affacciandosi il quarto Libro, Merope, «tutto dedicato» dichiara il poeta nel 1904 «alla figurazione e alla celebrazione del Lazio». È la bandiera che gli consentirà di succedere a Carducci, il Vate d’Italia ormai morente, e di competere con l’intelligenza d’oltralpe dove sono gli interlocutori che più gli premono. In testa a un movimento come la Renaissance latine, alla «Méditerranée de jadis», che molti rimpiangono, egli va infatti contrapponendo il rilancio, di lungo destino, del mare nostrum e insieme della civiltà rinascimentale che ha tutto da spartire con il basso Medio evo. Difficile appurare quale sentore d’Annunzio abbia avuto degli studi sul Rinascimento di Warburg o di Burdach, mentre certa è la conoscenza di Pater sin dalla prima giovinezza, e quindi di Burckhardt. Non è comunque da escludere che nel salotto di Berenson, vicino di casa che frequenta assiduamente proprio nel 1905, molto entri in circolazione. A meno che non si tratti di un percorso originale, di cui è lecito dubitare, sono lì i presupposti che lo inducono a scegliere, quando il giovane Tom Antongini fonda in quell’anno a Milano la rivista «Il Rinascimento», la vicenda del Tribuno per i numeri inaugurali (tre puntate, 1° e 15 dicembre 1905, 5 gennaio 1906). Variante del «Leonardo» di Firenze, il «bimensile» milanese è tanto dannunziano che dovrebbe essere diretto dallo stesso d’Annunzio. Il quale si defila non senza però venir meno al compito di imprimervi una linea forte: il Rinascimento ha origine dai fermenti riformatori danteschi, francescani e gioachimiti, e insieme dalle faziose lotte comunali che provocano gare di eccellenza, tanto cruente quanto a vantaggio del progresso. «Un mondo caldo di natività urgenti» apre non a caso la Vita. Pagine tutte di d’Annunzio, assenti nel biografo

antico; e pagine capitali, in cui risiede il senso della rilettura della Cronica. Guerra e stragi, congiure e tirannide, esilio e delitti non configurano secoli bui ma una temperie ferace in cui, «imbevute di sangue», «le radici innumerevoli delle genti» producono «alla cima dell’arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti»: la stessa umanità fitomorfa – i caduti saranno il concime e i mutilati la potatura – destinata a ricomparire con insistenza durante la Grande guerra che il poeta-soldato saluterà infatti come catastrofe salutare, alba di un mondo nuovo. Solo a tratti artisticamente risolta, scritta a contraggenio, la biografia dannunziana mette tuttavia a nudo procedimenti compositivi di spiccato interesse, senza contarne l’antiveggenza, fino allo sconcerto, della parabola del biografo. Con miglior fortuna, è vero, nell’epilogo, perché non a lui toccherà di essere appeso «per li piedi»; e tuttavia i discorsi alla ringhiera del Campidoglio («con savie e ordinate parole come quegli che era di retorica ordinato maestro»), e le «strane pompe» ripescate dall’«esploratore di antichità avvedutissimo», e i gonfaloni rossi con la ridda di simboli nella parata («in aspetto di processione più che di ribellione») che conducono Cola al potere senza colpo ferire, predicono a oltranza – caricaturali – eventi di là da venire. E ancora più sconcertante è la condanna del Tribuno, senza appello, tanto immediata e aggravata rispetto al giudizio dell’Anonimo da comprometterne la verosimiglianza. Ritraendolo come il guitto di un’atellana, d’Annunzio si sbizzarrisce nel repertorio ingiurioso: chi «reca messaggi» invece di «condurre eventi», «assai più famigliare con gli inchiostri e coi vini che col buon succo delle vene virili», è «spirito ossesso», «aborto ventoso», «tabellione remunerato», «notaro smanioso», «villan rifatto», «giuntatore», «ciarlone tronfio», «falso eroe», «ciurmadore», «retore fatuo», «mimo», «cialtrone», «spocchione», «uom delirante», «pusillo», «folle figuratore», «istrione stracco e rauco», «rètore sgonfio», «spirito ventoso e caliginoso», «industre gonfianùgoli», «cianciere floscio», «paone tronfio», «beone», «sbracato plebeo», «manigoldo», «matto villano», «sozzo can traditore», «poltrone». Cominciamo a mettere a fuoco le modalità della riscrittura, secondo un andamento doppio ormai collaudato: alla replica del testo antico si somma la replica dell’apparato che lo introduce e lo accompagna. Perché d’Annunzio è sì uno «spulciatore di vietumi», come ama qualificarsi, ma lascia ad altri la fatica delle indagini d’archivio che conducono ai reperimenti e all’edizione degli amatissimi «testi di lingua». Perciò intrattiene stretti rapporti con eruditi e filologi che ruotano intorno al «Giornale storico» ricavandone indicazioni preziose, intanto, sulle ricerche in corso; saprà quindi profittare della poderosa strumentazione attraverso cui i reperti vengono di volta in volta datati, attribuiti e interpretati. È certo questo il canale attraverso cui egli raggiunge il capolavoro dell’Anonimo, lo stesso che ha percorso per provvedersi di repertori, manuali, volgarizzamenti o lessici speciali in forze nel suo laboratorio. È pertanto probabile che il dibattito intorno alla canzone petrarchesca Spirto gentil (RVF LIII), così decisivo per Zefirino Re, l’editore della Cronica, abbia attratto d’Annunzio fino a persuaderlo alla replica. Stando anche ai primi due capitoli introduttivi, il punto di vista moderno è dichiarato, concretizzandosi poi, lungo il corso della biografia, nella continua commistione fra testo trecentesco e apparato erudito. Vestiti così i panni del filologo, egli aggiungerà di suo la perizia diegetica, nella mescolanza dei due piani, che si giova di tecniche ed espedienti provati e riprovati. Il «but de l’oreille» di chi ha letto il romanzo naturalista con l’acribìa del narratore impegnato – dalle novelle giovanili al Fuoco – a produrre pagine competitive rispetto a Verga, Zola, Flaubert, Maupassant, Dostoevskij, si avverte in ogni capitolo della Vita, dove la trama del racconto è giocata su continue riprese, su prolessi e analessi, sull’indiretto libero o sulla sineddoche che di frequente introduce il personaggio. È la costruzione strutturale ad attualizzare La vita, più ancora degli anacronismi che la prevaricano (ad es.: «Il fuoco e la morte, le due purità del mondo») o degli scorci paesistici di consumata abilità descrittiva. Così, la Maiella, sulle cui cime Cola si traveste da eremita, è «Altare di sacrificio e d’implorazione tra i più venerandi, sollevato dall’ansia dello spirito sotterraneo verso i cieli troppo remoti», mentre l’Agro e Roma contano su trascorsi senza i quali non avremmo una resa tanto suggestiva della loro grandezza: «scorgevasi la faccia travagliata dell’Urbe con le sue basiliche e i suoi chiostri, con le sue terme e i suoi circhi, con i suoi archi imbertescati e i suoi fori trincerati, col biancicore dei suoi marmi mezzo

sepolti su cui le opere di mattone rosseggiavano quasi fossero costrutte di grumo impietrato». Quanto al linguaggio, riscrivendo la miglior lezione di Zefirino Re, d’Annunzio ne accentua il timbro toscaneggiante immettendovi una notevole quantità di dantismi. Iniziativa, anche questa, già consumata nelle Laudi e in Francesca da Rimini da cui viene tratto il repertorio pronto al riuso – repertorio sicuro quando si abbia di mira il falso-antico medievale: «grifagno», «macro», «imaginativa», «Roma vedova», «con le unghie e co’ rostri», «belletta negra», «epa enfiata». Del resto va da sé che l’Anonimo conosca Dante. L’episodio dell’idropico con l’«epa» come «liuto» (I, 11) induce a crederlo, tanto è simile al falsario del XXX canto dell’Inferno; come non è certo che l’Anonimo conosce Petrarca, così implicato nella vicenda di Cola e della sua lotta contro i Colonna. Ciò che sembra suggerire, in particolare, l’esortazione «non sai usare la vittoria» rivolta al pavido Tribuno (per d’Annunzio «tardo persecutore») nello slargo d’apertura di un capitolo: «Qua voglio un poco dilungarmi da la materia» (I, 36). L’exemplum classico, derivato da Livio («Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis» – avrebbe detto Maharbale al Cartaginese all’indomani di Canne), era stato rivolto da Petrarca a Stefano Colonna iuniore nel 1333, all’indomani della vittoria di Castel Cesario sugli Orsini, sia in un sonetto (RVF CIII, 1-2): «Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi / ben la vittorïosa sua ventura», sia in una lettera (Familiares III, 3): «Vincesti, guerriero valorosissimo: or sappi da sapientissimo quale tu sei usar la vittoria: né possa alcuno mai muovere a te il rimbrotto che nella giornata di Canne mosse già contro Annibale Maarbalo, del quale se avesse egli seguito il consiglio, e dal campo della battaglia a Roma per diritto cammino le armi del nostro sangue rosseggianti rivolte, sai bene quale a giudizio degli storici sarebbe stato l’evento». Lo stesso rilievo, ma in ordine, questa volta, alla pavidità di Cola, Petrarca muoverà in una lettera al Nelli (Familiares XIII, 6), che lascia perplessi visti i suoi legami con i Colonna: «quello che volle non seppe così come doveva, e come le necessità dei tempi imponevano, fermamente volere; ma fattosi della libertà promotore, mentre tutti poteva ad un colpo ucciderne i nemici (ventura ad alcuno altro imperante mai non concessa da propizia Fortuna), tutti egli lasciolli uscire, e tutti armati». Di qui a molti anni, nel clima teso del dopoguerra, commentando la Conferenza interalleata di Cannes per la ricostruzione europea, d’Annunzio si ricorderà di Petrarca, del Tribuno e della «parola della Canne di Annibale» in un articolo che intitola appunto «Non sai usare della vittoria» («La Gazzetta del Popolo», 20 gennaio 1922) in cui esorta gli Stati Uniti d’America a non temporeggiare. Se l’Anonimo conosce il poeta laureato sostenitore di Cola, a conoscerlo – e, s’è visto, tenacemente – è anche il biografo moderno, che il più delle volte lo raggiunge grazie alle note dell’editore ottocentesco. Come testimonia, nella superstite biblioteca del Vittoriale, la matita rossa e blu con la quale il lettore rapace segna sia il testo di Re che le Lettere di Petrarca nel volgarizzamento di Fracassetti. Elementare, pertanto, la ricostruzione delle procedure di seconda mano che complicano il racconto del «candido» biografo (così l’Anonimo secondo d’Annunzio), con immissioni dunque non solo dantesche e petrarchesche, ma anche, volta a volta, dell’Epistolario di Cola di Rienzo (curato da Gabrielli nel 1890, anch’esso si conserva al Vittoriale), dei Villani, di Machiavelli, del Papencordt. Speculare rispetto alla fonte, ne risulta un doppio registro non sempre risolto, perché il falso-antico con il quale si cerca di conservare la freschezza linguistica e sintattica della Cronica viene di continuo incorniciato da un’erudizione che lo contraddice. Dapprima con il titolo di Avvertimento, le pagine prefative alla Vita di Cola di Rienzo assumono poi – currenti calamo – quello di Proemio quasi in segno d’omaggio nei confronti dell’Anonimo che sotto quella stessa rubrica introduceva infatti il suo capolavoro. Poche battute di prammatica, additate a suo tempo dal Muratori: «Quello che io scrivo si è fermamente vero […] e di ciò ponerò certi segnali secondo la materia corsa, li quali furo concorrenti con esse cose. Questi segnali faran lo leggere certo e non sospetto di mio dicere». L’emulo moderno, anche lui stringato nella pubblicazione in rivista, dove si limita ad alcune considerazioni preliminari sul genere biografico riprese puntualmente dalla Préface di Marcel Schwob alle sue Vies imaginaires (1896), lo dilaterà oltremodo nel 1912 decidendo di raccogliere in volume le tre puntate del «Rinascimento».

Prosegue così la sottile introspezione da poco avviata con le Faville; anzi, trattandosi di un autoritratto memoriale dell’artista all’opera, il Proemio è la quintessenza delle Faville: «saggi di analisi interiore», «note di psicologia su me stesso nei periodi di fatica», «ricerca» (termine quanto mai indiziato), come d’Annunzio si riferisce alle prose che dall’estate 1911 comincia a pubblicare nel «Corriere della Sera». Proprio ciò che accompagna, ma con il respiro che la colonna del giornale non consentirebbe, la riproposta della biografia conferendole lo spessore del libro, ora che con la Contemplazione della Morte il memorialista ha inaugurato gli scripta brevia, ovvero una nuova collana di «libelli o libretti», stampata da Treves, all’insegna della concisione da compensare con aggiunte mirate. A mezza strada, appunto, tra Contemplazione della Morte (aprile-maggio 1912) e Il compagno dagli occhi senza cigli (dicembre 1912-febbraio 1913), con la prima il Proemio condivide la dedicatoria – là a Mario Pelosini qui ad Annibale Tenneroni; con il secondo la rievocazione di una fatica compositiva – là Il fuoco qui la biografia del Tribuno. La formula bipartita si assesterà poi stabilmente, variando solo la collocazione dell’aggiunta, posposta alla Leda senza cigno l’interminabile Licenza (1916), e di nuovo posposta al Notturno l’Annotazione, per non dire che le dedicatorie contano su antichi trascorsi, tra i quali spicca, nel lontano 1892, A Matilde Serao, premessa a Giovanni Episcopo. E in futuro sarà la volta di Tra l’incudine e il maglio, vestibolo delle Faville raccolte in volume nel 1924, mentre il Libro segreto, alla vigilia della morte, verrà significativamente introdotto dall’Avvertimento di un trasparente alter ego. Collaudato e di lungo destino, il libro binario risulta però nella fattispecie dalla somma di due unità quantitativamente equivalenti, in modo che è difficile considerare il Proemio una semplice presentazione. Troppo fragile, e non solo per la brevità, la biografia del Tribuno va compensata da una maestria che nel 1905 mancava e di cui ora si dà il massimo sfoggio. Riesumata per farne un libro, acquista pregio grazie alle pagine che la ingrossano, senza le quali la riproposta non sarebbe sostenibile, come segnala già l’incipit: La vita di Cola di Rienzo descritta da / Gabriele d’Annunzio e mandata / ad Annibale Tenneroni / suo amicissimo, dove con vezzo erudito viene ripresa una celebre intitolazione (La vita di Castruccio Castracani da Lucca / descritta da Niccolò Machiavelli e mandata a Zanobi Buondelmonti e a Luigi Alamanni suoi amicissimi), e dove subito il dedicatario ci avverte che le contingenze del 1912 decidono l’esteso Proemio: a riproporre la biografia è l’esule di Arcachon che non tace di essersi sottoposto, sette anni indietro, «a una disciplina avversa»; né tace le disgraziate vicissitudini dell’espatrio. Assediato dai creditori, nel marzo 1910 d’Annunzio ha voltato ingloriosamente le spalle alla patria e alla villa di Settignano in cui «fra cani, cavalli e belli arredi» si era concesso gli agi di un signore del Rinascimento. Ripara in Francia, e non per il soggiorno provvisorio previsto sulle prime, ma per la «lunga attesa» che durerà un lustro. Ha confidato nella vendita dei «belli arredi», battuti all’asta nel giugno 1911, da cui invece ricava meno di un terzo di quanto sarebbe necessario alla sanatoria. «Domani la casa dei miei sogni e delle mie opere sarà invasa da una folla di curiosi e di mercanti. Il peggior lezzo umano si spanderà là dove s’irradiava il calore del mio cervello nelle notti studiose.» Lo sfogo è per Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» e insieme curatore delle sue passività, che subito gli propone di rendere nota tanta afflizione. Ribatta da par suo in un paio di colonne: «Mi farebbe un gran regalo» insiste, invano accattivante perché d’Annunzio si nega, al colmo dello sdegno: «Come vuole che io scriva l’elogio funebre della mia casa e del mio passato? Credevo di avere abbastanza serenità per trovare il tono giusto. Ma l’amarezza m’inonda». Siamo all’11 giugno e il «Corriere» non ha ottenuto da lui sull’umiliante vicenda che un’intervista umorosa: «A leggere i giornali italiani in questi giorni» protesta Gabriele risentito «sembra veramente che io non abbia fatto tragedie, romanzi, poemi, ma soltanto debiti in tutta la mia vita, e che in questo elegante esercizio io sia l’Unico, senza precedenti e senza successori. La grande ombra di Balzac freme di gelosia in Purgatorio». Giusto nel giornale di Albertini, Ugo Ojetti, tra i sodali più intimi, non lo risparmia. Pur contenendo abilmente la satira, le sue cronache quotidiane sono graffianti. La casa di d’Annunzio, dice osservandola senza che il magico inquilino la animi con la sua presenza, somiglia al suo stile: «ogni oggetto è ornato da un altro oggetto, come un sostantivo

dall’aggettivo, all’infinito». Si sofferma poi sulla biblioteca, andando a controllare, nello studio, le file dei volumi sbarrati «con un’asta di legno». A patire quel carcere duro sono le preziose edizioni della Crusca: «Lassù» informa «a guardia dei libri rari è stata posta la governante di Gabriele, Anastasia. – Signori, i libri non si toccano – ella ripete con voce ferma a cui trema un po’ di ira». Esclusi solo per il momento dalla vendita, posti comunque sotto sequestro, i libri della biblioteca abbandonata, raccolti con pazienti ricerche, doni preziosi, talora, della Duse, arrovellano d’Annunzio per mesi e mesi. Come salvarli? Come rientrarne in possesso? E se non manca – ne diremo – chi si attiva al suo fianco, Annibale Tenneroni è certo il perno intorno a cui ruota il salvataggio che fa di lui l’amicissimo dedicatario della biografia, evocato di continuo nel Proemio che a quei libri scioglie più di un inno, enumerandoli in schiera anche troppo folta (autori, titoli, stampatori, carta, insegna) e citandone i passi che rivelano il «ghiotto linguaio» affascinato dalle pronunce antiquarie da riscoprire e rimettere in circolo. Bibliotecario tudertino di stanza a Roma, Tenneroni è l’«amatore di libri» che motiva elenchi e florilegi. Intrecciato sin dagli anni della giovinezza, il legame tra i due si stringe, a partire dal 1898, durante gli anni della Capponcina. Ad Annibale, intanto, è intestato l’affitto della bella villa quattrocentesca, e sarà l’avamposto romano di d’Annunzio, mentore dei figli e tramite dei rapporti non sempre pacifici con la moglie e di quelli francamente burrascosi con la Gravina, accasata anche lei nella capitale, madre non proprio esemplare della piccola Renata. Il solerte bibliotecario fungerà inoltre sia da cassiere (è lui a percepire i diritti che la Duse assicura al drammaturgo), sia da paciere nelle frequenti liti fra Gabriele ed Eleonora. Nel contempo, si prodigherà per procurare al poeta i volumi rari che ne strumentano la scrittura falso-antica, in particolare delle Laudi, spettandogli per giunta il compito di collocare le poesie nei periodici della capitale, quando – ed è il più delle volte – vengono pubblicate alla spicciolata. Per d’Annunzio, che lo chiama affettuosamente Tenn, è il «candido fratello». Timido, schivo e di salute cagionevole, Annibale venera l’artista di fama tanto diverso da lui per temperamento e stile di vita. L’ha posto su di un piedistallo all’altezza inarrivabile dove tutto gli è concesso senza obiezioni: sperpero, amori e stravaganze di cui è spettatore partecipe a misura del soccorso che potrà prestare. Alla devozione cieca e intera egli poi aggiunge, fra i requisiti che rendono preziosa la sua collaborazione, una solida cultura romanza. Studioso di Jacopone, ne diviene il meritorio editore lodato dal Monaci della Crestomazia; e padroneggia il latino al punto di tradurre le Elegie romane col plauso dell’amico che in premio gli dedica versi insperati: «Annibale, io fui sommo elegiopeo / fiorito in altro tempo e in altro suolo». Il sodalizio – si diceva – non è nuovo. Favorito da Guido Biagi, risale agli anni romani, e sembra che il d’Annunzio ventenne compensasse con una lira i lemmi desueti che Annibale andava scovando per lui nei vocabolari. Fuori dall’aneddoto maligno, è più probabile che ne soccorresse le ricerche bibliografiche quando con la rubrica fissa Musivaria e lo pseudonimo di Pamphilos compariva nella «Cronaca bizantina» diretta dal Duca Minimo nel biennio 1885-86. Trasferitosi brevemente presso la Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze alla fine degli anni ’80, è poi Gabriele a lasciare a sua volta Roma per Napoli e Francavilla. Li ritroviamo comunque insieme, durante i brevi soggiorni romani dello scrittore sempre più affermato, nel ’93 e soprattutto nel ’95, varandosi allora il «Convito», rivista dannunziana che si avvale della collaborazione del bibliotecario. A partire dal 1898 il carteggio fra i due è ininterrotto, con lettere quasi quotidiane di d’Annunzio che, se si eccettua l’amante di turno, a nessuno scrive così spesso quanto a chi ritiene in grado di offrirgli servigi immediati. E Tenneroni può essergli assai utile, tanto più che la venerazione per l’idolo lo rende disponibile anche a trasferirsi a Settignano o in qualsivoglia altro luogo qualora la sua presenza venga richiesta. Scapolo irriducibile, ormai vicino alla cinquantina sarà l’amico ad accasarlo, procurandogli nel 1903 il matrimonio con Ketty Nagel, anche lei in là con gli anni, letterata dilettante imparentata con i Treves. Più di una volta ad Arcachon, in prima fila al teatro Châtelet per il debutto del Martyre de Saint Sébastien

(maggio 1911), il ruolo di Tenneroni diviene decisivo in patria quando la minaccia della dispersione grava sui libri della Capponcina. In gran parte, è il bibliotecario ad averli procurati, e tutti li ha schedati e ordinati negli scaffali. Sempre lui li ripone ora, all’indomani dell’asta che giudica un «vilipendio», in 47 casse sigillate per trasferirli a Roma, in un appartamento di via Salaria e quindi di via Veneto, dove saranno custoditi sino al 1922, allorché prenderanno la via di Gardone per ricongiungersi finalmente con il legittimo proprietario. Reduce dalla guerra e da Fiume, defilato nella remota residenza lacustre che diventerà Il Vittoriale degli Italiani, d’Annunzio esulta: «ho avuto la gioia di recuperare i miei vecchi libri di Settignano e la mia bella raccolta dei ‘citati’» (Frammenti di un colloquio avvenuto in un giardino del Garda il 10 giugno 1922, nel Libro ascetico). Composto dunque in primo luogo per perorare la causa dei suoi libri, al Proemio fanno eco gli accenti disperati del fuoruscito. «Ho una spina nel cuore, che mi strappa il grido»: ogni avversità potrebbe sopportare fuorché la perdita della biblioteca. E dire che il salvataggio sembrava assicurato, come d’Annunzio confida ad Albertini contando su un soccorso efficace: «che mi consiglia di fare per i miei libri? Certo dei libri ho bisogno pel mio lavoro; e non posso procurarmene altri, qui. […] Le notizie fiorentine sono pessime. […] Io avevo già in fondo al mio cuore il presentimento di ciò che sta per accadere. L’accordata salvezza dei miei libri m’era già parsa una più o meno abile astuzia mascherata di rispetto e di generosità. So, infatti, che i creditori vogliono ora vendermi anche la biblioteca! E son certo che anche contro questa ultima infamia, non si leverà alcuna protesta. / Le confesso che, se ho avuto molto coraggio nel sopportare ogni mia disgrazia, non ne ho alcuno nel considerare quel che sta per accadere. Sono disperato. Sarei contento di sottopormi alla più dura schiavitù per salvare i miei libri prediletti. Mi sembra che ora la devastazione sia fatta non più alla mia casa ma al mio spirito. Con amore costante ho raccolto i testi di lingua che erano il mio pane cotidiano. Nella tempesta presente pensavo con certezza di consolazione al giorno in cui avrei potuto riaverli sotto la mano e sotto gli occhi per dimenticare ogni mia pena. Se li perderò, come li ritroverò? Sarei più misero di un naufrago, senza di essi; o meglio, più infelice di un mutilato. / Non è possibile, in Italia, trovare alcuni amici pietosi che mi salvino quell’unico bene e mi diano il modo di recuperarlo? / Nella tristezza dell’esilio penso che un giorno tornerò in patria e che sarò solo. Non abbia più se non una stanza bianca e nuda, ma abbia meco i compagni antichi dei miei studi! Sono preparato a tutte le crudeltà, ma mi sia risparmiata questa. Non mi raccomando soltanto all’amico, ma all’italiano. Cerchi un modo onorevole di proteggere i miei libri. Protegga il mio spirito, il mio cervello. Certo, da una tale perdita il mio pensiero stesso sarebbe diminuito. E per la prima volta nella mia vita mi piegherei sotto il dolore» (22 giugno 1911). La risposta di Albertini, pur sensibile all’appello accorato, ci dà modo di conoscere con chi d’Annunzio abbia a che fare. Il medico dei suoi mali non è certo pietoso, anche perché non ignora che in tanto disastro l’esule continua a sperperare. E poi l’accenno alla «stanza bianca e nuda», con la messinscena della solitudine conventuale a tu per tu con i libri beneamati, oltrepassa davvero la misura. Albertini la sa lunga sui vizi dell’esule e affronta, pratico e sbrigativo, la spinosa questione dei libri: «che i creditori, i quali non fanno professione di lettere, esercitino tutti i mezzi per rientrare nel loro, è più che naturale. / Ma i miei amici, potrebbe aggiungere Lei, perché non corrono ai ripari? Qui faccio di nuovo appello alla Sua tolleranza. Gli amici sono scettici; constatano che Lei, anche quando afferma di essere nel piede della più stretta economia, spende dieci o ventimila lire al mese, in parte senza avvedersene, in parte fidando su guadagni che possono venire a mancare. […] Ciò non mi impedirà di studiare il modo di salvare la biblioteca. Dico studiare, cioè non prometto. Ma farò quanto sta in me, mosso da un fine superiore, da un rispetto per i Suoi libri. / E Lei – glielo chiedo non in cambio perché dubito di riuscire, ma nell’interesse Suo – lavori intanto e si adatti a un tenore di vita nel quale dovrebbe far getto solo di quanto vi ha di più vano ed inutile nel lusso. A me pare che, proponendosi per due o tre anni di concentrarsi a sanare le Sue piaghe, renderebbe alle lettere italiane, ai Suoi amici e soprattutto a Lei stesso, il miglior servizio». Così redarguito, d’Annunzio non cessa le lamentazioni. «Penso sempre ai miei libri» – ripete dopo aver risistemato, contraendo nuovi debiti, lo châlet di Arcachon. È la raccolta dei «testi di lingua» la più rimpianta: «Ne

ho sete come dell’acqua pura. Sarei felice se potessi averli qui, dove gli scaffali sono pronti a riceverli riordinati» (17 luglio 1911); «È probabile che i miei libri sian venduti a peso di carta, ai librai ambulanti, sotto la canicola. / Io all’estremo mi contenterei di recuperare almeno la raccolta dei Testi e quella delle Storie dell’Arte, i vocabolari, i libri di consultazione: insomma gli strumenti del mestiere» (22 luglio 1911). Sulla scena dell’arduo salvataggio si affacciano in molti, anche se risolutivo si rivelerà alla fine Tenneroni. Compare intanto Giuseppe Lando Passerini, il «più grazioso dei linguai» e il «più serviziato degli amici», come reca, per gratitudine, il Proemio, anch’egli nel novero dei bibliotecari che d’Annunzio frequenta negli anni della Capponcina, e con il quale l’esule, in quei giorni di disastro, collabora scrivendo Dante, gli stampatori e il bestiaio, nota prefativa all’edizione giuntina della Commedia, stampata da Olschki (il commento è di Passerini) per commemorare il cinquantesimo anniversario del Regno Unito. Da Firenze, dove risiede, Giuseppe Lando ha compiuto un mesto pellegrinaggio sul colle di Settignano, trovandovi le casse dei libri sequestrati: «Quanta tristezza lassù. Io non andai nei giorni delle vendite, per non mescolarmi tra tutta quella gente, curiosa e pettegola. La Capponcina, così denudata, è orribile: mi parve triste e misera» (30 luglio 1911). La desolazione però agisce provocando subito un benefico effetto. La vista delle casse che tengono prigioniero quello che per il bibliotecariobibliofilo è un tesoro inestimabile lo stimola a reagire. Di qui a poco prenderà infatti avvio un contrattacco che coinvolge numerosi notabili, a cominciare da Olschki, dall’avvocato Francesco Coselschi, curatore, un tempo, degli affari di d’Annunzio, e da Vittorio Emanuele Orlando. «Mi son messo in mente» scrive appunto Passerini ad Arcachon il 23 agosto «di salvare a ogni costo la tua biblioteca, cercando il modo di far concorrere a questa doverosa opera anche il Governo. Contemporaneamente questa idea è sorta in mente all’Olschki che stamane mi ha chiamato per telefono pregandomi di cercare Coselschi e aver da lui le necessarie informazioni per vedere che cosa si può fare per te. A Vallombrosa c’è l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando che è intimo dell’Olschki e tuo ammiratore, e i Di San Giuliano. Io domani sarò lassù, e qualche cosa spero provocheremo. Certo è obbligo della Patria e suo interesse supremo serbarti gli ordigni della tua arte.» A settembre, però, il nulla di fatto è verificabile attraverso le continue richieste di d’Annunzio: i libri gli sono necessari, tanto più che la guerra italo-turca lo vede impegnato nelle Canzoni libiche che il poeta pubblicherà nel «Corriere» con le note erudite per le quali gli sono indispensabili, oltretutto, il Vocabolario marino e militare e la Storia della marina del Guglielmotti. Treves compensa perciò con l’invio di libri i diritti d’autore e non si contano le spedizioni degli amici. Dall’avvocato Coselschi d’Annunzio spera un appiglio legale: «Puoi imaginare la mia disperazione per la probabile perdita dei libri. Ho ricevuto una lettera dell’Albertini, che mi parla della tua visita e dell’impossibilità di provvedere. In una seconda lettera egli mi racconta che il Treves – quasi preso da rimorso – lo ha chiamato per dirgli ‘che, ripensandoci, volean vedere di raccogliere 10.000 lire per riscattare la biblioteca’. […] Se si facesse una vendita all’asta dei libri, accadrebbe quel che è accaduto per i mobili: si raccoglierebbe una scarsa somma. Non pensi che convenga ai creditori cedere tutta la biblioteca – o almeno la parte italiana – per una somma determinata da una perizia più o meno esatta? / E io non ho il diritto legale su i libri almeno per una piccola parte? / E, se l’asta è inevitabile, non sarebbe possibile far ricomprare i volumi importanti da amici? L’Olschki non potrebbe in questo aiutarci? Forse questa volta – poiché il rammarico è nella coscienza di molti – qualche riguardo potrebbe essermi usato anche dai concorrenti. / Sono tanto turbato che, se domani tu mi mandassi la notizia della salvazione, toccherei il culmine della felicità e dimenticherei per sempre tutto il resto. / Ogni giorno qui, lavorando, urto contro l’impedimento e mi arrovello. Non ho neppure un Vasari, né un Machiavelli, né un Villani. Il Passerini mi ha mandato del Vasari un’edizione mutilata di Adriano Salani!!!» (17 settembre 1911). La stesura di Parisina, nella primavera del 1912, segnala, con il ritorno al registro antiquario, il recupero di un

certo numero di volumi. Anche grazie alle aborrite edizioni economiche, comincia a prendere consistenza la «Bibliothecula gallica», cioè i libri accumulati ad Arcachon, sostitutivi, in brutta copia, di quelli abbandonati in Italia, grazie ai soccorsi che arrivano da più parti. Perché agli amici bibliotecari si sommano gli eruditi, e Francesco Novati, l’eminenza grigia del falso-antico al tempo di Francesca da Rimini e delle Laudi, invia ora bibliografia e volumi all’esule in difficoltà. Da lui provengono le Cacce in rima dei secoli XIV e XV, raccolte nel 1896 da Carducci, che risuoneranno irresistibili (dopo essersi fatte udire nella seconda pièce dei Malatesti) nel Proemio: «Tè, tettè, tettè!». Quando d’Annunzio si accinge a scriverlo, dopo averlo progettato non appena si profila la collana di scripta brevia («Il Cola è definitivo, ma modificherò in parte il preambolo»; a Emilio Treves, 29 aprile 1912), giungono ad Arcachon notizie confortanti della biblioteca. L’opposizione alla vendita su cui ha fatto leva Albertini (il debitore non può essere privato dei mezzi che gli consentano di estinguere i debiti) si combina con l’efficace iniziativa di Tenneroni. Il quale ha persuaso il Banco di Roma, fra i creditori ancora non soddisfatti, ad avvalersi solo formalmente sui libri mentre sta erigendo una Fondazione d’Annunzio che contribuirà, fra l’altro, ad affrancarli definitivamente. Steso lo statuto nel febbraio 1912, dopo una colletta che coinvolge studiosi, notabili e finanzieri, da Alessandro d’Ancona a Domenico Comparetti, dal barone Alberto Lumbroso al bibliofilo Marco Besso, da Ernesto Pacelli a Luigi Fiamingo del Banco di Roma, la presidenza viene offerta a Pascoli (già però gravemente malato), quindi a Benedetto Croce e a Ferdinando Martini. Tenneroni informa l’amico inconsolabile circa gli scopi della Fondazione: «Come ti avrà scritto il barone Lumbroso, convertitosi all’ammirazione del tuo genio, abbiamo gettato domenica scorsa, in casa sua, le basi dell’invocabile “Fondazione Gabriele d’Annunzio”, il cui programma da me proposto, siccome nobilissimo per te e l’Arte tua, verrà fra pochi giorni vagliato e discusso in tutti i suoi sei articoli da pochi spiriti prodi. Convinsi il barone di lasciar la parola Museo etc. e pur da parte, per ora, lo Stato, adottando la formula, modernissima anche a Parigi, di Fondazione etc. La quale dev’essere autonoma e indipendentissima perché possa, secondo i casi più urgenti, eseguire il suo nobil programma» (29 febbraio 1912). Lo stesso Tenneroni sarà il custode, per conto del Banco di Roma, delle casse contenenti i libri migrati nella capitale e che, a questo punto, potrebbero prendere la via di Arcachon. Dopo averli tanto sospirati, il fuoruscito è posto dinanzi a un grave dilemma. Se ora egli si facesse recapitare i 10.000 volumi recuperati, ciò equivarrebbe ad allontanare indefinitamente il rientro in patria. Pertanto esita, rassegnandosi alla «demenza» – il bisticcio è suo – «di far libri per comprar libri». Preferisce insomma accrescere quella che ormai chiama la «Bibliothecula gallica» per non sancire l’espatrio. Le perplessità raggiungono Albertini: «Già più volte le ho scritto di quanto io soffra per la mancanza di libri. Quasi tutte le mie risorse si consumano in compere di volumi. E non so più rassegnarmi a leggere il Machiavelli, o il Davanzati nella orrenda “collezione Sonzogno” a una lira. Che fare? I miei libri sono salvi. Posso farmi spedire qui le 47 casse con la spesa di qualche migliaio di lire. Me esito ancora e lotto contro questo ardentissimo desiderio. Raccogliere qui tutta la mia biblioteca significa metter radici nell’esilio, almeno per alcuni anni. Che pensa? Debbo tornare? Debbo rimanere? Certo, luogo più tranquillo non potrei trovare, né in patria né altrove. Ma quando piove a dirotto, come oggi, la nostalgia mi stringe» (29 ottobre 1912). Resterà in esilio («con tutte le mie forze: resti ad Arcachon», lo esorta Albertini) perché l’intricata matassa dei debiti è tutt’altro che dipanata, ma, ora che può disporne, d’Annunzio farà in modo che Tenneroni, con elenchi mirati, gli invii circa 2000 volumi, prelevati via via. E sono gli arrivi a scaglioni, che comprendono alcuni testi dell’irrinunciabile raccolta dei «Citati», a infoltire il Proemio che li menziona uno a uno con trasporto e a determinare da un lato gli eccessi d’erudizione e dall’altro il lievitare delle pagine al di là di ogni previsione. Il primo arrivo, il 6 settembre 1912, trova subito corrispondenza in una lettera a Treves in cui non per nulla si affaccia l’«epistola» dedicatoria: «ricevo le stampe del Cola […]. Manca intanto l’epistola preliminare». Il memorialista, peraltro, già da qualche mese ha cominciato ad avvertire non poca insofferenza nei confronti

della misura obbligata delle Faville: le colonne del quotidiano, perfette per la scrittura frammentaria dell’anno precedente, mal contengono i «fantasmi» della sua nuova ispirazione. Ad Albertini sono giunte in proposito continue lamentazioni: «Avrei bisogno di ascoltarmi, di comprendermi. Molte cose nascono in confuso dentro me. L’urgenza del lavoro è più che mai crudele» (20 agosto 1912). Le prose memoriali, non a caso, si vanno estendendo – narrazioni che occupano più numeri del giornale restando incompiute (è accaduto con le tre puntate della Violante dalla bella voce, febbraio-marzo 1912, scavalcata dal «quatriduo» della Contemplazione della Morte, e lo stesso accadrà con le sei del Compagno dagli occhi senza cigli, a cavallo tra il 1912 e il 1913) per le ragioni confidate al segretario-factotum Tom Antongini: «Io sono in uno stato d’angoscia singolarissimo. Dovrei mettermi seduto a scrivere i miei drammi, dai quali sono posseduto. E sono costretto a pensare agli articoli remunerativi per la vita cotidiana. / Ma come il mio spirito è occupato da grandi fantasmi, non riesco a volgermi altrove. Ho cominciato dieci volte un articolo senza riuscire a continuarlo. Sono scontento, inquieto, agitato, pieno di umiliazione e di rimorso. I giorni passano, vanamente. La coscienza di un artista quale son io è molto più imperiosa del bisogno vile. Credo che non riuscirò a nulla, e che le noie si moltiplicheranno sopraffacendomi» (6 settembre 1912). E lo stesso giorno ripete a Treves: «Io passo tristi giorni, tra la voglia di lavorare ai miei grandi drammi e la necessità di scrivere articoli remunerativi. Perdo il tempo senza riescire né nell’una né nell’altra cosa». Alcuni giorni dopo, non riuscendo a lavorare, raggiunge la spiaggia di Cibour insieme con Romaine Brooks, e di lì lamenta nuovamente la mancanza dei libri: «Più volte mi furono promessi […]. Il mio spirito soffre di questa mutilazione. Spesso sono costretto a interrompere un disegno per mancanza di strumento» (a Treves, 13 settembre 1912). Mentre i «grandi fantasmi» surclassano le Faville brevi e d’Annunzio vorrebbe avere la possibilità di «scrivere quel che si dice un’opera» (ad Albertini, 3 novembre 1912), il Proemio, a cui si accinge non prima del 24 ottobre, si va dilatando giorno dopo giorno. Se l’8 novembre sembrerebbe quasi concluso con la stesura di «una trentina di cartelle nuove», il 25 successivo il numero abnorme delle aggiunte va giustificato con l’editore. Intanto, equivale a tre Faville e come tale andrà compensato, anche perché – e la notizia è importante – egli sta curando la propria biblioteca e la propria cantina «con la medesima raffinatezza»: «avevo cominciata la prefazione su misure consuete, ma poi mi sono lasciato sedurre dalla sirena del Passato, dalla magia dei ricordi; e ho scritto, con un piacere malinconico, qualche pagina autobiografica – che forse darà più di valore al libretto […]. Ti spedisco stasera un pacco di cartelle: sino alla novantesima. Ti spedirò mercoledì il resto: da dieci a quindici – non più. […] Mai prosa martellai con più diligenza. Ecco un vero e proprio “titolo” per l’Accademia della Crusca!». Ma di lì a tre giorni, quando il Proemio deve considerarsi concluso, le ulteriori cartelle sono diventate 37, mentre già si profilano le Approvazioni aggiunte per «monelleria»: parodiando i severi censori della Crusca d’Annunzio finge l’avallo incondizionato della sua prosa, ora che in patria è polemica sui suoi neologismi, e che Passerini ha compilato in un Dizionario dannunziano. E la burla prevede inoltre una fittizia autorizzazione alla stampa del volume da parte del Vicario del Sant’Uffizio di Firenze, in quanto in essa «non è cosa veruna repugnante alla nostra Santa Fede, o a’ buoni costumi» – autorizzazione in cui è difficile non scorgere un’eco polemica alla recente messa all’indice di tutta la sua opera. Concluso dunque in dicembre, il Proemio risponde alla «necessità interiore della grande linea» ormai confortata da una biblioteca consistente. Discorrendo con Albertini, d’Annunzio saprà giustificare le numerose pagine memoriali che gli hanno davvero trascinato la mano: «Ho il bisogno, quasi fisico, di scrivere un libro. Anche se mi propongo di dare al mio cervello piccola materia, esso la prende, la elabora e l’accresce con un procedimento irresistibile. […] Strane predisposizioni della natura, a cui contraddico non senza molto soffrire. Se il pregio d’uno spirito produttore fosse riconosciuto nel mondo comune, ora una “Società per la protezione dell’ingegno” dovrebbe per un anno difendere la mia solitudine e assicurarmi la vita cotidiana. Forse scriverei un’opera molto bella e profonda» (22 dicembre 1912). Siamo del resto nella temperie della prolissità proustiana quando d’Annunzio comincia a designare con il termine di «ricerca» la sua prosa di memoria intessuta di «apparizioni». Reynaldo Hahn, che intona per lui vecchi

canti partigiani «con la sigaretta attaccata all’angolo delle labbra credendo di preservare dall’enfasi la passione dei crudi accenti in quell’eleganza dell’incuranza» (così si leggerà nel Libro segreto), è il primo lettore entusiasta della Recherche quando non è ancora anticipata, nel marzo del 1912 sul «Figaro», da un breve passo: Au seuil du printemps. Se non è il caso di insistere su rapporti appena probabili, le concomitanze tuttavia non mancano (il bidello della Crusca, che gli procura i libri, è assimilato alla «vecchiezza di Giotto», come in Du côté de chez Swann la sguattera gravida, su cui incombe la dispotica Françoise, alla «Pité de Giotto») e si accresceranno: dal Proemio in avanti alla scrittura «frammentaria» succederà quella «prolungata» delle intermittences du coeur. Provocate dall’autolettura della Vita di Cola di Rienzo, sul filo della memoria, il Proemio contiene le più aperte dichiarazioni di poetica. La biografia fu scritta contraggenio, per la «disciplina voluntatis» che regola l’artifex additus artifici, e ha tutto da spartire con l’artigianato. Di ben diversa natura, invece, le intermittenti epifanie, illuminazioni improvvise che per d’Annunzio coincidono con i suoi slanci vitali: «Bastava un grido in mezzo a un campo perché tutta la mia vita si levasse d’un subito, ansiosa di prendere una forma d’arte». È, come si vede, una poetica dell’anelito e del corpo, della «sensualità rapita fuor dei sensi», secondo la sentenza tradotta da Novalis che resta l’ultimo approdo dell’esteta misticheggiante e d’avanguardia nella Francia di Barrès e di Valéry, di Gide e di Czésanne, di Debussy, France, Péguy, Claudel. Preludio del cosiddetto d’Annunzio “notturno”, le pagine che giustificano l’opera mancata al pari della serie di biografie che avrebbe dovuto inaugurare, indulgono al “silenzio musicale”. Il più solido acquisto speculativo del neoplatonismo dibattuto a suo tempo con Angelo Conti doveva precisarsi negli anni francesi attraverso il misticismo che a partire dal Martyre de Saint Sébastien pervade la Contemplazione della Morte, giù giù sino a risolversi appieno nella guerra «divina e spietata». A tacer d’altro (da Jacopone a Bianco da Siena), la lettura divinante dei libri prediletti figura qui come un’estasi, come «una febbre che invade tutto il corpo ed esalta il tono di tutto il sangue». Mentre l’esule obietta, una volta per tutte, alle accuse di plagio da cui continua a essere bersagliato (nella «Critica» di Croce se ne occupa ora un’apposita rubrica), descrivendo più un’“ecclesia”, un corpo mistico, che una biblioteca, definisce con «vita segreta» la dominante decisiva del futuro memorialista.← *** PROEMIO DELL’AUTORE 2

Sul dedicatario Annibale Tenneroni (1855-1928) e la dedicatoria ricalcata su Machiavelli, cfr. la nota 1.← Già stese nel 1905, le prime pagine, come ha segnalato E. Raimondi (pp. 138-9), sono debitrici della Préface di Marcel Schwob alle sue Vies imaginaires (1896, nella biblioteca del Vittoriale con significativi segni di lettura), subito riprese col titolo L’Art de la biographie in Spicilège, in cui d’Annunzio ribadisce la netta distinzione tra biografo e storico: «La science historique nous laisse dans l’incertitude sur les individus. Elle ne nous révèle que les points par où ils furent attachés aux actions générales. Elle nous dit que Napoléon était souffrant le jour de Waterloo, qu’il faut attribuer l’excessive activité intellectuelle de Newton à la continence absolue de son tempérament, qu’Alexandre était ivre lorsqu’il tua Klitos et que la fistule de Louis XIV put être la cause de certaines de ses résolutions. Pascal raisonne sur le nez de Cléopâtre, s’il eût été plus court, ou sur un grain de sable dans l’urèthre de Cromwell. Tous ces faits individuels n’ont de valeur que parce qu’ils ont modifié les événements ou qu’ils auraient pu en dévier la série. Ce sont des causes réelles ou possibles. Il faut les laisser aux savants. / L’art est à l’opposé des idées générales, ne décrit que l’individuel, ne désire que l’unique. Il ne classe pas; il déclasse. Pour autant que cela nous occupe, nos idées générales peuvent être semblables à celles qui ont cours dans la planète Mars et trois lignes qui se coupent forment un triangle sur tous les points de l’univers. Mais regardez une feuille d’arbre, avec ses nervures capricieuses, ses teintes variées par l’ombre et le soleil, le gonflement qu’y a soulevé la chute d’une goutte de pluie, la piqûre qu’y a laissée un insecte, la trace argentée du petit escargot, la première 3

dorure mortelle qu’y marque l’automne; cherchez une feuille exactement semblable dans toutes les grandes forêts de la terre: je vous mets au défi. Il n’y a pas de science du tégument d’une foliole, des filaments d’une cellule, de la courbure d’une veine, de la manie d’une habitude, des crochets d’un caractère. Que tel homme ait eu le nez tordu, un œil plus haut que l’autre, l’articulation du bras noueuse; qu’il ait eu coutume de manger à telle heure un blanc de poulet, qu’il ait préféré le Malvoisie au Château-Margaux, voilà qui est sans parallèle dans le monde. Aussi bien que Socrate Thalès aurait pu dire ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ; mais il ne se serait pas frotté la jambe dans la prison de la même manière, avant de boire la ciguë. Les idées des grands hommes sont le patrimoine commun de l’humanité: chacun d’eux ne posséda réellement que ses bizarreries. Le livre qui décrirait un homme en toutes ses anomalies serait une œuvre d’art comme une estampe japonaise où on voit éternellement l’image d’une petite chenille aperçue une fois à une heure particulière du jour. Les histoires restent muettes sur ces choses. Dans la rude collection de matériaux que fournissent les témoignages, il n’y a pas beaucoup de brisures singulières et inimitables. Les biographes anciens surtout sont avares. N’estimant guère que la vie publique ou la grammaire, ils nous transmirent sur les grands hommes leurs discours et les titres de leurs livres. C’est Aristophane lui-même qui nous a donné la joie de savoir qu’il était chauve, et si le nez camard de Socrate n’eût servi à des comparaisons littéraires, si son habitude de marcher les pieds déchaussés n’eût fait partie de son système philosophique de mépris pour le corps, nous n’aurions conservé de lui que ses interrogatoires de morale. Les commérages de Suétone ne sont que des polémiques haineuses. Le bon génie de Plutarque fit parfois de lui un artiste; mais il ne sut pas comprendre l’essence de son art, puisqu’il imagina des “parallèles” – comme si deux hommes proprement décrits en tous leurs détails pouvaient se ressembler! On est réduit à consulter Athénée, AuluGelle, des scoliastes, et Diogène Laërce qui crut avoir composé une espèce d’histoire de la philosophie. / Le sentiment de l’individuel s’est développé davantage dans les temps modernes. L’œuvre de Boswell serait parfaite s’il n’avait jugé nécessaire d’y citer la correspondance de Johnson et des digressions sur ses livres. Les “Vies des personnes éminentes” par Aubrey sont plus satisfaisantes. Aubrey eut, sans aucun doute, l’instinct de la biographie. Comme il est fâcheux que le style de cet excellent antiquaire ne soit pas à la hauteur de sa conception! Son livre eût été la récréation éternelle des esprits avisés. Aubrey n’éprouva jamais le besoin d’établir un rapport entre des détails individuels et des idées générales. Il lui suffisait que d’autres eussent marqué pour la célébrité les hommes auxquels il prenait intérêt. On ne sait point la plupart du temps s’il s’agit d’un mathématicien, d’un homme d’Etat, d’un poète, ou d’un horloger. Mais chacun d’eux a son trait unique, qui le différencie pour jamais parmi les hommes. / Le peintre Hokusaï espérait parvenir, lorsqu’il aurait cent dix ans, à l’idéal de son art. A ce moment, disait-il, tout point, toute ligne tracés par son pinceau seraient vivants. Par vivants, entendez individuels. Rien de plus semblable que des points et des lignes: la géométrie se fonde sur ce postulat. L’art parfait de Hokusaï exigeait que rien ne fût plus différent. Ainsi l’idéal du biographe serait de différencier infiniment l’aspect de deux philosophes qui ont inventé à peu près la même métaphysique. Voilà pourquoi Aubrey, qui s’attache uniquement aux hommes, n’atteint pas la perfection, puisqu’il n’a pas su accomplir la miraculeuse transformation qu’espérait Hokusaï de la ressemblance en la diversité. Mais Aubrey n’était pas parvenu à l’âge de cent dix ans. Il est fort estimable néanmoins, et il se rendait compte de la portée de son livre. “Je me souviens, dit-il, dans sa préface à Anthony Wood, d’un mot du général Lambert – that the best of men are but men at the best – ce dont vous trouverez divers exemples dans cette rude et hâtive collection. Aussi ces arcanes ne devront-ils être exposés au jour que dans environ trente ans. Il convient en effet que l’auteur et les personnages (semblables à des nèfles) soient pourris auparavant.” / On pourrait découvrir chez les prédécesseurs d’Aubrey quelques rudiments de son art. Ainsi Diogène Laërce nous apprend qu’Aristote portait sur l’estomac une bourse de cuir pleine d’huile chaude, et qu’on trouva dans sa maison, après sa mort, quantité de vases de terre. Nous ne saurons jamais ce qu’Aristote faisait de toutes ces poteries. Et le mystère en est aussi agréable que les conjectures auxquelles Boswell nous abandonne sur l’usage que faisait Johnson des pelures sèches d’orange qu’il avait coutume de conserver dans ses poches. Ici Diogène Laërce se hausse presque au sublime de l’inimitable Boswell. Mais ce sont là de rares plaisirs. Tandis qu’Aubrey nous en donne à chaque ligne. Milton

nous dit-il, “prononçait la lettre R très dure” Spenser “était un petit homme, portait les cheveux courts, une petite collerette, et des petites manchettes.” Barclay “vivait en Angleterre à quelque époque tempore R. Jacobi. C’était alors un homme vieux, à barbe blanche, et il portait un chapeau à plume, ce qui scandalisait quelques personnes sévères.” Erasme “n’aimait pas le poisson, quoique né dans une ville poissonnière.” Pour Bacon, “aucun de ses serviteurs n’osait apparaître devant lui sans bottes en cuir d’Espagne; car il sentait aussitôt l’odeur du cuir de veau, qui lui était désagréable.” Le docteur Fuller “avait la tête si fort en travail que, se promenant et méditant avant dîner, il mangeait un pain de deux sous sans s’en apercevoir.” Sur Sir William Davenant il fait cette remarque: “J’étais à son enterrement; il avait un cercueil de noyer. Sr. John Denham assura que c’était le plus beau cercueil qu’il eût jamais vu.” Il écrit à propos de Ben Johnson: “J’ai entendu dire à M. Lacy, l’acteur, qu’il avait coutume de porter un manteau pareil à un manteau de cocher, avec des fentes sous les aisselles.” Voici ce qui le frappe chez William Prinne: “Sa manière de travailler était telle. Il mettait un long bonnet piqué qui lui tombait d’au moins deux ou trois pouces sur les yeux et qui lui servait d’abat-jour pour protéger ses yeux de la lumière, et toutes les trois heures environ, son domestique devait lui apporter un pain et un pot d’ale pour lui refociller ses esprits; de sorte qu’il travaillait, buvait, et mâchonnait son pain, et ceci l’entretenait jusqu’à la nuit où il faisait un bon souper.” Hobbes “devint très chauve dans sa vieillesse; pourtant, dans sa maison, il avait coutume d’étudier nutête, et disait qu’il ne prenait jamais froid mais que son plus grand ennui était d’empêcher les mouches de venir se poser sur sa calvitie.” Il ne nous dit rien de l’Oceana de John Harrington mais nous raconte que l’auteur, A° D ni 1660, fut envoyé prisonnier à la Tour, où on le garda, puis à Portsey Castle. Son séjour dans ces prisons (étant un gentilhomme de haut esprit et de tête chaude) fut la cause procatarctique de son délire ou de sa folie qui ne fut pas furieuse – car il causait assez raisonnablement et il était de société fort plaisante, mais il lui vint la fantaisie que sa sueur se changeait en mouches et parfois en abeilles, ad cetera sobrius; et il fit construire une maisonnette versatile en planches dans le jardin de M. Hart (en face St. James’s Park) pour en faire l’expérience. Il la tournait au soleil et s’asseyait en face; puis il faisait apporter ses queues de renard pour chasser et massacrer toutes les mouches et abeilles qu’on y découvrirait; ensuite il fermait les châssis. Or il ne faisait cette expérience que dans la saison chaude, de façon que quelques mouches se dissimulaient dans les fentes et dans les plis des draperies. Au bout d’un quart d’heure peut-être, la chaleur faisait sortir de leur trou une mouche, ou deux, ou davantage. Alors il s’écriait: “Ne voyez-vous pas clairement qu’elles sortent de moi?” / Voici tout ce qu’il nous dit de Meriton. “Son vrai nom était Head. M. Bovey le connaissait bien. Né en… Etait libraire dans Little Britain. Il avait été parmi les bohémiens. Il avait l’air d’un coquin avec ses yeux goguelus. Il pouvait se changer en n’importe quelle forme. Fit banqueroute deux ou trois fois. Fut enfin libraire, ou vers sa fin. Il gagnait sa vie avec ses griffonnages. Il était payé 20 sh. la feuille. Il écrivit plusieurs livres: The English Rogue, The Art of Wheadling, etc. Il fut noyé en allant à Plymouth par la pleine mer vers 1676, étant âgé d’environ 50 ans.” / Enfin il faut citer sa biographie de Descartes / M eur RENATUS DES CARTES. / “Nobilis Gallus, Perroni Dominus, summus Mathematicus et Philosophus, natus Turonum, pridie Calendas Apriles 1596. Denatus Holmiæ, Calendis Februarii, 1650 (Je trouve cette inscription sous son portrait par C.V. Dalen). Comment il passa son temps en sa jeunesse et par quelle méthode il devint si savant, il le raconte au monde en son traité intitulé De la Méthode. La Société de Jésus se glorifie que l’ordre ait eu l’honneur de son éducation. Il vécut plusieurs années à Egmont (près la Haye) d’où il data plusieurs de ses livres. C’était un homme trop sage pour s’encombrer d’une femme; mais, étant homme, il avait les désirs et appétits d’un homme; il entretenait donc une belle femme de bonne condition qu’il aimait, et dont il eut quelques enfants (je crois deux ou trois). Il serait fort surprenant qu’issus des reins d’un tel père ils n’eussent point reçu une belle éducation. Il était si éminemment savant que tous les savants lui rendaient visite et beaucoup d’entre eux le priaient de leur montrer ses… d’instruments (à cette époque la science mathématique était fortement liee à la connaissance des instruments, et ainsi que le disait Sr. H. S. à la pratique des tours). Alors il tirait un petit tiroir sous la table et leur montrait un compas dont l’une des branches était cassée; et puis, pour règle, il se servait d’une feuille de papier

pliée en double.” / Il est clair qu’Aubrey a eu la conscience parfaite de son travail. Ne croyez pas qu’il ait méconnu la valeur des idées philosophiques de Descartes ou de Hobbes. Ce n’est pas là ce qui l’intéressait. Il nous dit fort bien que Descartes lui-même a exposé sa méthode au monde. Il n’ignore pas que Harvey découvrit la circulation du sang; mais il préfère noter que ce grand homme passait ses insomnies à se promener en chemise, qu’il avait une mauvaise écriture, et que les plus célèbres médecins de Londres n’auraient pas donné’six sous d’une de ses ordonnances. Il est sûr de nous avoir eclairé sur Francis Bacon, lorsqu’il nous a expliqué qu’il avait l’œil vif et délicat, couleur noisette, et pareil à l’œil d’une vipère. Mais ce n’est pas un aussi grand artiste que Holbein. Il ne sait pas fixer pour l’éternité un individu par ses traits spéciaux sur un fond de ressemblance avec l’idéal. Il donne la vie à un œil, au nez, à la jambe, à la moue de ses modèles: il ne sait pas animer la figure. Le vieil Hokusaï voyait bien qu’il fallait parvenir à rendre individuel ce qu’il y a de plus général. Aubrey n’a pas eu la même pénétration. Si le livre de Boswell tenait en dix pages, ce serait l’œuvre d’art attendue. Le bon sens du docteur Johnson se compose des lieux communs les plus vulgaires; exprimé avec la violence bizarre que Boswell a su peindre, il a une qualité unique dans ce monde. Seulement ce catalogue pesant ressemble aux dictionnaires mêmes du docteur: on pourrait en tirer une Scientia Johnsoniana, avec un index. Boswell n’a pas eu le courage esthétique de choisir. / L’art du biographe consiste justement dans le choix. Il n’a pas à se préoccuper d’être vrai; il doit créer dans un chaos de traits humains. Leibnitz dit que pour faire le monde Dieu a choisi le meilleur parmi les possibles. Le biographe, comme une divinité inférieure, sait choisir parmi les possibles humains, celui qui est unique. Il ne doit pas plus se tromper sur l’art que Dieu ne s’est trompé sur la bonté. Il est nécessaire que leur instinct à tous deux soit infaillible. De patients démiurges ont assemblé pour le biographe des idées, des mouvements de physionomie, des événements. Leur œuvre se trouve dans les chroniques, les mémoires, les correspondances et les scolies. Au milieu de cette grossière réunion le biographe trie de quoi composer une forme qui ne ressemble à aucune autre. Il n’est pas utile qu’elle soit pareille à celle qui fut créée jadis par un dieu supérieur, pourvu qu’elle soit unique, comme toute autre création. / Les biographes ont malheureusement cru d’ordinaire qu’ils étaient historiens. Et ils nous ont privés ainsi de portraits admirables. Ils ont supposé que seule la vie des grands hommes pouvait nous intéresser. L’art est étranger à ces considérations. Aux yeux du peintre le portrait d’un homme inconnu par Cranach a autant de valeur que le portrait d’Erasme. Ce n’est pas grâce au nom d’Erasme que ce tableau est inimitable. L’art du biographe serait de donner autant de prix à la vie d’un pauvre acteur qu’à la vie de Shakespeare. C’est un bas instinct qui nous fait remarquer avec plaisir le raccourcissement du sterno-mastoïdien dans le buste d’Alexandre, ou la mèche au front dans le portrait de Napoléon. / Le sourire de Monna Lisa, dont nous ne savons rien (c’est peut-être un visage d’homme) est plus mystérieux. Une grimace dessinée par Hokusaï entraîne à déplus profondes méditations. Si l’on tentait l’art où excellèrent Boswell et Aubrey, il ne faudrait sans doute point décrire minutieusement le plus grand homme de son temps, ou noter la caractéristique des plus célèbres dans le passé, mais raconter avec le même souci les existences uniques des hommes, qu’ils aient été divins, médiocres, ou criminels». Al di là dell’assunto generale, la ripresa, come si vede, riguarda anche l’esemplificazione, a cominciare da Erasmo e da Holbein. Se è evidente nel Proemio il riuso di appunti stesi a Basilea nel 1900, non è da escludere che sia proprio Schwob ad averlo allora guidato dinanzi al dipinto: «Il ritratto di Erasmo – Il berretto nero, la zimarra grigio azzurrognolo, con collare nero. Il fondo verde. Egli scrive tenendo il foglio su un libro inclinato dalla rilegatura rossa. Le mani ferme e placide. / Il profilo disegnato nettamente. Le palpebre basse su la scrittura la bocca chiusa e ripiegata profondamente negli angoli, piena di sapienza, di prudenza e d’ironia – e il naso grande, con le narici ampie, come un senso sviluppato che PESCA nella vita. Un tipo definito, compiuto: una vita fatta» (T XXXVI, p. 392). Tutta di d’Annunzio, invece, l’enumerazione delle opere del grande umanista con il gusto dell’edizione preziosa, dall’Elogio della follia (suggerito dal Vascello dei matti di Sebastian Brandt), ai Colloquia familiaria (pubblicati dall’amico editore Johannes Froben), agli Adagiorum Chiliades (stampati a Venezia nel 1508,

in edizione accresciuta, da Aldo Manuzio). Anche al giovinetto ritratto da Iacopo dei Barbari giovano gli appunti di taccuino, ma stesi, questa volta, nel 1899 durante una visita viennese all’Albertina: «Jacopo de’ Barbari, ritratto di giovinetto, simile a uno sparviere Il naso grande forte arcuato, la bocca in arco, gli occhi torvi – vestito di nero, su una cortina bianca orlata d’un sottile orlo verde – Capelli biondo-fulvi – in un angolo della tela, rimasto scoperto dalla cortina, una piccola lucerna di ferro – con una fiamma pallida, funeraria. La cortina bianca copre una profondità tenebrosa e mortale» (T XXX, p. 339).← 4 L’esemplificazione di Schwob è ampliata attraverso le Vite degli uomini illustri fiorentini di Giovanni Villani (colle annotazioni / del conte / Giammaria Mazzucchelli / Firenze / per il Magheri / 1826): uno dei testi recuperati proprio nel 1912 grazie a Tenneroni. Di qui sono tratte le citazioni riguardanti Dino del Garbo, Boccaccio, Coluccio Salutati, Farinata degli Uberti (appunto Farinata, tra Filippo Buondelmonti e Niccolò Acciaiuoli, è ritratto da Andrea del Castagno negli affreschi di villa Pandolfini alla Legnaia, fuori porta San Frediano a Firenze).← 5 Ulteriori esemplificazioni sono tratte da un altro recupero librario del ’12: Vite di uomini illustri del secolo XV (scritte da / Vespasiano da Bisticci / stampate per la prima volta / da Angelo Mai / e nuovamente / da Adolfo Bartoli / Firenze / Barbera / 1859). Da esse provengono i riferimenti alla Vita di Nicolao degli Albergati cardinale di Santa Croce (pp. 125-6), in particolare quello relativo al grosso calcolo biliare, estratto dal ventre del cardinale, che Tomaso da Serazana (sarà nel 1447 papa Nicola V) mostrò allo stesso Vespasiano. Sempre di Vespasiano è la Vita di Messer Branda (p. 119): la citazione privilegia i brani dove spiccano vocaboli desueti come il «color moscavoliere» (azzurrognolo) o termini tecnici come «a uso di minio» per qualificare un tondo di legno (il minio si può usare solo su tavola), «uso» illustrato da Giuliano d’Arrigo detto il Pesello (1367-1446), a cui è attribuita la predella di San Nicola in casa Buonarroti a Firenze.← 6 È quindi la volta della Vita di Castruccio Castracani da Lucca / descritta da Niccolò Machiavelli e mandata a Zanobi Buondelmonti e a Luigi Alamanni suoi amicissimi, per cui cfr. la nota 1. Attribuito un tempo all’Orcagna, l’affresco del Camposanto pisano ha già dato il titolo al Trionfo della Morte, romanzo dannunziano del 1894. Il riferimento dantesco al vento «impetuoso» e alla «gente dispetta» è in Inf. IX, 68 e 91. Di particolare acume il rilievo sul «vano scrupolo della realtà esatta […] straniera all’arte eroica» in margine al realismo machiavelliano, derivante in effetti, più da sistemazione concettuale che da rispetto documentario.← 7 Sul «riso […] fantastico» di Cola di Rienzo, sullo «specchio etrusco» e le «tavolette cerate», cfr. La vita al cap. VIII, e la nota 95.← 8 Notazione che doveva trovare d’Annunzio particolarmente reattivo, se proprio la stessa, che è dell’Alëša di Dostoevskij (nei Fratelli Karamazov), era un giorno comparsa sia nell’Innocente (1892): «Certe volte la vista […] d’una piccola foglia bastava a far traboccare la mia anima» (Rom. I, p. 466); che nel Poema paradisiaco (1893): «‘E le piccole foglie in cima ai rami / di primavera?…’», incipit citazionale del Buon messaggio (Versi I, p. 604).← 9 Il figlio «che rinnova il mio nome» è il secondogenito (1886) Gabriellino.← 10 Tommaso dei Cavalieri è il giovane sodale di Michelangelo.← 11 Inviata La vita ad Annibale Tenneroni («al saggio de li buon conoscidori» è citazione dall’Intelligenza già esperita nell’Epodo (1887) dell’Isottèo: «Al saggio de li buon conoscidori, / ben direbbe l’Antico»; Versi I, p. 452), entra parallelamente in gioco lo scambio epistolare tra Zenobi e Machiavelli e tra Machiavelli e Vettori; anche le Lettere machiavelliane sono un recupero recente dell’esule, giusta la lamentazione: «Non ho neppure un Vasari, né un Machiavelli, né un Villani» (cfr. la nota 1).← 12 Con la memoria ottobrale («Sere d’ottobre») prende avvio una sorta di pamphlet nostalgico: elegia e insieme autodifesa. D’Annunzio ritorna agli anni trascorsi alla Capponcina (1898-1909), la villa quattrocentesca di Settignano, sui colli di Firenze. Ne ha già cantato la stagione primaverile, in Ver blandum di Maia (1903), rammemorandola poi in Esequie della giovinezza (Il compagno dagli occhi senza cigli, 1911), con la stessa struttura

elencatoria di contrade e località collinari: è ora la volta dell’autunno, rievocato attraverso i Taccuini stesi via via negli anni settignanesi e gli appunti preparatori per l’epilogo autunnale di Alcyone. Nel 1903 il terzo Libro delle Laudi doveva appunto concludersi con un ditirambo in vista del novembre, quando «l’uliva comincia ad esser VAIA » (cfr. «le piccole ulive che non avean cominciato ancóra a invaiolare»), poi contratto al settembre e ai Sogni di terre lontane. Puntuale la ripresa di T XVIII (1898): «Mattina d’ottobre. / L’aria limpidissima; le campagne umide, arate, d’un colore robusto e sano Per ovunque le viti e gli olivi, la pianta che ha già dato il suo frutto e quella che ne è carica. Le piccole olive verdi pendono tra le foglie argentee. I fusti delle viti già spogli in parte si tendono fra gli olmi a guisa di corde. E tanta è la musicalità di tutte le cose, che sembra quelle corde debbano vibrare come quelle di uno strumento. / Tramonti di settembre: vapori, fumi cinerei entro i quali è sommersa la valle. Tutto è torbido, fumoso. Il sole è come un disco rosso, come una ruota di ferro rovente» (pp. 248-9). Sul Taccuino se ne innesta poi uno primaverile, al quale d’Annunzio apporta gli opportuni cambiamenti stagionali: «Settignano: Marzo 1898 […] 5 aprile. Tornando dal Campo di Marte. Il sole rosso è scomparso all’orizzonte. Le vette di Fiesole restano accese per alcuni attimi. Nuvole delicate si posano su le colline, ed ecco la luna tonda sorge, traversa le nuvole, sembra si adagi su quelle. A un tratto tutta la campagna splende di bianca luce – che pur non è lunare. I muri, lungo le strade e le case, e le selci splendono straordinariamente biancheggianti. Dall’alto della sella vedo i campi fioriti di ciliegi. Una fioritura nivea, che aumenta quel grande candore crepuscolare. Un silenzio strano su le strade, nelle case, lungo gli argini dell’Affrico. Non passa alcuno. La vita sembra estatica» (T XVII, pp. 227-8). I «muri graffiti» nella muta luce lunare, che si stagliano sui «fossati ingombri di tritume», avranno risonanza in Montale (Sul muro grafito, Ossi di seppia), non senza che d’Annunzio li abbia ripresi, così estatici, in uno dei Diari di guerra (Palmanova, 17 ottobre 1915, pp. 184-5), rifuso sia nella Licenza alla Leda senza cigno (1916; cfr. Rom. II, pp. 1321-2), sia, più tardi, nel Libro segreto (Ric., pp. 1839-40): «Soavità di questo paese! L’autunno vi biondeggia come un ritratto di Palma Vecchio. Qualcosa di femineo e di docile, da mettervi la mano per entro… / Dov’è la guerra? Dov’è tutta quella carne da lacerare e da pestare […]? Vado a cercare un prato che conosco, di là dall’Ausa. Galoppo finalmente sul terreno soffice, sopra le ombre lunghissime dei pioppi. Il prato è segreto, tutto chiuso fra cortine di pioppi, silenzioso, dolce. Gli alberi splendono per le cime, pioppi e salici dai lunghi rami verticali, aerei, leggeri. Le ombre toccano l’altra estremità. Il cielo impallidisce. Una malinconia musicale, misurata dal galoppo ritmico del cavallo. Ripenso, o meglio risento certi vespri fiorentini sul Campo di Marte, in vista di Fiesole gloriosa, tra una chiarità di muri graffiti… Il passato non val più nulla, né vale il presente. Il presente non è se non un lievito».← 13 Omaggio al dedicatario tudertino, studioso di Jacopone, le citazioni dalle Poesie spirituali, rispettivamente VI, I , 19 e IV, XXXIII , 1.← 14 Alla poesia di Elettra e di Alcyone (1903) rinviano qui lessico e atmosfere: «Gignoro, luogo di deserta umiltà» alla «deserta bellezza di Ferrara» (Città del silenzio; Versi II, p. 367); «la belletta della pozza nel crocicchio» e «l’urto dello zoccolo sonoro contro il sasso» ad Alcyone, Nella belletta (il dantismo è anche nella Vita ) e Il Tessalo: «odo incognito piede solidungo / come bronzo sonar contra l’intoppo» (ivi, pp. 565 e 609).← 15 Come più avanti menzionando la luce elettrica e l’automobile, d’Annunzio inserisce qui la prospettiva della modernità nei suoi percorsi culturali e antiquari.← 16 Sullo «spirito crudo» appagato nel «sangue delle mie tragedie» si era da poco diffusa una Favilla, Di Promèteo beccaio («Corriere della Sera», 20 agosto 1911), ora ripresa attraverso l’immedesimazione in alcuni episodi di ferinità partigiana narrati nella Nuova Cronica di Giovanni Villani (IX, 39, 49, 96). «compiuto donzello» è variante maschile della «Compiuta» di Chiaro Davanzati.← 17 Provato e riprovato, il motivo della terra abbeverata dalla pioggia annovera qui un’ennesima esibizione di bravura a cui soggiacciono lontani appunti di taccuino, in parte già utilizzati nell’alcionia Lungo l’Affrico (Versi II, p. 427): «D’un tratto, giù dall’altura di Fiesole si spande un’immensa nuvola azzurrognola, gravida di pioggia.

Improvvisa la pioggia scroscia. Tutta la campagna risuona sotto la miriade di sferze argentine. E piove, e piove, e piove. La terra è inondata. I rivoli corrono per i solchi. I campi e i prati s’allagano. Il cielo può mirare nella terra la sua imagine riflessa da innumerevoli specchi. La grazia del cielo si mira nella terra abbeverata. Il cielo vede riflessi dalla terra i suoi mille volti» (1897; T XVII, p. 228).← 18 Delle Cacce in rima dei secoli XIV e XV, curate da Carducci nel 1896, da cui è tratto il «vociare», ha urgente necessità il drammaturgo di Parisina, che le chiede per telegramma a Francesco Novati il 6 marzo 1912: «Pregoti cercarmi e spedirmi oggi stesso Cacce in rima per posta espresso». Appunto nella tragedia malatestiana ne farà largo uso Il coro dei canattieri (Tr. I, atto I, p. 732). L’esule privo della propria biblioteca ricorre agli amici studiosi e bibliotecari che lo esaudiscono prontamente.← 19 In Egitto d’Annunzio soggiornò dal dicembre 1898 al gennaio 1899. Sulle cavalcate nel deserto si soffermerà nel Notturno (cfr. Ric., pp. 342 sgg.).← 20 Che sia qui illustrata la poetica alcionia, come sottolinea B. Basile (D’Annunzio e un Dialogo del Tasso, in «Lettere Italiane», 4, 1989, p. 593), risulta evidente anche dall’esplicita menzione delle liriche del terzo Libro delle Laudi: Il Gombo, Intra du’ Arni, Versilia, La morte del Cervo, Undulna. In una Favilla del 1924 (Undulna figlia di Pègaso e della Sirena) d’Annunzio narra la genesi della «vera creatura alcionia» (così poi nel Libro segreto, Ric., p. 1729) da una caduta da cavallo: «Si chiamava Undulna la mia cavalla difficile, che forse con troppa imprudenza iperiònia talvolta forzavo a gareggiare con l’onda» (cfr. Ric., p. 1431). E ancora in un’altra Favilla di quell’anno insiste: «I miei capolavori sono equestri» (Terzo encomio della mia arte).← 21 Il passo sul governo dei cavalli è preparato in abbozzi di cui conserva il rapido andamento: «La sella tolta – dorso fumante – / il lambire / la lanterna su la groppa – / il grido roco dell’uomo / per accostare / lo sbruffo – / il nitrito leggero – / l’odore della canfora / le fasce, / il pastone // Abbassa le orecchie / increspa le labbra mostrando le gencive / la sensibilità della pelle» (ms. 16471, su cui cfr. D’Annunzio archivista, pp. 248 sgg.).← 22 «seguaci spedati» è ossimoro ironico rivolto agli imitatori dell’«inimitabile» e ai critici e «criticonzoli» che proprio nel 1912 hanno avanzato riserve sul linguaggio di d’Annunzio. Mentre la Francia loda una prova luciferina qual è Le martyre de Saint Sébastien (1911), per bocca di un linguista del calibro di Lanson e di un severo letterato come Barrès, che ne è il dedicatario («D’Annunzio m’offre cette oeuvre d’art… Un artiste français doit être heureux par amour pour sa langue de voir un maître italien “offrir” à son frère de pensée et montrer une si prodigeuse connaissance de sa langue… Quel grand dessin poursuivez-vous? Refaire une langue à l’Italie. C’est cela seul que je retiens de vous»), la Patria invece non gli risparmia polemiche e obiezioni grammaticali che infine lo spazientiscono. Si difenderà perciò attraverso alcune note polemiche su chi censura l’uso giudicato improprio di dovunque per «in ogni luogo», di mai senza la negazione (nella «Rivista di Roma», 25 settembre 1912) e quindi di pollice per «dito grosso del piede» (De infesto pollice, in «Corriere della Sera», 10 aprile 1913; SG II, p. 666). Si definirà qui «linguaio ghiotto» non senza arrogarsi un’Approvazione dei «Censori» e «Deputati» della Crusca, aggiunta per burla. Benché le contestazioni rappresentino altrettanti riconoscimenti della sua fama, discorrendo con l’editore Treves metterà le cose in chiaro: «tu hai torto nel concedermi il diritto d’inventar parole e modi. Di quel diritto io non ho mai usato. Gli Italiani non vogliono ancor persuadersi che io non ho mai adoperato né foggiato un “neologismo”. Tutte le mie parole io le ho tratte dalla più pura fonte materna, sempre […] Nessuna licenza, in fatto di lingua, può essere giustificata sul mio esempio. Io do l’esempio del “purismo” più rigoroso; e me ne glorio […] In questi tempi di futurismo, io resto fedele alla vecchia retorica dei Gesuiti; e credo che l’arte letteraria ha le sue leggi e le sue regole e specialmente le sue tradizioni» (13 aprile 1913).← 23 Sul «sangue sublime», sintagma ripreso da Novalis (Inni alla Notte e Canti spirituali, Lanciano 1912, p. 108), cfr. un aneddoto, che soggiace a questa considerazione, consegnato a una carta di laboratorio (APV, ms. 12793): «Nulla più mi turba e mi esalta quanto la manifestazione subitanea della virtù di sangue. – Un giorno galoppavo a furia sulla riva del mare, e il mio levriere seguiva il cavallo a paro con i suoi slanci stupendi. Come sulla riva era una carogna, il cavallo fece uno scarto e toccò col suo ferro un piede del cane che si mise a guaire sollevando la

gamba che pareva spezzata. / Tornai indietro, frenando il cavallo. Ma, come il cavallo vide la carogna, si diede di nuovo alla corsa sfrenata. E il povero levriere – generoso – pur con la sua gamba rotta si gettò dietro di lui e lo raggiunse e corse per un gran tratto latrando – spinto dalla generosità del suo sangue. / Io l’adorai per questo» (Di me a me stesso, pp. 31-2).← 24 Il riferimento al «Dialogo» Il Gonzaga o del piacere onesto (I, 61) si mescola qui a una citazione da Novalis: «sensualità rapita fuor de’ sensi» replicata poi, con piglio polemico, nel Libro segreto: «O prosuntuosa asinità dei giudicatori: di tutti! / Una gentildonna ieri scriveva dell’arte mia a una mia amica questo: ‘la vita, la vera vita in una forma di poesia che è la vita stessa.’ / Questo […] vale quel che io medesimo scrissi di me nella Landa: ‘una sensualità rapita fuor de’ sensi’» (Ric., p. 1878). Di sicura utilità interpretativa le carte preparatorie del Proemio: «una compagna per la notte / Vorrei esser martire / Chi sa quale simbolo sublime è il sangue! / un mezzo arcano di trasfigurazione e di deificazione in terra / “rapito fuor dei sensi” / quando gli iddii si mutano in spettri / molte maniere d’esser compreso e incompreso, amato e abominato / un farmaco mescolato» (APV, ms. 16456). Tutt’altro che mnemonico, il rinvio tassiano deriva dall’edizione dei Dialoghi curata da C. Guasti (3 voll., Le Monnier, Firenze 1858; nella biblioteca del Vittoriale con segni di lettura). È probabile che i tre volumi abbandonati alla Capponcina abbiano raggiunto Arcachon grazie a Tenneroni (cfr. la nota 1). Impensabile, infatti, che qui d’Annunzio utilizzi una «biblioteca mentale» (come sostiene B. Basile, D’Annunzio e un Dialogo del Tasso, cit., p. 592), o si limiti a consultare il Tommaseo-Bellini dove alla voce «imbestiare» compare appunto Il Gonzaga: «Onde vorrei che, se piaciuto v’è d’imbestiarlo, vi piacesse finalmente come fa [ma Tasso scrive «fe’»] Dante, deificarlo». Forse già il poeta delle Laudi aveva avvertito il fascino del «Dialogo» e di quanto Tasso sostiene a proposito del mito di Glauco, poiché di questo si tratta nella pagina che ora d’Annunzio ha sotto gli occhi. Bruto e insieme dio, Glauco – conclude Agostino Sessa dopo un lungo argomentare con Cesare Gonzaga – concilia vita attiva e vita contemplativa. «Io mi sono trasfuso nel mito di Glauco», scriveva il poeta all’amico Angelo Conti annunciandogli le Laudi (segnatamente L’Oleandro, poesia poi inserita in Alcyone) il 13 agosto 1900. Sembra comunque il «trasumanare» dantesco (Par. I, 70) il primo motore dell’annosa ricerca intorno a Glauco di cui il Proemio profitta.← 25 La «gentile donna» è certo la Duse, a fianco di d’Annunzio nei primi anni della Capponcina (1898-1903). È qui citata di nuovo, come più sopra, la celebre lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513.← 26 Cfr. T. Tasso, Apologia della Gerusalemme Liberata: «Né dee questa esser detta confusione, perché nella confusione ciascuna perde la sua forma e non n’acquista alcun’altra: ma più tosto mescolanza, per la quale l’istoria ha perduto la forma dell’istoria, e presa quella della poesia […] E perché niuna cosa è più soave della mistura, il poema […] è molto soave» (Prose, p. 420). Citazione che ben si addice alla Vita di Cola di Rienzo. Nel ms. 16486 la citazione da Tasso è accanto all’ovidiana «Naturae ludentis opus».← 27 La formula di «compagna per la notte», tratta da Novalis (Inni alla Notte, cit., p. 101), trova l’analogo in «Donna, resta con me, perché si fa sera» del Notturno (Ric., p. 280).← 28 Provato e riprovato il motivo dei fiori autunnali, cfr. almeno I crisantemi, uno dei Grotteschi e rabeschi della «Tribuna» (21 ottobre 1887): «I fiori d’autunno hanno una grazia e una delicatezza singolari […] risvegliano in chi li contempla una specie di pietà e di tenerezza: la misericordia per li esseri fragili, solitarii ed infermi. […] I crisantemi erano in copia grande […] con l’estremità dei petali a pena a pena soffusa di viola; e rammentavano il pallore della carne di una bimba assiderata» (TN, p. 655). Sul brano giovanile, che anticipa l’«interpretazione visionaria», che d’Annunzio mutua da Shelley e che svilupperà in Alcyone e nelle Faville, cfr. E. Raimondi, D’Annunzio e il Simbolismo (1973).← 29 La battuta sulla bellezza creativa della «vita segreta» (preparata dal ms. 16460: «La natività del dio, del nuovo essere, non è accompagnata se non da un ritmo silenzioso o da un grido»), si ripeterà nelle Faville del 1924: «La forza di espressione e di rappresentazione è in me tanto assidua e potente e impaziente che talvolta mi basta nel silenzio udire un grido laggiù nel campo, un frullo d’ali nel cielo, uno strepito d’acque nel borro, perché tutta la

mia vita si levi in un sùbito e aspiri meravigliosamente e irresistibilmente a prendere una forma d’arte» (Vivo, scrivo).← 30 Cfr. Jacopone, Laudi, 90, 93-4.← 31 «Amimetobio», in greco «vita inimitabile», è per Plutarco quella di Antonio che d’Annunzio attribuisce a sé.← 32 Enumerazione, con sfoggio erudito, dei diversi «cartoni» di Vite a cui d’Annunzio avrebbe potuto dedicarsi, tutte all’insegna dell’eccezione: asceti (Bianco da Siena), artisti (Gentile Bellini), capitani di ventura e condottieri (Filippo Strozzi, Giovanni Vitelleschi). Delle vicende del cornetano Vitelleschi, fatto uccidere da Attèndolo Sforza, è traccia in Cortona III, una delle Città del silenzio di Elettra (cfr. Versi II, p. 395), mentre la «Campagna che n’era cruentata» dai papaveri rinvia alla Spica («papavero ardente», ripetuto ai vv. 9, 49 e 69) e al primo Ditirambo («vidi campo di rossi / papaveri vasto al mio sguardo / come letto di strage, / come flutto ancor caldo / sgorgato da una ecatombe»; vv. 69-73) di Alcyone (ivi, pp. 433 e 445); quindi a Maia, XIII, vv. 1-2: «Papaveri, sangue fulgente / qual sangue d’eroi e d’amanti» (ivi, p. 139). E il rinvio è premeditato, a norma della «disciplina voluntatis» tra poco illustrata, come attesta il ms. 16457: un appunto preparatorio dei versi delle Laudi accorpato a quelli stesi in vista del Proemio. Alcuni dei quali segnalano che d’Annunzio mette in rapporto Bianco da Siena con Jacopone da Todi (e cfr. in chiusa) seguendo le tracce di Amor mistico in San Francesco d’Assisi ed in Jacopone da Todi, il capitolo che Francesco Novati dedica alla Lauda umbra in Freschi e minii del Dugento (pp. 187 sgg.).← 33 Sulla tragica fine di Cola, cfr. più avanti il cap. XL.← 34 Talora ospite alla Capponcina, Tenneroni vi svolgeva mansioni di factotum, occupandosi anche dell’amministrazione: certo più oculato («durettino») di d’Annunzio.← 35 Ironico l’appaiare il «Maestro di cazzuola» al mitico Anfione, musicale costruttore delle mura di Tebe; autoironica la «martellina d’oro» promessa all’ottimo «artiere», visto che ancora nel 1914 d’Annunzio non avrà saldato i debiti contratti con il Romanelli così come con gli altri «artieri» all’opera per le migliorìe della Capponcina. È quanto risulta dalla situazione contabile approntata da Luigi Albertini, curatore delle passività dannunziane. Cfr. in proposito la lettera di Albertini a Ugo Ojetti del 23 marzo 1914, dov’è menzionato fra i creditori il fabbro Giovanni Contri.← 36 L’episodio riguardante Nicola Grosso, fabbro rinascimentale detto il Caparra per la pretesa di essere pagato in anticipo, è nelle Vite del Vasari che non potevano mancare in questo Proemio. Ben nota a d’Annunzio da gran tempo, l’edizione ottocentesca curata dal Milanesi, di cui è traccia nella sua opera sin dal tempo del Piacere (1889), è un recente recupero che va a ingrossare la «Bibliothecula gallica» di Arcachon.← 37 Com’è definita la bronchite nei Consulti medici del Redi, probabilmente intercettati attraverso il TommaseoBellini, che alla voce «bronchi» cita appunto «angustia de’ bronchi de’ polmoni».← 38 Anche al Bracciolini d’Annunzio risale attraverso il solito vocabolario, alla voce «polverino»: «Oriuolo da polvere. Bracciolini Scher. Dei, 16, 6: Il Tempo allora, un certo vecchio asciutto, Senza catarro e come un pesce sano, Rapido come rondine, e che “tutto il giorno sta co ’l polverino in mano”».← 39 Cfr. la nota 15. La modernità è vista con gli occhi «conservatori» di Tenneroni. Alla complicità con l’«amicissimo» risalgono la perifrasi «vecchio Barba» e l’epiteto «guastatore» per il «Tempo» sulla cui bocca ben s’intona poi il virgiliano «lucescit».← 40 Estroso e inventivo, amante del bricolage, al pari dell’amico pittore Francesco Paolo Michetti, d’Annunzio ha veramente cercato di brevettare una ruota senza camera d’aria, come ha del resto brevettato l’«Acqua Nunzia», un’essenza profumata di sua creazione.← 41 Di sapore proustiano il paragone del tagliapietra con l’apostolo Pietro di Masaccio (come ad es. i valletti di Casa Guermantes saranno assimilati agli affreschi di Mantegna). Cfr. più avanti il «bidello» della Crusca e la «vecchiezza di Giotto», che ha l’uguale nella sguattera incinta paragonata alla Pietà di Giotto.← 42 Parole che il Vasari mette in bocca a Michelangelo: «tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e ’l mazzuolo con che io fo le figure». Del resto il settignanese Betti è l’erede degli scultori e architetti rinascimentali nati a

Settignano di cui d’Annunzio sfoggia qui di seguito l’elenco.← 43 Giuseppe Lando Passerini (1858-1932), bibliotecario presso la Mediceo-Laurenziana di Firenze, nel 1911 ha commentato la Commedia dantesca nella preziosa edizione giuntina di Olschki di cui d’Annunzio è il prefatore (cfr. Dante gli stampatori e il bestiaio, nel Compagno dagli occhi senza cigli). In quell’anno Passerini si attiva perché la biblioteca della Capponcina, sequestrata dai creditori, non vada dispersa in una vendita all’asta e contemporaneamente procura all’esule gran parte dei libri che vanno a formare la cosiddetta «Bibliothecula gallica». Gli elenchi dei volumi da lui inviati da Arcachon si leggono in A. Andreoli, I libri segreti. Le biblioteche di Gabriele d’Annunzio, Roma 1993. Quanto all’«uomo della mia materia», cioè il «bidello» della Crusca Luigi Pucci, nelle lettere di Passerini a d’Annunzio (AGV) sono notizie che lo riguardano: «a proposito del Pucci» scrive il bibliotecario a d’Annunzio il 9 luglio 1906 «io penso che sarebbe ben contento di ricevere pel lavoro fatto in circa sette mesi – dal novembre al giugno – trecento lire d’onorario e quaranta lire di rimborso delle spese di viaggio. Per l’avvenire, se tu crederai servirti ancora dell’opera sua, basterà un salario mensile di quaranta lire». Il Passerini fornisce anche consigli sui librai antiquari fiorentini presso i quali acquistare libri rari.← 44 Citazione dall’opera più celebre di uno dei compilatori del Vocabolario degli Accademici della Crusca, Anton Maria Salvini (Prose toscane, Firenze 1715, p. 6; nella biblioteca del Vittoriale). «Il più bel fior ne coglie» è il motto petrarchesco (RVF LXXIII, 36) dell’Accademia della Crusca.← 45 «Frullone» (cassa di legno), «Tramoggia» (imbuto), «Campione» (libro dei conti), come più avanti «buratto» (setaccio), sono termini gergali relativi alla lavorazione del grano, in uso metaforico presso l’Accademia della Crusca. Bastiano de’ Rossi, detto l’Inferigno, è tra i fondatori dell’Accademia e curatore della prima e seconda edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612 e 1623).← 46 Sofferente di reumatismo.← 47 «Serviziale» oltre che bastone significa anche clistere.← 48 Motto di scongiuro che vale «Dio mi salvi e liberi».← 49 Comincia l’enumerazione dei libri rari procurati dal Pucci per la biblioteca della Capponcina: il Furioso stampato a Venezia nel 1584 da Francesco de Franceschi e la raccolta di novelle trecentesche Il Pecorone stampata a Milano nel 1558.← 50 Giovanni Tortoli (1832-1914), letterato toscano e illustre membro dell’Accademia.← 51 Inarrivabile quest’apologo sul possesso carnale dei libri (cfr. più avanti).← 52 Quattrocentesco come la Capponcina il «cancellino», menzionato anche nel Libro segreto.← 53 Il motto è di san Giovanni Crisostomo. Se d’Annunzio l’ha rinvenuto nel Tommaseo-Bellini alla voce «stornello», dove viene citato, di certo ha anche tra le mani gli Opuscoli di San Giovanni Crisostomo, come attesta l’elenco di libri inviatogli dal Passerini (risale al 28 giugno 1912, ma riguarda invii dei mesi precedenti; AGV); Opuscoli già utilizzati nella dedicatoria della Contemplazione della Morte: «la parola del Crisostomo: “che niuno non può essere offeso, se non da sé medesimo”» (Ric., p. 2117). Del resto le carte preparatorie del Proemio s’intrecciano talora con quelle della Contemplazione (cfr. D’Annunzio archivista, p. 273).← 54 D’Annunzio finge scherzosamente di aver trovato edizioni inesistenti: la Leggenda e vita di Santo Guglielmo d’Oringa Eremita è pubblicata nel 1870 dal Chiarini sul Codice Ricciardiano XX, 2224 (Livorno, 200 esemplari in carta a mano); il Trattato di Messer Aldobrandino dal Targioni Tozzetti nel 1871, volgarizzamento trecentesco, anche questo dallo stesso Codice Ricciardiano (Livorno, in 60 esemplari).← 55 Carlo Dati è il secentesco accademico Apatista (lo Smarrito); la «carta forte del Magheri» è quella lombarda del fabbricante cinquecentesco Johannes Antonius de Magris de Bleno; i volumi «giuntini» quelli impressi dalla famiglia Giunta (la prima edizione è a Firenze nel 1497 e mirabili sono anche le edizioni veneziane a cavallo tra Quattro e Cinquecento); i «Testi in carta turchina» quelli della stamperia fiorentina «All’insegna di Dante» di Giuseppe Molini, attiva tra il 1820 e il 1830 (eleganti edizioni di classici in piccolo formato di cui era ricca la biblioteca della Capponcina).←

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Si fa udire qui, nella denuncia dell’incuria conservativa delle nostre più celebrate opere d’arte, il paladino dei beni culturali, su cui cfr. L’Italia come «ornamento del mondo», in A. Andreoli, Gabriele d’Annunzio, Firenze 1987. Sul paragone tra il Pucci e la «vecchiezza di Giotto», cfr. più sopra la nota 41.← 57 L’ingenua Istoria fiorentina del duecentesco Ricordano Malespini contiene alcune favole intorno alle origini di Firenze (su cui si apre La vita di Cola di Rienzo). Qui si allude a quella che riguarda Belisea, moglie del re Fiorino sconfitto da Catilina che quindi la sposò.← 58 Numerosi appunti (cfr. APV, al lemma 1155 x) preparano queste pagine, fra le più alte del d’Annunzio illustratore della propria poetica, di un vitalismo così estremo da confinare con il contrario (qui cimiteriale), segnalato dall’«allegrezza temeraria» di barbara intonazione leopardiana, mentre corpo e anima si confrontano di nuovo come di nuovo si confronteranno nel Libro segreto per giungere all’affermazione perentoria: «Meglio convien credere al corpo che all’anima, meglio alla misura del corpo che alla dismisura dell’anima». Accanto allo gnostico alessandrino del II secolo, che propaga nell’isola di Cipro il suo verbo platonico-cristiano, riaffiora il Rigveda incontrato già nella giovinezza (attraverso Amiel ha raggiunto a suo tempo il narratore del Piacere) nel ms. 16478: «La parola del Rigveda: / Vi sono molte aurore che non sono ancor nate. // Il mondo come ci appare è una specie di scrittura nelle cui lettere si esprimono cose del tutto diverse dai segni, anzi ignote / È fatta da noi e per noi […] Il nuovo centro di gravità della vita: vivere in modo che si possa anelare a rivivere la stessa vita un’infinità di volte – / L’amore della vita. Non alia sed haec vita sempiterna. Questa tua vita è la tua vita eterna». Appunti adiacenti a quelli stesi in un taccuino capitale del 20 luglio 1912: «I rifiuti della vita, i frammenti di utensili, le scorie – un pezzo di ferro, un chiodo torto, una scheggia, un trùciolo, un pezzo di fune, una scatola di latta vuota. Tutto parla, tutto è segno per chi sa leggere – In ogni cosa è posta una volontà di rivelazione. […] Le linee formate dalla disposizione casuale degli oggetti sono una scrittura» (T LXIII, pp. 619-20). Non sorprende poi che alcuni appunti sull’epifania e il coup de dès risultino utilizzati sia nel Proemio che nella Contemplazione della Morte, come il ms. 16475: «Odo passare il mio tema nell’infinita sinfonia dei secoli e dei popoli – […] “Dai morti giacenti sul mio cammino, riconoscerete che io sono il Signore” / L’impurità in tutto ciò che mi s’accosta – / La curiosità è impura / Il fervore / La religione del Divenire / Non esito né indietreggio mai davanti alla Necessità del mio spirito. / Non sarò mai felice perché non vorrò mai riconoscere i miei limiti».← 59 Risentita autodifesa dalle accuse di plagio che da tempo immemorabile hanno colpito d’Annunzio. Né la «vana logomachia» è cessata con l’espatrio, dato che nella «Critica», la rivista di Croce, un’apposita rubrica fissa continua a occuparsi dei plagi dannunziani. All’insistenza sul possesso carnale dei libri si aggiunge la lettura divinatoria (nel Libro segreto d’Annunzio si definirà «bibliomante»). Rivelatori gli appunti che preparano il passo: «Il genio più favorito è quello che assorbe tutto, che si assimila tutto senza arrecare il menomo pregiudizio alla sua originalità nativa, a ciò che si chiama il carattere, ma dando anzi al carattere la sua vera e propria forza e sviluppando tutte le sue attitudini» (APV, ms. 16472). Il riferimento alla Vita è al cap. XXXVIII. «Disgusto», «ira» e «vergogna» suscitavano già al d’Annunzio trentenne le opere composte solo pochi anni indietro: dedicando Giovanni Episcopo alla Serao faceva proprio il motto «o rinnovarsi, o morire» (1892), e ancora il «disgusto di un cadavere putrefatto» gli provocherà Il trionfo della Morte (1894) poco dopo averlo licenziato. Da Ovidio (Metamorfosi XIII, 45-6) proviene la citazione relativa al principe acheo Filotete che, nella spedizione contro Troia, fu lasciato sull’isola di Lemnos a causa di una ferita maleodorante (Ulisse e Diomede lo recupereranno poi alla guerra).← 60 Anche questa riguardante il centauro Cillaro è citazione ovidiana (Metamorfosi XII, 393).← 61 È il Pitagora di Ovidio (Metamorfosi XV, 165-77).← 62 «Messer Pietro» è l’Aretino, di cui si menzionano diversi personaggi della sua opera: si capisce che il «bidello» è prossimo a una metamorfosi.← 63 «Tané» sta per colore scuro: qualificativo più volte impiegato già dal d’Annunzio cronista mondano nella

giovinezza. «Stravizzo» è l’annuale riunione conviviale degli Accademici, come la «Cicalata» è la lettura di brani scherzosi che la concludeva.← 64 In carta blu della stamperia Molini, «All’insegna di Dante», 1829, con illustrazioni di Francesco Poggi.← 65 Si tratta di memorialisti due e trecenteschi che narrano viaggi in Oriente e in Terra Santa menzionati nell’introduzione del Viaggio di Sigoli.← 66 Alla voce «curiosità» il Tommaseo-Bellini cita il Passavanti: «una disordinata vaghezza di sapere, udendo e sperimentando, cose disutili, vane».← 67 Barbariccia è il diavolo rumoroso di Inf. XXI, 139: «ed elli avea del cul fatto trombetta».← 68 Giocata sul bisticcio «Buratto-burattino», non meno che su una recente impresa, la metamorfosi del «bidello». Come riferisce a Treves, d’Annunzio sta fondando un teatro di burattini: «Son costretto a scrivere un elogio dei Burattini in fretta e furia, per prevenire le indiscrezioni probabili dei giornali a proposito della mia nuova impresa. Pubblicherò l’articolo nel Corriere. Sappi dunque che io fondo a Venezia, nel vecchio Sanmoisè (il disegno del resto è antichissimo, rimonta a 15 anni fa), un teatro dei burattini! / Per questo teatro comporrò una serie di drammi e potrò finalmente abbandonarmi alle più sfrenate fantasie. Troverai nell’articolo le ragioni ideali che m’inducono oggi ad attivare il mio antico disegno. Naturalmente, ho trovato subito i “capitalisti” e le trattative sono a conclusione. Vedrai. / Pubblicheremo dunque una serie di commedie, fiabe, balletti, pantomime, tragedie, tragicommedie per burattini» (24 agosto 1912). Sull’impresa mancano ulteriori notizie: mosso dai fili che il memorialista sa manovrare non resta che il Pucci, con la pantomima dei libri.← 69 Sul «mazzamurello», cfr. Il secondo amante di Lucrezia Buti (Ric., p. 1288 e nota) e il Libro segreto (ivi, p. 1727 e nota).← 70 La fine di Agapito Colonna è narrata al cap. XXI.← 71 Cfr. nel Taccuino egiziano, steso nel 1898 alla Kediviale del Cairo, l’elenco dei «maestri calligrafi» (T XXVI, pp. 305-9), utilizzato in Dante, gli stampatori e il bestiaio, nel Compagno dagli occhi senza cigli.← 72 D’Annunzio contrappone qui la memoria involontaria («flutto errante di poesia») alla «disciplina voluntatis» («resistenza dell’arte volontaria»). Al di là di quanto abbia potuto conoscere del Bergson di Matière et mémoire, sembra agire presso il memorialista l’antica lezione di Schopenhauer. Del resto il ritorno al passato, la memoria dell’autunno 1905, è continuamente ricostruito attraverso i Taccuini e quanto di cartaceo conserva delle opere allora composte. La precisione botanica, con i connotati autunnali della Versilia, dell’Appennino pistoiese e della Maremma, ricorre qui al vissuto della scrittura. Non a caso, le carte preparatorie del Proemio sono infoltite da quelle preparatorie di Alcyone, utilizzate a suo tempo solo in parte per il libro di poesia. Cfr. ad es. il ms. 11724, utile per Versilia: «Il sanguine (corniolo) rifiorisce in ottobre – nella Versilia, per i boschi e per le siepi. E il corniolo – fruttifica in settembre – lungo il Limestre nell’Appennino pistoiese tra Ravi e Tirli…». Per le «cannucce pieghevoli» di Bocca d’Arno, cfr. Intra du’ Arni, vv. 30 sgg.: «le canne virenti […] quasi di nodi / prive e di midolle» (Alcyone; Versi II, p. 464).← 73 Poiché componendola il «flutto» poetico cancellava i «rilievi», La vita è disseminata di locuzioni incavate, cioè «incuse», come le immagini che distinguono le monete anteriori al V secolo.← 74 Anche nel Libro segreto d’Annunzio proporrà questo autoritratto relativo alla composizione, nel 1903, di Maia o Laus Vitae, il primo Libro delle Laudi (Ric., p. 1738), di cui si citano alcuni versi (XVII, vv. 664-7).← 75 Poesie di Alcyone composte tra il 1899 e il 1902.← 76 Sugli usurai «scorticatori», cfr. la nota 1. In effetti, i principali creditori di d’Annunzio erano ebrei, come risulta dagli elenchi conservati nell’Archivio Albertini.← 77 Di «cavalleria spirituale» si legge in un appunto preparatorio dove sono motti mistici qui e di seguito utilizzati: «Una maniera d’amore che non si può rompere // Il vero e non rompevole amore // sempre congiunti di compagnia da non poter dividere // per acquistare la cavalleria spirituale // “desideriamo le cose che non si veggiono” / Abate Panunzio // la mente nostra non essendo contaminata da alcuna grassezza di carne // Quel che

il Bianco da Siena chiama “Ottima tenebria” e “lucente tenebrore”» (ms. 16488).← 78 Il discorso di Fra Moriale ovvero Gualtiero di Montreal, cavaliere di San Giovanni di Gerusalemme (nel cap. XXXVIII della Vita), è in realtà ripreso letteralmente dalla Cronica trecentesca (cfr. la nota 125). L’«orazion piccola», come dantescamente d’Annunzio definisce le parole rivolte da Francesco Guidi conte di Poppi a Neri Capponi all’indomani della sconfitta di Anghiari. Sono qui solo alluse, ma ben si attagliano alle disgrazie dell’esule, così come le riporta Machiavelli nelle Istorie fiorentine (V, 35): «La presente sorte […] è a me dolente e misera. Io ebbi cavagli, arme, sudditi, stato e ricchezze: che meraviglia è se mal volentieri le lascio?».← 79 Cfr. la nota 77.← 80 Cfr. Di una pausa musicale nel tumulto di Fiume (Ric., p. 1613): «Al tempo del mio lontano amore per i libri e per i mestieri, mi pare di aver letto in un dialogo di Vincenzio Galilei “sopra l’arte di bene intavolare e rettamente sonare la musica negli strumenti artificiali di corde e di fiato”, o forse altrove, come la figlia di non so più qual cavaliere o console di Roma fosse nata con sei dita per mano ben disposte e in che modo potesse di un simile portento avvantaggiarsi nelle intavolature di liuto il sonatore».← 81 Cfr. la nota 77.← 82 Come testimonia il carteggio inedito tra i due amici (CG e AGV), Tenneroni ha procurato a d’Annunzio, nel corso degli anni, numerose opere petrarchesche, anche in stampe rare (cfr. A. Andreoli, I libri segreti, cit.). Lapo di Castiglionchio è il legista, senatore di Roma, con il quale Petrarca ha intrattenuto rapporti amichevoli. Cfr. F. Novati, Il libro memoriale de’ figliuoli di Lapo di Castiglionchio (1382), Bergamo 1893.← 83 Le «molte maniere» di condividere o di detestare l’artista «inimitabile» verranno poi più volte ribadite. Dopo la guerra e l’avventura fiumana, un d’Annunzio deluso dirà: «bisogna che amici e nemici si rassegnino a lasciarmi quel che c’è in me di lontano e di misterioso e d’inafferrabile» (Sette documenti d’amore, in LA, Ric., p. 641). Con gli anni la scostante ritrosia si farà ben più radicale. Egli è un «enigma», un «mistero», un «segreto», come annota in fitti appunti sulla sua assoluta estraneità nei confronti non solo degli «interpreti vani», ma anche di chi è con lui in dimestichezza e gli vive accanto quotidianamente. Nel ms. 13187 leggiamo: «Quel che c’è in me di misterioso, di sfuggente, di incomprensibile – lasciatemelo»; o nel ms. 12837: «Intorno a me a guatare, a spiare per entro le fenditure della mia anima e a foggiare con ciascuna delle mie parole un mezzuccio per aprire il mio segreto»; che sembra preparare quanto si legge in una Favilla del 1924: «Tutti voi siete intenti a scoprirmi una qualche fenditura per guardarmi dentro, intenti a sorprendere una mia parola che possa servirvi da grimaldello per tentar la serratura del mio segreto». E ancora, nel ms. 11436, datato «4 nov. 1929»: «Consideratemi come un malato da compiangere. / Il genio è un morbo, ma per fortuna – come il morbo sacro – è intermittente. / (Non voglio essere compreso. Nulla temo, se non di non essere incompreso)»; o più tardi, nel ms. 15505, datato «20. II. 1931»: «La interpretazione di me diventa grossolana e goffa anche negli uomini più gentili e sottili»; mentre nel Libro segreto non esisteranno, come invece nel Proemio, «modi per essere conosciuto», anzi: «V’è un inumano piacere nell’esser disconosciuto, e nell’adoprarsi a esser disconosciuto. inumano? forse divino. forse lo conosco io solo. sinceramente io solo so assaporarlo e di continuo rinnovellarlo» (Ric., p. 1739).← 84 Arretrata nel tempo la menzione del «detto» di Vatia da parte di d’Annunzio, che già nel 1906 lo riferiva a Leo Olschki, dopo essere stato suo ospite: «Si può dire a Lei come all’antico Vatia: “Tu solus scis vivere”» (AGV; la lettera è acrona, ma la data si ricava attraverso il carteggio di d’Annunzio con Passerini). Illuminante l’appunto preparatorio (ms. 16484): «O Vatia, solus scis vivere! / Servilio Vatia si ridusse a una sua villa presso il Fusaro, per isfuggire ai pericoli della vita publica in Roma al tempo di Nerone. / Solus scis vivere». A riprova dell’efficace autoanalisi e della lungimiranza del Proemio, il motto di Vatia ricomparirà al tempo della polemica di d’Annunzio contro Mussolini-Nerone, in un passo di evidente autolettura: «Per non esser di continuo interpretato ottusamente e falsato perfidamente di qua come di là dalle Alpi, mi converrebbe formare e divulgare una mia Somma non tomistica e neppur mistica ma leale e chiara. Assegnerò il cómpito a un discepolo attento, a quegli che forse pensa avere io meritato meglio di Servilio Vatia il detto conciso: Solus scis vivere» (LA, Ric., p. 570).←

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Reynaldo Hahn era solito soggiornare ad Arcachon ed eseguire al pianoforte canzoni popolari. Questa, nel gergo della Guascogna, significa: «Io ne sarò sempre il padrone, / pecorone, / io ne sarò sempre il padrone», che qui evidentemente allude in tono polemico alla perdita della Capponcina, come attesta il ms. 16471 dove compare accanto al governo dei cavalli (cfr. la nota 21).← 86 Per la fonte novatiana di Bianco da Siena, qui citato, cfr. la nota 32.← 87 Come attesta il carteggio con Treves, il Proemio non è ancora terminato il 1° novembre 1912, ma d’Annunzio usa datare simbolicamente le proprie opere.← LA VITA DI COLA DI RIENZO 88

I. Si ripercorrono le vicende di cui Dante è protagonista e cantore. Al linguaggio dantesco, nell’aggettivazione («grifagno», «macra») e nelle locuzioni («re da sermone» è ad es. in Par. VIII, 147, «capo di ponte» in Purg. III, 128, «Con l’unghie e coi rostri», Inf. XXI, 69; e cfr. già nella Tregua di Alcyone, v. 45, Versi II, p. 414 e più sotto al cap. X), si alterna quello dei cronisti medievali, con il gusto per il prelievo di tessere d’epoca, quali «rivendicarsi in libertà» per ribellarsi, «capitudini» per capi o «giaco» per corazza di maglia. Notevole l’identificazione di Dante con Ulisse, su cui indulgerà l’esegesi dantesca del tardo Novecento. Del resto a Dante, «artiere», come le maestranze all’opera per gli abbellimenti della Capponcina (cfr. il Proemio), d’Annunzio riserva un vero e proprio culto. Cfr. almeno, oltre all’ode A Dante in Elettra (Versi II, p. 257), Per la dedicazione dell’antica Loggia fiorentina del grano al novo culto di Dante, nell’Allegoria dell’Autunno. Farinata degli Uberti, in apertura, è il fiorentino condannato negli avelli di fuoco tra gli eretici (cfr. Inf. X, 22-51), non avendo il grande ghibellino creduto nell’immortalità dell’anima. Stando all’Istoria fiorentina di Ricordano Malespini (cfr. il Proemio, e la nota 57), alle Cronache di Giovanni Villani e di Dino Compagni (presenti nella biblioteca del Vittoriale con numerosi segni di lettura), Catilina capeggiò invano la ribellione di Fiesole contro Roma. La città venne rasa al suolo da Cesare che ne fece costruire una nuova, Fiorenza, sulle rive dell’Arno, popolata da fiesolani misti a romani, poi in perpetua discordia. Accanto a quelli storici non mancano i rinvii mitologici (al gigante Anteo ucciso da Eracle, che lo strozzò tenendolo sollevato poiché la sua forza proveniva dal suolo) o leggendari; dell’antico sanguinario, della specie di Gengis Kan, si leggeva già nelle Vergini delle rocce: «ho compreso l’alto simbolo che si cela nell’atto di quel conquistatore asiatico, il quale gittò cinque miriadi di teste umane nei fondamenti di Samarcanda volendo istituirla capitale» (Rom. II, p. 154). Il fiorire della cultura e dell’arte al tempo delle Signorie compare attraverso Guido Novello da Polenta o Castruccio Castracani (rievocato secondo il linguaggio di Machiavelli: «I capegli suoi pendevano in rosso […] mirabile nel rispondere e nel mordere, o acutamente o urbanamente»; Vita di Castruccio Castracani da Lucca), prima che campeggi, dopo Dante (quasi un passaggio di consegne nella menzione del comune ufficio di ambasciatori), Francesco Petrarca: i favori ottenuti presso i Visconti, i Colonna e Roberto d’Angiò («l’esame triduano del Re da sermone» è ricordato più avanti) gli varranno, nel 1341, l’incoronazione in Campidoglio. «Roma […] vedova» (più sotto «diserta») è formula dantesca che lamenta la cattività avignonese (Purg. VI, 112-3: «Vieni a veder la tua Roma che piange / vedova e sola»; e cfr. anche «vedova frasca» di Purg. XXXII, 50). «Gittare di bronzo» diventerà una tipica formula metaletteraria dannunziana, mentre «vivere ornato» già compariva presso il giornalista militante: «Quale uomo politico oggi mostra di ricordarsi che la vita italiana fu l’ornamento del mondo?» (Della mia legislatura, in «Il Giorno», 29 marzo 1900; SG II, p. 487). «Un mondo caldo di natività urgenti» apre non a caso La vita. Guerra e stragi, congiure e tirannide, esilio e delitti, non configurano secoli bui ma una temperie ferace in cui, «imbevute di sangue», «le radici innumerevoli delle genti» producono «alla ima dell’arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti»: la stessa umanità fitomorfa – i caduti saranno il concime e i mutilati la potatura – destinata a ricomparire con insistenza durante la Grande

guerra che il poeta-soldato saluterà infatti come catastrofe salutare, alba di un mondo nuovo.← 89

II. «Antica madre e donna del mondo» è definita Roma da Matteo Villani, Cronica, con la continuazione di Filippo Villani (cfr. la replica dell’appellativo nel cap. XXXII), che riprende uno stereotipo già nell’Antico Testamento (per Gerusalemme), poi dantesco e petrarchesco. Cantata nelle Vergini delle rocce, la tragica magnificenza dell’Urbe e dell’Agro è ora teatro del «ricco sogno» di Enrico VII di Lussemburgo, alla testa, nel 1311, dei ghibellini italiani, salutato da Dante quale liberatore e restauratore del Sacro romano impero. L’enumerazione, con minuto sfoggio elencatorio, delle famiglie gentilizie di Roma è lo sfondo dell’impresa fallimentare di Enrico VII (a cui non resta che rammemorare antichi fasti: «ripensò con mestizia» l’incoronazione papale di «un altro Arrigo», cioè di Enrico II nel 1012), proposta secondo la toponomastica di chi ben conosce, attraverso Giacomo Boni, gli scavi recenti del Foro, con fitti prelievi, di nuovo, dal linguaggio dei cronisti medievali (in particolare della Nuova Cronica di Giovanni Villani). «Battifolle» sta per bastione, «bucranio» è un fregio a foggia di testa di bue (già nel Commiato di Alcyone, v. 56; Versi II, p. 637), «bertesche» sono le fortificazioni dei merli nelle torri difensive, «piombatoi» le aperture praticate nelle bertesche per consentire il lancio di proiettili o liquidi bollenti, «propugnacolo» sta per baluardo, «bastita» l’intera cinta fortificata di una città, «chiericìa» la comunità dei chierici, qui armati di tutto punto (in senso metaforico, con allusione alle lotte nella curia di Clemente V), «giannetto» agile cavallo di razza spagnola (cfr. più avanti «cavalcare alla giannetta»), «bolzoni e quadrella» frecce e dardi («quadrella» è anche in Undulna di Alcyone, v. 99; ivi, p. 607). L’asfodelo rappresenta un tocco botanico prettamente dannunziano: al fiore violetto dell’Ade sono dedicate una lirica di Alcyone (ivi, p. 558) e una prosa del Secondo amante di Lucrezia Buti, Gli asfodeli dell’Agro.← 90

III. La vicenda dell’incoronazione di Enrico VII e del suo travestimento da pellegrino («romeo»), quindi la narrazione della nascita regale del Tribuno sono nella Vita di Cola di Rienzo / Tribuno del Popolo Romano / scritta da incerto autore del secolo XIV, ridotta a migliore lezione, / ed illustrata con note ed osservazioni storico-critiche / da Zefirino Re / cesenate: / con un comento del medesimo sulla canzone del Petrarca / Spirto gentil che quelle membra reggi, Le Monnier, Firenze 1854, nella biblioteca del Vittoriale con segni di lettura a matita rossa e blu, fonte primaria del nuovo biografo che si serve della «riduzione» toscaneggiante del Re così come delle note erudite e delle Osservazioni storiche che accompagnano il testo (p. 153), superandolo in ampiezza (p. 159) anche perché utilizzano largamente le biografie degli storici, in particolare il Papencordt (Cola di Rienzo e il suo tempo, Amburgo 1841; trad. it., Torino 1844). Nella biblioteca dannunziana si conserva inoltre l’Epistolario di Cola di Rienzo, a cura di Annibale Gabrielli, Forzani, Roma 1890. Nel cap. XXXI sarà Cola stesso, tradendo la propria schietta romanità, a millantare la nascita regale: «Sono figliuolo bastardo di Enrico imperatore»; nascita – osserva il Re – «assolutamente insussistente».← 91 IV. Il termine dispregiativo «vanagloria» anticipa il giudizio di d’Annunzio sul Tribuno, che «reca messaggi» invece di «condurre eventi», «assai più familiare con gli inchiostri e coi vini che col buon succo delle vene virili» (XXII); più avanti «spirito ossesso», «aborto ventoso», «tabellione remunerato» (notaio pagato «con cinque fiorini al mese», come si preciserà più avanti); «notaro smanioso» (XI); «villan rifatto», «giuntatore» (truffatore), «ciarlone […] tronfio» (XV); «falso eroe», «ciurmadore» (XVI); «rètore fatuo» (XVII); «mimo», «cialtrone», «spocchione» (XXIV); «uom delirante», «pusillo» (XXV); «folle figuratore» (XXVII); «istrione stracco e rauco», «rètore sgonfio» (XXVIII); «spirito ventoso e caliginoso», «industre gonfianùgoli» (XXIX); «cianciere floscio» (XXXIII); «paone tronfio» (XXXV); «tardo persecutore», «beone» (XXXVII); «sbracato plebeo», «manigoldo», «matto villano», «sozzo can traditore» (XXXVIII); «poltrone» (LX). Enrico VII muore l’anno stesso della nascita di Cola (1313) mentre muove contro Roberto d’Angiò («andare a oste», perifrasi per guerreggiare, frequentissima nel biografo antico come nel moderno, era già nella Tregua di Alcyone, v. 20; Versi II, p. 413), avendo radunato un consistente esercito composto anche dalle settanta galee

inviate da Genova al comando di Lamba Doria. Il «mare etrusco» è il Tirreno anche nel Meriggio di Alcyone, v. 2 (Versi II, p. 484). Nelle Osservazioni storiche di Re sono le notizie sull’infanzia e l’adolescenza di Cola ad Anagni, dove si serbava il ricordo dello «schiaffo» a Bonifacio VIII (1303). Le vicende della Roma trecentesca, qui rievocate, sono tratte dalla Nuova Cronica di Villani e dalla Vita di Castruccio di Machiavelli, non senza qualche rinvio dantesco (Purg. XX). Nel 1327 Castruccio fu fatto senatore da Ludovico IV il Bavaro. In Giovanni Villani è notizia che: «per leggiadria e grandezza fece una roba di sciamito cremisi, e dinanzi al petto con lettere d’oro che diceano: “È quello che Idio vuole”, e nelle spalle di dietro simili lettere che diceano: “È quello che Idio vorrà”». Sulla «grandissima pompa» di Castruccio e sulla toga di pesante velluto («sciamito», dal latino examentum, cioè tessuto a sei fili) si sofferma anche Machiavelli: «si mise una toga di broccato indosso con lettere dinanzi che dicevano: Egli è quel che Dio vuole; e didietro dicevano: Egli è quel che Dio vorrà». La foggia del sontuoso abbigliamento non sfugge a d’Annunzio, da tempo sulle tracce degli eruditi che ricostruiscono i fasti del nostro passato. Per comporre Francesca da Rimini (1901) ha compiuto studi sui tessuti medievali per esibirli in una scena della tragedia, e, preparando a lungo Parisina (poi composta nel 1912), si avvale delle indagini di De Nolhac e Solerti sui lussi della Corte estense (cfr. A. Andreoli, I libri segreti, cit.). Le «sbarre fatte» sono sbarramenti a barricata, le «grasce» gli approvvigionamenti.← 92

V. Le vicende di Ludovico il Bavaro, di Giovanni XXII e dell’antipapa Nicolò V sono tratte dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, mentre nelle epistole di Cola è notizia del suo incontro con i penitenti di Venturino da Bergamo, predicatore domenicano e flagellante (cfr. più avanti). I «Battuti» sono i riformisti francescani a cui appartenne anche Jacopone da Todi. «Dalla cintola in su» è citazione dantesca (Inf. X, 33).← 93

VI. La studiosa giovinezza di Cola, «consacrata alla ricerca assidua e taciturna», dove «taciturna» è il termine chiave dell’apprezzamento (anche più avanti quelli giovanili sono «taciti anni»), è già contrapposta al suo destino fallimentare di «rètore facondo», di Tribuno che si affida alla parola e non all’azione. Cfr. il passo del biografo antico su cui d’Annunzio fonda il chisciottismo di Cola: «Fu da sua giovinezza nutricato di latte d’eloquenza; buono grammatico; megliore storico; autorista buono. Oh come e quanto era veloce leggitore! Molto usava Tito Livio, Seneca, Tullio e Valerio Massimo; molto li dilettava le magnificenzie della vita di Giulio Cesare raccontare; tutta la die si speculava ne l’intagli di marmo, li quali giacciono intorno a Roma; non era altri che desso, che sapesse leggere li antichi pitaffi; tutte scritture antiche vulgarizzava, queste figure di marmo giustamente interpretava» (p. 18). Dalle lettere di Cola provengono le notizie sulle sue letture, qui fedelmente elencate. Sulla cultura di Cola si soffermerà anche Petrarca in una testimonianza tanto più significativa in quanto risalente agli anni, ormai, del tramonto del Tribuno. Il 10 agosto 1352 scriveva appunto: «se tu volessi sapere quel ch’io ne penso, ti direi esser Niccola di Lorenzo uomo eloquentissimo, al persuadere efficace, al parlare spedito, e scrittore puranche soave e lepido, non di copiosa, ma di gentile ed elegante dicitura. De’ poeti cred’io non avvene alcuno cui letto ei non abbia» (Lettere di Francesco Petrarca, delle cose familiari libri 24, lettere varie libro unico, ora la prima volta raccolte e volgarizzate da Giuseppe Fracassetti, 5 voll., Le Monnier, Firenze 1863-67, libro III, XIII 6, p. 233; nella biblioteca del Vittoriale, il passo è segnato da d’Annunzio ai margini con matita blu).← 94

VII. Drastica la condanna del Tribuno da parte dell’assiduo lettore degli Eroi di Carlyle. All’altezza del 1905, ormai lontano dal Superuomo nietzschiano, d’Annunzio emette la sentenza – «fumo» e non «fuoco» – che fa di Cola un «falso eroe» (così infatti più avanti all’esordio del cap. XVI), guastato, al pari di Don Chisciotte, dalle troppe letture (è significativo che la conoscenza delle «antiche storie» gli serva a «foggiare ciurmerie»; cap. XXXVII). La «folgore favoleggiata» – nel riportare l’episodio relativo alla battaglia di Filippi – replica una formula più volte ritornante nella prosa dannunziana (cfr. ad es. «metamorfosi favoleggiata» nel Piacere; Rom. I, p. 6).←

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VIII. Entra in scena Petrarca, di cui si cita letteralmente l’esaltazione di Cola, nelle Varie (Fracassetti V, 48: A Cola Di Rienzo e al popolo romano, p. 409; V, 40: A Cola Di Rienzo, p. 359, con segni a matita blu nel margine dei passi citati). Orso dell’Anguillara, cultore di poesia («amico delle Camene») e la moglie Agnese Colonna ospitano il poeta a Roma nel 1336-37, quando incontra per la prima volta Cola. A una passeggiata romana con Giovanni Colonna da San Vito si riferisce una delle Familiares (VI, 2, p. 114), anch’essa qui citata («dove tre volte sdegnosa ai padri si ritrasse la plebe»); e citato apertamente per la prima volta è anche il «biografo antico» a proposito della «penna di fino ariento», metafora della scrittura, «scettro» fallimentare di Cola (di cui si dice anche più avanti: «notaro dalla penna d’argento»; «ripresa tra le dita la sua penna d’argento»); e a proposito del «riso fantastico», dove «fantastico» sta per folle, come giustamente interpreta d’Annunzio insieme con il biografo antico, che definisce «matto» il Tribuno (Vita, p. 88; cfr. anche, più avanti, «la pazzia del notaro» e «demenza»), aggiungendo però di suo le «labbra sporgenti», tipico connotato dell’ebetudine d’impronta verista. Sulla pazzia di Cola interviene anche il Re, che si avvale del giudizio, in proposito, di Tiraboschi e di Gibbon (cfr. la Prefazione alla Vita, pp. 8-9). Sempre il biografo antico riporta che Cola conservava «uno specchio di acciaio molto pulito con caratteri e figure assai», mentre Re precisa in nota che si tratta di un reperto tombale etrusco: «in quei secoli superstiziosi vi si credeva celato uno spirito indovino». Ancora dello specchio divinatorio, così consono all’«evocatore delle Ombre», si dice più avanti (cap. XV). Cola è presente all’incoronazione di Petrarca in Campidoglio, nel 1341, con l’«Arbor victorïosa triumphale» (RVF CCLXIII, 1). Nel complesso, il capitolo risulta sottilmente parodico e Petrarca («il gran prete di Laura» per il d’Annunzio del Libro segreto), che pure apre il Rinascimento, vi appare quasi come un corruttore, in parte responsabile della megalomania del Tribuno, nei confronti del quale nutre un’ammirazione definita «delirante» dal Fracassetti, che rileva la quotidianità delle lettere che il poeta invia al suo idolo («Non desinam quotidie tibi scribere»; cfr. la nota alle Familiares VII, 7, pp. 190-6). Sulle citazioni petrarchesche nel testo dannunziano, cfr. P. Gibellini, D’Annunzio e Petrarca, in «Humanitas», 1, gennaio-febbraio 2004, pp. 97-102.← 96

IX. Sul soggiorno avignonese di Cola la narrazione del biografo antico è straordinariamente vivida: «Certo è però che egli gio in Avignone per ambasciatore a papa Clemente per li tredici buoni uomini di Roma. La sua diceria fu sì avanzerana e bella che subito ebbe innamorato papa Clemente: molto ammirava papa Clemente lo bello stile della lingua di Cola: ciasche die vedere lo vole: allora si distende, e dice: che li Baroni di Roma sono dirubatori di strade, essi consentono le omicidia, le ruberie, le adulteria ed ogni male; essi vonno che la loro cittade giaccia desolata. Molto concepèo lo papa contro li potenti: poi a richiesta di messer Giovanni della Colonna cardinale venne in tanta disgrazia, in tanta povertade, e in tanta infermitade, che poca differenzia era da gire a lo spedale con suo giubbarello addosso: stava al sole come biscia: ma chi lo pose in basso lo inalzò, cioè messere Giovanni della Colonna lo rimise d’innanzi al Papa: tornò in grazia, fu fatto notario de la Camera di Roma, ebbe grazie e benefici assai, a Roma tornò molto allegro» (pp. 18-9). Annota in proposito il Re: «Sul finire del 1342 […] il popolo romano sollevatosi scacciò i senatori Bernardo Orsini e Giovanni Colonna vicario del proprio padre Stefano e conferì il sommo potere a tredici detti buoni uomini (boni viri) che esercitarono l’autorità a nome del Pontefice» (Re, Osservazioni storiche, cit., p. 331). Clemente VI, il francese Pierre Roger (il «Limosino ornato di buone lettere»), non accoglie le richieste romane, che Petrarca traduce in trecento esametri tuttavia ricompensati con il priorato pisano, ma favorisce in un primo tempo l’ascesa di Cola, come la favoriscono le travagliate vicende del Regno di Napoli (la morte di Roberto d’Angiò e la successione di Giovanna, ritenuta complice dell’omicidio del marito, Andrea d’Angiò, su cui cfr. più avanti i capp. XVIII, XXVIII e XXXI). L’esordio del Tribuno, in veste di ambasciatore ad Avignone («Babilonia provenzale» secondo Petrarca che qui incontra Cola; cfr. la nota 118), è reso con l’iniqua «abondanza» dell’Epistola al Senato e al Popolo Romano (29-31 gennaio 1343; Epistolario, p. 3), citata come esempio di «infatuazione lirica»: quasi un contagio petrarchesco. E infatti, parallelamente,

l’infatuazione di Petrarca per Cola occupa il capitolo che gli dà voce con l’epistola al popolo romano, Apud te quidem, e con quella, Dum sanctissimum, al suo idolo (Fracassetti III, pp. 238-45 e II, p. 199). Il cardinale Giovanni Colonna, che morirà tra poco (1348), è lo studioso cantato da Petrarca insieme con Laura, anch’essa morta in quell’anno (RVF CCLXIX, 1): «Rotta è l’alta colonna e ’l verde lauro».← 97

X. La «fortuna» è qui menzionata in accezione machiavelliana (cfr. la clausola del cap. XVII e quindi, nel cap. XXXVIII, «i forti aiuta sebbene è fallace»), non diversamente dal Cola-volpe che «volpeggia», ma non è «leone», in quanto «imbelle» e «senza ugne e senza rostro» (per il dantismo, cfr. più sopra la nota 88). L’«ancile» di Numa è lo scudo lasciato cadere da Giove di cui parla G. Villani: «Al tempo di Numa Pompilius per divino miracolo cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio, per la qual cosa e augurio i Romani presono quella insegna e arme» (Nuova Cronica II, 3). Per il «lagno petrarchesco» sul Rodano etimologicamente «roditore», cfr. RVF CCVIII, 1-2: «Rapido fiume che d’alpestra vena / rodendo intorno, onde ’l tuo nome prendi»; come petrarchesca è la citazione latina. Degli affreschi avignonesi in Notre Dame des Doms di Simone Martini, eseguiti nel 1339 per conto di Benedetto XII, e del ritratto di Laura, d’Annunzio potrebbe aver appreso dallo stesso Re, autore di uno studio sui Ritratti di Madonna Laura (1857). È in proposito citato il sonetto LXXVIII, 1-2 del Canzoniere: «Quando giunse a Simon l’alto concetto / ch’a mio nome gli pose in man lo stile». «Giubberello», diminutivo di giubba, è qui contrapposto a «camauro», il berretto papale di velluto rosso orlato di ermellino. All’abbigliamento di Cola è dedicata la massima attenzione: compare così, volta a volta, «in guarnacca e cappa alemanna e cappuccio alle gote di fino panno bianco, portando bizzarramente in capo un cappelletto emblematico» (XI); in «lunga cotta color di fiamma», dal «giubberello sbrendellato» di un tempo passa alla magnificenza del «velluto mezzo verde e mezzo giallo foderato di vaio» (XIV); «in gonnella bianca», «vestito di scarlatto e di vaio» (XVI); «Con diadema d’argento e speroni d’oro» (XVII); «ferrato e scettrato in dalmatica […] sopra l’arme in guisa di sorcotto» (XVIII); in «cotta cremisina» (XXII); in «guarnacche di sciamito e di vaio» (XXIX); «pomposamente rivestito di guarnacca e cappa scarlatta foderata di vaio» (XXXIV); «con suo cappuccio in canna di scarlatto e con cappa di scarlatto foderato di panze di vari» (XXXV); fino al capitolo conclusivo, quando prima il Tribuno confida nel potere dell’«apparato», e veste «tutt’arme a modo di cavaliere» («si cinse il panzerone e il batticulo in tutto il tondo, […] si calcò la barbuta su la cuticagna»), per poi spogliarsene e così rendendosi vilmente irriconoscibile: cosparso il viso di fuliggine «tolse un tabarro consunto e di quello s’inviluppò» (XL).← 98

XI. Viene ripresa letteralmente la Vita (p. 20): alla «sonante gotata» del camerlengo Andreozzo di Normanno si aggiunge la «coda» dello «scriba-senato» Tommaso Fortifiocca – «un segno di spregio (per d’Annunzio «scherno priapèo»), che si fa battendo una mano nel braccio» commenta il Re in nota, e magari si aggiunge «un bel tò». Sempre nella Vita sono le iniziative figurali di Cola (pp. 21-30), che passa dal ruolo di istrione e demagogo dalla parola ornata a quello di comunicatore per immagini, quasi un contastorie di piazza (più sotto è definito «folle figuratore», cap. XXVII). Nel cap. XVIII Giordano e Rinaldo Orsini saranno dipinti su una parete del Campidoglio «col capo in giù» e a Cola stesso toccherà ugual sorte figurata oltre che reale. Lo «spaccio di frottole bubbole e pastocchie» è rivolto alla plebe incolta come il distico rimato e lo slogan del «cartiglio» (così d’Annunzio traduce «cedola») appeso sulla porta di San Giorgio in Velabro, presso la Cloaca Massima. Più espressivamente nel biografo antico: «Scrisse una cedola e ficcolla ne la porta di santo Giorgio de la chiavica»; il quale avverte che «li baroni si crepavano dalle risa», quando ritrae il Cola «conviva» alle mense dei nobili dov’ è trattato da giullare, ingrassato come un maiale ben «saginato» (foraggiato), degno di Norcia («epa» per pancia è in Inf. XXX, 119), a cui d’Annunzio rimprovera la «floscia carne sedentaria», come ribadirà nel cap. XXVII che esplicitamente rinvia all’XI rivelando la forza costruttiva del biografo moderno rispetto all’antico: «E parve così quasi avverarsi quell’augurio dei lepidi patrizii a cena, quando lui presagirono principe di Norcia se non imperador romano». Il peccato del Tribuno consiste nell’essere uomo di penna e di parola e non d’azione.←

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XII. La narrazione procede seguendo sempre il testo del «candido cronachista» che descrive più una processione, folta di gonfaloni e di simboli, che un colpo di mano (cfr. più sotto la «solita mascherata allegorica», cap. XVI). Il «Gracco della Regola», Tribuno, dunque, per antonomasia, acquista il potere senza spargere sangue, profittando dell’assenza di Stefano Colonna, suo acerrimo nemico, che appunto lo scalzerà. Lo stesso Cola vorrà poi sottolineare che la sua rivoluzione avviene nel giorno della Pentecoste (20 maggio 1347), mentre d’Annunzio rimarca che «Su l’ora di mezza notte» del 19 maggio «udì trenta messe dello Spirito Santo». Il Tribuno intende tradurre in atto le parole della messa pentecostale: «Mitte Spiritum Sanctum tuum et renovabis faciem terre». Sugli intenti religiosi e riformatori di Cola, cfr. il fondamentale K. Burdach, Riforma – Rinascimento – Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, Firenze 1935, pp. 15 sgg.← 100

XIII. Campeggia la figura di Stefano Colonna «il maggiore» (eroe vero, contrapposto al falso-eroe Cola), le cui vicende riminesi e ravennati d’Annunzio ben conosce attraverso gli studi compiuti nel 1901 per Francesca da Rimini (cfr. A. Andreoli, I libri segreti, cit.). La longevità del «nonagenario» («ossa […] quasi centenni», rileverà più avanti, sulla scorta di Petrarca, al cap. XXXVII quando ne menziona la morte, anche se il Re lo dice morto a 81 anni) consente la narrazione retrospettiva della rivalità fra i Colonna e i Caetani, che richiama quella tra Silla e Mario (cfr. nel Ditirambo I di Alcyone: «… a Minturno ov’erra / nel limo l’ombra di Mario», vv. 51-2; Versi II, p. 444): notizie apprese nelle Osservazioni storiche di Re, che segnala la presenza di Jacopone da Todi, «giullare di Dio» a Palestrina, a fianco dei Colonna, e da cui il biografo moderno preleva le diciture antiquarie («targa» per scudo, «càssaro» per castello fortificato o «tenitorio» per distretto). A Dante rinvia Bonifacio VIII, «principe dei nuovi Farisei» (Inf. XXVII, 85), mentre Petrarca è chiamato in causa a proposito del vecchio Colonna attraverso le Familiares (A Stefano Colonna seniore, nelle Familiares VIII, 1; Fracassetti II, pp. 268 sgg.), con una citazione che anticipa le vicende, poi infatti ripetuta nel cap. XXIII.← 101

XIV. È ancora ricalcato fedelmente il biografo antico (cfr. le pp. 39-44), con l’aggiunta del Petrarca delle Varie, citato alla lettera (cfr. Fracassetti V, p. 407).← 102

XV. Più vivida, rispetto alla fonte, la narrazione di d’Annunzio, che calca la mano sulla crapula del «villan rifatto» (cfr. nella Vita: «cominciò a moltiplicare cene, conviti, crapule di diversi cibi e vini, e di molte confezioni»; pp. 52-3), del «giuntatore» (truffatore), il quale riesce a «ciurmare (incantare) il mondo» – crapula mista di crudeltà, come di satrapo senza grandezza, indegna della tradizione romana (cfr. il dispregiativo «tirannello», XVII, e «senza il nerbo della tirannia», XXXIX). Sul parentado profittatore, cfr.: «Avea questo Cola una sua moglie giovane e bella, la quale, quando giva a santo Pietro, giva accompagnata da giovani ornati; de le patrizie la seguitavano; le fantesche con li sottili pannicelli nanti al visaggio le facevano vento; e industriosamente rostavano, ché sua faccia non fosse offesa da mosche. Avea un suo zio, Gianni Barbieri avea nome, barbiere fu, e fatto fu grande signore, e fu chiamato Gianni Rosso; giva a cavallo forte accompagnato da cittadini romani; tutti li suoi parenti givano a paro. Avea una sua sorella vedova, la quale volse mariare a barone di castella» (p. 65). Anche l’uccisione del notabile idropico è ricalcata: «Martino di Porto, nipote del cardinale di Ceccano […] pigliò per moglie una nobilissima femmina, madonna Masia degli Alberteschi, la quale molto era bella ed era rimasta vedova. Stette con quella nova sua donna forse un mese […] cadde in pessima infermitade ed incurabile: li medici lo dicon ritropico: suo ventre era pieno d’acqua, come botticello pareva; piene le gambe, lo collo sottile, e la faccia macra, e la sete grandissima; liuto da sonare parea. Stavasi in casa quietamente rinchiuso, e faceasi medicare da li fisici. Quest’omo così nobile, sotto specie di securitade, infermo a morte, per terrore di tutta l’altra gente, fecelo pigliare ne la propria casa, ne le mani de la sua donna, nel palazzo canto lo fiume di Ripa, armata mano, e fecelo menare a Campidoglio. Poiché là a Campidoglio fu lo barone latrone condotto, era forse ora nona. Non fece dimoranza, sonò la campana a stormo, lo popolo fu adunato, fu Martino dismantato de la sua cappa […] nel piano di

Campidoglio fu appeso; sua donna da lunga per li balconi lo potea vedere. Una notte e due dì pendèo ne le forche» (pp. 44-6). Certo più vivida, ma di un’altra vividezza, linguistica e non sintattica – per «amor sensuale della parola» –, la pagina di d’Annunzio, che qui molto aggiunge e quasi sempre felicemente, come accade con lo zio barbiere, ritratto mentre va «burbanzoso cavalcando a gambe larghe con iscorta d’onore», o con l’idropisia di Martino di Porto che, già dantesca nella fonte (per l’«epa», anche nel cap. XI, come «liuto», cfr. Inf. XXX, 49: «fatto a guisa di leuto»), lo diviene ancor più: «enfiato a dismisura» replica puntualmente «quel ch’ avea infiata l’epa» (ivi, 119), senza contare il «tristo sacco pien d’acqua morta» (ivi, 122: «acqua marcia») che suggella l’episodio. Ma dolorose sono a volte le rinunce. Se d’Annunzio inserisce «bucinato» per vociferato, si priva poi di «dismantato», che diviene «spogliato della sua cappa», o di «Non fece dimoranza» banalmente reso con «senza indugio». A proposito di «bucinare», il Gibellini sottolinea l’antimanzonismo della scelta dannunziana: il «si bucina» della Ventisettana diventa «si viene a sapere» nella Quarantana (cfr. G. d’Annunzio, La vita di Cola di Rienzo, Milano 1999, Introduzione a p. XXIV). L’impiccagione di Martino di Porto ritornerà nel cap. XXXIX, quando si narrerà il supplizio di Fra Moriale, il masnadiero scampato un giorno proprio dalla pirateria del nipote del cardinale di Ceccano. Per il Salmo «usurpato» in clausola, cfr. 95, 13: «iudicabit orbem terrae in aequitate / et populos in veritate sua».← 103

XVI. La cerimonia del cavalierato («Miles Candidatus Spiritus Sancti», il 1° agosto 1347, da cui l’appellativo di «Augustus» che fa salire il titolo tribunizio a rango imperiale) è ripresa, del resto tra virgolette, dal biografo antico, che parla di «buffonìa» («mascherata allegorica» per d’Annunzio). Sul bagno lustrale nella «conca» di Costantino, cfr. K. Burdach: «Il Rienzo […] si considerava erede di Costantino; egli fece il lavacro che lo consacrò a candidato e cavaliere dello Spirito Santo nella vasca battesimale dell’Imperatore. Si considerava erede, ma anche antagonista di Costantino come rinnovatore dell’antica Roma, romana, di contro alla nova Roma greco-orientale sul Bosforo» (Riforma, cit., p. 67). Solo dannunziana è l’evocazione di Boccaccio: il capitolo si chiude così con la comicità suscitata dal Certaldese, di cui si citano due novelle della prima giornata del Decameron, in ordine la II e la I, mentre l’accenno alle ambascerie a Ravenna e a Forlì rappresenta un tocco erudito al quale d’Annunzio non rinuncia. Su d’Annunzio e Boccaccio, cfr. A. Andreoli, D’Annunzio e il falso-antico, in «Studi sul Boccaccio», XXXII, 1998.← 104

XVII. «Stomachevole», più che comica, la cerimonia dell’incoronazione il successivo 15 agosto, anch’essa ricalcata sul biografo antico e sul commento del Re. Titubante e pauroso, Cola diviene emulo dei «tirannelli» di Romagna e della Marca trevigiana (si nominerà Ezzelino da Romano) ma – «tardo persecutore» ( ) – senza giungere alle estreme conseguenze (il mancato tradimento dei convitati non è qui che un presagio del tradimento contro il governatore di Viterbo; cfr. cap. XIX). Il capitolo si chiude su considerazioni puntualmente machiavelliane (cfr. cap. X), che prendono però avvio da quanto afferma Petrarca: «quello che volle non seppe così come doveva, e come le necessità dei tempi imponevano, fermamente volere; ma fattosi della libertà promotore, mentre tutti poteva ad un colpo ucciderne i nemici (ventura ad alcuno altro imperante mai non concessa da propizia Fortuna), tutti egli lasciolli uscire, e tutti armati. […] poteva almeno i mezzi tutti di nuocere e spezialmente le superbe rocche loro ritorre, perché così lasciati in vita, ma inermi, a Roma o di nemici divenissero cittadini, o di pericolosi che furono, si rimanessero nemici dispregevoli ed impotenti» (lettera al Nelli in Familiares XIII, 6; Fracassetti III, p. 230). Lo stesso si legge nella canzone Spirto gentil: «Rade volte adivien ch’a l’alte imprese / fortuna ingiurïosa non contrasti» (RVF LIII, 85-6). Il Re dedica un intero capitolo alla canzone petrarchesca per dimostrare che il dedicatario è Cola e non, come secondo alcuni studiosi e commentatori, Stefano Colonna (cfr. Sulla canzone Spirto gentil, pp. 325 sgg.). In effetti, pur urtando «contro ostacoli insuperabili», e benché il destinatario più probabile della canzone sia Bosone da Gubbio, «il nome di Cola non può essere espunto completamente […] Di essa, infatti, Petrarca si ricorderà negli scritti dedicati al Tribuno circa un decennio dopo,

in modo particolare nel Bucolicum Carmen V e nella celebre hortatoria (Varie 48); e anche Cola cercherà di sfruttare questo testo a scopi propagandistici, sia nelle lettere, sia, a quanto pare, nelle istruzioni date ai suoi collaboratori» (F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano 1996, p. 276).← 105

XVIII. La Rocca di Marino, sui colli Albani nei dintorni di Roma, è l’epicentro dei baroni rivoltosi che si preparano alla guerra, mentre Cola compra sete fiorentine (dell’Arte di Calimala) e detta lettere nell’osservanza della duecentesca Rhetorica novissima di Boncompagno da Signa. La vicenda del messaggero maltrattato ad Avignone (nei cui pressi scorre il fiume Durenza) è deplorata in Quid hinc humanitas, una lettera di Petrarca a Cola (Familiares VII, 7; Fracassetti II, p. 201: «ad un de’ tuoi recarono ingiuria, e quello che più è degno esser notato nell’atto barbaro, lo fecero per recare ingiuria a te, non come a te, ma come a difensore della libertà e della giustizia»), il cui esercito «raccogliticcio», formato più da predoni («saccomanni») che da soldati, giustifica gli epiteti di «guastatore» e «devastatore». Per i due Orsini dipinti «col capo in giù», cfr. cap. XII. Accentuano la risibilità del «tirannello», che indietreggia di fronte al legato papale Bertrand de Deux, i due cani battezzati come i due baroni nemici e poi annegati con grottesca imitatio: se più sopra è Cola il «Severo» (secondo l’autodefinizione del Tribuno: «Nicolaus Severus et Clemens, libertatis pacis iusticieque Tribunus et sacre Romane republice liberator» (così anche Petrarca nella lettera al Nelli: «due cognomi […] s’era dato, severo e clemente», Familiares XIII, 6; Fracassetti III, p. 230), ora per d’Annunzio è Cola il «Superbo», con esplicito rinvio ai re dell’antica Roma. «Quelli delle “ficora fresche”» è sineddoche dantesca («quel dalle frutta», Inf. XXXIII, 119) che, mentre non rinuncia a citare il plurale romanesco assai frequente nel biografo antico («molinora» per mulini o «lucora» per boschi, e in d’Annunzio è già la lezione «pratora» per prati nella Tenzone di Alcyone, v. 3; Versi II, p. 458), rivela il biografo moderno, addestrato dalla narrativa naturalista in cui spesso il personaggio è reso per sineddoche e proprio con la formula «quello di».← 106

XIX. Il biografo antico definisce più volte Cola «patarino», ovvero eretico (dal movimento riformatore lombardo del sec. XI, il cui nome deriva da un omonimo quartiere di Milano). La «campana patarina» del Campidoglio sembra annunciare il lugubre misfatto: il «Prefetto», cioè governatore di Viterbo per conto del papa, viene ucciso e depredato, secondo il rituale proditorio reso proverbiale dal dantesco frate Alberigo (Inf. XXXIII, 119: «quel dalle frutta del mal orto» che, in discordia con certi suoi parenti, finse di volersi con loro rappacificare invitandoli a un banchetto ma, quando comandò che venisse servita la frutta, li fece uccidere, seduti com’erano a mensa), inserto tutto dannunziano, in parte già alluso nell’episodio in cui campeggiavano le «ficora fresche» (cap. XVIII). Anche la ritirata strategica dei baroni è ampliata e arricchita di dettagli narrativi, come la specificazione dei «feditori in antiguardo» (cavalieri armati alla leggera) che introduce il protagonismo dei due Colonna, Stefano «iuniore» e il figlio di lui, Gianni (dunque nipote di Stefano «seniore», «occhio del vegliardo», cioè prediletto), vittime imminenti.← 107

XX. Dantesca la melma dove i cavalli affondano fino alla rotula («grascella»), qui appunto «belletta», come in Inf. VII, 124, canto limitrofo a quello che d’Annunzio ha solennemente commentato in Orsanmichele nel gennaio 1900 (cfr. Per la dedicazione della loggia del grano al novo culto di Dante, nell’Allegoria dell’Autunno) e che già è riaffiorato in Alcyone, Nella belletta (Versi II, p. 565), ora infatti «negra»: «ci attristiam nella belletta negra». Dantismo è inoltre «inguinaia» per inguine (Inf. XXX, 50, come poi «ventraia»), «pettignone» nel biografo antico, di cui viene ripresa la complessità psicologica. Il «popolo furioso senza ordine, senza legge», che d’Annunzio traduce con «pedonaglia» e «canaglia», sorprende Gianni Colonna: «intendendo che esso era solo; anco fu più la sua disavventura; lo suo destriero lo trasportò in una grotta poco più là de la porta del lato manco, entrando la porta; in quella grotta fu scavalcato da cavallo; conoscendo Gianni la sua disavventura domandava al popolo misericordia, e adjurava per Dio che sue armature non se li dispoliassero. Che vo più dicendo? là fu

denudato, e, dateli tre ferite, morio. Fonneraglia di Tejo fu il primo che lo colpìo; giovane era di buona indole, barba non avea messa, la sua fama sonava per ogni terra di virtude e di gloria; giace nudo supino ferito e morto in un monterozzolo canto lo muro de la cittade drento la porta; erano suoi capelli caricati di loto, e a pena si poteva riconoscere. Ora vedi meraviglia! incontanente lo tempo pestilenziale e turbato si cominciò a rischiarare, lo sole dava lucenti raggi, da tempo caliginoso fu fatto sereno ed allegro. / Fra tanto Stefano de la Colonna in tanta moltitudine, la quale ordinatamente veniva dinanti a la porta, teneramente domandò del suo figlio Gianni, e risposto li fu: noi non sappiamo che aggia fatto, né dove sia gito. Allora sospettò Stefano che avesse entrato la porta. Perciò spronò e solo entrò la porta, e vidde che lo figlio giacea in terra in mezzo di molti, che l’uccidevano intra la grotta e lo pantano dell’acqua. Di ciò Stefano temendo di sua persona, tornò a retro, escìo la porta, e la sua mente razionale l’abbandonò; fu smarrito, l’amore del figlio lo convinse, e non fece parola alcuna; anco tornò, ed entrò la porta, se per via alcuna poteva suo figlio liberare. Non si approssimò, ché conobbe che il figlio morto era, e attendeva a campare la sua persona; tornò a retro tristo, e nell’escire che fece de la porta venne di sopra dal torricello una grossa macina, e percosse esso nelle spalle e lo cavallo ne la groppa; ora lo seguitano le lancie lanciate di là e di qua; lo cavallo ferito nel petto di lancia gettava calci, e tanto spesso, che, non potendosi mantenere a cavallo, caddéo per terra. Di subito viene lo popolo senza ragione, e sì l’uccide in fronte de la porta, in quel loco dove stanno le immagini ne la parete in mezzo a la strada. Là giacque in veduta ad ogni popolo e a chi passava; non avea uno de’ piedi, molte ferite avea, fra lo naso e li occhi avea una ferita e sì terribile apertura, che parea lo guado de le gote del lupo; suo figlio Gianni ebbe solo due ferite nel pettignone ed una nel petto» (pp. 92-3).← 108

XXI. Anch’esso vittima della «razzumaglia», la morte di Pietro di Agapito Colonna è narrata succintamente dal biografo antico, il cui racconto d’Annunzio dilata, attratto dal grottesco, dilungandosi nel paragonare il grasso chierico a un maiale («pappagorgia», «sugna», «cotenna», «grasso bracato» concrescono sulla triade succinta di «nudo, calvo, grasso»; p. 94).← 109

XXII. D’Annunzio non solo ricalca puntualmente il racconto del biografo antico ma si avvale delle note esplicative del Re, il quale informa che nella chiesa di San Silvestro i Colonnesi avevano fondato un convento «per le femmine della sua Casa» (p. 96) e rinvia a Petrarca per l’elogio dell’imberbe Gianni Colonna. «Ploro» per pianto funebre è già in Alcyone, Il novilunio (v. 169; Versi II, p. 633).← 110

XXIII. La forza d’animo di Stefano Colonna «seniore» nell’apprendere la morte del primogenito e del nipote prediletto è rilevata da Re (cfr. Osservazioni storiche, p. 183) che rinvia a Petrarca, il quale peraltro si rivela alquanto formale nella consolatoria a Giovanni Colonna (Familiares VII, 13). Del vegliardo colpito dalla sventura dirà «ex cineribus veterum renatus phoenix», rilevando che «quando ebbe udita la morte del figliuol suo primogenito uomo preclaro, e del figlio di lui a sé nipote giovane di rarissimo merito, rimasti vittime entrambi in un popolare tumulto, non sparse una lacrima, non mise un lamento, non proferì un accento di dolore, ma chinati al fero annunzio e per poco fissati a terra gli sguardi, sia fatta, esclamò, la volontà di Dio: meglio è morire che non curvarsi sotto il giogo di un villano» (Seniles II, 10, in Fracassetti II; Familiares VIII, 1, nota a p. 280).← 111

XXIV. Il biografo antico dedica un intero capitolo alla digressione («Qua voglio un poco dilungarmi da la materia»; pp. 97-8) in cui paragona il Tribuno ad Annibale, colpevoli, entrambi, di attesismo. Come narra Tito Livio (XXII 51, 4), dopo la vittoria di Canne su Varrone, Maharbale, fra i notabili cartaginesi, avrebbe invano esortato Annibale perché proseguisse le ostilità: «vincere scis, Hanibal, victoria uti nescis». Non sorprende che l’exemplum valga per il pavido Cola se la stessa esortazione già Petrarca aveva rivolto a Stefano Colonna iuniore nel 1333, all’indomani della vittoria di Castel Cesario sugli Orsini, sia in un sonetto (RVF CIII, 1-2): «Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi / ben la vittorïosa sua ventura»; sia in una lettera (Familiares III, 3): «Vincesti, guerriero valorosissimo: or sappi da sapientissimo quale tu sei usar la vittoria: né possa alcuno mai muovere a te il

rimbrotto che nella giornata di Canne mosse già contro Annibale Maarbalo, del quale se avesse egli seguito il consiglio, e dal campo della battaglia a Roma per diritto cammino le armi del nostro sangue rosseggianti rivolte, sai bene quale a giudizio degli storici sarebbe stato l’evento» (Fracassetti I, p. 409). Di qui a molti anni, nel clima teso del dopoguerra, commentando la Conferenza interalleata di Cannes per la ricostruzione europea, d’Annunzio si ricorderà della «parola della Canne di Annibale» esortando gli Stati Uniti d’America a non temporeggiare (cfr. «Non sai usare della vittoria», in «La Gazzetta del Popolo», 20 gennaio 1922; SG II, p. 995). Il battesimo sacrilego del figlio di Cola è nel biografo antico (sarà ripreso più avanti nel cap. XXXVII), mentre dalle note di Re e di Fracassetti deriva la citazione petrarchesca (cfr. Familiares VII, 7, p. 188).← 112

XXV. Termina a questo punto il primo libro della narrazione bipartita del biografo antico: «Fin qui sono li fatti primi di Cola di Rienzo, lo quale si fece chiamare Tribuno augusto» (p. 104). Prima di avviare il secondo, ne anticipa la miseranda fine («poi fu ucciso pel popolo»), come d’Annunzio, con lapidario motto petrarchesco: «La sua favola breve era compita» (cfr. RVF CCLIV, 13: «La mia favola breve è già compita»). L’equazione favola-vita, praticata per antifrasi dal poeta della Pioggia nel pineto («favola bella», in Alcyone), d’Annunzio riproporrà accingendosi a scrivere un’autobiografia: la Favola breve della mia vita lunga che, dopo numerose incertezze nel titolo, sarà poi il Libro segreto.← 113

XXVI. Viene scorciato e semplificato, con l’omissione, in particolare, dei discorsi diretti, il racconto del biografo antico. Come già nel capitolo precedente, Cola è ritratto mentre piange e balbetta, senza grandezza nella sconfitta.← 114

XXVII. È il Re delle Osservazioni storiche a rilevare la magnanimità del Colonna vegliardo, che offre «esempio memorando» di «perdonanza». Più che il biografo antico, d’Annunzio segue, in questo e nei capitoli successivi, proprio il Re che riferisce testimonianze diverse da quelle del testo che trascrive e commenta: «Caduto Rienzi dalla signoria, rifugiossi in Castel Sant’Angelo. Lasciati in Roma la moglie, i figli, lo suocero ed i parenti, che per generosità di Stefano Colonna il vecchio vissero tranquilli e sicuri, passò in Civitavecchia, di cui un suo nipote guardava la rocca; ma avendola questi resa ai nuovi dominatori, Cola tornò a Roma, trattenendosi nello stesso Castel Sant’Angelo presso quel ramo degli Orsini a lui prima devoto: Nicola Orsini trattò vituperosamente coll’altro Rinaldo Orsini di Marino per consegnarlo a forte prezzo, ma la morte di entrambi lo sottrasse da questo pericolo. […] Sul finire di gennajo 1348 partì da Roma, e dicesi ricoverato presso Ludovico di Ungheria in Napoli. Trattò col Werner, capo della grande compagnia, per aver forze ad oggetto di far ritorno in Roma; ma le trattative riuscirono frustranee, perché, quando Cola avea col sussidio de’ suoi fautori raccolto le occorrenti somme, un suo fratello prese col denaro segretamente la fuga. / Bandito eretico dal cardinale de Deux Legato del Papa, scomunicato e ramingo, gio [così il biografo] come fraticello per montagne di Majella con romiti e persone di penitenza a associòssi ignoto agli spirituali, e dicesi fosse ricevuto nell’Ordine come terziario, perché ammogliato» (p. 241). «L’augurio dei lepidi patrizi» è ripresa tematica che articola il racconto del biografo moderno, perciò nettamente diversificato da quello antico a dispetto delle puntuali repliche antiquarie. L’«ultima allegoria» dipinta nella Chiesa di Santa Maria Maddalena è qui «bruttata di loto e di sterco», laddove il biografo antico reca semplicemente «loto»: «li balordi di Roma li gettaro sopra loto per detrazione» (p. 132).← 115

XXVIII. Sulla permanenza a Napoli di Cola nel 1348, l’anno della peste micidiale che flagella l’Italia, cfr. la nota precedente; e sulla morte di Andreasso il cap. XI. Tutta di d’Annunzio è la digressione sull’«eroe colpito dal fato iniquo»; ma eroe Cola non è, e perciò non ha «stampata la sua più dura impronta su l’anima della stirpe», dove risuona una precisa reminiscenza manzoniana («vasta orma stampar», nel Cinque Maggio). E tutto di d’Annunzio è l’inno alla Majella natale in cui Cola trova rifugio fra il 1348 e il 1350. Dopo la menzione di Celestino

V, l’eremita francescano Pietro da Morrone, l’«oriental bagliore» è, dantescamente, san Francesco (sole d’Oriente; cfr. Par. XI, 49-54), qui menzionato insieme con Gioacchino da Fiore, ai quali Cola, in effetti, si ispira come riformatore non solo della grandezza imperiale di Roma ma anche della Chiesa (cfr. K. Burdach, Riforma, cit., pp. 40-1). Nel cap. XXX Cola è definito «Il gioachimita».← 116

XXIX. Il Re informa che, nelle lettere a Carlo IV e all’arcivescovo di Praga, Cola illustra il proprio romitaggio tra gli «Spirituali»: «Descrive egli stesso con belli ma esagerati colori l’austerità di loro vita, la contenta povertà, la sincera umiliazione e la esemplare loro devozione […]. Mentre Cola vivea penitente fra quegli eremiti, scampato anche dalle insidie dell’arcivescovo di Napoli, che tentò di farlo prendere per consegnarlo al Papa, e mentre era disposto a peregrinare in Terra Santa con alcuni religiosi, gli si presentò (narra egli) un tal frate Angelo di Monte di Cielo, e lo chiamò col proprio nome; del che meravigliossi, credendo essere sconosciuto: allora l’eremita gli disse, ‘esser Cola vissuto abbastanza nella solitudine, e dover quindi innanzi vivere più per l’altrui che pel proprio vantaggio; essergli per divina ispirazione manifestato il di lui soggiorno; volere il signore col di lui mezzo preparare la rigenerazione del mondo da molti spirituali predetta; dover fra poco, dopo tanti castighi di mortalità e di terremoti, insorgere grande novità per la riforma della Chiesa e per richiamarla allo stato della primitiva santità […] per compiere quest’opera, avere il Signore destinato un uomo, il quale d’accordo coll’imperatore eletto riformerà il mondo, e rimuoverà dalla Chiesa ogni superfluità di terreni e fuggitivi piaceri: non dover differire Cola dal recarsi dall’imperatore romano, che nell’ordine de’ Cesari è il centesimo, e di assisterlo come precursore col consiglio e coll’opera; e non dubitar punto che Roma si adornarebbe presto dell’imperiale e papale corona. Poiché i quarant’anni erano già compiti, dacché l’arca del Signore era stata tolta a Gerusalemme, e rimanea per i peccati degli uomini lungi dalla sua vera sede’» (pp. 242-3).← 117

XXX. È qui ripresa l’epistola all’imperatore Carlo IV, una sorta di libello in cui il Tribuno illustra la sua visione gioachimita del mondo. Ma d’Annunzio segue sempre le Osservazioni storiche del Re, che confronta il biografo antico con il Polistore, cronaca di quelle vicende per mano di un anonimo domenicano riportata dal Muratori: «In quell’anno, nel mese di agosto (1350), un uomo in abito strano andò in Alemagna alla città di Praga, e alla casa di uno speziale fiorentino, e il pregò che il presentasse a messer Carlo eletto imperatore per la Chiesa di Roma, perché volea dirgli cosa di suo onore e di sua utilità. Il quale uomo presentato al detto imperatore, dissegli queste parole: Egli abita in Mongibello uno eremita per nome frate Angiolo, il quale ha eletto due ambasciatori, l’uno ha mandato al Papa a Vignone, e l’altro a voi imperatore, e io sono quello. Allora quell’uomo cominciò a dire in questo modo: Sappiate, messere imperatore, che il predetto frate Angiolo vi manda a dire, che fino al tempo presente ha regnato nel mondo il Padre, e il suo figliuolo Iddio. Ora è tolta la possanza, e data allo Spirito Santo, il quale dee regnare sul tempo che ha a venire. L’imperatore, udendo che quell’uomo separava e partiva il padre e il figliuolo dallo Spirito Santo, disse: Se’ tu colui, il quale io penso? Ed egli rispose: Chi pensate ch’io sia? l’imperatore disse: Io penso che tu sia il Tribuno di Roma; e questo pensò l’imperatore, perché avea udito delle resie del detto Tribuno. Ed egli rispose: Veramente io sono colui che fui Tribuno, e cacciato da Roma. Allora l’imperatore mandò incontanente per l’arcivescovo di Treviri e peraltri vescovi, e per gli ambasciatori del re di Scozia, e per altri ambasciatori e dottori», ai quali Cola ripete le stesse parole con l’aggiunta: «fatto sarebbe un Papa italico, il quale rimoverebbe la corte di Vignone, e ridurrebbela a Roma. Il quale Papa manderà per voi, imperatore, e per me, i quali dobbiamo essere una cosa con detto Papa, il quale coronerà voi con la corona d’oro del reame di Sicilia, di Calabria e Puglia, e me coronerà d’argento, facendomi re di Roma e di Tutta Italia. Quelli arcivescovi, udendo quelle favole, partironsi, dicendo che colui era uno stolto eretico, e fecero che il Tribuno scrisse di sua mano tutto quello che avea detto; la quale scrittura sigillata col sigillo dell’imperatore fu mandata al Papa a Vignone. E il detto Tribuno fu posto in prigione molto ben custodito sino alla risposta del Papa» (pp. 245-7). Solo di d’Annunzio il tic dell’imperatore, che usa tagliuzzare «le vergette di salcio col coltelluccio» durante le

udienze: dettaglio per un «effet de réel» tipico del racconto realista.← 118

XXXI. Sulla millantata nascita regale di Cola, cfr. la nota 90: qui, come altrove (cfr. il cap. XXVII), la ripresa tematica articola il racconto e lo connota in quanto moderno. Nella lettera all’amico Francesco Nelli (10 agosto 1352), priore della chiesa fiorentina dei Santi Apostoli, Petrarca racconta della prigionia avignonese di Cola («meglio che onoratamente morire, vilmente vivere egli prescelse»), con la dovizia di circostanze che d’Annunzio fa proprie: «Allorché venne, egli non era legato; questo solo mancògli di pubblica ignominia […]. E come fu sul primo entrare nella città, chiese di me l’infelice, e domandò se io fossi in curia, o perché sperasse qualche aiuto da me, che non veggo potergliene dare alcuno, o perché l’antica amicizia in quegli stessi luoghi contratta gli tornasse alla mente. […] so per le lettere de’ miei amici che una speranza di salvezza pur gli rimane nella opinione che si è sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta: e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona» (Familiares XIII, 6; Fracassetti III, pp. 231-2). Erra d’Annunzio credendo Petrarca «ritratto nella solitudine di Valchiusa»: come è evidente dalla lettera appena ricordata il poeta è ad Avignone. La morte di Laura, nel 1348, è ricordata attraverso il Triumphus mortis I, 172: «Morte bella parea nel suo bel viso». Il capitolo mescola le petrarchesche con le citazioni dal biografo antico, del resto segnalate dalle virgolette, ma da quest’ultimo si discosta perché non dice il vero quando sostiene che l’imperatore lo lasciò andare «volontario» ad Avignone (p. 135). Del resto il Re precisa in nota: «Erano queste notizie corse e propagate in Roma dai partigiani di Cola; il fatto fu che l’imperatore lo restrinse in carcere, ed a richiesta del Papa lo fece sotto buona scorta condurre ad Avignone».← 119

XXXII. Per Roma «donna», cfr. cap. II e nota 89. Nell’ottobre 1353, dopo averlo prosciolto dall’accusa di eresia, Innocenzio VI invia Cola a Roma, al seguito del cardinale Gil Alvarez Carrillo de Albornoz, con il quale combatte contro il Prefetto di Vico. È del biografo antico il rilievo sui romani adulatori: «Queste vesciche li popolari di Roma li davano, e non li davano denaro uno […]. Cola bene parlava, bene diceva, meglio prometteva» (p. 138).← 120

XXXIII. Ai perugini «feroci» e alle vicende storiche della città, d’Annunzio ha già dedicato gli otto sonetti delle Città del silenzio di Elettra, il secondo Libro delle Laudi (1903), composti seguendo la Cronaca di Francesco Matarazzo, secondo un procedimento analogo a quello messo in atto nella stesura della biografia del Tribuno (cfr. Versi II, pp. 382-6 e note). I prossimi raggiri di Cola, al quale sarà «più facile ordire la frode che condurre la guerra» (cfr. più avanti al cap. XXXVII), sono qui anticipati attraverso la metafora dell’uccellagione.← 121

XXXIV. Che l’«imperversare delle passioni civiche» preluda al Rinascimento è l’assunto espresso da d’Annunzio all’inizio della biografia. È puntualmente ricalcata la narrazione antica che qui ha passaggi di felicissima resa: «Poi che Cola di Rienzo sentio dimorare in Perusia messere Arimbaldo di Narba, uomo giovane e persona letterata, avviossi al suo ostiero, e volse con esso pranzare. Sumpto cibo, mette mano Cola di Rienzo a favellare della potenza de’ Romani, mistica sue storie di Tito Livio, dice sue cose de la Bibbia, apre lo fonte di suo sapere; deh come bene parlava! tutta sua virtude opera nel ragionare, e sì di punto dice, che ogni uomo abbair fa sua bella diceria; leva da piedi ogni uomo, tiene la mano a la gota, e ascolta con silenzio: Messere Arimbaldo meravigliossi di suo bello parlare, ammira la magnitudine de li virtuosi Romani; incalescente vino, salta l’animo in altezza, lo fantastico piace al fantastico; messere Arimbaldo senza Cola di Rienzo non sa dimorare, con esso sta, con esso va, un cibo prendono, in uno letto posano; pensano di fare cose magne, drizzare Roma, e farla tornare in suo pristino stato» (pp. 140-1). Con i fiorini così ottenuti da Arimbaldo, Cola si dà subito alle pompe: quella degli abiti innanzitutto, che muta serbando però le «cuoia» per chi lo brucerà nel quartiere romano dell’Augusta. Arimbaldo e Brettone, fratelli di Fra Moriale, com’è chiamato in Italia Gualtiero di Montreal, cavaliere di San Giovanni di Gerusalemme, mercenario provenzale al soldo del Regno di Napoli e del papa, frate ospedaliero,

vengono raggirati da Cola «uccellatore», com’è anticipato nel capitolo precedente e come si dirà nel cap. XXXVIII.← 122

XXXV. Dopo sette anni d’esilio, il 15 agosto 1354, Cola rientra a Roma. La riscossa del Tribuno è narrata dal biografo antico in modo tanto vivido (cfr. le pp. 142-3) che d’Annunzio dichiara apertamente la propria replica. Per emulazione, amplifica però il paragone tra Cola e il «paone tronfio che spieghi la coda e rimiri sue penne e dica crai-crai» evocando la «scena di un’atellana», di una commedia da «Suburra», come più avanti Cola, in armi contro Palestrina, sarà definito «espugnatore atellano».← 123

XXXVI. La notazione sulla smodatezza nel bere è nel biografo antico: «[Cola] ora è diventato distemperatissimo bevitore, sommamente usava ’l vino, ad ogni ora confettava e beveva, non ci servava ordine né tempo, temperava ’l greco col flaviano, la malvasia con la rebola, ad ogni ora era del bevere più fresco; orribil cosa era patir di vederlo; troppo bevea; dicea che ne la prigione era stato asclamato, anco era diventato grasso sterminatamente, avea una ventresca trionfale a modo di un abbate asiano: tutto era pieno di carni lucenti come pavone; rosso e barba lunga; subito si mutava ne la faccia, subito suoi occhi tratto se l’infiammavano, mutavasi di opinione, e così si mutava suo intelletto come fuoco» (pp. 146-7).← 124

XXXVII. Grottesco, Cola, che un tempo «sentiva del grassetto» (cap. XVI), è ora tanto corpulento da richiedere gli argani per essere «tirato su in arcione» e cavalca «in ambio», cioè al passo, «dondoloni» su una «chinea», cioè cavallo da soma. È ricalcata la narrazione del biografo antico (cfr. le pp. 148-9), anche nella battuta del Tribuno sul suo inane vagabondare, ma di d’Annunzio è il rilievo sul «lastrico antichissimo» già battuto da Cincinnato: un modo per contrapporre alle velleità di Cola la grandezza del passato romano, come il «mastro di guerra Stefanello» Colonna è contrapposto al «tardo persecutore», all’«espugnatore atellano» (cioè da commedia; e cfr. la nota 122, di contro alla tragica grandiosità dell’Agro), abile solo nell’argomentazione («litteratissimo»). È il biografo antico ad avvertire (p. 149): «Vedi bella lercerìa che fece a li suoi capitani», introducendo la «ciurmeria» (così varia d’Annunzio) ordita attraverso la dotta citazione storica che persuade Brettone e Arimbaldo a sborsare mille fiorini. Il «capezzare» di Cola, con esplicito rinvio alla gestualità ritornante del personaggio, rivela ancora una volta la costruzione aggiornata del racconto dannunziano.← 125

XXXVIII. A lungo preparato, il tradimento di fra Moriale era già alluso in precedenza: con la «pània» Cola aveva «invescato» i due giovani fratelli («merli implumi» qui, e «merlotti» al cap. XXXIII). Ora è la volta della «tagliuola» che prelude alla decapitazione del mercenario provenzale. D’Annunzio riprende l’efficace narrazione del biografo antico: «Fatta la notte, preso da primo sonno Fra Moreale fu menato al tormento. Quando vide la corda, disdegnato con mormorazione disse: v’aggio ben detto che voi rustici villani siete, volendomi ponere al tormento; non vedete che io sono cavaliere? com’è in voi tanta villanìa? pure un poco fu alzato, e allora disse: io sono stato capo de la grande compagnìa, e perché son cavaliere, sono voluto venire ad onore; aggio rivendute le cittadi di Toscana, messa la taglia, dirupate le terre, e presa la gente. Allora fu tornato nel loco de li suoi fratelli; conobbe che morire li convenìa; domandò penitenza, e per tutta la notte ebbe con seco uno frate, lo quale lo confessava, e così ordinò tutti suoi fatti; udendo lo mormorito de’ suoi fratelli, allora si voltava ad essi, e parlava, e queste parole diceva: dolci frati non dubitate, voi siete zitelli giovani, non avete provato le onde della ventura; voi non morirete; io morrò, e di mia morte non dubito; la vita mia sempre fu con tribulazioni, fastidio m’era lo vivere, di morire non dubitava; sono contento che moro in quella terra, dove moriro li beati santo Pietro e santo Paolo; benché nostra disavventura è per tua colpa messer Arimbaldo, che m’hai condotto in questo laberinto; non perciò questo lascio non vi mormoriate, né vi dogliate di me, ch’io moro volentieri. Uomo sono, come zitello fui ingannato, come li altri uomini sono tradito; Dio mi avrà misericordia; fui buono al mondo, sarò buono dinanti a Dio, e specialmente non dubito, perché venni con intenzione di ben fare. Voi giovani siete, temete, che non avete conosciuto che è la fortuna;

pregovi che vi amiate e siate valorosi al mondo, come fui io, che mi feci fare obbedienza a la Puglia, a la Toscana e a la Marca. Spesse volte così dicendo, lo die si fece; e la dimane volse udire la messa, e udiola stando scalzo a nude gambe; a l’ora di mezza terza fu sonata la campana; fu adunato lo popolo. Condotto fra Moreale ne le scale al lione, stava inginocchiato inanti a madonna santa Maria; a le sue gote tenevasi un cappuccio di scuro con uno fregio di auro, addosso teneva uno giupparello di velluto bruno cocito di fila d’auro, discinto era, senza alcun cignimento, le calze in gambe di scuro, le mani legate, e teneva la croce santa in mano; tre fraticelli con esso stavano; mentre che odiva la sentenza, parlava e diceva: ahi romani! Come consentite mia morte? Mai non vi feci offesa; ma la vostra povertade e le mie ricchezze mi fanno morire; poi diceva: dove sono io colto! per mia fede dieci tanta gente m’aggio veduta dinanti, e più che questa non è! poi diceva: sono allegro di morire là dove moriro Pietro e Paolo; la mia vita senza tribulazione non è stata; poi diceva: tristo questo mal traditore po’ la mia morte! Ne la sentenza furo mentovate le forche; allora stordìo forte, e levossi subito in piedi come persona smarrita; allora quelli che stavano intorno, lo confortaro che non dubitasse, fecero fede che condannato era ne la testa; di ciò fu contento e stette queto. Avviato al piano, per tutta la strada non finiva di volversi di là e di qua […]. Poiché fu nel piano, là dove furo le fondamenta de la torre, fatta la rota intorno, inginocchiossi in terra, poi si levò e disse: non sto bene; voltossi verso oriente, e raccomandossi a Dio, poi s’inginocchiò in terra, baciò lo ceppo, e disse: Dio ti salvi santa giustizia! Fece con la mano una croce sopra lo ceppo e baciolla, trassesi lo cappuccio e gettollo; posta che li fu la mannaia sul collo, favellò e disse: non sto bene; allora era seco molta buona gente, fra la quale un suo medico di piaghe, questi li ritrovò la giunta dell’osso del collo; posto lo ferro, al primo colpo sbalzò, là pochi peli de la barba rimasero nel ceppo. Frati minori tolsero suo corpo in una cassa; giunto lo capo col busto, pareva che intorno al collo avesse una zaccherella di seta rossa» (pp. 154-7). Notevoli gli interventi di d’Annunzio nel ricalcare il biografo antico: il masnadiero che, con danteschi «occhi grifagni» (derivati dal paragone con Cesare: «da Cesare fino a questo dì mai non fu alcuno migliore»; e cfr. prima «grifagno»), grandeggia, come già in Matteo Villani, sullo sfondo dell’Urbe descritto dal narratore delle Vergini delle rocce («scorgevasi la faccia travagliata dell’Urbe, con le sue basiliche e i suoi archi […] col biancicore dei suoi marmi mezzo sepolti su cui le opere di mattone rosseggiavano quasi fossero costrutte di grumo impetrato»), da cui deriva la maestria con la quale la scena del supplizio diviene tragicamente sospesa: «sì alto era il silenzio che si udiva il brucar delle capre negli sterpi». Del «medico di piaghe» che «subito ritrova l’osso nel collo» si dice anche nel Proemio.← 126

XXXIX. Su Martino di Porto, cfr. la nota 102. Cola è di nuovo ritratto «senza il nerbo della tirannìa», come più sopra è «tirannello» (sempre, non a caso, nel cap. XVII). Solo le «strida degli uccelli notturni», ovviamente di malaugurio, sono di d’Annunzio, perché al biografo antico risalgono le notazioni sull’instabilità del Tribuno che sta precipitando.← 127

XL. Il tumulto sorprende Cola, «il poltrone», «in suo letto», la mattina dell’8 ottobre 1354. Si lava la faccia col vino greco e non fa «riparo», come narra nelle pagine conclusive il biografo antico: «fu abbandonato da ogni persona vivente che in Campidoglio stava; giudici, notari, fanti e ogni persona avea procacciato di campare la pelle; solo esso con tre persone rimase, fra le quali fu Locciolo Pellicciaro suo parente. Quando vide lo Tribuno pure lo tumulto del popolo crescere, e videsi abbandonato e non provveduto, forte dubitava […] volendo rimediare, fecesi voglia, e disse: non irà così, per la fede mia. Allora si armò guernitamente di tutte armi a modo di cavaliere, la barbuta in testa, corazze salde e gambiere, prese lo confalone del popolo, e solo si affece a li balconi de la sala di sopra maggiore. Distendeva la mano, faceva sembiante che tacessino, ché volea favellare; sine dubio che, se lo avessero ascoltato, li averìa rotti e mutato di opinione, e l’opera era sbaragliata; ma li romani non lo volevano udire, facevano come porci, gettavano pietre, balestravano, e correvano con fuoco per ardere le porte. Tante furo le balestrate e li veruti, che a li balconi non potéo durare; uno veruto li colse la mano; allora prese questo confalone, stendea lo zendado, e da amendue le mani mostrava le lettere di auro, e l’armi de li cittadini di Roma […]. Non

valse questi modi tenere; peggio fa la gente senza intelletto; mora lo traditore chiama. Non potendo più sostenere, pensò per altra via campare; dubitavasi di rimanere su ne la scala di sopra, perché anco stava prigione messere Brettone di Narba, a cui aveva fatta tanta ingiuria; dubitava che non lo uccidesse di sua mano, conosceva e vedeva che rispondea al popolo. […] Allora ebbe tovaglie da tavola, e legossi in cinta, e fecesi discendere giuso ne lo scoperto dinanti a la prigione. In quella prigione stavano tutti li prigionieri; essi vedeano tutto; tolse le chiavi e teneale a sé, ché de li prigionieri dubitava. Di sopra ne la sala rimase Locciolo Pellicciaro, lo quale a quando a quando si faceva a li balconi, e facea atti con le mani e con la bocca al popolo, e diceva: eccolo che viene giuso di retro al palazzo; poi si voltava al Tribuno e confortavalo, e dicea che non dubitasse, poi tornava al popolo facendo li simili cenni: eccolo di retro, eccolo di retro; davali la via e l’ordine» (pp. 161-3). La narrazione di d’Annunzio è qui e più avanti particolarmente aderente al testo antico, limitandosi talora a riassumerlo per scorciarlo, talaltra a inserirvi qualche notazione («l’ànsima lo soffocava») o considerazione come quella sulla «severità della sorte inflessibile» che costringe il Tribuno a «escir dalla porpora non sua per rientrar nel suo cencio» giacché il «fuoco e la morte, le due purità del mondo» chiamano «l’eroe al gran paragone». Ma, Cola è «falso eroe» e, vile e pusillanime, fallisce la prova: ciò che dimostra il tentativo di confondersi con gli sciacalli profittatori del tumulto, dopo essersi spogliato delle armi e delle insegne, col volto impiastricciato di fuliggine, avvolto in un «tabarro consunto», per rendersi irriconoscibile (sul vario abbigliamento di Cola, cfr. la nota 97) persino attraverso la dissimulazione linguistica, peccato veramente mortale. A proposito dell’accento campagnolo di: «Suso suso a gliu traditore», il Gibellini sottolinea che il moderno amplifica qui il biografo antico «aggiungendovi una battuta attinta a un’altra fonte, la Cronica di Matteo Villani riportata da Re nel suo commento: “Suso a rubbare, che c’è robba assai”» (cit., p. XXIX ). Solo di d’Annunzio è anche il paragone con lo «spaventacchio», col «fantoccio abbozzato e stoppato» che prelude al colpo di «stocco» nella «ventraia» che uccide il Tribuno, il quale, «ventoso» com’era, emette ora un ultimo sibilo: «escì l’anima con sibilo come vento da otro forato». Pure accentuato, l’indugio macabro sul vilipendio della salma, su appendimento, lapidazione e arsione, è nel biografo antico, dove invece manca il connotato dispregiativo rivolto ai «giudei» del rione dell’Augusta (cfr. l’anticipazione nel cap. XXXIV): dantescamente «sozzi» per d’Annunzio, forse così vendicativo nei confronti degli usurai che nel 1905 lo assediano, come vendicativo è proprio allora Corrado Brando, il protagonista di Più che l’amore, uccidendo un usuraio. Ma anche nel Proemio, composto quando l’asta della Capponcina si è consumata, non manca una punta polemica. Rimpiangendo l’industriosa scrivania monacale su cui ha un tempo composto tante opere, d’Annunzio si chiede: «Non si fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudìo?».← APPROVAZIONI 128

Aggiunta per «burla» in occasione della ristampa della Vita di Cola di Rienzo, la «monelleria» delle Approvazioni (cfr. il carteggio con Treves che, all’altezza del novembre 1912, vede d’Annunzio incerto sull’opportunità di inserirla a conclusione dell’opera), che proviene dal «mazzamurello» menzionato nel Proemio, fa il verso – esattamente – alla pratica dell’Accademia della Crusca. Fondata a Firenze nel 1583, aveva lo scopo di conservare la purezza della lingua italiana, controllata sul modello delle Origini. Compilò pertanto un Vocabolario la cui prima edizione risale al 1612. Tuttora attiva, l’Accademia ha oggi il compito di registrare l’uso della lingua attraverso un vocabolario non ancora ultimato. I fondatori usavano attribuirsi un soprannome (ad es. il Sollo, il Lasca, il Gramolato, il Macerato, l’Inferigno, l’Infarinato) che qui eccita la fantasia di d’Annunzio, che sceglie per sé «Lo Immaturo» (come lo ebbe già Domenico Tornaquinci, senatore fiorentino dal 1702), con allusione a ciò di cui darà prova in futuro, in particolare, abbinando Grazie e Muse, nella prosa lirica dove si mescolano orazianamente utile e dulci, che sarà d’ora innanzi il suo miglior registro.

Sulla formula dell’«Approvazione», cfr. S. Parodi, Quattro secoli di Crusca 1583-1983, Firenze 1983, pp. 85-6. L’«Arciconsolo» è il presidente dell’Accademia e con il soprannome di «Il Sollecito» lo fu effettivamente Vincenzo Capponi (1605-1688). Il «Vicario Generale» è invece l’autorità religiosa e morale, qui chiamata in causa, con evidente polemica, per la messa all’indice, dopo la rappresentazione del Martyre de Saint Sébastien (maggio 1911), di tutta l’opera dannunziana.←

CRONOLOGIA a cura di Annamaria Andreoli

1863-1873 Gabriele d’Annunzio nasce a Pescara venerdì 12 marzo 1863 da Francesco Paolo (il cui vero cognome, Rapagnetta, viene sostituito da quello dello zio adottivo, Antonio d’Annunzio) e da Luisa de Benedictis, discendente da un’agiata famiglia di Ortona. Gabriele è il terzogenito di cinque fratelli: Anna (1859), Elvira (1861), Ernestina (1865) e Antonio (1867). Il padre, esperto enologo, amministra le proprietà e sarà anche sindaco di Pescara. Frutto di fantasia sono le notizie che d’Annunzio invia al traduttore francese Hérelle in data 14 novembre 1892: sarebbe nato a bordo del brigantino Irene, nelle acque dell’Adriatico, anche se poi la «passione profonda» per il mare, eletto subito a «patria», accompagnerà costantemente il suo percorso umano e artistico. L’infanzia di Gabriele trascorre tra Pescara e la Villa del Fuoco, podere avito alla periferia della città, di cui si ricorderà il narratore dell’Innocente e del Trionfo della Morte. Primi precettori sono le sorelle Ermenegilda e Adele Del Gado, menzionate nella novella La contessa d’Amalfi (pubblicata sul «Fanfulla della Domenica» nel luglio 1885 e inserita nelle Novelle della Pescara) e nel Libro delle vergini (stampato nel 1884: alle sorelle si ispirano i personaggi di Camilla e Giuliana della novella Le vergini, divenute poi, nelle Novelle della Pescara, Orsola e Camilla de La vergine Orsola). Gabriele prosegue gli studi col maestro Eliseo Morico e con Giovanni Sisti, che lo segue sino agli esami di ammissione al Reale Collegio Cicognini di Prato. 1874-1878 All’inizio dell’anno scolastico 1874-75 viene iscritto alla prima classe ginnasiale del collegio pratese. Studente brillante e indisciplinato, il giovane Gabriele condivide con alcuni compagni un’intensa infatuazione per Napoleone (descritta nelle pagine delle Faville, come tutti i ricordi autobiografici della vita di collegiale, nelle sezioni intitolate Il secondo amante di Lucrezia Buti e Il compagno dagli occhi senza cigli). Legge i classici, comprese le edizioni non purgate, specie quelle dei testi «oraziani e nasoniani», e annota su numerosi quaderni elenchi di nomi (sotto la suggestione di un articolo di De Amicis sulla Lettura del vocabolario) e citazioni da Leopardi, Guerrazzi, Cicerone, Lambruschini, Augusto Conti, Seneca, Plauto, Orazio, Giordani, d’Azeglio, Balbo, Gioberti, Manzoni, Tommaseo. Comincia intanto a coltivare il culto di sé («più uomo di tutti i suoi compagni» lo descrive uno degli insegnanti «e dedito tutto a farsi un grande nome»). Rivelatrice in proposito una lettera al padre del 25 aprile 1878: «Vedi, padre mio, questa è l’unica vera dolcezza, l’unico vero conforto che io m’abbia dalle mie fatiche […] mi piace la lode, perché so che voi gioirete delle lodi a me date; mi piace la gloria, perché so che voi esulterete a sentire il mio nome glorioso: mi piace la vita, perché so ch’essa deve essere di sostegno e di consolazione alla vostra». Trascorre le estati del 1875, ’76 e ’77 in collegio, nella villa della Sacca, a pochi chilometri da Prato, o a Firenze, ospite della famiglia Coccolini (la figlia del colonnello, Clemenza, è ricordata nelle Faville come Clematide e Malinconia). Ritornato a Pescara nell’estate del ’78 e conseguita la licenza ginnasiale a Chieti, nel novembre,

durante il viaggio di ritorno al Cicognini per gli studi liceali fa una breve sosta col padre a Bologna, dove acquista, con altri volumi, le Odi Barbare del Carducci con prefazione del Chiarini, che producono su di lui profonda impressione (lo testimoniano la lettera al Carducci del 6 marzo 1879 e soprattutto quella al Chiarini del febbraio 1880, in cui si legge: «Il Carducci lo conoscevo poco […]. In quei giorni divorai ogni cosa con una eccitazione strana e febbrile, e mi sentii un altro. L’odio pe’ versi scomparve come per incanto, e vi subentrò la smania della poesia»). 1879-1880 L’esordio poetico, dopo le prime esercitazioni scolastiche, è sollecitato proprio dalle barbare carducciane. Nel 1879 pubblica, a spese del padre, i primi versi: l’ode All’Augusto Sovrano d’Italia Umberto I di Savoia, in occasione del genetliaco del re, non inserita nell’Opera Omnia, e il volume Primo vere, stampato dalla tipografia Ricci di Chieti e favorevolmente recensito dal Chiarini sul «Fanfulla della Domenica» del 2 maggio 1880, in un articolo intitolato A proposito di un nuovo poeta («Il mio nuovo poeta è un giovinetto di sedici anni […] egli deve aver sentito dentro di sé quel desiderio ardentissimo, quella smania violenta, che sono prova quasi certa d’esser chiamato alla poesia […]. Spesso e volentieri egli prende l’intonazione dal Carducci, va per un poco sulle sue orme, poi piglia l’andare da sé, e trova delle immagini felici, degli accenti veri, delle espressioni giuste, de’ suoni armoniosi»). Sull’onda di questo primo successo, Floro Bruzio (Floro era già pseudonimo dell’autore di Primo vere) pubblica le ventuno liriche di In memoriam, stampate nel maggio 1880 dal tipografo Niccolai di Pistoia, sempre a spese del padre. Il volumetto, ispirato dalla nonna Rita Lolli, morta da poco, non ha buona accoglienza, neppure da parte del Chiarini, che lo recensisce il 24 ottobre sul «Fanfulla» stroncandolo (il libro non sarà inserito nell’Opera Omnia). La seconda edizione di Primo vere, «corretta a penna e fuoco» e stampata il 14 novembre dall’editore Carabba di Lanciano, finanziatore ancora una volta Francesco Paolo, è preceduta da una sconcertante trovata pubblicitaria, quanto mai rivelatrice dell’ansia di notorietà del giovane poeta: egli divulga la notizia della propria morte, causata da una ferale caduta da cavallo. Dopo le commosse necrologie (famosa quella di Ugo Fleres – Uriel – sul «Capitan Fracassa» del 22 novembre) giungerà la smentita che però nulla toglie alla glorificazione funebre. Durante le vacanze estive, trascorse in Abruzzo, conosce il pittore Francesco Paolo Michetti. Già celebre, lo introduce nel cenacolo di artisti che si riuniscono nella sua casa di Francavilla. Rientrato in collegio, il 12 dicembre inizia la collaborazione al «Fanfulla della Domenica» (sollecitata, presso il direttore Ferdinando Martini, dall’amico Guido Biagi) con la pubblicazione del racconto Cincinnato, «figurina abruzzese» in prosa; al periodico il giovane collegiale continua a collaborare negli ultimi mesi di permanenza al Cicognini. 1881 Durante il terzo anno di liceo nasce il primo vero amore di d’Annunzio (dopo le varie esperienze adolescenziali con Teodolinda Pomàrici, Clemenza Coccolini, Emilia Corsani – la Gorella Gheri delle Faville –, Sblendore, la Ciccarina – ricordata nelle Novelle della Pescara, La guerra del Ponte e La contessa d’Amalfi): quello per la fiorentina Giselda Zucconi, figlia di Tito, professore di lingue straniere al Cicognini. La incontra a Firenze il 15 aprile 1881 e inizia con lei una fitta corrispondenza epistolare. Ne fa l’ispiratrice (Lalla) del futuro Canto novo, che si apre, nell’edizione 1882, con un sonetto di dedica «Ad E. Z.» (Elda, per Giselda) datato «15 aprile ’82», anniversario, appunto, del primo incontro. Conseguita la licenza liceale il 30 giugno, il giorno seguente lascia il collegio e torna a Pescara, dopo un breve soggiorno a Firenze con Elda e una sosta a Bologna dove tenta contatti editoriali, falliti, con Zanichelli per la pubblicazione di Terra vergine e Canto novo. Trascorre l’estate a Francavilla, ospite del suo nuovo «amoroso amico», Michetti, con il musicista Francesco Paolo Tosti, lo scultore Costantino Barbella e il poeta Paolo De Cecco. Continua intanto a collaborare a vari periodici (fra i quali «Preludio», «Cultura letteraria», «Fanfulla della

Domenica», «Arte», «Farfalla») con prose poi riprodotte in Terra vergine e liriche accolte solo parzialmente in Canto novo. In novembre si trasferisce a Roma, in una modesta abitazione all’ultimo piano di via Borgogna 12, e si iscrive alla Facoltà di Lettere col progetto, mai realizzato, di laurearsi col romanista Ernesto Monaci. Alle aule universitarie preferisce le redazioni dei giornali: grazie all’amico abruzzese Edoardo Scarfoglio, di stanza, come lui, nella capitale, comincia a collaborare con il «Capitan Fracassa» e la «Cronaca Bizantina», fondata da Angelo Sommaruga il 15 giugno 1881, insieme a firme prestigiose: la Serao, Carducci, Martini, Pascarella, Giacosa, Fleres (d’Annunzio vi compare la prima volta il 30 novembre, con un’Elegia compresa poi in Canto novo). Tra i primi amici annovera, oltre a Scarfoglio, Enrico Nencioni, Cesare Pascarella, Ugo Fleres, Albino Zenatti, Salomone Morpurgo. 1882 Il 16 gennaio inizia l’attività di giornalista con un articolo, Fiera a Santa Susanna (recensione a una mostra di bozzetti per le statue dell’Altare della Patria), pubblicato sul «Fanfulla». Mentre insieme con Scarfoglio e Pascarella è in Sardegna (le cronache del viaggio si leggeranno nel «Capitan Fracassa»), il 5 maggio esce da Sommaruga Canto novo, in metri barbari, che già Carducci aveva apprezzato quando il volume era ancora in bozze di stampa. A breve distanza, sempre Sommaruga pubblica Terra vergine, il primo libro di prose, contenente nove bozzetti di ambiente abruzzese che parvero quasi una diretta emanazione della Vita dei campi di Verga. Ma l’Abruzzo di d’Annunzio indulge a una ferinità estetizzante ed è, a un tempo, più selvaggio e sanguigno, nell’eccesso di cromatismo, della Sicilia del Verga. Iniziano intanto le frequentazioni mondane, di cui si rinviene l’eco nelle lettere al padre (11 aprile: «Ho passato questi giorni in un’agitazione continua, in mille inquietudini, in mille irrequietezze, senza trovare un atomo di volontà, senza sapere quel che avessi. Sono malato di spirito, sono malato di anima») e ad alcuni amici (Paolo de Cecco, tra gli altri, a cui confessa, il 30 aprile, di non riuscire a liberarsi «dalle febbri torpide della sensualità»). Si allenta così l’interesse per Elda, con cui mantiene ancora, tuttavia, un appassionato scambio di lettere. Sulla «Cronaca Bizantina» (1° luglio) e sul «Fanfulla della Domenica» (6 agosto) pubblica liriche erotiche ed estetizzanti che verranno poi accolte nell’Intermezzo di rime. Al ritorno dalle vacanze estive in Abruzzo, il giovane d’Annunzio è ormai pronto a riscuotere, nella capitale, affermazioni mondane e letterarie. 1883-1884 Il 23 gennaio 1883 tronca la corrispondenza con Elda inviandole l’ultima lettera: «Addio, mia buona, mia santa, mia bella bambina pallida e sofferente. Addio, addio, addio. Sono stanco e convulso». Quando è fresco di stampa l’Intermezzo di rime, edito da Sommaruga (il libro vede l’abbandono delle «barbariche strofe» e dà luogo a un’accesa polemica sull’inverecondia del contenuto, alla quale prendono parte Chiarini, Nencioni, Panzacchi e Lodi), sposa, il 28 luglio, la duchessina Maria Hardouin di Gallese, incinta. Dopo innumerevoli peripezie, compresa una fuga notturna, per l’opposizione del duca padre proprietario di palazzo Altemps, i cui salotti gli erano stati aperti nella primavera del 1883, il viaggio di nozze ha quale meta Porto San Giorgio e in Abruzzo, nella Villa del Fuoco, la coppia si stabilisce in attesa della nascita del figlio: Mario vede infatti la luce il 14 gennaio 1884. Nel giugno esce da Sommaruga Il libro delle vergini, con una copertina raffigurante tre nudi di donna che suscita le proteste dell’autore e lo induce a rompere definitivamente i rapporti con l’editore. (Il volume non è compreso nell’Edizione Nazionale; di esso solo la novella Le vergini viene accolta nelle Novelle della Pescara mentre Nell’assenza di Lanciotto è ristampata nel ’92 presso il Bideri di Napoli in edizione economica.) Intensifica l’attività giornalistica sul «Fanfulla della Domenica» e sul «Capitan Fracassa» con cronache mondane, commenti a fatti di costume, resoconti di esposizioni d’arte che preludono all’intensa attività di articolista de «La Tribuna», iniziata, dopo il rientro a Roma della giovane coppia, il 1° dicembre 1884 con una pagina dal titolo Toung-Hoa-

Lou. Ossia Cronica del Fiore dell’Oriente, firmata Shiun-Sui-Katsu-Kava, per la rubrica Giornate romane. Sino all’agosto 1888, cronista stipendiato presso il giornale romano, d’Annunzio redigerà con diversi pseudonimi – Il Duca Minimo, Lila Biscuit, Vere de Vere, Happemousche, Bull-Calf, Filippo La Selvi, Puck, Michings Mallecho e altri – varie rubriche: La vita a Roma, La vita ovunque, Favole mondane, Cronaca bizantina, Cronaca mondana, Grotteschi e rabeschi. Alle notizie sulla moda e sugli avvenimenti mondani si alternano acute informazioni sulle novità musicali, artistiche, letterarie. Parla, tra gli altri, e con competenza, di Baudelaire e Mallarmé, diffondendosi sulla lirica inglese da Keats a Swinburne, sui preraffaelliti e i parnassiani, su Zola e Maupassant, o Flaubert, cui già il corrispondente di Elda aveva dedicato, il 23 aprile 1882, apprezzamenti entusiastici: «un libro magico d’arte e di stile, Madame Bovary». Sullo scorcio del 1884 il poeta ha una breve ma intensa relazione con la giornalista Olga Ossani (la Febea del «Capitan Fracassa») che concorrerà a fornire il modello per il personaggio di Elena Muti nel Piacere. 1885-1886 La moglie è in attesa del secondogenito (Gabriellino nascerà il 10 maggio 1886) e d’Annunzio medita, dopo la vacanza estiva trascorsa in Abruzzo (ha sfidato in duello, il 30 settembre, presso la stazione di Chieti, un certo Carlo Magnico, da cui si ritiene diffamato), di allontanarsi dalla città per stabilirsi nei luoghi natali. Ma in autunno gli viene offerta l’opportunità di dirigere la prestigiosa «Cronaca Bizantina», impresa che tuttavia lo distoglie dal lavoro creativo. Scontento dell’attività giornalistica, che definisce «miserabile fatica quotidiana», sempre più «bisognoso del superfluo» e quindi oltremodo indebitato, si sente ormai «vinto» dalla capitale. «Ho molte cose a cui attendere» scrive il 6 aprile 1886 al principe Maffeo Sciarra, proprietario de «La Tribuna», «ho molte opere da condurre a termine, ho una gran voglia di mettermi a lavorare sul serio intorno a un lavoro lungo e d’importanza per me capitale. […] Roma mi ha vinto.» I lettori scarseggiano e la «Cronaca Bizantina» chiude i battenti. Otterrà aiuti finanziari, ma permane l’inquietudine letteraria, iniziata già all’indomani di Canto novo e protrattasi in questi anni tra incessanti prove sperimentali, sia in versi che in prosa, compiute su sollecitazione dei più importanti testi del decadentismo europeo subito letti e assimilati. Oltre agli articoli, che compone quotidianamente, scrive liriche (molte di quelle apparse, a partire dal 1883, in rivista confluiranno nell’Isaotta Guttadàuro del 1886 e poi nell’Isottèo-La Chimera del ’90), tenta la via del romanzo (il 6 settembre 1884 aveva scritto al Nencioni: «incomincerò subito un romanzo di cui ho già tutto l’organismo vivente nel cervello. Voglio fare un romanzo, dirò così, omerico epico»; e ancora il 17 maggio 1886 ribadisce, allo stesso destinatario: «E intanto lavoro al romanzo») e ripiega sulle novelle, che raccoglie nel volume San Pantaleone pubblicato nell’autunno 1886 dall’editore Barbera di Firenze. L’accoglienza è fredda, causa, forse, l’eccessiva e compiaciuta cura formale che distanzia le narrazioni dal registro verista allora imperante. Per il Natale 1886, esce, editrice «La Tribuna», l’Isaotta Guttadàuro ed altre poesie in raffinata veste editoriale con illustrazioni di Cabianca, Sartorio, Carlandi, Cellini, Coleman, De Maria, Formilli, Morani, Ricci (artisti conosciuti e frequentati dal poeta tra l’estate e l’autunno presso il Caffè Greco, dove conveniva anche l’amico Angelo Conti), e con dedica «A donna Maria di Gallese». Poco tempo prima d’Annunzio, offeso dalla parodia attribuita allo Scarfoglio, apparsa sul «Corriere di Roma» (16 ottobre, Risaotta al pomodauro, a firma Raphaele Panunzio, e poi 20, 22, 25, 26 dello stesso mese), lo sfida a duello (20 novembre) ed è ferito a un braccio. 1887-1888 Il 2 aprile, a un concerto presso il Circolo Artistico di via Margutta, d’Annunzio conosce Barbara Leoni (in realtà Elvira Natalia Fraternali, sposata al conte Ercole Leoni). Nasce subito un grande amore che si protrarrà, intensissimo, per cinque anni, come testimonia il carteggio appassionato fra i due amanti. È Barbara l’ispiratrice di versi e prose in questo fertile lustro, tanto più significativo perché segue a un silenzio e a una lunga crisi, interrotti solo da qualche articolo mondano o da qualche cronaca d’arte, oltre che dalla composizione di alcune liriche,

confluite in parte nell’Isottèo-La Chimera, e dall’infelice ode PER GLI ITALIANI MORTI IN AFRICA, pubblicata sul «Capitan Fracassa» il 19 febbraio e subito accusata di plagio (in particolare del Tommaseo di Gli italiani morti in Spagna). Il ritorno alla poesia è segnato, oltre che dall’opuscolo Per le nozze d’Elvira, sorella molto diletta (9 aprile), dall’elegia VILLA MEDICI, composta tra l’aprile e il giugno e apparsa il 24 luglio sul «Fanfulla della Domenica» (cui seguono il 21 agosto ELEVAZIONE e il 13 novembre SOGNO D’UN MATTINO DI PRIMAVERA); quello alla narrativa dall’annuncio, apparso sul «Fanfulla della Domenica» il 7 agosto, di un romanzo, Barbara Doni, mai pubblicato. A Barbara faranno comunque capo non solo numerose pagine del Piacere, ma la protagonista del Trionfo della Morte, Ippolita Sanzio, come riconoscerà esplicitamente d’Annunzio nel Libro segreto. Durante l’estate il poeta effettua una breve crociera da Pescara a Venezia sul battello Lady Clara dell’amico Adolfo de Bosis. La crociera, in verità, prevedeva un diverso itinerario, sino a Trieste e alle coste dalmate, ma resta interrotta per un incidente di navigazione: l’equipaggio è tratto in salvo dalla corazzata Agostino Barbarigo e l’episodio fornisce lo stimolo per gli articoli sulle condizioni della Marina Militare italiana, apparsi nel 1888 su «La Tribuna» e poi raccolti nell’Armata d’Italia. A Venezia, in settembre, incontra Barbara, apprende la notizia della nascita del terzo figlio (il 22; in omaggio alla città lo chiama Veniero) e compone i versi dell’Allegoria dell’Autunno, poema che rimarrà incompiuto e inedito sino al ’95 (ma nel «Fanfulla della Domenica» del 16 ottobre escono i sonetti Prologo d’una allegoria dell’autunno, evocanti il nome di Ippolita, sostituito da Isotta nell’Isottèo). La relazione con Barbara comincia a creare numerose difficoltà familiari e fra i due diventa necessaria una momentanea separazione. Nel luglio 1888 d’Annunzio lascia Roma, la famiglia e l’amante, per stabilirsi a Francavilla, nel Convento di Michetti, dove compone in sei mesi (la prima cartella è stesa il 26 luglio) il suo primo romanzo, Il piacere. Durante il soggiorno a Francavilla cessa la collaborazione a «La Tribuna»: l’ultima cronaca mondana è datata 30 agosto, e bisognerà attendere cinque anni per incontrare di nuovo la sua firma sul giornale romano. 1889 Dedica all’amico Michetti un importante articolo sul «Corriere di Napoli», in due puntate, La grande arte (1617 e 20-21 aprile), in cui mostra approfondite letture: Taine, Amiel, Fromentin, Joubert. Il primo dei Romanzi della Rosa (ma la definizione della trilogia è più tarda) è pubblicato da Treves nel maggio 1889 e ottiene un sostanziale successo. La vicenda, un autobiografico profilo dei primi anni di vita romana, ritagliato sull’esempio di À rebours di Huysmans e del Journal intime di Amiel, fonda il tipo esemplare dell’intellettuale caro a certo clima di fine secolo, affascinato dall’edonismo sensuale e dalla raffinata ricerca della vita come arte. Il piacere suggella così l’esperienza dell’apprendistato giornalistico e sviluppa le sperimentazioni delle prose e dei versi sino a quel momento composti. Continua intanto la relazione con Barbara: dell’aprile 1889, anniversario dell’incontro di due anni prima, è la «grande settimana d’amore» trascorsa ad Albano, narrata poi, insieme con il soggiorno estivo a San Vito Chietino, nelle pagine del Trionfo della Morte, romanzo già in via di concepimento con il titolo L’invincibile nel luglio di quell’anno («Ti racconterò la natività del mio romanzo avvenuta nel mio cervello ieri, sul promontorio dei Sogni. Sono ancora pieno di una certa ebrezza intellettuale», annuncia a Barbara il 9). Risalgono all’estate anche alcune liriche poi comprese nella Chimera e nelle Elegie romane o mai raccolte in volume (come il Trittico delle Sibille, composto il 20 settembre per le nozze di Carmelo Errico): «Tra la prosa» scrive il 16 agosto a Vincenzo Morello «ho avuto in questi giorni un improvviso ritorno di poesia. […] Questa mia nuova poesia è migliore della vecchia». Ritornato a Roma alla fine di settembre è chiamato (dal 1° novembre) a prestare il servizio militare, che adempie per un anno con fatica e riluttanza presso i Cavalleggeri d’Alessandria nella caserma romana del Macao.

1890 A partire dal 6 gennaio e fino al 16 marzo escono su «La Tribuna Illustrata» sedici puntate dell’Invincibile. Interrotto per mancanza di ispirazione e di materiale, sarà portato a termine solo nel ’94 con il nuovo titolo di Trionfo della Morte. Subito dopo il congedo dal servizio militare, pone fine alla convivenza con la moglie (Maria ha tentato il suicidio) che continuerà però a rivedere, di tanto in tanto, per tutta la vita, e si stabilisce in via Gregoriana, vicino a Piazza di Spagna, dove inizia la stesura del breve romanzo Giovanni Episcopo, con molto disagio, anche perché affetto da febbri malariche. Privo di introiti che non derivino dalle proprie opere, cade nella rete degli usurai e i begli arredi della sua ultima dimora vengono posti sotto sequestro. 1891 Trascorre buona parte del 1891 nel Convento di Michetti a Francavilla, rifugio ideale contro i creditori romani e luogo privilegiato per attendere al lavoro letterario. Pubblica infatti Giovanni Episcopo nella «Nuova Antologia» in tre puntate (1° e 16 febbraio, 1° marzo; in volume uscirà poi a Napoli presso l’editore Pierro nel gennaio ’92). Si tratta della tragica confessione di un delitto sulle orme di Dostoevskij, proposto in francese a partire dal 1886 da Melchior de Vogüé e tradotto allora in italiano da Federico Verdinois. L’influenza della narrativa russa è la componente di un rinnovamento («Penso che troverete qui» si legge nella lettera dedicatoria alla Serao «i primi elementi di una rinnovazione proseguita poi nell’Innocente con più rigore di metodo, esattezza di analisi, semplicità di stile […] Bisogna studiare gli uomini e le cose DIRETTAMENTE senza transposizione alcuna») protratto, su altro versante, con l’acquisizione delle teorie simbolistiche di derivazione francese (Verlaine, innanzitutto, ma poi, da Anatole France allo Schuré, da Mallarmé a Gide, le voci presenti nell’Enquête sur l’évolution littéraire condotta nel ’91 da Jules Huret) che modificano le tonalità parnassiane e preraffaellite sin dalle prime poesie poi raccolte nel Poema paradisiaco (nel gennaio 1891 compaiono sulla «Vita Nuova» e sulla «Nuova Antologia» alcune liriche paradisiache). Tra marzo e luglio compone L’innocente, che uscirà a puntate sul «Corriere di Napoli», diretto da Scarfoglio e dalla Serao, dal 10 dicembre ’91 al 9 febbraio ’92 (Treves, a cui il 5 agosto viene inviato il manoscritto, si rifiuta di pubblicare il romanzo ritenendolo immorale). Durante l’estate, d’Annunzio incontra a Pescara Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, principessa di origine siciliana, che vive a Napoli. Trentenne, sposata con il conte Anguissola, fra breve sostituirà Barbara, visto che nell’agosto d’Annunzio si trasferisce nella città partenopea. Il 25 dicembre un italianista francese, Georges Hérelle, gli propone di tradurre L’innocente, che infatti, con il titolo di L’intrus, uscirà a puntate sul «Temps» di Parigi a partire dal settembre 1892 (poi subito in volume presso Calmann-Lévy). 1892 A Napoli comincia per d’Annunzio un periodo di «splendida miseria» (così verrà ricordato nella Contemplazione della Morte). Miseria per le ristrettezze economiche che la collaborazione a «Il Mattino», il nuovo giornale di Scarfoglio (ma anche alla «Domenica del Don Marzio» o alla «Tavola Rotonda»), non riesce a risolvere. Splendida, oltre che per il nascente amore con Maria Gravina, che chiama Mricicca (Barbara, dopo alcuni infelici soggiorni napoletani, si prepara malinconicamente all’abbandono), anche per il notevole numero di opere condotte a termine. Escono infatti Giovanni Episcopo presso Pierro (gennaio), L’innocente presso Bideri (aprile), con dedica alla contessa Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, le Elegie romane presso Zanichelli di Bologna (maggio), con dedica al Nencioni. Lavora intanto al rifacimento dell’Intermezzo, alla preparazione del Poema paradisiaco, di cui pubblica su «Il Mattino» numerose liriche, alle traduzioni francesi dell’Innocente e dell’Episcopo (le lettere a Hérelle testimoniano la cura e la meticolosità profuse), alla stesura delle Odi navali e della Nemica, la sua prima pièce teatrale, che rimane interrotta al primo atto.

La collaborazione a «Il Mattino», in particolare, rivela le nuove propensioni di d’Annunzio in fatto di arte figurativa (gli articoli del luglio su Filippo Palizzi, con importanti rilievi sul colore e sul rapporto disegno-pittura da accostare a quelli del Baudelaire delle Curiosités esthétiques), di musica (bolla Mascagni), di letteratura inglese (commemora Shelley e Tennyson) e di tecnica letteraria con interventi sul romanzo, genere letterario che realizza, a suo avviso, l’opera d’arte “totale”. Anche gli interventi sulla versificazione segnalano il suo puntuale aggiornamento e discorrendo delle Myricae del Pascoli manifesta l’adesione alla corrente simbolista. Mentre affronta il problema della cultura di massa e diviene il paladino della difesa delle bellezze artistiche dell’Italia da poco unita, nella Bestia elettiva (25 settembre 1892) segnala ai lettori napoletani la filosofia di Nietzsche, destinata a improntare in modo decisivo la sua opera. Il legame con la Gravina, in attesa di un figlio, diviene nel frattempo gravoso, per l’ostilità dell’aristocrazia napoletana e le ristrettezze economiche in cui i due amanti, accusati d’adulterio, sono costretti a vivere, prima nel lugubre castello di Ottajano e poi, alla fine dell’anno, a Resina. 1893 Si consuma in questo anno lo scandalo per la nuova relazione amorosa: d’Annunzio subisce un processo e una condanna per adulterio (29 luglio) mentre la moglie reclama gli alimenti per i figli. Lavora intanto disperatamente per fronteggiare i debiti e la pesante situazione familiare (il 9 gennaio aveva visto la luce la figlia Renata, la “Sirenetta” del Notturno). Oltre a riproporre opere già pubblicate con titolo mutato (alcune novelle del San Pantaleone nei volumetti I Violenti e Gli Idolatri editi da Pierro, una novella del Libro delle vergini, Nell’assenza di Lanciotto, stampata da Bideri, la «Favola mondana» La tiranna di Policoro dal Trevisani di Milano), pubblica a puntate, su «Il Mattino», Il trionfo della Morte (dal 12-13 febbraio al 7 settembre, e poi, dopo lunga interruzione, dal 20 aprile al 6 giugno dell’anno successivo). L’uscita delle Odi navali all’inizio dell’anno presso Bideri, con data 1892 (ispirata alla morte dell’ammiraglio Saint-Bon, eroe di Lissa), e del Poema paradisiaco-Odi navali nella primavera, presso Treves, rappresenta la direzione parallela della poetica dannunziana verso l’impegno patriotticocivile da un lato, e dall’altro verso l’estenuazione musicale malinconico-voluttuosa. Mentre la traduzione francese dell’Innocente dà il via alla fama europea, d’Annunzio si applica ad analisi di grande impegno, che dimostrano una raggiunta maturità culturale ed espressiva: tali gli articoli su Zola (3, 10, 15 luglio su «La Tribuna») e Wagner (23 luglio, 3 e 9 agosto). Intanto le difficoltà economiche, aggravatesi per i debiti lasciati dal padre (morto il 5 giugno), lo inducono, alla fine dell’anno, ad abbandonare Napoli. Sistemate provvisoriamente la Gravina e la figlia Renata a Roma, grazie all’aiuto dell’amico Pasquale Masciantonio, si trasferisce in dicembre in Abruzzo presso Michetti per ultimare la stesura del Trionfo della Morte. 1894 Isolato per mesi nel Convento di Francavilla, porta a termine il romanzo, storia di una catastrofe autodistruttiva «dedotta» dalla passione erotica (l’ultima cartella daterebbe, secondo la testimonianza dell’autore, 12 aprile: «Ieri verso il tramonto» si legge infatti in una lettera a Treves del 13 «scrissi l’ultima pagina del libro che mi ha tanto affaticato. Le campane del convento sonarono a festa per un’ora intera»). Il trionfo esce nello stesso mese, con una dedicatoria al Michetti e la data «Settembre 1889 – Marzo 1894», quasi contemporaneamente al rifacimento dell’Intermezzo, stampato da Bideri in edizione profondamente rinnovata (trentanove liriche aggiunte). In settembre, a Venezia, dove si è recato per incontrare Hérelle, che sta traducendo il Trionfo della Morte, frequenta Angelo Conti, sovrintendente nella città lagunare, e conosce Eleonora Duse. Nell’autunno, ricongiuntosi con la Gravina e la figlia nel villino Mammarella a Francavilla, inizia la stesura delle Vergini delle rocce, romanzo di lunga incubazione, concepito a Napoli nel ’93. 1895 L’anno è ricco di avvenimenti decisivi per l’evoluzione artistica e umana dello scrittore. Partecipa attivamente

alla traduzione francese del Piacere (intitolato L’enfant de volupté, a puntate sulla «Revue de Paris» e in volume da Calmann-Lévy) e porta avanti la stesura del nuovo romanzo, che considera una tappa fondamentale della sua arte. Poema più che romanzo nel senso corrivo del termine, molte incertezze ne accompagnano la nascita, a partire dal titolo, più volte modificato – Cor cordium, Le tre principesse, La trinità – e dall’inserimento nella trilogia del Giglio, parallela a quella della Rosa da poco ultimata (Il piacere, L’innocente, Trionfo della Morte). La nuova trilogia, mai compiuta, dovrebbe comprendere anche La Grazia e L’Annunciazione. D’Annunzio ha precisato le proprie idee sul romanzo moderno, organico e sintetico, nell’intervista rilasciata a Ugo Ojetti e inserita poi nel volume Alla scoperta dei letterati. Inizia a collaborare alla redazione del «Convito», la rivista allora fondata da Adolfo de Bosis, pubblicando nel fascicolo inaugurale di gennaio il Proemio, manifesto dell’estetismo militante come le Note su Giorgione e su la critica, e la prima puntata delle Vergini, che procedono sino al sesto fascicolo di giugno. Nei locali della rivista, la selleria di palazzo Borghese a Roma, incontra Pascoli, con il quale instaura rapporti amichevoli (gli aveva del resto scritto, dopo la pubblicazione del suo articolo su «Il Mattino», il 3 gennaio 1893: «Ho detto pubblicamente quel che penso da molto tempo. Noi non ci conosciamo di persona, ma siamo amici di lungi. Perciò io non ho esitato a rivolgerti il bel tu cordiale. Addio. Amami. Che la tua vena si conservi lucida e pura, per la gioia di pochi»). Tra giugno, luglio e agosto la «Revue des Deux Mondes» pubblica la traduzione del Trionfo della Morte mentre Treves pubblica Le vergini delle rocce con data 1896 (il romanzo vede nel «superuomo» nietzschiano la possibilità di riscatto dalla diffusa mediocrità). Sul panfilo Fantasia di Scarfoglio, con Hérelle, Masciantonio e il pittore Guido Boggiani, salpa alla volta della Grecia: dalla crociera trarranno ispirazione La città morta, il primo dramma teatrale, Laus Vitae di Maia, il libro inaugurale delle Laudi, e il rifacimento grecizzante di Canto novo. A Venezia, dove si reca in settembre per preparare il discorso in chiusura della prima Esposizione Internazionale d’Arte (la Glosa dell’Allegoria dell’Autunno, pronunciato l’8 novembre nella sala del liceo musicale Benedetto Marcello, e stampato poi dall’editore Paggi di Firenze), incontra di nuovo la Duse con la quale allaccia una relazione sentimentale che condizionerà la sua produzione indirizzandola verso il teatro. 1896-1897 A Firenze s’inaugura il 2 febbraio 1896 la rivista «Il Marzocco», di cui d’Annunzio stende il Prologo, manifesto di interventismo culturale, non discosto dal Proemio del «Convito». Ispirato dalla Duse termina, nel novembre, La città morta, dramma scritto su misura per l’attrice, ma che d’Annunzio preferisce far rappresentare, sia pure con ritardo, a Parigi da Sarah Bernhardt (per il debutto francese della Ville morte, tradotta da Hérelle, bisognerà infatti attendere il gennaio 1898). Nei primi mesi del ’96, mentre infuria la polemica sui plagi fomentata principalmente dal Thovez e pubblicizzata dalla «Gazzetta Letteraria», è con la Duse a Firenze e a Pisa; poi, nel giugno, a Venezia, dove concepisce Il fuoco in forma, per ora, di lunga novella (ma già nel ’94, in una lettera all’Hérelle, si rintracciano accenni a un romanzo «veneziano»). La prima cartella del Fuoco, primo romanzo della nuova trilogia del Melagrano, è datata 14 luglio 1896. Pubblica intanto, presso Treves, l’edizione definitiva di Canto novo-Intermezzo, in unico volume: se L’intermezzo riproduce l’edizione Bideri del ’94, Canto novo risulta radicalmente trasformato rispetto alla Sommaruga del 1882, divenendo, ormai, anticipazione delle Laudi (il «Convito» aveva del resto pubblicato, in numero speciale del ’96, Alle montagne, ode poi compresa in Elettra). Compone inoltre, sempre nel ’96, i Sonnets cisalpins, che definisce, in una lettera all’Hérelle datata 24 dicembre, curiosità letteraria per i contenuti e lo stile, di «sapore latino». Prevale tuttavia, in questi anni, l’ispirazione teatrale, che procede di pari passo con la nuova ambizione politica. Nel giugno 1897 la Duse ha rappresentato a Parigi il Sogno d’un mattino di primavera, composto in soli dieci giorni, e nell’agosto d’Annunzio viene eletto deputato nel collegio abruzzese di Ortona, sostenuto dalla destra, nonostante si proclami «al di là della destra e della sinistra come al di là del bene e del male». Di notevole interesse

programmatico, il suo Discorso agli elettori viene diffuso da «La Tribuna» e diverrà celebre come Discorso della siepe poiché l’oratore inneggia alla piccola proprietà rurale. Il legame con la Duse si fa più stretto, nonostante la nascita del secondo figlio della Gravina, Gabriele Dante (che d’Annunzio non riconosce): nel settembre è con l’attrice in Umbria – il soggiorno costituisce un importante momento di ispirazione per le Laudi; in ottobre-novembre a Venezia, dove viene annunciato alla stampa il progetto di edificazione di un grande teatro en plein air ad Albano, nei pressi di Roma, secondo la concezione bayreuthiana. Nell’inverno è a Roma. 1898 Si stabilisce quindi a Settignano, sui colli di Firenze, abitando la Capponcina, antica villa dei Capponi dove dirà di aver ritrovato «senza sforzo i costumi e i gusti di un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi». La Duse alloggia in una villetta attigua, la Porziuncola, come d’Annunzio la definisce con travestimento francescano (l’anno successivo sarà investito, ad Assisi, del Terzo Ordine), del quale si compiace ormai nel clima delle Laudi (secondo le testimonianze del Palmerio e della Serao risale appunto a quest’anno il progetto poetico delle Laudi del cielo della terra del mare e degli eroi), con saio e digiuni e stravaganze misticheggianti che attizzano la piccola cronaca. Scrive per il teatro La Gioconda, il Sogno d’un tramonto d’autunno e il Sogno d’un meriggio d’estate (quest’ultimo rimasto incompiuto) mentre progetta, ma senza porvi mano, La tragedia della Folla. Compare intanto ne «Il Marzocco» qualche brano del Fuoco che d’Annunzio va faticosamente portando avanti. Nella vicenda, la Duse è ritratta nel personaggio di Foscarina, un’attrice pateticamente in là con gli anni. Alla fine di dicembre è in Egitto, dove accompagna la Duse in tournée: di quel soggiorno è ampia traccia nei Taccuini, in Laus Vitae (Il Macedone, Tindaride e Il Deserto), quindi nelle Faville e nel Notturno. 1899 Dall’Egitto si reca con la Duse in Grecia; rientrerà in Italia solo il 18 marzo. Ad Atene, il 9 febbraio, presso l’Associazione Letteraria Parnaso, pronuncia l’Orazione agli Ateniesi: col tono del mistide eleusino dichiara di dovere al sole dell’Ellade la maturità del proprio spirito e addita nella patria ideale il baluardo contro i barbari. Compone poi a Corfù, dedicandola ai cipressi dell’isola, la tragedia La gloria. Al ritorno infittisce i rapporti con Angelo Conti, col quale collabora alla stesura della Beata riva, trattato di estetica, nietzschiano e misticheggiante, che esce l’anno dopo con prefazione dannunziana: Dell’arte, della critica e del fervore. In esso è l’annuncio delle Laudi, «nuova arte fatta in gloria della natura, che gli antichi avranno insegnato a ritrovare». Le prime stesure risalgono infatti all’estate, trascorsa a Bocca d’Arno insieme con la Duse, se già nell’agosto il poeta informa Giuseppe Treves di avere composto circa un migliaio di versi. E avverte: «Le Laudi si compongono di sette libri, i quali saranno pubblicati in tre volumi: I, tre libri; II, due libri; III, gli altri due» (7 agosto). Ne compare intanto un primo manipolo sulla «Nuova Antologia» del 16 novembre; L’ANNUNZIO , LA SERA FIESOLANA, BOCCA D’ARNO, i silenzi di FERRARA , PISA e RAVENNA e il CANTO AUGURALE PER LA NAZIONE ELETTA (l’8 ottobre era uscita ne «Il Marzocco» l’ode PER LA MORTE DI GIOVANNI SEGANTINI). Il 27 novembre comunica a Giuseppe Treves di avere già composto circa duemila versi. Ma pur essendosi riconsegnato così alla più autentica vocazione («mi abbandonai al fiume di poesia cui avevo resistito per tanto tempo»), è costretto a rimettersi alla «mola della prosa» per un’opera «che partorirà tante pene». Sempre alle prese con la «sciagurata avventura del Fuoco», preferirebbe rinunciare al libro, che ferisce la Duse, ma gli uscieri dell’editore (d’Annunzio si era indebitato ipotecando l’intero ciclo del Melagrano) lo persuadono alla conclusione, non senza scoramenti profondi: «Credo che, dopo aver compiuta questa fatica, abbandonerò la letteratura» (a G. Treves, 28 settembre 1899), alternati all’autoencomio: «credo il Fuoco superiore ad ogni altro mio libro» (a E. Treves, 25 gennaio 1900). 1900

Il 9 gennaio inaugura, con grande eco nella stampa, il ciclo delle Lecturae Dantis, a Firenze, in Orsanmichele: commenta l’VIII canto dell’Inferno e legge La laude di Dante (poi A DANTE in Elettra), pubblicata nella «Nuova Antologia» il 16 gennaio. Pascoli, studioso di Dante, che si vede scavalcato da d’Annunzio, attacca il concorrente su «Il Marzocco» e tra i due poeti è polemica aperta. Il fuoco è edito nel marzo (ma due frammenti del romanzo, Il mito del Melagrano e La lamentazione di Arianna, erano nel frattempo usciti su «Il Marzocco» il 18 settembre e il 30 ottobre 1898). In calce al testo si legge: «Settignano di Desiderio: il XIII di febbraio MDCCCC». Il seguito della trilogia, La Vittoria dell’Uomo e il Trionfo della vita, non sarà mai composto. L’11 marzo compare su «Il Giorno» una sezione di Laus Vitae: La notte d’estate. Il 24 marzo abbandona la maggioranza parlamentare e si unisce ai deputati dell’Estrema sinistra che attuano l’ostruzionismo contro i provvedimenti reazionari del governo Pelloux: «Come uomo d’intelletto» dichiara «vado verso la vita». Nell’aprile è in Svizzera, Austria e Germania al seguito della Duse. Nei Taccuini è ampia traccia della visita alle pinacoteche di Vienna, Basilea, Francoforte e Colonia, con note sulla pittura di Holbein e di Dürer. Conclusasi la XX legislatura (28 maggio) si ripresenta, a fianco dei socialisti, nel collegio di Firenze. Polemiche e risse (sfida e ferisce in duello Ettore Bernabei, direttore de «La Nazione») non gli valgono però il successo elettorale. Intensifica intanto l’amicizia con Luigi Lodi, direttore de «Il Giorno» al quale collabora ormai periodicamente: vi pubblica infatti LA TENZONE (1° luglio, con il titolo La Tregua) e dall’agosto al settembre un cospicuo numero di odi raccolte poi in Elettra (AL RE GIOVINE, ALLA MEMORIA DI NARCISO E PILADE BRONZETTI, PER LA MORTE DI UN DISTRUTTORE, PER I MARINAI D’ITALIA MORTI IN CINA, A ROMA). È il frutto dell’estate trascorsa in Versilia. Dal Secco Motrone, nei pressi di Viareggio, aveva scritto ad Angelo Conti: «Molte laudi ho composto imitando le foglie e le acque. Pubblicherò in autunno i primi tre libri – Merope, Maia, Alcyone […] Io veramente ho parlato con le Sirene, e mi sono trasfuso nel mito di Glauco». Il 5 ottobre pubblica IL NOVILUNIO («Flegrea»), il 16 novembre L’OLEANDRO («Nuova Antologia»). 1901 Il 1° gennaio pubblica l’ode Per la morte di un capolavoro, «per la ruina del cenacolo vinciano» – come scrive a Conti, annunciandogli anche la composizione di un’ode per Garibaldi, La notte di Caprera (pubblicata su «La Tribuna» nel gennaio e in opuscolo presso Treves). Nello stesso mese inizia una serie di pubbliche letture, a Torino, Milano, Bologna, Firenze, dell’ode per Garibaldi e per Verdi (Per la morte di Giuseppe Verdi, pubblicata su «La Tribuna» nel febbraio). Trascorre di nuovo l’estate in Versilia, dove compone Francesca da Rimini, dramma in versi, primo del ciclo I Malatesti (seguirà Parisina ma non il progettato Sigismondo), dedicato «alla divina Eleonora Duse»: «Questa è colei che all’arco mio sonoro / pose la nova corda ch’ella attorse / ed incerò perché sicura scocchi», come si legge nell’epigrafe. Il 16 giugno esce ne «Il Marzocco» il DITIRAMBO III di Alcyone; il 30 novembre compare ne «La Tribuna» NEL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI VINCENZO BELLINI (Elettra). 1902 Escono presso Treves le Novelle della Pescara che raccolgono, rielaborandola, la novellistica giovanile. Pubblica ne «Il Marzocco» la prima strofa dell’ode PER IL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI VITTORE HUGO (26 febbraio). Nel maggio compie un viaggio in Istria che ispirerà poi taluni Sogni alcionii: questo è appunto l’anno dell’«ebrietà di Alcyone», l’anno del carmen perpetuum del terzo libro delle Laudi. Compone quasi per intero il diario lirico a Romena, nel Casentino, dove trascorre l’estate con la Duse, poiché rinvia all’anno seguente solo la Corona di Glauco, DITIRAMBO IV e contorni, UNDULNA e i Sogni di terre lontane. Scrive a Emilio Treves il 27 luglio: «Io sono […] converso in innumerevoli ruscelli di poesia» e a Conti il 10 agosto: «Lavoro al mio libro di poesia; e mi pare che tutto il mio sangue sia divenuto un fiume lirico inesauribile». In autunno è a Val di Castello, città natale del Carducci, come testimoniano gli appunti dei Taccuini, stilati in vista della composizione di un’ode dedicatoria al maestro (progettata prima per Alcyone, ma poi accolta in Maia: SALUTO AL MAESTRO); quindi è a Roma, sempre

stando alle note di taccuino assai accoste alle TERME alcionie. Non trascura neppure Maia e Elettra: nel maggio erano usciti alcuni versi dei giacigli («Medusa»), nel giugno il CANTO DI FESTA PER CALENDIMAGGIO («Il Secolo XX»), nel dicembre i diciassette silenzi da PISTOIA a LUCCA (nella «Nuova Antologia» e ne «Il Marzocco»). 1903 Si accinge alla conclusione dei primi tre libri delle Laudi. Maia o LAUS VITAE è condotto a termine in modo sorprendentemente rapido, a Settignano, nei primi mesi dell’anno. Compone in piedi e senza concedersi tregua – racconta nel Libro segreto – il poema di «Anima e Corpo», che non ha l’uguale se non nella Commedia dantesca e al quale – dice – «si consegna il mio nome nel tempo». Il 1° marzo avverte Emilio Treves di essere invaso da una «furia laboriosa» che lo «agita per sette e sette ore»; il 28 lo informa che la LAUS «si è sviluppata al di là della misura stabilita. Da sola può dunque riempire un volume». Il 18 aprile annuncia all’editore il compimento dell’opera che esce l’11 maggio. Si applica subito di seguito alla composizione della Figlia di Iorio, il capolavoro del drammaturgo, già ultimato il 29 agosto. Come accadde per La città morta non sarà la Duse (che sta curando a Nizza un attacco improvviso del suo male, la tisi) a impersonare Mila: la giovane Irma Gramatica interpreta però egregiamente il dramma contribuendo al successo dell’opera. Il 3 settembre d’Annunzio scrive a Palmerio, segretario e factotum della Capponcina: «Ora ho ripreso il lavoro per condurre a termine le poche cose che mancano al secondo volume delle Laudi». Compone infatti fra l’altro i Sogni, La Corona di Glauco, UNDULNA , DITIRAMBO IV e il COMMIATO , con il quale dedica Alcyone al Pascoli. La «Nuova Antologia» del 1° novembre pubblica gli ultimi silenzi di Elettra, da BERGAMO a RAVENNA . Nel dicembre, ma con data editoriale 1904, escono infine in unico volume il secondo e terzo libro delle Laudi. 1904-1909 I rapporti con la Duse si fanno sempre più tesi e precari: d’Annunzio ha conosciuto nell’autunno del 1903 Alessandra di Rudinì vedova Carlotti, con la quale ha subito inizio un’intensa vicenda amorosa. La Duse abbandonerà infatti di lì a poco Settignano per lasciar posto alla bella aristocratica, che instaura alla Capponcina un regime di vita mondano e lussuoso. In una lettera a Hérelle (1° novembre 1904) d’Annunzio presenta la nuova amante: «ho per compagnia» scrive «una creatura forte e sana, dotata di una straordinaria freschezza interiore, e che unisce il gusto della vita selvaggia a una rara cultura». Fra ozi, cavalcate e vita del bel mondo, alla scrittura è riservato un posto di secondo piano: riduce in libretto La figlia di Iorio (musicata da Franchetti) e compone La fiaccola sotto il moggio (febbraio-marzo 1905), tragedia in versi di ambientazione abruzzese come la precedente (dovevano seguire altre due pièces, il Dio scacciato e la Primavera sacra, secondo un originario disegno tetralogico). Nel maggio la florida Nike – così d’Annunzio ama chiamare Alessandra – è colpita da un grave male che comporta tre interventi chirurgici e una lunga degenza in una clinica fiorentina. Abbandonata dalla famiglia, che non approva la relazione con il poeta, la donna è assistita solo dall’amante, prodigo di cure, come testimonieranno più tardi la prosa Dell’amore, della morte, del miracolo (nelle Faville) e il diario postumo Solus ad solam. Nonostante i gravosi disagi, ai quali vanno aggiunti quelli derivanti dalla difficile situazione economica (Marco Praga ha l’incarico di amministrare il patrimonio letterario dello scrittore), d’Annunzio non si priva di nuove avventure amorose: la cronaca mondana lo sorprende con la donna che nel Notturno e nel Libro segreto chiamerà Corè, come la regina degli Inferi (la marchesa Luisa Casati Stampa). Attende solo alla Vita di Cola di Rienzo (pubblicata nel «Rinascimento», settembre 1905, prima, secondo il progetto, di una serie di Vite degli uomini illustri e degli uomini oscuri), e propone a Treves un volume di Prose scelte (esce nel 1906), una sorta di florilegio sulle tracce della raccolta carducciana. Nei primi giorni del 1906 d’Annunzio conosce la contessa Giuseppina Mancini, la Giusini del diario Solus ad

solam, che soppianta ben presto la Di Rudinì, ormai guarita dal male che pareva incurabile, ma preda del «mostro vorace della Morfina», «vittima del vizio generato dallo spasimo». Se l’infelice Alessandra sceglierà infine la via del convento, la sedotta Giusini, maritata e combattuta fra il dovere e la violenta passione, dovrà fra breve essere ricoverata in una casa di cura per malattie mentali. L’attività letteraria di d’Annunzio è intanto rivolta prima al teatro, con una tragedia in prosa (Più che l’amore, rappresentata nel 1906 con un insuccesso tanto clamoroso da indispettire il drammaturgo, che premetterà alla pubblicazione del testo numerose pagine sprezzantemente polemiche: Dell’ultima terra lontana e della pietra bianca di Pallade) e due in versi (La nave del 1907 e Fedra del 1908); e quindi al romanzo. Forse che sì, forse che no, storia di incesto, di follia e insieme di «animalità» in un contesto caratterizzato dalle «più moderne vicende» (l’automobile che ormai d’Annunzio possiede e l’aereo sul quale vola a Montichiari nel settembre 1909), è pubblicato da Treves nel febbraio del 1910. 1910-1912 Un nuovo amore entra nella vita di d’Annunzio: è la venticinquenne russa Nathalie de Goloubeff, la «Diana caucasea, matta della più nera mattezza slava», che dopo aver tradotto in francese il Forse che sì gli rimane accanto per lunghi anni, dividendo con lui l’esilio francese, ma non senza contrasti, bizzarrie e drammatici colpi di scena (la gelosia la spinge a tentare il suicidio). «Giammai fuor d’amore e fuor di debiti», il poeta è però ora di fronte a una situazione insostenibile. Non può più vivere alla Capponcina, assediato com’è dai creditori, né gli valgono il rifugio presso la marina pisana o le occasionali prestazioni remunerative (qual è per esempio il ciclo di conferenze sull’aeronautica, itinerante tra il gennaio e il febbraio del 1910). La via della Francia, segnatagli dalla Goloubeff, diviene infine inevitabile e fra Parigi e Arcachon d’Annunzio trascorre un lustro intenso e tumultuoso, quando l’esuberante esibizione mondana comincia a incrinarsi per le inquiete avvisaglie dell’imminente vecchiaia. «Cinque anni d’esilio nell’estremo occidente, sul dosso spinoso di una duna oceanica: un lungo ordine di giorni e di opere, una lunga pazienza, una lunga attesa», come si leggerà nel Notturno. La Goloubeff, Donatella per il poeta, non gli è sola al fianco: intreccia relazioni sentimentali e intensamente amichevoli con Romaine Brooks, la pittrice ricordata nel Notturno con il nome di Cinerina, Isadora Duncan e Ida Rubinstein, la danzatrice per la cui grazia efebica scrive in francese arcaico Le martyre de Saint Sébastien, “mistero” messo in musica da Debussy e rappresentato per la prima volta a Parigi l’11 maggio 1911. A partire dal luglio di questo stesso anno, il «Corriere della Sera», diretto da Luigi Albertini, che si era preso cura dell’intricata questione finanziaria di d’Annunzio, accoglie una serie di prose autobiografiche, indicate con il titolo comune di Faville del maglio. Memoranda (compaiono con ritmo vario fino al 1914). Sono i testi nei quali di solito s’individua la nascita della cosiddetta «esplorazione d’ombra», del d’Annunzio «notturno», malinconicamente ripiegato sul frammento intimistico. Ma con le prose «d’arte» e di memoria, inclini spesso all’autoelogio, d’Annunzio procura di tener viva la propria immagine presso il pubblico italiano, dal quale è forzosamente separato. Una sorta di lunga favilla è anche la Contemplazione della Morte, composta di quattro sezioni (edite fra l’aprile e il maggio del 1912), dove si commemora la morte di Pascoli e di Adolphe Bermond, il «mistico ospite» proprietario della villa di Arcachon. Riallacciati i rapporti con Treves, che pubblica subito in volume la Contemplazione, d’Annunzio propone all’editore anche la riedizione della Vita di Cola di Rienzo, alla quale premette un lungo Proemio. Anche il poeta si è fatto udire sulle colonne del «Corriere» con le dieci Canzoni delle gesta d’oltremare che compaiono, con enorme successo, fra l’ottobre 1911 e il febbraio 1912, subito raccolte in volume come quarto libro delle Laudi con il titolo di Merope. Composte all’insegna di un audace nazionalismo – l’Italia è in guerra con la Turchia – provocano l’intervento della censura e la CANZONE DEI DARDANELLI, contenente versi offensivi per l’imperatore d’Austria, deve comparire mutila con una dichiarazione dell’autore: «Questa canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del Cavalier Giovanni Giolitti, capo del governo d’Italia, il dì 24 gennaio 1912». Sempre nel 1912 riprende il ciclo dei Malatesti, con la stesura di Parisina, tragedia in versi musicata da Mascagni, e stende

invano per Puccini La crociata degli Innocenti, che diventerà una sceneggiatura cinematografica. Prose di memoria e produzione per il teatro segnano il biennio che vede la comparsa, ancora sul «Corriere», della Violante dalla bella voce (a puntate dal febbraio al marzo del 1912), lunga favilla rimasta incompiuta, e dell’altrettanto lunga favilla per Dario, Il compagno dagli occhi senza cigli (dicembre 1912 – febbraio 1913), anch’essa incompiuta, condotta a termine solo nel 1928, quando verrà raccolta nel secondo tomo delle Faville del maglio. 1913-1914 Insoddisfatto della misura breve della favilla («Ho il bisogno quasi fisico» aveva confidato ad Albertini il 3 novembre del 1912 «di scrivere quel che si dice un’opera») compone La Leda senza cigno, romanzo che il «Corriere» pubblica a puntate fra il luglio e l’agosto 1913 (poi in volume nel 1916 con l’aggiunta di una Licenza). Per il teatro mette in scena Le chèvrefeuille, riadattamento in francese (vi si accinge l’amico marchese Illan di Casafuerte) del Ferro, tragedia in prosa pubblicata ne «La lettura» (fascicoli di marzo, aprile e maggio 1914) e la Pisanelle, ou la mort parfumée, pantomima musicata da Pizzetti e interpretata dalla Rubinstein (compare a puntate fra il giugno e il luglio sulla «Revue de Paris»). «Costretto a provvedere la buona carne rossa che mantiene il coraggio dei miei cani» così ammette d’Annunzio «ho composto un dramma greco-romano per cinematografo del genere Quo vadis?» Allude a Cabiria, che definisce «saggio ironico di arte per la folla avida e melensa» e aggiunge: «ho guadagnato in tre o quattro ore cinquantamila lire, come in una bisca qualunque pel favore della fortuna guercia e lercia». Ma il tono sprezzante è riservato a Treves (8 aprile 1914) che attende invano la raccolta in volume delle Faville del maglio. L’interesse di d’Annunzio per la «settima arte» è in realtà profondo, come testimonia l’intervista rilasciata al «Corriere» il 28 febbraio 1914, dove discorre di «arte totale» di massa e di «estetica del movimento» e, coniugando il mondo antico con la modernità, addita nelle Metamorfosi di Ovidio il testo cinematografico per eccellenza. All’approssimarsi della guerra l’umore di d’Annunzio è cupo, né gli è di conforto l’«amica tenace» dell’esilio. La Goloubeff, lamenta, è «una di quelle dolci e noiose creature che, all’incontro della giovenile visione di Dante, si ostinano di tener senza fine su le braccia il loro amore esanime […] per non potersi mai risolvere a seppellirlo, e si sforzano di farci mangiare “per ingegno” il loro caro cuore che pur non arde». Ma la guerra, con la prospettiva di tramutare finalmente in azione un estetismo mai del tutto risolto sulla pagina (la poesia è «azione trattenuta», aveva detto il Cantelmo delle Vergini delle rocce), doveva davvero rappresentare la grande occasione: con la guerra, intanto, termina il duro esilio. «Le Figaro» del 13 agosto 1914 pubblica L’ODE POUR LA RESURRECTION LATINE: «Vae victis! La force barbare nous appelle / au combat sans merci». D’Annunzio mette la sua penna e i suoi uffici al servizio della causa interventista: l’Italia dovrà combattere a fianco della sœur latine. I giornali francesi accolgono così di frequente la sua firma: «Le Gaulois» pubblica il 24 settembre La chanson de Saucourt, mentre nel «Journal» del 30 settembre compare Fluctibus et fatis. Aux Italiens un Italien. 1915-1918 Dopo aver appoggiato la causa della guerra contro i «barbari» ne «La Petite Gironde», dove escono il 25 e il 30 aprile La très amère Adriatique e Le ciment Romain, il 4 maggio, fra le acclamazioni della folla, d’Annunzio attraversa il confine a Modane ed è in Italia per onorare l’invito rivoltogli dalla città di Genova: dovrà inaugurare solennemente il monumento commemorativo della spedizione garibaldina. Il giorno successivo, nel discorso di Quarto, La sagra dei Mille, incita gli italiani a intervenire contro i tedeschi, avviando così un’azione di propaganda che prosegue a Roma, sino al 24 maggio, quando la guerra (già decisa dal governo in aprile, con il Patto di Londra) verrà dichiarata. Il ruolo di d’Annunzio non è tuttavia concluso, né si limita all’oratoria, poiché egli intende impugnare ben altre armi che la parola, mettendo in gioco la propria vita. Il poeta-soldato si coprirà infatti di gloria combattendo come aviatore, marinaio e fante. Di stanza presso la linea del fronte abita a Venezia, sul Canal Grande, nella Casetta rossa dei principi

Hohenlohe, riparati in Germania. Ha una nuova amante, Olga Brunner Levi (Venturina) e la sfida quotidiana della morte lo rende più che mai passionale. Nel gennaio del 1916, durante un ammaraggio con un idrovolante, perde l’occhio destro per una ferita al capo che lo costringe a una lunga e cieca immobilità. Al suo capezzale sono Barrès, amici e amiche francesi, Corè e Cinerina, che lo ritrae in divisa militare. Durante l’ozio forzato, nonostante la cecità, compone una parte del Notturno, che sarà ultimato nel 1921. Supino nel letto, scrive senza vederle su liste di carta strette, per mantenere la dirittura, tra il pollice e il medio: e il nuovo stile franto giova al suo lirismo. Non appena recupera la vista dell’occhio superstite, rimaneggia i diari di guerra nella Licenza aggiunta all’edizione in volume della Leda senza cigno (1916). Solo controvoglia, e sollecitato dal bisogno di denaro, compone i versi di circostanza che gli vengono chiesti dal «Corriere della Sera» perché tenga alto il morale delle truppe. Sono i Canti della guerra latina, poi raccolti con il titolo di Asterope, come quinto libro delle Laudi. Riprende a combattere. Il fante è sulle montagne del Carso (maggio 1917), l’aviatore vola su Pola (agosto 1917) e Cattaro (ottobre 1917): imprese rischiose, ideate dal singolare stratega (conia ora il fortunato grido di incitamento: Eia eia eia. Alalà!) che compie opere d’arte, non con le parole – dice – ma con le vite umane. Predilige tuttavia le azioni deterrenti, come la Beffa di Buccari (11 febbraio 1918), quando con piccoli siluranti entra nottetempo nel golfo del Carnaro, tra le navi nemiche, lasciando sull’acqua bottiglie contenenti messaggi ingiuriosi contro il nemico. Sempre messaggi e non bombe lancerà volando su Vienna (9 agosto 1918) per annunciare la vittoria italiana e invitare il nemico alla resa. 1919-1920 Più volte decorato, alla fine della guerra d’Annunzio ottiene la medaglia d’oro al valor militare che il duca d’Aosta gli consegna nell’aprile 1919 sul sagrato triestino di San Giusto. Ma la pace delude l’eroe, che pretende per il sangue versato maggiori compensi territoriali (l’Istria e la Dalmazia, compreso il Dodecaneso) di quelli che vengono concessi all’Italia nelle trattative di pace a Parigi. Venezia, dove continua ad abitare trasferendosi in un appartamento di palazzo Barbarigo, è ormai una triste città di memorie luttuose. Tanto più che nelle nuove stanze, custoditi dalla fedele Aélis, giacciono arredi e libri del villino di Arcachon, abbandonato definitivamente. Ha cercato invano, avvalendosi di Barrès, di donarlo allo Stato francese per conservarlo come museo. A cinquantasei anni, è di nuovo innamorato, anche se il rituale del seduttore appare ripetitivo: chiama Barbara, come l’amante della giovinezza romana, la pianista Luisa Bàccara, che gli resterà accanto fino alla morte. Non si spoglia degli abiti militari e con il petto coperto di medaglie pronuncia a Venezia e a Roma accesi discorsi con i quali denuncia la «vittoria mutilata». La protesta è condivisa da Benito Mussolini, da poco alla guida del Partito fascista che raccoglie nazionalisti e reduci di guerra. Il suo giornale, il «Popolo d’Italia», si fa portavoce della protesta di d’Annunzio pubblicando una rivendicativa Lettera ai Dalmati. Ancora per lui non risolto il problema dell’«amarissimo Adriatico», esiste una città irredenta, Fiume, dove la guerra può continuare. E alla volta di Fiume, alla testa di un manipolo di Arditi che va via via ingrossandosi lungo la marcia, muove l’eroe deciso a combattere fino alla morte (O Fiume o morte!) per annettere all’Italia la città, che occupa il 12 settembre 1919 senza colpo ferire, accolto dalla popolazione come un liberatore. Con la carica di Comandante governerà Fiume, elaborandone la costituzione nella Carta del Carnaro, fino al dicembre 1920, quando a Natale, dopo che si sono stabilite le condizioni di pace nel trattato di Rapallo, l’esercito italiano sgombera la città dagli occupanti. Un’azione di forza che avrebbe potuto subito bloccare d’Annunzio, ma il suo gesto clamoroso, con lo scalpore suscitato in Europa, giova alle trattative italiane; e giova soprattutto a Mussolini, che apprende dal Comandante ad arringare la folla, a comunicare attraverso gli slogan e, in primo luogo, la strategia dei colpi di mano. In effetti, la marcia su Fiume è la prova generale della Marcia su Roma, mentre il ribellismo degli Arditi combacia con quello dei fascisti della prim’ora. 1921-1922

Subito dopo aver lasciato Fiume, d’Annunzio si stabilisce significativamente lontano da Roma (dove mai più metterà piede), traslocando nel gennaio 1921 a Gardone, sulla riva bresciana del lago di Garda, non lontano dal Brennero, i «resti» come dice «dei suoi naufragi». In una modesta villa di campagna, che prima affitta e poi acquista, trova infatti ricovero, liberato finalmente dall’imballaggio, quanto proviene da Arcachon. Dedica qui alcuni mesi alla conclusione del Notturno, che esce, per commemorare la vittoria, nella data simbolica del 4 novembre 1921. È l’ultimo best seller dello scrittore ancora in grado, dopo anni di regime militare, di produrre un capolavoro. Benché d’Annunzio rimanga defilato, il suo nazionalismo anarchico è strumentale per Mussolini: egli se ne serve nella fase iniziale della corsa al potere, che prevede in seguito complesse mediazioni e l’appoggio dei proprietari terrieri e degli industriali. Pur avendola progettata sin dal 1919, il recluso di Gardone non parteciperà alla Marcia su Roma con la quale, nell’ottobre 1922, Mussolini compie il colpo di stato che gli assicura il governo. Del resto poco prima dell’impresa, nell’agosto, un incidente a tutt’oggi misterioso, ma che ricorda la finta morte dell’adolescente inscenata per pubblicizzare le sue prime poesie, ha messo d’Annunzio fuori gioco. Sarebbe precipitato da una finestra della casa gardonese, a quasi quattro metri dal suolo, ferendosi gravemente il capo: non può dunque essere presente agli incontri che preparano la «rivoluzione» fascista. Si sentirà tuttavia «usurpato» e non si oppone apertamente al fascismo perché giudica che l’avventura di Mussolini avrà vita breve. Gli italiani comprenderanno ben presto – questa la sua errata opinione – che l’Italia nuova non potrà essere governata se non da lui, dall’eroe vittorioso della guerra. Perciò, nonostante i suoi Arditi siano ancora armati e pronti allo scontro con i fascisti, decide di attendere gli eventi che, non dubita, gli saranno favorevoli. Il recupero della scrittura è intanto lo schermo dietro il quale d’Annunzio nasconde il suo attesismo. Egli vivrà in solitudine e «clausura», fuori dalla mischia, per ritrovare – avverte – l’ispirazione poetica. È proprio quanto si augura Mussolini: il Vate scriva le opere che l’Italia attende da lui e si astenga dalla lotta politica. Il duce non commette comunque l’errore di sottovalutare il possibile avversario, avendo cura di blandirlo soddisfacendo ogni suo desiderio, considerandolo un prezioso, ma al tempo stesso pericoloso, oggetto da museo. 1923-1926 Per controbilanciare la sconfitta politica, d’Annunzio si arrocca nella casa sul Garda che comincia ad assumere sempre più l’aspetto monumentale. Una cinta muraria sottolinea il suo esilio volontario; quindi con l’acquisto delle proprietà confinanti amplia il parco che la circonda, al cui centro costruisce un Arengo, con un trono di pietra e colonne che si alternano a magnolie secolari. Raduna qui i fedeli reduci fiumani e si limita a stilare con Mussolini il «Patto marino» (ma il duce non terrà fede agli accordi) che gli dovrebbe garantire la tutela sindacale dei «lavoratori del mare». Il mancato rispetto del «Patto» trova però compensazione nei fondi che il governo elargisce a d’Annunzio per ristrutturare e ampliare la dimora lacustre. Il neoproprietario la chiama ora Vittoriale, per ribadire che è lui il vincitore glorioso della guerra. E realizza nel 1923 ciò che non gli era riuscito in Francia col villino Saint Dominique: dona il Vittoriale allo Stato italiano. È un modo astuto per disporre di risorse illimitate, che egli traduce in un motto beffardo – Io ho quel che ho donato – inciso nel portale d’accesso di quella che diventerà una vera e propria cittadella. Rifiuta le cariche onorifiche ma accetta che il re, quando nel 1924 Fiume viene annessa all’Italia, lo nomini principe di Montenevoso, dalla cima che segna l’estremo confine della patria ampliata grazie alle sue gesta. Al neoprincipe rende omaggio Valéry, ospite per qualche giorno al Vittoriale, nell’aprile 1924. Ma la morte della Duse, di lì a poco, e nel giugno l’assassinio di Giacomo Matteotti, deputato socialista, inaspriscono la clausura del Vate, ripiegato sui ricordi che ora affida alle pagine del Secondo amante di Lucrezia Buti. Si tratta di memorie, soprattutto degli anni del collegio, stese di getto e riunite in volume (il primo tomo delle Faville del maglio)

insieme con Il venturiero senza ventura, sotto la cui rubrica ripropone le prose composte per il «Corriere della Sera» negli anni francesi. Sistema anche i discorsi di guerra e fiumani nel Libro ascetico della giovane Italia (1926), pago che l’Istituto per l’Edizione nazionale di Tutte le Opere gli frutti dieci milioni di lire. 1927-1938 Ma la vera opera d’arte che d’Annunzio compone in questi anni è il Vittoriale, «libro di pietre vive» e assemblaggio di simboli, a cominciare da quelli riferibili alla guerra vittoriosa di cui vuol essere il sacrario. L’aereo del volo su Vienna, la prua della nave Puglia che ha eroicamente resistito nelle acque di Spalato, il motosilurante della Beffa di Buccari e i massi dei monti di guerra, disseminati nei giardini, sono il fulcro del grandioso allestimento che si snoda in un labirinto di vie e piazze, corsi d’acqua e fontane. Una colorata magnificenza caratterizza poi le stanze riservate all’abitazione, tutte simbolicamente battezzate, zeppe di oggetti ricercati e stravaganti. D’Annunzio si avvale del giovane architetto Gian Carlo Maroni, che vive con lui in simbiosi, e di una serie di artisti promuovendo lo sviluppo del futuro design italiano: maestri vetrai, orafi, incisori, doratori sono all’opera per realizzare i desiderata del committente incontentabile. I ferri battuti di Mazzucotelli, le ceramiche faentine di Melandri, le porcellane di Giò Ponti, le sculture di Martinuzzi e di Bardetti, gli argenti di Brozzi e di Buccellati, i tessuti di Fortuny e di Lisio, gli affreschi di Cadorin e di Marussig. Il gusto déco ha soppiantato il liberty della giovinezza, ma anche ora viene espresso un principio estetico fondamentale per d’Annunzio: egli è l’erede ultimo di tutta l’arte del passato e la bellezza nuova non può essere che «ricreazione» di quella antica. Si motivano così i multipli rinvii sia dell’architettura, a cominciare dal grande anfiteatro che guarda il lago, un capolavoro di falsoantico, sia degli arredi, il cui tratto saliente è costituito dai calchi in gesso delle statue di Fidia, Prassitele o Michelangelo. Ma su di essi, come per sancirne il diritto legittimo, l’erede interviene con patinature, dorature, drappeggi e persino quello che potrebbe sembrare un dissacrante maquillage non è invece se non il segno di un nuovo modo di fruire la Bellezza. Negli anni del Vittoriale la scrittura di d’Annunzio si fa più avara che in passato: si occupa dell’Opera Omnia (nel 1927 esce il primo volume, Alcyone), conclude nel 1928 Il compagno dagli occhi senza cigli (come secondo tomo delle Faville del maglio) e si limita a sistemare la pubblicazione dei discorsi di guerra e fiumani. Stende però appunti preparatori per opere che non comporrà. Ma poiché in d’Annunzio vita e opera coincidono, disegna così una sorta di autobiografia ininterrotta che nel 1935 viene stampata da Arnoldo Mondadori, suo nuovo editore, con il titolo «aperto» di Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire. È il testamento risentito di un istrione, il punto d’approdo di chi per tutta la vita ha coltivato narcisisticamente il mito di sé con un’efficacia che talora ha tolto verità alle vicende più intime. Vive al Vittoriale «come un re etrusco sepolto dai suoi tesori» mentre riceve visitatori illustri (Marconi, Toscanini, Balbo, Nuvolari e, in primo luogo, Mussolini) e le amanti si susseguono nell’alcova del libertino di sempre, sul quale vegliano la Bàccara, ora soprannominata Smikra, e Aélis. Per vincere l’insonnia della vecchiaia scrive qualche verso, che chiama appunto «nottivago», sull’antiporta o tra una riga e l’altra dei suoi «livres de chevet». L’ultima opera, Teneo te Africa (1936), riunisce i messaggi inviati a Mussolini in occasione della guerra coloniale. È un’impresa che condivide, al contrario dell’intesa fra Italia e Germania che denuncia con un caustico epigramma contro Hitler (1934). Muore il 1° marzo 1938, colpito da emorragia cerebrale, mentre è seduto al tavolo di lavoro. I funerali di Stato, alla presenza di Mussolini, gli rendono onore. Da pochi mesi, dopo la morte di Guglielmo Marconi, aveva accettato la carica prestigiosa di presidente dell’Accademia d’Italia.

Le Prose di ricerca di Gabriele d’Annunzio disponibili in ebook

Per la più grande Italia, con apparati informativi di Annamaria Andreoli, Andrea Possieri e Giorgio Zanetti Notturno, con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti Il libro ascetico della giovane Italia, con apparati informativi di Annamaria Andreoli, Silvia Capuani, Andrea Possieri e Giorgio Zanetti Il sudore di sangue, con apparati informativi di Annamaria Andreoli, Silvia Capuani e Giorgio Zanetti L’Urna inesausta, con apparati informativi di Annamaria Andreoli, Silvia Capuani e Giorgio Zanetti Le faville del maglio (Il venturiero senza ventura, Il secondo amante di Lucrezia Buti, Il compagno dagli occhi senza cigli), con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Angelo Piero Cappello Libro segreto, con apparati informativi di Annamaria Andreoli L’Armata d’Italia, con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Andrea Possieri La vita di Cola di Rienzo, con apparati informativi di Annamaria Andreoli Contemplazione della morte, con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Carla Pisani L’allegoria dell’Autunno, con apparati informativi di Annamaria Andreoli Le Dit du Sourd et Muet, con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti Teneo te Africa, con apparati informativi di Annamaria Andreoli, Silvia Capuani e Giorgio Zanetti Solus ad solam, con apparati informativi di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti

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