La vita dei testi. Giacomo Leopardi. Per le Scuole superiori. Con espansione online 8808336514, 9788808336514

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La vita dei testi. Giacomo Leopardi. Per le Scuole superiori. Con espansione online
 8808336514, 9788808336514

Table of contents :
Indice
Giacomo Leopardi
Indice dei nomi
Per una storia del libro dal papiro all’ebook

Citation preview

Sezione 

9



Analisi dell’opera

1.3 Canti Struttura (edizione 1845)



Focus Le parole «poeticissime» del vago e dell’indefinito

Indice

Capitolo

Giacomo Leopardi

7

La vita e le opere 8 Della mia vita 11 I luoghi 17 La biblioteca

58



T8. L’infinito

60

 

Confronti Leopardi e Alfieri Confronti Leopardi e Goethe

64 65



T9. La sera del dì di festa

66



T10. Alla luna Sguardi d’autore Calvino

70



su Leopardi

73

 

T11. Ad Angelo Mai T12. Ultimo canto di Saffo

77 84



Confronti Leopardi e Ovidio Valerio Magrelli incontra Giacomo Leopardi

90



  

T13. A Silvia T14. Le ricordanze T15. La quiete dopo la tempesta

104

 

T16. Il sabato del villaggio T17. Il pensiero dominante

108 110





Confronti La cara Fanny 116 T18. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 118



Confronti La poesia dei primitivi

125



T19. La ginestra o il fiore del deserto

126 136

Analisi dell’opera

1.4 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani 137 

Introduzione

1.1 La modernità di Leopardi 

21

Analisi dell’opera

1.2 Zibaldone di pensieri



T20. Il cinismo degli Italiani



Analisi dell’opera

e la “teoria del piacere”  

T1. La poesia moderna T2. Parole e termini.

142

Struttura (edizione 1845)  T21. Dialogo della Moda

147

del linguaggio T3. La «mutazione»: il passaggio dall’antico al moderno

e della Morte T22. Dialogo della Natura

152

e di un Islandese

156

23



26



T23. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie



T24. Dialogo di Cristoforo Colombo



e di Pietro Gutierrez T25. Dialogo di un venditore

30

Caratteristiche e problematiche 

139

1.5 Operette morali

Focus Il rapporto tra uomo e natura

34

162 168

d’almanacchi e 37

 

T4. La teoria del piacere Confronti I rimedi di Giove

39 42



T5. Assuefazione

43

 

T6. Genio e classi sociali T7. Il male nell’ordine

45 46





180

su Leopardi

183

Sguardi d’autore Bonnefoy sulla modernità di Leopardi

185

 Mappa dei contenuti

186

 Esercizi di fine sezione

191

45, 103, 109, 177 187

94 100

ai giovani 



di un passeggere T26. Dialogo di Tristano

173

e di un amico

176

178

T27. Il filotopo Sguardi d’autore Gioberti

92

Focus Binni e il messaggio della Ginestra

18

Analisi dell’opera

48 1.6 Paralipomeni della 56 Batracomiomachia

In digitale Sguardi d’autore • Celati, Il pessimismo come forma di energia • Zanzotto, Le sere del dì di festa 2 • Brancati, Due viaggi • Tozzi, Il Leopardi moralista • Manganelli, Operette morali Focus • La lettura novecentesca della poesia di Leopardi • Il mito di Tasso • L’“operettismo” novecentesco

Indice della critica in digitale

In digitale La critica N. Bellucci, Lettori d’oltralpe, in Giacomo Leopardi e i contemporanei E. Bigi, La teoria del piacere e la poetica del Leopardi in Lo Zibaldone cento anni dopo W. Binni, Il messaggio della «Ginestra» ai giovani del Ventesimo secolo in Opere complete di Walter Binni W. Binni, L’ultima lezione, sulla «Ginestra» in Opere complete di Walter Binni L. Blasucci, Note sul testo di «A Silvia» in Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani L. Blasucci, I segnali dell’infinito in Leopardi e i segnali dell’infinito L. Blasucci, La posizione ideologica delle «Operette morali» in Leopardi e i segnali dell’infinito L. Cellerino, Operette morali in Letteratura italiana – Le Opere F. D’Intino, Prefazione a G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici G. Ferroni, Il testo di «A Silvia»: una prova di lettura in Prima lezione di letteratura italiana S. Gensini, Linguistica leopardiana P. V. Mengaldo, A Silvia in Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari E. Raimondi, Leopardi, Montale e la polifonia della lirica in Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale G. Savarese, Saggio sui “Paralipomeni” in L’eremita osservatore

Indice dei confronti



1.

Giacomo Leopardi

I rimedi di Giove > p. 42 Leopardi e Alfieri > p. 64 Leopardi e Goethe > p. 65 Leopardi e Ovidio > 90 La cara Fanny > 116 La poesia dei primitivi > 125

sezione

9

capitolo

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, 1820. Recanati, Casa Leopardi.

1 Giacomo Leopardi

vago e indefinito

malinconia

recanati

filologia filosofia

natura

piacere illusioni

8 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

La vita e le opere



S. Terrazzi, La contessa Adelaide Antici Leopardi, I metà del XIX secolo. Recanati, Casa Leopardi. Lettera di Giacomo al padre dopo due mesi di studi filosofici. A fronte Una pagina a stampa della canzone patriottica All’Italia con rifacimenti parziali e note autografe. Passaporto per l’estero rilasciato dal Segretario di Stato Pontificio a Giacomo Leopardi, 27 giugno 1825.

1798-1815: la formazione erudita nella casa di Recanati

1816-1821: la “conversione filosofica” e la prima fase compositiva delle future grandi opere

Giacomo Leopardi nasce nella cittadina di Recanati il 29 giugno del 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici. La casa paterna, tipico ambiente tradizionalista della nobiltà provinciale dello Stato pontificio, è regolata da un costume di vita austero, ispirato al rigido conformismo delle idee e delle pratiche religiose. L’istruzione di Giacomo e dei fratelli a lui molto cari fin dalla fanciullezza, Carlo (1799-1878) e Paolina (18001869), avviene tramite precettori ecclesiastici. Già nel 1809-1810 il giovane allievo inizia a scrivere i primi componimenti in prosa e poesie di stile prevalentemente arcadico, a cui si affiancano traduzioni dalle odi di Orazio, quindi due tragedie (1811-1812), e nel 1812 le Dissertazioni filosofiche. In quell’anno Giacomo prosegue da autodidatta gli studi nella vasta biblioteca di Monaldo > La biblioteca, p. 18 |, imparando da solo il greco e ottenendo il permesso di leggere i libri messi all’Indice dalla Chiesa. Ma proprio negli anni dell’adolescenza, la passione per gli studi, stimolata oltre misura dal padre, provoca danni irreversibili alla debole costituzione fisica di Giacomo, che ne porterà i segni visibili per tutta la vita (una deformazione alla spina dorsale e in seguito danni alla vista). Nel 1813 scrive la Storia dell’astronomia e si dedica allo studio dell’ebraico; l’anno dopo porta a termine il primo lavoro di filologia greca sulla Vita di Plotino scritta da Porfirio. Nel 1815, oltre all’orazione antifrancese Agl’Italiani ancora improntata alle idee reazionarie di Monaldo, compone il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in cui spirito razionalistico e fascino per le favole e credenze antiche si mescolano in una prosa intessuta di citazioni e traduzioni dai classici: su questa linea di interessi si dispongono anche le versioni degli Idilli di Mosco, la prima stesura della Batracomiomachia, e i notevoli volgarizzamenti, l’anno successivo, del libro I dell’Odissea (pubblicato sullo “Spettatore italiano e straniero” di Milano) e del II dell’Eneide.

Pur continuando a dedicarsi ai lavori eruditi, nel 1816 interviene nella disputa classico-romantica inviando alla rivista milanese “Biblioteca Italiana” una Lettera – rimasta inedita – di risposta alle tesi di Madame de Staël sulle traduzioni e, nel 1817, inizia a stendere i primi appunti dello Zibaldone di pensieri. In marzo ha inizio la corrispondenza epistolare con il letterato piacentino Pietro Giordani (1774-1848), che diverrà in breve suo grande amico e sostenitore. Nel dicembre, durante il soggiorno nel palazzo di Recanati della cugina Gertrude Cassi Lazzari, vive l’esperienza dell’innamoramento, che registra subito dopo in prosa (il Diario del primo amore) e in versi elegiaci (Il primo amore). Nel marzo 1818 invia all’editore Stella di Milano la prima parte del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (rimasto inedito fino al 1906), prima configurazione della sua poetica classicistica, condotta attraverso la discussione di alcune tesi del letterato romantico Ludovico di Breme (17801820). Dopo l’incontro a Recanati con Giordani, in settembre, scrive e pubblica le due canzoni patriottiche All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Nella primavera del 1819 inizia a raccogliere memorie personali e riflessioni destinate a un romanzo autobiografico in parte sul modello del Werther goethiano e dell’Ortis foscoliano. Tormentato da una malattia agli occhi che lo costringe all’inazione forzata e insofferente nei confronti dell’ambiente che lo circonda, a ventuno anni decide di fuggire dalla casa paterna, ma il suo proposito viene scoperto e rinuncia al tentativo. L’anno 1819 è però decisivo per la maturazione della sua “conversione filosofica”, che lo porta a definire la condizione razionale dell’uomo moderno come fondata sul vero e sulla poesia sentimentale. Proprio in questo anno di svolta compone L’infinito,

| 1. Giacomo Leopardi | La vita e le opere | 9

Alla luna, e il frammento XXXVII dei futuri Canti. La fase creativa prosegue nel biennio 1820-1821 con la composizione di canzoni e idilli (tra cui Ad Angelo Mai, Bruto minore; La sera del dì di festa, La vita solitaria) e l’abbozzo di «prosette satiriche», primo spunto delle Operette morali, anche se l’impegno maggiore è destinato, nel 1821, alla stesura di oltre 1800 pagine dello Zibaldone. 1822-1828: i soggiorni in varie città, le pubblicazioni per l’editore Stella, fra cui le Operette morali

Tra gennaio e luglio del 1822 scrive le canzoni Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi: nel novembre parte per Roma, dove soggiornerà presso gli zii Antici fino all’aprile seguente, impegnandosi in importanti lavori filologici sul De re publica di Cicerone e sulla Cronica di Eusebio. Profondamente deluso dall’ambiente culturale romano e sfumate le speranze di trovare un impiego, fa ritorno a Recanati il 3 maggio. Nei mesi seguenti, una intensa riflessione linguistica e filosofica sulla scia del soggiorno romano – nel settembre del 1823 compone la canzone Alla sua Donna – maturano il progetto e i temi delle prime venti Operette morali, la cui composizione ininterrotta ha inizio nel gennaio 1824 per concludersi in novembre. A questo anno di grande creatività, in cui si registra a fine agosto la stampa bolognese delle Canzoni, si fa risalire anche la stesura del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani.

A partire dal luglio 1825 ha inizio un quadriennio di viaggi e soggiorni nei più importanti centri culturali della penisola: Bologna (luglio 1825; settembre 1825-novembre 1826; aprile-giugno 1827), Milano (luglio-settembre 1825), Firenze (giugnoottobre 1827; giugno-novembre 1828), Pisa (novembre 1827-giugno 1828). In queste città entra in rapporto con gli ambienti della stampa letteraria e del giornalismo politico-culturale, stabilendo contatti e relazioni amichevoli con letterati e accademici, esuli politici ed esponenti del mondo scientifico. Nella «ospitalissima» Bologna classicista pubblica nel 1826 la raccolta dei Versi, contenente gli idilli, e lavora al commento alle Rime di Petrarca. A Milano, presso l’editore Stella, da cui ottiene un assegno mensile per varie pubblicazioni (fino al novembre 1828), esce la prima edizione delle Operette morali (1827). A Firenze frequenta l’ambiente liberale del Gabinetto Vieusseux* e della rivista “Antologia”, dove conosce Manzoni, Gioberti e Stendhal. Sempre a Milano, presso lo Stella, escono il commento alle Rime di Petrarca (1826) e le due Crestomazie (antologie) della prosa e della poesia italiana (1827 e 1828). Nella primavera del 1828, a Pisa, si riaccende intanto l’ispirazione che dà vita alla nuova stagione pisana dei Canti (Scherzo, Il risorgimento, A Silvia).

Cronologia selezionata delle opere 1818

Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (pubblicato nel 1906)

All’Italia Sopra il monumento di Dante 1824

Canzoni 1824-1826

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (data di composizione)

1826

Versi 1827

Operette morali (ed. Stella, Milano)

Crestomazia italiana della prosa 1828

Crestomazia italiana poetica 1831

Canti (ed. Firenze) 1835

Canti (ed. Napoli) 1836

Operette morali (ed. Napoli)

1829-1837: gli anni a Firenze e Napoli, le due edizioni dei Canti e le ultime opere

Il ritorno al «natio borgo selvaggio» nel novembre del 1828 – anche se registra una nuova fase dell’ispirazione lirica tra agosto 1829 e aprile 1830 (Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia) – è avvertito dal poeta come una insopportabile prigionia e aggravato da pessime condizioni fisiche, fino a convincerlo, «per uscire di questo Tartaro, a deporre l’antica alterezza, ed abbracciare qualunque partito, accettare qualunque offerta» (lettera allo storico Pietro Colletta, 12 novembre 1829). Il 9 febbraio 1830 l’Accademia della Crusca premia con mille scudi lo storico Carlo Botta, mentre le Operette morali di Leopardi ottengono un solo voto, forse di Gino Capponi, cui sarà dedicata la Palinodia (in seguito inclusa nell’edizione dei Canti del 1835). Tuttavia, grazie al sostegno economico del Colletta e degli amici fiorentini, alla fine di aprile del 1830 Leopardi lascia definitivamente Recanati per Firenze, ove giunge il 10 maggio. Qui hanno luogo importanti incontri: conosce, nel suo frequentato salotto, la «bellissima e gentilissima» Fanny Targioni Tozzetti e se ne innamora; incontra l’erudito Louis De Sinner, destinatario dei suoi lavori filologici, mentre con Antonio Ranieri, già

1842

Paralipomeni della Batracomiomachia (postumo)

1845

Pensieri (postumo) Opere di Giacomo Leopardi (postumo, a cura di Antonio Ranieri)

1898-1900

Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi (postumo, a cura di Giosue Carducci, prima pubblicazione dell’opera in seguito intitolata Zibaldone di pensieri )

Gabinetto scientifico*letterario G.P. Vieusseux Fondato a Firenze nel 1819 dal mercante ginevrino Giovan Pietro Vieusseux, come gabinetto di lettura delle maggiori riviste d’Europa, divenne un centro di scambio di idee tra letterati e intellettuali, frequentato durante i suoi soggiorni fiorentini anche da Alessandro Manzoni.

10 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | conosciuto a Firenze nel 1827, stringe una solidale amicizia che durerà fino alla morte. Nell’aprile del 1831 esce la prima edizione dei Canti, dedicata agli «Amici suoi di Toscana»; in novembre è con Ranieri a Roma, da cui farà ritorno nel marzo. Nel maggio 1832 “Lo Spettatore Fiorentino”, il settimanale «dilettevole» progettato dai due amici, non riceve l’approvazione delle autorità. Leopardi rivede Stendhal e compone i dialoghi finali delle Operette morali: il Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Il 4 dicembre annota l’ultimo pensiero dello Zibaldone : ha inizio probabilmente da questo periodo la raccolta dei Pensieri «sul carattere degli uomini e sulla loro condotta nella società», conclusa nel 1836 ma edita postuma (1845). Nuovi canti, tra 1832 e 1833, prendono forma nel segno della passione per Fanny, da Il pensiero dominante fino al doloroso epilogo del sentimento in A se stesso, e solo più tardi (a Napoli) con il “canto del disinganno” (Aspasia). Il 2 ottobre del 1833, in

 Oltre il libro Scopri gli ambienti dove studiava e scriveva Leopardi sul sito del museo Casa Leopardi a Recanati. La “Prima Sala” era la sua preferita, perché era solito accostare il suo tavolino di studio alla finestra, da cui osservava la «piazzuola» antistante il palazzo citata dal poeta ne Il sabato del villaggio.

I Canti, “edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall’autore” pubblicata presso Saverio Starita a Napoli nel 1835. Lo scrittoio in casa Leopardi.

compagnia di Ranieri, giunge a Napoli, dove vive l’ultimo periodo creativo della sua esistenza, riuscendo a comporre ancora, talvolta dettando, gli ultimi canti – La ginestra, Il tramonto della luna – e i Paralipomeni della Batracomiomachia. Nella capitale borbonica, però, la censura è insuperabile, alimentata da ostilità ideologiche e religiose, e le edizioni napoletane dei Canti (1835) e poi delle Operette morali (1836) vengono sequestrate. Frattanto la città è attraversata da una forte epidemia di colera che obbliga Leopardi e Ranieri a rifugiarsi per qualche tempo nella villa Ferrigni presso Torre del Greco per evitare il contagio. Ma la salute del poeta è agli estremi, l’anno seguente è ancora a Napoli e, gravemente malato, muore il 14 giugno 1837. Il suo corpo, destinato al seppellimento in una fossa comune per ragioni di pubblica sanità, grazie all’intervento tempestivo dell’amico Ranieri viene sepolto in una tomba della chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Dal 1939 il sepolcro del poeta si trova nel Parco virgiliano di Piedigrotta.

| 1. Giacomo Leopardi | Della mia vita | 11

Della mia vita

Fuga da Recanati

Come premessa all’epistolario leopardiano, da cui sono estratte tutte le lettere qui selezionate, va detto che questo straordinario documento della vita dell’autore è pure un grande esempio di scrittura letteraria. In esso, per definirne le linee generali, sia lo scopo informativo e colloquiale, tipico della lettera, sia la situazione comunicativa contestuale e la diversa condizione dei destinatari, passano al filtro dello scrittore mediante una sapiente diversificazione dei toni linguistici e dello stile, per cui, anche nei momenti di maggiore coinvolgimento emotivo e sentimentale, è sempre riconoscibile il segno di una lucida intenzione espressiva. I due testi che seguono mettono in luce il contrastato rapporto che il poeta, non più adolescente, stabilì con l’arretrato ambiente recanatese, e il fortissimo desiderio di evasione maturato nel corso degli anni. Il primo brano è estratto da una lettera del 1817 inviata a Pietro Giordani, in cui si rivela l’estremo disagio fisico e morale vissuto dal poeta, accompagnato da un fortissimo desiderio di evasione e dall’analisi lucida dei mali che tormentano la sua vita senza distrazioni: la «salute debolissima», la «noia», la «maliconia», lo studio come rimedio e come pena. Il secondo brano proviene da una lettera al padre Monaldo, che fu affidata al fratello Carlo e, dopo la scoperta del tentativo di fuga del luglio 1819, non fu mai letta dal destinatario. In essa il poeta, rivolgendosi alla oppressiva figura paterna, scrive un risoluto messaggio di denuncia della sua condizione di «uomo» ormai «padrone» di se stesso e della sua «sorte», consapevole della sua diversità e del suo desiderio di uscita dalla mediocrità a ogni costo, come «tutti gli uomini grandi». (Da G. Leopardi, Epistolario, vol. I, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998.)



A Pietro Giordani Recanati 30 aprile 1817 [...] Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in questa caverna vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si possano frenare? che siano ingiusti soverchi1 sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L’aria di questa città l’è stato mal detto che sia salubre2. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni3. A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima4 e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce. So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella5 dice, che distrugge le

forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? e come far che cessi l’effetto se dura la causa? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco6 male che la fatica, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce7, com’è naturale, la malinconia, e quando io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo8 covando in mente e ruminando9 quella nerissima materia10. Non m’è possibile rimediare a questo nè fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al male e lo fomenta11 e l’accresce ogni dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane12, ma per far questo io voglio un mondo che m’alletti13 e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa) ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore, non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta14, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m’attristi e mi forzi di ricorrere per consolarmi a quello da cui volea fuggire.

1. soverchi: eccessivi. 2. salubre: che giova alla salute. 3. complessioni: costituzioni del fisico, del corpo. 4. mi lima: mi consuma, mi tormenta. 5. Ella: Lei. 6. manco: meno. 7. cresce: accresce, aumenta. 8. vo: vado.

9. ruminando: ripensando, riconsiderando. 10. nerissima materia: l’umor nero, la malinconia. 11. fomenta: stimola, alimenta. 12. mondane: del mondo, della vita reale. 13. m’alletti: mi attiri, mi attragga piacevolmente. 14. a prima giunta: subito, al primo incontro.

A Monaldo Leopardi [s.d. ma Recanati, fine di luglio 1819] […] Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch’io menava1 per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch’era più ch’evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione2, non v’era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai trovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto3 in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata4, come massimamente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere,

12 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

 Oltre il libro «Leopardi era essenzialmente un ribelle, un uomo nato alla fine del Settecento quasi per caso poiché il suo pensiero era un pensiero mobile, che non apparteneva al suo tempo [...] Leopardi parla a chiunque sia giovane, non solo anagraficamente, proprio per la spinta verso la libertà che lo caratterizzava”. Così ha dichiarato Mario Martone, il regista del film Il giovane favoloso (2014), aggiungendo che secondo lui Giacomo Leopardi è stato un “Kurt Cobain dell’epoca». Condividi questa definizione?

Monaldo Leopardi (Massimo Popolizio) e Giacomo Leopardi (Elio Germano) in una scena del film Il giovane favoloso (2014) diretto da Mario Martone.

coperta da una costantissima dissimulazione5, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch’io benchè sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando6, che in mezzo a quanti agi corporali7 possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome.

1. menava: conducevo. 2. complessione: corporatura (si riferisce ai danni fisici alla colonna vertebrale). 3. affatto: del tutto. 4. disoccupata: priva di occupazioni, senza distrazioni.

5. dissimulazione: finzione. 6. mendicando: chiedendo l’elemosina. 7. agi corporali: comodità materiali (del corpo, non dello spirito).

Roma, l’indifferenza e le donne romane La lettera che nei primi giorni del suo arrivo a Roma Leopardi scrive al fratello Carlo (sono gli anni della maggior confidenza e complicità tra i due fratelli) rivela le reazioni negative di un animo sensibilissimo, che sa tuttavia rielaborare le sue impressioni soggettive in termini di comprensione intellettuale. L’esperienza di vita nella capitale, che delude le aspettative nutrite dal poeta, è descritta con le parole della riflessione usate nello Zibaldone tra il 1820 e il 1823: «piacere», «città grande», «città piccola», «grande sfera», «piccola sfera», «noia», «indifferenza», «facoltà

sensitiva», «amor proprio», «ambizione», «sentimento». Questa terminologia filosofico-morale di derivazione sensistica ed empiristica, che oggi si direbbe di sociologia o psicologia sociale, descrive quindi con finezza lo spaesamento dell’individuo nella città moderna, fondata sull’egoismo e l’indifferenza nei rapporti umani. Le osservazioni sull’indifferenza delle donne romane formano invece un esempio applicativo a parte, in cui la sincerità sboccata delle osservazioni in materia di sesso non deve far sfuggire il commovente passaggio in cui Leopardi si mette in secondo piano, dietro la «compagnia di giovani belli e molto ben vestiti», per dimostrare l’indifferenza femminile. (Da G. Leopardi, op. cit.)

A Carlo Leopardi Roma 6 Dicembre [1822] Carlo mio. […]. Veramente per me non v’è maggior solitudine che la gran compagnia; e perchè questa solitudine mi rincresce, però desidero d’essere effettivamente solitario, per essere in effettiva compagnia, cioè nella tua, ed in quella del mio cuore. Senti, mio caro fratello; non mi dare del misantropo1, nè del codardo, nè del bigotto2; ma piuttosto assicurati che quello ch’io sono per dirti m’è dettato dall’esperienza, e dalla cognizione3 dell’animo tuo e mio. Dico, che in verità, se per qualche modo tu potessi procurarti costì4 un’esistenza meno dipendente e meno povera di quella d’oggi, tu non dovresti pensare e giudicare di cedere al destino, e rilasciargli la maggior parte della felicità; ma ti dovresti fermamente persuadere di essere, se non nel migliore, certo in uno de’ migliori stati possibili all’uomo. Domandami se in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, esteriore o interiore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò, che da quando io

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misi piede in questa città, mai una goccia di piacere non è caduta sull’animo mio; eccetto in quei momenti ch’io ho letto le tue lettere, i quali ti dico senz’alcuna esagerazione che sono stati i più bei momenti della mia dimora in Roma: e quelle stesse poche righe che ponesti sotto la lettera di mia Madre, furono per me come un lampo di luce che rompessero le dense e mute e deserte tenebre che mi circondavano. Dirai ch’io non so vivere; che per te, e per altri tuoi simili il caso non andrebbe così. Ma senti i ragionamenti ed i fatti. L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera5, perchè la sua forza o facoltà di rapporto è limitata. In una piccola città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perchè la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perchè la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sè, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare6 quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacchè l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione7, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi, si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun8 modo nell’interno. L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi d’intorno come una piccola città, dentro la grande; rimanendo inutile e indifferente all’individuo tutto il resto della medesima città. Per far questo, non è bisogno uscire delle9 città piccole. Questo è veramente un ricadere nel piccolo per forza di natura. Veniamo alle prove di fatto. Lascio stare ch’io vedo la noia dipinta sul viso di tutti i mondani10 di Roma. Dirò solamente questo. Voi sapete che l’unica fonte di piaceri è l’amor proprio; e che questo amor proprio in ultima analisi si risolve o in ambizione o in sentimento. Quanto al sentimento, potete immaginare se una moltitudine dissipata11 che non pensa mai a se medesima, ne debba esser capace. Quanto all’ambizione, dovete persuadervi che in una città grande è impossibilissimo di soddisfarla. Qualunque sia il pregio a cui voi pretendiate, o bellezza, o dottrina, o nobiltà, o ricchezza, o gioventù, in una città grande è tanta soprabbondanza di tutto questo, che non se ne fa caso veruno. Io vedo tuttogiorno uomini che riempirebbero Recanati di se medesimi, e di cui qui nessuno si cura. L’attirare gli occhi degli altri in una grande città è impresa disperata; e veramente queste tali città non son fatte se non per i monarchi, o per uomini tali che possano smisuratamente soverchiare12 la massima parte del genere umano in qualche loro pregio per lo più di fortuna, come ricchezza immensa, dignità vicina a quella di principe, o cose simili. Fuori di questi casi, voi non potete godere di Roma, e delle altre città grandi, se non come puro spettatore: e lo spettacolo del quale v’è impossibile di far parte, v’annoia al

secondo momento, per bellissimo che sia. Lasciando da parte lo spirito13 e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando14, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche15, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete. La carta mi manca. Non finirei mai di discorrer con voi. Tutti dormono: io rubo questi momenti al sonno, perchè durante il giorno, non mi lasciano un momento di libertà. Salutami tanto Paolina. Ti prego, caro Carlo, che per amor mio, quando tu mi scrivi, vogli16 prendere questa fatica d’allargare un poco il carattere, e lasciare fra le righe alquanto più d’intervallo a causa de’ miei poveri occhi. Marietta17 sta bene, e pare che attenda molto ogni volta che si parla di te. Puoi scrivermi liberamente sotto il mio nome, senza far lettere ostensibili18 ec. perch’io non mostro nè le tue nè le altrui, e questi di casa sono incapaci di violare19 le lettere che mi vengono. Questa sera ho conosciuto alcuni dotti tedeschi20 che m’hanno alquanto confortato. Addio, ti bacio, stammi di buon animo.

1. misantropo: che odia gli esseri umani, la loro compagnia. 2. bigotto: che esagera, esibisce la propria religiosità; bacchettone. 3. cognizione: conoscenza. 4. costì: in codesto luogo. 5. grande sfera: ambiente vasto, grande città. 6. congetturare: supporre. 7. spassione: mancanza di passione. 8. verun: nessun. 9. uscire delle: uscire dalle. 10. i mondani: la gente comune, in opposizione ai religiosi. 11. dissipata: sregolata, scioperata. 12. soverchiare: superare, sopraffare. 13. lo spirito: l’aspetto spirituale, l’ambiente culturale di Roma (che sarà descritto in seguito nella lettera a Carlo del 16 dicembre). 14. Trattando: entrando in contatto, incontrando. 15. donne pubbliche: prostitute. 16. vogli: tu voglia. 17. Marietta: Marietta Antici, la cugina a cui Carlo era interessato. 18. ostensibili: che possono esser mostrate o rese pubbliche. 19. violare: aprire e leggere di nascosto. 20. dotti tedeschi: tra cui il filologo grecista Friedrich Wilhelm Thiersch (17841860).

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Al sepolcro del Tasso Il motivo del “piacere non trovato” a Roma, confessato a Carlo il 6 dicembre del 1822, si incontra in positivo, a distanza di pochi mesi dalla precedente lettera. È «il piacere delle lagrime», per gustare il quale «si potrebbe anche venire dall’America». Progettata da tempo, la visita alla chiesa di Sant’Onofrio sul Gianicolo rinnova l’emozione simpatetica espressa dal poeta nelle strofe dedicate a Tasso nella canzone Ad Angelo Mai (vv. 121-150). I “contrasti” suggeriti al fratello tra la lapide di «un palmo e mezzo» e l’«infinita magnificenza» dei monumenti romani, tra la fama ancora viva del grande poeta e l’oblio dei destinatari di quei mausolei, provocano sentimenti di consolazione e indignazione. Il tema dell’umiltà e del «vero» prosegue nella narrazione della salita verso la tomba: l’immagine della vita operosa delle officine, il canto delle donne e degli operai, i loro aspetti e modi, semplici e più aperti, danno un esempio della umile umanità che tante volte Leopardi preferisce rappresentare nei Canti, tenendosi lontano dalle false apparenze dei potenti. (Da G. Leopardi, op. cit.)

Joseph Mallord William Turner, Roma vista dal Vaticano, 1819. Londra, Tate Gallery.

A Carlo Leopardi Roma 20 Febbraio 1823 […] Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perchè in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere1 del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo2. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo3 all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda4 consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi5, che volle giacere prope magnos Torquati cineres6, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo

provate alla tomba del Tasso. Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio7 e non d’intrigo, d’impostura8 e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t’abbraccio. Addio addio. 1. 2. 3. 4. 5.

il cenere: i resti, le spoglie mortali. mausoleo: maestoso monumento funebre. avvezzo: abituato. fremebonda: che fa fremere, indignare. Guidi: Alessandro Guidi (1650-1712), poeta classicista, membro della Accademia dell’Arcadia. 6. prope... cineres: “vicino alle ceneri del grande Torquato”. 7. travaglio: lavoro, fatica. 8. impostura: falsità, menzogna.

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Il “risorgimento” pisano Il soggiorno pisano, dal 9 novembre 1827 fino ai primi di giugno del 1828, segna uno dei momenti più felici nella vita di Leopardi. Nella lettera alla sorella Paolina il poeta riesce a trasmettere le sue impressioni e i propri pensieri nei minimi dettagli, certo che le saranno molto cari e apprezzati, anche come segni del suo ritrovato benessere: il clima, l’ambiente cosmopolita, il passeggio, le lingue e la lingua locale, l’architettura, l’alloggio confortevole e la vista sull’orizzonte dalla stanza. In questo contesto pisano così accogliente, intermedio tra città e cittadina, riprenderà pure nei mesi successivi l’ispirazione della poesia, annunciata per gradi in altre due lettere pisane, la prima del 25 febbraio: «ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Rimembranze : là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico». La seconda del 5 maggio 1828: «Io ho finita oramai la Crestomazia poetica: e dopo due anni, ho fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta». (Da G. Leopardi, op. cit., vol. II).

A Paolina Leopardi Pisa 12 Novembre 1827 Paolina mia. Ricevetti a Firenze la tua de’ 2, la quale puoi figurarti quanto mi fosse cara: io ti aveva scritto già poco prima, stando in grande impazienza di aver le nuove di casa. Ti dissi che sarei andato a Massa, ma i miei amici di Firenze mi hanno fatto determinare per Pisa, città tanto migliore, e di clima tanto accreditato1. Partii da Firenze la mattina dei 9 in posta2, e arrivai la sera a Pisa, viaggio di 50 miglia. Ieri notte, per la prima volta dopo più di sei mesi e mezzo, dormii fuori di Locanda3, in una casa dove mi sono collocato in pensione, a patti molto discreti4. Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gittare il ferraiuolo5 e alleggerirmi di panni. L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto

niente di simile nè a Firenze nè a Milano nè a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’inverno con gran piacere, perchè v’è quasi sempre un’aria di primavera: sicchè in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo6, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, nelle botteghe piene di galanterie7, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte in bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio8, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito; che ho una camera a ponente, che guarda sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che si arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi in Firenze. La gente di casa è buona, i prezzi non grandi, cosa ottima per la mia borsa, la quale non è stata troppo contenta de’ Fiorentini: e non vorrei che credeste ch’io fossi venuto qua in posta, come vi ho detto, per fare lo splendido9: ci sono venuto con una di queste piccole diligenze toscane, che fanno pagar meno che le vetture. Salutami tutti; dammi le nuove di tutti: bacia le mani per me a Babbo e a Mamma: e scrivimi, ma scrivimi presto, e dammi tutte le nuove che sai, prima di casa, poi di Recanati, poi della Marca10. Dì a Carlo, se mi vuol sempre bene. Aspetto qualche notizia da Bunsen11 quando egli ripasserà per Bologna questo Decembre. Così siamo rimasti d’accordo. Egli passerà pure per Recanati. Addio.

1. accreditato: che gode credito, apprezzato. 2. in posta: su una carrozza di posta. 3. fuori di Locanda: non più in albergo. 4. discreti: ragionevoli, moderati. 5. ferraiuolo: mantello. 6. mondo: gente. 7. galanterie: oggetti di gusto, eleganti. 8. villereccio: campagnolo. 9. lo splendido: il munifico, lo spendaccione. 10. Marca: denominazione del territorio dello Stato della Chiesa corrispondente oggi approssimativamente alla regione Marche. 11. Bunsen: il filologo tedesco Christian Karl Josias von Bunsen (1791-1860), conosciuto da Leopardi a Roma nel 1822-1823.

Isabella Ragonese nei panni di Paolina Leopardi in Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone.

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La protesta di Leopardi In questo brano di una lettera fiorentina del 1832 Leopardi risponde, basandosi sulle notizie fornitegli dall’amico svizzero Louis de Sinner, agli erronei e deformanti giudizi presenti nel periodico “Der Hesperus” di Stoccarda riguardo alle sue convinzioni e alla sua opera. Dopo aver dichiarato in accordo con de Sinner l’assurdità di riconoscere una «tendenza religiosa» nei suoi scritti, improvvisamente – come notò il critico francese Charles-Augustin de Sainte-Beuve, nel suo Portrait de Leopardi (1844) – lo scrittore passava a esprimersi in francese come per rendere più esplicito il suo pensiero indirizzandolo a un pubblico più vasto e in una lingua a diffusione internazionale. Si trattava, infatti, della risposta a un’accusa più volte espressa dai contemporanei del poeta e poi ripetuta fino al Novecento: quella di un forte condizionamento esercitato dalle sue disgrazie fisiche sulle sue idee. Come nel romanzo di Thomas Mann, La montagna incantata (1924), in cui l’erudito Settembrini pronuncia queste parole: «Conoscete Leopardi, ingegnere, o lei, tenente? Un infelice poeta del mio paese, un uomo gobbo, malaticcio con un’anima originariamente grande, ma di continuo umiliata dalla miseria del corpo e trascinata nelle bassure dell’ironia, un’anima i cui lamenti straziano il cuore». La replica leopardiana era ferma e risoluta. Si richiamava direttamente al personaggio della canzone Bruto minore del dicembre 1821 e da quel canto (che era stato seguito alcuni mesi dopo dalla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e Teofrasto vicini a morte, inclusa nell’edizione delle Canzoni del 1824) estraeva alcuni significati esemplari, propri delle sue scelte di vita e di pensiero. Anzitutto il coraggio eroico di non subire passivamente il destino individuale e storico (in assenza degli dèi, che al v. 19 della canzone sono detti «marmorei numi», divinità indifferenti e impietose); quindi la scelta coraggiosa di un percorso di riflessione verso una filosofia senza illusioni, che richiede infine legittimamente di essere discusso o confutato in un confronto dialettico, e non sulla base di insinuazioni volgari. Del resto accenti analoghi, e contemporanei, risuonavano con le stesse parole nella parte iniziale del Dialogo di Tristano e di un amico (1832-1833), ultima delle Operette morali: «Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera». (Da G. Leopardi, op. cit., vol. II; trad. in W. Binni, Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci con la collaborazione di M. Dondero, La Nuova Italia, Scandicci 1994; la citazione nel commento è tratta da N. Bellucci, Leopardi e i contemporanei, Ponte alle Grazie, Firenze 1996.)

A Louis de Sinner Firenze 24 maggio 1832 Ho ricevuto i fogli dell’Hesperus, dei quali vi ringrazio carissimamente. Voi dite benissimo ch’egli è assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Quels que soit mes

Sainte Beuve.

malheurs, qu’on a jugè à propos d’étaler et que peut-être on a un peu exagérés dan ce journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poid ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circostances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies. (Traduzione: “Quali che siano le mie sventure, che si è pensato di voler rivelare e che forse si sono anche un po’ esagerate in questo giornale, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercarne di diminuirne il peso, nè con frivole speranze in una pretesa felicità futura e sconosciuta, nè con una vile rassegnazione. I miei sentimenti di fronte al destino sono stati e sono sempre quelli che io ho espresso nel Bruto minore. È stato in seguito a questo coraggio, che essendo condotto dalle mie ricerche ad una filosofia disperante, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre che, d’altra parte, non è stato che per effetto della viltà degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi del merito dell’esistenza, che si son volute considerare le mie opinioni filosofiche come risultato delle mie sofferenze particolari e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che non si deve se non al mio pensiero. Prima di morire protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregherò i miei lettori di impegnarsi a distruggere le mie osservazioni e ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie”.)

| 1. Giacomo Leopardi | I luoghi | 17 Bologna Dal luglio 1825 Leopardi intraprende un quadriennio di viaggi e soggiorni nei più importanti centri culturali della penisola. A Bologna giunge per la prima volta quell’anno su sollecitazione dell’amico letterato Pietro Giordani e vi resta alcuni mesi, trovando occasioni per nuove amicizie, scambi, letture, incontri, scritti e idee. Il poeta vi farà ritorno più volte negli anni successivi. Nella fotografia, lo storico palazzo Amorini Bolognini.

I luoghi

 Milano

Bologna

Pisa Firenze

Recanati

Recanati Palazzo Leopardi a Recanati, dove Giacomo nasce il 29 giugno del 1798. Ora sede della Casa Museo Leopardi, l’edificio si affaccia sulla «piazzuola» citata nella famosa lirica Il sabato del villaggio.

Roma

Napoli

Torre del Greco Recanati Intorno alla città natia si può immaginare il celebre «ermo colle» della poesia L’infinito, seppure non sia un colle precisato fisicamente e geograficamente da Leopardi, per il quale è soprattutto un luogo poetico. Firenze Leopardi soggiorna nella città toscana nel giugno-ottobre del 1827 e nel giugno-novembre del 1828. Qui frequenta l’ambiente liberale del Gabinetto Vieusseux e della rivista “Antologia”, dove conosce Manzoni, Gioberti e Stendhal.

Torre del Greco Nel 1833 Leopardi giunge a Napoli in compagnia dell’amico Antonio Ranieri. È un periodo intensamente creativo, che lo vede comporre le liriche La ginestra e Il tramonto della luna per i suoi Canti, oltre ai Paralipomeni della Batracomiomachia. Un’epidemia di colera li costringe a soggiornare per un periodo presso villa Ferrigni a Torre del Greco (nella fotografia). Il poeta morirà a Napoli il 14 giugno 1837.

18 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

La biblioteca

 L’erudizione filologica, letteraria, enciclopedica nella vasta biblioteca paterna di Recanati: dagli autori greci e latini ai classici italiani, agli studi scientifici e filosofici.

Il Libro Secondo dell’Eneide tradotto da Giacomo Leopardi. Pirotta, Milano 1817.

N

ello Studio su Giacomo Leopardi (18751883, ma rimasto incompiuto), così Francesco De Sanctis sintetizzava il rapporto strettissimo tra la formazione del giovane poeta e i libri della biblioteca paterna nella casa di Recanati:

«

E crebbe a immagine della biblioteca, suo secondo maestro. Cosa potesse essere allora una biblioteca, si può congetturare facilmente. Era a base classica e biblica, con aggiunta di libri vari di valore e di materia, de’ tempi posteriori sino al secolo decimo ottavo. E questa fu la base della sua coltura. I suoi primi studi furono di lingue. Studiò latino, greco, ebraico, francese, spagnolo, inglese, tedesco, per far suo tutto quell’immenso sapere raccolto nella biblioteca. Lesse classici greci e latini e autori biblici e alessandrini sino ai Santi Padri, e spronato dalle due forze di quell’età, la memoria e la curiosità, studiò autori di ogni tempo e di ogni valore, come portava il caso e il desiderio.

»

(Da F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1983.) Questo ritratto, piuttosto fedele (tranne per lo studio del tedesco), documenta in modo approfondito la tipologia generale della biblioteca recanatese raccolta nel corso degli anni dal padre Monaldo attraverso acquisti e recuperi di biblioteche ecclesiastiche. In essa erano disponibili, oltre a una grande quantità di testi di materia religiosa e devota, tra cui spicca la Biblia sacra polyglotta del 1657, ovvero la Bibbia in più lingue antiche, tutti gli strumenti indispensabili alla formazione di un letterato completo, vale a dire anche un intellettuale moderno di cultura enciclopedica. Infatti, se alla base degli studi leopardiani vi erano le grammatiche, i vocabolari e i testi letterari e culturali delle lingue studiate, gli interessi più vivi del poeta si indirizzavano però alla collezione di autori greci e latini (anche se in edizioni antiquate e non sempre attendibili) e ai repertori filologici della Bibliotheca Graeca e Latina di Johann Albert Fabricius, e si dedicavano con continuità allo studio delle opere dei classici della letteratura italiana da Dante ad Alfieri, a Foscolo e Monti. D’altra parte non mancava la lettura accurata dei testi scientifici di fisica, chimica, astronomia (e la Storia naturale di Buffon), e

specialmente dei filosofi del Sei-Settecento, da Cartesio agli illuministi e ai filosofi del sensismoempirismo, compresa l’Encyclopédie métodique di Diderot-D’Alembert, mentre erano tra i libri preferiti i romanzi e i saggi di Madame de Staël e le opere di Rousseau. Fuori di Recanati, altre biblioteche, pubbliche e private, furono frequentate da Leopardi per i suoi lavori filologici o per tenersi aggiornato sulle novità culturali: anzitutto a Roma, nel primo soggiorno romano del 1822-23, la Vaticana e la Barberiniana (e forse anche l’Angelica e la Casanatense), nonché varie biblioteche di parenti e conoscenti; poi, durante le residenze fiorentine del 1827-28 e tra il 1830 e il 1833, la fornitissima biblioteca di giornali e riviste del Gabinetto Vieusseux > p. 9 |, fondato nel 1819 da Giovan Pietro Vieusseux, direttore della “Antologia”. Tuttavia, ancora nel 1826, dopo aver presentato il progetto della Crestomazia italiana della prosa all’editore Stella, Leopardi dichiarava di preferire, per comodità di studio e per questo preciso motivo, di lavorare a quell’opera «a Recanati, in mezzo alla mia libreria», dato che «il lavorar nelle biblioteche pubbliche mi è assolutamente impossibile, perchè quando io sono Le biblioteche in presenza d’altri, non di Roma e di son buono a studiare» Firenze (fra cui (da G. Leopardi, Epistoil Gabinetto lario, vol. II, a cura di F. Vieusseux) Brioschi e P. Landi, Bolper le novità lati Boringhieri, Torino culturali. 1998). Quella di La “biblioteca reale” di Recanati per la Leopardi, cioè i libri da composizione e lui effettivamente letti gli studi. e consultati, era dunque enorme, come hanno mostrato i commentatori e gli studiosi delle fonti delle sue opere, eppure lo stesso poeta ha lasciato vari “elenchi di letture”, effettuate in vari anni, tra cui uno nel quale sono registrati, mese per mese, dal 1° giugno 1823 al marzo 1830, i titoli di 479 opere, a testimonianza, attraverso una specie di inventario, dei suoi viaggi di straordinario lettore. Ne riportiamo qui un frammento:

«

Settembre 328) Monti Sulla mitologia sermone. Milano 1825. 329) Aristotelis De virtutibus et vitiis. Tiguri 1543. [in Stobeo] 330) Pigault-Lebrun Le Citateur. Paris 1811. tomes 2. 331) Machiavelli Commedia senza titolo. opp. Italia 1819. volume 6.

| 1. Giacomo Leopardi | La biblioteca | 19

L’Illiade di Omero recata poeticamente in verso sciolto italiano dall’Ab. Melchior Cesarotti. Padova, Stamperia Penada, 1768-1794. Carlo Linneo, Fundamentorum Botanicorum pars secunda, Coloniae-Allobrogum, Sumptibus Piestre et Delamolliere, 1787.

1. a recineto condito: dalla fondazione di Recanati.

Ottobre 332) Cebetis Tabula. Oxon. 18o4. ed. Simpson. 333) Epicteti Enchiridion. ibidem. 334) Théagés de Platon traduit par Cousin. oeuvres de Plat. Paris. 1822. tome 5. 335) Le second Alcibiade traduit par le même. ibidem. 336) Le Charmide par le même. ibidem. 337) Le Lachès par le même. ibidem. 338) Perticari Della necessità d’instituire in Roma una cattedra di letteratura classica italiana. opp. Lugo 1823. vol. 3· Novembre 339) Facciolati Ciceronis Vita literaria. Mediol. 182o. 340) Coray Notes sur les Caractères de Théophraste. Paris 1799. 341) Theophrasti Charactères. ibidem. 342) Monti Le nozze di Cadmo e di Ermione, Idillio. Bologna 1825. 343) Foscolo Saggio sulla poesia del Petrarca. Milano 1825. 344) Plutarco Dell’aver moltitudine di amici, tradotto da M. Adriani. Mil. 1825. 345) Maffei La Felicità coniugale, idillio. Mil. 1825. 346) Gozzi L’Osservatore. opp. Padova 1818. vol. 1-3 · 347) Eratosthenis Catasterismi. Francof. ad Moenum 1816. 348) Aeschinis Socratici Fragmenta cur. Fischer. Lipsiae 1766. 349) Baretti’s A Grammar of the Italian tongue. Venice 1795.

»

(Da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. III, ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991.)

Leopardi e i suoi libri

D

irettamente dalle parole di Leopardi nel suo epistolario abbiamo testimonianza delle sue frequenti ricerche di libri a lui cari o necessari, mancanti nella biblioteca paterna e tutt’altro che facili da reperire sia quando viveva a Recanati, sia durante il soggiorno napoletano, anche per le misure sanitarie imposte per scongiurare la diffusione di epidemie.

«

A Pietro Giordani Recanati 30 aprile 1817

Io non sono certo una gran cosa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto questo non ha fatto mai altro recanatese a recineto condito1. Parrebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle chiedermi notizia dei letterati della età nostra. Per appunto. I Giornali come sono stati letti nella mia famiglia vanno a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno si cura e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? Nessuno mai. Oh veda Ella se questo è terreno da seminarci. Ma e gli studi, le pare che qui si possano far bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco spessissimo di libri non pure che mi piacerebbe di leggere ma che mi sarebbero necessari; e però Ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche Classico. Se

20 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | si vuol leggere un libro che non si ha, se si vuol vederlo anche per un solo momento bisogna procacciarselo col suo danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere nè conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo: sì che la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l’impresa di procacciarsi tutto è disperata.

»

(Da G. Leopardi, Epistolario, vol. I, cit.)

1. omne ferret punctum: con questa espressione in latino Leopardi riprende il verso 343 dell’Ars poetica di Orazio «omne tulit punctum», per riferirsi al fatto che, se il libro di Senofonte avesse quelle caratteristiche di utilità (annotazioni necessarie) e piacevolezza (portarselo dietro anche a passeggio), prenderebbe “tutto il suo consenso”. Leopardi sta alludendo alla parte più famosa e nota dell’opera oraziana, che qui è sottintesa ma che è diventata quasi una massima: l’arte deve unire, «mescere», “utile” e “dilettevole”.

Andrea Divo, Homeri poetae clarissimi Odyssea. Francesco Saverio Clavigero, Storia antica del Messico, in Cesena, per Gregorio Biasini all’Insegna di Pallade, 1780.

«

A Pietro Giordani Recanati 27 ottobre 1817

Quando sarete a Milano, avrei caro che mi cercaste un Senofonte che io potessi comperare, e trovatolo, me n’avvisaste, che io scriverei a chi bisognasse p[er] averlo. Non iscrivo di presente perchè mi manderebbero il primo che capitasse, e bisognerebbe tenerselo tale quale. Sopratutto non vorrei che fosse in foglio, p[er] cagione d.la mia vista, la quale mercè di Dio è forte e buona, ma corta, e non arriva a leggere più che tanto discosto, sì che mi bisogna incombere sulla carta quando la è troppo lunga; e appunto q.to non posso fare. Se poi fosse tale che si potesse portare in mano agevolm.e e leggere passeggiando, omne ferret punctum1, purchè il greco non fosse asciutto asciutto senza niente nè di versione nè di chiosa. Non mi curo che la stampa sia freschiss.a: già s’intende che manco vorrebbe essere del cinquecento o lì presso. In somma me ne rimetto a voi; ma ad ogni modo vorrei un Senofonte, chè è vergogna che ancora non l’abbia. Se ci fosse vendibile qualcuna d.le tante Collezioni di Classici greci stampati in Germania o altrove, la torrei più che volentieri, massime se fosse di forma piccola, e con qual-

che dilucidaz.e, tanto che io potessi leggere il testo speditam.e, senza fermarmi n.le difficoltà a cercare altri libri.

»

(Da G. Leopardi, Epistolario, vol. I, cit.)

[A Monaldo Leopardi] Napoli 19 Febbr. 1836.

«

Mio carissimo Papà. [...] Mi sarebbe carissimo di ricevere la copia che Ella mi esibisce completa della Voce della Ragione; e se volessi, com’Ella dice, disfarmene, potrei far piacere a molti, essendo il suo nome anche qui in molta stima. Ma non posso pregarla di eseguire la sua buona intenzione, perchè l’impresa di ricevere libri esteri a Napoli è disperata, non solo a causa del terribile dazio (3 carlini ogni minimo volume, e 6 se il volume è grosso) il quale è difficilissimo di evitare, ma per le interminabili misure sanitarie (ogni stampa estera, che sia legata con filo, sta 50 giorni in lazzaretto) e di revisione, le quali sgomentano ogni animo più risoluto. Più volte mi è stata dimandata la sua Storia evangelica, di cui dovetti disfarmi a Firenze, e il libro sulle usure: scrivendone a Lei, facilmente avrei potuto procurarmi i volumi, e il soddisfarne i richiedenti mi avrebbe fatto molto piacere: ma ho dovuto indicare alla meglio il modo che dovevano tenere per averli, senza incaricarmi del porto, come di cosa superiore alle forze ordinarie degli uomini. E così alcuni de’ libri miei che mi sarebbero bisognati, e che qui non si trovano, non ho neppur pensato a farli venire di costì nè d’altronde, considerando il riceverli come cosa vicina all’impossibile.

»

(Da G. Leopardi, Epistolario, vol. II, cit.)

| 1. Giacomo Leopardi | 1.1 La modernità di Leopardi | 21 sezione

9

capitolo

Introduzione

1.1 La modernità di Leopardi

Essere giudicato moderno, nel caso di uno scrittore del passato, significa che le sue opere sono sopravvissute al suo tempo, restano interessanti anche in un’altra epoca, ed evidentemente parlano, comunicano ancora, nel futuro, di quel passato. Le ragioni della “modernità” di Leopardi appartengono a questo fenomeno di durata culturale, che richiederebbe molte analisi e spiegazioni appropriate di sociologia letteraria; tuttavia, la più semplice e più pronta delle motivazioni potrebbe essere che, nonostante l’ammonimento di un altro poeta, il Parini personaggio dell’operetta morale Il Parini, ovvero della gloria, a non contare affatto sulla fama postuma, sia avvenuto ciò che Leopardi stesso aveva curiosamente osservato in un pensiero del suo Zibaldone nel 1820 (p. 307): 1. Questa e le successive citazioni dallo Zibaldone sono tratte da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. I, ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991.

Leopardi (Elio Germano) e l’amico Pietro Giordani (Valerio Binasco) in una scena Il giovane favoloso di Mario Martone.

«

È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de’ fanciulli, come i trattati più 1 secchi e regolari delle cognizioni esatte.

»

Vale a dire che Leopardi è diventato un classico della letteratura italiana, in quel ristretto canone dei grandi scrittori della tradizione (Dante, Petrarca, Boccaccio ecc.), forse non proprio per «fanciulli» ma un classico, appunto “moderno”, più recente e più vicino. In effetti è proprio in questo processo di evoluzione storica di poco più di due secoli che si è precisato, soprattutto nel corso della critica novecentesca, il ritratto di un Leopardi “moderno”, un autore in contrasto con il proprio tempo e le cui parole, come allora si rivolgevano proprio a un’epoca di lacerazioni e contrasti, così potrebbero essere significative per quella contemporanea. Diversamente dagli autori romantici che si indirizzavano con le loro poetiche a un pubblico ben individuato, la ricerca leopardiana presupponeva ben altri interlocutori, ponendosi nel primo Ottocento contro le correnti dominanti di pensiero e di letteratura, e avendo in qualche misura assorbito per via indiretta o mediata gli elementi essenziali della

22 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

produzione preromantica europea. Il punto cruciale di distanza dai suoi contemporanei, con le relative incomprensioni pregiudiziali di natura ideologica o religiosa, stava nel fatto che le sue opere – Canti, Operette morali, Zibaldone, ecc. – erano (e sono) il prodotto di una serrata riflessione filosofica aperta a prospettive antropologiche sulle mutazioni storiche ed epocali dell’essere umano. Come ha notato Ezio Raimondi in una lezione universitaria dell’anno accademico 1990-1991 presso l’Università di Bologna: «Leopardi sente il passato come una realtà perduta. Sente che chi è venuto dopo deve misurarsi con quel passato proprio perché è venuto dopo, proprio perché è un moderno che deve guardare indietro, perché là non si può più tornare»2. La metafora del «colpo d’occhio» che unifica nel 1821-1823 l’attività del poeta e del filosofo (sentire, immaginazione e ragione) è quindi l’elemento strutturale della poesia-pensiero leopardiana:

«

E ben sai che egli è comune al poeta e al flosofo l’internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli efetti dell’une e degli altri: nelle quali cose, quelli che non sono atti a sentire in se la corrispondenza de’ pensieri poetici al vero, non sentono anche, e non cono3 scono, quella dei flosofci. (Il Parini, ovvero della gloria, in Operette morali)

»

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida, 1874, Milwaukee Art Museum.

In questa direzione di un legame stretto di poesia e pensiero, tra le definizioni retrospettive e analogiche che sono state date alla riflessione leopardiana dai critici del secondo Novecento, quelle di “razionalismo metodologico” e di “filosofia dell’esistenza sentita” sembrano essere le più plausibili, e soprattutto compatibili con l’esigenza, sempre riaffermata dal poeta-filosofo, del valore della poesia e della letteratura nella condizione umana, valore consolatorio che «ci rinfresca, p. così dire; e ci accresce la vitalità» (Zibaldone, p. 4450). Nella “modernità” del suo secolo, orientata verso l’utilitarismo egoistico, fondato sul guadagno e sul mito del progresso, Leopardi progettò, senza risultato, nel 1832 “Lo Spettatore fiorentino”, ritenendo «ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta stampata, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d’essere inutile», avendo per scopo non di «giovare al mondo, ma dilettare quei pochi che leggeranno». E a quel giornale era destinato probabilmente il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, la più “leggera” delle Operette morali, che, stando alla lettera in risposta all’editore Stella, Leopardi sosteneva di avere scritto però «con leggerezza apparente» (6 dicembre 1826). Del resto la precarietà della poesia e della letteratura era denunciata più volte, fino a farne un requisito positivo, imprescindibile, della vita:

« «

»

... letteratura del secolo 19°, a parlar propriamente, non v’è. (Zibaldone, 4504, 11 maggio 1829)

2.

3.

E. Raimondi, Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale, Mondadori, Milano 2004. G. Leopardi, Operette morali, a cura di L. Melosi, BUR, Milano 2008.

È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch’ei può; anzi una poesia non poesia. (Zibaldone, 4497, 2 maggio 1829)

«

»

Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall’anno la primavera, dalla vita la gioventù. (Zibaldone, 4469, 6 marzo 1829)

»

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | 23 sezione

capitolo

Analisi

9 dell’opera

1.2 Zibaldone di pensieri



Storia del testo

Sesto volume di Pensieri di varia filosofia e bella letteratura, pubblicato da Le Monnier nel 1900.

Lo Zibaldone di pensieri è un’opera non destinata alla pubblicazione che esce, dopo i lavori di una commissione nazionale presieduta da Giosue Carducci, curatore scientifico, oltre sessant’anni dopo la morte di Leopardi, in sette volumi pubblicati fra il 1898 e il 1900 presso la casa editrice fiorentina Le Monnier, con il titolo di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi. Carducci mette alla base della stampa il manoscritto autografo – ora alla Biblioteca Nazionale di Napoli – che, pur trovandosi tra le carte lasciate da Leopardi nelle mani di Antonio Ranieri, non venne inserito nell’opera completa pubblicata postuma nel 1845 dall’amico napoletano. Si tratta di un’opera monumentale e sorprendente nella sua “modernità” che, pur nascendo come raccolta non omogenea di pensieri, osservazioni, appunti, note diaristiche, annotazioni di letture, commenti sparsi che hanno numerosissimi legami tra di loro e con gli altri testi leopardiani, assume via via sempre più organicità, in particolare attraverso un reticolo fittissimo di rinvii interni ai testi stessi. La scrittura è compresa nell’arco di circa un quindicennio, dal 1817 al 1832, ma la ricostruzione puntuale è possibile soltanto dall’8 gennaio 1820, da quando cioè, con la chiara volontà di marcare temporalmente la stesura, Leopardi inizia ad apporre giorno e anno, o solo una delle due indicazioni; alle volte semplicemente aggiungendo piccoli dettagli che testimoniano della vita quotidiana, della vita di ogni giorno, come nel caso della pagina 4057: «4 aprile 1824 Domenica di Passione. Nevica». Fino a quando, nella pagina manoscritta che risale al 1827, a rendere più evidente lo statuto dell’opera, decide di stilare un indice e fornisce il titolo che hanno poi assunto gli editori moderni: «Fin qui si stende l’Indice di questo Zibaldone di Pensieri cominciato agli II Luglio e finito ai 14 Ottobre del 1827 in Firenze». Le pagine indicizzate sono quelle che vanno da 1 a 4295. L’inizio della composizione è, dunque, fissato tra luglio e agosto del 1817. La scrittura, seppur non sistematica, sembra proseguire velocemente, come testimonia anche la corrispondenza con l’editore milanese Stella che gli commissiona, alla fine del 1826, un dizionario filosofico alla maniera di Voltaire. Forse è per quella richiesta che Leopardi mette mano all’«Indice del mio Zibaldone di Pensieri», dopo i tentativi di compilazione di un regesto tematico, più che di veri e propri indici, degli anni precedenti. Lo «scartafaccio» (così in una lettera all’editore Stella: «immenso volume manoscritto, o scartafaccio»), il brogliaccio, il quaderno di lavoro, i mélanges, come chiama altrove l’opera, comincia ad avere una fisionomia più compiuta,

24 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Uno schedario di 555 schedine mobili costituente la minuta dell’Indice dello Zibaldone. Le polizzine richiamate.

Polizzine a parte *Piccoli foglietti sui quali Leopardi annota gruppi di numeri di pagina che hanno un tema comune o rinvii a numeri di pagina del manoscritto con le quali hanno una contiguità di argomento, e così via. Sono 38 le schede compilative che ci sono rimaste, fra le quali Civiltà, incivilimento, Volgare latino, Romanticismo, Trattato delle passioni, qualità umane ec, Lingue, Piacere. Teoria del piacere e le preziosissime Memorie della mia vita.

*UnaAforistica scrittura che assume caratteristiche affini o ispirate alla forma dell’aforisma, quali la brevità e la sentenziosità, talora anche paradossale. L’aforisma è più generalmente una breve massima che esprime una norma di vita o una sentenza filosofica. Palinodia *Finta ritrattazione.

Benedetto Varchi *Letterato e storico (15031565), fu al servizio di Cosimo de’ Medici che lo incaricò di stendere una storia della città di Firenze (Istorie fiorentine, in 16 libri), scrisse alcuni Sonetti e il dialogo L’Ercolano, in cui sostiene la fiorentinità della lingua italiana.

Struttura

anche se rimarranno allo stadio di ipotesi sia il progetto dell’editore sia i disegni diversi che potevano destinare questo primo materiale a trattati, saggi, dissertazioni su singoli temi di estetica, filosofia, linguistica o altro ancora. Ci restano, anche a ulteriore riprova della forma che andava prendendo l’opera, le Polizzine a parte * allegate all’Indice del 1827. La scrittura dello Zibaldone ha impegnato Leopardi con andamento non regolare: si va dalle numerose pagine scritte tra il 1820 e il 1823, con punte di circa 1800 pagine nel 1821 e nel 1823, a dopo il 1824 quando le pagine si diradano per poi riprendere tra il 1828 e il 1829, e infine di fatto scomparire (soltanto 3 pagine) nell’arco di tempo che arriva al 1832. Per un totale di 4526 pagine. La prima riflessione riguarda un’immagine notturna che si può ritrovare nella lirica leopardiana: «Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante»; l’ultima a essere stata scritta, e che ci rimane come suggello del pensiero leopardiano è, invece, questa: «La cosa più inaspettata a chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale (Firenze. 4 Dic. 1832.)». In un certo senso ideale continuazione dello Zibaldone sono i Pensieri, in quanto spesso riscrittura di alcuni degli spunti già contenuti nell’opera precedente o nell’epistolario: poco più di un centinaio di riflessioni che Leopardi inizia a scrivere dopo il 1832, proprio l’anno in cui si arresta la stesura dello Zibaldone, e dal quale si differenziano per la presenza di un tono ironico più spiccato che li avvicinano, invece, alla scrittura “aforistica”* del periodo napoletano, quello della Palinodia* al marchese Gino Capponi e de La ginestra > p. 126 |. Così come partecipano dello stesso humus del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani > p. 137 |, nel quale, spesso con tono polemico, Leopardi stende i pensieri sul «carattere» dell’uomo e sul suo stare in società. Dopo l’edizione Carducci, quella del 1937 curata da Francesco Flora con il massimo del rigore filologico (Mondadori, in due volumi) è stata per anni il punto di riferimento di tutte le pubblicazioni successive, perché correggeva alcune delle cattive letture della grafia del manoscritto. Dello Zibaldone esiste oggi l’edizione critica curata da Giuseppe Pacella, uscita per Garzanti nel 1991, in tre volumi; e anche un’edizione fotografica curata da Emilio Peruzzi in dieci volumi 1989-1994, stampata presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Recentissima è la prima traduzione in inglese, nella quale è accentuata la caratteristica dell’opera come ipertesto contemporaneo. Il titolo corrente di Zibaldone, ricavato dall’annotazione del 1827 di mano dell’autore, riprende un termine con attestazioni anche molto antiche nella lingua italiana e allude a un genere letterario che, a partire dal Cinquecento – quando è testimoniato, in particolare, dall’uso di un prosatore molto letto e amato da Leopardi come Benedetto Varchi* – e poi soprattutto dal Settecento, diventa molto utilizzato per indicare quaderni, schede su argomenti vari, repertorio di appunti miscellanei, diversi, misti, congerie di scritti di varia natura.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | 25

Il metodo è quello dell’accumulo di pagine e pagine che si intrecciano tra di loro, che si richiamano a distanza e hanno nella varietà degli argomenti il loro stesso statuto di scrittura potenzialmente infinita, quella che oggi potremmo dire un’opera “aperta”: dalla filosofia all’antropologia, allo spunto autobiografico e introspettivo, all’annotazione grammaticale, lessicale, filologica, di costume, alle osservazioni di lettura dei testi classici e moderni, alle citazioni o elenchi di parole prelevati dagli stessi, alle indagini, anche spietate, sul proprio stare al mondo, a quelle nell’ambito delle scienze, della chimica, dell’ottica, della fisica. Difficile stabilire a quale genere appartenga esattamente quest’opera che, per sua stessa natura, sembra avere contiguità e parentele con altre forme precedenti e anche successive: dalla scrittura autobiografica del diario, per esempio quella dei Giornali di Alfieri (che poi diverranno contenitori a cui lo stesso autore attinge per la sua Vita) alla tradizione francese del journal intime, in Italia rappresentata, fra gli altri, dal Diario intimo di Niccolò Tommaseo (1802-1874); o ai Saggi di Montaigne, ai Pensieri di Pascal, a opere di impianto filosofico, alla forma del journal philosophique o a quella dell’aforisma che avrà grande fortuna nell’Europa di fine Ottocento (soprattutto per Nietzsche), o ancora ai Cahiers del poeta Paul Valéry (1871-1945). Certamente, e al di là dell’appartenenza a uno o più generi, quello che nel tempo lo Zibaldone acquisisce è una propria autonomia che lo affranca da una funzione solo interpretativa, di servizio esplicativo degli altri testi, da una posizione ancillare, soprattutto verso i Canti e le Operette morali, con i quali condivide molti temi. Infatti, l’opera ha una sua fisionomia compositiva che è frutto non solo di accumulo, ma anche di strategia rielaborativa, in alcuni casi correttoria: la scrittura dello Zibaldone non è pertanto solo occasionale e frammentaria, ma concepita per durare nel tempo. Inoltre, in una struttura così in divenire, aperta, e di queste dimensioni, la scansione cronologica che interviene nel 1820, da pagina 100 del manoscritto, insieme con l’inizio di quegli elenchi, classificazioni, se non ancora dei veri e propri indici, offre a noi lettori, di mano dello stesso Leopardi, una sequenzialità ordinata, del giorno per giorno, che l’avvicina alla forma del diario. La complessità della riflessione leopardiana che emerge dallo Zibaldone (e in tutta la sua opera) non è perciò confinabile in categorie e sotto etichette, spesso abusate, ma rappresenta un continuum ricco e articolato, in incessante evoluzione.

Indice dello Zibaldone propriamente detto.

Temi

Molte delle riflessioni dello Zibaldone si agglomerano intorno ad alcuni grandi nuclei tematici, che potremmo indicare in un numero di tre: - la riflessione filosofica sul rapporto tra uomo e natura; - la lingua; - la definizione della poesia. Vi sono riflessioni legate a questi nuclei o da essi provocate, perché la struttura non permette solo di aggregare, ma anche di “generare” altri percorsi. E a loro volta questi macrocontenitori sono intrecciati tra di loro: per esempio, tra i temi più studiati da Leopardi sono compresi quelli legati al binomio natura-ragione, all’«assuefazione» > Testo 5, p. 43 | e alla perdita di centralità dell’uomo. Temi che si collegano, a loro volta, alle osservazioni sull’immaginazione come madre dell’illusione e sull’ubria-

26 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

chezza fisica come possibilità artificiale di risvegliare la capacità immaginativa e dell’oblio, dunque strettamente legati sia alla facoltà poetica dell’immaginazione sia alla questione linguistica della distinzione fra parola e termine > Testo 2, p. 34 | che ha conseguenze straordinariamente moderne per la riflessione, fra l’altro, sulla metafora e su tutte le possibilità di restituzione, attraverso la parola, di un’idea “doppia”: il significato letterale e quello secondario, evocativo e allusivo, poetico del vago e indeterminato; ovvero, scrive Leopardi, su ciò che forma la «bellezza di una lingua». Emergono le riflessioni sul rapporto fra la poesia degli antichi (la «celeste naturalezza»), e il «sentimentale artificioso» dei moderni > Testo 1, p. 30 |; così come quelle sul rapporto fra natura e ragione che dai pensieri del 1817 passano a quel-

Focus Il rapporto tra uomo e natura e la “teoria del piacere”

Lo Zibaldone registra tappe diverse dei cambiamenti e dei passaggi della riflessione che, se si evitano schematizzazioni rigide e non sempre aderenti al pensiero leopardiano, possono fornirci alcune indicazioni. Per esempio il passaggio dalla poesia alla filosofia, la cosiddetta «mutazione», cioè il «passaggio dallo stato antico al moderno», che risale al 1819 > Testo 3, p. 37 |, viene testimoniato da alcuni pensieri dello Zibaldone 143144, a cui segue, nel luglio del 1820, una serie compatta di pensieri che viene comunemente indicata come “teoria del piacere”. A partire dalla pagina 165 > Testo 4, p. 39 | la considerazione muove dall’insufficienza di tutti i piaceri a riempire l’animo umano, perché il desiderio del piacere non ha limiti, è infinito: ne consegue che il piacere non è mai pienamente soddisfatto se non per ogni singolo piacere, e dunque, in quanto limitato, possiede già in sé anche il suo contrario, il dispiacere e il dolore. La natura, che in questo gruppo di pensieri è una natura misericordiosa, permette alla felicità umana di esistere attraverso i prodotti dell’immaginazione, propria dei fanciulli e dei poeti, declinati in speranze e illusioni. Gli effetti della «mutazione» sono individuabili non in una interruzione totale del fare poesia, bensì nell’acquisizione di una sempre maggiore consapevolezza della necessità di un rapporto di interscambio tra ragione, immaginazione e sentimento, per riappropriarsi di quanto per gli antichi era dato dal contatto diretto con la natura. È questo il punto in cui nello Zibaldone, all’altezza del 1823, alla vigilia della stesura delle Operette morali, si fanno più frequenti i pensieri che si articolano intorno a coppie solo in apparenza oppositive: natura/ragione; ragione/ immaginazione; antichi/moderni; settentrione/ meridione; natura/civiltà; determinato/ indeterminato; poesia/filosofia. A metà del 1824, all’altezza della pagina 4099 dell’opera (3 giugno), si delinea un altro punto di svolta fondamentale nel rapporto dell’uomo con la

natura: se fino a quel momento il contrasto tra natura e ragione poneva la natura in un ordine perfetto, privo di contraddizioni, e l’infelicità dell’uomo non era legata a una responsabilità da parte della natura, ora subentra il dubbio che l’imperfezione dell’uomo, il dolore, il male, siano perlomeno un “guasto” all’interno della macchina perfetta. In Zibaldone 4087 del maggio 1824 sul tema del piacere, già indagato in alcuni pensieri del 1820 > Testo 4, p. 39 |, si innesta la domanda delle domande, quella legata alla “contraddittorietà” del sistema della natura:

«

Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?

»

(Da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. II, ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991.) Da questo momento nello Zibaldone si apre irrimediabilmente un divario tra uomo e natura perché, scrive Leopardi, si deve distinguere tra il fine della natura e quello dell’esistenza umana. I pensieri datati 5-6 aprile 1825 e quelli del 1826 sono la presa d’atto di questa «spaventevole» contraddizione e condividono le stesse conclusioni negative (o pessimistiche ) del dialogo della natura con l’islandese. Un’immagine divenuta celebre è quella del giardino ritratto nel passo con data 19 aprile 1826:

*

«

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | Focus | 27

li dominati dalla souffrance (“sofferenza”) del 1826, in cui, sulla scorta dell’operetta morale Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 | composta nel 1824, la natura appare come un sistema regolato da leggi meccaniche che prescindono dall’uomo, dall’animale, dal vegetale e creano dunque sofferenza, patimento, infelicità. Sono le leggi della materia che vanno avanti indipendentemente dall’uomo e non possono fermarsi. Innestate su queste tematiche, si configurano le nozioni di egoismo, di amor proprio, di noia, le osservazioni di tipo antropologico e comparativo sul comportamento dell’uomo, dell’umanità e la polemica contro il razionalismo e lo spiritualismo moderno, contro qualsiasi tipo di fede nel trascendente.

mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Da G. Leopardi, op. cit.)

»

Proseguono fino al 1829, pochi ma molto intensi, i pensieri dedicati alla filosofia della natura, alla presenza del male nell’ordine naturale delle cose, alla contraddizione che rimane inspiegabile e dolorosa-

mente misteriosa: il «misterio grande» che è ripreso in chiave umoristica a proposito della crisi dell’antropocentrismo nell’operetta morale dedicata a Copernico, la quale verrà citata esplicitamente da Luigi Pirandello nel suo romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), dove un’imprecazione divenuta celebre («Maledetto sia Copernico!») svela quanto “umoristica” sia la situazione dell’uomo dopo la rivoluzione copernicana che ha smontato la perfetta macchina dell’universo di cui si sentiva orgogliosamente il centro.

Pessimismo (storico e cosmico) *Il termine “pessimismo” ha avuto lunga fortuna critica negli studi sulla riflessione filosofica leopardiana, soprattutto a partire dalle due definizioni coniate da Bonaventura Zumbini nel 1902. Il «pessimismo storico» si riferisce a una prima fase in cui Leopardi individua nel processo storico di allontanamento dell’uomo dalla natura le cause dell’infelicità umana, in antitesi con il tempo degli antichi che dal contatto con la natura (madre benigna) traevano i rimedi (illusioni e immaginazione) per una vita più felice. Sarebbe quindi l’uomo, mediante il progresso della ragione (scientifica in particolare), il responsabile della sua stessa decadenza contemporanea. Il «pessimismo cosmico» si riferisce a una seconda fase che prende avvio dalle riflessioni contenute nelle Operette morali e denota un mutamento di prospettiva: è la natura stessa a essere indicata come la vera responsabile dell’infelicità umana, perché del tutto indifferente, o “anaffettiva” (matrigna) in termini figurati, nei confronti della vita dell’uomo, unicamente e perpetuamente incaricata di presiedere ai meccanismi di produzione e distruzione dell’universo, secondo una concezione che prevede, pertanto, anche il male, il dolore, la morte di ogni creatura come necessari al funzionamento del tutto. Questa distinzione, però, per quanto possa essere talvolta pragmaticamente funzionale alla comprensione didattica, comporta alcuni rischi e semplifica eccessivamente la complessa evoluzione del pensiero leopardiano: sia per le difficoltà nell’interpretazione del termine “pessimismo”, che spesso rischia di “gravare” sul pensiero leopardiano (come ci dice lo scrittore Gianni Celati > Sguardi d’autore in digitale |, sia perché stabilisce una distinzione concettuale e cronologica troppo netta tra elementi che dimostrano invece di essere anche compresenti e di sovrapporsi nei molteplici passaggi dell’elaborazione filosofica dell’autore. Preferiamo dunque ripercorrere le fasi, gli snodi, i temi della profonda riflessione leopardiana senza riferimenti alle due definizioni specifiche nelle nostre Analisi delle opere e dei singoli testi.

In digitale



Sguardi d’autore: Celati, Il pessimismo come forma di energia

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Il tema della poesia è, a sua volta, in relazione con il bello letterario ma, anche, con il bello delle altre arti, con l’immaginazione attivata dal vago e dall’indefinito, con l’antico e le opere dell’antichità, fra cui prevale su tutti Omero. Collegati a queste esposizioni, sono anche gli spunti di discussione sul contemporaneo, come nel caso delle pagine sulla poesia romantica (non a caso molte e rubricate tutte, da Leopardi stesso, sotto la voce Romanticismo) e sulla polemica con Di Breme, oppure quelle dedicate ad Alfieri preso a esempio per discutere la figura del vero letterato e del vero filosofo. Intorno al nucleo della lingua si raccolgono pensieri di argomento storico, etimologico, grammaticale, glottologico, sulle lingue antiche e moderne, sulle caratteristiche delle diverse lingue delle nazioni e sulla nascita delle lingue, sulle origini, in pagine che gli studiosi moderni hanno considerato straordinariamente anticipatrici di alcune teorie linguistiche attuali. Fonti e modelli

La prima edizione de I dolori del giovane Werther di Johann Goethe. Vladimir Borovikovskij, Ritratto di Madame de Staël, 1812. Mosca, Tretyakov Galerie.

Per quanto la possibilità di rintracciare fonti, modelli diretti e indiretti sia un’impresa davvero ardua – che spazia, solo per citarne alcuni, dal più lontano Platone allo Pseudo-Longino del trattato sul Sublime che opera, soprattutto, nella contrapposizione con l’idea del sublime del romanticismo di Ludovico di Breme, da Omero a Goethe o alla più vicina trattatistica settecentesca – questa dovrebbe partire da uno strumento essenziale di lavoro che sono gli elenchi delle proprie letture compilati da Leopardi stesso. Ma anche dopo uno scandaglio accurato, quello che resta un fatto incontrovertibile è che lo Zibaldone costituisce un unicum nella storia della letteratura europea. L’uso di tenere dei taccuini sui quali fissare materiali diversi, utili per future opere era stato inaugurato dall’erudito Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), ma lo Zibaldone di Leopardi si differenzia proprio su questo punto: esso non è soltanto un serbatoio di appunti, ma anzi un’opera di ben altra portata intellettuale che può immagazzinare la trattatistica filosofica dell’illuminismo e del materialismo, fino agli esiti più estremi di Holbach (1723-1789) e, al tempo stesso, i due romanzi epistolari di Goethe > Confronti, p. 65 | e di Foscolo. Così come è innegabile l’influenza dell’opera di Rousseau nel rapporto fra natura e civiltà, sullo stato primitivo dell’uomo, o di Montesquieu per l’opposizione fra settentrione e meridione; e ancor più quella di Madame de Staël, con la quale è in costante dialogo in tutto lo Zibaldone e che, a detta dello stesso Leopardi, fu determinante nella sua vocazione a diventare “filosofo” oltre a rendere un servizio molto prezioso per la divulgazione della cultura europea, in particolare del romanticismo tedesco. A proposito dell’occasione compositiva – eliminate definitivamente le fantasiose ricostruzioni che volevano come il più diretto ispiratore uno dei precettori di Giacomo, il canonico alsaziano Giuseppe Antonio Vogel, ospite di Monaldo e, a sua volta, autore di raccolte di pensieri eruditi – è importante sottolineare

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che il genere dei quaderni di appunti in libertà, o “scartafacci”, affondava già nella tradizione letteraria settecentesca (si vedano i sottisiers di Voltaire o i taccuini di Johann Joachim Winckelmann). Aggiungiamo che, nel 1815, Leopardi ebbe in dono dall’abate Francesco Cancellieri una dissertazione, nella quale si invitava ad annotare su carta letture intraprese e pensieri sparsi, al fine di tenerli in serbo per gli anni a venire. Lingua e stile

Apologo *Breve racconto con fini morali, spesso allegorico. È una forma diffusa sin dalle tradizioni antiche, attestata nella Bibbia, nella letteratura greca da vari autori fra cui Esopo e Fedro e in quella latina da Ennio, Cicerone e altri, come poi anche nella letteratura umanistica e rinascimentale (per esempio, gli Apologhi di Leon Battista Alberti).

Una polizzina non richiamate.

Dalla lunga descrizione del manoscritto fatta da Carducci stralciamo alcuni passi utili a comprendere l’unicità e l’eccezionalità di quest’opera, anche per quanto riguardo l’aspetto linguistico e stilistico, prontamente messo in evidenza dal prestigioso curatore:

«

È una mole di 4526 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell’autore, d’una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustre con se stesso su l’animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l’uomo, su le nazioni, su l’universo; […] considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva giorno per giorno per se stesso e non per gli altri […].

»

Infatti, alla grande varietà degli argomenti corrisponde una varietà di forme di scrittura che vanno da appunti sparsi, alla cronaca, all’analisi filologica, alla trattazione dotta, alla riflessione filosofica in forma aforistica o di autentici mini-trattati, alla forma dell’apologo* fondamentale per la prosa delle Operette morali. A queste diverse scritture corrispondono diversi registri linguistici che, pur muovendosi nella totale libertà di chi scrive per se stesso, come sottolinea Carducci, sono sempre di qualità, sono sempre in una lingua «accurata» e «corretta». Una lingua diretta, di servizio, ma straordinariamente moderna, una prosa essenziale, uno stile duttile capace di piegarsi alle diverse esigenze del pensiero senza mai risultare sciatto anche quando è colloquiale o quando è concitato e segue la velocità della notazione; oppure quando usa vocaboli stranieri per sottolineare differenze e analogie con la lingua italiana, o lemmi tecnici. A questo proposito sono frequenti le abbreviazioni di parole o le parole puntate: le più usate sono le indicazioni dei ABBREVIAZIONI PAROLA mesi nella data e le forme avverbiali, ma anche gli «ec. ec.» (per “eccetera”) o il «p.e.» (“per ec. eccetera esempio”). Nei suoi tratti specifici la lingua zibaldoniana testimonia, in effetti, l’esigenza n. numero di una scrittura rapida e priva di artifici linguiper stici e retorici. Il testo ospita diverse interiezio- p. ni tipiche del parlato, oltre all’uso di formule per esempio colloquiali o di forme basse, superlativi o spre- p. e. giativi, tipici appunto della comunicazione vedi orale, ma anche momenti di grande intensità v. lirica. Leopardi stesso si riferiva alle pagine massimam. massimamente, dello Zibaldone come a «pensieri scritti a penna soprattutto corrente».

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 Testo 1

La poesia moderna Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991

 Lettura di un critico romantico 1818 5

1. Spettatore n. 91: novantunesimo numero (gennaio 1818) de “Lo spettatore italiano”, rivista milanese. 2. Lod. di Breme: Ludovico di Breme (1780-1820), critico e teorico del romanticismo. 3. imbrogliare: confondere. 4. però: perciò (anche in seguito). 5. cuori sensitivi: persone dotate di sensibilità. 6. onde: per cui. 7. Chateaubriand ... SaintPierre: autori francesi: F.-R. de Chateaubriand (1768-1848), scrittore e romanziere, esponente dello spiritualismo romantico; J. Delille (1738-1813), poeta georgico; J.-H. Bernardin de Saint-Pierre (17371814), autore del romanzo idillico-esotico Paolo e Virginia. 8. a bella posta: di proposito, con intenzione. 9. insita: fissata, radicata.

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La prima fase della poetica leopardiana, che ha inizio fin dal maggio 1816 nell’intervento rimasto inedito sulla lettera di Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, si sviluppa e trova una identità precisa attraverso il dibattito e il confronto con le tesi dei critici e degli scrittori romantici. In questi due brani (del 1818 e dell’8 gennaio del 1820) sono documentate sia la fase polemica, sia quella applicativa. In entrambe si chiariscono i presupposti e le intenzioni che, nel giro di tre anni (1819-1821), stanno alla base della composizione dei primi idilli e di vari momenti delle canzoni. Il primo brano è un abbozzo scritto a caldo, subito dopo la lettura della prima puntata delle Osservazioni di Ludovico di Breme su Il Giaurro di Byron, al quale in pochi mesi Leopardi diede forma ampliata e ragionata nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (gennaio-aprile 1818, anch’esso inedito). Il secondo brano, a distanza di tempo, riprende le tematiche del Discorso, ma intanto Leopardi ha già scritto le prime due canzoni (All’Italia e Sopra il monumento di Dante), gli idilli L’infinito e Alla luna, e sta componendo in quello stesso mese la canzone Ad Angelo Mai.

Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 911 le Osservaz. di Lod. di Breme2 sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare, e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare3 e inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però4 avendo nella mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull’ideale che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue con ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, com’egli dice, quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi5, col mezzo dell’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana del luogo natio, (così dic’egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia tra la poesia moderna e l’antica, chè gli antichi non provavano questi sentimenti, o molto meno di noi; onde6 noi secondo lui siamo in questo superiori agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente la poesia, però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre7 ec. ec. per non parlare dei romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E questo patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare sensitività.) Or dunque bisogna eccitare questo patetico, questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com’è naturale, consisterà la somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec. scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? La natura, purissima, tal qual’è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta8, ma venute spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella selva, quel monte, [16] tutto da per se, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, nè ch’altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. Insomma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita9 in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano

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10. dovechè: laddove, mentre. 11. senza ... svenimenti: senza dolori acuti e perdita dei sensi (in senso ironico). 12. Anacreonte: poeta greco (VI-V sec. a. C.). 13. in sempiterno: per l’eternità (in senso ironico). 14. puerizia: fanciullezza. 15. branche: zampe con artigli, grinfie.

Antonio Canova, Omero e Calliope, 1797-1799 circa. Possagno, Museo Gipsoteca Canova.

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gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne quell’impressione, dovechè10 in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada […]. E non si avvedono i romantici […] che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti11 e un’ode d’Anacreonte12, vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che cento mila versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si [17] avvedono che appunto questo grand’ideale dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno13, distrugge la grandezza dell’animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre l’uomo (preso in grande) si allontana da quella puerizia14, in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia confini, da quella puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche15 della ragione, e se anche palpita (perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e svanisce ogn’ispirazione, svanisce ogni poesia […].

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Analisi del testo

Struttura e temi

In questo pensiero del 1818 Leopardi descrive e analizza alcuni elementi della teoria romantica di Ludovico di Breme riguardo alla poesia. Il critico piemontese aveva sostenuto, infatti, la posizione di superiorità dei moderni rispetto a quella degli antichi su un tema fondamentale: il rapporto con la natura non poteva più essere quello proprio degli uomini del mondo antico, da lui definito «bambino agli occhi della ragione»; di quegli uomini «ignorantissimi su di ogni cagione, e sui principi dei fenomeni». Ne conseguiva che oggetto dell’arte non poteva essere la riproduzione della natura esterna, ma la descrizione dei fatti interni (sentimentali e psicologici) generati dai fenomeni esterni della natura. Da queste premesse si rende evidente come il punto di maggior distanza si trovava a quella data nel concetto di “ideale patetico”, cioè nella «profondità di sentimento nei cuori», che in di Breme era visto come un prodotto della conoscenza moderna e degli “studi psicologici”, mentre Leopardi, pur accettandolo, lo giudicava quale risultato dell’effetto particolare che la natura esercita sugli uomini, e in specie negli uomini dell’antichità, che «dipingevano così semplicissimamente la natura, e  La «celeste naturalezza» degli antichi 8 gennaio 1820 5

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1. massimam.: soprattutto (massimamente). 2. scuopre: scopre, rivela. 3. negligenza: trascuratezza, noncuranza. 4. affettazione: mancanza di naturalezza, artificiosità. 5. vago: incerto, indefinito. 6. romanzesco: carattere favoloso, fantastico (proprio del romanzo). 7. rendere estatici: affascinare; mettere in stato di estasi, fuori dal mondo reale. 8. vaga: bella.

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quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti». Per il poeta recanatese la natura faceva un tempo nascere di per sé sentimenti (anche diversi dal patetico), che la poesia antica riusciva a trasmettere per mezzo della imitazione e che anche la poesia moderna sarebbe stata in grado di trasmettere. Questo concetto di imitazione, tipico delle poetiche antiche e del classicismo in genere, riceve da Leopardi una accezione particolare, che esclude il rispecchiamento mimetico, passivo: l’imitazione, infatti, opera tecnicamente “scegliendo” gli oggetti che sono in natura e li colloca nell’opera mettendoli nella luce giusta (> vedi anche il secondo brano |), ma dal punto di vista dei suoi effetti alimenta le fantasie, mantiene l’illusione di realtà in ciò che viene rappresentato, stimola la grandezza d’animo e dell’agire umano. Caratteristiche, queste, che sono proprie dell’età della fanciullezza, basata sulla meraviglia e sulla libera immaginazione, ma soprattutto di quella puerizia «che era così propria del mondo a tempo degli antichi». In questo senso la critica al “sentimentale” romantico esprime per ora il rifiuto leopardiano di una impostazione razionalistica e artificiosa, e si apre alla ideazione delle canzoni e degli idilli.

[100] È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimam.1 greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. (V. p. 86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre2 il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza3, manifesta l’arte e l’affettazione4, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago5 e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre p. e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco6, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici7 nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga8 immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gen. 1820.)

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Analisi del testo

Struttura e temi

Nel secondo brano, scritto nel 1820, l’attenzione leopardiana si sposta sugli effetti dei procedimenti poetici degli antichi, dovuti alla «loro semplicità e naturalezza». La polemica contro l’impostazione analitica delle tesi romantiche spinge Leopardi a formulare una teoria della indeterminatezza, che gli antichi praticavano spontaneamente senza pensarci, e che il poeta, a differenza dei moderni, ritiene sia il movente e il compito dell’«impressione della poesia e dell’arte bella». Da ciò nasce l’antitesi tra un’arte “finita”, che circoscrive con precisione oggetti e impressioni, e un’arte “infinita”

che opera in modo completamente diverso, che fa pensare molto e sollecita l’attività della facoltà della immaginazione (> su cui vedi Testo 4, p. 39 |). Quindi, anche se Leopardi si richiama qui alla terminologia della precettistica antica e rinascimentale di “nascondere l’arte” dietro gli effetti di naturalezza e spontaneità («disinvoltura», «negligenza» contro «affettazione»; come la «sprezzatura» nel Cortegiano di Baldassar Castiglione del 1528), in realtà, partendo da presupposti di estetica e poetica, sta elaborando su un livello di generalizzazione più alto la distinzione specifica del linguaggio in parole e termini (> Testo 2, p. 34 |).

Sir Lawrence Alma Tadema, Tibullo presso la Casa di Delia, 1866. Boston, Museum of Fine Arts.



Esercizi

1. Indica la posizione di Di Breme sulla poesia moderna. 2. Che differenza c’è tra patetico e malinconico? 3. Perché, secondo Leopardi, Di Breme e gli altri romantici «scappano di strada»? 4. Riassumi le argomentazioni con cui Leopardi rovescia la posizione dei romantici e definisce la superiorità degli antichi sui moderni.

5. Per quale motivo gli antichi poeti «solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero»?. 6. Quali sono gli elementi che differenziano la poesia antica dalla poesia moderna?

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 Testo 2

Parole e termini. Caratteristiche e problematiche del linguaggio Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991

 Parole e termini

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1. accessorie: complementari, associate. 2. noccia: nuoccia; sia nociva, dannosa. 3. pregiudizio: danno.



10

I testi qui riportati intendono illustrare in sintesi due fasi della sterminata riflessione leopardiana sul linguaggio, che, sulla base di una impostazione filosofica e filologica, si presenta nello Zibaldone come un vero e proprio pensiero linguistico di impronta moderna. La classificazione dei campi di applicazione della ricerca linguistica leopardiana comprende, infatti, gli ambiti e i settori disciplinari più disparati: osservazioni comparative e tipologiche delle lingue, problemi di filosofia del linguaggio, glottologia, questione della lingua, note di storia della lingua (soprattutto italiana), categorie grammaticali, etimologie, rapporti di lingua e stile e altro ancora. Il tratto unificante di tutte queste ricerche e riflessioni è dato da una idea fondante, espressa in un pensiero del 1819, sulla “materialità” del segno linguistico come “condizione” indispensabile per la “fissazione” e concretizzazione della attività del pensiero: «Il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso, perché noi [95] pensiamo parlando. […]. Cosa che io ho provato molte volte, e si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perché un’idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta».

Le parole come osserva il Beccaria (tratt. dello stile) non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno [110] immagini accessorie1. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia2 a quella delle parole, perchè l’abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio3. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità.

Analisi del testo

Struttura e temi

In questo brano (aprile 1820) Leopardi riprende da recensioni del tempo una osservazione sulla natura del segno linguistico di Cesare Beccaria (1738-1794), il famoso autore delle tesi contro la tortura (Dei delitti e delle pene, 1764), contenuta nel capitolo II del trattato Intorno alla natura dello stile (1809). La distinzione tra termini e parole, di origine sensistica, già preparata dalla tematica

dell’arte finita/infinita (> Testo 1, p. 30 |), si precisa qui come distinzione tra vocabolario scientifico (determinato) e linguaggio comune (indeterminato, grazie alle «immagini accessorie»), più adatto alla letteratura, secondo un ideale linguistico di equilibrio fra i due elementi. Nella frase finale l’efficacia ed evidenza delle parole nel discorso viene opposta alle caratteristiche “geometriche” della tendenza linguistica del francese, orientata verso un uso eccessivo di termini.

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 Metafore e bellezza di una lingua 5

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Liu Fengshan, un maestro calligrafo cinese. 30

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1. concomitanti: che si accompagnano (alle parole). 2. destate: risvegliate. 3. annesse: associate. 4. assuefazione: abitudine. 5. nome Linneano: il doppio nome latino, assegnato dal naturalista svedese Linneo (Carl von Linné, 1707-1778) nella sua classificazione botanica e zoologica. 6. domestichezza: familiarità. 7. si ravvisano: si riconoscono. 8. dal materiale e sensibile: dalle cose materiali e da quelle note attraverso i sensi.

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Le idee concomitanti1 che ho detto esser destate2 dalle parole anche le più proprie, a differenza dei termini, sono 1. le infinite idee ricordanze ec. annesse3 a dette parole, derivanti dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura, ma legate all’assuefazione4, e alle diversissime circostanze in cui quella parola si è udita o usata. S’io nomino una pianta o un animale col nome Linneano5, invece del nome usuale, io non desto nessuna di queste idee, benchè dia chiaramente a conoscer la cosa. Queste idee sono spessissimo legate alla parola (che nella mente umana è inseparabile dalla cosa, è la sua immagine, il suo corpo, ancorchè la cosa sia materiale, anzi è un tutto con lei, e si può dir che la lingua riguardo alla mente di chi l’adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma quasi le cose stesse) [1702] sono dico legate alla parola più che alla cosa, o legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla parola (giacchè la parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce più le stesse idee. Divisa dalla parola, o dalle parole usuali ec. essa divien quasi straniera alla nostra vita. Una cosa espressa con un vocabolo tecnico non ha alcuna domestichezza6 con noi, non ci desta alcuna delle infinite ricordanze della vita, ec. ec. nel modo che le cose ci riescono quasi nuove e nude quando le vediamo espresse in una lingua straniera e nuova per noi: nè si arriva a gustare perfettam. una tal lingua finchè non si penetra in tutte le minuzie e le piccole parti e idee contenute nelle parole del senso il più semplice. 2. Le idee contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano è composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che la cosa ch’esprimono non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente. Infinite ancora di queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente, eppur sono metafore, cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola significante una cosa, modificata così ne significasse un’altra di qualche rapporto colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le lingue. Ora sin tanto che l’etimologie di queste originariamente metafore, ma oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano7 e sentono, il [1703] [che] accade almeno nella maggior parte delle parole proprie di una lingua, l’idea ch’elle destano, è quasi doppia, benchè la parola sia proprissima, e di più esse producono nella mente, non la sola concezione ma l’immagine della cosa, ancorchè la più astratta, essendo anche queste in qualsivoglia lingua, sempre in ultima analisi espresse con metafore prese dal materiale e sensibile8 (più o men vivo, ed esprimente e adattato, secondo i caratteri delle lingue e delle nazioni ec.). Per esempio il nostro costringere che significa sforzare, serba ancora ben chiara la sua etimologia, e quindi l’immagine materiale da cui questa che in origine è metafora, derivò. ec. ec. Il complesso di tali immagini nella scrittura o nel parlare, massime nella poesia, dove più si attende all’intero valore di ciascuna parola, e con maggior disposizione a concepire e notare le immagini ch’elle contengono, ec. questo complesso, dico, forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì delle lingue rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec. in una stessa lin-

36 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | 9. nomenclature: insiemi dei nomi dei componenti di un settore, di un oggetto ecc. 10. pellegrina: straniera. 11. verun’: nessuna. 12. menome: minime.

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gua. Ma se p. e. la cosa espressa da costringere, l’esprimessimo [1704] con una parola presa da lingua straniera, e la cui origine ed etimologia non si sapesse generalmente, o certo non si sentisse, ella, quando fosse ben intesa, desterebbe bensì l’idea della cosa, ma nessuna immagine, neppur quasi della stessa cosa, benchè materiale. Così accade in tutte le parole derivate dal greco, delle quali abbondano le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature9. Esse, quando siano usuali, e quotidiane, come filosofo ec. possono appartenere alla classe che ho notata nel primo luogo, ma non mai a questa seconda. Esse e le altre simili prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno sempre, come altrove ho detto, parole tecniche, e di significato nudo. ec. Similmente le parole moderne, che o si derivano da parole già stanziate nella nostra lingua, ma d’etimologia pellegrina10, o si derivano da parole anche proprie della lingua; essendo per lo più, stante la natura del tempo, assai più lontane dal materiale e sensibile che non sono le antiche, e di un carattere più spirituale, sono quindi ordinariamente termini e non parole, non destando verun’11 [1705] immagine concomitante, nè avendo nulla di vivo. ec. Tali sono i termini de’ quali altrove ho detto che abbonda la lingua francese, massime la moderna, e ciò non solo per natura del tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo carattere e forma. Certo e notabilissimo si è che tutte le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla d’idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnavano quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti, e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano più o meno vive e numerose, ma per tutta la vita. Quindi è certo che le dette idee concomitanti intorno ad una stessa parola, ed alle menome12 parti del suo stesso significato, variano secondo gl’individui: e quindi non c’è forse un uomo a cui una parola medesima (dico fra le sopraddette) produca una concezione precisamente [1706] identica a quella di un altro: come non c’è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menom. diversità di significato da quelle delle altre nazioni. [...] (15. Sett. 1821.)

Analisi del testo

Struttura e temi

Nella seconda sequenza di pensieri Leopardi riprende la terminologia delle «immagini accessorie» di Beccaria, già da lui riformulate come «idee concomitanti» delle parole (in Zib. 1234 e 1236), sviluppandola con una più elevata complessità teorica. In opposizione ai «termini» scientifici, che ne sono privi, la tipologia di queste idee delle «parole» si articola in due distinte classi, ma ciò che più conta è la prospettiva di analisi adottata da Leopardi, che è quella della lingua comune, ordinaria dei parlanti di una data comunità. 1 Al primo tipo appartengono quei «gruppi di idee» che si legano alle parole nell’uso giornaliero, portando con sé il ricordo delle situazioni e circostanze del loro impiego, le emozioni e le associazioni mentali che le accompagnano, in specie nella fanciullezza: di conseguenza, tutte queste minime parti o sfumature di senso (connotazioni) fanno sì che in linea di massima nessuna parola possa essere perfettamente uguale nel significato complessivo per due individui della stessa lingua.

2 Il secondo tipo è costituito dalle «idee contenute nelle metafore», le quali, più che un abbellimento retorico, costituiscono il meccanismo creativo e conoscitivo del linguaggio in genere. La metafora, infatti, stabilisce rapporti, similitudini, affinità tra parole-“cose” distinte o lontane, e, “inventando” le nuove parole per esprimerle, presuppone l’intervento della immaginazione creativa, che svolge lo stesso compito di cogliere rapporti tra le cose sul piano conoscitivo (Zib. 3717-3718). Su queste basi metaforiche Leopardi spiega la “crescita delle lingue” in generale a partire dalle poche «radici» originarie. Inoltre, il processo per cui le nuove metafore diventano «proprie» e stabilizzate nella lingua, se si conserva la traccia della loro etimologia, produce l’effetto di una idea «quasi doppia» e, nella mente, l’immagine sensibile della cosa. Proprio l’insieme di queste immagini, sottolinea Leopardi, sia nello scrivere che nel parlare, e soprattutto nella poesia, determina l’effetto estetico delle parole, «la bellezza di una lingua».

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | La «mutazione»: il passaggio dall’antico al moderno | 37



Esercizi

1. Che differenza c’è tra una letteratura che abbonda di parole e una che abbonda di termini? 2. Descrivi la differenza tra parole e termini. 3. Cosa intende Leopardi per «idee ricordanze»? 4. Quali caratteristiche hanno, invece, le idee contenute nelle metafore?

5. L’autore distingue tra parole che hanno un’etimologia chiara e quelle che non l’hanno: quale ragionamento elabora in proposito?

 Testo 3

La «mutazione»: il passaggio dall’antico al moderno Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri

tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991 5

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15 1. profittare: approfittare, trarre vantaggio. 2. un barlume: un lumicino, una pallida idea. 3. Cantica: si riferisce alla cantica (denominazione generica del poema in terzine) intitolata Appressamento della morte, del novembredicembre 1816, un frammento della quale sarà collocato nei Canti, al trentanovesimo posto. 4. tenebroso: cupo. 5. languore: debolezza. 6. verteva ... sopra: riguardava.

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Il pensiero è un lucido resoconto retrospettivo di un anno di svolta, il 1819, durante il quale una forzata inattività per problemi di vista aveva costretto Leopardi a una meditazione sulla infelicità propria e della vita in generale. A distanza di tempo, verso la fine di giugno del 1820, i dolorosi eventi personali e il nuovo esito della sua disposizione alla poesia sono inquadrati in una analisi complessiva che chiarisce i motivi della conversione filosofica.

Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare1 riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume2, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. [144] Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ult. canto della Cantica3. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso4, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore5 corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra6 affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era

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quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1. Luglio 1820.). Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.

Analisi del testo

Struttura e temi

condizione fisica (infatti, il vigore del corpo era il contrassegno degli antichi). Le In questo pensiero, classificato in un inrisultanze sono registrate nel ragionadice a parte tra le Memorie della mia vita, mento secondo una catena consequenLeopardi svolge una periodizzazione deziale di cause ed effetti: il senso della finitiva del proprio percorso poetico propria infelicità, la perdita della spestabilendo un’analogia tra l’evoluzioranza, la riflessione continua e profonne spirituale dell’individuo e quella da, accompagnata dalla fitta scrittura di del genere umano («Nella carriera poetipensieri e dalla coscienza di «divenir filoca il mio spirito ha percorso lo stesso stadio sofo di professione»; e infine il sentimento che lo spirito umano in generale»), già enun(e non un sapere generico) dell’infelicità ciata nel Discorso sui romantici («quello che Edmè Gois, Corinne, 1836. dei viventi. furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quel- Parigi, Musée du Louvre. Sul versante della poesia, l’inaridimento lo che fu il mondo per qualche secolo, siamo della fantasia con la perdita delle immagini stati noi per qualche anno, dico fanciulli»). Come prima fase viene descritta la giovinezza, in cui e l’insensibilità agli scenari della natura determinano la fantasia ispira i versi e la scelta delle letture, gli affetti l’ultimo passaggio da poeta dell’immaginazione a sono inesprimibili per mancanza di una abitudine alla poeta sentimentale moderno, «dedito alla ragione e al riflessione, e permane una disponibilità psicologica a vero». Si comprende bene così, da questa pagina, come sperare per il meglio anche nelle «sventure». La trasfor- l’antinomia giovanile natura-ragione sia pronta ad avmazione, e cioè il passaggio dallo stato degli antichi alla viarsi verso un nuovo, lungo percorso di riflessione (del condizione dei moderni, ha luogo a causa di una mutata pensiero) e di ricerca poetica.



Esercizi

1. Che cosa lega il percorso compiuto da Leopardi a quello compiuto dall’umanità? 2. Spiega l’espressione «il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi». 3. Quando avviene il passaggio dallo spirito antico a quello moderno e a seguito di quale esperienza? 4. A quali esiti porta la trasformazione da poeta a filosofo?

5. Soffermati sul tono complessivo del passo e spiega perché si può dire che esso sia informale e intimo: per rispondere utilizza degli esempi che trai dal brano. 6. Analizza il piano espressivo e stilistico: individua gli elementi testuali che sono caratteristici di tutto lo Zibaldone.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | La teoria del piacere | 39

 Testo 4

La teoria del piacere Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri

tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991 5

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1. Il sentimento … cose: l’espressione indica una condizione di infelicità, che corrisponde alla «noia», più volte definita da Leopardi. 2. riempierci: riempirci, colmarci. 3. cagione: causa. 4. ingenita: innata. 5. estensione: grandezza. 6. sostanziale: costitutiva, necessaria. 7. concepire: comprendere, pensare. 8. vanissima: priva di realtà, impossibilissima. 9. qualità: proprietà, caratteristica. 10. non astratto: reale, concreto. 11. di gran lunga: molto, moltissimo. 12. inclinazione: propensione, desiderio. 13. figurarsi: rappresentarsi, immaginarsi.

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La teoria del piacere, così la definisce Leopardi in più luoghi, costituisce il più compiuto prospetto del suo pensiero degli anni 1818-1820, una sintesi di idee filosofiche destinata a successive evoluzioni e messe a punto. Da vari concetti di queste pagine si svilupperà in seguito, fino al 1825, la svolta materialistica della sua riflessione, mantenendone sostanzialmente i principali presupposti. In questi brani, estratti dalle pagine scritte tra il 12 e il 23 luglio 1820, sono documentati alcuni degli svolgimenti più significativi della stesura leopardiana.

[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose1, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci2 l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione3 semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera essere essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia la felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita4 o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione5. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale6 in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire7, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. [...] Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima8 sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità9. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto10, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga11, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167] inferiorità al desiderio che oltracciò7 alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato. Veniamo alla inclinazione12 dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi13 dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella im-

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60 14. se non se: se non; in altro che. 15. misericordia: compassione, pietà. 16. magistero: insegnamento, preveggenza. 17. supplire: provvedere, rimediare. 18. regnerà: avrà potere. 19. immaginaz.: immaginazione. 20. da presso: da vicino. 21. abbisso: abisso: grande quantità. 22. abborre: aborre: odia, detesta. 23. sottentra: subentra, succede.

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808-1810. Berlino, Alte Nationalgalerie.

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maginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se14 nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia15 e il gran magistero16 della natura, che [...] ha voluto supplire17 1. colle illusioni [...] 2. coll’immensa varietà [...] [168] [...] Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà18 nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginaz.19 [...] Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso20. Quindi è manifesto 1. perchè tutti [170] i beni paiono bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. [...] Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli […]. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso21 di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. […]. L’anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può essere soddisfatta. Dove lo trova, abborre22 i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella natura, ama che l’occhio si spazi quanto è possibile. […]. Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginaz. E il fantastico sottentra23 al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | La teoria del piacere | 41



Analisi del testo

Struttura e temi

La struttura del brano è quella tipica del ragionamento filosofico: dopo aver posto le basi della tesi da dimostrare, il discorso svolge le conseguenze delle premesse, passando poi alle deduzioni, marcate dalla serie di anafore di connettivi conclusivi («quindi») e causali («perché»), e come rivolgendosi – in qualche passaggio – a un pubblico virtuale di uditori o lettori (con i verbi «potrete», «deducete»). Partendo da presupposti negativi («nullità … insufficienza … non comprendiamo»), la teoria stabilisce l’esistenza di un legame inscindibile tra felicità e piacere (eudemonismo ed edonismo): in questo rapporto la tensione congenita dell’uomo verso una felicità infinita nasce dall’impulso del desiderio e si identifica col piacere (anch’esso infinito), ma, nel contempo, e di conseguenza, comporta l’affermazione della sua irraggiungibilità. Si passa poi a una serie di estensioni o corollari della teoria, che mettono al centro alcuni concetti chiave della riflessione leopardiana. Anzitutto il richiamo all’immaginazione, una delle facoltà dell’animo della filosofia tradizionale e dell’estetica settecentesca, che opera accanto all’intelletto (ragione) e alla memoria. L’immaginazione, infatti, ha tra le sue potenzialità produttive quella di «figurarsi piaceri che non esistano» nella realtà, ma che possono essere da lei attivati nella mente così come «la speranza, le illusioni ec.», in cui può consistere la felicità umana. Tutto questo è dovuto



alla natura (vista ancora qui come entità benefica), che ha predisposto nella sua funzione provvidenziale e finalistica una serie di rimedi adatti a distrarre l’animo dal bisogno d’infinito per mezzo di piaceri immaginari e illusori, basati sull’indefinito e sull’indeterminato. Il catalogo di questi rimedi – che si possono definire come “tematici”, cioè in quanto motivi svolti sia nello Zibaldone che nei testi poetici tra 1819 e 1822 – comprende di massima due «categorie fondamentali»: 1 la prima riguarda «impressioni, sensazioni e stati d’animo» come gli spazi sconfinati o le «vedute ristrette» (> L’infinito, p. 60 |); le sensazioni sonore indistinte; i sentimenti d’amore, di speranza, il ricordo, e anche «la malinconia, il sentimentale moderno»; la «molteplicità delle sensazioni»; 2 la seconda è composta dalle «esperienze che tengono l’animo in agitazione e tensione, distraendolo così dalla noia»; «la vita occupata laboriosa e domestica», la «vita attiva»; le sensazioni vivaci ed energiche; «ogni sensazione di vigore corporale». A partire dai riferimenti letterari impliciti ed espliciti nelle tesi filosofiche, la teoria del piacere esprime quindi per i suoi contenuti due distinte direzioni di poetica: l’una indirizzata verso «il bello aereo», l’indefinibile bellezza della poesia degli antichi; l’altra, verso una valutazione positiva dell’energia vitale e un riconoscimento della poesia romantica sentimentale e «malinconica» (definita «un respiro dell’anima», in Zib. 136); entrambe destinate a sviluppi successivi.

Esercizi

Comprensione 1. Che cos’è la felicità per Leopardi? 2. Perché qualunque piacere è insufficiente per l’uomo? 3. Che cosa significa la distinzione tra un piacere e il piacere? Laboratorio 4. Spiega perché il desiderio del piacere nell’uomo è illimitato. 5. Da che cosa durata ed estensione sono limitati? 6. Spiega l’antitesi tra desiderio infinito di piacere e finitezza dell’uomo, utilizzando anche citazioni dal testo. 7. Che ruolo assume la facoltà immaginativa?

8. Che cosa significa che “la speranza è sempre maggiore del bene”? 9. In che cosa consiste, in definitiva, la felicità umana? Approfondimento 10. Rifletti sulle due direzioni possibili della poesia secondo il pensiero di Leopardi: quella che si rivolge alla poesia antica e quella che si nutre della propria malinconia. 11. Partendo dalla poetica leopardiana estendi le tue considerazioni a poeti a te noti che per analogia o contrasto sono avvicinabili a queste idee.

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Confronti: i rimedi di Giove

La Storia del genere umano, la prima per composizione e collocazione delle Operette morali, è una specie di proemio all’opera scritto nel genere e nello stile letterario di una favola mitologica. La narrazione iniziale, che precede il brano seguente, racconta la genesi di uomini creati già bambini su una terra più piccola di quella attuale e “quasi” felici nel periodo della fanciullezza e della prima adolescenza. Essi, tuttavia, crescendo iniziano a provare la delusione della speranza di un «accrescimento di bene», e poi scontentezza e fastidio, a

 Giacomo Leopardi I rimedi di Giove in Operette morali tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008

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Andrea di Moriotto Cini detto del Minga, Deucalione e Pirra, 1572. Firenze, Palazzo Vecchio.

tal punto da desiderare e pregare di poter ritornare nella condizione della fanciullezza e di potervi restare per sempre. In questo quadro narrativo gli interventi di Giove in favore delle sue “creature”, necessari ma non risolutivi, rivelano quindi esplicitamente, nella prosecuzione del racconto, il tema centrale della teoria leopardiana del piacere: il desiderio di infinito e quindi di felicità, che il capo degli dèi, non potendolo donare agli uomini, concede a essi unicamente sotto la forma delle illusioni.

Della qual cosa1 non potea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura, ed a quegli uffici2 e quelle utilità3 che gli uomini dovevano, secondo l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comunicare la propria infinità colle4 creature mortali, né fare5 la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli parve conveniente di propagare i termini6 del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo7: e preso questo consiglio8, ringrandì la terra d’ogn’intorno9, e v’infuse10 il mare, acciocché, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza11 delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero12 facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i cammini13, ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine dell’immensità. […]. Molti luoghi depresse, molti ricolmò suscitando14 i monti e le colline, cosperse15 la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò16 la natura dell’aria ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò17 più diversamente che per l’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse18 le generazioni degli uomini in guisa che19 la vecchiezza degli uni concorresse20 in un medesimo tempo coll’altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi21 di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza22), e volendo favorire e pascere le coloro23 immaginazioni, dalla virtù24 delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti25 che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche26, e mise nel-

1. Della qual cosa: di poter essere riportati nella fanciullezza. 2. uffici: compiti, servizi (da esercitare). 3. utilità: vantaggi, utili (da produrre). 4. comunicare … colle: mettere in comune … con le (creature mortali). 5. fare: rendere. 6. propagare i termini: estendere i confini. 7. adornarlo e distinguerlo: abbellirlo e diversificarlo.

8. consiglio: decisione. 9. d’ogn’intorno: da ogni parte. 10. v’infuse: vi versò (in senso letterale). 11. la sembianza: l’aspetto. 12. non potessero: potessero. 13. i cammini: i percorsi, le vie di comunicazione. 14. depresse … ricolmò suscitando: abbassò … riempì facendo sorgere. 15. cosperse: sparse, spruzzò. 16. rassottigliò e ripurgò: rese più fine e pulita.

17. contemperò: conformò, armonizzò. 18. confuse: mescolò. 19. in guisa che: in modo che. 20. concorresse: si svolgesse. 21. risolutosi: avendo deciso. 22. compiacere della sostanza: gratificare in concreto, nei fatti. 23. pascere le coloro: nutrire, alimentare le loro. 24. virtù: potere, capacità. 25. espedienti: mezzi ingegnosi. 26. spelonche: grotte, caverne.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | Assuefazione | 43

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le selve uno strepito sordo e profondo27, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che28 ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità29, che egli non vedeva modo a ridurre in atto30, e quelle immagini perplesse31 e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale. 27. e mise … profondo: e introdusse nelle foreste un rumore cupo e grave (si tratta dell’effetto dell’invenzione del vento). 28. commise loro che: affidò a loro



(il compito) per cui. 29. figurassero … felicità: rappresentassero per loro (soltanto) in immagine quella concretezza di inafferrabile

felicità. 30. a ridurre in atto: ad attuare, a realizzare. 31. perplesse: confuse, ambigue.

Esercizi: confronti

1. Quale idea di infinito è contenuta nel passo dello Zibaldone? Che cosa la accomuna a quanto espresso nell’operetta morale? 2. Interpreta l’espressione «le apparenze di quell’infinito che gli uomini desideravano» alla luce della teoria del piacere. 3. In che cosa può essere benefica la fanciullezza per

 Testo 5

Assuefazione Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri

tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991 5 1. s’introduce: si forma, si sviluppa. 2. qualità innumerabili: capacità/facoltà innumerevoli/non quantificabili. 3. ascriviamo: le attribuiamo. 4. accidentali e arbitrarie: contingenti/occasionali e ingiustificate. 5. temperamenti ... spirituali: gli umori/le costituzioni del corpo e dell’animo. 6. inerenti: strettamente connesse, costitutive (del sistema). 7. un abito di assuefazioni: un complesso acquisito di assuefazioni.

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l’uomo? Rispondi facendo riferimento a quanto deduci dai due brani. 4. Spiega l’espressione «non intelligibile felicità». considerando quanto affermato nel passo dello Zibaldone. 5. Confronta i due brani e metti in evidenza le differenze sul piano stilistico.

Il termine «assuefazione», che si trova già nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica (1818), deriva dalle filosofie sensistiche (John Locke, Étienne Bonnot de Condillac) ed empiristiche (David Hume), assai diffuse tra Settecento e primo Ottocento. In Leopardi costituisce un nucleo teorico conoscitivo sviluppato in tutto lo Zibaldone per mostrare criticamente e razionalmente il carattere condizionato e relativo dei giudizi e delle facoltà umane, tutti prodotti dell’esperienza. I due pensieri qui proposti illustrano sinteticamente, a distanza di un anno (1820-1821), uno snodo importante del pensiero leopardiano.

Non solamente il bello ma forse la massima parte delle cose e delle verità che noi crediamo assolute e generali, sono relative e particolari. L’assuefazione è una seconda natura, e s’introduce1 quasi insensibilmente, e porta o distrugge delle qualità innumerabili2, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto di non potere avere, o di non poter non avere, e ascriviamo3 a leggi eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e delle circostanze accidentali e arbitrarie4. Aggiungete all’assuefazione, le opinioni i climi i temperamenti corporali o spirituali5, e persuadetevi che molto ma molto poche verità sono assolute e inerenti6 al sistema delle cose. Oltre all’indipendenza da queste verità che può trovarsi in altri sistemi di cose. (13. Agosto 1820.). Non solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni7, e perciò è difficile ad assuefarsi, e ad imparare. Chi ha molto imparato più facilmente impara, sempre proporzionatamente alle facoltà o disposizioni de’ suoi organi, che variano secondo gl’ingegni, le circostanze fisiche passeggere o stabili, le altre circostanze esteriori o interiori, l’età massimamente ec. ec. […]. (22. Luglio 1821.)

44 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |



Analisi del testo

Struttura e temi

L’«assuefazione» è il termine chiave della teoria leopardiana della conoscenza basata sul “dato di fatto”, cioè sulle sensazioni, dalle quali non si può dedurre nessun principio o idea antecedente. Esse infatti sono «relative al puro modo di essere» delle cose (Zib. 1340) e quindi è partendo da loro che si attua lo sviluppo delle capacità umane: così per esempio nel caso della vista si rileva «come l’uomo impari a vedere, e nascendo non abbia questa facoltà, benchè egli non si accorga mai d’impararla, e naturalmente creda che ella sia nata come lui» (Zib. 4108). Sono quindi i dati sensibili a dare origine alle idee – acquisite e non innate – e alle facoltà umane (immaginazione, memoria, e altre ancora) attraverso un processo temporale di accrescimento o indebolimento che dipende da fattori o parametri variabili da individuo a individuo, come quelli enumerati nel secondo brano («facoltà o disposizioni dei suoi organi, che variano secondo gl’ingegni, le circostanze fisiche passeggere o stabili, le altre circostanze esteriori o interiori, l’età massimamente ec. ec.»). A questo processo Leopardi dà il nome di «assuefazione», indicando con ciò la forza pla-



smante dell’esperienza e insieme la «conformabilità» degli esseri umani nei loro usi e nelle loro abitudini, consuetudini, opinioni, credenze. E pure in questo senso l’assuefazione costruisce e determina una «seconda natura», più o meno consapevolmente da parte dell’uomo, mediante l’uso, l’esercizio e le circostanze. Tuttavia la conoscenza non potrebbe esistere senza la facoltà del linguaggio, che è la condizione indispensabile per la fissazione del pensiero nel segno linguistico (> Testo 2, p. 34 |), per l’espressione dei rapporti tra idee, parole e cose ma anche della libertà creativa della poesia e della letteratura. Non a caso, proprio in ambito letterario nel 1821 Leopardi mette in questione l’antitesi secolare prosa-verso: «Forza dell’assuefazione sull’idea della convenienza. L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè della poesia, nè del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose. [...] L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta» (Zib. 1695-96).

Esercizi

1. Definisci il concetto di assuefazione. 2. Perché predomina il Leopardi “filosofo” su quello “sentimentale”? A quali teorie filosofiche attinge? 3. Che rapporto intercorre tra «facoltà di assuefarsi» e «assuefazione»?

Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1965. New York, Museum of Modern Art.

4. Perché per il fanciullo è «difficile ad assuefarsi»? 5. È possibile, a tuo avviso, definire l’autore un relativista?

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | Genio e classi sociali | 45

 Testo 6

Genio e classi sociali Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri

tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. I ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991 5

1. sia: stia (in rapporto). 2. nondimeno: pure, tuttavia. 3. pregio: valore, stima. 4. Scorrete: percorrete, visitate. 5. proprie: vicine, prossime (latinismo). 6. si fa giorno: illumina. 7. riparo: schermo. 8. strabocchevolmente: enormemente.



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Questo testo fornisce un esempio applicativo, che si potrebbe definire oggi quasi un’analisi di sociologia statistica, della forza formante dell’assuefazione nei confronti del fenomeno del “genio”, diversamente da come lo si concepiva secondo il sentire comune e le definizioni tradizionali. Infatti Leopardi aveva ben presenti le definizioni che nel corso del Settecento continuavano a individuare nel «genio» una disposizione naturale, una abilità innata o comunque un talento che non si può acquistare per mezzo dell’esercizio dell’apprendimento e dell’istruzione.

Poniamo che la classe possidente o benestante sia1 complessivamente alla classe povera o laboriosa ec. come 1. a 10. Certo è nondimeno2 che per 30. uomini insigni e famosi in qualsivoglia pregio3 d’ingegno ec. che sorgano nella prima classe, appena uno ne sorgerà nell’altra, e quest’uno probabilmente sarà passato sin da fanciullo nella prima, mediante favorevoli [1647] circostanze di educazione ec. Scorrete4 massimamente le campagne (giacchè le città sviluppano sempre alquanto le facoltà mentali anche dei poveri) e ditemi, se potete, il tal contadino è un genio nascosto. E pur è certo che vi sono fra i contadini tante persone proprie5 a divenir geni, quante nelle altre classi in proporzione del numero rispettivo di ciascuna. E nessuna è più numerosa di questa. Che cosa è dunque ciò che si dice, che il genio si fa giorno6 attraverso qualunque riparo7, e vince qualunque ostacolo? Non esiste genio in natura, cioè non esiste (se non forse come una singolarità) nessuna persona le cui facoltà intellettuali sieno per se stesse strabocchevolmente8 maggiori delle altrui. Le circostanze e le assuefazioni col diversissimo sviluppo di facoltà non molto diverse, producono la differenza degl’ingegni; producono specialmente il genio, il quale appunto perchè tanto s’innalza sull’ordinario (il che lo fa riguardare come certissima opera della natura); perciò appunto è figlio assoluto dell’assuefaz. ec. (7. Sett. 1821.).

Guida all’analisi

Costruisci la tua analisi del testo seguendo punto per punto le indicazioni di lavoro che ti vengono suggerite.

si trovi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . non perché . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , ma perché

...............................................................................

...................................................................................................

Leopardi, in questo appunto dello Zibaldone, stabilisce un rapporto tra la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , indicando che tra i due termini c’è una forte sproporzione in rapporto a . . . . . . . .................................................................................................. La causa dalla quale fa discendere tale effetto si identifica nelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ................................................................................................ Infatti, nelle campagne, tra i contadini, è più difficile che

................................................................................ Ciò significa che Leopardi, circa lo sviluppo del talento, attribuisce molta importanza a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In definitiva, il genio, per l’autore, è . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , secondo quanto scrive nell’appunto precedente. Il poeta in questo appunto si rivolge a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , come si evince dai riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . che si trovano disseminati nel brano.

46 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

 Testo 7

Il male nell’ordine Giacomo Leopardi in Zibaldone di pensieri

tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. II ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991 5 1. Traduzione: “O uomo, non cercare più l’autore del male: questo autore sei proprio tu. Non esiste altro male tranne quello che fai o che soffri, e l’uno e l’altro provengono da te. Il male, considerato in generale, non può risiedere che nel disordine, e io vedo nel sistema del mondo un ordine che non si smentisce mai. Il male particolare, poi, esiste solo nel sentimento dell’essere che soffre; e questo sentimento l’uomo non l’ha ricevuto dalla natura: se lo è creato da sé. Il dolore ha poca presa su chiunque, per aver poco riflettuto, non abbia materia di ricordi o di previsioni. Eliminate i nostri funesti progressi, cancellate i nostri vizi ed errori, sopprimete l’opera dell’uomo, e dappertutto non regnerà che il bene”. 2. ingenito: congenito, originario.

Massimo D’Azeglio, La vendetta, 1834. Milano, Pinacoteca di Brera.

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In questo pensiero del 1829, di commento a un brano di Rousseau (tratto dal romanzo pedagogico Emilio, 1762, ma trascritto da una raccolta di pensieri dell’autore), Leopardi rifiuta decisamente la tesi della malvagità dell’uomo come unico responsabile della disarmonia del mondo, che il filosofo sostiene. Si tratta di una teoria più volte respinta dal poeta, nel 1820 (Zib. 391: «il bene non è assoluto ma relativo»), quindi in varie occasioni nei confronti delle teorie di G. W. Leibniz (Zib. 1857: «Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni»), e infine contro lo spiritualismo dei suoi contemporanei, appartenenti all’ambiente culturale fiorentino e napoletano.

Homme, ne cherche plus l’auteur du mal; cet auteur c’est toi-même. Il n’existe point d’autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l’un et l’autre te vient de toi. Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le systême du monde un ordre qui ne se dément point. Le mal particulier n’est que dans le sentiment de l’être qui souffre; et ce sentiment, l’homme ne l’a pas reçu de la Nature, il se l’est donné. La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n’a ni souvenir ni prévoyance. Ôtez nos funestes progrès, ôtez nos [4511] erreurs et nos vices, ôtez l’ouvrage de l’homme, et tout est bien. Rousseau, pensées, II. 200.1 – Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati p. nutrim. d’altre specie. Invidia ed odio ingenito2 de’ viventi verso i loro simili: v. la p. 4509. capoverso 4. Altri mali anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo più

| 1. Giacomo Leopardi | 1.2 Zibaldone di pensieri | Il male nell’ordine | 47

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facilm. de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale? (17. Mag.).

Analisi del testo

Struttura e temi

In brevi annotazioni, che contengono molti rinvii ad argomentazioni già svolte in altri luoghi dello Zibaldone e altrove, Leopardi ripete l’obiezione dialettica della insostenibilità logica di un ordine fondato su mali saltuari, dato che l’esperienza fa pensare che i mali siano piuttosto costitutivi, essenziali, del cosiddetto «ordine» del mondo. È evidente che qui il poeta-filosofo dia per presupposte le convinzioni centrali del suo pensiero: il sistema della natura – fondato sulla materia – come circuito di produzione e distruzione, la teoria dell’amor



proprio-egoismo, il rifiuto di idee metafisiche o consolatorie (tra cui il sostegno della religione), l’idea di male individuale («il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale)», ecc. Resta tuttavia da notare come, riguardo alla natura definita «rea» (“colpevole”) già in Zib. 4428, e qui «l’autrice del mondo», alla domanda «che epiteto dare…?», risponderanno le future definizioni metaforiche presenti nella Palinodia (il «fanciullo» costruttore e distruttore, vv. 154-164) e ne La ginestra > p. 126 | (la natura che «madre è di parto e di voler matrigna», v. 125).

Esercizi

Comprensione 1. Sintetizza il contenuto del passo. 2. Esponi il concetto portante della riflessione di Rousseau da cui muove il ragionamento leopardiano. Laboratorio 3. Spiega cosa intenda l’autore per ordine e disordine.

4. Come appare la natura in questo brano? Che funzione le attribuisce Leopardi? 5. Cosa intende Leopardi per male? 6. Nel testo sono presenti diverse abbreviazioni: come spieghi la loro presenza qui e in tutto lo Zibaldone?

48 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | sezione

capitolo

Analisi

9 dell’opera

1.3 Canti



Storia del testo, struttura e temi

Il frontespizio della Canzone ad Angelo Mai, pubblicata a Bologna nel 1820.

I Canti sono indubbiamente il libro di una vita e proprio al suo costituirsi come libro Leopardi ha dedicato molte attenzioni e cure, sia nel proprio laboratorio di scrittura e riscrittura, sia nelle stampe, fino a quando ha potuto, tanto che il risultato conclusivo che noi conosciamo attraverso l’edizione del 1845, uscita a Firenze per l’editore Le Monnier, è postumo: esce otto anni dopo la sua morte, per iniziativa di Antonio Ranieri (1806-1888) al quale erano restate, a Napoli, le carte autografe del poeta, compresa una copia dell’edizione Starita del 1835 che ha conservato tutte le ultime correzioni volute e inserite di proprio pugno da Leopardi o dettate al suo «amicissimo» Ranieri. L’edizione del 1845 che per noi costituisce, dunque, l’ultima volontà dell’autore, è il traguardo di un itinerario lungo, che prende avvio almeno dal 1817, da quando compone l’Elegia I in terzine tra dicembre e l’inizio del nuovo anno, che poi intitolerà Il primo amore, e prosegue fino alla primavera del 1836, quando scrive le canzoni Il tramonto della luna e La ginestra, aggiunte nell’edizione del 1845. Ripercorriamo allora la storia di come si è arrivati all’edizione postuma definitiva. Le tappe di questo itinerario possono essere articolate in cinque fasi fondamentali, dalle quali emerge come l’architettura finale dei Canti non corrisponda soltanto a un criterio cronologico, né di composizione o di pubblicazione, e neppure a un ordine di tipo tematico, di genere letterario o di metro, ma semmai a un insieme degli elementi indicati. Per questo motivo la nostra scelta è stata di presentare la selezione delle poesie secondo una sequenza cronologica di composizione che permettesse poi, dal confronto con la tabella della struttura dei Canti, di vedere per ognuna la collocazione finale nell’edizione del 1845. 1 Prima fase (1824): Canzoni La pubblicazione a Bologna, nel 1824, presso l’editore Nobili, delle Canzoni, segna il costituirsi di una prima aggregazione di testi: in questo libro, infatti, spedito all’editore nel dicembre del 1824, Leopardi raccoglie le dieci canzoni scritte fino ad allora (1818-1822), lasciando invece fuori i cinque idilli, che pure aveva già composto (18191821). L’edizione dichiara, sin dal titolo, che il suo principio riunificante forte è quello della forma metrica: sono tutte canzoni a eccezione dell’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano (il tema è “biblico”, in endecasillabi sciolti), per il quale è Leopardi stesso a dare una spiegazione sul perché dell’inclusione, in una delle Annotazioni indirizzate al lettore inserite direttamente nella stampa: «Chiamo quest’Inno, Canzone, per esser poema lirico, benché non abbia stanze né rime, ed atteso anche il proprio significato della voce canzone, la quale importa il medesimo che la voce greca ode, cioè cantico». Questa nota ci permette anche di intendere il significato,

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | 49 Metafore ardite *Nello Zibaldone, commentando Orazio, Leopardi chiama ardire/tecnica degli arditi l’uso di particolari procedimenti retorici su metafore, metonimie, attraverso accostamenti “azzardati” e costruzioni sintattiche che tendono a “complicare” la disposizione naturale delle parole; oppure il linguaggio usato non nel suo senso consueto, naturale e neppure piano, ma cercandone un effetto che dia una specie di “scossa” alla lingua, volendone esaltare tutte le potenzialità e le risorse. Per esempio l’uso insistito degli iperbati, degli enjambements e di un lessico che unisce ciò che sarebbe distante e crea così immagini forti come, per esempio, «il clamor de’ sepolti» nella canzone Ad Angelo Mai.

non solo tecnico, del termine “canzone” per Leopardi e di individuare quali caratteristiche rendano omogeneo questo gruppo di liriche: un linguaggio aulico e classicheggiante, ricco di arcaismi, di parole dotte e “peregrine”, ricco di metafore ardite* e di temi comuni che per lo più partono da personaggi del tempo antico o che del tempo antico parlano (i nostri esempi in antologia Ad Angelo Mai e Ultimo canto di Saffo lo testimoniano) e, infine, l’idea che le attraversa tutte di una storia dell’umanità fatta di tappe di approssimazione all’infelicità tanto più si progredisce, tanto più ci si allontana dallo stato di natura e si avanza nel processo di «snaturamento» e, dunque, di infelicità. Leopardi ha già riflettuto o sta riflettendo proprio in questi anni, sia nello Zibaldone sia nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, sul modo di fantasticare e immaginare degli antichi, quello analogo dei fanciulli, e quello che dovrebbe essere della poesia. L’esaltazione della gioventù come vitalità e pienezza delle speranze è già presente in queste canzoni, specialmente Nelle nozze della sorella Paolina e Alla primavera o delle Favole antiche nella quale, peraltro, compare il discorso sulla mitologia: da essa Leopardi, di fatto, si congeda, perché le favole antiche hanno perso l’ingenuità sentimentale, sono un prodotto artificiale in quanto ricostruzione razionale; infatti, quando poi torneranno, i miti saranno personaggi, saranno le personificazioni ironiche e tragiche delle Operette morali > p. 142 |. Le prime cinque poesie, a partire dalle due canzoni “gemelle”, All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, rispondono allo sprone di Pietro Giordani (che era andato a trovarlo a Recanati), di scrivere una poesia ispirata a un’idea alta, di “magistero civile”, ma anche alla necessità di trattare una materia eroica e patriottica, sulla scia del modello petrarchesco delle canzoni civili e, soprattutto, di quello alfieriano. Ma lo slancio che dovrebbe muovere gli italiani, o si sta estinguendo in un letargo, in una nebbia fatta di «noia», oramai definitiva (come in Ad Angelo Mai), oppure si rivolge verso una patria che non c’è più. Il tempo presente triste, vile ed egoista si allarga dalla condizione della nazione Italia (che non è ancora una nazione, proprio per mancanza di sentimento patriottico) all’umanità intera, che è passata dalle illusioni di una vicinanza e sintonia con lo stato «naturale» alla cognizione del «vero». Questa condizione etica ed esistenziale attraversa Nelle nozze della sorella Paolina, dove si condanna il vivere di chi loda la virtù oramai solo come forza di resistenza o di opportunismo; e si presenta nel drammatico finale di A un vincitore nel pallone nel quale, preso atto che neppure il rischio, l’agonismo, possono salvarci dall’infelicità del nulla in cui viviamo, risuonano una domanda e una risposta raggelanti: «Nostra vita a che val? solo a spregiarla». La terribile constatazione della negatività del mondo contemporaneo, sempre più allargata e radicale, si spinge fino alle due canzoni del suicidio, Bruto minore e Ultimo canto di Saffo: si distrugge, nella prima, anche l’idea, il mito della virtù dell’antichità, e nella seconda la possibilità di vivere per tutti in armonia con la natura. Saffo, esclusa dalla bellezza e dall’amore, dunque da una natura che svela il suo volto ostile, si uccide. La lirica costituirà, anche per il suo carattere “idillico”, una sorta di congedo e di passaggio verso la seconda fase che corrisponde alla pubblicazione dei Versi del 1826. L’ultima lirica, Alla sua donna, scritta nel settembre del 1823, rappresenta uno spartiacque tra la scrittura delle Operette morali, con cui condivide tono e riflessioni, e la ripresa della lirica dall’aprile del 1828. Fu composta dopo l’esperienza romana e il ritorno a Recanati ed è la più breve tra le canzoni, ma la più connotata in termini di scrittura sul paradosso d’amore, tra petrarchismo, stilnovismo e platonismo, per una donna «che non si trova», come scrive nelle note di autocommento che fa uscire nel settembre del 1825 sulla rivista milanese “Il Nuovo Ricoglitore”; inoltre, le pur minime variazioni nello schema rimico preludono alle canzoni libere che verranno dopo.

50 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Canzoni del conte Giacomo Leopardi, Bologna, per i tipi del Nobili e Comp., 1824 1

All’Italia

sett. 1818

2

Sopra il monumento di Dante

sett.-ott. 1818

3

Ad Angelo Mai > p. 77 |

gen. 1820

4

Nelle nozze della sorella Paolina

ott.-nov. 1821

5

A un vincitore nel pallone

nov. 1821

6

Bruto Minore

dic. 1821

7

Alla primavera o delle favole antiche

gen. 1822

8

Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano

lug. 1822

9

Ultimo canto di Saffo > p. 84 |

mag. 1822

10 Alla sua donna

*DalIdillio greco eidýllion: “bozzetto”, “quadretto”, piccola poesia di ambientazione pastorale.

sett. 1823

2 Seconda fase (1826): Versi Viene pubblicato nel 1826, sempre a Bologna, un altro libro di poesie, intitolato Versi. L’operazione editoriale è meno omogenea rispetto a quella delle canzoni di due anni prima, ma si giustifica con la necessità di Leopardi, dichiarata nell’avvertenza editoriale, di pubblicare il gruppo dei cinque idilli e quanto di già composto era restato fuori dalla selezione più stringente delle Canzoni. Il criterio, in questo caso, risponde più alla partizione per generi letterari, che vedono la presenza di elegie amorose, sonetti di registro comico alla maniera della poesia burlesca cinquecentesca, l’epistola in endecasillabi sciolti a Carlo Pepoli, due volgarizzamenti dal greco e, soprattutto, quella che Leopardi sentiva come una novità nella poesia italiana, gli idilli, che avevano già visto la luce in due tappe successive sulla rivista “Il Nuovo Ricoglitore” nel dicembre del 1825 e nel gennaio del 1826. Negli idilli, composti in contemporanea alle canzoni e che rappresentano, secondo un’autodefinizione presente in un appunto del 1828 «esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo», Leopardi ha voluto celebrare il piacere che può scaturire dall’«immaginazione»: l’infinito, l’indeterminato, l’indefinito, la rimembranza, le consolazioni della solitudine, la poeticità di tutto quanto è “vago”, di quanto allarga e allunga orizzonti, spazi, sensazioni uditive, ed è lontano dalla «cognizione del vero» > Focus, p. 58 |. Quello che è certamente proprio degli idilli di Leopardi è la relazione di tempo e di luogo che fa scattare il meccanismo della memoria e della riflessione “sentimentale” e conoscitiva insieme. Infatti, seppure tradotti da Leopardi stesso nel 1815, gli idilli* greci di Mosco sono lontani dalla materia che assumono quelli di Leopardi, al massimo condividono una certa ambientazione campestre, pastorale, ma nulla di più e non sempre. Così come sono lontani dagli idilli “sentimentali”, molto letti negli ambienti preromantici, di Salomone Gessner. Gli idilli di Leopardi tracciano la storia di un’anima, attraverso momenti e luoghi che forniscono l’occasione per un’avventura interiore che scatta davanti a una “siepe” (L’infinito), o si produce per un canto di un giorno festivo (La sera del dì di festa). A chiudere la raccolta, visto che i due volgarizzamenti rappresentano una sorta di appendice, è l’epistola a Pepoli, che costituisce, secondo gli studiosi, un volontario allontanamento dalla poesia per dedicarsi alla riflessione sull’«acerbo vero», una riflessione filosofica e morale in versi nella quale Leopardi ricapitola le tappe della sua visione dell’esistenza e della vanità delle cose.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | 51 idilli *LaGrandi denominazione “grandi idilli” fu impiegata da Carducci per distinguere il gruppo di quelli scritti a partire dal 1828 dai primi cinque dell’età più giovanile, per questo chiamati “piccoli idilli”. Ma con molta probabilità rappresentava soltanto un modo pratico di chiamare le due sequenze. In seguito è stata utilizzata come vera e propria categoria, che però non corrisponde alle intenzioni di Leopardi, anche perché, per forma e contenuto, i canti “pisanorecanatesi” non sono assimilabili alla forma dell’idillio e non basta la specificazione “grandi” a rendere più accettabile la distinzione, che risulta dunque inadeguata e fuorviante.

Versi del conte Giacomo Leopardi, Bologna 1826, dalla Stamperia delle Muse. L’edizione comprende gli idilli: 1

L’infinito > p. 60 |

2

La sera del dì di festa (qui con il titolo: La sera del giorno festivo) 1820

3

Alla luna (qui con il titolo: La ricordanza) > p. 70 |

1819

4

Il sogno

1820-1821

5

La vita solitaria

1821

1819

> p. 66 |

Seguiti da altri componimenti di forma metrica varia, tra cui: - le terzine de Il primo amore (dic. 1817-inizio 1818; qui con il titolo Elegia I), - l’epistola in versi sciolti Al conte Carlo Pepoli (mar. 1826) - il frammento Odi, Melisso (1819; qui con il titolo Lo spavento notturno e considerato un idillio “dialogato”). 3 Terza fase (1831): Canti

Autografo di A Silvia, 19-20 aprile 1828. Recanati, Museo Leopardi.

Nel 1831 il libro delle poesie di Leopardi assume il suo titolo definitivo: non più il metricamente preciso Canzoni, non il generico Versi, ma il nuovo Canti, pubblicato a Firenze dall’editore Piatti. Esso conserva le dieci canzoni, gli idilli, Il primo amore, Al conte Carlo Pepoli – esclude tutti gli altri testi apparsi nei Versi, che non saranno più ristampati nemmeno in seguito – e si arricchisce dei componimenti scritti a partire dal 1828: sono i cosiddetti canti “pisano-recanatesi” (per lungo tempo detti anche “grandi idilli”*) Quando da Pisa, il 2 maggio del 1828, Leopardi scrive alla sorella Paolina di aver ritrovato in quella cittadina, in quella via detta delle rimembranze, la felicità di scrivere di nuovo «versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta» > Della mia vita, p. 15 |, sta parlando de Il risorgimento e di A Silvia, nei quali celebra, nel primo caso, che sin dal titolo ben rappresenta la nuova dichiarazione programmatica, una specie di rinascita del cuore, che si esprime anche nella scelta della forma metrica della canzonetta arcadica; e in A Silvia, il canto che nasce dal silenzio tombale di una giovinezza perduta e mai vissuta. Poi viene il canto della memoria di un mondo e di un’età fatta di fantasie e illusioni che non ci sono più, il canto di un’altra figura femminile come la Nerina de Le ricordanze; e ancora il canto della lirica più vicina al mistero della natura e dell’esistenza, il canto primordiale del pastore (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia) e, infine, il dittico di quelli che sono stati definiti idilli-apologhi perché partono da racconti che chiudono con una morale, Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta. Il titolo Canti, al plurale e senza articolo, risponde all’idea di una sostanziale identità tra l’espressione poetica in generale e quella lirica in particolare, alla cui denominazione è determinante per Leopardi l’attributo della musicalità, la simbiosi fra tematica e stile, sonorità. La scelta del metro della canzone libera, detta anche “leopardiana”, contribuisce a questo programma, aperto e dinamico rispetto, per esempio, al modello unitario del Canzoniere petrarchesco, svincolando la struttura delle strofe da un numero di versi prestabiliti e, soprattutto, da uno schema rigido delle rime. L’andamento delle stanze acquista così nuove possibilità di sonorità e durata, su materie alte che si fanno sempre più marcate nell’elaborazione del pensiero teso, ma musicalmente leggero, a riflettere sul senso dell’esistere umano e universale.

52 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Canti del conte Giacomo Leopardi, Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1831. Alle dieci canzoni, ai cinque idilli, a Il primo amore e Al conte Carlo Pepoli in questa edizione sono dunque aggiunti: 1

Il risorgimento

7-13 aprile 1828

2

A Silvia > p. 94 |

19-20 aprile 1828

3

Le ricordanze > p. 100 |

26 ago.-12 sett. 1829

4

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia > p. 118 |

22 ott. 1829-9 apr. 1830

5

La quiete dopo la tempesta > p. 104 |

17-20 sett. 1829

6

Il sabato del villaggio > p. 108 |

20-29 sett. 1829

In totale, ventitré poesie. 4 Quarta fase (1835): l’edizione Starita (vol. I, Canti) Nel 1835 Leopardi prepara un’edizione di tutte le sue opere per l’editore napoletano Starita. Il primo volume comprende i Canti, dove Leopardi mantiene tutti i testi pubblicati nel 1831, recupera il frammento Odi, Melisso e aggiunge le seguenti liriche: 1

Il passero solitario

probabilmente 1831-1835

2

Il pensiero dominante > p. 110 |

1831-1835

3

Amore e Morte

1832

4

A se stesso

1832-1833

5

Aspasia

1834

6

Sopra un bassorilievo antico sepolcrale

1834-1835

7

Sopra il ritratto di una bella donna

1834-1835

8

Palinodia al marchese Gino Capponi

1835

9

Imitazione

tra il 1818 e il 1828-1829

10 Scherzo > p. 92 |

15 feb. 1828

E include i frammenti: - Io qui vagando (1818) - Spento il diurno raggio (nov.-dic. 1816) - Dal greco di Simonide (1823-1824) - Dello stesso (1823-1824). La canzone della solitudine, Il passero solitario – che sarà inserita nell’edizione definitiva del 1845 in undicesima posizione a chiudere la sezione delle nove canzoni e a segnare l’inizio degli idilli – pur essendo affine ai canti “pisano-recanatesi” per temi e stile (è una canzone libera), funziona per Leopardi come un autoritratto che introduce a una lettura degli idilli, nei quali l’occasione esterna, della natura, degli animali è sempre confronto con il proprio mondo interiore. Nulla in questa lirica, come negli idilli, è mai soltanto paesaggio e descrizione. Nell’edizione Starita si aggiungono i canti dell’amore “fiorentino”, impropriamente definiti “ciclo di Aspasia”, nei quali si sviluppano le tappe di un sentimento amoroso non corrisposto per Fanny Targioni Tozzetti > Confronti, p. 116 |. La scoperta

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | 53

Leopardi (Elio Germano) e Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) in una scena del film Il giovane favoloso (2014), diretto da Mario Martone. Palinodia *Finta ritrattazione.

dell’amore (ne Il pensiero dominante), della potenza dell’amore che riesce a travalicare i limiti della condizione dell’uomo, persino nella morte l’unica forma, insieme con l’amore, di condivisione dell’assoluto (Amore e Morte), si fa progressivamente sempre più disillusione (A se stesso) e, infine, si ribalta in chiusura definitiva, in una sorta di ritrattazione, di distanziamento critico con Aspasia. Il Consalvo, composto nel 1833, è una “novella in versi” di tono dissimile dagli altri canti, molto letteraria (varie sono le fonti indicate, fra cui Jaufré Rudel e Boccaccio), che indulge al patetico ed è stato il canto più ammirato tra i lettori romantici. Infine, prima delle appendici, le due canzoni dette “sepolcrali” composte nell’ultimo periodo fiorentino e prima della partenza per Napoli, ispirate da monumenti funebri che portano Leopardi a riflettere sul tempo che fugge, sulla caducità della bellezza, sul contrasto tra l’esser «frale» e misero dell’uomo e i pensieri sublimi. La Palinodia* al marchese Gino Capponi, dedicata all’amico fiorentino, prestigioso esponente dell’ideologia liberale e moderata, è un componimento satirico in versi, endecasillabi sciolti, in cui il modello di Parini si fa più presente. L’ironia leopardiana muove contro i falsi miti del tempo, in particolare dell’ambiente del circolo di Vieusseux > p. 9 |: la scienza, la statistica, la tecnica, l’idea ottimistica del bene del progresso, l’illusione della felicità che viene dall’esattezza della conoscenza. 5 Quinta fase (1845): l’edizione definitiva Poco prima di morire, Leopardi, insieme con l’amico Antonio Ranieri, corregge in alcuni punti una copia dell’edizione Starita del 1835 dei Canti, indicando anche dove avrebbero dovuto essere collocate le ultime due poesie composte, cioè La ginestra, o il fiore del deserto e Il tramonto della luna, entrambe della primavera del 1836.

Nel 1845 Ranieri cura, per l’editore fiorentino Le Monnier, un’edizione delle Opere di Giacomo Leopardi in cui accoglie le ultime volontà dell’amico, apportando le correzioni da lui indicate e collocando le due nuove liriche: 1

Il tramonto della luna

primavera 1836

2

La ginestra o il fiore del deserto > p. 126 |

primavera 1836

Di seguito, l’una all’altra, dopo la Palinodia al marchese Gino Capponi. Il tramonto della luna, scritta forse dopo La ginestra nella villa Ferrigni a Torre del Greco, è una celebrazione “al contrario” di quanto c’è di lunare in tutta la lirica leopardiana. Infatti, le parole di un tempo hanno perso, nel contatto con la filosofia «disperata ma vera», quello che di idillico potevano conservare e ora non sono più evocate ma richiamate gelidamente dalla memoria soltanto come quadro di paragone con la realtà della «vita mortal».

54 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Ne La ginestra, la più ampia orchestrazione lirica di tutti i Canti, confluiscono molti, se non tutti, i temi a lungo meditati e per questo, oltre che per la sua posizione di conclusione e congedo, è letta come testamento etico e poetico di Leopardi nel quale, dalla visione del desolato paesaggio alle pendici del Vesuvio che testimonia ancora una volta della potenza distruttrice e maligna della natura e rifiutate tutte le illusorie ideologie del progresso e della religione, muove verso un’unica possibilità di salvezza, una sola speranza che è quella di un appello agli uomini di consorziarsi, in una catena di solidarietà, una «umana compagnia» contro la natura «matrigna». Coma la ginestra che nasce ed eroicamente vive nel terreno desertico, così l’uomo deve trovare e rivendicare per sé e per i suoi simili una dignità della sofferenza. L’assetto di quello che consideriamo il testo definitivo dei Canti evidenzia quanto sia stata importante per Leopardi anche l’architettura dell’opera > Struttura dei Canti, pp. 56-57 |: inclusioni, spostamenti, esclusioni portano a vedere una “storia” nell’articolazione interna. Prima le canzoni civili e del suicidio, poi Il primo amore e la serie degli idilli inaugurati da Il passero solitario fino al componimento numero XVII Consalvo, che Leopardi stacca dalle liriche dell’amore fiorentino e fa salire nella progressione per riunirsi ad Alla sua donna e anticipare Al conte Carlo Pepoli, che funziona da stacco vero e proprio rispetto alla nuova lirica dei canti “pisano-recanatesi” chiusi da Il sabato del villaggio. Seguono i canti ispirati dall’amore per Fanny, poi le due canzoni sepolcrali, la cesura del riso amaro della Palinodia al marchese Gino Capponi e le liriche del periodo napoletano Il tramonto della luna e La ginestra, o il fiore del deserto. Con Imitazione e Scherzo, i frammenti e i due volgarizzamenti Dal greco di Simonide si chiude con un totale di 41 componimenti l’intera opera. Fonti e modelli

Le sterminate letture di Leopardi non permettono di indicare fonti e modelli di volta in volta numerosissimi, con il rischio di non essere esaustivi o di produrre una sterile elencazione di autori e titoli. Diamo allora solo alcuni tra gli esempi più significativi e rimandiamo anche alle singole analisi delle liriche. Oltre ai classici latini e greci, fra gli italiani e, in particolare, per le poesie di argomento politico e civile, i maggiori riferimenti sono il modello dantesco, soprattutto del Purgatorio, VI, e il Petrarca delle canzoni 128 Italia mia e 53 Spirto gentil: nella canzone All’Italia riecheggia sin dall’incipit «O patria mia» la canzone 128 che si apre con «Italia mia», mentre dalla 53 Leopardi riprende il tòpos dell’allegoria dell’Italia come donna una volta formosa e regale che è ora inerme, spogliata della gloria e delle armi. Ancora in All’Italia si possono intravvedere altri modelli di cui abbiamo traccia evidente di lettura perché inseriti nella Crestomazia poetica o perché presenti nella biblioteca paterna o perché il poeta ne parla o li commenta in lettere o in appunti dello Zibaldone. Nel caso specifico, per esempio – ma vale anche per la canzone che segue dedicata a Dante –, oltre a testi sei-settecenteschi di questa tradizione “civile”, compreso anche il teatro tragico e le poesie di Alfieri o alcune opere di Vincenzo Monti, conta anche la lettura dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, con il quale condivide lo spunto autobiografico del contesto storico e l’idea che sepolcri o monumenti (come nel caso della statua eretta per il poeta fiorentino in Santa Croce in Sopra il monumento di Dante e della canzone Ad Angelo Mai) possano restare nella memoria e così risvegliare gli animi “intorpiditi” degli italiani. A ben vedere, però, la caratteristica tutta personale di Leopardi emerge nel fatto che dietro le sembianze delle canzoni civili si nasconde una constatazione che oltrepassa il dato storico e contingente per allargare la tematica a una miseria del tempo presente, soprattutto se paragonato con l’antico, fino alla desolazione dell’uomo, di se stesso, e poi dell’umanità intera. Nel caso di Petrarca, del quale non dobbiamo dimenticare che Leopardi consegna all’editore Stella, seppur dichiaratamente per necessità di guadagnare, un’edizione commentata del Canzoniere che, dunque, è una lettura protratta e approfondita, l’in-

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | 55

fluenza è indubbia ma anche molto elaborata. A partire dal fatto che i Rerum Vulgarium Fragmenta sono il primo libro lirico della nostra tradizione poetica e questo non può non aver pesato sulla strutturazione e sul titolo dei Canti, i quali però, a differenza dell’assetto compatto e unitario dato da Petrarca alla sua opera, si muovono su una disposizione delle liriche che mantiene il carattere diverso delle fasi e dei generi, un carattere dinamico e aperto. Lingua e stile

Negli idilli, a differenza delle Canzoni, Leopardi sceglie di impiegare l’endecasillabo sciolto al posto della forma metrica classica e abbandona la sintassi e il lessico di stile complesso e ardito > finestrella p. 83 | – caratterizzato da figure retoriche che rendono meno facile la lettura come l’iperbato e l’ellissi – per andare verso una lingua piana, dove la paratassi è prevalente ma l’accostamento di lemmi «poeticissimi» ad arcaismi mantiene alto il tono delle liriche. Lo stile dell’indeterminatezza porta in primo piano un’espressione poetica originalissima dove l’assimilazione dei classici e della tradizione petrarchesca e dell’imitazione dei grandi del Cinquecento lirico come Tasso e Della Casa, si coniuga con una personale ricerca lessicale di accostamento di termini aulici e comuni, un esempio su tutti: il «colle» a cui l’aggettivo «ermo» dona immediatamente un’elevazione al tempo stesso alta e pacata ne L’infinito. La brevità degli idilli è superata dalla varietà delle pause, dai legami tra verso e verso e dalle raffinate inarcature, dagli enjambements. La lingua dei Canti è una lingua scelta e selezionata con l’attenzione e la cura di chi ha riflettuto e riflette costantemente sulla scelta delle parole come effetto di suono e di senso. L’uso del «peregrino» delle parole antiche, lontane nel tempo, o di quelle attinte dal lessico petrarchesco e dei petrarchisti cinquecenteschi, è rinnovato da accostamenti inconsueti: «augelli», «aura», «lice», «imbruna», «età fiorita» insieme con «gallina», «sonagli», «donzelletta» ne La quiete dopo la tempesta e ne Il sabato del villaggio. Così come significativa è la ricerca nelle scelte metriche: l’endecasillabo sciolto degli idilli, la classicità e magniloquenza degli affetti e degli slanci eroici delle Canzoni, la forma della canzone dei canti pisano-recanatesi liberata da schemi fissi nel numero dei versi o nelle rime, che crea un sistema ricco di assonanze e rime interne o di legami e riprese a distanza e che ben si adatta a un andamento fluido e musicale di un procedere ragionativo, filosofico; o ancora la sintassi coordinativa che vede, a tenere alta la tensione affettiva, il ricorso frequente alle esclamative e alle interrogative, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. I canti dell’amore fiorentino sono contraddistinti sul piano stilistico da un lessico e una sintassi spogli e aspri; anche i tòpoi della tradizione lirica stilnovistica e petrarchesca sono spinti verso accostamenti più dissonanti, per esempio mediante l’uso di sostantivi del lessico dell’idillio come «sospiro», «fato», «speme», «cor» accostati a «vanità», «fango» o a verbi come «disperare» nella lirica A se stesso, per esprimere il progressivo silenzio del cuore, «Stanco mio cor» (ripresa petrarchesca dal Canzoniere 242, 1 «Mira quel colle, o stanco mio cor») che perisce, si annulla, dopo l’«inganno estremo». Ancora si potrebbe indicare, nelle liriche del periodo napoletano, una presenza maggiore del Parini modello di satira poetica, del Foscolo dei Sepolcri e dell’Ortis o del Dante petroso nel tessuto ricchissimo e stratificato de La ginestra.

In digitale Focus: La lettura novecentesca della poesia di Leopardi

In digitale Focus: L’ “operettismo” novecentesco

56 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Struttura dei Canti (edizione 1845)

Ordine Secondo l’edizione 1845

Titolo definitivo

Questo è lo schema della struttura dei Canti nell’edizione postuma e definitiva: Opere di Giacomo Leopardi, Edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell’autore, da Antonio Ranieri, Vol. I, Firenze, Felice Le Monnier, 1845. Per ogni canto sono indicati: ordine di disposizione interna e titolo definitivi, luogo e data di composizione, anno della prima pubblicazione a stampa e forma metrica.

Luogo e data di composizione

Prima stampa

Forma metrica

I

All’Italia

Recanati, settembre 1818

1818

Canzone di 7 strofe di 20 versi.

II

Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze

Recanati, settembre-ottobre 1818

1818

Canzone di 12 strofe (undici di 17 versi e l’ultima di 13).

III

Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica

Recanati, gennaio 1820

1820

Canzone di 12 strofe di 15 versi (endecasillabi e settenari).

IV

Nelle nozze della sorella Paolina

Recanati, ottobre-novembre 1821

1824

Canzone di 7 strofe di 15 versi.

V

A un vincitore nel pallone

Recanati, 30 novembre 1821

1824

Canzone di 5 strofe di 13 versi.

VI

Bruto Minore

Recanati, dicembre 1821

1824

Canzone di 8 strofe di 15 versi.

VII

Alla Primavera, o delle favole antiche

Recanati, gennaio 1822

1824

Canzone di 5 strofe di 19 versi.

VIII

Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano

Recanati, luglio 1822

1824

Endecasillabi sciolti.

IX

Ultimo canto di Saffo

Recanati, 13-19 maggio 1822

1824

Canzone di 4 strofe di 18 versi.

X

Il primo amore

Recanati, 1817-1818

1826

103 versi in terza rima.

XI

Il passero solitario

stesura finale Napoli, settembre 1835

1835

3 strofe libere, o lasse.

XII

L’infinito

Recanati, primavera-autunno 1819

1825

Endecasillabi sciolti.

XIII

La sera del dì di festa

Recanati, primavera-autunno 1820

1825

Endecasillabi sciolti.

XIV

Alla luna

Recanati, 1819

1826

Endecasillabi sciolti.

XV

Il sogno

Recanati, dicembre 1820 o ottobre 1821

1825

Endecasillabi sciolti.

XVI

La vita solitaria

Recanati, estate-autunno 1821

1826

Endecasillabi sciolti.

XVII

Consalvo

Firenze, autunno 1832

1835

Endecasillabi sciolti.

XVIII

Alla sua Donna

Recanati, settembre 1823

1824

Canzone di 5 strofe di 11 versi a schema variato.

XIX

Al conte Carlo Pepoli

Bologna, marzo 1826

1826

Endecasillabi sciolti.

XX

Il risorgimento

Pisa, 7-13 aprile 1828

1831

20 quartine doppie di settenari.

XXI

A Silvia

Pisa, 19-20 aprile 1828

1831

Canzone libera di 6 stanze o lasse disuguali.

XXII

Le ricordanze

Recanati, 26 agosto-12 settembre 1829

1831

Endecasillabi sciolti, disposti in sette lasse disuguali.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Struttura | 57 Ordine Secondo l’edizione 1845

Titolo definitivo

Luogo e data di composizione

Prima stampa

Forma metrica

XXIII

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Recanati 22 ottobre 1829-9 aprile 1830

1831

6 strofe libere di endecasillabi e settenari.

XXIV

La quiete dopo la tempesta

Recanati, 17-20 settembre 1829

1831

Canzone libera di 3 lasse disuguali di endecasillabi e settenari.

XXV

Il sabato del villaggio

Recanati, fine settembre 1829

1831

4 strofe libere di endecasillabi e settenari.

XXVI

Il pensiero dominante

Firenze, fine primavera 1831 (?)

1835

14 strofe di endecasillabi e settenari.

XXVII

Amore e Morte

Firenze, estate o autunno 1832

1835

4 strofe libere di endecasillabi e settenari.

XXVIII

A se stesso

Firenze, primavera o estate 1833

1835

Strofa di 16 versi (endecasillabi e settenari su tre rime).

XXIX

Aspasia

Napoli, primavera-estate 1834

1835

Endecasillabi sciolti.

XXX

Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morte rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi

Firenze, aprile 1831- Napoli, settembre 1835 (o Napoli, inverno 1834-1835)

1835

7 strofe, di varia misura, di endecasillabi e settenari variamente rimati

XXXI

Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima

Firenze, aprile 1831-Napoli, settembre 1835 (o Napoli, inverno 1834-1835)

1835

4 strofe libere di endecasillabi e settenari.

XXXII

Palinodia al marchese Gino Capponi

Napoli, fine 1834-inizio 1835

1835

Endecasillabi sciolti.

XXXIII

Il tramonto della luna

Torre del Greco, primavera 1836

1845

4 strofe libere di endecasillabi e settenari, variamente rimati.

XXXIV

La ginestra, o il fiore del deserto

Torre del Greco, primavera 1836

1845

7 strofe libere di endecasillabi e settenari, variamente rimati e assonanzati.

XXXV

Imitazione

Recanati, primavera 1827 (o 1828 o 1829-1830)

1835

Strofa libera di endecasillabi e settenari liberamente rimati e assonanzati.

XXXVI

Scherzo

Pisa, 15 febbraio 1828

1835

Strofa libera di endecasillabi e settenari.

XXXVII

Recanati, 1819

1826

Endecasillabi sciolti.

XXXVIII

Recanati, fine 1818

1826

Terza rima.

XXXIX

Recanati, novembre-dicembre 1816

1835

Terza rima.

Frammenti

XL

Dal greco di Simonide

Recanati 1823-1824

(vv. 10-18 1827) 1835

Strofa libera di endecasillabi e settenari, perlopiù rimati.

XLI

Dello stesso

Recanati 1823-1824

1835

Strofa libera di endecasillabi e settenari, perlopiù rimati.

58 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Focus Le parole «poeticissime» del vago e dell’indefinito

Nello Zibaldone numerosi sono i passi intorno a ciò che per Leopardi lega poesia e piacere. Se la poesia è la prima e la più straordinaria possibilità di produrre piacere, è perché questa ha la suprema capacità di suscitare nell’io poetico un’idea di infinito al quale tende l’animo umano. Il piacere, la piacevolezza, si raggiunge nel linguaggio lirico attraverso tutto ciò che sfugge a un’identificazione certa e determinata, e si muove in ciò che, al contrario, è vago e indefinito. Il linguaggio vago e indefinito evoca immagini e suoni indeterminati, perché lontani nel tempo e nello spazio, in modo che l’immaginazione e la rimembranza siano stimolate. Ma mentre nell’antichità questa capacità era innata e naturale (la loro «celeste naturalezza» > Testo 1, p. 30 |) nei tempi moderni questa capacità è propria solo dei fanciulli e dei poeti:

«

Certe idee, certe immagini di cose supremam. vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommam., o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza [...]

»

(Zib., 4513, 21 maggio 1832.)

La strada che la poesia ha di fronte per tornare al diletto suscitato dall’antico, per ricostruire quella predisposizione naturale dell’anima, è la strada di tutto ciò che esprime generalità o lontananza nel tempo e nello spazio. Un paesaggio che si “slarga”, che oltrepassa i confini, che supera gli ostacoli di un vedere “ostruito” come nel caso de L’infinito (> p. 60 |):

«

Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito [...]. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec. (Zib., 1430-1431, 1 agosto 1821.)

»

Sullo stesso principio per cui alla vista, a una visione imprecisata, subentra l’immaginazione, agiscono anche i suoni, poetici perché di lontano, perché evocano altri suoni o immagini, perché portano un ricordo e così via. Leopardi è particolarmente attento alla vaghezza, indeterminatezza e, dunque, poeticità del “sonoro”. Basterebbe pensare al titolo che ha dato alla sua raccolta lirica, Canti, o ad alcuni dei versi che

proprio per questo rimangono nella nostra memoria: allo «stormir» del vento fra le piante (L’infinito), ai canti di sere festive (La sera del dì di festa > p. 66 |) o di pastori erranti (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia > p. 118 |), alle voci di Silvia (A Silvia > p. 94 |):

«

Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che [1928] spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando […] un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori […]. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono […] lo stormire del vento […]. Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono.

»

(Zib., 1928-1929, 16 ottobre 1821.)

D’altronde l’effetto di lontananza è anche dato dalle scelte lessicali, dalle parole «peregrine» o parole che innescano quei «segnali d’infinito» (per usare la definizione di uno tra i maggiori studiosi di Leopardi, Luigi Blasucci) perché evocano, suscitano vastità e indeterminatezza: «vago», «ultimo»,

| 1. Giacomo Leopardi | Focus | 59

La campagna intorno a Recanati.

«profondo», «antico», «lontano», «canto», «oscurità», «notte», «notturno», «posteri», «posterità», «immensità». Si veda per lo straordinario effetto di “infinità” il notturno che è una delle più intense rappresentazioni del vago, in Alla luna > p. 70 |, perché la notte, scrive Leopardi, confonde gli oggetti, ce li restituisce come “sfocati” o al chiarore della luna; o la serie di parole come «irrevocabile», «irremeabile» che desta un’idea di qualcosa senza limite o che sfugge: «e non possibile a concepirsi interamente»; oppure parole che hanno il prefisso in-: «interminati» o lo stesso «infinito». Così scrive Leopardi:

«

Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse.

»

(Zib., 1789, 25 settembre 1821.) Oppure:

«

Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec.

»

(Zib., 1798, 28 settembre 1821.)

O ancora:

«

Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec.

sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti […]. Così pure le parole e le idee ultimo, mai più, l’ultima volta ec. ec. sono di grand’effetto poetico, per l’infinità. ecc.

»

(Zib., 1825-1826, 3 ottobre 1821.) Alcune pagine più avanti:

«

Antichi, antico, antichità; posteri, posterità sono parole poeticissime ec. perchè contengono un’idea 1. vasta, 2. indefinita ed incerta, massime posterità della quale non sappiamo nulla, ed antichità similmente è cosa oscurissima per noi.

»

(Zib., 2263, 20 dicembre 1821.) Le immagini legate a queste parole «poeticissime» sono prodotte o dall’immaginazione o dalla rimembranza, che è come dire, per Leopardi, che stanno nel «passato anzi che nel presente» (Zib., 4415, Firenze, 22 ottobre 1828). E che:

«

Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, p. bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non p. altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago.

»

(Zib., 4426, Recanati. Domenica 14 dicembre 1828.)

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 Testo 8

L’infinito Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

5

Forma metrica: endecasillabi sciolti. 10

15

 Oltre il libro Ascolta in rete L’infinito interpretato da grandi attori quali Nando Gazzolo, Vittorio Gassman, Arnoldo Foà e Carmelo Bene. Le loro voci declinano la poesia con una sensibilità e un uso del ritmo diversi, fra lettura, interpretazione e recitazione. Quale versione avrebbe preferito Leopardi?

William Turner, Tramonto, 1830-1835. Londra, Tate Gallery.

Una delle poesie più note di tutta la tradizione lirica italiana, fu scritta a Recanati nel 1819 e pubblicata per la prima volta sulla rivista milanese “Il Nuovo Ricoglitore” nel 1825, poi nei Versi usciti a Bologna nel 1826. La lirica è presente nell’edizione dei Canti del 1831 e nell’edizione definitiva delle Opere che uscì postuma a Firenze nel 1845, presso l’editore Le Monnier, per le cure dell’amico letterato Antonio Ranieri, dove occupa il dodicesimo posto. È la prima e la più breve di un gruppetto di poesie, sei in tutto (le altre in questa antologia sono La sera del dì di festa e Alla luna), intitolato Idilli.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle1, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo2 orizzonte il guardo esclude3. Ma sedendo e mirando4, interminati5 spazi di là da quella6, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo7; ove per poco il cor non si spaura8. E come9 il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando10: e mi sovvien11 l’eterno, e le morte stagioni12, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.

1. ermo colle: colle solitario, isolato. 2. ultimo: estremo. 3. il guardo esclude: sottrae lo sguardo. 4. mirando: guardando. 5. interminati spazi: spazi sterminati, sconfinati. 6. di là da quella: oltre la siepe. 7. mi fingo: mi immagino, mi illudo, dal latino fingere = plasmare. 8. spaura: smarrisce e spaventa. 9. come: non appena. 10. vo comparando: io confronto. 11. mi sovvien: mi torna alla mente. 12. le morte stagioni: il passato.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | L’infinito | 61



Analisi del testo

Struttura e temi

Un io poetico parla in questi quindici versi di un’esperienza interiore: è un io non esclusivamente autobiografico, ma neppure che vuole porsi dichiaratamente come esemplare, valido per l’umanità intera. L’esperienza di cui Leopardi ci rende partecipi è frutto di desiderio di infinito, è il racconto lirico di una conquista di infinito spaziale, temporale, acustico, visivo, attraverso l’immaginazione. È una “situazione” dell’animo sorretta da una riflessione intellettuale, da un itinerario, un percorso della mente che non precede la percezione ma ne è piuttosto una conseguenza. A differenza della maggior parte dei componimenti poetici leopardiani, questo testo viene “prima” della riflessione: l’intuizione è primariamente lirica e in seguito analizzata in molti pensieri dello Zibaldone, perché su questi temi Leopardi si interrogherà a lungo. Per esempio nel luglio del 1820, a un anno di distanza dalla composizione di questa poesia, Leopardi descrive l’irruzione nell’animo del desiderio di infinito (Zib. 171, nel passo che abbiamo analizzato > Testo 4, righe 67-74, p. 39 |). Per quanto riguarda il genere idillio nel quale Leopardi colloca la lirica, si può cogliere subito quanto sia particolare e rielaborato in modo assolutamente originale il vero carattere dell’idillio leopardiano. Lo si intuisce sin dall’incipit, che con l’avverbio «Sempre», di ascendenza petrarchesca, seguito da «caro», sembrerebbe suggerire la riproposizione di una ambientazione abituale e amata, e invece mostra immediatamente quanto venga disattesa qualsiasi aspettativa di descrizione realistica e dettagliata che porti alla riconoscibilità di un luogo. Il luogo che con l’aggettivo «caro» potrebbe preludere all’esaltazione di una ambientazione amena, solitaria, conosciuta, perfino familiare, semmai percorsa dalla nostalgia di un passato perduto che la memoria aiuta a ricordare, conduce, invece, al racconto di una esperienza eccezionale, del tutto nuova e sorprendente, indicata nel suo farsi. Per cui anche l’indicazione di «colle» e di «siepe», malgrado la presenza degli aggettivi dimostrativi «questo» e «questa», non sta espressamente a determinare che il colle è il monte Tabor a poco distanza da Recanati, dove Leopardi andava a passeggiare, e la siepe, o filare di alberi, sia esattamente quella che vogliono alcune ricostruzioni biografiche, perché è proprio l’indetermi- * Deittici Sono chiamati deittici gli elementi natezza il tema e la cifra sti- linguistici (specialmente pronomi, avverbi, pronomi e aggettivi listica che ne consegue. dimostrativi) che ancorano L’indicazione della forma l’enunciato al contesto spazioidillio avrebbe potuto pre- temporale e ai protagonisti vedere una descrizione pae- dell’atto comunicativo.

saggistica, ma già il titolo porta inequivocabilmente altrove. Fin dall’inizio il tema è il superamento del determinato. Il luogo, quale che sia, ha a che fare con la soggettività del poeta, e anche l’uso dei deittici* è disposto in modo da indicare una posizione vaga e indeterminata: la siepe impedisce lo sguardo, è il limite fisico, oltre il quale è con la mente che si rappresenta la visione, «mirando», poiché il piano è “conoscitivo” e non “descrittivo”. L’io non parla di una realtà esterna, ma di come quella realtà esterna sia reinventata attraverso la fantasia, attraverso l’immaginazione: «io nel pensier mi fingo». L’esperienza conoscitiva procede non tanto per tappe razionali quanto per approssimazioni sensoriali, attraverso la percezione di elementi esterni: la siepe sottrae allo sguardo tanta parte dell’orizzonte più estremo, lontano e, in questo modo, stimola il desiderio e il pensiero su uno spazio interminato e su un tempo infinito. Lo sprofondare, il «dolce» naufragio dell’ultimo verso, non è un annullamento e non presagisce una morte ma è un abbandonarsi alla sensazione di infinito che il processo immaginativo ha scatenato, l’affollarsi di pensieri che travalicano il finito. Anche l’ “annegare” del pensiero sta per “mentre va ad annegare”, “va annegandosi”: è nella durata la sua non determinazione e, dunque, la sua “infinitività”, come per verbi analoghi in questa funzione quali “perdersi” ed “errare”. È qualcosa che solo la poesia, come solo la fanciullezza, può attingere. Il recupero di quello stato originario e antico che, attraverso la fantasia, propria dei fanciulli e dei poeti, abbraccia un tutto che crea vertigine, smarrimento, quasi come il nulla. L’idea della poesia di immaginazione è quella su cui Leopardi riflette in quegli stessi anni, a partire dalla polemica con i romantici italiani e in particolare con Di Breme > pp. 8; 30 |, che teorizzava la superiorità della poesia moderna rispetto a quella degli antichi. Secondo Leopardi, il rapporto spontaneo che gli antichi avevano con la natura consentiva la creazione di una poesia naturale e non artificiosa, quella che si dovrebbe ancora perseguire, come testimonia L’infinito stesso, nel riappropriarsi di un meccanismo originario da riprodurre nel moderno, attraverso la facoltà dell’immaginazione. Se gli antichi avevano il privilegio di un rapporto con la natura diretto e spontaneo, come mostra la loro poesia, i moderni possono, se non fanno intervenire sovrastrutture razionali e psicologiche minutamente descritte, ritrovare quanto di oggettivo e quasi scientifico, in una sorta di “scienza dell’animo”, produce la natura infinita. L’esperienza idillica non è pura evasione “sentimen-

62 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

tale” (la parola chiave dei romantici) dalla realtà, né tantomeno abbandono spirituale o religioso, ma è strumento conoscitivo attraverso l’illusione, la fantasia, l’immaginazione. Per questo il motivo dell’infinito-indefinito è anche vicino alla teoria del piacere presente nello Zibaldone > Testo 4 |: la facoltà immaginativa dell’animo permette di raffigurarsi piaceri che non esistono nella realtà e, dunque, può rispondere a quel bisogno di infinito degli uomini attraverso piaceri illusori scaturiti da quanto c’è di indeterminato e indefinito intorno a noi, come Leopardi scrive nelle già citate pagine del luglio 1820 (171-172):

«

... la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, [172] gl’impedisce di vedere i confni di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infnito.

»

La stretta connessione tra il piacere e l’infinito è poi espressa esplicitamente da Leopardi nell’anno successivo, quando cita il suo idillio (1° agosto del 1821):

«

Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefnito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un flare d’alberi, la cui fne si perda di vista, o [1431] per la lunghezza del flare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo ch’ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efcacissimo e sublimissimo tra il fnito e l’indefnito ec. ec. ec.

»

Il tema dell’infinito, inoltre, non si attiva soltanto nello spazio che domina le prime due parti della lirica, ma anche nelle sensazioni suscitate dal suono (Zib. 1928-1929):

«

È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si difonda […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare […] lo stormire del vento.

»

O ancora nella categoria del tempo, dell’ultima parte, dal verso 11: «e mi sovvien l’eterno» che torna anch’essa nello Zibaldone (1429), sempre nella pagina del 1° agosto:

«

L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva,

una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perchè ciò? per la tendenza dell’uomo all’infnito. L’antico non è eterno, e quindi non è infnito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefnita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confni, non li discerne, e non sa quali sieno.

»

Lingua e stile

La presenza dell’io poetico è una delle novità più sorprendenti di questo testo: a rendere circolare la lirica l’io si trova all’inizio («mi» del v. 1), al centro (vv. 7, 8 e 9: «io», «mi», «io») e alla fine («mio», «m’è»), come a marcare la narrazione in prima persona di un processo interiore. Mentre il lessico dei primi versi è un lessico in linea con la tradizione lirica italiana ed è caratterizzato da parole brevi quasi tutte bisillabe nei primi tre versi, dopo il verso 4 si raggruppano parole sempre più ampie: trisillabe («ultimo», «sedendo») quadrisillabe («orizzonte», «sovrumani») e pentasillabe («interminati», «profondissima») in un crescendo graduale. Oltre al numero delle sillabe va man mano aumentando la forte presenza della vocale a, sia accentata sia atona (caro, questa, da tanta parte, guardo, Ma, mirando, interminati, spazi, di là da, sovrumani, questa immensità) o raddoppiata dalla vicinanza del timbro vocalico come in «da tanta parte», e nella forza semantica che le lega al tema di fondo della poesia: la vastità dell’infinito resa dall’apertura vocalica. La scelta lessicale è quella che, con più evidenza, va a connotare il linguaggio dell’indefinito: «ermo», «silenzi», «quiete», «vento», «silenzio», «pensier», «mare». Tra le parole chiave di questa lirica, la più significativa è probabilmente «ermo», aggettivo di marca petrarchesca riferito al colle, che oltre alla solitudine indica anche la lontananza come lemma raro e meno consueto. La scelta di quest’aggettivo appare, al di là della sillabazione del verso 1, ben più strategica del possibile sinonimo “solitario”. Il vocabolo «ermo», infatti, è quasi perfettamente incluso in un altro cruciale aggettivo, «interminati» (cifra semantica dell’infinito stesso), in consonanza con «stormir» (v. 9) e in assonanza con «eterno» (v. 11). Quelli che Luigi Blasucci ha chiamato i «segnali dell’infinito» non si esauriscono nel lessico, ma si dispongono su tutti i piani espressivi, in una serie di elementi fonici, morfologici, sintattici, ritmici, «intesi ad attivare sul piano evocativo l’idea stessa di infinito». Altro uso significativo è nei dimostrativi (ben 8 su 15 versi) aggettivi e pronomi «questo» e «quello», con cui il poeta stabilisce precise coordinate spaziali, spazi vicini e lontani ma che in alcuni casi derogano dall’uso grammaticale per andare verso una maggiore indeterminatezza: per esempio la siepe è «questa» al verso 2 ma diventa subito dopo il passaggio del verso 4 «quella»,

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | L’infinito | 63

pronome dimostrativo. Sono coordinate riferite all’io poetico che si impone, in tal senso, come vero centro spaziale del componimento, determinando l’avvicinamento o, come in questo caso, l’allontanamento. Ancora più forte, a marcare proprio il cuore del tema è il secondo esempio di questo cambiamento: «quello / infinito» dei versi 9-10 contrapposto a «questa voce» sempre del verso 10 diventa «questa immensità» e il mare dell’infinito acquista la vicinanza dell’aggettivo dimostrativo «questo mare» del verso 15. Una forte cesura avversativa è data dal «Ma» all’inizio del verso 4, volta ad accentuare il mutamento che si sta compiendo rispetto ai primi tre versi che hanno un andamento piano, con la stessa cadenza, determinata dagli accenti in ottava e decima sede («ermo colle», «tanta parte», «guardo esclude») e da un punto fermo alla fine del terzo verso, l’unico, insieme con l’ultimo della lirica, posto a fine verso e non all’interno (dopo «spaura» e «di lei», ai vv. 8 e 13). Questo crea un ritmo che, pur mantenendo una fluidità piana e discorsiva, è spesso spezzato nella sintassi e prevede molte pause di punteggiatura all’interno del verso. La continuità del discorso è, infatti, costruita sulla mancata unità del verso con la sintassi, testimoniata dai ben dieci enjambements. Il bisogno costante di travalicare la misura del verso porta persino a spezzare un endecasillabo che sarebbe perfetto ma è a cavallo fra due versi: «ove per poco / il cor non si spaura» e «Così tra questa / immensità s’annega» sono endecasillabi non realizzati, quasi a voler raddoppiare l’endecasillabo in uno nascosto, potenziale, su due versi. Gli enjambements, oltre a costituire un altro processo di allungamento, di indeterminatezza, per andare oltre il limite, vanno a porre in evidenza alcune parole chiave che si trovano a occupare una posizione di rilievo nella spezzatura che divide sostantivo e aggettivo: «interminati / spazi», «sovrumani / silenzi», oppure «quello / infinito» e «questa / immensità». Il metro e la sintassi collimano invece nel primo e nell’ultimo verso, a rendere circolare l’andamento della lirica, anche con alcune costanti: l’aggettivazione “affettiva” («caro» e «dolce»), l’uso del dimostrativo nei sintagmi «quest’ermo colle» e «questo mare». L’avversativa del verso 4 ha la funzione ulteriore di aprire la strada all’iterazione dei due gerundi e su un piano morfologico alla frequenza della forma plurale al posto della singolare, a indicare una direzione che allarga alla molteplicità, al superamento del confine del determinato singolo e specifico. In una direzione di contiPolisindetica nuazione iterativa è anche il * Da polisindeto, figura ripetuto utilizzo della con- sintattica che consiste nel giunzione e con funzione collegare frasi o elementi di una frase tra loro mediante coordinativa, volto a dare con- congiunzioni ripetute.

Yoko Ono, Skyladders, 1966. Collezione privata.

tinuità temporale, ad aumentare, anche in questo caso, lo spazio del tempo, ad allungare e rimandare la fine: «e sovrumani», «e profondissima»; soprattutto nel momento di passaggio tra l’infinito spaziale e quello temporale, a partire dall’arrivo dell’elemento acustico «E … odo» che inizia la catena polisindetica*: «e mi sovvien l’eterno, / e le morti stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei» dei versi 11-12, speculare a quanto è avvenuto nei versi 5-6 «e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete». Tutti procedimenti infinitivi, per usare ancora la definizione di Blasucci, che danno sostanza e corpo a un tema che si fa poesia prima ancora di enunciazione e analisi e che costituirà una cifra stilistica, un corrispettivo del tema “infinito”, presente in tutti i Canti. Fonti e modelli

Molti sono stati, per lo smarrimento del cuore di fronte all’infinito, nel cui mare è dolce annegare, gli ipotetici modelli della poesia di Leopardi, soprattutto settecenteschi, a partire da un passo della Vita di Vittorio Alfieri > Confronti, p. 64 |, nel quale l’autore racconta la scena, solo apparentemente analoga a quella leopardiana, della vista del mare davanti agli scogli fuori dal porto di Marsiglia. Per quella che è stata definita l’atmosfera preromantica, nei paesaggi, negli esterni notturni, sono state indicate le Notti del poeta inglese Edward Young (16831765). Ma è soprattutto a I dolori del giovane Werther di Goethe cui si deve guardare per riscontrare analogie significative dell’idea dell’infinito leopardiano > Confronti, p. 65 |.

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Esercizi

Comprensione 1. Quale occasione genera il momento lirico? 2. Riassumi il contenuto della poesia. 3. Individua le tre fasi dello svolgimento e spiega perché la prima può considerarsi la premessa, la seconda l’anticipazione della riflessione e la terza lo sviluppo della stessa. Laboratorio 4. Analizza il piano lessicale della lirica: come è caratterizzato e che cosa determina? 5. Soffermati sull’uso alternato di «questo» e «quello»: che cosa indicano rispettivamente? 6. Che funzione ha l’avversativa del v. 4? 7. Quali elementi richiamano la teoria del piacere? 8. Individua e contestualizza il campo semantico della visione e quello del suono.



Confronti: Leopardi e Alfieri

Esce postuma nel 1806 la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso > Tomo 2.1, sezione 7 |, l’autobiografia che il grande autore di tragedie quali Saul e Mirra, ma anche di numerosi componimenti poetici raccolti nelle Rime, aveva composto a partire dal 1790, cioè dall’età di quarantuno anni. Nel passo che segue tratto dalla Vita, Alfieri torna con la memoria alla sua giovinezza e in particolare a un giorno che lui stesso data al 1767, quando ha solo diciotto anni e davanti a lui, da un punto d’osservazione scoperto intorno al porto di Marsiglia, vede solo l’immensità del mare e del cielo. Una visione dell’infinito, all’apparenza simile a quella del poco più che venten Vittorio Alfieri Fra due immensità in Vita tratto da V. Alfieri Vita a cura di G. Dossena Einaudi, Torino 1967



9. Nel testo sono presenti riferimenti allo spazio e al tempo infinito: come sono presentati e qual è la loro valenza? 10. In che cosa consistono e a che cosa servono i “procedimenti infinitivi” dell’idillio? 11. Indica gli enjambements e spiegane la funzione. 12. Soffermati ora sull’io lirico: a partire dalle occorrenze del pronome personale e delle sue declinazioni («io», «mi», «mio»…) spiega perché il suo uso circolare identifica un processo interiore. 13. Analizza e spiega la metafora ossimorica dell’ultimo verso. Approfondimento 14. Scrivi un breve saggio sull’esperienza idillica come percorso conoscitivo. 15. Spiega in che senso di può parlare di “superamento del determinato”.

ne Leopardi; ma a ben vedere, le differenze sono più rilevanti delle analogie. A partire proprio dal luogo, e dall’esperienza stessa, che per Alfieri hanno una fisicità reale, mentre nel poeta di Recanati sono percepiti attraverso l’immaginazione. Alfieri ha gli scogli dietro di sé, il mare illimitato di fronte agli occhi: la visione è rievocata nei ricordi, ma espressamente riferita a una dimensione temporale e spaziale. Leopardi, invece, dell’immensità vive un’immagine mentale, non fisica, non determinata, che oltrepassa nel pensiero la siepe che gli sta di fronte; il “suo” mare è una metafora che rende indistinta l’infinità sia dello spazio, sia del tempo.

Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra […] dove sedendomi sulla rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e così fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nelle onde, io mi passava un’ora di delizie fantasticando.

Esercizi: confronti

1. Perché si può affermare che la visione di Alfieri è reale e quella di Leopardi è, invece, percepita come reale ma attraverso l’immaginazione? 2. Soffermati sull’immagine del mare: in che cosa si differenzia nei due autori? 3. Se lo scoglio e la siepe possono essere accostati, essi in realtà assumono posizioni differenti rispetto alla

prospettiva di ciascun autore. Illustra e spiega. 4. Come viene definita l’immensità dai due poeti? 5. A che cosa si riferisce l’espressione alfieriana «fra quelle due immensità»? Cosa cambia nella loro percezione da parte di Leopardi? 6. A fronte di tante differenze, individua le analogie tra i due testi.

| 1. Giacomo Leopardi | Confronti | 65



Confronti: Leopardi e Goethe

Nella pagina 57 dello Zibaldone, non datata ma sicuramente del 1819, Leopardi scrive la seguente annotazione che documenta la sua lettura del romanzo epistolare di Goethe I dolori del giovane Werther, nella traduzione di Michiel Salom ristampata in un’edizione del 1796 a Venezia (presente nella sua biblioteca e qui riportata): «Circa le immaginazioni de’ fanciulli comparate con la poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50». Si tratta di un brano della lette Johann Wolfgang Goethe L’immensità dei fanciulli e degli antichi in I dolori del giovane Werther

5

tratto da J. W. Goethe I dolori del giovane Werther trad. di M. Salom 10

15

20

Johann Wolfgang Goethe.

25

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ra del 9 maggio in cui il personaggio, tornato al paese natale, ripercorrendo i luoghi della fanciullezza rievoca gli scenari delle sue fantasticherie di un tempo. Molte delle parole e delle situazioni della lettera sono confrontabili con quelle de L’infinito, fino al modo di «sentire della veneranda antichità», in cui l’Ulisse omerico parlava «del mare incommensurabile, e della terra infinita». Quest’ultimo motivo ritorna nella strofe dedicata a Colombo nella canzone Ad Angelo Mai.

Ho compiuto il pellegrinaggio al luogo de’ miei natali, con tutta la divozione d’un vero pellegrino, ed ho provate molte sensazioni inaspettate. Al grand’arbore che si trova un quarto di miglio circa discosto dalla Città verso S** feci fermare i cavalli, e scesi fuori dal legno, lasciando avanzare il postiglione, per gustare di bel nuovo a piedi ogni antica memoria con la maggiore vivacità del mio core. Posai dunque sotto a quell’arbore, ch’era stato nella mia fanciullezza meta e confine de’ miei passeggi. Che cambiamento! nella mia felice ignoranza, io desiderava allora d’entrare nello sconosciuto mondo, dove mi lusingava che il mio core trovato avrebbe tutto l’alimento, e tutto il contento di cui mi sentiva spesso abbisognare. Dal gran mondo io ritornava ora, ed, oh amico, con quante speranze tronche, con quanti piani annullati! Io mi vedeva dinanzi le montagne, che mille volte avevano formato l’oggetto de’ desideri miei. Io mi stava assiso le ore intiere contemplandole coll’ardente brama d’oltrepassarle, e coll’anima volonterosa di smarrirmi per quelle foreste e per que’ valloni, che mi si presentavano in sì vago e sì confuso prospetto; e quando poi veniva l’ora di tornarsene alle scuole, con quanta ripugnanza non lasciava io quel sito? [...] Aveva divisato d’alloggiare sul Mercato, vicinissimo alla nostra vecchia casa. All’entrarvi, osservai che la cameretta di scuola, dove una buona vecchierella coltivava pazientemente la nostra prima infanzia, era stata convertita in una botteguccia. Mi sovvenne delle impazienze, delle lagrime, delle stupidità, e dei rancori, ch’io aveva dovuto tante volte patire in quel luoghicciuolo; non faceva passo, che non mi si rendesse osservabile per antiche rimembranze. [...] Un solo tratto fra mille te ne dirò. Men vo lungo il fiume fino ad un certo casino, ch’era sovente il mio passeggio, luogo in cui noi altri fanciulli eravamo soliti divertirci per lo più a scagliare a fior d’acqua delle pietruzze piatte, facendole saltellare sul fiume prima di andare a fondo. Mi ricordai vivamente allora com’io più e più volte mi stessi colà guardando dietro alla corrente, con quale strano pensiero io la seguiva, com’io m’andava immaginando i romanzeschi paesi ch’essa doveva bagnare, come la mia fantasia restava in breve languida, e spossata, mentre ch’io pur cercava di spingerla sempre più oltre, infino a tanto ch’io mi perdea nell’oscura visione d’una invisibile immensità. Eccoti, amico, precisamente il modo di sentire della veneranda antichità. Quando Ulisse parla del mare incommensurabile, e della terra infinita, non è forse questa un’idea più forte, più vera, più intimamente sentita, di quello che udire adesso ripetersi da ogni scolaruzzo (che si crede un portento a saper dir tanto) che la terra è rotonda?

Esercizi: confronti

1. Quali elementi di indefinitezza e di vaghezza accomunano la lirica e il brano? 2. Poni a confronto i riferimenti visivi e quelli uditivi che sono analoghi nei due testi.

3. Esamina la dimensione memoriale: che analogie rilevi tra l’Infinito leopardiano e il brano di Goethe? 4. Come viene rappresentata la dimensione immaginativa e illusoria dai due autori?

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 Testo 9

La sera del dì di festa Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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Forma metrica: endecasillabi sciolti.

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Composto a Recanati tra il 1819 e il 1820 (la data più probabile sembra la primavera del 1820), quest’idillio – il primo dei tre “lunghi” (46 versi) – segue L’infinito nell’edizione in rivista (“Nuovo Ricoglitore” 1825), dove compare con il titolo La sera del giorno festivo, mantenuto anche nelle edizioni dei Versi (Bologna 1826) e dei Canti del 1831, mentre dall’edizione Starita di Napoli del 1835 assume il titolo definitivo. Lo spunto autobiografico registrato in alcuni pensieri dello Zibaldone, come alle pagine 5051 del 1819, emerge anche in una lettera del 6 marzo 1820 all’amico-maestro Pietro Giordani: «poche sere addietro prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo».

Dolce e chiara1 è la notte e senza vento, e queta2 sovra i tetti e in mezzo agli orti posa3 la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna4. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi5 rara traluce la notturna lampa6: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze7; e non ti morde cura nessuna8; e già non sai né pensi quanta piaga9 m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista10, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno11. A te la speme12 nego, mi disse, anche la speme13; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli14 prendi riposo; e forse ti rimembra15 in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già, ch’io speri, al pensier ti ricorro16. Intanto io chieggo17 quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate18! Ahi, per la via odo non lunge19 il solitario canto dell’artigian, che riede20 a tarda notte, dopo i sollazzi21, al suo povero ostello22; e fieramente23 mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar24 succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente25. Or dov’è il suono26

1. 2. 3. 4.

chiara: tersa, serena. queta: placida, tranquilla. posa: sosta. e di… montagna: e in lontananza mostra serena ogni montagna. 5. balconi: sta per “finestre”. 6. rara… lampa: filtrano qua e là le luci notturne delle case. 7. che t’accolse… stanze: poiché un sonno facile (agevol ) ti venne incontro nella tua stanza tranquilla (chete stanze rimanda ai versi 7-8 di A Silvia : Sonavan le quiete / stanze). 8. e non… nessuna: non ti tormenta nessuna preoccupazione. 9. piaga: ferita. 10. in vista: allo sguardo. 11. che mi… affanno: che mi fece nascere per soffrire. 12. speme: speranza. 13. anche la speme: ripetizione rafforzativa; neppure il sentimento della speranza la natura concede al poeta. 14. trastulli: svaghi. 15. ti rimembra: ti torna in mente. 16. non io… ti ricorro: non io ti ritorno in mente, non già che io possa sperarlo. 17. chieggo: chiedo. 18. verde etate: giovane età. 19. non lunge: non distante. 20. riede: torna. 21. sollazzi: divertimenti. 22. ostello: casa. 23. fieramente: aspramente, con crudeltà. 24. volgar: comune, feriale. 25. e se… accidente: e il tempo porta via con sé ogni evento umano. 26. suono: eco; in un senso più “indefinito” di suono, analogamente al v. 13 de L’infinito.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | La sera del dì di festa | 67

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di que’ popoli antichi? or dov’è il grido27 de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò28 per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa29 il mondo, e più di lor non si ragiona30. Nella mia prima età31, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia32 ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume33; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri lontanando34 morire35 a poco a poco, già similmente36 mi stringeva il core.

27. il grido: la fama. 28. che n’andò: che di essa (di Roma) andò. 29. posa: riposa. 30. non si ragiona: non si parla. 31. prima età: infanzia. 32. or poscia: non appena. 33. io doloroso… piume: io addolorato ero sveglio disteso nel letto. 34. lontanando: allontanarsi. 35. morire: svanire, affievolirsi. 36. similmente: allo stesso modo.

Edvard Munch, La danza della vita, 1900. Oslo, Nasjonalgalleriet.



Analisi del testo

Struttura e temi

Il segnale della tematica dell’infinito presente anche in questa lirica è attivato dal canto dell’artigiano che apre al motivo dell’ubi sunt?*, dopo che l’incipit ha posto il racconto in un paesaggio serale – che ha nella traduzione di alcuni versi di Omero lo spunto più rilevante – e festivo. L’attacco della poesia, divenuto uno dei versi più famosi della tradizione lirica italiana, è la visione della * Ubi sunt? Letteralmente “dove sono?”, è luna in una notte mite, lu- un’espressione che proviene dal minosa e senza vento che latino Ubi sunt qui ante nos fuerunt? sono coloro che furono illumina le montagne, in (“Dove prima di noi?”) ed è un tòpos un giorno che è stato di fe- sull’essere transitorio della vita sta (probabilmente il riferi- umana, anche la più gloriosa.

mento è al 15 giugno, san Vito, patrono di Recanati) e si sta concludendo, sta passando. L’invocazione che segue è a una donna alla quale l’io poetico si rivolge come contraltare del proprio stato d’animo: lei dorme mentre tutt’intorno è silenzio, dorme un sonno tranquillo, senza tormento, ignara di quale ferita ha aperto nel cuore di chi guarda il cielo; un cielo che appare benevolo e invece è elemento di una natura onnipotente che lo ha fatto nascere soltanto per farlo soffrire. Si inscena, ai versi 11-16, un breve dialogo indiretto con la Natura che gli ha tolto qualsiasi speranza, per poi arrivare, attraverso catene associative innescate dal sentire l’eco di un canto lontano dell’artigiano che torna

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a tarda notte dopo gli svaghi del giorno festivo, alla meditazione su quanto sia crudele il tempo che passa e inghiotte tutto: è il motivo della vanitas* delle cose terrene distrutte dallo scorVanitas rere implacabile del tem*Tratta dallo locuzione latina po che porta via qualsiasi presente in un passo dell’Ecclesiaste e nella Bibbia, Vanitas vanitatum et cosa. Così come il tempo omnia vanitas (“Vanità delle vantità, festivo che sta passando e tutto è vanità”), il motivo è pittorico quello feriale che income legato alla rappresentazione dell’effimera condizione be, portando via con sé dell’esistenza umana, soprattutto anche i rari piaceri, stanseicentesca, nella pittura di nature morte con teschio, candela spenta, no a indicare la caducità clessidra e altri elementi simbolici. delle cose terrene e la disperazione che ne consegue in chi ha la consapevolezza del nulla eterno cui sono destinati tutti. Scrive Leopardi a Giordani il 24 aprile del 1820:

«

Io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere. La mia disgrazia è assicurata per sempre, quanto mi resterà da portarla? quanto? Poco manca ch’io non bestemmi il cielo e la natura che par che m’abbiano messo in questa vita a bella posta perch’io sofrissi.

»

La tematica si allarga dalla sfera individuale al tòpos dell’ubi sunt? secondo un procedimento di amplificazione consueto in Leopardi (si veda, per esempio, anche l’Ultimo canto di Saffo > p. 84 |). Passano anche la fama, la gloria degli antichi popoli, quella dei nostri antenati, il grande impero romano e il suono delle armi che si era propagato per mare e terra: tutto è transitorio. Solo nella chiusa dei versi 40-46, si torna alla calma, al silenzio e alla pace mortuaria del mondo intero che riposa e, di nuovo, all’esperienza individuale di chi, pur avendo atteso con grande desiderio il giorno di festa, sente nel momento in cui finisce soltanto il dolore della veglia e un morire a poco a poco, come il canto che lungo i sentieri si sentiva svanire a poco a poco in lontananza (ritroviamo il tema del ricordo-speranza nell’età della giovinezza specialmente in Alla luna e in A Silvia). Fonti e modelli

La descrizione del notturno lunare che parte dall’incipit riprende una similitudine di Omero dei versi dell’Iliade (VIII, 555-559), che Leopardi ha tradotto e commentato come esempio del “vero” sentimentale – perché suscitato direttamente dalla natura e non artificioso – nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica > pp. 8; 30 |, nello stesso periodo in cui muove la polemica sulla poesia romantica moderna difesa da di Breme. La similitudine di Omero, nella stessa versione leopardiana, è: «Sì come quando graziosi in cielo / Rifulgon gli astri intorno della luna, / E l’aere è senza vento, e si discopre / Ogni

cima de’ monti ed ogni selva / Ed ogni torre; allor che su nell’alto / Tutto quanto l’immenso etra si schiude, / E vedesi ogni stella, e ne gioisce / Il pastor dentro all’alma»; e proseguirà nella sua strada di nutrimento della poesia leopardiana, acquisendo sempre più forza lirica, soprattutto nell’equazione antichità=fanciullezza indicata nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, dove la lettura della similitudine omerica porta a un processo di esperienza sentimentale attuale:

«

... mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre ec., veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero ec. favole e mie immaginazioni in udirle vivissime come quella mattina prato assolato ec.

»

Ma i presupposti e i moventi di questa lirica si trovano anche in alcuni passi dello Zibaldone, in particolare in una nota del 1819 alle pp. 50-51, dove Leopardi anticipa gli scenari notturni e i canti, per poi proseguire sul tema della caducità che è presente nella seconda parte della poesia:

«

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infnità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a [51] farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.

»

Per quanto riguarda, invece, il motivo dell’ubi sunt?, le sue matrici sono lontane nel tempo e vanno dalle fonti latine (Boezio, per esempio) alla lirica moraleggiante medievale e rinascimentale (tra cui Il testamento e le ballate di François Villon), fino ai più recenti esempi della poesia sepolcrale settecentesca, delle Notti di Edward Young e dei Canti di Ossian dei versi 234-239 nella traduzione di Cesarotti: «Ove sono ora, o vati / i duci antichi? Ove i famosi regi? / Già della gloria lor passaro i lampi. / Sconosciuti, obliati /giaccion coi nomi lor, coi fatti egregi, / e muti son delle lor pugne i campi». Ma più interessanti potrebbero essere i rinvii al Monti dei Pensieri d’amore per il notturno «Alta è la notte, ed in profonda calma» (inizio dell’VIII) e per il tòpos del tempo che porta via ogni cosa, sempre dai Pensieri (X, 1-5) e anche dal Tasso de Le sette giornate del mondo creato, che potrebbe essere stato mediato dal poemetto La bellezza dell’universo di Monti in quanto esso ne è, in alcuni punti, una diretta ripresa.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | La sera del dì di festa | 69 Lingua e stile

Il memorabile attacco iniziale prende dunque l’occasione da quanto scritto nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, in cui Leopardi traduce e commenta una similitudine omerica. È interessante e utile alla comprensione del lungo processo creativo e rielaborativo che è dietro questo effetto, in apparenza semplice, di morbida “pacatezza” di suono, dato anche dalla presenza di molte consonanti liquide («la luna, e di lontan rivela»), dare alcune delle varianti delle varie stesure di questo incipit: - il verso d’apertura era «Oimè, chiara è la notte e senza vento» nella prima redazione; poi l’«Oimè» verrà sostituito da «Dolce»; - il secondo verso era «e queta in mezzo a gli orti e in cima a i tetti», mentre nella stesura definitiva è la dislocazione invertita degli elementi (orti e tetti), con l’eliminazione delle preposizioni e «in cima» variata in «sovra», a rendere più sereno il ritmo; - infine, laddove il terzo e il quarto verso, nella prima redazione avevano «la luna si riposa, e le montagne / si discopron da lungi», nella forma che leggiamo il verbo piano «rivela» ha anche una funzione semantica forte nel suo potere di rendere, attraverso l’idea di una luce soffusa, il chiarore del paesaggio della vicina campagna e delle montagne più lontane; inoltre, l’eliminazione della luna personificata e umanizzata in quel «si riposa», cambiato in «posa», non sottrae forza all’immagine bensì la rafforza e la rende più soave, leggera, quasi sospesa, precisa e rarefatta insieme. La lirica, in cui è assente qualsiasi divisione strofica, inizia con una descrizione notturna e si chiude circolarmente rievocando quell’atmosfera. Circolare è anche la resa degli stati d’animo all’interno della lirica: il ritmo lento e pacato dei primi versi ritorna negli ultimi, così come molte sono le riprese che riguardano il passato fanciullesco e l’età matura per analogia come «verde etate» del v. 24 e «prima età» del v. 40, oppure per contrapposizione come il giorno festivo «fuggito» del v. 30 e quello che «s’aspetta» del v. 40, la veglia dolorosa a causa dell’amore o delle delusioni della giovinezza; o ancora la ripresa del verbo «posa» (ai vv. 3 e 38) e, soprattutto, il canto dell’artigiano dei vv. 24-27 e di quelli finali 43-45.

Il corpo centrale della poesia è connotato da un ritmo più mosso, grazie anche alle ripetute apostrofi, agli enjambements e alle maggiori cesure all’interno dei versi. Si veda, per esempio, il v. 15 molto spezzato dalla punteggiatura che dà un ritmo quasi sincopato: «Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro». Per contro, il poeta utilizza ripetutamente i polisindeti, seminando congiunzioni che danno una cadenza e scandiscono immagini e azioni, come ai vv. 1-3 (quattro volte «e»), 22-23 e 35-39. La ripetizione enfatica della negazione della speranza («speme») ai vv. 14-15 assume, infine, un’importanza strategica nel definire il punto di vista del poeta, come anche l’uso delle interrogative retoriche dei vv. 33-37. Sul piano del suono possiamo sottolineare la felice movenza fonica del «lontanando» all’inizio del verso 45 che riprende in assonanza il «canto» del verso 44, con la reiterazione anche del nesso vocale “(a/o) + n” e l’effetto del prolungamento dell’eco reso nell’«a poco a poco» a fine v. 45 a racchiudere, al centro, il verbo all’infinito «morire». Fortuna

Grande fortuna europea ebbe questa lirica, in particolare in Francia, attraverso importanti traduzioni d’autore tra cui quelle di Sainte-Beuve (1804-1869) e HenriFrédéric Amiel (1821-1881). Ma il caso più interessante è quello proposto dal poeta simbolista Jules Laforgue (1860-1887) che, nella sua Soir de carnaval (Sera di carnevale), inclusa nella raccolta Le sanglot de la Terre pubblicata postuma nel 1903, rielabora la poesia leopardiana, attraverso una riscrittura che, in taluni passaggi, sfiora il vero e proprio plagio. Su tutta la tradizione lirica del Novecento, seppur con percorsi anche molto diversi, si potrebbe porre il nome di Leopardi, che garantisce una dialettica fra innovazione e classicismo, ma per quanto riguarda in specie questa poesia pensiamo soprattutto a Vittorio Sereni (1913-1983) per le riprese di lessico e situazioni; un esempio: «tu dormi e forse» di Città di notte (v. 5) dal Diario d’Algeria, da mettere in relazione ai versi 11 e 18; e ad Andrea Zanzotto (1921-2011) > in digitale |. Di grande fascino sono le pagine di Italo Calvino dedicate alla lirica e alla prosa leopardiane > Sguardi d’autore, p. 73 |.

In digitale  Sguardi d’autore: Zanzotto, Le sere del dì di festa 2

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Esercizi

Comprensione 1. Sintetizza il contenuto della lirica. 2. Dai a ogni strofa un titolo che ne rappresenti il nucleo concettuale. Laboratorio 3. Il componimento si apre con un notturno sereno: individua gli aggettivi e rifletti sulla loro collocazione nel verso. 4. Il poeta si rivolge a una donna indeterminata: definisci la sua natura antitetica rispetto a quella di Leopardi attraverso precisi riferimenti al testo. 5. Spiega perché le definizioni del cielo «che sì benigno appare in vista» (vv. 11-12) e della «natura onnipossente, che mi fece all’affanno» (vv. 13-14) sono una chiave di lettura del pensiero leopardiano. 6. La lirica si caratterizza per la presenza iterata dei

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Alla luna Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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Forma metrica: endecasillabi sciolti.

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polisindeti: identificali e spiegane la funzione. 7. Descrivi le caratteristiche della versificazione focalizzando la tua attenzione sulla funzione degli enjambements e delle cesure. 8. Esprimi una tua riflessione sulla ripetizione dell’emistichio, variato nel tempo verbale, al v. 28, «mi si stringe il cuore» e al v. 46, «mi si stringeva il cuore». 9. La seconda parte della lirica è incentrata sul tema della caducità della vita e sul concetto di vanitas : alla luce di questa tematica spiega il significato delle insistenti interrogative che chiudono la terza strofa. Approfondimento 10. Individua le analogie tra il presente idillio e L’infinito. 11. Attraverso l’analisi del componimento, illustra la poetica della rimembranza in Leopardi.

Con questo idillio, il terzo, dopo L’infinito e La sera del dì di festa, composto a Recanati quasi certamente nel 1819, Leopardi affida i suoi pensieri a un altro notturno. Il primo titolo, La ricordanza – presente nell’edizione in rivista del gennaio 1826 e nell’edizione bolognese dei Versi dello stesso anno, sostituito nei Canti del 1831, perché troppo simile a Le ricordanze del 1829 – ci aiuta a comprendere il nucleo concettuale del componimento, nato forse nel giorno del compleanno del poeta. La lirica, nella sistemazione definitiva dei Canti è al posto numero quattordici, dopo La sera del dì di festa con la quale ha anche una prosecuzione tematica: sera / notte / luna.

O graziosa1 luna, io mi rammento che, or volge l’anno2, sovra questo colle io venia3 pien d’angoscia a rimirarti: e tu pendevi4 allor su quella selva siccome5 or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso6 e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci7 il tuo volto apparia, che travagliosa8 era mia vita: ed è, né cangia9 stile, o mia diletta luna. E pur mi giova10 la ricordanza, e il noverar l’etate11 del mio dolore. Oh come grato occorre12 nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso13, il rimembrar14 delle passate cose, ancor che15 triste, e che l’affanno duri16!

1. graziosa: cara, dotata di grazia, leggiadra, ma anche benigna. 2. or volge l’anno: è passato ora un anno dal momento in cui. 3. venia… rimirarti: venivo angosciato ad ammirarti. 4. pendevi: sovrastavi; è un latinismo (da pendere) 5. siccome: così come. 6. nebuloso: velato, annebbiato. 7. mie luci: miei occhi. 8. travagliosa: tormentata, faticosa.

9. cangia: cambia. 10. mi giova: mi conforta. 11. noverar l’etate: misurare il tempo, calcolare la durata. 12. grato occorre: giunge gradito. 13. quando… corso: quando la speranza ha ancora un percorso lungo e la memoria ce l’ha breve. 14. rimembrar: ricordare. 15. ancor che: anche se. 16. duri: perduri, continui.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Alla luna | 71 Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna, 1820-1830. Torino, Palazzo Reale.



Analisi del testo

Struttura e temi

La lirica può essere divisa idealmente in due parti: 1 la prima (vv. 1-10) si apre e si chiude con un’apostrofe allocutiva: «O graziosa luna» del v. 1, e «o mia diletta luna» del v. 10. Al paesaggio naturale del notturno lunare del presente, evidenziato dal «siccome or fai», si intreccia la rievocazione di uno scenario simile del passato come simile era, «ed è», lo stato d’animo doloroso; 2 nella seconda parte (vv. 10-16) Leopardi sviluppa il tema del ricordo, consolante e dolce, qualunque sia l’oggetto della memoria. Il potere consolatorio del ricordare è attenuato però da due versi introdotti da Leopardi negli ultimi anni: i vv. 13 e 14, infatti, sono posti a mano sull’edizione Starita del 1835 e comparvero nella lirica solo nell’edizione postuma del 1845. Sono un’integrazione importante perché instaurano un rapporto diretto e distintivo fra la memoria giovanile e quella dell’età adulta: è gradito il ricordo del passato nella giovinezza perché la speranza ha ancora possibilità di incidere nel futuro e, diversamente, è ancora poca la memoria che si ha alle spalle. Non solo: l’aggiunta dei due versi cambia la forma originaria della lirica che, se fosse rimasta di 14 versi, uno in meno de L’infinito, sarebbe stata l’idillio più breve. L’attacco della poesia mostra il proiettarsi sulla visione della luna dell’interiorità dolorosa («angoscia» è lemma inequivocabile) che trasfigura, anzi di più, “de-

forma” lo scenario, perché la vista della luna è attraverso occhi pieni di pianto. Su questo si attiva la riflessione esistenziale, l’amara consapevolezza che all’immutabilità del paesaggio corrisponde, ora come allora, lo stesso stato d’animo. Eppure al tema del tempo che passa, all’alternanza di passato e presente si aggiunge, produttivo, il meccanismo del ricordo (v. 1: «io mi rammento»; vv. 1011: «mi giova / la ricordanza»), tema cardine del componimento, a partire probabilmente da un anniversario («or volge l’anno») che potrebbe essere il compleanno del poeta. Se da una parte, infatti, la contemplazione di un paesaggio notturno suscita sentimenti di finitudine, di morte, dall’altra il ritornare delle stesse immagini rende meno doloroso il tempo che passa, perché è come fosse “salvato” dal «rimembrar delle passate cose», malgrado la percezione del perdurare dello stato di affanno, di dolore. La piacevolezza della rimembranza sta nell’atto in sé, a prescindere dalla natura del ricordo, come scriverà nelle pagine 1987-1988 dello Zibaldone del 25 ottobre 1821:

«

Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.

»

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La rimembranza, infatti, ci appare come un antidoto contro la consunzione del tempo: ciò che si ricorda vive in eterno e, quindi, annulla i confini dello spazio e del tempo per creare quell’indefinito, quell’indeterminatezza che è elemento proprio del piacere. Lingua e stile

Caratteristico di questi sedici endecasillabi sciolti (un idillio “breve”, come L’infinito) è un linguaggio misurato, senza eccessi né del registro quotidiano e familiare presente soprattutto nel dialogo intimo e affettuoso con la luna, né del registro più aulico espresso da «venia», «sovra», «apparia», «cangia», «etate». La scioltezza dei versi è, tuttavia, accompagnata da un uso abbondante dell’interpunzione, che spesso spezza internamente i versi, a marcare continuità ma anche differenza tra passato e presente. Stessa funzione hanno le due avversative del v. 6 (con quel «Ma» che rimanda al v. 4 de L’infinito «Ma sedendo e mirando») e del v. 10 («E pur»). Si noti, soprattutto nella prima parte, il continuo alternarsi tra l’io del poeta e il tu riservato alla luna: «io mi rammento» (v. 1), «io venia» (v. 3), «tu pendevi» (v. 4), «mie luci» (v. 7), «tuo volto» (v. 8), «mia vita» (v. 9). Questo spostamento continuo indica un rapporto diretto tra l’uomo e la luna, evidenziato ulteriormente dal gioco di posizioni: il poeta che s’innalza e si protende verso di lei («sovra questo colle», v. 2) e la luna che sovrasta, come



sospesa, tutto come sempre («tu pendevi … siccome or fai», vv. 4-5). Nelle sottolineature sullo scarto temporale tra passato e presente, emblematico appare il v. 9 dove, nel verso con più pause dell’intero componimento (i due punti e le due virgole), Leopardi accoppia, con felice intuizione, a dare il senso della durata, i due tempi verbali: «era mia vita: ed è, …». Potenti, infine, gli iperbati con enjambements dei vv. 8-9 e 13-14 e, sul piano del suono, le assonanze e le consonanze che si posizionano soprattutto in parole di fine verso che così vengono poste in maggiore evidenza: rammento pianto; rimirarti rischiari; luci lungo duri; travagliosa giova; occorre corso cose. La lirica è anche ricca di allitterazioni di r e m: tremulo, travagliosa, triste, dolore, e poi rammento, tempo, memoria, rimembrar; tutti legati semanticamente al dolore la prima serie e al ricordo la seconda. Più presenti gli aggettivi qualificativi («graziosa», «nebuloso», «tremulo», «travagliosa», «diletta», «grato», «breve», «triste» ecc.) dei dimostrativi, ai quali spetta ancora la stessa funzione di discrimine spaziale (vicino e lontano) che hanno avuto ne L’infinito. Importanti anche le figure retoriche di contrasto come le antitesi: - «rischiari» / «nebuloso» / «luci»; - «giova» / «dolore» / «grato»; - «lungo» / «breve»; - «mie» / «tuo».

Esercizi

Comprensione 1. Identifica il contenuto di ciascuna delle due parti di cui si compone l’idillio. 2. Perché il volto della luna appare «nebuloso e tremulo»? 3. Che ruolo ha la ricordanza? Laboratorio 4. Nella prima parte della lirica il poeta stabilisce un rapporto diretto con la luna: illustra e spiega attraverso quali indicatori testuali. 5. Analizza i piani temporali di passato e presente: come si intersecano tra loro?

6. Prendi in esame l’aspetto stilistico: che effetto produce il linguaggio misurato del componimento? 7. Perché si può dire che l’interiorità del poeta trasfigura lo scenario naturalistico del notturno lunare? 8. Fai l’analisi dell’ultima parte della lirica e spiega quale tesi vi sia espressa. Approfondimento 9. Inquadra la poesia nella poetica leopardiana della rimembranza. 10. Fai un confronto tra questo notturno lunare e un altro a te noto (anche di un autore straniero).

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Sguardi d’autore



 Italo Calvino Leggerezza, rapidità, esattezza leopardiane in Lezioni americane tratto da I. Calvino Saggi 1945-1985 a cura di M. Barenghi Mondadori, Milano 1995

Italo Calvino.

Calvino su Leopardi Nel 1985 Italo Calvino doveva tenere un ciclo di sei lezioni presso la prestigiosa università americana di Harvard. Quel ciclo, però, non si svolse mai per la morte improvvisa dello scrittore, nel settembre dello stesso anno. Prendiamo da queste relazioni rimaste, uscite postume nel 1988 per l’editore Garzanti con il titolo di Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, alcuni passi significativi sull’opera di Leopardi. Nei brani che seguono (tratti rispettivamente da Leggerezza, Rapidità ed Esattezza), Calvino si sofferma sui notturni leopardiani, in specie lunari, e commenta un pensiero dello Zibaldone sulla velocità dello stile e sul concetto del «vago» e «indefinito». Ma la predilezione dello scrittore per Leopardi è visibile in più luoghi della sua opera come nelle Cosmicomiche (1965) e nei racconti di Palomar (1983) dove si intravede la passione per la scrittura di invenzione e pensiero delle Operette morali > Focus in digitale L’ “operettismo” novecentesco |.

[da Leggerezza] Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia dell’astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l’altro compendia le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava. Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza. Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. ... O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l’anno, sovra questo colle io venia pien d’angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. ...

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O cara luna, al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve... ... Già tutta l’aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre giù dà colli e dà tetti, al biancheggiar della recente luna. ... Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi.

Molti fili si sono intrecciati nel mio discorso? Quale filo devo tirare per trovarmi tra le mani la conclusione? C’è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione... C’è il filo di Lucrezio, l’atomismo, la filosofia dell’amore di Cavalcanti, la magia rinascimentale, Cyrano...

[da Rapidità] Giacomo Leopardi, nella sua giovinezza quanto mai sedentaria, trovava uno dei rari momenti gioiosi quando scriveva nelle note del suo Zibaldone: «La velocità, p. es. de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano [...] è piacevolissima per se sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica... » (27 Ottobre 1821). Nelle note dello Zibaldone dei mesi seguenti, Leopardi sviluppa le sue riflessioni sulla velocità e a un certo punto arriva a parlare dello stile: «La rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L’eccitamento d’idee simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi ec.» (3 Novembre 1821).

[da Esattezza] Per esempio, Giacomo Leopardi sosteneva che il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso. (Noterò per inciso che l’italiano è l’unica lingua – credo – in cui «vago» significa anche grazioso, attraente: partendo dal significato originale (wandering) la parola «vago» porta con sé un’idea di movimento e mutevolezza, che s’associa in italiano tanto all’incerto e all’indefinito quanto alla grazia, alla piacevolezza).

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Per mettere alla prova il mio culto dell’esattezza, andrò a rileggermi i passi dello Zibaldone in cui Leopardi fa l’elogio del «vago». Dice Leopardi: «Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite...» (25 Settembre 1821). «Le parole notte, notturno ec., le descrizioni della notte sono poeticissime, perché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa che di quanto essa contiene. Così oscurità, profondo, ec. ec.» (28 Settembre 1821). Le ragioni di Leopardi sono perfettamente esemplificate dai suoi versi, che danno loro l’autorità di ciò che è provato dai fatti. Continuo a sfogliare lo Zibaldone cercando altri esempi di questa sua passione ed ecco trovo una nota più lunga del solito, un elenco di situazioni propizie allo stato d’animo dell’«indefinito»: ... la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il rifesso di detta luce, e i vari efetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e difusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il rifesso che produce, p. e. un vetro colorato su quegli oggetti su cui si rifettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diverse materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec.

Ecco dunque cosa richiede da noi Leopardi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago! È una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell’illuminazione, dell’atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata. Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore... Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri. Vale la pena che continui a leggere questa nota dello Zibaldone fino alla fine; la ricerca dell’indeterminato diventa l’osservazione del molteplice, del formicolante, del pulviscolare... È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili efetti, che producono gli alberi, i flari, i colli, i pergolati, i casolari, i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e difonda senza diversità, nè ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefnita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infnità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo afatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno

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appartenente alle cose nostre ec.). Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire definitamente e distintamente ec., come quello di una folla, o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. (20. Sett. 1821.).

Tocchiamo qui uno dei nuclei della poetica di Leopardi, quello della sua lirica più bella e famosa, L’infinito. Protetto da una siepe oltre la quale si vede solo il cielo, il poeta prova insieme paura e piacere a immaginarsi gli spazi infiniti. Questa poesia è del 1819; le note dello Zibaldone che vi leggevo sono di due anni dopo e provano che Leopardi continuava a riflettere sui problemi che la composizione dell’Infinito aveva suscitato in lui. Nelle sue riflessioni due termini vengono continuamente messi a confronto: indefinito e infinito. Per quell’edonista infelice che era Leopardi, l’ignoto è sempre più attraente del noto, la speranza e l’immaginazione sono l’unica consolazione dalle delusioni e dai dolori dell’esperienza. L’uomo proietta dunque il suo desiderio nell’infinito, prova piacere solo quando può immaginarsi che esso non abbia fine. Ma poiché la mente umana non riesce a concepire l’infinito, anzi si ritrae spaventata alla sola sua idea, non le resta che contentarsi dell’indefinito, delle sensazioni che confondendosi l’una con l’altra creano un’impressione d’illimitato, illusoria ma comunque piacevole. E il naufragar m’è dolce in questo mare: non è solo nella famosa chiusa dell’Infinito che la dolcezza prevale sullo spavento, perché ciò che i versi comunicano attraverso la musica delle parole è sempre un senso di dolcezza, anche quando definiscono esperienze d’angoscia.

Joan Miró, Blu III, 1961. Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou.

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 Testo 11

Ad Angelo Mai Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

Forma metrica: canzone costituita da dodici stanze di quindici versi ciascuna, secondo lo schema che è unico e si ripete: AbCBCDeFGDeFGHH.

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20 1. ardito: coraggioso. 2. a che… posi: perché continui sempre. 3. di: a. 4. gli meni: li conduci. 5. secol morto: si riferisce all’età contemporanea. 6. al quale: sul quale. 7. tedio: sconforto. 8. E come… etade?: E tu perché giungi adesso così forte-alta e frequente, voce antica dei nostri avi, silenziosa

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La lirica fu composta di getto, «opera di 10 o 12 giorni» come scrive Leopardi stesso, a Recanati nel gennaio 1820. Il poeta coglie l’occasione di una dedica all’erudito ecclesiastico Angelo Mai (1782-1854) – primo custode della Biblioteca Vaticana, con il quale era in contatto epistolare fin dal maggio del 1816 e che aveva da poco rinvenuto buona parte del trattato De re publica di Cicerone (quasi completi i primi due libri e alcuni frammenti degli altri quattro) – per una profonda riflessione sui temi dell’antico che, a differenza di quanto ancora adombravano le liriche precedenti, non può più tornare, non può più essere ricreato. Nessun risorgimento è possibile nella decadenza del presente italiano e, più in generale, della modernità. Non a caso questo componimento segue, nella raccolta dei Canti, le due canzoni cosiddette civili e patriottiche (All’Italia e Sopra il monumento di Dante) ed esprime, rispetto alle altre due, anche un rapporto con il presente di tipo personale, autobiografico, in una fusione di ragioni letterarie e ragioni filosofiche. Dopo la prima stampa nello stesso 1820 a Bologna in un opuscolo di sedici pagine presso Jacopo Marsigli, Ad Angelo Mai viene ripubblicata nelle Canzoni del 1824, nei Canti del 1831, nell’edizione Starita del 1835 e in quella postuma del 1845.

Italo ardito1, a che giammai non posi2 di3 svegliar dalle tombe i nostri padri? ed a parlar gli meni4 a questo secol morto5, al quale6 incombe tanta nebbia di tedio7? E come or vieni sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente, voce antica de’ nostri, muta sì lunga etade8? e perché tanti risorgimenti9? In un balen feconde venner le carte10; alla stagion presente11 i polverosi chiostri12 serbaro13 occulti i generosi e santi detti degli avi. E che valor14 t’infonde, Italo egregio15, il fato? O con l’umano valor forse contrasta16 il fato invano? Certo senza de’ numi alto consiglio non è17 ch’ove più lento e grave è il nostro disperato obblio18, a percoter ne rieda ogni momento novo grido de’ padri19. Ancora è pio20 dunque all’Italia il cielo; anco21 si cura di noi qualche immortale: ch’essendo questa o nessun’altra poi l’ora da ripor mano22 alla virtude rugginosa23 dell’itala natura, veggiam24 che tanto e tale è il clamor de’ sepolti25, e che gli eroi dimenticati il suol quasi dischiude26, a ricercar s’a questa età sì tarda anco ti giovi, o patria, esser codarda27.

per così lungo tempo? 9. risorgimenti: ritrovamenti. 10. In un balen… carte: i manoscritti diventarono produttivi in un attimo. 11. alla stagion presente: per l’età attuale. 12. chiostri: biblioteche dei conventi. 13. serbaro: conservarono. 14. valor: forza. 15. egregio: nobile. 16. contrasta: combatte. 17. Certo… non è: Certamente non succede senza meditata decisione divina. 18. ch’ove… obblio: che proprio quando la nostra disperata dimenticanza è più tenace e pesante. 19. a percoter… padri: un nuovo incitamento degli avi torni a scuoterci a ogni istante. 20. pio: pietoso. 21. anco: ancora. 22. ripor mano: rimettere in gioco. 23. virtude rugginosa: coraggio arrugginito (per il poco uso). 24. veggiam: vediamo. 25. clamor de’ sepolti: l’incitamento degli avi morti. 26. dischiude: fa riaffiorare (come il Cicerone del Mai). 27. a ricercar… codarda: per vedere se in questi tempi così avanzati ti possa giovare ancora, o Italia, essere vile.

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Di noi serbate, o gloriosi, ancora qualche speranza? in tutto28 non siam periti? A voi forse il futuro conoscer non si toglie29. Io son distrutto30 né schermo alcuno ho dal dolor31, che scuro m’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno32 è tal che sogno e fola33 fa parer la speranza. Anime prodi, ai tetti vostri inonorata, immonda plebe successe34; al vostro sangue è scherno e d’opra e di parola ogni valor35; di vostre eterne lodi né rossor più né invidia36; ozio37 circonda i monumenti vostri; e di viltade siam fatti esempio alla futura etade38. Bennato39 ingegno, or quando altrui non cale de’ nostri alti parenti, a te ne caglia40, a te cui fato aspira benigno sì che per tua man presenti paion que’ giorni allor che dalla dira obblivione antica ergean la chioma, con gli studi sepolti41, i vetusti divini, a cui natura parlò senza svelarsi, onde i riposi magnanimi allegràr d’Atene e Roma42. Oh tempi, oh tempi avvolti in sonno eterno! Allora anco immatura43 la ruina d’Italia, anco sdegnosi44 eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo più faville rapia da questo suolo45.

28. in tutto: del tutto. 29. A voi… toglie: Forse a voi non è impedito di conoscere il futuro. 30. distrutto: annientato. 31. né… dolor: né ho alcun riparo dal dolore. 32. scerno: distinguo, scorgo. 33. fola: favola, cioè pura fantasia. 34. ai tetti… successe: nelle vostre case (per estens. nella vostra patria) è succeduta una folla senza onore, impura. 35. al vostro… valor: per i vostri discendenti ogni valore di azioni e di parole è oggetto di derisione.

36. di vostre… invidia: nei confronti della vostra eterna gloria non si prova né vergogna né invidia. 37. ozio: apatia, inerzia. 38. e di… etade: e siamo diventati esempio di viltà per le generazioni future. 39. Bennato: nobile (il poeta apostrofa sempre il Mai). 40. or quando… caglia: ora dal momento che ad altri non importa dei nostri grandi antenati, ne importi a te. 41. a te… sepolti: a te su cui il destino soffia ispira benevolo favorevole in modo tale che per opera tua sembrano ritornare

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Eran calde le tue ceneri sante, non domito nemico della fortuna, al cui sdegno e dolore fu più l’averno46 che la terra amico. L’averno: e qual non è parte migliore di questa nostra?47 E le tue dolci corde susurravano48 ancora dal tocco di tua destra, o sfortunato amante. Ahi dal dolor comincia e nasce l’italo canto. E pur men grava e morde il mal che n’addolora del tedio che n’affoga.49 Oh te beato, a cui fu vita il pianto! A noi le fasce cinse il fastidio50; a noi presso la culla immoto siede, e su la tomba, il nulla. Ma tua vita era allor con gli astri e il mare, ligure ardita prole, quand’oltre alle colonne51, ed oltre ai liti52 cui strider l’onde all’attuffar del sole53 parve udir su la sera, agl’infiniti flutti commesso54, ritrovasti il raggio del Sol caduto, e il giorno che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo55; e rotto di natura ogni contrasto, ignota immensa terra al tuo viaggio fu gloria, e del ritorno ai rischi56. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema, e assai più vasto l’etra sonante e l’alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio, appare57.

quei tempi in cui, insieme agli studi sepolti. 42. i vetusti… Roma: i divini antichi risorgevano dalla crudele dimenticanza, ai quali la natura parlò senza essere svelata, per mezzo dei quali rallegrarono gli studi liberali umanistici di Atene e Roma. 43. anco immatura: ancora lontana. 44. anco sdegnosi: ancora insofferenti. 45. e l’aura… suolo: e il vento sollevava più scintille da questa terra. 46. averno: inferno. 47. e qual… nostra?: e quale luogo non è preferibile a

questo dove siamo ora? 48. sussurravano: suonavano (si tratta delle corde di uno strumento, possiamo presumere la lira, strumento del poeta). 49. E pur… n’affoga: Eppure il male che ci addolora ci ferisce meno del disgusto che ci affoga. 50. A noi… fastidio: A noi le fasce furono avvolte dal disgusto. 51. colonne: sono ovviamente le cosiddette “colonne d’Ercole”, lo Stretto di Gibilterra, oltre cui gli antichi credevano che il mondo finisse. 52. liti: lidi, sponde.

53. attuffar del sole: immersione del sole sotto l’orizzonte marino. 54. agli infiniti flutti commesso: affidato alle onde perpetue del mare. 55. ritrovasti… fondo: ritrovasti il raggio del Sole tramontato e la luce del giorno che sorge allorquando il sole tramonta nelle nostre terre. 56. e rotto… rischi: e vinto ogni ostacolo naturale, una terra sconfinata fu motivo di gloria per il tuo viaggio e per i pericoli del ritorno. 57. ma conosciuto… appare: ma il mondo una volta

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Nostri sogni leggiadri ove son giti dell’ignoto ricetto d’ignoti abitatori, o del diurno degli astri albergo, e del rimoto letto della giovane Aurora, e del notturno occulto sonno del maggior pianeta58? Ecco svaniro a un punto59, e figurato è il mondo in breve carta60; ecco tutto è simile, e discoprendo, solo il nulla s’accresce61. A noi ti vieta il vero appena è giunto, o caro immaginar62; da te s’apparta63 nostra mente in eterno; allo stupendo poter tuo primo ne sottraggon gli anni; e il conforto perì de’ nostri affanni64. Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo sole splendeati in vista65, cantor vago66 dell’arme e degli amori, che in età della nostra assai men trista empièr la vita di felici errori68: nova speme d’Italia. O torri, o celle, o donne, o cavalieri, o giardini, o palagi69! a voi pensando, in mille vane amenità si perde la mente mia. Di vanità, di belle fole70 e strani pensieri si componea l’umana vita: in bando li cacciammo: or che resta? or poi che il verde è spogliato alle cose? Il certo e solo veder che tutto è vano altro che il duolo71.

conosciuto non cresce, anzi si riduce, e il cielo risuonante e la terra nutrice e il mare sembrano assai più estesi al fanciullino che al sapiente. 58. Nostri… pianeta: Cosa ne è stato delle nostre fantasticherie sul rifugio sconosciuto di popoli ignoti, o sulla dimora diurna delle stelle, sul letto segreto della giovane Aurora, e sul misterioso sonno notturno del pianeta più grande? 59. svaniro a un punto: scomparvero in un solo istante.

60. breve carta: cartina geografica, mappa. 61. ecco… s’accresce: ecco che tutto diventa uguale, e continuando a scoprire aumenta soltanto il nulla. 62. A noi… immaginar: La verità, appena giunge, ti allontana da noi, cara immaginazione. 63. s’apparta: si separa. 64. allo stupendo… affanni: gli anni ci portano via dal tuo stupendo potere originario (della prima età), e la consolazione dei nostri dolori è così finita. 65. in vista: allo sguardo. 66. vago: leggiadro.

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O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa tua mente allora, il pianto a te, non altro, preparava il cielo72. Oh misero Torquato! il dolce canto non valse a consolarti o a sciorre il gelo onde l’alma t’avean, ch’era sì calda, cinta l’odio e l’immondo livor privato e de’ tiranni73. Amore, amor, di nostra vita ultimo inganno, t’abbandonava. Ombra reale e salda74 ti parve il nulla, e il mondo inabitata piaggia75. Al tardo onore76 non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno, l’ora estrema ti fu. Morte domanda chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda77. Torna torna fra noi, sorgi dal muto e sconsolato avello78, se d’angoscia sei vago, o miserando79 esemplo di sciagura. Assai da quello che ti parve sì mesto e sì nefando80, è peggiorato il viver nostro. O caro, chi ti compiangeria81, se, fuor che di se stesso, altri non cura? chi stolto non direbbe82 il tuo mortale affanno anche oggidì, se il grande e il raro ha nome di83 follia; né livor più84, ma ben di lui più dura la noncuranza avviene85 ai sommi? o quale, se più de’ carmi, il computar s’ascolta86, ti appresterebbe il lauro un’altra volta?

67. trista: brutta, malvagia. 68. felici errori: piacevoli inganni, cioè le illusorie fantasticherie. 69. palagi: palazzi. 70. fole: favole. 71. or poi… duolo: dopo che la gioventù è stata sottratta alle cose (alla realtà)? La certa e sola constatazione che tutto è vuoto tranne il dolore. 72. a noi… il cielo: allora il cielo destinava a noi la tua mente sublime, a te non altro che il pianto. 73. il dolce… tiranni: la tua dolce poesia non servì a consolarti o a sciogliere il gelo con cui l’odio e l’impura invidia dei

principi e dei cortigiani avevano circondato la tua anima, che era così calda (piena di passione). 74. reale e salda: concreta e consistente. 75. inabitata piaggia: luogo deserto. 76. tardo onore: onore tardivo, si riferisce all’incoronazione poetica prevista per lui in Campidoglio, e che non si riuscì a celebrare per la morte del poeta. 77. mercè… ghirlanda: l’ora estrema della morte fu per te ricompensa, non danno. Chi conobbe un male come il nostro, invoca la morte e non il

premio della corona. 78. avello: tomba, sepolcro. 79. miserando: infelice, compassionevole. 80. sì mesto e sì nefando: così triste e orrendo. 81. compiangeria: compiangerebbe, potrebbe compiangerti. 82. Chi stolto non direbbe: chi non reputerebbe sciocco. 83. ha nome di: viene definito. 84. né livor più: non più l’invidia. 85. avviene: tocca, è riservata. 86. se più… s’ascolta: se oggigiorno più che ai versi si bada ai calcoli.

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Da te fino a quest’ora87 uom non è sorto, o sventurato ingegno, pari all’italo nome88, altro ch’un solo, solo di sua codarda etate indegno Allobrogo feroce, a cui dal polo maschia virtù, non già da questa mia stanca ed arida terra, venne nel petto89; onde privato90, inerme, (memorando ardimento91) in su la scena92 mosse guerra a’ tiranni: almen si dia questa misera guerra e questo vano campo all’ire inferme93 del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena scese, e nullo94 il seguì, che l’ozio e il brutto silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

87. Da te… quest’ora: dai tuoi tempi fino ai giorni nostri. 88. pari all’italo nome: degno di un nome italiano (di essere italiano). 89. altro… petto: se non uno solo, indegno della sua epoca vile, fiero



piemontese, a cui dal cielo e non da questa mia stanca e sterile terra, provenne una virile forza d’animo. 90. onde privato, inerme: per cui, da privato cittadino, senza armi. 91. memorando ardimento: memorabile coraggio.

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Disdegnando e fremendo, immacolata trasse la vita intera, e morte lo scampò dal veder peggio95. Vittorio mio, questa per te non era età né suolo. Altri anni ed altro seggio96 conviene agli alti ingegni. Or di riposo paghi viviamo, e scorti97 da mediocrità: sceso il sapiente e salita è la turba a un sol confine, che il mondo agguaglia98. O scopritor famoso, segui99; risveglia i morti, poi che dormono i vivi; arma le spente lingue de’ prischi100 eroi; tanto che in fine questo secol di fango o vita agogni e sorga ad atti illustri101 o si vergogni.

92. in su la scena: nella scena teatrale delle sue tragedie. 93. ire inferme: rabbie impotenti. 94. nullo: nessuno. 95. Disdegnando… peggio: indignandosi e fremendo condusse tutta la vita senza macchia, e la

morte lo salvò dal vedere il peggio. 96. seggio: sede, ma anche in senso fig. còmpito. 97. scorti: guidati, condotti. 98. sceso… agguaglia: caduto in disgrazia il saggio, è invece salita di rango la plebe a quel livello che rende tutti

uguali (verso il basso). 99. segui: prosegui (nella tua opera). 100. prischi: antichi. 101. sorga ad atti illustri: si elevi ad azioni memorabili.

Analisi del testo

Storia del testo

Struttura e temi

Leopardi compose questa lirica circa un anno dopo il suo tentativo di fuga da Recanati ed è interessante aggiungere, a quanto detto sulla storia della sua pubblicazione, che nel febbraio del 1820 il poeta inviò all’editore Pietro Brighenti di Bologna non solo Ad Angelo Mai, ma anche altre due canzoni scritte nella primavera del 1819: Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo. Alla stampa di queste ultime due, tuttavia, si oppose il padre Monaldo, così il poeta poté stampare solo Ad Angelo Mai, in luglio, presso Marsigli. All’editore Brighenti Leopardi scrisse che il padre era rimasto turbato dai due titoli “sconvenienti”, mentre dalla poesia a Mai, nume tutelare innocuo, si era sentito rassicurato perché «Si tratta di un Monsignore. Ma mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar di quello che più gl’importa, e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una Canzone piena di orribile fanatismo».

Il componimento si sviluppa in due parti, la prima di 4 strofe e la seconda di 8: 1 vv. 1-60: nelle prime quattro strofe Leopardi enuncia il doppio carattere di questa lirica: sia encomiastico, perché nasce dall’occasione del ritrovamento da parte di Mai, in un codice della biblioteca Vaticana, di quanto perduto del De re publica di Cicerone; sia patriottico e civile, che lo spinge a celebrare la voce dei padri antichi in tempi attuali di «ruina» e «ozio». Le prime due strofe propongono una interrogazione scettica sulle conseguenze della scoperta di Mai perché il secolo moderno è morto, avvolto nella nebbia del «tedio». La terza strofa, ancora più esplicita, declama una durissima diagnosi del presente italiano: ozio, viltà, perdita di valori. La quarta ci porta al tema: per merito di Mai, «bennato ingegno», tornano, sembrano di nuovo presenti, i giorni in cui i «vetusti divini», gli antichi, erano risuscitati dall’oblio, quelli in cui ancora non si era compiuta la «ruina d’Italia» (v. 58) e si accendevano «faville» d’inge-

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gno italiano (v. 60). Il riferimento è ai secoli degli studi umanistici, proprio quelli che i romantici rifiutavano e bollavano come pedanti e “cruscanti”, tutti intenti all’Italia latina invece che “italiana”, cioè in lingua volgare. Ricompare qui, nei versi dedicati alla natura che agli antichi aveva parlato «senza svelarsi», il concetto polemico del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica > pp. 8; 30 |. L’ideale di Leopardi è ancora una volta la riconquista del sentimento dell’antico > Testo 1, p. 30 |, di una natura preservata nei suoi misteri, ma qui radicale è la presa d’atto che non sia più possibile, perché quei tempi sono passati per sempre. 2 vv. 61-180: otto strofe che contengono una rassegna di italiani illustri, sotto forma di exempla, da cui si svolge e approfondisce il tema portante della poesia, delineato sin dall’incipit con la domanda retorica (che presuppone una risposta negativa) rivolta ad Angelo Mai: perché continuare a far risorgere dalle tombe i nostri padri letterari se è per metterli in dialogo con un’epoca fatta di morti e su cui grava una grande nebbia di pigrizia dell’animo? Il cielo è ancora una volta pietoso verso gli italiani che con queste scoperte dovrebbero riaffermare lo spirito eroico di un tempo. Ma lo sparire di ogni illusione, la vittoria del tedio su tutte le cose e l’apparire della gelida ombra del nulla rimangono sottesi a tutto il componimento. Nella lunga seconda parte leggiamo una commossa evocazione dei grandi del passato, di un passato che, forse, la scoperta di Mai potrebbe far tornare. La nostalgia per questa illusoria possibilità è declinata nelle strofe che seguono, attraverso una serie di apostrofi ai grandi scrittori italiani dal Trecento in poi: - Dante e Petrarca (quinta strofa): - Ariosto (ottava strofa); - Tasso (nona e decima); - Alfieri (undicesima e dodicesima). Rassegna interrotta da due strofe intere rivolte a: - Colombo (la sesta e la settima, vv. 76-105). La scelta di collocare in un trionfo di scrittori e poeti anche un viaggiatore, più che come scopritore del nuovo mondo, come viaggiatore dell’ignoto, come figlio coraggioso della «ligure ardita prole», gli viene forse dalla lettura del romanzo Corinna o dell’Italia di Madame de Staël > Tomo 2.2, Sezione 8 |, ma in questi versi di Leopardi non di un vero e proprio elogio si tratta perché, messo al centro esatto della canzone, Colombo viene investito della responsabilità di aver prodotto un “impicciolimento” del mondo: «e figurato è il mondo in breve carta» (v. 98). Infatti, proprio l’eroico viaggio e quanto di pericoloso è nel ritorno (vv. 86-87 «e del ritorno / ai rischi»), di cui è già traccia nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez > p. 168 |, ha spazzato via il velo dell’ignoranza (che, si potrebbe dire, funziona nel “procedimento infinitivo” come la siepe de L’infinito) e con questo

Pelagio Pelagi, Ritratto di Angelo Mai, 1816-1819. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

le belle favole degli antichi. All’ignoranza l’uomo poteva opporre l’immaginazione e la poesia, ma con la conoscenza è caduta qualsiasi illusione e risuona solo la definitiva e desolata constatazione che tutto è ormai noto. Ogni speranza di poter surrogare il felice sentire antico è ormai finita, e anche il ripiego dell’immaginazione infantile, letto in una pagina del Werther > p. 65 | che aveva ispirato L’infinito, non tiene più. I «sogni leggiadri» degli antichi sono svaniti per sempre, lo stupendo primo potere del «caro immaginar» (v. 102) è separato «in eterno» dalla mente umana. Colombo ci ha tolto la possibilità di credere ancora ai «felici errori» di Ariosto («cantor vago dell’arme e degli amori» v. 108), riducendo lo spazio dell’immaginazione sconfitta dalla fredda ragione, segnando l’avanzata inesorabile del «vero». La conoscenza conduce verso il finito, il determinato, annulla la poesia del “vago” e dell’indefinito. Conosciuta razionalmente, l’esistenza non è che uno stato di tedio, di fastidio, tutto è uniforme e il nulla diventa padrone: «discoprendo, / solo il nulla s’accresce» (vv. 99100). Soltanto si salva, dalla polemica contro l’aridità del vero-matematico, l’ardimento, il coraggio, il segno della vitalità dell’impresa colombiana. Già con Dante, amico più dell’«averno» (sottoterra infernale) che della terra, s’inaugura l’infelicità dell’ età moderna, perché il «non domito nemico / della fortuna» dei vv. 62-63 dovette lottare contro gli avversi uomini; ma la sua poesia era ancora vivificata dal dolore pieno di sdegno. Così, anche di Petrarca – «Ahi dal dolor comincia e nasce / l’italo canto» (vv. 69-70) – viene sottolineata pro-

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prio la vocazione amorosa, perché a lui fu negato l’amore, fu «sfortunato amante». Il desolato rendiconto della vanità di ogni illusione di risorgimento dell’antico, della progressiva infelicità dell’uomo tanto più si progredisce, trova nell’amato Tasso> Focus in digitale Il mito di Tasso |, con il quale Leopardi sente di avere maggiore condivisione anche per le vicende biografiche, il più infelice, perché non può più consolarsi con le dolci fantasie: l’odio, l’invidia della corte e l’oppressione dei signori l’avevano condannato e, caduto l’«ultimo inganno», quello dell’amore, il mondo diventa il nulla, «inabitata piaggia» (v. 132). La figura di Tasso, la cui tomba rivela un destino inglorioso, si staglia dignitosa su quanti, invece, sono portati in auge perché campioni del calcolo, delle scienze economiche e statistiche (vv. 148-150). Polemica che tornerà nello Zibaldone e in alcune lettere a Giordani ma anche nella lirica Il pensiero dominante > p. 110 | con allusioni all’ambiente fiorentino del circolo del Gabinetto Vieusseux. Con i toni affettuosi dedicati a Tasso, Leopardi si rivolge, infine, anche al modello di Alfieri («Vittorio mio»), magnanimo e ribelle, animato da virile forza politica. Ma l’oppositore dei tiranni per antonomasia, l’ultimo eroe della poesia, proprio in quanto ultimo non ha eredi: «Da te fino a quest’ora uom non è sorto» (v. 151). L’elogio del filologo, nella prima parte del componimento, fa da contraltare alla denuncia di «questo secol morto» per il quale Leopardi si indigna, secondo modi che ricordano invettive dantesche. È l’attuale decadenza dell’Italia e della modernità, più in generale, l’idolo polemico di questa lirica, contro cui il poeta nulla può, se non prendere atto della perdita delle antiche speranze. Malgrado il risorgere dalle loro tombe delle antiche glorie che ricorda le grandi scoperte umanistiche dei codici antichi, portati fuori dall’«obblivione» (v. 51), la storia dell’umanità letteraria disegnata da Leopardi è la storia di un declino, sotto il segno della perdita della purezza e dell’immaginazione, causata dalla civiltà e dalla sempre maggiore conoscenza delle cose, un avanzare graduale verso il vero che ha defraudato l’immaginazione (vv. 100-101), una ricognizione sconsolata della vanità di ogni illusione di un risorgere degli antichi. Solo a loro la natura parlava senza essere svelata dalla ragione: irrevocabile è, dunque, il passaggio al moderno da un passato in cui era ancora lontana la rovina di un’Italia che è ora, invece, ineluttabilmente «oziosa» e «pigra». Si ribadisce qui la tematica del contrasto tra il vero e l’immaginazione: il primo frutto della ragione umana che impoverisce la fantasia, e la seconda come meccanismo, seppur illusorio, di sopravvivenza nelle miserie del presente, che diventerà uno dei temi più presenti e destinato a ulteriori sviluppi di tutta l’opera leopardiana. Alla visione negativa della contemporaneità rimane,

dopo la scoperta del «vero» delle cose e dissolta la consolazione delle illusioni, dei miti dell’immaginazione, soltanto la noia («tedio») che, come riaffermerà più volte, è sentimento peggiore del dolore. Fonti e modelli

Si colgono soprattutto tre precedenti di questa lirica, anche come modelli poetici: Foscolo, Alfieri e Petrarca. L’impianto concettuale – spirito civico, negazione del progresso – richiama gli analoghi, ma anche differenti, intenti dei Sepolcri foscoliani, dove compariva già la dialettica passato-presente, a confronto attraverso gli esempi di una serie di personaggi illustri, di glorie italiche («l’urne de’ forti»). L’esortazione a Mai di risvegliare i morti poiché dormono i vivi, anzi i veri morti sono gli uomini suoi contemporanei, condivide con i Sepolcri la stessa idea di quanto l’esempio – attraverso il culto delle tombe per lo scrittore di Zante – possa rivolgersi al passato per ammonire e insegnare al presente; ma non l’idea che la poesia possa essere rigeneratrice ed “eternatrice” della storia. Per Leopardi le tombe dei grandi del passato non bastano a contrastare la meschinità del presente, il culto della tomba, anzi, diventa metafora del secolo presente come una grande tomba, nonostante quell’atteggiamento di titanica reazione che traspare in alcuni passaggi della lirica e che può essere ricondotto al modello alfieriano. E difatti Alfieri viene direttamente evocato, in un’apostrofe («Vittorio mio») nell’ultima strofa. La differenza è che in Leopardi prevale, a fronte dello slancio eroico, un esito di amara disillusione, in una prospettiva ideologica che si avvicina di più a un excursus di filosofia della storia, come avrebbe poi indicato il critico Francesco De Sanctis (18171883). Indubbia è la traccia di memoria forte che il tono eloquente di fondo, più che le singole riprese di parole o sintagmi come avviene in altre liriche, condivide con le tre canzoni petrarchesche Italia mia, Spirto gentil e O aspectata in ciel beata e bella che Leopardi nell’ottobre-novembre del 1818 annotava nello Zibaldone possedessero «quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza». Il passaggio da Petrarca a Colombo, inoltre, crea un legame molto suggestivo tra lo scopritore del Nuovo mondo e l’inventore di una “nuova” poesia; cosicché nello Zibaldone (e poi nelle Note ai Canti) Leopardi tornerà a unirli nei discorsi sugli antipodi, partendo dai versi della canzone 50, una delle più lette, del Canzoniere:

«

Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ’l dì nostro vola A gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa, e dilettosiss. all’immaginaz. Trovati che si sono, certamente non sono impiccioliti, nè quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si son

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veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni prestigio dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer (p. 247) nostro non vuol confini.

»

Lingua e stile

L’impianto di tutto il componimento è pienamente classicistico, conforme a uno stile oratorio e solenne, dettato dall’occasione precisa da cui scaturisce e dal destinatario della lode che impone un registro alto, da eloquenza classica. La scelta della forma metrica, la canzone a schema fisso, il petrarchismo dell’incipit e la struttura retorica stanno a dimostrarlo. Leopardi imposta tutta la sua lirica attraverso un procedimento allocutorio, rivolgendosi direttamente, di volta in volta, ad Angelo Mai e ai grandi italiani; il tono di fondo è quello delle esortazioni enfatiche. Ma la cifra stilistica della canzone è divisa tra un piano metaforico ardito* che insegue il racconto del vero (per esempio in tutte le espressioni della costellazione semantica della morte e della resurrezione, legate alla storiografia dell’Umanesimo, attinte dagli autori classici dell’erudizione settecentesca come Tiraboschi e Bettinelli) e uno che, invece, è il sostrato poetico del “vago”. Lo stile riconducibile al primo termine si serve di formulazioni sintattiche più scarne e di metafore molto forti, soprattutto in tutto ciò che è legato al tema sepolcrale del risorgere dalle tombe, considerando che proprio il lemma “risorgimento” è poi parola chiave nell’opera leopardiana, dagli scritti giovanili fino a La ginestra, nel senso più allargato e culturale di uscire dal “letargo”, di rinascita da una morte dell’animo. Il lessico, inoltre, indugia maggiormente in arcaismi e latinismi (come «vetusti», «ruina», «prischi», «etade», «virtude», ecc.) e nell’orbita semantica della negatività di tipo morale ed esistenziale che prende una particolare sostanza corporea, secondo una tecnica di materializzazione dell’astratto tipica di Leopardi («plebe», «ozio»,



Ardito *Nello Zibaldone, commentando Orazio, Leopardi chiama ardire/tecnica degli arditi l’uso di particolari procedimenti retorici su metafore, metonimie, attraverso accostamenti “azzardati” e costruzioni sintattiche che tendono a “complicare” la disposizione naturale delle parole; oppure il linguaggio usato non nel suo senso consueto, naturale e neppure piano ma cercandone un effetto che dia una specie di “scossa” alla lingua, volendone esaltare tutte le potenzialità e le risorse. Per esempio l’uso insistito degli iperbati, degli enjambements e di un lessico che unisce ciò che sarebbe distante e crea così immagini forti come «secol morto», «il clamor de’ sepolti», «tanta nebbia di tedio».

«viltade», «mediocrità»; «tedio», «nulla», «duolo», «vero» ecc.). Al contrario, sia pur in misura inferiore, troviamo anche uno stile che connota, invece, una vena più immaginativa che si diluisce in figurazioni di quelle parole «poeticissime e piacevoli» che portano a quei «segnali dell’infinito», secondo la felice definizione di Luigi Blasucci, di una certa indefinita vaghezza, per esempio nel verso 85 «Ignota immensa terra». Oppure come, per di più, in enjambement: «infiniti / flutti» (vv. 80-81); «notturno / occulto sonno» (vv. 95-96). Un’osservazione interessante riguarda anche una sorta di “mimetico” omaggio ai suoi interlocutori nella scelta lessicale che più li rappresenta: ad esempio, prima della strofa con i versi dedicati a Dante e a Petrarca compaiono due lemmi (vv. 59-60), «faville» e «aura», una parola dantesca (il rinvio è almeno a Paradiso, XVII, 83), l’altra che richiama con evidenza, quasi una spia che si accende, la poesia di Petrarca, considerando poi che nelle varianti compariva «aere». Pressoché continuo è il ricorso all’anastrofe, a complicare la sintassi, mentre i frequenti enjambements le conferiscono un’andatura spezzata. Si noti la circolarità del componimento, con l’allocuzione d’esordio al destinatario illustre «Italo ardito», come fosse una epistola in versi (in questo anche il modello foscoliano dei Sepolcri può aver avuto influenza), che torna nella ripresa della quarta stanza «Bennato ingegno», per concludersi nel congedo della dodicesima nella quale Mai è appellato «O scopritor famoso».

Esercizi

Comprensione 1. La canzone può essere suddivisa in due parti: individuale e sintetizzane i contenuti. 2. Chi è il destinatario della canzone e perché da Leopardi viene definito «ardito», «egregio», «bennato» e «scopritor famoso»? Laboratorio 3. Quale immagine di se stesso propone l’autore? Da quali stati d’animo è pervaso? Rispondi facendo opportuni riferimenti al testo. 4. Evidenzia i versi in cui Leopardi pronuncia un giudizio severo sull’Italia e sugli Italiani. 5. Nella lirica, specialmente nella quinta strofa, si

addensano termini appartenenti al campo semantico della morte: individuali sul testo. 6. Quale giudizio esprime l’autore sulla figura di Dante? 7. Come viene considerato Colombo dall’autore? Di cosa lo reputa reo? 8. Illustra il senso delle apostrofi a Tasso e Alfieri. Approfondimento 9. La lirica affronta uno dei temi portanti del pensiero leopardiano, il contrasto tra antichi e moderni: sviluppalo in un testo di max. 20 righe 10. Elabora un saggio in cui spieghi in quale misura Leopardi può essere definito un classicista e il suo rapporto coi classici.

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 Testo 12

Ultimo canto di Saffo Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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1. verecondo: pudico, latinismo da vèreri: “aver timore, rispetto”. 2. cadente: tramontante. 3. tu: si riferisce al pianeta Venere, che, avendo un’orbita interna a quella della Terra, è osservabile come un astro brillante poco prima dell’alba (quando è a ovest del Sole e viene chiamato Lucifero, “stella del

La canzone, una delle più corrette e auto commentate come documentano gli autografi delle carte napoletane, è stata composta a Recanati nel maggio del 1822, fra il 13 e il 19: «Opera di 7 giorni. Maggio 1822» annota Leopardi, che a questo componimento dedica una Premessa, una Postilla, un Preambolo nelle Annotazioni alle canzoni che vengono ristampate nel settembre del 1825 nel “Nuovo Ricoglitore”, dopo la prima pubblicazione nelle Canzoni (Nobili, Bologna 1824). Nell’edizione dei Canti del 1831 e in quella del 1835 occupa il nono posto, dopo l’Inno ai Patriarchi, a chiudere la sequenza delle canzoni. Sulle possibili fonti di questo componimento si è molto discusso: si va dalla lettura delle Eroidi di Ovidio nelle quali è raccontata la morte della poetessa greca Saffo (VII-VI sec. a. C.), che si lancia nel vuoto dalla rupe di Leucade, al romanzo Le avventure di Saffo di Alessandro Verri del 1782, alle opere di Madame de Staël. Secondo le parole di Leopardi stesso nelle Annotazioni, questo “canto” «intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane».

Placida notte, e verecondo1 raggio della cadente2 luna; e tu3 che spunti fra la tacita4 selva in su la rupe5, nunzio del giorno; oh dilettose e care mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, sembianze agli occhi miei6; già non arride spettacol molle ai disperati affetti7. Noi8 l’insueto allor gaudio9 ravviva quando per l’etra liquido10 si volve e per li campi trepidanti il flutto polveroso de’ Noti11, e quando il carro, grave carro di Giove12 a noi sul capo, tonando, il tenebroso aere divide13. Noi per le balze e le profonde valli natar giova tra’ nembi, e noi la vasta fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto fiume alla dubbia sponda il suono e la vittrice ira dell’onda14.

mattino”) o al tramonto (Espero, “stella della sera”, quando è a est del Sole). 4. tacita: silenziosa. 5. rupe: la rupe di Leucade, da cui Saffo si sarebbe gettata per amore di Faone. 6. oh dilettose… occhi miei: oh immagini care e piacevoli ai miei occhi, finché mi furono sconosciuti la furia

amorosa e il destino. 7. già non… affetti: un dolce spettacolo ormai non può più rallegrare gli affetti senza speranza. 8. Noi: a me, qui, come più avanti, va inteso infatti come “plurale maiestatis”. 9. insueto gaudio: gioia inconsueta. 10. etra liquido: aria limpida. 11. de’ Noti: dei venti (Noti è latinismo).

12. carro di Giove: il tuono. 13. tonando… divide: tuonando sulla nostra testa squarcia l’aria abbuiata dalla tempesta. 14. Noi… dell’onda: A me che piace immergermi tra le nuvole lungo le alture e le vallate profonde, e vedere l’ampia fuga delle greggi impaurite, o udire presso la riva insidiosa di un fiume profondo il

Forma metrica: canzone in quattro strofe di diciotto versi ciascuna, di cui diciassette endecasillabi e un settenario (il penultimo). Rimano solo gli ultimi due versi, il settenario e l’endecasillabo, con rima baciata. Schema unico: ABCDEFGHILMNOPQRsS.

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rombo della furia vittoriosa delle onde. divo: divino. rorida: rugiadosa. parte… fenno: nessuna parte i numi (gli dei) e la sorte crudele concessero alla povera Saffo. A’ tuoi… amante: Ai tuoi regni superbi, oh natura, io sono ospite spregevole e sgradita, e rifiutata come amante.

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19. vezzose: aggraziate. 20. ride: sorride. 21. aprico margo: luogo soleggiato. 22. eterea porta: porta del cielo. 23. e dove… spiagge: e là dove un limpido ruscello all’ombra dei salici piangenti svolge il suo chiaro corso, esso sottrae al mio piede incerto le sue onde sinuose e,

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28.

Bello il tuo manto, o divo15 cielo, e bella sei tu, rorida16 terra. Ahi di cotesta infinita beltà parte nessuna alla misera Saffo i numi e l’empia sorte non fenno17. A’ tuoi superbi regni vile, o natura, e grave ospite addetta, e dispregiata amante18, alle vezzose19 tue forme il core e le pupille invano supplichevole intendo. A me non ride20 l’aprico margo21, e dall’eterea porta22 il mattutino albor; me non il canto de’ colorati augelli, e non de’ faggi il murmure saluta: e dove all’ombra degl’inchinati salici dispiega candido rivo il puro seno, al mio lubrico piè le flessuose linfe disdegnando sottragge, e preme in fuga l’odorate spiagge23. Qual fallo24 mai, qual sì nefando eccesso25 macchiommi anzi il natale26, onde sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto27? in che peccai bambina, allor che ignara28 di misfatto è la vita, onde poi scemo di giovanezza, e disfiorato, al fuso dell’indomita Parca si volvesse il ferrigno mio stame29? Incaute voci spande il tuo labbro: i destinati eventi move arcano consiglio30. Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor. Negletta prole31 nascemmo al pianto32, e la ragione in grembo de’ celesti si posa33. Oh cure, oh speme de’ più verd’anni! 34 Alle sembianze il Padre, alle amene sembianze eterno regno diè nelle genti35; e per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadorno ammanto36.

scorrendo, preme le rive odorose. fallo: errore, colpa. nefando eccesso: deprecabile intemperanza. anzi il natale: prima della mia nascita. onde… volto?: per cui il volto del cielo e della fortuna mi fosse così tenebroso? ignara… vita: priva di

colpe è la vita. 29. onde poi… stame?: per cui, ormai privo di giovinezza e sfiorito, il filo scuro della mia vita scorresse sul fuso dell’instancabile Parca. 30. Incaute… consiglio: la tua bocca diffonde parole imprudenti: una intelligenza misteriosa governa gli eventi secondo un disegno

prestabilito. 31. Negletta prole: figli disprezzati. 32. al pianto: per piangere (destinati al pianto). 33. e la ragione… posa: e la ragione (del nostro destino) è nascosta nelle viscere degli dei. 34. Oh cure… verd’anni!: Oh preoccupazioni e speranze della giovinezza!

35. Alle sembianze… genti: Alle persone di bell’aspetto Giove concesse un eterno dominio tra gli esseri umani. 36. e per… ammanto: e nonostante si esprima in imprese coraggiose, in componimenti poetici o grande sapienza, la virtù non brilla in un corpo brutto.

86 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | 37. Il velo… casi: Appena gettato a terra il velo corporale, indegno dell’animo, lo spirito senza il corpo fuggirà nel regno dei morti (Dite), e correggerà il crudele errore del cieco distributore delle sorti. 38. E tu… strinse: E tu, Faone, a cui mi legò invano un lungo amore, una lunga fedeltà e l’inutile furore di una passione non appagata 39. Me non… Giove: Giove non ha spruzzato su di me il dolce liquido della felicità dal suo vaso parsimonioso.

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Morremo. Il velo indegno a terra sparto, rifuggirà l’ignudo animo a Dite, e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de’ casi37. E tu cui lungo amore indarno, e lunga fede, e vano d’implacato desio furor mi strinse38, vivi felice, se felice in terra visse nato mortal. Me non asperse del soave licor del doglio avaro Giove39, poi che40 perìr gl’inganni e il sogno della mia fanciullezza. Ogni più lieto giorno di nostra età primo s’invola41. Sottentra il morbo42, e la vecchiezza, e l’ombra della gelida morte. Ecco di tante sperate palme e dilettosi errori, il Tartaro43 m’avanza; e il prode ingegno han la tenaria Diva, e l’atra notte, e la silente riva44.

40. poi che: dopo che. 41. primo s’invola: svanisce per primo. 42. Sottentra il morbo: subentra la malattia. 43. Ecco… m’avanza: Ecco di tanti onori sperati e piacevoli illusioni mi resta soltanto il regno dei morti (Tartaro). 44. e il prode… riva: e il nobile ingegno appartiene ora alla dea infernale (Proserpina), alla notte buia e alla riva silenziosa.

Analisi del testo

Struttura e temi

Le quattro strofe che compongono il testo poetico possono essere considerate altrettante tappe di un percorso interiore della protagonista monologante (Saffo), alla quale Leopardi affida la riflessione sul destino del genere umano e sul destino della poesia, qui indicato come canto perché antico e, dunque, accompagnato dalla musica: 1 nella prima strofa Saffo ragiona su una Natura ambigua e ingannevole che si mostra sotto sembianze «dilettose» con le quali non riesce però a essere in sintonia; il paesaggio bello e armonioso non le «arride», mentre trova intima rispondenza nei paesaggi inquieti, tempestosi, dove gli elementi naturali si scatenano a creare disarmonia, come nelle caratterizzazioni settecentesche che vanno sotto il nome di estetica del “sublime”; 2 già nella seconda strofa arriva la consapevolezza di Saffo di essere esclusa dalla bellezza, di essere estranea all’ordine naturale che, anzi, le si mostra ostile: «di cotesta / infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo» (vv. 20-22); 3 nella terza strofa Saffo si interroga sui motivi della sua estraneità ma ogni tentativo di spiegazione non trova risposta soddisfacente, perché si rende chiara un’altra drammatica verità, quella della caduta delle illusioni che, ancora non addebitabile alla Natura, è causata dal cielo, dalla sorte, dal fato. Da qui si insinua il dubbio che anche per gli antichi non sia sempre possibile vivere in armonia, “ingenuamente” e in felicità con la natura. C’è un destino da accettare e questo rappresenta un nucleo

ideologico importante nello sviluppo della poesia leopardiana, perché si apre la strada, a rischio di empietà, all’idea che tutto il genere umano, non solo quello moderno, sia nato per soffrire; 4 nella quarta strofa, che si apre con il «Morremo» del v. 55 preso in prestito dall’episodio virgiliano della morte di Didone (suicida per amore di Enea), a Saffo l’unica soluzione appare il suicidio, la poetessa immagina un approdo al regno dei morti senza riscatto. Il rapporto felice e originario con la Natura non è più garantito, neppure per un personaggio antico come Saffo. Solo il canto le dona consolazione, un canto che sin dal titolo è un canto «ultimo», presagio di silenzio, di uno spegnersi a poco a poco. Il monologo-canto dell’io poetante Saffo (uno dei pochi personaggi a prendere la parola direttamente nella poesia leopardiana, come Simonide nella canzone All’Italia, Bruto e il pastore errante) racconta una storia, la propria, segnata da un fato avverso che le ha voluto male prima ancora che nascesse (il «ferrigno», fosco, filo della sua vita al v. 44). La sua voce, il suo canto emerge dal silenzio della notte che sta andando verso la pienezza del giorno. La scena si apre così al sorgere dell’alba, dopo che l’attacco della poesia ha posto in uno splendido notturno la poetessa Saffo, a contatto con la bellezza del creato visto dalla rupe di Leucade da cui, vuole la leggenda, si sarebbe gettata per amore del giovane e bello Faone, indifferente alla sua passione.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Ultimo canto di Saffo | 87

La «sventura della bruttezza», di un animo delicato e nobile imprigionato in un corpo giovane e brutto («virtù non luce in disadorno ammanto» del v. 54) è un tema, come scrive nelle Annotazioni, che non commuove l’animo dei lettori e proprio per questo assunto, perché la storia di Saffo risulti allegorica della condizione del genere umano. Tanto più se la condizione che ne deriva è quella di profonda e insolubile infelicità, al cospetto di una natura che è sì bella ma assume, agli occhi della poetessa, connotati di crudeltà e spietatezza, ed è vissuta da un personaggio posto nel mondo antico in cui la felicità sarebbe, invece, la condizione usuale, al riparo dalla crudeltà dei tempi nuovi. Alla pena di Saffo determinata dalla mancata comunione con la bellezza della natura si aggiunge, ma qui è elemento secondario, un amore infelice: la poetessa greca ama, non ricambiata, il giovane Faone, a cui si rivolge direttamente nell’apostrofe del v. 58, un dettaglio che acuisce il senso di solitudine e di inappagamento > Confronti, p. 90 |. Ma il centro ideologico della lirica sta nel fatto che il dolore e la sofferenza colpiscono non più l’uomo moderno, bensì una rappresentante di quegli antichi che per Leopardi erano, come negli idilli e nei pensieri dello Zibaldone sulla poesia romantica dei moderni, protetti in un mondo sereno, non ancora guastato dalla successiva civilizzazione umana. Leopardi perde la sintonia tra mondo antico e natura: ci troviamo quindi di fronte a un ulteriore passaggio del pensiero negativo leopardiano, che trova la sua cifra tematica nell’assolutizzare la bruttezza come esclusione cosmica della corrispondenza individuo-natura, resa ancora più evidente dal motivo del suicidio della protagonista (come era già stato nel Bruto minore) come forma di protesta e, al tempo stesso, gesto catartico. Seppure il suicidio e l’allegoria dell’infelicità umana accomuni i due personaggi, una differenza è necessario sottolineare: per Leopardi Bruto è un personaggio della storia che vede svuotarsi di senso la parola virtù nella dialettica con la fortuna, quando in punto di morte la chiama «Stolta» e si uccide perché, dopo la sconfitta di Filippi, ha abiurato a quella che è oramai solo un «vano nome». La cornice in cui si inquadra il suicidio di Saffo è il rapporto con la Natura, non con la Storia e con l’etica; si attenuano, quindi, quelle punte di titanismo alfieriano per un tono che è quello dell’elegia, intimo e dolorosamente appassionato. Il tema del suicidio sarà ripreso anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio (una delle Operette morali), datato 1827, dove la voce di Plotino si leva contro l’intento di Porfirio di togliersi la vita, dando al suo interlocutore, come materia di dissuasione, il valore del rapporto con gli altri e di quanto contano gli affetti.

Gustave Moreau, La morte di Saffo, 1872. Saint Lô, Musée Municipal.

Fonti e modelli

Nella Premessa dell’autografo il poeta stesso elenca con molta precisione i motivi che l’hanno spinto ad assumere liricamente questa materia:

«

[...] la gioventù di Safo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo principalmente agli uomini. Ora mi moza fea, ni vija ermosa, dicono gli spagnuoli. 2. il suo grandissimo spirito, ingegno, sensibilità, fama anzi gloria immortale, e le sue note disavventure le quali circostanze pare che la debbano fare amabile e graziosa, ancorché non bella; o se non lei, almeno la sua memoria. 3. e soprattutto, la sua antichità. Il grande spazio frapposto tra Safo e noi, confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Safo potesse essere, che certo non fu, l’antichità, l’oscurità de’ tempi, l’incertezza ec. introducono quelle illusioni che suppliscono ad ogni difetto.

»

Della poetessa Saffo Leopardi conosceva molto bene, per averli anche tradotti, i frammenti lirici pervenuti fino alla sua epoca (piccola parte di un’opera poetica molto più ricca andata dispersa).

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Il soggetto che si è dato in questa lirica, tuttavia, è «difficile», come scrive nelle Annotazioni alle canzoni:

«

io non mi so ricordare né tra gli antichi né tra i moderni nessuno scrittor famoso che abbia ardito di trattarlo, eccetto solamente la signora di Staël, che lo tratta in una lettera in principio della Delfna, ma in tutt’altro modo.

»

Infatti, la leggenda del suicidio di Saffo, ripresa dal libro XV delle Eroidi di Ovidio, giunse a Leopardi anche grazie alla mediazione di romanzi coevi e all’epoca molto noti, come Le avventure di Saffo di Alessandro Verri del 1782 e Delphine di Mme de Staël. Complice il portato tragico della vicenda, Saffo fu anche il soggetto di un’opera del compositore tedesco Johann Simon Mayr rappresentata al teatro La Fenice di Venezia nel 1794. Leopardi aveva letto il romanzo della Staël nell’edizione ginevrina in 4 volumi del 1802 e, in effetti, la differenza a cui allude rispetto all’opera citata è veritiera: l’unico punto di contatto, che potrebbe essere nella lettera n. 7 della prima parte, nella quale si parla delle conseguenze della bruttezza di una donna non compensabili con l’ingegno, è davvero molto labile. Semmai c’è l’aspetto della “non bellezza” che sembra accomunare anche l’autrice di Delphine a Saffo (ne scrive nello Zibaldone 1692-1693, 13 settembre 1821), ma più rilevante è l’altra protagonista femminile delle opere di Mme de Staël, la Corinna di Corinne ou l’Italie del 1807, sia perché anche lei è poetessa e prima di morire declama a Nervil «un dernier chant» (“un ultimo canto”), sia perché sul personaggio di Corinna Leopardi proietta più volte se stesso. Il romanzo Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene di Verri, che Leopardi legge nella ristampa del 1808, era ben noto al poeta che ne avrebbe incluse alcune pagine nella Crestomazia italiana della prosa (1827), ma molto lontana da quanto può costituire anche solo uno spunto, un tassello della preistoria della Saffo leopardiana, concentrato com’è sull’amore non corrisposto e non sulla bruttezza. Il suicidio finale accentua la componente teatrale e tragica del canto e si richiama, come precedente più immediato, all’opera di Alfieri. Ma Saffo, contrariamente al Bruto leopardiano, e al titanismo di eroi tragici come il Bruto o il Saul alfieriani, possiede la capacità elegiaca di scorgere il bello in natura, di percepire quel senso di felicità latente che le è negato, al quale non può attingere. Ancora una volta, infine, registriamo anche riscontri interni. In data 26 aprile 1819 Leopardi scriveva a Giordani:

«

io non trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del cuore, e la contemplazione della bellezza, la quale m’è negata afatto in questa misera condizione.

»

E ancora, successivamente, nello Zibaldone, in data 5 marzo 1821 (l’anno prima della stesura della lirica) troviamo un appunto interessante (718):

«

L’uomo d’immaginazione di sentimento di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira.

»

Lingua e stile

Partiamo da quella che potremmo chiamare, usando le parole di Leopardi stesso, una “stravaganza” (nelle Annotazioni alle canzoni scrive, infatti, che l’edizione ha dieci canzoni «e più di dieci stravaganze») dello schema metrico della canzone, che vede l’impiego di un solo settenario, sempre il penultimo della stanza e sempre in rima baciata con l’endecasillabo finale della stanza. Una scelta riconducibile a una soluzione che si incammina verso libere sequenze di versi sciolti, all’interno delle quali, dunque, le rime funzionano come un marcatore stilistico forte a segnare una sosta alla fine di ogni strofa, una calcolata pausa messa a evocare progressivamente la fine del canto. Un canto che nella poesia antica di Saffo prevedeva l’accompagnamento della musica e che ora si risolve, invece, in un distacco progressivo dalla cantabilità della rima, da una parte quasi assente, ma dall’altra posta in un distico del tutto eccezionale composto da un settenario+un endecasillabo che chiude ogni strofa e, quindi, assume una posizione di particolare evidenza. Il canto a cui tende Leopardi, come in tutta la sua opera, è quello di una, confesserà a Giordani, «sudatissima e minutissima perfezione». Nello specifico di questa lirica è la «dotta lira» a essere chiamata in causa al v. 35, un canto dal tono solenne, tragico ma composto, misurato, di stampo antico e che si condannerà al silenzio. L’abbondante impianto retorico di questa canzone non è estraneo a quella poetica degli «arditi», cioè delle parole e delle frasi rare e inusitate > finestrella p. 83 | che, invece di essere sinonimo di oscurità, si accomunano rafforzandosi, secondo Leopardi, alla stessa poetica del «vago» e dell’«indefinito», perno della poesia degli idilli. Per esempio, Leopardi stesso indica nel «tante» del v. 68 un esempio di effetto «poeticissimo» perché più indefinito di “molte”. Nella prima strofa, l’aggettivo «placida» domina il notturno iniziale rendendo immobile, calma e serena l’atmosfera che si trasferisce sul «tacita» della selva. Se-

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Ultimo canto di Saffo | 89

guono immagini riconducibili alla classicità e a personaggi mitologici (le Erinni, i Noti, Giove, la Parca, Dite, il Tartaro), in versi dal lessico latineggiante. Nella parte centrale il componimento si arricchisce di interrogazioni retoriche che accentuano le antitesi tra la leggiadria della natura e la “deformità” del corpo della protagonista. Colpisce la frequenza di vocaboli con il prefisso negativo “dis-” («disperati», «dispregiata», «disdegnando», «disfiorato», «disadorno») che indicano quella mancanza ed esclusione che rappresenta il dolore disperato di Saffo. La drammaticità del canto della protagonista è rafforzata dagli iperbati dei versi 4-5 e dai frequentissimi enjambements che danno una cadenza quasi sincopata ai versi. Si noti, infine, la contrapposizione tra il «me» di Saffo e il «tu» rivolto all’amato indifferente, il significativo passaggio dalla prima persona singolare alla prima plu-

rale io-noi e il mutare dei pronomi personali che sposta, anche dal punto di vista grammaticale, il discorso da una prospettiva individuale a una universale, alludendo perciò al destino comune a tutti gli uomini; per esempio il «nostra età» che dichiara l’infelice destino di ogni creatura. Quanto si esprime nel lessico e nella struttura retorica del componimento si riflette, inoltre, anche sul piano degli effetti fonici: si noti il ripetersi del nesso consonantico nd da «verecondo» in poi, fino alla rima baciata che è anche inclusiva di sponda : onda, quello del suono ant soprattutto del «pianto», parola chiave, e della rima baciata canto : ammanto in cui il lemma del titolo rima con quell’«ammanto», quel “corpo” irrimediabilmente privato, «disadorno»; nella chiusa, infine, la voce di Saffo si affievolisce, spegnendosi nella ripetizione della congiunzione «e» fino a quel «silente» riferito a «riva».

 Esercizi 1. 2. 3. 4.

5. 6. 7.

8.

Comprensione Riassumi in poche parole il contenuto di ciascuna strofa. Chi è Saffo e che cosa rappresenta? In che senso il fato è avverso alla poetessa? Da che cosa deriva la profonda infelicità di Saffo e che cosa la accomuna a quella di Leopardi? Laboratorio Individua e spiega i riferimenti alla classicità. Indica le metafore più significative e interpretale alla luce del loro significato. Serviti del testo per identificare e spiegare la duplice valenza degli elementi naturali: da un lato vaghi e idillici, dall’altro sublimi e inquieti. Che cosa è mutato nella concezione della Natura?

9. Spiega le domande retoriche che aprono la terza strofa. 10. Partendo dall’analisi delle ultime due strofe, giustifica il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale («nostro dolor», «nascemmo», «morremo», «nostra età»). Approfondimento 11. Quale importanza assume, nell’evoluzione del pensiero leopardiano, il fatto che Saffo partecipi dell’infelicità dell’uomo? Che cosa è cambiato dalle prime formulazioni del rapporto tra mondo antico e natura? 12. Che valenza ha il suicidio per Saffo e come si inquadra il gesto nel sistema di pensiero leopardiano? 13. Metti in relazione il suicidio della poetessa greca con quello di un altro eroe della letteratura del periodo a te noto.

90 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |



Confronti: Leopardi e Ovidio

Nelle Annotazioni alle canzoni Leopardi scrive una Premessa a Ultimo canto di Saffo: «Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, epist. 15, v. 31 segg. Si mibi difficilis formam natura negavit etc. La cosa più difficile del mondo, e quasi impossibile, si è d’interessare per una persona brutta; e io non avrei preso mai quest’assunto di commuovere i Lettori sopra la sventura della bruttezza, se in questo particolar caso, che ho scelto a bella posta, non avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto». L’aiuto che Leopardi coglie dalla lettera che Saffo scrive a Faone, nella XV delle Eroidi (“Lettere delle eroine”) di Ovidio, è sostanzialmente lo spunto “romanzesco”, la storia che gli occorre per denun-

 Ovidio Lettera di Saffo a Faone in Eroidi vv. 175-192; 213220 (in originale latino) tratto da Ovidio Eroidi a cura di L. Paolicchi Salerno Editrice, Roma 2004

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ciare il disperato dolore, l’infelicità di una donna sensibile e una poetessa alla quale la Natura ha negato la bellezza: natura negavit. La suggestione letteraria ovidiana riguarda solo quanto strettamente necessario al racconto della leggenda dell’amore non ricambiato per Faone (a differenza di Saffo, non un personaggio storico) e del suicidio dalla rupe di Leucade, perché il cuore della lirica è poi altrove, soprattutto nel drammatico rapporto tra Saffo e la Natura. Riportiamo due passaggi tratti dalla parte finale dell’epistola: anche nel caso della Saffo ovidiana, appare evidente che si tratta di un ultimo canto elegiaco; ma la natura psicologica del canto è esistenziale in Leopardi, mentre è amorosa, passionale in Ovidio.

Andrò, o ninfa, e raggiungerò la rupe indicata: bando alla paura, vinta dalla follia dell’amore. Comunque andrà, sarà meglio di ora. Aria, sostienimi: il mio corpo non ha un grande peso. Anche tu, tenero Amore, mentre cado metti le ali sotto, perché io, morendo, non diventi un’accusa per il mare di Lèucade. Poi offrirò a Febo la lira, dono comune, e sotto di essa ci saranno due versi: «Grata, a te Febo, io Saffo la poetessa, ho offerto la lira: essa s’addice a me, essa s’addice a te». Ma perché fai andare me, infelice, sulle coste di Azio, quando potresti tu riportare indietro il piede fuggiasco? Tu puoi essere più salutare per me del mare di Lèucade: per la bellezza e per la salvezza sarai tu Febo per me. O forse, più crudele delle rupi e d’ogni mare, puoi sopportare, se muoio, la responsabilità della mia morte? Ma quanto meglio potrebbe il mio petto unirsi a te invece d’affidarsi alle rocce per buttarsi giù!

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Sciogli la nave! Venere nata dal mare assicura il mare a chi ama. Il vento aiuterà la rotta: tu, soltanto, sciogli la nave. Cupido stesso, seduto a poppa, sarà il pilota: con mano leggera lui stesso scioglierà le vele e le raccoglierà. Se invece sei contento d’esser fuggito lontano dalla pelasgica Saffo (ma non troverai una ragione per cui io debba essere abbandonata), che almeno una lettera crudele lo faccia sapere alla sventurata, sì che io vada incontro al destino del mare di Lèucade.

Jacques-Louis David, Saffo e Faone, 1809. San Pietroburgo, Ermitage.

 Esercizi: confronti 1. Soffermati sugli accenti di disperazione che accomunano la Saffo leopardiana a quella delle Eroidi ovidiane. 2. Quale immagine della natura viene fornita nei due testi? 3. In Leopardi è piuttosto evidente il contrasto di Saffo con la Natura: in quali dei versi di Ovidio si adombra tale avversità? Giustifica la tua risposta. 4. Poni a confronto le definizioni del corpo di Saffo nei due testi.

5. Come viene rappresentata l’idea del suicidio in Ovidio? Che cosa ritrovi di questo tema nel testo leopardiano? 6. Quali elementi conferiscono un’impronta esistenziale al canto leopardiano e un taglio passionale al testo di Ovidio? Fai un confronto evidenziando gli elementi di contrasto. 7. Che differenze rilevi tra la Saffo di Leopardi e quella di Ovidio?

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Valerio Magrelli incontra Giacomo Leopardi

Scherzo, XXXVI

Quando fanciullo io venni a pormi con le Muse in disciplina, l’una di quelle mi pigliò per mano; e poi tutto quel giorno la mi condusse intorno a veder l’officina. Mostrommi a parte a parte gli strumenti dell’arte, e i servigi diversi a che ciascun di loro s’adopra nel lavoro delle prose e de’ versi. Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov’è? Disse la Dea: la lima è consumata; or facciam senza. Ed io, ma di rifarla non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca? Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

Lo Scherzo che leggiamo, trentaseiesimo dei Canti (edizione 1845), riguarda un Leopardi il quale, a soli dieci anni, sta già traducendo le odi di Orazio. Arruolato alla scuola delle Muse, il bambino viene preso per mano da una di loro, che per un giorno intero lo conduce «a veder l’officina». (Per dare un’idea di quanto sia tenace la nostra tradizione, si ricordi che nel 1955, appunto con il nome di “Officina”, Leonetti, Pasolini e Roversi fonderanno a Bologna una famosa rivista di poesia). Il testo ricostruisce questa visita con grande naturalezza, descrivendo la nobile maestra nell’atto di mostrare al suo allievo i più diversi strumenti dell’arte verbale, ossia «delle prose e de’ versi» – non dimentichiamo che, a cavallo fra narrativa e

saggistica, letteratura e filosofia, le Operette morali rappresentano uno fra i più alti prodotti del pensiero moderno. E la lima?, domanda di colpo il giovane visitatore: che fine ha fatto la lima? Naturalmente viene in mente l’Orazio dell’Ars poetica: «Limae labor et mora». Tale utensile, tipico della falegnameria, è infatti chiamato a indicare quella pratica di rifinitura a cui, in una prospettiva classicistica, va sempre sottoposto il prodotto estetico. Davanti allo stupore dell’apprendista, tanto più perentoria echeggia la risposta: «la lima è consumata; or facciam senza». Incredulo, il ragazzo non desiste, e chiede allora se non sia il caso di ripararla. La battuta finale, tuttavia,



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la lima è consumata; or facciam senza.

smorza ogni sua speranza: andrebbe riparata, non c’è dubbio, ribatte la Musa, «ma il tempo manca». Estraggo da un commento tre passi dello Zibaldone che sviluppano lo stesso argomento. Il primo recita: «Disgraziatamente l’arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri» (4269); il secondo precisa: «La negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo» (4271); il terzo invece afferma: «Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita

loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione» (4271-72). Insomma, il concetto è chiaro. Secondo Leopardi, la prosa e la poesia, in epoca moderna, sono radicalmente segnate da fretta, superficialità, approssimazione. Non dimentichiamo, peraltro, che nel 1839 il critico francese Sainte-Beuve pubblicherà un importante saggio intitolato De la littérature industrielle. Ancora una volta, non resta che ammirare l’estremo acume con cui, anche scherzando, il «pessimista cosmico» sapeva sondare i recessi dell’epoca, della cultura, della società nella quale viveva. E dire che tutto il primo decennio del 2000 è stato segnato dalle polemiche sulla mercificazione del mercato librario…

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 Testo 13

A Silvia Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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10 1. rimembri: ricordi. 2. vita mortale: vita terrena, prima che venisse interrotta dalla morte. 3. fuggitivi: vivaci ma anche pudichi, imbarazzati. 4. il limitare… salivi?: varcavi la soglia della gioventù. 5. opre femminili: attività tipiche di una donna, in questo caso Silvia tesse una tela (vd. vv. 21-22). 6. vago: bello e indefinito al tempo stesso. 7. odoroso: profumato, per i campi dove proliferano i fiori. 8. menare: trascorrere. 9. studi leggiadri: studi piacevoli. 10. sudate carte: faticosi scritti (metonimia).

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Leopardi compone A Silvia in soli due giorni, il 19 e 20 aprile del 1828. È il secondo, dopo Il risorgimento, fra quelli che vengono indicati come i canti del periodo pisano-recanatese (1828-1830) ed è proprio a queste due liriche che il poeta si riferisce quando il 5 maggio del 1828 scrive alla sorella Paolina: «dopo due anni, ho fatto dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta». È inoltre la prima canzone libera, quindi un passo avanti importante nelle innovazioni stilistiche, e il primo grande canto della memoria, che ha preso il posto “poetico” dell’immaginazione. Dietro la Silvia cantata da Leopardi – il cui nome proviene dalla ninfa dell’Aminta, il dramma pastorale di Tasso – sembra oramai accettato riconoscere Teresa Fattorini, figlia di un dipendente di casa Leopardi, morta di tisi in giovanissima età il 30 settembre 1818. Sulla figura di Silvia e sulla sua morte prematura, il poeta proietta il tòpos della caduta delle illusioni e delle speranze già nella pienezza della vita, nella sua “primavera”, a testimoniare una volta di più la concezione materialistica di una Natura del tutto indifferente all’uomo. Presente nelle edizioni dei Canti del 1831 e del 1835, A Silvia occupa il ventunesimo posto nell’edizione definitiva del 1845, dopo Il risorgimento e prima de Le ricordanze.

Silvia, rimembri1 ancora quel tempo della tua vita mortale2, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi3, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?4

Forma metrica: Canzone libera, composta da sei strofe di diversa lunghezza di endecasillabi e settenari con rime varie, in prevalenza alternate e baciate.

Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che all’opre femminili5 intenta sedevi, assai contenta di quel vago6 avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso7: e tu solevi così menare8 il giorno. Io gli studi leggiadri9 talor lasciando e le sudate carte10, ove il tempo mio primo11 e di me si spendea la miglior parte, d’in su i veroni del paterno ostello12 porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela13. Mirava14 il ciel sereno, le vie dorate15 e gli orti, e quinci16 il mar da lungi17, e quindi18 il monte. Lingua mortal19 non dice quel ch’io sentiva in seno20.

11. tempo mio primo: prima parte della mia vita (cioè la giovinezza). 12. d’in su… ostello: dai balconi del palazzo paterno. 13. faticosa tela: faticoso lavoro di tessitura (metonimia). 14. Mirava: contemplavo. 15. dorate: illuminate dal raggio dorato del sole. 16. quinci: da una parte, da questa parte. 17. da lungi: in lontananza. 18. quindi: dall’altra parte. 19. Lingua mortal: lingua umana, terrena. 20. in seno: nel petto, nel cuore.

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Che pensieri soavi, che speranze, che cori21, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme22, un affetto mi preme23 acerbo24 e sconsolato, e tornami a doler25 di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? Tu pria che l’erbe inaridisse il verno26, da chiuso morbo27 combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva28 il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan29 d’amore. Anche peria fra poco la speranza mia dolce30: agli anni miei anche negaro i fati31 la giovanezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova32, mia lacrimata speme! 33 Questo è quel mondo?34 questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi onde cotanto35 ragionammo insieme? questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda36 mostravi di lontano.

Pagina autografa di A Silvia, 1828. Napoli, Biblioteca Nazionale.

21. che cori: quanti sentimenti, quanti affetti. 22. Quando… speme: Quando mi torna alla mente una così grande speranza. 23. un affetto mi preme: un sentimento mi opprime. 24. acerbo: aspro. 25. e tornami a doler: e torno a dolermi. 26. Tu… verno: Tu, prima che l’inverno inaridisse l’erba dei prati. 27. da chiuso morbo: da una malattia chiusa all’interno del petto, come è la tisi per cui si spense Teresa. 28. molceva: inteneriva. 29. teco ragionavan: con te discutevano. 30. Anche… dolce: Allo stesso modo morivano poco dopo le illusioni giovanili. 31. negaro i fati: il destino negò. 32. età mia nova: la prima età, cioè la giovinezza 33. lacrimata speme: compianta speranza (l’esclamazione è rivolta alla speranza, cui si sovrappone l’immagine femminile di Silvia). 34. quel mondo?: quella vita che avevamo sperato e immaginato? 35. onde cotanto: di cui tanto. 36. ignuda: spoglia.

96 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | Caspar David Friedrich, Donna alla finestra, 1822. Berlino, Nationalgalerie.



Analisi del testo

Storia del testo

Alla felicità del momento vissuto da Leopardi a Pisa nella primavera del 1828, corrisponde la ripresa gioiosa della poesia (anche dal punto di vista metrico, poiché riprende e rielabora la forma della canzonetta arcadica) che chiude il periodo, più che di “silenzio poetico”, come è stato detto quasi ad alludere a un impoverimento della vena creativa, dell’impegno dedicato alle stampe di quanto fino a quel momento composto e, soprattutto, alla scrittura del blocco maggiore delle Operette morali > p. 142 | del 1824, che rappresentano un momento di cambiamento importante nell’impianto concettuale di Leopardi. Struttura e temi

Il componimento è strutturato in sei strofe, per complessivi 63 versi, scandite su una architettura perfetta nella quale le simmetrie hanno il compito di dare sempre di più il legame, fino alla sovrapposizione, tra Silvia e Leopardi, tra la fanciulla e l’io poetico. 1 Prima stanza (vv. 1-6): l’invocazione del primo verso instaura il meccanismo di una memoria “comune” che viene richiesta a una Silvia muta, che non c’è più, ma che, rievocata, riemerge dal passato. Con funzione proemiale, l’interrogativa di questi primi sei versi colloca nel tempo della giovinezza sia l’interlocutrice, sia il poeta stesso. 2 Seconda stanza (vv. 7-14): attraverso la trasposizione memoriale Silvia viene ricordata in un luogo, un interno, e vista “in azione”: il canto, la tessitura al telaio. Si ribadisce un tempo che, speculare alla prima strofa, è specificato come una primavera piena, secondo una similitudine consueta che vede nel susseguirsi delle stagioni una scansione delle età della vita. 3 Terza stanza (vv. 15-27): si apre con l’«Io» del v. 15 che torna al passato, al tempo della sua stessa giovinezza quando, intento agli studi, ascoltava il canto del-

la fanciulla, in una perfetta corrispondenza con la seconda strofa tra azioni, luoghi e immagini. Il punto di vista è quello dell’io poetico ma anche biografico. 4 Quarta stanza (vv. 28-39): dal tempo della rimembranza si torna al presente della tragica consapevolezza della fine del passato, della fine delle illusioni, un presente che accomuna il poeta e la fanciulla, come testimonia il passaggio alla prima personale del plurale «ci apparia» del v. 30; e comune, infatti, sembra essere il rivolgersi alla Natura nelle due interrogative di fine strofa; 5 Quinta stanza (vv. 40-48): dopo l’io della terza strofa e il “noi” della quarta, qui si torna al Tu rivolto a Silvia e alla sua scomparsa, collocata in un tempo metaforico del ciclo stagionale che è prima dell’inverno, a indicare che la morte le ha impedito di vivere la pienezza della primavera della vita («il fior degli anni tuoi»). 6 Sesta stanza (vv. 49-63): l’analogia, la specularità, tra l’io poetico e Silvia, diventa identità di destino, dichiarato esplicitamente da quell’«Anche» che apre l’ultima strofa e ci accompagna alla visione della caduta definitiva delle illusioni, “anche” del poeta. Molto

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significativa è quindi la funzione dominante del verbo perire rivolto sia a Silvia sia all’io lirico. Dopo aver invocato Silvia che così riemerge dalla memoria, la seconda e la terza strofa procedono in parallelo muovendosi la seconda sulla vita e le speranze di Silvia, la terza sulla vita e le speranze del poeta, in perfetto rispecchiamento: sono entrambi giovani, anche se solo l’io poetico raggiunge la consapevolezza delle domande sulla caduta delle promesse di felicità e sul loro essere effimere. L’irruzione della morte, presagita sin dai primi versi, ma dichiarata nella quinta strofa, instaura nuovamente una specularità tra il perire della «tenerella» (v. 42), e il perire delle speranze di Leopardi, convertendo la «speranza mia dolce» del v. 50 nella «lacrimata speme» del v. 55, fino al momento culminante del crollo definitivo di tutte le illusioni e di tutte le aspettative concentrato in quell’«All’apparir del vero» inappellabile del v. 60. Tema centrale, oltre a quello del ricordo, è dunque la dicotomia gioventù/morte, che percorre tutta la lirica e si rafforza tramite immagini di grande impatto visivo che si esprimono in una oscillazione continua tra l’una e l’altra. Come si vede, per esempio, nelle coppie aggettivali, spesso oppositive, quasi degli ossimori “mitigati” che Leopardi distribuisce in tutto il componimento: gli occhi di Silvia sono «ridenti e fuggitivi» (e gli occhi che ridono sono elemento forte delle immagini stilnoviste e dantesche), appare «lieta e pensosa» (un ossimoro «discreto» secondo Blasucci perché non è tra due aggettivi ma tra due qualità: la gioia di «lieta» e la mestizia che percepiamo come qualità secondaria di «pensosa» nata proprio dall’accostamento dei due termini), intenta tra il canto e la «faticosa tela». Ma è anche la stessa natura a presentarsi in uno stadio quasi di perenne transizione e antitesi: Silvia muore «pria che l’erbe inaridisse il verno», mentre alla memoria di Leopardi essa si presenta «nel maggio odoroso», nella pienezza del giorno, novella Proserpina*, nella luce colma di chi guarda dall’alto del palazzo Leopardi la valle sottostante che comprende «quinci il mar da lungi, e quindi il monte». Simmetrica è

Proserpina *in Grecia chiamata Persefone, è la dea delle ombre. Narra il mito che mentre Proserpina era intenta a cogliere dei fiori la terra si spalancò all’improvviso sotto di lei, che fu fatta prigioniera da Plutone, il dio degli inferi e condannata a vivere per un terzo dell’anno nell’Ade e il resto sulla terra, quando la natura si risveglia.

anche l’alternanza fra interni ed esterni: finestra, balcone, stanza, vie. L’epifania della fanciulla, pur chiamata e invocata con un nome e una familiarità affettuosa e concreta, non assume contorni precisi, anzi, i tratti di una persona realmente esistita si fanno sempre più rarefatti e diventano quelli di una “figura” della giovinezza e della speranza. Tale assimilazione con la Speranza si mostra sempre più nitida man mano che si procede nella poesia, tanto da apparire poi, a sua volta, come una raffigurazione che assume tratti sempre più somiglianti a Silvia stessa. Infatti, dopo che alcune letture critiche si sono spinte a vedere nella gelida e marmorea immagine finale, dai tratti scultorei tipici di un bassorilievo sepolcrale, la fanciulla che addita una tomba “vuota”, come a indicare e ricordare al poeta anche la propria morte, Blasucci ha chiarito che questo equivoco nasce dalla precisa volontà di Leopardi di sovrapporre l’immagine femminile di Silvia a quella della personificazione della Speranza, la cui identità è evidente proprio in quegli stessi elementi “affettivi” che pochi versi prima aveva la fanciulla: la Speranza era dolce, compagna della sua giovinezza e misera nella caduta, quasi una seconda Silvia, è stato detto, che raddoppia e amplifica l’immagine iniziale, anche questa figurativamente molto potente, della giovinetta che, già presaga di morte («lieta e pensosa»), saliva il limitare della gioventù. Nel dialogo immaginario con Silvia, ricostruito attraverso i ricordi, si esprime, malgrado un marchio di indicibilità («Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno»), l’idea di fondo del componimento: il divario incolmabile tra il tempo della gioventù colmo di attese, di speranze nel futuro (vedi anche Alla luna > p. 70 |) e il tempo che spinge ineluttabilmente verso la consapevolezza di un presente che è nulla e di un passato che è svanito del tutto. Il doloroso disinganno che scaturisce tra ciò che la natura promette e ciò che in realtà dà, è il tema che si trova, con accenti ben più violenti, nel Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 |.

In digitale L. Blasucci, Note sul testo di «A Silvia», in Testi e percorsi leopardiani

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Nel 1821 (pp. 1927-1930), peraltro, anche nello Zibaldone il poeta si era soffermato su quei “processi infinitivi” che possono scaturire dal suono:

In digitale G. Ferroni, Il testo di «A Silvia»: una prova di lettura

«

Per un approfondimento sulla lettura del v. 13 «Era il maggio odoroso» e sull’uso del verbo perire nel componimento, rimandiamo al testo di Luigi Blasucci in digitale. Fonti e modelli

Uno dei motivi da cui trae spunto la lirica risale a memorie autobiografiche sulle quali si è già innestata la riflessione e la trasposizione in versi. Nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza del 1819, per esempio, compaiono alcuni appunti per un progetto di romanzo su Teresa:

«

cenare allegramente dal cocchiere intanto che la fglia stava male, storia di Teresa da me poco conosciuta e interesse ch’io ne prendeva come di tutti i morti giovani in quello aspettar la morte per me.

»

La tematica è affine all’idillio Il sogno, al frammento in endecasillabi sciolti Il canto della fanciulla e a un passo dello Zibaldone del 30 giugno 1828 (4310-4311):

«

una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare […]. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere o contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fore, di quello stato, di quelle bellezze […] ne segue un afetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.

»

Nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza Leopardi fa esplicito riferimento a un «Canto mattutino di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa mentre ch’io leggeva il Cimitero della Maddalena», come pure il canto della giovinetta che muore prematuramente trova una prima elaborazione poetica nell’ambito “idillico” con Il sogno e poi, soprattutto, ne La vita solitaria, dove in alcuni versi abbiamo non solo lo stesso tema, ma anche le stesse parole e gli stessi sintagmi, per esempio ai vv. 63-65: «e di fanciulla / che all’opre di sua man la notte aggiunge / odo sonar nelle romite stanze / l’arguto canto».

È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefnita che desta […] un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte, un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro.

»

Dal punto di vista formale, la canzone leopardiana parte dalla canzone petrarchesca con l’alternanza di endecasillabi e settenari, ma Leopardi scardina la regolarità metrica del suo modello, ne sovverte la fissità dello schema e delle rime, in direzione di una struttura libera e con versi irrelati. All’interno della rielaborazione, che è comunque del tutto personale, possono anche essere rintracciati esempi della tradizione poetica precedente: per la forma della canzone libera sono stati richiamati alcuni precedenti come Pel giorno onomastico alla sua donna di Monti o l’Amor fuggitivo di Tasso, incluso nella recente Crestomazia poetica. O ancora Petrarca e il petrarchismo per le dittologie aggettivali, tessere tassiane e pariniane (a partire dal nome di Silvia, omaggio di Leopardi alla poesia pastorale e in special modo all’Aminta di Tasso, ma usato anche da Parini nel titolo dell’ode A Silvia o della ghigliottina), riferimenti all’Eneide virgiliana (il canto di Circe mentre tesse la sua tela). In digitale proponiamo la lettura di A Silvia a opera di Giulio Ferroni, che analizza le scelte compiute da Leopardi, anche in relazione ai modelli che abbiamo qui indicato, partendo da alcune delle varianti più significative tra le stampe. Lingua e stile

La lirica si apre con un vocativo che tende a dare subito al componimento un tono affettuosamente colloquiale, raggiunto attraverso scelte di straordinaria efficacia sul piano retorico e di suono. La poesia è infatti intessuta di figure retoriche come le antitesi: dall’ossimoro attenuato di «lieta e pensosa» alle figure di ripetizione (come la negazione «non» dei vv. 42 e 44), dalle assonanze del tipo «limitare»-«mortale» al gioco anagrammatico «Silvia»-«salivi» con cui si apre e chiude, circolarmente, la prima strofa. A questo proposito, si noti anche la frequenza del fonema vi nell’arco di tutto il componimento o del gruppo ti, tu, te, ta della prima strofa che potrebbe costituire il corrispettivo fonico dello slancio vocativo, del tu del dialogo. Il lessico, in linea con il tema lirico, appartiene, in massima parte, alla poetica del vago («fuggitivi», «pensosa», «perpetuo», «vago», «lungi», ecc.), e tende a

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consolidare la sensazione di indefinito che aleggia dalla prima all’ultima strofa. È la memoria ad assumere un ruolo da protagonista, a prendere quella funzione “poetica” che in altre liriche è svolta dall’immaginazione. Ruolo che si protrarrà nel tempo, come si può cogliere leggendo Le ricordanze > p. 100 | o quanto scrive Leopardi il 14 dicembre 1828, alcuni mesi dopo A Silvia, nello Zibaldone (4426), dove richiama la lontananza come termine di vago e indefinito, dunque di poetico > Focus, p. 58 |. Molto preciso è anche l’uso dei tempi verbali: sempre l’imperfetto per le rievocazioni, il passato remoto per la rottura della magia della speranza giovanile e il presente per la desolata e definitiva constatazione della fine delle illusioni. Il tempo della durata e dell’attesa nella rimembranza è infatti, nelle prime due strofe, l’imperfetto, che si esprime anche in un richiamo continuo delle rime in -ivi/-evi o in -ea; nella seconda parte si passa invece al passato prossimo o remoto. Con A Silvia Leopardi realizza il suo primo felicissimo esercizio di canzone libera. Si noti come il ritmo del componimento vada ad assecondare mimeticamente gli stati d’animo: l’utilizzo di periodi impersonali («Che pensieri soavi, ecc», vv. 28-29) e di interro-



In digitale P. V. Mengaldo, Attraverso la poesia leopardiana

gazioni incalzanti («Questo è quel mondo? ecc.», vv. 56-59) danno l’idea di sfoghi immediati; e la punteggiatura, che spesso lascia i versi liberi di snodarsi in periodi sciolti e ariosi, mentre altre volte li lega con molte interpunzioni. Così, se il ritmo fluisce aperto nell’incipit (vv. 1-4) o nell’intera terza strofa (vv. 15-27), dove i versi riducono al minimo le pause interne, esso risulta più nervoso in passaggi strategici, come nelle esclamazioni dei vv. 28-29 o nel 42 («perivi, o tenerella. E non vedevi») e soprattutto nel v. 60 («tu, misera, cadesti: e con la mano») che, nell’estrema spezzatura e nell’inarcatura, accumula tensione che si scioglie nell’immagine finale. Per ulteriori approfondimenti sulle scelte stilistiche e linguistiche, relative in particolare alla metrica della canzone libera, rimandiamo alla lettura in digitale dell’analisi di Pier Vincenzo Mengaldo.

Esercizi

Comprensione 1. Riassumi il contenuto di ogni stanza. 2. Come sono caratterizzati i due giovani protagonisti, Silvia e Giacomo Leopardi? 3. Che cosa cambia nel testo a partire dalla quarta strofa? Laboratorio 4. Analizza il piano metrico, la punteggiatura e il ritmo: quali effetti si generano? 5. Soffermati sull’uso degli aggettivi e spiega gli esiti dei frequenti accostamenti. 6. Quali espressioni lessicali sono riconducibili alla poetica del vago e dell’indefinito? Individui anche termini di ascendenza diversa?

7. Analizza le antitesi che attraversano la lirica. 8. Che funzione hanno le interrogazioni incalzanti della lirica? 9. Quali indicatori testuali sottolineano la consapevolezza del crollo delle illusioni giovanili? 10. Spiega in che modo l’idillio, partendo da un contesto apparentemente quotidiano, si faccia via via più simbolico. Approfondimento 11. Inquadra la lirica nella poetica della rimembranza di cui hai letto nei passi dello Zibaldone. 12. Analizza la contrapposizione tra Amore e Morte, facendo anche riferimento al contesto europeo del Romanticismo.

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 Testo 14

Le ricordanze Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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1. Vaghe: l’aggettivo è polisemico ed ha una triplice lettura: 1) belle, attraenti; 2) lontane, indefinite; 3) vaganti, mobili. 2. Orsa: costellazione dell’Orsa Maggiore, detta

Composta a Recanati tra il 26 agosto e il 12 settembre 1829, pubblicata nei Canti del 1831 e posta dopo A Silvia nelle edizioni del 1835 e del 1845, è la grande lirica della «rimembranza», della lontananza che rende “vaga” e “indeterminata” l’occasione, l’oggetto, l’immagine, il ricordo della persona. Il motivo del ricordo è presente già nell’idillio Alla luna > p. 70 |, che aveva come primo titolo La ricordanza, e nella costruzione circolare della memoria che torna ne La sera del dì di festa > p. 66 |. Il lungo racconto della memoria vede comparire una seconda figura femminile, che condivide con la lirica precedente la provenienza, nel nome, dal mondo dei boschi – Nerina (da nemus : lat. “bosco”) e silvestre (da silva: “selva”) per Silvia, entrambe mutuate da Tasso – ma anche la fine precoce. I due piani temporali, il presente del disinganno e il passato del piacere, sono richiamati e legati insieme da sensazioni visive, a partire dall’incipit divenuto celebre, e uditive: «Viene il vento recando il suon dell’ora» (v. 50).

Vaghe1 stelle dell’Orsa2, io non credea tornare3 ancor per uso4 a contemplarvi sul paterno5 giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre di questo albergo6 ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole creommi nel pensier l’aspetto vostro e delle luci a voi compagne! 7 allora che, tacito8, seduto in verde zolla9, delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo, ed ascoltando il canto della rana rimota10 alla campagna! E la lucciola errava appo11 le siepi e in su l’aiuole, susurrando al vento i viali odorati12, ed i cipressi là nella selva; e sotto al patrio tetto sonavan voci alterne, e le tranquille opre de’ servi. E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò13 la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno io mi pensava, arcani14 mondi, arcana felicità fingendo al viver mio! ignaro del mio fato, e quante volte questa mia vita dolorosa e nuda15 volentier con la morte avrei cangiato.

anche Grande Carro. 3. tornare: che sarei tornato. 4. per uso: per abitudine. 5. paterno: della dimora familiare. 6. albergo: palazzo. 7. Quante… compagne:

quante fantasie e quante storie il vostro aspetto e quelle delle stelle (vostre compagne) hanno creato nel mio pensiero. 8. tacito: silenzioso. 9. verde zolla: prato. 10. rimota: lontana.

11. appo: presso. 12. odorati: odorosi. 13. spirò: ispirò. 14. arcani: lontani, ma anche misteriosi. 15. nuda: priva di gioie.

Forma metrica: endecasillabi sciolti.

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Né mi diceva il cor che l’età verde16 sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vil17; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper18; che m’odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di se19, ma perché tale estima20 ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori a persona giammai non ne fo segno21. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, senz’amor, senza vita; ed aspro a forza22 tra lo stuol de’ malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi, e sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia ch’ho appresso23: e intanto vola il caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor, più che la pura luce del giorno, e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni, o dell’arida vita unico fiore. Viene il vento recando il suon dell’ora dalla torre del borgo. Era conforto questo suon, mi rimembra, alle mie notti, quando fanciullo, nella buia stanza, per assidui terrori io vigilava24, sospirando25 il mattin. Qui non è cosa ch’io vegga o senta, onde26 un’immagin dentro non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per se; ma con dolor sottentra27 il pensier del presente, un van desio28 del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. Quella loggia colà, volta agli estremi raggi del dì; queste dipinte mura, quei figurati armenti29, e il Sol che nasce su romita campagna30, agli ozi miei porser mille diletti allor che al fianco

16. età verde: giovinezza. 17. vil: meschina. 18. cui nomi… saper: per i quali le dottrine e il sapere sono solo termini strani di cui non sanno il significato, e spesso motivi di riso e di svago. 19. per invidia… di sé: non certo per invidia, poiché non mi ritiene superiore a sé. 20. estima: stima, reputa. 21. non ne fo segno: non lo lascio intendere. 22. a forza: per forza, contro la mia natura.

23. per la… appresso: per il volgo che ho attorno. 24. per assidui… vigilava: rimanevo sveglio per le continue paure. 25. sospirando: desiderando. 26. onde: per effetto della quale. 27. sottentra: subentra. 28. van desio: inutile desiderio, cioè un rimpianto. 29. figurati armenti: greggi dipinti sui muri. 30. il Sol… campagna: evidentemente è il soggetto di un altro

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m’era, parlando, il mio possente errore31 sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche, al chiaror delle nevi, intorno a queste ampie finestre sibilando il vento, rimbombaro i sollazzi32 e le festose mie voci al tempo che l’acerbo, indegno mistero delle cose a noi si mostra pien di dolcezza; indelibata33, intera il garzoncel, come inesperto amante, la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira34. O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! sempre, parlando, ritorno a voi; che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obbliarvi non so35. Fantasmi36, intendo, son la gloria e l’onor; diletti e beni mero desio37; non ha la vita un frutto38, inutile miseria. E sebben vòti son gli anni miei, sebben deserto, oscuro il mio stato mortal, poco mi toglie la fortuna, ben veggo39. Ahi, ma qualvolta a voi ripenso, o mie speranze antiche, ed a quel caro immaginar mio primo; indi riguardo il viver mio sì vile e sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza40; sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte sarammi allato, e sarà giunto il fine della sventura mia; quando la terra mi fia41 straniera valle, e dal mio sguardo fuggirà l’avvenir; di voi per certo risovverrammi42, e quell’imago ancora sospirar mi farà, farammi acerbo43 l’esser vissuto indarno44, e la dolcezza del dì fatal tempererà d’affanno45.

dipinto. 31. il mio possente errore: il grande errore (di cedere alle illusioni giovanili). 32. sollazzi: svaghi. 33. indelibata: non assaggiata, quindi integra, intatta. 34. e celeste… ammira: e ammira la bellezza divina frutto delle sue illusioni. 35. che per andar… non so: che non so dimenticarvi, per quanto passi il tempo e cambino i sentimenti e le idee. 36. Fantasmi: illusioni.

37. diletti… desio: piaceri e gioie sono solo puro desiderio. 38. frutto: scopo. 39. ben veggo: mi rendo bene conto. 40. m’avanza: mi resta. 41. mi fia: sarà per me. 42. risovverrammi: mi tornerà alla memoria. 43. acerbo: amaro. 44. indarno: invano. 45. e la dolcezza… d’affanno: e la dolcezza della morte mitigherà questo dolore.

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E già nel primo giovanil tumulto di contenti46, d’angosce e di desio, morte chiamai più volte, e lungamente mi sedetti colà su la fontana pensoso di cessar47 dentro quell’acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse48, piansi la bella giovanezza, e il fiore de’ miei poveri dì, che sì per tempo49 cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio50 letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto, ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto. Chi rimembrar vi può senza sospiri, o primo entrar di giovinezza, o giorni vezzosi, inenarrabili, allor quando al rapito mortal primieramente51 sorridon le donzelle; a gara intorno ogni cosa sorride; invidia tace, non desta ancora ovver52 benigna; e quasi (inusitata53 meraviglia!) il mondo la destra soccorrevole gli porge, scusa gli errori suoi, festeggia il novo suo venir nella vita, ed inchinando mostra che per signor l’accolga e chiami?54 Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo son dileguati. E qual mortale ignaro di sventura esser può, se a lui già scorsa quella vaga stagion, se il suo buon tempo, se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? 55

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46. contenti: gioie. 47. cessar: affogare (evidente il riferimento a pensieri suicidi). 48. Poscia… forse: Poi, da questo oscuro male condotto in pericolo di vita. 49. sì per tempo: così presto. 50. conscio: consapevole. 51. primieramente: in primo luogo. 52. ovver: oppure. 53. inusitata: inattesa. 54. ed inchinando… chiami?: e inchinandosi sembra accoglierlo e chiamarlo suo signore? 55. E qual… spenta?: E quale uomo può essere ignaro della sua infelicità, quando per lui è già

trascorso il bel periodo ed è finita la giovinezza? 56. gita: andata. 57. Terra natal: luogo di nascita, Recanati. 58. ond’eri… deserta: da cui eri solita parlarmi e da cui si riflette il raggio delle stelle, ora che è vuoto. 59. siccome: così come. 60. scolorarmi: impallidirmi. 61. confidente immaginar: fiduciosa immaginazione. 62. quando… giacevi: quando il destino li spegneva e tu morivi. 63. se a radunanze io movo: partecipo ad incontri. 64. rimembranza acerba: amaro ricordo.

O Nerina! e di te forse non odo questi luoghi parlar? caduta forse dal mio pensier sei tu? Dove sei gita56, che qui sola di te la ricordanza trovo, dolcezza mia? Più non ti vede questa Terra natal57: quella finestra, ond’eri usata favellarmi, ed onde mesto riluce delle stelle il raggio, è deserta58. Ove sei, che più non odo la tua voce sonar, siccome59 un giorno, quando soleva ogni lontano accento del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto scolorarmi60? Altro tempo. I giorni tuoi furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri il passar per la terra oggi è sortito, e l’abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte la gioia ti splendea, splendea negli occhi quel confidente immaginar61, quel lume di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi62. Ahi Nerina! In cor mi regna l’antico amor. Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo63, infra me stesso dico: o Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: Nerina or più non gode; i campi, l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno sospiro mio: passasti: e fia compagna d’ogni mio vago immaginar, di tutti i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del cor, la rimembranza acerba64.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Le ricordanze | 103



Guida all’analisi

Costruisci la tua analisi del testo seguendo punto per punto le indicazioni di lavoro che ti vengono suggerite. L’idillio fu composto nel . . . . . . . . . . . . e ha come motivo di fondo quello del ricordo strettamente intrecciato con la poetica del vago e dell’indefinito. La prima strofa, aperta proprio dall’aggettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , descrive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il poeta rivive e ricorda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . quando immaginava una . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . poi negata dal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; la memoria e il ricordo affiorano grazie all’uso dei tempi verbali: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .................................................................................................. Già da questa prima strofa sono evidenti i richiami tematici e lessicali ad A Silvia: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............................................................................................... Ma la condizione in cui si raffigura il poeta richiama anche quella de L’infinito, infatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , sebbene nei vv. 25-28 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............................................................................................... Nella seconda strofa si snoda il rapporto sofferto del poeta con . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . definito con l’espressione ossimorica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , volta a significare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Leopardi dipinge Recanati come . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . popolata da . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e se stesso come ................................................................................................ La terza strofa si caratterizza per una forte aggettivazione che accompagna l’oscillare dei ricordi con l’inquietudine del presente: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

; si chiude con un’immagine di attesa illusoria rappresentata dal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , figura presente anche nel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , che ammira ................................................................................................ Nella quarta strofa affiora la dolente consapevolezza dell’arido vero che accomuna la presente lirica ad A Silvia e la consapevolezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; il lessico si arricchisce di espressioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ed emerge la morte come . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , morte invocata nella strofa successiva, in cui il poeta esprime il proprio stato d’animo pervaso da . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ................................................................................................. La quinta strofa è intessuta di richiami letterari: al v. 104 è facile scorgere l’eco di Petrarca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; ai vv. 111-112 quella di Foscolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , mentre nei vv. 109-110 il «cieco malor» rimanda al . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . con cui Silvia periva. Nella sesta i temi che accomunano la lirica ad A Silvia si fanno ancora più forti a iniziare dal verbo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . in incipit, per poi proseguire col motivo della giovinezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e della fugacità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . nella cui definizione non sembra estraneo il modello oraziano dell’Ode II, 2, «fugaces labuntur anni » (“fugaci scorrono gli anni”). L’ultimo momento della lirica si apre con l’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . a Nerina; immediato è il confronto con Silvia: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La chiusa dell’idillio ha come sigillo il termine chiave dell’intero componimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , termine che esprime un moto del pensiero dell’autore che attraversa tutta la sua produzione: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............................................................................ ...................................................

Leopardi (Elio Germano) in una scena del film Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone.

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 Testo 15

La quiete dopo la tempesta Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013 Forma metrica: canzone libera di endecasillabi e settenari di tre strofe di diversa lunghezza; l’ultimo verso di ciascuna strofa è in rima con uno dei versi precedenti.

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Nel settembre del 1829, a Recanati, Leopardi compone i suoi ultimi due canti “pisano-recanatesi” – La quiete dopo la tempesta tra il 17 e il 20, come annota egli stesso sull’autografo, e Il sabato del villaggio tra il 20 e il 29 – che vanno a chiudere l’edizione dei Canti del 1831 e seguono il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in quella napoletana del 1835 come nella definitiva del 1845, sebbene quest’ultimo venga composto poco dopo. Sotto il quadretto “paesaggistico” e la superficie all’apparenza “pacificata” di questa lirica, si muovono molte tensioni e riflessioni che continueranno anche nella poesia posteriore. In particolare per la tematica legata alla dialettica piacere-dolore, a partire dalla memoria della vita recanatese, colta nel momento di festosa ripresa della serenità quotidiana dopo che è cessato il fragore di un temporale: quello descritto è, in realtà, il meccanismo del piacere come momento di breve durata ed effimero che sospende il dolore, già presente in molte riflessioni dello Zibaldone.

Passata è la tempesta: odo augelli1 far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe2 là da ponente, alla3 montagna; sgombrasi4 la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il romorio5

1. 2. 3. 4.

augelli: uccelli. rompe: irrompe. alla: sopra la. sgombrasi: si libera dalle nuvole. 5. romorio: il rumoreggiare dell’attività che riprende dopo il temporale.

Antonio Fontanesi, Paesaggio dopo la pioggia, 1860 circa. Firenze, Galleria Palatina.

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torna il lavoro usato6. L’artigiano a mirar l’umido cielo, con l’opra in man7, cantando, fassi8 in su l’uscio; a prova9 vien fuor la femminetta a còr10 dell’acqua della novella piova11; e l’erbaiuol12 rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville13. Apre i balconi14, apre terrazzi e logge la famiglia15: e, dalla via corrente16, odi lontano tintinnio di sonagli; il carro stride del passeggier17 che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita quand’è, com’or, la vita? quando con tanto amore l’uomo a’ suoi studi intende18? o torna all’opre? o cosa nova imprende19? quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita abborria20; onde in lungo tormento21, fredde, tacite, smorte, sudàr le genti e palpitàr, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento22. O natura cortese, son questi i doni tuoi, questi i diletti23 sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena24 è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro25 e miracolo talvolta nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana prole cara agli eterni26! assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor27: beata se te d’ogni dolor morte risana28.

6. usato: consueto. 7. con l’opra in man: con l’oggetto o lo strumento del suo lavoro tra le mani. 8. fassi: si fa, s’affaccia. 9. a prova: a gara (con le altre donne del borgo). 10. còr: raccogliere. 11. della novella piova: dell’ultima pioggia. 12. erbaiuol: venditore di verdure. 13. per… ville: tra i colli e i gruppi di casolari (villa è usato in modo analogo al v. 31 de Il passero solitario, «rimbomba lontan di villa in villa»). 14. balconi: finestre. 15. la famiglia: la servitù. 16. dalla via corrente: dalla via principale. 17. passeggier: viandante. 18. a’ suoi… intende: si dedica alle sue occupazioni. 19. cosa… imprende: inizia un nuovo lavoro. 20. onde… aborria: per cui, anche chi odiava la vita si riscosse ed ebbe paura di morire. 21. onde… tormento: per cui, con grande sofferenza. 22. sudàr… vento: le genti sudarono e palpitarono (di paura), vedendo fulmini, nuvole e vento scatenati contro di noi. 23. i diletti: le cose piacevoli. 24. Uscir di pena: sfuggire a una sofferenza. 25. mostro: prodigio (latinismo, da monstrum). 26. agli eterni: agli dèi. 27. assai… dolor: ritieniti molto fortunata se ti viene concesso ancora un po’ di sollievo da qualcuno dei tuoi dolori; lice (che rima con felice) è un latinismo. 28. se… risana: se la morte ti guarisce da ogni dolore.

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 Analisi del testo Struttura e temi

La divisione della lirica in tre strofe, molto scandita, corrisponde a tre diversi passaggi tematici e stilistici: 1 la prima strofa è descrittiva: il borgo è ripreso dopo la fine del forte temporale quando si torna alla vita di tutta la natura, degli animali e degli uomini, nella sensazione festosa e gioiosa del dopo, del dopo la pausa forzata che aveva messo a rischio l’attività del villaggio, del dopo il passato pericolo (si ritrova una rappresentazione analoga nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez > p. 168 |); 2 la seconda strofa vede il proseguire della descrizione (vv. 25-31) ma anche l’inizio di una meditazione, un commento, su quanto è appena avvenuto: il piacere che si ricava dalla cessazione di un forte timore e dolore (vv. 32-41); 3 la terza strofa ha nell’apostrofe ironica alla natura, che è cortese, il suo punto culminante: se il piacere in sé non esiste ed è solo figlio del cessare dell’affanno (v. 32), ne consegue che il piacere è temporaneo; e non può neanche durare, altrimenti in quanto “continuato” cadrebbe nella normalità, cioè sarebbe noia e, dunque, l’unico piacere che è davvero quiete, che può durare e che sospende qualsiasi patimento, è la morte. Questa la conclusione sull’infelicità della condizione umana. L’immagine che percorre La quiete dopo la tempesta è presente già nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza ma, soprattutto, è legata ai pensieri 2600-2602 dello Zibaldone del 7 agosto del 1822, da cui sembra scaturire:

«

menti naturali, che ha procurato dolore e ha impedito, interrotto, quella «continuità» del piacere che causa «uniformità» e, quindi (si ricordi che «però» sta per “perciò” in Leopardi), noia, ma anche la meditazione forte del piacere soltanto come cessazione momentanea del dolore. Così gli «augelli» in festa, la gallina che razzola sul sentiero, l’artigiano che canta sull’uscio, il tintinnio di sonagli in lontananza, sono elementi uditivi e visivi tutti fallaci, effimeri, transitori perché frutto della fine momentanea del dolore, come è chiaramente indicato in quel verso 32, non a caso al centro della lirica, che è diventato una specie di manifesto della radice negativa dell’idea leopardiana del piacere: «Piacer figlio d’affanno». Gli antecedenti di quello che si configura davvero come un vero e proprio tòpos interno a tutta l’opera leopardiana, interno alla fantasia e all’immaginazione che gli sono proprie, sono molti; ne indichiamo alcuni a dimostrazione della lunga durata di questo motivo: due canzonette puerili del 1809-1810 dal titolo La tempesta, e un passo dell’Elogio degli uccelli delle Operette morali dove è già indicata la funzione evocativa degli uccelli che «nella tempesta si tacciono […] e passata quella, tornano fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri» e dove si esplicita anche quell’aspetto di apologo* di questa canzone. Inoltre gli antecedenti “interni”, di cui abbiamo visto pochissimi dei tantissimi esempi, si intrecciano con alcuni importanti modelli letterari. Fonti e modelli

L’uniformità è certa cagione di noia […]. La continuità de’ piaceri […] o di cose poco diferenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere […]. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’afanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e parimenti agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi […], si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi […]. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni [2602] non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec.

»

Ci sono tutti gli snodi tematici della poesia, non solo l’immagine, la figura della quiete che segue un evento traumatico, in questo caso la “convulsione” degli ele-

Anche nel caso di fonti “esterne” l’elenco sarebbe troppo lungo, scegliamo quindi quelle che a nostro parere sono le più attestate dalle letture dirette di Leopardi e le più “produttive” per la lirica: a parte alcuni testi cinquecenteschi (di Alamanni e Baldi) che Leopardi inserisce nella Crestomazia poetica rubricati entrambi come “Segni della tempesta e della serenità”, due sono gli esempi più importanti e anche collegati fra loro. Il primo è un passo dei Canti di Selma di Ossian nella traduzione di Michiel Salom > La biblioteca, p. 18 e Confronti, p. 65 |, incluso nella sua versione del Werther di Goethe, il cui incipit mostra evidenti affinità con la Quiete: «Il vento e la tempesta ormai cessaro»; e anche se alcuni studiosi hanno visto nell’attacco della lirica una ripresa da Monti, questo non esclude affatto, anzi, che la fonte possa essere co* Apologo mune. Il secondo esempio Racconto-favola breve di carattere solitamente con una viene dall’Ortis di Foscolo allegorica, chiusa morale. per il quale, tra l’altro, si po-

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trebbe fare lo stesso discorso: il passo è tratto dalla lettera del 20 novembre 1797 e mostra ancora maggiori analogie: «Il mal tempo s’è diradato […]. L’aria torna tranquilla, e la campagna, benchè allagata e coronata soltanto d’alberi sfrondati e cospersa di piante appassite, pare più allegra di quel che fosse prima della tempesta». Lingua e stile

Dal punto di vista sintattico si nota subito nella prima strofa e nel primo verso («Passata è la tempesta») l’anticipazione del verbo rispetto al soggetto e la posizione dominante di inizio frase del verbo ausiliare, che rimarca il senso di sollievo per la tempesta appena passata. Questa tecnica viene poi ripetuta in altri passaggi, ad esempio «sgombrasi la campagna» (v. 6), «risorge il romorio» (v. 9), «Si rallegra ogni core» (v. 25), e l’uso del presente indicativo ne accentua il ritmo che, in musica, si direbbe “allegretto”. Concorrono a questa sensazione anche i numerosi verbi che iniziano con ri- a rendere quasi visivo quel ritornare alla serenità della vita: «ripete», «risorge», «rinnova», «ritorna», «ripiglia», amplificato dall’allitterazione della r e dall’uso del desueto «romorio». Scandiscono il ritmo festivo in questa parte del componimento anche le molteplici ripetizioni di parole, come i casi di geminatio ai vv. 8 («Ogni cor si rallegra, in ogni lato»), 19 («Ecco il sol che ritorna, ecco sorride»), 20-21 («Apre i balconi, / apre terrazzi e logge»), 43-44 («son questi i doni tuoi, / questi i diletti sono»), o l’anafora del «quando» ai vv. 27-31. Anche l’utilizzo del doppio asindeto, in successione, ai vv. 38 e 41, e la prevalenza in

questi versi dei settenari sugli endecasillabi (11 su 24 versi), conferiscono un andamento incalzante alla lirica. La seconda strofa si apre con una serie di brevi interrogative retoriche che, al tempo stesso, chiudono la parte descrittiva e preludono a quella riflessiva. Il periodare, in seguito, si sviluppa con maggiore gravità e lentezza, infatti aumentano gli endecasillabi sui settenari che danno una cadenza più ampia ai versi, nonostante essi vengano più frequentemente spezzati da pause interne che ne accrescono il pathos. Lo scarto tra le due parti della poesia, che abbiamo indicato nel passaggio chiave del v. 32, si avverte anche in alcuni elementi stilistici. Nella prima vi è una maggiore frequenza di rime (tripla a prova : piova : rinnova), una rima al mezzo, anche di grande rilevanza semantica (tempesta : festa dei vv. 1-2) e assonanze (gallina : via; usato : cantando; cielo : sentiero; sorride : ville ecc.). Nella seconda parte, invece, le rime e le assonanze vanno a scemare, tanto più i versi esprimono un contenuto meditativo. Nell’ultima strofa il poeta, alla riflessione sulla vanità della gioia temporanea, aggiunge anche una tonalità fra l’amarezza e il sarcasmo, che si esprime nell’apostrofe «natura cortese» (v. 42), nella definizione dell’umanità come «cara agli eterni» (v. 51) – che ricorda l’operetta del Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 | –, nella sequenza lessicale di lemmi concettuali e non descrittivi («natura», «mortali», «pena», «diletto», «affanno», «morte» ecc.) e anche nella misura della strofa che è la più corta (13 versi contro 24 e 17), la più “assertiva”, una sorta di congedo senza appello.

 Esercizi Comprensione 1. Che cosa distingue la prima strofa dalle altre? 2. Riassumi, in non più di dieci righe, il contenuto del testo. 3. Che significato si può attribuire alla tempesta, oltre che quello letterale? Laboratorio 4. Soffermati sui quadretti di vita rappresentati nella prima strofa: che cosa osservi? 5. Sono presenti nella lirica delle inversioni (ovvero l’ausiliare precede il verbo) a partire dall’incipit; individuale e spiegane l’effetto.

6. Individua le figure retoriche che ritieni più significative. 7. Spiega il v. 32 («Piacer figlio d’affanno») e indica il motivo per cui costituisce una sorta di manifesto del pensiero leopardiano. 8. Quali elementi conferiscono all’ultima strofa una tonalità fra l’amarezza e il sarcasmo? 9. A che cosa alludono le domande retoriche presenti nel testo? Approfondimento 10. Sviluppa un breve saggio nel quale espliciti il rapporto tra il significato di questo testo e la teoria del piacere.

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 Testo 16

Il sabato del villaggio Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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Composto a Recanati tra il 20 e il 29 settembre del 1829, occupa l’ultima posizione nei Canti del 1831 e la venticinquesima nell’edizione Starita del 1835 e in quella postuma del 1845. Rispetto agli altri canti “pisano-recanatesi”, sia in questo sia nel coevo La quiete dopo la tempesta l’io poetico tende a scomparire a favore di un paesaggio, di una scena da cui rimane esterno, come voce fuori campo; in entrambi, l’occasione è data da una rappresentazione di vita quotidiana del villaggio. Questo però non significa che qui, o in generale nella poesia leopardiana, un quadro “idillico” possa essere inteso come semplice descrittivismo, perché il nucleo concettuale è sempre forte ed è l’essenza negativa del piacere a essere centrale: nella Quiete il piacere come cessazione del suo contrario, cioè il dolore-tempesta; nel Sabato come sua attesa in quanto «speranza», propria solo della fanciullezza, perché, come scrive il poeta nello Zibaldone del 20 gennaio 1821: «L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».

La donzelletta1 vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde2, siccome suole3, ornare ella si appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine4. Siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno5; e novellando vien del suo buon tempo6, quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei ch’ebbe compagni dell’età più bella7. Già tutta l’aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre giù da’ colli e da’ tetti8, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla9 dà segno della festa che viene; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto romore: e intanto riede alla sua parca mensa10, fischiando, il zappatore, e seco pensa11 al dì del suo riposo.

Forma metrica: canzone libera di quattro strofe di diversa lunghezza, di endecasillabi e settenari, con alcune rime alternate senza uno schema preciso, rime in mezzo e assonanze.

1. donzelletta: fanciullina. 2. onde: con il quale. 3. siccome suole: come è solita fare. 4. ornare… crine: ella si appresta, domani, nel giorno di festa, ad adornarsi il petto e i capelli. 5. incontro… giorno: verso occidente, dove il sole tramonta. 6. e novellando… tempo: e va raccontando della sua giovinezza. 7. intra di quei… bella: tra quelli che furono i compagni della sua gioventù. 8. tornan… tetti: scendono le ombre dei colli e delle case (“tetti” è metonimia) sulla terra. 9. squilla: campana. 10. riede… mensa: rientra per la sua modesta cena. 11. seco pensa: pensa tra sé e sé.

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Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna13, e s’affretta, e s’adopra14 di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba15. Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme16 e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore17, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno18. Garzoncello scherzoso19, cotesta età fiorita20 è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita21. Godi, fanciullo mio; stato soave22, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’23; ma la tua festa ch’anco tardi a venir non ti sia grave24.

12. face: lume, luce. 13. alla lucerna: al lume della lucerna. 14. s’adopra: si applica. 15. di fornir… dell’alba: di completare il lavoro prima che sopraggiunga il chiarore dell’alba. 16. speme: speranza. 17. diman… l’ore: domani (domenica) il tempo porterà tristezza e noia. 18. ed al travaglio… ritorno: e tutti penseranno alla solita fatica (dei giorni lavorativi). 19. Garzoncello scherzoso: allegro giovincello. 20. età fiorita: giovinezza. 21. che precorre… vita: che precede la maturità (in cui ci si aspetta l’avverarsi delle speranze). 22. stato soave: dolce condizione. 23. vo’: voglio. 24. ma la tua festa… grave: ma non ti pesi il fatto che la tua festa (maturità) tarda ancora a venire.

Antonio Berté, Il sabato del villaggio. Collezione privata.



Guida all’analisi

Costruisci la tua analisi del testo seguendo punto per punto le indicazioni di lavoro che ti vengono suggerite. Questa lirica e La quiete dopo la tempesta furono entrambe composte .............................................. Nella Quiete il tema centrale è il piacere ............................................., nel Sabato il piacere .................................. Motivo e riflessione comune è il concetto di .......................................................... .................. Il Sabato si apre con un quadro di vita paesana in cui emergono due figure femminili, la ................. e la .................... che simboleggiano .................................................; l’uso del vezzeggiativo ........................ .................................................. La prima strofa è permeata di termini vaghi e indefiniti quali

....................................................................... che producono l’effetto di ............................................. . Da evidenziare anche il lessico della festa con termini come ..................................... Il v. 20 segna uno iato tra la presenza di sensazioni ..........................., quali ....................................................................... e di quelle ........... ...................., quali ......................................................... Nella parte centrale subentra la notte e alla felicità dell’attesa del ....................................., si sostituisce la consapevolezza .............................; la chiusa riflessiva ha un tono amaro e pacato: il poeta si rivolge a un ......................... affermando che ...................................................... ..................................... Il Sabato può inoltre essere accostato ad altre liriche quali La sera del dì di festa, A Silvia e Le ricordanze : infatti ................................... .................................................................................

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 Testo 17

Il pensiero dominante Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

1. di mia… mente: del profondo della mia mente. 2. consorte: compagno. 3. arcana: misteriosa. 4. favella: parla, ragiona. 5. Pur sempre… sprona: Eppure ogni volta che il sentimento proprio di ciascuno stimola le parole umane a esprimere i suoi effetti, sembra nuovo a udirsi ciò di cui il pensiero amoroso (ei) ragiona. 6. solinga: sgombra, perché presa solamente dal pensiero dominante. 7. d’allora che: da quando. 8. Ratto: immediatamente. 9. in mezzo a lei: al centro della mia mente. 10. gli ozi: gli svaghi. 11. i commerci usati: gli abituali rapporti umani. 12. e di vano… spene: e la vana speranza di piaceri vani. 13. allato a: a paragone di.

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Questa canzone libera appartiene al gruppo di componimenti fiorentini ispirati dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti, donna bellissima e colta che Alessandro Poerio presentò a Leopardi nella primavera del 1830 a Firenze. Scritta probabilmente nella tarda primavera del 1831 e pubblicata a seguire Il sabato del villaggio nell’edizione Starita del 1835 e in quella postuma del 1845, è la prima di cinque liriche che sono state impropriamente definite “ciclo di Aspasia”, dagli studiosi più recenti invece indicate, per evitare forzature, come i “canti dell’amore fiorentino”. Essi rappresentano una riflessione sulla natura d’amore, nel senso che all’amore veniva dato nella trattatistica romanza e medievale, un discorso amoroso che parte dall’innamoramento e arriva al disinganno, al distacco e al ripensamento quasi sarcastico. Aspasia (la cortigiana amante di Pericle) è il nome che designa Fanny solo nell’ultima lirica di questa progressione, dopo che alcune considerazioni amare sulla fallacia delle figurazioni della mente diverse dalla realtà portano Leopardi a ridimensionare l’amata. Alla prima fase, quella dell’innamoramento, appartiene invece questa lirica in cui la presenza femminile assume, appunto, la forma di un pensiero «dominante».

Dolcissimo, possente dominator di mia profonda mente1; terribile, ma caro dono del ciel; consorte2 ai lùgubri miei giorni, pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Forma metrica: canzone libera di quattordici strofe di varia lunghezza, con rime, rime al mezzo e assonanze.

Di tua natura arcana3 chi non favella4? il suo poter fra noi chi non sentì? Pur sempre che in dir gli effetti suoi le umane lingue il sentir proprio sprona, par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.5 Come solinga6 è fatta la mente mia d’allora7 che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto8 d’intorno intorno al par del lampo gli altri pensieri miei tutti si dileguàr. Siccome torre in solitario campo, tu stai solo, gigante, in mezzo a lei9. Che divenute son, fuor di te solo, tutte l’opre terrene, tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia gli ozi10, i commerci usati11, e di vano piacer la vana spene12, allato a13 quella gioia, gioia celeste che da te mi viene!

Francesco Hayez, Venere con due colombe, 1830. Rovereto, Fondazione Cassa di Risparmio, MART.

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Come da’ nudi sassi dello scabro14 Apennino a un campo verde che lontan sorrida volge gli occhi bramoso il pellegrino; tal io dal secco ed aspro mondano conversar15 vogliosamente, quasi in lieto giardino, a te ritorno, e ristora i miei sensi il tuo soggiorno16.

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Quasi incredibil parmi17 che la vita infelice e il mondo sciocco già per gran tempo assai senza te sopportai; quasi intender non posso come d’altri desiri, fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri18.

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Giammai d’allor che in pria19 questa vita che sia per prova intesi20, timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco21 quella che il mondo inetto22, talor lodando, ognora abborre e trema23, necessitade estrema; e se periglio appar, con un sorriso le sue minacce a contemplar m’affiso24. Sempre i codardi, e l’alme25 ingenerose, abbiette ebbi in dispregio. Or punge26 ogni atto indegno subito i sensi miei; move l’alma ogni esempio dell’umana viltà subito a sdegno. Di questa età superba, che di vote speranze si nutrica27, vaga di ciance28, e di virtù nemica;

14. scabro: roccioso. 15. dal secco… conversar: dall’arida e malevola futile conversazione degli uomini. 16. il tuo soggiorno: la tua presenza. 17. parmi: mi sembra. 18. come d’altri… sospiri: come le altre persone sospirino per desideri che non ti somigliano (cioè che non riguardano l’amore). 19. d’allor che in pria: da quando per la prima volta. 20. questa vita… intesi: compresi cosa fosse

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questa vita per averlo sperimentato. un gioco: una cosa da poco. quella… inetto: quella morte che il mondo sciocco e superficiale (perché non capisce il vero senso della vita). ognora… trema: continuamente disprezza e teme. e se periglio… m’affiso: e se appare pericoloso, mi metto con determinazione a guardarlo. l’alme: le anime. punge: colpisce.

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stolta, che l’util chiede, e inutile la vita quindi più sempre divenir non vede; maggior mi sento29. A scherno ho gli umani giudizi; e il vario volgo30 a’ bei pensieri infesto31, e degno tuo disprezzator32, calpesto. A quello onde tu movi, quale affetto non cede?33 anzi qual altro affetto se non quell’uno intra i mortali ha sede? Avarizia, superbia, odio, disdegno, studio34 d’onor, di regno, che sono altro che voglie35 al paragon di lui? Solo un affetto vive tra noi: quest’uno, prepotente signore, dieder l’eterne leggi all’uman core. Pregio non ha, non ha ragion la vita se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto; sola discolpa al fato36, che noi mortali in terra pose a tanto patir senz’altro frutto37; solo per cui talvolta, non alla gente stolta, al cor non vile la vita della morte è più gentile38. Per còr39 le gioie tue, dolce pensiero, provar gli umani affanni, e sostener molt’anni questa vita mortal, fu non indegno40; ed ancor tornerei, così qual son de’ nostri mali esperto, verso un tal segno a incominciare il corso41:

27. che… nutrica: che di vuote speranze si nutre. 28. vaga di ciance: appagata da chiacchiere superficiali. 29. stolta… sento: sciocca, dal momento che brama l’utile, e vede quindi la sua vita diventare sempre più priva di senso e, al tempo stesso, io (che invece perseguo un piacere più profondo) mi sento più grande. Per stolta, si confronti con La ginestra, v. 53, «secol superbo e sciocco». 30. vario volgo: le persone volgari appartenenti a qualsiasi condizione

sociale. 31. a’ bei… infesto: nemico dei pensieri nobili. 32. tuo disprezzator: disprezzatore del pensiero amoroso (a cui si riferisce il “tuo”). 33. A quello… cede?: quale sentimento non è più debole (cioè “è più forte”) di quello che tu generi? 34. studio: in senso negativo, come ricerca ambiziosa. 35. voglie: desideri effimeri e volgari. 36. solo discolpa al fato: unica discolpa che si concede al destino. 37. senz’altro frutto: senza

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altro premio se non il pensiero d’amore. solo… gentile: unico motivo per cui talvolta la vita è più piacevole della morte, anche alle persone non sciocche e non vili. còr: cogliere. provar… indegno: non fu sconveniente sostenere gli affanni umani e molti anni di questa vita mortale. incominciare il corso: ricominciare la propria vita daccapo (per riprovare lo stesso pensiero amoroso).

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che tra le sabbie e tra il vipereo morso42, giammai finor sì stanco per lo mortal deserto non venni a te, che queste nostre pene vincer non mi paresse un tanto bene43. Che mondo mai, che nova immensità, che paradiso è quello là dove spesso il tuo stupendo incanto parmi innalzar44! dov’io, sott’altra luce45 che l’usata errando, il mio terreno stato e tutto quanto il ver pongo in obblio46! Tali son, credo, i sogni degl’immortali47. Ahi finalmente un sogno in molta parte onde s’abbella il vero sei tu, dolce pensiero; sogno e palese error.48 Ma di natura, infra i leggiadri errori, divina sei49; perché sì viva e forte, che incontro al ver tenacemente dura50, e spesso al ver s’adegua, né si dilegua pria, che in grembo a morte51. E tu per certo, o mio pensier, tu solo vitale52 ai giorni miei, cagion diletta53 d’infiniti affanni, meco sarai per morte a un tempo spento54:

42. tra le sabbie… morso: nel deserto della vita e tra i suoi dolori (o i morsi della cattiveria degli uomini). 43. giammai… tanto bene: mai fino ad ora sono stato tanto stanco da non pensare che un bene tanto grande (l’amore) potesse vincere le pene della vita. 44. parmi innalzar: sembra elevarmi.

45. altra luce: altra realtà. 46. pongo in obblio: dimentico. 47. degl’immortali: degli dei. 48. Ahi finalmente… error: Alla fine tu, dolce pensiero d’amore, sei in gran parte un sogno con cui la realtà si fa più bella, sei sogno e illusione. 49. Ma… sei: Ma, fra i gentili errori, tu sei un’illusione

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ch’a vivi segni dentro l’alma io sento che in perpetuo signor dato mi sei55. Altri gentili inganni soleami il vero aspetto più sempre infievolir56. Quanto più torno a riveder colei della qual teco ragionando57 io vivo, cresce quel gran diletto, cresce quel gran delirio, ond’io respiro58. Angelica beltade! Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, quasi una finta imago59 il tuo volto imitar. Tu sola fonte d’ogni altra leggiadria, sola vera beltà parmi che sia. Da che ti vidi pria60, di qual mia seria cura ultimo obbietto non fosti tu?61 quanto del giorno è scorso62, ch’io di te non pensassi? ai sogni miei la tua sovrana imago quante volte mancò? Bella qual sogno, angelica sembianza, nella terrena stanza,63 nell’alte vie dell’universo intero, che chiedo io mai, che spero altro che gli occhi tuoi veder più vago64? altro più dolce aver che il tuo pensiero?

di natura divina. 50. dura: resiste. 51. né si dilegua… morte: e non svanisce prima che sopraggiunga la morte. 52. vitale: che dà vita. 53. cagion diletta: dolce causa. 54. meco… spento: sarai estinto dalla morte insieme a me. 55. ch’a… sei: poiché dai vivi segnali che colgo dentro

di me mi accorgo che mi sei stato dato come eterno mio signore. 56. infievolir: affievolire, spegnere. 57. teco ragionando: parlando con te. 58. ond’io respiro: che mi consente di respirare (cioè di vivere). 59. finta imago: una falsa riproduzione. 60. pria: per la prima volta.

61. di qual… tu?: di quale mio pensiero tu non fosti l’oggetto più rilevante? 62. scorso: trascorso. 63. terrena stanza: nel mondo terreno. 64. più vago: più desideroso.

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Analisi del testo

Struttura e temi

Notiamo innanzitutto che le 14 strofe della lirica evidenziano una progressiva estensione della loro lunghezza, dalle prime sette composte da un minimo di 6 a un massimo di 9 versi, alle seconde sette composte da un minimo di 11 versi a un massimo di 13. Può poi essere utile dividere il componimento in tre parti. 1 Nelle prime quattro strofe Leopardi si rivolge immediatamente al principale interlocutore di tutta la lirica, quel pensiero che, già indicato nel titolo, è al verso 2 ribadito come «dominator». Sin dall’invocazione iniziale diretta al pensiero, «sì dolcissimo», ma anche «possente» e «dominator», «caro» e «terribile» insieme, «cagion diletta d’infiniti affanni», viene espressa quell’antitesi che è la cifra di molta poesia duecentesca, in particolare cavalcantiana, e poi petrarchesca: è l’amore amaro, la malattia d’amore, l’amore che dà al tempo stesso gioia e dolore. Un amore la cui natura è da sempre misteriosa («arcana») e i cui primi effetti sono descritti, nella terza strofa, a partire da quella solitudine della mente, spoglia di ogni altro pensiero perché occupata, solo ed esclusivamente, dal «pensiero dominante» e chiusa in una fortezza («torre / in solitario campo» dei vv. 18-19). 2 Nel corpo centrale e fino alla quattordicesima strofa, dalla quinta che riprende il «Come» della terza strofa al v. 13 che lì sta per “Quanto”, mentre al v. 29, è in funzione comparativa, la lirica passa in rassegna le miserie di una vita nella quale sia assente il pensiero d’amore, come nella similitudine tra il pellegrino che, attraversato l’arido Appennino, vede con desiderio l’approdo a un campo verde che si avvicina, e l’io del poeta che torna al pensiero d’amore come si torna a un giardino che ristora dopo la secca, prosciugata e maligna conversazione mondana. 3 Le ultime tre strofe riprendono e concludono l’elogio, un vero e proprio inno al pensiero, accompagnato dalla presenza più tangibile della donna amata. Protagonista assoluto di questa poesia è, dunque, prima ancora che la donna amata, il pensiero d’amore per la donna amata, l’astratto procedere della mente che, come nella canzone Alla sua donna e nell’operetta morale Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, è tanto più produttivo quanto più la donna sia solo vagheggiata. Si veda, ad esempio, questo scambio:

«

genio. Quale delle due cose stimi che sia più dolce vedere la donna amata, o pensarne? tasso. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva una dea. genio. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno

vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’intorno, e se li pongono in tasca. tasso. Tu dici il vero pur troppo.

»

L’amore emerge da questa lirica in una forma assolutamente intellettuale: l’amore è il pensiero, già personificato nel titolo che torna nel v. 6, come «dolce pensiero» del v. 88, o nei vocativi dei vv. 110 e 117, o, ancora, usato al plurale per sottolineare il potere che ha di escludere dalla mente tutti gli altri pensieri (v. 17), oppure per marcare la differenza con i pensieri del volgo (v. 67), fino a quando va a chiudere il cerchio come ultima parola del canto. Il più nobile dei sentimenti non risiede nel cuore bensì nella mente, e l’uomo che lo prova si trova in una sorta di aristocratico isolamento, che lo separa da una moltitudine superficiale e volgare. La contrapposizione tra l’io poetico e il «vario volgo» si legge nell’ottava strofa, in cui Leopardi assume un tono aspro, da indignatio civile (come era stato anche nella canzone Ad Angelo Mai): «Di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica» che tornerà, di nuovo e prepotentemente, nelle liriche e nelle prose del periodo napoletano, soprattutto ne La ginestra ma già presente, seppur con accenti diversi, nell’operetta Storia del genere umano, specialmente nel rapporto fra verità e amore. Nella poesia se ne ricava un senso di sdegnata e insanabile chiusura del soggetto “che ama” verso la realtà circostante, come aveva già indicato in un pensiero dello Zibaldone nel 1819 (p. 59):

«

Io soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e viltà e ridicolezze ch’io vedo fare e sento dire massimamente a questi coi quali vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile e propriamente tormentoso [...] quanto allora ch’io mi sentiva o amore o qualche aura di amore.

»

Certamente nuova in questa lirica è l’accentuazione soggettiva e legata al presente, ai risvolti autobiografici – persino in alcune allusioni, rarissime in Leopardi, all’ambiente dei liberali moderati del circolo Vieusseux, tutto intento all’esaltazione di un ottimismo del calcolo, della statistica, e al disprezzo del bello, dell’immaginazione e dell’illusione, come scrive a Pietro Giordani il 24 luglio del 1828 –, all’impeto delle vicende personali che però sono filtrate da una prospettiva stilnovistica, come testimoniato da un lessico ricco di parole chiave del modello lirico duecentesco, su tutti «mente» (vv. 2 e 14), dal

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concetto di amore che nasce in cuori gentili, dall’esaltazione della nobiltà del proprio animo e, soprattutto, da una sorta di fenomenologia di quella che veniva indicata come la “signoria d’amore” e che in Amore e Morte diventerà la “tirannide” d’amore. Chiuso nel proprio rifugio mentale, il poeta osserva non più il passato (come nella memoria, nella rimembranza di A Silvia o de Le ricordanze) ma un tempo presente sciagurato (da notare che la maggior parte dei verbi sono al presente perché parlano di qualcosa che sta avvenendo) che vede prevalere il «secco» e l’«aspro» (v. 33). In possesso della sua beatitudine (cioè l’amore), egli guarda con disprezzo le bassezze della quotidianità. Leopardi è consapevole, tuttavia, che anche il nobile pensiero d’amore è illusione («sogno e palese error», v. 111), ma è un’illusione che resiste tenacemente al “vero” ed è in grado di dare conforto, di rendere più forti e disponibili a sé e agli altri, fino alla morte. La riflessione più vicina a Il pensiero dominante e ad Amore e Morte è, indubbiamente, nel n. 82 dei Pensieri, non solo perché scritto nello stesso periodo, ma perché presenta analogie interessanti sul ragionare d’amore:

«

Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita […] il conoscimento o il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo più dal’amore, quando l’amore è gran passione, cosa che non accade in tutti come l’amare […]. In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo […] ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di se e degli altri.

»

Fonti e modelli

Oltre al n. 82 dei Pensieri appena riportato, Il pensiero dominante vede tra i propri antecedenti tematici Il primo amore del 1817 e alcune pagine dello Zibaldone del 1819, come la già citata 59 anche e soprattutto in questo passo:

«

Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della meraviglia né del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero.

»

È importante sottolineare che questa lirica è legata più di altre alla tradizione medievale e petrarchesca, ai

modelli danteschi (in particolare del Dante “petroso”) e soprattutto a Cavalcanti, in particolare per la tematica dell’amore-passione, della “malattia d’amore” e del miracolo d’amore possibile solo nei cuori gentili che possono godere di questo privilegio, come è declinato, tra le altre liriche, nella celebre canzone Donna me prega. La figura femminile, quando appare, assume i connotati stilnovistici della donna-angelo tra Dante e Cavalcanti o non distanti da ricordi petrarcheschi, soprattutto delle canzoni “sorelle” dedicate agli occhi come componente principe della divinizzazione della bellezza della donna, come lumi che fanno da guida – nella prima (LXXI, 77-81) e nella seconda (LXXII, 40-45) del trittico nel Canzoniere –, in specie l’immagine del volto della donna che fa sparire ogni altro «lume» e ogni altro pensiero o, ancora, per l’immagine del castello della mente e così via. Petrarca, in realtà, eredita dalla lirica precedente la figura di Amore come signore-giudice feroce e che tutto il resto uccide, compresa la tematica dell’esclusività del pensiero di amore che bandisce ogni altro pensiero, ma l’affinità con Leopardi si ferma qui perché è il cuore e non la mente la sede dell’amore. Inoltre, opera forse in questa poesia – ma soltanto come riattivatore di letture già fatte – anche quanto è nel trattato L’influenza delle passioni sulla felicità degli individui e delle nazioni di M.me de Staël, che la sorella Paolina legge e traduce dal francese tra il 1828 e il 1830. Lingua e stile

Il componimento si apre con un’apostrofe al pensiero «Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente» – che è sì “d’amore”, ma come tale sempre e solo alluso: il termine, infatti, non compare mai in questa lirica –, e si chiude con l’ultima parola dell’interrogativa, «pensiero», a stabilire una predominanza pressoché assoluta di un interlocutore unico, presente quasi ossessivamente, a parte il momento in cui l’io poetico si rivolge alla donna amata, in un breve passaggio della penultima strofe: «Angelica beltade!». D’altra parte, secondo alcuni critici, questa presenza dominante del pensiero d’amore si lega al concetto dell’antica trattatistica sull’amore, a partire dal De Amore di Andrea Cappellano, di amore come passione anche drammatica e distruttiva. Ossessivo, dunque, perché dominante, eccessivamente esclusivo. Il vocativo iniziale è sostenuto dal reiterarsi del tu, quasi sempre sottinteso, in dialogo intimo con la propria mente, fino al passaggio di testimone dal pensiero alla donna (soltanto dal già citato v. 130 di «Angelica beltade!»), mai nominata esplicitamente ma indicata con appellativi stilnovistici come «sogno», fonte di «leggiadria», «angelica sembianza» (vv. 133-142). Rivolgendosi a un tu astratto ma personificato, il poeta interroga se stesso, in una specie di teatralizzazione

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dell’anima dove i personaggi che compaiono, il pensiero e la donna, sono muti. Emblematiche di questo “dialogo” interiore, allusive a una sorta di sdoppiamento – tra personaggio Giacomo e autore Leopardi –, sono le domande (retoriche) della seconda strofa, nella prima delle quali si rivolge proprio con il tu al pensiero, mentre nella seconda ne prende le distanze, rivolgendosi a una specie di pubblico e riferendosi al «suo» potere sugli esseri umani. L’interrogazione retorica ritorna ai vv. 69-72 in triplice incalzante forma e chiama a raccolta con un «noi» (vv. 76-77 e 84) solo quegli uomini “dal cor gentile” che sanno (vv. 85-87), che possono condividere la stessa storia interiore. Si profila una presenza in controluce del Canzoniere di Petrarca, in particolare del sonetto proemiale, in questa ricerca di complicità in chi «per prova intenda amore», v. 7 (vedi qui vv. 44-45), come anche in quelle «vote speranze» del v. 60 che ricorda le «vane speranze» del Canzoniere, I, 6. Il lessico è attinto dalla tradizione dell’antica lirica d’amore e dal linguaggio cortese e cavalleresco ma, oltre alla centralità di «pensiero», e a questo strettamente collegato, è affidato al termine «mente» il compito di sottolineare la valenza teoretica della natura di amore (e dei suoi «effetti», al v. 10, altro termine quasi “tecnico” del discorso sull’amore) in questa lirica. Di estrazione duecentesca, vicina allo stilnovismo di Guinizzelli, sono ancora alcuni verbi come ragionare (vv. 12 e 127) e sintagmi della lirica antica come: «umane lingue» (v. 11), «far dimora» (v. 15), «virtù nemica» (v. 61), «prepotente signore» (v. 78), «gentili inganni» (v. 123) e «angelica sembianza» presa dal Cavalcanti di Fresca rosa novella (vv. 19-20: «Angelica sembranza / in voi, donna, riposa»), oppure la rima desiri : sospiri. Dal punto di vista metrico la scelta per questa lirica

della canzone libera sembra voler riprodurre il procedere sintattico della mente, molto scandito e ritmato nei passaggi del pensiero, fino all’ultima strofa che vede una serie incalzante di rime baciate sembianza :stanza; intero :spero, rima reiterata, in clausola finale, con la parolaemblema «pensiero». L’uso della rima come nelle canzoni tradizionali è qui però impiegato senza seguire alcuno schema, proprio per la “libertà” che Leopardi cerca costantemente sia negli endecasillabi sciolti degli idilli, sia nelle canzoni precedenti che via via si affrancano dagli obblighi di schemi rimici. Qui la rima è “scelta” e collocata dove è più congeniale che sia; la rima baciata in clausola finale è in 10 casi su 14 strofe, con una funzione di sentenziosità, sia per la posizione sia per le parole in rima. La lirica sovrabbonda di figure di antitesi, iterativi e ripetizioni come, per esempio, ai vv. 26-28 la successione della geminatio «vano» «vana» e la reduplicatio di «gioia» che, concentrate in soli tre versi, mettono in relazione i concetti di gioia e di vanità. Altro esempio ai vv. 80-81 («Pregio non ha», «non ha ragion la vita» e «se non per lui», «per lui»), come nei vv. 128-129 quando il «cresce quel gran» in posizione anaforica è rafforzato dalla gradazione, climax ascendente, di diletto e delirio: «cresce quel gran diletto, / cresce quel gran delirio»; oppure «util» e «inutile» in antitesi ai vv. 62-63. È interessante sottolineare, come forma di intensificazione mutuata da Petrarca, la reiterazione ravvicinata «d’intorno intorno» (v. 16) che cerca un’accelerazione del ritmo per imprimere maggiore potenza. In questo caso, peraltro, segue il «Ratto» (“rapidamente”) posto a inizio verso e di forte matrice dantesca (Inferno, v. 100: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende») Rileviamo infine il diffuso utilizzo dell’anastrofe, spesso in versioni molto elaborate come ai vv. 88-91.

 Esercizi Comprensione 1. Spiega il titolo del componimento. 2. Chi è la donna oggetto della passione amorosa del poeta? Laboratorio 3. Soffermati sugli aggettivi che, nella prima strofa, definiscono l’amore e spiegane il significato in relazione al contenuto della lirica. 4. Spiega la similitudine della quarta strofa. 5. Individua le figure retoriche che ritieni più significative e spiegane la funzione. 6. Quale giudizio esprime il poeta sugli uomini e sulla società contemporanea?

7. Attraverso puntuali riferimenti al testo, delinea le caratteristiche dell’amore. 8. Traccia un ritratto della donna destinataria della lirica. 9. Descrivi l’io del poeta facendo opportuni riferimenti al testo. Approfondimento 10. Nella lirica è presente l’opposizione tra illusione e vero: illustra tale antitesi, cifra della poetica leopardiana, anche alla luce degli altri testi da te analizzati. 11. Ripercorrendone i dati biografici, delinea il difficile e sofferto rapporto di Leopardi con le donne.

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Confronti: la cara Fanny

Il pensiero dominante è la prima delle liriche dedicate a Fanny Ronchivecchi (Firenze 1805-1889) sposata Targioni Tozzetti (il medico e botanico Antonio Targioni Tozzetti), la donna che il poeta conobbe a Firenze nel 1830 e per la quale provò un’attrazione profonda, non corrisposta. Bella, colta (aveva avuto come maestro Massimo d’Azeglio) e personaggio molto brillante della vita culturale fiorentina, era stata presentata a Leopardi dal poeta e patriota Alessandro Poerio, grande estimatore della poesia leopardiana. Fanny è la destinataria di due sole lettere (qui riportate) nell’epistolario del poeta, ma a lei sono ispirate altre

 Giacomo Leopardi Lettere a Fanny tratto da G. Leopardi Epistolario, vol. II a cura di F. Brioschi e P. Landi Bollati Boringhieri, Torino 1998

quattro liriche composte tra il 1831 e il 1834: Amore e Morte, Consalvo (dislocata fuori dalla sequenza che le vede in quest’ordine nell’edizione del 1835 e in quella postuma del 1845), A se stesso e Aspasia. Non è un caso che il linguaggio usato nel primo di questi “canti dell’amore fiorentino” (denominazione più appropriata rispetto a “ciclo di Aspasia”), Il pensiero dominante, sia di stampo stilnovista, e che nella lettera del 1832 sia indicato così esplicitamente il tema del connubio di Amore e Morte della lirica omonima e di Consalvo, nella quale è espresso lo stesso accenno: «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte».

Roma 5 Dicembre [1831] Cara Fanny Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma in fine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benchè forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perchè di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri, del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno dè vostri migliori amici; e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete. Io desidero grandemente le vostre nuove, ma sarò contento di averne dal Ranieri e dal Gozzani, ai quali ne domando. Delle nuove da me non credo che vi aspettiate. Sapete ch’io abbomino la politica, perchè credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perchè il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici. Molto meno potrei parlarvi di notizie letterarie, perchè vi confesso, che sto in gran sospetto di perdere la cognizione delle lettere dell’abbiccì, mediante il disuso del leggere e dello scrivere. I miei amici si scandalizzano; ed essi hanno ragione di cercar gloria e di beneficare gli uomini; ma io che non presumo di beneficare, e che non aspiro alla gloria, non ho torto di passare la mia giornata disteso su un sofà, senza battere una palpebra. E trovo molto ragionevole l’usanza dei Turchi e degli altri Orientali che si contentano di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza. Ma io ho torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella, e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che ancor voi siete inclinata alla malinconia, come sono state sempre e come saranno in eterno tutte le anime gentili e d’ingegno. Ma con tutta sincerità, e non ostante la mia filosofia nera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga, cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. Almeno così vorrei che fosse. Ho incontrata più volte la contessa Mosti, la quale anche mi ha date le vostre nuove. Addio, cara Fanny: salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarmi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi. Il vostro Leopardi

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Firenze 16 Agosto [1832] Vi scrivo dunque, benchè siate prossima a tornare; non più per domandarvi le vostre nuove, ma per ringraziarvi della gentile vostra di lunedì. Che abbiate gradito il mio desiderio di sentire della vostra salute, è conseguenza della vostra bontà. Mi avete rallegrato molto dicendomi che state bene, e che i bagni vi giovano, e così alle bambine: io ne stava un poco in pensiero, perchè i bagni di mare non mi paiono senza qualche pericolo. Ranieri è sempre a Bologna, e sempre occupato in quel suo amore, che lo fa per più lati infelice. E pure certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l’amore fa l’uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono nè belle nè degne dell’uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro. Leopardi Sir Lawrence Alma Tadema, Il poeta favorito, 1888. Liverpool, The Lady Lever Art Gallery.



Esercizi: confronti

1. L’ultima strofa de Il pensiero dominante propone un’immagine idealizzata di Fanny di ascendenza quasi stilnovista; ti sembra che tale immagine sia mantenuta nelle due lettere? 2. Quali analogie riscontri tra la lirica e le prose nel giudizio

sugli uomini del proprio tempo? 3. Confronta le modalità con cui Leopardi dipinge il suo io sofferente e innamorato. 4. Descrivi il rapporto tra felicità e infelicità così come viene delineato ne Il pensiero dominante e nelle due lettere.

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 Testo 18

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

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Il Canto notturno necessitò di ben sei mesi di lavoro, tra il 22 ottobre del 1829 e il 9 aprile del 1830, con varianti significative nella struttura delle strofe. Fu pubblicato nei Canti del 1831 con il titolo di Canto notturno d’un pastore vagante dell’Asia e poi nelle edizioni del 1835 e del 1845, sempre nella posizione che precede La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio sebbene questi ultimi siano cronologicamente antecedenti, forse a marcare la fine del gruppo di liriche ispirate da occasioni che possiamo definire “autobiografiche”. Qui Leopardi prende spunto da un articolo apparso sul “Journal des Savants” circa le abitudini dei nomadi kirghisi di intonare canti nostalgici alla luna, che trascrive in data 3 ottobre 1828 nel suo Zibaldone. L’articolo faceva esplicito riferimento all’opera del barone russo Meyendorff, Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 pubblicata a Parigi nel 1826. Con questa lirica scompare l’ambientazione recanatese, sostituita da un paesaggio desertico e sconfinato, dove l’uomo primitivo è accomunato a quello moderno e un semplice pastore parla e ragiona come un filosofo, rivolgendosi alla luna. Ancora una volta, dopo l’interrogativo di fondo di tutta l’operetta morale del Dialogo della Natura e di un Islandese, «dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che la compongono?», Leopardi consegna al lettore una riflessione filosofica sul senso dell’esistenza, nella quale è rafforzato ulteriormente il senso di una negatività totale, universale, “cosmica”: «è funesto a chi nasce il dì natale» del centoquarantatreesimo verso, l’ultimo.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi.1 Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli2? ancor non prendi a schivo3, ancor sei vaga4 di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore5; move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera6. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita7, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?8

1. ti posi: tramonti. 2. sempiterni calli: consueti percorsi, solite strade (fig.). 3. a schivo: a noia. 4. sei vaga: hai voglia. 5. primo albore: primo

chiarore della giornata (anche in senso metaforico). 6. altro… ispera: non si aspetta nient’altro da quella giornata. 7. a che vale… vita: che

scopo ha la vita per il pastore. 8. ove tende… immortale?: a che servono il mio vagare di breve durata e il tuo invece immortale (senza fine)?

Forma metrica: canzone libera di sei strofe, di diversa lunghezza, composte da endecasillabi e settenari variamente alternati. Il finale di ogni strofa ha una rima in -ale, alcune strofe hanno anche rime interne.

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Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio9 in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte10, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora11, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto12: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine13 luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento14. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende15 a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene l’uno e l’altro il sostiene16, e via pur sempre17 con atti e con parole studiasi fargli core18, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato19 non si fa da parenti20 alla lor prole. Ma perché dare al sole21, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga22? Se la vita è sventura, perché da noi si dura23? Intatta24 luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale25.

9. gravissimo fascio: pesantissimo ingombro. 10. fratte: sterpaglie. 11. quando avvampa l’ora: quando si è nella stagione torrida. 12. infin… volto: finché non arriva là dove era indirizzato il suo percorso e la sua fatica. 13. Vergine: da intendersi

come pura, incontaminata. 14. nascimento: nascita, parto. 15. il prende: iniziano. 16. il sostiene: lo aiutano. 17. via pur sempre: continuamente, senza soste. 18. studiasi fargli core: si impegnano a fargli

coraggio. 19. ufficio più grato: compito più importante. 20. parenti: genitori. 21. al sole: alla luce. 22. convenga: si debba. 23. si dura: si sopporta. 24. Intatta: immacolata, pura. 25. poco ti cale: ti importa poco.

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Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante26, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia27. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto28 del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l’ardore, e che procacci29 il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano30, al ciel confina; ovver31 con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano32; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle33? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Così meco34 ragiono: e della stanza smisurata35 e superba, e dell’innumerabile famiglia36; poi di tanto adoprar37, di tanti moti d’ogni celeste38, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so39. Ma tu per certo, giovinetta immortal conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri40, che dell’esser mio frale41, qualche bene o contento42 avrà fors’altri; a me la vita è male.

26. scolorar del sembiante: impallidirsi del viso, per l’età che trascorre. 27. amante compagnia: compagnia delle persone amate. 28. il frutto: il motivo. 29. che procacci: che scopo abbia.

30. giro lontano: orizzonte. 31. ovver: oppure. 32. a mano a mano: gradualmente, lentamente. 33. a che tante facelle?: a che servono tutte queste luci (fiaccole)? 34. meco: con me stesso.

Jean-François Millet, Crepuscolo, 1859-1863. Boston, Museum of Fin Arts.

35. stanza smisurata e superba: l’universo. 36. innumerabile famiglia: numerosa famiglia degli esseri viventi (uomini e animali). 37. adoprar: affaccendarsi. 38. d’ogni celeste: di tutti gli astri.

39. uso alcuno… non so: non riesco a capirne i motivi né lo scopo. 40. eterni giri: perenne ruotare del cielo. 41. frale: fragile. 42. contento: contentezza.

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O greggia mia che posi43, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra44 la mente, ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge45 da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion46 di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar47 le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo48, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra49 dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero; forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna50, è funesto a chi nasce il dì natale.

43. che posi: che riposi. 44. m’ingombra: mi pervade, mi opprime. 45. son lunge: sono lontano. 46. cagion: motivo. 47. noverar: contare. 48. di giogo in giogo: passando da una cima e l’altra.

49. erra: vaga allontanandosi. 50. dentro… cuna: dentro una tana o una culla (cioè animali e uomini accomunati)

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Analisi del testo

Struttura e temi

Le sei strofe seguono una sequenza argomentativa di questo tipo: 1 prima strofa: domande del pastore alla luna che sente la propria vita nomade simile alla sua; 2 seconda strofa: paragone tra il viaggio del pastore e quello di un vecchio stanco che finisce nel burrone della morte; 3 terza strofa: la morte è il fine ultimo dell’uomo sin dalla nascita; 4 quarta strofa: la luna è indifferente, lontana, pur essendo a conoscenza di tutto non risponde alle domande incalzanti del pastore; non può capire non essendo mortale, solo per il pastore la vita è male; 5 quinta strofa: il male è nell’esistenza stessa perché anche quando non c’è il dolore c’è la noia che è provata solo dall’uomo, mentre gli esseri inanimati e gli animali (il gregge) ne sono esenti; 6 sesta strofa: neppure l’immaginazione che porta a fantasticare il pastore sul mettere le ali per spiccare il volo riesce a contrastare l’affermazione del male che si estende a tutto l’universo. Già a partire dal titolo possiamo in parte ricostruire quello che è stato il laboratorio compositivo della lirica di Leopardi. La prima tappa della storia del testo è la già citata trascrizione nello Zibaldone (4399-4400), in data 3 ottobre 1828, di un passo tratto da un articolo del “Journal des Savants” e, successivamente, riportato in una nota all’inizio dell’autografo del componimento. Poi viene l’ideazione, sempre nel 1828, di un soggetto vicino alla tematica della lirica, che prende il titolo di “Canto notturno di un pastore dell’Asia centrale alla luna” e rinvia direttamente ai pensieri dello Zibaldone: «V. i miei pensieri p. 4399 fine – 4400 principio». Il titolo nella stampa fiorentina del 1831, Canto notturno d’un pastore vagante dell’Asia, evidenzia due esclusioni: il dettaglio geografico dell’aggettivo «centrale» che compariva nell’abbozzo, infatti, sarebbe andato in una direzione di eccessiva precisazione, a scapito di quella indeterminatezza sempre alla base dell’idea leopardiana di poesia; mentre il nome del destinatario del dialogo del pastore, la luna,* si sarebbe sovrapposto con il titolo dell’idillio Alla luna > p. 70 |, a sua volta già modificato rispetto alla prima stesura, La ricordanza, perché troppo simile al più recente Le ricordanze > p. 100 |. Il titolo dell’edizione fiorentina vede anche un’aggiunta, quella del participio «vagante» poi sostituito con «errante» che qualifica “tecnicamente” e non solo poeticamente la vita del pastore, che è un nomade.

Infine, per quanto riguarda la denominazione della lirica come «canto notturno», non c’è dubbio che rifletta una particolare predilezione leopardiana per questo genere, già presente, per esempio, in un appunto del 1819, p. 50 dello Zibaldone, che rinvia a La sera del dì di festa > p. 66 |:

«

Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri.

»

La doppia funzione “poetica” e “tecnica” delle scelte compiute sul titolo ci indica quali siano le premesse formali e culturali di questo componimento, che ha dalla sua anche la riflessione teorica sulla priorità della lirica come genere più antico e più “poetico” > Confronti, p. 125 |. Quello dell’allocuzione alla luna è un motivo ricorrente nei Canti. L’uomo si rivolge alla luna, anche se, in questo caso specifico, l’io poetico è proiettato su un io personaggio: un pastore nomade dell’Asia centrale, uomo incolto e semplice che cerca di consolarsi con il canto. L’altro protagonista, la luna, non è oggetto di contemplazione né assume i contorni di una presenza consolatoria, bensì di interlocutrice silenziosa che assume tratti antropomorfici: una luna qualificata come «vergine», «intatta», «giovinetta», «solinga», «pensosa», «eterna», raffigurata secondo alcuni tratti che addirittura precedono i miti classici, risalendo a quell’antichità primordiale al fondo di tutto il componimento. Rispetto agli altri canti leopardiani, assistiamo a una dilatazione estrema degli spazi poetici, non più piazze del borgo natìo, orti padronali o colline dei dintorni recanatesi: i versi ci proiettano nel desolato scenario di immense steppe asiatiche. All’estensione dello spazio terreno corrisponde anche una visione della volta celeste altrettanto sconfinata, una duplice apertura che inquadra la natura circostante e va a situarsi in un tempo astorico che, pur cristallizzato e immobile in un dato momento, di fatto è reiterabile all’infinito. Di fronte a queste due coordinate spazio-temporali, si ha la per-

*LaLuna presenza della luna è costante in tutta la poesia e l’opera di Leopardi. Per darne soltanto alcuni esempi: Bruto minore, v. 77 «candida luna»; l’intera lirica Alla luna; La vita solitaria, v. 70 «o cara luna», Ultimo canto di Saffo al v. 2; nell’epistola Al conte Carlo Pepoli, v. 132 «tacita luna»; Il tramonto della luna; l’operetta morale Dialogo della Terra e della Luna; o ancora l’idillio Odi, Melisso nel quale Leopardi, attingendo alla Pharsalia di Lucano, si figura il dialogo di un pastore, Alceta, che racconta a un altro pastore, Melisso, di aver sognato una luna che precipitava sulla terra bruciando e lasciando in cielo una terribile orbita vuota e nera.

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cezione della piccolezza della vita umana al cospetto della vastità della natura: una natura ostile che, sotto forma di luna appesa in cielo – a sua volta, obbligata a un moto costante e perpetuo –, è sorda e indifferente agli interrogativi del pastore errante che si muove dubbioso, pieno di ingenuo e spaventato stupore di fronte alle domande smisurate dell’esistenza. Il viaggio del pastore diventa tòpos dell’umanità sola e sofferente per cui la vita è fatica e dolore sin dalla nascita, altro tema ricorrente in tutta l’opera leopardiana. Il parallelismo tra l’uomo e la luna, entrambi accomunati dal destino di erranza (la luna in cielo in eterno movimento e l’uomo sulla terra, vagabondo, per la breve durata dell’esistenza), motiva anche l’invidia verso la condizione del gregge di pecore, felice e ignaro, che non conosce (altro tema fondamentale della riflessione leopardiana, la felicità di chi non sa) e quindi non è costretto a provare la noia. Per rafforzare il suo pensiero riguardo a un’assoluta negatività della vita, Leopardi sceglie un soggetto primitivo che, in quanto non contaminato dalla civiltà umana, appare ancora più estremo nel suo professare infelicità. È qui tangibile proprio il radicalizzarsi del pensiero negativo dell’autore: Leopardi, infatti, aveva spesso individuato nei popoli antichi o primitivi, più vicini alla natura, i soli detentori di una per quanto illusoria felicità esistenziale. Fonti e modelli

Oltre all’occasione contingente dell’articolo sull’opera del barone Meyendorff, Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, un modello costante della lirica, vero filtro “formale” anche per rendere più sobrie ed eleganti altre fonti (come le Notti del poeta settecentesco inglese Edward Young o l’Ossian di Macpherson, tradotto in italiano da Melchiorre Cesarotti), è senza dubbio Petrarca, presente nella lirica con esplicite citazioni come per la figura del «vecchierel bianco, infermo» (v. 21) che è metafora di un’intera umanità, tratta dal «vecchierel canuto e bianco» dell’incipit del sonetto 16 del Canzoniere, immagine che aveva già fatto la sua comparsa nelle pagine dello Zibaldone, in un rapido appunto di un paio di anni prima del Canto notturno, a Bologna in data 17 gennaio 1826:

«

Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difcili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate [4163] per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere.

»

Lingua e stile

La scelta della canzone libera è solo apparentemente in linea con il metro inaugurato da A Silvia > p. 94 |, perché in questo componimento alcune forzature balzano all’occhio: innanzi tutto nel numero dei versi che compongono le sei strofe (o per meglio dire, lasse*), la quinta di 28 e la quarta, davvero gigantesca, di 44 versi; e poi la presenza costante della rima alla fine di ogni stanza in -ale: «a che vale», «corso immortale», «vita mortale», «poco ti cale», «la vita è male», «il tedio assale», «il dì natale», che crea una sequenza di rimanti molto densi dal punto di vista semantico, oltre al fatto che spesso in -ale sono alcune rime non a fine strofa o le numerose assonanze con «spalle», «valle», «fratte» ecc.; tutti elementi formali che si rendono “complici” di una costruzione della lirica tesa alla constatazione di infelicità, strofa dopo strofa. Inoltre, la presenza di rime interne e di assonanze avvicinano il canto a tecniche antiche e primitive di melodie dalla struttura semplice, primitiva, che cadenzano il ritmo dell’intero componimento, quasi a suggerire una nenia: viene : sostiene (vv. 45-46), sembiante : amante (vv. 66-68) e così via, fino a una doppia rima interna nei vv. 79-81 miro / piano / giro / lontano; e infine, limitandoci alla prima strofa, i vv. 12-13 e 18-19 per le assonanze vede / erbe / tende / breve. A questa cadenza musicale contribuiscono anche le frequenti allitterazioni, riprese e ripetizioni. Per le prime la ricchezza della figura fonica è evidente negli addensamenti di suono della s (v. 14 «poi stanco si riposa in su la sera») della v (vv. 16-18 «a che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?») oppure della t nei vv. 57-58 («Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortale non sei») Per le seconde basterebbe constatarne il numero alto già nella prima strofa, sin dall’incipit: «Che fai tu, luna, in ciel, dimmi che fai, / silenziosa luna?» (con la ripresa di un famoso attacco petrarchesco «Che fai, alma? che pensi?» del sonetto 150 del Canzoniere; e poi tre volte «ancor» nei vv. 5-6, quattro per «vita» tra i vv. 9-18, soltanto nella prima strofa. È interessante notare come tutti gli elementi della poesia vadano in una stessa direzione che è quella di “mimare”, attraverso figure di suono e di reiterazione – ma vediamo fra poco, anche sul piano lessicale e sintattico –, un canto antico semplice e ripetitivo, perché sia facilmente memorizzabile e trasmettibile oralmen-

*LaLassa lassa è una strofa tipica della poesia medievale che ha un numero variabile di versi e non ha uno schema fisso di rime o assonanze; a differenza della strofa e della stanza, che invece rispondono solitamente a un preciso numero di versi e a uno schema rimico. In un caso come quello del Canto notturno, l’utilizzo del termine lassa serve a sottolineare che non c’è nessuna regolarità, la quale sarebbe invece implicita nei termini strofa e stanza.

124 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

te; e nello stesso tempo sottolinei l’incedere monotono di tutto l’universo, sempre, e per sempre, immutabile. Anche il lessico della lirica rientra nella sfera del vago e dell’indeterminato, in cui le parole e le immagini assumono connotati di indefinitezza semantica raggiunta attraverso il ricorso a parole elementari non particolarmente caratterizzate. Ad esempio, per citarne solo alcune e mostrare, ancora una volta, quei «segnali dell’infinito» di cui ha parlato Luigi Blasucci: «sempiterni calli», «corso immortale», «eterna peregrina», «tacito, infinito andar del tempo», «aria infinita», «profondo infinito seren», «solitudine immensa». La sintassi appare lineare, la costruzione delle frasi è a vantaggio di un’espressività più breve, immediata, esemplificata dalle frequenti proposizioni interrogative, oppure da periodi paratattici anche molto lunghi come quello di 14 versi, dal 21 al 34, volto a marcare stilisticamente il lungo e affannoso andare del «vecchierel bianco, infermo» che si ferma sull’orlo del precipizio, descritto nel v. 35. In questo senso contribuisce alla limpidezza il petrarchismo di fondo della lirica, presente oltre che nelle esplicite mutazioni – come nel caso dell’immagine del vecchierel, o in riprese che coinvolgono interi versi, come il v. 135 «e noverar le stelle ad una ad una» per il quale si deve ricordare «Ad una ad una annoverar le stelle» della canzone 127, v. 85 – anche in quelle suggestioni profonde della canzone 50 Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina, per le figure del pastore, dello zappatore, della vecchierella già molto presenti ne Il sabato del villaggio

> p. 108 | e ancora produttive in questo componimento.

Nell’ultima strofa si esprime il senso di sconforto e di mistero per i destini umani, mistero a cui il poeta/ pastore continua a dare uno spessore linguistico di grande semplicità attraverso l’uso ripetuto ben tre volte, quasi in anafora, del «forse» che dovrebbe attenuare la validità di una sentenza individuale («a me la vita è male», v. 104) per l’intero universo. In un pensiero dello Zibaldone, divenuto famoso ma molto “abusato” e mai letto fino alla fine, il 4174 del 19 aprile 1826 > Testo 7, p. 46 |, Leopardi anticipa il fulmineo verso che chiude la quarta strofa:

«

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male […]. Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

»

Dall’inizio alla fine, dunque, la convergenza tra il dire “semplice” del pastore, la limpida melodia di una lingua senza eccessi espressivi, petrarchista e, ancora, il lessico “indefinito”, fanno di questa lirica un esempio di quella «celeste naturalezza» a cui mira Leopardi > Testo 1, p. 30 |.

 Esercizi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Comprensione Riassumi brevemente il contenuto del canto. Spiega perché il pastore è una figura simbolica. Che valenza ha la luna? Di che cosa è metafora il «vecchierel bianco, infermo»? Che cosa rappresenta il gregge? Laboratorio Quali elementi testuali conferiscono un ritmo melodico alla canzone? Analizza il lessico ed evidenzia le espressioni che attingono alla poetica del vago e dell’indefinito. Soffermati sulla sintassi e spiega la funzione delle domande retoriche. Individua e spiega le figure retoriche di enumerazione (polisindeti, asindeti, climax).

10. Che cosa accomuna la luna e il gregge? 11. Come viene definito dal poeta lo «stato mortale»? Che cosa lo caratterizza? 12. Soffermati sull’ultima strofa: spiega e commenta l’esito della riflessione filosofica condotta nella lirica. Approfondimento 13. Che significato ha attribuire al pastore un sentimento di infelicità così radicale? Spiega che cosa è mutato nella concezione leopardiana. 14. La luna è una presenza ricorrente nelle liriche leopardiane: che valore simbolico assume nell’evoluzione poetica che va da Alla luna al presente canto?

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | Confronti | 125



Confronti: la poesia dei primitivi

Nel pensiero dello Zibaldone del 15 dicembre 1826, alle pagine 4234-4235, Leopardi fornisce una definizione della lirica come vertice, sommità della poesia in generale e della quale accentua la primogenitura in quanto è proprio di ogni nazione avere questo impulso che potrebbe essere dichiarato come “naturale”, perché il più antico, quello che è quasi senza condizioni (se non di avere delle misure, delle forme, quali che siano). Il genere lirico è il più poetico in modo originario, di fondazione, primige-

 Giacomo Leopardi La poesia dei primitivi in Zibaldone di pensieri tratto da G. Leopardi Zibaldone di pensieri, vol. II ediz. critica e annotata a cura di G. Pacella Garzanti, Milano 1991

1. subbietti: soggetti, nel senso di materie, contenuti.



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nio, affrancato da qualunque cultura civilizzatrice, quello che permette a ogni uomo «anche incolto» di consolarsi e ricrearsi. È il genere che psicologicamente ci permette di tornare all’antico, da qui la facoltà che il canto concede anche al semplice pastore, o come indicato in un altro passo dello Zibaldone (4476-4477) del 29 marzo 1829 «genere siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuam. in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia».

La poesia, quanto a’ generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo. L’epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un’amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti1 ha assunta [4235] principalmente e scelta la narrazione, poeticamente modificata. [...] Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un’ispirazione, ma un’invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua.

Esercizi: confronti

1. Soffermati sulle caratteristiche e sulle funzioni che Leopardi attribuisce al genere lirico e spiega perché tale genere è proprio anche degli antichi. 2. Che cosa lega il genere epico a quello lirico? 3. In che modo il Canto notturno può essere accostato a simili riflessioni?

4. Quali caratteristiche di genere si possono attribuire al canto del pastore e perché? 5. Perché egli è, in qualche modo, favorito nell’approccio poetico col mondo che lo circonda, secondo quanto Leopardi afferma nello Zibaldone ?

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 Testo 19

La ginestra o il fiore del deserto

Giacomo Leopardi in Canti

tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

1. E gli uomini… luce: l’epigrafe è tratta dal Vangelo di Giovanni ed è chiara anticipazione del motivo ispiratore di aspra polemica del canto contro le tenebre della mistificazione e dei falsi miti spirituali. 2. formidabil: spaventoso (latinismo). 3. Vesevo: Vesuvio (dal lat. Vesevus).

Scritta da Leopardi nella primavera del 1836, poco prima della sua morte (14 giugno 1837), La ginestra è stata da sempre considerata, anche e proprio per questo, un testamento poetico e ideologico. È la sua lirica più lunga, una canzone libera di sette strofe composta a Villa Ferrigni, nei pressi di Torre del Greco, di cui ci restano tre copie manoscritte di mano di Antonio Ranieri, con il quale l’anno prima aveva lasciato Napoli per scampare all’epidemia di colera. Ed è il canto che, nell’edizione delle Opere di Giacomo Leopardi (1845) curata dallo stesso Ranieri, occupa, per espressa volontà dell’autore, il posto del congedo. Lo scenario rappresentato è quello dei dintorni di Napoli e del paesaggio vesuviano, che potrebbe anche avere avuto come modello un epigramma di Marziale tradotto da Leopardi stesso nel 1812 («avvolge il colle spaventevol lutto»), mentre il «fiore del deserto» del titolo potrebbe essergli stato suggerito dalla lirica Rosa del desierto di un poeta spagnolo di fine Settecento, Nicasio Alvarez de Cienfuegos, la cui traduzione venne pubblicata su un periodico napoletano proprio in quel periodo. Nella “Villa delle ginestre” Leopardi s’immerge in un paesaggio “petroso” che diventa occasione poetica di una presa d’atto di quella «filosofia dolorosa, ma vera» che, contrariamente all’accusa di portare alla misantropia che le veniva mossa da alcuni detrattori (come si legge nello Zibaldone del 2 gennaio 1829), qui mostra invece di aprirsi a una speranza, quella di un patto laico, civile e solidale fra gli uomini come unica forma di salvezza contro la Natura avversa e matrigna. La particolarità dello stile, da partitura “sinfonica” come ha scritto Binni, e la riassunzione di tutte le tematiche prodotte dalla consapevolezza del “vero” – dalle prime canzoni patriottiche e civili fino all’ultima delle liriche, coeva a questo componimento, Il tramonto della luna – ne fanno un’opera, un poema che si potrebbe paragonare forse soltanto ai Sepolcri foscoliani.

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.1 GIOVANNI. III. 19

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Qui su l’arida schiena del formidabil2 monte sterminator Vesevo3, la qual null’altro allegra arbor né fiore4, tuoi cespi5 solitari intorno spargi, odorata6 ginestra, contenta dei deserti7. Anco8 ti vidi de’ tuoi steli abbellir l’erme9 contrade che cingon la cittade la qual fu donna de’ mortali un tempo10, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto faccian fede e ricordo al passeggero11.

Forma metrica: canzone libera di sette strofe, con rime e rime al mezzo, di lunghezza diversa, per un totale di 317 versi.

4. null’altro… fiore: non è allietata da nessun albero o fiore. 5. cespi: cespugli. 6. odorata: odorosa. 7. contenta dei deserti: che ti adatti a vivere nei deserti. 8. Anco: altre volte. 9. erme: solitarie. 10. la qual… tempo: che fu signora dei mortali un tempo (cioè Roma). 11. e del… passeggero: e sembra che con il loro aspetto solenne e taciturno vogliano dimostrare e ricordare al viaggiatore il perduto impero.

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Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante12, e d’afflitte fortune13 ognor compagna. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata14 lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil15 torna il coniglio; fur liete ville e colti, e biondeggiàr di spiche, e risonaro di muggito d’armenti16; fur giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fur città famose, che coi torrenti suoi l’altero monte dall’ignea bocca17 fulminando oppresse con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

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una ruina involve18, dove tu siedi19, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola. A queste piagge20 venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato21 ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all’amante natura22. E la possanza qui con giusta misura anco estimar potrà dell’uman seme, cui la dura nutrice, ov’ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto23. Dipinte in queste rive24 son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive 25.

Johann Christian Dahl, Il Golfo di Napoli con il Vesuvio in eruzione visto da una grotta, 1821. Copenahagen, Museo Thordvaldsen.

12. di tristi… amante: amante di luoghi infelici e abbandonati. 13. afflitte fortune: sventure. 14. impietrata: pietrificata. 15. covil: tana. 16. fur… d’armenti: furono cittadine allegre e terreni coltivati, e biondeggiarono di spighe e risuonarono del muggito dei bovini. 17. ignea bocca: bocca di

fuoco. 18. Or… involve: Ora tutto è avvolto in un’unica rovina. 19. siedi: risiedi, stai. 20. A queste piagge: in questi luoghi. 21. il nostro stato: la nostra condizione umana. 22. e vegga… natura: e constati quanto stia a cuore il genere umano alla benevola natura.

23. E la possanza… in tutto: E in questi luoghi potrà anche valutare con giusto criterio la potenza della stirpe umana, che la crudele nutrice, quando egli ha meno da temere, in un attimo la distrugge in parte con una sua scossa leggera e che è in grado, anche con scosse poco più forti, di annientarla del tutto

all’improvviso. 24. rive: luoghi. 25. le magnifiche… progressive: i destini meravigliosi e in continuo progresso (in corsivo perché è una citazione dalla “Dedica” degli Inni sacri (1832) a opera del poeta Terenzio Mamiani, cugino di Leopardi.

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Qui mira e qui ti specchia26, secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e volti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami27. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece vanno adulando, ancora ch’a ludibrio talora t’abbian fra se. 28 Non io con tal vergogna scenderò sotterra29; ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto:30 ben ch’io sappia che obblio preme chi troppo all’età propria increbbe31. Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido.32 Libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di nuovo il pensiero, sol per cui risorgemmo della barbarie in parte33, e per cui solo si cresce in civiltà, che sola in meglio guida i pubblici fati34. Così ti spiacque il vero35 dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè. Per questo il tergo36 vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese37: e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che se schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle38.

26. Qui… specchia: guardati e rispecchiati qui. 27. che il calle… il chiami: che hai abbandonato il sentiero fino allora tracciato-aperto in avanti dal pensiero risorto-rinato, e rivolto il cammino all’indietro ti vanti del regredire e lo chiami progresso. 28. Al tuo… fra se: Tutti i sapienti, dei quali la loro malasorte ti rese padre, vanno incensando il tuo bambineggiare, sebbene talvolta, nell’intimo, ti scherniscano. 29. Non io… sotterra: Io non andrò sottoterra con simile vergogna. 30. ma il disprezzo… aperto: ma avrò rivelato

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piuttosto il disprezzo che è chiuso nel mio animo nel modo più esplicito possibile. ben… increbbe: benché io sappia che il silenzio avvolge chi fu sgradito alla propria epoca. Di questo… mi rido: Di questo male, che condividerò con te, fin da ora assai mi faccio beffe. e servo… in parte: e nel contempo vuoi che sia di nuovo schiavo il pensiero grazie al quale soltanto ci siamo risollevati in parte dalla barbarie. i pubblici fati: i destini dei popoli. il vero: la verità, la realtà. il tergo: le spalle. al lume… palese: ai lumi

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Uom di povero stato39 e membra inferme che sia dell’alma generoso ed alto, non chiama se né stima ricco d’or né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra40; ma se di forza e di tesor mendico lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale41. Magnanimo animale non credo io già, ma stolto, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice, a goder son fatto, e di fetido orgoglio empie le carte, eccelsi fati e nove felicità, quali il ciel tutto ignora, non pur quest’orbe, promettendo in terra a popoli che un’onda di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sì, ch’avanza a gran pena di lor la rimembranza.42 Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale43; quella che grande e forte mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire fraterne, ancor più gravi d’ogni altro danno, accresce

filosofici (della ragione) che l’hanno resa manifesta. e, fuggitivo… estolle: e, mentre stai fuggendo, chiami vile chi li segue e magnanimo soltanto chi disprezzando se stesso o gli altri, per astuzia o per follia, innalza fin sopra alle stelle la condizione umana. di povero stato: di misera condizione. che sia… mostra: che sia di animo nobile e generoso non si dice né si giudica ricco di denaro o di prestanza fisica e non fa in pubblico ridicola esibizione di vita agiata o di fisico vigoroso. ma se… uguale: ma

senza vergogna lascia apparire se stesso come povero di forza e di averi, e lo dice apertamente parlando, e valuta le sue cose secondo il vero. 42. Magnanimo… rimembranza: Io non credo già che sia un essere magnanimo, bensì uno sciocco, colui che, nato per morire, cresciuto tra le sofferenze, dice “sono fatto per il godimento” e riempie gli scritti di putrido orgoglio, promettendo sulla terra grandiosi destini e felicità straordinarie che tutto l’universo, e non soltanto questo mondo, ignora, a popoli che un’onda di maremoto, un soffio di

aria infetta, un crollo sotto terra distrugge a tal punto che di loro resta a malapena il ricordo. 43. Nobil… frale: È invece nobile natura quella che ha il coraggio di alzare gli occhi mortali di fronte al destino comune, e che con linguaggio sincero, non togliendo nulla alla verità, riconosce il male che ci fu dato in sorte e la misera e debole condizione. 44. quella che… matrigna: è anche nobile quella che si rivela grande e forte nella capacità di soffrire, e non aggiunge alle proprie miserie i rancori e furori tra fratelli, ancora più pericolosi di ogni altro

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alle miserie sue, l’uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna44. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l’umana compagnia, tutti fra se confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune45. Ed alle offese dell’uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede così qual fora in campo cinto d’oste contraria, in sul più vivo incalzar degli assalti, gl’inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri.46 Così fatti pensieri quando fien, come fur, palesi al volgo47, e quell’orror che primo contra l’empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole48, ove fondata probità del volgo così star suole in piede quale star può quel ch’ha in error la sede49.

danno, accusando l’uomo della sua sofferenza, ma dà la colpa a colei che veramente è colpevole, la quale è genitrice dei mortali nel parto e matrigna nella volontà. 45. Costei… comune: Questa egli chiama nemica; e pensando -come è veroche contro di lei si sia unita e organizzata nei tempi la famiglia umana, ritiene tutti gli uomini uniti fra loro da un patto comune, e tutti li abbraccia con amore veritiero, offrendo e aspettandosi pronto e valido aiuto negli alterni pericoli e nelle difficoltà della guerra comune (contro la natura).

46. Ed alle offese… guerrieri: E ritiene folle armarsi ai danni dell’uomo e preparare insidie e ostacoli al proprio vicino così come, in un campo assediato da un esercito nemico, nel più furioso susseguirsi degli assalti sarebbe (stolto), dimenticando i nemici, intraprendere crudeli lotte con gli amici e colpire di spada fra i propri guerrieri e provocarne la fuga. 47. Così… volgo: quando pensieri come questi saranno manifesti alla gente comune. 48. fia… fole: sarà ricondotto in parte da un vero sapere, allora l’onesto e

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Sovente in queste rive, che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte50; e su la mesta landa in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto di scintille in giro per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch’a lor sembrano un punto, e sono immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente51; a cui l’uomo non pur, ma questo globo ove l’uomo è nulla, sconosciuto è del tutto52; e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle53, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno54 del numero infinite e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa55; al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo? E rimembrando il tuo stato quaggiù, di cui fa segno il suol ch’io premo56; e poi dall’altra parte, che te signora e fine credi tu data al Tutto, e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome57, per tua cagion, dell’universe cose scender gli autori, e conversar sovente

giusto consorzio civile e la giustizia e la compassione avranno un fondamento diverso da quello di favole piene di superbia. 49. ove… sede: basandosi sulle quali l’onestà della gente si regge come può stare in piedi ciò che si basa sull’errore. 50. Sovente… notte: spesso siedo la notte su queste pendici deserte che il flusso pietrificato (della lava) riveste di nero e sembra ondeggiare. 51. E poi… veracemente: E non appena dirigo gli occhi a quelle luci (stelle) che a loro sembrano un punto, e sono smisurate, cosicché la terra e il mare

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son davvero un punto al loro confronto. a cui… tutto: alle quali (stelle) non soltanto l’uomo ma questa sfera dove l’uomo è un nulla è del tutto ignota. e quando… stelle: e quando osservo quelli ancor più lontani sconfinati quasi nodi di stelle. tutte in uno: tutte insieme. del numero… nebulosa: le nostre stelle infinite per numero e per grandezza insieme con il sole dorato o sono sconosciute o così si vedono come essi (i nodi) sulla terra, cioè un punto di luce nebulosa.

56. E rimembrando… premo: E ricordando la tua condizione quaggiù, di cui è testimonianza il suolo che io calpesto. 57. e poi… nome: e poi per altro verso (ricordando) che tu ti credi padrona e fine assegnato all’Universo, e quante volte ti piacque fantasticare, su questo ignoto granello di sabbia che si chiama terra.

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co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi sogni rinnovellando, ai saggi insulta fin la presente età, che in conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar58; qual moto59 allora, mortal prole infelice, o qual pensiero verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d’arbor cadendo un picciol pomo60, cui61 là nel tardo autunno maturità senz’altra forza atterra, d’un popol di formiche i dolci alberghi, cavati in molle gleba con gran lavoro, e l’opre e le ricchezze che adunate a prova con lungo affaticar l’assidua gente avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto62; così d’alto piombando, dall’utero tonante63 scagliata al ciel profondo, di ceneri e di pomici e di sassi notte e ruina, infusa di bollenti ruscelli, o pel montano fianco furiosa tra l’erba di liquefatti massi e di metalli e d’infocata arena scendendo immensa piena, le cittadi che il mar là su l’estremo lido aspergea, confuse e infranse e ricoperse

58. per tua… avanzar: che per causa tua i creatori dell’universo scendessero e spesso conversassero piacevolmente con i tuoi abitanti, e ricordando che col rinnovare ridicole chimere perfino l’epoca contemporanea che sembra superarle tutte per conoscenza e costume civile è un insulto ai sapienti. 59. moto: moto d’animo, sentimento. 60. pomo: frutto. 61. cui: che. 62. d’un popol… punto:

schiaccia devasta e ricopre in un attimo i cari nidi di un popolo di formiche scavati nella terra molle con grande industria, e schiaccia pure gli averi e le opere che previdente in estate la laboriosa gente aveva ammassate a gara con lunghe fatiche. 63. dall’utero tonante: dalla cavità tonante del vulcano. 64. di ceneri… istanti: una buia rovina di cenere di pomice e di sassi, cosparsa di ruscelli infiammati, o calando

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in pochi istanti64: onde65 su quelle or pasce la capra, e città nove sorgon dall’altra banda66, a cui sgabello son le sepolte, e le prostrate mura l’arduo monte al suo piè quasi calpesta67. Non ha natura al seme dell’uom più stima o cura ch’ alla formica: e se più rara in quello che nell’altra è la strage, non avvien ciò d’altronde fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde68. Ben mille ed ottocento anni varcàr69 poi che70 spariro, oppressi dall’ignea71 forza, i popolati seggi72, e il villanello intento ai vigneti, che a stento in questi campi nutre la morta zolla e incenerita, ancor leva lo sguardo sospettoso alla vetta fatal73, che nulla mai fatta più mite ancor siede tremenda, ancor minaccia a lui strage ed ai figli ed agli averi lor poverelli74. E spesso il meschino75 in sul tetto dell’ostel villereccio76, alla vagante aura77 giacendo tutta notte insonne, e balzando più volte, esplora il corso del temuto bollor, che si riversa dall’inesausto78 grembo sull’arenoso dorso, a cui riluce di Capri la marina79 e di Napoli il porto e Mergellina.

furiosamente sull’erba lungo il fianco del monte una fiumana smisurata di pietre liquefatte e di metalli e di sabbia incandescente, sconvolse e distrusse e ricoprì in pochi istanti le città che il mare bagnava laggiù sull’estremità della costa. 65. onde: per cui. 66. dall’altra banda: sull’altro lato. 67. a cui sgabello… calpesta: alle quali quelle sepolte fanno da sgabello, e l’ostico monte quasi calpesta alle sue pendici le loro mura abbattute.

68. Non ha… feconde: La natura non ha maggiore considerazione o interesse per la stirpe dell’uomo che non ne abbia per la formica: e se la strage è meno frequente in essa che non nell’altra specie, ciò non accade per altro motivo se non dal fatto che l’uomo ha generazioni meno prolifiche. 69. varcàr: trascorsero. 70. poi che: dopo che. 71. ignea: del fuoco. 72. popolati seggi: città popolose. 73. fatal: funesta.

74. che nulla… poverelli: che per nulla divenuta più mansueta ancora si presenta terribile, ancora minaccia sterminio per lui per i figli e per i loro miseri averi. 75. il meschino: il poveretto. 76. ostel villereccio: casa rustica. 77. alla vagante aura: all’aria aperta. 78. inesausto: instancabile. 79. a cui riluce di Capri la marina: al cui riflesso si illumina la marina di Capri. 80. appressar: avvicinarsi. 81. nel cupo: nelle profondità. 82. l’usato suo nido: la sua

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E se appressar80 lo vede, o se nel cupo81 del domestico pozzo ode mai l’acqua fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo, vede lontan l’usato suo nido82, e il picciol campo che gli fu dalla fame unico schermo83, preda al flutto rovente, che crepitando giunge, e inesorato durabilmente sovra quei si spiega84. Torna al celeste raggio dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto scheletro, cui di terra avarizia o pietà rende all’aperto85; e dal deserto foro diritto infra le file de’ mozzi colonnati il peregrino86 lunge contempla il bipartito giogo e la cresta fumante87, che alla sparsa ruina ancor minaccia88. E nell’orror della secreta notte89 per li vacui90 teatri, per li templi deformi e per le rotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face che per voti palagi atra s’aggiri, corre il baglior della funerea lava, che di lontan per l’ombre rosseggia e i lochi intorno intorno tinge91. Così, dell’uomo ignara e dell’etadi ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno

casa familiare. 83. unico schermo: unico rimedio. 84. preda… spiega: in preda all’onda incandescente che sopraggiunge crepitando e inesorabile si stende per sempre sopra di essi. 85. Torna… all’aperto: Fa ritorno alla luce del sole, dopo il secolare oblio, la morta Pompei, come uno scheletro dissepolto che da sottoterra la cupidigia o la pietà restituisce alla luce. 86. il peregrino: il viaggiatore.

87. il bipartito… fumante: la doppia cima e il cratere fumante. 88. che… minaccia: che ancora minaccia le sparse rovine. 89. secreta notte: notte inoltrata. 90. vacui: vuoti. 91. ove i parti… tinge: dove il pipistrello nasconde la sua prole, come una lugubre fiaccola che si muova tenebrosa lungo i palazzi vuoti, si diffonde il bagliore riflesso della lava mortifera, che in lontananza rosseggia nell’ombra e colora tutto

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dopo gli avi i nepoti, sta natura ognor verde, anzi procede per sì lungo cammino che sembra star.92 Caggiono i regni intanto, passan genti e linguaggi: ella nol vede: e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.93 E tu, lenta94 ginestra, che di selve95 odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza96 soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l’avaro lembo97 su tue molli foreste98. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente99 il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor100; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti101; ma più saggia, ma tanto meno inferma dell’uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali102.

intorno i territori. 92. Così… star: Così, inconsapevole dell’uomo e delle epoche che egli chiama antiche e del succedersi dei nipoti dopo gli antenati, sta la natura sempre giovane, anzi va avanti in un percorso così lungo che sembra star ferma. 93. Caggiono… vanto: Nel frattempo cadono i regni, passano i popoli e le lingue: lei non li vede: e l’uomo si attribuisce la vanteria di essere eterno. 94. lenta: flessibile. 95. selve: cespugli.

96. possanza: potenza. 97. avaro lembo: il lembo estremo e vorace (avaro, perché inghiotte tutto ciò che raggiunge) della lava. 98. molli foreste: vegetazioni cedevoli. 99. E piegherai… renitente: E sotto il peso della morte ripiegherai senza resistere. 100. ma non… oppressor: ma non piegato invano fino ad allora supplicando vigliaccamente davanti al tuo futuro oppressore. 101. ma non… avesti: ma non alzato con folle orgoglio verso le stelle, né sul

deserto, dove per sorte e non per scelta ricevesti la nascita e la tua sede. 102. ma più… immortali: ma più saggia, ma tanto meno folle dell’uomo, in quanto non credesti che le deboli tue generazioni fossero o dal destino o per tuo merito rese immortali.

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Analisi del testo

Struttura e temi

La ginestra è il componimento più lungo dei Canti (317 versi) e si articola in sette lunghe strofe, la terza di ben 71 versi, che somigliano più a delle lasse > finestrella p. 123 | vista la loro ampiezza e per il loro carattere meditativo ed epico. STROFE

VERSI

I

Il poeta e il fiore del deserto

1-51

II

Il secolo «superbo e sciocco»

52-86

III

Il nuovo patto della «social catena»

87-157

IV

La maestà dell’universo

158-201

V

Uomini e formiche

202-236

VI

I cicli eterni della Natura e della Storia 237-296

VII

La ginestra

297-317

1 Il poeta e il fiore del deserto (vv. 1-51) Davanti allo scenario di distruzione del Vesuvio si presenta alla mente del poeta l’idea che la ginestra, fiore dal forte profumo («odorata ginestra», v. 6) che vive e cresce “solitaria” sulla roccia lavica e tra le rovine di Roma antica, possa essere simbolo di una resistenza umile ma tenace, «contenta dei deserti» (v. 7) cioè dignitosamente rassegnata, alla furia distruttrice della Natura, rappresentata dal terribile e arido paesaggio vulcanico, metafora a sua volta del desolante e indifferente meccanismo di assoggettamento alla morte dell’intero esistere universale. La ginestra, amica di grandezze abbattute («erme contrade», v. 8) – sia delle rovine della città, Roma, che un tempo è stata dominatrice dei popoli (vv. 7-13), sia di questa terra, cosparsa di ceneri sterili («infeconde» v. 18), un tempo fertili campi (vv. 14-19) – è spettatrice e partecipe, muta interlocutrice dell’io poetico. La funzione di alter ego del poeta, come presenza che resiste alla violenza della natura e alla forza del tempo che tutto consuma, è testimoniata anche dalla riflessione sulla storia, sulla memoria storica («Anco ti vidi….» del v. 7; «Or ti riveggo» del v. 14). A chi non sa riconoscere l’impotenza dell’«uman seme» (v. 43) e la totale sudditanza alla «dura nutrice» (v. 44), si indirizza il monito dei vv. 37-51, nei quali si individua uno dei motivi ideologici della canzone, posto a chiusura della prima stanza: il contrasto e la polemica con gli intellettuali contemporanei sostenitori delle «magnifiche sorti e progressi-

ve» dell’umanità, in corsivo perché citazione dalla “Dedica” degli Inni sacri (1832) del cugino Terenzio Mamiani, assiduo frequentatore del circolo del Vieusseux, bersaglio dell’ironia leopardiana. 2 Il secolo «superbo e sciocco» (vv. 52-86) La polemica è indirizzata contro i tempi moderni e contro gli inganni, i falsi miti dello spiritualismo ottocentesco il quale, fiducioso in una interpretazione trascendente della realtà, rinnega e fa regredire quanto la ragione dell’età dei lumi ha svelato, ovvero la precarietà della condizione umana. È al proprio secolo, infatti, che viene ora rivolta una dura apostrofe, mediante la quale si attua il passaggio dalla dolcezza “vaga” della ginestra al sentimento di indignazione verso i suoi contemporanei, coloro che si beano del facile ottimismo e hanno dimenticato la lezione di quel «risorto pensar» che, dal Rinascimento all’Illuminismo, aveva promosso la crescita della civiltà umana. Alla mitologia del progresso (vv. 59-63) Leopardi contrappone la propria scelta intellettuale ed etica di ricerca e smascheramento del vero, della verità sulla nostra sorte infelice, anche se questo significa la solitudine e il silenzio avvolge chi fu sgradito («obblio /preme chi troppo all’età propria increbbe») alla propria epoca (vv. 63-71 e 80-86). 3 Il nuovo patto della «social catena» (vv. 87-157) La lunga riflessione arriva fino al nuovo patto, all’utopia* della catena sociale di mutua assistenza fra gli uomini, a partire dall’immagine, in antitesi anche nella strofa precedente, tra l’essere vile e stolto e l’essere davvero magnanimo (v. 84), la «nobil natura» di chi ha il coraggio di alzare gli occhi al vero e comune destino («comun fato», v. 114). È inutile nascondere la miseria dell’uomo perché questa forma di pietà produce solo male, il vero “eroismo” sta, invece, proprio nell’accettare l’amara verità della fragilità umana e comunicarla agli altri uomini, chiamandoli all’appello contro la Natura, la reale nemica «che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna» (v. 125), intimamente collegata all’impianto di pensiero delle Operette morali, specialmente con il Dialogo della Natura e di un Islandese

Utopia *Il neologismo coniato dallo scrittore Tommaso Moro rinvia alle forme greche ou-tópos ed eu-tópos, rispettivamente e liberamente traducibili con “luogo inesistente” e “luogo felice”, proprio affinché l’ambiguità del temine renda l’idea di una forma immaginaria di mondo e di società dove l’ideale perfezione della convivenza tra gli uomini possa identificarsi con una forma di felicità.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.3 Canti | La ginestra o il fiore del deserto | 133 Karl Pawlowitsch Bruelow, L’ultimo giorno di Pompei, 1833. San Pietroburgo, Museo Statale Russo.

> p. 156 |. Oltre all’appassionata difesa di questa scelta si

delinea un ideale di uomo e di intellettuale che, a partire dall’esemplare presa di coscienza della propria personale condizione, manifesta la sua nobiltà affrontando e dichiarando apertamente il «mal che ci fu dato in sorte» (vv. 87-117), per una società finalmente fondata sulla giustizia e sulla reciproca compassione. 4 La maestà dell’universo (vv. 158-201) Si torna all’io del poeta, che si stacca dalla sola dimensione terrestre: davanti alla maestosità del cielo notturno, medita sulla grandezza del cosmo e sulla piccolezza dell’uomo, sulla sua presenza “minima”, quasi il nulla di un granello sperduto nella grandiosità cosmica, di fronte alla quale lo stolto orgoglio dell’uomo merita solo riso o pietà. È una nuova meditazione sull’infinito che ricorda l’idillio del 1819 > p. 60 | (una spia è data dall’uso del verbo “mirare”, «miro» del v. 174), ma rispetto a esso si differenzia non solo per lo stile, non più quello della poetica del «vago» e dell’«indefinito» che crea il piacere di superamento del limite > Focus, p. 58 |, ma anche per il tono filosofico che ribadisce l’assunto ideologico di tutto il componimento, la contestazione della centralità dell’uomo nell’universo. Questi stessi versi ricordano anche il pastore del Canto notturno > p. 118 | che guarda al cielo e canta la vertigine cosmica; ma qui i versi sembrano provenire dagli occhi che si fissano sulle luci delle stelle, ai quali sembrano un punto e sono invece immense, così come, non dalla terra ma dal cielo, la terra e il mare si riducono a una piccolezza, a un punto «di luce nebulosa». Si vedano alcuni motivi ricorrenti nelle Operette morali > p. 142 | sulla relatività delle cose.

5 Uomini e formiche (vv. 202-236) Il poeta procede alla descrizione dell’eruzione che distrusse Pompei ed Ercolano e a considerazioni sull’impotenza dell’uomo al cospetto della Natura. Di forte impatto visivo è l’epica eruzione del Vesuvio che, nel 79 d.C., coprì tutto di lava: potenti e visionarie sono alcune delle metafore relative alla natura dispensatrice di vita e di morte, madre e matrigna, come già nel v. 125 e ora affidate al grembo del vulcano che partorisce lava (v. 254 della strofa seguente, «inesausto grembo»), all’«utero tonante» del v. 213. Si alternano immagini sulla forza della natura e sul tempo, mentre la piccolezza della terra, tematica della strofa precedente, viene rielaborata attraverso un’ampia similitudine che occupa quasi interamente la strofa. Il sentimento di pietà per i viventi e per la loro debolezza trova espressione nella rappresentazione del «popol di formiche», proiettata in una dimensione umana come rivelano gli attributi “umani” assegnati alle formiche: «popol», «dolci alberghi», «assidua gente» e così via. Su questo laborioso mondo costruito dalle formiche si abbatte un frutto venuto a maturazione, secondo le leggi della natura che, con la sua caduta, distrugge il formicaio. Così come, e siamo alla seconda parte della similitudine, il perpetuo ciclo della natura mette in scena la grandiosità dell’eruzione che mette in risalto non solo l’impeto inarrestabile della violenza distruttrice, ma anche la fragilità, l’impossibilità dell’uomo a contrastarne gli effetti. 6 I cicli eterni della Natura e della Storia (vv. 237-296) L’attacco della sesta strofa è direttamente connesso, nella sua maestosa orchestrazione, ai versi precedenti. Il ri-

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chiamo dei vv. 226-230 alle conseguenze ancora visibili dell’eruzione del passato anticipa e sposta l’attenzione sul tempo presente, che è il tempo di quasi tutta la canzone, e sulla minaccia sempre incombente del vulcano («Ben mille ed ottocento / anni varcàr», v. 237) verso qualsiasi labile costruzione dell’uomo, sovrastata dalla presenza minacciosa della «vetta / fatal» (vv. 244-245): una parte per il tutto di quella Natura madre-matrigna che come «inesausto grembo» (v. 254) riversa il male sugli infelici viventi. L’inflessibile meccanismo del ciclo della natura divora anche la storia: lo sviluppo di qualsiasi tempo umano della storia è sempre sconfitto, come testimoniano le rovine di Pompei e quelle di Roma, dal tempo eterno della natura (vv. 289-296). 7 La ginestra (vv. 297-317) Torna a chiudere circolarmente la sinfonia della canzone l’immagine della ginestra («E tu, lenta ginestra», v. 297), metafora e modello di condotta umana. La descrizione riprende specularmente le qualità simboliche del fiore già nella prima strofa: il profumo («selve odorate», v. 298), la solitudine di un paesaggio spoglio che la ginestra ingentilisce; tuttavia, a differenza dei versi d’attacco della lirica, ora non è più possibile guardare a quell’immagine senza pensare a quanto sviluppato nelle strofe 2-6, dunque neppure il fiore del deserto, icona di sopravvivenza, riuscirà a non soccombere sotto il giogo inarrestabile della natura distruttrice. L’identificazione tra l’uomo e la ginestra ora si fa esplicita: comune è il destino di accettazione dell’ineluttabile, comune deve essere la scelta dignitosa del rifiuto delle false illusioni. Lingua e stile

Pur conservando la tradizionale scansione in strofe della forma canzone libera leopardiana, La ginestra assume – per il numero molto alto dei versi, il gigantismo di alcune stanze direttamente legato alla presenza minacciosa della natura, l’orchestrazione di ampio respiro e il tono “narrativo” ed epico – le sembianze di un poemettopoema che, all’uso del metro tradizionale dell’endecasillabo sciolto, contrappone lo schema della canzone con alternanza di endecasillabi e settenari. Molto rare le rime e più frequenti a fine strofa (a parte la prima che riporta la citazione da Mamiani), anche baciate: folle : estolle; piede : sede; assale : prevale; d’altronde :feconde. La vasta architettura del componimento si tiene attraverso richiami a distanza, riprese e ripetizioni, come l’anafora di «fur» ai vv. 24 e 27 con ripetizione in v. 29 e nel 31 con la variante fu. Le scelte lessicali, sintattiche e retoriche sono assolutamente funzionali al complesso spessore della riflessione filosofica. La lirica inizia subito, nei primi tre versi, con un climax ascendente che rende la terribilità del paesaggio e

la spaventosa connotazione del vulcano: «arida schiena», «formidabil monte», «Sterminator Vesevo». A stabilire le coordinate spazio-temporali di un reale concreto è la sequenza di deittici > finestrella p. 61 |: dal primo verso «Qui sull’arida schiena» a «in questo suol» (v. 14), «Questi campi cosparsi» (v. 17), e ancora «queste piagge» (v. 37), «qui» (v. 42), fino al passaggio della seconda strofa che inizia con «Qui mira e qui ti specchia…», per arrivare infine al «queste campagne» del v. 299. Lo spazio è, dunque, ben circostanziato e il dato realistico dell’hic et nunc, del “qui” e “ora” è determinato sin dall’incipit. Solo dopo lo scenario reale si fa figura dell’identificazione tra l’io poetico e la ginestra. Quanto al tempo, domina proprio per l’immediatezza del riscontro reale il presente; pochi sono i momenti in cui, rievocando il passato, viene usato il passato remoto ed è ancor più raro l’uso nel futuro, esclusivamente nelle immagini utopistiche del possibile consorziarsi dell’uomo contro la natura. La sintassi segue la varietà del pensiero e del ritmo che da un inizio piano e di tipo coordinativo andando avanti si complica: abbondano gli iperbati, le anastrofi le perifrasi, e in alcuni momenti si fanno più frequenti gli enjambements, soprattutto nella quarta strofa dove la costruzione si regge su subordinate e relative («che», «che», «Ch’a», «cui», «a cui», «a cui» dei vv. 167-185). Al contrario di quanto avviene nella strofa precedente, la terza, dove attraverso iterazioni, anafore e il polisindeto di e il ritmo accelera, così come nella strofa successiva, la quinta, il ritmo si accorcia, con un periodare più breve e serrato, sottolineato anche qui dal frequente uso del polisindeto, e la predominanza del più breve settenario sull’endecasillabo è volta a esprimere la rapidità e il pathos dell’eruzione fatale del Vesuvio. Un pathos accentuato anche dalla figura dell’accumulazione, che vede nella similitudine l’elencazione delle opere delle formiche e poi la desolante elencazione di tutto quanto usato per struggere (ceneri, sassi, pomici, torrenti incandescenti ecc.) e di quanto viene distrutto. Tra le figure retoriche abbiamo già visto la presenza di alcune similitudini; si noti come il ricorso all’esemplificazione e al paragone sia maggiore nelle strofe orientate più alla dimostrazione che all’argomentazione, come la terza (l’esercito) e la quinta (uomini e formiche). Dal punto di vista lessicale è da sottolineare la presenza nel testo di: - parole chiave («terra», «mare», «uomo», «globo», «nulla», «tutto», «stelle», «sole», «nebbia»), alcune più volte ripetute come per esempio «punto», che si addensa nella parte centrale della quarta strofa con ben 4 occorrenze, con valore sia spaziale (ai vv. 182-183) sia temporale (v. 212);

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- latinismi come «annichilare» (v. 48), «arbor» (vv. 4 e 202) e «Vesevo» (v. 3); - termini del linguaggio aulico e letterario: in particolare di ascendenza dantesca per le parole dai suoni aspri e petrosi e nella ripresa quasi alla lettera di Purgatorio I, 71 «libertà va cercando», qui al v. 72 «Libertà vai sognando», o il paragone di Inferno XXIV, 7-15 del villanello che guarda con timore la natura circostante (vv. 240 e seguenti); e ancora le riprese petrarchesche – le immagini del tòpos delle rovine dell’antichità classica romana, già nelle canzoni patriottiche e civili in apertura dei Canti –, le descrizioni di una natura aspra e malevola mediate soprattutto dal Foscolo dell’Ortis (lettera da Ventimiglia) e dei Sepolcri, oppure da Lucrezio o da Virgilio per la descrizione dell’eruzione del Vesuvio, nonché Marziale come già indicato.

Ma la solennità del componimento è raggiunta attraverso una secca rappresentazione della realtà grandiosa come la volta celeste, il mare, e al tempo stesso spaventosa come il vulcano, l’eruzione. La lingua è spesso perentoria, assertiva e sentenziosa in alcune chiusure di strofa, la parola è scarna e quasi priva di ag-

gettivazioni a parte quelle che la qualificano in senso petroso, aspro, “lavico” e desertico come «impietrata lava» per rendere ancora più forte l’aridità. La desolazione, la sofferenza umana, la doppia allitterazione dei vv. 23-24 «al noto / cavernoso covil torna il coniglio» o del v. 69 «preme chi troppo all’età propria increbbe» ne sono una dimostrazione. I suoni si fanno più dolci e musicali nel notturno dei vv. 158 e seguenti e in quelli dedicati alla ginestra ai vv. 5-16, 297-299. La sesta strofa è caratterizzata da un linguaggio icastico, affine alle fonti figurative delle rovine, divenute un motivo di gusto settecentesco e preromantico dopo la ripresa degli scavi archeologici a Ercolano e Pompei del 1748. Significative analogie, infine, si registrano tra La ginestra e la produzione leopardiana che più si distacca dai canti “pisano-recanatesi”, sia per i temi sia per il tono sarcastico che assume: i Paralipomeni della Batrachiomachia > p. 178 |, la Palinodia al marchese Gino Capponi, la satira I nuovi credenti, l’abbozzo dell’inno al male Ad Arimane, oltre alla scrittura dei Pensieri e delle Operette morali che si protrae anche oltre il 1824.

 Esercizi Comprensione 1. Prendi in esame ciascuna strofa e indicane brevemente il contenuto. 2. Su che cosa si appunta la polemica contro il «secol superbo e sciocco»? 3. Che valore simbolico assume la ginestra in tanta potente desolazione? Laboratorio 4. Individua e spiega gli elementi testuali che connotano la sublime aridità e maestosità del paesaggio. 5. Come viene rappresentata la Natura ostile? 6. Che significato attribuisci ai vv. 124-125? 7. Come viene connotata invece la ginestra? Qual è la sua funzione? 8. In che maniera viene rappresentato lo spazio fisico? Serviti di citazioni testuali per rispondere.

9. Soffermati sull’uso dei tempi verbali? Quale prevale e perché? 10. Distingui le strofe descrittive rispetto a quelle riflessive e indica il relativo taglio sintattico e metrico ritmico. 11. Come vengono descritti i luoghi prima dell’eruzione del 79 d.C.? 12. Che caratteri presenta, invece, la descrizione dell’eruzione ai vv. 212 e seguenti? 13. Quale valenza si può attribuire alla «social catena» del verso 149? 14. Analizza ora l’ultima strofa: perché si può dire che chiuda circolarmente la lirica? Approfondimento 15. La ginestra può essere considerata la summa del pensiero poetico e dell’opera di Leopardi: illustra e spiega in un breve saggio, servendoti dei testi antologizzati.

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Focus Binni e il messaggio della Ginestra ai giovani

In digitale W. Binni, Il messaggio della «Ginestra» ai giovani del Ventesimo secolo W. Binni, L’ultima lezione, sulla «Ginestra»

Alla fortuna de La ginestra e a un’adeguata valutazione del messaggio ultimo di Leopardi, affine, possiamo supporre, alla «mai stesa, ma vivamente pensata» Lettera ai giovani del ventesimo secolo, sono dedicate alcune importanti pagine del professore e critico letterario Walter Binni (19131997), di cui proponiamo due passi dal saggio Il messaggio della «Ginestra» ai giovani del Ventesimo secolo (1988) e un terzo tratto dall’ultima lezione dedicata a Leopardi che Binni tenne a Roma nel 1993, nell’aula I della Facoltà di Lettere della Sapienza. Rimandiamo al digitale per la lettura di brani più ampi di entrambi gli scritti.

La ginestra, scritta nel 1836 quasi alle soglie della morte, desiderata e presentita, è, nell’economia interna della vicenda vitale e intellettuale poetica del Leopardi, il suo supremo messaggio eticofilosofico espresso interamente in una suprema forma poetica, mentre nella storia letteraria – su piano non solo italiano – è insieme, non solo il più vigoroso ed alto dei «messaggi» dei grandi poeti dell’epoca romantica [...], ma addirittura, a mio avviso, la poesia più grande degli ultimi due secoli, la più significativa per la problematica nascente del mondo moderno, la più aperta su di un lungo futuro che tuttora ci coinvolge e ci supera. La massa ingente di pensieri e di proposte eticocivili che gremisce questo testo fondamentale per la civiltà umana (proprio noi ne sentiamo la profonda attualità nel nostro tempo per tante ragioni minaccioso ed oscuro, sotto l’incombere del pericolo nucleare e dei disastri ecologici, fra tanto riflusso di evasione nel privato e del risorgere in nuove forme sofisticate di uno sfrenato irrazionalismo e misticismo e nuovi travestimenti ideologici di sfruttamento dell’uomo sull’uomo) non è un nobile altissimo appello privo di adeguata e coerente forza poetica. Anzi, ciò che gli conferisce l’intero suo spessore ideale è proprio la coerente, integrale collaborazione e sin fusione costante fra pensiero e poesia, la sua formidabile, necessaria espressione poetica, originalissima ed eversiva, pessimistica ed «eroica» come la tematica e problematica del suo nerbo etico-filosofico, promossa com’è dalla spinta di una esperienza poetica precedente così complessa, e soprattutto dalla nuova «poetica» energica, eroica dell’ultimo periodo leopardiano dopo il ’30 e così strutturata in una estrema novità di forme lirico-sinfoniche, di cui qui è impossibile render conto adeguato, ma di cui almeno indicheremo la inaudita pressione del ritmo incalzante [...], della costruzione a strofe lunghissime, tentacolari, avvolgenti, con l’uso

spregiudicato e nuovissimo di rime, rime interne, assonanze, ossessive ripetizioni di parole, spesso ignote al linguaggio aulico e tradizionale della lirica («fetido orgoglio», «vigliaccamente rivolgesti il dosso» significativamente riprese dal linguaggio aspramente creativo dell’Alfieri delle Satire) [...]. E soprattutto la adozione non casuale – ma promossa dai temi e problemi del pensiero e del comportamento morale – di un linguaggio «materialistico», estremamente fisicizzato, sì che anche i paesaggi desertici e lividi appaiono come un’arida, nuda, scabra, scagliosa crosta terrestre violentemente lacerata dalla stessa forza aggressiva che promuove la direzione aggressiva del pensiero. Mentre le rare immagini di esseri viventi, animali selvatici e repellenti (ad eccezione dell’unica figura umana del «villanello» laborioso che segnala la forza autentica dell’attrazione di Leopardi per le «persone» delle classi subalterne «la cui vita – come scrive in una grande lettera da Roma del 1823 – si fonda sul vero e non sul falso», cioè che vivono «di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno» come la maggior parte della parassitaria popolazione romana del tempo) sono investite da una violenta deformazione e colte nello spasimo vitalmente degradato del loro movimento sotto la luce ossessiva e funerea del deserto vesuviano o delle rovine scheletrite e allucinanti di Pompei. C’è una suprema forza di dignità in questo ultimo Leopardi e La ginestra è una grande lezione di dignità nel soffrire, nel sopportare «il mal che ci fu dato in sorte». E l’uomo leopardiano «con franca lingua» rivela la realtà delle cose senza toglier nulla a questa “acerba” verità, e non ne accresce stoltamente la miseria con le lotte fra gli uomini: «né gli odii e l’ire / fraterne [...] accresce / alle miserie sue», come egli afferma in un crescendo impetuoso e appassionato. E voi sentite certo la forza di un ritmo incalzante, come in un certo senso incalzante è lo snodo del pensiero, e questo impeto raggiunge persino toni entusiastici che non sono certamente convenzionali e il cui significato parafrasato potrebbe apparire anche prosastico e convenzionale [...]. Vibra qui una profonda reazione totale della personalità leopardiana, e l’inarcamento del periodo va sentito anzitutto proprio nella sua forza poetica come un forte strappo musicale. E qui mi viene in mente il mio solito esempio beethoveniano che non è casuale, così come non è stato a caso che un musicologo come Massimo Mila abbia cercato relazioni persino nei “contenuti” tra la Nona sinfonia e La ginestra.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.4 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani | 137 sezione

capitolo

Analisi

9 dell’opera 

Giovanni Paolo Pannini, Vedute di Roma antica con l’artista che termina una copia delle Nozze Aldobrandini, 1755 circa. Parigi, Musée du Louvre.

1.4 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani

Vicino alla scrittura dello Zibaldone e di quelli che saranno i Pensieri pubblicati postumi nel 1845, da Leopardi definiti «pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta nella società» in una lettera all’amico De Sinner, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani elabora una materia morale e sociale che riguarda lo spirito nazionale italiano, o meglio, proprio la mancanza di questo. Infatti, secondo Leopardi, la mancanza di una nazione e di uno spirito nazionale è visibile in Italia in ogni aspetto della vita politica, militare, sociale, morale, culturale. Ne deriva che non esiste rispetto per dei «costumi» comuni ed è pertanto diffusa una totale indipendenza “sociale” e indifferenza verso l’opinione pubblica. Non è da escludersi che alla formazione del giudizio complessivo dato da Leopardi abbia influito anche l’esperienza deludente del soggiorno romano tra il 1822 e il 1823. Gli studi filologici sul manoscritto autografo del testo mostrano la struttura compositiva dell’opera non come un blocco unitario, ma chiaramente ripartita in cinque parti distinte:

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Gep Gambardella (Toni Servillo) in una scena del film La grande bellezza (2013), diretto da Paolo Sorrentino.

1 presentazione dello scritto, in cui l’autore propone l’argomento e le sue motivazioni e l’Italia rimane ancora sullo sfondo; 2 svolgimento dell’argomento nel quale l’Italia diventa tema specifico; si esaminano le cause e gli effetti che hanno prodotto il presente costume degli Italiani; 3 una digressione storica tesa a mostrare il Medioevo come un’era di oscurantismo; 4 continuazione dello svolgimento delle argomentazioni; 5 esposizione della teoria antropologica che vedrebbe, in rapporto al clima, la superiorità delle popolazioni nordiche su quelle meridionali. Per considerare la storia della composizione del Discorso, occorre valutare il preciso momento storico in cui matura. Esso, infatti, si inserisce idealmente in un dibattito che, nei primi decenni dell’Ottocento, vede l’Italia al centro dell’attenzione internazionale quale meta privilegiata della moda del turismo intellettuale (il “Grand Tour”). Ma poiché scritto nel marzo 1824, nel pieno della composizione delle Operette morali, rimarrà incompiuto e inedito fino al 1906, quando il Discorso viene pubblicato negli Scritti vari inediti dalle carte napoletane. Sarà poi ristampato nel 1921 come testo atto a inaugurare la pubblicazione di scritti leopardiani nella rivista romana “La Ronda”, e ancora nel 1941, ad aprire la parte di antologia leopardiana curata dallo scrittore Vitaliano Brancati per Bompiani intitolata Società, lingua e letteratura d’Italia. In relazione alla genesi compositiva, alle fonti e ai modelli dell’opera, si indicano le molte letture da Machiavelli nei mesi precedenti la scrittura (tra il 1823 e il 1824) e i contatti e le analogie sia con il Viaggio in Italia di Montaigne sia, soprattutto, con Corinna o l’Italia di Madame de Staël > Tomo 2.2, sez. 8 |, dalla quale riprende l’argomento dell’assenza di una società in Italia, e con Rousseau, da cui sembra probabile abbia mutuato le nozioni di società “larga” e società “stretta”. Il Discorso fa parte di quello che può considerarsi un piccolo “genere”: la descrizione dei caratteri nazionali, in particolare del carattere italiano; genere più diffuso, non a caso, nel resto dell’Europa a opera degli stranieri che avevano viaggiato in Italia. È infatti questo il periodo in cui si consolida il tòpos dell’immagine dell’Italia “fuori” dell’Italia. Caratteristica degli italiani è di non interessarsi a descrivere e a riflettere sui propri costumi. Secondo Leopardi si deve infatti parlare di «usanze e abitudini», invece che di veri e propri «costumi». Ne consegue anche che gli italiani non hanno interesse per la politica, perché non hanno una vera idea di patria: la conoscenza, la ragione, la civiltà hanno dissipato tutte quelle illusioni, la giustizia, la gloria e la patria, necessarie, invece, per condividere la vita di una vera società. Anche Vincenzo Gioberti > Sguardi d’autore, p. 183 | nel Primato morale e civile degli Italiani (1842-1843) scriverà che il popolo italiano «non sussiste». Nelle altre nazioni che hanno visto le grandi illusioni estinguersi, come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, scrive Leopardi, la persistenza del loro «principio conservatore della morale» ha comunque salvato quell’idea di società stretta, regolata, fatta di una vita di relazione dettata dalla convenienza sociale. Per questo all’Italia spetta il primato del cinismo, diffuso in tutte le classi sociali, che porta l’uomo all’arrivismo individuale, all’egoismo ambizioso e, quindi, alla disgregazione del tessuto collettivo.

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 Testo 20

Il cinismo degli Italiani Giacomo Leopardi in Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani

tratto da G. Leopardi Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani ed. diretta e introdotta da M. A. Rigoni Rizzoli, Milano 1998

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1. onninamente: interamente, completamente. 2. massime: soprattutto. 3. raillerie: presa in giro un po’ spinta e triviale. 4. persifflage: derisione.

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Il brano che segue può essere considerato emblematico del giudizio leopardiano sul paesaggio antropologico e morale dell’Italia e degli italiani e testimonia della modernità e dell’attualità di quest’opera. Né civile né incivile, l’Italia, che al posto dei «costumi» ha piuttosto delle «usanze», non è una nazione, e gli italiani più che cittadini sono degli individui, infatti ognuno fa «tuono e maniere da sé». A proposito del “tuono”, francesismo derivato da bon ton, nel senso di maniera, modo, Leopardi aveva scritto il 28 settembre 1823 nello Zibaldone (3546): «Il tuono sociale di questa nazione non esiste; ciascuno ha il suo. Infatti non v’è tuono di società che possa dirsi italiano». L’autore si sofferma, quindi, sulla tendenza dei suoi connazionali al cinismo, disposizione che nasce dall’indifferenza e arriva al disprezzo e alla derisione degli altri. Questa regola, fondata sull’assenza di una forma autentica di rispetto altrui, determina lo sfaldamento del tessuto sociale di un popolo.

Or gl’Italiani generalmente parlando, e con quelle diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intera, si sono onninamente1 appigliati a questo partito. Gl’Italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ Francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua natura. Se gli stranieri non conoscono bene il modo di trattare degl’Italiani, massime2 tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli l’occasione d’esserne facilmente e sovente testimonio, perocché d’altronde noi siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie3 il persifflage4, cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando

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55 5. se pousser au bout: spingersi all’estremo. 6. polissonnerie: scherzo, ragazzata. 7. guisa: maniera. 8. in istato di trasporto: in una condizione di esaltazione. 9. conseguono: ottengono.

Tullio Pericoli, Giacomo Leopardi, 1987.

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altrove sarebbe considerato per il più insopportabile, e il più alieno dal modo di conversare. Gl’Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout5 colle parole, più che alcun’altra nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di polissonnerie6, ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie. I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa7. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto8. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il proccurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi. Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo, e da tutte le sovraespresse condizioni e maniere del nostro modo di trattarci scambievolmente. Non rispettando gli altri, non si può essere rispettato. Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere rispettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono9. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendo-

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95 10. annichilarlo: annientarlo. 11. ridotti: generici luoghi di riunione e aggregazione. 12. appo: presso.



si, in vece d’essere risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura di non soffrire altrettanto e provocarsi maggiormente gli altri, incapace di difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle difese. E basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e annichilarlo10. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso, e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. La quale indifferenza chi non sa quanto noccia ai costumi? E certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senz’amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni. Di più quanto v’ha di conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti11 pubblici, piuttosto che appresso i privati, appo12 i quali propriamente non si conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia, essendo sconosciute in Italia le vere conversazioni private che s’usano altrove); quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità de’ costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo, ed alienarle dagli altri e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo.

Esercizi

Comprensione 1. Suddividi il brano in sequenze e focalizza il nucleo concettuale di ognuna. 2. Qual è la causa e l’origine del cinismo degli italiani? 3. Perché Leopardi accusa gli italiani di «mancanza di società»? Quali sono le conseguenze di tale mancanza? 4. Cosa sono la «raillerie» e il «persifflage»? 5. Perché il «persifflage» degli italiani si distingue da quello degli altri popoli? Laboratorio 6. Descrivi in cosa consista la specificità negativa del conversare degli italiani?

7. Qual è la tesi che propone l’autore e attraverso quali argomentazioni la sostiene? 8. Illustra le caratteristiche della prosa e del lessico. Approfondimento 9. In un breve commento delinea quale ritratto dipinga Leopardi del popolo italiano e confronta la posizione dell’autore con quella espressa pochi anni prima da Foscolo.

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capitolo

Analisi

9 dell’opera

1.5 Operette morali



Storia del testo, struttura

Il primo saggio delle Operette morali pubblicato nel 1826. Autografo del Dialogo della Natura e di un islandese, 27-30 maggio 1824. Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms.Leopardiani 9, foglio 109.

Luciano di Samòsata *Scrittore greco del II secolo d.C., Luciano, nei suoi dialoghi, aveva usato le figure di dèi ed eroi dell’antica Grecia i quali, osservando dall’alto gli uomini, ironeggiavano sui loro comportamenti superbi e inutilmente ambiziosi. È il modello più importante della classicità per il Leopardi delle Operette morali.

La genesi delle Operette morali risale al 1819-1820, come attestato dalla corrispondenza con il letterato e amico Pietro Giordani: in una lettera del 18 gennaio 1819 Leopardi accenna a suoi «disegni intorno alla prosa italiana» di cui vorrebbe scrivergli, e il 12 febbraio allude «ad alcuni miei disegni intorno al comporre certe operette». Sebbene il suo progetto di cimentarsi con il registro ironico e comico in prosa sia in seguito più volte rimandato, esso non è mai del tutto accantonato, come documentano alcune lettere, sempre a Giordani, come quella del 4 settembre del 1820, nella quale si comprende come l’opera stesse prendendo corpo con maggiore chiarezza: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche. Vedi cosa mi viene in mente di scriverti»; e un’altra dell’agosto del 1821, dove gli scrive di un «trattato in prosa alla maniera di Luciano*». Nei mesi seguenti, e fino al 1822, Leopardi non smette di lavorare ad abbozzi di queste «prosette» – che hanno nella qualificazione di «satiriche» l’indicazione della strada intrapresa –, e di programmare l’indice di quello che, secondo la definizione di Italo Calvino > Sguardi d’autore, p. 73; Focus in digitale |, sarà un «libro senza uguali in altre letterature»: le Operette morali. Questi primi “esperimenti” di prosa, di dialoghi e di scenette comiche resteranno fuori dall’assetto finale dell’opera, ma intanto cresce anche, e sempre di più, la consapevolezza in Leopardi della necessità che l’Italia si doti di una lingua della filosofia, una lingua propria che sia prosa moderna e letteratura moderna, per poter tornare a essere, finalmente, una «nazione», come scrive nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani > p. 137 |, la cui composizione risale agli stessi anni delle Operette. Un altro riferimento al progetto si trova in uno degli appunti dei Disegni letterari, databile fra 1820

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e 1821, nel quale Leopardi annota: «Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dei costumi presenti o moderni, e non tanto tra i morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è molta abbondanza, quanto a personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali». Fra la lunga durata dell’ideazione e la veloce stesura intercorre il soggiorno romano, la frequentazione di un ambiente che gli svela sempre di più la conoscenza del mondo, dei tempi moderni, di quei costumi contemporanei che sono miseri, egoisti e privi di quell’idea di società che dovrebbe essere alla base di qualsiasi vivere civile. Il periodo di svolta è quello tra la primavera del 1823 – quando lascia Roma, che ha fornito una specie di “certificazione” biografica diretta alle riflessioni sull’esistenza maturate fino a quel momento, per tornare a Recanati – e l’inizio del 1824, quando stende un elenco di titoli delle Operette in bella copia. Durante tutto l’anno Leopardi si dedica quasi esclusivamente alla scrittura delle Operette; in più risolve alcuni impegni rimasti in sospeso. Nel dicembre del 1823 manda le sue Canzoni a Pietro Brighenti affinché trovi un editore a Bologna, canzoni che non sente così lontane dalla scrittura di quelle che nello Zibaldone (27 luglio 1821) descrive come:

«

prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.

»

La differenza è semmai nelle “armi” usate per «scuotere» la sua «povera patria»: nella lirica, le armi «dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione», nelle operette le armi del ridicolo. Contemporaneamente, in quell’anno cruciale, rifiuta, nel gennaio, il prestigioso invito a collaborare all’“Antologia”, si diradano gli appunti dello Zibaldone, e l’ultima lirica, che è Alla sua donna e risale al 1823, ha molti legami con le Operette morali, in particolare con il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare. Perfezionato il disegno così a lungo meditato, il passaggio alla scrittura è poi immediato, e non conosce interruzioni, almeno fino alla conclusione di un primo blocco unitario delle Operette, nel dicembre dello stesso 1824. Le prime venti prose che compaiono nelle carte autografe napoletane – ognuna con una precisa data di composizione, di trascrizione e di ultimazione definitiva – vedono la presenza di un’operetta poi esclusa (Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio) e hanno una disposizione interna diversa dalla prima stampa e da quelle che si succedono, soprattutto nella scelta dell’operetta che avrebbe dovuto chiudere l’opera, perché il Cantico del gallo silvestre, inserito nel montaggio secondo un criterio “cronologico” e, al tempo stesso, ragioni inerenti l’intero impianto dell’opera, sarà successivamente fatta risalire di alcune posizioni. Il Cantico sembra infatti avere, perlomeno nel 1824, per il suo arcano e indecifrabile messaggio, una possibile funzione di explicit del libro: è il suo “tramonto”, a conclusione della sequenza cominciata con l’“alba” della Storia del genere umano. Ma il finale che aveva in mente Leopardi non poteva essere affidato a una favola apocalittica, avrebbe dovuto essere più “dialettico” e, dunque, appartenere al genere “dialogo”; così Leopardi decide, probabilmente dopo la primavera del 1825, di assegnare al Dialogo di Timandro e di Eleandro il compito di chiudere l’opera. Aveva scritto al suo interlocutore privilegiato, Giordani, il 6 maggio del 1825:

«

Non cerco altro più fuorchè il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo.

»

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Sono queste ultime le parole finali, quasi una precisa autocitazione, messe in bocca al gigantesco gallo selvatico dell’operetta, che vive fra cielo e terra:

«

Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.

»

Forse proprio questa sua, pur potente, rappresentazione “fantastica” risultava meno efficace della rivendicazione polemica e ideologica “realistica”, espressa nel Dialogo di Timandro e di Eleandro rispetto al pubblico di lettori. Inoltre, il Cantico del gallo silvestre andrà a occupare, nelle Operette morali del 1827, il posto che cronologicamente gli spetta, dopo l’Elogio degli uccelli e prima del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco con il quale condivide il tòpos del manoscritto ritrovato. Ecco quindi l’indice delle Operette morali come si trovavano nella forma del 1824: 1

Storia del genere umano

2

Dialogo d’Ercole e Atlante

3

Dialogo della Moda e della Morte > p. 152 |

4

Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi

5

Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio

6

Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo

7

Dialogo di Malambruno e Farfarello

8

Dialogo della Natura e di un’anima

9

Dialogo della Terra e della Luna

10 La scommessa di Prometeo 11

Dialogo di un Fisico e un Metafisico

12 Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 | 13 Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare > Tomo 1.2, sez. 5 | 14 Dialogo di Timandro e di Eleandro 15 Il Parini, ovvero della Gloria > Tomo 2.1, sez. 7 | 16 Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie > p. 162 | 17 Detti memorabili di Filippo Ottonieri 18 Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez > p. 168 | 19 Elogio degli uccelli 20 Cantico del gallo silvestre

Quando, infatti, deve approntare la stampa della prima pubblicazione dell’opera, nel 1827, la rielaborazione, non tanto e non solo delle singole prose, quanto dell’architettura generale che era nata già con una forte compattezza, si fa un’esigenza evidente, documentata anche nello scambio con il prestigioso editore milanese Antonio Fortunato Stella. Ad esempio, proprio sulla questione dell’ultima

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 Oltre il libro «La musica, se non è la mia prima, è certo una gran mia passione, e dev’esserlo di tutte le anime capaci d’entusiasmo…» scrive Leopardi. Uno dei musicisti che amava di più era Gioacchino Rossini, di cui vide a Roma La donna del lago. E sono tutte di Rossini le musiche della messa in scena teatrale delle Operette morali diretta da Mario Martone (sotto, un momento dello spettacolo). Cerca in rete le interviste con il regista su questo tema.

operetta, Leopardi gli scrive il 16 giugno 1826 spiegando che l’epilogo ora assegnato con chiarezza d’intenti al Dialogo di Timandro e di Eleandro è dovuto al fatto che, pur posto alla fine, può avere una funzione di ulteriore prefazione al lettore, perché rappresenta una difesa, un’apologia delle operette stesse, contro i filosofi moderni:

«

Avrei voluto fare una prefazione alle Operette morali, ma mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrà con me che se mai opera dovette essere senza prefazione, questa lo debba in particolar modo. Nondimeno ho voluto supplire col Dialogo di Timandro ed Eleandro, già stampato nel Saggio, il qual Dialogo è nel tempo stesso una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni. Però l’ho collocato nel fine. Quivi è dichiarato, a me pare, abbastanza lo spirito di tutta l’opera.

»

Leopardi non vuole chiudere la discussione ma aprirla, vuole concedere all’esigenza dialettica delle posizioni tra, per semplificare, una “filantropia” (Timandro “colui che stima gli uomini”) e una “misantropia” (Eleandro “colui che ha compassione degli uomini”), tra chi almeno in apparenza ama e chi odia l’uomo, lo spazio aperto di una non-conclusione che ha nel personaggio di Eleandro, forse il più “complice” dei suoi personaggi, anche se non è un vero alter ego leopardiano (nessuno dei personaggi delle Operette lo è). D’altra parte, in questa edizione, oltre alla mancanza del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco composto nel 1825, dell’operetta Il Copernico. Dialogo e del Dialogo di Plotino e di Porfirio che, composti nel 1827, non vedono ora la luce forse per motivi di censura, è il sistema integrato di tutti i singoli pezzi quello che sta più a cuore a Leopardi. Non è un caso che l’editore sia Stella, essendo tra i primi a capire la straordinaria novità della lingua e del portato ideologico di fondo di tutta l’opera e quella “unitarietà” poetico-riflessiva che Leopardi, sin dall’inizio, aveva sempre difeso, come in questa lettera allo stesso Stella del 6 dicembre 1826:

«

Una scena dello spettacolo teatrale Operette Morali (2014) andato in scena al Teatro Stabile di Torino per la regia di Mario Martone.

Finalmente l’uscir fuori a pezzi di 108 pagine l’uno, nuocerà sommamente ad un’opera che vorrebb’esser giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benchè scritta con leggerezza apparente. È vero che Ella darà poi tutto il libro in un corpo, ma il primo giudizio del pubblico sarà già stato formato sopra quei pezzi usciti a poco a poco, e molto lentamente: e il primo giudizio, è quello che sempre resta.

»

Si comprende meglio, quindi, il rifiuto di Leopardi a stampare singole operette anche quando questo gli avrebbe permesso di eludere la censura, anticipandone alcune su riviste meno “sospettate”, peraltro considerando anche la perplessità suscitata nei lettori delle riviste “Antologia” e “Nuovo Ricoglitore” l’uscita del Colombo, del Tasso e del Timandro. Una seconda edizione dell’opera esce nel 1834 per l’editore Piatti di Firenze, lo stesso editore della prima edizione dei Canti del 1831, e vede l’aggiunta delle due operette scritte nel 1832: il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un Amico, che a sua volta va a occupare l’ultima posizione in funzione di epilogo. Fra il Timandro e questo Dialogo c’è un’importante affinità tematica, ma se l’operetta posta alla fine dell’edizione del 1827 poteva ancora avere la funzione di riproporre alcuni nodi filosofici contrapposti, in una

146 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

specie di messa in campo delle diverse posizioni, il Dialogo di Tristano e di un Amico radicalizza il tono nello scegliere quasi un monologo per una finta ritrattazione, una palinodia, rivolta direttamente e polemicamente al gruppo fiorentino, contro le sue ideologie basate sullo spiritualismo e sull’ottimismo delle scienze. Al di là dei singoli fatti e dei dati biografici e reali la questione filosofica è, ancora una volta, di portata universale e coinvolge il destino del genere umano e della sua irrimediabile infelicità; così come irrimediabilmente «impoetico» è, per Leopardi, il suo secolo sul piano letterario. Il finale “testamentario” è affidato a Tristano che finge di ritrattare e abiurare, rispetto a quel libro del 1827 «malinconico, sconsolato, disperato», in un poetico intreccio di riso-amore-morte, nel quale, senza nessun compiacimento, è segnato con raggelante distacco e altrettanta apparente leggerezza il commiato dalla vita e la scelta della morte. L’edizione definitiva delle ventiquattro Operette morali si avrà soltanto con la sistemazione postuma curata da Antonio Ranieri per i tipi fiorentini di Le Monnier nel 1845. Quest’ultimo aveva a disposizione dei materiali preziosi per individuare l’ultima volontà dell’autore, perché Leopardi aveva lavorato a un’edizione dell’opera che sarebbe dovuta uscire nel 1835-1836 per l’editore napoletano Starita (lo stesso della seconda pubblicazione dei Canti del 1835), ma invece venne interrotta dalla censura e sequestrata dalla polizia borbonica; e soprattutto, aveva preparato un’edizione per la stampa parigina che l’amico De Sinner era riuscito a procurargli nel 1836, poi “procrastinata” per l’ostilità del circolo dei letterati italiani a Parigi e infine impedita dalla morte del poeta. Nell’edizione ultima > tabella a fronte |, il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco viene inserito e posto tra il Cantico del gallo silvestre e il Dialogo di Timandro e di Eleandro; viene escluso il Dialogo di un Lettore di Umanità e di Sallustio, mentre il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio vengono finalmente pubblicati e nell’ordine definitivo sono interposti tra l’ex operetta finale il Timandro e le operette composte per ultime: Dialogo di un venditore d’ almanacchi e di un passeggere e Dialogo di Tristano e di un Amico. Se da una parte, quindi, Leopardi cerca di perseguire un disegno unitario dell’opera anche evitando di pubblicare a parte singoli “pezzi”, dall’altra è indubbio che almeno l’apparenza è quella di una raccolta fatta di testi individuabili nella loro autonomia, che hanno nel tessuto ideologico di fondo la loro “cornice”, ma non hanno collegamenti interni che si richiamino o personaggi che tornino. La trattazione “filosofica”, ad esempio, sfrutta tutta l’ampia gamma dei generi della prosa e dei tòpoi narrativi, spesso anche intrecciando e unendo dialoghi e novelle, scene teatrali da commedia a scrittura epistolare, manoscritti apocrifi a elegia, bucolica, apologo o coro, satira ed elogio paradossale a detti memorabili e così via. E molto variegati sono anche i personaggi: da quelli storici come Tasso, Parini, Ruysch, Colombo, Copernico, Plotino, a quelli immaginari come folletti, gnomi, diavoli, maghi; da figure allegoriche e personificazioni di concettimiti come Natura, Felicità, Piacere, Noia, Dolore, Morte, Moda, Terra, Luna, Sole, a personaggi mitologici (Atlante, Prometeo), indeterminati come un Fisico e un Metafisico, un Islandese, un Amico, ad animali reali (uccelli) o fantastici (gallo silvestre), ecc. Forse dovremmo riprendere il titolo assegnato all’opera per trovarne proprio una tensione tra volontà di “sistematicità” e tensione di “pluralità”, perché se da una parte l’uso della qualificazione “morale” accostato a “opera” apre a un orizzonte di attesa alto, di ampio respiro, dall’altra scatta il meccanismo di attenuazione e sottrazione dato dal diminutivo che non vuole disprezzare ma “abbassare”, anche se solo in apparenza, il livello della scrittura che è filosofica, di filosofia morale. Leopardi si inserisce non soltanto nel solco della tradizione classica – per

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Struttura | 147

Struttura delle Operette morali (edizione 1845)

Questo è lo schema della struttura delle Operette morali nell’edizione postuma e definitiva: Opere di Giacomo Leopardi, Edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell’autore, da Antonio Ranieri, Voll. I-II, Firenze, Felice Le Monnier, 1845. Per ogni operetta sono indicati: ordine di disposizione interna e titolo definitivi, data di composizione.

Ordine Secondo l’edizione 1845

Titolo

I

Storia del genere umano

19 gennaio-7 febbraio 1824

II

Dialogo d’Ercole e di Atlante

10-13 febbraio 1824

III

Dialogo della Moda e della Morte > p. 152 |

15-18 febbraio 1824

IV

Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi

22-25 febbraio 1824

V

Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo

2-6 marzo 1824

VI

Dialogo di Malambruno e di Farfarello

1-3 aprile 1824

VII

Dialogo della Natura e di un’Anima

9-14 aprile 1824

VIII

Dialogo della Terra e della Luna

24-28 aprile 1824

IX

La scommessa di Prometeo

30 aprile-8 maggio 1824

X

Dialogo di un Fisico e di un Metafisico

14-19 maggio 1824

XI

Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare > Tomo 1.2, sez. 5 |

1-10 luglio 1824

XII

Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 |

21-30 maggio 1824

XIII

Il Parini, ovvero della gloria > Tomo 2.1, sez. 7 |

6 luglio-13 agosto 1824

XIV

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie > p. 162 |

16-23 agosto 1824

XV

Detti memorabili di Filippo Ottonieri

29 agosto-26 settembre 1824

XVI

Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez > p. 168 |

19-25 ottobre 1824

XVII

Elogio degli uccelli

20 ottobre-1° novembre 1824

XVIII

Cantico del gallo silvestre

10-16 novembre 1824

XIX

Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco

1825

XX

Dialogo di Timandro e di Eleandro

14-24 giugno 1824

XXI

Il Copernico. Dialogo

1827

XXII

Dialogo di Plotino e di Porfirio

1827

XXIII

Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere > p. 173 |

1832

XXIV

Dialogo di Tristano e di un Amico > p. 176 |

1832

Data di composizione

148 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

esempio di Isocrate, del quale egli stesso volgarizza alcune Operette morali, o di Plutarco, del Manuale di Epitteto o ancora del già citato Luciano – ma anche di quella umanistica e rinascimentale dell’elogio paradossale, dell’apologo, in una scelta di scrittura della brevitas, che riprende il moralismo di Machiavelli e degli illuministi di tutti quei libelli, opuscoli, operette che attestano una «leggerezza apparente», per usare le parole di Leopardi stesso che sembrano anticipare quella straordinaria forza della scrittura “leggera” cui sarà dedicata una delle sei Lezioni americane (postume, 1988) di Calvino, intitolata, appunto, Leggerezza > Sguardi d’autore, p. 73; Focus in digitale |. Temi

È impossibile, e sarebbe poco rispettoso della stessa volontà dell’autore, leggere le Operette morali come una raccolta di ventiquattro singole “operette”, invece che come un libro unico, anche se ognuna di queste “tessere” appartenenti allo stesso mosaico ha indubbiamente anche una propria autonomia. Altrettanto impossibile, dunque, è tracciare dei percorsi netti di genere e di argomento, o propriamente tematici. Possiamo, invece, dare delle traiettorie, premettendo che generi e argomenti si intersecano, si intrecciano o si sovrappongono, secondo un principio che solitamente persegue la variatio interna e, per esempio, alterna dialogo a prosa, novella e storia; luoghi sulla terra a luoghi collocati altrove; passato a presente o tempo indeterminato e così via. Ed è lecito vedere se esistono costanti e affinità di tono del discorso delle operette, satiriche e mitologiche, filosofiche e morali. Così come possiamo individuare sia «tragitti tematici», sia una «disseminazione dei temi» (Liana Cellerino), a partire dal macro-tema della Natura a cui collegare la riflessione sulla teoria del piacere, sull’infelicità, sulla noia; oppure la polemica contro i tempi moderni, i falsi miti, o ancora, il tema della morte, del suicidio. A metà del 1824, nel pieno della scrittura delle Operette morali, in corrispondenza della pagina 4099 dello Zibaldone (3 giugno), Leopardi annota le sue riflessioni: l’idea della responsabilità addebitata all’uomo, quella cioè di aver costruito la propria infelicità allontanandosi dall’originario stato di natura e dalle illusioni degli antichi, per assoggettarsi al dominio della ragione, si modifica e, soprattutto, la causa del contrasto si svela, invece, insita nella natura stessa. È un pensiero che va a minare l’idea stessa di un ordine naturale privo di contraddizioni e, dunque, perfetto. L’idea della tendenza dell’uomo all’infelicità, la sua imperfezione, sembravano escludere la Natura dalla colpa di aver prodotto la dolorosa condizione umana (Dialogo della Natura e di un’Anima). Ma nel maggio del 1824, continuando a riflettere sul tema del piacere, Leopardi deve ammettere che quell’ordine naturale perfetto non aveva previsto l’infelicità dell’uomo e, dunque, se per l’uomo non è prevista la felicità, perlomeno che gli venga risparmiata l’infelicità: ciò significa rinuncia alla vita, come nel dialogo del mago e del diavolo che sembra una rivisitazione parodica del Faust di Goethe (Dialogo di Malambruno e di Farfarello). È questo il tema centrale posto – nella sequenza dell’opera, esattamente al centro, dodicesimo su ventiquattro testi – nel Dialogo della Natura e di un Islandese, con quella serie di interrogative che rimangono senza risposta, come irrisolta era la domanda con cui si chiudeva il pensiero 4087 dello Zibaldone: «Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?» > Focus, p. 26 |. Domande per le quali la narrazione dell’operetta da una parte, l’Ultimo canto di Saffo > p. 84 | e la riflessione dell’anno dopo (5-6 aprile 1825) nello Zibaldone dall’altra, esprimono l’accentuazione della consapevolezza non tanto del disordine della Natura rispetto all’uomo, quanto della sua indifferenza. Si noti, alla fine del pensiero, il rinvio di Leopardi stesso alle Operette morali:

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | 149

«

il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualm. in produz., conservaz. e distruz. dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso […] naturalmente nella vita dell’animale occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell’uomo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (v. Dial. Della natura e di un Islandese, e Cantico del Gallo silvestre).

»

In digitale Focus: Il mito di Tasso

Le ricadute sono anche nel risvolto tragicomico di quel mal riposto ottimismo antropocentrico dell’uomo, svelano la sua reale piccolezza (Dialogo della Terra e della Luna e Dialogo d’Ercole e di Atlante, dove è di incredibile forza l’immagine di una partita a palla con il globo terrestre dei due personaggi mitologici), il suo presuntuoso egoismo (Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo), l’incuranza verso l’intero universo (Il Copernico. Dialogo). Si comprende sempre più anche la funzione di prologo di tutta l’opera svolta dalla Storia del genere umano > Confronti, p. 42 |, una favola sulle origini in cui l’uomo, ancora bambino, riesce a stupirsi e a guardare il mondo attraverso l’immaginazione, ma poi, malgrado gli interventi pietosi di Giove, assiste al continuo degradare della sua condizione, fino alla consapevolezza di quella Verità che determina la fine di tutte le illusioni. La prima operetta, quindi, è un’esplicita introduzione al libro, del quale contiene i motivi principali; o, per usare un linguaggio musicale, è una ouverture che apre a una sinfonia di suoni diversi. Se però anche agli antichi, o all’uomo alle sue origini, sfugge la felicità (e Saffo ne è una testimonianza, come lo sarà, seppur in modo diverso, il pastore errante > p. 118 |), il coraggio dell’uomo sta nell’accettare questo destino, senza cedere alle lusinghe degli inganni e alle fallaci consolazioni della modernità, dei falsi miti. Ne consegue una critica feroce all’età contemporanea che ha ottusamente negato l’infelicità “connaturata” – alla lettera, cioè proprio per natura, e non perché gli errori della storia umana l’hanno prodotta – all’esistenza stessa dell’uomo e dell’intero universo, del cosmo. Non sfuggono all’“arma” dell’ironia e del ridicolo neppure valori come la gloria letteraria, la saggezza, le scienze e così via: Il Parini, ovvero della Gloria, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie, Dialogo di Timandro e di Eleandro, Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un Passeggere, fino al Dialogo di Tristano e di un Amico. L’attacco al tempo presente, ai falsi miti del moderno rispetto al tempo antico già intrapreso nella canzone Ad Angelo Mai > p. 77 |, è nelle Operette morali rappresentato soprattutto dal Dialogo di Timandro e di Eleandro che, nell’edizione del 1827, era stato collocato da Leopardi a chiudere, come anche dalla Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, nella quale il bando lanciato prevede un concorso per inventare l’uomo perfetto, una specie di automa che dovrà possedere tutte le qualità perdute dall’uomo nella modernità. Intimamente connessa con la teoria del piacere è un’altra tematica cara a Leopardi, quella della noia. Il fuggire la noia, perché male peggiore del dolore, è argomento del viaggio “rischioso” di Colombo > p. 168 | e la ricerca dell’intensità delle sensazioni (Dialogo di un Fisico e di un Metafisico), così come la rimembranza del passato e la speranza nel futuro, il sogno, il vagheggiamento in solitudine, la lontananza nel tempo e nello spazio della donna amata, sono l’unico antidoto alla noia del presente e l’unica via d’uscita dello scrittore personaggio Tasso, recluso a Sant’Anna (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare > Focus in digitale, Della mia vita, p. 14 |).

150 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Quello della morte è un tema di fondo sotteso a molte operette, perché l’infelicità dell’uomo e dell’intero creato è ricondotta al suo essere nato per la morte: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire» (Cantico del gallo silvestre); nella scena grottesca del savio morto che parla allo scienziato nel Dialogo di Federico Ruysch; nel Dialogo della Moda e della Morte, dove entrambe si ritrovano accomunate a reggere il destino dell’uomo e a gareggiare nel distruggerlo; nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, nella Scommessa di Prometeo o ancora, e soprattutto, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio: il tema del suicidio, voce assente nelle Operette, ma che compare e scompare di continuo, è qui affrontato dal punto di vista del personaggio Porfirio deciso a una «mala intenzione» contro se stesso, perché oramai persuaso che la «natura primitiva degli uomini antichi» non sia più la sua, e “risolto” secondo l’appello di Plotino agli affetti che ci legano «scambievolmente»; una forma di resistenza, in nome del «senso dell’animo», alla fatica della vita e, insieme, una esortazione simile alla lirica leopardiana dell’ultima stagione: «Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme». Fonti e modelli

Ritratto di Voltaire intento a scrivere, XVIII secolo. Parigi, Musée Carnavalet. Juan de Jauregui y Aguilar, Ritratto di Miguel de Cervantes, XVII secolo. Madrid, Real Academia de la Historia.

Pur restando nella nostra letteratura ancora oggi un unicum che non ha fonti specifiche, il modello privilegiato, indicato direttamente da Leopardi, è quello delle opere di Luciano di Samòsata > finestrella p. 142 |, dall’Icaromenippo alla Storia vera, fonte primaria per il ribaltamento paradossale delle ambientazioni, dei punti di vista, per l’idea di far parlare Terra, Luna, animali e, soprattutto, per la ricerca degli strumenti migliori del comico e del ridicolo, le «armi del ridicolo», in modo da dare all’Italia una vera prosa moderna e un vero linguaggio satirico, assenti oramai da tempo. Quello che l’esempio lucianeo gli offre è un serbatoio di scene che facevano convivere dialogo e commedia, temi alti del «mondo», propri della tragedia, trasferiti nel comico di situazioni “stranianti”, bizzarre, buffe, paradossali perché rovesciate rispetto alla visione consueta; personaggi mitologici o fantastici che osser vano e discutono dall’alto, da un mondo ultraumano, delle miserie dell’umanità, mentre l’uomo è relegato sulla terra, ridotta oramai a “poca cosa”. L’imitazione di Luciano era stata proficua già nella letteratura umanistica e in quella rinascimentale, di cui Leopardi era grande lettore come testimoniano i volumi delle due antologie che allestisce, la Crestomazia italiana della prosa e la Crestomazia italiana della poesia: da esse ricava materia ricchissima, soprattutto per quella enciclopedia delle cose “inutili”, per quegli elogi paradossali di cose infime e per la scelta della forma dell’apologo > finestrella p. 106 |. Il modello di Luciano si ritrova poi anche nelle Novelle esemplari di Cervantes che sono, a loro volta, presenti al Leopardi delle Operette, così come un altro punto di mediazione della linea lu-

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | 151

cianea del vedere cose e persone in modo diverso dal consueto è nelle avventure de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, il marinaio che si ritrova gigante nel mondo dei lillipuziani e piccolissimo in quello dei giganti. Importanti sono le fonti classiche, dalla forma dialogo di Platone alla trattatistica morale di Cicerone, di Isocrate dal quale trae ispirazione per il titolo stesso delle Operette morali, di Senofonte e di molti dei socratici, da cui mutua soprattutto la scrittura aforistica > finestrella p. 24 |, la quale si lega anche alla foscoliana Notizia di Didimo Chierico > Tomo 2.2, sez. 8 | (se ne ha traccia, in particolare, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, per il tòpos del proprio epitaffio finale. Sempre dalla letteratura classica Leopardi attinge per la forma della satira: a partire da Orazio fino al moderno Ariosto di cui legge anche l’Orlando furioso, d’ispirazione specialmente per lo straordinario episodio “lunare”. Va inoltre sottolineata la rilevanza specifica della letteratura dello scetticismo filosofico illuminista: l’influenza delle opere di Voltaire, come il Candido presente, ad esempio, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, come anche del barone d’Holbach per la posizione antispiritualista e materialista e per la concezione meccanicistica che è alla base della trovata della Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi; e la scrittura satirica dell’amato Parini. Lingua e stile

In digitale Focus: L’ “operettismo” novecentesco

Negli anni in cui compone le Operette, Leopardi si trova nella necessità di elaborare una nuova lingua per i suoi scopi, la lingua della prosa satirica, per la quale l’esigenza fondamentale risiede nell’adozione di un registro comico (come forma) per rappresentare un oggetto tragico (come contenuto). È la tecnica del serio ludere degli antichi: parlare di cose serie attraverso un modo comico, giocoso. La ricerca costante di una lingua che sia in grado di fondare il vero linguaggio comico italiano guarda alle tecniche linguistiche del modello lucianeo, ma nell’ottica di poterle applicare a una prosa moderna, raggiunta attingendo alla ricchezza, varietà e libertà della lingua italiana, sull’esempio di quella cinquecentesca, vero culmine della sua bellezza, analoga in ciò alla varietà, naturalezza ed eleganza della lingua greca antica, attica. La lingua delle Operette si piega allora, di volta in volta, a cercare il ritmo, il tono, il registro delle varie accentazioni del comico: dal satirico al parodico, dal grottesco al sarcastico. Sul piano della sintassi la regola è la semplificazione, l’alleggerimento, soprattutto delle costruzioni ipotattiche: una prova straordinaria in questo senso è quella del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passaggere, per brevità e per “minimalismo”, diremmo oggi con un termine attuale, raggiunto per via di “sottrazione”. Sono ridotte al minimo le figure di inversione delle parole, come le anastrofi, a meno che non siano volutamente messe in campo per parodiare, ad esempio, uno stile come quello oratorio. Prevalgono, invece, i nessi correlativi, le strutture anaforiche per uno stile piano, di “filosofica” pacatezza o, nei casi di maggiore intensità emotiva, le figure dell’accumulo: pensiamo all’elenco delle calamità lamentate dall’Islandese, oppure all’elenco dei “segni” della vicinanza alla terra di Colombo. Il lessico, proprio per rispondere a registri linguistici molto variegati, utilizza un vocabolario colto e petrarcheggiante insieme a uno tecnico-scientifico o filosofico, oppure basso, popolare e colloquiale, sempre per adeguare di volta in volta la forma espressiva alla materia e ai personaggi, per un libro che, anche in questa scommessa vinta, resta un «libro senza uguali», per usare di nuovo le parole di Italo Calvino.

152 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

 Testo 21

Dialogo della Moda e della Morte Giacomo Leopardi in Operette morali

tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008 5

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1. Passato… millesim’anno: cita Petrarca (Canzoniere, LIII, v. 7). 2. il mio Trionfo: il Trionfo della Morte, il terzo dei Trionfi petrarcheschi. 3. che mi valgano: che mi siano adatti. 4. dove me gl’incavalcassi: dove io possa tenerli (essendo, ovviamente, un teschio privo di setto nasale). 5. le cose di quaggiù: le questioni del mondo terreno. 6. masserizie: suppellettili, mobili di arredamento. 7. verbigrazia: per esempio (latinismo). 8. istampe roventi: tatuaggi.

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Scritto a Recanati tra il 15 e il 18 febbraio del 1824, il Dialogo compare nell’autografo napoletano ed esce nel 1827 nella prima edizione milanese delle Operette, poi in quella fiorentina del 1834. Nell’edizione definitiva del 1845 occupa il terzo posto, subito dopo l’ouverture della Storia del genere umano e la “favola” di Ercole e Atlante. È il dialogo di due entità astratte che vengono personificate e assumono tratti simbolici: una antica, la Morte, ispirata alle rappresentazioni della tradizione medievale, e una moderna, la Moda, che si scoprono tra loro imparentate, sorelle nell’esprimere il senso di precarietà del tempo e della caducità della vita.

Moda. Madama Morte, madama Morte. Morte. Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami. Moda. Madama Morte. Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai. Moda. Come se io non fossi immortale. Morte. Immortale? Passato è già più che ’l millesim’anno1 che sono finiti i tempi degl’immortali. Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento? Morte. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo2, e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno. Moda. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali, fermati tanto o quanto, e guardami. Morte. Ti guardo. Moda. Non mi conosci? Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano3, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi4. Moda. Io sono la Moda, tua sorella. Morte. Mia sorella? Moda. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità? Morte. Che m’ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria. Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù5, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra. Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo, io t’intenderò domani, perché l’udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista. Moda. Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie6, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia7 sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi8 che io fo che essi v’improntino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni,

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo della Moda e della Morte | 153

Bernardo Strozzi, Vanitas. La vecchia civettuola, 1637. Mosca, Museum Pushkin. 60

Iaia Forte in una scena dello spettacolo teatrale Operette Morali di Mario Martone (2014). 65

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9. di una figura: di una stessa forma. 10. uomini gentili: persone civili. 11. la fede del parrocchiano: una sorta di certificato di nascita o di matrimonio rilasciato dal parroco. 12. a contemplazione: in considerazione. 13. baie: inezie.

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mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura9, come ho fatto in America e in Asia, storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili10 a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non ti vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno. Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l’ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano11. Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l’anima di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno, se no, a contemplazione12 della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buon anno. Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due vi vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se te ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri. Morte. Sia con buon’ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende. Moda. Io l’ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo. Morte. Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto! Moda. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda. Morte. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora. Moda. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie13 per comparazione a queste che io ti vo’ dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole;

154 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | 14. di tua ragione libera: affidata al tuo arbitrio. 15. il tuo stato: il tuo potere. 95

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e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera14, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termini che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di se non ti sarebbe capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura; a ogni modo intendendo che questo negozio degli immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sottoterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato15 nella terra, com’è seguito. E per quest’affetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione. Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.

Analisi del testo

Temi

Oggetto dello scambio grottesco* di botta e risposta fra le due protagoniste femminili dell’operetta è la comunanza d’intenti che si riconoscono in quanto sorelle, nate entrambe, sostiene la Moda, dalla Caducità: reggere le sorti del mondo, decidere il destino del genere umano, tendere «a disfare e a rimutare» le cose terrene, distruggere e cancellare la memoria. Questa coppia inedita nella letteratura, che sostituisce quella tradizionale di Amore e Morte, si trova solidale nel distruggere, nell’assolvere quel compito solitamente assegnato alla Morte e che nella “modernità” diventa prerogativa anche della Moda. Infatti, in una specie di gara con la Morte, la Moda condiziona la vita e la uccide, la trasforma quasi in morte, assoggettando la quotidianità a un volere effimero e dettato dalla velocità che fa cambiare vertiginosamente abitudini e stili di vita, facendo dimenticare ed eliminando quanto esaltato appena l’attimo prima, così che il moderno vince sempre sul passato. La Moda, dunque, può ben arrogarsi il diritto di imporsi sugli uomini, in nome dell’opinione comune, del facile successo della novità, considerata bella soltanto perché nuova. Aveva già scritto Leopardi nello Zibaldone (1319) del 14 luglio 1821:

«

se noi vediamo una foggia di vestire novissima, e diversissima dall’usitata, noi subito o quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza, se sappiamo che quella foggia è d’ultima moda.

»

Il taglio dell’argomentazione antropologica, reso comico e lugubre allo stesso tempo, è nelle lunghe elencazioni di usi e abitudini assurde e persino pericolose a cui gli uomini si sottopongono in nome della Moda, pratiche di una socialità frivola di dame e cavalieri di un Settecento salottiero, innaturale e irrazionale: barbe, capelli, fogge d’abiti, calzature che sono una tortura, bustini, architetture di palazzi, insieme con usi selvaggi di popoli sconosciuti o costumi comuni a molti popoli barbari come «sformare le teste dei bambini con fasciature», oppure «sforacchiare quando orecchi, quando labGrottesco *Riferito a qualcosa che viene deformato, reso strano, sproporzionato e bizzarro, al punto da sembrare inverosimile o paradossale, che può suscitare il riso ma non allegro o gioioso perché innaturale. Nasce come aggettivo e sostantivo dell’arte, per le pitture su pareti dette “grottesche” con motivi, spesso, legati al mondo animale e vegetale.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo della Moda e della Morte | 155

bra e nasi», «abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi». Con conseguenze pericolose che mettono a rischio la salute, che costringono a «dolori e strazi», «mali di capo», «infreddature», «flussioni» fino a morirne, gloriosamente, scrive Leopardi con effetto comico, per il bene che portano alla Moda. Gli uomini sembrano cercare una morte da scontare già da vivi, una accelerazione del processo naturale, cosa che fa dire alla Moda di essere non solo solidale ma una vera e propria complice della Morte. La loro corsa insieme, la Morte con a lato la sorella Moda, una specie di danza macabra della tradizione iconografica medievale assolutamente stravolta e scomposta, sta a dimostrarlo. L’intento polemico di Leopardi, dietro la scena surreale e quasi sospesa nel vuoto, è contro il proprio secolo arido, superficiale, privo di ideali e privo di una vera società, di regole che non siano frutto di mode effimere e passeggere; tematiche che sono negli stessi mesi affrontate nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani > p. 137 |. Un secolo che vive pensandosi superbamente immortale, ma che Leopardi considera già morto spiritualmente nell’inseguire mode e falsi miti, che crede ciecamente ad affermazioni delle scienze invece di guardare alla vita come governata dal caso e dalla vanitas > finestrella p. 68 | e alla morte come desiderio degli uomini di intelletto, saggi (tematica dell’ultima operetta Dialogo di Tristano e di un Amico > p. 176 |. Fonti e modelli

Mentre la rappresentazione letteraria della Morte può attingere a una tradizione di lunga durata, a partire dai riferimenti petrarcheschi, sia del Canzoniere che dei Trionfi, in particolare del Trionfo della Morte subito esibiti all’inizio del dialogo anche per dichiararne con ironia il protagonismo, un vero “trionfo”, proprio nella letteratura dell’Ottocento, la Moda è figura letteraria nuova. Ci sono però, soprattutto nel Settecento, alcuni interessanti antecedenti che Leopardi ha letto, come per esempio Pietro Chiari, che in una delle Lettere scelte scritte a una dama di qualità (1752) si faceva beffe di un certo linguaggio che assecondava il gusto corrente, o come Giuseppe Parini, che Alla Moda aveva provocatoriamente dedicato il pometto Il Mattino de Il Giorno (1764). Si veda anche,



negli stessi anni, Gasparo Gozzi per il Mondo morale (parte III, capitolo 3) o ancora Clemente Bondi con il suo poema intitolato proprio La Moda (1777). Sul discorso delle pratiche in uso presso i popoli selvaggi, fondamentale e diretta è la fonte del Nuovo Galateo, nello specifico proprio una Apologia della moda, di Melchiorre Gioia. Lingua e stile

Il dialogo è caratterizzato dalla mimesi che gioca sulla variazione dei registri linguistici dei due personaggi, in uno scarto sempre efficace sul piano espressivo tra l’uso di un linguaggio comico e parodico e un lessico del macabro. Si noti la presenza dei latinismi e di formule di conversazione stereotipate come «verbigrazia» (dal lat. verbi gratia), in un contesto inconsueto che pertanto acquista effetto comico, così come l’ostentazione da parte della Morte di un lessico petrarcheggiante misto a espressioni popolaresche e basse. Proprio nel contrasto delle due figure viene resa la maggiore espressività del dialogo: - l’una, la Moda, ampollosa e caratterizzata da una «vocina da ragnatelo», flebile e di poco peso, che impiega termini di un lessico di maniera, forbito e affettato, come il francesismo «madama» con cui si rivolge alla sua interlocutrice (in una stesura precedente compariva il più stilnovistico «madonna»); - l’altra, la Morte, secondo tradizione, raffigurata come uno scheletro impossibilitato a tenere sul naso un paio di occhiali – ci vede poco e ci sente ancor meno, perciò colpisce a caso e non ascolta le preghiere – e con una lingua più colloquiale, diretta, secca e sbrigativa, però colorita da espressioni popolari come «Vattene col diavolo» e anche da citazioni letterarie come «Passato è già più che ’l millesim’anno che sono finiti i tempi degl’immortali» che riprende il Petrarca della canzone Spirto gentil.

Anche dal punto di vista sintattico si alternano due modi diversi che vengono mescolati insieme: le frasi brevi, assertive, come semplici battute o, potremmo anche dire, delle “freddure”; e le costruzioni più complesse là dove la riflessione o l’argomentazione lo richiede. Tra le figure retoriche si registrano frequenti elencazioni, figure di ripetizione, anafore e antitesi.

Esercizi

Comprensione 1. Perché la Moda dice di essere sorella della Morte? 2. In che modo la Moda dice di «rinnovare continuamente il mondo?» 3. Descrivi ciò che la Moda dice di aver fatto per la Morte. 4. Quale giudizio sull’uomo trapela dal dialogo tra le due figure?

Laboratorio 5. Che immagine del progresso dipinge l’autore? 6. Attraverso quali elementi testuali è possibile cogliere la cifra ironico-satirica del brano? Approfondimento 7. In un breve commento personale rifletti sul brano e spiega se, a tuo avviso, lo si può leggere in chiave attuale.

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 Testo 22

Dialogo della Natura e di un Islandese Giacomo Leopardi in Operette morali tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008

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1. l’interiore: l’interno, l’entroterra. 2. linea equinoziale: Equatore. 3. ermi: busti. 4. dosso: schiena. 5. un buono spazio: per parecchio tempo. 6. persuaso e chiaro: convinto e risoluto. 7. sollecitudini: apprensioni. 8. in effetto: effettivamente, realmente.

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Il Dialogo della Natura e di un Islandese è una delle Operette morali più note per l’importanza della concezione leopardiana della natura: si tratta di un momento cruciale, la tappa ultima, una «conclusione nuova» ha scritto Luigi Blasucci, di quella prospettiva negativa sulla Natura “matrigna”, che qui diventa una gigantessa indifferente alle domande e ai lamenti dell’Islandese, incurante, anzi, responsabile del suo annientamento definitivo, poiché interessata unicamente alla salvaguardia del meccanismo di distruzione e riproduzione dell’universo. Scritta tra il 21 e il 30 maggio del 1824, come riportato nell’autografo, viene pubblicata già nella princeps del 1827 dove occupa la tredicesima posizione, mentre in tutte le altre edizioni risale alla dodicesima, quindi esattamente a metà di tutta la raccolta, per l’esclusione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio. L’operetta è anche vicina ai successivi canti, in particolare al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e a La ginestra.

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore1 dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale2 in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi3 colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso4 e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buon spazio5 senza parlare, all’ultimo gli disse. Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. Islandese. La Natura? Natura. Non altri. Islandese. Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere. Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? Islandese. Tu dei sapere che io fino alla prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro6 della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini7, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto8; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nes-

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Carl Gustav Carus, Viandante sulla cima della montagna, 1818. Saint Louis, The Saint Louis Museum.

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75 9. vano a pensare: inutile pensare. 10. menomo: minimo. 11. recare ad effetto: portare a conclusione. 12. mi conveniva: mi era necessario. 13. alberghi: dimore. 14. non intermettevano: non smettevano. 15. di non poco momento: di non poca importanza. 16. eglino: essi, loro. 17. commozioni degli elementi: perturbazioni meteorologiche.

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sun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi ad astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare9, se tu vivi tra gli uomini di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo10 in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola sia nativa si può recare ad effetto11 senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva12 passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi13, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano14 mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento15, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino16 avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi17 in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quan-

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125 18. filosofo antico: si riferisce a Seneca, da cui riprende l’espressione che traduciamo in «se volete non aver paura di niente, pensate che tutto è da temere» (Naturales Quaestiones). 19. temperante… continente: misurato e in grado di trattenersi. 20. calamitosa: rovinosa. 21. compensarnelo: risarcirlo. 22. inusitata: eccezionale, fuori norma. 23. e però: perciò. 24. per costume… instituto: per consuetudine e per norma.

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to dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso di te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge, la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato fino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico18 non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante19, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta; e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa20 negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo21, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata22, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però23 da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa coll’umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto24, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma per tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino alla fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo

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25. lustro: periodo che si compone di 5 anni. 26. fatture: creazioni. 27. trattone pochissime: ad eccezione di pochissime. 28. instanza: insistenza. 29. dall’altra famiglia: dalla servitù. 30. Se… seco: se lamentandomi io con lui. 31. sollazzi: divertimenti. 32. le buone spese: i favori. 33. non ti si appartiene: non ti spetta. 34. non poteva… ripugnarlo: non poteva non consentirlo né rifiutarlo. 35. ufficio: compito, mansione. 36. parimente: allo stesso modo. 37. rifiniti… inedia: sfiniti e smagriti per il digiuno. 38. fierissimo: tesissimo.

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lustro25 in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono. Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Or sappi che nelle fatture26, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone27 pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. Islandese. Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza28; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia29. Se querelandomi io seco30 di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi31, e di farti le buone spese32; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene33 egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo34, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio35 tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il qual sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente36 in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia37, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero, e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo38 vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

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Analisi del testo

Struttura e temi

Protagonisti di questo che, pur essendo definito sin dal titolo un “dialogo”, sembra piuttosto una disperata requisitoria dell’uomo, sono due personaggi: un anonimo Islandese che sta a rappresentare la specie umana, l’uomo, e la personificazione della Natura stessa. L’Islandese, dopo aver riconosciuto la vanità della vita e l’impossibilità della convivenza con gli altri uomini, dopo aver viaggiato a lungo alla ricerca di un luogo che gli permettesse di vivere, dopo esser fuggito da patimenti, malattie, disagi climatici, cataclismi, assalti di animali, alla ricerca di un sollievo al suo perenne tribolare, un riparo alla sofferenza, dopo la rinuncia alla felicità che sa già irrealizzabile ed essersi nascosto nella filosofia del «non offendendo non essere offeso e non godendo non patire», si trova, a sorpresa, a fronteggiare la responsabile dei suoi mali, la Natura stessa. L’Islandese scopre così una ultima, amara verità, perché non basta che si sia adattato a vivere solo per evitare l’infelicità e senza mai perseguire la felicità, contrariamente a quella che è la tensione congenita dell’uomo verso una felicità infinita, secondo la teoria del piacere leopardiana > Testo 4, p. 39 |: quella gigantessa, quella donna di «forma smisurata», seduta impassibile e glaciale, «di volto mezzo tra bello e terribile», questa grande Madre archetipica davanti alla quale si ritrova, gli appare come una vera e propria forza distruttiva, nemica dell’uomo che ha generato, totalmente indifferente al destino umano, «carnefice» della sua stessa “prole”. Torna il Leopardi della polemica, della profonda critica alla presunzione antropocentrica dell’uomo, che crede di essere il fulcro dell’universo e che ogni cosa accada per una ragione a lui comprensibile o che da lui dipenda o che a lui guardi. Rispetto a quanto già scritto, però, Leopardi imprime a questa operetta un’accelerazione, un punto di svolta e di non ritorno, perché se in precedenza aveva mosso le sue critiche alla ragione, alla civiltà, alla colpa primaria dell’uomo di aver abbandonato il suo rapporto con la natura, originaria condizione di felicità, ora colpevole non è più soltanto l’uomo ma la Natura stessa, anzi è lei l’unica responsabile dei mali dell’uomo. Questo mondo retto da una Natura impressionante nella raffigurazione antropomorfizzata appare regolato solo ed esclusivamente da un principio ciclico di produzione e distruzione: ciò che la natura produce viene distrutto per produrre nuovamente. Nello Zibaldone (4485-4486) dell’11 aprile 1829 Leopardi scriverà:

«

La natura, p. necessità della legge di distruz. e riproduz., e p. conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialm. regolarm. e perpetuam. persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen. e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto med. in cui gli ha prodotti.

»

Non c’è più possibilità di illudersi che il male sia un accidente, una casualità: il male è parte integrante, è insito nell’ordine stesso della Natura, e il dolore è nel funzionamento della materia dell’intero cosmo. Negli stessi giorni di composizione dell’operetta Leopardi riscontra anche nello Zibaldone (4087, 11 maggio 1824) la contraddizione della macchina perfetta della Natura, una specie di guasto “inspiegabile”: «Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?» > Focus, p. 26 | Questa tematica troverà ulteriore dimostrazione filosofica nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco p. 144 |. Dunque la domanda che rimane senza risposta e che riannoda molti altri luoghi leopardiani è emblematica non soltanto per la sua formulazione così serenamente tragica: «dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?», ma anche perché subito dopo sopraggiungono i due finali: l’Islandese muore mangiato da due leoni che così consumati dall’inedia hanno la sola forza di prendere ristoro da quel pasto che li farà sopravvivere ancora un giorno, un solo giorno; l’Islandese colto da un vento terribile e impetuoso, «fierissimo», caduto a terra viene ricoperto da un cumulo enorme di sabbia, un «mausoleo di sabbia», sotto il quale disseccato diventa una mummia che sarà poi esposta in un qualche museo d’Europa (vedi anche il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie > p. 162 |). Il sarcasmo tragico di questo doppio finale anticipa l’idea dei cosiddetti “finali aperti” di tante opere moderne. Fonti e modelli

È stato notato che possibili fonti per quest’operetta possano essere state, almeno in parte e nelle premesse iniziali, sia il Dialogo tra la Filosofia e la Natura, sia la Storia di Jenni o l’ateo e il saggio di Voltaire (1775), in cui l’autore francese, facendo parlare un ateo per dimostrare la non esistenza di Dio, riporta le tante sciagure che colpiscono l’uomo e si sofferma sull’esempio della popolazione islandese, costretta a vivere in un clima ostile per il gelo e per la presenza del vulcano Hekla.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo della Natura e di un Islandese | 161

E in effetti a Voltaire, più che ai dialoghi lucianei, questo brano sembra ricondurre per la sua valenza di conte philosophique (“racconto filosofico”). Come nel Candide voltairiano qui si respira una profonda critica nei confronti dell’ottimismo di Leibniz, per il quale il nostro è il migliore dei mondi possibili, e arrivano a maturazione anche le letture del materialismo filosofico settecentesco: quello che Leopardi mette in scena in quest’operetta è una spietata e ironica descrizione in forma letteraria, senza attenuanti, dell’ingranaggio cosmico. Il riferimento a Vasco da Gama, nelle prime righe del testo, indica la conoscenza del poema epico I Lusiadi del portoghese Luis Vaz de Camões (1572), che Leopardi stesso cita nelle sue annotazioni. Mentre per la descrizione dei luoghi inesplorati una delle fonti è la Storia naturale di Buffon che Leopardi rilegge nel maggio del 1824, nell’edizione italiana uscita a Venezia (1782-1791). I misteriosi colossi, di lava e tufo, dell’isola di Pasqua nella Polinesia (ancora oggi non se ne conosce l’origine certa) provengono certamente da quanto Leopardi aveva letto – lo annota in margine all’autografo di questa operetta – nel primo tomo del Viaggio intorno al mondo (1785) di J.F. La Pérouse de Galaup, nella traduzione di Angelo Petracchi del 1815, unito alle fonti della letteratura delle immagini, come per esempio l’Iconologia di Cesare Ripa nell’edizione del 1613, presente nella biblioteca di casa Leopardi e che alla voce Africa porta la descrizione di una donna mora, seminuda, dai capelli crespi, con un feroce leone al fianco. Infine, c’è da considerare che l’estetica del sublime settecentesco tendeva a esasperare la commistione insieme di bello e di brutto, potente e armonioso, spaventoso e affascinante, nella quale possiamo ritrovare quell’idea di volto a metà tra «bello e terribile» della Natura. Lingua e stile

La drammaticità dei contenuti di questo testo si sviluppa in forma dialogica, a eccezione della parte iniziale dove è presente una specie di introduzione para-storiografica, e di quella finale che ne è quasi un ribaltamento parodico, ovvero il surreale epilogo che narra le due ipotesi sulla morte dell’Islandese: «è fama che»,

«narrano che», nulla che abbia, dunque, un qualche fondamento storiografico. L’inizio e la fine della narrazione incorniciano, in perfetta simmetria, il dialogo. Per quanto riguarda la sintassi sono numerosi i costrutti prolettici, per esempio il lungo periodo che inizia con «deliberai» verbo reggente e finisce con «vivere» verbo retto, separato da ben tre gerundi («dando», «procurando», «non contendendo»). Non a caso l’uso di una costruzione complessa è in momenti particolarmente significativi del testo, come l’annuncio di quella “deliberazione” che avrebbe portato, inutilmente, l’Islandese a fare una vita oscura, solitaria, all’insegna dell’esclusione, dell’allontanamento, pur di non incorrere in patimenti (richiamo al “vivi nascosto” della filosofia epicurea). Sul piano morfologico molti sono i modi della negazione, come la litote; ed è un’espressività pervasiva, quella del negativo, in tutta l’operetta: al “non” dell’elencazione di tutte le rinunce dell’Islandese, corrisponde specularmente il “non” ricordare, il “non” accorgersi, il “non” sapere, il “non” aver fatto della Natura. Nel lessico molto variegato vengono accostati termini tecnico-scientifici ad arcaismi e a latinismi («cura»), il tutto nel registro familiare e colloquiale dei due lunghi discorsi, quasi due perorazionimonologhi dell’Islandese che, in alcuni casi, assumono toni di più solenne tragicità come «In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena», o addirittura oratori e concitati come «Così dico ora», «Ora mi domando», davanti ai quali la Natura continua a mostrarsi superiore e impassibile, oppure a rispondere seccamente, con distaccata sentenziosità. Sono frequenti le comparazioni accumulate in simmetria questo/quello, tanto/quanto e così via. Alcune anafore servono a rimarcare drammaticamente l’elenco dei danni della Natura perpetrati contro gli uomini: «ora ci», oppure «o ci», persino senza punteggiatura, a rendere ancora più angoscioso il sovrapporsi, l’accavallarsi, delle accuse. Quello dell’accumulazione è un procedimento significativo di tutta l’operetta perché la ricerca dell’Islandese è sì inesausta, non si arrende fino alla morte, ma è anche fallimentare perché proprio nella trappola infernale del meccanicismo biologico della materia finisce per cadere e soccombere.

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 Esercizi Comprensione 1. Dove avviene l’incontro la tra Natura e l’Islandese? 2. In che forma si presenta la Natura? 3. Che cosa va cercando l’Islandese? Laboratorio 4. Come viene articolato il dialogo tra la Natura e l’Islandese? Perché all’Islandese sono concessi interventi molto più lunghi? 5. Che ritmo ha la prosa? Soffermati in particolare sui passaggi carichi di pathos. 6. In quali parti puoi osservare un registro ironico? Esemplifica sul testo.

 Testo 23

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie Giacomo Leopardi in Operette morali tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008

Forma metrica (del Coro): stanza di 11 endecasillabi e 21 settenari con uno schema non sempre legato da rime e così disposto: AbbccDecFeGehjKIIMnopq RsTUrccvV.

Datato 16-23 agosto 1824 nell’autografo napoletano, il Dialogo fu pubblicato nelle Operette morali del 1827 e figura in quindicesima posizione nell’edizione del 1834. Dopo la terribile rappresentazione, centrale per tutta l’opera, del Dialogo della Natura e di un Islandese, qui Leopardi sembra assumere non tanto il punto di vista dell’uomo, quanto quello del morto, delle mummie che vanno a occupare uno spazio “vitale”, disturbate dalla presenza di Federico Ruysch (1638-1731), olandese di grande fama elogiato come scienziato esemplare da Bernard de Fontenelle. L’anatomista, superati i primi istanti di frastornamento nell’udire la tetra «canzoncina» dei morti che lui stesso ha imbalsamato, inizia con loro, attraverso un unico interlocutore non identificato se non solo come Morto, un colloquio dai contorni surreali che sottintende tematiche importanti come quella della ricerca della verità e che arriva a conclusioni sconcertanti: sia per i vivi che per i morti la beatitudine è assente: «però ch’esser beato / nega ai mortali e nega a’ morti il fato».

CORO DI MORTI NELLO STUDIO DI FEDERICO RUYSCH

5 1. a cui si volve: a cui tende. 2. si posa: si appaga. 3. Lieta… dolor: che non dà gioia ma ripara dal dolore ancestrale dell’uomo. 4. Il pensier grave oscura: cancella il pensiero pesante. 5. Lena: forza. 6. temenza: timore, paura.

7. Individua e spiega il passo nel quale si evidenzia la totale indifferenza della natura. 8. In quale passaggio Leopardi rende esplicita la propria concezione materialistica? Cita la definizione che la Natura propone di se stessa. 9. Soffermati sul finale doppio: che significato ha a tuo parere e che cosa anticipa della letteratura futura? Approfondimento 10. La Natura qui rappesentata che aspetti ha in comune o in contrasto con le altre opere leopardiane a te note? 11. Che prospettiva condivide tale dialogo con il Candido di Voltaire?

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Sola nel mondo eterna, a cui si volve1 ogni creata cosa, in te, morte, si posa2 nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura dall’antico dolor3. Profonda notte nella confusa mente il pensier grave oscura4; alla speme, al desio, l’arido spirto lena5 mancar si sente: così d’affanno e di temenza6 è sciolto, e l’età vote e lente senza tedio consuma.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie | 163 7. larva: immagine. 8. ma da… rimembrar: ma il ricordo è senza paura. 9. punto acerbo: brevissimo momento. 10. stupenda: che suscita stupore. 11. fiamma vitale: fiamma della vita. 12. Però… fato: poiché il destino nega la felicità sia ai vivi che ai morti.

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Vivemmo: e qual di paurosa larva7, e di sudato sogno, a lattante fanciullo erra nell’alma confusa ricordanza: tal memoria n’avanza del viver nostro: ma da tema è lunge il rimembrar8. Che fummo? Che fu quel punto acerbo9 che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda10 oggi è la vita al pensier nostro, e tale qual de’ vivi al pensiero l’ignota morte appar. Come da morte vivendo rifuggia, così rifugge dalla fiamma vitale11 nostra ignuda natura; lieta no ma sicura; però ch’esser beato nega ai mortali e nega a’ morti il fato12. Ruysch fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell’uscio. Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant’è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l’uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare a letto? Chiamare aiuto per paura de’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro. ENTRANDO. Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar, e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima? Io m’immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga dell’uscio, e vi ammazzo tutti. Morto. Non andare in collera, che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi. Ruysch. Dunque, che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare? Morto. Poco fa, sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita. Ruysch. E quanto dureranno a cantare o a parlare? Morto. Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d’ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.

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Jan Van Neck, Lezione di anatomia del Professor Frederik Ruysch, 1683. Amsterdam, Amsterdam Museum.

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Ruysch. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un’altra volta. Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi. Morto. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta. Ruysch. Mi dispiace veramente: perché m’immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme. Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire. Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della morte. Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi. Ruysch. Come non ve n’accorgeste? Morto. Verbigrazia13, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre. Ruysch. Ma l’addormentarsi è cosa naturale. Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia. Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.

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Così colui, del colpo non accorto, andava combattendo, ed era morto, 95

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110 13. Verbigrazia: per esempio. 14. poeta italiano: è una citazione tratta dal rifacimento burlesco dell’Orlando innamorato di Boiardo a opera di Francesco Berni. 15. sincope: mancamento.

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dice un poeta italiano14. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando al sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte? Morto.Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n’accorge? Ruysch. A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo. Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario. Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell’anima si accostano col parere degli Epicurei; quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch’io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo. Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l’uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope15 o per qualunque cosa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull’appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità,

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16. conglutinate: attaccate saldamente. 17. appiccato: collegato. 18. spiccarsi: strapparsi.

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non è più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte. Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell’anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché stimando che il morire consista in una separazione dell’anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate16 tra loro in modo, che constituiscono l’una e l’altra una sola persona, si possono separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile. Morto. Dimmi: lo spirito è forse appiccato17 al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n’abbia a essere schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l’anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v’ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell’entrarvi, ella vi si sente conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché dunque sentirà spiccarsi18 all’uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l’entrata e l’uscita dell’anima sono parimente quiete, facili e molli. Ruysch. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore? Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori e minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell’ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore: perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell’uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell’uomo sono capaci di piacere anche presso all’estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza è piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per se medesima. Sicché il languore della morte debbe essere più grato secondo che libera l’uomo da maggior patimento. Per me, se bene nell’ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando. Gli altri morti. Anche a noi pare di ricordarci altrettanto. Ruysch. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa? Morto. Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un’ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono. Gli altri morti. A noi successe il medesimo. Ruysch. Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d’essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m’intendete? Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben ben: non è pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a letto.

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Analisi del testo

Struttura e temi

Leopardi sposta il punto di vista dall’uomo ai morti e a loro dà la parola, sin dal Coro di morti posto all’inizio non come preambolo, ma come parte integrante dell’operetta, a segnare uno stacco profondo con ciò che verrà subito dopo, la conversazione tra lo scienziato e le mummie. Il contrasto tra il coro di morti e il dialogo è netto: nel genere, lirica contro prosa, come nei protagonisti, morti che si risvegliano al compimento dell’anno «grande e matematico» nello studio dell’anatomista e recitano un tetro ritornello, e Federico Ruysch, un vivo che viene svegliato nel cuore della notte dai cadaveri imbalsamati. Cominciato il dialogo si manifesta un rovesciamento di prospettiva, per cui è la vita un mistero e non la morte, la quale anzi è il vero stato di natura, l’unico fine di ogni creatura vivente. Ripensiamo all’eccezionalità della situazione: il risvegliarsi dei morti risponde a un criterio di combinazione astronomica e matematica degli antichi, secondo il quale si sarebbe compiuto il primo ciclo di secoli, l’anno «grande», nel quale tutti i morti, ovunque ma nello spazio limitato di quindici minuti, tornano a parlare, a vivere. L’eccezionalità sta anche nel ribaltamento totale dei ruoli, alla maniera dei dialoghi di Luciano: il mondo dei morti è stato reso inquieto dal mondo dei vivi, e non viceversa. L’entrata in scena dell’anatomista imbalsamatore, preceduta da una didascalia da commedia segna il passaggio, brusco e dissonante, da quel canto tragico emerso dal nulla al mondo dei vivi che si preannuncia comico e che comico in effetti è, sin dalle prime battute che Ruysch rivolge alle sue mummie per tentare di spaventarle: le chiama familiarmente «Figliuoli» salvo poi, dopo una lunga “tirata teatrale”, minacciarle di “morte”. Una volta aperta la conversazione, tuttavia, come degno rappresentante della categoria degli scienziati Ruysch pone ai morti, che parlano attraverso un loro rappresentante non identificato, tre interrogativi di cui soltanto due saranno soddisfatti, mentre il terzo, nella conclusione da commedia, non avrà risposta. Il primo interrogativo: che sentimenti si provano, «di corpo e d’animo» nel momento del trapasso? La risposta, ribadita nella sua contrarietà sia alle dottrine materialistiche, sia a quelle di chi crede nell’immortalità dell’anima, avanzate dallo scienziato, porta sempre alla stessa affermazione: non ci si accorge di morire e morendo cessa ogni dolore. Perlopiù, alla seconda domanda «che cosa è la morte, se non è dolore?» il Morto risponde: «Piuttosto piacere che altro».

La secchezza delle risposte del Morto non placa la curiosità di Ruysch che qui diventa l’emblema dello scienziato moderno, ottuso, chiuso nelle sue false certezze, e che chiede senza prestare attenzione alle risposte. Ciò che ha rivelato il Morto è la riprova di quanto nel mondo dei vivi la filosofia di Leopardi ha già sperimentato: la vita e la morte non sono differenti, la negazione alla felicità è la stessa. L’ultima domanda non ha, infatti risposta: come ci si accorge di essere morti? Fonti e modelli

È stato ipotizzato che l’ispirazione per questo dialogo sia venuta a Leopardi a seguito della lettura dell’Éloge de monsieur Ruysch di Bernard de Fontenelle. Il testo abbonda di riferimenti classici, già nella presenza di un coro da antica tragedia greca, rintracciabili sia nelle parole dei protagonisti sia nello spunto “scenico”. Dietro lo stesso Coro di morti pare, inoltre, di scorgere reminiscenze dell’XI libro dell’Odissea per l’episodio delle ombre che vagano nell’Ade e Ulisse che le interroga, dell’Eneide (sesto libro) e della Commedia dantesca. Molti sono gli spunti che derivano dai Dialoghi di Luciano > finestrella p. 142 |. Ricordiamo anche che nel decimo libro della Repubblica di Platone due morti tornano in vita per svelare i segreti del trapasso e proprio dal modello dialogico platonico Leopardi sembra aver preso l’idea dell’incalzare delle domande di Ruysch al morto per tirarne fuori delle risposte, alla maniera della cosiddetta “maieutica socratica”. L’interlocutore dello scienziato, il Morto, denota nelle risposte la conoscenza della Storia naturale di Buffon già tra le fonti del Dialogo della Natura e di un Islandese > p. 156 |. In controluce anche il Trionfo della morte di Petrarca e una citazione di Francesco Berni (1497/1498-1535) dal rifacimento burlesco dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (vedi nota 14). Infine, vale la pena citare anche un modello figurativo, il dipinto del fiammingo Jan Van Neck (1634-1714), che ritrae lo stesso Ruysch nel corso di una lezione di anatomia > immagine p. 164 |. Lingua e stile

Chiamare ironicamente «canzoncina» ciò che è, in realtà, un coro tragico, fa parte di quel procedimento tipico di tutte le Operette morali, a partire già dal titolo che reca il diminutivo “operette”, di abbassamento, almeno apparente, di svuotamento di peso per scrivere con leggerezza di tematiche gravi. Il Coro di morti, considerato

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie | 167

da molti studiosi una lirica a tutti gli effetti, al pari di quelle che segneranno la ripresa poetica con i canti “pisano-recanatesi” (A Silvia e Le ricordanze > pp. 94; 100 |), fin dall’inizio indica la materia alta e tragica: alla morte tende qualsiasi elemento del creato, come già accennato nel Dialogo della Moda e della Morte > p. 152 |. In questa operetta Leopardi adotta un punto di vista esterno e gioca l’intero testo sull’effetto di straniamento determinato dalla situazione paradossale. Il Coro di morti, infatti, pur venendo da un nulla inquietante ha i connotati e la solennità di un canto liturgico. Tanto da ricordare, nella cadenza e nei contenuti, i modelli dell’innografia cristiana. Ma si tratta pur sempre di un coro di morti, dunque il canto procede con ritmo lento, di cantilena, con rare variazioni tonali. Per accentuare la monotonia del testo, Leopardi decide di far prevalere i settenari sugli endecasillabi, e usa molte parole di poche sillabe dal suono più scarno e cadenzato. Contribuisce a questo ritmo anche l’uso di figure di ripetizione: si veda l’anafora del «che» (ai vv. 20-22), rafforzata dalla serie di interrogazioni retoriche. Il Coro si apre con un’apostrofe alla morte e si chiude con la parola «fato»: questi due momenti estremi sintetizzano, in una dimensione quasi circolare, il messaggio leopardiano. Il lessico della lirica privilegia parole vaghe, latinismi e parole di uso etimologico come «spirto» (“respiro”), «stupenda» (“che desta stupore”). Alla scarsità di rime corrisponde una ricchezza di assonanze. Nel dialogo, in contrasto forte con il lirismo del Coro tragico, la sintassi è molto semplice, procede lineare, piatta, con frasi per lo più brevi e assertive, in alcuni casi battute anche di una sola parola. Ai latinismi



(«svolve», «concorrono in», «verbigrazia») spesso pronunciati dal Morto si accostano espressioni da commedia (similmente a quanto accade nel Dialogo della Moda e della Morte > p. 152 |) come «Mal abbia quel diavolo». La rappresentazione dello scienziato è comica nella sua reazione bonaria e impaurita. Il rovesciamento, l’antinomia tra i personaggi è resa nello scambio tra un lessico solitamente attribuito alla vita e uno, al contrario attribuito alla morte: ad esempio «punto acerbo», «sudato sogno» del Coro di morti, relativi alla vita, e non alla morte, come a qualcosa di misterioso e indecifrabile. Mentre il neologismo comico della battuta finale di Ruysch «sono rimorti», inseguito per tutta l’operetta, tra un andirivieni di morire, rimorire, chi è più morto tra il morto vero o lo scienziato morto di paura e così via, fa da contraltare ironico, antifrastico, da commedia, all’inizio tragico.

 Oltre il libro Correvano i primi anni Cinquanta. Ermanno Olmi, poco più che ventenne, sperimentava per la prima volta una nuova macchina da presa, la Eclair 330. Volendo, come da lui stesso dichiarato, un testo che fosse “all’altezza” scelse una delle Operette morali di Leopardi: Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere. Cerca in rete il cortometraggio.

Esercizi

Comprensione 1. Quale assunto esprime il Coro di morti? 2. Cosa rispondono i morti a Federico che chiede loro il motivo dell’essersi messi a cantare? 3. Attraverso quale ragionamento il Morto spiega che la morte è piacere? 4. Spiega la riflessione finale di Ruysch che chiude l’operetta. Laboratorio 5. Che significato assume la ripetizione, in apertura e in chiusura del coro, dell’espressione «Nostra ignuda natura lieta no, ma sicura»?

6. Al v. 15 del coro compare il termine «tedio»: perché rappresenta una parola chiave della poetica leopardiana? 7. Delinea il ritratto di Ruysch mettendo in luce le sue caratteristiche di scienziato. 8. Che concetto di piacere e felicità emerge dal brano? 9. Quali sono, a tuo avviso, gli elementi che conferiscono alla prosa un taglio umoristico-grottesco? Approfondimento 10. Scrivi un saggio in cui illustri il significato della morte nel pensiero leopardiano. 11. A quali fonti ha attinto Leopardi per la composizione di questa operetta?

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 Testo 24

Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez Giacomo Leopardi in Operette morali

tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008 5

In digitale



Sguardi d’autore: Brancati, Due viaggi

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20 1. Gutierrez: gentiluomo di camera di Ferdinando il Cattolico, Pietro Gutierrez fu realmente compagno di viaggio di Colombo. 2. per via di discorso: tanto per parlare. 3. segreta: riservata. 4. Gomera: un’isola delle Canarie. 5. discorda: discosta. 6. seguiti: ne consegua.

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Il Dialogo, composto a Recanati, porta sul manoscritto la data 19-25 ottobre 1824 e viene pubblicato per la prima volta nella rivista “Antologia” del gennaio 1826, insieme con il Dialogo di Timandro e di Eleandro e il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare. È poi incluso nella prima edizione delle Operette morali del 1827 e in quella del 1834. Nell’edizione postuma del 1845 occupa la sedicesima posizione, dopo l’operetta dedicata al personaggio Tasso e a Il Parini, ovvero della gloria, con le quali condivide più di un motivo. Nell’operetta viene sviluppato un tema centrale in tutta la produzione leopardiana, quello del taedium vitae, della noia, figlia del nulla e che genera il nulla, alla quale il personaggio Colombo, visto qui non solo come lo «scopritor famoso» di Ad Angelo Mai > p. 77 | (vv. 76-105), contrappone il piacere del rischio, del viaggio come pericolo che ci porta a sentire la mancanza di ciò che abbiamo e che rischiamo di perdere. Una potente metafora, quella del viaggio, sulla solitudine e sulle aspirazioni dell’uomo, sulla speranza come tempo di attesa, tempo felice: «aspettativa» è infatti una delle ultime parole fatte pronunciare a Colombo.

Colombo. Bella notte, amico. Gutierrez1. Bella in verità: e credo che a vederla da terra, sarebbe più bella. Colombo. Benissimo: anche tu sei stanco del navigare. Gutierrez. Non del navigare in ogni modo; ma questa navigazione mi riesce più lunga che io non aveva creduto, e mi dà un poco di noia. Contuttociò non hai da pensare che io mi dolga di te, come fanno gli altri. Anzi tieni per certo che qualunque deliberazione tu sia per fare intorno a questo viaggio, sempre ti seconderò, come per l’addietro, con ogni mio potere. Ma, così per via il discorso2, vorrei che tu mi dichiarassi precisamente, con tutta sincerità, se ancora hai così per sicuro come a principio, di avere a trovar paese in questa parte del mondo; o se, dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario, cominci niente a dubitare. Colombo. Parlando schiettamente, e come si può con persona amica e segreta3, confesso che sono entrato un poco in forse: tanto più che nel viaggio parecchi segni che mi avevano dato speranza grande, mi sono riusciti vani; come fu quel degli uccelli che ci passarono sopra, venendo da ponente, pochi dì poi che fummo partiti da Gomera4, e che io stimai fossero indizio di terra poco lontana. Similmente, ho veduto di giorno in giorno che l’effetto non ha corrisposto a più di una congettura e più di un pronostico fatto da me innanzi che ci ponessimo in mare, circa a diverse cose che ci sarebbero occorse, credeva io, nel viaggio. Però vengo discorrendo, che come questi pronostici mi hanno ingannato, con tutto che mi paressero quasi certi; così potrebbe essere che mi riuscisse anche vana la congettura principale, cioè dell’avere a trovar terra di là dall’Oceano. Bene è vero che ella ha fondamenti tali, che se pure è falsa, mi parrebbe da un canto che non si potesse aver fede a nessun giudizio umano, eccetto che esso non consista del tutto in cose che si veggano presentemente e si tocchino. Ma da altro canto, considero che la pratica si discorda5 spesso, anzi il più delle volte, dalla speculazione: e anche dico fra me: che puoi tu sapere che ciascuna parte del mondo si rassomigli alle altre in modo, che essendo l’emisfero d’oriente occupato parte dalla terra e parte dall’acqua, seguiti6 che anche l’occidentale debba essere diviso tra queste e quella? che puoi sapere che non sia tutto occupato da un mare unico e immen-

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez | 169 Pelagio Palagi, Cristoforo Colombo di ritorno dalla scoperta del Nuovo Mondo presenta ai reali di Spagna gli abitanti e prodotti di quelle terre, 1829.

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7. destri: abili. 8. Annone: antico navigatore vissuto nel V secolo a.C.

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so? o che in vece di terra, o anche di terra e d’acqua, non contenga qualche altro elemento? Dato che abbia terre e mari come l’altro, non potrebbe essere che fosse inabitato? anzi inabitabile ? Facciamo che non sia meno abitato del nostro: che certezza hai tu che vi abbia creature razionali, come in questo? e quando pure ve ne abbia, come ti assicuri che sieno uomini, e non qualche altro genere di animali intellettivi? ed essendo uomini; che non sieno differentissimi da quelli che tu conosci? ponghiamo caso, molto maggiori di corpo, più gagliardi, più destri7; dotati naturalmente di molto maggiore ingegno e spirito; anche, assai meglio inciviliti, e ricchi di molta più scienza ed arte? Queste cose vengo pensando fra me stesso. E per verità, la natura si deve essere fornita di tanta potenza, e gli effetti di quella essere così vari e moltiplici, che non solamente non si può fare giudizio certo di quel che ella abbia operato ed operi in parti lontanissime e del tutto incognite al mondo nostro, ma possiamo anche dubitare che uno s’inganni di gran lunga argomentando da questo a quelle, e non sarebbe contrario alla verisimilitudine l’immaginare che le cose del mondo ignoto, o tutte o in parte, fossero maravigliose e strane a rispetto nostro. Ecco che noi veggiamo cogli occhi propri che l’ago in questi mari declina dalla stella per non piccolo spazio verso ponente: cosa novissima, e insino adesso inaudita a tutti i navigatori; della quale, per molto fantasticarne, io non so pensare una ragione che mi contenti. Non dico per tutto questo, che si abbia a prestare orecchio alle favole degli antichi circa alle maraviglie del mondo sconosciuto, e di questo Oceano; come, per esempio, alla favola dei paesi narrati da Annone8, che la notte erano pieni di fiamme, e dei torrenti di fuoco che di là sboccavano nel mare: anzi veggiamo quanto sieno stati vani fin qui tutti i timori di miracoli e di novità spaventevoli, avuti dalla nostra gente in questo viaggio; come quando, al vedere quella quantità di alghe, che pareva facessero della marina quasi un prato, e c’impedivano alquanto l’andare innanzi, pensarono essere in sugli ultimi confini del mar navigabile. Ma voglio solamente inferire, rispondendo alla tua richiesta, che quantunque la mia congettura sia fondata in argomenti probabilissimi, non solo a giudizio mio, ma di molti geografi, astronomi e navigatori eccellenti, coi quali ne ho conferito, come sai, nella Spagna, nell’Italia e nel Portogallo; nondimeno potrebbe succedere che fallasse: perché, torno a dire, veggiamo che molte conclusioni cavate da ottimi

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110 9. speculativa: filosofica. 10. gli antichi: si riferisce a quanto scrive Ovidio (Eroidi, XV). 11. Leucade: una delle isole Ionie, in Grecia.

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discorsi, non reggono all’esperienza; e questo interviene più che mai, quando elle appartengono a cose intorno alle quali si ha pochissimo lume. Gutierrez. Di modo che tu, in sostanza, hai posto la tua vita, e quella de’ tuoi compagni, in sul fondamento di una semplice opinione speculativa9. Colombo. Così è: non posso negare. Ma, lasciando da parte che gli uomini tutto giorno si mettono a pericolo della vita con fondamenti più deboli di gran lunga, e per cose di piccolissimo conto, o anche senza pensarlo; considera un poco. Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero da incertezza e pericolo? se contento e felice, quello è da preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a qualche altro stato non sia da posporre. Io non voglio ricordare la gloria e l’utilità che riporteremo, succedendo l’impresa in modo conforme alla speranza. Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi10, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittandosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade11) giù nella marina, e scampandone; restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so bene che, usciti di quel periodo, avranno per un poco di tempo, anco senza il valore di Apollo, avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna navigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade; producendo le medesime utilità, ma più durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro. Io per lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati. Quanti beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi! Chi pose mai nel numero dei beni umani l’avere un poco di terra che ti sostenga? Niuno, eccetto i navigatori, e massimamente noi, che per la molta incertezza del successo di questo viaggio, non abbiamo maggior desiderio che della vista di un cantuccio di terra; questo è il primo pensiero che ci si fa innanzi allo svegliarci, con questo ci addormentiamo; e se pure una volta ci verrà scoperta da lontano la cima di un monte o di una foresta, o cosa tale, non capiremo in noi stessi dalla contentezza ; e presa terra, solamente a pensare di ritrovarci in sullo stabile, e di potere andare qua e là camminando a nostro talento, ci parrà per più giorni essere beati. Gutierrez. Tutto cotesto è verissimo: tanto che se quella tua congettura speculativa riuscirà così vera come è la giustificazione dell’averla seguita, non potremo mancar di godere questa beatitudine un giorno o l’altro. Colombo. Io per me, se bene non mi ardisco più di promettermelo sicuramente, contuttociò spererei che fossimo per goderla presto. Da certi giorni in qua, lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità di quella materia che gli vien dietro, mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al sole, mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi. L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né costante; ma piuttosto incer-

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12. coccole: bacche.



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to, e vario, come fosse interrotto da qualche intoppo. Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle coccole12 rosse e fresche. Anche gli stormi degli uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno; che penso vi si possa fare qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla forma, non mi paiono di marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona. Gutierrez. Voglia Dio questa volta, ch’ella si verifichi.

Analisi del testo

Struttura e temi

L’operetta ruota intorno alla figura di Cristoforo Colombo e sullo sfondo c’è chiaramente la famosa impresa di mare che portò alla scoperta del continente americano nel 1492. A parlare, però, qui non è il personaggio storico: chi conversa con Gutierrez, uomo dell’equipaggio e semplice “comprimario”, in una notte di navigazione placida e tranquilla che ricorda molti degli attacchi lirici dei notturni leopardiani o la notte quieta del pastore errante dell’Asia > p. 118 |, non è il Colombo della conquista vittoriosa, ma il personaggio psicologico che vive l’incertezza dell’impresa. Cristoforo Colombo, l’uomo Colombo, dopo settimane di navigazione è assalito, per la prima volta, dal dubbio e dallo sconforto dell’equipaggio; quasi in un soliloquio, con Gutierrez a fare soltanto da sponda alle parole del protagonista, tenta un bilancio dell’avventura, si interroga su ciò che è sconosciuto, su quella «solitudine incognita» da preferire alla noia, a un’esistenza caratterizzata dal nulla del taedium vitae, pericolo ben maggiore del rischio dell’andare per mare. Che la noia sia un male peggiore persino del dolore, è motivo ricorrente sia nello Zibaldone sia nelle canzoni, a partire da Ad Angelo Mai > p. 77 |, ed è qui legato alla situazione contingente del pericolo in una pagina diventata famosa per la sua intensità poetica: «Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni», si chiede Colombo, «non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero da incertezza e pe-

ricolo? se contento e felice, quello è da preferire a qualunque altro». È un Colombo diverso dall’immagine dell’eroe, dello scopritore che compare tra gli illustri italiani, unico non letterato nei versi della canzone Ad Angelo Mai (per quanto ci sia da sottolineare che anche lì la figura si affranca da qualsiasi stereotipo per affrontare un altro tema centrale in Leopardi, che è quello della conoscenza esatta delle cose come causa del restringersi della nostra geografia mentale e immaginativa e motivo della percezione ancora più dolorosa della nostra “piccolezza”). Ed è un Colombo lontano anche dal mito di Ulisse o dalla ricerca di «gloria» e «utilità». Il viaggio del genovese “ardito” è anche nell’operetta metaforico, la conquista di uno spazio vitale, di uno spazio libero dal disagio provocato dalla noia, di una vita alla quale si può attaccare soltanto chi rischia di perderla. Un viaggio che si ricollega sia al meccanismo psicologico del vivere d’azzardo per poter amare la vita sia a quello degli amanti infelici che si gettano in mare dalla rupe di Leucade > Confronti, p. 90 | per liberarsi dalla passione amorosa. Non è la prima volta che quest’ultimo motivo affiora fra i temi delle Operette : compare anche ne La scommessa di Prometeo, nel Dialogo delle Natura e di un Islandese > p. 156 | e nell’Elogio degli uccelli ma si legga questo passo di Zibaldone (82) del 17 febbraio 1823:

«

Io era oltremodo annoiato dalla vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e guardando l’acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: S’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato.

»

172 | sezione 9 | Giacomo Leopardi | Fonti e modelli

Oltre alle fonti consuete legate alla letteratura di viaggio presente negli elenchi di letture leopardiane, soprattutto il Voyage du jeune Anacharsis di Jean-Jacques Barthélemy, scritto nel 1788, che conobbe grande fortuna proprio negli anni di composizione di quest’operetta, è fondamentale la Storia dell’America dello storico scozzese William Robertson, opera monumentale scritta tra il 1777 e il 1796 che Leopardi stesso indica in una postilla a margine del titolo di quest’operetta.

Per quanto riguarda i rinvii interni a tutta l’opera leopardiana, la figura di Cristoforo Colombo compare già nella Storia dell’astronomia (1813), protagonista di un aneddoto che ne rimarcava la scaltrezza rispetto agli indigeni della Giamaica, ingannati sul fenomeno delle eclissi. Lingua e stile

L’incipit con la prolungata adnominatio dell’aggettivo «Bella», quasi un effetto di eco nello spazio silenzioso della notte in mare aperto, caratterizza il tono di tutta l’operet-



ta che è sì un dialogo, ma quasi un lungo monologo contrassegnato dal dubbio che si esprime nelle numerose interrogative (fino addirittura a nove di seguito) che Colombo, in realtà, rivolge a se stesso: una cifra stilistica che marca l’incertezza. Significativo è anche l’uso della ripetizione, dell’anafora del dimostrativo ripetuto tre volte per esprimere il senso del momento concitato della lontananza dalla terra, contingente, del qui e ora e non astratto: «su queste navi», «in mezzo di questo mare», «in questa solitudine incognita». Il tono è generalmente intimo e colloquiale, ne fa fede la presenza di espressioni quali «come hai letto» o «come sai», ecc., usate quasi con funzione di intercalare o l’andamento sintattico coordinativo a riprodurre il parlato. Solo verso la fine la figura retorica dell’enumerazione crea un ritmo molto più serrato. Si tratta dell’elenco di tutti gli indizi che dovrebbero portare a credere la terra vicina: la forma e il colore delle nuvole, l’aria, il vento, un ramoscello d’albero, gli stormi degli uccelli non solo marittimi. Segni che alimentano la speranza e, soprattutto, tema leopardiano per eccellenza, l’attesa.

Esercizi

Comprensione 1. Riassumi in non più di dieci righe il contenuto del dialogo. 2. Chi è Gutierrez e qual è il suo ruolo? 3. Perché il viaggio appare come un pretesto metaforico? Laboratorio 4. Individua gli indicatori testuali che connotano uno stile e un tono colloquiali e spiega il perché di tale scelta autoriale. 5. Che cosa indicano, a tuo parere, le frequenti frasi interrogative? 6. Qual è il fine del viaggio, secondo Colombo, al di là dell’ipotesi di scoperta che vi è sottesa? 7. Come viene definito il taedium vitae?

8. Che cosa rappresenta metaforicamente l’equipaggio e quali sono i suoi umori? 9. Come viene espresso il senso dell’ignoto connaturato al viaggio stesso? Approfondimento 10. Quale aspetto assume qui la natura? Individua gli elementi di analogia e di contrasto con altre caratterizzazioni presenti nell’opera leopardiana. 11. Illustra le implicazioni simboliche del viaggio di cui qui si parla e fai un confronto con il Dialogo delle Natura e di un Islandese. 12. Colombo può essere considerato un riflesso dell’io leopardiano: per quale ragione?

| 1. Giacomo Leopardi | 1.5 Operette morali | Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere | 173

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Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere Giacomo Leopardi in Operette morali

tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008 5

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1. lunari: calendari che scandiscono l’anno in base ai cicli della luna. 2. Bisognano: occorrono. 3. Passeggere: passante, avventore. 4. quello di là: quello precedente.

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È la penultima delle Operette morali nell’assetto finale dell’edizione definitiva e postuma del 1845. Composta nel 1832 insieme con il Dialogo di Tristano e di un amico, come informa Leopardi stesso in una Notizia premessa all’edizione poi sequestrata del 1835, esce per la prima volta nel 1834 (Firenze, Piatti). Il manoscritto del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere è conservato presso l’Autografoteca della Biblioteca Labronica di Livorno ed è l’esemplare visionato dalla Censura fiorentina. Dopo cinque anni di interruzione della scrittura delle operette, Leopardi ne riprende la composizione con questo dialogo molto breve e dal tocco leggero che rappresenta un quadretto borghese di vita cittadina, di incontro occasionale tra due protagonisti “moderni”, in un quotidiano posto in una scenografia presa dall’attualità: una strada, un semplice passante che si rivela, in realtà, un fine filosofo, e un venditore di almanacchi, calendari per l’inizio di un nuovo anno. I temi sottesi al Dialogo sono quelli dell’attesa, della speranza in un anno che inizia e della conseguente riflessione sul tempo, sul passato e sul futuro.

Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari1 nuovi. Bisognano2, signore, almanacchi? Passeggere3. Almanacchi per l’anno nuovo? Venditore. Sì signore. Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo? Venditore. Oh illustrissimo sì, certo. Passeggere. Come quest’anno passato? Venditore. Più più assai. Passeggere. Come quello di là? 4 Venditore. Più più, illustrissimo. Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? Venditore. Signor no, non mi piacerebbe. Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo. Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo? Venditore. Io? non saprei. Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? Venditore. No in verità, illustrissimo. Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? Venditore. Cotesto si sa. Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? Venditore. Cotesto non vorrei. Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, ri-

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50 5. più o di più peso: maggiore per importanza.



sponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? Venditore. Lo credo cotesto. Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto , non potendo in altro modo? Venditore. Signor no davvero, non tornerei. Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque? Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti . Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti , come non si sa dell’anno nuovo? Venditore. Appunto. Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso5 il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura . Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Venditore. Speriamo. Passeggere. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete. Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. Passeggere. Ecco trenta soldi. Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Analisi del testo

Temi

Questo dialogo è stato considerato dal critico e filosofo Francesco De Sanctis (1817-1883) come «il meglio ispirato dei dialoghi leopardiani». Sicuramente ci appare come il più moderno, anche grazie all’ambientazione cittadina e alla scelta di personaggi che, pur non avendo una precisa identificazione, appartengono al tempo contemporaneo e non sono personaggi storici. La freschezza e la semplicità dell’allestimento scenico non necessitano di orpelli, immaginiamo una strada e un incontro casuale tra due uomini moderni: uno dei due (il «passeggere») è uno scettico disilluso, l’altro (il venditore di almanacchi*) è un ingenuo, o almeno così appare. Il serrato scambio di battute, innescato da un oggetto del quotidiano, ma ad alto valore simbolico come un calendario, delinea le due posizioni. Fin dall’inizio dell’incontro il Almanacchi *Erano pubblicazioni di ampia diffusione popolare e di grande tiratura, in cui venivano registrati i giorni di un anno solare e delle fasi lunari, l’ora dell’alba e del tramonto, i fenomeni naturali, le osservazioni meteorologiche e astrologiche. Leopardi ne conosceva anche di recenti, visto che Giordani aveva ben accolto queste pubblicazioni per la loro funzione didattica, di istruzione minima al popolo. Gli almanacchi (tuttora esistenti) non sostituivano, bensì affiancavano, il calendario ecclesiastico.

passante mostra il suo ironico disincanto, che culmina con la considerazione che per ciascun essere vivente sia «di più peso il male che gli è toccato, che il bene». Il modello di riferimento formale per questa operetta è il dialogo platonico, come nel caso del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, e la formula è quella maieutica socratica: attraverso la successione di domande, emerge la tesi filosofica che è alla base del testo. In quest’ottica, al colto «passeggere» spetta il ruolo del maestro che incalza con domande sulla ciclicità del tempo, sulle speranze disattese, sulle illusioni che muovono a sperare sempre in quello che verrà; mentre al venditore spetta il compito di rispondere, come qualsiasi allievo, ma cercando di contrastare la logica del pensiero del suo fine interlocutore convinto dell’infelicità della vita, desideroso com’è, ingenuamente, della felicità della vita. Non solo: l’affermazione perentoria del passante sull’infelicità della vita non si spinge fino a togliere il velo dell’illusione alle speranze del venditore e si ferma, con un gesto di umana pietas, potremmo dire, anticipando il messaggio ultimo de La ginestra, di solidarietà. Così, alla domanda retorica del passeggere: «Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri,

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e si principierà la vita felice. Non è vero?» segue la semplice risposta del Venditore, prima che tutto riprenda il suo normale corso: «Speriamo». Tra i molti riferimenti interni a tutta l’opera leopardiana, in particolare allo Zibaldone, citiamo il pensiero 4284 del 1° luglio 1827, in cui emerge anche l’idea di una “comunanza” tra gli uomini. Scrive Leopardi:

«

Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, ma che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L’ho domandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi, ma con questo patto, nessuno […]. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene

»

Lingua e stile

Questa è una delle operette in cui risulta più evidente la struttura circolare della composizione. Il venditore di almanacchi che apre il Dialogo, con il richiamo di invito all’acquisto, tipico dei venditori ambulanti «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?» torna di nuovo a chiuderlo nello stesso modo: «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi»,



dopo una parentesi riflessiva nella quale il passante, il «Passeggere», ottiene dall’umile venditore alcune risposte che, pur nella loro brevità, diventano materia di meditazione in questa conversazione “alla pari”, malgrado la diversa estrazione sociale, in una forma stilistica agile e leggera. Una circolarità che allude alla stessa continuità del tempo scandito, di anno in anno, dagli «almanacchi», che sempre promettono tempi migliori e, puntualmente, li deludono (temi affini sono evocati, nella lirica, in La sera del dì di festa, A Silvia e Il sabato del villaggio). Dunque un nuovo anno sarà, inesorabilmente, uguale a quello precedente e a quello precedente ancora e così via; in questo la tecnica della circolarità diventa ancora più densa di significato. A differenza di altre operette, in cui il senso filosofico del testo emergeva attraverso l’esposizione articolata di uno o di entrambi i dialoganti, qui lo scambio di battute è breve, asciutto ed essenziale. Dal punto di vista linguistico, la prosa leopardiana è scorrevolissima, molto colloquiale e priva di qualsiasi ricercatezza letteraria, fatta eccezione proprio per l’arcaismo «passeggere». È stato notato che, in questo dialogo dal tono pacatamente ironico, nel quale è la forma interrogativa a dominare su tutto, ricorrono espressioni di utilizzo comune, come la parola «vita» (ben 10 volte) o «anno» (addirittura 14 volte) o, ancora, «nuovo» come parola chiave presente molte volte in tutta l’operetta, proprio a rendere mimeticamente il parlato.

Esercizi

Comprensione 1. Sintetizza il contenuto del dialogo. 2. Qual è l’ambientazione? Laboratorio 3. Che significato riveste, a tuo avviso, la circolarità dell’operetta? 4. Come interpreti la ricorrenza del termine «vita»? 5. Chi rappresentano i personaggi? In quale dei due è possibile leggere la voce dell’autore e perché?

6. Definisci le caratteristiche della prosa dialogata ponendola a confronto con quella più distesa del Dialogo della Natura e di un Islandese. 7. In quali battute si scorge la componente ironica tipica delle Operette morali? Approfondimento 8. Qual è la tesi filosofica che emerge dall’operetta? Contestualizzala nell’ambito del sistema di pensiero leopardiano.

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 Testo 26

Dialogo di Tristano e di un amico Giacomo Leopardi in Operette morali

tratto da G. Leopardi Operette morali a cura di L. Melosi BUR, Milano 2008 5 1. Ma… o no?: Sebbene in precedenza Tristano affermi che ha sicuramente cambiato opinione rispetto al suo libro, le sue spiegazioni continuano a lasciare in dubbio l’Amico, che gli domanda infine quali sono le sue reali convinzioni. 2. in confidenza… contrario: da qui cade definitivamente la finzione della palinodia. Tristano esprime tutta la distanza che lo separa dai suoi contemporanei. 3. non può fallare: non può errare, quindi non può essere messo in discussione. 4. vengo seco a patti: vengo a patti con lui. 5. minacciati: destinati (in senso negativo).

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Il dialogo, composto nel 1832 e inserito nell’edizione del 1834, è successivo alla rottura con il circolo del Vieusseux ed è scelto da Leopardi come chiusura di tutte le Operette morali, perché ritenuto quello che più rappresentava lo sguardo finale su tutta l’opera, e sull’opera proprio nella sua unitarietà, sin dall’inizio rivendicata. Il comico o il gioco sarcastico sono qui scomparsi e al loro posto è l’ironia amara della palinodia, la finta ritrattazione di tutte le proprie idee del passato. L’intento è quello di rispondere ancora una volta, definitivamente, all’esigenza di verità. Leopardi, infatti, mette nelle parole di Tristano la riassunzione di molti degli snodi del suo pensiero negativo, senza che mai i suoi personaggi diventino una maschera o degli alter ego dell’autore stesso: infelicità degli uomini, falsi miti della modernità, soprattutto lo spiritualismo, la fiducia nelle scienze, la cultura di massa, l’individualismo. Il disincantato finale “testamentario” è affidato a Tristano, che finge di ritrattare e abiurare rispetto a quel libro del 1827 «malinconico, sconsolato, disperato», che ora invita a bruciare, nel quale, senza nessun compiacimento e nessuna enfasi, è segnato con raggelante distacco e altrettanta apparente leggerezza, il commiato dalla vita e la scelta della morte, unica prospettiva che si apre, ancora una volta, da attendere con il distacco dei saggi («Troppo sono maturo alla morte»). Il finale è un soliloquio e il tono tragico ha cancellato qualsiasi traccia anche di ironia. Al nome ad alta densità letteraria – Tristano, amante di Isotta, è personaggio del ciclo arturiano nel cui etimo sembra iscritta la malinconia, la tristezza – corrisponde un non meglio identificato “Amico”, portavoce del punto di vista comune.

[…] Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no?1 e che s’ha egli a fare di questo libro ? Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici , ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario2. Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare3. Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti4, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati5 dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono , per così

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6. confidenza: fiducia. 7. fortuna: successo (latinismo). 8. risolvermi: decidermi.

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dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza6 ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età , e il pensier d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano . Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna7 e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia , dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi8. In digitale  Sguardi d’autore: Tozzi, Il Leopardi moralista



In digitale  Sguardi d’autore: Manganelli, Operette morali

Guida all’analisi

Costruisci la tua analisi del testo seguendo punto per punto le indicazioni di lavoro che ti vengono suggerite. Il «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici» a cui fa riferimento Tristano costituisce un riferimento all’opera leopardiana: viene infatti definito «un’espressione dell’infelicità dell’autore» in quanto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ; il riferimento ai giornali rappresenta l’avversità di Leopardi verso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , di cui ci sono palesi segni anche in altre opere dell’autore, quali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ................................................................................ Infatti la mancata sottomissione all’infelicità e la precisa espressione «né piego il capo al destino» fanno riferimento ai versi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’ultima strofa del La . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . , dove il fiore resiste col capo eretto, pur consapevole del proprio destino di morte, fino all’istante in cui soccomberà alla «crudel possanza» della natura. La morte è anche ciò che desidera Tristano, sicuro che non

tarderà a venire poiché . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Infatti l’espressione è «conchiusa in me da ogni parte la favola della vita» significa . . .................................................................................................. L’ipotesi di un avvenire rappresenta per Tristano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ................................................................................ Il disincanto investe tutto, le cose che ha amato quali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e le cose di cui ha riso . . . . . . . . . . . . . . ................................................................... Rispetto ai suoi contemporanei e al secolo in cui vive Tristano si pone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e dice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sul finale l’autore marca una differenza tra le proprie posizioni del passato, quando invidiava . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e quelle del presente in cui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ormai la morte è diventata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . non intercambiabile con nulla, nemmeno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..................................................................................

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capitolo

Analisi

9 dell’opera

1.6 Paralipomeni della Batracomiomachia



Storia del testo, struttura

Paralipomeni della Batracomiomachia, 1842.

Ottave *L’ottava è un metro che consiste in una strofa di otto versi endecasillabi secondo lo schema di rime alternate nei primi sei versi e a rima baciata nel distico finale (ABABABCC).

Nella Palinodia al marchese Gino Capponi, composta tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835 e già inserita nell’edizione napoletana dei Canti, Leopardi, fingendo di ritrattare le proprie tesi filosofiche, muove con accenti ironici contro gli ottusi sostenitori del progresso, gli «amici di Toscana», quelli del circolo del Vieusseux tra cui proprio Capponi, storico e pedagogista di indirizzo liberal-moderato. Per questo il componimento è considerato di tono affine al «libro terribile» dei Paralipomeni, in cui Leopardi mette in caricatura il mondo tirannico della Restaurazione e quello stesso circolo liberal-moderato. I Paralipomeni della Batracomiomachia sono un poemetto satirico di otto canti in ottave* che l’autore presenta come una specie di continuazione, di appendice – il termine greco “paralipomeni” significa “cose omesse o tralasciate” – del poema pseudoomerico Batracomiomachia, tradotto più volte da Leopardi stesso tra il 1815 e il 1826, con il titolo di “Guerra dei topi e delle rane”. Iniziata la stesura tra il 1831, alla fine del soggiorno fiorentino, l’opera viene interrotta e ripresa solo durante il periodo napoletano, quando è Ranieri a scrivere le ultime due o quattro strofe sotto dettatura di un Leopardi oramai molto malato che componeva a mente. Infatti, ci restano tra le carte napoletane due copie manoscritte di cui una interamente di mano di Ranieri, che poi ne curò anche l’edizione uscita postuma a Parigi, nel 1842, presso la Libreria Europea di Baudry. La struttura dell’opera è articolata in otto canti che partono dal momento in cui i topi sono stati sconfitti grazie all’aiuto offerto dai granchi alle rane. La “trama” narrativa è così schematizzabile: 1 Canto I: è descritto l’intervento dei granchi che sbaraglia la resistenza dei topi, i quali si vedono costretti a inviare un ambasciatore (il conte Leccafondi) per negoziare la pace; 2 Canto II: le condizioni di pace alle quali i topi devono sottostare sono molto dure, compresa la presenza nella capitale sotterranea dei vinti, Topaia, di un presidio di trentamila granchi;

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3 Canto III: si assiste al tentativo, da parte dei topi, di darsi una forma di governo, eleggendo re Rodipane, in una sorta di monarchia costituzionale; 4 Canto IV: incentrato prevalentemente sulla sarcastica descrizione di questa nuova realtà politica costituzionale, il regno di Topaia; 5 Canto V: contiene un nuovo scontro tra topi e granchi, perché i primi vogliono conservare la loro monarchia contro le pretese assolutistiche dei secondi. Vinceranno i granchi comandati da re Senzacapo (sotto le cui fattezze animalesche si cela la figura di Francesco I d’Asburgo) che prendono il governo di Topaia; è raccontato un eroico episodio di resistenza da parte del topo Rubatocchi; 6 Canto VI: i granchi dimostrano di governare Topaia con crudeltà e soprusi, reprimendo con violenza ogni sommossa, intanto Leccafondi sceglie di andare in esilio; 7 Canto VII: Leccafondi in esilio raggiunge Dedalo, un saggio umano che gli riserva un viaggio conoscitivo e fantastico attraverso il tempo e nel regno dell’aldilà; 8 Canto VIII: Leccafondi si reca, infine, nell’oltretomba dei topi; qui interroga i suoi simili defunti sul destino del suo popolo. Tra gli sberleffi dei morti, gli viene l’unico suggerimento di trovare il generale Assaggiatore e seguire le sue direttive, ma Leccafondi, tornato in patria, si scontra con il netto rifiuto da parte del generale a rilasciare consigli. Quando finalmente si convince a rilasciare dichiarazioni, il manoscritto su cui il poeta finge di aver condotto la sua storia si interrompe. Fonti e modelli

Eroicomico *Parodia dell’epica che viene ripresa e ribaltata in registro comico.

Temi

Le fonti e i modelli dei Paralipomeni, a parte quelli del manoscritto greco della finzione, vanno rintracciati soprattutto negli Animali parlanti del poeta satirico e novelliere Giambattista Casti, opera pubblicata nel 1802, e, secondo alcuni studiosi, anche nel Byron satirico del Don Juan (1819-1824) e di Beppo (1818). Ma i Paralipomeni appartengono sia alla tradizione della favola satirica tipicamente settecentesca, quella di Casti appunto, che sotto la veste di animali ridicolizza e denuncia comportamenti umani, sia alla tradizione del genere eroicomico*. I Paralipomeni, dunque, riprendendo i temi e le vicende narrate nei poemetti greci come la guerra tra i topi e le rane, rappresentano una precisa allegoria politica: la guerra tra i liberali (i topi) e gli austriaci reazionari e invasori (i granchi) che sono andati in soccorso delle rane, che qui alludono ai conservatori (in particolare le truppe pontificie) dei moti risorgimentali falliti (nel 1820-1821 e nel 1831), gli ambienti liberali fiorentini ma anche quelli che conosce altrettanto bene dello spiritualismo cattolico napoletano. Quando Gioberti scrive: «il Leopardi verso la fine della sua vita scrisse un libro terribile, nel quale deride i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è giustissima» mostra di capire la portata ideologica alta di una posizione davvero anticonformista e che non ha paura di attaccare sia la mostruosa violenza, sul piano morale prima di tutto, del governo austriaco, sia il puerile velleitarismo della classe dirigente liberale, quella che dovrebbe guidare lo spirito nazionale ma è del tutto inadeguata e rivela i suoi limiti. Al tempo stesso i Paralipomeni vanno oltre i fatti contingenti contemporanei perché, come in tutto l’ultimo Leopardi, la polemica allegorica non è limitata alla politica, alla letteratura, ma si fa filosofica, investe tutto un sistema che dal poeta è smascherato nella sua indifferenza: l’umanità, infatti, rimane assoggettata a una natura cieca e ostile, verso la quale la civiltà contrappone l’unica arma della ragione, della conoscenza, dell’ingenua fiducia nel progresso scientifico, che tuttavia uccide non solo i falsi miti e le false credenze, ma anche le ultime illusioni.

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 Testo 27

Il filotopo Giacomo Leopardi

Presentiamo qui un brano dal Canto I dei Paralipomeni, incentrato sulla figura del conte Leccafondi, uno dei protagonisti della vicenda narrata dal poemetto. Qui viene tratteggiata la sua figura come quella emblematica dell’intellettuale progressista della società pre-risorgimentale.

in Paralipomeni della Batracomiomachia tratto da G. Leopardi Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone a cura di L. Felici, E. Trevi Newton Compton, Roma 2013

34 Era nel campo il conte Leccafondi, signor di Pesafumo e Stacciavento; topo raro a’ suoi dì, che di profondi pensieri e di dottrina era un portento: leggi e stati sapea d’entrambi i mondi, e giornali leggea più di dugento; al cui studio in sua patria aveva eretto, siccom’oggi diciamo, un gabinetto1. 35 Gabinetto di pubblica lettura, con legge tal, che da giornali in fuore, libro non s’accogliesse in quelle mura, che di due fogli al più fosse maggiore; perché credea che sopra tal misura stender2 non si potesse uno scrittore appropriato ai bisogni universali politici, economici e morali.

1. gabinetto: biblioteca, sala di lettura, probabile allusione al Gabinetto Vieusseux di Firenze. 2. stender: dilungare. 3. camminar potesse: potesse estendersi. 4. alla tedesca poesia diè loco: diede spazio alla poesia tedesca (da intendersi “romantica”). 5. e parve… in vita: e parve al conte che solo la poesia “tedesca” potesse vantarsi di far rivivere il buon gusto. 6. con gran mercede: con grande ricompensa.

36 Pur dagli amici in parte, e dalle stesse proprie avvertenze a poco a poco indotto, anche al romanzo storico concesse albergar coi giornali, e che per otto volumi o dieci camminar potesse3; e in fin, come dimostro è da quel dotto scrittor che sopra in testimonio invoco, alla tedesca poesia diè loco4. 37 La qual d’antichità supera alquanto le semitiche varie e la sanscrita, e parve al conte aver per proprio vanto sola il buon gusto ricondurre in vita5, contro il fallace oraziano canto, a studio, per uscir dalla via trita, dando tonni al poder, montoni al mare; gran fatica, e di menti al mondo rare.

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Gianni Verna, Batracomiomachia, 2012.

38 D’arti tedesche ancor fu innamorato, e chiamavale a sé con gran mercede6: perché, giusta7 l’autor sopra citato, non eran gli obelischi ancora in piede, né piramide il capo avea levato, quando l’arti in Germania avean lor sede, ove il senso del bello esser più fino veggiam, che fu nel Greco o nel Latino.

41 Fu di sua specie il conte assai pensoso, filosofo morale, e filotopo14; e natura lodò che il suo famoso poter mostri quaggiù formando il topo; di cui l’opre, l’ingegno e il glorioso stato ammirava; e predicea che dopo non molto lunga età, saria matura l’alta sorte che a lui dava natura.

39 La biblioteca ch’ebbe, era guernita8 di libri di bellissima sembianza, legati a foggia9 varia, e sì squisita, con oro, nastri ed ogni circostanza, ch’a saldar della veste la partita quattro corpi non erano abbastanza10. Ed era ben ragion, che in quella parte stava l’utilità, non nelle carte11.

42 Però15 mai sempre a cor fugli il perenne progresso del topesco intendimento, che aspettar sopra tutto dalle penne ratte16 de’ giornalisti era contento; e profittare a quel sempre sostenne17 ipotesi, sistemi e sentimento; e spegnere o turbar la conoscenza analisi, ragione e sperienza.

40 Lascio12 il museo, l’archivio, e delle fiere il serbatoio13, e l’orto delle piante, e il portico, nel quale era a vedere, con baffi enormi e coda di gigante, la statua colossal di Lucerniere, antico topolin filosofante, e dello stesso una pittura a fresco, pur di scalpello e di pennel tedesco. 7. 8. 9. 10.

giusta: secondo. guernita: fornita. foggia: forma esteriore. ch’a saldar… abbastanza: che il prezzo di quattro volumi non bastavano a ripagare il costo di una

rilegatura. 11. in quella parte… carte: in quella funzione (di mero ornamento) stava l’utilità dei libri e non nei contenuti scritti nelle pagine.

43 Buon topo d’altra parte, e da qualunque filosofale ipocrisia lontano, e schietto in somma e veritier, quantunque ne’ maneggi nutrito18, e cortigiano; popolar19 per affetto, e da chiunque trattabil sempre, e, se dir lice20, umano; poco d’oro, e d’onor molto curante, e generoso, e della patria amante.

12. Lascio: tralascio di dire. 13. delle fiere il serbatoio: il serraglio, le specie animali presenti. 14. filotopo: espressione sarcastica sul calco di “filantropo”, cioè topo che

persegue il bene dei topi. 15. Però: perciò. 16. ratte: veloci, quindi superficiali e senza cura. 17. e profittare… sostenne: e sostenne sempre che servissero a quello scopo.

18. ne’ maneggi nutrito: allevato fra i compromessi politici. 19. popolar: sensibile alle esigenze del popolo. 20. se dir lice: se è lecito dirlo.

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Analisi del testo

Temi, lingua e stile

Nel conte Leccafondi, dietro il quale secondo alcune ipotesi potrebbe celarsi Gino Capponi o Pietro Colletta ma probabilmente nessun personaggio specifico, Leopardi vuole delineare la figura dell’intellettuale colto, politicamente impegnato, moderato e progressista, rappresentante di quella classe che, in periodo prerisorgimentale, sta prestando la propria immagine alla causa nazionale. I titoli che gli vengono attribuiti sono subito espliciti: «Signor di Pesafumo e Stacciavento» che suggeriscono azioni (“pesare” il fumo e “setacciare” il vento) grottesche, inutili e velleitarie. Viene al tempo stesso messa in ridicolo la facciata intellettuale di quella certa classe, con la moda dei «gabinetti» culturali, dove trovano ricovero libri d’ogni tipo, persino romanzi di gusto romantico. Nelle ottave 37 e 38 Leopardi ironizza circa la superiorità presunta della moda “tedesca” (nel senso di “moderna”) su quella greco-latina. Poi il

sarcasmo si sposta sull’aspetto esteriore dei volumi della libreria, che risultano quindi più importanti per la «foggia» che per i contenuti, finendo col diventare più utili in quanto abbellimento dell’ambiente di lettura che per quanto scritto nelle loro pagine. La descrizione del conte filotopo si articola, infine, nelle ultime tre ottave del brano, accompagnata dalla critica esplicita nei confronti dell’ottimismo borghese, del progressismo liberale e della visione idealistica. Ma vi si legge anche una precisa polemica (nell’ottava 43) verso questa categoria di politicanti affaristi che, cresciuti tra i maneggi politici, denotano l’ipocrisia dei cortigiani e un opportunismo che, non a caso, viene definito «umano». Il registro sarcastico mette in campo il contrasto continuo tra lemmi colti, aulici e latinismi e il mondo a cui sono assegnati, che è quello dei topi. Frequente il gioco di parole o la costruzione parodica di parole inventate o comici neologismi.

Gianni Verna, Batracomiomachia, 2012.



Esercizi

Comprensione 1. Chi è il protagonista del brano e quale ironia si cela dietro il suo nome? 2. Che significato hanno i titoli che gli sono attribuiti? 3. Di quali letture si dilettava? Laboratorio 4. Come viene descritta la biblioteca del Filotopo? 5. Qual è l’oggetto della critica politica che emerge dalle ultime strofe del componimento?

6. Il brano ha un taglio fortemente ironico: individua, motivando la tua scelta, i termini e le espressioni che ti sembrano più efficaci. 7. Delinea il ritratto del Filotopo. Approfondimento 8. Contestualizza il passo nell’ambito dell’ultima produzione leopardiana, facendo riferimento anche a La ginestra e al «secol superbo e sciocco» che in essa è oggetto di sarcastica critica.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.6 Paralipomeni della Batracomiomachia | Sguardi d’autore | 183

Sguardi d’autore



 Vincenzo Gioberti Due lettere a Leopardi tratto da G. Leopardi Epistolario, vol. II a cura di F. Brioschi e P. Landi Bollati Boringhieri, Torino 1998

Ratti, Vincenzo Gioberti, litografia da “Il Mondo Illustrato”, 27 dicembre 1847.

Gioberti su Leopardi Vincenzo Gioberti (1801-1852) tra gli illustri corrispondenti di Leopardi, è stata una personalità di assoluto spicco nella vita politica e culturale del tempo. Gioberti sacerdote, ministro e presidente del Consiglio del Regno di Sardegna non poté vedere l’unificazione dell’Italia poiché morì nel 1852, a Parigi, ma vi lavorò con i suoi scritti che restano una delle testimonianze più lucide e propositive di quel momento cruciale del nostro paese, in particolare il Primato morale e civile degli Italiani. La filosofia di Gioberti ha profonde radici nel pensiero metafisico, trascendente e cristiano ma questa sua posizione non gli impedisce un sincero apprezzamento degli scritti leopardiani. I brani che riportiamo, tratti da due lettere indirizzate a Leopardi stanno a testimoniarlo. Il primo brano, estratto dalla missiva datata 4 ottobre 1831 è un attestato di grande stima per i suoi versi, alludendo all’edizione dei Canti del 1831, giudicati perfetti, superiori a quelli di Tasso e degni del miglior Petrarca e mostra una attenta lettura del concetto di gloria che viene dall’operetta dedicata a Parini. La seconda epistola viene scritta l’anno successivo, e notiamo subito il tono più intimo (dal “voi” si è passati al “tu”) di incoraggiamento e auspicio per un «nuovo risorgimento» non solo «poetico». Da filosofo sottolinea la forza del pensiero leopardiano e si augura che la sua divulgazione lo «notifichi al mondo» in qualità di filosofo, e si conclude con una stoccata sarcastica nei confronti dello stile e della lingua di Manzoni.

Di Torino, ai 4 di ottobre 1831. Mio caro Leopardi. [...] Ho sempre pensato a voi; e posso dire con verità, che non è passato giorno, in cui non mi sia venuta davanti l’imagine vostra congiunta à miei studi, e alle più care affezioni del mio cuore. E come potrebb’essere altrimenti, avendovi praticato qualche tempo, e avendo continuamente i vostri scritti per le mani? Questo pensiero e questo pascolo mi sarebbero cagione di un puro diletto: se la loro dolcezza non fosse amareggiata dall’idea della vostra sventura, e dal parteciparvi che fo così vivamente, che il mio affetto, ma non le mie parole, ve lo potrebbero esprimere. La lettera premessa alle vostre poesie stampate ultimamente, mi ha stracciata l’anima. Che vi dirò, mio caro Leopardi? Tenterò io di darvi qualche consolazione? No; nè io sarei atto a farlo, nè voi ne avete bisogno. Il vostro animo, il vostro ingegno, l’altezza della vostra filosofia, e la stessa grandezza del vostro infortunio, possono e debbono esservi di qualche conforto. Le mediocri calamità spesso abbattono l’animo; ma una infelicità vera, grande, irremediabile negli animi grandi come il vostro, dee apportar loro un non so che di rigido, e d’indomabile, che mitiga l’amarezza del loro stato. Ricordatevi della sentenza, che chiude il vostro Parini; la quale io porto fissa nella mente, e scolpita nel cuore, e me ne valgo nei mali della vita, benchè conosca non potermisi applicare per ogni verso, come potete far voi; ma ho conosciuto per prova, che giova talvolta nella miseria l’innalzarsi al cospetto di sè medesimo, anche più di quello che il vero e il diritto comportano. Ma questo a voi non può occorrere; e consolandovi colla grandezza delle vostre facoltà, troverete che questa ancorchè non possiate più nè studiare, nè scrivere, non è perduta per voi medesimo. Dico tutto questo ragionando se-

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condo la vostra persuasione, per cui siete disperato di guarire, e anche di migliorare; la quale vorrei che vi toglieste dell’animo; essendo voi in sul fior degli anni, e trattandosi di mal di nervi, non mai per sua natura insanabile. Ma se vi pare, che io speri senza fondamento, e senza ragione, compatitemi. Sebbene vi sia tolta per l’avvenire ogni facoltà di studiare, e di comporre, voi avete fondata abbastanza la vostra gloria poichè dalla qualità de’ libri, e non dalla mole dipende l’immortalità degli scrittori: e voi, a quella età in cui gli altri cominciano a studiare spontaneamente, e ad esercitarsi nello scrivere, siete giunto alla perfezione, e avete dato tal saggio di prose e di poesie, che toglie anche ai migliori ingegni la speranza di potere imitarvi. Questa mia opinione mi si è confermata, leggendo l’ultima edizione dei vostri canti. Essa è cercata qui, e letta con furore dai giovani, e da tutti quelli, che sono atti a pensare, e a sentire; e tutti, dopo la lettura convengono meco, dicendo, che questi sono i più bei versi lirici, che si siano scritti in Italia dopo quelli del Petrarca; ai quali sono da pareggiarsi per l’eccellenza dello stile, e della poesia, e da anteporsi per la pellegrina, e profonda verità, per la forza, e per la importanza dei sentimenti. Quanto a me io vi debbo dire, che non la cedo a niuno nell’ammirare quelle canzoni che avete fatto sull’andare di quelle del Petrarca; ma che tuttavia mi rapiscono anche di più le altre poesie nuovamente aggiunte; nelle quali, io mi sono stupito come possa congiungersi una sì elegante leggiadria, una sì cara grazia a tanta semplicità, sotto la quale si nasconde un artifizio maraviglioso. Voi vi siete, a parer mio, lasciato addietro il Tasso nell’Aminta, e quanti altri hanno tentato di trasportare nella poesia italiana la nativa ingenuità e candidezza della poesia greca. Di Torino, ai 30 del 1832. Mio carissimo Leopardi. Mi hai data la vita coll’ultima tua, dalla quale intendo, che la tua salute è migliorata molto, quanto al corpo che se bene, quanto all’animo, non hai ancora fatto molto profitto io mi confido che mediante la continuazione dell’ozio, e il benefizio del tempo, giungerai a ricuperare, se non in tutto, almeno in buona parte, il tuo vigore antico. E ciò dico, non per lusingarti di una vana speranza, ma perchè mi par certo, non che probabile, che cessate, o grandemente scemate le tue indisposizioni, da cui procedeva l’impossibilità di meditare, e di studiare, l’ingegno ti si debba risvegliare e aver luogo in te un nuovo risorgimento, non già poetico, ma vero, ed effettivo. Sì, mio caro Leopardi, io ho una ferma fiducia, che tu vivrai ancora lungamente, non solo agli amici, ma alle lettere, e alle dottrine, e potrai colorire alcuni de’ tuoi disegni, e specialmente quello di pubblicare un ristretto, e come una mostra delle tue opinioni filosofiche sugli uomini, e sulla natura, compartita in brevi componimenti, a uso delle operette morali già divulgate. Io mi ricordo che me ne parlasti in Recanati, e voglio sperare, che tu conservi ancora quella parte de’ tuoi manoscritti, che spettano alla filosofia, e abbi in animo di attendere tu stesso a renderli di pubblica ragione. [...] bramerei sapere, se almeno si può sperare che il Sinner sia per cavare da quelle tue scritture, e dar fuori colle stampe la compilazione di una qualche opera, che ti notifichi al mondo come filosofo, secondo che sei già noto e celebre come poeta. Ma a proposito delle tue poesie, sappi che, la fama e il gusto di esse va sempre più crescendo in queste parti con doppio utile degli studiosi, che vi apprendono a sentire nobilmente, e a ritrarsi, in ciò che spetta allo stile e alla lingua; dalle licenze e innovazioni manzoniane.

| 1. Giacomo Leopardi | 1.6 Paralipomeni della Batracomiomachia | Sguardi d’autore | 185

Sguardi d’autore

  Yves Bonnefoy Leopardi e le parole che vincono la notte tratto da “Il Messaggero” 15 febbraio 2010

Yves Bonnefoy.

Bonnefoy sulla modernità di Leopardi Yves Bonnefoy (n. 1923) è uno dei maggiori esponenti della poesia del secondo Novecento e una figura intellettuale di grande rilievo anche come saggista e traduttore. La sua presenza al Salone del Libro di Torino, nel 2010, è stata l’occasione per una Lectio magistralis dal titolo “Giacomo Leopardi e la memoria delle parole”. In un’intervista rilasciata in quell’occasione alla testata giornalistica “Il Messaggero”, Bonnefoy ci parla del suo rapporto con la poesia italiana e mette in luce la ricchezza di spunti offerta dai versi leopardiani, insieme alla loro assoluta modernità.

Il mio italiano è iniziato imparando a memoria il primo canto di Dante. Sento Petrarca e Leopardi come i miei “maestri”, se così posso dire. Quanto alla poesia italiana contemporanea, amo la sua capacità di affondare le proprie radici nel terreno dell’inconscio, ad esempio attraverso l’ascolto della memoria profonda. Prenda il caso di Leopardi, il vero fondatore della modernità, prima di Rimbaud e di Mallarmé. Ha compreso che non occorre attribuire alla nostra presenza sulla terra un valore radicale. Noi che non siamo niente, dal punto di vista della materia, dobbiamo decidere chi siamo nel rapporto con gli altri esseri. Questo cruccio dell’essere è sempre molto vivo nella poesia italiana contemporanea che leggo volentieri. Leopardi ha compreso “l’infinita vanità del tutto”, ha capito che sotto la volta delle nostre credenze esiste soltanto un non-essere radicalmente estraneo alle nostre aspirazioni, alle nostre iniziative, un fuori che a ogni istante può erigersi davanti a noi come l’alta montagna bruna contro la quale si schianta Ulisse nell’ultimo viaggio che Dante ha immaginato per lui. È un pensiero salutare: un pensiero che fa crescere, in effetti. Non inseguiremo più chimere, non ci lasceremo più intrappolare in vani sogni di possesso. Ma si tratta anche di un pensiero che, mal vissuto, non decifrato abbastanza a fondo, può spingere al nichilismo, farsi devastante. La grande intuizione di Leopardi, ciò che fa di lui non soltanto un poeta immenso ma anche il modello di quel che deve essere un poeta moderno, l’esempio da meditare per arrivare a un sé migliore, è che lungi dal trarre dal nulla la conclusione che bisogna rinunciare a vivere, sperare, amare, egli ha compreso che l’essere parlante – l’essere gettato con la parola negli “interminati spazi” metamorfosizzati nelle steppe dell’Asia centrale – può, proprio per il fatto che ha scoperto il nulla, arrivare alfine a quel che si può dire dell’essere, e trovare un senso alla vita. Che cosa possiamo fare, in effetti, in presenza del nulla, se non rivolgerci, questa volta senza esitare, ai nostri simili per costruire con loro un luogo il cui progetto occuperà la nostra vita? Accade allora che, per il poco che ci sia possibile ascoltarne il suono e la capacità musicale, le grandi parole semplici delle nostre lingue ci conducono, molto al di là dei loro contenuti concettuali, verso la piena immediatezza delle cose che designano: cose mortali, come noi, ma per questo stesso fatto presenze amiche, realtà sufficienti, qualcosa che possiamo chiamare una terra. Il pensiero può dirci che “nulla esiste”, ma le parole, assemblandosi, facendosi paesaggio e accoglienza, ci permettono di essere. Nessuno meglio di Leopardi ha saputo vincere la notte – la notte in lui – con l’ascolto delle parole. Non accedendo, per la sua vita infelice, a buona parte del “nuovo cielo” e della “nuova terra”, ma facendoci ascoltare, in poesie indimenticabili, la musica che ci porta a quelli.

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Mappa dei contenuti GIACOMO LEOPARDI 1798-1837 POESIA

STRUTTURA E TEMI

Dopo gli studi eruditi della giovinezza, Leopardi procede lungo un itinerario poetico che parte almeno dal 1817 e prosegue fino alla primavera del 1836. La storia della costituzione e pubblicazione dei Canti, vero e proprio libro della sua vita, si articola in cinque fasi: 1. Canzoni (Bologna 1824): sono le dieci liriche scritte nel periodo 1818-1822 accomunate dalla stessa forma metrica della canzone. Di argomento civile e patriottico, hanno per tema centrale la grandezza delle antiche civiltà a confronto con il decadimento morale e intellettuale dell’Italia contemporanea. Fra queste: Ad Angelo Mai e Ultimo canto di Saffo. 2. Versi (Bologna 1826): raccoglie liriche di genere poetico diverso dalle già pubblicate canzoni: specialmente un gruppo di cinque idilli, fra cui L’infinito, La sera del dì di festa e Alla luna, che esprimono i piaceri attivati nella mente dalla facoltà dell’immaginazione, la poeticità di quanto è vago e indefinito, la rimembranza e le consolazioni della solitudine. 3. Canti (Firenze 1831): esce con il titolo definitivo il libro che aggiunge, alle canzoni e agli idilli, i cosiddetti canti “pisano-recanatesi” (composti tra Pisa e Recanati negli anni 1828-1830) – tra cui A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio – incentrati su temi quali la memoria, il dissolversi delle illusioni e delle speranze della giovinezza, la piccolezza della vita umana al cospetto della natura. 4. Canti (Napoli 1835): oltre a tutti i testi già pubblicati nel 1831, Leopardi include dieci liriche, tra cui la canzone della solitudine, Il passero solitario, e un gruppo di cinque poesie ispirate dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti, conosciuta a Firenze nel 1830, note come i “canti dell’amore fiorentino”, una riflessione sulla natura dell’amore che dalla scoperta dell’innamoramento (Il pensiero dominante) giunge al disinganno, al distacco e al ripensamento quasi sarcastico (Aspasia). 5. Canti, nelle Opere di Giacomo Leopardi (Firenze 1845): l’edizione definitiva e postuma è curata dall’amico Antonio Ranieri, secondo le ultime volontà espressegli da Leopardi, che con le residue forze era riuscito a comporre, nella primavera del 1836 a Torre del Greco, Il tramonto della luna e la lirica posta a congedo, La ginestra o il fiore del deserto, considerata il suo testamento poetico e ideologico perché in essa confluiscono tutte le tematiche della sua «filosofia dolorosa, ma vera» riguardo alla condizione umana: il suo rapporto con una natura indifferente e distruttrice, lo smascheramento dei falsi miti del progresso, la piccolezza dell’uomo nell’universo, l’accettazione dell’ineluttabile esistenza che si apre, infine, alla speranza di un patto laico, civile e solidale fra gli uomini.

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LINGUA E STILE

Nelle canzoni Leopardi recupera la forma metrica classica della canzone a schema fisso di strofe e di rime, inconsueta a inizio Ottocento, ma non solo in senso tecnico: caratteristici delle canzoni leopardiane sono il linguaggio aulico e classicheggiante, ricco di arcaismi e di metafore e metonimie “ardite” (che nel lessico e nella sintassi ricercano accostamenti inusitati e rari, per creare immagini di forte potenzialità poetica), la frequenza di enjambements, iperbati, anastrofi, interrogative, antitesi. Diversamente dalle scelte adottate nelle canzoni, negli idilli Leopardi utilizza l’endecasillabo sciolto e abbandona lo stile ardito in direzione di una lingua piana, più musicale, che però mantiene un tono alto grazie soprattutto all’accostamento di termini aulici a parole comuni, di arcaismi a lemmi e immagini in grado di evocare indeterminatezza, vastità o ancor più infinità. Ricorrente è la presenza di parole chiave, enjambements, effetti fonici, figure retoriche di contrasto. Nei canti “pisano-recanatesi” Leopardi sperimenta una forma di canzone libera dallo schema metrico innovativo, svincolato da un numero fisso di strofe, versi e rime, che gli consente di ottenere un andamento più fluido e musicale in liriche ricche di assonanze, rime interne, legami e riprese a distanza, esclamative e interrogative. A partire dai “canti dell’amore fiorentino” il lessico e la sintassi si fanno più aspri e spogli, con accostamenti dissonanti.

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Mettiti alla prova con 10 esercizi interattivi

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Idillio sul sentimento dell’infinito. L’io lirico rievoca una conquista di infinito spaziale, temporale, acustico, visivo, attraverso l’immaginazione. La vista, impedita da un dettaglio di natura (la siepe), induce la mente a completare la visione attraverso l’immaginazione, che s’indirizza verso ciò che è vago e indefinito, per abbandonarsi, infine, a una sensazione di infinito, indeterminata nella sua durata come un «dolce» naufragio.

La dolcezza del momento serale che segue a un giorno di festa stimola domande cruciali sull’amore e sulla transitorietà della vita umana in ogni epoca, anche quelle più gloriose degli antichi e degli antenati. Dopo un dialogo tra l’io lirico e la Natura che gli ha tolto ogni speranza, si arriva per catene associative al motivo della vanitas delle cose terrene distrutte dallo scorrere implacabile del tempo.

Leopardi rivolge un’apostrofe alla luna che rischiara un paesaggio indefinito e rievoca nel suo animo un paesaggio simile del passato. S’innesca il meccanismo della rimembranza, consolante e dolce nell’atto in sé, poiché prescinde dalla natura stessa del ricordo e si configura come un antidoto contro la consunzione del tempo.

La canzone parte dalla dedica all’erudito della Biblioteca Vaticana che aveva rinvenuto i libri del De Republica di Cicerone per avviare una riflessione sul confronto tra antichi e moderni e sulla condizione di decadenza della nazione. Di fronte agli esempi degli italiani illustri del passato (apostrofi a Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri e Colombo), il presente si rivela come «secol morto», che a causa del progresso delle conoscenze e quindi della ragione che impoverisce la fantasia, ha perso la purezza e dell’immaginazione e la consolazione delle illusioni.

In questa canzone Leopardi recupera il mito ovidiano di Saffo e affida al monologo-canto della poetessa greca una riflessione sul destino del genere umano e della poesia. Esclusa dalla bellezza e dall’amore a causa di una natura che svela il suo volto ostile, Saffo si getta dalla rupe di Leucade. Il suo suicidio diventa così forma di protesta e gesto catartico legati al rapporto con la Natura.

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Mappa dei contenuti GIACOMO LEOPARDI 1798-1837 POESIA

LE RICORDANZE

STRUTTURA E TEMI

LINGUA E STILE

Nella seconda lirica dei canti pisano-recanatesi Leopardi proietta sulla figura di Silvia (sotto cui si riconosce Teresa Fattorini, figlia di un dipendente di casa Leopardi) e sulla sua morte prematura il tòpos della caduta delle illusioni e delle speranze della giovinezza. L’immagine femminile di Silvia si sovrappone sempre più alla personificazione della Speranza per esprimere in modo amplificato il divario incolmabile tra il tempo della gioventù, colmo di attese, e quello presente del doloroso disinganno.

Il tema leopardiano del ricordo trova in questo componimento la sua più compiuta celebrazione: alla spensierata felicità di alcuni momenti vissuti nell’infanzia, rievocata nei primi idilli, si è sostituita una consapevolezza di illusorietà e di labilità del ricordo, che lascia al poeta la sensazione di una vita “dolorosa e nuda”.

Dal quadretto paesaggistico di un borgo ripreso dopo la fine di un temporale, quando si torna alla vita di tutta la natura, scaturisce una meditazione sulla dialettica tra piacere e dolore: come la quiete dopo la tempesta, così ogni gioia nasce dalla sofferenza ed esiste solo come momentanea sospensione del male: per questo il piacere è sempre «figlio d’affanno».

Come ne La quiete dopo la tempesta, l’io poetico tende a scomparire a favore di un paesaggio, di una scena di vita quotidiana del borgo, da cui rimane esterno, come voce fuori. Qui il piacere è visto come attesa del piacere stesso, ossia come «speranza», propria però solo della fanciullezza.

Questa lirica inaugura i “canti dell’amore fiorentino”, ispirati dalla figura di Fanny Targioni Tozzetti, offrendo l’elogio dell’amore contro la miseria della vita umana. La concezione amorosa è intellettuale: il pensiero stesso è l’amore, l’amore è pensiero e l’astratto procedere della mente è tanto più produttivo quanto più la donna sia solo vagheggiata.

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PROSA

In un paesaggio desertico e sconfinato, un pastore si rivolge alla luna e diviene simbolo dell’umanità sola e sofferente, per cui la vita è dolore. La condizione primitiva è così accomunata a quella moderna: non c’è felicità né scampo per gli esseri viventi dinanzi a una natura ostile e indifferente.

Testamento poetico e ideologico di Leopardi: a una natura matrigna, intrinsecamente distruttrice, si oppone la vita simboleggiata dalla ginestra, il fiore che resiste nelle condizioni più difficili, come sulle pendici del Vesuvio. Da questa immagine prende avvio una polemica sui falsi miti del progresso e dello spiritualismo ottocenteschi, cui Leopardi contrappone la scelta intellettuale ed etica di ricerca e smascheramento del vero, della verità sulla nostra sorte infelice. Non soccorrono gli inganni della religione e l’uomo dovrà affrontare la verità con coraggio assieme agli altri uomini, stringendo una «social catena», un patto di solidarietà e di fratellanza.

Raccolta di pensieri, osservazioni, appunti, note diaristiche, annotazioni di letture, commenti sparsi, pubblicata postuma sulla base di un manoscritto autografo del poeta, dal quale si ricava il titolo dell’opera e l’arco temporale in cui fu scritto, dal 1817 al 1832. Moltissimi gli argomenti: non soltanto letteratura e lingua, ma anche storia, politica, filosofia, antropologia. I temi cruciali della filosofia leopardiana, che lo Zibaldone segue nei passaggi fondamentali, fanno capo a: la teoria del piacere che non è dato se non in modo transitorio ed effimero all’uomo, il quale è destinato a una perenne infelicità; l’immaginazione come sollievo e rifugio della coscienza umana concesso da una natura benigna, a cui si oppone una ragione che accentua nell’uomo la percezione della propria insoddisfazione; la contrapposizione tra antichi e moderni, gli uni vicini alla natura e capaci di azioni eroiche, gli altri schiavi di un culto della ragione che ha distrutto gli ideali e corrotto i costumi; l’espressione di una visione meccanicistica della natura che riserva agli uomini indicibili sofferenze e l’annullamento nella morte; l’idea che i mali siano costitutivi, essenziali, del cosiddetto «ordine» del mondo.

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> Nato come contenitore casuale di pensieri sparsi, sorta di quaderno di appunti, lo Zibaldone assume via via sempre più organicità, in particolare attraverso un reticolo fittissimo di rinvii interni ai testi stessi. Dalle formulazioni aforistiche si passa ad autentici minitrattati, con uno stile in gran parte agile e poco aulico. La scrittura è rapida e priva di artifici linguistici e retorici, spesso ricca di interiezioni e formule colloquiali mutuate dal parlato. Al tempo stesso vari brani mostrano soluzioni che anticipano gli esiti della produzione poetica.

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190 | sezione 9 | Giacomo Leopardi |

Mappa dei contenuti GIACOMO LEOPARDI 1798-1837 PROSA

1824-1827 (1845) Prose di carattere filosoficomorale

DELLA MODA

causa dell’infelicità dell’uomo:

STRUTTURA E TEMI

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LINGUA E STILE

Due figure grottesche e allegoriche, accomunate dal concetto di vanitas, stringono un patto tra “sorelle” a scapito dell’uomo: nella sua polemica contro la società contemporanea, Leopardi mette in luce la pochezza, il conformismo, l’ipocrisia, il basso tenore intellettuale dell’uomo moderno.

Prosa centrale per il pensiero leopardiano: a quest’altezza cronologica (1824) si è già precisata la concezione di una natura malvagia e nemica dell’uomo che qui prende le sembianze gigantesche di una grande Madre. L’islandese è figura del filosofo che, alla ricerca di un riparo dalla sofferenza, è posto di fronte a una natura indifferente al destino umano, che regola il mondo secondo un principio ciclico di produzione e distruzione.

Un celebre anatomista olandese si trova di fronte a un evento straordinario: il canto notturno delle sue mummie. Ai morti pone le questioni su cui da sempre si interroga l’umanità ma riceve una risposta che non lascia alcuna speranza: con la morte l’uomo cede a un languore simile a un sonno che pone fine al dolore e affranca i vivi dalla noia.

L’avventura di Cristoforo Colombo, che dialoga con il suo compagno di viaggio Gutierrez sulla caravella in rotta per il Nuovo Mondo si rivela agli occhi di Leopardi come un tentativo di fuggire al tedio e al dolore che caratterizzano l’esistenza umana.

| 1. Giacomo Leopardi | Esercizi di fine sezione | 191

Esercizi di fine sezione



La vita 1. Descrivi il processo di formazione umana e culturale che ha segnato la vita del poeta sino al 1817. 2. Indica anno e titolo delle sue prime prove letterarie. 3. Descrivi le caratteristiche della famiglia e dell’ambiente recanatese che ne segnarono la gioventù. 4. Che riflessi esercitò Pietro Giordani sulla sua poetica? 5. Perché il 1819 rappresenta un anno chiave per la costruzione della riflessione filosofica e poetica dell’autore? 6. In che anno Leopardi si recò a Roma e che impressione ebbe della città? 7. Costruisci una tabella in cui indichi le date che ritieni più significative nel periodo

Le opere 10. Delinea la storia compositiva e la struttura dello Zibaldone. 11. Che caratteristiche ha la lingua utilizzata? 12. Traccia la storia compositiva dei Canti. 13. Da quali temi sono caratterizzati gli idilli composti nel periodo 1819-1821? 14. Indica i principali temi sviluppati nelle Operette morali. La poetica 18. In che modo Leopardi si rapportò alla letteratura del suo tempo? 19. Indica le caratteristiche positive che, secondo l’autore, connotavano la poesia degli antichi. 20. In cosa consiste la poetica del vago e dell’indefinito? 21. Quale fu la posizione di Leopardi nei confronti delle ideologie del suo tempo? 22. Che importanza hanno il ricordo e la memoria nella riflessione dell’autore? 23. Facendo opportuni riferimenti ai testi

compreso tra il 1822 e il 1836 e il relativo evento biografico o letterario a esse legato. CITTÀ

EVENTO

8. Chi fu la donna di cui si innamorò profondamente Leopardi e quali liriche gli ispirò? 9. Quali furono gli ambienti che frequentò a Firenze?

15. Definiscine le caratteristiche della prosa e dello stile. 16. Metti in evidenza gli aspetti che differenziano i “canti dell’amore fiorentino” dagli altri Canti. 17. Illustra le tematiche dei Paralipomeni alla Batracomiomachia.

studiati, spiega in cosa consiste la cifra satirica delle Operette morali. 24. Perché il poeta, per bocca di Saffo, afferma che «arcano è tutto fuor che il nostro dolor»? 25. Illustra il tema della giovinezza nella lirica leopardiana.

192 | Giacomo Leopardi |

Referenze fotografiche

© SIAE F. Bacon, G. Balla, J.-M. Basquiat, C. Carrà, F. Casorati, M. Chagall, S. Dalí, G. De Chirico, O. Dix,

Antonio Fontanesi, Paesaggio dopo la pioggia, 1860

J. Ensor, T. De Lempicka, F. De Pisis, R. Guttuso, P. Klee, K. Kollowitz, O. Licini, R. Magritte,

circa. Firenze, Galleria Palatina. © Mibact / Scala

P. Manzoni, F.T. Marinetti, M. Marini, M. Miró, G. Morandi, E. Munch, U. Oppi, G. Penone, P. Picasso, J. Pollock, R. Rauschenberg, M. Ray, A. Savinio, G. Severini, M. Sironi, G. Turcato, A. Warhol.

Archives Jean François Millet, Crepuscolo, 1859-1863. Boston, Museum of Fin Arts. © Scala Henri Cartier Bresson, Ritratto di Emil Cioran, 1984. © H.Cartier Bresson / Contrasto

pp. 1-192

Toni Servillo (Gep Gambardella) in una scena del film La grande bellezza, regia di Paolo Sorrentino (2013).

A. Ferrazzi, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1820. Recanati, Casa Leopardi. © White Images/Scala

© The Kobal Collection / Mondadori Portfolio

S. Terrazzi, Ritratto della contessa Adelaide Antici Leopardi, I metà del XIX secolo. Recanati,

Parigi, Musée Carnavalet. © Scala Archives.

Casa Leopardi. © Mondadori Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi) e Elio Germano (Giacomo Leopardi) in una scena del film Il giovane favoloso di Mario Martone (2014). © Photomovie Isabella Ragonese (Paolina Leopardi) in una scena del film Il giovane favoloso di Mario Martone (2014). © 01 Distribution / Webphoto Torre del Greco, Villa Carafa Ferrigni. Illustrazione, ante 1837. © Mary Evans Picture Library / Scala Elio Germano (Giacomo Leopardi) e Valerio Binasco (Pietro Giordani) in una scena del film Il giovane favoloso di Mario Martone (2014). © 01 Distribution / Webphoto Antonio Canova, Omero e Calliope, 1797-99 ca. Possagno, Museo Gipsoteca Canova. © Scala Andrea di Moriotto Cini detto del Minga, Deucalione e Pirra, 1572. Firenze, Palazzo Vecchio. © Scala Archives Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1965. New York, Museum of Modern Art. © Moma / Scala Archives La campagna di Recanati, 2014. © Life Marche Yoko Ono, Skyladders, 1966. Collezione privata. © Yoko Ono Pelagio Pelagi, Ritratto di Angelo Mai, 1816-1819. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. © De Agostini Elio Germano (Leopardi) in una scena del film Il giovane favoloso di Mario Martone (2014). © Photmovie

Ritratto di Voltaire intento a scrivere, XVIII secolo.

Auguste Mariette, egittologo francese, nello scavo di Saqqarah, 1865 ca. © Albert Harlingue / Scala Archives

Contenuti in digitale | Tomo Leopardi

Indice dei nomi

A Alamanni, Luigi 106 Alfieri, Vittorio 18, 25, 28, 54, 63, 64, 81, 82, 88 Alighieri, Dante 8, 18, 21, 54, 55, 81, 83, 114, 185 Amiel, Henri Frédéric 69 Antici, Adelaide (madre di Leopardi) 8 Antici, casata 9 Ariosto, Ludovico 81, 151

B

Indice dei nomi | 1

Cervantes, Miguel de 150 Cesarotti, Melchiorre 68, 123 Chiari, Pietro 155 Cicerone, Marco Tullio 9, 77, 80, 151 Cienfuegos, Nicasio Alvarez de 126 Colletta, Pietro 9, 182 Colombo, Cristoforo 65, 81, 82, 146, 149, 151, 168, 171, 172

H Holbach, Paul Henri Dietrich 28, 151 Hume, David 43

I Isocrate 148, 151

L Laforgue, Jules 69

Condillac, Étienne Bonnot de 43

Landi, Patrizia 11, 18

Copernico, Niccolò 27, 146

Leibniz, Gottfried Wilhelm 46, 161

D da Gama, Vasco 161

Le Monnier, Felice, editore 23, 48, 53, 60, 146, 147

D’Alembert, Jean le Rond 18

Leonetti, Francesco 92

d’Azeglio, Massimo 116

Leopardi, Carlo 8, 11, 12

Berni, Francesco 166

La Pérouse, Jean-François de Galaup, comte de 161

Leopardi, Giacomo 7-191

Bettinelli, Saverio 83

Della Casa, Giovanni 55

Binni, Walter 126, 136

De Sanctis, Francesco 18, 82, 174

Baldi, Bernardino 106 Barthélemy, Jean-Jacques 172 Beccaria, Cesare 34, 36 Bellucci, Novella 16

Blasucci, Luigi 58, 62, 63, 98, 124, 156 Boccaccio, Giovanni 21, 53

Di Breme, Ludovico 8, 28, 30, 32, 61, 68

Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino 68

Diderot, Denis 18

Boiardo, Matteo Maria 166

E

Bompiani, editore 138 Bondi, Clemente 155

Dondero, Marco 16

Epitteto 148 Eusebio di Cesarea 9

Leopardi, Monaldo 8, 11, 18, 20, 28, 80 Leopardi, Paolina 8, 15, 51, 114 Locke, John 43 Luciano di Samòsata 142, 148, 150, 166 Lucrezio Caro, Tito 135

M Machiavelli, Niccolò 138, 148 Macpherson, James 123

Fabricius, Johann Albert 18

Madame de Staël (Anne Louise Germaine Necker, baronne de Staël-Holstein) 8, 18, 28, 30, 81, 84, 88, 114, 138

Fattorini, Teresa (vedi Silvia)

Magrelli, Valerio 92

Ferroni, Giulio 98

Mai, Angelo 77, 80, 81, 83

Brioschi, Franco 11, 18

Flora, Francesco 24

Mallarmé, Stéphane 185

Buffon, Georges Louis 18, 161

Fontenelle, Bernard de 162, 166

Mamiani, Terenzio 132, 134

Bonnefoy, Yves 185 Botta, Carlo 9 Brancati, Vitaliano 138 Brighenti, Pietro, editore 80, 143

Byron, George Gordon 30, 179

C Calvino, Italo 5, 69, 73, 142, 148, 151 Camões, Luis Vaz de 161 Cancellieri, Francesco 29 Cappellano, Andrea 114

F

Foscolo, Ugo 18, 28, 54, 82, 106, 135

Marsigli, Jacopo, editore 77, 80

G

Marziale, Marco Valerio 126, 135

Garzanti, editore 73 Gessner, Salomone 50

Capponi, Gino 9, 24, 178, 182 Carducci, Giosue 23, 24, 29

Gioia, Melchiorre 155

Cartesio (René Descartes) 18

Giordani, Pietro 8, 11, 19, 20, 49, 66, 68, 82, 88, 113, 142, 143

Casti, Giambattista 179

Manzoni, Alessandro 9, 183

Francesco I d’Asburgo 179

Gioberti, Vincenzo 9, 138, 179, 183

Cassi Lazzari, Gertrude 8

Mann, Thomas 16

Mayr, Johann Simon 88 Mengaldo, Pier Vincenzo 99 Meyendorff, Georges, barone 118, 123 Montaigne, Michel de 25, 138 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, detto 28

Castiglione, Baldassarre 33

Goethe, Johann Wolfgang 5, 28, 63, 65, 106, 148

Monti, Vincenzo 18, 54, 68, 98, 106

Cavalcanti, Guido 114, 115

Gozzi, Gasparo 155

Mosco 8, 50

Celati, Gianni 27

Guinizzelli, Guido 115

Muratori, Ludovico Antonio 28

Cellerino, Liana 148

Gutierrez, Pietro 5

Muscetta, Carlo 18

Contenuti in digitale | Tomo Leopardi

Indice dei nomi | 2

N

R

T

Nietzsche, Friedrich 25

Raimondi, Ezio 22

Targioni Tozzetti, Antonio 116

Nobili, editore 48, 84

O

Ranieri, Antonio 9, 10, 23, 48, 53, 56, 60, 126, 146, 147, 178

Targioni Tozzetti, Fanny (nata Ronchivecchi, sposata) 5, 9, 10, 52, 54, 110

Omero 28, 67, 68

Rimbaud, Arthur 185

Orazio Flacco, Quinto 8, 92, 151

Ripa, Cesare 161

Ossian 106

Robertson, William 172

Tasso, Torquato 5, 14, 55, 68, 81, 82, 94, 98, 100, 146, 149, 168, 183

Ovidio Nasone, Publio 5, 84, 88, 90

Ronchivecchi, Fanny (vedi Targioni Tozzetti, Fanny)

P

Rousseau, Jean-Jacques 18, 28, 46, 138

Pacella, Giuseppe 19, 24, 26 Parini, Giuseppe 21, 53, 55, 98, 146, 151, 155 Pascal, Blaise 25 Pasolini, Pier Paolo 92

Roversi, Roberto 92 Rudel, Jaufré 53 Ruysch, Federico 5, 146, 162, 166

Tiraboschi, Girolamo 83 Tommaseo, Niccolò 25

V Valéry, Paul 25 Van Neck, Jan 166 Varchi, Benedetto 24 Verri, Alessandro 84, 88

Pepoli, Carlo 50

S

Vieusseux, Giovan Pietro 9, 18, 53, 82, 132, 176, 178

Perna, Antonia 18

Saffo 5, 84, 86, 87, 88, 89, 90

Villon, François 68

Peruzzi, Emilio 24

Sainte-Beuve, Charles Augustin 16, 69, 93

Virgilio Marone, Publio 135

Petracchi, Angelo 161 Petrarca, Francesco 9, 21, 54, 55, 81, 82, 83, 115, 123, 166, 183, 185 Piatti, Guglielmo, editore 51, 52, 145, 173 Pirandello, Luigi 27 Platone 28, 151, 166 Plotino 8, 87, 146 Plutarco 148 Poerio, Alessandro 110, 116 Porfirio di Tiro 8

Salom, Michiel 65, 106 Senofonte 151 Sereni, Vittorio 69 Silvia (Fattorini, Teresa) 94 Sinner, Louis de 9, 16, 137, 146 Starita, editore 66, 77, 108, 146 Stella, Anton Fortunato, editore 8, 9, 22, 23, 144, 145 Stendhal (Henri Beyle, detto) 9, 10 Swift, Jonathan 151

Vogel, Giuseppe Antonio 28 Voltaire, François Marie Arouet, detto 23, 29, 151, 160

W Winckelmann, Johann Joachim 29

Y Young, Edward 63, 68, 123

Z Zanzotto, Andrea 5, 69

652 | Storia del Libro | 3000 a.C. A questo millennio datano i primi scritti su papiro noti. I greci chiamarono questi fogli biblos e i romani charta, mentre l’insieme dei fogli in un lungo rotolo costituiva il volumen. II secolo a.C. Il re di Pergamo favorisce l’uso di pelli di pecora opportunamente lavorate come materiale scrittorio in sostituzione del papiro, del quale l’Egitto ha proibito l’esportazione: è la pergamena o cartapecora, che i romani chiamarono membrana o vellum. II-V secolo d.C. Il codice membranaceo composto da un blocco di fogli legati insieme che si sfogliano uno dopo l’altro sostituisce progressivamente il volume di papiro: è il libro così come lo conosciamo. XI secolo Gli arabi introducono nei califfati di Spagna la carta, inventata dai cinesi mille anni prima. In Cina e in Corea si perfeziona un sistema di stampa a caratteri mobili. Tuttavia l’immenso numero di ideogrammi di quelle lingue rende inutilizzabile l’invenzione. 1448 Johannes Gutenberg studia la fusione dei caratteri da stampa mobili e il torchio tipografico. Il 23 febbraio 1455 completa la Bibbia, il primo libro a stampa. 1461 A Bamberga viene dato alle stampe Der Edelstein, primo testo illustrato con xilografie stampate a colori. 1465 Nel monastero di Santa Scolastica, presso Subiaco, due stampatori tedeschi danno alle stampe una grammatica di Donato: è il primo libro a caratteri mobili pubblicato in Italia. XVI secolo L’invenzione del torchio calcografico consente di stampare separatamente grandi tavole incise su rame: ciò favorisce l’illustrazione dei libri scientifici e dei grandi atlanti geografici. 1796 Il praghese Aloys Senefelder scopre la litografia, una nuova tecnica di stampa ottenuta per reazione fisico-chimica su lastre di calcare (pietre litografiche).

1814 La notte fra 28 e 29 novembre il “Times” di Londra quadruplica il numero di copie stampate, grazie alla macchina a vapore per stampa a pressione su due cilindri inventata da Friedrich Koenig. 1830 Si diffonde la copertina editoriale, l’uso, cioè, di fornire tutti gli esemplari a stampa di una stessa edizione di una copertina uguale. 1886 Il giornale “New York Tribune” utilizza per primo la "linotype", alla quale l’immigrato tedesco Ottmar Mergenthaler lavora dal 1881. La macchina (così chiamata perché consente di creare a caldo una riga intera di caratteri in metallo, in inglese a line of types) rende molto più rapido il lavoro del compositore. 1897 Inventate dallo statunitense Tolbert Lanston, si utilizzano le prime monotype: fusione e composizione dei caratteri sono eseguite da due macchine diverse, con allineamento automatico dei caratteri nelle righe. 1970 Si inizia a sperimentare la fotocomposizione, cioè la composizione a freddo, computerizzata. 1987 Viene messo in commercio su floppy il primo romanzo ipertestuale. 1998 Sono messi in commercio i primi ebook readers.

Luzinterruptus, Literature vs Traffic in Melbourne, 2014. Foto di Gustavo Sanabria.

Sezione

Capitoli 1 Il lungo regno del manoscritto 2 Gutenberg, e il mondo cambiò 3 Il libro in quanto oggetto 4 La parola illustrata 5 Le rivoluzioni del libro 6 Le case del libro 7 E dopo?

654 | Storia del Libro |

1. Il lungo regno del manoscritto

Gli storici del libro individuano tre momenti rivoluzionari nella storia fisica di questo contenitore del pensiero umano. Se uno è facilmente riconoscibile nell’invenzione della stampa a caratteri mobili – una invenzione che Francis Bacon pose, insieme alla bussola e alla polvere da sparo, all’origine dell’Europa moderna – e l’ultimo, recentissimo, è l’avvento dell’informatica, meno immediato risulta indicare quando si verificò la prima “rivoluzione” del libro in quanto oggetto. È una rivoluzione apparentemente modesta, eppure gravida di conseguenze perché, senza di essa, non vi sarebbe potuta essere la stampa a caratteri mobili: stiamo parlando infatti del passaggio, nelle civiltà mediterranee dell’età classica, dal rotolo di papiro (volumen) al blocco di pagine legate tra loro (codex). Perché è la pagina? Le prime testimonianze risalgono al I secolo d.C. e sono tutte concentrate entro i confini dell’impero romano, ma bisogna attendere il IV secolo per vedere il codex imporsi sugli scaffali rispetto al volumen. Nelle scansie delle biblioteche il rotolo – sia esso di papiro (cioè di fibra vegetale) o di pergamena (cioè di pelle animale), sia esso scritto su una sola faccia (anopistògrafo) o, più raramente, su entrambe (opistògrafo) – viene

|1| Pagina di un manoscritto di 373 fogli composto in Italia centrale verso il 1310, contenente opere di Ditti Cretese, Floro e Tito Livio. Composto in origine per il canonico Landolfo Colonna copiando un codice

antichissimo oggi scomparso, è il più antico testo a noi noto con la terza e quarta decade di Livio, sino ad allora sconosciute. Ad Avignone, Colonna lo prestò nel 1328 a Petrarca, che lo acquistò nel 1351, come scrisse di suo

sempre più spesso sostituito da parallelepipedi formati da fogli di pergamena tagliati in forme regolari, piegati e cuciti tra loro a creare una successione di pagine. Perché, sì, la prima rivoluzione del libro fu la pagina: senza la pagina, senza la piega del foglio, non esisterebbe il libro, che da questo punto di vista si può considerare come una più che millenaria parentesi tra il rotolo e il computer, sul cui schermo i documenti scorrono proprio come un rotolo e non si possono sfogliare come un libro. Per più di dieci secoli i codici vennero scritti a mano, e sino al Duecento non su carta, bensì su pergamena. La pergamena è pelle di vitello o capra o pecora lavorata per fornire un supporto alla scrittura. Macerata nella calce, tesa su pali, rasata, levigata su entrambi i lati – il “fiore”, esterno, riconoscibile per la presenza dei follicoli e il colore più scuro; il “carne”, interno, più delicato – tagliata e rifilata in forme regolari, fu il materiale scrittorio d’eccellenza per tutto il medioevo. Questa lavorazione delle pelli fu perfezionata nel regno di Pergamo (donde il nome) in età ellenistica per ovviare al blocco dell’esportazione di papiro decretato dai To-

pugno con inchiostro blu al foglio 357. Le note ai margini, in scrittura corsiva, sono di Colonna e, più numerose, di Petrarca, e rendono l’opera di inestimabile valore. Il forte sapore gotico della scrittura e delle miniature,

alle quali lavorarono almeno quattro differenti artisti, crea per noi posteri un contrasto curioso con lo stile e lo spirito delle note a margine petrarchesche. Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 5690.

| Storia del Libro | 655

lomei d’Egitto, nel quadro della rivalità intellettuale e politica che contrapponeva la biblioteca del regno attalide a quella di Alessandria. All’origine del libro nella sua forma attuale vi è proprio la possibilità di tagliare e riunire in fogli le pelli raschiate e perfettamente lisciate, cosa, con il papiro, quasi impossibile. Mentre sulle tavolette di cera, usate nel mondo classico per scrivere appunti, si potevano tracciare i caratteri con uno stilo, e sul papiro era sufficiente un sottile pennello intinto nel colore, la pergamena richiedeva l’impiego di un vero e proprio pennino dal quale far fluire, mediante pressione, l’inchiostro. Lo si ottenne per secoli lavorando con perizia la penna d’oca o di altri uccelli di grosse dimensioni. La si sceglieva tra le prime cinque grandi remiganti dell’ala sinistra, che meglio si adattano per la loro forma ad essere impugnate da un destrorso, e con lame affilate se ne sagomava l’estremità rendendola simile al pennino metallico di una stilografica. Taglio e spessore della punta influivano su fluidità e intensità del segno, e l’evoluzione della scrittura tra alto e basso medioevo (capitale, onciale, carolina, gotica, corsiva, littera antiqua...) è strettamente connessa, oltreché all’evoluzione culturale, alla forma del càlamo. L’inchiostro si poteva ricavare dal carbone o dalle galle di quercia trattati con sale di ferro: l'intenso liquido nero così ottenuto talvolta con il passare dei secoli si è stinto in un marrone scuro. Pochi sono i codici di età romana giunti sino a noi , e datano della fine dell’impero: i più celebri sono i cosiddetti Virgilio Vaticano (IV-V secolo, oggi ridotto a 75 fogli con 50 miniature sparse nel testo, ma in origine composto da 440 fogli e 280 illustrazioni) e Virgilio Romano (del V secolo: 309 fogli con 19 minia-

|2| La pagina iniziale delle Tragedie di Seneca in un manoscritto realizzato in Italia settentrionale fra Tre e Quattrocento da un anonimo scriba in accurata scrittura gotica rotonda. Si può considerare una vera e propria

ture a inizio di ogni libro sui 410 fogli originali con 42 illustrazioni), entrambi vergati in scrittura capitale rustica e oggi ospitati alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Nel VI secolo Bisanzio invece produceva, accanto a fastosi codici purpurei, un capolavoro di ars scribendi et illuminandi come l’Iliade oggi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.

edizione critica: le tragedie si susseguono secondo l’ordine canonico (la prima è l’Hercules furens, che infatti compare all’interno della grande S miniata); il testo a forma di vaso in alto a destra costituisce una sorta di

introduzione generale (“Argumentum”) che fa riferimento anche a commenti moderni, come quello di Boccaccio; il testo di Seneca ha l’iniziale di ogni verso rilevata in giallo; i titoli correnti sono in rosso e blu; le glosse, in nero o

in seppia, sono impaginate con attenzione all’estetica ma hanno anche grande rilievo critico, con rinvii a Petrarca e Salutati. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1645.

656 | Storia del Libro |

Con il cristianesimo il codex, spesso identificato con la Bibbia, cioè il Libro per eccellenza, divenne sempre più un oggetto fornito di aura, abbellito con immagini e colori, impreziosito con elaborata calligrafia, protetto da custodie risplendenti d’oro e di gemme: «il modello cristiano del libro-oggetto (...) sin dal IV-V secolo aveva rappresentato nel mondo tardoantico l’espressione più diretta della sacralità del testo biblico e di quelli liturgici.

Tale modello era caratterizzato dall’artificiosità della scrittura, di solito innaturalmente tracciata e ricca di elementi ornamentali; dalla imponenza delle proporzioni, che rendevano il libro inadatto alla lettura e alla consultazione, ma adatto all’esposizione e alla venerazione; dalla preziosità del materiale impiegato, cui corrispondeva la lussuosità dell’aspetto esterno» (A. Petrucci). Già San Girolamo, verso la fine del IV secolo, aveva criticato «coloro che scrissero libri in oro e argento su pergamena imperiale», e quasi ottocento anni dopo San Bernardo, deprecando il lusso profuso nei libri, costringeva per regola gli amanuensi a non dipingere miniature e a usare inchiostro monocromo sui codici prodotti negli scriptoria dell’ordine Cistercense. Ma che cosa era successo, tra IV e XII secolo? Per capirlo è necessario spiegare come venivano realizzati i codici di lusso contro i quali si scagliano Girolamo e Bernardo, quelli prodotti per secoli per nobili, abati, vescovi, re e pontefici. Preparato il foglio di pergamena, vi si tracciavano le righe, o con una punta dura, o con un piombino o con inchiostro diluito, usando fili tesi tra spilli come tracce (i fori degli spilli si vedono ancora oggi) disegnando gli spazi che il testo avrebbe occupato, ora su colonne, ora a giustezza piena, ora con scassi per le iniziali o per le illustrazioni; definita l’architettura della pagina (l’odierna gabbia), lo scriba procedeva alla stesura del testo (copiato da un modello), tracciando le lettere una a una con tratti separati e formando così una trama più o meno fitta sulla pagina; i frequentissimi errori venivano emendati raschiando la pel-

|3| L’opera omnia di Virgilio in un manoscritto composto verso il 1465 a Viterbo dal copista Giovanni Yvelor in fluida e armoniosa scrittura umanistica. È dedicato a Niccolò da Cattaro, vescovo di Modrus, in Croazia, e dal 1464 castellano di Viterbo. Qui si vede il foglio 56, con l’incipit dell’Eneide. Rigato a secco, con 29 righe per un totale di 28 linee di scrittura, si compone di 233 fogli segnati

progressivamente con lettera e numero nel margine inferiore destro. La decorazione miniata è elegante e discreta, con cornici in oro con il motivo rinascimentale dei “bianchi girari”, regolare gioco di nastri vegetali che verrà ripreso anche nelle cornici incise su legno dei libri a stampa. Qui la triplice cornice è interrotta dalla figura di due putti alati che sostengono lo stemma di

Niccolò da Cattaro; sulla destra, vestito d’azzurro all’interno di un medaglione, Virgilio scrive incoronato d’alloro. A piè di pagina, i ritratti di Didone, Acate, Enea con, sullo sfondo, le navi e Cartagine. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1579. |4| ”Incipit liber Ecclesiastes“ annuncia isolata in testa alla colonna di sinistra una scritta

rubricata, e il nastro aranciato in alto al centro della pagina reca il “titolo corrente” ecl ese: è la pagina iniziale del libro dell’Ecclesiaste in un capolavoro assoluto del Rinascimento italiano, la Bibbia realizzata per Borso d’Este nella seconda metà del Quattrocento. Alla preziosa ed esuberante decorazione (si noti il canale fiorito che separa le due colonne di testo vergate in

| Storia del Libro | 657

le o cancellandoli con una croce; disegnate a parte e lasciate in bianco, le lettere iniziali avevano dimensioni e dignità diverse a seconda che aprissero un libro, un capitolo o un paragrafo; soltanto a testo concluso interveniva il miniatore, colorando le lettere o le illustrazioni e le cornici dei margini: l’abbozzo a matita veniva ripassato con inchiostro, poi si procedeva alla doratura (con foglia d’oro o oro in polvere), quindi alla stesura dei colori, ultimo il bianco per le lumeggiature. I colori venivano estratti da animali (come il rosso cremisi), da vegetali (come l’azzurro biavo) o da minerali (il blu lapislazzulo è il più noto e costoso) e richiedevano tecniche di stesura diverse. Una volta composto, il volume veniva cucito con robusti legacci e protetto tra due assi di legno ricoperte in cuoio o in metalli preziosi, antenate della nostra copertina. Crollato l’impero romano, il mondo bizantino e islamico divennero importanti e raffinati centri di produzione culturale (e dunque di codici, perlopiù di altissimo livello qualitativo e di grande bellezza esteriore). In Europa occidentale pochi furono i centri religiosi a tener vivi tanto l’eredità culturale dei classici quanto il messaggio cristiano: i grandi monasteri divennero veri e propri centri di produzione di codici miniati e vergati in scrittura onciale, così in Italia, dove precipuo fu il ruolo della Roma papale, come in Irlanda (già dal VII secolo, e secondo moduli eccentrici e ben riconoscibili), Francia, mondo germanico e Inghilterra. In Spagna Toledo fu il centro da dove eruditi islamici trasmisero all’Occidente la cultura classica greca, altrimenti perduta. E sempre dalla Spagna tramite gli arabi giunse in Italia nel XIII secolo, e da lì in tutta Europa, la carta.

elegante scrittura umanistica) parteciparono importanti artisti, quali Franco de’ Russi e Taddeo Crivelli, imbevuti dello spirito proprio della cosiddetta Officina Ferrarese e di pittori come Pisanello e Mantegna. I margini, campo decorato con un flusso di immagini pieno e continuo, ricche di notazioni legate alla vita quotidiana, fanno ormai premio sul testo. Modena, Biblioteca Estense.

Con la rinascita carolingia prima, ottoniana poi, le scuole di palazzo si affiancarono agli scriptoria monastici con una produzione di Bibbie e testi liturgici nonché di classici latini. La restaurazione imperiale di Carlomagno comportò una nuova costruzione architettonica della pagina, il recupero della crisografia su pergamena purpurea e delle lettere capitali romane ma, in particolare, una nuova scrittura, la carolina. La rinascita carolingia comportò anche un modesto aumento degli alfabeti, legato alle necessità pratiche di un generalizzato sviluppo; l’incremento dei commerci, successivo al Mille, vide crescere sempre più il pur modestissimo numero di quanti, fuori dal mondo ecclesiastico, sapevano usare la scrittura. L’adozione della penna a punta mozza a sinistra portò a una scrittura fatta di brevi tratti giustapposti che secondo necessità si potevano compattare formando caratteri molto verticali: è il passaggio dalla carolina alla testuale gotica, artificiosa nel disegno e di difficile decifrazione. A ciò si aggiunse nei libri il sempre più intenso

|5| Il Libro di Kells è il più sontuoso e famoso fra i codici miniati irlandesi. Venne composto nel monastero dell’isola di Iona, a ovest della Scozia, sul finire dell’VIII secolo e nei primi anni del IX. Nell’806 l’isola venne saccheggiata dai vichinghi e pochi frati riuscirono a riparare presso l’abbazia di Kells, in Irlanda, insieme al manoscritto, che rimase incompleto. Il codice contiene i

quattro Vangeli canonici. Tanto la scrittura, tipica dell’Irlanda, quanto l’eccezionale apparato iconografico, elegante gioco di intrecci, animali fantastici, oro e vivaci colori chiari, rendono il Libro di Kells esemplare dei gusti estetici dell’isola che allora segnava l’estremo confine occidentale del mondo conosciuto. Ma il Libro di Kells è, anche, un vertice d’arte assoluto, con le pagine iniziali

di ogni Vangello decorate “a tappeto” (qui, il Chi-rho di Cristo del Vangelo di Matteo al foglio 34r), quattro grandi scene della vita di Cristo a carattere illustrativo e – quasi punto d’arrivo dell’arte irlandese – un apparato ornamentale eccentrico e innovativo che anticipa il gusto gotico per il bizzarro. Dublin, Trinity College, A.I. 6/58.

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uso di abbreviazioni, così che poche erano le parole di un testo scritte per intero: segni particolari permettevano al lettore colto di completare la lettura. Questa omologazione consentì di preparare i fogli secondo schemi di impaginazione (rigatura, margini, spazi per le iniziali miniate) condivisi e diffusi, e, altra conseguenza, di avvicinare alle sedi di consumo quelle di produzione. Si aggiunga la diffusione in Europa della più economica carta, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, risposta a un accresciuto bisogno non tanto di leggere, quanto di scrivere. Nel corso del XIII secolo, peraltro, le sale di scrittura monastiche e le scuole di palazzo non erano più i principali centri della produzione libraria: la nascita di una borghe-

|6| Questo manoscritto su pergamena venne composto in Italia settentrionale fra IX e X secolo: infatti la scrittura ricorda la minuscola usata nel monastero di Nonantola. Contiene il primo e il secondo libro delle Institutiones di Cassiodoro, illustrati con schemi e immagini delle arti liberali. Le lettere capitali sono colorate ma non presentano decorazioni particolari. Anche la successione

fra testo e illustrazioni si rifà a modelli di codici più antichi improntati ai papiri, come si vede in questa doppia pagina. L’illustrazione al foglio 114r, senza sfondo o cornice e decisamente arcaica nello stile, interrompe il flusso della scrittura. L’immagine illustra lo schema della rethorica argumentatio che discende da un busto maschile visto di fronte (forse il grammatico Donato,

sia mercantile e l’affermarsi delle letterature in volgare, nonché la fondazione delle prime università – Bologna, Padova, Napoli, Parigi, Oxford – portarono al diffondersi di centri di produzione laici, vere e proprie botteghe con ruoli e compiti distinti. Quanto al mondo universitario, i codici prodotti per gli studenti erano di necessità poco costosi, limitati in genere al solo testo e prodotti serialmente, in pecie, cioè in “pezzi”: lo stazionario (il “cartolario” fornito di regolare licenza per le pecie) affidava a varie mani la copiatura di fascicoli staccati dei testi di studio. Queste pecie potevano essere poi affittate (e copiate dagli studenti) o a fascicoli o riunite a formare l’intero corpus di un’opera. Ai testi in latino di grande formato (i “libri da banco”) si affiancarono sempre più numerosi i testi letterari in volgare, sovente in forma di libri di più ridotte dimensioni – dai poemi carolingi e arturiani (lettura di Paolo e Francesca) ai trovatori, a Dante – che si rivolgevano a un pubblico a un tempo più limitato (in quanto parlante una lingua locale, e non il latino) e più ampio (in quanto non necessariamente erudito, ma semplicemente alfabeta) di quello appartenente alle classi ecclesiastica o intellettuale. Agli ultimi anni del Duecento datano i tre codici che raccolgono il corpus della più antica poesia in volgare italiano: piccoli, senza miniature o parti rubricate

una vera autorità per i dotti medievali) e si articola in un diagramma ad albero: sunto della materia e apprendimento sono così facilitati secondo i principi della mnemotecnica. Paris, Bibliothèque Mazarine, 660. |7| I tre poemi di Virgilio – Bucoliche, Georgiche ed Eneide – sono conservati in questo manoscritto composto verso la

fine dell’XI secolo, probabilmente in Puglia, come si evince dalla scrittura minuscola beneventana propria di quel secolo nelle terre a sud di Roma. Qui si ammira il foglio 43r nell’incipit dell’Eneide. Le due grandi iniziali a più colori sono delineate da intrecci animali tipici del gusto medievale. I numerosi commenti, in una grafia più piccola, a margine o interlineata al testo, sono invece

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(cioè, scritte in inchiostro rosso) sono oggi conservati alla Biblioteca Mediceo-Laurenziana e alla Nazionale Centrale di Firenze, e alla Apostolica Vaticana. Sarà con Petrarca e con l’Umanesimo fiorentino di Salutati Bracciolini e Niccoli che i codici di formato medio-piccolo, non più in irta gotica ma in una nitida “littera antiqua” che si rifà esplicitamente alla carolina, identi-

di due mani diverse e non contemporanee: se infatti uno dei glossatori scriveva in beneventana, un altro scrisse in carolina – la scrittura della rinascita carolingia che Petrarca definì, in contrapposizione alla testuale gotica, «castigata et clara» (Fam. XXIII, 19, 8). Forse proprio perché molto usato a scopo di studio, il codice venne riscritto in alcune sue parti in gotica testuale e in umanistica

ficata con la grafia dei classici, si imporranno definitivamente sui grandi “libri da banco”. E Petrarca e Boccaccio impersoneranno il sempre più attento presenziare dell’autore alla stesura del proprio testo. Studenti, notai, preti, mercanti formavano ormai un mondo di scriventi e lettori sempre più mosso e variato, un mondo per il quale la produzione manoscritta risultava sempre meno soddisfacente.

tonda nei secoli XIV e XV. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. Lat. 2090. |8| La cosiddetta Bibbia di Souvigny è un manoscritto su pergamena composto nell’ultimo quarto del XII secolo in un non meglio identificato monastero cluniacense. Antico e Nuovo Testamento, in latino, occupano 400 fogli, illustrati da

122 miniature, alcune di grande formato. Qui è il foglio 4v con un testo tratto dalla Genesi: gli otto grandi riquadri, letti da sinistra a destra e dall’alto in basso, narrano la creazione dalla separazione fra luce e tenebre, con Dio che regge nella destra il Sole, nella sinistra la Luna, sino al peccato originale, con Eva che offre ad Adamo il frutto proibito. Incolonnate a filo sinistro per poco più di metà della larghezza

del foglio, le illustrazioni lasciano spazio sulla destra alla colonna di testo (si noti la prima riga in oro su fondo porpora) dai capilettera miniati. Mentre lo stile delle illustrazioni risente dell’arte bizantina e ottoniana, la scrittura, di due copisti, vede già il tratteggio angoloso e compatto che contrassegna il passaggio dalla carolina alle forme gotiche. Moulins, Médiathèque communautaire, Ms 1.

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2. Gutenberg, e il mondo cambiò

Gutenberg, si sa, ha inventato la stampa a caratteri mobili. Ma non è vero. Caratteri mobili in argilla, legno o anche metallo vennero usati in Cina e in Corea già prima di Cristo. Tuttavia, per diverse ragioni (la più importante è l’enorme numero di segni in quegli alfabeti) non ebbero applicazione pratica. Invece alla metà del secolo XV, nella città tedesca di Magonza, sul Reno, già allora una delle più trafficate vie commerciali d’Europa, un orafo rese possibile la produzione seriale del libro. Si chiamava Johannes Gensfleisch, detto zum Gutenberg, e da questa invenzione non trasse guadagni: anzi, finì travolto dai debiti. Fu il socio Johann Fust a raccoglierne i benefici economici, ma a Gutenberg resta la gloria di avere cambiato il mondo. L’invenzione di Gutenberg è semplice e geniale: egli vide il libro come un insieme di elementi assemblati, riducibili alla pagina e alle singole lettere dell’alfabeto. Sarebbe bastato avere in numero sufficiente tante lettere scolpite nel metallo così da poter comporre, specularmente, tutte le righe di testo di una pagina, inchiostrarle e poi, con molta più forza di quanta ne abbia un uomo, premervi sopra un foglio di carta per ottenere una pagina stampata replicabile in un numero teoricamente infinito di copie. Smontate le righe di quella pagina, se ne sarebbe composta un’altra, e così via. Questa fu in sintesi la doppia intuizione di Gutenberg: scomporre il testo di un libro nella trentina di segni base dell’alfabeto e perfezionare un torchio in grado di pressare in modo uniforme la pagina formata da quelle lettere sul foglio di carta. Il percorso tra idea e realizzazione fu lungo e complesso. Già nel 1437, a Strasburgo, dove allora risiedeva, Gutenberg fondò una società a questo scopo; un’altra ne fondò nel 1448, tornato a Magonza. In meno di tre anni, dal 1452 al 1454, grazie al proprio genio e ad alcuni finanziatori, egli stampò 158 o forse 180 esemplari della celebre Bibbia di 1282 pagine che da lui prende nome (a stampa ancora in corso questi volumi era-

no già stati tutti venduti); oggi al mondo sopravvivono 49 Bibbie di Gutenberg, 37 stampate su carta e 12 su pergamena. Una venne venduta all’asta nel 1987 per oltre cinque milioni di dollari. Ma che cosa sono, esattamente, i caratteri mobili? E che cos’è un torchio da stampa? I caratteri mobili

Ogni lettera è composta di bianchi (le zone vuote, come il bianco dentro la “o” o dentro l’occhio della “e”) e di neri (quelle rilevate, il profilo della lettera): il principio sul quale si basa la stampa tipografica è che se incido a rilievo delle lettere nel legno o nel metallo, le parti nere, inchiostrate, lasciano la loro impronta sul foglio, quelle bianche no. Per queste lettere, i caratteri, così piccole e tutte uguali, occorrerà la perizia dell’orafo, capace di incidere minuscole lettere in negativo, dalle quali si otterrà in positivo il carattere fuso all’estremità di un blocchetto metallico: punzonatura e fusione sono le due operazioni che stanno alla base dei caratteri mobili, con una tecnica che non è cambiata fra Quattro e Settecento. Ciò vale, si può dire, per tutti i processi di stampa che sino ai primi anni del XIX secolo rimasero manuali, sicché gli studiosi parlano di stampa di Antico Regime e pongono convenzionalmente al 1830 il confine tra libro antico, artigianale, e libro moderno, industriale. Nel disegno dei caratteri i primi tipografi si ispirarono ai modelli di scrittura in uso nel XV secolo, la gotica e la umanistica: ogni tipografo, inoltre, poteva offrire un

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campionario più o meno ricco, che spesso comprendeva anche grandi iniziali simili a quelle che ornavano i manoscritti. La differente altezza dei vari assortimenti di lettere, cioè il corpo di un carattere, rispondeva a criteri piuttosto uniformi, ma soltanto nel 1755 il francese François-Ambroise Didot (1730-1804) fissò in 0,376 mm l’unità di misura dei caratteri, il punto tipografico: quelli che prima si chiamavano con nomi di fantasia (Cicerone, Agostino, Paragone, Cannone, Nonpariglia...) divennero il corpo 8, o 10, o 12 (sottinteso, punti); la stessa unità di misura vale anche per l’interlinea, cioè lo spazio bianco posto tra una riga a stampa e l’altra. Quello che per uno stampatore del Seicento era “un Cicerone su un Sant’Agostino” diventa per noi “un corpo 10 su 11”, dove 10 è il corpo del testo e 11 quello dell’interlinea, che è sempre uguale o maggiore a quello del testo, perché altrimenti le lettere discendenti (p, g, q...) e le ascendenti (b, d, l...) si sovrapporrebbero. La carta

Per i manoscritti, prodotti in esemplare unico, la pergamena non mancava mai; per il libro a stampa, prodotto seriale, non sarebbero bastate tutte le greggi d’Europa. Il libro a stampa è strettamente connesso all’uso della carta. La carta dei libri moderni è fatta di pasta di cellulosa, è acida, vive poche decine d’anni e poi si decompone fra le dita. La carta dei libri antichi, invece, ha superato indenne i secoli senza soffrire danni. Perché? Anche la carta, come molte invenzioni dell’umanità, nasce in Cina, tra I secolo a.C. e I d.C. Nel 751 la si fabbrica a Samarcanda, allora araba, e nel 793 si apre una cartiera a Baghdad; da lì, per Damasco e Fez, la produzione si estende nei califfati di Spagna, e poi fuori dalla Spagna araba.

|9| Vera e propria promozione pubblicitaria, questa pagina con il campionario dei caratteri venne stampata il 1° aprile 1486 ad Augusta (Augsburg) da

La prima cartiera italiana viene impiantata a Fabriano nel 1276, e ben presto le cartiere spuntano un po’ in tutta Italia, raggiungendo notevoli livelli di eccellenza tecnica. La carta era fatta con stracci di lino e cotone macerati in acqua a formare una pasta che, dopo una serie di lavorazioni, veniva stesa su telai di fili di metallo incrociati ad angolo retto: la carta prodotta a mano mostra in controluce

Erhard Ratdolt, che negli anni Settanta del secolo aveva lavorato anche a Venezia. Si notino i diversi corpi, la presenza di caratteri gotici e di

caratteri “umanistici”, la disponibilità di caratteri greci e la grande iniziale A ornata secondo il gusto proprio dei manoscritti. In genere queste

iniziali di dimensione maggiore non venivano incise su metallo ma su legno.

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un reticolo di linee orizzontali più sottili e fitte, le vergelle, e altre verticali più spaziate e grosse, i filoni. A queste si intrecciava un fil di ferro a formare un disegno (testa di bue, corona, aquila, croce...) che era un vero e proprio marchio di fabbrica: la filigrana. Proprio perché di stracci, la carta dei libri antichi è oggi fresca e flessibile come quando venne fatta. Nell’edizione di un libro antico, la carta assorbiva circa il 50% dei costi. I prezzi variavano secondo qualità e dimensioni; quando nel 1532 Ludovico Ariosto acquistò 400 risme di carta per l’edizione del Furioso, le pagò 50 fiorini, pari a un anno e tre mesi del suo stipendio di corte. Ancora oggi la carta pesa in misura considerevole nei costi di realizzazione di un libro. Sino al XVII secolo, in Europa si produssero fogli di dimensioni minori di quelli che si ottennero poi. Di conseguenza, a parità nominale di formato, i libri antichi sono più piccoli dei libri moderni. Basandosi sull’altezza del libro, oggi si parla di in-folio (o folio) dai 38 centimetri in su, mentre un in-folio antico arriva a misurarne al massimo 41; si parla di in-quarto (o quarto) se l’altezza è tra i 28 e i 38 centimetri, di ottavo (o in-ottavo) se essa è compresa tra i 20 e i 28 centimetri, di sedicesimo (o in-sedicesimo) se si scende tra i 15 e i 20 centimetri. I corrispondenti formati antichi erano decisamente più piccoli. Inoltre, mentre i libri moderni sono quasi tutti in-ottavo, tre quarti dei libri stampati nel XV secolo sono

|10| Una pagina della Bibbia di Gutenberg, del 1454 circa. L’acquirente ha successivamente provveduto a far miniare i margini, il canale tra le due colonne di testo e le due grandi iniziali (la «I» di iungat e la «P» di parabole) secondo il gusto della

decorazione pittorica dei manoscritti. Si confronti il testo a stampa di questa pagina con i manoscritti alle tavole 1 e 2: i caratteri mobili dei primi tipografi tedeschi imitarono la Textur e la Fraktur, scritture gotiche, e vennero utilizzati abitualmente in

in-folio, il resto è in-quarto: imitano i grandi manoscritti, e sarà uno dei più importanti tipografi, Aldo Manuzio (1449-1515), a inventare nel 1501 il libro a stampa in-ottavo. La misura delle pagine è determinata dalla piega del foglio. A seconda delle volte in cui viene piegato, da un foglio si ottengono due quattro otto o più pagine. Provate a piegare un foglio in quattro, con due pieghe; numerate progressivamente le otto pagine così ottenute. Ora, riaprite il foglio e considerate la posizione delle singole pagine: su una faccia del foglio, il fronte o recto o bianca trovate le pagine 1,8,5,4; sull’altra, il retro o verso o volta, le pagine 7,2,3,6. Una sequenza facile e complessa a un tempo, che ogni stampatore doveva avere ben presente al momento di impostare i testi metallici da stampare al torchio, perché solo in questo modo, una volta piegato il foglio, alla pagina 1 seguivano la 2, la 3 eccetera. Il torchio tipografico

Nasce dal perfezionamento dei torchi da vino, così comuni lungo la valle del Reno. Gutenberg studiò opportune variazioni, e ottenne una macchina dove su un piano fisso (carro) si metteva la forma, cioè la sequenza di pagine composte con i caratteri metallici; un doppio piano mobile (timpano) a mascherina (fraschetta) proteggeva i margini del foglio di carta che dovevano rimanere bianchi; un grande piano metallico (platina) azionato da una vite a elica in legno (dal 1550 in ottone) pressava il foglio sulla forma inchiostrata . Progressi successivi si avranno con il torchio in piano (XVI secolo) e con la stampa litografica (XVIII), ma sarà soltanto nel primo quarto del XIX secolo che le macchine da stampa si faranno industriali, permettendo una produzione in cui la composizione manuale dei testi viene sostituita da una composizione meccanica.

Germania sino alla Seconda Guerra Mondiale. |11| L’ultima pagina (239 recto) della Bibbia impressa da Johann Fust e Peter Schöffer a Magonza nel 1462. Il testo in inchiostro nero e quello in rosso sono stati stampati in

due momenti diversi, operando cioè due passaggi di torchio. Per la struttura della pagina, si confronti con il manoscritto alla tavola 4: anche qui il titolo corrente, in un elegante gotico, è al centro del margine superiore. Una riga in rosso nella colonna di destra

| Storia del Libro | 663 La diffusione della stampa

Stampare un libro costituiva un grosso investimento. Nel Quattrocento a Firenze si acquistava un torchio per poco più di 5 fiorini, ma le sole matrici dei caratteri costavano 10 fiorini, noleggiare i caratteri veniva un fiorino al mese, ma non restituirli comportava multe di 20 fiorini. E poi vi erano i costi del personale, manodopera specializzata i cui stipendi incidevano quanto la carta nel costo finale di un’edizione. Ma la stampa poteva garantire profitti sino al 300% e si diffuse rapidamente da Magonza in Europa. Tra 1454 e 1470 dalla Germania passò in Francia, Italia e Svizzera, e negli ultimi trent’anni del secolo s’impose in tutta Europa. Nel 1499 la Germania contava sessanta città con stampatori. L’Italia conobbe un ancor maggiore fiorire di tipografie. Entrambi i Paesi erano divisi in molti staterelli, e ciò favorì il diffondersi dell’attività dei primi tipografi anche presso corti minori o libere città. I primi tipografi attivi in Italia furono due tedeschi, Sweynheym e Pannartz, che si stabilirono prima in un monastero a Subiaco, poi a Roma, favoriti da un potente ecclesiastico. Molti furono i tipografi tedeschi scesi in Italia a insegnare l’ «ars nova artificialiter scribendi». Tra questi, Johann Neumeister, che l’11 aprile 1472 stampò a Foligno la prima edizione a stampa della Divina Commedia, l’editio princeps nota appunto come “Fulignate”. Il francese Nicolas Jenson, già maestro di zecca a Tours, si stabilì a Venezia associandosi nell’attività editoriale a due famiglie nobili veneziane. Ma quanto si stampava, e in che percentuale? Le stime oscillano fra nove e venti milioni di volumi stampati fra 1450 e 1500: quindici milioni di esemplari complessivi per 35.000 titoli è la stima più probabile.

annuncia la fine del testo («Explicit liber Apocalypsis beati joha[n]ni ap[osto]li»). Dopo una riga bianca, ecco in rosso il colophon che dice chi, dove e quando ha stampato il libro. Sotto, due scudi appesi a un ramo: è la marca tipografica dei due stampatori, diretta

E in quali lingue si stampava? Oltre il 75% dei titoli è in latino; circa il 7% è in italiano; seguono tedesco (6%) e francese (5%). Residuali le altre lingue. Teologia, classici latini e greci e poemi cavallereschi sono i generi letterari più pubblicati, insieme alle grammatiche per le scuole. Negli anni 1480-1482 si contano tipografie in poco più di cento città europee, e la capitale della stampa è Venezia, con 156 edizioni prodotte da numerosi stampatori. Seguono Milano (82 edizioni) e Augsburg (cioè Augusta), con 67 edizioni. Al quarto posto ancora una città tedesca, Norimberga (53 edizioni), e al quinto ancora una città italiana, Firenze (48 edizioni), che sopravanza la tedesca Colonia (44 edizioni). Bisogna arrivare al settimo posto per trovare una città di nazionalità diversa, Parigi, che, con 35 edizioni, è insidiata da Roma (34) e da Strasburgo (28). Si noti l’assenza d’Inghilterra e Spagna. Negli anni 1495-1497 sono 236 le città europee sede di almeno una tipografia, per un totale di

antenata degli attuali marchi editoriali, come ad esempio lo struzzo di Einaudi o la «Z» nello scudo di Zanichelli. |12| Il foglio 2 recto, dove iniziano le Tusculanae disputationes di Cicerone, nell’edizione data a Venezia dal

francese Nicolas Jenson nel 1472. Il carattere usato non si rifà più alla scrittura gotica, ma a quella «littera antiqua» sulla quale si modellò la scrittura umanistica italiana. Il titolo (le due righe in maiuscole) riprende la natura espositiva dei titoli dei manoscritti; il

testo non è più su due colonne ma a giustezza piena, cioè in un solo blocco; la successiva decorazione miniata, molto sobria, si limita all’iniziale «C» di cum e a un’asta che marca visibilmente il margine (o filo) sinistro del testo.

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1821 edizioni. Di queste, quelle stampate a Venezia sfiorano la cifra di 450: la città produce da sola un quarto dell’editoria europea, e ospita alcuni dei più grandi stampatori di ogni tempo, a cominciare da Aldo Manuzio. Ma questa è l’unica conferma, rispetto a quindici anni prima. Infatti, al secondo posto in Europa figura Parigi, con 181 edizioni, e terza è ancora una città francese, Lione, con 95 edizioni. Dopo Firenze, passata dal quinto al quarto posto, troviamo Lipsia e Deventer, mentre si confermano, ma non più ai primi posti, Milano, Strasburgo, Colonia, Augusta, Norimberga e Basilea. In quindici anni molto è cambiato: il ruolo della Germania (ormai quasi il solo paese che stampi in caratteri gotici) resta importante, ma è offuscato dalla produzione delle città italiane e dalla Francia. Lipsia diventa il più importante centro tedesco nel campo editoriale, e per due secoli la locale fiera del libro contenderà a quella di Francoforte, in questi anni già celebre, il ruolo di vetrina della produzione europea.

|13| Ancora un’edizione veneziana di Jenson, sempre del 1472. Il testo di Plinio, in caratteri umanistici e a giustezza piena, è spezzato nei vari capitoli da titoli centrati nello stesso corpo del testo. Per ogni capitolo il proprietario del libro ha poi

fatto miniare a mano, a colori alternati blu e rossi, le iniziali, originariamente stampate in piccolo e in nero (lo si nota bene per la «F» rossa e l’«H» blu) proprio pensando a una successiva decorazione pittorica. Decorazione che risulta assai più elaborata per

Tirature, best seller e diritto d’autore

Se si pensa che l’Europa occidentale non arrivava, allora, agli ottanta milioni di abitanti, e se si considera l’altissimo numero di analfabeti, stupisce constatare le fortune della stampa: si pensi che dal 1464 al 1500 si diedero in tutta Europa più di 80 edizioni dell’opera omnia di Virgilio. Le tirature quattrocentesche si aggiravano, in genere, intorno alle 250 copie a edizione: in vari casi non si superarono le 100 copie e in altri si arrischiarono le 500. Però già negli anni Ottanta del secolo a Venezia alcuni titoli toccarono le 3000 copie, e Cristoforo Landino (1424-1498) fece stampare con buon successo 1200 copie della Commedia dantesca con il suo commento. Nei primi anni del XVI secolo uno dei più importanti librai di Milano, Niccolò Gorgonzola, ordinava in genere 1000 copie per titolo: vero è che allora i libri sonnecchiavano anche per anni sugli scaffali, mentre oggi l'avvicendarsi è al massimo di qualche mese, ma il dato resta in sé significativo. L’autore più pubblicato fu Cicerone, che ebbe 316 edizioni. Per quanto concerne l’Italia, si stima che nel XVI secolo vennero stampate a Venezia più di 3000 edizioni, a Roma poco più di 2000, e a Milano circa 1100 edizioni; seguivano Firenze, per la quale si stimano 775 edizioni, Bologna (519), Pavia (427), Napoli (350), Brescia (265), Vicenza (113), Treviso (98), Siena (74), Mantova (49), Verona (32) e Pisa (24), per un totale di circa 8800 titoli. Di questi, 1689 sono in volgare, uno su cinque, con un aumento progressivo e costante che testimonia la crescita di un pubblico laico al quale era di fatto estraneo l’uso del latino. I moderni più richiesti sono Dante, Ariosto e Petrarca. Per più di due secoli in Europa il numero dei lettori non crebbe in modo significativo.

la «M» di mundum con la quale si apre il secondo libro della Naturalis historia. Tutta la decorazione miniata, a partire dalla cornice a bianchi girari, schiaccia pesantemente il testo, appesantendo la pagina. |14| Una pagina del Corpus Iuris

Civilis di Giustiniano nell’edizione data a Magonza da Peter Schöffer nel 1475. Il testo è stampato in caratteri gotici su due colonne al centro dello specchio di pagina. Intorno, come una cornice di giustezza variabile e con corpo e interlinea minori, le glosse

| Storia del Libro | 665

La svolta si ebbe nella seconda metà del Settecento, e il primo best-seller è l’Encyclopédie di Diderot (1713-1784) e d’Alembert (17171783) in ventisei volumi: tra il 1751 e il 1789 se ne vendettero 24 000 a un prezzo unitario equivalente allo stipendio annuo di un operaio del tempo. Va ricordato che gli autori non avevano diritti, se non seguendo direttamente la vendita dei volumi, come fece Ariosto per il Furioso. Gli antichi Stati (Milano e Venezia primi) riconoscevano il privilegio, una esclusiva di stampa che però proteggeva gli stampatori; solo nel 1710 si afferma in Inghilterra il diritto d’autore per un massimo di 21 anni (oggi, 70); sarà il codice napoleonico a imporlo poi in tutta Europa. Il commercio librario

Sino al 1830, i libri non venivano rilegati dallo stampatore: per acqua o per terra, sino alle librerie viaggiavano nudi, blocco di fogli sciolto o sommariamente legato, protetto da una prima carta bianca, e così giacevano in pila sugli scaffali o dentro ceste: avrebbe provveduto l’acquirente a far rilegare il proprio volume, e la più modesta delle legature ne alzava del 40% il prezzo. Un libro a stampa costava da cinque a otto volte meno dello stesso testo manoscritto e miniato, e i pochi libri stampati su pergamena costavano circa cinque volte più dei molti stampati su carta. Nel 1476 una grammatica costava poco più di 3 soldi, cioè un quinto della paga giornaliera di un lavoratore specializzato. I libri di maggior pregio potevano costare anche quanto una settimana di paga di un cortigiano. Eppure i librai avevano i magazzini stipati. A Parma nel 1491 un libraio ha in magazzino 1348 testi scolastici. Nel 1484 il libraio veneziano Francesco de Madiis registra a magazzino 1337 volumi, e più di 1200 sono grammatiche.

di commento. Le righe in inchiostro rosso annunciano solennemente “in nome di Nostro Signore Gesù Cristo” l’argomento dell’opera. Vi sono iniziali di differente forza, almeno due delle quali (la «N» rossa e la «P» azzurra) miniate a mano dopo la stampa, così

La biblioteca di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) era composta di 1190 volumi (una quantità notevole per l’epoca, e tanto più per la biblioteca di un privato, ancorché conte). Di questi 489 erano a stampa. E Pico morì il 17 novembre 1494, a meno di un trentennio, cioè, dall’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, e i suoi interessi vertevano su opere latine (900 volumi), ma anche greche (157), ebraiche (70) e arabe (7) che allora circolavano ancora quasi esclusivamente manoscritte. È da presumere che le biblioteche di altri intellettuali dagli interessi meno specifici fossero ancor più sbilanciate a favore dei testi a stampa: lo confermano la biblioteca di Leonardo, «omo sanza lettere», e quella del cardinale Bessarione, erudito letteratissimo. Ma la migliore testimonianza del trionfo della stampa ci è data dall’inventario del libraio fiorentino Silvestro di Zanobi di Mariano: nel 1496 elenca più di 291 volumi, 141 dei quali erano catalogati come libri a stampa e 80 come manoscritti; ma i libri a stampa erano a magazzino fino a 30 copie per titolo, mentre non c’erano più di due copie per ogni manoscritto. Sì, con Gutenberg il mondo era cambiato.

come dipinta a mano è la vignetta con il papa e l’imperatore. |15| In questa edizione dell’opera omnia di Virgilio stampata in caratteri umanistici a Venezia nel 1486 da Antonio Miscomini il testo è

ormai fagocitato dal commento di Servio Mauro Onorato: in alto a destra i primi tre versi dell’Eneide sembrano quasi finire tra le fauci di un blocco di note che, in corpo minore e con fitta sequenza, occupa ben 63 righe. Si noti l’assenza di

capilettera o di colore. La disposizione tipografica dei versi è però stata pensata per ospitare una grande iniziale miniata successivamente, una «A» (arma) dorata su uno sfondo di bianchi viluppi vegetali. Gottinga. Füssel, Gutenberg

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3. Il libro in quanto oggetto

Il libro, benché sostanzialmente immutato nella struttura fisica da quasi duemila anni, ha subito in realtà mutazioni di carattere concettuale. Queste mutazioni si sono manifestate in pochi decenni successivi all’invenzione della stampa a caratteri mobili, rispondendo alle diverse necessità pratiche poste dal libro a stampa – eminentemente seriale, prodotto in numerosi esemplari uguali tra loro – rispetto al manoscritto, che nasce come un unicum. Nella realtà le eccezioni tra stampa e manoscritto furono numerose, e spesso gli esemplari a stampa di una stessa edizione presentano differenze nel testo, mentre in diversi scriptoria i manoscritti venivano prodotti in più di un esemplare, pur se diversi tra loro. Il concetto di fondo però resta valido. Il manoscritto veniva prodotto in esemplare unico su richiesta di un committente che precisava autore e testo desiderati. Il libro a stampa esce dalla tipografia in numerosi esemplari uguali tra loro e parte verso le botteghe dei librai alla ricerca di lettori ipotetici e sconosciuti: il pubblico. Il manoscritto viene richiesto ed è noto al richiedente. Il libro a stampa si offre, e di esso l’acquirente tutto deve scoprire. Inoltre, i tipografi operavano in regime di spietata concorrenza. Dovevano pubblicizzare i propri prodotti e difenderli dalle imitazioni altrui. Di qui tutta una serie di bisogni nuovi legati alla nascita di un nuovo mercato del libro: identificare facilmente autore e titolo dell’opera; valutare la qualità

|16| Questa edizione dei primi anni del XVI secolo del trattato di Girolamo Savonarola Dell’Umiltà riprende persino nella vignetta xilografica l’edizione data intorno al 1495 da Bartolomeo dei Libri. Il titolo e l’autore sono relegati in secondo piano dall’immagine

di Cristo, e subito, nella stessa prima pagina (si noti la «a» fuori gabbia in basso a destra, corrispondente a 1) inizia il testo vero e proprio. |17| Frontespizio della prima e unica edizione aldina di Plauto, del 1522, su testo curato dallo

dell’edizione dal nome dello stampatore e degli eventuali curatori; essere certi della sua interezza. A questi bisogni i tipografi del XV e XVI secolo risposero in modo non sempre lineare e coerente. Del resto, questi bisogni non vennero espressi in modo chiaro e distinto, si imposero piuttosto nei fatti, nel lavoro quotidiano, nei rapporti commerciali, e ad essi si diedero risposte empiriche, senza che ciò divenisse oggetto di confronto cosciente o di elaborazione teorica. Dal 1490 in poi si definisce sempre meglio l’idea di titolo, si danno le prime edizioni commentate e prefate; nel 1501 Aldo Manuzio inventa i tascabili (enchiridia) e nel 1568 Gabriele Giolito (1508-1578) idea la prima collana editoriale, un nome entrato nell’uso. Come afferma lo storico George Sarton, spinti dalla necessità di diffondere sempre più i loro prodotti, i primi tipografi fecero delle scelte la cui somma, nei tempi lunghi della storia, portò a una sempre maggiore uniformità della “forma libro”. Gli elementi che tra XV e XVI secolo concorsero a definire questa uniformità del libro a stampa, differenziandolo sempre più dal manoscritto, sono: colophon, frontespizio (e, di conseguenza, titolo), punteggiatura, numero di pagina. Seguì poi l’indice.

stesso Aldo Manuzio e da Erasmo da Rotterdam. Il titolo, composto su righe digradanti, è in tutte maiuscole, ed è seguito dalla data di edizione. Il luogo, Venezia, è sottinteso dall’ancora aldina, forse la marca tipografica più celebre nella storia del libro. Tra titolo

e marca, un succinto sommario specifica che il lettore troverà, oltre alle 20 commedie plautine, un indice dei verbi meno comuni; un riassunto delle commedie; una biografia dell’autore; la traduzione delle espressioni greche.

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Colophon I manoscritti generalmente non contengono indicazioni chiare circa il luogo di produzione, spesso il copista prende la parola nelle ultime righe di testo, l’explicit, per ringraziare Dio per aver portato a termine la propria fatica o per impetrare la riconoscenza e il ricordo del lettore. I tipografi, invece, avvertirono subito la necessità di proteggere il proprio lavoro scrivendo non solamente dove il libro era stato stampato, ma anche quando e da chi. Queste indicazioni di stampa si chiamano, con parola greca che significa “apice”, “vetta”, colophon. Nei libri novecenteschi il colophon si è diviso in due. La parte che riguarda i dati tecnici sull’edizione e i relativi diritti, figura in una delle pagine pari iniziali del libro, in genere al verso del frontespizio. Il cosiddetto “finito di stampare”, invece, dichiara la data di stampa dell’edizione e compare, in pagina dispari o pari, secondo le consuetudini della casa editrice, nell’ultimo foglio del libro, o comunque dopo l’ultima pagina di testo. Negli incunaboli – i libri a stampa del XV secolo, quando l’arte tipografica era ancora “in cuna” – il colophon, che compare per la prima volta nello Psalterium magontinum del 1457, è in genere all’ultima carta del volume. I libri di Sweynheym e Pannartz stampati a Subiaco recano sin dal 1465 l’indicazione del luogo di stampa: «In venerabili monasterio sublacensi». Spesso i primi colophon recavano anche la marca tipografica, una sorta di impresa araldica che identificava lo stampatore tipografo: celeberrima quella dell’ancora e del delfino scelta da Aldo Manuzio. Spostatasi nel corso del Cinquecento nella pagina del frontespizio, oggi la marca tipografica – si pensi allo struz-

|18| Stampata a Roma nel 1514 da Etienne Guillery in un volume di 27 carte (54 pagine) formato in-folio, la Practica in Chirurgia di Giovanni de Vigo, medico di papa Giulio II, è uno dei primi e più importanti testi chirurgici dell’Europa moderna. Il frontespizio, chiuso da una

zo della Einaudi con il motto “spiritus durissima coquit” e si veda, in questo libro, lo scudo Zanichelli con il motto “laboravi fidenter” – vive nel frontespizio e in copertina. Nell’età degli incunaboli i colophon furono anche occasione per sfoggiare esempi di quella tecnica di scrittura a stampa che, variando la lunghezza delle righe, disegna forme curiose, oggetti o animali: technopaegnia. Il testo poteva diventare inoltre una vera e propria pubblicità al volume, anticipando di qualche secolo la funzione oggi svolta dalla quarta di copertina o dalle alette, luoghi deputati ad accogliere la presentazione del libro e dell’autore. La concorrenza portò subito a edizioni pirata, che mediante colophon falsi e marche tipografiche copiate aggiravano il privilegio concesso dal governo a un tipografo: il 14 ottobre 1502 lo stesso Manuzio, tra i più imitati, dovette rivolgere al Senato veneziano una petizione, nella quale si cita una edizione del Poliziano stampata a Brescia e spacciata per fiorentina. Frontespizio «Quel che in una lettera è l’indirizzo, in un libro dev’essere il suo titolo», scrisse Schopenhauer. I manoscritti non avevano un titolo vero e proprio, esso veniva perlopiù enunciato nelle prime righe di testo all’interno di una formula più discorsiva del tipo. «Qui comincia [incipit] l’opera di Sant’Agostino sulla città di Dio ecc.».

cornice xilografica, offre anche un sommario del contenuto dei nove capitoli dell’opera. |19| Pagina finale del Confessionale Ominis Mortalium cura di Sant’Antonino, stampato prima del 24 ottobre 1477 dalla stamperia stabilita nel 1476 nel

monastero delle Domenicane di San Giacomo a Ripoli. Alle ultime righe di testo segue l’Explicit con, in forma discorsiva, il titolo del libro, l’autore (al secolo Antonio Pierozzi, dal 1445 arcivescovo di Firenze), il luogo di stampa, la tipografia e la data di stampa

(qui il solo anno, ma molti tipografi specificavano mese e addirittura giorno). Segue una sorta di indice degli argomenti trattati, che rinvia al foglio di stampa: così, Paganesimo e Giudaesimo sono al foglio 4, Superbia e Ingratitudine al 15, la Curiosità sessuale al 19.

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lo col quale noi oggi conosciamo la stessa opera). La prima pagina bianca, divenuta ben presto lo spazio destinato a presentare il volume, evolse nei secoli in risposta a esigenze estetiche e promozionali. Nel Quattrocento risente ancora dei modelli manoscritti: ora il testo ricorda gli esercizi grafici dei colophon, ora quasi scompare per lasciare spazio a grandi illustrazioni incise su legno (xilografie).

Nel caso di manoscritti composti da più opere, si usava riassumerle nel primo foglio del volume, in pagina pari: «in hoc volumine continentur ...» Gli incunaboli, i libri stampati nel XV secolo, adottarono entrambe queste formule, col tempo però separandole dal testo, isolate nella prima pagina a stampa che in Italia si chiamerà con termine architettonico frontespizio e in inglese francese e tedesco pagina del titolo. Il termine italiano enfatizza l’aspetto decorativo, gli altri quello referenziale. Secondo la storica Margaret Smith all’origine del frontespizio fu l’esigenza di proteggere con carte bianche i libri, che viaggiavano sciolti, non rilegati: per identificarli, alle pagine bianche si appose un’etichetta con un breve riferimento ad autore e titolo (spesso molto diverso da quel-

|20| Una tarda edizione (Venezia, Sessa, 1564) di un classico, la Commedia con i commenti, qui riuniti per la prima volta, di Landino (XV secolo) e Vellutello (XVI secolo). Il ritratto xilografico, grazie al quale l’edizione è nota come “Nasona”, venne colorato a mano all’epoca. Nel testo il

poema è composto in corsivo (come nell’allora già superata edizione aldina da cui è ripreso) mentre le note composte su due colonne sono in tondo. Le incisioni su legno (tre delle quali a piena pagina) sono invece riprese dall’edizione data vent’anni prima a Venezia da Marcolini.

Nel Cinquecento i frontespizi tipografici come quelli di Aldo Manuzio (che per primo introduce l’uso di parole tutte in maiuscolo) convivono con quelli decorati da cornici xilografiche a motivi vegetali o architettonici. Ha successo anche il frontespizio con il ritratto dell’autore: famosi quello di Ariosto nell’edizione ferrarese del 1532 del Furioso e quello di Bernardo Tasso per l’Amadigi nell’edizione veneziana del 1560. Marca tipografica e edizione stampata «cum privilegio» del principe o dello Stato garantiscono la qualità. Lo storico S. H. Steinberg afferma che per il frontespizio «nel Cinquecento e nel Seicento si può osservare un graduale passaggio dalla compassata praticità del Rinascimento alla didattica verbale del periodo manierista e alla prolissità del barocco, unitamente alla crescente artificiosità dell’impaginazione». Nel XVII secolo trionfano titoli oscuri, ampollosi, fitti di grecismi, metafore, allegorie, ossimori. L’architettura tipografica si fa asimmetrica e disomogenea, combinando caratteri, corpi, elementi diversi per meglio comprimere in pagina titoli di spropositata lunghezza. La decorazione deborda, e se nel XVI secolo la pagina a fianco del frontespizio poteva con-

|21| Una pagina della Commedia dantesca nell’edizione Marcolini (Venezia, 1544): il commento di Alessandro Vellutello è stampato a blocchetto in corpo e interlinea minori rispetto al testo poetico. La numerazione delle pagine è affidata al solo richiamo, a destra in basso,

riferito al poema. Le xilografie (una per ogni canto, e tre a piena pagina), forse dello stesso Marcolini, furono riprese nelle tre edizioni del poema stampate dal Sessa, “Nasona” compresa. A giudizio degli studiosi, esse rivoluzionano l’iconografia dantesca e contribuiscono a

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tenere il ritratto dell’autore (come per il Dante della Commedia stampata da Giunta a Venezia nel 1529) ora la pagina dispari che precede il frontespizio diviene una vera e propria antiporta figurata, scenografica, teatrale, ridondante, sempre allusiva al contenuto del libro. Al quale, peraltro, gli stampatori del tempo non esitano a cambiar titolo, come per una Commedia vicentina del 1613 ribattezzata La visione. Poema di Dante Alighieri.

informazioni essenziali sul testo: autore, titolo, eventuali prefatori o illustratori, casa editrice e, non sempre, marca tipografica. Non mancano però, nell’Otto e nel Novecento, importanti esempi innovativi: è questo il caso dei libri di avanguardie storiche quali Futurismo e Surrealismo. Punteggiatura

Nella seconda metà del Settecento, per una reazione del gusto, il neoclassicismo impone sobri frontespizi grafici, favoriti anche dalla misurazione standard dei caratteri a stampa introdotta nel 1742 da Fournier con l’invenzione del punto tipografico. La semplificazione del frontespizio porta a una sempre più marcata misura nel titolo. È interessante vedere questo processo di “dimagrimento” nelle successive edizioni di fortunati romanzi che noi oggi conosciamo come Robinson Crusoe o I viaggi di Gulliver ma che nacquero con titoli molto diversi: The life and strange surprising adventures of Robinson Crusoe (1719) e Travels into several and remote nations of the world, by Lemuel Gulliver (1726). A Parma Giambattista Bodoni (1740-1813) si attribuisce giustamente «la gloria di aver insegnato come si formi un frontespizio»: egli però piega il senso delle parole alle esigenze grafiche, sicché per ottenere una armonica proporzione della pagina non esita ad abolire le maiuscole nei nomi propri o a spezzare il nome di Quinto Orazio Flacco con una «Q» solitaria al vertice della pagina. Nell’Ottocento l’invenzione della copertina industriale riduce l’importanza del frontespizio, che vediamo oggi limitarsi a contenere le

fare di questo libro la «prima edizione moderna del Cinquecento» (Volkmann). |22| Frontespizio della seconda edizione dei Suppositi (Venezia, Zoppino, 1538) con il celebre ritratto xilografico di Ludovico Ariosto tratto da un disegno di Tiziano e già utilizzato per il

La separazione fra parole scritte venne introdotta in Irlanda fra VII e VIII secolo. I testi medievali erano fitti di abbreviazioni (quasi nessuna parola era scritta per intero) e di fatto non si conoscevano quasi segni di interpunzione. Gli incunaboli riprendono questi modelli, utilizzando solo punto fermo e due punti, ma ben presto si avverte, sostenuta soprattutto da curatori redazionali del calibro di Erasmo da Rotterdam, Giano Lascaris o Pietro Bembo, l’esigenza di meglio raffigurare le pause logiche e sintattiche nel tessuto del testo. Se la Commedia stampata da Ottaviano Scotto a Venezia nel 1484 ha interpunzione ancora medievale, le edizioni aldine dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499) e di Virgilio (1501) hanno punto, due punti, virgola e punto e virgola. L’apostrofo farà la sua apparizione nella Commedia stampata da Manuzio nel 1502 per le cure di Pietro Bembo. Soltanto nel Cinquecento si abbandona l’uso medievale di abbreviare le parole, assai comune negli incunaboli e ancora presente in un libro di raffinata confezione come è l’Hypnerotomachia.

Furioso del 1532. La commedia, rappresentata per la prima volta a Ferrara nel 1509, venne tradotta in inglese nel 1566 e ispirò William Shakespeare per La bisbetica domata. |23| Il frontespizio xilografico del più importante libro di

botanica del Cinquecento, il De Natura Stirpium di Jean Ruel (Parigi, Simon de Colines, 1536). Grazie all’opera di artisti come Dürer e Ugo da Carpi, sin dai primi anni del nuovo secolo l’incisione su legno acquista, rispetto alle illustrazioni degli incunaboli quattrocenteschi, una maggior morbidezza di

tratto. Si noti invece il titolo spezzato da un a capo. |24| Il frontespizio dell’Orazio stampato a Parma nel 1791 da Bodoni, che con Baskerville, Fournier e Didot interpretò il gusto neoclassico in tipografia.

670 | Storia del Libro | Numero di pagina

Può sembrare incredibile, ma l’esigenza di numerare le pagine dei libri sorse piuttosto tardi, e non per servire al lettore, bensì a quanti – stampatori e legatori – il libro confezionavano. L’esigenza di contrassegnare i successivi blocchi di pagine costituiti dalle pieghe del foglio si rintraccia per la prima volta nei libri stampati a Venezia da Vindelino da Spira e a Colonia con il Sermo in festa praesentationis Beatissimae Virginis, stampato nel 1470 da Arnold ther Hoernen su dodici carte numerate. Negli anni Novanta del secolo le cifre romane vengono sempre più spesso sostituite da quelle arabe. Ma come si numeravano le pagine? Poiché la necessità era quella di fornire una chiara successione a coloro che assemblavano il volume, non si adoperò all’inizio il numero progressivo per ogni pagina – sistema entrato in uso soltanto nel XVII secolo. Ci si limitava a contrassegnare ogni fascicolo con simboli o parole posti nel margine inferiore destro delle sole prime carte al recto, cioè le prime pagine dispari. A seconda dei criteri adottati, si parla di segnatura, di richiamo o di cartulazione. Nata in Germania, la segnatura consiste nel collocare al margine inferiore destro del recto di ogni carta una sigla progressiva composta dalle 23 lettere dell’alfabeto (da A a Z, meno J, U, V o W) numerate progressivamente. Così, un primo fascicolo di quattro carte (cioè di otto pagine), un quaderno, sarà composto da A1 (o Aı), A2 (o Aıı), A3 (Aııj) e A4 (Aıııj): se un libro aveva tante pagine da esaurire la serie A-Z, si ricominciava con AAı (oppure aı), e così via. Il richiamo, che spesso convive con la segnatura, vede anticipare, tutta o in parte, stampata sempre nell’angolo in basso a destra delle pagine dispari, la prima parola della pagina successiva. Veniva impiegato tanto per singole pagine quanto per i soli fascicoli, e durerà sino a tutto il Settecento. Segnature e richiami venivano in genere riportati in una pagina finale, la pagina di registro, ad uso dei compositori e dei legatori: il registro era tuttavia un utile strumento anche per librai e lettori, che potevano così control-

lare se il volume era effettivamente completo. Il registro comparve per la prima volta in Italia nel 1470, e si diffuse in tutta Europa. Vi si elencavano tutti i fascicoli, in ordine progressivo: dal 1483 si registrarono non più i richiami, bensì le segnature. Il registro dell’Orlando furioso del 1532, ad esempio, elenca la serie completa A-Z, quindi una serie a-h, e precisa che «tutti questi sono quaderni»: in tutto, 124 carte, cioè 248 pagine. Infine, la cartulazione numera al recto le sole carte stampate (in pratica, le sole dispari, senza considerare le pagine bianche). Prelude alla numerazione completa delle pagine a stampa, che trionferà con il Seicento. Anche l’editoria contemporanea non numera (ma computa) le pagine bianche, come potete facilmente controllare in questo stesso volume. Inoltre, adotta talvolta la numerazione romana per le prefazioni, e l’araba per il testo vero e proprio. Sino a tutti gli anni Sessanta del Novecento molti editori (Bompiani, ad esempio) siglarono anche i fascicoli con un progressivo minuscolo numero arabo in basso a sinistra nella prima pagina di ogni fascicolo. Indici e sommari

La tavola di registro (chiamata anche tabula rubricarum o chartarum) contiene già in sé l’idea di indice. Questo però si afferma solo nel tardo Cinquecento per quel che riguarda le parti costitutive di un volume, quelli che noi oggi chiamiamo capitoli, e solamente come ordine di comparsa, senza indicazioni di numero di pagina. Più come informazione che come strumento. Sarà invece con il progressivo affermarsi del pensiero scientifico e enciclopedico che si avvertirà sempre più l’esigenza di apparati che si perfezioneranno soltanto nella seconda metà dell’Ottocento: accanto all’Indice o Sommario dell’opera (il nome varia a seconda che chiuda o apra il volume), gli indici dei nomi, degli argomenti eccetera. All’origine di questi apparati stanno le medievali tavole comparative dei passi biblici o dei classici, che spesso costituirono veri e propri volumi separati, come nel caso delle Annotationes in Omnia Ovidi opera. Index fabularum, et coeterorum, quae insunt hoc libro secundum ordinem alphabeti, stampato a Venezia dagli eredi di Aldo Manuzio nel 1533.

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4. La parola illustrata

Sia manoscritto sia a stampa, il libro vede sin dagli albori il testo completato da illustrazioni. Se nel manoscritto le miniature sono pezzi unici, diversi da esemplare a esemplare, nel libro a stampa le immagini sono riprodotte in serie.

Così come i caratteri a stampa nascono da matrici che compongono la pagina in piombo, le illustrazioni vengono incise su matrici di vario materiale che, inchiostrate, sotto la pressione del torchio, riproducono specularmente sulla pagina le linee delle figure. Questo significa che ogni libro illustrato impresso al torchio (prima, cioè, delle rivoluzioni tecnologiche dell’Ottocento) richiede almeno due passaggi di stampa: uno per il testo e uno per le immagini. Altri elementi, come ad esempio l’uso dei colori, potevano richiedere ulteriori passaggi. Le difficoltà tecniche non spaventavano i primi tipografi, che anzi si dimostrarono subito in grado di affrontare impaginazioni anche molto complesse, come ad esempio per testi di geometria. La tipologia del libro illustrato varia comunque, e molto, a seconda delle tecniche e dei soggetti.

Tecniche di illustrazione

Si parla di incisioni a rilievo per quelle tecniche ove l’artista delinea a mano in rilievo i contorni delle immagini; di incisioni in cavo per quelle che vedono scavare i contorni, manualmente o per mezzo di agenti chimici. Il torchio di Gutenberg presentava limiti tecnici rispetto alle lastre metalliche, tipiche delle incisioni in cavo. Con l’invenzione del torchio piano cilindrico, nella seconda metà del Cinquecento, le incisioni in cavo si diffusero sempre più a scapito di quelle a rilievo. Il torchio calcografico a due cilindri si compone di un piano da stampa che scorre, con il foglio steso, tra due cilindri. Quello superiore ruota tramite un mulinello. Inoltre, un sistema di viti consente di regolare la pressione dei rulli sul piano. Sino alla fine del Settecento questo fu praticamente il solo progresso tecnico nel mondo del libro a stampa.

|25-26| Stampata nello stesso anno in latino e tedesco, la Cronaca di Norimberga di Schedel (Norimberga, Koberger, 1493) fu un grande successo editoriale, grazie anche alle quasi duemila illustrazioni su legno. Molti acquirenti provvidero persino a farle colorare a mano, sicché oggi alcuni esemplari del libro sono ravvivati da questo intervento.

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secolo, molto resistente (una tavola consente centinaia di impressioni a stampa), la xilografia presenta però un tratto piuttosto netto e duro. La tavola di legno veniva infatti tagliata longitudinalmente (legno di filo) e le fibre rendevano difficile modellare i contorni. Nei primi anni dell’Ottocento l’inglese Thomas Bewick (1753-1828) perfezionò l’incisione a bulino su legno di testa (tagliato in sezione) che consentiva notevoli effetti chiaroscurali; così la xilografia, che dal Seicento era stata usata soltanto per edizioni popolari, conobbe nuove fortune. Calcografia

Xilografia

Dal greco xylon, incisione su legno: è la tecnica più antica e diffusa, la sola, anzi, per i libri stampati con il torchio di Gutenberg. Su una tavola di legno duro e compatto, sulla quale è stata disegnata l’immagine guida, si ottengono in rilievo i contorni delle figure desiderate scavando con sgorbia e coltello. Inchiostrati i soli tratti in rilievo, la tavola lignea viene stampata sul foglio di carta. Tipica degli incunaboli e dei libri del XVI

|27| Pubblicare Aristotele poneva ai primi tipografi qualche problema di composizione a proposito dei sillogismi: ecco una doppia pagina dalla prima edizione a stampa, data da Aldo Manuzio in cinque volumi composti a

Venezia tra il 1495 e il 1498. |28| La logica aristotelica non era un problema tipografico complesso quanto gli schemi di una enciclopedia delle conoscenze umane alla fine del medioevo. Nel De

Tecnica di incisione in cavo su metallo, in genere rame. La matrice viene intagliata a mano sia con la punta dura e affilata del bulino sia con quella più dolce della puntasecca, o con bagni di acidi. In questo caso la lastra di rame viene protetta con cera; la punta metallica incide il disegno nella cera e una morsura in acido nitrico scava il tratto così ottenuto. Nella incisione in cavo l’inchiostro riempie i solchi tracciati sul metallo. Bulino e puntasecca permettono però un numero limitato di impressioni, e perciò non si adattano al libro a stampa. Più resistenti, le tecniche di morsura con acido, come l’acquaforte, vennero largamente impiegate a partire dal Seicento. La calcografia si riconosce per la battuta della lastra, che imprime un lieve schiacciamento al foglio. Per questa ragione in molti volumi le tavole di grandi dimensioni venivano stampate su fogli lasciati bianchi al retro per non danneggiare il testo a stampa. Litografia

A fine Settecento il tedesco Alois Senefelder (1771-1834) inventa quella che si chiamerà prima stampa chimica e poi, dal

Expetendis et Fugiendis Rebus Opus il medico Giorgio Valla riassume tutte le scienze allora note, dall’aritmetica alla retorica, dal diritto alla grammatica, dalla musica alla medicina: ecco una pagina dei due volumi in-folio stampati

da Aldo Manuzio nel 1501. |29| La cornice xilografica di questo Euclide (Venezia, Ratdolt, 1482) contrasta sensibilmente con la moderna disposizione delle figure geometriche e delle relative

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greco lithos, pietra, stampa litografica. Infatti il processo di Senefelder sfrutta la proprietà di alcuni calcari della Baviera capaci di reagire in differenti modi all’acqua e alle materie grasse. Sulle lastre di calcare, rese impermeabili con gomma arabica, si traccia direttamente il disegno con un impasto di grassi e nerofumo. Le lastre vengono poi inchiostrate: l’inchiostro si fissa solamente sul tratto grasso del disegno, che può essere così riprodotto a stampa sui fogli, prima grazie a un torchio particolare, detto appunto litografico o verticale, inventato da Senefelder, poi con torchi a vapore e, a fine Ottocento, con vere e proprie macchine litografiche.

SEI SECOLI DI LIBRI ILLUSTRATI Quando parliamo di libro illustrato, ci riferiamo a realtà diverse tra loro. Una prima divisione concettuale separa i libri scientifici, dai volumi “d’arte”. Nei primi dobbiamo comprendere testi protoscientifici, anche se le illustrazioni dei volumi di astrologia e alchimia si avvicinano più a quelle “d’arte” che non a quelle dei libri di matematica o di architettura. Tra i libri scientifici, gli illustrati più sontuosi caratterizzano i testi di medicina, botanica e zoologia; affascinanti sono anche quelli di astronomia e di arte militare. L’illustrazione

La litografia è pertanto un processo di stampa in piano: il disegno tracciato direttamente sulla lastra matrice non è scavato in cavo come nell’acquaforte, né ottenuto a rilievo come nella xilografia. Su questo principio e sulla repulsione fra acqua e inchiostri grassi si basano le tecniche industriali offset. Il modello di stampa offset più diffuso è quello cilindrico (perlopiù a tre cilindri) a foglio. Negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale, si passa a lastre di zinco incise chimicamente. Le litografie vennero colorate a mano sino a metà Ottocento, quando si inventò la cromolitografia industriale, basata sulla sovrapposizione di matrici con differenti colori. I libri illustrati del Novecento si avvalgono della quadricromia, basata sul dosaggio dei tre colori primari (blu, giallo, rosso) e del nero su quattro differenti matrici che vengono sovrapposte fra loro in fase di stampa. Sebbene oggi le tecniche fotografiche e la tecnologia informatica abbiano rivoluzionato l’idea stessa di illustrazione, la quadricromia resta un passaggio tecnico fondamentale.

didascalie a stampa. Ratdolt l’aveva già utilizzata per un Appiano del 1477. Si noti l’incipit su due righe più brevi in inchiostro rosso che, secondo l’uso dei manoscritti, introduce l’opera. Non esiste frontespizio, né titolo vero e proprio.

“d’arte” caratterizza le opere letterarie (si pensi a Botticelli con Dante, Piazzetta con Tasso o ai misteriosi maestri dell’Hypnerotomachia Poliphili, ma anche a romanzi “moderni” che nascono illustrati, come i già citati Robinson Crusoe e I viaggi di Gulliver, o i Promessi sposi illustrati da Gonin sotto la supervisione di Manzoni stesso) e quei volumi particolari che sono i libri di corte e i libri d’emblemi. A fine Ottocento s’affermano due fortunati generi: il livre de peintre e il libro per l’infanzia, le cui fortune durano tuttora.

|30| La prima edizione del Discours de la méthode di Cartesio (Leida, Maire, 1637) comprendeva: La dioptrique, Les météores e La géometrie che, come si spiegava al frontespizio, costituivano saggi esemplari del metodo stesso.

In questa doppia pagina si vede una delle numerose illustrazioni su rame, rese d’uso comune meno di un secolo prima dall’invenzione del torchio calcografico. Si notino le tre numerazioni di pagina: segnatura (in basso

fuori gabbia al centro), richiamo (in basso fuori gabbia a destra) e paginazione progressiva (in alto a margine esterno – sinistra per le pagine pari, destra per le dispari – e allineata al titolo corrente).

674 | Storia del Libro | Il Quattrocento

Nel 1461 Ulrich Pfister (1420-1466) stampa a Bamberga per Ulrich Boner il primo libro illustrato a stampa, Der Edelstein, con 101 xilografie. Nei restanti 39 anni del secolo i libri illustrati con xilografie divengono comuni in tutta Europa: nel 1467 Ulrich Han (14251478) stampa a Roma il primo illustrato italiano, le Meditationes in Vitam Christi del cardinale Johannes de Turrecremata. Siano d’argomento sacro (Leben der Heiligen di Jacopo da Varagine stampato da Günther Zeiner a Magonza nel 1471-1472 con iniziali, vignette e fregi o Peregrinatio in Terram Sanctam di Bernard Breydenbach stampato da Peter Schoeffer a Magonza nel 1486 e illustrato da Erhard Reuwich) o di argomento profano (De Claris Mulieribus di Boccaccio stampato da Johann Zeiner a Ulma nel 1473 o Narrenschiff di Sebastian Brant stampato da Peter Wagner a Norimberga nel 1494) tutti questi volumi sono illustrati con xilografie, il tipo di incisione la cui matrice meglio si adatta al torchio di Gutenberg. È normale riutilizzare le matrici: la già citata Cronaca di Norimberga di Schedel vede gli stessi legni illustrare città diverse, come ad esempio Napoli e Magonza;

Zeiner ricicla le illustrazioni del Boccaccio per un Esopo stampato nel 1477. Non mancano sperimentazioni nella stampa delle cornici lignee o dei capilettera. Si prova a stampare da lastre di rame incise, come nel caso delle Meditationes del Turrecremata edite da Johannes Neumeister (metà XV sec.-1522 circa) a Magonza nel 1479 e del celebre Esopo stampato a Napoli da Del Tuppo (1443-1498) nel 1485, uno dei libri la cui realizzazione tecnica presenta misteri tuttora insoluti (calcografie su lastre di rame o xilografie su legno di testa?). Al segno forte e duro delle xilografie tedesche, al carattere decorativo di quelle francesi, l’editoria italiana contrappone un’evoluzione che prelude al gusto rinascimentale. Fra i molti belli incunaboli illustrati stampati in Italia ricordiamo il De Re Militari di Roberto Valturio (Verona, Giovanni di Nicolò, 1472, con 84 grandi tavole forse da disegni di Matteo de’ Pasti); il Fasciculus medicinae di Johann Ketham (Venezia, De Gregori, 1493, con il colore applicato in fase di stampa); un Decameron (Venezia, De Gregori, 1492) e una Commedia (Brescia, Bonino de Bonini, 1487); infine, il misterioso e notevolissimo Hypnerotomachia Poliphili stampato da Aldo Manuzio con 168 xilografie il penultimo anno del secolo (Venezia, 1499). Il Cinquecento

La forma del libro tende a omologarsi, ma la diffusione della stampa porta a nuovi generi: l’editoria musicale, architettonica, cartografica, calligrafica, ciascuna con caratteristiche formali proprie. La già ricordata invenzione del torchio calcografico consentirà nella seconda metà del secolo un sempre maggior uso di incisioni su lastre metalliche per l’illustrazione dei volumi. Le tecniche in cavo interpretano meglio, del resto, lo spirito rinascimentale, grazie al tratto più morbido e sottile che consente rappresentazioni più complesse e delicati giochi di chiaroscuro. Inoltre il gusto

|31| Doppia pagina di un atlante di Blaeu (Amsterdam, 1642): ogni foglio misura 515x345 mm, tutte le tavole sono incise su rame, mentre i colori venivano stesi a mano

solo su richiesta dell’acquirente. La famiglia Blaeu si specializzò nella produzione di grandi e ricercati atlanti geografici.

|32| Composta, compreso il Supplemento, da 35 volumi in folio (390x245 mm) stampati nell’arco di più di vent’anni a partire dal 1751, l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert

costituisce il più grande e complesso lavoro editoriale dell’Antico Regime. Le circa 2800 tavole incise su rame concentrano tutto il sapere scientifico e tecnico del tempo;

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manierista per la decorazione troverà nella calcografia una più esuberante rispondenza tecnica. Per buona parte del secolo è uso ricorrere alla xilografia per la marca tipografica, per il ritratto dell’autore e per sempre più ornati frontespizi, o per le illustrazioni a vignetta dei testi letterari. Dagli anni Cinquanta in poi, però, si afferma sempre più la tavola a piena pagina incisa in cavo. Se sono ancora su legno le tavole del De Architectura di Vitruvio (Tacuino, Venezia, 1511) o quelle anatomiche di Vesalio (Venezia, Vitali, 1538), così come quelle dei più importanti illustrati francesi e tedeschi, molti testi vedono l’uso misto di incisioni su legno e su rame, mentre solo su rame sono le tavole a piena pagina dei grandi atlanti geografici che nell’ultimo quarto del Cinquecento faranno la gloria dell’editoria olandese. Il Seicento

Si ha in tutta Europa un grande sviluppo della calcografia decorativa, soprattutto nei frontespizi figurati e nelle tavole esornative dei volumi di corte. Ma è nei libri scientifici che si afferma il supporto fondamentale dell’illustrazione, collegata alle nuove scoperte. Sempre più numerosi, i testi di zoologia e, soprattutto, di botanica vedono la xilografia relegata alle edizioni popolari, che spesso riutilizzano legni cinquecenteschi. Le prime osservazioni al miscroscopio («all’occhialino») vengono riprese in splendide tavole su rame in opere zoologiche (l’ape nell’Apiarum di Federico Cesi, Roma, 1625) e botaniche (il seme di ibisco nel De Florum Culturam di Giovanbattista Ferrari, Roma, 1633). Esse sono tipiche dei testi scientifici secenteschi: con la Micrographia (Londra, 1665) Robert Hook dà la prima raffigurazione della cellula, mentre Francesco Redi nel 1668 e Marcello Malpighi nel 1669 e 1675 vi fanno ricorso per testi sulla generazione e sull’anatomia degli insetti e delle piante. Anche il cannocchiale influisce sulle illustrazioni dei testi di astro-

per molti mestieri ormai scomparsi esse sono l’unica preziosa e attendibile testimonianza a noi pervenuta.

nomia e degli atlanti celesti, aperti ormai sul polo australe e sulle nuove costellazioni, mentre la rappresentazione cartografica – si pensi alla mappatura del regno di Francia eseguita sotto Luigi XIV dai Cassini – si fa sempre più esatta. Il Settecento

Nel secolo che vede l’Europa alla conquista del pianeta si fa uso dell’illustrazione su rame soprattutto a fini scientifici in libri di grande formato. È l’epoca dei grandi viaggi di scoperta (La Pérouse, Cook) e dell’organizzazione sistematica delle conoscenze che trova la sua più alta espressione nelle migliaia di tavole dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, sterminata mappa del sapere del mondo. Ma è anche il secolo dei “libri figurati” (celebri quelli francesi e veneziani) con lussuose edizioni di letteratura sempre integrate da immagini su rame: vale per classici come Ovidio e Tasso e per moderni come La Fontaine. Il colore viene però impiegato quasi soltanto nei testi di zoologia e botanica, sempre più affollati di nuove specie esotiche sconosciute al pubblico colto europeo. L’Ottocento

La litografia prima, la fotografia poi rivoluzionano l’illustrazione editoriale in un secolo che vive un continuo progresso tec-

|33| L’incisione all’acquaforte caratterizza gli illustrati del Settecento, il cui gusto è ben rappresentato da questa doppia pagina tratta dai Contes et Nouvelles en Vers di Jean de

La Fontaine (Parigi, Barbou, 1762): da un punto di vista tipografico, si noti il titolo su due righe dai differenti caratteri (con luce in tondo sopra, corsivi senza luce sotto)

e la paginazione data solo con la segnatura (qui, terza pagina dispari del fascicolo E).

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nico della tipografia. Da prodotto artigiano il libro diventa industria. Un titolo può essere stampato in migliaia di copie, e i giornali sono gli araldi di questa nuova società. Il prezzo dei libri diminuisce, rendendoli accessibili a un pubblico più vasto; s’afferma anche il diritto d’autore. Se la xilografia su legno di testa consente raffinate illustrazioni (basti pensare alle tavole di Gustave Doré), l’Ottocento è il secolo della litografia. Dagli anni Cinquanta anche l’illustrazione a colori si fa industriale, non più affidata alla mano del singolo. Nel 1839 la prima foto scientifica della Luna apre all’editoria fotografica anche il settore dei volumi di astronomia. Accanto ai vecchi generi presentati in una veste iconografica sempre più esatta (testi geografici e scientifici) o appariscente (i classici della letteratura) nascono nuovi prodotti editoriali. Il libro per l’infanzia inteso come prodotto di intrattenimento vede la luce nel 1807 in Inghilterra con The Butterfly’s Ball, and the Grasshopper’s Feast, testi di W. Roscoe e tavole di W. Mulready. Le favole dei fratelli Grimm e di Andersen nei paesi nordici, l’Alice di Carroll illustrata da John Tenniel nel 1865, i romanzi di Verne in Francia, il Pinocchio di Collodi in Italia (1881-1883) non sono che i più noti fra centinaia di illustrati per l’infanzia. Il 16 febbraio 1896 con la comparsa sul quotidiano newyorchese “The World” di uno

|34| Georges Leclerc, conte di Buffon, pubblicò tra il 1766 e il 1779 una Storia naturale in 38 volumi che ebbe grande diffusione. Animali e piante venivano descritti e illustrati in preziose tavole su rame colorate a mano. L’Europa alla conquista del mondo ne scopriva anche natura e frutti:

non a caso Sette e Ottocento furono i secoli dei grandi libri di geografia, zoologia e botanica. |35| Pierre-Joseph Redouté (1759-1840) fu il miglior illustratore botanico francese: nei suoi due libri più noti, Les Liliacées (Parigi, Didot, 18021816) e Les Roses (Parigi,

scatenato bebé vestito di giallo, Yellow Kid, nasce ufficialmente il fumetto. All’estremo opposto, nel 1900 il secolo si chiude con Parallèlement di Paul Verlaine illustrato dal pittore Bonnard con litografie che entrano nel testo: il primo di una preziosa serie di livres de peintre. Il Novecento

Nel 2000, ultimo anno del XX secolo, sono stati pubblicati nel mondo quattro miliardi di titoli: ciò dà un’idea dello sviluppo, ricchezza e varietà della “galassia Gutenberg”, parallelo allo sviluppo delle scienze e delle tecnologie. La fotografia satellitare illustra ormai gli atlanti. Grandi artisti si sono misurati con il libro per l’infanzia e con il fumetto, dal “Corriere dei Piccoli” e da Walt Disney a oggi, elaborando sempre più raffinate creazioni. I progressi tecnici hanno rivoluzionato i libri fotografici (in bianco e nero per tutto l’Ottocento) e le avanguardie artistiche hanno sconvolto le regole tipografiche, come nel caso del Futurismo, o portato a vertici eccelsi i libri dei pittori, come per Matisse, Picasso e Max Ernst. I libri illustrati si sono moltiplicati, hanno mutato la veste esteriore, ma rispondono pur sempre alle regole di fondo dell’editoria: possono essere scientifici o d’intrattenimento, e i generi sono ancora in gran parte quelli definiti nel XVI secolo, e anche se oggi un Vesalio continuerebbe a stupirci, delle foto-sonda di un testo medico o le immagini al microscopio non impressionano più nessuno. Ma come non ricordare che nel 1974 il pittore dei Beatles, Alan Altridge, si misurò in un umile omaggio-rivisitazione del Butterfly’s Ball, il libro che nel lontano 1807 aveva inaugurato il fortunato genere degli illustrati per l’infanzia?

Didot, 1817-1824) vennero utilizzate rispettivamente tavole incise a retino su rame e tavole litografiche, le une e le altre colorate a mano. |36| L’invenzione della litografia consentì ulteriori progressi nell’illustrazione dei libri. John Gould (1804-1881)

fu il più celebre e ricercato illustratore naturalista dell’età vittoriana. Specializzato in uccelli, pubblicò a Londra 43 volumi di tavole litografiche colorate a mano, come questa, tratta da The Birds of Australia.

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5. Le rivoluzioni del libro

Ogni libro possiede un’anima (il significato del testo) e un corpo (la veste fisica, tipografica e materiale). Corpo e anima sono però fusi insieme più di quanto a prima vista si potrebbe pensare. E questo già dalla forma esterna. Un libro rettangolare sviluppato in altezza sarà probabilmente un’opera formata quasi esclusivamente da un testo, sia esso romanzo, saggio o poesia. Un formato quadrotto vedrà affiancarsi al testo un nutrito apparato di immagini, mentro un libro rettangolare sviluppato in orizzontale dichiara subito un contenuto prevalentemente iconografico. Questo vale, ancor più, per la veste tipografica. Riuscite a pensare, ad esempio, ai Malavoglia stampati in corpo piccolo su una doppia colonna di testo? No, ma questa è invece la veste tipografica ormai consolidata per una nota collana economica di gialli venduti in edicola e da leggersi in treno. E tuttavia, all’opposto estremo culturale, la doppia colonna a stampa contraddistingue anche le enciclopedie, da quella di Diderot e d’Alembert alla Treccani. Ogni anima, verrebbe da dire, possiede un corpo suo proprio. E il corpo ha conosciuto, nel tempo, alcuni mutamenti. Vogliamo provare a guardare i libri in quanto oggetti veicolo di idee? Vogliamo provare a considerarli sotto tutto quell’insieme di aspetti – sovente inavvertiti al lettore – che vanno sotto il nome di messa in pagina o impaginazione? Lo specchio di pagina

Nato perfettamente funzionale come altri oggetti della civiltà umana (il cucchiaio, ad esempio), il libro ha conosciuto relativamente poche varianti nella disposizione del testo nella pagina: certo, i margini bianchi possono mutare per dimensione, la posizione del numero di pagina può essere più o meno fantasiosa (in basso, in alto, laterale, centrata o allineata al margine), si possono usare in modo più o meno creativo i caratteri tipografici, tondi e corsivi, chiari e neretti, righe tutte maiuscole o no, ma le tipologie di specchio di pagina, sia essa rettangolare o quadrotta, sono sostanzialmente tre: testo a blocco di giustezza piena, testo a colonne (due o più), testo misto di colonne e giustezza piena (il

più creativo, forse, ma meno immediato per il lettore). Sin dai manoscritti medievali la disposizione del testo nella pagina presenta soluzioni particolari che consentono di collegare visivamente testo principale e commento, in modo che, come spiega la studiosa Maria Luisa Agati «l’occhio del lettore potesse percorrerli ambedue in rapporto l’uno con l’altro». I primi libri a stampa conservarono questa disposizione, con il commento in corpo più piccolo disposto attorno al testo principale (un po’ come quello che oggi si chiama testo composto nel colonnino di servizio), oppure interlineare al testo principale, o ancora a geometria variabile nello specchio di pagina. Il progressivo mutare della natura stessa del commento ha fatto sì che la moderna editoria, salvo particolarissimi casi, disponga le note al testo o a piede di pagina o a fine capitolo o a fine volume, e sempre in un corpo minore rispetto a quello del testo principale. Sin dai primi incunaboli, i tipografi si divertirono ad usare le parole come immagini: esempi celebri sono la “dive bouteille” di François Rabelais (1494-1553), dove la composizione tipografica disegna appunto una bottiglia, o, più recente, la coda di topo in una pagina di Lewis Carroll. Le avanguardie artistiche del primo Novecento, Futurismo e Surrealismo, generarono una rivoluzione tipografica che però, nella produzione libraria dell’industria editoriale, ha

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lasciato segno quasi soltanto nella grafica di copertina. Ne è elemento principale il rifiuto della disposizione ortogonale della pagina. Che la rivoluzione tipografica sia trionfante in pubblicità ma non in editoria, si spiega facilmente: elemento principale di un testo è la leggibilità. Più un testo è lungo, più richiede una composizione chiara e leggibile. Nessun essere umano riuscirebbe a leggere un romanzo le cui pagine fossero composte come una sequenza di manifesti pubblicitari. E questo ci porta a parlare di quelle opere d’arte microscopiche che sono i simboli essenziali: i caratteri. I caratteri

Le due grandi famiglie in cui si possono classificare i caratteri a stampa si differenziano per la presenza o meno di grazie, i tratti terminali di ciascuna lettera. Le due famiglie possono assumere stili (disegni) diversi, ciascuno in serie (tondo, corsivo, minuscolo, maiuscolo, maiuscoletto) e forze (chiaro, neretto, nero e nerissimo) diverse. In rapporto alla proporzione larghezza/altezza, ogni carattere può essere normale, stretto (condensed) o largo. I caratteri senza grazie nascono all’inizio del XX secolo. E prima? Gli stili dei caratteri a stampa nascono dall’imitazione della scrittura manuale. I primi sono gotici (Textur, Fraktur) perché quella era la grafia in uso nella Germania quattrocentesca. Ben presto, però, gli stampatori italiani prima (1465) e francesi poi impongono caratteri che si ispirano alla scrittura romana e carolingia. Luca Pacioli, Albrecht Dürer e altri grandi matematici e artisti disegnano caratteri. Nel 1501 Francesco Griffo (1450-1518)

|37| Aldo Novarese (1920-1995) pittore e grafico disegnò caratteri come Garaldus (1956) Eurostile (1962) Forma (1968) e Novarese (1978). Dal 1952 direttore dello Studio Artistico Nebiolo di Torino, nel 1964 in alfa-beta. Lo studio e il disegno del carattere classificò i caratteri tipografici in dieci famiglie di base, differenziate dalla forma delle grazie, quei tratti sottili

che prolungano l’asta della lettera. |38| Giovanni Antonio Tagliente, dal 1492 maestro di scrittura nella cancelleria veneziana, pubblicò numerosi manuali di vario genere. Nel Libro maistreuole (qui due pagine di un’edizione veneziana del 1524) offre un repertorio di scrittura ai ceti mercantili e artigianali per i

disegna per Aldo Manuzio il primo carattere corsivo o italico. Verso il 1530 il francese Claude Garamond (1499-1561), ispirandosi ai caratteri tondi romani usati da Aldo Manuzio, disegna un tondo di grande leggibilità, destinato a grandissima fortuna. Negli stessi anni, il francese Robert Grandjon (1513-1590) perfeziona il corsivo, dando alle maiuscole la stessa inclinazione delle minuscole. Nel Seicento la Francia è, anche in tipografia, lo Stato più attivo d’Europa: dal 1640 l’Imprimerie Royale, che ha sede al Louvre, controlla l’intera produzione libraria nazionale. Negli anni Novanta del secolo, sotto l’impulso di Luigi XIV e del ministro Colbert, l’Imprimerie riceve l’incarico di rinnovare il carattere Garamond usato sino allora. Philippe Grandjean e altri disegnano un nuovo carattere, il Romain du Roy, spartiacque nella storia della tipografia. Primo carattere con grazie orizzontali, annuncia la sistemazione teorica e la purezza di linee dei grandi stampatori neoclassici del Settecento, Fournier, Baskerville, Didot, Bodoni. Nel 1650 Christoffel van Dyck (16051669) disegna per gli stampatori olandesi Elzevier un carattere che da loro prenderà nome: Elzeviro, destinato, come il Garamond, a duratura fortuna. Sia van Dyck sia Grandjean studiano caratteri con peculiarità tali (aste corte, grazie marcate, occhio più rilevato) da consentire grande leggibilità anche nei corpi più piccoli e da permettere meno spazio bianco fra le lettere. Questa attenzione non è solo estetica, risponde a esigenze commerciali: rivela che i formati dei libri si fanno più piccoli, e che il risparmio di carta consente tirature più alte a prezzi minori. In sostanza, sta nascendo un pubblico borghese, e basterebbe a confer-

quali scrivere era necessario. Accanto agli alfabeti greco e ebraico, ecco allora modelli differenti di scrittura: littera antiqua, scrittura bollatica, lettera mercantile standard, mercantile genovese, fiorentina bastarda e così via. Si noti, nella parola «questo», il legame fra «s» e «t», ancora usato oggi in molte edizioni di pregio, soprattutto in Francia.

|39| Tagliente è autore anche di un Luminario de Arithmetica (qui due pagine di un’edizione veneziana del 1525) rivolto esplicitamente ai «mercatanti», così che apprendessero come «tenere conto de libro dopio», cioè la partita doppia. Si noti la raffinata impostazione dello specchio di pagina, di chiara e immediata lettura. Il testo è in corsivo, ma le lettere maiuscole

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ma il crollo delle edizioni in latino, a favore di quelle nelle varie lingue nazionali. L’introduzione, nel Settecento, di un’unità di misura tipografica (punto Didot: 0,376 mm) consente non soltanto di disegnare nuovi caratteri ma di precisarne matematicamente gli

sono ancora diritte, non inclinate. |40| L’alfabeto disegnato da Dürer nel 1525. Molti artisti e matematici si dedicarono in quegli anni al disegno more geometrico delle lettere: Felice Feliciano (1463), Leon Battista Alberti (1467) e Luca Pacioli (autore nel 1509 del De Divina Proportione) sono i primi. Le

standard: la rivoluzione industriale è alle porte. Con essa si passa alla produzione editoriale di massa: in tipografia, l’Ottocento è un momento di scadimento qualitativo al quale i disegnatori di caratteri reagiscono, sul finire del secolo, con ritorni al passato che hanno nell’inglese William Morris il teorico e l’esponente più famoso.

lettere, iscritte in un quadrato, venivano disegnate mediante cerchi. Il rapporto fra altezza e spessore dei tratti di ogni lettera variava fra 1:12 e, come nel caso di Dürer, 1:10. |41| Il tipografo francese Geoffroy Tory scrive e pubblica Champfleury (Parigi, 1529) un libro di teoria grafica che studia il rapporto fra lettere e corpo

umano. Questa lettera «K», disegnata secondo i canoni matematici del quadrato e del cerchio, unisce la suggestione dell’uomo vitruviano. |42a-42b| Due Garamond, tondo e corsivo, dal campionario del tipografo cinquecentesco Guillaume Le Bé (le annotazioni manoscritte sono del figlio, Guillaume II). Si

notino le maiuscole inclinate nel corsivo, il legame fra alcune lettere («st, ct; fi; ff, ij...»), la & corsiva che riprende quella disegnata da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1501. Il Garamond conosce oggi decine di varianti, ma resta uno dei caratteri più usati per eleganza e nitidezza, caratteristica che ne favorisce la leggibilità anche su corpi molto piccoli.

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Fu nelle “private presses” (torchi gestiti da artisti grafici, con edizioni in tirature limitate) che ai primi del Novecento, soprattutto in Germania, si crearono nuovi caratteri tipografici volti a far convivere qualità estetica e produzione di massa. Accanto ai pesanti caratteri precedenti, nascono allora caratteri tipografici ispirati ai movimenti Art Nouveau e Art Déco, e compaiono i caratteri “senza gra-

|43| Doppia pagina della Biblia sacra stampata nel 1572 ad Anversa da Christophe Plantin. Composta in quattro lingue (Hebraice, Chaldaice, Græce & Latine, recita il frontespizio, in quattro differenti caratteri) e dedicata a Filippo II di Spagna, è nota come Bibbia poliglotta o Bibbia regia. In otto volumi, con una tiratura di 1213 copie, distribuisce il testo di ogni

pagina su due colonne principali (ebraico e latino di San Gerolamo le pagine pari, latino dalla versione greca dei Settanta e greco le dispari) con il testo “caldeo” e la sua traduzione al piede, a giustezza piena, rispettivamente in pari e dispari. Per le due lingue semitiche il testo scorre correttamente da destra a sinistra, come si evince dalla

zie”. Nel 1964 Aldo Novarese (1920-1995), grafico e disegnatore, individuò dieci famiglie di caratteri, due sole delle quali senza grazie. Già nel 1898 la fonderia Berthold di Berlino produce l’Akzidenz Grotesk, diretto precedente del carattere Helvetica, forse il più noto dei senza grazie prodotto a partire dal 1957 dalla fonderia svizzera Haas. Paul Renner (1878-1956) disegna nel 19241926 il Futura, razionalista, in produzione dal 1927 presso la fonderia Bauer di Francoforte. In quello stesso anno la londinese Monotype Corporation produce il Gill Sans, disegnato da Eric Gill (1882-1940), dove Sans sta per “sans serif”, cioè appunto senza grazie. La fonderia Nebiolo dà, verso il 1930, il Semplicità, lineare sin dal nome. Non mancano tuttavia le rielaborazioni di storici caratteri con grazie. Il 3 ottobre 1932 il Times viene composto in Times New Roman, carattere appositamente disegnato da una équipe diretta da Stanley Morison (18891967). Tra il 1956 e il 1958 Francesco Simoncini (1912-1975) disegna per l’editore Einaudi il Garamond che porta il suo nome. Oggi basta scorrere i campionari a computer per scoprire decine di caratteri (font) disegnati da grandi teorici della tipografia, e con gli anni Sessanta le avanguardie artistiche hanno sempre più influenzato la grafica editoriale e pubblicitaria. L’armonia tipografica tra segno e immagine si applica anche a televisione e cinema. Da Io e Annie (1977) in poi, ad esempio, Woody Allen adotta per i titoli di testa il carattere EF Windsor Elongated (dove EF sta per i produttori Elsner e Flake). Perché ogni messaggio visivo è, anche, questione di carattere, come ben dice Pablo Neruda nell’Ode alla tipografia:

posizione del capolettera. |44a-44b| L’ornamentazione barocca non risparmia l’alfabeto, come si può vedere da questo, praticamente illeggibile, disegnato da Paul Frank a Norimberga nel 1601. Anche il Novecento conoscerà una esasperata elaborazione delle lettere, che avrà un uso quasi esclusivamente

pubblicitario poiché l’eccesso di ornamentazione va a discapito della leggibilità. Qui, un campionario di caratteri Variex disegnati da Rudy Vanderlands e Zuzanna Licko alla fine degli anni Ottanta. |45a-45b-45c| All’estremo opposto, il codice di eleganza e leggibilità che impronta la tipografia francese nel Grand

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«Lettere lunghe, severe, / verticali, / fatte / di linea / pura, erette / come l’albero / della nave / nel mezzo/ della pagina / piena / di confusione e di turbolenza, / Bodoni / algebriche, / lettere / piene, / snelle / come levrieri, / assoggettate / al rettangolo bianco / della geometria, / vocali / elzevire / coniate / nel minuto acciaio...» Copertina

Per tutto l’Antico Regime ogni singolo volume veniva rilegato in pelle o cartone dal libraio o a cura dell’acquirente. Il piatto della legatura era muto, e al dorso si annotavano in breve autore e titolo. Quando il commercio del libro si fa industria, e ogni esemplare esce completo, rilegato e uguale agli altri dalle nuove macchine di stampa, la copertina diventa essenziale. Deve comunicare (che libro è, di chi) e deve sedurre. Lo sapevano bene D’Annunzio, che ne affidava le illustrazioni a Adolfo De Carolis, e Carlo Dossi: «Sono d’avviso che l’eleganza dell’edizione debba grandemente conferire al buon successo commerciale del libro». Nel Novecento la copertina diventa campo espressivo totale, in fusione di immagine e lettering. Elementi quasi costanti sono titolo e nome dell’autore sul piatto anteriore e sul dorso, insie-

Siècle. Tra 1694 e 1719 Louis Simoneau disegna lettere (9) che dovevano servire da modello per un nuovo alfabeto: sono caratteri di gusto neoclassico, come il Romain du Roi, realizzato per il Re Sole da Philippe Grandjean nel 1699 con caratteri Gros Romain (10a) e nel 1701 con caratteri Petit Parangon (10b).

|46a-46bc| Due pagine stampate dai tipografi che meglio incarnano il gusto neoclassico settecentesco: l’inglese Baskerville (1758) e l’italiano Bodoni (1789). Si noti, in quest’ultimo, la civetteria di indicare il luogo di stampa, Parma, con il nome greco, Crisopoli. Nei due esempi è evidente la ricerca della pulizia di pagina, in un equilibrio di

nero e bianco che faciliti l’approccio del lettore. |47a-47b| L’Ottocento è l’età della macchina, e vede nascere la pubblicità. Questi due esempi di carattere Pica, disegnati da Vincent Figgins nel 1815, lo dichiarano. Le lettere devono risultare leggibili anche a distanza, perciò nel Pica in shade una luce nera le rende

tridimensionali, ispessendo i tratti più sottili. Nel Pica Antiqua, uno dei primi caratteri detti “egizi”, le grazie diventano pesanti blocchi quadrangolari. Sono tipici caratteri da manifesto pubblicitario.

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tori (e collezionisti) sanno quanto essa sia parte essenziale del volume in quanto oggetto. Le immagini forniscono una breve rassegna commentata di varie tipologie di copertina, elemento importante nella vendita di un libro, come ci ricorda Giorgio Manganelli in una pagina del Discorso dell’ombra e dello stemma: «non l’ho comprato per leggerlo ma perché aveva una copertina duretta, che prometteva una certa insolenza». Editoria industriale, editoria di massa

me all’editore; al piatto posteriore un breve testo e, oggi, prezzo e codice a barre: tutti elementi, questi, che in alternativa possono venire stampati anche nei risvolti, o alette, le fasce di copertina ripiegate all’interno. Può essere morbida (brossura) o rigida (cartonata); in questo caso è spesso fornita di sovracoperta, una copertina di carta rimovibile non fissata al libro che appare per la prima volta a Londra nel 1833. Un grande grafico, Jan Tschichold (1902-1974), considerava la sovracoperta estranea al libro, ma edi-

|48a-48b| Questo alfabeto con decorazioni floreali degli anni Trenta del XIX secolo presenta notevoli affinità con questa macchina da cucire Singer del 1851. Il mutuo influsso tra grafica e design d’arte o industriale si farà sempre più

forte, sino ai giorni nostri. |49a-49b| L’Art Nouveau, o Liberty, segna gli anni a cavallo tra Otto e Novecento, improntando arte, industria e cultura. Queste lettere maiuscole disegnate da Henry

L’ampliamento del mercato editoriale, in particolare quello dei giornali quotidiani, vide sin dai primi anni dell’Ottocento la ricerca di nuove macchine per rendere più veloce la stampa. I processi di lavorazione, infatti, non erano sostanzialmente mutati in più di trecento anni. Come inventare una macchina compositrice che sostituisse l’uomo, rivoluzionando per velocità ed esattezza le tecniche di composizione? La macchina da stampa a vapore del tedesco Friedrich Koenig (1774-1883), brevettata nel 1809, evolve nel 1813 in una macchina a pressione con due cilindri: il grande successo commerciale si ha quando, grazie ad essa, nella notte tra il 28 e 29 novembre 1814, si stampano mille e cento copie del “Times”, contro le 300 che si stampavano a mano. Il concetto è semplice, e muta radicalmen-

van de Velde nel 1893 sembrano naturalmente prolungarsi nella lampada che rappresenta la ballerina Löie Fuller creata da Raul Larche nel 1900. Qui come là, per dirla con lo storico E. Grasset, «ogni curva dà l’idea del movimento e

della vita». Nel 1900 Walter Crane teorizza un design fondato sulla linea, enunciando l’elemento base della grafica Art Nouveau. |50| Il carattere Bifur disegnato da A.M. Cassandre nel 1929 per

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te il processo di stampa: la stampa in piano pressava un singolo foglio alla volta calando verticalmente la pressa su tutta la sua superficie. Il cilindro, invece, scorre con minor sforzo trascinando il foglio su tutta la superficie inchiostrata, e riduce i tempi riunendo in un solo processo le diverse fasi. Sarà però soltanto nel 1884 con la Linotype (line o’ type = linea di caratteri) inventata da Ottmar Mergenthaler (1854-1899), tedesco emigrato a Baltimora, che la composizione si fa meccanica dando righe intere giustificate automaticamente. Subito adottata dai giornali – “New York Tribune”, “Chicago News”, “Washington Post” – premiata all’Expo di Parigi nel 1889, la Linotype conosce uno straordinario successo: in soli sei anni vengono prodotte più di mille macchine. Ogni macchina esegue il lavoro di otto compositori, moltiplicando la produzione e abbattendo i costi di produzione. Del 1887 è la Monotype, inventata dall’americano Tolbert Lanston (18441913), che interviene sull’unico difetto della Linotype, la necessità di ricomporre ogni riga per un singolo errore di battitura. Concepita per comporre libri, introdotta in Europa con l’Expo di Parigi del 1900, solo negli ultimi vent’anni del secolo scorso è stata superata dalle nuove tecniche di fotocomposizione. La fotografia diviene uno strumento editoriale. Dal 1890 le rotatrici a cilindro consentono di applicare la tecnica calcografica su scala industriale: nel 1910 il “Freiburger Zeitung” diventa il primo quotidiano illustrato. Oggi la rivoluzione informatica consente nuovi prodotti. L’e-book (electronic book) è una realtà dal 1986, e se il “New York Times” previde di essere soltanto on-line dal 2012, il più antico giornale europeo in commercio, lo svedese “Postoch Inriches Tidningar” fondato nel 1645, dal 1 gennaio 2007 esiste solo in versione digitale.

la tipografia francese Debergny et Peignots rinvia allo stile Art Déco, geometrico vagamente cubista e a un tempo decorativo, in voga in quegli anni. |51| Questo carattere Art Déco,

Che cosa è un libro?

Insomma, quando uno scritto diventa libro? Quando il testo e il paratesto (tutto ciò che, parole o immagini, sta intorno al testo e lo completa: titoli, indici, numeri di pagina, immagini e didascalie, testi delle alette, prefazioni, note eccetera, e che richiede in genere grande attenzione redazionale) si fondono tipograficamente in una realtà fisica che è, appunto, l’oggetto libro . Possiamo provare a descriverlo partendo in negativo da quelli che un grande grafico e progettista editoriale, Jan Tschichold (19021974), chiamò i Dieci errori fondamentali nella produzione di libri. Vediamoli. 1. Formule devianti: libri inutilmente grandi, inutilmente larghi e inutilmente pesanti. I libri devono essere maneggevoli. Sin dai tempi di Gutenberg le proporzioni ottimali di un libro sono 2:3, sezione aurea (21:34) e 3:4. Queste dimensioni consentono, tra l’altro, sin dal XV secolo, il miglior rapporto tra formato di pagina e area occupata dal testo, frutto di attenti e complessi calcoli. 2. Composizione tipografica non strutturata e informe. Ogni casa editrice ha le proprie norme grafiche. Ciò consente di uniformare i corpi dei caratteri (nei titoli, nei sottotitoli eccetera); l’uso coerente di maiuscole (i Goti o i goti?), abbreviature (s. Francesco o san Francesco?), punteggiatura e simboli come virgolette, corsivi (nelle parole straniere? o no?) e

molto verticale, richiama sin dal nome – Empire, come l’Empire State Building, il celebre grattacielo di New York – i grattacieli americani che costituivano, in quegli anni, l’espressione più evidente della modernità.

|52| Disegnato dal tedesco Paul Renner nel 1927 per la fonderia Bauer di Francoforte, il carattere Futura rinvia sin dal nome alle avanguardie futuriste. Basato su tre forme geometriche elementari – quadrato cerchio triangolo –

e privo di grazie, ebbe subito grande diffusione.

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altre particolarità tipografiche rivela un buon lavoro di editing. 3. Pagine di apertura senza alcun elemento iniziale. L’inizio di un capitolo deve distinguersi da una normale pagina di testo. Si può adottare uno stacco bianco in testa, oppure un capolettera in corpo maggiore, o la prima parola in maiuscoletto, oppure un rientro della prima parola. 4. Carenza o monotonia di forma. Nessun libro è composto in un solo corpo tipografico. Tuttavia, l’uso di corpi diversi, di maiuscoli o maiuscoletti, di corsivi e di neri è regolamentato dall’uso e dall’arte. Inoltre, ogni paragrafo dovrebbe essere segnato con un rientro. 5. Carta di colore bianco o bianco brillante. Stanca gli occhi, e sulla patinata la luce elettrica spara. Si deve usare soltanto per gli illustrati, per un testo scritto la carta migliore ha un lieve color avorio. 6. Copertine bianche, che Tschichold definisce tanto delicate quanto un vestito bianco. Egli però stende questo decalogo negli anni Sessanta, quando i tipi di carta da copertina non erano ancora così numerosi come oggi. Almeno due editori, la francese Gallimard e l’italiana Einaudi, hanno fatto delle copertine bianche il proprio segno di riconoscimento. 7. Dorsi piatti su libri rilegati. Mentre le brossure hanno dorso piatto, i cartonati devono avere un dorso arrotondato e staccato dal blocco delle segnature (il piego di ogni foglio di stampa). In caso contrario, il libro si deforma e le segna-

|53| Le avanguardie futuriste rifiutano la normale struttura di pagina: le parole sono davvero “in libertà” e sin dalla copertina, come in questo volume di Filippo Tomaso Marinetti del 1914: Zang Tumb Tumb. Adrianopoli. 1912. Parole in libertà. Dall’Italia alla Russia, è una vera e propria rivoluzione tipografica. |54| L’altra faccia dell’avanguardia: le esatte

geometrie di Mondrian e la fredda architettura neoplastica della Gestaltung ben si compendiano nella grafica scelta da Wilmos Huszar per questo numero della rivista “De Stijl” del 1917. Il logo è stato disegnato da Théo van Doesburg. |55| Dall’alto in basso, l’evoluzione grafica del marchio di una grande azienda italiana in

ture centrali sporgono squadernate. 8. Scritte verticali su dorsi abbastanza larghi da ospitare scritte orizzontali. Il titolo sul dorso serve a riconoscere il libro. Naturalmente, un titolo in orizzontale risulta più leggibile di un titolo in verticale. In genere, però, l’esiguo spazio del dorso obbliga alla verticalità. Se osservate i libri della vostra biblioteca, notate che alcuni editori orientano la scritta verticale verso il piatto anteriore del volume, altri verso quello posteriore. Considerando che in genere si appoggiano i libri con la copertina in alto, è più logico stampare il titolo sul dorso conservando questo orientamento. 9. Nessuna iscrizione sul dorso. Errore imperdonabile: una volta messo a scaffale il volume, come sarà possibile riconoscerlo, individuarne soggetto e autore? 10. Ignoranza o uso improprio di maiuscoletto, corsivo, virgolette. E di tutto quell’insieme di regole, grafiche logiche e sintattiche, che sono alla base del lavoro redazionale. Perché, se è semplice leggere un libro, molto più difficile è saperlo guardare.

quasi un secolo di storia: da caratteri vagamente Art Nouveau alla gabbia modulare studiata da Salvatore Gregorietti, senza tradire l’idea. |57| In questo titolo disegnato dall’americano Herb Lubalin, uno dei maggiori grafici del secondo Novecento, la «O» di “mother” si fa grembo che racchiude “& child” come un feto, accostamento suggerito

anche visivamente dalla forma dell’ “&”. La proposta, ai tempi scartata, conosce oggi grande fortuna nel mondo del web. |56| La copertina di un libro è anche un gioco grafico che fonde lettere e immagini: quando il gioco è riuscito, provoca un cortocircuito di immediata comprensibilità e di forte impatto, come in questo volume della inglese Penguin.

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6. Le case del libro

Sin dalla più remota antichità gli uomini conservarono documenti scritti: le raccolte di testi su tavolette rinvenute negli scavi di Nippur, Uruk, Ebla e Hattusa e la tradizione egizia confermano l’esistenza, sin dal III millennio a.C., di biblioteche ad uso dei sovrani e degli amministratori pubblici.

LE BIBLIOTECHE

La civiltà greca conobbe biblioteche pubbliche e private. D’età ellenistica sono le due biblioteche più celebri dell’antichità, quelle di Alessandria e di Pergamo, raccolte regie aperte agli studiosi, e dunque pubbliche. La Roma imperiale diffuse la biblioteca in tutta l’area mediterranea. Con i regni barbarici l’Occidente limitò le raccolte librarie ai monasteri e alle regge, che furono anche luoghi di produzione di manoscritti. Invece l’Oriente bizantino e islamico conobbe un grande fiorire di biblioteche. Naturalmente, dobbiamo pensare a biblioteche dove i libri non avevano quasi mai la forma alla quale noi siamo abituati, un blocco di fogli ripiegati in pagine e cuciti tra loro, ma si presentavano come rotoli.

Marciana a Venezia, la Laurenziana a Firenze, tutte edificate da grandi architetti: Matteo Nuti, Jacopo Sansovino, Michelangelo Buonarroti. A Roma papa Sisto IV, nel 1475, fonda la Biblioteca Vaticana. In Francia Francesco I impone il deposito obbligatorio, presso la biblioteca reale, di un esemplare di ogni libro stampato nel regno; gli Asburgo di Spagna Carlo V e Filippo II creano all’Escorial una biblioteca reale.

Medioevo e Rinascimento

Nel 1250 Luigi IX di Francia si ispirò alla biblioteca del sultano del Cairo per crearne una propria, a Parigi. Con Umanesimo e Rinascimento insieme al libro, ormai a stampa e non più manoscritto, accanto alle biblioteche degli ordini religiosi si diffusero in Italia quelle dei principi, come la Malatestiana a Cesena, la

|58| Edificata da Michelangelo fra 1519 e 1534 di fianco ai chiostri della basilica di san Lorenzo, a Firenze, la Biblioteca Laurenziana deve alla famiglia Medici il suo più prezioso nucleo di libri antichi. Come in molte altre biblioteche storiche italiane – la Marciana di Venezia, la Malatestiana di Rimini, l’Ambrosiana di Milano o molte biblioteche storiche

romane – l’importanza e la ricchezza delle collezioni librarie fornisce una indissolubile unità con la forma architettonica dell’edificio. |59| Emblema per la nuova Biblioteca di Alessandria d’Egitto. Inaugurata il 16 ottobre 2002, la Bibliotheca Alexandrina è la più importante dell’area mediterranea. Progettata per un patrimonio

L’età moderna

Fu però soltanto nel XVII secolo che in Europa si diffuse l’idea di biblioteche aperte al pubblico per consultazione. Prima fu nel 1602 la Bodleiana di Oxford, seguita nel 1609 dall’Ambrosiana di Milano, creata dal cardinale Federico Borromeo. Nel 1627 Gabriel

complessivo di otto milioni di libri, vanta un milione e mezzo di visitatori all’anno.

Emblema per la nuova Biblioteca di Alessandria d’Egitto.

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Naudé, dal 1649 direttore della biblioteca del cardinale Mazarino, nell’Advis pour dresser une bibliothèque dà per necessario che essa sia pubblica. Nel Settecento le grandi collezioni nobiliari raggiungono dimensioni inusitate per quantità e qualità: nasce allora il collezionismo librario volto alla ricerca della rarità, dell’edizione originale, del libro prezioso per la sua propria storia. Nasce il mercato antiquario del libro antico. Nascono le case d’asta. E, con il nazionalismo ottocentesco, molte di queste raccolte concorrono alla formazione delle biblioteche nazionali. Un esule italiano amico di Mazzini, Antonio Panizzi, diviene direttore della British Library e introduce in Gran Bretagna il concetto di copia d’obbligo attualmente in uso in ogni nazione occidentale: alla biblioteca nazionale va data gratuitamente una copia di ogni libro stampato entro i confini della nazione. L’istruzione pubblica crea sempre più numerosi lettori. Si edificano, soprattutto nella seconda metà del Novecento, sempre più grandi e moderni edifici per ospitare biblioteche pubbliche o universitarie. Si formano sempre più sterminati patrimoni librari nazionali. Oggi quello della Bibliothèque nationale de France supera gli undici milioni di titoli, ma la più grande biblioteca del mondo è la Library of Congress di Washington. Distrutta dagli inglesi nel 1814, ricostituita a partire dal lascito dei seimila volumi della biblioteca privata di Thomas Jefferson, conserva oggi ventotto milioni di libri stampati in 470 lingue, cinquantotto milioni di manoscritti più altro materiale carta-

|60a-60b-60c| L’edificio che ospitava la più celebre fra le antiche stamperia di Anversa è diventato, dal 1877, il museo Plantin-Moretus, dal nome dei due tipografi fondatori, Christophe Plantin e Jan Moretus, i cui discendenti qui

lavorarono dal 1555 al 1876. Specializzati in edizioni di diritto, linguistica (celebre la Bibbia poliglotta in cinque lingue e otto volumi) e scienze, i Plantin-Moretus furono tipografi ufficiali dei re di Spagna dal 1570. Il museo,

ceo (archivi fotografici, collezioni di stampe) per un totale di circa centoundici milioni di soggetti catalogati. IL SAPERE DEL BIBLIOTECARIO Ma come si cataloga un libro? Il termine latino «bibliotheca» indicava in origine il catalogo dei libri di una raccolta. Passò poi a indicare, anche, le bibliografie, cioè quei cataloghi descrittivi per autore, o genere o soggetto. Se non il primo, certo il più celebre esempio in questo senso è la Bibliotheca Universalis che nel 1545 lo svizzero Conrad Gesner (1516-1565) pubblicò con l’intento di catalogare tutti i libri a stampa pubblicati sino ad allora in Europa. Esistono perciò cataloghi che si prestano ad usi diversi – il catalogo di una biblioteca, quello di una casa editrice, quello composto da un bibliografo per un genere letterario o un singolo autore, quello di una vendita all’asta... – ma tutti osservano un metodo di descrizione e classificazione formatosi lentamente nei secoli. La biblioteca di Alessandria

Già nelle biblioteche del mondo classico i testi, in forma di rotoli di papiro, venivano classificati e schedati. Nella biblioteca di Alessandria i rotoli recavano all’estremità un cartellino con il nome dell’autore e il suo gruppo etnico di provenienza (indispensabile, visto che i greci avevano un nome solo). Poiché i testi erano presenti in più copie, e con redazioni anche differenti tra loro (le più antiche erano considerate più attendibili), si indicavano anche provenienza, eventuale copista, precedente proprietario. La biblioteca aveva una sede principale, con circa 490 000 rotoli, e una secondaria, con quasi 43 000: testi di ogni genere, da Omero ai ricettari, passando per opere non greche come la Bibbia nella versione greca detta “dei Settanta” o l’elenco cronologico dei faraoni stilato da Manetone. Il primo direttore

dagli ambienti perfettamente conservati, ricostruisce questa storia plurisecolare, esponendo libri, macchinari, ma anche gli arredi dei locali di rappresentanza e di abitazione. Nelle immagini, una veduta della corte interna, la

stamperia e la sala dei correttori di bozze. |61| Biblioteca nazionale del Regno Unito, e fra le più grandi del mondo, la British Library conserva documenti di eccezionale valore storico,

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della biblioteca, Zenodoto, applicò i criteri di sistemazione adottati da Aristotele per la sua raccolta. Considerando che allora non esisteva il concetto di titolo, ci volle grande intelligenza. Zenodoto divise le opere per contenuto, Poesia, Storia, Geometria..., riservando a ogni genere un locale separato. In ogni locale le opere erano riposte secondo l’ordine alfabetico del nome dell’autore. Un concetto mai prima applicato, che teneva conto però della sola prima lettera del nome. L’ordine alfabetico come noi lo conosciamo verrà inventato soltanto nel II secolo dell’era cristiana. La classificazione dava perciò nell’ordine: stanza, scaffale, autore. Insufficiente, quando la biblioteca divenne immensa. Fu il poeta Callimaco di Cirene che, da direttore, ricatalogò i rotoli secondo lo schema tramandatoci nelle Pinakes, cioè le Tavole delle persone eminenti in ogni ramo del sapere con l’elenco delle loro opere, una dettagliata bibliografia lunga cinque volte l’Iliade. Grazie a quest’opera suddivisa per materie (Poesia epica, lirica, drammatica, tragica eccetera) noi oggi abbiamo i titoli delle settantatré tragedie di Eschilo, delle altrettante tragedie di Euripide e delle oltre cento tragedie di Sofocle. Non sappiamo come Callimaco abbia risolto il problema posto da opere scritte da più autori, o da raccolte di opere in un unico papiro, ma il suo catalogo venne ampliato e perfezionato dai suoi successori, tutti studiosi celebri dell’antichità. Contrariamente a quanto si crede, la Biblioteca non venne distrutta da Cesare nel 48 a.C., ma sopravvisse almeno sino al 270 d.C., quando l’imperatore Aureliano fece radere al suolo tutta l’area del palazzo reale. Ed essa improntò la classificazione bibliografica occidentale per molti secoli. La bibliografia come scienza

Con i già citati Gesner e Naudé, e altri, si pongono le basi per una scienza bibliografica che

come, ad esempio, l’esemplare della Magna Charta. Sino al 1972 era parte del British Museum. Dal 1856 al 1866 venne diretta dall’esule italiano Antonio Panizzi, che per primo istituì la legge chiamata dal 1911 della “copia d’obbligo”,

verrà precisata nel corso del XIX secolo. La bibliografia si occupa di documenti scritti per gli aspetti: fisico (materiale, scrittura, produzione), linguistico (letteraria, grafica, musicale...), semantico (scientifica, narrativa o altro). Leggendo una scheda bibliografica ben fatta, noi riusciamo a comprendere di che libro (o manoscritto) si tratta, chi ne è l’autore, chi l’editore, e quando e dove è stato pubblicato, se è in edizione originale o tradotto in altra lingua, di quante pagine è composto, se è illustrato o no, di che cosa parla eccetera. Bibliografie e cataloghi sono indispensabili per la storia del libro, ma anche per il suo commercio, sia esso antiquario o di mercato corrente: ogni editore ha un proprio catalogo, e ogni libreria ha un proprio catalogo delle disponibilità. Il catalogo di una biblioteca (molti oggi sono anche on line) è indispensabile per la consultazione. Paradossalmente, il bibliotecario non ha avuto fortuna nei romanzi: se in Balzac e in Stendhal tali divengono per ripiego professori falliti (Louis Lambert) o preti senza vocazione (Julien Sorel), in autori come Primo Levi (Il sistema periodico) o Italo Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore) egli appare un arcigno nemico del lettore, un carceriere di libri. Eppure, quanti scrittori hanno svolto la professione di bibliotecario! Tra i tanti, ricordiamo almeno gli italiani Renato Serra e Francesco Leonetti, e i francesi Antoine Galland, primo traduttore delle Mille e una notte, Denis Diderot, Alfred de Musset, Théophile Gautier, Jules Michelet, Charles Sainte-Beuve, Charles-Marie Leconte de Lisle, Anatole France, Georges Bataille, André Breton, Georges Perec. In compenso, il critico Goffredo Bellonci e lo scrittore George

per la quale ogni editore delle Isole Britanniche era obbligato a fornire una copia di ogni libro stampato alla British Library, che in breve divenne, così, la più grande biblioteca del mondo. Un primato che oggi spetta all’americana Library of

Congress di Washington. |62| 1938-1940: progressiva, forzata “arianizzazione” della marca tipografica Fratelli Treves Editori in base alle leggi sulla razza volute dal fascismo a imitazione della Germania

1938-40: progressiva, forzata ‘arianizzazione’ della marca tipografica Fratelli Treves Editori.

hitleriana. Le iniziali dei Treves, ebrei, vengono prima affiancate poi sostituite dalle iniziali di Garzanti, il nuovo proprietario.

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Steiner dedicano due libri ai correttori di bozze, e un grande scrittore italiano del Novecento, Elio Vittorini, nel suo romanzo più famoso ricorda: «Andavo al lavoro tutte le mattine, per il mio mestiere di tipografo-linotipista, facevo sette ore di linotype al giorno, al calor grasso del piombo».Un brano di... Conversazione in Sicilia, direte voi. No, un brano di Nome e lagrime, romanzo pubblicato nel 1941 dall’editore Parenti in 355 copie e poi, nello stesso anno, dall’editore Bompiani in 5000 copie con il nuovo titolo di Conversazione in Sicilia. Una piccola curiosità che fa capire l’importanza dei cataloghi e delle bibliografie. Senza di loro, non sapremmo quali racconti sono stati sostituiti fra la prima e la seconda edizione di Ultimo viene il corvo di Italo Calvino, o quali poesie sono state aggiunte di edizione in edizione, e quali cadute, per i montaliani Ossi di seppia oppure che Se questo è un uomo di Primo Levi, rifiutato da Einaudi nel 1947 e nel 1952, venne pubblicato in prima edizione nel 1947 dall’editore torinese De Silva. O, ancora, che la prima edizione italiana de Il giovane Holden di Salinger non è di Einaudi e non si intitolava così. E si potrebbe continuare... Ma parlare di scrittori ci permette di parlare delle altre case del libro: le case editrici. LE CASE EDITRICI

In Antico Regime, sino a tutto il Settecento, lo stampatore tipografo si identificava di fatto con l’editore del libro. Non mancava la figura di colui che si assumeva i costi dell’impresa (impensis, recita allora il colophon: il volume è stato stampato da Tizio a spese di Sempronio) ma in sostanza produzione e vendita si concentravano nella figura dello stampatore. Lentamente, la figura del tipografo e quella dell’editore si separano, e inizialmente quest’ultima viene a sovrapporsi a quella

|63a-63b-63c-63d| Quattro esempi di copertina essenzialmente grafica. Orgia, di Maccari, è una brossura del 1918, e imita una grafia manuale. La scelta per le copertine della collana di poesia Einaudi, in brossura, è riportare alcuni versi dell’opera. Il carattere è il Garamond

disegnato per l’editore da Simoncini. Questa da Coleridge (1964), già uscita su “Itinerari” nel 1955, è l’unica traduzione di Fenoglio pubblicata in vita. Campione del modernismo, Joyce era molto conservatore nelle scelte di copertina: per l’Ulysses pubblicato nel 1922 in prima edizione mondiale di

del libraio: è il caso, ad esempio, del parigino Charles-Joseph Panckoucke (1736-1798), che negli anni Settanta del Settecento produsse, in società con uno stampatore di Lione e con una tipografia svizzera, una delle più fortunate edizioni dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Ancora nel XIX secolo molti editori francesi sono anche librai, da Hetzel a Renouard. Altrettanto può dirsi per gli italiani. Nicola Zanichelli (1819-1884) apre due librerie a Modena e Bologna, possiede una tipografia e si avvale della collaborazione letteraria di Giosue Carducci. Ulrico Hoepli (1847-1935), svizzero immigrato, apre a Milano nel 1870 la libreria omonima, e pubblica una celebre collana di Manuali. Alle origini della casa editrice Olschki (1861-1940) è l’attività di libraio antiquario di Leo, ebreo prussiano trasferitosi prima a Venezia, poi a Verona e infine a Firenze. Il secondo Ottocento

Oltre il 75% degli italiani sono analfabeti, ma dopo l’Unità fioriscono le case editrici. A Torino dal 1854 il tipografo Pomba ha fondato la Utet, a Milano Casa Ricordi, Vallardi, Sonzogno e Treves si specializzano rispettivamente in editoria musicale, scientifica, romanzi di consumo e narrativa di qualità; a Firenze Le Monnier s’impegna nella scolastica, mentre Barbera pubblica i nostri classici. L’ultimo decennio del secolo vede espandersi il mercato librario: sino alla Grande Guerra sono anni di utili e nascono sempre nuovi editori. Laterza lega il proprio nome a quello di Benedetto Croce, mentre l’abruzzese Carabba (che sarà uno degli editori di Eugenio Montale) dal 1908 inaugura una collana di filosofia diretta da Giovanni Papini. Formiggini (che morirà suicida per protesta contro il fascismo) pubblica i Classici del Ridere, che spaziano da Petronio a Sterne. Treves, Vallardi e il giovane Mondadori

2000 copie brossurate dalla parigina Shakespeare and Company di Sylvia Beach volle una grafica classica e colori che rinviassero al Mediterraneo e alla Grecia. L’edizione originale di Avere e non avere è del 1937: il lettering della sovracoperta suggerisce un disegno, e il nome di Hemingway, autore

ormai celebre, fa premio sul titolo del volume. |64a-64b-64c-64d| Quattro esempi di copertina illustrata. Per l’edizione originale della Metamorfosi (una modesta brossura grigia del 1916, come si può leggere sotto editore e luogo di stampa), Kafka chiese

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(che si appoggia alla rete di vendita di Bemporad) investono in macchinari per incrementare la produzione di libri e giornali. La Grande Guerra e il fascismo

L’esposizione economica dovuta alla guerra vede le prime fusioni di capitali: Treves con la Banca Zaccaria, Bemporad con la Banca Commerciale Italiana, Mondadori con la Banca Italiana di Sconto. L’avvento del fascismo segna una politica di diffusione editoriale (“libro e moschetto” è una massima del regime), ma anche di pesante condizionamento e controllo. Con le leggi del 1926 si avvia la “fascistizzazione della stampa”. Gli editori ostili – Gobetti, Formiggini, Laterza, Einaudi (fondata nel 1933), Dall’Oglio – vengono osteggiati: la Federazione Nazionale Fascista dell’Industria Editoriale mira a controllare la produzione libraria, e dal 1928 il governo impone il testo unico per le scuole elementari. Un duro colpo per gli editori di scolastica, un regalo agli altri. Arnoldo Mondadori (che riceve finanziamenti statali per pubblicare l’opera omnia di D’Annunzio) otterrà il monopolio per il libro scolastico di Stato. Nascono tuttavia nuovi editori, come Bompiani, e si traducono moltissimi autori stranieri, almeno sino al 1938, quando scatta la censura prima sugli autori ebrei, poi, con la guerra, su quelli delle nazioni avversarie. Il secondo Novecento

Dopo la guerra si assiste alla rinascita dell’editoria. Nel 1949 Angelo Rizzoli (1889-1970) lancia la Biblioteca Universale Rizzoli ideata da Luigi Rusca e diretta da Paolo Lecaldano: i piccoli poveri volumetti grigi della Bur conquistano l’Italia con decine di migliaia di copie di tiratura. Un modello per le successive collane di tascabili, dagli Oscar Mondadori alla Universale Economica Feltrinelli. Quest’ultima casa

all’illustratore Starke di non rappresentare l’insetto, e Starke risolse genialmente il problema. Molto evocativa (e molto anni Trenta) la sovracoperta dell’edizione originale in 1 500 copie di The Hobbit (1937). È disegnata da Tolkien stesso, e un testo in elfico scorre lungo la cornice. Il nome dell’autore,

editrice nasce nel 1954 e si segnala per la prima pubblicazione mondiale del Dottor Živago di Boris Pasternak. Nel 1958 nasce il Saggiatore di Alberto Mondadori (1914-1976), nel 1962 la Adelphi di Luciano Foà e Giorgio Colli. Si fa sempre più stretto anche il rapporto tra autori e case editrici: Cesare Pavese e Italo Calvino “sono” Einaudi, Umberto Eco e Alberto Moravia “sono” Bompiani, Pier Paolo Pasolini “è” Garzanti (editore che ha rilevato Treves). Altri, come Elio Vittorini, creano collane per diverse case editrici. A cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta tre romanzi – Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La ragazza di Bube di Carlo Cassola e Il giardino dei FinziContini di Giorgio Bassani – sfondano il muro delle centomila copie vendute. Un successo, quello del libro, aiutato anche dal diffondersi della stampa periodica, concentrata nelle mani di editori come Rizzoli, Rusconi e Mondadori. Quest’ultimo nel 1959 lancia la vendita libraria per corrispondenza con il Club degli Editori, con tirature altissime di titoli contemporanei: il primo è Fiorirà l’aspidistra di George Orwell. Fabbri, Curcio e Motta vendono a dispense nelle edicole, metodo che avrà fortuna. Dal 1974, anno della fusione tra Rizzoli e “Corriere della Sera”, al finire degli anni Ottanta, quando la Mondadori passa a una finanziaria legata a Silvio Berlusconi, si assiste alla concentrazione di grandi gruppi editoriali come De Agostini, Giunti, e quello che vede fondersi con la catena distributiva delle Messaggerie Italiane le case editrici Longanesi, Guanda e Salani (oggi GeMS, Gruppo editoriale Mauri Spagnol). Le piccole case editrici non mancano, ma faticano sempre più a reggere le concentrazioni distributive degli anni Novanta. Tuttavia, proprio la rete, con fenomeni come Internet bookshop e Amazon, consente oggi visibilità e mercato anche ai più piccoli, anche ai più marginali.

all’esordio e praticamente sconosciuto, viene sacrificato al titolo, breve, misterioso e perciò tanto più suggestivo. Suggestiva, ma del tutto priva di immediato riferimento al testo, la sovracoperta per l’edizione originale (1951) del romanzo di Salinger, The Catcher in the Rye: il titolo, preso da una canzone e

incomprensibile per il lettore italiano, venne tradotto da Casini nel 1952 con Vita da uomo e anni dopo da Einaudi con Il giovane Holden. Il segno grafico dice subito anni Cinquanta. La sovracoperta di Ragazzi di vita riassume in un’immagine i protagonisti (il Riccetto e gli altri) e il teatro delle loro imprese

(una Roma dove San Pietro è presenza incombente ma lontana). Uscito nel 1955, esaurito in quindici giorni, processato per oscenità e assolto, il romanzo ebbe un tale successo di scandalo (dieci ristampe in sei anni) che per l’autore basta il solo cognome, Pasolini.

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7. E dopo?

Gürgüz, Dal libro all'ebook.

Umberto Eco ha definito il libro uno di quegli oggetti che nascono perfetti, che né il tempo né i designer possono migliorare: come il cucchiaio, per fare un esempio. Eppure, come abbiamo visto, il libro nasce tardi, nella storia dell’uomo: si afferma, infatti, come blocco di pagine cucite insieme, fra III e IV secolo d. C. Prima, a non voler considerare le tavolette d’argilla babilonesi o la scrittura lapidaria romana, o, sempre in età romana, le tavolette cosparse di cera usate per prendere appunti graffiti con uno stecco appuntito, il supporto per la scrittura manuale era costituito dal papiro, che, in forma di rotolo, non si sfogliava ma si svolgeva e si riavvolgeva, dall’alto in basso o da sinistra a destra. Non proprio il sistema più comodo per orizzontarsi nella lettura di un testo. Tuttavia, quando negli anni Ottanta del Novecento i calcolatori (computer, ordinateur, ordenador) si fecero sempre più simili alle complesse macchine elettroniche che oggi permettono applicazioni allora assolutamente impensabili, il testo scritto, benché strutturato su singole pagine, si svolgeva sullo schermo esattamente come un rotolo di papiro: dal basso in alto o viceversa. Il più moderno sistema di scrittura che l’uomo avesse mai concepito si adattava all’antico supporto del volumen, non a quello del codex. In breve tempo, tuttavia, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, l’editoria studia il mercato del libro digitale (ebook ), e per questo la tecnologia ricorre alla forma del codex, del libro che si sfoglia di pagina in pagina. Il primo romanzo ipertestuale viene distribuito su floppy nel 1987, e nel 1998 sono messi in commercio i primi ebook readers, quei dispositivi, cioè, che rendono possibile la lettura di testi lunghi in formato digitale.

Rincorrere un’evoluzione tecnologica rapidissima importa meno del chiedersi se il libro elettronico soppianterà il libro di carta. E, anche qui, il mondo (degli addetti ai lavori) si divide in apocalittici e integrati. A ciò del resto invita l’ottimistico (o minaccioso?) slogan del Kindle: «Anything Anytime Anywhere». Senza voler entrare nella disamina del mercato, delle sue leggi e dei suoi più o meno cammuffati oligopoli, si può con buon senso sostenere che sempre più in futuro il passaggio dalla carta al digitale si affermerà per l’editoria tecnico-scientifica e per quella universitaria: per i settori, cioè, dove il contenuto informativo è primario rispetto al contenente, dove massime sono le esigenze di interazione, aggiornamento e diffusione e dove più forte è il ricorso alla lingua inglese intesa come lingua franca della comunità internazionale colta. Diversa la necessità di integrazione multimediale per l’editoria scolastica, dove tuttavia è facilmente prevedibile uno sviluppo del digitale in rapporto ad un aumento dell’alfabetizzazione nel pianeta. Diverso ancora, e assai più sfumato, il futuro per quei libri non direttamente connessi al mondo delle professioni o della scuola. A quella galassia difficilmente definibile, cioè, che chiamiamo arte e letteratura. Un settore dove il rapporto fisico con l’oggetto libro è difficilmente quantificabile, se persino le più economiche edizioni tascabili si sentono ancor oggi nobilitate dall’essere stampate su carta. Più che probabile pensare che digitale e carta convivranno, in base alle differenze di contenuto e pubblico dei testi prodotti. Il passato non muore, diceva Faulkner, anzi, non è nemmeno passato. Del resto, se i tasti del computer ricorrono ancora alla terminologia degli antichi incunaboli usando termini come Grassetto (Bold) e Corsivo (Italic), la potenza dei motori delle auto non si misura forse in Cavalli?

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Questo volume, sprovvisto di talloncino a fronte (o opportunamente punzonato o altrimenti contrassegnato), è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17 l.d.a.). Escluso da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n. 633, art. 2, 3° comma, lett. d.). Esente da documento di trasporto.

Floriana Calitti

La vita dei testi Giacomo Leopardi La vita dei testi ci porta dentro la vita e le opere degli autori, e ci fa capire perché, anche a distanza di secoli, quello che hanno scritto ci riguarda ancora da vicino e ci dà le parole per esprimere oggi le nostre emozioni.

il libro nella nuvola Le risorse digitali sono su Internet, nella nuvola, e si scaricano su tablet, computer e netbook. • Contengono tutto il testo e anche esercizi interattivi. • Con le note e i link che può aggiungere il professore, diventano una piattaforma di collaborazione tra studenti e insegnanti. • Nel quaderno lo studente può scrivere appunti e fare esercizi. Le risorse digitali, leggere e fatte di bit, ampliano il libro di carta, contenitore stabile e ordinato del sapere.

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CALITTI*VITA DEI TESTI LEOPARDI LD

ISBN 978-88-08- 33651-4

6 7 8 9 0 1 2 3 4 (03A)



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