La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero

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La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Nota introduttiva
Capitolo I - Heidegger e l'"astro errante"
Capitolo II - "Prigione terrestre". L'azione astronautica secondo Arendt
Capitolo III - L'arca originaria di Husserl
Capitolo IV - Lévinas, Blanchot: la verità nomade
Capitolo V - «... sull'altro bordo della ferita...»
Bibliografia
Indice dei nomi
Quarta di copertina

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Mediologie 17 Collana diretta da Alberto Abruzzese, Gino Frezza, Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone

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Carmelo Colangelo

La verità errante Viaggi spaziali alla prova del pensiero

Liguori Editore

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La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero/Carmelo

Colangelo Napoli : Liguori, 2009 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4967 - 5 1. Filosofia

2. Tecnica I. Titolo

Aggiornamenti: ———————————————————————————— 14 13 12 11 10 09 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

Nota introduttiva

1

Capitolo I Heidegger e l’“astro errante”

9

1. Lo spazio, lo spavento 2. Tecnica: il limite e l’impossibile 3. Il pianeta-opera Capitolo II “Prigione terrestre”. L’azione astronautica secondo Arendt 1. Kafka e Archimede 2. Weltraum macht frei? Nella capsula, l’ignoto assente Capitolo III L’arca originaria di Husserl 1. Astronavi immaginate 2. La Terra, il corpo

9 19 32

45 45 59

73 73 85

Capitolo IV Lévinas, Blanchot: la verità nomade

97

1. Evasione eterologica 2. Una voce dallo spazio

97 110

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VIII

Indice

Capitolo V “…sull’altro bordo della ferita…”

127

Bibliografia

143

Indice dei nomi

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Avvertenza Alcune pagine del Capitolo IV riprendono, modificandolo, un articolo intitolato «Tecnica, etica, nomadismo. Lévinas e Blanchot sui viaggi astronautici», pubblicato in: Aa. Vv., Eticità del senso. Scritti in onore di Aldo Masullo, a cura di G. Cantillo e F. C. Papparo, Napoli, Luciano editore, 2003, pp. 301-316.

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Nota introduttiva

«Un giorno Talete osservava gli astri...» Già in riferimento alla loro prima, quasi mitica, apparizione, ai filosofi, è noto, è stata attribuita la tendenza a dedicare alle stelle parte rilevante dei loro pensieri. Piedi piantati per terra, essi, da che esistono, avrebbero indirizzato sguardi e capacità di stupirsi alla volta celeste – salvo poi cadere nei pozzi ed esporsi al riso della intelligente, simpatica serva trace di turno. È una delle più note “scene primarie” della filosofia quella che vuole il pensatore immerso nella contemplazione delle profondità dei cieli, a tal punto assorbito dall’osservazione del corso delle stelle da non riuscire a vedere quanto gli resta più rischiosamente prossimo1. All’altro capo della loro storia, nella nostra tarda modernità, potevano i filosofi non esprimersi sulla cosiddetta “conquista dello spazio”, loro che così a lungo sono stati accreditati di aver identificato nella volta stellata parte non trascurabile del proprio “campo professionale”? Quali pensieri l’emozione culturale del volo astronautico ha indotto presso gli eredi del protofilosofo distratto, e in quali pozzi – metaforici, certo, ma non meno pericolosi – è capitato loro di cadere “contemplando” satelliti, sonde, vettori spaziali? Sono le 1

Cfr. Platone, Teeteto, 173e – 174b, e naturalmente le riflessioni di H. Blumenberg, Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der Theorie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1987; trad. it. Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Bologna, il Mulino, 1988.

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La verità errante

domande che hanno animato l’analisi, proposta in queste pagine, di alcuni tra i testi filosofici contemporanei in cui, a vario titolo, compare una considerazione teoretica dell’avvento della possibilità umana di inoltrarsi nello spazio extra-atmosferico. Tema affascinante, ma peregrino, si dirà. In realtà, nelle modalità con le quali l’avventura astronautica è stata discussa da Heidegger o Arendt, Lévinas o Blanchot, McLuhan o Anders, c’è qualcosa che riguarda in modo davvero significativo la stessa progettualità filosofica contemporanea, nella sua inclinazione a istituirsi, per dirla con Foucault, a “ontologia del presente”: a interrogazione sull’evenemenzialità precipua dell’adesso. Il punto, evidentemente, è che quell’avventura non è priva di rapporti con la definizione filosofica – attualmente un po’ demodée, ma in realtà ancora più che pertinente – che il Novecento ha offerto di se stesso in quanto “epoca della tecnica”. Una definizione che, alla svolta della fine della guerra e per tutta la seconda metà del secolo – con la bomba atomica, strumento della possibilità concreta di annientare la specie umana, e, appunto, con l’esplorazione dello spazio, momento della fuoriuscita materiale dal tutto del luogo terrestre – ha trovato conferme robuste, già prima che le più recenti acquisizioni delle tecnoscienze informatiche e biologiche venissero a turbare i sonni dei filosofi – o le loro veglie. Per i pensatori del nostro tempo, lo si sa, la questione della tecnica rappresenta una vera e propria spina nella carne. Da un lato, essi sanno ormai, e sempre meglio, che la tecnica costituisce una delle condizioni stesse dell’esistenza umana: che ad essa, cioè, sono legate tanto l’antropogenesi, quanto le possibilità vertiginose di una ulteriore ominazione. Dall’altro, non possono che constatare come proprio alle forme contemporanee dell’agire tecnico si trovino sempre più inestricabilmente connessi i maggiori rischi di distruzione, parziale

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Nota introduttiva 3

o totale, del mondo umano, oltre che di alienazione e di violenza. A dirlo in modo certo un po’ prosaico, l’attività tecnica sembra essere sempre un’arma a doppio taglio, una prassi che mette in pericolo i processi per i quali pure risulta necessaria. Chiedersi come stiano le cose riguardo alla “conquista dello spazio” – in che termini specifici sia stata accolta nel pensiero questa particolare declinazione della tecnica, quali prospettive, quali diagnosi essa abbia potuto suscitare sulla scena della considerazione teorica della crescente pervasività delle tecnoscienze – significa offrirsi la possibilità di sondare da una prospettiva inusitata uno degli aspetti più problematici della riflessione contemporanea. E significa farlo rispondendo, fosse pure in modo obliquo e inevitabilmente parziale, all’obiezione, così spesso rivolta alla filosofia, di banalizzare le differenze tra le molteplici tecniche attraverso il ricorso a una categoria – “la Tecnica”, appunto – troppo astratta nel suo accreditare la leggenda di una sostanza unitaria del fenomeno, e troppo generale per non mettere capo a fraintendimenti, banalizzazioni, deformazioni, quando non a errori di valutazione e a fobie culturali, non di rado accompagnati da discutibili attitudini accusatorie. A oltre cinquant’anni dall’inizio dell’era spaziale – di solito indicato nel lancio del satellite artificiale Sputnik I, il 4 ottobre 1957 – si può dire che l’impresa astronautica sia stata uno dei campi in cui è apparso con maggior chiarezza il carattere strutturalmente ambivalente delle tecnoscienze: la natura composita, complessa, tutt’altro che unidirezionale o unitaria della loro processualità e dei loro effetti. Lo si vedrà nelle pagine che seguono: la consapevolezza filosofica mostra che l’intrapresa astronautica, rifrangendosi, per il bene e per il male, sulla percezione reale del pianeta Terra e sull’autocomprensione dei suoi abitanti, porta con sé una globale riconfigurazione di concetti come “natura”

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La verità errante

e “cosmo”, nonché un necessario spostamento di accento nelle modalità di considerazione del “terrestre” e dell’“astrale” come tali. Le rievocazioni celebrative delle principali tappe della storia dell’astronautica restano spesso venate di melanconia. È avvenuto di recente, con il cinquantenario del trionfo sovietico dello Sputnik, regolarmente associato al successivo, spettacolare collasso del progetto del socialismo reale e al disfacimento del suo immaginario egualitario; pare avvenire adesso, con l’anniversario della missione lunare di Armstrong, Aldrin e Collins, letta ormai, persino dai meno sensibili alle gioie dell’anti-americanismo, come un dubbio sfoggio di potenza, o come una mera campagna planetaria in favore di un neoliberismo già coatto a convivere con la propria crisi permanente. Circa dieci anni dopo l’allunaggio, nel 1980, Deleuze e Guattari potevano osservare: «La NASA sembrava pronta a mobilitare capitali considerevoli per l’esplorazione interplanetaria, come se il capitalismo cavalcasse un vettore per giungere fin sulla Luna. Ma, seguendo l’URSS, che concepiva l’extraterrestre come una cintura che doveva contornare la Terra presa per “obiettivo”, il Governo americano ridusse i fondi di esplorazione riportando in questo caso il capitale a un modello più centrato. La deterritorializzazione di Stato manifesta quindi la tendenza a moderare la deterritorializzazione superiore del capitale, forse fornendo a quest’ultimo riterritorializzazioni compensatorie»2. Nello specifico del suo rapporto con le dinamiche economiche capitalistiche, la tecnica astronautica ha conosciuto non solo una relativa stasi progettuale, ma anche una riduzione dei suoi stessi 2 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980; trad. it. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, Roma, Alberto Castelvecchi Editore, 2006, pp. 663-664.

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Nota introduttiva 5

orizzonti di esplicazione. Mentre, per sua logica interna, sembrava dover contribuire a spostare i limiti conoscitivi dell’animale umano, o almeno aiutare a porre in modi nuovi il problema di tali limiti, di fatto non riuscì a non ritrovarsi immediatamente captata da riappropriazioni ideologiche e a vario titolo territoriali, “casalinghe”. Così, se l’Outer Space Treaty del 1967 – primo documento internazionale di diritto positivo a considerare l’interesse dell’umanità3 – allegava immediatamente le «vaste prospettive che si offrono al genere umano grazie alla scoperta umana dello spazio extra-atmosferico», e si spingeva fino a riproporre la definizione “filosofica” e “architettonica” degli astronauti come «envoys of mankind»4, oggi, se ne ha conferma scorrendo gli atti degli ultimi simposi dell’UNESCO sullo stato dell’arte, «l’essenziale della conquista dello spazio è una triplice battaglia, commerciale, politica e strategica. Il soldato, il commerciante, l’investitore hanno preso il posto dell’esploratore»5. È la storia recente – dal senso e valore incerti – della intensificazione della “copertura” satellitare del pianeta, dei progetti militari per il cosiddetto “Scudo Spaziale”, dell’opulento “turismo” o 3 Cfr. S. Hobe, «Common Heritage of Mankind. An Outdated Concept in International Space Law», in International Institute of Space Law, 1998, pp. 271-285. 4 La formula appariva già nella Dichiarazione dei principi sulle attività degli Stati in materia di esplorazione e utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, adottata dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 1962 (XVIII) del 13 dicembre 1963. Sul punto si veda: G. Lafferranderie, «Pour une charte de l’astronaute», Annales du droit aérien et spatial, vol. XII, 1987, pp. 259-278. 5 Cfr. J. Arnauld, «De l’exploration à la colonisation. Quelques réflexions sur la conquête de l’espace par l’homme», in: Aa. Vv., Proceedings of the international symposium on a “Legal and Ethical Framework for Astronauts in Space Sojourns”, 2729 october 2004, United Nations Educational Scientific and Cultural Organization, 2004, p. 45.

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La verità errante

camping astronautico, delle proposte di deregolamentazione dell’uso dello spazio esterno, ecc… Costitutivamente ambivalente, come ogni agire tecnoscientifico, l’avventura astronautica è stata ed è il luogo di rivendicazioni identitarie, di nuove forme di cedimento a miti pseudo-umanistici, di ostentazioni di prestigio politico ed economico, e ciò proprio nel mentre ha potuto anche essere vissuta e pensata, tutto sommato non senza ragioni, come una delle possibili tappe sulla via di una maturità della specie: di una umanità infine avviata, altro che ad abbandonarla, a vedere con altri occhi la “madre” Terra, forse a prendersene maggior cura; e infine disposta, più che a pensare di violare nuove frontiere, ad accettare di trovarsi sempre strutturalmente al limite, al di là del limite nel limite, e a provare a sostenere tale critica condizione. Di qui le diverse reazioni filosofiche che si è ritenuto di prendere in considerazione: a partire da quella di un Heidegger allarmato e spaventato (a cui è dedicato il prologo, certo un po’ in salita, del libro – in considerazione della pregnanza dell’analisi della tecnica da lui proposta), passando per quella, più piana e riflessa, ma ugualmente inquieta, di Arendt, fino a giungere (dopo un breve excursus husserliano) alle annotazioni di Lévinas, centrate sulla questione generale della legittimità di una relazione “possessiva” con il Luogo terrestre, e a quelle di Blanchot, dove risuonano il problema della ridefinizione della finitezza fondamentale dell’umano e quello di un franco aggiornamento della nostra stessa idea di ordine cosmico. Per finire, ci si è rivolti a un poeta, Andrea Zanzotto, chiedendogli sostegno per trarre qualche conclusione. A mo’ di viatico alla lettura, valga evocare quanto scriveva Walter Benjamin nel 1928, in un denso aforisma intitolato Al planetario, in cui indicava la differenza tra l’uomo antico e quello moderno nell’assenza, in quest’ultimo, di una vera «dedizione a un’esperienza

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Nota introduttiva 7

cosmica»6. La mancanza di tale esperienza, appuntava, si è tradotta dapprima (a partire da Keplero, Copernico, Tycho Brahe) in una «rilevanza esclusiva conferita a un’unione ottica con l’universo», poi, nel Novecento, nel disgraziato e inconsapevole «grande corteggiamento del cosmo» compiutosi tecnicamente – e crudelmente – con la guerra mondiale7. Ma la ragione per cui «la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue», aggiungeva, va ricercata nel fatto che gli uomini (in primo luogo le classi dominanti) hanno cercato di «soddisfarsi a sue spese», hanno cioè considerato la tecnica soltanto uno strumento per i propri fini, e non piuttosto, come sarebbe stato necessario, una inedita «phýsis nella quale il contatto col cosmo avverrà in forma nuova e diversa»8. È dire che l’agire tecnoscientifico resta portatore di virtualità impregiudicabili solo nella misura in cui si cominci a intenderlo non semplicemente in termini di profittevole padronanza della “natura”, bensì anzitutto come una padronanza delle relazioni multiple tra “natura” e “umanità”. «Chi vorrebbe prestar fede a un precettore armato di sferza che indicasse il senso dell’educazione nel dominio dei bambini da parte degli adulti? L’educazione non è forse in primo luogo 6 Cfr. W. Benjamin, Einbahnstraße, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1955 e 1972-1989; trad. it. Strada a senso unico, a cura di G. Schiavoni, nuova edizione accresciuta, Torino, Einaudi, 1983 e 2006, p. 70. 7 Cfr. ivi, pp. 70-71: «[…] l’ultima guerra è stata il tentativo di un nuovo, mai esaudito connubio con le potenze cosmiche. Masse umane, gas, energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta frequenza hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, nello spazio aereo e negli abissi marini risuonava il rombo delle eliche, e da ogni parte si sono scavate nella madre terra fosse sacrificali. Questo grande corteggiamento del cosmo s’è compiuto, per la prima volta, su scala planetaria, cioè nello spirito della tecnica». 8 Ibidem.

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La verità errante

il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuol parlare, il dominio non dei bambini ma di quel rapporto? Così anche la tecnica: non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità»9. A voler applicare alla tecnica astronautica l’appunto benjaminiano, si potrebbe dire che essa, latrice di un’eccedenza dell’assiomatica della località e del “cosmico” e, al contempo, scena e occasione di formazioni reattive, di “riterritorializzazioni” utilitarie, di pretese particolaristiche, mantiene il carattere di campo di visibilità sia della sempre più problematica prosecuzione di un rapporto prevalentemente strumentale con ciò che ci circonda, sia della possibilità di costruzione di nuove responsabilità e nuove relazioni con l’enigma dell’attuale. Ringrazio i responsabili della collana per aver accolto questo volume nel loro piano di pubblicazione di ricerche massmediologiche. Saluto gli amici e i compagni di lavoro che hanno mostrato interesse per la mia ricerca, ascoltandomi e fornendomi suggerimenti utilissimi: Giancarlo Alfano, che ringrazio anche per la foto di copertina, Maurizio Cambi, Mariapaola Fimiani, Gino Frezza, Gabriele Frasca, Anna Masecchia, Bruno Moroncini, Enrico Nuzzo, Felice Ciro Papparo, Marco Russo, Davide Tarizzo, Francesco Vitale. Come lo studio che qualche anno fa ne ha costituito il nucleo iniziale, il libro è dedicato ad Aldo Masullo.

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Ibidem.

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Capitolo I Heidegger e l’“astro errante”

1. Lo spazio, lo spavento Nel 1961, in un breve testo pubblicato all’indomani dell’annuncio sovietico che un uomo aveva orbitato per circa un’ora attorno alla Terra a bordo di una capsula spaziale, Émmanuel Lévinas, riflettendo su questa prima esperienza umana di viaggio circumterrestre, annotava: «La tecnica è pericolosa. Non minaccia solo l’identità delle persone, ma rischia di far deflagrare il pianeta. Per lo più, però, i nemici della società industriale sono dei reazionari: dimenticano oppure detestano le grandi speranze della nostra epoca. Infatti, mai la fede nella liberazione dell’uomo è stata così forte negli animi […] Essa fa tutt’uno con le scosse delle civiltà sedentarie, lo sbriciolamento delle pesanti stratificazioni del passato, lo sbiadirsi dei colori locali, le crepe che attraversano tutte quelle cose ingombranti e ottuse a cui si consacrano i particolarismi umani. Bisogna essere sottosviluppati per rivendicarle come ragion d’essere e lottare in loro nome per un posto nel mondo moderno»1. Il tono è veemente, animato 1 Cfr. É. Lévinas, «Heidegger, Gagarine et nous», Information juive, 1961, poi in Id., Difficile Liberté. Essais sur le judaisme, Paris, Albin Michel, 1963 et 1976, p. 299; trad. it. Difficile libertà. Saggi sull’ebraismo, a cura di S. Facioni, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 289-290. Tutte le traduzioni italiane citate sono state modificate quando lo si è ritenuto opportuno o necessario.

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La verità errante

com’è dalla denuncia dell’elemento regressivo sotteso a certi attacchi alla tecnica e ai suoi esiti. Circostanza relativamente infrequente nel panorama della riflessione filosofica novecentesca, risultano qui chiamati sul banco degli imputati non tecnica e scienza, bensì i loro accusatori, in particolare chi tra loro parla in nome della “natura”, dei “numi tutelari” locali, della sacralità del terreste regionale. Lévinas è esplicito: ciò che gli interessa, è provare a cogliere nel volo di Gagarin il segno della possibilità inedita di una emancipazione dal potere vincolante di ciò che egli chiama i «particolarismi umani». Dell’avventura astronautica andrebbero perciò messi tra parentesi tanto l’aspetto di «magnifico numero da Luna Park che impressiona le folle», quanto il tratto di «prestazione sportiva realizzata arrivando più lontano degli altri, battendo ogni record di altezza e di velocità»2. Ciò che è decisivo, scrive, è altro: qualcosa di più importante del «coraggio e [della] virtù personali», dello «spirito di abnegazione» o della «probabile apertura su nuove conoscenze e nuove possibilità tecniche»3. Il volo spaziale è interrogato come emblema materiale della possibilità, da parte degli uomini, di instaurare una relazione con la natura che non risulti determinata dal richiamo permanente a luoghi “primigeni” e a terre originarie, per la comprensione di sé, degli altri, del mondo. «Ciò che forse conta soprattutto, è il fatto di aver abbandonato il Luogo. Per un’ora, un uomo è esistito al di fuori di ogni orizzonte – tutto era cielo attorno a lui, o, più esattamente, tutto era spazio geometrico. Un uomo esisteva nell’assoluto dello spazio omogeneo»4. Esemplata sull’avventura spaziale, l’azione della tecnica è insomma considerata foriera di una interruzione del presupposto del radicamento, di una revoca 2 3 4

Ivi, p. 301; trad. it. 291. Ibidem. Ivi, p. 302; trad. it. 291.

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Heidegger e l’“astro errante” 11

della legittimità del riferimento a origini esclusive e siti eletti, e perciò considerata emancipativa degli uomini, se è vero che, almeno in linea di principio, rende possibile guardare ad essi prescindendo dalla considerazione della situazione geografica, delle tradizioni e della storia parziali da cui provengono o in cui sono iscritti. La tecnica viene così indicata come portatrice dell’impossibilità di considerare il “terrestre” e le sue partizioni come spazi della manifestazione di un sacro fondamentale, comunque inteso. La provocazione di Lévinas consiste insomma nell’affermare la minore pericolosità dell’agire tecnico rispetto all’asservimento alla “sedentarietà” e al perpetuarsi di ogni prospettiva che, in nome delle origini e dell’esser-radicati, finisca con l’operare distinzioni tra “nativi” e “stranieri”, “senza patria” e “insediati”, all’interno del continuum omogeneo della specie umana. Più oltre sarà bene tornare su queste pagine, per cogliere meglio la logica dell’argomentazione di Lévinas ed esaminare presupposti e conseguenze di questi accenti per così dire anti-luddisti, nonché della polemica antiparticolaristica che ad essi si trova legata. Ciò che ora va rilevato, è che l’invito a guardarsi dai “geni del luogo”, e a considerare la realtà della tecnica come qualcosa che, riscattando dalla loro potenza, sarebbe meritevole di una considerazione teoretica meno diffidente o preoccupata di quanto generalmente non accada, va letto in relazione alla rete di riferimenti a Martin Heidegger intorno a cui queste pagine sono costruite. Ciò che qui si trova contestato è la teoria dell’“abitare”, la dottrina del “soggiornare” e l’idea stessa di “custodia” della “dimora” terrestre, che animano tratti capitali dell’itinerario intellettuale del filosofo tedesco. In effetti, quella di Heidegger, lo si sa, è tutt’altro che una filosofia “urbana” o “cosmopolita”: impossibile contare, nei suoi testi, i riferimenti, espliciti o impliciti, che testimoniano di una adesione marcata allo spirito

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La verità errante

del mondo contadino, alle consuetudini popolari regionali e all’universo pretecnologico5. È ormai prassi ermeneutica consolidata sottolineare la tendenza di Heidegger a valorizzare la semplicità dell’antica natura, della campagna, della montagna, del villaggio natale, nonché la sua ritrosia nei confronti della città, della vita metropolitana, dei media e in generale di ogni fattore direttamente o indirettamente effrattivo di ciò che è nativo ed originario. Si può dire che Heidegger rubrichi tutti i movimenti reali nello spazio della cultura urbana contemporanea come una uscita ingannevole dal piano di ciò che gli appare come propriamente da pensare, sentire e vivere: un movimento fallace, governato in sostanza da una logica della dispersione e connotato dalla servitù all’“essente”, a ciò che appare, a scapito dell’“essere”, in quanto “manifestatività” (Offenbarkeit) primaria che, precisamente nel suo far apparire tale “essente”, resta sempre di nuovo nascosta. Soprattutto a partire dagli anni Trenta, e poi con regolarità fino ai suoi ultimi testi, Heidegger ha così reiterato le deplorazioni della “perdita del mondo”, dello “sradicamento” e della “spaesatezza” causati dallo stile di vita dell’uomo tecnologico contemporaneo, nella misura in cui concepisce il proprio rapporto con le 5 Si può rinviare – ma evidentemente solo a titolo di esempio – a un testo molto chiaro in proposito, e tutto sommato ancora raramente citato: il saggio «Schöpferische Landschaft: Warum bleiben wir in der Provinz?», redatto nell’autunno del 1933 e trasmesso alla radio nel marzo 1934. Cfr. M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens (1910–1976), hrsg. von H. Heidegger, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 20022, pp. 9-13; trad. it. «Paesaggio fecondo: perché noi restiamo in provincia?», in: Scritti Politici (1933-1966), a cura di G. Zaccaria, prefazione, postfazione e note di F. Fédier, Casale Monferrato, Piemme, 1998, pp. 179-183 e pp. 345-347 per le note.

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Heidegger e l’“astro errante” 13

cose anzitutto in chiave di calcolo, strumentalità, pianificazione. Scelgo a caso tra le mille citazioni possibili: «Ora il mondo appare come un oggetto, un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali, si ritiene, nulla è più in grado di opporsi, mentre la natura si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio di energia al servizio dell’industria e della tecnica»6. Tra i primi ad affrontare nei suoi fondamenti teoretici la questione della tecnica e delle sue mutazioni contemporanee, Heidegger è stato anche tra coloro che, di fronte alla cosiddetta “conquista dello spazio” extraterrestre, hanno più apertamente manifestato la propria inquietudine, investendo l’avventura astronautica di uno sguardo certamente allarmato. Nella celebre intervista allo Spiegel del settembre del 1966, si può leggere: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona, e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica sempre più dalla Terra. Non so se Lei è spaventato, io in ogni caso lo sono stato appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già cosa fatta. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive»7. La visione del pianeta dal suo satellite, 6 M. Heidegger, «Gelassenheit (30 Oktober 1955)», in: Id., Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 2000, p. 523; trad. it. L’abbandono, introduzione di C. Angelino, traduzione e note di A. Fabris, Genova, il melangolo, 1989, p. 34. 7 Id., «Nur noch ein Gott kann uns helfen», in Der Spiegel, 13 maggio 1976, poi, col titolo «Spiegel – Gespräch mit Martin Heidegger (23. September 1966)», in Id., Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), cit., pp. 669670; trad. it. Discorsi e altre testimonianze sul cammino di una vita (1910-1976), a cura di N. Curcio, Genova, il melangolo, 2005, p. 597.

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La verità errante

la “rivelazione” del globo nella sua totalità materiale, il suo effettivo apparire come smisurato oggetto in movimento nel vuoto sono qui esplicitamente indicati come motivo di turbamento e costernazione. Ed è sintomatico che, al confronto, lo stesso fantasma della catastrofe nucleare appaia al filosofo per così dire già in ritardo sulla strada dell’attacco tecnico al “terrestre”. Heidegger sembra aver reagito all’immagine del pianeta visto dallo spazio come se con essa fosse stato notificato il risultato ultimo di un aberrante processo di oggettivazione che, avendo fatto letteralmente venire a mancare la Terra da sotto i piedi, e avendola collocata davanti agli occhi, l’avesse trasformata in una entità posta separatamente di fronte agli uomini, così dispondendola una volta per tutte – e al pari di qualsiasi altro oggetto – a un’utilizzabilità e a un dominio definitivi. Oppure come se, in quelle fotografie, in cui al di sopra della linea curva del suolo lunare si staglia in lontananza il profilo della Terra – e dove dunque il pianeta fa da cielo al suo satellite –, egli cogliesse il fatto di un rovesciamento, radicalmente perturbante, di quei rapporti millenari che, consentendo agli uomini di orientarsi, hanno istituito il senso stesso dei loro vissuti (e dei loro concetti) di alto e basso, lontano e vicino, limitatezza e vastità. Non è difficile rilevare quanto la dichiarazione allo Spiegel, con il riferimento alla veduta fotografica della Terra e al consistente stabilirsi di quest’ultima in quanto Bild, sia coerente non solo con le tesi espresse nello studio del 1938 su L’epoca dell’immagine del mondo, a proposito della oggettivazione del reale compiuta, nel moderno, ad opera di un uomo trovatosi filosoficamente riportato alle sole misure del soggetto, ma anche con l’interpretazione dell’essenza della tecnica e con la dottrina dell’“abitare” che innervano luoghi cruciali della produzione heideggeriana. In quanto prodotto della metafisica compiuta e,

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Heidegger e l’“astro errante” 15

con questa, della generalizzata “volontà di volontà”, la tecnica è per Heidegger un esercizio di controllo totale sulla natura, capace di trasformarla in una sorta di riserva o accumulo energetico sempre disponibile (Stand). È qui l’antefatto del «movimento dello sconvolgimento profondo del mondo che esperiamo di ora in ora»8. Rispetto al passato, la nuova relazione con la Terra che risulta così istituita non consiste infatti semplicemente in una produzione che “intensifica” le produzioni naturali per piegarle ai bisogni o alle esigenze umane, bensì in una riduzione dei processi naturali a puro e semplice invaso di risorse a disposizione, impiegabili e consumabili. In questa ottica, secondo Heidegger, laddove la tecnica antica permetteva ancora di essere letta come l’insieme dei mezzi impiegati dall’uomo in vista del soddisfacimento delle proprie necessità, la moderna e contemporanea tensione generale dell’agire tecnico, fondata sulle scienze esatte, perdendo questo tratto strumentale, antropologico (e antropogenetico), giunge a disporre prepotentemente dell’uomo stesso, facendo di lui nient’altro che una «materia prima», fosse pure «la più importante»9, e costringendolo così a «errare attraverso i deserti della devastazione della Terra»10. È precisamente da queste considerazioni che in Heidegger discendono sia l’invito al recupero del Luogo terrestre in quanto risvegliarsi al fatto del suo oblio 8

M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Gunther Neske, 1954, poi Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 2000, p. 41; trad. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1991, p. 29. 9 Ivi, p. 91; trad. it. p. 60: «[Le guerre mondiali] spingono a un’assicurazione di “fondi” che è opera di una forma permanente di usura. Questo processo si impadronisce anche dell’uomo, il quale non può più nascondere il carattere che fa di lui la più importante delle materie prime» (pagina datata 1939-40). 10 Ivi, p. 70; trad. it. p. 46.

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La verità errante

come spazio fondamentale-originario, sia la definizione autentica dell’essere dell’uomo in quanto “abitante”. Altro che relazionarsi alla natura facendo di essa una massa di materiali accumulati da consumare (“pro-vocandola”), esistere, in senso forte, significherebbe viverla come spazio aperto “tra Terra e Cielo”, come luogo da custodire con la cura e la fedeltà di chi con esso e in esso mantiene un’apertura essenziale alla costruzione del senso del darsi-ritrarsi dell’essere. Ricorrendo al patrimonio lessicale alto-tedesco, Heidegger non esita a connettere il termine bauen allo stesso presente indicativo del verbo essere, per scrivere: «Che significa allora: ich bin, io sono? L’antica parola bauen a cui si ricollega il “bin” risponde: “ich bin”, “du bist” vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei ed io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla Terra è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla Terra come mortale; e cioè: abitare. L’antica parola bauen, secondo la quale l’uomo è in quanto abita, significa però anche, nello stesso tempo, custodire e coltivare il campo, coltivare la vigna. Un tale bauen nel senso di coltivare si limita a proteggere, a proteggere la crescita che porta di per sé i suoi frutti. Bauen nel senso di custodire e coltivare non è un produrre»11. Per Heidegger, insomma, l’elemento determinante dell’essere dell’uo11 Ivi, p. 149; trad. it. pp. 97-98. Già in Essere e tempo, a proposito dell’«in-essere» in quanto esistenziale, si poteva leggere: «“In” deriva da innan-abitare, habitare, soggiornare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito…: esso ha il significato di colo nel senso di habito e diligo […] L’espressione “sono” è connessa a “presso”. “Io sono” significa di nuovo: abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. “Essere” come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso…, aver familiarità con…». Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemer Verlag, 1927, § 12; trad. it. Essere e tempo, Milano, Longanesi & C., 19765, p. 78.

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mo, quello a più di un titolo fondamentale, è il risiedere, inteso come aver cura del luogo in cui storicamente l’uomo soggiorna ed è radicato, difendendo tale luogo e lasciandolo essere ciò che è. A fronte dell’oggettivazione, della “pro-vocazione” e dell’accumulo tecno-scientifici, ciò che è indicato come un “equilibrato” rapporto col terrestre e il “naturale” è piuttosto il cauto e attivo lasciar essere, sein lassen12. Detto altrimenti, si trova qui ribadita la convinzione che il Da-sein è tale anzitutto a partire dal suo “Da”, da un “qui” che è sempre terrestre e determinato. Compito dell’esserci è prendere sul serio quell’appartenenza al Luogo che, in quanto a priori esistenziale in cui soltanto può darsi esperienza della “manifestatività” stessa di ciò che si manifesta, richiede che l’uomo si interroghi permanentemente sulle proprie radici, provando a smettere di rispondere a tale domanda solo in termini di assoggettamento o sfruttamento di ciò che egli chiama “natura”. È evidente che una simile posizione non può che portare con sé una caratterizzazione del pensiero e dei suoi compiti nei termini di un vero e proprio «ritorno 12

Cfr. J.-L. Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger, Napoli, Cronopio, 1996, p. 14: «Fare-senso non è quindi fare del senso, ma far essere l’essere, lasciarlo essere […] Il lasciar-essere non è una passività, ma è appunto, l’agire stesso». Sull’interpretazione dell’espressione “sein lassen” esiste ormai una vasta letteratura critica: qui osserverei soltanto che resta piuttosto raro che essa venga inquadrata, come appare necessario, a partire dai concetti di «progetto (Entwurf)» e di «poter-essere (Seinkönnen)» che per molti versi ne costituiscono i progenitori. A partire dal corso del 1928 sui Principi metafisici della logica, “sein lassen” è in effetti il modo in cui Heidegger ritrascrive quanto Essere e tempo aveva declinato in termini di “apertura della possibilità in quanto possibilità”: cfr. M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik, hrsg. von K. Held, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1978, § 14; trad. it. Principi metafisici della logica, a cura di G. Moretto, Genova, il melangolo, 1990, pp. 254-255.

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La verità errante

in patria», di un incamminarsi «sulla via verso il luogo del nostro soggiornare»13. È solo a partire da questi movimenti di riappropriazione che, per Heidegger, si darebbe la possibilità di porre in questione la volontà di dominio che, dal cuore della tecnica, devasta il mondo. Solo un rimpatrio nel luogo terrestre, mediante una relazione con esso in grado di pensarlo e assumerlo nella sua essenza “autentica”, potrebbe sospendere la cecità della violazione tecnica, disincantando gli uomini dal preteso disincanto della razionalizzazione scientifica del mondo14. Heidegger intende testimoniare in favore di un esser-radicati che «non trasvola oltre la Terra né va al di là di essa per abbandonarla e librarvisi al di sopra»15, e la sua prospettiva teorica indica come essenziale un “restare presso” le cose in grado di mettersi in ascolto del modo in cui esse si offrono nel patrimonio culturale, anzitutto linguistico, delle comunità parziali, ovvero a partire da quelle «differenze dell’elemento nazionale e dei popoli» che la gestione tecnica della natura, con le sue potenti capacità di uniformazione e sradicamento, rende a tutti gli effetti caduche16. 13 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 64; trad. it. p. 43. 14 Tutta una dialettica delle polarità “weberiane” incantodisincanto, se non una loro inversione e neutralizzazione, è evidentemente implicita in questo passo heideggeriano di Zur Sache des Denkens, Tübingen, M. Niemeyer, 1969, p. 79; trad. it. Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1980, p. 180: «Forse c’è un pensiero che è più sobrio dell’irrefrenabile dilagare della razionalizzazione e della furia sradicatrice (das Fortreissende) della cibernetica. Probabilmente è proprio questo furore l’estremo dell’irrazionale. Forse c’è un pensiero che esula dalla distinzione tra razionale e irrazionale, più disincantato ancora della tecnica scientifica […]». 15 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 196; trad. it. p. 128. 16 Cfr. ivi, pp. 94-95; trad. it. p. 63: «Questo movimento

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2. Tecnica: il limite e l’impossibile La natura dello sgomento di Heidegger di fronte alla “fuoriuscita” astronautica è però da cogliere alla luce di altri elementi precipui della logica complessiva della sua riflessione sulla tecnica. Com’è noto, Heidegger riconosce nella tecnica «un modo del disvelamento»: la determina, cioè, come una modalità della verità in quanto alètheia e, conseguentemente, come un’“epoca dell’essere” 17. È altrettanto risaputo, poi, che, in un passaggio che non ha smesso di fare la gioia inquieta degli interpreti, Heidegger sostiene che in realtà, nel luogo stesso del «pericolo» di cui la tecnica sarebbe foriera – pericolo, si è visto, fortemente sintetizzato dall’immagine “astronautica” della Terra –, «cresce anche ciò che salva»18. Entrambe le affermazioni, ed entrambi i rapporti (tecnica e “non-nascondimento”, tecnica e “salvezza”), risultano al tempo stesso determinanti e fortemente problematici. Cosa riconduce la furiosa “pro-vocazione” tecnica alla verità del “non-nascondimento”, tutta legata all’autenticità del lasciar-essere le cose, al “tra Terra e Cielo”, al terrestre regionale? Cosa riporta lo sguardo senza occhi della sonda spaziale – la sua ostensione della Terra in quanto oggetto e contenitoreserbatoio – alla verità considerata essenziale dell’appartenenza locale? È impossibile, poi, non chiedersi a che titolo i tratti detti devastanti del Gestell possano essere considerati realmente latori di effetti salvifici, fosse pure in modo latu sensu dialettico. In più di un momento, del della consumazione dell’essente, mosso dall’inconsapevole difesa che si oppone contro il non esperito essere, esclude anticipatamente che le differenze dell’elemento nazionale e dei popoli siano fattori ancora essenziali». 17 Cfr. ivi, p. 13; trad. it. p. 9. 18 Ivi, p. 29; trad. it. p. 22.

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resto, e proprio in coincidenza con le affermazioni più drastiche riguardo l’agire tecnicamente orientato, Heidegger ha ritenuto necessario precisare che, per quanto lo riguardava, il punto decisivo non stava affatto in un «rivoltar[si] vanamente contro [la tecnica] e condannarla come opera del demonio», e tantomeno nel misconoscere l’importanza del rapporto che gli uomini intrattengono con le situazioni e gli oggetti a cui essa sempre di nuovo mette capo19. S’impone così un détour attraverso gli snodi argomentativi maggiori della proposta heideggeriana circa l’“agire tecnico”. In uno dei suoi passaggi più noti, la conferenza del 1953 sulla Questione della tecnica pone la necessità di un accertamento critico del senso della parola greca poiésis, che Heidegger traduce «pro-duzione» (Her-vor-bringen) e intende come espressione generale della dinamica stessa dell’alètheia. Poiésis, pro-duzione, si legge (con riferimento al Simposio), è termine di cui occorre dire che designa «“ogni far apparire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non presenza passa e si avanza nella 19

Cfr. ivi, p. 26; trad. it. p. 19. E poco oltre: «Il pericolo non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica». L’affermazione ritorna con una certa regolarità: cfr. ad esempio, M. Heidegger, Identität und Differenz (1957), Frankfurt a. M., Vittorio Klosterman, 2006, p. 49; trad. it. «Identità e differenza», a cura di U. M. Ugazio, in: aut-aut, n. 187-188, gennaio-aprile 1982, p. 15: «Certo non possiamo né rifiutare l’odierno mondo della tecnica come opera diabolica, né ci è consentito distruggerlo nel caso che non provveda a farlo da sé». In Gelassenheit si può poi leggere: «Gli impianti, le apparecchiature, i macchinari che caratterizzano il mondo della tecnica risultano oggi per tutti noi, per alcuni di più, per altri di meno, indispensabili. Sarebbe folle slanciarsi ciecamente contro il mondo della tecnica, sarebbe miope condannarlo in blocco come opera del diavolo. Ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica, siamo costretti a perfezionarli sempre di più» (cit., p. 526; trad it. p. 37).

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presenza”. Tutto sta ora, per noi, nel pensare la produzione in tutta la sua portata e insieme nel senso dei greci. Una pro-duzione, poiésis, non è solo la fabbricazione artigianale [...] Anche la phýsis, il sorgere di per sé, è una pro-duzione, è poiésis. La phýsis è anzi poiésis nel senso più alto. Infatti, ciò che è presente phýsei ha in se stesso (en eautó) il movimento iniziale della produzione, come ad esempio lo schiudersi del fiore nella fioritura. All’opposto, ciò che è prodotto dall’arte e dal lavoro manuale, per esempio il calice d’argento, non ha il movimento iniziale della pro-duzione in se stesso, ma in un altro (en állo), nell’artigiano e nell’artista»20. Il punto, insomma, è non solo che la phýsis andrebbe intesa come uno dei nomi eminenti della poiésis, ma anche che, lungi dall’essere nettamente antitetiche, phýsis e téchne, riprese in un certo loro senso, posto o supposto da Heidegger come originario, risulterebbero genealogicamente affini, appunto sotto il segno di una “pro-duzione” intesa come dinamica generale del passaggio di qualcosa dalla non presenza alla presenza, dalla latenza nella disvelatezza21. Tanto il “naturale” di tutto ciò che cresce e si forma, quanto il “tecnico” nel complesso del suo articolarsi, sarebbero da cogliere come relativi al movimento generale per cui in generale un nascosto può venire all’apparire. È qui, evidentemente, la manovra determinante compiuta dalla sollecitazione heideggeriana della “essenza” della tecnica. È infatti in virtù di questo primo passo – la postulazione di una primitiva coappartenza

20

M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., pp. 12-13; trad. it. p. 9. 21 Ibidem: «Il far-avvenire concerne la presenza di ciò che di volta in volta viene all’apparire nella pro-duzione [Her-vorbringen]. La pro-duzione conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza. Pro-duzione si dà solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza».

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La verità errante

della phýsis e della téchne nella cornice della poiésis –, che Heidegger può poi proporre di vedere nella tecnica “un modo della verità”, aprendosi così la strada per esibire la logica paradossale del “pericolo salvifico”. In certo senso, è come se si affermasse che l’opposizione tecnica-natura, così come noi la conosciamo, è in realtà tutta interna al polo stesso della tecnica moderna, ed è dunque una opposizione da relativizzare, se non da abbandonare. In sé e per sé, l’agire tecnico, in senso “orginario”, non farebbe che fare ciò che fa la natura, benché con l’intervento di un artigiano esterno alla cosa prodotta (un artigiano che – è il sottinteso nemmeno troppo coperto – è esso stesso pro-dotto “naturalmente”, giacché «un uomo che sia solo un uomo unicamente da se stesso è qualcosa che non esiste»)22. Così, se l’agire scientifico-tecnologico può giungere ad essere distruttivo per la Terra e sradicante per l’esserci, ciò non accade per ragioni di ordine, per così dire, essenziale o strutturale, attinenti a ciò che sarebbe intrinseco al “tecnico” come tale, in quanto “pro-duzione da altro”. Si può dire piuttosto che per Heidegger la violenza del Gestell, dell’“impianto” tecnico, è tributaria di un eccesso, della mancata fissazione o dell’insufficiente rispetto di un certo limite: se si vuole, di una sorta di dismisura o di trasgressione – cieche, peraltro, al loro stesso carattere di violazione, di oltrepassamento. Se Heidegger propone di pensare che ogni tecnica, nella sua struttura, è pur sempre da intendere come una “produzione”, esattamente come lo sarebbe la phýsis 23, per

22

Ivi, pp. 32-33; trad. it. p. 24. Sul punto si vedano le glosse “bio-antropologiche” di P. Sloterdijk, Nicht gerett. Versuche nach Heidegger, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 2001; trad. it. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Milano, Bompiani, 2004, passim. 23 Ivi, p. 31; trad. it. p. 23: «Il disvelamento pro-vocante ha in quello pro-ducente la sua provenienza destinale».

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Heidegger e l’“astro errante” 23

lui resta anche vero che, con le sue dinamiche, latrici, nell’oggi, dell’esito della trasformazione della Terra in puro cumulo di energia, la “pro-vocazione” marca l’ingresso in una zona in cui non è più rinvenibile alcuna traccia di delimitazione o determinazione. In Heidegger, insomma, la tecnica contemporanea appare come il luogo di una illimitazione funesta, perché non solo a tutti gli effetti disidentificante, ma, per così dire, anche “de-possibilizzante”. È, questo, un punto cruciale, a cui forse non è stata dedicata tutta l’attenzione che richiede. Chiarirlo significa anzitutto ricordare che, nella complessiva elaborazione problematica heideggeriana, è certamente costante la valorizzazione della delimitazione, l’accentuazione del carattere fondamentale e positivo del raggiungimento, dell’acquisizione, della produzione, del venire in essere di un limite – che si tratti poi del limite “proprio” dell’esserci o del limite “dispropriatoappropriato” precipuo dell’essere. In modo ora più, ora meno esplicito, non si contano i luoghi testuali che si articolano in base a una netta, reiterata domanda di limitazione e sulla limitazione, e che di essa tematizzano con insistenza lo statuto. Si pensi, ad esempio, alla questione, in Essere e tempo, del «poter-essere-un-tutto da parte dell’esserci», conseguibile in forza dell’anticipazione del limite mortale (con il pendant opposto dell’illimitata, e sfigurante, dispersione nelle possibilità improprie che per Heidegger qualifica l’esistenza non “decisa”, curiosa, ciarliera ed equivoca)24. O anche, più in generale, al problema stesso della Endlichkeit, intesa in quanto compiutezza possibile dell’uomo, dell’essere e della storia dell’essere, con la definizione estrema della «finitezza in sé» (dell’Ereignis-Enteignis) in quanto

24 M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., §§ 46-53; trad. it. Essere e tempo, cit. pp. 289-324.

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La verità errante

«fine, limite, il ‘proprio’ – l’essere albergato nel Proprio»25. Per quanto attiene al piano problematico che qui interessa – quello istituito da Heidegger riguardo al rapporto tra “Terra” e “fuoriuscita” tecnica, astronautica, dal Luogo –, la questione del limite e della sua “rimozione” risulta capitale soprattutto per due aspetti. Anzitutto, il tema della limitazione è essenziale per la qualificazione stessa della phýsis. Nella misura in cui con essa si assiste a una dinamica di “immissione in una presentazione”26, la phýsis è infatti definibile come posizione dell’ente in una configurazione circoscritta, come determinazione di esso all’interno di un limite. Ma non di un limite qualsiasi – soprattutto non di un limite inteso come semplice margine, o come luogo o agente di una restrizione e di una privazione. Piuttosto, quel péras che, nella quadruplice definizione compresa nel libro delta di Metafisica, è indicato come ciò che fa essere una cosa ciò che è: ciò che la instaura e la determina compiutamente nella sua pienezza, consistenza e conoscibilità (e che, dunque, spiega Aristotele, può essere detto anche éschaton, éidos, télos ed ousìa)27. Per Heidegger, insomma, peculiare della 25

Id., Zur Sache des Denkens, cit., p. 58; trad. it. p. 165, mio corsivo. Per questi problemi rinvio al mio Limite e melanconia. Kant, Heidegger, Blanchot, Napoli, Loffredo, 1998. 26 Cfr. «Vom Wesen und Begriff der Phýsis, Aristoteles Physik B 1» (1939), in Wegmarken, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1976, pp. 259-301; trad. it. «Sull’essenza e sul concetto della phýsis, Aristotele, Fisica, B, 1», in Segnavia, Milano, Adelphi Edizioni, 1987, pp. 193-256. 27 Cfr. Aristotele, Metafisica, 1022a 3-10, dove appunto sono allegate quattro definizioni di limite. In un primo significato, péras è «il termine estremo di ciascuna cosa», nel senso del punto ultimo che include nella cosa tutto ciò e nient’altro che ciò di cui essa è composta, facendone così un tutto, rendendola compiuta e intera. Sicché, in una seconda accezione, péras può essere definito «la figura di una grandezza», dove

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phýsis (parola di cui in fin dei conti si può dire che è uno dei nomi dell’essere, come risulta con nettezza lungo Saggi e discorsi) è una motilità immanente, in base alla quale qualcosa giunge a una conformazione e si dà come determinatezza finita, mostrandosi di volta in volta in quanto presenza concretamente delimitata (sullo “sfondo” di una contemporanea ritrazione)28. l’accento cade sulla capacità generale del limite di contenere e determinare l’ente in una sua specifica configurazione. Ma péras è poi anche, da un lato, «il fine di ciascuna cosa», ovvero ciò a cui essa tende e in cui, esaurendovisi, realizza ciò che è; dall’altro, la stessa «sostanza o essenza di ciascuna cosa», e cioè ciò che in nessun caso può essere sottratto senza che con questo non sia tolta la cosa stessa come tale. 28 Sin dalla sua discussione della Fisica aristotelica, che Heidegger non esita a definire «l’occulto libro base della filosofia occidentale […] mai studiato dal pensiero abbastanza a fondo», egli in effetti intende la phýsis come un movimento in cui l’essere si muta nell’essente nel e attraverso un limite che è il luogo stesso della dialettica di “presentificazione” e “assentificazione”. Cfr. M. Heidegger, «Vom Wesen und Begriff der Phýsis, Aristoteles Physik B 1», cit., p. 269; trad. it. p. 224: «péras non è il limite nel senso del bordo esteriore dove qualcosa cessa. Limite è ciò che delimita e determina, ciò che dà sostegno e consistenza, ciò in cui e per cui qualcosa ha principio ed è. Ciò che senza limite si presenta e si assenta non ha di per sé l’essere presente e cade nell’inconsistenza». Si veda inoltre Id., Einführung in die Metaphysik (1966), Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1983, pp. 64-65; trad. it. Introduzione alla metafisica, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1990, p. 70: «péras non è qualcosa che provenga all’essente dal di fuori. Ancor meno esso rappresenta una mancanza, una privazione. L’arrestarsi, il mantenersi in base al proprio limite, il possedersi nel mantenersi stabile, è questo l’essere dell’essente, e ciò che costituisce primariamente l’essente come tale nella differenza dal non-essente». In Vorträge und Aufsätze (cit., p. 156; trad. it. p. 103) si può poi leggere: «Un Raum, spazio, è qualcosa di sgombrato, di liberato, e ciò entro determinati limiti, quel che in greco si chiama péras. Il limite non è il punto in cui qualcosa finisce, ma, come sapevano i greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza».

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Phýsis sarebbe insomma il movimento produttivo che, instaurando la cosa nel suo profilo, fa sì che essa risalti precisamente per ciò che è, nel suo apparire e nella sua consistenza singolare: sicché Heidegger può scrivere, ad esempio, che «è in virtù del contorno del limite che nella luce greca la montagna si staglia nella sua quiete»29. Ora, come si diceva, il punto in cui sembra che la parentela tra “tecnica” e “natura”, non possa che sciogliersi o sospendersi, ha a che vedere precisamente con una questione di limitazione. Se la téchne antica è anch’essa ancora propriamente costruzione, immissione, raggiungimento di un limite30, tecnica e “pro-vocazione” moderne risultano invece animate da una netta dinamica di sfiguramento, debordamento, illimitazione. Questo passaggio è tra i più noti della conferenza del 1953, e ci riporta al tema della Terra e della sua violazione: «La legge nascosta della Terra la mantiene nella moderata misuratezza del nascere e 29 M. Heidegger, «Der Ursprung des Kunstwerkes» (1935, 1961), in Holzwege, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1977, p. 71; trad. it. in Id., Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 66: «Nel senso greco, il limite non imprigiona, ma, nel suo esser-prodotto, immette l’essere-presente nella sua apparizione. Il limite pone nella libertà del non nascondimento; è in virtù del suo contorno che nella luce greca la montagna si staglia nella sua quiete». 30 Come si legge ancora in «Sull’essenza e sul concetto della phýsis, Aristotele, Fisica, B, 1» (cit., p. 284; trad. it. p. 245), quello greco di téchne è «un concetto conoscitivo, e significa l’intendersi di ciò presso di cui una produzione (…) deve arrivare e finirsi e condursi a compimento. Questa fine in greco si chiama télos. Ciò presso cui una produzione ‘cessa’ è il tavolo come finito, ma finito appunto come tavolo, come ciò che un tavolo è, secondo l’aspetto che ha»; l’aspetto della cosa in quanto viene visto in anticipo è insomma «quella fine, télos, di cui la téchne s’intende», e tale fine non è lo «scopo, bensì la fine nel senso della finitezza (‘perfezione’) determinativa dell’essere».

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Heidegger e l’“astro errante” 27

del perire di tutte le cose entro i limiti della loro possibilità (Kreis des Möglichen), che ognuna di essa segue e che tuttavia nessuna conosce. La betulla non oltrepassa (überschreitet) mai la sua possibilità. Il popolo delle api abita dentro all’ambito delle sue possibilità. La volontà, che si organizza, con la tecnica, in ogni direzione, fa violenza alla Terra e la trascina nell’esaustione, nell’usura e nelle trasformazioni dell’artificiale. Essa obbliga la Terra ad andare oltre i limiti della possibilità che questa ha naturalmente sviluppato, verso ciò che non è più il suo possibile, e che quindi è l’impossibile»31. Da una parte, la catena semantica: “legge”, “moderazione”, “misura”, “limite”; dall’altra, quella di “volontà”, “violenza”, trasfigurazione incondizionata. Il Gestell sarebbe così ancora una pro-duzione, ma una pro-duzione paradossale, definibile in fin dei conti come costruzione di una perdita di forma, come sconfinamento in un campo di possibilità che non sono di nulla e di nessuno, e che dunque sono possibilità “impossibili”, non perché inattuabili, ma perché improprie del Dasein e del suo rapporto con le cose e con l’essere: un terreno di assurdità realizzate. Con ciò, per Heidegger, la tecnica moderna e contemporanea, si potrebbe dire, è iper-prometeica, irrimediabilmente esorbitante32. Lo Stand, il fondoserbatoio di energie, cui essa riduce la Terra, è mero accumulo dell’informe, in vista di qualcosa che fuoriesce dall’ambito del poter-essere dell’uomo. Nel passo in questione, il rimando al mondo vegetale e animale è notevole, soprattutto se si pensa alle argomentazioni proposte nel corso su Concetti fondamentali della me31

M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 96; trad. it. p. 64, tutti i corsivi sono miei. 32 Si veda, in questa direzione interpretativa, B. Stiegler, La technique et le temps 1. La faute d’Epiméthée, Paris, Galilée, 1994.

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tafisica. Mondo – finitezza – solitudine, dove il rinvio al vivente non umano era stato declinato in termini di “povertà di mondo”, a fronte della sfera dell’umano in quanto luogo della “formazione di mondo”33. A voler riportare quelle notazioni alla discussione su Terra e tecnica, si potrebbe dire che quest’ultima è per Heidegger la prassi per cui l’uomo diviene un deformatore di mondo, formatore di una deformazione o di una sfigurazione che, intanto sono tali, in quanto sono essenzialmente una illimitazione. L’agire provocante appare insomma al filosofo come ciò che induce una perdita di determinazione, e che perciò allontana gli uomini dalla loro stessa essenza di esseri-per-illimite, di esseri-per-la-fine: di “mortali” che, posti “tra Terra e Cielo”, anticipando la propria morte, possono assumersi quel bordo identificante-possibilizzante che essi altrimenti, in quanto non sono animali – viventi determinati e storditi dall’istinto, chiusi e compiuti nella loro penuria di mondo –, non potrebbero mai incontrare. C’è poi un secondo aspetto di densità filosofica della questione del limite in relazione a quella dell’agire tecnico, ed è rilevabile dallo stesso incipit della conferenza del 1953, lì dove si legge che la mossa risolutiva per «procurarsi un rapporto libero» con la tecnica starebbe in realtà nel «metter[si] in condizione di esperire la tecnicità nella sua delimitazione»34. Se, nell’oggi della modernizzazione industriale capitalistica, il Gestell è anzitutto la pratica umana di de-figurazione, in virtù

33

Cfr. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit, hrsg. von F. W. Herrmann, Frankfurt a. M., Klostermann, 1983, §§ 42-76; trad. it. Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, a cura di C. Angelino, Genova, il melangolo, 1992, pp. 230-469. 34 Id., Vorträge und Aufsätze, cit., p. 7; trad. it. p. 5, mio corsivo.

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della quale gli enti, più che costituirsi in una loro compiutezza volta per volta determinata, sono sottoposti a una continua “usura”, allora ciò che per Heidegger è necessario, è il rinvenimento di una modalità che consenta, per così dire, di limitare la tecnica dall’esterno, dislocandola in un ambito effettivamente definito, in cui il suo precipuo tratto trasgressivo o mostruoso, pur avendo corso, non possa restare protagonista assoluto del campo dell’esserci. Insomma, poiché in alcun modo la tecnica contemporanea risulta di per sé operatrice di vere limitazioni, instauratrice di configurazioni realmente finite, bensì, in quanto industrializzazione, è agente di una incessante “trasformazione artificiale” della totalità dell’ente – con un altro lessico: di una perpetua volatilizzazione di ogni cosa e di ogni valore d’uso nell’astrattezza della merce e del valore di scambio –, allora è indispensabile reperire qualcosa che, situandosi altrove dal luogo e dalla logica dell’agire tecnico, li delimiti a priori, costituendoli come una sorta di spazio circoscritto dell’illimitazione, come un campo che, benché al suo interno tendenzialmente sconfinato, sia di fatto realmente delimitato, nella sua stessa espansione, dall’effettività di un’altra modalità del pensiero e dell’agire (Heidegger, lo si sa, paga un debito assai rilevante a Kant e alla sua instancabile opera “agrimensoria”, nella quale anche l’indefinito del progredire conoscitivo deve e può essere limitato a priori, con sicurezza). Così, nella misura in cui non è né possibile, né auspicabile, né filosoficamente pertinente una ricusazione della tecnica e delle sue sconvolgenti dinamiche di sradicamento, per Heidegger occorre ricondurla a ciò che essa effettivamente è, costringerla a restare sul piano produttivo di sua competenza. In altre parole, è necessaria la postulazione di un ambito del tutto differente, capace di mostrare l’illegittimità della tendenza dell’agire tecnico a «scacciare via ogni altra

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possibilità del disvelare»35. Capace, cioè, di immetterlo in una situazione in cui esso possa vigere in modo non egemonico, solo parzialmente, e di costringerlo in tal modo a rispettare quel limite che pure ad esso intrinsecamente difetta. Per il filosofo, ciò che è decisivo, non è considerare l’agire tecnoscientifico come qualcosa da contrastare o, all’opposto, da emulare ed estendere (le due attitudini storicamente predominanti nel campo filosofico, e quelle a cui gli storici delle idee hanno dedicato più attenzione)36, bensì qualcosa da circoscrivere, pur nella consapevolezza del tratto strutturale di “illimitatezza”, e anzi proprio per averlo rilevato nella sua cogenza. Heidegger considera possibile collocare la tecnica in un suo spazio proprio, porla nel limite stesso dell’uomo, nella finitezza del suo esserci in quanto rapporto con l’alterità radicale di un essere che, a sua volta finito, è da lui inteso come senso né computabile né producibile. È il tema del pensiero come andenken che, sfuggendo alla strumentalità, si attiene esclusivamente al prodursi dell’ente, ovvero a un Sein che si sottrae a favore della presenza compiutamente configurata che esso istituisce; ed è l’indicazione della Gelassenheit come disponibilità a ricevere che risponde al lasciaressere e al disvelare originari che pongono l’ente nel suo limite. Così, tornando alla questione “astronautica”, per Heidegger, alla (im)possibilità spaesante e abnorme apparsa con l’azione di «abbandonare la Terra e inol-

35

Ivi, p. 28; trad. it. p. 21. Cfr. J. Starobinski, «Langage poétique et langage scientifique», Diogène, n. 100, octobre 1977, pp. 139-157; trad it. «Linguaggio poetico e linguaggio scientifico», in Id., Le ragioni del testo, a cura di C. Colangelo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 69-93. 36

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trarsi nello spazio»37, e alla effettiva trasformazione del Luogo dei luoghi in stranito «astro errante»38, devono rispondere la pratica artistica e meditativa in quanto fissazione di un limite: atto di designazione, custodia e rilancio del nesso sempre volta per volta locale tra terra e cielo. L’evocazione estetica del terrestre regionale come «patria più quieta della stirpe»39 – spazio delimitato di radicamento – è ciò che deve permettere all’uomo di rinvenire un nuovo limite, legato all’orizzontalità definita dalla stessa spazialità fondamentale del Dasein. Un limite o una misura non matematici, espressivi di un’apprensione puramente “diametrale” dell’alto e del basso nella loro relazione reciproca, sempre esperibile in ogni appropriato movimento umano di dislocazione: «L’uomo abita in quanto misura diametralmente (durchmißt) il “sulla Terra” e il “sotto il Cielo”. Questo su e questo sotto sono inscindibili. La loro mutua compenetrazione è quella misurazione diametrale (Durchmessung) che l’uomo in ogni momento percorre, in quanto è come terrestre»40. Tutto ciò che per Hei37

34.

M. Heidegger, «Gelassenheit», cit., p. 523; trad. it. p.

38

Id., Vorträge und Aufsätze, cit., p. 96; trad. it. p. 64: «La Terra appare come il non-mondo dell’erramento. Essa è, dal punto di vista della storia dell’essere, l’astro errante (der Irrstern)». Kostas Axelos è stato tra i primi a richiamare l’attenzione su questa pagina heideggeriana, rilevandone la derivazione da Hölderlin e ricostruendo i termini generali della questione del “pensiero planetario” e dell’“erranza”. Cfr. K. Axelos, Einführung in ein Kuftiges Denken. Ueber Marx und Heidegger, Tübingen, Max Niemeyer, 1966; trad. it. Marx e Heidegger, Napoli, Guida, 1977. 39 Id., Unterwegs zur Sprache (1959), Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1985, p. 76; trad. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1973, 1984, p. 79. 40 Cfr. Id., Vorträge und Aufsätze, cit., p. 202; trad. it. p. 133.

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La verità errante

degger è autenticamente possibile nei confronti della Terra e del terrestre nell’epoca delle esplorazioni spaziali, è coglierli all’interno dell’economia generale della coappartenza di essere ed esserci, coappartenenza di cui è persuaso che non possa darsi a vedere altrimenti che nell’ambito di un orizzonte continuamente locale, intrascendibile perché sempre strutturalmente definito, sebbene solo in modo “diametrale”, ovvero all’interno della linea di opposizione-congiunzione tra “sopra” e “sotto”, tra un “basso” e un “alto” che eccedono tutte le formalizzazioni dello spazio che il calcolo tecnoscientifico potrebbe proporre.

3. Il pianeta-opera Per più di un verso, le indicazioni di Heidegger circa il plesso problematico compreso tra i termini “Terra”, “astro”, “tecnica” potrebbero essere lette come un appello all’adozione di una sorta di risoluto bilinguismo intellettuale. Come si legge in L’Abbandono: «Ci sono due modi di pensare, entrambi necessari e giustificati, anche se in maniere diverse: il pensiero calcolante e il pensiero meditante»41. La realtà della tecnica rinvia a un tratto dell’umano descrivibile come possibilità strutturale della “formazione di una deformazione”, di una fuga nell’illimitato e di un debordamento nell’impossibile. Ma nella misura in cui l’essenza dell’esserci non è frazionabile, e dunque abdicare all’agire tecnico significherebbe intaccare in profondità tale essenza, ciò che occorre è ammettere, insieme alla lingua numerica e alle pratiche oggettivanti/“pro-vocanti”, una lingua e una pratica non orientate ad alcuno scopo, dotate di un

41

Id., «Gelassenheit», cit., p. 520; trad. it. p. 30.

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grado zero di strumentalità, e così capaci di dare seguito – nel loro rigettare non tanto l’atto rappresentativo-tecnico come tale, ma la sua assolutizzazione – all’esigenza di una interdelimitazione che faccia giustizia della spaventosa “smodatezza” tecnologica. In questo senso, quello a cui Heidegger sembra appellarsi è un pensiero a cui sarebbe delegata la funzione specifica di radicare il “dire di sì” all’illimitato tecnico in un “dire di no” ad esso, motivato dalla fedeltà ai limiti e promotore della costruzione di nominazioni che a tali limiti siano in grado di rinviare attraverso una compiuta designazione “poetica” e “meditativa”42. L’ossatura della proposta di Heidegger apparirebbe così chiara: attraverso una sorta di sintesi disgiuntiva tra tecnica e attitudine “poetante”, il suo tentativo mirerebbe a enucleare «un nuovo modo di radicarsi (eine neue Bodenständigkeit) dell’uomo», nonché «la possibilità di soggiornare nel mondo in modo completamente diverso»; in definitiva tenderebbe, cioè, a individuare «un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo»43. Il piano del prelogico, dell’immediato non matematizzabile, della percezione “territorializzata” e “radicata” – piano che le tecnoscienze non possono che abbandonare senza rimpianto, denunciandovi una sorta di errore – verrebbe così recuperato da un pensiero e soprattutto da 42

Cfr. ivi, p. 526; trad. it. p. 38: «Possiamo far uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dire di sì (“ja” sagen) all’uso inevitabile dei prodotti dela tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no (“nein” sagen), impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere». Sul punto cfr. W. Schirmacher, Technik und Gelassenheit, Freiburg, Alber, 1984. 43 Ivi, p. 528; trad. it. p. 39.

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La verità errante

un’arte incaricati di una funzione contemplativa di cui la riflessione oggettivante e la “pro-vocazione” moderna e contemporanea non possono in alcun modo farsi carico. Semplificando un po’, si potrebbe dire che per Heidegger il compito del pensiero e della prassi nontecniche è quello di mettere capo a un Gestell “buono”, calcato, nei suoi tratti fondamentali, sulla “delimitazione” implicata nell’opera d’arte, intesa come posizione di un decisivo limite formale e come portatrice della costruzione-istituzione di un mondo storico, spazialmente e temporalmente circoscritto, attraverso specifiche modalità di nominazione44. 44

È sostanzialmente l’idea dell’opera che emerge sin dallo studio del 1935-1936 sull’Ursprung des Kunstwerkes. Operare artisticamente, in quanto “esporre un Mondo” storico inoggettivo e “ricondurlo alla Terra”, intesa come fondamento impenetrabile di un abitare (una Terra, precisa Heidegger, da cui «occorre tener ben lontano ogni idea di massa materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico»), significa istituire un limite che «conferisca alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi». Limite che Heidegger designa qui con il concetto di “tratto” (Riss): «centro unitario di profilo e disegno, taglio e contorno», e che appare latore della possibilità di “fissare la verità in una figura” (cfr. Holzwege, cit., particolarmente pp. 28-58; trad. it. pp. 28-54). Significativa, in questa prospettiva, è l’aggiunta apposta da Heidegger nel 1961 all’edizione separata del saggio per l’editore Reclam, dove la “fissazione” artistica della verità è definita non solo come un «pro-durre» (Her-vor-bringen), ma francamente come un «Gestell» originario e, stavolta, positivo, in quanto «lasciar pervenire nella linea di separazione come contorno». Sicché per Heidegger è giocoforza precisare non solo che «Ge-stell – il termine che ho successivamente impiegato per designare l’essenza della tecnica moderna – è stato pensato a partire dal Ge-stell come viene inteso qui», ma naturalmente anche che in «questo secondo Ge-stell» – quello appunto che designa la tecnica moderna – è implicata la deteriore «potenza dell’incondizionato (Herrschaft des Unbedingten)», ivi, p. 72; trad. it. p. 67.

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Heidegger e l’“astro errante” 35

In altri termini, ciò di cui l’oggi necessiterebbe, è il riconoscimento della necessità di una divisione compensatoria, di un aggiustamento ridistributore, di un partage. Proprio nel suo essere calcolante, quantitativa e illimitatatamente de-formatrice, la tecnica rinvierebbe, rendendendola necessaria (e per certi versi persino più possibile)45, all’apertura del campo problematico della significazione del non computabile, della configurazione concreta e “qualitativa” delle cose – del senso irriducibile alle significazioni esatte. Così, rispetto alla vicenda astronautica, il perturbante sradicamento implicato nella conquista dello spazio extraterrestre imporrebbe nella sua dismisura una nuova attenzione alla Terra, un rispetto di essa in quanto dimora fondamentale. Se si vuole, una sorta di oikologìa46, intesa come cura estetica e intellettuale dell’orizzonte terrestre, in definitiva misurabile – “diametralmente”, sulla linea Terra-Cielo – solo grazie al limite offerto dal pensiero e dai linguaggi estetici nel loro riallacciarsi a una spazialità e a un’esperienza storica essenziali. È interessante, e utile, rilevare che la costellazione problematica che affiora nella discussione heideggeriana dei temi della trasformazione del rapporto con la natura, della fuoriuscita dal terrestre, del compito 45 Joachim Ritter ricorda in effetti che solo nella misura in cui si è dato un dominio tecnoscientifico della natura, una “meccanizzazione” della sua immagine che ne ha ridotto l’aspetto minaccioso dando luogo a una sospensione del timore di fronte alle sue forze, è stato anche possibile qualcosa come l’invenzione estetica del “paesaggio”. Cfr. J. Ritter, «Landschaft», in Subjektivität, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1974, pp. 155-163; trad. it. Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, a cura di M. Venturi Ferriolo, Milano, Guerini e associati, 20012; Id., «Aesthetik», in Historische Wörterbuch der Philosophie, Bale-Stuttgart, B. Schwabe, 1971, vol. I, col. 558. 46 Il calco linguistico, anche inteso a demarcare Heidegger da un “ecologismo” generico, è stato proposto da E. Mazzarella, Tecnica e metafisica, Napoli, Guida, 1981, pp. 291 sgg.

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La verità errante

del pensiero e dell’opera d’arte, è presente anche nelle considerazioni sulla tecnologia spaziale proposte sul piano della riflessione mass-mediologica contemporanea, così come è stata impostata negli studi fondatori di Marshall McLuhan. La cosa è solo parzialmente sorprendente. Benché lontanissimo dalle tematiche metaontologiche, lo studioso canadese non solo si è disposto volentieri a una sorta di “umanesimo postumanista” tutto sommato non così incomparabile a quello che, sul piano filosofico, connota lo sforzo heideggeriano, ma è anche stato un frequentatore estremamente assiduo del tema – per Heidegger più che fondativo – del divario essenziale tra “inizio presocratico” e pensiero metafisico greco (e ciò traendo partito dagli studi di Eric A. Havelock sull’oralità primitiva e sugli effetti dell’alfabetizzazione, svolti con l’orecchio teso alle forme tecniche mass-mediali della cosiddetta oralità secondaria contemporanea)47. In effetti, in un articolo della metà degli anni Settanta, si può leggere questa riflessione, poi più volte reiterata in altri luoghi. «Forse la più grande rivoluzione concepibile nel campo dell’informazione è avvenuta il 4 ottobre 1957, quando lo Sputnik creò un nuovo ambiente per il pianeta. Per la prima volta il mondo naturale è stato completamente racchiuso in un contenitore artificiale. Quando la Terra è entrata in questo 47

Cfr. E. A. Havelock, Preface to Plato, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1963; trad. it. Cultura orale e civiltà della scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1995 e Id., The Muse Learns to Write. Reflections on Orality and Literacy from Antiquity to the Present, New Haven, London, Yale University press, 1986; trad. it. La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Roma-Bari, Laterza, 1995. Sull’importanza di Havelock per la prospettiva teorica di McLuhan si veda la ricostruzione di G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005, pp. 20-34.

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nuovo artefatto, è finita la natura ed è nata l’ecologia. La coscienza ecologica è diventata inevitabile non appena il pianeta acquisiva lo stato di opera d’arte»48. Nella perentorietà precipua del dettato di McLuhan, è qui delineata una questione in fondo prossima a quella posta da Heidegger (di cui, sia detto per inciso, l’autore di Galassia Gutemberg ha sottolineato con decisione le peculiarità “orali” e “poetanti” di scrittura: la «particolare propensione non-alfabetica nei confronti della filosofia e del linguaggio»)49. McLuhan intende che uno degli effetti più vistosi – e critici – dell’agire tecnico “spaziale” è la trasformazione del pianeta in qualcosa di contenibile all’interno di una sorta di gigantesco involucro tecnologico. Investito in modo totale e simultaneo da segnali elettronici, in virtù della presenza dell’artefatto satellitare nello spazio circumterrestre, esso risulta radicalmente modificato, in quanto ambiente naturale, e riconvertito in un territorio artificiale di accumulo, supporto e circolazione di quei segnali. L’estensione tecnologica del rapporto umano col tutto del pianeta produce insomma una riconfigurazione della Terra in cui questa, divenendo semplice “contenuto”, mantiene ormai assai poco dell’alterità antica della natura e del naturale50. 48 M. McLuhan, «At the moment of Sputnik the planet became a global theatre in which there are no spectators but only actors», Journal of Communication, vol. 24, 1, Winter 1974, poi in: Id., The Man and His Message, ed. by G. Sanderson e F. MacDonald, Golden, Colorado, Fulcrum Inc., 1989; trad. it. L’uomo e il suo messaggio, introduzione di J. Cage, Milano, SugarCo edizioni, 1992, p. 70. 49 Cfr. Id., The Gutemberg Galaxy. The making of Typographic Man, Toronto, University of Toronto press, 1962; trad. it. La galassia Gutemberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando Editore, 1976, p. 325. 50 Nel declinare schematicamente la “legge” (di estensione dell’esperienza e di indebolimento di esperienze pregresse) precipua del satellite in quanto medium, McLuhan afferma

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Il compito immediato diviene allora ricostruire la Terra e prendersene cura: recuperarla artificialmente, anzitutto pensandola appunto come una “casa”, oîkos, da ristrutturare e abitare – così ricostruendo su nuove basi gli equilibri in crisi e facendo di essa un prodotto e un’opera regolati dell’uomo: al limite, una località ri-naturalizzata grazie un agire tecnologico positivo, attento alla qualità sensibili, in senso lato estetiche, di una residenza terrestre da intendere come sito universale e omnicomprensivo51. Col beneficio dell’inventario di differenze di problematizzazione certo irrecuperabili, gli sguardi inquieti che esso «amplifica il pianeta» e contemporaneamente «rende obsoleta la natura», cfr. Id., The Man and His Message, cit.; trad. it. p. 150. 51 Cfr. ivi, p. 66: «Se le ordinarie tecnologie sono l’estensione del corpo umano nel tentativo di creare nuovi ambienti di servizio, lo Sputnik e i suoi successori rappresentano qualcosa di nuovo, cioè l’estensione del pianeta stesso, creando un nuovo sfondo per l’uomo nel cielo e richiedendo drasticamente un nuovo equilibrio e una nuova armonia di azione e conoscenza. I satelliti hanno come trasformato il pianeta in un’opera d’arte, ispirando un nuovo bisogno di programmi e di controlli che trascendono qualsiasi interesse regionale». Proprio perché fa entrare il vecchio pianeta «in un’orbita elettrica», il medium satellitare «recupera l’ecologia» e fa della «natura una forma d’arte» (cfr. ivi, pp. 36 e 150). Cfr. anche M. McLuhan, Understanding media. The Extensions of Man, Mentor, New York, 1964; trad. it. Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna, Milano, Net, 2002, p. 44, dove è come additato lo stesso scaturire ingenuo di una coscienza “ecologica” primitiva: «La partecipazione trasforma le persone socialmente più avanzate in conservatori. Quando lo Sputnik andò in orbita, un’insegnante chiese ai suoi scolaretti di seconda elementare di scrivere una poesiola su questo argomento. E uno di loro scrisse: “Le stelle sono tanto grandi, la Terra è tanto piccola, rimani dove sei” […] Lo scolaretto che scrisse le parole citate vive in un mondo assai più vasto di quello che uno scienziato di oggi può misurare con i suoi strumenti o descrivere con i suoi concetti».

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di McLuhan e di Heidegger invitano a pensare che la tecnologia astronautica, mentre trasforma il pianeta “naturale” (lo “contiene”, afferma l’uno; gli attribuisce il carattere di Stand, sostiene l’altro), pure induce l’urgenza di un’attitudine di recupero, in nuova forma, del rapporto che si intrattiene con esso, e ciò secondo la modalità di una salvaguardia, di un “lasciar-essere” in grado di supportare l’edificazione di un mondo positivamente artificiale, prodotto di una complessa impresa umana, esteticamente orientata, di ricostruzione. È così che, se la tecnica contemporanea si mostra corrosiva ed estremamente pericolosa, pure, allo stesso tempo, compresa nella sua essenza, risulta “salvifica”, nella misura in cui permette di enucleare lo spazio dell’invenzione di misure nuove, di scansioni adeguate, di prassi comunicative che sappiano affiancare, trascendere, comprendere e delimitare gli effetti degli stessi irrinunciabili linguaggi tecnoscientifici. Il richiamo a McLuhan e al suo universalismo (costellato, va detto, di consistenti ingenuità, se è vero che nei suoi scritti cura e attenzione “ecologiche” appaiono compito di una umanità globalizzata, la cui “oralità secondaria” e le cui propensioni audio-tattili restano assai difficili da cogliere come fattore positivamente coesivo) fa saltare all’occhio una circostanza su cui è bene soffermarsi. A rigore, la logica della “ricostruzione” del terrestre, il richiamo a una sfera “estetica” capace di riprodurre una relazione “misurata” con la dimora naturale, non dovrebbe di per sé implicare alcun riferimento obbligato a un’origine privilegiata o a specifici luoghi natali: a un popolo e a una patria precisi, intesi come dati primordiali, fondamentali. Il limite necessario di fronte all’illimitazione tecnica e all’impossibile realizzato dell’oggettivazione globale della Terra e della sua trasformazione in ricettacolo di materie prime o in supporto di informazioni, può, sì, richiedere il riferimento a un linguaggio e a un pensiero che davvero permettano

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di cogliere la Terra in quanto dimora umana, ma non il rinvio a una lingua intesa anzitutto come elemento identificativo di un popolo o di una comunità particolari, e tanto meno di un territorio nativo privilegiato. Nella logica “bilinguistica”, in linea di principio, e a patto che si articoli nei termini di una decisiva assenza di strumentalità, ogni articolazione “poetante” (ogni “misurazione diametrale” di una qualsiasi regione del Cielo nella sua relazione con una qualsiasi regione della Terra) che sia capace di garantire la prestazione di una delimitazione della tecnica, dovrebbe poter essere adeguata, al netto di ogni designazione che valorizzi confini regionali o macroregionali specifici. Eppure, lo si sa, nel percorso intellettuale heideggeriano anteriore e posteriore alla “svolta”, la teoria del radicamento e l’idea del ritorno al Luogo si sono declinate, ora più o meno esplicitamente, in riferimento a un’area linguistica particolare e a un ambito culturale determinato: «das Deutsche», «ciò che è tedesco»52 (espressione che, nei testi successivi al 1945, in relazione all’inizio delle dispute circa l’impegno politico prebellico, si troverà sostituita col riferimento più generale a “ciò che è europeo-occidentale”). È qui che per Heidegger può e deve venire prodotto il nuovo 52 In «Das Rektorat 1933/34. Tatsachen und Gedanken (1945)», sorta di testamento intellettuale in cui Heidegger formula le notazioni più esplicite sull’incarico al vertice dell’Università di Friburgo, egli scrive che il proprio impegno politico si fondava sul tentativo di vedere nel nazismo qualcosa che poteva «portare ad un raccoglimento sull’essenza occidentale e storica di ciò che è tedesco». Ancora nel 1945, dunque, egli era persuaso che, di fronte alla spinta tecnica e nichilistica dominante, un «inizio di guarigione» poteva annunciarsi appunto «nel pensiero poetico e nel canto di ciò che è tedesco». Cfr. M. Heidegger, Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges, cit., pp. 389-390; trad. it. «Il rettorato 1933-1934. Fatti e riflessioni», in Discorsi e altre testimonianze sul cammino di una vita, cit., p. 351.

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fondamento, la riconquista delle radici, il ricominciamento in grado di raccogliere l’eredità del principio greco presocratico, dopo la lunga parentesi metafisica, l’oblio dell’essere e l’oblio del suo oblio. Sono la cultura e l’arte germaniche, o comunque europee e occidentali, le sole, per il filosofo, a poter riprendere il movimento greco originario in una ripetizione che costituirebbe un nuovo inizio, il nuovo inizio. Il punto, insomma, come hanno annotato con la consueta verve Deleuze e Guattari, è che Heidegger ha «voluto raggiungere i Greci passando per i Tedeschi», e lo ha fatto «nel momento peggiore della loro storia […] Si è sbagliato di popolo, di terra, di sangue»53. Se c’è qualcosa di istruttivo nelle varie ondate polemiche del dibattito sull’impegno nazionalsocialista heideggeriano, è il fatto di aver acuito la nostra percezione del problema generale del rapporto tra filosofia e istanza territoriale, con tutte le sue implicazioni. E a tutt’oggi, tra chi ha visto più giusto – ponendo il discorso in un luogo teorico situato al di sopra del piano sovente strumentale delle accuse e delle difese –, pare esserci ancora Philippe Lacoue-Labarthe, con la sua ipotesi secondo cui, nelle modalità con le quali Heidegger tematizza l’agire tecnoscientifico, l’“astro errante” e l’“abitare”, sia necessario leggere in filigrana appunto un tentativo di ripensare l’errore della propria adesione al regime nazista, non per niente definito, nel corso su Einführung in die Philosophie (1935), come l’«incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno»54. Un tentativo nel quale, 53 G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Paris, Les Editions de Minuit, 1991; trad. it. Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1996, p. 102. 54 Cfr. M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, cit., p. 208; trad. it. p. 203. Cfr. P. Lacoue-Labarthe, La fiction du politique, Paris, Christian Bourgois Editeur, 1987; trad. it. La finzione del politico, Genova, il melangolo, 1991, p. 71: «la mia ipotesi è che, per l’essenziale, non bisogna cercare la “politica

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è sempre opportuno ricordarlo, il filosofo sembra aver mancato una vera considerazione dell’evento – anch’esso “impossibile” e però atrocemente reale – di ciò che il mondo scoprì con la fine del terzo Reich55. di Heidegger” nel discorso del ’33 […] ma nel discorso che segue alla “rottura” (o al ritiro), e che è da intendersi in ogni caso come una “spiegazione” con il nazional-socialismo, in nome della sua verità. Come nel ’33, ma in maniera più decisiva, questo discorso non ha in fondo che un motivo, la téchne». Il dossier critico sulla questione è ormai davvero considerevole, e in costante espansione: per restare all’epoca – gli anni Ottanta – dell’ultimo ritorno delle discussioni di ampio respiro sull’impegno politico di Heidegger, si può ricordare che la possibilità ermeneutica indicata da Lacoue-Labarthe risulta confermata in M. Blanchot, Écrits politiques (1958-1993), Paris, Lignes Editions Leo Scheer, 2003, pp. 154-174; trad. it. Nostra compagna clandestina (Scritti politici 1958-1993), a cura di C. Colangelo, Napoli, Cronopio, 2004, pp. 178-192 e in J.-F. Lyotard, Heidegger et “les juifs”, Paris, Éditions Galilée, 1988; trad. it. Heidegger e “gli ebrei”, Milano, Feltrinelli, 1989. Per una prima introduzione generale ai diversi aspetti relativi al “das deutsche” heideggeriano si veda: Aa. Vv., La Germania segreta di Heidegger, a cura di F. Fistetti, Bari, Dedalo, 2001. 55 La questione della assenza, in Heidegger, di una discussione della “soluzione finale” implicherebbe un discorso lungo e complesso. Qui si può ricordare che un accenno ad essa, assai controverso, compare proprio in una conferenza sulla tecnica tenuta a Brema nel 1949: «La fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas è nella sua essenza la stessa cosa di una agricoltura come industria alimentare motorizzata, la stessa dei blocchi e della riduzione dei paesi alla fame, la stessa cosa della fabbricazione delle bombe all’idrogeno». Dove dello Sterminio risulta indicato (in una modalità in cui si è potuto cogliere un tratto “revisionista”) il solo rapporto, pur rilevante, con un determinato uso della “pro-vocazione” tecnologica. Cfr. M. Heidegger, «Das Ge-stell», in Bremer und Freiburger Vorträge, hrsg. P. Jaeger, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermannn, 1994, p. 27; trad. it. «L’impianto», in Conferenze di Brema e di Friburgo, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2002, pp. 49-50. Heidegger soppresse la frase in occasione della pubblicazione della conferenza, ma la circolazione del dattiloscritto rese poi necessario restaurarla.

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Come che sia, il fatto decisivo è che, laddove la richiesta del limite e dell’apertura alla finitezza del rapporto “locale” di Sein e Dasein avrebbe dovuto implicare, per sua logica immanente, la valorizzazione di ogni donazione “poetica” di figura, e con ciò sospendere il presupposto della cogenza di una delimitazione “estetica” intesa come prodotto di un’identità linguistica privilegiata, ciò che in Heidegger accade, è invece che il “vero” linguaggio configurante viene designato come produzione della specifica “terra natale” tedesca-europea, collegata al mondo greco premetafisico dal filo di una discendenza diretta, nonché colta come luogo di una ripresa fondamentale di tale mondo, inteso, per parte sua, come originariamente “poetante” e “meditante”. Così, nella misura in cui mette capo a una sorta di «nazional-estetismo»56, ci si può chiedere se la proposta heideggeriana, nel suo darsi come replica all’incidenza planetaria della tecnica e allo sradicamento “extra-terrestre”, non sia sostanzialmente inadeguata, non all’altezza della sfida posta al pensiero dalla illimitazione tecnoscientifica. L’indicazione della comunità linguistica tedesca o europeo-occidentale come depositaria del compito di nominazione-costruzione del limite, oltre che porre il problema di una valorizzazione o idealizzazione illegittime, da un lato pare contrapporre frontalmente le pure forze della comunità “autoctona” alle dinamiche della globalizzazione uniformante, dall’altro getta un’ombra consistente sulle stesse modalità complessive della te56 La formula è di Lacoue-Labarthe (cit., pp. 71-96), che non manca di rilevare i termini specifici del debito di Heidegger nei confronti della metafisica romantica, del suo pangermanesimo e della sua mitologia della Grecia antica, la cui immagine, nell’Ottocento, è regolarmente connessa con quella della “vocazione” e della “missione” tedesche.

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matizzazione heideggeriana. Nella sua attuazione, la pretesa filosofica di limitare l’illimitato richiede qui un prezzo decisamente elevato, in termini di restaurazione del comunitario, del tribale, dell’etnico. La riproposizione della Heimat come radice terrestre, in antitesi e reazione alla fuoriuscita astronautica, marcherebbero in questo senso una sorta di appuntamento teorico mancato con le implicazioni dell’avvento della percezione effettivamente “planetaria” della dimora umana.

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Capitolo II “Prigione terrestre”. L’azione astronautica secondo Arendt

1. Kafka e Archimede La nozione di animal laborans addotta da Hannah Arendt in The Human Condition è debitrice della pagina heideggeriana di Saggi e discorsi che, nel definire l’uomo tecnologico del XX secolo e la sua immersione nella “volontà di volontà”, ricorre alle espressioni «animale da lavoro», «l’essere vivente che lavora»1. Tutto il testo di Arendt è percorso, in effetti, da una tesa, acuta riflessione sulla tecnica e sul suo statuto, a cui si accompagna la presenza di un persistente richiamo “contrastivo” al mondo greco antico, anche in quanto universo premetafisico. Sono circostanze, e non le uniche, che situano senz’altro Vita activa nell’orbita dei modi della interpretazione del contemporaneo elabo1

Cfr. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., pp. 70-71; trad. it. pp. 46-47: «Il tramonto [della verità dell’essente] si compie insieme mediante il crollo del mondo improntato dalla metafisica e attraverso la devastazione della Terra a cui la metafisica ha dato origine. Crollo e devastazione trovano il loro coronamento adeguato nel fatto che l’uomo della metafisica, l’animal rationale, è posto e fissato come l’animale che lavora». E poco oltre: «All’umanità della metafisica la verità ancora nascosta dell’essere è negata. L’animale da lavoro è abbandonato alla vertigine delle sue produzioni, affinché da se stesso si distrugga e si annulli nella nullità del niente».

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rata da Heidegger2 – non senza però innovazioni e spostamenti affatto decisivi, a cominciare dalla valorizzazione dei fattori della pluralità e dell’azione umane, e dalla deposizione, nel riferimento al mondo classico, di ogni elemento tributario della tradizione del romanticismo tedesco. Continua a colpire il prologo, straordinariamente avvincente, di quest’opera quasi coeva alle circostanze dalla cui evocazione prende appunto l’abbrivo: «Nel 1957 un oggetto terrestre fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo, e per qualche settimana girò intorno alla Terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei corpi celesti – del sole, della luna, delle stelle […] Per un certo periodo, esso riuscì a rimanere nel cielo e si mosse in prossimità dei corpi celesti, come se fosse stato ammesso in via sperimentale alla loro sublime compagnia»3. Uno degli scritti considerati tra i più rappresentativi della riflessione etica e politica contemporanea – un testo che, dopo una ricezione rimasta a lungo piuttosto incerta, è divenuto nel giro di un paio di decadi un vero e proprio classico filosofico – si apre con la menzione 2 «Questo non avrei potuto pensarlo, ammesso che ci riesca, senza le cose che in gioventù ho imparato da te»; «è un lavoro che […] ti è debitore, sotto ogni aspetto», scrive Arendt a Heidegger a proposito di The Human Condition, cfr. H. Arendt, M. Heidegger, Briefe 1925-1975 und andere Zeugnisse, hrsg. von U. Ludz, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1998-1999; trad. it. Lettere 1925-1975, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, documenti n. 86 e 89. In un appunto separato Arendt annota poi: «De vita activa / ho tralasciato la dedica di questo libro. /Come faccio a dedicarlo a te, l’intimo amico, /cui sono e non sono /rimasta fedele /sempre per amore?» (cfr. ivi, p. 319). 3 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958, p. 1; trad. it. Vita activa. La condizione umana, introduzione di A. Dal Lago, Milano, Bompiani, 200512, p. 1.

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del lancio e della permanenza extra-atmosferica dello Sputnik I, avvenimento qualificato senz’altro (e la cosa, dopo quanto si è visto con Heidegger e con McLuhan, sorprende solo fino a un certo punto) come «non inferiore per importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell’atomo»4. Per chi ricordi l’analisi generale proposta da Arendt in Vita activa, le ragioni della scelta di un simile riferimento incipitario non possono essere oscure. Soprattutto nel capitolo conclusivo dell’opera, l’accento cade sulla moderna emergenza di una considerazione complessiva dei fenomeni a partire dalla prospettiva promossa dalle tecnoscienze, esemplate, per i loro primi passi, sull’invenzione del telescopio e sulla rivoluzione astronomica, entrambe stimate decisive per l’inizio di una considerazione della «natura della Terra dal punto di vista dell’universo»5. Richiamare il momento del successo materiale della fuoriuscita dalla atmosfera terrestre, significa così partire dall’ultima delle effettività che, per Arendt, confermano l’ipotesi ermeneutica secondo cui da tempo gli uomini si trovano iscritti in un vero e proprio «processo di alienazione dal mondo»6, avendo da alcuni secoli cominciato a pensare e a vivere come provando ad affrancarsi dalla Terra, e cioè sforzandosi di osservare se stessi e le cose dal «punto di vista di Archimede» – quel punto del quale, con humor certo disperato, Kafka diceva che aveva potuto essere raggiunto da Er solo alla stretta condizione di servirsene contro se stesso7. 4

Ibidem. Ivi, p. 248; trad. it. p. 183. 6 Ivi, p. 257; trad. it. p. 190. 7 Cfr. ivi, p. 262; trad. it. pp. 193-194: «Qualsiasi cosa facciamo oggi in fisica […] manipoliamo sempre la natura da un punto dell’universo che si trova fuori della Terra. Senza risiedere realmente dove Archimede desiderava risiedere (dos moi pou stô), ancora legati alla Terra dalla condizione umana, 5

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Per la lettura filosofica dell’evento astronautico, colei che non amava essere definita filosofa, e che anzi si è dichiarata persuasa di essersi «congedata dalla filosofia una volta per tutte»8, si affida a una guida che Heidegger avrebbe giudicato compromessa, o quanto meno inattendibile: il pubblico, l’opinione generale dominante, il mondo del “Man” e delle sue emozioni prevalenti. Arendt sembra ritenere (come per primo aveva inteso il “suo” Kant, nel contesto, ad esempio, della risposta alla domanda circa la possibilità o meno di un “costante progresso verso il meglio del genere umano”) che i moderni devono ormai accomodarsi a capire il presente e a diagnosticare il futuro disponendosi, per così dire, a farcela col poco: provando, ad esempio, a riflettere, per abbiamo trovato un modo di agire sulla Terra e dentro la natura terrestre come se ne disponessimo dall’esterno, dal punto di Archimede». È bene citare per esteso la splendida epigrafe kafkiana al sesto capitolo: «Ha trovato il punto di Archimede, ma se ne è servito contro se stesso; evidentemente gli è stato possibile trovarlo solo a questa condizione». La scelta di porre sotto il segno di Kafka la riflessione sul mondo moderno può essere letta alla luce di ciò che Arendt aveva osservato dello scrittore in uno studio della metà degli anni Quaranta: «egli doveva assolutamente anticipare la distruzione del mondo esistente» se voleva almeno pensarsi come cittadino di «un mondo costruito dagli uomini nel quale le azioni umane non dipendessero che dall’uomo stesso e dalla sua spontaneità, ed in cui la società umana fosse retta da leggi sancite dagli uomini e non da forze misteriose» (cfr. H. Arendt, «Franz Kafka: A Revaluation», Partisan Review, XI, n. 4, 1944, poi in Ead., Die verborgene tradition. Acht Essays, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1976; trad. it. in Ead., Il futuro alle spalle, introduzione di L. Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 19952, p. 40). 8 Cfr. H. Arendt, «Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache», intervista televisiva con G. Gaus, 28 ottobre 1964, in Ead., Essays in Understanding (1930-1954), introduction by J. Kohn, New York – San Diego – London, Harcourt Brace and Company, 1994, p. 2; trad. it. «“Che cosa resta? Resta la lingua”», in Archivio Arendt 1, 1930-1948, a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 36.

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ragionare intorno ai destini della specie, sull’esiguo segno fornito, nel bene e nel male, dal sentimento comune di fronte a un determinato avvenimento storico. Ora, ciò che Arendt annota, è che, nel caso della fuoriuscita spaziale, la reazione immediata sembra essersi trovata improntata, più che alla «gioia», all’«orgoglio» o al sentimento di trionfo per la spinta verso nuovi orizzonti e nuove possibilità, a qualcosa come un mero «sollievo» per un pericolo evitato9. Nella convinzione che, qui come altrove, mostra di avere del valore sintomale della “chiacchiera” quotidiana, Arendt allega un singolare documento: una citazione anonima, a metà strada tra il titolo di rotocalco e l’esclamazione più o meno triviale. Il sollievo, scrive ricorrendo alle virgolette del caso, è stato «per “il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre”»10. Reazione, ci viene detto, di cui è bene meravigliarsi, assumendola senz’altro come segnale di uno dei tratti precipuamente moderni e poi contemporanei della si-

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Cfr. Ead., The Human Condition, cit., p. 1; trad. it. p. 1: «Questo avvenimento […] sarebbe stato salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in circostanze militari e politiche particolarmente spiacevoli. Ma, per un fenomeno piuttosto curioso, la gioia non fu il sentimento dominante, né fu l’orgoglio o la consapevolezza della tremenda dimensione della potenza e della sovranità umana […] La reazione immediata, espressa sotto l’impulso del momento, fu di sollievo […]». Il riferimento alle “circostanze spiacevoli” è trasparente: il contesto del lancio dello Sputnik I è stato quello di una tra le molte fasi “calde” della “guerra fredda”: qui basterà ricordare che nell’agosto del 1957, due mesi prima dell’invio del satellite, Mosca aveva annunciato di disporre del primo missile intercontinentale in grado di colpire il suolo statunitense. Per molti, tra i politici, i militari, gli scienziati che avevano pensato a un bluff, il segnale in onde corte del trasmettitore radio contenuto nella piccola sfera metallica in orbita suonò davvero funesto. 10 Ibidem.

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La verità errante

tuazione dell’uomo: «La banalità dell’affermazione non dovrebbe farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della Terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come prigione della mente o dell’anima, nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la Terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna»11. Insomma, continua Arendt, ciò che dovrebbe colpirci di un tale “sollievo”, in quanto sintomo di una percezione diffusa e inedita del terrestre come “prigione”, è l’evento «del ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo», Terra che Arendt qui non esita a definire la «vera quintessenza della condizione umana»12. A seguire l’argomentazione avanzata in The Human Condition, il problema che l’esplorazione spaziale porta con sé, è quello del concretarsi degli effetti di un vero e proprio rifiuto della Terra, di una volontà di evadere da una natura terrestre di cui pure si può pensare sia condizione primaria, habitat vitale, luogo fondamentale capace di permettere la vita immediata dei viventi umani, anzitutto consentendo loro di «muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio»13. In altri termini, ciò che dell’avventura astronautica andrebbe rilevato, è il singolare contrasto consumatosi tra il perseguimento del punto archimedeo – non più soltanto mentale o teorico, bensì effettivamente agito –, e la permanente vigenza della Terra in quanto elemento condizionante dell’umano. Da un lato, tutto, da Copernico e Galilei in poi, ha cospirato verso lo Sputnik, e Sputnik è stato. Dall’altro, nulla, pure nel dichiarato “sollievo” per l’eva11 12 13

Ivi, p. 2; trad. it. p. 2. Ibidem. Ibidem.

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sione extra-atmosferica, permette di considerare realmente sciolti o in via di scioglimento i nodi dell’uomo col terrestre. La situazione che ne risulta appare così fortemente problematica. È come se fosse divenuto palpabile che, «sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della Terra», pure il nostro rapporto con tali condizioni non ha più alcuna categoricità, cosicché, osserva Arendt con sicurezza e al contempo con inquietudine, occorre non ritrarsi di fronte al fatto che ormai «non siamo meramente creature legate-alla-terra (earth-bound)», e che è dunque necessario apprendere a disporsi e muoversi all’interno di tale nuova situazione14. Ciò che si troverebbe posto in questione, non senza problemi e rischi radicali, è il tratto precipuo dell’umano per cui esso risulta avvinto, tra nascita e morte, a una natura terrestre sulla quale soltanto è risultato possibile costruire «il mondo e le cose del mondo», ovvero quanto propriamente costituisce «la casa dell’uomo», la sua residenza stabile all’interno di un tutto in continua, persistente trasformazione15. 14

Ivi, p. 11; trad. it. p. 10. Cfr. ivi, p. 134; trad. it. p. 95: «Il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla Terra e fatta dei materiali che la natura affida alle mani dell’uomo, non consiste di oggetti da consumare, ma di oggetti da usare. Se la natura e in generale la Terra costituiscono la condizione della vita umana, allora il mondo e le cose del mondo costituiscono la condizione in cui questa vita specificamente umana può avere la propria dimora sulla Terra». Si può notare, per inciso, che Arendt sceglie volentieri i propri esempi e le proprie metafore dalla sfera semantica dell’“abitare”. Oltre a innumerevoli luoghi di Vita activa, si possono segnalare, naturalmente a mero titolo indicativo: H. Arendt, Some Questions of Moral Philosophy (1963), Random House, New York, 2003; trad. it. Alcune questioni di filosofia morale, prefazione di S. Forti, Torino, Einaudi, 2006, p. 106; Ead., The Life of the Mind, New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1978, I, 4, § 4; trad. it. La vita della mente, 15

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Il fatto di aver «cominciato a comportarci come se la nostra dimora fosse l’universo»16, e non semplicemente la Terra in quanto condizione di un “mondo”, dimostrerebbe così una volta di più la stranezza della fase storica in cui gli uomini sono venuti a trovarsi con il novecentesco venir meno degli orizzonti abituali della prassi e del pensiero – con il “recidersi del filo” della tradizione, il “crollo del ponte” tra passato e futuro che quest’ultima ha sempre rappresentato, secondo immagini a cui Arendt non si stanca di ricorrere, dai suoi scritti degli anni Cinquanta fino a La vita della mente17. introduzione di A. Dal Lago, prefazione di M. McCarthy, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 264-265. Ciò di cui però Arendt certamente diffida, è un’idea di “casa” o “dimora” calcata in un modo o nell’altro sulla nozione di Heimat e patria, o in generale su quella romantica o idealistica di “terra”. Nel 1946, in «Che cos’è la filosofia dell’esistenza?», discutendo i tratti essenziali del cammino di Heidegger, vi denuncia l’uso di «concetti mitici e oscuri come “popolo” e “terra”», dei quali nota senza mezzi termini che avviano a «una sorta di superstizione naturalistica» (cfr. Ead., Essays in Understanding, cit., p. 181; trad. it. Archivio Arendt 1, cit., p. 215). È che, a suo avviso, come scriverà a Jaspers, «la miglior cosa da farsi è non sentirsi perfettamente a casa propria in nessun luogo, non identificarsi veramente con alcun popolo, perché in men che non si dica ci si può trasformare in un cieco strumento della rovina» (lettera n. 59 del 30 giugno 1947, in K. Jaspers, H. Arendt, Briefwechsel 1926-1969, hrsg. von L. Kölher, H. Saner, München-Zürich, Piper, 1985, pp. 127-128; trad. it. parziale Carteggio 1926-1959. Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 80). 16 H. Arendt, The Human Condition, cit., p. 3; trad. it. p. 3. 17 Cfr. le conclusioni della Premessa ai saggi raccolti in Ead., Between Past and Future: Eight Exercises in Political Thought (1961, 1968), New York, Penguin Books, 1977, pp. 13-14; trad. it. Tra passato e futuro, introduzione di A. Dal Lago, Milano, Garzanti, 1991, pp. 37-38: «Per lunghissimi periodi della nostra storia […] sulla lacuna [tra passato e futuro] era stato gettato un ponte, formato da quella che dai romani

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Non sarebbe sbagliato sostenere che la vicenda astronautica, e con essa la questione generale della tecnica nelle sue configurazioni contemporanee, si trovino anche per Arendt situate filosoficamente nel quadro problematico di una “illimitazione”, di un inedita scomparsa dei limiti, nel senso che già si è incontrato in Heidegger e nelle sue modalità di critica della volontà di potenza. Più precisamente, Arendt ritiene che le forme assunte dalla tecnica a partire dal XX secolo – al contrario di quelle premoderne e moderne – hanno la peculiarità di eccedere la sfera di attività precipua di “homo faber”. Attività, quest’ultima, è bene ricordarlo, che, pur facendo immancabilmente violenza ai limiti di fenomeni e processi naturali – pur interrompendone sovranamente configurazioni e ritmi, per trarre da essi i materiali su cui esercitarsi («homo faber si comporta come signore e padrone di tutta la terra»)18 –, è però a suo modo sempre inscritta in confini cruciali e precisi, se non altro perché strutturalmente compiuta, finita nel suo stesso esercizio, presa com’è tra un inizio e, soprattutto, una conclusione, rappresentata volta per volta da un’“opera” determinata che è allo stesso tempo la fine e il fine della fabbricazione19. in poi chiamiamo tradizione. Non è un segreto che questa tradizione si sia fatta sempre più sottile con il progredire dell’età moderna: e quando il suo filo si è spezzato, la lacuna tra passato e futuro […] è diventata per tutti una realtà e un dilemma tangibile, insomma un fatto politico». È, questo, uno dei luoghi in cui Arendt precisa con maggiore incisività che il punto essenziale non è «riannodare il filo spezzato della tradizione o inventare qualche nuovo surrogato à la page per colmare la lacuna tra passato e futuro», bensì «imparare a muoversi in questa lacuna, la sola regione dove forse, alla fine, si vedrà apparire la verità». Cfr. anche Ead., The Life of the Mind, cit., I, 4, § 2; trad. it. pp. 296-307. 18 H. Arendt, The Human Condition, cit., p. 139; trad. it. p. 100. 19 Ivi, pp. 143-144; trad. it. p. 102: «Avere un inizio e una

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Sono numerosi i luoghi testuali che indicano come per Arendt lo stadio contemporaneo della tecnica – quello a suo avviso apertosi a partire dall’uso dell’elettricità e dall’avvento dell’automazione – non sia più descrivibile secondo questo schema. Tale stadio marcherebbe una netta soluzione di continuità rispetto all’arte fabbrile della limitazione, ovvero al campo della vita activa definito dall’“opera” e dalle categorie “determinative” – per così dire “finitizzanti” e teleologiche – che presiedono alla costruzione del mondo degli artefatti a partire dalla necessaria denaturalizzazione della natura, dalla riduzione di quanto è terrestre a materia per la fabbricazione di oggetti “mondani” stabili. Ciò che con la fase novecentesca della tecnica è accaduto, è che «abbiamo cominciato a “creare”, per così dire, a scatenare dei processi naturali che non si sarebbero mai verificati senza di noi, e invece di proteggere accuratamente il mondo degli artefatti umani contro le forze elementari della natura, mantenendole il più possibile fuori dal mondo fatto dall’uomo, abbiamo immesso queste forze, insieme alla loro potenza elementare, nel mondo stesso»20. La fissione dell’atomo, in particolare, ha marcato il momento dell’irruzione della possibilità di «manipolare sulla Terra e nella vita di ogni giorno energie e forze quali esistono solo fuori della Terra, nell’universo»21. E che questa circostanza rappresenti non una “normale” violazione del quadro generale della natura e del metabolismo terrestri, ma un radicale superamento della stessa capacità propriamente umana di fine definita e prevedibile è il segno distintivo della fabbricazione, che solo per questa caratteristica si distingue dalle altre attività umane. Il lavoro, assorbito nel movimento ciclico del processo vitale del corpo, non ha né un inizio né una fine. L’azione, anche se può avere un inizio definito, non ha mai una fine prevedibile». 20 Ivi, pp. 148-149; trad. it. p. 106. 21 Ivi, p. 150; trad. it. p. 106.

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configurare opere, di fabbricare artefatti finiti e durevoli, è dimostrato per Arendt dal fatto che, nel suo dispiegarsi, essa ha condotto la tecnica a partecipare della essenza e delle caratteristiche dell’“azione” nel senso proprio del termine, ovvero della sua irreversibilità, imprevedibilità e, soprattutto, illimitatezza22. È, questo, un aspetto tutt’altro che marginale del problema: il fare tecnico contemporaneo non è un semplice prolungamento, o una mera intensificazione, di ciò che l’uomo ha sempre messo in atto dacché si è immemorialmente scoperto faber, bensì sconfina nel piano della “inizialità” caratteristica dell’azione. A rigore, anzi, tale “fare tecnico” non è più nemmeno propriamente un “fare” nel senso del “fabbricare”, del “produrre” o del “costruire”, se è vero che con tali termini vengono definite attività nelle quali il promotore resta padrone di ciò che fa dal principio alla fine, e nei limiti precisi del principio e della fine23. Controllo e limitazione sono invece assenti nell’andamento assunto dalla tecnica contemporanea: «La facoltà umana di agire – di iniziare processi nuovi e spontanei che senza l’uomo non potrebbero aver luogo – si [è trasformata] in un nuovo atteggiamento dell’uomo verso la natura […] Il semplice fatto che le scienze naturali sono diventate

22

Cfr. ivi, p. 190; trad. it. p. 139: «Fare e subire sono come le facce opposte della stessa medaglia, e la storia cui un atto dà inizio è composta di atti compiuti e subiti. Queste conseguenze sono senza limiti, perché l’azione, qualunque ne sia l’origine, agisce in un medium in cui ogni reazione diventa una reazione a catena e dove ogni processo è causa di nuovi processi […] Insomma l’azione e la reazione fra gli uomini non sono mai circoscritte a un spazio ristretto né possono essere limitate a due partner. Questa mancanza di limiti non caratterizza solo l’azione politica, […] anche il più piccolo atto nelle circostanze più limitate ha in sé il germe della stessa illimitatezza […]». Miei corsivi. 23 Cfr. ivi, pp. 221-222; trad. it. pp. 162-163.

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esclusivamente scienze processuali e, nel loro ultimo stadio, scienze che creano processi potenzialmente irreversibili, irrimediabili “processi senza ritorno”, è una chiara indicazione che […] la sola effettiva facoltà umana capace di produrre questo sviluppo è la facoltà di agire, di iniziare nuovi processi senza precedenti, il cui sbocco rimane incerto e imprevedibile»24. E che qui Arendt non si riferisca soltanto alla tecnologia nucleare, quella capace, come è abituale dire, di «“riprodurre i processi che si svolgono nel sole”»25, ma anche all’ingegneria astronautica e alla sua inaudita produzione della fuoriuscita nel Weltraum, lo attesta il rinvio puntuale a una dichiarazione di Wernher von Braun, lo scienziato che, dopo aver trasmesso agli Stati Uniti, alla fine della guerra, porzioni rilevanti del patrimonio di risultati della ricerca missilistica tedesca, all’epoca era sul punto di divenire uno dei padri del programma spaziale americano. «Che il nostro atteggiamento odierno verso la natura sia di tipo attivistico, che il nostro agire si svolga come un momento all’interno dello stesso processo naturale, può essere illustrato da un’osservazione occasionale di uno scienziato che ha dichiarato, in piena buona fede, che “la ricerca di base consiste nel fare ciò che non si sa di fare”»26. La cita24

Ivi, pp. 231-232; trad. it. pp. 170-171. Ivi, p. 231; trad. it. p. 170. 26 Ibidem. Arendt cita da un’intervista rilasciata al New York Times il 16 dicembre 1957. Su Von Braun si dispone ormai della ricca documentazione raccolta nella biografia di M. J. Neufeld, Von Braun. Dreamer of Space, Engineer of War, New York, Random House Inc., 2007. È difficile immaginare che Arendt abbia potuto provare simpatia per l’ingegnere del missile balistico a lungo raggio A-4 (poi ribattezzato da Goebbels V-2 al momento del bombardamento di Londra), razzo la cui produzione si era svolta nei sotterranei del campo di concentramento di Mittelbau-Dora con lo sfruttamento letale della manodopera degli internati (e che, da parte inglese, valse a Von Braun la definizione ufficiale di “criminale di guerra”). 25

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zione è qui allegata a segnalare l’essenziale esorbitare della tecnoscienza contemporanea dal campo della manipolazione mirata, e “limitata”, di mezzi in vista di un fine prevedibile. Nella logica del discorso arendtiano, “fare ciò che non si sa di fare”, secondo la formula usata da colui che, con la messa in orbita dell’Explorer I, nel gennaio del 1958 ricoprirà un ruolo da protagonista nella sospirata risposta americana al lancio sovietico dello Sputnik, significa mettere in campo il vigore e la plasticità dei processi dell’agire, scatenare la potenza irreversibile dei loro effetti, consegnarsi ad occhi aperti alla loro imprevedibilità, e farlo in un campo, la condizione terrestre della vita umana, che non è affatto quello, valorizzato dalla Arendt, dell’intreccio plurale, relazionale e discorsivo. Un campo, dunque, dove i rimedi primari all’illimitatezza indominabile dell’azione costituiti da “perdono” e “promessa” non possono in alcun modo avere corso27. 27

H. Arendt, The Human Condition, cit., p. 238; trad. it. p. 176: «è molto pericoloso servirsi [della forza straordinaria e della plasticità intrinseche nei processi dell’agire] in un dominio che non sia quello degli affari umani. Le scienze della natura e le tecnologie moderne, che non si limitano più a osservare i processi naturali, o a trarne materiali o a imitarli, ma agiscono praticamente in essi, hanno portato l’irreversibilità e l’imprevedibilità umane nel dominio naturale, dove non esiste rimedio per annullare ciò che è stato fatto». In effetti va ricordato che il primo effettivo documento di diritto aerospaziale internazionale, l’Outer Space Treaty – quello che propone la celebre (e controversa) definizione “filosofica” dell’astronauta come «inviato dell’umanità», e che, nell’escludere la possibilità di qualsiasi «appropriazione nazionale» dello spazio extraterrestre, al contempo vieta di collocarvi ogni genere di arma di distruzione di massa – è soltanto del gennaio 1967. A mia conoscenza non esistono interventi di Arendt in proposito, lei che, a voler ricorrere ai termini proposti in Vita activa (§ 34), avrebbe forse potuto salutare il trattato come una “promessa”, come un’“isola di certezza nell’oceano di incertezza” dell’azione astronautica. Per le informazioni di base su aspetti

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Per Arendt, la questione astronautica mostra in modo inequivocabile la differenza – nei termini di una inaudita perdita del limite, di un radicale venir meno di principi determinati e fini immaginabili: di una violazione dei modi della stessa violazione umana della natura – tra il mondo della fabbricazione ancora prevalente fino e oltre la rivoluzione industriale, e il mondo tecnologico nel quale gli uomini hanno cominciato a vivere a partire dal Novecento. Fare tecnoscientificamente, con rigore, metodo e consapevolezza paradossale, “ciò che non si sa di fare”, dando così luogo a circostanze per cui creature legate al metabolismo con la Terra si aprono a una dimensione ulteriore rispetto ad essa, significa inscrivere l’imprevedibile in un rapporto con la natura che da sempre è stato pensato e vissuto come regolato da vincoli ferrei, da «leggi inesorabili»28. Come dire, in termini teoreticamente più perentori e generali, che «la tecnologia è il terreno su cui oggi il regno della storia e quello della natura s’incontrano interpretandosi a vicenda»29. e problemi storici, giuridici, etici del Trattato dello spazio si rinvia a: M. G. Marcoff, Traité de droit international public de l’espace, Fribourg, Editions Universitaires de Fribourg, 1973; L. Peyrefitte, Droit de l’Espace, Paris, Editions Dalloz, 1993; Aa. Vv., Outlook on space law over the next 30 years: essays published for the 30th anniversary of the Outer Space Treaty, ed. by G. Lafferanderie e D. Crowther, The Hague – London – Boston, Kluwer, 1997. 28 H. Arendt, Between Past and Future, cit., p. 61; trad. it. p. 94: «Se, con il provocare processi naturali, abbiamo cominciato ad agire dall’interno della natura, abbiamo palesemente cominciato a portare la nostra imprevedibilità in quel regno che avevamo sempre creduto sottoposto a leggi inesorabili. La “ferrea legge” della storia era in realtà una metafora presa a prestito dalla natura: una metafora non più convincente, perché si è visto che le scienze naturali non potranno essere certe dell’esistenza in natura di un incontestato “rule of law” […]». 29 Ibidem.

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All’appuntamento con l’inedito “astronautico”, Arendt giunge con la convinzione che una delle conseguenze della vittoria di animal laborans, con la circostanza concomitante del primato assoluto dato al semplice processo vitale della specie, sia il fatto che, divenuti rari o problematici l’azione e il discorso in quanto prassi storiche, sociali, politiche, e apertasi così la possibilità desolante che l’oggi si trovi catturato «nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto», la capacità di agire, nel senso di dare inizio a qualcosa di nuovo e liberare processi inaspettati, «sia diventata prerogativa esclusiva degli scienziati» e, estinta di fatto nello spazio pubblico, conosca la sua esplicitazione nel solo spazio chiuso delle torri di controllo e dei laboratori30. Luoghi in cui l’azione, in quanto azione «nella natura dalla prospettiva dell’universo e non nel tessuto delle relazioni umane», risulta priva di qualsiasi rapporto con una “rivelazione” effettiva di coloro che agiscono e con la produzione di significati esistenziali articolabili in narrazione e storia31.

2. Weltraum macht frei? Nella capsula, l’ignoto assente C’è, in Arendt, un altro tipo di riferimento alla fuoriuscita “spaziale” dal terrestre, un richiamo semplicemente figurato, analogico. Tutto sommato, dopo quanto si è detto – e dopo l’apparizione, in Vita activa, della figura prototipicamente inquietante dell’ex-Sturmbannführer Wernher von Braun –, è solo relativamente sorprendente il fatto che, nell’importante articolo su Le tecniche delle scienze sociali e lo studio dei campi di 30

Cfr. H. Arendt, The Human Condition, cit., pp. 322-323; trad. it. pp. 240-241. 31 Ivi, p. 324; trad. it. p. 242.

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concentramento (1950), Arendt abbia ritenuto di far ricorso a una metafora “astronautica” per riferirsi alla esistenza degli uomini nel Lager, all’esperimento mostruoso della loro trasformazione in meri “fasci di reazioni”. «Conosciamo la generale atmosfera d’irrealtà di cui i sopravissuti testimoniano nei loro resoconti tutti uguali; ma possiamo solo supporre in quali modi viene esperita la vita umana quando è vissuta come se avesse luogo su un altro pianeta»32. Le “fabbriche di cadaveri”, il mondo concentrazionario dei morenti sono assimilati all’altrove insondabile di un territorio dello spazio galattico posto fuori dal Luogo materno che, nel prologo di Vita activa, è detto «the very quintessence of the human condition». Al contrario di Heidegger, Arendt, non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, ha riconosciuto con nettezza e decisione il carattere di evento, in senso forte, della “soluzione finale”, individuando il tratto fondamentale dell’oggetto storico-politico “campo” nel suo essere portatore di una rottura definitiva nel tempo e nella tradizione, e ciò precisamente in ragione del suo configurarsi come «delitto contro la condizione umana,

32

Cfr. H. Arendt, Essays in understanding 1930-1954, cit. p. 242; trad. it. in Archivio Arendt 2, 1950-1954, a cura di S. Forti, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 21, mio corsivo. Vedi anche Ead., The Origins of Totalitarianism (1951), introduction by S. Power, New York, Schocken Books, 2004, p. 572; trad. it. Le origini del totalitarismo, introduzione di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Torino, Einaudi, 2004, pp. 607-608: l’orrore della vita nel campo di concentramento «non può mai essere pienamente descritto, perché il superstite ritorna al mondo dei vivi che gli rende impossibile credere completamente nelle sue esperienze passate. È come se egli avesse da raccontare la storia di un altro pianeta, perché gli internati sono simili a individui mai nati nel mondo dei vivi, dove nessuno presumibilmente dovrebbe sapere se essi sono ancora in vita o già morti». Mio corsivo.

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ovvero contro il complesso degli esseri umani»33. In questo senso, se l’analogia – come la stessa Arendt ricorda, in riferimento a Kant – più che essere presa «nel significato usuale di rassomiglianza imperfetta tra due cose», è assunta come quell’uso della ragione grazie al quale la facoltà di giudicare «stabilisce una somiglianza perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili»34, la relazione posta tra ripudio astronautico della Terra, in quanto rimozione di un elemento precipuo della datità umana, e distruzione concentrazionaria della pluralità, altro tratto essenziale dell’umano, è del tutto pertinente. In entrambi i casi sarebbe in causa l’indescrivibile dell’esperienza di una separazione sconvolgente da ciò che costituisce lo stesso quadro generale della vita degli uomini, l’insieme dei limiti e delle virtualità che ne definiscono l’esistenza. Così come pertinente, nel quadro dei modi in cui Arendt discute i nodi della contemporaneità, è anche un’altra notazione, anch’essa giocata sul filo dell’analogia e non lontana dal problema della violenza totalitaria. Se è pericoloso che la tecnica, “illimitandosi”, diventi azione, come accade nell’avventura astronautica, lo è anche, e in modo paragonabile, il fatto che, inversamente, l’azione possa trovarsi cadenzata sulle modalità e i ritmi della tecnica “limitata”, antica e poi ancora moderna, in quanto costruzione legata allo schema 33

Cfr. Ead., Eichmann in Jerusalem. A Report in the Banality of Evil, (1963, 19652 ampliata), introduction by A. Elon, New York, Penguin Books, 2006, p. 268; trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 200713, p. 275. 34 Cfr. I. Kant, Kant’s gesammelte Schriften, Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften, Meiner, poi de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1902-, Band IV, p. 357; trad. it. Prolegomeni ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 174. Cfr. H. Arendt, The Life of the Mind, cit., I, 2, § 4; trad. it. pp. 183-197.

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del fine da conseguire in base all’uso di determinati materiali e mezzi. Da un lato, la tecnica contemporanea costituisce la scena di una sorta di oltranza, di violazione di “secondo grado” che fa di essa una vera e propria azione. Dall’altro, «similarly», analogamente, è nefasta anche l’inversione opposta a questo fabbricare che diviene agire irreversibile: l’agire che si regola sul fabbricare in quanto perseguimento di uno scopo grazie a strumenti determinati. Nelle pagine di Vita activa dedicate al “potere di perdonare” si legge infatti: «Analogamente, uno dei grandi pericoli dell’agire secondo la modalità del fare, ed entro la struttura categoriale dei mezzi e dei fini, risiede nel privarsi dei rimedi che sono inerenti soltanto all’azione, così che si è destinati non solo a fare con i mezzi della violenza necessari a ogni fabbricazione, ma anche a disfare ciò che si è fatto come si distrugge un oggetto non riuscito, con i mezzi della distruzione»35. La violenza estrema, in quanto annientamento, e la tecnica interpolata all’azione (in entrambe le sue versioni: quella in cui la tecnica, nel suo “illimitarsi” si trasforma in azione; quella dove la linearità “infinita” dell’azione assume l’elemento violento, fosse pure “limitato”, della tecnica) sono due facce 35

Ead., The Human Condition, cit., p. 238; trad. it. p. 176. Si tratta insomma delle “uova” che non potrebbero che essere rotte per la produzione della proverbiale (e, in Arendt, sinistra) “frittata”. Come si legge in conclusione di Le uova alzano la voce (1951): «la saggezza, come l’immaginario [di proverbi come “non si può fare la frittata senza rompere le uova”], discende dall’esperienza della fabbricazione tipica dell’umanità occidentale: non puoi fare un tavolo senza uccidere un albero […] L’elemento di distruzione insito in ogni attività puramente tecnica diventa nondimeno preminente non appena le idee sottese e la sua mentalità vengono applicate all’attività politica, all’azione o agli eventi storici, o a qualsiasi altra interazione tra l’uomo e l’uomo», cfr. Ead., Essays in understanding 1930-1954, cit., p. 283; trad. it. Archivio Arendt 2, cit., pp. 56-57.

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di una medesima medaglia analogica, nella misura in cui con esse la condizione umana è oggetto di attacco ed erosione nella sua “località” precipua, rappresentata dalle concrezioni di Terra, mondo e “pólis”. Sono similitudini che, tutto sommato, autorizzano a parlare, nel pensiero di Arendt, di qualcosa come una ricorrente venatura “luddista”. L’essenza della tecnica, nella sua inedita capacità di “togliere la Terra da sotto i piedi”, di dissolvere vorticosamente il mondo degli artefatti nel ciclo perenne del consumo, di invadere gli spazi della interazione umana, appare tutt’altro che zweideutig, essenzialmente ambigua, fondamentalmente ambivalente, come intendeva Heidegger, il quale proprio su tale qualificazione ritagliava la posizione acrobatica del “dire di no” contestuale a un “dire di sì” ad essa36. In più di un passaggio della riflessione di Arendt, in questo prossima a quella di Günther Anders, la tecnica contemporanea non appare più “bifronte”, bensì senz’altro connivente con l’assenza di ogni possibilità di un vero pensiero e di una vera azione. E ciò nel segno del rifiuto di tutti i vincoli dati e dello stesso “essere condizionati” in quanto tale – di una volontà di autodeterminazione mal riposta, il cui eventuale sottrarsi ai “geni del luogo” non può avere granché di significativamente emancipatorio37. 36 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit. p. 34; trad. it. p. 25, dove, tra l’altro, resta notevole l’insistenza sulla metafora “galattica”: «L’essenza della tecnica è in alto grado ambigua (zweideutig). Tale ambiguità richiama all’arcano di ogni disvelamento, cioè della verità […] L’inarrestabilità dell’impiegare e il ritenimento di ciò che salva si passano accanto come, nel corso degli astri, le traiettorie di due stelle. Solo che questo passarsi accanto è l’arcano della loro vicinanza. Se guardiamo entro l’essenza ambigua della tecnica scorgiamo la costellazione, il movimento astrale dell’arcano». 37 Cfr. H. Arendt, The Human Condition, cit., p. 10; trad. it. p. 9: «il più radicale mutamento della condizione umana che noi

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Va con ciò smarrito uno degli aspetti più rilevanti della interpretazione della tecnica offerta da Heidegger. Si potrebbe dire che se, da un lato, quest’ultimo fallisce, per ragioni strutturali alla sua esperienza intellettuale, l’indispensabile tematizzazione dello Sterminio, ma spinge molto oltre, fino a un punto per certi versi ancora insuperato, la problematizzazione della tecnica, dall’altro, e viceversa, la sua allieva eterodossa coglie, come pochissimi dopo di lei, la natura infinitamente problematica dell’atroce realtà storica “Auschwitz”, possiamo immaginare sarebbe un’emigrazione degli uomini dalla Terra in un altro pianeta. Un evento del genere, non più del tutto impossibile, comporterebbe per l’uomo il dover vivere in condizioni create dall’uomo, radicalmente diverse da quelle che gli offre la Terra […] Tuttavia anche questi ipotetici migranti sarebbero umani: ma la sola affermazione che potremmo fare circa la loro “natura” è che essi sarebbero pur sempre degli esseri condizionati, anche se in una condizione in buona parte autodeterminata». Quanto ad Anders, va ricordato che, oltre che analista e critico della condizione “atomica” dell’umanità, è autore di un saggio di condanna di ciò che egli chiama il «presagio tremendo» dei voli spaziali. Si veda: G. Anders, Der Blick von Mond. Reflexionen über Weltraumflüge, München, Beck, 1970, ma anche Id., Die Antiquiertheit der Menschen Band 2. Uber die Zerstorung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, München, Beck, 1980; trad. it. L’uomo è antiquato. 2. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 397 e 403. Peraltro Anders è tra i pensatori contemporanei più fortemente persuasi che il compito filosofico per eccellenza, quello assolutamente urgente in un’età della tecnica che «sembra aver travolto ogni limite», sia precisamente una «critica dei limiti dell’uomo, dunque non soltanto della sua ragione, ma dei limiti di tutte le sue facoltà (della sua fantasia, del suo sentire, della sua responsabilità, ecc.)»: cfr. Id., Die Antiquiertheit der Menschen Band 1. Uber die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, München, Beck, 1956, 1980; trad. it. L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, con un saggio di C. Preve, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 52.

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ma sembra perdere o ridurre la complessità dell’evento della tecnica nelle sue implicazioni più impregiudicabilmente enigmatiche. Implicazioni, sia detto per inciso, che appaiono difficilmente trattabili sulla base di una condanna del materialismo e del consumo, o dell’auspicio di un’adozione illuminata di nuove frugalità – riprovazione e speranza che sembrano trasparire da più di una pagina di Vita activa38. Qui però è importante ricordare che le osservazioni formulate nel libro del 1958 non esauriscono l’attenzione riservata alla questione “astronautica”. Cinque anni dopo, in effetti, Arendt ha ritenuto di tornare a riflettere sul tema dell’avventura spaziale, sottolineandone ancora una volta il tratto problematico. «Il viaggio nello spazio e verso il punto di Archimede rispetto alla Terra è tutt’altro che una impresa innocua o inequivocabilmente trionfante»39. Il saggio del 1963 articola ulteriormente la diagnosi circa il rischio della perdita di ogni luogo abitabile e di ogni senso condivisibile, concentrandosi sul tema della riluttanza umana a pensare e vivere mantenendo una sicura relazione a datità e limiti. L’inizio dell’esplorazione dello spazio cosmico (ma nel testo si legge: della «invasione»)40 viene colto nella sua concomitanza con il dileguarsi di qualsiasi mondo possa costituire la scena di un autentico agire storico, 38

Ci si riporti ad esempio alle notazioni arendtiane sullo «sforzo del consumo» e sulla society of laborers, in The Human Condition, cit., pp. 126-135; trad. it. pp. 90-96. 39 H. Arendt, «Man’s Conquest of Space», in American Scholar, XXXII, n. 4, autumn 1963; poi ripreso col titolo «The Conquest of Space and the Stature of Man» nella riedizione del 1968 di Between Past and Future, cit., p. 273. La traduzione italiana da cui si cita è: H. Arendt, Verità e politica seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, a cura di V. Sorrentino, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 97. 40 Ivi, p. 262; trad. it. p. 82.

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con la sospensione di ogni parola che sappia tenersi in rapporto con il “senso comune” e risulti con ciò rivelativa di un “chi”. Arendt insiste anzitutto su un punto: il linguaggio tecnoscientifico che ha permesso l’exploit spaziale è, in quanto linguaggio matematico (intraducibilmente matematico, perché privo di elementi o rinvii antropomorfici e vieppiù astratto da qualsivoglia richiamo al “terrestre”), incapace di tenersi in contatto con un vero e proprio pensiero, se è vero che le categorie della ragione devono tutto all’esperienza sensibile, e che dello stesso cervello umano bisogna dire che «è terrestre e legato-alla-terra quanto ogni altra parte del corpo»41. L’impresa spaziale (questa volta il riferimento è alla “fuoriuscita” propriamente umana, quella di Gagarin) è figura dell’interruzione dei legami tra teoria e mondo sensibile, dell’abisso scavatosi tra il formalismo dei simboli matematici e il linguaggio quotidiano “manifestativo”. «Le navicelle spaziali con degli esseri umani a bordo vengono lanciate nell’universo affinché l’uomo stesso possa andare là dove finora potevano arrivare soltanto l’immaginazione umana e il suo potere di astrazione o l’ingegnosità umana e il suo potere di fabbricazione». E per tale impresa «dobbiamo abbandonare il mondo dei nostri sensi e dei nostri corpi non solo nell’immaginazione, ma nella realtà»42, con il relativo ingresso dell’indescrivibile – del “non-narrabile” fisicomatematico – nella realtà del mondo quotidiano e della ricerca terrestre del senso43. Risultano così intensificate 41

Ivi, p. 266; trad. it. pp. 87-88. Ivi, pp. 268-269; trad. it. p. 91. 43 Cfr. ivi, p. 269; trad. it. pp. 91-92: «È come se all’“osservatore sospeso nel libero spazio” immaginato da Einstein […] fosse seguito un osservatore in carne ed ossa che deve comportarsi come se fosse un semplice figlio dell’astrazione e dell’immaginazione. È a questo punto che tutte le perplessità teoriche della nuova visione del mondo fisico 42

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le riserve espresse nel corso dell’indagine sulle forme della vita activa: divenendo “tecnologica”, l’azione, pur dando inizio al nuovo, perde ogni valore esistenziale possibile, trasformandosi al limite in una semplice – e perfettamente insensata – processualità biologica44. Nella stessa direzione problematica, c’è però anche dell’altro, soprattutto nella parte conclusiva dell’articolo, dove Arendt sembra scrivere mantenendosi più prossima al famoso esercizio husserliano – su cui tra breve sarà opportuno soffermarci – di “rovesciamento della dottrina copernicana”. L’aspetto della questione “astronautica” su cui Arendt si trattiene, sta nell’invincibilità di diritto del geocentrismo e dell’antropomorfismo che essa dimostrerebbe: in una certa evidenza della loro insuperabilità teorica. Il punto è che l’impegno nella conquista dello spazio, intesa come tentativo di raggiungere realmente quel “punto di Archimede” in cui il moderno si trova immaginativamente installato grazie alla for-

fanno irruzione come delle realtà nel mondo quotidiano dell’uomo e sconvolgono il suo senso comune “naturale”, ossia legato alla terra». 44 In proposito Arendt allega (come del resto già in The Human Condition, cit., pp. 153 e 322-323; trad. it. pp. 109 e 240241) alcune affermazioni di Werner Heisenberg riprese da Das Naturbild der heutigen Physik (Hamburg, Rowohlt, 1955; trad. it. Natura e fisica moderna, Garzanti, Milano, 1985): «viste da una sufficiente distanza [viste cioè dal “punto di Archimede”], le automobili nelle quali viaggiamo e che sappiamo di aver costruito noi stessi, sembreranno, come Heisenberg ha detto una volta, “una inscindibile parte di noi stessi, così come lo è la conchiglia per il suo abitante” […] Di fatto, l’intera tecnologia, vista a partire da questo punto, non apparirà più “come il risultato di uno sforzo cosciente dell’uomo per estendere la sua potenza materiale, ma piuttosto come un processo biologico su larga scala”». Cfr. H. Arendt, «The Conquest of Space and the Stature of Man», cit., p. 274; trad. it. pp. 98-99.

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za dell’astrazione, non può che tradursi in una forma dello scacco. Nei fatti, ciò che l’uomo non potrà non incontrare in questa sua ricerca, sarà ancora e sempre qualcosa di relativo alla Terra, benché di esterno ad essa. Arendt comincia col dire: «Tutto quello che egli può trovare è il punto di Archimede rispetto alla Terra, ma una volta arrivato fin là e acquisito questo potere assoluto sul suo habitat terrestre, egli avrà bisogno di un nuovo punto di Archimede, e così ad infinitum. In altre parole, l’uomo può soltanto perdersi nella immensità dell’universo, poiché l’unico vero punto di Archimede sarebbe il vuoto assoluto al di là dell’universo»45. L’estensione della potenza materiale dell’uomo, tanto attraverso l’ampliamento del campo della sua presenza, quanto attraverso la “presa totale” dell’ambiente terrestre, si rovescerebbe immediatamente in una forma di smarrimento, in una ricerca propriamente assurda, e tale nella misura stessa dell’impossibilità di principio di fuoriuscire non più nello spazio extraterrestre, bensì nel vuoto oltre il Weltraum. In questo senso, l’unico effettivo esito dell’avventura spaziale sarebbe semplicemente quello di mettere a disposizione nuove regioni e nuove terre, di cui Arendt non esita a dire che non potranno che essere «nuovi possedimenti», «proprietà», e come tali soggette alle stesse dinamiche di delimitazione che connotano il rapporto umano alla superficie terrestre, determinato dal desiderio, qualificato come precipuo della specie, di «sentirsi a proprio agio in un “territorio” il più ampio possibile»46. 45

Ivi, p. 272; trad. it. p. 97. Cfr. ivi, p. 273; trad. it. p. 97: l’impresa spaziale «potrebbe accrescere la statura dell’uomo, dato che l’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, desidera sentirsi a proprio agio in un “territorio” il più ampio possibile. In tal caso, egli non farebbe che prendere possesso di ciò che gli appartiene, pur avendoci messo molto tempo per scoprirlo. Questi nuovi possedimenti, come ogni proprietà, dovrebbero essere limitati […]». 46

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Detto altrimenti, l’instaurarsi di una apertura verso lo spazio extraterrestre non muta granché l’essenza del localismo umano e la sua coazione “proprietaria”: gli uomini non potranno che convertire in possesso e patrimonio ciò che scopriranno. L’astronauta, al limite, non sarà che un colono, anche se necessariamente più consapevole della propria mortalità, nella misura in cui scorgerà in essa un limite, questo sì, assoluto, della propria impresa tecnologica di esplorazione extraplanetaria47. Così, una volta “tradotto” in proprietà lo spazio raggiunto, una volta fissati confini e frontiere, «la nuova visione del mondo che è immaginabile che possa sorgere da ciò sarà probabilmente ancora una volta geocentrica e antropomorfica, anche se non nel vecchio senso per cui la Terra era il centro dell’universo e l’uomo era l’essere supremo. Essa sarebbe geocentrica nel senso che la Terra, e non l’universo, sarebbe il centro e la dimora dei mortali, e sarebbe antropomorfica nel senso che l’uomo annovererebbe la sua mortalità di fatto tra le condizioni elementari nell’ambito delle quali sono possibili i suoi sforzi scientifici»48. Un nuovo geocentrismo e un nuovo antropomorfismo, anche all’interno degli scenari delle acquisizioni tecnoscientifiche alla base dell’avventura astronautica, sarebbero dunque inaggirabili, e lo sarebbero perché, da un lato, la Terra (ampliata dei nuovi acquisti territoriali: le Terre, dunque, per così dire) resterebbe necessariamente il punto di riferimento essenziale, a difesa dall’esito del disorientamento nell’universo prodotto dalla ricerca di sempre ulteriori “punti di Archimede”, dall’altro, il tempo umano, la durata materiale della vita emergerebbero con forza 47 Cfr. ivi, pp. 268-269; trad. it. p. 91: «la breve durata della vita dell’uomo» è, scrive senz’altro Arendt, «l’unico limite assoluto». 48 Ivi, p. 273; trad. it. pp. 97-98.

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in quanto cornice obbligata per l’esplicarsi di qualsiasi impegno conoscitivo. Arendt non insiste particolarmente su quest’ultimo aspetto, ma la sua requisitoria contro il trionfalismo indotto nei primi anni Sessanta dalla conquista tecnologica dello spazio indica qui un punto rilevante, su cui dovremo tornare, affrontandolo da un altro angolo visuale: quella conquista avrebbe a che vedere con la possibilità di una diversa apprensione della morte e dell’essere mortali. Porterebbe cioè con sé una questione della “finitezza” umana da precisare ricorrendo a termini e cadenze non del tutto omogenei a quelli proposti dalla tradizione, né ad essa integralmente sovrapponibili. Ciò che comunque ad Arendt appare radicalmente problematico, è il fatto che l’avventura astronautica, lungi dal poter essere intesa come una effettiva peripezia e come incontro con una vera esteriorità, finisce al contrario col precludere ogni rapporto con un “fuori” reale e rinserra più che mai l’uomo in se stesso. Con la conquista dello spazio, la stessa presenza immediata del mondo naturale risulta ormai perduta, nella misura in cui il linguaggio e la modalità dell’azione che l’hanno resa possibile fanno di qualsiasi cosa l’uomo incontri soltanto una maschera di se stesso e degli schemi mentali in cui egli costringe il reale per poterne fruire. Un passaggio in particolare esprime con intensità l’impasse che, secondo Arendt, connoterebbe il viaggio spaziale. «L’astronauta lanciato nello spazio extraterrestre e imprigionato nella sua capsula piena di strumenti dove ogni incontro fisico reale con lo spazio circostante significherebbe una morte immediata, potrebbe benissimo essere considerato una incarnazione simbolica dell’uomo di Heisenberg, l’uomo per il quale quanto più diventa ardente il desiderio di eliminare tutte le considerazioni antropocentriche dal suo contatto con il mondo non umano che lo circonda, tanto più diventa improbabile l’incontro con qualcosa di diverso

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da se stesso»49. L’impresa spaziale porterebbe in sé un marchio di autocontraddittorietà: lungi dall’essere un autentico inizio, una effettiva ricerca, una reale apertura all’ignoto, non fa che tradurre lo spazio in un posto assai angusto, e per di più dalle pareti metaforicamente coperte di specchi. Fa di esso la volta oppressiva in cui l’uomo, per essersi chiuso alla verità di un antropocentrismo essenziale ed essersi tagliato ogni strada verso un’azione capace di integrare il nuovo volto del potere tecnologico, non può far altro che patire del ritrovarsi consegnato alla pura e semplice conformità a se stesso e alle proprie strutture intellettive. Per Arendt, la “prigione” vera non è quella terrestre, bensì precisamente quella che, senza saperlo, l’umanità ha allestito per sé agendo l’oltranza tecnologica fino alla costruzione di piccole capsule in cui ogni possibilità di inventiva spontaneità relazionale appare oscuramente bloccata.

49

Ivi, p. 272; trad. it. p. 96.

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Capitolo III L’arca originaria di Husserl

1. Astronavi immaginate Le “evasioni” astronautiche sono di là da venire, il Lager di Auschwitz sarà aperto solo sei anni più tardi, Hitler è però cancelliere del Reich già da quindici mesi, quando, nel maggio del 1934, a Friburgo, Edmund Husserl redige un testo piuttosto singolare, che, sin dai primi momenti in cui fu scelto per essere tra le sue prime pubblicazioni postume, non ha smesso di costituire per allievi e interpreti una notevole fonte di riflessione. Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo è una sorta di meditazione immediata, dal tratto fortemente “sperimentale”, che, nel precedere di circa un anno le elaborazioni teoriche per la Krisis, ne anticipa la carica polemica anti-oggettivistica, la critica alla tecnicizzazione delle scienze naturali, alla loro alienazione in quanto “oblio delle origini”. Sono dunque pagine dal valore programmatico e per più di un verso esemplare, in cui è già ampiamente attivo il giudizio sulla crisi delle scienze come effetto del divorzio tra la loro attività e la loro possibilità di trovarsi riferite al mondo umano assunto nella sua totalità. Che la radicalità di questo testo non sia di poco conto, è già indicato dalle parole che si leggono sull’involucro in cui fu rinvenuto il manoscritto. Dopo la formula appena citata, poi scelta come titolo dagli

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editori, si può leggere: «L’Arca originaria Terra non si muove. Ricerche fondamentali circa l’origine fenomenologica della corporeità, della spazialità della natura nel senso primario delle scienze naturali»1. Obiettivo dell’analisi è insomma la riconduzione della concezione dello spazio e dei corpi precipua della scienza copernicana alla esperienza originaria così come si dà sul piano della Lebenswelt, ovvero in chiave precategoriale e preriflessiva. Un’esperienza nella quale la Terra si troverebbe offerta come un oggetto dallo statuto estremamente particolare, caratterizzato da una sua specifica, permanente immobilità, anteriore a ogni partizione tra quiete e movimento, i quali anzi avrebbero senso solo in rapporto a tale staticità.

1

E. Husserl, Umsturz der kopernikanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation. Die Ur-Arche Erde bewegt sich nicht. Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Körperlichkeit, der Räumlichkeit der Natur im ersten naturwissenschaftlichen Sinne, inedito contrassegnato con la sigla D 17 presso gli Archivi Husserl di Lovanio. Trascritto da Ludwig Landgrebe, l’autografo fu pubblicato per la prima volta da Marvin Farber in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1940, pp. 307-325 (repr. New York, Greenword Press, 1968). Le citazioni saranno tratte dalla versione italiana di G. D. Neri, «Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo», aut-aut, n. 245, settembre-ottobre 1991, pp. 3-18. Per le informazioni di base sulle circostanze di composizione del manoscritto, il suo posto nell’itinerario teorico dell’ultimo Husserl, i suoi principali snodi problematici, la storia della sua ricezione (ritardata, in Europa, dall’inizio della seconda guerra mondiale) si consulteranno utilmente, insieme alla nota dello stesso G. D. Neri, «Terra e Cielo in un manoscritto husserliano del 1934», ivi, pp. 19-44, anche K. Held, «Sky and Earth as invariants of natural Life-World», Phenomenology of Interculturality and Life-World, München, Alber, 1998, pp. 2141; J. Himanka, «Does the Earth move?», Philosophical Forum, 31, 2000, pp. 57-83.

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Sarà bene attraversare brevemente alcune delle soglie teoriche del testo. Husserl comincia con lo scrivere: «Noi copernicani, noi uomini dell’età moderna diciamo: La Terra non è “tutta la natura”, essa è una delle stelle nello spazio cosmico infinito. La Terra è un corpo di forma sferica»2. In questa affermazione, prosegue, la Terra viene concepita né più e né meno che come un «grande masso». Malgrado per noi essa sia anzitutto un «suolo» – il «suolo di esperienza (Erfahrungsboden) per tutti i corpi» –, essa risulta colta semplicemente come una cosa, ridotta a un mero «corpo totale». Nel discorso scientifico, cioè, «si sopprime la sua forma originaria di suolo»3. In esso e con esso nulla resta del modo fondamentale di apparizione della Terra, modo che peraltro “noi moderni”, come tutti coloro che ci hanno preceduto, seguitiamo preriflessivamente a sperimentare: non c’è “copernicano” che non continui a saggiarla appunto come un Boden, come un terreno e una sede a cui di fatto non è ascrivibile alcun movimento. Il punto, per Husserl, è che la modalità primordiale di datità della Terra non è affatto simile a quella della percezione di un corpo fisico: al suo primo livello di costituzione, essa non è affatto una realtà oggettiva, bensì una sorta di quasi-oggetto originario, preliminare al mondo delle blossen Sachen, delle “mere cose” in quanto idealizzazioni. La Terra è ciò su cui poggiamo i piedi, è strato pre-teoretico primitivo, ceppo e base in riferimento ai quali soltanto è possibile che ci siano dei corpi e che di essi sia verificabile la condizione dinamica. Prima di ogni lavoro di oggettivazione e di “omogeneizzazione”, la Terra è insomma «dimora primordiale», «Arca originaria»4, appunto, che rende 2 E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana, cit., p. 4. 3 Ibidem. 4 Ivi, pp. 16-17.

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possibile il senso di ogni movimento e di ogni riposo: i corpi sono fondati in quanto tali in relazione alla Terra, che costituisce così il loro a priori generale. Elemento universalissimo, nostro luogo comune, essa, nella misura in cui è appresa come Terra trascendentale, piuttosto che come pianeta-Terra e massa celeste, non è oggetto e non è cosa, né può mai diventarlo, bensì «“corpo” natale (Stamm-“Körper”)»5, patria umana, luogo costitutivo di un punto di vista che si sposta con il nostro stesso corpo. In questo senso, è corretto dire che qui la Terra è considerata come «fondamento ultimo della co-umanità»6, naturalmente nella misura in cui Husserl si impegna ad assumere gli uomini per ciò che sono nel mondo-della-vita: soggetti carnali e storici in reciproca relazione e non puri osservatori situati nel “luogo atopico” di un punto esterno al pianeta. Con un ossimoro memorabile, «l’arrogante modestia di Husserl», Arendt, pur così consonante con il suo pensiero per ciò che riguarda il rilievo dei controsensi di cui la tecnicizzazione del linguaggio scientifico si rivela foriera per la vita umana, ha discusso la generale prospettiva fenomenologica sottolineandone l’elemento preponderante di reazione difensiva di fronte alla moderna percezione dello spaesamento. A suo avviso, quella di Husserl sarebbe stata una manovra teoretica compiuta al fine di ricomporre un «mondo ormai andato in frantumi» e di permettere all’uomo di tornare a sentirsi a casa propria: al fine, cioè, di reintegrare cose ed eventi nella vita umana, strappandoli alla contingenza grazie alla ricostruzione della loro genesi nel flusso di coscienza. Non senza ragione, Arendt può così definire 5

Ivi, p. 11. Cfr. E. Husserl, Origine de la geométrie, traduction et introduction par J. Derrida, Paris, Presses Universitaires de France, 1962; trad. it. J. Derrida, Introduzione a Husserl. L’origine della geometria, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 136-139. 6

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Husserl un “classicista”, «se per classicismo si intende il tentativo di far comparire, come per magia, una nuova dimora in un mondo sentito come estraneo, attraverso una imitazione rigorosa del mondo classico, cioè del sentimento umano di familiarità e intimità col mondo». Nella “modesta” sobrietà delle analisi fenomenologiche si celerebbe così lo sforzo «di rassicurarci su un fatto su cui la filosofia moderna non può essere rassicurata»: si nasconderebbe, insomma, potente e non priva d’insidie, una «moderna hýbris», quella che marca la volontà di considerare l’uomo «ciò che non potrà mai essere: il creatore del mondo e di se stesso»7. Il piglio elegantemente combattivo di Arendt, e le sue convinzioni jaspersiane (in questo luogo ampiamente attive), potranno essere apprezzati o meno, ma la lettura dell’intenzione fenomenologica come una sorta di formazione di difesa, come resistenza alla perdita di radici e opposizione alla spaesatezza, è certo condivisibile. Proprio nel caso della posta in gioco nelle pagine di cui ci stiamo occupando, si può dire in effetti che essa stia precisamente in una “riaddomesticazione” di quella Terra che la scienza moderna aliena alla esperienza umana immediata, nella misura in cui ne traduce natura e consistenza di suolo nel perturbante “enorme sasso” alla deriva nello spazio sconfinato. Ciò a cui Umsturz intende giungere con la tesi della Terra immobile, è sancire l’ingenuità della visione copernicana. Questa resterebbe del tutto chiusa alla consapevolezza che il mondo originario non è quello dei corpi in movimento nello spazio illimitato, bensì il mondo-della-vita, rispetto al quale quello della fisica è solo derivato. La rappresentazione del mondo dei 7 Cfr. H. Arendt, «What is Existenz Philosophy?» (1946), in Ead. Essays in Understanding (1930-1954), cit. pp. 164167; trad. it. «Che cos’è la filosofia dell’esistenza?», in Archivio Arendt 1. 1930-1948, cit., pp. 198-200.

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moderni è fondata in questa Lebenswelt, prende abbrivo dalla vita psichica che io sono in quanto corpo proprio situato: questa la linea difensiva che Husserl si risolve ad adottare contro l’effetto straniante, a tutti gli effetti sradicante che la riduzione della Terra a corpo fisico produce sull’uomo e il suo sapere di se stesso e delle cose. Rovesciamento della dottrina copernicana, come del resto lo stesso celebre frammento sull’Origine della Geometria, è uno dei luoghi in cui il fenomenologo s’impegna più scopertamente ad accreditare se stesso come produttore di un discorso più originale di quello delle scienze moderne, nella misura in cui, grazie alla identificazione dei punti di origine di ogni donazione di senso in generale, intende darsi come piano di connessione tra realtà esperita, vissuta, e realtà teoretica, matematica. Ci si può chiedere se, malgrado tutto, Arendt e lo stesso Heidegger, ognuno a suo modo, non siano rimasti come impigliati nella strategia difensiva elaborata da Husserl. La caratterizzazione della Terra come località naturale fondamentale e “quintessenza della condizione umana”, così come l’esposizione del Dasein come “abitante sulla Terra e sotto il Cielo” lasciano margini per pensarlo, almeno a voler spingere il pedale del rilievo dei punti di continuità con quello che si potrebbe definire il’“meta-geocentrismo” husserliano. Tornerò tra poco su questo punto. Ora, in effetti, importa sondare un aspetto decisamente singolare, per certi versi estremo, dell’argomentazione proposta in Umsturz. Husserl, è noto, è filosofo tremendamente autocritico: nel testo che ci interessa, risultato di un pensiero che, più che esporsi, appare inquietamente in cerca di se stesso, egli formula delle vigorose obiezioni alla propria idea dell’archi-originarietà della Terra, e lo fa ricorrendo a esperimenti mentali radicali, fondati sulla considerazione ipotetica di quella possibilità di una fuoriuscita materiale dall’orbita terrestre che l’astronautica

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realizzerà a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Una fuoriuscita che qui è immaginata possibile appunto grazie all’ausilio di «“aeronavi”» ovvero di «“navi-spaziali” della Terra, che dalla Terra sono partite e che vi ritornano, abitate e pilotate da uomini»8. Si possono intuire facilmente le ragioni che spingono Husserl a una simile congettura. Se vedessimo effettivamente la Terra da una di queste astronavi, e cioè da un punto sufficientemente esterno, essa non sarebbe ormai sperimentata, più che come suolo originario, precisamente come un corpo sferico “copernicano”, e come corpo tutt’altro che immobile? Non risulterebbe forse svanita come neve al sole la sua presunta non-oggettualità originaria? «Un corpo in movimento (veicolo) e su di esso il mio corpo-navicella volante (Leib-Flugschiff). “Potrei volare tanto in alto che la Terra mi apparirebbe come una sfera”»9. Ci si troverebbe allora nella condizione di dover assumere nel mondo-della-vita lo stesso orizzonte copernicano come tale, che così risulterebbe tutt’altro che riducibile a una mera “omogeneizzazione”. L’appercezione del mondo propria della scienza moderna si troverebbe ad essere confermata da un’intuizione affatto esauriente. È in fondo ciò che si può decidere di cogliere nella nota esclamazione dell’astronauta dell’Apollo 8 William Anders – autore, tra l’altro, di alcune tra le più popolari fotografie di un’“alba” del pianeta Terra –: «We came all this way to explore the Moon, and the most important thing is that we discovered the Earth»…10

8

E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana, cit., p. 13. 9 Ivi, p. 11. 10 Cfr. A. Chaikin, A Man on the Moon, New York, Viking Penguin, 1994, p. 119: «Abbiamo fatto tutta questa strada per esplorare la Luna, e la cosa più importante è che abbiamo scoperto la Terra».

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In realtà, a queste domande – all’auto-obiezione generale di aver illegittimamente esagerato la difficoltà della “costituzione” della Terra come Körper – Husserl risponde negativamente, senza dunque arretrare di un sol passo dalla propria posizione. Ed ecco come egli argomenta il leit-motiv del “rovesciamento”. Se, scrive, mi rappresento il mio corpo su di un corpo in movimento nello spazio, posso, sì, immaginare di vedere la Terra come un corpo fisico autonomo, ma in realtà ciò è possibile solo in quanto già preventivamente dispongo dell’esperienza primaria della Terra come suolo: è solo grazie a tale esperienza, infatti, che può darsi la possibilità di sperimentare corpi in generale. Ciò che avviene immaginandomi sull’astronave, insomma, è soltanto che l’appercezione originaria della Terra-suolo risulta, per così dire, spostata sul corpo mobile della navicella11. Non solo: la stessa cosa, continua Husserl, accadrebbe anche se riuscissi a raggiungere un altro corpo celeste e da lì potessi vedere la Terra in quanto corpo sferico “copernicano”. Anche così, in effetti, non avrei affatto ecceduto l’esperienza originaria della immobilità della Terra: l’unica conseguenza sarebbe piuttosto quella di far diventare la Terra e il corpo celeste, sul quale mi troverei, due parti della stessa Terra-suolo. La possibilità di sperimentare la Terra come pianeta, corpo, oggetto in movimento, continuerebbe infatti a non essere data altrimenti che a partire dalla esperienza della Terra come suolo, di cui dunque bisogna affermare che, per essere l’a priori empirico-trascendentale

11

Cfr. E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana, cit., p. 11: «Non dovrei pensare come trasferito sull’aereo, nella sua valenza costitutiva (secondo la forma), tutto ciò che dà senso in generale alla Terra come mio suolo, come suolo della mia corporeità (Leiblichkeit)?»

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dello spazio, può ampliarsi fino ad abbracciare ogni luogo e spazio immaginabile.12 Husserl non si arresta poi neanche di fronte all’ipotesi in certo senso più enfatica, quella secondo la quale potrebbero esserci dei «bambini nati sulle aereonavi». In tal caso, proprio questi veicoli spaziali sarebbero la loro Terra in quanto patria, dimora primigenia e «suolo di esistenza (Seinsboden)». E se poi questi bimbi vivessero con genitori nati sulla Terra o avessero avuto antenati terrestri, grazie alla narrazione e alla sintesi della «storia originaria (Urhistorie)», Terra dei padri e Terra-astronave si comporrebbero per costituire l’unità della Terrasuolo, dell’Arca che non si muove13. In breve, per quanto la cosa, concede Husserl,

12 Ivi, pp. 11-12: «Si dirà forse: la difficoltà non sussisterebbe se io e noi potessimo volare e disponessimo di due Terre come corpi-suolo, a partire da ciascuna delle quali potessimo raggiungere l’altra a volo. In questo modo, appunto, l’una diventerebbe corpo per l’altra che fungerebbe da suolo. Ma cosa significa due Terre? Due frammenti di una Terra con una umanità. Insieme formerebbero un unico suolo e sarebbero simultaneamente, ciascuno, un corpo per l’altro». 13 Ivi, pp. 12-13: «Se io sono nato figlio di naviganti, parte della mia crescita si verifica sulla nave; quest’ultima non si caratterizzerebbe per me come nave in relazione alla Terra – fintanto che non si fosse stabilita un’unità – ma sarebbe essa stessa la mia “Terra”, la mia patria d’origine (Urheimat). I miei genitori però non sono originari della nave, essi avevano ancora una residenza (Zuhause) più antica, un’altra patria d’origine. Nel mutamento delle dimore […] resta acquisito in generale il fatto che ogni io ha una sua patria d’origine – e una patria siffatta appartiene ad ogni popolo originario (Urvolk) con il suo territorio d’origine (Urterritorium). Ma ogni popolo e la sua storicità, come ogni sovra-popolo (sovra-nazione) ha naturalmente a sua volta la propria patria, in ultima analisi, sulla “Terra” e tutti gli sviluppi, tutte le storie relative hanno, pertanto, un’unica storia originaria (Urhistorie), di cui essi sono episodi».

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La verità errante

possa sembrare «stravagante o perfino folle»14, occorre assumere che in qualsiasi luogo extraterrestre io possa andare, io faccio di esso una Terra trascendentale inoggettivabile, lo costituisco come un Boden immobile, e che perciò ad alcun titolo è possibile pensare più Terre. Esistono soltanto pezzi di una e medesima Terra, non nel senso fisico della parola, ma in quello di a priori empirico fondamentale dell’esperienza dello spazio e dei corpi. Lo sforzo di auto-rassicurazione dal perturbante della rappresentazione “geometrica” di un universo omogeneo è, lo si vede, davvero energico. Al di qua di ogni elaborazione teorica della scienza fisica, si sostiene che per l’uomo sussiste sempre e comunque un polo unico e stabile di riferimento. Come è stato osservato, la manovra di ricostruzione del mondo appare qui orchestrata dalla ricerca “cosmologica” di un punto fisso, ed è polarizzata dal desiderio di una sorta di centro ombelicale. Quella che viene definita come l’ingenuità del sapere scientifico si trova ad essere messa in causa da un “passo all’indietro”, da un arcaismo ingegnoso, da una sorta di ripristino calcolato e critico dell’ingenuità antica15. A fronte dello spossessamento e dello sradi14

Ivi, p. 17. Cfr. M. Serres, Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques. Tome II. Schémas – Point, Paris, Presses Universitaires de France, 1968, p. 711, dove è notevole il raffronto con la celeberrima reazione pascaliana al “silence éternel des espaces infinis” in quanto via di affermazione di un Deus absconditus: «Husserl riporta sulla terra la Terra originaria che Pascal aveva trasposta nel Paradiso terrestre, alle porte della Gerusalemme celeste: riporta in un mondo immediato il luogo che Pascal aveva trasposto in una sovra-natura […] Ma è lo stesso: la loro comune meditazione è situata all’interno dei problemi che abbiamo chiamato ante-copernicani, cioè anteriormente alle decisioni ‘ingenue’ prese da Copernico e da Tycho, Tolomeo o Einstein, anteriormente ai modelli oggettivi di un cosmo […] Che questa terra prima sia questa 15

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camento indotti dal riduzionismo naturalistico, viene proposto l’indice fattuale di un’esperienza primaria presentata come dimensione di senso perfettamente inattaccabile, persino da parte degli sviluppi delle tecnoscienze, nella misura in cui se ne provi a estrapolare immaginativamente il corso “filogenetico” dall’aereo, al missile, fino all’astronave16. Come dire: non solo “eppur non si muove”, ma anche – e di conseguenza – “eppure un centro assoluto c’è”. In questo senso non appare indifferente che Husserl scelga di misurarsi con Copernico, piuttosto che con la temerarietà intellettuale di Keplero, la cui prospettiva, oltre alla considerazione del movimento della Terra, era latrice di una rottura davvero drastica con ogni passato, nella misura in cui implicava la revoca della rappresentazione del moto circolare attraverso l’introduzione dell’orbita ellittica, ovvero dell’impossibilità strutturale di un centro unico del movimento, comunque pensato17. Con il tentativo di Umsturz, invece, stessa, o l’Altra, non è che una variazione sul risultato, resta la stessa ricerca di un punto fisso, di un polo». 16 Sul tratto analogicamente filogenetico dello sviluppo degli oggetti tecnici cfr. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Paris, Aubier, 1989. 17 Sul punto si veda il classico N. R. Hanson, Patterns of discovery. An inquiry into the conceptual foundations of science, Cambridge, Cambridge University Press, 1958; trad. it. I modelli della scoperta scientifica. Ricerca sui fondamenti concettuali della scienza, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 93 sgg. In proposito, si rileggeranno utilmente anche queste parole di Jacques Lacan: «Se una rivoluzione c’è stata, non è certo al livello di Copernico. L’ipotesi che forse il sole fosse il centro attorno al quale girava era stata formulata da tempo […] La sovversione, se da qualche parte e a un certo momento è esistita, non consiste nell’aver cambiato il punto di virata di ciò che gira, ma nell’aver sostituito al gira un cade. Il punto critico, come alcuni hanno avuto l’idea di accorgersi, non è Copernico, è un po’ di più Keplero, a causa del fatto che in lui non gira nello stesso modo – gira in ellissi, e ciò mette già in questione la funzio-

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la difesa del Luogo terrestre, in quanto essenzialmente delimitato e chiuso – per quanto in eventuale “espansione” attraverso i viaggi spaziali –, e dunque provvisto di un centro e di un confine, implica che lo spazio, altro che pura omogeneità matematica, andrebbe inteso come ciò che, aprendosi a partire da quel Luogo, non è che il «movimento della lontananza», che, per quanto lo si immagini estremo, in fondo non può mai portare altrove dal piano dove esistenzialmente già sempre si è18. ne del centro. In Keplero, ciò verso cui cade è in un punto dell’ellisse che si chiama fuoco, e, nel punto simmetrico, non c’è nulla. Ciò corregge di certo l’immagine del centro […] A lungo è sembrato naturale che si costituisse un mondo il cui correlato fosse, al di là, l’essere stesso, l’essere assunto come eterno. Questo mondo concepito come tutto, con ciò che questa parola comporta di limitato, qualunque sia l’apertura che le si dia, resta una concezione – una prospettiva, uno sguardo, una presa immaginaria», cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX. Encore, Paris, Seuil, 1975; trad. it. Il Seminario. Libro 20. Ancora. 1972-1973, Torino, Einaudi, 1983, pp. 41-44. 18 Cfr. l’analisi di ispirazione husserliana offerta da G. Piana, «Riflessione sul luogo», in La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Milano, Guerini e associati, 1988, pp. 270-273: non solo all’«essenza del luogo […] appartiene la delimitazione e la chiusura, e di conseguenza un centro e un confine», ma «ciò che lo spazio è viene detto anzitutto attraverso ciò che è il luogo […] Al chiuso si contrappone l’aperto, al dentro il fuori: e così lo spazio è ciò che si apre, sconfinato, al di là del luogo […] Il luogo è nello spazio come l’oasi è nel deserto […] Lo spazio è il movimento della lontananza». Da notare, però, che a queste affermazioni segue la precisazione che, nella misura in cui «nell’esperienza dell’astronauta», l’esser-cosa della Terra è divenuta «un fatto percettivo concreto», allora la stessa «nozione della spazialità» risulta per noi significativamente mutata. «Ora ha certamente un senso dire: la terra è là. Dunque è una cosa. Mentre la terra che non è un pianeta non ha mai carattere di cosa. Prima o poi dobbiamo accorgerci di questo: noi viviamo sopra una cosa» (ivi, pp. 277-278).

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2. La Terra, il corpo Ciò che è necessario sottolineare, è che la risposta di Husserl alla crisi dei fondamenti portata dal moderno consiste nell’elaborazione di una dottrina trascendentale del sentire e della sensibilità, in cui è il corpo, in quanto corpo mio, corpo vissuto, a ricoprire un ruolo di primo piano, assumendo il senso di perno essenziale dell’esperienza. La chiave dell’intera argomentazione di Umsturz sta in effetti nella volontà di assumere tutte le conseguenze del fatto che, tra i corpi in stato di riposo o di movimento, c’è n’è uno a cui pertiene uno statuto particolare, e al quale non è possibile attribuire nessuno di questi due stati. «Il mio corpo (Leib): nell’esperienza primordiale, a differenza dei corpi esterni, esso non conosce spostamento né quiete, ma solo moto interno e quiete interna. Non tutti i corpi (Körper) “si muovono” nel modo dell’“io vado” o in generale del “mi muovo” cinesteticamente, né così si muove l’intero suolo terrestre sotto di me […] Io non ho alcuno spostamento; che stia fermo o che cammini, io ho il mio corpo (Leib) come centro, e attorno a me dei corpi (Körper) in quiete o in moto, e un suolo senza mobilità. Il mio corpo proprio ha estensione ecc., ma non ha modificazione (o immodificazione) di luogo nel senso in cui un corpo esteriore (Aussenkörper) si presenta in movimento, allontanandosi o avvicinandosi, oppure non in movimento, vicino o lontano. Ma anche il suolo su cui cammina o non cammina il mio corpo non viene esperito come un corpo (Körper) che possa essere integralmente spostato oppure no»19. Dove risulta che l’esperienza originaria della Terra in quanto suolo è in realtà legata a filo doppio a quella caratteristica del corpo vissuto di non potere essere detto propriamente 19

p. 9.

E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana, cit.,

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in moto nello spazio come potrebbe esserlo un oggetto, e cioè di essere esperito come situato sempre alla medesima distanza da me stesso, e dunque come del tutto immobile, poggiato su una Terra-suolo con cui letteralmente fa tutt’uno. È il mio corpo a strutturare lo spazio in cui tutti i corpi appaiono, a orientare e articolare il mio mondo-ambiente: io lo abito e grazie ad esso abito ciò che lo circonda. Il Leib è potere originario di ordinare il succedersi delle apparenze percettive: un Qui primordiale a partire dal quale si dischiude l’orizzonte in cui possono entrare gli altri corpi e i corpi degli altri io. E il fatto che il corpo vissuto costituisca il campo di localizzazione di ogni mia sensazione, il punto assoluto di ogni determinazione oggettiva dello spazio, implica che ogni quiete e ogni movimento siano relativi ad esso. Il che è ciò che permette di dire che la Terra su cui esso si trova non è essa stessa un corpo tra gli altri nel sistema copernicano, bensì corpo originario, suolo centrale, e che non può che restarlo ovunque io mi trovi, qualsiasi esplorazione siderale io possa compiere. «La Terra può altrettanto poco perdere il suo senso di “dimora primordiale”, di arca del mondo, quanto poco il mio corpo (Leib) può perdere il proprio senso d’essere del tutto peculiare di corpo proprio primordiale (Urleib)»20. Al cuore della ricusazione della pertinenza della visione copernicana per la vita, c’è insomma un corpo che non è un corpo fisico – il Leib e ciò che esso realmente esperisce. In ultima analisi è ad esso che si trova affidato l’essenziale della reazione allo sradicamento, il buon esito dello sforzo teoretico di difesa dall’estrania20

Ivi, p. 16. Su questo aspetto del testo husserliano si vedano: B. Moroncini, «Corpo e terra», in Aa. Vv., Per Alberto Abruzzese, Roma, Luca Sossella Editore, 2002, pp. 260-276; S. Gnzel, «On Archaeology of the Earth, Body and LifeWorld», Phainomena, 12, 2003, pp. 148-169.

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zione. Il “classicismo” husserliano si rimette al corpo vissuto, fosse pure quello di un’astronauta immaginario, identificando in esso un centro appropriato, al riparo dai pericoli legati all’assenza di senso autentico portata delle omogeneizzazioni scientifiche. Ma se si tengono presenti le analisi sulla pre-oggettualità del corpo mio e della Terra in quanto luogo di storicità fondamentale, è facile comprendere in che senso Jacques Derrida abbia potuto affermare che, pur attraverso tante divergenze, Heidegger non si è poi allontanato di molto da Husserl, almeno quanto a «un certo disperato desiderio di fondare, di istituire, di abitare, di radicare il qui dell’origine come humus, come luogo terrestre, e l’abitazione come dimora terrestre dell’uomo, vale a dire la stabilità di ciò che soggiorna e sta in piedi»21. Di fronte alla possibilità “astronautica”, immaginata o reale, e ciascuno secondo le proprie modalità, i due pensatori – ma la cosa, con i dovuti distinguo, può valere anche per Arendt – hanno riproposto e condiviso «il desiderio dell’originarietà terrestre e del luogo come qui o là», presentando così differenti versioni di una medesima reazione all’«angoscia di perdere il suolo proprio, l’ancoraggio assoluto, la proprietà dell’habitat»22. Lo “spavento” di Heidegger davanti alle immagini della Terra vista dalla Luna, l’inquietudine di Arendt per l’assenza di senso esistenziale della fuoriuscita astronautica, non appaiono incommensurabili alla preoccupazione di Husserl di fronte all’oblio della Terra in quanto terreno di esistenza. Una circostanza va però sottolineata delle “riprese” heideggeriana e arendtiana della procedura adottata 21

Cfr. J. Derrida, «Faxitexture», in Anywhere, ed. by C. C. Davidson, New York, Rizzoli, 1992, pp. 21-22; trad. it. «Faxtestura», in Id., Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, Milano, Libri Scheiwiller, 2008, pp. 336-337. 22 Ibidem.

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da Husserl per fronteggiare la destabilizzazione. Tutto sommato, né nell’una, né nell’altra, il corpo, in quanto corpo vissuto, sembra avere il ruolo privilegiato rilevabile in Umsturz. Dove Husserl fa del Leib il punto estremo di resistenza allo spaesamento, additando il rapporto, la parentela decisiva del corpo-mio con la Terra-suolo immobile, né The Human Condition, né gli scritti heideggeriani sull’“astro errante” e l’“abitare”, sembrano proporre la corporeità come leva privilegiata per reagire all’erosione tecnoscientifica della località terrestre. Nel caso di Arendt e della sua prospettiva generale circa il rapporto tra Terra e condizione umana, il corpo è colto come mero agente del processo vitale, mezzo per la riproduzione della specie e la soddisfazione dei bisogni. In Vita activa il corpo non trascende mai realmente il piano del metabolismo naturale: costituisce per così dire una sorta di punto zero dell’umano, la sua zona d’indistinzione rispetto all’animale – corpo del bisogno in senso biologico, corpo produttivo/consumatore, semplice espressione della vita umana in ciò che in generale ha in comune con la zoè animale. In alcun modo esso appare come protagonista nelle procedure di stabilizzazione: in Arendt, annota anzi Julia Kristeva, il corpo «si erge a bersaglio principale – o addirittura a nemico giurato»23. 23 J. Kristeva, Hannah Arendt, ou l’action comme naissance et comme étrangété, Paris, Libraire Arthème Fayard, 1999; trad. it. Hannah Arendt. La vita, le parole, Roma, Donzelli editore, 2005, p. 214. Kristeva osserva anche che se è vero che, in La vita della mente, Arendt, avvalendosi delle proposte di Merleau-Ponty, si sofferma a lungo sulla questione dell’“apparenza sensibile”, in The Human Condition il corpo si trova letteralmente agli «antipodi del “chi”» e rappresenta «il principale paradigma dell’alienazione», in quanto riduzione dell’uomo al piano della vita e dei cicli meramente “naturali”. Nella misura in cui ciò che ad Arendt interessa è anzitutto «salvare la libertà del “chi” all’interno di una pluralità politi-

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Per quanto riguarda Heidegger, è nota la sua generale reticenza riguardo la questione della corporeità. Se si eccettuano in particolare i Seminari di Zollikon (dove del resto, significativamente, si può leggere che nell’«orizzonte della comprensione dell’essere» non accade «alcun essere-corpo»)24, il tema del Leiben, dell’azione e della passione inerenti all’essere-corpo, pur presente, non è quasi mai affrontato in modo davvero diretto, e ciò tanto meno nelle elaborazioni teoriche intorno all’agire tecnico e alla sua “illimitazione”. Non per niente, già a partire da Sartre, non sono state poche le voci che al Dasein heideggeriano hanno rimproverato qualcosa come una precipua assenza d’incarnazione, un vero e proprio difetto di consistenza, di materialità tangibile25. Il concetto di “misurazione diametrale” che abbiamo incontrato tra le pieghe della teoria heideggeriana del “soggiornare” rinvia, sì, alla dimensione vissuta del corporeo – con la sua tacita presupposizione di ciò che la sensibilità umana esperisce in quanto situata nel camente ottimale, e non consegnarla a un inconscio incontrollabile», la sua prospettiva non è indenne dal «rischio di privare il “chi di qualcuno” del suo corpo: un peso forse, ma anche, che plasticità!», cfr. ivi, pp. 213-217. 24 Cfr. M. Heidegger, Zollikoner Seminare. Protokolle-Gespräche-Briefe, hrsg. von M. Boss, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1987, p. 244; trad. it. Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali-Colloqui-Lettere, a cura di A. Giugliano ed E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1991, p. 279. 25 Il problema non è evidentemente affrontabile in questa sede. Un’utile sintesi della questione è offerta da J. Greisch, «Das Leibphänomen: ein Versäumnis von Sein und Zeit», in Eros and Eris – Contributions to a hermeneutical Phenomenology. Liber Amicorum for Adrian Peperzak, ed. by P. van Tongeren, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic Publishers, 1992, pp. 243-262; Id. «Les limites de la chair», in Incarnation, textes réunis par M. M. Olivetti, Biblioteca dell’Archivio di filosofia, 19, Padova, Cedam, 1999, pp. 57-82; C. Saviani, «Il tema del corpo nell’opera di Heidegger. Una ricognizione testuale», Studi filosofici, XXIII, 2000.

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campo percettivo “tra Terra e Cielo” –, ma tale dimensione, semplicemente allusa, non è né tematizzata, né indicata come fulcro problematico cruciale. Si potrebbe azzardare che, nel fiancheggiare la via della controdestabilizzazione husserliana, Heidegger e Arendt, ognuno secondo il proprio percorso e le proprie esigenze teoriche, abbiano come avvertito che il corpo può fare brutti scherzi a chi punta su di esso in cerca di saldi punti d’appoggio. Che esso, cioè, non è mai così tanto “mio” come siamo tentati di pensarlo, e che considerarlo esclusivamente in termini di possesso e possibilità – possibilità di sentire, muoversi, organizzare le apparenze, esperire ed intenzionare – porta con sé più di un problema26. E non solo relativamente all’ordine delle gigantomachie concettuali teoretiche (implicite nelle tanto discusse aporie relative al fatto che, nell’analisi fenomenologica, la soggettività costituente dell’ego trascendentale trova nel Leib qualcosa di già dato e costituito, condizione di ogni conoscenza ed esperienza, grazie a cui essa può poi effettivamente potere)27. La reticenza, o forse, meglio, la sordina heideggeriana e arendtiana circa il rapporto tra corpo e Terra può essere letta come segno della consapevolezza del fatto che, per chi va in cerca di nuove stabilità

26

Sulle difficoltà relative alla traduzione del termine Leib con l’espressione “corpo proprio”, cfr. D. Franck, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl, Paris, Éditions de Minuit, 1981, pp. 93-94. Più in generale, sul tema, il rinvio d’obbligo è all’orizzonte post-heideggeriano delineato dalla proposta teorica di J.-L. Nancy, Corpus, Paris, Éditions Métailié, 1992; trad. it. Corpus, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 1995. 27 È ciò che lo stesso Heidegger ha contestato a Husserl, sin dall’accentuazione della dimensione della Fakticität nel corso friburghese del 1923: cfr. M. Heidegger, Ontologie (Hermeneutik der Fakticität), Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1988; trad. it. Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, a cura di E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1992.

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e intende sottoporre a critica l’alienazione tecnologica legata all’abbandono astronautico del Luogo, cedere la parola al corpo implica dei rischi non trascurabili. Anzitutto quello di non potere facilmente ritirargliela quando esso comincia a testimoniare in direzioni diverse da quelle della possibilità e della “proprietà”: quando cioè le sue esperienze basilari manifestano un tratto decentrante, sottrattivo del possesso di sé e foriero di eccessi non saturabili28. È il caso del modo in cui il corpo risulta alluso nelle analisi del fatto astronautico proposte da Lévinas e Blanchot, come tra breve si potrà accennare. Ma forse, almeno in parte, è già il caso di Merleau-Ponty e della lettura che egli ha offerto della idea husserliana dell’“Arca originaria”. In un passaggio del corso al Collège de France tenuto nel 1958-1959 – dunque al momento dei successi sovietici degli Sputnik I e II e della risposta statunitense con il lancio dell’Explorer I –, egli afferma: «La tecnica e la scienza ci pongono al cospetto di energie che non sono più nel quadro del mondo, che forse potrebberlo distruggerlo, e ci pongono in possesso di mezzi di esplorazione che, ancor prima d’essere stati impiegati, risvegliano il vecchio desiderio e il vecchio timore di incontrare l’Altro assoluto. Ciò che, per secoli, agli occhi degli uomini, aveva posseduto la solidità di un suolo si rivela fragile»29. La diagnosi circa il potere 28

Non era stato questo, tra altri, l’atroce insegnamento delle tecniche totalitarie e dei campi di sterminio? Almeno nel caso di Arendt si potrebbe dire che è proprio a partire dalla sua idea del Lager come luogo della possibilità di riduzione di persona e corpo a mero “fascio di reazioni” che va situata l’ellissi teorica riguardo la dimensione della Leiblichkeit in quanto spazio concettuale “rifondativo”. 29 Cfr. M. Merleau-Ponty, Résumés de cours (Collège de France, 1952-1960), Paris, Gallimard, 1968, pp. 145-146; trad. it. Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France 1952-1961, a cura di M. Carbone, Milano, Bompiani, 1995, p. 109.

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decentrante della tecnica contemporanea e le sue potenzialità distruttive ci è ormai familiare, così come non possono sorprendere i riferimenti alle implicazioni perturbanti delle nuove possibilità di “esplorazione” e alla nuova “friabilità” di ogni terreno di residenza, reale o mentale. Merleau-Ponty, però, poco oltre aggiunge: «Se non si tenesse conto che di questi fatti, il bilancio dell’esperienza potrebbe apparire negativo. Ma, nell’ordine della cultura e della ricerca, la relativizzazione di quanto si credeva essere il suolo della storia e della Natura è già scoperta di una nuova solidità […] La disgregazione è più che bilanciata, nei migliori, da un senso nuovo della pluralità dei possibili, la minaccia dello spirito tecnico lo è dall’attesa di una libera reintegrazione»30. Ciò che può essere considerato significativo, è che tali convinzioni – la possibilità di saldezze differenti da quelle debitrici di manovre a vario titolo difensive; l’esigenza di applicarsi a un’iscrizione, a carattere emancipativo, della tecnica stessa nella vita – sono avanzate da Merleau-Ponty contestualmente a una lettura dell’ultimo Husserl, e in particolare proprio del testo di Umsturz, a cui peraltro egli, con diverse accentuazioni, non aveva mancato di riferirsi anche in altre occasioni, sin da Fenomenologia della percezione31. Certo, ciò che dell’inedito husserliano colpisce Merleau-Ponty, è il fatto che, al di là di ogni modello della natura come oggetto “cosmico” e correlato puro della coscienza, lo scritto indica nella Terra «uno strato naturale in cui lo spirito è come sepolto e nascosto nel funzionamento concordante dei corpi»32. 30

Ivi, p. 146; trad. it. p. 110. Cfr. l’elenco delle occorrenze del riferimento a Umsturz nel corpus merleau-pontiano proposto da G. D. Neri, «Terra e Cielo in un manoscritto husserliano del 1934», cit., pp. 4041. In proposito si veda anche: D. Calabrò, Dis-piegamenti, Milano, Mimesis, 2006, pp. 59-65. 32 M. Merleau-Ponty, «Le philosophe et son ombre» (1959) in: Id., Signes, Paris, Gallimard, 1960, p. 227; trad. it. 31

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L’arca originaria di Husserl 93

L’inedito è ai suoi occhi tra i tentativi fenomenologici che più chiaramente sembrano aprire la possibilità di parlare di “un nuovo livello dell’essere”, in grado di integrare l’esperienza dell’irradiarsi dal Leib di tutti i luoghi dello spazio. Ma non solo. Da questo ultimo Husserl – dal suo «impensato», dal suo essersi spinto «ai limiti della fenomenologia» – Merleau-Ponty prova a trarre anche la possibilità di leggere il riferimento al piano primordiale del corpo e delle sue esperienze, oltre che nei termini di un nitido potere appropriativo, costruttivo, anche in quelli di una vera e propria «passività originaria», nella quale l’intera economia dei rapporti tra “il didentro e il difuori” conoscerebbe una riconfigurazione tendenzialmente corrosiva dell’interpretazione del corpo come «organo dell’Ich kann, dell’Io posso»33. Nei corsi al Collège de France, dopo aver ricostruito (in più occasioni: sia nel 1956-57 che nel 1959-60) la lettera husserliana delle pagine sul “rovesciamento della dottrina copernicana”, Merleau-Ponty trova il modo di precisare l’intenzione teorica che anima la propria lettura. È innegabile, è vero: alcune dimensioni del “terrestre” non appaiono pensabili senza il riferimento al corpo vissuto e alla percezione. Ciò di cui però occorre essere consapevoli fino in fondo è che «il sentire non è il possesso intellettuale di “ciò che” è sentito, ma è spossessamento di noi stessi a suo vantaggio, apertura a ciò che non abbiamo bisogno di pensare per riconoscere […] L’inconscio primordiale sarebbe il lasciar-essere, il sì iniziale, l’indivisione del

Segni, a cura di A. Bonomi, Milano, il Saggiatore, 1967, p. 219. 33 Cfr. Id., La nature. Notes. Cours du Collège de France, texte établi et annoté par D. Seglard, Paris, Editions du Seuil, 1995, pp. 103-4 e 106; trad. it. La natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, a cura di M. Carbone, Milano, Cortina, 1996, pp. 105 e 110.

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sentire»34. Dove si può leggere la coscienza del fatto che affidare al corpo la ricostruzione del mondo, in quanto mondo provvisto di un centro e di una stabilità fondamentali, e perciò suscettibili di offrire all’uomo di che radicarsi, non può significare misconoscere che tale corpo può anche rivelarsi spossessato, dislocato, esposto – tutt’altro insomma che esclusivamente “appropriato” o appropriante. Detto altrimenti: la domanda che qui comincia ad affiorare è se il corpo e la Terra, nel loro rapporto, più e oltre che testimoniare in favore del Luogo, non rinviino essenzialmente a un non-localizzabile, a qualcosa di grezzo o selvaggio, a un livello d’esperienza eterogeneo al piano degli orizzonti già definiti, e tale da implicare la postulazione di una Urdoxa più estrema di quella individuata da Husserl. Un livello con cui non è affatto detto che il pensiero possa riuscire a tenersi in contatto, nella misura in cui si ponga anzitutto come procedura di riaddomesticazione o di relativizzazione dell’Unheimliche del decentramento, della fuoriuscita dal terrestre. In questa direzione, non è inopportuno vedere nella nozione merleau-pontiana di “carne viva”, di chair, non soltanto una filiazione dell’intenzione teorica husserliana inscritta nel concetto di Leib, ma qualcosa di già diverso, sia pure situato su una linea di continuità. Non per niente la “carne del mondo”, soprattutto nelle analisi dell’ultimo Merleau-Ponty, è definita come ciò che non può in alcun modo essere detto “proprietà” di qualcuno, e risulta intessuta da una permanente possibilità di alterazione, la quale implica che, più che disporne, la soggettività ne sia piuttosto in certo senso passivizzata e parassitata35. In controluce alla ripresa merleau34

Cfr. Id., Résumés des cours, cit., p. 179; trad. it. p. 129. La letteratura critica in proposito è molto ampia: qui si può rinviare, oltre che a D. Franck, Chair et corps, cit., in particolare i capp. VIII («Chair et nature propre») e X («L’altéra35

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L’arca originaria di Husserl 95

pontiana della critica di Husserl all’omogeneizzazione scientifica copernicana si può scorgere la consapevolezza teorica che, se da un lato si sostiene che il corpo fa sempre tutt’uno con la Terra – se si afferma che esso la porta con sé ovunque vada –, dall’altro occorre anche ammettere la possibilità di intendere la Terra e il mondo stessi come “carne” e, con ciò, l’urgenza di concepire l’esperienza del corpo in quanto “organo di cui si dispone” come un fatto già derivato, secondo, rispetto all’esperienza più fondamentale di un rovesciamento passivo della vita sensibile, dell’aprirsi della corporeità a una dimensione anonima, labirintica, continuamente carica di fratture, discontinuità, differenze36. Nell’attenzione merleau-pontiana a Umsturz è presente un viatico teorico di tutto rilievo per considerare altri momenti della discussione filosofica dell’avventura spaziale: l’idea che lo statuto dell’esperienza corporea in relazione alla Terra non sia integralmente riconducibile ai registri della stabilizzazione ricentratrice, della ricostituzione “classicista” del mondo, con ciò che esse tion du propre»), a: C. Lefort, Sur une colonne absente. Écrits autour de Merleu-Ponty, Paris, Gallimard, 1978; B. Sichère, Merleau-Ponty ou le corps de la philosophie, Paris, Grasset, 1982; R. Barbaras, De l’être du phenomène. Sur l’ontologie de Merleau-Ponty, Grenoble, Millon, 1991; E. Lisciani-Petrini, La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002. Per una presentazione sintetica della questione, cfr. M. Carbone, «Carne», aut-aut, n. 304, luglio-agosto 2001, pp. 99-119 e Id. «Attualità e non attualità del “Leib”», Leitmotiv, n. 3, 2003, pp. 81-92. 36 Cfr. Merleau-ponty, Le visible et l’invisible, texte établi par C. Lefort, Paris, Gallimard, 1964, p. 299; trad. it. Il visibile e l’invisibile, a cura di A. Carbone, Milano, Bompiani, 19942, p. 258: «Io, davvero, è nessuno, è l’anonimo […] L’Io primo è l’ignoto a cui tutto è dato a vedere o a pensare, a cui tutto fa appello, davanti a cui… c’è qualcosa […] Colui che pensa, percepisce, etc. è questa negatività come apertura, attraverso il corpo, al mondo».

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implicano in termini di accreditamento della distinzione tra un’«umanità già franata in se stessa» e un’umanità invece «ancora radicata su un terreno»37.

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E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaft und die transzendentale Phänomenologie, hrsg. von W. Biemel, in Husserliana. Gesammelte Werke, Bd. VI, Haag, Martinus Nijhoff, 1954, p. 13; trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1961, p. 44.

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Capitolo IV Lévinas, Blanchot: la verità nomade

1. Evasione eterologica «Domandate a un uomo che non sa nulla delle definizioni dei filosofi e delle discussioni di estetica, a un uomo comune, in piedi in un campo: “che cos’è lo spazio?” Passato il primo momento di stupore, farà un gesto. Nel rispondere “non so”, stenderà le braccia e respirerà più profondamente, lo sguardo fisso nel vuoto […] È il linguaggio più reale, il solo che enunci una situazione. È quello dell’uomo che si scopre in piedi nel mezzo del mondo e si stupisce di esserne il centro. Prende possesso dello spazio aprendosi allo spazio. Compie uno dei gesti più primitivi dell’essere al mondo; indica lo spazio non come una cosa davanti a lui, ma come un ambiente che lo avviluppa e lo penetra, nel quale è al mondo attraverso la motricità del suo corpo»1. Lo stile della ricerca fenomenologica di un’esperienza anteriore a ogni “omogeneizzazione” è immediatamente riconoscibile in queste righe di Henri Maldiney, dove la dimensione affettivo-motrice che, innervando il sentire, connoterebbe l’essere al mondo dell’uomo prima che le sue operazioni concettuali vengano a tacitarla, viene indicata chiamando in causa appunto una spazialità originaria, consustanziale all’aisthesis. Non si tratta eviden1 H. Maldiney, «Tal Coat 1954», in Id., Regard Parole Espace, Lausanne, L’Age d’homme, 1973 e 1994, p. 24.

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temente dello spazio geografico, misurabile e misurato, all’interno del quale è sempre possibile marcare coordinate e punti di riferimento, bensì dello spazio vissuto in quanto mondo “concavo” che già sempre avvolge l’uomo. Spazio, soprattutto, che costituisce l’orizzonte legato ogni volta alla presenza al mondo del Dasein in un particolare qui-ora: quello in cui, muovendoci di “qui” in “qui”, viviamo i mutamenti che i nostri spostamenti producono, senza rifarci ad alcuna prospettiva dall’alto, ad alcuna vista dominante. Tutto sommato, si può dire che sia questa l’esperienza dello spazio “tra Terra e Cielo” che si trova implicata nelle analisi di Heidegger circa la necessità, a fronte dell’evasione tecnologica dal pianeta, di un’apprensione del terrestre in termini di “misurazione diametrale”. Lo abbiamo appena osservato: la procedura husserliana di ricostruzione del mondo, assunta in termini ontologici, piuttosto che trascendentali, risulta in Heidegger sostanzialmente riproposta, pur con nuovi mezzi concettuali. È così che, di fronte alla illimitazione tecnologica, il terrestre può tornare ad essere pensato e vissuto come patria e suolo (con il consistente aiuto, lo si è visto, del linguaggio poetico “rammemorante” e dell’idea di una comunità nazionale o europea-occidentale). Ora, lo si è anticipato in apertura, è proprio questo l’esito che viene sottoposto a critica da Lévinas nel suo articolo sull’impresa di Gagarin, lì dove, sorprendentemente, del volo astronautico si afferma che permette di pensare la tecnica come una pratica emancipatoria, piuttosto che straniante e distruttiva, e comunque come qualcosa di gran lunga meno dubbio dei “geni del luogo” e dell’impegno in loro favore. Da cui l’invito levinassiano a guardarsi da qualsiasi Bodenständigkeit, radicamento in una terra nativa intesa come entità prelegale e pre-economica in cui ogni sagoma percepita può abbracciare l’alto-basso del “tra Terra e Cielo”.

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 99

A dire il vero, però, Lévinas non nega che nella requisitoria heideggeriana ci sia del giusto. Secondo un movimento assai frequente nelle sue analisi, la presa di distanza da Heidegger si accompagna a considerazioni attente, ponderate, in cui non è assente il riconoscimento della messa a fuoco di un intrico problematico essenziale. In effetti, le pagine di Lévinas sulla dislocazione umana circumterrestre non muovono affatto da una negazione dei rischi impliciti nei dispositivi della tecnica contemporanea – da un diniego della possibilità concreta che essa possa mettere a rischio di vita il pianeta, minacciare «l’identità delle persone» e fare dell’uomo né più e né meno che «un ingranaggio nell’immenso macchinario in cui girano cose ed esseri»2. Lévinas sa bene che quella tecnologica, così come è venuta a configurarsi nel ventesimo secolo, è un’«impresa che divora se stessa» e rende problematica la possibilità di evadere dal mero piano «dei calcoli, delle statistiche, delle pianificazioni», lì dove ognuno, prima ancora di essere un uomo, è anzitutto un «cliente»3. Quel che però gli sta a cuore, è sottolineare il carattere regressivo dei presupposti che animano la retorica filosofica del soggiornare, e ciò anche e soprattutto allo scopo dichiarato di verificare se la ricusazione dell’agire calcolante, da cui tale retorica prende origine, non rappresenti in effetti, piuttosto che un richiamo al ristabilimento di una supposta autenticità dell’uomo nel suo rapporto con ciò che lo circonda, una mossa sostanzialmente autoprotettiva di fronte alla capacità della tecnica di mettere in questione ogni «punto fisso», tutte le abitudini e i significati acquisiti4. 2 Cfr. É. Lévinas, «Heidegger, Gagarine et nous», cit., p. 299; trad. it. p. 289. 3 Cfr. ibidem. 4 Ibidem.

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Il presupposto della posizione levinassiana è noto: il rifiuto del “paganesimo” implicito nell’impianto concettuale di Heidegger, se per “paganesimo” si intende, come Lévinas afferma sin dai suoi primissimi scritti, «l’impossibilità radicale di uscire dal mondo», dunque non tanto il fatto di «negare spiriti e dei», bensì appunto il loro «situarli nel mondo» per fare di quest’ultimo il luogo stesso del sacro e promuovere l’obbligo di una fedeltà ad esso, costi quel che costi5. Chi conosce la perfomance filosofica di Lévinas, la sua ricerca – o il suo desiderio – di una eterologia fondamentale, non può essere sorpreso del fatto che egli ritenga che l’invito ad “abitare la terra” e a custodire il mistero sacro della natura possa in realtà essere considerato l’origine stessa di ogni brutalità compiuta nei confronti degli uomini. «L’impiantarsi in un paesaggio, l’attaccamento al Luogo, senza il quale l’universo diventerebbe insignificante e a stento esisterebbe, è la scissione stessa dell’umanità in autoctoni e stranieri […] La tecnica sopprime il privilegio del radicamento e l’esilio che vi si riferisce. Affranca da questa alternativa. Non si tratta di tornare al nomadismo, tanto incapace quanto l’esistenza sedentaria di uscire da un paesaggio e da un clima. La tecnica ci strappa dal mondo heideggeriano e dalle superstizioni del Luogo. Appare allora una possibilità: percepire gli 5 Cfr. É. Lévinas, «Actualité de Maïmonide», in Paix et droit, n. 4, avril 1935, poi in Cahier de l’Herne. Emmanuel Lévinas, dirigé par C. Chalier et M. Abensour, Paris, Éditions de l’Herne, 1991, p. 143. Si vedano inoltre: Id., «Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlerisme», Esprit, n. 26, novembre 1934, poi in Cahier de l’Herne. Emmanuel Lévinas, cit., pp. 113-121; trad. it. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, introduzione di G. Agamben, con un saggio di M. Abensour, Macerata, Quodlibet, 1996; Id., De l’evasion (1935), introduit et annoté par J. Rolland, Montpellier, Fata Morgana, 1982; trad. it. Dell’evasione, a cura di D. Ceccon e. G. Franck, Reggio Emilia, Elitropia, 1983.

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uomini fuori della situazione in cui sono impiantati, lasciare che il volto umano brilli nella sua nudità»6. È questa la considerazione che, in riferimento all’impresa del primo volo astronautico, permette a Lévinas di scrivere le frasi da cui siamo partiti per introdurre la posizione heideggeriana – frasi che converrà tenere di nuovo davanti agli occhi. «Ciò che forse conta soprattutto [nell’impresa di Gagarin], è il fatto di aver abbandonato il Luogo. Per un’ora, un uomo è esistito al di fuori di ogni orizzonte – tutto era cielo attorno a lui, o, più esattamente, tutto era spazio geometrico. Un uomo esisteva nell’assoluto dello spazio omogeneo»7. La logica sottesa a questo rifiuto del tema del radicamento e al successivo richiamo alla paradossale situazione di un uomo tecnologico privo dell’horízein (della delimitazione-determinazione, anche percettiva) di qualsiasi orizzonte, muove dall’opzione teorica, per più di un senso fondativa dell’“umanesimo dell’altro uomo”, di leggere nelle pieghe della ontologia heideggeriana il riproporsi di quella che per Lévinas è l’intenzione di fondo di quasi tutte le dottrine filosofiche dell’occidente: la tensione, sospensiva di qualsiasi etica, all’esclusione o relativizzazione dell’alterità dell’altro attraverso la sua riconduzione al piano dell’identità. Una tensione espressa appunto dall’enorme incidenza della struttura concettuale, retorica e narrativa del “ritorno in patria”, della riappropriazione della casa, del ritrovamento del luogo: di un’“odissea nello spazio” che non è mai altro che un rientro all’origine. Tutte immagini, queste, della coazione della ragione e del soggetto coscienziale a recintarsi senza remissione nel punto sicuro, supposto primitivo, della coincidenza con se stessi, al di qua di qualsiasi effettivo incontro con 6

Id., «Heidegger, Gagarine et nous», cit., p. 301; trad. it. p. 291. 7 Ivi, p. 302; trad. it. p. 291.

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ciò che è loro estraneo8. L’appello a lasciar apparire il “volto umano nella sua nudità” – dimensione effettivamente eccedente quella presupposta dalla corporeità fenomenologica, e diversamente “passiva” e “passivizzante” anche rispetto alla chair merleau-pontyana9– intende segnalare appunto la necessità dell’emergenza del primum della responsabilità della relazione con altri, in quanto effettiva possibilità di distacco dalla chiusura nella legislazione dell’identità, dell’essenza e del radicamento. Così, qui come altrove, Lévinas non sembra aver dubbi: l’ontologia heideggeriana continua, malgrado tutto, «ad esaltare la volontà di potenza»10. Nel suo de8

Una sobria ricapitolazione di questi temi è stata offerta da A. Dal Lago, «Dal luogo al deserto. Lévinas, la nudità, l’erranza», aut-aut, n. 209-210, settembre-dicembre 1985, pp. 79-97. Utile in proposito, anche per un confronto con l’idea husserliana di “terra”, è J. Llewelyn, Emmanuel Lévinas, London, Routledge, 1995, particolarmente pp. 89-90. Si veda inoltre: F. Makowski, «Lévinas, Heidegger, Platon (et le spoutnik): où est l’exteriorité?», in Les cahiers philosophiques de Strasbourg, tome 6, 1997, pp. 177-199. 9 Sul punto si veda É. Lévinas, Hors sujet, Paris, Fata Morgana, 1987, pp. 131-140; trad. it. Fuori dal soggetto, a cura di F. P. Ciglia, Genova, Marietti, 1992, pp. 112-119. Sul tema della corporeità in Lévinas un’utile base di partenza resta F. P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Lévinas, Padova, Cedam, 1988, passim. In generale, nel suo pensiero il corpo si trova inscritto nel registro dell’espropriazione, dell’“esposizione” e, con temi come quelli del “bisogno”, del “desiderio”, della “vulnerabilità” (oltre che della “vergogna”, della “malattia”, ecc.), risulta discusso come testimonianza decisiva dell’“altro in me”. 10 É. Lévinas, «La philosophie et l’idée d’infini», Revue de Métaphysique et de morale, Paris, Colin, n. 3, 1957, poi in Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, réimpression conforme à la première édition suivie d’essais nouveaux, Paris, Libraire philosophique Vrin, 1967, p. 170; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano, Raffaello Cortina, 1998, p. 195.

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plorare la realtà della tecnica, essa «conserva un regime di potenza più inumano del macchinismo» e intende lasciar emergere «un’esistenza che coglie se stessa come naturale, per la quale il suo posto al sole, il suo suolo, il suo luogo, orientano ogni significazione»11. Un esistere legato dunque al presupposto della «maternità della terra» – presupposto di cui Lévinas non esita a dire che «determina tutta la civilizzazione occidentale di proprietà, di sfruttamento, di tirannia politica e di guerra»12. Presa in controluce, la considerazione heideggeriana dello spazio terrestre in quanto luogo di orientamento tra “su” e “giù”, “misurazione diametrale” all’interno di un paesaggio regionale, si rivela portatrice di una sorta di incantesimo filosofico, foriero di violenza ed esclusione. È utile allora interrogare più a fondo questo accompagnarsi della tematizzazione della realtà della navigazione spaziale all’invito a un oltrepassamento del risiedere terrestre. Con Lévinas, la circostanza dell’attraversamento delle “barriere” tra Terra e Cielo sembra implicare l’emergere di un’alternativa radicale, che potrebbe essere formulata nel modo seguente. I viaggi spaziali ci mettono in presenza del definitivo dominio del gesto tecnologico di violazione della natura, sulla base della sua riduzione all’ambito di ciò che è calcolabile e utilizzabile, oppure non ci propongono anche una revoca della coazione ad istituirla ad oggetto di possesso, nello stesso momento in cui alludono a qualcosa come una “de-penetrazione” della Terra, a un suo configurarla altrimenti che come luogo dell’insinuarsi delle 11 Ibidem, il corsivo è nel testo. È bene ricordare che Altrimenti che essere porterà in epigrafe la frase pascaliana: «“È qui il mio posto al sole”. Ecco l’inizio e l’immagine dell’usurpazione di tutta la terra», cfr. Id., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye, Martinus Nijhoff Publishers, 1978, p. VI; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, introduzione di S. Petrosino, Milano, Jaca Book, 1983, p. VII. 12 Ibidem.

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fondamenta dell’abitare, del conficcarsi dei paletti che marcano confini e orizzonti particolari? È significativo che circa dieci anni dopo l’articolo su Gagarin, Lévinas, nel discutere la questione della «rottura dell’immanenza», si sia chiesto, più problematicamente, e di nuovo in riferimento all’«avventura sovrumana degli astronauti», da un lato se essa sia stata poi davvero tale da segnalare un reale superamento della «linea ideale […] che segna il limite del medesimo»; dall’altro se, in quell’occasione, tecnica e scienza non abbiano di fatto «prodotto l’al di là dell’essere svelando il tutto dell’essere»13. Se insomma l’esperienza astronautica – certo però a intenderla in qualche modo «come una parabola» – non sia stata tale da poter aspirare a collocarsi «al di là di tutte le forme di sapere che l’hanno permessa»14. Non sembra si tratti qui solo di una questione di angolazioni prospettiche o di punti di vista. Nella logica dell’argomentazione di Lévinas è visibile un tentativo di distinguere due diverse “anime” della tecnica. Chiedersi se i razzi spinti al di là dell’atmosfera terrestre siano i missili, potenti e ciechi, agenti di una congiunzione di Terra e Cielo che avrebbe dello stupro, o se essi non possano anche portare con sé il senso di una dépense del terrestre come zona e orizzonte di padronanza – chiedersi questo, significa in fin dei conti riflettere non solo intorno alla possibilità di una relazione allo spazio tale da non implicare la sua definitiva costituzione in regione appropriata o appropriabile15, ma anche sulla presenza, nell’agire tecnico, 13

Cfr. É. Lévinas, «Idéologie et idealisme», in Aa. Vv., Démythisation et idéologie, Paris, Aubier, 1973, poi in Id., De Dieu qui vient à l’idée, Paris, Vrin, 1982, p. 14; trad. it. Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, con una conversazione inedita con É. Lévinas, Milano, Jaca Book, 1986, p. 22. 14 Ibidem. 15 In proposito è bene almeno rinviare al modo in cui, a conclusione del suo itinerario teorico, Lévinas parla del “senso dello spazio” in generale: «Ma il senso dello spazio si

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di possibilità assai diverse da quelle puramente e semplicemente deteriori per la natura o per la vita. In questo senso, è bene ribadirlo, lo sguardo critico che Lévinas rivolge alla teoria del Bauen non è frutto di una volontà di disconoscimento di quanto della tecnica costituisce elemento di rischioso dominio della natura o di riduzione di esseri e cose a oggetto di sfruttamento calcolato. La polemica, piuttosto, è retta dalla consapevolezza di come la ricusazione di tale violenza, se enunciata in nome di un “restare presso” le cose che «non trasvola oltre la Terra né va al di là di essa per abbandonarla e librarvisi al di sopra»16, sia di fatto, nella sua logica, connivente con ciò verso cui si dirige, nella misura in cui, richiamandosi a un possesso e a un’appropriazione del luogo, non mette affatto in causa, bensì legittima e tramanda quello che in realtà è l’antefatto che regge il comportamento di dominio e assoggettamento della materia naturale. Un passaggio di Totalità e Infinito, pubblicato nello stesso anno dell’articolo sull’esperienza umana di viaggio spaziale, mette sulla strada giusta per inquadrare il problema. «Il possesso è la forma per eccellenza nella quale l’Altro diventa il Medesimo diventando mio. Denunciando la sovranità dei poteri tecnici dell’uomo, Heidegger esalta i poteri pre-tecnici del possesso. Le sue analisi non partono certo dalla cosa-oggetto, ma portano il segno dei grandi paesaggi cui le cose si riesaurisce in trasparenza e in ontologia? È unito all’Essenza e all’apparire? […] L’apertura dello spazio significa il di fuori in cui niente copre niente, la non-protezione, il rovescio della piega, il senza domicilio, il non-mondo, la non-abitazione, la ripartizione senza sicurezza. Significazioni non solo privative: esse significano la fine – o l’al di qua – dei neri disegni dell’interiorità, la demitizzazione dei miti […]», cfr. Id., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit., p. 226; trad. it. p. 222. 16 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, cit., p. 196; trad. it. p. 128 (cfr. infra, p. 18).

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feriscono. L’ontologia diventa ontologia della natura, fecondità impersonale, madre generosa senza volto, matrice degli esseri particolari, materia inesauribile delle cose»17. Invitare all’elaborazione di un pensiero e di un linguaggio capaci di situarsi oltre la tecnica e di limitarla “rammemorando” la natura in quanto essere, significa così non solo precludersi a priori la possibilità di scorgere gli eventuali aspetti “emancipatorî” delle tecnoscienze contemporanee, ma anche non essere in grado di erodere ciò che, prima di esse, può continuare a ferire: la tensione alla chiusura nel possesso locale, la coazione alla sedentarietà, appunto, promosse anzi a nuova dignità. Le modalità heideggeriane della critica dell’agire tecnico e della celebrazione della dimensione dell’abitare costituiscono per Lévinas il sintomo di una volontà filosofica di legarsi alle «pesantezze notturne», che impediscono alla «sostanza umana» di alleggerirsi dall’isolamento che si produce nelle relazioni di possesso18. Relazioni che si esauriscono nell’“egoismo” 17 É. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité (1961), Martinus Nijhoff, La Haye, 19744, p. 17; trad. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, con un testo introduttivo di S. Petrosino, Jaca Book, Milano, 1980, p. 44. 18 Cfr. Id., «Heidegger, Gagarine et nous», cit., p. 300; trad. it. p. 290: «lo sviluppo della tecnica non è la causa, ma è già l’effetto dell’alleggerimento della sostanza umana che si svuota delle sue pesantezze notturne». È sintomatico che, in Totalità e infinito, la teoria heideggeriana del Bauen, oltre ad essere attaccata frontalmente, sia anche, per così dire, sovvertita dall’interno. Ecco un esempio: nella sezione seconda, su «Interiorità ed economia», la dimora, la casa, piuttosto che come figure della stabilità radicata, sono proposte come spazi strutturalmente “utopici”, come luoghi di una erranza decisiva, situati al di fuori dell’immersione nell’“elemento” in quanto metonimia dell’il y a. «La casa non radica l’essere separato in un terreno per lasciarlo in una comunicazione vegetale con gli elementi. Essa si pone in disparte rispetto all’anonimato della terra, dell’aria, della luce, della foresta, della strada, del mare, del fiume. Essa ha dei “beni al sole”, ma

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fondamentale che sospende la relazione ad autrui e impedisce l’esperienza della sua trascendenza. Detto altrimenti, Lévinas ritiene che la tecnica, almeno nella misura in cui resta legata al lavoro e fronteggia la forza anonima ed “elementale” del luogo naturale, non possa essere definita come un abuso o una violazione, se è vero che può applicarsi a ciò che resta sempre senza volto. Essa «si batte soltanto contro l’assenza di volto degli dei pagani di cui ormai denuncia il niente»19. Con tutto questo, però, ancora una volta risulta che su un punto quanto mai decisivo Heidegger non avrebbe avuto poi torto: nel designare come “in alto grado ambiguo” ciò di fronte a cui la tecnica pone20. Con la precisazione, tuttavia, che equivoca non è tanto l’“essenza” della tecnica – essenza che, obliata, ci perdeanche il suo segreto. Partendo dalla dimora, l’essere separato rompe il legame con l’esistenza naturale […] La funzione originaria della casa non consiste nell’orientare l’essere con l’architettura di un edificio e nello scoprire un luogo, ma nel rompere la totalità dell’elemento, nell’aprirvi lo spazio per l’utopia in cui l’“io” si raccoglie dimorando a casa sua». Rovesciando la retorica heideggeriana dell’abitare in quanto impiantarsi in un paesaggio, in una regione “elementarmente” collocata tra Cielo e Terra, Lévinas attribuisce un carattere definitivo allo «sradicamento di chi si è raccolto in una casa» e scrive che «la casa scelta è tutto il contrario di una radice. Essa indica un disimpegno, un’erranza che l’ha resa possibile». È questa, evidentemente, la persuasione teorica che permette poi di pensare la casa in termini di apertura, superamento dell’interiorità e “ospitalità”: «la possibilità per la casa di aprirsi ad altri è essenziale all’essenza della casa al pari delle porte e delle finestre chiuse» (cfr. É. Lévinas, Totalité et infini, cit., pp. 129-130 e 144-148; trad. it. pp. 159 e 173-175). 19 Id., Totalité et infini, cit., p. 134; trad. it. p. 163: «Il lavoro non può, in fin dei conti, essere definito come una violenza. Si applica a ciò che non ha volto, alla resistenza del niente (…) Prometeo che ruba il fuoco dal cielo simboleggia il lavoro operoso nella sua empietà». 20 Cfr. infra, cap. II, nota 36.

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rebbe allontandoci dal Luogo, e, “rammemorata” (ovvero: pensata autenticamente), ci salverebbe risvegliandoci all’oblio in quanto oblio dell’essere e riportandoci così sulla Terra. Strutturalmente ancipite, acutamente ambigua, la tecnica lo è nella sua stessa azione, nel corso stesso del suo concreto dispiegarsi. Un corso che Lévinas considera capace di aprire la possibilità di una sospensione del presupposto del possesso, ovvero di ritagliare i tratti di un uomo senza orizzonte, in grado di situarsi al di fuori di ogni regno locale, lì dove la sacralizzazione della natura non riesce a nascondere le tracce di una tensione più che spasmodica alla sua appropriazione unitaria. In questo senso, è eloquente il fatto che, nella chiusa delle pagine intitolate a Gagarin, alla astrattezza della tecnica, testimoniata dal raggiungimento dello spazio “geometrico”, “omogeneo” da parte di un uomo, Lévinas ritenga di poter affiancare idealmente l’«universalità astratta» dell’esperienza storica dell’ebraismo, in quanto promotrice di una demistificazione fondamentale del cosmo naturale, di una erosione del sacro e di una revoca di tutte le tradizioni, di tutti i «paesaggi e i ricordi familiari, tribali, nazionali»21. 21

Cfr. É. Lévinas, «Heidegger, Gagarine et nous», cit., pp. 302-303; trad. it. pp. 291-292: «Il giudaismo non ha sublimato gli idoli, ne ha preteso la distruzione: come la tecnica, ha demistificato l’universo. Esso ha tolto l’incantesimo alla Natura. Con la sua universalità astratta urta immaginazioni e passioni: ma ha scoperto l’uomo nella nudità del suo volto». E Lévinas coglie qui l’occasione per ricordare che, nella Bibbia, quella Santa è una Terra «in cui non è possibile radicarsi senza condizioni». Inoltre le descrizioni bibliche della natura, estremamente misurate, sono articolate, significativamente, «in termini alimentari», in termini di «cose necessarie all’uomo e che l’uomo offre all’uomo» (ad esempio, il “paese in cui scorrono il latte e il miele”). Come dire che, nella prospettiva anti-allergica levinassiana, l’evasione dalla sintassi dell’“abitare” permetterebbe d’immaginare una terra

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Se accogliamo la proposta di Lévinas di intendere la navigazione spaziale nei termini di un movimento sottrattivo del primato delle radici, c’è però da chiedersi da quale effettiva situazione fondamentale, da quale richiamo decisivo nasca l’esigenza di un tale movimento, e in che senso specifico una revoca del risiedere terrestre – compresa quella forma paradossale del risiedere che è il nomadismo – possa essere avvertita come latrice di una emancipazione22. Ci si può insomma domandare da quale prigionia o costrizione tale revoca ci liberediversa da quella identitaria heideggeriana: una terra ignota e dell’ignoto, di cui si è possessori anzitutto per offrirne e riceverne in dono i prodotti. 22 Sul carattere della figura del nomade Lévinas non sembra avere dubbi. Abbiamo già letto, nell’articolo del 1961, che a suo avviso il nomadismo è «incapace quanto l’esistenza sedentaria di uscire da un paesaggio e da un clima». È per questo forse che, in un’intervista rilasciata a R. Fernet e A. Gomez nell’ottobre 1982 («Philosophie, justice et amour»), poi raccolta in Entre nous. Essais sur le penser-à l’autre (Paris, Éditions Grasset et Fasquelle, 1991, p. 136), Lévinas, di nuovo attaccando la teoria heideggeriana della Terra, sembra preferire i termini “emigrante” e “migratore”. Quella di Heidegger, dichiara, «non è proprio una filosofia di emigrato! Direi anche che non è una filosofia da emigrante. – Per me essere migratore non è essere nomade. Non c’è nessuno che sia più radicato di un nomade» (trad. it. Tra noi. Saggi sul pensareall’altro, a cura e con un’introduzione di E. Baccarini, Milano, Jaca Book, 1998, p. 152). Lévinas non chiarisce ulteriormente la distinzione, ma si può pensare che la differenza tra nomade ed emigrato abbia a che vedere con la distanza che separa colui che è ovunque a casa propria, perché può radicarsi indifferentemente nell’orizzonte di qualsiasi luogo, da colui che invece, venendo da un “proprio” luogo e andando a risiedere in un altro, finisce con il trovarsi nello spazio di una radicale, pervasiva estraneità a qualsiasi luogo, anche e soprattutto a quello d’origine. Sul nomade e il nomadismo, in una diversa direzione teorica e assiologica, si veda il «Trattato di nomadologia» compreso in G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, cit.; trad. it. pp. 517-624.

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rebbe: quali siano i tratti caratteristici dello spazio, non solo geografico e storico, ma anche culturale e affettivo, in cui gli uomini si trovano rinchiusi, nella misura in cui, misconoscendo uno dei versanti della tecnica, la rubricano integralmente nel registro della profanazione dell’armonia del cosmo.

2. Una voce dallo spazio Estendendo la riflessione levinassiana, ma anche agitandone la tendenza a tradursi in retorica della differenza, Maurice Blanchot ha riproposto, in un breve scritto, il tema della dislocazione spaziale e del possibile senso dell’avventura astronautica. Circa tre anni dopo le pagine polemiche di Lévinas contro gli adoratori degli idola loci, egli annota infatti: «È rimasto sconfitto da Gagarin l’uomo che in noi è eternamente sedotto dal paganesimo, che ha come suprema aspirazione di abitare la terra e che la terra ha, che sa appropriarsi e aggrapparsi, incrostrato per sempre dove si trova, nella propria tradizione, nella propria verità, nella propria storia, e non vuole che si attenti alle sedi sacre del bel paesaggio e del grande passato; il melanconico che si consola della malvagità degli uomini frequentando gli alberi. Gagarin ci ha, per un momento, affrancati da un tale uomo e alleviati della sua suppellettile millenaria (così ben rappresentata da Ionesco nel Locataire)»23. I termini del 23

M. Blanchot, «La conquista dello spazio», il menabò, fascicolo 7, 1964, poi in Id., Nostra compagna clandestina. Scritti politici (1958-1993), a cura di C. Colangelo, Napoli, Cronopio, 2004, p. 78. L’originale francese del manoscritto di questo articolo, trasmesso da Blanchot direttamente al traduttore italiano, Guido Neri, è stato recentemente rinvenuto da Eric Hoppenot: cfr. Id., «La conquête de l’espace», in Id., Écrits politiques 1953-1993, textes choisis, établis et annotés, Paris, Gallimard, 2008, p. 125. Vale la pena di segnalare che una

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discorso non cambiano; si possono rintracciare senza difficoltà tanto la messa in causa della teoria del soggiornare, quanto l’idea di un “affrancamento” e di un “alleviarsi” da un peso. In questa pagina è però possibile scorgere anche qualcos’altro. Non solo un’allusione, su cui sarà bene tornare, a un’attitudine di fedeltà ostinata alla «propria verità» (congiuntamente alla propria «tradizione» e alla propria «storia») in quanto cifra o tratto di riconoscibilità del comportamento “radicato” che l’uomo senza orizzonte riuscirebbe per un istante a sospendere, ma anche un riferimento alla melanconia campestre e alle amicizie vegetali che, sotto la sua egida, l’“abitante” è pronto a coltivare. Blanchot suggerisce in effetti che l’uomo che avverte nella tecnica un’insidia per la propria relazione di possesso del mondo, altri non è che «ciascuno di noi, nei momenti in cui cede alla pesantezza»24, a quella gravità che, nelle vesti di mélaina cholè, di acedia o di Schwermut, è regolarmente indicata da una tradizione intellettuale che comincia almeno da Aristotele come riscrittura in francese a partire dal testo italiano (sul modello della versione francese di «Il nome Berlino», autorizzata da Blanchot e pubblicata nel 1983 da Merve Verlag a Berlino, a cura di Jean-Luc Nancy e Hélène Jelen Nancy) è stata compiuta, dietro incoraggiamento di Monique Antelme, da Emmanuel Aloa e resta attualmente consultabile presso il sito web: http://www.atopia.tk. Il titolo esatto dell’opera di Ionesco citata da Blanchot è Le nouveau locataire (1955). Attraverso i paradigmi drammatici dell’ “accelerazione” e della “proliferazione” precipui della poetica dell’autore, vi è rappresentato un uomo che fa della propria casa in affitto una sorta di rifugio, murandosi dietro una catasta di mobili di ogni specie, che continuano a moltiplicarsi fino a invadere e paralizzare l’intera città. Cfr. E. Ionesco, Il nuovo inquilino, in Id., Teatro completo I, edizione presentata, stabilita e annotata da E. Jacquart, Torino, Einaudi-Gallimard, 1993, pp. 349-377 e 821-830 per il commento e le note. 24 Ivi, p. 125; trad. it. p. 77.

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elemento di qualificazione emotiva del pensiero nella sua indagine sulla totalità del reale. A ben vedere, Blanchot sembra qui sottintendere che il triste assiduo della compagnia degli alberi ama il regno vegetale anzitutto perché ritiene che esso non sia poi così differente o lontano da ciò che lui stesso ha la certezza di essere o dover essere. Distoltosi con sdegno dall’altro uomo, dagli uomini “spaesati”, tecnologicamente sradicati e malvagiamente infedeli alla verità della Terra, egli si volge a esseri che, vivendo grazie alle proprie radici, e grazie ad esse aderendo sempre al medesimo suolo, non fanno che rimandargli la sua immagine di sé come saldo possessore e guardiano del Luogo. Saremmo qui in presenza di una “scelta oggettuale” non priva di una sua singolare carica narcisistica. Non solo. Seguendo la logica dell’accenno blanchotiano, siamo anche autorizzati a pensare che per chi sceglie di eleggere gli alberi a propri compagni privilegiati, essi hanno anche il potere di farsi rappresentanti di qualcosa di sfuggente, d’inafferrabile, il cui raggiungimento è però da perseguire con ostinazione: il tutto unitario della Terra stessa, l’intero globale della cosa materna, Luogo dei luoghi a partire dal quale ogni oggetto particolare si staccherebbe nel suo situarsi sotto il cielo ordinato delle stelle. L’affetto melanconico – Freud lo ha suggerito in continuità con molti aspetti della moderna riflessione sul tema – è ciò che segna la relazione del soggetto a una “cosa” totale non presentabile, ribelle alle capacità di significazione, e perciò polo, insieme, di attrazione (egli vi vede l’unica “cosa” in cui può e deve soddisfarsi) e di repulsione (il fatto che, per quanti sforzi faccia, la “cosa” rimanga inattingibile o comunque non saturabile, finisce col gettare un’ombra sinistra su di essa)25. 25 Cfr. S. Freud, «Trauer und Melancholie», Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse, vol. 4 (6), 1917, pp. 288-

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Relazione estremamente difficile, che, generando un particolare tipo di rinvio a se stessi, produce una sorta di sconsolato taglio con l’esteriorità, qualcosa come un’affranta auto-prigionia. A un prezzo assai alto – quello dell’allucinato obbligo alla custodia interiore del darsi/sottrarsi di un “oggetto” investito del carattere della totalità – l’attitudine “atrabiliare” costituisce così, come pure è stato detto, ciò che permette di continuare a contare su «un’appropriazione in una situazione in cui nessun possesso è in realtà possibile»26. È rispetto a questa strategia melanconica – esito estremo della pulsione all’appropriazione del luogo – che, per Blanchot, l’avventura astronautica e l’esperienza di “de-locazione” di cui è portatrice si propongono come emblema di un’alternativa. Il volo di Gagarin viene letto come segno dell’esigenza di far fronte a un’estraneità accessibile, ma in alcun modo padroneggiabile, considerando lo spazio dell’umano come strutturalmente in rapporto, più che con un qualche territorio di cui volta per volta ci si potrebbe dichiarare possessori legittimi, con il campo paradossale di 301; trad. it. «Lutto e melanconia», in Opere 1915-1917 (vol. VIII), Torino, Boringhieri, 1976, pp. 102-118. 26 Cfr. G. Agamben, Stanze, Torino, Einaudi, 1977, p. 25, dove però tale strategia melanconica è promossa e legittimata, piuttosto che letta nella sua natura sintomale. In Totalità e infinito anche Lévinas aveva alluso all’affettività melanconica in relazione alla questione del luogo: «Il movimento di trascendenza si distingue dalla negatività con la quale l’uomo scontento rifiuta la condizione in cui è installato. La negatività presuppone un essere installato, posto in un luogo in cui è a casa propria […] Il medico che non è riuscito in una carriera di ingegnere, il povero che vorrebbe la ricchezza, il malato che soffre, il melanconico che si annoia per nulla si oppongono alla loro condizione pur rimanendo legati ai suoi orizzonti. L’“altrimenti” e l’“altrove” che essi vogliono riguardano ancora il qui che rifiutano». Cfr. É. Lévinas, Totalité et infini, cit., p. 11; trad. it. p. 39.

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una finitezza illimitata, non appropriabile e non circoscrivibile, refrattaria cioè a qualsiasi sforzo di ricondurla a elemento qualificante di un luogo identitario definito27. Qui comincia cioè a emergere la questione relativa a ciò che più tardi Blanchot designerà facendo leva sull’etimologia della parola “disastro”. Dis-astro: «ritrarsi al di fuori del rifugio siderale e rifiuto di una natura sacra»28, interruzione della tentazione, ancora presente ben al di là della modernità, di continuare a pensarsi come appartenenti a un universo inteso come quadro ordinato e gerarchicamente organizzato. La parola “dis-astro” segna in questo senso la necessità della presa d’atto dell’irrevocabilità, per l’uomo, di un’erranza indefinita al di là di qualsiasi tensione all’unità-totalità localizzata. Essa allude, cioè, all’urgenza di una revoca della rappresentazione di un kósmos in quanto ordinamento latore di rassicurazione e suscettibile di possesso, alveo “naturale” con cui identificarsi e da cui trarre norme per un agire soggettivo marcato, sì, dal segno della finitezza, ma al contempo garantito metafisicamente, così da permettere a tale finitezza di chiudersi su stessa, facendosi fortissima dei suoi stessi limiti e rendendosi in fondo impermeabile a qualsiasi estraneità. Tale esigenza “metasiderale” non sembra restare confinata, in Blanchot, a una funzione meramente critico-negativa. In un’altra pagina di La scrittura del disastro si legge infatti che essa in realtà può portare ad aspettarci «molto dal mondo, qualora riuscissimo a svicolarlo dall’idea di ordine, di sistemazione, su cui

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Tra i tanti luoghi richiamabili in proposito, cfr. M. Blanchot, L’Entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, pp. 369-370; trad. it. L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, pp. 334-335. 28 M. Blanchot, L’écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980, p. 202; trad. it. La scrittura del disastro, a cura di F. Sossi, Milano, SE, 1990, p. 152.

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vigilerebbe sempre la legge»29. Scindere l’idea di “mondo” da quella di gerarchia delle sfere, di possibile luogo di applicazione della nozione di “patria” o anche di puro e semplice referente di rappresentazioni coscienziali stabilizzate e di presupposizioni naturalistiche, può aprire un “mondo” nuovo, inedito. Il campo dischiuso dal disastro è lo spazio plurimo, indefinitamente scandibile, dell’apparizione dell’immediato degli esseri nella loro molteplice consistenza sensibile. In altri termini, lo spazio del rapporto con la presenza dileguante degli esseri limitati, una volta che essi, non più ridotti ai loro concetti, e nemmeno più riportati alle sole misure del corpo proprio, sono sentiti nella contingenza del loro passare “immediato”, nella vividezza del loro senso singolarmente differenziato30. Il senso che acquistano per chi, avendone percepito l’alterità, trovandosi implicato nella loro esistenza, scoprendoli implicati nella propria, non può che disfarsi e rifarsi in e con essi, in movimento verso nuove modalità di vivere la propria relazione con la pluralità di ciò che lo circonda – modalità non mediate da alcuna tensione appropriante, nemmeno quella di cui la filosofia ha accreditato il corpo inteso come Leib 31. 29

Cfr. ivi, p. 121; trad. it. p. 93. Sul tema dell’immediato e del suo rapporto con l’“altro”, l’“alterazione”, l’estraneità, cfr. M. Blanchot, L’Entretien infini, cit., pp. 47-57; trad. it. pp. 45-55. 31 Sulla critica blanchotiana del corpo proprio – critica inscritta peraltro nello stesso tema generale della “doppia morte” (della depertinentizzazione dell’opposizione viveremorire), e dunque di fatto coestensiva all’intero percorso teorico di Blanchot – ci si riporterà alla discussione sulla “fatigue” e il “malheur” in L’Entretien infini, cit., passim. In proposito, nella sua concisione, va segnalata questa notazione di L’écriture du désastre, cit., p. 77, trad. it. p. 61: «La parola “corpo”, il suo pericolo, con quanta facilità dà l’illusione di tenersi già al di fuori dal senso, senza contaminazione con coscienza e incoscienza. Ritorno insidioso del naturale, della 30

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Così, l’imprevisto dell’agire tecnicamente orientato, il proprio del rovescio della tecnica come si dà a vedere nella circostanza del volo astronautico letta da Blanchot a partire dalle considerazioni levinassiane, non è solo di contestare la validità della rappresentazione di una natura ordinata, sospendendo la possibilità di considerarla come materiale di un puro e semplice catalogo ragionato dei possedimenti umani o come polo fisso di un’idealizzazione che la rende luogo ontologico di residenza melanconicamente appropriabile. Con l’agire tecnicamente orientato si fa anche strada, al posto della sublimità del quaggiù-lassù di Terra e Cielo, l’idea di un’esteriorità dello spazio in quanto «pura e semplice realtà di un (quasi) vuoto misurabile»32 e privo di direzioni prestabilite: qualcosa di infinitamente meno rassicurante, se si vuole, ma anche di allusivo a un’eccedenza dall’economia ristretta dei significati preordinati, verso la realtà di presenze già sempre intimamente pervase da tale esteriorità e da tale vuoto. Comprendiamo allora perché Blanchot senta il bisogno di precisare che, con l’agire tecnico di cui il volo spaziale è cifra, l’«utopia dell’infanzia (se è vero che l’uomo-bambino in ciascuno di noi ricerca il ritorno al luogo)» si trova ad esser scavalcata non da una realtà già data, ma da una diversa utopia, a carattere critico

Natura. Il corpo è senza appartenenza, mortale immortale, irreale, immaginario, frammentario». Sull’idea di un corpo passivo o anonimo, senza soggetto, di un corpo «che non appartiene a nessuno», «di cui nessuno può essere proprietario o dire: io, il mio corpo», cfr. anche ivi, pp. 44-53; trad. it. pp. 41-44. Spunti interessanti sulla questione complessiva della eccedenza della Leiblichkeit in Blanchot si trovano da ultimo in J.-L. Lannoy, Langage, perception, mouvement. Blanchot et Merleau-Ponty, Grenoble, Jérôme Millon, 2008. 32 M. Blanchot, «La conquista dello spazio», cit., p. 125; trad. it. p. 77.

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 117

e, certo, provvisorio33. L’impresa di Gagarin, infatti, più che aver già «fisicamente modificato in modo decisivo il rapporto col Fuori», rappresenta il momento in cui diventa possibile ammettere che «la superstizione del luogo non può essere estirpata in noi se non attraverso un momentaneo abbandono a qualche utopia del non luogo»34. Come dire che, se non si vuole correre il rischio di un ritorno strisciante del radicamento, o dell’imporsi di una nuova coazione al possesso, è bene intendere il richiamo dell’esteriorità più nel senso di un’esigenza, che come il canto delle sirene della costituzione di un mondo ulteriore, confusivo e irrelatamente differente. Esigenza di rinominazione del mondo come mondo “non cosmico”, “pluriverso”, intessuto di rapporti con esseri che, più che richiedere un annullamento della distanza che ci separa da essi, domandano una franca considerazione della loro capacità di mettere in crisi il soggetto coscienziale e far apparire nuove forme di soggettività, più responsabilmente esposte alla propria e all’altrui contingenza. Così, al di là della definizione “nostalgica” dell’uomo come infante che, fedele alla legislazione centrata sul presupposto patrio, sarebbe in cerca del proprio sito nella cosa terrestre già sempre sua, la tecnica “disastrosa” porta a visibilità una diversa consistenza neonatale dell’umano: quella che, sorprendendolo sulla soglia «di una formulazione dei problemi della maturità della specie»35, lascia che, al di là di qualsiasi “strategia” melanconica, affiori nell’uomo un sorta di passività intensa, di corporeità fragile e “impropria” di cui nessuna lettura della tecnica in termini di volontà di potenza potrebbe rendere conto.

33 34 35

Cfr. ivi, p. 127; trad. it. p. 79. Ibidem. Ibidem.

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La verità errante

La condizione dell’uomo spaziale, scrive infatti Blanchot, «è, per certi versi, compassionevole: uomo che è portatore del senso stesso di una libertà e che mai è venuto a trovarsi più prigioniero della propria situazione, libero dalla forza di gravità e gravato più di ogni altro essere, in cammino verso la maturità e tutto fasciato nei suoi pannolini scientifici, come un neonato d’altri tempi, ridotto a nutrirsi col biberon e a vagire, più che parlare»36. L’evento dello scoprirsi separati dall’ordine cosmico-astrale, la scoperta dell’“improprietà” infantile del corpo, potremmo dire, comincia ad inerire al soggetto non come un’esperienza da lui coscienzialmente assumibile, bensì al modo di una sua passivizzazione che, distogliendolo dalla padronanza, fa di lui la scena di un’abdicazione dalle opere preesistenti del sapere, per imporgli di tornare a muoversi a tentoni e di brancolare così verso altre significazioni, marcate da un diverso statuto. Si spiega allora l’accenno blanchotiano all’astronauta come protagonista di una vittoria sull’uomo radicato nella «propria verità», ovvero come agente di un superamento dell’idea di verità fondata sul presupposto di una sua possibile appropriazione e/o dispropriazione. Toccato dalla realtà del disastro, (de)situato nello star-fuori dal rifugio stellare e impossibilitato a farsi forte dei suoi possessi “naturali”, quell’uomo, patendo l’esteriorità fino a trovarsi spinto a esserne un passivo, “infantile” tramite, è esposto all’illimitatezza dell’oscurità esterna, in cui, assente ogni condizione tale da dischiudere un “qui” definito, non sembra darsi altro che un errare interminabile, un irrevocabile non poter stare. Che cosa, allora, nel rapporto con il Fuori, con il quasi-vuoto, può ancora esser possibile a un tale uomo?

36

Ibidem.

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 119

Blanchot non ha dubbi: arrischiarsi a parlare, e, parlando, scandire l’illimitarsi della finitezza, interrompere con sillabe, dividere in suoni il quasi-silenzio dell’assenza. Provarsi in qualcosa come una partizione verbale dello spazio senza luogo. È una parola che – pronunciata senza più le certificazioni offerte dal sapere “cosmico” – tenta di dare forma all’informe dopo e per averlo ascoltato, finendo col riuscire a trasmettere a chi le presta ascolto qualcosa di ben diverso da una verità “propria”. «Ancora oggi ascolto quella povera parola, che di fronte all’inaspettato non profferisce che banalità, parola priva, del resto, di ogni garanzia e che nulla ci vieta di attribuire (come fece Nixon) a una qualche mistificazione. Eppure qualcosa ci turba e ci sgomenta in questo sproloquio: esso non si arresta, non deve mai arrestarsi; il minimo strappo nel rumore significa già il vuoto per sempre; qualsiasi lacuna o interruzione introduce qualcosa che è ben più della morte, che è il nulla esterno entrato dentro al discorso. È dunque necessario che, laggiù, l’uomo del Fuori parli, e che parli di continuo, non solo per rassicurarci ed informarci, ma perché non ha più altro rapporto col vecchio Luogo se non la parola incessante, che, con accompagnamento di stridori e contro ogni armonia delle sfere, dice, a chi non la sa intendere, solo qualche luogo comune insignificante, ma dice anche questo a chi ascolta meglio: che la verità è nomade»37. Blanchot 37 Ivi, pp. 127-128; trad. it. pp. 79-80. La formula “verità nomade” ricorre anche in altri testi di Blanchot: particolarmente significativa può essere considerata la sua presenza nelle pagine, a più di un titolo capitali, su La specie umana di Robert Antelme. Cfr. M. Blanchot, «Être juif», Nouvelle Revue Française, n. 116, agosto 1962, pp. 279-285, poi ripreso con il titolo «L’indestructible. 1. Être juif», in L’Entretien infini, cit., pp. 180-190; trad. it. pp. 165-174: «Se l’ebraismo è destinato per noi ad avere un senso, è perché mostra che, in qualsiasi momento, bisogna essere pronti a mettersi in cammino, per-

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La verità errante

invita ad ascoltare le parole che vengono dall’uomo dello spazio senza affrettarsi a squalificarle come inautentiche, magari in nome della dignità di un linguaggio pieno e “radicato” che manterrebbe un filo diretto con l’esistere e l’essere. «Banalità», «sproloquio» incessante, «luoghi comuni insignificanti», “fuga dal silenzio”, sono in effetti connotazioni che rinviano alle osservazioni sul “si dice” e sulla “chiacchiera” (Gerede) formulate in Essere e tempo, lì dove Heidegger indicava uno dei tratti caratteristici dell’esistenza inautentica, immedesimata nell’intramondano e in fuga dalle possibilità più proprie, precisamente nell’adozione di un tipo di discorso che, né «consapevole», né davvero «voluto», risulterebbe caratterizzato da una sorta di inane autoreferenzialità, ché uscire (andare fuori) è l’esigenza alla quale non ci si può sottrarre se si vuole conservare la possibilità di un rapporto di giustizia. Esigenza di distacco, affermazione della verità nomade» (cit., p. 183; trad. it. p. 168). Non sorprende, così, che in La scrittura del disastro Blanchot mostri di apprezzare la traduzione francese della heideggeriana Unverborgenheit con il termine désabritement, “togliere dal riparo”: «È il caso di notare che se l’alétheia viene tradotta e intesa come “désabritement” (traduzione per ora scelta da Beaufret e Janicaud) si tratta allora di un tutt’altro movimento di pensiero, di una direzione completamente diversa da quella che viene proposta con la traduzione più frequente (il “non-velato, il “non-nascosto”, il “disvelamento”) […] L’alétheia in quanto désabritement rinvia all’erranza, senso che Platone aveva intravisto (nel Cratilo). Di qui la precauzione di non insistere sulla frase sin troppo nota: “Il linguaggio è la casa dell’essere”» (cit., p. 149; trad. it. p. 113). Del luogo platonico alluso in queste righe poco prima Blanchot aveva scritto: «Platone, per gioco forse, ma quale serietà nel gioco, legg[e] alè-théia, scoprendo un senso che si può tradurre con: erranza divina […] La verità (ciò che comunemente verrà chiamato verità) secondo questa etimologia significherebbe: corsa errante, smarrimento degli dèi». “Verità nomade”, o forse, meglio, “verità errante” sarebbe così espressione allusiva dell’esigenza di immettere il sapere e il pensiero stesso in un movimento in grado di sottrarli ai rischi di sistematicità e di “riterritorializzazioni” nefaste.

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 121

avendo «perso o non [avendo] mai raggiunto un rapporto originario con l’ente di cui discorre»38. Di fatto, in moltissimi luoghi della sua produzione, Blanchot ha formulato riserve consistenti su questo celebre passaggio dell’analitica esistenziale heideggeriana. Vale la pena di citare – non solo a titolo di esempio, ma anche per cogliere lo spessore delle notazioni sulla parola di Gagarin – questa pagina di un articolo quasi coevo a quello sulla “conquista dello spazio”. «Sono sempre stato colpito dall’approvazione sollecita e incantata data universalmente ad Heidegger, quando questi, con il pretesto dell’analisi e con il vigore sobrio che gli è proprio, ha condannato la parola inautentica. Parola disprezzata, che non è mai quella dell’“Io” risoluto, laconico ed eroico, ma la non-parola del “Si” irresponsabile. Si parla. Questo vuol dire: nessuno parla. Vuol dire: viviamo in un mondo in cui c’è una parola senza un soggetto che la parli, civiltà di parlanti senza parola, chiacchieroni afasici, relatori che riferiscono e che non si pronunciano, tecnici senza nome e senza decisione. Questa parola screditata coinvolge nel discredito che la colpisce il giudizio che si formula su di essa. Colui che chiama l’altro chiacchierone si rende sospetto di una chiacchiera peggiore, pretenziosa e autoritaria. Il riferimento alla serietà, che esige si parli a ragion veduta, in rapporto con la gravità, o che non si parli affatto, oppure si cominci soltanto a parlare, appare ben presto come un tentativo di chiudere il linguaggio; si tratta di fermare le parole con il pretesto di restituirle alla loro dignità; si impone il silenzio perché si è i soli ad avere il diritto di parlare; si denuncia la 38

Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., § 35; trad. it. pp. 211-215; Id., Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, hrsg. von P. Jaeger, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1979, § 29; trad. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin, Genova, il melangolo, 1991, p. 338.

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La verità errante

parola vana e le si sostituisce la parola perentoria che non parla, ma comanda»39. Blanchot, lo si vede, dubita della legittimità di fondo dell’opposizione semplice tra parola autentica e parola inautentica, tra discorso che si riferirebbe appropriatamente alle cose e discorso del tutto privo di significazioni degne di questo nome. Egli invita non solo a “sospettare” di ogni parola che voglia darsi come investita una volta per tutte dei crismi dell’eigen e dell’Eigentlichkeit, ma anche a non cedere all’idea che si possa farla finita così a buon mercato con l’ambiguità del linguaggio e gli equivoci della comunicazione40. Il punto, infatti, è che la «contaminazione delle parole con il mutismo e del silenzio con le parole» che caratterizza strutturalmente la “chiacchiera” è in realtà ciò che può servire a designare né più e né meno che «la verità stessa di qualsiasi lingua»41. Più specificamente, il punto è che, come Blanchot chiarisce in un altro testo dello stesso periodo, non è possibile ritenere che il linguaggio si costituisca sulla base di un rapporto finito tra significato e significante, grazie al quale si possa operare un’unificazione di “forma” e “contenuto”, riferendoli «l’uno all’altra o ad una misura comune secondo un ordine regolarmente valido o secondo una legalità naturale» che consentirebbero di

39

M. Blanchot, «La parole vaine», in L.-R. des Forêts, Le Bavard, Paris, U.G.E., 1963, poi ripreso in Id., L’Amitié, Paris, Gallimard, 1971, pp. 145-146. 40 Cfr. ivi, p. 147: «È anche possibile che ci sia una parola autentica e una parola inautentica; ma allora l’autenticità non starebbe né nell’una né nell’altra, sarebbe nell’ambiguità tra l’una e l’altra, ambiguità essa stessa infinitamente ambigua. È la ragione per cui è anzitutto alla parola che si dà come manifestamente autentica […] che va il nostro sospetto, anche se, con questo sospetto, perdiamo il potere di rompere con l’infelicità dell’equivoco quotidiano, infelicità che però abbiamo in comune con tutti». 41 Ivi, p. 146.

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 123

ratificare un’intenzione espressiva appropriata e perciò heideggerianamente autentica42. Egli ritiene al contrario che la relazione significato-significante sia da considerare come strutturalmente infinita. Da un lato, «il significato non può mai proporsi come risposta o fine del significante, ma piuttosto come qualcosa che rende infinitamente al significante il suo potere di conferire un senso e di costituire una domanda». Dall’altro, il rapporto tra la “forma” e il “contenuto” «si compirà tanto più infallibilmente quanto più i termini tra i quali si produce si presenteranno distanti e tali da comportare il massimo elemento di divergenza, così che il rapporto tra loro non abbia l’effetto di unificarli, ma al contrario impedisca ogni forma di sintesi»43. La verità e l’autenticità possibili di una parola, lungi cioè dal poter essere valutate sulla base di quel “rapporto originario con ciò di cui si discorre” di cui secondo Heidegger la “chiacchiera” sarebbe priva, si decidono nello spazio di uno specifico articolarsi della lontananza tra significante e significato. Tale lontananza, mentre elude le attese di un ascolto che si interessi soltanto o agli “oggetti” del discorso o agli “strumenti” della loro trasmissione, è in grado di strutturare un campo di apparizione di sensi inediti, irriducibili al piano delle opposizioni di improprietà e appropriatezza. È precisamente quanto accade con la parola dell’astronauta, così come viene descritta. Di fronte all’inatteso dell’uscita dal rifugio siderale, dello sbiadirsi dell’ordine cosmico naturale, l’uomo sradicato nello spazio non può far altro che “lasciarsi andare”. Gli diventa impossibile controllare le proprie volontà espressive e i propri silenzi. Il suo discorso allora non colpisce né per 42 Cfr. M. Blanchot, «La littérature encore une fois», Nouvelle Revue Française, n. 120, dicembre 1962, poi in L’Entretien infini, cit., p. 586; trad. it. p. 531. 43 Ibidem.

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La verità errante

«i luoghi comuni» che trasmette, né soltanto per i modi – l’assenza di pause, la ripetizione incessante – a cui ricorre per farlo, bensì per la sproporzione, la distanza, l’estraneità tra gli uni e gli altri. Un’estraneità che riesce a veicolare la sorpresa, lo sgomento per l’abbandono del luogo e la fuoriuscita dallo spazio sacro terrestre, trasmettendo l’avvertimento della passività di fronte a un ignoto tangibilmente presente. In questo modo, la «povera parola» non solo accenna al disastro, ma lo fa in modo da poter essere ascoltata come risultato di una tensione volta ad assumere l’erranza per tradurla in cammino. Trovandosi a farsi specchio del quasi-vuoto che l’avvolge, la voce, nella lontananza dal «vecchio Luogo», finisce con il proporre l’erranza come misura e rapporto positivo con l’esteriorità. Nella sua stessa perturbante, ma non inautentica “povertà”, la parola spaziale sarebbe segno della possibile invenzione di un linguaggio che, realizzandosi senza cercare di impadronirsi concettualmente di ciò che nomina, e restando in contatto con il tipo di finitezza radicale, non stabilizzabile, attestata dall’esperienza dell’improprietà “infantile” del corpo, riesca a insistere sull’illimitato inabitabile, e arrivi, sostenendolo, a ricondurlo momentaneamente a un’inedita delimitazione – spazio di parola – non necessariamente già connivente con tristi o crudeli penetrazioni di luogo. A voler seguire la riflessione di Blanchot, la sfida irrinunciabile dell’uomo tecnologico contemporaneo sembrerebbe allora questa: non solo accettare responsabilmente di smettere di vivere e pensare in base ai presupposti della maternità della terra e di una necessaria perseveranza nel “naturale”; non solo rispondere all’esigenza di una relazione con l’estraneo e l’ignoto, insistendo su di essa senza però lasciarsene schiacciare; ma anche fare in modo di accompagnare lo sradicamento imposto dalla tecnica con l’invenzione – e il nuovo ascolto – di specifiche modalità di parola at-

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Lévinas, Blanchot: la verità nomade 125

verso cui gli uomini, tenendosi a distanza dalla verità come possesso e privilegio, ma non rinunciando ad essa come “verità nomade”, possano cominciare a ripopolare il mondo di forme e rapporti capaci di testimoniare senza riserve la loro fragilità.

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Capitolo V «… sull’altro bordo della ferita…»

Il “cosmico”, l’ordine “naturale” della terra e degli astri, è dunque potuto apparire come il presupposto illegittimo di un “tutto” che ci terrebbe al riparo, in cui gli uomini sarebbero costantemente tentati di disciogliersi, cercando riposo e consolazione nella immagine che consapevolemente o inconsapevolmente ne elaborano. Il fremito, già pascaliano, di fronte agli spazi smisurati è in fondo luogo di conforto o sollievo, nella misura in cui resta legato alla figura vaga di un ordine sovrano unitario nel quale percepirsi inscritti e con cui identificarsi, fosse pure negativamente, nell’avvertimento della piccolezza e della labilità. Come se una “natura”, una “totalità cosmica” davvero esistessero al di fuori delle idee, dei concetti e delle parole, e come se sempre, maternamente, esse fossero pronte ad accoglierci – salvo, matrignamente, ad annegarci: sempre però come occupandosi di noi, in fondo allo stesso modo in cui lo farebbero i pianeti dell’astrologo e degli oroscopi (le “stelle su misura” a suo tempo indagate con bel piglio illuminista da Adorno)1. Con ciò, però, non si tratterebbe di rinnegare “natura” e “terra”, giacché ad esse immaginariamente non 1

Cfr. T. W. Adorno, The Stars down to Earth. A Study in Secondary Superstition (1957), in Id., Sociologische Schriften II, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1975; trad. it. Stelle su misura. L’astrologia nella società contemporanea, Torino, Einaudi, 1985.

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La verità errante

possiamo che continuare ad aderire, non fosse altro che per la testimonianza dei sensi, per i quali, al di là di qualsiasi evidenza tecnoscientifica, il sole continua a sorgere e a tramontare e i paesaggi familiari persistono a trovarsi offerti e allucinati come “nostra casa”. Si tratterebbe, piuttosto, di non fare del cosmico un ricetto, di evitare di avallare il “dimorare” nel naturale e nel terrestre come un’obbligazione volta per volta etica, estetica, politica, e di tentare di prendere sul serio l’esperienza dell’erranza. Un’esperienza da cui il nostro tempo si trova come messo alla prova, e che richiede che l’assenza di radici sia appresa, oltre che con disagio, anche come un compito effettivamente offerto al pensiero. È così che la cosiddetta “conquista dello spazio” – espressione che, dopo quanto si è visto, potrà essere intesa concedendo i suoi diritti al dubbio circa la possibile oscillazione del valore del genitivo da oggettivo a soggettivo – fa emergere problemi decisivi, che investono la nostra maniera di intendere la civilizzazione, il senso del nostro linguaggio e della nostra storia, la natura stessa della esperienza contemporanea del corpo e del mondo, la tenuta del progetto complessivo della modernità. Anche a mo’ di sintesi ricapitolativa, allo scopo di proporre succintamente, in altra veste, le questioni attraversate, vale sondare un oggetto testuale – all’incrocio tra il “letterario”, il “filosofico” e persino “il politico”– in cui, da una specola e con modalità peculiari, la questione astronautica, il tema dello “stellare”, i problemi legati alla tecnica e alle sue implicazioni si trovano iscritti in una scena intellettuale per certi versi incandescente. Il 30 settembre 1969 Andrea Zanzotto stampò in edizione privata, per un numero di copie assai limitato, un poemetto dalla tenuta informale, intitolato Gli sguardi i fatti e senhal, con l’intenzione di inviarlo «a chi volesse leggerlo e magari scriver[gli] due righe d’im-

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«... sull’altro bordo della ferita...» 129

pressioni»2. Sulla plaquette, in luogo del segno © del copyright, si potevano leggere queste parole, aggiunte a mano dall’autore: «nessun diritto è riservato: /magari si copiasse /tanto quanto dagli altri ho copiato» (Pps 1530). Non proprio un messaggio in una bottiglia, ma neanche qualcosa di così tanto diverso, almeno a considerare l’esiguità della tiratura, l’alone di aleatorietà circa la possibilità di una ricezione effettiva, l’assenza, anche ironizzata, del ricorso alla tutela giuridica della produzione d’autore. Nelle note che accompagnavano il testo – datato «autunno 1968 – estate 1969» – è offerta, tra altre, questa possibile indicazione di lettura: «frammenti di un’imprecisa storia dell’avvicinamento umano alla dea-luna, fino al contatto» (Pps 372). In effetti, ampiamente prevedibile (e prevista, anche prima che, nel 1968, il satellite venisse perfettamente circumnavigato dalle sonde, con immagini sempre più ravvicinate)3, da poco era avvenuta la più celebre delle passeggiate, quella lunare di Neil Armstrong, picco d’ascolto di ogni palinsesto e primo fatto televisivo globale. Di tale evento, con il suo rifrangersi sugli schermi del pianeta intero, lo scrittore tentava di proporre una sorta di “bilancio” poetico, radicale per forma e contenuti, teso a contornare valore ed effetti di un contatto con la luna colto come una sorta di momentaneo punto di arrivo della storia contemporanea della modificazione della relazione umana con la natura e il cosmo, nonché, in fin dei conti, della vicenda della dissacrazione del loro mito culturale. 2 A. Zanzotto, Le Poesie e Prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, saggi introduttivi di S. Agosti e F. Bandini, Milano, Mondadori, 1999, p. 1149, d’ora in avanti indicato, a testo, con la sigla “Pps”, seguita dal numero di pagina. 3 Il primo contatto di uno Sputnik sovietico con la superficie lunare avvenne nel 1959. Ad esso rinviano i versi «13 settembre 1959 (variante)», compresi in IX Ecloghe (Pps 205 e 1465).

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La verità errante

La “bottiglia”, col suo contenuto sperimentale, risultò raccolta e aperta, e il messaggio fu letto con cura: un lettore in particolare, un lettore di professione, Stefano Agosti – più opportunamente caratterizzabile come «lettore e complice» (come egli stesso si definirà poi)4 – attraversò il testo in intensità, riflettendo su di esso fino a giungere, per così dire, ad “accoppiare” il proprio discorso a quello del poeta. In effetti, si può dire che la lettura critica che ne propose, e che sollecitò Zanzotto a prolungare, in prosa, la discussione dei temi in oggetto, costituisce uno di quei casi, non poi così frequenti, in cui oggetto da interpretare e parola interpretante, nella loro corrispondenza, finiscono con l’annodarsi per non sciogliersi più, giungendo letteralmente a far sorgere «un essere nuovo composto da una doppia sostanza»5. O, se si vuole, un organismo unitario ulteriore, non solo a due facce, ma in certo senso anfibio, a cui cioè risulta riservata la possibilità di appartenere a più di un habitat del campo plurimo dei generi di discorso. Esposizione di una dissacrazione, si diceva, quanto alla tematica del poemetto, nel suo valersi dell’elemento “narrativo” della conquista spaziale. Più precisamente, con le parole di Agosti, il testo di Zanzotto presenta 4 S. Agosti, «L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto», Pps IX. 5 Cfr. J. Starobinski, «Le texte et l’interprete», in: Aa. Vv., Faire de l’histoire, sous la direction de J. Le Goff et P. Nora, Paris, Gallimard, 1974, vol. II, pp. 168-182; trad. it. in Id., Le ragioni del testo, cit., p. 26. Non per nulla poemetto, intervento critico e successive osservazioni d’autore sono confluiti in un volume unico quando ne è stata offerta una riproposizione editoriale per un pubblico più vasto, in entrambe le occasioni in cui ciò è accaduto: inizialmente, nel marzo del 1990, con la pubblicazione, presso Arnoldo Mondadori, di A. Zanzotto, Gli sguardi i fatti e senhal con un intervento di Stefano Agosti e alcune osservazioni dell’autore, poi nello stesso “Meridiano” Le Poesie e Prose scelte.

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«la contaminazione-oltraggio del mito lunare»: mostra la «deflagrazione» (Pps 1520-21) del portato simbolico inerente la figura della luna, nella misura in cui, nel patrimonio culturale umano, essa è stata inscritta nel registro della trascendenza e del sublime, dell’assoluto e della purezza, della lontananza patetica e dell’astratto, della presenza femminile e dell’enigmaticità imprendibile, ecc. Con uno dei gesti stilistici ed estetici più precipui dell’autore, il componimento, avvalendosi dell’evocazione «di resti, di stereotipi e di banalità quotidiane» (dallo slogan commerciale alla filastrocca, fino alla canzonetta e al suono fumettistico), mette in scena la banalizzazione, e con ciò l’«implosione», o «azzeramento» dell’oggetto culturale “luna”, “astro”, esibendo in tal modo la corruzione dell’universo paradigmatico legato a quell’oggetto, anche e soprattutto ad opera «dell’enorme massa di comunicazioni (verbali e visive) sostanzialmente false che attraversano e coprono l’intero spazio del nostro pianeta» (ivi). Nella conquista astronautica, nell’allunaggio infine compiuto, con tanto di incedere balzellante giubilatorio e di bandiera nazionale spinta dentro il regolite del nuovo suolo, risulta insomma indicato il consumarsi di uno sfregio o di un oltraggio. In essa, cioè, viene visto il compendio istantaneo dellla disgregazione del codice stesso che designa la natura e il cosmico, attuata dalla pressione delle forme contemporanee della tecnica e dei suoi media, nel loro istallarsi al cuore stesso dell’umano. Il contatto con il satellite della Terra è assunto insomma come segno della polverizzazione del simbolismo lunare in quanto connesso all’area semantica dell’incondizionato e in generale della presenza pura, illimitatamente ideale/idealizzabile, e, con ciò, come sintomo dello sbriciolamento dell’ordine simbolico in quanto tale, nel suo istituirsi in sistema di significati funzionali alla relazione dell’uomo con se stesso, con gli altri e con il suo ambiente.

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Verificatasi nel quadro della «lotta di prestigio tra le superpotenze», la conquista della luna è intesa anzitutto come un gesto effrattivo, in cui il dominio tecnologico mostra sovranamente il suo volto contraddittorio e violento (Pps, 1531)6. Non per nulla, nell’insieme variato delle sue linee di discorso: antropologico, scientifico, erotico, psicoanalitico, filmico, metapoetico, il poemetto insiste sul tema della imboscata teppistica: «– Doveva accadere laggiù che ti e ti e ti e ti /lo so che ti hanno || presa a coltellate || /lo gridano i filmcroste in moda i fumetti in ik /i cromatismi acrilici /nulla di più banale […]» (Pps 361). Da un lato, ripetizione fonica e interpunzione delle barre verticali intendono rendere materiale l’“accoltellamento”, riproducendolo graficamente; dall’altro la pochezza della conquista risulta indicata attraverso il riferimento a certa fiction fantascientifica e ai fumetti del tipo “Diabolik”, “Satanik”, e simili. Grazie alla sua struttura – cinquantanove battute proferite da altrettanti personaggi rivolti alla figura “lunare” centrale che parla tra virgolette –, la composizione consente di rimartellare l’argomento dell’agguato mediocre e inane, iper-banalizzato dalla ritrasmissione televisiva 6 Nelle “osservazioni dell’autore” si legge in effetti che l’allunaggio «non ha motivazioni che non siano banali, e queste motivazioni consistono soprattutto nella lotta di prestigio tra le superpotenze (o meglio superimpotenze) che, in margine all’elaborazione di un programma missilistico per distruggersi a vicenda, mettono a punto anche il razzo per andare sulla Luna». Se da sempre, nella fantasia dei popoli, la Luna raffigura un «fantasma di trascendenza, di irraggiungibilità», ovvero emblematizza l’assoluto e l’intangibile, allora «chi avesse toccato la Luna, si sarebbe aggiudicato il titolo di un’“assoluta” supremazia. È dunque un caso di dissacrazione funzionalizzata, che ha in sé tutti i tratti più ripugnanti (banali) della realtà odierna» (Pps 1531). In proposito si veda anche la pagina sui missili e le «due massime impotenze mondiali sempre in erezione per farsi paura» nello splendido racconto del 1963 «Premesse all’abitazione» (cfr. Pps 1049).

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(«– Io piango, ho saputo del fatto, /nemmeno cronaca nerocinema, fatto ordinario /roba così di scarto gratis data /mentre stavo guardando /dopopasto dopocorpo dopodopo […]», Pps 363), non senza insistere sulle tematiche della violazione sessuale («–“La mia bella mano che già distrinse si /decontrae giace sul lenzuolo sul firmamento tra mosche /e ore in ronzio orbitale e istigazioni e semplicità”», Pps 367), e, soprattutto, del ferimento («– […]“ma perché mi hanno ferita? ho sentito bisbigliare /ho sentito sparlare scommettere sul mio ferimento” – Ho sentito parlare del tuo ferimento /in un nerofilm in un trucco cromatico in un blocco di cronaca», Pps 367-368). Per certi versi, sembrerebbe di assistere alla versione poetica, estremizzata, dello sgomento denunciato da Heidegger al cospetto della possibilità astronautica in quanto trasgressione tecnica del “tra Terra e Cielo”. Gli stessi riferimenti all’ordine della piattezza quotidiana e della “chiacchiera”, esemplate anche dal rinvio alle parole e alle immagini di una medialità “bassa”, sembrerebbero confermarlo: a fronte dell’ordine simbolico effratto, paiono permanere unicamente i detriti di un universo non solo prosaico, ma soprattutto centrato sulla coazione al consumo e su una furiosa esaltazione. La distruzione del mito avviene per opera e a vantaggio di un uomo prossimo alla barbarie tecnologica, al quale non riesce più di incontrare le cose altrimenti che nella forma dell’oggettualità, del materiale di cui impossessarsi e fare scempio, trasformandole in sostanza di profitto e dominio. In questi versi, indicati come uno dei momenti più intensi – e a più alto tasso di sperimentalismo – della scrittura di Zanzotto, è racchiuso anzitutto un atto di accusa, una denuncia di quello che viene esibito come il rischio di una perdita fondamentale e di una corrispondente neoferinità dell’umano. C’è, però, anche dell’altro. È rinvenibile, nel poemetto, un ulteriore livello di discorso, di cui è decisivo

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tenere conto, e che testimonia in una direzione alternativa a quella appena descritta. Per provare a coglierlo, si può partire da questa domanda: chi è il soggetto della denuncia, chi parla nel lamento sull’oltraggio compiuto nei confronti della natura cosmica, del mito e dell’ordine simbolico che lo sostiene? Interrogativo tutt’altro che semplice: sono sempre considerevoli i rischi in cui ci si imbatte quando, di fronte a un testo letterario, lo si vuol far parlare chiedendogli credenziali identitarie stabili in nome della universalità culturale7. A voler tentare una risposta, ci si può rivolgere ad alcuni specifici indizi testuali, anzitutto a quelli che rinviano alla pregressa esperienza di linguaggio compiuta dal poeta, caratterizzata tanto da una risoluta valorizzazione del rapporto con il paesaggio e la natura, quanto, in un secondo tempo, da una critica altrettanto risoluta di tale valorizzazione. Mi riferisco ai luoghi del poemetto in cui traspaiono il tema e l’urgenza di una complessiva ridefinizione di quel rapporto, a partire dalla messa in questione del tratto idealizzante, a carica fortemente narcisistica, dei richiami dell’uomo al luogo naturale, nella misura in cui questo risulta assunto come spazio sacro del vero e dell’essere.

7 È stato Starobinski, associandosi su questo punto a Blanchot, a esprimere nei termini più chiari la natura di tali rischi: «Parlando di ciò che le opere implicano di frammentario e di discontinuo, noi sviluppiamo il discorso diafano e continuo del sapere. Noi appianiamo. L’irregolarità turbolenta, lo scandalo, la contraddizione nelle opere e tra le opere, l’alterità diventano i temi di una parola coerente e calma che abolisce nella comprensione le lacerazioni di cui rende conto. […]. Maurice Blanchot insisteva ancora di recente sul fatto che tra la cultura, tesa all’unificazione e all’universalizzazione di un discorso razionale, e la letteratura, annunciatrice del rifiuto e dell’incompatibile, la critica sceglie abitualmente (e colpevolmente) la cultura», J. Starobinski, La relation critique, Paris, Gallimard, 1970, pp. 25-26.

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La questione potrebbe essere compendiata così: chi parla, nel testo poetico, ha da tempo cominciato a sapere che appellarsi alla venerabilità del cosmo, della natura, del paesaggio – attraverso il tramite letterario di quella che può sempre essere definita “sentimentalità romantica”, per quanto all’occorrenza trasfigurata, riaggiornata o persino “raggelata” – è un gesto che non può essere definito innocente, e forse è persino da considerare presupposto lontano delle stesse modalità invasive con le quali nel mondo contemporaneo ha avuto corso l’agire tecnico, nella misura in cui è modellato dai fantasmi della potenza e dell’appropriazione8. È dato critico accertato, in effetti, e non solo in base alle frequenti dichiarazioni esplicite del poeta, che, a partire dalla 8 In varie occasioni Zanzotto si è dichiarato fortemente interessato soprattutto al “prima” e al “dopo” emozionali della scienza e della tecnologia, e alle loro incidenze sulla rielaborazione dello psichismo umano. Cfr. ad esempio «Il mestiere di poeta» (1965): «Perché non tener presenti piuttosto tutti i sottintesi, le tensioni di natura psicologica che stanno “al di sotto” della ricerca, pluriscintillanti e inafferrabili, o grossamente semplici, dall’entusiasmo, alla fede nella clavis, persino alla tenerezza (o alle avarizie, alle paure, alle libidini più svariate)? Non dimentichiamo Bachelard, Whitehead, Ferenczi, certo Moses, ecc. […] Ogni acquisizione tecnico-scientifica dà origine ad infinite rielaborazioni emozionali nell’uomo che pure permane anche pari a se stesso nei suoi strati più profondi» (Pps 1131).Vedi anche A. Zanzotto, «Nous e paranoia» (1974), in: Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, p. 93, dove si discutono le ragioni della necessità, per l’agire estetico contemporaneo, di tenersi prossimo «all’ordine dei referenti scientifico-tecnologici, cioè a quegli aspetti della realtà che più contano, perché ne costituiscono il più rapido e tumultuoso “fronte di movimento”, di avanzata». Qualsiasi “realismo”, precisa qui Zanzotto, può mostrarsi attendibile solo in quanto accetti di tenere conto dei «“vissuti” prodotti dall’accadimento-scorrimento del fatto scientifico-tecnologico, nella loro intensità bruta, nell’opacità o penombra semiconscia in cui vengono sottintesi inizialmente».

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“rottura” consumatasi con la raccolta La Beltà9 (quasi coeva a Gli sguardi i fatti e senhal, ed ivi esplicitamente richiamata: « – ho visto ruotare e andar fuor di campo il campo de “La beltà”», Pps 364), Zanzotto ha fatto della fascinazione ambigua dello scrittore per il mondo naturale un tema decisivo di meditazione, indicando in essa il prodotto di un’illusione, nonché l’esito di una sorta di fuga. L’autore dei versi che stiamo leggendo è insomma qualcuno per cui il rapporto con il paesaggio, iniziato sotto il segno della identificazione proiettiva, della corrispondenza e della specularità, nonché di una ratifica della tradizione letteraria e dell’ordine rappresentativo ad essa sotteso, ha cominciato ad essere un luogo di inquietudine e dubbi. Affidarsi alla relazione “sentimentale” con l’astro, fare della luna una “compagna” e un “nutrimento”10, regolarsi sul dialogo con la sede naturale e cosmica, considerandolo a ogni titolo spazio di verità e di fedeltà all’originario, luogo di validazione della propria pratica e di arricchimento del proprio orizzonte culturale: ecco le opzioni che per il poeta a un certo punto sono divenute decisamente problematiche, fino a scorgere in esse il tratto predominante della mera ricerca di conforto, della chiusura in uno spazio irrelatamente immaginario, fatto di persistenti

9 Su questo punto cfr. S. Agosti, «L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto», Pps XX: dove il gesto «noetico-esistenziale» sotteso alla Beltà «e da lì a tutte le opere future», è definito come «rimozione di ogni paratia protettiva – quella della letterarietà come quella della visione a distanza –, gesto che scardina le strutture della finzione, compresa quella del personaggio della prima persona, e pone il Soggetto in presa diretta nei confronti del linguaggio». 10 Mi riferisco ai precedenti (richiamati da Agosti) della presenza della luna nella scrittura di Zanzotto in prosa e in versi, da Sull’Altopiano a Dietro il paesaggio fino a Vocativo e a IX Ecloghe.

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idealizzazioni: di «nuances d’affinità presunte elettive» (Pps 369), come si legge nel poemetto11. Ma se le cose stanno così, resta difficile sostenere che nel testo non ci sia altro che una deplorazione dell’effrazione tecnica della luna, e che, attraverso una simile denuncia, l’unica posta in gioco sia il tentativo di mantenere una sorta di fedeltà melanconica all’ordine simbolico e al mito dell’astro12. Tutto sommato, la messa in scena del pianto sull’oltraggio compiuto vede come protagonista anche e forse soprattutto l’uomo sempre tentato di intessere un dialogo patetico con i corpi celesti, pronto a coglierli metonimicamente come frammenti “paesaggistici” di un ordine totale in cui riflettersi e in cui rifugiarsi a fini consolatorî. O meglio:

11

Ma in Gli sguardi i fatti e senhal sono molti i segnali della raggiunta consapevolezza che «è soltanto la luce del Narciso iniziale quella che dà ai vari nidi-ambienti naturali la loro bellezza» (come afferma Zanzotto in un’intervista del 1972, in cui è implicito il riferimento alla teoria lacaniana dello “stadio dello specchio”, cfr. Pps 1051). La resistenza alla parafrasi del dettato non è in effetti così estrema da non permettere di leggerli, ad esempio, in queste battute: «– “[…] mi hai accentuato nei miei pluri – fanta – meta – /nei miei impegni (come?) carismatici /in empiree univocità o latenza /in un sogno di inerranza di inebriata inerranza”». O anche: «– “so che lottavi col fantasma-di-tante-beltà che mai-verranno-meno-e” – Qui lotto col fantasma (di una tu?) che vi s’include con furore e fama […]» (Pps 362-363). Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Su ragioni, dinamiche (in definitiva legate al trauma bellico) del corpo a corpo del poeta con il paesaggio e la natura, si vedano A. Cortellessa, «Sovrimpressioni, sovraesistenze. Indizi di guerre civili in Andrea Zanzotto», in Aa. Vv., 1963-2003 Fenoglio, la Resistenza, a cura di G. Ferroni e G. Pedullà, Roma, Fahrenheit 451, 2006, pp. 181-206; G. Alfano, «Archivi silvestri», in Id., Un orizzonte permanente. Il segno della guerra nella letteratura italiana del Novecento, in corso di pubblicazione. 12 «Per te anche la fedeltà è solo un modo dell’acedia», si può leggere in La Beltà: cfr. Pps, 347 e 1515.

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se è indubbio che Gli sguardi i fatti e senhal costituisce senz’altro il referto amaro di una dissacrazione, è anche vero che il testo include i segni della consapevolezza che il “sacro” che è stato oggetto di tale effrazione era illusorio o immaginario, e che, al di là di esso, si staglia un reale che, nel suo eccedere ogni bella (o sublime) finzione, richiede di essere indicato, alluso, trasmesso nel suo effettivo quoziente di estraneità, nella sua eccentricità a ogni significazione costituita, pena la perdita di ogni contatto con il piano essenziale della mancanza costitutiva dell’uomo – con la sua finitezza inappropriabile e senza limiti –, contatto a cui in definitiva è legata ogni possibilità di agire altrimenti il fatto tecnoscientifico e di abitare diversamente il mondo. È questo uno dei punti su cui è più fruttuoso riferirsi al contributo del “lettore-complice”. Agosti, in effetti, non ha esitato ad additare nella materia verbale mobilitata dal poemetto una posta in gioco decisiva, complementare a quella della denuncia della violenza dell’agire tecnico. Nella eterogeneità irriconciliata che agita il testo, nella rinuncia dello scrittore a farsi forte della “letterarietà” della lingua (ovvero nella decisione di non discriminare gli elementi linguistici cosiddetti “autentici” rispetto a quelli “inautentici”), il critico individua una precisa condizione espressiva. Così come è orchestrata dal componimento, la sfilata dei fantasmi “lunari”, a cominciare da quello della sublimità e della purezza calpestate, conduce a rilevare «un insistere e persistere del “senso” al di fuori dello spazio simbolico» (Pps, 1522). A constatare, cioè, che «il franare del mito (la sua implosione), con gli effetti concomitanti di dissipazione della parola simbolica – egemonica e legalizzata in quanto semanticamente piena – corrisponde all’apertura di un altro spazio di “senso”, quello dell’ordine semiotico»: di un livello espressivo capace di far posto all’«informe», al «confusivo», al «residuale» (ivi). Un “ordine” paradossale, dunque, che rappresenta

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il luogo pulsionale pre-originario a partire dal quale, per distacco, può costituirsi il sistema simbolico; un “ordine”, soprattutto, che tale sistema, per sua natura, non può che coprire costantemente, anche con effetti macroscopici di illusione e simulazione identitarie13. Qui, evidentemente, occorre restare attenti e cercare di orientarsi. Tutto sommato, il punto è questo: 13 È che, in generale, Agosti (che riprende a Julia Kristeva la nozione di “ordine semiotico”, in cui è presupposta l’idea lacaniana di un “corps morcelé” del soggetto non ancora divenuto io) vede nell’esperienza di Zanzotto l’esito della metabolizzazione – a partire dalla «grande ondata delle scienze umane» degli anni Sessanta e Settanta – dei principi di arbitrarietà del segno e di priorità del significante, in base ai quali la questione del linguaggio veniva a porsi in termini rinnovati. «Da un lato, in quanto struttura (arbitraria) di fondamento e di separazione, il linguaggio determina la Spaltung (la scissione) del Soggetto dalla propria origine indivisa, instaurando nel Soggetto quella “mancanza” che lo costituisce come Soggetto […]; dall’altro lato, in quanto lingua naturale, e cioè in quanto sistema fondato sulla bi-univocità del segno (ove significante e significato risultano strutturalmente connessi tramite una relazione di presupposizione reciproca), il linguaggio si pone come il luogo stesso della rimozione e dell’occultamento di quella medesima struttura di separazione, garantendo in tal modo al Soggetto le sue possibilità di esistenza e di vita, e cioè le illusioni della propria identità e del proprio sapere, nonché le simulazioni della comunicazione interumana e le costruzioni falsificanti della storia». Cfr. S. Agosti, «L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto», Pps XXI-XXIII. In Zanzotto insomma il linguaggio sarebbe assunto come luogo di una mancanza archi-originaria fondativa della soggettività, e al contempo come luogo di rimozione di tale origine-mancanza. Di qui il tentativo di veicolare significanza anche e soprattutto attraverso i residui, le crepe, le faglie o i minimi frammenti della lingua, giacché è in questi luoghi impropri e marginali del sistema che è possibile vedere apparire la “struttura di separazione” e la mancanza costitutive dell’umano. Sulla questione del significante in Zanzotto, si veda anche L. Tassoni, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci, 2002.

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se si comincia a staccare dalla “natura” e dal “cosmo” la rappresentazione chimerica della totalità ordinata e protettiva che i significati culturalmente stabilizzati portano con sé, ciò che emerge è quel luogo difettivo che costituisce la soggettività umana in quanto è illimitatamente limitata, e tale in una forma sempre attiva e sempre legata, nel modo del nascondimento, alla sua stessa capacità di avvalersi della forza ambigua della nominazione e del concetto. Se l’agire tecnologico viola il patrimonio simbolico e fa emergere la consistenza immaginaria dell’investimento umano sull’astro, la strada che resta è tentare di designare il piano a partire dal quale la manovra diversiva e idealizzante ha preso abbrivo, e farlo in forme che contemplino una leale presentazione della mancanza che insiste nell’umano (il manque-à-être lacaniano, suggerisce Agosti), fosse pure “soltanto” attraverso la ritmicità e la faticità di una lingua che mimerà il balbettamento e l’interruzione, rinviando al limite alle significazioni minime portate dal soffio di un “respiro”, di un “sospiro”, di un “gemito”. Non è forse inopportuna una rilettura in questa direzione delle ultime battute del poemetto, dove pare trovarsi messo in scena il dileguare stesso dell’astro e della sua rappresentazione, accompagnati dal permanere di “proiezioni” ormai però palesatesi in quanto tali. «– “Ora me ne andrò me ne andremo sull’altro bordo della ferita /ma lascerò proiezioni di qua nel cristallo /nello stabilizzato nell’in-fuga che che /che è il mio respiro-sospiro” – “Povera cosa, quante povere cose” – E così minima la refurtiva, e poi subito persa – Sei respiro-sospiro. Dimenticavo, /gemito oggi» (Pps 371-372). A voler riprendere i termini di cui abbiamo visto servirsi Blanchot, la descrizione della dissipazione del mito del cosmo permette l’affiorare del “disastro” immemorabile, in quanto esorbitanza da ogni totalità stabilizzata e passivizzazione della soggettività coscien-

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ziale, fino alla comparsa di una specifica improprietà del corpo e di una certa parola “afasica”, barbugliante, ma capace, in questa sua non-pienezza semantica, di trasmettere lo sconcerto, la sbalordimento di fronte al venir meno del presupposto dell’ordine tutelare. È per questa via che, suggerisce di passaggio Zanzotto, nell’impresa tecnica astronautica ci si può forse appellare a «qualcosa che, al di là dell’inconsistenza, ritorna per vie impreviste a valere per l’uomo» (Pps 1531). A partire dalla significazione del fondo remoto, della falda immemoriale da cui prendono origine il sistema simbolico e le avventure dell’identità, può in effetti darsi la possibilità di schiudere la strada per una sempre aggiornata evasione dall’antropomorfismo perenne, per una costante smentita dell’illusione cosmico-naturalistica, condizioni concrete per affrontare il problema “adulto” di una rinnovata apertura: «apertura dei sensi, di tutta la cenestesi, di tutta la realtà umana (grazie a fattori scientifici e a qualsiasi altro fattore creativo), fino allo sviluppo di psichismi sempre più alti»14. È quanto non è più impossibile pensare se l’interruzione del riferimento al cosmico che la tecnoscienza certo dolorosamente produce, non mettendo capo a un arretramento di fronte alla problematicità del progetto complessivo della modernità nella sua essenza tecnoscientifica, diviene l’occasione per rendere più acuta la vigilanza, per rilanciare quel progetto verso dimensioni inedite, per far sì che i suoi contenuti siano più criticamente prossimi alla materia dell’esperienza, anzitutto nei suoi aspetti anche radicali di indigenza, bisogno, mancanza a sé. Il che non smette di implicare questo preciso lavoro preliminare: «liberare l’uomo dalle pastoie delle superstizioni etniche (tribali) che hanno contribuito a 14 Cfr. A. Zanzotto, «Colloquio con Vittorini» (1964), in: Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., pp. 32-33.

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formarne l’identità, così da toglierlo dal misero orizzonte dei cortili paesani, regionali, nazionali, in cui è stato sagomato»15. Che sarebbe come abituarsi davvero a guardare senza riserve la Terra e le storie terrestri dalla prospettiva dello spazio – o forse, meglio, dalla prospettiva di Dante, «che, nel XII del Paradiso, contempla il nostro pianeta e lo chiama “l’aiola che ci fa tanto feroci”»16.

15

Id. «Alcuni sottofondi e implicazioni della SF» (1972), ivi, p. 68. Con due precisazioni di tutto rilievo. La prima: «E questo senza che venga perduto il sentimento di ciò che vale anche in queste piccole patrie, con le loro piccole storie, con le loro meravigliose lingue in cui l’originalità della cultura, espressa anche in altre forme, trova il suo più netto e irripetibile suggello, il suo più misterioso e imparagonabile profumo». La seconda: è bene non esitare a squalificare tutto «ciò che ipertrofizza questi fatti, trasformandoli in mostruosi e distruttivi fantasmi, da cui l’uomo ha sempre avuto morte e rovina». 16 Ivi, p. 69: «Incombe il compito sempre più difficile di salvare questa tragica, eppure mirabile aiola, anche guardando al di là di essa; bisogna liberarsi dalla sua storia come si è svolta finora, una storia che è […] una vicenda stercoraria nella grettezza dei suoi particolarsmi, anche se certo in essa non è mancata una linea di ostinata tensione al progresso».

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Indice dei nomi

Abensour M., 100n. Adorno T. W., 127 e n. Agamben G., 100n, 113n. Agosti S., 129n, 130 e n, 136n, 138, 139n, 140. Aldrin E. E., 4. Alfano G., 8, 137n. Alighieri D., 142. Anders G., 2, 63, 64n. Anders W., 79. Angelino C., 13n, 28n. Antelme M., 111n. Antelme R., 119n. Archimede, VII, 45, 47 e n, 48n, 65, 67, 68, 69. Arendt H., VII, 2, 6, 45-71, 76, 77 e n, 78, 87, 88 e n, 90, 91n. Armstrong N., 4, 129. Arnauld J., 5n. Aristotele, 27n, 111. Axelos K., 31n. Baccarini E., 109n. Bachelard G., 135n. Bandini F., 129n. Barbaras R., 95n. Beaufret J., 120n. Benjamin W., 6, 7n. Blanchot M., VII, 2, 6, 42n, 91, 97, 110-125, 140. Blumenberg H., 1n. Brahe T., 7, 82n.

Cage J., 37n. Calabrò D., 92n. Cambi M., 8. Cantillo G., VIII. Caracciolo A., 31n. Carbone M., 91n, 93n, 95n. Ceccon D., 100n. Chaikin A., 79n. Chalier C., 100n. Ciglia F. P., 102n. Colangelo C., 30n, 42n. Collins M., 4. Copernico N., 7, 50, 82n, 83 e n. Cortellessa A., 137n. Cristin R., 121n. Crowther D., 58n. Curcio N., 13n. Dal Bianco S., 129n. Dal Lago A., 46n, 52n, 102n. Deleuze G., 4 e n, 41 e n, 109n. Derrida J., 76n, 87 e n. Des Forêts L.-R., 122n. Elon A., 61n. Einstein A., 82n. Fabris A., 13n. Facioni S., 9n. Farber M., 74n. Fédier F., 12n.

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158

Indice dei nomi

Ferenczi S., 135n. Fernet R., 109n. Ferroni G., 137n. Fimiani M., 8. Fistetti F., 42n. Forti S., 48n, 51n, 60n. Foucault M., 2. Frank D., 90n, 94n. Frank G., 100n. Frasca G., 8, 36n. Freud S., 112 e n. Frezza L., 8. Gagarin Y. A., 10, 66, 98, 101, 104, 108, 110, 113, 117, 121. Galilei G., 50. Giugliano A., 89n. Gnzel S., 86n. Goebbels J., 56n. Gomez A., 109n. Greisch J., 89n. Guareschi M., 4n. Guattari F., 4 e n, 41 e n, 109n. Hanson N. R., 83n. Havelock E. A., 36 e n. Heisenberg W., 67n. Held K., 17n, 74n. Heidegger M., VII, 2, 6, 9-44, 45n, 46 e n, 47, 53, 60, 63 e n, 64, 78, 87, 89 e n, 90 e n, 98, 99, 100, 105 e n, 107, 120, 121 e n, 123, 133. Heidegger H., 12n, 48, 70. Himanka J., 74n. Hölderlin J. C. F., 38n. Hobe S., 5n. Hoppenot E., 110n. Husserl E., VII, 73-96. Ionesco E., 110, 111n. Jacquart E., 111n.

Jaeger P., 42n. Janicaud D., 120n. Jaspers K., 52n. Kafka F., VII, 45, 47, 48n. Kant I., 29, 48, 61 e n. Kepler J., 7, 83 e n, 84n. Kohn J., 48n. Kolher L., 52n. Kristeva J., 88 e n, 139n. Lacan J., 83n, 84n. Lacoue-Labarthe P., 41 e n, 43n. Lafferranderie G., 5n, 58n. Landgrebe L., 74n. Lannoy J.-L., 116n. Lefort C., 95n. Le Goff J., 130n. Llewellyn L., 102n. Lévinas É., VII, 2, 6, 9 e n, 10, 11, 91, 97-110, 113n. Lisciani-Petrini E., 95n. Ludz U., 46n. Lyotard J.-F., 42n. MacDonald F., 37n. Makowski F., 102n. Maldiney H., 97 e n. Marcoff M. G., 58n. Martinelli A., 60n. Masecchia A., 8. Masullo A., 8. Mazzarella E., 18n, 35n, 89n, 90n. McCarthy M., 52n. McLuhan H. M., 2, 36-39, 47. Merleau-Ponty M., 88n, 9195. Moretto G., 17n. Moroncini B., 8, 86n. Moscati A., 90n. Moses I., 135n.

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Indice dei nomi Nancy J.-L., 17n, 90n, 111n. Nancy H. J., 111n. Neri G. D., 74n, 92n. Neri G., 110n. Neufeld N. J., 56n. Nixon R., 119. Nora P., 130n. Nuzzo E., 8. Olivetti M. M., 89n. Papparo F. C., VIII, 8. Pascal B., 82n. Pedullà G., 137n. Petrosino S., 103n, 104n, 106n. Peyrefitte L., 58n. Piana G., 84n. Platone, 1n, 120n. Power S., 60n. Preve C., 64n. Ritter J., 35n. Ritter Santini L., 48n. Rolland J., 100n. Russo M., 8. Sanderson G., 37n. Saner H., 52n. Saviani C., 89n.

159

Seglard D., 93n. Serres M., 82n. Schirmacher W., 33n. Sichère B., 95n. Simondon G., 83n. Sloterdijk P., 22n. Sorrentino V., 65n. Sossi F., 114n. Starobinski J., 36n, 130n, 134n. Stiegler B., 27n. Talete, 1. Tarizzo D., 8. Tassoni L., 139n Tolomeo C., 82n. Tongeren P. van, 89n. Ugazio U. M., 20n. Vattimo G., 15n, 25n. Venturi Ferriolo M., 35n. Vitale F., 8, 87n. Volpi F., 42n. Von Braun W., 56 e n, 59. Whitehead A. N., 135n. Zaccaria G., 12n. Zanzotto A., 6, 128-142.

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Mediologie

Collana diretta da Alberto Abruzzese, Gino Frezza, Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 17. 19.

G. Ragone, L’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo S. Cristante, Media Philosophy. Interpretare la comunicazione-mondo A. Amendola, Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile A. Iannotta, Lo sguardo sottratto. Samuel Beckett e i media A. Abruzzese, G. Ragone (a cura di), Letteratura fluida A. Ceccherelli, Oltre la morte. Per una mediologia del videogioco S. Brancato, Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia E. D’Amico, Digitografie. La fotografia digitale nelle pratiche comunicative S. Bory, Il tempo sommerso. Strategie identitarie nei giovani adulti del Mezzogiorno G. Pecchinenda, Homunculus. Sociologia dell’identità e autonarrazione G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale G. Scurti, Visibilità e riconoscimento. Ipotesi per una teoria sociale dei media D. Borrelli, Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali F. Denunzio (a cura di), Il linguaggio del dr. House. Sociologia di una fiction televisiva C. Colangelo, La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero F. Gamba, Leggere la città. Indizi di contaminazioni sociologiche

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20. O. De Sanctis (a cura di), Immagini dal presente. Giovani, identità e consumi culturali 21. A. Fattori, Cronache del tempo veloce. Immaginario e Novecento

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