La verità in gioco. Scritti su Foucault 9788807818394

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La verità in gioco. Scritti su Foucault
 9788807818394

Table of contents :
Introduzione
1. Foucault e la genealogia della “ragione moderna”
2. Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault
3. Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault
Appendice
1. Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale
2. Tracce e segni
Fonti

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Salvatore Natoli LA VERITÀ IN GIOCO Scritti su Foucault

Feltrinelli

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Universale Economica Saggi” gennaio 2005 ISBN edizione cartacea: 9788807818394

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Introduzione 1. Foucault epistemologo e genealogista Verità, soggettività, cura di sé, relazione con gli altri. Da tempo, questi temi sono oggetto della mia ricerca filosofica e lungo questa via ho presto incontrato Foucault. È scattata da allora una sintonia, una sorta di corrispondenza tra quel che cercavo e verso cui mi dirigevo e quel che trovavo nei suoi scritti. Nel parlare di Foucault parlo, dunque, anche di me. Foucault ha pensato in modo originale e non tanto, o non solo, per gli argomenti di cui trattava – mai astratti, ma radicati sempre nelle istanze del presente – ma soprattutto perché ha cambiato le modalità consuete dell’interrogare, del rispondere: in breve, ha impresso una diversa curvatura ai modi abituali di fare teoria, ha prodotto – per dirla nel suo linguaggio – un vero e proprio effetto di campo. Per questo ritengo più che mai opportuno riprendere, oggi, le fila del suo pensiero, per segnalare l’ampiezza degli effetti e mostrare quanto sia ancora fecondo per noi. Di Foucault cercherò qui di delineare, sia pure a grandi linee, le direzioni di ricerca, di analizzarne i temi peculiari – potere, soggettività, verità –; infine prenderò in considerazione le torsioni teoriche più significative del suo percorso evolutivo. La ricerca di Foucault ha preso avvio dalla questione della soggettività o meglio, se si vuole, dalla constatazione della sua crisi. Chi è – o cos’è – il soggetto? È il trascendentale? O si può parlare di una rappresentazione senza soggetto? Oppure il soggetto della rappresentazione è l’uomo? Ma l’uomo non è esso stesso oggetto di rappresentazione? Infatti, cos’altro sono le scienze umane se non i saperi che prendono a oggetto l’uomo? L’uomo dunque non coincide con l’unità della coscienza ma si frammenta nei diversi saperi, “ha composto la propria figura negli interstizi del linguaggio frantumato”,1 è un’invenzione recente e prossima alla fine. Questo dice Foucault. Morte dell’uomo, quindi? In ciò, certamente, il 4

suo grande esordio. Foucault, come molti francesi di buona scuola, agli inizi ha frequentato la fenomenologia, ha preso in considerazione la psicologia fenomenologica di Binswanger; si è poi formato nel dibattito intorno all’espressione e al significato, ha indagato i nessi tra linguaggio e rappresentazione. Il suo retroterra teorico è fatto da nomi come quelli di Nietzsche, Dumézil, dalla combinazione Marx-Freud, da Heidegger. E tuttavia è il suo gusto di erudito che gli permetterà di trovare la sua vena originale e di pervenire alla piena maturità teorica. Lavorando in territorio aperto, percorrendo lo sterminato territorio dei dati materiali – le positività – Foucault si rende conto che non abbiamo a che fare con eventi immutabili, ma con entità aleatorie non riducibili ad alcuna funzione assoluta e meno che mai a ciò che la tradizione filosofica ha chiamato il trascendentale. Le positività sono storiche e perciò eventuali: ciò non toglie, però, che siano comunque strutturate e questo le rende comprensibili ed esplicabili. Da Dumézil, Foucault ha appreso la possibilità di porre i significati in catena, di rilevare corrispondenze, di costruire serie individuandone le “funzioni strutturanti” – le invarianti – e le rispettive leggi di trasformazione. Per altro verso, non bisogna dimenticare che alle spalle di Foucault c’è lo strutturalismo e nella Francia di quegli anni – e non solo in Francia – era inevitabile il confronto con Lévi-Strauss. Allora un Foucault strutturalista? Nient’affatto. Le ascendenze sono evidenti, ma l’esito è diverso, anzi in larga parte è a esse eterogeneo. Nella conclusione a L’archeologia del sapere Foucault si premura di smentire quelli che lo trattano da strutturalista e ne esibisce le ragioni. Vi è, poi, un altro versante da cui egli dipende e che riprende: conosce Bachelard, sa bene cosa significa rottura epistemologica, soglia, soprattutto discontinuità; conosce gli storici della scienza improntati a questa scuola come, per esempio, Canguilhem. Gli è familiare, infine, la storiografia francese degli “Annales” e perciò ha sotto gli occhi un fare storia diverso dai modi tradizionali: si tratta, infatti, di una storia che prende in considerazione i lunghi 5

periodi, la produzione materiale più che i grandi eventi, ha attenzione per i dati minimi, i processi anonimi tramite cui si vengono a mano a mano strutturando le istituzioni. È muovendo da queste premesse disciplinari e teoriche che Foucault elabora la sua epistemologia. Gli eventi, nel loro infinito germinare e morire, sono riconoscibili perché è possibile ricostruire i modi e i tempi della loro formazione, identificare gli strati che li costituiscono, individuarne strutture. Un qualsiasi plesso di fenomeni si articola a diversi livelli, interseca strutture altre e ne rimane implicato: serie discrete, dunque, ma insieme unità di senso; interferenze, influenze, reciproche deformazioni, adattamenti. Una qualsiasi struttura è costituita dall’insieme delle sue procedure: è quel che fa e fa quel che è, non è mai un dato inerte, ma, al contrario, è un’unità di senso e insieme un centro di forza. Meglio una composizione di forze e – qui la lezione di Nietzsche – un luogo di scontro, di selezione tra energie vitali. Ma quel che nella storia si impone non prende piede attraverso atti di forza semplici e singolari, bensì è l’esito di strategie differenziate, di interdizioni e insieme di saperi. Tutto ciò, nel tempo, dà luogo a processi di istituzionalizzazione che si assestano, infine, in istituzioni così potenti che sembra non abbiano mai avuto nascita. In questo progressivo strutturarsi, i saperi non sono eterogenei al potere ma, al contrario, l’esercizio del potere genera saperi e il sapere si struttura e si consolida in potere. Tanto basta per comprendere perché in Foucault la teoria si trasformi in un accertamento del da dove e del come, si dispieghi effettivamente come genealogia, si formuli, formalmente, come epistemologia storica. I celebri titoli foucaultiani confermano tutto questo: “Storia della follia”, “Archeologia del sapere”, “Nascita della clinica”. Sono queste le ragioni per cui, in Foucault, l’analitica del potere è divenuta un terreno di ricerca privilegiato. Nell’affrontare la “questione del potere” Foucault non è un analista dei sistemi politici, e non fa storia delle dottrine e neppure una sociologia del potere, ma a diverso titolo è tutte queste cose insieme e anche 6

altro: ritiene infatti che le teorie correnti di filosofia politica siano ancora implicate in larga parte nel problema della sovranità. Al contrario, “ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge e dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica”.2 Lo Stato infatti “è sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc., e tutti questi rapporti sono in una relazione di condizionante-condizionato nei confronti di una specie di metapotere che è strutturato per l’essenziale intorno ad un certo numero di grandi funzioni d’interdizione”.3 Il potere si distribuisce in una rete di relazioni e per darne conto è necessario dipanare queste reti, analizzare i poteri diffusi, i diversi centri di forza. Per farlo bisogna procedere a una microfisica del potere. Foucault è, dunque, epistemologo per quell’aspetto che analizza lo strutturarsi formale dei saperi, il loro costituirsi come discipline; è genealogista perché indaga sull’insieme di procedure che hanno permesso a un certo sapere piuttosto che a un altro di impiantarsi e prevalere e di mutarsi in potere. E viceversa. In questa sua analisi Foucault sta sempre sulla soglia, indugia in quell’intervallo inafferrabile, in cui poteva prendere avvio qualcosa d’altro rispetto a ciò che poi ha avuto corso, in quello spazio di silenzio in cui qualcosa è stato messo a tacere nel momento in cui cercava di accedere al linguaggio, qualcos’altro invece ha avuta accesso alla parola. Per catturare questi spazi e dar voce a questi silenzi, Foucault chiede ausilio alla metafora, diviene gongorista suo malgrado, letteralizza più che mai la sua scrittura. Ciò gli capita soprattutto in contesti teorici o astratti (come Le parole e le cose e L’archeologia del sapere); in quelli storiografici trova ausilio nell’erudizione. È noto poi che nei suoi scritti ha fatto spesso professione di antifilosofia: infatti non si definiva filosofo, ma non accettava neppure d’essere definito storico, né altro. Non amava, in generale, essere etichettato, non voleva essere 7

costretto in un “genere letterario”, voleva essere libero da un qualsiasi statuto disciplinare che predefinendo le aspettative avrebbe impedito a molti di cogliere l’originalità del suo modo di fare teoria. Per questo di fronte a una precisa richiesta di disciplinarietà – “sei storico, filosofo o cos’altro?” – risponde: “il mio discorso non determina il luogo da cui parlo, ma addirittura evita il terreno su cui potrebbe appoggiarsi”.4 Non c’è un luogo specifico da cui Foucault parla e in certo senso parla da un non luogo. Per accertare, infatti, come nascono i discorsi non ci si può identificare con nessuno di essi, ma si è obbligati a tenere una posizione deangolata, a guardarli quasi di sbieco per identificare il terreno da dove essi emergono, considerare le condizioni che permettono loro di prendere avvio. Si può allora dire che Foucault abiti una terra di nessuno? Impossibile. Al contrario, egli si muove alla frontiera, corre al margine di ogni confine perché il suo è un “discorso su dei discorsi che non intende trovare in essi una legge nascosta, un’origine sepolta che non dovrebbe far altro che liberare; non intende nemmeno stabilire per se stesso la teoria generale di cui i discorsi sarebbero i modelli concreti. Si tratta di sviluppare una dispersione che non si può mai ricondurre ad un sistema unico di differenze, che non si riferisce a degli assi di riferimento assoluto; si tratta di operare un decentramento che non lascia privilegi a nessun centro”.5 L’antifilosofia di Foucault è un gesto filosofico che per tradizione appartiene alla filosofia: da Bacone e Cartesio – tanto per fare qualche esempio – al “filosofare con il martello” di Nietzsche. Chi, infatti, non pratica abitualmente la filosofia di raro è interessato a definirsi non filosofo, caso mai capita che ne sia attratto. Foucault si dichiara dunque antifilosofo perché vuol evitare un’etichettatura che sente convenzionale e restrittiva, ma laddove non corre questo rischio rivendica per sé la filosofia come attività, la pratica effettiva del filosofare. “Ma che cos’è dunque la filosofia oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non lavoro critico del pensiero in se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto 8

sarebbe possibile pensare in modo diverso?”6 Ma cos’è mai stata la filosofia se non sospetto dell’ovvio? L’esercizio della filosofia consiste, infatti, “nel sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e di permettergli di pensare in modo diverso”.7

2. La dissoluzione del trascendentale e l’“a priori storico” Per Foucault l’a priori è solo storico e la costituzione di qualsiasi a priori è quindi accessibile solo storicamente. La dissoluzione del trascendentale è perciò sintetizzabile in questa forma: non esiste un punto di vista costituente che non sia anche costituito, che non sia cioè implicato nel processo stesso di costituzione del senso; sotto quest’aspetto l’a priori è storico. Ma il tratto peculiare e distintivo dell’a priori non è forse quello di porre condizioni e di essere perciò sottratto a ogni condizione? Se l’a priori è storico non può essere dunque un a priori. Un’argomentazione di questo tipo può risultare cogente solo entro una logica formalistica, ma Foucault aggira l’obiezione evadendo proprio il formalismo e mostrando che l’a priori è “formale” per quel tanto che struttura eventi. Qualsiasi forma è però il risultato di quell’insieme di procedure attraverso cui le diverse pratiche discorsive sono venute guadagnando a mano a mano una loro stabilità. L’a priori si impianta storicamente e si determina infine come ordine del discorso. Ogni ordine discorsivo struttura eventi e in quanto tale è costituente, in quanto esito di procedure è costituito. Ma ogni ordine discorsivo per il fatto stesso di ordinare vige, e vigendo dissimula la sua nascita. Ciò è così vero che strutture e comportamenti di nascita recente sembra a molti che esistano da sempre, che provengano da sterminate antichità. Per comprendere, dunque, perché un a priori è divenuto tale, bisogna accertarne la nascita, percorrere e analizzare la storia delle sue metamorfosi. Nell’affrontare tali questioni Foucault si muove in uno scenario in larga parte preparato: che il trascendentale abbia storia, in fondo 9

Hegel lo aveva già insegnato con la dialettica di cominciamento e fondamento. Già lui aveva compiuto il passo decisivo che consegnava le categorie alla temporalità. Questo Foucault lo sa e lo dichiara nelle ultime pagine de L’ordine del discorso: “sfuggire realmente ad Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino a dove Hegel, insidiosamente forse, si sia accostato a noi; presuppone che si sappia, in ciò che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile e altrove”.8 La storicità delle categorie ha in Hegel uno scenario preparato; per quanto riguarda la loro discontinuità, irriducibilità, aleatorietà ci penserà Nietzsche a fornire le scene. Torniamo all’universo dei discorsi. Una pratica discorsiva si produce come sistema di regole entro cui è possibile formulare enunciati relativi a un certo gruppo di oggetti e mantenere tali oggetti nell’ambito di queste enunciazioni. Il discorso come tale si fa ordine ed è vincolante solo rispetto a ciò che ordina. Il discorso, infine, non è da confondere con le teorie, ma con le pratiche e gli istituti delle parole e dei segni entro cui, come un caso determinato e a suo modo descrivibile, si formulano anche le teorie. L’a priori è dunque a priori perché preesiste, e in certo senso è indipendente dagli oggetti che costituiscono il genere e dalle intenzioni dei soggetti che nel genere agiscono: in tal senso l’a priori appare come la condizione materiale di enunciabilità per tutti quegli enunciati che si riferiscono agli oggetti che, così aggregati, costituiscono il campo d’enunciazione. In altri termini, gli oggetti si danno perché esistono i discorsi in cui si formulano: si intende discorsi come pratiche, e perciò come messa in opera degli oggetti stessi. D’altra parte, non esiste un discorso per qualsiasi oggetto, ma ogni discorso è relativo alla serie che compone e non è riducibile agli altri. I discorsi si costituiscono dunque come a priori materiali, corrispondono a regolarità locali, definibili in base a un loro spazio, contraddistinte da un loro proprio tempo e 10

perciò eventuali. Per questo un qualsiasi “ordine di discorso” è tanto vincolante rispetto agli oggetti che ordina quanto eventuale in se stesso. In questo senso è possibile concepire che l’a priori sia anche storico. Le unità discorsive hanno quindi una loro propria modalità di insorgenza, una loro spazialità definita, un loro tempo, una loro aleatorietà. Per esplicare un ordine discorsivo bisogna quindi esibirne la genealogia, vederne la nascita. Bisogna allora guardare ai luoghi apparentemente vacanti della storia, all’assenza di parola, ai brusii e alle voci che la preparano, bisogna in certo modo transitare sul vuoto, afferrare gli intervalli del mutarsi degli eventi in discorsi. In Foucault, questa modalità di pensiero è attiva sin dalla Storia della follia, e viene a mano a mano formulandosi come paradigma epistemologico. Nella Storia della follia lo sforzo foucaultiano mira a far parlare la follia stessa; egli non intende fare un discorso sulla follia ma, analizzando le pratiche di internamento, intende mostrare come alla follia è tolta la parola: essa può apparire solo nei discorsi che parlano di lei; dalla follia, dunque, alla psichiatria. I dispositivi pratici d’organizzazione, quali procedure abituali, diventano regole d’ordinamento, infine schemi di razionalità e ordini di discorso. Nella storia si danno quindi processi di stabilizzazione e meccanismi di selezione che corrispondono a puntuazioni di forza, a dinamiche di potere e a strategie di dominio. La dissoluzione dell’a priori quindi non è da intendersi come liquidazione di un modulo filosofico, ma come collocazione delle unità discorsive su di un nuovo terreno che è propriamente quello genealogico. “Il mio problema,” scrive Foucault, “non è affatto di dire siamo nella discontinuità restiamoci. Ma di porre la domanda: come è potuto accadere che si diano, in certi momenti ed in certi ordini del sapere, questi bruschi distacchi, queste precipitazioni dell’evoluzione, queste trasformazioni che non rispondono all’immagine tranquilla e continuista che se ne ha di solito.”9 La dissoluzione del trascendentale si compie, dunque, sul terreno genealogico e comporta da un lato 11

l’emancipazione dalla trascendentalità del soggetto e dall’altro la restituzione di valore al contenuto empirico. L’accesso al continente-storia è così contrassegnato dalla serialità infinita e dalla discontinuità.

3. Il decentramento del soggetto La dissoluzione dell’a priori coincide, in senso stretto, con l’estinzione del soggetto trascendentale. Quest’evenienza teorica è stata battezzata e ha preso un nome: morte del soggetto o morte dell’uomo. Battesimo quanto mai equivoco, poiché invero pochi sapevano cosa veramente morisse, continuando tuttavia a spendersi in necrologi. Il soggetto trascendentale non coincide immediatamente con ciò che diciamo uomo, ma tale coincidenza è attinta per via mediata e abbastanza tardi. A ragione Foucault nota come l’uomo sia un’invenzione recente e di breve durata. La cultura antica e cristiana non conosceva tanto l’uomo, meno che mai l’umanità, quanto l’individuo, il singolo, al più la persona. Gli individui erano vincolati a un destino irripetibile di vita e di morte, erano nature caduche o immortali a seconda delle prospettive. Nel cristianesimo poi l’individuo è chiamato a una superiore elezione e in base a questo è vincolato a un destino di dannazione o di salvezza. Reale è dunque l’individuale, ma l’individuale è ineffabile: questo ci dice la cultura antica e cristiana. D’altra parte l’individuo è singolo e, nel caso dell’uomo, sintesi di corpo e anima: sotto quest’aspetto l’individuo è capace dell’universale e l’anima è appunto il luogo delle idee. Proprio questo luogo subirà un’interna evoluzione trasformandosi in soggetto trascendentale. Ne Le parole e le cose Foucault dà conto della modernità in tal senso: essa accade come l’epoca della filosofia della rappresentazione. Questa filosofia dissolve ogni individuale sostanza nella rappresentazione che si ha di essa. Le cose esistono in quanto si manifestano – ossia come idee – e sono contrassegnate dalle parole che le nominano. Tali parole devono essere disposte secondo un ordine e all’ordine del discorso corrisponde lo stato delle cose, che 12

non può essere altrimenti guadagnato se non dall’esposizione chiara e distinta dell’ordine stesso, o più propriamente dagli schemi di ordinamento che costituiscono i saperi. L’uomo, dunque, come entità individuale e storica è dissolto nel sistema delle rappresentazioni che lo contengono come momento: meglio, l’uomo viene inglobato nelle grandi funzioni del rappresentare, del parlare, del classificare, dello scambiare, e così avanti. Il soggetto trascendentale, come i moderni lo intendono, è dunque un sistema di ordinamento, e la catena ben ordinata dei segni dà conto dei significati: da qui l’ordo rationalis e, più avanti, su questa sagoma, i diversi ordini di discorso o saperi. Cartesio per primo ha dissolto le sostanze individuali – e le forme sostanziali corrispondenti – nell’universalità dell’ordine e perciò ha reso, in prima istanza, irrilevante l’individualità empirica a vantaggio dell’unità trascendentale. Lo sforzo dei moderni fu quello di ridurre gli oggetti alle idee: la sintassi ben ordinata dei segni doveva dare conto di tutti i significati in modo tale che gli oggetti dovessero interamente corrispondere ai discorsi, senza alcuna eterogeneità rispetto a essi. Di contro a questo sforzo Kant prende atto dell’irriducibilità degli oggetti ai discorsi. Il pensiero si trova di fronte il materiale fenomenico che certamente manifesta, ma evidentemente non produce: nella presentificazione c’è un’ineludibile esperienza passiva e recettiva. Il soggetto trascendentale manifesta il fenomeno, ma non produce l’oggetto a cui esso rinvia: se così è, la ragione può solo ordinare un materiale dato, non può mai ridurre questo materiale a se stessa. Lo sforzo dei moderni di ridurre l’oggettività all’unità trascendentale subisce in Kant una strana modificazione e un’inversione di tendenza: l’oggettività, ossia l’in sé, non è riducibile all’io; l’oggettività assoluta, e perciò Dio stesso come mediazione suprema, è meno che mai attingibile. Se ciò è vero, c’è uno spazio assoluto per l’uomo. Vediamo perché. L’uomo, di recente invenzione, è un risultato dell’iniziativa kantiana e, suo malgrado, ne è una conseguenza: quest’uomo è da intendere come lo sforzo o il tentativo 13

costante di mediazione tra l’incondizionatezza dell’a priori e la contingenza dell’ordine fenomenico. In questo senso, l’uomo acquisisce una radicale centralità dimettendo l’impersonalità della rappresentazione, propria della prima modernità, a vantaggio della sua storicità. L’a priori sviluppa una tendenza alla riduzione, tende in sostanza a ricondurre a sé l’intero; l’in sé, al contrario, sviluppa una tendenza a mantenersi nell’estraneità: da qui lo sforzo tremendo dell’unificazione e questo sforzo si attua nel tempo. Questo sforzo è il soggetto umano e più propriamente l’uomo fatto soggetto. L’uomo non era mai stato soggetto in tale forma: l’individuo viene caricato del peso del trascendentale, peso che mai gli era toccato, e in ciò viene trasformato. Per altro verso, il trascendentale si formula come sforzo e nello sforzo si limita e accade come finitudine. In questa circostanza, soggetto trascendentale e uomo storico vengono a sovrapporsi e a coincidere: l’individuo deve assumere il ruolo del tutto funzionale del trascendentale e farsi carico dell’unità del molteplice; l’unità trascendentale, a sua volta, si formula concretamente come sforzo, come attività e termine di mediazione tra storia e verità. In questo profilo bene si chiariscono, per esempio, i sistemi filosofici di Fichte ed Hegel. Data la centralità dell’uomo, che cosa è dunque quest’uomo? “L’antropologia,” scrive Foucault, “in quanto analitica dell’uomo ha avuto, senz’altro, una funzione costituente nel pensiero moderno dal momento che in gran parte non ne siamo ancora staccati. Si era resa necessaria da quando la rappresentazione aveva perduto il potere di determinare da sola e in un moto unico il gioco delle proprie sintesi e analisi. Occorreva che le sintesi empiriche fossero fondate altrove che nella sovranità dell’‘io penso’. Occorreva cercarle proprio là dove tale sovranità trova il proprio limite, cioè nella finitudine dell’uomo, che caratterizza sia la coscienza sia l’individuo che vive, parla, lavora. Kant aveva già formulato tutto questo nella Logica, allorché aveva aggiunto alla propria trilogia tradizionale un’ultima domanda: le tre domande critiche (che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che 14

cosa mi è consentito sperare?) vengono pertanto riferite e ‘addebitate’ ad una quarta domanda: Was ist Mensch? Tale domanda, lo abbiamo veduto, traverserà il pensiero fin dagli inizi del XIX secolo: infatti essa effettua, di nascosto e anticipatamente, la confusione tra empirico e trascendentale di cui Kant aveva pur indicato la separazione.”10 Secondo Foucault, la filosofia si è troppo a lungo assopita in questo sonno antropologico che è divenuto un nuovo dogmatismo. A ogni modo, a partire da Kant prende avvio il clinamen che conduce alle scienze dell’uomo. Le categorie gettate nel tempo perdono l’incondizionatezza del loro valore e la verità perde il suo profilo assoluto. Il cogito, trasformatosi in sforzo, diviene punto di mediazione tra empirico e trascendentale: il pensiero non è più autotrasparente, ma è denso di storicità. L’uomo è una complicazione e soprattutto non è più da considerarsi come un che di immediato e di per sé noto, ma come una risultante. In proposito Foucault nota: “Per il fatto di essere un allotropo empirico-trascendentale, l’uomo è anche il luogo del disconoscimento, di quel disconoscimento che espone sempre il suo pensiero a venir sopravanzato dal suo essere; e che gli consente, a un tempo, di recuperare se stesso a partire da ciò che gli sfugge... In tale forma, il cogito non sarà, pertanto, l’improvvisa scoperta illuminante che ogni pensiero è pensato, ma l’interrogazione continuamente ripresa al fine di sapere come il pensiero possa abitare al di fuori di sé e sia tuttavia vicinissimo a sé medesimo, come possa essere sotto la specie del non pensante. Il cogito moderno riconduce appunto l’intero essere delle cose al pensiero, ma ramificando l’essere del pensiero fin dentro la nervatura inerte di ciò che non pensa”.11 A partire da quest’ultimo passaggio non si dà più un soggetto di verità, ma la verità dei soggetti, da intendere come organizzazione diffusa di saperi, come proliferazione di ordini discorsivi, come attivazione di procedure disciplinari, di norme, di doveri, di divieti, di forme di vita. L’uomo ha vita breve perché lo sforzo di mediazione non attinge un punto assoluto di fusione, ma si discioglie 15

costantemente in queste unità frammentate: sono queste che di volta in volta danno profilo ai soggetti, ed essi esistono e agiscono all’interno di tali unità. Questo è il nucleo forte e strutturato de Le parole e le cose: certo in quel libro molte sono le sfaccettature culturali, molteplici le proiezioni in diversi campi disciplinari, ma esse modulano lo schema teorico da noi individuato. La storia, si diceva, è uno spazio di discontinuità ove ogni gruppo di eventi – qualunque ne sia la natura – è governato da una sua precisa sintassi o sistema di regole. Discontinuità spaziali, disparità temporali, forze e strutture: sono questi i termini che ci permettono di misurare la distanza e la qualità degli spostamenti con cui nel corso del tempo si è venuto modificando il paradigma epistemologico-genealogico di Foucault. Spostamenti non difficili da individuare perché è Foucault stesso a indicarceli e lo fa in una delle sue opere più recenti ove prendono il valore di una retrospettiva e di un bilancio. Nell’introduzione a L’uso dei piaceri egli scrive: “Un certo spostamento mi era parso necessario per analizzare ciò che spesso veniva designato come il progresso delle conoscenze: esso mi aveva portato a interrogarmi circa le forme di pratiche discorsive in cui si articola il sapere. Un altro spostamento teorico, che era stato necessario per analizzare quelle che spesso vengono descritte come le manifestazioni del ‘potere’, mi aveva portato piuttosto ad interrogarmi sulle strategie multiple, le strategie aperte e le tecniche razionali in cui si articola l’esercizio del potere. A questo punto, per analizzare ciò che è designato come ‘il soggetto’, un terzo spostamento sembrava imporsi; era opportuno cercare quali fossero le forme e le modalità del rapporto con se stesso attraverso le quali l’individuo si costituisce e si riconosce come soggetto”.12 Gli spostamenti teorici di cui Foucault parla e che coprono tutto l’arco delle sue ricerche, hanno un tratto in comune: determinare i giochi di verità, che si tratti dei discorsi, o dell’esercizio del dominio, o del significato del sé. Un qualsiasi processo di identificazione è possibile poiché si è nelle condizioni di evidenziare un gioco. Le discontinuità storiche entrano in discorso e perciò esistono 16

in quanto è ogni volta possibile esibire il relativo gioco di verità.

4. L’ordine del discorso La dissoluzione del trascendentale come punto di vista costituente e incondizionato, e la discontinuità storica come emersione, del tutto eventuale, di a priori materiali, concorrono insieme a deporre l’idea tradizionale di verità, la privano cioè della sua fissità, sia essa intesa come adeguazione perfetta di intelletto e cose o come possibilità di porre oggetti assoluti. La verità non è più concepibile come adeguazione al reale nel senso ingenuo dell’esatto rispecchiamento degli oggetti nella mente: questa concezione coinciderebbe col perdurare di una vecchia ipostasi che ritiene possibile la sussistenza separata e indipendente di mentale e reale e la conoscenza, o verità, come risultante del loro corretto incontro. Al contrario, in tanto ci sono oggetti in quanto esistono fatti: ciò vuol dire che certamente esistono oggetti materiali fissi e consistenti, ma non dipende da essi l’accadimento mondo, ossia il fatto che un mondo vi sia. In altri termini, l’accadimento mondo non dipende dagli oggetti che esso contiene, bensì dal loro combinarsi che costituisce il loro effettivo accadere: l’accadere di queste relazioni sono appunto i fatti. Tutto ciò ce lo ha insegnato Wittgenstein, ma è ormai aria che si respira. Un qualsiasi oggetto non è dunque mai separabile dalla forma del suo accadere. L’esecuzione di un gioco è il realizzarsi della verità come oggettività, ossia come insieme materiale di regole che definiscono lo spazio del vero e del falso, emettono ordini e pongono divieti. Stare ai fatti vuol dire identificare e descrivere “giochi di verità”. Foucault, come tanti, prende congedo da una concezione ingenuamente adeguazionista della verità per mettere a fuoco e tematizzare gli effetti di verità facendo ampiamente coincidere la verità con l’impiantarsi di strategie efficaci. D’altra parte l’intera ricerca foucaultiana, sia pure in termini variati, ruota sempre intorno al tema della verità mai astratta, ma da accertare, per quel che vale, sul 17

campo. Foucault nell’introduzione a L’uso dei piaceri, proprio mentre passa in rassegna i suoi spostamenti teorici, indica come gli statuti di verità cambino a seconda dei campi di applicazione caratterizzati ognuno per proprio conto da uno statuto di verità. Foucault, infatti, ha descritto i giochi di verità relativamente alla formalizzazione dei saperi e al costituirsi di corpi disciplinari differenziati sulla falsariga di un certo numero di scienze empiriche nei secoli XVII e XVIII; ha analizzato i giochi di verità nei rapporti di potere sull’esempio delle pratiche punitive; ha, infine, cambiato campo di applicazione nelle sue ultime ricerche sulla sessualità, per studiare i giochi di verità nel rapporto di sé con se stesso, nella costituzione di sé come soggetto. A tale scopo ha preso come punto di riferimento e campo d’indagine quella che si potrebbe chiamare la “storia dell’uomo del desiderio”. La rilevazione dei giochi di verità non riesce ad annullare l’eventualità di ogni accadere – e perciò la discontinuità di tutto ciò che è storico – ma permette di attraversare le discontinuità tracciando confini, disegnando mappe provvisorie in uno spazio costitutivamente aperto e difforme. L’impianto teorico foucaultiano, sia esso inteso come archeologia del sapere o come topografia, è, a ogni modo, un’epistemologia storica; proprio per questo è una storia dell’episteme, ossia “un’analisi dei ‘giochi di verità’, dei giochi del vero e del falso attraverso i quali l’essere si costituisce storicamente come esperienza, vale a dire come essere che può e deve essere pensato”.13 Sotto quest’aspetto, Foucault stesso non manca di dichiarare che ciò in cui da molti anni ha voluto impegnarsi “è un lavoro volto a rendere manifesti alcuni degli elementi che potrebbero servire ad una storia della verità”.14 A questo punto vale la pena considerare come tale schema sia stato messo in opera nella Storia della sessualità.

5. Dalla morte dell’uomo all’ermeneutica della soggettività Foucault, come molto spesso accade, è divenuto un 18

autore noto a un vasto pubblico più per i temi trattati che per l’impianto teorico che li regge. Evidentemente, nessun apparato teorico esiste indipendentemente da ciò che tratta, ma il tema rischia di diventare irrilevante teoricamente se lo si svincola dall’argomentazione che lo fa valere. In questa sede, mi interessa esplicitare il nesso tra l’argomentazione e il tema, ossia tra la forma teorica e il contenuto trattato. Ciò è importante in modo particolare per Foucault, poiché i temi da lui trattati non solo sono oggetto di altre discipline, ma sono direttamente o indirettamente implicati con vicende e movimenti di rivendicazione sociale e politica e con fenomeni di vita comune. Questo vale, per esempio, per la Storia della follia, che certo ha avuto risonanza e corrispondenza nell’antipsichiatria; ancora più coinvolgente è il tema del potere, soprattutto in relazione alla protesta politica e alla rivendicazione di libertà dei movimenti di questi ultimi vent’anni. Tema di vita comune, infine, è quello della sessualità e quindi è argomento che potenzialmente desta l’interesse di tutti. Per attingere il valore autentico di queste ricerche bisogna esplicare la loro forma teorica. La Storia della sessualità – Foucault stesso ce lo ha detto – affronta un gioco di verità: nella specie tende a identificare la storia dell’“uomo del desiderio”. Foucault si premura di avvertirci che qui non si tratta “della storia delle concezioni successive del desiderio, della concupiscenza o della libido”, bensì di “un’analisi delle pratiche attraverso le quali gli individui sono stati spinti a fermare l’attenzione su se stessi, a decifrarsi, riconoscersi e dichiararsi soggetti di desiderio, mettendo in gioco gli uni con gli altri un certo rapporto che permette loro di scoprire nel desiderio la verità del loro essere, sia esso naturale o viziato. In breve, l’idea, in questa genealogia, era quella di vedere come gli individui siano stati portati a esercitare su se stessi, e sugli altri, un’ermeneutica del desiderio di cui il loro comportamento sessuale è indubbiamente stato l’occasione, ma non certo il campo esclusivo”.15 La dichiarazione d’intenti, che Foucault enuncia nell’introduzione al secondo volume della sua storia, è 19

importante perché, mentre indica la direzione nuova della sua ricerca, implicitamente segnala la linea di spostamento dalla fase precedente. Tra le due fasi esistono, tuttavia, elementi se non di continuità certo di analogia. La ragione dell’analogia si rinviene ancora una volta nel potere, solo che questa volta cambia il suo campo d’incidenza e quindi varia il suo senso e la sua stessa formulazione. Le ricerche foucaultiane che hanno immediatamente preceduto la Storia della sessualità hanno avuto come oggetto prevalente di analisi il potere; Foucault non manca di segnalare che “l’analisi dei rapporti di potere e delle loro tecnologie permetteva di considerarli come strategie aperte, eludendo l’alternativa di un potere concepito come dominio o denunciato come simulacro”.16 Potere disseminato e nel contempo ben localizzato: soprattutto non univoco. Il primo volume della Storia della sessualità, La volontà di sapere, si inscriveva fondamentalmente ancora in questa logica: infatti l’obiettivo dominante era quello di aggirare l’ipotesi repressiva o, più propriamente, di chiarire quello strano complesso di colpa della civiltà contemporanea rispetto alla repressione sessuale come colpa storica che ci ha preceduto e che ancora pesa. Nella civiltà contemporanea l’invasione della sessualità giunge come compensazione di quel complesso di colpa: a ogni modo “l’essenziale (almeno in prima istanza) non è tanto sapere se al sesso si dice sì o no, se si formulano divieti o autorizzazioni, se se ne afferma l’importanza o se ne negano gli effetti, se si castigano o no le parole di cui ci si serve per designarlo; ma prendere in considerazione il fatto stesso che se ne parla, chi ne parla, i luoghi ed i punti di vista da cui se ne parla, le istituzioni che incitano a parlarne, che accumulano e diffondono quel che se ne dice, in breve, il ‘fatto discorsivo’ globale, la ‘trasposizione in discorso’ del sesso”. 17 Questo venire in discorso della sessualità è veramente un’uscita dalla repressione? O più propriamente: c’è stata veramente o solamente repressione in quelle formazioni storico-sociali in cui si riteneva che ci fosse, oppure quegli stessi apparati di controllo erano macchine di investimento della stessa 20

sessualità? E oggi abbiamo a che fare veramente con la rottura del vincolo repressivo o ancora una volta, e inevitabilmente, la sessualità si inscrive in dispositivi di potere che, così come la limitano, la investono? In sostanza, La volontà di sapere intende “determinare nel suo funzionamento e nelle sue ragioni di essere il regime di potere-sapere-piacere che sorregge in noi il discorso sulla sessualità umana”.18 Foucault aveva problematizzato, in prima istanza, il tema della sessualità all’interno della dinamica saperepotere: il piacere costituiva quindi uno dei vertici di questo triangolo. Nel prosieguo dell’opera l’impostazione ha subito una deviazione significativa e tale da terminare in una diversa apertura sulla questione della sessualità. Foucault stesso ci aiuta a capire il senso della modificazione in questione quando ne L’uso dei piaceri introduce, in relazione alla morale, la distinzione tra gli elementi di codice e gli elementi di ascesi.19 Ogni morale, in senso lato, comporta due aspetti, quello dei codici di comportamento e quello delle forme di soggettivazione; “se è vero,” dice Foucault, “che essi non possono mai essere del tutto dissociati, ma che avviene loro di svilupparsi ciascuno in un’autonomia relativa, bisogna anche ammettere che, in alcune morali, l’accento è posto soprattutto sul codice, sulla sua sistematicità, la sua ricchezza, la capacità di adeguarsi a tutti i casi possibili e comprendere tutti i campi d’azione”.20 L’impostazione iniziale di Foucault, che intendeva aggirare l’ipotesi repressiva, si muoveva soprattutto all’interno degli elementi di codice e quindi necessariamente privilegiava quello che lui stesso definisce “le istanze di autorità che fanno valere quel codice, che ne impongono l’apprendimento e l’osservazione, ne sanzionano la trasgressione”. L’implicazione potere-piacere-sapere, analizzata attraverso l’elemento del codice, di fatto privilegiava le strategie di istituzionalizzazione sui processi di appropriazione dei codici, ossia sulle modalità attraverso cui gli individui soggettivano la norma, la riferiscono a se stessi e se ne impossessano. Nel prosieguo della sua opera 21

Foucault punta l’attenzione più sulle forme di soggettivazione che sulle strategie di istituzionalizzazione: ancora una volta potere; tuttavia non più relativo alle tecniche di organizzazione e all’invenzione impersonale dei codici, ma al dominio di sé o alla formazione di uno stile. Questo nuovo approccio mette, ovviamente, in evidenza un diverso gioco di verità: l’analisi della costituzione del “soggetto del desiderio” attraverso le regole di formazione della soggettività come personalità etica. La sessualità, così intesa, mette capo all’individualità: è un fatto nuovo in Foucault, dove la dimensione individuale è stata spesso taciuta o quanto meno è rimasta implicita. Il “soggetto del desiderio” appare come soggetto capace di organizzare la propria vita a partire dall’esperienza del piacere corporeo, che noi, in termini del tutto moderni, chiamiamo sessualità. C’è in ciò una questione di governo e di potere, ma essa ricade nei limiti della stessa individualità, da intendere come quell’unità d’esperienza che accade nel perimetro dello spazio corporeo. La centralità del corpo ha una funzione decisiva nella formazione del sé, poiché è proprio attraverso la pratica di sé che si emerge come soggetti morali. L’uso dei piaceri individua i modi di questa soggettivazione non tanto nell’adesione a regole date, quanto nell’appropriazione di esse, con quel tanto che c’è da modificare e da produrre originalmente in se stessi. Solo se c’è il perfetto dominio di sé è possibile il dominio degli altri: anche il potere assume dunque una diversa curvatura, poiché è considerato a partire dalle capacità dei soggetti individuali e, in una parola, dalle loro virtù. L’indagine intorno alle regole che presiedono alla costituzione del sé mette in luce proprio quegli elementi di ascesi che producono l’autodominio. La civiltà greca, in prima istanza, e quella romana a seguire sono il terreno più idoneo, e sotto certi aspetti unico, per una tale analisi: infatti quelle culture sono centrate sull’individualità etica e sulla sua formazione. A scanso di ogni equivoco vale la pena chiarire che l’individualità in questione non è l’ipostasi dell’individuale, ma semplicemente l’esistenza degli individui, che esistono come tali e si relazionano, e 22

nella relazione rimangono anche quando si costituiscono come soggetti etici. Il processo di soggettivazione si articola dunque in un preciso campo d’esperienza. Foucault individua quattro grandi assi d’esperienza: il rapporto con il corpo, il rapporto con la sposa, il rapporto con i ragazzi, il rapporto con la verità. In questa sede, mi preme mettere in luce alcuni passaggi significativi: in base a quanto si è detto, infatti, è evidente che i processi d’individuazione vengono esplicati attraverso funzioni generali strutturanti, ma ciò che strutturano è l’individuo nei limiti della sua corporeità e nelle relazioni che si stabiliscono a partire dalla sua fissità fisico-naturale. In tal modo è determinabile il processo di soggettivazione, e perciò la costituzione morale dell’individuo, che è però più che mai lontano dal soggetto come entità atomica, o pura e trasparente unicità. Foucault, per descrivere questo processo, ha bisogno di esporre le modalità di problematizzazione morale del piacere: a tale scopo individua un ambito della sessualità, un impiego del medesimo, e infine un dominio dell’ambito e dei mezzi. I termini greci che caratterizzano queste tre dimensioni sono rispettivamente: l’άφροδίσια che denota l’ambito materiale dell’esperienza del piacere; la χρη˜σις che riguarda le modalità d’uso dei piaceri e la possibilità di procurarseli e di evitare i danni; l’έγκράτεια che riguarda la misura, la giusta proporzione nella fruizione e nel godimento. I greci non avevano nozione alcuna della sessualità nel senso nostro, ma non avevano neppure sentore dell’esperienza della carne nella forma che sarà propria del cristianesimo: per loro il piacere, in senso stretto, riguardava l’esperienza corporea e perciò il corpo come unità vivente. Questo è tanto vero che per Aristotele non vi è piacere suscettibile di άκολασία (intemperanza) se non dove c’è tatto e contatto: “contatto con la bocca, la lingua, la gola (per i piaceri del cibo e delle bevande), contatto con altre parti del corpo (per il piacere del sesso)”.21 La centralità fisico-naturale fissa l’individualità etica alla sua base corporea, impermeabile e perciò distinta, finita, irripetibile, diveniente secondo una sua propria e stabilita temporalità. La personalità morale 23

concresce e si dispiega con le potenze stesse della corporeità, che bisogna saper ben amministrare e ben investire per vivere bene ed essere felici. Da qui la centralità dell’έγκράτεια che si caratterizza appunto “come una forma di padronanza di sé, che permette di resistere o lottare e assicurare il proprio dominio nell’ambito dei desideri e dei piaceri”.22 Questa capacità di tenere in pugno le proprie potenze, che oggi chiameremmo pulsioni e che coincidono con il sé corporeo, sono la premessa per il realizzarsi della αωφροαύνη che è sì temperanza, ma come stato acquisito e perciò abito e quindi buon senso, assennatezza, equilibrio. Corporeità, individualità, relazione tra soggetti: la sessualità presso i greci si svolge tra il dominio di sé e il dominio degli altri; possibile il secondo solo se si realizza il primo. L’ambito dei piaceri così designato si articola in tre dimensioni o, per usare altro linguaggio, si situa nell’intersezione di tre sottosistemi. Vediamo quali. In primo luogo la corporeità è un dato fisico-naturale e perciò non può che essere interpretato nell’ordine della natura: il corpo è costituito secondo un regime naturale che deve rispettare per conservare la sua forza e il suo equilibrio. In questo senso il corpo ha valenza individuale, ma è implicato con il generale: da una parte deve seguire un regime, che è quello dei corpi, ma dall’altra ogni individuo è corporeità singolare e deve singolarmente appropriarsi del regime. La norma naturale diviene, nel soggetto, pratica di igiene: da questo punto di vista la sessualità rientra nella Dietetica che, come per l’alimentazione e in generale per la salute, anche per il piacere indica ricette opportune. Per l’accoppiamento ci sono stagioni le une migliori delle altre, tempi e luoghi opportuni, tecniche specifiche e stato generale del corpo che favoriscono l’esercizio del piacere. La norma qui non è tanto un imperativo etico, quanto un’indicazione pragmatica per un’ottimizzazione della vita amorosa. E in generale l’etica sessuale antica, anche quando sia restrittiva, ha questo carattere pragmatico: proprio per ciò ruota intorno alla nozione di temperanza e subalterna a essa quella di obbligo e di rinunzia. La vita sessuale deve dunque seguire 24

un regime. Ma la sessualità ha a che fare strettamente con la generazione e quindi cade sotto le leggi della riproduzione e dello scambio, e riguarda perciò l’implicazione biologica uomo-donna, la posizione di quest’ultima nella famiglia, la relazione tra famiglie e lo scambio delle ricchezze. Sotto quest’aspetto, la vita sessuale cade nell’ambito dell’Economica. Infine, la sessualità è relazione di piacere e di amore, è atto d’elezione. Nella cultura greco-romana ciò concerne soprattutto il rapporto con i ragazzi, vista la posizione secondaria della donna in quella società. La relazione amorosa non deve solo produrre il piacere e realizzare l’amore, ma deve essere connessa alla virtù. Dal ragazzo sorgerà infatti il cittadino e l’uomo di governo, il reggitore dello Stato da cui dipendono le sorti buone o cattive della città: a tale scopo la città ha bisogno di cittadini virtuosi. Nel rapporto amoroso il ragazzo non deve essere corrotto, ma, caso mai, tramite esso plasmato e educato. La conduzione corretta della vita amorosa e il posto che occupano rispettivamente l’onore e il piacere riguardano, in senso stretto, l’Erotica. Entro queste tre dimensioni si sviluppa l’esercizio del piacere e si impianta l’uomo del desiderio: l’uomo riuscito, infine, è l’uomo temperante, colui che è capace di padroneggiare se stesso. L’ascesi, così intesa, non si disgiunge dalla figura signorile, anzi la contraddistingue. Su questa base, già nel mondo greco-romano si sviluppano quelle regole di austerità che saranno perfettamente riprese dal cristianesimo: tuttavia sarà il diverso orizzonte etico a dare un significato radicalmente diverso a quei precetti. La preoccupazione di sé, il tipo di attenzione che essa sviluppa, il sistema di precetti che essa elabora sono i temi che Foucault affronta nel suo terzo volume della storia, La cura di sé. In tale circostanza egli considera l’esperienza della sessualità nei primi secoli dell’era volgare. A questo punto la morte ha interrotto la ricerca. C’è da rammaricarsene, ma la direzione dell’indagine resta segnata: nella Storia della sessualità, l’impianto teorico rimane in larga parte immutato – si parla ancora di 25

potere, di dispositivi, di procedure, ma muta il campo d’applicazione, Foucault cambia indirizzo, imbocca una nuova strada. Al centro vi è ancora il soggetto, ma inteso come potenza, desiderio, morte, soprattutto individualità. Nella deriva del presente, nel proliferare delle autonomie, nei ripetuti tentativi di normalizzazione gli individui devono poter ritrovare se stessi, devono potersi costituire come centri di resistenza e di opposizione. Per far ciò devono ripiegarsi su di sé, organizzare la propria potenza. La cura di sé, il governo del desiderio sono le strategie idonee per guadagnare una piena autonomia, per cercare di divenire, per quel che si può, liberi, per istituire giuste e riuscite relazioni con gli altri. Nella stilizzazione della vita degli antichi, nell’immersione entro le profondità della tradizione cristiana si possono reperire gli strumenti per conquistare e preservare la propria forma. Non più una morale della soggezione, ma un’estetica dell’esistenza. Questo libro raccoglie testi scritti in successione e distribuiti in libri diversi: Ermeneutica e genealogia, Vita buona vita felice, Teatro filosofico. Documentavano un work in progress. Ora, nel ripubblicarli do loro un profilo sistematico nell’intento di offrire al lettore una più compiuta visione del pensiero di Foucault e, tramite lui, del mio.

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Note 1

M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 413. 2 M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 14. 3 Ivi, p. 16. 4 M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 232. 5 Ibidem. 6 M. FOUCAULT, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984; tr. it. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, p. 14. 7 Ibidem. 8 M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, p. 55. 9 M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 6. 10 M. FOUCAULT, Le parole e le cose, cit., p. 366. 11 Ivi, pp. 347-349. 12 M. FOUCAULT, L’uso dei piaceri, cit., pp. 11-12. 13 Ivi, p. 12. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 11. 16 Ivi, p. 10. 17 M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; tr. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1976, p. 16. 18 Ibidem. 19 M. FOUCAULT, L’uso dei piaceri, cit., pp. 30-37. 20 Ivi, p. 34. 21 Ivi, p. 46. 22 Ivi, p. 69.

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1. Foucault e la genealogia della “ragione moderna” Spiegazione significa mostrare sempre più chiaramente la successione: niente di più. F. NIETZSCHE, frammenti postumi, maggio-luglio 1885, 35 (52)

1. Cartesio e l’idea di ragione Cartesio inaugura lo spazio storico e logico della “ragione moderna”. Egli determina, per la prima volta ed esplicitamente, il dominio della ragione come dominio della rappresentazione. La ragione cartesiana è una ragione assoluta: essa pone l’uomo quale centro e misura di tutte le cose. In tal modo, l’uomo guadagna la signoria sul mondo e assume quella posizione sovrana che caratterizza l’umanesimo moderno. Martin Heidegger traccia un profilo essenziale di questa signoria: nel dominio di questa sovranità – egli nota – il subjectum costituisce l’ens non più come ens creatum ma al contrario come ens certum: indubitatum: vere cogitatum: “cogitatio”.1 Heidegger vede giusto: l’idea cartesiana di ragione si costituisce come ragione fondante, principio assoluto di certezza. Questa ragione, che è fondamento assoluto, non solo è capace di autogarantirsi, ma garantisce la verità dell’intero contenuto della rappresentazione. Il mondo è ridotto a immagine ed è regolato da un necessario ordine razionale.2 Cartesio istituisce in questi termini l’idea moderna di ragione. Se tutto ciò è vero, bisogna però notare che non sempre la posizione di un significato coincide con la sua totale e immediata autoevidenza. Che Cartesio sia il fondatore della ragione moderna è cosa su cui comunemente si conviene, minore è invece il consenso sul significato proprio di questa ragione. Ciò significa che un enunciato per essere compreso deve essere interpretato o, in ogni caso, la relativa evidenza dell’enunciazione legittima la molteplicità delle 28

interpretazioni. Se, dunque, un’ermeneutica è possibile, è allora anche legittima: è quindi nostro intendimento discutere qui l’interpretazione che Foucault dà della “ragione moderna”, se non altro per apportare qualche chiarimento utile alla determinazione del suo significato. Inoltre, poiché l’idea moderna di ragione trova in Cartesio la sua formulazione più eminente, o, in ogni caso, la sua prima statuizione, è nostro intento prendere in considerazione, in modo particolare, la lettura che lo stesso Foucault fa del pensatore moderno. Foucault incontra Cartesio in un contesto anomalo o, quanto meno, inusuale nella storiografia filosofica; lo incontra nella Storia della follia, in quel punto in cui la Ragione si separa dalla Follia, cioè in quel punto in cui la ratio moderna viene canonizzata e trova il suo statuto. La plausibilità dell’incontro pare evidente: la cosa non solo è giustificata, ma è più che mai pertinente. Vale la pena mostrare, brevemente, la ragione di questa pertinenza. Un enunciato di qualsiasi tipo non consiste unicamente nella sua forma logica, l’interezza del significato non coincide con la definizione. C’è un senso ulteriore a cui la definizione e le regole stesse di ogni sintassi rinviano. Un enunciato non è isolabile dall’intero del linguaggio, poiché è, in primo luogo, un accadimento del linguaggio. E non può non essere così: senza espressione, infatti, non si darebbe mai alcun significato. Se si concede questo, un enunciato, per essere compreso nella sua forma più radicale, deve essere compreso come evento linguistico. Ma cosa vuol dire evento linguistico? Certamente, significa qualcosa che ha a che fare con il linguaggio. Ma di quale linguaggio si sta parlando o, più precisamente, cos’è linguaggio? La questione non è tra le più semplici. Tuttavia, è posta qui non solamente perché emerge naturale e coerente dalla logica stessa dell’argomentazione, ma per una ragione più specificatamente tecnica. Infatti è proprio sul senso del linguaggio e sull’ordine del discorso che si incentra la ricerca foucaultiana. D’altra parte, è il diverso senso del linguaggio che dà luogo a varie e opposte ermeneutiche. Tali diverse ermeneutiche poi assegnano vari significati 29

all’evento linguistico. Date queste premesse, e a titolo semplicemente indicativo, si può dire che l’evento linguistico appartiene al linguaggio almeno in un duplice senso: 1) può essere inteso come un accadimento o una metamorfosi del logo eterno; 2) può essere inteso come un accadimento singolare, come il costituirsi di un’unità discorsiva il cui significato è determinabile all’interno dell’insieme delle pratiche discorsive, nello spazio del discorso in generale. L’evento linguistico è evidentemente interpretato in modo diverso a seconda della diversa accezione in cui è assunto, e quindi a seconda della diversa precomprensione o, a voler essere più modesti, metodologia. In ambedue i casi si ha a che fare con il linguaggio, ma nel primo l’evento in tanto è compreso in quanto è ricondotto al grembo originario, nel secondo l’evento è compreso in quanto è descrivibile la sua genesi, e di esso si può ricostruire la genealogia. Lasciando per il momento impregiudicato il discorso sul linguaggio, è certo che il punto di vista di Foucault sia quello del genealogista, ed evidentemente secondo questo punto di vista egli legge Cartesio. Torniamo quindi all’autore delle Meditazioni e, alla luce di quanto fino a ora si è detto, cerchiamo di considerare più da presso le ragioni per le quali Foucault in-contra Cartesio proprio nella Storia della follia. Con la filosofia cartesiana – lo si è detto già all’inizio – trionfa l’ordine della ragione. Se è vero che il significato dell’enunciato non si esaurisce nella sua forma logica, si deve allora dire che questa proposizione rinvia ad altro da sé e quindi ad altri contesti enunciativi. In ogni caso è verosimile che essa riappaia in questi diversi contesti o che vi si ricolleghi in forme peculiari e da determinare analiticamente. Con tale assunzione di merito si vuol dire semplicemente questo: l’istituzione di una nuova idea di ragione, la determinazione delle regole di un nuovo ordo rationalis, che sia veramente tale e perciò rigoroso, tutte queste cose non significano solamente la mutazione di una prospettiva teorica, ma alludono a una modificazione delle pratiche discorsive nel loro complesso. Ora l’insieme degli 30

eventi discorsivi, per Foucault, è sempre un insieme “finito ed attualmente limitato dalle sole sequenze linguistiche che siano state formulate; possono essere anche innumerevoli, per la loro quantità possono benissimo andare oltre ogni capacità di registrazione di memoria o di lettura: tuttavia costituiscono un insieme finito”.3 La filosofia di Cartesio è un costrutto teorico, che si costituisce, esso pure, all’interno di un regime discorsivo, diciamo approssimativamente quello filosofico. Ma questo stesso regime è contestuale ad altri ordini. Motivo per cui la filosofia di Cartesio per essere compresa deve essere situata in quell’insieme di pratiche che costituisce il suo campo storico. Così intesa, l’opera di Cartesio non è un’innovazione teorica interpretabile unicamente in ragione del contenuto espresso (cioè in ragione del suo significato formale), ma è essa stessa espressione o momento di una riorganizzazione del sapere, cioè del campo discorsivo a cui essa appartiene. Propriamente in ciò risiede la peculiarità dell’analisi di Foucault: la filosofia di Cartesio può essere compresa solo se è vista nell’orizzonte discorsivo che le è proprio, solamente se è considerata all’interno dei meccanismi di controllo e di esclusione della parola, che ordinano il linguaggio e definiscono i significati in relazione alle funzioni.4 In tal senso la filosofia di Cartesio è un sintomo della più generale pratica di assoggettamento della parola.5 Date queste premesse metodologiche, risultano quanto mai evidenti i motivi per i quali Foucault incontra Cartesio in un discorso altro dalla filosofia: appunto nella Storia della follia. Nulla, infatti, sembra più plausibile dell’imbattersi nel codificatore della ratio moderna, proprio mentre si analizzano le procedure che decidono del destino storico di questa ragione e ne istituiscono il significato e i limiti. Per lo stesso motivo, risulta metodologicamente corretta e formalmente pertinente una lettura dell’opera cartesiana che ha cura di collocarla nello spazio storico che l’ha resa materialmente possibile.

2. La nascita della ragione moderna 31

Nella Storia della follia sono poche le pagine dedicate a Cartesio: poche ma significative soprattutto per il contesto in cui appaiono. Di ciò darà conto, e pienamente, Jacques Derrida.6 Foucault è attento alla filosofia di Cartesio, poiché la considera, in linea preliminare, come una testimonianza: “Il procedere del dubbio cartesiano,” egli dice, “sembra testimoniare che nel XVII secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità: quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa”.7 La filosofia di Cartesio testimonia un guadagno decisivo per il soggetto moderno: il suo diritto alla verità. Cartesio è dunque il testimone eloquente della legalità della ragione. La ragione moderna, infatti, è una ragione legale. Tutto questo avviene perché la ragione ha trovato la via per far valere il suo diritto e quindi per porre la sua assoluta legittimità. Ciò è stato possibile perché la ragione ha escluso una volta per tutte il suo contrario: ha fatto tacere per sempre la follia. “L’età classica,” scrive Foucault, “ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era stata già dominata.”8 E più avanti: “Fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l’avvento di una ratio”.9 La ragione cartesiana appare proprio in questo momento: essa giunge quale ratifica sistematica del regno della ragione. Ma su quale sfondo si produce questo accadimento? Quali condizioni maturano perché quest’atto si compia? L’esplicazione del rapporto Ragione-Follia interviene quale elemento chiarificatore e filo conduttore dell’analisi. In effetti, tra il XV e il XVII secolo matura una diversa esperienza della follia, in particolare viene progressivamente sviluppandosi una separazione tra l’elemento tragico e l’elemento critico della follia: in altri termini fra la visione cosmica e la riflessione morale.10 Foucault non manca in proposito di analisi stimolanti. Ciò che comunque bisogna tenere in vista è il fatto che la separazione tra la dimensione tragica e quella critica 32

produce, proprio essa, una nuova esperienza della follia. C’è stato un tempo “in cui l’elemento critico combaciava con quello tragico, o, in ogni caso, gli era intimamente legato”.11 A un certo momento la separazione. Quest’avvenimento merita un’attenta analisi, perché da esso prende inizio quel movimento di disgregazione che, da un lato, conduce all’emarginazione della follia e, dall’altro, produce le condizioni favorevoli per l’avvento della ratio moderna. A due questioni bisogna quindi dare risposta: 1) in che cosa consisteva l’esperienza della follia prima che quella divaricazione si insinuasse; 2) come e perché quella separazione si è insinuata e prodotta. Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, la follia esercita una vera e propria fascinazione. Foucault spiega quest’effetto imputandolo alla disgregazione tra verbo e immagine: “tra ciò che è raffigurato dal linguaggio e ciò che è detto dalla plastica, la bella unità comincia a disgregarsi; un solo ed unico significato non è loro immediatamente comune. E se è vero che l’Immagine ha ancora la vocazione di dire, di trasmettere qualcosa di consustanziale al linguaggio, bisogna riconoscere che, ormai, essa non dice più la stessa cosa”.12 Nel disfacimento del simbolo si insinua la follia. Il mondo medioevale, che pure aveva raggiunto una forma rigorosa e coerente sul piano dottrinale, e in generale come civiltà e cultura, comincia a sfaldarsi; in tale sfaldamento quella rete di significati spirituali, che era così ben connessa e organizzata, prende a confondersi. Il disfacimento del simbolismo lascia apparire “delle figure il cui significato non si concede se non sotto la specie dell’insensato”.13 D’altra parte non poteva non essere così: senza un quadro teologico e morale rigoroso, il simbolico non disponeva più di un riferimento preciso. Nella crisi di una cultura vengono meno quelle regole ermeneutiche ben definite o, in ogni caso, normalmente impiegate, in forza delle quali i segni vengono interpretati. In tali frangenti risulta quanto mai comprensibile l’alterazione del simbolico. Il simbolo, emancipato da un’ermeneutica 33

obbligata o, quanto meno, tacitamente condivisa da un’intera area culturale, giunge a una incontrollabile polivalenza, a un eccesso di significato tale da divenire “segno della follia”. Foucault ha allora tutte le sue buone ragioni quando sottolinea il fatto che, “liberata dalla saggezza e dall’ammaestramento che le davano un ordine, l’immagine comincia a gravitare intorno alla propria follia”.14 In quest’eccesso di senso si compie quella che Foucault definisce la “conversione fondamentale del mondo delle immagini”. L’eccesso di senso svincola l’immagine dalla costrizione della forma e pertanto dal suo significato unitario. L’immagine non è più il riflesso di un ε δος né, tanto meno, rinvia a una unità ideale; al contrario, sotto la sua superficie “si insinuano tanti significati diversi che essa non presenta più che un volto enigmatico... La saggezza simbolica diviene prigioniera della follia del sogno”.15 Ma le immagini che il sogno conduce non sono solo enigma, sono anche presagio. Così pure della follia: essa ha una natura di tenebre, ma insieme allude a un arcano sapere. In questo risiede il fascino della follia. L’uomo del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, attraverso le ossessioni e le fantasmagorie della propria immaginazione,16 attraverso l’incubo e il delirio, si pone in relazione con la sua natura segreta e insieme con il lato oscuro del mondo. La follia annuncia all’uomo il suo segreto, poiché lo mette sulle tracce di un universo ignoto alla sua ragione quotidiana, agitato da forze senza nome né volto e da indominabili istinti. I segni della follia indicano, in cifra, la violenza del desiderio, la seduzione della carne, il potere di morte contenuto nelle potenze stesse della vita. Il delirio per l’uomo del primo Rinascimento non ha ancora una connotazione patologica, ma tragica: in esso si rinviene il medio, che mette in contatto con le grandi potenze e in certo senso offre la visione di un intero mondo nascosto e invisibile per l’occhio comune. La follia in quanto visione tragica è anche figura cosmica. Foucault sintetizza icasticamente il senso della follia nella Renaissance: “Quando l’uomo,” egli dice, “dispiega l’arbitrarietà della sua follia, incontra 34

l’oscura necessità del mondo; l’animale che ossessiona i suoi incubi e le sue notti di privazione è la sua stessa natura, colei che metterà a nudo l’inesorabile verità dell’Inferno; le vane immagini della cieca stupidità sono il grande sapere del mondo; e già, in questo disordine, in questo universo in preda alla follia, si profila ciò che sarà il compimento finale”.17 L’uomo teme il suo segreto, ma nel contempo desidera guardare alla sua dimensione notturna e pertanto affondare l’occhio nella notte del mondo: timore e desiderio danno luogo al fascino della follia. Ma per Foucault, la follia della Renaissance non consiste unicamente in quest’effetto di fascinazione, al contrario essa contiene in sé elementi di critica filosofica e morale, in parte riconducibili alla radice tragica, in parte divergenti da essa. La follia, in una prospettiva di critica filosofica ed etica, non è più considerata come un evento enigmatico e insieme rivelatore, ma come una “punizione comica del sapere e della presunzione ignorante”.18 La follia non è più un segno cosmico, ma è ricondotta alla debolezza umana. In tale contesto la follia “non è generalmente legata al mondo e alle sue forme sotterranee, ma piuttosto all’uomo, alle sue debolezze, ai suoi sogni e alle sue illusioni”.19 Bisogna tuttavia notare come il momento tragico della follia non sia sempre e del tutto opposto a quello critico, come si potrebbe ricavare dalla distinzione appena delineata. La dimensione tragica della follia contiene in sé la possibilità di una sua utilizzazione etica o, quanto meno, una curvatura in questa direzione. Vediamo come. La demenza è il segno del male: in tal senso essa è collegata a un’idea di punizione. Il male, tuttavia, può essere inteso in due modi fondamentali: esiste un’idea cosmica di male; esiste un’idea etica di male. Il male assunto nel suo primo significato è il male radicale, che fa tutt’uno con il senso di nullità del mondo; mondo, peraltro, segnato dal peccato e dalla colpa e proprio per ciò dalla precarietà. La follia in quanto è testimonianza di questa labilità originaria e di questa miseria radicale è insieme minaccia e derisione. Per questo alla fine del Medioevo la 35

follia è intima con la morte, è essa stessa una realtà macabra. Della morte le mancano solo la serietà e l’ineluttabilità. Foucault sottolinea a chiare lettere quest’intimità quando scrive: “la sostituzione del tema della follia con quello della morte non segna una rottura, ma una torsione all’interno della stessa inquietudine”.20 Accanto e di contro a questa concezione cosmica del male ne esiste, come si diceva, una etica. Considerato sotto questo aspetto, il male è eccesso e vanità; è, soprattutto, una questione che ha a che fare con l’etica individuale. Non è la colpa originaria, ma il peccato della singola volontà o, in ogni caso, quello degli uomini storici. Anche in tal caso la follia è punizione, ma non ha più valore apocalittico, non è contrassegno dei tempi ultimi o della fine dei tempi. Al contrario, la follia assume un tratto antropologico, è segno di colpa personale e di difetto. In questo caso, nota ancora Foucault, la follia è legata all’uomo, alla sua debolezza, “la follia non spia più l’uomo ai quattro angoli del mondo; essa si insinua in lui, o piuttosto, essa è un rapporto sottile che l’uomo intrattiene con se stesso”.21 Questa breve puntualizzazione mostra la radice comune, propria sia alla dimensione tragica che a quella critica della follia. Questa radice consiste essenzialmente in una interpretazione della follia come punizione o, in ogni caso, segno del male e del nulla. La follia è dunque figura insieme tragica e critica. Più precisamente, la critica prende le mosse dalla tragedia; ma una cosa è sperimentare la follia come condanna cosmica, altra cosa sperimentarla come prezzo dei difetti umani. Il tragico deridendo il mondo istituisce il primo e più radicale modo della critica. La follia sviluppa dentro di sé una singolare metamorfosi, da simbolo del kovsmo" diventa tratto caratterizzante dell’ævum, da critica del mondo come totalità creata e segnata dal peccato diviene mondo della critica, ossia satira morale. A seguito di questa mutazione, la follia, come scrive Foucault, “non ha tanto a che fare con la verità o con il mondo, ma piuttosto con l’uomo e con la verità di se stesso che egli sa intravvedere”.22 Sono ormai evidenti le ragioni per cui la dimensione 36

tragica e quella critica della follia interferiscono, sul piano storico, in modo pressoché costante, nonostante esista tra loro una precisa distinzione formale e tematica. Quello che però Foucault considera con particolare attenzione è il fatto che nel corso della Renaissance la coscienza critica della follia viene sempre più illuminandosi e per converso quella tragica va declinando progressivamente fino a dileguarsi. Con essa vengono evidentemente meno il fascino e la seduzione onirica della follia. Cessata la seduzione, “la follia può avere l’ultima parola, essa non è mai l’ultima parola della verità del mondo; il discorso con cui essa si giustifica deriva solo da una coscienza critica dell’uomo”.23 La follia, interpretata alla luce della coscienza critica, diviene uno strumento raffinato di critica della coscienza, di analisi dell’intelligenza e del carattere. La follia in tal modo è stemperata e insieme assimilata. Essa non incombe sul mondo come possibilità della sua totale dissoluzione: appunto come dannazione; essa è resa speculare alla coscienza, ma per altro verso è inclusa in essa, è perciò stesso una volta per tutte dominata. È la follia di Erasmo da Rotterdam. Foucault individua due momenti peculiari nell’evoluzione dell’esperienza classica della follia: “1) La follia diventa una forma relativa alla ragione, o piuttosto follia e ragione entrano in una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria. Ciascuna è la misura dell’altra, e in questo movimento di riferimento reciproco esse si respingono l’un l’altra, ma si fondano l’una per mezzo dell’altra.24 2) La follia diviene una delle forme stesse della ragione. Essa si integra all’altra, costituendo tanto una delle sue forze segrete, quanto un momento della sua manifestazione, quanto ancora una forma paradossale nella quale essa può prendere coscienza di se stessa. In ogni modo, la follia non acquista significato, né valore se non nel campo stesso della ragione”.25 L’analisi di Foucault, a questo punto, si fa particolarmente interessante poiché non solo individua le 37

forme storiche di dominazione della follia, ma precisa anche le modalità tecniche attraverso cui è messo in opera tale dominio. A questi effetti sono messe in evidenza due fondamentali procedure: la prima è di tipo prevalentemente logicodialettico; la seconda è una procedura di assimilazione materiale del fenomeno della follia: “la ragione nascente integra a sé la follia nella forma del paradosso. Il primo momento era già felicemente rappresentato dal vecchio tema cristiano che il mondo è follia agli occhi di Dio. È questo un tema che ringiovanisce nel XVI secolo. La dialettica teologica tra sapienza divina e stoltezza umana instaura una connessione essenziale tra ragione e follia. L’uomo crede di veder chiaro e di essere la giusta misura delle cose: in ciò è dimentico della finitudine del suo essere e della natura umbratile della sua conoscenza”.26 Per questa ragione l’uomo è irretito in una doppia follia: da un lato, è irretito dal giuoco delle apparenze, che lo rendono folle in quanto lo distanziano dalla verità e gli mostrano rovesciata la natura delle cose; per altro verso, l’assoluta verità, cioè Dio stesso, è insondabile nella sua immensa infinità ed è quindi altrettanto folle per la limitata ragione umana. In ogni caso la ragione è tenuta in scacco dalla follia. Misurato alla verità delle essenze e di Dio, l’ordine del mondo non è che follia. Per altro verso, la sapienza divina, in quanto infinitamente più grande di quella umana e a essa incommensurabile, è essa stessa follia. Lo dice Paolo nella I lettera ai Corinti quando afferma: “non ha Iddio reso folle la saggezza di questo mondo?” (“Nonne stultam fecit Deus sapientiam huius mundi?”: Cor., I, 1, 20-21); ma subito dopo aggiunge: “perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte di quella degli uomini” (“Quia quod stultum est Dei sapientius est hominibus, et quod infirmum est Dei fortius est hominibus”: Cor., I, 1, 25). Esistono una follia umana e una follia divina: in altri termini, la ragione è chiusa nel cerchio della follia, ma più propriamente si deve dire che la follia è chiusa nel cerchio della ragione. La ragione del mondo è, infatti, resa folle dalla sapienza di Dio; per converso, se la ragione umana 38

vuole accedere alla sapienza di Dio non può non esperirla che come follia. Se da un lato tutto è follia, dall’altro tutto è ragione. Più propriamente bisogna dire che la ragione vince la follia e che quindi la formula “tutto è ragione” esplica più pienamente il senso della circolarità. Infatti se una follia è la misura dell’altra, è possibile commisurare; ma se è possibile commisurare, discrimine fondamentale diviene la misura. E la misura è ragione. In tal senso la ratio è l’istanza ultima che decide del senso di ogni follia. Scrive Foucault: “non esiste follia se non in riferimento ad una ragione, ma tutta la verità di quest’ultima è di far apparire per un istante una follia che essa rifiuta, per perdersi a sua volta in una follia che la dissipa”.27 La dialettica di ragione e follia, opponendo con misura e commisurando, prova la verità della ragione. Accanto a questa procedura, che ha radici teologiche, ma che pur sempre si sviluppa attraverso un esercizio logicoargomentativo, e in ultima istanza cultural-ideologico, ne esiste un’altra di tipo empirico-descrittivo, o di intervento sul costume. La presunzione, dice Montaigne, è la nostra malattia naturale e originaria. Ora non riconoscere la miseria in cui siamo imprigionati è il massimo di sragionevolezza. Allora, è necessario e utile prendere lezione dalla fatuità del mondo per avanzare nel cammino della saggezza. Bisogna apparire folli innanzi alla comune saggezza, per mostrarne la presunzione e l’insipienza. Per converso, la constatazione del chiasso fatuo e dello spettacolo vano del mondo consente di prendere le distanze da esso. La follia è un rischio che la ragione corre perennemente. La coscienza radicale di questo rischio coincide con il controllo altrettanto radicale della propria ragione. Foucault a questo punto cita a buon diritto Erasmo: “Avvicinatevi dunque un po’ figlie di Giove! Dimostrerò che non è possibile accedere a questa saggezza perfetta, che è ritenuta la cittadella della felicità, se non con l’aiuto della follia”.28 Tra Erasmo e Montaigne si sviluppa un’idea di ragione che ha fatto i conti con la follia e ne ha esorcizzato il pericolo. In tal modo la ragione ha disarmato la follia: “investita dalla ragione, essa è come accolta e 39

trapiantata in lei”.29 Ma c’è di più. Con questa procedura di assimilazione la ragione non solo disarma la follia, ma se ne serve, in certo senso si arma di essa. La follia diventa strumento di critica: critica del mondo, ma soprattutto critica immanente alla ragione stessa. La follia è ciò che la ragione non è, né può mai essere. La ragione moderna è proprio per questo una ragione critica. Poiché non è più minacciata dalla follia è definitivamente abilitata a pensare, ha trovato la sua legalità. Per questo essa assegna alla follia il suo spazio e il suo limite; la follia, dice Foucault, è ormai “solidamente ormeggiata in mezzo alle cose e alle genti. Trattenuta e tenuta ferma. Non più barca ma ospedale”.30 La follia, che non vaga più per il mondo, non sopravvive a se stessa. A buon diritto, Foucault ci ricorda Cervantes. Don Chisciotte tornato savio muore: “E uno dei segni da cui arguirono che ormai moriva fu l’essersi mutato con tanta facilità da pazzo in savio, perché alle parole già dette ne aggiunse molte altre, così ben espresse, così cristiane e così logiche, da toglier loro del tutto i dubbi e convincerli che era in senno”.31 Esiste un tragitto ben delineato, che conduce dalla fascinazione della follia, propria del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, alla “ragione moderna”. La dimensione critica della follia già contenuta in quella tragica si muta ben presto in critica della ragione e dà luogo al costituirsi di una ragione critica: la ratio moderna è discorso sul metodo. Nel corso dei secoli XVI e XVII si viene consolidando un’idea ben definita di ragione. La ragione che ha vinto la follia è ragione prudente, attenta, ben fondata; è, soprattutto, coscienza ben regolata, provvista cioè di norme sufficienti a ben condurre la vita (norme etiche) e la ragione.32 La ragione ben fondata è poi la ragione comune a tutti gli uomini: è appunto la ragione di tutti eccetto che dei folli. Quando giunge Cartesio, sul terreno storico sono sufficientemente consolidati i criteri in forza dei quali è dato riconoscere la sana ragione. A conferma di questo giunge esplicita l’apertura del Discorso sul metodo: “Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, 40

infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più. Né è verosimile che tutti s’ingannino; anzi ciò dimostra che la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (ch’è propriamente quel che si dice buon senso o ragione) è uguale per natura in tutti gli uomini, e che la diversità di opinioni non deriva dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma solamente dal condurre i nostri pensieri per vie diverse e dal non considerare le stesse cose”.33 La sana coscienza c’è in tutti gli uomini: infatti, per natura, in tutti gli uomini esiste la facoltà di giudicare. Una volta garantita la sanità della coscienza, è possibile concepirne l’esercizio: sono poste le condizioni per cui è possibile dubitare, e quelle per cui è possibile postulare l’assoluta verità. Di questa capacità preliminare Cartesio è persuaso, anzi ci mette in guardia dalle opinioni contrarie: “è inverosimile,” egli dice, “che tutti si ingannino”. Il tragitto è ormai delineato: dal buon senso al fundamentum inconcussum veritatis. Foucault non si sofferma a lungo sui temi cartesiani né, tanto meno, prende in considerazione per intero l’opera dell’autore. Come già notammo all’inizio, sono poche le pagine che lo studioso francese dedica a Cartesio. Ma, dopo quanto abbiamo detto intorno alla follia e alla ragione, è facile rendersi conto che l’analisi foucaultiana di Cartesio, per quanto breve, giunge opportuna e al punto giusto, soprattutto chiarisce la nascita dell’idea di ragione a partire dalle strategie che l’hanno prodotta. Tutto ciò è coerente con le assunzioni metodologiche di Foucault secondo le quali ogni opera, e quindi la stessa opera cartesiana, è decifrabile all’interno di ordini discorsivi già attivi e funzionanti prima di essa. In questo caso prima della stessa filosofia cartesiana. Tale filosofia viene dunque interpretata alla luce di dispositivi strategici già attivati a livello sociale, politico e istituzionale, e di procedure discorsive divenute già quadro concettuale, e in certo senso addirittura ideologie. Si ha a che fare con un insieme di regolarità sufficientemente organizzate e ben 41

connesse, tali da consentire e legittimare un enunciato che dichiari l’assoluto primato del Cogito. Ma quali sono le regolarità discorsive entro cui si inscrive la ragione cartesiana? Che cosa è già deciso sul piano sociale, istituzional-politico, culturale, circa ciò che è razionale e ciò che non lo è? È deciso il criterio di riconoscibilità: la ragione è essenzialmente misura, sensatezza. Se essa tenta l’eccesso, ciò non avviene per un conato di perdizione, ma è un commisurarsi all’assurdo e un ritrarsene. L’eccesso è un tentativo paradossale di prova; con esso la ragione attinge il limite invalicabile, e pertanto vi trova norma e divieto. È evidente che non si tratta di prova logica, ma di indicazione pratica e morale. Se l’ironia e lo scetticismo furono l’arma della follia critica, questa stessa critica trova continuità nell’etica: la morale provvisoria di Cartesio non deve essere per nulla sottovalutata. Essa indica alla ragione la sua dirittura, essa è un invito all’assennatezza. Si può a buon diritto sostenere che è peculiare della cultura europea del Seicento comprendere la ragione come sensatezza. L’uomo razionale è colui che ha senno, che dunque non è folle. Se essere razionale equivale ad aver senno, il riscontro con la follia diviene fatto immediato. Ma fatto altrettanto immediato è l’esclusione della follia dalla ragione. Se, infatti, la ragione equivale all’assennatezza, il folle non è capace di ragione; ciò significa che non la può esercitare, non ne ha il titolo perché non ne è il titolare. La ragione moderna è dunque ragione legale, comunanza intersoggettiva di regole: la ragione equamente distribuita è condivisa: è diritto. La ragione cartesiana si muove entro questo orizzonte sociale e culturale. È allora evidente il motivo per cui Cartesio intende la ragione soprattutto come discernimento. Infatti, l’idea chiara e distinta può apparire tale solo a una ragione attenta: “Io chiamo chiara quell’idea che è presente e manifesta ad uno spirito attento” (“Claram voco illam quæ menti attendenti præsens et aperta est”)34; e più avanti: “È distinta, quella [idea] che è talmente precisa e differente da tutte le altre, da non comprendere in sé se non ciò che appare 42

manifestamente a chi la considera come si deve” (“Distinctam autem illam, quæ, cum clara sit, ab omnibus aliis ita sejuncta est et præcisa, ut nihil plane aliud, quam quod clarum est, in se contineat”).35 Tutto ciò presuppone quanto meno una disposizione all’attenzione: ciò significa il possesso di una naturale facoltà di discernimento. L’ispezione che Cartesio riserva alla ragione presuppone, come universo acquisito di discorso, la sua legalità. La lettura che Foucault conduce su Cartesio è interessante proprio perché tiene conto sino in fondo di questo presupposto. L’assennatezza abilita a pensare. Non è difficile mostrare come la ragione cartesiana sia in primo luogo e soprattutto una ragione assennata. Questa convinzione risulta così esplicita nei testi cartesiani che, a prova, basterebbe enumerare la serie alquanto nutrita di passi in cui appare. Ma qualsiasi corredo filologico che intendesse documentare la convinzione di Cartesio sarebbe insufficiente ad aggirare un ostacolo specifico: il dubbio. Il dubbio è radicale: ciò significa che con esso Cartesio mette in questione la verità di ogni cosa e quindi la sensatezza stessa della ragione. Così parrebbe. Ma è appunto quello che la lettura di Foucault esclude. Per questo motivo, lo studioso francese focalizza la sua attenzione su un punto solo: ciò che è da revocarsi in dubbio. La Prima Meditazione. “Nel cammino del dubbio,” scrive Foucault, “Descartes incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d’errore.”36 Certamente, ma la follia non è equivalente alle altre forme d’errore. C’è di più: la differenza tra la follia e l’altro errore non è una differenza modale, ma al contrario strutturale. In senso stretto la follia non è neppure errore. L’argomentazione di Foucault procede in questi termini. Cartesio “non evita lo scoglio della follia nello stesso modo in cui aggira l’eventualità del sogno e dell’errore”.37 Ciò significa che la follia è altra cosa dal sogno e dall’errore. Infatti nella Prima Meditazione si legge che i sensi, per quanto ingannatori, nonostante la forza della loro illusione, lasciano sempre qualche residuo di verità. “I sensi ci ingannano qualche volta riguardo alle cose molto 43

minute e molto lontane.” Ce ne sono molte altre di cui non si può ragionevolmente dubitare. Ciò sarebbe possibile solo se ci si paragonasse ai folli. Ma questo è proprio ciò che non può accadere. Infatti “costoro sono pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio” (“sed amentes sunt isti, nec minus ipse demens viderer, si quod ab iis exemplum ad me transferrem”).38 Lo stesso sogno, per quanto ci offra immagini fittizie, non manca di verosimiglianza. Diversamente accade per la follia: essa non consente neppure di dubitare. Il pensiero del folle non può essere erroneo, perché non è neppure pensiero. In tal senso non compromette il cammino verso la verità, perché non gli appartiene. Ciò significa che all’uomo può accadere di essere folle, al pensiero mai. Se si è folli non si pensa. “Il pensiero come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero non può essere insensato.”39 Secondo Foucault l’argomentazione cartesiana si regge su questa assunzione: non esiste, né può esistere, una ragione sragionevole. Il dubbio comincia solo dove c’è già la ragione. Le procedure, che escludono la follia, producono di fatto quell’idea di ragione entro cui Cartesio statuisce il senso della ratio moderna. Il pensiero in quanto esercizio della sovranità di un soggetto non può essere folle: così inteso non può che essere un pensiero astratto. Il pensiero è rappresentazione: più precisamente costituzione dell’ordine. Il metodo e l’analisi sono le forme di progressione di quest’ordine, e quindi le procedure di ordinamento della rappresentazione stessa; dominio degli elementi rappresentati a seconda del grado di complessità.40 Rappresentazione e dominio sono i tratti peculiari del razionalismo moderno. Con essi nasce l’idea moderna di ragione.

3. La “ragione” e il “discorso” Foucault ha delineato la genesi della ragione moderna a partire dalla follia. Si ha a che fare in questo caso con una forma indiretta di genealogia. Lo studioso francese non ha preso a oggetto della sua 44

analisi la ragione costituita né, tanto meno, ha guardato all’idea di ragione nella sua risoluzione teoretica e ideologica. Al contrario, oggetto dell’analisi è stata la follia. Ma, come già abbiamo potuto notare, per comprendere la follia era necessario strutturare il campo della sua apparizione e del suo sviluppo. Ciò comportava la necessità di soddisfare due esigenze: 1) da un lato, bisognava riconoscere e isolare le diverse pratiche discorsive e istituzionali; 2) dall’altro, perché il campo storico risultasse leggibile e coerente, era necessario determinare i punti di intersezione fra i vari ordini, e il terreno di reciproco scorrimento fra un ordine e l’altro. Più semplicemente, scrivere una storia della follia, per Foucault, ha significato condurre uno studio accurato sull’insieme delle istituzioni, delle misure giuridiche, amministrative, poliziesche, etiche, che hanno imprigionato la follia e costruito la ragione. A questo punto si può affermare che scrivendo la Storia della follia Foucault scrive, in certo senso, la storia della ragione. Ma, se diciamo questo, non applichiamo all’opera foucaultiana dei canoni dialettici in modo indebito e, in ogni caso, estrinseco? La dialettica peraltro è cosa che Foucault esplicitamente rifiuta. Eppure, c’è un senso per cui si può affermare che la follia parlando di sé parla della ragione. Infatti, la follia, che narra del suo imprigionamento e della sua esclusione, parla delle opere e dei disegni che appunto la escludono. In questo senso la follia parla della ragione. Ciò non vuol dire che essa si esprima nel linguaggio della ragione, ma che oggettivamente esprime la ragione stessa, nel momento in cui narra la sua esclusione. Si può allora affermare che nella Storia della follia Foucault parla della ragione non nel senso di farla oggetto di discorso, ma nel senso che il discorso della ragione si oggettiva nelle procedure di esclusione; e più propriamente consiste in tutte quelle operazioni attraverso le quali essa si attiva. Questo rilievo è peraltro coerente con l’insieme dell’epistemologia foucaultiana; almeno così come essa si viene esplicitando nei testi successivi alla Storia della follia. È, d’altra parte, nostra convinzione che i criteri 45

metodologici delle opere più recenti siano in nuce già contenuti nella Storia della follia. Fatta salva questa considerazione, e anzi in forza di essa, ci pare di poter determinare definitivamente il senso secondo cui nella Storia della follia si parla della ragione. Come si è già detto, la follia non parla della ragione in quanto la rende argomento del suo discorso. Come lo potrebbe? Tra ragione e follia non c’è un nesso dialettico o se si vuole dialogico. Ragione e follia non parlano l’una dell’altra: per l’appunto non si parlano. Infatti, non c’è un logo comune entro cui gli opposti possano convenire. La follia non parla il linguaggio della ragione: in questo senso essa tace, e non può che tacere. Per altro verso, la follia parla sempre della ragione, ma per moto contrario al discorso razionale. In altri termini la follia dice la ragione a partire da se stessa, dalle sue modalità storiche e dalle sue forme determinate d’esistenza. La sua storia mostra le procedure che la escludono, e quindi le giustificazioni che di volta in volta motivano e razionalizzano l’esclusione. Non è il merito delle giustificazioni o il contenuto del discorso che persuade la follia, ma è l’efficacia dell’internamento che diviene di fatto discorso, e alla lunga il discorso. Se così è, non esiste il discorso della ragione, ma esistono le ragioni discorsive. Ci si perdoni il giro di frasi che molto spesso Foucault suggerisce e autorizza: è comunque facile chiarirne immediatamente il senso. Dire che non esiste un discorso della ragione significa affermare che non esiste un logo eterno, una ragione unica e universale, che include entro di sé ogni possibile discorso, perché è ragione di ogni discorso. L’analisi, che Foucault conduce sulla ragione moderna, esclude appunto questa unicità a vantaggio di un universo disseminato di sensi e di significati, che si giustificano perché sono capaci di esistere, e hanno senso perché sono pratiche efficaci. Discorsi che non sono veri per partecipazione, per mimesi di un logo eterno, ma hanno verità perché producono nel loro farsi effetti di verità.41 In questo senso non esiste il discorso della ragione, ossia l’esposizione originaria e intrascendibile di un significato 46

eterno, ma esistono di volta in volta diversi discorsi significanti. Se le cose stanno in questi termini, le conseguenze sono quanto mai rilevanti: non è il discorso che appartiene alla ragione, ma sono le grandi unità discorsive che si danno e forniscono ragione. Detto altrimenti, non sono i discorsi che sussistono in funzione di una sola ragione, ma ogni singola ragione sussiste di volta in volta in funzione di un discorso. Se ci è concesso utilizzare per figura il linguaggio matematico, possiamo dire che ogni ragione si determina come argomento di quel discorso che funge da funzione. È allora evidente che analizzando le funzioni discorsive, se così le possiamo chiamare, è dato comprendere il tipo di operazioni che si possono eseguire all’interno di esse. Per tornare al nostro tema diciamo che l’insieme di procedure che internano la follia appartengono a quel campo storico che contiene come suo elemento la rappresentazione di una ragione. Ora, la rappresentazione che si autorappresenta fonda dentro di sé un discorso coerente alla sua forma: fonda l’ordine della ragione. Ma la stessa rappresentazione, individuata come discorso, è un’operazione propria dell’insieme storico entro cui si attiva, e appartiene dunque, come Foucault dice nell’Archeologia, a un sapere. Abbiamo segnalato il tipo di dislivello che intercorre fra ragione e discorso: in tal modo diviene possibile un discorso della follia (ossia una follia che parla di sé, che descrive un insieme di eventi e interventi nominabili come ragione). In altri termini, si può dire che si parla della ragione a un livello che non è lo stesso di quello della ragione di cui si parla. Per altro verso, la ragione di cui si parla è espressa nei codici propri di quel discorso in cui essa è implicata. Questo intendevamo dire quando affermavamo che Foucault, scrivendo la storia della follia, scrive in certo senso la storia della ragione. Se parlare della follia significa delimitare il campo discorsivo a lei proprio, allora ogni enunciato sulla ragione, che cade in questo spazio, di diritto gli appartiene. Se così è, tutti gli enunciati relativi alla ragione, che entrano direttamente o indirettamente nella definizione della follia, appartengono 47

costitutivamente alla sua storia.42 Nel contempo tracciano la propria. La filosofia cartesiana è una di queste enunciazioni. Un enunciato ha al minimo un doppio valore: 1) è significativo in se stesso, in forza della sua forma logica; 2) è sempre definibile in relazione all’intero che gli si oppone o gli è parallelo, è quindi in relazione a tutto quello a cui, di volta in volta, e in qualsiasi forma, si riferisce. Infine, essendo l’enunciato una proposizione singolare, è evento: è pertanto individuato e individuabile nell’ambito di un corpo proposizionale finito e affine; un enunciato è quindi enunciabile solo nella sfera del suo discorso. La ragione cartesiana è possibile all’interno delle procedure di riorganizzazione della ragione moderna: il sub-jectum come soggetto. Da questo punto di vista ha ragione Derrida quando sostiene che l’interpretazione di Cartesio che Foucault propone “contiene nella sua problematica la totalità della Storia della follia, nel senso della sua intenzione e nelle condizioni della sua possibilità”.43 Il passo delle Meditazioni che Foucault prende in considerazione è in effetti paradigmatico; in esso, nota ancora Derrida, “la Follia, la stravaganza, la demenza, l’insanità paiono – dico appunto paiono – allontanate, escluse, espulse dal cerchio di ogni dignità filosofica, private del diritto di cittadinanza filosofica, del diritto alla considerazione filosofica, revocate, immediatamente dopo essere state convocate da Descartes innanzi al tribunale, alla suprema istanza di un Cogito, che, per essenza, non può essere folle”.44 Abbiamo già preso in considerazione i termini nei quali Foucault analizza quest’esclusione. Ma, se il significato della ragione cartesiana fosse un altro, se esistesse veramente un discorso della ragione e non un insieme di pratiche discorsive, se, in sostanza, il Cogito cartesiano fosse la metamorfosi di un logo eterno, allora l’interpretazione di Foucault cadrebbe. In questa direzione si muovono le obiezioni di Derrida. Derrida intende emancipare la ragione cartesiana dalle pratiche discorsive, per ricondurla nel suo ambito proprio 48

e peculiare: l’interrogazione originaria. E più precisamente: può esistere qualcosa fuori del logos? La discussione Derrida-Foucault intorno a Cartesio, in effetti, è una discussione intorno a una concezione diversa della ragione e del discorso. Che la questione di fondo sia questa appare evidente dalla prima parte del saggio di Derrida e dalla conclusione della replica di Foucault. Ma per il momento stiamo a Cartesio. Derrida riassume la posizione di Foucault in questi termini: “il colpo di forza sarebbe stato operato da Descartes nella prima delle Meditazioni e consisterebbe molto sommariamente in una espulsione sommaria della possibilità della follia fuori dal pensiero stesso”.45 A parere di Derrida ciò non è avvenuto. Il confronto DerridaFoucault è in primo luogo esegetico. “Leggo,” scrive Derrida, “per prima cosa, il passo decisivo di Descartes, quello che Foucault cita.”46 Cartesio si accinge a disfarsi di tutte quelle opinioni a cui aveva prestato fede e a cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta. In questa situazione scrive: “Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati”.47 Il testo prosegue: “Ma, benché i sensi ci ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito da una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegli insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre sono nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro sono pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio”.48 49

È questo il passo di Cartesio su cui si sviluppa l’esegesi di Foucault e di Derrida. Rileggendo questo passo, Derrida nota, in linea preliminare, due cose: 1) “Descartes non aggira le eventualità dell’errore sensibile e del sogno, non le ‘supera’ ‘nella struttura della verità’ [come vorrebbe Foucault] per la semplice ragione, direi, che non le supera in nessun momento né in nessun modo; e che non scarta in nessun momento la possibilità dell’errore totale per qualsivoglia conoscenza che abbia origine nei sensi e nella composizione immaginativa”.49 Circa questo primo punto Derrida conclude, contro Foucault, dicendo che “ogni significazione, ogni ‘idea’ di origine sensibile è esclusa dal campo della verità allo stesso titolo della follia”.50 2) “L’ipotesi della stravaganza non sembra – in questo momento dell’ordine cartesiano – sia trattata in modo privilegiato, né essere oggetto di un’esclusione particolare.”51 Secondo Derrida, se Cartesio fa riferimento alla follia non lo fa con l’intento di escluderla, ma la introduce come una funzione pedagogica. In sostanza, Cartesio nel momento in cui dice che la conoscenza che ci viene dai sensi ci inganna, nel momento in cui solleva un dubbio sulla certezza sensibile lo attenua per il non filosofo. Quasi a dire che non tutte le esperienze sensibili sono false: se così si dicesse si sarebbe folli. Non si tratta dunque di un diverso trattamento della follia, ma di un’invenzione retorica per un pubblico non filosofico. A questo punto, dice Derrida, Cartesio introduce un esempio che da un lato consenta il dubbio, ma al tempo stesso lo renda plausibile: parla del sogno. Il sogno diversamente dalla follia è accessibile a tutti; in questo senso è normale e ugualmente istruttivo circa l’inganno dei sensi.È un’ipotesi più naturale: “questo riferimento al sogno non è dunque un passo indietro nei confronti della possibilità di una follia che Descartes avrebbe tenuto a bada o perfino esclusa. Al contrario, esso costituisce, nell’ordine metodico che proponiamo, l’esasperazione iperbolica dell’ipotesi della follia”.52 Il sogno non sarebbe nulla di più che un buon esempio di contro a quello cattivo della follia. In altri termini, secondo Derrida, l’esempio del sogno perfeziona 50

quanto la follia indicava ancora in modo inadeguato.53 In tal maniera, il sogno non esclude la follia, ma la radicalizza e l’include dentro di sé. Non vi sarebbe dunque, a parere di Derrida, un diverso trattamento di sogno e follia, e quindi si darebbe l’inclusione della medesima nel Cogito. È questa la tesi di Derrida. Foucault replica dettagliatamente a Derrida. A questo punto, non ci interessa ripercorrere l’intera replica foucaultiana, ma intendiamo soffermarci su due momenti particolari; il primo è relativo all’esercizio meditativo, il secondo alla legalità del soggetto. L’analisi di questi due momenti non solo fa meglio comprendere il punto di vista di Foucault, ma ci consente di accedere più adeguatamente all’idea moderna di “ragione”. Derrida sostiene dunque che non c’è, in Cartesio, un diverso trattamento fra sogno e follia. E, tanto meno, la follia non è presa in considerazione o dimenticata a favore del sogno. Caso mai è vero il contrario. Il sogno è sulla traiettoria della follia come suo perfezionamento. In questo senso non la cancella, né la annulla, ma la include. La formula che dice “non siamo come i folli” è argomento retorico. Foucault risponde dicendo che la contrapposizione fra sogno e follia, in Cartesio, è diversamente istituita. Per comprendere questo bisogna considerare in primo luogo la natura dell’esercizio meditativo. Essa emerge dallo stesso vocabolario cartesiano. Basta confrontare passo per passo i due paradigmi cartesiani relativi alla follia e al sogno. Gli enunciati relativi alla follia appaiono laddove Cartesio dice che, qualora si volesse negare che queste mani e questo corpo siano miei, ci si comporterebbe come i folli. Ciò sarebbe infatti possibile solo se mi paragonassi agli insensati: “nisi me forte compararem nescio quibus insanis”; ma tutto ciò non può accadere: infatti non sarei da meno di questi dementi se mi regolassi sui loro esempi: “nec minus ipse demens viderer, si quod ab iis exemplum ad me transferrem”. L’attenzione di Foucault si appunta sul verbo comparare. Il folle è il “termine esterno col quale io mi confronto”.54 Altra cosa accade con il sogno. Analizzando il paragrafo 51

del sogno, Foucault nota come Cartesio impieghi il vocabolario della memoria: pensandoci accuratamente io mi ricordo: “quasi scilicet non recorder a similibus etiam cogitationibus me alias in somnis fuisse delusum”. E più avanti, pensandoci più attentamente: “quæ deum cogito attentius”. Il sognatore ricorda ciò che esso stesso è stato, o più precisamente ciò che in lui è accaduto: “dal fondo della mia memoria emerge il sognatore che io stesso sono stato, che sarò nuovamente”.55 Nel primo caso, abbiamo a che fare con una comparazione che allude a una totale estraneità e pertanto a una esclusione; nel secondo caso, l’inganno del sogno è vissuto come un accadimento, che vive e sussiste nella continuità della memoria. Non si dà alcuna esteriorità tra sogno e soggetto. In seconda istanza, Foucault rinviene la diversità tra sogno e follia guardando ai temi dell’esercizio meditativo. I temi della follia sono stravaganti, quali considerarsi re quando si è poveri, oppure immaginare di essere una brocca o di avere un corpo di vetro. In relazione a questo Foucault afferma: “la follia, è l’assolutamente diverso, essa deforma e trasporta, suscita un’altra scena”.56 Ciò non accade nel sogno. Infatti il contenuto del sogno è verosimile e conferma la percezione empirica: “il sogno non trasporta la scena, esso duplica i dimostrativi, che indicano nella direzione della scena in cui mi trovo”.57 L’analisi che Foucault sviluppa relativamente al contenuto del sogno e alla scena verosimile che desta ci pare, nella sostanza, corretta. Tuttavia, non si può tacere un passo cartesiano, di cui Foucault non si avvede o a cui, in ogni caso, non accenna e che indica, come possibili temi del sogno, quelli stessi della follia. Riteniamo di dover prendere in considerazione questo rilievo testuale: “Tuttavia,” scrive Cartesio, “debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le cose stesse, e alcune volte delle meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano” (“Preclare sane, tanquam non sim homo qui soleam noctu dormire, et eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus 52

verisimilia, quam quæ isti vigilantes”). Isti vigilantes dice il testo cartesiano. Il contenuto del sogno è tutt’altro che verosimile, anzi è talvolta meno verosimile di quanto non lo sia il contenuto delle immagini dei folli, quando vegliano. Ha dunque solo per questo ragione Derrida, quando dice che il sogno è un’amplificazione e un perfezionamento della follia? Non lo crediamo. Riteniamo anzi che il passo cartesiano su cui stiamo discorrendo non si ponga come ostacolo consistente all’interpretazione foucaultiana. In altri termini, riteniamo che la lettura di Foucault sia egualmente riscattabile e condivisibile per due ragioni: una di diritto; una di fatto. Quella di principio è più stringente. Infatti, pur ammettendo che il contenuto del sogno è talvolta più inverosimile di quanto non lo sia quello della follia, resta pur sempre impregiudicato il fatto che la follia è qualcosa di estraneo alla coscienza, che cioè dove c’è follia non c’è coscienza. Sarei pazzo se mi regolassi sull’esempio dei folli: exemplum ad me transferrem. Questa assoluta estraneità di ragione e follia espressa dai verbi comparare e transferre rimane, in ogni caso, la discriminante fondamentale; qualunque sia la verosimiglianza del contenuto, il motivo primo della diversità non consiste tanto nel contenuto tematico, ma nell’accesso al tema. Io non posso pensare come i folli: ciò è escluso per principio, per il fatto stesso che la nozione comune di ragione esclude la follia. Se dunque il contenuto del sogno fosse pari a quello della follia o addirittura più inverosimile del contenuto di questa, sarebbe, in ogni caso, diverso. In ultima istanza, il contenuto del sogno è diverso per una ragione essenziale: esso esiste e si mantiene solamente nella continuità del ricordo. Un ricordo che mi appartiene, che è dentro di me, che può essere ogni volta ridestato. La continuità del ricordo è possibile perché appartiene all’unità dell’io, è cioè riconducibile sempre e in ogni caso alla trasparenza del Cogito. In altri termini, il contenuto del sogno può essere ogni volta rievocato, può essere cioè reso presente, può 53

essere attualizzato nell’unità dell’io: può quindi divenire oggetto di una mente attenta. Il folle non può mai essere attento: né a sé, né all’oggetto. Il folle è separato in se stesso. Tra ragione e follia c’è quindi assoluta discontinuità e pertanto totale incommensurabilità (il rapporto è per opposizione ed esclusione); tra sogno e ragione vi è continuità e quindi è possibile la proporzione (il rapporto è di inclusione e graduazione). Se la questione si pone in questi termini, i contenuti del sogno e della follia rimangono rispettivamente diversi anche quando sono egualmente inverosimili. In tale prospettiva, il testo cartesiano non costituisce più un’obiezione autentica all’interpretazione di Foucault.58 Essa resta egualmente persuasiva a prescindere dal contenuto tematico di sogno e follia. Infatti, l’autentica demarcazione tra ragione e follia è istituita in forza della partecipazione o meno alla ratio communis. Abbiamo messo in chiaro le ragioni di principio, in forza delle quali il passo cartesiano non è contraddittorio con l’insieme dell’interpretazione foucaultiana ed è quindi con essa compatibile. Risolta la difficoltà testuale, riprendiamo in considerazione il contenuto tematico del sogno nel suo aspetto positivo. In linea di principio – si è detto – il contenuto tematico del sogno potrebbe essere altrettanto inverosimile di quello della follia, e ciò non costituirebbe problema né per Cartesio, né per noi. Tuttavia resta il fatto che Cartesio, nel momento in cui considera più da presso il contenuto del sogno, evidenzia un materiale diverso da quello della pazzia. Questo fatto non può essere imputato a un mero caso. Esistono dei motivi plausibili per questa diversa esposizione materiale dei contenuti del sogno. Proprio per ciò, a nostro parere, Foucault ha ragione quando sottolinea la differenza tematica tra sogno e follia. Dal punto di vista strettamente esegetico, non è tanto importante notare che il contenuto del sogno è, o potrebbe essere, altrettanto inverosimile di quello della follia (infatti per Foucault non lo è), quanto valutare le ragioni per cui Cartesio analizzando il contenuto del sogno evidenzi di fatto quel diverso materiale tematico, cui sopra si faceva 54

cenno. La risposta più plausibile è una sola: Cartesio vuole sottolineare la diversità tra ragione e follia, vuole mostrare come l’esercizio della memoria non sia discontinuo rispetto a quello della ragione e per questo deve puntare l’attenzione su un contenuto materiale che evidenzi facilmente la divaricazione. Questo, Foucault lo nota quando considera la prova centrale dell’esercizio meditativo. Essa consiste appunto nella ricerca della differenza, cioè a dire nella ricerca del grado di possibilità di reinserimento dei temi proposti nella meditazione. Cartesio tenta dunque la prova del sogno. Foucault ne riassume il senso in questi termini: “Ho il ricordo di avere sognato di scuotere la testa. Torno dunque a scuoterla, ora. Vi è una differenza? Sì: una certa chiarezza, una certa distinzione. Ma, secondo tempo della prova, questa chiarezza e distinzione possono trovarsi nel sogno? Sì: ne ho il netto ricordo. Quindi ciò che credevo essere il criterio della differenza (chiarezza e distinzione) appartiene indifferentemente al sogno e alla veglia; non può dunque creare la differenza”.59 Ciò, secondo Foucault, non accade con il contenuto della follia. In tal caso, a differenza che nel sogno, non esiste prova.60 È questo il vero punto di forza: il contenuto evocato dalla follia si pone quale totale negazione dell’assennatezza, ed è proprio per questo che la follia è altro dalla ragione. Non c’è nulla da provare: l’esclusione reciproca dei due momenti è immediata. Ci pare una lettura ben orientata, ma bisogna ancora una volta calibrare l’analisi foucaultiana. Questa follia, che si pone come antitesi totale della ragione, evoca temi che avremmo potuto anche sognare (questo è ciò che Foucault ha dimenticato). Quel che la follia vede, tutto ciò che l’insensatezza evoca, potrebbe ben essere contenuto di un sogno. Potrei ricordare chiaramente e distintamente di aver sognato quelle cose inverosimili. Ma il contenuto di un tale sogno, per quanto rammemorato in modo chiaro e distinto, è così totalmente diverso dall’attualità della mia coscienza da escludere immediatamente qualsiasi confusione o immedesimazione con esso. 55

In altri termini, il sogno della follia (la follia in quanto sognata) è così opposto all’attualità presente da non poter essere minimamente confuso con essa. Infatti, l’attualità ha sulla memoria il vantaggio dell’immediatezza (il ricordo non è altro che un contenuto), e quindi deve poter affermare che qualsiasi contenuto posto in tale immediatezza, cioè posto nell’attualità dell’io, ma che esprime un senso opposto a essa, è immediatamente deposto nel suo valore. La certezza attuale del Cogito invalida qualunque contenuto che contraddica l’attualità della certezza. Ciò vuol dire che i folli sono esclusi anche quando appaiono nel sogno. L’esclusione del folle dal diritto alla ragione è così evidente da non poter mai essere confusa, da rimanere immodificata sia che ci si confronti coi folli nella loro realtà singolare, sia che la follia e i suoi fantasmi ci appaiano nei sogni. È questo il motivo per cui Cartesio, nel momento in cui analizza i temi del sogno, si concentra non tanto su quelli simili alla follia, quanto su quelli prossimi alla cosiddetta realtà (in questo contesto intendiamo come reale il comunemente condiviso). Il contenuto del sogno può essere confuso con la realtà solo quando è simile a essa, quando cioè è verosimile. In caso contrario, non costituisce problema e perciò stesso non costituisce prova. In tal senso esiste un distacco radicale tra sogno e follia. Il sogno, infatti, può avere verosimiglianza, la follia mai. Il contenuto del sogno proprio perché verosimile può essere scambiato con ciò che riteniamo vero: esso solo pone dunque una questione relativa alla verità. Il testo cartesiano è quanto mai eloquente: “E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; e il mio stupore è tale da essere quasi capace di persuadermi che io dormo” (“quæ dum cogito attentius, tam plane video nunquam certis indiciis vigiliam a somno posse distingui, ut obstupescam, et fere hic ipse stupor mihi opinionem somni confirmer”).61 L’analisi della follia desta il rifiuto, quella del sonno lo 56

stupore. Proprio per questo Foucault coglie l’effetto dell’esercizio meditativo nelle frasi-decisioni che concludono rispettivamente i paragrafi in questione: “alla frase ‘essi sono dei folli’ corrisponde esattamente: ‘Io sono del tutto stupefatto’ (obstupescere) al grido della differenza corrisponde lo stupore dell’indistinzione”. Foucault conclude: “sarebbe folle voler fare il folle (e vi rinuncio); ma è già aver l’impressione di dormire lo star pensando al sogno (e questo è ciò su cui mi appresto a meditare)”.62 Da tutto ciò Foucault trae la conclusione che in Cartesio “l’esercizio del demens e quello del dormiens sono due esercizi al tempo stesso paralleli e differenti”63; in ogni caso discontinui tra loro.64 L’esercizio del sogno può costituire prova, perché è riconoscibile una sua continuità con la veglia e soprattutto con il sano vegliare. L’assestamento dell’interpretazione foucaultiana, che abbiamo eseguito, ci ha mostrato che anche qualora i temi della follia entrassero nel sogno, neanche in questo caso costituirebbero prova: la loro esclusione dalla ragione presente sarebbe evidente e immediata. Tutto questo avviene perché Cartesio rifiuta in modo ben determinato la possibilità a provare del demens; il demente non ha alcuna idoneità per la prova, in quanto il soggetto del folle è dequalificato. Ma che cosa vuol dire dequalificazione? Che cosa significa, per un soggetto, essere dequalificato? Nel dare risposta a questi interrogativi, Foucault prende avvio, ancora una volta, da un’analisi specifica dei termini cartesiani. Egli fa notare come, nel passo relativo alla follia, Cartesio impieghi per nominare i folli tre termini: precisamente, insani, e la coppia amens-demens. Per capire il diverso significato delle parole bisogna riprendere l’intero passo cartesiano. Cartesio dice: “In qual modo potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei, se non mi confronto con certi insensati (quibus insanis)”. Ora – nota Foucault – che cosa sono questi insani che pensano di essere re o brocche? Sono appunto amentes, e io non sarei meno demens di loro se ne seguissi l’esempio. Ecco esposta la sequenza dei tre termini per denotare chi è folle. Perché questo? Perché 57

Cartesio, pur muovendosi in un medesimo spazio denotante la follia, individua in esso due livelli diversi. Il primo è di tipo fenomenologico-descrittivo, il secondo giuridico-normativo. Foucault riassume il senso della questione in modo spedito e al tempo stesso preciso: “Quando si tratta di caratterizzare mediante le inverosimiglianze della loro immaginazione, i folli sono chiamati insani: parola che appartiene al vocabolario corrente della terminologia medica... ma quando Descartes vuole non già caratterizzare la follia, bensì affermare che io non devo prendere esempio dai folli, usa allora i termini demens e amens: termini innanzitutto giuridici, prima che medici, e che indicano tutta una categoria di persone incapaci di certi atti religiosi, civili, giudiziari; i dementes non dispongono della totalità dei loro diritti quando devono parlare, promettere, impegnarsi, firmare, intentare un’azione. Insanus è un termine caratterizzante; amens e demens termini dequalificanti. Per il primo è un affare di segni; per gli altri, di capacità”.65 La lunga citazione ha uno scopo ben preciso: ricondurre l’idea di ragione sul terreno che le è più proprio, quello legale. Di questa legalità si è reso conto lo stesso Derrida,66 e Foucault gliene dà atto. Gli rimprovera solamente di non aver condotto sino alle estreme conseguenze quel suo iniziale rilievo. Per Foucault, Derrida “ha ragione nel sottolineare che in questo punto si ha a che fare con una questione di diritto... ha anche ragione nel dire che il testo di Descartes non ha voluto ‘determinare il concetto di follia’”67; nonostante queste ragioni Derrida non si avvede del peso che gioca nel testo cartesiano lo scarto fra i due sensi della follia. Proprio perché non tiene conto di tale scarto Derrida perde di vista la direzione specifica dell’argomentazione di Cartesio. La questione di diritto in Cartesio non è posta riguardo “alla verità delle idee” ma “come chiaramente dicono le parole, essa concerne la qualificazione del soggetto”.68 Cartesio, in effetti, ha parlato molto poco della follia, più propriamente vi ha solo accennato; ma appunto per questo 58

ha detto a sufficienza: essere folli vuol dire essere dequalificati come soggetti razionali, vuol dire essere fisicamente e quindi assolutamente impediti a esercitare la ragione. Perché parlare dei folli? Al folle non è dato intraprendere il cammino della meditazione e del dubbio. Ci eravamo proposti di prendere in considerazione due momenti della replica foucaultiana a Derrida: quello relativo all’esercizio meditativo; quello relativo alla legalità del soggetto. I due momenti si coniugano ora in un punto solo: la follia non partecipa della comune ragione, non è legale. Non ha titolo di prova né, tanto meno, può essere inclusa nell’esercizio meditativo. Di contro alla follia esiste la sana ragione. Essa non è risolta: può andare incontro a molte insidie e delusioni, ma all’interno di una sua originaria chiarezza. Questa chiarezza coincide con l’esercizio razionale stesso. Ma un tale esercizio comporta il possesso di una capacità di ragione che lo precede, e più precisamente ne è la condizione. Di ciò Cartesio è più che mai convinto. Il metodo, per lui, ha la funzione di assicurare il pieno utilizzo di una ragione che già c’è: “Quel che più mi dava soddisfazione in questo metodo era la sicurezza di servirmi in tutto della mia ragione, se non perfettamente per lo meno nel modo migliore ch’io potevo”.69 Come si diceva poc’anzi, la ragione può trovarsi di contro a irresoluzioni e illusioni: in questo caso le basta essere una ragione avvertita, prudente. Il metodo rigoroso, e il dubbio razionale sono condizioni necessarie per attingere la verità. Ma la verità non è sempre e del tutto presente: intanto la ragione ha altre risorse. La parte terza del Discorso sul metodo esordisce dicendo: “Così io per non restare irresoluto nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non rinunziare sin da allora a vivere quanto mi era possibile felicemente, mi formai una morale provvisoria”.70 Questa morale è fatta da tre o quattro massime che sono precetti di buon senso, cioè a dire di sana ragione. La sana ragione è ragione condivisa, essa rappresenta qualcosa di universalmente noto e riconoscibile.71 59

Ma più di ogni cosa questa ragione è un risultato. Essa consegue a un riassetto complessivo delle cose e dei segni. Una nuova e diversa riorganizzazione, che si distribuisce a vari livelli: è organizzazione della vita materiale (regolamentazione del lavoro, della produzione e dei beni); della vita etica (nuovi precetti e nuove sanzioni); dell’ascesi intellettuale (codificazioni di regole per il retto ragionamento); postulazione o, in ogni caso, riformulazione dei primi principi. L’insieme di queste procedure dà luogo a un’idea di ragione che è capacità di discernimento e nel contempo statuto d’ordine. È consenso e dominio. La ragione guadagna certezza di sé, perché si autocertifica continuamente con il suo stesso esercizio. L’esclusione della follia non è altro che una sua modalità e quindi un segno eminente di conferma. La capacità di dominio si trasforma così in rappresentazione di un ordine necessario. Infine, la ragione diviene la rappresentazione dell’ordine come tale. Principio d’ordine e quindi forma assoluta di verità. Cartesio dice questo con estrema chiarezza; la proposizione “Io sono, io esisto è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito” (“Ego sum, ego existo, quoties a me proferetur, vel mente concipitur, necessario esse verum”).72 Ma ogni proposizione filosofica o scientifica nasconde sotto il suo nitore il conflitto e nasce da una guerra. Per conflitto non si deve, però, intendere una pura e semplice contrapposizione di opinioni filosofiche né, tanto meno, una lotta personale dei pensatori. Lotta di grandi personalità, che di certo è esistita ed è stata peraltro feconda, tanto che, come dice Nietzsche, “ha talmente affinato i metodi che realmente si sono potute scoprire delle verità”.73 Di questo Nietzsche è perfettamente convinto. Ma egli sa anche che “molte circostanze devono concorrere insieme perché nasca un pensiero scientifico”. Ora tali circostanze sono costituite da forze attive e necessarie che “hanno dovuto essere rispettivamente ideate, praticate, coltivate”.74 Foucault, che di Nietzsche è attento esegeta, ha messo a frutto quest’indicazione; il suo 60

merito principale consiste nell’aver propriamente messo in luce le molteplici circostanze entro cui è maturata l’idea moderna di ragione. Con Cartesio non trionfa un’idea eterna di ragione, ma viene definito e regolato l’esercizio della ratio communis. Per questo è rilevante l’affermazione secondo la quale la ragione moderna nasce “quando il rischio della follia è scongiurato dall’esercizio della stessa ragione”.75 L’esilio della follia è un evento storicamente decisivo per il riconoscimento della ragione. Esponendo la cosa con una proposizione negativa, possiamo dire che l’avvento della ragione moderna consiste propriamente nell’aver sbarrato la via alla sragione, nell’aver confinato la non ragione. Ma sbarrare la via alla sragione significa dominare la passione. La reclusione dei folli non è un provvedimento meramente negativo. A voler usare un concetto tipicamente foucaultiano, si può dire che l’atto di reclusione è un fatto positivo: produce l’immagine della ragione. La razionalità coincide con il retto esercizio della mente: ora quest’esercizio è possibile, poiché la ragione disimpegna un’azione generale di controllo. Essa governa le passioni. Le passioni infatti attentano alla sana ragione e per pensare rettamente è necessario poterle governare. La filosofia cartesiana inaugura, fra l’altro, l’analisi scientifica della passione. Mai come nell’età moderna la passione era stata così dettagliatamente esplorata, mai, così finemente, era stato analizzato il nesso corpo-spiritodesiderio. Le passioni sono tutt’altro che negate, anzi sono visibilmente riconosciute. Ma ciò non vuol dire che esse siano oggetto di una pura e semplice constatazione; al contrario, il pensiero moderno intende determinare la specifica natura di ogni passione e valutarne la rispettiva virtualità e potenza. La reclusione dei folli è importante anche sotto questo rispetto: essa è contestuale a una delimitazione dello spazio per l’azione dei sani o almeno di quelli così ritenuti. I savi sono tali soprattutto perché hanno la capacità di governare lo spirito e il comportamento, sono cioè nelle condizioni di concordare, approvare ed eseguire regole. L’emendazione dell’intelletto consiste essenzialmente in 61

questo: mettere a punto uno statuto che garantisca la verità e governi la passione. Il pensiero vero è infatti spassionato; peraltro – come abbiamo visto – savi sono coloro che governano le loro passioni. Il dominio di sé è segno di assennatezza proprio perché sta in perfetta sintonia con le regole oggettive e storiche del dominio. La ragione moderna risulta dal concorso di tutte queste circostanze pratiche, ideali, logiche, scientifiche: essa rappresenta un punto d’equilibrio tra varie tensioni. In tal senso è un risultato. La “ragione” costituisce il luogo ideale e lo spazio storico entro cui forze opposte e discordi si infrenano reciprocamente, in essa si limitano, talvolta si elidono. In quanto punto d’equilibrio di conflitti, la “ragione” certamente li placa anche se non li risolve; per questo ha un volto pacato: essa esprime la sicurezza di un ordine raggiunto e detiene le regole per perpetuarlo. Nella Gaia scienza Nietzsche ha colto perfettamente la dinamica attraverso cui si costituisce la ragione: “Che cosa significa conoscere? Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere! dice Spinoza, con quella semplicità e sublimità che è nel suo carattere. Cionondimeno: che è in ultima analisi questo intelligere se non la forma in cui appunto ci diventano ad un tratto avvertibili questi tre fatti? Un risultato dei tre diversi e tra loro contraddittori impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare? Perché sia possibile un conoscere, ognuno di questi impulsi deve aver già espresso il proprio unilaterale punto di vista sulla cosa e sul fatto: in seguito ha preso origine il conflitto tra queste unilateralità, e da esso talora un termine medio, una pacificazione, un salvar le ragioni di tutte e tre le parti, una specie di giustizia e di contratto: in virtù, infatti, della giustizia e del contratto, tutti questi impulsi possono affermarsi nell’esistenza ed aver ragione tutti insieme. Noi, che siamo consapevoli delle ultime scene di conciliazione e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi: mentre esso è 62

soltanto un certo rapporto degli impulsi tra loro”.76 Così nasce la ragione moderna. La lunga citazione di Nietzsche mostra come il comporsi tra le forze in gioco produce un’immagine di ragione per noi pacata ed eterna. Questa è una lezione sul piano del metodo e dell’ermeneutica storica: il Cogito cartesiano è fondamento assoluto dell’ordine e quindi della necessità. Tutto ciò che procede da un tale tipo di ragione si presenta come formalmente giustificabile: la ragione è un giustificato dominio. Il discorso che espropria follia e passione da ogni diritto alla parola, solo questo, prende figura di ragione. D’ora innanzi alla follia non sarà più concesso di interloquire nei discorsi della ragione. D’altra parte come potrebbe: essa non è discorso, è assenza d’opera. Se la follia non può interrompere il discorso della ragione perché non è, né ha discorso, tuttavia lo può sempre e in ogni caso riprendere. Essa infatti appare ogni volta e sempre nei vuoti del discorso, nelle lacerazioni della ragione. Il nostro intento era quello di esplorare, sulla scorta delle ricerche foucaultiane, il senso e il significato della ragione moderna. Ci pare di avere adempiuto a questo impegno. Ma prima di concludere vale la pena, se non d’accennare al destino storico della ragione, almeno di non tacere il senso fondamentale di ragione e follia. Si è detto che la follia riappare nei vuoti della ragione; con ciò non si vuol dire che si ripresenta come un qualcosa che sta accanto e concorre con la ragione. Al contrario, la follia resta il vuoto del discorso, appare come assenza. Ma questa sua peculiare modalità di apparizione insiste sull’apertura come tale. A voler impiegare un concetto spiccatamente heideggeriano, si può dire che in essa si apre e si mantiene aperto lo sprofondamento. In sostanza, ciò che è importante in questo rilievo è il fatto che la follia non si situa sul lato opposto della ragione, né le sta accanto, né, tanto meno, è il suo rovescio logico. Una tale concezione consegue al tipo di separazione che proprio la ragione moderna ha inaugurato. La follia che parla nell’assenza d’opera è il contrappunto della ragione, sta nel suo canto, è la sua trama, è la sua 63

continua modulazione. La ragione ha esiliato formalmente la follia: nonostante ciò, e anzi proprio per questo, ha sviluppato una tresca, che, seppure rimossa, incessantemente continua. Se ciò è vero, il gioco del rimosso è il filo conduttore principale per interpretare anche il momento scoperto e diurno della Storia della follia. Non è casuale allora che Foucault, concludendo la sua opera, riprenda quale motivo tematico il linguaggio dell’assenza, che è poi una direzione di lavoro: “La follia in cui sprofonda l’opera è lo spazio del nostro lavoro, è la infinita strada per venirne a capo, è la nostra vocazione sia di apostoli che di esegeti... la follia è contemporanea dell’opera, poiché inaugura il tempo della sua verità”.77

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Note 1

“Im Herrschaftsbereich dieses subiectum ist das ens nicht meher ens creatum, es ist ens certum: indubitatum: vere cogitatum: ‘cogitatio’” (M. HEIDEGGER, Nietzsche II, Neske, Pfullingen 1961, p. 166). 2 Su questo tema cfr. M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101. 3 M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 36. 4 Su questo argomento, oltre alla già citata Archeologia, cfr. M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. 5 Quando si sostiene che la filosofia di Cartesio è espressione di una più radicale trasformazione, s’intende dire che essa risente della variazione complessiva dei regimi discorsivi. Essa stessa è una di queste variazioni, e perciò un sintomo. Cartesio vuole formulare, in primo luogo e soprattutto, lo statuto di un nuovo regime razionale. Il pensatore moderno, nel momento stesso in cui istituisce la ratio moderna, definisce le regole di questa ragione. Più precisamente, la postulazione dell’assolutezza della ragione è possibile solo all’interno di questo nuovo statuto di regolarità. L’idea cartesiana di ragione non è, infatti, concepibile al di fuori di un discorso sul metodo: lo stesso dubbio è metodico. Che di nuovo regime si tratti, si ricava esplicitamente dal testo. Il discorso cartesiano è, in primo luogo, discorso sul metodo: ciò vuol dire che è discorso normativo; infatti, esso prescrive le regole della retta ragione. La IV delle Regulæ ad directionem ingenii dice: “Per l’investigazione della verità delle cose, è necessario un metodo”. Di seguito il testo continua: “I mortali sono presi da tanta cieca curiosità, che spesso traggono l’intelligenza per vie ignote, e senza nessuna ragione di speranza, ma soltanto per far prova se ivi si trovi quello che cercano: come se uno ardesse di tanto sciocca cupidigia di scoprire un tesoro, che continuamente andasse vagando per le strade, cercando se per caso ne trovasse alcuno, perduto da un viandante”. Di contro a tale stolido erramento, Cartesio ritiene che “è molto meglio non pensare mai alla ricerca della verità di alcuna cosa che farlo senza metodo: poiché è certissimo che per tali studii disordinati ed oscure mediazioni si confonde il lume naturale e si acceca l’intelligenza” (CARTESIO, Opere, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. I, pp. 25-26 [il corsivo è nostro]). È pertanto necessario determinare un ordine razionale, a cui è fatto obbligo attenersi rigorosamente; un ordine che sia facile e certo: “Per metodo poi intendo,” dice Cartesio, “delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso, e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace” (ivi, p. 26). La formulazione di queste regole facili e certe è condizione previa per il rinvenimento della verità. Il testo cartesiano dà espressione a un universo di pratiche entro cui si riassesta la ragione. La stessa filosofia di Cartesio è un regime, e in questo senso un sintomo. Se si propone una lettura sintomale, si propone anche una lettura peraltro testualmente ben fondata. Questa esigenza d’ordine non è solo cartesiana: basti in proposito ricordare Spinoza (cfr. SPINOZA, Principia philosophiæ Cartesianæ). 6 Cfr. J. DERRIDA, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza,

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Einaudi, Torino 1971, pp. 39-79. 7 M. FOUCAULT, Histoire de la Folie a l’âge classique, Gallimard, Paris 1972; tr. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976, p. 70. 8 Ivi, p. 67. 9 Ivi, p. 70. 10 Cfr. ivi, pp. 44-47. 11 Ivi, p. 45. 12 Ivi, p. 32. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 34. I motivi foucaultiani dell’immaginario e della sragione sono acutamente analizzati da C. SINI, Semiotica e filosofia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 161-171. 16 Il Medioevo, unitamente a una dimensione realista, attenta alla quotidianità e alla vita ordinata, possiede una componente prodigiosa, esotica, surreale. Questi elementi soprannaturali e inquieti attraversano tutto il Medioevo, anche se esplodono in modo stupefacente alla fine del Trecento e si sviluppano poi, in forme altamente drammatiche, nel corso del Quattrocento e del Cinquecento europeo. Su questo argomento è di estrema importanza, soprattutto per quanto riguarda l’analisi delle forme estetiche e simboliche, l’opera di J. BALTRUŠAITIS, Le Moyen Âge fantastique. Antiquités et exotismes dans l’art gothique, Paris 1972; tr. it. Il Medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1973. 17 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 38. 18 Ivi, p. 40. 19 Ibidem (il corsivo è nostro). 20 Ivi, p. 30. Foucault aggiunge un’ulteriore considerazione, relativa al fatto che la follia, a differenza della morte, non è un termine esterno e finale, ma è sentita come una minaccia interna e continua dell’esistenza: “Mentre un tempo la follia degli uomini consisteva nel non vedere che la morte si avvicinava, ora la saggezza consisterà nel denunciare ovunque la follia, nell’insegnare agli uomini che essi ormai non sono niente di più che dei morti, e che se il termine è vicino, lo è nella misura in cui la follia, diventata universale, non sarà più che una sola cosa con la morte stessa” (ivi, p. 30). Su questo argomento cfr. l’interessante lavoro di P. ARIÈS, Essais sur l’histoire de la mort en occident du moyen âge à nos jours, Éditions du Seuil, Paris 1975; tr. it. Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano 1978. Dello stesso autore cfr. L’homme devant la mort, Éditions du Seuil, Paris 1977; tr. it. L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1980. Sul tema della morte nel Cinquecento è da tenere poi particolarmente in conto il saggio di A. TENENTI, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1977; cfr., in particolare, cap. V, La sensibilità macabra, pp. 121-166. 21 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 40. 22 Ivi, p. 41. 23 Su questo argomento Foucault nota: “Malgrado tante interferenze ancora visibili, la separazione è avvenuta; la distanza fra le due forme di esperienza della follia non cesserà di allargarsi. Le figure della visione cosmica e i movimenti di riflessione morale, l’elemento tragico e l’elemento critico, andranno ormai sempre più separandosi, aprendo nell’unità profonda della

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follia una frattura che non sarà mai più colmata. Da un lato una Nave dei folli carica di visi forsennati, che a poco a poco sprofonda nella notte del mondo, tra paesaggi che parlano della strana alchimia dei saperi, delle sorde minacce della bestialità e della fine dei tempi. Dall’altro lato avremo una Nave di folli che forma per i saggi l’odissea esemplare e didattica dei difetti umani” (ivi, p. 44). 24 Ivi, pp. 47-48. 25 Ivi, p. 52. 26 Cfr. ivi, pp. 48-51. 27 Ivi, p. 51. 28 Ivi, p. 53. 29 Ivi, p. 55. 30 Ivi, p. 64. 31 M. CERVANTES, Don Chisciotte della Mancha, II, Garzanti, Milano 1974, cap. LXXIV, p. 920. 32 Questa ragione critica trova, fra l’altro, le sue radici e i suoi motivi in quelle forme di laicizzazione del cristianesimo, già proprie della cultura umanistica del Quattrocento. Erasmo è una figura emblematica di questa mutazione culturale. Febvre scrive: “Per quanto concerne Erasmo è abbastanza noto che egli si mostra prima di tutto preoccupato di proporre agli uomini delle regole di vita pratica sane e rette, e che sacrificherebbe volentieri la teologia, le teologie sui soli altari che gli interessino veramente; quelli dell’etica. È molto tempo che l’intelligente Melantone se n’è accorto; e Pineau si guarda bene dal lasciar cadere la sua testimonianza: ‘Che cosa chiediamo alla teologia? due cose,’ rispondeva l’amico di Lutero. ‘Delle consolazioni contro la morte e contro il giudizio finale? Ce le fornisce Lutero. Un insegnamento di morale e di civiltà? Questo è affare di Erasmo’” (L. FEBVRE, Le problème de l’incroyance au XVIme siècle. La religion de Rabelais, Albin Michel, Paris 1968; tr. it. Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Einaudi, Torino 1978, pp. 310-311; cfr., per intero, parte II, libro I, Il cristianesimo di Rabelais, pp. 230-318). 33 CARTESIO, Discorso sul metodo, parte I, in Opere, cit., pp. 131-132. 34 CARTESIO, Principi della filosofia, parte I, 45, in Opere, cit., vol. II, p. 48. Il testo latino corrisponde all’edizione critica di ADAM-TANNERY, Œuvres de Descartes, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1964. 35 CARTESIO, Opere, cit., vol. II, p. 48. 36 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 67. 37 Ibidem. 38 CARTESIO, Opere, cit., vol. I, p. 200. 39 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 70. 40 Il nesso tra rappresentazione e ordine è, da Foucault, messo esplicitamente a tema in Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, pp. 93-139. 41 Secondo Foucault, la verità è qualcosa di prodotto: più che di verità si deve parlare di effetti di verità. Nella Storia della follia l’effetto di verità è semplicemente descritto: è una funzione espressa tramite l’esposizione generale delle pratiche d’esclusione. L’effetto di verità è, però, un modulo ermeneutico, che da Foucault viene sempre più messo a tema. Questa progressiva consapevolezza, a nostro parere, non equivale a una mutazione di criterio, ma a una esplicitazione del modulo ermeneutico stesso. Sul tema cfr.

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M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, pp. 25-38. 42 La ragione non è il discorso; ma “l’autorappresentazione della rappresentazione come ragione” appartiene a un ordine discorsivo, è cioè un enunciato interpretabile all’interno di un insieme di positività storiche con una comune unità di riferimento. Nell’Archeologia, Foucault mette a punto la questione quando dice che il discorso non è il linguaggio. Diversamente dalla lingua, il discorso è a priori storico e archivio. Per Foucault l’archivio è da intendere come “il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati” (L’archeologia del sapere, cit., p. 151). Solo all’interno di uno spazio siffatto è possibile determinare l’affinità tra elementi, ossia tra fatti singoli e indipendenti. Si vengono così a formare sequenze uniformi, non tanto perché dicono la stessa cosa di uno stesso oggetto, che anzi gli argomenti possono essere diversi o addirittura opposti, ma perché appartengono allo tesso campo di oggettività. Questo è propriamente il discorso. L’analisi archeologica, dice Foucault, “individualizza e descrive delle formazioni discorsive... Quando si rivolge a un tipo particolare di discorso (quello della psichiatria nella Storia della follia o quello della medicina nella Nascita della clinica), lo fa per fissare per comparazione i limiti cronologici, lo fa anche per descrivere, insieme con essi e in correlazione con essi, un campo istituzionale, un insieme di avvenimenti, di pratiche, di decisioni politiche, una concatenazione di processi economici in cui figurano delle oscillazioni demografiche, delle tecniche di assistenza, dei bisogni di manodopera, vari livelli di disoccupazione” (ivi, p. 181). 43 J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, cit., p. 40. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 56. 46 Ibidem. 47 CARTESIO, Opere, cit., vol. I, p. 200. 48 Ibidem. 49 J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, cit., p. 80. 50 Ivi, p. 62. 51 Ibidem. 52 Ivi, p. 63. 53 Cfr. ivi, pp. 63-64. 54 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 644. 55 Ibidem. 56 Ivi, p. 645 (il corsivo è nostro). 57 Ibidem (il corsivo è nostro). 58 Ci è parso opportuno prendere, esplicitamente, in considerazione il passo cartesiano taciuto da Foucault perché, fra l’altro, non si volgesse a suo sfavore l’obiezione che egli muove a Derrida, quando gli rimprovera di trascurare le differenze. (Cfr. M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 651.) Ci pare, però, di avere indicato con sufficiente chiarezza la modalità teorica in forza della quale la proposizione cartesiana, che in prima istanza pareva un’obiezione consistente a Foucault, può essere facilmente riassorbita nella sua interpretazione. 59 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 645. 60 “Il problema non è in effetti che io mi sforzi di considerarmi un folle che si considera re; e nemmeno che mi chieda se non sono un re (ovvero un

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capitano turingio) che crede di essere un filosofo rinchiuso a meditare. La differenza con la follia non è stata provata: è constatata” (ibidem). 61 CARTESIO, Opere, cit., vol. I, pp. 200-201 (il corsivo è nostro). 62 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 646. 63 Ibidem. 64 “È dimostrato da tutta l’analisi del discorso: la constatazione di nonfollia (e il rigetto della prova) non è in continuità con la prova del sonno (e la constatazione secondo cui forse si sta dormendo)” (ivi, p. 647). 65 Ivi, pp. 647-648. 66 Nel suo saggio sulla Storia della follia, Derrida dice: “Qui non si tratta d’altra parte, per Descartes, di determinare il concetto della follia ma di utilizzare la nozione corrente di stravaganza a scopi giuridici e metodologici, per porre questioni di diritto che riguardano soltanto la verità delle idee” (J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, cit., pp. 63-64). 67 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 649. 68 Ibidem. 69 CARTESIO, Opere, cit., vol. I, p. 144. 70 Ivi, pp. 144-145. 71 L’idea di ragione come idea condivisa si basa sul presupposto della validità, per sé, del già noto. Il nostro concetto di conoscenza trova la sua origine nella possibilità del riconoscimento, nella possibilità cioè di ricondurre ogni ignoto al noto. Ma il noto non è da intendere solamente come l’assolutamente evidente, e quindi come il principium firmissimum, ma, al contrario, come il risultato di una convinzione comune. Questo secondo modo di considerare l’evidenza si radica nel comportamento, cioè a dire nella coscienza comune come coscienza abitualmente sensata. Su questo tema vale la pena di tenere particolarmente in conto una lucidissima notazione di Nietzsche, peraltro finemente genealogica: “L’origine del nostro concetto di ‘conoscenza’. Questa spiegazione la prendo dalla strada; ho sentito qualcuno del popolo che diceva: ‘lui mi ha riconosciuto’; al che mi sono chiesto: che cosa intende propriamente il popolo per conoscere? Che cosa vuole allorché vuole ‘conoscere’? Nient’altro che questo: qualcosa d’ignoto deve essere ricondotto a qualcosa di noto. E, noi filosofi: abbiamo veramente inteso per conoscenza qualcosa di più? Il noto, vale a dire: ciò cui siamo così abituati da non meravigliarcene più, la nostra vita di tutti i giorni, una qualunque regola in cui siamo piantati, tutto quanto, in genere, ci fa sentire a casa nostra; e allora? Il nostro bisogno di conoscere non è appunto questo bisogno di cose note?... Giacché, ‘ciò che è noto, è riconosciuto’; in questo sono tutti d’accordo” (F. NIETZSCHE, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1965, libro V [355], pp. 223-224). 72 CARTESIO, Opere, cit., vol. I, p. 206. 73 “Del resto la stessa ricerca metodica della verità è il risultato di quei tempi in cui le convinzioni si facevano reciprocamente guerra. Se il singolo non avesse tenuto alla sua ‘verità’, cioè al suo aver ragione, non ci sarebbe in genere un metodo di ricerca; mentre così, nell’eterna lotta delle pretese dei vari individui al possesso della verità assoluta, si andò avanti passo passo, per trovare dei principi irrefragabili, in base ai quali potesse essere accertata la legittimità delle pretese e decisa la contesa... La lotta personale dei pensatori ha infine talmente affinato i metodi, che realmente si sono potute scoprire delle verità e che si sono messe a nudo sotto gli sguardi di tutti le aberrazioni dei metodi passati” (F. NIETZSCHE, Umano troppo umano I [634], Adelphi,

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Milano 1965, pp. 301-302). 74 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro III (113), p. 123. Nietzsche non constata solamente la presenza di forze storiche molteplici e, a diverso titolo, necessarie per la costituzione di un pensiero scientifico; egli nota anche come queste forze si medino storicamente, come infrenandosi reciprocamente si stabilizzino in un equilibrio. Infatti, il testo nicciano sopra citato continua in questi termini: “Prese (queste forze) ognuna isolatamente, hanno avuto assai di frequente un effetto ben diverso, da quello risultante oggi, che all’interno del pensiero scientifico esse si limitano e s’infrenano reciprocamente: hanno avuto lo stesso effetto dei veleni, per esempio l’istinto del dubbio, l’istinto della negazione, l’istinto dell’attesa, l’istinto del raccogliere, l’istinto del disgregare. Sono state portate al sacrificio molte ecatombi di uomini, prima che questi istinti imparassero a cogliere la loro contiguità e a sentirsi concorrenti come funzioni di un’unica potestà organizzatrice in un unico uomo” (ibidem). Il conflitto degli istinti, per Nietzsche, è la condizione materiale e storica perché accada un pensiero. Infatti, come abbiamo già visto, egli individua, al di sotto di ogni argomentazione e di ogni forma logica, l’istintualità. Ma l’istintualità nicciana non è da intendere come un’affermazione di vitalismo in genere, e neppure come una dimensione propria dell’individuo singolarmente considerato; l’istintualità è un carattere comune della storia umana, così come, nella conflittualità, essa si viene a mano a mano strutturando. L’istintualità rappresenta dunque il modulo dinamico delle mutazioni storiche, e quindi delle epoche. Nella Gaia scienza si legge: “Non soltanto utilità e piacere, ma istinti di ogni specie presero posizione nella battaglia per ‘le verità’, la battaglia individuale divenne un’occupazione, un’attrattiva, una vocazione, un dovere, un merito: la conoscenza e l’aspirazione al vero trovarono finalmente il loro posto nel sistema, come un bisogno tra gli altri bisogni. Da quel momento non solo la credenza e il convincimento, ma anche l’esperimento, la negazione, la diffidenza, la contraddizione furono una potenza, tutti gli istinti ‘malvagi’ furono subordinati al conoscere e posti al suo servizio... La conoscenza divenne dunque un frammento della vita stessa, e come vita si trasformò in una potenza continuamente crescente” (ivi, libro III [110], p. 120 [il corsivo è nostro]). La costituzione della “ragione moderna” appartiene a questa storia o, in ogni caso, è contenibile in questo profilo: essa rappresenta, a suo modo, un punto d’equilibrio e inaugura un diverso equilibrio. Il riferimento a Nietzsche ci è parso d’obbligo; infatti le ascendenze nicciane di Foucault sono, anche questa volta, evidenti. Non tanto relativamente alla specificità dell’analisi, ma come mutuazione del punto di vista e quindi come criterio ermeneutico. Il merito peculiare di Foucault è quello di aver messo in luce analiticamente le circostanze entro cui si decide del destino di ragione e follia. La Storia della follia da un lato dà la voce ai folli, dall’altro è una genealogia della ragione, o almeno un aspetto di essa. 75 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 69. 76 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro IV (335), p. 191. 77 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., pp. 603-604.

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2. Sapere e dominio Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault Ma tutto è divenuto, non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia. F. NIETZSCHE, Umano troppo umano, 1, 2

1. Il linguaggio del corpo e l’analisi del potere I corpi sono le superfici eloquenti in cui si inscrive il potere. “Il potere,” dice Foucault, “si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso.”1 In questa breve indagine cercheremo di controllare la validità dell’assunzione foucaultiana. In ogni caso, però, se l’assunzione è vera, ci pare plausibile la conseguenza. Se nel corpo si trova esposto il potere, si può, per converso, affermare che il corpo, se non è il luogo eminente, è di certo un luogo tipico, in cui individuare i tratti del dominio e le sue regole di formazione e di esercizio. Se dunque si vuol prendere in considerazione l’analisi foucaultiana del potere, si può assumere, per dirla con Nietzsche, come filo conduttore il corpo. Più precisamente, l’analisi del potere è riconducibile a un’esplicazione del nesso corpo-dominio. Da questo punto di vista, l’analisi del potere coincide con la determinazione dello stato dei corpi. Volendo impiegare, ancora una volta, un concetto frequente nella filosofia di Nietzsche, si può dire che la genealogia del potere corrisponde, in certo senso, a una fisiologia. Il potere è, costitutivamente e in primo luogo, realtà effettuale: il potere si esercita. Se dunque la realtà del potere consiste, effettualmente, nel suo esercizio, ogniqualvolta si parla di potere, o di esso si vuol dare una qualche definizione, bisogna procedere a una localizzazione. Il senso del dominio può essere guadagnato solo là dove il dominio si compie. In altri termini, se il 71

potere è esercizio esso può realizzarsi solo a due condizioni: 1) che si dia uno spazio materiale entro cui il potere si istituisca; 2) che si diano delle regole che presiedano a una tale istituzione. L’esercizio del potere, in quanto esercizio, mette in atto dispositivi, istituisce cioè una sintassi, ossia un sistema di regole, che operando su spazi materiali ne determinano il significato. In ultima istanza, il potere, in quanto esercizio, produce il suo spazio e in esso definisce le oggettività: pone i fatti e ne determina la natura. Da questo punto di vista, le cose della natura non sono nature semplici, né, tanto meno, si risolvono nell’assolutezza del loro immediato “star di contro”: il darsi di esse secondo una propria natura è frutto di un processo di produzione, che è appunto ragione immanente del loro essere e significare. Il potere si legge sulla superficie delle cose, poiché si obiettiva nelle stesse cose: in esse si fa immagine. Infatti, le regole secondo cui le cose vengono prodotte, le regole di disposizione e di movimento, non sono entità separate o meramente logiche ma costituiscono gli oggetti per quel che essi sono. Infine, l’oggettività stessa delle regole è un qualcosa di costruito e di prodotto: infatti, la produzione è possibile, poiché il produrre oggetti produce insieme l’oggettività degli oggetti medesimi. Ogni produzione, per dirla con Heidegger, è un far avvenire: in tal senso è un far apparire, importare all’immagine.2 La direzione di pensiero di Foucault, anche se è debitrice del pensiero di Heidegger, è tutt’altro che heideggeriana. Tuttavia, su questa questione c’è un tratto comune. Ogni produzione, nel produrre l’oggetto, produce le modalità della sua percezione sensibile e della sua rappresentazione ideale: produce forma e natura. La produzione, in ultima istanza, produce insieme oggettualità e oggettività: è lo stesso che dire cosa e idea. Se questo è vero, ogni produzione è manifestazione: in tal senso, è produzione di sapere o di verità. Per questa ragione, l’analisi che intendiamo condurre sui testi foucaultiani non vuole mettere a punto solo il nesso corpo-potere, ma vuol mostrare la tipologia del sapere che si produce all’interno di tale relazione. Il filo conduttore 72

del corpo, qui assunto come criterio metodologico, ci deve dunque condurre alla comprensione della circolarità di potere e sapere. Se ogni produzione è produzione di sapere, il potere sui corpi deve dar luogo a un sapere dei corpi. Per converso, il sapere dei corpi deve rendere riconoscibile il potere, deve svelare, o quanto meno indicare, le sue regolarità e strategie. Si tratta, dunque, di accertare il grado di plausibilità logica del nesso corpo-sapere-potere, e lo spessore di conoscenza storica che dall’esplicazione di questo nesso deriva. Date tali premesse, è bene dichiarare che la lettura di Foucault che intendiamo condurre non è una lettura innocente: è anzi nostro intento curvare l’autore alle nostre intenzioni. Quanto qui si va dicendo non vuole dunque essere un’analisi complessiva del pensiero foucaultiano, né, tanto meno, un rigoroso controllo dei suoi presupposti epistemologici. Al contrario, vuole essere una valorizzazione: un’occasione per mettere in chiaro il valore conoscitivo e il significato speculativo della sequenza corpo-sapere-potere. Si diceva poc’anzi che il potere si esercita. Ciò vuol dire che il potere è un atto (atto è qui da intendere come insieme strategico e come dispositivo operazionale polivalente) istitutivo e, quindi, una modalità del produrre. Il potere fa accadere, istituisce nel fatto l’oggetto e ne determina il significato. C’è potere là dove c’è la capacità dispiegata di produrre e governare, in una parola, di disporre un mondo. In questo senso, l’epifania del potere è il dominio. Ma la disposizione di un campo di oggettività suppone il poter disporre (potere è qui da intendere come potenza, non come possibilità) e il metter a disposizione. La possibilità di oggettivazione è quindi congiunta a un esercizio di dominio. Il nesso corpo-potere è allora da esplicare in questa direzione. Il potere si oggettiva, perché prende corpo nei corpi: sui corpi viventi sono incisi i segni del dominio. Questo concetto non è da intendere come una metafora del dispotismo. La formula non vuole alludere a una qualche forma di potere tirannico e violento. Così inteso, il concetto di dominio sarebbe quanto mai distorto. Il potere, 73

come si diceva, domina perché produce il suo spazio e, perciò, definisce un’oggettività di regole, di comportamenti, di azioni sociali. La densità storicomateriale entro cui il potere si dispiega consente, fra l’altro, quella forma specifica di dominio che è il dominio sui corpi. Questo è certamente coazione, violenza, uccisione, ma è anche valorizzazione del corpo, investimento del desiderio, amministrazione della vita. In ultima istanza, il potere dispone dei corpi, poiché dispone del senso della vita e della morte. Questo radicale poter disporre dipende dal fatto che è il potere stesso a istituire la disponibilità: il che equivale a porre e a far apparire valori. Ciò vuol dire che il potere manipola. In tal senso, esso è eminentemente tecnica e si dispone all’interno di quell’orizzonte proprio al soggetto moderno come soggetto costruttivo. Questo soggetto non è da confondere con l’individualità storica, ma è da intendere come la forma propria dell’oggettivazione.3 Non si può qui tacere un passo di Heidegger, pensatore sempre illuminante su questo tema, qualunque sia il giudizio sulla sua filosofia. Ebbene, Heidegger dice che “il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del ‘richiedere’ nel senso della provocazione. Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto; ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni”.4 La tecnica ha come suo tratto peculiare la provocazione nel senso della richiesta e dell’impiego. Lasciamo ai margini della nostra analisi il discorso, squisitamente heideggeriano, del disvelamento provocante, essendo il disvelamento il terreno proprio entro cui Heidegger fa apparire l’essenza della tecnica. Concentriamo, piuttosto, l’attenzione sul concetto di richiesta e di impiego dell’energia della natura: la tecnica porta allo scoperto quest’energia. Ora, il potere è da interpretare come una tecnica allo stesso modo in cui i corpi sono natura. Essi appartengono a quel fondo d’energia che si tratta di richiedere e di impiegare. In questo processo, accade 74

quella specificità storica che è l’essere dei corpi stessi. Il dominio impiega l’energia dei corpi e nel contempo li plasma: la sagoma dei corpi si modella, allora, secondo le procedure dell’impiego, e quindi secondo le regole del dominio. Sono evidenti le ragioni per cui il potere si imprime sui corpi e rende i corpi segni viventi di se stesso. Il corpo parla, il corpo racconta. Il corpo spazializza i processi, muta gli eventi in segni, articola spazio e linguaggio. Il corpo parla come parla ogni cosa.5 Quest’asserto non è un concetto peculiare del pensiero di Foucault. Al contrario, è un’idea diffusa nell’epistemologia contemporanea e in genere nella presente cultura.6 Certo, il linguaggio non è univocamente interpretato; è anzi diversamente analizzato, a seconda delle sue diverse posizioni. Ma quello che qui interessa è un punto solo: il reale è linguaggio. Ciò vuol dire che non esistono puri fatti, ossia non ci sono mere cose, fatti non nominati: il reale in quanto tale è segno.7 Questo concetto è recepito da Foucault, ma trova in lui un singolare sviluppo e una peculiare applicazione: il reale è linguaggio in quanto il senso della realtà si esplica come articolazione di parole e di cose. Nell’epistemologia di Foucault tale articolazione si specifica in quella forma peculiare di distinzione che intercorre fra il linguaggio in generale e il discorso come sistema specifico di enunciati.8 Fatta salva, comunque, questa distinzione, che fra l’altro avremo modo di prendere nuovamente in considerazione, resta il fatto che ogni realtà è realtà di segni. In questo senso i corpi sono interpretabili come segni; e, nel nostro caso, come segni del potere. Spazio e linguaggio sono le dimensioni più proprie dei corpi. Ciò significa che la percezione prima e immediata della corporeità è un’esperienza di spazi linguistici. Poiché spazio e linguaggio sono le dimensioni costituenti il senso della corporeità, essi costituiscono pure le dimensioni logico-categoriali con cui esplicare il nesso corpo-poteresapere. È evidente che in questo tipo di analisi il corpo è più che mai filo conduttore: è principio di coerenza in quanto istituisce il taglio di prospettiva e determina il criterio ermeneutico. 75

Beninteso, si tratta qui di un corpo che è insieme spazio e scrittura. Il concetto di spazializzazione è corrispondente a quello già enunciato di localizzazione. In ogni caso risulta sempre di più un concetto chiave: infatti, consente, da un lato, di precisare l’idea stessa di corporeità e, dall’altro, di esplicare la concezione foucaultiana di corpo nei termini di spazio linguistico. Da qui alcune domande: se i corpi spazializzano i processi, è da chiedersi se i processi non coinvolgano, a ogni modo, i corpi, ossia se laddove ci sono i processi non siano, alla lontana, implicati i corpi stessi. D’altra parte, per chiarire ciò, bisogna analizzare dove e come si attivano i processi e, quindi, prendere in considerazione processi determinati. In generale, il corpo individualizza lo spazio, e lo spazio appartiene allo spessore del corpo. In forza di questa implicazione non è possibile concepire, concretamente, uno spazio che non sia determinato, né un corpo che non sia un insieme stratificato di superfici. La spazializzazione riduce, appunto, il volume dei corpi a superfici. Questo procedimento non vanifica la realtà corporea, ma determina livelli differenziati di individuazione. In ogni caso, si ha sempre a che fare con un’individuazione degli spazi.9 Noi intendiamo procedere a un’analisi dettagliata dei corpi e quindi guadagnare un’individuazione dello spazio corporeo, che sia una differenziazione materiale dell’esteso. Se è analitico che i corpi sono estesi, resta peraltro vero che i corpi individuano lo spazio e lo rendono discontinuo. Se dunque il concetto di corpo comporta quello di estensione, l’analisi materiale del corpo comporta quello di individuazione. La risultante dà luogo a unità estese e insieme discontinue. A partire da questo discorso generale, vogliamo sviluppare alcune applicazioni particolari. La spazializzazione del corpo coincide con un’individuazione dello spazio. Ora, ogni spazio è definito da una funzione, e la diversità delle funzioni regionalizza gli spazi. In tal senso ogni spazio è delimitato da operazioni, sia esso uno spazio materiale o ideale: sono dunque le operazioni a inscrivere lo spazio e a definirne il linguaggio.10 Dispiegare il volume dei corpi vuol dire accedere ai diversi linguaggi che lo attraversano. Il 76

linguaggio del corpo si determina allora come corpolinguaggio. Ciò vuol dire che del corpo non può darsi mai un’apparizione pura, assoluta e totale, ma al contrario il corpo appare nel linguaggio che lo manifesta. La realtà del corpo consiste e si moltiplica a seconda delle diversità degli ordini discorsivi corrispondenti ai suoi strati e alle sue esposizioni prospettiche. Da questo punto di vista, si giustifica la formula secondo la quale il corpo, in certo senso, è sempre fuori di sé. Esiste dunque un sistema di rappresentazioni del corpo, che è corpo esso stesso: è, appunto, corpus disciplinare. In questo caso, abbiamo a che fare con un valore traslato di corpo. La cosa, però, non è del tutto casuale, anzi è da dire che nelle mutazioni linguistiche nulla è casuale. Il corpus disciplinare conserva, in certo senso, un’affinità morfologico-strutturale col corpo vivo: qualsiasi disciplina, infatti, si struttura secondo il modello coerente e funzionale di un organismo. Il corpus disciplinare organizza lo spazio ideale entro cui è possibile la rappresentazione di ciò che è vivente. D’altra parte, la costituzione di uno spazio ideale non coincide con la postulazione di una pura idealità, così come è concepita dal pensiero astratto. Lo spazio ideale occupa, e di fatto inaugura, uno spazio sensibile, poiché si attiva come organismo discorsivo. In tal senso, lo spazio ideale diviene attivo sul contenuto stesso della sua rappresentazione, anzi in tanto la rappresentazione è valida in quanto si suppone omologa a ciò che rappresenta. La rappresentazione del corpo, cioè a dire il corpus disciplinare, in cui il corpo vivente viene alla rappresentazione, è attiva sul vivente stesso. In altri termini, la rappresentazione del corpo, in quanto è una delle sue modalità d’espressione, ne è anche la norma. L’identità del corpo si discioglie allora nella molteplice tavola dei saperi; la natura dei corpi viene a coincidere con il corpus disciplinare in cui di volta in volta è inscritta. Per altro verso, le discipline non sono entità neutre e formazioni separate: sono regimi disciplinari, ossia, insieme, un ordine discorsivo e un esercizio di dominio. I corpi disciplinari, siano essi intesi come istituti o come 77

organismi scientifici, penetrano e frammentano quelli viventi, perché istituiscono per essi un sistema plurale di regimi. Ogni disciplina è tale poiché riesce, in modo diretto o indiretto, a disciplinare effettivamente il corpo. Il grado di astrazione formale e di generalità di ogni disciplina non è disgiunto dal suo grado di efficacia pratica e di esercizio. Ogni corpus disciplinare si può, per questa ragione, comprendere solo in un orizzonte strategico più vasto della sua semplice costruzione categoriale ed epistemologica. Sui corpi si esercita il dominio dei saperi; per la stessa ragione, la costituzione dei saperi, la formazione delle unità discorsive, si legge sui corpi dominati: in altri termini, i corpi disciplinari possono essere compresi, e in ogni caso illuminati, a partire dalla disciplina dei corpi, per la stessa ragione per cui i corpi viventi appaiono dentro i domini dei diversi saperi. La disciplina dei corpi è ragione genetica e criterio veritativo: è condizione preliminare per la formazione dei corpi disciplinari e, insieme, principio di verificazione delle discipline stesse. Verità ed efficacia vengono a coincidere negli effetti operativi, nelle forme di dominio, che il potere esercita sui corpi. Il corpo è più che mai filo conduttore per determinare, di volta in volta, il nesso che si stabilisce fra le pratiche di potere e le forme di sapere.11 Il nesso poterecorpo sviluppa una complessità di fenomeni per cui è insufficiente una logica semplice di implicazionenegazione: “come sempre,” nota Foucault, “nei rapporti di potere ci si trova di fronte a fenomeni complessi che non obbediscono alle forme heideggeriane della dialettica”.12 Corpo-spazio, corpo-linguaggio, corpo-potere: sono queste le dimensioni costitutive entro cui il corpo prende significato; per altro verso, spazio, linguaggio e potere stanno in un nesso di reciproca implicazione a partire dal volume spazializzato dei corpi e dagli stessi corpi viventi. Il corpo riconduce a sé l’insieme di regole e di dispositivi attraverso cui il potere effettivamente si esercita; d’altra parte, il potere obiettiva il corpo nelle forme del sapere, al fine di produrre e manipolare i corpi stessi. La manipolazione e la tecnologia politica del dominio trasmutano la disciplina dei corpi nei corpi disciplinari. Il 78

corpo accoglie e contiene, il corpo dispiegato racconta. Il corpo è uno spazio individuato e definito: è, perciò stesso, un’unità territoriale o un dominio. Il termine “territorio” è una metafora spaziale che indica o, in ogni caso, allude a un’articolazione dello spazio. Un’articolazione che diviene possibile solo attraverso un procedimento di localizzazione. In altri termini, un’articolazione territoriale è possibile solo se si individuano elementi omogenei o comunque funzioni strutturanti affinché ogni “dominio” sia “quel” dominio che è. Localizzare significa determinare un luogo singolare, e quindi rinvenire gli elementi specifici che consentono questa singolarità. Ogni spazio pertanto si differenzia secondo regole e dispositivi, e così pure, in senso stretto, lo spazio dei corpi. Nulla di più si vuol dire quando si afferma che i corpi spazializzano i processi; i corpi vivono: ciò significa che sono esercitati, sono agenti secondo un sistema di regole e disposti entro specifici ordini discorsivi. Il corpo è spazio operativo e spazio di operazioni. Per intendere un tale enunciato bisogna assumere il concetto di operazione nella sua valenza funzionale e nella sua portata strategica. Spazio operativo significa in primo luogo spazio attivo, cioè spazio dove si realizzano eventi. Resta da determinare il principio dinamico che fa dei corpi luoghi attivi; in altri termini, bisogna individuare, di volta in volta, il principio energetico dell’attività corporea, la distribuzione di questa energia e la regolamentazione della forza. In tal senso, la vita dei corpi si sviluppa entro un preciso sistema di regole. Le operazioni dei corpi sono operazioni reciproche: ciò significa che ogni azione, sia pure quella più propriamente singolare, è riflesso di sistema. I corpi vivono: ciò vuol dire che esistono una distribuzione e una economia della forza; esistono, soprattutto, dei momenti regolati di questa potenza, dei dispositivi tecnici che l’investono e la canalizzano. Dei corpi si deve dire non solamente che vivono la loro vita, ma, con più esattezza, che in essi la vita vive. La vita non è una realtà primigenia e noumenica, ma, al 79

contrario, essa consiste nell’effettivo gioco vitale, nelle modalità articolate e diffuse in cui si struttura la potenza. La vita assunta nella sua valenza impersonale non allude al numinoso, né al puro desiderio, e tanto meno prende colorazioni mistiche. Al contrario, essa fa riferimento al riflesso di sistema presente in ogni singolarità, alle regole di distribuzione dell’energia dei corpi. Ci sia consentito un excursus. Quando diciamo sistema, non intendiamo un assoluto logico o ontologico, né una totalità realizzata una volta per tutte; al contrario, alludiamo a una modalità strutturale, a un sistema specifico di funzioni non ineludibile, per deduzione, in una totalità trascendentale, né riducibile a un tale tipo di totalità. Solo a questo titolo possiamo affermare che ogni operazione appartiene a un sistema senza con ciò esibire né possedere un sistema di tutti i sistemi. Le strutture cui qui alludiamo non sono figure logiche pure. Non appartengono semplicemente agli statuti dell’epistemologia, ma ineriscono e agiscono negli spazi corporei, significano la loro vita. Quando si parla di corpi disciplinati, si allude a tutti quei sistemi regolativi attraverso cui si canalizza e si distribuisce l’energia dei corpi: i corpi disciplinati si esercitano e nel contempo sono oggetti di esercizio. Lo spazio corporeo così considerato figura concretamente come spazio attivo, come luogo materiale primario entro cui si esplica la potenza, cioè si sviluppa il potere. Ma ciò che in primo luogo va qui sottolineato è il fatto che lo sviluppo della potenza coincide e si esplica in quelle forme di potenza che non sono altro che le regole stesse di ogni singolo sistema. Se ogni forma di potere è criterio regolatore d’investimento e di distribuzione dell’energia dei corpi, non è pertinente cercare un soggetto di potere indipendentemente o al di fuori del sistema regolativo nel suo complesso. Bisogna essere più attenti alle tecniche del potere o agli effetti d’insieme di un sistema in se stesso, e quindi ai riflessi singolari che si producono in ogni momento del sistema, anziché andare in cerca del detentore del potere, o di un legislatore svincolato e super partes. Questa prospettiva rende, se non impropria, certo 80

secondaria la domanda circa chi detiene il potere o in chi risiede il potere. Il potere coincide con l’effettualità del suo esercizio e pertanto equivale in toto all’insieme generalizzato dei suoi effetti; è lì dove opera, ed è decentrato rispetto a ogni disegno unitario di tipo giuridico-istituzionale. Il volto del potere non coincide perfettamente con l’effettualità del potere. Ciò che può sembrare marginale secondo una griglia dottrinaria e istituzionale può, al contrario, sviluppare effetti latenti e non descritti nella costruzione giuridica. Il periferico può dar luogo o mettere in vista effetti di potere difformi dal quadro dottrinario e quindi consentire l’individuazione di sottostrutture specifiche o di meccanismi nascosti, che non figurano né nella teoria come sistema dogmatico-dottrinario, né nella cosiddetta coscienza come attualità eidetico-intenzionale. Il potere è nei suoi effetti e gli effetti del potere appaiono là dove sono messi in opera, quindi in tutte le strategie specifiche e locali. Le localizzazioni strategiche dicono sul potere più di qualsiasi dogmatica giuridica o tavola dottrinaria. Se il potere è là dove opera, se la forma più propria d’individuazione delle strutture del potere corrisponde alla localizzazione analitica delle strategie, allora si può anche dire che i corpi sono i luoghi eminenti di quest’individuazione: nella carne operano le discipline, ma lì c’è il potere. Corpo-sapere-potere: è questo il diagramma essenziale di un insieme concettuale, ove i singoli momenti stanno in relazione di reciproca specularità. I corpi sono lì, basta guardarli. Essi agiscono, patiscono, in generale sono così come vivono, ma il significato del loro vivere si manifesta nella sintassi che li governa: una sintassi che non sta al di là dei corpi, ma è legata ai corpi stessi. Disciplinamento e disciplinarità stanno in rapporto di implicazione reciproca e di circolarità. Un tale rapporto si può chiarire solo all’interno di un regime disciplinare e di una politica dell’enunciato scientifico. Foucault su questa questione, che è insieme epistemologica e strategica, è quanto mai preciso: Ciò che è in questione, è quel che regola gli enunciati ed il modo in cui si reggono gli uni gli altri per costruire un insieme di proposizioni

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scientificamente accettabili e suscettibili per conseguenza di essere verificate o falsificate attraverso procedimenti scientifici. Problema insomma di regime, di politica dell’enunciato scientifico. A questo livello, si tratta di sapere non qual è il potere che pesa dall’esterno sulla scienza, ma quali effetti di potere circolano fra gli enunciati scientifici; qual è in qualche modo il loro regime interno di potere; e come, perché, in certi momenti si modifica in modo globale.13

Tra sapere e potere non c’è alcuna esteriorità; più precisamente il potere è interno al regime discorsivo per il semplice fatto che la discorsività si fa plausibile solo in quanto regime, nella doppia valenza di principio regolativo e discorso efficace. È bene tenere presente la duplice valenza che attiene al termine “disciplina”. Da un lato, “disciplina” ha una valenza che potremmo chiamare obiettiva in quanto complesso organizzato di regole, tenuto insieme dal criterio formale della validità: un corpus disciplinare solo a questo titolo si configura quale corpus scientifico. Per altro verso, “disciplina” è attività, messa in opera; in questo senso non è affatto eterogenea rispetto agli statuti della scienza, anzi è il canone fondamentale di trasformazione del potere in sapere e del sapere in potere. Così intesa, la disciplina si dispiega quale effettivo disciplinamento: prende per intero i corpi.

2. I corpi disciplinati Foucault, nei suoi studi sulla nascita e sulla formazione dei regimi discorsivi o delle istituzioni disciplinari, è particolarmente attento allo stato dei corpi. Molto spesso le sue ricerche prendono avvio da rappresentazioni corporee o da rituali attinenti ai corpi. La Storia della follia, in questo senso, è illuminante. Il grande internamento è un’operazione sui corpi, e, per di più, macroscopica, anche se ancora indistinta, anche se l’internamento avviene in modo indifferenziato e tale da accomunare insieme i malati, i poveri, i semplicemente strani. L’atto d’esclusione è un’operazione decisiva per se stessa, poiché crea quegli spazi reali, diciamo pure materiali e corporei, che diventano il luogo ideale in cui la follia potrà apparire. L’internamento, soprattutto quello dei poveri e quindi dei folli, sociologicamente prossimi a 82

questi, ha ragioni diverse, di cui quella medica non è né la prima, né quella prioritaria.14 La follia, dice Foucault, prende spicco sullo sfondo di un problema di police: l’internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l’Europa del XVII secolo, è un affare di police, nel senso molto preciso che a questo termine si dà nell’epoca classica, cioè l’insieme delle misure che rendono il lavoro sia possibile che necessario per tutti coloro che non saprebbero vivere senza di esso. I contemporanei di Colbert si erano già rivolti la domanda che sarà ben presto formulata da Voltaire: “E che? non possedete ancora i segreti di obbligare tutti i ricchi a far lavorare tutti i poveri? Voi non avete ancora i primi rudimenti dell’organizzazione politica”. Prima di avere il senso medico che noi gli diamo, o che almeno desideriamo supporre in esso, l’isolamento si è reso necessario per tutt’altra causa che la preoccupazione di guarire. Ciò che l’ha reso necessario è un imperativo di lavoro. La nostra filantropia vorrebbe volentieri riconoscere i segni di una benevolenza verso la malattia, là dove spicca solo la condanna dell’ozio.15

La logica che presiede all’internamento mette in opera i processi il cui esito è eterogeneo e, comunque, non previsto dalla logica che li ha istituiti. L’operazione disciplinante istituisce un campo di osservazione del tutto nuovo e con esso un terreno efficace al maturare di un nuovo sguardo: si creano gli spazi materiali e i luoghi effettivi in cui la follia potrà apparire. Operazione forzata sui corpi? Certamente. La segregazione, comunque motivata, comporta in primo luogo e necessariamente un intervento disciplinare sui corpi. È vero, non sono del tutto chiari, e sono comunque compositi, i motivi del grande internamento. In ogni caso, l’operazione correzionale, l’intervento sui corpi è avvenuto, ed è questo l’evento decisivo.16 Infatti, è lì, “è fra le mura dell’internamento che Pinel e la psichiatria del XIX secolo incontreranno i folli; è là – non dimentichiamolo – che li lasceranno, non senza gloriarsi di averli ‘liberati’. A partire dalla metà del XVII secolo la follia è stata legata a questa terra dell’internamento e al gesto che gliela indicava come suo luogo naturale”.17 Ma come appare la follia? Qual è il suo volto, con quale gesto si annuncia e si fa presente la “sragione”? Foucault risponde con un testo di Esquirol: Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente mutati, privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in

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balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci che il lusso dei governi mantiene con grandi spese nelle capitali.18

Così appaiono i folli: lo stato dei corpi annuncia la follia, l’altro regno, come ciò che l’internamento delimita garantendo così la ragione. Il folle, prima di essere clinicamente folle, è semplicemente irregolare e diverso; diversità e irregolarità che saranno, per sé sole, ragione di segregazione. E la segregazione, una volta istituita, sarà anche giustificata: sarà compresa e verrà razionalizzata. La ratio darà conto della sragione e in questo modo essa stessa si troverà, una volta per tutte, garantita. L’irregolare troverà regolarità nel codice clinico che lo comprende; si produrrà il rituale che lo organizza; la segregazione muterà l’irregolare in folle: in quello spazio la follia guadagnerà il suo statuto clinico. L’internamento degli alienati è la struttura più vistosa nell’esperienza classica della follia; questa appare con l’internamento: non ne è la condizione, ma il risultato. La segregazione – lo si è notato – nella sua fase iniziale non ha alcuna motivazione medica. Al contrario, è un atto di potere: “è una struttura semigiuridica, una specie di entità amministrativa che, accanto ai poteri costituiti, e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue”.19 La segregazione è certamente un’operazione innovatrice, ma su un terreno tutt’altro che clinico; essa è, invece, coerente con un’istanza d’ordine. Su questo terreno l’analisi foucaultiana è quanto mai circostanziata: “nel suo funzionamento, o nel suo intendimento, l’Hôpital général non è legato a nessuna idea medica. Esso è un’istanza dell’ordine, dell’ordine monarchico e borghese che si organizza in Francia in questa stessa epoca. Esso si ramifica direttamente dal potere reale, che l’ha sottomesso alla sola autorità del governo civile”.20 Operazione disciplinante in senso radicale, se è vero che “su tutta la superficie della Francia vengono aperti degli ospedali generali: alla vigilia della Rivoluzione se ne potranno contare in trentadue città di provincia”.21 E, in uno con lo sviluppo e il consolidamento dell’ordinamento 84

borghese, prende figura quell’idea generale di ragione che si porrà quale discriminante radicale tra il saggio e il folle. La ragione moderna si viene definendo all’interno di pratiche di potere, e queste mutano perché mutano i processi, e con essi gli atteggiamenti nei confronti della malattia e della miseria, così come dell’ozio e del lavoro: il gesto che, tracciando lo spazio per l’internamento, gli ha conferito il suo potere di segregazione e ha designato alla follia una nuova patria, questo gesto, per quanto coerente e armonizzato possa essere, non è semplice. Esso organizza in unità complessa una nuova sensibilità nei riguardi della miseria e dei doveri di assistenza, nuove forme di reazione davanti ai problemi economici della disoccupazione e dell’ozio, una nuova etica del lavoro, e anche il sogno di una comunità in cui l’obbligo morale si unisce alla legge civile, sotto le forme autoritarie della coercizione.22

Nuovo atteggiamento, dunque, innanzi alla miseria per la stessa ragione per cui nuovo è l’atteggiamento verso il lavoro. Nell’età moderna – come è ormai noto – il lavoro assume una dimensione assolutamente positiva in quanto ragione fondamentale di ricchezza materiale. Una ricchezza che trova perfino la sua giustificazione teologica, una ragione che interpreta il risultato fruttuoso come segno della grazia divina. Nel contempo, l’ozio, oltre a essere improduttivo, è visto come causa di dissipazione e di vizio. L’etica del lavoro diviene l’etica costitutiva della società borghese. L’internamento è un’operazione tecnica che acquista significato all’interno di questa nuova razionalità. La spoliazione della miseria dalla sua positività mistica e, pertanto, il tramonto del valore etico della carità liberano il terreno per l’instaurazione dell’etica del lavoro consona al nuovo tipo di razionalità proprio dell’età moderna. L’internamento, in tal senso, non solo è una soluzione coerente con l’ordinamento borghese, ma è, per di più, un’innovazione: “è la prima volta che si sostituisce alle misure d’esclusione puramente negative una misura d’internamento; il disoccupato non è più cacciato o punito; lo si prende a carico, a spese della nazione, ma a scapito della sua libertà individuale. Tra lui e la società si stabilisce un sistema implicito di obbligazioni: egli ha diritto di essere nutrito, ma deve accettare la costrizione fisica e morale dell’internamento”.23 85

Il mondo dell’internamento è quanto mai composito; quanto mai eterogenea è la tipologia degli internati, allo stesso modo in cui disparate sono le ragioni della segregazione.24 In ogni caso, il tratto comune, la funzione dominante, che caratterizza il grande internamento coincide con l’esplicarsi di una logica di potere, con un esercizio generalizzato e immanente di dominio. Prima ancora che l’uomo moderno designasse nel folle la propria volontà alienata,25 il potere, in tutta la disseminazione delle sue pratiche, nelle sue forme anonime e locali, attivava processi di mutazione radicale, costituiva il terreno materiale perché nascesse e si formasse una logica coerente, capace, a suo modo, di interpretare la follia e di rendere ordinato e omogeneo l’universo correzionale. La follia non appare d’un colpo; essa prende figura clinica e si forma tramite la concomitanza di ordini discorsivi eterogenei, che entrano in collusione tra loro e vicendevolmente si condizionano e si forzano.26 La logica del potere si articola con le ragioni dell’etica, la morale si fa paradigma del comportamento e del costume, discrimine tra il razionale e l’irrazionale; la logica conviene all’etica, la ratio alla coercizione. L’imperativo dell’ordine fa tutt’uno con la sana ragione, e chi non comprende quest’ordine e non vi si adegua, o comunque vi si sottrae, appartiene al mondo del delitto e, infine, della follia. Appare dunque evidente come il “grande internamento” si effettui quale dispositivo specifico di un’economia di potenza. Questa strategia disegna il campo per un’esperienza della follia. In quello spazio si incontrano malati e medici; è qui che si manifesta chiaramente la natura del folle: la sua malattia, la sua terapia. “A partire da quest’epoca si comincia a considerare la malattia in un’unità naturale che prescrive alla medicazione il suo logico ordinamento e la determina col suo proprio movimento.”27 Si appronta così “un territorio in cui il rapporto costante e reciproco tra teoria e pratica si trova raddoppiato da un immediato confronto tra medico e malato. Sofferenza e sapere si uniranno l’uno all’altra nell’unità dell’esperienza 86

concreta. E questa esige un linguaggio comune, una comunicazione almeno immaginaria fra il medico e il malato”.28 Quest’esperienza diretta della malattia si esercita nel luogo che, in certo senso, conserva il male. Se ciò consente il formarsi di una conoscenza e di una dottrina, nel contempo suppone la disponibilità assoluta dei corpi. Una disponibilità diversamente motivata: dalle ragioni della malattia a quelle dell’etica, del servizio sociale, dell’assistenza. Tutte ragioni che riconducono al dominio, nel senso che suppongono un campo di forze capace di operare in questa direzione e, insieme, di trovare giustificazione per il suo operato. Una politica che genera sapere attraverso atti effettivi di potere. Nel secolo XVII le cure delle malattie nervose hanno assunto i modelli più vari e “si sono rafforzate come tecniche privilegiate della medicina”.29 Sono cure che si riveleranno fantastiche, ma che comunque daranno luogo a una psichiatria dell’osservazione. Tutto ciò è però sotteso da una ben strutturata economia di potere e di sapere, da una strategia in cui l’atto di forza produce un effetto di verità: meglio, l’atto di forza è principio di verificazione. Giustificazione etica e scientifica confluiscono – ora in forma diretta, ora in forma indiretta – con i motivi della convenienza politica; si sviluppa tra le diverse regioni uno scambio reciproco e di schemi teorici e di funzioni organizzative. Non a caso Foucault può, per esempio, scrivere che la coscienza della follia, che si fa valere lungo tutto il secolo XVIII, “è politica molto più che filantropica”; la distinzione tra internati e insensati matura nel quotidiano confronto tra “i libertini, i dissoluti, i figliuoli prodighi” e “uomini il cui disordine è d’altra natura, e la cui inquietudine è irriducibile”.30 “Il folle non è né la prima, né la più innocente vittima dell’internamento, ma il più oscuro e il più vistoso, il più insistente dei simboli della potenza che interna.”31 È questo un esempio illuminante, fra i tanti possibili, idoneo a dimostrare come la realtà del dominio si esplichi nella circolarità di sapere e potere, e trovi il massimo compimento nella manipolazione e nell’investimento dei corpi. Ciò avviene anche quando i corpi imprigionati dei malati 87

e dei dementi verranno liberati. La liberazione dei folli definirà un nuovo spazio per la follia: alle forme di liberazione corrisponderanno strutture nuove di protezione.32 I valori mitici della follia si costituiscono tramite una proliferazione di tecniche e di saperi, unita a un intervento organico e articolato sui corpi: “sotto i miti stessi c’era un’operazione, o meglio una serie di operazioni, che hanno silenziosamente organizzato il mondo asilare, i metodi di guarigione, l’esperienza concreta della follia”.33 È simbolico, in tal senso, il gesto di liberazione di Tuke, tanto più perché “causato da tutto un movimento di filantropia”.34 Foucault riassume alcune pagine di quest’autore, che, a nostro parere, rappresentano in modo efficace il significato di questa liberazione: Samuel Tuke racconta come fu accolto al Ritiro un maniaco, giovane e prodigiosamente forte, i cui accessi provocavano il panico intorno, e perfino tra i guardiani. Quanto entra nel Ritiro è carico di catene; è ammanettato; gli abiti che indossa sono avvolti di corde. Come giunge, gli vengono tolti i legacci e lo si fa pranzare coi sorveglianti; la sua agitazione cessa subito; “la sua attenzione sembrava interamente attratta dalla nuova situazione”. Viene condotto nella sua camera; l’intendente gli spiega che tutta la casa è organizzata nella più grande libertà e nel più grande conforto, e che non lo si sottoporrà a nessuna costrizione purché rispetti i regolamenti della casa e i principi generali della morale umana. Da parte sua, l’intendente aggiunge che si augura di non dover far uso dei mezzi coercitivi di cui dispone. “Il maniaco fu sensibile alla mitezza della cura. Promise di fare forza su se stesso.”35

Una semplice narrazione in cui appare un nuovo modo di “sapere” la follia, un’enunciazione diversa circa la natura del male e, così, della terapia: ma la novità dell’enunciato fa tutt’uno con la nuova irreggimentazione dei corpi. Non è più concepibile, almeno in linea di principio, una violenza diretta sul corpo, non è legittimo infliggere sofferenze alla carne; la liberazione del folle si effettua nel segno della paura: alla violenza diretta si sostituisce, però, la minaccia incombente delle punizioni: “il principio della paura, che difficilmente è diminuito nella follia, è considerato di grande importanza per la cura dei folli”.36 La violenza del discorso predomina sulla semplice costrizione fisica: “non si tratta di arginare una libertà che infuria, ma di delimitare e di esaltare una regione di 88

responsabilità semplice, dove ogni manifestazione della follia verrà abbinata ad una punizione”.37 Punizione e premio certificano e ribadiscono il perdurare dell’estraneità o l’adeguamento all’ordine e il rientro nella comune ragione. I corpi non devono essere violati nella loro integrità, ma resi docili; essi sono penetrati dai rituali; il rispetto delle regole significa l’interiorizzazione delle norme: la follia ha abbandonato il corpo che si lascia governare. In questa direzione il corpo è insieme dominato e attivo, l’interiorizzazione del rituale equivale a una cura morale: “il lavoro possiede in se stesso una forza di coercizione superiore a tutte le forme d’imposizione fisica, poiché la regolarità delle ore, l’esigenza dell’attenzione, l’obbligo di giungere a un risultato staccano il malato da una libertà di spirito che gli sarebbe funesta e lo impegnano in un sistema di responsabilità”.38 Il rituale muove i corpi, e chi lo rispetta manifesta innanzi allo sguardo altrui l’avvenuta interiorizzazione della norma, e quindi la partecipazione alla comune ragione. Lo sguardo altrui è criterio di giudizio: è quello sguardo che Tuke chiama il “bisogno di stima”.39 Sguardo che sorveglia e che giudica: “Sorveglianza e Giudizio. Si profila un personaggio nuovo che sarà essenziale nell’asilo del XIX secolo. Sta nascendo qualcosa che non è più repressione, ma autorità”.40 La storia della follia è, a suo modo, una storia della sorveglianza e della punizione; ha a che fare con la microfisica del potere. Siamo partiti da qui non solo per sottolineare la continuità che, sia pure implicitamente, sottende le ricerche foucaultiane,41 ma per mettere in evidenza come lo sguardo e il giudizio che si esercitano sul folle appartengono, o in ogni caso si relazionano, a un’economia di potere che sorveglia e punisce. Soprattutto a un insieme strategico che prende sino in fondo i corpi: Il medico ha potuto esercitare la propria assoluta autorità sul mondo dell’asilo soltanto nella misura in cui, fin dall’origine, è stato Padre e Giudice, Famiglia e Legge, mentre la sua pratica medica non faceva da tempo che commentare i vecchi riti dell’Ordine, dell’Autorità e della Punizione. È Pinel a riconoscere che il medico guarisce quando, lontano

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dalle terapeutiche moderne, mette in gioco queste figure immemorabili.42

Queste figure immemorabili, che il potere mette in gioco, sono eventi disciplinari: discipline, poiché in esse si struttura il sapere; discipline, perché rendono docili e impiegano corpi e anime. La ricerca di Foucault sulla nascita della prigione è uno scavo ulteriore intorno a queste “figure immemorabili”. Di esse si può dare memoria perché, in certo senso, se ne può delineare la genesi e la storia. In Sorvegliare e punire la sequenza corpo-sapere-potere si profila in modo più consistente, poiché è più fortemente caratterizzata la dinamica del dominio. Un potere, ancora una volta, esercitato prioritariamente sui corpi. È dalla manipolazione dei corpi che nasce lo spirito; l’avvento dello spirito inteso come costituzione di leggi in senso giuridico, in senso fisico-naturale: in senso lato, la lex naturæ. E, in particolare, della natura umana. Il corpo resta al centro di questo gioco, ed è per questa ragione che la ricerca di Foucault sulla prigione prende avvio dallo stato dei corpi. Il corpo del condannato: Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a fare “confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi”, dove doveva essere “condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre”; poi, “nella detta carretta, alla Piazza di Grève, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto patricidio bruciata con fuoco di zolfo, e sui posti dove sarà tanagliato sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme, e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le ceneri gettate al vento”.43

La narrazione della tortura continua. Tre quarti di secolo più tardi: ART. 17. La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino, d’inverno; alle cinque, d’estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al giorno saranno consacrate all’insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove d’inverno, alle otto d’estate.44

Un supplizio e un impiego del tempo; soprattutto due diverse condizioni del corpo. In ambedue le situazioni, i corpi tengono la scena; e di che altro si potrebbe parlare 90

se non di corpi? Eppure, appare quanto mai evidente la diversità fra il corpo torturato e quello semplicemente regolato. Si ha a che fare, certamente, con due rituali; ma quello che più conta è il diverso significato che, in essi, assumono gli stessi corpi. Una realtà pur sempre corporea, ma tuttavia non identica. Abbiamo preso in considerazione, fin dall’inizio, il fatto che il corpo non è una realtà assoluta, né, tanto meno, astratta; pare evidente, dunque, che esso prenda significato in relazione alle regole del suo movimento. Ha ragione Foucault quando scrive: “nulla è più materiale, nulla è più fisico, più corporeo dell’esercizio del potere”.45 Il corpo disciplinato, nella ritualità silenziosa che lo avvolge, è meno che mai esauribile nei limiti della sua figura, nei confini della carne. Il linguaggio che prescrive, in certo senso, estrania il corpo da se stesso; in ogni suo moto e figura, il corpo esce dai propri confini, si fa spirito.46 Il rituale, spazio ideale entro cui il corpo si muove, è, appunto, lo spirito. Esso non è ineffabile, non è la realtà dell’inferiore, ma la ragione della verità, il sapere che avvolge i corpi. Un sapere che prescrive e governa, che è potere: “il corpo è direttamente immerso in un campo politico; i rapporti di potere operano su di una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni”.47 Le operazioni sul corpo indicano pratiche di potere, ogni verbo configura una modalità d’esercizio ed evoca un campo disciplinare. La disciplina dei corpi è speculare al corpus disciplinare. Se si comprende questa relazione, si comprende il rapporto, del tutto peculiare, che intercorre fra sapere e potere.

3. Il “corpus” disciplinare Sapere e potere coincidono. La strategia è lo spazio della loro identificazione. Regime e verità non sono configurabili né come entità astratte, né come entità separate; forse, neppure come entità. Se sono determinabili sotto questo titolo, ciò avviene per una 91

ragione di comodo, e in forza d’una finzione ideale. Regime e verità non sono, d’altra parte, concetti distinguibili nettamente l’uno dall’altro, se non secondo quelle figure classiche dell’astrazione, che distinguono i concetti al fine di metterli più facilmente in relazione tra loro, secondo nessi di reciprocità, di convenienza, di subalternità. Uno schema glorioso di questa finzione, ma anche della macchina logica, è quello di struttura e sovrastruttura. Nei fatti, invece, regime e verità sono un’unità strategica: è allora lecito affermare, usando un gioco linguistico di reciprocità, che la verità di regime è anche regime di verità. Su questo Foucault non ha riserve: la verità non è al di fuori del potere, né senza potere (essa non è, nonostante un mito di cui bisognerebbe riprendere la storia e le funzioni, la ricompensa degli spiriti liberi, il parto delle lunghe solitudini, il privilegio di quelli che hanno saputo affrancarsi). La verità è di questo mondo, essa vi è prodotta grazie a molteplici condizioni. E vi detiene effetti obbligati di potere. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua politica generale della verità.48

Il sapere non è un’entità neutra; del resto, il potere non è quella realtà superiore o altra che si serve o asserve il sapere. Questa nozione è ormai d’uso comune; forse anche corretta, ma comunque secondaria in riferimento alla struttura caratterizzante il nesso sapere-potere. Se, come abbiamo visto, il nesso sapere-potere è, in primo luogo e fondamentalmente, un nesso strategico, esso va ricercato solo nelle condizioni del suo esercizio effettivo. Non è, dunque, metodologicamente formulabile, né praticamente eseguibile una ricerca intorno al potere-sapere, che non sia una ricerca storica. Non si tratta di una storia intesa come la ricostruzione “dei concatenamenti al di là delle successioni apparenti, come il legarne delle continuità ininterrotte”.49 Al contrario, la storia è un’analisi e una ricognizione delle trasformazioni discontinue. Non più una storia delle grandi continuità, che cancella le fratture e risucchia in unità semplice i frammenti, ma una storia in cui si cerca di scoprire l’esistenza delle interruzioni e delle cesure. La nozione di discontinuità ha mutato lo statuto della storia: 92

per la storia nella sua forma classica il discontinuo era nello stesso tempo il dato e l’impensabile; ciò che si offriva sotto forma di eventi, di idee o di pratiche sparse, e ciò che doveva essere aggirato, ridotto, cancellato dallo storico perché apparisse la continuità dei concatenamenti. La discontinuità era lo stigma dello sparpagliamento temporale che spettava appunto allo storico cancellare dalla storia. Essa è divenuta ora uno degli elementi fondamentali dell’analisi storica.50

Nel far storia, Foucault fa proprio il punto di vista di Nietzsche: non è possibile una storia totale, un affresco dell’assoluto; la storia “non deve essere altro che l’acutezza di uno sguardo che distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare le differenze e i margini – una specie di sguardo dissodante, capace di dissociarsi lui stesso e di eliminare l’unità di quest’essere umano, che è supposto capace di portarlo sovranamente verso il suo passato”.51 Un’analisi del nesso potere-sapere non può essere una galleria di forme allineate e concluse, ma un lavoro di dettaglio, di controllo delle trasformazioni minime senza scopo né destino. Così, non è possibile una storia del potere come semplice storia delle dottrine politiche, né quella del sapere come analisi dell’enunciato puro. Saperepotere formano un insieme di datità storico-strategiche, danno luogo a una complessità sintattico-politica. Il corpo è immerso in questo centro. Esso diviene forza utile e, contemporaneamente, corpo produttivo e assoggettato: tutto ciò suppone un “sapere del corpo e una signoria su di esso: questo sapere e questa signoria costituiscono quello che potremmo chiamare la tecnologia politica del corpo”.52 In tal senso, la politica è tecnologia più che tecnica, per quel tanto in cui il secondo termine rischia di avere una valenza essenzialistica e astratta. Al contrario, la tecnologia allude sempre a una destinazione specifica. La politica come operazione tecnologica, come intervento strumentato, non può essere ricondotta a una unità sovrana,53 né, tanto meno, essere dedotta da essa. La tecnologia esclude il produrre in generale e, come si diceva, interviene su un territorio delimitato e materialmente definito. Ora, un luogo reale non ha l’omogeneità di uno spazio ideale. Ciò comporta una costante modificazione degli apparati, un’alterazione dei 93

procedimenti, talvolta così radicale da mutare la qualità delle tecniche stesse. Ma c’è di più: una tecnologia non è solo un’entità variabile, ma anche un’entità mista: la non omogeneità dei luoghi fisici suppone la composizione delle tecniche. Poiché la politica non opera su territori ideali e omogenei, di fatto appronta e mette in atto tecnologie locali. Non può, perciò stesso, risolversi in una sintesi totale: ciò comporta discontinuità, disomogeneità, scarto fra intenzioni e pratiche, fra progetti e risultati, fra rappresentazioni ed eventi. Certo esistono raffigurazioni unitarie del politico, ma non sono nulla di più che sintesi dottrinarie. In fin dei conti, schemi utili tra tanti all’interno delle tattiche locali del potere. La politica delimita spazi operativi non deducibili gli uni dagli altri, e perciò neppure componibili secondo una gerarchia; è possibile, invece, ipotizzare interferenze, aggregazioni di fatto, capaci di modificare la morfologia dei rispettivi e differenziati domini. La politica sfugge all’unità di un modello sintetico generale, e a partire da campi di forze, materialmente intese, sviluppa organismi singolari logici e tecnici. In questo senso il potere non è una proprietà e gli effetti di dominazione non sono attribuibili a una “appropriazione”, ma a disposizioni tattiche, tecniche, funzionamenti.54 Contrariamente a tutta una tradizione che ritiene che il sapere può esistere solo là dove sono sospesi i rapporti di potere, si deve invece rilevare che esso si realizza direttamente come potere. Se analizziamo l’investimento politico del corpo, abbiamo modo di determinare questa circolarità. In tal senso, i corpi docili sono un’incarnazione del potere. Un potere incarnato non può essere diverso dai corpi stessi, ma deve rappresentarne l’immanente necessità; deve essere norma e legge. Le tattiche divengono pertanto dottrine, l’autorità natura, il disciplinamento corpus disciplinare. Il potere, lungi dal reprimere il corpo, ne dispiega le possibilità. L’assoggettamento non mutila né demolisce, ma valorizza i corpi; è una modalità ispettiva, un metodo, capace di rendere visibile la vera natura dei corpi. I corpi sono resi 94

docili non in forza del puro arbitrio, ma dalla legge necessaria e invincibile della natura. Il sapere, e in particolare il sapere scientifico, diviene la struttura necessitante o il principio naturale: la sintassi più propria attraverso cui il potere disegna le sue strategie e le esegue. L’Uomo Macchina di La Mettrie viene scritto in questo contesto e, simultaneamente, su due registri: quello anatomico-metafisico e quello tecnico-politico: “due registri ben distinti, poiché si tratta, da una parte, di sottomissione e utilizzazione e, dall’altra, di funzionamento e spiegazione”.55 Che cosa sta avvenendo di nuovo? Come si sta riorganizzando il campo del potere-sapere? Foucault risponde: “il momento storico delle discipline è il momento in cui nasce un’arte del corpo umano, che non mira solamente all’accrescersi delle sue abilità e neppure all’appesantirsi della sua soggezione, ma alla formazione di un rapporto che, nello stesso meccanismo, lo rende tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente”.56 Alla dinamica di queste strutture complesse fa riferimento Foucault quando dice che “il potere produce; produce il reale; produce campi di soggetti e rituali di verità”.57 Non è questa una teologia del potere. Neppure una teorizzazione dell’astratto produrre.58 Ogni produzione non può che essere determinata. Da questo punto di vista, la lezione di Marx rimane insuperata: “quando si parla di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato stadio dello sviluppo sociale, si parla della produzione di individui sociali”.59 Foucault, sotto questa angolazione, è totalmente interno alla lezione marxiana. Ciò non vuol dire che non si possa delineare una funzione generale o, in ogni caso, tipica del potere. Allo stesso modo in cui si può parlare di produzione in generale, si può affermare, senza riserve, che in generale il potere produce. Valga il confronto. In Marx infatti si legge: “la produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso qualcosa di complessamente 95

articolato che si dirama in differenti determinazioni”.60 In altri termini, l’astrazione è possibile; ha una funzione definitoria e perciò orientativa, ma essa stessa rinvia alla complessità dei dati reali, che la riempiono e in cui essa prende figura. La formula “il potere produce” è una definizione; meglio ancora, un corollario che consegue a un’analitica articolata del potere o, foucaultianamente, a una microfisica. Questo procedimento consente l’astrazione logica; in altri termini, legittima il fatto che ci si faccia un’idea del potere: un’idea da impiegare solamente come definizione utile, che in sé non descrive alcun potere e prende senso in forza di un riempimento materiale. Quando si dice che “il potere produce”, non si vuol dire che si sa una volta per tutte cos’è il potere. Infatti, del potere non si può dire cos’è, ma com’è. Un attento lettore di Nietzsche ha già appreso cosa significhi tramonto delle essenze. Solo perché non è più possibile formulare un’interrogazione legittima sul “che cosa”, non è più possibile porre alcuna essenza. L’ombra di Platone si ritrae poiché i modi d’esistenza non sono risolvibili come questioni d’essenza. Un procedimento che voglia determinare la realtà del potere deve, dunque, descriverne le modalità d’esercizio. Da esse risulta come il sapere sia l’altra faccia del potere e come il potere sia egualmente disseminato e complesso. Anzi, la specularità sapere-potere è tale che quanto sul piano epistemologico chiamiamo sapere nei fatti è potere. Per chiarire in modo corretto il significato di questa specularità, sgombrando così il terreno da molti possibili equivoci, vale la pena richiamare una distinzione tipica dell’epistemologia di Foucault: quella tra sapere e scienza.61 Tale distinzione mostra in che senso e per quale ragione le strutture del sapere tendono a coincidere, e alla fine a equivalere, con le strategie del potere, senza che, d’altra parte, sia tolta l’autonomia alle scienze. Il sapere, in sostanza, non coincide con alcuna scienza, ma con le “positività discorsive”. Allo stesso modo in cui il disciplinamento dei corpi individuali e dei corpi sociali non coincide immediatamente con alcun corpus disciplinare, così il sapere, come insieme di positività discorsive, non 96

coincide con alcuna delle singole scienze. Questa distinzione, se da un lato salva l’autonomia di ogni singola disciplina, dall’altro ne definisce le condizioni di formazione. In tal senso, ogni disciplina scientifica rinvia al sapere come sua condizione, senza tuttavia identificarsi con le condizioni che la generano. E, se vogliamo stare all’analisi delle condizioni, dobbiamo ricordare che se il sapere, come il potere, è un insieme strategico, allora esso delimita un campo di positività ed è determinabile come quell’insieme di unità discorsive in forza delle quali si definisce, come una regione storica entro cui le singole scienze appaiono e si sviluppano: un’epoca. I punti di forza trovano corrispondenza nelle positività discorsive. D’altra parte, che il sapere fosse un insieme di positività era cosa già da tempo nota all’epistemologia foucaultiana. Non era vista con pari chiarezza la positività del potere. Che non fosse tematizzata, non vuol dire che non ci fosse. In ogni caso, l’ultimo tratto delle ricerche di Foucault ha fatto chiarezza su questo punto, cercando di determinare al meglio il potere come insieme di operazioni positive. La determinazione analitica di queste pratiche deve liberarci “da una rappresentazione giuridica e negativa del potere, [rinunciando] a pensarlo in termini di legge, di divieto, di libertà e di sovranità”.62 Quest’analisi, in effetti, determina il potere sempre più in relazione al sapere e, nel contempo, esplica la dimensione di potere inerente al sapere. Il sapere, così inteso, non si può identificare, né confondere con alcun corpo disciplinare; tuttavia, è il territorio entro cui le scienze appaiono. Il loro sorgere non è segnato da una necessità metafisica, ma, qualora sorgano, si profilano sul terreno del sapere: “Le scienze... appaiono nell’elemento di una formazione discorsiva e su uno sfondo di sapere”.63 Il potere attiva immediatamente sapere, non nel senso di produrre direttamente scienza, ma nel senso di metterne in circolo le condizioni.64 La storia della sessualità documenta le modalità con cui il potere destina il sapere alla scienza, e, in questo caso, alla scientia sexualis. Se nasce una scientia sexualis, è il 97

potere “che ne sviluppa i dispositivi specifici”.65 Se la sessualità da pratica discorsiva si muta in un articolato apparato disciplinare, ciò accade perché essa appare come “un punto di passaggio particolarmente denso per le relazioni di potere”.66 Questo nesso è particolarmente istruttivo. Cosa è più corporeo del sesso? Anzi, il sesso fa tutt’uno col corpo. Eppure, proprio l’analisi del dispositivo di sessualità mostra quanto storico sia il dispositivo e quanto poco primordiale il corpo. Il corpo è intricato “in una grande trama di superficie dove la stimolazione dei corpi, l’intensificazione dei piaceri, l’incitazione al discorso, la formazione delle conoscenze, il rafforzamento dei controlli si legano gli uni con gli altri sulla base di alcune grandi strategie di sapere e di potere”.67 Le analisi foucaultiane e le nostre stesse considerazioni riconducono al corpo. Esse mostrano come le strategie più disparate del sapere e del potere siano calcolabili sul metro della corporeità: il corpo come “superficie d’iscrizione degli avvenimenti (laddove il linguaggio li distingue e le idee li dissolvono), luogo di dissociazione dell’Io (al quale cerca di prestare la chimera di un’unità sostanziale), volume in perpetuo sgretolamento”.68 Guilbert, nel suo saggio generale di tattica militare, scriveva: “Chi entri nelle nostre scuole di esercitazioni vedrà tutti quei disgraziati soldati in atteggiamenti costretti e forzati, vedrà tutti i loro muscoli in contrazione, la circolazione del sangue interrotta... Studiamo le intenzioni della natura e la costruzione del corpo umano e troveremo la posizione che essa prescrive chiaramente e il portamento da dare al soldato”.69 Foucault non poteva trovare un esempio migliore, una citazione che meglio articolasse, nella sua semplicità e stringatezza, le tre dimensioni che sono oggetto della sua analisi e della nostra riflessione: lo stato dei corpi, la disciplina dei corpi, il corpus disciplinare. Guardate i corpi: visibili, evidenti, reali. Su questi corpi cade lo sguardo del clinico, dello psichiatra, dello stratega militare; ma ogni sguardo che li avvolge li fa diversi. Certo non è lo sguardo di una coscienza individuale, né l’occhio del puro pensiero; 98

questa visione non discende da una singolare volontà, néda una decisione. È una prospettiva: il potere taglia il corpo; e così come lo taglia, lo vede. Il corpo è oggetto di un assoggettamento specifico che, come spesso abbiamo notato, prende avvio e trova significato in una tattica oggettiva di organizzazione. Una tecnica di assoggettamento che si integra al corpo e lo potenzia, e che dominando produce, manifesta e sviluppa le possibilità latenti dei corpi. In questo senso il potere è ragione di conoscenza; se il dominio libera le possibilità latenti dei corpi, i corpi mediano il sapere e le scienze. Possiamo ormai assumere, se non altro come consolidata opinione, che sapere-potere costituiscono il territorio composito entro cui circolano le positività discorsive. E quindi lo spazio storico, e perciò reale, che delimita le possibilità d’essere delle scienze. Da questo punto di vista, le scienze sono opere della politica.

4. “Potentia est scientia” Scientia est potentia: è vero, ma non più nel senso di Bacone. In quest’aforisma, il filosofo inglese avvertiva, a suo modo, il legame profondo che intercorre fra sapere e potere. Ma in lui la potenza è e resta, soprattutto, un risultato. La scienza è destinata all’incremento della potenza umana: “L’unica meta vera e legittima di tutto il cammino delle scienze è quella di dotare la vita umana di nuove scoperte e sostanze”.70 La logica baconiana, nonostante avesse colto la circolarità di scienza e potenza, privilegiava indubbiamente il primo termine della proposizione: la scienza. È, certamente, questo il senso esplicito del pensiero di Bacone. Ma, se ci si arresta a questo punto, non si scopre il senso profondo dell’innovazione baconiana; soprattutto, non si riesce a comprendere la sua specificità storica, poiché non se ne portano alla luce le radici. Quel che c’è di peculiare nella filosofia di Bacone, in quanto accadimento storico, consiste essenzialmente nel fatto di rappresentare uno sblocco epistemologico. “L’estensione dei metodi disciplinari,” dice Foucault, “si 99

iscrive in un vasto processo storico; per converso, la moltiplicazione degli effetti di potere è possibile grazie alla formazione e al cumulo di nuove conoscenze.” Se la proposta baconiana si considera in questa prospettiva, essa diventa un evento paradigmatico del nesso poteresapere. Infatti, se invece di considerare il discorso di Bacone in relazione al contenuto espresso, ci si interroga su di esso in quanto accadimento storico, allora esso appare in un’altra luce: rinvia alle sue condizioni di possibilità. La filosofia baconiana è possibile, poiché è sottesa da un insieme di pratiche disciplinari che, oltre a essere tattiche politiche, instaurano metodi influenti sulle modalità di giudizio e, quindi, sulla logica stessa. Per questo analizziamo Bacone. È bene soffermarsi su quest’evenienza storica per valutare, nello specifico, cosa significa attivazione di un metodo. Foucault avanza, sia pure per accenno, una proposta interpretativa della filosofia di Bacone. Egli riconduce il metodo baconiano, e in generale la nascita della scienza moderna, alla sua matrice specifica di potere. La concezione moderna della scienza può essere interpretata come un effetto a distanza di una nuova organizzazione delle procedure di potere. Secondo l’indicazione di Foucault, la scienza moderna nasce a partire dalle procedure giudiziarie e di inchiesta inventate nel tardo Medioevo. Le scienze della natura – si legge in Sorvegliare e punire – in ogni caso nacquero in parte, alla fine del Medioevo, dalle pratiche dell’inchiesta. La grande conoscenza empirica – che ha scoperto le cose del mondo e le ha trascritte disponendole nell’ordine di un discorso indefinito, che constata, descrive e stabilisce i “fatti” (e ciò nel momento in cui il mondo occidentale cominciava la conquista economica e politica di questo stesso mondo) – trova senza dubbio il suo modello operativo nell’Inquisizione, questa immensa invenzione che la recente dolcezza ha posto nell’ombra della nostra memoria... Alle soglie dell’età classica, Bacone, l’uomo della legge e dello Stato, tentò di costruire per le scienze empiriche la metodologia dell’inchiesta.71

Secondo Foucault, la filosofia baconiana rappresenta uno degli esiti più alti di quello sblocco epistemologico avvenuto alla fine del Medioevo: prima ancora d’essere un fatto scientifico, essa è una mutazione della cultura. 100

Il sapere sperimentale generalizza il metodo dell’inchiesta, come ricerca autoritaria di una verità constatata e attestata. La procedura dell’esame si opponeva, infatti, alle antiche procedure del giuramento, dell’ordalia, del duello giudiziario, del giudizio di Dio, in quanto fondava, per la prima volta, la verità sul fatto accertato. Il metodo baconiano dell’induzione sorge all’interno di questa generale riorganizzazione del potere ed è un’estensione, sia pure per analogia, del principio che la verità coincide con gli attestati dell’esperienza. Su questi attestati si organizza poi il sapere. Il nucleo centrale della filosofia di Bacone concerne la possibilità di una conoscenza vera: ora, la scienza è conoscenza oggettiva perché è guadagnata tramite una logica della scoperta e dell’invenzione, che si commisura costantemente con il riscontro dell’esperienza. Poiché la scienza è conoscenza oggettiva della natura delle cose, essa è – proprio per questo – mezzo necessario e insostituibile di dominio. La potenza è, in certo senso, una causa finale, un destino antropologico: il regnum hominis. La scienza appartiene alla ragione strumentale. Considerata in se stessa, come modello di conoscenza, è verità e ha l’autosufficienza della verità; ma ciò non toglie che la sua effettiva genesi sia procedurale. Essa consegue a una mutazione epistemologica e appartiene a un’epoca: è, infatti, parto maschio del tempo, temporis partus masculus. Ma è qui, nel rilevamento di tale storicità, che l’intuizione baconiana si fa lacerante. È vero che per Bacone la scienza è conoscenza della natura immutabile degli elementi, e perciò delle cose; è vero che la potenza più che un fatto è considerata un progetto. Ma questo è solo un aspetto della questione: esso riguarda, propriamente, il momento programmatico della sua filosofia, l’Instauratio Magna. Istituzione di un nuovo ordine di pensiero e di un nuovo modo di sapere come condizione di un destino umano più alto: in sostanza, in Bacone la critica della logica e della gnoseologia si muovono e si sviluppano all’interno di una filosofia della storia. Egli vuole aprire una direzione di sapere che 101

dovrebbe coincidere o, in ogni caso, inaugurare una nuova epoca del mondo. Bacone si fa critico del suo tempo in quanto, in primo luogo e soprattutto, si fa critico del sapere del suo tempo. La critica dell’epoca comporta un’analitica dell’epoca: in quanto critico del suo tempo, ne è anche figlio e interprete. Per questo nell’opera baconiana c’è un non detto che bisogna portare alla luce. Il non detto di Bacone non è il taciuto, né il nascosto dietro le parole e il linguaggio; il non detto di Bacone è tutto scritto: è la sua opera. L’opera baconiana dice altro – dice appunto il non detto – solo che la si legga secondo i modi della scrittura e non secondo le intenzioni. Le intenzioni espresse, il cosiddetto programma dell’opera, sono momenti e non chiave della scrittura: come tali non risolvono il senso dell’opera e neppure del discorso. Il non detto di un’opera non è il non espresso, ma è l’espressione come momento vivo dell’opera, è la pagina aperta non fissata da un’assunzione di metodo, né inquadrata nel progetto da realizzare. In questo senso, la vita della scrittura scorona l’autore; si dà un’inversione di rapporti, la causa diviene effetto, il principio risultato. È una questione strettamente epistemologica ed ermeneutica; ma non è necessario scomodare l’epistemologia per capire come avvengono queste cose. Sono le cose che fa ogni storico. Il più documentarista degli storici, il più filologo dei filologi, nella più quotidiana delle sue pratiche decodifica testi; discioglie l’autore nella scrittura anche quando si illude di ritrovarlo in questa; pur non sapendolo, libera il testo dall’ipoteca dell’autore, esplicita, a suo modo, il non detto della scrittura nel detto delle positività discorsive a essa immanenti. Il non detto è, dunque, il sapere in quanto rovescio costante di questa scrittura: nel testo circola l’insieme della positività per cui un’opera è sempre di un’epoca. Smontare non vuol dire trovare qualcosa di segreto dentro o al di sotto di un testo, ma avere in mano i pezzi del discorso, disporre di quelle unità che generano i sistemi e le stesse intenzioni. Tale ragionamento potrebbe 102

valere per ogni scrittura. Ma, se lo abbiamo introdotto, lo abbiamo fatto per mettere in evidenza quale sia il sapere che, in Bacone, sottende l’intenzione; per portare alla luce la differenza, inerente alla stessa scrittura baconiana, tra l’esibizione esplicita e programmata del modello e le pratiche discorsive da cui essa emerge. Facendo nostra la distinzione foucaultiana, possiamo dire che la scienza di cui parla Bacone non è il sapere di Bacone. Il progetto di Bacone si forma in un’economia già data di positività; la sua idea di scienza, quale momento intenzional-progettuale della scrittura, emerge da un sapere che sta prima di chi scrive e si riverbera nella scrittura. Ma in Bacone ci interessa la particolare curvatura entro cui si configura la sua idea di scienza. La pars destruens dell’opera baconiana è la vera pars construens, e dà significato a quella parte del suo pensiero che, esplicitamente, è contrassegnata da questo nome. La critica alle vecchie forme di sapere, prima ancora di essere una dissoluzione di tali forme, ne è una variazione e un impasto. Quello che di più istruttivo vi è in questa critica è dato dal fatto che, criticando, Bacone analizza e descrive, indirettamente, le positività discorsive a cui egli stesso appartiene. La demolizione baconiana degli idola è anche e soprattutto una denominazione delle funzioni operative dei discorsi (altro problema è il giudizio di verità e falsità che nedà Bacone). È, comunque, espressione della “sintassi” di sapere e potere. Bacone è più che un critico dell’ideologia; la sua opera, a suo modo e nei fatti, è un’analitica dei dispositivi di sapere e quindi dell’organizzazione di potere a essi connessa. Tra la potenza dei discorsi (l’insieme dato di potere e sapere) e il progetto di potenza (scientia est potentia) sta la scrittura baconiana. Bacone esibisce come progetto e perfeziona come destino quanto già intravede nelle pratiche di potere. Solo che rovescia il fatto di principio, il dato in compito. La sua opera è riflesso delle procedure che la generano: per questo è un’anticipazione e un presagio. La circolarità di sapere e potere, già in atto nella pratica del dominio, è nella filosofia di Bacone qualcosa da guadagnare per il dominio. Nel segno della 103

scienza. L’analisi, o più propriamente la proposta di analisi, della filosofia di Bacone che Foucault ha avanzato è troppo poco elaborata per poterla ritenere probante. Tuttavia, essa ci pare, in linea di principio, un’argomentazione plausibile; di fatto, un’indicazione intelligente di ricerca. Per questo ci siamo soffermati su di essa. Ma non è qui il punto. In ciò che Foucault dice di Bacone, quel che per noi risulta di maggiore interesse non riguarda la proposta storiografica quanto il criterio epistemologico. Un criterio che, in primo luogo, esplora il non detto delle filosofie. In questo caso si tratta di Bacone, ma Foucault usa lo stesso procedimento per diverse esposizioni dottrinarie e disciplinari. Egli non si limita a un’esegesi puntuale del testo, cioè a una pura e semplice filologia; al contrario, riferisce il testo al campo disciplinare cui appartiene (corpo disciplinare che, in genere, è un corpo misto di discipline) e riconduce le opere al genere, ossia a un universo di discorso definibile, materialmente, come campo storico. È questo il primo guadagno e su di esso già ci siamo a lungo soffermati. In secondo luogo, si ha a che fare con un criterio che fa cadere l’illusione dell’autore, cioè toglie di mezzo il rapporto causale univoco, autore-opera, a vantaggio dell’esplicazione delle condizioni di possibilità che producono opera e autore insieme. In questa prospettiva, ne va del senso e del significato stesso delle teorie. In sostanza, l’epistemologia di Foucault mostra come il nesso di potere e sapere non sorge dalla giustapposizione di due dimensioni radicalmente separate, non si costituisce neppure in forza del congiungimento di elementi atomici ed estranei l’uno all’altro, ma, al contrario, risulta essere un intrico, un reticolo di strategie, che sono potenti perché sanno, e sanno perché sono potenti. Se l’implicazione di sapere e potere è di questo tipo, l’aforisma di Bacone è suscettibile di rettifica. Se è vero che il sapere è condizione del potere, è pur vero che il sapere si sviluppa sempre a partire da un potere a suo modo consolidato e che ha incorporato in sé un patrimonio 104

già stratificato di conoscenze, ed è per ciò stesso condizionante. Ha ragione Nietzsche, quando dice che la volontà di verità “è una parola per la volontà di potenza”. L’enunciato di Nietzsche perfeziona e rigorizza quello di Bacone. Non si tratta, infatti, di un rovesciamento, bensì di un completamento. Il punto di vista nicciano espone questo tipo di coordinazione: se scientia est potentia, allora potentia est scientia. Le due proposizioni rappresentano momenti formalmente distinti di una stessa esistente unità. Se Foucault ha un merito peculiare, esso consiste proprio in ciò: nell’aver mostrato, sul campo, la circolarità di sapere e potere. Quando si dice che la potenza produce la scienza, non si intende dire che produce la scientificità delle scienze. Il sapere produce le scienze come eventi. Esse esistono in quanto insorgono nel territorio del sapere, cioè a dire in quella circolazione non del tutto scientifica (nel senso della logica delle scienze e dei corpi disciplinari in sé considerati) di pratiche discorsive, di sterminati campi d’operazione e quindi di esercizio di potere. Foucault ha messo a punto un’analitica del potere-sapere e, in tal senso, ha elaborato una topologia del dominio. Ma un altro è il nostro guadagno: il potere mette in gioco i discorsi; i discorsi sviluppano azioni. Infine, prendono i corpi vivi. In una microfisica del potere, i corpi rappresentano le dimensioni atomiche messe in gioco. In altro modo, in essi si fa visibile il gioco stesso. La storia del potere è anche una storia dei corpi e una scienza dei corpi. Nello spazio di questa reciprocità diviene comprensibile ogni storia, anche una storia individuale. Perfino una memoria è rivelatrice della sequenza corpopotere-sapere: “Io Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, e volendo far conoscere quali sono i motivi che mi hanno condotto a questa azione, ho scritto tutta la vita che mio padre e mia madre hanno condotto durante il loro matrimonio”.72 Le prime parole di questa memoria, che è stata oggetto di una ricerca foucaultiana, indicano come una storia individuale, un caso, diventa il centro di innumerevoli e complicate 105

relazioni, un avvenimento attorno al quale “sono venuti a incrociarsi discorsi di origine, di forma, di organizzazione e funzione diverse”.73 Un caso in cui si ritrova “il gioco di questi discorsi, come armi, come strumenti di attacco e di difesa in rapporti di potere e di sapere”.74 La circolarità pare ormai sufficientemente dimostrata. Dagli eventi singolari all’evento storico nel suo complesso. Sul filo conduttore del corpo.

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Note 1

M. FOUCAULT, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 138. M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976. Il testo heideggeriano è esplicito: “Il far-avvenire concerne la presenza di ciò che di volta in volta viene all’apparire nella pro-duzione. La pro-duzione conduce fuori dal nascondimento nella disvelatezza (Das Her-vor-bringen bringt aus der Ver-borgenheit her in die Unverborgenheit vor)” (ivi, p. 9). 3 “La tecnica moderna,” dice Heidegger, “intesa come il disvelare impiegante (das bestellende Entbergen) non è un operare puramente umano. Per questo bisogna che prendiamo così come essa si mostra quella provocazione che richiede (stellt) l’uomo a impiegare (bestellen) il reale come ‘fondo’. Quella provocazione raccoglie l’uomo nell’impiegare. Questo raccoglimento concentra l’uomo nell’impiegare il reale come ‘fondo’” (ivi, p. 14). 4 Ivi, p. 12. 5 Tutto è segno. Bisogna però notare che il segno non è una cosa fra le altre cose, ma esso in tanto significa in quanto rinvia a un sistema generale di segni. Su questo tema cfr. C. SINI, Semiotica e filosofia, il Mulino, Bologna 1978. Si vedano in particolare i capitoli IV e V. 6 La questione del linguaggio e i problemi del significato costituiscono i motivi propri della filosofia contemporanea. L’elaborazione teorica di Foucault si sviluppa all’interno di questo orizzonte. Di ciò lo stesso Foucault dà testimonianza: “Intorno al 1950, come tutti quelli della mia generazione, ero preoccupato, di fronte al grande esempio di questi nuovi maestri e sotto la loro influenza, del problema della significazione. Ci siamo tutti formati alla scuola della fenomenologia, alle analisi immanenti al vissuto, delle significazioni implicite nella percezione e nella storia... Per quelli della mia generazione il senso non appare da solo, non ‘c’è già’ o, piuttosto, ‘c’è già’, sì, ma sotto un certo numero di condizioni che sono formali” (Conversazioni con Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, a cura di P. CARUSO, Mursia, Milano 1969, p. 94). Alla domanda che richiede ulteriori precisazioni sui propri ascendenti culturali, Foucault risponde indicando quattro nomi: Blanchot, Bataille, Dumézil, Lévi-Strauss. “Credo,” egli dice, “che, per Bataille e per Blanchot, l’esperienza dell’erotismo nell’uno e del linguaggio nell’altro, intese come esperienze della dissoluzione, della scomparsa, del rinnegamento del soggetto (del soggetto parlante e del soggetto erotico), mi abbiano suggerito il tema, semplificando un po’ le cose, che ho trasportato nella riflessione sulle analisi strutturali o ‘funzionali’ alla maniera di Dumézil o di Lévi-Strauss. In altri termini: la struttura, la possibilità stessa di fare un discorso rigoroso sulla struttura, ritengo ci porti a tutto un discorso analogo a quello di Bataille e di Blanchot” (ivi, pp. 120-121). Non bisogna dimenticare che dietro Bataille c’è Sade e, soprattutto, Nietzsche, spesse volte invocato nella stessa conversazione. D’altra parte, l’attenzione di Foucault alle analisi strutturali e alle variazioni funzionali non deve far dimenticare un suo diverso, ma altrettanto decisivo, ascendente: G. Bachelard. Lo spostamento dal soggetto-coscienza, venga esso inteso nella sua connotazione sia spirituale sia trascendentale, alla struttura pone il problema dell’“individuazione” e della “trasformazione” a un altro livello. Appunto 2

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quello morfologico-strutturale. Per decifrare queste dimensioni, bisogna valutare la natura e la plausibilità del linguaggio scientifico. Ancora una volta, sia pure in diversa dimensione, ritorna la questione della genesi e della trasformazione di un linguaggio e di una sintassi. A questo punto, la genealogia incrocia l’epistemologia, la storia esterna quella interna dei saperi. Sotto quest’aspetto, Foucault si colloca all’interno di una diversa dinastia, ossia nell’orizzonte teorico che è dell’epistemologia storica. Redondi fa notare che la posizione di Foucault “si situa, non c’è alcun dubbio, nella tradizione bachelardiana. Foucault ha fatto propria la radicale messa in discussione dell’immagine classica della filosofia come momento sintetico unificante del sapere, messa in discussione aperta da Bachelard. Di fatto l’impresa di Foucault è costantemente dominata, anche nelle sue parti più felicemente innovatrici, dal senso della crisi della filosofia tradizionale, dato che, con il costituirsi dei domini delle scienze umane, il linguaggio, l’inconscio, il sociale, l’economico sono diventati oggetto di indagine autonoma rispetto all’orizzonte unitario del discorso filosofico che le inglobava nell’etica e nella teoretica” (La verità degli eretici, a cura di P. REDONDI, il Saggiatore, Milano 1978, p. 34. Su questo argomento, dello stesso autore cfr. Epistemologia e storia della scienza, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 225-246). L’epistemologia di Foucault raccoglie queste diverse tradizioni ed emerge da esse; se non rappresenta un fenomeno teorico assolutamente innovativo, come certe mode culturali hanno voluto far credere, non è da considerare neppure un fenomeno secondario o banalmente eclettico, come una facile quanto gratuita denigrazione l’ha fatto apparire. L’epistemologia di Foucault, al contrario, determina con sufficiente rigore le condizioni d’esistenza di un enunciato e la logica delle variazioni. La complessità del quadro teorico e la ricchezza dei riferimenti storico-materiali, in taluni casi, rendono gratuiti i passaggi e molto spesso non del tutto controllate le inferenze. Ma sia l’assunto teorico sia i contenuti indagati sono elementi sufficienti per assegnare a Foucault una qualità nobile nel panorama della produzione culturale contemporanea. A nostro parere, ha ragione Sini quando scrive che “il fondo problematico del lavoro di Foucault rinvia in realtà a questioni molto più essenziali, connesse ai grandi temi del pensiero contemporaneo... in breve: Foucault è un intelligente allievo di Husserl (poi ripudiato), di Nietzsche (sempre rivendicato), di Bachelard e di De Saussure (profondamente modificati), e infine di Heidegger (mai riconosciuto in modo esplicito, per intuibili ragioni ‘ideologiche’, o – se si preferisce – ‘umane troppo umane’)” (C. SINI, op. cit., p. 160). 7 In proposito, ci pare illuminante la notazione di Sini circa il nesso tra segno e realtà in Peirce: “‘Reale’, dunque, è un segno, ovvero, ciò che chiamiamo ‘reale’ non è una mera ‘cosa’, un mero ‘fatto’, semplicemente e univocamente collocato al di là della catena infinita delle inferenze, ma è invece un fatto interno, o un significato, di quella catena” (C. SINI, op. cit., p. 34). 8 L’analisi del linguaggio, in Foucault, si determina come articolazione del nesso intercorrente fra enunciato e discorso. Egli muove dalla premessa, peraltro condivisibile dal punto di vista di un’analisi differenziale, che “lingua” ed “enunciato” non si trovano allo stesso livello d’esistenza. La “lingua”, infatti, non è mai data in se stessa e nella sua totalità, cosa che invece accade all’“enunciato”. D’altra parte, l’enunciazione avviene solamente in una lingua. In buona sostanza, non esisterebbe alcuna lingua senza l’enunciazione, ma nessun enunciato è necessario all’esistenza di una lingua. “La lingua,” dice Foucault, “esiste solo come sistema di costruzione per dei possibili enunciati; ma sotto un altro aspetto essa esiste solo come descrizione (più o meno esauriente) ottenuta sulla base di un insieme di enunciati reali” (M.

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FOUCAULT, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1972, p. 100). A questa considerazione Foucault fa seguire un’esemplificazione che chiarisce a sufficienza il suo pensiero: “la tastiera di una macchina da scrivere non è un enunciato; ma proprio questa serie di lettere, O, Z, E, R, T, enumerate in un manuale di dattilografia, costituisce l’enunciato dell’ordine alfabetico” (ibidem). L’esempio mostra come l’enunciato non può mai esaurire la lingua: tuttavia è nella lingua, poiché il linguaggio costituisce la condizione necessaria per l’essere dell’enunciato. Benché l’enunciato sia costituito nel segno della lingua, ha tuttavia una sua connotazione materiale finita. Tutto ciò però non consente di identificare un enunciato a una cosa: la sua finitezza non è pura e semplice cosalità. L’enunciato, per quanto sia un fatto materiale, situato in coordinate spazio-temporali, non è riconoscibile una volta per tutte e secondo un perimetro definito, poiché si determina in un sistema di successioni e di variabili. L’enunciato non è dunque “un’unità dello stesso genere della frase, della proposizione o dell’atto del linguaggio; non dipende, dunque, dagli stessi criteri; ma non è neppure un’unità come potrebbe esserlo un oggetto materiale che ha i suoi limiti e la sua indipendenza” (ivi, p. 101). Stando così le cose, per l’enunciato non si è nelle condizioni di individuare criteri di unità strutturale. Tuttavia, “esso, nella sua singolare maniera di esistere (né completamente linguistica, né completamente materiale), è indispensabile perché si possa dire se c’è o non c’è frase, proposizione, atto di linguaggio; e perché si possa dire se la frase è corretta (o accettabile, o interpretabile), se la proposizione è legittima e ben formata, se l’atto è conforme ai requisiti e se è stato bello e ben effettuato” (ibidem). Ci è parso utile introdurre preliminarmente queste precisazioni, perché i corpi disciplinari sono fatti linguistici e insieme sistemi limitati di enunciazione. Essi sorgono, si attivano e si trasformano nell’ambito delle pratiche discorsive che sono pratiche di potere. In tal senso l’enunciato è “atomo del discorso”; Foucault dice: “punto senza superficie, ma che può essere rintracciato in piani di ripartizione e in forme specifiche di raggruppamenti” (ivi, p. 94). Sotto questo aspetto, l’enunciato è rintracciabile per dislocazione e raggruppamento. Ha quindi ragione Sini quando dice che “l’enunciato appare, come una sorta di ‘elemento residuo’: estratta la forma grammaticale, la struttura logica, l’operazione illocutoria, resta qualcosa di meno formale (è il ‘di meno’ dell’enunciato), e tuttavia di onnipresente, che è sì posto in gioco in tutti i livelli del segno linguistico considerati (in generale, come ciò attraverso cui i segni si manifestano nelle modalità che sono loro proprie), ma che non è afferrabile o descrivibile mediante i termini strutturali di quei livelli stessi” (C. SINI, op. cit., p. 198). 9 Il corpo è un’individuazione dello spazio e uno spazio individuato. I due momenti, non separabili l’uno dall’altro, hanno, tuttavia, significati distinti; l’individuazione dello spazio coincide con una sua materializzazione, e il corpo la realizza pienamente: in generale, materializza lo spazio e insieme lo rende discontinuo in quanto lo fa suscettibile di unità discrete. Da questo punto di vista, si dà una progressiva coincidenza di spazio e materia. Se l’individuazione allude alla distribuzione discontinua dello spazio in generale, lo spazio individuato è la risultante specifica o il momento singolare di questa distribuzione. Per comprendere la distribuzione dello spazio, ossia la sua articolazione in momenti singolari, bisognerebbe riconoscere quella che, in certo senso, potremmo definire la proprietà commutativa dello spazio. In ogni caso, lo spazio è sezionato e quindi prospetticamente definito. E una prospettiva è sempre data da un rapporto fra spazio e visione: una qualsiasi determinazione dello spazio, e così pure dell’esteso, è data dall’intersezione delle due dimensioni.

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Per tornare al nostro tema, il dispiegamento del corpo in superficie può essere compreso a partire da un’analitica dello sguardo. È lo sguardo, infatti, che taglia le superfici e ne delinea la visione. Lo sguardo, infine, è una prospettiva e un punto di vista. La prospettiva indica la dimensione statica entro cui si assesta la visione e in forza della quale si definisce uno spazio e se ne formula lo statuto. Il punto di vista allude, invece, al momento mobile della visione e quindi alla modificazione del significato delle superfici. Infatti, ogni prospettiva è anche un punto di vista, e ogni punto di vista può divenire una prospettiva. Esiste quindi una storia dello sguardo, e pertanto una moltiplicazione del significato di spazio, materia, corpo. Per una ricognizione epistemologica in questa direzione è di estremo interesse la Nascita della clinica di Foucault. Essa è un’analisi dell’evoluzione dello sguardo medico e, soprattutto, delle condizioni che lo hanno progressivamente modificato. Nella prefazione all’opera l’autore nota: “Le figure del dolore non sono scongiurate a favore d’una conoscenza neutralizzata; esse sono state redistribuite nello spazio in cui s’incrociano i corpi e gli sguardi. Ciò che è cambiato, è la sorda configurazione in cui il linguaggio trova sostegno, il rapporto di situazione e di postura tra ciò che parla e ciò di cui si parla” (M. FOUCAULT, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, P.U.F., Paris 1963; tr. it. Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969, p. 5). 10 L’articolazione dello spazio è un processo di differenziazione, che per essere eseguito esige l’introduzione di figure dinamiche o di funzioni. Ogni funzione si differenzia e differenzia perché istituisce modalità diverse di rapporto. Di fatto, essa delimita un campo di operazioni: ogni spazio così determinato risulta, allora, un luogo strategico, sia pure quando si tratta di strategie razionali. Lo spazio non è mai un’entità assoluta, non lo è neppure in quelle teorie scientifiche o in quei sistemi filosofici dove l’assolutezza pare esplicitamente formulata. Perfino in quei contesti lo spazio è più una funzione argomentativa, e cioè una risoluzione strategica, che un’entità sussistente per sé. Non è nostro compito analizzare una tale questione in questa sede; ciò è detto per un unico scopo: lo spazio non è assoluto in sé, né coincide con la semplice cosalità dei corpi, assunta, essa pure, assolutamente. La posizione stessa dello “spazio assoluto” è una funzione categoriale, che dovrebbe essere analizzata, oltre che dal punto di vista della forma, da quello della genesi. In ogni caso, poiché lo spazio è istituito e appartiene a una logica funzionale, non può essere mai inteso come una semplice cosa, ma deve essere ricondotto a una strategia conoscitiva. Su questo conviene un pensatore come Cassirer quando sottolinea il fatto che nella filosofia di Kant spazio e tempo non sono cose, ma fonti di conoscenza: “tutto il loro ‘essere’ infatti si risolve nel significato e nella funzione che essi hanno in quel complesso di giudizi che chiamiamo scienza, geometria o aritmetica, fisica matematica o empirica... Sia lo spazio sia il tempo significano una sola legge fissa della mente, uno schema di allacciamento mediante il quale tutti i contenuti percepiti sensibilmente vengono posti in determinate relazioni di concomitanza spaziale e di successione temporale, l’uno accanto all’altro e l’uno dopo l’altro” (E. CASSIRER, Zur Einsteinischen Relativitätstheorie, Berlin 1920; tr. it. Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 549). Cassirer, mantenendosi fedele ai moduli kantiani, ci dice che lo spazio è uno “schema di allacciamento”: non una cosa, ma una fonte di conoscenza. Questa definizione ci basta; se ci ponessimo da un punto di vista genealogico, potremmo forse ridurre queste fonti immutabili della scienza a strategie del sapere. Un confronto epistemologico e storico con il grande studioso tedesco. Ma, per fare ciò, sarebbe necessario impostare un’accurata indagine

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archeologica. 11 “La padronanza, la coscienza del proprio corpo non si sono potute raggiungere che per effetto dell’investimento del corpo da parte del potere: la ginnastica, gli esercizi, lo sviluppo muscolare, la nudità, l’esaltazione del bel corpo... tutto questo è nella linea che conduce al desiderio del proprio corpo attraverso un lavoro insistente, ostinato, meticoloso che il potere ha esercitato sui corpi dei bambini, dei soldati, sul corpo in buona salute... Il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso” (M. FOUCAULT, Potere-corpo, in Microfisica del potere, cit., p. 138). 12 Ibidem. 13 M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 7. 14 La segregazione, prima praticata nei confronti dei lebbrosi, viene applicata in generale ai malati. Per un certo periodo i venerei paiono essere i successori diretti dei lebbrosi, ma non toccherà loro definitivamente questo ruolo. Sarà dei folli. E l’esclusione non avverrà nella forma negativa dell’allontanamento, ma nella forma positiva dell’internamento. Su questo cfr. M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l’âge classique, Paris 1972; tr. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976, p. 77. 15 Ivi, pp. 91-92. 16 Compelle intrare. Foucault sceglie le parole del Vangelo, in modo quanto mai appropriato, per significare il grande internamento, che ha luogo nel secolo XVII. “È noto,” egli dice, “che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma è meno noto che in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso. Si sa che il potere assoluto ha fatto uso di lettres de cachet e di misure arbitrarie di imprigionamento; ma non si riconosce altrettanto bene la coscienza giuridica che poteva animare queste pratiche” (ivi, pp. 70-71). 17 Ivi, p. 71. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 73. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 75. 22 Ivi, p. 81. 23 Ivi, pp. 93-94. 24 Foucault, a comprova di questo, adduce diverse fonti; cfr. in proposito Storia della follia, cit., pp. 116-117. A titolo d’esempio, citiamo: “quando Howard visita la casa di lavoro di Berlino, nel 1781, vi trova mendicanti, ‘vagabondi’, ‘furfanti e libertini’, ‘infermi e criminali, vecchi indigenti e bambini’. Per un secolo e mezzo l’internamento sviluppa in tutta l’Europa la sua monotona funzione: le colpe sono livellate, le sofferenze alleviate” (ivi, p. 117). 25 Cfr. ivi, p. 116. 26 Su questo tema la posizione di Foucault è quanto mai esplicita: “L’internamento non ha avuto solo una parte negativa, di esclusione, ma anche una parte positiva di organizzazione. Le sue usanze e le sue regole hanno costituito un dominio d’esperienza che ha avuto la sua unità, la sua coerenza e la sua funzione. Esso ha ravvicinato, in un campo unitario, personaggi e valori tra i quali le culture precedenti non avevano percepito alcuna somiglianza; li ha impercettibilmente dirottati verso la follia, preparando un’esperienza – la nostra – nella quale essi si dimostreranno più

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integrati al dominio d’appartenenza dell’alienazione mentale. Perché questi ravvicinamenti venissero fatti, è stata necessaria tutta un’organizzazione del mondo etico, nuove linee di separazione tra il bene e il male, tra il riconosciuto e il condannato e l’istituzione di nuove norme nell’integrazione sociale” (ivi, pp. 118-119). 27 Ivi, p. 337. 28 Ivi, pp. 337-338. 29 Su questo tema cfr. Medici e malati, in M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., pp. 337-378. 30 Cfr. M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., pp. 446-450. 31 Ivi, p. 447 (corsivo nostro). 32 Cfr. Prospetto, in M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 521. 33 Ivi, pp. 547-548. 34 Ivi, p. 548. 35 Ivi, p. 550. 36 Ivi, p. 549. 37 Ivi, p. 551. 38 Ivi, p. 552. 39 Cfr. M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., pp. 553-555. 40 Ivi, p. 556. 41 Di questo implicito collegamento si rende conto lo stesso Foucault: “Quando ci ripenso ora,” egli scrive, “mi dico di che mai ho potuto parlare, per esempio ne La storia della follia o ne La nascita della clinica se non del potere?” (M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., pp. 9-10). Tuttavia in quelle ricerche la tematica del potere rimane nascosta o addirittura taciuta. L’autore constata questa mancanza quando dice: “al punto di confluenza de La storia della follia e de Le parole e le cose c’era, sotto due aspetti molto diversi, questo problema centrale del potere che avevo ancora assai mal isolato” (ivi, p. 7). Noi abbiamo tentato una rilettura del primo lavoro, liberando la tematica del potere a esso sottesa. 42 M. FOUCAULT, Storia della follia, cit., p. 576. 43 M. FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; tr. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 5. 44 Ivi, p. 8. 45 M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 140. 46 “Quest’anima, reale e incorporea, non è minimamente sostanza; è l’elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l’ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo a un sapere possibile, e il sapere rinnova e rinforza gli effetti di potere” (M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., p. 33). 47 Ivi, p. 29. 48 M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 25 (corsivo nostro). 49 Cfr. M. FOUCAULT, Due risposte sull’epistemologia. Archeologia delle scienze e critica della ragion storica, Lampugnani Nigri, Milano 1971, pp. 1819. Foucault affronta dettagliatamente il problema della storia in L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1972. 50 M. FOUCAULT, Due risposte sull’epistemologia, cit., p. 17.

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M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 42. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., p. 29. 53 Foucault conduce una critica ricorrente contro l’idea di sovranità intesa in termini centralizzati e, a usare una sua formula, monarchici. Queste critiche sono facilmente rintracciabili in Sorvegliare e punire e ne La volontà di sapere. Una sintesi stringata della sua posizione si ritrova, comunque, nel Corso del 14 gennaio 1976, in M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., pp. 179-194. 54 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., pp. 30 sgg. 55 Ivi, p. 148. 56 Ivi, p. 150. 57 Ivi, p. 212. 58 “Il potere produce il reale.” Questa proposizione non è né tautologica, né teologica. Rischia d’essere interpretata nell’uno o nell’altro modo se la si ipostatizza. La responsabilità di questo fraintendimento ricade più sul lettore frettoloso che sull’autore. Il potere produce non è una tautologia; caso mai un corollario. Per affermare questo è sufficiente un’accurata fenomenologia del potere, senza, con ciò, voler dare densità filosofica al termine “fenomenologia”. La proposizione foucaultiana consegue da questa fenomenologia; più che una definizione, è un’approssimazione, sia pur radicale, alla realtà del potere. La direzione complessiva della ricerca di Foucault è in linea con questa tesi; egli mostra l’inadeguatezza di ogni teoria politica a dare conto della realtà del potere. Se ciò vale per le dottrine, molto più vale per le definizioni. Qualsiasi teoria politica, in quanto teoria, è una raffigurazione ideale, a suo modo una sistemazione. In questo senso, è sempre disadeguata rispetto all’effettualità del potere. Ciò non toglie che possa essere una raffigurazione efficace, e comunque utile alle pratiche stesse del potere. Da questo punto di vista, non è meno teorica, e quindi meno ideale, quella definizione del potere come “un gioco di effettualità”. Di più: tale definizione è essa stessa tautologica. Infatti, cos’altro vuol dire “gioco di effettualità irriducibili l’una all’altra”, se non che il potere consiste in una serie aperta di giochi giocabili? Ma il gioco è per definizione giocabile, così come il potere è per definizione esercizio. Questa proposizione non dice nulla di nessun gioco reale e quindi di nessuna concreta forma di potere; bene che vada, può essere assunta come uno spazio logico in cui è pensabile ogni effettivo potere. Se così è, si ha a che fare con una nozione teorica né vera né falsa, perché semplicemente vuota. Come sarebbe vuota la stessa proposizione foucaultiana se fosse un principio e non un risultato. La definizione di Foucault suonerebbe come tautologia se non fosse un corollario. Tautologica, al contrario, è una teoria del potere che definisca il potere come gioco di effettualità senza alcuna analisi dell’effettuale. Foucault si sottrae al formalismo e riempie la forma tautologica, poiché guarda ai giochi giocati del potere, e quindi al potere come territorio materiale sia dei giochi giocati sia di quelli da giocare. E su questo terreno ognuno gioca sempre un suo gioco determinato. Foucault stesso precisa il senso delle definizioni; egli mostra la valenza nominalistica del potere, ma anche la positività orientativa del nome: “Bisogna probabilmente essere nominalisti: il potere non è un’istituzione, e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data” (M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; tr. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 83). Da questo punto di vista, non si può avere 52

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alcuna nozione adeguata del politico che non sia storica. Una storia – come abbiamo avuto modo di notare – senza scopo né destino, che non rinvia ad altro che al campo di forze attraverso cui di volta in volta si definisce. Il potere è, dunque, una realtà storica senza nessuna filosofia della storia. In questo senso non è una realtà teologica. Esistono proposizioni foucaultiane di sapore teologico; si legge infatti: “onnipresenza del potere; il potere è dappertutto” (ivi, p. 83). Ma il lettore non frettoloso si rende conto della metaforicità delle proposizioni. Se legge bene, si accorge immediatamente del significato peculiare che Foucault conferisce a questa onnipresenza: “Il potere è dappertutto; non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove” (ivi, pp. 82 sgg.). È questa logica della provenienza che rinvia a un’analisi delle formazioni storiche e a una genealogia del potere. Il potere produce il reale: questa proposizione risulta viziata se la si prende astrattamente. Infatti, essa resta o una mera astrazione formale, e come tale una tautologia; oppure si pensa all’astrazione come se fosse una cosa, e in questo caso la realtà del potere appare come una teologia. Chi legge così Foucault probabilmente si è lasciato sfuggire il significato peculiare di archeologia. 59 K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Introduzione del ’57, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 172. 60 Ivi, p. 173. 61 Su questo tema cfr. La descrizione archeologica, cap. VI, Scienza e sapere, in M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, cit., pp. 203-222. 62 M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 81. 63 M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, cit., p. 209. 64 In proposito Foucault scrive: “ci sono dei saperi indipendenti dalle scienze (che delle scienze non sono né l’abbozzo storico, né l’opposto vissuto), ma non ci sono saperi senza una pratica discorsiva definita; e ogni pratica discorsiva si può definire in base al sapere che essa forma” (ivi, p. 208). 65 M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., pp. 69-117. 66 Ivi, p. 92. 67 Ivi, p. 90. 68 M. FOUCAULT, Microfisica del potere, cit., p. 37. 69 Citato in M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., p. 169. 70 F. BACONE, Aforismi sull’interpretazione della natura, I, 81, Novum Organum, Laterza, Roma-Bari 1968, p. 55. 71 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., pp. 245-246. 72 M. FOUCAULT, Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère..., Gallimard, Paris 1973; tr. it. Io, Pierre Rivière, Einaudi, Torino 1976, p. 53. 73 Ivi, Prefazione, p. X. 74 Ivi, p. XI.

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3. Linguaggio e discorso L’enunciato e l’archivio in Foucault Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la attraversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine. J.L. BORGES, La Biblioteca di Babele

1. Universo della comunicazione e strati linguistici Linguaggio e discorso si implicano, ma non si identificano. Infatti, se il discorso è linguaggio, il linguaggio non coincide tout court col discorso. In questa distinzione preliminare risiede la doppia faccia del linguaggio: da un lato, è evento comunicativo, dall’altro, è un insieme organizzato di strutture di comunicazione, cioè a dire di discorsi. La doppia faccia del linguaggio distribuisce il suo senso tra una dimensione ermeneutica e una genealogica, tenendo conto del fatto che la distinzione è indice di un diverso registro concettuale, ma non è mai da confondere con la separazione. Il momento ermeneutico tende a guadagnare il linguaggio nella sua originarietà o nel suo e/venire, il momento genealogico tende a determinarlo nella specificità delle sue variazioni: come insieme di universi di discorso. È proprio nell’ambito dell’indagine materiale intorno alla genesi e alla struttura degli eventi discorsivi che si sviluppa la determinazione foucaultiana del nesso tra enunciato e archivio. Questa distinzione avrebbe una ristretta valenza filosofica se la si considerasse come una delle tante modalità procedurali, utili per una delimitazione di campo e applicabili a sequenze storiche determinate. In tal caso, la distinzione avrebbe un carattere 115

semplicemente metodologico o tutt’al più potrebbe essere intesa come un’ulteriore rigorizzazione dell’epistemologia storica. A mio parere c’è di più, poiché in Foucault l’epistemologia storica non ha un valore meramente metodologico o ricostruttivo, ma si costituisce come un orizzonte di precomprensione degli eventi stessi. La logica delle discontinuità discorsive assume in Foucault la funzione di interpretante. In tal senso essa costituisce un presupposto ermeneutico o, se si vuole, un’ermeneutica implicita. Per questa ragione l’archeologia foucaultiana si sottrae alla metodologia storiografica e guadagna spessore filosofico: in altri termini, il nesso tra enunciato e archivio si può assumere come filo conduttore al fine di mostrare il crinale che divide linguaggio e discorso, ma anche la linea lungo la quale questi due momenti si congiungono. Scontata la premessa, vale la pena prendere avvio dalla precisazione del significato che si attribuisce al linguaggio quando lo si intende e lo si comprende come “evento comunicativo”. Prendiamo alcune formule del parlare comune che suonano al modo di: “prender la parola”, “qualcuno ha preso la parola”, “ho preso la parola”; queste formule vengono pronunziate in riferimento a situazioni determinate, in cui a un qualsiasi parlante accade di prender parola. Qui parlare significa entrare in discorso: ma il discorso è già cominciato prima che il parlante prenda parola. Prendere la parola significa allora entrare in qualcosa di già aperto, porsi in sintonia con una comunicazione già di per sé attiva. Detto altrimenti: non si parlerebbe mai se già non si parlasse. Ma parlare significa possedere un lessico e una grammatica, una capacità di associare segni a significati e comporre i significati in discorsi. Entrare in discorso vuol dire disporsi, come parlante in senso empirico, entro una concatenazione di significati già data; costituirsi singolarmente come sequenza semantica determinata, e magari come momento linguistico dissidente, ma comunque congruente, nella direzione di fondo, al sistema della comunicazione in gioco e che fa gioco. Ora, ogni parlante prende parola entrando in discorso, assumendo così come suo riferimento semantico una qualsiasi sequenza organizzata di segni, 116

costruita, o in ogni caso costruibile, in base a un gioco finito di possibilità. Per gioco finito deve intendersi l’insieme di regole combinatorie che costituiscono gli elementi base di un linguaggio e che sono iterabili all’infinito all’interno di tutto l’universo lessicale del linguaggio dato. Il gioco può essere più o meno aperto, la cosa poco importa in relazione alla regolarità del gioco stesso. Quel che però è importante è che di discorsi siffatti molti ne esistono e molti ancora se ne possono concepire. Ogni parlante quindi si trova nella situazione di poter trascorrere da un discorso all’altro, ma perciò stesso si trova nella situazione di dover ora selezionare ora tradurre: la parola che si pronunzia muta senso col mutar di luogo e comunque dipende dal modo in cui si associano segni e significati. Il passaggio da un discorso all’altro disloca costantemente il parlante, che, nonostante la regolarità degli ordini, è tuttavia esposto all’aleatorietà delle migrazioni linguistiche e all’iscrizione in giochi sempre diversi. Quest’universo discontinuo di trapassi, da un lato, situa il parlante nel discorso e, dall’altro, genera costantemente situazioni discorsive del tutto nuove. La comunicazione quindi, da una parte, è un che di fluente e di regolare e, dall’altra, un qualcosa di discontinuo e di eventuale: è realtà sempre rotta, ma nel contempo e per diverso rispetto, altrettanto continua. Ora, come è possibile attraversare indenni queste crisi del linguaggio, come è possibile ricomporre fratture e, più ancora, riaccordare estraneità fra isole linguistiche e giochi lontani? Fino a che punto queste eventualità, del tutto imprevedibili nella forma del loro accadere, non incidono sulla comunicazione in modo così radicale da farla cadere? L’elemento che mantiene la comunicazione e in cui la comunicazione si mantiene è l’uomo stesso come segno di segni, come interpretante di ogni interpretazione. Sotto quest’aspetto l’uomo non è un’entità empirica e neppure una nozione trascendentale, ma è l’apertura stessa del comunicare1: è essere perfettamente naturale qualora s’intenda la natura come scrigno di segni. A questo titolo ci si porta fuori dell’antropologia occidentale incentrata su 117

un soggetto detentore di βούλησις come forma primaria di personalizzazione e quale sede di decisione.2 L’uomo come segno depone la potenza di ogni decisione in qualcosa di indecidibile: l’eventualità stessa della comunicazione. Si abita sempre nella parola da intendere non come fatto semplicemente verbale, ma come movimento originario e destinale della comunicazione. L’uomo è segno di tutti i segni, poiché è quell’apertura in cui tutto appare come segno: ma allora l’uomo non si dà altrimenti che come gioco di segni, e in questo senso come parole.3 In tal caso, parola nell’accezione greca di ρ’η˜μα che tramite la comune radice fer, fre si collega alla parola latina verbum e a quella greca ε’ίρω Il significato del verbo greco è propriamente quello di incateno, intreccio, inserisco, dispongo in serie e da qui parlo nel senso di racconto, stabilisco, ordino. La famiglia di questi termini culmina poi nelle parole ρ’η˜σις, ρ’η˜τωρ che designano rispettivamente il parlare come tener discorsi e l’oratore e retore in quanto tale. Questa dimensione colloca la parola nel gioco del discorso e intende il discorso come gioco di parole o di segni.4 Ogni parlante, cioè a dire l’empiricità di chi di volta in volta parla, è inscritto in un discorso già posto: ogni individuo parla perché, come si usa dire, è già parlato. Ma la situazione comunicativa si distingue sia dall’atto di chi parla sia dal discorso a cui ci si riferisce ogniqualvolta si parla. La presa di parola, infatti, è in ogni caso possibile anche senza il riconoscimento esplicito e preliminare del gioco in cui si entra: la precomprensione comunicativa si dispone a un livello diverso dall’acquisizione del gioco e quindi della legalità di parlante, che ognuno guadagna in base a quel gruppo definito di regole secondo cui parla. La comprensione è posta con lo stesso segno e quindi con l’uomo come detentore di parola: è questo lo spazio che consente di trapassare da un gioco linguistico all’altro, e perciò di attraversare la discontinuità dei linguaggi. L’empiricità del dire si distingue proprio per questo dalla realtà del comunicare, perché nessuna parola sarebbe mai compresa se la disposizione a comprendere non appartenesse costitutivamente al segno: l’enunciato, 118

anche quando non è tradotto, non è mai separabile dalla sua destinazione al significato; per questo ha sempre senso. Qualsiasi momento del linguaggio, sia esso il momento in cui si prende parola, sia esso il momento in cui si intende la parola è un accadimento determinato e specifico dell’evento linguaggio come comunicazione da sempre aperta, dove i fatti linguistici possono, nell’evenienza, tramutarsi in costrutti traducibili. Questa dimensione può essere attinta per via ermeneutica: solo così il linguaggio interpreta se stesso come interpretabile, ossia fa esperienza di sé nell’atto stesso della sua espressione, senza limitarsi alla descrizione delle sue oggettivazioni parziali. In ciò si dà l’intreccio fra la posizione della formalità dei giochi e l’epocalità del linguaggio, in ciò si riannodano l’universo fattuale e quello prospettico. La dimensione originaria del linguaggio, nel senso dell’originarietà stessa dell’originarsi, è qualcosa di distinto dai contenuti discorsivi entro cui i parlanti, di volta in volta, prendono parola. Altrimenti detto, la verità come άλήθεια, non nascondimento, costituisce l’evento comunicativo: entro di essa si dispone e viene a dominio l’ο’ρθότης come discorso giusto, rettitudine nell’argomentazione, gioco linguistico. Tuttavia, l’originarietà della comunicazione, la cifra di comprensibilità che costituisce e corrobora il segno non esclude, nel fatto, la deviazione e l’anomalia. L’andamento del linguaggio è deviato e obliquo: il momento orizzontale e pervasivo della comunicazione si coniuga con quello verticale e diversificato degli strati linguistici. Quest’andatura sviluppa nel linguaggio uno spostamento costante dei volumi di senso, che dà luogo, da un lato, a un incremento di significati per collusione, alterazione, trasformazione, dall’altro, a interferenze e anomalie, che frenano e rallentano la traduzione e deformano così la fluidità del comunicare stesso. Ma il crescere dell’anomalia sviluppa e raffina le tecniche di traduzione, non foss’altro che nell’intento di determinare e poter sufficientemente descrivere l’effettualità di un qualsiasi gioco linguistico, a partire dalla sua specificità. L’anomalia genera innovazione, l’innovazione produce 119

diversità: tutto ciò però avviene in un orizzonte di comprensione che non bisogna confondere o appiattire a un principio di riducibilità: i linguaggi restano irriducibili, ma in linea di principio sono sempre comprensibili. Se non lo fossero non sarebbero linguaggi. La comprensibilità, poiché fa tutt’uno con l’esperienza della comunicazione, rimane impregiudicata anche in quelle circostanze in cui si sperimentano forme linguistiche non immediatamente decifrabili o intraducibili fra loro. Nel caso, si tratterà di rinvenire le regole che rendono trasparenti i relativi giochi linguistici; ma le regole sono rinvenibili in quanto ogni linguaggio, come linguaggio, si dispone originariamente in un orizzonte di comprensibilità. La comunicazione non salvaguarda affatto dall’anomalia: come, infatti, ci si potrebbe mai del tutto garantire dalla radicale novità dell’evento? Proprio per questo, non si dà un principio di riduzione che neutralizzi la diversità, ma si dice solamente che la molteplicità dei giochi è percorribile per il semplice fatto che “il linguaggio accompagna il mondo”. La dimensione del comprendere si dispone a un livello diverso dall’effettualità del tradurre, ma è immanente in ogni traduzione: detto altrimenti in ogni traduzione è messa in esecuzione la traducibilità che coincide con l’evento del comunicare stesso. I due momenti del linguaggio costituiscono una realtà sola che vive nella vita di ogni espressione. Ogni segno è quindi recuperabile al senso in quanto è ospitato in quell’apertura originaria che è il comunicare. Questa densità e complessità del linguaggio impediscono ogni semplificazione ingenua e ogni separazione presupposta, sfuggono quindi al rischio di una doppia chiusura che o si limita a un’interpretazione del linguaggio di tipo oggettivistico oppure precipita in un ’άλογον quietista e in una mistica del silenzio. La vita del linguaggio toglie valore sia alle ipostasi atomiste che ai facili misticismi: qualora essi rispecchiassero veramente l’esperienza del comunicare non si darebbe più alcuna comunicazione e perciò neppure essi esisterebbero. Tuttavia, le ipostasi si danno e poiché sono fatti del linguaggio anche di esse si deve dare conto, sia pure intendendole come deviazioni di cui si deve giustificare la 120

genesi e determinare il dinamismo o gli effetti. Ma qui il discorso si farebbe altro. L’analisi finora condotta ci ha permesso di delineare la doppia faccia del linguaggio da intendere, da un lato, come universo della comunicazione, o momento pervasivo, dall’altro, come universo dei discorsi, o momento distributivo. Il secondo momento non può essere separato dal primo, ma è comunque suscettibile di una considerazione autonoma. Su quest’aspetto del linguaggio si appunta l’attenzione di Foucault, che proprio a partire dall’analisi degli eventi discorsivi si sviluppa come interpretazione filosofica. Ma è proprio questa modalità di approccio che decide dei vantaggi e dei limiti della ricerca foucaultiana.

2. L’a priori storico e l’archivio Foucault analizza gli spostamenti dei volumi di senso a partire da un’analisi del farsi storico della comunicazione, ossia del suo distribuirsi spazio-temporale. Il nunc stans della comunicazione non è separabile dal suo farsi e disfarsi storico, che anzi in questa tessitura si dà comunicazione. La ricerca foucaultiana è indubbiamente più attenta alla tessitura storica dei discorsi che all’attualità del comunicare: in certo senso, Foucault, se non rimuove, di certo sottintende il momento interpretante a vantaggio dei fatti interpretati. Ma i fatti interpretati non possono essere adeguatamente compresi se non si porta alla luce il senso dell’evento interpretante come tale: solo a queste condizioni si dà conto delle ragioni per cui nella considerazione di ciò che è storico si aprono e si chiudono serie spazio-temporali ora in un modo ora in un altro. I fatti sono interpretazioni poiché appartengono al linguaggio come evento interpretante. Ora, è proprio nella sua eventualità che il linguaggio acquista compimento e si determina secondo coordinate spazio-temporali: si fa storico. Il linguaggio considerato in questa prospettiva appare come un reticolo di discorsi ora contigui, ora giustapposti, in taluni casi discrepanti: in sostanza, un universo di integrazioni e di divieti, in una parola di 121

confini. Qual è allora il sistema di relazioni che connette e differenzia quest’universo? Su ciò cade la domanda foucaultiana, ma essa costituisce pure il tipo di approccio all’evento linguistico-comunicativo. Per comprendere tutto ciò, e l’orientamento stesso della domanda di Foucault, bisogna elaborare alcune distinzioni. Abbiamo mostrato che il discorso non è linguaggio nel senso della comunicazione in generale poiché è un momento di essa e in essa si situa come distanza: appartiene alla comunicazione, ma non la esaurisce perché è un momento finito di essa. Ora, vale la pena mostrare che il discorso come si distingue dalla comunicazione così pure si distingue da quel tipo di considerazioni del linguaggio che cadono sotto il dominio della linguistica. Il linguaggio per sua natura, qualora per linguaggio s’intenda il linguaggio verbale, ha certamente a che fare con la φωηή, ossia con l’espressione sonoro-grammaticale. L’espressione verbale non è un puro suono, ammesso che se ne diano, ma si riferisce a un contenuto semantico. L’universo dei valori semantici è poi disposto secondo precise regole di ordinamento, che sono i costrutti sintattici. La linguistica è quella disciplina che considera i fatti verbali secondo i rispettivi valori semantici e sintattici, individuando cioè i sintagmi basilari e le leggi di composizione di una lingua. A partire da ciò si possono ricostruire i modelli generativi delle lingue e da qui risalire alla natura costruttiva della mente in quanto tale. È anche questo un modo come un altro per accedere al tema della comunicazione. Il linguaggio come φωηή, vibrazione della voce, in quanto denota un che di oggettivo si fa nome: il segno acquista significato; lo sviluppo regolare dei significati diviene poi grammatica. L’insieme di questi fenomeni è oggetto della linguistica. Il discorso presuppone queste condizioni, ma non si esaurisce in esse: il discorso dunque non cade nel dominio della linguistica. Assumiamo, allora, il linguaggio in senso lato: per esempio, il gesto. Il gesto non è φωηή, ma comunque significa l’oggetto: se io indico una persona con la mano non produco alcuna vibrazione vocale eppure metto in opera un segno associabile a un significato – 122

quella persona o quell’altra. Ma anche qualsiasi dato sensibile può assumere il valore di un segno: il fumo e il fuoco oppure il vecchio rudere. Ma i nessi non sono sempre egualmente trasparenti: infatti, se il fumo può essere interpretato come segno del fuoco non altrettanto chiaro è il significato di un’antica colonna. La colonna greca significa poco o significa altro o non significa affatto per chi non la associa a un mondo o a una cultura: per l’appunto quella greca. Tutti questi sono fenomeni di linguaggio in senso non linguistico, ma comunque fatti significanti. Tuttavia non sono ancora discorsi. Esiste allora un dominio del linguaggio come universo di segni fonetici e un dominio del linguaggio come universo di segni materiali in qualche modo ordinabili: tutto ciò, più altro ancora, è comunque ineludibile in una dimensione più generale del linguaggio come universo di segni significanti. Ora, l’universo di segni si specifica in quanto ordinabile secondo catene di significazione o campi: in tal modo, si determinano spazi storico-logici con una loro propria temporalità e perciò con un loro proprio decorso. È appunto questo che, almeno nella lettura foucaultiana, costituisce propriamente un discorso. Allora esistono due ordini di problemi: a) esiste una molteplicità indeterminata di discorsi; b) un discorso è determinabile come tale solo se un insieme di termini posti in catena dà luogo a un campo definito di significati. Un campo discorsivo non è dunque da equiparare, in senso stretto, a una disciplina, né è da comparare agli statuti di una scienza, ma può essere pure tutte queste cose, o anche qualcosa d’altro, salvo il fatto che i termini della relazione posta siano l’un l’altro pertinenti. Da qui una nuova questione: come si può definire una tale pertinenza? Secondo quali regole, di volta in volta, un insieme di segni può essere ridotto a un campo definito di significazione? Segno è ciò che sta per altro: la figura del segno è quindi figura di rinvio. Ora, per evitare ogni equivoco si deve dare un codice in base a cui interpretare il rinvio. Se tale codice non è noto, il segno resta inesplicato. Quando ci si trova dinanzi a qualcosa che appare come segno si può presupporre che significhi, ma si determina quel che 123

significa se lo si pone in una struttura contestuale che lo rende significante. Questo è il discorso: esso è appunto un insieme di regolarità in base a cui i segni sono raffigurabili. Se ciò è vero, ne discendono due conseguenze: a) non esiste un discorso inclusivo di tutti i discorsi, ossia non esiste un ordine superiore di discorso che riduca a sé tutti gli altri e ne possieda a priori il codice di traducibilità; b) i discorsi non sono solo molteplici, ma anche discontinui. Ogni discorso deve possedere una sua plausibilità e coerenza; è cioè possibile individuare un insieme di regolarità in base a cui raggruppare gli eventisegni configurandoli in modo reciprocamente significante. In ciò si rifiuta l’esistenza di un significato assoluto e totalitario, senza con ciò rinunciare al presupposto del significato, ossia alla reperibilità di esso in base alla congruenza dei segni-eventi tra loro: la loro convenientia. Il discorso è così gettato nell’aleatorietà, ma non è abbandonato all’insignificanza. La perdita del punto di vista assoluto non conduce alla perdita radicale di senso, ma alla continua costruzione e relativizzazione dello stesso. Quando Foucault all’inizio dell’Archeologia del sapere dice che bisogna invertire il punto di vista che trasformava il monumento in documento in quello che trasforma il documento in monumento, egli appronta questo regime epistemologico: il segno non è comprensibile in quanto traccia di altro, non è comprensibile in quanto è riducibile al suo autore; non è neppure comprensibile perché è autentico, ma al contrario è autentico perché è comprensibile, è cioè riducibile a una sintassi che lo rende plausibile. Ciò esclude insieme il continuismo storico e l’evidenza ingenua a vantaggio della pienezza di senso come articolabilità delle parti del discorso. Non più allora la presunzione del sapere assoluto, ma neppure della storia come un continuum narrativo-documentario; soltanto la possibilità di individuare, di volta in volta, le leggi rispettive che istituiscono i discorsi: in una parola, l’accertamento delle leggi di formazione e circolazione dei saperi. Proprio per questo Foucault intende il discorso come un sistema di enunciati. Che cos’è propriamente un 124

enunciato? È una proposizione, un atto illocutorio, una frase? Non è nessuna di queste cose. Vediamone il perché. La proposizione è un’unità che nel suo complesso costituisce un significato come, per esempio, “il mare è azzurro”, “questo bicchiere è sul tavolo”. Ora, le proposizioni sono unità significative che hanno come loro carattere peculiare quello di poter essere equivalenti, per quanto attiene al significato, anche se alcuni elementi che le costituiscono vengono variati: in altre parole, esse ammettono qualsiasi costituzione salva veritate. Il fatto che le proposizioni siano equivalenti in relazione al significato non vuol dire che siano le medesime rispetto all’enunciazione: in questo senso l’enunciato differisce dalla proposizione. Nell’Archeologia del sapere, Foucault scrive: Si possono avere due enunciati perfettamente distinti e appartenenti a raggruppamenti discorsivi del tutto differenti quando si ha una sola proposizione, suscettibile di un unico valore, condizionata da un unico insieme di leggi di costruzione e avente le stesse possibilità di utilizzazione. “Nessuno ha sentito” e “È vero che nessuno ha sentito” sono indiscernibili dal punto di vista logico e non si possono considerare come due proposizioni differenti. Ma in quanto enunciati, queste due formulazioni non sono né equivalenti né intercambiabili.5

In ambedue le formule il significato resta invariato, mentre non si può dire lo stesso del valore dell’enunciazione. A partire da tale considerazione preliminare, Foucault argomenta sull’esempio in questi termini: Se si trova la formula “nessuno ha sentito” nella prima riga di un romanzo, si sa, fino a nuovo ordine, che si tratta di una constatazione fatta o dall’autore o da un personaggio (ad alta voce o sotto forma di monologo interiore); se si trova la seconda formula “È vero che nessuno ha sentito”, ci si può trovare soltanto all’interno di un complesso di enunciati che costituiscono un monologo interiore, una discussione muta, una contestazione con se stessi, o un frammento di dialogo, un insieme di domande e di risposte.6

L’enunciato non è neppure una frase: infatti, laddove c’è una frase grammaticalmente isolabile si può dire che ci sia un enunciato, ma l’enunciato può esistere anche laddove non si danno frasi. La frase, infatti, è costituita da segni grammaticali accordati tra loro da regole; eppure si può 125

enunciare qualcosa prescindendo dalla struttura fraseologica: Un albero genealogico, [dice Foucault] un libro contabile, la stima di una bilancia commerciale sono degli enunciati: dove sono le frasi? [...] e se possiedono una grammaticalità molto rigorosa (poiché sono composti di simboli il cui significato è determinato dalle regole d’uso e la cui successione è stabilita dalle leggi di costruzione), non si tratta degli stessi criteri che permettono, in una lingua naturale, di definire una frase accettabile o interpretabile.7

Se l’enunciato non è una frase, tuttavia non è neppure un atto illocutorio, quello che gli analisti inglesi chiamano speech act. L’atto illocutorio si risolve sostanzialmente nell’atto di formulazione, ma il suo senso non si risolve nella singola formulazione stessa: delle volte, è necessaria una reiterazione, sia pure variata, della formula perché appaia il senso dell’atto illocutorio. Foucault indica tale modalità quando dice: Giuramento, preghiera, contratto, promessa, dimostrazione richiedono il più delle volte un certo numero di formule distinte o di frasi separate: sarebbe difficile rifiutare a ciascuna di esse lo statuto di enunciato con il pretesto che tutte quante sono attraversate da un unico atto illocutorio [...]. Inoltre certi atti illocutori non si possono considerare come compiuti nella loro singola unità se non a patto che vengano articolati, ciascuno al posto che gli compete, diversi enunciati.8

I singoli momenti di un atto illocutorio, pertanto, non sono frasi nel senso compiuto di frase grammaticale; d’altra parte si compiono nel loro senso solo in una sequenza reiterata di variazioni: ne segue che ogni singola formulazione può essere intesa come un enunciato che perciò stesso non ha lo statuto della frase, né quello dell’atto illocutorio. Foucault nello sforzo di identificare l’enunciato e di determinarne la natura non riesce a fare altro che ritagliare per esso la nozione di residuo. Spazio residuo che però, nell’argomentazione foucaultiana, non si identifica con alcunché di residuale o di resto, ma al contrario si costituisce come un differenziale o una soglia: in una parola l’enunciato “definisce la possibilità di apparizione e di delimitazione di ciò che dà il senso alla frase, e alla proposizione il suo valore di verità”.9 L’enunciato si definisce allora in base al campo che da 126

esso insorge, che esso stesso apre ed entro cui medesimamente si situa. Per questa ragione Foucault può dire: Un enunciato non ha di fronte a sé (quasi vi si trovasse a tu per tu) un correlato, o un’assenza di correlato, così come una proposizione ha un referente (oppure non lo ha), così come un nome proprio designa un individuo (oppure nessuno). È piuttosto connesso con una “referenzialità” che non è costituita da “cose”, da “fatti”, da “realtà” o da “esseri”, ma da leggi di possibilità, da regole di esistenza per gli oggetti che vi si trovano nominati, designati o descritti, per le relazioni che vi si trovano affermate o negate.10

La frase foucaultiana appena citata si può più semplicemente sciogliere in questi termini: l’enunciato non ha alcun riferimento a oggetti, cioè a dire non si riferisce ad alcunché di dato e in sé compiuto, ma, al contrario, esso apre un orizzonte di riferimento in se stesso; inaugura una possibilità di dire, ossia di porre relazioni, e perciò di creare nessi di pertinenza.11 È proprio questo sistema di connessioni che rende possibile l’apparizione di oggetti o di entità che sono insieme costrutti concettuali ed eventi materiali. In quanto apertura di un universo di connessioni che procedono per incastro, l’enunciato costituisce una soglia: apre un campo e lo struttura. La definizione foucaultiana di enunciato disimpegna la doppia funzione di conferire valore di evento ai dati e alle oggettività storiche, e qualità empiriche al linguaggio che le descrive. In tal modo, Foucault sottrae il linguaggio alle ipoteche di qualsivoglia oggettivismo, tanto di tipo strutturalista che neopositivista, e nel contempo evita la vanificazione degli eventi linguistico-simbolici in un generico misticismo alogico della parola. Dal momento che sappiamo che cos’è un enunciato possiamo pure comprendere che cosa Foucault intende per sistema di enunciabilità: nulla di più che le formazioni discorsive, che sono appunto sequenze di enunciati. “Analizzare una formazione discorsiva significa dunque trattare un insieme di performances verbali al livello degli enunciati e della forma di positività che li caratterizza; o più brevemente significa definire il tipo di positività di un discorso.”12 Tutto ciò costituisce una topografia discorsiva 127

entro cui si producono enunciati dello stesso ordine e si pre-determina il campo discorsivo per chiunque entra in discorso rispetto a quel campo. In senso stretto, l’universo differenziato di questi regimi discorsivi costituisce un vero e proprio a priori che però non è trascendentale, bensì storico, a priori storico: “Non condizione di validità per dei giudizi, ma condizione di realtà per degli enunciati”.13 Di contro all’a priori formale (Kant) l’a priori storico è assolutamente empirico. Quest’a priori è precisamente connotabile come archivio: “L’archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli”.14 L’archivio apriorico è, a suo modo, necessitante in quanto luogo storico in certo senso pre-costituito: ciò significa che è rilevabile uno spazio di positività obbligante nel senso che pone leggi di conformità perché gli enunciati siano formulabili; ciò vuol dire che esiste comunque una riserva di senso storicamente reperibile, in base alla quale il dire dei parlanti si scambia e persino si rinnova. L’archivio in questo senso è il succedaneo del trascendentale, ma non ne possiede né l’atemporalità, né la rigidità: se è stabile, ciò avviene perché è storicamente denso; non per ragioni di forma, ma per ragioni di fatto. Si ha a che fare con un’eventualità che è percorribile solo storicamente; l’a priori storico appare lungo la catena e il periplo dei suoi enunciati: appunto l’archivio. L’archivio, in forza della sua connotazione storica e della sua rintracciabilità empirica, mette fuori gioco la soggettività trascendentale, quale a priori formale posto da sempre e per sempre. La liquidazione della soggettività trascendentale in Foucault non è un’operazione gratuita: essa è resa possibile da una preliminare positivizzazione del trascendentale stesso.15 La soggettività trascendentale è, in primo luogo, esplicata come filosofia della rappresentazione e in tal modo essa acquisisce densità linguistica: la rappresentazione è figurazione di ordini e quindi tavola di enunciati. Solo riducendo il trascendentale all’insieme delle funzioni enunciative si può ricominciare a parlare in modo positivo di esso. La filosofia della rappresentazione esplicata come sistema distribuito di ordinamento del mondo guadagna 128

inevitabilmente densità storica e non può essere altro che l’insieme differenziato di discorsi sul mondo. La purezza del trascendentale viene meno qualora il trascendentale stesso sia esplicato come evento discorsivo: il soggetto è posto dalle unità di discorso che parlano di esso. L’intervento teorico di Foucault è qui del tutto interno alla genealogia nicciana, come procedura di positivizzazione dei fatti ideali e degli stessi contenuti eidetici. La calibratura genealogica dell’argomentazione foucaultiana viene poi corroborata dall’ausilio di una più articolata strumentazione analitico-descrittiva mutuata dalla storiografia, dalla linguistica comparata e dallo strutturalismo. In tal modo Foucault si trae fuori dal trascendentale formale ed elabora un tipo di trascendentale anomalo di tipo storico-linguistico riconoscibile come archivio. Esso ha il carattere necessitante del trascendentale e insieme quello contingente di qualsiasi evento storico: “La positività di un discorso ne caratterizza l’unità attraverso il tempo, e molto al di là delle opere individuali, dei libri, dei testi [...]. Essa definisce uno spazio limitato di comunicazione”.16 Se il soggetto trascendentale è eliminato tramite la sua stessa positivizzazione (Nietzsche),17 il soggetto empirico è collocato all’interno di questo campo di positività. Al trascendentale formale di origine cartesiano-husserliana subentra un anomalo trascendentale materiale; alla trasparenza impersonale del soggetto della rappresentazione si sostituisce la densità altrettanto impersonale degli ordinamenti di rappresentazione: i discorsi.18 In sostanza lo spazio impersonale di un soggetto titolare di chiarezza è riempito dall’impersonale a priori storico, caratterizzato da discontinuità, falde, scarti, procedure d’ordinamento. Pare allora comprensibile il fatto che l’ispezione di questa complessità, la decifrazione dei reperti e del loro senso esiga un modello di investigazione archeologico che bilanciando il vuoto e il pieno dia figura all’assenza senza con ciò pretendere la totalità. I soggetti empirici, o più semplicemente gli uomini, rimangono a ogni modo ineffabili: non si identificano né con il soggetto trascendentale classico, né 129

con l’a priori storico. Ciò che comunque resta difficilmente confutabile è che essi entrano in discorso solo se ci sono discorsi che parlano di loro. In tal senso, a ogni modo è pur sempre concepibile una qualche forma di apriorità. Questo breve profilo mostra a sufficienza gli sbocchi filosofici del pensiero di Foucault e mette in guardia dall’intendere la sua epistemologia come una pura e semplice metodologia storiografica. Al contrario, se non abbiamo a che fare con una filosofia in senso stretto, di certo abbiamo a che fare con una teoria generale del sapere. Ci tocca veder meglio come essa si configura.

3. Le regolarità discorsive L’enunciato è un insieme di segni che svolgono la loro funzione all’interno di un campo enunciativo: questo campo è il discorso. I discorsi formano l’a priori concreto di ogni conoscenza, ossia si costituiscono come saperi. Ogni critica e ogni giudizio sono radicati nel discorso come campo presupposto di argomentazione. Questo è detto, a chiare lettere, nella prefazione foucaultiana a La nascita della clinica: Per Kant, la possibilità di una critica e la sua necessità erano connesse, attraverso certi contenuti scientifici, al fatto che c’è conoscenza. Oggi esse sono connesse – e Nietzsche il filologo ne fa fede – al fatto che c’è linguaggio e che, nelle innumeri parole pronunciate dagli uomini – siano esse ragionevoli o insensate, dimostrative o poetiche – ha preso corpo un senso che ci sovrasta, guida il nostro accecamento, ma attende nell’oscurità la nostra presa di coscienza per venire alla luce e mettersi a parlare. Siamo votati storicamente alla storia, alla paziente costruzione del discorso, al compito di intendere quel che è già stato detto.19

In questa formula si stabilisce una connessione tra ordini discorsivi e storicità degli stessi: ogni performance linguistica è da interpretare a partire dalla materialità della sua e/venienza. Sono questi i presupposti metodologici e contenutistici in forza dei quali Foucault può parlare, con giustificato fondamento, di ordine del discorso. Sulla base di quanto fin qui abbiamo detto si può ricavare che la nozione di ordine del discorso discende da una diversa considerazione del mondo storico e più propriamente da un rovesciamento di visione: il discorso 130

non è più una struttura continua della totalità storica, ma, al contrario, è una difformità e un margine; margine come discrimine a partire da cui si apre un campo determinato di discorsività che costituisce in sé un ordine definito. Quella stessa discontinuità che fa dunque di ogni discorso un ritaglio lo pone anche come un ordine se non rigido certamente obbligante. Il sapere, infine, si determina come articolazione di questi momenti. Il sottotitolo italiano del breve scritto di Foucault L’or dine del discorso20 suona così: I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola; la formula ci permette di intendere l’ordine del discorso come l’elaborazione di un sistema di procedura: appunto di meccanismi. La storia della cultura conosce molti di questi ordini: si tratta di evidenziarne, di volta in volta, l’insorgenza e la dinamica. Per chiarire ciò è bene considerare qualche passaggio determinato: nel nostro caso, la nascita dello statuto di verità.21 Nella storia della cultura occidentale c’è un passaggio a tutti noto come passaggio dal mito al logo. Questo momento può essere considerato come emblematico in riferimento alla differenziazione degli ordini di discorso, in base al diverso regime imposto alla parola e alla sua amministrazione. Il mito, o più precisamente una società miticamente caratterizzata, non è una società arbitraria: su ciò non vale la pena spendere parola poiché la cosa è in larga parte condivisa e perfino ovvia. Al contrario, è opportuno, sia pure per brevi cenni, individuare i meccanismi di controllo della parola mitica e le procedure che ne mantengono il senso. La determinazione di senso di qualsiasi mito, o di una qualsiasi società di segno mitico, è in generale eseguibile qualora si riescano a individuare alcuni caratteri stabili che grosso modo possiamo interpretare come regole di formazione e di trasformazione di un certo gruppo di miti.22 L’antropologia, e non solo quella di tipo strutturalista ma qualsiasi antropologia comparata, ha definito il senso dei miti fondamentalmente in base a leggi di corrispondenza.23 A ogni modo, uno dei tratti peculiari e insieme decisivi del discorso mitico è quello di organizzarsi secondo una nozione di verità come efficacia 131

di contro a una nozione di verità come concetto, secondo la coppia vero-falso. In una società miticamente caratterizzata la verità è evento e il suo contenuto racconto; ciò significa che la verità ha poco da spartire con il contenuto eidetico e invece è tutt’uno con il rito, che ne specifica il carattere di evento, e con la narrazione, che ne dispiega e organizza la rappresentazione simbolica. Il sistema di prova e di corroborazione dell’universo mitologico si fonda sull’efficacia rituale, che si adempie in quanto il suo adempimento è già precompreso nella credenza che lo interpreta. La narrazione mitica decide dell’interpretazione del fatto e consente di riconoscere in esso l’adempiersi di una forza o le ragioni del suo sfuggire. In sostanza, il giudizio d’efficacia non è un evento semplice, ma nella formulazione di esso entrano, quali ingredienti preliminari, parametri già mitici che decidono in certo senso a priori la nozione di efficacia e si salvaguardano di fronte alla mancanza di risultato e allo scacco. Per questa ragione, l’eventualità del rito deve essere vincolata alla narratività del mito come giustificazione teologica del rituale stesso; per converso, nella stabilità e reiterazione del rito si concreta e si oggettiva la temporalità originaria del mito. In tale situazione la nozione stessa di efficacia è analogica: infatti le discrepanze, qualora siano riconoscibili, sono integrabili tramite un contenuto immaginario; per converso, la previsione è tutt’altro che puntuale e analitica, non esistendo in queste culture l’idea propriamente scientifica di controllo. A titolo esemplificativo, vale la pena ricordare che in molte circostanze il sistema di giustificazione dell’efficacia rituale è riconducibile, da un lato, all’esecuzione corretta del gesto rituale e, dall’altro, alle condizioni personali di idoneità dell’esecutore del gesto. In questo caso, le regole d’efficacia vengono ricondotte a un sistema di coppie del tipo puro/impuro, degno/indegno più che a nozioni impersonali, e per noi ormai consolidate, quali quelle di vero e falso. Il sistema di prova è quindi connesso con riti di purificazione o, in ogni caso, con tutte quelle condizioni che conferiscono all’azione e al suo produttore 132

giustificazione in relazione sia all’adempimento sia alla defezione. Dal gesto rituale e dalla pratica divinatoria si passa a una primaria laicizzazione del discorso, dovuta a una progressiva incrinatura dell’efficacia rituale nel suo complesso. Ciò avviene poiché si realizza un complessivo venir meno del mito come sistema simbolico e delle formule d’autorità istituzionali che lo reggevano. Si dissolve la parola mantica; essa era un fatto rituale poiché il Dio era direttamente chiamato in causa in forza di una sua originaria e originale epifania: era necessario interpretare il segno del Dio. Per tutto ciò esistevano interpreti autorizzati e occasioni opportune. Tuttavia già la decifrazione del segno divino era matrice di ambiguità: la previsione comportava quanto meno una disgiunzione e perciò una dicotomia. Finché il contesto mitico regge come contesto, l’integrazione delle défaillances è, sia pure approssimativamente, sempre possibile; non lo è più quando la società nel suo complesso evolve da forme di organizzazione rituale verso un sistema probatorio di tipo empirico, dove il controllo del fatto è meglio definito in relazione alla sua collocazione spazio-temporale, alla sua fonte e alla sua destinazione. In questo caso, l’integralità fabulatoria del mito si scompone e diviene sempre meno persuasiva, e con il decantarsi delle grandi unità mitologiche cambiano le regole di giustificazione e di prova che il mito dentro di sé possedeva. Con la variazione delle procedure cambiano le modalità di accertamento, la collocazione del soggetto di imputazione e, sul piano personale, quella stessa di responsabilità. La responsabilità comporta una personalizzazione dell’azione e la convocazione personale dell’autore in giudizio. Tutto ciò favorisce la costituzione di un diverso spazio sociale e perciò argomentativo: l’universo retorico diviene l’ambito nuovo del discorso e la nuova forma regolativa dell’esercizio di parola. La verità è ancora collegata all’efficacia, ma è variato già il tipo di controllo sull’effettualità; sono anche variate le aspettative e il modo di soddisfarle, la tecnica in forza della quale prevedere e perciò decidere. La retorica dissacra e laicizza la parola mitica, elabora 133

un modello probatorio in cui l’argomentazione in generale deve trovare conferma nel successo particolare; per converso, il particolare deve essere esplicato nel generale per sottrarlo all’oscurità e al dubbio. Il gioco tra generalità e particolarità allora si fa stretto. La determinazione del generale e le modalità di inclusione del particolare in esso divengono quindi molto presto i caratteri salienti entro cui si svolge la nuova organizzazione del linguaggio. L’evoluzione dalla dialettica dei sofisti alla scienza della dimostrazione si sviluppa lungo questa linea, ed è in base a queste procedure che si elabora lo statuto di verità che giunge fino a noi.24 Tale statuto decide circa ciò che può essere detto e non può essere detto. La possibilità del dire è decisa, da un lato, in forza di un criterio di adeguazione a una realtà supposta autonoma, dall’altro, dalla sufficienza e coerenza dei termini nella formulazione del giudizio. Questa nuova e diversa organizzazione del discorso produce infine l’oggettività: il contenuto oggettivo, come ciò che è stabile e sufficiente a se stesso in base alla sua forma, mette fuori gioco l’aleatorietà dell’argomentazione retorica. A maggior ragione è esorcizzato il gesto mitico: esso è ormai riconosciuto come segno vano, di tanto sono variati il giudizio di efficacia, le aspettative dei soggetti e le tecniche di accertamento degli effetti. Il sofista lottò contro l’uomo religioso e il conflitto si caratterizzò, in termini di potere e di diritto, come lotta tra superstizione ed empietà. L’empio vinse sulla sclerosi del sacro e laicizzò la cultura. A sua volta il sofista fu battuto: il conflitto si configurò, ancora una volta, in termini di potere e di diritto, come lotta tra verosimiglianza e verità, tra l’indifferenza di vero e di falso e la posizione netta della distinzione dei termini e dell’opposizione dei contenuti. Le trasformazioni ora accennate sono sufficientemente indicative di cosa si deve intendere quando si parla di regole di costruzione dei discorsi e perciò dei meccanismi di limitazione e di diritto: in altri termini, di procedure di esclusione dal diritto di parola e di convenzionalizzazione delle modalità formali che conferiscono tale diritto o che, in ogni caso, permettono di 134

poterlo contestualmente acquisire. Detto ciò si può provvisoriamente concludere in questi termini: il discorso è evento e perciò è un’entità discontinua riconoscibile come tale perché organizzabile in serie: le serie sono suscettibili di organizzazione poiché risultano sintatticamente coerenti e perciò raffigurabili in base al reperimento di regolarità, che danno conto della stabilità e insieme delle trasformazioni del discorso. Tutto ciò, infine, costituisce le condizioni di possibilità di ogni dire empirico.

4. Discorso e interpretazione Il gioco delle formazioni discorsive lo abbiamo esposto in modo astratto e rarefatto, ma ciò non deve metterci fuori strada: non si tratta di un divertente gioco a incastro. Gioco è, per dirla con Nietzsche, ma gioco vitale e perciò tragico. Non ne conosciamo né la quieta origine né, tanto meno, l’acquietante destino. La configurazione degli ordini di discorso corrisponde al modo in cui si strutturano e si assestano le grandi correnti di forza. Il gioco è tremendo e crudele: è un gioco di vita e di morte. Discontinuità e organizzazione giovano per identificare le modalità di consistenza in base alle quali un aggregato di forza consiste. Quanto qui abbiamo espresso in forma di unità discorsive e di serie può essere guadagnato tramite un’analisi dell’articolazione della potenza, e quindi delle forme di potere che reggono i discorsi o più propriamente che i discorsi stessi sono. Si tratta, ancora una volta, della grande lezione nicciana. Essa evita sia il vitalismo ingenuo sia l’idealizzazione di una vita innocente; in secondo luogo, essa mostra come qualsiasi costrutto formale si radichi, spinozianamente, nel vitale, come non si diano puri pensieri, bensì essi siano una complicazione di passioni e di conati d’esistenza. In questa sede ci limitiamo alla semplice indicazione delle dinamiche di potere che presiedono alla formazione dei discorsi perché altro è il nostro intento, ossia la connessione tra linguaggio e discorso. In apertura avevamo già segnato la strada per 135

quest’esposizione: il linguaggio come universo della comunicazione è il luogo inobiettivabile entro cui i discorsi insorgono, si differenziano e si rendono eventualmente traducibili. Il contributo di Foucault è stato soprattutto quello di mettere a fuoco le discontinuità discorsive negli aspetti non solo formali, ma anche storici: in sostanza, le ricerche foucaultiane rendono presente il differenziarsi storico-materiale della comunicazione e le modalità formali entro cui tale differenziazione si determina. Ora, nessuna sequenza storico-linguistica potrebbe essere appresa come discontinuità se fosse del tutto irrelata, se si desse cioè al di fuori di quello spazio della relazione che è la lingua stessa. Infatti, al di fuori della relazione, rispetto a che cosa qualsiasi discontinuità potrebbe essere appresa come discontinua? Qualsiasi serie, sia essa storicamente rinvenibile sia essa concettualmente costruibile, è posta dentro un campo di relazioni: non si darebbe distanza in base alla pura e semplice aleatorietà. Il discontinuo unitamente alla dissolvenza suppone la relazione: in altri termini, la discontinuità appare in uno col suo differenziale storico; il differenziale appare come spazio multiverso di relazioni. Questo campo di relazioni evidentemente non può essere concepito come un continuum di tipo egologico né, tanto meno, come una continuità di stampo storicista e progressivo; meno che mai, allora, può essere inteso come spazio logico fisso, che includa in sé tutte le serie possibili e gerarchicamente le risolva. Eppure una logica della relazione deve pur essere in qualche modo concepibile, quale condizione ineliminabile per la rilevazione delle discontinuità e per l’apprensione stessa della nozione come termine dotato di senso. Quanto qui si viene dicendo mostra come la dissoluzione del trascendentale, quale luogo stabile dell’identità, non intacchi minimamente la necessità di porre relazioni, a salvaguardia dell’apparizione stessa di serie discontinue, entro cui vengono inscritti eventi. Tutto ciò è fatto storico e insieme evento linguistico: soprattutto è un a priori di tutt’altro genere, rispetto sia al trascendentale classico sia allo stesso a priori storico foucaultiano. La logica delle relazioni, così come qui indicata, ha a che fare con la 136

composizione di uno spazio logico-storico che è apertura interpretante e perciò luogo generativo di senso. Quest’apertura è insieme evento, ma anche orizzonte. Nulla si dà al di fuori della relazione che si correla, e in tal senso essa semplicemente e/viene; d’altra parte, ciò che in essa si correla forma l’epoca. Alla logica delle relazioni così intesa non può convenire una nozione di relazionalità del tutto procedurale, ossia non la si può ridurre a un accorgimento tecnicolinguistico che un qualsiasi soggetto fuori del gioco possa a discrezione impiegare o refutare. E chi sarebbe mai un tale soggetto dal momento che non si dà più quello teologico (Dio) e si è dissolto quello egologico? Meno che mai un tale soggetto è riconoscibile nell’io empirico. Al contrario è proprio questo campo relazionale, come evento storico-linguistico, ciò che costituisce quell’apertura di senso entro cui i soggetti storici sono istituiti come parlanti. Vivere in un qualsiasi momento del tempo significa appartenere a una costellazione di senso e parlare la sua lingua. Solo a questo titolo si danno filosofie della storia: esistono frammentate densità in cui il linguaggio eviene. Al di là dei luoghi comuni e delle opposizioni semplici, quali continuo e discontinuo, esistono modalità discrete in cui irrompe il senso. Questi pezzi di storia non possono essere giocati indiscriminatamente sul tavolo del tempo: esiste un destino di parola che l’epoca ci assegna e che costituisce il nostro orizzonte interpretante. Bisogna poter comprendere questo gioco che interpreta per poter discorrere con cognizione di effetti di verità. Proprio a partire da quest’orizzonte, ciò che Foucault ha indicato deve essere integrato. Il discontinuum storico deve essere collocato e svolto all’interno di una superiore filosofia della lingua: ciò significa accostare tutto ciò che è storico non solo in base alla sua distribuzione seriale, ma anche alla sua configurazione epocale. L’apertura che interpreta deve essere in qualche modo nominata. L’interpretazione, come messa in chiaro della stessa apertura interpretante, nel momento stesso in cui tende a comprendere se stessa dà ragione delle ragioni che si assegnano a quanto nella storia si svolge. In tal modo, senza distaccarsi 137

dall’oggettività di ciò che è storico si hanno motivi non arbitrari per storicizzare tutto ciò che è oggettivo. Ma la storicizzazione di cui qui si fa menzione non è una nozione storiografica: la storia come comprensione dello sguardo che guarda eventualizza insieme vedente e veduto, è cioè il punto di congiunzione che temporalizza la visione. In tale circostanza, si eventualizza l’oggettività stessa del vedere e perciò si vanifica ogni pretesa oggettiva di visione. Tutto ciò ha implicazioni filosofiche da cui non si può evadere: il carattere oggettivo del vedere, toccato dalla temporalità, si ribalta in uno scorrimento stesso della visione: il processo d’oggettivazione si replica all’infinito. Un fondale senza risoluzione, una fuga senza fine dello sfondo. Con quali strumenti è dominabile questo processo? Tali questioni Foucault direttamente o indirettamente le solleva, ma nel contempo le lascia indeterminate e le sfugge con un ricorso corretto, ma facile, alla genealogia. Non bisogna però dimenticare che in Nietzsche la serietà del filologo e del genealogista è tutta interna alla temporalità sapienziale e profetica di Zarathustra. Considerando le cose a partire da quest’orizzonte, gli elementi basilari della tematica foucaultiana subiscono un’inevitabile trasformazione: la presa d’atto del discontinuum si trasforma in problema dell’autocomprensione dell’epoca. È epoca il linguaggio che interpreta: l’autocomprensione di questo linguaggio può trovare esecuzione unicamente nella messa in chiaro della temporalità dell’evento che comprende. La comprensione di ciò che è storico dipende infatti dall’espressione che si riesce a dare a quella densità temporale che conferisce senso agli oggetti del discontinuo materiale. Come è possibile ciò? Con un diverso regime del segno. La filosofia disimpegna questo compito: il linguaggio che vuole attingere la profondità dell’epoca deve porsi sulle tracce dell’originarsi come tale. Forse proprio per questo il linguaggio si fa metafora. Ma vale la pena allora ricordare quel che Wittgenstein diceva a proposito di Heidegger: L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate allo stupore per il fatto che qualcosa esista. Tale stupore non può venire

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espresso sotto forma di domanda e infatti non vi è una risposta. Tutto quel che potremmo dire può essere a priori solo un non-senso. Eppure ci avventiamo contro il limite del linguaggio.25

In ciò il trapasso filosofico: commisurarsi con il linguaggio nella sua regione limite significa andare incontro al malinteso e allo pseudo-problema a ogni momento, ma significa anche guadagnare la posizione giusta se non per discriminare certo per avere il colpo d’occhio su ciò che è dicibile e ciò che non lo è. L’urto contro il paradosso scardina le barriere dell’ovvio: si tratta di un tentativo, “ma la tendenza, l’urto, indica qualcosa”.26 Si è nella più perfetta tradizione quando si dice che tocca alla filosofia reggere quest’urto e misurare il senso di quest’indicazione.27

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Note 1

Né l’uomo fa la parola, né la parola fa l’uomo, ma nella parola la coappartenenza all’originarietà del linguaggio come originarsi del senso, ossia come apertura della comunicazione nell’unitarietà del segno. Su questo punto risulta di decisivo interesse la posizione di Peirce: “Non vi è elemento della coscienza dell’uomo che non abbia qualcosa di corrispondente a esso nella parola; e la ragione è evidente: consiste nel fatto che la parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso. Poiché, come il fatto che ogni pensiero è un segno – considerato insieme al fatto che la vita è un flusso di pensiero – prova che l’uomo è un segno; così il fatto che ogni pensiero è un segno esterno prova che l’uomo è un segno esterno. Cioè l’uomo e il segno esterno sono identici, nello stesso senso in cui le parole homo e uomo sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso, poiché l’uomo è il pensiero” (C.S. PEIRCE, Pensiero-segno-uomo, in Semiotica, Einaudi, Torino 1980, p. 84). Su questo tema è di decisiva importanza il saggio di C. SINI, Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, il Saggiatore, Milano 1981. 2 È difficile per l’uomo dell’Occidente sciogliersi dall’ipoteca della volontà. Su questa questione vale la pena ricordare un’asserzione di Peirce: “L’uomo tende a identificare se stesso con la sua volontà (cioè con il suo potere sul proprio organismo animale) e con la forza bruta. Ma l’organismo è soltanto uno strumento del pensiero, mentre l’identità di un uomo consiste nella coerenza fra ciò che egli fa e ciò che egli pensa, e la coerenza è il carattere intellegibile di una cosa: cioè il suo esprimere qualcosa” (C.S. PEIRCE, op. cit., p. 84). La regione dell’espressione è appunto il linguaggio e la coerenza designa la modalità di appartenenza a questo luogo originario. Poco sopra Peirce aveva detto che la coscienza è usata “per significare l’io penso, o unità del pensiero; ma unità non è altro che coerenza, o il riconoscimento di essa. La coerenza appartiene a ogni segno, in quanto segno; e quindi ogni segno, dal momento che significa in primo luogo che è un segno, significa la sua propria coerenza. L’uomo-segno acquisisce informazioni e quindi viene a significare più di quanto significava prima. Ma così fanno le parole” (ibidem). A questo punto la coerenza peirceiana deve essere ulteriormente calibrata: a nostro parere ciò è possibile solo se la si svolge in una direzione specificatamente ermeneutica. Se così non è, si rischia di ridurre la notazione a un rilievo di buon senso o a un’ovvietà filosofica. Sul pensiero di Peirce cfr. il pregevole saggio di K.O. APEL, Der Denkweg von Charles S. Peirce, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967. 3 È merito di Heidegger, se non esclusivo certamente decisivo, quello di aver colto con radicalità la dimensione inaugurante del segno e con essa dell’uomo-segno quale apertura inaugurante nel già da sempre aperto: “In generale noi siamo noi stessi e siamo quelli che siamo solo in quanto additiamo ciò che si sottrae. Questo additare (Weisen) è la nostra essenza (Wesen). Noi siamo, in quanto indichiamo (zeigen) ciò che si sottrae. In quanto è colui che indica in questa direzione, l’uomo è colui che indica. L’uomo non è anzitutto uomo e in secondo luogo anche, e magari occasionalmente, uno che indica; ma: l’uomo è anzitutto fondamentalmente uomo in quanto è tratto nel movimento del sottrarsi, è in marcia verso questo e in tal modo è colui che indica il sottrarsi stesso [...]. Essendo tratto nel movimento verso ciò che si sottrae, l’uomo è un segno” (M. HEIDEGGER, Verträge und Aufsätze, Neske,

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Pfullingen 1954; tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 89-90). 4 La valenza del segno si determina a partire dal suo gioco. L’evento della comunicazione è allora interpretabile come gioco linguistico. Sotto questo aspetto Wittgenstein radicalizza, in forma estrema, la filosofia ermeneutica, poiché, da un lato, lascia aperto, a raggio infinito, lo spazio dell’interpretazione e, dall’altro, di volta in volta lo delimita tramite la determinazione materiale del senso, come rilevazione progressiva di giochi finiti. Indicazioni illuminanti su questo tema si possono rinvenire in K.O. APEL, Transformation der Philosophie 1, Gap. II, Hermeneutik und Sinnkritik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973, pp. 223-377. 5 M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Editions Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli 1971, p. 95. 6 Ibidem. 7 Ivi, pp. 96-97. 8 Ivi, p. 98. 9 Ivi, p. 107. 10 Ibidem. 11 La nozione di pertinenza risulta più chiara qualora se ne consideri l’ascendenza teorica. Il termine non è foucaultiano, ma lo è il concetto. La nozione è costantemente impiegata nella storiografia e nella linguistica comparata: basti pensare a Dumézil e Benveniste e, su altro versante, allo strutturalismo di Lévi-Strauss. La nozione di pertinenza indica la possibilità di inclusione di un qualsiasi termine in una sintassi o, in senso più esteso, la riducibilità di una qualsiasi sequenza indipendente a una struttura, come condizione sufficientemente esplicativa del significato e del valore sia dei termini sia delle sequenze in questione. A titolo esemplificativo, basti qui citare un antecedente robusto su cui in larga parte si modella la nozione foucaultiana di ordine del discorso: Dumézil. Lo storico francese in un suo noto saggio del 1941, Jupiter, Mars, Quirinus, in riferimento al problema dei quadri sociali e religiosi scriveva: “Non bisogna dimenticare che una religione è, con due parole già più volte usate nelle pagine che precedono, un sistema e un equilibrio [...]. Se dunque non si vuole equivocare grossolanamente circa la forma, l’ampiezza e la funzione specifica dei singoli ingranaggi di una religione, sarà necessario definire la posizione di tali ingranaggi rispetto all’insieme” (G. DUMÉZIL, Jupiter, Mars, Quirinus, Einaudi, Torino 1955, p. 15). I singoli momenti di un qualsiasi fenomeno religioso sono resi comprensibili dall’insieme che li esplica e perciò da una logica di sistema: essa è possibile perché si possono formulare leggi di riducibilità. “Il comparatista,” prosegue Dumézil, “dispone di un mezzo di valutazione obiettiva, consistente nel ritrovare coincidenza (e dei gruppi di coincidenza piuttosto che delle coincidenze isolate) tra due società di comune origine [...]. In fondo, del metodo comparativo può dirsi la stessa cosa sia in materia di linguistica che di storia delle religioni: esso solo permette di risalire con sicurezza, con obiettività, nella preistoria, mediante l’utilizzazione simultanea degli arcaismi, delle bizzarrie (delle ‘irregolarità’, dicono i grammatici), di tutte le tracce che qua e là, nel senso di ogni equilibrio particolare sostituito all’equilibrio preistorico comune, ben testimoniano di quel lontano passato, ma non ne testimoniano che a condizione di determinarle e isolarle, di confermarle, interpretarle e, talvolta, restaurarle dall’esterno” (ivi, p. 19). Se ciò è vero, la pertinenza è decisa da leggi di equilibrio, che definiscono le modalità di inclusione e di esclusione di un elemento in una serie e di una serie in un’altra serie. Queste leggi possono

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essere elaborate dall’esterno purché sia fatta salva la congruità. Una delle modalità classiche di elaborazione di leggi di pertinenza la si ritrova nel saggio di C. LÉVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Librairie Plon, Paris 1962; tr. it. Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 1968: si vedano in particolare il cap. II, La logica delle classificazioni totemiche, e il cap. III, I sistemi di trasformazione. Questi modelli presiedono all’elaborazione foucaultiana della nozione di enunciato e di archivio. Più in generale queste metodologie sono state variamente impiegate in vari contesti disciplinari; a titolo indicativo cfr. M. DETIENNE, Les Jardins d’Adonis, Editions Gallimard, Paris 1972; tr. it. I giardini di Adone, Einaudi, Torino 1975. Correndo lungo queste linee è facile scoprire come Foucault e molti altri affondino le loro radici in una tradizione culturale che per diverse variazioni risale per un verso alle ricerche di linguistica comparata e strutturale e per altro verso al funzionalismo sociologico di matrice durkheimiana. 12 M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, cit., pp. 144-145. 13 Ivi, p. 148. 14 Ivi, p. 150. 15 Il processo di positivizzazione del trascendentale prende avvio in Foucault sin dalle sue ricerche di tipo archeologico-genealogico: cfr. Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, P.U.F., Paris 1963; tr. it. La nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969. Quest’impianto ha trovato poi una sua formalizzazione più propriamente sistematica in Les mots et les choses, Editions Gallimard, Paris 1966; tr. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970. 16 M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, cit., p. 147. Foucault chiarisce quest’asserzione tramite esempi. La positività di un discorso può riguardare la storia naturale, l’economia politica, la medicina clinica: ora quali sono i tratti distintivi di ogni rispettiva positività? “Questa unità non permette certamente di decidere chi diceva la verità, chi ragionava rigorosamente, chi si conformava meglio ai propri postulati, se Linneo o Buffon, Quesnay o Turgot, Broussais o Bichat; non permette nemmeno di dire quale di queste opere fosse più vicina a una destinazione primaria, o ultima, quale formulasse più radicalmente il progetto generale di una scienza. Ma permette di far apparire la misura in cui Buffon e Linneo (o Turgot e Quesnay, Broussais e Bichat) parlavano della ‘stessa cosa’, ponendosi allo ‘stesso livello’ e alla ‘stessa distanza’, sviluppando ‘lo stesso campo concettuale’, contrapponendosi sullo ‘stesso campo di battaglia’; e fa anche apparire perché non si può dire che Darwin parli della stessa cosa di Diderot, che Laennec continui Van Swieten o che Jevons risponda ai Fisiocratici” (ivi, p. 147). 17 Su questo tema cfr. M. FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977. 18 Su questo tema la posizione di Foucault, se non dipende, certamente converge con quanto dice Lévi-Strauss quando scrive: “A partire dall’esperienza etnografica, intendiamo sempre redigere un inventario dei recinti mentali, ridurre dei dati apparentemente arbitrari a un ordine, raggiungere un livello in cui si rivela una necessità immanente alle illusioni di libertà” (C. LÉVI-STRAUSS, Le cru e le cuit, Librairie Plon, Paris 1969; tr. it. Il crudo e il cotto, il Saggiatore, Milano 1966, p. 25). Per quanto attiene alla positivizzazione del trascendentale e alla sostituzione del soggetto di tipo kantiano con l’altrettanto impersonale ordinamento di rappresentazioni vale la pena citare ancora Lévi-Strauss: “Lasciandosi guidare dalla ricerca delle costrizioni mentali, la nostra problematica si ricongiunge a quella del kantismo, benché noi seguiamo altre vie che non ci conducono alle medesime

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conclusioni”. E più avanti: “Noi riconosciamo perfettamente questo aspetto del nostro tentativo sotto la penna di Paul Ricoeur, quando egli lo qualifica, a ragione, ‘kantismo senza soggetto trascendentale’. Tuttavia, a noi sembra che, anziché segnalare una lacuna, questa riserva sia la conseguenza inevitabile, sul piano filosofico, della scelta che abbiamo fatto di una prospettiva etnografica, poiché, essendoci messi alla ricerca delle condizioni in base alle quali certi sistemi di verità divengono mutualmente convertibili e possono quindi essere simultaneamente accettabili per vari soggetti, l’insieme di queste condizioni acquista il carattere di oggetto dotato di una realtà propria e indipendente da ogni soggetto. Noi crediamo che nulla, meglio della mitologia, permetta di illustrare questo pensiero oggettivato e di dimostrare empiricamente la sua realtà” (ivi, pp. 26-27). Il pensiero oggettivato e la sua dimostrazione empirica non preservano però del tutto da un nuovo tipo di idealismo: bisogna rendere aleatorie queste medesime oggettività. Per questo Foucault non è strutturalista: egli interpreta le strutture stesse come eventi, mediando l’istanza d’ordine con quella bachelardiana di soglia e perciò di rottura epistemologica o scarto. 19 M. FOUCAULT, La nascita della clinica, cit., p. 10. 20 M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. 21 Su questo tema cfr. M. DETIENNE, Les maîtres de la vérité dans la Grèce arcaïque, Librairie François Maspero, Paris 1967; tr. it. I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1977. Cfr. inoltre, G.E.R. LLOYD, Magic, Reason and Experience. Studies in the Origin and Development of Greek Science, Cambridge University Press 1979; tr. it. Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca, Bollati Boringhieri, Torino 1982. 22 Sul mito così scrive Dumézil: “Un mito è un racconto che viene sentito, dai suoi credenti, in un rapporto abituale qualunque con un’osservanza positiva o negativa, con un comportamento regolare, o con una concezione direttrice della vita di una società” (G. DUMÉZIL, op. cit., p. 7). Il mito ha all’interno di una società una funzione strutturante; per altro verso, esso riflette funzioni sociali e strutture; circa questo tipo di connessione cfr., a titolo esemplificativo, G. DUMÉZIL, Mythe et épopée I, Gallimard, Paris 1968; tr. it. Mito ed epopea, Einaudi, Torino 1982. Sul nesso testoracconto-struttura cfr. J.M. LOTMAN, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Roma-Bari 1980; in particolare cfr. Parte I, La cultura come insieme semiotico. Più in generale sul linguaggio cfr. E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 1971. 23 Prescindendo da qualsivoglia rigido funzionalismo e indipendentemente da qualsiasi formalizzazione forte di tipo strutturalista, il minimo indispensabile per la ricostruzione di un’unità mitica, o di una società così caratterizzata, è dato dalla rilevazione di frequenze statistiche, lessicali o comportamentali che siano, e dal calcolo delle variazioni su questa base. A controprova basta riferirsi al corpus iscriptionum di cui parla Malinowski: “L’organizzazione della tribù e l’anatomia della sua cultura devono essere registrate in uno schema solido e chiaro. Il metodo della documentazione statistica concreta è il mezzo con cui può essere elaborato un tale schema” (B. MALINOWSKI, Argonauts of Western Pacific. An Account of Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea, Routledge & Kegan, London 1922; tr. it. Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Newton Compton Editori, Roma 1973, pp. 48-49).

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Su quest’argomento cfr. G.E.R. LLOYD, op. cit., cap. II, Dialettica e dimostrazione, pp. 48-88. 25 F. WEISMANN, Wittgenstein und der Wiener Kreis. Aus dem Nachlass, herausgegeben von B.F.N. Guinness, Blackwell, Oxford 1967; tr. it. Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da F. Weismann, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 55. 26 Ivi, p. 56. 27 Su questo tema cfr. la Conclusione del mio saggio Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Feltrinelli, Milano 1980.

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APPENDICE

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1. Soggettivazione e oggettività Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale Ragione. Com’è venuta la ragione nel mondo? Come è giusto che arrivasse, in modo irrazionale, attraverso il caso. Si dovrà indovinare questo caso, come un enigma. F. NIETZSCHE, Aurora, libro II, 123

1. Forme della ragione e radici dell’azione Non esistono più verità assolute: così, almeno, dice e crede lo spirito del tempo. Esiste, caso mai, una memoria di verità, il conflitto con un’ombra, che gioca la sua funzione tra convenzione ed enigma, correttezza e ineffabilità. Lasciamo al tempo la sua credenza: veritas filia temporis. Non vogliamo qui discutere gli eterni destini del vero e del falso, né se la credenza dell’epoca colga nel segno o perpetui l’inganno; al contrario, prendiamo atto di ciò che l’epoca dichiara: la caduta di tutti gli immutabili.1 Se questo è vero, la domanda che bisogna allora porsi è la seguente: si può ancora essere saggi? Altrimenti detto, ci può essere saggezza senza verità? Parrebbe di sì, se si ritiene ancora buona l’antica distinzione aristotelica secondo la quale “sia l’opinione sia la saggezza si riferiscono alle cose che possono essere altrimenti” (Eth. Nic., 1140b, 27-28). infatti, è l’abito mentale, o la virtù, capace di districarsi nell’aleatorietà. Se così è, la caduta degli immutabili non solo non impedisce di essere saggi, ma, al contrario, la saggezza cresce di rango e prende il posto dell’antico sapere. Essere saggi significa orientare la propria scelta nell’ambito dell’opportuno e non del vero, del plausibile e non dell’incontrovertibile. Se la saggezza consiste in questo, se, come diceva Aristotele, essa è “una disposizione pratica accompagnata da ragione verace intorno ai beni umani” (Eth. Nic., 1140b, 20-21), allora, è ancora concepibile un agire razionale senza assoluta verità. Solo ragioni prossime, capaci di autorizzare 146

l’azione. È dunque ancora possibile essere saggi? Per rispondere a questa domanda bisogna essere nelle condizioni, se non di esplicare completamente, di chiarire in modo quanto meno plausibile il nesso tra azione razionale e criteri di verità. Infatti, non è possibile razionalità alcuna senza criteri, cioè a dire senza parametri di scelta confrontabili tra loro, sia pure al fine di dichiararli incompatibili. Sia in termini di inferenza, sia in termini di efficacia, sia dunque su un piano logico che su un piano pragmatico, si deve essere nelle condizioni di poter decidere, dato un qualsiasi contesto, la proporzione ottimale tra mezzi e fini: detto altrimenti, data una situazione, si deve poter decidere quali assunzioni fare per selezionare i fenomeni, cioè a dire quali funzioni bisogna assumere come criterio discriminante per includere o escludere alcune sequenze di eventi piuttosto che altre. La ragione occidentale s’impianta come criterio di ordine e perciò come insieme articolato di procedure: su questa base si espande ed espandendosi si differenzia. I processi di differenziazione elevano i livelli di complessità e quindi la complessità stessa delle rappresentazioni teoriche: in una parola, si complessifica la forma del mondo. Cos’è dunque verità? Sempre di più criterio: criterio di distinzione degli oggetti tramite regole; posizione di regole come condizione necessaria per identificare oggetti. Non si danno oggetti senza regole: ciò significa che è dalla convenienza e traducibilità fra le regole che dipende la verità circa gli oggetti. La verità dunque potrà non essere più assoluta, ma ciò non significa che i discorsi divengano arbitrari. La verità in quanto criterio di distinzione, magari convenzionalmente istituito, si mantiene non foss’altro che per quel tanto di rigidità che è proprio di ogni stipulazione. Per altro verso, la posizione di regole non è qualcosa di semplicemente astratto e deciso da partner neutrali: al contrario, ogni procedura, insorgendo in un contesto singolare individuato e storico, è tanto aleatoria quanto il contesto, ma a esso altrettanto vincolata. La razionalità dell’Occidente, nel suo esito estremo, combina la rigidità delle forme alla loro modificabilità per adattamento e composizione: la verità, 147

come insieme differenziato di criteri, è perciò nozione controllabile e nel contempo deformabile ed elastica. Se quanto abbiamo rilevato è vero, che cosa significa per l’uomo essere saggio? Significa semplicemente essere razionale o significa altro? E, ammesso che significhi essere razionale, di quale ragione stiamo parlando, vista l’ampiezza del suo decorso? E, infine, l’uomo è soggetto perché è detentore di ragione come sua qualità propria o perché, a partire da un certo momento della sua storia, comincia a realizzarsi come soggetto in quanto tipicizza le azioni in norme? Bisogna rispondere all’interrogativo nicciano: da dove è venuta questa ragione e soprattutto come e perché è venuta a dominio. Per intendere ciò, bisogna ricostruire la storia di questa vicenda e in certo senso tentare una genealogia. E così siamo giunti al cuore del nostro problema: per capire in che cosa consiste la saggezza bisogna essere nelle condizioni di esplicare il senso dei comportamenti mostrandone le motivazioni o le funzioni latenti. La tradizione insegna che il saggio agisce in modo razionale poiché accorda i principi ai casi: il suo agire è conforme a ragione perché egli sa applicare alle circostanze quanto gli è noto per conoscenza razionale ed esperienza vitale. Ciò suppone che il saggio domini (in generale) i principi dell’agire e abbia sentore sufficientemente determinato circa quello che caratterizza questa o quella circostanza. Ma in una situazione mutata, quando cioè i principi non possono essere del tutto noti ai singoli, data la complessità dei paradigmi, e le circostanze sono caratterizzate da un numero così alto di variabili da non essere dominabili da un individuo solo – quando ciò accade, viene meno l’antica figura del saggio come signore della decisione e dell’occasione opportuna. O per lo meno, se la si vuole riutilizzare, deve essere reintrodotta tramite debiti correttivi. L’etica di Aristotele può a buon diritto essere considerata come una delle più grandi elaborazioni della teoria dell’azione2: certamente fu un modello epistemologico per la cultura degli antichi e un presupposto ineludibile per l’antropologia filosofica dei moderni. Tuttavia, quella dottrina non può essere 148

compresa se la si disgiunge dall’immagine d’uomo a cui si riferisce, cioè a dire dall’antropologia che la sottende e dall’ontologia che la fonda. Questo vale per l’etica aristotelica, ma più in generale per qualsiasi teoria dell’azione: infatti, l’agire non può essere disegnato come mondo indipendente e separato, che anzi esso risulta dall’integrazione di sfere diverse, che vanno dalla biologia e fisiologia animale alle formazioni culturali. Questi livelli alti di integrazione, tra ambiti materiali e sistemi teorici, motivano il fatto che per intendere rettamente la stessa teoria aristotelica dell’agire e della morale bisogna saggiare il contesto in cui essa si forma, e a quali tensioni e problemi dà risposta e corrisponde. La cosa risulta poi di maggior interesse se si tiene conto del fatto che è proprio quel contesto greco il luogo di incubazione dell’antropologia occidentale. Se il profilo del saggio, così come lo aveva elaborato la cultura antica, si è ormai decantato, permangono tuttavia nel lessico comune e nel linguaggio corrente della morale alcuni termini di quella tradizione. Dobbiamo interpretare questo vocabolario come una pura giacenza, che non denota eventi precisi e accessibili alle indagini dei moderni o, al contrario, lo dobbiamo interpretare come il perdurare e il mantenersi di esigenze di fondo pur nella mutazione dei contesti? In tal caso, i caratteri della saggezza potrebbero essere ripresi e, in termini variati, reintrodotti nelle teorie dell’azione. Per valutare questo passaggio bisogna, come si diceva sopra, esplorare il fondo antropologico che sottende l’esser saggi e, nella specie, il terreno di formazione dell’uomo occidentale, del soggetto dell’azione. Le antropologie sono in larga parte inadeguate a definire cos’è un uomo, meno che mai sono capaci di dare risposta ai problemi di un singolo, ma sono congetture necessarie, sia pure come ipotesi ad hoc, per motivare e giustificare le azioni, per descrivere il senso dei giochi che gli uomini vanno giocando nel mondo. L’intera storia della cultura è intessuta di immagini d’uomo e di idee d’umanità; se si procedesse a un’esplorazione di quest’universo, sia pure in forma di 149

tentativo, si guadagnerebbero subito la portata del problema e le innumerevoli irresoluzioni a esso connesse. Diverse dunque sono le linee di fuga entro cui l’umanità storica si rappresenta e si giustifica, e perciò rinviene le sue provvisorie ragioni. Da quest’universo di simboli e di figure noi vogliamo prelevare un solo schema poiché esso ha svolto una funzione decisiva nella costituzione e nello sviluppo dell’antropologia occidentale: questo schema, in formula chiara e breve, può essere posto sotto il titolo di esteriorizzazione della soggettività o, altrimenti detto, di oggettivazione dell’anima. Cercheremo più avanti di chiarire il significato di tale formula: intanto, vale la pena segnalare che questo decorso si svolge tra la costituzione dell’uomo in soggetto, come sintesi unitaria di corpo, intelletto e volontà, e la dissoluzione della soggettività in una molteplicità di ordini di rappresentazione e di sistemi di riferimento. Il termine medio di questo decorso si può, grosso modo, rinvenire nella modificazione dell’anima da sostanza immortale e forma del corpo in soggetto di rappresentazione e principio d’ordine per tutto ciò che nella rappresentazione si rappresenta. Con quest’inversione prende inizio ciò che comunemente si usa chiamare il moderno. Certo, lo sviluppo dell’antropologia occidentale non consiste unicamente nella costituzione dell’uomo in soggetto e nell’esteriorizzazione progressiva di tale soggettività: molti altri fili sottendono questo processo e ne sono in vario modo implicati. Lo schema che abbiamo prescelto per tracciare il profilo dell’antropologia occidentale ha, come tutti gli schemi, il limite inevitabile di semplificare processi fortemente differenziati e complessi. Tuttavia, ha pure l’indiscutibile vantaggio, che hanno tutti gli schemi, di punteggiare un decorso. Lasciamo dunque alla cultura del lettore e alla sua tensione teorica il compito di dare spessore e di integrare quella che qui è solo l’indicazione di una linea di tendenza. Detto ciò, poiché abbiamo assegnato a questo schema il titolo di esteriorizzazione della soggettività, è bene chiarire che cosa con questa formula s’intende e che cosa essa implica. Il filo conduttore della costituzione e dello sviluppo dell’uomo dell’Occidente si può articolare in tre momenti: 150

1) la costituzione dell’uomo occidentale come individualità compiuta, ossia come sintesi di corpo, intelletto e volontà; 2) l’oggettivazione dell’individualità nella rete dei saperi; 3) il compimento e insieme la dissoluzione del soggetto moderno nella polivalenza delle sue funzioni, e quindi la produzione degli individui in base a queste stesse funzioni. La nascita dell’uomo occidentale è cosa estremamente complessa, e rinvia a un insieme di condizioni eterogenee per provenienza geografica e culturale e differenziate dalle tradizioni, dai rituali, dalle filosofie. Queste condizioni sono state sufficientemente indagate dall’antropologia culturale, dall’etnostoria e, in generale, dalla storia delle civiltà. Tuttavia, almeno due condizioni devono essere qui menzionate, come quadro di riferimento per comprendere la nascita dell’uomo occidentale e, nella specie, del suo archetipo: l’uomo greco. L’uomo greco nasce: 1) quando gli individui storici, gli uomini viventi, descrivibili attraverso i loro stati corporei e coglibili attraverso i loro atti specifici, vengono concepiti e rappresentati come entità corporeo-spirituali o, più propriamente, mentali. Detto altrimenti, l’uomo greco nasce quando le differenti prestazioni corporee e le differenti manifestazioni espressive vengono raccolte e unificate attorno a un’entità psichica detta pensiero (νου˜ς) e a essa gerarchicamente subordinate3; 2) in secondo luogo, quando la differenziazione delle prestazioni sociali sottrae progressivamente gli individui agli schemi di comportamento classici e rituali, e produce soggetti titolari delle proprie azioni e responsabili innanzi a se stessi e, proprio per questo, innanzi alla comunità. In tal modo, il comportamento dei soggetti viene personalizzato tramite il diritto. L’uomo greco come individuo, ossia come sintesi di corpo, intelletto e volontà, si svolge in uno con quello di soggetto politico. Questi due processi presiedono alla costituzione e allo sviluppo di una delle tradizioni più importanti dell’antropologia occidentale: tale tradizione è caratterizzata, da un lato, da un processo di concentrazione e, dall’altro, da un processo 151

di differenziazione. Il processo di concentrazione produce l’individualità, in quanto raccoglie le diverse dimensioni e prestazioni corporee intorno all’unità del νου˜ς, in modo tale che l’uomo possa sentire se stesso, possa avere il senso di sé. Il processo di differenziazione implica e ribadisce quello di concentrazione. L’individuo sociale, infatti, è l’esito di una differenziazione sociale, che da differenziazione di caste si viene progressivamente svolgendo in differenziazione di ceti. Questa differenziazione è possibile poiché è coestensiva alla crescita dell’individualità tramite il riconoscimento dell’alterità dell’altro, e quindi in forza della reciprocità delle individualità tra loro. Su questa base si gettano le fondamenta per la formazione del diritto e della politica: in una parola dell’individualità sociale.4 Nel mondo greco l’individualità è strettamente vincolata alla corporeità: prima ancora d’essere una finzione giuridica, essa coincide con l’individualità empirica e soprattutto con la grande individualità: l’uomo riuscito, che è insieme culmine e modello. “Per questo,” dice Aristotele, “riteniamo che siano saggi Pericle e gli uomini simili, per il fatto che sanno vedere quali sono i beni per loro e per gli uomini; e noi pensiamo che tali debbano essere gli uomini che governano la famiglia e lo stato” (Eth. Nic., 1140b, 5-11). In questo quadro, diviene comprensibile come per il greco il raggiungimento della felicità coincida con il compimento della propria individualità. Il bene individuale, poi, coincide con il bene collettivo e non è separabile da esso. Perciò l’etica classica culmina nella politica o, in ogni caso, non può esserne disgiunta, poiché la realizzazione di sé è fatto individuale e insieme collettivo. In sostanza il compimento del soggetto presuppone condizioni adeguate e atte a favorirlo. Proprio in questo contesto culturale e politico si produce una personalizzazione del soggetto tramite la mente o anima. Tuttavia la cultura greca, nel momento stesso in cui specifica l’individuo tramite il νου˜ς, pone le premesse per una sua scissione. Infatti, è indubbio che l’individuo attinga la sua pienezza quando la diversità delle sue 152

espressioni corporee si raccoglie nell’unità di corpo e mente; ma la coscienza di sé, una volta attinta, comincerà a pensarsi per sé e quindi a separarsi dalla propria corporeità.5 Quest’idea di separazione e autosufficienza dell’anima costituirà uno dei filoni determinanti dell’antropologia occidentale. Tale tendenza era già presente nella cultura greca prima di Platone: il nesso anima-spirito era già presente nei rituali misterici e nelle cosiddette filosofie orfiche.6 In Platone, poi, troverà il punto più alto di mediazione e di trasmissione.7 La dottrina platonica dell’anima, nel momento stesso in cui porta al massimo grado l’individualità dell’io, tramite la coscienza di sé, spezza quest’unità nel doppio ordine di anima e corpo, rendendo il corpo non solo subalterno all’anima, ma sua tomba e sua veste caduca. In questa tradizione, la felicità non coinciderà più con la fruizione piena ed equilibrata della propria corporeità, ma sarà rinviata, potrà essere spostata alla fine della vita terrena o sublimata in un logos eterno indifferente rispetto al fluire della storia.8 A questo punto si scioglie il nesso tra vita buona e vita felice: diviene allora concepibile una vita buona senza felicità e una felicità senza vita: ossia nell’altro mondo. Tutto ciò produce evidentemente una scissione tra individuo e società e, caso mai, favorisce l’integrazione tra i singoli in comunità misteriche o filosofiche. L’anima come interiorità è il luogo in cui si ha commercio con l’immutabile,9 dove si fa presente l’illuminazione della verità divina: unità di sapere e verità contro l’inganno dei sensi e la mutevolezza del divenire; integrità dell’io contro la forza dissolvente delle passioni. Il cristianesimo troverà nella distinzione tra anima e corpo, interiorità ed esteriorità, un terreno fecondo per una costante pedagogia dell’anima, un dosaggio raffinato e assai vario di equilibri tra opposizione e mediazione: dalla separazione dello spirito dal mondo alla vivificazione del mondo tramite lo spirito, dalla scissione e ascesi alla pienezza del πλήρωμα dalla κένωσις alla παρουσία. Il cristianesimo diventa un luogo eminente della cultura dell’anima,10 ma perciò stesso dell’elaborazione 153

dell’antropologia occidentale come tale. L’implicazione corpo-anima ha dato luogo a diversi equilibri11 e ha motivato opposte tendenze all’interno dello stesso cristianesimo, ma quel che qui ci interessa è l’individuazione del momento comune, ossia il punto di incrocio fra tutte le diverse tradizioni: esso consiste propriamente nella costituzione di un’immagine d’uomo come sintesi di corpo e pensiero, e in una specificazione del pensiero secondo le sue determinazioni fondamentali di intelletto, memoria e volontà. Sono queste le facoltà proprie dell’uomo dell’Occidente e, più propriamente, di quell’idea di umanità che troverà espressione nella cultura dell’Europa moderna. La svolta della filosofia moderna consiste essenzialmente nella trasformazione del pensiero in rappresentazione: da luogo delle idee, o mente, a orizzonte della presenza. Questa mutazione varia la natura di tutto ciò che appare, siano essi oggetti, corpi, cose. Tutto ciò che esiste, esiste fondamentalmente come affezione dell’anima. Filosofia della rappresentazione significa, allora, regime della mente e, cartesianamente, appunto Regulæ ad directionem ingenii. Il regime della mente, o altrimenti detto la disciplina dello spirito, insorge e si sviluppa all’interno di una pratica generalizzata di regolamentazione dei comportamenti, da quelli religiosi, sociali e politici a quelli propriamente attinenti alla condotta intellettuale.12 Evidentemente, chiarire il rapporto fra condotta intellettuale, o Discorso sul metodo, e le pratiche di potere significa, propriamente, porre in relazione sapere e dominio. L’internamento dei folli è un indice emblematico di queste procedure di normalizzazione. L’esito di queste vicende si risolve comunque in un dominio del sapere da intendere come dominio sul sapere, ma anche tramite il sapere. In altri termini, si ha a che fare con un controllo della vita tramite l’oggettivazione di essa, ossia l’organizzazione del mondo (fatto di potere) tramite un corpo di discipline (fatto di sapere). In ciò, l’esteriorizzazione della soggettività. Nella tradizione antica e medioevale, l’uomo era sintesi di corpo 154

e anima, ma, indipendentemente dal fatto che l’anima fosse ritenuta mortale o immortale, essa abitava il corpo vuoi come tomba e prigione (tradizione platonica), vuoi come sede naturale e propria di uno spirito incarnato (tradizione aristotelico-tomista). In ogni caso, l’anima come mente era sede della visione e del giudizio: luogo delle idee e sede del vero e del falso. Il corpo era veicolo materiale delle nozioni: in quanto presenza al mondo, il corpo costituiva la modalità propria dell’essere nel mondo. Decaduta o incarnata che fosse, l’anima era al mondo in quanto incorporata; il corpo, per altro verso, apriva la prospettiva sul mondo. Per converso, la mente, come luogo della visione e del giudizio, era visio intellectualis, partecipe di ciò che è eterno e perciò anche immortale. Sul motivo della visione si impianta la svolta moderna, ossia la mutazione dell’anima immortale in orizzonte assoluto della presenza. La filosofia cartesiana in primo luogo rigorizza la nozione tradizionale di visio intellectualis, emancipando l’anima dal corpo nella forma d’una emancipazione del regime della rappresentazione dal veicolo della visione. L’assetto della rappresentazione entro uno schema metodico fa dell’ordo rationis il criterio assoluto di verità. Se un problema di verità si pone, si pone come problema della corrispondenza tra l’ordo idearum e l’ordo rerum. Ciò che comunque costituisce la radicalità della svolta è il fatto che il corpo e il mondo in tanto sono posti in quanto sono saputi, ossia rappresentati: ora, il corpo e gli eventi del mondo, in quanto rappresentati, sono inclusi o contenuti in ciò che li rappresenta. Se prima, dunque, l’anima, quale sostanza spirituale, abitava il corpo, adesso, in quanto piano della rappresentazione, è posizione del mondo e quindi limite estremo della presenza, totale esteriorità rispetto a tutto ciò che essa include. L’anima, in quanto visio intellectualis, deve, sotto le istanze del metodo, mutarsi necessariamente in orizzonte della rappresentazione. Così assunta, essa subisce un progressivo processo di scorporazione, ma perciò stesso tende a non essere più neppure anima. Infatti, l’anima si libera dal corpo non tanto tramite il 155

transito della morte, che le consente di raggiungere il luogo eterno, ma concentrandosi sempre di più nella sua attività. La scorporazione dell’anima equivale sempre di più alla materializzazione del suo dominio. È la mutazione classica che va da Cartesio a Kant: l’anima da cosa pensante diviene essenzialmente e unicamente atto di pensiero. A questo punto l’esteriorizzazione della soggettività è pressoché compiuta: il corpo non si configura più come limite dell’anima, ma l’anima, come ordine della rappresentazione, include e contiene la rappresentazione del suo corpo e con esso del mondo. Non c’è più un’anima immortale, ma solo la necessità dell’ordine razionale. Il soggetto, in quanto principio d’ordine, consiste nel rigore della forma, si fa metodo e sistema categoriale, ponendo esso le regole d’esperienza perché un mondo sia. La filosofia moderna si svolge come insieme di pratiche procedurali, come assestamento continuo di regolarità discorsive. Tutto il mondo è detto ed esposto tramite le regole della ratio: il mondo vive più che mai nel discorso. Ma non in qualsiasi discorso e allo stesso titolo, ma nei discorsi che erano propri dell’anima, quelli che essa svolgeva sola con se stessa: il mondo vive nelle parole del logos, divenute parole di scienza. Il discorso, infine, è potere sul mondo. Dopo questa svolta qualsiasi procedura si scientificizza, ogni esperienza della vita viene tradotta in sapere e oggettivata. È allora facile capire come, proprio a partire dall’età moderna, ogni realtà si oggettivi nel sistema delle scienze e come i soggetti singoli, in una parola gli uomini, trovino espressione nelle regole che li normalizzano. La regolamentazione socio-politica di povertà e follia culmina nella fondazione della psichiatria, così come la spazializzazione dei corpi dà luogo alla clinica; allo stesso modo la sessualità diviene psicoanalisi e la sorveglianza scienza sociale. L’esteriorizzazione della soggettività parrebbe capace di fare quanto non era stato concesso alla vecchia anima. La ragione, in quanto piano della rappresentazione, si costituisce come sistema generale di ordinamento, capace di dominare qualsiasi determinazione per il fatto stesso 156

che la rappresenta, cioè a dire le dà parola. Ma ogni evento è individuale e l’individualità è ineffabile. Infatti, dell’individuale non si dà discorso. Il razionale è discorsivo. Ciò che sta fuori del discorso perciò stesso sta fuori della ragione: nel contempo la seduce e la insidia. Se l’individuale è ineffabile, se l’evento è indeducibile, tuttavia produce discorso. La ragione non è tenuta in scacco perché ridotta al silenzio dall’ineffabile, ma, al contrario, nello sforzo di ordinare essa accresce le sue dimensioni. Il discorso deve continuamente differenziarsi in relazione alla novità degli eventi, deve specificarsi dando luogo a una proliferazione di sottosistemi articolati e complessi. È vero, il sistema della rappresentazione è messo in crisi, ma dal suo stesso ampliamento: la moltiplicazione dei regimi discorsivi non è più compatibile con un ordinamento unico della razionalità. Se di crisi della ragione si deve parlare, se ne può parlare in un solo modo: eccesso di pratiche discorsive e irriducibilità di queste diverse pratiche a un solo ordine. Non c’è una crisi del principio d’ordine, dell’istanza del soggetto: caso mai è l’istanza del soggetto a produrre la crisi. Se non ci fosse istanza di ordinamento, non ci sarebbe neppure alcun senso e perciò neppure crisi. La modernità, nel suo esito, ha dissolto il soggetto perché lo ha gettato nell’aleatorietà: vale a dire che ha moltiplicato le sue possibilità di ordinare. La legalità formale del soggetto si riproduce continuamente in qualsiasi identificazione materiale di realtà: in ogni evento che viene nominato. L’esteriorizzazione dell’interiorità ha mutato il profilo della ragione, la profondità in superficialità, l’inabissamento in accrescimento. L’età moderna, in quanto età del soggetto, ha ridotto qualsiasi entità o determinazione a un’affezione dell’anima o della mente, ha trasformato gli oggetti in relazioni: non esistevano più cose ma rapporti. Il sistema delle scienze, come criterio massimo d’ordine, ha poi annullato lo spessore sensibile degli oggetti, risolvendoli nei rispettivi costituenti elementari logicamente ordinati. Come già abbiamo avuto modo di considerare, il sapere moderno è nato con istanze garantiste: tramite la 157

costituzione di un metodo razionale rigoroso e tramite il controllo analitico delle vie dell’esperienza, la modernità intendeva salvaguardarsi dall’errore, cioè a dire garantire l’adeguazione tra pensiero e cose. In altri termini, esistevano oggetti in quanto oggettivamente rappresentati: l’oggettività consentiva l’oggettualità. Ma, a mano a mano che si son venute sviluppando le procedure di controllo, l’intelletto ha mutato se stesso poiché ha progressivamente moltiplicato le prospettive sugli oggetti, rinvenendo, così, sempre più nuove oggettività. La filosofia della rappresentazione, nata come criterio di ordine, si è venuta di fatto svolgendo come sistema materiale e differenziato di procedure di ordinamento. Nel suo esito estremo, la ragione moderna si è risolta in molteplici ragioni, in un universo di sistemi concettuali e di conoscenze pratiche che sono gli attuali saperi. Altrimenti detto, l’incremento multiverso dei sistemi di rappresentazione ha prodotto fenomeni generalizzati e diffusi di organizzazione. L’incremento di sapere corrisponde quindi a un incremento di teorie scientifiche come insieme di dispositivi materiali e propri, capaci di esporre oggettività controllabili. In tale circostanza, la verità della scienza consiste nell’efficacia delle sue rappresentazioni, ossia nelle sue realizzazioni. Date queste premesse, l’epifania della scienza non può essere altro che la tecnica,13 ossia la produzione di oggetti materiali, che si svolge secondo l’oggettività delle rappresentazioni formali. Per converso, la formalità delle rappresentazioni si realizza nella materialità delle produzioni. Nella società moderna, la realtà è sempre di più un prodotto del sapere, natura e artificio un tempo separati tendono a eguagliarsi e coincidere. In tale situazione, il sistema dei saperi produce gli stessi soggetti delle azioni. Tanto differenziati, quanto i saperi. L’incremento dei saperi non è da interpretare come un fenomeno di irrigidimento gerarchico, ma come un fenomeno di complessificazione. L’oggettività del sapere è sempre esposta all’insidia dei processi e all’aleatorietà dei fatti: la conoscenza non annulla l’eventualità del mondo. In 158

una parola: l’universo differenziato dei saperi è esposto alla contingenza delle cose. Per altro verso, c’è un mondo se c’è un ordine che lo rappresenta: ci sono cose se ci sono discorsi sulle cose – l’esteriorizzazione ha tolto ogni inseità. Il controllo di processi sempre più differenziati e complessi amplia le prospettive della ragione: inaugura un’infinità tutt’altro che cattiva; apre un seguito di possibilità indeterminate, di cui però non si può a priori escludere che siano anche accessibili. In sostanza, un’infinità perseguibile. Ci pare di aver sufficientemente chiarito il significato di esteriorizzazione della soggettività. La partecipazione dell’anima all’immutabile è divenuta, nella filosofia della rappresentazione, oggettivazione di tutto ciò che è mutevole, cioè a dire scienza. A suo modo, si tratta di un’anomala vittoria dell’anima; nel processo di esteriorizzazione, l’anima ha radicalmente mutato se stessa mutando le cose e il mondo che ha attraversato. Esteriorizzandosi, la coscienza ha dovuto farsi carico sino in fondo della mutevolezza di tutto il reale. Detto altrimenti, la scienza, in quanto controllo della contingenza, è divenuta essa stessa un che di mutevole. S’intende, si tratta di una mutevolezza ordinata, di una costruzione successiva di teorie rigorose, ma nel contempo revocabili. Le strutture della coscienza sono mutate col mutare degli ordinamenti. E così l’immagine dell’uomo.

2. Identità dei soggetti e complessità sociale L’uomo occidentale è nato nel momento in cui si è consaputo come soggetto detentore di mente e parola, di pensiero e linguaggio, quando corpo e parola si sono raccolti attorno alla mente e sono stati rispettivamente interpretati come sede ed espressione dell’anima. L’uomo è dunque uomo in quanto costituito di un dentro e di un fuori, di profondità ed estensione: in una parola di interiorità e di esteriorità. Ma il pensiero in quanto orizzonte della consapevolezza o della presenza conteneva ab origine i germi della sua esteriorizzazione: la presenza al mondo si trasforma in presenza del mondo e infine in 159

mondo della presenza. La rappresentazione, come effettivo ordinamento del mondo, si muta, poi, in dominio sul mondo, ossia propriamente consiste nelle pratiche diffuse e al contempo generalizzate di disciplinarità: discipline come pratiche di ordinamento e tavole di sapere. A questo punto, risuona in modo quanto mai pertinente il perfetto aforisma di Nietzsche: “Lo specchio non lo vediamo mai diversamente da come vediamo il mondo che vi si rispecchia”.14 L’anima si esteriorizza quando non è più concepibile come una sostanza incorruttibile e immortale che abita il corpo, che a esso è congiunta, che da esso è separabile: in una parola, l’anima si esteriorizza nel senso che include tutto in sé, ma perciò stesso cessa di essere entità indipendente e separabile facendosi orizzonte.15 Come abbiamo visto, tutto ciò prende inizio nell’età cartesiana: vogliamo dire in sostanza che queste modificazioni appartengono all’antropologia dei moderni. Tutto ciò è ben sintetizzato da Luhmann quando scrive: Il soggetto ora si identifica e si comprende solo da se stesso, prima di passare a risolvere alcuni problemi successivi dell’autoriferimento attraverso la dimostrazione di Dio. La riflessione fa saltare, così, il quadro di una devozione orientata in senso religioso, di una Christian watchfullness, di un autocontrollo finalizzato alla salvezza. Con la sua ricerca d’identità essa trascende l’ambito della religione (senza che questo implicasse la critica o il rifiuto della religione).16

Esteriorizzandosi, l’anima si fa carico delle ragioni del corpo quale filo conduttore dell’universo dell’esperienza: detto altrimenti, l’anima, proprio nel farsi esteriore al corpo, ossia includendolo in sé come una sua idea, si fa paradossalmente essa stessa corporea e materiale. Luhmann cita un’opera paradigmatica di Jacques Abbadie che dà conto di questo passaggio. L’opera si intitola sintomaticamente L’art de se connoître soi-mesme,17 ma il sé come interiorità non c’entra affatto. Luhmann in proposito nota: L’opera non tratta, come potrebbe far supporre il titolo, della conoscenza di sé, bensì dell’amore di sé come principio della motivazione umana, come “principe general de nos mouvements”. Amore di sé e conoscenza di sé servono all’autoconservazione ed hanno così un riferimento funzionale al tempo. Concetti come amore, cuore, affezione stanno per il meccanismo pulsionale dell’agire umano e vengono distinti

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dalla ragione come principio dell’autocontrollo. Sui due piani il rapporto di base è un rapporto dell’uomo con se stesso. In questa forma dell’autoriferimento, l’uomo è dato come natura a se stesso e agli altri. La caratterizzazione in termini di natura vuol dire che ogni conoscenza deve avere origine da qui. La caratterizzazione in termini di cuore e di ragione vuol dire che non si tratta di una proprietà tra le altre, ma di un rapporto di base che viene attivato in ogni conoscenza ed in ogni azione. Ogni vissuto e azione, ogni influenza (più tardi, soprattutto: ogni educazione) dell’uomo e ogni teorizzare su di lui devono perciò assumere la forma della relazione all’autorelazione.18

Esteriorizzandosi, l’anima si fa indipendente dal corpo e principio di autoriferimento, perciò di stabilizzazione e di controllo: sotto quest’aspetto Cartesio radicalizza il dualismo platonico, ma nel contempo lo stravolge. L’anima è talmente separata dal corpo da poterne essere relativamente insidiata: la tentazione della passione, di memoria platonico-cristiana, diviene secondaria rispetto all’oggettivazione della corporeità, ritenuta il luogo proprio del formarsi meccanicistico del patere o degli affetti. Il radicalismo platonico di Cartesio risulta quindi una mossa di spiazzamento, uno slittamento decisivo nella tettonica del pensiero e, in senso stretto, della figurazione teorica: infatti, paradossalmente, l’anima proprio quando si esteriorizza e si fa del tutto estranea al corpo diviene coestensiva all’esteriorità stessa, e cioè corporea. In breve, l’anima è riducibile alla natura. In Cartesio convivono in equilibrio instabile un’ontologia spiritualistica e una concezione meccanicistica, ma la mossa decisiva e inarretrabile la genialità filosofica cartesiana l’ha già compiuta. Su questo punto ci pare condivisibile il giudizio di Gusdorf: Così la concezione meccanicistica permette il sorgere di una biologia e di una medicina positive, che utilizzano lo schema di una causalità ormai intelligibile. I progressi verranno lentamente, ma ormai la strada è aperta. Contemporaneamente si sviluppa per la prima volta lo studio delle origini e dei meccanismi del pensiero. Nella prospettiva del monismo naturalista i rapporti tra lo spirito ed il corpo non costituiscono più un problema, perché formano insieme una sola realtà.19

La radicalizzazione cartesiana del platonismo costituisce una mossa decisiva della ragione moderna, poiché mette in scacco il suo stesso presupposto, conducendo al tramonto la separazione tra spirito e corpo: s’impianta in questo 161

punto il movimento dei moderni verso l’immanenza. La controprova storica di questa inclinazione e tendenza è data dallo svolgimento del cartesianesimo nella direzione del monismo naturalista e del materialismo meccanicista.20 Di ciò si rese conto Bossuet, discepolo di Cartesio, che pure aveva tentato un uso apologetico di questa filosofia; in una lettera a un discepolo di Malebranche egli scrive: “Io vedo... prepararsi contro la Chiesa una grande lotta sotto il nome della filosofia cartesiana. Vedo nascere dal suo seno e dai suoi principi, a mio avviso male interpretati, più di un’eresia”.21 I timori di Bossuet percepiscono il movimento profondo dell’epoca; la filosofia cartesiana, pur mantenendosi nel quadro della tradizione, lo stravolge e ne reinveste i materiali; essa è vista come un pericolo poiché è soprattutto un emblema.22 Sta accadendo una modificazione risolutiva che consiste nel progressivo distacco dalla visione naturalistica degli antichi a vantaggio dell’oggettività garantista dei moderni. Tutto ciò comporta una modificazione antropologica: l’uomo può essere esplicato in termini di natura e la natura in termini di spirito, però con un’accezione modificata delle due nozioni. “L’uomo, a partire da Cartesio, non viene ritenuto solo un essere con la speciale facoltà di riflessione, bensì uno spirito che è organizzato così qu’il ne se peut rien passer en luy sans qu’il s’en apperçoive e che si determina attraverso questo autoriferimento stesso.”23 La ragione si realizza quindi come principio di autoriferimento e come istanza di controllo. Ma gli schemi di controllo si moltiplicano, e con essi il profilo e il senso del reale. Il principio di stabilità legato all’autoriferimento si combina con quello di complessità collegato alla differenziazione. Sicché le ragioni diventano molte quanto molteplici sono i sistemi di senso. Si sono dunque potenziate le possibilità di calcolo e di esposizione dei significati della natura: l’uomo, in quanto determinazione naturale, è perciò molteplice e diviso in se stesso a seconda delle prestazioni che svolge e perciò a seconda delle modalità che lo espongono; d’altra parte, ogni uomo in quanto entità strutturata e autoriferentesi è individuo, e cioè un’unità biologica e mentale, configurantesi come 162

momento stabile nei flussi di relazione e di scambio. Che ruolo dunque possono giocare gli individui così intesi in un universo di differenziazioni funzionali e di relazioni sistemiche? È a questo livello di complessità che, alla fine dell’età moderna, si ripropone la questione dei soggetti. Usando categorie di senso comune, si tratta di vedere entro quali limiti è ancora possibile parlare dei singoli come autori delle proprie azioni. Per far questo bisogna essere nella condizione di riconoscere gli individui come entità distinte sia dalle condizioni di partenza delle loro decisioni sia dagli effetti delle loro azioni. A questo titolo, gli individui stessi divengono discernibili come cause. L’identificazione di una qualsiasi entità come causa è ancora possibile, ma con una limitazione di fondo: non si può più parlare di cause assolute né, tanto meno, si possono attingere entità atomiche prime e non ulteriormente analizzabili. Se così è, l’analitica delle azioni si assesta entro quadri di riferimento e teorie che tendono a esplicare i nessi tra intenzioni e motivazioni: entro questi nessi si istituiscono i soggetti e vengono definiti per ruolo e per funzione, ossia secondo una configurazione rispettivamente statica e dinamica. In sostanza, mentre la concezione classica e in generale la tradizione intendevano l’identità come autosussistenza della sostanza secondo la sua forma, e tendevano a ridurre a essa ogni possibilità come possibilità di quella natura, la modernità, nel suo esito estremo, produce identificazione solo in quanto è capace di determinare un insieme integrato di funzioni o, come dice Luhmann, “una sintesi coordinante che conferisca un determinato ordine ai rinvii e alle altre esperienze possibili. In questo senso l’identità è sempre un sistema, la sua stabilità non è basata su un nucleo essenziale invariabile la cui scoperta è compito della conoscenza, ma sul mantenimento della sua funzione ordinatrice di un’esperienza coerente ed orientata in senso sociale”.24 A partire da queste premesse, vale la pena notare che, mentre in un contesto relativamente semplice l’identificazione dei soggetti di decisione pareva possibile e così pure la determinazione dei nessi causali, oggi 163

quest’operazione non è più eseguibile: se il calcolo razionale poteva essere allora concepito come una modalità o un argomento della funzione decisionale dei singoli individui empiricamente considerati, oggi ogni individuo che decide è argomento della funzione di calcolabilità propria a un sistema x di decisioni possibili, prescritte dalla forma stessa del sistema. L’interpretazione causalistica dell’agire non è da escludere, anzi è ancora possibile utilizzarla, qualora però, a dirla con Luhmann, la si intenda “come uno schema per confrontare tale azione con altre possibilità, anziché come un’enunciazione relativa all’essenza vera, obiettiva dell’azione”.25 In una parola, oggi non è più possibile ridurre gli attributi alle sostanze e perciò neppure le azioni ai soggetti; caso mai vale il contrario: si tratta di esplicare i soggetti in termini di funzioni e quindi di interpretare le sostanze come unità di senso capaci di relazione e di orientamento. Pare allora condivisibile la concezione di Luhmann secondo cui sia l’esecutore di un’azione sia la scienza stessa dell’agire scelgono come tema il senso, “come senso identico a se stesso attraverso l’individuazione della sua collocazione all’interno di una rete di possibilità”.26 Un’analisi funzionalistica dell’azione non rinuncia affatto a ogni forma di stabilità, anzi “evidenzia il fatto che le azioni collocate entro una rete di altre possibilità hanno sempre bisogno di essere stabilizzate. Questa stabilizzazione non può tuttavia realizzarsi nella forma di relazioni di invarianza fra determinate cause e determinati effetti. Essa si realizza piuttosto grazie ad aspettative socialmente condivise”.27 Un’esplicazione funzionale dell’agire non esclude quindi l’individuazione, ma la risolve in una questione di senso, ossia di orientamento in uno spazio di possibilità. Ogni azione è un atto di comunicazione e perciò “ogni azione comprensibile comporta una sorta di autodeterminazione sociale. L’individuo che agisce si immedesima in una personalità sociale e resta vincolato ad essa”.28 L’individuo che agisce prende senso nel suo campo di relazioni e in ordine all’insieme di aspettative che in certo senso il sistema prefissa. D’altra parte, le 164

aspettative non sono del tutto prefissabili, essendo tanto ampie quanto è ampia la differenziazione dei sottosistemi sociali, e soprattutto essendo esse condizionate dalle variabili interne ed esterne dei sottosistemi medesimi. Questa situazione è rappresentata dal concetto stesso di complessità. Stiamo alla definizione di Luhmann: “I sistemi possono essere definiti complessi quando sono grandi tanto da non poter collegare ciascun elemento con ogni altro”.29 Se ciò è vero, “il sistema, allora, non è fissato su di un unico modello di collegamento, ma può incontrare il suo ambiente in condizioni variabili. Ciò accresce nello stesso tempo il numero degli stati ambientali con cui il sistema può essere compatibile”.30 A questo livello di complessità non si può dire che i soggetti di decisione sono estinti, ma meglio si dice se si afferma che le decisioni dei soggetti si ampliano tanto quanto si ampliano le possibilità generali di relazioni intersistemiche. Ma l’ampliamento delle possibilità deve correlarsi a una logica adeguata di selezioni per consentire a ogni sottosistema il mantenimento della sua identità e perciò delle sue evoluzioni dinamiche. Gli individui sono tutt’altro che negati, ma anzi essi stessi possono essere interpretati come sottosistemi interagenti in un ambiente dato: le decisioni a loro volta possono essere interpretate come funzioni selettive in un ambito assegnato di informazioni e di possibilità. I singoli non hanno senso da soli, ma attraverso il gioco relazionale che li pone e in cui sono posti. Questo lo sapevano i greci e altrettanto bene i moderni; ma qui non è in causa l’essenzialità della relazione, bensì la decifrazione materiale del contesto e l’articolazione dei concreti nessi funzionali e sistemici: qui cade la nozione di complessità. Le società complesse, proprio perché altamente differenziate, ampliano la possibilità di scelta dei singoli e perciò la loro mobilità sociale: in tal senso cresce la libertà. Ecco un’altra parola carica di storia che merita di essere tradotta. Nel nostro caso, ci limitiamo a segnalare che per libertà in questo contesto non si deve intendere l’esercizio della libera scelta come conseguenza di una facoltà di scegliere indipendente dalle condizioni, 165

altrimenti nominata come libero arbitrio. Tale nozione non corrisponde direttamente ai contenuti di esperienza, ma, caso mai, deve essere dedotta. Al contrario, si può dire, quanto meno ex post, che in società poco differenziate le scelte sono di fatto limitate e ripetitive e le questioni di libertà si risolvono molto spesso nel diritto di obbedire o disobbedire, di resistere o violare. In senso più ampio e filosofico si tratta del diritto a essere liberi in forza della naturale libertà dell’uomo. Le società complesse viceversa ampliano le libertà e spostano di fatto il concetto: in essa crescono l’aleatorietà e la contingenza, ma nel contempo si accrescono e si precisano leggi allargate di selezione. Ciò comporta per i singoli una crescita intensa di possibilità di movimento e, di fatto, un accrescimento di mobilità sociale. Detto altrimenti, nelle società complesse c’è in genere un’eccedenza delle possibilità rispetto alle scelte che gli individui possono fare nel corso della loro vita. In tale circostanza l’individuo è libero almeno per quel tanto di movimento che gli è concesso dall’eccedenza. Si pone quindi, per i singoli come pure per gli insiemi sociali, un problema di adattamento alle quantità di informazioni, e perciò un problema di selezione in rapporto alle contingenze. La cosa acquista maggior significato qualora si tenga conto che un sistema complesso non può mai essere chiuso, ma consente una possibilità allargata di opzioni. Nella composizione del gioco sociale ogni individuo è pur sempre uno, perché può in qualche modo esser descritto come un sistema distinto e autoriferentesi. In tal senso gli individui si possono ancora intendere come centri dinamici della scena sociale, senza tuttavia sottovalutare il fatto che essi acquistano identità nel gioco che giocano. La posizione dell’attore sociale non può essere fissata indipendentemente dall’azione eseguita: e l’azione è sempre concepibile come relazione. L’agire razionale presuppone quindi un soggetto di scelta, ma tale scelta è descrivibile con senso solo se si dispone di una funzione selettiva in base a cui la scelta viene eseguita. In sostanza, le identità dei soggetti sono concepibili fuori del gioco? In certo senso sì: esistono, infatti, entità preformate, non foss’altro per il fatto che, essendo molti i 166

giochi, risulta che l’identità istituita in un gioco si fa presupposto possibile ed esterno di un altro. In questa misura è concesso presupporre le identità ai giochi come relativizzazione dei giochi stessi fra loro. D’altra parte, pare convincente l’analisi di quei sociologi secondo cui gli attori sociali “apprendono giocando; esercitano cioè una delle prerogative tipiche dell’identità. E apprendono secondo le regole del gioco in cui sono entrati. In forza delle repliche dell’avversario l’attore – se è razionale – modifica l’insieme delle sue opzioni e il suo piano di azione... Ma se accettiamo questa prospettiva, abbiamo già ammesso che virtualmente le identità mutano nel gioco”.31 Nella misura in cui gli individui sono interpretabili come sistemi autoreferenziali, devono essere pure riconosciuti come entità sufficienti e indipendenti: tuttavia, relativamente indipendenti poiché non del tutto autosufficienti. Già Aristotele notava come gli individui singolarmente presi non bastano a se stessi; l’assunto rimane valido: quel che è cambiato è il gioco delle sufficienze, ossia lo spessore materiale delle relazioni e l’insieme dei criteri di leggibilità. Un soggetto ormai è sempre meno riconoscibile direttamente e in se stesso: ne segue che, per dare conto delle aspettative e delle decisioni dei soggetti in generale, bisogna operare a livelli alti di logica e di artificialità. Si può dunque essere saggi? Certo, se sussiste ancora la possibilità di scegliere e perciò di dominare il caso e il divenire. Ciò che però è cambiato è lo spazio proiettivo e relazionale delle azioni: per identificare i soggetti e giudicare della loro razionalità bisogna oggi simulare stati fisici e contesti, sviluppare logiche sempre più astratte e calcoli sempre più sofisticati. Non è più possibile esibire le prerogative del saggio tramite l’indicazione di uno stile di vita o di regole di comportamento; non è neppure possibile far riferimento a norme ben consolidate dall’uso comune e dalla tradizione. Strana metamorfosi dello spirito: nel calculus ratiocinator si oggettiva il contingente, ma è proprio tramite questa oggettivazione che si rende contingente e aleatoria la stessa calcolabilità. La ragione calcolante non è tutto: non è peregrino ritenere che essa 167

sia una determinazione e un caso dell’universalità del comunicare.32 È possibile che, riconsiderando l’originalità del dire, appaia una superiore dimensione di saggezza che, per quanto discorde dall’antica, con essa si possa intonare. Questa è un’esplorazione possibile, ma segna anche il limite della presente nostra riflessione. Questo schizzo si proponeva un obiettivo più ristretto: ha cercato di ripercorrere per tappe brevi il farsi della ragione occidentale, segnalando alcuni punti di svolta o passaggi decisivi. Una genealogia fatta di scorcio, ma, a nostro parere, perspicua: comunque utile a rinvenire i criteri di retto giudizio che l’Occidente ha di volta in volta elaborato, se non per fondare, certo per motivare regole e prescrizioni di saggia condotta. Al limite di questo cammino ci si imbatte di nuovo nel motivo dell’origine, ossia nella vexata quæstio circa l’universalità o meno della comunicazione e della parola: in breve lo spazio o il punto di co-appartenenza di uomo ed essere. Su questo limite ci fermiamo.

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Note 1

La storicizzazione di tutti i valori e la revocabilità stessa degli statuti di verità hanno portato definitivamente al tramonto qualsiasi presunzione di verità assoluta. Questo è lo stato dell’epoca. Per quanto diverse possano essere le interpretazioni, la questione da comprendere è qual è il senso della verità dopo la caduta degli immutabili. Su questo tema bisogna confrontarsi con la posizione filosofica di Emanuele Severino. Infatti, solo in questa filosofia, oggi, si sostiene l’immutabilità del tutto e perciò stesso l’assoluta verità dell’essere, e con essa l’incontrovertibilità del vero. L’argomentazione severiniana è cogente e perciò va analizzata nel dettaglio e, caso mai, confutata su un terreno specifico. Qui basta segnalare come questo pensiero, oltre a essere decisivo per l’assunto, costituisce un punto di vista inedito per la critica dell’intera cultura e storia dell’Occidente. In proposito cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981; Essenza del nichilismo, ivi 1982; Destino della necessità, ivi 1980. 2 Sulla scientificità dell’azione pratica e, più in generale, sulla possibilità di una scienza dell’agire nella filosofia aristotelica, cfr. lo stimolante saggio di L. RUGGIU, La scienza ricercata. Economia, politica e filosofia. Studi su Aristotele e Marx, S.I.T., Treviso 1979, pp. 15-64. 3 “Verso la fine del V secolo a.C.,” nota Havelock, “divenne possibile per certuni tra i greci parlare della loro ‘anima’ come se possedessero identità o personalità autonome, non semplici frammenti dell’atmosfera né di una forza cosmico-vitale, ma quelle che noi chiameremmo entità o sostanze reali... La scoperta comportava qualcosa di più della semplice semantica del vocabolo psyché. Anche i pronomi greci, quelli personali e i riflessivi, cominciarono a trovarsi situati in nuovi contesti sintattici, a essere usati per esempio come oggetti di verbi di conoscere, o posti in antitesi col ‘corpo’ o col ‘cadavere’ in cui si riteneva che l’ego abitasse” (E.A. HAVELOCK, Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1963; tr. it. Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 161-162). Su questo tema, cfr. inoltre B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens der Griechen, Claassen Verlag, Hamburg 1946; tr. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963; in particolare i capitoli I, L’uomo nella concezione di Omero, IV, Il primo rivelarsi dell’individualità nella lirica greca arcaica, e VIII, Sapere umano e divino. 4 Il tema della giustizia è centrale nella cultura greca. Gli scrittori che vissero tra Esiodo e Platone sfruttarono la “giustizia” da un punto di vista simbolico e non concettuale. Già con Erodoto si ha una interiorizzazione della giustizia. È tuttavia con Platone che la giustizia diviene un concetto e che “un processo linguistico iniziatosi con un simbolo viene portato a compimento”. Come nota Havelock, la “giustizia distributiva” di Aristotele “non rappresenta in essenza altro che una razionalizzazione della dike omerica” (E.A. HAVELOCK, The Greek Concept of Justice from its Shadow in Homer to its Substance in Plato, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1978; tr. it. Dike. La nascita della coscienza, Laterza, Roma-Bari 1981). L’interiorizzazione della giustizia comporta una personalizzazione tramite il diritto. In senso stretto, è alquanto improprio parlare di diritto greco avendo a che fare più che altro con un insieme di procedure locali, senza alcuna organizzazione strutturale, complessiva e rigorosa delle norme. Più che di diritto greco, si

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deve parlare di diritti greci. In proposito, osserva Talamanca: “la mancanza di una elaborazione teorica e di una riflessione scientifica caratterizza, intimamente, l’esperienza giuridica nell’area culturale greca... Manca dunque l’elaborazione tecnico-giuridica del dato normativo e pragmatico; manca cioè la creazione di un sistema, per così dire, logico, nell’ambito del quale – a partire da una serie di valori positivamente assunti – si potesse argomentare, con metodo scientifico, qualsiasi soluzione pratica ed eventualmente teorica” (M. TALAMANCA, Il diritto in Grecia e in Roma, cap. II, La cultura giuridica nell’esperienza greca, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 19-20). Se in Grecia non esiste una scientia iuris, in senso stretto, come invece accadrà a Roma a partire dal II secolo a.C., esiste di certo un riferimento alle legislazioni vigenti, con intendimenti più di filosofia e scienza politica che di diritto. La raccolta che Aristotele fa delle πολιτείαι è, di fatto, un’indagine di legislazione comparata. Per un profilo agile e generale delle dottrine giuridiche e politiche greche cfr. J. GAUDEMET, Institutions de l’antiquité, livre II, La Grèce, Sirey, Paris 1967, pp. 125-214. Tuttavia nella cultura greca esiste già la distinzione tra individuo e società, e vengono tematizzati i termini del loro rapporto; la cosa è poi massimamente chiara in Platone e Aristotele. Sul diritto greco cfr. J.W. JONES, The Law and Legal Theory of the Greeks, Clarendon Press, Oxford 1956; F. QUASS, Nomos und Psephisma. Untersuchung zum Griechischen Staatsrecht, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1971. Sul tema del diritto in generale e sulla sua evoluzione cfr. F. CORDERO, Gli osservanti, Giuffrè, Milano 1967. 5 Nella Repubblica di Platone la psyché “viene simboleggiata come la facoltà di pensare, di calcolare, di meditare e di conoscere, in totale distinzione dalla capacità di vedere, di udire e di toccare” (E.A. HAVELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura, cit., p. 169; cfr. cap. XI, “Psyché” o la separazione del conoscente dal conosciuto, pp. 161-173). 6 Su questo tema, sono pertinenti le osservazioni di Bianchi quando scrive: “Uno dei temi più controversi, ma più essenziali per lo studio della religione greca è l’orfismo: un fenomeno (almeno per quelli che ammettono la sua esistenza come tendenza ben identificabile nell’ambito più vasto di quella religione) la cui importanza si rivela già nella sua caratteristica posizione media tra mondi culturali e processi storici diversi: tra la comune religione ‘olimpica’, con la sua mitologia omerica ed esiodea, e una religione mistica, nutrita di spiriti iniziatici ed interessi soteriologici, tra una religiosità popolare tesa a riti catartici, che assicurino sicurezza e prosperità, e una religione dotta, nutrita di libri e di teologia, anzi di teosofia” (U. BIANCHI, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1966, p. 129, cfr. cap. III, Da Orfeo alla gnosi, pp. 129-152). Su questi temi e le rispettive implicazioni filosofiche, quale punto di riferimento classico, cfr. il saggio di P. RICOEUR, Finitude et culpabilité, Aubier, Paris 1960; tr. it. Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970. 7 La filosofia platonica coniuga razionalismo e misticismo. “Per Platone, l’anima cade nel mondo per una tis syntychia, ‘un qualche accidente’, ‘una qualche disgrazia’ (si noti l’esperienza indeterminata ed allusiva; nel tis, ed eufemistica, nel syntichia ‘caso’ [sfortunato]) e così entra in un ciclo in cui le sue sorti sono poi condizionate dal suo comportamento in relazione alle istanze superiori dell’anima (cfr. Mito di Er nella Repubblica)” (U. BIANCHI, op. cit., p. 77). Su questi temi cfr. E.R. DODDS, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1951; tr. it. I greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1973.

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Il platonismo avrà effetti di lunga durata, si costituirà come modello interpretativo nelle religioni dei secoli II-III d.C., in Basilide, Plotino, Origene. In proposito, nota Bianchi: “L’immagine, anzi il concetto neo-platonico (e anche ermetico) di una caduta delle anime dal livello superiore e di un loro allontanamento dal ‘Nous’ (la ‘Mente’) doveva avere una accoglienza notevole in talune frange del pensiero cristiano (Origene, Taziano, Ps. Macario), con l’ammissione, platonizzante, di una originaria separazione (e ricercato congiungimento) dell’anima rispetto allo spirito. All’estremo opposto, in taluni ambienti di cristianesimo semitico (a parte certi dottori arabi confutati all’epoca di Origene) si era affermata l’idea (di parziale antica ascendenza semitica) di un sonno dell’anima con il corpo, in attesa della resurrezione. L’ortodossia cristiana ha tenuto una via media, da una parte ammettendo una separabilità dell’anima dal corpo, e in qualche modo una sua liberazione dalle miserie attualmente immanenti a questo, ma dall’altra affermando una provvisorietà e innaturalità di tale stato, in attesa della resurrezione. Alla formulazione teoretica di un tale concetto di anima negli scrittori cristiani posteriori ha giovato sia la tradizione platonica (però senza la pointe dualistica anti-somatica e senza il concetto della preesistenza e caduta delle anime) sia, in forma più duratura, almeno sul piano tecnicamente filosofico, la dottrina aristotelica dell’anima come forma sostanziale del corpo” (U. BIANCHI, op. cit., pp. 77-78). 9 Come già si notava, l’uomo occidentale è un prodotto complesso, che risulta dalla sinergia di diverse culture; altrettanto diversi sono i filoni secondo cui si sviluppa l’antropologia occidentale e, in larga parte, essi sono già contenuti negli ingredienti che hanno presieduto alla formazione di una tale umanità. Qui noi vogliamo evidenziare unicamente una tendenza o, più propriamente, le ragioni in forza delle quali l’uomo occidentale si costituisce fondamentalmente come anima immortale e si sviluppa sotto il segno dell’interiorità. Quest’impianto è elaborato sostanzialmente nella filosofia platonica. Si consoliderà dopo Platone, nonostante sia sottoposto a revisioni da parte della filosofia aristotelica. L’anima, dice Platone, “è incatenata e anzi incollata al corpo, e costretta a indagare la verità attraverso di questo, come attraverso un carcere, e non da se medesima senza altro mezzo, ed è inviluppata in una totale ignoranza” (Fed., 82e). Ora, coloro “che amano il sapere, conoscono bene che la filosofia, prendendo ad educare in siffatte condizioni la loro anima, cerca a poco a poco di guidarla e addirittura si adopera di liberarla dal corpo... e la esorta a raccogliersi e a restringersi tutta sola in se stessa, e a non fidare in niente altro che in se stessa, qualunque sia l’essere che ella voglia da se medesima penetrare nella sua essenza immutabile” (Fed., 83a-b). L’interiorità, allora, consiste nella necessità per l’anima di star sola con se stessa. L’anima, prima ancora di liberarsi definitivamente dalla prigione del corpo, deve ricercare la solitudine: proprio per questo “si astiene quanto ella più può dai piaceri e desideri e dolori” (Fed., 83b). Infiniti sono i luoghi platonici che indicano quest’ascesi. Rivolgendosi alla propria interiorità, l’anima guadagna profondità. Ma la profondità è insieme l’estremamente distante dal sensibile e l’abissale e ineffabile. L’anima, come luogo della pura visione o della chiarezza delle idee, diviene così anche luogo dell’ineffabile: la dimensione del profondo muta la logica in mistica e, soprattutto, l’anima in spirito. Lasciamo da parte questa tendenza misterica, peraltro significativa nella storia dell’Occidente, per appuntare l’attenzione sul fatto che la solitudine dell’anima, in Platone, si coniuga con l’autosufficienza e la forza della sola ragione. Infatti, nel Sofista, quando lo Straniero chiede a Teeteto come

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risponderebbe al sofista che lo interroga su cos’è un’immagine, Teeteto replica dicendo che le immagini sono quelle “che riflette l’acqua, che riflettono gli specchi ed inoltre quelle dipinte, quelle modellate e tutte le altre simili che ci sono” (Sof., 239d). Al che lo Straniero replicherà: “Quando tu gli risponderai così, se gli indicherai cioè le immagini riflesse dagli specchi e le immagini modellate, si metterà a ridere alle tue parole, da te rivolte a lui come a uno che vede e fingerà di non conoscere né specchi né acqua, nemmeno la vista, ed invece interrogherà te senza uscire da ciò che risulta dai soli termini del discorso” (Sof., 239e-240a). Ma i soli termini del discorso sono propri ai discorsi che l’anima svolge con sestessa. È nel puro ragionamento che si rivela all’anima la verità. Infatti, “l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista, né udito, né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità” (Fed., 65c). Porsi in rapporto con la verità equivale a svolgersi come interiorità. Questo motivo platonico sarà ripreso più tardi dalla filosofia cristiana: in inferiore hominis habitat veritas, dice la tradizione agostiniana. Ritornerà poi in età moderna sotto forma raffinata di distinzione tra qualità primarie e secondarie, ossia controllabili, le prime, dalla pura ragione e alterabili, le seconde, dalla sensibilità. La solitudine dell’anima, come luogo proprio della verità, costituirà poi il punto d’Archimede della filosofia di Cartesio. Da qui l’inversione di tendenza: lo svolgimento dell’interiorità in esteriorità. 10 Nella concezione biblico-cristiana, l’uomo è concepito essenzialmente come imago dei. Ora “colui che è fatto ad immagine di Dio è fatto allo scopo di vedere Dio: nam simile naturaliter appetit suum simile”. A partire da questa premessa, si costruisce e si svolge l’antropologia cristiana. Uno svolgimento che ha diversi accenti, ma che comunque s’interroga su che cosa sia e in che cosa consista la natura umana, che differenza si dia tra fine naturale e fine soprannaturale, e perciò stesso tra natura e grazia. All’interno della teologia cristiana, ritornano i temi propri alle altre religioni, quali quelli della caduta e della redenzione, considerati, però, in un’ottica creazionista: ci si interroga sullo stato primitivo dell’uomo, ci si domanda in che stato era Adamo in rapporto alla Grazia santificante quando era uscito dalle mani del Creatore; ci si interroga sulla natura pura e sul desiderio naturale, sul problema della felicità e della beatitudine. In questo senso, cresce e si incrementa una cultura dell’anima, armata sempre più da giustificazioni teologiche ed argomenti razionali. Su questo tema, a titolo esemplificativo, cfr. H. DE LUBAC, Augustinisme et théologie moderne, Aubier, Paris 1965; tr. it. Agostinismo e teologia moderna, il Mulino, Bologna 1968. L’implicazione corpo-anima è diversamente considerata dalle diverse scuole teologiche, fatto salvo che l’anima non è preesistente, ma creata, personale e immortale. Su questo tema cfr. S. VANNI ROVIGHI, L’antropologia di S. Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1965. Anche nel caso in cui l’anima non sia ritenuta immortale, di certo l’uomo è chiamato alla vita eterna. Sul tema cfr. O. CULLMANN, Immortalità dell’anima o resurrezione dei morti?, Paideia, Brescia 1967. 11 Sulla costituzione e lo sviluppo dell’antropologia occidentale, soprattutto sotto un’angolazione di tipo fenomenologico, cfr. il breve e penetrante profilo di U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, parte I, Corpo e psiche nella tradizione occidentale, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 65-127. 12 Il rapporto anima-corpo, così come si è venuto elaborando nella cultura dell’Occidente, non deve essere concepito nei termini di una pura e semplice opposizione, piuttosto come un rapporto di perpetua tensione. Evidentemente,

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la stessa distinzione semantica e strutturale delle due regioni era cagione di tensioni: essa consentiva da un lato una differenziazione, tra corpo e anima, funzionale e gerarchicamente ordinata; al tempo stesso, però, consentiva l’ipostasi dei rispettivi termini e quindi un’opposizione irrimediabile. In ciò lo spazio di un’ampia oscillazione. Non solo dottrinaria. La rappresentazione dell’uomo come sintesi di anima e corpo, interiorità ed esteriorità, non dà luogo soltanto a un apparato dottrinale, sia filosofico sia teologico, sempre più complesso, ma incentiva un insieme di pratiche e di rituali, peraltro preesistenti alla stessa dottrina. L’affinamento di queste pratiche diviene, esso stesso, motivo di esteriorizzazione dell’interiorità e ben si combina con la filosofia della rappresentazione, e in molti casi la precede. Infatti, anche la credenza più estrema, che opponeva l’anima al corpo, diveniva di fatto cagione di una loro maggiore intimità e quindi premessa di un’esteriorizzazione dell’interiore. I precetti, considerati qui come indicazioni pratiche ed effettive di condotta, che prescrivevano, quale via regia della salvezza, di rivolgersi all’interiorità, incentivavano il sapere del corpo e ponevano quindi le condizioni di un’oggettivazione dello spirito come sapere. Tutto ciò avveniva di fatto, ossia nelle pratiche d’organizzazione e perciò nei rituali, nei divieti, nelle opere. Le tecniche di emancipazione dalla corporeità esigevano un controllo estremo del corpo e perciò una conoscenza sempre più approfondita di esso, delle sue possibilità e delle sue tensioni. In una parola, bisognava avere misura della capacità del corpo per dominarle e reprimerle o investirle e sublimarle. La mistica è una lunga storia di terapie dell’anima, in cui si coniugano l’oscurità del mistero e l’avvertita conoscenza delle tecniche estatiche. Un sapere che ha ascendenze lontane, esoteriche, e non cristiane. Tuttavia il cristianesimo in genere e la Chiesa cattolica in particolare si appropriano di queste tecniche antiche, ne producono di nuove, sviluppando una tecnologia dell’anima, che, però, è fatto a un tempo sociale e pubblico. Per esempio, il mistero dell’anima, nella confessione, si muta in gestione del segreto. La direzione spirituale educa all’analisi dell’interiorità, all’introspezione. L’analisi dell’interiore raffina le procedure di osservazione e di controllo e le mette in sintonia con la filosofia della rappresentazione. Anche per questa via si giunge a un’oggettivazione dello spirito nel sapere. Perciò stesso a un’esteriorizzazione dell’interiorità. 13 Sulla questione relativa al rapporto scienza-tecnica, e più in generale sull’epoca presente come età della tecnica, restano quali punti di riferimento essenziali le posizioni dell’ultimo Husserl e, evidentemente, quella di Heidegger. Sul tema cfr. E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, M. Nijoff, Den Haag 1959; tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961; M. HEIDEGGER, Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976. Sulle posizioni filosofiche di Husserl e Heidegger, cfr. i due illuminanti saggi di M. RUGGENINI, Verità e soggettività. L’idealismo fenomenologico di E. Husserl, Fiorini, Verona 1974, e il successivo Il soggetto e la tecnica, Bulzoni, Roma 1977. Ben diverse considerazioni svolgono in proposito pensatori di origine positivistica o, in ogni caso, empirista quali Popper e i post-popperiani. Sul tema cfr. K. POPPER, Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Clarendon Press, Oxford 1972; tr. it. Conoscenza oggettiva, Armando, Roma 1975. Una rassegna delle posizioni su un tema siffatto è troppo ampia per poterne discutere in questa sede. Tuttavia, sugli statuti del sapere scientifico è importante ricordare, non foss’altro che per il tono impegnativo e provocatorio, lo scritto di P.F. FEYERABEND, Against Method. Outline of an

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Anarchistic Theory of Knowledge, NLB, London 1975; tr. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979. 14 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, Autunno 1980, 6 [430], in Opere, vol. V, t. I, Adelphi, Milano 1964. Esteriorizzazione dell’interiorità significa oggettivazione: “siamo noi a vedere dentro il mondo le nostre leggi e, viceversa, non possiamo concepire queste leggi, se non come la conseguenza di questo mondo su di noi. Il punto di partenza è la illusione dello specchio, noi siamo immagini viventi riflesse dallo specchio” (6 [441], ivi., pp. 519-520). In questo gioco speculare, interiorità ed esteriorità vengono a coincidere e perciò stesso a cessare. Nietzsche, con la solita penetrante lucidità, coglie questa dinamica, ma non la conduce alle sue estreme conseguenze. La sua posizione è alquanto ambigua, di un’ambiguità peraltro mai interamente risolta. Nietzsche oscilla tra realismo ingenuo e, conseguentemente, psicologismo. In sostanza, egli teorizza una disequazione tra l’in sé e il mondo della rappresentazione: la sua filosofia mescola ancora Hume e Kant. Tuttavia, esistono già le premesse di un’evoluzione ulteriore, che, in larga parte, supererà la dicotomia tra apparenza e realtà e perciò stesso quella tra mondo vero e mondo falso. Proprio allora, Nietzsche giungerà a una neutralizzazione dell’in sé e pertanto trasformerà gli errori della rappresentazione in prospettive: in sostanza, il conflitto non sarà più tra in sé e rappresentazioni, ma delle rappresentazioni tra loro. Appunto, un conflitto ermeneutico. 15 Sulla dissoluzione dell’anima come sostanza spirituale, a vantaggio del soggetto come atto di pensiero, vale la pena ricordare le considerazioni di Nietzsche quando scrive: “Ma che cosa fa, in fondo, l’intera filosofia moderna? Da Cartesio in poi – e, per la verità, più per dispetto contro di lui che sulla base del suo esempio – da parte di tutti i filosofi, sotto l’apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetua un attentato contro l’antico concetto di anima –, vale a dire: un attentato al presupposto fondamentale della dottrina cristiana. In quanto scepsi gnoseologica, la filosofia moderna è, occultamente o apertamente, anticristiana: sebbene, sia detto per orecchie più delicate, non sia in alcun modo antireligiosa. Una volta, infatti, si credeva all’‘anima’ come si credeva alla grammatica o al soggetto grammaticale: si diceva, ‘io’ è condizione, ‘penso’ è predicato e condizionato. Il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: ‘Penso’ condizione, ‘io’ condizionato, ‘io’ dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso. Kant voleva dimostrare che, in fondo, partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – e neppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparente del soggetto, quindi dell’‘anima’, quel pensiero cioè, che come filosofia del Vedanta già una volta e con un immenso potere è esistito sulla terra” (F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, in Opere, vol. VI, t. II, Adelphi, Milano 1968, p. 60). Questa metamorfosi dell’anima in atto di pensiero, e quindi in sistema dell’apparenza, è la condizione necessaria per una più completa esteriorizzazione dell’interiorità. 16 N. LUHMANN, Gesellschaftsstruktur und Semantik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980; tr. it. Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 174-175. 17 J. ABBADIE, L’art de se connoître soi mesme, ou la recherche des sources de la morale, Amsterdam 1967. 18 N. LUHMANN, Struttura della società, cit., pp. 175-176. 19 G. GUSDORF, Introduction aux sciences humaines, Les Belles Lettres,

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Paris 1960; tr. it. Introduzione alle scienze umane, il Mulino, Bologna 1972, pp. 158-159. 20 Su questo tema cfr. G. GUSDORF, op. cit., parte I, cap. III, La fine del compromesso cartesiano: comparsa dell’idea di natura, pp. 161-173. 21 Lettera citata in P. HAZARD, La crise de la conscience européenne (16801715), Boivin, Paris 1935; tr. it. La crisi della coscienza europea, 2 voll., il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, pp. 263-264. 22 Sul versante opposto, cioè a dire quello dei materialisti, Cartesio sarà oggetto di una contestazione non minore dei sospetti degli ortodossi. Infatti, come nota Gusdorf, tutto il materialismo del XVIII secolo contesterà Cartesio, “ma questo anticartesianesimo si affermerà tuttavia con un linguaggio cartesiano, vale a dire che nella ricerca della verità invocherà il Cartesio del De homine contro il Cartesio delle Meditationes. La grandezza più autentica del filosofo francese si manifesta qui, nell’aver fornito tutti i termini del dibattito contraddittorio nel corso del quale la nuova scienza dell’uomo andrà cercandosi, nel secolo successivo” (G. GUSDORF, op. cit., pp. 163-164). 23 N. LUHMANN, Struttura della società, cit., p. 185. Questa formulazione Luhmann la rinviene in LOUIS DE LA FORGE, Traité de l’esprit de l’homme, 1661, cit. secondo l’ed. Œuvres philosophiques, a cura di Pierre Clair, Paris 1974, p. 145. 24 N. LUHMANN, Soziologische Aufklärung I, Westdeutscher, 1970; tr. it. L’Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983, p. 27. 25 Ivi, p. 28. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 115. 29 N. LUHMANN, Struttura della società, cit., p. 235. 30 Ivi, pp. 236-237. 31 G.E. RUSCONI, Teoria dei giochi e spiegazione sociologica, in “Stato e mercato”, n. 2, agosto 1983, il Mulino, Bologna, p. 269. 32 Sul tema dell’agire comunicativo e della comunicazione in generale, cfr. il saggio di J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981; tr. it. Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986.

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2. Tracce e segni 1. Semiotica storica Una questione storica è per lo più una questione ermeneutica, o tende a risolversi in essa, o quanto meno così può essere intesa, non foss’altro per il fatto che un problema di verità si configura come questione di metodo. E il metodo storico ha a che fare essenzialmente con problemi di verità: esso, infatti, consiste nell’elaborazione di tutte quelle procedure atte a garantire l’interpretazione autentica dei fatti e delle fonti, e in ultima istanza nella costituzione di regole canoniche in forza delle quali poter decifrare il significato delle tracce e degli indizi. Questa istanza di verità e di controllo presiede alla costituzione della storia come disciplina specifica e delimita statutariamente l’ambito di tale sapere. Questi elementi procedurali possono essere contrassegni non adeguati per una determinazione complessiva del sapere storico, o quanto meno possono esserlo poco, tuttavia sono i modi più tradizionali e consolidati del fare storia. La storia si costituisce come ambito di sapere determinato solo nel momento in cui opera esplicitamente una selezione dei reperti e delle testimonianze in ordine a un problema di verità. Nel nostro caso non si tratta di determinare la valenza filosofica del concetto di verità, quanto invece di sottolineare semplicemente come la distinzione tra il vero e il falso costituisce l’assunzione implicita che consente l’istituzione della storia come critica. Questo canone è quanto mai antico ed esplicitamente enunciato dalla grande storiografia greca. La storia è investigazione e narrazione: Erodoto non intende far altro che l’esposizione delle sue ricerche, appunto l’‘ιστορίης άπóδειξις, che è narrazione di fatti visti e uditi, ma soprattutto realmente accaduti. La realtà degli eventi deve essere controllata e non può essere ingenuamente creduta.1 Tucidide enuncia esplicitamente quest’istanza critica; infatti, così si legge nel I libro delle Storie: 176

Tali dunque si sono presentati alle mie ricerche gli antichi avvenimenti, ma sono tali da render difficile di prestar fede a un qualunque indizio su di loro, così come viene. Giacché gli uomini accettarono ugualmente senza sottoporle a prova le tradizioni orali degli avvenimenti precedenti, anche se esse riguardavano avvenimenti del loro paese (Storie, I, 20).

E più avanti perfeziona il discorso dicendo: “Chi crede che tali avvenimenti sono stati investigati dagli indizi più sicuri, in modo sufficiente, data la loro antichità – costui non dovrebbe sbagliare” (Storie, I, 21). L’istanza probatoria, che lo storico antico invoca, comporta una valutazione attenta degli indizi al fine di poter correttamente discriminare tra il vero e il falso in ciò che è narrato, e in tal modo poter veritativamente attingere la realtà dell’accaduto. Per il greco, infatti, non si dà verità che non sia anche realtà. La storia dunque è narrazione di quanto è veramente accaduto e perciò stesso è testimonianza. Lo storico è allora colui che narra quanto ha visto e sentito, ma soprattutto colui che vuol conferire a ciò che ha udito la stessa consistenza di ciò che ha visto. Sotto questo aspetto, la narrazione deve essere riconducibile all’ambito della visione, e il contenuto di tutto ciò che è raccontato, per essere vero, deve, in certo senso, poter essere constatato.2 La storia è di certo una forma del sapere, ma più propriamente è un sapere che deve essere ricondotto a una tipologia del vedere. La radice stessa della parola i{stwr conferma questa tesi. Benveniste richiama l’attenzione sulla circostanza di questo uso; bisogna, egli dice: rendere a ísto la sua piena forza etimologica: non solo “che sappia”, ma propriamente “che veda”. La radice wid sopravvive in questo uso con tutto il suo valore. Si tratta di chiamare gli dei a testimoni del giuramento; il testimone in data molto antica, è testimone in quanto “sa”, ma soprattutto in quanto ha visto.3

Il testimone dice il vero perché dice ciò che ha visto; pertanto la verità della testimonianza risiede nella concordanza tra ciò che nella testimonianza è detto e il fatto stesso che viene testimoniato. Per converso, la verità della testimonianza è accertabile solo se si può mettere a confronto quanto viene detto e il fatto intorno a cui si dice. 177

Ma la narrazione, per il fatto stesso che narra un già accaduto, non può essere confrontata con l’accaduto medesimo, per l’ineliminabile scarto temporale, che mantiene immutato nel discorso quanto è già trascorso nel fatto. Lo scarto temporale è scarto di presenza e perciò stesso impedisce l’istituzione di un qualsivoglia criterio di concordanza. D’altra parte l’evento continua a esistere, anzi esiste solamente in quanto è narrato: si dà nella narrazione che lo narra. Ogni narrazione allora è insidiata in se stessa dalla non verità. Se si vuol risalire alla verità dell’evento, bisogna poterlo ritrovare in quella datità che lo trattiene, sia essa racconto o reperto. Qualsiasi reperto storico si costituisce dunque secondo una fondamentale ambiguità: da un lato, il reperto è l’unica datità constatabile, e sotto questo aspetto l’unica verità disponibile; dall’altro, quest’immediatezza è disadeguata in se stessa, poiché la sua unità di senso si istituisce come rinvio. La disadeguazione fa dunque di ogni reperto materiale una traccia, che nasconde in sé la verità che indica o, più precisamente, in tanto la indica poiché in certo senso la contiene. Questa essenziale inerenza di verità e non adeguatezza muta il senso della verità come adeguazione, intesa almeno nel suo tradizionale significato. Tutto ciò ha grosse implicazioni filosofiche: se non altro comporta una riformulazione del concetto di adæquatio, che, oltre a mettere in questione l’adeguazione come tale, reinterpreti soprattutto il significato proprio ai termini della concordanza. Non più concordanza tra sé e l’altro da sé, ma coerenza dei termini fra loro: la verità come sintassi.4 Detto questo, resta il fatto che qualsiasi documento storico appare come una traccia: ma se è traccia è anche segno. La storia allora si costituisce come interpretazione generale di quei segni che chiamiamo tracce o indizi. Il segno è insieme datità e intenzione, e dicendo questo si dice ormai cosa nota.5 Il segno è un dato poiché è un che di immediato, è quella cosa-segno percepibile a partire dalla materialità semplice in cui consiste: sotto questo aspetto il segno coincide con la sua stessa oggettualità. 178

Che non è però la sua oggettività, ossia il suo significare come segno. Il segno, nella sua significazione oggettiva, è ciò che sta per altro, ossia ciò che indica, che si riferisce ad altro da sé, sia esso cosa o concetto: così inteso, il segno è un’intenzione.6 Nel caso della testimonianza storica, cosa significa dire che un reperto è un segno? Nella storia qualsiasi reperto, certamente, sta per qualcos’altro, e appunto per questo è segno, ma l’altro per cui sta è proprio ciò che consente la decifrazione del suo significato. In altri termini, i reperti storici, e in generale i materiali documentari, sono segni solo in quanto tracce: ciò vuol dire che il materiale con cui si fa storia non diventa segno in forza di una stipulazione convenzionale, ma in forza della sua realtà residuale. Il reperto storico non significa interamente ciò a cui rinvia: in ciò differisce da quella regione di segni posti per stipulazione o ratificati dall’uso. Il segno storico non ha né un carattere meramente logico, né una funzione semplicemente abituale. La materia con cui si fa storia, in quanto entità residuale, designa l’altro da sé come maggiore di sé nella relazione propria di atto e conseguenza, parte-tutto. I reperti storici alludono a un mondo, sono tracce poiché ri-chiamano in causa la totalità a cui appartenevano. Il reperto storico, in sostanza, rinvia poiché invoca la presentificazione di quella totalità che lo ha generato e a cui deve appartenere per significare. La presentificazione della totalità di appartenenza è condizione necessaria per la decifrazione del significato stesso di quel segno, che è ragione del rinvio. A differenza di quei segni che indicano un’operazione o una funzione e il cui significato è l’operazione o la funzione stessa; a differenza di quei segni che connotano univocamente un concetto, i segni della storia sono tracce e quindi esigono la riapparizione del tutto per acquistare significato. Tuttavia hanno senso: appunto quello di rinviare alla totalità del loro mondo storico. Per fare storia bisogna dunque colmare la distanza che separa la traccia dall’origine: in una parola, bisogna integrare la mancanza. Ma è possibile integrare? E qualora sia possibile, in che cosa consiste l’integrazione? Quali sono i metodi e le 179

procedure in forza di cui l’integrazione è eseguibile? Per risolvere questi problemi la storia deve affrontare questioni di metodo o, in senso stretto, darsi una metodologia. Ed è a questo punto, sotto l’istanza del metodo, che la storia deve svilupparsi come storia critica. Essa si costituisce in base a tre condizioni fondamentali: 1) L’eliminazione dello scarto sussistente tra i fatti narrati e gli eventi accaduti; bisogna eliminare lo scarto fra la temporalità del racconto e quella dell’accadimento. In altri termini, bisogna coordinare le due temporalità inerenti a una stessa narrazione come tempo del narratore e tempo del narrato. Lo scarto temporale impedisce una concordanza tra il detto e l’accaduto come compresenza dei due tempi secondo uno stesso ordine. La coordinazione delle due temporalità è possibile se esiste già una tavola di ordinamento. Ma chi decide questa tavola? Qual è il suo luogo teorico? 2) L’eliminazione dello scarto sussistente fra la disparità delle tracce, la molteplicità del materiale documentario e la necessità di doverli disporre secondo una totalità ordinata sia essa logico-strutturale, o di serie, oppure di ordine temporale, o di epoca. Quale il criterio? 3) La consapevole distinzione tra il vero e il falso dà luogo a una presunzione teorica, nel senso etimologico che è proprio del presumere: in altri termini, l’istanza di verità comporta l’assunzione preventiva che gli scarti siano colmabili e che si possano integrare le differenze. Bisogna dunque discutere i modi dell’integrazione. Si diceva all’inizio che la storia è l’esposizione dei fatti accaduti e degli eventi certi. Si diceva pure che questa è la più antica e tradizionale definizione di storia; in essa sono però contenuti gli elementi fondamentali che caratterizzano questo sapere. Si vogliono narrare i fatti; si vuol distinguere tra fatti realmente accaduti (fatti veri) e fatti semplicemente narrati (fatti falsi). Tutto ciò suppone: a) l’istanza di verità; b) la possibilità di accertare la verità. L’istanza di verità, come già si diceva, genera la storia critica; la critica, a sua volta, sviluppa tutte quelle procedure di controllo attraverso le quali si vengono a 180

mano a mano articolando le forme di questo sapere. Nel suo processo di riorganizzazione la storia non poteva non diventare filologica. Sarebbe importante discutere questo passaggio, tuttavia qui non è rilevante mostrare se la filologia sia una garanzia più o meno adeguata di verità7: certamente però essa testimonia che la verità è voluta. Ma che cos’è verità? Il nostro discorso risulterebbe certamente più chiaro se disponessimo di una chiarificazione filosofica di questo concetto. All’inizio della nostra argomentazione abbiamo assunto la nozione di verità con una valenza metodologico-pragmatica; in tale accezione la verità coincideva con la possibilità di distinguere, di volta in volta, il vero dal falso. Si concedeva per ipotesi che ciò fosse possibile o, per lo meno, che gli storici lo ritenessero tale. Per comprendere però come e se è possibile bisogna analizzare più da vicino la nozione di verità. Dopo aver fatto questo, discuteremo più adeguatamente di verità storica. Tutto ciò comporta una riflessione più strettamente filosofica.

2. Ermeneutica La domanda intorno alla verità è domanda antica. Non intendiamo affatto rispondere a un tale interrogativo né, tanto meno, discuterne la legittimità. Al contrario, almeno in linea preliminare, vogliamo semplicemente notare come quello della verità sia il tema dominante di ogni filosofia e, più che mai, della filosofia critica, che nasce e si sviluppa su un terreno per eccellenza garantista. La filosofia critica si costituisce come ricerca e formulazione di criteri atti a distinguere il vero dal falso o, in ogni caso, intende porre le condizioni di un ordine incontrovertibile di verità. La storia critica, nel suo genere, non è da meno, anzi ne è l’erede. Non a caso Dilthey potrà legittimamente parlare di una “critica della ragion storica”. Resta quindi un criterio minimo per rilevare il peso che le quæstiones de veritate hanno nella storia della filosofia: la loro ricorrenza. Anche oggi, che di verità si parla poco e con riserbo, se non altro per gli equivoci che un termine così tradizionale e incrostato potrebbe ingenerare, le questioni di verità 181

ritornano in forma simulata, come questioni di metodo o come pratiche procedurali. Il tema della verità ha perso la nobiltà che gli era propria: molto probabilmente ha ragione Nietzsche quando mostra come la cosa sia umana, troppo umana. Questo tema resta comunque il più antico rompicapo dei filosofi. E non solo loro: lo è dei metodologi come degli epistemologi in genere. La volontà di verità è prassi ordinaria del conoscere e, niccianamente, coincide con la volontà di sapere. Infatti, che cos’altro è il sapere se non la conoscenza di come stanno effettivamente le cose? Si ritiene comunemente che c’è sapere quando i fatti sono interamente afferrati, cioè com-presi così come sono in se stessi. In altri termini, si presume ci sia sapere quando le cose vengono effettivamente carpite dall’intelletto. Ora, carpire effettivamente significa non solo aver concetto, ma soprattutto aver concetto adeguato della cosa. Ma questo è appunto il concetto tradizionale di verità. Quello che però intendiamo evidenziare, nel concetto tradizionale di verità, non attiene tanto alla nozione di adeguatezza come nozione simmetrica, bensì come nozione dinamica. In sostanza, la verità proprio in quanto adæquatio, prima ancora d’essere un’asserzione intorno alla cosa, è movimento verso di essa e cioè volontà di possesso della cosa medesima, in una parola è appetitus. Su questo aspetto dinamico del conoscere Aristotele, Spinoza e Leibniz, tanto per citare alcuni momenti culminanti del pensiero filosofico, avrebbero molto da dirci. Comunque quel che qui importa riguarda altro, riguarda la natura o, se il termine pare arcaico, la modalità propria per cui l’intelletto è intelletto. Orbene, l’intelletto, sia pur concepito nella sua forma tradizionale, è costituito interamente come volontà di adeguazione alla cosa tramite la rappresentazione. C’è dunque l’adeguazione, poiché l’intelletto è volontà di adeguazione. Quando Nietzsche dice che la volontà di sapere è volontà di verità, egli conduce alle estreme conseguenze la natura dinamica del conoscere a scapito di quella assertoria: gli oggetti di conoscenza divengono secondari rispetto ai modi della loro istituzione. Ma i modi del conoscere sono 182

tutt’altro che psicologici; al contrario, sono modi storici. Essi coincidono con le modalità d’istituzione della verità, ossia con tutti quegli istituti o organismi tramite i quali è possibile asserire o, più precisamente, è possibile produrre segni significativi e in una parola accedere al discorso.8 Lo psicologismo non è in grado di comprendere questi processi; per suo conto la psicologia genetica è essa stessa conseguenza di una più generale produzione di categorie di senso e di apparati disciplinari. Abbiamo visto come al concetto tradizionale di verità inerisca una valenza dinamica in forza della quale l’adæquatio è l’esito di una volontà d’adeguazione, ossia la verità consegue a una volontà di possesso della cosa. Allora ha ragione Nietzsche quando eguaglia la volontà di verità alla volontà di sapere. Ma qui il nodo si stringe: se la verità è conseguenza della volontà di sapere, allora si sa ciò che si vuole. Vale la pena, a questo punto, sottolineare la valenza impersonale della volontà; essa non è da intendere come una facoltà, né come una disposizione soggettiva e individuale né, tanto meno, è da identificare con l’arbitrio; non è neppure da confondere con la noumenica volontà schopenhaueriana. In questa prospettiva, non ha neppure senso chiedersi chi vuole, né concepire l’esistenza semplice e personale di qualcuno che possa volere secondo il più usuale e comune significato del termine volontà. La volontà in sostanza non è né inseità, né facoltà di un soggetto personale, ma realizzazione, pertanto non è esperibile altrimenti che come effettualità; in tal senso essa è totalmente storica in quanto eventuale e strutturata in forme complesse e gerarchiche. La volontà corrisponde dunque al grado di potenza che costituisce gli enti o, detto altrimenti, alla capacità materiale che essi hanno d’esistere, che corrisponde non a una struttura semplice ma a uno stato incrociato di ordini. Nietzsche, molto spesso, parla di organismi. Concepita in questo modo, la volontà è da intendere, da un lato, come un che di eventuale e, dall’altro, come una interrelazione di forme. Di essa si può dare descrizione, senza tuttavia pretendere di definirla in rapporto a essenze eterne e archetipi immutabili. 183

La volontà interpreta il mondo come eventualità. Sotto questo aspetto essa stessa è dimensione interpretante e quindi categoria. Materialmente poi si distribuisce nei diversi termini dell’esistenza per differenza e graduazione. Lasciamo da parte la portata filosofica di questi enunciati e per converso cerchiamo di trarne alcune conseguenze circa la determinazione del senso del sapere, e di quel sapere che diciamo storico. La volontà interpreta un mondo, ossia essa esiste in quanto si compie come figura: c’è un mondo se se ne dà rappresentazione o, il che è equivalente, esiste la raffigurazione di qualcosa come mondo in ragione del modo d’essere della raffigurazione medesima. Evidentemente, esistono modi diversi del raffigurare, e perciò diversi stati del mondo che nelle raffigurazioni prendono figura. Su questo tema rimane decisiva la lezione di Wittgenstein. Quel che però qui è da sottolineare è la circostanza che non c’è stato del mondo senza raffigurazione di esso. In ciò la verità. Il vero non coincide più con l’attingimento di un mondo autosussistente in sé, ma con la produzione di quelle unità di senso, che sempre e a ogni modo hanno senso e generano mondi. Wittgenstein direbbe che bisogna rinvenire il loro senso e in ciò consiste la verità. Esser vero equivale allora a esser regolato da un gioco: determinare la verità equivale a determinare le regole di quel gioco. Il sapere storico in quanto sapere è volontà di verità: ora noi sappiamo che l’esser vero equivale alla rappresentazione coerente di uno stato di cose, ossia di un mondo. Il mondo storico è quindi raffigurabile come mondo solo in quanto è suscettibile di una raffigurazione coerente. In sostanza, il mondo vero è un insieme di enunciati dotati di senso e l’un l’altro pertinenti.9 La storia, lo si è detto, è un sistema generale di segni interpretabili come tracce. Si tratta di rendere coerenti questi segni.10 Il concetto di traccia è a nostro parere inclusivo dell’interessante distinzione foucaultiana tra documenti e monumenti e, in ogni caso, sta a monte di essa.11 I reperti storici, di qualunque natura siano, esigono per esser compresi d’essere completati, cioè a dire inscritti in regolarità discorsive. 184

A questo punto è facile capire come agisca l’istanza di verità: essa presiede alla costituzione del sapere storico nel senso che fa parlare le tracce. Far storia non vuol dire risalire dai reperti alle condizioni che li hanno prodotti, raccogliendo ogni cosa nella continuità di un’unica memoria; al contrario, si tratta di rendere significativi i segni componendoli in un ordine che assegni a ognuno di essi una funzione significante nella totalità di un contesto. Il metodo storico è quell’insieme di regole che organizza i reperti secondo criteri di senso.12 La decifrazione è possibile solo in quanto si libera il segno nella direzione del senso: in tal modo se ne dispiega la vis significativa. Ma i segni sono tali all’interno di un orizzonte che ne precomprende l’intenzionalità. Ora, il segno è colto come intenzionato al significato solo nell’esperienza piena della significazione: nel linguaggio. Il linguaggio è il medio della comunicazione. Ora, ciò che media è mezzo e insieme sta in mezzo: pone e toglie la distanza, raccoglie e insieme distribuisce. Per questo la mediazione è anche medietà. Il linguaggio è luogo del raccoglimento non tanto perché toglie le differenze, ma perché radunandole le istituisce e, nel contempo, le mantiene. Più propriamente il linguaggio è il differire in se stesso o la possibilità della differenza: infatti nomina. Nominare significa evocare le differenze, e il linguaggio è l’evento che chiama perché è il luogo entro cui si dispiega la molteplicità degli enti. Il linguaggio, si è detto, è il medio della comunicazione perché effettivamente comunica: quando si dice, si è già in questa medietà. La formula più che una definizione è una descrizione di quel dire entro cui si viene dicendo. L’indice che indica il linguaggio come la medietà, indica la situazione di senso in cui ci si trova. Sotto questo aspetto il linguaggio coincide con l’attualità del dire, ossia con le lingue che di fatto si parlano. Quando allora si parla del linguaggio si indica un evento complesso, cioè a dire l’ambito entro cui i significati vengono posti e scambiati; in una parola è linguaggio l’universo delle lingue e degli strati linguistici.13 Il linguaggio è evento complesso, ma nel contempo è flusso continuo di senso: questo significa che 185

tutto ciò che è linguaggio è traducibile, è cioè possibile passare da uno strato linguistico a un altro, ossia da lingua a lingua e da ordine a ordine.14 Ma tutto ciò non è un che di immediato: il flusso del senso non toglie la discontinuità delle lingue e degli ordini, in una parola degli intervalli. Ciò comporta una mobilità nella valenza dei termini e perciò un’ambiguità sistematica delle parole e dei concetti. Ma proprio in questo risiede la possibilità di logiche diverse, entro cui parole e concetti graduano il loro senso e acquistano significati di volta in volta variati a seconda del rispettivo contesto. Molto si può dire su queste procedure di traduzione e trascrizione, ma qui ci interessa sottolineare una sola dimensione del linguaggio, che ne è poi il contrassegno costitutivo: il linguaggio è evento comunicativo perché è di fatto comunicazione. In quanto effettualità della comunicazione, il linguaggio contiene le possibilità di significazione, ossia precontiene le condizioni in forza delle quali si istituiscono i significati. Il linguaggio che parla, e in cui si parla, manifesta ogni ente nella sua qualità di segno e ne utilizza le proprietà. Sotto quest’aspetto non esiste una regione di cose e una regione di segni, ma tutto ciò che è, è insieme e per diverso rispetto cosa e segno, a seconda dell’ordine di discorso in cui appare. Ma da dove questi diversi ordini e con essi una diversa assegnazione di significato agli enti? Esiste una tavola o un’oggettività assoluta, che ordina tutti gli ordinamenti dati e possibili? Se così fosse esisterebbe ancora il Dio della metafisica. Se così non è, ciò è dovuto al fatto che ogni ordine, e il significato stesso di Dio, si radicano nell’ineluttabilità di un evento: il linguaggio che parla e che parlando si fa storico e in forza del quale si interpreta.15 Il linguaggio che parla è l’evento che ci consente di accedere a quel grado più alto di storicità in forza del quale è possibile non solo interpretare il significato dei diversi accadimenti, ma conferire a ognuno di essi la sua propria temporalità. Il linguaggio che parla corrisponde all’istantaneità di una comunicazione complessa, che non può essere oggettivata, ma semplicemente metaforizzata.16 186

In tal caso, il linguaggio non può essere autoriflessivo: chi parla si dispone sempre in un ordine diverso rispetto a ciò di cui parla. L’ermeneutica è la modalità che vuole portare a espressione il dire in se stesso, il dire che dice. Sotto questo aspetto l’ermeneutica non può essere una logica di tipo assiomatico, non può procedere per definizioni e deduzioni, ma ha bisogno di una modalità diversa d’espressione. Comprendere l’evento che parla vuol dire approssimare il senso del linguaggio che istituisce ogni discorso, ivi compreso quel discorso che intende esporre l’evento medesimo. In altri termini, il linguaggio che parla deve, in certo senso, poter nominare se stesso, precomprendersi: la tradizione chiama tutto ciò circolo ermeneutico.17 Non vogliamo entrare nel merito di questa problematica; è certo comunque che un accesso al linguaggio, nella concretezza del suo accadere, è possibile solo in quanto il linguaggio riesce a parlare di sé. Ciò può avvenire non per autoriflessione, ma per spostamento. Il linguaggio parla di sé solo in quanto si fa analogo a se stesso, si espone tramite l’allusione, ossia producendo la sua parafrasi. Nell’effettualità del suo accadere, l’evento che parla è insieme gratuito e ineluttabile. Comprendendo questo si comprende l’autentica storicità, si intende cioè l’accadimento del linguaggio come epoca. In quanto evento, il linguaggio fa irrompere una nuova temporalità18; dentro quest’accadere si dispongono allora i diversi significati del tempo: intendiamo successione, durata e con esse causa, effetto, conseguenza, serie. Il significato di quel tempo che definiamo tempo storico si radica quindi in quel fondo linguistico stratificato e complesso che abbiamo indicato, ma più propriamente in quella precomprensione generale del tempo che diciamo epoca. In questa precomprensione risiedono quelle riserve di senso che divengono le condizioni materiali e contestuali del fare storia. Ecco perché la dimensione di ciò che è storico può essere intesa solo tramite l’ermeneutica linguistica.19 A partire dalla storicità primaria, che è l’evenienza del linguaggio, si possono individuare alcune delle condizioni che predeterminano ciò che l’epoca vuole 187

sapere. L’esplorazione su queste precondizioni consente di evidenziare non solo le logiche e i criteri, ma anche le convinzioni e le credenze che presiedono alla costituzione dei criteri disciplinari o alla loro riformulazione. Questa ricca stratificazione consente di stabilire i sensi in cui di volta in volta si assume il concetto di verità e lo si mette in gioco. In conseguenza di tutto ciò, si può anche giudicare dei criteri di distinzione tra il vero e il falso. Il metodo della storiografia critica ha sempre usato tale distinzione, d’altra parte è stato sempre un metodo probatorio e indiziario. Disponendo unicamente di tracce, la storiografia ha dovuto sempre decifrarle in base a ipotesi e congetture. Ma cosa vuol dire fare una congettura? Congetturare ha sempre il significato di costruire delle serie temporali o sistematiche, che rendano plausibile la decifrazione delle tracce in relazione a eventi istitutivi. Ma il problema centrale di qualsiasi storiografia attiene al suo implicito, che possiamo chiamare filosofico: in base a che cosa, di volta in volta, si ritiene plausibile quel codice di decifrazione dei segni, e in particolare di quei segni che appartengono ai cosiddetti mondi storici? In sostanza, quando una congettura è plausibile e in base a che cosa lo si stabilisce? Quali sono le sue condizioni di possibilità? Essa è imposta dalla pura e semplice constatazione delle tracce, o le tracce sono più o meno significanti in ragione di quel che si vuol sapere di esse? Non tutte le tracce diventano segni: di tempo in tempo, nei confronti di questi residui c’è stata rispettivamente discriminazione e privilegio, in ogni caso elezione. Solo chiarendo i presupposti di senso che giacciono nelle profondità del linguaggio che interpreta si può comprendere cosa fa un’epoca facendo storia, ossia cosa vuole sapere. In tal senso il modo di fare storia è sintomo dell’epoca. La comprensione di questo, almeno dopo Hegel, è diventata compito precipuo delle filosofie: dopo Hegel con chiarezza, ma la cosa esisteva già prima. Erodoto scriveva le Storie, perché “le imprese degli uomini col tempo non cadessero in oblio” (Storie, I). Era greco e per lui il mondo della memoria era quello della sapienza: era questa una precomprensione, una 188

convinzione di linguaggio prima ancora che di concetto, a suo modo una filosofia.20 Lo stesso dicasi di Tucidide: il grande greco voleva “investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo il carattere dell’uomo, saranno uguali o simili a questi)” (Storie, I, 22). Grande comparazione: con essa si vogliono individuare le leggi eterne che regolano la vita degli uomini. La grande storiografia, sin dalle origini, si radica in una precomprensione filosofica: l’epoca fornisce i presupposti che consentono l’elaborazione e la variazione dei metodi.21 Bisogna, allora, leggere le epoche attraverso le epoche, fare interpretazioni di interpretazioni: tutto ciò però non è cattiva infinità. Ci si situa nel linguaggio che parla, e l’epoca e il linguaggio che parla coincidono. L’ermeneutica è il filo conduttore verso il senso dell’epoca ed è quindi quella figura del metodo che consente l’esplorazione dello stato della lingua, degli strati del linguaggio; essa consente la messa in chiaro di quelle giacenze di senso che non spiegano solamente la storia che si fa, ma individuano la possibilità di farla diversamente. L’ermeneutica in tal caso è anticipazione, e perciò anche critica. Il tentativo ermeneutico va alla radice di ciò che si vuole, poiché intende chiarire il modo d’essere di questa volontà, ossia l’attualità storica.22 L’ermeneutica, portando alla luce le riserve di significato inerenti al linguaggio in quanto accadimento storico, rende possibile la comprensione del fare storia nell’effettualità dell’epoca. Nietzsche si domandava dell’utilità e del danno della storia per la vita: è possibile che la considerazione ermeneutica mostri come la storia sia una delle modalità attraverso cui il linguaggio parla di sé e scandisce la sua originale e irripetibile temporalità. Nel cuore dell’epoca si raccolgono insieme innovazione e tradizione, e il punto di vista dell’una istituisce il significato dell’altra.

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Note 1

Erodoto dissolve la tradizione mitica poiché avanza istanze critiche. Snell sottolinea il carattere empirico e razionalista della storiografia di Erodoto e la diversa coscienza del tempo in cui tale storiografia si inscrive e che, sotto certi aspetti, essa stessa inaugura. In proposito Snell scrive: “Erodoto ha compiuto un grande passo avanti rispetto a Ecateo in quanto ha operato una netta separazione fra le storie mitiche e quelle accessibili all’indagine, così come distingue, in ogni caso, fra l’esperienza certa e quella incerta. Nelle sue relazioni sui paesi stranieri Erodoto sottolinea continuamente ciò che ha visto egli stesso durante i suoi lunghi viaggi, e a volte distingue fra ciò che ha udito da testimoni oculari e ciò che i suoi stessi informatori hanno solo sentito dire [...]. Erodoto, commisurando la tradizione storica a questa norma di esperienza sicura, può respingere come inattendibili le storie mitiche, e aprire alla storiografia il suo campo più proprio” (B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Claassen Verlag, Hamburg 1946; tr. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963, p. 223. Sul tema cfr. cap. IX, Le origini della coscienza storica, ivi, pp. 210-225). 2 Historie è un nome che appartiene alla più antica filosofia naturale e si riferisce alla comprensione di tutto ciò che esiste, guadagnata “mediante l’informazione conforme all’esperienza (historie)”; cfr. in proposito W. JAEGER, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, Walter de Gruyter, Berlin u. Leipzig 1944; tr. it. Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. I, p. 293. Ecateo fu il primo dei grandi fisici che, a partire dalla fisica generale, applicò il concetto di “esplorazione” alla terra abitata con una valenza geografico-antropologica. Tutto ciò fece da premessa alla vera e propria storiografia. In proposito, Jaeger scrive: “Fu una premessa essenziale del sorgere della storiografia, che, col medesimo spirito critico, raccoglie e coordina quanto è tramandato circa i popoli delle terre note, sin dove lo permette l’esperienza” (ivi, p. 642; corsivo nostro). 3 E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Editions de Minuit, Paris 1969; tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, vol. II, p. 414. Su questo tema cfr. M. POHLENZ, Der hellenische Mensch, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1947; tr. it. L’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 310. 4 Per quanto attiene alle teorie della verità cfr. l’agile profilo di A.R. WHITE, Truth, Macmillan, London 1970; tr. it. La verità, Armando, Roma 1980. 5 In proposito basti ricordare i tre riferimenti del pensiero-segno nel processo del pensare, così come sono formulati in Peirce: “Un segno, in quanto tale, ha tre riferimenti: primo, è un segno per un pensiero che lo interpreta; secondo, è un segno in luogo di un oggetto a cui quel pensiero è equivalente; terzo, è un segno sotto qualche aspetto o qualità che porta il segno stesso in connessione col suo oggetto” (C.S. PEIRCE, Semiotica, Einaudi, Torino 1980, p. 60). Su questo tema cfr. C. SINI, Semiotica e filosofia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 11-103. Sul pensiero di Peirce cfr. K.O. APEL, Der Denkweg von C.S. Peirce. Eine Einführung in den amerikanischen Pragmatismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970. 6 Per un’esposizione agile e completa d’una teoria generale del segno cfr. U.

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ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975. 7 Circa l’oggettività del comprendere, e i relativi criteri di convalidazione cfr. il saggio di E.D. HIRSCH, Validity in Interpretation, Yale University Press, New Haven and London 1967; tr. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, il Mulino, Bologna 1973. Hirsch ha a cuore l’oggettività del significato e pertanto intende determinare i criteri capaci di istituirlo. A tale scopo, e in linea preliminare, egli distingue tra comprensione e interpretazione. Distinzione peraltro significativa, poiché, a parere dell’autore, il comprendere consiste nella ricostruzione, e perciò nella restituzione, del significato del testo, l’interpretazione nelle possibilità di significazione che insorgono a partire dall’unità del significato. La distinzione tra significato e significazione, a cui corrisponde quella tra comprendere e interpretare, è ripresa da una distinzione propria di Ernesti tra subtilitas intelligendi, che è propria del comprendere un testo, e subtilitas explicandi, che è propria dell’interpretarlo (cfr. J.A. ERNESTI, Institutio Interpretis Novi Testamenti, Leipzig 1761). La posizione di Hirsch risulta interessante, poiché ripropone, in termini linguistico-filosofici, le istanze di oggettività proprie dell’antica filologia. 8 Su quest’argomento cfr. M. FOUCAULT, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1970. 9 Il mondo storico è raffigurabile come mondo dotato di senso se gli accadimenti che lo configurano ritrovano una loro coerente esplicazione. In sede di metodologia storica, ciò ha trovato una sua espressione e una sua formulazione estrema: il modello di legge di copertura. Popper, e sulla sua scia Hempel, costruendo tale modello hanno ritenuto di poter spiegare, secondo criteri di rigore, la logica di successione e causalità negli eventi storici. I criteri adottati nell’elaborazione del modello non sono dissimili da quelli propri delle scienze fisico-matematiche e, in ogni caso, sono a essi analoghi. Il modello della legge di copertura è stato ripreso, nell’ambito della filosofia analitica, da William Dray, il quale, pur recependolo, lo ha modificato, ne ha ridimensionato le pretese, praticando, in tal modo, un vero e proprio riadattamento. Cfr. in proposito W.H. DRAY, Laws and Explanation in History, Oxford University Press, Oxford 1957; tr. it. Leggi e spiegazione in storia, il Saggiatore, Milano 1974. A tale scopo, Dray si è rifatto a concetti propri alla tradizione romantica, quali quello di empatia. “Lo storico,” dice Dray, “deve penetrare dietro le apparenze, raggiungere una intuizione della situazione, identificarsi simpateticamente col protagonista, proiettarsi immaginativamente nella sua situazione. Deve rivivere, ripercorrere, ripensare, riesperire le speranze, i timori, i progetti, i desideri, le idee, le intenzioni ecc., di coloro che cerca di capire” (ivi, p. 166). In sostanza, lo storico deve produrre quella necessaria integrazione del documento cui sopra accennavamo. Per fare questo, ossia per spiegare quanto è accaduto, è necessario “mostrare che quanto è stato fatto era la cosa da farsi per le ragioni date, piuttosto che semplicemente la cosa che si fa in tali occasioni, magari in conformità a certe leggi [...]. Sostengo dunque che in tali spiegazioni esiste un elemento di valutazione di quanto è stato fatto; che quello che vogliamo sapere, quando chiediamo che ci si spieghi l’azione, è in che senso l’azione fosse appropriata” (ivi, p. 172). Ciò che nella posizione di Dray risulta interessante è dato dal fatto che anche un modello formale, qualora debba essere applicato ai fatti storici, per funzionare, deve essere interpretato secondo criteri di plausibilità. 10 È a tutti noto che il sapere storico è sapere del particolare, ma tutto ciò non è sufficiente a definirlo. Il particolare, che è oggetto di conoscenza

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storica, è un che di eventuale o di trascorso secondo il tempo e di archeologico, e perciò residuale, secondo lo spazio. Ora, se per spiegare i fatti è necessario integrarli, e quindi è necessario pensarli secondo una totalità che li integri, per altro verso, questa totalità non può essere concepita come un insieme di leggi generali a cui ridurre gli accadimenti, neutralizzandone la specificità e l’individualità. Al contrario, le integrazioni ricostruttive sono congiunturali rispetto alla specificità dei segni, e procedono da una riserva di argomenti, che sono poi fondate convinzioni, atti a favorire interpretazioni dei fatti che siano plausibili. Su questo tema cfr. C. PERELMANN, Il campo dell’argomentazione: cap. XIX, Obiettività e intellegibilità nella conoscenza storica; cap. XX, Senso e categorie nell’ambito della storia, Pratiche Editrice, Parma 1979, pp. 257-288. 11 Su questo tema cfr. M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Editions Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. A nostro parere, la nozione di traccia include la distinzione fra documenti e monumenti, poiché sia l’una cosa sia l’altra sono tracce. A questo punto, è opportuna una precisazione terminologico-concettuale. Se per traccia si intende l’insieme del materiale documentario, che gli uomini hanno lasciato e che bisogna restituire alla verità, intesa come attingimento dell’in sé storico che lo ha prodotto, allora certo la traccia è un documento di memoria, è un contrassegno di continuità tra i mondi storici. Ma, esiste un altro significato di traccia, e riguarda la necessità che un qualsiasi dato ha d’esser completato per essere compreso. Sotto questo aspetto, il mondo dei monumenti muti, di cui parla Foucault, è un mondo di tracce, perché mondo di segni. Infatti, un qualsiasi dato, in quanto suscettibile di descrizione, non è la stessa cosa di quel che è in quanto descritto. Non è il caso di soffermarsi qui sulla concezione wittgensteiniana di raffigurazione. A ogni modo, la descrizione, in quanto presa d’atto del monumento muto, costituisce l’entrar in discorso del monumento come tale. Ma questo è possibile perché ciò che è dato è suscettibile d’essere descritto, ossia inaugura un processo di significazione e ne sta all’origine: in altri termini, il monumento è un’unità significante, che invoca l’espressione del suo significato. In tal senso, il monumento è una traccia di discorso, è, cioè, un’unità di senso che chiama all’interpretazione. Non l’interpretazione autentica di ciò che da sempre e per sempre è in sé vero, ma come semplice descrizione del dato che, in quanto descrivibile, è elevato alla funzione di indicatore di discorso: proprio per questo il dato è intenzionato all’enunciato. Il movimento di quest’intenzionamento fa del dato un segno che, come tale, è richiesta di senso. Documenti e monumenti, inscritti in questa richiesta di senso, sono tracce, ossia direzioni di discorso. Su ciò, è noto, conviene lo stesso Foucault; infatti, che cos’altro significa ricostruzione di una serie se non integrazione della disparità dei dati in una regolarità discorsiva? Liquidata dunque la valenza storicista della traccia, la stessa nozione può esser assunta nel contesto dell’epistemologia storica come una modalità dell’esser segno. 12 Nel far storia, sono necessari criteri di generalità: sotto questo aspetto non si danno mai i puri fatti. D’altra parte, i dati, in quanto segni, sono veicoli di senso ed esigono d’essere interpretati, ossia invocano l’interpretazione. Nonostante ciò, le tracce, proprio in forza della loro stessa residualità, permangono quali indicatori, e pertanto è impossibile ridurre il loro spessore significativo nell’unicità di un’interpretazione. Questo, dal punto di vista metodologico, è il fondamentale rompicapo di ogni storiografia. La storia, bassa o alta che sia, non sfugge alla circolarità della decifrazione, come suo peculiare nodo ermeneutico innanzi a ogni traccia. Vale la pena citare, a questo punto, Ginzburg quando scrive: “Se le pretese di conoscenza

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sistematica appaiono sempre più velleitarie, non per questo l’idea di totalità dev’essere abbandonata. Al contrario: l’esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali viene ribadita nel momento stesso in cui si afferma che una conoscenza diretta di tale connessione non è possibile” (C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979, p. 91). È quanto basta: le tracce invocano il tutto; ora se i criteri di decifrazione da sistematici divengono retorici, s’intende l’alta retorica dell’inventio e della congettura, la decisione circa la loro plausibilità non può essere che di natura ermeneutico-linguistica. Il paradigma indiziario, assunto come criterio metodologico, per non decadere a nozione di buon senso deve divenire questione filosofica. D’altra parte, questo è stato il destino di ogni grande storiografia. 13 Cfr. in proposito F. WAISMANN, How I see Philosophy, Macmillan, London 1968; tr. it. Analisi linguistica e filosofia, Astrolabio, Roma 1970. 14 Ivi, cap. IV, Strati linguistici, pp. 98-128. 15 Sul linguaggio come evento della parola cfr. W.J. ONG, The Presence of the Word, Yale University Press, New Haven and London 1967; tr. it. La presenza della parola, il Mulino, Bologna 1970. 16 Sulla funzione della metafora nell’ermeneutica cfr. P. RICOEUR, La métaphore et le problème central de l’herméneutique, in “Revue philosophique de Louvain”, 70 (1972), pp. 93-113; tr. it. in P. RICOEUR, La sfida semiologica, a cura di M. Cristaldi, Armando, Roma 1974, pp. 288-312. 17 L’ermeneutica deve comprendere l’evento della parola in quanto tale. Infatti, nota bene Ebeling, “dove viene pronunciata la parola, lì si rende possibile la comprensione” (G. EBELING, Wort und Glaube, J.C.B. Mohr Siebeck], Tübingen 1960; tr. it. Parola e Fede, Bompiani, Milano 1974, 169). Da qui il circolo ermeneutico; in proposito Ebeling scrive: “Se [...] la parola stessa è principio ermeneutico, cioè qualcosa da cui la conoscenza procede come dalla propria origine, l’ermeneutica, in quanto dottrina della parola, deve scaturire dal fatto stesso della parola. Dunque per essere aiuto all’interpretazione, deve essere essa stessa interpretazione. Siamo qui di fronte al noto circolo ermeneutico nel suo significato metodologico per l’ermeneutica stessa” (ivi, p. 171). Per quanto attiene all’ermeneutica filosofica rimane, quale punto di riferimento essenziale sia storico sia teoretico, il saggio di H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1965; tr. it. Verità e Metodo, Fabbri, Milano 1972. 18 Su questo tema, risultano interessanti le considerazioni che Fuchs viene svolgendo soprattutto in relazione a Heidegger; egli scrive: “L’uomo dunque vive nel linguaggio! In quanto il linguaggio è questo luogo originario di soggiorno anteriore alla storia (vorgeschichtlich), ma non preistorico (prähistorisch), e tuttavia primo costitutivo nel mondo, lo chiamano la ‘illuminazione dell’essere’ [...] il linguaggio, che, in quanto tale, apre qualcosa come un mondo e perciò anche lo domina, può avere la forza di precederci storicamente, cioè d’esser prima della nostra storia, e di stare ad attendere nel luogo a partire dal quale il nostro Esserci può ‘adempiersi’, perché solo in tale luogo l’Esserci si apre interamente” (E. FUCHS, Hermeneutik, J.C.B. Mohr [P. Siebeck], Tübingen 1970; tr. it. Ermeneutica, a cura di C. Vignai, CELUC, Milano 1974, p. 131). 19 Questo tema è ripreso dallo stesso Fuchs quando scrive: “La storia è essenzialmente ‘saga’ (sage), quindi storia del linguaggio. Nel suo fondamento il linguaggio portatoci dalla storia è quel linguaggio essenziale all’interno del quale si risponde ogni volta ‘con se stessi’. La storia ci destina il linguaggio come la nostra possibilità più propria, chiamandoci appunto a

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un’autocomprensione che ci chiede di operare come soggetti formatori di linguaggio” (ivi, p. 210). 20 In riferimento a questo tema vale la pena ricordare la riflessione di Snell quando, a proposito di Erodoto, dice che la sua interpretazione storica si fonda “su un’esperienza che gli uomini hanno fatto anzitutto su se stessi, ed è chiaro che lo storico dà all’accadere universale quel senso che altri hanno dato alla propria vita personale. La comprensione della storia è dunque preceduta da un’autocomprensione degli uomini” (B. SNELL, op. cit., p. 225). 21 Tucidide, a differenza di Erodoto, è pensatore politico e quindi fa storia secondo una precomprensione politica. Ha quindi ragione Jaeger quando scrive: “L’etnografia erodotea, di per se stessa, non avrebbe condotto affatto alla storia politica; ma l’Atene orientata, per parte sua, esclusivamente e praticamente verso il presente si trova d’improvviso a una svolta decisiva, dove il vigile pensiero politico abbisogna di riflessione storica [...]. Non è la storiografia a farsi politica, ma il pensiero politico che si fa storico: tale la natura del processo spirituale che trova la sua espressione nell’opera di Tucidide” (W. JAEGER, op. cit., vol. I, p. 645). Ma in Tucidide le istanze della politica costituiscono la congiuntura storica propizia, o altrimenti detto, l’occasione per una ricerca intorno ai caratteri immutevoli, costanti e propri della natura umana rispetto all’agire. “Una historie,” dice Jaeger, “pacatamente immersa nel suo oggetto ‘che non invecchia’, non si aveva che della natura. Chi varca la soglia della vita politica, è coinvolto nell’odio e nella lotta. Ma quando Tucidide trasferisce la sua historie al mondo politico, pone nella ricerca della verità un senso nuovo” (ivi, p. 651). La storiografia di Tucidide consegue, allora, dalla congiunzione di esigenze politiche, da un lato, e da un’idea di sapere che, per essere tale, deve essere se non dell’immutabile, certamente di ciò che è costante, dall’altro. La precomprensione, che comprende i fatti, è già strutturata come fatto di linguaggio, prima ancora che l’innovazione disciplinare sia istituita. 22 Il fare storia come puro esercizio disciplinare presuppone l’esistenza di almeno due condizioni; che vi siano un metodo e un interesse. Evidentemente il metodo è necessario per esercitare una qualsiasi pratica disciplinare, l’interesse è necessario per comprenderne o, quanto meno, motivarne l’esercizio. La dissoluzione delle grandi filosofie della storia ha comportato un contrarsi delle motivazioni incentivanti, e l’interesse per ciò che è storico si è tecnicizzato, ossia si è mantenuto tramite un’identificazione tra scopi e criteri. Il positivismo storico ha elevato al rango di scopo la pura e semplice invenzione del metodo e il rispetto della sua legalità. Ma quale precomprensione motiva quest’oggettività e questo rispetto e, soprattutto, cosa si vuol conoscere in ciò che è storico? La rinuncia alla filosofia della storia non comporta necessariamente una rinuncia al punto di vista filosofico. La rinuncia filosofica di Burckardt alla filosofia della storia, di cui parla Löwith, può essere ancora intesa come una rinuncia del tutto filosofica; in fondo per Burckardt la storia non è “una scienza di fatti neutrali, bensì il resoconto di fatti, che un’epoca trova notevoli in un’altra”; cfr. K. LÖWITH, Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, W. Koklhammer, Stuttgart 1953; tr. it. Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 41. Per Burckardt c’è una sorta di affinità che motiva il sapere storico. Ma in che cosa consiste l’affinità? Come determinarla? E, per venire a noi, oggi cosa si vuol sapere quando si fa storia? Per comprendere questo bisogna portarsi all’altezza della domanda e penetrare il senso dell’epoca. È un fatto di linguaggio e perciò, ancora una volta, una questione ermeneutica.

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Fonti Il capitolo Foucault e la genealogia della “ragione moderna” è stato pubblicato in Ermeneutica e genealogia, Feltrinelli, Milano 1980, 1988, pp. 137-166. Il capitolo Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault è stato pubblicato in Vita buona vita felice, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 6697. Il capitolo Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault è stato pubblicato in Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 131-151. La prima appendice Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale è stata pubblicata in “Quaderni della Fondazione San Carlo”, Modena 1986, e ripresa in Vita buona vita felice, cit., pp. 11-30. La seconda appendice Tracce e segni è stata pubblicata (col titolo Semiotica storica ed ermeneutica linguistica) in Teatro filosofico, cit., pp. 152-163.

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Indice Introduzione 1. Foucault epistemologo e genealogista 2. La dissoluzione del trascendentale e l’“a priori storico” 3. Il decentramento del soggetto 4. L’ordine del discorso 5. Dalla morte dell’uomo all’ermeneutica della soggettività Note 1. Foucault e la genealogia della “ragione moderna” 1. Cartesio e l’idea di ragione 2. La nascita della ragione moderna 3. La “ragione” e il “discorso” Note 2. Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault 1. Il linguaggio del corpo e l’analisi del potere 2. I corpi disciplinati 3. Il “corpus” disciplinare 4. “Potentia est scientia” Note 3. Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault 1. Universo della comunicazione e strati linguistici 2. L’a priori storico e l’archivio 3. Le regolarità discorsive 4. Discorso e interpretazione Note APPENDICE

1. Soggettivazione e oggettività. Appunti per 196

un’interpretazione dell’antropologia occidentale 1. Forme della ragione e radici dell’azione 2. Identità dei soggetti e complessità sociale Note 2. Tracce e segni 1. Semiotica storica 2. Ermeneutica Note Fonti

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Indice Introduzione 1. Foucault e la genealogia della “ragione moderna” 2. Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault 3. Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault Appendice 1. Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale 2. Tracce e segni Fonti

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