La tua vita in 30 comode rate. Viaggio nell’Italia che vive a credito 9788842089650

Questo libro è un quartiere di persone indebitate fino al collo. È una raccolta di voci intrecciate l'una all'

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Italian Pages 142 Year 2009

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La tua vita in 30 comode rate. Viaggio nell’Italia che vive a credito
 9788842089650

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Gianluigi Ricuperati

La tua vita in 30 comode rate Viaggio nell’Italia che vive a credito

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009 Le cartine della Crocetta sono state realizzate da Maurizio Cilli.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8965-0

the fiction of non-fiction = $

Ogni riferimento a fatti o nomi reali è puramente casuale.

Indice

L’Offerta

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I NOSTRI DEBITORI

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3.

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4.

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9.

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10.

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Ringraziamenti

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La tua vita in 30 comode rate

Maurizio Cilli, Un quartiere pieno di debiti, 2009, pigment liner su lucido, 21 x 29,7 cm.

L’Offerta

Questo libro è un quartiere pieno di persone indebitate fino al collo – un quartiere reale: e nel contempo un quartiere ideale, fatto di simili. Il centro di questo libro è il credito, e in particolare il credito al consumo, – la pratica, ormai comune per le nostre banche e finanziarie, di prestare soldi allo scopo esclusivo di acquistare beni poco durevoli. Chiamerò il credito l’Offerta – perché ha una natura prodiga e gentilissima, squillante come una banda militare e apparentemente felice come una bandiera gialla. L’Offerta è una struttura: una serie di decisioni: una serie di persone da una parte e dall’altra. Sono i soldi prestati in Italia, nel primo decennio del Ventunesimo Secolo. È il denaro che gli italiani hanno cominciato a noleggiare furiosamente – con tassi di crescita, per gli istituti e le finanziarie che li hanno finanziati, del 300 per cento, di anno in anno, in tutti i settori che, in questo particolare mercato, includono elettrodomestici, vacanze, eventi speciali, bisogni speciali. Gli eventi speciali sono i matrimoni. I bisogni speciali sono l’improvvisa necessità di cinque, dieci, quindicimila euro. Ma non sono affatto speciali. Sono regolari. Il credito al consumo è un quartiere di Torino chiamato Crocetta, ma è anche un luogo intercambiabile, asportabile

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e impiantabile dovunque si ritenga opportuno, a Milano, a Genova, a Roma, a Bari. Basterebbe sollevarlo come il tassello di un puzzle, e inserirlo nell’ordine di altre città italiane. Farebbe lo stesso effetto. Questo luogo inizia con un corso chiamato Rosselli e finisce con un corso chiamato Vittorio Emanuele. A est e ovest, corso Mediterraneo e corso Re Umberto. Benvenuti nel quartiere dove i soldi hanno appena iniziato a smettere di trasformarsi in elementi stabili: oggetti di proprietà: muri di proprietà. Dove la curva del benessere italiano ha iniziato a incrinarsi. Dove i soldi hanno prodotto il passato dopo aver prodotto diverse parentesi di futuro, e ora hanno iniziato a produrre una linea tratteggiata di presente – un presente-altalena: l’oscillazione del debito, del credito al consumo. Vivono qui i professionisti, le famiglie solide della buona borghesia, i figli dei militari d’alto rango, una parte della classe intellettuale: una consistente parte di italiani che ha cambiato un’atmosfera sociale o due nel corso di una sola vita. I protagonisti del libro hanno a che fare, fisicamente, con questo quartiere. Non è un libro sull’usura. Non si tratta di quel tipo di disperazione finanziaria. È l’abisso dei benestanti, che come in una sintesi araldica, mette in abisso la più generica disperazione di massa. A un certo punto ho capito che tutte le persone che ho incontrato indagando ai confini di questo circo – il Microcredito dello Spreco, uno dei nomi possibili, quello che mi convinceva per la sua esattezza – avevano a che fare con la Crocetta. E non solo: molte di loro si sono conosciute, hanno avuto a che fare le une con le altre. E hanno calpestato il suolo di questo quartiere, in diversi momenti della giornata e della propria vita. Anch’io l’ho calpestato – almeno nella memoria, ma non solo. Anche l’io che ha messo insieme queste storie ha avuto la pesante inclinazione a sotterrarsi nei 4

debiti normali. I debiti sfiancano il paesaggio interiore, lo cacciano dentro se stesso, lo rimestano – il denaro prestato deglutisce i nostri debitori. Quello che state per leggere è la veduta dall’esterno, una ricerca di simili fatta a piedi. Una ricerca empirica messa in forma di racconto – cos’altro potrebbe essere, un libro narrativo così direttamente adagiato sulle forme di ciò che esiste per davvero, che per davvero ha un nome e che per davvero affonda in fatti realmente accaduti? Nessuno, quando parla di denaro prestato, richiesto, non restituito, a lungo inseguito, ama comparire con le proprie generalità, così i cognomi e gli indirizzi sono stati deformati. Il denaro, assente o presente, è un ente parlante anche quando sembra silenzioso: come le atmosfere tra gli individui, come i ricordi non registrati, come tutto ciò che è fondamentale e impalpabile, ma in misura ben più tosta di qualsiasi fenomeno impalpabile e fondamentale, il denaro – o almeno: la sua verità – necessita di finzione. Ecco perché la raccolta di voci che avete tra le mani potrebbe facilmente assumere le sembianze di una visione. Dentro la visione, proprio sotto il livello di fragilità, ci sono anch’io. Intorno ai ventidue anni ho passato un periodo in cui non riuscivo a giudicare una giornata felice senza poter spendere un po’ di denaro, e indebitarmi per averne sempre a disposizione. Eppure avevo l’apparenza di una persona sensibile, e spesso nelle tasche portavo libri di Tommaso Landolfi e Delmore Schwartz. Ma avevo lo stesso tipo di tossicodipendenza da piccole somme di denaro di quelle adolescenti che si spogliano davanti a una webcam in cambio di una ricarica sul telefono cellulare. Ero malato: soffrivo di tendenza all’abuso di microcredito dello spreco. Mi sono indebitato. Non ho pagato. Qualcuno ha cercato di recuperare i soldi che dovevo restituire. La cifra prestata giungeva sul conto rapida e fosfo5

rescente. Dopo qualche mese di rate non pagate mi svegliavo la notte con la cifra che non era più fosforescente ma soltanto lenta, tutto diventava complicato e schiacciante: respiro bloccato: asma: diffidenza mutuale fra l’aria che entra e quella che esce, fra le risorse immesse e quelle bruciate. Nessuno mi ha fatto del male – ho solo sentito tanta stupida paura per qualche mese, per circa un anno. Ho chiesto soldi in lire e me li hanno chiesti indietro in euro. È tutto iniziato da lì. Vivevo alla Crocetta con mio padre. Qualcuno, alla fine, ha rimesso i miei debiti.

I NOSTRI DEBITORI

1.

Michelangelo è alto poco meno di 1,70, le spalle come due meloni appesi alla schiena. Giacca e camicia, jeans con cintura, scarpe Nike personalizzate con sopra scritto ‘totale’. Smorfie. Piccole tracce di cicatrici lontane. Da bambino qualcuno gli ha dato il nome di Boxer, perché mentre gli altri giocavano a calcio o basket o pallavolo o nuoto, lui faceva boxe – a nove anni. Adesso ne ha trentadue. Ogni mattina viene al lavoro di corsa, in tuta da ginnastica, venticinque minuti dall’altra parte di Torino, zona sud, allo spoglio ufficio di via Marco Polo in cui la Secure Lit ha sistemato la base delle operazioni. Si tratta di operazioni telefoniche. (Il recupero crediti, nella società-cristalleria dominata dalle telecomunicazioni pervasive, non ha tempo per elefanti spediti di porta in porta, capaci di botte o minacce fisiche.) I ninnoli che s’indebitano non hanno più bisogno di essere persuasi a pagare dalla brutalità che si presenta al citofono. In aziende di queste dimensioni ci sono decine di recuperatori, che fanno a turno per non lasciare tempo scoperto a centinaia di cittadini insolventi. Qui il tempo si divide in due classi: il tempo dei creditori, scandito in turni e obblighi sindacali. E il tempo degli altri, là fuori, quelli che non pagano, che non possono, non vogliono, hanno smesso, han-

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no temporaneamente smesso, hanno maliziosamente smesso, hanno fastidiosamente smesso di rendere il denaro che gli è stato concesso. Questo tempo subalterno è da battere, perlustrare, battere, perlustrare – minuzioso perlustrare, ancor più minuzioso battere. Ma i recuperatori non sono medici alla ricerca di nei sospetti – le macchie le conoscono già, si depositano al lunedì, sotto forma dell’ordine della settimana e, come dice il capo, il dirigente di questa struttura affiliata a un franchising del recupero crediti, nessuna storia è finita fino a quando non è davvero finita. È venerdì e sono venuto a incontrare Michelangelo. Andiamo al bar – meglio non parlarne qua. Prima di lasciare l’ufficio Michelangelo mi fa puntare lo sguardo verso il muro, facendo «tsk» col naso: un’altra frase, sempre del capo, ma stavolta scritta su un foglio e soprattutto nelle menti degli impiegati del recupero telefonico – Immagina il cigno. È un metodo fantasioso per invogliare a trattare con furba dimestichezza, con dolcezza pragmatica, persone che potrebbero non essere affatto cattive. Tutti, nel mondo del credito al consumo e del recupero crediti, hanno bisogno di immaginare il cigno, di pensare ai debitori come persone migliori, persone che meritano tutta la delicatezza del mondo: persone belle. È soltanto un trucco per non stimolare aggressività e comportamenti che non porterebbero a nulla – il primo compito di un recuperatore è, manco a dirlo, recuperare sul serio il denaro, portarlo a casa. Così è giusto immaginare il cigno, dall’altra parte del telefono, nascosto tra le cifre e la sequenza alfanumerica del codice fiscale con cui ha aperto la pratica di finanziamento. Nessuno deve pensare che dall’altra parte c’è un odioso antagonista. Tutti hanno l’istinto di immaginare i debitori come odiosi antagonisti: rompiscatole: cumu10

li di neve lungo il percorso di una giornata normale. L’ufficio è al primo piano, le stanze vengono separate dal marciapiede per mezzo di una griglia di sobrie sbarre color ghisa, mentre là fuori la vita del quartiere è il corrispettivo sociale di un golf a V – rassicurante, tendente al benessere, quasi privo di attacchi e incidenti. Michelangelo gesticola con ossessività. L’azione che prende forma più spesso, lungo il profilo delle mani, è il no scandito dal dito medio, che oscilla come un tergicristallo, a mezz’aria, sospeso tra il suo sguardo e gli occhi di chi lo sta a sentire. Ogni tanto, nel bar, entra qualcuno che potrebbe essere un impiegato in pausa pranzo, chiede se accettano i ticket restaurant e sentendosi dire di no fa marcia indietro e cerca un altro posto. Michelangelo si distrae tutte le volte, per qualche frammento di secondo, inquadrandolo con vago disprezzo, ciglia arrotate e labbra ritorte all’insù, per un attimo soltanto. Quando gli domando se c’è qualcosa che non va, risponde: «Ecco, me li immagino così, e mi piacciono ancora di meno». Cos’è che non ti piace? Oh. Un mucchio di cose, un mucchio. Da dove vuoi che cominci? Non cominciare, dimmene una soltanto. Una... una... ecco, è la gente che si lamenta. Tu non ti lamenti mai? Certo. Lo tengo per me, però. E comunque non è tanto il lamentarsi, credimi. E qual è il punto, dunque? Io odio quando la gente dice che qualcosa gli fa schifo. Non so perché. Mi fa sbiellare. Mi fa andare fuori di testa. Quando senti qualcuno usare la parola ‘schifo’? 11

Non è la parola in sé. È proprio quando sento l’espressione ‘mi fa schifo questo’, ‘mi fa schifo quello’. Li ammazzerei quando lo sento. Ammazzeresti la metà dei bambini che incontri per strada. Non ho mai attaccato rissa su questo. Ma ti è venuta spesso voglia. Sì. Ogni tanto, quando sto per addormentarmi, o in certi momenti, mentre corro, mentre sono in pullman, immagino me stesso per strada e una di queste signorine di vent’anni di merda che si lamentano di tutto e vanno in un posto e iniziano a dire che il cibo gli fa schifo. E cosa immagini tu? Di riempirle di schiaffi. Di fare male. Non so perché, ma mi manda fuori di testa. È per questo che ti sei messo nel recupero crediti? «No, non credo», mi ha risposto quasi digrignando i denti – ma forse è solo un’impressione. «Tu mi hai fatto una domanda personale», ha aggiunto, «il lavoro non c’entra niente, io sono un professionista sul lavoro», ha continuato a difendersi: «Certo, mi viene voglia, ma anche se so tutto di queste persone non perderei mai tempo a cercarle per fare chissà che cosa. Non m’interessa. Ci sono alcune persone che inchioderei al muro, ma non è una cosa che ha a che fare con me, penso lo farebbero tutti». A Michelangelo non piacciono quelli che non rispettano i patti. A Michelangelo non piacciono gli avvocati che si fanno prestare i soldi per le vacanze perché con i loro studi del cazzo non guadagnano abbastanza. E neppure i commercialisti sfigati che fanno esattamente la stessa cosa. Per Michelangelo gli esseri umani sono delle bestie geneticamente predisposte a perdere denaro dietro a fenomeni che spariscono il giorno dopo. 12

Poi Michelangelo mi ha raccontato di una signora, una cliente, una certa Viola, sui settanta, una che deve ancora pagare cinque o sei rate per un televisore o qualcosa del genere. E non le paga. Michelangelo il lunedì mattina trova il foglio con gli insoluti, vede il cognome, non gli dice niente, va avanti come se nulla fosse, inizia a studiarsi la pratica e si prepara a comporre il numero. Poi, senza che se ne renda neanche bene conto, all’improvviso, si forma nella sua testa un ricordo che non è tanto chiaro neppure a lui stesso. Riguarda il cognome. Ci pensa. Viola, Viola, Viola. «Ma dove cazzo l’ho letto questo cognome, penso tra me e me. Poi guardo l’indirizzo, è una zona che non conosco nemmeno, in cui non passo mai, nessun amico, o ragazza, o che altro». Così Michelangelo digita il numero. Le gli risponde con un ‘pronto’ come dall’aldilà. Sai che io dal modo in cui uno mi dice ‘pronto’ indovino il colorito della pelle? Scusa? Sì. È così. Capisco il colorito, se è una emaciata o se è una ben messa, se ha le guance belle rosse e sode oppure è tutta come un fantasmino. E lei era tutta pallida, come se stessi parlando con un morto, come una che gli è appena morto il marito, una tutta mogia e tutta cadaverica a cui squilla il telefono subito dopo che ha chiuso la tomba del marito. E tu che le dici, alla signora Viola? Inizio a parlarle. Capisco subito che c’e aria di tragedia, e infatti dopo pochissimo la voce sembra sempre più triste e la signora Viola fa il trucco della figlia malata. Dice che la figlia ha un tumore al piede, che gliel’hanno scoperto da poco, che lei non ha avuto tempo di occuparsi di nient’altro, che paga senz’altro nel giro di una settimana. Io le di13

co signora va bene anche due, va bene anche due. Tieni conto che per me basta che i clienti pagano entro il giorno 20 del mese. Il giorno 20 del mese per me è la chiusura pratica, anche se pagano meno di quello che devono, chessò, una rata su due insolute, due rate su tre insolute, e così via, l’importante è che succede prima del 20. E quando chiami questa signora che giorno è? Non ricordo, ora. Ma uno dei primi giorni del mese. Tanto che per un secondo mi sento un figo della madonna. Ti senti così perché sei comprensivo e l’aiuti? Sì. E poi invece capisci che l’hai aiutata solo perché avevi altre due settimane comunque, davanti, per chiudere la pratica. Infatti. La cosa più figa è essere generosi quando non ti costa nulla. Poi passano due settimane. I soldi non sono arrivati. Nell’ordine di lavoro di Michelangelo c’è di nuovo la signora Viola. La sensazione si fa più forte, ma ancora non capisce come mai continua a venirgli in mente quel dettaglio senza contorni precisi, quando sente quel cognome. Quando la richiama la donna esagera sempre di più, con la storia del tumore al piede. Ingrandisce, si contraddice, racconta che alla figlia hanno dovuto fasciare il piede, poi che gliel’hanno ingessato, poi che è ricoverata, poi che è con lei. Michelangelo rimane perplesso. Le chiede di pagare, le dice che la capisce, ma che deve pagare comunque. Che non sarà più così generoso, col tempo che le resta per saldare il debito. In due giorni arriva il 20, pensa, non lo dice, lo pensa soltanto, dopodiché, se la signora non ha pagato, il Boxer perde qualsiasi provvigione, e non è bello. 14

Allora è per quello che devi risolvere entro il 20. Perché se risolvi entro il 20 prendi una provvigione oltre al normale stipendio. Ma certo che è per quello. E cosa è successo poi? Che la richiamo, come suggerisce il protocollo, il giorno dopo. Per ricordarle il lieto evento. E lei scoppia a piangere, dice che ha dovuto anticipare i soldi per le cure mediche, mi parla di ricevute, di ospedali, di ricette. Io non so cosa pensare, perché non ho mai sentito in vita mia questo tumore al piede, però mi sembra sincera, e poi fare questo mestiere mi ha insegnato una cosa, sulle bugie che la gente dice. Cosa? Che il 99 per cento delle persone non ha fantasia, e se qualcosa suona strano, nella maggior parte dei casi è vero. Quella sera Michelangelo torna a casa, attraversa la città, apre la porta, entra, schiaccia il pulsante per chiamare l’ascensore e l’ascensore non arriva, dà occupato tutto il tempo. Il Boxer abita in alto e perciò inizia a battere e urlare. Dopo un po’ vede che l’ascensore si libera, arriva al piano, e quando la porta si apre si materializza la figura di una signora anziana con una ragazza sulla sedia a rotelle. Le lascia passare, apre la porta, non fa alcun commento sul ritardo dell’ascensore. Non si domanda neppure chi siano, o perché la ragazza sia in carrozzella, né cerca di sovrapporre altre curiosità al pensiero della propria stanchezza. Mentre tiene la porta aperta con il braccio, alla signora squilla il telefono, risponde. Michelangelo sente di nuovo quel ‘pronto’. È la debitrice. E la figlia è malata veramente. Porta il piede dentro una specie di Moon Boot, uno di quegli scarponi medici, tutto grosso e gonfio. E sta sulla sedia a rotelle, lo sguardo spaventato. 15

Io la guardo negli occhi, lei non mi guarda affatto, non ringrazia nemmeno che le ho tenuto la porta aperta, è tutta presa dalla sua telefonata. Sto lì imbambolato a vederle uscire dall’androne, tutte e due, e non ho dubbi, la voce è quella, e rimango abbastanza stordito per tutta la sera. Ma perché veniva lì a casa tua? Che ne so. Forse per chiedere soldi. Anzi, di sicuro. Sua sorella doveva abitare nel palazzo. Avevano lo stesso cognome, ma non c’era sul citofono. Poi mi sono venute in mente tutte le volte che avevo incontrato la sorella nell’androne, avevano la stessa voce, lo stesso timbro, quello di due depresse sfigate a cui va tutto male. E comunque ci ho dormito su e ho deciso che il giorno dopo avrei fatto la mia buona azione, rinunciare alla provvigione e dirle che avrebbe avuto ancora un po’ di tempo. E com’è andata? Le dico pronto signora Viola, sono i… E lei mi interrompe subito, senza lasciarmi parlare, e dice sì scusi scusi, ho fatto dei pasticci ma adesso ho risolto tutto, vado a pagare stamattina, le mando il fax di avvenuto pagamento, mi scusi ancora, salve, salve. E tu? Io niente, ero tutto pronto a dirle di non preoccuparsi, di fare come poteva. Pensavi che avrebbe pagato? Sì, a quel punto non avevo dubbi. Era una di quelle giornate in cui avevo un po’ di speranza in questo cazzo di mondo, credimi. E alla fine? Ha pagato? Sì. Il fax è arrivato alle tre di pomeriggio. 16

Della figlia sulla sedia a rotelle Michelangelo non avrebbe più saputo niente, né l’avrebbe più incrociata nell’androne o in attesa dell’ascensore. Ma avrebbe saputo qualcosa della sorella della signora Viola. Un giorno, una domenica a casa, nel pieno del ronzio riposante, periferia festiva, sente arrivare la polizia a sirene spiegate: «Un gran rumore, assordante, proprio sotto il mio portone». Esce sul pianerottolo, si sporge dalla tromba delle scale, poi rientra, sente parlare forte, urlare, poi sbattere la porta, poi corre fino al balcone perché sente sgommare con le ruote e la sirena che attacca di nuovo. Poi lascia perdere, come succede in qualsiasi condomino quando si sente litigare una coppia di vicini di casa: dopo la morbosa attenzione arriva il deserto. Si sdraia e accende la tv. Poi la mattina dopo, correndo per andare al lavoro, con la stessa tuta di sempre, con lo stesso passo di sempre, sfiora con la mano l’angolo di un’edicola, come sempre. Il giornalaio gli tiene tutti i fascicoli delle miniature, dei soldati, le serie con i gadget da montare tipo Fratelli Fabbri, più che altro roba sul mondo militare. Reparti speciali, cose del genere. Il giornalaio lo sa, lo conosce da quando è nato e gli mette da parte tutta la collezione. Michelangelo una volta ogni due settimane si ferma e ne prende quattro o cinque insieme, poi fa due chiacchiere con lui. Quel giorno il saluto è più breve del solito, giusto uno scaramantico lambire della mano. Michelangelo non si ferma affatto, ma è il giornalaio a uscire dall’edicola, chiamandolo per nome. Gli dice: «Bella gente che abita da te». Lui fa un’espressione interrogativa. Gli mostra una copia di «Torino Cronaca», dieci centesimi, quello del concorso della lotteria. Avevano arrestato un usuraio, proprio sotto il Boxer, proprio a due passi dalla sua casa. 17

E sai chi era? La sorella della donna indebitata. Ecco. Con un fatto, però. Cioè? Cioè che non era sua sorella. Si chiamavano allo stesso modo ma non erano neanche parenti. E la sai la cosa più assurda? No. La cosa più assurda è che a me è venuta in mente una cosa sola, quando ho letto la notizia. Cioè mi sono detto cazzo. Cazzo. Perché? Perché potevo lavorare per loro, se l’avessi saputo mi sarei licenziato. Io sono stufo di telefonare, telefonare, telefonare. Sono stufo delle buone maniere. Voglio tornare alle vecchie maniere. Un giorno ho visto un film, uno di quei film di poliziotti pieni di sparatorie, italiani, di tanti anni fa. E c’era uno che recuperava i soldi per un usuraio. Si divertiva un mondo. Aveva una macchina scoperta. Saltava giù, minacciava, faceva il bello e il cattivo tempo con tutto il quartiere. Io odio questo telefono. Odio queste regole e questo foglio, il lunedì, le consegne, e soprattutto odio una cosa. Dimmela. Quella scritta del cazzo sul cigno, lassù sul muro in ufficio. Che bruciassero tutti vivi, loro e i loro cigni. Non lo sono neanche lontanamente, cigni. Qualche giorno dopo ho scritto a Michelangelo implorandolo di darmi l’indirizzo di uno dei suoi clienti. «È contro la deontologia professionale, se mi beccano mi ammazzano, e tu cosa gli dici, se te lo chiede chi dici che te l’ha dato, il suo no18

me e indirizzo?». Rassicurazioni, tentativi di placcaggio, strategie diversive. Non riuscivo a convincerlo. «Però un nome di un collega puoi darmelo, giusto? Il nome di uno con cui parlare, qualcuno del tuo ambito che possa essere interessante per me, per la mia storia di soldi prestati». «Un collega?». Ci pensava e ci ripensava, il Boxer, sembrava più indifeso che mai in quei momenti in cui valutava la difficoltà di dare in pasto ad altri i tasselli della sua vita, che fino a quel momento doveva essergli sembrata piccola ma controllabile. E sarebbe rimasta controllabile, garantivo con ogni mezzo. «Questo non sarà mai un reportage, ti giuro non metterò mai i nomi autentici, non potrei mai farlo, troppe conseguenze», e poi ho provato a metterla sul filosofico: «Parlando di denaro non si può che fare della finzione, perché il denaro ha troppe conseguenze sulla vita reale, giuridica, degli individui, per poterci scherzare su: sai Michelangelo, hai mai notato che sono pochissime le persone che scherzano sui propri soldi? Che scherzano sui soldi in genere», aggiungevo. Ed era vero, avrei cambiato tutto, non potevo fare altro che cambiare tutto: così il quartiere del racconto sarebbe diventato qualcosa di diverso dal quartiere autentico che attraversavo alla ricerca di creditori e debitori. Per ogni corso Galileo Ferraris sarebbe spuntato un corso Galileo Ferraris di fantasia, mascherato dal nome di un altro segno topografico, e la mappa avrebbe garantito l’esistenza plausibile di questa ‘Crocetta al quadrato’ con la sua certezza di griglia incontrovertibile di esistenze e posizioni: sei lì e non puoi che stare lì, perché la vita sulle mappe non è mai altrove. Alla fine mi ha detto «Ok, il mio collega… ti posso mettere in contatto, anzi, chiamalo direttamente tu, ma aspetta, ho il numero sul cellulare, cazzo si è spento, è senza batteria, ste 19

batterie durano sempre meno, devo cambiarlo». «Aspetta: chiedi al barista, i Nokia ce li hanno tutti, magari ce l’hanno, dietro il bancone». «Buona idea, vado a chiedere». Aveva lasciato l’agenda sul tavolino, sarebbe stato di là, davanti alla cassa del bar, per almeno quindici secondi. Non dovevo farlo. Non potevo non farlo. Ho messo la mano sull’angolo di pelle dell’agenda, una di quelle che le banche ti regalano a Natale se apri il conto corrente di appoggio di un esercizio commerciale. Gli occhi verso lo stipite che divideva in due la saletta in cui eravamo seduti, le dita che sfogliavano senza connessione visiva i bordi dell’agenda. Poi l’aprivano a metà, circa. Alzo lo sguardo verso il pericolo, lo riabbasso verso l’agenda: niente di interessante. Sfoglio veloce, più veloce, poi di nuovo in guardia, poi ancora l’agenda: pochi dati, pochissimi secondi. Ricordo che a un certo punto, circa a metà, c’era scritto ‘insolventi urg.’ e c’erano tre numeri di cellulare e tre indirizzi. In qualche lunghissimo secondo sono riuscito a trascrivere uno dei numeri, un 368, una vecchissima utenza telefonica Telecom Italia, con accanto scritto solo ‘ass.’. Poi c’era un numero di telefono fisso con accanto scritto ‘uomo tv villa via vela’. Il terzo numero non sono riuscito a copiarlo, troppo inesperto, ma ho inquadrato bene l’indirizzo, Giulio Cesare, però non potevo giurare che fosse il 148 o il 168, o il 208. Ma c’era scritto ‘Esso’, e mi bastava. I primi due appunti mi sembravano incomprensibili, me ne sarei occupato dopo. Avevo fatto in tempo a rimettere l’agenda sul tavolo e stavo già pensando alla pompa di benzina, a dov’era esattamente, e se c’ero mai passato. «Scusami, ecco qua», ha detto Michelangelo entrando di nuovo nella stanzetta. «L’ho caricato quel poco che basta per riprendere il numero della persona che cerchi». Mi guarda 20

con un’espressione che ricordo di aver giudicato innocente, – mentre ero io a sentirmi un po’ inutile, inutile e pellegrino, come diceva il papà di un mio compagno di scuola quando, di ritorno dalle lezioni, all’una, ci veniva a prendere in auto e in auto incrociavamo i vigili: inutili e pellegrini, li chiamava strisciando la sigaretta contro il profilo dei denti e sotto i baffi. Guidava una Renault 4 che sapeva di pelle un po’ andata e tubi metallici di scarsa qualità, blu petrolio la definirei oggi, mentre allora non sapevo cos’era il blu petrolio, ma sapevo esattamente come si fa a desiderare qualcosa e fare molto – non di tutto, molto – per averla. Ah, ascolta. Dimmi. Non è un mio collega, non definirlo così, credo non si consideri un ‘collega’, ecco. Mi hai detto che è il proprietario di una finanziaria, no? Una cosa del genere, ora non so i dettagli. Io ci ho avuto a che fare per caso, mi è piaciuto, poi ho fatto un colloquio lì da loro e li ho aiutati a beccare un paio di tipi, ma niente di che. Perché non dovrebbe considerarsi un tuo collega? Perché è un ambito in cui la proprietà conta qualcosa, e nessuno fa niente per nasconderlo. È uno che ci tiene all’etichetta? È uno in gamba.

2.

Il giorno dopo, sabato, verso l’una e mezza, nell’ora silenziosa in cui le auto smettono di affluire dopo l’assalto della mattina, mentre batte il sole sulla lamiera e l’odore di benzene si cattura nelle narici, non ho facoltà di parola. Provo a interrompere il mio interlocutore, ma non ci riesco mai. Sono in una posizione difficile, perché la persona che ho davanti pensa che io sia chi in realtà non sono, ha una tuta già molto sporca e molti attrezzi di ferro. La tuta da benzinaio che ho davanti non smette di accavallare frasi una dopo l’altra, senza scioglimento, senza coda, senza aree, senza prendere il respiro. Con l’uomo nella tuta da benzinaio ho commesso un errore di paura e di una certa superficialità: presentarmi con un nome falso e tendergli la mano e chiamarlo per nome e dirgli «lavoro per la società di recupero crediti». Avevo usato modi gentili e mi ero anche promesso di togliere dai guai il Boxer rivelando la verità alla fine, ma da un istante all’altro mi sono cascate addosso la voce e il corpo, e gli ultimi due anni di vita, del titolare della stazione di rifornimento Esso, con tanto di negozio Tiger, corso Unione Sovietica numero 148. «Ascolta, io lavoro tutti i giorni giusto? E allora? Lo vedi? Io devo poter comprare tutti i giorni. Devo poter cambiare

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auto quando voglio. Devo potere. Dovere potere, capisci? Io ho fatto il mio dovere e adesso il mondo che mi circonda deve permettermi di poter fare le cose. I soldi non li vedo mai, non so più cosa sono. Massimo dei soldi che vedo, 500 euro. Per me ci sono le cose, capisci? Gli oggetti. Ma no, non sono un feticista, non so neanche che significa davvero, l’ho sentito qualche volta questo termine, ma no, io non sono fissato con ste cose. Il punto non sono gli oggetti. È il mio posto nel mondo. Il mio posto nel mondo succede tutti i giorni e deve succedere tutti i giorni. Ed è un posto in cui non si fanno rinunce. Io posso rinunciare a tante cose. Ti garantisco che rinuncio a tante cose, dannazione. Se vuoi ti faccio l’elenco. Le donne che vedo per strada. I culi delle donne. Ecco a cosa rinuncio. Poi a tante altre cose. A spaccare la faccia a un po’ dei miei clienti qua alla pompa, tutti quelli con i pantaloni di velluto e quelli con gli occhiali che chiedono le fatture, per risparmiare, e io ci metto cinque minuti, cinque minuti di tempo, capisci, per firmare tutti quei fogli che servono soltanto a loro. Io mi sento libero quando spendo e nessuno mi dice un bel niente. Mi compro una giacca a vento per la moto e nessuno mi dice un bel niente. Nessuno mi deve dire niente. No, no, no, no. Neanche tu, d’accordo? Neanche tu mi devi tirare fuori questa storia del più e del meno, delle entrate e delle uscite. Ti sembra che il mondo funzioni così? Forse una volta. Ma una volta c’erano tante cose diverse. Adesso è tutto andato all’aria, è tutto coi computer e i bancomat e tutti ti chiedono se vuoi pagare, pagare domani, pagare da gennaio, pagare da quando ti pare. E io faccio così.

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Non m’importa dei conti alla fine, perché l’ha detto anche il mio avvocato che male che vada mi tolgono la moto, ma io adesso la intesto a mia moglie, la moto. Io faccio tanti sacrifici per mia moglie. Le donne, le serate, una volta andavo a puttane, capisci? Adesso ho bisogno di sfogarmi e sapere che posso avere tutto. Sai prima di aprire il punto Tiger, qua, la Esso, lo chiamano Tiger Bar, ai punti di ristoro vicino alle aree di sosta in autostrada, dicevo che prima avevo lavorato come operaio, ma operaio abbastanza specialista, voglio dire, in un’azienda di laminati. Il padrone era uno un po’ con le spalle strette, c’aveva un figlio anche lui un po’ gobbo, sempre tutti tirati a lucido, sempre tutti con le maglie con lo scollo a V e la camicia, quando venivano a lavorare anche il sabato, avevano la Bmw, avevano uno di quei cognomi lunghi, poi sono anche finiti sui giornali quei due, ma non per l’azienda, che non erano granché a tenerla – per un loro cugino che si è suicidato, così, all’improvviso, in una delle loro belle case piene di cose dei secoli dei secoli. Finché poi, a un certo punto, è andata che me la sono comprata anch’io, capisci, la Bmw, a rate, con una rateazione devastante, bestiale, che mi ha proposto un amico di un fornitore che avevo conosciuto quando lavoravo lì, che lavorava in Banca Sella e mi faceva morire, si ubriacava ogni volta che ci vedevamo e tirava anche. Ma era uno tosto, te lo dico io. Portava in Svizzera avanti e indietro i soldi della banca, non so come faceva, non ho mai ben capito. Aveva un’Audi bellissima, diceva che l’aveva comprata a un diplomatico perché era tutta piena di lamine antiproiettili. Era simpatico, sempre con due cani di quelli piccoli, marroni, come si chiamano, non ci capisco niente di animali. 24

Era uno che ti riempiva di parole ma alla fine voleva solo un po’ di compagnia, o sentirsi importante, non so esattamente. Ok, ci guadagnava. Perché secondo me anch’io gli ho fatto guadagnare dei bei soldi, anche se lui diceva sempre che lo faceva perché ero simpatico, e comunque a un certo punto mi ha detto ma compratela anche tu la Bmw serie 5, ti apro un conto io, in Emilia Romagna, ti faccio una dilazione pazzesca, paghi meno di 100 euro al mese. E l’ha fatto, capisci? Mi ha trovato il concessionario. Non era proprio il mio colore, ma avevo la loro stessa macchina. E un giorno il figlio viene lì con il suo cognome lunghissimo, esce dalla sua auto uguale alla mia e mi chiede se ho vinto al Superenalotto, poi si mette a ridere e dice scherzo, spero tutto bene in famiglia, e io dico due sciocchezze, di circostanza, ed è ok così. Quindi alla fine questo conoscente col cognome inglese – te l’avevo detto che il mio amico della banca, quello coi cani, aveva il cognome inglese, era mezzo inglese – beh lui, comunque: mi ha chiamato e mi ha detto che potevo aprire una cosa per conto mio, che aveva dei ganci nella Esso, che bisognava mettere una quota ma ci pensava a farmi avere la linea di credito, mi trattava da persona seria, da persona che può, capisci, da persona che può. Mi trattava da persona che può. Ed eccomi qua. Scusa – usciamo che mi accendo una sigaretta?». Sta per ricominciare quando sento il rumore discendente di un motore che si avvicina alla piazzola, la piazzola colma di ghiaia, che rintocca sotto lo sterzo dei pneumatici. Deve spegnerla subito, la sigaretta. Va a servire il cliente, un’Alfa 166 blu scura. Passano cinque minuti e quando torna, i soldi probabilmente infilati nel taschino con la chiusura a bottone, all’altezza del cuore, io non ci sono più. Lo richiamo col nu25

mero anonimo qualche minuto dopo, dicendogli che mi era spiaciuto disturbarlo e che ci saremmo rivisti presto, che quelli dell’ufficio avrebbero pensato a riconsiderare la sua situazione. Per qualche motivo sentire parlare a lungo di soldi, di emozioni legate ai soldi e al possesso, mi inchioda a uno stato morale da cui voglio sottrarmi, devo sottrarmi, devo farlo a tutti i costi se non voglio creare pasticci. Sto camminando furiosamente lungo una sequenza di vie interne che formano diverse L agganciate l’una all’altra, dal lato più breve o da quello più lungo. Lo stato morale in cui mi ha messo il benzinaio mi porta a mentire, a inventare storie per calmierare la situazione, per addolcirla, per risolvere i problemi, per travestirli da fantasmi. Ma i fantasmi che escono da questi guai di soldi hanno sempre le catene che pesano e scricchiolano, sono detenuti che si trascinano e non ti mollano. I debiti funzionano così, come una doppia struttura, un padre sulla scia dei debiti del figlio o un fratello sulla scia dei debiti di suo fratello. E la domenica dei debitori è il sabato – il giorno in cui si santificano le spese. Mentre attraverso le vie interne a corso Giulio Cesare, nello stato in cui mi sento, la città precipita in una specie di cerimonia visiva medievale. Sopra di me, oltre i dieci piani, si stagliano torri, oppure chiese minacciose; davanti a me, invece, incontro facce che hanno qualcosa di assetato e affamato. Compiono giri di cui all’inizio non intuisco la natura. Poi, d’incanto, ne intuisco la natura. Sono nella zona in cui sorgono con maggior frequenza i cosiddetti ‘negozi finanziari’, ex panetterie e vecchie mercerie che ora offrono prestiti e finanziamenti, pagamenti dilazionati e temporanee aperture 26

di credito a tutti coloro che hanno un lavoro fisso, con una paga che spunta dai pantaloni, con i documenti a posto. L’obiettivo è includere tutti a partire da questo parametro rigido: il colore della pelle non conta, la professione religiosa, la lingua, le usanze, il livello di tolleranza e di tollerabilità, niente importa davvero, quando gli abitanti di questa zona varcano la soglia dei negozi finanziari. Si guardano intorno. Li guardo con il solito occhio un po’ stupido, un po’ insano. Non mi calcolano. Puntano alla vetrina con scritto ‘Clare Pie Money’. Penso che non sono ancora pronto per affrontare i nostri debitori, che ho bisogno di sentirmi circondato da quelli che stanno dall’altra parte. Penso che entrerei anch’io, ma solo se i negozi fossero vuoti – e invece sono tutti pieni, sono sempre pieni. Vado avanti, poi guardo indietro. I nuovi immigrati regolarmente residenti in Italia fanno il loro ingresso nei negozi in cui si vendono i soldi. Entrano con le loro vesti da cui spunta un contratto, stoffe che squillano di colori. Entrano con la promessa documentata: i loro corpi possono produrre del denaro. Escono con la condanna monumentale: riportarne almeno il doppio.

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Uno dei migliori imprenditori del credito, in città, si chiama Tancredi, di nome Andrea, ed è identico a Philip Roth. Abita alla Crocetta, lavora alla Crocetta, ha fatto un po’ di soldi prestando soldi a persone che stavano alla Crocetta, fino a quando non ha iniziato a farne molti di più prestandoli a tutti gli altri. Controlla cinque ‘negozi finanziari’ su strada in diverse zone popolari, anche dov’ero stato qualche giorno prima, il sabato del benzinaio: e poi possiede un paio di uffici che smistano il denaro messo a disposizione dagli istituti bancari, un paio di società di leasing automobilistico e di credito al consumo. Il tutto viene gestito da un ex appartamento di tre stanze in via Vespucci, tra corso Duca degli Abruzzi e corso Mediterraneo – primo piano, un edificio senza altri uffici, solo famiglie, una struttura semplice e rozza, probabilmente degli anni cinquanta. Ho sempre pensato al fatto curioso che la parola ‘imprenditore’ contiene la parola ‘prede’. Ma questo sosia di Philip Roth non sembra così alla ricerca dell’ennesima preda. Ecco perché so quel che sto dicendo quando, a casa dell’amico comune – un altro primo piano di un alloggio anonimo in via Torricelli, tra corso De Gasperi e corso Galileo Ferraris – gli domando con aria timida: «Ma tu

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ti senti un cinico?». So, prima di vederlo aprire bocca, che la sua risposta sarà: «Assolutamente no». Ora – è piuttosto raro che a questa domanda si riceva una risposta positiva, un accenno indifferente di assenso, oppure si allarghino le braccia come a dire: che vuoi, è la vita. Il mio amico, che lo conosceva da tanto tempo, aveva messo su un disco da cui suonava una canzone, Golden Hours, dal ritmo insinuante e circolare, come un tamburello elettronico costruito sui pulsanti di un citofono degli anni settanta. Aveva garantito sulla serietà e discrezione delle nostre intenzioni. Philip Roth si muoveva nello spazio della stanza assumendo diverse pose di giovialità. L’amico aveva messo una bottiglia di whisky sul tavolo. Non c’era necessità di sciogliere più di tanto i muscoli, a dire il vero: non stavamo affrontando realtà segrete o professioni pericolose, né stavamo sviscerando informazioni sensibili. Stavamo solo per affrontare la natura del credito contemporaneo dal suo punto di vista – quello di una persona per cui il denaro è una merce come qualsiasi altra. Ma tu esattamente che lavoro fai? Io sono un agente. Il mio compito è quello di contattare e acquisire clientela per conto delle banche per cui lavoro. Quindi hai aperto una tua agenzia? Tecnicamente siamo dei ‘broker’, lavoriamo su tante agenzie. Io lavoro con diverse agenzie. E geograficamente dove sono queste agenzie? Per quanto riguarda il credito al consumo, sono spesso su fronte strada, il classico negozio finanziario. Mentre per la parte degli investimenti sono negli uffici normali, dove fac-

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ciamo i leasing, perché lì la clientela è aziendale. Mediamente nel credito al consumo ti vai a porre in una posizione fronte strada per esporre la mercanzia. Invece quando lavori sul finanziare gli investimenti delle aziende sei tu che vai in azienda dal cliente-impresa. I soldi sono una merce come tutte le altre... è la modalità normale di vendita, nel senso che si vende il denaro, come si vende la frutta e la verdura... si vende, si espone... C’è qualcosa che non capisco, mentre osservo questa specie di Philip Roth. Si è appena definito un agente però ha aperto questi negozi, che sono suoi. Quindi non è un agente. È un piccolo imprenditore del credito al consumo. Gli chiedo se ho capito bene. Mi dice: «Sì, io ho delle mie aziende». Loro gli danno il denaro, devono usarlo, impiegarlo, ci sono varie forme tecniche attraverso cui il denaro viene utilizzato: la carta di credito revolving, il credito al consumo, il prestito personale, la cessione del quinto dello stipendio, il leasing, il mutuo. Tancredi utilizza tutti questi canali e si fa dare il denaro. È un po’ come avere del denaro in conto vendita. Non lo compra. Non lo chiede in prestito. È un tramite. Il suo lavoro consiste soltanto nel collocare sul mercato questo denaro: è un commerciante all’ingrosso di denaro. I negozi sono pochi, sono fondamentalmente quattro o cinque. Da lì poi si dipartono i commerciali che lavorano per Tancredi: vanno in giro e fanno accordi con tutte le organizzazioni che vendono qualcosa. Il dipendente commerciale parte al mattino e se deve fare ‘auto’ gira tutte le concessionarie, cercando di proporre il prodotto nel migliore dei modi, naturalmente in concorrenza con gli altri. Se il suo commerciale fa un accordo con una certa concessionaria, sarà poi il venditore della concessionaria a mandargli il cliente. Sotto forma fisica. O sem30

pre più spesso sotto forma di pratica cartacea. Oppure, e questo è il modo di parlare ragionevole e appena appena ottuso di Tancredi, sotto forma di pratica cartacea convertita in digitale. Mi viene in mente un’espressione curiosa in cui mi sono imbattuto cercando materiale sul credito al consumo – bugia: la conoscevo benissimo quando ero cliente di finanziarie e di recuperatori di credito –, l’espressione ‘cessione del quinto’. Qui Tancredi inizia con aria puntuale. «Prestito garantito», dice. «Significa che questa è una cessione del quinto dello stipendio, è una forma di finanziamento garantito dal tuo TFR. Anche se tu non vuoi pagare, loro prendono il denaro direttamente dal tuo datore di lavoro. Questa forma di prestito», aggiunge Tancredi «fino a pochi anni fa era possibile solo per dipendenti pubblici, poi dopo, come misura di, come dire, sostegno ai consumi, all’economia, è stata resa possibile anche per i dipendenti delle aziende private. Per cui adesso, in pratica, la cessione del quinto dello stipendio – è una legge vecchissima, questa della cessione del quinto dello stipendio, penso che sia degli anni sessanta, forse anche cinquanta – adesso è stata estesa con forme più modeste, siccome è super garantita perché è il datore di lavoro che ti paga la rata, quando fa la busta paga. Se tu prendi 1000 euro, il quinto corrisponde a 200 euro, quindi te ne danno direttamente 800. Il quinto», dice Tancredi «non esiste, agli occhi del cliente debitore». Io ho una raffica di curiosità e lui è carico di risposte precise, intonate quietamente, ma difficili da interrompere. Gli chiedo notizie di un altro mito linguistico, nel mondo del denaro a rate. Gli chiedo del ‘tasso zero’. «Il credito è una delle poche realtà che conta il tempo in mesi» risponde. «48 mesi, 60 mesi, 72. Si usano gli anni solo per farsi pubblicità, si 31

dice ‘un anno a tasso zero’. Non esiste, come non esiste Babbo Natale, questo mi sembra ovvio. Però è una forma di sconto. Io mi sono sempre chiesto perché quella sul tasso zero non sia considerata una forma di pubblicità ingannevole. No? Perché in effetti non esiste, però il tasso zero è in realtà una forma che presenta un certo vantaggio per il consumatore. Perché il tasso zero cos’è? nient’altro che un ulteriore sconto che applica chi ti vende l’oggetto che vuoi comprare, nella forma del pagare gli interessi per te», prende il respiro «che altrimenti avresti pagato. Paga gli interessi al posto tuo. Questo è il tasso zero. No? Cioè gli interessi, io, in società finanziaria, li incasso da chi ha venduto l’auto. Se tu acquisti un’auto che costa 10.000 euro in 12 mesi a tasso zero cosa succede, in realtà? Che tu compri la macchina, firmi il finanziamento per 10.000 euro a tasso zero, io erogo a lui, concessionario, non 10.000 ma, diciamo, 9.200 euro. Quindi ne rimangono fuori 800, che poi sono gli interessi dei 12 mesi, che il concessionario ha deciso di pagare al posto tuo ritenendo interessante, conveniente, venderti l’auto grazie a questa riduzione a 9.200 euro. Quindi il tasso zero, ancorché sia tutto sommato, secondo me, un’idea abbastanza intelligente per facilitare le vendite, viene pubblicizzato in una forma che effettivamente è un po’ opaca». Tancredi ha questo modo di commentare e parlare, mentre finisce di rispondere immagino cosa sia in realtà una forma effettivamente opaca, e gli chiedo delle sue società: «Quali sono i beni di consumo che finanziate di più, voi?». «I beni durevoli», risponde come immaginavo: «l’automobile, la moto, i mobili. Quella fascia di prezzo che va da 2/3000 euro a 20/30/40/50.000. Per esempio, il mercato dei camper è fantastico», si apre in un mezzo sorriso. «Il camperista», pro32

nuncia questa parola con rapidità dettata dall’uso comune «lui è un eccellente pagatore... perché... non lo so perché... la mia idea è che il camperista vede il camper come una casa, la sua seconda casa al mare o in montagna, quindi, secondo me, piuttosto s’ammazza ma la rata del camper la paga...». All’improvviso smette di guardarmi in faccia, punta a una piastrella e inizia senza aver ricevuto alcuna domanda: «Io... io non ho molta simpatia per quelli che non pagano. Perché non c’è alcun bisogno di fare i debiti, cazzo. Queste persone sono vittime più che dei loro problemi, del sistema in cui vivono», prende un altro sorso «per cui a un certo punto si sentono in bisogno di spendere del denaro che in realtà non c’è alcun bisogno di spendere... Per diversi anni mi sono occupato anche di contenzioso, beh ti posso dire che un sacco di gente... quando vedevo come si erano indebitati, come mi hanno fatto incazzare... capivo che proprio era la loro pochezza intellettuale, il loro spirito misero, che facevano sì che avessero bisogno di comprarsi il macchinone, l’orologio costoso... Si imponevano un sistema, un livello di vita costoso di cui non c’era alcun bisogno... Quando uno viene a piangere da me perché non riesce a pagare il Mercedes, cioè, io oramai dopo tanti anni li guardo in faccia senza problemi di alcun tipo e gli dico», brevissima pausa «guarda che anche in Panda si viaggia benissimo», poi un’altra pausa, come dopo aver espulso il fumo dalle narici «dopodiché, certo, dopodiché ho provato sincera pena nella mia vita per degli imprenditori che per colpe non loro sono falliti. Perché cosa succede: se ti salta uno che non ti paga, sei fuori, salti anche tu, e lì è il vero dramma, ecco per chi provo sincera pena, comprensione. Mi dà molto fastidio come viene trattato l’argomento da tv e giornali, o in quegli articoli che tendono a far 33

vedere il povero cittadino consumatore come vittima di quei bastardi delle banche... Ti dico cose molto peggiori: considero veramente quelli delle banche come dei bastardi perché io lavoro per loro e so come sono fatti, ma andare a descrivere le banche come desiderose di mettergliela nel culo a quelli che non pagano è una stronzata pazzesca... cioè voglio dire, questa gente qui, quando non paga, spesso se vai a scavare vedi che determinati campanelli d’allarme c’erano già, ma, cioè, non si sentono a posto se non hanno la macchina nuova ogni due anni: ma chi te lo fa fare? Ma perché?». Infine parla delle assicurazioni, che, spiega, non assicurano la solvibilità dei clienti ma il debito, il capitale che tu ti sei fatto prestare, e solo in alcuni casi: cioè la morte, l’invalidità permanente e l’inabilità temporanea... «Cioè sostanzialmente, la maggioranza di questi prodotti sono ormai già impacchettati, per cui tu compri il capitale e la sua assicurazione, così che se ti capita uno di questi eventi, tipicamente la morte, ecco, la prestazione assicurativa consiste nel rimborsare il debito residuo alla società finanziaria, ed è un gran bene, perché così l’erede, la moglie o chi resta, non si trova praticamente a ereditare anche il debito». «Ti capita mai di dissuadere qualcuno dall’indebitarsi? Cioè di consigliargli di non essere tuo cliente?». «Noi dissuadiamo tutti i giorni», con voce rapida e ferma, poi risata breve. Io passo il tempo a dissuadere. Nei prestiti personali il tasso di rifiuto da noi è il 50%. Nei leasing è il 20, 30%. Io non faccio altro che dissuadere. Se io non dissuadessi sarei miliardario. O rovinato. Dissuado sistematicamente. Cioè, voglio dire, il credito è l’unico baluardo che c’è a questa cosa qua... Passiamo il tempo a dissuadere, ma tan34

to loro resistono e vanno in cerca di un’altra finanziaria che il prestito glielo fa, è come fermare un fiume con una mano. C’è un credito buono, che è quello per lo sviluppo, l’imprenditoria, il viaggio. E invece un credito cattivo. Che sono tutte le cose troppo effimere. Ci sono quelli che si fan prestare i soldi per i matrimoni o per le vacanza, che è effettivamente un settore in boom. Perché, dici, arrivo ad agosto e non riesco a fare le vacanze. Queste sono le tipiche motivazioni per il prestito personale... Anche qui, c’è una banda di sfigati che vogliono spendere 30.000 euro in un giorno per sposare una figlia. Se bastano. Poi è una questione di moltiplicazione delle fonti di indebitamento. Non è che in sé ci sia qualcosa di sbagliato, a mio parere, nel chiedere soldi. Può avere la sua logica. Se tu sei una persona che ama viaggiare e decide di ammortizzare il costo da una vacanza all’altra, pur di fare il viaggio che ti sei sognato, io come faccio a dire che è una cosa cattiva? Certo è che se prima fai il viaggio, poi compri la macchina, poi l’auto... Mi interessa l’indebitamento incosciente nelle classi medio alte. Per esempio, secondo me alla Crocetta ci sono molti più debitori di quanto si pensi... un po’ per le case, un po’ in forme varie. Non ho dati in merito, ma a sensazione sono assolutamente d’accordo con te... anche perché quando ti abitui a certi tenori di vita elevati, tornare indietro è difficile. È una questione di identità personale. Perché se uno è sfigato, è sfigato e buonanotte. Ma quando uno è diventato rispettabile, con un certo tenore di vita, lì si scende. E scendere diventa una sconfitta, brucia. Ecco, lì sono le poche volte che ho visto veramente la vergogna. Quando un mio cliente mi ha dovuto confessare di non essere più ricco. 35

E che parole usano? No, non usano parole. È che vedi dei galletti diventare persone normali. Per certi versi fa anche piacere. Quando hai iniziato a lavorare in questo ambiente? Avevo 27, 28 anni. E adesso quanti anni hai? 49. Ti è mai capitato di rimettere un debito? Rimettere un debito, tecnicamente, se lavori per una banca, è impossibile. Ho sempre cercato di fare da cuscinetto tra gli inevitabili obblighi contrattuali che uno si prende e il fatto di comportarsi nella maniera più flessibile. Quando vedo che uno è in difficoltà, e vedo che è comunque intenzionato a onorare i suoi debiti, io mi faccio in quattro per dargli una mano, soprattutto nei rapporti con quelli che poi diventano gli interlocutori del cliente, che sono l’ufficio legale della banca per cui lavoro. Tuo figlio ha 19 anni e si fa un bel debito senza dirtelo. Cosa gli dici? Vado presso la filiale dove ha fatto il debito, chiedo quant’è e pago il debito... non è molto personale... È la morale biologica dell’essere genitori. Se posso pagare, sì, credo. C’è un aneddoto divertente di Andy Warhol che ha detto: ‘I periodi migliori della mia vita sono stati quelli in cui ho avuto solo problemi che potevo risolvere pagando’. Ma alla fine, qual è il tuo rapporto emotivo con i soldi? Il gatto del macellaio non mangia carne, ha risposto ridendo. Il gatto del macellaio non mangia carne, ha risposto guardandomi con gli occhi stretti. Il gatto del macellaio non mangia carne, ha risposto, chiedendosi che perversione sia ascol36

tarlo parlare del suo lavoro. Il gatto del macellaio non mangia carne, ha risposto immaginando che avessi qualche problema con i soldi, o l’avessi avuto in passato. Il gatto del macellaio non mangia carne: ho continuato a pensare alla ottusa qualità proverbiale di questa frase, alla somiglianza di Tancredi con Philip Roth, all’angolo moderatamente acuto da cui analizza il mondo aldilà delle questioni legate al denaro. Ho anche sentito con certezza che anni fa avrei desiderato tanto capire cosa c’era di particolare nella testa di uno come lui, che tanti anni fa uno come lui era stato l’origine delle mie notti insonni e dei risvegli improvvisi, paure che oggi, stringendogli la mano su un marciapiede della Crocetta, mi paiono piccole sensazioni da dimenticare. Il gatto del macellaio non mangia carne, mi ha risposto quest’uomo serio e responsabile. C’è stato un tempo in cui ho saputo con esattezza che significa bramare la carne ed essere il gatto. Quando sto per andare via mi giro e gli dico che non riesco a non pensare alle contrattazioni di cui mi ha parlato a inizio serata – una parte della mente ha continuato a restarne occupata anche mentre raccontava d’altro. Gli ho detto: «Scusa, non voglio crearti delle noie» (e invece un po’ volevo). Quelle contrattazioni forse costituiscono il noioso sale quotidiano del suo lavoro: prendo i soldi che le banche devono distribuire. Gli chiedo di scusarmi, ancora, ma «ho bisogno di parlare con la tua controparte, quello che distribuisce il denaro per conto delle banche. Uno qualsiasi, uno che ti sembra disponibile a parlare». Immagino queste conversazioni tra due esponenti del grande transito del Credito nella società materiale e immateriale, in mezzo a questi edifici, a questo quartiere, come messaggeri che si passano un testimone in una landa di confine. È un’immagine mongola 37

e il denaro potrebbe essere steppa, potrebbe essere carne, potrebbe essere il taglio degli zoccoli dei cavalli sull’orlo della terra, o voci che emergono dai falò di un mondo premoderno. Penso alla natura delle transazioni commerciali. Penso alla sanità, al senso di sanità che restituisce l’idea del commercio e dello scambio di valori, della fatica di raggiungere il confine e far cominciare la brutale circolazione dei soldi. Penso a Tancredi e al suo nome pre-moderno – quasi tutti i nostri nomi di battesimo non sono diversi, in effetti. Penso alla stanchezza del viaggio, all’inevitabile sospetto nei confronti dello straniero giunto a cavallo con la saccoccia rigonfia di monete d’oro. Penso alla stilizzazione di questa scena, a quanto siano pericolose e confortanti le stilizzazioni di qualsiasi scena accaduta sotto il cielo. Penso di nuovo alla sanità. A Tancredi che chiede all’ufficiale bancario dall’altra parte – nella sua divisa post-moderna costellata dalle onde blu del BlackBerry, della cortesia e dei tavoli di vetro, e le finestre di vetro, e i vassoi con il caffè e la coca-cola – come intende orientare la distribuzione. E il sifone che sibila sul confine. Ci sono stabilità, ci sono diversificazioni? Penso a lui che versa il caffè, al messaggero della steppa che tende il braccio per bere un po’ d’acqua dalla tazza dello straniero, gli dice «Ne voglio». Penso di nuovo a ciò che è sano e ciò che non lo è, mentre Tancredi mi risponde: «Certo, ti do un numero di telefono, chiamalo nei giorni lavorativi, dovrebbe risponderti la segretaria. Cerca di incontrarlo comunque fuori dal suo ufficio». Ringrazio e stringo la sua mano, mi giro, alcuni passi lungo i marciapiedi della Crocetta, cercando di continuare a immaginare il sibilo e lo scambio, la paura e la ragione che governano l’ago squilibrato della finanza – da prima dell’inizio dei tempi. Il messaggero dice «Ne voglio». Tancredi dice «Ne vuoi?». 38

Poi mi viene in mente una vecchia frase che da bambino non riuscivo mai a inquadrare con esattezza. Quando le dicevano «Vuoi?», mia nonna, una tartaruga molisana che ha attraversato il secolo ed è morta nel 2000, rispondeva con una certa quota di mistero: «Vuoi – si dice – solo agli ammalati».

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L’uomo che cerco ha una moglie, un alloggio di centotrenta metri quadrati al settimo piano, un figlio e due cani. Nella sala da pranzo c’è un piccolo quadretto con un lago e alcune vele bianche, ma forse sono qualcos’altro, non si capisce bene. Lo incontro in uno di questi appartamenti della Crocetta tutti uguali, progettati da un certo Rosazza negli anni cinquanta. Luca Beltrando-Ross sta facendo una carriera rapidissima. I suoi colleghi lo chiamano il Kissinger del credito. È piuttosto educato e formale, si rifiuta di dare del tu. Durante una delle nostre interviste uno dei due cani non obbedisce agli ordini del padrone, recalcitra, spinge, non vuole tornarsene a cuccia. Beltrando-Ross si comporta in modo volubile con i suoi cani – ogni tanto si fa leccare, tirando fuori la lingua a sua volta, storcendo il naso e strizzando gli occhi, offrendo il volto come uno scudo al muso dell’animale. Altre volte stringe troppo forte le cosce del Maltese, paralizzato nel suo abbraccio, e mentre le stringe appiattisce il labbro superiore contro quello inferiore come se dovesse resistere, fare uno sforzo, prorompere, in un atteggiamento da diga. Cosa fa quando è nervoso? Perché me lo chiede?

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I soldi danno nervosismo. Progettare il credito deve dare molto nervosismo. È vero, sa? Forse ne sa più lei di me, di soldi. Cosa significa ‘progettare il credito’? Significa tante cose, diciamo in una parola, decidere, prendere tante decisioni. Ok. In concreto? Decidiamo a quali intermediari dare i soldi. Erogare il credito? Erogare il credito a chi eroga il credito. E come funziona? Ci sono persone dall’altra parte. Hanno agenzie, piccole società, scatole finanziarie. Si fanno avanti e diventano più o meno credibili. Quando sono abbastanza credibili, inizia il rapporto. Ogni quanto viene erogato il denaro? Dipende. Può essere a scadenza mensile, bimestrale, trimestrale. Posso chiedere una cosa che non c’entra direttamente? Prego. Come lo immagina, questo denaro? In che senso? Immagini. Forme. Avrà un’immagine, una forma, tutto questo denaro di cui si occupa. Non capisco. Non ha immagine, non è mica denaro materiale. Sono spostamenti di liquidità. Appunto. Ma per esempio, lo immagina come una cosa liquida, una sostanza tipo l’acqua, l’olio, una bibita gasata, colorata, più o meno densa? Non ho mai pensato a queste cose. Quindi non ha una forma, non ha un’immagine. No. È solo qualcosa che c’è o non c’è. Ma io non sono uno

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con tanta fantasia, forse bisognerebbe chiedere a qualcun altro. Io ragiono per quantità, per cose che ci sono o non ci sono. Punto. Non pensa che ultimamente si sia prestato denaro troppo facilmente? Non credo. Forse all’estero. In Italia è ancora molto arretrata, la situazione. In che senso arretrata? Ora, fare questi discorsi non rientra nei miei compiti professionali, ma mi sono fatto un’idea. Vuole che gliela dica? Un’idea sull’arretratezza? Sul prestare denaro. Vede, io penso che le banche continueranno a prestare denaro per piccole spese, vacanze, carte di credito revolving, insomma, credito al consumo – lo faranno indipendentemente da ogni crisi, lo faranno molto più che sulla casa. Perché? Perché i soldi per il credito al consumo ritornano subito in circolo. Le case diventano di proprietà di chi contrae il mutuo. Le banche hanno partecipazioni in molte altre attività, partecipazioni dirette, e quando non ne hanno sono comunque coinvolte, perché le attività commerciali, imprenditoriali, industriali, di servizi, tutto insomma, hanno bisogno di denaro come i pesci dell’acqua. Il punto è la velocità con cui il denaro torna a casa. Cioè? A casa. La casa, per un’istituzione che presta denaro, è l’aria, sono le strade, le strisce pedonali qui sotto e il semaforo, e le auto, gli alberi e i marciapiedi. Tutto è un’occasione di fare e far fare denaro. Mi spiego? Non del tutto. Vada avanti. Ogni cosa che si muove può aver bisogno di credito. Ogni co42

sa che si muove può farti guadagnare sul credito di cui ha avuto bisogno per muoversi. Tutto il denaro prestato in questo modo ritorna a casa, cioè dappertutto, cioè dovunque ci si possa muovere. Ora sono io ad aver fatto un po’ troppa filosofia, temo. Continui. Non c’è molto da aggiungere. È come un film che si guarda troppo veloce o troppo lento. Dipende da come lo vuoi vedere. In ogni caso è tutto molto concreto, niente regole astratte. Io giudico le situazioni in cui deve finire il denaro della nostra banca da quanta capacità ha l’intermediario di far finire il nostro denaro dappertutto, in modo che ritorni, che sbatta su più sponde possibili, come una pallina da flipper. Ha mai avuto un flipper tutto suo? No. Ci avrà giocato qualche volta. Dalle mie parti, dove andavo in vacanza, da ragazzino, si giocava a flipper, e quando la pallina usciva, quando la perdevi, quando non riuscivi a tenerla dentro e finiva giù dicevamo che tornava a casa. Fin tanto che non perdi, che non va giù, devi farla girare. Parli della pallina. Parlo dei soldi. E dove vanno quando finiscono di girare, di produrre altri soldi sbattendo di qua e di là? Tornano nella casa. Precisi. A casa. Beltrando-Ross. Il cognome portava nel codice genetico verbale la doppia provenienza della sua famiglia. L’arredamento portava lo stemma finanziario di un uomo di quarantatre anni, capace di acquistare un numero di oggetti di design compreso fra i tre e i cinque all’anno – dettagli di mobilio e ornamento casalingo che si aggiungevano a una composizione 43

spaziale ragionevole per una persona che aveva accumulato nella sua vita adulta più denaro di quanto ne avesse visto uscire dalle tasche dei genitori. Mentre lo ascoltavo continuavo a fissare il quadretto con le vele, sempre meno fiducioso nel fatto che fossero vele – macchie di bianco geometriche e aggraziate sul pelo dell’acqua. Suo padre è un ex impiegato dell’azienda che un tempo si chiamava Stipel, ovvero la Sip, ovvero la Telecom di oggi. La sostanza economica, il valore effettivo di un’azienda, cambia e travasa le proprie cifre nel corso del tempo, così come cambiano e travasano i nomi, le proprietà, le partecipazioni e le cessioni. Il padre aveva fatto un viaggio a Londra nel dicembre del 1964, il primo aereo della sua vita, decollato da Milano e atterrato a Heathrow in mezzo alle luci di un Natale ancora carico di futuro. Mauro Beltrando aveva 38 anni, non era sposato e leggeva «Il Mondo» e «Il Giorno» di Italo Pietra, vestiva relativamente alla moda e ascoltava i complessi pop che arrivavano in Italia con qualche mese di ritardo – ma era abbastanza smaliziato da dire, ricorda il figlio, che Lucio Battisti aveva importato i giri melodici e molte idee musicali dai Kinks, che tra i complessi pop erano decisamente i suoi prediletti. Proprio a Londra, proprio in quel dicembre della metà degli anni sessanta, il moderato, acuto Beltrando, un cittadino che si potrebbe definire ‘corretto e di qualità’, come un buon caffè, fa un incontro statisticamente improbabile. Un incontro femminile. L’incontro femminile è una sciatrice inglese. Gli sciatori inglesi sono una rarità, è difficile incontrarne, poi innamorarsene, poi rivederla in Italia, poi vederla trasferirsi per un periodo più lungo, poi immaginare un pezzo di strada insieme a lei, poi chiedere e ottenere di sposarla, poi chiedere e ottenere un trasferimento alla sede della Stipel più vicina ai 44

campi da sci possibile – perché lei potesse insegnare alle pendici delle Alpi. Poi sarebbero venuti due figli, Luca e Anna, entrambi nati vicino a Bardonecchia, vicino all’ufficio Stipel dove il padre andava a lavorare tutte le mattine, vicino alla località sciistica dove la madre andava a insegnare tutte le mattine della stagione invernale, sabato e domenica compresi. Luca mi ha raccontato tutto questo accarezzando il Bassotto cane maltese in modo regolare, come se la mano fosse un pettine meccanico. Ogni tanto aumentava il ritmo delle frasi, i capelli sembravano luccicare dall’eccitazione, la pressione sul collo del cane si faceva preoccupante, a zig-zag. L’ho ascoltato raccontare com’è, crescere nella solidità finanziaria, in una valle dolce e verde e bianca, con una madre presente soltanto quando le nevi si sciolgono, con gli altri abitanti un po’ sorpresi di sentire voci inglesi e milanesi mescolarsi nelle mattine di scuola, nelle passeggiate della domenica, nelle attese del papà al fondo della strada sulla quale svettava la casa che avevano acquistato, nella luce montana degli anni settanta. L’ho ascoltato raccontare che un mattino di febbraio il bidello è entrato in classe chiedendo che lui uscisse. Fuori dall’aula c’era la sorella, che faceva lezione nell’aula accanto, riservata alla classe di un anno avanti. La madre si era schiantata contro un albero facendo un fuori pista per andare a recuperare qualcuno che era scivolato giù. Era morta sul colpo. Dopo averlo sentito raccontare tutte queste cose ho aspettato un po’ e abbiamo ricominciato a parlare di soldi. Come si fanno prestare i soldi, gli italiani? Siamo i peggiori d’Europa, a dire il vero. Vuol dire che non c’è una corsa al denaro prestato, che non c’è un boom del credito al consumo, che le città non sono piene di pubblicità, volantini che inneggiano al ‘pre45

stito per i dipendenti’? Vuol dire che se accendi la tv di notte non si vedono decine di spot di società che offrono prestiti anche a chi è protestato, a chi ha già diversi debiti, a chi non può o non vuole pagare più i vecchi debiti? Queste cose, non c’è dubbio, esistono, ma, in assoluto, siamo il paese europeo con il più basso tasso di indebitamento procapite. Sono i dati. È la statistica. Ma sta salendo vertiginosamente. O no? Sta salendo. Non so se lo definirei vertiginoso, ma pare che gli italiani si siano accorti che il credito è una forma di ricchezza. Il credito è una forma di ricchezza? Non è la mia opinione. È l’economia che lo dice. Senza credito non c’è economia. Quanto sono indebitate, mediamente, le famiglie italiane? Non lo so, per questo ci sono le statistiche ufficiali. Una stima generale posso farla, però. Metta che lei è un cittadino italiano, guadagna cento, è indebitato per cinquanta. Ma se invece che italiano lei è un tedesco guadagnerà cento e sarà indebitato per sessanta-settanta. E se è un inglese arriverà a novanta. Per non parlare degli americani, che superano abbondantemente la percentuale di entrate. Lì siamo a centoventi, centotrenta, anche di più. E non sono mancate le occasioni per verificarlo, in questi mesi. Ma è l’economia in sé che si basa sul debito, non si può eliminare il debito, l’importante è usarlo come uno strumento di ricchezza. Uno strumento di ricchezza è diverso da una ‘forma di ricchezza’. Non sono granché con le parole, ma capisco cosa intende dire. E credo sia così. Lei è indebitato, personalmente? Come tutti. 46

Mutuo? Sì, questa casa. Come molte delle case qui intorno. Si dice che questo quartiere sia il regno della solida borghesia, case di proprietà, liquidità permanente, solvibilità indiscutibile. Beh, mi creda, non è così. Questo quartiere è fatto di lego, e i mattoncini sono fragili, molto fragili. Ma possono diventare anche solidi. Dipende da come ci si comporta, da che scelte si fanno. Il denaro è una forza, una fonte di energia come altre. Ecco, se incomincia a pensare al denaro come si pensa al vento, all’acqua, al carbonfossile, a tutto ciò che può sprigionare energia, a tutto ciò che può essere usato per fabbricare cose nuove, la prospettiva è molto diversa. Ma il denaro è una convenzione, mentre le fonti che ha menzionato sono dati oggettivi, di natura. Certo, anche questo è vero. Infatti il denaro compie questo miracolo di cui stiamo parlando. Di che miracolo stiamo parlando, scusi? Del prestito. Vuol dire che il denaro, a differenza di altre fonti di energia, può esserci anche quando non c’è. È lo spirito del prestito. E lo spirito dei tassi d’interesse. E quale sarebbe, secondo lei, questo spirito? Che si crea più valore, quando chi aveva bisogno di un certo valore lo ha ottenuto perché qualcun altro se ne è privato e glielo ha messo a disposizione. Si paga l’assenza temporanea del denaro dalle tasche del creditore. Direi che si paga la presenza temporanea del denaro nelle tasche del debitore. La sua auto l’ha pagata o è in leasing? No, è della società, io la uso soltanto. 47

Carte di credito? A saldo. Niente revolving? Quello non è credito. È circonvenzione d’incapaci. È coraggioso sentirglielo dire. Il coraggio è un’altra cosa. Questa sua visione influenza il suo lavoro, in qualche modo? Non potrebbe. Il sistema deve funzionare e non sarò io a cambiarlo. Allora fanno male a chiamarla il Kissinger del credito. Direi che è un soprannome sciocco. La sua visione personale non influenza minimamente le scelte, le decisioni, dove fa andare a finire questi soldi che la banca mette in circolo ogni mese? Non potrebbe, anche perché è un sistema, quello bancario, in cui tutti i negozi vendono la stessa merce sugli stessi scaffali allo stesso prezzo, con nomi leggermente diversi. Non è un mercato, è un... come dire... un... Un...? Non so, non mi viene l’espressione, non so come dirlo. Cosa immagina? Una cosa che funziona indipendentemente dalla tua capacità nel farla funzionare, e i cui effetti sono casuali e nello stesso tempo prevedibilissimi. Qualcosa che tocca tutti, come il denaro... Ecco qualcosa di simile alla... pioggia. Ho rivisto Beltrando-Ross a una festa di matrimonio, per caso, insieme ai suoi cani e senza la moglie e il figlio, da solo, poco dopo il grande crack finanziario globale dell’autunno 2008. Era una giornata umida, in una zona del Piemonte in cui si mangiano rane e si sente la presenza di grandi laghi an48

che quando non ci sono. Un matrimonio di fine ottobre, con uomini in tight e una grande villa di proprietà, tutto scandito secondo tradizione. I genitori della sposa erano incaricati di coprire le spese del matrimonio – si trattava di due rami di antiche famiglie che non potevano rischiare di non coincidere con l’immagine di se stesse: rami che si congiungono sotto il velo di un vestito prezioso, sotto le giacche lucide e opache di ragazzi dal corpo a pera. Dalla casa si vedeva lo scorcio di un lago con alcuni cigni immobili. Ho pensato immediatamente a quella frase, immagina il cigno. Forse erano cigni anche quelli dipinti nel quadro a casa di Luca. Mi sono avvicinato per chiederglielo, ma poi ho cambiato idea. Luca sembrava nervoso e faceva sempre le sue facce, ogni tanto agganciava i due cani a una sedia o una ringhiera di ferro battuto, loro guaivano e lui si avvicinava facendo scudo colla schiena, così non vedevo mai cosa succedeva tra lui e i cani – ma sospettavo che gli chiudesse forte la bocca con le mani a tenaglia, sussurrando parole di minaccia che si perdevano nel brusio scodellato dei passaggi di flûte e persone. Era tardi, la luce se ne sarebbe andata di lì a poco, il grosso della festa era all’interno, immerso in una luce gialla che scendeva dai lampadari a forma di sfera. Ricordo di aver seguito Luca fino al posto dove aveva legato i cani, di averlo aspettato come si attende qualcuno che è lì con te, l’unico amico in una festa di sconosciuti. Non era così. Ma quando si è girato si è passato la mano tra i capelli e mi ha detto che comunque le cose andavano, insomma, anche se andavano maluccio, e non posso tuttora affermare con certezza se alludesse alla sua vita personale o ai soldi, o alla banca, o a chissà cosa. Quando gli ho raccontato del benzinaio mi ha risposto che non si ricordava, che non teneva a memoria tutte le 49

persone che aiutava, che aveva aiutato, diceva che si divertiva a dare una mano, gli piaceva. Poi mi ha chiesto qualcosa di me, senza ascoltare la risposta, tagliando la frase a metà – «Sì, ora ricordo, il benzinaio: lavorava in azienda, prima. Gli ho dato una mano ad aprire il punto vendita Esso. E sai che ti dico?», ha aggiunto, «Aspetta qua, mi sembra di aver visto qualcuno che potrebbe interessarti. E c’entra anche col benzinaio. Ma come hai fatto a contattarlo, il benzinaio? Chi ti ha dato il suo nome?». Infine mi ha preso sottobraccio. «Ci diamo del tu, ora», senza aspettare la risposta, dicendo «Lo sai che i genitori di lei sono venuti da un mio conoscente di una banca piccola cui ogni tanto eroghiamo qualcosa? Mi ha fatto vedere i documenti relativi alle pratiche per cui chiedeva soldi e capisco che sono loro, ti rendi conto, loro, con tutto quello che sembrano avere qui intorno, a chiedere un prestito per il matrimonio? Non so, pensavo… poteva essere interessante per il tuo libro, così ho fatto una copia della richiesta e ce l’ho a casa. Fa effetto vedere quei cognomi e quella cifra, quella cifra che non hanno, e non hanno nemmeno più le proprietà da vendere per raggiungerla, perciò l’hanno chiesta, credito personale, e naturalmente è stata accettata, poi non so se serviva tutta per il matrimonio, comunque l’hanno avuta in una settimana, efficienza, no?». E quanto era la cifra? Centoventun mila euro.

5.

La persona che cercava il Kissinger del credito era un ragazzo che sembrava un prete – capelli morigerati, barba morigerata, colletto della camicia morigerato. Non era un prete, naturalmente: era lì con la moglie, una fanciulla che anni prima avevo incontrato a una serata in discoteca e si era distinta nella mia memoria per una squillante performance lesbica che me l’aveva fatta avvicinare per intelaialare qualche chiacchiera a tre dimensioni nel buio pulsante della musica techno. L’avevo capito subito, incrociando il suo sguardo per caso tra le invitate. Ricordava bene anche lei, dopo un po’, abbassando lo sguardo. Non ci sbagliavamo. Nel 2002 o nel 2003, una notte di marzo, lei e una sua amica con i capelli ricci si erano baciate con dolce, aggressiva naturalezza, e stranamente entrambe continuavano a tirare fuori dalla tasca delle pastiglie di Golia Bianca – ed erano davvero caramelle, anche se il contesto potrebbe suggerire qualcos’altro. La ricciola era più carina della moglie che avrei rivisto anni dopo alla festa, infatti i miei occhi erano tutti per lei: ma io avevo destato l’interesse dell’altra, la futura moglie del mancato prete. Le feste hanno movimenti che sembrano programmi di concerti, con trii, quartetti e piccole orchestre che basculano

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da una curva all’altra. Noi eravamo un quartetto. Dopo cinque minuti eravamo un trio. Le formalità mi informavano che lui, il marito, quello che sembrava un prete, si chiamava Tomaso Brandini di Lanzo, mentre lei si chiamava Veronica Something – erano tutt’e due aristocratici, il nome di lei troppo lungo ed estraneo alle normali convenzioni della lingua italiana, così per me è sempre rimasta Veronica Something, come la protagonista di una canzone romantica, una canzone la cui protagonista non deve necessariamente avere un nome. Something e Tomaso si erano conosciuti un anno dopo che io l’avevo vista incollarsi alla bocca dell’amica ricciola. Si erano sposati undici mesi dopo. Avevano avuto tre bambini in tre anni. Ora si guardavano con sospetto, perché lei aveva voluto a tutti i costi raccontare al marito di come c’eravamo conosciuti. Lui, Tomaso, sembrava un prete, ma prete debole e sospettoso: si toccava gli angoli del viso nei momenti di difficoltà – lo dico perché sicuramente quello doveva essere un momento di difficoltà: imbarazzo, incursione di un asteroide inaccettabile sulla pelle neutra del loro matrimonio. Lei non gli aveva mai confidato di quella serata e neppure di aver mai baciato un’altra donna. In realtà Kissinger ci aveva fatti conoscere per parlare d’altro. A lui aveva detto che io e lui dovevamo assolutamente parlarci, che io potevo risolvere i suoi guai, aiutarlo a risolvere i suoi guai. Io gli avevo fatto cenno di no, ma che dici, lascia perdere – non sapevo nemmeno a quali problemi alludesse, né mi sono mai sentito capace di aiutare chicchessia a uscire da qualsivoglia pantano. A me invece aveva raccontato del benzinaio, e in effetti era vero, il cognome era lo stesso. Chiunque fossero, erano imparentati coll’industriale dalle spalle strette che aveva chiesto al benzinaio come era riuscito a farsi la Bmw. Kissinger era brillo e lucido insieme, mi aveva abbracciato in modo travolgente e 52

in modo travolgente portato al loro cospetto, poi la ragazza aveva parlato dell’incontro in discoteca e c’era stato il momento difficile: infine Kissinger ci aveva lasciati, coinvolto da qualcuno di diverso da noi, sempre lucido e brillo, e al momento buono ho dovuto recitare, come sempre, al cospetto di Tomaso – che mi guardava storto, antipatico, sfiorandosi gli zigomi e totalmente maldisposto. Io gli ho detto, con la faccia più seria che potevo: «Magari ci possiamo sentire in un contesto diverso da stasera, che ne dici, mi ha detto il nostro comune amico che poteva essere interessante per me e per te fare la reciproca conoscenza, non ho dubbi che possa essere così». Lui era molto educato, non diceva niente, continuava a guardarmi storto ma un po’ meno, io gli ho passato un biglietto con il mio numero e gli ho chiesto il suo, lui ha guardato la moglie per un attimo ma lei era già altrove – tutti avevano bevuto più di me – così mi ha domandato che lavoro fai e io ho risposto senza batter ciglio: «Il consulente, ma ne parliamo, poi. Nei prossimi giorni. Quando ci sentiamo». E l’avevo salutato, andandomene. Qualche giorno dopo, al telefono con Kissinger, avrei scoperto di cosa si trattava. Era perfetto. Era la cosa giusta. Era il segno che non dovevo più interessarmi soltanto ai creditori, ai recuperatori, agli architetti del credito. La scelta era stata evidente, e chiara: l’aveva suggerita il bisogno di affrontare il tema del denaro prestato senza scivolare nei vittimismi, nella retorica semplice dei cittadini fregati dalle banche, nelle lacrime di chi finge di non aver saputo cosa stava firmando. Ovvio – ci sono tantissimi casi in cui vittime autentiche e vittimismo rappresentato coincidono, ma tutto sommato era interessante partire dai meccanismi: sapere come funzionano gli ingranaggi dell’Offerta. Nel rito cattolico della Santa Messa c’è un pun53

to in cui il sacerdote rievoca la morte del Figlio di Dio, chiamando il Calvario di Gesù il sacrificio perfetto. Adesso era tempo di guadare dall’altra parte – e la storia di Tomaso Brandini di Lanzo era un esempio rigoglioso – non la sua, quella di suo padre. Suo padre aveva compiuto il sacrificio perfetto: suo padre era stato il debitore perfetto. Vittorio Adolfo Brandini di Lanzo, un mattino di febbraio di tre anni prima, era stato trovato impiccato nel proprio bagno di casa – volta affrescata, due lavabi, due finestre che guardavano il pallido paesaggio di villette liberty di quella che tutti i torinesi conoscono come l’Isola Pedonale della Crocetta. La casa era anch’essa una villa, costruita ai primi dell’ottocento, con una grande fontana di marmo in giardino. Un giardino poco curato, l’ultimo giardiniere se n’era andato pochi mesi prima che Vittorio Adolfo chiamasse i figli, l’ex moglie, la figlia avuta fuori dal matrimonio ma riconosciuta tempo dopo, quando il marito della donna con cui l’aveva concepita era morto in un incidente stradale, li radunasse nel salotto da conversazione, gonfio di cuscini e drappi e velluti come un club di gentiluomini appassionati di sigari, rassicurasse tutti sulle sue condizioni di salute, «non sono qui per dirvi che sono malato terminale o cose del genere», al che tutti avevano tirato in cuor loro un respiro di sollievo perché non era mai stata una famiglia gelida e attaccata ai costumi esteriori della vita della loro classe sociale: si volevano sinceramente bene, con l’eccezione della figlia acquisita, che mal tollerava di stare nella stessa stanza insieme al padre ma aveva curiosamente legato con la madre dei suoi fratellastri. Si domandavano che cos’altro potesse essere successo, ma erano così poco abituati a considerare possibilità in genere, così poco abituati a calcolare i disastri e le imprese che compongono il puzzle chiama54

to mondo esterno, fuori dagli amici, fuori dai cugini e dagli zii, fuori dalla famiglia e dal passato, erano così poco preparati a eventualità imprevedibili, che non ci potevano credere, e hanno negato, scosso la testa, sbattuto le mani sulle ginocchia in segno d’indignazione, quando il padre, il marchese Brandini di Lanzo, su cui gravava una fama di uomo peculiarmente responsabile e saggio, sobrio e morigerato addirittura, aveva detto: «Sono rovinato». Seguito subito dopo da: «Siamo rovinati». Poi aveva aggiunto: «È probabile che perderemo tutto». È possibile che al momento non sapesse davvero che fare, che credesse veramente alle parole che stava pronunciando con aria seria ma non tragica, quasi rapida. L’ho ammirato, forse, in quel momento. L’unica volta nella vita. Perché dici questo? Perché proprio allora? Perché aveva l’aria di uno che, come dire, disprezzava quello che gli stava succedendo. Ma stava succedendo anche a voi. Io ne ero più fuori che dentro. Quella era la loro casa, non la mia. Quelle erano le loro abitudini, non le mie. Erano i loro divani speciali, non i miei divani speciali. Giulietta sembrava una copia del padre, stesso taglio dello sguardo, stessa impronta del naso e dell’arco sopraccigliare. I divani speciali erano tre o quattro divani, nella grande casa dell’Isola Pedonale, che funzionavano da armadi – tenevano non delle persone sedute ma delle cose: uno era per i tight da indossare durante le cerimonie più formali, tutti chiusi nelle loro custodie, adagiati sul poggiaschiena e tenuti lì alla bisogna, perché in queste famiglie le occasioni formali costituiscono il calendario e fanno le stagioni; un altro teneva le 55

cappelliere con i cappelli da donna, che si tramandavano di generazione in generazione. Non è che non avessero spazio a casa. È proprio il contrario – era un modo veloce per trovare cose che altri indossano una volta ogni due anni e loro indossavano, per un motivo o l’altro, ogni due settimane: ma era un ricordo per loro stessi, la dimostrazione che avevano stanze da buttare e potevano onorare l’eccentricità allo stesso modo in cui onoravano la tradizione. Mi aveva raccontato cos’erano, i divani speciali, la prima volta che ci siamo visti, quando ho cominciato a pensare che mi stavo spingendo troppo in avanti, che questa non era più una storia di debiti e crediti ma di vite umane nel loro senso più rigido e delicato, se possono coesistere queste qualità. Lei sembrava così, d’altronde – rigida e delicata –, non avevo nessuna fiducia nella possibilità che accettasse di parlare della storia di suo padre, della storia della famiglia che non voleva chiamare sua e che la sorte aveva contribuito con forza ingrata a definire tale, una definizione che spinge, una definizione possessiva che era come uno straniero che spinge alla porta e vuole entrare, e non smette di voler entrare. Giulietta aveva detto di sì dopo che la matrigna e i fratellastri avevano declinato con educazione la mia idea di sedersi e parlarne. Non avevo nessuna fiducia, anche perché è così che bisogna dirigersi nei confronti di queste cose, della realtà di queste cose, della realtà rigida e delicata di voler investigare sulla realtà rigida e delicata di una tragedia familiare mossa dalla disperazione nell’uso del denaro. È il mio metodo istintivo – interessarmi a qualcosa, poi dimenticarmi dell’interesse e spingere proprio come quello straniero proprio contro quella porta, ma senza forzare, senza pretendere di crederci, che prima o poi mi faranno entrare. L’oggetto dei desideri di un narratore deve comportarsi – dev’essere visto – come un parassita attivo. 56

Se va bene, tanto meglio. Se va male, avevano ragione loro a difendersi, perché questa non è solo la storia del loro denaro andato in fumo, ma del loro volersi bene e voler tenere insieme la famiglia allargata andata in fumo, del suo voler loro bene e del suo volerli tenere insieme a tutti i costi, andato in fumo. A tutti i costi, ripeto, e qualunque indocile sentimento provassi nel sentire che mi avrebbe detto qualcosa, quando l’ho incontrata al tavolo di un bar, aveva a che fare con lo stesso movimento neutrale che porta un’anima a volersi interessare del destino di un’altra anima, ma a comprendere alla perfezione che questo interesse potrà venire corrisposto con uno schiaffo in faccia. Lei stava sorseggiando un caffè e quando mi ha visto ha tolto le cuffie dell’I-pod, c’era silenzio, per qualche secondo non ha fatto in tempo a spegnerlo, così sull’acustica del tavolino si è sparsa la sequenza di note vocali di un gospel allegro. Brandini di Lanzo, al momento della sua scomparsa, aveva contratto debiti per una somma totale di 723.000 euro, ipotecato la casa avita – rendendola così invendibile –, acceso due mutui per comprare terreni che qualcuno gli aveva promesso sarebbero diventati edificabili. Avevo provato a chiedere a Tancredi se per caso il suo nome comparisse tra quelli dei clienti di una delle sue società, e compariva in quasi tutte. A proposito di uno dei mutui avrei scoperto, grazie a un riscontro amichevole – e illegale, vista la legge sulla privacy – svolto da un collaboratore di Beltrando-Ross, che la sua tecnica debitoria non differiva in nessun modo dalle più spericolate modalità d’oltreoceano. Negli Stati Uniti non è difficile incontrare qualcuno che per pagare i debiti di una carta di credito richiede una nuova carta di credito, ritira mensilmente tutto il plafond prelevabile e lo 57

versa per pagare la carta precedente. Poi ne accende una terza per pagare la seconda, e così via. Brandini di Lanzo, che di carte di credito ne aveva solo un paio, otteneva prestiti chirografici, ovvero garantiti dalla sua semplice firma, visti i beni immobili di cui era intestatario o cointestatario, e copriva di trimestre in trimestre i debiti vecchi con i debiti nuovi. La sua famiglia possedeva alcune proprietà immobiliari a Villefranche-Sur-Mer, in Costa Azzurra. Vendute due anni prima della morte. Un appartamento a Roma, zona Monteverde Vecchio. Venduto un anno e mezzo prima della morte. Due box auto del valore di 42.000 euro ciascuno, alla Crocetta, entrambi venduti frettolosamente – dal versamento della caparra all’atto notarile erano passati cinque giorni. Un locale di mille metri quadrati, in centro, affittato a un ristoratore amico di famiglia, era al centro di una causa legale – il proprietario aveva cercato di sfrattare il locatario senza riuscirci, visto che non c’erano motivi validi e il contratto garantiva, come spesso accade, quest’ultimo. L’ultimo oggetto di valore rimasto era proprio la villetta del diciannovesimo secolo, incastrata in un reticolo di ampie vie silenziose e benedette da un’atmosfera da villaggio di lusso, senza auto parcheggiate e con bambini vestiti da collegiali inglesi e genitori con enormi cani preziosi al guinzaglio. La stanza in cui si è suicidato, il bagno, dava su una via intitolata a un generale piemontese delle Guerre d’Indipendenza, come tutte quelle dell’Isola Pedonale. Il mondo di Vittorio Adolfo Brandini di Lanzo, marchese, era fatto di sicurezza secolare tamponata da usi quieti, punti di riferimento stabili e pullover che non tradivano passioni troppo accese. E cifre precedute dal segno meno, sicuro. I debiti, dimostra la finanza contemporanea, possono essere poco diversi da una raffigurazione algebrica, tanto netta quanto ribaltabile – ba58

sta cambiare tipo di geometria. Ma i segni negativi sulla scia di quest’uomo, man mano che li raccoglievo – a parte i ‘favori’ chiesti ai nostri creditori avevo consultato dati pubblici, perché gli ingenui non sanno che i soldi finiscono nel buio delle tasche ma lasciano tracce asfissianti nell’aria, e tutti, se vogliono, possono consultare l’aria. Ma c’è qualcosa di osceno nel farlo, sentivo, così a un certo punto ho smesso – c’erano motivi sufficienti per perdere la dignità, per esplodere nella vergogna. Ma per suicidarsi c’è bisogno d’altro. Era chiaro che conosceva la legge, il papà di Giulietta, e sapeva che i debiti non sarebbero ricaduti sui figli, che per loro sarebbe stato più facile riscattare l’ipoteca se lui fosse morto, perché le centinaia di migliaia di euro in più sarebbero state coperte dalle assicurazioni che le finanziarie e le banche avevano incollato a ogni centesimo di quelle cifre. Li vedevo, a differenza di Kissinger, li vedevo formarsi e disperdersi come stormi percentuali, i soldi che entravano e uscivano dai bancomat e dagli assegni del distinto marchese ingrigito, alto, con una parlata, con un modo di parlare, l’aveva descritto la figlia in questo modo, «da tenebre più dolci, più dolci di quelle che immaginiamo quando ne abbiamo paura». Volevo sapere come faceva a spendere così tanto. Volevo indagare su quell’equivalenza tra amore e denaro, se era vero che aveva deciso di ammazzarsi per rimettere i debiti dei figli. Volevo sentire uscire dai denti di una persona autentica, bruciata dalla sofferenza, cosa significava aver conosciuto, rigettato e infine accompagnato al cimitero un padre così diverso dal mio, che invece di problemi non me ne aveva mai creati, anzi – aveva sempre risolto i miei. Nella sua vita il papà della ragazza che avevo davanti, non aveva fatto molto altro che spendere. 59

Hai presente la sensazione di bere l’aceto? No, ma... credo di sì, posso immaginare. Era così. Avere a che fare con lui? Sì. Un forte senso di disgusto, con qualcosa di oscuro, di brutto, che ti tira giù. Perché spendeva troppo? Per il modo in cui viveva? Anche. Non solo, ma era così. Aveva tenuto nascosto tutto, nessuno di loro, e nemmeno io, avrebbe mai pensato che stava andando così in basso. Ma quanto? In basso quanto? Intendi in cifre? Sì. Spendeva più di trentamila euro al mese. Ma non lo sapevamo esattamente quando era con noi, l’abbiamo saputo dopo, con i creditori, guardando gli estratti conto, cose del genere. Ma come li spendeva? Se è possibile saperlo. Non mi va di parlarne. Ti dico che spendeva per noi, per i suoi figli, per la sua ex moglie, ma soprattutto per se stesso, perché non era capace di fare i calcoli, perché doveva sentirsi male ad accettare che i calcoli servivano a rendere la vita più inquadrabile, capisci cosa intendo? Credo. Ecco. Lui invece no, secondo me non credeva in niente. Io odio quelli come lui e ho odiato tanto anche lui specificamente. Non so se ha tanto senso continuare a parlarne. Non aveva senso. Posso riportare che si trattava di un uomo che viveva seguendo la filosofia pratica secondo cui vivere funziona bene se si gode del meglio di tutto, del meglio dei vestiti e del meglio tecnologico. Del meglio dei concerti e del meglio delle opere d’arte. Del meglio delle auto e del meglio delle moto. Del meglio delle bici, perché per un cer60

to periodo, mi ha raccontato Giulietta, si era messo in testa di perdere dei chili di troppo andando in bici e si era comprato settemila euro di bicicletta alle fibre di carbonio o qualche altro materiale d’avanguardia, ma poi era fatto così, diceva la figlia, faceva regali, zittiva le persone risolvendo piccoli e grandi problemi economici per passare al meglio, al meglio che poteva essere il rapporto con quella persona che stava attraversando un momento di bancarotta – perché negarsi il meglio che poteva avere da quella persona, solo perché le spuntavano problemi da tutte le parti? Un assegno, un bonifico inaspettato, cose del genere. Ma anche spese isteriche, puntellate dalla depressione improvvisa o dalla noia. Quando parlava di aceto ho sentito uno strano brivido inospitale; Giulietta vedeva nell’aceto, nella sensazione di bere aceto, un difetto di virilità, il bisogno assurdo di comprare per certificare la propria esistenza, ecco, era come se mi sussurrasse quel frocio, quel barbaro di mio padre. Poi mi ha raccontato del primo Natale che ha passato nella nuova famiglia, le sembrava di essere un africano, ha detto, un africano adottato in una casa di commercianti di tappeti. Perché di commercianti di tappeti? No, niente, era per dire. Per dire cosa? Che in quella villa era pieno di cose, di mobili, di ricordi, di quadri, di libri, e soprattutto c’erano tappeti ovunque, così mi sono immaginata, ripensandoci e raccontandomelo tante volte, dopo, questa figura dell’africanino adottato nella famiglia benestante e piena di tappeti, e lui che per qualche ra61

gione pensa che abbiano tutti questi tappeti perché sono dei commercianti di tappeti, ecco tutto. E com’era andata? Avevamo finito per litigare, io e lui. E io volevo andarmene, i figli si sono ritirati nelle loro stanze, la ex moglie e il nuovo compagno se ne sono andati, così siamo rimasti lì io, mia madre e lui, poi mia madre se n’è andata e io volevo andar via con lei, e uscendo nel giardino c’era lui che vomitava, e io ho dato di testa anche peggio di prima, insomma, una serata orribile, e adesso non so più cosa ricordare e cosa pensare. La figura di un uomo che per risolvere i propri e altrui problemi spende mi commuoveva e mi faceva pena. Naturalmente sentivo qualcosa di vicino, anche. Quindi mi faceva paura. Giulietta mi ha raccontato che non avevano il minimo sospetto che potesse fare una cosa del genere, anche dopo aver confessato che la situazione finanziaria era un disastro. Il problema è che i soldi dei genitori, di questi genitori, sembrano sempre infiniti. Non pensi mai che possano davvero toccarti, i problemi, per quanto abissali. No. È così. Pensavo che avrebbe venduto qualcosa, che avrebbe chiesto a qualche amico. Ma non l’ha fatto. No. L’aveva già fatto. Non potevo capire questa storia senza far ricorso a un facile sociologismo: l’aristocrazia, l’eredità militare, il contegno, i clichè del ruolo della nobiltà sabauda nella costruzione dell’Italia unita e quant’altro. La realtà è che tutto questo doveva aver pesato, perché quell’uomo non aveva chiesto prestiti che non si potevano chiedere, si era attenuto in fondo a 62

quello che molti aristocratici credono nell’intimo, cioè che esistiamo noi ed esistono loro, e non si chiedono soldi tra noi, ma si chiedono soltanto a loro. Così è successo che la diginità e l’etichetta, le abitudini e la faccia imperturbabile si sono mantenute intatte fino all’ultimo, fino al momento pianificato con attenzione e cura. Brandini di Lanzo aveva deciso che sarebbe andato incontro al disastro senza aggiungere dettagli, senza spiegare né giustificarsi, e senza chiedere scusa più di una volta. Non aveva nulla di aceto, nulla di frocio e agrodolce, l’idea di quest’uomo che aveva passato la vita a spendere e aveva lasciato la vita senza urlare, subissato dallo spendere e determinato ad andarsene senza urlare, spendere sottovoce e urlare disegnando nell’aria della vita familiare quel dramma in grassetto che è l’impiccagione in bagno, mentre scorre l’acqua, l’acqua del bidet e l’acqua dei due lavabi, l’acqua della doccia e l’acqua della vasca da bagno, un muro liquido per compensare i rumori del distacco, la corda che tira e tutto quello che ne viene. Lo faceva star bene, spendere? Lo faceva star bene sì, eccome. Per esempio? Mi aveva comprato un vestito pazzesco, da tremila euro, a Venezia, per il mio compleanno, e ricordo precisamente il suo sorriso quando ha firmato lo scontrino della carta di credito, il modo con cui lisciava i caratteri del suo nome impressi sulla carta. Io avevo diciassette anni, ero contenta ma non ero proprio felice, per tante cose, anche perché sono stata tanto stronza con lui e con tutto, e con tutti, insomma comunque lui, non io, lui, era felice, invece – io non ho mai visto nessuno così, la gente quando spende, quando paga voglio dire, è scontrosa, fa smorfie, oppure è seria. Lui sembrava in estasi, 63

come se fosse un momento di perfezione assoluta. È così che si è rovinato, chissà quante altre volte li ha passati, e con chi, poi, quei momenti di perfezione assoluta. È così che ci ha rovinato anche a noi, e non riesco più a parlarne, ecco. Dopo la festa di matrimonio avevo tentato di chiamare Tomaso, il fratellastro di Giulietta, col numero di telefono in modalità ‘privata’, ma non rispondeva mai. Ero curioso, non sapevo niente della loro storia e del padre, perché Kissinger durante la festa di matrimonio non aveva detto nulla di più – era un pettegolo che sapeva fermarsi. O forse voleva che lo scoprissi da solo. In effetti non l’ho scoperto da solo, l’ho sentito e l’ho visto, e finalmente mi ha raccontato tutto, dei debiti mostruosi, delle case, del suicidio, dei figli e di Giulietta. Aveva aggiunto che per quanto la legge tuteli i figli dei debitori morti, non era una buona idea chiamare col numero anonimo – il numero dei recuperatori di credito. Così l’ho chiamato togliendo l’opzione anonima, gli ho detto la verità, mi ha risposto che non se la sentiva, che non era un problema di come io impostavo l’intervista, di come avrei narrato la sua storia: non gli importava, «Non leggo mai libri», ha aggiunto. È che non se la sentiva di parlarne, «Capisci il problema è alla fonte, come dire», ha ripetuto un paio di volte. Ha aggiunto che la madre e il fratello avrebbero avuto la stessa reazione, io ci ho creduto e ci ho provato ugualmente, strappando un «Non m’interessa» secco dal fratello, che d’altronde aveva poco più di quindici anni, e un incontro «Ma non ti prometto niente» dalla madre, l’ex moglie del marchese. Il pomeriggio in cui l’avrei dovuta vedere – l’appuntamento era vicino alla sua casa da separata, ai primi numeri di 64

corso Vittorio Emanuele – ho incontrato per strada la mamma di un mio vecchio compagno di scuola, che aveva intrapreso una carriera da regista di videoclip e ora viveva da qualche parte in Oriente, forse a Kuala Lumpur. Mi ha riconosciuto lei, vestita di un tailleur marroncino, i denti tutti mangiati come fossero unghie, ben pettinata. Abbiamo parlato pochissimo, lei ha detto «Sai ho pensato molto a te in questi anni», io l’ho guardata un po’ confuso, «perché tu, da ragazzino», ha continuato «dicevi sempre ‘buon pomeriggio’, ti ricordi, lo dicevi sempre, e allora mi sembrava una cosa strana, mentre ora è diventato di moda, ecco, hai un po’ precorso i tempi, e ogni volta che qualcuno dice ‘buon pomeriggio’ penso a te». Dopo averla salutata mi sono diretto al numero civico dove mi attendeva la ex moglie di Brandini di Lanzo. Ho iniziato a parlare, lei ha ricevuto una chiamata, mi ha chiesto scusa, è andata un po’ più in là e ha conversato per almeno cinque minuti. Poi mi ha raggiunto, ha stretto le mani l’una nell’altra e ha detto «Perdonami, ho un problema molto complicato da risolvere, ora. Ci sentiamo presto, riprendiamo un appuntamento, ti richiamo io». Non l’ha mai fatto. Non ho chiesto a nessuno cosa fosse successo. Dopo il disconoscimento arriva il riconoscimento. Dopo il credito arriva il debito. Dopo la doccia è arrivata la morte cerebrale. Dopo i funerali, l’assicurazione ha rimesso a posto le cose. Dopo il no di Tomaso, di suo fratello, di sua madre, sarebbe arrivata Giulietta. Nessuna reazione: nessun dolore: nessun canto, nessun cigno. Più mi occupo di queste cose, più ogni situazione, ogni gesto mi sembra clamoroso e indifferente, indifferente e clamoroso – e così sono diventato anch’io. Passo tre ore a girare nell’area pedonale della Crocetta. Si tratta di cinque o sei placche di abitazioni residenziali, unite e divise da strade ampie, protette dal passaggio delle auto per 65

mezzo di ringhiere che rendono difficilissimo anche far passare un motorino. Bisogna salire e scendere dal marciapiede. C’è pochissima vita attiva. L’aria è grigia. Penso a come doveva essere qui negli anni settanta, con il terrore dei rapimenti e la luce polverosa che si solleva dagli angoli delle strade come se fossero tappeti, nelle scene della Donna della domenica, una in particolare, girata proprio qua.

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L’Isola Pedonale della Crocetta – un crogiolo di benessere, architettura kitsch-liberty e spazi per parcheggiare – è il sogno di molte anime cresciute e tirate su da queste parti. I miei piedi sono paralleli ai due leoni che sovrastano il cancello di Villa Leda, in via Vela 14. Il secondo indirizzo sottratto al taccuino del Boxer Michelangelo diceva via vela 14, sospiri, seguito da un numero di telefono cellulare cui non rispondeva mai nessuno, forse disattivato. Ci ho messo un po’ a connettere i punti. Non si riferiva a una debitrice che l’aveva portato alle lacrime. Dopo un po’ di chiacchiere con i vicini, dopo una certa quota di tentativi sbagliati, eccomi qua. È un giorno di marzo, e ho appena incontrato un uomo che per seguire questo sogno si è messo nei guai. Gli ho parlato già una volta, prima, davanti a uno dei negozi di bigiotteria della moglie, nel centro della Crocetta, in corso De Gasperi, per spiegare chi sono e cosa voglio da lui. Si chiama Emanuele Ottavio e fa l’attore. È stata un’intervista normale, per quanto può essere normale fare due chiacchiere sui soldi con Emanuele Ottavio mentre a pochi passi, sotto le luci e i riflettori, si sta celebrando un funerale, e nella storia a puntate che vedranno milioni di spettatori la finzione

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aleggia nell’aria come la notizia di qualcosa accaduto per non-finzione: il corpo dentro il feretro risponde alle generalità del personaggio interpretato da Emanuele Ottavio. La moglie di Emanuele Ottavio si chiama Bibi, ha una cinquantina d’anni come lui, e intorno al 2002, prima che il marito venisse chiamato dalla produzione televisiva incaricata di mettere sul mercato quella annosa storia di rivalità borghesi e crudeltà finanziarie chiamata Sospiri, ha avuto un’idea scaltra, tarata alla perfezione su un ex paese ricco e con una classe media in potente crisi: importare bigiotteria di qualità da altre zone del mondo e rimettere in sesto pallini, sferette, fili e collanine, anelli e bracciali realizzati da materiali poveri ma con un surplus di lavoro creativo, manuale e artigianale. I clienti hanno bisogno di sapere che il prodotto che comprano ha richiesto qualche genere di fatica, e qualche tipo di ingegno. Il suo ingegno ha a che fare col prezzo che paga per la materia prima, la sua fatica con la lavorazione raffinata e insieme sobria che vi applica. I teleutenti di ambo i sessi, ma specialmente femmine e di mezza età, senza titoli di studio e con famiglia, lo hanno conosciuto per anni come l’avvocato Alberto Capobarone, il nome che gli sceneggiatori della soap opera italiana di cui era una delle star avevano dato al suo personaggio. A un certo punto si è reso però necessario farlo morire. Le possibilità logiche della trama non sono un problema: il problema è semmai che il pubblico ha bisogno di respirare, di vedere facce nuove, e questo è uno dei tanti motivi per cui si decide di farla finita con un personaggio. Il funerale di un protagonista di soap opera va avanti diversi giorni nella messa in onda – cioè nella vita degli spetta68

tori reali. Ma sul set, in questi teatri di posa ricavati dal nulla, come centri commerciali, fuori città, resiste un po’ più a lungo. Il funerale di Capobarone, il terribile faccendiere di Sospiri, è nell’aria da un bel po’ quando incontro Ottavio. Lui si aggira incredulo, assiste al ciak di scene e sequenze che non lo comprenderanno, ha ottenuto di poter stare ancora un po’ qui, respirare l’aria del lavoro, prima di accettare il fatto e cominciare a trovare delle soluzioni. «Da dove cominciamo?», mi domanda. «Da quando l’hai saputo», gli rispondo. Prima della effettiva dipartita dalle puntate di Sospiri, Emanuele aveva avuto tempo di abituarsi all’idea che non si sarebbe più materializzato con cadenza feriale sugli schermi nazionali. Gli sceneggiatori gliel’avevano comunicato con paziente anticipo, così ha dovuto fare ricorso a tutta la propria abilità per non tradire sul volto antipatico del suo personaggio la triste sostanza dell’addio. Girava scene in cui scrutava nemici e amici come se dovesse vivere per sempre, ma dentro sapeva che presto se ne sarebbe andato, che sarebbe stata dura e che aveva ancora da pagare una buona metà di Villa Leda, la proprietà dal tetto aguzzo e dalle rifiniture medievaleggianti che campeggia nel cuore dell’Isola Pedonale. Era tutta la vita che passavo di lì e pensavo alle vite delle persone che ci abitavano. Ha sempre vissuto a Torino? No, figuriamoci. Ma sono sempre tornato a Torino. E tutte le volte che sono tornato sono passato di qua, e ogni volta ci credevo un po’ di meno, che sarei mai riuscito ad abitare qua. Ma cos’ha di speciale questo posto? Non so dirti, guarda. A vedere le cose adesso mi sembra 69

tutto un disastro, ma quando ero bambino guardavo questi merletti, queste mura, immaginavo come doveva essere stare qui, fare feste qua dentro, o anche uscire la domenica mattina o semplicemente fare una passeggiata da solo, fumarsi una sigaretta e sentirsi protetto, arrivato, sicuro, ma soprattutto, è… bello. Non è bello? Non è bellissimo questo quartiere? Dipende da come lo si guarda. Tu lo guardavi forte, evidentemente. Ma alla fine ci sei riuscito, a stare qui, ti sei tolto lo sfizio. In fondo non è andata tanto male, no? No, sta andando male, invece. Ho messo in vendita la casa due settimane fa e ho bisogno di realizzare in fretta perché qui davvero ci ho messo tutte le mie risorse, non mi bastavano mica i soldi di Sospiri, ho dovuto rastrellare di qua e di là, ma sentivo che potevo farcela, capisci, potevo farcela. Guadagnavi tanto, con Sospiri? Guarda, Ballandi, sai l’attore che poi ha fatto anche un sacco di film, che era la star numero uno del cast, lui faceva un miliardo all’anno. Io ero la star numero due, forse la tre, via, ecco, fai tu il conto. Poteva bastare per provarci, a venire qui. Emanuele Ottavio aveva ‘svoltato’, – espressione che denuncia una fiducia topografica nelle possibilità dell’ignoto – quando erano iniziate le riprese di Sospiri. Per tutta la vita aveva girato l’Italia calcando le assi di palcoscenici teatrali, ruoli interpretati con passione e competenza. Con passione e competenza aveva anche aperto scuole di recitazione, e faceva qualche ruolo minore in tv. Ma il personaggio della soap opera era un’altra cosa. Firmava contratti annuali, ma sapeva bene che Alberto Capobarone era amatissimo dal 70

pubblico, e quell’amore valeva molto più dello scarabocchio del capostruttura su una serie di regole vagliate da avvocati e analisti contabili. Le soap opera di fascia pomeridiana sono una cosa seria – la pubblicità vale oro, e l’unico limite per uno come Ottavio era nelle sue tasche – nelle tasche dei desideri, che poi nella realtà sono andati al contrario rispetto ai suoi pensieri. Uno dei trucchi che mi aveva insegnato Tancredi era che, di solito, chi ha un debito ne ha anche un altro, e chi ne ha un altro ne ha anche un terzo. Così mi aveva detto: «Vai in un negozio, o appostati davanti a un bancomat, guarda quando esce fuori transazione non eseguita, disponibilità insufficiente. Controlla gli estratti conto in carta chimica che le macchine pallide espellono nei cestini traforati al termine dell’operazione». Era un modo empirico di mettere le dita sul polso della finanza spicciola: così, quando ho fatto amicizia con la moglie di Ottavio, mi è scattata la voglia di chiederle se la disturbava che passassi un paio d’ore nel suo negozio, per vedere quante operazioni effettuate con bancomat o carta di credito risultassero in transazioni negate. Lei ha accettato – suo marito mi aveva preso in simpatia, non mi vedeva come un avvoltoio che rubava i suoi segreti, anzi: non chiedeva che un palco da cui essudare uno per uno i dati e le curve delle storie malate che puntellavano il dialogo tra lui e il denaro. Bibi era magra, ossuta, di piccole proporzioni e modi gentilissimi. Il negozio era un buon posto in cui sedersi e annoiarsi, vedendo passare un cliente dopo l’altro, senza che succedesse niente, nessuna transazione negata, nessun problema. Fino a quando non è entrato un signore con un passeggino, sulla trentina, con un cardigan e i pantaloni rossi, senza capelli: dentro il passeggino, una bimba addormentata. 71

Luca Beatrice aveva una faccia regolare, portava un orologio arancione da subacqueo, gli occhiali, e sembrava una di quelle persone che hanno praticato tutti gli sport con un certo impegno, senza mai eccellere in nessuno. Non ci era voluto molto a convincerlo a prendere un caffè, aveva dei modi di fare piuttosto bonari, una delle parole che usava più spesso era certo, e apriva le braccia e il petto disegnando cerchi che potevano essere scambiati per cuori. Aveva una moglie e una figlia – quando nominava la figlia si notava che doveva essere ciò che le persone per bene definiscono un buon padre. Ma visto che è complicato spiegare a se stessi chi sia davvero una persona per bene e chi sia davvero un buon padre, sarebbe bastato fotografare i suoi occhi quando guardava la creatura nel passeggino. Lei dormiva. Si chiamava Elsa, il nome l’aveva scelto la moglie, che leggeva un libro alla settimana – il primo grande amore della sua vita di lettrice era stato La Storia. Elsa veniva guardata con una gioia che escludeva ogni possibile aggressione del mondo esterno: l’arco delle sopracciglia e le due botti sprigionate dalle pupille castane sembravano, per l’appunto, un arco e due botti: una struttura di riparo essenziale, una felicità basica. Beatrice usava spesso l’aggettivo positivista per dare un sommario generale alla propria visione delle cose: intendeva positivo: faceva il consulente per la Regione sui capitolati di spesa dei Fondi europei, un lavoro che non poteva darmi grandi illuminazioni sullo stato del suo portafogli. Di soldi non ne aveva tanti, questo era chiaro. Non ne aveva abbastanza, la macchinetta del POS parlava chiaro – e forse soltanto l’intercessione di Bibi aveva attutito una reazione scomposta al mio ingresso: «Scusi, solo perché ho visto che aveva un problema con la carta... Stiamo facendo un’inchiesta sui soldi e sui debiti, le spiace se le faccio qualche domanda?». Già il fatto di avermi risposto disegnando quel gesto accogliente con 72

le braccia. Già il fatto di non aver reagito con aggressività. Già il fatto di aver ammesso «Sì forse sono al verde, questo mese ho speso troppo». Poi rivolgendosi al passeggino: «Andiamo piccola, torniamo qua dopo», e proprio lì sono intervenuto io con la frase da schiaffi. Già la composta, quieta passeggiata dal negozio di Bibi al bar, punteggiata di sorrisi e palmi delle mani aperte. Tutto doveva farmi credere di trovarmi di fronte a una persona equilibrata. E se il denaro in prestito lo stava per toccare, ecco – era un segno, voleva dire che presto avrebbe toccato davvero tutti. «Io ho fatto degli errori», mi ha detto mentre parlavamo, senza che gli chiedessi niente. «Non me l’aspettavo ma li ho fatti», ha aggiunto. «Negli ultimi mesi ho aperto una di quelle buste che ti mandano le banche con una carta di credito da usare immediatamente, io non ho pensato per niente di usarla, ma poi è capitata una serie di coincidenze negative e abbiamo perso un po’ di soldi, così per non fare la parte di quelli che proprio al primo scossone sono a terra, ecco, l’ho usata – ho chiamato il numero verde, attivato tutto, iniziato a spendere». Alle carte revolving sopravvivi solo se sei bravo in algebra. La revolving è denaro immateriale pensato per menti prossime all’autismo: svuotare i soldi di qualsiasi senso emotivo, far coincidere i soldi con la loro facciata matematica. La delicata bilancia che separa entrate, uscite, plafond disponibile e accumulo rateabile, nella carta revolving, necessita una capacità di calcolo e una freddezza d’uso non comuni. Ma chi finisce per chiamare il numero verde e attiva le tessere magnetiche inviate ‘in dono’ dagli istituti finanziari – spesso come premio per gli ottimi precedenti: te la spediscono se sei stato un ‘buon pagatore’ – può essere tutto ma difficilmente sarà quel che si definisce un tipo freddo. Il marketing le ha studiate per le teste calde del consumo globale, detto senza alcuna qualifica nega73

tiva: le teste calde del consumo globale sono nella camera a fianco, sono l’altro nome che compare nei nostri certificati di matrimonio, le creature inventate diciotto, venti, trent’anni fa, a cui abbiamo dato il nostro cognome, e che continuano a colpirci al cuore. Le carte revolving siamo noi. Nel giro di qualche mese Beatrice aveva ingarbugliato i suoi conti, non riusciva più a capire quanto poteva spendere e quanto aveva speso. Mentre tornavamo al negozio mi ha confessato che quella scena – rimanere a secco al momento del pagamento – succede continuamente con le carte revolving. Mi ha confessato che lui e la sua famiglia vanno a mangiar fuori una volta alla settimana, di solito una pizza, che sua moglie è una cecchina dei conti, perché due volte su tre c’è qualche piccolo errore nei conti che mandano ai tavoli delle pizzerie, la domenica sera. Lui legge «Internazionale». Il suo conto corrente, al momento della nostra conversazione: intorno ai meno duemila. È un tifoso della Juve e quando incontra altri tifosi come lui scherzano sul fatto che è perfettamente omonimo di un critico d’arte che fa l’opinionista sportivo nelle trasmissioni del Canale Juve. Accumula dettagli su dettagli, mi sembra così umano e così tipico, che mentre mi cammina accanto, mentre i passi che ci dividono dal negozio di Bibi si fanno meno di dieci, meno di otto, meno di sei – forse il cliente perfetto delle revolving sono io: ma io, in effetti, sono già stato vittima delle revolving, e sbagliavo i conti, e ho continuato a sbagliarli. La fissazione per i numeri è solo il pianissimo di un debolissimo: l’incapacità di fare operazioni basilari riuscite. Proprio in quel momento entra Ottavio. Attira la mia attenzione e subito supera Beatrice, che, fermandosi immobile come un animale davanti a un animale più grosso, mi fa un gesto simile a un saluto, ma strano, con la mano destra, quasi 74

a strizzare una spugna invisibile, con le dita a uncino, ognuna istruita a un diverso grado di tenerezza. «Ti devo far vedere una cosa, vieni». Dietro il negozio c’è un piccolo ufficio, con un computer, due sedie e poco altro. Guardale, sono tutte handicappate. Chi sono scusa? Le mie fan. Quelle che mi scrivono al sito. Non ce n’è una che non abbia una gamba con un problema, oppure in sedia a rotelle, oppure malata a letto, o un po’ ritardate. E cosa fanno sul tuo sito? Ma non sono solo nel mio sito. Dappertutto. I forum dei telefilm, delle soap, io li guardo tutti, uno per uno, passo le notti a controllare i commenti, cosa dicono del mio collega, cosa dicono di quell’altro. Il nostro tesoro sono questi qua che scrivono sui forum, è il pubblico, sono le persone che si presentano davanti all’uscita del set. Ma quelli che scrivono tanto è perché hanno tanto tempo da perdere, stanno a casa, sono immobilizzate, oppure si sfogano scrivendo. Ma ora perché non fai altra televisione? Ma sei scemo, no, non scherzare. Non posso. Devo depurare il personaggio. Depurare? Il pubblico deve dimenticarsi. Ora sono contento perché ormai scrivono di me solo le handicappate. Ma il resto del pubblico deve dimenticare la mia faccia, non associarla più all’idea del personaggio, capisci? Quindi è una specie di quarantena. Sì, all’incirca. Ma altri lavori li puoi fare, no? Sì, un po’ di teatro. Insegno, faccio scuola di recitazione ai 75

dilettanti. È pieno di persone che vogliono recitare, recitare. Sapessero in che guai ti metti, non vorrebbero recitare. Ma non è recitare a teatro che ti ha messo nei guai. Sì, è vero. È tutto quello che è venuto prima e dopo, che mi ha messo nei guai. E ora riesci a guadagnare abbastanza da mantenerti? A parte il fatto che non ho una casa, riesco a mantenermi, perché non ho speso proprio tutto. Ma ho perso il 75% di quello che ho guadagnato in tv, con la storia della casa. Pum. Volatilizzati. E il resto? Ci vivi prendendoli un po’ per volta? Sì, altrimenti mi aiuta mia moglie. Ma passato un anno tornerà ad andare bene, sono abbastanza tranquillo. Quindi aspetti. Sì, aspetto, cerco di mantenermi in forma, faccio delle passeggiate nelle ore di punta per vedere se la gente mi riconosce ancora. Prima le donne mi riconoscevano sempre, davvero, sempre, era quasi un rompimento. E poi guardi i forum. Sì. Quando quelle signorine avranno smesso di scrivere di me sono certo che arriverà la telefonata dalla produzione. È una cosa matematica. Tornato nel negozio, le collanine erano tutte al loro posto. «Quel signore di prima aveva detto che doveva andare a prendere il libretto degli assegni a casa, ma non s’è più fatto vivo», diceva Bibi sistemando uno sgabello con sopra una scatola piena di polistirolo. Non c’erano clienti. Marito e moglie chiacchieravano dell’ordine in cui mettere gli orecchini. Lei parlava con tono paziente. Lui le rispondeva con impazienza.

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Poi all’improvviso mi sono reso conto che potevano andare insieme, debitori e creditori – che erano due metà dello stesso viso bruciato. Due metà che si equivalevano, però, non una migliore dell’altra, non una buona e l’altra cattiva. Al massimo, una che si adatta e una che subisce. Il tossico e lo spacciatore. Il caso voleva che anche lui fosse un attore – un attore di Brescia. Era stato un attore, perché adesso vive a Torino e non fa più l’attore. Me l’aveva segnalato Emanuele Ottavio, cercando in un’agenda di qualche anno prima il numero di un allievo lontano – le vite degli attori sono costellate di storie di attori che non ce la fanno. Il nome, Alex. Il soprannome, strano: ‘il Mirto’. Alex è stempiato, con forte accento lombardo-veneto, impossibile perderlo soltanto perché si prova per qualche anno a calcare un palcoscenico. All’epoca della scuola di teatro Alex si vestiva con collanine e magliette prese al mercato, pantaloni molto larghi color militare. Ora è in abito grigio, gli occhi sporgenti e le sopracciglia folte da diavoletto di mezza Europa. I denti sono terribili. Marci, di una tonalità esponenziale di grigio che stempera nel brumoso e nello spento: come cornice, dei

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denti e dell’abito grigio, un giubbotto bomber verde con l’interno arancione. Ma c’è un altro motivo per cui fin da subito ho sentito il bisogno di incontrare il Mirto – non proprio la sua stella distante di tentato attore. M’interessava il fatto che lui, di carriera, ne abbia appena terminata un’altra, da recuperatore di credito telefonico, per una serie di società diverse, ma tutte di scala più ampia, più corporate, rispetto alla piccola realtà in cui lavora il Boxer Michelangelo. Fino a poco fa è stato uno di quei recuperatori che ringhiano le cifre con indecisa rabbia cortese, e con indecisa rabbia cortese ti si attaccano al polpaccio e non ti mollano finché di tua volontà, non hai pagato. È una mattina di febbraio quando vado a prenderlo, durante la pausa pranzo, davanti a un anonimo baraccone industriale a Torino Nord. Sale in auto e andiamo a vedere uno dei posti in cui lavorava prima – guarda caso, in corso Rosselli: al confine sud del quartiere incrinato dal denaro in prestito. All’inizio parla pochissimo, poi mi rendo conto che si tratta del più loquace, del più dedicato, del più pragmatico ed esatto fra i combattenti della Legione Straniera del Denaro. Ti senti qualcosa di diverso rispetto a prima? No. Si cambia. Succede. Cos’eri prima? Non ero niente, dai. Facevi una scuola per fare l’attore. Appunto. Niente. Ma tu intendi prima prima, io pensavo volessi parlare di quando facevo il recupero. Anche, sì. Ma è forte che tu abbia cambiato così tante volte. Ho cambiato solo quando ho deciso che il teatro non faceva per me. 78

Andiamo al sodo. Tu vuoi che parliamo di quello, lo so. Raccontami cosa fai adesso. Ora faccio assistenza tecnica per i guasti sul fisso della Tim. Con i crediti non centra nulla, perché l’azienda ha pensato di sviluppare il recupero crediti in un’area dove c’erano più posizioni libere per creare un gruppo più grande di quello che avevano stabilito inizialmente nella sede di Torino. L’hanno trasferito ad Asti, a Torino eravamo circa 15 personaggi, ma nel momento in cui loro hanno preso coscienza del fatto che Torino doveva andare a morire, e quindi tutte le sue professionalita, ci è stato chiesto, volete andare ad Asti a fare in modo che queste nuove risorse, così le chiamano, abbiano un’infarinatura un po’ diversa, e abbiamo detto di sì. Il suo primo lavoro come recupero crediti era stato con la Sava, la finanziaria della Fiat Era durata un anno. Lavorava in un’altra zona di Torino. Lì funzionava in modo diverso – si recuperava già dopo una rata insoluta. Saltava una rata bancaria, un RID, e già si cominciava a chiamare nel mese successivo, quindi tra la scadenza della rata non pagata e la data del pagamento della successiva. Il Mirto e i suoi colleghi avevano un mese per gestire ogni pratica, e una volta su due quel mese bastava per risolvere una pratica. Secondo il Mirto l’emotività non deve entrare in nessun modo nel lavoro, in questo genere di lavoro. In questo lavoro, sostiene, si ha a che fare solo con i bisogni di chi ha più potere di te. E di chi ne ha meno, ovvio. Poi continua a raccontare la sua storia. Avevamo pratiche di ogni tipo, diciamo che tutto fa brodo. Se fossero stati un po’ più astuti avrebbero dovuto sfruttare le nostre capacità, avrebbero dovuto puntare sul dare una percentuale. Le altre società di recupero pagano 79

in percentuale, poi anche loro sottopagano i dipendenti. Io avevo la possibilità di proseguire con questo mestiere, a Torino c’è la Maran, la Maran ha sede legale a Spoleto, poi si è estesa a macchia d’olio su tutta Italia, occupandosi di tutti i fronti. A Torino lavorano per il Comune, per esempio per le multe chiamano loro, li è ancora più facile recuperare perché hai la possibilità di mettere la persona che chiami alle corde, mentre io giocavo sul fatto di dire tante cose, poi magari nei fatti neanche realizzabili, come per esempio ‘azione legale’, ‘decreto amministrativo’... tutte cose che non potevo assolutamente fare. Però la mia abilità stava nel capire con chi stavo interloquendo, se capivo che parlavo con una persona povera intellettualmente, lo capivo da come parlava, da come rispondeva, e quindi tu, se capisci che sono degli ignoranti, ti elevi un po’, dici qualche termine che neanche tu capisci, impressioni sti personaggi e porti a casa il tuo risultato. Poi ogni tanto mi chiedevo perché sto facendo tutto questo che poi alla fine nelle mie tasche non ne viene proprio un cazzo? Va beh, io devo mangiare, devo pagarmi un affitto e quindi piuttosto che andare a rubare faccio un lavoro così. E poi cosa ti è successo? Poi in Santander, che era l’azionista della Maran, a un certo punto hanno deciso che volevano sviluppare il mercato delle carte di credito, quindi non più credito al consumo, che era il classico credito che facevano tutti, che facevano la maggior parte delle finanziarie. Con il credito al consumo, a differenza che con le carte di credito, sai cosa è stato comprato. Questa era gente che andava a comprare macchine fotografiche da 900, 1000 euro, che poi quando io andavo a chiamare mi rendevo conto che questi l’unica cosa che avevano visto in qualche film era un binocolo. Al80

lora vedevi che, tipo, Pinuccio Locascio ha comprato tre macchine fotografiche da 1000 euro... quando lo chiamavo poi scoprivo che questo le aveva comprate e rivendute. Centri piccoli facevano piccoli finanziamenti a questi soggetti, che erano uomini di cartone. Molte volte le aziende che chiamavi per verificare l’identità del debitore dichiaravano di non conoscere il soggetto cercato, e di non averlo mai avuto come dipendente. Quindi le aziende praticamente truffavano le finanziarie? Esatto. Questi qua cosa avevano? Intanto chi vende la macchina fotografica si prende 1000 euro, tu che hai preso la macchina fotografica esci fuori e la rivendi a 300 euro perché tanto a lui quella macchina fotografica non è costata niente. Ma nessuno va in galera, giusto? No, in galera non finirai mai perché non paghi. Ci sono molte scappatoie. Molti sono anche gente onesta che per sfighe varie è caduta in disgrazia. C’era per esempio una società, che si chiamava tipo San Filippo, che dà una mano a queste persone che sono altamente indebitate. Loro fanno da intermediari con la finanziaria. Ti fanno una proposta di saldo e stralcio. Una specie di sconto. Sì. Ovvero: il debito totale del cliente in questione è 3500, ve ne ha pagati 700, ve ne deve 2800, di questi 2800 lui può pagare diciamo 2000 subito, beh, lo accetti e lo mandi via a calci in culo. Alcune volte ti succedeva che non riuscivi a far pagare nulla e dovevi iniziare a contrattare, chiedendo di pagare almeno due rate... quasi un lavaggio del cervello, diventavi quasi uno psicologo, non un recuperatore di credito, ovviamente una psicologia molto spiccia, una psicologia da mercato, ma fortunatamente una buonissima parte 81

sono bestie, quindi se hai un minimo di capacità intellettive te li giochi. Quelli più intelligenti di te invece te ne accorgi subito, perché quando approcci, al di la del fatto di essere un recupero crediti o un servizio clienti… L’abilità di uno che è un po’ avvezzo al telefono è quello di intuire subito il grado di cultura della persona che è al telefono con te, perché così apri subito il ventaglio delle possibilità. E invece a quelli dell’altra categoria cosa dici? Quello ignorante è bellissimo, perché il più delle volte si finisce a male parole, «ti faccio la pelle, non mi rompere i coglioni, mi scopo tua moglie...», quando avevo voglia di giocare li facevo scoppiare, poi chiudevo la telefonata e mi divertivo di come erano fantasiosi. Alcuni erano fantasiosi nel raccontarti il perché non ti pagavano, altri nelle minacce che ti dicevano... ma comunque non se ne cavava niente. Altri non erano fantasiosi ma erano solo beceri e poi mi rendevo conto che mi abbassavo al loro livello e mi chiedevo perché mi devo dannare e prendere tutta una serie di insulti per recuperare dei soldi che non sono miei. Coi beceri ti riesci a fare una risata, con gli scaltri invece attacchi subito, perché tanto comunque non arrivi da nessuna parte e perdi solamente tempo. A volte quelli intelligenti cerchi di umiliarli un po’ moralmente, dicendo che hanno un comportamento poco rispettoso, poco urbano, e almeno te li scalfisci un po’, il becero invece se gli dici che ha un comportamento poco urbano poi devi spiegargli cosa vuol dire, cerchi di toccarlo su «ma lei non è un uomo» e loro «ma tu che ne sai, portami tua moglie...». Non abbiamo parlato di quando studiavi recitazione. Ti dev’essere servito, col mestiere che hai fatto dopo. Meglio non parlarne. Non mi è servito a nulla, non ricor82

do nulla, e se devo dirtelo, del teatro mi importa meno che nulla. Tu hai trent’anni come me, giusto? Sì. Te lo ricordi il minibasket? C’è stato un periodo che andava di moda, ai ragazzini delle medie lo facevano fare. Fine anni ottanta, quelli che hanno fatto le medie alla fine degli anni ottanta. L’ho fatto anch’io. Ecco, appunto, lì volevo arrivare. Ricordi qualcosa del minibasket? Sì, ma niente di che. Bene. È lo stesso per me il teatro. Avevo diciassette anni. Non sapevo nemmeno che i soldi si potessero chiedere in prestito, figurati. Poi ho passato una vita a cercare di tirarli fuori dalle tasche della gente che si compra qualunque cosa soltanto facendosi prestare i soldi. A me piaceva Pirandello. Non capivo tutto e la lingua mi faceva cagare, ma i personaggi mi piacevano. E pure le situazioni. Sì, andavo a scuola di recitazione, per poco ho pensato di farlo davvero, per fortuna mi han fatto capire che non avrei fatto mai un cazzo. Meno male. Ma ora te la faccio io una domanda, mi sa, che me la devi anche tu una risposta. Poi il Mirto si è fermato un attimo, ha risposto a un messaggio, fatto una telefonata, e infine, tornato indietro, tutto piegato per riaggiustare i lacci delle scarpe, che non erano affatto slegate, mi ha chiesto di Ottavio, senza guardarmi in faccia – come stava, perchè non partecipava più alla soap opera, che sua madre guardava tutti i giorni. Mi ha chiesto cosa c’entrasse Ottavio con il recupero crediti. Gli ho detto più o meno la verità, depurata di quei grammi che mi facessero sentire meno pettegolo. Mentre tratteggiavo i passaggi della ro83

vina immobiliare del suo lontano maestro, la sua faccia ha iniziato a muoversi come un pendolo, leggero e insieme fermo, da destra a sinistra e da sinistra a destra, quasi un no, quasi un no seguito da una pausa seguita da un altro no, e così via, come a mimare l’eterna disapprovazione che governa lo spazio tra il deludente e il deluso. E suona all’incirca per sempre.

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Ecco i nostri debitori, ho pensato facendo un giro per il quartiere di notte. Abitano qua, al numero sedici di corso Re Umberto, al numero trentacinque di via Giovanni Da Verazzano, al numero 27 di corso De Gasperi. Le luci delle loro camere da letto sono spente ma non stanno dormendo – sono andati in vacanza conquistando un credito da 4000 euro rimborsabile in dodici mesi a partire da settembre. Hanno la forma sociale di famiglie e cittadini singoli, donne e uomini, qualche volta ragazzini con la febbre del poker, qualche volta anziane signore che devono regalare l’ultimo motorino della loro vita: l’interruttore dell’elettricità è staccato, le crepe sui muri coperte dalle tasse condominiali che devono ancora pagare e che fanno perdere tempo al contabile dell’amministratore. Ogni relazione sociale, nella città inquinata dal debito, assume le sembianze del flipper: scatta una leva, si origina un vuoto d’aria, una spinta e un momento di attesa. Il denaro verrà erogato, il denaro non verrà erogato: i tassi d’interesse pronunceranno le sillabe astrologiche della prossima settimana, della prima settimana di autunno e di tutte le altre settimane che ci aspettano. I nostri debitori si fanno finanziare i funerali, le feste di diciott’anni, il debutto in società e

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l’addio alle armi: si fanno finanziare l’auto che hanno lasciato parcheggiata perché portarla in giro costa troppo: si fanno iniettare i codici iban nel sangue che soffia energia relativa, mentre il resto del corpo gira a vuoto, firma scontrini che si rivolteranno contro i titolari, e soprattutto, senza soluzione di continuità: fanno calcoli. E i calcoli, demoni indeterminati, risultano sempre col segno meno. Io credo, a questo punto, che il motivo di tutte le azioni che circondano questo quartiere, questa città e questo paese, il motivo autentico, profondo e insieme letterale, ciò che muove, il motivo-movimento, sia il denaro già speso: anche quando il denaro non è stato ancora speso compie due trasformazioni e muta in senso di colpa, senso di rivincita, senso di appropriazione, grinta meccanica, possesso del tempo. Il nostro essere in bolletta, una bolla di benessere peninsulare che si presentava tutte le mattine con le sembianze sottili di raccomandate spedite dalle finanziarie che ci hanno prestato dei soldi, i soldi che ci hanno mantenuto in ansia, l’ansia che ha dato da mangiare alle nostre unghie. I volantini arrivano ogni mattina passando dalle mani di adolescenti poco pagati. I volantini vengono letti ogni pomeriggio all’uscita delle fabbriche e delle aziende. I volantini sono scabri e poco interessanti: le banche si sforzano di dare nomi diversi e squillanti a prodotti esattamente identici: le finanziarie non fanno alcuno sforzo retorico, vivono fuori dal passato e fuori dal futuro. Prendere i volantini, leggerli, tenerli davanti agli occhi, nel 2008 e nel 2009, per molti italiani che fanno media statistica di benessere, di esistenza economicamente efficace, è doloroso e utile, un grande affare da menagrami, un po’ come le pompe funebri. Qualcuno li butta via. Qualcuno ci ride su. Qualcuno li butta via e poi ci ri86

de su. Ogni settimana, in piena era digitale, i volantini brutti dell’Offerta, che girano per le nostre città, tirano su centinaia di nuovi debitori. Lorella Nova ha appena siglato con la sua grafia tonda i documenti che mettono in mano alla Datasilva il trattamento del suo nome, del suo cognome, delle sequenze alfanumeriche. Piove, nonostante il caldo. Ha un ombrello azzurro. Ha avuto un figlio sette mesi fa. Ha perso un fratello qualche giorno fa. Grazie al Mirto sono riuscito ad avere un contatto con il suo ex-collega e il Mirto ha chiesto all’ex collega di fidarsi e darmi il numero della nuova cliente, «Garantisco non ti mette nei pasticci». Presto la chiamerò e cercherò di capire come si fa a sopravvivere pagando un piccolissimo mutuo per le esequie del tuo sangue – ecco, del sangue del tuo sangue. Massimo Aghemo è un funzionario, così recita la dicitura nella calligrafia neutra sullo spazio apposito della pratica bancaria. Ha trentasette anni, una figlia, una ex moglie. Non gli ho mai parlato perché basta seguire una persona, basta aguzzare gli occhi e l’udito, basta rimanere a una certa distanza, per conoscere la metà delle cose fondamentali che bisogna conoscere su quella persona. Ho iniziato a stargli dietro perché il suo corpo parlava, i suoi vestiti parlavano, le cose che faceva muovendosi per la città parlavano: davano indicazioni esplicite. La prima volta l’ho incontrato perché, per un certo periodo, passavo un’ora ogni due o tre giorni al secondo piano della filiale otto di Sanpaolo-Intesa, dove avevo aperto un conto corrente quando vivevo vicino a corso De Gasperi. Al secondo piano c’erano i promotori finanziari, perciò avevo tutti i motivi per chiedere, informarmi, cambiare idea intorno alla destinazione di una piccola cifra investita. Nell’ufficio accan87

to, però, c’era un impiegato della banca che seguiva tutti i prestiti personali. La saletta in cui si discutevano, in cui si incoraggiava si illustrava ci si spiegava al cliente era al piano terra, una ventina di metri dall’entrata. Ogni volta che si alzava, l’impiegato, che vestiva sempre camicie bianche, s’infilava la giacca, marrone o nera, guardava per un attimo la responsabile di tutto il piano e diceva «Scendo, ho un prestito da incontrare». Antistanti alla saletta c’erano due divanetti e un comò pieno di dépliants, poster che pubblicizzavano un certo tasso d’interesse o la monorata – il debito di consolidamento di cui mi aveva parlato anche Tancredi durante le nostre chiacchierate, il razzo segnalatore la cui frequenza in realtà dava l’allarme sul livello di pressione creditizia sofferta dai cittadini. Tutte le istituzioni finanziarie, me ne convincevo ogni giorno di più, proponevano prodotti che, se avessero avuto grande successo, sarebbero diventati automaticamente superbe cattive notizie per tutti. In ogni caso dopo un po’ scendevo anch’io, come l’impiegato, mi sedevo e ascoltavo. Questo Aghemo chiedeva con difficoltà 5000 euro, quando parlava abbassava lo sguardo ed era difficile capire per cosa gli servivano – o in quale urgenza, mentendo, affermava di essere intrappolato. Aveva una borsa con i bordi un po’ scoloriti. Doveva essere lì almeno da dieci anni, quella borsa The Bridge: trasmetteva la notizia – tutta da verificare – che il suo proprietario non riceveva regali di Natale da un po’ di tempo. All’improvviso arriva una telefonata e Aghemo deve smettere il suo colloquio fatto di sguardi, assensi, sì e no, gesti della mano che tirano fuori dalla borsa documenti, gesti dell’altra mano che passa sulla nuca. Risponde: «Ok, ma scusa sono in banca, parliamoci fra cinque minuti». Silenzio. L’impiegato compila un foglio e sembra disinteressato. «Non 88

hai sentito, sono in banca», si è alzato dalla sedia chiedendo scusa con il palmo a mezz’aria e venendo verso di me, il capo sempre basso, poi verso un angolo in cui campeggia una pianta alta un metro e mezzo e un poster con sopra una comica che sorride sotto il logo della banca. «Tua figlia chi la tiene scusa?». Poi allontana l’apparecchio nero dall’orecchio, un’altra azione plateale, proveniente da un uomo dall’aria sommessa. Indossa un cardigan di felpa con scritto sopra, a caratteri cubitali rossi, ‘Pinarello’, ‘Pina’ da una parte della cerniera e ‘rello’ dall’altra. «Sto facendo tutto quello che vuoi ma non posso, capisci, non posso», poi allontana di nuovo il cellulare e tende il braccio verso il basso, poi lo riprende e dice quasi digrignando i denti «Ora basta, devo andare, ciao ciao», seguito da silenzio, seguito da un altro ciao, seguito da silenzio, seguito da un clic della conchiglia telefonica che sbatte e conclude la chiamata. Durante un’altra delle mie perlustrazioni all’agenzia otto ho visto un uomo entrare nella solita sala e dirigersi verso il solito tavolo a sinistra: un’altra impiegata, diversa da quello con la camicia bianca, il passo tranquillo del cliente, la mia curiosità. L’uomo non parla a bassa voce, «Grazie per aver accettato», «Sono contenta che sia andato tutto bene», «Vuole sapere dove andiamo?», «Dove andate?», «Andiamo al Cairo», «Non ci sono mai stata», «Devo mettere la sigla su tutti i fogli?», «In altro a destra», «Non ho mai avuto una firma leggibile, porti pazienza». Quando rialzo gli occhi vedo tra le due persone questo fantasma: i soldi prestati, i soldi immateriali prestati, la comparsa lenta e fosforescente della cifra 4000,00 sotto la colonna ‘entrate’ dell’estratto conto. Conosco la sensazione. Il denaro prestato funziona così: schiocco, tempo e possibilità di vita si presentano d’incanto alla tua attenzione 89

per magia rapidissima, come un colpo di fortuna sotto la cintura della ragionevolezza economica. Credetemi, vale la pena di farsi prestare dei soldi anche soltanto per questo. Avevo promesso a Lorella Nova che avrei scritto un articolo sui cittadini che s’indebitano per i funerali, le avevo portato una copia de «La Stampa» dove era stato pubblicato un pezzo con la mia firma che riguardava una gioielleria che prestava orologi di lusso a chi non aveva i soldi per acquistarli: in realtà era stato l’ultimo atto di una vita giornalistica che non mi piaceva, avevo deciso di lasciar perdere le collaborazioni con quotidiani e settimanali per dedicarmi alle due cose più distanti dalle redazioni dei giornali – la realtà in sé e la scrittura in sé. A Lorella avevo raccontato che era il primo di una serie di articoli sui nuovi bisogni, e senza offendere la sua storia e la delicatezza del suo momento pensavo che sarebbe stato importante informare i lettori dello scandalo oggettivo che qualcuno realizzi dell’interesse sul denaro speso per dare sepoltura dignitosa a un fratello con una vita difficile. Leggeva, ogni tanto alzava gli occhi verso di me come uno che controlla la patente. «Il negozio che, primo in Italia, offre il servizio di noleggio orologi di lusso, dichiara per voce del titolare che all’inizio i clienti latitavano: a volte incuriositi, a volte scettici. ‘Chiedevano, per lo più chiamando, oppure mandando mail. Poi all’improvviso hanno cominciato ad arrivare, qualcuno in modo più trafelato e sbrigativo, altri informandosi e pensandoci, tornando il giorno dopo, magari. Ma quelli che la finanziaria approvava alla fine sono rimasti soddisfatti’. Gli domando come vanno i pagamenti, se poi le rate per l’orologio di lusso arrivano a destinazione. ‘Non lo sappiamo, è la finanziaria che gestisce per conto proprio, noi riceviamo la cifra e a quel punto la cosa è in mano a loro’. Il 90

mondo del credito al consumo funziona esattamente così, penso mentre scorro il catalogo di marche divise per fasce di prezzo: 1000 euro, tra i 1000 e i 2000, oltre i 3000, dai 4000 in su. La responsabilità è sempre passata a qualcun altro, sia quando si tratta di prestare denaro che di riscuoterlo. I soldi a credito chiamano i consumatori come suadenti telefonate di promesse, ma quando si tratta di rischiare c’è sempre una deviazione, la linea rimbalza altrove e i commercianti di fatto non rischiano mai nulla. Mi domando chi siano i clienti di questo bizzarro leasing. Il titolare risponde con cortesia anche se la sua giornata lavorativa è conclusa e sta già attraversando la dogana verso la Svizzera – quale meta migliore per uno che vende orologi? – ‘Non bisogna pensare che siano soltanto persone che non possono permettersi di pagarli interamente. La maggior parte della nostra clientela a noleggio è formata da commercianti, professionisti, rappresentanti, una clientela medio-alta’. Ma perché un medico dovrebbe noleggiare e non comprare? ‘Perché quello che gli interessa è cambiare gli orologi, esattamente come si fa per le auto. Ogni orologio corrisponde a un’immagine di sé, e questo tipo di clientela vuole cambiare immagine spesso. Di persone meno abbienti ne capitano, ma molto più di rado’». «Che mondo di merda», dice restituendomi il giornale. «Ci penso», aggiunge subito dopo. «Comunque non è che mio fratello abbia avuto una vita più difficile della mia. Ma ora non posso parlarne, richiama più tardi o domani, è una cosa molto pesante per me». L’età di Aghemo l’avevo scoperta poco dopo che se n’era andato, sbirciando nella sua pratica lasciata sul tavolo dell’impiegato. Non era sicuro al cento per cento che sarebbe di91

ventato l’ennesimo beneficiario del grande programma messo a punto dall’Offerta. Bisogna sempre verificare le caratteristiche, valutare, decidere. In caso di esito positivo, dopo due giorni dal ricevimento della documentazione sarai contattato telefonicamente dai nostri consulenti che ti confermeranno la liquidazione. In caso di esito negativo, riceverai una nostra comunicazione scritta dopo circa dieci giorni. Dopo circa tre giorni lavorativi dalla nostra telefonata riceverai il prestito. Ero uscito di corsa, sperando di trovarlo ancora fuori, e in effetti era lì, in dubbio se attraversare la strada o no, il telefono in mano e la borsa agganciata all’altra mano. Il capo sempre piegato di qualche grado. Si grattava la testa. All’improvviso ricordo di averlo visto sotto una macchina, ma la sua era soltanto una repentina decisione, un passo forte in mezzo al traffico, cui l’auto in arrivo si sarebbe piegata frenando e lanciando un po’ di insulti nel rimbombo del parabrezza. Lui, indifferente, raggiungeva il marciapiede e girava l’asse verso sinistra. Qualche minuto dopo era all’angolo tra corso De Gasperi e corso Einaudi. Pronto, parlo con Lorella? Sì eccomi, sono io. Vuole che rimandiamo? No, no, le ho detto io di richiamarmi. Mi ha convinto, dai. Mi dica cosa le interessa. Le va se parliamo al telefono? Perfetto. Vuole che le racconti di mio fratello, vero? Aghemo camminava fermandosi ogni tre o quattro passi, ciondolando un po’ e fissando la vetrina di qualsiasi negozio. C’era un rivenditore di motorini e l’ho visto toccare la lastra di vetro. Poi gli ho visto fare lo stesso con quello che 92

vendeva lingerie. Poi con una panetteria raffinata, di quelle con tanti generi diversi di frumenti e cereali biologici. Infine ha girato l’angolo, ha tentato di fermare un taxi, ma il taxi non s’è fermato. Poi ha attraversato corso Einaudi fuori dalle strisce, ha percorso molto rapidamente un tratto di strada privo di esercizi commerciali, ha tagliato per una piccola viuzza che lambisce il confine dell’Isola Pedonale, non lontano dalla villa dove si era suicidato Brandini di Lanzo e non lontano da dove Emanuele Ottavio aveva infranto tutti i suoi sogni e i suoi guadagni. Semaforo verde su corso Galileo Ferraris, aumento dell’andatura. Cominciavo a faticare a stargli dietro. A un certo punto dev’essergli squillato il telefono, perché ha iniziato a parlare fitto fitto ma per evitare di dare nell’occhio non sono riuscito ad ascoltare nulla. Dove diavolo stava andando? Non riuscivo a capire. Sembrava una creatura sospesa a metà fra l’atleta dei dieci chilometri di marcia e un agente di scorta che confabula sul perimetro di un’area da mettere in sicurezza. Finalmente, all’altezza di un negozio di computer e informatica, ha rallentato e ha cominciato a fissare gli articoli esposti. Poi, di nuovo avanti. Corso Re Umberto, a sinistra, un altro attraversamento brutale e obliquo, nel mezzo del quale, a debita distanza, fermo dall’altra parte del corso, ho iniziato a capire qualcosa. Puntava dritto al numero 77, e al numero 77 lampeggiava un’insegna inequivocabile. Il fratello di Lorella, l’ho imparato durante la nostra lunga telefonata liquida e meridionale, si faceva chiamare Roxy, come quella canzone famosa, ma era il 1982 e tutto era permesso, anche chiamarsi Lorella, e tutti si facevano, ma non tutti, ancora, si facevano chiamare Roxy. Lorella, dopo le titubanze iniziali, parlava a rotta di collo. «Tutti quelli della 93

mia età, tutti quelli della mia zona, tutti quelli delle altre zone. Roxy era tossico da prima che sapessi cosa sono le mestruazioni. Poi aveva smesso di essere tossico e aveva iniziato a curare gli altri tossici. Ma i nostri genitori erano ricchi, questa è la differenza, perché i nostri genitori l’avevano messo in una comunità, una delle più grandi, una delle più riconosciute, fuori da Torino, fuori dal Piemonte. Avevo undici anni. E Roxy aveva iniziato a essere un altro, del tossico che era stato per quattro anni non gli sarebbe rimasto che il nome. Aveva ripreso la massa muscolare. Aveva ripreso a stringere la mano senza sudare, senza tremare. Aveva ripreso a guardare negli occhi senza cambiare ritmo alle pupille. Nel giro di un anno qualcosa era cambiato, quando si era ripresentato e sembrava un altro, sembrava un altro e uno scampato». Lorella mi aveva raccontato che Roxy era sempre Roxy ma adesso era lui a consolare i genitori afflitti dai figli che avevano scelto l’ago e abbandonato la sicurezza delle finestre e dei serramenti e si erano ritirati a bucarsi sotto i pini, lungo i filari di abeti stanchi che costeggiavano scuole e asili e fabbriche. Aveva iniziato a lavorare per la comunità come appoggio alle famiglie, e i genitori della borghesia medio-alta, dai loro castelletti al decimo piano, dai loro ingressi, salutavano Roxy come una persona di fiducia, l’anello di congiunzione tra i propri desideri e la propria disperazione. Avrei ripensato a questa immagine per molto tempo, al fratello di Lorella, l’intermediario della comunità di recupero, il cacciatore di drogati, Roxy, sotto la volta di appartamenti borghesi tagliati dalla luce bianca degli inverni nucleari, lui e le madri, diceva Lorella che le madri con i capelli gonfi e pieni di onde urlavano e urlavano e mostravano le proprie vene come se volessero trasferire per incanto i buchi dei figli sulle loro braccia ben nutrite, bianche, e all’improvviso si toglievano l’oro94

logio d’oro dal polso e lo mettevano tra le mani di Roxy, e a quel punto calava il silenzio. Il numero 77 era una banca, una di quelle banche di credito cooperativo che sembrano più dolci delle altre. Ho visto Aghemo entrare e ho rallentato, poi dopo cinque minuti anch’io ho lasciato le chiavi e il telefono nell’armadietto e ho varcato l’ingresso. Mi sono girato e l’ho visto aspettare in silenzio, con la borsa tra le gambe e lo sguardo fuori dalla finestra, sotto il cartello ‘credito personale’. C’era molta gente in attesa di effettuare operazioni allo sportello, così ho preso un biglietto e mi sono sistemato dove potevo guardare e, se non sentire, almeno indovinare. A dire il vero non era difficile aver già indovinato. Quando è venuto il suo turno ha salutato tendendo il braccio e ha iniziato a rispondere alle domande. Altri 5000 euro. Altri documenti tirati fuori dalla borsa, il medesimo rituale compiuto qualche isolato più in là. Sulle prime Roxy non sapeva cosa fare, cosa dire, se accettare, se rifiutare, se mollare o stringere, poi ha cominciato a mettere tutto in tasca: anelli, bracciali, quadranti, preziosi, e lo imploravano di salvare Marco, Mattia, Roberto, Sara, Elena, e poi Fabrizio, Fabrizio, Fabrizio, Fabrizio. I nomi, ho immaginato i nomi esplosi nelle orecchie, l’isteria, e Roxy a quel punto era salito ai piani ulteriori dell’organizzazione di salvataggio più remunerativa d’Italia, tutta dedicata al recupero di figli disgraziati, e smetto di immaginare una scena che conosco molto bene – la rabbia verso gli emarginati giovani, la violenza che stimolano le facce di barboni magri e sbarbati, coppie di ragazzi che si accampano agli angoli degli edifici nel cuore dell’Inverno, ragazzi di diciannove anni messi uno davanti all’altra alle undici di sera, potevo immedesi95

marmi in Roxy perché sapevo bene cosa doveva provare con quei figli di papà intontiti dall’astinenza, mentre Lorella aggiungeva dettagli su come Roxy aveva messo ancora più muscoli, muscoli su muscoli, e da procacciatore era diventato psicoterapeuta informale, e da psicoterapeuta era diventato carceriere-capo, e poi organizzatore e infine responsabile dell’intera struttura – e in tutte queste circostanze non aveva mai smesso di dare botte, di saltare addosso ai corpi indeboliti come bestie, e colpire, sbattere, schiaffeggiare: perché solo un ex-tossico non ha paura di far sanguinare un tossico, e lui, diceva Lorella, sapeva come prenderli, e io, pensavo, non avevo nulla in contrario anche se avevo qualcosa in contrario. Non potevo accettare di pensarla davvero così, ma la pensavo davvero così e non mi sarei comportato diversamente, perché sono sempre stato un tipo nervoso e amo i tipi nervosi, quelli nervosi con la racchetta, quelli nervosi sul podio, quelli nervosi con le chitarre. Ho sempre amato gli scatti. Ho sempre amato le spinte. Mentre Lorella parlava e aggiungeva dettagli io pensavo che io sono sempre stato uno scatto e sono sempre stato una spinta. E sarei scattato e avrei spinto ogni tossico infelice che mi fosse capitato a tiro, e per questo non riuscivo a giudicare Roxy, e forse mi affascinava, e mi affascinava ancor di più quando la sorella mi ha rivelato che a un certo punto si era stufato della comunità e aveva cominciato a vendere gli orologi delle madri, gli orecchini, aveva cambiato i franchi svizzeri accumulati negli anni di lavoro con i ragazzi perduti e aveva comprato una pizzeria, poi un’altra, poi un bar, poi una discoteca, poi un paio di appartamenti, che si sarebbero moltiplicati per due l’anno dopo, e l’anno dopo ancora. Erano passati quindici anni dal suo ultimo buco, erano gli anni novanta. «A metà degli anni novanta i nostri genitori sono morti, lasciando gran parte dell’eredità a 96

lui, proprio come la storiella del figliol prodigo. Aveva fatto fruttare i suoi talenti molto più di me, questo è indubbio. Io ho iniziato a distaccarmi, avevo il mio lavoro, che certo non rendeva come il suo ma era pieno di soddisfazioni – insegnavo a una scuola media, in quegli anni, che si chiama Walt Disney – niente di più normale. Poi è passato qualche anno di tranquillità, ci vedevamo solo a Natale, per quanto ne sapevo andava tutto bene. Allora», ha preso un sospiro Lorella «è sceso in terra il disastro». Ha proprio usato questa espressione, nel vuoto microfonico della linea un po’ disturbata. Poi ho deciso di aspettarlo fuori, c’era un bar da cui si controllava facilmente chi entrava e usciva. Puntuale, dieci minuti dopo, Aghemo si è incamminato lungo il marciapiede come una scheggia, passando tutti i numeri civici dal 75 al 55, rigorosi portoni di edifici residenziali. Niente per cui restare incantati o fermarsi. All’angolo con corso Vittorio Emanuele, però, c’era un Banco Popolare, e Aghemo non si è risparmiato di fare un giro. Dalle vetrine, senza entrare, l’ho osservato afferrare dei fogli e infilarli nella borsa, questa volta senza parlare con nessuno. Poi è andato via, di nuovo sul marciapiede, questa volta guardando nella mia direzione. «Nostra madre diceva che una bomba non colpisce mai due volte lo stesso tetto», ricordava Lorella. «Ma la bomba che ha colpito mio fratello quando meno se l’aspettava è arrivata proprio dove nessuno si aspettava più che potesse arrivare». Così suo fratello, per qualche ragione, senza motivo apparente, nella perfetta routine di una vita ormai pulita e produttiva, anche lievemente stronza, ha iniziato a vedere un tipo che vendeva roba in un appartamento vicino al Parco Ruffini. All’inizio non se n’era accorto nessuno, poi avevano 97

iniziato a mancare un po’ di soldi nelle casse della società che gestiva tutte le attività. «Un giorno mi ha chiamato uno che lo aiutava in tutte le cose, una specie di factotum che si chiamava Mirko, aveva gli occhi azzurri come quelli di un cane siberiano e non riusciva a pronunciare la s accompagnata da un’altra consonante, cioè per dire Spagna pronunciava F-pagna, per dire Svizzera F-v-i-zzera, e così via. Lo incontro, mi dice che qualcosa non va, che a Roxy sta sfuggendo tutto di mano». Dopo, mi racconta Lorella, è andato tutto a rotoli a una velocità impressionante. Due anni di tossicodipendenza di cui uno ‘in clandestinità’, ovvero salvando le apparenze, dunque molto più costosa. Poi è arrivato il bisogno. Venduti gli appartamenti, venduta la pizzeria, tagliati i ponti con tutti. «Non voleva più parlare con nessuno, non gli importava più di niente, ho cercato di parlargli in ogni modo, mi tirava addosso le cose, non voleva nemmeno sapere se quelli che considerava suoi amici approfittavano del suo stato per rubare il poco che rimaneva. Mi sono chiesta cosa aveva, ho pensato che avesse una malattia, che avesse scoperto di essere malato, ma i suoi collaboratori dicevano di no, che era tutto a posto, e lui non rispondeva neanche al cellulare. Ho pensato di farlo seguire da un’agenzia di investigazione ma non avevo i soldi per pagarli, costano anche mille euro al giorno. Probabilmente oltre a drogarsi giocava anche, e probabilmente c’entrava la fine di una storia con una donna, qualche mese prima, che però sembrava non aver lasciato nessuna traccia. In ogni caso andava alla deriva, potevi vederlo anche senza farlo seguire, voglio dire. Alla fine aveva venduto in nuda proprietà l’appartamento in cui stava. Un giorno mi ha chiamato la vicina, non sentiva più nessun rumore da una settimana. Quando mi sono occupata delle sue cose ho scoperto che aveva due conti entrambi fuori dal fido di venticin98

quemila euro, la casa era del criminale che se l’era fatta intestare in nuda proprietà, lui non aveva letteralmente più nulla, nemmeno uno dei tanti orologi, tutti mollati a metà del loro prezzo in una corsa a rientrare, a pagare quel che doveva pagare. Da morto sembrava ringiovanito, come a diciassette anni, quando aveva provato l’eroina la prima volta. Scavato e pieno di brufoli come un adolescente». Nel corso di un’unica giornata l’uomo con la felpa era entrato in altri quattro istituti bancari percorrendo a piedi quindici isolati. In tre casi si era seduto, aveva firmato delle carte, insomma aveva lasciato tracce. Poco prima di perderlo di vista mi sono chiesto se fermarlo e chiedergli perché. In verità non ero sicuro di volerlo sapere, temevo una risposta troppo banale. Ho pensato di andare dal mio amico Tancredi e chiedergli di spiegarmi un comportamento del genere, ma se fossi andato da lui la tentazione di verificare sulle banche-dati a disposizione degli operatori sarebbe stata troppo forte. In fondo non stavo facendo alcuna investigazione. Per me il signor Aghemo era un personaggio di cui immaginare i moventi, non sentivo alcun bisogno di condannarlo a una griglia di statistiche e controlli incrociati. Tanto lo avrebbero fatto già loro. Formulare ipotesi è un esercizio narrativo, è l’esercizio narrativo che d’istinto presiede alla distribuzione dei comportamenti in qualsiasi mondo possibile. L’uomo con la felpa poteva essere un debitore compulsivo e multi-protestato, incapace di accedere al credito, e perciò ossessivamente determinato a incasinare le pratiche degli addetti ai lavori, magari allo scopo di ottenere un sì per errore. Oppure si tratta di un tipo picchiatello che ama passare le giornate in banca – ce ne sono parecchi, ma non fanno mai così tanti chilometri; la passione microbica e religiosa con la quale trascina 99

le scarpe nella sua marcia ha qualcosa di folle ma anche di preciso, come se seguisse un suo piano imperscrutabile agli occhi dei borghesi. Mi è capitato qualche volta di ripercorrerne le tracce ma non l’ho mai più visto, né ho sentito parlare di lui da altri, né ho letto sui giornali notizie che potessero riguardare qualcuno di simile a lui. Sono persino arrivato a scommettere che si trattava di una specie di controllore della qualità delle banche, camuffato da un’aura di sfiga per risultare credibile: molti soggetti, dopo aver inoltrato la domanda per un finanziamento, escono dagli uffici in cui hanno effettuato la richiesta e rimangono intontiti, come se fossero stati colpiti da un fulmine stupefacente, e si siedono a un caffè per riprendere l’equilibrio. Quando l’ho lasciato al suo destino l’ho visto telefonare, attendere nervosamente un mezzo che non arrivava mai, proprio lì, davanti al punto in cui si era fermato, in cui sembrava aspettare chissà cosa, o chissà chi: come se tutto, nella sua vita, dipendesse da un processo di decisioni inanellate all’ultimo secondo: chiedere dei soldi al primo che passa, saltare da un treno in corsa, inginocchiarsi per strada e pregare. «Io non volevo rovinarmi per lui», mi ha detto Lorella, come se tutta la sofferenza inspiegabile di quella discesa improvvisa fosse solo una questione di debiti, tra fratelli, tra figli, tra consanguinei. «Non mi ha mai spiegato niente. Non mi ha mai regalato niente. Non ha fatto altro che entrare nei guai, uscire dai guai, entrare di nuovo nei guai, come se fosse una cosa tra lui e i guai, come se non avesse nessun’altro al mondo, dopo la morte dei nostri genitori. E in effetti era così. Quando si è presentato il momento di pagare il conto alla ditta di pompe funebri, io ho visto che c’era questa possibilità e anche se avevo i soldi per pagare non ho voluto mollar100

glieli, non tutti insieme, c’era questa offerta e mi sembrava vantaggiosa. Era come se non avesse mai avuto bisogno di me. 3800 euro, 12 mesi. Per un anno, adesso, anche se è morto, gli do una mano io a mio fratello. Ci penso io, e questo me lo ricorderà tutti i mesi, sarà come avere una vita diversa, ho sempre immaginato di essere io la più grande e lui il più piccolo, e lui che si buca e viene da me e mi chiede di nasconderlo ai miei, di aiutarlo, e io lo faccio, io rubo per lui, io faccio l’impossibile per lui. Ma non mi ha chiesto mai niente. Non mi ha dato mai niente. E ora viene a chiedere trecento euro tutti i mesi». L’avevo visto in ginocchio. Come in una chiesa, come a fianco di un letto. Si era inginocchiato. L’avevano guardato i passanti, la distrazione delle diciassette e qualcosa. Io non potevo allontanare gli occhi. Mi ero avvicinato, forse da dove osservavo prima non si vedeva che in realtà proprio lì è nascosta una lapide, un sacrario, una quasi invisibile edicola che racchiude la madonna delle vespe. La madonna delle vespe era l’espressione che usava un prete che insegnava nella mia scuola, diceva che la madre di Dio si rivela nel dolore e parlava di una ragazza che l’aveva vista soltanto dopo aver infilato il braccio nel buco cavo di un grande albero, in un parco cittadino, un buco pieno di vespe impazzite che hanno preso d’assalto la pelle e hanno fatto urlare la ragazza, svenuta, portata all’ospedale e infine guarita come se non fosse successo niente – le lezioni di certi preti, anche oggi, non riescono a resistere, devono aprir le porte ai miracoli. Così la ragazza aveva raccontato a tutti che proprio nel momento atroce che fa perdere i sensi una macchia oblunga azzurra bianca e materna l’aveva sorvegliata in mezzo al nugolo di punture lasciate nell’aria – e da lì quel prete raccontava che l’espe101

rienza del coraggio nel dolore può rivelare qualcosa di sconvolgente che annuncia il Paradiso. Ma Aghemo non aveva incrociato niente – non un’edicola, non una statua, non la visione di Maria. Aghemo si era messo per terra, aveva stretto gli avambracci uno sull’altro in posizione innaturale, un pugno annodato sopra l’altro pugno e al termine il volto raccolto, teso in una smorfia che lo faceva sembrare un pugno a sua volta. C’era la targa di un notaio o di un medico, proprio davanti al suo corpo attorcigliato. Nessuno l’ha sfiorato, nessun ragazzino è neppure passato di lì, perché se fosse passato un ragazzino avrebbe riso e ogni cosa si sarebbe interrotta. Non ero abbastanza vicino per sentire la sua voce, ma non ho avuto l’impressione di un bisbiglio o di un sussurro. Era un corpo silenzioso stritolato da solo in una posa che voleva risparmiare spazio. Ho continuato a fissarlo finché ha smesso, proprio a ridosso dello stridore del tram in arrivo – poi l’ho visto salire sul tram. Mentre il convoglio grigio e giallo si allontanava lungo i binari impiantati nel suolo di via XX settembre, nel traffico delle sei di pomeriggio, mentre la sua figura si mescolava alle altre aldilà dei vetri sudici, mentre il caos della stazione ferroviaria trasmetteva agli occhi la filiera di individui perduti e interconnessi, ho visto con chiarezza uno dei modi che la realtà di quell’istante poteva assumere, come in una seconda visione che spiega la prima. Tutti, intorno a me, avevano chiesto dei soldi, tutti non pensavano ad altro, tutti non facevano altro che pensare a come chiederne ancora, tutti erano graziosamente pronti a buttarsi a terra e guardare all’insù e pregare, ringraziare, implorare e chiedere scusa. Pochi lo facevano davvero. Pochi si lasciavano davvero prendere dalle profonde conseguenze della devozione per il denaro. Come Roxy aveva intuito, senza bisogno di altri stimoli, che la droga era 102

l’immagine e la materia effettiva della sua capacità di esistere, così l’uomo che avevo seguito di banca in banca si era inchinato senza bisogno di altri richiami all’unica constatazione del danno che la realtà e il denaro, che sono la stessa cosa, permettono: pregare, ringraziare, implorare e chiedere scusa.

9.

È un giovedì pomeriggio di quasi estate, qualche tempo dopo. Cammino tra i cartoni e gli stracci, cauto come chi marcia all’indietro, in mezzo a un mercato appena concluso, sotto il cielo cupo striato. Non capisco cosa sta succedendo. Intorno a me, un numero significativo di taxi che giungono lenti e si fermano davanti al portone di ferro di quella che sembrerebbe una ex manifattura tabacchi, o una scuola in disuso. I taxi circolano lenti, piccoli aerei in attesa di toccare terra. Dentro i taxi, agitati, stretti, sudati, ci sono solo bambini. Passa qualche istante. Sono nel giardino di una vecchia struttura alberghiera adibita dal Comune ad attività sociali. Le piante sono alte. I bambini arrivano a gruppi di due, tre, quattro. Sto per incontrare una donna borghese, intorno ai cinquant’anni, con un figlio di ventidue. Lei è una dirigente d’azienda, con due lauree, divorziata, guarda caso residente in via Giacomo Bove – piena Crocetta: se vai sul balcone di casa sua e tiri un calcio a un pallone è capace che arrivi davanti alla villa che stava per rovinare Emanuele Ottavio o, con un po’ di rimbalzi, davanti ai cancelli che separano quella in cui si è ammazzato il marchese Brandini di Lanzo. Si chiama

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Donatella Di Traglia e quando l’ho chiamata al cellulare, il vecchissimo prefisso che iniziava con 368, il terzo che avevo trafugato dal taccuino del Boxer – doveva essere stata una delle prime utenti di telefonia mobile in Italia – mi ha subito raccontato dell’attività anti-usura, invitandomi senza pensarci troppo e poi congedandosi all’improvviso, con la scusa di una riunione. L’associazione anti-usura rappresenta il lato luminoso della sua biografia sociale: finito il lavoro, nel weekend, durante le vacanze, in ogni momento libero e strappato agli impegni, si dedica a convincere le vittime a denunciare gli usurai. Ma il suo ruolo di coordinatrice della comunicazione per l’associazione la porta anche a organizzare manifestazioni per sensibilizzare giovani, adolescenti e bambini. Io la incontro di sfuggita a una di queste manifestazioni. Gli specchi posti su una delle pareti, mentre cerco di raggiungere il bancone degli organizzatori dove dovrei incontrare Donatella, mi consegnano sempre la stessa immagine, appena fuori l’ingresso: i bambini, sempre in taxi. Presto mi spiegheranno che uno degli animatori dell’associazione è un tassista e ha convinto alcuni colleghi a fare un paio di corse gratis andando a prendere i bambini a casa. Mi perdo un po’ domandandomi in silenzio come hanno fatto i genitori a fidarsi, raffiguro scene di preoccupazione, madri ansiose, presto rassicurate dalla bontà dell’iniziativa, dal viso tranquillizzante di donne come quella che sto per incontrare. Donatella però non riesco a trovarla. Sta per iniziare un discorso, dovrebbe dire qualcosa prima che comincino i lavori per la sensibilizzazione dei bambini all’uso responsabile del denaro. All’improvviso mi prende il braccio un signore intorno ai quaranta, giacca grigia e pantaloni di velluto marrone, occhi chiari, magro, capelli ricci grigi attaccati come fionde alle tempie: una specie di Paul 105

Newman venuto peggio, cortese, abbastanza rigido da suonare in perfetta rima con quel che lo circonda. «Sono nella direzione dell’associazione, do una mano alla signora, lei è della stampa, vero?». Espressioni del genere – lei è della stampa – me lo rendono simpatico, soffuso dall’aureola di un mondo sparito, un mondo in cui ogni piccolissimo braccio di realtà apparteneva in modo netto al gruppo che lo racchiudeva, e quel gruppo all’ordine immediatamente superiore, e così via: un mondo in cui le appartenenze erano carcasse in cui risuonavano dei significati. Adesso tutto pare più labile, appartenere alla stampa o non appartenervi, rimanere fortemente indecisi su molte carcasse, molti significati pesanti da far risuonare: un certo tocco di vertigine da truffatore, nel rispondere con un sibilo, sono io, pur non essendo in alcun modo rappresentante di alcuna ‘stampa’. Lo seguo in mezzo agli animatori, ai cartonati e ai bambini, mentre fuori i taxi continuano a scaricarne altri. L’uomo mi dice che ci sarà da aspettare perché è tutto partito in ritardo, ma la presidente dell’associazione ci tiene tantissimo a parlare, a diffondere, la stampa, e un’altra serie di cortesi ovvietà. Ci sediamo in uno stanzino, lui domanda se desidero qualcosa da bere, io rispondo no: mi chiarisce la natura dell’evento di oggi, il gioco attraverso cui i piccoli potranno imparare a usare in modo responsabile il denaro, visto che l’associazione anti-usura punta anche molto sulla formazione, la pratica educativa, l’esempio e tante altre cose. Passano i minuti e della donna nessuna traccia. Dalla finestra mi accorgo che i taxi non arrivano più, i bambini sono tutti dentro e fra poco dovrebbe raggiungerci anche lei. Il signore dice «Scusi, le dispiace se l’abbandono, credo ci sia qualche problema, permette se vado a vedere che succede di là?». Io annuisco e dopo cinque minuti mi stanco di aspettare e inizio a volermene andare, forse abbiamo scelto il momento sbagliato. Passano altri 106

cinque minuti e mi avvicino alla porta, cerco di sentire piantando l’orecchio sul legno, ma nulla, sento solo un vociare infantile sovrastato da minuscoli picchi di adulti che provano a mantenere il controllo. Dopo un po’ sento avvicinarsi qualcuno e mi allontano dalla porta, che intanto si apre, il Paul Newman sbagliato mi viene incontro scuotendo la testa e facendomi capire che se n’è andata, c’è stato un pasticcio, ha avuto un problema. Insomma, niente incontro con la madre coraggio della lotta all’usura. Mi dice il suo collaboratore che Donatella deve aver avuto un guaio in famiglia, che gli dispiace, io replico qualcosa come figuriamoci, speriamo non sia nulla di grave, che di sicuro avrebbe organizzato un altro incontro di lì a poco. «Intanto chieda pure a me tutto quello che le può interessare sull’associazione, davvero, sono felice di dirle la mia esperienza». Quando finalmente l’incontro avviene, seduti entrambi sul terrazzo di casa sua, i fili del tramonto in mezzo ai vuoti tra i vasi e le gambe delle sedie da giardino, so già della sua ossessione per Marilyn, e non è la prima cosa a cui penso. Quando finalmente la incontro so con certezza che è una debitrice, a dispetto del suo impegno e dell’aura che cerca di trasmettere, e che in parte emana sul serio, con qualche grado di autenticità percepibile. Dovrà quasi arrivare alla fine, l’incontro, prima di sentire dalla sua bocca il vero motivo per cui una signora borghese impegnata pubblicamente in una encomiabile guerra all’usura abbia il suo nome segnato sul taccuino di un recuperatore di crediti. La signora Di Traglia porta i capelli ossigenati da quando ha diciotto anni, le ciglia e il trucco ricordano smaccatamente, nei segnicoli più pacchiani, Marilyn Monroe. A casa trionfano su tutte le pareti stampe con il viso di Marilyn, riproduzioni dei ritratti di Warhol, poster in bian107

co e nero da foto scattate sui set. La sua immaginazione, la sua esistenza immaginata, per meglio dire, potrebbe essere una luna d’elio puntata sul desiderio di assomigliare in modo ovvio a Marylin. Abbiamo parlato della sua attività. È stato istruttivo e insieme inutile. È stato esattamente quella mistura di inutilità e soddisfazione etica che ti aspetti da una persona impegnata a quel livello: gli incontri con i bambini, il processo cognitivo, l’abitudine a controllare ciò che si guadagna, a porre tempo in mezzo fra il desiderio di un acquisto e l’acquisto. Poi le ho chiesto se aveva figli, e lì ho iniziato ad apprezzarla davvero. Se me lo chiede è perché sa già tutto. Guardi, se devo dirle la verità, io non mi vergogno affatto. No, chiedevo per... Aspetti qua. Le faccio vedere una cosa. Meno di due minuti dopo era di nuovo sul balcone, con una scatola di cioccolatini in mano. Dentro non c’era neanche un cioccolatino. Lettere, in busta tagliata, aperta. Lettere accumulate, ben tenute, non meno di dieci. Appoggia la scatola sulla sedia e inizia ad aprirle una ad una, le dispone sul tavolo. Non c’è un filo di vento. Tutte sembrano dotate di uno speciale tasso di gravità. Tutte portano la stessa scritta, dal lato apribile, con lievissime variazioni di calligrafia. Da tuo figlio. No, non gliele leggerò, non si preoccupi. Cosa sono queste lettere? Quelle che mi ha scritto in due anni, negli ultimi due anni. Non erano lettere, mi avrebbe spiegato tenendole fra le dita davanti ai miei occhi. Non c’era nemmeno una frase com108

piuta, solo xxx e scusa e tvttbb disegnati con pennarelli agli angoli di fogli contabili, lettere di banche, cedole e avvisi di ogni genere. Lei si ostinava a chiamarle lettere, ci aveva rimesso circa 9000 euro. Non molti, su una scala generica, ma su quella peculiare di un individuo che ha persino sviluppato una propria teoria del risparmio, una persona che non ha mai preso una multa e non ha mai sforato sul conto in banca, impegnata e perfetta a ogni sguardo d’esame esterno, sono una piccola fortuna. Appena andata. I soldi guadagnati, quando sei una persona in gamba con un profilo familiare statisticamente medio, li guardi dall’alto, come siepi di bossi in un giardino abbastanza tuo. Quelli da guadagnare assumono altre forme, comiche o spaventose, militari come sculture di proiettili e nuove bombe disegnate per esplodere nel tuo camino. Donatella, con il suo accento ciociaro trapiantato al Nord, mi aveva fatto capire che lei, ai soldi che ha rimesso per ripianare i debiti del figlio, ci teneva. La teoria del risparmio di Donatella era che bisognava avere almeno dodicimila euro in banca, tutti tuoi, prelevabili in un quarto d’ora, depositati sul conto corrente, senza spese aggiuntive o titoli o altro. Almeno 12.000, mi aveva assicurato. Servivano nel caso uno perdesse il lavoro, dovesse scappare all’improvviso, o fosse infermo o malato senza assicurazione. Non ho capito perché 12, ma aveva a che fare con il comprarsi una piccola utilitaria al prezzo più basso sul mercato, vivere almeno tre o quattro mesi senza lavorare, pagare spese mediche di base – o fuggire all’improvviso, immagino. Donatella non viveva più con suo marito da tre anni e mezzo, lui prima del divorzio aveva sottratto tutti i loro risparmi e si era stabilito a Santo Domingo a giocare a tennis. Sembrava il cattivo dei telefilm americani più scadenti ma con l’aria appena più idiota, diceva lei, aveva capelli neri e ciglia folte, alto 1 e 80, 109

se per caso l’avessi incrociato in giro per il mondo con una racchetta in mano. Quando ho spiegato a Donatella che m’interessavano le storie di debitori, anche da un lato emotivo, ma che avrei cambiato tutte le circostanze per non renderli riconoscibili – o le avrei cambiate in quantità sufficiente a mantenere un senso facendo perdere le tracce dei soggetti reali – appena le ho detto questo, si è seduta e mi ha chiesto di sedermi, e ha messo le due mani sul tavolo, quasi incrociate. Dopo un respiro, ha detto che non aveva voglia di entrare nei dettagli, mi ha chiesto come sapevo dei suoi debiti, mi ha detto che aveva preferito chiedere i soldi in prestito per ripianare i debiti del figlio, piuttosto che intaccare l’ultimo pezzo di patrimonio che le era rimasto dopo che il marito l’aveva lasciata con una casa costosa da pagare per metà e zero titoli in banca. «Io mio figlio non lo capisco in niente, non abbiamo niente a che fare, non so che dire. Spende per cose sue, discoteche, la macchina, i weekend. Non so cosa dire, non riesco a prendermela con lui. Io l’ho lasciato fare, dopo quello che è successo con suo padre non potevo fare altro che lasciarlo vivere un po’. Ma non coi miei soldi. Non con i miei soldi di sicurezza. Ho un buono stipendio, che se ne va al novanta per cento ogni mese, che prendano da quello. Diventerà novantacinque per cento. Diventerà cento. Ma io non lo tocco. È la mia sicurezza, è tutto quello che ho. Non so, non mi chieda come faccio poi a parlare di uso responsabile del denaro. Anzi, le dico questo: per me io lo sto usando nel modo più responsabile che conosco, e ora basta parlarne, non voglio essere scortese, davvero, se può andarsene, è meglio, scusi, davvero, per favore, scusi. Ah, una cosa. Lo toglie, vero, che sono nell’associazione anti-usura?». 110

10.

Sei mesi fa, a Milano, per una strana serie di catene del caso, mi sono trovato a sedere a un pranzo ufficiale offerto dai fondatori di una conferenza internazionale per ‘leader della comunicazione globale’ – e ho conosciuto una ragazza. Si chiamava Francesca Ellas e le ho raccontato delle mie storie con i recuperatori di crediti. Più ne parlavo, più si agitavano gli occhi, mossi da un interesse particolare, nelle sopracciglia e nelle mani. Quando ho pronunciato il nome Santander, Francesca è quasi balzata in piedi, nel modo in cui può farlo un essere umano seduto e con le gambe accavallate. «Ma è una di quelle che cita sempre mio padre». Il resto del pranzo era stato tutto un «dovresti parlare con lui, mio padre è l’uomo più indebitato d’Italia, mio padre non ha mai pagato le tasse, sento che quando morirà mi cadrà tutto sulla testa, dovrò occuparmene io». Il padre di Francesca, Valerio Ellas, ha venduto per tutta la vita aria fresca. Fa il rappresentante di impianti di condizionamento in Emilia Romagna, in Veneto, in Lombardia. Ogni tanto si sposta. Quando la situazione diventa insostenibile molla tutto e cambia regione.

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Francesca era venuta a Torino per fare una cosa che poche donne, statisticamente, decidono di fare – ingegneria dei materiali. Per cinque anni ha varcato quasi tutte le mattine la soglia del Politecnico, un edificio di colore chiaro incastonato su corso Duca degli Abruzzi proprio davanti all’Isola Pedonale della Crocetta. Ora si è laureata e lavora a Milano, ma torna spesso a Torino perché qui ha una minuscola soffitta di trentacinque metri quadri che affitta ad altri studenti del Politecnico per ammortizzare il canone della casa in cui abita, in corso Washington. Gli studenti vanno e vengono, così spesso c’è da organizzare un incontro col nuovo inquilino, sistemare le cose con quello uscente, e così via. Francesca assomiglia all’attrice italiana Chiara Caselli, ma non ha mai portato il caschetto. Ha gli occhi piccoli, dal taglio obliquo. Una volta, quando aveva sei anni, un fotografo l’ha immortalata mentre faceva giocare due Barbie in una grande piazza romana e la foto è finita su «Time» o «Newsweek», non ricordo, anche se è una delle prime cose che mi ha raccontato, e una delle pochissime che mi ha raccontato più di due volte. È affezionata a questa casa anche perché non avrebbe mai sospettato, quando l’ha lasciata nel più rocambolesco dei modi, una settimana dopo essersi laureata, in uno schiantante pomeriggio di primavera del 2003, che l’uomo che in quel momento stava insultando suo padre e lanciando vecchie scatole e improperi all’altezza delle sue caviglie – il proprietario – si sarebbe ripresentato, di lì a poco, telefonando a Rovigo, al numero dove era tornata a vivere insieme alla madre, chiedendole di accettare un dono, una ricompensa, e di segnare sull’agenda un appuntamento dal notaio per intestarle la casa. Il padre di Francesca era un campione felice nella pratica esistenziale denominata indebitamento strategico. Faceva 112

debiti per compulsione, faceva debiti per costituzione. Faceva debiti con prestanome, sotto falso nome, con nomi di cera, di legno, di metalli nobili e di metalli senza tradizione. Usava come portafogli vecchi portadocumenti che teneva insieme con elastici, e gli elastici si rompevano spesso. Faceva debiti come si fanno peccati, ma senza pentirsene mai. Faceva debiti al mare, in montagna: nei negozi di città: nei negozi di campagna. Portava i baffi e poi li tagliava d’incanto. Portava abiti formali e abiti da taglialegna. Era un debitore di pianura e un debitore di foresta. Così almeno lo facevo cantare nella mia fantasia, interamente occupata da persone che chiedono denaro e persone che lo spendono senza averlo ancora guadagnato – che poi il Paese si stesse trasformando in qualcosa di molto simile alla mia fantasia non è un merito, ma diventava ogni settimana una realtà più verificabile, e a dispetto di ogni crisi gli italiani saranno sempre più simili ai personaggi di questo libro. Da quando me ne aveva parlato per la prima volta lo avevo immaginato vestito di verde, come un ladro che si confonde con le foglie. Ero affascinato dal concetto stesso di invisibilità finanziaria. Mi piacevano molte cose, del padre di Francesca, anche quelle che non conoscevo ancora. E a dir la verità, non ne conoscevo neppure una. Lei si era rifiutata, dopo una breve stagione illusoria fatta di storie e frammenti, di organizzare una vera intervista su di lui. Non poteva farlo, aggiungeva ogni volta che aumentava il livello del suo no. E quando non si può fare, oltre un certo livello di no, chi chiede deve girare i tacchi e andarsene. Poi, un mattino, ho ricevuto una lunga e-mail dall’indirizzo elettronico di Francesca Ellas. Non credevo che l’avrei più sentita, dopo che mi aveva detto che non se la sentiva, non riusciva a collaborare, aveva usato proprio collaborare, come 113

se io fossi un inquirente e lei una sospettata di intralciare le indagini. Era una lettera che ne conteneva un’altra. «Dovrai perdonarmi se mi faccio sentire solo ora. Ho dovuto raccogliere le parole e mi ci è voluto tempo. Ho dovuto raccogliere anche le forze. Mi muove molto, mi muove dentro, questa storia. Troppo. È la storia di come sono diventata così, così come sono, e spero tu lo capisca, forse l’hai capito e non era necessario dirtelo. Ma io sono figlia di mio padre e sono figlia anche dei suoi debiti, anche se spero sempre di non diventarne l’erede. Si rimane sempre figli dei debiti dei genitori, anche quando non li si eredita, ma forse nel suo caso ne ha fatti talmente tanti che non sfuggirò facilmente. Non importa, comunque. Per adesso, grazie a Dio, sta bene. Sessantaquattro anni e sta bene. Anche se non ci parliamo da sei mesi, perché è una relazione impossibile. Ma questo non c’entra, o forse sì, ma non è quello che vuoi sapere tu. Non so se sia giusto dirti quello che vuoi sapere tu, ma la storia di mio padre è anche la mia, ne ho preso tutta la responsabilità in ogni senso possibile. Mio padre, tanto per spiegarti chi è, è capace di scrivere lettere del genere. ‘Ho conosciuto tua madre in un momento difficile da dimenticare. Parlo di un momento difficile da dimenticare per lei, tua nonna era arrivata a un livello di sofferenze davvero impensabile, ma anche per me. Poi capirai. Io adoro i preamboli, e adoro cambiare discorso. Ora però è tempo di lasciar perdere tua madre: poi la ritroverai. Questa è la storia di mia moglie, e magari ti sorprenderà. Le opere che ti ho commissionato riguardano tutto quello che stai per ascoltare. Il cancro. La chirurgia plastica. L’amore dei morenti per i coltelli. L’amore dei sani per i malati. L’invidia dei malati per i sani. Ti racconto questa storia 114

perché... beh, probabilmente non ci stai capendo nulla, ma è esattamente quello che voglio, che tu scopra piano piano che cosa è successo a tua madre, cosa le è successo dentro il cuore, se posso parlarti così. Certo non sarei qua per dirti cose che sai già… Senti, tu devi cercare di immaginarla. Di immaginare tua madre a casa, da sola, qualche giorno prima che tutto precipitasse. Diciamo prima della metà di gennaio. Devi immaginarla che cammina, e si passa le mani nelle mani in un modo che, certo, ricorderai bene – era così evidente – sempre lì a torturarsele, con gli occhi bassi. Sembrava che ogni minuto dovesse portare una catastrofe. Ha un foglio in mano. Ecco perché ti ho invitato a cena stasera. Ecco perché ti inviterò a cena domani. E dopodomani. E il giorno dopo. E almeno altre trenta volte, se non sbaglio con i numeri. Aprendo la busta avrai tastato un pezzo di carta con la consistenza di un assegno. Sono i soldi di tua madre. A me non servono. A me servi tu. Non voglio tradire nessuno. Avrai ciò che devi avere di tua madre e di quel che so di lei, quando tu non c’eri e io l’ho incontrata. Ma io l’ho incontrata in una stanza bianca con i letti di ferro, mentre quella donna, tua nonna, era ricoverata lì e dormiva nel suo letto, girata dall’altra parte, una parte in cui non c’era nessuno, un nessuno che comunque doveva accontentarsi dei suoi occhi chiusi sul cuscino. Ho bisogno di farti sapere come siamo arrivati fino a lì, e cosa è successo da lì in poi. Probabile che a te interessi solo quel Poi. A me no. È una delle cose che ci divide. Un’altra sarebbe se tu rifiutassi la mia convinzione, ma in realtà non lo farai, temo che non lo farai, e a dire il vero non lo temo affatto.’ Mio padre scrive lettere ispirate e un po’ confuse, non si capisce sempre tutto e forse non tutto è per forza da capire. Io l’ho sempre trovato poetico, questo modo di fare, di essere, nonostante tutti i guai. È come avere per papà una botti115

glia di whisky Johnnie Walker Red. Tu mi hai chiesto di definirlo. Io lo definirei come una persona che non ha ricevuto amore e che si è dovuta inventare un modo per generarlo attraverso il suo lavoro. Ha voluto dare alla famiglia la prima casa, una palazzina in centro di quattro piani, molto bella. Per farlo si è indebitato, lì i miei, che erano ancora sposati, hanno fatto il primo mutuo. Ad un certo punto il peso del mutuo e dei debiti vari ha iniziato ad inasprire il loro rapporto. Per risolvere, per farci stare meglio, ha comprato un terreno con una vecchia casa in campagna, vendendo quella in centro, proprio nel momento in cui la situazione si stava risollevando economicamente. Per cui ci siamo trasferiti, prima in una casa in affitto dove, ricordo, lui ebbe la sua prima crisi di depressione, poi siamo finalmente andati a stare nella casa nuova, ovviamente non finita, come vivere in un debito materializzato. Anche quella casa era molto bella, aveva un parco di 8000 metri quadri, che mia madre ha curato riversandoci una grande passione, era tutto in divenire, prima o poi avremmo vissuto bene, questo mi diceva sempre mio padre. Ma lo colse una crisi depressiva fortissima, perché il non finito per lui rappresentava un fallimento progettuale e per noi rappresentava l’inizio della fine della famiglia. In quel periodo ricordo che se ne andò di casa per qualche mese. Era un costante sacrificio, una costante rinuncia, al prezzo di vivere sontuosamente. Avevamo il giardiniere, la donna di servizio, facevamo delle gran feste, la casa era molto bella e a me comunque non mancava nulla dal punto di vista pratico. Mettevamo in scena il benessere che non avevamo in realtà, perché io credo che lui volesse davvero arrivare ad avere una vita sontuosa, solo che ha fatto di più di quel che poteva. È diventata una messa in scena nel momento in cui si è accorto di non farcela. Si è innescato 116

ad un certo punto un meccanismo quasi masochistico. Ricordo il suo lavorare costantemente, l’essere sempre stanco, la sua pena e la sua fatica. Ci diceva che questo lo faceva per noi, perché un giorno saremmo stati bene. Una sorta di ricatto morale che mi ha fatto sentire in colpa per molto tempo. Era come se il voler essere felici dovesse avere un prezzo tremendo, che infatti tutti noi abbiamo pagato. Così è finito il loro matrimonio. Nel momento in cui io ho portato mia madre via di casa avevo 19 anni ed era l’anno della maturità. C’erano dei livelli di tensione altissimi oramai da anni, io non ce la facevo più. Una volta trovai mia madre distrutta dopo una loro litigata e la convinsi ad andare dall’avvocato. Mia madre era molto debole in quel periodo, andammo a vivere in una casa che ci prestò un’amica, mio padre non lo vidi per quasi un anno, non mi parlò più e non mi volle vedere. In quel momento si decise cosa fare della casa, lui ci propose di lasciarla a noi, se ne sarebbe andato lui da un’altra parte. Io mi imposi e li convinsi a venderla. Ecco, mia madre riuscì a guadagnarci. Lui, no. S’infossò. Completamente. Ad un certo punto, dalla disperazione e dal fatto di essere rimasto solo, si lasciò andare, in un certo modo. I debiti erano troppi e si accorse che se non li pagava, comunque non gli succedeva niente. Qualche anno dopo incontrò una nuova compagna, con cui ha messo sù un’altra casa. Forse per riprodurre in quel nuovo mondo quello che non era riuscito a dare a noi. E da quel momento in avanti è diventato invisibile. Finanziariamente, fiscalmente, burocraticamente invisibile. E più diventava invisibile – se si può diventare invisibili in modo progressivo – più faceva debiti. Da quel periodo non risulta che lui abbia proprietà di nessun tipo, nemmeno la macchina si è intestato. Di conti correnti ne ha avuti molti, inventandosi 117

cooperative e associazioni, usando amici come scudo e mettendosi insieme ad altri. Le banche hanno iniziato a inseguirlo, chiedeva prestiti che pagava a catena con altri prestiti, a volte ha chiesto prestiti anche ad amici, datori di lavoro. A volte è stato lui stesso a prestare soldi, forse per sentirsi dall’altra parte per qualche momento. Continuava a dirmi che fregava le banche, e io ero giovanissima. I miei vent’anni sono stati pieni di cene con lui, e le cene con lui sono state piene di quella frase che arrivava puntuale – sto fregando le banche. Ma non diceva mai esattamente come. Io e mio padre tuttora ci vediamo solo a cena, fuori. Paga lui, di solito. Se non ha i soldi lascia debito e si cambia spesso ristorante, per un periodo se ne frequenta uno ossessivamente, dove lui crea rapporti di amicizia con i ristoratori, poi improvvisamente lì non si va più. Mio padre, devo dirtelo, è una persona molto umana, credo che questo sia importante. si affeziona molto alle persone ed è generosissimo. Fa favori grandissimi, spesso anche non richiesti. Il problema è che lui fa i favori per averne un ritorno in termini di gratificazione personale, non venale. E quando succede che questo non accade si arrabbia tantissimo. Quando si è venduta la casa lui ha avuto la sua unica occasione di riscatto, ma invece, rilassandosi, si è affossato e ha iniziato a surfare. Ha pagato i debiti della casa ma ne ha costruita un’altra di cui non ha più pagato il mutuo, ad un certo punto. Per le tasse credo abbia un arretrato di almeno tre anni. Ha costituito una nuova società che figura in tutto al posto suo. Non credo sia molto cosciente di come gestisce il denaro e tutti i suoi prestiti, credo sposti in avanti il problema. Ha sicuramente molti avvocati che lo seguono. Molti, perché anche per gli avvocati è come per i ristoranti. Io personalmente devo dire che, per quanto mi riguarda, a parte il terrore di trovarmi a pagare i 118

suoi debiti un giorno, con me è stato sempre puntuale. Mi ha pagato gli studi, anche se con tanti ritardi e problemi, ma ci ho pensato da sola a risolverli. Tu mi avevi chiesto esempi, e io non te ne ho mai fatti: esempi, storie brevi che raccontino cos’è una persona, chi è una persona. Per me c’è stata la storia della casa di Torino, che ti racconterò in un’altra lettera, perché se te la dicessi dal vivo non ci crederesti. Francesca» In effetti non ci credevo finché non mi è tornato come qualcosa di già sentito. Lo ricordavo, senza ricordarmi di ricordarlo: l’avevo letto da qualche parte, di un uomo che vince una lotteria e devolve tutto ai poveri; no, forse era diverso; un uomo che vince una lotteria e mette il biglietto nel cappello di un mendicante; no, è un’altra cosa. Doveva essere la storia di un uomo che vince la lotteria, va a confessarsi in una chiesa, riceve l’assoluzione e dopo essersi alzato dall’inginocchiatoio si sporge dentro la cabina e lascia il biglietto al sacerdote dicendo: «Non mi faccia insistere, non mi faccia insistere». O forse sono tutti parti della stessa fantasia, che dipinge l’intera penisola come un’inutile rincorsa alle più minuziose ‘forme tecniche’ per collocare in giro il denaro prestato. La stessa fantasia che vede dovunque cigni da immaginare, cigni con la pelle butterata che hanno fatto un finanziamento per rifarsi il seno, cigni coi capelli bianchi in metropolitana e cigni affetti da miopia che con sei microrate sono riusciti a comprarsi gli occhiali risolutivi. E forse nella stessa fantasia compaiono milioni di nuovi debitori, e nessuno in grado di regalare alcunché. E sarà pure una fantasia cupa, d’accordo, ma non priva di luminose eccezioni e punte che spingono in direzione opposta: così c’è chi vince alla lotteria e sente che incassare i soldi non ha senso, che occupar119

si degli altri in modo consequenziale non ha senso, che si può lasciare una figlia in bolletta per anni e poi, presentandosi con un biglietto della lotteria da duecentomila euro, autentico, chiedere al proprietario della casa in cui lei ha vissuto per anni di accettarlo senza dire nulla, di fare tutte le verifiche, e una volta appurato che si trattava del biglietto giusto, di inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa, e procedere al più presto al passaggio di proprietà dell’immobile a Francesca, la sua unica figlia, e domandando come unica condizione che tutta l’operazione resti anonima. Tutto questo è successo davvero. Nella mia fantasia invece le anime più generose d’Italia sono quelle che si mettono nei guai più spesso. Nella realtà, debitori e creditori vivono su un piano di schietta equivalenza morale. Ma nella mia fantasia darsi e dare saranno verbi che coniugheranno sinceramente solo i nostri debitori, e in questa economia dell’allucinazione la fantasia ha un peso maggiore della realtà più dotata. Alla fine sono riuscito a convincerla. L’ho incontrata in uno di quei bar pieni di tartine, piatti, piccole montagne di ogni genere, cibo da prendere con le mani – un bar chiamato Stella, con sotto la scritta happy hour - aperitivi - colazioni. La prima cosa che mi ha detto è stata: Mi mette a disagio. Parlare di tuo padre, lo immagino. Ma in fondo stiamo parlando di soldi, non è un argomento asettico? Sai bene che non lo è. Mi hai scritto che parlare di tuo padre e dei suoi debiti è la stessa cosa. È come se il suo corpo, se la sua barba o persino gli occhiali, fossero debiti. Magari è davvero così. 120

Già. Secondo te è davvero così? Secondo me la sua bilancia finanziaria non è positiva da almeno trent’anni. Ti ha mai chiesto un prestito? A me no. A mia madre sì. Ma non voglio parlare di mia madre, anche. Io ho solo due curiosità grosse, su tuo padre. Quali? Una è sulla tua casa. Cosa vuoi sapere? Innanzitutto se è vero quello che mi hai scritto nella seconda mail che mi hai mandato. Il biglietto della lotteria? Certo che è vero. È stato l’unico atto di generosità non fallimentare di mio padre nei miei confronti. Ma io voglio dettagli tecnici. Puoi spiegarmi com’è andata? Sono i dettagli tecnici che fanno soffrire. È vero. Comunque sì, posso spiegartelo. È andata che lui era invisibile, come ti ho scritto. Perciò non poteva figurare davanti al fisco, aveva almeno cinque anni di arretrati, un pasticcio infinito, società fantasma e fatture, insomma, quando ha comprato quel biglietto lui viveva solo di contanti, come uno spacciatore. Come un criminale organizzato. A suo modo lo è stato. In ogni caso lui aveva saputo che quando hai una vincita importante il fisco ti tiene d’occhio. Sempre. Ma le vincite delle lotterie e del lotto non sono tassate. Le vincite no. Come li spendi sì. Lui sapeva che avrebbero passato le informazioni al fisco? 121

Ne era certo. Glielo aveva detto qualcuno. È sempre stato pieno di amici in tutti gli ambienti, poi non riesci ad avere una vita come la sua senza questi agganci, senza essere molto placido e molto organizzato. Misterioso e organizzato. Ecco, misterioso di sicuro. Io queste cose le ho sapute solo inchiodandolo, a cena come tutte le altre volte, incazzandomi, facendogli il terzo grado. E lui te le ha dette subito? No, è uscito dal ristorante. Io l’ho inseguito. È stata una scena piuttosto ridicola, sembravamo due amanti che litigano. Quindi non poteva incassare personalmente la vincita perché sennò avrebbe dovuto pagare tutti gli arretrati. Sì, sarebbe stata la fine della sua vita. La fine di quella vita. E perciò è andato dal proprietario della casetta da studentessa che affittavi a Torino. Sì, che lo detestava. Si chiamava Napoleone di nome, indimenticabile. Ma il cognome era anche peggio. Come si chiamava di cognome? Caramella. Non era riuscita ad andare più in là. Si era alzata dal tavolo e mi aveva chiesto di aspettarmi, che andava in bagno. Io l’ho aspettata e ho pagato il conto, sapevo già quel che mi avrebbe detto. Non posso continuare, non ce la faccio. Ti scriverò. Te lo prometto. Siamo usciti e dopo averla salutata mi sono messo davanti a un computer e ho cercato di capire dov’era il catasto, come fare per ottenere documenti e rintracciare i passaggi di proprietà di quell’appartamento. Napoleone Caramella, avrei scoperto il giorno dopo, esisteva davvero, e aveva davvero firmato un atto di passaggio di proprietà per un appartamento di 35 metri quadri, per 16.500 122

euro, pagati con assegno circolare firmato da Francesca Ellas. Dopo il catasto mi sono diretto a un’agenzia immobiliare e ho chiesto a un consulente quanto può valere un appartamento in quella zona e di quella metratura, e quanto poteva valere al momento dell’acquisto. La calcolatrice parlava chiaro. Il padre di Francesca aveva perso più di 50.000 euro sull’unghia per fare un regalo alla figlia, e farlo in quelle circostanze e in quel luogo: quando me ne sono reso conto ho deciso che l’avrei cercato, con o senza il permesso della figlia, a costo di passare i giorni a rintracciare i movimenti di denaro e di persone, e di attraversare mezza Italia. Ecco una figura interessante – un uomo che aveva dei problemi ad affrontare l’equazione instabile tra denaro e amore. Nessun thriller – me lo dava lei l’indirizzo. Mi ha solo chiesto di non dirgli niente, di non dirgli che me l’aveva fornito lei. Via delle Rosine, 15, Forlì. Abitazione intestata a una società chiamata LocaSta S.a.s. Mi aveva avvertito – «È una persona molto silenziosa e adora la sua privacy, non ti dirà niente». Sono partito lo stesso. Ero in viaggio da un po’, la striscia dell’autostrada sempre identica a se stessa dava occasione di pensieri concatenati. Cosa andavo a chiedere a quel debitore incallito e avventuroso? Cosa aggiungeva alla mia inchiesta? E poi – stavo facendo un’inchiesta o qualcosa di diverso? E poi – che senso ha investigare come notizia urgente una realtà, l’esplosione del credito al consumo, che rispetto ad altri paesi è minoritaria? E il mondo del denaro prestato, in definitiva, è davvero così complesso o invece forse è binario, la forza dello zero che lascia il posto all’uno, la forza dell’uno che diventa zero: vincere e perdere, connotazioni emotive sulla linea che separa il 123

più dal meno. Non è il denaro a portarmi dal signor Ellas: non è stato il denaro in sé a farmi interessare a oscuri funzionari di società finanziarie, oppure elargitori di credito, recuperatori di credito, vittime del credito e figli delle vittime del credito. Quello che conta è la quantità di persone moralmente elettrificate che il percorrere le strade del denaro prestato ti fa incontrare. È tutto merito dell’odore che lascia nell’aria il denaro che manca, di cui si ha bisogno e che ciononostante continua a mancare fino a quando non appare come per magia (gli interessi sono una forma di magia applicata al valore): ecco la dinamica che regola il patto fra chi presta e chi si fa prestare soldi. Un affidabile indicatore della elettrostatica morale in una società. I debitori e i creditori sono poli carichi e destinati a scaricare la propria energia su qualcun altro, e le azioni che compiono sono una traccia perfetta del processo con cui giudicano i fenomeni, gli oggetti, la scena esistenziale che non è mai indifferente alla presenza o all’assenza del denaro. Quello che colpisce è la virulenza con cui i recuperatori giudicano chi non paga; l’indifferenza con la quale alcuni debitori scivolano sul fardello delle proprie pendenze; l’ansia mortale che getta altri debitori nel panico fino alle estreme conseguenze. Tutti scriviamo nell’aria i nostri comportamenti come un sottotitolo o un trailer di ciò che vedremo scritto sulla nostra lapide. L’Offerta sta intaccando una delle poche certezze solide della natura italiana, legata alla sua arretratezza finanziaria: un paese di risparmiatori si avvia a diventare più volatile, meno ancorato, più sensibile. Questo denaro, in questa contingenza storica, in questa espressione geografica, prende spesso le sembianze di oggetti: televisori, vibromassaggiatori, impianti di cinema casalinghi. Altre volte compie il giro inverso e diventa tempo: un giorno di matrimonio, una settimana di vacanza, una vita con 124

due mammelle di una taglia superiore. Altre ancora, rimane una specie di riserva di possibilità. Ma non pensate a niente di astratto. Sto parlando di un paesaggio. Il corso del fiume ha compreso tutti i reparti sociali, ha attraversato i confini delle regioni, dalle più ricche alle più povere – specialmente le più povere. Dovunque ci sono cigni che altrove vengono immaginati come bastardi. Non esistono zone che non ne siano lambite. Le pubblicità televisive hanno lettere chiare che non si vergognano di parlare chiaro e dire in faccia agli italiani di oggi ciò che gli italiani di vent’anni fa non avevano il coraggio di ammettere nemmeno nel cerchio intimo dei figli, delle mogli, dei mariti: soldi in affitto, interessi, soldi da restituire, rate da pagare per qualsiasi cosa. L’Italia è diventata lo sfondo trionfale del microcredito dello spreco. L’educazione civile condivisa, sorta dalla guerra, nei decenni scorsi, aveva generato un vocabolo che copriva le esigenze fondamentali senza sporcare alcunché: mutuo, cambiale, con il loro carico di reciprocità: l’anello verbale sanciva un patto sociale, il denaro italiano era ancora qualcosa di oceanico, chiuso nelle casse delle grandi famiglie, delle grandi industrie, dello stato. Il denaro era ancora colossale. Poi è successo qualcosa, è successa una catena di eventi prevedibili e meno prevedibili, generali e particolari: non importa richiamare alla memoria niente di quello che è successo, non mi importa perché ora sono qui, in mezzo a questo paese invaso da rigagnoli sempre più fitti: dovunque, dovunque, dovunque. Scendo di casa e tutte le persone che incontro hanno appena firmato le carte di un piccolo finanziamento o di una carta di credito che si rimborsa a rate. Mentre penso, ora, una coppia di Lambrate ha acquistato un frigorifero alto due metri e undici centimetri, spilla la coca cola e il ghiaccio, e ha una data di scadenza: ventiquattro mesi. Ventiquattro mesi 125

di denaro evaporabile, moltiplicato come cirri e nembi in un cielo che non smette di stupire per lo spazio. Un giorno mi hanno raccontato di un gallerista d’arte che quando è nervoso si imbottisce di caffeina e fa quattrocento chilometri andata e ritorno in una notte. Lo immagino mentre guida e sbatte gli occhi, e pensa ai soldi che deve fare o a quelli che ha già fatto. Pensa alle cose buone e a tutto ciò che è stato malfatto. Non sente musica in auto, solo il sifone continuo dell’autostrada, il sifone continuo delle cose che stanno fuori dall’abitacolo. Io non andrò dal padre di Francesca. Le mie interviste rendono infelici e io credo che la sua vita sia perfetta così com’è. Non c’è bisogno di indagare sui padri quando si conoscono gli effetti fissando i bulbi oculari dei figli, in un bar – e pensando a tutti i debiti del futuro. Qualcuno si è accorto che l’Italia è cambiata. Il padre di Francesca si è vantato per anni, con lei adolescente, di aver fregato le banche. Questo dettaglio dimostra quanta tenerezza può fare un uomo, al ricordo che avrà sua figlia quando lui sarà morto. L’Italia sta svoltando, come gli attori di teatro quando entrano nel cast di una soap opera. Ho passato molto tempo a cercare le crepe dell’indebitamento sugli edifici della borghesia che un tempo era solida: so perfettamente che il vero assalto del credito al consumo sarà nei confronti dei più deboli, sotto forma di volantini di finanziarie distribuiti ai cancelli delle fabbriche ricolme di merce invenduta. Tasso zero. Cessione del quinto. Prestiti ai dipendenti. Sei dipendente? Sei pensionato? Finanziamenti anche a chi è protestato. Rateazione di consolidamento. Denaro contante scritto in lettere maiuscole, gialle su sfondo rosso. Chiama il numero verde. Vieni a trovarci in corso e in via. Visita il sito internet. Presenta la busta paga. Presenta il 740. Anche a 126

chi è dipendente da meno di sei mesi. Finanziaria Globale. Finanziaria Brutale. Prestiti in un’ora. Nuovi prestiti e prestiti on-line. Trattamento speciale militari e poliziotti. Configurazione senza intermediari. Risposta immediata. Personale. Centoventi mesi. Quindicimila euro. Il retro-domani della penisola è nel suo pieno, sconvolgente, primissimo tempo. Qualcuno ha prestato soldi a qualcuno. Qualcuno ha recuperato i soldi che nessuno ha mai restituito. Qualcuno ha immaginato il cigno. Nessuno ha rimesso i debiti di tutti gli altri.

Il debito è una ragnatela in assenza di ragno – tessuta da ciascun partecipante, con la segreta illusione che al termine non ci sia la bestia ma il sogno. E la bestia, il malefico calcolatore che ti inghiotte e che si è arricchito alle tue spalle, non esiste. E il sogno di liberarsi dal dovere di guadagnare neppure. C’è solo la ragnatela, costruzione meticolosa e incomputabile, di una levità che si fa invisibile e lega chiunque, e mentre continuano a tesserla con lo sforzo delle proprie vite, tutti cantano sono felice, spero che anche tu lo sia, e acquistano, maledicono ciò che non possono acquistare e fanno piani per acquistare ciò che non potranno più maledire. È perfetto, umano, e regolare. È una ragnatela regolare. È una ragnatela perfetta. È la metafora banalissima e adatta su cui si regge l’intero sviluppo delle nostre economie degli ultimi vent’anni. Tutti sentono la presenza della ragnatela. Tutti sanno che c’è e la vedono. Alcuni immaginano di poterci vivere sopra per un po’, altri si sentono obbligati a farlo, altri ancora si sentono invitati a farlo – e poi ci sono quelli, pochi o tanti, che provano a inalare la tela per diventare un protagonista dell’alta finanza e scoprire, un giorno, di scalare le facciate degli edifici, quotati in borsa. Ma ogni creatura, nella ragnatela del de-

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bito, è il meccanico supereroe della nostra triste esperienza economica – fino a quando tutto finisce per errore, e tutti gridano non ho mai fatto niente di male, non ho mai fatto niente di bene. E dopo la ragnatela c’è la caduta. Questo libro si ferma al punto in cui le persone cominciano a cadere. Nizza, estate 2008

Maurizio Cilli, I nostri debitori, 2009, matita e filo rosso su collage su carta, 21 x 29,7 cm.

Ringraziamenti

La prima persona – Caterina. La seconda – tu, papà, che sai come si usa il denaro. La terza è Maurizio Cilli, che ha disegnato, ritagliato, fatto e rifatto. Poi ci siamo noi – i nostri debitori, che era il titolo originario di questo libro. Poi ci siete voi che leggete, scrivete, rivedete, consigliate, portate acqua, idee e nei momenti migliori anche storie: in ordine alfabetico, Marianna Aquino, Valentina Ciuffi, Luca Doninelli, Nicola Lagioia, Hans Ulrich Obrist, Christian Raimo, Filippo Taricco, Massimo Torrigiani, Davide Valentini, Federica Verona, e in modo speciale Enrico Verra. E infine tutti gli altri – quelli che hanno perso denaro, che ne hanno chiesto in prestito, quelli a cui abbiamo sottratto qualcosa.