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English Pages 475 [652] Year 2022
Table of contents :
INDICE DEL VOLUME
RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ
MICHELE ABBATE. SIGNIFICATO E FUNZIONE DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL NEOPLATONISMO GRECO PAGANO
LUCREZIA IRIS MARTONE. ΟὐΣΊΑ, ΔΎΝΑΜΙΣ ED ἘΝΈΡΓΕΙΑΙ NELL’OPERA DI GIAMBLICO
ILARIA GRIMALDI. ὝΠΑΡΞΙΣ, ΔΎΝΑΜΙΣ, ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN RELAZIONE ALL’UNIFICATO
CLAUDIA LO CASTO. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO DI SIMPLICIO
ILARIA RAMELLI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN GREGORIO DI NISSA E NEI CAPPADOCI
ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO PATRISTICO-ORIENTALE E PROTO-BIZANTINO
JOHN GAVIN S. J.. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA VISIONE COSMICA DI MASSIMO IL CONFESSORE
ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA E FILOSOFICA DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA
ROBERTO SCHIAVOLIN. LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO
RENATO DE FILIPPIS. LA TRIADE DELL’ESSERE IN GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
ANTONIO SORDILLO. LA TRIADE DELL’ESSERE DA EIRICO DI AUXERRE A EGIDIO ROMANO
MELISSA GIANNETTA. AES, SIGILLABILIS, SIGILLANTIS. UNA METAMORFOSI DELLA TRIADE DELL’ESSERE NELLE «THEOLOGIAE» DI ABELARDO
BEATE ULRIKE LA SALA. SUBSTANTIA, POTENTIA E ACTUS NELLA FILOSOFIA ARABA
MASSIMILIANO LENZI. «SICUT MAGNES ATTRAHIT FERRUM». TOMMASO D’AQ UINO, L’IMMATERIALITÀ DELL’INTELLETTO E IL FONDAMENTO OCCULTO DELLE VIRTÙ NATURALI
ANDREA DI MAIO. «ILLA TRINITAS DIONYSII» (SOSTANZA, VIRTÙ E OPERAZIONE) IN BONAVENTURA
MASSIMO PERRONE. LA TRIADE SUBSTANTIA – VIRTUS – OPERATIO NEGLI AUTORI DELLA SCUOLA DOMENICANA TEDESCA
DAVIDE RISERBATO. RES (ESSENTIA), ESSE ESSENTIAE (VIRTUS), ESSE EXISTENTIAE (OPERATIO)
PIETRO SECCHI. LA TRIADE IN CUSANO
ROBERTO MELISI. LA TRIADE ESSENTIA – VIRTUS – OPERATIO NEI PLATONICI DEL RINASCIMENTO
GIULIO GISONDI. ANTITRINITARISMO E TRIADICITÀ IN GIORDANO BRUNO
ABSTRACTS
NUTRI X
STUDIES IN LATE ANTIQ UE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO
Directed by Giulio d’Onofrio Assistant director Renato de Filippis
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Ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram Philosophiam Boethius Consolatio Philosophiae, I, 3
The publication of this volume has been assisted by a grant from the Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale of the Università degli Studi di Salerno, Italy, and from the Dottorato RAMUS (Ricerche e Studi sull’Antichità, il Medioevo e l’Umanesimo – Salerno) of the same university.
© 2022 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium
Nutrix is a peer-reviewed Series. The content of each volume is assessed by specialists chosen by the Direction of the Series. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher. The logo of the series Nutrix – a miniature from Ms. New York, Pierpont Morgan Library, M. 302 (Ramsey Psalter), f. 2v – portrays the Christ Child among the Doctors in the Temple. Photographic credit: The Pierpont Morgan Library, New York.
D/2022/0095/94 ISBN 978-2-503-58864-3 e-ISBN 978-2-503-58865-0 DOI 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.119603 ISSN 2506-9756 e-ISSN 2506-9764 Printed in the EU on acid-free paper.
La triade dell’Essere Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale
a cura di Renato de Filippis ed Ernesto Sergio Mainoldi
Gioacchino da Fiore, Liber figurarum Oxford, Corpus Christi College, ms. 255A, f. 7v Photografic credit: © Bridgeman Images - Bologna (BO)
INDICE DEL VOLUME
INDICE DEL VOLUME
Premessa 13 Sigle e abbreviazioni 17 Renato de Filippis – Ernesto Sergio Mainoldi La formazione e le ricezioni della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Una presentazione del problema storico e storiografico 19 Michele Abbate Significato e funzione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel neoplatonismo greco pagano 79 Lucrezia Iris Martone Οὐσία, δύναμις ed ἐνέργειαι nell’opera di Giamblico 97 Ilaria Grimaldi Ὕπαρξις, δύναμις, ἐνέργεια in relazione all’Unificato. La triade neoplatonica nel «De primis principiis» di Damascio 121 Claudia Lo Casto La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio 141 Ilaria Ramelli La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Gregorio di Nissa e nei Cappadoci. Paralleli filosofici e ascendenze origeniane 153 Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino 181 John Gavin S. J. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella visione cosmica di Massimo il Confessore 225 9
INDICE DEL VOLUME
Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina 247 Roberto Schiavolin La sostanza tra potenza ed atto. Il pensiero di Mario Vittorino 299 Renato de Filippis La triade dell’essere in Giovanni Scoto Eriugena 321 Antonio Sordillo La triade dell’essere da Eirico di Auxerre a Egidio Romano 343 Melissa Giannetta Aes, sigillabilis, sigillantis. Una metamorfosi della triade dell’essere nelle «Theologiae» di Abelardo 365 Beate Ulrike La Sala Substantia, potentia e actus nella filosofia araba 385 Massimiliano Lenzi «Sicut magnes attrahit ferrum». Tommaso d’Aq uino, l’immaterialità dell’intelletto e il fondamento occulto delle virtù naturali 409 Andrea Di Maio «Illa Trinitas Dionysii» (sostanza, virtù e operazione) in Bonaventura 443 Giulio d’Onofrio «Vede perfettamente ogne salute». La triade ‘nascosta’ in Dante, dalla «Vita nova» alla «Monarchia» 473 Massimo Perrone La triade substantia – virtus – operatio negli autori della scuola domenicana tedesca. Alberto Magno, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg e Bertoldo di Moosburg 499 Davide Riserbato Res (essentia), esse essentiae (virtus), esse existentiae (operatio). Dall’essere di essenza all’essere intelligibile: Duns Scoto e Guglielmo di Alnwick 521 Pietro Secchi La triade in Cusano 541 10
INDICE DEL VOLUME
Roberto Melisi La triade essentia – virtus – operatio nei platonici del Rinascimento
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Giulio Gisondi Antitrinitarismo e triadicità in Giordano Bruno. Il ricorso alla triade substantia/essentia – potentia – actus nel «De la causa, principio et uno» 589 Abstracts – Summaries 607 Indice dei nomi 633 Indice biblico 649
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PREMESSA
PREMESSA
Le ricerche raccolte in questo volume si propongono di offrire una panoramica, per quanto possibile esaustiva e approfondita, riguardo a una struttura terminologico-concettuale che ha caratterizzato la riflessione ontologica tra la Tarda Antichità e le soglie dell’Età moderna, ovvero la triade definita dal trinomio οὐσία/ essentia – δύναμις/potentia/virtus – ἐνέργεια/operatio. Sorta in seno alla riflessione neoplatonica, essa è stata ripresa dalla speculazione patristica ellenofona, per trovare poi un’ampia e durevole fortuna nei testi teologici e filosofici di epoca medievale e rinascimentale, tanto in ambito greco-bizantino quanto latino, con alcuni utilizzi anche nel mondo arabo. La storiografia ha riservato alla triade diverse menzioni e analisi, relegandola tuttavia in una posizione marginale, come mostra il fatto che essa non sia stata finora oggetto di nessuno studio complessivo volto a fare luce sui contorni della sua presenza nella storia del pensiero filosofico e teologico. In ragione di questo status dell’arte, ci sembra che un tentativo sistematico di investigare la triade nelle sue occorrenze testuali, e nelle valenze speculative che vi ha assunto, possa costituire un contributo utile alla comprensione di un tassello speculativo ricorrente in autori e testi lungo un arco di circa quattordici secoli. L’ideazione di questo progetto di ricerca è dovuta a Giulio d’Onofrio, i cui percorsi di studio nell’ambito della filosofia tardoantica e medievale hanno portato, già a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, a un cospicuo numero di identificazioni della triade in autori della rilevanza di Giovanni Scoto Eriugena 13
PREMESSA
e Dante. A questo soggetto venne dedicato, negli anni accademici 2007-2008 e 2008-2009, un seminario del dottorato in ‘Filosofia, Scienze e Cultura dell’età tardo-antica, medievale e umanistica’ (FiTMU) dell’Università degli Studi di Salerno, coordinato dallo stesso Giulio d’Onofrio. Il materiale portato all’attenzione dai vari relatori coinvolti mostrò come la presenza della triade fosse molto più ramificata di quanto noto, e presentasse quesiti storico-dottrinali meritevoli di ulteriori e più sistematici approfondimenti. Si sono così profilate prima l’ideazione del progetto di ricerca del Centro Interdipartimentale FiTMU dell’Università di Salerno ‘La triade neoplatonica substantia, virtus e operatio. Storia e metamorfosi’, affidato dall’ottobre 2016 alla direzione di Renato de Filippis, e quindi l’idea del presente volume. Q uesti ulteriori sviluppi hanno permesso di pianificare un indice degli argomenti il più possibile esaustivo – sebbene la completezza, in questo genere di ricerche, rimanga sempre un’ipotesi di massima – circa la presenza della triade negli autori più significativi dell’arco temporale in cui questa struttura si è intrecciata con la storia del pensiero occidentale, coinvolgendo gli studiosi che potessero analizzarla in base alla loro competenza specialistica. Con il progredire della ricerca e l’elaborazione dei singoli capitoli, attraverso un costante e ripetuto confronto tra gli studiosi coinvolti, sia nel contesto di incontri seminariali (due Tavole rotonde svolte presso l’Università degli Studi di Salerno, nell’ottobre del 2017 e nel settembre del 2019), sia attraverso la discussione dei risultati raggiunti, è stato possibile non solo documentare i percorsi della triade all’interno dell’opera e del pensiero dei singoli autori, arrivando così a una mappatura dei suoi contesti di presenza e di influenza, ma soprattutto ricostruire gli aspetti generali e particolari del suo modello ontologico, anche negli adattamenti e nelle trasformazioni concettuali che hanno caratterizzato la sua ricezione nei contesti speculativi e negli autori che l’hanno utilizzata. I risultati di questa indagine, di cui il presente volume è l’espressione, sono stati affidati a un tentativo di sintesi nell’Introduzione, la quale si propone di offrire tanto un inquadramento storiografico e una disamina originale delle questioni teoriche implicate dal modello ontologico della triade, sia nella sua formazione sia nella sua fortuna, quanto una presen14
PREMESSA
tazione degli approfondimenti specialistici che sono oggetto dei singoli capitoli. Q uesto libro non avrebbe mai visto la luce senza l’interessamento, l’incoraggiamento e la disponibilità di Giulio d’Onofrio, che fin dagli inizi ha sempre creduto nel progetto – ma ancor di più ha colto il valore e l’importanza speculativa della triade, riconoscendo in essa un vero e proprio ‘tassello mancante’ della nostra conoscenza della filosofia fra iii e xvi secolo. I ricchi capitoli di questa ricerca danno incontestabilmente ragione a questa intuizione originaria, che permette oggi di leggere da una diversa prospettiva una intera stagione del pensiero occidentale. A lui va il primo ringraziamento dei curatori, per i suoi consigli, per il perdurante sostegno alla ricerca, e per la messa a disposizione delle risorse economiche che hanno permesso le Tavole rotonde di cui si è dato notizia. Siamo inoltre lieti di ringraziare, per il loro contributo alle complesse vicende (intellettuali, editoriali ed accademiche) della triade: Armando Bisogno, dell’Università degli Studi di Salerno, che ha offerto la sua attenzione e la sua intelligenza in merito a numerose tematiche e problematiche della ricerca; tutti i partecipanti al primo e originario seminario del Dottorato FiTMU (Marika De Vita, Francesco Fiorentino, John Gavin S. J., Claudia Maggi, Lucrezia I. Martone, Chiara Militello, Ilaria Ramelli, Roberto Schiavolin), le cui ricerche sono state il punto di partenza per lo scenario che possiamo apprezzare oggi, e in diversi casi sono poi rientrate, dopo rielaborazioni e aggiornamenti, nel progetto definitivo; tutti i contributori al volume, con un apprezzamento particolare per i primi (Michele Abbate, Andrea Di Maio, Massimiliano Lenzi, Roberto Melisi) che hanno aderito all’iniziativa e contribuito a ideare la sua configurazione; i dottorandi, dottori, assegnisti e docenti di scuola secondaria superiore afferenti al Centro Interdipartimentale FiTMU che, a diverso titolo, hanno con noi discusso i temi di questo libro o hanno contribuito alla sua finalizzazione editoriale. Per la realizzazione degli indici, infine, ringraziamo Vanni Claves, Giuseppe Donnarumma, Simone Luigi Migliaro ed Antonio Sordillo. La medievistica filosofica ha pianto, lo scorso anno, una delle sue più illustri e significative figure, Valeria Sorge (1957-2021), ordinario di Storia della filosofia medievale presso l’Università 15
PREMESSA
‘Federico II’ di Napoli. Diversi suoi allievi figurano fra i contributori della presente miscellanea, ed Ella è stata sempre presente alle iniziative che hanno riguardato la triade nel corso degli anni. A Lei vogliamo, dunque, dedicare questo volume. Fisciano (SA), 29.04.22 Renato de Filippis Ernesto Sergio Mainoldi
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SIGLE E ABBREVIAZIONI
SIGLE E ABBREVIAZIONI
Acta Conciliorum Oecumenicorum, ed. E. Schwartz, cont. J. Straub, Berlin - Leipzig 1914-. AL Aristoteles Latinus, editioni curandae praesidet L. Minio Paluello, deinde G. Verbeke, Bruges - Leiden - Turnhout 1961BGPM Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen, hrsg. von Cl. Baeumker G. von Hertling, Münster i. W 1891-1927. BGPTM Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen, Münster i. W 1928- (Neue Folge, 1970-). BHG Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles 1909-. CAG Commentaria in Aristotelis Graeca, Berlin 1882-1909. CCCM Corpus Christianorum, Continuatio mediaevalis, Turn hout 1966-. CCSG Corpus Christianorum, Series graeca, Turnhout 1974-. CCSL Corpus Christianorum, Series latina, Turnhout 1953-. MGH Monumenta Germaniae Historica, Hannover - Berlin 1829-. OECS Oxford Early Christian Studies, Oxford 1990-. PG Patrologiae cursus completus, Series Graeca, accurante J. P. Migne, 161 voll., Turnhout 1856-1866. PL Patrologiae cursus completus, Series Latina, accurante J. P. Migne, 221 voll., Turnhout 1844-1855. PTS Patristische Texte und Studien, Berlin - New York 1964-. SC Sources chrétiennes, Paris 1942-. ACO
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SIGLE E ABBREVIAZIONI
Le opere del Corpus Dionysiacum sono indicate con le seguenti sigle: CH EH DN
pseudo-Dionysius Areopagita, De coelesti hierarchia, PG 3, [119-370], ed. G. Heil, in Corpus Dionysiacum, II, Berlin 1991, 20122 (PTS, 36), pp. 3-59. Id., De ecclesiastica hierarchia, PG 3, [369-584], ed. G. Heil, ibid., pp. 61-132. Id., De divinis nominibus, PG 3, [585-996], ed. B. R. Suchla, ibid., I, Berlin 1990 (PTS, 33).
Le citazioni riporteranno sigla dell’opera, capitolo, paragrafo, riferimento alla colonna in PG 3, pagina/e e linea/e nell’ed. PTS. Plotinus, Enneades
Plotinus, Enneades, edd. P. Henry - H. R. Schwyzer, 3 voll., Oxford 1964-1982, con indicazione di libro, capitolo, pagine e righe dell’edizione. Proclus, Elementatio Proclus Diadochus, Elementatio theologica, ed. E. R. Dodds, Oxford 1963 (19772), con indicazione di numero della proposizione, pagine e righe dell’edizione.
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RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI
LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ UNA PRESENTAZIONE DEL PROBLEMA STORICO E STORIOGRAFICO 1
1. La triade e la sua ricezione storiografica La storia del pensiero è storia di parole e di strutture di parole: come il pensiero non può prescindere dalla parola, così la filosofia non può prescindere da strutture di parole mediante le quali articolare il pensiero in rappresentazioni della realtà capaci di rifletterne la complessità. Le strutture terminologiche emergono in genere nell’opera di un autore come strumento di ausilio alla concettualizzazione di un determinato problema. Il rivelarsi significativo non solo della visione di un particolare autore, bensì di una prospettiva condivisa, è quanto determina il successo di una struttura terminologica, che si istanzia nella ripresa e nella trasmissione da parte della successione degli autori che, assurgendo ad auctoritates, danno vita, testo dopo testo, alla storia della filosofia. Si prendano ad esempio le dieci categorie aristoteliche e la loro fortuna in quanto motori di molteplici rappresentazioni del mondo e di interpretazioni dei rapporti tra gli esseri. Le strutture terminologiche non compaiono nella storia del pensiero come elementi aprioristici o assiomatici, bensì costituiscono il punto di arrivo di elaborazioni che nascono e si sviluppano attraverso i meccanismi della condivisione e dell’imitazione dell’auctoritas riconosciuta. Esse possono così vedere la loro fortuna assicurata attraverso la riproposizione imitativa, oppure attraverso una rein-
1 Il § 1 è dovuto a E. S. Mainoldi, i §§ 2-3 sono stati composti da entrambi i curatori. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127951 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 19-77 ©
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RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI
terpretazione concettuale – che talvolta può sfociare anche nella trasformazione terminologica della struttura stessa. La triade ‘essenza – potenza – operazione’ costituisce un caso di struttura terminologica che ha conosciuto una durevole fortuna nella storia del pensiero filosofico occidentale, dalla sua comparsa nella riflessione neoplatonica in Tarda Antichità fino alle soglie dell’Età moderna. Tuttavia, a differenza di altre strutture che hanno trovato definizione nelle pagine di un singolo autore, la triade ha avuto una genesi terminologica e concettuale non chiaramente riportabile a un preciso capitolo della storia della filosofia, bensì si è generata come graduale risposta a una serie di quesiti emersi in diversi ambiti della riflessione tardoantica – dall’ontologia, alla psicologia, alla teologia – fino ad assumere la fisionomia che ne ha assicurato la trasmissione alle epoche successive. In virtù di questo suo esordio tra le righe, quasi nell’ombra, il suo essere sostanzialmente adespota – usata da molti ma di nessuno –, lo studio della triade non ha suscitato l’attenzione storiografica che la storia della sua fortuna meritava. Tuttavia, non si può affermare che la triade costituisca un fenomeno ignoto alla letteratura scientifica o tralasciato in assoluto dagli studiosi. Essa trova infatti spazio in segnalazioni, nonché in paragrafi e note ad essa dedicati in tutta una cospicua e rilevante serie di studi. La storiografia contemporanea vede come primo momento in cui è stata richiamata l’attenzione su di essa in una nota di AndréJean Festugière al capitolo relativo alle potenze dell’anima del De anima di Giamblico 2. Lo studioso francese, che definisce la triade «division», riporta alcuni riferimenti a sue occorrenze incomplete (come οὐσία – δυνάμεις o vires – efficaciae et operae in Tertulliano) e una sua occorrenza completa nel Commento al «Timeo» di Proclo, senza peraltro precisare come essa si presenti nel De anima di Giamblico: in questo trattato, giunto frammentario, la triade infatti non compare in un luogo unitario, bensì costituisce lo schema di articolazione del compendio dossografico del trattato 3. Dalla nota di Festugière traspare anche l’ambi2 Cfr. A.-J. Festugière, Note a Iamblichus, De anima, I, 2, A, tr. fr. e commento di A.-J. Festugière, in Id., La Révélation d’Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1944-1954 (20062), III: Les doctrines de l’âme, 1953, [pp. 177-264], p. 190, 1. 3 Cfr. C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van
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LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ
guità interpretativa che accompagnerà costantemente il generale approccio storiografico alla triade sia in relazione alle sue occorrenze incomplete – che di fatto non possono essere considerate occorrenze –, sia in relazione alla sua origine, affermandosi che essa «remonte pratiquement à Aristote». Negli stessi anni in cui usciva la monumentale raccolta dello studioso francese, la triade era oggetto di un capitolo dello studio di Polycarp Sherwood dedicato ai primi Ambigua di Massimo il Confessore 4. Sherwood contestualizza la triade sia in riferimento alla sua origine neoplatonica sia in riferimento alla sua adozione nel pensiero teologico patristico, analizzandone le occorrenze nel Corpus Dionysiacum e negli scholia di Giovanni di Scitopoli ad esso relativi, nonché in Massimo. Pur non menzionando il lavoro di Festugière, il suo giudizio sull’origine e sulla prima apparizione della triade non se ne discosta troppo: «the underlying doctrine, in origin Aristotelian, has become part of the common Neoplatonic heritage; the triad as such is first found in the De mysteriis of Jamblichus, as a commonplace» 5. La triade doveva riemergere in un altro studio destinato ad avere grande risonanza tra le ricerche sulla filosofia neoplatonica e il suo rapporto con il cristianesimo, ovvero il Porphyre et Victorinus di Pierre Hadot 6. Seguendo Festugière, di cui riporta anche l’opinione che la triade sia «en germe chez Aristote», Hadot approfondisce l’interpretazione di questa struttura in relazione ad altre triadi neoplatoniche, arrivando alla conclusione che già in Giamblico e quantomeno in Proclo la triade sia «constitutive de toute réalité».
den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006, p. 93, nota 31). Per una più dettagliata analisi dei riferimenti alla triade in Festugière in relazione a Giamblico cfr. il saggio di L. I. Martone in questo stesso volume. 4 Cfr. P. Sherwood, The earlier «Ambigua» of Saint Maximus the Confessor and His Refutation of Origenism, Roma 1955 (Studia Anselmiana, 36), pp. 103-123. 5 Ibid., p. 105. Per una più dettagliata analisi delle conclusioni di Sherwood sulla triade in Massimo cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo stesso volume, p. 227 6 Cfr. P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), II, pp. 268-269, nota 10.
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Carlos Steel, nel suo influente studio sull’anima nel tardo neoplatonismo, The changing Self 7, si sofferma sulla triade in relazione al quesito, già posto da Aristotele, circa l’esistenza dell’anima separata dal corpo, che in Giamblico e successivamente nel Commento all’«Alcibiade» di Proclo viene rielaborato in base alla triade, arrivando alla conclusione che la sostanza dell’anima è conoscibile attraverso le sue attività. In una nota corrispondente a queste osservazioni, Steel porta ulteriori riferimenti alla presenza della triade negli autori neoplatonici 8. La triade trova poi spazio nella monografia di Gregory Shaw dedicata a Giamblico: anche se il ruolo del filosofo di Calcide nella storia della triade non è qui oggetto di considerazione, la sua origine è illustrata come trasformazione di una distinzione terminologica di origine aristotelica in una triade emanativa tipica del tardo neoplatonismo 9; essa è menzionata nelle sue occorrenze nel frammento del commentario giamblicheo all’Alcibiade e nel De mysteriis, in relazione alle quali essa è presentata come criterio di distinzione tra le varie classi di anime 10. Anche Daniela Taormina analizza il ruolo della triade in Giamblico, offrendo un’analisi sulla trasformazione dei suoi termini rispetto al modello aristotelico e indicando nella triade uno dei «tre nuclei fondamentali (…) che si intersecano reciprocamente intorno ad un nucleo comune: il rapporto tra anima e corpo» 11. Muovendosi oltre i confini cronologici della tradizione neoplatonica e patristica Giulio d’Onofrio portava alla luce la presenza della triade in Giovanni Scoto Eriugena, un’attestazione che fino ad allora non aveva attirato l’attenzione degli studiosi 12. Soffer Cfr. Steel, The changing Self cit. Cfr. ibid. (tr. it. cit., p. 93). 9 Cfr. G. Shaw, Theurgy and the Soul. The Neoplatonism of Iamblichus, University Park (PA) 1995 (Hermeneutics. Studies in the History of Religions), p. 72. 10 Cfr. ibid., p. 78. I passi presi in considerazione da Shaw sono analizzati nel già citato saggio di L. I. Martone. 11 Cfr. D. P. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico, Firenze 1990 (Symbolon, 10), p. 52; cfr. anche ibid., pp. 27 e 41. 12 Cfr. G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 Gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. 7 8
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mandosi sulle fonti della triade nell’Eriugena, ovvero lo pseudoDionigi Areopagita e Massimo il Confessore, d’Onofrio mostra come l’Irlandese fosse approdato a un’interpretazione divergente rispetto ad essi, soprattutto in relazione al primo. Facendo poi riferimento all’origine aristotelica dei concetti di atto e potenza, d’Onofrio ipotizza che l’Eriugena abbia potuto trarre ispirazione nella sua rilettura della triade dai tesi di logica che circolavano nelle scuole carolingie, a partire dallo pseudo-agostiniano Categoriae decem, dove il maestro irlandese poteva leggere la definizione di atto e potenza, cosa che gli ha permesso di operare un «re-innesto della dottrina pseudo-dionisiana nella tradizione aristotelica originale» 13. In un più recente studio d’Onofrio ha portato all’attenzione il ricorso alla triade da parte di Dante, accompagnata da una disamina circa la sua fortuna nel pensiero medievale (muovendo dalla sua origine e funzionalità nel pensiero neoplatonico, passando per la lettura di Giovanni Scoto e segnalando la sua presenza negli scritti di «numerosi teologi di area monastica del secolo xii», e dedicando infine alcune note analitiche alla triade in Bonaventura da Bagnoregio e in Tommaso d’Aquino) 14. Attraverso i risultati di questa analisi d’Onofrio ha sostenuto la centralità dell’ontologia neoplatonica della triade nel pensiero di Dante, in particolare, nell’argomentare la finalità della creazione e, nella fattispecie, dell’essere umano: nell’opera creatrice di Dio, il fine è la creatura portata ad attuazione attraverso il passaggio dalla potenza all’atto di ciò che è virtualmente implicito nella condizione originaria delle essentiae. Tra i successivi studi dedicati ad autori cristiani la triade ha trovato spazio nella monografia di Philipp Renczes dedicata a Massimo il Confessore 15, dove è messo in luce come in questo autore il passaggio dalla potenza all’operazione sia concepito tria Ibid., p. 351. Cfr. Id., Esse, virtus, operari. Educazione dell’uomo e perfezione naturale nella Monarchia di Dante, in «Ratio practica» e «ratio civilis». Studi di etica e politica medievali per Giancarlo Garfagnini, a cura di A. Rodolfi, Pisa 2016 (Philosophica, 172), pp. 119-156; questi risultati sono ripresi e ampliati nel capitolo di questo stesso volume dovuto a G. d’Onofrio. 15 Cfr. Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229). 13
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dicamente in base all’essenza, che è il loro principio originario, e la triade stessa si ricolleghi all’idea di movimento, acquisendo un senso di finalità che non compariva nelle fonti a lui precedenti. Renczes segue il giudizio di Sherwood per cui Massimo sarebbe stato il primo autore ad usare estensivamente la triade. Nuovi elementi sulla storia della triade dovevano essere portati da David Bradshaw in un libro destinato ad avere vasta risonanza, il cui ambito di ricerca verte sui temi metafisici che hanno caratterizzato e distinto le tradizioni cristiane d’Oriente e d’Occidente, assumendo come filo dell’indagine il concetto di ἐνέργεια 16. Bradshaw muove da un punto fondamentale, sul quale in questo volume come in altri suoi contributi ha attirato l’attenzione sottolineandone l’importanza, ovvero la paternità aristotelica del termine ἐνέργεια, cosa che permette di tracciare una precisa genesi delle molteplici elaborazioni filosofiche che hanno preso le mosse da esso. Il lavoro di Bradshaw può essere visto come una storia delle ontologie che sono state sviluppate a partire dall’interpretazione dell’ἐνέργεια e del suo ruolo nelle strutture terminologicoconcettuali che l’hanno inclusa. La triade trova spazio in questo lavoro solo come epifenomeno delle relazioni tra l’ἐνέργεια e gli altri termini del discorso ontologico. Bradshaw porta però all’attenzione alcune associazioni finora inavvertite dei termini della triade che presentano grande interesse per lo studio della sua formazione, in particolare quelle in due autori precedenti al neoplatonismo come Galeno e Filone, sulle quali torneremo in seguito 17. Un ulteriore contributo allo studio della triade è stato offerto dal volume di Jean-Claude Larchet in cui viene ricostruita, con taglio teologico-sistematico, la dottrina delle energie divine nella tradizione patristica orientale 18. Basandosi sulla monografia di Bradshaw, Larchet si sofferma sulle fonti pre-patristiche della triade, segnalandone l’origine aristotelica nonché la presenza in Filone; in merito al neoplatonismo afferma che, oltre a Giamblico alla triade «les autres philosophes néo-platoniciens n’accordent
16 Cfr. D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of Christendom, Cambridge 2004. 17 Cfr. infra, alle note 21, 91-94 e testo corrispondente. 18 Cfr. J.-C. Larchet, La théologie des énergies divines. Des origines à Saint Jean Damascène, Paris 2010 (Cogitatio fidei, 272).
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pas d’importance» 19. Fa dunque seguire a queste note preliminari una dettagliata analisi delle occorrenze della triade nel De mysteriis di Giamblico 20. Il riferimento alla triade in Filone non è oggetto di particolari sviluppi nella trattazione di Larchet, tuttavia le sue osservazioni sui concetti di potenza ed operazione nel filosofo ed esegeta alessandrino sono rilevanti, in quanto esse pongono in luce come le potenze divine non siano concepite da Filone come potenzialità destinate ad attualizzarsi nel mondo fisico, alla stregua di Aristotele, bensì come «puissances en activité au niveau même du monde intelligible qui est le leur» 21. La posizione di Filone, per cui le potenze divine si fanno conoscere nell’impronta della loro attività (ἐνέργεια) ma restano inconoscibili nella loro essenza (οὐσία), stabilisce dunque un legame strutturale tra questi concetti che è già post-aristotelico e risente di una lettura platonizzante. La triade trova poi ampio spazio nei capitoli dedicati a Gregorio di Nissa e a Massimo il Confessore. Per quanto riguarda il primo, sottolineando il consenso storiografico sulla presenza della distinzione tra essenza ed energia nel Nisseno, Larchet osserva come questo Padre abbia inteso la triade in senso ontologico e non temporale al fine di contrastare la degradazione di stampo neoplatonico introdotta da Eunomio di Cizico nella Trinità; conseguentemente arriva a constatare come in Dio, a differenza delle creature, potenza ed energia coincidano 22. Q uesta osservazione coglie una tendenza che caratterizzerà in generale la ricezione greco-patristica e bizantina della triade, come lo stesso Larchet osserva tangenzialmente in relazione allo pseudoDionigi 23 e a Giovanni Damasceno, autore sul quale si chiude il volume 24. Lo studioso francese è tuttavia restio ad accettare questa identificazione, in ragione della distinzione tra ‘potenza’ ed ‘energia’ mantenuta, almeno a livello terminologico, dalle Scritture e dalla tradizione patristica. Nel caso del Damasceno Larchet si sforza di spiegare quella che egli giudica essere «appa-
Ibid., p. 53. Cfr. ibid., p. 56. 21 Ibid., p. 72, nota 50. 22 Cfr. ibid., p. 190. 23 Cfr. ibid., p. 313. 24 Cfr. ibid., pp. 425-426. 19 20
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remment (…) une identification de l’énergie avec la puissance» 25, intendendo la potenza come «une faculté en activité» 26 – soluzione che a nostro avviso non risolve il problema, a partire dal non approfondire se di potenza divina o di potenza creaturale si stia qui parlando. La medesima problematica si incontra nel capitolo dedicato a Massimo. Q uesto si apre con un paragrafo incentrato sulla triade, che viene presentata – citando il giudizio di Sherwood 27 – come uno dei principali elementi del pensiero del Confessore. Larchet osserva che Massimo concepisce la potenza in stretto rapporto con l’energia, essendo questa che permette alla potenza di passare dallo stato di mera capacità a facoltà che si esercita concretamente; inoltre la potenza senza energia è priva di esistenza 28. Con queste osservazioni Larchet sembrerebbe ammettere che in Massimo, come nei Padri che lo hanno preceduto e negli autori cristiani ellenofoni che lo hanno seguito, la distinzione tra potenza ed energia è concepita piuttosto come una distinzione logica che non ontologica – questo almeno nel discorso teologico che è prevalente in questi autori, fatta salva l’eccezione di alcune rare occorrenze dove il binomio potenza-energia (o la triade stessa) riceve una lettura legata alla temporalità, avvicinandosi al binomio aristotelico di atto-potenza. Q uesta difficoltà interpretativa nasce, a nostro avviso, dal fatto che termini come ‘potenza’ ed ‘energia’, che sono attestati nella Septuaginta e nel Nuovo Testamento, hanno una storia che non va confusa con la struttura terminologica della triade essenza – potenza – energia, onde si rende importante chiarire le ragioni teoriche e storiche che hanno portato alla formazione di questa struttura, aspetto su cui lo studio di Larchet non si sofferma e di cui si avverte in generale la mancanza nella storiografia ad essa dedicata fino ad ora. Come ultimo studio di ampio respiro in cui la triade trova spazio, menzioniamo il volume di Torstein Theodor Tollefsen sull’attività e la partecipazione nel pensiero tardoantico e patristico 29. Q ui la triade è considerata esclusivamente in Gregorio di Nissa e Ibid., p. 425. Ibidem. 27 Cfr. supra, alla nota 3. 28 Cfr. ibid., pp. 332-334. 29 Cfr. T. Th. Tollefsen, Activity and Participation in Late Antique and Early Christian Thought, Oxford 2012 (OECS). 25 26
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in Massimo il Confessore. In relazione al primo si afferma l’unità ontologica tra la natura divina, la divina potenza e l’attività; quest’ultima in particolare è l’effetto della divina potenza 30. Più articolata è l’analisi della triade nel Confessore, per il quale essa sarebbe un «ontological tool for the analysis of created being» 31. L’ἐνέργεια è concepita da Massimo come «the final result beyond the actualization of power in movements» 32 e dunque va intesa come «the fulfilment of essence, its perfection or actuality, not in the sense of making it present, which it already is, but in the sense of expanding in complete activity what the essence is capable of» 33. Interrogandosi sul rapporto tra il movimento mediano della potenza e l’attualità finale, Tollefsen si richiama all’Opusculum 14, dove Massimo afferma che «la potenza è l’ἐνέργεια che agisce nella materia, e l’ἐνέργεια è potenza immateriale. O ancora, l’ἐνέργεια è la finalizzazione della potenza naturale» 34. Tollefsen, che pur vede nel Confessore il superamento della nozione aristo telica di δύναμις come potenzialità, interpreta questa sentenza equiparando la prima definizione alla nozione aristotelica di attualità prima o potenzialità seconda; mentre la seconda definizione viene equiparata all’aristotelica seconda attualità 35. Q uesta rassegna storiografica, pur non ambendo all’esaustività, offre un campione significativo delle interpretazioni della triade formulate dalla ricerca contemporanea, dalle quali emerge la difficoltà nel giungere ad un inquadramento di questa struttura in relazione alla sua formazione e alle sue fonti, nonché di ancorarla a una lettura teorica univoca. In particolare, i seguenti quesiti risultano ancora aperti: quale è la reale funzionalità della triade? Q uale modello ontologico presuppone e quale istanzia? Cosa si mantiene costante e cosa varia negli autori che la utilizzano e nei contesti in cui si presenta? La complessità di questi problemi è confermata anche dall’assenza di trattazioni approfondite della triade in opere in cui ci si Cfr. ibid., pp. 96-97. Ibid., pp. 144-145. 32 Ibid., p. 146. 33 Ibidem. 34 Maximus Confessor, Opuscula theologica et polemica, 14, Variae definitiones, PG 91, [119-153], 153A (tr. nostra). 35 Cfr. infra, il testo corrispondente alla nota 60. 30 31
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aspetterebbe di trovarne, soprattutto se queste sono delle pietre miliari degli studi neoplatonici degli ultimi cinquant’anni, come è il caso del Proklos di Werner Beierwaltes e del From Iamblichus to Eriugena di Stephen Gersh 36. Che la triade non trovi spazio né analisi di rilievo al fianco di concetti e strutture che gli autori di questi studi identificano come assi portanti del pensiero neoplatonico non è certo per dimenticanza, dal momento che entrambi la menzionano, relegandola tuttavia in una posizione secondaria come struttura subordinata ad altre. Le ragioni di questo trattamento della triade, che certo non rende conto della sua fortuna come struttura a sé stante, evidenzia allora l’agire sottotraccia di particolari aspetti della cui ricerca e comprensione non possiamo fare a meno nel tentativo di gettare luce sulla genesi e la fortuna della triade. Beierwaltes riconosce nelle strutture triadiche un elemento fondamentale del pensiero di Proclo: «L’unità dialettica di unità e triadicità emerge [in Proclo] come il problema di fondo del [suo] filosofare», al punto che la triadicità costituisce «l’asse portante di tutto il suo pensiero» 37. L’Uno si dispiega in modo triadico nel cosmo noetico, che è organizzato in base a un sistema gerarchizzato di triadi 38. Per Proclo la «triadicità», ovvero il principio triadico del dispiegamento noetico dell’Uno, è dunque la «triade delle triadi» 39. Ogni triade è al contempo un’«unità e molteplicità» che implica tra i suoi tre termini una dinamica circolare. Nella circolarità triadica si pone il compimento dell’essere, mentre il pensiero giunge al fondamento dell’essere seguendo il «cir-
36 Cfr. W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Frankfurt a. M. 1965 (Philosophische Abhandlungen, 24) (tr. it., Milano 1990); S. Gersh, From Iamblichus to Eriugena: An Investigation of the Prehistory and Evolution of the Pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie, 8) (tr. it., Bari 2009). 37 Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., pp. 63-64). Sul sistema delle triadi in Proclo, cfr. anche A. C. Lloyd, Procession and Division in Proclus, in Soul and the Structure of Being in Late Neoplatonism: Syrianus, Proclus and Simplicius. Papers and discussions of a Colloquium held at Liverpool (15-18 April 1982), ed. by H. J. Blumenthal - A. C. Lloyd, Liverpool 1982, [pp. 18-45], pp. 20-21; G. Van Riel, The One, the Henads, and the Principles, in All from One. A Guide to Proclus, ed. by P. d’Hoine - M. Martijn, Oxford 2017, [pp. 73-97], pp. 82-89. 38 Cfr. Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., p. 71). 39 Ibid., p. 77.
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colo triadico descritto da ciascuna triade» 40. Beirwaltes identifica nel sistema procliano sei triadi fondamentali: limite – illimite – misto, essere – diversità – identità, principio – mezzo – fine, intellegibile – intelligibile-e-intellettivo – intellettivo, essere – vita – spirito [νοῦς], manenza – processione – conversione (μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή). Q uest’ultima è «insita in ogni altra triade, [e ne] costituisce il fondamento dinamico» 41: in essa si pone infatti in evidenzia il dinamismo circolare del νοῦς e si esplicano i nessi ontologici della causalità, in quanto i suoi tre termini «si mostrano come i tre momenti strutturali dell’intero movimento dell’agire della causa» 42. Citando l’Elementatio theologica di Proclo: «Ogni effetto resta nella sua causa, procede da essa e si rivolge ad essa» 43. La concezione della causalità in Proclo presuppone l’eternità del mondo e l’azione demiurgica che si esplica attraverso la triade bontà – volontà – provvidenza (ἀγαθότης – βούλησις – πρόνοια), e nella quale la volontà è «il compimento della bontà propria del demiurgo intesa come provvidenza» 44. Q uesta triade trova svolgimento in altre tre triadi, delle quali una è la triade essere – potenza – atto. Beierwaltes non chiarisce tuttavia come avvenga e cosa implichi questo svolgimento, né si addentra nell’analisi di quest’ultima triade in particolare, né qui né in altre parti del volume. Q uesta derivazione, che non trova approfondimento teorico (né viene discussa in relazione alla sua origine), ha più che altro lo scopo di far rientrare nel generale sistema triadico procliano la triade essenza – potenza – operazione, dal momento che questa ricorre comunque nell’opera del Diadoco, allegandola alla sua trattazione della causalità nel divenire cosmico. Se andiamo a considerare un altro riferimento alla triade nell’opera di Beierwaltes, quello che compare nel saggio Unità e Trinità, dedicato al pensiero eriugeniano, essa è detta caratterizzare «la struttura ontologica dello spirito [cioè del Νοῦς] ed insieme il Ibid., p. 64. Ibid., p. 161. 42 Ibid., p. 172. 43 Proclus, Elementatio, prop. 35, p. 38, 9-10; cfr. anche ibid., prop. 38, p. 40, 17-19; cit. in Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., p. 172). 44 Ibid., p. 186. 40 41
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suo movimento interiore» 45. In una nota relativa a questo passo Beierwaltes compie un’osservazione rilevante al fine del chiarimento della genesi della triade: «La trasformazione dearistotelizzante del concetto di δύναμις nel senso della attiva capacità o potenza affonda le sue radici nel neoplatonismo sia per quanto concerne un’affermazione sul primo Principio, sia all’interno della triade usia-dynamis-energheia» 46. In relazione all’associazione compiuta dall’Eriugena tra i termini della triade e le tre persone della Trinità, lo studioso tedesco illustra nei seguenti termini la dialettica triadica: «La differenza nell’unità diventa manifesta ed attiva, come nella Trinità divina, attraverso un interno ed attivo dispiegarsi di una essentia che, tuttavia, permane in sé; in questo atto essa diventa la propria ‘virtus’, la ‘potenza’ o ‘forma’ che si mostra, e che, attraverso una ‘operatio essentialis’, una ‘attività o un atto essenziale’, trasmette, in modo costitutivo o conoscitivo, la propria potenza o forma ad un altro» 47. Poco più sotto aggiunge che la triade «esse-virtus-operatio caratterizza in modo universale la realtà» 48. Da questi riferimenti ci sembra possibile rilevare la difficoltà incontrata da Beierwaltes nel collocare la triade essenza – potenza – operazione all’interno del sistema triadico procliano, motivo per cui si limita a menzionarne la derivazione da altre triadi senza offrire giustificazioni né analisi delle implicazioni di questa asserzione. Il motivo di questa difficoltà traspare implicitamente dalle succinte note di approfondimento date nel saggio eriugeniano e va riconosciuto nel fatto che la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια non obbedisce al principio di triadicità circolare, come le altre triadi, ma costituisce un dispiegamento lineare e manifestativo che non comporta reversibilità bensì finalità. Ancora più marginale è la posizione che la triade occupa nell’ampia riflessione dedicata da Stephen Gersh al pensiero neoplatonico. Nel suo primo libro, ΚΙΝΗΣΙΣ ΑΚΙΝΗΤΟΣ, non se
Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Frankfurt a. M. 1994 (tr. it., Milano 1998, p. 262). 46 Ibid., p. 286, nota 128. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 45
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ne ha traccia 49. In From Iamblichus to Eriugena troviamo un’unica menzione di essa in riferimento alla Gerarchia celeste di Dionigi 50: i termini della triade vengono qui brevemente ricondotti alle caratteristiche principali della gerarchia angelica, ma nulla è detto circa l’origine della loro struttura, salvo rimandare in nota a una precedente sezione del volume, dove però non troviamo nessun riferimento alla triade, bensì la trattazione della trasformazione neoplatonica dei concetti di ἐνέργεια e δύναμις; una scorsa agli indici degli autori ci permette infine di constatare come in questo volume non siano presi in considerazione i passi delle opere in cui essa compare – da quelli del De anima e del De mysteriis di Giamblico alla propositio 169 dell’Elementatio di Proclo, fino ai passi del Periphyseon eriugeniano. È lecito pensare che la marginalità della triade in due opere destinate a occupare un ruolo di primo piano nella storiografia degli studi neoplatonici, nelle quali inoltre la discussione della triadicità come paradigma concettuale nel neoplatonismo ha avuto centralità e diverse triadi vengono illustrate come suoi elementi chiave, abbia sfavorito l’interesse da parte degli studiosi di questa tradizione ad approfondire le ragioni di questa struttura, al contrario invece del maggior interesse che si può constatare negli studi di patristica per via delle auctoritates che vi hanno fatto riferimento. Una conferma di questo stato delle cose viene anche dalla monografia di Lutz Bergemann dedicata alla metafisica della potenza nel neoplatonismo, dove la triade trova spazio solo in un paragrafo dedicato a Giamblico, in relazione al solo frammento del Commento all’«Alcibiade», ed è interpretata in relazione alla metafisica della luce-potenza e come elemento strutturante dell’intellegibile 51. Possiamo peraltro constatare che dalla storiografia tedesca degli ultimi quindici anni sono anche giunti segnali in controtendenza, con due studi in cui la triade è oggetto di riflessioni approfondite e non limitate a singoli episodi, come nel caso
49 Cfr. S. Gersh, ΚΙΝΗΣΙΣ ΑΚΙΝΗΤΟΣ. A Study of spiritual Motion in the Philosophy of Proclus, Leiden 1973 (Philosophia Antiqua, 26). 50 Cfr. Id., From Iamblichus to Eriugena cit., p. 174 (tr. it. cit., p. 216). 51 Cfr. L. Bergemann, Kraftmetaphysik und Mysterienkult im Neuplatonismus. Ein Aspekt neuplatonischer Philosophie, München - Leipzig 2006 (Beiträge zum Altertumskunde, 234), pp. 228-233.
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di Christoph Helmig che dedica un’analisi al ruolo della triade in relazione alle differenze tra la psicologia aristotelica e quella neoplatonica 52, e di Thomas Leinkauf, che analizza la presenza della triade nel pensiero tardomedievale e umanistico, premettendo alcune righe sulla sua presenza in Proclo in quanto fonte degli sviluppi tardomedievali 53.
2. La formazione della triade Considerata come struttura terminologica, la triade presuppone con ogni evidenza il binomio aristotelico di atto (ἐνέργεια) e potenza (δύναμις), tuttavia non è immediato dedurre che quella derivi da questo mediante la semplice aggiunta dell’οὐσία. L’intui tiva identificazione – ricorrente nella storiografia – del pensiero dello Stagirita come retroterra della triade va infatti commisurata con l’evidenza che questa struttura non trova spazio nell’opera e nel pensiero di Aristotele, né – come cercheremo di illustrare più sotto – avrebbe potuto trovarlo; inoltre, nel passaggio al contesto neoplatonico, i termini ἐνέργεια e δύναμις hanno subito una radicale trasformazione concettuale rispetto a come Aristotele ha inteso questo binomio. Un quesito allora si pone: perché nella tradizione neoplatonica si è formata e radicata questa struttura che muove da un binomio caratteristico del pensiero aristotelico? Da un punto di vista storico-testuale una preliminare risposta può venire dalla constatazione che le prime occorrenze della triade emergono in ambito neoplatonico proprio nel confronto con 52 Cfr. Ch. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus on Parts, Capacities and ousiai of the Soul and the Notion of Life, in Partitioning the Soul. Debates from Plato to Leibniz, ed. by K. Corcilius - D. Perler, Berlin - Boston 2014 (Topoi. Berlin Studies of the Ancient World, 22), pp. 149-177, sui cui risultati ritorneremo in seguito; cfr. infra, p. 34, testo corrispondente alle note 60 e 61. 53 Cfr. Th. Leinkauf, Der Ternar essentia-virtus-operatio und die Essentialisierungen der Akzidentien, in Philosophie im Umbruch. Der Bruch mit dem Aristotelismus im Hellenismus und im späten Mittelalter, seine Bedeutung für die Entstehung eines epochalen Gegensatzbewusstseins von Antike und Moderne. VI Tagung der Karl und Gertrud Abel-Stiftung (Marburg, 29-30 November 2002), hrsg. von G. Radke-Uhlmann - A. Schmitt, Stuttgart 2009 (Philosophie der Antike, 21), pp. 131-153; inoltre Id., Francesco Patrizi, in Interpreting Proclus: from Antiquity to the Renaissance, ed. by S. Gersh, Cambridge 2014, [pp. 380-402], p. 397. Per la disamina di questi sviluppi tardivi della triade e la relativa letteratura scientifica, rimandiamo al saggio di R. Melisi in questo volume.
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i testi aristotelici, come nel caso della critica portata da Plotino in Enneadi VI, 7 alla dottrina dell’atto-potenza – analizzata in questo volume nel saggio di Michele Abbate –, oppure nella trattazione giamblichea dell’anima – in questo volume analizzata da Iris Martone. Pur dovendosi escludere che la triade sia presente anche solo in forma germinale nel De anima di Aristotele, come mostra Martone in confutazione all’ipotesi che questo testo fosse la fonte diretta della triade in Giamblico, è tuttavia plausibile ipotizzare che la ripresa della terminologia aristotelica nei trattati neoplatonici sull’anima sia avvenuta proprio a partire dal confronto critico svolto dagli autori neoplatonici con l’ontologia e la psicologia aristoteliche 54. Q uesto confronto giunse a sistematizzare le nozioni di atto e potenza in relazione all’essenza, passando per una reinterpretazione di questi concetti e semplificando da una parte il discorso – non sempre lineare – dello Stagirita, sia col risolvere la ridondanza comportata dalla nozione di ἐντελέχεια, sia formulando un modello adattabile alla metafisica neoplatonica 55. Nel secondo libro del De anima, Aristotele attribuisce tre significati alla nozione di οὐσία: da una parte quello di ‘materia’ (ὕλη), dall’altra quello di ‘figura’ e ‘forma’ (μορφή καὶ εἶδος), e infine l’unione dei due. La materia è qui definita δύναμις, la forma ἐντελέχεια 56. Essendo il corpo sostrato, Aristotele deduce la necessità che «l’anima sia sostanza (οὐσία), in quanto forma del corpo naturale che ha la vita in potenza. Tale sostanza (οὐσία) è entelechia: dunque l’anima è entelechia di un corpo di siffatta natura» 57. Per Aristotele «l’entelechia di ciascuna cosa si realizza naturalmente in ciò che è in potenza questa cosa, ossia nella materia appropriata. Che dunque l’anima sia entelechia e nozione di Cfr. i saggi di M. Abbate e L. I. Martone in questo stesso volume; inoltre cfr. supra, alla nota 11, per il giudizio di Daniela Taormina. 55 Cfr. G. Bruni, Note di polemica neoplatonica contro l’uso e il significato del termine ἐντελέχεια, in «Giornale critico della filosofia italiana», 3° S., 14 (1960), pp. 205-236; S. Menn, The Origins of Aristotle’s Concept of Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73-114], pp. 75-76. 56 Cfr. Aristoteles, De anima, II 1, 412a 8, ed. W. D. Ross, Oxford 1961 (rist. 1967): ἡ μὲν ὕλη δύναμις, τὸ δ’ εἶδος ἐντελέχεια. 57 Ibid., 412a 19-22 (tr. it., Bari 1983, pp. 127-128): ἀναγκαῖον ἄρα τὴν ψυχὴν οὐσίαν εἶναι ὡς εἶδος σώματος φυσικοῦ δυνάμει ζωὴν ἔχοντος. ἡ δ’ οὐσία ἐντελέχεια· τοιούτου ἄρα σώματος ἐντελέχεια. 54
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ciò che ha in potenza di essere così, è chiaro da tutto questo» 58. Q ueste conclusioni permettono di constatare come il ragionamento dello Stagirita non presupponga alcuna dinamica triadica dietro al passaggio dalla potenza all’atto, a patto di non vedere nel riferimento al «realizzarsi naturalmente» un riferimento a una natura dietro alla quale si supponga esser adombrata l’οὐσία, poiché in Aristotele questo non c’è 59. Per comprendere il passaggio dal binomio aristotelico all’ontologia triadica neoplatonica si deve partire dalla constatazione – come sottolineato da Christoph Helmig nella sua riflessione sull’origine della triade – che lo Stagirita distingue nel De anima tra due sensi di δύναμις e due sensi di ἐνέργεια: se prendiamo come esempio la capacità di leggere, nel caso di un uomo che non ha ancora imparato a leggere si avrà una prima accezione di δύναμις, mentre, nel caso di un uomo che ha imparato a leggere si parlerà di essa in una seconda accezione. A questo secondo senso di δύναμις corrisponde la prima accezione di ἐνέργεια, mentre una seconda accezione di ἐνέργεια si avrà in riferimento all’atto concreto del leggere 60. Per i neoplatonici il primo senso di δύναμις è inammissibile in quanto – richiama sempre Helmig – l’anima razionale non è in nessun momento mera potenzialità, ma contiene tutte le sue facoltà nella sua essenza eterna 61. Se l’approdo alla triade è stato dunque raggiunto dal pensiero neoplatonico contestualmente al confronto e al superamento del modello psicologico aristotelico, la comprensione della formazione della triade non può esimersi dal considerare la trasfor Ibid., 2, 414a 25-28 (tr. it., pp. 133-134): ἑκάστου γὰρ ἡ ἐντελέχεια ἐν τῷ δυνάμει ὑπάρχοντι καὶ τῇ οἰκείᾳ ὕλῃ πέφυκεν ἐγγίνεσθαι. ὅτι μὲν οὖν ἐντελέχειά τίς ἐστι καὶ λόγος τοῦ δύναμιν ἔχοντος εἶναι τοιούτου, φανερὸν ἐκ τούτων. Per maggior chiarezza sull’assenza in Aristotele di riferimenti a potenzialità preesistenti nell’οὐσία/ natura ci siamo discostati dalla traduzione di Laurenti, che rendeva τοῦ εἶναι τοιούτου con «essere di tale natura», specificando però in nota che con questa espressione va inteso l’essere animato. 59 Per un esempio di deformazione ‘ousialistica’ del pensiero aristotelico rimandiamo ai rilievi critici offerti da L. I. Martone, in partic. alle note 27 e 29 del suo saggio in questo stesso volume. 60 Cfr. Aristoteles, De anima, II 5, 417a 22-417b 2: la distinzione qui tracciata dallo Stagirita è tra ‘potenza’ ed ‘entelechia’ e le loro diverse accezioni sono identificate nell’essere sapiente, nell’avere scienza e nell’esercitare la scienza in atto. Cfr. anche supra, il testo corrispondente alla nota 35. 61 Cfr. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus cit., p. 162. 58
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mazione che in essa si compie del paradigma ontologico sotteso al binomio aristotelico: atto e potenza costituiscono infatti, tanto dal punto di vista ontologico quanto da quello temporale, due stati oppositi ed escludentisi, la cui relazione permette di comprendere il venire all’essere di ciò che non è. La potenza, per Aristotele, non è ciò che non si manifesta in quanto appartenente a un livello metafisico superiore, ovvero una potenza trascendente che si manifesta solo nell’atto, bensì è lo stato di potenzialità di ciò che può attualizzarsi in un essere 62. La δύναμις è potenzialità non causale, in quanto, per lo Stagirita, solo l’atto è l’agente causale che porta ad essere ciò che non era – in quanto mera potenzialità – e non aveva alcuna possibilità di venire all’essere a prescindere dall’atto. La potenzialità stabilisce i limiti dell’attuazione, definendo ciò che può attuarsi da un determinato essere, ad esempio una sedia da un tronco d’albero, oppure un topo da un topo e non da un elefante, ma lo stato di potenzialità non implica l’immanenza invisibile della sedia nel tronco, né di un individuo di una specie nel genitore della stessa specie. Ciò che porta un essere dalla potenza all’atto può essere solo un essere in atto che agisce come agente causale. In base a questo ragionamento Aristotele stabilisce l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza, in quanto dalla mera potenzialità non si produrrebbe alcun atto, ma è l’attualità di ciò che è proprio di un essere a fare sì che quell’essere abbia in potenza (cioè la potenzialità) di produrre atti secondo la propria specificità ontologica. L’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza richiede inoltre che il movimento universale presupponga in ultima istanza un’attualità eternamente in atto, e questa è la pura ed eterna attualità del primo motore 63. Nei capitoli ottavo e nono di Metafisica Θ, Aristotele argomenta l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza in base a tre criteri – la «nozione» (λόγος), il «tempo» e l’«οὐσία» –, mo62 Sulla critica aristotelica al concetto platonico di potenza e l’approdo alla concezione di δύναμις come potenzialità, cfr. D. Lefebvre, Dynamis. Sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance, Paris 2018 (Bibliothèque d’histoire de la philosophie), pp. 325, 357-440. 63 Cfr. E. Berti, Genesi e sviluppo della dottrina della potenza e dell’atto in Aristotele, in «Studia Patavina», 5 (1958), [pp. 477-505], pp. 492-495, 497, 501504; Menn, The Origins of Aristotle’s Concept cit., pp. 73-78, 105.
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strando che la potenza non può essere principio dell’essere e del divenire 64. Il divenire e il cambiamento delle cose avvengono infatti in vista di un fine, il quale si trova nell’atto e non nella potenza 65. Gli animali hanno infatti la vista – esemplifica Aristotele – al fine di vedere e non il contrario (cioè non vedono al fine di avere la vista), mentre l’atto si esplica nell’oggetto che è prodotto 66; se ne conclude che l’essenza e la forma sono atto, e da qui si deduce l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza in base all’essenza 67. Nel pensiero di Aristotele atto e potenza sono i due stati ontologici in cui si scandisce il divenire di ogni essere particolare: non presuppongono un terzo elemento che giustifichi la loro origine da un punto di vista ontologico né il loro rapporto da un punto di vista logico. Essi definiscono la polarità sussistente, in relazione alla temporalità, tra le due più generali condizioni ontologiche in cui ogni essere può sussistere, ossia il non-essere-ancora e l’essere che si attua come immanenza concreta. Il rapporto di causalità tra queste due condizioni non presuppone nessun tipo di processione emanatistica tra esse (ovvero, l’una non è pre-contenuta nell’altra), bensì una relazione binaria contestuale alla causalità dell’essere, la cui continuità si riconduce sempre al preliminare essere in atto dell’agente causale. Lo Stagirita contesta agli Accademici di non aver riconosciuto – in ragione della fedeltà da essi tributata al presupposto parmenideo dell’univocità dell’essere – la distinzione tra i due sensi del «non-essere», ammettendo il nonessere assoluto, che egli ritiene contraddittorio. Aristotele, infatti, accetta unicamente il secondo senso dell’essere, cioè il non-essere relativo, che è la condizione ontologica della potenzialità. Ogni essere, che sia in atto o in potenza, presuppone infatti sempre l’anteriorità dell’essere in atto che trova la sua giustificazione ultima nell’attività eterna del primo motore 68. La riflessione di Aristotele sul divenire trova nel binomio attopotenza una sistemazione compiuta, autosufficiente e non accostabile agli sviluppi successivi del modello triadico neoplatonico. Cfr. Lefebvre, Dynamis cit., p. 435. Cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 8, 1050a 7-10. 66 Cfr. ibid., 1050a 12.30-31. 67 Cfr. ibid., 1050b 2-3. 68 Cfr. ibid., 1050b 5; cfr. Berti, Genesi e sviluppo cit., p. 492. 64 65
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Q uesto modello vedrà infatti nell’οὐσία il fondamento ontologico da cui derivano la potenza e l’atto. L’essenza è il principio di sussistenza e di identità di ogni essere ed è quindi anteriore all’atto e distinta da esso; l’atto perde il ruolo causale che aveva nella teoria aristotelica e diventa la realizzazione della potenza dell’essenza su un livello ontologico di minore trascendenza; la potenza costi tuisce a sua volta il momento in cui la trascendenza dell’essenza si determina in una molteplicità di proprietà anteriormente al loro esercitarsi come operazione/atto nella dimensione del movimento e della temporalità. Ribaltando il rapporto di causalità che avevano nel pensiero aristotelico, la δύναμις e l’ἐνέργεια si configurano nel neoplatonismo come la causa e l’effetto del divenire di ogni essere (la cui sussistenza è garantita dall’essenza e non dal l’anteriorità dell’atto): esse istanziano una processione ontologica e manifestativa in cui si coniuga il binomio di origine aristotelica con il modello esemplaristico platonico, il quale comporta la corrispondenza tre le essenze e gli intellegibili. Di conseguenza la triade non avrebbe potuto trovare spazio nel pensiero di Ari stotele in ragione della sua posizione anti-idealista 69. Stephen Gersh ha illustrato la ricezione della teoria dell’attopotenza da parte dei neoplatonici come una ripresa integrale della teoria aristotelica della causalità con due fondamentali trasformazioni: 1) l’estensione della causalità oltre il dominio del sensibile (in Aristotele trovava applicazione solo nel dominio dei fenomeni fisici e psicologici) e la sua applicazione per analogia alle entità del mondo sovrasensibile (dèi, intelletti divini e anime divine); 2) la sua combinazione con la teoria dell’emanazione. Q ueste due trasformazioni hanno portato all’applicazione della teoria dell’atto-potenza nel dominio dell’intellegibile e la sua comprensione alla luce del modello emanazionista 70. Essendo l’ema nazione un «processo discendente che implica la conversione della forza in debolezza, in quanto, nella misura in cui la sorgente effonde la sua energia, l’irradiazione si depotenzia» 71, la sorgente emanativa è costituita dalla potenza attiva (δύναμις) dell’agente di 69 La dottrina dell’atto e potenza iniziò a delinearsi nella riflessione aristotelica proprio in relazione alla critica della teoria delle idee; cfr. ibid., p. 480. 70 Cfr. Gersh, From Iamblichus to Eriugena cit. (alla nota 35), pp. 32-33 (tr. it. cit., pp. 44-46). 71 Ibid., p. 33 (tr. it., p. 46).
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Aristotele, mentre il risultato dell’emanazione consiste nell’atto (ἐνέργεια) inteso come attività. La triade ha così visto il suo ingresso nella storia del pensiero soltanto con la riflessione neoplatonica, che si è misurata criticamente con il pensiero aristotelico e ha superato l’impianto ontologico con cui lo Stagirita aveva illustrato la dinamica generale del divenire. Ciò costituisce un presupposto fondamentale per individuare correttamente la natura, gli sviluppi e le trasformazioni di questa struttura ontologica: il primo rischio nel tracciare una fenomenologia della triade è, infatti, quello di riconoscerla dove essa non si trova, scambiandola per la dialettica aristotelica di atto e potenza, oppure di interpretare abusivamente, come sue ‘metamorfosi’, costruzioni metafisiche troppo lontane dal suo contesto di appartenenza o troppo vaghe nel richiamarsi implicitamente ad essa 72. Oltre a ciò, bisogna osservare come l’elaborazione del modello della triade sia stata graduale: in primo luogo esso doveva rispondere al problema posto dall’incompatibilità tra la teoria aristotelica dell’atto-potenza e il paradigma platonico che stabilisce negli intellegibili il principio della molteplicità dell’essere – passaggio Per questo motivo, il volume dà spazio ad alcune trasformazioni e ripensamenti della dottrina originaria solo nel caso in cui questi ne richiamino il modello vuoi nella terminologia (che è il primo punto di riferimento essenziale, nella liceità di variazioni come substantia/essentia oppure operatio/actio) vuoi nell’impianto concettuale, e dunque possano essere inclusi nella sua storia, che è quella di una struttura ontologica in grado di spiegare contemporaneamente la permanenza stabile dell’essere e la sua dinamicità evolutiva. In quest’ottica vanno letti i contributi di R. Schiavolin, M. Giannetta e D. Riserbato (cfr. i riferimenti infra, § 3). In base allo stesso principio, sono stati del tutto esclusi autori (come ad esempio Tertulliano, Aezio o Alessandro di Afrodisia, per cui si vedano i riferimenti in Festugière, Note cit. [alla nota 2], p. 190, nota 1) che attestano la sola conoscenza dei termini, il loro utilizzo magari a coppie, o la loro occasionale menzione complessiva; tutto ciò, infatti, non genera necessariamente né la triade né, tantomeno, una sua comprensione come modello ontologico unitario. Ricercare predecessori ancora più lontani, ad esempio nella dottrina platonica, avrebbe portato sulla via di un approccio generalistico alla storia del pensiero, perché se è indubbio che in Platone è sviluppata una riflessione sulla δύναμις, ad esempio nella Repubblica e nel Sofista (cfr. ad es. Plato, Respublica, V, 477c; Id., Sophista, 247de), e di fatto il problema del rapporto fra essere e divenire è centrale almeno nella seconda parte della sua speculazione, per arrivare alla triade bisogna considerare la critica aristotelica al divenire stesso come inteso da Platone, la ricezione di questa critica da parte dei neoplatonici, e soprattutto il concetto di ἐνέργεια, che di fatto risale proprio allo Stagirita. 72
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questo intrapreso da Plotino – 73; la fissazione della triade come struttura ontologica unitaria fu quindi raggiunta nell’ambito della riflessione di Giamblico sull’anima; con Proclo, la triade è infine consacrata come modello ontologico che si estende a ogni realtà, con le aporie che vedremo più sotto in relazione alla sua predicazione rispetto al Principio. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια si è configurata nell’elaborazione neoplatonica come ricezione della prospettiva teleologica implicata dalla concezione aristotelica del divenire – originariamente iscritta nella polarità degli stati di atto e potenza –, e della sua ricomprensione attraverso la molteplicità dei paradigmi intellegibili del Νοῦς 74. I neoplatonici hanno infatti cercato di dare risposta a un problema che nella teoria aristotelica – da un punto di vista platonico – rimaneva irrisolto, ovvero: cosa fa sì che la potenzialità di una natura attualizzi sempre ciò che le è proprio? Perché da un cavallo si generano sempre cavalli e non ippopotami? In base al pensiero aristotelico la risposta a tale quesito consisterebbe nell’affermare che c’è sempre stata una catena generativa di generi e specie, senza che per questo si debba ammettere un paradigma ideale che determini la sussistenza di questa catena. Ogni genere e ogni specie appartengono a una particolare catena generativa in cui il divenire dall’atto alla potenza di un determinato essere si produce sin dall’eternità del mondo. Per i neoplatonici invece l’identità o la distinzione tra gli esseri non può essere dedotta dalla ripetizione o assenza dei caratteri specifici nel
73 Cfr. W. Beierwaltes, Deus est esse – esse est Deus. Die onto-theologische Grundfrage als aristotelisch-neuplatonische Denkstruktur, in Id., Platonismus und Idealismus, Frankfurt a. M. 1972 (Philosophische Abhandlungen, 40), [pp. 5-82] (tr. it., Bologna 1987, pp. 27-30); Id., Denken des Eines. Studien zum Neoplatonismus und dessen Wirkungsgeschichte, Frankfurt a. M. 1985 (tr. it., Milano 1992, pp. 50-51, 60-61); per la relativa posizione di Proclo, cfr. Lloyd, Procession and Division in Proclus cit. (alla nota 36), p. 19: «Multiplicity first appears in the intelligible and intellectuals»; inoltre M. Abbate, Il divino tra unità e molteplicità. Saggio sulla «Teologia platonica» di Proclo, Alessandria 2008 (Hellenica, 28), p. 19; Van Riel, The One, the Henads, and the Principles cit. (alla nota 36), pp. 73, 82. 74 Sulla teleologia aristotelica e il suo rapporto con il finalismo platonico, cfr. R. J. Hankinson, Cause and Explanation in Ancient Greek Thought, Oxford 1998, pp. 127, 140ss.; D. Sedley, Creationism and its Critics in Antiquity, Berkeley - Los Angeles, CA - London 2007 (Sather Classical Lectures, 66), pp. 167ss., 184.
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divenire, ma deve presupporre un modello intellegibile universale, immutabile e trascendente rispetto agli individui, che garantisce la produzione dell’individuo indipendentemente dalla dimensione diveniente della contingenza. Un altro aspetto che ha verosimilmente guidato i neoplatonici verso la definizione del modello della triade è identificabile nella reazione alla concezione aristotelica del primo principio come ‘atto eterno’ e ‘pensiero di pensiero’, che il neoplatonismo non poteva accettare, concependo il Principio, cioè l’Uno, come superiore all’Essere e all’Intelletto. A partire da Plotino questo problema trova soluzione nella concezione per cui nel Principio atto e potenza coincidono con l’essenza. Al di sotto della prima ipostasi, cioè dell’Uno, questo trinomio unificato assume invece una valenza propriamente triadica. Michele Abbate, nel suo contributo a questo volume, mostra come Plotino concepisca nei tre termini della triade la strutturazione del Νοῦς, in quanto complessivamente dotato di una potenza che si dispiega come attività che produce la molteplicità degli enti in quanto οὐσίαι 75. Ora, benché i tre termini della triade siano concepiti come tre distinti momenti dell’intellegibile, in Plotino essi non assurgono ancora pienamente a struttura terminologico-concettuale univocamente stabilita, come è possibile verificare dal loro utilizzo nel trattato sui numeri 76. L’indagine dei passaggi che hanno portato alla graduale configurazione dei tre termini in una struttura coordinata e unitaria trova indizi utili in Porfirio, che da una parte li menziona – come già il suo maestro Plotino – per asserire l’estraneità dal quadro ontologico da essi stabilito rispetto al Primo principio («[L’Uno] non ha necessità di nulla, né di parti, né di un’essenza, né di potenze, né di energie, ma è la causa di tutte queste» 77), Cfr. il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, pp. 87-89. Cfr. ibid., p. 86, alla nota 23, e la relativa citazione da Plotinus, Enneades, VI 6. L’idea di Plotino è che il numero sia insito nel suo essere nella seconda ipostasi, ma abbia pure la potenzialità di determinare e differenziare gli enti, cosa che effettivamente accade in atto nella reale produzione degli enti stessi. Il Νοῦς è dunque esso stesso in certo modo triadico, perché nel suo Essere possiede potenzialmente e produce effettivamente gli enti intellegibili, che a loro volta danno origine alla realtà cosmica. 77 Porphyrius, Historia philosophiae (fragmenta), 15, in Id., Opuscula selecta, ed. A. Nauck, Leipzig 1886 (repr. 1963), p. 13, 18-20: χρῄζει γὰρ οὐδενός, οὐ μερῶν, οὐκ οὐσίας, οὐ δυνάμεων, οὐκ ἐνεργειῶν, ἀλλ’ ἔστι πάντων τούτων αἴτιος. 75 76
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dall’altra li evoca come criterio di distinzione tra le classi di esseri («Non è poi necessario che ti venga dimostrato in cosa un demone differisce da un eroe o da un’anima, se in base all’essenza oppure in base alla potenza o all’operazione» 78). Q ueste due occorrenze sono le uniche in cui i tre termini della triade compaiono giustapposti in Porfirio, tuttavia non è possibile affermare con certezza se tale accostamento sia il prodotto di una concezione unitaria dei tre termini come triade oppure una semplice enumerazione di proprietà ontologiche. Da esse possiamo però ricavare alcuni elementi utili allo scioglimento del quesito, in quanto entrambe evidenziano come la δύναμις e l’ἐνέργεια siano ormai svincolate dalla relazione ontologica che avevano nel binomio aristotelico. In particolare, la concezione della potenza non è più circoscritta al significato di potenzialità in quanto non-essere relativo. Nella sua Storia della filosofia Porfirio parla di potenze al plurale, signi ficando così la potenza come capacità di molteplicità, mentre nella Lettera ad Anebo essa diventa il criterio della differenza ontologica tra le diverse classi di anime (ovvero dèi, demoni, eroi e uomini) 79. Q uesti aspetti lasciano intendere che l’interpretazione dei tre termini e la loro associazione in Porfirio si collochi in un contesto speculativo ormai post-aristotelico. Tuttavia, l’esiguità di queste occorrenze e la possibilità che la seconda di esse vada intesa come polarità di essenza da una parte e potenza e atto dall’altra piuttosto che come una triade vera e propria, suggeriscono prudenza nel pronunciarsi a favore dell’ipotesi che i tre termini si siano costi tuiti in una triade strutturata e unitaria già nella riflessione del Id., Epistula ad Anebonem, 1, 3e 5, ed. A. R. Sodano, Napoli 1958, p. 7: δεῖ δὲ δὴ καὶ τοῦτο προσαποδειχθῆναί σοι, δαίμων ἥρωος καὶ ψυχῆς τίνι κατ’ οὐσίαν διαφέρει ἢ κατὰ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν. 79 Cfr. C. Militello, Antecedenti porfiriani della triade ΟΥΣΙΑ-ΔΥΝΑ ΜΙΣ-ΕΝΕΡΓΕΙΑ, in «Annali della facoltà di Scienze della formazione. Università degli studi di Catania», 9 (2010), [pp. 171-182], p. 175 (la ricerca pubblicata in questo contributo era stata presentata dall’autrice, nell’a.a. 2007-2008, nel contesto del seminario dedicato alla triade organizzato presso il dottorato in «Filosofia tardo-antica, medievale e umanistica» dell’Università di Salerno, da cui trae origine il presente volume). Secondo la studiosa, Porfirio cerca di stabilire il rapporto fra l’anima come incorporeo in sé e il corpo, e dichiara in particolare che la sostanza [= essenza] dell’anima resta al di là dello spazio fisico, ma le sue potenze e i suoi atti si esprimono in un corpo. In questo modo l’anima indivisibile si dividerebbe in parti che sono appunto le sue possibilità e le sue azioni. 78
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filosofo di Tiro 80. Il contributo di Porfirio alla formazione della triade potrebbe tuttavia riconoscersi nell’aver ispirato Giamblico a sviluppare la concezione unitaria dei suoi tre termini, quale il filosofo di Calcide mostra di aver raggiunto nel De mysteriis, opera che costituisce precisamente una confutazione della porfiriana Lettera ad Anebo 81, e poi sviluppato nel De anima. Appare con evidenza che nel De mysteriis Giamblico abbia preso le mosse dalla distinzione triadica tra le classi di anime posta come quesito da Porfirio proprio in quella Lettera 82. Con Giamblico la triade raggiunge una configurazione strutturale definitiva in quanto unità triadica o triadicità unitaria e come tale assume una posizione definita e ricorrente all’interno del discorso ontologico neoplatonico. La formazione della triade si è dunque intrecciata con l’evoluzione della posizione neoplatonica nei confronti dell’ontologia aristotelica, dalla posizione critica di Plotino, nella cui riflessione si ha per la prima volta l’evidenza della posizione dell’οὐσία come elemento centrale alla comprensione del binomio δύναμις-ἐνέργεια, alla posizione di sintesi che accetta la piena compatibilità tra il pensiero dello Stagirita e quello di Platone, raggiunta dai successivi autori neoplatonici, come Por80 Sul terreno della prudenza si muove anche Militello, la quale propende per riconoscere soltanto in Giamblico la fissazione del trinomio οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια come struttura triadica compiuta, riconoscendo però il retroterra della sua formazione in Porfirio; cfr. ibid., pp. 176, 181-182. La triade sarebbe presente anche nel Commentario al «Parmenide» dubitativamente attribuito a Porfirio, ma nella forma ὕπαρξις – vita – intelletto che, in quanto tale, va esclusa dal novero delle occorrenze vere e proprie. Cfr. T. Leinkauf, Das höchste Prinzip als reines Sein: [Porphyrios], Victorinus, Boethius, in Metaphysik und Religion. Zur Signatur des spätantiken Denkens. Akten des internationalen Kongresses (Würzburg, 13.-17. März 2001), München - Leipzig 2002, [pp. 63-99], pp. 74-80. 81 Va ricordato che il titolo De mysteriis Aegyptiorum è una licenza editoriale di Marsilio Ficino, traduttore princeps dell’opera, mentre il titolo reale è: Risposta di Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo e risoluzione delle difficoltà che vi si incontrano; cfr. É. Des Places, Notice, in Jambliq ue, Les mystères d’Égypte, ed. É. Des Places, Paris 1966 (Collection de l’Université de France), pp. 6-7. 82 Cfr. R. Chiaradonna, Causalité et hiérarchie métaphysique dans le néoplatonisme: Plotin, Porphyre, Jamblique, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 12 (2014), [pp. 67-85], pp. 83-85; in questo articolo viene messo in luce come Giamblico contesti a Porfirio di suddividere gli esseri divini in base agli ἰδιώματα, che lui considera come differenze specifiche, sicché gli esseri divini non sarebbero altro che specie. L’utilizzo della triade da parte di Giamblico sembrerebbe dunque funzionale ad affermare la piena differenza ontologica tra questi esseri.
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firio e Giamblico, nella cui riflessione sull’anima la triade matura la sua definitiva fisionomia 83. L’interpretazione di questa struttura triadica ha tuttavia assunto significati differenti a seconda del grado ipostatico – stando alla metafisica neoplatonica – a cui essa è riferita: come viene mostrato da Michele Abate nel presente volume, sia in Plotino sia in Proclo, in relazione alla trascendenza e alla semplicità delle prime due ipostasi, rispettivamente l’Uno e l’Intelletto, la triade può essere concepita solo attraverso l’identità dei suoi termini, anche se i due pensatori si distinguono per il fatto che Proclo concepisce la triade solo al livello dell’Intelletto, in quanto, al contrario di Plotino, non ritiene possibile predicare i suoi termini dell’Uno 84. L’incompatibilità tra la distinzione ontologica dei termini della triade e il dominio sovressenziale e indifferenziato del Primo principio è quanto emerge dalle soluzioni formulate dagli autori neoplatonici senza eccezioni. Plotino distingue un’attività precipua dell’Uno, il quale è potenza di tutte le cose e, al contempo, atto rivolto verso se stesso e trascendente l’Essere 85; quest’ultimo aspetto costituisce il motivo per cui nell’Uno non si può avere la distinzione ontologica definita dalla triade, né si può indicare la triade come criterio di derivazione della molteplicità dall’Uno. Q uesto passaggio si stabilisce invece a livello dell’ipostasi dell’Intelletto, dove la triade, nel quadro della corrispondenza tra l’essere e il pensiero, consisterà nella distinzione e nella processione manifestativa dell’essenza, della sua potenza e della sua operazione. Per Proclo la triade è elemento costitutivo di ogni realtà, come egli esemplifica additando il caso del fuoco, tuttavia in relazione agli intelletti presi nella dimensione eterna, la sua argomentazione giunge ad affermare l’identità dei tre termini 86. Analogamente si Sul rapporto tra l’ontologia neoplatonica e il pensiero aristotelico cfr. Id., Plotino e la teoria degli universali: Enn. VI 3 [44],9, in Aristotele e i suoi esegeti neoplatonici. Logica e ontologia nelle interpretazioni greche e arabe, a cura di V. Celluprica - C. D’Ancona, Napoli 2004 (Elenchos, 40), [pp. 1-35], pp. 32-35. 84 Cfr. in questo stesso volume il contributo di M. Abbate, pp. 90-91, 93. 85 Cfr. ibid., p. 84. 86 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 169, pp. 146-148; per il testo e la traduzione cfr. ancora il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 30. Per quanto riguarda in particolare il mondo intellegibile, Proclo instaura un parallelo fra i tre elementi della triade e, rispettivamente, il νοητόν (oggetto del νοῦς), la νόησις (elemento mediano fra pensante e pensato) e l’attività dell’intel83
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legge in Damascio, dove in relazione all’Unificato, i tre termini della triade non sono differenziabili, cosa che è possibile solo a partire dall’Intelletto, configurandosi qui la triade – secondo la ricostruzione offerta in questo volume da Ilaria Grimaldi – come «struttura metafisico-concettuale che si è articolata in modo analogo nei livelli progressivamente inferiori delle ἀρχαί» 87. Q uesta posizione spiega anche perché l’ultimo diadoco ateniese adottò in prevalenza una struttura terminologica della triade modificata in ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια, in ragione del suo riferimento al dominio sovra-ontologico del Principio ineffabile 88. letto di pensare se stesso. Q uesta articolazione, in ogni caso, non inficia l’unità e l’eternità degli intellegibili. Il filosofo utilizza infine la triade, sulla scorta degli Oracoli caldaici (per i quali cfr. infra, alla nota 99), anche in chiave teologica, instaurando una corrispondenza fra dimensione divina, demoniaca e umana. 87 Cfr. il contributo di I. Grimaldi in questo stesso volume, p. 138. 88 A giudizio di Grimaldi, ὕπαρξις è per Damascio un termine maggiormente adeguato per indicare la natura assolutamente semplice e ineffabile dell’Uno, che fa venire all’essere le cose ed è in qualche modo precedente a potenza e atto. Con οὐσία si indicherebbe invece un essere realmente sussistente, che deriva dall’interazione di ὕπαρξις e δύναμις. Va in ogni caso precisato come, per Damascio (come già in Plotino, Proclo e poi nel prosieguo latino-occidentale della triade, fino a Giordano Bruno), tutta questa terminologia sia valida soltanto al livello del linguaggio e della concettualizzazione umana; in sé, ὕπαρξις e οὐσία finiscono per coincidere al livello delle ipostasi, e ogni divisione o ‘sovrastruttura’, compresa la composizione triadica, vale soltanto ex parte hominis. Nel discutere dei principi, in ultima analisi è necessario far valere il principio della semplificazione, e ogni dispiegamento – compreso quello numerico – assume soltanto valenza simbolica. Da alcuni riferimenti rinvenibili nella letteratura secondaria si potrebbe ricavare l’impressione che la triade ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια sia stata utilizzata anche da Proclo: cfr. Lloyd, Procession and Division in Proclus cit., p. 21; M. Martijn - L. P. Gerson, Proclus’ System, in All From One cit. (alla nota 36), [pp. 45-72], p. 69, n. 59. Di questi riferimenti, tuttavia, il primo si limita a riferire della presenza in Proclo della triade nella forma con ὕπαρξις senza corroborare questa affermazione con alcuna citazione o riferimento a passi dell’opera del Diadoco; il secondo riferimento rimanda invece a due passi in cui la triade compare nella sua forma canonica con οὐσία al primo termine. Sebbene nell’opera di Proclo sia possibile imbattersi in alcuni accostamenti tra ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια, queste giustapposizioni non possono tuttavia essere intese alla stregua di una triade; per Proclo infatti l’ὕπαρξις è l’Esistenza pura, che trascende ogni essere e dunque supera ogni potenza e operazione, come affermato nel Commento al «Parmenide», per cui cfr. Proclus Diadochus, In Platonis Parmenidem Commentaria, VII, ed. C. G. Steel, 3 voll., Oxford 2007-2009, III, 2009, p. 1167, 24-25: ἡ γὰρ τῆς πρώτης τριάδος τῶν νοητῶν ὕπαρξις πάσης ἐστὶν ἐπέκεινα δυνάμεως καὶ πάσης ἐνεργείας. Per l’analisi del concetto di ὕπαρξις in Proclo, cfr. C. G. Steel, Ὕπαρξις chez Proclus, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taormina, 1994 (Lessico intellettuale europeo, 64),
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La coincidenza dei tre termini della triade nella dimensione intellegibile è anche la posizione sostenuta e sottolineata da Simplicio il quale argomenta anche, sulla scorta di Proclo, la valenza della triade nella realtà sensibile, riprendendo sempre da quest’ultimo l’esempio del fuoco. Peculiarità simpliciana è invece l’applicazione della triade al processo della sensazione, nel riconoscimento del suo attuarsi da una potenzialità che si origina da un nucleo sostanziale, come mostra Claudia Lo Casto nel suo contributo al presente volume. Fra le altre menzioni della triade da parte di autori tardoantichi pagani vanno infine ricordate quella nel Commento al «Fedro» di Ermia di Alessandra, autore pressoché contemporaneo di Proclo, e nel Commento al «De interpretatione» di Ammonio 89. Per i neoplatonici la predicazione della triade rispetto alla dimensione principiale e trascendente – sia in riferimento a quella henologica-iperontologica sia a quella noetico-ontologica – è possibile soltanto dal punto di vista nominale-concettuale, in quanto la distinzione scandita dai suoi termini non ha modo di essere effettiva in relazione all’assoluta semplicità del Principio. La distinzione triadica risulta così effettiva solo con il passaggio alla molteplicità degli esseri, al livello dell’ipostasi dell’anima, come è il caso delle classi di anime di Giamblico, oppure a livello del movimento cosmico, dove l’attività estrinseca la potenza dell’essenza e riguarda tutte le realtà animate e inanimate che partecipano del divenire – come nell’esempio del fuoco fatto da Proclo.
[pp. 79-100], pp. 93-94: «Si l’intellect intelligible est désigné comme ὕπαρξις, il l’est comme premier élément dans la structure triadique de l’être (οὐσία): subsister, pouvoir, et agir. Par contre, l’absolument Premier est au delà de toute structure et n’a aucune relation avec d’autres principes. Si on l’appelle ‘ l’Existence’ pure, cela ne signifie pas qu’il entre comme élément dans une triade existence, puissance, acte (qui constituent l’essence). Il n’est pas l’ὕπαρξις au sens que Damascius donnera à ce terme, c’est-à-dire comme ‘sub-sistence’, ce qui en ferait l’élément et le fondement des êtres. Mieux vaut peut-être l’appeler ὑπερ-ύπαρξις comme l’a fait le pseudo-Denys (De div. nom. 593 C)!». Per l’ὕπαρξις in Damascio (e, in particolare, la sua introduzione nella triade) cfr. J. Combès, Ὕπαρξις et ὑπόστασις chez Damascius, ibid., [pp. 131-147], p. 134, e, nel presente volume, i contributi di M. Abbate e I. Grimaldi. 89 Cfr. rispettivamente Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum Scholia, edd. C. M. Lucarini - C. Moreschini, Berlin - Boston 2021); Ammonius, In Aristotelis De interpretatione commentarius, 9, ed. A Busse, Berlin 1897 (CAG, 4.5), p. 136, 1-11.
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Dobbiamo quindi tornare al momento in cui la triade si è fissata nella storia del pensiero come paradigma ontologico, ovvero in seno alla riflessione giamblichea sulla natura dell’anima, in quanto già il filosofo di Calcide riconosce una differente valenza della triade in relazione alla regione cosmica a cui l’anima afferisce. In risposta a Porfirio, Giamblico afferma che la triade funge da criterio di distinzione ontologica tra le diverse classi di anime (dèi, demoni, eroi ecc.), tuttavia il porsi in essere di tale distinzione va commisurato con lo status di trascendenza proprio di ciascuna classe, dacché è soltanto quando le anime si dividono nei corpi che i loro atti si distinguono dalle loro potenze 90. Nel caso dell’anima umana Giamblico deve giocoforza distinguere tra il suo stato di separatezza dal corpo, nel quale le potenze e le attività coincidono con la sua stessa essenza, e la sua condizione di unione al corpo, nella quale la sua attività si estrinseca dalla potenza distinguendosi dall’essenza, ma non semplicemente come attività dall’anima bensì come attività dell’essere vivente composto 91. La condizione intermedia dell’anima fa sì che essa, partecipando del Νοῦς, partecipi dell’οὐσία e delle sue potenze intellegibili, e allo stesso tempo partecipi, in virtù della sua unione con il corpo, della dimensione della contingenza cosmica in cui la congiunzione tra l’intellegibile e la materia diviene sussistenza ontologica spazio-temporale. L’anima contempla le οὐσίαι in quanto paradigmi noetici e ne attualizza le δυνάμεις come ἐνέργειαι nella dimensione del movimento cosmico. Conseguentemente il divenire, in quanto manifestazione e operazione della potenza dell’essenza, vede stabilita la sua causa efficiente nel principio ipostatico della Ψυχή (che agisce a livello universale nell’azione dell’anima del cosmo e, a livello particolare, nell’azione delle singole anime). L’ipostasi della Ψυχή, in quanto partecipe dell’intellegibile e ri90 Cfr. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit. (alla nota 10), p. 41: «Q uesto carattere intermediario dell’essenza dell’anima umana nel suo stato incarnato coinvolge anche la dottrina delle ‘potenze’ perché ogni termine della triade οὐσία-δύναμις-ἐνέργεια è la manifestazione di una totalità complessa rappresentata dalla triade nel suo insieme e, rimandando continuamente agli altri termini, non può essere considerata come un’unità statica che esiste solo in se stessa. Tale dottrina si trova così a fungere da premessa per la teoria delle ‘potenze’ dell’anima umana e ad essere, al contempo, una sua conseguenza». 91 Cfr. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus cit. (alla nota 51), pp. 163-164 e il contributo di L. I. Martone in questo volume, pp. 111-113.
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volta al movimento cosmico, costituisce dunque il tramite imprescindibile del divenire degli esseri nel tradurre in azione le loro potenze essenziali. In questo contesto, inoltre, la triade acquisisce anche una importante funzione gnoseologica: come attestato da Lucrezia I. Martone, secondo Giamblico l’essenza dell’anima può essere colta dagli uomini comuni soltanto indirettamente, attraverso gli atti che realizzano le sue potenze; solo gli intelletti purificati potranno conoscere direttamente, ma sempre in modo intuitivo, gli enti divini di ogni ordine. La conoscenza completa delle cose non può non contemplare le essenze, la cui apprensione è dunque preclusa a tutti coloro che non praticano la filosofia. Se si confrontano le diverse concezioni neoplatoniche sulla triade, se ne deriva che essa è pensata e utilizzata per spiegare la struttura del reale e le dinamiche del divenire: estranea al Primo Principio, è presente a tutti gli altri livelli del cosmo (dunque anche nell’anima), e permette di spiegare perché esso muti mantenendo dei caratteri costanti. Ai livelli più alti dell’essere, essa è intesa generalmente in senso metaforico, o come illustrazione concettuale di una realtà che è, di fatto, indivisa. Il percorso che ha portato alla fissazione della triade si è dunque profilato come un’elaborazione finalizzata a dare una giustificazione teorica della finalità dell’essere nel divenire in relazione al sistema neoplatonico delle ἀρχαί; questo percorso è giunto a identificare nell’ipostasi della Ψυχή il principio delle relazioni onto-gnoseologiche che si istanziano tra la dimensione noetica e quella contingente. Pur rettificando il modello aristotelico, che nega la realtà ipostaticometafisica del Νοῦς, questa soluzione ha visto il suo fulcro in un termine di creazione aristotelica, cioè ἐνέργεια, e lo ha reinterpretato come azione/operazione della potenza essenziale nella dimensione cosmica. Non ci sembra allora fortuito che proprio in relazione alla riflessione sulla natura dell’anima sia possibile incontrare un utilizzo dei termini οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια, in reciproca correlazione, che risulta del tutto indipendente dagli sviluppi neoplatonici fin qui seguiti: è il caso di Galeno, che, riprendendo elementi del pensiero tanto di Platone quanto di Aristotele, introduce in relazione all’anima la distinzione tra la δύναμις e l’ἐνέργεια, intendendole rispettivamente come facoltà e attività di quella. Nel trattato sulle Facoltà naturali il medico-filosofo pergameno applica la di47
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stinzione triadica alla costituzione di un organismo nei seguenti termini: «Ora, se il calore innaturale danneggia l’attività non accidentalmente ma per la sua propria essenza e facoltà, sarà da considerarsi fra le malattie primarie» 92. Analogamente leggiamo nel trattato sulla relazione tra i costumi dell’anima e i temperamenti del corpo, ad esempio dove sostiene che «la natura dell’anima non è in tutti la stessa (…), i ragazzi differiscono fra loro nell’essenza dell’anima nella misura in cui differiscono nelle azioni e nelle passioni psichiche. Se ciò è vero, allo stesso modo differiscono nelle facoltà psichiche» 93, e ancora: «Per questo diciamo che l’essenza ha tante facoltà quante ha azioni» 94. Per quanto la correlazione e la distinzione di οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια risulti chiaramente attestata in questi passi, è altrettanto evidente che le osservazioni di Galeno derivano da una fenomenologia delle attività fisiologiche dell’anima incorporata piuttosto che da una elaborazione metafisica complessa quale sarà sviluppata più tardi dagli autori neoplatonici, motivo per cui i tre termini sono ancora lontani dall’istanziare un effettivo modello ontologico triadico assimilabile a quello che sarà fissato da Giamblico. Ci sembra pertanto che parlare qui di una triade con valenza analoga alla sua successiva configurazione neoplatonica sia forse prematuro 95. Il caso di Galeno pone comunque in evidenza come il dominio psicologico abbia costituito per la riflessione tardoantica il terreno su cui è stato possibile cogliere la relazione tra l’essenza, la potenza e l’operazione attraverso una reinterpretazione dei concetti ari Claudius Galenus Pergamenus, De naturalibus facultatibus, edd. G. Helmreich - J. Marquardt - I. Müller, Leipzig 1891 (repr. Amsterdam 1967) (Scripta minora, 2), [pp. 101-257], p. 121, 7-9 (tr. it., Torino 1978, p. 909; corsivi nostri): ἀλλ’ εἰ βλάπτει τὴν ἐνέργειαν ἡ παρὰ φύσιν θερμασία μὴ κατά τι συμβεβηκός, ἀλλὰ διὰ τὴν αὑτῆς οὐσίαν τε καὶ δύναμιν, ἐκ τῶν πρώτων ἂν εἴη νοσημάτων·. 93 Id., Q uod animi mores corporis temperamenta sequantur, K IV, ibid., [pp. 3279] p. 769, 5-11 (tr. it., p. 970, con alcune modifiche; corsivi nostri): δῆλον οὖν, ὅτι διαφέρουσιν ἀλλήλων οἱ παῖδες εἰς τοσοῦτον ταῖς τῶν ψυχῶν οὐσίαις, εἰς ὅσον καὶ ταῖς ἐνεργείαις τε καὶ τοῖς παθήμασιν αὐτῶν· εἰ δὲ τοῦτο, καὶ ταῖς δυνάμεσι. 94 Ibid., p. 769, 18-20 (tr. it., p. 970; corsivi nostri): καὶ διὰ τοῦτο τοσαύτας δυνάμεις ἔχειν τὴν οὐσίαν φαμέν, ὅσας ἐνεργείας. 95 Cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit. (alla nota 15), p. 59: «Galen thus recognizes a general distinction between the energeiai of bodily faculties or the soul, which we are in a position to know, and their ousiai, which we are not in a position to know. The triad consisting of a dunamis with its knowable energeia and unknowable ousia is one that will later find wide application among the Neoplatonists and Church Fathers». 92
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stotelici di δύναμις ed ἐνέργεια da stati ontologici escludentesi a distinti gradi della sussistenza di ogni essere, in virtù della riflessione sull’essenza dell’anima come principio di specificità e di identità ontologica. Non per caso il passo compiuto da Giamblico verso la fissazione in triade di questo trinomio è stato suscitato dalla questione della distinzione tra classi di anime. La storia della triade purtuttavia – tanto nella sua fase embrionale quanto successivamente agli sviluppi relativi alla dottrina dell’anima – è stata caratterizzata dalla ricorrente problematica dell’applicazione del suo modello al dominio metafisico, dove l’ontologia della distinzione tra i suoi termini lascia il passo alla loro identità henologica. Q uesta aporia nasce dal fatto che il pensiero neoplatonico, reinterpretando la concezione aristotelica dei fondamenti ontologici del divenire, ha innestato tali sviluppi nel sistema platonico, per il quale la causalità universale si riconduce agli intellegibili trascendenti, e ha dato vita a un modello ontologico applicabile autonomamente rispetto alle problematiche henologiche e, in particolare, alla questione della derivazione della molteplicità dall’Uno 96. Assumendo una posizione critica rispetto alla concezione platonica per cui la δύναμις è immanente a ogni essere, Aristotele è giunto a intendere questo concetto come ciò che non si è ancora prodotto nell’essere e si distingue dal l’opera/azione (ἔργον) 97. I neoplatonici hanno accolto questo passaggio, ma si sono lasciati alle spalle tanto la concezione aristotelica della potenza come mera potenzialità, ovvero come non-essere relativo, quanto lo status di indeterminatezza che per lo Stagirita caratterizza la potenzialità stessa 98, e sono così arrivati a reinterpretare l’ἐνέργεια come l’effetto e non più la causa della potenza. L’ἐνέργεια è così intesa come l’azione in cui si manifesta la δύναμις, la quale è concepita come determinazione non manifestata delle proprietà ontologiche che derivano dall’identità ontologica costi tuita dall’essenza. In questo modo la causalità è riportata all’essenza intellegibile, che risulta inquadrata entro una struttura che ne salvaguarda la trascendenza e ne spiega la manifestazione e l’azione come discesa sul piano della contingenza cosmica. Cfr. supra, alla nota 73. Cfr. Lefebvre, Dynamis cit. (alla nota 62), pp. 307, 312, 324-325. 98 Cfr. ibid., pp. 361-362. 96 97
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I primi sviluppi di una riflessione sul trinomio essenza – potenza – atto/operazione come struttura ontologica coordinata si sono non casualmente registrati sul terreno metafisico e non su quello psicologico, e precisamente nella critica di Plotino alla teoria aristotelica dell’atto-potenza; tuttavia è soltanto in riferimento alla funzione mediatrice della Ψυχή, che il quadro ontologico delineato dal trinomio in questione si è fissato in una struttura triadica unitaria, delineata dalla causalità dell’οὐσία, dall’emanazione di questa nell’ἐνέργεια e dall’intermediazione della δύναμις. Possiamo inoltre ipotizzare che l’evoluzione verso questo tipo di configurazione, in cui i termini della triade sono legati da un ordine preciso e da una funzionalità reciproca, sia stata favorita dallo strutturalismo triadico che ha caratterizzato in maniera sempre più sistematica il pensiero neoplatonico, forse anche corroborato dell’autorevolezza degli Oracoli Caldaici 99. Con Giamblico la triade si è definita come struttura terminologica dotata di una precisa fisionomia, la cui ricchezza di significato, oltrepassando la semplicità del suo modello formale, ne ha assicurato l’adattamento ai diversi contesti speculativi che hanno concorso al suo Fortleben. Fra i primi esempi dell’apporto giam Gli Oracoli caldaici, raccolta sapienziale redatta alla fine del secolo ii e giuntaci incompleta, sono rilevanti per la dottrina della triade soprattutto per quanto riguarda il quinto frammento: cfr. Oracula Chaldaica, fr. 5, in The Chaldean Oracles. Text, Translation, and Commentary, ed. R. Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), p. 50. Sulla dimensione triadica della metafisica caldaica cfr. N. Spanu, Proclus and the «Chaldean Oracles». A Study on Proclean Exegesis, with a Translation and Commentary of Proclus’ Treatise «On Chaldean Philosophy», London - New York 2021 (Routledge Monographs in classical Studies), pp. 4-6. Per l’intersezione tra la triade in Proclo e la triade caldaica Padre – Potenza – Intelletto, cfr. ibid., p. 17. Per quanto quest’ultima abbia una valenza essenzialmente teologica, e non si proponga come principale obiettivo quello di spiegare il dinamismo di un essere immutabile, essa è utilizzata – oltre che da Proclo – anche da Giamblico e infine da Damascio, che la integra costitutivamente al suo pensiero. Il trinomio caldaico, interno alla Monade, che alcuni frammenti estendono però a tutto l’universo, può quindi essere considerato in un certo senso come una fonte della successiva dottrina, anche se gli spunti e gli insegnamenti originari vengono ripensati in un contesto differente, quello della filosofia neoplatonica, che ne salva il nocciolo teoretico adattandone funzioni e finalità. Per quanto con una certa imprecisione, dato che fa risalire la triade ad Aristotele, già Friedrich W. Cremer aveva riconosciuto in questo senso l’influsso degli Oracoli sui pensatori neoplatonici: cfr. F. W. Cremer, Die Chaldäischen Orakel und Jamblich «De mysteriis», Meisenheim am Glan 1969 (Beiträge zur klassischen Philologie, 26), in partic. pp. 39-41. 99
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blicheo alla diffusione della dottrina della triade sono le menzioni di quest’ultima nell’Inno a Helios Re di Giuliano Imperatore, composto alla fine del 362 100. Proclo, che ha ripreso verosimilmente la triade dalla psicogonia di Giamblico 101 e ne ha affermato la presenza in «ogni natura (ἐν ἑκάστῃ φύσει)» 102, in relazione alla sua applicabilità al dominio noetico si trova costretto ad ammettere l’incompatibilità tra la distinzione dei termini del suo trinomio e la semplicità del Νοῦς, postulando quindi l’identità in esso dei suoi tre termini. Incontrandosi la medesima problematica in tutti gli autori neoplatonici, possiamo affermare che la duplice condizione della nominalità della triade nel Principio e dell’effettiva distinzione ontologica tra i suoi termini costituisce l’aporia principale, originaria e ricorrente della teoria della triade. Q uesta aporia è riconducibile all’incompatibilità tra il criterio distintivo che la triade istanzia e il paradigma henologico dell’unità dell’Intelletto, in base al quale nella dimensione puramente noetica il pensante e il pensato coincidono 103; tale incompatibilità, dal punto di vista della storia del pensiero, può essere ricondotta al fatto che la triade si è formata nella riflessione neoplatonica a partire da un adattamento di una teoria eterogenea rispetto ai suoi basilari elementi platonici – cioè la giustificazione aristotelica del divenire. Si rende dunque necessario comprendere come la triade si inquadri – per la speculazione neoplatonica – in relazione al dominio della trascendenza, dove essa vi sussiste in modo puramente nominale. Le fonti non offrono una soluzione expressis verbis a questo problema, tuttavia la descrizione del modello ontologico istanziato dalla triade e i riferimenti alla sua valenza in rela-
Cfr. Iulianus Imperator, Oratio 11, ed. Ch. Lacombrade, Paris 2003 (Oeuvres completes, II.2), pp. 76-138. Non solo Giamblico è ricordato più volte come fonte autorevole, ma la triade è richiamata da subito a strutturare e indirizzare l’inno stesso, che discuterà, fra le altre cose, di essenza, poteri e attività del dio: cfr. ibid., in partic. pp. 102-103, 120-121. 101 Cfr. il saggio di L. I. Martone in questo volume, p. 98, nota 9; p. 100. 102 Cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cfr. in questo volume saggi di M. Abbate, p. 90, alla nota 31, e L. I. Martone, p. 100, alla nota 22. 103 Nella prop. 52 della Elementatio, Proclo afferma che tutto ciò che è eterno è un «tutto simultaneo»; cfr. Proclus, Elementatio, prop. 52, p. 50, 7-8; cfr. Beierwaltes, Deus est esse – esse est Deus cit. (alla nota 72) (tr. it., Bologna 1987, p. 26). 100
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zione ai diversi gradi ipostatico-ontologici e alla contingenza cosmica suggeriscono che postulare la triade come modello nominale-concettuale nel dominio della trascendenza, dove i suoi termini si identificano, possa essere ricondotta alla sua concezione come paradigma intellegibile del divenire e quindi modello ontologico del movimento cosmico, anteriore e trascendente rispetto ad esso, sul cui piano la distinzione dei tre termini della triade diviene effettiva 104. Il secondo motivo che giustifica la predicabilità del modello triadico rispetto alla sfera dell’Intellegibile è che i suoi termini, nella loro distinzione nominal-concettuale, costituiscono l’archetipo di ogni distinzione ontologica che si produce sui piani della realtà inferiori all’unità e alla semplicità noetica. La triade, in quanto modello unitario, funge da archetipo della distinzione interna a una stessa natura tra l’essenza di questa e le proprietà ontologiche che le afferiscono. L’unificazione della distinzione ontologica triadica nell’Intellegibile o nell’Uno è dunque conseguente al prevalere della prospettiva henologica rispetto al principio di distinzione, che, per il pensiero neoplatonico, implica molteplicità.
3. Il modello ontologico della triade e le sue ricezioni Caratteristica primaria del modello triadico che abbiamo analizzato nella sua formazione e nella sua funzionalità in seno al pensiero neoplatonico è l’istanziarsi per esso di un’ontologia teleologica, riconducibile al darsi la sua stessa triadicità come compimento finale nella distinzione reale dei suoi termini. Il fondamento ontologico per cui le potenze dell’essenza si estrinsecano a livello sovracosmico e si traducono nel divenire cosmico in quanto operazione nella contingenza si riconduce alla finalità intrinseca al modello della triade, che consiste nella distinzione nominal-concettuale dei suoi termini. L’ἐνέργεια determina la possibilità che l’οὐσία agisca nel cosmo senza che la sua trascendenza ne venga in qualche modo 104 Fa eccezione alla generale mancanza di una metateoria della triade, sia tra i neoplatonici sia tra gli autori cristiani, Giovanni Scoto Eriugena, che arriva a formulare la funzionalità della triade come archetipo del divenire, per cui cfr. infra, alla nota 121.
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toccata e questo comporta, in virtù della corrispondenza neoplatonica tra essere e pensiero 105, il darsi dell’essenza alla conoscenza secondo la stessa dinamica triadica, delineandosi quindi la triade come principio di teleologia gnoseologica. Nella tradizione neoplatonica questo principio emerge per la prima volta con Porfirio – per il quale le ἐνέργειαι dell’anima rivelano il carattere della sua οὐσία 106 –, è adottato da Giamblico – per il quale la triade è una struttura manifestativa in cui l’energia manifesta l’essenza attraverso la potenza 107 –, e si attesta in termini analoghi in Proclo 108. La ratio teleologica della triade consiste di un termine causante, al quale si riporta l’origine e il fondamento della sussistenza di ogni essere, l’οὐσία, e di un termine attuante, l’ἐνέργεια, in cui l’essenza si manifesta e agisce al di fuori della propria trascendenza; la δύναμις occupa la posizione intermedia ad esse, unendo il significato di potenzialità in quanto somma delle possibilità ontologiche di ogni essenza e il significato di facoltà in quanto determinazione prima delle proprietà ontologiche dell’essenza, dotata di un minor grado di trascendenza rispetto ad essa e di un maggior grado rispetto all’ἐνέργεια. Essendo prodotta dall’οὐσία e produttrice dell’ἐνέργεια, la δύναμις ha un ruolo di causalità secondaria rispetto all’οὐσία, che costituisce il nesso di causalità primaria della sussistenza degli esseri, della loro potenza e del loro agire. Il modello neoplatonico della triade costituisce dunque il fondamento ontologico per cui ogni natura si configura come trascendenza noetica ipercosmica ed emanazione di questa nella Cfr. Id., Platonismus und Idealismus cit. (alla nota 73) (tr. it. cit., p. 26). Cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit., pp. 98-99; Larchet, La théologie des énergies divines cit. (alla nota 18), p. 50. 107 Cfr. Iamblichus, In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 4, ed. J. M. Dillon, Leiden 1973 (Philosophia antiqua, 23), p. 74, 14-16: τὰς δὲ δυνάμεις αὐτῶν καὶ ἰδεῖν καὶ διασαφῆσαι ῥᾷον. ἀπὸ γὰρ τῶν ἐνεργειῶν, ὧν εἰσὶ προσεχῶς αἱ δυνάμεις μητέρες, και αὐτῶν ἐκείνων ἐπαισθανόμεθα· μέση γὰρ ἠ δύναμίς ἐστι τῆς τε ὀυσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομἐνη μὲμ ἀπὸ ὀυσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν (tr. ingl. ibid., p. 75: «We attain to a perception of them [the powers of daemons] through their activities, of which the powers are the immediate mothers; for a power is median between an essence and an activity, put forth from the essence on the one hand, and itself generating the activity on the other»); cfr. anche Id., De mysteriis, II, 3, edd. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Paris 2013, pp. 51-56; Bradshaw, Aristotle East and West cit., pp. 136, 141. 108 Cfr. Proclus Diadochus, In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 1-12; per il testo e la tr. it. cfr. il saggio in questo volume di L. I. Martone, p. 98, nota 9. 105 106
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dimensione intermedia e sovracosmica della δύναμις, e si finalizza nell’immanenza cosmica nell’unione con la materia. In essa si articola il paradigma della differenza dei piani dell’essere, da quello essenziale e atemporale delle οὐσίαι, a quello intellegibile e atemporale delle δυνάμεις, a quello contingente e temporale delle ἐνέργειαι. Considerata come struttura unitaria nel dominio dell’intellegibile, la triade costituisce un modello ontologico statico, nel quale è stabilito il principio di distinzione tra essere, potere e agire in ogni natura; considerata invece nella sua struttura interna, in relazione alla funzionalità dei suoi tre termini e al reciproco rapporto tra essi, la triade costituisce un modello dinamico, per cui è stabilita la possibilità di estensione dell’essenza al di fuori della trascendenza noetica. In base al modello triadico così definito l’essenza viene a costituire il fondamento ontologico del divenire dell’essere, garantendo al contempo il mantenimento dell’identità ontologica e della determinazione della potenza per ogni natura, nonché il suo partecipare nell’operazione alla trasformazione contingente. La valenza teleologica della triade comporta ugualmente che il rapporto di causalità finalistica tra l’οὐσία e l’ἐνέργεια attraverso la δύναμις sia irreversibile: l’οὐσία non può infatti essere il prodotto dell’ἐνέργεια o della δύναμις, così come la δύναμις non è il prodotto dell’ἐνέργεια. Q uesta proprietà ontologica, che trova la sua ragione d’essere nella struttura finalistica della triade, costi tuisce il fondamento ontologico dell’irreversibilità del movimento cosmico. Il movimento teleologico che si istanzia tra l’οὐσία e l’ἐνέργεια attraverso la δύναμις costituisce un’alternativa teorica al modello triadico circolare ed epistrofico – per il quale, cioè, la fine coincide con l’inizio – che caratterizza le altre triadi del neoplatonismo, e in particolare la triade μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή, che molti studiosi hanno riconosciuto come quella che meglio ne esprime il sistema metafisico 109. Q uesta triade descrive la circolarità metafisica della totalità rispetto al Principio, mentre la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια illustra la finalità del principio trascendente che realizza la sua potenza nell’immanenza mediante la sua ener109 Cfr. supra, testo corrispondente alle note 41 e 42; Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit. (alla nota 73), pp. 17-18.
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gia produttiva. Se la triade μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή esprime il fondamento henologico della metafisica neoplatonica, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια è funzionale alla sua dimensione teologica. Di fatto le due triadi, che hanno genesi differenti, presupponendo retroterra speculativi differenti, comportano un conflitto teorico tra la concezione circolare del movimento metafisico, rispondente al paradigma henologico, e la sua concezione teleologica, che invece risponde al paradigma teologico 110. Il neoplatonismo manterrà questa aporia speculativa, nella quale si consuma il limite della sua capacità di superare l’antinomia della derivazione del molteplice dall’Uno (per la quale Proclo ha sviluppato il complesso sistema delle enadi, basato sulla moltiplicazione dei principi intermedi 111) e della relazione causale e gnoseologica tra il Primo principio e il cosmo (per la quale Damascio ha elaborato il concetto-limite del Principio ineffabile 112). La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, nell’impostazione neoplatonica, non ha tuttavia potuto darsi come strumento utile a superare questa aporia, in quanto, come abbiamo visto, essa cessa di essere tale nelle ἀρχαί ipercosmiche, realizzandosi il principio di distinzione che la caratterizza solo nella dimensione inferiore a quelle.
110 L’applicazione per analogia della causalità triadica neoplatonica al dominio degli esseri sovrasensibili (dèi, intelletti divini, anime divine; cfr. supra, pp. 37, 41, 46) determina la valenza teologica della triade; cfr. Gersh, From Iamblichus to Eriugena cit. (alla nota 36), p. 32 (tr. it. cit., pp. 44-45): «In rapporto al mondo spirituale, (…) concetti filosofici, come potenza ed atto, possono essere adeguatamente applicati all’ambito della teologia una volta stabilito che il loro impiego deve essere sempre accompagnato da una consapevolezza, e cioè che essi riflettono solo in modo vago i processi che trascendono una piena comprensione umana». Anche Werner Beierwaltes giunge a definire la posizione della triade all’interno del sistema procliano in relazione all’azione del Demiurgo, per cui cfr. supra, alla nota 44. Cfr. anche Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit., pp. 11-16: la «teologizzazione del reale» costituisce un tratto speculativo caratteristico del neo platonismo in ragione dell’identificazione del Primo principio con il Primo Dio. 111 Cfr. C. D’Ancona, Proclo: Enadi e arxai nell’ordine sovrasensible, in «Rivista di Storia della Filosofia», N. S., 47 (1992), pp. 265-294; Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit., pp. 18-19: «Il problema dell’unità del reale nella sua intrinseca molteplicità ed al contempo la moltiplicazione dei livelli che costi tuiscono il ‘Tutto’ nel suo insieme divengono, a tutti gli effetti, ‘un’ossessione’ nel tardo Neoplatonismo»; cfr. inoltre ibid., pp. 27, 95-96. 112 Cfr. V. Napoli, Ἐπέκεινα τοῦ ἑνός. Il principio totalmente ineffabile tra dialettica ed esegesi in Damascio, Catania - Palermo 2008 (Symbolon, 33), pp. 201-259.
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Svincolata dalla problematica henologica, la funzionalità teologica della triade è definita dal costituire la sua struttura ontologica un modello esplicativo della causalità immediata esercitata dall’essere trascendente sull’immanenza, evitando le aporie logiche connesse alla derivazione del molteplice dall’Uno. In ragione di questa configurazione la triade doveva trovare una posizione stabile nella speculazione teologica cristiana, o almeno in quella più nutrita di platonismo e neoplatonismo. Da principio la dottrina è utilizzata in modo non sistematico, ma inizia ad assumere nuove connotazioni, dovendo rientrare in un mutato contesto teologico-metafisico; in generale, da un sistema emanatistico deve ‘adattarsi’ a uno creazionistico e volontaristico, e dunque non può più spiegare in modo diretto la propagazione del reale a partire da un Principio originario e ineffabile. Si trova poi, al contempo, nella necessità di commisurarsi, da una parte, con le dinamiche trinitarie (in questo senso, emerge la problematica dell’instaurarsi un parallelo fra i suoi tre termini e le tre persone divine), e dall’altra con l’escatologia cristiana (comportando ciò un confronto con il tema del ritorno al Principio, problema che sarà centrale in autori come Massimo il Confessore e Giovanni Scoto). Non è immediato individuare un preciso punto d’inizio della diffusione della triade nel cristianesimo: da quanto emerge gli autori latini tardoantichi non hanno contezza di essa, al punto da ignorarla completamente. Mario Vittorino (290-364 ca.), ad esempio, si serve di numerose strutture neoplatoniche (a cominciare dalla triade esse – vivere – intelligere) e argomenta l’esistenza tra il Padre e il Figlio di un rapporto di potenza e atto che sembra richiamare in qualche modo la sfera concettuale dell’ontologia triadica, restando però lontano dal suo modello 113. L’assenza di riferimenti alla triade in Agostino e Boezio, nonché in tutta la speculazione patristica latina precedente all’epoca carolingia, permette di affermare che, allo stato attuale delle conoscenze, nella tradizione teo logica occidentale essa ha fatto comparsa soltanto con la traduzione in latino del Corpus Dionysiacum realizzata da Giovanni Scoto Eriugena. Tale assenza, peraltro, potrebbe essere indicata come argomentum ex post circa la presenza meramente embrionale della triade nelle fonti neoplatoniche precedenti a Giamblico. Si veda nel presente volume il contributo di Roberto Schiavolin.
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Nel contesto ellenofono, le prime tracce della triade sono ravvisabili nei Padri cappadoci, per i quali il discorso è particolarmente complesso, come mostra il saggio di Ilaria Ramelli incluso in questo volume. Basilio di Cesarea (330-379) e Gregorio di Nissa (335394) hanno certamente presente la terminologia e probabilmente conoscono il modello neoplatonico della triade, ma oscillano tra il semplice accostamento dei tre termini, il loro rapportarsi entro un modello propriamente triadico e la teoria aristotelica dell’attopotenza. Tutto questo sembra suggerire che il passaggio della triade dal neoplatonismo al cristianesimo e il suo fissarsi come modello terminologico-concettuale non sia stato ispirato tanto da Plotino o da Giamblico, quanto piuttosto vada rapportato alla ricezione di Proclo, e debba riconoscere l’autore fondamentale di questa translatio nello pseudo-Dionigi Areopagita e nel suo retroterra neoplatonico, ateniese e procliano. Come mostra Ernesto Sergio Mainoldi, Dionigi applica la triade alle intelligenze angeliche e ai demoni, mai alle tre persone Trinità o all’ipostasi del Verbo, facendo tuttavia di essa un tassello importante della sua riflessione ontologica. Dionigi tende a considerare come sovrapponibili o coincidenti potenza ed energia, aspetto questo che costituirà una delle caratteristiche della ricezione bizantina della triade, come ben si evidenzia nella pressoché totalità degli autori che hanno incarnato la tradizione affermatasi come ‘ortodossa’ e nei quali è stato possibile riscontrare l’utilizzo di questa struttura, da Giovanni Damasceno ad Andronico Camatero, da Gregorio Palamas a Filoteo Cocchino 114. Alla luce di questi dati, ciò che è importante considerare in relazione a Dionigi è non tanto che la teoria vada a sostanziare una struttura cosmologica ovvero ontologica, ma che essa diventi universalmente nota nell’orizzonte cristiano, garantita dall’incontestabile prestigio di una delle massime auctoritates medievali: la preminenza di Dionigi influenzerà continuativamente la ricezione della triade a Bisanzio, venendo rafforzata dalla presenza di questa negli scritti di Massimo il Confessore (579 ca.-662) e Giovanni Damasceno (post 650-750), a loro volta ricettori ed esegeti del 114 Si vedano in questo volume entrambi i contributi dovuti a Ernesto S. Mainoldi; per un quadro d’insieme sull’autore degli Areopagitica e il suo rapporto con la scuola neoplatonica di Atene, cfr. Id., Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum, Roma 2018 (Institutiones, 6).
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pensiero di Dionigi, nonché dal crescente repertorio di impieghi del trinomio durante tutta la successiva storia del pensiero bizantino. Per il mondo latino il tramite sarà costituito da Giovanni Scoto (810-877), traduttore e commentatore di Dionigi e Massimo 115. Tale acquisizione storiografica viene corroborata dall’osservazione della storia della triade nel suo insieme, occasione che finora la mancanza di studi complessivi non rendeva pienamente accessibile alla medievistica. Alla presenza della triade nel pensiero teologico nel sistema speculativo di Massimo è dedicato, in questo volume, il contributo di John Gavin, che mostra come essa, di fatto, costituisca la struttura che designa come ogni essere abbia come obiettivo il realizzarsi nella propria pienezza, attualizzando in modo completo la propria ἐνέργεια attraverso la realizzazione delle δυνάμεις proprie dell’οὐσία. Nel sistema del Confessore, essa si sovrappone all’ulteriore (e già menzionata) triade γένεσις – κίνησις – στάσις, che indica, in aperta contraddizione con gli origenisti, il complessivo orientamento dell’universo, il quale passa dalla creazione al movimento per poi raggiungere la quiete definitiva in Dio. Attualizzazione completa delle creature – e dell’uomo in particolare – è dunque raggiungere questa quiete, che corrisponde, di fatto, alla deificazione, scopo ultimo del creato, che si muove nella sua interezza verso la propria origine. Il raggiungimento della θέωσις è però un dono divino, che supera le potenzialità dell’essenza dell’uomo: la realizzazione completa di quest’ultimo avviene dunque soltanto attraverso un atto gratuito di Dio. Il cambio di passo operato da Massimo è assolutamente evidente, perché non c’è quasi luogo della sua riflessione in cui il modello dinamico triadico, che lui impiega per orientare e risolvere i problemi del dibattito cristologico del suo tempo, non sia presente. Ad esempio, attraverso di essa egli contesta gli esiti del monotelismo, perché ogni operazione deve procedere dalla potenza di una ben determinata essenza – e per questo, se il Cristo ha due essenze, quella umana e quella divina, deve necessariamente avere anche due volontà. Muovendo dal paradigma triadico dionisiano, Massimo utilizza la triade essenza – potenza – operazione 115 Si vedano, rispettivamente, i saggi di J. Gavin S. J. e R. de Filippis contenuti in questo volume.
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per illustrare altri schemi triadici volti a dischiudere le dinamiche della deificazione: negli Ambigua ad Ioannem egli la lega a una ulteriore triade, essere (τὸ εἶναι), essere bene (τὸ εὖ εἶναι) ed essere sempre (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι), dove il primo e l’ultimo elemento sono donati da Dio, ma quello centrale (che corrisponde, in un parallelismo non esatto, all’ἐνέργεια) è conseguibile dall’uomo in base alla propria libera scelta. Alla luce di queste considerazioni, è possibile tracciare alcuni rilievi generali in relazione alla presenza e alla percezione della triade in seno al pensiero patristico orientale nel suo complesso. Essa ricorre come struttura unitaria definita dal suo canonico trinomio, ma il suo significato, come si accennava, risulta esser stato sensibilmente trasformato rispetto all’originario contesto neoplatonico in ragione del suo adattamento a un contesto speculativo che non rispondeva più ai presupposti teorici del paganesimo, bensì alla visione del mondo giudaico-cristiana teologicamente plasmata dalle rivisitazioni concettuali dovute ai concili ecumenici. Due sono i principali capovolgimenti di senso operati dal pensiero patristico che valsero a conferire alla triade una nuova economia speculativa: innanzitutto l’ammissione della distinzione interna alla triade pur nel domino della trascendenza; in secondo luogo, la dismissione dell’interpretazione emanatistica della triade. Il primo punto è conseguente agli sviluppi della teologia trinitaria: identificando il Principio e causa prima con il Dio trinitario, nella cui natura eterna e increata l’essenza è distinta dall’ipostasi, la quale è a sua volta triplicemente distinta in Tre persone coessenziali, la teologia affermatasi come ortodossa dopo i concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) ha elevato il principio di distinzione a fattore ontologico primario. La distinzione ipostatica interna alla Trinità avalla precisamente la possibilità di affermare una distinzione reale in seno al Principio, nella sfera della sua trascendenza assoluta. Il concetto di ipostasi è stato reinterpretato a partire dalle opere trinitarie dei Padri cappadoci al fine di rendere nel linguaggio dell’ontologia la nozione intuitiva di persona, mentre la distinzione dell’ipostasi dall’essenza, introdotta dagli stessi Cappadoci, ha portato alla comprensione dell’origine della Trinità nell’ipostasi del Padre e non nell’essenza comune alle tre divine persone. Q uesto approdo ha fatto sì che la Trinità delle 59
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divine ipostasi sia stata concepita come principio dell’unità che si fonda sull’essenza comune, ovvero ‘enarchia’, come l’ha definita lo pseudo-Dionigi, il quale ha ripreso e sviluppato i fondamenti speculativi dell’insegnamento cappadoce 116. Attraverso questi sviluppi la teologia trinitaria si è emancipata tanto dall’ontologia quanto dall’henologia neoplatoniche 117. La fortuna della triade nella riflessione patristico-orientale e bizantina va infine commisurata con un’altra distinzione ontologica fondamentale che la teologia patristica, a partire dai Cappadoci, elevò a sua cifra paradigmatica più precipua, ovvero la distinzione reale tra essenza ed energia nella natura divina 118. In base a questo assunto, in Dio non solo l’essenza comune alle tre ipostasi è ritenuta eterna e trascendente, ma anche la sua energia, la quale, pur essendo realmente distinta dall’essenza, non è esterna alla natura divina eterna e increata. La seconda grande trasformazione concettuale a cui è stata sottoposta la triade è conseguente a questo quadro ontologico e consiste nel permanere l’essenza inconoscibile in sé. Q uesto significa che l’energia non permette né di conoscere ad extra la sua essenza né di partecipare di essa. L’apofatismo dell’essenza fu conseguenza della radicale separazione tra il dominio dell’increato e quello del creato raggiunta nel corso della lotta contro l’arianesimo e fissata dall’ontologia espressa dal Credo di Nicea-Costantinopoli: questa consapevolezza ha comportato una tacita dicotomia nel pen116 Cfr. DN II, 4, 641A, p. 126, 15: τῇ ἑναρχικῇ τριάδι. L’idea che il Dio della rivelazione mosaica sia superiore all’essere e all’Uno si trova già in Filone di Alessandria, cfr. T. A. Pino, An Essence-Energy Distinction in Philo as the Basis for the Language of Deification, in «The Journal of theological Studies», N.S., 68 (2017), [pp. 551-571], pp. 556, 562. 117 Q uesto sviluppo si è prodotto nel corso del dibattito anti-ariano grazie all’apporto dei Padri Cappadoci, per essere poi ripreso e precisato dallo pseudoDionigi; cfr. E. S. Mainoldi, La ricezione della rivoluzione ontologica dei Padri cappadoci: la triadologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e i suoi obiettivi, in Trinità in relazione. Percorsi di ontologia trinitaria dai Padri della Chiesa all’Idealismo tedesco, a cura di C. Moreschini, Panzano in Chianti 2015 (Theántropos. Testi e studi sul cristianesimo antico, 2), pp. 167-181. 118 Cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit., p. 153ss.; Larchet, La théologie des énergies divines cit., pp. 145-232. Va rilevato che, pur in un quadro diverso dalla comprensione trinitaria di Dio e del Λόγος, anche in Filone Alessandrino si riscontra la distinzione tra l’essenza divina, inconoscibile, e le potenze divine, in sé inconoscibili, ma conoscibili e partecipabili nelle loro ἐνέργειαι; cfr. ibid., pp. 73, 79-80; Pino, An Essence-Energy Distinction cit., p. 565.
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siero ontologico cristiano-orientale, basata sull’impossibilità di concepire la più remota analogia tra l’essenza divina e l’essenza delle cose create, il cui unico punto in comune risiede nel linguaggio, cioè nella predicazione omonimica del termine οὐσία quale fondamento ontologico di ogni natura, creata o increata. Di fatto la teologia patristica orientale, a partire dai Cappadoci, seguiti dai teologi bizantini, ha inteso implicitamente l’οὐσία divina come ὑπερουσία – principio che è assurto alla sua definitiva e duratura consacrazione con lo pseudo-Dionigi 119. L’energia divina, conseguentemente, è concepita come ciò che rivela l’esistenza della natura divina e permette di partecipare di essa, ma non rivela né consente di partecipare della sua essenza. La distinzione tra essenza ed energia in Dio comporta ugualmente la distinzione tra la natura e l’essenza divine, in ragione della quale il concetto di natura in riferimento a Dio guadagna una valenza più generale dell’essenza e di conseguenza si ascrive alla sfera super-ontologica e increata. Il criterio apofatico di comprensione della natura divina definisce l’assoluta trascendenza nonché l’inconoscibilità dell’essenza divina, ma allo stesso tempo esclude che la potenza o l’energia siano un’emanazione di quella per degradazione su un livello inferiore di trascendenza. L’essenza costi tuisce perciò il fondamento iperontologico della causalità divina, restando inattingibile, inconoscibile e impartecipabile, mentre le sue energie, in quanto attingibili, conoscibili e partecipabili, permettono una partecipazione reale alla natura divina. Il criterio di distinzione reale tra essenza ed energia in Dio preserva conseguentemente la trascendenza assoluta della natura divina e allo stesso tempo esplica la possibilità della sua azione provvidenziale nel cosmo. Perdendo la struttura della triade il carattere emanatistico che aveva nel neoplatonismo, la potenza cessa di essere intermedia tra l’essenza e l’energia. Perciò la potenza e l’energia tendono ad essere Incidentalmente possiamo osservare che lo pseudo-Dionigi non ha insistito sulla distinzione tra creato e increato nei termini del linguaggio biblico e del Credo niceno-costantinopolitano (principalmente – ma non solo – per ragioni pseudo-epigrafiche), quanto ha inteso questa distinzione alla luce del linguaggio me-ontologico, cioè della divisione tra il sovra-essere divino e l’essere creaturale; questo spiega anche perché Dionigi non applica il modello della triade se non alle realtà create (in particolare agli intelletti angelici). 119
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assimilate nel loro significato e ruolo ontologico già nella riflessione teologica patristica, tendenza seguita dalla maggior parte dei teologi bizantini. Q uesta assimilazione implica che nella trascendenza non vi sia né attualità né potenzialità, né causalità ontologica ad intra; la distinzione tra δύναμις ed ἐνέργεια in riferimento a Dio può avere senso solo dal punto di vista economico, cioè in relazione allo svolgersi nel tempo dell’azione provvidenziale, ed è per questo motivo che la distinzione triadica viene mantenuta nella tradizione testuale bizantina in riferimento al discorso teologico, anche laddove è stabilita l’equivalenza dei due termini. Se la speculazione neoplatonica si è trovata concorde nel concepire il trinomio della triade come distinzione puramente nominale in relazione alla semplicità del Primo principio, nella teologia cristiana ellenofona è la distinzione tra la potenza e l’energia ad essere concepita come nominale nella trascendenza divina: la novità portata da questa tradizione è consistita invece nel concepire come reale la distinzione tra l’essenza e le potenze-energie divine. L’essenza divina costituisce il polo apofatico e assoluto della natura divina, mentre le potenze-energie ne costituiscono il polo catafatico e provvidenziale. Allo stesso modo va escluso che tra l’essenza e l’energia divine sussista un rapporto di causalità, perché questo introdurrebbe una degradazione nella natura divina che ne comprometterebbe l’assoluta semplicità. Essendo la natura divina increata e superiore all’essere, in essa non si dà alcun rapporto di causalità ontologica in quanto tale, bensì una relazionalità meontologica che trova fondamento nei λόγοι divini (cioè nelle predeterminazioni provvidenziali del Logos-Sophia divini). Viceversa, se la triade è considerata in relazione alle creature, per le quali non solo la distinzione tra essenza ed energia, ma anche la distinzione tra potenza ed energia diviene effettiva, sussiste un rapporto di causalità ontologica tra i termini della triade, che si traduce nella superiorità, anteriorità e precedenza della causa rispetto all’effetto, cioè dell’essenza rispetto alla potenza e all’operazione. La struttura della triade illustra dunque i fondamenti ontologici della causalità e il loro differente applicarsi ai dominî della natura divina increata e ai diversi gradi dell’essere sul piano della realtà creata. Passando al contesto latino lo snodo fondamentale è, come già osservato, il pensiero di Giovanni Scoto Eriugena. Nel contri62
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buto dovuto a Renato de Filippis si mostra come, nel Periphyseon, Nutritor e Alumnus diano in pratica per scontata la conoscenza della triade, definita però in un passaggio subsistentia di tutte le cose; i suoi tre elementi costituiscono un’unità dinamica che opera a tutti i livelli del cosmo, dalle realtà più infime alle anime umane, dai numeri alle intelligenze angeliche. Per quanto alcuni testi siano controversi, sembra che essa si possa ammettere in Dio soltanto a livello metaforico – ma ciò non le impedisce di costi tuire, nelle creature, un modello che richiama alla Trinità divina. Particolarmente interessante è notare come, nella ricostruzione dell’Eriugena, la triade ideale contenuta nel Verbo divino emani le singole triadi che costituiscono gli esseri creati, e che sono accidenti del modello; ciò permette alla struttura ontologica di permanere immutabile (nel Λόγος) e contemporaneamente di divenire e modificarsi (nel creato). L’Irlandese attua anche un interessante collegamento fra logica e ontologia: dato che il primo elemento della triade è, naturalmente, l’essentia, che è anche la prima delle dieci categorie, e dato che gli altri nove praedicamenta sono tutti accidenti di quest’ultima, allora essi sono anche accidenti della triade, nella quale, di fatto, accade ogni cosa. I collegamenti che Giovanni Scoto instaura per mezzo della triade si completano con un richiamo gnoseologico: la corrispondenza viene estesa anche alla struttura conoscitiva umana e al trittico agostiniano esse – velle – scire. Se la mente umana e la struttura dell’universo sono modellate secondo il medesimo schema, sarà possibile in certa misura alla prima conoscere la seconda, e quindi aspirare anche a una conoscenza del suo Creatore. Ma il luogo metafisico in cui la triade si esplica nel modo più perfetto è il reditus, il momento in cui tutto il creato tornerà a Dio e sarà in Lui ricompreso, nella perfezione eterna e immutabile propria della quarta natura, che non crea e non è creata 120. In essa, tutti gli esseri saranno ricompresi in unità pur nelle loro determi Al riguardo si veda G. d’Onofrio, «Cuius esse est non posse esse»: la quarta «species» della natura eriugeniana tra logica, metafisica e gnoseologia, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and His Time. Proceedings of the Tenth International Conference of the Society for the Promotion of Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven University Press, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30), pp. 367-412. 120
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nazioni e differenze, così come la triade stessa è una eppure molteplice: in questo modo, azioni meritevoli e peccati degli uomini si preserveranno per l’eternità, nell’immutabilità delle essenze e nel permanere degli effetti. Unico ‘escluso’ sarà il male, privo di essentia, e dunque anche di virtus e di operatio. Oltre a utilizzare la triade in diversi ambiti della sua riflessione, Giovanni Scoto ha costituito un caso unico nel tentativo di formulare una giustificazione teorica del suo modello, ponendo il problema della distinzione tra i suoi termini; pur arrivando al risultato della loro identità in Dio, questo argomento lo ha condotto a riconoscere la funzionalità originaria della triade quale archetipo del divenire, ovvero «il fondamento stesso delle cose esistenti, la base ontologica, eternamente e immutabilmente contenuta nel Verbo, dalla quale si sviluppano» 121. La triade continuò ad essere utilizzata per tutto il tardo Medioevo orientale e occidentale, apparendo anche laddove – ovviamente in contesti orientati verso il neoplatonismo – sembrerebbe insolito riconoscerla. Il pensiero arabo-islamico riprenderà la triade direttamente dalle fonti neoplatoniche, ma non ne elaborerà tanto un’applicazione al contesto teologico, quanto ne farà uno strumento di comprensione emanatistica del cosmo, come ha mostrato nel suo contributo a questo volume Beate Ulrike La Sala 122. Nel corso della storia della triade, la teologia bizantina ha rappresentato un caso unico in virtù dell’applicazione del principio Si veda il saggio di R. de Filippis in questo volume, p. 329. La studiosa argomenta la presenza della triade nel pensiero arabo attraverso la mediazione di Plotino e Proclo: è possibile infatti individuare questa struttura, a diversi gradi di cognizione e precisione – tenendo conto della traduzione in un contesto linguistico del tutto distante da quello greco e latino –, quantomeno in Al-Farabi (la terminologia triadica ricorre nella sua cosmologia), Avicenna (in relazione ai concetti di movimento ed emanazione), Al-Ghazali (in contesti psicologici ed epistemologici), nel Liber de causis e nella Theologia Aristotelis (la quale da ultimo rielabora anche il sesto libro delle Enneadi, fonte iniziale della dottrina). Tuttavia, in tale contesto essa è spesso configurata in forte contaminazione con l’impostazione aristotelica, per cui, tranne rari casi, è difficile – almeno al presente stato della ricerca – individuarla nella sua specificità ontologica. Un esempio lampante in questo senso viene dalla Metafisica di Avicenna, dove ğauhar (sostanza), quwwa (potenza) e faʿʿāl (azione) sono avvicinati più volte, ma con un approccio che è più vicino al pensiero dello Stagirita che a quello di Plotino. 121 122
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di distinzione reale e non solo nominale del suo trinomio nel dominio della trascendenza (sebbene la distinzione vada compresa tra l’essenza e la potenza-energia), ma si sarebbe fuori strada se si considerasse questa tradizione univoca circa questo punto: tale concezione trovò infatti un ampio fronte di opposizione, che emerse soprattutto durante la disputa esicasta e vide la posizione dei teologi bizantini latinofroni unirsi alla voce critica degli oppositori del principale difensore del paradigma distinzionista, Gregorio Palamas. La questione della distinzione interna alla natura divina fu anche oggetto del dibattito teologico che vide impegnati, a partire dal xii secolo, bizantini e latini intorno alla questione del Filioque. Fu proprio l’argomento della triade che – in mancanza di una teoria delle energie divine nella teologia occidentale – fece emergere le divergenze in materia di ontologia trinitaria invalse tra l’Oriente e l’Occidente cristiani, mettendo in luce come le due tradizioni fossero approdate a posizioni inconciliabili circa la distinzione reale tra i termini della triade in relazione alla natura divina. L’elaborazione dell’ontologia triadica sviluppata dai latini era infatti giunta a stabilire la coincidenza in Dio dei tre termini della triade, convergendo dunque con il modello neoplatonico dell’indistinzione triadica nella trascendenza pur senza averne una conoscenza diretta. I risultati di questo confronto teorico sono attestati sia dalle fonti bizantine – in autori come Niceta Byzantios, Nicola di Metone, Niceta di Tessalonica, Andronico Camatero e Giorgio Acropolita – 123, sia dalle fonti latine, come, ad esempio, nel caso della lettura emanatistica della triade a cui Ugo Eteriano – il quale, per le proprie vicende personali (fu legato pontificio a Costantinopoli, presso la corte di Michele Comneno), ebbe accesso a testi preclusi agli occidentali – fece ricorso al fine di giustificare per via analogica il Filioque 124. Nel suo De processione Spiritus sancti il parallelismo con la triade è, infatti, uno degli argomenti addotti per sostenere che lo Spirito Santo, contrariamente a quanto sostenuto dai Greci, procede dal Padre e dal Figlio. 123 Cfr. in questo volume il contributo di E. S. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina, pp. 280-289. 124 Cfr. in questo volume il contributo di A. Sordillo, pp. 350-353.
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In merito all’approdo della teologia occidentale a una posizione sostanzialmente coincidente con il modello neoplatonico, va rilevato che pur muovendo i teologi mediolatini da una conoscenza della triade derivata dallo pseudo-Dionigi, essa trovò un’interpretazione teologica e ontologica sostanzialmente scollegata dalla lettura dionisiana, che in Occidente fu seguita con una certa fedeltà solo per quanto riguarda l’angelologia, nonostante Dio nigi abbia applicato la triade proprio in questo ambito dottrinale. La teologia dionisiana delle unioni e distinzioni nella natura divina non trovò infatti ricezione in Occidente, se non in relazione alla – scontata – distinzione ipostatica tra le persone divine, e non trovò alcuna applicazione in relazione all’ontologia trinitaria 125. Ugualmente inavvertita fu la distinzione argomentata dai Cappadoci tra essenza ed energia. Neanche Giovanni Scoto Eriugena, per quanto profondo conoscitore e attento esegeta di Gregorio di Nissa, Dionigi e Massimo, fa eccezione rispetto a questo quadro 126: la mancata ricezione da parte sua della distinzione tra essenza ed energie divine viene confermata dal fatto che egli ammette l’identità dei tre termini della triade in Dio 127. Mantenendo tuttavia la distinzione dionisiana tra l’essenza divina e l’intellegibile, affermando che dell’essenza si può solo dire quia est, non quid est 128, l’Eriugena si è smarcato su questo punto tanto dalla gnoseologia neoplatonica, quanto dalla gnoseologia patristicolatina, in seguito riaffermata dalla Scolastica, che ha ammesso la possibilità di conoscere Dio nella sua essenza. Nonostante i differenti approcci alla triade, va sottolineato che tra i teologi cristiani essa non viene mai impiegata come schema esplicativo dell’ontologia trinitaria, sebbene in alcuni casi il suo Sulle unioni e distinzioni nello pseudo-Dionigi, cfr. E. S. Mainoldi, La meontologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e la sua collocazione nella tradizione patristica e filosofica, in Il nihil nell’Alto Medioevo. Atti di Convegno (Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 28-29 maggio 2015), a cura di P. De Feo, Roma 2017 (Ragione plurale, 3), [pp. 71-131], pp. 87-89. 126 Cfr. G. Kapriev, Eodem sensu utentes? Die Energienlehre der «Griechen» und die causae primordiales Eriugenas, in «Theologische Q uartalschrift», 180 (2000), pp. 289-307. 127 Cfr. ancora il saggio di R. de Filippis, pp. 334-335. 128 Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Periphyseon, PL 122, [441-1022], ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM 161-165), I, 1996, 443C, p. 5; 487AB, p. 63; II, 1997, 550D, p. 34; 585B, p. 81; III, 1999, 665C, p. 67; IV, 2000, 767D, p. 39; 771BC, pp. 44-45; 843B, p. 144; V, 2003, 919C, p. 84. 125
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modello sia stato applicato per analogia alle relazioni tra le Tre persone divine, come è il caso di alcune argomentazioni latine in favore del Filioque 129, oppure dello stesso Giovanni Scoto, il quale, senza discostarsi dalla sua posizione anti-filioquista 130, non derogò dal principio per cui la triade non si trova in Dio, asserendo per contro l’assoluta unità della natura divina 131, ma ammettendo la possibilità, in relazione al discorso antropologico e all’assunto biblico dell’essere l’uomo creato ad imaginem Dei, che sia possibile tracciare un parallelismo per imaginem tra le persone della Trinità e i tre termini della triade 132. Seguendo quindi le effettive occorrenze testuali dell’alto Medioevo latino post-eriugeniano, che la fonte sia Giovanni Scoto o direttamente Dionigi, la triade si ritrova in Eirico di Auxerre (841-876 ca.), Ugo di San Vittore (1096-1141), Isacco della Stella (1120 ca.-1169), nel già citato Ugo Eteriano (1115-1182), e in Tommaso Gallo (1200-1246) 133. Si tratta in quasi tutti i casi di menzioni occasionali, che testimoniano però come la dottrina non cada nell’oblio e continui ad essere utilizzata nei contesti più diversi, dal commento teologico al sermone ecclesiologico. A parte va considerato il peculiare caso di Pietro Abelardo (1079-1142), nei cui scritti teologici la triade attua una delle sue più sorprendenti metamorfosi 134. Egli è consapevole della terminologia, che in un paio di casi applica alla Trinità in senso metaforico (anche se resta dubbio quale possa essere la sua fonte); ma la celeberrima immagine del sigillo di bronzo, da lui impiegata, non solo rispetta in pieno le corrispondenze triadiche, ma tenta pure, come era negli originali intenti neoplatonici, di offrire una articolazione interna del divino – in questo caso, naturalmente, della Trinità stessa. Nel sigillo, infatti, si trovano un sostrato esistente, che corrisponde naturalmente all’essentia; la possibilità (virtus) di sigil Cfr. supra, alla nota 124. Cfr. É. Jeauneau, Érigène entre l’Ancienne et la Nouvelle Rome. Le Filioque, in Chemins de la pensée médiévale. Études offertes à Zénon Kaluza, éd. par P. J. J. M. Bakker, Turnhout 2002 (Textes et études du Moyen Âge, 20), pp. 289-321. 131 Cfr. ancora il saggio di R. De Filippis in questo volume, p. 334. 132 Cfr. ibid., pp. 326-327; anche supra, alla nota 47. 133 All’arco cronologico che va da Eirico di Auxerre a Egidio Romano è dedicato il saggio di A. Sordillo in questo volume. 134 Cfr. il saggio di M. Giannetta in questo volume, pp. 372-374. 129
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lare; e quella di essere sigillante in atto. Grazie a questa immagine, Abelardo può da una parte evidenziare l’articolazione interna alla Trinità (nella salvaguardia della comune essenza e dell’identità ultima delle tre personae), dall’altra mostrare come essa operi al di là di se stessa, nel mondo creato e nella redenzione dell’uomo. Q uale che sia la fonte da cui Abelardo ha attinto questa immagine, resta pur evidente come la rappresentazione del sigillo lo inserisca, almeno per quanto concerne la triade, nella stessa linea speculativa di Giovanni Scoto: per chiarire le articolazioni della Trinità, nella quale di fatto i tre elementi non esistono come tali, l’unica risorsa è ricorrere a simboli e figurae. Seguire la storia della triade nel basso Medioevo è ancora più difficoltoso, e non è escluso che scoperte future possano ulteriormente ampliare l’attuale campo delle conoscenze. Come già nel neoplatonismo, anche nel pensiero scolastico la posizione indistinzionista relativa alla triade nella trascendenza ha configurato un’interpretazione emanatistica della gnoseologia triadica per cui, identificandosi la divina operatio con la divina substantia, quest’ultima risulta essere conoscibile attraverso l’intelletto. Possiamo quindi constatare come la teologia scolastica abbia operato una ri-neoplatonizzazione di questa struttura ontologica ricevuta dallo pseudo-Dionigi, sviluppo nel quale giocò probabilmente un ruolo il ritorno del pensiero procliano, divenuto direttamente accessibile a partire dalla fine del secolo xii attraverso il Liber de causis, le traduzioni di Guglielmo di Moerbeke e l’esegesi di Bertoldo di Moosburg 135. Si può peraltro constatare come il ritorno di Aristotele in Occidente segni un arretramento della dottrina triadica, che viene spesso ‘sostituita’ dalla dialettica potenza/atto, e perde terreno in tutte le situazioni in cui lo perde il modello emanatistico di stampo neoplatonico. Tuttavia, essa si ritrova ancora, almeno citata, in Enrico di Gand (1217 ca.-1293), Enrico Bate di Malines (12641310 ca.), Umberto di Preuilly († 1298), Egidio Romano (1243 o 1247-1316), in una delle Glose super Librum de causis che dipendono da quest’ultimo, e in Giovanni di Mallinges (fine xiii sec.) 136. Cfr. Interpreting Proclus cit. (alla nota 53), i capp. 5, 9, 11. Per la disamina della triade in questi autori, si veda ancora il saggio di A. Sordillo in questo volume. 135 136
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Stando allo stato attuale delle ricerche, è possibile riconoscere una delle sue più eccentriche metamorfosi in Enrico di Gand: il trinomio res, esse essentiae ed esse existentiae, ripreso poi anche da Duns Scoto (in senso critico) e Guglielmo di Alnwick, sembra avere nel suo pensiero la stessa funzione ontologica 137. Nonostante questi ‘vuoti’ e questi adattamenti è tuttavia possibile constatare come un non sparuto gruppo di autori accordi spazio nelle proprie teorie teologico-metafisiche a modelli ontologici genericamente riferibili alla triade. Essa gioca anche un ruolo importante nella psicologia di Tommaso d’Aquino (1225-1274), cosa non fortuita né inaspettata se si considera la nuova immagine storiografica che si è andata affermando del pensiero dell’Aquinate, che lo colloca al crocevia tra prospettive neoplatonizzanti e quella, ben attestata nella storiografia, aristotelica 138. Tommaso da una parte assume che l’anima intellettiva sia forma del corpo, e dall’altra che l’intelletto, che è separato, pur essendo una facoltà dell’anima, non lo sia del corpo; per questo spiega che l’anima ha una essentia (che dà l’essere al corpo di cui è forma) e una potentia che compie determinate operationes ad essa commisurate. Tali operazioni, evidentemente, non sono atti di un corpo e non hanno effetti su di esso (come avviene invece nel caso della vista, atto dell’occhio); se ne conclude, proprio a partire da questa dialettica, che l’intelletto è una potenza dell’anima, ma non del corpo. La distinzione elaborata da Tommaso, che non viene applicata a Dio, in cui essenza, potenza e atto sono coincidenti, ha connotati neoplatonici e non aristotelici, dato che sembra supporre da una parte una metafisica dell’emanazione in cui l’atto è l’espressione di una ‘forza’ insita nelle essenze, e dall’altra un cosmo gerarchico, dove l’inferiore è espressione del superiore; ed è necessaria per giustificare lo statuto che l’Aquinate vuole assegnare all’anima, forma e contemporaneamente soggetto sussistente, ma non ente separato dal corpo. Statuto, come è dato osservare, che stride con i basilari principi dell’aristotelismo, ma che gli permetteva di sal-
137 A tale variante della triade è dedicato in questo volume il saggio di D. Riserbato. 138 Al pensiero di Tommaso è dedicato il saggio di M. Lenzi nel presente volume.
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vare contemporaneamente i propri principi filosofici (soprattutto epistemologici) e teologici (soprattutto escatologici); e la triade si è prestata ottimamente a tale mediazione 139. La triade trova pure un certo spazio nella tradizione domenicana, soprattutto in area tedesca, già a partire da Alberto Magno 140. Q uesti la utilizza in modo relativamente sporadico, ma in moltissimi ambiti della sua speculazione, dall’angelologia (per spiegare la natura composita delle intelligenze celesti) alla teologia trinitaria (negando ancora una volta la presenza della triade in Dio e affermando che il Figlio è identico al Padre per essenza, virtù e operazione), passando per la psicologia e la cosmologia. La dottrina diviene poi oggetto di un rinnovato interesse, come già accennato, a seguito della traduzione dell’Elementatio theologica da parte di Guglielmo di Moerbeke (1268); il testo fu commentato da Bertoldo di Moosburg, che manifesta una certa difficoltà nell’utilizzare la triade in un contesto fortemente influenzato da Aristotele (e per questo, ad esempio, egli riconosce che gli angeli hanno essenza, potenza e operazione, ma questo non vale per le sostanze intellettuali, dato che Aristotele riconosce per esse identità di intelligens, intellectum, ratio intelligendi e intelligere). Più diffuso è l’utilizzo del trinomio da parte di Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), che lo riconosce come trinitas Dionysii, e lo ritrova, negli ultimi anni della sua vita, anche nella succitata traduzione dell’Elementatio theologica 141. La prima fonte utilizzata da Bonaventura è però, probabilmente, la Summa Halensis, dove addirittura l’intera struttura della teologia è divisa in essentia, virtus e operatio: l’essenza divina ineffabile è conosciuta attraverso la sua virtus, il Cristo, e le operazioni di quest’ultimo, ovvero l’opera della redenzione. La Summa si spinge poi a riconoscere 139 Francesco Fiorentino ha rinvenuto negli scritti di Tommaso altri occasionali utilizzi della triade, che però, a suo giudizio, nella maggior parte dei casi «svolgono un ruolo marginale»; il più significativo si trova nella distinctio terza del I libro del Commento alle Sentenze, in cui essa diventa vestigium della Trinità. Per le occorrenze cfr. F. Fiorentino, La triade substantia – virtus – operatio in rapporto alle altre agostiniane e bibliche in Bonaventura da Bagnoreggio e Tommaso d’Aquino, in Schegge di filosofia antica, a cura di I. Pozzoni, Villasanta 2015 (Esprit, 67), [pp. 183-199], pp. 188-191 (citazione a p. 189). 140 Al contesto domenicano fra xiii e xiv secolo è dedicato il saggio di M. Perrone in questo volume. 141 Alle occorrenze triadiche presenti negli scritti di Bonaventura e nel contesto dei primi Francescani è dedicato il saggio di A. Di Maio nel presente volume.
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– forse per la prima volta nel pensiero occidentale – come la triade sussista realmente anche in Dio, che è nelle cose essentialiter per la sua essenza, potentialiter per la sua potenza, e praesentialiter per le sue operazioni. Il pensatore di Bagnoregio non accoglierà però tale ampliamento. Per Bonaventura la triade, che viene spesso citata – in posizione non preminente – assieme ad altre strutture ternarie, serve essenzialmente a spiegare i dinamismi del reale, salvaguardando l’unità delle cose pur nella loro azione ed esplicazione; egli la utilizza sia in ambito teologico (ad esempio in demonologia, asserendo che gli spiriti malvagi possono conoscere soltanto le operationes esterne, ma non i segreti delle anime) sia in ambito filosofico (egli mostra come l’anima abbia essentia unitaria pur nella molteplicità delle sue operationes). La triade rappresenta anche uno dei momenti in cui, come è detto nell’Itinerarium mentis in Deum, l’uomo riconosce i vestigia Dei nel creato (per quanto il Creatore resti assolutamente semplice in sé); la struttura è utilizzata in particolare nelle Collationes in Hexaemeron, forse in consapevole funzione antiaristotelica, tracciando la dialettica fra le diverse operationes delle persone della Trinità e la loro comune essentia 142. Sono invece degni della massima attenzione il modo e la frequenza con cui Dante Alighieri (1265-1321) cita e utilizza la triade con piena nozione di causa. Giulio d’Onofrio mostra come nelle opere dell’Alighieri sia identificabile un vero e proprio fil rouge, costituito da occorrenze che sostanziano tanto la sua cristologia quanto la sua visione politica 143. Ad esempio già nella Vita nuova, e specificamente nel sonetto Vede perfettamente ogne salute, Beatrice diventa il modello di realizzazione perfetta dell’essentia della donna, che si attualizza attraverso un amore rettamente indirizzato. Nella Monarchia, invece, il riferimento alla triade si universalizza e, cosa ancora più interessante, acquisisce una coloritura politica che è pressoché assente negli autori precedenti (ma sarà poi recepita da Bartolomeo di Lucca): una 142 Su questi aspetti cfr. ancora Fiorentino, La triade substantia – virtus – operatio cit., in partic. le conclusioni, pp. 194-199, che ben contestualizzano l’utilizzo della triade neoplatonica nel contesto delle altre strutture ternarie utilizzate nella speculazione di Bonaventura. 143 Al significato e all’utilizzo della triade in Dante è dedicato il saggio di G. d’Onofrio nel presente volume.
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dottrina squisitamente metafisica diventa così occasione per una precisa teoria di filosofia pratica. Nella distinzione fra la felicità che l’uomo può raggiungere nella vita terrena, attraverso l’attuazione piena delle proprie potenzialità naturali, e quella propria della vita eterna, che è la fruizione della visione di Dio, raggiungibile solo per grazia, Dante afferma che la prima potrà essere raggiunta grazie all’unificazione del potere terreno nelle mani dell’imperatore, che sarà quindi garante della felicità ultima di tutti i suoi sudditi. L’uomo, infatti, ha una finalità unica come specie, che è l’attuazione della conoscenza mediante l’intelletto, e tale finalità è realizzabile soltanto nella pace universale che l’imperatore deve garantire. Solo in tale contesto, storicamente concretizzatosi sotto Ottaviano Augusto, poteva del resto realizzarsi l’uomo perfetto, cioè Cristo; e solo nella partecipazione alla sua essentia l’umanità schiava del peccato potrà attualizzarsi pienamente, esattamente come solo nell’impero si attua la piena comunità politica che è altrimenti limitata da contingenze e particolarità che ne danneggiano il compimento. La triade, infine, è impiegata da Dante – con significativa spregiudicatezza – per distinguere i due poteri della Chiesa e dell’Impero nel suo commento alla celebre immagine del Sole e della Luna presente nel libro profetico di Abacuc (3, 11 secondo la versione di Girolamo: «Elevatus est sol, et luna stetit in ordine suo»). Come la seconda, che, pur ricevendo la luce dal primo, ha essere, potenza e atto propri che non dipendono da esso, benchè sia unicamente dal Sole che essa può ricevere il proprio atto perfetto, così il potere temporale, per quanto possa essere giustamente ‘illuminato’ e perfezionato da quello della Chiesa, ha una propria indipendenza che è essenziale. La teologia orientale, in epoca tardo-medievale come nelle epoche precedenti, mostra di essere approdata a posizioni divergenti rispetto alla contemporanea teologia latina: il divario rispetto agli assunti ontologici della teologia scolastica, ad esempio, è ben messo in luce per parte bizantina dal monaco palamita Callisto Angelicude nella sua confutazione della Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino 144. La divergenza tra le interpretazioni Cfr. E. S. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina, in questo stesso volume, pp. 292-295. 144
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latine e bizantine del modello ontologico triadico risulta particolarmente significativa poiché travalica i limina confessionali: gli Scolastici arrivarono a posizioni analoghe a quelle dell’ontologia triadica neoplatonica, accogliendone le implicazioni nelle questioni di ontologia e gnoseologia trinitarie. Nel quadro del pensiero scolastico, si può dunque considerare la triade anche come un argomento con il quale si conferma come la riscoperta della metafisica di Aristotele in Occidente a partire dal secolo xii si sia innestata su un impianto speculativo neoplatonico, aspetto che viene approfondito nei contributi a questo volume dovuti ad Antonio Sordillo e a Massimiliano Lenzi. Sul versante bizantino si è verificato un fenomeno analogo nel caso del filosofo Barlaam il Calabro, il quale, prendendo posizione contro la formulazione dogmatica della teologia trinitaria latina, di fatto ha sposato il quadro ontologico a questa sotteso, negando la distinzione reale dell’essenza e delle potenze-energie in Dio 145. Con Dante la stagione bassomedievale della triade sembra essere arrivata a conclusione: la struttura infatti, stando allo stato attuale degli studi, è poco adoperata nel xiv secolo; la sua storia tuttavia non sarebbe completa senza considerare l’ultima fioritura, quella rinascimentale, che si sviluppa – favorita dal rigoglio degli studi platonici e neoplatonici – in Marsilio Ficino, Niccolò Cusano e Giordano Bruno. Ficino si serve della struttura triadica, che nel suo pensiero è presente con una certa ricorrenza, senza però poter essere considerata uno ‘schema fisso ontologico’, anzitutto nella Theologia platonica, a mostrare le articolazioni interne dell’anima, mobile nelle proprie ‘espressioni’ ma sempre unica per essenza 146. È interessante notare come il filosofo fiorentino, contaminando proficuamente le proprie fonti, riconosca in essa differenti tipologie di virtutes e operationes. Nel Commento al «Parmenide» si precisa che l’atto finale dell’anima è quello di raggiungere la beatitudine: tematiche ontologiche e morali si incrociano dunque ancora una volta, mostrando come la dottrina della triade abbia anche contribuito, in ogni epoca, alla precisazione di problematiche esu Cfr. ibid., p. 291. Allo studio della triade in Marsilio Ficino e nella sua scuola è dedicato il saggio di R. Melisi in questo stesso volume. 145 146
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lanti da questioni metafisiche. Essa, peraltro, ha un ruolo speculativo anche nel pensiero di altri platonici fiorentini, discepoli più o meno fedeli di Ficino, come Francesco Cattani da Diacceto e Francesco Patrizi da Cherso. Niccolò Cusano aveva a disposizione numerose opere di Proclo (che riteneva essere un discepolo di Dionigi), e vive dunque in un contesto in cui il confronto con il pensiero greco pagano è quanto mai ricco e sfaccettato; egli conosce tuttavia anche Dionigi e Giovanni Scoto, Bonaventura e la Scuola di Colonia, e può dunque cogliere con uno sguardo unitario un importante segmento della ‘storia’ della triade 147. La teoria triadica viene da lui utilizzata in senso antiaristotelico, a tenere insieme un cosmo fondato sul principio neoplatonico dell’emanazione. Il trinomio si ritrova soprattutto nei sermoni, ma essa è presente lungo tutto l’arco della sua carriera intellettuale, a testimonianza di un perdurante interesse, e va infatti a chiarire punti spesso fondamentali del suo sistema, dalla teologia trinitaria (dove il punto di riferimento centrale è l’Eriugena) alla gnoseologia (l’uomo conosce le cose partendo dalle operationes, risalendo alla virtus e giungendo infine all’essentia), passando per il rapporto fra il Dio-Uno e il molteplice e la possibilità dell’uomo di raggiungere la christiformitas, realizzando pienamente le potenze e le operazioni che gli sono proprie. Tutte queste teorie, peraltro, sono sviluppate in relazione a problemi attuali e pressanti della filosofia del tempo (in particolare la comparatio tra Platone e Aristotele), a testimoniare come, a un millennio dalla sua prima elaborazione, la triade trovi ancora utilizzi speculativamente rilevanti. Pur nella necessità di esplorare ulteriormente il contesto rinascimentale, questa storia trova una – forse provvisoria – conclusione con Giordano Bruno, che utilizza la struttura triadica neoplatonica in senso polemico, a sostituire la Trinità cristiana, per mostrare – ancora una volta – il rapporto fra l’unità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni sensibili 148. La riflessione del nolano, che pure tiene in considerazione quella di Cusano, riadattandola tuttavia a mutate esigenze, rappresenta probabilmente A Cusano è dedicato il saggio di P. Secchi nel presente volume. Alla riflessione triadica di Bruno è dedicato il saggio di G. Gisondi in questo volume. 147 148
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la chiusura del cerchio fin qui tracciato (o almeno un significativo punto fermo), perché nel De la causa, principio et uno si mostra chiaramente come la tripartizione non esista da un punto di vista ontologico (Uno, materia-potenza e forma-atto non sono distinguibili), ma solo nella mente dell’uomo; a differenza degli autori cristiani precedenti, che in massima parte – pur non riconoscendola in Dio – individuavano la triade nel creato, Bruno le attri buisce un valore soltanto gnoseologico e figurativo, dissociandola di fatto dalla struttura dell’essere. Come più volte richiamato, è plausibile che la storia fin qui tracciata nelle sue linee fondamentali possa ricevere, attraverso futuri riconoscimenti e ulteriori ricerche, approfondimenti anche significativi. Q uel che però ci sembra possibile concludere, già allo stato attuale dell’indagine, è che la dottrina della triade, in larga parte trascurata dalla storiografia e prevalentemente ridotta alla dialettica aristotelica di atto e potenza, spesso misconosciuta anche nelle sintesi più approfondite e informate, costituisca un vero e proprio ‘universale’ del pensiero tardoantico, medievale e umanistico, e possa dunque essere individuata, almeno per i suoi sviluppi cristiani e occidentali, tra i tratti caratterizzanti di quel ‘paradigma medievale’ che è una delle possibili chiavi di lettura del pensiero filosofico occidentale fra iv e xvi secolo 149. Il modello ontologico istanziato dalla triade può essere annoverato a ragion veduta tra le teorie filosofiche di più lungo corso; tra quelle che in più larga misura si sono adattate ai contesti speculativi, culturali e storici più disparati; tra quelle poche, infine, che hanno preteso di dare una spiegazione onnicomprensiva e autosufficiente – certo declinata in modo differente dai vari pensatori che ad essa si sono rifatti, ma sempre sulla base di comuni presupposti teorici di fondo – di uno dei problemi fondamentali dell’ontologia in qua ipsa, ovvero il rapporto fra essere e divenire. La fortuna della triade è rispecchiata dall’universalità del suo modello ontologico e dalla sua adattabilità a contesti speculativi diversi e per molti versi irriducibili. Al di là delle differenze e delle convergenze tra le diverse tradizioni filosofiche e teologiche e gli Cfr. The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy. Papers of the International Congress (Rome, 29 October - 1 November 2005), ed. by G. d’Onofrio, 2 voll., Turnhout 2012 (Nutrix, 4). 149
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autori che l’hanno adottata, questa particolare struttura terminologico-concettuale può essere identificata come uno degli elementi dirimenti di una grande epoca della storia della filosofia ed essere indicata come uno dei tratti precipui del suo paradigma ontologico. Nella sua valenza più generale la triade costituisce un modello di realtà che presuppone la relazione e la separazione tra la trascendenza e l’immanenza, tale che, per il paradigma di pensiero vigente nei secoli in cui essa si è attestata, senza l’una non si darebbe l’altra e in assenza tanto dell’una quanto dell’altra non si avrebbe alcun dispiegamento ontologico della realtà: né l’essenza si darebbe senza la potenza e l’energia, né l’energia e la potenza senza l’essenza. La triade è dunque strumento del realismo teologico, per il quale la realtà non si dà né si comprende al di fuori della relazione causale e deliberativa tra la sfera della trascendenza e quella dell’immanenza. In base al realismo neoplatonico l’applicarsi dello schema ontologico della triade a ogni realtà si fonda sull’essere questa il modello noetico della struttura ontologica di ogni essere, mentre, in base al paradigma creazionista giudaico-cristiano, la strutturazione triadica di ogni essere si riconduce alla predisposizione divina di tutti gli enti in essenza, potenza e operazione. L’orientamento teleologico e la dinamica ontologica implicati dalla triade presuppongono tuttavia un agente causale che definisca la ragione e la finalità della realizzazione delle potenze dell’essenza nell’operazione. Se il pensiero neoplatonico ha riconosciuto nell’emanazione – quale necessario istanziarsi dell’intellegibile sui diversi piani dell’essere – la chiave per la comprensione del processo causale delineato nella struttura della triade, il pensiero cristiano ha identificato nella volontà l’agente causale della teleologia dell’essere. Conseguentemente la comprensione delle condizioni in cui la triade diviene effettiva si sono intrecciate con le modalità con cui le ragioni e le finalità dell’ontologia triadica sono state inquadrate all’interno del sistema metafisico di riferimento: nel neoplatonismo la dinamica dell’emanazione ha escluso che alla volontà si attribuisse un ruolo decisivo nello sviluppo dell’ontologia triadica 150, viceversa il pensiero cristiano 150 Nel neoplatonismo la volontà ha un ruolo metafisicamente secondario: per Plotino la volontà si identifica con l’essenza nel Bene, soluzione che si adatta al sistema emanatistico e necessitaristico neoplatonico; cfr. in questo volume il saggio di M. Abbate, pp. 84-85.
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patristico e medievale, accordando alla volontà un ruolo centrale nelle ragioni del divenire, ha intrecciato questo elemento, sebbene in modo non sistematico, con l’elaborazione dell’ontologia triadica 151. La triade si configura dunque come modello aperto, in quanto la sua funzionalità ontologica e gnoseologica si completa in relazione al paradigma di pensiero a cui essa viene applicata, e questo ne illustra l’ampia fortuna. Il ruolo della volontà in relazione alla triade, precisando in direzione della personeità l’orientamento teleologico della concezione cristiana dell’essere, ha fatto sì che questa struttura si attestasse come modello non esclusivo né esaustivo del discorso ontologico, come del resto era stato per il neoplatonismo, sebbene su diverse basi rispetto alla funzione ontopoietica della volontà riconosciuta dal cristianesimo. Per quanto gli adattamenti concettuali della triade possano essere stati differenti fino a risultare antitetici, essa ha costituito uno dei tasselli centrali del pensiero ontologico tardoantico e medievale, rappresentando la cifra della prospettiva teleologica teologicamente fondata che ne ha distinto il paradigma rispetto alle epoche precedenti o successive alla sua elaborazione – che di fatto o non hanno sviluppato la triade o l’hanno accantonata. La triade espone il significato ontologico dell’agire e la valenza operativa dell’ontologia, segna cioè il successo del concetto di ἐνέργεια in quanto perpetuità e necessità ontologica dell’operare, quale effetto dell’eterno e assoluto operare di Dio: raccogliendo l’eredità del pensiero tardoantico, il paradigma medievale ha guadagnato, attraverso l’ontologia triadica e il concetto di operatio divina, la più pregnante giustificazione delle modalità di sussistenza e del divenire di ogni essere. Una locuzione in cui si riassumerebbero questi significati potrebbe dunque suonare come: operat ergo esse.
151 Il tema della volontà in relazione all’ontologia triadica è stato toccato in diversi contributi raccolti in questo volume; un suo approfondimento, tuttavia, avrebbe portato nel campo delle metafisiche della volontà, esulando dagli obiettivi della presente miscellanea; cfr. i contributi di E. S. Mainoldi (pp. 192, 208209, 266-267. 278), I. Ramelli (pp. 165, 170), J. Gavin S. J. (pp. 242, 245-246), G. d’Onofrio (p. 483), P. Secchi (p. 566).
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MICHELE ABBATE
SIGNIFICATO E FUNZIONE DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL NEOPLATONISMO GRECO PAGANO
All’interno della tradizione neoplatonica pagana greca, i princi pali riferimenti alla struttura triadica costituita da οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, ossia sostanza/essenza – potenza – atto/attività, compaiono in autori appartenenti a epoche diverse e hanno soprattutto la funzione di descrivere il modo in cui determinati ambiti del reale sono costituiti e gerarchicamente ordinati dal punto di vista metafisico e ontologico. Tali riferimenti consentono, al contempo, di comprendere come nel neoplatonismo la relazione fra potenza e atto venga pensata in una prospettiva sostanzialmente diversa rispetto a quella aristotelica. A cominciare da Plotino, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια viene per lo più ricondotta alla natura e ai caratteri fondamentali della realtà intelligibile, la quale, a sua volta, dipende originariamente dal Primo Principio, posto al di sopra dell’essere stesso. In base alla concezione plotiniana, come vedremo, se il Principio Primo può essere, per certi aspetti, considerato come una forma di δύναμις assoluta, implicante una sorta di attività irrelata, autenticamente originaria e anteriore a ogni determinazione, esso tuttavia, proprio per la sua assoluta ulteriorità, risulta completamente trascendente rispetto alla nozione di οὐσία, essenza o anche – come è pure possibile intendere in alcuni contesti – sostanza. Entro tale prospettiva di pensiero, dunque, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια viene in particolar modo utilizzata per esprimere la natura intrinsecamente dinamica e relazionale della dimensione intelligibile, al cui interno, ovviamente, il concetto di οὐσία, nel senso di essenza/sostanza di natura intelligibile, riveste un ruolo assolutamente fondamentale. Al contempo, alla luce La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127952 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 79-95 ©
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della funzione attribuita di volta in volta alla triade in oggetto nell’ambito della realtà intelligibile, emerge ulteriormente la natura dell’assoluta semplicità e trascendenza del Principio primo. L’analisi di alcuni significativi testi dei principali autori neoplatonici pagani, ossia Plotino, Proclo e Damascio, consente inoltre di comprendere quali siano stati i fondamentali sviluppi filosofico-teoretici della riflessione neoplatonica sulla relazione triadica tra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια.
1. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Plotino: la trascendenza assoluta del Principio e l’attività del νοῦς Nel breve trattato II 5 delle Enneadi – il venticinquesimo secondo l’ordine cronologico – Plotino prende in esame i concetti aristotelici di τὸ δύναμει (ciò che è in potenza) e τὸ ἐνεργείᾳ (ciò che è in atto) in rapporto ad alcune specifiche problematiche, con particolare riferimento al modo in cui tali nozioni devono essere considerate in relazione alla dimensione intelligibile 1. Nel cap. 3 di questo trattato egli afferma esplicitamente che nella dimensione intelligibile non si può parlare di esistenza in potenza: in essa tutto è determinato in forma attuale, poiché gli enti intelligibili esistono autenticamente nella dimensione dell’eternità e non della temporalità 2. Dunque, nell’intelligibile non v’è δύναμις, ossia potenza/ potenzialità, in quanto essa riguarda tutto ciò che non è ancora in modo attuale, vale a dire tutto ciò che è soggetto a mutamento ed è partecipe della dimensione del divenire e della materialità. Al contrario, in alcuni trattati successivi rispetto a quello citato Plotino mette in luce come nella dimensione intelligibile, ossia 1 Il titolo del trattato II 5 riportato da Porfirio è Περὶ τοῦ δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ, ossia Intorno a ciò che è in potenza e in atto. Per una breve analisi del contenuto di questo trattato cfr. A. Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano - R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 63-77], pp. 63-66. Si veda inoltre A. Pigler, L’Aristote de Plotin. Sur le problème de la puissance et de l’acte dans le traité 25 (II, 5), in Ἀλλ᾿ εὖ μοι κατάλεξον… «Mais raconte-moi en détail…» (Odyssée, III, 97). Mélanges de philosophie et de philologie offerts à Lambros Couloubaritsis, éd. par M. Broze - B. Decharneux - S. Delcomminette, Bruxelles - Paris 2008, pp. 503-516. 2 Cfr. Plotinus, Enneades, II 5, 3, 7-8.
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nell’ipostasi del νοῦς, sia presente una forma di δύναμις, la quale va intesa come una potenzialità attiva capace di produrre e determinare gli enti nella loro piena compiutezza. Tale concezione, come vedremo, appare riconducibile alla struttura triadica costituita da οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, che non è menzionata nel trattato II 5, mentre è invece presente in tre trattati della VI Enneade: si tratta di VI 6 (il trentaquattresimo in base all’ordine cronologico), VI 7 (il trentottesimo) e VI 8 (il trentanovesimo). Tra questi, parti colare rilevanza, come vedremo, riveste un interessante passo del trattato VI 7 che consente di comprendere come Plotino rielabori radicalmente la concezione aristotelica della relazione fra atto e potenza, attraverso una critica sistematica della nozione di ‘primo motore immobile’, inteso come pensiero di pensiero e Principio primo. Pertanto, appare opportuno prendere le mosse dall’analisi di tale passo. Ma se [il Principio inteso aristotelicamente come ‘primo motore immobile’ e ‘pensiero di pensiero’] deve pensare, poiché è atto [ἐνέργεια], ma non potenza [δύναμις], se è sostanza [οὐσία] sempre pensante ed è per questo che dicono che è atto, essi [cioè i peripatetici] comunque parlano di due cose, ossia sostanza e intellezione [νόησις], e non dicono che è semplice, ma gli aggiungono qualcosa di altro, come agli occhi il vedere in atto, anche se essi vedono sempre. Ma se dicono che è in atto, poiché è atto ossia intellezione, proprio in quanto intellezione, non potrebbe pensare 3, così come neppure il movimento potrebbe essere in moto. ‘E allora? Non siete voi a dire che quelle realtà lassù sono sostanza e atto?’ Sì, ma noi conveniamo che queste sono molteplici e dunque differenti, mentre il Primo è semplice; inoltre, noi attribuiamo a ciò che deriva da altro il pensare e per così dire il ricercare la propria sostanza, se stesso, e ciò che lo ha prodotto. Ed esso, dopo essersi volto indietro nella contemplazione e divenuto consapevole, risulta a questo punto in senso proprio e corretto Intelletto. Invece ciò che né è venuto a essere, né ha nulla anteriormente a sé, Cfr. ibid., VI 9 [9], 6, 54-55, ove Plotino afferma che la νόησις – nel senso di ‘intellezione’, ovvero ‘atto di pensiero’ origine del ‘pensare’ – non pensa, ma è causa del pensare per qualcos’altro (αἰτία τοῦ νοεῖν ἄλλῳ): la causa, infatti, non è identica a ciò che è causato. In questo contesto, dunque, la νόησις, intesa come intellezione/atto di pensiero, viene considerata da Plotino in qualche modo anteriore e ulteriore rispetto al νοεῖν, il quale implica in sé la relazione con un determinato oggetto di pensiero. 3
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ma è sempre ciò che è, quale ragione avrà di pensare? Perciò Platone afferma correttamente che esso è al di sopra dell’Intelletto 4.
Nel brano citato, Plotino sviluppa un’articolata critica alla concezione aristotelica in base alla quale il principio universale inteso come primo motore immobile è concepito come ‘pensiero di pensiero’ in quanto ‘atto puro’ 5. Nella prospettiva plotiniana attribuire οὐσία e νόησις al Principio primo implicherebbe che esso non sia assolutamente semplice e dunque totalmente trascendente, bensì che sia originariamente connotato da una forma di dualità, costituita appunto dal suo essere a un tempo sostanza e intellezione/ atto di pensiero. Pertanto, per Plotino, alla luce della propria concezione della dimensione intelligibile come realtà essenzialmente connotata dall’identità dinamica di essere e pensiero 6, il Principio – nella sua assoluta e originaria semplicità – non può venire identificato con il pensiero pensante, identificazione che, invece, appare implicita nella concezione aristotelica del primo motore immobile come νόησις νοήσεως. Nell’ottica plotiniana, è il νοῦς che è costitutivamente in relazione dinamica con il suo stesso oggetto, ossia 4 Ibid., VI 7 [38], 37, 10-24: εἰ δ᾿ ὅτι ἐνέργειά ἐστιν, ἀλλ᾿ οὐ δύναμις, δεῖ νοεῖν, εἰ μὲν οὐσία ἐστὶν ἀεὶ νοοῦσα καὶ τούτῳ ἐνέργειαν λέγουσι, δύο ὅμως λέγουσι, τὴν οὐσίαν καὶ τὴν νόησιν, καὶ οὐχ ἁπλοῦν λέγουσιν, ἀλλά τι ἕτερον προστιθέασιν αὐτῷ, ὥσπερ ὀφθαλμοῖς τὸ ὁρᾶν κατ᾿ ἐνέργειαν, κἂν ἀεὶ βλέπωσιν. εἰ δ᾿ ἐνεργείᾳ λέγουσιν, ὅτι ἐνέργειά ἐστι καὶ νόησις, οὐκ ἂν οὖσα νόησις νοοῖ, ὥσπερ οὐδὲ κίνησις κινοῖτο ἄν. ‘τί οὖν; οὐ καὶ αὐτοὶ λέγετε οὐσίαν καὶ ἐνέργειαν εἶναι ἐκεῖνα; ἀλλὰ πολλὰ ταῦτα ὁμολογοῦμεν εἶναι καὶ ταῦτα ἕτερα, τὸ δὲ πρῶτον ἁπλοῦν, καὶ τὸ ἐξ ἄλλου δίδομεν νοεῖν καὶ οἷον ζητεῖν αὐτοῦ τὴν οὐσίαν καὶ αὐτὸ καὶ τὸ ποιῆσαν αὐτό, καὶ ἐπιστραφὲν ἐν τῇ θέᾳ καὶ γνωρίσαν νοῦν ἤδη δικαίως εἶναι· τὸ δὲ μήτε γενόμενον μήτ᾿ ἔχον πρὸ αὐτοῦ, ἀλλ᾿ ἀεὶ ‹ὂν› ὅ ἐστι, τίς αἰτία τοῦ νοεῖν ἕξει; διὸ ὑπὲρ νοῦν φησιν ὁ Πλάτων εἶναι ὀρθῶς. Tutte le traduzioni sono mie. 5 Su ciò cfr. Aristoteles, Metaphysica, XII 7, 1072b 14-30. Sulla ripresa e rielaborazione di Metafisica XII 7 nella filosofia plotiniana si veda C. Lo Casto, Teleia Zoe. Ricerche sulla nozione di vita in Plotino, Pisa 2017 (Greco, arabo, latino. Le vie del sapere. Studi, 5), pp. 82-85. Sulla critica plotiniana alla concezione aristotelica del primo motore immobile come Principio primo si rinvia a S. Roux, La théorie du Premier moteur: Plotin critique d’Aristote, in «Études platoniciennes», 10.1 (2013) (online). Si veda inoltre M. Vlad, De l’unité de l’intellect à l’un absolu: Plotin critique d’Aristote, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 5 (2007), [pp. 121-139], pp. 135-139. 6 Sull’identità dinamica di essere e pensiero come carattere essenziale della realtà intelligibile in Plotino rinvio a M. Abbate, Plotino erede e interprete critico di Parmenide: la relazione tra «essere» e «pensiero» alle origini della riflessione ontologica occidentale, in «Giornale di Metafisica», 42.1 (2020), pp. 187-200.
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con l’essere. Dal canto suo, l’ἀρχή autenticamente prima non può venire identificata con l’essere e il pensiero, poiché essa, nella sua originaria indeterminatezza deve risultare assolutamente semplice e dunque trascendente rispetto all’essere e al pensiero stessi, i quali, dal canto loro, risultano realtà intrinsecamente determinate e connotate da differenza e molteplicità, che si manifestano nella pluralità unitaria degli oggetti intelligibili. Di conseguenza, per Plotino la dimensione intelligibile – ossia il νοῦς, l’Intelletto, cui è intrinsecamente connesso il νοεῖν, il pensare – non può essere assolutamente originaria, ma risulta derivare da altro rispetto a sé: infatti, secondo la prospettiva metafisica di Plotino, il νοῦς si determina in quanto tale allorché prende coscienza della propria natura giungendo a contemplare il Principio dal quale deriva e dipende 7. Dal canto suo, quest’ultimo, che è anteriore e ulteriore rispetto a ogni forma di determinazione, permanendo nella sua identità assoluta 8, non ha alcun motivo per pensare, poiché il pensare in senso autentico e originario è ricerca del Principio e del fondamento autentico e assoluto del reale, mentre l’ἀρχή autentica non ha bisogno di nulla 9. Nel passo appena esaminato, dunque, Plotino ricorre alla struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια come a una sorta di schema metafisico-concettuale per mostrare che la realtà intelligibile, quale ambito privilegiato della relazione fra essere e pensiero, non ha la caratteristica fondamentale che deve essere attribuita al Principio, ossia quella di essere a un tempo assolutamente semplice e totalmente trascendente. Ma questo implica allora che il Principio, Uno-Bene, trascenda oltre alla nozione di οὐσία – come Plotino desume certamente dal VI libro della Repubblica 10 – anche quelle 7 Sulla questione si veda l’ancora fondamentale volume di W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995). 8 Sull’identità assoluta del Principio in Plotino rinvio a M. Abbate, L’origine e il fondamento del tutto in Plotino: il Principio primo come Identità assoluta, in «Intersezioni», 39.2 (2019), pp. 165-182. 9 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 7, 37, 31: ἀρκεῖ γὰρ αὑτῷ καὶ τοῖς ἄλλοις ὢν αὐτὸς ὅ ἐστιν, ossia «infatti egli basta a se stesso e a ogni altra cosa essendo ciò che è». 10 Cfr. Plato, Respublica, VI, 509b 8-10, ove il Bene viene definito ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, ossia «al di là dell’essenza», in quanto la supera per dignità e potenza (πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει).
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di δύναμις e ἐνέργεια? La questione è particolarmente complessa. Per quanto riguarda la nozione di δύναμις, occorre in primo luogo osservare che in più luoghi delle Enneadi Plotino afferma che il Principio è δύναμις πάντων, ovvero «potenza di tutte le cose» 11, con riferimento alla sovrabbondante ulteriorità e trascendenza del Principio, da cui deriva e dipende la totalità del reale. A proposito della nozione di ἐνέργεια, nel trattato VI 7, Plotino afferma che il Principio, in considerazione della sua trascendente irrelatezza, è la di là dell’ἐνέργεια 12. Invece altrove, in particolare nel trattato VI 8, con un linguaggio traslato e finalizzato alla persuasione (τῆς πειθοῦς χάριν) 13, egli attribuisce al Principio una sorta di ‘attività originaria e trascendente’, che coincide con la sua stessa volontà, la quale, a sua volta, si può considerare come identica alla sua stessa essenza. Se noi attribuissimo a lui attività, e queste, a loro volta, per così dire, alla sua volontà (…), e, inoltre se le sue attività sono, per così dire, la sua essenza, la sua volontà e la sua essenza saranno la stessa cosa 14.
Si potrebbe dunque dire che nella prospettiva plotiniana la natura, la potenza e l’attività del Principio coincidono in una perfetta identità. Nel trattato VI 8, ricorrendo al linguaggio traslato impiegato, come si è detto, al fine della persuasione, Plotino afferma che nel Bene volontà ed essenza devono coincidere, poiché esso, in quanto Principio autenticamente primo, non può essere molteplice 15. Q uella dell’Uno-Bene è quindi la prima ἐνέργεια, la quale, per la sua trascendenza, è priva di οὐσία e proprio questo aspetto va considerato, per così dire, come la sua stessa sussistenza (αὐτὸ
11 Cfr. ad esempio Plotinus, Enneades, V 1 [10], 7, 9-10; V 3 [49], 15, 3233; V 4 [7], 1, 36: ἡ πάντων δύναμις. 12 Cfr. ibid., VI 7 [38], 17, 10: ἐπέκεινα ἐνεργείας. 13 Ibid., VI 8 [39], 13, 4. Sui diversi registri linguistici impiegati da Plotino in riferimento al Principio, si può vedere ad esempio E. K. Emilsson, Plotinus, London - New York 2017, pp. 64-66. 14 Plotinus, Enneades, VI 8, 13, 5-8: εἰ γὰρ δοίημεν ἐνεργείας αὐτῷ, τὰς δ᾿ ἐνεργείας αὐτοῦ οἷον βουλήσει αὐτοῦ (…) αἱ δὲ ἐνέργειαι ἡ οἷον οὐσία αὐτοῦ, ἡ βούλησις αὐτοῦ καὶ ἡ οὐσία ταὐτὸν ἔσται. 15 Cfr. ibid., 13, 52-53: δεῖ δὲ τοῦτο μὴ πολλὰ εἶναι, συνακτέον ὡς ἓν τὴν βούλησιν καὶ τὴν οὐσίαν.
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τοῦτο τὴν οἷον ὑπόστασιν θετέον) 16. L’energheia insita nel Principio non è qualcosa che gli si aggiunge, poiché in tal caso esso non rimarrebbe uno, bensì gli è in qualche modo intrinseca: si tratta, infatti, di un’attività che nel Principio non è vincolata all’essenza, ma è puramente e assolutamente libera; di conseguenza il Principio, sarà se stesso da se stesso 17. Entro tale prospettiva la libertà, la potenza e l’attività insite nel Principio vengono a coincidere con la sua identità assoluta. Che cosa, dunque, di lui v’è che non sia lui stesso? Che cosa è ciò che egli non attua? E che cosa che non sia opera sua? Se ci fosse qualcosa in lui che non fosse opera sua, non sarebbe puramente incondizionato né capace di ogni cosa 18.
L’Uno-Bene, di conseguenza, è la sua stessa volontà 19, poiché in esso non vi può essere nulla di differente da ciò che esso è 20: ciò significa, in ultima istanza, che in esso, volontà, potenza, atto si identificano completamente. Alla luce di ciò si comprende la con Su ciò cfr. ibid., 20, 9-11. Cfr. ibid., 20, 17-19: ἐνέργεια δὴ οὐ δουλεύσασα οὐσίᾳ καθαρῶς ἐστιν ἐλευθέρα, καὶ οὕτως αὐτὸς παρ᾿ αὑτοῦ αὐτό. Sulla nozione di ἐνέργεια in riferimento al Principio in Plotino cfr. F. Ferrari, Motivi platonici e motivi aristotelici nella concezione della doppia energheia dell’uno in Plotino, in ΕΝΩΣΙΣ ΚΑΙ ΦΙΛΙΑ, unione e amicizia. Omaggio a Francesco Romano, a cura di M. Barbanti - G. R. Giardina R. Manganaro, Catania 2002, [pp. 375-388], pp. 378-380. È opportuno osservare che nel caso del Primo Principio si può parlare di una doppia ἐνέργεια – concezione su cui torneremo brevemente più avanti – in senso, per così dire, analogico, in quanto l’ἐνέργεια interna del Principio coincide con la sua μονή, ossia la sua manenza, il suo permanere nell’identità assoluta che lo contraddistingue, mentre la seconda ἐνέργεια, ossia quella che procede da esso, è già il costituirsi della seconda ipostasi, vale a dire il Νοῦς. 18 Plotinus, Enneades, VI 8, 20, 34-37: τί οὖν αὐτοῦ, ὃ μὴ αὐτός; τί οὖν, ὃ μὴ ἐνεργεῖ; καὶ τί, ὃ μὴ ἔργον αὐτοῦ; εἰ γάρ τι εἴη μὴ ἔργον αὐτοῦ ἐν αὐτῷ, οὐ καθαρῶς ἂν εἴη οὔτε αὐτεξούσιος οὔτε πάντα δυνάμενος. 19 Cfr. ibid., 20, 16: πρῶτον ἄρα ἡ βούλησις αὐτός. 20 Cfr. ibid., 20, 13: οὐχ ἕτερον ἄρα τῆς οὐσίας οὐδέν. Si noti che qui, in base al linguaggio finalizzato alla persuasione di cui si serve Plotino in Enneade VI 8, si afferma che nell’Uno-Bene non v’è nulla di differente dalla sua essenza. Il Principio, in effetti, per Plotino è trascendente rispetto all’οὐσία e all’essere stesso. Si tratta chiaramente di un’espressione con una funzione meramente indicativa, il cui effettivo scopo è quello di suggerire la natura dell’identità assoluta del Principio, nel quale non può sussistere differenza. In effetti, qualche paragrafo prima (cfr. ibid., 14, 42), nel medesimo trattato Plotino afferma che il Principio è primariamente se stesso e se stesso in modo trascendente rispetto all’essere: καὶ γὰρ πρώτως αὐτὸς καὶ ὑπερόντως αὐτός. 16 17
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clusione del trattato VI 8: esso solo è veramente libero (ἀληθείᾳ ἐλεύθερον), poiché non è asservito a se stesso (δουλεῦον ἑαυτῷ), ma è solamente e realmente se stesso (μόνον αὐτὸ καὶ ὄντως αὐτό), mentre ciascuna delle altre cose è se stessa e altro 21. Q uesto implica che anche la sua ποίησις, ossia il suo fare e produrre, sia assoluta e svincolata (ἀπόλυτος), in quanto essa non è finalizzata alla realizzazione di un prodotto, ma coincide con il Principio stesso, che, nella sua assoluta semplicità irrelata, è uno 22. Si potrebbe quindi dire che la natura assoluta, ovvero svincolata da ogni forma di determinazione ontologica, del Principio implica che anche la sua δύναμις e la sua ἐνέργεια siano assoluti, identificandosi fra loro in una perfetta unità. Radicalmente differente è la condizione del νοῦς, ovvero della seconda ipostasi del sistema metafisico plotiniano, coincidente con la totalità della realtà intelligibile. In essa la struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sembra manifestarsi in modo specifico e determinato. Ciò emerge soprattutto da alcuni passi del trattato VI 6, sui numeri 23. In questo testo Plotino intende chiarire in quale ambito del reale venga a sussistere il numero nel suo complesso e, con esso, i numeri nella loro pluralità e determinatezza. La conclusione cui egli perviene è che il numero nella sua totalità, potremmo dire non dispiegata, è nell’essere, ma anteriore agli enti determinati. È la potenza del numero che, una volta determinatasi, ha diviso l’essere e lo ha reso gravido della molteplicità. Tale concezione emerge in un significativo passo del trattato in questione. Q uindi il numero nella sua totalità esisteva prima degli enti stessi. Ma se il numero esisteva prima degli enti, non era gli enti. Piuttosto era nell’Essere, non essendo però numero dell’Essere – infatti l’Essere era ancora uno – ma la potenza propria del numero quando è venuta a sussistere ha diviso l’Essere e lo ha reso, per così dire, gravido della molteplicità.
Su ciò cfr. VI 8, 21, 31-33. Su ciò cfr. ibid., 20, 4-9. 23 Sul rapporto fra la concezione del numero e la struttura della seconda ipostasi in Plotino si veda C. Maggi, Sinfonia matematica. Aporie e soluzioni in Platone, Aristotele, Plotino, Giamblico, Napoli 2010, in partic. pp. 117-120 e 123125. Per un commento del trattato VI 6, cfr. Plotino, Sui numeri. Enneade VI, 6 [34], a cura di C. Maggi, Napoli 2009 (Università degli Studi ‘Suor Orsola Benincasa’. Dissertazioni di dottorato, 2). 21 22
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Infatti, o la sua essenza o il suo atto sarà il numero, e il Vivente in sé e l’Intelletto sarà numero. L’Essere non è forse numero unificato, mentre gli enti numero dispiegato, l’Intelletto numero che si muove in se stesso, e il Vivente, dal canto suo, numero che comprende? Dal momento che l’Essere è venuto dall’Uno, come l’Uno era Uno, così bisogna che esso sia numero 24.
Il numero nel suo insieme, dunque, ossia il numero che precede la pluralità dispiegata e numerabile, è anteriore al determinarsi degli enti e di conseguenza non fa parte di questi ultimi. Esso è piuttosto insito nell’Essere stesso, nella misura in cui quest’ultimo nella prospettiva neoplatonica plotiniana è costituito da un’unità fondamentale, implicita nella nozione di ἓν ὄν, ossia di Uno-che-è, con cui va identificata l’ipostasi del νοῦς. Dal canto suo, tuttavia, il numero nella sua totalità è caratterizzato per Plotino da un’intrinseca δύναμις, ossia da una potenzialità capace di determinare la pluralità complessiva degli enti originandola. Pertanto, esso può al tempo stesso venire concepito come οὐσία, essenza, della realtà intelligibile stessa e sua ἐνέργεια, atto, poiché – si potrebbe dire – l’Essere della seconda ipostasi è, nella sua essenza, eterna attività produttiva della totalità degli enti. Ciò risulta più chiaro anche alla luce della così detta ‘dottrina della doppia ἐνέργεια’, in base alla quale la prima ἐνέργεια di una determinata sostanza consiste nel suo permanere se stessa unitariamente nella sua propria essenza, mentre la seconda ἐνέργεια può essere intesa come un’attività che procede all’esterno di una determinata sostanza e origina qualcosa di diverso, ossia nel caso del νοῦς, in primo luogo, la pluralità dispiegata degli enti intelligibili 25. Con l’espressione τὸ ζῷον αὐτό, ossia ‘il Vivente in sé’, Plotino, sulla base di quanto è affermato 24 Plotinus, Enneades, VI 6 [34], 9, 23-31: πᾶς ἄρα ὁ ἀριθμὸς ἦν πρὸ αὐτῶν τῶν ὄντων. ἀλλ᾿ εἰ πρὸ τῶν ὄντων, οὐκ ἦν ὄντα. ἢ ἦν ἐν τῷ ὄντι, οὐκ ἀριθμὸς ὢν τοῦ ὄντος – ἓν γὰρ ἦν ἔτι τὸ ὄν – ἀλλ᾿ ἡ τοῦ ἀριθμοῦ δύναμις ὑποστᾶσα ἐμέρισε τὸ ὂν καὶ οἷον ὠδίνειν ἐποίησεν αὐτὸν τὸ πλῆθος. ἢ γὰρ ἡ οὐσία αὐτοῦ ἢ ἡ ἐνέργεια ὁ ἀριθμὸς ἔσται, καὶ τὸ ζῷον αὐτὸ καὶ ὁ νοῦς ἀριθμός. ἆρ᾿ οὖν τὸ μὲν ὂν ἀριθμὸς ἡνωμένος, τὰ δὲ ὄντα ἐξεληλιγμένος ἀριθμός, νοῦς δὲ ἀριθμὸς ἐν ἑαυτῷ κινούμενος, τὸ δὲ ζῷον ἀριθμὸς περιέχων; ἐπεὶ καὶ ἀπὸ τοῦ ἑνὸς γενόμενον τὸ ὄν, ὡς ἦν ἓν ἐκεῖνο, δεῖ αὐτὸ οὕτως ἀριθμὸν εἶναι. 25 Per tale concezione cfr. in partic. ibid. V 4 [7], 2, 27-33. Sulla distinzione tra ‘ἐνέργεια interna’ ed ‘ἐνέργεια esterna’ in Plotino si veda Emilsson, Plotinus cit., pp. 48-51.
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nel Timeo di Platone, si riferisce alla totalità viva e vitale dell’uni verso intelligibile, a sua volta identificabile con la seconda ipostasi, il νοῦς, ovvero l’Intelletto. Vivente in sé e Intelletto sono numero, in quanto il Vivente in sé comprende in modo unitario la totalità dispiegata degli enti intelligibili, mentre l’Intelletto è ciò che con il suo movimento, ovvero la sua attività intelligibileintellettiva è origine della natura degli intelligibili e del loro costituirsi. L’Essere, d’altronde, in quanto ἓν ὄν, è numero unificato (ἀριθμὸς ἡνωμένος), proprio perché nella sua unità è anteriore alla pluralità dispiegata degli enti. Esso, in quanto deriva e dipende dall’Uno, che nella sua assoluta semplicità trascende l’Essere stesso, risulta a sua volta determinato come Uno-che-è, nel quale il numero si dà come potenzialità originaria del sussistere della pluralità degli enti. In riferimento alla realtà intelligibile, dunque, la struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια consente a Plotino di descrivere ed esplicitare la natura di tale realtà. A loro volta, Essere – Intelletto – Vivente-in-sé costituiscono nel medesimo trattato VI 6 un’ulteriore struttura triadica in base alla quale risulta complessivamente determinata la natura della seconda ipostasi 26. In tale dimensione l’essenza del νοῦς viene a coincidere perfettamente con la sua attività interna. Per comprendere in modo più chiaro la differenza che intercorre tra l’ἐνέργεια del Principio e quella del νοῦς è opportuno tornare nuovamente a quanto Plotino afferma nel trattato VI 8, nel quale, come si è visto, attraverso un linguaggio figurato e finalizzato alla persuasione, viene descritto il carattere della ποίησις dell’Uno-Bene. Esso si delinea come – per usare un termine impiegato da Plotino proprio in tale trattato – una ὑπερνόησις eterna, ossia una ‘sovra-intellezione’, o anche ‘super-pensiero’, senza inizio e senza fine che trascende il pensiero stesso 27: il Principio, Su ciò cfr. Plotinus, Enneades, VI 6, in partic. 8, 17-22. Cfr. ibid., VI 8, 16, 32. Occorre sottolineare che Plotino in uno dei primi trattati da lui scritti, ossia il brevissimo trattato V 4, il settimo in base all’ordine cronologico, attribuisce al Principio una forma di attività noetica nella quale, però, non sussiste la distinzione fra pensiero (νοῦς) e oggetto di pensiero (νοητόν), che invece è costitutiva della dimensione intelligibile, ossia dell’ipostasi del Νοῦς. Si potrebbe dire che in questo trattato il Principio Primo è inteso come una originaria forma di intellezione, νόησις, che è al contempo intelligibile, νοητόν, ma non in 26 27
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attraverso il proprio atto, ‘fa sussistere’ se stesso come assoluta permanenza (μονή) 28 e come Identità assoluta, trascendente rispetto a ogni forma di determinazione e differenziazione. Per questo il Principio è al contempo anche potenza di tutte le cose, in quanto atto assolutamente originario anteriore e trascendente rispetto alla totalità del reale e all’Essere stesso: la sua attività è rivolta interamente verso se stesso e coincide con la sua stessa natura. Così il Principio si delinea come un’attività in atto posta al di sopra dell’intelletto, del pensiero e della vita 29. La seconda ipostasi, ossia il νοῦς, invece, si potrebbe dire che è complessivamente riconducibile alla struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella misura in cui il suo essere stesso include potenzialmente e produce effettivamente attraverso la propria attività intellettiva la pluralità dispiegata degli enti intelligibili nella loro totalità.
2. La struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Proclo: tra metafisica e teologia Anche nella riflessione ontologico-metafisica di Proclo è possibile rintracciare alcuni significativi riferimenti alla struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Ad esempio, nel suo Commento al «Timeo», egli afferma esplicitamente che in ogni ambito della realtà naturale, la quale deriva e dipende necessariamente dalla dimensione intelligibile, sono presenti in parte οὐσία, in parte δύναμις e in parte ἐνέργεια. Proclo, a tale proposito, ricorre – in modo simile a come fa Plotino per illustrare la propria conce-
base a quell’identità dinamica e relazionale tra pensante e pensato che determina la natura del Νοῦς, bensì in modo originariamente statico e fisso, nella forma di un’identità assoluta. Su ciò cfr. ibid., V 4, 2, 4-42, ove il Principio viene concepito come una forma di intelligibile assolutamente originario e di νόησις che è diversa da quella propria del Νοῦς e che permane in una fissità eterna (ἐν στάσει αἰδίῳ) riconducibile all’identità assoluta propria dell’Uno, il Principio Primo: in tal modo esso permane trascendente rispetto all’essenza (ἐπέκεινα οὐσίας), al pensiero stesso (ἐπέκεινα νοῦ) e, in generale, a tutte le cose (ἐπέκεινα τῶν πάντων), in quanto è anteriore a tutte. Su tale questione, in riferimento alla dottrina della doppia energheia, si veda ancora Ferrari, Motivi platonici cit., pp. 377-378. 28 Su ciò cfr. Plotinus, Enneades, VI 8, 16, 24-33. Su questo passo cfr. Lo Casto, Teleia Zoe cit. (alla nota 5), pp. 242-243. 29 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 8, 16, 35-36: αὐτὸς ἄρα ἐστὶν ἐνέργεια ὑπερ νοῦν καὶ φρόνησιν καὶ ζωήν.
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zione della doppia ἐνέργεια 30 – all’esempio del fuoco: una cosa è la sua essenza/sostanza, in base alla quale al fuoco pertiene specificamente il suo essere fuoco; un’altra è la sua potenza e un’altra ancora il suo atto: esso, infatti, fa seccare alcune cose, altre le scalda, altre ancora le fa mutare in qualche altro modo 31. Certamente il riferimento all’οὐσία a proposito della realtà naturale implica di per sé un rinvio alla dimensione intelligibile, la quale anche in Proclo, in alcuni specifici contesti, assume i caratteri della struttura triadica in questione. Assai indicativo è a questo proposito quanto viene da lui affermato nella prop. 169, con relativa spiegazione, della Elementatio theologica: qui Proclo, riferendosi a ogni singolo intelletto insito nella pluralità dispiegata della dimensione intelligibile, mostra come in essa essenza, potenza e atto coincidano, in considerazione del fatto che intelletto (νοῦς), intelligibile (νοητόν) e pensiero/intellezione (νοήσις) in tale realtà vengono a identificarsi. Ogni intelletto ha essenza, potenza e atto nell’eternità. Infatti, se pensa se stesso e l’intelletto e l’intelligibile sono identici, anche l’intellezione è identica all’intelletto e all’oggetto intelligibile. Infatti, poiché essa è intermedia tra il pensante e il pensato, essendo quelli identici, l’intellezione sarà certo a sua volta identica a entrambi. Ma senza dubbio che l’essenza dell’intelletto sia eterna appare evidente: infatti è tutta quanta insieme simultaneamente. Allo stesso modo è anche l’intellezione, se è vero che è identica all’essenza: in effetti, se l’intelletto è immobile, non potrebbe essere misurato dal tempo né in base all’essere né in base all’attività. Ma essendo questi allo stesso modo, anche la potenza è eterna 32.
Cfr. ibid., V 4, 2, 30-33. Su ciò cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22: ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσία, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ’ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια·καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. 32 Proclus, Elementatio, prop. 169, p. 146, 24-25: πᾶς νοῦς ἐν αἰῶνι τήν τε οὐσίαν ἔχει καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν. εἰ γὰρ ἑαυτὸν νοεῖ καὶ ταὐτὸν νοῦς καὶ νοητόν, καὶ ἡ νόησις τῷ νῷ ταὐτὸν καὶ τῷ νοητῷ· μέση γὰρ οὖσα τοῦ τε νοοῦντος καὶ τοῦ νοουμένου, τῶν αὐτῶν ἐκείνων ὄντων, ἔσται δήπου καὶ ἡ νόησις ἡ αὐτὴ πρὸς ἄμφω. ἀλλὰ μὴν ὅτι ἡ οὐσία τοῦ νοῦ αἰώνιος, ‹δῆλον›· ὅλη γὰρ ἅμα ἐστί. καὶ ἡ νόησις ὡσαύτως, εἴπερ τῇ οὐσίᾳ ταὐτόν· εἰ γὰρ ἀκίνητος ὁ νοῦς, οὐκ ἂν ὑπὸ χρόνου μετροῖτο οὔτε κατὰ τὸ εἶναι οὔτε κατὰ τὴν ἐνέργειαν. τούτων δὲ ὡσαύτως ἐχόντων, καὶ ἡ δύναμις αἰώνιος. 30 31
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Q ui Proclo sembra identificare nell’ambito dell’intelligibile l’οὐ σία con il νοητόν, ovvero l’oggetto del νοῦς, che coincide con il νοῦς stesso, e l’ἐνέργεια con l’attività del νοῦς per il tramite della quale esso pensa se stesso, e infine la δύναμις dell’intelletto con la sua propria νοήσις, che viene infatti definita intermedia (μέση) tra pensante e pensato. Comunque, al di là della specifica determinazione dei termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nell’ambio dell’intelligibile, Proclo, in una prospettiva sostanzialmente simile a quella plotiniana, mette in luce come nell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica sussista una sostanziale identità, garantita e fondata dall’identità fondamentale tra pensante e pensato. Inoltre poiché tale ambito del reale è essenzialmente contraddistinto dal carattere dell’eternità, la quale implica la totale simultaneità unitaria dell’intelletto, in esso non vi può essere effettiva distinzione fra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, che risultano così perfettamente coincidenti senza implicare una loro effettiva differenziazione, diversamente, come si è visto, rispetto a quanto avviene nell’ambito della realtà naturale, la quale, potremmo dire, è intrinsecamente soggetta alla dimensione della temporalità. Proclo, inoltre, secondo una prospettiva filosofico-esegetica per lui usuale, propone anche una concezione e sistematizzazione della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in chiave metafisico-teologica 33 attraverso la rielaborazione di una dottrina contenuta negli Oracoli Caldaici, in cui è presente la fondamentale e originaria triade costituita da Padre – Potenza – Intelletto 34. Proclo riprende tale dottrina e la rielabora alla luce della struttura triadica in questione in un interessante passo del suo Commento all’«Alcibiade I», ove egli se ne serve per illustrare i rapporti fra i diversi livelli divini che costituiscono il reale. 33 Sul tema della ‘teologizzazione del reale’ nel tardo neoplatonismo e in particolare in Proclo rinvio a M. Abbate, Tra esegesi e teologia. Studi sul Neoplatonismo, Milano - Udine 2012 (Askesis. Studi di Filosofia Antica, 3), pp. 77-80. Sulla funzione divina attribuita da Proclo alla δύναμις si veda H. D. Saffrey, Fonction divine de la δύναμις dans la théologie proclienne, in Dunamis nel Neoplatonismo cit. (alla nota 1), pp. 107-120. 34 Sulla questione cfr. N. Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles», London - New York 2021 (Routledge Monographs in Classical Studies), pp. 17-33. Si veda inoltre H. Seng, Un livre sacré de l’Antiquité tardive: les Oracles Chaldaïques, Turnhout 2016 (Bibliothèque de l’École des hautes études. Sciences religieuses, 170), pp. 42-61.
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La potenza, infatti, è intermedia tra l’essenza e l’attività, in quanto è prodotta dall’essenza e, a sua volta, genera l’attività. In secondo luogo, poi bisogna dire che la potenza è assolutamente specifica dei demoni. In ogni ambito, infatti, la potenza ha avuto in sorte una posizione mediana: anche negli intelligibili connette il Padre e l’Intelletto ‘infatti la potenza è con quello, mentre l’Intelletto viene da quello’ 35. Invece negli intellettivi la potenza collega le attività alle essenze; infatti, l’attività è prodotto generato della potenza, mentre l’essenza introduce le potenze da se stessa. E dunque anche i generi che ci sono superiori, che occupano una posizione intermedia tra gli dèi e noi, sono indicati propriamente attraverso la potenza in considerazione del fatto che essa ha avuto in sorte in ogni ambito una posizione intermedia. Infatti, l’autentica essenza e il vero essere si trovano presso gli dèi, mentre la potenza al servizio degli dèi è posta presso i demoni, e, a loro volta, l’attività, che procede fuori attraverso la loro potenza, e la produzione sono insite in noi 36.
Alla luce di questo brano, dunque, emerge con evidenza come Proclo si serva della scansione tra i tre termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια per illustrare la relazione che inter35 Si tratta del fr. 4 degli Oracoli Caldaici secondo l’edizione di Édouard des Places, in La sagesse des Chaldéens: les Oracles chaldaïques, ed. É. des Places, Paris 1971 (Aux sources de la tradition, 3), p. 67 per il testo e p. 124 per il commento. Per l’interpretazione di questo frammento cfr. anche The Chaldean Oracles. Text, Translation and Commentary, ed. by R. Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), pp. 142-143. Si rinvia inoltre alle considerazioni di Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles» cit., pp. 28-29. Proclo prende in esame la triade Padre – Potenza – Intelletto più diffusamente in Proclus Diadochus, Theologia Platonica, III 21, edd. H. D. Saffrey - L. G. Westerink, 6 voll., Paris 1968-1997, III, 1978, pp. 73-78. 36 Id., In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 9ss.: μέση γὰρ ἡ δύναμίς ἐστι τῆς τε οὐσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομένη μὲν ἀπὸ τῆς οὐσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν. δεύτερον δὲ ὅτι καὶ ἄλλως ἡ δύναμις οἰκειοτάτη τοῖς δαίμοσίν ἐστι. πανταχοῦ γὰρ ἡ δύναμις τὸ μέσον κεκλήρωται· καὶ ἐν μὲν τοῖς νοητοῖς συνάπτει τὸν πατέρα καὶ τὸν νοῦν, ῾ ἡ μ ὲ ν γ ὰ ρ δ ύ ν α μ ι ς σ ὺ ν ἐ κ ε ί ν ῳ , ν ο ῦ ς δ ’ ἀ π ’ ἐ κ ε ί ν ο υ ᾽ , ἐν δὲ τοῖς νοεροῖς [scil. ἡ δύναμις] τὰς ἐνεργείας συνδεῖ πρὸς τὰς οὐσίας, ἡ μὲν γὰρ ἐνέργεια γέννημα τῆς δυνάμεώς ἐστιν, ἡ δὲ οὐσία προάγει τὰς δυνάμεις ἀφ’ ἑαυτῆς. καὶ οὖν καὶ τὰ κρείττονα ἡμῶν γένη μέσα τῶν θεῶν ὄντα καὶ ἡμῶν οἰκείως σημαίνεται διὰ τῆς δυνάμεως ὡς μέσην πανταχοῦ τάξιν λαχούσης. ἔστι γὰρ ἡ μὲν ἀληθινὴ οὐσία καὶ τὸ ὄντως εἶναι παρὰ τοῖς θεοῖς, ἡ δὲ δύναμις ἡ ὑπουργὸς τῶν θεῶν παρὰ τοῖς δαίμοσιν, ἡ δὲ ἔξω προϊοῦσα διὰ τῆς δυνάμεως αὐτῶν ἐνέργεια καὶ ποίησις ἐν ἡμῖν. Sull’uso e sul significato del concetto di δύναμις in questo contesto si veda N. Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles» cit., pp. 29-30.
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corre fra la dimensione divina, corrispondente all’οὐσία, quella demonica, corrispondente alla δύναμις, e infine quella umana, corrispondente all’ἐνέργεια e alla ποίησις, ossia all’attività e alla produzione all’interno della dimensione fenomenica. Occorre infine precisare che, comunque, per Proclo, a differenza di Plotino, nessun termine della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια può in alcun modo essere riferito direttamente al Primo Principio, che per la sua assoluta trascendenza è radicalmente anteriore a qualunque forma di determinazione. Ciò emerge in modo lampante nel libro II della Teologia Platonica – il capolavoro procliano – libro specificamente dedicato alla trattazione della natura assolutamente semplice e trascendente dell’Uno-Bene. Q ui Proclo afferma esplicitamente che esso va inteso come anteriore alla δύναμις e all’ἐνέργεια 37. Il Bene, infatti, precede tutte le potenze, tutti gli atti e ogni forma di pluralizzazione e di movimento, poiché il Bene costituisce per ciascuna di queste cose il fine (τέλος) 38.
3. La struttura triadica οὐσία/ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια nella dimensione intelligibile dispiegata: una costante nella riflessione pagana greca Come è emerso da alcuni testi di Plotino e Proclo precedentemente esaminati, una costante nella riflessione neoplatonica relativa alla struttura triadica costituita da essenza – potenza – attività è che essa sembra prendere forma compiuta all’interno della realtà intelligibile perfettamente dispiegata. In effetti, il termine stesso οὐσία, essenza/sostanza, implica necessariamente il riferimento a una dimensione ontologicamente determinata, differenziata e definita. Sulla base della concezione neoplatonica, nella sua forma costitutivamente unitaria l’intelligibile viene inteso, alla luce della seconda ipotesi del Parmenide di Platone, come Unoche-è, al cui interno la determinazione e la differenziazione tra i molteplici enti non risultano compiutamente dispiegate. Come si è visto, tale prospettiva metafisico-teoretica si profila già nel 37 Cfr. Proclus Diadochus, Theologia Platonica, II 7, edd. Saffrey-Westerink cit., II, 1974, p. 51, 7-16. 38 Cfr. ibid., p. 51, 12-15.
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trattato VI 6 delle Enneadi di Plotino 39. Anche nella prospettiva procliana, la sommità unitaria dell’Essere stesso, ossia l’Uno-cheè o anche Monade dell’Essere 40, è caratterizzata da una forma di unità tale da risultare anteriore a ogni forma di specifica differenziazione e determinazione ontologica e, quindi, necessariamente trascendente rispetto alla nozione stessa di οὐσία, intesa come determinazione ontologica specifica. Anche nel pensiero dell’ultimo scolarca della Scuola platonica di Atene, Damascio – che, come Proclo, riprende rielaborandola la triade caldaica Padre (Intelligibile puro), Potenza (Vita intelligibile) e Intelletto/Atto (Intelletto intelligibile) – il livello più alto dell’intelligibile, ossia τὸ ἡνωμένον, l’Unificato, risulta caratterizzato da un’unità sostanzialmente indifferenziata 41. Egli, che nella struttura triadica in questione sostituisce la nozione di οὐσία con quella più generale di ὕπαρξις, ossia ‘realtà effettiva’, in quanto quest’ultima implica un minor grado di determinazione e particolarità, mette in luce come al livello dell’Unificato, sostanzialmente riconducibile alla nozione di Uno-che-è, i tre termini della triade risultino a loro volta unificati, quindi non distinguibili e non differenaziabili fra loro 42. Nella sommità degli enti, infatti, le nozioni di δύναμις e di ἐνέργεια sono assorbite da quella di ὕπαρξις, in quanto nella dimensione dello ἡνωμένον esse costituiscono un’unità indifferenziata 43. L’Unificato si delinea infatti come un’unica contrazione omnicomprensiva posta la di sopra della totalità di tutto ciò che è 44. Per questa sua trascendenza rispetto a ogni determinazione ontologica, esso non risulta nemmeno intelligibile 45. Anche nella prospettiva damasciana, dunque, la struttura traidica οὐσία/ Cfr. supra, alla nota 24. Su tali concetti in Proclo rinvio a M. Abbate, Parmenide e i neoplatonici. Dall’Essere all’Uno e al di là dell’Uno, Alessandria 2010 (Hellenica, 33), pp. 166-175. 41 Su ciò cfr. Damascius, De primis principiis, II ed. L. G. Westerink, 3 voll., Paris 1986-1991, II, 1989, p. 88, 1-4. Per una più ampia e dettagliata trattazione della concezione damasciana relativa alla struttura triadica in oggetto si veda nel presente volume il contributo di I. Grimaldi. 42 Cfr. ibid., p. 88, 1-2: ἀλλ᾿ ἔτι ἡνωμένα ἐκεῖ τὰ τρία, ἐνέργεια, δύναμις, ὕπαρξις. 43 Cfr. ibid., p. 88, 18-20: ἐν δέ γε τῇ ἀκρότητι τῶν ὄντων καταπίνεται ὑπὸ τῆς ὑπάρξεως ἡ δύναμις καὶ ἡ ἐνέργεια, ἓν οὖσα ὅμως. 44 Cfr. ibid., p. 88, 23-24: ἀλλὰ μία παντοῦχός ἐστιν ὑπὲρ πάντα συναίρεσις. 45 Cfr. ibid., p. 89, 7-8.: (…) ὥστε οὐδὲ νοητὸν ἐκεῖνο. 39
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ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια potrebbe esplicarsi solo a partire da quel livello intelligibile che è già compiutamente dispiegato e differenziato 46. Alla luce delle precedenti considerazioni, è possibile concludere che nell’ambito della tradizione neoplatonica greco-pagana la struttura triadica in esame è presente in autori centrali all’interno di tale tradizione e appartenenti a epoche diverse. Essa sembra fornire, come emerge dalla loro riflessione, una sorta di schema concettuale di riferimento per delineare gradi differenti, e via via più specifici, di determinazione ontologica, partendo dalla trascendenza assoluta del Principio primo, posto al di sopra dell’essenza e dell’Essere stesso, fino ad arrivare alla determinazione delle singole realtà naturali. Certamente, all’interno della tradizione neoplatonica, al di là di alcune rilevanti differenze nella riflessione dei suoi più significativi rappresentanti, un aspetto comune e costante è che in tale struttura triadica le nozioni di δύναμις ed ἐνέργεια assumono una valenza profondamente diversa rispetto a quella originariamente aristotelica: esse infatti vengono impiegate entro una prospettiva ontologico-metafisica specifica finalizzata a mostrare come la realtà nel suo complesso sia costituita da gradi via via sempre più specifici di determinazione e pluralità, sulla base di una struttura piramidale, il cui vertice, assolutamente trascendente, è costituito dal Principio e la cui base dalla molteplicità compiutamente dispiegata delle singole entità naturali. Entro tale prospettiva di pensiero, il Principio primo viene inteso come il fondamento primissimo e assolutamente originariο dell’unità e dell’identità stessa di ogni realtà singolarmente determinata, la quale in virtù di tale fondamento è ricondotta, pur nella sua specifica singolarità, all’unità e armonia complessiva del Tutto. Inoltre, la connessione fra i tre termini di questa struttura triadica implica una concezione dinamica della dimensione intelligibile nel suo dispiegarsi: tale dinamicità, sostanzialmente, si riflette nei diversi ambiti della realtà che da quella intelligibile derivano e dipendono.
Sul concetto di δύναμις nel De primis principiis di Damascio si può vedere il contributo di J. Dillon, Some Aspects of Damascius’ Treatment of the Concept of dynamis, in Dunamis nel Neoplatonismo cit., pp. 139-148. 46
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ΟὐΣΊΑ, ΔΎΝΑΜΙΣ ED ἘΝΈΡΓΕΙΑΙ NELL’OPERA DI GIAMBLICO
La triade οὐσία – δυνάμεις – ἐνέργειαι riveste una particolare importanza nel De anima di Giamblico, tanto che nella ricostruzione dell’ordine dei frammenti, conservati nell’Anthologion di Giovanni Stobeo 1, Festugière l’ha tenuta in gran conto. Infatti, secondo la struttura proposta da Festugière 2, e ripresa da Finamore e Dillon 3, il trattato giamblicheo, nella prima sezione, si articola come segue: una prima parte verte sull’οὐσία dell’anima 4, la seconda sulle δυνάμεις 5, la terza sulle ἐνέργειαι o ἔργα 6. Non è questa la sede per entrare nel merito della complessa questione della ricostruzione dell’ordine dei frammenti dell’opera giamblichea 7. Potremo però notare come in realtà Giamblico, in ognuna Cfr. Johannes Stobaeus, Anthologium, ed. C. Wachsmuth - O. Hense, 5 voll., Berlin 1884-1923; in partic. Id., Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, ed. C. Wachsmuth, Berlin 1884, I, in partic. pp. 362-385. 2 Cfr. Iamblichus, De anima, tr. fr. e commento di A.-J. Festugière, in A.-J. Festugière, La révélation d’Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1944-1954 (20062), III: Les doctrines de l’âme, 1953, pp. 177-264. 3 Cfr. Iamblichus, De anima, edd. J. F. Finamore - J. M. Dillon, Leiden Boston - Köln 2002 (Philosophia antiqua, 92). 4 Cfr. Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, ed. Wachsmuth cit., pp. 362-367. 5 Cfr. ibid., pp. 367-370. 6 Cfr. ibid., pp. 370-375. 7 A riguardo, mi sia consentito rinviare a un mio articolo, in cui ho affrontato tale questione: La struttura del «De anima» di Giamblico, in «Studia graecoarabica», 2 (2012), pp. 99-128. Le considerazioni lì espresse sono alla base del riordinamento dei frammenti di Stobeo proposto in L. I. Martone, Giamblico, 1
La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127953 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 97-119 ©
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di queste tre parti, tratta sempre anche delle altre due, poiché esse si implicano l’un l’altra e si chiariscono a vicenda, in quanto possono essere colte dall’uomo solo «in un modo conforme all’Uno» (μονοειδῶς, ἑνοειδῶς). Il metodo stesso dell’indagine filosofica di Giamblico si basa su questo presupposto, come testimonia Proclo 8 nel Commento all’«Alcibiade»: Anche il divino Giamblico afferma che contemplare la sostanza dei demoni e degli esseri interamente superiori a noi è più difficile per quelli che non hanno del tutto purificato l’intelletto dell’anima, in quanto anche vedere la sostanza dell’anima non è assolutamente facile (infatti solo Timeo rivelò tutta quanta la sostanza dell’anima: «poiché essa è interamente dappertutto, necessita di un’esposizione divina e lunga», come dice anche Socrate nel Fedro); al contrario, sia vedere sia spiegare le loro potenze è più facile. In effetti, dagli atti, dei quali le potenze sono direttamente le madri, percepiamo anche le loro sostanze: la potenza è intermedia tra la sostanza e l’atto, in quanto da un lato è prodotta dalla sostanza, dall’altro produce a sua volta l’atto 9.
Non è possibile per l’uomo comune, che non si è ancora purificato, conoscere gli enti divini come la sostanza (οὐσία) dell’anima; è più facile invece coglierne la potenza e la forza (δυνάμεις), perché esse generano le attività (ἐνέργειαι), e dalla natura degli effetti si può risalire alla natura della causa. De anima. I frammenti, la dottrina, Pisa 2014 (Greco, Arabo, Latino. Studi, 3). I passi del De anima e le traduzioni sono qui citati secondo questa monografia. 8 Com’è noto, dato il carattere dossografico dell’antologia di Stobeo, non è possibile ricostruire il trattato di Giamblico senza far riferimento alle citazioni riportate dai filosofi successivi, soprattutto da Proclo, Simplicio e Prisciano. 9 Proclus Diadochus, In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 1-12: ὃ καὶ ὁ θεῖος Ἰάμβλιχός φησιν, ὅτι τὰς μὲν ὑπάρξεις τῶν δαιμόνων καὶ ὅλως τῶν κρειττόνων ἡμῖν θεωρῆσαι χαλεπώτατόν ἐστι τοῖς μὴ τελέως ἐκκεκαθαρμένοις τὸν τῆς ψυχῆς νοῦν, ὅπου γε καὶ ψυχῆς οὐσίαν κατιδεῖν οὐ ῥᾴδιον παντί (μόνος γοῦν ὁ Τίμαιος ἅπασαν αὐτῆς τὴν οὐσίαν ἐξέφηνεν· οἷον γάρ ἐστι πάντῃ πάντως θείας καὶ μακρᾶς δεῖται διηγήσεως, ὥς πού φησι καὶ ὁ ἐν τῷ Φαίδρῳ Σωκράτης)· τὰς δὲ δυνάμεις αὐτῶν καὶ ἰδεῖν καὶ διασαφῆσαι ῥᾷον. ἀπὸ γὰρ τῶν ἐνεργειῶν, ὧν εἰσὶ προσεχῶς αἱ δυνάμεις μητέρες, καὶ αὐτῶν ἐκείνων ἐπαισθανόμεθα· μέση γὰρ ἡ δύναμίς ἐστι τῆς τε οὐσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομένη μὲν ἀπὸ τῆς οὐσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν. La traduzione è mia.
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Q uesto modo di procedere è chiaramente espresso da Giamblico stesso nel suo De mysteriis 10. Sin dalle prime pagine dell’opera, Giamblico chiarisce infatti le sue indicazioni di metodo: non è corretto ragionare sull’esistenza degli dèi, per ammetterla o per metterla in dubbio – come fa Porfirio – perché «la conoscenza degli dèi coesiste innata nella nostra stessa sostanza» 11, noi siamo circondati e riempiti dalla presenza del divino 12. La conoscenza razionale presuppone invece una separazione tra ciò che conosce e ciò che è conosciuto 13, e questa non si adatta alla connessione intima che ci unisce agli dèi, la quale «è stata fissata sempre in atto in modo conforme all’Uno» 14. Giamblico fa lo stesso discorso anche a proposito delle stirpi superiori che seguono gli dèi, cioè i demoni, gli eroi e le anime pure 15. A loro ci si deve rivolgere solo in un modo conforme all’Uno 16. L’anima umana, quando persegue la sostanza divina, non deve servirsi di congetture, opinioni o sillogismi, che hanno origine dal tempo, ma di intuizioni pure e perfette, che ricevette dagli dèi sin dall’eternità 17. Per questo motivo, Porfirio sbaglia quando cerca di comprendere i diversi generi di esseri divini e le loro proprietà (ἰδιώματα) 18 a partire da una categoria corporea. Infatti Porfirio ha realizzato una distinzione negli enti divini a partire dai loro atti (ἐνέργειαι), distinguendo dei movimenti attivi o passivi (τῶν δραστικῶν ἢ παθητικῶν
La questione della dubbia paternità giamblichea di quest’opera è ormai superata; cfr. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Le témoignage de Saint Augustin dans la reconstitution de la «Lettre à Anébon l’égyptien» par Porphyre, in «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscription», 153.1 (2009), pp. 163-193. 11 Iamblichus, De mysteriis, I, 3, edd. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Paris 2013, p. 5, 14-16: συνυπάρχει γὰρ ἡμῶν αὐτῇ τῇ οὐσίᾳ ἡ περὶ θεῶν ἔμφυτος γνῶσις. 12 Cfr. ibid., p. 6, 9-10: περιεχόμεθα γὰρ ἐν αὐτῇ μᾶλλον ἡμεῖς καὶ πληρούμεθα ὑπ’ αὐτῆς. 13 Cfr. ibid., p. 6, 1-2: διείργεται γὰρ αὕτης πως ἑτερότητι. 14 Ibid., p. 6, 6-7: ἕστηκε γὰρ ἀεὶ κατ’ἐνέργειαν ἑνοειδῶς. 15 Cfr. ibid., p. 6, 12-14: ὁ δὲ αὐτός ἐστί μοι λόγος πρὸς σὲ καὶ περὶ τῶν συνεπομένων θεοῖς κρειττόνων γενῶν, δαιμόνων φημὶ καὶ ἡρώων καὶ ψυχῶν ἀχράντων. 16 Cfr. ibid., p. 6, 23: μονοειδῶς δὲ αὐτῶν ἀντιλαμβάνεσθαι δεῖ. 17 Cfr. ibid., p. 7, 2-8: οὕτω καὶ ἡ ἀνθρωπίνη ψυχὴ κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ γνώσει πρὸς αὐτοὺς συναπτέσθω, εἰκασίᾳ μὲν ἤ δόξῃ ἤ συλλογισμῷ τινι, ἀρχομένοις ποτὲ ἀπὸ χρόνου, μηδαμῶς τὴν ὑπὲρ ταῦτα μάντα οὐσίαν μεταδιώκουσα, ταῖς δὲ καθαραῖς καὶ ἀμέμπτοις νοήσεσιν αἷς εἴληφεν ἐξ ἀιδίου παρὰ τῶν θεῶν. 18 Cfr. ibid., 8, p. 22, 5ss. 10
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κινήσεων) 19 o degli accidenti (παρεπομένα) 20. Pertanto, Giamblico afferma: La tua domanda procede in modo incompleto: bisognava chiedersi infatti quali proprietà sono loro proprie, prima secondo la sostanza, poi secondo la potenza, e solo dopo secondo l’atto; invece, chiedendo ‘con quali proprietà’, hai parlato solo degli atti: pertanto, tu ricerchi la differenza in quelle stirpi solo in relazione agli aspetti finali, mentre lasci inesplorati proprio gli elementi che sono i primissimi e i più importanti della loro varietà 21.
Proclo dimostra di far tesoro di queste indicazioni giamblichee nel suo Commento al «Timeo»: La seconda questione è di dividere come conviene l’intera psicogonia. Faremo dunque ciò, prendendo le mosse di nuovo a partire dai fatti. In ogni natura ci sono sostanza (οὐσία), potenza (δύναμις) e operazione (ἐνέργεια). E infatti del fuoco una cosa è l’essenza, secondo la quale appartiene al fuoco l’essere stesso del fuoco, un’altra è la potenza, un’altra ancora l’operazione: infatti esso secca, riscalda, causa cambiamenti diversi, e lo stesso può dirsi di altre cose. Bisogna dunque che anche dell’anima, una cosa sia la sostanza, un’altra la potenza, un’altra ancora l’operazione e, se si vuole comprenderla e teorizzarla tutta quanta, bisogna parlare di tutto questo. Pertanto la psicogonia sarà articolata in tre capitoli principali, uno sulla sostanza dell’anima, l’altro sulla potenza, l’altro ancora sull’operazione 22. 19 Cfr. ibid., 4, p. 8, 21-24: πρόσκειται δὲ δὴ αὐτόθι καὶ τὸ τῶν δραστικῶν ἢ παθητικῶν κινήσεων, ἥκιστα προσήκουσαν ἔχον διαίρεσιν εἰς διαφορὰν τῶν κρειττόνων γενῶν («Q ui si aggiunge la tua questione sui movimenti attivi o passivi, la quale implica una divisione che non è assolutamente adatta alle stirpi superiori», traduzione mia). 20 Cfr. ibid., p. 9, 22. 21 Ibid., p. 8, 12-20: ἡ δ᾽ ἐρώτησις ἀτελῶς πρόεισιν· ἔδει μὲν γὰρ κατ᾽ οὐσίαν πρῶτον, ἔπειτα κατὰ δύναμιν, εἶθ᾽οὕτω κατ᾽ ἐνέργειαν, πυνθάνεσθαι τίνα αὐτῶν ὑπάρχει τὰ ἰδιώματα· ὡς δὲ νῦν ἠρώτησας τίσιν ἰδιώμασιν, ἐνεργειῶν μόνον εἴρηκας· ἐπὶ τῶν τελευταίων ἄρα τὸ διάφορον ἐν αὐτοῖς ἐπιζητεῖς, τὰ δὲ πρώτιστα αὐτῶν καὶ τιμιώτατα ὡσπερεὶ στοιχεῖα τῆς παραλλαγῆς ἀφῆκας ἀδιερεύνητα (traduzione mia). 22 Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22: δεύτερον ἦν τὸ διελέσθαι τὴν ὅλην ψυχογονίαν κατὰ τρόπον. τοῦτο οὖν μετὰ ταῦτα ποιῶμεν, ἀπὸ τῶν πραγμάτων πάλιν τὴν ἀρχὴν λαβόντες. ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσὶα, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ᾽ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ
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Dunque, secondo Giamblico, la sostanza divina, a cui anche l’anima appartiene, si può cogliere solo in modo intuitivo e innato; quando si cerca di sottoporla a un’indagine razionale, come fa Porfirio, si finisce col cogliere solo gli aspetti finali, quelli relativi agli atti, perché questi sono più evidenti per l’uomo non ancora purificato dai legami con il corpo; invece, gli aspetti più importanti, quelli relativi alla sostanza e alla potenza degli dèi, richiedono un’indagine di altra natura, che appunto procede attraverso intuizioni pure e perfette. Ecco perché Giamblico e poi Proclo prevedono questa distinzione triadica, che quindi va intesa come ripartizione di metodo per parlare in modo completo degli enti divini – non a caso infatti tali puntualizzazioni compaiono nelle parti iniziali delle opere considerate – tenendo però presente che ciascun componente della triade presuppone sempre gli altri due.
1. Il «De anima» di Aristotele come fonte di Giamblico? Secondo alcuni studiosi, le origini della distinzione fra οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι o ἔργα, riscontrabile nelle opere di Giamblico, risalgono al De anima di Aristotele 23. I passi indicati a sostegno di tale affermazione sono i seguenti. Per quanto concerne il rapporto οὐσία/δυνάμεις: Da quanto precede risulta dunque chiaro che l’anima è un certo atto ed una certa essenza di ciò che ha la capacità di essere di una determinata natura 24. πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. δεῖ δὴ οὖν καὶ τῆς ψυχῆς ἄλλην μὲν εἶναι τὴν οὐσίαν, ἄλλην δὲ τὴν δύναμιν, ἄλλην δὲ τὴν ἐνέργειαν, καὶ τὸν πᾶσαν αὐτὴν ἑλεῖν καὶ θεωρῆσαι βουλόμενον χρὴ περὶ ἁπάντων εἰπεῖν. ἔσται ἄρα καὶ τῆς ψυχογονίας τρία πρῶτα κεφάλαια, τὸ μὲν περὶ οὐσίας αὐτῆς, τὸ δὲ περὶ δυνάμεως, τὸ δὲ περὶ ἐνεργείας (traduzione mia). 23 Tale opinione è espressa, per esempio, in Festugière, La Révélation cit. (alla nota 2), p. 190, nota 1, a cui rinvia anche P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), I, p. 268, nota 10 (tr. it., Milano 1993, p. 235, nota 147). Anche Daniela Taormina la fa risalire ad Aristotele: cfr. D. P. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico, Firenze 1990 (Symbolon, 10), p. 17, nota 3; infine cfr. Giamblico, I misteri degli Egiziani, a cura di C. Moreschini, Milano 2003, p. 67, nota 26. 24 Aristoteles, De anima, II 2, 414a 27-29 (tr. it., Milano 2001, p. 127): ὅτι μὲν οὖν ἐντελέχεια τίς ἐστι καὶ λόγος τοῦ δύναμιν ἔχοντος εἶναι τοιούτου, φανερὸν ἐκ τούτων.
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Per il rapporto δυνάμεις/ἐνέργειαι viene indicato il passo seguente, tratto dalla parte iniziale dell’esposizione sulle facoltà: Chi intende effettuare una ricerca sulle facoltà dell’anima deve stabilire che cos’è ciascuna di esse (…). Ma se bisogna dire che cos’è ciascuna di queste facoltà, ad esempio che cos’è la facoltà intellettiva o sensitiva o nutritiva, prima ancora si deve dire che cos’è l’intellezione e che cos’è la percezione, poiché le attività e le funzioni dal punto di vista logico sono anteriori alle facoltà 25.
La questione era stata già introdotta da Aristotele nel primo libro: Difficile è anche determinare quali di queste parti siano essenzialmente distinte tra loro, e se si debbano esaminare prima le parti o le loro attività (…) 26.
Tuttavia, nel primo passo considerato, è abbastanza agevole notare che il termine οὐσία non compare affatto 27; δύναμις inoltre è preso nel passo in due significati diversi: 1) come potenza, e non come facoltà: il senso della frase riguarda il fatto che l’anima in quanto tale è atto di un corpo che deve avere una potenza determinata verso quell’atto, ovvero di un corpo che possiede la vita in potenza. In gioco è dunque il rapporto anima-corpo, secondo ciò che comporta la definizione (λόγος) dell’anima: essere atto (ἐντελέχεια) di un corpo che ha la vita in potenza (δυνάμει); 2) la seconda occorrenza di δύναμις al genitivo plurale è ambigua: potrebbe sì essere resa con ‘facoltà’, ma non bisognerebbe riferire ‘suddette’ a ciò che precede – visto che Aristotele, come si è detto, non stava parlando qui di facoltà – ma al massimo a quanto dice diversi passi prima 28, dove spiega che l’essere animato si distingue Ibid., 4, 415a 14-20 (tr. it., p. 133): ἀναγκαῖον δὲ τὸν μέλλοντα περὶ τούτων (θρεπτικόν) σκέψιν ποιεῖσθαι λαβεῖν ἕκαστον αὐτῶν τί ἐστιν (…) εἰ δὲ χρὴ λέγειν τί ἕκαστον αὐτῶν, οἷον τί τὸ νοητικὸν ἢ τὸ αἰσθητικὸν ἢ τὸ θρεπτικόν, πρότερον ἔτι λεκτέον τί τὸ νοεῖν καὶ τί τὸ αἰσθάνεσθαι· πρότεραι γάρ εἰσι τῶν δυνάμεων αὶ ἐνέργειαι καὶ αἱ πράξεις κατὰ τὸ λόγον (…). 26 Ibid., I 1, 402b 10-12 (tr. it., p. 57): χαλεπὸν δὲ καὶ τούτων διορίσαι ποῖα [scil. μόρια] πέφυκεν ἕτερα ἀλλήλων, καὶ πότερον τὰ μόρια χρὴ ζητεῖν πρότερον ἢ τὰ ἔργα αὐτων (…). 27 La traduzione di Movia, che considera equivalenti di οὐσία ἐντελέχεια o λόγος appare, direi, piuttosto imprecisa e fuorviante. 28 Cfr. ibid., II 2, 413a 25ss. 25
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dall’inanimato per il fatto che vive e che ha facoltà in virtù delle quali cresce 29. Anche nei passi successivi non compare οὐσία, né alcun termine equivalente a ‘essenza’ o ‘sostanza’. Il discorso verte invece sulle parti, e cioè se parti diverse possano avere funzioni diverse. Il primo dei due passi riguarda il rapporto δυνάμεις – ἐνέργειαι e postula l’anteriorità logica delle attività rispetto alle facoltà. Ciò è assolutamente coerente nel metodo aristotelico, ma crea qualche problema in impianti conoscitivi differenti, come quelli di alcuni Neoplatonici (come si è visto). Se poi si procede nel trattato aristotelico di qualche altra linea, si legge: Ma se questo è vero, ancor prima che le attività si devono prendere in considerazione gli oggetti correlativi, poiché è di questi anzitutto, e per lo stesso motivo, che si deve trattare, ossia dell’alimento, del sensibile e dell’intelligibile 30.
Aristotele sottolinea l’anteriorità degli ἀντικείμενα di tali attività: dunque, la priorità non viene in questo caso data dall’anima come essenza rispetto alle facoltà e alle attività, ma agli oggetti delle facoltà (il cibo, il sensibile e l’intelligibile), poi alle attività, per arrivare infine alle facoltà. Anche il seguente passo del primo libro sembra confermare questa stessa impostazione: Sembra che non solo la conoscenza di che cos’è una cosa sia utile a cogliere le cause degli accidenti delle sostanze (…), ma anche, viceversa, che gli accidenti contribuiscano in larga misura a conoscere che cos’è una cosa. Q uando infatti siamo in grado di dar conto, in conformità all’esperienza, di tutti (o della maggior parte) gli accidenti, allora potremo parlare dell’essenza nel modo più corretto 31. 29 Anche in questo caso dunque la traduzione di Movia appare fuorviante; il passo aristotelico può essere utile ai nostri scopi solo se si traduce utilizzando ‘essenza’ e ‘facoltà’, ma a quanto pare Aristotele qui sta parlando di altro, anche se è ovvio che ammette una distinzione di δυνάμεις. 30 Ibid., 4, 415a 20-22 (tr. it., p. 133): εἰ δ᾽ οὕτως, τούτων δ᾽ ἔτι πρότερα τὰ ἀντικείμενα δεῖ τεθεωρηκέναι, περὶ ἐκείνων πρῶτον ἂν δέοι διορίσαι διὰ τὴν αὐτὴν αἰτίαν, οἷον περὶ τροφῆς καὶ αἰσθητοῦ καὶ νοητοῦ. 31 Ibid., I 1, 402b 16-25 (tr. it., p. 59): ἔοικε δ᾽ οὐ μόνον τὸ τί ἐστι γνῶναι χρήσιμον εἶναι πρὸς τὸ θεωρῆσαι τὰς αἰτίας τῶν συμβεβηκότων ταῖς οὐσίαις… ἀλλὰ καὶ ἀνάπαλιν τὰ συμβεβηκότα συμβάλλεται μέγα μέρος πρὸς τὸ εἰδέναι τὸ τί ἐστιν· ἐπειδὰν
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Mi sembra chiaro dunque che il ragionamento di Aristotele procede non dall’essenza dell’anima alle attività, passando per le facoltà, ma dagli oggetti alle facoltà, passando per le attività; pertanto non è possibile ravvisare in quest’opera una triade come quella da noi cercata. Inoltre, nei passi giamblichei analizzati nel paragrafo precedente, è evidente l’utilizzo del lessico aristotelico in parole come συλλογισμός, διαίρεσις, ἰδιώματα o παρεπομένα, ma abbiamo visto come quelle parole sono riferite tutte al discorso di Porfirio, che Giamblico critica e supera. Non è dunque Aristotele, a mio avviso, la fonte diretta del pensiero di Giamblico. I termini οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι si ritrovano nelle scuole filosofiche di epoche diverse, ma non nella forma completa di una triade. Prendiamo in considerazione alcuni passi indicati ancora da Festugière 32. In alcuni casi si trovano soltanto i due termini οὐσία e δυνάμεις (quest’ultimo termine, peraltro, è spesso sostituito con μέρη, termine non perfettamente equipollente all’altro), ad esempio in Aezio (i-ii sec.) 33, Alessandro di Afrodisia (ii-iii sec.) 34 e Tertulliano (ii-iii sec.) 35. Il metodo giamblicheo (sopra delineato) riecheggia invece nella sua forma completa non solo in Proclo (come si è visto), ma anche negli scolii al Fedro di Ermia: Avendo parlato della sostanza dell’anima nel discorso sull’immortalità, e delle sue potenze nella ricerca sulle sue idee, voglio ora parlare del discorso rimanente, e cioè anche delle sue attività (…) 36. γὰρ ἔχωμεν ἀποδιδόναι κατὰ τὴν φαντασίαν περὶ τῶν συμβεβηκότων, ἢ πάντων ἢ τῶν πλείστων, τότε καὶ περὶ τῆς οὐσίας ἕξομεν λέγειν κάλλιστα. 32 Cfr. Festugière, La révélation cit., p. 190, n. 1. 33 Cfr. Aëtius, Placita, IV, 3, in Doxographi Graeci, ed. H. Diels, Berlin 1879 (repr. 1958), p. 387, 9-10: τίς ἠ οὐσία αὐτῆς, e ibid., IV, 4, p. 389, 8: περὶ μερῶν τῆς ψυχῆς. 34 Cfr. Alexandrus Aphrodisiensis, De anima, ed. I. Bruns, Berlin 1887 (CAG. Supplementum, 2.1), p. 27, 1-3: τίς μὲν οὖν ἡ τῆς ψυχῆς οὐσία, καὶ τίνα τὰ ἑπόμενα αὐτῇ (…) δεδηλώκαμεν· ἀκόλουθον δὲ ἑξῆς περὶ τῶν μερῶν αὐτῆς εἰπεῖν, πόσα τε καὶ τίνα. 35 Cfr. Q uintus Septimius Florens Tertullianus, De anima, XIV, 2, PL 2, [641-752], 668B, ed. J. H. Waszink, Leiden - Boston 2010 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 100), p. 17, 28: «Dividitur autem in partes»; 3, 668B, p. 18, 4-5: «Huiusmodi autem non tam partes animae habebuntur quam vires et efficaciae et operae» (affermazione che viene introdotta dopo aver trattato la natura dell’anima, nei §§ 5-13). 36 Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum scholia, ed. P. Couvreur, Paris 1901 (repr. 1971), p. 129, 18-20: εἰπὼν περὶ τῆς οὐσίας τῆς ψυχῆς ἐν τῷ περὶ
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2. La triade οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι nel «De anima» di Giamblico La stretta correlazione tra gli elementi della triade, presente nel pensiero giamblicheo, non ha solo un valore metodologico, ma si applica nel tardo Neoplatonismo sia in ambito psicologico sia in ambito metafisico. Com’è noto, la realtà è concepita dai Neoplatonici come una gerarchia di cause nella quale ogni membro è atto a ricevere una quantità di potenza ridotta rispetto al termine immediatamente precedente: si produce così una gerarchia continua di potenze ascendenti a partire dalla materia – la semplice potenzialità che si situa al di sotto di qualsiasi atto –, sino al primo principio – la potenza generatrice di tutti gli esseri, superiore all’ἐνέργεια che la genera. Le δυνάμεις dell’anima, così come l’οὐσία e le ἐνέργειαι (o ἔργα) dipendono, dunque, dalla regione del cosmo in cui l’anima stessa si trova e sono in stretta correlazione con il posto che l’anima occupa all’interno della più complessa gerarchia degli esseri. Nel diciottesimo capitolo del De anima, infatti, Giamblico presenta la propria teoria basandola sulla necessità di porre un’importante distinzione: Ci sarebbe anche un’altra opinione da non respingere: dividendo gli atti secondo i generi e le specie di anime, essa insegna che gli atti delle anime universali sono perfetti, quelli delle anime divine puri e immateriali, quelli delle anime demonia che efficaci, quelli delle anime eroiche grandi, quelli delle anime poste negli animali e negli uomini sono di natura mortale, e così di seguito per gli altri. Definiti quelli, anche le cose congiunte a essi riceveranno l’identica distinzione 37.
ἀθανασίας λόγῳ, εἰπὼν δὲ καὶ περὶ τῶν δυνάμεων αὐτῆς ἐν τῷ περὶ τῆς ἰδέας αὐτῆς σκέμματι, λοιπὸν βούλεται νῦν εἰπεῖν καὶ περὶ τῶν ἐνεργειῶν αὐτῆς (traduzione mia). 37 Iamblichus, De anima, 18 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 13-20, ed. Wachs muth cit. [alla nota 1], p. 372, 15-22; ed. Martone cit. [alla nota 7], pp. 116-117): γένοιτο δὲ κἂν ἄλλη δόξα οὐκ ἀπόβλητος, ἡ κατὰ γένη καὶ εἴδη τῶν ψυχῶν ἄλλα μὲν τὰ τῶν ὅλων παντελῆ, ἄλλα δὲ τὰ τῶν θείων ψυχῶν ἄχραντα καὶ ἄυλα, ἕτερα δὲ τὰ τῶν δαιμονίων δραστήρια, τὰ δὲ τῶν ἡρωικῶν μεγάλα, τὰ δὲ τῶν ἐν τοῖς ζῴοις καὶ τοῖς ἀνθρώποις θνητοειδῆ καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως ἔργα διαιρουμένη. τούτων δὴ διωρισμένων καὶ τὰ ἐχόμενα τούτων τὴν ὁμοίαν λήψεται διάκρισιν.
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Giamblico pone dunque, alla base del suo ragionamento, un principio logico: definiti i generi e le specie di anime, anche tutte «le cose congiunte a essi», come le facoltà e le attività, «riceveranno l’identica distinzione». Il vertice della gerarchia è occupato dall’anima ipercosmica. Essa è trascendente, indipendente, ha autorità su tutte le cose, non è partecipata; definita da Giamblico anche come ‘anima prima’, è Monade al di sopra delle anime encosmiche, non appartiene a nessun corpo e non è ancora in nessun rapporto con il corpo, ma è al contempo presente in tutte le cose e separata da tutte le cose 38. Da quest’anima ipercosmica procedono, in linea orizzontale, due altre anime, intellettive e partecipi dell’intelletto divino. Q uesta processione è descritta dettagliatamente in rapporto al Timeo di Platone: dall’anima unica e ipercosmica viene tratta una diade di anime 39. Q ueste due anime sono reciprocamente legate, sussistono l’una nell’altra, ma nonostante ciò si distinguono l’una dall’altra e ognuna di esse conserva la propria purezza. Create dal Demiurgo prima della stessa creazione del cielo, sono intellettive e partecipano dell’intelletto divino poiché tale diade viene introdotta nella diade intellettiva che, per essenza, è superiore alle anime stesse. L’essenza dell’anima dell’universo viene tratteggiata da Giamblico nel De mysteriis: L’anima universale, non essendo contenuta in nessuna specie particolare, è vista come un fuoco senza forma che manifesta, 38 Cfr. Iamblichus, In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 50, ed. J. M. Dillon, Leiden 1973 (Philosophia antiqua, 23), p. 156, 19-27 (= Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 171E, ed. Diehl cit., II, p. 105, 15-28): ὁ δὲ δὴ φιλόσοφος Ἰάμβλιχος ἀξιοῖ ψυχῆν ἀκούειν ἡμᾶς τὴν ἐξῃρημένην καὶ ὑπερκόσμιον καὶ ἀπόλυτον καὶ πᾶσιν ἐνεξουσιάζουσαν· μηδὲ γὰρ εἶναι περὶ τῆς κοσμικῆς τῷ Πλάτωνι τὸν λόγον, ἀλλὰ περὶ τῆς ἀμεθέκτου ψυχῆς καὶ ὑπὲρ πάσας τὰς ἐγκοσμίας ὡς μονάδος τεταγμένης· εἶναι γὰρ τοιαύτην τὴν πρώτην ψυχὴν καὶ τὸ μέσον ἐπὶ ταύτης ὡς πᾶσιν ὁμοίως παρούσης, διὰ τὸ μηδενὸς εἶναι σώματος μηδὲ ἐν σχέσει πω γεγονέναι κατὰ μηδένα τρόπον, καὶ πάντα ὁμοίως ψυχούσης καὶ πάντων ἴσον ἀφεστώσης· οὐ γὰρ ἄλλων μὲν ἧττον, ἄλλων δὲ μᾶλλον ἀφέστηκεν ἄσχετος γάρ ἀλλ᾽ ὁμοίως ἁπάντων, εἰ καὶ μὴ πάντα τὸν αὐτὸν αὐτῆς ἀφεστήκοι τρόπον· ἐν γὰρ τοῖς μετέχουσι τὸ μᾶλλόν ἐστι καὶ ἧττον. 39 Cfr. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit., p. 36: «La scissione infatti indica la divisione demiurgica che, nell’identità e nella perfezione, progredisce operando risultati identici secondo i numeri posteriori, mentre la processione che si svolge dal Demiurgo verso il basso indica una rottura verticale del divino».
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intorno al cosmo intero, l’anima del tutto, che è intera, unica, indivisa e senza forma 40.
Al di sotto, si trovano le anime divine, composte da generi che hanno una sovreminenza trascendente: Il divino Giamblico distingue tra gli esseri perfetti la stirpe, prescelta come eminente, delle anime degli dèi 41.
Sono le anime degli dèi visibili, cioè degli astri; esse sono intelligenti e occupano i pianeti e le sette sfere celesti. Q ueste anime sono presentate da Giamblico nel ventiseiesimo capitolo del De anima: Plotino, Porfirio e Amelio fanno passare tutte le anime allo stesso modo dall’anima sopraceleste ai corpi. Tuttavia il Timeo sembra rappresentare molto diversamente la prima venuta all’esistenza delle anime: il Demiurgo le dissemina fra tutte le classi superiori, attraverso tutto il cielo, in tutti gli elementi dell’Universo. Così la semina delle anime da parte del Demiurgo sarà ripartita fra le creazioni divine e coesisterà con esse la prima processione delle anime, che ha con sé i ricettacoli per le anime stesse: l’Anima universale [avrà per ricettacolo] il mondo intero, le anime degli dèi visibili le sfere celesti, quelle degli elementi gli elementi stessi, ai quali anche sono state assegnate delle anime con un’estrazione a sorte per ognuna. Da questi luoghi dunque avvengono tutte le discese delle anime, a partire da tutte le estrazioni a sorte, come intende dimostrare saggiamente l’ordinamento del Timeo 42. 40 Iamblichus, De mysteriis, II, 7, edd. Saffrey-Segonds cit. (alla nota 11), p. 63, 13-17: ψυχῆς δὲ τῆς μὲν ὅλης καὶ ἐν οὐδενὶ τῶν κατὰ μέρος εἴδει κατεχομένης, πῦρ ὁρᾶται ἀνείδεον περὶ ὅλον τὸν κόσμον ἐνδεικνύμενον τὴν ὅλην καὶ μίαν καὶ ἄτομον καὶ ἀνείδεον τοῦ παντὸς ψυχήν (traduzione mia). 41 Id., In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 83, ed. Dillon cit., p. 196, 6-7 (= Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, IV, 318B, ed. Diehl cit., III, 1906, p. 257, 26-28): καὶ τὸν θεῖον Ἰάμβλιχον ἐξῃρημένην ὑπεροχὴν ἀπονέμοντα τοῖς συμπληρωτικοῖς τῶν θείων ψυχῶν γένεσιν (traduzione mia). 42 Iamblichus, De anima, 26 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 39, 6-19, ed. Wachsmuth cit., p. 377, 13-29; ed. Martone cit., pp. 128-131): Πλωτῖνος μὲν καὶ Πορφύριος καὶ Ἀμέλιος ἀπὸ τῆς ὑπὲρ τὸν οὐρανὸν ψυχῆς καὶ πάσας ἐπίσης εἰσοικίζουσιν εἰς τὰ σώματα. πολὺ δὲ διαφερόντως ἔοικεν ὁ Τίμαιος τὴν πρώτην ὑπόστασιν τῶν ψυχῶν ποιεῖν, τὸν δημιουργὸν διασπείροντα περὶ πάντα μὲν τὰ κρείττονα γένη, καθ’ ὅλον δὲ τὸν οὐρανόν, εἰς ὅλα δὲ τὰ στοιχεῖα τοῦ παντός. ἔσται δὴ οὖν καὶ ἡ σπορὰ ἡ δημιουργικὴ
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Ancora al di sotto delle anime degli dèi, quindi, si trovano le anime particolari, incapaci di dimorare immutabilmente in alto e dipendenti dal fato: sono le anime degli στοιχεῖα. Esse sono situate sotto i pianeti e, poiché le regioni del cosmo che si trovano sotto i pianeti sono formate dagli elementi, queste anime sono appunto quelle degli elementi. Q ui στοιχεῖα designa dunque le regioni del cosmo che, dall’alto verso il basso, si dividono in base agli elementi, ciascuno dei quali produce un genere particolare di esseri viventi. Giamblico parla infatti delle anime dei demoni e di quelle degli eroi, e l’ultimo livello di questa gerarchia è rappresentato dalle anime individuali, che sono le anime pure dei teurghi, quelle degli uomini e degli animali. Nel diciannovesimo capitolo del De anima, Giamblico si interroga sulla posizione di ‘alcuni’ che ritengono che l’anima sia identica ai suoi atti: In effetti, alcuni, sostenendo che l’anima è una e la stessa ovunque, sia secondo il genere sia secondo la specie, come ritiene Plotino, o anche secondo il numero, come afferma con giovanile sconsideratezza non poche volte Amelio, diranno che l’anima è identica ai suoi atti. Altri, invece, disponendo tali cose in maniera più sicura e sostenendo che processioni prime, seconde e terze delle essenze dell’anima procedono in avanti, diranno assolutamente senza dubbi, come ci si aspetterebbe da coloro che entrano nella discussione con argomenti nuovi ma incontestabili, che le attività delle anime universali, divine e immateriali terminano anche nell’essenza; ma essi negheranno risolutamente che le anime particolari, confinate in una sola specie e divise nei corpi, siano immediatamente identiche agli atti che compiono 43. τῶν ψυχῶν διαιρουμένη περὶ τὰς θείας δημιουργίας καὶ ἡ πρώτη τῶν ψυχῶν πρόοδος συνυφισταμένη, μεθ’ ἑαυτῆς ἔχουσα τὰ δεχόμενα τὰς ψυχάς· ἡ μὲν ὅλη τὸν ὅλον κόσμον, αἱ δὲ τῶν ἐμφανῶν θεῶν τὰς κατ’ οὐρανὸν σφαίρας, αἱ δὲ τῶν στοιχείων αὐτὰ τὰ στοιχεῖα μεθ’ ὧν καὶ ψυχαὶ συνεκληρώθησαν καθ’ ἑκάστην τοιαύτην λῆξιν, ἀφ’ ὧν δὴ αἱ κάθοδοι γίγνονται τῶν ψυχῶν ἄλλαι ἀπ’ ἄλλων διακληρώσεων, ὡς βούλεται ἐνδείκνυσθαι σαφῶς ἡ τοῦ Τιμαίου διάταξις. 43 Ibid., 19 (= I, 49, 37, 21-33, pp. 372, 23 - 373, 9; pp. 118-119): οἱ μὲν γὰρ μίαν καὶ τὴν αὐτὴν πανταχοῦ ψυχὴν διατείνοντες ἤτοι γένει ἢ εἴδει, ὡς δοκεῖ Πλωτίνῳ, ἢ καὶ ἀριθμῷ, ὡς νεανιεύεται οὐκ ὀλιγάκις Ἀμέλιος, εἶναι αὐτὴν ἐροῦσιν ἅπερ ἐνεργεῖν. οἱ δ’ ἀσφαλέστερον τούτων διαταττόμενοι καὶ προόδους πρώτας καὶ δευτέρας καὶ τρίτας οὐσιῶν τῆς ψυχῆς διισχυριζόμενοι προχωρεῖν εἰς τὸ πρόσω, οἵους ἄν τις θείη τοὺς καινῶς μὲν ἀπταίστως δὲ ἀντιλαμβανομένους τῶν λόγων, τὰ μὲν τῶν ὅλων ψυχῶν καὶ θείων καὶ ἀύλων ἐνεργήματα ἐροῦσιν οὗτοι πάντως δήπου καὶ εἰς οὐσίαν ἀποτελευτᾶν· τὰ δὲ
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Riguardo alla posizione di Plotino, Giamblico potrebbe aver avuto in mente questo passo: Non dobbiamo perciò affermare che una parte dell’anima sia presente alla vista, un’altra all’udito – questo genere di divisione lasciamolo ad altri [scil. agli Stoici]. È piuttosto la stessa anima che, con funzioni diverse, agisce in questo e in quell’organo (ἀλλὰ τὸ αὐτό, κἂν ἄλλη δύναμις ἐν ἑκατέροις ἐνεργῇ); in quanto gli organi sono distinti anche le percezioni sono distinte, benché tutte siano percezioni di forme e anzi convergano verso una forma capace di assumere ogni forma. (…) Ma che l’anima sia una ovunque, anche quando svolga diversi compiti, è stato detto (Ἀλλ’ ὅτι ἕν γε πανταχοῦ, εἴρηται, καὶ ἐν τοῖς διαφόροις τῶν ἔργων) 44.
Riguardo ad Amelio, invece, Giamblico ritiene la sua opinione espressa «con giovanile sconsideratezza» 45: per quale ragione? Sembra avere una certa importanza l’uso delle espressioni γένει ἢ εἴδει e ἀριθμῷ. La distinzione tra ciò che è uno e identico per specie e ciò che è uno e identico per numero, infatti, verrà adoperata da Damascio per risolvere l’aporia di come l’anima possa subire un cambiamento non solo nei suoi atti ma anche nella sua sostanza, senza perdere la propria identità 46. Infatti, la difficoltà che Damascio cercherà di risolvere è questa: l’anima ha un’identità debole (per specie) – come le cose del mondo sublunare – oppure ha un’identità forte (per numero) – come gli astri? Si tratta di un problema non facile, poiché se l’anima nel cambiamento resta una per specie, si perde la sua immortalità; se al contrario, l’anima resta una per numero, non si può più sostenere che la sua sostanza cambi, poiché ciò comporterebbe la nascita di un nuovo essere. τῶν μεριστῶν κρατουμένων ἐν ἑνὶ εἴδει καὶ διαιρουμένων περὶ τοῖς σώμασιν οὐδαμῶς συγχωρήσουσιν εὐθὺς εἶναι ταῦθ’ ἅπερ ἐνεργοῦσι. 44 Plotinus, Enneades, IV 3 [27], 3, 14-27 (tr. it., 2 voll., Torino 1997, II, pp. 539-540). 45 Cfr. supra, nota 42. 46 Cfr. l’analisi di questo tema in C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40), pp. 93-119 (nuova ed. e tr. it. Il Sé che cambia. L’anima nel tardo neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano, a cura di L. I. Martone, Bari 2006 [Biblioteca filosofica di «Q uaestio», 2], pp. 164-194, in partic. pp. 166-167).
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Damascio supera quest’ultima convinzione, sostenendo che l’identità per numero e il cambiamento sostanziale possano coesistere, sulla base della distinzione tra εἶδος τῆς ὑπάρξεως e εἶδος τῆς οὐσιώδους μεθέξεως 47. La «forma dell’esistenza» dell’anima è la sua struttura essenziale, ciò che fa sì che essa sia quell’anima e non un’altra, e pertanto tale forma è immutabile; la «forma della partecipazione sostanziale», invece, fa sì che l’anima, a seconda delle realtà con cui entra in contatto, subisca un cambiamento sostanziale. A questo punto è chiaro perché Giamblico critichi Amelio per la sua «giovanile sconsideratezza». Ancora una volta infatti Giamblico contrappone in maniera velata e sfumata la sua posizione a quella dei suoi predecessori immediati. Q uesta volta, però, la contrapposizione non è netta su tutti i fronti, ma riguarda solo una parte della dottrina. Il riferimento alle «processioni prime, seconde e terze», che rievoca Timeo 41d, si ritrova in questo passo della quarta Enneade: è chiaro infatti che le anime, derivando tutte dalla stessa, da cui anche l’anima universale deriva, sono fra loro simpatetiche. Si è detto infatti che la natura dell’anima è una e molteplice. (…) Se poi si vuole cogliere in generale la natura dell’anima, già menzionammo le differenze tra un’anima e l’altra quando parlammo di seconde e terze, e dicemmo che le anime sono tutte tutto, ma ognuna è diversa a seconda di ciò che è attivo in lei, poiché una è unità in atto con l’intelligibile, l’altra è in una condizione di conoscenza, l’altra ancora di desiderio; ognuna guarda a cose diverse, e ciò a cui guarda, questo è e diviene. Pienezza e perfezione non sono dunque lo stesso per tutte le anime 48.
Se si afferma che esiste una gerarchia di perfezione e purezza fra le anime – come fa qui Plotino – allora bisogna accettare anche le conseguenze di tale affermazione: le anime più nobili sono pre47 Cfr. Damascius, In Platonis Parmenidem, IV, 414, ed. L. G. Westerink, 4 voll., Paris 2002-2003, IV, 2003, p. 47, 6-7: αὐτὴ τὸ μὲν ἑαυτῆς εἶδος σῴζουσα τῆς ὑπάρξεως, τὸ δὲ τῆς οὐσιώδους μεθέξεως ἀλλοιοῦσα («L’anima conserva [identica] la forma della sua esistenza, mentre modifica quella della sua partecipazione sostanziale», traduzione mia). 48 Plotinus, Enneades, IV 3 [27], 8, 2-17 (tr. it. cit., II, pp. 545-546, corsivi miei).
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senti interamente in ciascuno dei loro atti, poiché la loro attività è del tutto semplice come la loro essenza; ma ciò non vale per le anime inferiori, come quelle individuali, che subiscono invece una ‘scissione’ fra la loro essenza e i loro atti, per i quali non si può più dire quindi che εἰς οὐσίαν ἀποτελευτᾶν. Nel ventesimo capitolo Giamblico prosegue l’esposizione della sua dottrina: Applichiamo dunque lo stesso metodo d’indagine e l’analisi sia conforme a esso. Dico allora che aderiscono alle potenze gli atti di quelle anime che sono compiute in sé, di natura semplice e separate dalla materia, come direbbe questa dottrina appena inventata, mentre gli atti delle anime imperfette e ripartite sulla terra sono simili alle generazioni dei frutti. Inoltre bisogna riflettere sul fatto che gli Stoici congiungono tutti gli atti dell’anima, qualunque essa sia, agli esseri governati [dall’anima] e inanimati [scil. ai corpi], invece i seguaci di Platone non li congiungono tutti [a essi]. Infatti ci sono alcune potenze dell’anima, come la sensitiva e la appetitiva, che sono unite al corpo come a una materia, e ce ne sono altre più pure e che non fanno per nulla uso del corpo, come l’intellettiva 49.
Le anime più nobili sono interamente presenti in ciascuno dei loro atti: sino a quando non si legano al corpo, la loro attività è semplice come la loro essenza e, di conseguenza, l’essenza si confonde con le operazioni le quali, a loro volta, dipendono direttamente dalle potenze. Applicando lo stretto parallelismo tra οὐσία, ἔργα e δυνάμεις, quindi, non è arbitrario dedurre che «le potenze dell’anima universale siano perfette, le potenze delle anime divine pure e immateriali, le potenze delle anime dei demoni efficaci Iamblichus, De anima, 20 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 34-46, ed. Wachsmuth cit., p. 373, 9-21; ed. Martone cit., pp. 118-119): κατὰ δὴ τὴν αὐτὴν μέθοδον προΐτω καὶ ἡ συγγενὴς πρὸς ταύτην διαίρεσις. λέγω δὴ προσπεφυκέναι μὲν ταῖς δυνάμεσι τὰ ἔργα ἐκείνων τῶν ψυχῶν τῶν αὐτοτελῶν καὶ μονοειδῶν καὶ χωριστῶν ἀπὸ τῆς ὕλης, ὡς ἂν φαίη ἡ νεωστὶ παρευρεθεῖσα ἥδε αἵρεσις, ἐοικέναι δὲ ταῖς τῶν καρπῶν ἀπογεννήσεσιν ἐπὶ τῶν ἀτελεστέρων καὶ περὶ γῆν ἀπομεριζομένων. ἐπὶ δὴ τούτοις δεῖ νοεῖν ὡς οἱ μὲν Στωικοὶ πάσας τῆς ὁποιασοῦν ψυχῆς τὰς ἐνεργείας συμμιγνύουσιν τοῖς διοικουμένοις καὶ ἀψύχοις, οἱ δ’ ἀπὸ Πλάτωνος οὐ πάσας. εἶναι μὲν γάρ τινας δυνάμεις τῆς ψυχῆς αἳ τοῦ σώματος ὡς ὕλης ἐφάπτονται, ὡς τὴν αἰσθητικὴν καὶ ὁρμητικήν, καθαρωτέρας δὲ τούτων τὰς μηδὲν σώματι προσχρωμένας, ὡς τὴν νοεράν. 49
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e quelle delle anime degli eroi valorose» 50. Le anime divise nei corpi, invece, producono atti distinti dalle loro potenze, e assomigliano ai frutti prodotti dalla pianta, che sono una manifestazione esterna e separabile della pianta stessa. Per Finamore e Dillon «Iamblichus now seems to change the subject rather abruptly» 51; al contrario, a mio avviso, Giamblico continua con l’applicare τὴν αὐτὴν μέθοδον in maniera perfettamente consona a quanto detto precedentemente. Infatti, nel tredicesimo capitolo del De anima, Giamblico tratta delle diverse opinioni relative al modo in cui le potenze sono nell’anima, e inizia proprio distinguendo la posizione degli Stoici da quella dei Platonici; ora non fa che riportare le stesse conclusioni agli atti dell’anima: Come si distinguono dunque le potenze? Secondo gli Stoici, alcune si distinguono per la differenza delle parti corporee sottostanti: essi dicono infatti che, a partire dall’egemonico, gli πνέυματα, diversi a seconda delle diverse parti del corpo, tendono alcuni verso gli occhi, altri verso le orecchie, altri ancora verso gli altri organi di senso. Altre potenze si distinguono, relativamente allo stesso sostrato, per il proprio carattere qualitativo: infatti, come la mela ha nello stesso corpo il sapore dolce e il buon odore, così anche l’egemonico ha riunito nello stesso luogo facoltà immaginativa, assenso, appetito, ragione. Secondo gli Aristotelici e tutti coloro che concepiscono l’anima come indivisibile, le potenze ‹non si distinguono› per l’essenza, ma per gli effetti che possono produrre. Secondo Platone, l’anima può dirsi tripartita in un senso, in quanto muta in tre modi in altre sostanze di vita, in un altro senso, in quanto ha molte potenze, non essendo più diversa per sostanza di vita, ma distinguendosi, nello stesso [sostrato], in molte proprietà particolari. Insomma, una parte differisce dalla potenza per il fatto che la parte presenta una differenza di sostanza, mentre la potenza presenta una distinzione generativa o produttiva nello stesso [sostrato] 52.
Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit., p. 38. J. F. Finamore - J. M. Dillon, Commentary to De anima, in Iamblichus, De anima, edd. Finamore-Dillon cit. (alla nota 3), [pp. 76-227], p. 130. 52 Iamblichus, De anima, 13 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 33, 25-42, ed. Wachsmuth cit., pp. 368, 14 - 369, 4; ed. Martone cit., pp. 108-111). 50 51
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Q uindi gli Stoici, come congiungevano le potenze al corpo, così congiungono a esso anche gli atti; i Platonici, invece, postulando la ‘doppia vita’ dell’anima, distinguevano fra le potenze legate al corpo, come la potenza sensitiva e quella appetitiva, e le potenze proprie soltanto dell’anima; allo stesso modo distingueranno anche gli atti. L’affinità tra questo passo e quanto detto precedentemente appare in maniera evidente nell’ultima frase, che non è altro che una vera e propria ripetizione di quanto già detto: essa sarebbe altrimenti difficilmente spiegabile in un passo come questo dedicato agli atti e non alle potenze. Nel ventunesimo capitolo, Giamblico discute gli ἔργα che derivano dalle differenti potenze dell’anima: Platone infatti non collega per essenza ai corpi gli atti delle potenze corporee, ma dice che comunicano [con essi] per conversione, mentre libera del tutto da ogni tendenza verso i corpi gli atti delle potenze separate. Pertanto gli atti delle anime universali e più divine, a causa della purezza della loro essenza, non sono mescolate [ai corpi], invece gli atti delle anime immerse nella materia e particolari non sono incontaminati allo stesso modo; e quelli delle anime che risalgono e si liberano dal legame con il divenire si allontanano dai corpi da allora in poi, mentre quelli delle anime che discendono sono intrecciati e intessuti con essi in molti modi. Le anime che hanno per veicolo dei corpi pneumatici di natura sempre identica a se stessa e che tramite essi eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare, manifestano i loro atti sin dal principio senza fatica; ma le anime seminate in corpi più solidi e imprigionate in essi sono contaminate (ἀναπίμπλασθαι) 53 in un modo o nell’altro della natura di quei corpi. Le anime universali convertono verso di sé le cose governate, mentre le anime particolari si convertono esse stesse verso le cose di cui si prendono cura 54. 53 Il passo di Plotinus, Enneades, IV 8 [6], 2, 30, che presenta paralleli con questo passo giamblicheo, mostra che il verbo ἀναπίμπλασθαι allude a Plato, Phaedrus, 67a 5: μηδὲ ἀναπιμπλώμεθα τῆς τούτου [scil. il corpo] φύσεως, dove ἀναπίμπλημι significa ‘contaminare’. Cfr. C. D’Ancona, À propos du De anima de Jamblique, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 90 (2006), pp. 617-640, in partic. p. 631, nota 30. 54 Iamblichus, De anima, 21 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 46-63, ed. Wachsmuth cit., pp. 373, 22 - 374, 8; ed. Martone cit., pp. 120-121): πῶς οὖν
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Giamblico attribuisce a Platone una dottrina tipicamente neoplatonica 55, presente anche nella settima Sententia di Porfirio 56: L’anima si lega al corpo con un movimento che la fa rivolgere alle passioni che vengono da lui, e al contrario, se ne distacca a causa della sua impassibilità 57.
Giamblico sostiene che, secondo Platone (in realtà, Porfirio), questi ἔργα che appartengono alle potenze corporee dell’anima, anche se non sono legati al corpo κατ’ οὐσίαν, possono comunicare con esso per conversione (κατ’ἐπιστροφὴν δὲ κοινωνεῖν), mentre gli ἔργα che appartengono alle potenze separate dell’anima sono affrancati «del tutto da ogni tendenza verso i corpi». Giamblico distingue quindi fra gli ἔργα dei differenti tipi di anime: gli ἔργα delle anime «universali e più divine» non hanno alcuna comunione con il corpo, mentre quelli delle anime individuali e immanenti alla materia comunicano con il corpo. Q uelli delle anime che si elevano, si allontanano dai corpi, mentre quelli delle anime che discendono, sono «intrecciati e intessuti con essi in molti modi». Q uelli delle anime che «hanno per veicolo dei corpi pneumatici (…) eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare», mentre quelli delle anime seminate nei corpi più soδιακρίνονται; κατὰ μὲν τοὺς Στωικοὺς ἔνιαι μὲν διαφορότητι ‹τῶν› ὑποκειμένων σωμάτων· πνεύματα γὰρ ἀπὸ τοῦ ἡγεμονικοῦ φασιν οὗτοι διατείνειν ἄλλα κατ’ ἄλλα, τὰ μὲν εἰς ὀφθαλμούς, τὰ δὲ εἰς ὦτα, τὰ δὲ εἰς ἄλλα αἰσθητήρια· ἔνιαι δὲ ἰδιότητι ποιότητος περὶ τὸ αὐτὸ ὑποκείμενον· ὥσπερ γὰρ τὸ μῆλον ἐν τῷ αὐτῷ σώματι τὴν γλυκύτητα ἔχει καὶ τὴν εὐωδίαν, οὕτω καὶ τὸ ἡγεμονικὸν ἐν ταὐτῷ φαντασίαν, συγκατάθεσιν, ὁρμήν, λόγον συνείληφε. κατὰ δὲ τοὺς Ἀριστοτελικοὺς καὶ πάντας ὅσοι ἀμέριστον τὴν ψυχὴν διανοοῦνται κατὰ μὲν τὴν οὐσίαν αἱ δυνάμεις ‹οὐ διακρίνονται›, κατὰ δὲ εἴδη ὧν δύνανται ποιεῖν. κατὰ δὲ Πλάτωνα ἄλλως μὲν λέγεται ἡ ψυχὴ τριμερής, ὡς ἐν ἑτέραις οὐσίαις τριπλῇ ζωῆς παραλλάττουσα, ἄλλως δὲ πολυδύναμος, οὐκέτι κατ’οὐσίαν ζωῆς διαφέρουσα, ἐν ταὐτῷ δὲ πολλαῖς ἰδιότησι διακρινομένη. καὶ ὅλως μέρος δυνάμεως ταύτῃ διενήνοχεν, ᾗ τὸ μὲν μέρος οὐσίας ἑτερότητα, ἡ δὲ δύναμις ἐν ταὐτῷ γεννητικὴν ἢ ποιητικὴν διάκρισιν παρίστησιν. 55 Finamore e Dillon notano delle affinità con vari passi plotiniani (cfr. Finamore - Dillon, Commentary to De anima cit., p. 131), nella fattispecie con Plotinus, Enneades, I 6, 5, 23ss. e 49; III 6, 5, 25; IV 4, 8, 54; fonte principale sono i trattati IV 8[6] e I 1[53]. Cfr. D’Ancona, À propos du De anima cit., pp. 631-633. 56 Come Finamore e Dillon ravvisano a giusto titolo: cfr. Finamore - Dillon, Commentary to De anima cit., p. 131. 57 Porphyrius, Sententiae ad intelligibilia ducentes, 7, ed. E. Lamberz, Leipzig 1975, p. 3, 4-5: ψυχὴ καταδεῖται πρὸς σῶμα τῇ ἐπιστροφῇ τῇ πρὸς τὰ πάθη τὰ ἀπ’ αὐτοῦ καὶ λύεται δὲ πάλιν διὰ τῆς ἀπαθείας (traduzione mia).
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lidi sono contaminate in una certa misura dalla natura di questi ultimi. Il συμπλέκεσθαι di Giamblico può sicuramente ispirarsi al Timeo di Platone (36e 2): tuttavia, il contesto suggerisce che il verbo derivi piuttosto dalla discussione che Plotino consacra alla possibilità che l’anima sia mescolata con il corpo: Ma se era mescolata, o c’era un determinato tipo di fusione, o l’anima era come intrecciata 58. D’altra parte, l’ipotesi di un’anima intrecciata non comporta che siano uguali nelle affezioni le componenti dell’intreccio: è possibile che ciò che si intreccia sia immune da affezioni ed è possibile che, come accade alla luce, l’anima, pur compenetrando il corpo, non patisca le affezioni di quello, e questo è tanto più vero se essa risulta intrecciata con il corpo in modo onnipervasivo 59.
È Plotino e non Platone a porre la questione se l’anima, nel caso in cui sia διαπλακεῖσα con il corpo, ne condivida le affezioni: proprio il punto sollevato da Giamblico nel passo qui discusso. Per quanto concerne i paralleli con Enneade IV 8[6], essi sono ancora più marcati, come mostra il confronto fra questi due passi: Plotino, Enneades, IV 8 [6] Per questo Platone dice che la nostra anima, se è unita a questa anima perfetta, possiede, anch’essa, la perfezione e ‘vola in alto e governa tutto quanto il mondo’. Finché non lo lascerà, in modo da non entrare nel corpo o in un oggetto materiale, essa governerà facilmente l’universo come l’Anima del tutto (…). C’è un doppio modo di governare ogni cosa: uno è quello dell’insieme che organizza le cose con un’au-
Giamblico, De anima, 21 Le anime che hanno per veicolo dei corpi pneumatici di natura sempre identica a se stessa e che tramite essi eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare, manifestano i loro atti sin dal principio senza fatica; ma le anime seminate in corpi più solidi e imprigionate in essi sono contaminate in un modo o nell’altro della natura di quei corpi. Le anime universali convertono verso di sé le cose governate, mentre le anime (cont.)
58 Plotinus, Enneades, I 1 [53], 3, 18-19 (tr. it., Pisa 2006, p. 70): ἀλλὰ εἰ ἐμέμικτο, ἢ κρᾶσίς τις ἦν, ἢ ὡς διαπλακεῖσα. 59 Ibid., 4, 12-18 (tr. it., p. 71).
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Plotino, Enneades, IV 8 [6] torità regale che si esercita senza un coinvolgimento nell’azione; l’altro è quello degli esseri particolari, che si esercita con un’azione personale e con un contatto con il soggetto dell’azione, dove l’agente s’impregna della natura del soggetto su cui agisce 60.
Giamblico, De anima, 21 particolari si convertono esse stesse verso le cose di cui si prendono cura 61.
Il celebre passo in cui Plotino, sviluppando la sua esegesi del Fedro e del Fedone 62, sostiene che il fatto di prendersi cura di un inferiore non contamina necessariamente il superiore, è ripreso da Giamblico. Tuttavia, la dottrina di quest’ultimo presenta delle differenze. Plotino confronta le due maniere in cui l’anima individuale può governare (διοικεῖν) i corpi: o rimanendo unita all’anima universale – in questo caso, la natura inferiore delle cose sensibili non può contaminarla, nella misura in cui l’anima individuale condivide l’ἐπιμέλεια perfetta dell’anima universale –, o con un contatto diretto con il corpo, il che fa sì che essa sia contaminata (ἀναπιμπλᾶσα) da questa natura inferiore. Giamblico dal canto suo enumera le diverse classi di anime, universali e individuali, fornite di un veicolo pneumatico o corporeo che salgono o discendono, che si volgono verso i διοικούμενα o li convertono verso 60 Ibid., IV 8 [6], 2, 19-30: διὸ καί φησι καὶ τὴν ἡμετέραν, εἰ μετ’ ἐκείνης γένοιτο τελέας, τελεωθεῖσαν καὶ αὐτὴν μετεωροπορεῖν καὶ πάντα τὸν κόσμον διοικεῖν, ὅτε ἀφίσταται εἰς τὸ μὴ ἐντὸς εἶναι τῶν σωμάτων μηδέ τινος εἶναι, τότε καὶ αὐτὴν ὥσπερ τὴν τοῦ παντὸς συνδιοικήσειν ῥᾳδίως τὸ πᾶν (…). Διττὴ γὰρ ἐπιμέλεια παντός, τοῦ μὲν καθόλου κελεύσει κοσμοῦντος ἀπράγμονι ἐπιστασίᾳ βασιλικῇ, τὸ δὲ καθέκαστα ἤδη αὐτουργῷ τινι ποιήσει συναφῇ τῇ πρὸς τὸ πραττόμενον τὸ πρᾶττον τοῦ πραττομένου τῆς φύσεως ἀναπιμπλᾶσα (traduzione mia). 61 Iamblichus, De anima, 21 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 46-63, ed. Wachsmuth cit., pp. 373, 22-374, 8; ed. Martone cit., pp. 120-121): καὶ τὰ μὲν τῶν ἐποχουμένων τοῖς αὐτοειδέσι πνεύμασι καὶ δι’ αὑτῶν τιθεμένων εὐκόλως, ἅπερ ἂν ἕλωσιν, ἄνωθεν ἀπραγμόνως ἐκφαίνειν τὰ σφῶν ἔργα· τὰ δὲ τοῖς στερεωτέροις σώμασιν ἐνσπειρόμενα καὶ κατεχόμενα ἐν αὐτοῖς ἀναπίμπλασθαι ἀμωσγέπως τῆς τούτων φύσεως. Καὶ τὰ μὲν τῶν ὅλων ἐπιστρέφειν εἰς ἑαυτὰ τὰ διοικούμενα, τὰ δὲ τῶν διῃρημένων αὐτὰ ἐπιστρέφεσθαι πρὸς ταῦτα ὧν ἐπιμελοῦνται (traduzione mia). 62 L’espressione di Plotino μετεωροπορεῖν καὶ πάντα τὸν κόσμον διοικεῖν deriva da Plato, Phaedrus, 246b 7-246c 3; l’ἐπιμέλεια dell’anima deriva da ibid., 246b 6. Cfr. D’Ancona, À propos du De anima cit., p. 631, nota 31.
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l’alto. Se ci si chiede a quale di queste classi appartenga l’anima umana, sarà facile rispondere con Giamblico che l’anima umana è individuale, fornita di un veicolo corporeo, che discende in un corpo e che, facendo ciò, si volge verso la natura inferiore. Detto questo, si impone una conclusione su un essenziale punto dottrinale: il ruolo della teurgia, che offre all’anima umana la possibilità di entrare in contatto con il mondo intelligibile e divino al quale essa non appartiene per natura, proviene dal rifacimento operato da Giamblico della dottrina plotiniana della discesa dell’anima 63. Il criterio in base al quale è possibile porre una discriminazione ontologica tra le potenze e dunque tra gli atti e le sostanze delle varie specie di anime è costituito dal legame che esse contraggono con il corpo. Secondo Giamblico, infatti, una volta discesa nel corpo, l’anima non può più godere dell’attività intellettuale con nessuna sua parte 64; essa dunque discende interamente subendo così un cambiamento che non investe soltanto le facoltà e gli atti, ma tocca anche la sostanza dell’anima stessa. Ciò non significa tuttavia che essa perda completamente le sue caratteristiche divine: in quanto intermedia, l’anima è simultaneamente permanente e cangiante, indivisibile e divisibile, incorrotta e corruttibile, capace di permanere intera in sé e di procedere allo stesso tempo interamente fuori di sé. Giamblico dunque impiega la triade οὐσία, δυνάμεις ed ἐνέργειαι come una chiave utile a concepire gli aspetti più ardui delle sue costruzioni metafisiche e psicologiche, portandola fino alle estreme conseguenze. La sostanza deve essere così come le attività la manifestano: e questo è, paradossalmente, un principio aristotelico, che Giamblico accetta. Il seguente passo dello pseudo-Simplicio – una
63 Cfr. ibid., p. 633: «Ce développement, qui caractérise la théologie de Jamblique et de Proclus, s’enracine dans la doctrine psychologique de Jamblique, qui n’est au fond qu’une réponse à Plotin». 64 Giamblico critica decisamente la concezione di Plotino secondo cui una parte dell’anima umana rimane sempre nel mondo intelligibile. Su questo punto fondamentale della filosofia giamblichea e sulle molteplici componenti sottese alla sua critica, cfr. almeno Steel, The changing Self cit., in partic. pp. 47-77 della traduzione italiana; H. J. Blumenthal, Neoplatonic Elements in the «De anima» Commentaries, in «Phronesis», 21 (1976), pp. 64-87 (e in Aristotle transformed. The ancient Commentators and their Influence, ed. by R. Sorabji, Ithaca [N.Y.] 1990, pp. 305-324); C. J. de Vogel, L’image de l’homme chez Plotin et la critique de Jamblique, in «Diotima», 8 (1980), pp. 152-154.
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delle principali fonti indirette per la ricostruzione dell’opera psicologica giamblichea – chiarisce ulteriormente la sua posizione: Se la sostanza più alta dell’anima non permanesse completamente identica, la sua attività, che non permane la stessa, non sarebbe come l’essenza, se essa a volte pensa, a volte non pensa. Se anche la stessa essenza suprema dell’anima non rimane pura nell’inclinazione verso le cose inferiori, così che anche in questo, come crede Giamblico nel suo trattato ‘Sull’anima’, essa sarebbe media non solo fra le cose divisibili e indivisibili, ma anche fra quelle generate e ingenerate, corruttibili e incorruttibili, e così che, anche per questo motivo, a volte può pensare a volte no (infatti, se agisse da sé rimanendo immutabile, non solo agirebbe sempre allo stesso modo, ma, quando progetta vite inferiori e si intreccia a esse, non potrebbe talvolta rimanere inseparabile nel congiungimento con esse, e talvolta separarsene: infatti, come proprio questo è la separazione, la purezza incorruttibile dell’essenza ciò che Aristotele intende quando scrive ‘una volta separata, è ciò che è’ 65, così la vita non ancora separata dalle cose inferiori, non è ciò che è); è pertanto ragionevole, anzi necessario, che non soltanto l’attività, ma anche la sostanza dell’anima, e persino la sostanza più alta, intendo della nostra anima, sia in qualche modo differenziata in se stessa e distesa, e per così dire si abbassi nell’inclinazione verso le cose inferiori, senza uscire completamente da sé (altrimenti non sarebbe più un’anima), ma anche senza conservare più la sua purezza, così che si preservi insieme identica e non identica, poiché né l’alterità la cambia completamente, né la sua identità rimane pura e immodificabile, e così, divisa in qualche modo per il cambiamento e non permanendo ciò che era, subisce anche la divisione dell’attività dall’essenza, così che talvolta non agisce. Una volta che è ritornata in modo puro alla sua essenza, allontanandosi da ogni proiezione esterna, si è fortificata dal ritorno in sé e ha ripreso la misura che le conviene, è ciò che è, e, raccogliendosi senza divisioni nel sommo rivolgimento verso di sé, unisce anche l’attività alla sua essenza 66.
65 Aristoteles, De anima, III 5, 430a 22-23: χωρισθεὶς δ’ἐστὶ μόνον τοῦδ’ὅπερ ἐστί. 66 Pseudo-Simplicius, In Aristotelis libros De anima commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1882 (CAG, 11), pp. 240, 33 - 241, 26; cfr. anche ibid., pp. 89, 22 - 90, 25; p. 244, 26-31. La traduzione e i corsivi sono miei.
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ΟὐΣΊΑ, ΔΎΝΑΜΙΣ ED ἘΝΈΡΓΕΙΑΙ NELL’OPERA DI GIAMBLICO
La questione è: se l’anima manifesta nelle sue attività temporalità, cambiamento, divisione e corruzione, ciò non implica forse che anche la sua sostanza debba essere temporale, mutevole, divisibile e corruttibile? I Neoplatonici facevano difficoltà ad accettare questa conclusione, perché essa compromette l’identità stessa dell’anima, che così non si distinguerebbe dalle cose periture. A causa di questa difficoltà, la posizione tradizionale, sostenuta da Proclo, manteneva che cambiamento e temporalità riguardano solo le attività dell’anima, mentre la sua sostanza rimane sempre la stessa. Proclo, infatti, mosso dall’intento di salvaguardare l’identità dell’anima, compromessa a suo avviso dalla concezione giamblichea, limiterà con vari argomenti il cambiamento subìto dall’anima incarnata soltanto agli atti e alle facoltà, escludendo che esso possa investire anche la sostanza 67, nonostante egli stesso affermi la tesi contraria, come si è visto (lo ricordiamo: Proclo scrive: «partendo dagli atti, di cui le potenze sono direttamente le madri, perveniamo a percepire le essenze stesse»). In tal modo, però, egli ridimensiona anche lo stretto parallelismo concettuale tra i tre elementi della triade. Al contrario, Giamblico ritiene che, se si dà il giusto rilievo al carattere intermedio dell’anima, si deve accettare che essa cambia anche nella sua sostanza. Chi considera la sostanza dell’anima come qualcosa di immutabile, cade inconsapevolmente nella posizione di Plotino, per cui ‘qualcosa’, «la parte più elevata» dell’anima, rimane sempre pura e imperturbabile. La posizione di Giamblico è più radicale: temporalità e cambiamento non sono accidentali all’anima, ma interessano la sua stessa sostanza; tuttavia, pur sottostando a questo cambiamento sostanziale, l’anima preserva ancora la sua identità, o, come dice Giamblico, «l’anima simultaneamente cambia e permane».
67 Cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, V, 342A, ed. Diehl cit. (alla nota 22), III, p. 335, 24ss.; 342F, III, p. 338; 343D, III, p. 340, 14ss. Cfr. J. Opsomer, Proclus et le statut ontologique de l’âme plotinienne, in «Études platoniciennes», 3 (2006), pp. 195-207.
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ILARIA GRIMALDI
ὝΠΑΡΞΙΣ, ΔΎΝΑΜΙΣ, ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN RELAZIONE ALL’UNIFICATO LA TRIADE NEOPLATONICA NEL «DE PRIMIS PRINCIPIIS» DI DAMASCIO
1. La teoria della triade nel trattato aporetico sui Principi Primi Nel De primis principiis Damascio prospetta un complesso sistema di derivazione dei Principi che ha avvio dal Totalmente Ineffabile, continua con l’Uno-Tutto e termina con l’Unificato. Tuttavia, il filosofo neoplatonico introduce ulteriori scansioni interne a ciascun livello della realtà principiale e di conseguenza l’Unificato (ἡνωμένον) – in oggetto nel presente studio – viene inteso come terzo termine della triade intelligibile in cui si articola 1 l’Uno assolutamente semplice anteriore alla triade. Come argomentato in accordo con Giamblico e attraverso un confronto critico con le varie posizioni maturate in seno alla tradizione neoplato-
1 Il processo di articolazione triadica dell’Uno è prestato da J. Combès come un processo di modalizzazione del Primo Principio. Combès osserva che i termini della triade si configurano come modi dell’Uno anteriore alla triade stessa: cfr. J. Combès, Notes complémentaires, in Damascius, De primis principiis, ed. L. G. Westerink, 3 voll., Paris 1986-1991, II, 1989, pp. 246-247. In modo analogo, anche Taormina descrive la scansione triadica dell’Uno-Tutto come un processo di ‘modalizzazione’ del Principio Primo; a tal proposito cfr. D. P. Taormina, Filosofia e filosofi di lingua greca nei sec. iii-vi d.C., in La filosofia antica. Itinerario storico e testuale, a cura di L. Perilli - D. P. Taormina, Torino 2012, pp. 490-493. Inoltre, tra gli studi sul tema della triade si segnalano J. Trouillard, La notion de δύναμις chez Damascios, in «Revue des études grecques», 85 (1972), pp. 353363; R. Majercik, Chaldean Triads in Neoplatonic Exegesis: Some Reconsiderations, in «The classical Q uarterly», 51 (2001), pp. 265-296; C. Térézis, The Platonic Pair «Limit – Infinitude» according to the Neo-Platonist Damascius, in «Phronimon», 5 (2004), pp. 71-84. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127954 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 121-139 ©
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nica 2, la triade in questione è successiva all’Uno, che dunque la trascende e i suoi termini costitutivi sono identificabili sulla base dell’accordo che Damascio individua tra le principali concezioni teologico-speculative pagane: quella pitagorica, quella platonica e quella caldaica 3. Pertanto, secondo lo schema deducibile dalle argomentazioni damasciane, all’Uno-Tutto anteriore alla triade segue l’Uno-Tutto come prima enade, o monade (Pitagora), o uno limitante (Platone), o Padre (Oracoli Caldaici). In second’ordine si colloca invece il Tutto-Uno come seconda enade, o diade (Pitagora), o uno illimitato (Platone), o Potenza (Oracoli Caldaici). Infine, vi è l’Unificato come terza enade, o triade (Pitagora), o misto (Platone), o Atto (Oracoli Caldaici) 4. A sua volta, l’Unificato è articolato in modo triadico in essere, vita e intelletto; in tal senso, l’Unificato manifesta – ad un grado inferiore rispetto al superiore Uno anteriore alla triade – la tripartizione caldaica di Padre (Intelligibile puro), Potenza (Vita intelligibile) ed Atto (Intelletto intelligibile). In Damascio la struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια è sottoposta a una significativa ridefinizione; il cambiamento apportato trova immediata espressione innanzitutto sul piano lin2 Cfr. Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., II, pp. 1, 1 - 39, 27. Sulla questione si vedano Taormina, Filosofia e filosofi di lingua greca cit., pp. 489-490 e S. Ahbel-Rappe, Introduction to the Life and Philosophy of Damascius, in Damascius’ Problems and Solutions Concerning First Principles, ed. by S. Ahbel-Rappe, Oxford 2010, [pp. 1-61], p. 45. 3 Damascio eredita tale concezione da Proclo, che nella Teologia Platonica si impegna a dimostrare la piena armonia della dottrina platonica con la tradizione teologica greca; su ciò cfr. Proclus Diadochus, Theologia Platonica, I 6, edd. H.-D. Saffrey - L. G. Westerink, 6 voll., Paris 1968-1997, I, 1968, pp. 25, 24 - 26, 22. Sul tema cfr. M. Abbate, Il divino tra unità e molteplicità. Saggio sulla «Teologia Platonica» di Proclo, Alessandria 2008 (Hellenica, 20), pp. 70-72. 4 Cfr. Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., III, 1991, p. 148, 8-14: καὶ ἃς ἠβουλήθησαν ἀρχὰς ἐνδείξασθαι δι’ ἄλλων ἄλλοι, οἷον οἱ Πυθαγόρειοι διὰ μονάδος καὶ δυάδος καὶ τριάδος, ἢ ὁ Πλάτων διὰ τοῦ πέρατος καὶ τοῦ ἀπείρου καὶ τοῦ μικτοῦ, ἢ ‹ὃ› πρότερόν γε ἡμεῖς διὰ τοῦ ἑνὸς καὶ τῶν πολλῶν καὶ τοῦ ἡνωμένου, τοῦτο οἱ χρησμοὶ τῶν θεῶν διὰ τῆς ὑπάρξεως καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας («E questi Principi [scil. i Principi della triade] che differenti [filosofi] hanno voluto indicare attraverso [nomi] differenti, per esempio i Pitagorici con [i nomi] di monade, diade e triade, Platone con i nomi di limite, illimitato e misto, o ancora [i Principi] che noi precedentemente [abbiamo designato] con [i nomi] di uno, molti e unificato, tali [Principi] gli Oracoli degli dèi [li designano] con [i nomi] di sussistenza, potenza e atto»). Le traduzioni italiane dei passi tratti dal De primis principiis presenti nel testo e in nota sono mie.
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ὝΠΑΡΞΙΣ, ΔΎΝΑΜΙΣ, ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN RELAZIONE ALL’UNIFICATO
guistico: nel riferirsi al primo termine della triade neoplatonica il diadoco preferisce parlare di ὕπαρξις anziché di οὐσία 5. A monte di tale processo di ripensamento della nozione di triade vi è la necessità di inquadrare correttamente i rapporti tra henologia e ontologia, e dunque l’esigenza di chiarire in che modo l’Uno (τὸ ἕν) sia a fondamento dell’Essere (τὸ ὂν) inteso come ipostasi inferiore. Pertanto, la dottrina della triade – nella sua doppia articolazione sovraontologica e ontologica 6 – deve dare conto sia della differenza tra le ipostasi dell’Uno e dell’Essere, sia del rapporto di derivazione del secondo dal primo. In tal senso il filosofo si sofferma sulla distinzione tra ὕπαρξις e οὐσία, evidenziando che la prima nozione (ὕπαρξις) attiene all’Uno, mentre la seconda (οὐσία) all’Essere. La teoria della triade consente di fare luce sulla specificità di ciascuna delle due suddette nozioni e inoltre illustra in che termini deve essere intesa la relazione di causazione tra Uno ed Essere a cui i concetti di ὕπαρξις e οὐσία sono rispettivamente connessi. Damascio spiega che la ὕπαρξις è una proprietà che attiene al Principio Primo che è l’Uno, mentre l’οὐσία attiene all’inferiore Essere-Unificato, terzo termine della triade costituita 5 Nel corpus damasciano una traccia della triade interpretata in una chiave diversa e presentata secondo la denominazione classica comunemente attestata negli autori che ricorrono alla dottrina della triade neoplatonica, ossia οὐσία, δύναμις, ἐνέργεια, compare nel Commentario al «Filebo». Il passo in questione è Damascius, In Philebum, ed. G. Van Riel, Paris 2008, p. 70, 1-6: ὃτι ταυτότης μὲν καὶ ἑτερότης περὶ οὐσίαν, ἡ δὲ ὁμοιότης καὶ ἡ ἀνομοιότης περὶ δύναμιν, περὶ δὲ τὰς ἐνεργείας ἰσότης καὶ ἀνισότης, ὡς ἐν ἄλλῳ φησίν. Ἐπιστῆσαι δὲ χρὴ καὶ νῦν ὡς πάντα κατ’ οὐσίαν· ἡ γὰρ δύναμις καὶ ἡ ἐνέργεια ἀπὸ τῆς οὐσίας. Nel passo Damascio si riferisce al Commentario al «Parmenide» di Proclo con l’intento di sottolineare come δύναμις ed ἐνέργεια derivino dall’οὐσία, a sua volta da intendersi come sostanza/essenza (cfr. infra, alla nota 9). Dunque occorre tenere presente che nelle righe in discussione Damascio non sta enunciando una propria teoria, ma sta riportando una concezione riconducibile a Proclo. Su questo ultimo aspetto si rimanda a G. Van Riel, Notes complémentaires, ibid., p. 114. 6 Con l’espressione ‘triade ontologica’ mi riferisco alla triade che l’Unificato, nella sua identità con l’Essere, realizza in se stesso in senso pieno. Difatti, secondo la lettura damasciana, in una delle sue plurime accezioni e funzioni l’Unificato coincide propriamente con l’Essere. Tuttavia, nell’indagine sui Principi Primi condotta da Damascio è possibile identificare anche una ‘triade sovraontologica’, in considerazione del rapporto analogico che lega i diversi piani della realtà fondativa. La triade sovraontologica è espressione dell’articolazione triadica dell’UnoTutto trascendente l’Unificato-Essere. In relazione a tale triade l’Unificato – che è al contempo anch’esso triade – ne rappresenta il termine ultimo.
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da Uno-Tutto, Tutto-Uno e Unificato, e quindi ‘prodotto’ dei primi due termini superiori. Nello specifico, la ὕπαρξις è definita «[la proprietà] del far venire all’essere» ([τὸ ἰδίωμα] τοῦ ὑποστατικοῦ) 7. Tale proprietà, a sua volta, opera in continuità con la proprietà riconducibile alla potenza (δύναμις), definita «la forza generatrice propria della sussistenza» (τὸ γόνιμον τῆς ὑπάρξεως) 8. Dunque, la δύναμις si configura come una sorta di ‘estensione’ della ὕπαρξις, mirante all’attualizzazione della sussistenza nella forma di sostanza/essenza (οὐσία) 9 ed Essere (ὄν). È propriamente la mistione di sussistenza (come capacità di far venire all’essere) e potenza (come forza generatrice propria della sussistenza) a determinare il terzo Principio della triade, il quale è ἐνέργεια (atto), οὐσία (sostanza) e ὄν (Essere), e in quanto tale coincide con l’ἡνωμένον (l’Unificato), definito da Damascio Essere e Sostanza 10. Per tale ragione l’Essere e l’οὐσία sono propriamente il prodotto scaturito dall’interazione tra ὕπαρξις e δύναμις. Alla luce di ciò si comprende che nella concezione damasciana l’οὐσία è meno originaria della ὕπαρξις dal momento che l’οὐσία – come visto – si ricava per derivazione dalla ὕπαρξις. Il diadoco chiarisce infatti l’anteriorità di ὕπαρξις rispetto ad οὐσία affermando: Per questa ragione la sostanza [οὐσία] è successiva alla sussistenza [ὕπαρξις], ossia perché [la sostanza] è insieme alla potenza e all’atto, mentre la sussistenza li [scil. potenza e atto] precede, dal momento che essa stessa è la causa che fa esistere [ὑποστατικὸν αἴτιον] tutte le cose 11. Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., II, p. 72, 3-4. Ibid., p. 72, 5. 9 La nozione di οὐσία è assunta da Damascio nella doppia valenza platonica e aristotelica. Essa pertanto indica sia l’‘essenza’ – secondo l’accezione platonica implicante una maggiore astrazione metafisica e il riferimento alla dimensione intelligibile – sia la ‘sostanza’ – secondo l’accezione aristotelica implicante una maggiore determinazione in termini ontologici. 10 L’Unificato è considerato non solo mediante la nozione di ‘misto’ (cfr. ibid., pp. 40, 1 - 55, 16), ma anche mediante quella di ‘essere’ (ὂν) e ‘sostanza’ (οὐσία). L’Unificato pertanto si presenta come Essere puro (τὸ ἁπλῶς ὂν) e Sostanza prima (ἡ πρώτη οὐσία). La teoria dell’Unificato come Essere viene articolata attraverso una puntuale determinazione dei generi in cui l’Essere può essere distinto, sulla base di specifici riferimenti alla Repubblica, al Sofista e al Parmenide, oltre che alla posizione plotiniana in merito. Su ciò cfr. ibid., pp. 56, 1 - 99, 14. 11 Ibid., p. 71, 6-8: διὸ μετὰ τὴν ὕπαρξιν ἡ οὐσία, ὅτι σὺν δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ, πρὸ δὲ τούτων ἡ ὕπαρξις αὐτὸ οὖσα τὸ πάντων ὑποστατικὸν αἴτιον. 7 8
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Pertanto lo scolarca dichiara anche che la nozione di sussistenza non implica alcuna forma di determinazione e per questo la ὕπαρξις risulta essere τὸ πάντων ἁπλούστατον, vale a dire «[la proprietà] in assoluto più semplice di tutte» 12. Proprio in considerazione di ciò, il concetto di ὕπαρξις può essere riferito all’Uno assolutamente semplice con maggiore pertinenza rispetto ad ogni altro. Difatti, la gerarchia delle ἀρχαί è definita sulla base del maggiore grado di semplicità e indeterminatezza attribuibile a ciascun Principio, e culmina con la postulazione del τὸ ἀδιόριστον, ossia l’indeterminato per eccellenza che corrisponde all’Ineffabile trascendente l’Uno. In considerazione di ciò, occorre distinguere sussistenza e sostanza in base a quanto lo stesso filosofo precisa: Per questo dunque la sussistenza [ὕπαρξις] [è] altro rispetto alla sostanza [οὐσία], in considerazione del fatto che [la sussistenza] è una proprietà unica spogliata delle altre al fine di indicare il Principio Primo [scil. l’Uno] 13.
Come spesso accade nella speculazione damasciana, in primo luogo il filosofo tende ad operare puntuali distinzioni linguisticoconcettuali al fine di chiarire identità e funzioni di ciascun Principio, ma in seguito egli stesso invita a superarle poiché ogni forma di rigida sistematizzazione teorizzabile è sempre il frutto fallace dalle operazioni distinguenti del pensiero. Ciò accade anche a proposito della differenza tra ὕπαρξις e οὐσία. Infatti, il diadoco dichiara di voler trasporre il discorso sulla triade dal piano concettuale (oggettivante e definitorio) a quello ipostatico. Il risultato è che, affrancato dalla necessità di stabilire nozioni e proprietà dei termini della triade, il pensiero è stimolato ad innalzarsi fino alla sfera delle ipostasi. A tale livello, originario e indifferenziato, la distinzione minuziosamente stabilita tra le proprietà della ὕπαρξις e dell’οὐσία sembra venire meno. In relazione a ciò leggiamo: Ma, per parlare dal punto di vista dell’ipostasi, la sussistenza sarebbe appunto lo stesso della sostanza, la quale sussistenza, unitamente a potenza e atto, esiste realmente 14. Ibid., p. 71, 23-24. Ibid., p. 72, 13-15: οὕτω μὲν οὖν ἄλλο παρὰ τὴν οὐσίαν ἡ ὕπαρξις, ὡς ἰδιότης μία γυμνουμένη τῶν ἄλλων εἰς ἔνδειξιν τῆς πρώτης ἀρχῆς. 14 Ibid., p. 72, 15-17: ὡς δὲ καθ ὑπόστασιν φάναι, καὶ ταὐτὸν ἂν εἴη ὕπαρξις τῇ οὐσίᾳ, ἥ γε μετὰ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ὑφέστεκεν ὡς ἀληθῶς. 12 13
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In breve, dal punto di vista ipostatico, la sostanza è la sussistenza realmente esistente, ossia essa è la sussistenza che si manifesta in termini ontologici. In tal senso l’οὐσία è la stessa cosa della ὕπαρξις che, proiettata verso i livelli successivi di realtà, perviene effettivamente all’essere. In tal modo ὕπαρξις e οὐσία – distinguibili in termini logici e linguistici, sulla base dei canoni di intelligibilità umani – finiscono per coincidere. Come anticipato, il presente studio sarà incentrato sull’analisi della triade in riferimento all’Unificato. Dalla lettura del trattato aporetico si apprende innanzitutto che l’Unificato, oltre a costituire propriamente il terzo Principio della triade, è a sua volta espressione compiuta dell’intera triade, in quanto attualizzazione delle proprietà connesse ai Principi superiori della triade stessa. Ciò si verifica dal momento che esso è propriamente la triade derivata da monade e diade (o si potrebbe dire che è il misto derivato dall’uno limitante e dalla pluralità illimitata, o ancora, che esso è l’Atto discendente dal Padre e dalla Potenza). In ragione di questo, l’ipostasi dell’Essere – che nella teoria dei Principi elaborata da Damascio corrisponde all’Unificato – esprime secondo la sua specificità, ossia l’atto, le proprietà relative ai termini dai quali deriva. Infatti, Damascio dichiara quanto segue: Dunque, il primo Principio si conosce secondo la sussistenza (ὕπαρξις), come si è visto presso gli Oracoli, il secondo Principio secondo la potenza (δύναμις) (…); al terzo si aggiungerà anche l’atto (ἐνέργεια), e di conseguenza esso sarà sussistente, dotato di potenza e agente; per tale ragione noi chiamiamo il terzo Principio ‘sostanza’ (οὐσία) ed ‘essere’ (ὄν), ossia perché esso è la triade tutta intera (διὸ καὶ τριάς) 15.
In base al passo sopra riportato è possibile osservare che l’ultimo diadoco della Scuola platonica di Atene intende l’Unificato come la triade in senso pieno («esso [scil. l’Unificato] è la triade tutta intera»), in ragione del fatto che tale Principio è ‘sussistente’, ‘dotato di potenza’ e ‘agente’. In altri termini, come si è accennato precedentemente, l’Unificato racchiude in sé tutti i termini/pro15 Ibid., p. 71, 1-6: οὐκοῦν ἡ μὲν πρώτη ἀρχὴ κατὰ τὴν ὕπαρξιν θεωρεῖται, ὡς ἐν τοῖς λογίοις, ἡ δὲ δευτέρα κατὰ τὴν δύναμιν (...) ἡ τρίτη ἄρα προσλήψεται καὶ τὴν ἐνέργειαν, ἔσται ἄρα καὶ ὑπάρχουσα καὶ δυναμένη καὶ ἐνεργοῦσα· τοῦτο δὲ οὐσία καλεῖται καὶ ὄν· διὸ καὶ τριάς.
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prietà/Principi superiori e distinti della triade. Tuttavia, l’apparente linearità della dottrina della triade neoplatonica in qualche modo deducibile dalle argomentazioni damasciane è corredata da numerose note critiche che il filosofo introduce in merito alla possibilità di ricondurre all’Unificato un’effettiva scansione triadica. Più in generale, le riflessioni dello scolarca – in numerosi casi apertamente polemiche – rientrano nel contesto dei problemi concernenti lo statuto dei Principi Primi, il loro grado di intelligibilità e dicibilità. Pertanto, la discussione su ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια in relazione all’Unificato confluisce necessariamente all’interno dell’analisi riguardante la natura della trattazione metafisica e del corrispondente lessico protologico.
2. La scansione triadica dei Principi: ‘convenienza’ e problematicità Il primo nodo teorico da valutare ha a che fare con la natura dei Principi Primi. Con grande frequenza Damascio ne ricorda il carattere assolutamente indifferenziato. Infatti, lo statuto delle ἀρχαί è di semplicità in senso autentico e di conseguenza risulta erroneo attribuire a queste ultime forme di determinazione e/o caratterizzazioni numeriche, nominali e predicative. Pertanto, si rivela particolarmente problematica la concezione che vuole la dimensione originaria della realtà comprensibile attraverso la struttura triadica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια. Ciononostante, la teoria della triade ha una propria legittimità entro la trattazione protologica damasciana, possiede una certa efficacia anagogica e rivelativa della verità superiore dei Principi; tuttavia, la validità della dottrina della triade è subordinata all’assunzione critica del pensiero logico-proposizionale come strumento imperfetto di accesso alla realtà prima. Difatti, in modo esclusivamente congetturale, analogico e indicativo-allusivo l’intelligenza umana può elaborare delle nozioni parzialmente idonee sulle ἀρχαί. Più nel dettaglio, il diadoco si riferisce alle suddette questioni in un passo particolarmente esemplificativo, passo che ha in oggetto l’Unificato considerato come ‘misto’: Il misto [scil. quello rappresentato dall’Unificato] deriva dal limitante e dall’illimitato, poiché esso è sovrasemplificato al di sopra di tutto ciò che viene dopo di lui, e poiché esso racco127
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glie in sé le cose che nascono da lui all’infinito. E tuttavia, esso è in verità, una monade, non quella che è il principio del numero (…), ma quella [monade] che, secondo indicazione, è simile all’uno del primo Principio [scil. alla monade], così come ai molti del secondo [scil. alla diade] 16.
Le affermazioni ricavate dal trattato sui Principi evidenziano che l’assoluta semplicità caratterizza l’Unificato quale misto derivato dalla monade (o limitante) e dalla diade (o illimitato), tanto che il filosofo siriano lo descrive iperbolicamente come ciò che è «sovrasemplificato al di sopra di tutto ciò che viene dopo di lui» 17. Nonostante questo, il misto-Unificato è comprensivo della totalità delle entità che in esso hanno origine secondo un processo infinito 18. L’intrinseca unità che lo contraddistingue fa sì che esso costituisca una monade, per via della sua derivazione dalla monade-limitante. Tuttavia, Damascio specifica che non si tratta della monade aritmetica, vale a dire «quella che è il principio del numero» 19, bensì della monade che è indicativamente (κατὰ ἔνδειξιν) – cioè ‘per approssimazione’ – riconducibile alla monade del primo termine della triade. La nozione di monade con cui è designato l’Unificato possiede un valore meramente ipotetico-indicativo; pertanto, bisogna tenere presente che il concetto di monade può essere ascritto all’Unificato soltanto simbolicamente e in ragione dell’analogia che lega l’Unificato quale terzo termine della triade con la ‘natura monadica’ 20 ed originaria dell’uno a fondamento 16 Ibid., pp. 52, 26 - 53, 4: τὸ μικτὸν ἐξ ἀπείρου καὶ πέρατος, ὅτι καὶ πάντων ὑπερήπλωται τῶν μεθ’ ἑαυτό, καὶ τὴν ἀπειρίαν συνείληφεν τῶν ἐπ’ ἄπειρον ἀπ’ αὐτοῦ γιγνομένων. Kαὶ μονὰς ὅμως ἐστὶν κατὰ τὸ ἀληθέστατον, οὐχ ἡ ἀρχὴ τοῦ ἀριθμοῦ (…), ἀλλὰ τοιαύτη κατὰ ἔνδειξιν, οἷον μὲν τὸ ἓν τῆς πρώτης ἀρχῆς, οἷα δὲ τὰ πολλὰ τῆς δευτέρας. 17 Ibid., p. 52, 27. 18 Cfr. ibid., pp. 52, 28 - 53, 1. 19 Ibid., p. 53, 2. 20 In diversi passi del trattato sui Principi Primi Damascio spiega in che termini deve essere intesa l’attribuzione dei caratteri ‘monadico’ e ‘triadico’ all’uno quale prima enade e primo termine della triade. In riferimento alla seconda questione cfr. ibid., III, p. 139, 1-2: καὶ πῶς τὸ ἓν ἔσται τριπλοῦν; Ἢ ὅτι ἓν ὄν, ὅμως ἀρκεῖ πρὸς τὸ τριπλοῦν τοῦ ἡνωμένου («Come l’uno sarà triplo? Rispondiamo che, anche se esso è uno, soddisfa ugualmente il carattere triplo dell’Unificato»), il quale Unificato a sua volta si sviluppa in modo triadico in essere, vita, intelletto. Successivamente Damascio aggiunge che «l’uno, secondo l’uno, ha in sé una vaga manifestazione del triplo» (ibid., p. 139, 4-5: τὸ ἓν κατὰ τὸ ἓν ἔχει τὸ τριπλοῦν
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della medesima triade. Inoltre l’Unificato, nel suo essere problematicamente monade, è al contempo totalità, ma ancora secondo indicazione della molteplicità potenziale espressa dalla nozione di diade della triade intelligibile. Come accennato in precedenza, il problema tematizzato da Damascio nel passo in analisi è rappresentato dalla difficoltà di numerare i Principi. Difatti, il numero è una forma di determinazione incompatibile con l’indeterminatezza della dimensione fondativa, e nel caso specifico con l’inconcepibile uni-totalità indifferenziata dell’Unificato. Di conseguenza, Damascio con frequenza dichiara di servirsi della nozione di numero a proposito delle ἀρχαί esclusivamente in termini ipotetico-indicativi, ossia senza alcuna pretesa di sottoporre i Principi a scansioni e classificazioni realmente rappresentative degli stessi. Ne deriva che anche il concetto di triade, in quanto legato al tentativo di numerare 21, distinguere e contrapporre 22 i Prinἐμφαινόμενον); ne discende che «non vi è nulla da meravigliarsi, né di difficile da comprendere nel fatto che l’uno (…) è triadizzato, non perché esso è contato né ancor meno perché è distinto, ma perché esso anticipa in se stesso la triplicità dell’Unificato, e perché esso è uno triadico in quanto interamente presente all’interno della triade» (ibid., p. 139, 10-14: οὐκ ἄρα θαυμαστὸν οὐδὲ χαλεπὸν ἐννοῆσαι τὸ ἓν (…) τριαδιζόμενον, οὐχ ὅτι ἀριθμεῖται οὐδὲ διορίζεται, ἀλλ’ ὅτι προείληφεν ἐν ἑαυτῷ τὴν τοῦ ἡνωμένου τριπλόην, καὶ ὅτι ἕν ἐστιν ὡς ἐν τριάδι τῇ ὅλῃ τριαδικόν). Invece, quanto al problema della riconducibilità del carattere ‘monadico’ all’uno della triade si consideri ibid., II, p. 13, 1-6: ἀλλὰ μὴν καὶ ὁ ‹ἐκ› τῆς διαφορᾶς τοῦ ἑνὸς πρὸς τὴν μονάδα συλλογιζόμενος ἀναμιμνησκέσθω τῶν εἰρημένων, ὅτι οὔτε μονάς οὔτε ἓν ἐν ἐκείνοις κατὰ ἀλήθειαν, ὥστε οὐδὲ ἡ τούτων διαφορὰ πρὸς ἄλληλα θετέα ἡμῖν ἐν ἐκείνοις, ἀλλ’ ἔστιν καὶ ἑκάτερον ἀνάγειν πρὸς τὴν αὐτὴν ὑπόθεσίν τε καὶ ἔνδειξιν («Ma colui [scil. Giamblico] che ragiona ‹a partire dalla› differenza dell’uno in rapporto alla monade si ricordi di ciò che si è già detto, ossia che, presso quelli [scil. i Principi], [non si ha] secondo verità, né monade né uno [scil. l’unità in quanto numero], così che noi non dobbiamo porre più, presso quelli, la loro [scil. dell’uno e della monade] differenza mutuale, ma è possibile ricondurre ciascuno dei due [scil. la monade e la nozione di unità in quanto numero] alla stessa ipotesi o indicazione»); ibid., III, p. 140, 5-8: ἓστω γὰρ τὸ ἁπλῶς ἓν τῷ ὄντι τὸ ἀνάριθμον, καὶ εἰ χρὴ φάναι σαφέστερον, ἀτρίαστον καὶ ἀμονάδιστον· οὐδὲ γὰρ μοναδικόν ἐστιν, ὅτε γε μηδὲ ἓν κατὰ ἀλήθειαν, κατὰ δὲ ἔνδειξιν λέγεται μόνην· («Ammettiamo, in effetti, che l’uno puro [scil. l’uno come primo Principio della triade] è realmente ciò che non è numerabile, e, se bisogna parlare in modo più chiaro, [esso è] ciò che non può essere né triadizzato né monadizzato; infatti esso non è nemmeno monadico, poiché esso non è nemmeno uno in verità, ma è detto uno soltanto per indicazione»). 21 Sul problema della numerazione dei Principi in particolar modo per mezzo della nozione di triade cfr. supra, alla nota 20, e infra, alla nota 33. 22 Relativamete ai processi di ‘distinzione’ e ‘contrapposizione’ all’interno della dimensione dei Principi cfr. G. Van Riel, «N’essayons pas de compter l’in-
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cipi, presenta dei tratti di debolezza che ne minano la tenuta, se rigidamente applicato alla natura semplice e non numerabile dei Principi. Anche allorché l’Unificato è considerato secondo la sua accezione di Intelligibile puro o Somma dell’Intelligibile Damascio polemizza contro la possibilità di suddividere concettualmente e verbalmente il Principio in questione secondo le caratterizzazioni/ denominazioni triadiche; proprio queste ultime, infatti, hanno il limite di determinare proprietà non correttamente riconducibili alla condizione di totale indifferenziazione dell’Unificato. A tal proposito leggiamo: Ma se l’Unificato [è] completamente senza differenza e, per questa ragione, senza processione, come possiamo dividere l’intelligibile [scil. l’intelligibile che è l’Unificato] in tre modi, ossia in primo, medio e ultimo, o ancora in sostanza, vita e intelletto, o in padre, potenza e intelletto, o ancora in qualsiasi altro modo si voglia dire? (…) Bisogna dire relativamente a ciò che, trasportando tali nozioni a partire dalle cose di quaggiù, noi le facciamo risalire all’intelligibile, desiderosi di indicare qualcosa a suo riguardo, per analogia con ciò che noi conosciamo meglio 23.
telligible sur les doigts». Damascius et les principes de la limite et de l’illimité, in «Philosophie antique», 2 (2002), pp. 201-219. Van Riel evidenzia l’impossibilità di ricondurre le nozioni di ‘distinzione’ e di effettiva ‘contrapposizione’ ai Principi Primi; in effetti, proprio in merito a ciò Damascio è in polemica con i propri predecessori: «l’essence de la critique de Damascius est que le schéma des principes opposés est irréconciliable avec l’unité absolue des principes» (ibid., p. 209). Il neoplatonico lascia intendere che la distinzione è riferibile alla realtà prima esclusivamente in termini endeictici: «C’est uniquement en soutenant κατὰ ἔνδειξιν que l’unité se manifeste sous plusieurs aspects qu’on peut postuler, au niveau des principes, un développement progressif de la multiplicité» (ibid., pp. 209-210). Pertanto il diadoco argomenta a più riprese sul fatto che non è possibile ricondurre ai Principi indifferenziati ‘il più e il meno’ poiché nell’ambito delle realtà prime non sussiste alcuna ‘differenza formale’ (cfr. ibid., pp. 210-211). Ne consegue che i Principi non possono essere differenziati gli uni dagli altri e proprio ciò impedisce di ipotizzare l’esistenza di una reale opposizione tra Principi gerarchicamente ordinati (cfr. ibidem). 23 Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., III, pp. 56, 20 - 57, 14: ἀλλ’ εἰ διάφορον πάντῃ τὸ ἡνωμένον καὶ ἀπρόοδον διὰ τοῦτό, πῶς ἔχομεν καὶ τὸ νοητὸν τριττῇ διελεῖν εἰς πρῶτον καὶ μέσον καὶ ἔσχατον, ἢ εἰς οὐσίαν καὶ ζωὴν καὶ νοῦν, ἢ εἰς πατέρα καὶ δύναμιν καὶ νοῦν, ἢ ὅπως ἄλλως ἐθέλοι τις λέγειν; (…) Ἢ ῥητέον πρὸς ταῦτα ἓν μὲν ὅτι ταῦτα ἀπὸ τῶν κάτω φέροντες ἀνάγομεν εἰς τὸ νοητόν, ἐνδείξασθαί τι περὶ ἐκείνου ἐφιέμενοι κατὰ τὴν τῶν γνωριμωτέρων ἀναλογίαν.
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Se esistono numerose difficoltà legate alla determinazione puntuale dell’Uno-Tutto in base ai Principi della triade intelligibile poiché l’Uno-Tutto è postulato come Principio Primissimo trascendente l’Unificato, il medesimo problema si presenta anche in riferimento all’Unificato, sia in quanto manifestazione della «triade tutta intera» 24, sia in quanto a sua volta articolato in modo triadico in sostanza, vita, intelletto (o Padre, Potenza, Atto, secondo il lessico della teologia caldaica). Il neoplatonico ribadisce che non è possibile stabilire l’esistenza di un ‘primo’, un ‘medio’ e un ‘ultimo’ relativamente all’Unificato, e che pertanto applicando tali divisioni al Principio rispondiamo esclusivamente all’esigenza di «indicare qualcosa a suo riguardo» 25. L’indicare si esprime attraverso il movimento dal basso verso l’alto, dal più noto al meno noto, che l’intelligenza compie grazie all’analogia delle nozioni a noi più comuni con la natura aporeticamente incommensurabile del Principio sommo. Al fine di chiarire in cosa consista il processo intellettivo ascensivo verso la sommità dei Principi Primi, il filosofo siriano dichiara che è necessario mettere in atto delle operazioni di pensiero esattamente opposte a quelle che comunemente si compiono in conformità con il procedere naturale dell’intelligenza umana, caratterizzata da uno stato di ‘grande divisione’ 26 intrinseca ed originaria. In effetti, quest’ultima tende a determinare i propri oggetti di riferimento con concetti puntuali e termini linguistici definitori, mentre il piano dei Principi, indeterminato, assolutamente semplice e non oggettivabile, si dimostra refrattario proprio a tali procedimenti. Pertanto, l’elevarsi in direzione delle ἀρχαί richiede un progressivo abbandono della ‘consuetudine intellettiva’ 27 e dun Ibid., II, p. 71, 6. Cfr. supra, pp. 126 e 127. Ibid., III, p. 57, 13-14. 26 Cfr. ibid., p. 18, 23-24. 27 A proposito della ‘consuetudine intellettiva’ (συνήθεια), Damascio discute della triade in cui si articola l’Unificato (essere, vita e intelletto) e del modo meno erroneo di predicare del Principio tali tre termini; riguardo a questo tema il filosofo dichiara ibid., p. 131, 8-13: μηδὲ ἀπὸ τῶν προχειροτέρων ἐννοιῶν ἀναγέσθω πρὸς τὸν ὑπερφυέστερον τρόπον πάσης συνηθείας, ἀλλ’ οὐσίαν ἀκουέτω λεγόντων ἡμῶν καὶ ζωήν, καὶ μέντοι καὶ νοῦν τὸν ὡς ἀληθῶς, κατὰ ἔνδειξιν ἀπὸ τῶν συνήθων τῆς ἐν ἀβάτοις μενούσης καὶ πόρρωθεν ἡμῖν ὑπονοουμένης φύσεως («Non si risalga dalle nozioni che ci sono più familiari verso il modo che trascende tutta la consuetudine [intellettiva], ma si comprenda che noi parliamo realmente della sostanza, della 24 25
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que dei processi di pensiero ‘abituali’. Ciò significa che anziché tentare vanamente di determinare l’indeterminato attraverso la pluralizzazione di nozioni, proprietà e nomi, occorre semplificare riducendo ad unità i concetti distinti ricondotti all’Origine. Q uest’ultimo è precisamente il monito che espone Damascio allorché afferma: Risulta meglio dire che noi concepiamo e denominiamo tutte le cose come distinte, e tra le altre cose, l’unione e la distinzione, ma che a partire da queste [scil. le cose distinte] indichiamo qualcosa anche riguardo alle realtà indifferenziate [scil. i Principi e nello specifico l’Unificato]. (…) Tuttavia ci serviamo dei nomi delle cose distinte, sia in loro stessi, sia in combinazione, nell’intenzione di indicare qualcosa riguardo alle cose che sono completamente indifferenziate, delle quali non abbiamo né concetto né nome ben distinto, a causa della grande divisione del nostro pensiero; di conseguenza bisogna contrarre insieme tutti i nostri concetti in un unico concetto supremo che sia la somma unica di tutti i concetti, se vogliamo cogliere una qualche traccia di questa alta natura aggregata [scil. l’Unificato] 28.
Come bene esprime il passo, in sé e nella loro combinazione i nomi rappresentano forme di determinazione utili al fine di significare le realtà distinte; proprio per tale ragione, qualora venissero utilizzati in riferimento alla dimensione dei Principi, indifferenziati e anteriori alla distinzione, sarebbero solamente delle indicazioni rivelative dell’incommensurabilità tra ciò che si fonda sulla distinzione e l’indifferenziato, tra ciò che può essere nominato e l’anonimia assoluta della realtà prima. Pertanto, testata l’indicibilità delle ἀρχαί delle quali «non abbiamo né concetto né nome ben vita e, certamente, anche dell’intelletto, indicando semplicemente, a partire dalle nozioni consuete, la natura che dimora presso l’inaccessibile e che noi congetturiamo soltanto da lontano»). 28 Ibid., p. 18, 11-27: ἣ ἄμεινον λέγειν ὡς πάντα μὲν ἡμεῖς διωρισμένα νοοῦμεν καὶ ὀνομάζομεν, τά τε ἄλλα καὶ ἕνωσιν καὶ διάκρισιν, ἀπὸ δὲ τούτων ἐνδεικνύμεθά τι καὶ περὶ τῶν ἀδιορίστων. (…) Προσχρώμεθα δὲ τοῖς τῶν διωρισμένων ὀνόμασιν ἢ καθ’ αὑτὰ ἢ κατὰ συμπλοκήν, ἐνδείξασθαί τι βουλόμενοι περὶ τῶν πάντῃ ἀδιορίστων, ὧν οὔτε ὄνομα οὔτε νόημα διηρθρωμένον ἔχομεν διὰ τὸν πολὺν μερισμὸν τῆς ἡμετέρας διανοήσεως· δεῖ γὰρ πάντα ὁμοῦ συνελεῖν τὰ νοήματα ἡμῶν εἰς ἓν μετανόημα, τὴν μίαν πάντων νοημάτων κορυφήν, εἰ μέλλοιμέν τινος ἴχνους ἐπιλαβέσθαι τῆς συνῃρημένης ἐκείνης φύσεως.
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distinto, a causa della grande divisione del nostro pensiero» 29, lo sforzo ascensivo in direzione dei Principi deve necessariamente prevedere l’elaborazione di un’idea sintetica e trascendente la singolarità delle nominazioni comuni, derivante dalla contrazione del complesso delle nozioni «in un unico concetto supremo che sia la somma unica di tutti i concetti» 30. Q uesto concetto supremo, tuttavia, in quanto ancora nome e nozione, si limita a cogliere esclusivamente «una qualche traccia» (τι ἴχνος) 31 dell’onnicomprensività del Tutto costituito dall’Unificato. Alla luce di simili considerazioni, si comprende la ragione per cui le scansioni triadiche con cui si intende stabilire rapporti numerici e differenziazioni reciproche tra i Principi richiedano un inevitabile superamento. Tale concezione è ribadita dallo scolarca neoplatonico con maggiore incisività in un’argomentazione affine a quella appena considerata: Prima dell’atto vi è la potenza, e prima della potenza la sussistenza (ὕπαρξις). ‹Ma lassù›, non vi è ‹né sussistenza› senza dubbio, né a maggior ragione potenza, né a maggior ragione ancora atto; in effetti, queste proprietà sono in una certa distinzione e si differenziano le une rispetto alle altre; dunque, non è vero che il sussistere, il potere e l’agire convengono al completamente indifferenziato 32.
Le righe sopra riportate denunciano la non convenienza (οὐκ ἁρμόζειν) del ‘sussistere’, del ‘potere’ e dell’‘agire’ a ciò che è ‘completamente indifferenziato’, ossia non solo all’Unificato, ma alla dimensione dei Principi considerata nella sua totalità. In effetti, le operazioni concettuali del distinguere (διορίζω) e differenziare (διακρίνω), conducono ad individuare ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια come proprietà specifiche che è possibile riferire ai Principi esclusivamente in senso indicativo. Proprio in considerazione di ciò, Damascio osserva criticamente che le suddette operazioni con Ibid., p. 18, 22-24. Ibid., p. 18, 25-26. 31 Ibid., p. 18, 26. 32 Ibid., I, p. 114, 13-18: πρὸ δὲ τῆς ἐνεργείας δύναμις καὶ πρὸ δυνάμεως ὕπαρξις. *** ἴσως οὔτε δύναμις πολλῷ μειζόνως, οὔτε ἔτι μᾶλλον ἐνέργεια· καὶ γὰρ ἐν διορισμῷ τινι τὰ τοιαῦτα καὶ διακρίνεταί πως ἀπ’ ἀλλήλων, οὐκ ἄρα ἁρμόζει τῷ πάντῃ ἀδιαφόρῳ τὸ ὑπάρχειν καὶ δύνασθαι καὶ ἐνεργεῖν. 29 30
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cettuali risultano improprie, dal momento che distolgono il pensiero dal procedere maggiormente compatibile con la natura delle ἀρχαί: il semplificare (ἀναπλόω). Dunque, i termini della triade – intesi come concetti e appellativi attribuiti ai Principi – vanno concepiti come una sorta di ‘sovrastruttura’ imposta ad un ordine di realtà non riducibile ai meccanismi della strumentazione razionale umana.
3. La triade come ‘struttura concettuale’. La ridefinizione damasciana della metafisica e del linguaggio protologico Considerata la perentorietà della confutazione damasciana circa la ‘convenienza’ delle determinazioni triadiche in riferimento ai Principi Primi, resta da interrogarsi sulle ragioni che giustifichino il costante impiego delle stesse nel corso dell’intero De primis principiis. In verità Damascio alla lucida condanna dei limiti del pensiero-linguaggio oggettivante sulle ἀρχαί affianca una ugualmente chiara consapevolezza delle potenzialità che lo stesso può esprimere se assunto e impiegato non in termini apodittici, bensì nella sua funzione analogica, iconica e simbolica. Entro tale orizzonte di senso anche le proprietà numeriche espresse dalla triade acquisiscono un ruolo di assoluto rilievo in vista del parziale disvelamento della dimensione principiale. Pertanto, il concetto di numero – implicito nella stessa nozione di triade – mutuato dal contesto aritmetico può essere risemantizzato all’interno di un linguaggio metafisico completamente reinterpretato. Proprio quest’ultima concezione è espressa dal diadoco nei termini seguenti: La monade [scil. il primo Principio della triade], non è numerica, ma è la monade di tutte le cose, nella quale il tutto è anticipato, come nella monade del numero tutto intero; e, per dirla in breve, così come ci serviamo di criteri formali per indicare realtà sovraformali, allo stesso modo ci serviamo anche delle proprietà numeriche come simboli delle realtà non numerabili e di fatto completamente indifferenziate 33. 33 Ibid., III, p. 135, 16-21: ἡ μονὰς οὐκ ἦν ἀριθμητική, ἀλλὰ πάντων μονάς, ἐν ᾗ τὰ πάντα προείληπται, ὥσπερ ἐν τῇ μονάδι πᾶς ἀριθμός· ἁπλῶς δὲ εἰπεῖν, καθάπερ τοῖς
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Dunque, le ‘proprietà numeriche’ con cui si indica la triade hanno un valore simbolico poiché rinviano a ciò che, in quanto senza alcuna determinazione, non è suscettibile a numerazione. Pertanto, Damascio lascia intendere che la carenza di concetti, appellativi e forme attributive adeguate ed efficaci riconducibili ai Principi è alla base della funzione simbolica con cui occorre fare uso del linguaggio. Q uanto al linguaggio analogico e iconico – che per l’appunto ricorre ad immagini per significare in qualche modo l’inesprimibile – Damascio dimostra che esso può rappresentare una via di accesso all’inattingibile trascendenza delle ἀρχαί. In ragione di ciò, vi è un’immagine, quella del cerchio o della sfera 34, particolarmente esplicativa delle funzioni specifiche e delle interrelazioni sussistenti tra i termini della triade: Di conseguenza, al fine [di esprimerci] su ciò di cui intendiamo parlare, se non siamo capaci di parlarne, dobbiamo utilizzare un’altra immagine, come quella che ad esempio [ci permette di affermare che] l’uno [scil. la monade della triade] è il centro di Tutto, mentre la distensione a partire dal centro εἰδητικοῖς χρώμεθα εἰς ἔνδειξιν τῶν ὑπερειδέων, οὕτω καὶ τοῖς ἀριθμητικοῖς ἰδιώμασιν ὡς συμβόλοις τῶν ἀναρίθμων καὶ παντάπασιν ἀδιορίστων. In linea con tale passo è ibid., II, pp. 37, 14 - 38, 8, in cui Damascio suggerisce di assumere il concetto di numero non in senso aritmetico, ma in termini congetturali e indicativi: οὐ τοίνυν δύο ῥητέον τὰς ἀρχάς, οὐδὲ γὰρ μίαν, ὡς ἀριθμοῦντας, ἀλλὰ κατὰ τὴν ἰδιότητα μᾶλλον ὑπονοοῦντας, ἥν φαμεν εἶναι δυάδος τε καὶ μονάδος. (…) Ἔκαστον γὰρ αὐτῶν μερικόν τέ ἐστι καὶ διωρισμένον, καὶ οὐκ ἀρκούμεθα τούτοις, ἀλλὰ καὶ ἄλλοις προσχρώμεθα πρὸς ἔνδειξιν τῆς φύσεως ἐκείνης· καὶ οὐδὲν μὲν κατατυγχάνει τοῦ ἀληθοῦς, ἐκ πάντων δὲ ἀναγκάζομεν τὴν ἡμετέραν ὑπόνοιαν εἰς τὸ ἀδιόριστον ἀναφεύγειν καὶ μεγαλοφυέστερον, ἐπεὶ καὶ δύο λέγομεν τὰς ἀρχάς, καὶ τὴν ἑτέραν ὑποτάττομεν τῇ ἑτέρᾳ κατὰ πρόοδον, οὔτε δυάδος οὔσης ἐκεῖ οὔτε προόδου τινός («Non bisogna dire dunque che i Principi [sono] due [scil. monade e diade], infatti [non bisogna dire] neppure [che sono] uno, come se li contassimo, ma piuttosto [bisogna parlare dei Principi] per congetture, secondo la proprietà che diciamo essere della diade e della monade. (…) Ciascuno di questi [scil. i concetti di monade e diade] è, in effetti, particolare e determinato, e noi non ci accontentiamo di questi, ma ci serviamo anche di altri per indicare quest’alta natura. Senza dubbio, nessuno [di essi] perviene alla verità, tuttavia a partire da tutti [i concetti] noi costringiamo la nostra ipotesi a fuggire verso ciò che è indeterminato e di natura più nobile, poiché nel dire che i Principi [sono] due, li subordiniamo l’uno all’altro secondo la processione, mentre non vi è lassù né diade né alcuna processione»). 34 Sull’uso e significato dell’immagine del cerchio nel neoplatonismo e in particolare in Plotino si veda R. Chiaradonna, L’analogia del cerchio e della sfera in Plotino, in Sphaera. Forma immagine e metafora tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Totaro - L. Valente, Firenze 2012 (Lessico intellettuale europeo, 117), pp. 13-35.
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è il secondo Principio [scil. la diade] che è flusso del centro, e che il contorno e l’ultima circonferenza, dopo la distensione, è una certa conversione verso il centro, [è] l’intelletto paterno [scil. il terzo termine della triade, l’intelletto o atto], e che l’insieme completo [è] un cerchio unico, o, per parlare in modo più appropriato, una sfera 35.
Nel passo la triade è rappresentata attraverso l’immagine del cerchio o della sfera: il centro, nella sua permanenza, indica il primo Principio, la distensione a partire dal centro come flusso del centro indica il secondo Principio e infine il perimetro della circonferenza come conversione verso il centro indica l’azione dell’intelletto inteso in qualità di terzo Principio. La metafora geometrica utilizzata da Damascio consente di rappresentare in termini figurativi l’azione specifica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια. Tale tipologia di linguaggio traduce con maggiore immediatezza di significato – e dunque, garantendo un maggiore grado di intelligibilità – ciò che il neoplatonico altrove esprime secondo concetti complessi desunti dal lessico sapienziale della dottrina oracolare caldaica, interpretata alla luce della metafisica damasciana: Così dunque, a ragione, [si dice che] l’uno è il Padre della triade, in quanto il Padre è anteriore all’Essere e generatore dell’Essere, mentre [si dice che] i molti sono la Potenza del Padre, in quanto questi sono un’estensione dell’uno verso la generazione dell’Essere, infine [si dice che] l’Intelletto paterno è l’Unificato o l’Essere, considerato secondo la conversione verso l’Uno paterno 36.
Come dimostra il passo sopra menzionato, Damascio si appella alla dottrina degli Oracoli Caldaici per chiarire in che misura la teoria della triade possa dare conto dei tre momenti della dialet35 Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., III, pp. 135, 21 - 136, 4: ἐπεὶ καὶ ἄλλην πρὸς ἔμφασιν ὧν λέγειν βουλόμεθα, καὶ εἰ μὴ δυνάμεθα λέγειν, ἐκόνα παραληπτέον, ὡς τὸ ἓν μέν ἐστι κέντρον ἁπάντων, ἡ δὲ ἀπὸ τοῦ κέντρου διάστασις ἡ δευτέρα ἀρχή, ῥύσις οὖσα τοῦ κέντρου, τὸ δὲ πέριξ καὶ ἡ ἐσχάτη περιφέρεια, μετὰ τὴν διάστασιν ἐπιστροφή τις οὖσα πρὸς τὸ κέντρον, ὁ νοῦς ὁ πατρικός, κύκλος | δὲ τὸ σύμπαν εἷς, ἢ σφαῖραν εἰπεῖν προσφυέστερον. 36 Ibid., p. 154, 19-24: οὐκοῦν ἐν δίκῃ τὸ μὲν ἓν ὁ πατὴρ τῆς τριάδος, ὅτι πρὸ τοῦ ὄντος καὶ γεννητὴς τοῦ ὄντος, ἡ δὲ δύναμις τοῦ πατρὸς τὰ πολλά, ὅτι ἐκτένεια ταῦτα τοῦ ἑνὸς ἐπὶ τὴν τοῦ ὄντος γέννησιν, ὁ δὲ πατρικὸς νοῦς τὸ ἡνωμένον τε καὶ τὸ ὂν κατὰ τὴν πρὸς τὸ ἓν τὸ πατρικὸν ἐπιστροφὴν θεωρούμενον.
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tica neoplatonica di manenza, processione e conversione: il Padre della triade (il ‘centro’ della circonferenza nel passo precedente o l’Uno-Tutto damasciano), nella propria permanenza in se stesso, indica l’anteriorità del Principio Primo rispetto all’Essere, la Potenza del padre (il ‘flusso’ o la ‘distensione’ dal centro nel passo precedente’ o il Tutto-Uno damasciano) indica la proiezione del Principio Primo verso la generazione della totalità e infine l’Intelletto paternale (il ‘contorno’ e l’‘ultima circonferenza’ nel passo precedente o l’Atto o ancora, l’Unificato damasciano) indica propriamente l’ipostasi dell’Essere considerato nella specificità che lo caratterizza, vale a dire il movimento epistrofico in direzione del Padre della triade. Nella prospettiva damasciana la nozione di triade – unitamente alla descrizione delle rispettive funzioni di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια – assume il carattere di una ‘struttura concettuale’ teorizzata al fine di compensare i limiti del λόγος umano, costitutivamente incapace di avere accesso immediato alla trascendenza irrappresentabile e ineffabile della dimensione metafisica. Tuttavia, in quanto ‘teoria di compensazione’, Damascio fa comprendere che il concetto di triade di cui egli stesso fa largo uso deve essere considerato funzionale ma inesatto; per tale ragione è indispensabile svincolarsi dal suo utilizzo e contrariamente stimolare i processi che sono alla base della superiore intuizione metarazionale, autentica e non più mediata del mondo originario. Proprio tale idea è espressa dal pensatore neoplatonico nel contesto della discussione sui paradossi connessi alla determinazione triadica dell’Uno-Tutto successivo all’Ineffabile: Il Tutto [scil. l’Uno-Tutto] è allora tre e non uno, ossia è sussistenza (ὕπαρξις), potenza ed atto. Ma abbiamo già detto che l’Uno è anteriore all’atto, alla potenza e alla sussistenza (…), e che è per indigenza di pensieri ed espressioni che, noi, diciamo tuttavia che esso produce. Ma bisogna purificare completamente la modalità di tale produzione, in quanto a noi ci è estranea e [dire] che essa non si realizza né attraverso l’agire, né attraverso la potenza, né attraverso la sussistenza, ma grazie all’Uno anteriormente ai tre, in un modo ineffabile 37. 37 Ibid., I, p. 121, 8-16: τρία οὖν τὰ πάντα, ἀλλ’ οὐχ ἕν, ὕπαρξις, δύναμις, ἐνέργεια. Ἀλλ’ εἴρηται ὅτι ἐκεῖνο πρὸ ἐνεργείας καὶ δυνάμεως καὶ ὑπάρξεως (ἓν γάρ, ἀλλ’ οὐ τρία, πρὸ δὲ τῶν ἄλλων ὡς ἓν καὶ τὰ τρία), ἀπορίᾳ δὲ ἡμεῖς καὶ νοήσεως καὶ ἐξηγήσεως παράγειν αὐτὸ ὅμως λέγομεν. Διακαθαρτέον δὲ τὸν τρόπον τῆς παραγωγῆς,
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Come accennato in apertura, lo studio sulla triade in Damascio può essere condotto in relazione a differenti gradi della dimensione principiale, dal momento che la triade si presta ad essere letta come struttura metafisico-concettuale che si è articolata in modo analogo nei livelli progressivamente inferiori delle ἀρχαί. Ciò significa che se da un lato l’Unificato realizza completamente il significato della nozione di ‘triade’ al punto tale da essere la triade in senso pieno 38, dall’altro è possibile sviluppare un discorso speculare sulla triade attinente all’Uno anteriore all’Unificato. Per questa ragione, le riflessioni contenute nel passo sopra riportato hanno in oggetto l’Uno-Tutto, ma possono essere estese ai restanti Principi, compreso l’Unificato su cui si è indagato più dettagliatamente. Puntualizzato questo aspetto, dalle righe menzionate è possibile dedurre quattro considerazioni fondamentali che possono valere da sintesi e conclusione dello studio sulla triade condotto in queste pagine. In primo luogo, occorre considerare i Principi come anteriori alle loro scansioni triadiche; non si tratta esclusivamente di un’anteriorità in termini metafisici indicante i rapporti di trascendenza tra i diversi piani del reale, piuttosto si tratta di un’anteriorità che marca il senso della separazione (e dunque della non corrispondenza) tra le realtà prime e i nomi e le nozioni a loro ricondotti. In secondo luogo, si osserva che i termini della triade e le rispettive peculiarità sono ‘indicativamente’ rappresentativi della specificità incomprensibile e indicibile di ciascun Principio a cui vengono attribuiti; in tal senso, si fa uso della nozione di triade – inesatta e parziale – «per indigenza di pensieri ed espressioni» 39 integralmente compatibili con l’inconcepibile straordinarietà dei Principi. Inoltre, il diadoco sembra suggerire che all’interno della disamina metafisica l’impiego della ‘struttura concettuale’ della triade è subordinato alla consapevolezza del necessario superamento della forma imperfetta e limitata di nozione espressa per l’appunto dalla triade. In ragione di questo il neoplatonico invita alla purificazione (διακάθαρσις) e semplificazione (ἀνάπλωσις) del pensiero imbrigliato in termini e concetti ὡς ὄντα ἀσύμφυλον ἡμῖν, καὶ οὔτε τῷ ἐνεργεῖν οὔτε τῷ δύνασθαι οὔτε τῷ ὑπάρχειν ἐπιτελούμενον, ἀλλὰ τῷ ἑνὶ πρὸ τῶν τριῶν ἀπορρήτῳ τρόπῳ. 38 Cfr. supra, pp. 126-127 e 131. 39 Ibid., I, p. 121, 12.
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non riferibili ai Principi. Ancora, si apprende che i processi principiali avvengono in una condizione di inconoscibilità e indicibilità; di conseguenza, il silenzio rappresenta la modalità superiore e più appropriata di riferimento ai Principi. Concludiamo sottolineando che, sebbene nella teorizzazione del De primis principiis Damascio avanza numerose considerazioni critiche circa la possibilità di stabilire una dottrina della triade coerente ed effettivamente ammissibile, la scansione triadica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια resta un fondamentale strumento di analisi e comprensione della verità ultima sull’Origine della totalità. Difatti la triade neoplatonica è utile a chiarire i rapporti di derivazione tra i Principi e a fare luce sul processo generativo del reale, senza che tuttavia essa sia in grado di dare conto definitivamente né dell’uno né dell’altro dei due processi. Infatti, nella dimensione originaria e insondabile dei Principi – come precisa Damascio – tutto si realizza in un modo che resta ineffabile.
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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO DI SIMPLICIO
Il nome di Simplicio, insieme con quello degli altri commentatori neoplatonici di Aristotele, come ha sottolineato Alessandro Linguiti in un suo studio 1, è stato a lungo ignorato, dal momento che gli studiosi avevano preferito concentrare la loro attenzione più sulle opere originali che sui lavori dei commentatori. Alla fine degli anni ’90, si assiste invece ad un cambiamento, e cioè al risveglio di un interesse per la lettura dei commenti neoplatonici che vengono considerati vere e proprie opere filosofiche, dotate di una loro coerenza interna e di un loro spessore scientifico. In particolare, fioriscono studi non soltanto sulla biografia di Simplicio 2 ma anche sugli aspetti dottrinali della sua opera, i quali certamente sono il frutto degli incontri del pensatore con i maggiori esponenti delle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria. Come afferma Ilsetraut Hadot 3 , possediamo di Simplicio i commenti al Manuale di Epitteto, al De caelo, alle Categorie e alla Fisica di Aristotele e il Commento al «De anima» 4, tramandato 1 Cfr. A. Linguiti, Studi recenti sulla vita e le opere di Simplicio, in «Studi classici e orientali», 38 (1989), pp. 331-346. 2 Cfr. I. Hadot, La vie et l’ouvre de Simplicius d’après des sources grecques et arabes. Introduction biographique, in Simplicius. Sa vie, son œuvre, sa survie. Actes du colloque international (Paris, 28 septembre - Ier octobre 1985), éd. par I. Hadot, Berlin - New York 1987 (Peripatoi, 15), pp. 5-39. 3 Cfr. ibid., pp. 5ss. 4 La sua autenticità venne messa in dubbio nel xvii secolo da Francesco Piccolomini che attribuiva la paternità del Commento al «De anima» a Prisciano. Cfr. Franciscus Piccolominei Senensis, Commentarii in libros Aristotelis De coelo, ortu et interitu; adiuncta lucidissima expositione, in tres libros eiusdem La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127955 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 141-152 ©
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sotto il nome di Simplicio, sul quale però sono ancora accese le discussioni circa la sua paternità. In questo contributo si tenterà di ricostruire il significato e la funzione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio e di mostrare come le nozioni di δύναμις e di ἐνέργεια all’interno della triade assumano un significato completamente differente da quello aristotelico. Per comprendere il significato che i singoli termini della triade rivestono nel pensiero di Simplicio, saranno presi in esame alcuni passi del Commento alla «Fisica» e altri del Commento al «De anima» di Aristotele, nei quali la loro occorrenza risulta particolarmente rilevante sul piano ermeneutico. La triade costituita da οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια (sostanza/ essenza – potenza – atto/attività) sembra attraversare tutta la tradizione neoplatonica pagana, soprattutto con la funzione di descrivere il modo in cui gli ambiti del reale siano strutturati e gerarchicamente ordinati dal punto di vista metafisico e ontologico. Nell’utilizzo della triade, Simplicio sembra innanzitutto seguire Proclo e, in particolare, quanto affermato nella proposizione 169 degli Elementi di Teologia, dove il filosofo neoplatonico de anima, nunc recens in lucem prodeunt, Moguntiae 1608, p. 1001ss. Su questo tema si veda lo studio di Henry Blumenthal, il quale pur non entrando nel merito della questione della paternità dell’opera, ne analizza la struttura, l’influenza aristotelica e in particolare le caratteristiche comuni a tutti gli esegeti neoplatonici; cfr. H. J. Blumenthal, Simplicius (?) on the first book of Aristotle’s De anima, in Simplicius. Sa vie cit., pp. 91-112. In favore della paternità di Simplicio, cfr. I. Hadot, Le problème du néoplatonisme Alexandrin, Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978 (Collection des études augustiniennes. Antiquité, 76); Soul and the Structure of Being in late Neoplatonism: Syrianus, Proclus and Simplicius. Papers and discussions of a Colloquium held at Liverpool (15-18 April 1982), ed. by H. J. Blumenthal - A. C. Lloyd, Liverpool 1982, pp. 46-70. Carlos Steel ritiene invece che l’opera possa non appartenere a Simplicio, dal momento che sembrano esserci delle divergenze di stile, di metodo e di contenuto tra questo commento e gli altri commenti aristotelici appartenenti a Simplicio e, invece, delle somiglianze del Commento al «De anima» con la Metaphrasis di Prisciano. Cfr. F. Bossier C. G. Steel, Priscianus Lydus en de «In de Anima» van Pseudo Simplicius, in «Tijdschrift voor Filosofie», 34 (1972), pp. 761-822 e C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006). Non intendo discutere in questa sede il problema della paternità del Commento al «De anima», in quanto non ritengo possa in alcun modo influenzare la mia ricostruzione della triade in oggetto nel pensiero di Simplicio.
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rivela come nella dimensione intelligibile sostanza, potenza e atto coincidano 5. Come si cercherà di mostrare, la perfetta identità della triade sostanza, atto e potenza è un concetto già espresso da Plotino, che la riferisce alla seconda ipostasi, il Νοῦς. L’identità di sostanza, potenza e atto si basa sul presupposto che, nella dimensione intelligibile, pensante (νοῦς), pensato (νοητόν) e intellezione (νοήσις) si identificano; Proclo afferma infatti: Ogni intelletto possiede nell’eternità essenza, potenza e atto. Infatti, se pensa se stesso e l’intelletto e l’intelligibile sono identici, anche l’intellezione è identica all’intelletto e all’intellegibile. Infatti, poiché l’intellezione è intermedia tra il pensante e il pensato, essendo quelli identici, sarà certo a sua volta identica a entrambi. Ma appare evidente che l’essenza dell’intelletto sia eterna: infatti essa è tutta quanta insieme simultaneamente. E l’intellezione allo stesso modo, se è vero che è identica all’essenza: in effetti, se l’intelletto è immobile, non potrebbe essere misurato dal tempo, né in base all’essere né in base all’atto. Ma essendo questi allo stesso modo, anche la potenza è eterna 6.
Proclo assume una prospettiva sostanzialmente simile a quella plotiniana, affermando che nell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica sussiste una sostanziale identità, fondata a sua volta sull’identità tra pensante e pensato. Inoltre, come già sottolineato da Plotino, poiché l’ambito dell’intelligibile non è soggetto alla dimensione della temporalità, bensì all’eternità, devono necessariamente esserci un’assoluta simultaneità e uniformità all’interno di esso e la conseguente assenza di qualsiasi forma di divisione e di successione 7. Il primo passo in cui non soltanto si ritrova la presenza della triade, ma nel quale Simplicio sembra
5 Per un maggiore approfondimento sulla presenza della triade in Proclo, si veda il contributo di M. Abbate contenuto in questo volume. 6 Proclus, Elementatio, prop. 169, p. 146, 24-30: πᾶς νοῦς ἐν αἰῶνι τήν τε οὐσίαν ἔχει καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν. εἰ γὰρ ἑαυτὸν νοεῖ καὶ ταὐτὸν νοῦς καὶ νοητόν, καὶ ἡ νόησις τῷ νῷ ταὐτὸν καὶ τῷ νοητῷ· μέση γὰρ οὖσα τοῦ τε νοοῦντος καὶ τοῦ νοουμένου, τῶν αὐτῶν ἐκείνων ὄντων, ἔσται δήπου καὶ ἡ νόησις ἡ αὐτὴ πρὸς ἄμφω. ἀλλὰ μὴν ὅτι ἡ οὐσία τοῦ νοῦ αἰώνιος, ‹δῆλον›· ὅλη γὰρ ἅμα ἐστί. καὶ ἡ νόησις ὡσαύτως, εἴπερ τῇ οὐσίᾳ ταὐτόν· εἰ γὰρ ἀκίνητος ὁ νοῦς, οὐκ ἂν ὑπὸ χρόνου μετροῖτο οὔτε κατὰ τὸ εἶναι οὔτε κατὰ τὴν ἐνέργειαν. τούτων δὲ ὡσαύτως ἐχόντων, καὶ ἡ δύναμις αἰώνιος. 7 Cfr. Plotinus, Enneades, III 7 [45], 3, 15-23.
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riprendere il contenuto della proposizione 169 di Proclo, è tratto dal Commento alla «Fisica» di Aristotele, dove si afferma: Dal momento che entrambi hanno riferito di questo essere unico, Platone nel Parmenide, lodando la sua superiorità, e Aristotele nella Metafisica, sostenendo che esso esiste e gridando che ‘molte teste non sono buone’, egli avendo proclamato anche prima di lui l’unificazione, e avendo bene osservato ciò, cioè che l’intelletto e l’intelligibile e la sostanza e la potenza e l’attività sono la stessa cosa 8.
Simplicio, menzionando prima Platone e poi Aristotele, afferma la superiorità ontologica della dimensione intelligibile e ne definisce il carattere essenziale e costitutivo, ossia l’unificazione, sottolineando come la molteplicità nella sua separatezza non possa dirsi ‘buona’ in alcun modo, mentre la molteplicità che si trova perfettamente unificata al suo interno è divina, poiché appartiene all’essere intelligibile. Simplicio fa la stessa operazione di Proclo, ossia sembra identificare nell’ambito dell’intelligibile l’οὐσία, dunque il νοῦς, con il νοητόν, il pensato, l’oggetto del νοῦς che, a sua volta, coincide con il νοῦς stesso, e l’ἐνέργεια con l’attività del νοῦς, l’intellezione, attraverso la quale l’intelletto pensa sé stesso, e infine la δύναμις dell’intelletto con la sua propria νοήσις. Il commentatore sembra riprendere, anche se in modo più contratto, quanto affermato da Proclo e soprattutto il concetto per cui nell’ambito dell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sussiste una sostanziale identità, fondata sul principio dell’identità originaria di pensante e pensato. L’identità di sostanza, potenza e atto, come affermato da Proclo nella proposizione 169 degli Elementi di Teologia, e lasciato, invece, intendere da Simplicio, è motivata dal fatto che in tale ambito ontologico c’è assenza della dimensione temporale, dal momento che l’intelligibile è caratterizzato dall’eternità. 8 Simplicius, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. H. Diels, Berlin 1882 (CAG, 9), p. 148, 17-23: ἐπεὶ καὶ ὁ Πλάτων τὸ ἓν ὂν τοῦτο παραδέδωκεν ἐν τῷ Παρμενίδῃ τὴν ὑπεροχὴν αὐτοῦ ἀνυμνῶν καὶ Ἀριστοτέλης ἐν τῇ Μετὰ τὰ φυσικὰ ἓν αὐτὸ εἶναι διατεινόμενος καὶ ἀναβοῶν ‘οὐκ ἀγαθὸν πολυκοιρανίη’ πρότερον αὐτοῦ καὶ οὗτος τὴν ἕνωσιν ἀνυμνήσας καὶ ὅτι ταὐτὸν ἐκεῖ νοῦς καὶ νοητὸν καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καλῶς θεασάμενος.
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Q uest’ultima implica, infatti, la simultaneità della molteplicità degli intelligibili all’interno dell’Intelletto e quindi la loro identità; pertanto nel Νοῦς non può esserci una effettiva distinzione fra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. La sostanza dell’Intelletto coincide con la sua potenza più propria, ossia con l’attività dell’intellezione. Non accade lo stesso, invece, nell’ambito delle realtà naturali, le quali sono soggette al movimento e dunque alla dimensione temporale. In un passo successivo del Commento alla «Fisica» di Aristotele, Simplicio ricorre nuovamente alla triade, ma questa volta in riferimento al fuoco 9, affermando: Infatti il fuoco ha una natura tale da possedere in sé stesso il principio e la causa del movimento verso l’alto, ed è così per natura e da esso, per natura, si muove verso l’alto, e non si può dire che l’innalzarsi verso l’alto abbia una natura, né che questo sia una natura; e neppure infatti una sostanza, ma piuttosto una potenza e un’attività che appartengono al fuoco, secondo la descrizione della sua stessa natura essa è detta in questo modo secondo natura 10.
In queste linee Simplicio prende in esame il fuoco, mostrando come anche nelle realtà naturali, le quali dipendono da quella intelligibile, sia presente la triade, anche se in modo differente e soprattutto non sotto forma di identità. In particolare, viene 9 Q uesto passo del Commento alla «Fisica» di Simplicio sembra riprendere Plotinus, Enneades, V [7] 4, 2, 30-33, dove Plotino fa riferimento al fuoco per chiarire la teoria della doppia attività, affermando che c’è una attività che è propria della realtà stessa e che coincide con la sua essenza e un’altra, invece, che scaturisce dalla realtà, ma si dirige verso l’esterno. Nel caso del fuoco, sottolinea Plotino, c’è un calore che ne costituisce l’essere e un altro che proviene da questo ma che finisce poi per distinguersi da esso, ossia dalla sua fonte. Cfr. anche Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 12-17: ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσία, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ’ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια·καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. 10 Simplicius, In Aristotelis physicorum libros commentaria, ed. Diels cit., p. 271, 3-8: γὰρ τὸ πῦρ φύσιν ἔχει ἐν ἑαυτῷ ἀρχὴν ἔχον καὶ αἰτίαν τῆς ἐπὶ τὸ ἄνω κινήσεως, κατὰ φύσιν δέ ἐστι καὶ φύσει τῷ πυρὶ ἡ ἄνω φορά. καὶ οὐκέτι φύσιν ἔχει τὸ φέρεσθαι ἄνω οὐδὲ ἔστι τοῦ ο φύσις· οὐδὲ γὰρ οὐσία, ἀλλὰ δύναμις καὶ ἐνέργεια κατὰ τὸν τῆς φύσεως λόγον ὑπάρχουσα τῷ πυρὶ καὶοὕτως λεγομέ η κατὰ φύσιν. καὶ φύσει δὲ τὸ αὐτὸ λέγεται. διὰ γὰρ τὴν ἑαυτοῦ φύσιν καὶ τὸ πεφυκέναι οὕτως ἔχει τὴν τοιαύτην δύναμιν καὶ ἐνέργειαν.
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presa in esame l’attività propria del fuoco, ossia quel movimento verso l’alto, che non è definibile né come φύσις, né come οὐσία, bensì nei termini di δύναμις e di ἐνέργεια, nel senso di una potenza e di un’attività che appartengono intrinsecamente al fuoco. In tal modo sembra evidente che in una realtà naturale, come quella del fuoco, i tre termini della triade sono presenti separatamente, nella misura in cui il fuoco può essere sostanza, in quanto fuoco; tuttavia, in riferimento alla sua peculiare attività, ossia al movimento che si sprigiona verso l’alto, esso non può essere definito nei termini di sostanza, bensì come potenza e attività. È inoltre interessante da osservare come Simplicio in riferimento al movimento del fuoco non sembri distinguere in alcun modo il concetto di δύναμις da quello di ἐνέργεια, bensì identificarli. L’identità della potenza con l’attività, come si cercherà di mostrare, comparirà anche nel Commento al «De anima» di Simplicio, dove il concetto di δύναμις è inteso in un’accezione differente da quella aristotelica, e cioè nel senso di facoltà o di potere, che corrispondono all’attività dell’anima. Come ha sottolineato Blumenthal, Simplicio, diversamente da Aristotele, non fornisce una definizione di δύναμις, bensì tende ad assimilare il concetto di potenza ad un altro che gli è simile, ma non necessariamente congruente 11. In questo caso, il concetto di potenza assume il significato di quello di attività; questo modo di procedere sembra richiamare ancora una volta Plotino e in particolare la sua definizione del Principio, l’Uno. Plotino afferma, infatti, che l’Uno è δύναμις τῶν πάντων 12, potenza di generare e di produrre tutte le cose, facendo riferimento alla sua capacità attiva di produrre ogni essere. In un altro passo del Commento alla «Fisica», Simplicio, analizzando il corpo vivente, mette invece in relazione il concetto di δύναμις con quello di οὐσία, affermando: [Ma se secondo Aristotele], la potenza di ogni corpo finito risulta a sua volta finita, è quindi necessario che la potenza 11 Cfr. H. J. Blumenthal, Dunamis in ‘Simplicius’, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 149-172], p. 159. 12 Plotinus, Enneades, III 8 [30], 10, 1-2.
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motrice, vale a dire quella che fa sussistere la sostanza, come possiede il movimento eterno a partire dalla causa immobile, allo stesso modo riceva la sostanza eterna corporea da quella incorporea 13.
In queste linee, il commentatore mette a confronto la δύναμις di un corpo finito con la sua sostanza: se la potenza che ogni corpo possiede è delimitata, anche la sua esistenza sarà delimitata; invece, per quanto concerne la potenza motrice, ossia quella che è causa dell’esistenza della sostanza, essa possiede il movimento eterno che riceve dal motore immobile, principio eterno e incorporeo, e da quest’ultimo riceve anche la sostanza eterna corporea. Simplicio sembra, quindi, distinguere la sostanza e la potenza finita del corpo sensibile da quelle infinite del motore immobile aristotelico, sottolineando che il corpo ha una sostanza finita, poiché la sua potenza è delimitata; mentre, poiché la causa immobile è una sostanza eterna e il suo movimento è, infatti, anche esso eterno, la potenza motrice che genere la sostanza dovrà anch’essa essere infinita e eterna. Anche in questo passo, il concetto di potenza riveste un significato differente da quello aristotelico, poiché esso sembra assumere un ruolo determinante nel processo di costituzione dell’essenza di un ente. La δύναμις è ciò che, innescando il movimento, genera la sostanza corporea. Il concetto di δύναμις anche in Simplicio, come già in Plotino, andrebbe quindi inteso nel senso di una potenzialità attiva capace di produrre e determinare gli enti. Il Primo Principio in Plotino è infatti la potenza di generare e di produrre ogni ente, che, altrimenti, non esisterebbe. La potenza dell’Uno è la sua attività: δύναμις è utilizzato come sinonimo di ἐνέργεια 14. L’Uno è δύναμις, intesa non nel suo significato di potenza passiva, che si attribuisce 13 Simplicius, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. H. Diels, Berlin 1895 (CAG, 10), p. 1363, 4-8: εἰ δὲ καὶ παντὸς σώματος πεπερασμένου κατ’ αὐτὸν πεπερασμένη ἡ δύναμις, ἡ κινητικὴ δηλονότι καὶ ἡ τῆς οὐσίας ὑποστατική, ἀνάγκη ἄρα ὥσπερ τὴν ἀίδιον κίνησιν ἀπὸ τῆς ἀκινήτου αἰτίας ἔχει, οὕτω καὶ τὴν ἀίδιον σωματικὴν οὐσίαν ἀπὸ τῆς ἀσωμάτου παραδέχεσθαι. 14 Aristotele concepisce Dio come atto puro, privo di potenza, che realizza la sua vita nel pensiero di sé stesso; cfr. Aristoteles, Metaphysica, XII 7, 1072 b 27ss. Il Principio di Plotino è invece definito come δύναμις attiva che non ha bisogno di pensare sé stesso, ossia di autodeterminarsi. Per l’approfondimento della questione cfr. W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt
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alla materia, ossia come capacità di ricevere una forma, diventando qualcosa nel pervenire all’atto alla fine di un processo, bensì, come potenza attiva, come forza produttiva di tutto l’essere. In un altro passo del Commento alla «Fisica», Simplicio si serve della triade in oggetto, questa volta però in riferimento alla sensazione, affermando: Le sensazioni mutano, [Aristotele] afferma di aver dimostrato come le sensazioni diventino tali in base all’attività. Triplice è infatti la sensazione, l’una sostanziale, l’altra è potenza della stessa sostanza, e la terza è attività della sostanza in relazione alla potenza. Q uesta dunque è la sensazione, egli afferma, rispetto all’attività, come il vedere e il sentire, è movimento attraverso una parte del corpo del sensibile che si è aggregato o disgiunto 15.
In questo passo Simplicio analizza la sensazione, affermando in primo luogo che essa muta, e che è tale, ossia una determinata sensazione, in base alla sua attività (ἐνέργεια). Inoltre, essa è triplice, proprio sulla base della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Si distinguono, infatti, una sensazione ‘sostanziale’, che è propria della sostanza, un’altra che è definita invece «potenza della stessa sostanza» e un’altra ancora che, invece, rappresenta la sensazione in atto, ossia l’ἐνέργεια. Anche in questo caso, facendo riferimento all’ambito del sensibile, a ciò che sempre muta, la triade non può trovarsi simultaneamente, bensì separatamente, in quanto viene utilizzata per distinguere le tre tipologie di sensazione. La sensazione viene definita da Simplicio un movimento (κίνησις) di aggregazione o di disgregazione di una parte del sensibile. Simplicio distingue quindi il movimento dall’attività (ἐνέργεια), dal momento che quest’ultima ha la funzione di specificare il movi-
a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995, p. 135); J. M. Rist, Plotinus, the Road to Reality, Cambridge 1967 (tr. it., Genova 1995), pp. 236-237. 15 Simplicius, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. Diels cit., pp. 1058, 30 - 1059, 4: ὅτι δὲ ἀλλοιοῦνται καὶ αἱ αἰσθήσεις, ἔδειξεν εἰπών, πῶς γίνονται αἱ αἰσθήσεις αἱ κατ’ ἐνέργειαν. τριττὴ γὰρ ἡ αἴσθησις, ἡ μὲν οὐσιώδης, ἡ δὲ δύναμις τῆς τοιαύτης οὐσίας, ἡ δὲ ἐνέργεια τῆς οὐσίας κατὰ τὴν δύναμιν. αὕτη οὖν ἡ κατ’ ἐνέργειαν, φησίν, αἴσθησις, οἷον τὸ ὁρᾶν καὶ ἀκούειν, κίνησίς ἐστι διὰ τοῦ σώματος τοῦ αἰσθητικοῦ μορίου συγκρινομένου ἢ διακρινομένου. Si tratta del Commento al libro VII della Fisica.
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mento e quindi di determinare la sensazione, guidandola verso la realizzazione di sé. Anche nel Commento al «De anima» è possibile trovare diverse occorrenze nelle quali il termine δύναμις è utilizzato da Simplicio in un senso più attivo, come in Plotino, riferendosi all’anima come potenza attiva capace di dare vita ad una serie di atti tra i quali quello della percezione sensibile. Infatti, se Plotino definisce l’anima «potenza infinita (δύναμις ἄπειρος)», forza creativa che non conosce limiti, in quanto si estende dovunque fra i corpi 16, Simplicio riprendendo la concezione neoplatonica dell’anima la definisce una natura intelligibile che, come dispiegamento di una realtà superiore, si estende dall’alto verso il basso fino ad essere presente nel mondo sensibile. Nel Commento al «De anima» compare la triade in oggetto; in questo passo Simplicio afferma che Aristotele distingue nell’anima due generi di potenze intellettuali: una pratica, la quale si serve dell’immaginazione e l’altra teoretica che, invece, è doppia: [Aristotele] distingue sufficientemente anche la potenza intellettuale delle anime, vedendone una pratica e una che invece si serve dell’immaginazione, una forma di vita corporea in accordo con la premessa particolare. L’altra è teoretica, e questa è doppia: una, attraverso l’attività che procede dall’essere, è incompleta o viene resa completa. Cade via nella prima potenzialità attraverso il suo essere incompleta, o si mantiene salda come potenzialità più completa, o anche come attività. Q uesta non fa alcun uso dell’immaginazione, ma le va dietro, come se fosse mossa da un procedere contemplativo attivo e da un ritirarsi dall’essere. L’altra consiste in quell’attività che è a riposo e che concentra la sua attività in una sola come identica all’essere. In questo imita anche l’intelligenza trascendente, ed è attività nella sua essenza. In questo stato di riposo è immortale, poiché è così in contatto con l’eterno ed è eternamente a riposo, pura nella sua vita separata; si muove in un certo senso da sé stessa nella sua inclinazione al modo di vita secondario, ma non per non essere mai a riposo. Q uindi è anche immutabile in un secondario modo; ma ciò che si inclina all’esterno non è immortale, poiché è variabile e non presente nella vita separata. Ha anche distinto i poteri deside-
Cfr. Plotinus, Enneades, IV 3, 9, 36-43.
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rativi dell’anima da quelli cognitivi, e indagato la natura dei poteri che gli esseri viventi hanno rispetto al movimento che gli fa cambiare di posto 17.
In queste linee Simplicio, distinguendo l’anima dalle sue potenzialità, sembra richiamare la teoria plotiniana della doppia attività. Il commentatore afferma infatti che all’interno della δύναμις teoretica è possibile distinguere un’attività dell’anima intellettuale in sé che corrisponde al suo atto interno e un’altra che si muove verso l’esterno. La prima attività si identifica quindi con l’essere e imita l’intelligenza trascendente; essa infatti, essendo in contatto con l’eterno, si trova in uno stato di riposo. Al contrario, l’attività che si rivolge verso l’esterno è soggetta al mutamento, quindi è variabile e, per questo, non è immortale. In questo passo Simplicio, ancora una volta, quando fa riferimento all’attività interna all’essere, assimila il concetto di ἐνέργεια a quello di οὐσία, dal momento che nell’ambito dell’intelligibile la sostanza si identifica con il suo atto e quindi anche con la sua δύναμις. Invece, per quanto concerne l’attività che si rivolge verso l’esterno, essa è definita ‘attività incompleta’, poiché corrisponde ad un ritrarsi dall’essere per dirigersi verso altro da sé. Nell’ultimo passo che mi sembra valga la pena prendere in considerazione, Simplicio commenta De anima 403a 27, e afferma le ragioni per le quali lo scienziato naturale decide di studiare l’anima: Come ‘tale’ egli intende non solo ciò che informa l’organo ma anche ciò che lo attiva e lo usa come organo, grazie al quale si 17 Pseudo-Simplicius, In Aristotelis libros «De anima» commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1882 (CAG, 11), p. 5, 6-23: διακρίνει δὲ ἱκανῶς καὶ τὰ περὶ τῆς νοερᾶς τῶν ψυχῶν δυνάμεως, ἑτέραν μὲν ὁρῶν τὴν πρακτικὴν ταύτην καὶ φαντασίᾳ χρωμένην, σωματοειδεῖ οὔσῃ ζωῇ, κατὰ τὴν μερικὴν πρότασιν· ἑτέραν δὲ τὴν θεωρητικήν, καὶ ταύτην διττήν, τὴν μὲν κατὰ τὴν ἀπὸ τῆς οὐσίας προϊοῦσαν ἐνέργειαν ἢ ἀτελῶς ἔχουσαν ἢ τελειωθεῖσαν, καὶ ἢ εἰς τὸ πρότερον δυνάμει διὰ τὸ ἀτελὲς ἐκπίπτουσαν ἢ κατὰ τὸ τελειότερον ἱσταμένην δυνάμει ἢ καὶ κατὰ τὸ ἐνεργείᾳ· ἥτις οὐ χρῆται μὲν τῇ φαντασίᾳ, ἑπομένην δὲ αὐτὴν ἔχει ὡς τῇ προϊούσῃ καὶ ἐξισταμένῃ τῆς οὐσίας ἐνεργητικῇ θεωρίᾳ συγκινουμένην· τὴν δὲ κατὰ τὴν μόνιμον καὶ εἰς ἓν καὶ ταὐτὸν τῇ οὐσίᾳ τὴν ἐνέργειαν συνάγουσαν· καθ’ ἣν καὶ τὸν ἐξῃρημένον μιμεῖται νοῦν, καὶ ἔστι τῇ οὐσίᾳ ἐνέργεια. καθ’ ἣν μόνην ἐστὶν ἀθάνατος, ὡς δι’ αὐτῆς τοῖς αἰωνίοις συναπτομένη καὶ ὡς ἀεὶ μὲν τὸ μόνιμον ἔχουσα, ἀκραιφνὲς μὲν ἐν τῇ χωριστῇ ζωῇ, ἀφιστάμενον δέ πως ἑαυτοῦ ἐν τῇ εἰς τὰ δεύτερα ῥοπῇ, ἀλλ’ οὐχ οὕτως ὡς μηδαμῶς μένον. ἔστι μὲν οὖν καὶ τότε μόνιμον δευτέρως· τὸ δὲ ἔξω ῥέπον οὐκ ἀθάνατον, ὡς μεταβαλλόμενον καὶ ὡς ἐν τῇ χωριστῇ ζωῇ οὐ παρόν. διελὼν δὲ καὶ τὰς ὀρεκτικὰς δυνάμεις ἀπὸ τῶν γνωστικῶν, τίνες αἱ κατὰ τόπον τῶν ζῴων κινητικαὶ δυνάμεις ἐπεξεργάζεται.
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muove e di cui si serve, e ciò che è generalmente incline verso il corpo, verso il quale si inclina. Ma come ‘tutta’ intende, oltre a questi aspetti, ciò che studia la verità sulle cose attraverso la proiezione e integrando la sua attività nella sua essenza. Poiché, infatti, l’essenza dell’anima è una e molteplice – nella misura in cui la stessa risiede nel substrato, in maniera durevole, e di volta in volta contemplando grazie alla proiezione e inclinandosi verso il corpo e usando il corpo e muovendolo – lo scienziato naturale sembra discutere di tutta l’anima. Chi studia questa in relazione all’aspetto, entra in contatto con essa nella sua interezza 18.
In queste linee Simplicio distingue l’anima come ‘tale’, ossia nella sua funzione di dare forma all’organo, il corpo, conferendogli la vita e il movimento, e l’anima come ‘tutta’, ossia l’anima nella sua parte più autentica, quella intelligibile. Simplicio afferma infatti che in riferimento a quest’ultimo senso, l’anima è ciò che studia la verità degli enti (τὴν θεωρητικὴν τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας), e questa attività finisce per identificarsi con la sua essenza. Pertanto, nell’anima ‘tutta’ l’ἐνέργεια e l’οὐσία sono caratterizzate da una intrinseca identità, dal momento che la ricerca della verità dell’essere rappresenta per l’anima la sua attività più alta, quella che ne definisce la sua natura intelligibile. Come è emerso dai passi esaminati, Simplicio nell’utilizzo della struttura triadica essenza – potenza – attività, sembra inserirsi perfettamente all’interno della tradizione neoplatonica, poiché dimostra come essa prenda forma compiuta all’interno della realtà intelligibile perfettamente dispiegata. Soltanto all’interno dell’Intelletto, infatti, non può essere presente né distinzione né differenziazione, piuttosto una dimensione originariamente unitaria che include in sé la molteplicità, che soltanto successivamente potrà dispiegarsi. Ecco perché i tre
18 Ibid., pp. 20-21, 39-45: τοιαύτην μὲν λέγει οὐ μόνον τὴν τὸ ὄργανον εἰδοποιοῦσαν, ἀλλὰ τὴν ὡς κινητικὴν αὐτοῦ καὶ ὡς ὀργάνῳ χρωμένην, ᾗ κινεῖ καὶ ᾗ χρῆται, καὶ τὴν ὅλως πρὸς σῶμα ῥέπουσαν, ᾗ ῥέπει· πᾶσαν δὲ πρὸς ταύταις καὶ τὴν θεωρητικὴν τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας κατά τε προβολὴν καὶ κατὰ τὴν εἰς τὴν οὐσίαν τὴν ἐνέργειαν συναιροῦσαν. ἐπεὶ γὰρ μία καὶ πολλὴ ἡ τῆς ψυχῆς οὐσία, καθὸ μὲν μία καὶ ἡ αὐτὴ τῷ ὑποκειμένῳ ἥ τε μονίμως καὶ ποτὲ κατὰ προβολὴν θεωροῦσα καὶ πρὸς σῶμα ἀπονεύουσα καὶ χρωμένη τῷ σώματι καὶ κινοῦσα αὐτό, περὶ πάσης ἂν δόξειεν ὁ φυσικὸς ποιεῖσθαι λόγον· τῆς γὰρ ὅλης ἐφάπτεται ὁ καθ’ ὁτιοῦν αὐτὴν θεωρῶν.
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termini della triade risultano a loro volta unificati all’interno della dimensione intelligibile. Inoltre, si è potuto osservare come, molto spesso, anche quando Simplicio prende in esame le realtà naturali o il corpo vivente, le nozioni di δύναμις e ἐνέργεια assumono una valenza profondamente diversa rispetto a quella originariamente aristotelica. In primo luogo, esse vengono utilizzate quasi in modo interscambiabile, dal momento che la nozione di potenza assume una valenza attiva e causale fino a identificarsi con l’attività vera e propria.
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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN GREGORIO DI NISSA E NEI CAPPADOCI PARALLELI FILOSOFICI E ASCENDENZE ORIGENIANE
La triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια fu sistematizzata da Giamblico per primo, così come l’esegesi neoplatonica. Plotino, come Porfirio, era ben noto a Gregorio di Nissa, ma sembra che anche Giamblico abbia esercitato qualche influenza sul Nisseno, almeno dal punto di vista esegetico, riguardo all’unicità dello σκοπός di un testo letterario. Anche Ronald Heine sostenne questa ipotesi nella sua introduzione alla traduzione del trattato In Inscriptiones Psalmorum di Gregorio 1, che interpreta il Salterio come unificato dallo σκοπός di condurre il lettore alla beatitudine. Gregorio aveva ben presente anche Origene sullo σκοπός dei libri scritturistici, ma Giamblico sembra pure averne influenzato l’esegesi, lo sviluppo delle facoltà dell’anima, ed anche la teorizzazione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Lo sviluppo progressivo delle facoltà dell’anima in ogni bambino, sostenuto da Gregorio 2, coincide con la dottrina propugnata da Giamblico agli inizi del secolo iv, una teoria che Giamblico affermava non essere ancora stata sostenuta: di lì a poco sarebbe stata sostenuta dal Nisseno. Giamblico, dopo aver riportato l’opinione di Porfirio che un bambino riceva l’anima appena nato, spiega la propria posizione: Potrebbe sorgere qualche altra opinione, non ancora espressa, che ci siano molte potenze e proprietà essenziali nell’anima (τὰς δυνάμεις καὶ τὰς οὐσίας τῆς ψυχῆς), e in certi momenti critici, in modi e tempi diversi, quando il corpo che viene svi1 Cfr. R. Heine, Introduction, in Gregory of Nyssa, Treatise on the Inscription of the Psalms, tr. ingl. di R. Heine, Oxford 1995 (OECS), pp. i-xii. 2 Cfr. I. Ramelli, Gregory of Nyssa, in A History of Mind and Body in Late Antiquity, ed. by S. Cartwright - A. Marmodoro, Cambridge 2018, pp. 283-305. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127956 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 153-179 ©
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luppandosi è adatto, prenda parte dapprima alla vita vegetale, poi della sensazione, poi alla vita appetitiva, quindi all’anima razionale (τῆς λογικῆς ψυχῆς), e finalmente dell’anima intellettuale (τῆς νοερᾶς) 3.
In effetti, lo sviluppo graduale delle facoltà dell’anima era stato sostenuto dagli Stoici 4, ma all’interno di una visione immanentistica. Gregorio, piuttosto, svilupperà la teoria di Giamblico, ed anche la sua teorizzazione della triade neoplatonica. Ulteriori paralleli con Giamblico potrebbero darsi nell’idea della partecipazione alla ἐνέργεια di Dio come una modalità della conoscenza di Dio e di se stessi, in sé ‘deificante’ (in quanto sia Giamblico sia Gregorio escludevano, come già Origene, che potesse darsi un’identificazione, da parte delle creature, con la οὐσία di Dio) 5. Anche Basilio e Gregorio di Nazianzo potrebbero essere venuti in contatto con le idee di Giamblico, ad esempio durante il loro soggiorno ateniese degli anni Cinquanta del secolo iv, sebbene non sembrino sussistere prove esplicite in questo senso. In Gregorio di Nissa l’applicazione più interessante della triade substantia – virtus – operatio sembra aversi in riferimento a Dio, quando Gregorio nel suo apofatismo, pur non estremo ma che giustamente è stato descritto come sistematico, sostiene che non possiamo dire nulla della natura di Dio (οὐσία), ma possiamo conoscere soltanto le sue operazioni (ἐνέργειαι), e ancora distingue tra le operazioni stesse e la potenza (δύναμις), che parimenti sembra rimanerci preclusa 6. Giustamente, infatti, Sarah Coakley 3 Iamblichus, De anima, 31, edd. J. F. Finamore - J. M. Dillon, Leiden Boston - Köln 2002 (Philosophia antiqua, 92), p. 58, 13-19 (traduzioni sempre mie, se non diversamente indicato). 4 Cfr. Chrysippus, Logica, I, 83, in Stoicorum veterum Fragmenta, ed. J. ab Arnim, 4 voll., Stuttgart 1903-1924, II, 1903, Chrysippi fragmenta logica et physica, p. 28, 11-30. 5 Q uesti ultimi paralleli sono stati osservati in D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of Christendom, Cambridge 2004, pp. 177-179. 6 Ari Ojell suggerisce che esistano quattro principî del ‘sistema apofatico’ di Gregorio, tra cui la distinzione creato-increato e quella οὐσία-ἐνέργεια; cfr. A. Ojell, The constitutive Elements of the apophatic System of Gregory of Nyssa, in «Studia Patristica», 41 (2006), pp. 397-402 (repr. in Id., One Word, one Body, one Voice. Studies in apophatic Theology and Christocentric Anthropology in Gregory of Nyssa, Helsinki 2007); sull’apofatismo del Nisseno, cfr. I. Ramelli, Apofatismo cristiano e relativismo «pagano»: un confronto tra filosofi platonici, in
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ha sottolineato di recente l’importanza della connessione istituita per Dio da Gregorio tra natura (φύσις) inconoscibile, potenza (δύναμις) nascosta e intima, e attività (ἐνέργεια) esplicata negli atti e nelle opere di Dio 7. Tale apofatismo moderato del Nisseno si trova soprattutto nell’Ad Ablabium 8, ove la natura divina è detta ἀκατονόμαστόν τε καὶ ἄφραστον: «con i nomi non si designa la natura divina, bensì con quanto si afferma si indica qualcosa di ciò che la riguarda (τι τῶν περὶ αὐτήν)» 9, ma ciò «non indica affatto quello che la Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda Antichità, a cura di A. M. Mazzanti, Bologna 2009 (Filosofia. ESD, 34), pp. 101-169; concorda G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Roma 2013 (Collana di teologia, 79), pp. 164 e 166. 7 Cfr. S. Coakley, Re-thinking Gregory of Nyssa: Introduction-Gender, Trinitarian Analogies, and the Pedagogy of the Song, in Re-thinking Gregory of Nyssa, ed. S. Coakley, Malden - Oxford 2003, pp. 1-13 (= «Modern Theology» 18 [2002], pp. 431-443). La suddetta opposizione influì profondamente sull’interpretazione dell’analogia uomo-Trinità, soprattutto per tramite di Théodore de Regnon; cfr. Th. de Régnon, Études de théologie positive sur la sainte Trinité, 3 voll., Paris 1892, su cui cfr. A. de Halleux, Personnalisme ou essentialisme trinitaire chez les Pères Cappadociens, in Id., Patrologie et oecumenisme: recueil d’études, Leuven 1990 (Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovaniensium, 93), pp. 215-268; M. R. Barnes, De Régnon reconsidered, in «Augustinian Studies», 26 (1995), pp. 51-79; discussione anche in M. Ludlow, Gregory of Nyssa ancient and (post-) modern, Oxford 2007, e nella mia recensione all’opera in «Review of Biblical Literature», 2008/4 (online). Su δύναμις ed ἐνέργεια in Gregorio cfr. A. Torrance, Precedents for Palamas’ Essence-Energies Theology in the Cappadocian Fathers, in «Vigiliae Christianae» 63 (2009), pp. 47-70, in partic. pp. 64-65; sul primo concetto in Gregorio, cfr. M. R. Barnes, Δύναμις and the anti-monistic Ontology of Nyssen’s «Contra Eunomium», in Arianism. Historical and theological Reassessments. Papers from the 9th International Conference on Patristic Studies (Oxford, Sept. 5-10 1983), ed. by R. C. Gregg, Cambridge (MA) - Philadelphia (PA) 1985 (Patristic Monograph Series, 11), pp. 327-334; J. C. M. van Winden, Notiz über Dynamis bei Gregor von Nyssa, in Hermeneumata. Festschrift für Hadwig Hörner zum sechzigsten Geburtstag, hrsg. von H. Eisenberger, Heidelberg 1990 (Bibliothek der Klassischen Altertumswissenschaften. NF, 2. Reihe, 79), pp. 147150 [= Id., Arché. A Collection of Patristic Studies, ed. by J. den Boeft - D. T. Runia, Leiden 1997 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 41)]. 8 Su quest’opera cfr. G. Maspero, La Trinità e l’uomo. L’«Ad Ablabium» di Gregorio di Nissa, Roma 2004 (Contributi di teologia, 42) (tr. ingl., Leiden 2007); e Id., Trinidad, in Diccionario de san Gregorio de Nisa, ed. por G. Maspero L. F. Mateo-Seco, Burgos 2006, pp. 870-895; anche A. Meredith, The Idea of God in Gregory of Nyssa, in Studien zu Gregor von Nyssa und der christlichen Spätantike, hrsg. von H. Drobner - C. Klock, Leiden 1990 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 12), pp. 127-147. 9 Gregorius Nyssenus, Ad Ablabium. Q uod non sint tres dei, PG 45, [115135], 122B, ed. F. Müller, Leiden 1958 (Opera, 3.1), p. 43, 14-15.
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natura è κατ᾽ οὐσίαν» 10, laddove οὐσία e φύσις in senso ontologico – e specialmente in ambito teologico, dove ricevono la caratterizzazione più importante, in particolare nella controversia eunomiana – nell’uso lessicale di Gregorio in genere si sovrappongono ampiamente 11. «Infatti, Colui che è invisibile nella sua natura diviene visibile nelle sue opere, ed è compreso per mezzo dell’intelletto in alcuni aspetti che la riguardano (τινα περὶ αὐτήν)» 12. Gregorio istituisce in effetti anche una connessione tra le attività divine e i nomi divini, nel senso che dalle attività derivano i nomi, quelli che Origene chiamava ἐπίνοιαι (che sono modi di concepire specialmente Cristo: Λόγος e Sapienza sono le sue due ἐπίνοιαι primarie, e hanno alle spalle un preciso retroterra filoniano; Giustizia è quella che segue Λόγος e Sapienza) 13. Dunque, ciò che per noi è conoscibile è l’ambito dell’estrinsecazione dell’attività divina, non la sua natura intrinseca; è ciò che ‘riguarda’ la natura (περί), non l’essenza stessa. Anche in questo caso, come spesso avviene in ogni campo, Gregorio si rifà a Origene 14, il quale pure 10 Ibid., 122C, p. 43, 20; cfr. L. F. Mateo-Seco, Nombres divinos, in Diccionario cit., pp. 659-670; G. C. Stead, Logic and the Application of Names to God, in El «Contra Eunomium I» en la producción literaria de Gregorio de Nisa. VI Coloquio internacional sobre Gregorio de Nisa, ed. por L. F. Mateo-Seco - J. L. Bastero, Pamplona 1988 (Colleción teológica, 59), pp. 303-320. 11 Cfr. Id., Ontology and Terminology in Gregory of Nyssa, in Gregor von Nyssa und die Philosophie. Zweites Internationales Kolloquium über Gregor von Nyssa (Freckenhorst bei Münster, 18-23 September 1972), hrsg. von H. Dörrie M. Altenburger - U. Schramm, Leiden 1976, pp. 107-119; J. Zachhuber, Ousia (Esencia, Sustancia), in Diccionario cit., pp. 702-709. 12 Gregorius Nyssenus, De beatitudinibus, VI, PG 44, [1194-1303], 1269A ed. J. Callahan, Leiden - New York - Köln 1992 (Opera, 7.2), p. 141, 25-27. 13 Cfr. Origenes, Contra Celsum, V, 39, PG 11, [641-1631], 1244AC, ed. M. Borret, 5 voll., Paris 1967-1976 (SC 132-136-147-150-227), III, 1969, pp. 116, 1 - 120, 28; I. Ramelli, Philosophical Allegoresis of Scripture in Philo and its Legacy in Gregory of Nyssa, in «Studia Philonica Annual», 20 (2008), pp. 55-99. Propone anche influssi gnostici Gaetano Lettieri, il quale nota come le ἐπίνοιαι Sophia-Unigenito e Logos-Primogenito corrispondano alle prime due tetradi valentiniane; cfr. G. Lettieri, Il nous mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel «Commento a Giovanni», in Il commento a Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti. Atti dell’VIII Convegno di studi del Gruppo italiano di ricerca su Origene e la tradizione alessandrina (Roma, 28-30 Settembre 2004), a cura di E. Prinzivalli, Verucchio - Rimini 2005 (Biblioteca di Adamantius, 3), pp. 177-277. Sono anche le potenze/ipostasi principali filoniane. 14 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 65, PG 11, 1397AC, ed. Borret cit., III, 1969, pp. 340, 1 - 342, 31.
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conosce l’espressione τὰ περί, già impiegata anche da Clemente Alessandrino in un passo precisamente concernente il processo di astrazione nella nostra conoscenza di Dio 15. Tale espressione e concezione fu usata anche da Plotino 16 seguito dai Neoplatonici ‘pagani’ 17, e dai Cappadoci 18 e sarà ripresa da un altro origeniano, lo pseudo-Dionigi 19. 15 Cfr. Clemens Alexandrinus, Stromata, V, 11, 71, 3, PG 8-9, [6851384/40-602], 9, 108B, ed. O. Stählin, 2 voll., Leipzig 1906-1909, I, 1909, p. 374, 2. La forte e continua dipendenza di Gregorio cui intendo riferirmi è dal vero pensiero di Origene, in via di riscoperta (oltre a lavori come quelli di Crouzel e di Simonetti e discepoli, nonché diversi della scrivente, ricordo M. Edwards, Origen against Plato, Aldershot 2002; P. Tzamalikos, Origen: Cosmology and Ontology of Time, Leiden 2006 (Supplement to «Vigiliae Christianae», 77); Id., Origen: Philosophy of History and Eschatology, Leiden 2007 (Supplement to «Vigiliae Christianae», 85), per cui rimando alle mie recensioni in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 99 (2007), pp. 177-181; 100.2-3 (2008), pp. 453458; cfr. anche C. Markschies, Origenes und sein Erbe. Gesammelte Studien, Berlin 2007 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 160); G. Lekkas, Liberté et progrès chez Origène, Turnhout 2002; C. Hengstermann, Origenes und der Ursprung der Freiheitsmetaphysik, Münster 2015 (Adamantiana, 8); P. Tzamalikos, Anaxagoras, Origen, and Neoplatonism: The Legacy of Anaxagoras to Classical and Late Antiquity, 2 voll., Berlin 2016 (Arbeiten zur Kirchengeschichte, 128), con la mia recensione in «Gnomon» 92.2 (2020), pp. 109-113; A. Fürst, Origenes: Grieche und Christ in römischer Zeit, Stuttgart 2017 (Standorte in Antike und Christentum, 9). Riteniamo che un’indagine sistematica delle dipendenze del Nisseno da Origene sia ancora necessaria. 16 Cfr. Plotinus, Enneades, V 3, 14, 8. 17 In particolare da Giamblico, come mostro in questa sede; quindi Siriano, Proclo e Damascio. 18 In ambito cappadoce, dove pure forte fu l’influsso di Origene, è usata nel secondo libro del Contra Eunomium da Basilio, secondo il quale Dio non è conoscibile in sé, ma solo attraverso quanto ‘Gli è attorno’, ossia mediante ciò che Lo riguarda; questa concezione va di pari passo con altre che Basilio ha in comune con Gregorio Nisseno, come quella della inconoscibilità di Dio e della sua ineffabilità; per questi temi e i relativi riferimenti cfr. I. Ramelli, Philo as One of the main Inspirers of early Christian Hermeneutics and apophatic Theology, in «Adamantius», 24 (2018), pp. 276-292. Per il rapporto tra Origene e lo pseudo-Dionigi cfr. Ead., The Christian Doctrine of Apokatastasis. A critical Assessment from the New Testament to Eriugena, Leiden 2013 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 120), pp. 694-722; Ead., Origen, Evagrios, and Dionysios, in The Oxford Handbook to Dionysius the Areopagite, Oxford 2022, pp. 94-108. Il rapporto con Origene e quello con Proclo (spesso al contempo) rientrano nel doppio schema di riferimento tipico di Dionigi: cfr. I. Ramelli, «Pagan» and Christian Platonism in Dionysius: The double-reference Scheme and its Meaning, in Byzantine Platonists 284-1453, Steubenville 2021 (Theandrites: Studies in Byzantine Platonism and Christian Philosophy, 1), pp. 92-112. 19 Cfr. CH II, 3, 140D, p. 12, 16-17.
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Secondo il Nisseno, «il divino, dal punto di vista della sua natura, è inafferrabile e inconcepibile (ἀνέπαφον, ἀκατανόητον)» 20, «inesprimibile con le parole e inaccessibile ai ragionamenti (ἄρρη τον, ἀνεπίβατον)» 21, cosicché noi ne conosciamo l’esistenza, ma non l’essenza 22. Nella seconda Omelia sul Cantico, l’anima si rivolge infatti a Cristo-Dio nei seguenti termini: «‘Dimmi, o tu che l’anima mia ha amato’ (Ct 1, 7): così, infatti, io ti chiamo per nome, poiché il tuo nome è al di sopra di ogni nome ed è inesprimibile e incomprensibile ad ogni natura razionale. Dunque, il sentimento dell’anima mia verso di te è il nome che fa conoscere la tua bontà» 23, e nella sesta Omelia Sulle beatitudini: «La natura divina, in quello che essa è in sé e per sé, è al di sopra di ogni pensiero che la possa comprendere, inaccessibile e inavvicinabile ad ogni intuizione di carattere congetturale, e finora nessuna forza umana è stata trovata capace di comprendere le realtà che sfuggono alla comprensione» 24. Nella dodicesima omelia sul Cantico, Gregorio ritorna più lungamente su questa problematica, nel contesto del tentativo dell’anima di accedere a Dio: Q uello che risulta essere sempre al di fuori di ogni impronta che lo faccia riconoscere, come potrebbe essere compreso per mezzo di un’indicazione contenuta in questo o quel nome? Per questo motivo l’anima escogita ogni significato di nomi, pur di indicare quel bene inesprimibile, ma ogni capacità discorsiva del ragionamento rimane sempre vinta e dichiarata inferiore all’oggetto che va cercando. Perciò [l’anima] dice: ‘Io l’ho chiamato come ho potuto, escogitando parole che indicassero la sua inesprimibile beatitudine, ma egli era sempre superiore all’indicazione suggerita dagli oggetti significati’. La stessa esperienza capita spesso anche al grande David, il quale invoca Dio con una infinità
20 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 138, PG 45, [243-1123], 956C, ed. W. Jäger, 2 voll., Leiden 1960 (Opera, 1), p. 265, 26-27. 21 Ibid., 140, 957A, p. 266, 13-14. 22 Cfr. ibid., 72-76, 933B-936A, pp. 247, 4 - 248, 24. 23 Id., In Canticum Canticorum, II, PG 44, [755-1119], 801A, ed. H. Langerbeck, Leiden 1960 (Opera, 6), p. 61, 12-17. 24 Id., De beatitudinibus, VI, PG 44, 1268B, ed. Callahan cit., p. 140, 15-20.
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di nomi, e ciononostante riconosce di essere rimasto al di sotto della verità 25.
L’anima, infatti, spiega Gregorio alla fine della stessa omelia, «non riesce a trovare Colui che è irraggiungibile dal significato dei nomi, apprende che ama un essere irraggiungibile e desidera Colui che è incomprensibile» 26. Per Gregorio, infatti, quando parliamo di Dio, «ci serviamo di svariate denominazioni (ἐπωνυμίαι) relative ad Esso, adattando gli appellativi (προσηγορίαις) in base alla varietà delle concezioni (κατὰ τὴν τῶν ἐπινοιῶν διαφοράν) 27», in quanto «il Signore è denominato dalla Scrittura in base a differenti ἐπίνοιαι (κατὰ διαφόρους ἐπινοίας)» 28: si nota qui il termine origeniano, anche se in Gregorio le ἐπινοίαι sono generalmente riferite a tutta la Trinità 29. L’ineffabilità e incomprensibilità di Dio e la nostra possibilità di dire qualcosa soltanto di quello che lo riguarda è un principio che Gregorio condivide con Plotino. Secondo quest’ultimo, infatti, poiché il dire presuppone una separazione tra parlante e oggetto nominato, e pertanto, per sua natura, afferisce alla dualità, e non all’uno, allora l’Uno «in verità, è indicibile, poiché, qualsiasi cosa tu dica, dici sempre qualche cosa (τι) (…) ci limitiamo a dire qualcosa che lo riguarda (περὶ αὐτοῦ)» 30. Per Gregorio, «la divinità, come sia secondo natura, è intangibile (ἀνέπαφον) e inconcepibile (ἀκατανόητον) e superiore ad ogni presa fornita dai ragionamenti (πάσης ἀντιλήψεως τῆς ἐκ τῶν λογισμῶν ὑψηλότερον)» 31. Similmente, per Plotino, è impossibile toccare, avere una presa sull’Uno, che sia egli stesso sia Gregorio concepiscono come infinito: «È ridicolo cercare di afferrare e circondare (περιλαμβάνειν) 25 Id., In Canticum Canticorum, XII, PG 44, 1028BC, ed. Langerbeck cit., pp. 357, 18 - 358, 8. 26 Ibid., 1037B, p. 369, 17-19. 27 Id., Contra Eunomium, II, 144, PG 45, 957CD, ed. Jäger cit., p. 267, 20-21. 28 Ibid., 300, 1012C, p. 314, 25-26. 29 Tuttavia, in De perfectione Gregorio analizza le ἐπίνοιαι di Cristo stesso; cfr. infra, nota 64. 30 Plotinus, Enneades, V 3, 13, 1-8. 31 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 138, PG 45, 956C, ed. Jäger cit., p. 265, 26-28.
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ciò che per natura è infinito (ἄπλετον)» 32. Anche per Gregorio, infatti, Dio, infinito com’è (principio di estrema importanza in Gregorio, derivato da Plotino ma, sospetto, anche da Origene), è inafferrabile come il punto d’origine di un cerchio, o come il raggio di luce del sole, come Gregorio spiega in metafore teologiche nel Contra Eunomium 33. È interessante osservare come la comparazione tra il sole e Dio, che risale ultimativamente alla Repubblica di Platone 34, sia particolarmente sviluppata anche nel Nazianzeno 35. L’equazione tra Dio e il sole in quanto supreme fonti di luce, l’una intellettuale e l’altra sensibile, era già ben presente in Origene, dove il Salvatore è definito ad esempio «luce intelligibile» 36 e «il sole che dà origine al gran giorno del Signore» 37. Origene si serve poi della similitudine con il sole per illustrare l’eccellenza e l’incomprensibilità divina, un altro aspetto pienamente recepito dai Cappadoci 38. Dunque, sia per Gregorio sia per Plotino – nel quale significativamente la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sembra comparire, nel sesto trattato delle Enneadi, in rapporto alla derivazione della seconda ipostasi dalla prima 39 –, lo sbocco è la teologia negativa, sebbene in Plotino questa possa essere molto più radicale per una Plotinus, Enneades, V 5, 6, 15. Cfr. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 666-669, PG 45, 456C457A, ed. Jäger cit., pp. 217, 26 - 218, 18; II, 80, 957B, p. 250, 10-17. Argomentazione per la derivazione dell’infinità di Dio anche da Origene nel mio Apokatastasis and Epektasis in Hom. in Cant.: The Relation between two Core Doctrines in Gregory and Roots in Origen, in Gregory of Nyssa: In Canticum Canticorum. Commentary and supporting Studies. Proceedings of the 13th International Colloquium on Gregory of Nyssa (Rome, 17-20 September 2014), ed. by G. Maspero M. Brugarolas - I. Vigorelli (Supplements to Vigiliae Christianae, 150), Leiden 2018, pp. 312-339. 34 Cfr. Plato, Respublica, VI, 508e ss. 35 Cfr. a titolo esemplificativo Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 301, 423, 495, 509, 647, 1125. 36 Origenes, Contra Celsum, V, 11, PG 11, 1196C, ed. Borret cit. (alla nota 13), III, 1969, p. 40, 1. 37 Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, I, 24, 161, PG 14, [21-829], 68B, ed. E. Preuschen, Leipzig 1903 (Origenes Werke, 4), p. 31, 5. 38 Cfr. Id., De principiis, I, 1, 5, PG 11, [115-414], 124AB, edd. H. Crouzel M. Simonetti, 5 voll., Paris 1978-1984 (SC 252-253-268-269-312), I, 1978, pp. 96, 114 - 98, 135. 39 Sulla triade in Plotino, cfr. in questo volume il contributo di M. Abbate. 32 33
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precisa base ontologica, in quanto in Plotino l’Uno trascende completamente l’essere, mentre Gregorio, come già Origene, in parte mantiene l’identificazione di Dio con l’essere. Per Plotino, l’Uno, o Dio, è conoscibile e dicibile solo negativamente: «Diciamo ciò che non è, ma ciò che è, non lo diciamo» 40; secondo Gregorio, la sostanza (οὐσία) divina «è conosciuta soltanto nel non poter essere compresa» 41, e già nel De anima et resurrectione troviamo rappresentati molti aggettivi negativi riferiti a Dio: è privo di dimensioni e di quantità e di forma sensibile; è invisibile, impalpabile, illimitato, incorporeo, immateriale, immortale, increato, indicibile, inesprimibile, non coglibile da alcuna definizione; la sua essenza è inaccessibile: soltanto la sua esistenza è rivelata grazie alla contemplazione del mondo – secondo il principio enunciato dal Salmo 18, 2, che Gregorio cita: «caeli enarrant gloriam Dei» – e le sue caratteristiche attinte per analogia. Infatti, quando Gregorio dice che la οὐσία di Dio non ci è comprensibile e conoscibile 42, intende certamente questo termine in senso non esistenziale – come pure è attestato nelle sue opere, ma preferibilmente in riferimento al creato –, bensì essenziale. Possiamo sapere che Dio esiste, ma non che cosa sia. Gregorio illustra l’impossibilità di comprendere e di esprimere la sostanza divina 43, interpretando la vicenda di Abramo come espressione allegorica dell’ascesa all’Uno 44. A partire dalla conoscenza sensibile, rappresentata dalla filosofia dei «Caldei», si passa, per via analogica, all’intelligibile, per cui la prima acquisizione dell’ascesa di Abramo è la conoscenza negativa di Dio, la consapevolezza dell’inconoscibilità della natura divina: Dopo avere percorso, riguardo ai concetti (ὑπολέψεις) relativi a Dio, ogni rappresentazione (εἰκασία) della sua natura proveniente dal nome, avendo purificato la facoltà razionale (λογισμός) da tali supposizioni (ὐπόνοιαι) e accolto la fede sce Plotinus, Enneades, V 3, 14, 5. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 373, PG 45, 368B, ed. Jäger cit., p. 137, 1-2. 42 Cfr. Id., In Hexaemeron explicato apologetica, PG 44, [62-123], 72C, ed. H. R. Drobner, Leiden - Boston 2009 (Opera, 4.1), pp. 19, 10-15. 43 Cfr. Id., Contra Eunomium, II, 67-71, PG 45, 932C-935D, ed. Jäger cit., pp. 245, 18 - 248, 3. 44 Cfr. ibid., 84-96, 940A-944A, pp. 251, 15 - 254, 30. 40 41
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vra e pura da ogni nozione (ἔννοια), considerò un indizio certo ed evidente della conoscenza (ἐπίγνωσις) di Dio il credere che esso sia al di sopra e al di là di ogni segno che ne procuri la conoscenza (γνωριστικός) 45.
Nella sesta Enneade Plotino affermava che è necessario allontanarsi sia dalla scienza sia dai suoi oggetti sia da ogni altro oggetto di contemplazione (θέαμα), per quanto sia bello. Ogni realtà bella, infatti, è posteriore all’Uno e proviene dall’Uno, come la luce diurna proviene interamente dal sole. Per questo si dice che non può essere detto né scritto, e tuttavia noi parliamo e scriviamo per indirizzare verso di esso e per svegliare dal sonno delle parole alla veglia della contemplazione, come se indicassimo la strada a chi volesse contemplare 46.
Insomma, i nomi e i concetti costituiscono il primo stadio della progressione verso l’Uno, rispetto al quale sono totalmente inadeguati: e sono essi stessi a rivelare tale inadeguatezza. Gregorio interpreta dunque Abramo come il simbolo di questa conoscenza negativa di Dio – condivisa da Plotino anche più radicalmente – 47, ma al contempo anche di quella della fede/fiducia (πίστις), che, a differenza di quanto accade in Platone, è totalmente positiva ed elimina il dualismo implicato invece dal dire/concettualizzare, che vorrebbe cogliere l’Uno come un oggetto, ma non può, mentre la fede ha esperienza diretta dell’Uno come presenza e si risolve nel silenzio di ogni parola e pensiero: «abbiamo imparato a onorare con il silenzio le realtà superiori alla parola e al pensiero discorsivo» 48. Anche per Plotino, l’Uno «è presente nel silenzio (ἀψοφητί)» 49 e «la conoscenza (σύνεσις) di esso non si ottiene né attraverso Ibid., 89, 941A, p. 253, 10-17. Plotinus, Enneades, VI 9, 4, 6-10. 47 Per l’influsso di Plotino sul Nisseno nella teologia apofatica, cfr. I. Ramelli, The Divine as inaccessible Object of Knowledge in ancient Platonism: A common philosophical Pattern across religious Traditions, in «Journal of the History of Ideas», 75 (2014), pp. 167-188. 48 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 1, PG 45, 909A, ed. Jäger cit., p. 226, 1. 49 Plotinus, Enneades, V 8, 11, 5. 45 46
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la scienza né attraverso il pensiero, come per gli altri intellegibili, bensì grazie ad una presenza che vale più della scienza (…) esso è presente, ma non è presente se non a coloro che possono accoglierlo» 50. La fede/fiducia, infatti, non è un possesso, ma l’accoglienza dell’Uno presente: «Basterà poterlo toccare in maniera intellegibile (…) solo più tardi si potrà riflettere su di lui. Ma in quell’istante bisogna credere (πιστεύειν) di aver visto (…) bisogna ritenere che esso sia presente» 51. «Dona loro, infatti, qualcosa di meglio e di più grande che il conoscerlo (εἰδέναι), concedendo loro piuttosto di toccarlo (ἐφάψασθαι) per quanto è loro possibile» 52. La fede è infatti un toccare l’Uno, il che è possibile soltanto attraverso l’astrazione, l’eliminazione di tutto il resto: è il celebre ἄφελε πάντα plotiniano 53. L’esito della teologia sia gregoriana e cappadoce (incluso Evagrio, che deve tanto del suo pensiero ai Cappadoci), sia plotiniana è mistico. Dio, infatti, secondo il Nisseno, si colloca al di sopra della nostra intelligenza, ma – a differenza di quanto accade nei Neoplatonici e a somiglianza di quanto accadeva invece in Platone – non è propriamente al di sopra dell’essere: anche Gregorio, come già Filone e in parte come Origene (che però è più ambiguo su Dio come Essere e al di là dell’Essere, Nοῦς e al di là del Nοῦς), non può prescindere dalla definizione di Dio in Esodo: Ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (Es 3, 14). In questo senso della distinzione tra essenza ed esistenza di Dio, dunque, sono interpretate da Gregorio le parole di Q ohelet, 5, 1, che non si deve proferire parola al cospetto di Dio, e quelle del Siracide, 3, 1, che non si deve indagare ciò che è troppo profondo: l’essenza di Dio, essendo inintelligibile e inesprimibile, non dev’essere sottoposta a una ricerca curiosa. Piuttosto, i nomi di Dio (le ἐπίνοιαι studiate da Origene e i nomi divini studiati poi da Dionigi Areopagita) sono da noi dati «a partire da ciascuna delle attività (ἐνέργειαι) a noi note» 54. «Il divino è nominato secondo diversi appellativi riferiti alle multiformi attività (ἐνεργειῶν)» 55; Ibid., VI 9, 4, 10-12. Ibid., V 3, 17, 2. 52 Ibid., 6, 6, 3. 53 Cfr. ibid., 3, 17. 54 Gregorius Nyssenus, Ad Ablabium, PG 45, 121D, ed. Müller cit. (alla nota 9), p. 44, 8-9. 55 Id., Contra Eunomium, II, 304, PG 45, 1013A, ed. Jäger cit., p. 315, 24. 50 51
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«Colui che è invisibile nella natura (τῇ φύσει ἀόρατος), diviene visibile nelle attività (ἐνέργειαι)» 56. Con i nomi possiamo dire solo «com’è» Dio, πῶς ἐστι, non «che cos’è», τί ἐστι 57. Dunque, conformemente agli altri due Cappadoci, Gregorio distingue l’esistenza e l’essenza di Dio, sostenendo che possiamo conoscere che Dio esiste, senza tuttavia sapere che cosa sia 58. Dio, infatti, in sé «trascende ogni movimento della mente» (ὑπερβαίνειν πᾶσαν διανοίας κίνησιν) 59. Perfino in contesto omiletico, Gregorio ritorna sulla distinzione tra l’ineffabilità della natura o sostanza divina e la nominabilità riservata al versante delle opere, dunque tra ambito della οὐσία e ambito delle ἐνέργειαι 60 – che sono comuni alle tre Persone – 61, ossia, usando ancora la terminologia dei Cappadoci, tra l’ambito intradivino della θεολογία e quello della οἰκονομία, dell’esplicazione della divinità nelle sue opere finalizzate alla sua gloria e alla nostra salvezza. Infatti, la fine del primo libro del Contra Eunomium e l’inizio del secondo vertono su una discussione dei rapporti tra teologia apofatica e teologia catafatica, con anche una disputa sull’origine naturale o convenzionale dei nomi. Gregorio, soprattutto all’inizio del secondo libro, propugna la teologia negativa (quoad nos) nella forma sopra specificata: la natura di Dio è assolutamente inaccessibile alla
56 Id., De beatitudinibus, VI, PG 44, 1269A, ed. Callahan cit. (alla nota 12), p. 141, 25-26. A riprova di quanto sia radicata in Gregorio questa distinzione tra la natura e le attività od operazioni di Dio, in Id., In Ecclesiasten Homiliae, VII, PG 44, [615-755], 732D, ed. P. Alexander, Leiden 1962 (Opera, 5) p. 414, 12-15, egli interpreta così la celebre sentenza che esiste un tempo per parlare e un tempo per tacere (Q o 3, 7): «Il ‘tempo di tacere’ si ha quando si vuole indagare sulla natura di Dio, mentre il ‘tempo di parlare’ si ha quando si vogliono annunciare le meraviglie delle sue opere»: si tratterebbe delle rispettive metafore della teologia apofatica e catafatica. 57 Id., Ad Ablabium, PG 45, 133C, ed. Müller cit., p. 56, 19. 58 Cfr., ad es., Basilius Caesarensis, Epistolae, 234, 2, PG 32, [868C872A], 869C, ed. Y. Courtonne, 3 voll., Paris 1957-1966, III, 1966, p. 43, 12-13: «La conoscibilità di Dio consiste nella percezione della sua inconoscibilità». 59 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 587, PG 45, 1108C, ed. Jäger cit., p. 397, 28-29. 60 Cfr. Id., In Canticum Canticorum, I, PG 44, 781D-784C, ed. Langerbeck cit. (alla nota 23), p. 36, 12 - 39, 1 (tr. it., Roma 1988, pp. 52-53). 61 Cfr. ad es. S. González, La identidad de operación en las obras exteriores y la unidad de naturaleza divina en la teología trinitaria de s. Gregorio de Nisa, in «Gregorianum», 19 (1938), pp. 280-301.
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mente umana; questa può conoscere soltanto «ciò che è intorno a Dio», ciò che Lo riguarda, τὰ περὶ τὸν Θεόν 62. La οὐσία di Dio, per noi inaccessibile, è comune a tutte le tre Persone, che sono tra loro consustanziali, e dunque vanno fatte rientrare tutte nell’ambito che Eunomio riservava al solo Padre, la «Οὐσία somma e unica propriamente detta», cosicché, fra l’altro, tra le Persone divine non è né necessaria né ammissibile alcuna forma di mediazione 63. Si comprende, su questa base, l’estensione non solo della οὐσία, ma anche della δύναμις, a tutte e tre le Persone della Trinità e l’identificazione completa tra δύναμις e volontà (θέλημα, βούλησις), e in genere fra tutti i nomi attribuiti alla divinità, cosicché gli attributi tradizionali di Cristo, quali Medico, Roccia, Sorgente, Via, Vita, Resurrezione, che Origene intendeva come ἐπίνοιαι di Cristo, sono attribuiti da Gregorio all’intera Trinità, che comunque, in tutte le tre Persone, trascende ogni nome, anche se quoad nos «diviene πολυώνυμος grazie alla varietà delle sue operazioni benefiche» 64. Dall’unicità della οὐσία discendono anche l’unicità della δύναμις e l’unicità della ἐνέργεια, cosicché, secondo l’ordine della nostra conoscenza, a partire da quanto possiamo constatare, se le tre Persone della Trinità hanno un’unica attività (ἐνέργεια), allora devono avere anche un’unica potenza (δύναμις) e, se hanno la stessa attività e la stessa potenza, avranno necessariamente anche la stessa φύσις e la stessa οὐσία 65. Si tratta di un’idea già presente in Ireneo, e, in area alessandrina, in un grande estimatore di Origene quale fu Atanasio, e in Didimo, discepolo di Origene. Sebbene Gregorio sia il pensatore che ha sviluppato la triade in modo più stringente, tra i Cappadoci, la nozione era condivisa anche da Basilio 66, che la utilizza come presupposto sia in rapporto al problema della conoscenza umana della Trinità, sia in rapporto alla 62 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 103, PG 45, 945A, ed. Jäger cit., p. 256, 28-29. 63 Cfr. Id., De beatitudinibus, PG 44, 1269A, ed. Callahan cit., p. 141, 15-27. 64 Id., Contra Eunomium, IIΙ, 8, PG 45, 832Α, ed. Jäger cit., p. 242, 10-11. 65 Cfr. Id., De oratione dominica, III, PG 44, [1120-1193], 1160A, ed. J. F. Callahan, Leiden 1992 (Opera, 7.2), p. 41, 6-10. Sul concetto di physis in Gregorio applicato soprattutto o alla divinità o alla natura umana, cfr. J. Zachhuber, Human Nature in Gregory of Nyssa, Leiden 2000. 66 Cfr. Basilius Caesarensis, De Spiritu Sancto, XVI, 38, PG 32, [67219], 136A-140B, ed. B. Pruche, Paris 19682 (SC, 17bis), pp. 376-384.
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trasmissione dei doni divini di bontà, santificazione e regalità: «La modalità della conoscenza di Dio viene dallo Spirito, che è uno, attraverso il Figlio, e risale al Padre, che è uno. Viceversa, la bontà per natura, la santificazione e la regalità provengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito» 67. L’unità di natura delle tre ipostasi garantisce anche l’unità delle loro operazioni. Nel caso della creazione, dunque, essendo unica la natura divina, unica è anche l’operazione creatrice delle tre ipostasi, anche se ogni ipostasi declina la causalità creatrice a proprio modo: il Padre è la causa iniziale, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa che perfeziona e santifica. Ogni ipostasi ha la stessa volontà d’agire (volontà di ἐνέργεια) delle altre 68. Basilio, come Gregorio, impiega la distinzione tra essenza e attività di Dio per salvaguardare la teologia apofatica: «Le attività di Dio (ἐνέργειαι) discendono verso di noi, mentre la sua sostanza (οὐσία) rimane inaccessibile» 69, sebbene qui non sia espressa la δύναμις. Inoltre, la necessità di considerare unitariamente οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια è un’istanza che in àmbito neoplatonico trova un parallelo anche in Giamblico 70, che, come esposto all’inizio del saggio, fu il sistematizzatore della triade in questione e influenzò il Nisseno in alcuni aspetti, possibilmente anche in rapporto alla triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Il legame che i Cappadoci ponevano tra οὐσία e δύναμις, per cui dalla identità di οὐσία discende l’identità della δύναμις, e viceversa, sul piano gnoseologico, dalla identità di δύναμις si può risalire alla identità di οὐσία, è istituito anche da Agostino. Agostino infatti enfatizzava «l’unità e l’eguaglianza» delle tre Persone della Trinità 71, e consequenzialmente l’attività della Trinità come «inseparabile ed eguale» 72. La consequenzialità tra l’unità ontologica Ibid., XVIII, 47, 153B, p. 412, 17-21. Cfr. ibid., XVI, 38, 136A-140B; cfr. anche ibid., VIII, 21, 105AC, pp. 318-
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319.
69 Id., Epistolae, 234, 1, PG 32, 869A, ed. Courtonne cit., III, 1966, p. 42, 2225: αἱ μὲν ἐνέργειαι αὐτοῦ πρὸς ἡμᾶς καταβαίνουσι, ἡ δὲ οὐσία αὐτοῦ μένει ἀπρόσιτος. 70 Cfr. Iamblichus, De mysteriis, I, 5, 18, edd. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Paris 2013, p. 9. 71 Cfr. Augustinus Hipponensis, De Trinitate, I, 6, 13, PL 42, [8191101], 827, edd. W. J. Mountain - F. Glorie, 2 voll., Turnhout 1968 (CCSL, 5050A), I, p. 42, 111-112; I, 7, 14, 828, p. 44, 4: «Unitas et aequalitas Trinitatis». 72 Ibid., II, 1, 3, 847, p. 83, 56: «Inseparabilis et par operatio».
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(di οὐσία) e quella dinamica o di attività (di δύναμις) è la stessa postulata dai Cappadoci e da Agostino (che da Origene fu influenzato profondamente in molti modi dalla sua fase anti-Manichea in poi) 73, probabilmente in base alle premesse di Origene 74. A monte di Atanasio, di Didimo e dei Cappadoci, e anche di Agostino, Origene aveva infatti insistito sull’assoluta unità di Dio, da lui descritto come monade o enade nel De principiis: essendo «di natura intellettuale», e non corporea, Dio è semplice, cui assolutamente nulla si può aggiungere, perché non si pensi che abbia in sé qualcosa di più o di meno, ma è in senso assoluto monade, e, per così dire, enade: intelligenza e fonte da cui deriva ogni intelligenza (…). Dio, che è principio di ogni cosa, non dobbiamo crederlo composto: altrimenti verrebbero ad essere anteriori allo stesso principio gli elementi di cui è composta qualsiasi cosa che diciamo sia composta 75.
In questo passo, a mens nella versione rufiniana è sotteso il greco νοῦς, che dunque qui Origene identifica con Dio, anche se nel Contra Celsum egli afferma che Dio o è Νοῦς o anche al di là del Νοῦς e della οὐσία 76, come Mario Vittorino dirà che Dio è «sine exsistentia, sine substantia, sine intellegentia, sine vita (…), Cfr. I. Ramelli, Origen in Augustine: A paradoxical Reception, in «Numen», 60 (2013), pp. 280-307. L’argomentazione è confermata da I. Perczel, St. Maximus on the Lord’s Prayer, in The Architecture of the Cosmos. St. Maximus the Confessor: New Perspectives, ed. by A. Lévy - P. Annala - O. Hallamaa et alii, Helsinki 2015 (Schriften der Luther-Agricola-Gesellschaft, 69), pp. 221-278, in partic. p. 229; da D. Heide, Ἀποκατάστασις: The Resolution of Good and Evil in Origen and Eriugena, in «Dionysius», 3 (2015), [pp. 195-213], p. 206; da C. Burns, Christian Understandings of Evil: The historical Trajectory, Minneapolis 2016, p. 77; da W. Howard-Brook, Empire Baptized: How the Church embraced what Jesus rejected, New York 2016, passim; e da M. Cameron, Origen and Augustine, in The Oxford Handbook of Origen (in stampa). 74 Cfr. I. Ramelli, Divine Power in Origen of Alexandria: Sources and Aftermath, in Divine Powers in Late Antiquity, ed. by A. Marmodoro - I. F. Viltanioti, Oxford 2017, pp. 177-198. 75 Origenes, De Principiis, I, 1, 6, PG 11, 125A-126A, edd. Crouzel-Simonetti cit. (alla nota 38), pp. 100, 150 - 193. 76 Cfr. Id., Contra Celsum, VII, 38, PG 11, 1473B, ed. Borret cit. (alla nota 13), IV, 1969, p. 100, 1-6; I. Ramelli, The Reception of Paul’s Nous in the Christian Platonism of Origen and Evagrius, in Der νοῦς bei Paulus im Horizont griechischer und hellenistisch-jüdischer Anthropologie, ed. by J. Frey - M. Nägele, Tübingen 2021, pp. 279-316. 73
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non per privationem sed per supralationem (…), praeexsistens, praevivens, praecognoscens» 77, «supra omnem exsistentiam, supra omne ὄν, supra omnem cognoscentiam, inintelligibile et incognoscibile» 78, dunque al di là o precedente la substantia, la conoscenza intellettuale e anche la operatio, come risulta dalle espressioni inoperans operatio e actio inactuosa 79, e dalla dichiarazione «ineffabiles res et investigabilia mysteria Dei voluntatum aut operationum» 80. Analogamente, Origene afferma che Dio è al di là anche dei νοητά 81, e sostiene che la natura e la potenza di Dio sono al di là della οὐσία 82. Si tratta di un’oscillazione presente in Platone stesso, che nella Repubblica dichiarava il Bene superiore all’Essere in dignità e potenza 83. Se Senocrate e Numenio identificano Dio con l’Uno e il Nοῦς, in Plotino il Nοῦς è notoriamente subordinato all’Uno. Gregorio aveva ben presente anche la trattazione origeniana; Origene precorre precisamente l’impostazione del Nisseno relativa all’incomprensibilità della natura o sostanza di Dio e alla pos sibilità, per noi, di conoscere Dio tramite le sue opere: Nei limiti delle nostre esigue forze, abbiamo conosciuto la natura divina considerandola più dalle sue opere che con la nostra capacità conoscitiva, abbiamo osservato le sue creature visibili e abbiamo conosciuto per fede quelle invisibili, poiché la fragilità dell’uomo non può vedere tutto con gli occhi Marius Victorinus Afer, Adversus Arium, IV, 23, PL 8, [1039-1138], 1129D, ed. A. Locher, Leipzig 1976, p. 156, 15-21; cfr. anche ibid., 26, 1132B, 29-33. 78 Id., Ad Candidum arianum, 13, PL 8, [1019-1036], 1027B, ed. A. Locher, Leipzig 1976, p. 18, 15-17. 79 Id., Adversus Arium, I, 12, PL 8, 1047B, ed. Locher cit., p. 42, 19; ibid., 13, 1047C, p. 42, 30. 80 Id., Ad Candidum arianum, 1, PL 8, 1019C, ed. Locher cit., p. 10, 5. Per uno studio linguistico dei termini negativi applicati a Dio in Vittorino cfr. C. O. Tommasi, Linguistic Coinages in Marius Victorinus’ Negative Theology, in «Studia Patristica», 43 (2006), pp. 505-510. 81 Cfr. Origenes, Exhortatio ad Martyrium, 46, PG 11, [563-637], 625A629A, ed. P. Koetschau, Leipzig 1899 (Origenes Werke, 1), pp. 42, 4 - 43, 18. 82 Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIX, 6, 37, PG 14, 536C, ed. Preuschen cit. (alla nota 37), p. 305, 16-17: ὑπερέκεινα τῆς οὐσίας; inoltre Contra Celsum, VI, 64, ἐπέκεινα οὐσίας ἐστὶ πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει (cfr. infra, alla nota 124). 83 Cfr. Plato, Respublica, VI, 509b. 77
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e conoscerlo con la ragione, in quanto l’uomo è il più debole e imperfetto fra tutti gli esseri razionali 84.
Lo stesso concetto si presenta poi anche in un altro autore che conosceva bene Origene: il Nazianzeno. In questi, l’applicazione della triade teologicamente più interessante e parallela a quella del Nisseno si trova nella seconda orazione teologica 85. Q ui Gregorio descrive i fondamenti principali della gnoseologia cristiana e significativamente incomincia con un’allusione al Simposio di Platone 86: la conoscenza di Dio sulla terra è fortemente limitata, non dal corpo tout court – che è proprio di tutte le creature, come osservava già Origene, probabilmente fin dalla creazione quali sostanze 87 – ma dal corpo spesso, «pesante e carnale», conseguente alla caduta 88. Q uesta osservazione era già di Origene, che per tanti versi ispirò il platonismo cristiano del Nazianzeno, e che il Nazianzeno difese nel Contra Eunonium Oratio prodialexis 89. Ad es. nel primo libro De principiis: «il nostro intelletto (mens) è limitato nella conoscenza delle realtà incorporee fintantoché è racchiuso nella prigione della carne e del sangue (intra carnis et sanguinis claustra concluditur)» 90, designante il corpo mortale post-lapsario e non il corpo in generale, che è posseduto anche dagli angeli. Per Origene, infatti, solo Dio-Trinità è senza corpo 91. Il passo di questa fondamentale orazione che ci interessa maggiormente in rapporto alla triade è 28, 2-3, ove Gregorio si fonda su un’interpretazione filoniana di Esodo 33, 23 che aveva 84 Origenes, De Principiis, II, 6,1, PG 11, 209BC, edd. Crouzel-Simonetti cit., p. 308, 4-11. 85 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, PG 36, 25-72, ed. P. Gallay, Paris 1978 (SC, 250), pp. 100-174. 86 Cfr. Plato, Symposius, 211e. 87 Cfr. I. Ramelli, Origen, in A History of Mind and Body cit. (alla nota 2), pp. 245-266. 88 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 4, PG 36, 29C-32A, ed. Gallay cit., pp. 106, 1 - 108, 19. 89 Cfr. Ramelli, The Christian Doctrine of Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 446-460. 90 Origenes, De principiis, I, 1, 5, PG 11, 124B, edd. Crouzel-Simonetti cit., p. 98, 125-128. 91 Cfr. Ramelli, Origen cit., e Conceptualities of Angels in Late Antiquity, in Inventer les anges de l’Antiquité à Byzance, ed. by D. Lauritzen, Paris 2021, pp. 1-58.
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già influenzato Origene 92. Q ui si precisa che Mosè non vide il volto di Dio, ma soltanto «il retro» di Dio (τὰ ὀπίσθια). Gregorio riflette che, quando rivolge lo sguardo a Dio, vede solo il retro di Dio, e anche questo «con fatica». Mosè non vede la natura di Dio, la «natura prima» che rimane nascosta perfino ai Cherubini. Q uanto gli esseri umani sulla terra possono raggiungere è «un’estremità» della natura di Dio e più precisamente la sua attività (ἐνέργεια) nella creazione e nel governo della creazione. Q ueste sono le indicazioni che Dio ha lasciato dietro di sé, come il retro. Dunque, la natura di Dio è la sua essenza (οὐσία), il retro di Dio è la sua attività (ἐνέργεια). Pertanto, Gregorio insiste che dobbiamo scoprire Dio attraverso la bellezza e l’ordine di ciò che vediamo, usando la vista come una guida verso quanto trascende la vista corporea 93. Con questi argomenti il Nazianzeno confuta anche Eunomio, il quale credeva di dedurre una diversità di sostanza fra le tre Persone a partire dalla diversità delle loro operazioni e non ammetteva la loro relazione 94: Gregorio desume invece l’unità di sostanza dall’unità di volontà, poiché «la volontà coincide con la natura (…) l’identità della volontà dimostra sicuramente anche la comunione delle nature di coloro che vogliono le stesse cose» 95. L’unità d’azione implica infatti anche unità di volere 96, poiché in Dio non intercorre alcun intervallo tra la volontà e la sua realizzazione nell’azione 97: la volontà del Figlio è specchio di quella del Padre e ne segue il movimento; anzi, il Figlio si è fatto volontà
92 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 2-3, PG 36, 28A-29B, ed. Gal lay cit., pp. 102, 1 - 106, 26; Ramelli, Philosophical Allegoresis cit. (alla nota 13). 93 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 13, PG 36, 41C-44B, ed. Gallay cit., pp. 126, 1 - 128, 34. 94 Cfr. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 207-210, PG 45, 313BD, ed. Jäger cit. (alla nota 20), pp. 87, 3 - 88, 17. Su cui cfr. Maspero, Essere e relazione cit. (alla nota 6); Id., Dio Trino perché vivo, Brescia 2018 (Letteratura Cristiana Antica, 31). 95 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 439-440, PG 45, 338A, ed. Jäger cit., p. 154, 6-9. 96 Cfr. G. Isaye, L’unité de l’opération divine dans les écrits trinitaires de Grégoire de Nysse, in «Recherches de Science Religieuse», 27 (1937), pp. 422439. 97 Cfr. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 227-230, PG 45, 985D988C, ed. Jäger cit., pp. 292, 3 - 293, 6.
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del Padre 98. Gregorio interpreta infatti la creazione nel senso del βούλημα di Dio che si fa sostanza (οὐσιοῦται) 99, nello stesso modo in cui si legge nell’In Illud: Tunc et Ipse Filius: «il volere divino divenne materia e sostanza delle creature» 100. L’implicazione della potenza di Dio nella creazione risulta anche dall’Explicatio in Hexaemeron, ove Gregorio afferma che Dio ha creato τῇ δυνάμει, in principio, la οὐσία di tutte le cose 101. Come osserva Zachhuber 102, il Nisseno dipende in questo da una tradizione stoica accolta anche dal neoplatonismo 103, ove la δύναμις non ha un senso deteriore, di imperfezione e mancanza di essere, come in Aristotele, bensì di potenzialità ontologica, di forza. Ma soprattutto, anche nell’uso di οὐσία per la creazione, Gregorio mi sembra dipendere da Origene, il quale ad esempio afferma che Dio «εἰς οὐσίαν ἔφερε τὰ πάντα» 104. Dopo avere realizzato la creazione, Dio resta presente nel mondo allo stesso modo in cui l’anima è presente nel corpo umano, in virtù della sua δύναμις, che consente di mantenere il mondo nell’essere 105, pur rimanendo completamente trascendente (dialettica derivata dallo pseudo-aristotelico De mundo), così come l’anima opera nel corpo attraverso la sua ἐνέργεια vitale, pur mantenendo la sua purezza e la semplicità della sua essenza 106. Già Origene sviluppa la similitudine tra la Provvidenza e la δύναμις Cfr. ibid., I, 288, 340B, p. 111, 17-22. Cfr. Id., De anima et resurrectione, PG 46, [11-161], 124B, edd. A. Spira E. Mühlenberg, Leiden 2014 (Opera, 3.3), p. 93, 11. 100 Id., In Illud: Tunc et Ipse Filius, PG 44, [1304-1325], 1312A, ed. K. Kenneth Downing, Leiden 1997 (Opera, 3.2), p. 11, 6-7. Cfr. Ramelli, Divine Power in Origen of Alexandria cit. (alla nota 76), pp. 177-198. Nella biografia di Gregorio il Taumaturgo, in Gregorius Nyssenus, De vita Gregori Thaumaturgi, PG 46, [893-959], 920A, ed. G. Heil, Leiden 1990 (Opera, 10.1), p. 24, 11-12, si legge l’affermazione che la volontà divina «si è fatta materia, struttura e potenza del mondo, di tutte le cose in esso contenute e delle altre che sono al di sopra del mondo». 101 Cfr. Id., In Hexaemeron explicato apologetica, PG 44, 77D, ed. Drobner cit. (alla nota 42), p. 27, 10-14. 102 Cfr. Zachhuber, Ousia cit. (alla nota 11), pp. 704-705. 103 Cfr. Plotinus, Enneades, III 2, 2. 104 Origenes, Fragmenta in Evangelium Ioannis (in catenis), Fr. 1, in Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, ed. Preuschen cit. (alla nota 37), p. 485, 3. 105 Cfr. Gregorius Nyssenus, De anima et resurrectione, PG 46, 24C, edd. Spira-Mühlenberg cit., p. 11, 3-7. 106 Cfr. ibid., 44BC, pp. 27, 19 - 28, 13; I. Ramelli, Gregory of Nyssa on the Soul (and the Restoration): From Plato to Origen, in Exploring Gregory of Nyssa: 98 99
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di Dio, che è diffusa ovunque nella creazione, e l’ispirazione divina che caratterizza l’intera Scrittura, dall’inizio alla fine, fino nei minimi particolari: dovunque possiamo trovarvi le tracce, le indicazioni della Sapienza divina, sparse in ciascuna lettera, poiché le parole della Scrittura, come sostenevano già i maestri giudaici, noti a Origene, sono state calcolate con la massima precisione. Considerata, dunque, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Gregorio, sorge l’interessante problema del rapporto con le triadi di Mario Vittorino, in particolare esse – virtus – operatio 107. Vittorino rientra nel Platonismo Cristiano, come Origene, il Nisseno, Sinesio, lo Ps. Dionigi ed Eriugena. Vittorino ascrive al Padre molte caratteristiche dell’Uno neoplatonico, e cerca di applicare gli schemi triadici neoplatonici alla Trinità, ad es. esse, vivere ed intelligere, che era anche stata una triade gnostica (Vittorino aveva una buona conoscenza della gnosi). Vittorino era un antiAriano, e anche in questo si mostra simile a Origene, che era di fatto un anti-subordinazionista 108; potrebbe anche aver guardato con simpatia la dottrina origeniana dell’apocatastasi 109. Il Padre in Vittorino è il polo dell’esse, e il Figlio (e lo Spirito) ricoprono quello dell’agere (ciò soprattutto nel IV libro Adversus Arium), conformemente alla forte concezione dinamica che caratterizza il pensiero vittoriniano. Historical and philosophical Perspectives, ed. by A. Marmodoro - N. McLynn, Oxford 2018, pp. 110-141. 107 Cfr. M. Baltes, Marius Victorinus. Zur Philosophie in seinen theologischen Schriften, München - Leipzig 2002 (Beiträge zum Altertumskunde, 174). Per un’altra triade cfr. D. N. Bell, Esse, vivere, intellegere: The noetic Triad and the Image of God, in «Recherches Théologiques», 52 (1985), pp. 5-43; R. Majercik, The Existence - Life - Intellect Triad in Gnosticism and Neoplatonism, in «Classical Q uarterly», 42 (1992), pp. 475-488; M. T. Clark, A Neoplatonic Commentary on the Christian Trinity: Marius Victorinus, in Neoplatonism and Christian Thought, ed. by D. J. O’Meara, Norfolk (VA) 1982 (Studies in Neoplatonism, 3), pp. 24-33. 108 Cr. I. Ramelli, Origen’s Anti-Subordinationism and its Heritage in the Nicene and Cappadocian Line, in «Vigiliae Christianae» 65 (2011), pp. 21-49; Ead., The Father in the Son, the Son in the Father in the Gospel of John: Sources and Reception of dynamic Unity in Middle and Neoplatonism, ‘Pagan’ and Christian, in «Journal of the Bible and its Reception», 7 (2020), pp. 31-66. 109 Sull’escatologia origeniana in Vittorino basata sulla dottrina dei λόγοι cfr. Ead., The Christian Doctrine of Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 607-616; E. Scully, Physicalism as the Soteriological Extension of Marius Victorinus’s Cos mology, in «Journal of Early Christian studies», 26 (2018), pp. 221-248.
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Si può sospettare, come in molti casi, un influsso origeniano. Ovviamente Vittorino e Gregorio conoscevano bene anche il primo neoplatonismo 110; credo che però si possa fare un passo in avanti e supporre un’assimilazione non solo degli sviluppi del Platonismo, ma anche di un sistema platonico già cristianizzato come era quello di Origene, dove la riflessione su οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια in specifico riferimento al Dio cristiano aveva assunto connotati già precisi. Ricordiamo che Origene aveva avuto ad Alessandria lo stesso maestro di filosofia di Plotino, Ammonio Sacca, e che Porfirio aveva conosciuto Origene in gioventù e lo stimava profondamente come filosofo (rammaricandosi che fosse ‘diventato’ cristiano) 111. Sia Vittorino sia il Nisseno, come pure altri estimatori ed ammiratori di Origene, inclusi Atanasio e Marcello di Ancira, erano fortemente antiariani. Q uesto è indicativo rispetto al presunto subordinazionismo di Origene 112. Diversamente da Plotino, che pone l’Uno al di là dell’essere, Porfirio, ben noto sia a Vittorino sia al Nisseno, identifica l’essere e l’Uno 113 secondo una concezione più compatibile con quella che deve considerare Esodo 3, 14: l’essere, quindi, diviene intelligibile nell’atto (ἐνέργεια). Ora, la stessa opzione metafisica di Porfirio che si ritroverà sia in Vittorino 114 sia in Gregorio, ossia l’identificazione di Dio con l’essere e la sua esplicazione nell’azione, si 110 Per Gregorio cfr. Ramelli, Gregory of Nissa cit. (alla nota 2); per Vittorino cfr. P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33); Id., Marius Victorinus. Recherche sur sa vie et ses oeuvres, Paris 1971 (Études augustiniennes. Antiquité, 44). 111 Su cui cfr. I. Ramelli, Origene filosofo cristiano, Il Peri Arkhôn e i suoi oppositori, in Teologie dell’esperienza, a cura di D. Bertini - G. Salmeri - P. Trianni, Roma 2010, pp. 111-136; Ead., Origen, Patristic Philosophy, and Christian Platonism: Re-Thinking the Christianisation of Hellenism, in «Vigiliae Christianae», 53 (2009), pp. 217-263. 112 Cfr. Ead, The Trinitarian Theology of Gregory of Nyssa in his In Illud: Tunc et Ipse Filius. His Polemic against «Arian» Subordinationism and the Apokatastasis, in Gregory of Nyssa: The minor Treatises on Trinitarian Theology and Apollinarism. Proceedings of the 11th International Colloquium on Gregory of Nyssa (Tübingen, 17-20 September 2008), ed. by V. H. Drecoll - M. Berghaus, Leiden 2011 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 106), pp. 445-478. 113 Cfr. M. Edwards, Porphyry and his intelligible Triad, in «Journal of Hellenic Studies», 40 (1990), pp. 14-25. 114 Cfr. A. Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung der göttlichen Seinsfülle nach Marius Victorinus, München 1972 (Münchener Theologische Studien, 2, Systematische Abteilung, 41).
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riscontra già in Origene, sebbene, come si è detto, con notevoli sfumature. Proprio l’identificazione di Dio con l’essere modera l’apofatismo di Vittorino, così come quello del Nisseno e, prima di loro, quello di Origene. Vittorino, infatti, ha chiaro che la sua teologia negativa non implica la negazione dell’essere di Dio, ma ne afferma la trascendenza assoluta: «non per privationem, sed per supralationem» 115. L’associazione δύναμις-ἐνέργεια è tipica del Corpus Hermeticum, degli Oracoli Caldaici, che tanta parte hanno nella teologia neoplatonica, e che postulano un Padre, un principio intermedio identificabile con la Δύναμις, e un Νοῦς paterno, e in Porfirio, che conosceva bene sia questi testi sia, come si è detto, anche Origene. Nel De regressu animae (un testo da studiare per la concezione porfiriana dell’apocatastasi), Porfirio postulava un Padre, un Figlio o Nοῦς paterno, e un principio intermedio che Agostino, riportando il pensiero di Porfirio, identificava con lo Spirito Santo 116. Oltre a Vittorino, anche Marcello di Ancira usa la coppia δύναμις-ἐνέργεια, e Origene, ben noto a Marcello, trovava il binomio δύναμις-ἐνέργεια in un testo per lui fondamentale nella formazione del suo concetto trinitario di ipostasi, cioè Sapienza 7, 25-26: il Figlio è emanazione della δύναμις di Dio e specchio della ἐνέργεια di Dio. Se il Figlio condivide δύναμις ed ἐνέργεια, condividerà anche la οὐσία di Dio, e in effetti Origene riteneva il Figlio coeterno e consustanziale al Padre 117. Nelle seguenti considerazioni sarà necessario includere alcune riflessioni sull’anti-subordinazionismo di Origene e sulla sua propensione verso la ὁμοουσιότης del Figlio, data l’importanza della nozione di ὁμοούσιος in questo contesto: Gregorio sembra infatti essersi ispirato a Origene per la propria teologia trinitaria, che è riassunta dalla formula μία οὐσία
115 Marius Victorinus Afer, Adversus Arium, IV, 23, PL 8, 1129D, ed. Locher cit. (alla nota 79), p. 156, 17-18. 116 Cfr. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, X, 29, PL 41, [13-805], 307-309, edd. B. Dombart - A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 47-48), I, pp. 304-307. 117 Cfr. M. Edwards, Did Origen apply the Word Homoousios to the Son?, in «Journal of theological Studies», 49 (1998) 658-670; I. Ramelli, Origen, Greek Philosophy, and the Birth of the Trinitarian Meaning of Hypostasis, in «Harvard Theological Review», 105 (2012), pp. 302-350; Ead., The Father in the Son cit.
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τρεῖς ὑποστάσεις 118. L’ispirazione origeniana e l’importanza della ὁμοουσιότης spiegano come mai Gregorio insista sul concetto di una οὐσία – una δύναμις – una ἐνέργεια nella Trinità e deduca, come vedremo, l’unicità della οὐσία di Dio dalla unicità della δύναμις e della ἐνέργεια (quoad nos) e viceversa (quoad Deum). L’analisi sistematica dei concetti di οὐσία, ἐνέργεια e δύναμις in Origene porta a ritenere che la concezione dei Cappadoci, e specialmente del Nisseno, sia debitrice delle riflessioni teologiche origeniane. Il passo più interessante e rappresentativo mi sembra trovarsi nel diciannovesimo libro del Commento a Giovanni, in cui Origene sostiene che Dio ha una essenza οὐσία e che la φύσις e la δύναμις di Dio sono al di là dell’essere οὐσία, e che non ci è dato di raggiungerle direttamente. Origene afferma infatti che si deve dapprima «comprendere e contemplare (νοεῖν, θεωρεῖν) la verità», e poi, non «comprendere e contemplare», ma soltanto scorgere (ἐνιδεῖν) «l’essenza di Dio (οὐσία), ovvero la sua potenza (δύναμις) e la sua natura, che si trovano al di là dell’essere (ὑπερέκεινα ὀυσίας)» 119, con reminiscenza dalla Repubblica di Platone 120. L’accesso a Dio non avviene direttamente, ma tramite una scala che esiste anche in Plotino 121, che con Origene condivise il discepolato presso Ammonio. Tuttavia, va osservato che in Origene la scala è non il νοῦς, bensì il Figlio di Dio (che è Νοῦς divino), ed è paragonata ai gradini del Tempio attraverso cui si accedeva al Santo dei Santi. Si noti anche che in Origene la verità viene sia compresa sia contemplata, mentre l’essenza e la potenza di Dio, superiori all’essere, vengono soltanto intraviste, ma non possono essere comprese. Dio, infatti, secondo Origene, è impossibile da conoscere alla ragione umana 122, e tuttavia è intelligibile (νοητός), pur essendo superiore a tutto (πάντων ἐπέκεινα ὤν) 123. Dio è infatti superiore 118 Cfr. Ead., Origen’s Anti-Subordinationism cit., passim, e Ead., The Trinitarian Theology of Gregory of Nyssa cit., passim. 119 Cfr. Origenes, Commentarii in Evangelium Ioannis, XIX, 6, 37-38, PG 14, 536CD, ed. Preuschen cit., p. 305, 16-17; l’essenza e la potenza di Dio com paiono in coppia anche ibid., XX, 24, 207, 628C, p. 358, 19-20. 120 Cfr. Plato, Respublica, VI, 509B. 121 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 7, 36: ἀναβασμοί, ἐπιβάσεις. 122 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 65, PG 11, 1397AC, ed. Borret cit. (alla nota 13), III, 1969, pp. 340, 1 - 342, 31. 123 Cfr. ibid., VII, 45, 1485C-1488B, IV, 1969, pp. 120, 1 - 122, 34.
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all’essere e all’intelletto per dignità e potenza (ἐπέκεινα οὐσίας ἐστι πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει 124 ed ἐπέκεινα νοῦ καὶ οὐσίας 125), ma al contempo è anche essere in senso pieno (καὶ αὐτός ἐστιν οὐσία 126). Come Origene spiega nel ventesimo libro del Commento a Giovanni 127, soltanto la natura invisibile e incorporea è οὐσία in senso proprio (κυρίως οὐσία) 128, platonicamente tutto il resto è οὐσία e ha l’essere solo per partecipazione all’essere che è Dio 129: a differenza delle creature, invece, il Figlio, che è Dio, non ha l’essere per partecipazione, così come non è Dio per partecipazione, bensì per essenza (οὐ κατὰ μετουσίαν, ἀλλὰ κατ᾽ οὐσίαν ἐστι Θεόν) 130. Analogamente nel Contra Celsum, giocando sulla categoria platonica di partecipazione – che Origene usa spesso –, Dio non partecipa (μετέχει) della οὐσία, poiché è anzi partecipato (μετέχεται) da quanti hanno lo Spirito di Dio, più che partecipare; così anche «il Salvatore non partecipa della Giustizia, ma è la Giustizia ed è partecipato dai giusti» 131. Origene deve mantenere l’identità di Dio con l’essere in senso assoluto e sommo per via della citata formula di Esodo 3, 14, ma anche per poter identificare, con Platone, l’essere con il Bene, e ridurre il male a non-essere, esattamente come poi farà il Nisseno: Ibid., VI, 64, 1396C, III, 1969, p. 340, 20. Ibid., VII, 38, 1473B, IV, 1969, p. 100, 1; cfr. J. Whittaker, Epekeina Nou kai Ousias, in «Vigiliae Christianae», 23 (1969), pp. 91-104. 126 Origenes, Contra Celsum, VII, 38, PG 11, 1473B, IV, 1969, p. 100, 1; cfr. anche Id., De principiis, I, 3, 5, PG 11, 150B, edd. Crouzel-Simonetti cit. (alla nota 38), I, p. 152, 146. 127 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 18, 159, PG 14, 613D, ed. Preuschen cit., p. 351, 11-14. 128 Cfr. Id., Contra Celsum, VI, 71, PG 11, 1405B-1408A, ed. Borret cit., III, pp. 356, 1 - 360, 28. 129 Cfr. ibid., VI, 64, 1396BD, pp. 338, 1 - 340, 28. 130 Id., Selecta in Salmos, PG 12, [1053-1685], 1656A, che molto probabilmente riflette il pensiero maturo di Origene; cfr. I. Ramelli, Origen between apophatic Theology and a new Trinitarian Ontology: Ousia, Will, Hypostasis, and Legacy, Invited lecture, New Trinitarian Ontologies (Cambridge University, 1315 September 2019), in pubblicazione. Anche l’insistenza di Origene sull’eternità del Figlio e sulla sua identità di οὐσία con il Padre sono indicazioni contro il suo presunto subordinazionismo. Cfr. Ramelli, The Trinitarian Theology of Gregory of Nyssa cit., pp. 445-478; per la nozione di eterno in Origene, Ead., Origene ed il lessico dell’eternità, in «Adamantius», 14 (2008), pp. 100-129. 131 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 64, PG 11, 1396C, ed. Borret cit., III, p. 338, 15 - 340, 1. 124 125
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infatti, οὐκ ἔσονται οὐσίαι τὰ κακά 132. Dio è Bene non soltanto per habitus, ma anche per sostanza 133. La δύναμις di Dio è buona e la sua ἐνέργεια si esplica nella creazione e nella Provvidenza. Un’ulteriore distinzione tra la οὐσία di Dio e la sua ἐνέργεια, che si manifesta nella provvidenza e nell’aiuto alle creature, si trova nell’esegesi origeniana ai Salmi 134. La stessa polarità si ritrova in Gregorio, per cui, se Origene dice che Dio è superiore al Nοῦς e alla οὐσία 135, Gregorio afferma che è superiore al νοῦς 136, a tutti gli esseri 137, e al Bene stesso 138. Q uest’ultimo punto poteva essere problematico per i Platonici, anche se altrove Gregorio identifica Dio con il Bene e il Bello 139. Addirittura, da Origene sembrerebbe precorsa la formula cappadoce μία οὐσία τρεῖς ὑποστάσεις, come pure quella dello ὁμοούσιος; scrive infatti l’Alessandrino: il Padre, il Figlio e lo Spirito «sono Uno non per confusione, ma per una sola οὐσία; tre ipostasi perfette in tutti e corrispondenti. Il Padre generò secondo natura; perciò il Figlio è stato generato consustanziale» 140. E nel 132 Id., Philocalia, XXIV, 4, ed. J. Armitage Robinson, Cambridge 1893, p. 218, 25. 133 Cfr. Id., Selecta in Numeros, PG 12, [573-583], 577D. 134 Cfr. Id., Selecta in Salmos, PG 12, 1521. 135 Cfr. Id., Contra Celsum, VI 64, PG 11, 1396C, ed. Borret cit., III, p. 338, 15 - 340, 1; VII, 38, IV, pp. 100, 1 - 102, 27. Così, egli dice che il Λόγος è superiore agli angeli e alle anime dei giusti «per ousia e dynamis e dignità»; Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIII, 25, 152, PG 11, 444A, ed. Preuschen cit., p. 249, 26-28; afferma inoltre in Id., De oratione, 23, PG 11, [415-561], 485D, che l’ousia di Dio è separata da tutte le creature, evidentemente per la sua trascendenza. 136 Cfr. Gregorius Nyssenus, In Canticum Canticorum, V, PG 44, 873C, ed. Langerbeck cit. (alla nota 23), p. 157, 15. 137 Cfr. Id., De perfectione Christiana, PG 46, [251-287], 265A, ed. W. Jäger, Leiden 1963, (Opera, 8.1) p. 188, 15-16). 138 Cfr. Id., In Ecclesiasten homiliae, VIII, PG 44, 740D, ed. Alexander cit. (alla nota 58), p. 425, 8-13. 139 Cfr. I. Ramelli, Good/Beauty, Agathon/Kalon, in The Brill Dictionary of Gregory of Nyssa, ed. by G. Maspero - L. F. Mateo-Seco, Leiden 2010 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 99), pp. 356-363. 140 [Origenes], Scholia in Matthaeum, 28, PG 17, [289-310], 309. Naturalmente la paternità del passo degli scolii può essere contestata; tuttavia, un’imponente serie di altre prove induce a ritenere che Origene abbia precorso la dottrina trinitaria niceno-costantinopolitana, come cerco di mostrare in Ramelli, Origen’s Anti-Subordinationism cit. (alla nota 110), in The Father in the Son cit., pp. 31-66 e, con ulteriori argomentazioni, in Origen between apophatic Theology cit. Concorda con la mia interpretazione del commento a Mt 28, 19, anche Panayiotis
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ILARIA RAMELLI
Commentario a Giovanni Origene precisa che la οὐσία delle tre Persone è comune 141: Padre e Figlio sono una cosa sola non solo per essenza (οὐσία) ma anche per sostanza/sostrato (ὑποκείμενον), e si differenziano solo per alcune ἐπίνοιαι 142. Secondo Origene, è possibile avere dalle sacre Scritture spunti (ἀφορμαί) in base ai quali poter dire qualcosa della οὐσία di Dio 143. Origene differenzia in Dio οὐσία ed ἐνέργεια, affermando che lo Spirito Santo è una οὐσία dotata di una propria ὕπαρξις o ὑπόστασις, e non è soltanto una ἐνέργεια di Dio: è οὐσία ἐνεργη τική 144. E per il Figlio, trattando del suo sacrificio propiziaorio, istituisce una distinzione analoga: ἡ μὲν οὐσία αὐτοῦ ἱλαστήριον, ἡ δὲ ἐνέργεια ἱλασμός 145. L’uso stesso di οὐσία in Origene e lo spettro semantico che nei suoi scritti assume questo termine si ritrovano nel Nisseno. Se infatti Gregorio applica questo sostantivo, oltre che a Dio, anche all’anima, pure Origene lo applicava a tutti i λογικά, insistendo sulla loro uguaglianza di οὐσία e sulla loro differenziazione dovuta a diverse scelte, in polemica con Eracleone, il quale riteneva che il diavolo avesse una οὐσία diversa da quella degli altri λογικά 146. Tzamalikos che riporta il passo mattaico nella forma espansa del codice Jersualem, Patriarchal Library, Sabaiticus 232; cfr. Tzamalikos, Anaxagoras cit. (alla nota 15), pp. 1565ss. Per un diverso inquadramento del significato di queste analogie tra formule trinitarie, cfr. invece P. F. Beatrice, The Word «Homoousios» from Hellenism to Christianity, in «Church History», 71 (2002), pp. 243-272. 141 Cfr. Origenes, Commentarii in Evangelium Ioannis, II, 10, 74, PG 11, 125D128A, ed. Preuschen cit., p. 64, 6-15; 23, 149, 153C, p. 80, 1-7. 142 Cfr. ibid. X, 37, 246, 277C, p. 213, 30-32. Il Figlio è detto essere Dio κατ᾽ οὐσίαν in Id., Fragmenta in Evangelium Ioannis (in catenis), Fr. 1, ed. Preuschen cit. (alla nota 106), p. 485, 13. 143 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIII, 21, 124, PG 11, 432C, ed. Preuschen cit., p. 244, 24-27. 144 Id., Fragmenta in Evangelium Ioannis (in catenis), Fr. 37, ed. Preuschen cit. (alla nota 106), p. 513, 17. 145 Id., Commentarii in epistola ad Romanos, ed. J.-B. Scherer, in J.-B. Scherer, Le Commentaire d’Origène sur Rom. 3. 5-5. 7 d’après les extraits du papyrus No. 88748 du Musée du Caire et les fragments de la «Philocalie» et du Vaticanus Gr. 762. Essai de reconstruction du texte et de la pensée des tomes 5. et 6. du «Commentaire sur l’Épîtres aux Romains», Le Caire 1957 (Institut français d’archéologie orientale du Caire. Bibliothèque d’études, 27), p. 162, 17. 146 Cfr. Origenes, Selecta in Psalmos, PG 12, 1576; Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 23, 199-200, PG 11, 625C, ed. Preuschen cit., p. 357, 2027. Sulla οὐσία del diavolo e il problema della sua apocatastasi per Origene cfr. G. Bunge, Créé pour être, in «Bulletin de Littérature Ecclésiastique», 97
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Q uesta οὐσία, nel caso degli esseri umani, è costituita dalla loro anima 147, ed è una οὐσία indistruttibile sia nel caso del diavolo, che non può perire ma sarà restaurato in quanto creatura, sia nel caso degli uomini: se la Scrittura dice che Dio farà perire il loro frutto e la loro semenza, Origene spiega che a perire non saranno i peccatori nella loro οὐσία, bensì le loro qualità malvagie, i loro cattivi frutti, la pula e la paglia che saranno bruciati nel fuoco purificatore 148. Similmente, quando i peccatori sono chiamati «figli del diavolo» nella Scrittura, Origene precisa che non sono tali κατ᾽οὐσίαν, ma solo per la loro attività, i loro ἔργα 149. Si ripresenta anche qui la distinzione tra οὐσία ed ἐνέργεια che ha molta parte nel pensiero di Origene, come poi in quello dei Cappadoci. Credo che il presente studio possa contribuire a illuminare un aspetto importante, fra i molti e sostanziali 150, della dipendenza del pensiero dei Cappadoci, e specialmente di Gregorio di Nissa, da quello autentico di Origene.
(1997), pp. 21-29; R. L. Holliday, Will Satan be saved? Reconsidering Origen’s Theory of Volition in Peri Archon, in «Vigiliae Christianae», 63 (2009), pp. 1-23. 147 Origenes, Fragmenta in Lucam, ed. M. Rauer, Berlin 1959 (Origenes Werke, 9), p. 181, 2: «L’essere umano interiore è la sua οὐσία in senso primario». 148 Cfr. Id., Selecta in Salmos, PG 12, 1252. 149 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 24, 219, PG 11, 629BC, ed. Preuschen cit., p. 260, 5-9. 150 Cfr. anche I. Ramelli, Christian Soteriology and Christian Platonism. Origen, Gregory of Nyssa, and the Biblical and philosophical Basis of the Doctrine of Apokatastasis, in «Vigiliae Christianae», 61 (2007), pp. 313-356; Ead., The Christian Doctrine of Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 137-215.
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Il numero, affatto cospicuo, di occorrenze della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel repertorio testuale patristico-orientale e bizantino ci spinge a parlare di presenza piuttosto che di ricezione: la triade infatti, a partire dal sesto secolo, risulta largamente attestata nell’armamentario terminologico e speculativo degli autori cristiani di lingua greca quale elemento ricorrente della loro riflessione ontologica, utilizzata come strumento concettuale ormai acquisito e fatto proprio, piuttosto che alla stregua di elemento preso a prestito occasionalmente da fonti più antiche. Per questo motivo, il quadro speculativo entro cui la triade è stata utilizzata dai Padri ellenofoni e dagli autori bizantini ci porterà a investigare l’effettiva corrispondenza tra la concezione ontologica ad essa sottesa e la sua formulazione triadica. Conseguentemente, sarà importante soppesare tanto la fortuna, quanto il mantenimento della struttura formale della triade in relazione allo sviluppo del canone terminologico-concettuale proprio dell’ontologia cristianoorientale e al ruolo giocato dai corpora quali snodi essenziali nella sua diffusione. Il Corpus Dionysiacum ha costituito per gli autori bizantini la più importante fonte della triade. La sua influenza ha permesso loro – analogamente e forse in misura ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto nel Medioevo latino – non solo di prenderne conoscenza, ma anche di basarsi su un’auctoritas atta a giustificare il suo utilizzo in ambito teologico. Lo pseudo-Dionigi ha infatti adattato la teoria neoplatonica della triade al sistema dell’ontologia patristica post-nicena, mantenendone l’esoscheletro terminologico e alcuni aspetti concettuali paradigmaticamente neutri La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127957 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 181-223 ©
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rispetto alla teologia pagana. Possiamo quindi affermare che già nello pseudo-Dionigi, autore che va identificato come colui che ha introdotto a tutti gli effetti la triade nella tradizione patristica orientale e, conseguentemente, in quella bizantina, si incontra il bivio che porta la teoria della triade verso una nuova economia rispetto alla sua originaria matrice neoplatonica. A fianco di Dionigi, vanno annoverati gli autorevoli corpora di Giovanni Damasceno e di Massimo il Confessore, senza dimenticare i Padri Cappadoci, in particolare Gregorio di Nissa, nei cui testi la triade inizia ad assumere la propria fisionomia, e dove, soprattutto, si pongono le fondamenta dell’edificio ontologico che fornirà alla teologia bizantina la sua base terminologica e concettuale. Il concorso di queste fonti, dottrinalmente importanti e quantitativamente rilevanti, ha fatto sì che la triade si sia innestata e diffusa come un elemento proprio della tradizione speculativa bizantina, ricorrendo nei più disparati ambiti. Q uale parte non trascurabile di questa trasmissione va sottolineata la duratura attualità e autorialità in ambito bizantino delle fonti patristiche, che non smetteranno mai di essere citate o riportate in florilegi e lessici. Una ricerca nel database ‘Thesaurus Linguae Grecae’ ha restituito diverse centinaia di occorrenze della triade tra gli autori cristiani di lingua greca. In considerazione del fatto che la triade si attesta sovente in forme e interpretazioni standardizzate, non risulterebbe né utile né economico – anche per ragioni quantitative – studiarla sistematicamente in ogni autore in cui essa fa comparsa. La nostra indagine partirà dagli autori attivi tra il vi e il vii secolo, in particolare dallo pseudo-Dionigi e i suoi commentatori, ai quali si riconduce l’origine e il fondamento della fortuna della triade in ambito bizantino 1.
Per quanto riguarda gli autori che sono oggetto di trattazioni specifiche nei saggi inclusi nel presente volume dovuti a I. Ramelli e J. Gavin S. J., ci limiteremo a sottolineare il loro contributo alla storia della triade nel pensiero cri stiano orientale senza addentrarci in disamine esaustive, per le quali rimandiamo ai detti capitoli. 1
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1. Pseudo-Dionigi Areopagita La triade ontologica compare nel Corpus complessivamente in sette occorrenze: quattro nei Nomi divini, una nella Gerarchia celeste e due (imperfette) nella Gerarchia ecclesiastica. In nessun caso lo pseudo-Dionigi associa ad essa una definizione o dedica un’esegesi particolare alle relazioni tra i suoi termini, tuttavia, con ogni evidenza, egli la adotta nella sua speculazione come modello ontologico ben definito. Oltre ad essere una fonte decisiva per la trasmissione della triade al Medioevo greco, il Corpus Dionysiacum va tenuto in considerazione anche per quanto riguarda l’indagine della formazione della triade e della sua eventuale adozione da parte dei Padri precedenti allo pseudo-Dionigi, in particolare i Padri Cappadoci, il cui insegnamento costituì per l’autore del Corpus un fondamento imprescindibile della sua speculazione. 1.1. Inizieremo la nostra disamina dai Nomi divini, assumendo che questo trattato risalga alla fase antiquiore della scrittura del Corpus, nella quale la formazione neoplatonica dello pseudoDionigi emerge con maggior evidenza 2. La prima citazione della triade che vi incontriamo tradisce il contesto neoplatonico da cui essa è stata ripresa, reso evidente dalla terminologia impiegata da Dionigi, benché tale ripresa terminologica non comporti la pedissequa riproposizione dello stesso impianto concettuale delle sue fonti 3: Per mezzo di questi [raggi divini] sono state costituite tutte le essenze, potenze ed energie intelligibili e intelligenti (ὑπέστησαν αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ πᾶσαι καὶ οὐσίαι καὶ δυνάμεις καὶ ἐνέργειαι), e per mezzo di questi esse sono e hanno una vita senza fine e senza declino, libere da ogni corruzione, morte, materia e generazione 4.
I tre termini della triade – al plurale – indicano qui per sineddoche le intelligenze angeliche nel loro complesso. Oltre che per la 2 Cfr. E. S. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum, Roma 2018 (Institutiones, 6), pp. 467-477. 3 Le opere del Corpus Dionysiacum sono citate secondo le indicazioni offerte nella sezione ‘Sigle e abbreviazioni’. La traduzione e i corsivi sono nostri. Per brevità indichiamo lo pseudo-Dionigi semplicemente come ‘Dionigi’. 4 DN IV, 1, 693B, p. 144, 6-7.
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triade, questo passo mostra un ulteriore debito verso il neoplatonismo nel binomio νοηταὶ καὶ νοεραί, che a partire dalla Theologia Platonica di Proclo costituisce una locuzione ben attestata nelle opere dei neoplatonici ateniesi ed è utilizzata per designare gli dèi intelligibili-intellettivi 5. In altri due successivi passi dei Nomi divini, il binomio νοηταὶ καὶ νοεραὶ è associato esplicitamente agli angeli in relazione ai primi due termini della triade, l’essenza e la potenza: Da questa causa di tutte le cose, derivano le essenze intelligibili e intelligenti degli angeli conformi a Dio (αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ τῶν θεοειδῶν ἀγγέλων οὐσίαι), e le nature delle anime e di tutto il cosmo 6. Da questa [Causa più che sapiente] derivano le potenze intelligibili e intelligenti delle intelligenze angeliche (αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ τῶν ἀγγελικῶν νοῶν δυνάμεις) le quali hanno intellezioni semplici e beate 7.
Q ueste definizioni ricadono ancora sotto la figura della sineddoche, dacché un singolo elemento della natura angelica è utilizzata per indicarne la totalità. Il primo di questi passi ha valenza ontologica, in quanto giustifica l’esistenza degli angeli e, in generale, di ogni realtà in virtù del nome divino dell’Essere (da cui le οὐσίαι), che è oggetto del quinto capitolo dei Nomi divini; il secondo ha valenza gnoseologica, facendo discendere la potenza dell’essere 5 Le trasformazioni a cui Dionigi sottopone il significato di questo binomio rispetto alle fonti neoplatoniche sono rilevanti, ma essendo tangenziali alla teoria della triade ontologica ci limitiamo ad accennarvi soltanto: per Proclo gli dèi intelligibili e intellettivi costituiscono la seconda triade della serie degli dèi, mentre per lo pseudo-Dionigi tutti i nove ordini angelici sono νοηταὶ καὶ νοεραί. Per Proclo, inoltre, questa triade ha una funzione mediana tra la prima triade (gli dèi intelligibili) e la terza (gli dèi intellettivi), ovvero ha una funzione di intermediario ontologico, garantita dalla duplice partecipazione all’attributo superiore (l’intelligibilità) e a quello inferiore (l’intellettività); cfr. E. P. Butler, Essays on the Metaphysics of Polytheism in Proclus, New York 2014, p. 122; M. Abbate, La «Teologia Platonica» di Proclo: struttura e significato, in Proclo, Teologia Platonica, a cura di M. Abbate, Milano 2019, [pp. xvi-cxxxvi], p. xxxvii. In Dionigi questa funzione viene meno in quanto la gerarchia angelica ha la funzione di trasmettere le illuminazioni tearchiche e non ha una funzione di mediazione ontologica. Va infine notato che nei Nomi divini non compare accenno alla divisione triadica degli ordini angelici, che ha invece un ruolo centrale nella Gerarchia celeste. 6 DN V, 8, 821C, p. 186, 1-2. 7 DN VII, 2, 868B, p. 195, 3-4.
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intellegibile e dell’intelligenza dal nome divino della Sapienza, oggetto del settimo capitolo della stessa opera. Nel primo caso le οὐσίαι determinano la sussistenza ontologica degli angeli, nel secondo caso le δυνάμεις appaiono come attributo ontologico della loro natura. Q uesto ci permette di avvicinarci alla comprensione di come Dionigi abbia concepito i tre termini della triade nella loro reciproca relazione e funzionalità. Rimane da comprendere come venga trattata l’ἐνέργεια in relazione alle potenze angeliche. Prendiamo allora in considerazione i passi in cui l’operazione viene posta in relazione con la potenza al di fuori del modello della triade. Nella Gerarchia celeste, abbiamo diversi casi utili a risolvere il nostro quesito. Nel primo di essi la potenza e l’operazione mediante cui gli angeli della prima schiera celeste imitano Dio appaiono come due realtà correlate, anche se nulla viene detto su una loro eventuale relazione di concomitanza o priorità: Infatti queste [essenze elevatissime] per prime conoscono Dio e desiderano al di sopra di ogni cosa la divina virtù (θείας ἀρετῆς) e sono fatte degne di essere le prime amministratrici (πρωτουργοὶ), per quanto possibile, della potenza e dell’operazione che imitano Dio (θεομιμήτου δυνάμεως καὶ ἐνεργείας) 8.
Lo stesso tipo di relazione emerge da un passo di poco successivo, dove si delinea il rapporto di analogia tra le energie divine, le operazioni sacerdotali e quelle angeliche: Come infatti Dio purifica tutte le cose, in quanto è la causa di ogni purificazione, o meglio – per utilizzare un esempio che ha all’incirca lo stesso significato – come il gerarca [della nostra gerarchia] che attraverso i suoi ministri che purificano o i suoi sacerdoti che illuminano è detto purificare e illuminare, attribuendo a lui stesso le sacre operazioni (ἱερὰς ἐνεργείας) proprie degli ordini che sono stati da lui consacrati, così allo stesso modo l’angelo che opera la purificazione del teologo [scil. Isaia] vede attribuita la propria scienza e potenza catartica (τὴν οἰκείαν καθαρτικὴν ἐπιστήμην καὶ δύναμιν) a Dio, in quanto ne è la causa, e al Serafino, in quanto ne è il primo operatore gerarchico (ὡς πρωτουργὸν ἱεράρχην) 9. CH XIII, 3, 301C, p. 45, 21. CH XIII, 4, 305D, p. 48, 26.
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Da quest’ultimo passo la potenza e l’operazione risultano essere equivalenti e i loro termini interscambiabili. Nel seguente passo – dove viene illustrato il simbolismo di alcune immagini bibliche – si pone invece la correlazione tra i due termini attraverso il complemento di specificazione, sicché l’operazione appare come la potenza in processione: Le ruote alate, che procedono in avanti senza ritorno e senza flessione indicano la potenza della loro operazione (αὐτῶν ἐνεργείας δύναμιν), la quale procede in direzione retta e ascendente 10.
Nelle battute finali della Gerarchia celeste, i due termini compaiono infine in riferimento alle potenze della natura angelica e agli atti provvidenziali compiuti dagli angeli secondo la narrazione biblica: Se mi dicessi che non ho ricordato in modo sistematico le potenze, gli atti o le immagini (δυνάμεων ἢ ἐνεργειῶν ἢ εἰκόνων) angeliche nelle Scritture (…) 11.
Dai passi sopra analizzati possiamo constatare come la concezione dionisiana del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια non implichi – neoplatonicamente – una divisione tra i loro rispettivi ambiti ontologici: in altri termini l’energia non appare essere una emanazione/degradazione ontologica – ossia, una realtà meno trascendente – della potenza, né la potenza un agente intermediario tra l’essenza e l’energia. Dionigi fa usualmente riferimento alle intelligenze celesti per sineddoche, indicandole come ‘Essenze’ o ‘Potenze’, con l’aggiunta o meno dell’aggettivo ‘celesti’, mentre in riferimento ad esse non troviamo mai l’impiego del termine ‘energie’. Dionigi parla di ‘essenze’, ‘potenze’ ed ‘energie (operazioni o azioni)’ degli angeli, oppure di ‘essenze’ e ‘potenze celesti’, ma non utilizza mai la sineddoche ‘energie [celesti]’ per designare gli angeli. Gli angeli sono dunque ‘essenze’ e ‘potenze’, ma non ‘energie’. Essi hanno energie (ovvero compiono operazioni), così come hanno essenza
CH XV, 9, 337CD, p. 58, 12-14. CH XV, 9, 340B, p. 59, 8-9.
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e potenza 12. Nel passo di Nomi divini IV, 1, da cui abbiamo preso le mosse, troviamo le qualità di «intelligibili e intelligenti» come attribuito delle ‘energie’, tuttavia questi due termini sono riferiti all’intera triade e non alle sole energie: Dionigi non sta qui parlando ‘di energie celesti’ e le energie qui in questione devono essere lette come le operazioni o attività delle essenze/potenze celesti. Analogamente, Dionigi parla di ‘potenza’ e di ‘operazione’ in riferimento alla natura umana (guardando in particolare alle facoltà naturali nell’uomo della ragione e dell’intelletto) 13, e nello specifico degli ordini sacerdotali, delle potenze e delle operazioni che sono nelle loro prerogative particolari 14. Pur implicando gli atti liturgici l’agire nella dimensione temporale, Dionigi non considera neanche in questo caso il rapporto tra atto e potenza alla luce del divenire dalla potenza all’atto. Una concezione del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια in cui la potenza sia concepita – aristotelicamente – come assenza di energia-atto, e l’energiaatto come compimento ontologico (ovvero attualizzazione) della potenza non trova dunque riscontro in Dionigi – il quale del
12 Ad esempio DN VII, 2, 868B, p. 195, 8: «E a queste [potenze intelligibili e intelligenti] è propria una potenza e un’energia splendente di una purezza senza mescolanza e immacolata (καὶ ἔστιν αὐταῖς ἡ νοερὰ δύναμις καὶ ἐνέργεια τῇ ἀμιγεῖ καὶ ἀχράντῳ καθαρότητι κατηγλαϊσμένη)»; CH VIII, 1, 237D, 33, 8: «Il nome delle sante Potenze indica una forza inconcussa in tutte le operazioni che imitano il divino in conformità a questa [forza] (τὴν δὲ τῶν ἁγίων δυνάμεων ἀρρενωπόν τινα καὶ ἀκατάσειστον ἀνδρείαν εἰς πάσας τὰς κατ’ αὐτὴν θεοειδεῖς ἐνεργείας)». La traduzione di ἐνέργεια costituisce una crux degli studi di filosofia tardoantica e bizantina: riteniamo opportuno non perdere di vista la ricchezza semantica che il termine ha assunto con l’optare per un termine univoco, bensì rendendo il termine nel modo più opportuno, a seconda dei contesti, con ‘atto’, ‘azione’, ‘operazione’ o ‘energia’; in merito, cfr. Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229), pp. 36-44; D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of Christendom, Cambridge 2004, p. xi; T. Th. Tollefsen, Activity and Participation in Late Antique and Early Christian Thought, Oxford 2012 (OECS), pp. 4-5. 13 Cfr. DN I, 1, 585B, p. 108, 3: «Della nostra [umana] potenza e operazione razionale e intellettiva (καθ’ἡμᾶς λογικῆς καὶ νοερᾶς δυνάμεως καὶ ἐνεργείας)». 14 Cfr. EH V, 1, 500D, p. 104, 3-5: «È ora di esporre, dopo aver parlato di queste divine azioni sacerdotali, gli ordini del sacerdozio e le loro ripartizioni, le loro potenze e le operazioni e le ordinazioni (καιρὸς δ’ἂν εἴη μετὰ τὰς θείας ἱερουργίας αὐτὰς ἐκθέσθαι τὰς ἱερατικὰς τάξεις τε καὶ ἀποκληρώσεις δυνάμεις τε αὐτῶν καὶ ἐνεργείας καὶ τελειώσεις)»; cfr. anche EH V, 7, 509A, p. 110, 6-7; EH VI, 1, 529D, p. 115, 1-2.
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resto non usa mai il termine aristotelico ἐντελέχεια 15. Δύναμις ed ἐνέργεια sono concepite da Dionigi quali sinonimi come potenza/ energia dell’essenza, nelle quali si esprime la capacità ontologica di operazione di questa, e ciò vale tanto per gli atti eterni della natura divina, quanto per le operazioni sovratemporali della gerarchia celeste, quanto per le azioni della gerarchia ecclesiastica nella dimensione temporale. 1.2. La seconda occorrenza della triade in ordine di scrittura compare sempre nel quarto capitolo dei Nomi divini, all’interno di una serie di termini che si riconnettono al nome divino dall’Essere buono e bello: Infatti ‘da lui e per mezzo di Lui’ (Rm 11, 36) derivano l’essenza (οὐσία) e tutta quanta la vita dell’intelletto e dell’anima e di ogni natura (πάσης φύσεως), le piccolezze, le uguaglianze, le grandezze, ogni misura, nonché le proporzioni, le armonie e le fusioni degli esseri, le totalità, le parti, tutto ciò che è uno e il molteplice (…) gli elementi, le forme, ogni essenza, ogni potenza, ogni energia (πᾶσα οὐσία, πᾶσα δύναμις, πᾶσα ἐνέργεια), ogni attitudine (ἕξις), ogni sensazione, ogni ragione, ogni intellezione, ogni contatto, ogni scienza, ogni unione 16.
Il fatto che i termini della triade siano qui disposti in sequenza lascia capire che Dionigi abbia voluto contestualizzarne la struttura trinomica all’interno di una definizione più generale, comprensiva dei termini che definiscono il quadro ontologico e gnoseologico in cui si iscrive «ogni natura». Se dunque la triade rientra a pieno titolo tra i termini che definiscono l’ontologia di ogni essere, il suo inserimento in una definizione polinomica sembra allo stesso tempo indicare che egli non la concepisse come modello ontologico univoco nel quale si ricapitola e si esaurisce la piena comprensione dell’essere delle cose che sono 17. 15 Su questo termine in relazione al concetto di atto in Aristotele, cfr. E. Berti, Genesi e sviluppo della dottrina della potenza e dell’atto in Aristotele, in «Studia Patavina», 5 (1958), [pp. 477-505], pp. 486, 497-498; S. Menn, The Origins of Aristotle’s Concept of Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73-114], pp. 75-77. 16 DN IV, 10, 705CD, p. 154, 17-18. 17 Per un altro caso in cui la triade non risulta sufficiente secondo Dionigi per definire univocamente le caratteristiche ontologiche di un genere particolare, cfr. infra, § 1.4.
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1.3. Le ultime due occorrenze della triade nei Nomi divini compaiono nei paragrafi dedicati al problema del male, che Dionigi ha scritto parafrasando il trattato procliano De malorum subistentia 18. Nel primo passo si pone il quesito relativo ai possibili effetti ontologici dalla malvagità dei demoni: E dunque, [i demoni] sono cattivi per se stessi o per gli altri? Se per se stessi, allora distruggeranno se stessi; se per gli altri, in che modo distruggono o che cosa (πῶς φθείροντες ἢ τί φθείροντες), l’essenza o la potenza o l’attività (οὐσίαν ἢ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν)? Se è l’essenza, in primo luogo non [possono agire] contro natura, infatti non distruggono le cose che sono indistruttibili per natura, ma distruggono quelle che possono essere distrutte (εἰ μὲν οὐσίαν, πρῶτον μὲν οὐ παρὰ φύσιν, τὰ γὰρ φύσει ἄφθαρτα οὐ φθείρουσιν, ἀλλὰ τὰ δεκτικὰ φθορᾶς) 19.
Dionigi si riferisce qui alla triade per sostenere che l’agire malvagio dei demoni non tocca l’essere delle cose. Poche righe più sotto offrirà la sua risposta al problema del male, che viene ricondotto all’ambito della volontà: i demoni sono cattivi perché hanno smesso di volere i beni divini 20. Q uesto argomento esula chiaramente dalle prospettive del neoplatonismo, rispondendo alla demonologia cristiana e di fatto non compare nell’ipotesto procliano, nel quale leggiamo però l’argomento della distruzione, illustrato in riferimento ai termini della triade 21. Proclo ammette 18 Cfr. C. Steel, Proclus et Denys: de l’existence du mal, in Denys l’Aréopagite et sa postérité en Orient et en Occident. Actes du Colloque International (Paris, 21-24 septembre 1994), éd. par Y. de Andia, Paris 1997 (Collection des Études Augustiniennes. Série Antiquité, 151), pp. 89-116. 19 DN IV, 23, 724C, p. 170, 16-17. 20 Cfr. DN IV, 23, 725A, p. 171, 5-7: ἐν τίνι γάρ, εἰπέ μοι, κακύνεσθαί φαμεν τοὺς δαίμονας, εἰ μὴ ἐν τῇ παύσει τῆς τῶν θείων ἀγαθῶν ἕξεως καὶ ἐνεργείας; cfr. E. S. Mainoldi, Il non essere volontario: la concezione del male nella tradizione teologica e ascetica bizantina, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 6 (2008), pp. 181-210. 21 Essendo perduto l’originale greco, il trattato procliano è oggi accessibile solo nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke; il testo originale è parzialmente ricostruibile in base alla parafrasi greca realizzata da Isacco Sebastocratore (sec. xi); avvalendosi della versione latina e della parafrasi di Isacco, Benedikt Strobel ha proposto una retroversione greca dell’intero trattato: B. Strobel, Proklos, Tria opuscula. Textkritisch kommentierte Retroversion der Übersetzung Wilhelms von Moerbeke, Berlin 2014 (Commentaria in Aristotelem Graeca et Byzantina, 6).
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la possibilità di distruzione dell’essenza, da cui consegue la distruzione della potenza e dell’operazione, escludendo però che la distruzione abbia effetto a ritroso dall’operazione all’essenza 22. La triade viene qui inquadrata dal Diadoco come una struttura emanatistica, i cui tre termini sono disposti all’interno di una catena causale per la quale l’essenza ha effetto sulla potenza e questa sull’energia, ma in cui la cessazione degli effetti non riguarda la causa, sicché né l’essenza viene toccata dalla distruzione della potenza o dell’energia, né la potenza dalla distruzione dell’energia. Dionigi si discosta da Proclo sull’argomento della distruzio 23 ne : esclude infatti che l’essenza possa essere distrutta, tenendo fede al presupposto di matrice biblica per cui ogni creatura è stata creata nel bene, onde la sua essenza non è distruttibile né corruttibile. Lo stesso vale per la potenza e l’energia, che possono essere indebolite ma mai distrutte 24. Inoltre, la struttura emanatistica della triade, per come illustrata da Proclo, rimane estranea al testo dionisiano. Dionigi, confermando il suo scarso interesse per i problemi di ontologia della temporalità, non prende in considerazione il divenire temporale in relazione all’operazione della natura, lasciando dunque comprendere come per lui ogni natura abbia sempre con sé la propria potenza ed energia.
22 Cfr. Proclus, On the Existence of Evils, § 39, tr. ingl. di J. Opsomer C. Steel, London - New York 2003, p. 87, 16-23: «In general, that which can damage greater things is a greater evil. Substance is above power and power is above activity. And that which destroys substance at the same time destroys power and activity; that which destroys power [also destroys] activity. Hence the destruction of these [i.e. power and activity] cannot entail that of substance, nor can power be abolished as a consequence of the cessation of activity. Or perhaps, evil that extends to activity is privation and not contrariety, whereas ‹that which is destructive of either power or substance› is the contrary of ‹either power or› substance»; per la retroversione greca cfr. Strobel, Proklos, Tria opuscula cit., p. 962, 15-20, dove si utilizza il termine φθαρτικόν per significare l’agente distruttivo. 23 Proclo sembrerebbe qui avvicinarsi a un’ontologia del mutamento dell’essenza compatibile con la posizione giamblichea che ammette il cambiamento sostanziale dell’anima; sulle oscillazioni di Proclo tra gli insegnamenti di Plotino e Giamblico circa il divenire dell’anima, cfr. C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006, pp. 108-116 e in partic. p. 114). 24 Cfr. DN IV, 23, 725A, p. 171, 1.
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In un successivo paragrafo della trattazione sul male Dionigi ritorna sull’argomento della distruzione, affermando che il male non consiste nella distruzione (φθορά) della natura, cosa che – ribadisce – è impossibile, bensì nell’affievolirsi delle energie e delle potenze della natura. Il riferimento alla debolezza e al difetto (ἀσθένεια καὶ ἔλλειψις) esclude infatti che le energie e le potenze siano soggette a distruzione, cioè che possano andare incontro a un completo annientamento. Anche qui il modello ontologico della triade è presente, e in contrasto con Proclo è sottolineata ulteriormente la non distruttibilità della natura, della potenza e dell’energia che le sono inestinguibilmente connesse: Dal momento che l’impossibilità di distruggere la natura non è un male (τὸ μὴ φθείρεσθαι τὴν φύσιν οὐ κακόν), la distruzione della natura (φθορὰ δὲ φύσεως) è [da intendersi come] una debolezza e un difetto (ἀσθένεια καὶ ἔλλειψις) delle attitudini, delle energie e delle potenze della natura (τῶν φυσικῶν ἕξεων καὶ ἐνεργειῶν καὶ δυνάμεων) 25.
Dionigi conclude la sua argomentazione definendo il male come la mancata realizzazione delle potenzialità naturali: Perciò, non è la natura ad essere cattiva (οὐκ ἔστι κακὴ φύσις); il male per la natura è questo (τοῦτο τῇ φύσει κακὸν): l’incapacità di realizzare le cose che sono [prerogativa] della propria natura (τὸ ἀδυνατεῖν τὰ τῆς οἰκείας φύσεως ἐκτελεῖν) 26.
Q uesto argomento apre un raro squarcio nell’opera dionisiana sulla realizzazione degli esseri – in questo caso di ogni natura in generale – nel divenire in base alle proprie prerogative naturali. Essa è ripresa dal testo di Proclo e questo spiegherebbe l’assenza di quella centralità causale accordata all’azione provvidenziale divina e della prevalente focalizzazione sull’anagogia e sulla deificazione che permea generalmente le pagine del Corpus 27. DN IV, 25, 728B, p. 173, 7. DN IV, 26, 728C, p. 173, 14-16. 27 Cfr. Proclus, On the Existence of Evils cit., § 25, p. 75, 5-6: «Evil in them will consist in not acting according to [their] nature»; ibid., § 26, p. 76, 14-18: «But that which is naturally disposed to receive perfection from its natural virtues lacks both the perfection of its nature and this disposition. This, then, is [its] evil: the privation of a virtuous disposition. In the case of such a privation, the un25 26
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1.4. Coerentemente con la soluzione al problema del male, che Dionigi riconduce al venir meno nei demoni della volontà di compiere il bene, l’ultima occorrenza della triade nei Nomi divini intercala tra i suoi termini la volontà: Se il bene è un essere, voluto, dotato di potenza e attivo (τὸ ἀγαθὸν καὶ ὄν ἐστι καὶ βουλητὸν καὶ ἐνδύναμον καὶ δραστήριον), come può avere qualche potere (πῶς δυνήσεταί) ciò che è contrario al bene (ἐναντίον τἀγαθῷ), essendo privo di essenza, di volontà, di potenza e di attività (τὸ οὐσίας καὶ βουλήσεως καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ἐστερημένον) 28?
Il male non è solo la privazione di sussistenza ontologica, ma è il prodotto della mancata volontà di fare il bene. La volontà è dunque la vera chiave per comprendere l’origine del male. In questo passo essa è posta da Dionigi dopo l’essenza, quasi a indicare che essa costituisce il raccordo tra l’essenza – inderogabilmente connessa al Bene –, e la potenza/energia. È dunque la volontà a fare sì che l’operazione della creatura intelligente e razionale aderisca o meno al bene che è connesso al suo partecipare dell’essere. Da qui vediamo ancora come la triade, per quanto costituisca per Dionigi il modello concettuale e terminologico in cui si delinea l’ossatura ontologica fondamentale di ogni natura, non sia concepita da lui come sufficiente ad esaurire la comprensione dell’essere delle creature intelligenti in relazione al loro agire. 1.5. Nell’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste, Dionigi si preoccupa di mettere in chiaro che la denominazione degli angeli per sineddoche come essenze o potenze celesti non implica il venir meno della distinzione tra gli ordinamenti angelici, i cui confini ontologici sono definiti in base al trinomio essenza – potenza – operazione: Usando una denominazione comune a tutte le potenze celesti, non vogliamo asserire alcuna confusione delle proprietà di ciascun ordinamento, ma, dal momento che tutte le divine intelligenze (οἱ θεῖοι νόες) possono essere distinte, secondo la derlying nature may be perverted, and possibly even becomes the complete opposite of its own virtue». Va sottolineata l’assenza del tema della volontà in Proclo. 28 DN IV, 32, 733A, p. 177, 19-20.
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ragione ipercosmica che è propria di ciascuna di esse (κατ’ αὐτοὺς ὑπερκοσμίῳ λόγῳ), in queste tre (εἰς τρία διῄρηνται), cioè in essenza, potenza e operazione (εἰς οὐσίαν καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν), quando le chiamiamo indistintamente nel loro insieme o singolarmente ‘essenze celesti’ (οὐρανίας οὐσίας) o ‘potenze celesti’ (οὐρανίας δυνάμεις), deve essere inteso che stiamo parlando in modo perifrastico (περιφραστικῶς) e ci stiamo riferendo ad esse in merito all’essenza o alla potenza di ciascuna di quelle (καθ’ ἕκαστον αὐτῶν οὐσίας ἢ δυνάμεως); ma non si vuole intendere che la proprietà superiore delle sante potenze, attualmente ben distinte rispetto noi, sia attribuita in generale anche alle essenze inferiori, sovvertendo il principio dell’ordine inconfuso degli ordinamenti angelici (τῆς ἀσυγχύτου τῶν ἀγγελικῶν διακόσμων ταξιαρχίας) 29.
La distinzione «in essenza, potenza e operazione», non implica soltanto che in ogni intelligenza siano distinguibili i tre elementi della triade, ma anche che le molteplici intelligenze si distinguano reciprocamente per avere ciascuna una propria essenza, una propria potenza e una propria operazione. Tuttavia, bisogna chiedersi a quale classe di esseri Dionigi faccia qui riferimento parlando di distinzione in base all’οὐσία; il quesito infatti ammette tre possibili soluzioni: l’οὐσία può essere riferita 1) alla natura generale degli angeli, oppure 2) all’ordinamento angelico (διακόσμησις) in cui si suddivide la gerarchia celeste (cherubini, serafini, arcangeli ecc.), oppure 3) a un angelo preso nella sua individualità. Nel primo caso avremmo un modello di partecipazione esemplaristica di più individui a un’unica essenza, ovvero la condivisione della natura comune (per cui la distinzione tra individui sarebbe data soltanto dalla differenziazione della potenza e dell’energia – differenziazione riportabile alla concezione porfiriana dell’individualità come collezione di attributi 30); nel secondo caso avremmo una divisione ontologica interna alla gerarchia angelica (cosa che darebbe vita a generi e a specie di angeli – e di ciò Dionigi non
CH XI, 2, 284D, pp. 41, 20 - 42, 8. Cfr. R. Sorabji, Self: Ancient and modern Insights about Individuality, Life, and Death, Chicago 2006, pp. 137-153 J. Zachhuber, Individuality and the theological Debate about «Hypostasis», in Individuality in Late Antiquity, edd. A. Torrance - J. Zachhuber, Surrey - Burlington (VT) 2014, [pp. 91-109], pp. 94, 100, 107-108. 29 30
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parla da nessuna parte); nel terzo caso invece l’οὐσία non può esistere al di fuori dell’ὑπόστασις, cioè fungerebbe da sostrato ontologico dell’esistenza particolare della natura angelica, soluzione che a sua volta non trova giustificazione esplicita nel testo dionisiano. La questione va riconsiderata alla luce dell’asserzione iniziale del testo, per cui la distinzione delle intelligenze si fonda sul λόγος ὑπερκόσμιος che è proprio di ciascuna di esse. Con questa espressione Dionigi fa riferimento alle cause provvidenziali (λόγοι) contenute nella potenza superessenziale del Logos-Sapienza divini e da cui dipende la creazione di ogni essere 31. La triade si configura dunque come la distinzione ontologica di ciò che è pre-ontologicamente distinto nella Sapienza divina. Il modello triadico stabilisce così, da una parte, la distinzione ‘esterna’ degli angeli rispetto ad ogni altra creatura – in base alla loro οὐσία –, cioè la loro perenne identità ontologica in base all’essenza generale della natura angelica, nonché la distinzione ‘interna’ tra i nove ordini angelici in base alla δύναμις propria di ciascuno di essi di partecipare alle illuminazioni divine (con gli ordinamenti superiori che condividono le potenze di quegli inferiori, ma non viceversa) 32 e alla ἐνέργεια di trasmettere quelle illuminazioni agli ordini inferiori 33. La triade non funge dunque da archetipo esemplare dell’individualità di ogni singola intelligenza celeste, bensì costituisce l’articolazione nell’essere della causalità sovracosmica da cui deriva tanto la natura angelica nel suo complesso quanto l’individualità particolare degli angeli: l’οὐσία non è causa dell’esistenza dell’angelo (sua causa è infatti il suo λόγος sovressenziale, ovvero 31 In particolare, Dionigi parla dei λόγοι divini in DN V, 9, 824C, p. 188; i λόγοι non hanno peraltro valenza intellegibile, ma sono disposti nella Sapienza divina che trascende ogni intelletto. Q uesta teoria sarà successivamente ripresa e sviluppata da Massimo il Confessore, per cui cfr. infra, alla nota 85. 32 Cfr. CH V, 196B, p. 25, 9-11: «Diciamo che in base al sacro ordinamento gli ordini superiori possiedono anche le illuminazioni e le potenze degli ordinamenti inferiori, mentre gli inferiori non partecipano delle stesse [illuminazioni e potenze] degli ordini che sono sopra di loro (φαμὲν δὲ ὅτι κατὰ πᾶσαν ἱερὰν διακόσμησιν αἱ μὲν ὑπερβεβηκυῖαι τάξεις ἔχουσι καὶ τὰς τῶν ὑφειμένων διακοσμήσεων ἐλλάμψεις καὶ δυνάμεις, ἀμέθεκτοι δὲ τῶν αὐτὰς ὑπερκειμένων εἰσὶν αἱ τελευταῖαι)». 33 Cfr. CH III, 2, 165B, p. 18, 15-17: «Ciò che è più divino di tutto è, come dicono le Scritture, diventare ‘collaboratori di Dio’ (1Cor 3, 9) e mostrare che l’energia divina si mostra in se stessi per quanto è possibile (καὶ τὸ δὴ πάντων θειότερον ὡς τὰ λόγιά φησι ‘Θεοῦ συνεργὸν’ γενέσθαι καὶ δεῖξαι τὴν θείαν ἐνέργειαν ἐν ἑαυτῷ κατὰ τὸ δυνατὸν ἀναφαινομένην».
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la volontà stessa del Λόγος divino, trascendente il dominio ontologico 34), bensì costituisce la base della sua sussistenza nel dominio dell’essere come risultato dell’atto creazionale divino; essendo l’οὐσία angelica comune a tutti gli angeli, essa è un universale che non può realizzarsi altrimenti che nei singoli individui angelici. Se l’οὐσία avesse infatti una consistenza ontologica come archetipo al di fuori dagli individui sarebbe un’idea platonica, cosa che Dionigi esclude con piena consapevolezza paradigmatica 35. Ogni angelo ha un’οὐσία nella quale partecipa della generale natura angelica, e allo stesso tempo, riceve un ordinamento nella gerarchia celeste in virtù della sua potenza di ricezione e della sua operazione di trasmissione delle illuminazioni divine 36. 34 Dionigi formula questo principio nella definizione data in CH IV, 1, 177D, p. 20, 16-17: «L’essere di tutte le cose e la divinità sopra l’essere (τὸ γὰρ εἶναι πάντων ἐστὶν ἡ ὑπὲρ τὸ εἶναι θεότης)». 35 Cfr. DN XI, 6, 953CD, p. 222, 6-11, luogo capitale dell’anti-platonismo di Dionigi: «Non diciamo che l’Essere-in-sé (τὸ αὐτοεῖναι) sia una qualche essenza divina o angelica (οὐ γὰρ οὐσίαν τινὰ θείαν ἢ ἀγγελικὴν εἶναί), causa dell’essere di tutti gli esseri (τοῦ εἶναι τὰ ὄντα πάντα αἰτίαν), giacché soltanto l’Essere sovressenziale è il principio, l’essenza e la causa (τὸ εἶναι τὸ ὑπερούσιον ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ αἴτιον) dell’essere di tutti gli esseri (μόνον γὰρ τοῦ εἶναι πάντα τὰ ὄντα); né diciamo (…) per dirla in breve, che vi siano delle essenze e ipostasi principali che creino gli esseri (οὔτε, συνελόντα εἰπεῖν, ἀρχικὰς τῶν ὄντων καὶ δημιουργικὰς οὐσίας καὶ ὑποστάσεις)». Gli unici archetipi ammessi da Dionigi sono i λόγοι divini, ovvero le divine provvidenze o volontà, le quali sono al di sopra dell’essere e della creazione; cfr. supra, alla nota 31. Per quanto i λόγοι possano essere interpretati come universali, la posizione di Dionigi non è tuttavia semplicemente riducibile a quella realistica di stampo platonico, in quanto questi sono piuttosto degli ‘universali me-ontologici’ e dunque non coincidono con le οὐσίαι bensì le trascendono. 36 Dionigi esprime la proporzionalità di partecipazione alle illuminazioni divine con l’espressione κατ’ οἰκείαν ἀναλογίαν (cfr. ad esempio, DN I, 1, 588A, p. 109, 3; CH III, 2, 165B, p. 18, 10; ibid., III, 3, 168A, p. 19, 22; EH IV, iii, 4, 477C, p. 98, 25). A questa proporzionalità sono commisurate la potenza e l’operazione delle creature intellettuali e razionali. Esiste un altro luogo del Corpus in cui Dionigi propone l’argomento della distinzione dei singoli esseri, in termini analoghi a CH XI, 2, ovvero nell’ottavo capitolo dei Nomi divini, dedicato al nome divino di Δύναμις (cfr. DN VIII, 5, 892C, p. 202, 6-7). È di un certo interesse che Dionigi faccia qui riferimento a tutti gli esseri, animali e piante comprese, e non ai soli esseri intellettuali e razionali, come fa in prevalenza altrove. La triade, tuttavia, qui non compare e l’inconfusione e amescolanza (ἀσύγχυτα καὶ ἀσύμφυρτα) degli esseri è ricondotta al loro logos e definizione (κατὰ τὸν οἰκεῖον ἕκαστα λόγον καὶ ὅρον), come del resto in CH XI, 2. Dal momento che la terminologia utilizzata in questi due loci paralleli è la stessa, la mancanza della triade ci pone il quesito se Dionigi non l’abbia presa in considerazione solo in una fase più avanzata di elaborazione del Corpus, e introdotta nelle opere o nelle parti più tardive, come CH o la parafrasi procliana sul male interpolata in DN IV; sulla cro-
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Per quanto riguarda la motivazione contingente che ha spinto Dionigi ad elaborare un argomento ontologico a garanzia dell’inconfusione degli ordini angelici, dobbiamo verosimilmente guardare alla diffusione di concezioni escatologiche eterodosse ad opera degli origenisti che militavano nelle fila del monachesimo siriaco e palestinese agli inizi del secolo vi, secondo i quali tutte le intelligenze (incluso il Cristo) sarebbero state destinate alla fine dei tempi ad essere unificate in un’enade indistinta. L’argomento di Dionigi, compreso il riferimento alla triade, venne segnalato dall’imperatore Giustiniano nella lettera inviata ai Padri del Q uinto concilio ecumenico (553) per sottoporre al loro giudizio gli errori degli origenisti 37: Dicono infatti (per ricordare alcuni punti tra i molti) che gli intelletti (νόες) fossero del tutto privi di numero e nome (δίχα παντὸς ἀριθμοῦ τε καὶ ὀνόματος), e che tutti gli esseri razionali saranno un’enade (ἑνάδα) in identità di essenza, energia (τῇ ταυτότητι τῆς οὐσίας καὶ ἐνεργείας) e in potenza (τῇ δυνάμει), in unione e conoscenza presso il Dio Verbo (τῇ πρὸς τὸν θεὸν λόγον ἑνώσει τε καὶ γνώσει) 38. Anche il diavolo ritornerà alla sua antica condizione, e gli altri demoni torneranno alla stessa unità, sicché gli empi e gli uomini malvagi saranno una sola cosa con gli uomini divini e perfetti di fronte a Dio, e con le virtù celesti; allo stesso modo sarà anche con Cristo, dovendo tornare ad essere uniti a Dio, come lo erano in precedenza, sicché perfino Cristo non differirà da quelli in nessun modo, né per essenza, né per conoscenza, né nella potenza, né nell’energia (ὡς μηδεμίαν εἶναι διαφορὰν τῷ Χριστῷ πρὸς τὰ λοιπὰ λογικὰ παντελῶς οὔτε τῇ οὐσίᾳ οὔτε τῇ γνώσει οὔτε τῇ δυνάμει οὔτε τῇ ἐνεργείᾳ) 39.
Le indicazioni di Giustiniano vennero successivamente recepite dai Padri conciliari, i quali condannarono Origene e introdussero nologia relativa tra le opere del Corpus, cfr. supra, alla nota 2. Ricordiamo che nel Corpus, le occorrenze della triade si trovano solo ed esclusivamente in questi loci. 37 Cfr. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit. (alla nota 2), pp. 45-51. 38 Flavius Justinianus, Epistula ad synodum de Origene, PG 86a, [989993], 991A, edd. M. Amelotti - L. Migliardi Zingale, in Scritti teologici ed ecclesiastici di Giustiniano, Milano 1977 (Legum Iustiniani imperatoris vocabularium. Subsidia, 3), p. 122. 39 Ibid., 991C, p. 122.
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la distinzione ontologica triadica negli anatematismi decretati nei documenti ufficiali: [II] Se qualcuno sostiene che gli esseri razionali senza eccezione vennero prodotti come intelletti privi di corpo e materia, senza alcun numero e nome, in modo che formassero un’enade per identità di essenza, potenza ed energia, e in questa enade fossero in stato di unione e conoscenza con il Verbo Dio (τῆι ταυτότητι τῆς οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας, καὶ τῆι πρὸς τὸν θεὸν λόγον ἑνώσει τε καὶ γνώσει) (…) sia anatema 40. [XIII] Se qualcuno sostiene che in nulla il Cristo sarà diverso da alcuna delle creature razionali, né per essenza, né per conoscenza, né per potenza su tutto, né nell’energia (οὐδὲ τῆι οὐσίαι, οὐδὲ τῆι γνώσει, οὐδὲ τῆι ἐφ’ ἅπαντα δυνάμει ἢ ἐνεργείαι), ma che tutti saranno alla destra di Dio; e che tutti avrebbero avuto una preesistenza, come vaneggiano, allo stesso modo di colui che viene da loro chiamato Cristo, sia anatema 41.
In questi passi la triade ontologica ha dunque fatto il suo ingresso nell’apparato dogmatico della fede stabilito da un concilio ecumenico. Dionigi non trova qui menzione esplicita, ma il raffronto testuale mostra come l’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste possa essere identificato con buona plausibilità come la fonte di questa autorevole ripresa della triade 42. La ricezione di Origene a Bisanzio mostra come la confutazione dell’escatologia del teologo alessandrino attraverso il ricorso alla triade abbia trovato a sua volta ricezione: è il caso di Niceforo Callisto Xanthopulo (secc. xiii-xiv) che ripropone questo stesso argomento nel quinto libro della sua Storia ecclesiastica, dedicato a Origene 43. 1.6. Le ultime due occorrenze della triade nel Corpus, in apertura della Gerarchia ecclesiastica, sono occorrenze imperfette, in 40 Concilium universale constantinopolitanum sub Iustiniano habitum, 3 voll., I, ed. J. Straub, Berlin 1971 (ACO, 4, 1), p. 248; Mansi IX, col. 396. 41 Ibid., p. 249; coll. 399-400. 42 Cfr. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit., pp. 51-55. 43 Cfr. Nicephorus Callistus Xanthopulus, Historia ecclesiastica, V, 33, PG 145, [604-1332], 1129C. Niceforo riprende pressoché alla lettera le parole di Giustiniano nell’Epistula ad synodum de Origene, per le quali cfr. supra, alle note 38 e 39.
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quanto la triade non si presenta nel suo tipico trinomio, ma vede θεουργία al posto di ἐνέργεια come terzo termine. Il motivo di questa scelta terminologica è dovuto al fatto che Dionigi sta parlando della divinità di Gesù quale vertice della gerarchia: Come la Scrittura ha trasmesso a noi fedeli, Gesù stesso, l’intelletto assolutamente tearchico e sovressenziale (Ἰησοῦς, ὁ θεαρχικώτατος νοῦς καὶ ὑπερούσιος), è il principio e l’essenza e la potenza del tutto tearchica della santificazione e della teurgia dell’intera gerarchia (ἡ πάσης ἱεραρχίας ἁγιαστείας τε καὶ θεουργίας ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ θεαρχικωτάτη δύναμις), il quale illumina in modo più chiaro e allo stesso tempo più intellettivo quelle beate essenze, a noi superiori, rendendole simili alla propria luce. In quanto a noi, elevandoci per l’amore dei beni che ci guida verso di Lui, unifica le nostre molteplici differenze, e avendo così portato a perfezione l’attitudine e l’azione (ἕξιν τε καὶ ἐνέργειαν) in una vita unificata e divina ci dona la potenza (δύναμιν), conforme alle cose sacre, del divino servizio sacerdotale, dal quale, procedendo nella santa operazione del sacerdozio (ἱερατείας ἐνέργειαν), ci avviciniamo, per quanto possibile, alle essenze che sono sopra di noi, mediante l’assimilazione alla stabilità e immutabilità della loro sacra condizione 44.
Pur non presentandosi nel suo consueto schema terminologico, ci sembra tuttavia evidente che Dionigi, scrivendo questo passo, avesse in mente il modello ontologico della triade; questo esempio ci aiuta dunque a comprendere meglio come Dionigi abbia inteso questa struttura e i limiti della sua applicabilità. Allontanandosi dal significato che il termine θεουργία aveva nel suo originario contesto neoplatonico, Dionigi intende con esso univocamente l’energia divina nella sua azione deificante 45. Per lui, dunque, la teurgia è l’energia divina intesa come azione provvidenziale a favore degli esseri ed è un’operazione unitaria delle tre ipostasi della Trinità, motivo per cui sottolinea che essa proviene dalla potenza tearchica (cioè è prodotta dall’essenza comune della Trinità). Benché θεουργία sia assimilabile a ἐνέργεια, la sua sostituzione nella triade EH I, 1, 372AB, p. 63, 11-64. Cfr. A. Louth, Pagan Theurgy and Christian Sacramentalism in Denys the Areopagite, in «The Journal of theological Studies», 37 (1986), pp. 432-438; Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit., pp. 246-247. 44 45
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evidenzia come Dionigi eviti di applicare l’ontologia triadica alla Trinità a meno di sottolineare la sua trasposizione nel dominio iperontologico trinitario attraverso la modifica della sua terminologia. Analogamente si legge in un successivo passo della Gerarchia ecclesiastica, dedicato alla consacrazione mediante il santo Myron (crisma): Sovraceleste e sovressenziale (ὑπερουράνιος καὶ ὑπερούσιος) è questa teurgia (θεουργία) [il sacramento della consacrazione mediante il Myron], principio, essenza e potenza che porta a compimento (ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ τελεσιουργὸς δύναμις) ogni santificazione operata da Dio a nostro favore (θεουργικῆς ἡμῶν ἁγιαστείας) 46.
In questo passo, oltre ad affermarsi che l’operazione divina è superiore al dominio cosmico e ontologico alla volta, cosa che si può tradurre dicendosi che essa è ‘energia increata’ – espressione peraltro non usata da Dionigi –, vediamo come il modello ontologico della triade giochi da schema di fondo ma non trovi applicazione al soggetto in questione, che è Dio, in quanto le operazioni teurgiche, appartenendo al dominio sovra-mondano e sovra-ontologico (ὑπερουράνιος καὶ ὑπερούσιος), non sono in potenza ma sono eternamente attive, essendo piuttosto la potenza divina da concepirsi come attività, senza inizio e senza fine. 1.7. Possiamo ricapitolare nei seguenti punti quanto abbiamo osservato sulla presenza della triade in Dionigi: 1) nel Corpus Dionysiacum, la triade ricorre in senso stretto una volta nella Gerarchia celeste e quattro nei Nomi divini; queste ultime occorrenze compaiono tutte nel quarto capitolo, che per la maggior parte parafrasa il De subsistentia malorum di Proclo, e tre di esse rientrano proprio nella parafrasi in ragione del fatto che la triade è attestata ai §§ 39 e 54 del trattato procliano. La triade è riferita alle intelligenze celesti o ai demoni. Dionigi non ne tenta mai l’applicazione alle tre persone della Trinità per spiegarne le relazioni oppure all’ipostasi del Verbo incarnato, tenendo ferma la distinzione tra il dominio superontologico divino e quello ontologico creaturale. Le due occor EH IV, 12, 484CD, p. 103, 2-4.
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renze nella Gerarchia ecclesiastica, che abbiamo definito imperfette, applicano lo schema triadico al dispiegarsi dell’energia divina, ma in entrambi i casi se ne sottolinea l’origine sovressenziale, sicché l’energia è qui definita ‘teurgia’. In Dionigi non compare traccia di applicazione della triade alla dottrina dell’anima. 2) I tre termini della triade non istanziano una processione emanatistica, caratteristica questa del pensiero neoplatonico 47. Q uesto aspetto è una conseguenza dell’ontologia non-esemplaristica propria dell’Areopagita. Elevare l’οὐσία degli esseri a causa trascendente di potenze che si producono in atto nella realtà immanente avrebbe infatti comportato la reintroduzione dell’idealismo platonico, cosa che Dionigi esclude stabilendo che ogni causalità trascendente va ricondotta esclusivamente a Dio e non ad altri intermediari causali 48. 3) I termini della triade riflettono sul piano ontologico le distinzioni tra gli esseri, le quali sono stabilite da Dio nei suoi λόγοι pre-eterni; Dionigi tuttavia non sviluppa un’ontologia delle divisioni dell’essere in generi e specie, perché il suo interesse è prevalentemente rivolto alle dinamiche della deificazione, ovvero alla partecipazione delle intelligenze celesti e razionali alle energie divine. Il mondo di Dionigi è un mondo non-porfiriano, anche se di principio non anti-porfiriano, dal momento che possiamo ammettere che l’ontologia di Diongi sia compatibile con la soluzione dell’immanenza dell’essenza negli individui. Se all’οὐσία si riconduce la distinzione ontologica tra gli esseri (non come causa ma come effetto della distinzione preontologica nei λόγοι divini eterni), alla δύναμις e all’ἐνέργεια vanno ricondotte le differenze nel grado di deificazione tra esseri della stessa natura. La potenza e l’energia di ogni natura creata sono infatti distinte non come effetto dell’essenza della natura a cui appartengono, bensì in base alla partecipazione alle energie divine, ovvero alle illuminazioni deificanti: è quindi 47 Cfr. Proclus, In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 15ss.; per cui cfr. il contributo di M. Abbate in questo stesso volume, p. 92, alla nota 36; inoltre supra, testo corrispondente alle note 22 e 23. 48 Cfr. DN XI, 6, 953B-956B, pp. 221-223; cfr. supra, alla nota 35.
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nella sinergia (συνεργία) – concetto chiave del sistema gerarchico dionisiano – tra la potenza e l’energia di ogni creatura e le potenze e le energie divine che si istanzia l’ordine ipostatico della deificazione. Siccome questo ordine non coinvolge l’essenza, osserviamo come la teoria triadica in Dionigi si snodi nell’intersezione tra l’ontologia della creazione, la sua radice meontologica e gli aspetti iperontologici ed enipostatici della deificazione. 4) Constatata l’interscambiabilità tra potenza ed energia, la triade appare configurarsi in Dionigi come struttura binaria che vede da una parte l’essenza in quanto indeterminazione apofatica e dall’altra le potenze-energie come determinazione manifestativa di quella. Q uesta struttura chiaramente non è sovrapponibile a quella binaria aristotelica di ἐνέργεια e δύναμις intese come attualità e potenzialità. Allo stesso modo essa si distanzia dalla dialettica ternaria tra classi di esseri sviluppata dal pensiero neoplatonico, per la quale si ha una corrispondenza tra i termini della triade e le classi di divinità; ugualmente l’interpretazione dionisiana esclude che i termini della triade corrispondano a una triplicità di domini ontologici nei quali si dispieghi la sussistenza di ogni natura particolare, escludendo al contempo che i tre termini istanzino una processione emanatistica comportante una triplice degradazione ontologica nelle realtà che sono al di sotto dell’intellegibile 49. Viene così meno in Dionigi la funzione della potenza come intermediario causale tra l’essenza e l’energia, risultato questo che caratterizzerà la lettura della triade nel suo Fortleben bizantino. 5) Se per i neoplatonici, e in particolare per Proclo, la triade nell’intelligibile perde la sua distinzione interna e i suoi tre termini vengono a identificarsi 50, per Dionigi invece, ammettendosi – sulle scorte dell’insegnamento cappadoce – unioni 49 Cfr. supra, il testo corrispondente alle note 10-12; questo è particolarmente evidente nella teoria dell’anima di Giamblico e nella sua applicazione della triade alle classi di esseri intellegibili, che ritroviamo anche in Proclo, per cui cfr. i capitoli dovuti a L. I. Martone e M. Abbate, in questo stesso volume, nonché il saggio introduttivo, pp. 22, 41, 46; Steel, The changing Self cit. (alla nota 23) (tr. it. cit., p. 93). 50 Cfr. supra, Introduzione, pp. 43, 49, 51-52, 62, 65-66; nonché i capitoli di M. Abbate, L. I. Martone, e C. Lo Casto in questo stesso volume.
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(ἑνώσεις) e distinzioni (διακρίσεις) in Dio, la potenza e l’energia divina risultano essere eterne e distinte dall’οὐσία divina, e con essa rientrano nel dominio iperontologico e ipercosmico. Dalla parte dell’unione in Dio si ha la sua essenza sovressenziale, che è comune alle tre ipostasi divine ed eternamente dotata della sua energia, dalla parte delle distinzioni si hanno invece le processioni-energie dell’essenza divina 51. In base ai punti 1 e 2, possiamo ipotizzare che Dionigi abbia ripreso la triade principalmente dai testi di Proclo: il fatto che applichi la triade fondamentalmente alle intelligenze angeliche (celesti o decadute) è verosimilmente riconducibile all’influenza del Diadoco, in particolare alla proposizione 169 della Elemen tatio theologica 52 e al De subsistentia malorum. La mancanza di riferimenti alla triade in relazione al problema dell’anima – occu pando del resto la psicologia un posto marginale nel pensiero dio nisiano – non ci permette di appurare se – ed eventualmente come – Dionigi abbia fatto riferimento a Giamblico o al Commento al «Timeo» di Proclo, dove la triade trova applicazione in ambito psicologico. Stando ai punti 3-5, possiamo concludere che la triade, pur avendo una chiara fisionomia concettuale all’interno del Corpus, non assurge a modello volto a ricapitolare e a definire esaustivamente il quadro ontologico delle realtà che pur consistono di essa. Pur assommando nella sua icastica forma triadica i termini fondamentali dell’ontologia, Dionigi non fa di essa né il modello dell’essere generale o di una natura particolare, né il principio di un movimento triadico dell’essere, limitandosi a presentarla come uno degli elementi del discorso ontologico fondamentale, che è quello che verte sul rapporto tra l’οὐσία e le sue δυνάμειςἐνέργειαι. Dionigi trova in essa un modello utile ad argomentare, in base alla distinzione tra i suoi termini, la distinzione ontologica ad extra tra gli esseri (ogni natura ha una propria essenza-potenza51 Cfr. DN II, 636C-652A, pp. 122-137; E. S. Mainoldi, La meontologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e la sua collocazione nella tradizione patristica e filosofica, in Il nihil nell’Alto Medioevo. Atti di Convegno (Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 28-29 maggio 2015), a cura di P. De Feo, Roma 2017 (Ragione plurale, 3), pp. 71-131. 52 Per la quale cfr. il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 32.
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energia) e la distinzione ontologica ad intra degli esseri (in ogni natura si distinguono essenza e potenze-energie). Possiamo quindi constatare come l’utilizzo della triade da parte di Dionigi sia riconducibile all’influenza di contesto della letteratura filosofica coeva, che egli accoglie, come nel caso di tanti altri elementi specifici del tardo neoplatonismo, rielaborandoli e adattandoli a sostegno dell’asse portante del suo pensiero ontologico, il quale affonda nella dottrina cappadoce e vede come elementi primari l’apofaticità dell’essenza divina e le processioni di questa come energie-nomi divini. Dionigi tende quindi a leggere la triade nel quadro della distinzione, risalente ai Padri cappadoci, tra l’essenza e l’energia. Tale distinzione è funzionale da una parte a salvaguardare la co-essenzialità delle ipostasi trinitarie (in virtù della loro perfetta unità di operazione) e dall’altra a salvaguardare l’impartecipabilità dell’essenza divina stante la possibilità per le creature di partecipare alle operazioni divine e quindi alla vita divina (ciò in cui consiste la θέωσις, ovvero la deificazione). Q uesto aspetto fondamentale dell’ontologia dionisiana emerge con chiarezza nell’elaborazione consacrata al nome divino di ‘Altro’, nel nono capitolo dei Nomi divini, dove Dionigi afferma: 1) l’equivalenza di potenza ed energia, 2) l’azione incessante delle energie divine, 3) la partecipabilità delle energie-potenze di Dio impartecipabile, 4) la finalità nella deificazione: Dio è l’Altro (τὸ ἕτερον), in quanto in modo provvidenziale è presente a tutti e diviene «tutte le cose in tutti» 53 per la salvezza di tutti, rimanendo in se stesso, in modo inseparabile dalla propria identità (τῆς οἰκείας ταὐτότητος ἀνεκφοιτήτως), emergendo per un’energia unica e incessante (κατ’ ἐνέργειαν μίαν καὶ ἄπαυστον ἑστηκὼς) e dandosi per una potenza indeclinabile (ἀκλίτῳ δυνάμει) al fine della deificazione (πρὸς ἐκθέωσιν) di coloro che si rivolgono a lui 54.
Tale dicotomia risulta prevalere anche nella concezione dell’ontologia sottesa alla triade nella sua applicazione alle intelligenze celesti. La triade si presenta quindi in Dionigi nominalmente come essenza – potenza – energia, ma si configura concettual Cfr. 1Cor 12, 6. DN IX, 5, 912CD, p. 209, 7-11.
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mente come essenza – energia/potenza. Considerato che le energie divine sono eterne, il modello triadico in Dionigi non si rivolge alla comprensione del problema del divenire come realizzazione delle potenzialità di ogni singola natura (tema solo accennato in relazione al problema del male), né come passaggio delle potenze dell’οὐσία dalla potenzialità all’attualità nell’operazione. Il fatto che Dionigi si rivolga alla teoria della triade riferendosi in prevalenza alle potenze angeliche rende marginale il problema della temporalità implicato nel divenire dalla potenza all’atto. Il suo principale interesse è quello di illustrare le dinamiche dell’anagogia e della deificazione, le quali sono il frutto dall’azione sovranaturale della Trinità e in virtù di ciò, per quanto Dionigi non trascuri affatto che la deificazione si realizzi nondimeno nella storia, la sua comprensione del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια si pone sul piano sovratemporale, dove ciò a cui i due termini fanno riferimento è lo stesso e medesimo eterno agire divino 55. In ragione del retroterra neoplatonico da cui Dionigi trae il suo lessico filosofico e del suo retroterra patristico, costituito dalla teologia delle energie divine dei Padri cappadoci, ci sembra che la triade non costituisca nel suo pensiero e nella sua opera una dottrina ontologica a se stante, quanto vada a costituire il tassello in cui si evidenzia la compresenza di modelli ontologici provenienti da retroterra culturali distinti, per quanto storicamente e speculativamente intrecciati, tanto nella sua formazione intellettuale quanto nella cultura filosofica del suo tempo, armonizzati tuttavia nella sintesi offerta nel Corpus.
2. Uno sguardo retrospettivo ai Padri Cappadoci Avendo più volte richiamato il legame tra l’ontologia pseudodionisiana e quella dei Cappadoci, ci sembra opportuno verificare se vi possano essere anche dei punti di contatto tra le occorrenze della triade negli scritti di Dionigi e in quelli dei tre Padri che hanno costituito la principale fonte della sua riflessione teologica 56. 55 Cfr. J.-C. Larchet, La théologie des énergies divines. Des origines à Saint Jean Damascène, Paris 2010 (Cogitatio fidei, 272), p. 313. 56 I Padri cappadoci sono stati attivi in un periodo ascrivibile alla preistoria della triade vera e propria. Per l’indagine sul retroterra speculativo e sulle strut-
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In Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa abbiamo alcune occorrenze dei termini della triade disposti in una prossimità tale da suscitare il quesito se essi non implichino effettivamente la triade in quanto tale: in virtù della loro formazione filosofica, attenta in particolare al pensiero neoplatonico, essi avrebbe potuto incontrarla in Giamblico, la cui produzione è cronologicamente compatibile con una simile ipotesi, oppure averla ripresa a livello terminologico senza seguire le implicazioni teoriche proprie dell’utilizzo fattone dal filosofo siriano. Le occorrenze dei termini della triade nei testi dei Cappadoci non sembrano peraltro attestare univocamente la presenza di questa struttura come modello definito, ma neanche escludere il quadro ontologico che ad essa si collega. 2.1. Nel trattato Sullo Spirito Santo (composto intorno al 374375) 57, Basilio di Cesarea ricorre ai termini della triade per sottolineare l’unità del quadro ontologico comune alle ipostasi trinitarie: Se, infatti, egli [il Verbo] è senza alcuna differenza [rispetto al Padre] in quanto all’essenza (κατὰ τὴν οὐσίαν ἀπαραλλάκτως), egli sarà anche senza differenza in quanto alla potenza (κατὰ τὴν δύναμιν). Degli esseri di cui la potenza è uguale, anche l’operazione sarà assolutamente uguale (ὧν δὲ ἡ δύναμις ἴση, ἴση που πάντως καὶ ἡ ἐνέργεια). Cristo infatti è «Potenza (δύναμις) di Dio e Sapienza (σοφία) di Dio» 58.
Q uesto passo pone il quesito se all’inequivocabile presenza dei termini della triade sia sottintesa una struttura nella quale i tre termini siano effettivamente pensati come una triade. Basilio non aggiunge nulla sui rapporti interni all’eventuale triade, ma il fatto che il vescovo di Cesarea riporti l’affermazione paolina che Cristo è «Potenza di Dio», lascia comprendere che nel dominio trinitario, che egli sta qui trattando, la potenza non comporti separazione ontologica rispetto all’essenza e all’energia, bensì distinzione. ture analoghe alla triade nei Cappadoci e nelle loro fonti rimandiamo al saggio di I. Ramelli in questo stesso volume. 57 Cfr. B. Pruche, Introduction, in Basile de Césarée, Sur le Saint-Esprit, éd. par B. Pruche, Paris 19682 (SC, 17bis), p. 52. 58 Basilius Caesarensis, De Spiritu Sancto, VIII, 19, PG 32, [67-219], 104ΑΒ, ibid., p. 316, 59-62. La citazione finale è da 1Cor 1, 24.
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2.2. In Gregorio di Nissa il quesito sull’assenza/presenza della triade si ripropone in diversi passi 59, come nel seguente frammento, dove i tre termini effettivamente compaiono ma sono lungi da mettere in campo una struttura ontologica realmente triadica: Diciamo che l’energia è la potenza e il movimento naturale di ogni essenza; nessuna natura è priva di essa e senza di essa nessuna natura può essere conosciuta 60.
Q ui l’energia è assimilata alla potenza e assurge a un ruolo ontologico e gnoseologico fondamentale. Essa è il corredo ineliminabile dell’essenza, ed è solo tramite essa che una natura può essere conosciuta al di fuori della sua dimensione essenziale. Da questa affermazione si deduce tuttavia che non l’essenza ma la natura complessiva di un essere è conosciuta attraverso l’energia. 2.3. Come nel passo testé citato, anche nel De opificio hominis, la presenza dei tre termini della triade difficilmente lascerebbe pensare che la loro occorrenza sia casuale: Non si produce sensazione senza una sostanza materiale, né si produce l’attività della sensazione senza la potenza intellettiva 61.
Se ancora una volta riscontriamo la presenza della sequenza terminologica della triade, di fatto constatiamo che essa non corrisponda a una struttura ontologica propriamente triadica, in quanto l’οὐσία è riferita al substrato materiale che è oggetto della sensibilità (onde la traduciamo qui con ‘sostanza’), mentre la δύναμις e l’ἐνέργεια sono riferite al soggetto intellegibile che percepisce. I tre termini triadici non risultano dunque riferiti al mede59 Jean-Claude Larchet parla di «plusieurs reprises» della triade nel Nisseno, elencandone tuttavia solo tre, di cui una non può essere considerata come una vera occorrenza della triade; cfr. Larchet, La théologie des énergies divines cit., p. 189. 60 Gregorius Nyssenus, Tractatus ad Xenodorum (fragmentum), in Analecta patristica, a cura di F. Diekamp, Roma 1938 (repr. 1962) (Orientalia Christiana Analecta, 117), p. 14, 4-5: ἐνέργειαν γὰρ ἡμεῖς εἶναί φαμεν τὴν φυσικὴν ἑκάστης οὐσίας δύναμίν τε καὶ κίνησιν, ἧς χωρὶς οὔτε ἐστὶν οὔτε γινώσκεται φύσις. 61 Id., De opificio hominis, PG 44, [124-256], 176B: οὔτε οὖν αἴσθησις χωρὶς ὑλικῆς οὐσίας, οὔτε τῆς νοερᾶς δυνάμεως χωρὶς, αἰσθήσεως ἐνέργεια γίνεται.
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simo soggetto ontologico, quindi non è possibile parlare qui di triade 62. 2.4. A questo passo se ne può accostare uno altro dal De anima et resurrectione, dove la triade è effettivamente presente e i suoi termini sono attribuiti alle facoltà dell’anima: Non mi è stato dimostrato a sufficienza allorquando consideravo le facoltà insite nell’anima (τῇ ψυχῇ δυνάμεις) quella affermazione secondo la quale l’anima sarebbe un’essenza intelligente (νοερὰν αὐτὴν εἶναι οὐσίαν) che, mediante il corpo che è suo strumento (τῷ ὀργανικῷ σώματι), ingenera una potenza vitale (ζωτικὴν δύναμιν) volta all’attività delle sensazioni (τῶν αἰσθήσεων ἐνέργειαν) 63.
Q ui il modello causale della triade si presta alla descrizione di un’attività che ha luogo nell’immanenza di un corpo in grado di compiere operazioni. Il fatto che l’anima possa esplicare la sua azione mediante il corpo ci fa però comprendere che qui la triade non vale come modello trascendente, bensì serve a spiegare la sua esistenza nell’immanenza. Q uesto approccio ci sembra dunque paragonabile a quella differenziazione tra i termini della triade che i neoplatonici hanno concepito in relazione alle diverse regioni cosmiche con cui l’anima ha contatto o alle classi di esseri intellettuali a cui la triade è applicata 64. 2.5. Nelle opere teologiche contro l’arianesimo, Gregorio chiama in causa in diversi punti i termini della triade, discutendone le relazioni reciproche. Una prima occorrenza è la seguente: Ebbene l’espressione «sono circoscritte insieme» rivela l’equivalenza dell’essenza in sé perfetta (τὸ ἰσοστάσιον τῆς ἀποτελεσθείσης οὐσίας) rispetto alla potenza a cui ha dato sussistenza 62 Una plausibile fonte per questo passo potrebbe essere indicata in Aristoteles, Metaphysica, VIII 7, 1049a, 27-36, dove si fa riferimento alla distinzione tra il soggetto dell’affezione e l’affezione in relazione alla potenza e all’atto, menzionandosi infine la ὑλική οὐσία. L’ipotesto aristotelico ci porterebbe a maggior ragione ad escludere che qui Gregorio avesse in mente la triade secondo l’interpretazione neoplatonica. 63 Gregorius Nyssenus, De anima et resurrectione, 19, PG 46, [11-161], 48C, edd. A. Spira - E. Mühlenberg, Leiden 2014 (Opera, 3.3), pp. 31, 18 - 32, 1 (tr. it., Milano 2014, p. 377, con alcuni adattamenti terminologici). 64 Cfr. supra, alla nota 49.
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(τὴν ὑποστήσασαν δύναμιν), o meglio, non della potenza, ma dell’operazione della potenza (δυνάμεως ἐνέργειαν), come egli la definisce, affinché il prodotto non sia l’effetto (ἀποτέλεσμα) di tutta la potenza di colui che esegue l’opera (τοῦ ἐνεργοῦντος δυνάμεως ἔργον), ma soltanto di un’operazione parziale (μερικῆς ἐνεργείας), che si è messa in moto dall’intera potenza, solo tanto quanto doveva apparire proporzionato alla produzione di quello che è stato fatto 65.
In questo passo il Nisseno si sofferma sui termini che compongono la triade in funzione critica contro l’equiparazione compiuta da Eunomio del Figlio e lo Spirito alle energie, cosa che comporterebbe una degradazione ontologica interna alla Trinità. Gregorio esclude ogni processione emanatistica tra i suoi termini, e per fare questo stabilisce l’equivalenza ontologica tra l’essenza e la potenza in atto, la cui distinzione va concepita come rapporto di causalità 66. 2.6. In un successivo passo, Gregorio presenta l’ordine di processione dei tre termini della triade, sostenendo per analogia l’anteriorità delle cose rispetto ai nomi. Benché i suoi termini non siano qui in sequenza, bensì disseminati in due frasi differenti, il modello terminologico della triade agisce evidentemente come presupposto dell’argomentazione in questione: Se, invece, l’essenza è anteriore alle operazioni (εἰ δὲ προϋφέστηκε τῶν ἐνεργειῶν ἡ οὐσία) (…) e, prima dell’operazione esiste la potenza (προϋφεστηκε δὲ τῆς ἐνεργείας ἡ δύναμις) e la potenza dipende dalla volontà divina (ἡ δὲ δύναμις ἐξήρτηται τοῦ θείου βουλήματος); se la volontà ha un posto a parte nel potere della natura divina (τὸ δὲ βούλημα ἐν τῇ ἐξουσίᾳ τῆς θείας ἀπόκειται φύσεως) (…) 67.
Q ui Gregorio introduce un ordine di anteriorità tra essenza ed energia, nonché tra potenza ed energia, che ci sembra tenere in 65 Id., Contra Eunomium, I, 244, ed. W. Jäger, 2 voll., Leiden 1960 (Opera, 1), I, p. 98, 9-19 (tr. it., Milano 1994, p. 52, con alcuni adattamenti terminologici). La citazione è dalla perduta opera di Eunomio di Cizico. 66 Cfr. Larchet, La théologie des énergies divines cit., pp. 189-190. 67 Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 150, ed. Jäger cit., I, p. 269, 2-3 e 8-11 (tr. it., Milano 1994, pp. 208-209, con alcune modifiche).
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considerazione da una parte l’ordine dei tre termini stabilito dal neoplatonismo, con la potenza che risulta essere anteriore all’operazione, e dall’altra lo schema logico aristotelico dell’attualitàpotenzialità, che vede nella volontà divina (corrispondente al primo motore aristotelico) l’attualità da cui deriva ogni potenzialità. 2.7. In un altro passo ancora, il Nisseno pone un distinguo tra il rapporto di potenza ed energia nelle creature e in Dio, da cui possiamo valutare il ruolo attribuito alla temporalità. Nelle creature potenza ed energia sono distinte in base al tempo, in Dio coincidono: Non è come per gli altri esseri, che posseggono per loro natura la capacità di fare (πρακτικὴ δύναμις ἐκ φύσεως), e nei quali una cosa si vede in potenza, un’altra nel compimento dell’operazione (τὸ μὲν δυνάμει θεωρεῖται τὸ δὲ κατὰ τὴν τῆς ἐνεργείας ἐκπλήρωσιν): ad esempio, noi diciamo che il costruttore delle navi è sempre, in potenza, colui che possiede l’arte della costruzione delle navi, ma che opera solo quando mostra nelle opere la sua scienza –, ebbene, questo non avviene nella vita beata, ma tutto quello che si pensa esistente in essa, è operazione e azione (ἐνέργεια καὶ πρᾶξίς), in quanto la volontà passa senza intermediari alla fine che si è proposta 68.
Come si può constatare, qui la triade non compare, entrando in gioco la dottrina aristotelica dell’attualità-potenzialità come schema dell’immanenza ontologica in cui si inquadra l’azione degli esseri nel tempo; nella vita beata, invece, si ritorna a uno schema trascendentalista per cui potenza e operazione vengono a coincidere. Q uesti passi valgono a convincerci che Gregorio di Nissa non fosse giunto ad elevare la triade a modello ontologico di riferimento univoco nella sua riflessione. In lui si riscontra ancora un’oscillazione verso una lettura aristotelica del rapporto temporale tra atto e potenza, e una lettura ormai modellata dagli sviluppi neoplatonici, in virtù dei quali, al contrario dello Stagirita, la potenza è determinazione ontologica dell’essenza e non mera potenzialità, l’energia è operazione dell’essenza e non mera attualità, e la potenza è precedente all’atto. Ibid., 230, p. 293, 1-9 (tr. it., pp. 227-228, con alcune modifiche).
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In Gregorio si delineano diversi aspetti dell’elaborazione ontologica della triade che si ritroveranno in Dionigi, in particolare, l’esclusione di una lettura teologico-trinitaria dell’ontologia triadica (ovvero lo stabilire corrispondenza o analogia tra i termini della triade e le ipostasi trinitarie), l’assimilazione in Dio di energia e potenza, la distinzione tra l’essenza impartecipabile e le energiepotenze partecipabili. Ad esclusione della lettura aristotelizzante, è possibile che Dionigi abbia ripreso proprio dal Nisseno questo approccio alla triade, che per lui aveva tuttavia una configurazione più definita in ragione del consolidamento che questa struttura aveva nel frattempo ottenuto nel neoplatonismo ateniese, i cui sviluppi furono successivi agli anni di attività del Padre cappadoce. Va infine osservato che l’ontologia triadica, per come si presenta nel pensiero dei Cappadoci, non sembra aver maturato una concezione della triade quale paradigma ontologico definito, come si può evincere dal fatto che i suoi termini ricorrono in relazione alla spiegazione delle loro relazioni causali e mai all’interno di una definizione dove i tre termini risultano coordinarsi in modello terminologico-concettuale a sé, come invece avviene in Dionigi sulle scorte del neoplatonismo ateniese.
3. I primi commentatori di Dionigi: gli scholia al Corpus (Giovanni di Scitopoli e Massimo il Confessore) Negli scholia al Corpus non mancano commenti di particolare rilievo ad alcune delle occorrenze della triade nel testo dionisiano, i quali hanno certamente contribuito a metterne in luce il trinomio come struttura unitaria e verosimilmente a promuoverne la fortuna tra i lettori di Dionigi. Nei marginalia dovuti a Giovanni di Scitopoli, in particolare, vengono sottolineati aspetti del pensiero dionisiano particolarmente significativi per inquadrarne la piena compatibilità con la teologia cristiana, tenendo così fede a uno dei principali scopi del Commento dello Scolastico 69, dall’altra sono offerti sviluppi teorici di rilievo. 69 Tanto la rielaborazione del testo dionisiano quanto il commento dovuti al vescovo di Scitopoli vanno concepiti a monte della vera e propria ricezione del Corpus: essi infatti, per molti versi si presentano nel quadro di un’operazione finalizzata a sostenere la genuinità dottrinale degli scritti dionisiani, corroborandone
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3.1. Il passo in cui cade la prima occorrenza della triade nei Nomi divini 70, è oggetto di un lungo Commento di attribuzione certa a Giovanni di Scitopoli 71. Il Commento muove dalla distinzione tra gli intelligibili e le intelligenze (νοηταὶ καὶ νοεραί), del cui binomio viene sottolineato il significato gerarchico, distinguendo inoltre i due termini in relazione alla loro differente funzione gnoseo logica. Le essenze e le energie vengono dette «enipostatiche» (ἐνυπόστατοι) nella dimensione intelligibile: «Ma lassù le essenze e le energie sono enipostatiche: infatti ogni movimento e quiete colà è enipostatico, le potenze vivono e sono superiori ai cambiamenti e alle alterazioni corporee» 72. Il termine ἐνυπόστατος è di tutto interesse in quanto esso caratterizza lo sviluppo della cristologia neo-calcedonese nella prima metà del secolo vi 73. L’uso fattone qui dallo Scolastico non è tuttavia cristologico, ma è significativo di un’attenzione crescente al ruolo dell’ipostasi come referente della sussistenza dell’essenza e delle sue energie. Il riferimento all’enipostatizzazione costituisce inoltre un indizio della possibile interpretazione della condizione ontologica della triade l’impianto pseudo-epigrafico e puntellando o moderando le dottrine più insolite per il linguaggio teologico cristiano degli inizi del sesto secolo; per una discussione del problema rimandiamo a Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Aeropagita’ cit. (alla nota 2), pp. 81-86, 517-523; A. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario di Giovanni di Scitopoli. Tra neocalcedonismo e prima recezione del Corpus Dionysiacum, Roma 2019 (Studia Ephemeridis Augustinianum, 156), pp. 119-131. 70 Cfr. DN IV, 1, 693B, p. 144, 6-7; cfr. supra, al punto 1.1, p. 183. 71 Cfr. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario cit., p. 465; in appendice a questo studio è data una tabella sinottica in cui sono riportate in modo analitico tutte le informazioni circa lo status e l’attribuzione degli scholia al Corpus Dionysiacum: ad oggi costituisce il più aggiornato strumento di informazione circa la paternità degli scholia al Corpus; cfr. anche B. R. Suchla, Die Überlieferung von Prolog und Scholien des Johannes von Skythopolis zum griechischen Corpus Dionysiacum Areopagiticum, in «Studia Patristica», 18.2 (1989), pp. 79-82; P. E. Rorem J. C. Lamoreaux, John of Scythopolis and the Dionysian Corpus: Annotating the Areopagite, Oxford 1998 (OECS). 72 Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4, [185-416], 240C; Corpus Dionysiacum, IV/1. Ioannis Scythopolitani prologus et scholia in Dionysii Areopagitae librum De divinis nominibus cum additamentis interpretum aliorum, ed. B. R. Suchla, Berlin - Boston 2011 (PTS, 62), pp. 209, 8 - 210, 2: ἀλλὰ καὶ ἐνέργειαι ἐκεῖ ἐνυπόστατοί εἰσι καὶ οὐσίαι, πᾶσα γὰρ κίνησις καὶ ἠρεμία ἐκεῖ μέντοι ἐνυπόστατοί εἰσιν, καὶ δυνάμεις ζῶσαι, καὶ τῶν ῥευστῶν καὶ σωματικῶν ἀλλοιώσεων ὑπέρτεραι. 73 Cfr. B. Gleede, The Development of the Term ἐνυπόστατος from Origen to John of Damascus, Leiden - Boston 2012 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 113), p. 49ss.
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come universale sussistente negli individui. Viene poi dedicata un’esegesi particolare ai termini δυνάμεις ed ἐνέργειαι: Si possono intendere in un altro modo le potenze e le energie: le potenze nel senso che ancora non appaiono nella creazione, tutte le cose in potenza (δυνάμει) sono state predisposte in Dio, e saranno da lui condotte all’essere (εἰς τὸ εἶναι); le energie, invece, nel senso che la creazione (ἡ δημιουργία) le ha portate all’azione (ἔργον) 74.
In questa esegesi Giovanni non si sofferma sulla triade, quasi che non ne consideri il trinomio come una struttura coordinata, come invece fa con il binomio potenza-atto, dove si dà una lettura teologica e creazionista dell’implicazione temporale di marca aristotelica per cui uno stato esclude l’altro. 3.2. La seconda occorrenza della triade non attira l’interesse di nessuno scoliasta 75, mentre delle due occorrenze relative al problema del male soltanto la prima riceve un lungo Commento, di sicura attribuzione a Giovanni di Scitopoli 76. In questo Commento lo Scolastico offre alcune importanti precisazioni circa i rapporti tra i termini della triade: ribadisce, come già Dionigi, che «innanzitutto i demoni non distruggono (οὐ φθείρουσιν) le essenze, poiché le essenze in quanto essenze non procedono nella non-esistenza (οὐσίαι καθ’ ὃ οὐσίαι οὐ χωροῦσιν εἰς ἀνυπαρξίαν)» 77, quindi pone il quesito se i demoni corrompano la potenza e l’energia, discostandosi tuttavia dalla semplice soluzione che Dionigi aveva offerto. Per rispondere Giovanni aggiunge una precisazione sulla differenza tra la potenza e l’energia, per cui la potenza sta all’energia, come la capacità (ἕξις) sta all’energia che è propria della «capacità» (ἡ ἕξις πρὸς τὴν ἐνέργειαν τὴν κατὰ τὴν ἕξιν), interpretando quindi ἕξις come la «qualità permanente» (ποιότης ἔμμονος) 78. 74 Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4, 240D, ed. Suchla cit., pp. 210, 5-9. 75 Cfr. DN IV, 10, 705CD, p. 154, 17-18; cfr. supra, al § 1.2, p. 188. 76 Cfr. DN IV, 23, 724C, p. 170, 16-17; DN IV, 32, 733A, p. 177, 19-20; cfr. supra, ai punti 1.3, 1.4, rispettivamente alle pp. 189 e 192. 77 Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 288, 13, PG 4, 289A, ed. Suchla cit., p. 284, 6-8. 78 Ibid., 289A, p. 285, 3-4.
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Per esemplificare questa differenza ricorre all’esempio del fuoco, che ha la δύναμις di scaldare (θερμαντική), e la cui «capacità o qualità» (ἕξις ἢ ποιότης) è l’essere capace di scaldare (τὸ θερμαντικόν), mentre l’energia consiste nello scaldarsi di un corpo, ovvero nel prodursi della capacità del fuoco. In conclusione «la potenza ha l’energia presso di sé, e l’energia è il prodursi della stessa potenza fuori di sé. Infatti, la potenza viene colta nel prodursi» 79. L’esem pio del fuoco potrebbe sottendere la conoscenza del passo del Commento al «Timeo» di Proclo in cui la triade viene esemplificata con questa metafora, assente nel testo di Dionigi 80. Il commentatore potrebbe averla recuperata arguendo – o sapendo – che il filosofo neoplatonico era tra le fonti di Dionigi in relazione alla triade. Concludendo sul problema della distruzione, il vescovo di Scitopoli si avvale del tema della debolezza impiegato da Dionigi per spiegare in quale senso vada intesa la ‘distruzione’ dell’essenza: ‘Distruzione’ va dunque intesa come l’operazione della potenza (φθορὰ οὖν δυνάμεως ἡ ἐνέργεια). Come dunque per la potenza dell’essenza, lo stesso avviene con l’energia, la quale al di fuori dell’ordine, della giusta misura e dell’armonia è un procedere malfermo (ἀσθενὴς πρόοδος), per cui continuando disordinatamente in esso non è possibile che la potenza, l’energia e l’essenza rimangano come erano. La loro debolezza è totale, come abbiamo detto, non certo parziale, e distruggerà il soggetto (τὸ ὑποκείμενον φθείρει), nel quale è la potenza e l’energia. Q uindi, né la potenza, né l’energia, come neanche l’essenza, ma neppure la stessa distruzione, rimarranno in quelli che sono stati colpiti dalla distruzione. L’energia degli intelletti intellegibili e intellettivi (νοητῶν καὶ νοερῶν νοῶν) è dunque l’agire secondo natura, cioè l’agire verso Dio degli intelletti intelligenti, il tendere verso Dio. È però potenza dell’intelletto il discendere nei pensieri, e muovendosi disordinatamente intorno ad esso, i suddetti [intelletti] abbandonano il bene. Nulla è quindi male per natura 81. 79 Ibid., 289B, p. 285, 8-10: ἡ οὖν δύναμις παρ’ ἑαυτῇ ἔχει τὴν ἐνέργειαν. αὐτῆς γάρ ἐστι τῆς δυνάμεως ἡ ἐνέργεια τὸ ἐξ αὐτῆς ἀποτελούμενον. ἡ γὰρ δύναμις κατὰ τὸ ποιεῖν λαμβάνεται. 80 Cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31. 81 Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 289BC, ed. Suchla cit., pp. 285, 10 - 286, 8.
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3.3. Tra gli scholia che corredano la tradizione manoscritta del Corpus, uno è dedicato al passo di Gerarchia celeste XI in cui compare la triade, tuttavia esso non è attribuibile a Giovanni di Scitopoli 82; in questo scolio i rapporti tra i termini della triade sono illustrati per analogia con il fuoco, nel quale si distingue come essenza la natura del fuoco stesso, come potenza la capacità di illuminare, e come operazione – che è detta essere l’effetto (ἀποτέλεσμα) della potenza – l’illuminare e il riscaldare 83. Benché nessuno degli scholia ai passi in cui compare la triade nel Corpus sia attribuibile a Massimo il Confessore, possiamo tuttavia riconoscere nell’Ambiguum 67 un’esegesi della dottrina esposta da Dionigi nel locus qui in esame. In un paragrafo dedicato alla discussione del simbolismo del numero dodici Massimo prende infatti le mosse dalla teoria dei λόγοι e della triade esposta nell’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste, collegandolo con acume esegetico al problema delle azioni malvagie dei demoni, che Dionigi aveva affrontato nel quarto capitolo dei Nomi divini: Il numero dodici mostra chiaramente i triplici λόγοι del giudizio e della provvidenza (πρόνοια) che riguardano le realtà intellegibili e quelle sensibili (τοὺς περὶ νοητῶν καὶ αἰσθητῶν κρίσεώς τε καὶ προνοίας τριττοὺς λόγους). Ognuna di queste realtà ammette in se stessa tre λόγοι (τρεῖς λόγους) in base ai quali essa è ciò che è, come è risultato evidente da molte cose ai sommi iniziati e iniziatori nelle cose divine (καθὼς τοῖς ἄκροις τῶν θείων μύσταις καὶ μυσταγωγοίς) attraverso un vasto studio delle Scritture (τῶν λογίων). (…) Se infatti gli esseri (τὰ ὄντα) hanno essenza, potenza ed energia, possiedono chiara82 Cfr. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario cit., p. 431. Lo scolio in questione non sembra neanche attribuibile a Massimo il Confessore, se vogliamo attenerci alla mancanza del segno distintivo (crux) in uno dei manoscritti che ancora riportano le cruces con cui Anastasio il Bibliotecario ha distinto gli scolii dovuti a Massimo da quelli di Giovanni di Scitopoli all’interno della sua traduzione latina, il ms. Firenze, Bib. Med. Laur., Plut. 89 sup. 15, alla carta 17r. Su questi testimoni cfr. M. Cupiccia, Le sorti di un testo tradotto, rivisto e commentato. Il «Corpus pseudo-dionysiacum» nella versione latina di Giovanni Scoto (secc. ix-xii), in «Filologia mediolatina», 16 (2009), [pp. 57-80], p. 65; A. Nigra, Note per l’attribuzione a Massimo il Confessore di parte degli scholia al Corpus Dionysiacum: le cruces identificative in alcuni manoscritti della versione latina di Anastasio Bibliotecario, in «Augustinianum» 61 (2021), [pp. 237-262], p. 247. 83 Cfr. Ioannes Scythopolitanus, Scholia in CH, 93, 2, PG 4, [29-113], 93A. Un’edizione critica aggiornata degli scholia a CH è in preparazione per la cura di Beate Suchla e comparirà in un volume a venire dei PTS.
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mente un triplice λόγος (τριττὸν λόγον) del loro essere (ἐπ’ αὐτοῖς τοῦ εἶναι). Se la provvidenza lega questi λόγοι all’essere, chiaramente in quanto essi sono, anche il λόγος della provvidenza sarà triplice. Ma se il giudizio delle corruzioni passate, presenti, e future dei suddetti λόγοι che si sono pervertiti, è di castigo in quanto punizione del male, anche questo si baserà su un triplice λόγος nella sua contemplazione (τῆς θεωρίας), in base al quale circoscrive (περιγράφουσα) l’essenza, la potenza e l’energia degli esseri e rimane stabile preservando senza soluzione di continuità la propria illimitatezza (ἀοριστίαν) 84.
Considerato il contenuto del passo, è possibile cogliere nei «sommi iniziati e iniziatori» un’allusione a Dionigi. Massimo definisce qui «λόγος della provvidenza» quello che Dionigi aveva chiamato λόγος ipercosmico 85. In Dionigi detto λόγος costituiva la causa creazionale, pre-ontologicamente stabilita nella Sapienza divina, di ogni essere, il quale nella sua sussistenza ontologica è distinto in essenza, potenza ed energia. In Massimo il discorso iperousiologico lascia il passo al discorso provvidenzialista ed escatologico, come era avvenuto con il passaggio della triade da Dionigi alla lettera anti-origenista di Giustiniano e agli anatematismi del Q uinto concilio ecumenico 86. Massimo specifica la triplicità del λόγος creazionale di ogni essere, distinguendo tre λόγοι, i quali non sono nient’altro che i termini della triade. Se Dionigi non ha specificato come dal λόγος ipercosmico si passi alla definizione del genere e della specie a cui appartiene l’individuo, Massimo, più sensibile al problema del rapporto tra gli universali e le esistenze particolari, riconduce ai tre termini della triade la distinzione tra i singoli esseri. 84 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 67, 8, PG 91, [1031-1418], 1400BC, ed. e tr. ingl. N. Constas, 2 voll., Cambridge (MA) - London (Engl.) 2014 (Dumbarton Oaks Medieval Library, 28-29), II, pp. 293-295. Per la traduzione qui proposta ci siamo basati sulla versione inglese di Constas e quella italiana degli Ambigua curata da C. Moreschini (Milano 2003). 85 Cfr. supra, al punto 1.5, p. 193, alla nota 29. Su Dionigi fonte di Massimo per la teoria dei λόγοι, cfr. D. Bradshaw, The Logoi of Beings in Greek Patristic Thought, in Toward an Ecology of Transfiguration: Orthodox Christian Perspectives on Environment, Nature, and Creation, a cura di B. Foltz - J. Chryssavgis, New York 2013, pp. 9-22. 86 Cfr. supra, § 1.5, pp. 196-197. Il motivo anti-origenista è peraltro presente anche in Massimo, per cui cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo volume, alle pp. 228-231.
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Nel prosieguo del passo egli giustifica il giudizio divino in base alla triplice contemplazione della corruzione che ha avuto effetto sui tre λόγοι, cioè sull’essenza, sulla potenza e sull’energia. La chiusa del passo può essere interpretata in relazione al fatto che l’essere delle creature è preservato dall’annichilimento che conseguirebbe alla loro corruzione in quanto i tre λόγοι sono stabiliti eternamente dalla divina Provvidenza. L’applicazione escatologica presuppone la volontà quale fattore di trasformazione, lasciando quindi trasparire come la triade per Massimo – come già per Dionigi – non sia un modello esaustivo per descrivere l’identità ontologica di ciascun essere, ma costituisca un modello adatto a stabilirne la distinzione ad intra e ad extra. Q uesto commento ‘nascosto’ di Massimo alla triade nella Gerarchia celeste 87, costituisce un caso particolarmente interessante ai fini del l’ontologia della triade, in quanto il Confessore la intende alla luce della teoria dei λόγοι come cifra della distinzione ontologica tra gli esseri, dando però, rispetto a Dionigi, un’interpretazione originale di essa come metro del giudizio escatologico a cui gli esseri saranno sottoposti. Sempre negli Ambigua ad Ioannem incontriamo una definizione della natura dell’anima basata sull’ontologia della triade per la quale la potenza risulta essere la determinazione potenziale dell’essenza, e l’energia l’attività in cui si dispiega quella determinazione: L’anima ha esistenza (ὑπάρχουσα) in quanto essenza (οὐσία) intelligente e razionale, pensa e ragiona avendo (ἔχουσα) come potenza (δύναμιν) l’intelletto (τὸν νοῦν), come movimento (κίνησιν) l’intelligenza (τὴν νόησιν), e come attività (ἐνέργειαν) la riflessione (τὸ νόημα) 88.
Q uesta impostazione ci sembra ricadere nello schema ‘binario’ in virtù del quale la potenza e l’energia, pur costituendo due momenti distinti ed essendo la potenza anteriore da un punto di vista logico e cronologico rispetto all’energia, rappresentano due modi di estensione ad extra dell’essenza, non tuttavia come pro Per il passo dionisiano cfr. supra, § 1.5, alle pp. 192-193. Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 15, 8, PG 91, 1220A, ed. Constas cit., I, p. 370; tr. nostra; cfr. tr. it. cit., p. 358. 87 88
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cessione degradante che farebbe della potenza e dell’energia delle risultanti ontologicamente inferiori. Nel discorso propriamente teologico constatiamo invece l’emer gere di un distinguo circa la valenza del modello ontologico della triade. Massimo apre una delle sue opere speculativamente più dense, i Capitoli teologici ed economici, con una presentazione apofatica della natura divina in relazione all’ontologia triadica: Per quanto ci è possibile sapere, Dio per se stesso non è né principio, né mezzo, né fine, né un tutto diverso rispetto a quelle cose che sono contemplate come a lui naturalmente inerenti da quelli che vengono dopo di lui: è illimitato, immobile e infinito, in quanto è colui che è infinitamente oltre ogni essenza, potenza ed energia (ὡς πάσης οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ἀπείρως ὢν ὑπερέκεινα) 89.
Una distinzione ontologica in Dio è di fatto conoscibile solo in relazione alla sua economia creatrice e manifestativa: Ogni essenza, contenendo in sé la propria definizione (ὅρος), è il principio che produce il movimento che viene contemplato in essa secondo la potenza. Ogni movimento naturale dell’essenza è conosciuto a posteriori nel prodursi come operazione, mentre è preconosciuto (προεπινοουμένη) come condizione mediana (μεσότης) dell’operazione, come è conosciuta naturalmente attraverso entrambi in quanto mezzo (κατὰ τὸ μέσον): ogni operazione, che è circoscritta per natura in base al λόγος di quella stessa, è il fine (τέλος) del movimento essenziale (οὐσιώδους κινήσεως) che è precedente a essa secondo il pensiero (κατ’ ἐπίνοιαν) 90.
L’importanza attribuita alla questione del movimento naturale è verosimilmente riportabile all’influenza della nozione aristotelica di potenza come sostrato del movimento 91. La predicazione degli attributi ontologici della triade rispetto a Dio si rende dun89 Id., Capita theologica et oeconomica. I, 2, PG 90, [1083-1462], 1084A, edd. K. Hajdú - A. Wollbold, Freiburg i. B. - Basel - Wien 2017 (Fontes Christiani, 66), p. 90 (tr. it. nostra). 90 Ibid., 3, 1084AB, pp. 91-93. 91 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 1, 1042ab; D. Lefebvre, Dynamis: sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance, Paris 2018 (Bibliothèque d’Historie de la Philosophie), pp. 443-444.
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que possibile in base alla capacità del linguaggio di significare la realtà divina per traslato: Dio non è essenza nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o in modo particolare essenza, così che sarebbe anche principio, né è potenza nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o in modo particolare potenza, così che sarebbe anche mezzo (μεσότης), né è energia nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o in modo particolare energia così che sarebbe anche fine (τέλος) del movimento secondo la potenza, il quale è preconcepito come essenziale (οὐσιώδους). Egli è bensì l’entità creatrice dell’essenza e lei stessa sovressenziale (οὐσιοποιὸς καὶ ὑπερούσιος ὀντότης), è fondamento creatore della potenza e lui stesso al di là della potenza (δυναμοποιὸς καὶ ὑπερδύναμος ἵδρυσις), nonché capacità (ἕξις) efficiente (δραστικὴ) e incessante (ἀτελεύτητος) di ogni attività (ἐνεργείας), ovvero, per dirla in breve, creatrice del principio, del mezzo e della fine, di ogni essenza, potenza ed energia 92.
Sotteso a questi passaggi iniziali dell’opera, dal valore introduttivo e sistematico, è il problema del salto logico e gnoseologico tra apofasia e catafasia. Esso era già stato affrontato da Dionigi nel tredicesimo capitolo dei Nomi Divini, e risolto mediante il ricorso al linguaggio, che permette – per grazia divina – di parlare in modo veritiero delle realtà divine indicibili. Allo stesso modo Massimo parla di una distinzione ontologica in Dio che è reale in relazione alla sua manifestazione.
4. Sviluppi dell’ontologia triadica tra vi e viii secolo: Giovanni Filopono e Giovanni Damasceno Tra gli autori cristiani successivi a Dionigi il modello triadico emerge nelle riletture della dottrina aristotelica dell’attualità/ potenzialità attraverso il modello causale e manifestativo neoplatonico, per cui i tre momenti in cui si dispiegano le potenze dell’essenza e le attività potenziali dell’essenza costituiscono una produzione di quanto è già predisposto provvidenzialmente 92 Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, I, 4, 1084BC, edd. Hajdú - Wollbold cit., p. 92, 6-14.
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nell’essere di ogni cosa. Se in Dionigi la problematica della potenzialità/attualità rimane assente nell’utilizzo della triade, la sintesi tra il modello ontologico aristotelico e quello neoplatonico – che abbiamo già incontrato nei Cappadoci – è ben avvertibile negli autori che scrivono dopo Dionigi e sono stati da lui influenzati in una qualche misura, soprattutto in quelli che costituiscono un caso accertato di ricezione di Aristotele e di ripresa critica del neoplatonismo, quali – oltre a Massimo il Confessore, del quale abbiamo già parlato – Giovanni Filopono e Giovanni Damasceno 93. 4.1. Nel caso di Giovanni Filopono, filosofo cristiano di formazione neoplatonica alessandrina, la triade ricorre nei commentari ad Aristotele, con oscillazioni tra il modello bipartito aristotelico dell’attualità/potenzialità e lo schema triadico nelle sue rielaborazioni post-neoplatoniche. Il fondo aristotelico resta ben evidente in diversi passi, come nel seguente Commento alle «Categorie»: How is it, then, they ask, that Aristotle, after saying that genera and species are predicated (κατηγορεῖσθαι) in answer to ‘What is it?’ (τί ἐστι), now says that they determine a qualification of substance (τὸ ποιὸν αὐτὰ περὶ τὴν οὐσίαν)? We reply that they are said to determine a qualification of substance insofar as the species (εἴδη) share in differentiae in actuality 93 Sui rapporti tra filosofia e teologia in questi autori, e, in particolare, sul loro ‘aristotelismo’, cfr. K. Oehler, Aristotle in Byzantium, in «Greek, Roman and Byzantine Studies», 5 (1964), [pp. 133-146], pp. 141ss.; K. Verrycken, The Development of Philoponus’ Thought and its Chronology, in Aristotle Transformed. The ancient Commentators and their Influence, ed. by R. Sorabji, Ithaca - New York 1990, pp. 233-274; G. Benevich, John Philoponus and Maximus the Confessor at the Crossroads of philosophical and theological Thought in Late Antiquity, in «Scrinium», 7-8 (2011-2012), pp. 102-130; C. Moreschini, Sulla presenza e la funzione dell’aristotelismo in Massimo il Confessore, in «Koinonia», 28-29 (2004-2005), pp. 105-124; M. Törönen, Union and Distinction in the Thought of St Maximus the Confessor, Oxford 2007 (OECS), pp. 19-34; Ch. Erismann, A World of Hypostases. John of Damascus’ Rethinking of Aristotle’s categorical Ontology, in «Studia Patristica», 50 (2011), pp. 269-287; S. Markov, Die metaphysische Synthese des Johannes von Damaskus. Historische Zusammenhänge und Strukturtransformationen, Leiden - Boston 2015 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 118), pp. 19-32; D. Bradshaw, The Presence of Aristotle in Byzantine Theology, in The Cambridge Intellectual History of Byzantium, ed. by A. Kaldellis - N. Siniossoglou, Cambridge 2017, pp. 381-396. Per la conoscenza di Dionigi da parte di Filopono, cfr. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Aeropagita’ cit. (alla nota 2), pp. 88-89.
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(ἐνεργείᾳ), and the genera (γένη) either in potentiality (εἴτε δυνάμει) (according to the Peripatetics) or in actuality (εἴτε ἐνεργείᾳ) (according to the Platonists) 94.
In altri passi emerge invece il legame triadico e manifestativo di origine neoplatonica; ad esempio nel Commento al «De anima»: The study of the intelligible objects (τῶν νοητῶν θεωρία), which are in all respects unchanging in being, in potentiality and in actuality (ἀμεταβλήτων κατ’ οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατὰ ἐνέργειαν), that is of supreme importance; the study of the soul comes second because, even though its being (τὴν οὐσίαν) is unchanging, its actuality is not (οὐ τὴν ἐνέργειαν) 95. Now, given that the essences (οὐσίαι) of things are obscure (ἄδηλοι), but their activities are evident (δῆλαι δὲ αἱ ἐνέργειαι), for this reason we should start from what is evident. For we fathom (σταθμώμεθα) the dispositions (ἕξεις) on the basis of the activities, the dispositions being obscure, and when we have learnt the dispositions – which is the same as the faculties (ταὐτὸν δὲ εἰπεῖν τὰς δυνάμεις) – we fathom on the basis of them also the essences; for each faculty arises from an essence, and each activity from a faculty (πᾶσα γὰρ δύναμις ἐξ οὐσίας, καὶ πᾶσα ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως) 96. Those bodies whose activities (ἐνέργειαι) are separable (χωρισταὶ), the essences (οὐσίαι) will also be separable, and that of those bodies whose activities are inseparable the essence will inevitably also be inseparable. For if the activities are inseparable, whereas the essence is inseparable, since the activities are based on the potentialities (ἐνέργειαι ἐκ δυνάμεων), while the potentialities are based on the essences (δυνάμεις ἐκ τῶν οὐσιῶν), then, whenever the activity is separated, if indeed it is separable, there will have to be an activity without essence or without potentiality (τινὰ ἐνέργειαν εἶναι ἀνούσιον καὶ ἀδύναμον), and this is impossible; for every activity is based on a potentiality, 94 Ioannes Philoponus, In Aristotelis categorias commentarium, ed. A. Busse, Berlin 1898 (CAG, 13.1), p. 73, 16-20; tr. ingl. by R. Sirkel - M. Tweedale - J. Harris, London - Oxford - New York 2015 (Ancient Commentator on Aristotle), p. 109. 95 Id., In Aristotelis libros de anima commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1897 (CAG, 15), p. 24, 22-24; tr. ingl. by Ph. J. van der Eijk, London - Oxford New York 2005 (Ancient Commentators on Aristotle), p. 40. 96 Ibid., p. 39, 5-10 (tr. ingl., p. 55).
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and every potentiality is based on an essence (πᾶσα γὰρ ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως, πᾶσα δὲ δύναμις ἐξ οὐσίας) 97.
Essa ricorre infine nelle argomentazioni apologetiche anti-pagane che il filosofo alessandrino ha condotto rivendicando metodologicamente il ricorso alla sola ratio piuttosto che all’auctoritas. La troviamo in due passi dell’opera dedicata alla confutazione dell’eternità del mondo contro Proclo 98. In un primo argomento, la triade è invocata in relazione alla differenza ontologica tra crea tore e creatura: And if what is created is in all respect inferior to its creator (ὑφεῖται τοῦ δημιουργοῦ τὸ δημιουργούμενον) – in substance, in power and in activity (καὶ οὐσίᾳ καὶ δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ) – it certainly must also be as a consequence inferior in its very existence (ὕπαρξιν) 99.
In un secondo argomento è riferita all’anima come principio del movimento: But if the soul has its being and essence (τὸ εἶναι καὶ ἡ οὐσία) in one way and its being the source of movement (τὸ ἀρχῇ κινήσεως εἶναι) in another, [then] it is certainly an activity (ἐνέργεια) or a power (δύναμίς) of soul that leads to its being the source of movement, just as the teacher, who is the source of change in the pupil, is not the source of such change qua man (…) but in consequence of one of the powers or activities associated with his essence (ἀλλὰ κατά τινα τῶν περὶ τὴν οὐσίαν αὐτοῦ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν) 100.
Come già visto in Dionigi e nel commento ‘nascosto’ di Massimo alla Gerarchia celeste 101, la triade serve qui ad indicare la distinzione ontologica definita dai suoi tre termini.
Ibid., p. 46, 21-26 (tr. ingl., p. 63). Filopono scrisse Sull’eternità del mondo contro Proclo nel 529; cfr. Benevich, John Philoponus and Maximus the Confessor cit., p. 104. 99 Ioannes Philoponus, De aeternitate mundi contra Proclum, I, 4, ed. H. Rabe, Leipzig 1899 (rist. 1963), p. 14, 15-18 (tr. ingl. by M. Share, Ithaca New York 2005, p. 26). 100 Ibid., VII, 5, p. 254, 19-27 (tr. ingl., pp. 93-94). 101 Cfr. supra, ai §§ 1.5 e 3.3, rispettivamente alle pp. 192ss. e 214ss. 97 98
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In Filopono l’uso della triade è soltanto filosofico e non trova applicazioni teologiche, mentre la successiva fortuna della triade si contestualizzerà per la maggior parte in argomentazioni filosofiche finalizzate al perseguimento di obiettivi teologici: questo è particolarmente evidente in Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno 102. 4.2. L’assimilazione concettuale della potenza e dell’energia, che costituisce una tendenza latente ma evidente in tutta la tradizione bizantina della triade a partire da Dionigi, viene presentata da Giovanni Damasceno in termini quantomai chiari. Nel capitolo dedicato alle energie della sua Esposizione della fede ortodossa, il teologo arabo scrive infatti: Bisogna sapere che tutte le facoltà (δυνάμεις) sopraddette, e cioè quelle conoscitive, quelle vitali, quelle naturali e quelle pratiche sono dette energie (ἐνέργειαι): infatti l’energia è la potenza e il movimento naturale di ogni essenza (ἐνέργεια γάρ ἐστιν ἡ φυσικὴ ἑκάστης οὐσίας δύναμίς τε καὶ κίνησις) 103.
Anche in questo caso il riferimento al movimento ha una chiara ascendenza aristotelica 104. Altrove il Damasceno specifica che l’energia ha funzione manifestativa della potenza dell’essenza, muovendo dalla distinzione dei significati del termine ἐνέργεια: Il termine ἐνέργεια ha diversi significati. Proprio dell’ἐνέργεια di Dio è non solo l’essere assolutamente al di là di ogni percezione dell’intelletto e di ogni immanenza cosmica (παντὸς αἰῶνος), ma anche di ogni essenza e denominazione (κλήσεως). L’ἐνέργεια è infatti la potenza e il movimento naturale di ogni essenza. (…) E ancora: l’ἐνέργεια è la potenza naturale e manifestativa di ogni essenza (…) E per dirla più semplicemente: l’ἐνέργεια è la potenza e il movimento naturale di ogni essenza, senza la quale vi è soltanto il non-essere (τὸ μὴ ὄν) 105. 102 Per l’analisi dell’applicazione della triade e della sua ontologia da parte di Massimo a obiettivi teologici, oltre alle osservazioni date supra, al § 3.3, cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo stesso volume. 103 Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 37, PG 94, [789-1228], 949A, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 12), p. 93, 2-5. 104 Cfr. supra, p. 217, alla nota 91. 105 Id., De duabus in Christo voluntatibus, 34, PG 95, [128-185], 169D-172A, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 22), p. 218, 4-6.13-14.
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Successivamente, al trentacinquesimo capitolo, sono date ulteriori precisazioni circa la sfera concettuale dell’ἐνέργεια in relazione alla potenza: Una cosa è l’operazione (ἐνέργεια) un’altra l’operare (ἐνεργεῖν), un conto è cosa e come operare un altro è l’operato (ἐνεργητόν), che è il prodotto dell’azione (ἐνέργημα); allo stesso modo una cosa è ciò che è in grado di operare (τὸ ἐνεργητικὸν) un’altra chi opera (ὁ ἐνεργῶν). L’energia (ἐνέργεια) è la potenza operativa (ἐνεργητικὴ δύναμις), cioè la capacità di operare (τὸ δύνασθαι ἐνεργεῖν), mentre l’operare è l’usarsi (κεχρῆσθαι) della potenza operativa (τῇ ἐνεργητικῇ δυνάμει) 106.
Da qui constatiamo che l’ἐνέργεια è intesa come una componente ontologica permanente dell’essere, ovvero come «potenza operativa» dell’οὐσία – espressione questa che avrà una considerevole fortuna nel Fortleben bizantino della triade –, che è legata nelle creature alla sua attuazione nel tempo, mentre per Dio non può che essere eterna e di fatto venire a coincidere del tutto con la potenza. Q uesta distinzione riprende il discorso della distinzione tra potenzialità e attualità, riportando però il tutto alla preminenza dell’energia, a cui si assimila la potenza. Risuona dunque nella concezione dell’energia del Damasceno la dottrina aristotelica dell’attualità/potenzialità, che pur nella lettura post-neoplatonica della triade rimane latente dietro alla sua ontologia.
Ibid., 35, 172B, p. 218, 1-4.
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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA VISIONE COSMICA DI MASSIMO IL CONFESSORE
Massimo il Confessore (580-662 a.C.) ha fondato la sua visione cosmica su un punto fondamentale: la volontà del Λόγος di incarnarsi. Il grande monaco, teologo e martire riassume questa dottrina nelle Q uaestiones ad Thalassium: Q uesto è il mistero che comprende tutte le epoche e manifesta il Grande Consiglio di Dio. Q uesto mistero preesiste a tutte le epoche in un modo infinito e senza limiti. Il Λόγος stesso di Dio divenne essenzialmente il messaggero di questo Grande Consiglio. Si fece uomo e stabilì se stesso, si può dire, come il visibile e intimo fondamento della bontà eterna. In se stesso dimostra il fine per cui tutte le cose chiaramente ricevettero il loro principio per entrare nell’esistenza 1.
Ogni essere si definisce secondo il proprio λόγος, che è la volontà o l’intenzione divina verso una natura. Tutti i λόγοι sono uniti nel Λόγος divino che riassume o ricapitola ogni esistente in se stesso. Q uindi, la realizzazione di ogni essere è secondo la definizione del suo λόγος nel Λόγος di Dio 2. Il desiderio divino di incarnarsi, invece, dà alle creature razionali una finalità che va oltre la loro propria natura. In cooperazione con la grazia, ogni essere razionale (angeli inclusi) ‘incarna’, 1 Maximus Confessor, Q uaestiones ad Thalassium, 60, PG 90, [244-786], 621A, edd. C. Laga - C. Steel, 2 voll., Turnhout 1980-1990 (CCSG, 7 e 22), I, 1980, p. 75, 40-48 (tr. it. mia). 2 Cfr. Id., Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, [1031-1418], 1081A, ed. e tr. ingl. N. Constas, 2 voll., Cambridge (MA) - London (Engl.) 2014 (Dumbarton Oaks Medieval Library, 28-29), I, p. 98. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127958 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 225-246 ©
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nel proprio modo, il Λόγος. Il compimento dello σκοπός divino sarà la divinizzazione e l’unità perfetta, allorché tutto sarà con Dio e tutto sarà Dio, senza che nulla perda la particolarità del suo essere individuale 3. Tutta la creazione, in cooperazione con la grazia, si eleva verso una mèta gratuita e soprannaturale. Per comprendere il ruolo della triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero massimiano, dobbiamo tenere presente quella che egli vede come la finalità ultima della creazione, per cui la realizzazione del singolo essere si svolge nel contesto di questa visione cosmica. In questo breve saggio, dopo avere passato in rassegna alcuni studi già pubblicati a proposito di questo tema, mi propongo di illustrare l’importanza della triade in quattro sue occorrenze nelle opere di Massimo e nel dramma delle creature intelligenti. In tale modo, si potranno rintracciare alcuni aspetti fondamentali della sua dottrina.
1. L’uso della triade secondo cinque studiosi moderni L’importanza della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Massimo il Confessore è già stata ben sottolineata da diversi studiosi moderni. Hans Urs von Balthasar aveva rimarcato il ruolo fondamentale della triade per l’ontologia massimiana. Nell’analisi di questo autore, la triade descrive la realizzazione di ogni essere contingente secondo il fine pensato da Dio: «La contingenza (Endlichkeit) non è una semplice imperfezione che dovrebbe essere eliminata. Piuttosto, la contingenza è non-identità e perciò movimento ontologico. L’origine di questo movimento è la sostanza (οὐσία) di un essere contingente, il quale deve realizzarsi come ἐνέργεια in un modo naturale attraverso una forza intermedia, la δύναμις» 4.
3 Ogni essere partecipa a questa unione ‘proporzionalmente’, secondo la sua natura e il suo modo di essere (τρόποι). Cfr. Id., Capita theologica et oeconomica, II, 93, PG 90, [1083-1462], 1100BC, edd. K. Hajdú - A. Wollbold, Freiburg i. B. - Basel - Wien 2017 (Fontes Christiani, 66), p. 232. La divinità non assorbe la natura particolare e non trascura mai il logos che definisce una natura; cfr. ibid., II, 84, 1164C, p. 224. 4 H. U. von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus’ des Bekenners, Trier 1988, p. 601 (tr. it. mia).
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LA TRIADE NELLA VISIONE COSMICA DI MASSIMO IL CONFESSORE
Polycarp Sherwood ha dedicato a questo tema un intero capitolo della sua opera The earlier «Ambigua» of St. Maximus the Confessor, nel quale riassume il significato generale della triade nel progetto divino con le seguenti parole: «God is principle as creator; the substance itself is principle of its motions; these motions are the activations of the natural powers tending to their goals; the goal is in one way the operation itself, or, in another, the result of the operation; the tendency, however, to the goal is motivated cause by God the final cause» 5. Sherwood cerca di mostrare lo svolgimento della triade nella finalità della creazione, procedendo verso la sua realizzazione nell’unità divina. Lars Thunberg si concentra sull’atto di «auto-realizzazione» della sostanza nel pensiero di Massimo. Secondo Massimo, «οὐσία needs to be realized in an act of self-fulfilment. In rational creatures, this leads to well-being, and from natural potentiality to effective actuality» 6. L’essere (τὸ εἶναι) passa da (1) una potenzialità sostanziale (δύναμις) a (2) un’attualizzazione intenzionale (ἐνέργεια) che è «l’essere bene» (τὸ εὖ εἶναι); ma per un essere razionale (l’uomo e l’angelo), c’è ancora una terza tappa: (3) l’essere sempre bene (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι), che si realizza soltanto per mezzo della grazia divina. La triade neoplatonica si svolge principalmente con la comunicazione fra l’auto-realizzazione dell’essere razionale e la grazia divina 7. Philipp Gabriel Renczes ha approfondito questo tema, specialmente paragonandolo con la comprensione della finalità in Aristotele: Secondo Massimo, l’essere (εἶναι) significa – come in Aristotele – il fatto di essere essenzialmente in un movimento finalizzato. La realizzazione di questo movimento, d’altra parte, non è – e qui appare la differenza rispetto ad Aristotele – 5 P. Sherwood, The earlier «Ambigua» of St. Maximus the Confessor and His Refutation of Origenism, Roma 1955 (Studia Anselmiana philosophica theologica, 36), p. 110. 6 L. Thunberg, Microcosm and Mediator: The theological Anthropology of Maximus the Confessor, Chicago 1995, p. 85. 7 Cfr. ibid., p. 85: «Thus substance exists on account of God’s will as Creator; natural self-realization of substance is effected on account of God’s will as creator of good things and the source of all good; but the transcendence of substance is made available to human beings thanks to God’s ‘economy’ which relates ‘independent’ creation to the Creator in positive communication».
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solamente attualizzazione (ἐνέργεια) di una semplice potenzialità (δύναμις), ma di una potenzialità (δύναμις) proveniente dall’essenza (οὐσία). La struttura ternaria, che aggiunge un momento distintivo alla potenzialità rispetto all’essenza da cui dipende, mette in atto un processo di individualizzazione fondato sul λόγος della natura. Ciò conferisce una qualità propria ad ogni attualizzazione della potenzialità, l’«ὁ τοῦ πῶς εἶναι τρόπος». Siamo di fronte ad una finalità ontologica particolare 8.
Più recente, Marius Portaru ha criticato le tendenze di alcuni studiosi precedenti di interpretare i termini fondamentali di Massimo attraverso una lente aristotelica 9. Nonostante l’influsso di Aristotele, Portaru sottolinea l’influenza neoplatonica e il contributo specifico del cristianesimo nella riformulazione dei concetti da parte di Massimo, cioè, un «Platonic-morphism of Revelation» 10. L’uso massimiano della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια trova le sue radici specialmente nel neoplatonismo e nei dibattiti cristologici 11. In generale, in questi studiosi vediamo che la triade è interpretata come espressione positiva della finalità della creazione secondo lo scopo divino: l’universo sorge in vista di un fine divino che, con il potere della grazia, oltrepassa anche i limiti stessi della sostanza. Per di più, la visione massimiana lascia spazio per l’individuazione personale dello svolgimento della sostanza secondo il «modo di essere», ὁ τοῦ εἶναι τρόπος. A queste osservazioni vorrei aggiungere alcune precisazioni basate sull’analisi di quattro esempi concreti tratti dalle opere di Massimo.
2. Per contrastare gli origenisti Nel settimo Ambiguum ad Ioannem, Massimo parla di un certo gruppo che interpreta Gregorio Nazianzeno con «molti punti 8 Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229), p. 169 (tr. it., Roma 2014, p. 159). 9 Cfr. M. Portaru, Classical philosophical Influences. Aristotle and Platonism, in The Oxford Handbook of Maximus the Confessor, ed. by P. Allen - B. Neil, Oxford 2015, pp. 130-134. 10 Ibid., p. 133. 11 Cfr. ibid., pp. 138-139 e 141.
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delle dottrine dei Greci» 12. L’insegnamento più problematico si riassume nel seguente testo: Essi dicono che esistette una volta, secondo loro, quell’enade delle creature razionali in grazia alla quale noi siamo connaturali a Dio, e che avevamo in lui la nostra collocazione e la nostra ferma sede. Inoltre, essi pensano che esistette successivamente il movimento (κίνησις), in seguito al quale le creature razionali in vari modi si separarono da quella enade. Essi, quindi, considerano Dio in funzione della nascita di questo mondo materiale, poiché legano tali creature ai corpi, affinché siano punite dei peccati precedenti 13.
La dottrina di questo gruppo è la dottrina degli ‘origenisti’, i seguaci di Origene di Alessandria e di Evagrio Pontico, condannati nel Sinodo di Costantinopoli del 543 e nel V Concilio ecumenico, tenutosi a Costantinopoli nel 553 14. In generale, esprime la cosiddetta ‘doppia creazione’, cioè, la caduta della creazione spirituale nelle diverse forme della creazione razionale in questo mondo. Ciascun νοῦς (tranne l’anima del Λόγος, che è rimasto fedele a Dio) decade a un certo grado dell’essere, a seconda della gravità del proprio abbandono del Creatore, divenendo angeli, astri, uomini, demoni e via dicendo 15. Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, 1069A, ed. Constas cit., I, p. 76 (tr. it., Milano 2003, p. 212). 13 Ibid., 1069AB, p. 76 (tr. it., p. 212). 14 Cfr. von Balthasar, Kosmische Liturgie cit., p. 122; I. H. Dalmais, Saint Maxime le Confesseur et la crise de l’Origénisme monastique, in Théologie de la via monastique: Études sur la tradition patristique, Paris 1961 (Théologie, 49), pp. 411-421; A. Guillaumont, Les «Képhalaia gnostica» d’Évagre le Pontique et l’histoire de l’origenisme chez le Grecs et chez les Syriens, Paris 1962 (Patristica Sorboniensia, 5), pp. 158-159.; Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., pp. 2223. Per la storia della controversia origeniana, cfr. E. Clark, The Origenist Controversy: The cultural Construction of an early Christian Debate, Princeton (N. J.) 1992; B. E. Daley, What did «Origenism» mean in the sixth century?, in Origeniana sexta: Origène et la Bible. Actes du Colloquium ‘Origenianum sextum’ (Chantilly, 30 août - 3 septembre 1993), éd. par G. Dorival - A. le Boulluec, Leuven 1995 (Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovaniensium, 118), pp. 627638; E. Prinzivalli, Magister Ecclesiae: Il dibattito su Origene fra iii e iv secolo, Roma 2002 (Studia ephemeridis Augustinianum, 82). 15 Per esempio, cfr. Origenes, De principiis, III, 2, 1, PG 11, [115-414], 303BC, edd. H. Crouzel - M. Simonetti, 5 voll., Paris 1978-1984 (SC 252-253268-269-312), III, 1980, pp. 222-224; Evagrius Ponticus, Kephalaia gnostica, [S2] III, 38, ed. A. Guillaumont, Paris 1958 (Patrologia Orientalis, 28), p. 109. 12
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Per ribattere agli origenisti, Massimo analizza la loro dottrina riconducendo alla triade definita dai termini di ‘riposo’ (στάσις), ‘movimento’ (κίνησις) e ‘creazione’ (γένεσις): la creazione spirituale, che comincia nel riposo (στάσις) presso Dio, cade a causa della sua negligenza (κίνησις), e da qui nasce il nostro cosmo (γένεσις). Secondo gli origenisti, dice il Confessore, lo stato originale sarà anche lo stato finale del ritorno, quindi il movimento e la creazione sono i risultati dell’abbandono di Dio. Le creature si trovano in un ciclo, che va dal riposo al riposo 16. Rovesciando l’ordine di questa triade Massimo ribatte che il «movimento» (κίνησις) è un elemento positivo di una «creazione» (γένεσις) che si realizza secondo un piano divino e si muove verso un fine, il «riposo» (στάσις) nell’unità divina. Il nuovo ordinamento della triade è dunque «creazione» (γένεσις), «movimento (κίνησις)», e «riposo (στάσις)» 17, in cui si descrive la realizzazione cosmica e il compimento escatologico della creazione: la creazione di Dio deve muoversi verso la sua mèta stabile ed eterna in Dio. L’errore degli origenisti è di vedere la creazione come un atto già compiuto in un’esistenza primordiale e il movimento come la caduta da questo stato originale. È ora possibile vedere l’influenza della triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sulla triade massimiana 18. La triade γένεσις – κίνησις – στάσις risulta infatti essere l’espressione cosmica ed escatologica della triade ontologica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, come possiamo dedurre dalla seguente citazione: 16 Massimo dimostra l’instabilità di tale ciclo; cfr. Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, 1069C, ed. Constas cit., I, p. 78, (tr. it. cit., p. 213): «Una volta, infatti, che le creature razionali hanno potuto disprezzare qualche cosa, per averne fatto la prova, non ci sarà nessun modo per impedire che lo possano fare sempre». 17 Cfr. ibid., 1073C, I, p. 86 (tr. it., p. 217): «Il fine del movimento di chi si muove sta, infatti, nell’essere sempre bene, così come il principio è l’essere quello che è Dio, il quale dona l’essere e concede la grazia dell’essere bene, in quanto è principio e fine; deriva da lui, infatti, in quanto principio, anche il nostro semplice muoverci, ed il nostro muoverci in un certo modo è verso di lui, in quanto è fine». 18 Polycarp Sherwood aveva già avanzato questa osservazione; cfr. Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., p. 103: «The other triade is substance, power, operation (οὐσία, δύναμις, ἐνέργεια) whose transposition, I think it not too much to say, onto the eschatological plane – a transposition necessitated by the tenor of the Origentist myth – results in the first mentioned triad: movement, becoming, rest».
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Ché la quiete (στάσις) non è certo l’operazione naturale del l’origine delle cose che si muovono, ma è il fine della potenza o dell’operazione indirizzata alla quiete, o comunque la si voglia definire 19.
In questo passo si coglie la corrispondenza fra le due triadi: (1) οὐσία – δύναμις (la sostanza e la potenza) = γένεσις (la creazione): la creazione (γένεσις) è la creazione ex nihilo 20 di una sostanza (οὐσία), definita dall’intenzione divina (λόγοι) con la potenza (δύναμις) di realizzarsi 21. (2) Ἐνέργεια (l’energia) = κίνησις (il movimento): il movimento (κίνησις) è il movimento che sorge da una potenzialità (δύναμις) inerente ad un essere e si manifesta come atto (ἐνέργεια) 22. La diade δύναμις – ἐνέργεια dirige l’essere verso il fine stabilito nel Λόγος divino. (3) Στάσις (il riposo): il riposo (στάσις) non si realizza mai pienamente in questa vita, perché l’ἐνέργεια è limitata, cioè, non può rimanere sempre in atto e non raggiunge il compimento fino all’unione divina. Piuttosto l’ἐνέργεια in questo mondo è soltanto un segno della realizzazione perfetta di un essere in Dio. Al finale, solamente la grazia può sollevare un essere creato all’unione perfetta con Dio, il riposo. Ma questo non significa che un essere si annulla nella divinizzazione, perché il riposo finale in Dio (στάσις) è «il riposo che sempre si muove» (στάσις ἀεικίνητος), il movimento paradossale nell’infinità divina che è la deificazione eterna della creatura 23. Il riposo è un’operazione di approfondimento eterno nell’infinità di Dio. Torniamo a questo tema più avanti. La triade ontologica (οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια) sottende dunque un’altra triade cosmica ed escatologica (γένεσις – κίνησις – στάσις), che è utilizzata da Massimo nella sua critica agli origenisti. 19 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 15, PG 91, 1217D, ed. Constas cit., I, p. 368 (tr. it. cit., p. 358). 20 Cfr. Id., Capita de caritate, IV, 9, PG 90, [959-1083], 1049B, ed. A. CeresaGestaldo, Roma 1963 (Verba seniorum, N. S. 3), p. 196. 21 I λόγοι sono espressioni della volontà divina (θελήματα) che definiscono ogni essere; cfr. Id., Q uaestiones ad Thalassium, 13, PG 90, 296A, edd. Laga-Steel cit. (alla nota 1), I, p. 95, 6-15. 22 Q ui si vede la sempre presente ambiguità fra δύναμις e ἐνέργεια, collegate strettamente nella realizzazione della sostanza. 23 Ibid., 65, 760B, II, 1990, p. 285, 541-546. Anche cfr. P. Blowers, Maximus the Confessor, Gregory of Nyssa, and the Concept of «Perpetual Progress», in «Vigiliae Christianae», 46, (1992), pp. 151-171.
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3. Per distinguere la creazione dal creatore e per rivelare l’immagine divina Da una parte, Massimo distingue ogni creatura da Dio ricorrendo alla distinzione fra la creatura composita (κτίσις σύνθετος) e la semplicità trinitaria 24. Dio è la natura sopra ogni sostanza (ἡ ὑπερούσιος φύσις) 25 e senza limiti, mentre la creatura consiste in sostanza (οὐσία) e accidente (συμβεβηκός) 26. Ogni essere, quindi, è limitato e definito; Dio è al di sopra di ogni definizione e limite. Dall’altra, Massimo vede la necessità di giustificare anche l’esistenza della creatura immateriale e incorporea, forse a causa di certe dottrine origeniane 27. Egli continua a sottolineare la semplicità divina (ἀπλότης) come distinta dalle nature composite, ma allarga la concezione relativa alla diade di ogni essere: ce ne sono infatti due, la ‘materia’ e la ‘forma’ (ὕλη – εἶδος) per la creatura corporale 28 e sensibile 29, la ‘sostanza’ e l’‘accidente’ (οὐσία – συμβεβηκός) per la creatura incorporale 30 e intelligibile 31. Dio non dipende da nessuna relazione e non deriva la sua esistenza da nessun’altra causa, Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones et dubia, 13, PG 90 [786-855], 796B, ed. J. H. Declerck, Turnhout 1982 (CCSG, 10), p. 11, 7-8. 25 Id., Ambigua ad Ioannem, 17, PG 91, 1224C, ed. Constas cit., I, p. 380; Id., Opuscula theologica et polemica, 21, De qualitate, proprietate et differentia, seu distinctione, PG 91, [245-258], 249BC. 26 Id., Capita de caritate, IV, 9, PG 90, 1049B, ed. Ceresa-Gestaldo cit., p. 198. 27 In Epistola 6, Massimo difende l’anima incorporea da un gruppo scono sciuto che sostiene che non sarebbe possibile distinguere un essere spirituale da Dio; cfr. Id., Epistolae, 6, PG 91, [362-650], 423D: «Ma se dicono che il divino è senza corpo, temendo qualcosa che non esiste, non possiamo dire che l’anima è incorporea, per renderla uguale a Dio». Q uesto gruppo potrebbe essere sostenitori della dottrina di Origene, per cui soltanto Dio è incorporeo nel senso assoluto. Cfr. H. Crouzel, Origène, Paris 1985 (Le sycomore. Chrétiens aujourd’hui, 15), pp. 126-128; P. Tzamalikos, Origen: Cosmology and Ontology of Time, Leiden - Boston 2006 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 77), p. 116. 28 Cfr. Maximus Confessor, Q uestiones ad Thalassium, 40, 36, PG 90, 396C, edd. Laga-Steel cit., I, p. 269, 28-37. 29 Cfr. Id., Ambigua ad Ioannem, 67, PG 91, 1400C, ed. Constas cit., II, p. 294. 30 Cfr. Id., Q uestiones ad Thalassium, 40, 36, PG 90, 396C, edd. Laga-Steel cit., I, p. 269, 30-34. 31 Cfr. Id., Ambigua ad Ioannem, 67, PG 91, 1400C, ed. Constas cit., II, p. 294. 24
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mentre ogni essere creato contiene una relazione in se stesso (la diade) e riceve la sua esistenza da Dio 32. Il problema della diade, invece, è di non permettere lo sviluppo della sostanza. Da una parte, essa spiega la relazione che definisce ogni essere (ὕλη – εἶδος, οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια). Dall’altra, la sostanza rimane chiusa in se stessa, senza lo spazio per l’auto-realizzazione verso la sua finalità. Per risolvere questo problema, il Confessore tenta di dimostrare la differenza infinita fra il creatore e la creatura per mezzo della triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. L’infinito [Dio], infatti, è infinito secondo ogni logos e ogni modo, sostanza, potenza, atto (κατ’ οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατ’ ἐνέργειαν), entrambi i limiti (intendo dire quello verso l’alto e quello verso il basso, cioè, l’inizio e la fine). È incontenibile, infatti, nella sostanza, e impensabile nella potenza e incircoscritto secondo l’atto e privo di inizio verso l’alto e privo di fine verso il basso, e, per dirla semplicemente in modo più veritiero, è in tutto e per tutto non delimitato, poiché assolutamente niente può essere pensato insieme con lui in uno dei modi che abbiamo enumerato 33.
Vi sono due cose da notare in questo passo: Massimo non nega l’esistenza della triade in Dio, ma la eleva all’infinità divina. Il logos della triade come svolgimento dell’essere è lo stesso per il creatore e per la creatura; ma il modo (τρόπος) della triade è diverso per Dio e per un essere creato 34. Il Confessore pone l’accento sull’in32 Cfr. ibid., 10, 1184D, I, p. 302 (tr. it. cit., p. 323): «La diade è circoscritta secondo la divisione in quanto si muove con il numero, dal quale ha preso l’inizio e dal quale è contenuta, poiché non possiede per natura l’essere e l’essere privo di relazione». 33 Ibid., 10, 1184D, I, p. 302 (tr. it., pp. 323-324). 34 Massimo spesso parla del λόγοι di una qualità che è comune a ogni creatura razionale (uomini, angeli) e anche a Dio stesso, ma che si distingue nel «modo» (τρόποι) in ciascuna natura. Per esempio, «la tristezza secondo Dio» (ἡ λυπή κατὰ θεόν) esiste in ogni creatura razionale come il dolore per i peccatori ed i caduti, ma in Dio si esprime in un modo che va oltre la comprensione razionale. «Il λόγος della tristezza è uno, ma riceve molti modi di espressione» Cfr. Id., Q uestiones et dubia, 129, 13-20, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 95, 14-15. Per il λόγος dell’incarnazione ed i suoi diversi modi (τρόποι), cfr. J. M. Garrigues, Le dessein d’adoption du Créateur dans son rapport au fils d’après S. Maxime le Confesseur, in Maximus Confessor. Actes du Symposium sur Maxime le Confesseur (Fribourg, 2-5 septembre 1980), éd. par F. Heinzer - C. Schönborn,
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comprensibilità della triade divina usando gli aggettivi «incontenibile, impensabile, e incircoscritto». Significa che Dio è ancora semplice e privo di ogni limite, ma allo stesso tempo è in se stesso dinamico come causa efficiente e causa finale 35. La triade come realizzazione di ogni essere è un riflesso dell’azione divina, della divina provvidenza. Il fatto che ogni creatura è οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια la rende dinamica (l’auto-realizzazione) e, allo stesso tempo, comprensibile; ma questa dinamicità è l’immagine divina in un altro modo (τρόπος), un riflessο delle ragioni divine (λόγοι) che formano la creazione 36.
4. L’uso della triade nel contrastare il monofisismo, il monoenergismo, e il monotelismo Nel 633 il Patriarca di Alessandria Ciro, in un tentativo di unire la Chiesa ancora divisa fra monofisiti e difisiti, lesse ad alta voce nove capitoli durante una liturgia. Al settimo dichiarò: «L’unico Cristo e Figlio ha agito in un modo divino e in un modo umano tramite l’unica energia divino-umana (μία θεανδρικὴ ἐνέργεια)» 37. Q uesta formula (la formula del monoenergismo) Fribourg 1982 (Paradosis, 27), pp. 171-192. Per il λόγος di auto-realizzazione (αὐτεξουσιότης) e i suoi diversi modi, cfr. Maximus Confessor, Disputatio cum Pyrrho, PG 91, [287-354], 324D-325A. 35 Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., pp. 109-110: «There is here no contradiction, but a difference in the orders of causality according to which these terms are predicated of creatures and of the creator. For creatures the formal and material causes are rather referred; for God, the supreme efficient cause and last end». 36 Q uesto non significa che Massimo voglia identificare ciascun elemento della triade con una persona della Trinità; cfr. Renczes, Agir de Dieu cit. (alla nota 8), p. 176 (tr. it. cit., p. 166): «Massimo non identifica in modo puro e semplice ciascuna delle tre tappe del moto degli esseri con ciascuno dei tre momenti riconosciuti in Dio – come se le caratteristiche degli esseri in movimento fossero in qualche modo un riflesso del mistero trinitario. Ma collega le tre ad una sola ‘operazione’ in Dio, cioè la sua Provvidenza, che si diversifica in tre modi, come possiamo riconoscere a posteriori». 37 Per la storia dello sviluppo della crisi del monoenergismo e del monotelismo, cfr. D. Bathrellos, The Byzantine Christ: Person, Nature, and Will in the Christology of saint Maximus the Confessor, Oxford 2004; M. Doucet, Est-ce que le monothélisme a fait autant d’illustres victimes?: Réflexions sur un ouvrage de F. M. Léthel, in «Science et esprit», 35 (1983), pp. 53-83; J. Farrell, Free Choice in Maximus the Confessor, South Canan (Pa.) 1989; F. M. Léthel, Théologie de l’agonie du Christ: la liberté humaine du fils de Dieu et son importance so-
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scatenò una reazione forte da parte del monaco Sofronio, futuro Patriarca di Gerusalemme e maestro di Massimo. Sofronio andò a Costantinopoli e riuscì a convincere il Patriarca Sergio a pubblicare uno psephos che proibiva la discussione del numero delle volontà di Gesù. Ma allo stesso tempo, lo psephos parlava del l’unico soggetto del Cristo, escludendo due volontà in conflitto – una posizione che ha dato inizio alla triste storia del monote lismo 38. Massimo dedicò i suoi ultimi anni, prima del martirio, alla lotta contro il monoenergismo e il monotelismo. Nel corso della sua partecipazione al conflitto ebbe occasione di precisare il significato del concetto di volontà umana e di volizione, concludendo con la necessità di riconoscere due energie (divina e umana) e due volontà (divina e umana) nell’unica persona di Gesù Cristo. Pur non potendoci addentrare nell’approfondimento di questa problematica, possiamo tuttavia mettere in rilievo il ricorso fatto da Massimo alla triade neoplatonica in relazione a questo argomento. Dalla triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια Massimo arriva a una conclusione fondamentale: l’operazione deve procedere dalla potenza che inerisce alla sua essenza. In senso stretto, soltanto una ὑπόστασις o una οὐσία esistono veramente, cioè, non dipendono da un’altra realtà per esistere; al contrario, le qualità essenziali (ποιότητες οὐσιώδεις, cioè l’intelligenza o la volontà libera per l’uomo) e le qualità inessenziali (ποιότητες ἐπουσιώδεις, cioè il colore o la misura di una persona), per esistere devono essere relative a un’οὐσία 39. Una δύναμις particolare cade nella categoria di una qualità essenziale, cioè, esiste soltanto in un’οὐσία, ma la δύναμις distingue quella sostanza dalle altre e fa parte della sua tériologique mises en lumière par Saint Maxime le Confesseur, Paris 1979 (Théologie historique, 52); J. Meyendorff, Imperial Unity and Christian Divisions. The Church A. D. 450-680, New York 1989 (The Church in History, 2), pp. 333-380. Per lo pseudo-Dionigi, cfr. DN IV, 1, 693C, p. 144, 1-12. 38 Cfr. J. Herrin, The Formation of Christendom, Princeton 1987, pp. 206208; Meyendorff, Imperial Unity cit., p. 349. 39 Cfr. Maximus Confessor, De qualitate, proprietate et differentia, seu distinctione, PG 91, 249BC. Per le radici di queste definizioni cfr. B. E. Daley, «A Richer Union»: Leontius of Byzantium and the Relationship of Human and Divine in Christ, in «Studia Patristica», 24 (1989), pp. 239-265.
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definizione 40. Q uindi, non è possibile avere una δύναμις – ἐνέργεια senza la sostanza in cui sussistono. Massimo sottolinea i problemi insiti nel ragionamento di monofisiti, monoenergisti e monoteliti: non è possibile ammettere le diverse qualità divine e umane in Cristo senza accettare anche le nature/sostanze in cui sussistono; e viceversa, accettare le due nature/sostanze di Cristo richiede anche l’accettare tutte le qualità essenziali delle nature (cioè, la volontà divina e la volontà umana). Per esempio, Massimo parla della posizione inconsistente dei monofisiti, che ammettono le qualità umane (le energie che realizzano la natura umana) di Cristo, ma non accettano le sue due nature: Se dicono che il Λόγος non è senza energia (ἐνέργεια) nel nostro modo, è chiaro che lui ha un’energia (ἐνέργεια) umana e naturale (ἔμφυτος). Come può essere altrimenti? Poiché non è possibile agire (ἐνεργεῖν) senza un’energia naturale (φυσικὴ ἐνέργεια); così non è possibile esistere (ὑπάρχειν) senza una sostanza e una natura (οὐσία καὶ φύσις). Ma è completamente necessario che l’attore (cioè, il Λόγος – τὸν ἐνεργοῦντα) non abbia, se ha la doppia natura, una sola energia naturale 41.
La triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια offre a Massimo un modo di analizzare le nature e le qualità del Λόγος incarnato e di confutare gli argomenti di coloro che volevano ridurre la pienezza delle nature, divina e umana, di Cristo. Se Gesù non avesse un’energia umana e una volontà umana, non avrebbe neanche una natura umana; se non avesse una natura umana, non avrebbe neanche le qualità della natura.
5. Per dimostrare la gratuità della deificazione Lo scopo della creazione è l’incarnazione del Λόγος e la divinizzazione della creazione. Ma la divinizzazione non è il risultato della potenza naturale dell’uomo, piuttosto è un dono divino che rende 40 Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones et dubia, 104, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 78, 5-9. 41 Id., Opuscula theologica et polemica, 16, De duabus unius Christi Dei nostri voluntatibus, PG 91, [183-212], 200C (tr. it. mia).
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l’uomo capace di oltrepassare la propria natura. Massimo, sostituendo il termine ‘sostanza’ (οὐσία) con ‘natura’ (φύσις), spiega la gratuità completa della deificazione della natura umana: Q uesto avviene nella frase: «Io l’ho detto, voi siete dèi» (Sap 81, 6); non certo secondo la natura né secondo la relazione l’uomo ha il privilegio di essere o di essere chiamato ‘Dio’, ma diviene ed è chiamato ‘Dio’ per collocazione (θέσις) 42 e per grazia. La grazia della divinizzazione (ἡ χάρις θεώσεως), infatti, è assolutamente priva di relazione, perché la natura non possiede nessuna potenzialità, quale che sia, di riceverla (οὐκ ἔχουσα τὴν οἱανοῦν δεκτικὴν ἑαυτῆς ἐν τῇ φύσει δύναμιν): allora, infatti, non sarebbe più grazia, ma manifestazione dell’atto secondo la capacità naturale. E così, ancora, non sarà assurdo, se la divinizzazione (θέωσις) dell’uomo avviene secondo la potenzialità (δύναμις) di riceverla, che ha la sua natura. Altrimenti, infatti, la divinizzazione sarà logicamente opera della natura e non dono di Dio, se avverrà secondo la potenzialità (δύναμις) di ricevere, che ha la natura dell’uomo, ed in tal modo siffatta persona potrà essere ed essere chiamata propriamente ‘Dio’ per natura. Infatti, la potenzialità naturale (ἡ κατὰ φύσιν δύναμις) di ciascuna cosa non risulta essere altro che un moto incessante (ἀπαράβατος κίνησις) della sua natura (φύσις) in funzione del suo atto (πρὸς ἐνέργειαν). Ed in che modo la divinizzazione è compresa nei limiti della natura umana? Proprio non riesco a capirlo 43.
L’analisi di Massimo dipende di nuovo dalla strutturazione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. La realizzazione (ἐνέργεια) della deificazione (θέωσις) è un dono perché supera la capacità della natura umana: una sostanza non può realizzare una potenza che non le sia gia insita. Q uindi, se la natura umana (φύσις = οὐσία) possedesse la potenzialità (δύναμις) di realizzare la divinizzazione da sé stessa, questa non sarebbe più un dono, piuttosto sarebbe un 42 Θέσις o ‘posizione’ è la fissità desiderata da Dio nelle cose create, cioè la capacità di ragionare è una qualità, ma ha la sua fissità (θέσις) nella sostanza o natura umana a causa dell’atto sovrano di Dio. In generale, la parola denota la creazione come un atto buono e desiderato da parte di Dio. La divinizzazione (θέωσις) è anche una θέσις, ma stabilita soltanto dalla grazia divina e quindi non è la conseguenza né della natura umana né del suo rapporto con Dio. Cfr. Thunberg, Microcosm and Mediator cit. (alla nota 6), p. 63. 43 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 20, PG 91, 1237B, ed. Constas cit., I, p. 410 (tr. it. cit., pp. 378-379).
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moto naturale della sostanza. Non è dunque possibile attribuire la potenzialità della divinizzazione alla natura umana 44. Soltanto la grazia divina può portare una natura fuori dei limiti imposti dalla propria potenzialità.
6. La triade nel dramma delle creature razionali Le creature razionali (λογικοί) si realizzano in un dramma cosmico che coinvolge la libertà e la grazia divina. Si svolgono verso un fine che oltrepassa la loro natura, ma quel fine non assorbe la sua autonomia e la sua individualità. E questa storia dell’umanità trova la sua forma nella storia del Λόγος incarnato, che restaura e realizza il piano divino 45. Per vedere come rientra la triade neoplatonica in questo teodramma, offrirò in questo paragrafo un’analisi dell’Ambiguum ad Ioannem 65 alla luce di altri brani relativi. Tale Ambiguum tratta un testo di Gregorio Nazianzeno in cui si dice: «Meno un giorno, che abbiamo assunto dal secolo venturo, giorno che è l’ottavo e il primo, o piuttosto, l’unico e indistruttibile. Bisogna, infatti, che lì cessi la celebrazione del sabato da parte delle nostre anime» 46. Il testo offre a Massimo l’opportunità di approfondire alcuni concetti relativi allo scopo della creazione razionale nel piano divino – dal suo inizio ex nihilo al suo fine soprannaturale. La struttura di questo piano si rivela in una serie di triadi: Coloro che sono esperti nelle cose di Dio dicono che tre sono i modi. Si osserva che λόγος complessivo della nascita delle sostanze razionali è quello che contiene il λόγος dell’essere (τὸ εἶναι), quello dell’essere bene (τὸ εὖ εἶναι) e quello dell’essere sempre (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι): il primo, quello dell’essere, è stato dato secondo la sostanza (οὐσία); il secondo è stato dato secondo la loro libera scelta (προαίρεσις), in quanto si muo44 Infatti, per ricevere la realizzazione (ἐνέργεια) della divinizzazione, l’uomo deve ricevere un nuovo ‘abito’ (ἕξις) in unione con Gesù Cristo; cfr. Renczes, Agir de Dieu cit., pp. 329-335. 45 Cfr. P. Blowers, Maximus the Confessor. Jesus Christ and the Transfiguration of the World, Oxford 2016, pp. 101-109. 46 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1389D, ed. Constas cit., II, p. 276 (tr. it. cit., p. 544). Anche cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 41, 2, PG 36, [427-452], 429B-432B.
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vono autonomamente (αὐτοκινήτος), mentre il terzo, quello dell’essere sempre, è ottenuto dalla loro ricerca per grazia (χάρις). E il primo contiene la potenza (δύναμις), il secondo l’atto (ἐνέργεια), il terzo la quiete (ἀργία) 47.
La struttura fondamentale si trova nella triade essere, essere bene ed essere sempre. Il primo e l’ultimo sono doni divini e quindi si ricevono gratuitamente e non attraverso lo sforzo personale. Il secondo, invece, dipende dalla scelta libera, dall’esercizio della volontà razionale 48. Tutti e tre si collegano alla triade anti-origenista già menzionata: γένεσις – κίνησις – στάσις. All’interno di questa struttura troviamo la triade neoplatonica dividersi secondo il movimento della sostanza razionale verso il suo fine in Dio. Il seguente schema illustra la distribuzione della triade neoplatonica nello sviluppo di un essere razionale: τὸ εἶναι (γένεσις) = dono divino οὐσία δύναμις
τὸ εὖ εἶναι (κίνησις) = libertà ἐνέργεια προαίρεσις
τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι (στάσις) = dono divino χάρις ἀργία
La sostanza e la potenza sono doni ricevuti da Dio, mentre l’atto di un essere razionale, che ha capacità di movimento (αὐτοκίνητος), appartiene alla scelta libera e forma il suo modo (τρόπος) di essere. Ma l’atto che unisce la creatura al Creatore e che termina nella quiete ha bisogno della grazia, qualcosa che viene da fuori e trasforma completamente l’essere razionale. Q ui di seguito focalizzeremo la nostra attenzione sulle singole parti di questo schema. 47 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392A, ed. Constas cit., II, p. 276 (tr. it. cit., p. 544). 48 Vediamo la stessa struttura nell’Ambiguum 10; cfr. ibid., 10, 1116B, I, p. 166 (tr. it., p. 257): «Essi [i santi] appresero, infatti, dalla esatta considerazione delle cose, per quanto è possibile all’uomo, che esistono tre modi generali, per mezzo dei quali Dio creò l’universo: e cioè che, dopo averci dato sostanza, fece l’essere, e l’essere bene e l’essere sempre. Di essi, due sono i più alti e pertengono solamente a Dio, in quanto egli è la causa, mentre l’altro è intermedio e dipende dalla nostra volontà e dal nostro comportamento e fornisce ai due estremi la proprietà di poter essere nominati esattamente in quel modo; se esso manca, la loro denominazione non ha un vero motivo, perché quei de modi non posseggono a se congiunto, il bene; e solo con l’eterno movimento verso Dio può propriamente provenire ed essere conservata in loro la verità, che è negli estremi».
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6.1. τὸ εἶναι: οὐσία e δύναμις Una sostanza (οὐσία) è creata ex nihilo e quindi si trova fra due contrari o limiti: l’essere e il non-essere 49. Sempre dipende da Dio per la continuazione della sua esistenza e per il suo movimento verso la deificazione. Una sostanza razionale vive quindi continuamente in dipendenza da Dio; altrimenti volgerebbe verso il nonessere e la propria dissoluzione: E per questo essa [la sostanza] sempre è e sarà retta dalla Sua potenza onnipotente, anche se ha il non-essere come contrario, come si è detto, essendo stata tratta da Dio dal non essere all’essere e dipendendo il suo essere o non essere dalla volontà di Lui 50.
A causa di questa dipendenza, la ‘sostanza’ è una categoria fondamentale di un essere creato che si distingue completamente dall’essere semplice e non-creato, cioè, da Dio: unica sostanza semplice, uniforme, senza qualità, pacifica e immutabile è la sostanza infinita, onnipotente e creatrice di tutti quanti gli esseri. Ogni creatura invece è composta di sostanza e accidente ed è sempre bisognosa della provvidenza divina, non essendo libera da mutabilità 51.
L’essere razionale riceve da Dio la sua potenza sostanziale, la quale rivela la natura della sostanza allorché viene ad essere in atto. La polarità fra sostanza e potenza significa che un essere razionale – umano o angelico – non è mai semplice: la sostanza deve realizzarsi secondo la sua potenza, non è una sostanza completa e in riposo. Secondo Massimo, «non esiste un essere libero e semplice secondo la sostanza, tranne il solo essere divino. Tutte le altre cose, che hanno il proprio essere dopo Dio e da Dio, consistono in sostanza e qualità, o potenza, cioè, in sostanza e accidente» 52. Q uindi, contro Origene, Massimo sostiene l’importanza del mo Cfr. ibid., 7, 1069B, I, p. 77. Id., Capita de caritate, III, 28, PG 90, 1025B, ed. Ceresa-Gestaldo cit. (alla nota 20), p. 157 (tr. it. mia). 51 Ibid., IV, 9, 1019B, p. 199. 52 Id., Q uaestiones et dubia, 104, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 78, 5-9 (tr. it. mia). 49 50
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vimento (κίνησις) nello svolgimento di una sostanza dalla sua potenza all’atto. 6.2. τὸ εὖ εἶναι: l’ἐνέργεια e la libertà Nell’Ambiguum 65, Massimo descrive il movimento di una sostanza razionale in atto: Ad esempio, il λόγος dell’essere (ὁ τοῦ εἶναι λόγος) possiede per natura solamente la potenza (δύναμις) in funzione dell’atto (ἐνέργεια), ma, senza la libera scelta (προαίρεσις), non può possedere assolutamente l’atto stesso nella sua pienezza; quello dell’essere bene possiede solamente l’atto stesso della potenza naturale secondo l’intenzione (γνώμη), ma assolutamente non possiede la potenza stessa nella sua totalità, se è separato dalla natura 53.
Un essere razionale si muove autonomamente (αὐτοκίνητος) 54 secondo la libera scelta (προαίρεσις) e la volontà intenzionale (γνώμη). L’atto che realizza la potenza di una sostanza quindi si svolge secondo l’autonomia del soggetto – un’autonomia che da forma alla «quiete» che è il termine e il limite del movimento dell’essere. La libera scelta acquista un significato preciso nel dibattito con i monoteliti. Implica non solamente la possibilità di scegliere fra i beni, ma anche include la possibilità di scegliere il male. Demetrios Bathrellos definisce προαίρεσις come «l’attualizzazione di una disposizione (γνώμη) verso ciò che è necessario per compiere un fine desiderato» 55. La προαίρεσις, aperta ai desideri ordinati 53 Id., Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392B, ed. Constas cit., II, p. 277 (tr. it. cit., p. 545). 54 Q ui sentiamo un’eco neoplatonica della categoria dell’αὐθυπόστατος, che apre lo scopo della volontà libera nell’emanazione dall’Uno; cfr. Proclus, Elementatio, prop. 40-42, pp. 42-45. 55 Cfr. Bathrellos, The Byzantine Christ cit., p. 149. Per una sintesi sulla posizione di Massimo sulla volontà naturale, la disposizione e la libera scelta, cfr. J. Bieler, Maximus the Confessor on Christ’s Human Will, in «Communio», 43 (2016), pp. 55-82; P. G. Renczes, The Concept of «hexis» in the theological Anthropology of saint Maximus the Confessor, in Knowing the Purpose of Creation through the Resurrection. Proceedings of the Symposium on St. Maximus the Confessor (Belgrade, 18-21 October 2012), ed. by M. Vasiljevic, Belgrad 2013 (Contemporary Christian thought series, 20), pp. 190-191.
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e disordinati, appartiene quindi allo stato postlapsario dell’uomo, ma scompare nei santi in cui ci sono solamente la volontà naturale (θέλημα) – la volontà sempre diretta verso il bene della sua natura – e il desiderio intellettuale. Ma, allo stesso tempo, la libera scelta è lo strumento dell’auto-movimento che mette la potenza della sostanza in atto. In somma, il contributo umano all’attuazione della potenza sottolinea l’importanza della volontà umana in Cristo – una volontà divinizzata in unione con la volontà divina nell’unica ὑπόστασις. Nonostante l’importanza della libertà delle creature razionali, Massimo insegna che l’essere – τὸ εἶναι (οὐσία, δύναμις) – e la libertà umana che determina il modo di essere – τὸ εὖ εἶναι (ἐνέργεια) – dipendono da Dio. Dio lascia lo spazio per la autorealizzazione, ma l’uomo mai può separarsi da Dio senza cadere nel non-essere. Dumitru Staniloae riassume l’insegnamento di Massimo in questi termini: Si la bonne opération dépend aussi de la bonne volonté, alors le repos dans l’éternelle existence bonne dépend non seulement de Dieu mais aussi de l’homme (…). D’autre part, pour qu’on ne croie pas que l’opération bonne ou l’existence bonne dépendent seulement de la volonté de l’homme, saint Maxime déclare que l’opération n’a pas toute la puissance en soi, mais dans la nature donnée par Dieu. Donc l’existence bonne dépend également de Dieu 56.
6.3. τὸ ἀεὶ εἶναι: la passività attiva Un essere razionale non può raggiungere il suo limite (ὅρος) o il suo compimento con il suo auto-movimento dacché tal limite oltrepassa la sua potenza: il riposo in Dio, la divinizzazione. Massimo scrive nell’Ambiguum 65: Q uello dell’essere-sempre circoscrive (περιγραφών) nella loro totalità i λόγοι che lo precedono, e cioè la potenza (δύναμις) dell’uno e l’atto (ἐνέργεια) dell’altro, ma assolutamente non esiste per natura secondo la potenza, né consegue affatto di necessità alla volontà della libera scelta (προαίρεσις): come 56 D. Staniloae, Commentaires, in Saint Maxime le Confesseur, Ambigua, tr. fr. E. Ponsoye, Paris 1994, p. 528.
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è possibile, infatti, che in quegli esseri che possiedono inizio secondo la natura e fine secondo il movimento vi sia l’essere sempre, che non possiede né inizio né fine? Ma tale λόγος è limite (ὅρος), perché rende salda la natura per quanto attiene la potenza e la libera scelta per quanto attiene l’atto, e non scambia assolutamente tra di loro il λόγος secondo cui l’una o l’altra è, ma delimita ad ogni cosa ogni secolo ed ogni tempo 57.
Q ui vediamo il paradosso del compimento di un essere razionale: l’essere razionale raggiunge il suo fine in Dio solamente per il dono trasformativo della grazia, ma questo fine non trascura l’integrità dell’essere razionale. Massimo sottolinea il fatto che l’essere sempre «circoscrive (περιγράφων) nella loro totalità i λόγοι che lo precedono». Q uindi il dono originale dell’essere e il contributo umano nell’essere bene si uniscono alla natura divina, l’essere sempre, senza diventare un tertium quid fra umano e divino e senza essere assorbito. Ciò che accade nella quiete (ἀργία) divina – la divinizzazione dell’essere razionale – è analogo all’unione delle due nature di Cristo, nel quale, secondo il Concilio di Calcedonia, si ha l’integrità delle nature nell’unione ipostatica: [Cristo] si fa conoscere in due nature senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. Poiché assolutamente non è stata eliminata la differenza delle nature a causa dell’unione, ma invece sono state preservate le proprietà dell’una e dell’altra natura e sono confluite in un solo prosopon (πρόσωπον) e in una sola ipostasi 58.
L’essere umano (οὐσία, δύναμις) e il suo modo di essere determinato con la libertà di scelta (ἐνέργεια) forma il modo dell’essere sempre, ma il termine del suo movimento viene solamente da Dio e in Dio: A seconda, dunque, di come si serva della pianezza della natura (vale a dire, secondo natura o contro natura), l’atto conforme 57 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392B, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., p. 545). 58 Il Simbolo di Calcedonia, in Il Cristo. II: Testi teologici e spirituali in lingua greca dal iv al vii secolo, a cura di M. Simonetti, Roma - Milano 1998 (Scrittori greci e latini), pp. 444-445.
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alla libera scelta, riceveranno la natura che avrà il suo termine nell’essere bene o nell’essere male, vale a dire l’essere sempre; con esso le anime festeggiano il loro sabato perché tutte ricevono la quiete del loro movimento 59.
Q uesto paradosso dell’essere razionale si trova in un altro concetto massimiano, συγχώρησις o ἐκχωρησις: «la concessione», «la consegna», o «l’abbandono» 60. Nel dramma della caduta dell’umanità, l’uomo ha respinto l’amore di Dio per disobbedienza e per rifiuto di consegnarsi/abbandonarsi alla grazia divina. Nel disordine della sua natura l’uomo non era più in grado di compiere l’atto libero dell’abbandono di sé stesso a Dio, onde rimaneva intrappolato nel ciclo del peccato, senza speranza di raggiungere l’essere bene per sempre in Dio. Ma Cristo, nell’abbandono di sé stesso sulla Croce – un consegnarsi libero al Padre motivato dall’amore – ha restaurato la capacità della volontà umana di consegnarsi alla grazia. L’uomo, con la grazia, adesso può compiere continuamente l’«abbandono volontario» (ἐκχώρησις γνωμική) 61, una passività attiva che si rinnova per sempre nell’unione con Dio. Si riposa in Dio con «il voler essere circoscritto tutto intero» 62. L’essere razionale quindi ‘subisce’ la trasformazione divina, senza la perdita della sua volontà naturale e senza la trasgressione della sua natura 63. 59 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392C, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., pp. 545-546). 60 Per un riassunto dell’insegnamento di Massimo cfr. J. Gavin, «They are like the Angels in the Heavens»: Angelology and Anthropology in the Thought of Maximus the Confessor, Roma 2009 (Studia ephemeridis Augustinianum, 116), pp. 238-241. 61 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, 1076C, ed. Constas cit., I, p. 90 (tr. it. cit., pp. 219). 62 Ibid., 1076A, I, p. 88 (tr. it., p. 218). Cristo riunisce il λόγος dell’essere dell’uomo all’essere-bene mediante la sua libertà divino-umana. Per un riassunto delle conseguenze etiche di questa guarigione, cfr. V. Cvetokovic, «All in all» (1Cor 15:28): Aspects of the Unity between God and Creation according to st. Maximus the Confessor, in «Analogia» 1.2 (2017), pp. 13-28, in partic. pp. 20-21. 63 Per una sintesi dell’insegnamento di Massimo, cfr. A. Cooper, The Body in st. Maximus the Confessor. Holy Flesh, wholly Deified, Oxford 2005, p. 248: «Nature’s passivity, the full conclusion of its natural activity, provides the raw material par excellence with which God’s infinite activity elevates that same nature and overwhelms it with his glory. In this sense passivity paradoxically constitutes a superior ontological order that, chronologically speaking, may coexist with the
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L’essere razionale trova il suo fine sia nella partecipazione 64 in Dio (l’essere sempre bene) sia nella mancanza della partecipazione completa (l’essere sempre male). Massimo così conclude l’Ambiguum 65: Dio è presente tutto intero, in modo corrispondente a ciascuno, in tutti quelli che secondo natura, rispondendo alla loro libera scelta, hanno usato il λόγος dell’essere, e con la partecipazione (μετοχή) a sé dona loro l’essere sempre bene, poiché lui solo veramente è ed è sempre ed è bene, mentre a quelli che nella loro intenzione si sono serviti contro natura del λόγος dell’essere Dio assegna l’essere sempre male (τὸ φεῦ ἀεὶ εἶναι) invece dell’essere sempre bene, come è logico, perché essi non possono più da quel momento contenere l’essere bene, in quanto la loro condizione è contraria ad esso 65.
La triade neoplatonica per Massimo coinvolge il dono divino (l’essere: οὐσία, δύναμις) e la libertà (l’essere bene: ἐνέργεια) nel l’essere razionale. Ma, in ultima istanza, l’essere sempre (bene/ male) richiede la passività libera, l’abbandono alla grazia ispirato dalla grazia stessa. L’attività drammatica dell’essere razionale si trasforma in un riposo attivo nella quieta divina.
7. Conclusione In generale, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Massimo serve a esprimere la dinamicità e la finalità di ogni essere. Mentre le diadi ὕλη – εἶδος e οὐσία – συμβεβηκός servono per spiegare la natura composita di ogni essere, cosa che li rende distinti dalla natura divina, la triade dimostra la realizzazione del fine definito dal logos di ciascun essere. Per gli esseri razionali la triade è aperta al processo dell’individualizzazione e all’azione della grazia. Da una parte, la volontà naactive state characteristic of nature’s progression to its goal by the use of its natural powers». 64 Per la «partecipazione graduale» in Massimo, cfr. M. Portaru, Gradual Participation according to St. Maximus the Confessor, in «Studia Patristica» 44 (2013), pp. 281-293. 65 Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392D, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., p. 546).
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turale (θέλησις) è una potenza (δύναμις) 66 dell’essere razionale che permette l’auto-realizzazione secondo la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια 67. L’uomo e l’angelo, in base allo scopo della propria natura, possiedono la libertà di esprimere la loro persona (ὑπόστασις) in modi diversi. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια non distrugge la volontà libera di un essere naturale. Dall’altra parte, la triade può oltrepassare i suoi limiti per grazia divina. La divinizzazione supera la capacità di ogni essere, ma questo non significa che la trascendenza della natura non sia possibile. L’incarnazione del Λόγος in ogni essere significa una partecipazione alla natura divina, una concessione a prendere parte all’azione divina. Q uale perno della visione massimiana di tale cooperazione fra l’essere umano e la grazia divina troviamo dunque l’incarnazione del Λόγος.
66 Cfr. Id., Opuscula theologica et polemica, I, PG 91, [11-38], 12D, dove si afferma che la volontà è «una potenza desiderosa dell’essere secondo la natura e conserva tutti gli attributi che sono le caratteristiche essenziali della natura» (tr. it. mia). 67 Cfr. Id., Disputatio cum Pyrrho, PG 91, 324D-325A; cfr. anche P. Piret, Le Christ et la Trinité selon Maxime le Confesseur, Paris 1983 (Théologie historique, 69), pp. 340-342.
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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA E FILOSOFICA DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA
In questo capitolo la nostra indagine sarà mirata a identificare le principali linee teoriche e i principali contesti di utilizzo filosofico e teologico della triade in età medio e tardobizantina, riportando un ventaglio – il più possibile significativo – di autori in cui questa presenza trova attestazione. Partiremo da una rassegna di contesti teologici e filosofici in cui la triade ricorre con frequenza, in base alla quale potremo valutare il radicamento di questa struttura nell’orizzonte speculativo e terminologico bizantino. A differenza del mondo latino, che non ebbe la possibilità fino al tredicesimo secolo di leggere le fonti pagane da cui Dionigi aveva ripreso la triade, i bizantini ebbero l’accesso a queste fonti senza soluzione di continuità. La presenza dei testi dei filosofi neoplatonici nelle biblioteche bizantine pone di conseguenza il quesito circa la possibilità che la triade possa esser stata conosciuta direttamente dalle fonti pagane; questo richiederà una verifica sull’impatto di queste fonti, soprattutto nel caso della ‘Proclus Renaissance’ del secolo xi. Uno sguardo specifico verterà su Gregorio Palamas e sulla disputa esicasta, in quanto la teoria delle energie divine che fu dibattuta in essa e che venne riconosciuta sinodalmente nell’interpretazione del monaco aghiorita, poi arcivescovo di Tessalonica, come genuina espressione della teologia ortodossa, oltre a vedere al suo cuore il problema del rapporto tra essenza ed energie divine, ha coinvolto in larga misura il modello ontologico della triade, riprendendo e ampliando quanto nei secoli precedenti la riflessione cristiana in lingua greca aveva espresso sull’argomento. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127959 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 247-297 ©
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Prenderemo infine in considerazione un contesto di grande rilievo non solo per lo studio della fortuna bizantina della triade, ma anche per la sua ricezione nel pensiero medievale in generale, ovvero il dibattito teologico tra latini e bizantini che si aprì nel ix secolo con il cosiddetto scisma di Fozio, si sviluppò esponenzialmente dopo il Grande scisma del 1054, per arrivare ai confronti prodottisi col Secondo Concilio di Lione (1274) e, soprattutto, al Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze (1417-1431): vedremo qui opporsi due interpretazioni della triade in cui si riflettono le divergenze maturate all’interno del pensiero filosofico e teologico tra bizantini e latini. Oltre al mainstream della teologia bizantina, in cui la triade ricorre con precise costanti interpretative, i contesti in cui essa si presenta, manifestando tratti speculativamente discordanti rispetto a quel filone principale, quali la speculazione filosofica dell’undicesimo secolo, il dibattito polemico con i latini, dal dodicesimo secolo in poi, e il dibattito teologico tardobizantino sull’esicasmo, costituiscono un terreno di verifica della varianza concettuale della triade e, conseguentemente, delle ontologie da essa implicate, mostrando così non solo la ricchezza filosofica che fa da intorno alle sue occorrenze, ma anche uno spaccato delle divergenze paradigmatiche che si sono sviluppate e scontrate sia all’interno del pensiero bizantino sia nel confronto con quello latino.
1. La triade nel canone dell’ontologia bizantina e la sua tradizione Con Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno il canone terminologico e concettuale dell’ontologia bizantina è giunto alla definizione dei suoi confini generali, entro i quali il discorso teologico e filosofico si muoverà nei secoli a venire. Le definizioni date da questi due Padri a riguardo della triade e del rapporto tra i suoi termini, al pari delle definizioni dionisiane, si attesteranno come canoniche nella letteratura filosofica bizantina, trovando diffusione attraverso le innumerevoli citazioni dalle loro opere, nonché attraverso riprese, implicite o esplicite, all’interno di catene, lessici e florilegi. Ad esempio, l’argomento dionisiano della distinzione triadica delle potenze angeliche dato nell’undice248
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simo capitolo della Gerarchia celeste è riportato per intero in uno degli opuscoli teologici di Psello 1, e da qui ripreso nella anonima miscellanea filosofica del secolo xii trasmessa dal Codex Baroccianus Graecus 131 2; similmente, gli argomenti che coinvolgono l’ontologia triadica nei Capitoli teologici ed economici di Massimo il Confessore 3 sono citati per esteso nella Panoplia dogmatica ad Alessio Comneno di Eutimio Zigabeno 4, nonché nella Historia romana di Niceforo Gregoras 5. Troviamo poi attestazioni della triade nel Lessico dello pseudo-Zonara 6, nonché in diverse catenae del Nuovo Testamento 7. A questa fortuna hanno contribuito anche le attribuzioni spurie, che in virtù dell’autorevolezza e dell’antichità degli autori implicati hanno conferito rilevanza all’argomento triadico. Apprendiamo così dalle catene dei commentari ai Salmi, dell’im piego della triade da parte del presbitero agiopolita Esichio, vissuto nel secolo v 8: non avendo elementi per verificare se si tratti qui di un’interpolazione o di un’occorrenza genuina, ci accon1 Cfr. Michael Psellus, Opusculum 112, in Id., Theologica, ed. P. Gautier, 2 voll., Leipzig 1989-2002, I, 1989, p. 441, 62-68; cfr. supra, p. 193, alla nota 29. 2 Cfr. Anonymi miscellanea philosophica. A Miscellany in the Tradition of Michael Psellos, ed. I. N. Pontikos, Athens - Paris - Brussels 1992 (Corpus philosophorum Medii Aevi. Philosophi Byzantini, 6), p. 104, 9. 3 Cfr. Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, I, 2, PG 90, [1083-1462], 1084A, edd. K. Hajdú - A. Wollbold, Freiburg - Basel - Vienna 2017 (Fontes Christiani, 66), pp. 91-92; cfr. supra, p. 217. Ricordiamo che quest’opera è riportata integralmente nella Filocalia di Nicodemo Aghiorita e Macario di Corinto. 4 Cfr. Euthymius Zigabenus, Panoplia dogmatica ad Alexium Comnenum, 3, PG 130, [33-1361], 145, 19. 5 Cfr. Nicephorus Gregoras, Historia Romana, in Id., Historiae Byzantinae, edd. I. Bekker - L. Schopen, 3 voll., Bonn 1830 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae), II, p. 1066. 6 Cfr. Pseudo-Zonaras, Lexicon, in Iohannis Zonaras, Lexicon ex tribus codicibus manuscriptis, ed. J. A. H. Tittmann, 2 voll., Leipzig 1808 (repr. Amsterdam 1967), II, p. 725, 17. 7 Cfr. Catena in epistulam ad Romanos (typus Monacensis) (e cod. Monac. gr. 412), in Catenae Graecorum patrum in Novum Testamentum, ed. J. A. Cramer, 8 voll., Oxford 1842 (rist. Hildesheim 1967), IV, p. 298, 25; Catena in epistulam ad Ephesios (typus Parisinus) (e cod. Coislin), ibid., VI, p. 129, 13-18. 8 Cfr. Hesychius, Fragmenta in Psalmos (e commentario magno in catenis), Psalmus 107, PG 93, [1180-1340], 1312B, 83-84: ὡς τῆς Τριάδος μίαν ἐχούσης οὐσίαν δύναμίν τε καὶ ἐνέργειαν. Sull’utilizzo della triade per significare l’unità ontologica della Trinità, cfr. infra, § 2; per una ripresa del testo cfr. infra, alla nota 13.
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tentiamo di sottolineare come questa attestazione si profilerebbe come testimonianza di tutto rilievo in virtù della sua antichità e per il fatto di essere pre-dionisiana; essa potrebbe dipendere dai Cappadoci, se non addirittura essere una ripresa originale dai testi neoplatonici. Particolare fortuna per ragioni pseudo-epigrafiche ha avuto il passo dedicato alla triade nel Sermo in annuntiationem Deiparae, attribuito ad Atanasio di Alessandria – in realtà testo di età più tarda e, a giudicare dalla terminologia, sicuramente post-dionisiano 9; questo passo è stato citato in diverse opere degli autori filopalamiti coinvolti nella disputa esicasta: da Gregorio Palamas 10 a Filoteo Cocchino 11 e Giovanni VI Cantacuzeno 12. Meno diffusa, ma significativa la presenza della triade in un Commento ai Salmi attribuito a Giovanni Crisostomo 13.
2. Nelle argomentazioni di teologia trinitaria A partire dai secoli vi e vii la triade trova ricorrente impiego come argomento finalizzato a illustrare l’unità ontologica delle tre ipo9 Cfr. Pseudo-Athanasius Alexandrinus, Sermo in Annuntiationem Deiparae, PG 28, [913-939], 920: ἀλλ’ ἕνα Θεὸν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσι θεολογοῦντες, μίαν ἔχοντα τὴν οὐσίαν, καὶ τὴν δύναμιν, καὶ τὴν ἐνέργειαν, καὶ ὅσα ἄλλα περὶ τὴν οὐσίαν θεωρεῖται θεολογούμενα καὶ ὑμνούμενα. 10 Cfr. Gregorius Palamas, Capita physica, theologica, moralia et practica CL, 114, ed. R. E. Sinkewicz, Toronto 1988 (Studies and Texts, 83), p. 214, 1416 (cfr. infra, alla nota 20); Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum (Ἀντιρρητικοὶ πρὸς Ἀκίνδυνον), Oratio II, 21, 100, edd. L. Kontogiannes - B. Phanourgakes, in Id., Συγγράμματα, dir. by P. K. Chrestou, 6 voll., Thessalonica 19622015, III, 1970, p. 157, 10-13; Id., Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), VI, 1, ed. G. Mantzarides, ibid., II, 1970, p. 164, 9-10; Id., Epistulae (Ἐπιστολαί), 6, ed. N. A. Matsoukas, ibid., II, p. 415, 19-25; Id., Contra Nicephorum Gregoram (Κατὰ Γρηγορᾶ συγγράμματα), Oratio 4, 65, ibid., IV, 1988. 11 Cfr. Philotheus Coccinus, Antirrhetici duodecim contra Gregoram, Oratio 5, ed. D. V. Kaimakes, Thessalonica 1983 (Thessalonian Byzantine Writers, 3), r. 495 (i testi di autori bizantini per i quali non è stato possibile reperire le edizioni a stampa originali saranno citati secondo la paginazione e le indicazioni del Thesaurus Linguae Graecae). 12 Cfr. Ioannes VI Cantacuzenus, Refutationes duae Prochori Cydonii, I, 26, edd. F. Tinnefeld - E. Voordeckers, Turnhout 1987 (CCSG, 16), p. 37, 47; ibid., II, 12, p. 129, 36; Id., Disputatio cum Paulo Patriarcha Latino epistulis septem tradita, I, 6, ibid., p. 183, 12; ibid., III, 3, p. 194, 24. 13 Cfr. Pseudo-Ioannes Chrysostomus, In Psalmos 101-107, PG 55, [635-674], 673, 62: ὡς τῆς Τριάδος μίαν ἐχούσης οὐσίαν, δύναμίν τε καὶ ἐνέργειαν.
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stasi divine. Il dibattito teologico di questi secoli fu agitato dalle teorie cristologiche monotelita e monoenergetista, che iteravano la comprensione dell’incarnazione sotto la specie di una visione ontologica monistica in continuità speculativa con il monofisimo. La triade è servita indirettamente in ambito cristologico ad affermare il principio per cui a ogni natura corrisponde una volontà, una potenza e un’operazione. Q uesto tipo di argomento ricorre con frequenza nel discorso sulla natura divina e su ciò che è comune alle tre ipostasi. La triade implica la distinzione in Dio di essenza, potenza ed energia, ma allo stesso tempo la corrispondenza di una singola natura a una propria potenza ed energia. In ambito trinitario, le tre divine ipostasi, in virtù dell’essenza comune, possiedono una potenza e un’energia comuni. Esempi di questo utilizzo della triade si trovano a partire dagli influenti testi di Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno: Q uindi un solo Dio sono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, una e medesima (μία γὰρ καὶ ἡ αὐτὴ) è l’essenza, la potenza e l’energia del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tale che nessuno può essere o essere pensato senza l’altro (οὐκ ὄντος οὐδενὸς τοῦ ἑτέρου χωρὶς ἢ νοουμένου) 14. Q uando guardiamo alla divinità e alla prima causa, all’unica sovranità (τὴν μοναρχίαν), all’unico e medesimo movimento e volere (κίνημά τε καὶ βούλημα) – per così dire – della divinità, e all’identità (ταυτότητα) dell’essenza, della potenza, dell’operazione e della signoria (κυριότητος), allora ciò che ci viene in mente è uno (ἓν ἡμῖν τὸ φανταζόμενον) 15.
Q uesto argomento ricorrerà come canonico in una nutrita serie di autori appartenenti a epoche e a contesti differenti, nei quali l’ontologia triadica manterrà una sostanziale stabilità dottrinale, ad esempio in Fozio (saec. ix) 16, Michele Psello 14 Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, II, 1, PG 90, [1083-1462], 1125C, edd. Hajdú-Wollbold cit., pp. 160, 26 - 162, 3. 15 Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 8, PG 94, [789-1228], 829B, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 12; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 2), pp. 29, 268 - 30, 271. 16 Nella Bibliotheca di Fozio la triade viene riferita come argomento utilizzato nel florilegio di sentenze contraddittorie di un certo Stefano Gobar, monofisita «triteista», vissuto forse nel secolo vi; cfr. Photius, Bibliotheca, Codex 232, 289a, ed. R. Henry, 9 voll., Paris 1959-1991 (Collection Byzantine), V,
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(saec. xi) 17, Eustrazio di Nicea (saec. xii) 18, Giorgio Acropolita (saec. xiii) 19 e Gregorio Palamas (saec. xiv) 20. La natura divina viene presentata da questi autori come avente la stessa essenza, potenza ed energia senza sostanziali variazioni di significato, per cui la triade risulta essere l’espressione delle distinzioni divine ad extram e si attesta come elemento stabile del canone termi nologico dell’ontologia trinitaria bizantina. Come già visto in Dionigi e Massimo, tra gli autori bizantini si riscontra la tendenza a inserire i termini della triade all’interno di definizioni che includono altri attributi ontologici della natura divina – tra i quali, particolarmente significativa è l’aggiunta o l’inserimento della volontà –, inquadrandosi così la struttura triadica come componente fondamentale ma non esclusiva della definizione generale dell’essere divino. Così in Giovanni Damasceno: 1967, p. 72, 33-40: «Sul fatto che il Verbo di Dio sia tutto intero in tutto e al di sopra di tutto, e intero nel corpo a cui si è unito secondo l’ipostasi: [questo significa] semplicemente che l’essenza della divinità riempie tutte le cose (πάντα πληροῖ) per natura, per la potenza e per l’energia, e passa attraverso ciascuno degli esseri per mescolanza con ogni cosa (καὶ δι’ ἑκάστου τῶν ὄντων δίεισι τῇ πρὸς τὸ πᾶν ἀνακράσει). Al contrario, le cose non stanno così, ma Dio è al di fuori del tutto secondo l’essenza, mentre è in ogni cosa per le sue potenze». 17 Cfr. Michael Psellus, Oratio in Crucifixionem, in Id., Orationes hagiographicae, ed. E. A. Fisher, Stuttgart 1994, p. 139, 540-542: «Uno (εἷς) dunque è Dio, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, per cui anche una e medesima è l’essenza, la potenza e l’energia delle tre ipostasi (μία ἡ αὐτὴ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια τῶν τριῶν ὑποστάσεων)»; Id., Opusculum 27, in Id., Theologica, edd. J. M. Duffy - L. G. Westerink, 2 voll., Munich - Leipzig 1989-2002, II, 2002, p. 117, 7273: ἤγουν μίαν οὐσίαν καὶ θεότητα καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσιν. 18 Cfr. Eustratius Nicaeensis, Orationes, 3, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. A. Demetrakopoulos, Leipzig 1866 (repr. 1965), I, [pp. 47-198], p. 92, 26: ἐστί τε καὶ ὀνομάζεται, καὶ ὅσα ἔχει ὁ Πατὴρ καὶ ὁ Υἱός, ἔχει καὶ αὐτό, τῆς αὐτῆς ὂν καὶ αὐτὸ οὐσίας, δυνάμεως, ἐνεργείας, βασιλείας, κυριότητος, ἐξουσίας, θελήσεως, διαιροῦν ἑκάστῳ καθὸ βούλεται τὰ χορηγούμενα ἀγαθά. 19 Cfr. Georgius Acropolita, Homilia in transfigurationem (BHG, 1995), ed. M. Kalatzi, in «Βυζαντινά», 27 (2007), [pp. 21-45], p. 37, 20-21: μία γὰρ ἐν αὐτοῖς ἡ θεότης ὡς καὶ ἡ οὐσία καὶ ἡ κυριότης, ἡ δύναμίς τε καὶ ἡ ἐνέργεια, καὶ τὸ μυστήριον ἀπόρρητον, ὅτι τὰ τρία ἕν; Id., In Gregorii Nazianzeni sententias, 9, ed. A. Heisenberg, Leipzig 1903 (Opera, II), p. 76, 20-22: ἢ τῷ ὄντι εἰκόνας ἔχει καὶ ἀμυδρὰς ἐμφάσεις τοῦ πρώτου ὄντος, ἐξ οὗ πᾶσα οὐσία κατ’ ἐνέργειαν οὖσα καὶ κατὰ δύναμιν. 20 Cfr. Gregorius Palamas, Capita physica, theologica, moralia et practica CL, 114, ed. Sinkewicz cit., p. 214, 14-17: κατὰ τὴν κοινὴν τῶν τριῶν θείαν ἐνέργειαν. ἕνα γὰρ θεὸν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσι θεολογοῦμεν, μίαν ἔχοντα τὴν οὐσίαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν καὶ ὅσα ἄλλα περὶ τὴν οὐσίαν θεωρεῖται.
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Vi è infatti un Dio, cioè una sola divinità, non tre dèi alla stregua di tre uomini: né infatti sono divisi per essenza, né sono separati per potenza, né per luogo (τόπῳ), né per energia, né sono ripartiti (μερίζονται) in base alla volontà (βουλήσει), avendo il loro inseparabile (ἀνεκφοίτητον) fondamento (ἵδρυσίν) e pericoresi (περιχώρησιν) gli uni negli altri 21. Un Dio, che, in quanto una divinità, una potenza, una essenza, una volontà, una energia, è indivisibile nelle singole ipostasi distinte e certo nelle proprietà dell’esistenza 22.
Anche in questo caso la casistica è ampia, onde riportiamo a titolo di esempio, alcune delle occorrenze più interessanti, come quelle in Nicetas David (saec. x), che accosta l’unità di volontà, di energia e di potenza all’unità di essenza ricorrendo al termine ὁμοούσιος 23, Niceta Byzantios (saec. ix) 24, il patriarca filo-palamita Filoteo Cocchino (saec. xiv), che presenta le distinzioni della natura divina come ciò che è comune nella Trinità 25, nonché Gregorio 21 Ioannes Damascenus, Contra Jacobitas, 78, ed. B. Kotter, Berlin - New York 1981 (PTS, 22; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 4), p. 135, 35-38. Va rilevato in questo passo l’utilizzo del raro aggettivo ἀνεκφοίτητος (inseparabile), un termine che Dionigi ha ripreso da Proclo e che ha introdotto nel linguaggio teologico cristiano, mostrandosi in questo imprestito un ulteriore elemento comprovante il suo debito verso la scuola neoplatonica ateniese, per cui cfr. D. P. Taormina, ΑΝΕΚΦΟΙΤΗΤΟΣ. L’immanenza del derivato nel principio, in «Elenchos», 22 (2001), pp. 121-132. 22 Ioannes Damascenus, Homilia in sabbatum sanctum, ed. B. Kotter, Berlin - New York 1988 (PTS, 29; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 5), p. 124, 23-26: εἷς Θεὸς, ὅτι μία θεότης, μία δύναμις, μία οὐσία, μία βούλησις, μία ἐνέργεια, ἀμέριστος ἐν μεμερισμέναις μόναις ταῖς ὑποστάσεσιν, ἤτοι ταῖς τῆς ὑπάρξεως ἰδιότησι. 23 Cfr. Nicetas David Paphlagonius, Laudatio in Gregorium theologum (BHG, 725), 6, ed. J. J. Rizzo, Bruxelles 1976 (Subsidia hagiographica, 58), pp. 31, 81 - 32, 85: τριὰς οὖν ἐν μονάδι καὶ μονὰς ἐν τριάδι τὸ προσκυνούμενον ἀποκαλύπτεται, τριὰς προσώποις καὶ μονὰς τῇ οὐσίᾳ, ἄτρεπτος, ἰσότιμος, ἄχραντος φύσει, ὁμόδοξος, ὁμόθρονος, ὁμοούσιος, ἓν βούλημα, ἐνέργεια μία, δύναμις ἡ αὐτή, ἐξουσία, κυριότης, βασιλεία μία, μὴ μεριζομένη. 24 Cfr. Nicetas Byzantios (= Didaskalos), Confutatio falsi libri, quem scripsit Mohamedes Arabs, I, 24, 1, ed. K. Förstel, Würzburg 2000 (Corpus IslamoChristianum. Series Graeca, 5), p. 128, 13-15: εἰ δὲ αὐτὸς πάντα παράγει, κρείττων ἄρα ἀπειράκις τῶν παραχθέντων ἐκ παντὸς ἂν εἴη κατὰ πάντα, οὐσίᾳ, δυνάμει, ϊδιότητι, θελήσει καὶ ἐνεργείᾳ. 25 Cfr. Philotheus Coccinus, Orationes et homiliae, Oratio 5, ed. B. S. Pseftonkas, Thessalonica 1981 (Thessalonian Byzantine Writers, 2), r. 138: εἴτε καὶ τὴν ἁγίαν Τριάδα, πᾶσαν κοινῇ κοινὴν ἔχουσαν, ὥσπερ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν θεότητα, οὕτω δὴ καὶ τὴν φυσικὴν ἐνέργειαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν σοφίαν αὐτήν; Id., Con-
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Palamas 26. La posizione teorica espressa da questi autori consiste nell’ammettere la distinzione senza separazione all’interno della natura divina, conciliando l’assunto della semplicità dell’essenza divina con la molteplicità delle potenze-energie 27. In questa posizione possiamo riconoscere uno degli aspetti fondamentali dell’ontologia trinitaria bizantina, ma va tenuto presente che l’assenso ad essa non fu unanime. Giovanni Ciparissiota (1310-1378), pur accettando la distinzione nei tre termini della triade, la riduce a mero fatto nominale, insistendo sull’identità (ταυτότητα) ed escludendo la mera somiglianza (ὁμοιότητα) degli attributi comuni alla Trinità: la sua posizione esprime uno dei principali assunti teorici dell’antipalamismo nel secolo xiv 28. All’interpretazione ‘distinzionista’ della triade in relazione all’ontologia trinitaria si lascia ricondurre la lettura del patriarca Fozio, il quale concepisce la natura divina come inseparabilmente connessa alla sua essenza, potenza e operazione; premettendo che i tre termini triadici non sono prerogative particolari delle singole persone della Trinità, bensì della natura divina nella sua totalità, Fozio ricorre alla loro associazione ai nomi trinitari e alle loro proprietà (τῶν θεοπρεπῶν ὀνομάτων τε καὶ ἰδιωμάτων) al fine di illustrare l’agire provvidenziale della Trinità ad extra: Laddove contempliamo nel divino le cose divinamente proprie, troviamo che la natura assunta fin dal principio si ricapitola in tre cose (εἰς τρία συγκεφαλαιοῦσθαι), nulla più e fessio fidei, ed. Ch. Arambatzes, in «Ἐπιστημονικὴ ἐπετηρὶς θεολογικῆς σχολῆς πανεπιστημίου Θεσσαλονίκης, Νέα Σειρά», 10 (2000), [pp. 23-41], r. 39: πιστεύω τοιγαροῦν εἰς Πατέρα καὶ Υἱὸν καὶ ἅγιον Πνεῦμα, τὸν ἕνα τρισυπόστατον Θεόν, τὸν αὐτὸν ἕνα καὶ τρία, τὸ καινὸν καὶ ὑπερφυέστατον, ἕνα μὲν τῇ οὐσίᾳ, τῇ δυνάμει, τῇ θελήσει, τῇ ἐνεργείᾳ, τῇ ἐξουσίᾳ, τῇ θεότητι καὶ ἁπλῶς πᾶσι τοῖς φυσικοῖς ἰδιώμασι. 26 Cfr. infra, al § 5.1, in partic. p. 267, alla nota 68. 27 Sulla questione della semplicità, cfr. D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of Christendom, Cambridge 2004, pp. 117, 165, 224-234, 240-243, 246-247, 250-262. 28 Cfr. Ioannes Cyparissiotes, Expositio materiaria, IX, 4, ed. B. L. Den takes, Athens 1982 (Ἡσυχαστικαὶ καὶ φιλοσοφικαὶ μελέται, 5), r. 45: ἐκεῖ γὰρ τὸ μὲν κοινόν (…) καὶ τὸ ταὐτὸν τῆς οὐσίας, καὶ τῆς ἐνεργείας, καὶ τοῦ θελήματος, καὶ τὴν τῆς γνώμης σύμπνοιαν, τήν τε τῆς ἐξουσίας, καὶ τῆς δυνάμεως, καὶ τῆς ἀγαθότητος ταυτότητα. οὐκ εἶπον ὁμοιότητα, ἀλλὰ ταυτότητα, καὶ τὸ ἓν ἔξαλμα τῆς κινήσεως· μία γὰρ οὐσία, μία ἀγαθότης· μία δύναμις, μία θέλησις, μία ἐνέργεια, μία ἐξουσία, μία καὶ ἡ αὐτή, οὐ τρεῖς ὁμοῖαι ἀλλήλαις, ἀλλὰ μία καὶ ἡ αὐτὴ κίνησις τῶν τριῶν ὑποστάσεων.
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nulla meno. In quali? In essenza, potenza e operazione. Non è infatti possibile separare la divinità dalla potenza (θεότητος τὴν δύναμιν ἀφελεῖν), né dall’operazione, né tanto più dall’essenza. E dal momento che queste non si possono concepire come la stessa cosa (μὴν οὐδ’ εἰς ταὐτόν ἐστιν), né ricondurre a un’unica ipostasi (καὶ μίαν ὑπόστασιν συναγαγεῖν), né concedere che una e la stessa sia la causa della potenza e dell’essenza (λόγον ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν ἀποδοῦναι δυνάμεώς τε καὶ οὐσίας), o della potenza e dell’energia, o dell’energia e dell’essenza, ma neanche della loro associazione (τοῦ συναθροίσματος αὐτῶν) che molto occorre (πολλοῦ δεῖ). È a queste tre realtà (τριῶν οὖν ὄντων) 29 che si ricapitolano e si riconducono gli altri nomi adeguati a Dio e le loro proprietà (τὰ ἄλλα τῶν θεοπρεπῶν ὀνομάτων τε καὶ ἰδιωμάτων συγκεφαλαιοῦται καὶ ἀνάγεται), cosicché, come è ragionevole, il divino non rimane confinato all’interno della Trinità, né esubera da essa (τὸ θεῖον οὔτε ἐντὸς τῆς τριάδος περικλείεται οὔτε μὴν ταύτης ὑπερεκτείνεται) 30.
In un precedente capitolo, Fozio ponendo il quesito di come Dio possa essere in tutto, propone un utilizzo combinato della distinzione essenza – energia con il binomio atto – potenza: mentre la prima si applica a Dio, il secondo si applica alle creature. Un’importante precisazione è poi quella per cui in Dio l’essere è una energia della sua essenza, la quale resta al di là dell’essere; allo stesso modo l’agire divino nelle cose finite è secondo l’energia, mentre l’essenza rimane prerogativa di Dio soltanto: Ma in che modo [Dio] è in tutto? Si è detto che questo non avviene secondo alcuna delle modalità proprie degli esseri (κατ’ οὐδένα τρόπον τῶν ὄντων), ma se è necessario dire ancora qualcosa che abbia maggior valore contemplativo di quelle cose elevatissime che innalzano con sé il pensiero e non temono per elevatezza i dogmi principali della teologia, [diremo che] il divino è in tutto secondo l’energia e l’essenza (ἔστι τὸ θεῖον ἐν τῷ παντὶ κατ’ ἐνέργειάν τε καὶ κατ’ οὐσίαν).
29 La locuzione τρία ὄντα, attraverso cui Fozio fa qui riferimento ai tre termini della triade, trova un preciso precedente nel neoplatonico Ermia di Alessandria, allievo di Siriano ad Atene; cfr. Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum Scholia, edd. C. M. Lucarini - C. Moreschini, Berlin 2012, p. 77, 20: τριῶν ὄντων τούτων, οὐσίας, δυνάμεως, ἐνεργείας. 30 Photius, Amphilochia, 181, ed. L. G. Westerink, Leipzig 1986 (Photii patriarchae Constantinopolitani Epistulae et Amphilochia, 5), p. 235, 22-32.
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E non mi chiedere come. Si è infatti detto [che non lo è] in base ad alcuno dei modi degli esseri. Come infatti potrebbe esserlo secondo l’essenza? Hai inteso che è secondo l’energia (πῶς οὖν ἐστι κατ’ οὐσίαν; ὡς ἐνόησας κατ’ ἐνέργειαν). Giacché infatti le altre cose sono in potenza o in atto (τὰ μὲν ἄλλα καὶ δυνάμει ἐστί ποτε καὶ ἐνεργείᾳ), il divino – come un intelletto perspicace potrà comprendere – è sempre in atto (ἀείπερ ἐστὶν ἐνεργείᾳ): non è infatti il procedere dalle cose infinite alle cose finite (οὐ γὰρ ἐξ ἀτελοῦς εἰς τελειότητα πρόεισιν), e il suo essentificarsi non è altro che il suo inattuarsi (οὐδ’ ἄλλο τι παρὰ τὴν αὐτοενέργειάν ἐστιν τὸ αὐτοούσιον), appare con chiarezza che Egli è in queste secondo l’energia, mentre in quelle è secondo l’essenza (δῆλον ὡς ἐν οἷς ἐστιν κατ’ ἐνέργειαν, ἐν τοῖς αὐτοῖς ἐστι καὶ κατ’ οὐσίαν) 31.
In questo passo la triade non compare esplicitamente nella sequenza dei suoi tre termini, che pure sono presenti; considerato che Fozio fa ricorso alla triade nel 181° capitolo dell’Amphilochia – come abbiamo visto –, questo dettaglio ci sembra indicativo del fatto che la triade non vada a sostituire né a precisare uno degli assiomi fondamentali dell’ontologia trinitaria bizantina, ovvero la distinzione tra essenza ed energia in relazione a Dio, ma si affianchi ad essa con la funzione di esplicitare il riferimento alla potenza; nel presente passo, il riferimento al binomio di atto – potenza pone la contrapposizione tra la potenza intesa nel suo senso aristotelico di non-essere-ancora delle cose che divengono nel tempo, e la potenza-energia divina che è sempre in atto, muovendosi eternamente ed essendo eternamente presso l’essenza in quanto parte della natura divina. L’importanza di questa precisazione potrebbe spiegare la decisione di non includere la potenza nel discorso sulla distinzione tra essenza ed energie, cosa che avrebbe fatto emergere la triade, onde non creare confusione con il discorso sull’attualità – potenzialità a cui soggiacciono le realtà finite. Un ricorso alla triade per illustrare un analogo problema, quello dell’inabitazione dello Spirito Santo in ogni cosa, si legge anche in Nicola di Metone (saec. xii), il quale, partendo dall’affermazione di Gregorio di Nazianzo per cui lo «Spirito riempie Ibid., 75, p. 87, 41-51.
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tutto in essenza, tutto contiene, contiene il cosmo secondo l’essenza, non limitato dal cosmo nella potenza» 32, afferma: Il riempimento è quanto fa conoscere la potenza (τὸ πληρωτικὸν δυνάμεως ἐστὶ παραστατικόν), dalla quale è manifestata l’operazione in ciò che è riempito (ἐν τῷ πληροῦν δηλουμένη). Una volta conferito a questi e mostrato il suo essere ‘non limitato dal cosmo nella potenza’ e la sua superiore separatezza (τὴν ὑπεξηρημένην) nonché l’infinita elevatezza al di sopra di ogni cosa (ἄπειρον ὑπὲρ τὰ πάντα ὑπεροχὴν) attraverso la potenza (διὰ τῆς δυνάμεως), la quale è intermedia (ἣ μεσότης ἐστὶν) tra l’essenza e l’energia, raccoglie (συνδέουσα) in essa tutte le cose e abbraccia le cose supreme (τὰς ἀκροτάτας συμπεριλαβοῦσα) 33.
Va qui rilevata l’affermazione per cui la potenza è intermedia tra l’essenza e l’energia, cosa che suona in contrasto con la consueta interpretazione bizantina. In base a quanto viene affermato all’inizio del passo, tuttavia, ci sembra che questa medietà non implichi una distinzione ontologica tra le potenze/energie divine, quanto una loro distinzione secondo il movimento nella dimensione cosmica 34. Un analogo utilizzo della triade in questioni di economia provvidenziale ricorre in un’orazione dello stesso Nicola di Metone, in cui afferma che Dio, il quale «è sovressenzialmente in tutte le cose», negli angeli è «santificazione, illuminazione e perfezione secondo l’essenza, la potenza e l’energia» 35. La con Nicolaus Methonaeus, Ad magnum domesticum, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 204, 10-14: τοῦτο γοῦν οἶμαι καὶ τὸν μέγαν ἐν θεολόγοις Γρηγόριον δηλῶσαι βουλόμενον εἰπεῖν «[τὸ Πνεῦμα] πάντα τῇ οὐσίᾳ πληροῦν, πάντα συνέχον, πληρωτικὸν κόσμου κατὰ τὴν οὐσίαν, ἀχώρητον κόσμῳ κατὰ τὴν δύναμιν». La citazione è da Gregorius Nazianzenus, De spiritu sancto (Oratio 31), 29, 15, ed. J. Barbel, Düsseldorf 1963 (Testimonia. Schriften der altchristlichen Zeit, 3), pp. 268, 24 - 269, 1. 33 Nicolaus Methonaeus, Ad magnum domesticum, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 204, 24. 34 Spunti analoghi su questo argomento in Maximus Confessor, Capita theo logica et oecumenica, I, 3, edd. Hajdú-Wollbold cit. (alla nota 3), pp. 90, 14 - 92, 2: πέφυκεν εἶναι τῆς ἐπιθεωρουμένης αὐτῇ κατὰ δύναμιν κινήσεως. πᾶσα δὲ φυσικὴ πρὸς ἐνέργειαν κίνησις τῆς μὲν οὐσίας μετεπινοουμένη, προεπινοουμένη δὲ τῆς ἐνεργείας μεσότης ἐστίν. 35 Nicolaus Methonaeus, Orationes, 5, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 317, 21-28: καὶ πῦρ ἐστιν ὁ Θεὸς καὶ ἀὴρ καὶ ὕδωρ καὶ γῆ, καὶ πάντα ὅσα ἐκ τούτων συνέστηκε, καὶ χωρεῖ διὰ πάντων, καὶ ἔστιν ἐν πᾶσιν 32
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giunzione qui emergente tra la triade anagogica (santificazione, illuminazione e perfezione) e la triade ontologica non dà addito a una rispettiva corrispondenza dei termini dell’una con i termini dell’altra, quanto un coinvolgimento completo (in essenza, potenza ed energia) della natura angelica nell’anagogia deificante. La diffusione della triade nel linguaggio teologico viene assicurata dalla sua presenza anche nel linguaggio poetico, sia con intento dottrinale, come in un inno di Simeone il Nuovo Teologo, in relazione all’economia del Verbo 36, oppure in chiave meramente retorica in un’opera di dubbia attribuzione allo stesso Simeone 37.
3. Nell’argomentazione filosofica Il ricorso alla triade trova ampia attestazione anche nei testi filosofici medio e tardobizantini non direttamente finalizzati al dibattito teologico, come nei commentari ad Aristotele, o nelle trattazioni su temi ripresi dal neoplatonismo, di cui Michele Psello costituisce il caso più rilevante. Abbiamo così attestazioni della triade nei più importanti commentatori attivi a cavaliere tra i secoli xi e xii, quali Eustrazio di Nicea 38 e Michele di ὑπερουσίως, ἀμιγῶς, ἀχράντως, ἀπεριγράπτως, καὶ πρό γε τῶν αἰσθητῶν καὶ συνθέτων ὑπερτέρως ἐστὶ τὰ πάντα ἐν τοῖς ἁπλοῖς καὶ νοητοῖς τε καὶ νοεροῖς ἁγίοις Ἀγγέλοις ἁγιασμός, φωτισμός, τελείωσις κατ’ οὐσίαν τε καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν, καθὼς ἤδη καὶ προλαβὼν ὁ λόγος ἀμυδρῶς παρεδήλωσεν. 36 Cfr. Symeon Neotheologus, Hymni, 47, ed. A. Kambylis, Berlin New York 1976 (Supplementa Byzantina, 3), p. 382, 31-36: «Colui che è lassù insieme al Padre e si trova con noi, non come alcuni dicono per la sola energia, né come pensano molti per la sola volontà o per la sola potenza, ma anche per l’essenza, benché sia davvero ardito parlare o pensare l’essenza in relazione a te, o Immortale, o solo Sovressenziale» (ὁ ἄνω ὢν σὺν τῷ πατρὶ καὶ μεθ’ ἡμῶν τυγχάνων, οὐχ ὥς τινες λογίζονται τῇ ἐνεργείᾳ μόνῃ, οὐδ’ ὡς νομίζουσι πολλοὶ τῷ θελήματι μόνῳ οὐδὲ δυνάμει μόνῃ σου, ἀλλὰ καὶ τῇ οὐσίᾳ, εἴπερ οὐσίαν ἐπὶ σοὶ τολμητέον τοῦ λέγειν ἢ ἐννοεῖν, ἀθάνατε, ὑπερούσιε μόνε). 37 Cfr. Symeon Neotheologus, Capitula Alphabetica, III, 1, ed. Ἱερὰ Μονὴ Σταυρονικήτα (Mount Athos) 2005, r. 105: δείκνυται τοίνυν τὸ πᾶν περὶ τὴν πολιτείαν ὑπάρχειν. ὅσοι τοιγαροῦν χρστιανοὶ μὴ τὴν προσήκουσαν χριστιανοῖς πολιτείαν μετέρχονται, ἢ περὶ τὸ εἶναι τουτέστι τὴν οὐσίαν ἀσθενοῦσιν, ἢ περὶ τὴν δύναμιν τουτέστι τὴν ζωήν, ἢ περὶ τὴν ἐνέργειαν τουτέστι τὸ πολιτεύεσθαι. 38 Cfr. Eustratius Nicaeensis, In Aristotelis analyticorum posteriorum librum secundum commentarium, ed. M. Hayduck, Berlin 1907 (CAG, 21.1), p. 258, 21-23: οὔτε οὖν ὡς προϋπάρχουσαι τῶν σωμάτων αἱ ψυχαὶ εἰς ἀνάμνησιν ἔρχονται τῶν
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Efeso 39, e in un commentatore vissuto tra i secoli xiii e xiv, Sofonia Filosofo 40. In merito a questi commentari va sottolineato che la triade viene interpretata in chiave neoplatonica come modello di progressione causale ed emanativa dall’essenza alla potenza e dalla potenza all’operazione 41. Psello fa riferimento alla triade nei capitoli della Omnifaria doctrina dedicati all’intelletto e all’anima, i quali, per impostazione speculativa e fonti, risultano di chiaro orientamento neoplatonico (nonostante alcuni inserimenti patristici sparsi e il riferimento alla dottrina aristotelica dell’anima). Il tenore neoplatonico seguito dal Console dei Filosofi emerge dall’affermazione che apre il ventiduesimo capitolo, per la quale «ogni intelletto ha essenza, potenza e operazione eterni», ma soprattutto nella precisazione che chiude lo stesso capitolo in cui si mette in luce il carattere emanativo della triade, concependo la potenza come intermedia tra l’essenza e l’energia non solo nella dimensione cosmica, bensì in quella trascendente: «Se la sua essenza e la suo operazione sono eterni, anche la sua potenza, che si trova a metà fra questi, ha un’eterna sussistenza» 42. Sviluppando il problema dell’anima, in un successivo paragrafo, Psello presenta una giustapposizione ἀρχῶν οὔτε μὴν ὡς κατ’ οὐσίαν ἐκ τοῦ δυνάμει εἰς τὸ ἐνεργείᾳ προβαίνουσαι εἰς γνῶσιν τῶν ἀμέσων προΐασι διὰ τῶν αἰσθήσεων. 39 Cfr. Michael Ephesius, In ethica Nicomachea ix-x commentaria, ed. G. Heylbut, Berlin 1892 (CAG, 20), p. 561, 21-24: ἡ ζωὴ ἄρα ἐνέργεια. ἀλλὰ δὴ καὶ κατ’ αὐτὸ τὸ ζωτικὸν ἰδίωμα ἐνέργειά τίς ἐστιν, οἷον γὰρ ζέουσά τίς ἐστιν οὐσία καὶ ἀεὶ ἀναβλύζουσα δυνάμεις ζωτικάς. 40 Cfr. Sophonias, In Aristotelis libros de anima paraphrasis, ed. M. Hayduck, Berlin 1883 (CAG, 23.1), p. 5, 33-41: καὶ εἰ τὰ μόρια, ἐπεὶ ταῖς δυνάμεσιν αἱ ἐνέργειαι ἕπονται (πᾶσα γὰρ ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως, καὶ δύναμις ἐξ οὐσίας) καὶ ἀδηλότεραι μὲν αἱ οὐσίαι καὶ δυνάμεις, δῆλαι δὲ αἱ ἐνέργειαι, σταθμώμεθα δὲ τὰς ἕξεις ἐκ τῶν ἐνεργειῶν, ὅταν περὶ τῶν μερῶν τῆς ψυχῆς ζητῶμεν, πρότερον αὐτὰ λάβωμεν ἢ τὰ ἔργα αὐτῶν, οἷον τὸ νοεῖν ἢ τὸν νοῦν, τὸ αἰσθάνεσθαι ἢ τὸ αἰσθητικόν. 41 Un approccio neoplatonico nel contesto di un commento bizantino al testo aristotelico non deve del resto stupire, allineandosi ai risultati delle ricerche che stanno portando a un superamento della posizione storiografica che classificava questi commentari sotto l’etichetta di ‘aristotelismo bizantino’, di contro al loro evidente orientamento neoplatonico, per cui cfr. M. Trizio, Il neoplatonismo di Eustrazio di Nicea, Bari 2016 (Biblioteca filosofica di «Q uaestio», 23), p. 59. 42 Michael Psellus, De omnifaria doctrina, 22, PG 122, [687-784] 701D, ed. L. G. Westerink, Nijmegen 1948, p. 27, 2-3.11-12 (tr. it., Firenze 1990, pp. 7172, con alcune modifiche): πᾶς νοῦς καὶ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν αἰώνια ἔχει. (…) εἰ οὖν καὶ ἡ οὐσία τούτου αἰώνιος καὶ ἡ ἐνέργεια, καὶ ἡ μέση τούτων οὖσα δύναμις αἰωνίαν τὴν ὑπόστασιν ἐκληρώσατο.
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originale dei tre termini della triade, dove però potenza e atto sono intesi in senso aristotelico: «Bisogna indagare se l’anima sia un’essenza oppure no, e, nel caso che sia un’essenza, bisogna vedere se lo sia in potenza o in atto» 43. Nel prosieguo, parlando della generazione dell’anima, Psello torna a un suo inquadramento triadico neoplatonico, sottolineando la distinzione tra i tre termini della triade, in quanto costituiscono i momenti della sua generazione: Una cosa è l’essenza dell’anima, un’altra la sua potenza, un’altra l’operazione. Q uesti sono i primi tre fondamentali della generazione dell’anima (ψυχογονίας). (…) Consideriamo il fuoco: una cosa è l’essenza per cui esso è, un’altra la potenza, un’altra l’azione per cui brucia certe cose e riscalda certe altre. (…) Prima viene l’esistenza, seconda l’armonia, terza l’idea (ἰδέα), quarta la potenza, quinta l’operazione, sesta e ultima, derivante da tutte queste cose, la forma (εἶδος) 44.
In questa definizione troviamo tanto elementi neoplatonici (a partire dalla metafora procliana del fuoco per illustrare la triade), quanto aristotelici (in particolare l’idea dell’anima-forma). Che la principale accezione attraverso cui Psello concepisce la triade sia tuttavia quella realistica neoplatonica, dove la potenza costituisce la radice causale ed effettiva dell’operazione, e non semplicemente l’essere in potenza di questa, lo si può constatare dall’ultima affermazione intorno a questa problematica che compare nella stessa opera: «La potenza dell’anima non è un’esistenza incompiuta, ma compiuta, originaria, generativa delle operazioni, feconda, piena e di per sé esistente» 45. 43 Ibid., 44, p. 35, 8-9 (tr. it., p. 87): δεῖ δὲ ζητεῖν πότερον οὐσία ἡ ψυχὴ ἢ οὔ· καὶ εἰ οὐσία, δυνάμει ἢ ἐνεργείᾳ. 44 Ibid., 52, p. 38, 2.5-7.9-11 (tr. it., pp. 92-93, con alcune modifiche). La metafora del fuoco compare con alcune differenze anche in Michael Psellus, De meteorologicis (Opusculum 19), in Id., Philosophica minora. Opuscula logica, physica, allegorica, alia, ed. J. M. Duffy, 2 voll., Leipzig 1992, I, p. 72, 97-100: τοῦτο δὲ οὐκ ἐνεργείᾳ πῦρ ἐστιν, ἀλλὰ καπνὸς μὲν κατὰ τὴν οὐσίαν, φλὸξ δὲ κατὰ τὴν δύναμιν, ὅθεν καὶ ὑπέκκαυμα τῷ Ἀριστοτέλει ὠνόμασται, τουτέστιν ὑφειμένον πῦρ. Per la metafora del fuoco applicata alla triade in Proclo, cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31. 45 Michael Psellus, De omnifaria doctrina, 55, p. 39, 2-4: οὐκ ἔστιν ἡ τῆς ψυχῆς δύναμις ἀτελὴς ὕπαρξις, ἀλλὰ τελεία καὶ πρωτουργὸς καὶ γεννητικὴ τῶν ἐνεργειῶν γόνιμός τε καὶ πλήρης καὶ καθ’ ἑαυτὴν ὑπάρχουσα (tr. it. cit., pp. 94-95).
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4. Nell’apologia antipagana A Michele Psello vanno riportati gli inizi della riscoperta di Proclo che a partire dalla fine del secolo xi ha dato vita a un crescente interesse per la filosofia del Diadoco ateniese 46. Q uesta fortuna doveva nondimeno suscitare la reazione apologetica di Nicola, vescovo di Metone, da cui prese forma una capillare spiegazioneconfutazione (ἀνάπτυξις) degli Elementi teologici di Proclo 47. Q uesto episodio ci permette di valutare l’incontro tra la triade ripresa dal suo originario contesto neoplatonico e il suo Fortleben bizantino. In questo lungo trattato la triade trova infatti diverse attestazioni, non motivate tuttavia dalla sua presenza nel testo procliano – dove è limitata alla proposizione 169 – bensì spiegabile in base alla rilevanza e ai significati che essa aveva maturato all’interno del canone dell’ontologia bizantina. Q uesto è ben evidente in relazione a uno dei temi fondamentali del trattato, la difesa della dottrina trinitaria, per la quale Nicola ricorre alla triade al fine di illustrate l’unità della Trinità divina mettendola in contrasto con la molteplicità ontologica implicata dalla teologia politeistica greca 48. Analogo argomento si presenta al capi46 Cfr. G. Podskalsky, Nikolaos von Methone und die Proklosrenaissance in Byzanz (11./12. Jh.), in «Orientalia Christiana periodica», 42 (1976), pp. 509523; L. Benakis, Neues zur Proklos-Tradition in Byzanz, in Proclus et son influence. Actes du Colloque de Neuchâtel (Juin 1985), ed. by G. Boss - G. Seel, Zürich 1987, pp. 247-259; N. Siniossoglou, Radical Platonism in Byzantium: Illumination and Utopia in Gemistos Plethon, Cambridge, 2011, pp. 85-92; F. Lauritzen, The Renaissance of Proclus in the eleventh Century, in Proclus and his Legacy, edd. D. D. Butorac - D. A. Layne, Berlin - Boston 2017 (Millennium. Studien zu Kultur und Geschichte des ersten Jahrtausends n. Chr, 65), pp. 233239. 47 Per una disamina di quest’opera, cfr. J. M. Robinson, Dionysius Against Proclus: the Apophatic Critique in Nicholas of Methone’s «Refutation of the Elements of theology», ibid., pp. 249-269; una discussione circa la questione dell’attribuzione a Nicola e un inquadramento nel contesto della riflessione teologica e filosofica medio bizantina sono offerti in A. Gioffreda - M. Trizio, Nicholas of Methone, Procopius of Gaza and Proclus of Lycia, in Reading Proclus and the «Book of Causes». II: Translations and Acculturations, ed. D. Calma, Leiden 2021 (Studies in Platonism, Neoplatonism, and the Platonic Tradition, 26), pp. 94-135. 48 Cfr. Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 6, ed. A. D. Angelou, Athens 1984 (Corpus philosophorum Medii Aevi. Philosophi Byzantini, 1), p. 10, 11-15: πατὴρ γὰρ καὶ υἱὸς καὶ ἅγιον πνεῦμα, εἷς τὰ τρία θεός, ἀλλ’ οὐ τρεῖς θεοί, ἵνα καὶ πλῆθος λέγοιντο καθάπερ καὶ οἱ πολλοὶ τῶν Ἑλλήνων θεοί. ἐκεῖνοι μὲν γὰρ πολὺ διαφέροντες ἀλλήλων εἰσάγονται, τούτων δὲ οὐδὲν τὸ διάφορον, ἀλλὰ
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tolo 131, in risposta alla Proposizione 116 degli Elementi 49, relativa alla molteplicità e diversità delle operazioni delle divinità pagane: dopo aver sottolineato che nella concezione pagana le operazioni degli dèi sono proprie a ciascuno di essi e separate in quanto a essenza, potenza e operazione 50, Nicola richiama l’unità del Dio cristiano che raccoglie in sé ogni essenza, potenza e operazione, intendendo queste non come riferite a partizioni interne alla natura divina, bensì alle proprietà comuni di questa 51, introducendo inoltre l’associazione – caso raro nell’utilizzo teologico della triade a Bisanzio – tra i tre termini della triade e le persone della Trinità, ovvero il Padre come essenza, il Figlio come potenza e lo Spirito come energia 52. Il vescovo medonense si preoccupa tuttavia di mettere in chiaro che il Figlio e lo Spirito non sono meno essenza del Padre, né il Padre essere estraneo all’energia 53; da qui ci sembra possibile concludere che l’accostamento in questione abbia valore metaforico per descrivere il passaggio pericoretico delle energie divine comuni dall’essenza unica 54. Il finale del passo ci assicura infatti che i termini della triade non fanno μία καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καὶ βουλὴ καὶ δόξα καὶ βασιλεία καὶ πάντα τὰ θεοπρεπῆ προτερήματα (…). Q uesto passo è in risposta alla proposizione 6 degli Elementi. 49 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 131, p. 116, 15: πᾶς θεὸς ἀφ’ ἑαυτοῦ τῆς οἰκείας ἐνεργείας ἄρχεται. 50 Cfr. Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 131, ed. Angelou cit., p. 123, 27-31: ἰδοὺ καὶ πολλαὶ τῶν πολλῶν θεῶν αἱ ἐνέργειαι· ἄλλη γὰρ ἄλλου οἰκεία καὶ ἡ τοῦδε οὐκ ἐκείνου. καὶ πῶς ὁ μὴ πᾶσαν ἐν ἑαυτῷ συλλαβὼν καὶ προέχων οὐσίαν τε καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν, ἀλλὰ τήνδε μὲν ἔχων, τῶν δ’ ἄλλων ἐστερημένος, οὐ μᾶλλον ἐνδεὴς ἢ πλήρης, παρόσον καὶ πλειόνων ἐστέρηται; 51 Cfr. ibid. p. 123, 31-32: ἡμῖν δὲ ὁ εἷς θεὸς πᾶσαν μὲν οὐσίαν, πᾶσαν δὲ δύναμιν καὶ πᾶσαν ἐνέργειαν ἐν ἑνὶ συλλαβών (…). 52 Cfr. ibid. p. 124, 1-8: αὐτός ἐστιν οὐσία μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης καὶ αὐθυπόστατος πάσης οὐσίας παρακτική, ὁ πατήρ· δύναμις μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης, οὐσιώδης καὶ ἐνυπόστατος ἐκ τοῦ πατρὸς γεννητῶς ὑποστᾶσα πρὸ πάντων αἰώνων, πάσης αἰτία δυνάμεως, ὁ υἱός· ἐνέργεια μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης καὶ αὐτὴ οὐσιώδης καὶ ἐνυπόστατος ἐκ τοῦ αὐτοῦ πατρὸς ἐκπορευτῶς προαχθεῖσα πρὸ πάντων αἰώνων, πάσης ἐνεργείας αἰτία, τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον. 53 Cfr. ibid., p. 124, 9: οὐχ ὅτι ὁ πατὴρ οὐσία διὰ τοῦτο ὁ υἱὸς καὶ τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον οὐκ οὐσία. 54 Sullo ‘sgorgare’ dell’energia dal Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo secondo la tradizione teologica bizantina e in particolare in Gregorio Palamas, cfr. M. E. Hussey, The Persons-Energy Structure in the Theology of St. Gregory Palamas, in «St. Vladimir’s Theological Q uarterly», 18 (1974), [pp. 22-43], p. 28-35.
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riferimento a proprietà delle singole ipostasi divine, bensì alla natura comune ad esse 55. L’unità ontologica della divina Trinità era stata peraltro sottolineata da Nicola anche in un precedente paragrafo, sempre attraverso il ricorso alla triade, a commento della cinquantaseiesima proposizione, nella quale Proclo parla di ciò che è portato all’essere da principi ontologici secondari 56. Il verbo usato da Proclo è παράγω, al passivo, che indica l’atto di portare all’essere e comporta il conflitto paradigmatico con il monocausalismo cristiano, di contro a una condivisione della prerogativa ontificante tra diversi livelli dell’essere secondo il politeismo procliano. Nicola, oltre a sottolineare l’unicità causalistica e l’unità ontologica di Dio, ne sottolinea anche la consistenza iperontologica. Facendo riferimento all’unico agente casuale, il vescovo afferma infatti: Q uesto è il Dio uno nella trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, dal quale e attraverso il quale e nel quale sono tutte le cose (cfr. 1Cor 8, 5). La questione può essere ulteriormente posta così: tutto ciò che è illuminato dagli esseri secondi (ὑπὸ τῶν δευτέρων ἐλλαμπόμενον) ed è illuminato maggiormente dagli esseri primi (ἀπὸ τῶν προτέρων ἐλλάμπεται μειζόνως), dai quali anche gli esseri secondi sono illuminati, tutto riceve l’essenza, la potenza e l’energia dall’una, sovra-essenziale (ὑπερουσίου) e onniessente (πανουσίου) essenza, dalla sovrapotente (ὑπερδυνάμου) e onnipotente (παντοδυνάμου) potenza, dalla sovra-operante (ὑπερενεργοῦς) e onnioperante (παντενεργοῦς) energia del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo 57.
Va notato che Nicola introduce sovente la triade a commento di proposizioni in cui Proclo, trattando della potenza o dell’energia, non l’aveva chiamata in causa, questo perché il modello triadico, permettendo di affermare l’aspetto fondamentale dell’azione 55 Cfr. Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 131, ed. Angelou cit., p. 124, 18-20: καὶ οὕτω μία τῶν τριῶν καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καὶ τὸ ὅλον εἰπεῖν εἷς τὰ τρία θεός. 56 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 56, p. 54, 4-6: πᾶν τὸ ὑπὸ τῶν δευτέρων παραγόμενον καὶ ἀπὸ τῶν προτέρων καὶ αἰτιωτέρων παράγεται μειζόνως, ἀφ’ ὧν καὶ τὰ δεύτερα παρήγετο. 57 Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 56, ed. Angelou cit., p. 59, 18-26.
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provvidenziale divina eterna, è venuto ad assumere nella teologia bizantina un significato paradigmaticamente discriminante rispetto alla visione del mondo neoplatonica. Dove ad esempio il Diadoco afferma che «ogni potenza è finita o infinita» 58, Nicola ribatte che «ogni potenza è finita, in quanto ogni essenza e ogni operazione ha la sua esistenza dalla prima, infinita e unica essenza, potenza ed energia, la quale è al di sopra di tutte quelle» 59. Analogamente, in relazione al «ritorno» (ἐπιστροφή) in base alla propria operazione ed essenza, laddove il filosofo neoplatonico aveva affermato che «tutto ciò che nella sua operazione ha la capacità di ritornare a se stesso può ritornare a se stesso secondo l’essenza» 60, Nicola oppone una confutazione dello schema neoplatonico della processione – ritorno argomentata sulla base della triade, che in Proclo invece non compariva: Se nulla procede da se stesso, è evidente che neanche ritorni a se stesso, né secondo l’essenza, né secondo la potenza, né secondo l’operazione. Se parli dell’energia naturale (κατὰ φύσιν), la quale può essere l’atto di illuminare della luce, di scaldare del fuoco, di intellezione dell’intelletto, non si tratta di processione (πρόοδος) né di ritorno (ἐπιστροφή), bensì di stazione (μονή) e dimora (ἵδρυσις) in se stesso di ciò che opera secondo la propria natura, cosicché tu aggiungi vanamente spiegazioni superflue. Nulla infatti ritorna a se stesso (ἐπιστρέφει πρὸς ἑαυτό) che non sia proceduto da se stesso (προῆλθεν ἀφ’ ἑαυτοῦ), né secondo l’essenza, né secondo la potenza, né secondo l’operazione. Diversamente, ciò che può ritornare ritorna in base all’energia da ciò che è contro natura a ciò che è secondo natura, da cui è decaduto (ὅθεν ἐξέπεσεν) – e, come già detto, certamente non è proceduto (οὐ μὴν προῆλθεν) – preservando la propria essenza (σῷζον τὴν οἰκείαν οὐσίαν) 61. Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 91, p. 82, 17-19: πᾶσα δύναμις ἢ πεπερασμένη ἐστὶν ἢ ἄπειρος· ἀλλ’ ἡ μὲν πεπερασμένη πᾶσα ἐκ τῆς ἀπείρου δυνάμεως ὑφέστηκεν, ἡ δὲ ἄπειρος δύναμις ἐκ τῆς πρώτης ἀπειρίας. 59 Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 91, ed. Angelou cit., p. 91, 7-9: πᾶσα δύναμις πεπερασμένη ἐστίν, ἐπεὶ καὶ πᾶσα οὐσία καὶ πᾶσα ἐνέργεια ἐκ τῆς πρώτης ἀπείρου καὶ μόνης οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας τὴν ὑπόστασιν ἔχουσιν, ἥτις καὶ ὑπὲρ πάσας ἐστίν. 60 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 44, p. 46, 1-2: πᾶν τὸ κατ’ ἐνέργειαν πρὸς ἑαυτὸ ἐπιστρεπτικὸν καὶ κατ’ οὐσίαν ἐπέστραπται πρὸς ἑαυτό. 61 Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 44, ed. Angelou cit., p. 52, 10-20. 58
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Oggetto di questo passo è la condizione ontologica delle realtà finite e create e la loro dinamica. Del triplice movimento dell’essere, secondo la prospettiva neoplatonica scandito nei momenti di μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή, Nicola accoglie soltanto la μονή, quale condizione di permanenza dell’essere, la cui attività si dispiega come dinamica triadica di essenza, potenza ed energia. Il ricorso alla triade va qui inteso come alternativa opposta al modello emanativo neoplatonico istanziato dalla processione (πρόοδος) e dal ritorno (ἐπιστροφή); il movimento ontologico delle creature viene infatti collegato al discorso del loro allontanamento volontario dalla loro condizione naturale. Plausibilmente, il vescovo di Metone si rifaceva alla triade ritenendola schema concettuale proprio della tradizione patristica, giocando qui in sottofondo il motivo pseudo-epigrafico che ha accompagnato la fortuna di Dionigi e del suo insegnamento, ovvero la sua presunta antecedenza cronologica rispetto ai filosofi neoplatonici. Un ultimo caso di utilizzo della triade da parte di Nicola è in riferimento all’ottantacinquesima proposizione, nella quale Proclo mostra che tutto ciò che sussiste perpetuamente ha potenza infinita 62. Il contrasto paradigmatico con i fondamenti della cosmologia cristiana non poteva passare inosservato al Medonense, che infatti contesta al filosofo neoplatonico che quanto è infinito per potenza non può non esserlo anche nell’essere 63, concludendo che solo in un caso ciò che è infinito in potenza, lo è anche nell’essenza e nell’energia, e questo è il caso della natura divina 64.
5. In Gregorio Palamas e nella disputa esicasta La triade è largamente attestata nel principale dibattito teologico tardobizantino, quello sull’esicasmo, il quale, pur vertendo sulla natura dell’esperienza ascetica, ha toccato in modo sostanziale 62 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 85, p. 78, 12: πᾶν τὸ ἀεὶ γινόμενον ἄπειρον τοῦ γίνεσθαι δύναμιν ἔχει. 63 Cfr. Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 85, ed. Angelou cit., p. 88, 9-10: πῶς οὖν κατὰ δύναμιν μόνην ἔσται τι ἄπειρον, ὃ μὴ καὶ κατ’ οὐσίαν ἐστὶν ἄπειρον; 64 Cfr. ibid., p. 88, 11-14: ἀνάγκη μόνον τὸ θεῖον καὶ κατ’ οὐσίαν καὶ κατὰ δύναμιν καὶ κατ’ ἐνέργειαν εἶναι ἄπειρον, ὃ καὶ πρὸ πάντων καὶ ὑπὲρ πάντα καὶ πάντων ἐστὶν αἴτιον καὶ πάντα περαίνει καὶ περιέχει οὐ κατὰ μόνην τὴν δύναμιν ἀλλὰ καὶ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν ἐνέργειαν.
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i fondamenti ontologici della teologia bizantina e la sua concezione della salvezza. Numerose attestazioni della triade si trovano nelle opere del principale protagonista della disputa, il monaco aghiorita e poi arcivescovo di Tessalonica Gregorio Palamas, nonché in quelle dei suoi seguaci e in quelle dei suoi avversari 65. 5.1. La triade fornisce all’armamentario dottrinale di Palamas il fondamento terminologico e concettuale per argomentare la distinzione nell’unità divina, tema che costituisce la base di tutta la sua teologia e della sua concezione dell’economia. A più riprese il teologo dell’esicasmo sottolinea la compatibilità tra la distinzione triadica nella natura divina e la sua unità ontologica: Dovresti temere di introdurre qualcosa di creato nella pie nezza della divinità (κτίσιν εἰσενεγκεῖν τῷ πληρώματι τῆς θεότητος), che separa (ἀπαλλοτριοῦσαν) dalla divina essenza la divina potenza ed energia e lacera in divinità (εἰς θεότητας) che di fatto sono diseguali, dissimili e inconciliabili l’unica divinità (μίαν θεότητα) che è nell’essenza, nella potenza e nel l’energia e in tutte quelle cose che sono contemplate (θεωρουμένοις) intorno all’essenza (περὶ τὴν οὐσίαν) come increate (ἀκτίστως), le quali sono distinte in modo inseparabile (ἀδιαιρέτως διαιρουμένοις) e unite in modo non confuso (ἀσυγχύτως ἡνωμένοις) 66.
In Palamas vediamo consolidarsi tendenze interpretative già emerse nel corso della storia bizantina della triade, come la sua inclusione in definizioni ontologiche della natura divina a fianco delle altre sue proprietà increate, tra le quali, in primo luogo, la volontà: Q uindi neppure in merito all’essenza, alla potenza, all’energia, alla volontà (θελήσεως) e simili, le quali sono tutte increate 65 Per la ricostruzione delle fasi storiche della disputa cfr. A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicasta (con un’edizione critica delle «Epistole greche» di Barlaam), Roma 2005 (Medioevo, 11); R. E. Sinkewicz, Gregory Palamas, in La théologie byzantine et sa tradition. II: xiiie-xixe s., dir. di C. G. Conticello - V. Conticello, Turnhout 2002 (Corpus Christianorum. La théologie byzantine et sa tradition, 2), pp. 132-137; per una disamina delle problematiche ontologiche implicate nella disputa cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit. (alla nota 27), pp. 229-242. 66 Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), VI, 13, ed. Mantzarides cit. (alla nota 10), II, p. 273, 1-8.
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(ἀκτίστων ἁπασῶν οὐσῶν), il fatto che ci sia un ordine di superiorità in base alla causa non impedisce che ci sia un’unica divinità. Q ueste infatti sono l’unica divinità delle tre persone adorate: l’essenza, la volontà, la potenza, le energie e via dicendo, non in quanto siano una sola realtà (οὐχ ὡς ἓν ὄντα) e siano del tutto senza differenza (ἀδιάφορα) l’una rispetto all’altra e tutte si riducano soltanto all’essenza – questo è infatti il delirio di Barlaam – ma in quanto sono contemplate in modo unitario e immutabili (ὡς ἑνιαίως καὶ ἀπαραλλάκτως) nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo 67.
Centrale all’ontologia trinitaria palamita è che, in riferimento a Dio, essenza, potenza ed energia siano increate e che i tre termini non siano meri sinonimi, bensì distinzioni dell’unica e unitaria natura divina increata: Noi infatti non diciamo che Dio sia increato soltanto nel l’essenza (κατ’ οὐσίαν μόνον τὸν θεὸν ἄκτιστόν), ma anche nelle ipostasi, nelle potenze e nelle energie: abbiamo insegnato che la sua filantropia e la sua bontà nei nostri confronti e la sua provvidenza su ogni cosa e, in breve, tutte le cose analoghe, non sono essenze (οὐκ οὐσίας), né ipostasi (οὐδὲ ὑποστάσεις), ma energie che sono contemplate intorno a Dio (ἀλλ’ ἐνεργείας περὶ τὸν θεὸν θεωρουμένας), inseparate dalla sua natura (ἀχωρίστους τῆς φύσεως αὐτοῦ), il ché equivale a dire increate (ἀκτίστους): non vi è infatti nulla di creato che sia precedente per natura rispetto a Dio (τῶν γὰρ φύσει προσόντων τῷ θεῷ κτιστὸν οὐδὲν) e nulla di increato al di fuori di Dio (ἐκτὸς θεοῦ ἄκτιστον οὐδέν) 68.
Q uesto argomento costituisce il nucleo teorico della posizione palamita, sottolineato a più riprese dal teologo esicasta nell’indicare le differenze tra la sua posizione e quella dei suoi avversari, in primo luogo Barlaam e Acindino. Ad essi contesta di aver introdotto una separazione ontologica tra l’essenza, assimilata alla 67 Id., Epistulae ad Acindynum et Barlaam, V, 8, ed. J. Meyendorff, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit. (alla nota 10), I, 1962, p. 301, 28 - 302, 9; cfr. Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum, VI, 13, 46-47, edd. Kontogiannes-Phanourgakes cit. (alla nota 10), III, p. 422, 3-4.20. 68 Ibid., IV, 9, 19-20, p. 256, 6-14; cfr. ibid., II, 19, 95, p. 152, 1-10; III, 10, 31, p. 186, 18-29; Id., Epistulae ad Acindynum et Barlaam, V, 7, ed. Meyendorff cit., p. 301, 12-14: ἐν ἀκτίστῳ δὲ οὐσίᾳ καὶ φυσικῇ δυνάμει καὶ θελήσει καὶ λαμπρότητι καὶ ἐνεργείᾳ μία ἐστὶ θεότης.
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divinità increata, e la potenza o l’energia, da loro concepite come create, nonché l’aver negato che la potenza, la grazia e l’energia divine siano increate, così come la divinità delle tre persone è adorata in un’essenza ed energia increate 69. Il teologo esicasta precisa inoltre che potenza ed energia sono increate nella natura increata, mentre sono create nella natura creata 70. A più riprese Palamas insiste sul fatto che essenza, potenza ed energia sono componenti inseparabili dell’essere, tali che in assenza di uno dei termini non si danno gli altri, e insieme costituiscono l’unità di ogni natura. Allo stesso modo essi sono irriducibili l’uno all’altro e inconfondibili l’uno con l’altro. Parlando nel registro apofatico – di chiara ispirazione dionisiana – Palamas afferma: In relazione a Dio non possiamo parlare in senso proprio (κυρίως) né di essenza né di energia. Molte delle cose che diciamo in senso affermativo (καταφατικῶς) di lui hanno una simile valenza (δύναμιν). Dovresti ascoltare Basilio il Grande che dice che «l’energia è la potenza (δύναμιν) manifestativa (δηλωτικὴν) di ogni essenza, della quale è priva soltanto il non essere (ἧς μόνον ἐστέρηται τὸ μὴ ὄν)». (…) Q uindi chi ha separato (διαζεύξας) l’essenza e la potenza – che noi anche chiamiamo energia (ἣν καὶ ἐνέργειαν καλοῦμεν) – l’una dall’altra (ἀλλήλων), ha escluso ciascuna di esse dall’insieme delle cose che sono (ἐκ μέσου τῶν ὄντων) 71.
Pur avendo familiarità con l’ontologia aristotelica, Palamas non accorda spazio alla distinzione tra atto e potenza in quanto attua69 Cfr. Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum, II, 19, 91, edd. Kon togiannes-Phanourgakes cit. p. 149, 17-19; Id., Contra Barlaam et Acindynum (Ἐπιστολιμαῖαι Πραγματεῖαι), ed. B. Phanourgakes, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit., IV, § 5, 23-30: ὁ δὲ τάλας Ἀκίνδυνος καὶ αὐτὸν τὸν πατέρα εἰς κτιστὰ καὶ ἄκτιστα διχοτομεῖ, τὴν μὲν οὐσίαν αὐτοῦ λέγων ἄκτιστον θεότητα, τὴν δὲ θεοποιὸν αὐτοῦ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν κτιστὴν εἶναι διαβεβαιούμενος θεότητα καὶ κατηγορῶν τῶν ἄκτιστον εἶναι λεγόντων τὴν θείαν καὶ θεοποιὸν δύναμιν καὶ χάριν καὶ ἐνέργειαν καὶ οὕτως ἐν οὐσίᾳ καὶ ἐνεργείᾳ ἀκτίστῳ μίαν προσκυνούντων θεότητα τοῦ Πατρὸς καὶ τοῦ Υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου Πνεύματος. 70 Cfr. Id., Pro hesychastis, III, 1, 24, ed. J. Meyendorff, Louvain 1973 (Spicilegium Sacrum Lovaniense. Études et documents, 30), p. 603, 3-6: ὅτι τῆς ἀκτίστου φύσεως καὶ τὰ φυσικὰ πάντα καὶ πᾶσα δύναμίς τε καὶ ἐνέργεια ἄκτιστός ἐστιν, ὥσπερ καὶ τὰ τῆς κτιστῆς φύσεως κτιστά. 71 Id., Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II, 14, ed. Mantzarides cit., p. 107, 8-20. La citazione attribuita a san Basilio è in realtà tratta da Ioannes Damascenus, Expositio fidei, II, 23, ed. Kotter cit. (alla nota 15), p. 93, 9.13.
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lità e potenzialità, neanche per argomentare i fondamenti del divenire temporale in relazione alle realtà create 72. Per lui la successione temporale emerge piuttosto dall’esercitarsi (cioè dall’uso, χρῆσις) della potenza/energia nel produrre l’effetto: Soltanto l’uomo ha la capacità di leggere e di scrivere (γραμματικόν). Q uesta è detta tanto in relazione alla potenza quanto all’operazione (τὸ αὐτὸ δὲ λέγεται δύναμίς τε καὶ ἐνέργεια). In particolare, viene poi detto ‘operazione’ anche soltanto l’uso (χρῆσις) della potenza connaturata (τῆς ἐμφύτου δυνάμεως), e questo è l’effetto (ἀποτέλεσμα) che viene dall’uso. Il risultato è sempre creato (κτιστὸν), anzi lo è al massimo grado. L’uso e l’azione (ἐνέργεια), che chiamiamo anche po tenza (ἣν καὶ δύναμιν καλοῦμεν), in relazione tanto al creato quanto all’increato vengono sempre l’uno dopo l’altra (κατὰ τὸ κτιστόν τε καὶ ἄκτιστον ἕπονται ἀεὶ ἀλλήλαις) 73.
L’impego del termine χρῆσις, possibile indizio del retroterra aristotelico di Palamas, sembrerebbe essere scelta finalizzata a marcare il confine tra il dominio dell’energia, in quanto appartenente alla sfera naturale dell’essenza, e il dominio degli effetti nella dimensione temporale 74. Nei due precedenti passi riportati è affermato rispettivamente, con costrutto speculare, che «la potenza è chiamata energia» (ἣν καὶ ἐνέργειαν καλοῦμεν) e «l’energia è chiamata potenza» (ἣν καὶ δύναμιν καλοῦμεν), rispecchiando la tendenza ricorrente nella storia bizantina della triade di assimilare la potenza e l’energia in relazione a Dio. Palamas riduce la distinzione tra la potenza e l’energia a una questione terminologica e concettuale, escludendo che essa implichi una distinzione ontologica reale; tuttavia egli fa costantemente riferimento nel suo discorso ai termini della triade, 72 Per il debito di Palamas verso l’ontologia aristotelica, cfr. Ch. Erismann, St. Gregory Palamas and Aristotle’s Categories, in Triune God: incomprehensible but knowable. The philosophical and theological Significance of St. Gregory Palamas for contemporary Philosophy and Theology, ed. C. Athanasopoulos, Newcastle upon Tyne 2015, [pp. 132-141], p. 140. 73 Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II, 23, ed. Mantzarides cit., II, pp. 113, 27 - 114, 3. 74 Χρῆσις è termine usato da Aristotele in modo interscambiabile con ἐνέργεια ma non come suo sinonimo; cfr. S. Menn, The Origins of Aristotle’s Concept of Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73114], pp. 79-81.
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verosimilmente in virtù della loro consolidata attestazione all’interno del canone dell’ontologia bizantina. Q uesta assimilazione viene ribadita dal teologo esicasta in diversi altri passi: Che poi le stesse potenze siano anche chiamate energie (ὅτι δὲ αἱ δυνάμεις αὗται καὶ ἐνέργειαι καλοῦντα), lo puoi apprendere dal divino Damasceno, che ha ben precisato queste cose. Dice infatti che «tutte le potenze (πᾶσαι αἱ δυνάμεις), che siano quelle conoscitive (γνωστικαί), quelle vitali (ζωτικαί), quelle naturali (φυσικαὶ) o quelle artificiali (τεχνικαί), sono chiamate energie (ἐνέργειαι καλοῦνται)» 75. Che poi, in relazione a Dio, anche se non parliamo di differenze essenziali e naturali (οὐσιώδεις καὶ φυσικὰς διαφορὰς), ma di energie, ascolta di nuovo lui stesso, che dice 76 «è impossibile che un’essenza sia priva di un’energia naturale. Un’energia naturale è infatti la potenza e il movimento che rivelano ciascuna essenza, della quale è privo (ἐστέρηται) soltanto il non-essere (τὸ μὴ ὄν)» 77.
Un’importante precisazione sull’ontologia triadica emerge in un passo della terza Triade in difesa dei santi esicasti: contestando la posizione di Barlaam per la quale le potenze/energie divine sono create e partecipano dell’essenza divina, il teologo esicasta obietta che in realtà solo le potenze/energie divine sono partecipate. Mette quindi in luce come le idee sostenute dal suo rivale portino alla negazione dell’assioma fondamentale dell’apofatismo, cioè l’impartecipabilità dell’essenza divina, e ad introdurre una confusione tra le potenze/energie e l’essenza divina (che verrebbe così a moltiplicarsi di numero all’infinito): Si avranno così due assurdità (ἄτοπα): l’essenza di Dio risulta essere partecipata (μεθεκτὴν) e le potenze diventare essenze – e non semplicemente essenze, ma essenze di Dio. Infatti, da una parte la potenza procederebbe nell’energia e dall’ener gia si produrrebbe l’effetto (ἡ μὲν γὰρ δύναμις πρόεισιν εἰς ἐνέργειαν καὶ ἐκ τῆς ἐνεργείας τὸ ἀποτέλεσμα γίνεται); dall’altra, l’essenza risulterebbe, proprio per questo motivo, partecipata e produrrebbe le partecipazioni della stessa essenza in virtù della partecipazione (ἡ δὲ οὐσία τοῦτ’ αὐτό ἐστι μετεχομένη Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 37, ed. Kotter cit. p. 93, 2-3. Ibid., p. 93, 7-8, 12-13. 77 Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II, 24, ed. Mantzarides cit., p. 114, 4-13. 75 76
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καὶ τῆς αὐτῆς οὐσίας κατὰ μετοχὴν ποιεῖται τὰ μετέχοντα). Vedi che grande assurdità? Chi afferma che le potenze partecipano di questa e sono create, come fa costui, è davvero politeista (ὄντως πολύθεός), in quanto professa che l’essenza di Dio non sia una, ma molte e differenti (διαφόρους) 78!
Da questo argomento emerge un altro aspetto fondamentale della concezione palamita dell’ontologia triadica, ovvero che le energie e le potenze non sono causate dall’essenza, altrimenti costituirebbero realtà ontologiche separate e inferiori rispetto a questa. Il rapporto di causa ed effetto costituisce di fatto un rapporto di partecipazione che si instaura tra entità ontologicamente differenti, una partecipata e una partecipante, le quali, in virtù di questo rapporto, occupano rispettivamente una posizione superiore e una inferiore. Benché siano reciprocamente distinte, essenza, potenza ed energia, appartengono unitariamente ed eternamente alla natura di Dio. Se dunque la natura divina è impartecipabile nell’essenza ma diviene partecipabile dalle creature nelle sue potenze ed energie, nulla della natura divina – per contro – partecipa di alcunché, né ad extra né tantomeno ad intra, cosa che significa che le sue distinzioni interne, ovvero le ipostasi, l’essenza e le potenze/energie, non si rapportano le une alle altre attraverso un rapporto di partecipazione. 5.2. La discussione sulla natura delle energie divine nell’ambito della disputa esicasta ha fatto quasi immancabilmente riferimento alla triade, comparendo questa – come già detto – tanto nelle argomentazioni dei sostenitori di Palamas quanto in quelle dei suoi oppositori. Tra i sostenitori, ad esempio, possiamo riscontrare il ricorso alla triade in Neofito Prodromeno, che in uno scritto apologetico del 1363 si preoccupa di mostrare come le Scritture affermino l’equivalenza delle potenze e delle energie comuni dell’essenza divina 79. A sua volta il patriarca Filoteo Cocchino contribuì alla diffusione dell’ontologia triadica nell’interpretazione palamitica: parlando della grazia, egli afferma infatti Id., Pro hesychastis, III, 2, 19, ed. Meyendorff cit., p. 677, 20-29. Cfr. Neophytus Prodromenus, Orationes contra Barlaam et Acindynum, I, 11, in B. Kalogeropoulou-Metallinou, Ὁ μοναχὸς Νεόφυτος Προδρομηνὸς καὶ τὸ θεολογικὸ του ἔργο, Athens 1996, [pp. 337-407], r. 243: λέγονται δυνάμεις καὶ αἱ τῆς τρισυποστάτου οὐσίας τοῦ Θεοῦ κοιναὶ φυσικαὶ ἐνέργειαι. 78 79
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la distinzione fondamentale tra l’essenza divina e le sue processioni, e la coincidenza di queste: «Perciò crediamo che la grazia sia l’energia e l’illuminazione (ἔλλαμψιν) e la potenza, la diciamo essere sgorgata (πηγαζομένην) dalla divina essenza» 80. Per Filoteo la distinzione non esclude l’unità ontologica dell’essenza e di quanto procede da essa: Come infatti Dio creatore non è soltanto essenza ma anche ipostasi, così non è solo essenza ma anche potenza ed energia naturali; allo stesso modo le cose che sono della sua essenza non sono estranee alla sua ipostasi: l’unico Dio è infatti e questo e quello, e né l’essenza è separata dall’ipostasi, né l’ipostasi è senza l’essenza, ciascuna custodendo chiaramente la sua proprietà inconfusa (τῆς ἰδιότητος ἀσυγχύτου). In questo modo anche le [proprietà] dell’energia e della potenza essenziali non sono estranee all’essenza che le fa sgorgare naturalmente, giacché anche la potenza naturale e inseparata (φυσικὴ καὶ ἀχώριστος) di questa è lo stesso operante e creante (ἐνεργῶν καὶ κτίζων) uno, tripostatico e onnipotente Dio che opera attraverso di essa – in quanto essa gli è connaturata ed essenziale (ἐμφύτου καὶ οὐσιώδους) – ed è l’operare (ἐνεργεῖν) della sua suddetta potenza connaturata e della sua energia 81.
La distinzione palamita tra l’ontologia del creato e quella dell’increato sulla base della distinzione tra le energie/potenze divine rispetto all’essenza e alle ipostasi divine ha costituito il compimento del percorso storico della teologia bizantina, diventando la chiave di volta del suo canone ontologico nel periodo precedente alla caduta di Costantinopoli. Q uesto assetto dottrinale caratterizzerà nondimeno il Fortleben di questa tradizione, come possiamo vedere nel Thesaurus di Damasceno Studita, vescovo di Tessalonica (1500-1577), dove, ancora una volta, incontriamo la triade letta come struttura ontologica binaria distinta in essenza ed energia/potenza: Siccome un’essenza creata (κτιστὴ οὐσία) possiede un’energia creata (κτιστὴν ἐνέργειαν), un corpo visibile (ὁρατὸν σῶμα) 80 Philotheus Coccinus, Antirrhetici duodecim contra Gregoram, VI, ed. D. V. Kaimakes, Thessalonica 1983 (Thessalonian Byzantine Writers, 3), rr. 1292-1294. 81 Ibid., VIII, rr. 309-320.
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possiede una potenza visibile (ὁρατὴν δύναμιν): l’essenza increata (ἄκτιστος οὐσία), invece, ha un’energia increata (ἄκτιστον ἐνέργειαν); ad esempio il sole, essendo creato, ha una energia creata, ovvero il calore e la luminosità. E Dio, essendo increato, possiede (ἔχει) un’energia increata 82.
5.3. Sul versante antipalamita la peculiarità dottrinale di maggior rilievo teorico in relazione alla triade è costituita dalla tesi dell’indistinzione ontologica dei suoi termini nell’unità divina. Q uesta tesi è sostenuta ad esempio da Teodoro Dexius, il quale ebbe a evocare la triade nel suo discorso apologetico contro l’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, il quale aveva presieduto il Concilio delle Blacherne del 1351 che aveva sancito la vittoria del palamismo e aveva portato alla condanna dello stesso Dexius. Dexius esclude che il Dio tripostatico ammetta in sé qualcosa che sia altro da sé, né che l’essenza sia distinta in base all’attributo dell’essere increato dall’energia, dalla sapienza e dalla potenza, essendo egli semplice e indivisibile, tutto essenza, tutto energia, tutto sapienza, tutto potenza, fatta solo eccezione per la distinzione delle ipostasi 83. Giovanni Ciparissiota (1310-1378), raffinato letterato e strenuo teologo antipalamita, elaborò un’articolata apologia di questa posizione teorica. Muovendo dalla distinzione tra le energie create e quelle increate stabilita dalla formula dienergita del Sesto Concilio ecumenico 84, arriva a ribadire l’unità ontologica priva di distinzioni in Dio: 82 Damascenus Studites, Thesaurus, 11, ed. E. Deledemou, New York 1943, rr. 807-811. 83 Cfr. Theodorus Dexius, Appelatio adversus Joannem Cantacuzenum, XXXVIII, ed. J. Polemis, Turnhout 2003 (CCSG, 55), p. 94, 1-11: πρὸς τούτους δ’ ὅμως, ὡς ἐκκαλῇ, τοὺς περὶ ἐνεργείας δηλαδὴ λόγους, χωροῦντες, αὐτὸν τὸν τῇ φύσει παρόντα καὶ ἐνεργοῦντα πανταχοῦ, τὸν οὐδὲν ἐν ἑαυτῷ ἑτεροῖον ἑαυτοῦ ἔχοντα τρισυπόστατον ἕνα Θεόν, οὔτ’ ἄλλην οὐσίαν οὔτ’ οὐσιῶδες ἰδίως τὴν τοῦ ἀκτίστου κατηγορίαν ἐπιδεχόμενον, οὔτ’ ἐνέργειαν οὔτε σοφίαν οὔτε δύναμιν, ἀλλ’ ἁπλοῦν ὅλον καὶ ἀδιαίρετον καὶ ταυτόν, κατὰ μηδεμίαν τοσύμπαν ἐπίνοιαν τὴν ἰσχνοτάτην διάφορόν τι ἑαυτοῦ ἔχοντα ἄκτιστον καὶ ὑφειμένον – πῶς γὰρ ἂν εἴη πάντοθεν ἡ τριὰς ἴση, πάντοθεν κατὰ τὸν Θεολόγον ἡ αὐτή; –, πλὴν μόνης τῆς τῶν ὑποστάσεων διαιρέσεως, ὅλον οὐσίαν, ὅλον ἐνέργειαν, ὅλον σοφίαν, ὅλον δύναμιν. Per il profilo e le vicende storiche inerenti a questo autore cfr. ibid., Introduction, [pp. xiii-cxxxvi], pp. xv-xxxi. 84 Cfr. Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae quinque contra Nilum Cabasilam, V, 6, ed. S. Th. Marangoudakis, Athens 1985 (Ἡσυχαστικαὶ καὶ φιλοσοφικαὶ μελέται, 13), rr. 6-9: «Ma anche la Santa Sesta Sinodo Ecumenica definisce espressamente increata l’energia divina (ἄκτιστον ῥητῶς εἶπε τὴν
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Per il fatto che noi non diciamo queste [realtà connaturate in Dio (τῶν ἐν τῷ Θεῷ ἐμφύτων)] essere differenti (διάφορα) e non distinguiamo (διῃρηκότες) – subordinando questa a quella (ἄλλην ταύτην παρ’ ἐκείνην ὑποθώμεθα) – la potenza e l’energia della divina essenza in relazione a queste, veniamo da voi vessati come se fossimo monoteliti 85.
In un successivo paragrafo della stessa orazione, in riferimento alla distinzione triadica di ascendenza dionisiana relativa alle potenze angeliche 86, il Ciparissiota piuttosto che citare apertamente l’Areopagita riporta un passo del Commento di Giovanni di Scitopoli in cui le energie e le essenze, in riferimento alla natura angelica, sono definite «enipostatiche» 87, e, traendo le proprie conclusioni, presenta le energie e le potenze come equivalenti a essenze enipostatiche, passando sotto silenzio quella distinzione che non sembra esser messa in discussione dallo scoliasta dionisiano: Se dunque negli angeli le potenze e le energie connaturate (ἔμφυτοι δυνάμεις καὶ ἐνέργειαι) sono essenze enipostatiche (ἐνυπόστατοι οὐσίαι εἰσί), in relazione al principio unico e sovressenziale di tutte le cose, non sarà affatto possibile investigare che cosa esso sia (ὅπερ ἐστὶ ζητεῖν), non essendo qualcosa che è in atto (μὴ τοῦτ’ οὔσης ἐνεργείᾳ), ma sarà possibile investigare la differenza (διαφορὰν) tra essenza ed energia θείαν ἐνέργειαν). Afferma infatti nei suoi atti: ‘Il Cristo, essendo uno, ha come energie naturali (φυσικὰς ἐνεργείας) quella divina e quella umana (τὴν θείαν καὶ τὴν ἀνθρωπίνην), quella increata e quella creata (τὴν ἄκτιστον καὶ τὴν κτιστήν)’». Per questa citazione, cfr. Concilium universale Constantinopolitanum tertium (680-681), in Concilii actiones I-XVIII, ed. R. Riedinger, 2 voll., Berlin 1990 (ACO, 2, 2), I, p. 102, 17-18. 85 Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 6, ed. Marangoudakis cit., rr. 119-122. 86 Cfr. E. S. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino, in questo stesso volume, §§ 1.1, 1.5, alle pp. 183188 e 192-193. 87 Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 11, ed. Marangoudakis cit., rr. 186-191: καὶ τοὺς ἀγγελικοὺς διακόσμους εἰς οὐσίας καὶ δυνάμεις καὶ ἐνεργείας διαιροῦντες οἱ θεολόγοι τρανότερόν πού φασιν· ‘ἀλλὰ καὶ αἱ ἐνέργειαι ἐκεῖ ἐνυπόστατοί εἰσι καὶ οὐσίαι’. La citazione è da Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4, [185-416], 240C; Corpus Dionysiacum, IV/1. Ioannis Scythopolitani prologus et scholia in Dionysii Areopagitae librum De divinis nominibus cum additamentis interpretum aliorum, ed. B. R. Suchla, Berlin - Boston 2011 (PTS, 62), p. 209, 8-9, per cui cfr. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino cit., p. 211, alla nota 72.
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secondo la successione (κατ’ ἀριθμὸν). Si è infatti mostrato che ciò che è al di fuori dall’agire (τὸ παρὰ τὴν ἐνέργειαν ὂν) non è in atto (ἐνεργείᾳ ὂν) e ciò che non è in atto o non è in nessun modo (μηδαμῇ μηδαμῶς ἐστιν) o è in potenza (δυνάμει). Q uesta è la natura della materia 88.
Oltre a trasformare il senso della citazione relativa alle essenze e alle energie enipostatiche rispetto all’originale, l’affermazione che l’essenza e l’energia (operazione) siano distinguibili solo in base alla successione, pone il discorso al di fuori della natura divina, rispetto alla totalità della quale – e non solo della sua essenza, come da apofatismo ‘classico’ – il Ciparissiota nega ogni possibilità conoscitiva. Il rifiuto della distinzione tra essenza ed energia esclude dunque che il modello della triade possa applicarsi alla natura divina, concependo una tale differenza solo in relazione all’ordine della successione, ovvero della temporalità. È singolare che la ripresa della triade secondo l’argomento della sua reale indistinzione ad intra rispetto alla natura divina, argomento nel quale riemerge la concezione neoplatonica dell’identità dei termini della triade nell’intellegibile 89, sfoci poi in un argomento basato sul binomio aristotelico di atto e potenza. Giorgio Pelagonio, che scrive quasi un secolo dopo la disputa, interpreta a sua volta la distinzione triadica come differenziazione ontologica che introduce una composizione nella natura divina e ne contraddice la semplicità. Rifacendosi all’autorità di Massimo il Confessore afferma: Dio è in base ad entrambi [l’essenza e il concetto] del tutto semplice: l’essenza è nel soggetto separatamente (ἐν ὑποκειμένῳ χωρίς), e il concetto (νόησις) non ha alcun soggetto, non è degli esseri intelligenti (νοούντων) né degli intellegibili (νοουμένων). E altrove: Dio è conosciuto dalla bontà (ἀγαθότητος) e dall’energia, dalla prescienza delle sue opere ma non dalla sua essenza. Chiamiamo energia le opere (ἔργα), non la potenza operativa (ἐνεργητικὴν δύναμιν). Q uella, infatti, non è altro rispetto all’essenza (οὐκ ἄλλο παρὰ τὴν οὐσίαν), perché
88 Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 11, ed. Marangoudakis cit., rr. 192-197. 89 Per il problema dell’indistinzione dei termini della triade cfr. l’introduzione di R. de Filippis - E. S. Mainoldi in questo volume, pp. 43, 65, 68.
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non si può concepire (νομισθῇ) composizione (σύνθεσις) in Dio 90.
Demetrio Cidone, principale rappresentante del tomismo bizantino e strenuo oppositore del palamismo, rivolgendosi al patriarca Filoteo nell’aprile del 1368 in apologia del fratello Procoro, elabora una lunga argomentazione sul valore dei termini della triade in relazione all’ontologia trinitaria, sottolineando l’incompatibilità tra la distinzione dei termini della triade e la semplicità divina: Null’altro infatti persuadono a pensare le guide di questa devozione, in relazione al logos enipostatico di Dio e allo Spirito, cioè l’impedirsi della composizione di ciò sussiste fianco a fianco (τὸ σύνθεσιν ἐκ τῶν παρυφεστώτων ἀνίσχειν). Considera dunque questo. Una cosa dici essere l’essenza e una cosa diversa la potenza e un’altra ancora l’energia. Pertanto, queste non sono la stessa cosa ma sono di ciò che è identico (ἀλλὰ ταὐτοῦ), non uno ma di uno. Seppure sono uno, tuttavia uno dai molti (ἐκ πολλῶν ἕν), quelle sono le parti e questo il composto (σύνθετον) 91.
Il fratello Procoro, da parte sua, aveva sostenuto l’argomento del l’indistinzione ontologica nella natura divina nei seguenti termini: È impossibile che unica sia la natura (μίαν φύσιν) o la potenza o l’energia della natura increata e di quella creata; siccome è stabilito che le cose della divinità siano della divinità (τὰ τῆς θεότητος, τῆς θεότητος) e quelle dell’umanità siano del l’umanità, le cose dell’umanità non vengano prese per quelle della divinità né quelle della divinità vengano prese per quelle dell’umanità, e così per tutte le altre innumerevoli cose da cui si è mostrato che le potenze e le energie rimangono separate (διακεκριμένας μεῖναι), così come lo sono anche le essenze 92. Georgius Pelagonius, Adversus Palamam, 33, in Theologica varia inedita saeculi xiv, ed. J. Polemis, Turnhout 2012 (CCSG, 76), [pp. 3-51], p. 46, 30-38. 91 Demetrius Cydones, Τοῦ αὐτοῦ Δημητρίου τῷ ἀυτῷ παριάρχῃ (Vat. Gr. 678, ff. 2-10v) [Apologia di Procoro al patriarca Filoteo nell’imminenza della condanna], in G. Mercati, Notizie di Procoro e Demetrio Cidone, Manuele Caleca e Teodoro Meliteniota ed altri appunti per la storia della teologia e della letteratura bizantina del secolo xiv, Città del Vaticano 1931 (Studi e Testi, 56), [pp. 296338], p. 300, 28-33. 92 Prochorus Cydones, De lumine Thaborico, 21, in Theologica varia 90
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Ricalcando in modo inconsapevole il punto di vista neoplatonico, per cui nell’Uno non si può ammettere distinzione, essendo questa principio della molteplicità, cosa che – neoplatonicamente – si dà solo al livello dell’Intelletto, e ragionando all’interno dello schema della divisione aristotelico-porfiriana, per cui la differenza costituisce il principio di divisione ontologica tra le specie, la distinzione, concepita come differenza, non può che darsi al di fuori dell’unità divina, altrimenti ne minerebbe la semplicità; l’energia dunque, distinguendosi dall’essenza di Dio, deve anche distinguersi dalla natura increata di Dio e ricadere nel novero delle realtà create. 5.4. Palamas e i suoi seguaci concepiscono la distinzione sulle scorte di tutt’altre premesse rispetto alla dialettica aristotelicoporfiriana e alla problematica neoplatonica della opposizione tra l’Uno-semplice e il molteplice-complesso. Il paradigma speculativo entro cui Palamas si muove e la tradizione in cui si istanzia – i Cappadoci, Dionigi, Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno – affonda le sue radici nel pensiero antinomico, in base al quale si rende possibile un’ontologia che ammette la conciliazione di istanze logicamente inconciliabili, cosa che la teologia conciliare ha espresso a più riprese – da Nicea a Calcedonia, fino ai concili palamiti del quattordicesimo secolo – di fronte alla difficoltà di definire la natura divina e la sua economia 93. La vittoria di Gregorio Palamas, decretata dai sinodi costantinopolitani convocati tra il 1341 e il 1368, ha stabilito la teologia delle energie divine come fondamento dell’edificio dogmatico della teologia mantenuta dalla cristianità bizantina e post-bizantina 94. La triade essenza – potenza – energia costituisce una presenza costante in questo edificio, ricorrendo in particolare nel discorso sulla distinzione ontologica relativa alla natura divina, e vede ricapitolate nel pensiero del dottore esicasta i punti che hanno caratterizzato la inedita saeculi xiv, ed. J. Polemis, Turnhout 2012 (CCSG, 23), [pp. 327-379], p. 354, 44-50. 93 Per una dettagliata discussione sulle strutture e i paradigmi filosofici implicati nella disputa esicasta e le posizioni storiografiche più recenti cfr. N. Russell, Gregory Palamas and the Making of Palamism in the Modern Age, Oxford 2019 (Changing Paradigms in historical and systematic Theology), pp. 112-129. 94 Sulla vittoria conciliare della teologia di Palamas, cfr. Sinkewicz, Gregory Palamas cit. (alla nota 65), pp. 136-137; Russell, Gregory Palamas and the Making of Palamism cit., pp. 21ss.
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sua fortuna nel percorso storico-dottrinale della teologia bizantina. Ponendosi nella linea che ha visto le definizioni dogmatiche delle verità di fede affermarsi attraverso formulazioni antinomiche, il palamismo sancisce l’antinomia della non-partecipabilità di Dio (nell’essenza) e della sua partecipabilità (nelle potenzeenergie divine) 95. L’ontologia triadica presenta dunque nel pensiero teologico tardobizantino tratti dottrinalmente non unitari e interpretazioni non condivise dei suoi fondamenti teorici, il principale dei quali è quello della distinzione all’interno dell’unità divina: la divergenza tra queste interpretazioni ha stabilito il confine tra la concezione risultata vincente, quella palamita, e perciò divenuta canonica dell’ortodossia teologica, e quella riconosciuta invece come eterodossa. Dal quadro del discorso teologico affermatosi come ortodosso, la triade risulta essere costitutiva (sebbene non esclusiva) della natura divina e resta ad essa confinata, ovvero non esce dal perimetro di questa natura, che non partecipa di nulla all’interno di essa né tantomeno all’esterno. Se però la partecipazione alla creazione va esclusa per la natura divina increata, per la natura creata la partecipazione alle energie divine costituisce il fondamento della sua stessa sussistenza ontologica e della sua azione, mentre la partecipazione alle energie create costituisce una rete di sinergie che determina la sua forma nella dimensione creata. Sebbene la distinzione ad intra riguardi i tre termini della triade, nonché eventuali altri termini – come la volontà –, la distinzione fondamentale in essa resta quella tra essenza e potenze-energie: la prima, impartecipabile, è il referente gnoseologico e linguistico dell’apofaticità della natura divina, nonché il referente ontologico della sua trascendenza assoluta, la quale esclude ogni analogia con la realtà creata; le seconde invece costituiscono il rivelarsi catafatico della stessa natura divina attraverso le sue distinzioni. Sottolineando come le strutture ontologiche abbiano una valenza Per l’utilizzo del concetto di antinomia nelle interpretazioni novecentesche della storia del dogma (dall’unitrinità divina definita nei primi due concili, alla formula cristologica calcedonese, arrivando al secondo di Nicea che stabilisce la non-rappresentabilità della natura divina compatibile con la rappresentabilità della persona del Verbo divino), cfr. B. Gallaher, The «Sophiological» Origins of Vladimir Lossky’s Apophaticism, in «Scottish Journal of theology», 66 (2013), pp. 278-298. 95
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diversa a seconda che siano applicate al dominio dell’increato piuttosto che a quello del creato, Palamas pone in luce la problematica latente nell’utilizzo della triade in ambito teologico, per cui la sua terminologia triadica risulta essere pleonastica, comportandosi la triade come un fossile solidificatosi all’interno della tradizione speculativa che l’ha ricevuta. In più casi abbiamo visto infatti come i due concetti di energia e potenza siano assimilati. Eppure, la loro distinzione viene mantenuta, lasciandoci pensare che questo avvenga, oltre che per motivi di conservatorismo terminologico, inquadrabile come fenomeno storico-filosofico, anche e soprattutto per un motivo teorico, ovvero che la triade costituisca un elemento per concettualizzare la potenza divina infinita in sé, mentre l’operazione l’agire provvidenziale di questa medesima potenza 96. Di conseguenza, la differenza tra potenza ed energia si configura come una questione di gnoseologia teologica, dal momento che le potenze e le energie divine, nel loro rapporto indissolubile con l’essenza di cui sono la distinzione ad extra (περὶ τὴν οὐσίαν), sono la stessa natura divina eternamente attiva e provvidente – a prescindere dalla realtà creata. In ultima istanza, avendo constatato che tra i termini della triade si esclude un rapporto di partecipazione, allo stesso modo deve essere escluso anche un rapporto di causalità, in quanto l’increato è causa del creato e non dell’increato. Se questo esclude una lettura esemplaristica platonica, allo stesso modo esclude una lettura aristotelica: la dicotomia di atto e potenza risulta incompatibile con l’antinomia biblica fondamentale tra increato e creato. L’increato è causa del creato e non viceversa; diversamente, la preminenza dell’atto secondo la concezione di Aristotele comporterebbe come unica soluzione accettabile che il creato sia causa del creato.
6. Nella polemica contro i latini Il Grande scisma tra le chiese di Roma e di Costantinopoli (1054) ha in un certo senso istituzionalizzato il dibattito polemico tra latini e bizantini che già da quasi due secoli ruotava intorno ai temi 96 Cfr. Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae, II, 24, ed. Mantzarides cit., p. 114, 4-13; supra, alla nota 77.
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teologici su cui si consumò la divisione. Q uesto dibattito diede vita a una cospicua letteratura polemica, all’interno della quale indubbia centralità ha tenuto la questione del Filioque, cioè la processione dello Spirito Santo 97. Pur coinvolgendo ambiti metodologici disparati, in particolare quelli dell’esegesi delle Scritture e della comprensione del pensiero dei Padri, la questione ha messo in luce una sostanziale divergenza sull’ontologia trinitaria e sulle modalità di esercizio dell’economia divina. Molti dei testi prodotti in seno a questo dibattito vedono il ricorso alla triade come strumento argomentativo finalizzato a discutere i fondamenti ontologici della questione trinitaria. Un primo esempio dell’uso della triade in un’argomentazione trinitaria contro il Filioque si legge nei Sillogismi sulla processione dello Spirito Santo del filosofo Niceta Byzantios, autore attivo tra l’842 e il 912 e non altrimenti noto che attraverso le sue opere 98. Q uesto trattato costituisce una delle prime opere polemiche bizantine contro il Filioque e sembrerebbe ricollegarsi alla polemica antilatina del patriarca Fozio (con cui Niceta fu per certo in contatto). La diffusione di quest’opera è significativa, come mostra la cospicua tradizione manoscritta, nonché la tradizione indiretta, costituta da citazioni nelle opere polemiche di Andronico Camatero e di Ugo Eteriano 99. La triade viene qui chiamata in causa in due passi per argomentare l’unità divina. Nel primo di questi, essa viene presentata come componente della natura divina, dove i tre termini sono intesi come coeterni e comuni alle tre ipostasi divine, stante che queste mantengono le specifiche proprietà, tra le quali 97 Per una rassegna circa le problematiche e i confini generali di questo scontro, cfr. A. Bucossi, Dibattiti teologici alla corte di Manuele Comneno, in Vie per Bisanzio. VII Congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini (Venezia, 25-28 novembre 2009), a cura di A. Rigo, 2 voll., Bari 2013, I, pp. 311321; Contra Latinos et Adversus Graecos. The Separation between Rome and Constantinople from the ninth to the fifteenth Century, edd. A. Bucossi - A. Calia (Bibliothèque de Byzantion, 286), Leuven 2020; sul Filioque in partic. cfr. E. A. Siecienski, The Filioque. History of a doctrinal Controversy, Oxford - New York 2010 (Oxford Studies in Historical Theology). 98 Cfr. A. Rigo, Niceta Byzantios, la sua opera e il monaco Evodio, in In partibus Clius. Scritti in onore di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di G. Fiaccadori - A. Gatti - S. Marotta, Napoli 2006, pp. 147-187. 99 Cfr. Monumenta graeca ad Photium ejusque historiam pertinentia, ed. J. Hergenroether, Regensburg 1869, p. 7; cfr. Rigo, Niceta Byzantios cit., pp. 162-163.
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– come spiegato nel prosieguo, attraverso il richiamo all’insegnamento di Gregorio di Nazianzo – si hanno l’essere generato (del Figlio) e l’essere procedente (dello Spirito Santo): È professato da tutti quelli che hanno una conoscenza precisa e distinguono chiaramente ciò che riguarda Dio e ciò che riguarda gli esseri, che il divino (τὸ θεῖον) in se stesso è semplice (ἁπλοῦν) ed è al di là di ogni composizione (συνθέσεως) e di ogni nozione composita (συνθετικῆς ἐννοίας), avendo una nozione assoluta di semplicità, non comparabile con alcuno degli esseri, e, in virtù dell’esistenza semplicissima, per cui non è suscettibile neanche nel pensiero di essere presentata come composita (συνθετικῆς ἐμφάσεως), oltre all’essenza singolare (μοναδικὴν) e alla natura che le corrisponde, esso mantiene l’esistenza dell’essenza semplicissima, una potenza infinita e una energia naturale coestesa (συμπαρεκτεινομένην) all’infinità dell’essenza. E non solo la nozione comune (κοινὴ ἔννοια) mostra la manifestazione (ἔμφασιν) semplicissima e singolare (μοναδικὴν) del divino secondo la ratio (λόγον) di essenza, potenza ed energia, ma anche è contemplata in quelle – per così dire – unità o ipostasi tearchiche quale costituente (συμπληρωτικὴ) di queste, o per dire più accuratamente, stando al divino Gregorio 100, queste [tre] sono là [in Dio] completamente per ciascuna ipostasi il singolare e lo specifico delle proprietà (τὸ μοναδικὸν καὶ ἴδιον τῶν ἰδιωμάτων), sottolineando poi che [le proprietà specifiche di ciascuna] non sono affatto ciò che è comune (κοινοποιούμενον) all’altra 101.
In un secondo passo la triade è invocata per confutare la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio, contrapponendo l’unità basata sull’essere triadico comune alle ipostasi trinitarie, al proprium delle singole ipostasi, costituito dagli ἰδιώματα, cioè dalle proprietà particolari di ciascuna delle tre divine persone: Se infatti [lo Spirito] procedesse dal Figlio, la produzione (προβολὴ) dello Spirito sarebbe del Padre e del Figlio; se fosse comune non sarebbe per proprietà specifica (ἰδίᾳ), né sarebbe 100 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 39 (In Sancta Lumina), 1112, PG 36 [336-360], 345B-348C, ed. C. Moreschini, Paris 1990 (SC, 358), pp. 170-176. 101 Nicetas Byzantios, Capita syllogistica XXIV de processione spiritus sancti, 19, in Monumenta graeca ad Photium ejusque historiam pertinentia, ed. Hergenroether cit., pp. 124-125.
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contemplato in modo singolare (μοναδικῶς) in una singola ipostasi, secondo la ragione che abbiamo detto, per cui unicamente il Padre è il Padre del Figlio e l’originatore (προβολέα) dello Spirito. Se invero il ragionamento ha già mostrato in relazione a Dio, alla [sua] natura, potenza e operazione e alle proprietà ipostatiche che si ha una singolare manifestazione (μοναδικὴν ἔμφασιν) e una proprietà (ἰδίωμα) per ciascuna delle ipostasi tearchiche, sarà dunque evidente che la proprietà del Padre, cioè la produzione dello Spirito non è comune al Figlio. Se non sarà comune, sarà del tutto propria, e stando così le cose, lo Spirito non procede (οὐκ ἐκπορεύεται) dal Figlio così come dal Padre, come alcuni – da quanto risulta – insegnano (δογματίζειν) empiamente 102.
Il richiamo alla triade per porre un distinguo tra l’ontologia unitaria della natura divina e le proprietà ipostatiche esclusive delle singole Persone si ripresenta nell’opera di Nicola di Metone dedicata alla processione dello Spirito Santo in funzione antilatina. Commentando il passo giovanneo in cui Cristo rivela l’unità sua e del Padre (Io 10, 30: ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ ἕν ἐσμεν), Nicola afferma: ‘Uno’, non per numero, ma per l’essenza, ovvero per la sovressenzialità (τῇ ὑπερουσιότητι), per la potenza e per l’energia creatrice (ποιητικῇ) e produttrice (συνεκτικῇ) di tutte le cose, per il volere (τῇ θελήσει), per il potere (τῇ ἐξουσίᾳ) e per tutte le cose divine sovreminenti (πᾶσι τοῖς θείοις ὑπερτερήμασι). Dunque tutte le cose che il Padre ha, il Figlio e lo Spirito le hanno, eccetto la proprietà paterna (πλὴν τῆς Πατρικῆς ἰδιότητος) 103.
Con il secolo xii il confronto intorno al Filioque divenne il tema caldo del dibattito con i latini, e, nel contesto della temperie culturale che caratterizzò il regno di Manuele I Comneno (11431180) 104, si arricchì di nuovi e significativi episodi testuali, spesso presentati sotto la forma letteraria di dialogo tra i contendenti 105. Ibid., p. 127. Nicolaus Methonaeus, Adversus Latinos de spiritu sancto, ed. K. Simonides, London 1858, p. 8, 8-13. 104 Cfr. Bucossi, Dibattiti teologici alla corte di Manuele Comneno cit., pp. 313ss. 105 Cfr. L. D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν. Alcune considerazioni sul prologo ai «Dialoghi sulla processione dello Spirito Santo» di Niceta di «Maronea», in Contra La102 103
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La prima opera di questo periodo nella quale si fa ricorso alla triade in relazione a questo soggetto sono i Dialoghi sulla processione dello Spirito Santo di Niceta di Tessalonica 106. Q uest’opera si sviluppa secondo una prospettiva ‘irenistica’, basandosi sull’opinione per cui non la dialettica, bensì la sola autorità di un concilio avrebbe potuto dirimere la questione del Filioque 107. Per questo Niceta predilige procedere per rassegna e analisi degli argomenti piuttosto che attraverso la polemica apologetica. Nel quarto dialogo, i due interlocutori, un greco e un latino, discutono il problema della processione in base ad alcune metafore e analogie. Tra queste, il latino, che conduce la discussione, introduce la triade. Dopo aver entrambi convenuto che i tre termini della triade sono indissolubilmente associati, in quanto connaturati 108, il latino presenta l’essenza come causa una, principio e fonte della potenza e dell’energia, deducendo che a sua volta la potenza è causa, fonte e principio dell’energia 109. In conclusione: L’energia è dall’essenza e dalla potenza, da una parte l’essenza è principio (ἀρχή) e fonte (πηγή) della potenza e dell’energia, così come la potenza lo è dell’energia. Ma non si tratta di due principi (ἀρχαί), bensì di uno solo (μία), cioè l’essenza, alla quale la potenza è riportata in quanto proprio principio 110.
A questo punto il greco chiede se il latino intenda i rapporti tra il Figlio e lo Spirito riguardo al Padre alla stessa stregua della relazione appena descritta tra i termini della triade. Il latino risponde offrendo una articolata risposta, chiarendo che questo paragone tinos et Adversus Graecos cit., [pp. 217-239], p. 217 e i riferimenti bibliografici qui riportati alla nota 2. 106 A lungo questo autore è stato erroneamente riferito come ‘Niceta di Maronea’; cfr. A. Bucossi, Seeking a Way out of the Impasse: the Filioque controversy during John’s reign, in John II Komnenos, Emperor of Byzantium. In the Shadow of Father and Son, edd. A. Bucossi - A. Rodriguez Suarez, Oxford 2016, [pp. 121134], p. 127; D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν cit., p. 218. 107 Cfr. Bucossi, Seeking a Way out of the Impasse cit., p. 126. 108 Cfr. Nicetas Thessalonicensis, Orationes de processione Spiritus Sancti, in N. Festa, Niceta di Maronea e i suoi «Dialoghi sulla processione dello Spirito Sancto», in «Bessarione», 18 (1915), [pp. 61-75], p. 61, 23: εἴγε ταῦτα ἀλλήλοις εἰσὶ συμφυῆ. 109 Ibid., p. 62, 1-2: ἆρα δὲ οὐχὶ καὶ ἡ δύναμις αἰτία τῆς ἐνεργείας καὶ ἀρχὴ καὶ πηγή; 110 Ibid., p. 62, 4-7.
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non va inteso in senso proprio, bensì «in un certo senso», ovvero per analogia: Non in assoluto, ma in un certo senso (οὐχὶ κατὰ πάντα, ἀλλὰ κατά τι). Infatti, intendevo inadeguato ogni esempio (παράδειγμα), e [la questione] molto si allontana rispetto a questo esempio, tanto di più riferendosi a ciò che è al di là (ἐπέκεινα) di ogni essenza. Tuttavia, troviamo almeno un moderato bagliore che ci guida dall’esempio verso di essa. In questo esempio infatti né l’essenza è una ipostasi autosussistente (ἰδιοϋπόστατος), né lo è la potenza che le è propria, né lo è l’energia. Là infatti il Padre è un’ipostasi propria, il Figlio è un’ipostasi che viene (προερχόμενος) dal Padre come potenza enipostatica (δύναμις ἐνυπόστατος), e lo Spirito come energia è un’ipostasi propria, vivente, santificante e perfetta. Ma in una cosa vi è analogia (τὸ ἐμφερές), e cioè che come qui (ἐνταῦθα) la potenza procede (πρόεισι) dall’essenza e l’energia procede dalla potenza, così là (ἐκεῖ) il Figlio è la potenza [che proviene] dall’essenza paterna (ἐκ τῆς Πατρικῆς οὐσίας), e dal Figlio [proviene] – come l’energia dalla potenza – lo Spirito. Diciamo infatti, in base ai santi Padri, il Figlio e lo Spirito rispettivamente potenza ed energia 111.
Pur escludendosi che la triade costituisca il modello in senso proprio dei rapporti tra le ipostasi trinitarie, essa viene applicata a queste per analogia. Q uesta analogia si appoggia su un’interpretazione emanatistica della triade, che ci permette di cogliere in filigrana alla questione teologica l’azione di un paradigma ontologico neoplatonizzante dietro all’interpretazione delle relazioni intertrinitarie. La risposta del greco si limita a contestare questo modo di intendere le relazioni trinitarie, sottolineando che questo non si incontra presso i Padri, tuttavia egli non oppugna nulla sotto il profilo metodologico all’analogia tra la Trinità e la triade né al modello di triade proposto dal latino. In un secondo esempio, il latino propone l’analogia della triade con l’azione del fuoco: il fuoco è l’essenza, la potenza è la capacità di bruciare (καυστικὴ) e l’energia della potenza, ovvero l’azione, è il bruciare (καῦσις). Così nella triade l’azione comune (ἐνέργημα) delle tre Persone è la creazione nel suo complesso, ovvero ogni Ibid., p. 62, 11-23.
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creatura (κτίσις πᾶσα) 112. Il discorso volge quindi sul problema della causalità: Come infatti l’essenza del fuoco è causa (αἰτία) della potenza, così la potenza del bruciare lo è dell’azione, ovvero del bruciare, ma dunque se l’essenza è causa, causa sarà anche la potenza, eccetto che la potenza è riferita all’essenza e dunque la causa è una. Ora, questo non è assurdo e neppure lo è che se la prima [causa] è il principio del bruciare, lo sarà anche la [causa] contigua (προσεχής). Così avviene anche nel caso del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Se ciò che è causa (αἴτιον) dello Spirito è il Figlio quanto lo è il Padre, pur restando il Padre la causa una, non è neppure assurdo che, se è causa ciò che è principale (πρῶτον), sia causa anche ciò che è contiguo (προσεχές) 113.
In linea con l’impostazione interlocutoria e non confutatoria del dialogo 114, il greco non si oppone all’interpretazione della triade proposta dal latino, basata su un rapporto di causalità emanatistica – aspetto che sarà invece oppugnato nel Sacro Arsenale di Andronico Camatero, come vedremo più sotto –, ma si limita a contestare il trasferimento di questi rapporti alle persone della Trinità. Appoggiandoci al giudizio di Luigi D’Amelia per cui i dialoghi di Niceta hanno natura meramente fittizia, dobbiamo constatare come il loro autore metta in bocca all’interlocutore latino non solo un argomento teologicamente in linea con la teologia filioquista, ma anche un’ontologia della triade in linea con il modello interpretativo sostenuto dai latini per come traspare in generale attraverso le testimonianze bizantine. L’introduzione dell’analogia tra la triade e il fuoco potrebbe peraltro sottendere un’intenzione critica, volendosi alludere all’improprietà dell’argomento del latino, esulando tale analogia dall’ambito teologico e ricadendo in quello cosmologico 115.
Ibid., p. 65, 11-14. Ibid., p. 65, 19-23. 114 Cfr. D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν cit., pp. 237-238. 115 Q uesta applicazione trova infatti precedenti in Proclo e in Psello, per cui cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31, e supra, alla nota 44. 112 113
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Uno dei testi più significativi, risalente sempre a questo periodo, in cui la triade fa comparsa è il già citato Sacro Arsenale di Andronico Camatero. Q uest’opera, scritta tra il 1173 e il 1174, è presentata dal suo autore come la reportatio dei colloqui tra l’imperatore Manuele I Comneno e una delegazione di cardinali romano-cattolici. In essa viene offerta una sintesi di quanto elaborato dal punto di vista bizantino sul primato della Chiesa di Roma e sulla processione dello Spirito Santo fino al dodicesimo secolo. Commissionata dallo stesso Manuele, essa divenne un punto di riferimento per le discussioni a venire e fino al secolo xv fu presa in considerazione da diversi importanti protagonisti bizantini del dibattito con i latini 116. Nel corso della discussione sulla processione dello Spirito Santo, i cardinali latini proposero all’imperatore, dopo averne lodato le competenze teologiche, la seguente analogia basata sulla triade: Ascolta tuttavia questo esempio: così come insieme all’essenza si danno anche la potenza e l’operazione, e come la potenza è nell’essenza, così anche l’operazione procede (πρόεισι) dalla (ἐκ) potenza. Noi pure affermiamo qualcosa di simile a riguardo della Trinità: il Figlio è stato generato (γεγέννηται) dal Padre (ἐκ τοῦ Πατρὸς), come lo Spirito procede (προέρχεται) dal Figlio (ἐκ τοῦ Υἱοῦ) 117.
Manuele replica impugnando l’interpretazione dei rapporti tra termini della triade proposta dai latini: Q uesto esempio è del tutto privo di analogia con la Trinità. Infatti la potenza che è propria dell’essenza null’altro è che l’operazione (ἐπὶ μὲν γὰρ τῆς οὐσίας ἡ δύναμις οὐκ ἄλλο τί ἐστι παρὰ τὴν ἐνέργειαν), la quale si produce tuttavia in base alla successione (ἀλλ’ ἡ αὐτὴ τυγχάνει κατ’ ἀριθμόν). L’operazione costituisce infatti la potenza perfetta nel suo fluire nel tempo e in base a questo si ha il divenire della perfezione (προκόψασα 116 Cfr. A. Bucossi, The «Sacred Arsenal» by Andronikos Kamateros, a forgotten treasure, in Byzantine theologians. The Systematization of their own Doctrine and their Perception of foreign Doctrines, edd. A. Rigo - P. Ermilov, 3 voll., Roma 2009 (Q uaderni di Nea Romi), III, pp. 33-50; Ead., New historical Evidence for the Dating of the «Sacred Arsenal» by Andronikos Kamatero, in «Revue des Études Byzantines», 67 (2009), [pp. 111-130], pp. 113-114. 117 Andronicus Camaterus, Sacrum armamentarium, Pars prima, I, 56, ed. A. Bucossi, Turnhout 2014 (CCSG, 75), p. 63, 6-11.
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τελειότητά) e la manifestazione (ἔκφανσιν) di essa, mentre la potenza costituisce l’operazione incompiuta (ἀτελής). Inoltre essa dimora nel profondo (τῷ βάθει) dell’essenza, e qui rimane ritirata e nascosta, attendendo di procedere (πρόοδον) in base al tempo nelle sue manifestazioni. Come infatti nel caso di un uomo attempato, che prima, da infante, era chiamato neonato, adesso non sarà detto essere un altro, essendo lo stesso prima e dopo, anche se è divenuto quello perfetto da quello che era in potenza. Così la penso io a proposito della potenza e dell’operazione, e pertanto questo [esempio] per me non è assunto come una buona rappresentazione delle cose che sono contemplate nella Trinità 118.
Pur non potendo dire nulla di preciso sulla fonte dell’argomento dei cardinali romani, anche ammettendo che non sia mero frutto della finzione dialogica, va rilevato come in questo scambio si pone consapevolmente in luce una divergenza inerente ai fondamenti dell’ontologia triadica. I cardinali propongono infatti una lettura emanatistica della triade, dove la potenza e l’operazione appaiono corrispondere a due diversi livelli ontologici. Andronico oppone a questa impostazione la tradizionale prospettiva bizantina che vede la potenza e l’operazione come realtà ontologicamente coincidenti benché distinte – affermandolo con ancora maggior chiarezza rispetto ad altre formulazioni. Peraltro la triade è qui contestualizzata in relazione al dominio del creato e della temporalità – probabilmente al fine sottolineare la distanza rispetto all’ambito teologico-trinitario –, per cui la distinzione tra potenza e operazione è ricondotta all’ordine di produzione nel tempo. Incidentalmente aggiungiamo, nell’ottica di precisare i confini della fortuna della triade attraverso i testi del dibattito teologico con i latini, che questo stesso passo venne ripreso e riproposto alla lettera da Nicola Mesarite, arcivescovo di Efeso, in una sua opera apologetica risalente agli anni 1213/1214, in cui si plagia sistematicamente il Sacro Arsenale 119. Ibid., 57, pp. 63, 3 - 64, 19. Cfr. Nicolaus Mesarites, Renuntiatio rerum politicarum et ecclesiasticarum, in Neue Q uellen zur Geschichte des lateinischen Kaisertums und der Kirchenunion. III: Der Bericht des Nikolaos Mesarites über die politischen und kirchlichen Ereignisse des Jahres 1214, ed. A. Heisenberg, München 1923 (repr. London 1973) (Q uellen und Studien zur spätbyzantinischen Geschichte), [pp. 6-54], p. 43, 24-36; cfr. Bucossi, The «Sacred Arsenal» cit., p. 41. 118 119
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Incontriamo un altro interessante utilizzo della triade in relazione alla questione trinitaria, un secolo più tardi, nell’opera antilatina di Giorgio Acropolita, diplomatico di primo piano nelle trattative con il papato dopo la fine dell’occupazione latina di Costantinopoli, in qualità di legato di Michele VIII Paleologo a Roma, nel 1273, e al Secondo Concilio di Lione, nel 1274. L’Acropolita indica nella triade ciò che è in comune nella natura divina, mentre la distinzione tra le persone si dà in base alle loro proprietà ipostatiche particolari, che non sono condivisibili: Ricevere (λαμβάνειν) lo Spirito dal Figlio, chi dei credenti lo dubiterà? Si parla tuttavia di ricevere la manifestazione (ἔκφανσιν), il dono (δόσιν), l’abbondanza (χορηγίαν). Chiedo allora che cosa è il proprio [dello Spirito]? Esso ha tutte le cose che ha il Figlio, dal Padre riceve in modo semplice la stessa essenza, potenza e operazione, ad eccezione delle proprietà (ἰδιοτήτων), ma questo è per quanto riguarda l’essere (τὸ εἶναι) e l’esistenza (ὕπαρξιν); oltre a queste cose, ha pure quelle che prende dal Figlio 120.
Affermandosi che lo Spirito riceve la natura dal Padre, nella triplice distinzione di essenza, potenza e operazione, escludendosi al contempo che queste gli vengano dal Figlio, si esclude chiaramente la doppia processione. In un secondo passo, contestando l’affermazione della parte avversaria per cui lo Spirito sarebbe icona del Figlio, così come il Figlio è detto icona del Padre 121, secondo la definizione di Atanasio di Alessandria affermatasi come dogmatica, l’Acropolita afferma l’identità ontologica del Paraclito rispetto al Figlio, «essendo della stessa essenza, operazione ed energia del Figlio», cosa che non implica tuttavia il venire meno della distinzione in base alla proprietà esclusiva di essere icona del Padre 122. La discussione dell’argomento dello Spirito a immagine del Figlio fu diffusa nel dibattito coevo, considerato che anche 120 Georgius Acropolites, Contra Latinos, Oratio 2, 8, ed. A. Heisenberg, Leipzig 1903 (Opera, 2), p. 49, 26-32. 121 Cfr. ibid., 20, p. 58, 4-5: ἀλλὰ πάλιν θροεῖ σε τὸ ὑπό τινων εἰρημένον ὡς εἰκὼν μὲν πατρὸς ὁ υἱός, υἱοῦ δὲ τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον. 122 Ibid., p. 58, 29-34: ὁ παράκλητος κατελήλυθε, τῆς αὐτῆς ὢν οὐσίας καὶ ἐνεργείας καὶ δυνάμεως ὧν ὁ υἱός, μὴ ἀντίφθογγα διδάσκων υἱοῦ ὡς οὐδὲ ὁ υἱὸς τοῦ πατρός, ἀπαράλλακτος εἰκὼν ἑαυτοῦ ἀναπέφανται, ἐν ἑαυτῷ παραδείξας τὰ τοῦ υἱοῦ καθὼς ἐκεῖνος τὰ τοῦ πατρός.
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Tommaso d’Aquino nel suo trattato Contra errores Graecorum, scritto intorno al 1263-1264 su richiesta di Urbano IV, afferma che lo Spirito è immagine del Padre e del Figlio, contando l’essere immagine (ratio immaginis) tra gli attributa essentialia e non tra le proprietates personales 123. Dai passi sopra analizzati di Niceta Byzantios, Nicola di Metone e Giorgio Acropolita possiamo osservare come la triade ricorra nella polemica antilatina per significare l’unità ontologica e operativa delle persone della Trinità, di contro alle distinzioni ipostatiche definite dalla proprietà specifiche (ἰδιώματα, ἰδιότητες) di ciascuna di esse. Nella triplice distinzione della triade si delinea il commune delle tre persone della Trinità, nelle proprietà ipostatiche il loro proprium: da tale quadro argomentativo, la processione, così come ogni altra proprietà del Figlio, viene esclusa dall’essere proprietà comune al Padre e al Figlio. Dall’epoca di Fozio (saec. ix ex.) fino alla prima epoca paleo loga (fine saec. xiii), i ritmi del dibattito con i latini erano stati dettati dagli eventi storici che avevano scavato e poi allargato il fossato tra Roma e Costantinopoli; dalla metà del quattordicesimo secolo il dibattito si rinnovò su un terreno di confronto più marcatamente filosofico, dovuto al fiorire della scolastica in Occidente. Q uesto confronto ha coinvolto tanto i temi più annosi del dibattito teologico (gli azzimi, la processione dello Spirito Santo, il primato romano), quanto era destinato ad arricchirsi di ulteriori questioni foriere di contrasto (come il Purgatorio), che andranno ad accrescere di lì a un secolo il dossier del confronto che si terrà nel quadro del Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze (1417-1431). Se in precedenza gli apologeti bizantini si erano misurati con le argomentazioni e le definizioni dogmatiche recate dagli ambasciatori latini, ora essi si dovevano misurare con una dottrina teologica filosoficamente strutturata, il tomismo, che aveva iniziato a mettere radici a Bisanzio attraverso l’insegnamento e le traduzioni dal latino al greco promosse dal convento domenicano di Pera, sulla sponda nord-orientale del Corno d’Oro. Tuttavia, prima ancora che le traduzioni effettuate dai latinofroni bizantini dessero vita Cfr. Thomas de Aq uino, Contra errores Graecorum, I, 10, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1967 (Opera omnia, XL.1), pp. 77-78; cfr. anche ibid., II, 5, pp. 91-92. 123
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al fenomeno del tomismo bizantino, vi fu un autore ellenofono che ebbe conoscenza della scolastica latina tanto da poter rapportarsi criticamente con gli argomenti di Tommaso d’Aquino favorevoli al Filioque. Q uesti fu Barlaam di Seminara, il quale, secondo la ricostruzione di Antonio Fyrigos, prese verosimilmente conoscenza dell’opera di Tommaso soltanto quando arrivò in Oriente, costituendo il primo caso di antitomismo bizantino 124. Nel corso della polemica esicasta non abbiamo evidenze di un utilizzo della triade da parte di Barlaam al di fuori di una lettera a Palamas nella quale egli ripropone aproblematicamente un sillogismo basato sulla triade che gli era stato indirizzato dallo stesso Palamas 125. Nel primo dei suoi trattati contro i latini, databili al 1334 126 e dunque antecedenti all’esplodere della questione esicasta (1340) 127, il filosofo calabrese utilizzò invece la triade in due occorrenze per argomentare l’unità ontologica della natura divina e l’equivalenza di partecipazione ad essa del Figlio e dello Spirito, argomento dal quale egli deduce la processione dal solo Padre. La prima definizione che coinvolge la triade, secondo cui «né per tempo, né per luogo, né per dignità, né per essenza, né per potenza, né per energia, né per volontà questo [lo Spirito] è separato da quello [il Figlio]» 128, ricalca i riferimenti a ciò che è comune alla natura divina quali abbiamo già incontrato in altri autori bizantini 129, ma di fatto se ne discosta nell’introdurre il luogo e il tempo 124 Cfr. A. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» di Barlaam Calabro, in Barlaam Calabro. L’uomo, l’opera, il pensiero, a cura di A. Fyrigos, Roma 2001, [pp. 119-140], pp. 121, 124. 125 Cfr. Barlaam Calabrius, Epistulae, I, 70, ed. G. Schirò, Palermo 1954 (Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neogreci. Testi e Monumenti, 1), p. 254, 634-636; nuova ed. in A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicasta cit. (alla nota 65), p. 245, 623-626: πατρὸς καὶ Υἱοῦ μία ἐστὶν ἐνέργεια· ὧν μία ἐστὶν ἐνέργεια τούτων μία ἐστὶ καὶ δύναμις· ὧν δὲ μία δύναμις τούτων οὐσία καὶ φύσις ἡ αὐτή· Πατρὸς ἄρα καὶ Υἱοῦ ἡ αὐτὴ οὐσία καὶ φύσις. L’editore identifica la fonte della citazione in Gregorius Palamas, Epistula I ad Barlaam, 28-29, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit. (alla nota 10), I, p. 240, 27 - 242, 17. 126 Cfr. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» cit., p. 124. 127 Cfr. Russell, Gregory Palamas and the Making of Palamism cit. (alla nota 93), p. 22. 128 Barlaam Calabrius, Contra Latinos (Tractatus A), I, 30, ed. A. Fyrigos, Città del Vaticano 1998 (Studi e Testi, 348; Opere contro i Latini, 2), II, p. 522, 291 - 524, 292: μήτε χρόνῳ μήτε τόπῳ μήτε ἀξίᾳ μήτε οὐσίᾳ μήτε δυνάμει μήτε ἐνεργείᾳ μήτε θελήσει αὐτοῦ διειργόμενον. 129 Cfr. supra, § 2, alle pp. 250-258.
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al fianco degli altri aspetti della stessa natura divina; da qui deduciamo che Barlaam non concepisca questa definizione come riferita esclusivamente a ciò che è interno alla natura divina increata, che è sovratemporale e sovracosmica, ma riguardi la sua manife stazione cosmica. La seconda occorrenza, affermando che essenza, potenza ed energia costituiscono le proprietà (ἰδιώματα) dell’unica divinità, per le quali essa è conosciuta (γνωρίσματα) 130, si segnala di uguale interesse, in quanto l’uso di questa terminologia si discosta da quanto abbiamo incontrato in precedenza negli autori bizantini coinvolti nel dibattito sulla processione dello Spirito Santo, per i quali le «proprietà» non erano predicati dell’unica natura divina, bensì delle tre divine persone, essendo questi predicati non ontologici, bensì predicati delle relazioni ipostatiche: il singolare uso di Barlaam, ci sembra dunque un’anticipazione della posizione che egli assumerà nella polemica contro Palamas sull’ontologia trinitaria, concependo la natura divina come unità senza distinzioni interne, onde le operazioni divine non possono essere concepite da lui altro che in quanto esterne alla natura increata. Sebbene Barlaam abbia concepito il suo intervento apologetico nel quadro di una critica filosofica al baluardo speculativo della posizione latina, quello elaborato da Tommaso d’Aquino, il cui nome è menzionato quindici volte e le cui argomentazioni a favore del Filioque sono ugualmente riportate e discusse dal Calabro nei suoi trattati antilatini, di fatto la sua concezione dell’ontologia triadica ricalca l’impostazione ontologica di fondo dell’autore a cui rivolge la sua critica, il quale, in nome della semplicità divina, nega la realtà della distinzione in Dio tra l’essenza e le potenze/ energie. Barlaam sembra concepire la problematica trinitaria all’interno di un quadro ontologico dove la predicazione degli attributi divini è tenuta ben distinta dalla realtà divina in sé, discostandosi dal canone argomentativo seguito dagli autori bizantini impegnati nella polemica antifilioquista a partire dal nono secolo,
Cfr. ibid., II, 9, II, p. 536, 78-80: ἡ οὐσία, ἡ δύναμις, ἡ ἐνέργεια, τὸ θέλημα, ἡ ἐξουσία, ἡ δεσποτεία, ἡ κυριότης, ἡ τῶν ὄντων πάντων πρόνοια καὶ ὅσα ἄλλα τῆς μιᾶς θεότητός εἰσιν ἰδιώματα καὶ γνωρίσματα. 130
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come Niceta Byzantios o Nicola di Metone, i quali peraltro Barlaam ha ben presente e anche cita nei suoi trattati 131. Nel contesto della storia bizantina della triade, la posizione di Barlaam si presenta eccentrica rispetto all’interpretazione che fu maggioritaria e non solo nella polemica antilatina. I punti fondamentali di questa interpretazione si trovano riaffermati nel trattato antilatino del monaco filopalamita Neofito Prodromeno, datato al 1363. Q ui riemerge netta la distinzione argomentativa tra ciò che è della natura comune della Trinità e ciò che proprietà delle ipostasi, oltre all’argomento dell’unità e distinzione tra essenza ed energia, ormai canonizzato dalla vittoria del palamismo: Così, il Padre ha lo Spirito Santo, che ugualmente è senza principio (συνάναρχον) e uguale nel potere (ἰσοσθενὲς), connaturato (συμφυὲς) e della stessa natura (ὁμοφυὲς), uguale in onore (ἰσότιμον) e coeterno (συναΐδιον), precedente tutti i secoli (προαιώνιον) e onnioperante (παντουργὸν), il quale egli ha prodotto (προβαλλόμενος) secondo la natura (φυσικῶς) dalla sua essenza (ἐκ τῆς οὐσίας αὐτοῦ), non al modo del Figlio (οὐχὶ δὲ υἱικῶς), come solo lui può fare. Ma lo Spirito Santo non è una delle energie che stanno intorno a Dio e Padre, bensì una ipostasi perfetta (τελεία) e in sé compiuta (αὐτοτελὴς). Come infatti una e identica è la natura e l’essenza delle tre ipostasi in sé perfette, così anche hanno la stessa potenza e la stessa energia. L’essenza e l’energia non sono la stessa cosa (οὐ ταὐτὸν), benché siano unite (σύνεισι) 132.
Apparso intorno a quegli anni e di grande rilevanza per la storia della triade, è il trattato contro Tommaso d’Aquino del monaco esicasta Callisto Angelicude. Rivolgendo esplicitamente la sua critica alla Summa contra Gentiles (Κατὰ Ἑλλήνων) 133, Callisto aveva Cfr. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» cit., p. 123. Neophytus Prodromenus, Contra Latinos, 2, ed. B. KalogeropoulouMetallinou, Athens 1996, rr. 139-147. Il verbo σύνειμι implica qui l’essere della stessa natura, ovvero l’essere afferenti alla stessa realtà ontologica. 133 La Summa contro Gentiles era stata tradotta in greco nel 1354 da Demetrio Cidone; cfr. O. Rodionov, The Chapters of Kallistos Angelikoudes, in Byzantine Theology and its philosophical Background, edd. A. Rigo - P. Ermilov M. Trizio, Turnhout 2011 (Byzantioς. Studies in Byzantine History and Civilization, 4), [pp. 141-159], p. 150; M. Plested, Orthodox Readings of Aquinas, Oxford 2012 (Changing Paradigms in Historical and Systematic Theology), p. 1ss. e pp. 113-114. 131 132
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come reale obiettivo il tomismo bizantino, che nella disputa esicasta – in particolare con il suo principale rappresentante, Demetrio Cidone – aveva mostrato un indirizzo prevalentemente antipalamita 134. Al di là della complessità degli schieramenti, il dibattito teologico aveva portato allo scoperto non solo le divergenze di ordine teologico ed esegetico tra bizantini e latini o bizantini latinofroni, ma anche quelle di ordine speculativo. L’interpretazione della triade figura come un capitolo precipuo di questo confronto e costituisce una cartina tornasole delle divergenze intorno all’ontologia trinitaria e all’economia di partecipazione della natura divina. Nell’indistinzione tra l’energia-potenza e l’essenza divine, Callisto individua lo snodo che conduce Tommaso ad ammettere la partecipabilità dell’essenza divina: Egli non ammette che l’energia di Dio, della divina essenza, sia una potenza in qualche modo diversa rispetto alla divina essenza, per cui concede, di necessità, che Dio sia visibile e partecipabile secondo l’essenza 135.
Contestando a Tommaso di contraddire la Chiesa e i Padri «guardando ad Aristotele e ai greci» 136, Callisto riporta alcuni passi in cui l’Aquinate interpreta l’ontologia triadica assumendo l’indistinzione reale dei suoi tre termini 137. Tra i casi di indistinzione 134 Cfr. M. Mantzanas, s. v. Angelikoudes Callistos, in Encyclopedia of Renaissance Philosophy, ed. M. Sgarbi, Cham 2016 (online). 135 Callistus Angelicudes, Refutatio Thomae Aquinae, 17, ed. S. G. Papadopoulos, Athens 1970, rr. 11-14: ἐνέργειαν Θεοῦ, θείας οὐσίας, δύναμιν ἕτερόν πως παρὰ τὴν θείαν οὐσίαν οὐ συγχωρεῖ, διὸ καὶ κατ’ οὐσίαν ὁρᾶσθαι καὶ μετέχεσθαι τὸν Θεὸν δίδωσιν ἐξ ἀνάγκης. 136 Ibid., § 228, 2-3: καὶ ὁ Θωμᾶς γοῦν, ὅτε ἑαυτοῦ γένηται, εἰς ταῦτα συμφωνεῖ τοῖς ἁγίοις. ὅταν δὲ ἀπίδῃ πρὸς τὸν Ἀριστοτέλην καὶ Ἕλληνας, πάλιν, παρατραπεὶς τὴν διάνοιαν, ἀντιλέγει τῇ Ἐκκλησίᾳ καὶ ἀντικείμενος γίνεται ἑαυτῷ ἐπὶ τῶν αὐτῶν. Con i ‘Greci’ si intendono qui i filosofi pagani. 137 Cfr. ibid., § 229, 8-12; ἀλλ’ οὗτος, πάλιν, (…) φησίν· ‘ἡ θεία δύναμις αὐτή ἐστιν ἡ τοῦ Θεοῦ οὐσία’. Καὶ ἔτι· ‘ἡ δύναμις τοῦ Θεοῦ ἔστιν ἡ οὐσία τοῦ Θεοῦ» καὶ «ἡ ἐνέργεια αὐτοῦ ἔστιν ἡ οὐσία αὐτοῦ’. Καὶ ἔτι· ‘ἡ δύναμις τοῦ Θεοῦ οὐχ ἕτερόν τί ἐστιν τῆς αὐτοῦ ἐνεργείας’ καὶ ‘ἐν τῷ Θεῷ οὐκ ἔστιν ἕτερον ἡ δύναμις καὶ ἕτερον ἡ ἐνέργεια’. Q ueste citazioni sono tratte da Thomas de Aq uino, Summa contra Gentiles, II, 9, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1918 (Opera omnia, XIII), p. 284: «Ex hoc autem ostendi potest quod potentia Dei non sit aliud quam sua actio. ‘Q uae enim uni et eidem sunt eadem, sibi invicem sunt eadem’ [cfr. Aristoteles, De sophisticis slenchis, VI 8, 168b 30-40]. Divina autem potentia est eius substantia, ut ostensum est. Eius etiam actio est eius substantia, ut in primo
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che Callisto contesta a Tommaso anche quella tra la potenza e l’energia, che abbiamo visto essere generalmente accettata dai bizantini in relazione alla natura divina. In un successivo passo, nel quale Callisto – richiamandosi ai testi di Dionigi e Massimo da lui citati in precedenza – afferma la distinzione fondamentale tra le energie, che sono partecipabili e conoscibili, e l’essenza, che rimane impartecipabile e inconoscibile, il problema del rapporto tra potenza ed energia divine risulta alquanto sfumato: Vuoi ascoltare i sacri maestri proclamare come altro siano le energie che procedono increate (προϊούσας ἀκτίστους) dalla potenza di Dio, e chiamare queste partecipazioni (μετοχὰς) che rimangono differenti (οὖσι διαφερούσας) nelle cose che sono differenti (ἐν διαφόροις) e che l’essenza di Dio è trascendente (ὑπερκειμένην) a queste, e mentre queste sono conoscibili dalle parti (γινωσκομένας ἐκ μέρους), l’essenza di Dio è del tutto incomprensibile e inconoscibile per ogni creatura 138?
La questione viene riaperta in seguito, in relazione alla discussione sulla conoscibilità dell’essenza divina; qui Callisto fa riferimento alla posizione latina sull’ἐνέργεια concepita come operazione creata, dunque esterna alla natura divina. In riferimento all’affermazione di Tommaso per cui «l’operazione mostra la potenza, qualunque potenza, mentre qualsiasi potenza manifesta l’essenza» 139, Callisto vi oppone le seguenti precisazioni: Pericolosi e falsi sono questi due enunciati: né infatti l’operazione mostra la potenza infinita di Dio, che è ciò da quanto Dio crea il cielo e la terra, e non è indefinita (ἀόριστα), né è infinita (ἄπειρα), mentre la potenza divina, come anche Tommaso e tutti ammettono, è infinita. Come potrebbe mai libro ostensum est de intellectuali operatione: eadem enim ratio in aliis competit. Igitur in Deo non est aliud potentia et aliud actio. Item. Actio alicuius rei est complementum quoddam potentiae eius: comparatur enim ad potentiam sicut actus secundus ad primum. Divina autem potentia non completur alio quam seipso: cum sit ipsa Dei essentia. In Deo igitur non est aliud potentia et aliud actio. Amplius. Sicut potentia activa est aliquid agens, ita essentia eius est aliquid ens. Sed divina potentia est eius essentia, ut ostensum est. Ergo suum agere est suum esse. Sed eius esse est sua substantia. Ergo divina actio est sua substantia». 138 Callistus Angelicudes, Refutatio Thomae Aquinae, ed. Papadopoulos cit., § 314, 1-6. 139 Ibid., § 351, 1-2: τὴν δύναμιν ἡ ἐνέργεια δείκνυσιν, ἥτις δύναμις δηλοῖ τὴν οὐσίαν.
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l’opera finita (τὸ πεπερασμένον ἔργον) mostrare la potenza infinita 140?
Non meno severo il giudizio del monaco Giuseppe Briennio (ca. 1350-1431/38), strenuo oppositore dell’unione delle Chiese, il quale, in un dialogo sulla processione dello Spirito Santo con un certo Maximos dell’ordine dei Predicatori, elencando le posizioni di Tommaso d’Aquino che egli ritiene inaccettabili, menziona anche l’indistinzione in Dio dei tre termini della triade. Maximos. Ma Tommaso d’Aquino non insegna così queste cose. Ioseph. Io vedo che a Tommaso – e non hai disapprovato – sfugge quanto è corretto in tante altre questioni, soprattutto in quelle che pensa di concludere circa lo Spirito Santo e in tutti i suoi capitoli contro di noi. Da qui è chiaro che egli è caduto in tali bestemmie, giacché afferma che la divina essenza è visibile (ὁρατὴν), attribuisce (προσάπτει) le idee platoniche alla divina natura 141, [ritiene] che in riferimento a Dio (ἐπὶ Θεοῦ) l’essenza, la potenza e l’energia siano la stessa cosa, e ancora dichiara che in riferimento a Dio l’essenza e la persona (πρόσωπον) sono la stessa cosa, ritiene che quattro siano le proprietà (τὰς ἰδιότητας) inerenti (προσεῖναι) alle divine persone, che lo Spirito Santo proceda dal Padre senza mediazione (ἀμέσως) e mediatamente (ἐμμέσως) alla volta, ed esclude molti nomi dal coro dei santi 142.
L’ultimo significativo esempio di utilizzo della triade da parte di un autore bizantino è attestato in uno scritto dedicato alla processione dello Spirito Santo del più importante teologo della tarda età Ibid., § 351, 2 - 352, 2. Secondo Tommaso le idee sono i modi in cui Dio conosce la propria essenza come imitabile dalle creature; cfr. Thomas de Aq uino, Summa Theologiae, I, q. 15, a. 1, ad ter., cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1888 (Opera omnia, IV), pp. 199-200: «Ad tertium dicendum quod Deus secundum essentiam suam est similitudo omnium rerum. Unde idea in Deo nihil est aliud quam Dei essentia»; cfr. ibid., a. 2, resp., pp. 201-202: Id., Q uaestiones quodlibetales, IV, q. 1, a. 1, resp., ed. R.-A. Gauthier, Roma - Paris 1996 (Opera omnia, XXV.2), p. 319, 31-60; Id., Scriptum super libros Sententiarum, I, d. 36, q. 2, a. 2, sol., cura P. Mandonnet, 2 voll., Paris 1929, I, p. 841; Id., Summa contra Gentiles, I, 54, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1918 (Opera omnia, XIII), p. 178. Sono debitore verso Massimiliano Lenzi di queste precisazioni. 142 Josephus Bryennius, Dialogi de processione spiritus sancti, I, Dialogus 1, ed. E. Boulgares, 2 voll., Leipzig 1768 (repr. 1991), I, rr. 333-344. 140 141
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paleologa, Marco Eugenico (ca. 1392-1445), metropolita di Efeso, già allievo di Giuseppe Briennio e portavoce costantinopolitano al Concilio di Ferrara-Firenze 143. Vicino alle posizioni dell’esicasmo e alla teologia di Gregorio Palamas, la sua opera ripercorre l’ontologia trinitaria alla luce degli argomenti che erano emersi nel corso delle discussioni sul Filioque dalla prima epoca paleologa fino al Concilio di Ferrara-Firenze. Uno dei punti da lui dibattuti è la predicazione dei nomi neotestamentari di potenza e sapienza rispetto alla persona del Verbo 144, distinguendola dalla predicazione degli stessi rispetto al commune della natura divina (la triade, la volontà ecc.): Se qualcosa dalla maggioranza viene detto unitario nelle divine persone, questo è in assoluto l’essenza o ciò che è dell’essenza (οὐσιῶδές). Come infatti è assolutamente uno (ἕν ἐστι πάντῃ), e in base a questo ognuna delle restanti [proprietà] delle Persone è distinta (χωρίζεται), così non è assolutamente uno, e in base a ciò le tre sono unite (ἑνίζονται). Q uesto è l’essenza, una in quanto al numero (μία τῷ ἀριθμῷ), oppure ciò che delle Persone è essenzialmente in base ad essa (τι τῶν οὐσιωδῶς αὐτῇ προσόντων), come la volontà una, la potenza una e l’energia una. Diciamo infatti il Figlio Dio da Dio, e ambedue un solo Dio, Luce da Luce, e ambedue una sola Luce, Sapienza dalla Sapienza, e ambedue una sola Sapienza, Potenza dalla Potenza, e ambedue una sola Potenza. In nessun modo dunque è possibile che le divine persone siano uno, a meno che non si intenda secondo ciò che è uno in esse, e questo è ciò che è relativo all’essenza (τοῦτο δ’ ἐστὶν οὐσιῶδες) 145.
L’utilizzo della triade non si discosta qui da altre formulazioni emerse in precedenza, tuttavia possiamo osservare come l’Eugenico sottolinei la distinzione degli elementi essenziali della natura divina in funzione della loro predicazione in quanto comuni all’intera Trinità. In altri punti della sua opera invece egli afferma 143 Cfr. N. Constas, Mark Eugenikos, in La théologie byzantine et sa tradition cit. (alla nota 65), pp. 411-422. 144 Cfr. 1Cor 1, 24: Χριστὸν θεοῦ δύναμιν καὶ θεοῦ σοφίαν. 145 Cfr. Marcus Eugenicus, Capita syllogistica adversus Latinos de spiritus sancti ex patre processione, 35, ed. L. Petit, Roma 1977 (Concilium Florentinum documenta et scriptores, A; Opera anti-unionistica, 10/2), p. 96, 6-20; per un’analisi della dottrina trinitaria di questo trattato cfr. Constas, Mark Eugenikos cit., pp. 441-452.
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l’unità in Dio della potenza e dell’energia 146, inserendosi così in una linea che abbiamo già riscontrato in altri autori impegnati nel dibattito sulla processione dello Spirito Santo, ma anche vicini alle posizioni palamite: se da una parte viene affermata la distinzione tra i termini della triade per contrastare la posizione che, sottolineando la semplicità divina, esclude ogni distinzione tra essenza ed energia, senza quindi sottilizzare sulla distinzione tra potenza ed energia, dall’altra tiene fede alla tendenza generale del pensiero bizantino a concepire in Dio queste due come sinonimi dal punto di vista della realtà e del loro grado ontologico, cosa che permette di concepire la divina energia come co-eterna alla divina essenza e superiore alla creazione, ovvero come potenza eternamente operante e non come operazione-atto che si attua nella dimensione del creato.
Cfr. I. Bulovič, Τὸ μυστήριον τῆς ἐν τῇ ἁγίᾳ Τριάδι διακρίσεως τῆς θείας οὐσίας καὶ ἐνεργείας κατὰ τὸν ἅγιον Μάρκον Ἐφέσου τὸν Εὐγενικόν, Athens 1980, p. 137. 146
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LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO IL PENSIERO DI MARIO VITTORINO
Nel suo complesso ed articolato discorso teologico, Mario Vittorino riconosce che, per definire Dio in maniera adeguata, più che di sostanza si dovrebbe parlare di pura esistenza, vero lo status privo di accidentalità che caratterizza la sua natura 1. In effetti la Nelle note successive, si farà riferimento con ‘ed. Henry’ a Marius Victorinus, Traités théologiques sur la Trinité, ed. P. Henry, 2 voll., Paris 1960 (SC 6869), con indicazione del volume utilizzato. – Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 30, PL 8, [1039-1138], 1062D-1063A, ed. Henry, I, p. 274, 21-26, per la differenza tra esistenza e sostanza. M. Clark, The earliest Philosophy of the living God: Marius Victorinus, in «Proceedings of the American Catholic Philosophical Association», 41 (1967), [pp. 87-93], p. 90, ritiene che la nozione di esistenza possa identificare al meglio la dinamicità del Dio concepito da Vittorino; cfr. su questo anche M. P. Corsini, Il «Timeo» di Platone nell’opera teologica di Mario Vittorino. Interpretazione aritmo-geometrica, in «Atti e Memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’», 59 (1994), [pp. 61-133], pp. 116-121. Va ricordato come la teoria che postula una pura esistenza (ὕπαρξις), anteriore ad ogni determinazione, a giudizio di Pierre Hadot andrebbe fatta risalire a Porfirio, specificamente alla sua esegesi degli Oracoli Caldaici, in cui, secondo Damascio, egli denomina il Padre ὕπαρξις. Si veda P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), I, p. 112 (tr. it., Milano 1993, pp. 92-93). La nozione in effetti è presente nell’anonimo In Platonis Parmenidem, un commentario tardoantico che Pierre Hadot e, nella sua scia, numerosi altri studiosi, riconducono proprio a Porfirio – scelta che verrà effettuata anche nel presente studio – malgrado tale attribuzione rimanga scientificamente una questione ancora aperta e dibattuta: cfr. [Porphyrius], In Platonis Parmenidem, XI-XIV, ed. P. Hadot, ibid., II, [pp. 59-113], pp. 98-112 (tr. it. cit., pp. 86-96). Per un’analisi dell’esistenza come momento trascendente ed ancora implicito nel processo di autoposizione della sostanza cfr. Id., Saggio introduttivo, in Porfirio, Commentario al Parmenide di Platone, a cura di P. Hadot, Milano 1993, pp. 50-54; A. Smith, ΥΠΟΣΤΑΣΙΣ and ΥΠΑΡΧΙΣ in Porphyry, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taormina, 1994 (Lessico intellettuale 1
La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127960 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 299-319 ©
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sostanza, in linea con la definizione di sostrato (ὑποκείμενον) formulata da Aristotele nella Metafisica, essendo un subietto implica necessariamente una certa complessità ontologica. Ma l’autore latino in questo caso ricorre alla Scrittura, la quale a suo modo di vedere dichiara e certifica che in Dio vi è propriamente ‘sostanza’ 2. Q uest’ultima, tuttavia, non va intesa materialmente, alla maniera ‘fisica’ o ‘biologica’, essendo di pertinenza delle realtà celesti, per definizione semplici e incomposte 3. Nella Scrittura, inoltre, Vittorino trova chiari riferimenti alla sinergia tra Padre e Figlio, ed in virtù di questa comune proprietà dinamica egli sovente deduce l’unità della loro sostanza: da un lato europeo, 64), [pp. 33-41], pp. 38-41; G. Girgenti, L’identità di Uno ed Essere nel «Commentario al Parmenide» di Porfirio e la recezione in Vittorino, Boezio e Agostino, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 86 (1994), [pp. 665-688], pp. 680-681; Id., Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione fra henologia platonica e ontologia aristotelica, Milano 1996 (Pubblicazioni del Centro di ricerche di metafisica. Temi metafisici e problemi del pensiero antico, 47), pp. 265-268. 2 Cfr. P. Hadot, Commentaire, in ed. Henry, II, pp. 792-793, il quale fa notare l’ambiguità di tale dimostrazione, in virtù del fatto che, nonostante il testo latino della Bibbia possedesse il vocabolo substantia, la versione in greco recava nondimeno termini più vicini al significato di ipostasi quali ὑποστήματι (Ger 23, 18, declinazione di ὑπόστημα) e ὑποστάσει (Ger 23, 22, declinazione di ὑπόστασις). Vittorino, per dimostrare la ‘prossimità’ ontologica tra ὑπόστασις ed οὐσία, utilizzerà altri passi scritturistici quali Sal 138, 15; Mt 6, 11; Lc 15, 12; Tt 2, 14; Eb 1, 3. Va comunque ricordato come in Occidente ὑπόστασις fosse ancora usato come sinonimo di οὐσία, e tradotto in latino con substantia, mentre ὀυσία veniva reso preferibilmente con essentia; cfr. D. Spada, Le formule trinitarie da Nicea a Costantinopoli, Roma 20032 (Subsidia, 32), pp. 154-155. 3 Per la nozione di subiectum quale sostrato dotato di una posizione ontologicamente preminente rispetto a tutto ciò di cui esso è fondamento cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 30, PL 8, 1062D, ed. Henry, I, p. 274, 18-20 e, soprattutto ibid., II, 4, 1092C, p. 408, 36-42: «Si ergo dicitur de deo subsistentia, magis de deo dicitur substantia, et magis ista, quoniam subiectum significat et principale quod convenit deo; non sic autem subiectum sicut in mundo substantia, sed quod honoratius et antiquius et secundum fontem universitatis, verum quod est esse, quod praestat deus his quae sunt ut unumquodque sit». Sull’idea di sostanza in Vittorino, cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 235-238; A. Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung der göttlichen Seinsfülle nach Marius Victorinus, München 1972 (Münchener Theologische Studien, 2, Systematische Abteilung, 41), pp. 164-167; M. Clark, Introduction, in Marius Victorinus, Theological treatises on the Trinity, Washington, DC 1981 (The Fathers of the Church, 69), [pp. 3-44], pp. 41-42; W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, Frankfurt a. M. 1998 (Philosophische Abhandlungen, 73) (tr. it., Milano 2000, pp. 31-43); M. Baltes, Marius Victorinus. Zur Philosophie in seinen theologischen Schriften, München - Leipzig 2002 (Beiträge zum Altertumskunde, 174), pp. 32-36; C. O. Tommasi, Introduzione, in Mario Vittorino, Opere teologiche, Torino 2007, [pp. 9-71], pp. 69-70.
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il Padre, forza nascosta, dall’altro il Figlio, compiuta manifestazione di questa vis. Ma tale scansione gli offre il destro per stabilire anche il principio della distinzione ipostatica: il Padre viene a rappresentare la ‘sostanza potenziale’ che permane celata e nella quale è precontenuta ogni cosa, il Figlio la ‘sostanza operativa’ che conduce a definizione, a sviluppo e a compimento tutte le realtà, dapprima intellegibili, quindi sensibili 4. Tra i molti passi che esprimono questa dottrina, si può scegliere un luogo del secondo libro Contro Ario, che illustra con una certa efficacia la reciprocità tra potenza ed atto sussistente in seno alla sostanza trinitaria: Deus enim potentia et Λόγος actio, in utroque autem utrum que. Nam et potentia quod potest esse est, et quod est, potest esse. Ipsa igitur potentia, actio est, et ipsa actio potentia actio est. Ergo et pater agit et filius agit; et pater, ideo pater, quia potentia gignit actionem et, ideo filius, actio, quia actio ex potentia. Ergo et pater in filio et filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo autem, quia quod magis est, id alterum apparet; magis autem pater potentia, et actio filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio quia foris actio. Hoc si ita est, et substantia pater et filius, et una substantia, et de patre substantia, et simul substantia, et semper et ex aeterno simul pater et filius, eadem simulque substantia, hoc est ὁμοούσιον 5. 4 Fra i numerosi luoghi in cui risulta illustrato il rapporto ontologico sussistente tra occultamento e disvelamento, cfr. Marius Victorinus, Ad Candidum, 14, PL 8, [1019-1036], 1028A, ed. Henry, I, p. 150, 16-21, passo in cui tale dialettica viene allegorizzata nell’ottica del legame tra gravidanza e parto. Si vedano inoltre Id., Adversus Arium, I, 33, 1066B, ed. Henry, I, p. 288, 21-23: «Iste igitur verus deus et solus deus, quia et potentia et actione deus, sed interna, ut Christus, et potentia et actione, sed iam fori set aperta»; I, 59, 1085A, p. 372, 1-10; III, 7, 1103D-1104A, p. 458, 27-33. 5 Ibid., II, 3, 1091BC, p. 402, 34-47. Nel terzo libro del Contro Ario, quello più finalizzato ad esprimere la consustanzialità trinitaria, compaiono affermazioni analoghe: cfr. ibid., III, 1, 1098D, p. 438, 33-36; 5, 1102B, p. 452, 11-14. Sul rapporto dialettico potenza (Padre)-atto (Figlio) in Vittorino cfr. E. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung der abendländischen Willensmetaphysik, Stuttgart 1932 (Forschungen zur Kirchen- und Geistesgeschichte, 1), pp. 89-92; R. A. Markus, Marius Victorinus and Augustine, in The Cambridge History of Later Greek and Early medieval Philosophy, ed. by A. H. Armstrong, Cambridge 1970, pp. 336-337; Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung cit., pp. 65-68 e 156-161 (con schemi relativi alla terminologia trinitaria); D. N. Bell, Esse, Vivere, Intellegere: the noetic Triad and the Image of God, in «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 52 (1985), [pp. 5-43], pp. 15-17; W. Beierwaltes, Identität und Differenz, Frankfurt a. M. 1980 (Philosophische Abhandlungen, 49) (tr. it., Mi-
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La pienezza divino-umana di Cristo e il suo essere imago patris dei fornisce poi lo spunto per illustrare al meglio la peculiarità funzionale di questa operazione filiale: Q uod Iesus, hoc est Λόγος, et semen est et velut elementum omnium quae sunt, maxime autem iam in energia et manifestatione eorum quae sunt: quod in eo inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Col 2, 9), hoc est in operatione substantialiter. In patre enim potentialiter omnia inhabitant, et idcirco Iesus Λόγος imago est patris dei; hoc ipsum quod est potentia esse, iam hoc est quod est actionem esse. Omne enim quod in actionem exit, et imago est eius quod est potentialiter et eius quod est potentialiter, filius est quod in actione est. Ex his, filius et pater ὁμοούσιον 6.
Il termine energia, raramente impiegato da Vittorino, contrassegna l’attività produttiva del Λόγος, mentre il sintagma in operatione substantialiter, susseguente alla citazione paolina (Col 2, 9), risulta particolarmente pregnante se messo a confronto con l’avverbio potentialiter, riferito subito dopo al Padre: il Figlio, sua immagine, è colui che attua, che fa uscire ciò che giace potenzialmente nel seno paterno. Per questo la figliolanza si può definire un atto proprio alla sostanza divina, connotabile come immanente e al contempo transitivo: ad ogni modo su tale dialettica ontologica l’autore latino insisterà più volte, allo scopo di difendere e garantire la perfetta consustanzialità tra Padre e Figlio, sia questi il Λόγος preesistente o il Λόγος incarnato. Substantialiter viene quindi a sottolineare il possesso della medesima sostanza nonostante la diversità dell’operazione ipostatica: come esprime Vittorino in numerose sue affermazioni, il Padre corrisponde alla potenza generativa, il Figlio all’atto da costei manifestato 7. lano 1989, pp. 103-107); Tommasi, Introduzione cit., pp. 41-42, la quale rileva le origini medioplatoniche nonché gnostiche di questa relazione. I presupposti logico-ontologici di tale dialettica, di matrice perlopiù stoico-platonica, sono analizzati da M. P. Corsini, Il ΛΟΓΟΣ nell’opera di Caio Mario Vittorino: verbo creatore e discorso, in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», 13 (1993), [pp. 149-210], pp. 201-207. 6 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 25, 1059A, ed. Henry, I, p. 258, 25-34. 7 Cfr. ibid., II, 3, 1091BC, p. 402, 34-47: «Deus enim potentia et Λόγος actio, in utroque autem utrumque. Nam et potentia quod potest esse est, et quod est, potest esse. Ipsa igitur potentia, actio est, et ipsa actio potentia actio est. Ergo et pater
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Entrambi quindi agiscono, ma ciascuno nella loro forma propria, rispettivamente attiva e passiva: in altri termini la dinamicità, ossia il motus, è la ‘proprietà sostanziale’ che accomuna e al tempo stesso distingue Padre e Figlio. Gli apparenti contrari impliciti nel rapporto fra potenza ed atto, come indistinzione e distinzione, silenzio e voce, ecc., risultano implicati l’un l’altro all’interno di un processo – l’actus in quanto potentiae progressio – che avviene senza soluzione di continuità 8. Geometricamente tutto ciò risulta traducibile come quel rapporto vigente tra il punto (σημεῖον) e la linea (γραμμή): quest’ultima non è altro che la messa in atto dell’estensione spaziale insita potenzialmente nel punto 9. Nel discorso sviluppato da Vittorino l’accezione di perfezione e di completezza che connota la potenza riflette e riutilizza teologicamente il patrimonio concettuale fissato attorno al termine δύναμις dai primi Neoplatonici, i quali a loro volta misero in atto un’articolata ed elaborata esegesi dell’originaria nozione aristotelica 10. In quest’ottica Plotino ebbe modo di effettuare in taluni agit et filius agit; et pater, ideo pater, quia potentia gignit actionem et, ideo filius, actio, quia actio ex potentia. Ergo et pater in filio et filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo autem, quia quod magis est, id alterum apparet; magis autem pater potentia, et actio filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio quia foris actio. Hoc si ita est, et substantia pater et filius, et una substantia, et de patre substantia, et simul substantia, et semper et ex aeterno simul pater et filius, eadem simulque substantia, hoc est ὁμοούσιον». 8 Cfr. ibid., III, 7, 1103D, p. 458, 18-28. 9 Cfr. ibid., I, 60-61, 1085C-1086B, pp. 374, 1 - 376, 6. Il passo risulta incastonato in un più ampio discorso che, colmo di echi neopitagorici, mira a descrivere la perfezione connaturata alla sphaera λόγου, figura tridimensionale tratteggiata dal movimento trinitario. Su questo aspetto cfr. Corsini, Il «Timeo» di Platone cit., pp. 110-111 e C. O. Tommasi, L’androginia divina e i suoi presupposti filosofici: il mediatore celeste, in «Studi classici e orientali», 46 (1998), [pp. 973-988], p. 981, nota 25. In quest’ultimo studio, incentrato sulla complementarità dei generi all’interno della divinità, l’autrice ha modo di rilevare come l’oscillazione tra la maschile δύναμις, statica ed occulta, e la femminile ἐνέργεια, dinamica e manifesta, possa essere ricondotta a matrici medioplatoniche e soprattutto neopitagoriche (si pensi a Moderato di Cadice), con riverberi che giungeranno financo alla speculazione aritmologica tardoantica, specificamente latina; cfr. a proposito R. Schiavolin, Il Platone pitagorico nelle speculazioni aritmo-teologiche dell’Occidente tardo-antico, in Princeps philosophorum. Platone nell’Occidente tardoantico, medievale e umanistico, a cura di M. Borriello - A. M. Vitale, Roma 2016 (Institutiones, 5), pp. 83-109. 10 In realtà già in Aristotele non manca una certa ambiguità nell’utilizzo del termine δύναμις: esso può essere inteso oltre che consuetudinariamente come ca-
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trattati una certa distinzione semantica tra la valenza attiva del ‘potere’ e quella passiva della ‘potenzialità’, giungendo a caratterizzare con l’epiteto di potenza assoluta (δύναμις πάντων) sia l’Uno sia la materia, il primo in quanto dotato di feconda ed inesauribile produttività, la seconda a causa della sua perenne ed indefinita recettività 11. Vittorino, come detto, mantiene questa prospettiva e la riconduce alla sua teologia trinitaria, assegnando al Padre, che permane beato, quieto ed impassibile, un inesauribile potere creativo 12. Ad esempio, in sede di commento al passo giovanneo me maior est pacità di subire un’azione (significato passivo) anche quale facoltà di esercitare un mutamento (significato attivo); cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 1, 1046a 11-29. Elevando quest’ultima prospettiva in una dimensione trascendente e conferendo al termine una valenza spiccatamente produttiva, l’ottica neoplatonica renderà alla fine possibile la sua applicazione agli intellegibili; si vedano in merito le considerazioni conclusive di F. Romano, L’uso di dunamis nel «De Mysteris» di Giamblico, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano - R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 79-106], pp. 102-104; cfr. inoltre A. Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry, ibid., [pp. 63-77], pp. 64-69. 11 Esemplificativo, per la permanenza dell’ottica aristotelica nelle Enneadi, il trattato II 5, che connota in termini di compiutezza e perfezione soprattutto l’atto, tant’é che per questa ragione la potenzialità negli intellegibili è recisamente esclusa. Per altro verso, risultano particolarmente importanti, al fine di stabilire l’esistenza di una forza latente in seno al mondo intellegibile, i trattati V 2-4 e VI 4, dedicati alla diffusività universale dell’Uno. Tale discorso sarà fatto proprio ed ulteriormente sviluppato da Porfirio, il quale parla del principio primo nei termini di un’essenza infinita per potenza; cfr. Porphyrius, Sententiae ad intellegibilia ducentes, 40, ed. E. Lamberz, Leipzig 1975, pp. 47, 9 - 52, 6 (tr. it., Milano 1996, pp. 150-154); [Id.], In Platonis Parmenidem, I, 1-35, ed. Hadot cit., pp. 64-68 (tr. it. cit., pp. 59-63). Su questo argomento si veda infine Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 200-205. 12 Dio Padre è potenza somma e, in quanto tale, costituisce la preesistenza di tutte le cose: cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 33, 1066A, ed. Henry, I, p. 286, 8-9; ibid., II, 3, 1090D-1091A, p. 400, 15-18. Il Padre viene descritto anche in termini quali «potentia potentiarum» o come ciò che «inenarrabili potentia pure exsistens», cfr. ibid., I, 49, 1078D, p. 344, 35-36 e 39. Sulla potentia patris cfr. Beierwaltes, Identität und Differenz cit. (tr. it. cit., pp. 98-100); sul suo potere creativo si possono vedere le considerazioni di Clark, Introduction cit., p. 42 e di Baltes, Marius Victorinus cit., pp. 37-39. Sulla recezione del patrimonio stoico-aristotelico da parte di Vittorino e sulla sua elaborazione neoplatonizzante del termine potentia cfr. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung cit., pp. 67-70; Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 198-201; Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung cit., pp. 175-178; si veda infine M. Simonetti, La crisi ariana nel iv secolo, Roma 1975 (Studia ephemeridis Augustinianum), pp. 287288, il quale inoltre sottolinea le possibili radici gnostiche di questa concezione.
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pater (Gv 14, 28) egli ha modo di affermare: «Adhuc autem maior [scil. Pater], quod actio inactuosa; beatior enim, quo sine molestia et inpassibilis et fons omnium quae sunt, requiescens, a se perfecta et nullius egens» 13. Una collocazione ontologicamente eminente spetta quindi a tale ipostasi, l’unica della Trinità a potersi definire, in senso proprio, sostanza nonché, transitivamente, sostanza delle altre due. In alcuni passi viene pertanto sottolineato come la condizione potenziale ed occulta goda di maggior, per così dire, ‘prestigio metafisico’ rispetto a quella operativa e manifesta, essendo sine molestia, ossia scevra da quei condizionamenti esterni che caratterizzano l’atto in quanto tale. Un ulteriore luogo, all’interno di un discorso sviluppato alla fine del primo libro Contro Ario volto a delineare i rapporti vigenti tra il primo Uno (il Padre, definito unum solum, inexsistentialiter unum o secundum potentiam exstistentialiter unum) e il secondo Uno (il Figlio, caratterizzato come unum unum, exsistentialiter unum o in motu unum), ribadisce in forma leggermente differita quanto esposto nell’ultimo passo citato: Habet enim potentiam et magis habet quod ei futurum est, secundum operationem, esse, et, secundum veritatem, non habet, sed est, quoniam potentia, qua actio actuosa fit, omnia est sine molestia et vere omnimodis, non egens quae sit, ab hoc ut sint omnia, potentia etenim, qua potens nata actio agit, agens ipsa. Unalitas igitur ista 14. 13 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 13, 1047CD, ed. Henry, I, p. 214, 11-13. Sull’actio inactuosa del Padre, cfr. Baltes, Marius Victorinus cit., pp. 40-43. La nozione compare in [Porphyrius], In Platonis Parmenidem, XIII, 9-24 e XIV, 21-23, ed. Hadot cit., pp. 106-108 e 110 (tr. it. cit., p. 92 e 94), riferita all’atto immobile proprio del pensiero in quanto esistenza, ed è in qualche modo ricollegabile al cessans motus, sintagma presente in Marius Victorinus, Adversus Arium, III, 2, 1099D, ed. Henry, I, p. 442, 36; ibid., IV, 8, 1119A, p. 524, 27. Si vedano in merito le considerazioni di Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry cit., pp. 71-75, il quale riconosce un significato anche ascetico-morale di quest’attività – significato sottinteso in Plotino e più esplicito in Porfirio – riconducibile ad un movimento ascensionale di conversione unitiva; cfr. Porphyrius, Sententiae ad intellegibilia ducentes, 11, ed. Lamberz cit., p. 5, 1-4 (tr. it. cit., p. 80), ove si parla dell’unificazione delle ipostasi incorporee, e 28, 6 - 29, 7 (tr. it., pp. 126128), in cui viene discussa l’unificazione come effetto delle virtù paradigmatiche. 14 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 50, 1079B, ed. Henry, I, p. 346, 27-32. Q uesto passo si inserisce nel contesto di un discorso più generale relativo alle due modalità henologiche, paterna e filiale, cfr. ibid., I, 49-51, 1078A-1080B, pp. 340-347. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, p. 231 (tr. it. cit., p. 200), chia-
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In questi ultimi due passi la distinctio conditionis tra Padre e Figlio risulta metaforizzata attraverso l’utilizzo di una coppia di sintagmi – rispettivamente actio inactuosa ed actio actuosa – simmetricamente complementari. Se quindi la perfezione operativa si addice al Figlio, poiché in esso ogni realtà viene generata e giunge a compimento, l’eccellenza ‘statica’ della condizione paterna è volta a caratterizzare una trascendenza assolutamente ineffabile: il Padre è infatti preesistente, giacché in lui giace occultamente ogni sostanza 15. Riassumendo per sommi capi quanto visto finora, la potenza è una forza operante con moto esclusivamente centripeto (actio inactuosa); può definirsi l’atto più beato (beatior) e perfetto (a se perfecta), in quanto non bisognoso di nulla (nullius egens), che giace quieto (requiescens), senza patire alcuna affezione (sine molestia), impassibile (inpassibilis) e, soprattutto, in uno stato di assoluta unità (unalitas); esso possiede infine in modo perfetto ogni futura sostanza da lui derivata (omnia est sine molestia et vere omnimodis). La potenza trasmette quindi la propria vis agendi all’atto, in modo tale che nell’operazione filiale risultino paradossalmente implicati tanto la prima quanto il secondo (ad hoc ut sint omnia, potentia etenim, qua potens nata actio agit, agens ipsa). Similare contesto dottrinale appare in un altro luogo del Contro Ario, in cui tuttavia è maggiormente accentuato il tema della risce che: «‘En puissance’ ne signifie nullement ce qui a besoin d’être actué, mais bien au contraire ce qui transcende tous les actes possibles, parce qu’il est déjà, par son être même, tout ce qu’une activité ultérieure, ‘un mouvement tourné vers l’extérieur, pourrait lui apporter’». Sull’idea di una potenza perpetuamente in atto cfr. P. Manchester, The noetic Triad in Plotinus, Marius Victorinus and Augustine, in Neoplatonism and Gnosticism, ed. by R. T. Wallis, New York 1992 (Studies in Neoplatonism, ancient and modern, 6), [pp. 207-222], p. 215. Infine, per quanto concerne l’ambiguità semantica relativa all’ipostasi paterna, la quale da una parte viene predicata apofaticamente mentre dall’altra deve essere riferita ad una sostanza, si veda quanto detto supra nelle note 2 e 3. 15 Sulla metafora, più volte ribadita, del Padre in cui giace segretamente ogni cosa cfr. ad es. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 19, 1052D, ed. Henry, I, p. 234, 23-24: «Q uoniam deus in occulto, in potentia enim; Λόγος autem in manifesto, actio enim». La dialettica dell’esistenza in atto che scaturisce dalla potenza preesistente viene utilizzata per illustrare al meglio la ineffabilis generatio propria della Trinità, cfr. ad es. Id., Ad Candidum, 2, 1021A, ed. Henry, I, p. 134, 23-28; 14, 1027BC, p. 148, 3-5; 16, 1029B, p. 154, 23-26. Cfr. inoltre Id., Adversus Arium, I, 3, 1041D, ed. Henry, I, p. 196, 24-27, luogo ove il Padre è la causa prima «propter magnam divinitatem», il Figlio «sibi et aliis causa est et potentia et substantia causa exsistens».
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consustanzialità. Vittorino, citando esplicitamente Gv 5, 19, afferma che il principio di ogni potenza, ossia il Padre, è integralmente posto in atto solo grazie al Figlio, e questa operazione assicura l’unità e l’identità della sostanza scaturita dal Padre ma posseduta da entrambe le ipostasi: Q uod deus, causa qui sit et praepotens et praeprincipium potentiae, ipse facit omnia, cum filius facit, et, si pater in filio et filius in patre, ipse in filio facit, quae filius facit, et quae pater facit, filius facit. Indifferenter igitur aut patri aut filio dantur omnia, sive operationes, sive res. In altero enim alterutrum et nihil alterum quod in uno alterum, et idcirco unum solum et nihil alterum, sed subsistentia propria, et pater et filius est, ab una ex patre substantia. Filius autem, hoc est Λόγος, activa potentia est, et quae faciat et quae vivificet, et sit intellegentialis 16.
Tutto ciò che esiste può quindi essere attribuito indifferenter al Padre, sive res, o al Figlio, sive operationes. In questo senso vi è tra i due perfetta reciprocità: pur essendo uniti secundum substantiam risultano distinti iuxta subsistentiam. Un’identica terminologia si può riscontrare anche nella Lettera a Candido, in cui da un lato si afferma che il Padre agisce eternamente per mezzo del Λόγος, dall’altro che questi si mette in moto da sé e si costituisce quale atto esplicitamente distinto dalla potenza paterna 17. In tale contesto il sintagma activa potentia – che nell’ultimo passo citato connotava la funzione ipostatica propria del Λόγος – assume il ruolo fondamentale di cardine tra Padre e Figlio, poiché esprime l’operazione comune e simultanea ad entrambi, ossia la loro mutua implicazione sostanziale. In effetti, se da un punto di vista protologico il Padre è inquadrabile come condizione a priori per l’attuarsi della potenza, in una prospettiva ontologica ciò determina un rafforzamento del legame tra sostanza e potenza, in quanto la prima, che poi sarà Ibid., I, 39, 1070BC, pp. 302, 2 - 304, 11. Cfr. Id., Ad Candidum, 17, 1029BC, ed. Henry, I, p. 154, 2-9: «Q uid est Λόγος? Dico, quoniam patrica activa quaedam potentia et quae in motu sit et quae se ipsa constituat, ut sit in actu, non in potentia (…). Operatur ergo deus per Λόγον et semper operatur. Λόγος igitur activa potentia est et in motu et quae constituat, ut sit actione, quod fuit potentia. Istum igitur dicimus, quoniam in principio fuit». 16 17
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manifestata dal Figlio, giace tutta contenuta nell’essere paterno 18. A tal proposito l’ultimo passo citato evidenziava l’istanza logica di ‘arretrare’, per così dire, il Padre ad un livello di preesistenza, nel caso in cui la potenza fosse riferita anche al Figlio, operazione giustificabile in virtù della consustanzialità implicata nella Trinità. Ciascuna ipostasi viene quindi identificata univocamente dall’atto a lei ‘proprio’: da qui una sorta di sinonimia tra Padre (esse), Figlio (vivere) e Spirito Santo (intellegere), le tre potenze ‘comuni’ che poi si differenziano tra loro in base alla predominanza ipostatica 19. Per questa ragione l’atto proprius specifica e connota ipostaticamente i tre, mentre quello communis rappresenta la sostanza, che di converso rende possibile la loro comunione: essi si possono quindi definire ‘sinonimi’, in virtù di questa identità ontologica, malgrado al Padre spetti il ruolo di vertice della sostanza e origine del movimento, in quanto – come discusso precedentemente – a lui solo appartiene la capacità generativa 20. Tale ‘movimento sostanziale’, in quanto divino, risulta perfettamente coeso, omogeneo, unitario, non patendo alcuna accidentalità, in virtù della semplicità ontologica che caratterizza gli intellegibili. Nei rapporti trinitari, infatti, l’energia non implica mutazione o alterazione, ma solo quella che si potrebbe definire una ‘differenziazione consustanziale’ resa possibile da questo atto immanente:
18 Cfr. Id., Adversus Arium, I, 51, 1079C, ed. Henry, I, p. 348, 10-15; I, 56, 1082D, p. 362, 1-4; ecc. Si può pertanto parlare, come fa Pierre Hadot, di un atto del Padre invisibile, confuso con la sostanza; cfr. Hadot, Commentaire cit., p. 740. 19 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 54, 1082A, ed. Henry, I, p. 358, 9-10; III, 17, 1113A, p. 492, 10-13. Il nome proprio esprime la potenza mediante la quale l’ipostasi si appropria della sostanza trinitaria comune; cfr. Hadot, Commentaire cit., p. 865. Non a caso Vittorino – sulla base di probabili suggestioni gnostiche – giunge a caratterizzare Dio come tripotens; cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 50, 1078D, ed. Henry, I, p. 344, 4, o τριδύναμος; cfr. ibid., IV, 21, 1128D, p. 564, 26. Sulle tre potenze e gli antecedenti porfiriani di tale dottrina cfr. il rapido cenno di F. Romano, Platonismo e cristianesimo dell’opera teologica di Mario Vittorino, in Id., Studi e ricerche sul Neoplatonismo, Napoli 1983 (Esperienze, 90), [pp. 67-73], pp. 71-73; C. O. Tommasi, Tripotens in unalitate spiritus: Mario Vittorino e la gnosi, in «ΚΟΙΝΩΝΙΑ», 20 (1996), pp. 53-75. 20 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 55, 1082C, ed. Henry, I, p. 360, 16-18.
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Sic igitur id ipsum quod est operari, et ipsum esse habet, magis autem non habet; ipsum enim operari esse est – simul enim et simplex – et esse et operari eorum quae supra sunt, natura est declarans et sortita secundum quod est requiescere ipsum esse et substantiam, secundum autem quod est in motu esse, actionem, operationem. Hoc autem, quod est in motu esse, declaratio est eius quod est esse, secundum actionem 21.
Declinando in chiave metafisica il concetto paolino di Cristo imago dei, questa teoria viene talora metaforizzata nei termini del rapporto che sussiste tra la sostanza e la sua immagine. Ciò offre il destro al teologo per esprimere l’equivalenza funzionale tra imago ed actio, entrambe rappresentate dal Λόγος, manifestazione dinamica dell’invisibile ed immota potenza paterna: Et quare imago dei Λόγος? Q uoniam deus in occulto, in potentia enim; Λόγος autem in manifesto, actio enim. Q uae actio, habens omnia quae sunt in potentia, vita et cognoscentia, secundum motum producit, et manifesta omnia. Propter quod, omnium quae sunt in potentia, imago est actio, unicui que eorum quae in potentia sunt speciem perficiens, et exsistens per semet: a nihilo enim nulla substantia 22.
Dal passo, inoltre, si evince che il movimento del Figlio in prima istanza si costituisce come vita, per manifestarsi infine sotto forma di intelligenza. A tal proposito, soprattutto nel quarto ed ultimo libro del Contro Ario, autentico chef-d’œuvre della letteratura 21 Ibid., I, 4, 1042C, p. 196, 11-16; cfr. anche III, 2, 1099CD, p. 442, 26-31. Si vedano le considerazioni di Clark, The earliest philosophy cit. (alla nota 1), p. 92, la quale riconosce a Vittorino non solo e non tanto di aver fondato una concezione trinitaria basata sul movimento, ma soprattutto di aver reso il movimento da mero accidente della sostanza a vera e propria proprietà ontologica: quest’atto è quindi sostanziale, in sé sussistente e capace di distinguere le tre Persone divine. Cfr. inoltre le considerazioni conclusive di Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 485-488 (tr. it. cit., pp. 428-431) per il significato storico-filosofico di questo dinamismo tonico esteso fino alla sfera intellegibile, che egli definisce efficacemente nei termini di una «trasposizione platonica dello stoicismo». 22 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 19, 1052D, ed. Henry, I, p. 234, 22-29. Poco oltre il discorso prosegue insistendo sul significato immanente e non transitivo che possiede il verbo habere in Gv 16, 15; cfr. ibid., 1053AB, pp. 234, 42 - 236, 47: «Secundum autem quod est potentia et actione, potentia pater, actione filius. Natus igitur filius, habens in actione et potentialiter esse, sicuti potentialiter esse habet ipsum actionem esse in semet ipso quod est potentialiter esse».
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patristica latina, Vittorino sviluppa una elaborata dottrina riguardante il duplice statuto ontologico del pensiero: nell’identità con il Padre, in quanto potenza di conoscere, esso è definibile come praeconognoscentia, mentre nel momento in cui viene reso manifesto attraverso la distinzione ipostatica esso corrisponde alla vera e propria cognoscentia 23. La matrice di tale dottrina è forse porfiriana, com’è testimoniato da un paio di luoghi dell’anonimo Commentario al «Parmenide», i quali si riferiscono alla ‘potenzialità’ o ‘virtualità’ conoscitiva che giace indeterminata nell’essere divino 24. Tuttavia non va tralasciata l’importanza degli Oracoli Caldaici, in cui è presente una scansione ternaria Padre – Potenza – Intelletto posta alla sommità di tutta la gerarchia intellegi bile, in cui il primo elemento si manifesta poi negli altri due 25. 23 Praecognoscentia, pertanto, indica la potenzialità dell’atto conoscitivo che permane nel Padre in uno stato informale, e che poi si manifesta ‘formalmente’, ossia ipostaticamente, come cognoscentia: cfr. ibid., IV 24, 1130C, pp. 570, 14 - 572, 20. 24 Cfr. [Porphyrius], In Platonis Parmenidem, IX, 1-4 e XIII, 34 - XIV, 4, ed. Hadot cit., p. 90 e 108 (tr. it. cit., p. 80 e p. 94). Su questi luoghi cfr. Hadot, Saggio introduttivo cit. (alla nota 1), pp. 21-24 e Id., Porphyre et Victorinus cit., II, p. 109, nota 4 (tr. it. cit., p. 129, nota 113), per il senso tecnico dell’importante termine διαφέρουσα (reso da sintagmi quali «che supera» ed «eccellente al di sopra»); in merito si vedano inoltre i rilievi di Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 179-181 mentre, per la recezione vittoriniana di tale dottrina, cfr. ibid., pp. 241-242. 25 Gli Oracoli Caldaici evidenziano palesi analogie con la triade neoplatonica soprattutto nel fr. 5, luogo in cui è presente un Intelletto Paterno non-agente, una Potenza che è suo riflesso diretto nella materia ed un Intelletto demiurgico atto a costituire, attraverso l’energia pirica da lui emanata, l’intero cosmo; cfr. Oracula Chaldaica, fr. 5, in The Chaldean Oracles. Text, translation and commentary, ed. R. Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), p. 50. Per i rapporti tra questa triade e quelle neoplatoniche cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 305-312 (tr. it. cit., pp. 268-274); H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurgy: Mysticism, Magic and Platonism in the later Roman Empire, Paris 1978, pp. 106-117 (Études augustiniennes. Antiquité, 77); H. D. Saffrey, Connaissance et inconnaisance de Dieu: Porphyre et la Théosophie de Tübingen, in Gonimos. Neoplatonic and Byzantine studies presented to Leendert G. Westerink at 75, ed. by J. Duffy - J. Peradotto, Buffalo 1988, [pp. 1-20], pp. 4-5 (parallelismi tra Porfirio ed alcune concezioni degli Oracoli Caldaici); si veda infine l’importante contributo di R. Majercik, The Existence - Life - Intellect Triad in Gnosticism and Neoplatonism, in «The Classical Q uarterly», 42 (1992), pp. 475-488, ove si analizzano le modalità di ricezione della letteratura caldaica e gnostica da parte di Porfirio, e nello specifico l’assimilazione tra Padre (Primo Intelletto o esistenza pura, ὕπαρξις) e Potenza (δύναμις) che sarà sfruttata dal filosofo di Tiro in prospettiva ermeneutica nel suo Commentario al «Parmenide». Si ricordi infine come la
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Tornando a Vittorino, le raffinate argomentazioni metafisiche del quarto libro Contro Ario non fanno altro che ribadire e rafforzare la reciprocità a livello intratrinitario tra potenza ed atto. Valore preminente assumono in particolare il concetto di Dio quale infinito atto d’essere e del Λόγος come sua forma – talora chiamata potentia – avente funzione definitoria nei confronti di tutte le realtà esistenti: Et quoniam diximus confici ab actu potentiam – sic enim se prima habent, ut cum sint omnia divina energia, id est actus et operationes – necessarium est ut, a deo principio, omnium potentiarum universaliter universalium fons et origo nascatur. Iste namque rerum progressus est ut, cum omnia a deo, et potentiae et actus, a deo qui supra potentias et actus accipitur, orta haec esse credantur 26.
In questo libro Vittorino, nel contesto del suo consueto schema triadico, effettua spesso una distinzione fra il significato dei verbi esse – vivere – intellegere e quello dei sostantivi exsistentia – vita – intellegentia: i primi designano il puro atto d’essere, mentre i secondi, conformemente alla derivazione paronimica, rappresentano la forma definitoria di tale atto 27. Sembra allora capovolta la prospettiva fin qui intravista, in cui la potenza veniva assimilata all’ipostasi paterna. In realtà si attua una specie di ‘riflessione semantica’: la capacità poietica intradivina viene trasferita dall’aspetto passivo, ov’è protagonista l’infinitezza che giace a livello
nozione di ὕπαρξις influenzi lo stesso Vittorino, che tende a distinguere tra il significato di exsistentia e di substantia, si veda quanto detto supra alla nota 2. 26 Marius Victorinus, Adversus Arium, IV, 22, 1129B, ed. Henry, I, p. 566, 22-27. 27 Cfr. ibid., IV, 19, 1127BC, p. 558, 21-37. Come l’atto d’essere determina la forma, così la forma lo rende conoscibile all’intelletto: cfr. ibid., IV, 23, 1129C, p. 566, 6-11. Su questo principio di specificazione ‘formale’ interno alla potenza di Dio e sull’identità fra l’autoposizione della forma ‘preformata’ e la produzione della stessa, cfr. Corsini, Il «Timeo» di Platone cit., p. 97, nota 201, ove si trova un elenco dei luoghi in cui Vittorino, mediante la dottrina dei paronimi, ipostatizza ciò che deriva dal puro agire; in merito si vedano inoltre le pp. 104-107, 112-113, 124-126 del medesimo studio. Tale specificazione potrebbe trovare dei riscontri con la teoria plotiniana che impone l’autolimitazione del νοῦς nel suo nesso riflessivo con la propria origine: cfr. W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995, pp. 102-115).
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potenziale, a quello attivo, contraddistinto dalla sovrabbondanza della vis existendi. In questa dialettica un ruolo fondamentale va attribuito alla volontà, la quale esprime la tendenza connaturata alla potentia dei 28. Fulcro di questo rapporto tra potenza e volontà è il movimento, innanzitutto vitale, che rappresenta la manifestazione esplicita di quell’impulso che promana spontaneamente dall’essere divino: Et quoniam omnis potentia naturalis est voluntas, voluit vita movere semet ipsam, insita iuxta substantiam motione inpassibiliter erecta in id quod est. Naturalis enim voluntas, non passio. Secundum hoc igitur quod est esse dei, in quo potentia exsistentia est, substantialitas patrica, secundum potentiam, secundum istud esse ipsum, et vita est. Si ergo movit vita semet ipsam, motio autem voluntas, patrica ergo motio et patrica voluntas, quoniam patrica potentia vita 29.
Nella substantialitas patrica giacciono nello stato di perfetta identità ed immota quiete esistenza e vita. Ma questo ‘riposo’ è solo apparente, poiché l’istanza naturale propria di ogni potenza è la volontà di attuarsi in conformità al proprio essere: ed è proprio da questa tensione immanente che si genera un movimento transitivo 30. Nel passo è presente inoltre l’idea che questo moto sia operato volontariamente dalla vita al fine di autodefinirsi: la potenza allora oggettiva se stessa e si manifesta in un atto – teologicamente associabile al Figlio – che rimane contiguo alla natura della pro-
28 Ernst Benz fu il primo a riconoscere il ruolo cardine giocato dalla volontà nella speculazione di Vittorino e, anzi, ebbe modo di incentrare su quest’aspetto la sua ampia e pionieristica analisi: cfr. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung cit., pp. 78-80. Si veda inoltre Hadot, Commentaire cit., p. 861, il quale sottolinea che Vittorino potrebbe aver conosciuto, attraverso l’intermediazione di Porfirio, la teoria della potenza come desiderio naturale volto alla piena espressione di sé, di lontana ascendenza aristotelica. 29 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 52, 1080D, ed. Henry, I, p. 352, 22-30. 30 Per la correlazione volontà-atto-automovimento cfr. Id., Ad Candidum, 22, 1031BC, ed. Henry, I, p. 160, 8-14. Nei commenti a san Paolo l’autore latino insisterà proprio su Cristo come volontà di Dio: cfr., ad esempio, Marius Victorinus, Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1, 11, PL 8, [12351294], 1246AB, ed. e tr. it. F. Gori, Torino 1981 (Corona Patrum, 8), p. 60, 1726.
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pria causa, ossia il Padre. È importante infine sottolineare che tale actus risulta connotato ipostaticamente nei termini di un esse cum forma, equivalente all’esse proprium di cui si è parlato supra, mentre la consustanzialità si fonda sulla compartecipazione trinitaria a questo dinamismo: per il Padre in quanto egli è l’esse, per il Figlio attraverso l’agere, che inizialmente si manifesta come vivere, successivamente come intellegere 31. Nella riflessione trinitaria dell’autore latino una certa ambiguità di significato pare contraddistinguere il sintagma paolino che inquadra il Figlio come «virtù e sapienza di Dio» (1Cor 1, 24): Sapientia igitur et virtus operationes; hanc enim nunc virtutem significat; coniunxit enim sapientiam et virtutem. Ergo horum potentia est deus, et ideo pater quod ab ipso ista. Gignit enim ista in actionem et inpassibiliter quod ὁμοουσία sunt potentia et actio, et deus, et dei virtus et sapientia 32.
Tale virtus, che da un punto di vista semantico sembrerebbe a prima vista accostabile alla potenza, è in realtà più vicina allo specifico modus operandi dell’atto. Vittorino, se da un lato per ragioni esegetiche deve giustificare il versetto neotestamentario, dall’altro è costretto ad ‘allinearlo’ ai suoi schemi metafisici, nei quali l’atto della potenza paterna è costitituito dal Figlio. Ora, in quanto quest’ultimo è sia activa potentia sia – come appena visto – virtus et sapientia dei, per proprietà transitiva il Padre, in quanto potenza del Figlio, è potenza generatrice sia della virtus 31 Sulla triade in questione resta fondamentale lo studio di P. Hadot, Être, Vie et Pensée chez Plotin et avant Plotin, in Les Sources de Plotin. Dix exposés et discussions (Vandoeuvres-Genève, 21-29 Aout 1957), éd. par E. R. Dodds, Van doeuvres 1960 (Entretiens sur l’antiquité classique, 5), pp. 105-158. 32 Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 40, 1071BC, ed. Henry, I, p. 306, 23-28. Sul Figlio potenza e sapienza di Dio cfr. ibid., I, 38, 1069D, pp. 300, 14 - 302, 17 e I, 56, 1083AB, p. 364, 15-20: in quest’ultimo caso lo si definisce actio potentialis e, con metafora geometrica, medius in angulo trinitatis. La virtus dei è il Λόγος eterno, che solo dopo l’incarnazione e la risurrezione riceve il «nomen supra omne nomen» (Col 2, 9: filius), ed è in questo senso strettamente ontologico che Vittorino lo definisce «virtus et sapientia, actio et operatio»: cfr. Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 2, 9-11, PL 8, [1197-1236], 1210C, ed. Gori cit., p. 336, 45-47. In un luogo del Commentario agli Efesini Vittorino sviluppa un discorso sull’economia salvifica incentrato sulla resurrezione di Cristo, ov’egli intreccia le nozioni di virtus, potestas, operatio: cfr. Id., Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1, 20-23, 1249CD, ed. Gori cit., pp. 68, 6 - 70, 14.
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sia della sapientia: entrambe quindi corrispondono agli atti che sgorgano dalla vis paterna, nei confronti della quale risultano consustanziali. La tematica, nella particolare angolazione del quarto libro Contro Ario, viene sviluppata dal punto di vista dell’atto d’essere, nel cui dinamismo sostanziale è riposta una potenza gemina, che realizza simmetricamente un doppio ufficio 33. Il Figlio tuttavia, nell’adempiere alla propria peculiare mansione, subisce una certa frizione con la dimensione esogena propria delle realtà a cui dona l’essere, un attrito tale da porlo in una condizione di privazione ontologica 34. Per questa ragione in lui è presente simultaneamente un ‘atto sostanziale’, impassibile, e un ‘atto transitivo’, passibile. Il primo, essendo immanente alla sostanza divina, è della sua stessa natura mentre il secondo, che procede verso l’esterno, patisce una certa alterità: Etenim, cum quasi geminus ipse pater sit: exsistentia et actio, id est substantia et motus (…), necessario et filius, cum sit motus et αὐτόγονος motus, eadem substantia est. Eadem enim haec inter se, sine coniunctione unum sunt et sine geminatione simplex, suo ut proprio exsistendi diversum – vi autem potentiaque, quia numquam sine altero alterum, unum atque idem – tantum actu, sed qui foris est, in passiones incedente, alio autem interiore semper manente atque aeterno, quippe originali et substantiali 35. 33 Cfr. Id., Adversus Arium, IV, 16, 1124D, ed. Henry, I, p. 546, 18-21: «(…) utrumque enim motus est et unus motus, duas virtutes praestans officio gemino – una eademque substantia. Nam substantia his motus est; non enim in his aliud est esse, aliud moveri». Su questa ‘doppia mansione’ del movimento, cfr. ibid., III, 8, 1104D-1105A, p. 462, 25-37. 34 A tal proposito il luogo del Contro Ario visto supra alla nota 13, in cui Vittorino commenta il passo giovanneo me maior est pater (Gv 14, 28), così prosegue, cfr. ibid., I, 13, 1047D, ed. Henry, I, p. 214, 18-20: «(…) inpassibilis et passibilis. Ergo et aequalis et inaequalis. Maior igitur pater». Per questa complementarità si veda anche Id., Hymni, III, PL 8, [1139-1146], 1144A, ed. Henry, I, p. 640, 8384: «Inpassibilis inpassibiliter (Padre) / impassibilis passibiliter (Figlio)». L’ossimoro sembra essere la figura letteraria preferita dall’autore latino per esprimere la concezione teologica che successivamente sarà espressa nella formula dell’unione ipostatica, quell’intimo ed inseparabile legame che, attraverso la persona di Gesù Cristo, è stato realizzato tra natura divina e natura umana. 35 Id., Adversus Arium, III, 17, 1113AB, ed. Henry, I, pp. 492, 13 - 494, 24. Sulla distinzione tra atto sostanziale e atto transitivo cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, p. 228, nota 4 (tr. it. cit., p. 198, nota 119), dove si ravvisa un’influenza plotiniana, a sua volta debitrice del patrimonio dottrinale stoico. Porfirio, teorizzando nelle Sentenze sugli intellegibili l’unità nell’alterità propria agli
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Da ciò si evince come nell’atto sostanziale non vi sia alcuna diminuzione o perdita dal punto di vista ontologico; nell’atto transi tivo, al contrario, sussiste una certa alienatio, giacché in questo moto centrifugo il Figlio patisce come detto l’eterogeneità degli enti mondani a cui fornisce l’esistenza. Tale operazione, infatti, è vincolata alle condizioni di alterità, molteplicità e temporalità caratteristiche delle realtà non intellegibili, e raggiunge in tal senso il punto apicale nell’incarnazione 36. In altre parole, nel mondo sublunare, diversamente da quello celeste, sussiste una certa frattura tra lo stato virtuale e lo stato realizzativo di una determinata natura, e tra le due non vi può mai essere perfetta corrispondenza. L’ilemorficità è quindi la cifra fondamentale delle realtà mondane le quali, patendo questa situazione, risultano costitutivamente frammentate tra essere e non-essere o, per meglio dire, sono costrette ad esternare temporalmente, attraverso una serialità di atti, ciò che giace potenzialmente al loro interno: Cetera quae post deum sunt et potentiae sunt et actiones: potentiae, quae, vi sua, iam esse creduntur ut omnia et esse et habere videantur quae, maturis processionis actibus, exsistentia, in suo opere, hic habere provenit; actiones autem dicuntur, cum, existendis processibus, gignunt ac foras promunt quod esse possunt, ut semen iam potentia est et culmus et folia, vel mas aut femina, veneriae cupiditatis effusio. Sed haec in mundo atque sub luna. Supra vero, in aethere atque caelo, actiones sunt atque actionibus vivunt, sed genita et iam, quod futurum fuerant, facta. Ex ortu enim suo, in operationes proprias suasque dimissa, suos actus naturae continentis contagione discurrunt 37.
Negli enti sensibili pertanto il passaggio da potenza ad atto, o da occultamento a manifestazione, è asincrono, implica una distanza tra condizione interiore ed esteriore. Cifra peculiare intellegibili e l’alterità nell’unità propria ai sensibili, potrebbe costituire un’altra possibile fonte di tale dottrina; cfr. Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry cit., pp. 69-71, e Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 236-237. 36 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 22, 1056CD, ed. Henry, I, p. 248, 48-55. 37 Ibid., IV, 12, 1122AB, pp. 534, 17 - 536, 29. Sulla differenza tra la semplicità degli intellegibili e la complessità degli enti sensibili si veda anche Id., Ad Candidum, 9, 1024C-1025A, ed. Henry, I, p. 142, 15-17.
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di questo divario è proprio la successione temporale: laddove il mondo intellegibile risulta caratterizzato dalla sincronicità – efficacemente espressa, nel luogo citato, dall’avverbio iam –, nelle realtà mondane tale passaggio avviene attraverso una sequenzialità di istanti, posti tra loro in rigorosa ed irreversibile successione 38. V’è infine da sottolineare come, in prospettiva escatologica, Vittorino miri ad armonizzare ed integrare tra loro questi due differenti aspetti – celeste e terrestre, simultaneo e seriale – della dialettica in esame. Da questo punto di vista già nelle sue opere retoriche egli aveva manifestato talune istanze ‘conciliatorie’, giocate sulla complementarità del rapporto sapientia – eloquentia 39. È tuttavia nell’evento fondante del cristianesimo che il neoconvertito troverà definitivo appagamento per queste sue esigenze: egli infatti lascia intendere qua e là, in alcuni scorci del suo discorso teologico, una visione pneumatocentrica in virtù della quale l’unità e la semplicità dei rapporti che caratterizzano il mondo intellegibile viene estesa gratia dei a tutta la realtà sensibile affinché, nella pienezza filiale di Col 3, 10, la presenza divina si possa universalmente diffondere. Dal momento che la sostanza di Dio è Spirito, il Figlio, che attua la potenza del Padre, è anch’esso Spirito in virtù dell’implicazione sostanziale propria a ciascuna ipostasi 40. Inoltre, secondo Vittorino, quest’atto risulta sequenzialmente bipartito tra Cristo e lo Spirito Santo, per cui la generazione vitale Cfr. Id., Adversus Arium, IV, 15, 1124A, ed. Henry, I, pp. 542, 13 - 544, 22. Vittorino, in sede di commento alle prime pagine del De inventione di Cicerone, in cui era descritto lo stato barbaro dell’umanità prima dell’intervento della sapienza, afferma come l’esercizio dell’eloquenza, pur non apportando cambiamenti sostanziali alla natura del sapiente, possa contribuire ad ampliare e rendere pienamente efficace la sua virtus entro un piano oggettivo ed universale. In tal modo l’eloquenza trasmette e comunica la sapienza, viceversa, l’operazione (eloquenza) separata dalla sostanza (sapienza) è solo una falsa apparenza che inganna; cfr. Id., Explanationes in Ciceronis rhetoricam, I, 2, ed. A. Ippolito, Turnhout 2006 (CCSL, 132), pp. 19, 165 - 20, 191. Successivamente tale opposizione sarà quella metafisico-teologica della sostanza e dell’economia, cfr. ad es. Id., Ad Candidum, 29, 1034C, ed. Henry, I, p. 168, 17-19: «Ista omnia dicuntur non in eius exsistentiam, sed in actus et in ministrationem eius potentiae atque virtutis». 40 Sulla pneumatologia di Vittorino cfr. R. Schiavolin, La nozione di Spirito nelle opere teologiche di Mario Vittorino. Diss., Università degli studi di Salerno 2008, in corso di stampa. 38 39
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iniziata dal primo viene continuata e completata dal secondo, che opera una rigenerazione intellettuale grazie alla quale tutto ciò che esiste è riportato teleologicamente ad unam virtutem 41. In altre parole ogni realtà, una volta attuata integralmente la propria sostanza mediante la doppia operazione filiale, verrà ricondotta alla potenza paterna, «ut sit in deus omnia in omnibus» (1Cor 15, 28): Evacuatis enim omnibus, requiescit activa potentia, et erit in ipso deus, secundum quod est esse et secundum quod est quiescere, in aliis autem omnibus spiritaliter, secundum suam et potentiam et substantiam. Et hoc est: ut sit in deus omnia in omnibus. Non enim omnia in unoquoque, sed omnia in omnibus. Manebunt igitur omnia, sed deo exsistente in omnibus, et ideo omnia erit deus, quod omnia erunt deo plena 42.
L’activa potentia specifica del Λόγος, che fino ad ora si era vista connotare un dinamismo transitivamente centrifugo e vitale, qui muta il suo verso, convertendosi in attività centripeta ed intellettuale, fino a raggiungere la quiete finale 43. L’avverbio spiritaliter qualifica l’universalità di questa inversione che, dapprima immanente alla Trinità, compenetra progressivamente ogni cosa (omni-
Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 12, 1047B, ed. Henry, I, p. 214, 29-32: «Etenim omne mysterium hoc est, pater inoperans operatio, filius operans operatio in id quod est [re]generare, sanctus autem spiritus operans operatio in id quod est regenerare». Cfr. Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3, 21, 1226C, ed. Gori cit., p. 372, 25-27: «Itemque, deus cum spiritus sit, subicientur universa deo cum ad unam virtutem redigentur et sic, inquit, poterit universa illi subdere, scilicet deo». 42 Id., Adversus Arium, I, 39, 1070D, ed. Henry, I, p. 304, 26-34. Cfr. Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3, 21, 1227A, ed. Gori cit., p. 374, 45-47: «Ergo ubi dixit potentiae suae, illic intellegitur deus, cui scilicet subdit universa, et propter hoc operatur ut possit etiam universa illi subdere. Q uod autem dixit etiam universa, refertur ad id quod ipse illi subditus». 43 Q uesta cessazione non significa l’eclissarsi del Λόγος entro la sostanza divina ma la conclusione della sua attività economica, volta al ricongiungimento di tutte le realtà con Dio. Come dice Hadot, Commentaire cit., p. 820: «Le repos de la ‘puissance agissante’ ne signifie pas la fin du Logos en tant qu’acte de la puissance paternelle, mais la fin de son acte extérieur, c’est-à-dire de l’économie ou du mystère, fin qui n’est d’ailleurs pas une pure cessation, mais un accomplissement, le but du mystère étant justement l’unité de tout l’univers et des âmes dans l’unité divine». Su quest’attività eminentemente unificativa cfr. le considerazioni espresse supra alla nota 13. 41
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bus spiritaliter), anche se con modalità diverse per ciascuna (secundum suam et potentiam et substantiam) 44. In conclusione, il paradigma ontologico in base al quale Vittorino stabilisce e definisce il rapporto sussistente tra potenza ed atto risulta essere partitivo: da un lato la sincronicità caratteristica delle realtà divine, dall’altro la serialità propria di quelle mondane. Per ragioni squisitamente dogmatiche, volte alla difesa dell’ὁμοούσιον niceno, egli struttura la circumcessio trinitaria sulla base di una complementarità sostanziale tra stasi paterna e dinamismo filiale, dapprima centrifugo (Cristo) quindi centripeto (Spirito Santo). Ecco quindi che nelle realtà intellegibili, a cominciare dal Λόγος, prevale una logica di simultaneità che fa propria la dialettica dei generi sommi del Sofista, in primo luogo la correlazione tra quiete e movimento 45. Q ualora applicata alla struttura ontologica delle realtà sensibili, e più in generale ad ogni ente mondano, tale sequenza si sviluppa attraverso una costante e progressiva manifestazione della sostanza, la quale dapprima giace latente nella virtualità delle facoltà potenziali, successivamente si palesa nella concretezza delle varie operazioni che avvengono nello spazio e nel tempo, per poi riconvergere verso la propria remota origine. Da ciò si evince che nell’autore latino non si è ancora in presenza di una triade ontologica configurabile nei termini di una netta e definita scansione tra essentia, virtus ed operatio, come 44 È l’uomo il primo beneficiario di tale dono; cfr. Marius Victorinus, Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3, 21, 1226BC, ed. Gori cit., p. 372, 22-25. Tuttavia – privilegio esclusivo dell’essere umano – da un punto di vista ontologico la spiritualizzazione viene ad implicare non solo il perfezionamento della propria sostanza originaria, ma addirittura il suo ‘innalzamento’; cfr. Id., Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1, 8, 1244AB, ed. Gori cit., p. 56, 10-16: «Igitur et cum angeli et daemones et materia et elementa et animae ceteraque huiusmodi omnia, quaeque sunt, habeant naturam suam, genere procreationis habent vim virtutemque et conditione sua manentia, animae tamen, quae utique et ipsae inter omnia vi sua valent, non in eo perseverant ut exstiterunt atque substantiam sortitae sunt, sed dei potentia in meliorem substantiam provehuntur et ex animis cum animae sint, spiritus fiunt». Su questo innalzamento ontologico in prospettiva escatologica cfr. R. Schiavolin, Non tamen in eo quod animae sunt iam spiritus sunt. Platonismo e cristianesimo nella soteriologia di Mario Vittorino, in Platone e il governo delle passioni. Studi per Linda Napolitano, a cura di F. Benoni - A. Stavru, Perugia 2021, pp. 439-453. 45 Cfr. Plato, Sophista, 254c-256d. Per l’intera questione cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., I, pp. 213-246 (tr. it. cit., pp. 185-214).
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LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO
avverrà a partire da Giamblico, ma di una rimodulazione originale e, se si vuole, piuttosto singolare di un rapporto sostanziale imperniato sulla dialettica tra potenza ed atto. L’accentuazione in esso della prospettiva escatologica, infine, denuncia l’influenza e soprattutto la preminenza che il pensiero cristiano ha esercitato nei confronti di un modo di ragionare tipicamente filosofico, ovvero quella forma mentis che Vittorino ebbe modo di praticare per lunghissimo tempo, e che in extrema senectute integrò abbracciando una religione che evidentemente gli seppe offrire orizzonti ulteriori e del tutto inopinati.
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RENATO DE FILIPPIS
LA TRIADE DELL’ESSERE IN GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
Se una delle esigenze fondamentali del sistema di Giovanni Scoto (810-877 ca.) è quella di «mettere in opera (…) una considerazione filosofica del divenire» 1, la dottrina della triade dell’essere, che egli con ogni probabilità deriva solo da Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore, essendogli precluso l’accesso diretto a tutte le altre fonti della teoria, assume un ruolo particolarmente rilevante 2. Come è noto, il primo ‘incontro’ con tale concezione avviene nelle traduzioni del Corpus Dionysianum 3, ma la sua compiuta 1 G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), [pp. 337-366], p. 343. Q uesto articolo di Giulio d’Onofrio è il primo che ha, in modo esplicito e filosoficamente consapevole, enucleato dagli scritti eriugeniani il tema della triade; ad esso dunque ci rifaremo in dettaglio nel corso della trattazione. 2 In passato, si è considerato che Giovanni Scoto fosse il traduttore latino di una delle possibili fonti della triade, le Solutiones ad Chosroem di Prisciano Lido, scolaro di Damascio, ospite del sovrano di Persia dopo la chiusura della Scuola di Atene. Cfr. M.-Th. d’Alverny, Les «Solutiones ad Chosroem» de Priscianus Lydus et Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie (Laon, 7-12 juillet 1975), a cura di R. Roques, Paris 1977 (Colloques internationaux, 561), pp. 145-160, in partic. p. 145 per le informazioni sull’attribuzione. Il dato resta controverso (nessuna delle prove avanzate dalla d’Alverny appare dirimente), ma le Solutiones, di fatto, non presentano la teoria della triade, perché utilizzano la sua terminologia solo nelle due coppie essentia-operatio e virtus-operatio, senza mai considerare i tre termini insieme (cfr. ibid., p. 157). 3 Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Versio operum sancti Dionysii Areopagitae, De caelesti Hierarchia, 11, PL 122, [1035-1069], 1059CD; Id., De divinis nominibus, 4, [1111-1171], 1142AB (per le corrispondenti opere dionisiane, si veda il saggio di E. S. Mainoldi in questo volume). Il commento della Expositio La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127961 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 321-341 ©
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problematizzazione si presenterà soltanto nell’opera maggiore. In quel gioco di scatole cinesi che è il Periphyseon, dove il filo principale del discorso è interrotto da numerose digressioni spesso collegate fra di loro, la prima menzione della triade è, tutto sommato, inattesa. Nel corso del libro I, Nutritor e Alumnus stanno discutendo dell’applicabilità delle dieci categorie a Dio, e si soffermano a lungo sulle complessità relative a quella del locus; si ravvisa così che una delle modalità di quest’ultimo, forse la più perfetta, è la diffinitio, se il locus stesso può essere definito «actionem intelligentis atque comprehendentis virtute intelligentiae ea quae comprehendere potest, sive sensibilia sint sive intellectu comprehensa» 4 – e dunque come qualcosa di incorporeo. Il discepolo chiede allora se ci sia coincidenza fra la natura dell’animo di chi definisce e la diffinitio che da esso viene elaborata: la domanda non è oziosa, perché se l’arte del definire è una parte della dialectica, e se ci fosse questa identificazione, quest’ultima e le arti liberali (oggetto della digressione appena precedente) sarebbero un accidente dell’uomo che le pensa 5. Negando tale possibilità, il maestro ricorda ex abrupto che per ogni natura rationabilis et al De caelesti Hierarchia non problematizza l’aspetto triadico, e rimanda piuttosto al Periphyseon. Cfr. Id., Expositiones in Ierarchiam coelestem, 11, 2, PL 122, 229C230B, ed. J. Barbet, Turnhout 1975 (CCCM, 31), p. 160, 78-100. Per i richiami a Massimo il Confessore e a Giovanni di Scitopoli si veda ancora il saggio di E. Mainoldi; cfr. anche d’Onofrio, «Inoperans gratia», pp. 348-349, note 26, 27, 28, 30 e 31. 4 Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [441-1022], 485D, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM 161-165), I, 1996, p. 61, 1857-1860. Nelle note successive si farà riferimento all’opera semplicemente come Periphyseon, senza indicazione dell’autore; seguiranno riferimento al libro, alle colonne della Patrologia Latina e quindi alle pagine e alle righe dell’edizione Jeauneau (ogni singolo volume – I, 1996; II, 1997; III, 1999; IV, 2000; V, 2003 – contiene un libro dell’opera). 5 Cfr. ibid., 486AB, p. 62, 1870-1883: «Alumnus. Nunc autem velim scire utrum aliud est natura animi definientis (id est omne quod ab eo intelligitur cognitionis loco comprehendentis) et aliud locus ipse seu diffinitio locati vel diffiniti. Nutritor. Nec hoc inquisitione indignum esse video; multi enim de hoc dubitant. Sed quoniam videmus aliud esse constitutas in anima liberales artes, aliud ipsam animam quae quasi quoddam subiectum est artium, artes vero veluti inseparabilia naturaliaque animae accidentia videntur esse, quid nos prohibet diffiniendi disciplinam inter artes ponere, adiungentes dialecticae, cuius proprietas est rerum omnium quae intelligi possunt naturas dividere, coniungere, discernere, propriosque locos unicuique distribuere? Atque ideo a sapientibus vera rerum contemplatio solet appellari».
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intellectualis si considerano «tria inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia», ovvero essentia, virtus e operatio, che secondo la testimonianza di Dionigi sono inseparabili fra di loro, immutabili, immortali «ac veluti unum». Le arti liberali sarebbero dunque non accidenti, ma «naturales virtutes et actiones» insite «naturaliter» nell’anima stessa, eterne come i tre elementi di quest’ultima, e relative alla sua operatio. Nam cum in omni rationabili intellectualique natura tria inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia considerentur, ΟYCIΑΝ dico et ΔYΝΑΜΙΝ EΝEΡΓΕΙΑΝque (hoc est essentiam, virtutem, operationem) – haec enim teste sancto Dionysio inseparabiliter sibimet adhaerent ac veluti unum sunt et nec augeri nec minui possunt, quoniam immortalia sunt atque immutabilia – num tibi verisimile videtur certaeque rationi conveniens omnes liberales disciplinas in ea parte, quae EΝEΡΓΕΙΑ (id est operatio) animae dicitur, aestimari? Siquidem a philosophis veraciter quaesitum repertumque est artes esse aeternas et semper immutabiliter animae adhaerere ita ut non quasi accidentia quaedam ipsius esse videantur, sed naturales virtutes actionesque nullo modo ab ea recedentes nec recedere valentes nec aliunde venientes sed naturaliter ei insitas, ita ut ambiguum sit utrum ipsae aeternitatem ei praestent quoniam aeternae sunt eique semper adhaereant ut aeterna sit, an ratione subiecti quod est anima artibus aeternitas administratur – ΟYCIΑ enim animae et virtus et actio aeternae sunt – an ita sibi invicem coadhaereant, dum omnes aeternae sint, ut a se invicem segregari non possint 6. 6 Ibid., 486BD, pp. 62, 1883 - 63, 1902, con la penetrante analisi di d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 351-354. Si osservi di sfuggita come anche le arti liberali, quali parti sostanziali della mente, costituiscano con quest’ultima e la peritia una ulteriore triade: cfr. Periphyseon, IV, 767CD, p. 39, 1040-1050. – Nel presentare la triade, Giovanni Scoto utilizza sempre il termine essentia, tranne per un singolo caso isolato nel terzo libro, che può ben essere una svista o una eccezione non significativa. Substantia, infatti, generalmente nel suo linguaggio indica ypostasis: cfr. C. Martello, Alle origini del lessico filosofico latino. «Ypostasis/ substantia» in Giovanni Scoto, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taor mina, Firenze 1994 (Lessico intellettuale europeo, 64), [pp. 169-184], p. 174; K. Trego, La subsistence des existants. La contribution de Jean Scot Érigène à la constitution d’un vocabulaire latin de l’être, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 6 (2008), pp. 143-179, in partic. pp. 154-157. È una significativa precisazione rispetto a Boezio e a parte della tradizione latina precedente, come
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Il discepolo approva il discorso, che però subito dopo torna sul provo a dimostrare in Essence and substance in Boethius: a matter of terminology, ibid., 18-19 (2020-2021), pp. 289-304. Ai fini di quest’articolo si possono invece considerare equivalenti e intercambiabili da una parte vis e virtus, e dall’altra actio e operatio. Dal canto proprio, lo stesso Giovanni Scoto (o al limite il suo entourage: per la difficile questione cfr. da ultimo l’eccellente ricognizione di E. S. Mainoldi, I problemi critici del «Periphyseon» di Giovanni Scoto Eriugena alla luce delle due recenti edizioni-traduzioni italiane, in «Studi medievali», IIIa S., 60.2 [2019], pp. 735-769, in partic. pp. 737-739, pp. 757-759) è ben consapevole della polisemia di virtus, come dimostra una glossa di i2 a un luogo del III libro. Cfr. Periphyseon, III, 632AB, p. 235 (testo espunto nell’edizione Jeauneau): «Sciendum quoque virtutem tripliciter intelligendam. Est enim virtus substantialis: omne namque quod subsistit naturali quadam trinitate subsistit, essentia, virtute, et operatione, de quibus in primo libro satis disputatum est. Secunda species virtutis est quae pugnat adversus corruptionem naturae, ut sanitas adversus aegritudinem, scientia et sapientia adversus ignorantiam et stultitiam. Tertia est quae opponitur malitiae, ut humilitas superbiae, castitas libidini. Q uae species in tantum patet, in quantum liberae voluntatis irrationabilis motus intellectualis naturae porrigitur». – Non può essere questo il luogo per una trattazione del significato di essentia in Giovanni Scoto; ci limiteremo quindi ad alcuni ragguagli, rimandando alle approfondite trattazioni di Ch. Erismann, «Generalis essentia». La théorie érigénienne de l’ousia et le problème des universaux, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 69 (2002), pp. 7-37, precisate poi in Id., L’homme commun. Le genèse du réalisme ontologique durant le haut Moyen Âge, Paris 2011, studi che in diversi punti propongono teorie differenti da quelle qui presentate; di P. E. Hochschild, Ousía in the «Categoriae decem» and the «Periphyseon» of John Scottus Eriugena, in Divine Creation in Ancient, Medieval, and Early Modern Thought. Essays Presented to the Rev’d Dr. Robert D. Crouse, a cura di M. Treschow - W. Otten - W. Hannam, Leiden 2007 (Brill’s Studies in Intellectual History, 151), pp. 213-222; e del contributo già citato di Kristell Trego. Da numerosi riferimenti contenuti nel Periphyseon, possiamo certamente derivare quanto segue: l’essentia è incomprensibile e immodificabile, dunque «nec moveri nec augeri nec minui potest» (Periphyseon, I, 476A, p. 49, 1450); non può essere definita, e dunque di essa si può dire soltanto quia est, non quid est (ibid., 487AB, p. 63, 1911-1926); è semplice ed eterna, dunque non accetta composizione con la materia (ibid., 489CD, p. 66, 2024-2030); non può essere corrotta (ibid., 490A, p. 66, 2030-2044); è termine sostanzialmente intercambiabile con natura/φύσις, per quanto più esattamente quest’ultimo vocabolo indichi le essenze nel loro essere create, e sottoposte allo spazio e al tempo (ibid., V, 866D-867B, pp. 11, 269 - 12, 298); può essere resa anche con il greco ὄν (ibid., 914CD, p. 78, 2473-2479). Per Hochschild, le fonti principali di questa dottrina sono Aristotele e le Categoriae decem pseudo-agostiniane (cfr. Hochschild, Ousía in the «Categoriae decem» cit., in partic. p. 213 – sull’influsso delle Categoriae decem cfr. anche d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 349-351). Differente è la conclusione di Erismann, che in un primo momento (nello studio del 2002) vede Giovanni Scoto usare (e contestare) i presupposti aristotelici per giungere a un esito neoplatonico radicale. Erismann riconosce chiaramente, nel Periphyseon, la duplicità boeziana nel caratterizzare il concetto di essentia; concentrandosi sul primo significato, la riconosce come genere generalissimo che si individua solo accidentalmente, diventando particolare e conoscibile nei soggetti
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problema del locus 7: la triade viene accantonata rapidamente così come era stata evocata, senza essere esattamente definita e presupponendo evidentemente che il lettore possa esserne già informato attraverso gli scritti dionisiani. Per comprendere allora cosa Giovanni Scoto intendesse esattamente con il concetto di triade ontologica, e in che modo se ne serva per il suo sistema metafisico, bisogna raccogliere gli indizi e gli elementi sparsi lungo tutto il Periphyseon e ricomporli in unità. L’impressione finale sarà che, per Giovanni, la triade sia – con le dovute proporzioni – quello che la teoria delle idee è per Platone: è fondamentale per la comprensione del suo pensiero, è presupposta a molti dei ragionamenti, ma non viene praticamente mai trattata in modo diretto e sistematico. I passi del Periphyseon che parlano della triade, in tutto una ventina, possono agevolmente essere divisi in due gruppi: il primo, e più nutrito, permette di comprendere cosa essa sia; il secondo, quali siano le sue funzioni e la sua utilità nel sistema eriugeniano. Fondamentale per una definizione della triade è allora la sua seconda e più articolata menzione, ancora nel libro I, quando essa viene nuovamente richiamata al termine della discussione sulle categoriae, nel corso della trattazione su agere e pati. Il maestro chiede al discepolo se colui che agisce, la possibilità di agire e l’agire effettivamente siano una o tre cose distinte: il discepolo si orienta per la seconda opzione, ritenendo che l’agens sia una substantia, e i due ulteriori elementi, invece, accidentia. Per dimostrargli il suo errore, il maestro richiama la tripartizione dionisiana, in cui i tre componenti sono in realtà una unità. (che la contengono intera ed identica), ma restando inconoscibile in sé. Tutto questo è inserito nel contesto di un realismo radicale in cui gli individui si distinguono soltanto per i loro accidenti. Nel volume L’homme commun, invece, lo studioso riconosce come molto più presente, nell’intero pensiero altomedievale, l’impostazione aristotelica: la dottrina eriugeniana dell’essenza nascerebbe sotto l’influenza di Porfirio e del suo tentativo di integrare la dottrina delle categorie in una metafisica neoplatonica (cfr. Erismann, L’homme commun cit., in partic. pp. 69-70, 79-80, 200-202). Ancora diversa la concezione di Kristell Trego, secondo la quale è la Patristica greca, filtrata da Mario Vittorino che già inizia ad adattarla all’universo mentale latino, a costituire l’ossatura del pensiero metafisico eriugeniano e del relativo vocabolario. 7 Cfr. Periphyseon, I, 486D-487A, p. 63, 1903-1906: «Huic rationi, quoniam vera est, nescio quis audeat reluctari. Nam quodcunque horum quis firmaverit, rationi non resistit. Ultimum tamen quod a te positum est verisimilius esse ceteris elucet. Sed ut ad eadem redeamus (…)».
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Nutritor. Recordarisne collectum conclusumque a nobis fuisse ΟYCIΑΝ, ΔYΝΑΜΙΝ, EΝEΡΓΕΙΑΝ (id est essentiam, ut saepe diximus, virtutem et operationem), trinitatem quandam inseparabilem incorruptibilemque nostrae naturae esse, quae sibi invicem mirabili naturae armonia coniuncta est, ut et tria unum sint et unum tria? Neque veluti diversae naturae sunt, sed unius atque eiusdem, non ut substantia eiusque accidentia, sed quaedam essentialis unitas substantialisque differentia trium in uno? Alumnus. Recordor, ac deinceps nunquam oblivioni tradam. Apertissimam namque conditoris imaginem oblivioni tradere stultissimum est atque miserrimum 8.
Rispetto al primo riferimento, la natura della triade è precisata in due aspetti fondamentali. Anzitutto, si puntualizza che i suoi tre elementi non hanno fra di loro un rapporto come quello fra sostanza e accidente, ma costituiscono piuttosto l’unitas essentialis e la differentia substantialis di tre cose in una: l’essenza non prevale, temporalmente e ontologicamente, sulla potenza e sull’azio ne 9. Inoltre, la triade costituisce una immagine del Creatore Ibid., 505C-506A, p. 88, 2727-2737. Nel linguaggio boeziano, la differentia substantialis è l’elemento che permette di distinguere con sicurezza una substantia da un’altra all’interno di uno stesso genere o nel confronto fra diverse specie. Si veda ad esempio Anicius Manlius Severinus Boethius, In Isagoges Porphyrii commenta, Editio secunda, II, De differentia, 116AC, ed. S. Brandt, Wien - Leipzig 1906 (CSEL, 48), pp. 240, 14 - 241, 9: «Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere, specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis substantialibus informantur. Nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam facit. Addita enim sensibilis qualitas animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quae virgulta sunt. Igitur homo atque arbor genere differunt – utraque enim sub animalis genere poni non possunt –, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate». Ne deriverebbe dunque che la differentia della triade rispetto alle altre substantiae sarebbe proprio quella di essere una unità di tre elementi. Non risulta però così chiaro di quale genere farebbe parte la triade stessa (quello delle substantiae in generale? Q uello delle triadi?) e in che cosa la triade si distinguerebbe, a questo punto, dalla Trinità divina (ma al riguardo cfr. infra). La rapidità dell’accenno lascia pensare che Giovanni Scoto non abbia approfondito il problema; esiste anche la possibilità che si tratti di una 8 9
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nell’uomo (su questo aspetto si tornerà più diffusamente nel libro II, dove si dice chiaramente che il Padre corrisponde all’essentia, il Figlio alla virtus e lo Spirito Santo all’operatio 10). Il discepolo però non è ancora del tutto convinto, perché la triade essentia – virtus – operatio gli sembra differente da quella agens – posse agere – agere (o da una qualunque altra triade in cui si possano trovare una sostanza e degli accidenti); egli si domanda dunque se «in natura rerum» possano reperirsi entrambe, e in quel caso quale sia la loro differentia 11. L’articolata risposta del maestro contiene altre informazioni fondamentali: Q uisquis enim dixerit essentialem trinitatem, essentiam scilicet, virtutem, operationem, inconcussam incorruptibilemque omnibus inesse et maxime rationabilibus intellectualibusque naturis a veritate, ut opinor, non recedit. Q uae trinitas in omnibus quibus inest nec augeri nec minui potest. Sequens vero trinitas veluti praecedentis trinitatis effectus quidam intelligitur esse. Non enim veritati obstrepat, ut aestimo, si dicamus ex ipsa essentia, quae una et universalis in omnibus creata est omnibusque communis atque ideo, quia omnium se participantium est, nullius propria dicitur esse singulorum se participantium, quandam propriam substantiam, quae nullius alicuius est nisi ipsius solummodo cuius est, naturali progressione manare. Cui etiam substantiae propria possibilitas inest, quae aliunde non assumitur nisi ex ipsa universali virtute ipsius praedictae universalis essentiae. Similiter de propria operatione specialissimae et substantiae et potestatis dicendum non aliunde descendere nisi ab ipsa universali operatione eiusdem universalis et essentiae et virtutis. Nec mirum si haec tria quae in singulis considerantur quasi quaedam accidentia espressione ridondante o di taglio retorico, volta a creare assonanza con «unitas essentialis», a voler designare soltanto, con linguaggio non tecnico, che la triade è una in οὐσία in tutti gli individui, i quali però sono naturalmente differenti gli uni dagli altri. Su questo difficile passaggio mi sono giovato di un confronto con Ernesto S. Mainoldi, che ringrazio anche per tutti i suoi altri suggerimenti. 10 Cfr. Periphyseon, II, 567A-568C, pp. 56-58, in partic. 567C-568B, p. 57, 1313-1320: «A. Hoc totum fides catholica universalis ecclesiae fatetur et, quantum datur, intelligit. Sed quorsum tendunt istac? N. Non aliorsum, nisi ut quaeramus pro viribus quomodo trinitas nostrae naturae Trinitatis creatricis imaginem et similitudinem exprimat, hoc est quid convenientius Patri, quid Filio, quid sancto Spiritui adiungendum. A. Nil mihi probabilius occurrit, quam ut Patris imaginem essentia, Filii virtus, Spiritus sancti operatio nostrae naturae accommodet». 11 Cfr. ibid., I, 506AB, pp. 88, 2740 - 89, 2750.
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praedictae universalis trinitatis dicantur esse primaeque apparitiones, quandoquidem ipsa per se unum sit et in omnibus quae ex ea et in ea existunt incommutabiliter permanet, nec augeri nec minui nec corrumpi nec perire potest. Haec vero quae specialissime in singulis considerantur augeri possunt et minui multipliciterque variari. Non enim omnes similiter participes sunt universalis essentiae et virtutis et operationis; alii enim plus, alii minus, nullus tamen participatione ipsius penitus privatur. Ipsa quoque in omnibus participantibus se una atque eadem permanet nullique ad participandum se plus aut minus adest, sicut lux oculis; tota enim in singulis est et in se ipsa. Augeri autem vel minui quidam defectus seu profectus est participationis, ideoque non irrationabiliter accidens esse iudicatur 12.
A differenza di quanto indicato in precedenza, stavolta la triade viene individuata in tutte le cose (omnibus inesse), «et maxime» nelle nature razionali e intellettuali: Giovanni Scoto non si deciderà mai su questo punto, stretto fra l’aspirazione a seguire Dionigi (che appunto limita la composizione triadica ad angeli e demoni) e la volontà, che del resto sarebbe maggiormente confacente al suo sistema, di estendere la triade a tutto il creato 13. Ma ancora più interessante è la distinzione fra la triade universale in sé, l’immutabile struttura ontologica ideale (contenuta, si può facilmente dedurre, nel Verbo divino), e le singole triadi che emanano (il verbo utilizzato è proprio il neoplatonico manare; più avanti si dirà procedere 14) dai suoi tre elementi, e che costituiscono di fatto «apparitiones» e «accidentia» di essa. Diversamente dal loro modello queste triadi, ‘calate’ nella mutevolezza spazio-temporale, possono variare nella loro partecipazione alla triade (pur tuttavia senza mai distaccarsi completamente da quest’ultima): è uno spunto importante anche per l’escatologia del V libro, perché permette, di fatto, l’allontanamento dei malvagi dal modello divino attraverso la realizzazione di operationes lontane da quella che dovrebbe essere l’essentia umana. Ibid., 506B-507A, p. 89, 2752-2782. Come dimostrano, in ogni caso, i saggi di questo volume dedicati al neoplatonismo, tale oscillazione e incertezza era già presente negli autori greci. La triade è, in ogni caso, di nuovo propria di tutte le nature ibid., II, 567A, p. 55, 1281-1285. 14 Cfr. infra, il testo citato alla nota successiva. 12 13
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LA TRIADE DELL’ESSERE IN GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
Poche righe più avanti troviamo infine l’unica, stringatissima, definizione della triade di tutto il Periphyseon, che apre subito ad altre considerazioni: N. Trinam rerum intelligentiam, hoc est essentiae, virtutis, operationis immutabilem subsistentiam firmumque fundamentum rerum a conditore omnium constitutum ponamus, si placet. A. Ponendum arbitror. N. Deinde illa trinitas, quae in singulis considerari potest, et a prima trinitate essentiali procedens, veluti praecedentis causae effectus eiusque primordiales motus quaedamque primordialia accidentia pensanda est, ut video. A. Hoc quoque fatendum. N. Q uicquid autem illis tribus sequentibus, sive interius sive exterius, sive naturaliter sive quibusdam evenientibus acciderit, veluti accidens accidentium fieri videtur. A. Huic etiam conclusioni non resisto 15.
Il maestro definisce chiaramente la triade come la subsistentia di tutte le cose: il termine, piuttosto raro in Giovanni Scoto, secondo Kristell Trego indica (con minime oscillazioni) le cose che esistono nel loro permanere e nel restare stabilmente ancorate all’essere 16. Ciò farebbe della triade il fondamento stesso delle cose esistenti, la base ontologica, eternamente e immutabilmente contenuta nel Verbo, dalla quale si sviluppano. Le varie triadi del creato derivano come un effetto deriva dalla propria causa, e non sono che accidenti della prima triade (e conseguentemente, ciò che accade ad esse è soltanto accidente di un accidente); nell’immediato prosieguo del discorso, il Maestro inserisce poi la triade nel contesto categoriale, dandole infine una valenza logica oltre che ontologica. Infatti gli «immutabilia fundamenta» di tutte Ibid., I, 507BD, p. 90, 2795-2807. In quest’ottica, il subsistere sarebbe qualcosa di più del semplice existere, e la subsistentia, per quanto accomunabile all’ ὕπαρξις greca, indicherebbe in particolare la dipendenza delle cose esistenti dalle loro essentiae eterne contenute nel Verbo: cfr. Trego, La subsistence des existants cit., in partic. pp. 168-170. La studiosa evidenzia chiaramente (ibid., pp. 170-173) come tale concezione sia in continuità con quella di Boezio, che considera subsistentia ogni ente che non ha bisogno di accidenti per sussistere, e che anzi può essere il loro sostrato. Q uesto senso corrisponde al greco οὐσίωσις, e Giovanni Scoto poteva derivarlo dalla trattazione di persona all’interno del Contra Eutychen et Nestorium. Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, Contra Eutychen et Nestorium, III, PL 64, [1337-1354], 1343D-1345B, ed. C. Moreschini, München - Leipzig 2000, pp. 214-219. 15 16
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le cose sono le ousiae/essentiae, che sussistono in una trinitas che è appunto costituita dalla stessa essentia, dalla virtus e dalla operatio; ma dato che l’essentia è anche, come è universalmente noto, la prima delle categoriae, e che gli ulteriori nove generi sommi sono tutti accidenti del primo, allora gli altri nove generi sussistono nella triade e sono anche suoi accidenti. In questo modo, la triade in sé si sottrae anche dal punto di vista logico allo spazio e al tempo, che nella gerarchia degli esseri si trovano rispetto ad essa in posizione subordinata. Nam cum sint secundum Aristotelem decem genera rerum, quae kategoriae (id est praedicamenta) dicuntur, et huic divisioni rerum in genera nullum Graecorum vel Latinorum obstare reperimus, sub uno genere omnes primas essentias, quas Graeci ΟYCIΑC appellant – merito quia per se sunt et nullius indigent ut sint; sic enim a conditore omnium veluti quaedam immutabilia fundamenta stabilitae sunt – conclusas esse videmus; et ad similitudinem principalis omnium causae mirabili incommutabilique sua trinitate subsistunt, hoc est, ut saepe iam dictum, essentia, virtute, operatione. Cetera vero novem genera accidentia esse dicuntur. Nec sine ratione; non enim per se, sed in praedicta essentiali trinitate subsistunt. Nam quod a Graecis locus et tempus appellantur, ΩΝ AΝΕΥ (hoc est sine quibus cetera esse non possunt) non ita intelligendum est ut inter ea quae sine loco et tempore non valent subsistere substantialis illa trinitas praedicta rerum computetur. Ea nanque loci temporisque auxilio ut subsistat non eget, dum per seipsam ante supraque tempus et locum conditionis suae dignitate existat 17.
I luoghi fin qui esaminati sono già sufficienti per delineare una dottrina complessiva della triade, subsistentia di tutto (o quasi) il creato, struttura logico-ontologica unitaria ma articolata in tre momenti simultanei, eterna e immutabile nella mente divina, in divenire nella creazione attraverso le sue manifestazioni accidentali. Ma Giovanni Scoto è ancora più preciso: la corrispondenza che lega la struttura triadica del reale alla Trinità si estende, a dimostrazione di un perfetto ordine cosmico, sia ai tre apparati conoscitivi dell’uomo, sia addirittura alla triade agostiniana Periphyseon, I, 507C-508A, pp. 90, 2807 - 91, 2825.
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esse – velle – scire; la corrispondenza è così esatta che, in relazione al parallelismo con intellectus, ratio e sensus interior, il discepolo può affermare che i due gruppi differiscono «solis nominibus», e non costituiscono «duas substantiales trinitates, sed unam eamdemque» 18 (ciò lascia anche supporre che la conoscenza della triade sia in buona misura conseguibile dagli esseri umani, dato che il loro intero apparato conoscitivo è come modellato su di essa). Analogamente, dalla tripartizione agostiniana la struttura ontologica si differenzia «in significationibus vocabulorum», e dunque non «iuxta rerum speculationem» 19. Chiarito che cosa sia la triade, diventa oltremodo interessante verificare come venga utilizzata nel pensiero eriugeniano: i richiami ad essa, spesso rapidi, ma sempre puntuali ed efficaci, attraversano tutto il Periphyseon, anche in punti cruciali. 18 Cfr. ibid., II, 570AC, pp. 60, 1386 - 61, 1399: «Et quid de praedicta trinitate naturae nostrae sentio pro ingenioli mei captu edisseram. Duae trinitates videntur esse, quibus nostra natura quantum ad imaginem Dei facta est probatur subsistere; sed consulta veritate non re ipsa sed solis nominibus a se invicem discrepare reperiuntur. Nam ΝΟYC et ΟYCΊΑ (hoc est intellectus et essentia) excelsissimam nostrae naturae partem significant. (…) Essentia enim animae nostrae est intellectus, qui universitati humanae naturae praesidet. ΛOΓΟC vero vel ΔYΝΑΜΙC (hoc est ratio vel virtus) secundam veluti partem insinuat. Tertia vero pars ΔΙΑΝΟIΑC et EΝΕΡΓΕIΑC (id est sensus et operationis) vocabulis denominatur. Ac per hoc non duas substantiales trinitates, sed unam eandemque ad similitudinem Creatoris sui conditam oportet nos intelligere». Il parallelismo fra triade ontologica e conoscitiva è evocato ancora ibid., IV, 807BC, pp. 93, 2780 - 94, 2797 e ibid., 825BC, p. 119, 3581-3591. 19 Cfr. ibid., V, 941D-942B, pp. 114, 3661 - 115, 3683: «N. Age itaque. Dic, quaeso, putasne illam humanitatem, inter quam et suum Creatorem nulla creatura intercluditur, unam quandam simplicem, inseparabilem, partitione in se ipsa carentem naturam subsistere? A. Non aliter existimo. Alioquin imago Dei non est eius qui unus et unitas inseparabilis est et una essentia in tribus substantiis, ad cuius imaginem trinitas quoque humanitatis intelligitur, quae est esse, velle, scire, ut sanctus Augustinus in libris Confessionum suarum disputat. Beatus autem Dionysius Areopagita eandem trinitatem essentiam, virtutem et operationem perdocet. Nec inter se dissonant, nisi in significationibus vocabulorum, neque hoc in omnibus. Ambo siquidem esse dicunt, unus autem velle, alter virtutem. Nec in hoc iuxta rerum speculationem inter se discrepant. Nulla enim naturalior et substantialior virtus est humanitatis quam bene velle. Unus item ait scire, alter operationem. Et quae est rationabilis naturae operatio, praeter seipsam et Deum suum (quantum datur sciri, quia superat omnem scientiam) scire? Haec namque est naturalis nostra operatio, quae non extra nos, sed intra nos constituta est. Q uid enim nosse appetimus, nisi causam nostram intra nos ineffabili providentia et ultra nos incomprehensibili virtute? Ac de his in superioribus libris satis inter nos est actum, ut arbitror».
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La triade ha anzitutto un certo ruolo nella definizione degli attributi divini e della stessa essentia divina. Nel secondo libro, il maestro presenta al discepolo assai turbato («valde me movet» 20) l’ignorantia che Dio ha di Se stesso, e ripercorrendo i caratteri della Sua infinità gli attribuisce essenza, potenza ed atto inesauribili, per quanto incomprensibili da parte umana 21. Ciò lascerebbe supporre che anche in Dio si trovi la triade, anche se questo assunto andrebbe non solo contro il basilare principio dell’unità e indivisibilità divine, ma anche contro i numerosi ed espliciti passaggi in cui Giovanni Scoto nega che il Creatore abbia una essentia 22. In realtà, come è noto, la questione è ancora più complessa: Dio è più volte considerato «essentia omnium» o «summa ac vera essentia», ed è la «participatio» a Lui che dona la stessa essentia alle creature 23; in più, un passo molto esplicito sembra creare un parallelismo esatto fra elementi della triade, parti dell’uomo e persone della Trinità. Nell’ambito della trattazione sulla seconda natura, il maestro riconosce infatti alla Trinità una sola operatio, ammettendo però che ci siano differentiae e proprietates di ciascuna persona 24; richiamando poi l’idea che l’uomo sia creato «ad imaginem et similitudinem Dei» (quanto all’anima, naturalmente, e non quanto al corpo), e che tutte le cose create (qui senza la limitazione alle nature razionali e intellettuali 25) sussistano nella triade, invita Ibid., II, 593C, p. 93, 2202. Cfr. ibid., 593BC, p. 93, 2193-2200: «Q uod enim infinitum est omni ratione et modo infinitum est: per essentiam, per virtutem, per operationem, per utrosque fines, sursum dico et deorsum, hoc est secundum principium et finem. Incapabile enim secundum essentiam, et inintelligibile secundum virtutem, et secundum operationem incircumscriptum, et sine principio desursum et sine fine deorsum est infinitum, et simpliciter dicendum ac verius per omnia infinitum». 22 Per porre solo due esempi: Dio è «superessentialis», il che significa è che «negatio essentiae», ibid., I, 462B, p. 31, 849-853; ibid., III, 681A, p. 88, 25492553, si dice invece che il Creatore, «supra omnem essentiam», appare «in omni essentia» creata, ovvero nelle theophaniae. 23 Cfr. rispettivamente ibid., I, 518A, p. 104, 3258-3264; III, 622C, p. 8, 650; 644A, p. 38, 1044-1046. 24 Cfr. ibid., II, 562C, p. 280, 2600-2605: «Q uanquam enim trium substantiarum divinae bonitatis una atque eadem communisque credatur et intelligatur esse operatio, nulla tamen differentia ac proprietate dicendum est carere». 25 Cfr. supra, alla nota 13. 20
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l’alumnus a indagare la corrispondenza tripartita fra uomo e Dio 26. Q uesta la sua risposta: A. Nil mihi probabilius occurrit, quam ut Patris imaginem essentia, Filii virtus, Spiritus sancti operatio nostrae naturae accommodet. Paterna siquidem substantia, quae de se substantiam filiolitatis genuit et processionis substantiam ex se emisit, non immerito principalis dicitur substantia. Non quod una essentia sit sanctae Trinitatis separabilis – est enim una atque individua – sed quod substantialibus differentiis, dum sit una, non careat. Est enim Deitas genitrix et Deitas genita et procedens Deitas, dum sit una Deitas individua, non tamen substantialibus differentiis indiscreta. Virtus quoque non incongrue Deo Filio adiungitur, quoniam saepe virtus Patris a theologia nominatur. Sed ut unum a pluribus testimoniis accipiamus, audi Apostolum: Invisibilia enim eius per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque eius virtus et aeternitas (Rm 1, 20). In hoc enim loco virtutem Patris sapientiam Patris intelligimus, aeternitatem vero Spiritum sanctum, teste Maximo venerabili magistro. Nam quod Spiritus sanctus virtutis nomine in Scripturis solet appellari, testatur Evangelium, Domino dicente, mulierem ΑIΜAPOYCAN (hoc est fluxum sanguinis patientem) sanans: Sensi a me exisse virtutem (Lc 8, 46), hoc est Spiritum sanctum, qui dividit dona sanitatum. Q uid dicam de operatione essentiali nostrae naturae? Nonne aptissime sancto Spiritui copulatur, cui veluti proprie operatio virtutum divinarumque donationum et universaliter et proprie unicuique divisio tribuitur? In naturae igitur nostrae essentia paternae substantiae, in virtute vero substantiae Filii, in operatione substantiae Spiritus sancti proprietas dignoscitur 27.
«Responsionem tuam a veritate non discrepare arbitror», approva il maestro, sancendo così una contraddizione apparentemente radicale 28. In realtà, è facile rendersi conto di come il problema non sussista.
Cfr. ibid., 567AD, pp. 56, 1287 - 57, 1318. Ibid., 568AD, pp. 57, 1319 - 58, 1344. Subito dopo queste affermazioni, viene poi instaurata la corrispondenza fra triade ontologica e triade gnoseologica di cui si è discusso supra, testo all’altezza della nota 18. 28 Ibid., 568D, p. 58, 1345. 26 27
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Il passo appena citato, infatti, non costruisce una corrispondenza esatta, ma parla piuttosto di rimandi fra proprietates e di un parallelismo dove sono chiamate in causa soltanto imagines; che ciascuna delle persone della Trinità abbia delle proprietates non è dato in discussione, ma è ancora più notevole osservare come, in Giovanni Scoto, il termine imago sia spesso usato tecnicamente a indicare una delle figure retoriche, quella che, per usare le parole del Rhetor ad Herennium, traccia una «formae cum forma cum quadam similitudine conlatio» 29. Il rimando appare dunque soltanto metaforico – e apre peraltro una possibile riflessione su quanto e come l’ars rhetorica sia presente nel tessuto del Periphyseon. Volendo scavare ancora più a fondo, in realtà la questione appare già risolta nel libro I, nel corso della lunga indagine sulla possibilità di applicare le dieci categorie a Dio. Il maestro è chiaro fin dal principio della discussione: di Dio potranno dirsi soltanto cose verisimiles, altro termine cruciale della teoria retorica latina; tutte le predicazioni potranno essere soltanto trans latae (termine che di per sé indica la metafora), perché Dio non è né un genere né una specie; e dunque, come viene detto alla fine della trattazione, del Creatore si può parlare solo «quadam similitudine aut dissimilitudine aut contrarietate aut oppositione» 30. Con buoni argomenti si può dunque sostenere che la triade non si trovi in Dio, del quale è dunque preservata l’assoluta unità; e che le (rare) occasioni in cui Giovanni Scoto la attribuisce al Creatore 29 [Cornificius], Rhetorica ad C. Herennium, IV, 49, 62, ed. G. Calboli, Bologna 1969 (Edizioni e saggi universitari di filologia classica, 11), p. 196. 30 Cfr. rispettivamente: Periphyseon, I, 458A, p. 26, 674-681: «De hoc negotio nescio quis breviter atque aperte potest dicere. Aut enim de huiusmodi causa per omnia tacendum est et simplicitati orthodoxae fidei committendum, nam exsuperat omnem intellectum, sicut scriptum est: Q ui solus habes immortalitatem, et lucem habitas inaccessibilem (1Tm 6, 16). Aut si quis de ea disputare coeperit, necessario multis modis multisque argumentationibus verisimile suadebit, duabus principalibus theologiae partibus utens» (…); 458C, p. 27, 699-705: «Sed prius considerandum, ut arbitror, cur praedicta nomina, essentiam dico, bonitatem, veritatem, iustitiam, sapientiam, ceteraque id genus, quae videntur non solum divina sed etiam divinissima esse, et nil aliud praeter illam ipsam divinam substantiam seu essentiam significare metaphorica fieri, id est a creatura ad Creatorem translata, praedictus sanctissimus pater atque theologus pronuntiarit»; 510D, p. 95, 29502955. Per una classica definizione della metafora cfr. ancora [Cornificius], Rhetorica ad C. Herennium, IV, 34, 45, ed. Calboli cit., p. 184: «Translatio est, cum verbum in quandam rem transferetur ex alia re, quod propter similitudinem recte videbitur posse transferri».
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vadano intese soltanto come metafore. In questo, dunque, il filosofo carolingio non si discosta dalla tradizione neoplatonica alla quale indirettamente fa riferimento, la quale aveva come caposaldo l’idea che le ἀρχαί siano indissolubilmente unitarie 31. La triade ha però, come in parte si è già visto, un ruolo cruciale nel disegnare la natura dell’uomo. Naturalmente l’anima ha una articolazione triadica, come viene ampiamente dimostrato nel IV libro, all’interno del cosiddetto Esamerone eriugeniano, nello specifico nella trattazione dedicata al quinto giorno della creazione 32. Dividendo il concetto di vita – ritenuto pressoché coincidente con quello di anima 33 – nelle sue quattro differenze intellectualis, rationalis, sensualis ed insensualis, il maestro osserva che tutte sono presenti nell’uomo, che in quanto tale è «creaturarum omnium officina» 34; tuttavia, essenza, potenza e attività dell’anima sono una soltanto, per quanto essa si articoli in modalità differenti che svolgono, ciascuna, specifiche e determinate mansioni. Et ne dicas: si ergo omnis species vitae in homine est, non unam sed multas et a se differentes vitas continet, habens irrationalem et rationalem, sensualem simul et germinalem. Intuere diligentius humanae animae potentias, quae, dum sit unius eiusdemque subsistentiae et virtutis et operationis in omnibus simul corporibus humanis et generaliter et in singulis specialiter, cunctos tamen vitales motus administrationesque in corpore suo intra seu extra potest peragere. Siquidem ultra corporeos sensus et ratiocinatur et intelligit, ut angelica vita; in sensibus corporeis sentiendi vim exercet similitudine irrationabilium, suam rationabilitatem non deserens; nutrit et auget corpus suum, ut illa quae sensu caret herbasque ac ligna penetrat. Ubique in se ipsa tota et in omnibus tota totos sensus suos custodit 35.
A partire da un nucleo essenziale e immutabile, dunque, l’anima si articola in funzioni e motus vitales che agiscono effettivamente 31 Si vedano, in questo stesso volume, in partic. i saggi di M. Abbate e I. Grimaldi. 32 Sull’Esamerone cfr. la rapida ed efficace sintesi di G. d’Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena, in Storia della teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I: I principi, [pp. 243-303], pp. 277-281. 33 Cfr. Periphyseon, III, 732CD, p. 163, 4756-4766. 34 Ibid., 733B, p. 163, 4786-4877. 35 Ibid., 733C-734A, p. 164, 4808-4822.
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sulla realtà: e così l’uomo comprende e conosce a differenti livelli, sente, ma anche si nutre e cresce, operando senza mutare la propria essenza. Incidentalmente, tutto ciò permette a Giovanni Scoto anche di confutare la dottrina, per lui incomprensibile, che vuole mortale l’anima degli animali: alla spiegazione logica (tutte le anime fanno parte dello stesso genere, e la dissoluzione di una delle specie, ad esempio quella irrazionale, porterebbe alla dissoluzione del genere stesso) egli affianca quindi quella ontologica (se il genere ‘anima’ ha una sostanzialità, e tutte le sue specie sono dotate dell’articolazione triadica, che è immutabile e incorruttibile, non ci si può attendere che il genere si corrompa o perisca) 36. Come pure si è già accennato, la triade ha, in relazione all’uomo, anche un importante ruolo conoscitivo. Nella trattazione sul locus dalla quale sono partite queste riflessioni, e a fronte di una ulteriore menzione della incorruttibilità e inseparabilità di essentia, virtus e operatio, il discepolo chiede un esempio che illustri la natura dei tre componenti 37. La scelta del maestro non è certamente casuale: N. Nulla natura sive rationalis sive intellectualis est, quae ignoret se esse, quamvis nesciat quid sit. A. Hoc non ambigo. N. Dum ergo dico ‘intelligo me esse’, nonne in hoc uno verbo quod est ‘intelligo’ tria significo a se inseparabilia? Nam et me esse, et posse intelligere me esse, et intelligere me esse demonstro. Num vides uno verbo et meam OYCIAN meamque virtutem et actionem significari? Non enim intelligerem si non essem; neque intelligerem si virtute intelligentiae carerem; nec illa virtus in me silet sed in operationem intelligendi prorumpit. A. Verum et verisimile 38.
Cfr. ibid., 738AB, p. 170, 5009-5025. Cfr. ibid., I, 490AB, pp. 66, 2044 - 67, 2049: «N. Haec enim tria in omni creatura sive corporea sive incorporea, ut ipse [scil. Dionysius Areopagita] certissimis argumentationibus edocet, incorruptibilia sunt et inseparabilia: OYCIA, ut saepe diximus, ΔΙNAMIC, EΝΕΡΓΕIΑ (hoc est essentia, virtus, operatio naturalis). A. Horum trium exemplum posco». 38 Ibid., 490B, p. 67, 2050-2060. In questo passaggio, così come ibid., V, 881A, p. 31, 930-931 citato infra, e ibid., 915C, 3430-3431, pur senza riferimento specifico alla triade, Giovanni Scoto usa il sintagma «operatio naturalis». È facile supporre come l’aggettivo voglia specificare la natura effettiva, sul creato visibile, del dispiegamento dell’actio. 36 37
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Il maestro spiega che ogni natura rationalis o intellectualis (dunque, angeli e uomini) sa di essere e può dunque dire, in questa basilare consapevolezza, ‘intelligo me esse’. Ma in questo intelligo sono compresi tre elementi inseparabili: l’uomo infatti non solo sa di essere, ma anche di poter comprendere di essere, e può attualizzare consapevolmente («demonstro») tale cognizione. In queste poche righe, triade e processo gnoseologico si affiancano e quasi si sovrappongono: ogni uomo è per essenza, comprende per la virtù dell’intelligenza, e tale virtù si esprime nella fattuale operazione di comprendere, atto che appare possibile proprio in funzione della triplice articolazione ontologica dei soggetti di conoscenza. L’ordine triadico del cosmo, insomma, si esprime anche nel processo triadico dell’acquisizione del sapere; in questo parallelismo, è credibile intravedere nuovamente la possibilità, per l’uomo, di conoscere la vera natura delle cose, nella stabilità delle loro essenze, al di là dell’apparenza fenomenica 39. Altro luogo d’elezione, nel Periphyseon, nel quale la triade è fattivamente utilizzata per dare ragione della struttura del reale, ancora una volta in relazione all’ambito delle arti liberali, è il discorso sull’aritmetica nel libro III. Maestro e discepolo si trovano subito d’accordo sul fatto che la monade contiene in sé eternamente tutti i numeri, che sono infiniti come la monade stessa; da essa procedono la diade e la triade, che sono l’origine del pari e del dispari (da cui derivano a loro volta tutti gli altri numeri) 40. La trattazione si sposta poi sull’origine dei numeri: per il Nutritor, essi – ed è qui che interviene, in una delle sue metamorfosi, la terminologia della triade – «vi et potestate» sono eterni nella monade, «actu et opere» sono creati. Nella loro idealità, insomma, essi permangono «in sapientia et scientia aeternaliter», ma come tutti gli altri modelli sono contemporaneamente creati, e ciò permette che la loro potenzialità possa dispiegarsi attualmente nel reale. N. Omnes numeros causaliter (hoc est vi et potestate) in monade semper esse non dubitamus. A. Hinc dubitare minus est intelligentium. N. Monada autem in sapientia et scientia Cfr. d’Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena cit., pp. 273-274. Cfr. Periphyseon, III, 651A-654B, pp. 47, 1350 - 52, 1444. Per questa sezione cfr. d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 358-359. 39 40
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aeternaliter subsistere intelligis, ut arbitror. A. Si aliter sentio, ab ipsius monadis vera cognitione alienus sum. N. Non alios reris, ut opinor, numeros in monade vi et potestate constitutos, et alios actu et opere in genera et species intelligibilium numerorum, sed eosdem profluentes. A. Non alios, eosdem vero, sed aliter. N. Dic, quaeso, quomodo aliter. A. In monade quidem vi et potestate, in generibus vero et formis actu et opere 41.
Per quanto qui Giovanni Scoto stia operando ulteriori distinzioni (fra vis e potestas da una parte, e actio ed opus dall’altra), non è difficile riconoscere qui il contesto triadico: i numeri in sé, attraverso passaggi intermedi, ‘transitano’ dal mondo ideale a quello reale mantenendo intatta la loro essenza. Infatti, come viene chiarito nel prosieguo della discussione, la vis dei numeri è la loro virtus, in funzione della quale esistono nella monade; la potes tas è la possibilità con la quale possono moltiplicarsi nei generi e nelle specie; l’actus è il moto dell’animo con cui si può contemplare, unicamente in modo intellettuale e nella memoria, il modo in cui i numeri possono moltiplicarsi dalla monade; l’opus, che si intende stare per operatio, è invece l’azione dell’anima attraverso la quale si comprendono e in qualche modo si ‘riconoscono’ con i sensi i numeri, rivestiti della materia 42. Grazie alla struttura triadica, dunque, è possibile comprendere come qualcosa di eterno si esprima nella infinita dispersione del reale, senza mutare se stesso: e i numeri sono un caso eclatante, perché sono essi, in certo modo, a creare e regolare la realtà 43. Il quarto e fondamentale punto in cui la triade è strumento perfetto al servizio del sistema eriugeniano è, come non è difficile
Periphyseon, III, 657AB, p. 56, 1576-1589. Cfr. ibid., 657B-659A, pp. 56, 1590 - 58, 1651. 43 Si veda l’interessantissimo spunto ibid., 651D-652A, p. 49, 1373-1383: «Siquidem non solum aliarum trium metheseos sequentium se partium (hoc est geometriae, musicae, astrologiae) immobile subsistit fundamentum primordialis que causa atque principium, verum etiam omnium rerum visibilium et invisibilium infinita multitudo iuxta regulas numerorum, quas arithmetica contemplatur, substantiam accipit, teste primo ipsius artis repertore Pithagora summo philosopho, qui intellectuales numeros substantias rerum omnium visibilium et invisibilium esse certis rationibus affirmat. Nec hoc scriptura sancta denegat, quae ait omnia in mensura et numero et pondere (Sap 11, 21) facta esse». 41 42
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intuire, la teoria del reditus 44. Giovanni Scoto deve infatti dimostrare come tutto il reale torni al Creatore mantenendo le proprie specificità, ma contemporaneamente riunendosi a Lui in perfetta unità: nulla più che la dialettica di essentia, virtus e operatio poteva illustrare tale ‘impossibile’ composizione. Introducendo il difficile concetto dell’adunatio di tutte le sostanze, in cui le inferiori saranno comprese nelle superiori, le corporee nelle spirituali, e infine tutte in Dio, il Nutritor risolve i ‘risibili’ dubbi dell’Alum nus proprio attraverso un cristallino riferimento alla triade: se i suoi tre elementi sono unitari ma contemporaneamente distinti, nessun problema ci sarà (in una silenziosa applicazione del topos a comparatione 45) a una unificazione del creato che salvi le differenze dei singoli. N. Cur te talia movent multum admiror, cum tibi, prout potui, suaserim intelligibilium naturarum adunationem fieri posse sine cumulo et compositione, proprietatibus observatis et incommutabiliter manentibus. Tria etenim sunt, quae in omni substantia sive corporibus adhaerente sive omni corpore absoluta (si tamen aliqua substantia est praeter Deum, quae sive intelligibili sive sensibili corpore careat) incommutabilia et inconversibilia permanent, ut in prioribus libris multipliciter perdocuimus: essentia, virtus, et naturalis operatio. Nunquid haec tria unum sunt, et non unum compositum, sed simplicissimum unum et inseparabilis unitas? 44 Seguiamo qui in generale l’impostazione di G. d’Onofrio, «Cuius esse est non posse esse»: la quarta «species» della natura eriugeniana tra logica, metafisica e gnoseologia, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and his Time. Proceedings of the Tenth International Conference of the Society for the Promotion of Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30), pp. 367-412. Cfr. anche Id., «Inoperans gratia» cit., pp. 360-362, e L. M. Harrington, Eastern and Western Psychological Triads in Eriugena’s Realized Eschatology, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena cit., pp. 447-462. 45 Cfr. G. d’Onofrio, «Fons scientiae». La dialettica nell’Occidente tardoantico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo, 31), p. 266: «L’argumentum a comparatione, ultimo degli argomenti inerenti alla cosa, è diviso in tre gradi diversi, a seconda che si tratti di una comparatio maiorum, di una comparatio minorum o infine di una comparatio parium. Cicerone ne offre una classificazione molto particolareggiata, il cui scopo è quello di mostrare tutte le forme di confronto possibile tra realtà della stessa natura, diverse tra loro per numero, forma, intensità ecc.».
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RENATO DE FILIPPIS
Horum enim nullum sine altero esse potest, quoniam unius eiusdemque substantiae sunt, et tamen ratione consulta nonnulla differentia discernuntur. Aliud est enim esse, aliud posse aliquid efficere, aliud ipse effectus. Aliud est arbori esse, aliud posse aliquid crescere, aliud crescere. Aliud homini est esse, aliud posse intelligere, aliud intelligere quod potest intelligere. Et haec tria omni creaturae visibili et invisibili inesse dubium non est 46.
Indirettamente la triade giunge addirittura a salvare e giustificare l’escatologia eriugeniana: nel permanere del singolare nell’universale, meriti e colpe degli individui potranno certamente essere considerati e giudicati come tali. Tuttavia, come viene più avanti illustrato, volontà di peccare e superbia non entreranno a far parte della quarta natura: né l’una né l’altra, infatti, sono essentia, virtus o operatio, perché, nel contesto agostiniano-neoplatonico in cui Giovanni Scoto si muove, il male non ha consistenza ontologica 47. La certezza che nulla, nella quarta natura, perderà i propri caratteri, sta pure nella considerazione che le essenze non sono passibili di corruzione: e anche per giustificare questo assunto, il maestro ricorre in due rapidi passaggi, ancora del V libro, alla dottrina triadica. La creazione in tutte le sue forme, infatti, è buona, e di conseguenza «nullum bonum aequale sibi bonum corrumpere appetit, dum eiusdem virtutis sint et operations et essentiae» 48. Tanto più questo accadrà nel reditus; nel punto cruciale in cui il maestro sconfessa l’esistenza di supplizi corporali eterni, si ribadisce che nessun patimento materiale potrà toccare la «ipsius (…) naturae trinitatem (quae est essentia, virtus, operatio)» 49. Ricollegandosi poi strettamente a Dionigi, Giovanni Scoto completa il quadro spiegando che neanche il male compiuto dai demoni, Periphyseon, V, 881AB, p. 31, 922-940. Si noti qui come torni, nell’esempio che riguarda l’uomo, la dimensione intellegibile che ben si adatta alla triade. Altri esempi che vengono aggiunti nelle righe immediatamente successive sono la differenza delle specie nei generi, la singolarità dei punti che costituiscono una linea e, nuovamente, i numeri che sussistono nella monade ma si esplicano nella realtà. 47 Cfr. ibid., 944A, p. 117, 3761-3767. Si noti che, in base allo stesso principio, è possibile inferire – per quanto Giovanni Scoto non lo dica direttamente – che anche la materia, non essendo dotata di essentia, sia priva della triade. Cfr. ibid., I, 479BC, p. 53, 1583-1595. 48 Ibid., V, 956C, p. 135, 4354-4356. 49 Ibid., 939B, p. 111, 3565-3566. 46
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che non sono malvagi per natura, potrà intaccare la loro essenza o natura, triadicamente incorruttibile 50. Alla luce di tali evidenze testuali, è possibile affermare che la triade, in Giovanni Scoto, diventa un principio strutturale della creazione 51; presente in tutti gli aspetti di quest’ultima, permette non soltanto la giustificazione del divenire delle cose nella permanenza dell’essere, ma getta lumi sulla natura dell’uomo, sulla struttura ordinata del cosmo, sul destino escatologico delle cose. Ma non basta: nella sua corrispondenza con le strutture conoscitive degli esseri razionali, lega in un armonico rapporto uomo e Dio. Conoscendo il mondo, l’uomo riconosce la triade, e in questo modo si avvicina al Creatore: essa «diventa così principio di riconoscimento da parte delle creature intelligenti tanto della verità eterna delle cose create nella mente di Dio, quanto della concretizzazione fattuale di tale verità divina nelle cose create» 52. Se forse è eccessivo dire, allora, che Giovanni Scoto ha basato il proprio sistema sulla triade dell’essere, si può però certamente affermare che essa non è, nel suo pensiero, una dottrina secondaria o un corollario scarsamente operante, ma al contrario un elemento vivo e centrale, in grado di spiegare punti nodali della sua metafisica. Forse anche per questo essa è riconosciuta fra i massimi beni dell’uomo, quelli che occupano la sedes principalis della nostra natura: Sed notandum neminem summis naturae nostrae bonis male uti valere. Naturalis siquidem virtus essentia, virtute et operatione nullum sinit abuti, sicut neque sapientia et intellectu et ratione, quoniam haec sunt quae principalem naturae nostrae possident sedem 53.
50 Cfr. ibid., 933A-934B, pp. 102, 3251 - 104, 3302, e i riferimenti supra, alla nota 47. 51 Cfr. Harrington, Eastern and Western Psychological Triads cit., pp. 449-450. 52 d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., p. 352. 53 Periphyseon, V, 975C, 7716-7724.
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ANTONIO SORDILLO
LA TRIADE DELL’ESSERE DA EIRICO DI AUXERRE A EGIDIO ROMANO Alter ab altero, et uterque unum; non duo unus, sed alius in alio, quia non aliud in utroque. Hilarius Pictaviensis, De Trinitate, III, 4. Dasein ist Pflicht, und wars ein Augenblick. J. W. Goethe, Faust, II, 9418.
Negli esametri prefatori al libro VI della sua Vita di San Germano Eirico di Auxerre (841-876) illustra le ragioni di una perfetta corrispondenza tra Creatore e creazione a partire dalla loro comune struttura triadica, per cui nella trinitas di ogni ente (costituita da οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια), senza la quale non vi sarebbe alcuna natura, si riflette fedelmente la Trinitas divina. Tale corrispondenza è rimarcata anche a proposito della triade delle facoltà dell’anima (νοῦς, λόγος e διάνοια), a sua volta immagine di Dio: O clemens Trinitas, nostrae quoque fons trinitatis. Nam tribus omne subest: Οὐσίαν, δύναμιν dicunt, ἐνέργιαν atque; Q uis sine, nulla φύσις. Est etiam trinitas animae contermina nostrae, Q ua fit imago Dei: Νοῦς haec, atque λόγος, etiam διάνοια vocatur, Hanc quoque tu tribuis 1.
A fugare ogni dubbio circa l’utilizzo di una terminologia più o meno eriugeniana da parte del maestro di Auxerre interviene lo scoliaste 2 dell’attuale ms. Paris, Bibliothèque Nationale, 1 Heiricus Antissiodorensis, Vita sancti Germani episcopi Antissiodorensis, VI, PL 124, [1131-1208], 1194D-1195A, ed. L. Traube, in Poetae latini aevi Carolini, III, ed. L. Traube, Berlin 1886 (MGH, Poetae Latini Medii Aevi, 3), p. 501. 2 La timida opinione di Traube è che Eirico redasse personalmente l’attuale ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 13757 o, con buona probabilità, ne curò la redazione. Cfr. L. Traube, Prooemium, ibid., [pp. 421-426], p. 425. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127962 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 343-364 ©
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lat. 13757, il quale, oltre ad arginare la mania di Eirico per le parole greche, di cui la Vita è disseminata 3, fornendo la traduzione supra lineam della seconda triade in essentia, virtus e operatio, aggiunge, a margine, un testo esplicativo che riprende il Periphyseon di Giovanni Scoto: In omni natura rationabili intellectalique tria haec inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia considerantur. Horum exemplum. Nulla natura, sive rationabilis seu intellectualis, est, quae ignorat se esse, quamvis nesciat, quid sit. Dum ergo dico: ‘Intellego me esse’, nonne in hoc uno verbo, quod est intellego, tria significo a se inseparabilia? Nam et me esse et posse et intelligere me esse demonstro. Non enim intelligerem, si non essem; neque intelligerem, si virtute intellegentiae carerem; nec illa virtus in me silet, sed foras in operationem intellegendi prorumpit 4.
Prendendo in prestito l’esempio onto-epistemologico dall’Eriu gena, lo scoliaste dimostra qui l’assoluta incorruttibilità e inseparabilità di essenza, potenza e atto: nel pronunciare, infatti, l’espressione «intellego me esse», la significatività della parola intellego, spiega, racchiude sia l’essenza (me esse), sia la potenza (posse me esse), sia l’atto stesso del comprendere (intelligere me esse). Dunque la capacità di comprendere prescinde da qualcuno che comprenda, e l’atto stesso della comprensione non avrebbe ragion d’essere senza la sua potenzialità, la quale, a sua volta, erompe nell’atto dell’intellezione. Tuttavia, da studi più recenti è emerso che, pur non trattandosi della mano di Eirico, tale manoscritto poteva essere appartenuto a Eirico stesso. Cfr. G. Billanovich, Dall’antica Ravenna alle biblioteche umanistiche, in «Aevum», 3 (1956), [pp. 319-353], p. 336 (e in «Annuario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», aa.aa. 1955-56/1956-57, [pp. 73-107] p. 90), e, soprattutto, É. Jeauneau, Heiric d’Auxerre disciple de Jean Scot, in L’École carolingienne d’Auxerre, de Murethach a Remi 830-908. Entretiens d’Auxerre 1989, éd. par D. Iogna-Prat C. Jeudy - G. Lobrichon, Paris 1991 [pp. 353-370], p. 357. 3 Secondo quanto sostenuto da Jeauneau, probabilmente Eirico non conosceva il greco, ma si è limitato a trascriverne delle parole, tutte attinte dal vocabolario eriugeniano, comprese quelle relative alla triade οὐσία, δύναμις e ἐνέργεια. Cfr. ibid., pp. 358-360. 4 Ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 13757, f. 70v. Per il riferimento al Periphyseon, cfr. Johannes Scotus Eriugena, Periphyseon, I, 48, PL 122, [440-1022], 490AB, ed. É. A. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, 1996, pp. 66, 2044 - 67, 2059.
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Lo scolio chiarisce pertanto come i tre momenti della triade corrispondano, in Giovanni Scoto come in Eirico, suo intelligente discepolo 5, all’essere di ogni creatura, alla loro potenzialità di essere, divenire o agire e all’attualizzazione di tale potenzialità. Se, dunque, i meccanismi epistemologici che stanno alla base dello scolio intendono chiarire le dinamiche che portano all’atto del comprendere, lo fanno in ragione di una corrispondenza biunivoca che è instaurata ab origine tra la realtà di tutto ciò che è e non è (la natura in senso eriugeniano) e la struttura epistemologica stessa dell’anima. È quindi questa la ragione della necessità di una esplicazione a margine del folio: nella descrizione del processo di ascesa di san Germano dallo stato mortale alla vera patria, passando per tutti gli stadi gnoseo-ontologici del reditus, Eirico avverte la necessità di illustrare la struttura del reale. Nel fare ciò, non può non servirsi del vocabolario eriugeniano, di cui la Vita è intrisa e, nello specifico, è la struttura triadica di essentia, virtus e operatio, che è insita nell’anima quale specchio della Trinità divina, a costituire, quindi, l’imprescindibile scheletro della natura 6. Una ulteriore conferma della conoscenza della triade da parte di Eirico è data da un suo commento a un passo del Categoriae decem 7. Anche in questo caso i concetti di potenza e atto non vengono concepiti come semplici modi dell’essere o sue manifestazioni, ma come componenti complementari della natura in senso 5 Jeauneau definisce l’eriugenismo di Eirico profondamente assimilato, tutt’altro che superficiale. Cfr. É. Jeauneau, Les écoles de Laon et d’Auxerre, in La scuola nell’Occidente Latino dell’Alto Medioevo, XIX Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 15-21 aprile 1971), 2 voll., Spoleto 1972, II, [pp. 495-522], pp. 511-520. 6 Sulla triade dell’essere in Giovanni Scoto e le sue fonti neoplatoniche si rimanda, oltre che agli altri contributi contenuti nel presente volume, a G. d’Ono frio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. 7 Si tratta di una parafrasi del iii-iv secolo poco fedele al testo aristotelico che la tradizione manoscritta ha falsamente attribuito ad Agostino e che rappresenta una, se non l’unica fonte attraverso cui Giovanni Scoto ha conosciuto il trattato aristotelico. In generale, e per il passo commentato da Eirico, cfr. Pseudo-Augustinus, Paraphrasis Themistiana (Categoriae decem), 103, ed. L. Minio-Paluello, Brugge - Paris 1961 (AL, I, 1-5), p. 156, 15-18.
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eriugeniano 8. Ciò apre l’indagine a un’ulteriore possibilità che la scuola di Auxerre (e, più in generale, l’alto Medioevo) possa aver assorbito i concetti di potenza e atto intesi in questa chiave neoplatonica, rinvenendoli nel corpus di opere di logica di quel periodo 9. Eirico di Auxerre consegna dunque ai secoli successivi una traccia significativa della triade dell’essere οὐσία οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια, letta in chiave gnoseologica sulla scorta dell’insegnamento di Giovanni Scoto. Sorprende allora il dato della scomparsa della triade fino al secolo dodicesimo, il che lascia supporre che essa attraversi i secoli centrali del Medioevo percorrendo sentieri sotterranei 10. Diverso è il discorso per Ugo di San Vittore 8 Cfr. Heiricus Antissiodorensis, Commentum super Augustini Categoriae decem, ed. (parz.) in J. Marenbon, From the Circle of Alcuin to the School of Auxerre, Cambridge 1981 (Cambridge studies in medieval life and thought. III ser., 15), p. 192: «Tria sunt in omni re: usia, dinamis, energia. Usia quidem ipsum est esse. Dinamis virtus et potentia naturalis, qui inest omni usyae, sicut etiam in ipsis cernitur elementis. Utpote lapis difficile per naturalem potentiam secatur, nec facile redintegratur; aqua e contra facile quidem divisionem recipit, nec minus integritatem e vestigio recipit. Energia tertio sequitur, id est operatio, quia post scibile cui inest scientia, id est dinamis, ei subsequatur operatio, dum scientia ipsa percipitur ab aliquo». 9 Per esempio, in un Commento all’opera di Marziano Capella è Remigio di Auxerre (841-908) a riutilizzare le nozioni di potenza e atto riguardo la qualità del lottatore, propria del suo corpo già in potenza anche prima della sua manifestazione in età adulta. Cfr. Remigius Antissiodorensis, Commentum in Martianum Capellam, IV, 171, ed. C. E. Lutz, 2 voll., Leiden 1962-1965, II, p. 38, 2-8. Sulla diffusione del corpus logico in epoca carolingia, cfr. L. Minio Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica: la seconda fase della riscoperta di Aristotele e di Boezio, in La scuola nell’Occidente Latino cit., II, pp. 743-766 e 841-845; G. d’Onofrio, «Fons scientiae». La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo, 31), pp. 3-22. Cfr., inoltre, Id., «Inoperans gratia» cit., pp. 349-350, alla nota 32. 10 Un caso singolare è rappresentato dalla monaca Rosvita di Gandersheim (935-974 ca.) che, nell’Epistola eiusdem ad quosdam sapientes huius libri fautores, prefatoria ad alcuni suoi dialoghi drammatici, si serve dei concetti di potenza e atto, utilizzando un linguaggio erudito, ma pur sempre come semplice espediente retorico, per manifestare la propria riconoscenza nei confronti di Dio per averle fatto dono della capacità di apprendere; tuttavia, in quanto essere creato, finito, la conoscenza del vero da parte della monaca non potrà che essere sempre potenziale (per dynamin), non potendo mai giungere a un perfetto e compiuto (per energian) possesso della Verità. Cfr. Hrotsvitha Gandeshemensis, Epistola eiusdem ad quosdam sapientes huius libri fautores, PL 137, [973-974], 974C: «Unde non denego praestante gratia Creatoris per dynamin me artes scire, quia sum animal capax disciplinae, sed per energian fateor omnino nescire». D’ora in poi, tutti i corsivi nei testi latini citati saranno miei. Per un commento a questo passo di Rosvita, cfr. G. d’Onofrio, Sapientia terrena e philosophia coelestis tra decadenza
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(1096-1141) che ritrova la triade nella sua indagine sul De coelesti hierarchia dello pseudo-Dionigi. Di fatto Ugo si limita a un commento dell’opera, ma sembra non trovare congeniale al suo discorso la struttura triadica dell’essere, sulla quale sorvola: Omnes enim divini intellectus in tria dividuntur, non inter se, alius scilicet ad alium, sed unusquisque secundum se, sive in se, supermundana ratione, id est spirituali. Q uod enim dividuntur non fit ex consideratione partium, ubi non simplicitas essentiae, sed spiritualis est discretio, ubi non totum in partes, sed natura discernitur in proprietates. Postea subiungit, in quae tria unusquisque spiritus in se dividatur, scilicet in essentiam et virtutem et operationem. In omni enim spiritu haec tria sunt. Primum essentia, in qua subsistit; deinde virtus, secundum quam valet; deinde operatio per quam efficit 11.
Ogni intelletto divino, spiega Ugo riprendendo le parole dello pseudo-Dionigi, si divide in tre, per mezzo di una supermundana ratio che interviene nella divisione non tra un intelletto e l’altro, ma internamente; non con una partitio che opera distinguendo le singole parti dalla totalità, ma mediante una spiritualis discretio simile a quella per la quale una data natura si distingue nelle sue proprietà. E continua, constatando la presenza in ciascuno spirito della triade essentia, virtus e operatio, intese appunto come le proprietà che costituiscono l’organizzazione interna di ciascun intelletto: l’essentia è ciò che permette allo spirito di sussistere e detiene un primato logico e ontologico; seguono la virtus, secondo cui lo spirito valet, ovvero è in potenza di fare qualcosa, ha la capacità di e renovatio dell’impero (875-1030 ca.), in Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I: I principi, [pp. 339-389], pp. 361-362. – Sulla tradizione dell’eriugenismo nelle scuole medievali, cfr. Id., Die Überlieferung der dialektischen Lehre Eriugenas in den hochmittelalterlichen Schulen (9.-11. Jh.), in Eriugena redivivus. Zur Wirkungsgeschichte seines Denkens im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit, Vorträge des V. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Werner-Reimers-Stiftung, Bad Homburg, 26.-30. August 1985), Heidelberg 1987, pp. 47-76. 11 Hugo de Sancto Victore, Commentarium in Hierarchiam coelestem, IX, xi, 2, PL 175 [923-1154C], 1106CD, ed. D. Poirel, Turnhout 2015 (CCCM, 178) p. 654, 59-68. Il passo commentato è in CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22 - 42, 2. Lo stesso passo è tradotto e commentato in Johannes Scotus Eriugena, Versio operum sancti Dionysii Areopagintae de caelesti Hierarchia, 11, PL 122 [10231194C], 1059CD; Id., Expositiones in Hierarchiam coelestem, 11, 2, PL 122 [125266B], 229C-230B, ed. J. Barbet, Turnhout 1975 (CCCM, 31), p. 160, 78-100.
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farla, e l’operatio, attraverso cui lo spirito efficit, ovvero ciò per cui la potenzialità giunge a compimento, si attualizza. Nel passaggio analizzato, i termini intellectus e spiritus, pur non avendo evidentemente lo stesso senso, sono intesi come sinonimi per approssimazione, in ragione del contesto che li vede entrambi designanti gli angeli, definiti pressoché indistintamente intelletti, spiriti, virtù o essenze (celesti). Un indizio significativo, inoltre, che potrebbe suggerire una scelta decisa di Ugo nel preferire la lezione originaria dello pseudo-Dionigi a quella del Commento di Giovanni Scoto sta nel ruolo giocato dal concetto di supermundana ratio. Nelle Expositiones in Hierarchiam coelestem infatti l’Eriugena interpreta la triade in senso antropologico, senza ricorrere all’impianto pseudo-dionisiano teso tra immanenza e trascendenza 12; diversamente, Ugo è più fedele allo pseudo-Areopagita, collocando la triade essentia, virtus e operatio nella sola sfera sovramondana e declinando il termine essentia come, appunto, sinonimo di intelletto angelico 13. D’altra parte, l’obiettivo della stesura del Commento all’opera dello pseudo-Dionigi nasce, in Ugo, da un’esigenza mossa dai suoi allievi di San Vittore, che lo richiedono per scopi didattici. La cifra pedagogica del commento di Ugo, dunque, se da una parte rifiuta ogni ambizione filosofica, dall’altra fa del suo testo materiale di studio, un testo per così dire ibrido tra la profondità delle Expositiones di Giovanni Scoto e le minute glosse di Atanasio Bibliotecario 14. 12 Cfr. ibid., 11, 2, 230B, p. 160, 100-103. Sulla presa di distanza dell’Eriugena dallo pseudo-Areopagita, rispetto a questo passaggio, cfr. d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 348-351. 13 Per un commento più dettagliato sulla questione, cfr. ibid., p. 351. 14 Una sintetica panoramica dell’uso delle fonti di Ugo di San Vittore per il suo Commento allo pseudo-Dionigi e sul suo particolare tipo di commento è proposta in D. Poirel, Avant-propos, in Hugo de Sancto Victore, Commentarium in Hierarchiam coelestem, ed. Poirel cit., pp. 14-17. Invece, sulla predominante figura dello pseudo-Dionigi presso la scuola di San Vittore e in particolare in Ugo, cfr. Id., Des symboles et des anges. Hugues de Saint-Victor et le réveil dionysien du xiie siècle, Turnhout 2013 (Bibliotheca Victorina, 23); E. S. Mainoldi, «Immediate viam facimus». La teologia dionisiana al bivio dell’interpretazione di Ugo di S. Vittore, in Ugo di San Vittore. Atti del XLVII Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 2010), Spoleto 2011 (Atti dei convegni del Centro italiano di studi sul basso Medioevo-Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale. N. S., 24, Convegni, 47), pp. 153-172.
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Nel commentare puntualmente lo pseudo-Dionigi, dunque, Ugo non si mostra troppo originale, ma consegna la triade del l’essere alle generazioni a lui successive. Solo qualche anno dopo, in effetti, la triade dell’essere riappare in un sermone per la seconda domenica di quaresima, sotto la piuma di Isacco della Stella (1120 ca.-1169), che la utilizza come strumento per l’edificazione della sua ecclesiologia. Q ui l’abate cistercense Isacco, infatti, costruisce il classico parallelo tra il corpo umano e il corpo mistico di Cristo, la Chiesa, che evidentemente attinge da Paolo 15, indicando come il ruolo e la posizione di ogni membro all’interno della Chiesa sia da intendersi come quello di ciascun membro del corpo umano: in entrambi è il meccanismo divino della predestinazione ad agire nella scelta, ma ciò non comporta l’annichilimento dell’attività o della libertà umana 16. E dunque, specifica Isacco, come nel corpo umano vi è una sola anima, ovunque presente interamente per la sua essentia, tuttavia in maniera differente per virtutem et operationem, così nella Chiesa vi è un solo spirito che unifica tutto, ma in maniera differente secondo operatio, officium e gratia: Sicut etiam cum una sit in hominis corpore anima, tota ubique per essentiam, differenter tamen per virtutem et operationem, similiter in Ecclesia unus in omnibus spiritus, differenter tamen operatione, officio, et gratia 17.
In Isacco la presenza della triade dell’essere testimonia inequivocabilmente la sua aperta accoglienza in area monastica, nella abituale struttura che prevede l’elemento sussistente dell’essentia (desumibile dal tota ubique), distinto (differenter tamen) dalle dinamiche di potenza e atto. Se, tuttavia, la triade essentia, virtus e operatio appare spesso in maniera cursoria nei chiostri nel secolo xii, al punto da ren15 Cfr. per esempio 1Cor 12, 12: «Sicut enim corpus unum est et membra habet multa, omnia autem membra corporis, cum sint multa, unum corpus sunt, ita et Christus»; Gal 3, 28: «Non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos unus estis in Christo Iesu». 16 Cfr. Isaac de Stella, Sermones, XXXIV, PL 194, [1689-1876A], 1800C1806A, edd. A. Hoste - G. Raciti, 3 voll., Paris 1967-1987 (SC 130, 207, 339), II, 1974, pp. 232-255. 17 Ibid., 1801D, p. 238.
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dere lecito l’interrogativo circa il grado di ricezione della stessa in ambiente monastico, in un autore appartenente alla generazione appena successiva a quella di Isacco, Ugo Eteriano da Pisa (11151182), sembra assumere connotati più rilevanti. Le ragioni vanno forse ricercate nella biografia del diplomatico pisano, prossimo, per ideologia, agli ultimi allievi della scuola di Gilberto di Poitiers e a cui di certo era familiare il milieu culturale greco, in quanto, insieme al fratello Leone Toscano, fu legato pontificio a Costantinopoli e consigliere per le questioni teologiche dell’imperatore Manuele I Comneno. Q uesti fattori causali che, da una parte, permisero a Ugo Eteriano di compiere i propri studi nelle arti liberali presso le scuole parigine del suo tempo, e dall’altra, di apprendere la lingua greca, dandogli la possibilità di recepire testi classici e patristici non ancora tradotti nell’Occidente latino, gli offrirono gli strumenti per la stesura di uno dei più esaustivi trattati controversistici sulla dottrina del Filioque, il De processione Spiritus sancti (o De sancto et immortali Deo), redatto in greco e latino intorno al 1176 proprio a Costantinopoli, ma giunto a noi soltanto nella sua traduzione latina 18. In questo trattato la triade dell’essere, questa volta declinata secondo i lemmi di substantia, virtus e actio, si presenta come uno degli argomenti centrali al fine di esporre e dirimere la questione dottrinale relativa alla processio dello Spirito Santo dal Padre congiuntamente al Figlio, a differenza della formula trinitaria greca, monopatrista. Scrive Ugo: Persona est substantia rationalis, quae per suas proprietates singularis potest intelligi, ut Pater per generationem, Filius per nativitatem, sanctus vero Spiritus per processionem. Per horum similia, quae singulis personis connecti possunt singulariter, substantia vero eorum et natura simplex est et uniformis. Unum sunt natura, et eiusdem substantiae, tres personae Sulla vicenda biografica di Ugo Eteriano, cfr. A. Dondaine, Hugues Étérien et Léon Toscan, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge» 28 (1953), pp. 78-93; D. Vero, Un teologo latino a Costantinopoli nel secolo xii. Ugo Eteriano da Pisa, Roma 1982. Su Ugo teologo e le sue fonti, cfr. R. Q uinto, Trivium e teologia: l’organizzazione scolastica nella seconda metà del secolo dodicesimo e i maestri della sacra pagina, in Storia della Teologia nel Medioevo cit., II, pp. [435-468], pp. 455-456; e soprattutto G. d’Onofrio, Q uando la metafisica tornò in Occidente. Ugo Eteriano e la nascita della theologia, in «Aquinas» 55.1-2 (2012), pp. 67-106. 18
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utputa simplices. Composita enim non unum natura dicuntur, etsi unum numero existant. Etenim mundus est compositus sic ex differentibus naturis, non unus videtur natura, sed unus numero (…). Non unum modum et incomplicabilem tantum, sed unicam naturam, personarumque significando differentiam. Nam divinum natura unum, sed non personis. Q uomodo ergo in supradicta conclusione, quae dicit: ‘Si non est ex uno solo Patre Spiritus, sed ex Filio’, non ergo idem unum accipere unum, si dicit Spiritum non esse idem unum Patri et Filio, manifestum est inconveniens, quia idem unum sunt per substantiam et per naturam? Q uod si dicere intendit, non esse unam personam eumdem Spiritum, eo quod ex duabus prodeat personis, et hoc a veritate omnino remotum est. Nam ex duobus luminibus tertium provenit, duobus nequaquam imminutis, rursus ex substantia et virtute actio progreditur, ex vena et fonte fluvius emanat, ex Patre et Filio Spiritus mittitur 19.
La definizione boeziana di persona come sostanza individuale di natura razionale 20 permette a Ugo di chiarire fin da subito la questione relativa alle persone della Trinità, che vengono distinte in base alle loro proprietà singole (l’atto generativo per il Padre, la nascita per il Figlio, la processione per lo Spirito Santo): benché singolarmente le persone siano connesse, la loro substantia ha natura semplice ed uniforme, per cui, nell’esempio di Ugo, come il mondo è uno per numero sebbene in esso vi siano differenti nature, così nella Trinità vi sono persone differenti che tuttavia costituiscono l’unità della natura divina, la quale è però una e unica per numero, non per distinzione delle persone. Di conseguenza, il diplomatico pisano si interroga sulla necessità logicoontologica che lo Spirito Santo costituisca unità, per sostanza e per natura, con il Padre e il Figlio, pur nella pluralità delle persone. Infatti come da due luci proviene una terza senza per questo generare una diminuzione nelle due, come dalla substantia e dalla virtus procede l’actio, come dalla sorgente e dal ruscello si genera 19 Hugo Eterianus, De sancto et immortali Deo, PL 202, I, 11, [227A369D], 250AC. L’edizione del Migne, carente in alcuni punti, mi ha obbligato a delle correzioni sulla punteggiatura. 20 Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, Contra Eutychen et Nestorium, V, 3, PL 64, [1337-1354], 1343CD, ed. C. Moreschini, Leipzig 2000, p. 214, 171-172: «[Persona est] naturae rationalis individua substantia».
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il fiume, così necessariamente dal Padre e dal Figlio si diffonde lo Spirito Santo 21. Già dunque nel primo libro del De sancto et immortali Deo Ugo Eteriano si fa carico della costruzione di prove e sillogismi volti a segnalare la verità delle posizioni addotte dai Latini e l’errore insito nella formula greca. Il serrato confronto tra le due dottrine si dipana per tutto il primo libro, in cui l’abilità del teologo si fonde a quella del dialettico, che segnala la correttezza delle deduzioni sillogistiche al fine di ammettere l’opportunità del Filioque. Nel caso in analisi, deve essere necessariamente ammessa l’unità indissolubile, circolare e dinamica tra le persone divine, così come chiarito dall’esempio delle luci e da quello fluviale, ma soprattutto dalla struttura logica stessa della triade substantia, virtus e actio 22. Se però le argomentazioni del primo libro del De sancto et immortali Deo sono condotte seguendo le regole della dialettica, nel secondo la riflessione di Ugo si sposta sul versante metafisico relativo alla veridicità delle nozioni sulle res divine già esposte. E così la triade ricompare nella stessa struttura, ancora una volta in rapporto alle persone della Trinità divina: Actio a substantia ex qua progreditur tertia existens, a virtute quae substantiae censetur effectus, ut absque medio ex illa prosiliens secunda est: qua virtus dignitate, ut virtute substantia, ex qua procedit prior est. Ex quo satis liquere potest, quod sicut substantia virtutis, virtus vero actionis causa est simplex et individua perseverans, ita Pater Filii, Filius vero Spiritus causa est simplex existens et indivisibilis. Sciendum vero quod quidam actionem distinguentis, dupliciter aiunt eam etiam et circa Patrem Filii et Filium considerari: et unam quidem dicunt assistricem, nec prodeuntem extrinsecus, secundum 21 Una delle prime attestazioni dell’individuazione dell’operatio come attività eternamente operante di Dio (Provvidenza) in ambiente latino è data da Giovanni Scoto che, nel Periphyseon, la mutua dalle Q uaestiones ad Thalassium di Massimo il Confessore. Diversamente da Ugo Eteriano, tuttavia, in Massimo non vi è una relazione binaria tra i termini della triade dell’essere e le persone della Trinità. Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones ad Thalassium, 2, PG 90, [241-786B], 269D-272B, edd. C. Laga - C. Steel, 2 voll., Turnhout - Leuven 1980 (CCSG, 7 e 22), versione eriugeniana, I, p. 50, 2, 15. Cfr., inoltre d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 344-346. 22 Probabilmente la conoscenza della triade di Ugo proviene dal De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi (DN IV, 23, 724C-725A, pp. 170, 12 - 171, 7). Cfr. d’Onofrio, Q uando la metafisica cit., pp. 73-74.
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quam genitor genitusque similiter et eodem modo Spiritum emittunt. Aliam vero attribuunt naturae, quae tres pariter comitatur personas secundum quam quae ab ipsis personis aliena existunt, ex nihilo Pater, Filius, Spiritusque sanctus condunt et faciunt. Si ergo ex substantia virtus provenit, ex virtute vero procedit actio. Nec ideo virtus duo, vel aliquod duplex est: multo amplius de Patre, qui sine principio est, virtus exit, Filius scilicet, ex quo, ut ex Patre, Spiritus sancti emanatio profluit 23.
La struttura trinitaria divina è comparata a quella della triade substantia, virtus e actio nei termini di una chiarificazione della dottrina del Filioque: come, infatti, sussiste un rapporto di causalità diretta tra la substantia e la virtus e, di conseguenza, tra la virtus e l’actio, allo stesso modo il Padre è causa semplice e indivisibile del Figlio e il Figlio lo è dello Spirito Santo. Tuttavia, prosegue Ugo, ogni actio va considerata duplicemente anche in rapporto alle persone della Trinità, per cui, come dal genitore e dal generato allo stesso modo e in maniera simile scaturisce lo Spirito, così logicamente non possono esservi due virtutes, poiché la potenza si ha a partire dalla sostanza e l’atto procede dalla potenza. Q uindi, dal momento che non può esservi atto senza potenza, ma la potenza, per sussistere, necessita della sostanza, la Trinità viene disarticolata a partire da questi tre elementi, nella biunivocità della corrispondenza che vuole il Padre, senza principio, associato alla sostanza, il Figlio alla potenza e lo Spirito all’atto. La presenza della triade dell’essere, attestata in Ugo Eteriano, resta dunque l’ultima stazione di un percorso che, nel secolo dodicesimo, tenta di conservarsi e trasmettersi, seppur con fatica. Probabilmente la cifra cosmopolita della sua vicenda biografica è ciò che ha costituito la differenza rispetto ad altri autori contemporanei che, portavoci di un eriugenismo più scialbo e scolorito, non hanno avuto piena contezza della portata filosofica della triade dell’essere, ma a cui si devono ad ogni modo riconoscere meriti pionieristici. È questo, ad esempio, il caso di Ugo di San Vittore, il cui carattere enciclopedico, se non gli consente di penetrare nei dettagli di una teologia così articolata come quella dello pseudoDionigi, ha tuttavia il pregio di aprirne la strada allo studio. Hugo Eterianus, De sancto et immortali Deo, II, 5, PL 202, 287D-288B.
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Sull’esempio del grande Commento al corpus delle opere dello pseudo-Dionigi di Ugo, Tommaso Gallo (1200-1246), canonico regolare dell’ordine di San Vittore, ultimo baluardo dei grandi maestri vittorini, recepisce gli insegnamenti spirituali del maestro e fondatore della scuola e li annette alla teologia mistica aeropagitica, che assimila perfettamente, risultando secondo in questo solo a Giovanni Scoto 24. L’attività esegetica sul corpus pseudo-dionisiano di Tommaso Gallo è in effetti notevole e si articola in tre momenti fondamentali: alla preliminare compilazione di glosse al testo (quelle sul De coelesti hierarchia risalgono al 1224 e sono ancora inedite 25; altre sul De mystica Theologia furono redatte circa dieci anni dopo 26) segue, nel 1238, quella che egli stesso definisce Extractio 27, ovvero una sorta di riscrittura più accessibile dell’intero corpus, una parafrasi ragionata che prende a modello la versione latina di Giovanni Saraceno, comparandola a quella di Giovanni Cfr. D. Poirel - P. Sicard, Figure vittorine: Riccardo, Acardo e Tommaso, in Figure del Pensiero Medievale. Storia della teologia e della filosofia dalla tarda Antichità alle soglie dell’Umanesimo, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, 6 voll., Milano 2008-2010, II, La fioritura della dialettica. x-xii secolo, 2008 (Di Fronte e Attraverso, 819), [pp. 459-537], pp. 518-519. Sulla vita di Tommaso Gallo, inoltre, cfr. soprattutto M. Capellino, Tommaso di San Vittore abate vercellese, Vercelli 1978; Id., Tommaso il primo abate di S. Andrea, Vercelli 1982. Sul fil rouge che lega i commentari allo pseudo-Dionigi di Giovanni Scoto e Tommaso Gallo, cfr. J. McEvoy, John Scottus Eriugena and Thomas Gallus, commentators on the ‘Mystical Theology’, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and his Time. Proceedings of the Tenth International Conference of the Society for the Promotion of Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30); Id., Thomas Gallus, Abbas Vercellensis and the Commentary on the «De mystica theologia» ascribed to Iohannes Scottus Eriugena. With a concluding note on the Second Latin Reception of the Pseudo-Dionysius (1230-1250), in Traditions of Platonism: essays in honour of John Dillon, ed. by J. J. Cleary, Aldershot 1999, pp. 389-405. 25 Cfr. Thomas Gallus, Glossae in Hierarchiam caelestem pseudo-Dionysii, ms. Paris, Bibliothéque Mazarine, 715. 26 Cfr. Poirel - Sicard, Figure vittorine cit., p. 524. 27 Cfr. Thomas Gallus, Extractio operum pseudo-Dionysii, in Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués à Denys l’Aréopagite, ed. Ph. Chevallier, 2 voll., Paris 1937, I, pp. 673-717 e 1043-1066. Sono giunte a noi anche le glosse al De divinis nominibus: cfr. Id., Glossae in Nomina diniva pseudo-Dionysii, in Mystical Theology. The Glosses by Thomas Gallus and the Commentary of Robert Grosseteste on «De mystica Theologia», ed. J. McEvoy, Leuven - Paris - Dudley 2003 (Dallas Medieval Texts and Translations, 3), pp. 3-54. 24
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Scoto e correggendole entrambe, laddove necessario, eliminando ciò che ritiene superfluo e inserendo spiegazioni più o meno dettagliate, a seconda del caso. Negli ultimi anni della sua vita (12411243), infine, redige un grande Commento a tutto il corpus, ricco di glosse e di rimandi scritturali, che chiama Explanatio 28. In ragione delle numerose ma ripetitive occorrenze della triade dell’essere in Tommaso Gallo, appare forse più funzionale una diretta disamina dell’Explanatio, dalla quale emerge meglio e più nitidamente l’impronta personale dell’autore, rispetto all’Extractio, dove il rischio di sovrapposizioni fra il testo pseudo-dionisiano e quello del Vittorino è più alto. E dunque, nell’Explanatio de divinis nominibus Tommaso interviene sulla traduzione di Giovanni Saraceno, smembrandola della sua originaria costruzione e apponendo a più riprese aggiunte chiarificatrici. In una precisa descrizione della fisica pseudo-dionisiana, la processione dall’Essere bello e buono che sorpassa ogni movimento o stato è indicata come direttamente causata, conservata e avente come fine l’Essere bello e buono stesso. Nella dettagliata enumerazione che segue di tutto ciò che procede da Lui e in Lui termina, compaiono la sostanza, l’intelligenza, la vita, grandezze, molteplicità, ogni rapporto tra le parti, ogni elemento, ogni scienza: la triade substantia, virtus e operatio, che in Giovanni Saraceno (e nello pseudoDionigi) sembra quasi confondersi nella ricchezza e nella complessità dei dettagli della creazione, in Tommaso Gallo viene aperta e analizzata nella sua dinamicità. Tutto ciò che procede dall’Essere buono e bello deve pertanto tornare all’Essere buono e bello, deve raggiungere cioè la sua terminatio finalis o perfectio; per questo ogni ente creaturale è ora scisso secondo la triade in ciò Le Explanationes Hierarchiae caelestis, Hierarchiae ecclesiasticae e Nominum divinorum, contenute nei mss. Oxford, Merton College, 69 e Wien, Österreichischen Nationalbibliothek, 695, sono state edite di recente da Lawell: cfr. Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii, ed. D. A. Lawell, Turnout 2011 (CCCM, 223), mentre l’Explanatio sulla mystica Theologia è pubblicata in Id., Kommentar zu Mystischen Theologie und andere Schriften, ed. J. Vahlkampf, Dollnstein 2000 (Theologia Patrum, Schriften zur Mystischen Theologie), pp. 1-45. Infine, l’Explanatio delle epistulae dello pseudo-Dionigi si trova, sempre edita da Vahlkampf, ibid., pp. 53-68. – Sul metodo di Tommaso Gallo commentatore dello pseudoDionigi, cfr. D. A. Lawell, Thomas Gallus’s method as Dionysian commentator: a study of the «Glose super Angelica Ierarchia» (1224), with considerations on the «Expositio librorum beati Dionysii», in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 76.1 (2009), pp. 89-117. 28
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che sussiste, nella potenza di ciò che sussiste e nell’attuazione della potenza di ciò che sussiste 29. L’universo del Vittorino, allora, sembra essere caratterizzato da una tensione perennemente finalistica di tutte le creature, sovrapponibile al reditus eriugeniano, che sono in qualche modo obbligate dalla loro stessa natura a compiere un totale recupero della primigenia coincidenza degli elementi di sostanza, potenza e atto, venuta meno in seguito alla Caduta. Più avanti, Tommaso Gallo interviene in una delle dimostrazioni pseudo-dionisiane sulla negazione della sussistenza ontologica del male, il quale non può provenire dalla causa del tutto, Dio, ma si caratterizza in senso relativo come assenza di bene. Secondo lo pseudo-Dionigi per questa ragione neanche i demoni possono essere considerati malvagi per natura, né verso se stessi, né verso gli altri, poiché, se lo fossero verso se stessi sarebbero autodistruttivi, se invece lo fossero verso gli altri potrebbero distruggerne la sostanza, la potenza o l’azione. Ciò tuttavia non è possibile, perché la distruzione della sostanza non può essere mai completa, ma avviene soltanto in ragione di una deviazione dall’ordine naturale, per cui non si può parlare di distruzione, ma tutt’al più di corruzione della natura, e lo stesso vale per la potenza e l’atto 30. L’idea che il male non sia sostanziale, dunque, si lega al dato dell’impos29 Cfr. Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii. De divinis nominibus, ed. Lawell cit., IV, pp. 224, 1111 - 226, 1144: «et sensibilium trium motionum, id est motus recti, circularis et obliqui, in hoc omni, id est in hac rerum sensibilium universitate, pulcrum et bonum est causa ut isti motus sint contenti, et contentiva ut perseverent, et finis ut perficiantur (…). propter q uod pulcrum et bonum est omnis statio, etc., ex q uo ut causa, in q uo conservante, ad q uod tendens, cuius gratia, propter quod. ex ipso fontali omnium causa, per ipsum omnia facientem, est et substantia et vita omnis et mentis, quantum ad celestes intelligentias, et anime rationalis vel sensibilis vel vegetabilis, et omnis nature in quibuscumque animatis vel inanimatis. Et ex ipso sunt omnes rerum distantie, concordie, proportiones, sive relative sive absolute (…). Unde sequitur: omnis infinitas, omnis finis, rerum terminatio finalis vel perfectio; substantia, virtus ipsius substantie, operatio per substantie virtutem, et simpliciter generaliter omne existens est ex pulcro et bono causaliter, et in pulcro et bono exemplariter (…). et convertitur ad pulcrum et bonum tamquam causam finalem». D’ora in poi il maiuscoletto indicherà il testo del De divinis nominibus nella traduzione latina di Giovanni Saraceno. 30 Cfr. DN IV, 23, 724C-725A, pp. 170, 12 - 171, 7. Vale la pena notare come questo specifico passo dello pseudo-Dionigi sia lo stesso commentato da Giovanni Scoto, ma lo si ritrova anche nello scolio alla Vita Sancti Germani di Eirico di Auxerre e in Ugo Eteriano.
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sibilità che la corruzione nelle creature demoniache sia naturale. Di conseguenza, il peccato non corrompe l’unità nella sostanza di ciascun demone, né ne intacca l’aspetto potenziale, né quello attuale. La natura degli angeli corrotti, dunque, dal momento che essi sono comunque creature di Dio, è sempre di per sé buona, per cui la corruzione conseguente al peccato incide soltanto sull’accidentalità delle creature e mai sulla loro sostanzialità 31. Se pure volessimo ridimensionare, facendone un grave torto, l’opera del Vittorino a un mero ma scrupolosissimo e minuzioso lavoro di cesello, essa avrebbe comunque il merito di traghettare la lezione dello pseudo-Dionigi nel secolo xiii. Di fatto, l’Extractio di Tommaso Gallo entrerà in breve tempo a far parte del Corpus Dionysianum dell’Università di Parigi, aggiungendosi alla traduzione di Giovanni Scoto con gli apparati di Atanasio il Bibliotecario (le sue glosse, gli Scholia di Massimo il Confessore e Giovanni di Scitopoli) e alla translatio nova di Giovanni Saraceno 32. Sebbene, inoltre, quasi contemporaneamente a Tommaso Gallo, anche Roberto Grossatesta realizzerà un notevole Commentario completo al Corpus di scritti dello pseudo-Dionigi 33, questo non avrà grande circolazione oltre la Oxford francescana, mentre la versione parigina sarà utilizzata, per esempio, da Alberto Magno 31 Per il lungo commento del Vittorino si rimanda a Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii. De divinis nominibus, ed. Lawell cit., IV, pp. 287, 2738 290, 2803. Tommaso ritrova la triade dell’essere anche commentando il De caelesti hierarchia, in cui si afferma che ogni intelligenza angelica è divisa in substantia, virtus e operatio. Ciò permette di sciogliere il dubbio circa il corretto utilizzo del termine virtutes (δυνάμεις) nelle Scritture per designare tutte le schiere angeliche, benché, nella distinzione dello pseudo-Dionigi, le Potenze o Virtù siano gli angeli del quinto ordine gerarchico. Pertanto, poiché la costituzione in οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια comune a tutte le intelligenze angeliche consente, per analogia (περιϕραστικῶς), di definirle Essenze, allo stesso modo esse possono essere dette anche correttamente Potenze o Virtù. Cfr. Id., Explanatio in libros Dionysii super angelica hierarchia, 11, ibid., p. 644, 33-47. Il passo commentato è CH XI, 2, 284D-285A, pp. 41, 20 - 42, 12. 32 Cfr. H. F. Dondaine, Le Corpus dionysien de l’université de Paris au xiiie siècle, Roma 1953 (Storia e letteratura, 1953); B. Faes de Mottoni, Il Corpus Dionysianum nel Medioevo. Rassegna di studi: 1900-1972, Bologna 1977 (Pubblicazioni del Centro di studio per la storia della storiografia filosofica, 3); R. Q uinto, Scolastica. Storia di un concetto, Padova 2001 (Subsidia Mediaevalia Patavina, 2), pp. 107-113. 33 Cfr. Robertus Grossatesta, Versio celestis hierarchiae pseudo-Dionysii Areopagitae, edd. D. A. Lawell - J. McEvoy - J. S. McQ uade, Turnhout 2015 (CCCM, 268).
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e Tommaso d’Aquino per i domenicani e da Pietro di Giovanni Olivi e Francesco di Meyronnes per i francescani 34. Ad ogni modo, la triade substantia, virtus e operatio viaggia anche al di fuori degli ambienti frequentati dagli appartenenti agli ordini mendicanti, scambiando con essi rapporti di influenza reciproca, ma talvolta restandone autonoma. Uno di questi casi è quello rappresentato da Enrico di Gand (1217 ca.-1293), appartenente al clero secolare, che sembra conoscere bene la struttura della triade dell’essere, e che la applica, per esempio, commentando il Genesi nel tentativo di spiegare la natura delle stelle create da Dio nel quarto giorno. Nell’indicare gli atti della luce come duplici, nella distinzione dei loro effetti, Enrico chiarisce che ogni astro o stella dapprima illumina o produce luce, mentre soltanto in un secondo momento la luce permette di distinguere le forme delle cose o, più semplicemente, il giorno dalla notte. Inoltre, aggiunge, ogni stella si distingue ancora in maniera triplice, poiché è costi tuita, come ogni altra creatura, di substantia, virtus e operatio: Et cum duplex sit effectus sicut et actus ipsius formae: unus primus, alius secundus, actus lucis quae est forma stellae sive luminaris, primus est lucere sive illuminare, actus vero secundus est distinguere illuminando. Primo igitur tangit tres actus distinguendo, secundo tangit unum actum illuminandi ibi: ut luceant. Stella autem distinguitur tripliciter, quia in stella tria sunt sicut in qualibet alia re secundum philosophum: substantia, virtus et operatio. Substantia sua, id est luce, unde stella est, distinguit inter diem et noctem. Virtute distinguit inter duos effectus quorum signum et causa. Operatione sua, ‹id› est motu, distinguit inter tempora 35.
La substantia della stella, secondo Enrico, sta nella sua luce, che fa appunto di essa una stella, e che permette di distinguere tra giorno 34 Cfr. Faes de Mottoni, Il Corpus Dionysianum cit., p. 15; Q uinto, Scolastica cit., p. 112. – Sull’opera di commento allo pseudo-Dionigi di Grossatesta in rapporto a Tommaso Gallo, cfr. J. McEvoy, Thomas Gallus Vercellensis and Robertus Grossatesta Lincolniensis. How to Make the Pseudo-Dionysius Intelligible to the Latins, in Robert Grosseteste. His thought and its Impact, Toronto 2012, pp. 3-43 (Papers in mediaeval studies, 21). 35 Henricus de Gandavo, Lectura ordinaria super Sacram Scripturam, De opere quartae diei, I, ed. R. Macken, Leuven 1980 (Opera omnia, XXXVI), p. 117, 38-47. Per il riferimento aristotelico, cfr. Aristoteles, De caelo, II 12, 292b 1-2.
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e notte. Per mezzo della virtus, d’altra parte, si distingue tra i due effetti di cui si è detto (il far luce, di cui è causa, e la distinzione tra giorno e notte, di cui è signum). Infine, per mezzo dell’operatio, vale a dire per mezzo dei movimenti che la stella compie in cielo, si scandiscono i tempi astronomici. L’ingresso del corpus aristotelico nel circuito della speculazione bassomedievale permette una ulteriore modalità di lettura della triade dell’essere. A partire da un riferimento al De caelo, Enrico qui infatti ribadisce la perfetta corrispondenza delle strutture insite negli enti sublunari e sovralunari. Se però il ragionamento dello Stagirita verte sul tentativo di sciogliere le aporie relativamente ad una questione cosmologica complessa quale è quella della apparente casualità del numero dei moti degli astri nelle rispettive sfere celesti, Enrico isola una parte del testo aristotelico servendosene per i suoi scopi. Aristotele, infatti, gli suggerisce che, perché vi sia un fine, è necessario un passaggio logico da ciò che si compie in vista del fine al conseguimento del fine stesso. Pur non utilizzando la terminologia di potenza ed atto, in questo punto lo Stagirita afferma che, nel caso di un essere che abbia conseguito la condizione di perfezione assoluta, questi non ha invece alcuna necessità di agire, di operare questo passaggio, dal momento che i due termini distinti dello stato di partenza iniziale e del fine da raggiungere verrebbero a coincidere in un solo punto 36. Enrico di Gand assorbe la lezione aristotelica e la innesta su quella neoplatonica della triade, per cui la specularità intercettata da Aristotele nell’intima struttura stessa degli astri collocati nelle differenti sfere celesti si sovrappone alla parimenti intima struttura degli enti del reale individuata dallo pseudo-Dionigi nella triade substantia, virtus e operatio che rispecchia la trinitarietà divina 37. 36 Cfr. ibid., 5-11. In alcuni commenti al De caelo aristotelico del secolo xiii viene adoperata la triade dell’essere come in Enrico di Gand. È il caso delle Q uaestiones supra Librum de caelo et mundo di Pietro d’Alvernia (1240 ca.-1304), magister artium e poi in teologia a Parigi, che probabilmente la recepisce da Tommaso d’Aquino, di cui è allievo. Cfr. Petrus de Alvernia, Q uaestiones supra Librum de caelo et mundo, I, q. 18, solutio, ed. G. Galle, Leuven 2003 (Ancient and Medieval Philosophy, Series 1, 29), p. 101, 32-33: «Operatio autem manifestat virtutem substantiae; sed alicuius substantiae est virtus infinita, quod probatur dupliciter». 37 Altrove, nell’opera di Enrico, compare ancora un riferimento esplicito alla triade dell’essere letta in chiave pseudo-dionisiana. Cfr. Henricus de Gandavo, Summa (Q uaestiones ordinariae), a. 42, q. 2, ed. L. Hödl, Leuven 1998
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La riflessione intorno alla struttura ontologica dell’essere continua a comparire in ambiente parigino. Enrico Bate di Malines (1264-1310 ca.), astronomo e filosofo, maestro in arti a Parigi prima del 1274 e in teologia all’inizio del Trecento, nel suo Speculum divinorum et quorundam naturalium utilizza la triade per spiegare i concetti aristotelici di forma e materia applicati alla sostanza intellettuale, nelle sue componenti di potenza e atto 38. Sempre a Parigi, in quegli stessi anni, Umberto di Preuilly († 1298), cui si deve l’introduzione del tomismo nell’ordine cistercense, in un Commento alla Metafisica di Aristotele adopera la triade dell’essere per illustrare cosa si intenda propriamente per natura. La stringente formulazione del testo, tipica del genere di commento sentenziale, porta Umberto a enucleare i differenti sensi della parola ‘natura’, articolati nei tre elementi della triade. Q uesto commentario risulta piuttosto interessante dal momento che Umberto legge Aristotele sulla base di una sintesi interpretativa di Averroè, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, dai quali potrebbe aver recepito l’idea della triadicità dell’essere 39, che applica in tutta la sua portata metafisica affermandone la presenza in ogni ente che abbia connaturato in sé (importet) il desiderio di compiutezza (perfectio) 40. E dunque più avanti, proprio tentando (Opera omnia, XXIX), p. 37, 33-35. Lo stesso passo è ripreso, con riferimento esplicito allo pseudo-Dionigi, in Id., Q uodlibet, VI, q. 4, solutio, ed. G. A. Wilson, Leuven 1987 (Opera omnia, X), pp. 52, 40 - 53, 45. 38 Cfr. Henricus Bate Mechliniensis, Speculum diuinorum et quorundam naturalium, III, 15, 10, ed. E. Van de Vyver, 2 voll., Louvain - Paris 19601967 (Philosophes Médiévaux, 4 e 10), I, 1960, p. 212, 21-24: «Igitur, si substantia intellectualis forma est corporis, oportet quod esse eius sibi et corpori sit commune; ex forma enim et materia fit aliquid simpliciter unum, quod est secundum esse unum. Simpliciter erit ergo operatio substantiae intellectualis corpori communis, et virtus eius virtus in corpore, quod est impossibile». 39 Sul pensiero di Umberto di Preuilly, cfr. M. Brinzei - N. Wicki, Introduction, in Humbertus de Prulliaco, Sententia super librum Metaphysicae Aristotelis (libri I-V), edd. M. Brinzei - N. Wicki, Turnhout 2013 (Studia Artistarum, 36), pp. 7-40. 40 Cfr. ibid., V, 5, pp. 505, 239 - 506, 255: «Si vero dicatur ut proprie, cum natura perfectionem importet, perfectum autem in tribus consistit, ut dicitur I Celi et mundi, oportet naturam tripliciter dici. Natura ergo proprie dicta aut significat operationem aut virtutem aut substantiam. Si significet operationem, sic est primus modus, secundum quem natura dicitur generatio nascentium. Si vero significet virtutem, hoc est dupliciter, quia vel significat virtutem propriam viventibus, et sic est secundus modus, vel significat virtutem communem omnibus moventibus vel mobilibus, et sic est tertius modus. Si vero significet substantiam, hoc est duplici-
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di spiegare il concetto di totum potentiale che riprende da Alberto, la triade è riutilizzata per rendere ragione della relazione che intercorre tra essenza e potenze all’interno dell’anima. La dottrina del totum potestativum di Alberto Magno, infatti, che viene elaborata per definire lo statuto ontologico unitario dell’anima nel totum costituito dalle differenti potenze e virtù, è ripresa da Umberto, che distingue un totum universale da un totum integrale, laddove solamente nel primo è garantita l’unitarietà dell’anima in ogni sua parte, dunque anche per quel che riguarda i momenti della potenza e dell’atto 41. Infine, una testimonianza peculiare della ricezione della triade al di fuori degli ambienti degli Ordini Mendicanti, ma che non può non prescindere dall’influenza e dall’interpretazione di essa fornita da questi ultimi, è resa dall’agostiniano Egidio Romano (1243 o 1247-1316) 42. In una sua Expositio sul Cantico dei Cantici, ter, quia aut significat substantiam que est materia aut substantiam que est forma. Primo modo hoc est dupliciter, quia vel significat materiam propinquam, et sic est quartus modus, vel remotam, et sic est sextus. Si vero significat substantiam que est forma, hoc est dupliciter, quia vel significat formam partis, et sic est quintus modus, vel formam totius, et sic est septimus. Sed in octavo modo metaphorice dicto natura maxime significat substantiam que est compositum». Umberto conclude affermando che la natura si dice dalla forma (che associa alla substantia) che ha un primato logico rispetto alla virtus e all’operatio. Cfr. ibid., p. 507, 288-295: «Constat enim ex dictis quod natura de quocumque dicatur vel dicitur de eo tamquam de substantia vel tamquam de virtute vel tamquam de operatione. Est autem sic quod operatio est prius nota nobis quam virtus vel substantia sive forma. Forma autem est prius nota simpliciter, virtus autem medio modo se habet. Natura ergo que dicitur de generatione nascentium, que est operatio quedam, dicitur per prius nobis (…). Sed natura per prius simpliciter dicitur de forma, que est simpliciter prior virtute et operatione». 41 Cfr. ibid., 22, p. 661, 142-150. Sul totum potestativum, cfr. Albertus Magnus, Summa de creaturis, II, i, q. 55, a. 4, 1, solutio, ed. E. C. A. Borgnet, Paris 1896 (Opera omnia, XXXV), p. 470a. 42 Il ms. Worcester, Cathedral Library, Q . 90 contiene l’unico testimone di alcune Reportationes de causis di un tale Giovanni di Mallinges, in cui la triade sostanza, potenza e atto è adoperata per illustrare l’impianto emanatista, di chiara ascendenza neoplatonica, dell’ordine gerarchico delle cause. Cfr. Johannes de Mallinges, Reportationes de causis, I, qq. 5 e 7, edd. A. Baneau - D. Calma, Turn hout 2016 (Studia artistarum, 42.1), p. 222, 33 e p. 226, 3-10. La triade compare nuovamente nell’esporre, più avanti, la dottrina psicologica delle operazioni dell’anima di matrice tomista, già rinvenuta in Umberto di Preuilly. Cfr. ibid., p. 243, 11-29. Tali Reportationes furono probabilmente compilate tra gli anni 1274-1276 e il triennio 1289-1291, anni in cui furono redatti i commenti al Liber de causis rispettivamente di Sigieri di Brabante e di Egidio Romano. Cfr. A. Baneau - D. Calma, Le commentaire sur le «Liber de causis» de Jean de Mallin-
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infatti, i tre elementi di substantia, virtus e operatio sono adoperati quasi liricamente nella descrizione del processo del conseguimento di pulchritudo della Chiesa. Partendo dall’aggettivo pulchra rinvenuto nel Cantico, Egidio ne analizza la presenza nella Chiesa (e, tropologicamente, dell’anima di ogni fedele), in quanto qualità posseduta per natura ma da perseguire in maniera compiuta, perfetta. Proseguendo nella metafora ecclesiologica, la virtus risiede negli occhi della sposa, ovvero nell’intelletto e nelle affezioni, metafora delle colombe nel Cantico. E dunque le potenze o virtù dell’anima sono per Egidio gli occhi della Chiesa, «quia oculus est illud quo mediante tendimus in aliquid ut in finem, quod fit per intellectum et affectum: per intellectum, inquantum dirigit in finem; per affectum, inquantum inclinat in ipsum» 43. Le operationes delle azioni affettive e intellettuali sono, poi, nella metafora ecclesiologica, rispettivamente i capelli e i denti della sposa, e ne manifestano la pulchritudo 44. È tuttavia l’abisso tra storia e ierostoria, che sarà colmato nel raggiungimento della Gerusalemme celeste, a fornire infine a Egidio la soluzione al dilemma già platonico della coesistenza dell’unità e del molteplice: Habitum est quod tanta diversitas est in Ecclesia, quia in quolibet statu in tota universali Ecclesia est dare pulchritudinem substantiae, virtutis et operationis: et est dare tantam diversitatem operum; non tamen propter hoc tollitur Ecclesiae unitas, quia omnia ista uniuntur per fidem, uniuntur in caritate, in gratia, in fine. Et si per haec uniuntur ea quae sunt diversarum personarum, multo magis uniuntur substantia, virtus et operatio, quae ad unam personam pertinere possunt. (…) Electa ges, ibid., [pp. 153-210], p. 164. Infine, un’ulteriore testimonianza coeva della rilevanza della triade nei commenti al Liber de causis è data da un anonimo cui si deve la compilazione di alcune singolari Glose super Librum de causis, contenute nel ms. Augsburg Staats und Stadtbibliothek, 4° Cod. 68, ai ff. 272va-278ra, che sono posteriori al commentario di Egidio Romano (citato nel testo come fonte) e che seguono il modello di un commento, probabilmente un insegnamento orale. Cfr. Iid., The «Glose super Librum de causis» and the Exegetical Tradition, ibid., [pp. 137-147], pp. 138-139. Nel testo il riferimento alla triade è alla Propositio I, p. 150, 10-13: «Et hoc est quod (…) substantia, virtus et operatio habent se per ordinem, quia si recipit substantiam, ‹recipit› et operationem et virtutem». 43 Aegidius Romanus, In Canticum expositio II «in principio», 4, in Thomas de Aq uino, Expositio in aliquot libros veteris testamenti et in psalmos L adjectis brevibus adnotationibus, Parma 1863 (Opera omnia, 14), pp. 404, 1, 20-23. 44 Cfr. ibid., pp. 404, 2, 43 - 405, 1, 30.
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genitrici suae, propter unitatem finis, quia substantiam nostram, virtutem et operationem, et totum quod in nobis est, secundum mensuram fidei et ordinem caritatis, et perfectionem gratiae, ordinare debemus ad illam caelestem Jerusalem, quam quasi genitricem imitari debemus. (…) Deinde cum dicit, viderunt eam, postquam ostendit, unitatem Ecclesiae non impediri propter diversitatem substantiae, virtutis et operationum occurrentium ad quemlibet statum, et existentium in qualibet persona, et in quolibet membro Ecclesiae; hic ostendit, hujusmodi unitatem non impediri propter diversitatem statuum, vel etiam personarum 45.
Pensiero e azione devono essere orientati, per Egidio, all’imitatio della Gerusalemme celeste come una madre: la perfectio, ovverosia il compimento finale del percorso che porta all’attualizzazione totale della sostanza, diventa sinonimo della pulchritudo primigenia da dover perseguire, in un processo circolare, pericoretico, che abbraccia la molteplicità nell’unità della sostanza e la risolve nel movimento di discesa nel corruttibile e di ritorno finale a Dio. * * * Una tale ricchezza di dati, nella pur modesta raccolta di fonti fin qui presentata, lascia aperto l’interrogativo circa le ragioni effettive della fortuna della triade dell’essere nel Medioevo. Il ricorso a dei criteri di mediazione dialettica per cui tra due termini in relazione tra loro deve necessariamente instaurarsene un terzo che renda possibile la loro stessa relazione è alla base, per esempio, del pensiero hegeliano e dell’hegelismo in generale, ma ha radici profonde, rintracciabili nelle triadi di stampo neoplatonico e nella cosiddetta legge dei termini medi. Nella sovrabbondanza delle produzioni triadiche del sistema neoplatonico, infatti, la legge dei termini medi garantisce l’unitarietà di qualsivoglia triade pur preservandone l’articolazione in momenti differenti 46.
Ibid., 6, 1, p. 415, 1, 55 - 2, 27. È il caso, per esempio, della distinzione procliana dell’οὐρανός collocato come termine medio nella triade della Vita. Cfr. R. Wallis, Neoplatonism, London 1972, p. 124; S. Gersh, From Iamblichus to Eriugena: An Investigation of the Prehistory and Evolution of the pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie, 8) (tr. it., 45 46
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La stringente logicità della struttura è assicurata dalla permanente purezza monodica dell’elemento primario, che si articola nei momenti della processione nell’alterità, il momento dell’assenza, della negazione dell’elemento primario, e del ritorno sintetico determinato dal superamento cosciente dell’alterità. Nella triade costituita da substantia, virtus e operatio il prius è riconosciuto nell’elemento sostanziale nella sua forma pura. La fusione del cristianesimo con il neoplatonismo porta tuttavia a generare una riflessione sulla sostanza, intesa come priva della sua purezza primigenia: nello stato di totale mancanza e lontananza dall’Essere essa è pura potenzialità, carica però di un movimento interno che la porta, naturalmente e necessariamente, a compiere un processo di ritorno allo stato originario di pienezza assoluta, la terminatio finalis o perfectio di cui scrive Tommaso Gallo, ossia l’ἐντελέχεια aristotelica 47. Inoltre, l’intuizione di una relazionalità biunivoca fra l’operatio neoplatonica e la seconda Persona della Trinità divina dimostra l’assoluta centralità del momento negativo della δύναμις per tutto l’impianto salvifico del cristianesimo. Alla luce di ciò, in conseguenza del peccato soltanto la totale negazione dell’οὐσία della prima Persona avrebbe potuto garantire, nel suo intrinseco e inevitabile movimento interno dato dallo Spirito Santo (ἐνέργεια), il processo di raggiungimento cosciente dell’umanità intera dello status primigenio di perfezione. In questo senso, la triade dell’Essere racconta al Medioevo la filosofia e la storia di un ritorno, del ritorno di tutte le cose create presso il loro comune Creatore.
Bari 2009), pp. 106-112; F. Romano, Il neoplatonismo, Roma 1998 (Studi superiori, 370), pp. 72-76. 47 Cfr., per esempio, Aristoteles, De anima, II, 1, 412a 27-412b 1, dove per ἐντελέχεια si intende il fine, l’in vista di cui raggiunto da qualsiasi ente e, dunque, il suo stato di perfezione finale.
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UNA METAMORFOSI DELLA TRIADE DELL’ESSERE NELLE «THEOLOGIAE» DI ABELARDO
Il contributo di Pietro Abelardo per una storia del trinomio ontologico essenza (substantia o essentia), potenza (virtus o potentia) e atto (actus o operatio) deve essere considerato a partire da una serie di eccentricità, che spiegano perché la storia della triade, fuori dal contesto neoplatonico, si configuri spesso come una storia della sua metamorfosi. La triade come struttura metafisica basilare, che in quanto tale deve essere considerata distinta sia dai suoi singoli elementi, sia dal rapporto che a due a due essi intrattengono (con particolare riguardo per la fortuna della coppia di potenza e atto), chiede di essere indagata con molta cautela nel pensiero del maestro di Le Pallet. Infatti, nel discorso abelardiano la sua presenza rischia di testimoniare per un’assenza. Il piano solidamente aristotelico su cui Abelardo osserva la perpetua realizzazione di potenzialità, che sono in definitiva una manifestazione di forme che rivelano la natura della sostanza, rischia di esaurire in un orizzonte bidimensionale quella triangolazione che il neoplatonismo aveva invece pensato capace di ancorare il reale a proprietà e processi dialettici dei piani ipostatici superiori. Un’analisi della principale delle occorrenze teologiche della triade – che permette ad Abelardo di isolare un modello che le res prestano alla ragione per pensare la Trinità – permette tuttavia di comprendere come, lungi dall’essere un trompe-l’oeil, la profondità della struttura più elementare che si ottiene dalla scomposizione della realtà permette anche ad Abelardo di recuperare quella verticalità, che è la vertigine della triade e il suo senso proprio nel pensiero neoplatonico. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127963 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 365-383 ©
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In questa prospettiva, al netto della varietà delle coordinate che individuano il sistema di pensiero specificamente abelardiano nel contesto di questa ‘storia’, sul crinale della trasfigurazione di una storia dell’ente in quanto ente in quella dell’Ego sum qui sum (Es 3, 14), la triade nel pensiero di Abelardo è il tool che invece di disancorare il divenire dalla ‘grande catena dell’essere’ riconosce che quell’infrastruttura, nel parallelismo di microcosmo e macrocosmo, è capace a) di spiegare l’identità e l’unità di un groviglio metafisico che non è né identico, né uno e b) tracciare il movimento di una creazione continua, che risulta riflessa nella realtà delle cose in cui si dà la più autentica Rivelazione della divinità. Le occorrenze della triade nelle opere logiche di Abelardo possono essere considerate, ai fini del rilevamento della presenza della struttura neoplatonica, un falso positivo, perché la prospettiva solidamente aristotelica non è sovradeterminata da un punto di vista né metafisico, né ontologico. Nelle opere logiche, non soltanto nelle Glossae, ma anche in quella summa che è la Dialectica, non è possibile, infatti, rintracciare una semantizzazione della triade tale da fornire una risposta alla domanda che una sua storia pone. È questo il caso emblematico di un passo delle Glossae super Porphyrium della Logica «Ingredientibus», in cui Abelardo ragiona sul valore della proprietà ‘capacità (id est possibilità di essere ricettivo) di scienza’ («perceptibilitas scientiae»), che può essere considerata allo stesso tempo una differenza sostanziale, quanto alla natura dell’uomo («secundum naturam»), e accidentale, quanto alla sua attualizzazione («secundum exercitium discendi»). Q uaeritur, cum disciplinae substantialem differentiam Porphyrius dicat, quomodo Boethius in Divisionibus potentiam discendi geometriam substantialem esse negat. Sed profecto aliud est perceptibilitas scientiae aliud potentia ad discendum scientiam. Nam illa secundum naturam, scilicet simpliciter pensatur, haec secundum exercitium discendi accipitur 1.
Petrus Abaelardus [d’ora in poi: Abaelardus], Glossae super Porphyrium, in Id., Logica «Ingredientibus», ed. B. Geyer, Münster 1919 (BGPTM, 21.1), [pp. 1-109], p. 70, 10-15; corsivo di chi scrive. 1
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Nel lavorio ermeneutico con cui Abelardo supera la contraddizione delle auctoritates di Porfirio e Boezio quanto allo statuto di «differentia substantialis» da accordare alla ‘capacità di scienza’ rispetto all’ente homo, la presenza del lessico triadico (in corsivo) non è capace di produrre una occorrenza. La struttura metafisica, che il filtro neoplatonico di Porfirio applica al problema del rapporto tra le forme in fieri e la natura che permane, è quella aristotelica binaria di sostanza-accidente che, in riferimento al terzo predicabile, la differenza, distingue tra quella ‘proprietà’ che è parte integrante della definizione, la cui sottrazione produce un altro e non solo un’alterazione, dalla differenza che non è parte integrante della definizione e la cui contingenza può dare effetto a un’alterazione e non a un’alterità 2. Dall’intersezione della logica binaria di valore positivo (atto) e negativo (potenza) con la struttura elementare che individua l’ente o come una sostanza (prima o seconda) o come un accidente (che classifica nelle restanti categorie), Abelardo conclude che è possibile riferirsi alla medesima forma (la proprietà espressa dalla differenza) ora come sostanziale, ora come non-sostanziale, quindi accidentale. L’occorrenza dei termini triadici (substantia, nella sua variante aggettivale, o natura; potentia; exercitio) rimanda in questo contesto a un’operazione di dissezione metafisica che ha il valore di una penetrazione logica, ma non già ontologica della struttura dell’ente. Altrove il lessico triadico compare nel contesto della combinazione della coppia potenza e atto non più con la struttura elementare sostanza-accidente, ma coerentemente con quell’applicazione, in dialogo con la composizione ilemorfica dell’ente 3. In questi casi è piuttosto la dicotomia di materia e forma a fungere da base ontologica che permette poi di articolare il passaggio dalla potenza all’atto. In tutti questi contesti evidentemente la storia 2 Cfr. Porphyrius, Isagoge, 9, ed. A. Busse, Berlin 1895 (rist. 1957), (CAG, 4.1), pp. 14-23, traduzione latina di Anicius Manlius Severinus Boethius (in seguito: Boethius), ed. L. Minio-Paluello, Bruges - Paris 1966 (AL, I.6), p. 16, 1-12. 3 Per una ricostruzione della metafisica abelardiana e quanto alla legittimità dell’utilizzo della categoria di ‘ilemorfismo’ per riferirsi alla sua visione delle entità individuali, si rimanda alla ricostruzione di Peter King: P. King, Metaphysics, in The Cambridge Companion to Abelard, edd. J. E. Brower - K. Guilfoy, Cambridge 2004, pp. 65-125.
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della triade si allontana dalla storia dei suoi elementi, che non ordinano gerarchicamente il reale per offrire una pista di ricomposizione metafisica, ma ne illustrano la composizione per dare la misura della sua complessità. È nel movimento teologico del pensiero di Abelardo 4 che la triade fa una timida apparizione, perché è nella semplificazione della struttura ontologica divina che si dà uno schiacciamento delle coppie materia-forma, sostanza-accidente tale da produrre una triangolazione perfetta con gli elementi di potenza e atto. Alla prova della loro resistenza nel perimetro ontologico divino Abelardo può tuttavia mostrare la vera natura di quegli strumenti che la tradizione filosofica aveva fornito alla rappresentazione del Principio. Infatti, in una theologia costruita interamente sotto il segno della semantica, il Peripatetico palatino può ignorare i grandi temi che la metafisica neoplatonica aveva posto all’attenzione del cristianesimo, perché alla base del linguaggio teologico deve essere riconosciuto il fenomeno del trasferimento semantico o translatio, che è insieme condizione di possibilità e limite ultimo di efficacia di ogni discorso su Dio. His itaque rationibus patet divinam substantiam omnino individuam, omnino informem perseverare, atque ideo eam recte perfectum bonum dici et nulla re alia indigens, sed a seipso habens, non aliunde quod habet accipiens. Creaturae autem L’analisi del versante teologico del pensiero di Abelardo richiede che si tengano in considerazione tre diverse versioni della stessa opera, la Theologia. Secondo un modus operandi caratteristico del suo pensiero, è possibile distinguere, nel processo ininterrotto di scrittura che va dalla condanna del 1121 a Soissons a quella del 1140 a Sens, tre stadi testuali, cui gli studiosi abitualmente si riferiscono come alle versioni della «Summi boni», della Christiana e della «Scholarium». Da questo momento in poi si farà riferimento a ciascuna versione dell’opera singolarmente – che resta la ‘stessa’, quanto all’acuta percezione dei limiti della conoscenza umana di Dio e del linguaggio chiamato a esprimerla, ma cambia ed è continuamente ‘altra’ quanto alle istanze di rinnovamento che motivano un ricorso sempre più esigente, per quanto costitutivamente insoddisfacente, agli strumenti logici – come fonti diverse in una relazione di superamento reciproco. Cfr. J. Jolivet, Arts du langage et théologie chez Abélard, Paris 19822 (Études de philosophie médiévale, 57); M. de Gandillac, Sur quelques interprétations recentes d’Abélard, in «Cahiers de civilisation médiévale», 4 (1961), pp. 293-301; G. Allegro, La teologia di Pietro Abelardo fra letture e pregiudizi, Palermo 1990 (Scrinium, 9); J. Marenbon, The Philosophy of Peter Abelard, Cambridge 1997; M. Giannetta, «Q uid verisimile sit dicturum me arbitror». Il Laboratorio delle Theologiae di Pietro Abelardo, Diss., Università degli Studi di Salerno 2019. 4
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quantumlibet bone adiunctione egent alterius, ex qua quidem indigentia imperfectionem suam profitentur. (…) Cum itaque divina substantia singularis prorsus et unica sit, in qua tres personae consistunt, ita ut unaquaeque personarum sit eadem penitus substantia quae est et altera, nec ulla sit partium aut formarum diversitas illius simplicis boni, multo minus haec persona aliud ab illa dici potest quam Socrates a Platone, cum videlicet trium personarum una sit singularis essentia, Socratis vero et Platonis non sit eadem essentialiter 5.
Il lessico dell’indigenza permette ad Abelardo di restituire, in termini neoplatonici, lo scarto ontologico tra Principio e principiato che l’utilizzo del linguaggio rischia di rendere equivoco. Il limite contro cui si infrange la capacità della parola umana di essere significativa diventa l’occasione di indicare la strada di una teologia superlativa, che approfondisca lo scarto ontologico al punto da produrre una identità linguistica sempre e solo equivoca, consapevole che in senso proprio non ci sia corrispondenza («vere») tra il referente (la sostanza divina) e la nozione di substantia, di potentia o di operatio, perché ogni termine, portato in Dio, deve rispondere di un surplus di eccellenza che non può propriamente essere rintracciato nell’«impositio nominum» originaria 6. Il lessico formalizzato da Boezio, che Abelardo segue meticolosamente nella seconda versione della sua Theologia, gli permette di precisare, nella dialettica «proprie»-«improprie», le possibilità offerte dal linguaggio per restituire la differenza ontologica tra l’essere che è fonte di ogni altro e gli enti che ne derivano. Infatti, in senso proprio non si può correttamente predicare di Dio («proprie dici negat») l’essere sostanza, cioè l’essere «accidentium sustentamentum», perché il nome accidens, esattamente come il nome forma, e come qualsiasi altro referente linguistico, 5 Abaelardus, Theologia «Summi Boni» (in seguito soltanto: TSum), II, 40-41, edd. E. M. Buytaert - C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), p. 128, 363-378; cfr. Id., Theologia Christiana (in seguito soltanto: TChr), III, 84, PL 178, [1113-1330], 1235CD, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12.2), p. 228, 1079-1088. 6 Cfr. TChr, III, 85, 1235D-1236B, pp. 228, 1088 - 229, 1108. Cfr. Boe thius, De sancta Trinitate, 2, PL 64, [1247-1256], 1250C, ed. C. Moreschini, München 2005, p. 170, 100-104; 4, 1252A, p. 173, 183-184; 1252AB, p. 174, 187-196.
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può essere applicato proprie solo alle cose create («in rebus tantum creatis») 7. Nella chiosa di Abelardo al De Trinitate boeziano è interessante che alla negazione di fondatezza ontologica («vere non sunt») corrisponda l’interdizione di appropriatezza linguistica («proprie dici negat», «dici non convenit»); la logica permette, nella consapevolezza della differenza originaria, non soltant