La Triade Dell'essere: Essenza - Potenza - Atto Nel Pensiero Tardo-antico, Medievale E Rinascimentale (Nutrix, 13) (Italian Edition) 9782503588643, 2503588646

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La Triade Dell'essere: Essenza - Potenza - Atto Nel Pensiero Tardo-antico, Medievale E Rinascimentale (Nutrix, 13) (Italian Edition)
 9782503588643, 2503588646

Table of contents :
INDICE DEL VOLUME
RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ
MICHELE ABBATE. SIGNIFICATO E FUNZIONE DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL NEOPLATONISMO GRECO PAGANO
LUCREZIA IRIS MARTONE. ΟὐΣΊΑ, ΔΎΝΑΜΙΣ ED ἘΝΈΡΓΕΙΑΙ NELL’OPERA DI GIAMBLICO
ILARIA GRIMALDI. ὝΠΑΡΞΙΣ, ΔΎΝΑΜΙΣ, ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN RELAZIONE ALL’UNIFICATO
CLAUDIA LO CASTO. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO DI SIMPLICIO
ILARIA RAMELLI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN GREGORIO DI NISSA E NEI CAPPADOCI
ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO PATRISTICO-ORIENTALE E PROTO-BIZANTINO
JOHN GAVIN S. J.. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA VISIONE COSMICA DI MASSIMO IL CONFESSORE
ERNESTO SERGIO MAINOLDI. LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA E FILOSOFICA DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA
ROBERTO SCHIAVOLIN. LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO
RENATO DE FILIPPIS. LA TRIADE DELL’ESSERE IN GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
ANTONIO SORDILLO. LA TRIADE DELL’ESSERE DA EIRICO DI AUXERRE A EGIDIO ROMANO
MELISSA GIANNETTA. AES, SIGILLABILIS, SIGILLANTIS. UNA METAMORFOSI DELLA TRIADE DELL’ESSERE NELLE «THEOLOGIAE» DI ABELARDO
BEATE ULRIKE LA SALA. SUBSTANTIA, POTENTIA E ACTUS NELLA FILOSOFIA ARABA
MASSIMILIANO LENZI. «SICUT MAGNES ATTRAHIT FERRUM». TOMMASO D’AQ UINO, L’IMMATERIALITÀ DELL’INTELLETTO E IL FONDAMENTO OCCULTO DELLE VIRTÙ NATURALI
ANDREA DI MAIO. «ILLA TRINITAS DIONYSII» (SOSTANZA, VIRTÙ E OPERAZIONE) IN BONAVENTURA
MASSIMO PERRONE. LA TRIADE SUBSTANTIA – VIRTUS – OPERATIO NEGLI AUTORI DELLA SCUOLA DOMENICANA TEDESCA
DAVIDE RISERBATO. RES (ESSENTIA), ESSE ESSENTIAE (VIRTUS), ESSE EXISTENTIAE (OPERATIO)
PIETRO SECCHI. LA TRIADE IN CUSANO
ROBERTO MELISI. LA TRIADE ESSENTIA – VIRTUS – OPERATIO NEI PLATONICI DEL RINASCIMENTO
GIULIO GISONDI. ANTITRINITARISMO E TRIADICITÀ IN GIORDANO BRUNO
ABSTRACTS

Citation preview

NUTRI X

STUDIES IN LATE ANTIQ UE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO

Directed by Giulio d’Onofrio Assistant director Renato de Filippis

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Ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram Philosophiam Boethius Consolatio Philosophiae, I, 3

The publication of  this volume has been assisted by a grant from the Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale of the Università degli Studi di Salerno, Italy, and from the Dottorato RAMUS (Ricerche e Studi sull’Antichità, il Medioevo e l’Umanesimo – Salerno) of the same university.

© 2022 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium

Nutrix is a peer-reviewed Series. The content of each volume is assessed by specialists chosen by the Direction of the Series. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher. The logo of the series Nutrix – a miniature from Ms. New York, Pierpont Morgan Library, M. 302 (Ramsey Psalter), f. 2v – portrays the Christ Child among the Doctors in the Temple. Photographic credit: The Pierpont Morgan Library, New York.

D/2022/0095/94 ISBN 978-2-503-58864-3 e-ISBN 978-2-503-58865-0 DOI 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.119603 ISSN 2506-9756 e-ISSN 2506-9764 Printed in the EU on acid-free paper.

La triade dell’Essere Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale

a cura di Renato de Filippis ed Ernesto Sergio Mainoldi

Gioacchino da Fiore, Liber figurarum Oxford, Corpus Christi College, ms. 255A, f. 7v Photografic credit: © Bridgeman Images - Bologna (BO)

INDICE DEL VOLUME

INDICE DEL VOLUME

Premessa 13 Sigle e abbreviazioni 17 Renato de Filippis – Ernesto Sergio Mainoldi La formazione e  le ricezioni della triade οὐσία  –  δύναμις  – ἐνέργεια. Una presentazione del problema storico e storiografico 19 Michele Abbate Significato e funzione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel neoplatonismo greco pagano 79 Lucrezia Iris Martone Οὐσία, δύναμις ed ἐνέργειαι nell’opera di Giamblico 97 Ilaria Grimaldi Ὕπαρξις, δύναμις, ἐνέργεια in relazione all’Unificato. La triade neoplatonica nel «De primis principiis» di Damascio 121 Claudia Lo Casto La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio 141 Ilaria Ramelli La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Gregorio di Nissa e nei Cappadoci. Paralleli filosofici e ascendenze origeniane 153 Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino 181 John Gavin S. J. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella visione cosmica di Massimo il Confessore 225 9

INDICE DEL VOLUME

Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina 247 Roberto Schiavolin La sostanza tra potenza ed atto. Il pensiero di Mario Vittorino 299 Renato de Filippis La triade dell’essere in Giovanni Scoto Eriugena 321 Antonio Sordillo La triade dell’essere da Eirico di Auxerre a Egidio Romano 343 Melissa Giannetta Aes, sigillabilis, sigillantis. Una metamorfosi della triade dell’essere nelle «Theologiae» di Abelardo 365 Beate Ulrike La Sala Substantia, potentia e actus nella filosofia araba 385 Massimiliano Lenzi «Sicut magnes attrahit ferrum». Tommaso d’Aq uino, l’immaterialità dell’intelletto e il fondamento occulto delle virtù naturali 409 Andrea Di Maio «Illa Trinitas Dionysii» (sostanza, virtù e operazione) in Bonaventura 443 Giulio d’Onofrio «Vede perfettamente ogne salute». La triade ‘nascosta’ in Dante, dalla «Vita nova» alla «Monarchia» 473 Massimo Perrone La triade substantia – virtus – operatio negli autori della scuola domenicana tedesca. Alberto Magno, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg e Bertoldo di Moosburg 499 Davide Riserbato Res (essentia), esse essentiae (virtus), esse existentiae (operatio). Dall’essere di essenza all’essere intelligibile: Duns Scoto e Guglielmo di Alnwick 521 Pietro Secchi La triade in Cusano 541 10

INDICE DEL VOLUME

Roberto Melisi La triade essentia – virtus – operatio nei platonici del Rinascimento

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Giulio Gisondi Antitrinitarismo e  triadicità in Giordano Bruno. Il ricorso alla triade substantia/essentia – potentia – actus nel «De la causa, principio et uno» 589 Abstracts – Summaries 607 Indice dei nomi 633 Indice biblico 649

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PREMESSA

PREMESSA

Le ricerche raccolte in questo volume si propongono di offrire una panoramica, per quanto possibile esaustiva e  approfondita, riguardo a una struttura terminologico-concettuale che ha caratterizzato la riflessione ontologica tra la Tarda Antichità e le soglie dell’Età moderna, ovvero la triade definita dal trinomio οὐσία/ essentia  – δύναμις/potentia/virtus  – ἐνέργεια/operatio. Sorta in seno alla riflessione neoplatonica, essa è  stata ripresa dalla speculazione patristica ellenofona, per trovare poi un’ampia e durevole fortuna nei testi teologici e  filosofici di epoca medievale e rinascimentale, tanto in ambito greco-bizantino quanto latino, con alcuni utilizzi anche nel mondo arabo. La  storiografia ha riservato alla triade diverse menzioni e  analisi, relegandola tuttavia in una posizione marginale, come mostra il fatto che essa non sia stata finora oggetto di nessuno studio complessivo volto a  fare luce sui contorni della sua presenza nella storia del pensiero filosofico e teologico. In ragione di questo status dell’arte, ci sembra che un tentativo sistematico di investigare la triade nelle sue occorrenze testuali, e nelle valenze speculative che vi ha assunto, possa costituire un contributo utile alla comprensione di un tassello speculativo ricorrente in autori e testi lungo un arco di circa quattordici secoli. L’ideazione di questo progetto di ricerca è  dovuta a  Giulio d’Onofrio, i  cui percorsi di studio nell’ambito della filosofia tardoantica e  medievale hanno portato, già a  partire dagli anni ’90 del secolo scorso, a  un cospicuo numero di identificazioni della triade in autori della rilevanza di Giovanni Scoto Eriugena 13

PREMESSA

e  Dante. A  questo soggetto venne dedicato, negli anni accademici 2007-2008 e  2008-2009, un seminario del dottorato in ‘Filosofia, Scienze e  Cultura dell’età tardo-antica, medievale e  umanistica’ (FiTMU) dell’Università degli Studi di Salerno, coordinato dallo stesso Giulio d’Onofrio. Il  materiale portato all’attenzione dai vari relatori coinvolti mostrò come la presenza della triade fosse molto più ramificata di quanto noto, e presentasse quesiti storico-dottrinali meritevoli di ulteriori e più sistematici approfondimenti. Si sono così profilate prima l’ideazione del progetto di ricerca del Centro Interdipartimentale FiTMU dell’Università di Salerno ‘La triade neoplatonica substantia, virtus e operatio. Storia e metamorfosi’, affidato dall’ottobre 2016 alla direzione di Renato de Filippis, e quindi l’idea del presente volume. Q uesti ulteriori sviluppi hanno permesso di pianificare un indice degli argomenti il più possibile esaustivo – sebbene la completezza, in questo genere di ricerche, rimanga sempre un’ipotesi di massima  – circa la presenza della triade negli autori più significativi dell’arco temporale in cui questa struttura si è intrecciata con la storia del pensiero occidentale, coinvolgendo gli studiosi che potessero analizzarla in base alla loro competenza specialistica. Con il progredire della ricerca e  l’elaborazione dei singoli capitoli, attraverso un costante e ripetuto confronto tra gli studiosi coinvolti, sia nel contesto di incontri seminariali (due Tavole rotonde svolte presso l’Università degli Studi di Salerno, nell’ottobre del 2017 e nel settembre del 2019), sia attraverso la discussione dei risultati raggiunti, è stato possibile non solo documentare i percorsi della triade all’interno dell’opera e del pensiero dei singoli autori, arrivando così a una mappatura dei suoi contesti di presenza e di influenza, ma soprattutto ricostruire gli aspetti generali e  particolari del suo modello ontologico, anche negli adattamenti e  nelle trasformazioni concettuali che hanno caratterizzato la sua ricezione nei contesti speculativi e negli autori che l’hanno utilizzata. I risultati di questa indagine, di cui il presente volume è l’espressione, sono stati affidati a un tentativo di sintesi nell’Introduzione, la quale si propone di offrire tanto un inquadramento storiografico e  una disamina originale delle questioni teoriche implicate dal modello ontologico della triade, sia nella sua formazione sia nella sua fortuna, quanto una presen14

PREMESSA

tazione degli approfondimenti specialistici che sono oggetto dei singoli capitoli. Q uesto libro non avrebbe mai visto la luce senza l’interessamento, l’incoraggiamento e la disponibilità di Giulio d’Onofrio, che fin dagli inizi ha sempre creduto nel progetto – ma ancor di più ha colto il valore e  l’importanza speculativa della triade, riconoscendo in essa un vero e proprio ‘tassello mancante’ della nostra conoscenza della filosofia fra iii e xvi secolo. I ricchi capitoli di questa ricerca danno incontestabilmente ragione a questa intuizione originaria, che permette oggi di leggere da una diversa prospettiva una intera stagione del pensiero occidentale. A  lui va il primo ringraziamento dei curatori, per i  suoi consigli, per il perdurante sostegno alla ricerca, e per la messa a disposizione delle risorse economiche che hanno permesso le Tavole rotonde di cui si è dato notizia. Siamo inoltre lieti di ringraziare, per il loro contributo alle complesse vicende (intellettuali, editoriali ed accademiche) della triade: Armando Bisogno, dell’Università degli Studi di Salerno, che ha offerto la sua attenzione e  la sua intelligenza in merito a numerose tematiche e problematiche della ricerca; tutti i partecipanti al primo e originario seminario del Dottorato FiTMU (Marika De Vita, Francesco Fiorentino, John Gavin S. J., Claudia Maggi, Lucrezia I. Martone, Chiara Militello, Ilaria Ramelli, Roberto Schiavolin), le cui ricerche sono state il punto di partenza per lo scenario che possiamo apprezzare oggi, e  in diversi casi sono poi rientrate, dopo rielaborazioni e  aggiornamenti, nel progetto definitivo; tutti i  contributori al  volume, con un apprezzamento particolare per i primi (Michele Abbate, Andrea Di Maio, Massimiliano Lenzi, Roberto Melisi) che hanno aderito all’iniziativa e  contribuito a  ideare la sua configurazione; i  dottorandi, dottori, assegnisti e  docenti di scuola secondaria superiore afferenti al  Centro Interdipartimentale FiTMU che, a diverso titolo, hanno con noi discusso i temi di questo libro o hanno contribuito alla sua finalizzazione editoriale. Per la realizzazione degli indici, infine, ringraziamo Vanni Claves, Giuseppe Donnarumma, Simone Luigi Migliaro ed Antonio Sordillo. La medievistica filosofica ha pianto, lo scorso anno, una delle sue più illustri e significative figure, Valeria Sorge (1957-2021), ordinario di Storia della filosofia medievale presso l’Università 15

PREMESSA

‘Federico II’ di Napoli. Diversi suoi allievi figurano fra i contributori della presente miscellanea, ed Ella è stata sempre presente alle iniziative che hanno riguardato la triade nel corso degli anni. A Lei vogliamo, dunque, dedicare questo volume. Fisciano (SA), 29.04.22 Renato de Filippis Ernesto Sergio Mainoldi

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Acta Conciliorum Oecumenicorum, ed. E. Schwartz, cont. J. Straub, Berlin - Leipzig 1914-. AL Aristoteles Latinus, editioni curandae praesidet L. Minio Paluello, deinde G. Verbeke, Bruges - Leiden - Turnhout 1961BGPM Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen, hrsg.  von Cl.  Baeumker  G. von Hertling, Münster i. W 1891-1927. BGPTM Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen, Münster i. W 1928- (Neue Folge, 1970-). BHG Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles 1909-. CAG Commentaria in Aristotelis Graeca, Berlin 1882-1909. CCCM Corpus Christianorum, Continuatio mediaevalis, Turn­ hout 1966-. CCSG Corpus Christianorum, Series graeca, Turnhout 1974-. CCSL Corpus Christianorum, Series latina, Turnhout 1953-. MGH Monumenta Germaniae Historica, Hannover - Berlin 1829-. OECS Oxford Early Christian Studies, Oxford 1990-. PG Patrologiae cursus completus, Series Graeca, accurante J. P. Migne, 161 voll., Turnhout 1856-1866. PL Patrologiae cursus completus, Series Latina, accurante J. P. Migne, 221 voll., Turnhout 1844-1855. PTS Patristische Texte und Studien, Berlin - New York 1964-. SC Sources chrétiennes, Paris 1942-. ACO

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

Le opere del Corpus Dionysiacum sono indicate con le seguenti sigle: CH EH DN

pseudo-Dionysius Areopagita, De coelesti hierarchia, PG 3, [119-370], ed. G. Heil, in Corpus Dionysiacum, II, Berlin 1991, 20122 (PTS, 36), pp. 3-59. Id., De ecclesiastica hierarchia, PG 3, [369-584], ed. G. Heil, ibid., pp. 61-132. Id., De divinis nominibus, PG 3, [585-996], ed. B. R. Suchla, ibid., I, Berlin 1990 (PTS, 33).

Le citazioni riporteranno sigla dell’opera, capitolo, paragrafo, riferimento alla colonna in PG 3, pagina/e e linea/e nell’ed. PTS. Plotinus, Enneades

Plotinus, Enneades, edd. P. Henry - H. R. Schwyzer, 3 voll., Oxford 1964-1982, con indicazione di libro, capitolo, pagine e righe dell’edizione. Proclus, Elementatio Proclus Diadochus, Elementatio theologica, ed. E. R. Dodds, Oxford 1963 (19772), con indicazione di numero della proposizione, pagine e righe dell’edizione.

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RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI

LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ UNA PRESENTAZIONE DEL PROBLEMA STORICO E STORIOGRAFICO 1

1. La triade e la sua ricezione storiografica La storia del pensiero è  storia di parole e  di strutture di parole: come il pensiero non può prescindere dalla parola, così la filosofia non può prescindere da strutture di parole mediante le quali articolare il pensiero in rappresentazioni della realtà capaci di rifletterne la complessità. Le strutture terminologiche emergono in genere nell’opera di un autore come strumento di ausilio alla concettualizzazione di un determinato problema. Il rivelarsi significativo non solo della visione di un particolare autore, bensì di una prospettiva condivisa, è quanto determina il successo di una struttura terminologica, che si istanzia nella ripresa e  nella trasmissione da parte della successione degli autori che, assurgendo ad auctoritates, danno vita, testo dopo testo, alla storia della filosofia. Si prendano ad esempio le dieci categorie aristoteliche e la loro fortuna in quanto motori di molteplici rappresentazioni del mondo e di interpretazioni dei rapporti tra gli esseri. Le strutture terminologiche non compaiono nella storia del pensiero come elementi aprioristici o  assiomatici, bensì costi­tuiscono il punto di arrivo di elaborazioni che nascono e  si sviluppano attraverso i meccanismi della condivisione e dell’imitazione dell’auctoritas riconosciuta. Esse possono così vedere la loro fortuna assicurata attraverso la riproposizione imitativa, oppure attraverso una rein-

1  Il § 1 è dovuto a E. S. Mainoldi, i §§ 2-3 sono stati composti da entrambi i curatori. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127951 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 19-77      © 

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RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI

terpretazione concettuale – che talvolta può sfociare anche nella trasformazione terminologica della struttura stessa. La triade ‘essenza – potenza – operazione’ costi­tuisce un caso di struttura terminologica che ha conosciuto una durevole fortuna nella storia del pensiero filosofico occidentale, dalla sua comparsa nella riflessione neoplatonica in Tarda Antichità fino alle soglie dell’Età moderna. Tuttavia, a differenza di altre strutture che hanno trovato definizione nelle pagine di un singolo autore, la triade ha avuto una genesi terminologica e concettuale non chiaramente riportabile a un preciso capitolo della storia della filosofia, bensì si è  generata come graduale risposta a  una serie di quesiti emersi in diversi ambiti della riflessione tardoantica – dall’ontologia, alla psicologia, alla teologia – fino ad assumere la fisionomia che ne ha assicurato la trasmissione alle epoche successive. In virtù di questo suo esordio tra le righe, quasi nell’ombra, il suo essere sostanzialmente adespota – usata da molti ma di nessuno –, lo studio della triade non ha suscitato l’attenzione storiografica che la storia della sua fortuna meritava. Tuttavia, non si può affermare che la triade costi­tuisca un fenomeno ignoto alla letteratura scientifica o tralasciato in assoluto dagli studiosi. Essa trova infatti spazio in segnalazioni, nonché in paragrafi e note ad essa dedicati in tutta una cospicua e rilevante serie di studi. La storiografia contemporanea vede come primo momento in cui è stata richiamata l’attenzione su di essa in una nota di AndréJean Festugière al  capitolo relativo alle potenze dell’anima del De anima di Giamblico 2. Lo  studioso francese, che definisce la triade «division», riporta alcuni riferimenti a  sue occorrenze incomplete (come οὐσία – δυνάμεις o  vires – efficaciae et operae in Tertulliano) e una sua occorrenza completa nel Commento al «Timeo» di Proclo, senza peraltro precisare come essa si presenti nel De anima di Giamblico: in questo trattato, giunto frammentario, la triade infatti non compare in un luogo unitario, bensì costi­tuisce lo schema di articolazione del compendio dossografico del trattato 3. Dalla nota di Festugière traspare anche l’ambi2 Cfr. A.-J. Festugière, Note a Iamblichus, De anima, I, 2, A, tr. fr. e commento di A.-J. Festugière, in Id., La Révélation d’Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1944-1954 (20062), III: Les doctrines de l’âme, 1953, [pp. 177-264], p. 190, 1. 3  Cfr. C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van

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LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ

guità interpretativa che accompagnerà costantemente il generale approccio storiografico alla triade sia in relazione alle sue occorrenze incomplete – che di fatto non possono essere considerate occorrenze –, sia in relazione alla sua origine, affermandosi che essa «remonte pratiquement à Aristote». Negli stessi anni in cui usciva la monumentale raccolta dello studioso francese, la triade era oggetto di un capitolo dello studio di Polycarp Sherwood dedicato ai primi Ambigua di Massimo il Confessore 4. Sherwood contestualizza la triade sia in riferimento alla sua origine neoplatonica sia in riferimento alla sua adozione nel pensiero teologico patristico, analizzandone le occorrenze nel Corpus Dionysiacum e  negli scholia di Giovanni di Scitopoli ad esso relativi, nonché in Massimo. Pur non menzionando il lavoro di Festugière, il suo giudizio sull’origine e sulla prima apparizione della triade non se ne discosta troppo: «the underlying doctrine, in origin Aristotelian, has become part of  the common Neoplatonic heritage; the triad as such is first found in the De mysteriis of  Jamblichus, as a commonplace» 5. La triade doveva riemergere in un altro studio destinato ad avere grande risonanza tra le ricerche sulla filosofia neoplatonica e il suo rapporto con il cristianesimo, ovvero il Porphyre et Victorinus di Pierre Hadot 6. Seguendo Festugière, di cui riporta anche l’opinione che la triade sia «en germe chez Aristote», Hadot approfondisce l’interpretazione di questa struttura in relazione ad altre triadi neoplatoniche, arrivando alla conclusione che già in Giamblico e quantomeno in Proclo la triade sia «constitutive de toute réalité».

den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006, p. 93, nota 31). Per una più dettagliata analisi dei riferimenti alla triade in Festugière in relazione a Giamblico cfr. il saggio di L. I. Martone in questo stesso volume. 4 Cfr. P. Sherwood, The earlier «Ambigua» of  Saint Maximus the Confessor and His Refutation of  Origenism, Roma 1955 (Studia Anselmiana, 36), pp. 103-123. 5  Ibid., p. 105. Per una più dettagliata analisi delle conclusioni di Sherwood sulla triade in Massimo cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo stesso volume, p. 227 6  Cfr. P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), II, pp. 268-269, nota 10.

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RENATO DE FILIPPIS – ERNESTO SERGIO MAINOLDI

Carlos Steel, nel suo influente studio sull’anima nel tardo neoplatonismo, The changing Self   7, si sofferma sulla triade in relazione al  quesito, già posto da Aristotele, circa l’esistenza dell’anima separata dal corpo, che in Giamblico e successivamente nel Commento all’«Alcibiade» di Proclo viene rielaborato in base alla triade, arrivando alla conclusione che la sostanza dell’anima è conoscibile attraverso le sue attività. In una nota corrispondente a queste osservazioni, Steel porta ulteriori riferimenti alla presenza della triade negli autori neoplatonici 8. La triade trova poi spazio nella monografia di Gregory Shaw dedicata a  Giamblico: anche se il ruolo del filosofo di Calcide nella storia della triade non è qui oggetto di considerazione, la sua origine è  illustrata come trasformazione di una distinzione terminologica di origine aristotelica in una triade emanativa tipica del tardo neoplatonismo 9; essa è menzionata nelle sue occorrenze nel frammento del commentario giamblicheo all’Alcibiade e nel De mysteriis, in relazione alle quali essa è presentata come criterio di distinzione tra le varie classi di anime 10. Anche Daniela Taormina analizza il ruolo della triade in Giamblico, offrendo un’analisi sulla trasformazione dei suoi termini rispetto al  modello aristotelico e  indicando nella triade uno dei «tre nuclei fondamentali (…) che si intersecano reciprocamente intorno ad un nucleo comune: il rapporto tra anima e corpo» 11. Muovendosi oltre i confini cronologici della tradizione neoplatonica e patristica Giulio d’Onofrio portava alla luce la presenza della triade in Giovanni Scoto Eriugena, un’attestazione che fino ad allora non aveva attirato l’attenzione degli studiosi 12. Soffer Cfr. Steel, The changing Self  cit.  Cfr. ibid. (tr. it. cit., p. 93). 9  Cfr. G. Shaw, Theurgy and the Soul. The Neoplatonism of  Iamblichus, University Park (PA) 1995 (Hermeneutics. Studies in the History of  Religions), p. 72. 10 Cfr. ibid., p. 78. I passi presi in considerazione da Shaw sono analizzati nel già citato saggio di L. I. Martone. 11 Cfr. D. P. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico, Firenze 1990 (Symbolon, 10), p. 52; cfr. anche ibid., pp. 27 e 41. 12  Cfr. G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 Gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. 7 8

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LA FORMAZIONE E LE RICEZIONI DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ

mandosi sulle fonti della triade nell’Eriugena, ovvero lo pseudoDionigi Areopagita e Massimo il Confessore, d’Onofrio mostra come l’Irlandese fosse approdato a un’interpretazione divergente rispetto ad essi, soprattutto in relazione al  primo. Facendo poi riferimento all’origine aristotelica dei concetti di atto e potenza, d’Onofrio ipotizza che l’Eriugena abbia potuto trarre ispirazione nella sua rilettura della triade dai tesi di logica che circolavano nelle scuole carolingie, a partire dallo pseudo-agostiniano Categoriae decem, dove il maestro irlandese poteva leggere la definizione di atto e potenza, cosa che gli ha permesso di operare un «re-innesto della dottrina pseudo-dionisiana nella tradizione aristotelica originale» 13. In un più recente studio d’Onofrio ha portato all’attenzione il ricorso alla triade da parte di Dante, accompagnata da una disamina circa la sua fortuna nel pensiero medievale (muovendo dalla sua origine e funzionalità nel pensiero neoplatonico, passando per la lettura di Giovanni Scoto e  segnalando la sua presenza negli scritti di «numerosi teologi di area monastica del secolo xii», e  dedicando infine alcune note analitiche alla triade in Bonaventura da Bagnoregio e  in Tommaso d’Aquino) 14. Attraverso i  risultati di questa analisi d’Onofrio ha sostenuto la centralità dell’ontologia neoplatonica della triade nel pensiero di Dante, in particolare, nell’argomentare la finalità della creazione e, nella fattispecie, dell’essere umano: nell’opera creatrice di Dio, il fine è la creatura portata ad attuazione attraverso il passaggio dalla potenza all’atto di ciò che è virtualmente implicito nella condizione originaria delle essentiae. Tra i  successivi studi dedicati ad autori cristiani la triade ha trovato spazio nella monografia di Philipp Renczes dedicata a Massimo il Confessore 15, dove è messo in luce come in questo autore il passaggio dalla potenza all’operazione sia concepito tria  Ibid., p. 351.  Cfr.  Id., Esse, virtus, operari. Educazione dell’uomo e  perfezione naturale nella Monarchia di Dante, in «Ratio practica» e «ratio civilis». Studi di etica e politica medievali per Giancarlo Garfagnini, a cura di A. Rodolfi, Pisa 2016 (Philosophica, 172), pp. 119-156; questi risultati sono ripresi e ampliati nel capitolo di questo stesso volume dovuto a G. d’Onofrio. 15 Cfr. Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229). 13

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dicamente in base all’essenza, che è  il loro principio originario, e  la triade stessa si ricolleghi all’idea di movimento, acquisendo un senso di finalità che non compariva nelle fonti a lui precedenti. Renczes segue il giudizio di Sherwood per cui Massimo sarebbe stato il primo autore ad usare estensivamente la triade. Nuovi elementi sulla storia della triade dovevano essere portati da David Bradshaw in un libro destinato ad avere vasta risonanza, il cui ambito di ricerca verte sui temi metafisici che hanno caratterizzato e  distinto le tradizioni cristiane d’Oriente e  d’Occidente, assumendo come filo dell’indagine il concetto di ἐνέργεια 16. Bradshaw muove da un punto fondamentale, sul quale in questo volume come in altri suoi contributi ha attirato l’attenzione sottolineandone l’importanza, ovvero la paternità aristotelica del termine ἐνέργεια, cosa che permette di tracciare una precisa genesi delle molteplici elaborazioni filosofiche che hanno preso le mosse da esso. Il  lavoro di Bradshaw può essere visto come una storia delle ontologie che sono state sviluppate a partire dall’interpretazione dell’ἐνέργεια e del suo ruolo nelle strutture terminologicoconcettuali che l’hanno inclusa. La triade trova spazio in questo lavoro solo come epifenomeno delle relazioni tra l’ἐνέργεια e gli altri termini del discorso ontologico. Bradshaw porta però all’attenzione alcune associazioni finora inavvertite dei termini della triade che presentano grande interesse per lo studio della sua formazione, in particolare quelle in due autori precedenti al neoplatonismo come Galeno e Filone, sulle quali torneremo in seguito 17. Un ulteriore contributo allo studio della triade è stato offerto dal volume di Jean-Claude Larchet in cui viene ricostruita, con taglio teologico-sistematico, la dottrina delle energie divine nella tradizione patristica orientale 18. Basandosi sulla monografia di Bradshaw, Larchet si sofferma sulle fonti pre-patristiche della triade, segnalandone l’origine aristotelica nonché la presenza in Filone; in merito al neoplatonismo afferma che, oltre a Giamblico alla triade «les autres philosophes néo-platoniciens n’accordent

16  Cfr. D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of  Christendom, Cambridge 2004. 17 Cfr. infra, alle note 21, 91-94 e testo corrispondente. 18 Cfr. J.-C. Larchet, La théologie des énergies divines. Des origines à Saint Jean Damascène, Paris 2010 (Cogitatio fidei, 272).

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pas d’importance» 19. Fa dunque seguire a queste note preliminari una dettagliata analisi delle occorrenze della triade nel De mysteriis di Giamblico 20. Il riferimento alla triade in Filone non è oggetto di particolari sviluppi nella trattazione di Larchet, tuttavia le sue osservazioni sui concetti di potenza ed operazione nel filosofo ed esegeta alessandrino sono rilevanti, in quanto esse pongono in luce come le potenze divine non siano concepite da Filone come potenzialità destinate ad attualizzarsi nel mondo fisico, alla stregua di Aristotele, bensì come «puissances en activité au niveau même du monde intelligible qui est le leur» 21. La  posizione di Filone, per cui le potenze divine si fanno conoscere nell’impronta della loro attività (ἐνέργεια) ma restano inconoscibili nella loro essenza (οὐσία), stabilisce dunque un legame strutturale tra questi concetti che è già post-aristotelico e risente di una lettura platonizzante. La triade trova poi ampio spazio nei capitoli dedicati a Gregorio di Nissa e a Massimo il Confessore. Per quanto riguarda il primo, sottolineando il consenso storiografico sulla presenza della distinzione tra essenza ed energia nel Nisseno, Larchet osserva come questo Padre abbia inteso la triade in senso ontologico e non temporale al fine di contrastare la degradazione di stampo neoplatonico introdotta da Eunomio di Cizico nella Trinità; conseguentemente arriva a constatare come in Dio, a differenza delle creature, potenza ed energia coincidano 22. Q uesta osservazione coglie una tendenza che caratterizzerà in generale la ricezione greco-patristica e bizantina della triade, come lo stesso Larchet osserva tangenzialmente in relazione allo pseudoDionigi 23 e  a Giovanni Damasceno, autore sul quale si chiude il volume 24. Lo  studioso francese è  tuttavia restio ad accettare questa identificazione, in ragione della distinzione tra ‘potenza’ ed ‘energia’ mantenuta, almeno a  livello terminologico, dalle Scritture e  dalla tradizione patristica. Nel caso del Damasceno Larchet si sforza di spiegare quella che egli giudica essere «appa-

  Ibid., p. 53.  Cfr. ibid., p. 56. 21   Ibid., p. 72, nota 50. 22 Cfr. ibid., p. 190. 23 Cfr. ibid., p. 313. 24 Cfr. ibid., pp. 425-426. 19 20

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remment (…) une identification de l’énergie avec la puissance» 25, intendendo la potenza come «une faculté en activité» 26 – soluzione che a  nostro avviso non risolve il problema, a  partire dal non approfondire se di potenza divina o  di potenza creaturale si stia qui parlando. La  medesima problematica si incontra nel capitolo dedicato a  Massimo. Q uesto si apre con un paragrafo incentrato sulla triade, che viene presentata – citando il giudizio di Sherwood 27 – come uno dei principali elementi del pensiero del Confessore. Larchet osserva che Massimo concepisce la potenza in stretto rapporto con l’energia, essendo questa che permette alla potenza di passare dallo stato di mera capacità a facoltà che si esercita concretamente; inoltre la potenza senza energia è  priva di esistenza 28. Con queste osservazioni Larchet sembrerebbe ammettere che in Massimo, come nei Padri che lo hanno preceduto e negli autori cristiani ellenofoni che lo hanno seguito, la distinzione tra potenza ed energia è concepita piuttosto come una distinzione logica che non ontologica – questo almeno nel discorso teologico che è prevalente in questi autori, fatta salva l’eccezione di alcune rare occorrenze dove il binomio potenza-energia (o la triade stessa) riceve una lettura legata alla temporalità, avvicinandosi al binomio aristotelico di atto-potenza. Q uesta difficoltà interpretativa nasce, a nostro avviso, dal fatto che termini come ‘potenza’ ed ‘energia’, che sono attestati nella Septuaginta e  nel Nuovo Testamento, hanno una storia che non va confusa con la struttura terminologica della triade essenza – potenza – energia, onde si rende importante chiarire le ragioni teoriche e storiche che hanno portato alla formazione di questa struttura, aspetto su cui lo studio di Larchet non si sofferma e di cui si avverte in generale la mancanza nella storiografia ad essa dedicata fino ad ora. Come ultimo studio di ampio respiro in cui la triade trova spazio, menzioniamo il volume di Torstein Theodor Tollefsen sull’attività e la partecipazione nel pensiero tardoantico e patristico 29. Q ui la triade è considerata esclusivamente in Gregorio di Nissa e   Ibid., p. 425.   Ibidem. 27 Cfr. supra, alla nota 3. 28 Cfr. ibid., pp. 332-334. 29 Cfr.  T. Th.  Tollefsen, Activity and Participation in Late Antique and Early Christian Thought, Oxford 2012 (OECS). 25 26

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in Massimo il Confessore. In relazione al primo si afferma l’unità ontologica tra la natura divina, la divina potenza e  l’attività; quest’ultima in particolare è l’effetto della divina potenza 30. Più articolata è l’analisi della triade nel Confessore, per il quale essa sarebbe un «ontological tool for the analysis of  created being» 31. L’ἐνέργεια è concepita da Massimo come «the final result beyond the actualization of  power in movements» 32 e dunque va intesa come «the fulfilment of  essence, its perfection or actuality, not in the sense of  making it present, which it already is, but in the sense of  expanding in complete activity what the essence is capable of» 33. Interrogandosi sul rapporto tra il movimento mediano della potenza e l’attualità finale, Tollefsen si richiama all’Opusculum 14, dove Massimo afferma che «la potenza è l’ἐνέργεια che agisce nella materia, e l’ἐνέργεια è potenza immateriale. O ancora, l’ἐνέργεια è la finalizzazione della potenza naturale» 34. Tollefsen, che pur vede nel Confessore il superamento della nozione aristo­ telica di δύναμις come potenzialità, interpreta questa sentenza equiparando la prima definizione alla nozione aristotelica di attualità prima o potenzialità seconda; mentre la seconda definizione viene equiparata all’aristotelica seconda attualità 35. Q uesta rassegna storiografica, pur non ambendo all’esaustività, offre un campione significativo delle interpretazioni della triade formulate dalla ricerca contemporanea, dalle quali emerge la difficoltà nel giungere ad un inquadramento di questa struttura in relazione alla sua formazione e alle sue fonti, nonché di ancorarla a una lettura teorica univoca. In particolare, i seguenti quesiti risultano ancora aperti: quale è la reale funzionalità della triade? Q uale modello ontologico presuppone e  quale istanzia? Cosa si mantiene costante e cosa varia negli autori che la utilizzano e nei contesti in cui si presenta? La complessità di questi problemi è confermata anche dall’assenza di trattazioni approfondite della triade in opere in cui ci si  Cfr. ibid., pp. 96-97.   Ibid., pp. 144-145. 32   Ibid., p. 146. 33  Ibidem. 34  Maximus Confessor, Opuscula theologica et polemica, 14, Variae definitiones, PG 91, [119-153], 153A (tr. nostra). 35 Cfr. infra, il testo corrispondente alla nota 60. 30 31

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aspetterebbe di trovarne, soprattutto se queste sono delle pietre miliari degli studi neoplatonici degli ultimi cinquant’anni, come è il caso del Proklos di Werner Beierwaltes e del From Iamblichus to Eriugena di Stephen Gersh 36. Che la triade non trovi spazio né analisi di rilievo al fianco di concetti e strutture che gli autori di questi studi identificano come assi portanti del pensiero neoplatonico non è certo per dimenticanza, dal momento che entrambi la menzionano, relegandola tuttavia in una posizione secondaria come struttura subordinata ad altre. Le ragioni di questo trattamento della triade, che certo non rende conto della sua fortuna come struttura a sé stante, evidenzia allora l’agire sottotraccia di particolari aspetti della cui ricerca e comprensione non possiamo fare a meno nel tentativo di gettare luce sulla genesi e la fortuna della triade. Beierwaltes riconosce nelle strutture triadiche un elemento fondamentale del pensiero di Proclo: «L’unità dialettica di unità e triadicità emerge [in Proclo] come il problema di fondo del [suo] filosofare», al punto che la triadicità costi­tuisce «l’asse portante di tutto il suo pensiero» 37. L’Uno si dispiega in modo triadico nel cosmo noetico, che è organizzato in base a un sistema gerarchizzato di triadi 38. Per Proclo la «triadicità», ovvero il principio triadico del dispiegamento noetico dell’Uno, è dunque la «triade delle triadi» 39. Ogni triade è al contempo un’«unità e molteplicità» che implica tra i  suoi tre termini una dinamica circolare. Nella circolarità triadica si pone il compimento dell’essere, mentre il pensiero giunge al fondamento dell’essere seguendo il «cir-

36  Cfr. W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Frankfurt a. M. 1965 (Philosophische Abhandlungen, 24) (tr. it., Milano 1990); S. Gersh, From Iamblichus to Eriugena: An Investigation of   the Prehistory and Evolution of  the Pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie, 8) (tr. it., Bari 2009). 37  Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., pp. 63-64). Sul sistema delle triadi in Proclo, cfr. anche A. C. Lloyd, Procession and Division in Proclus, in Soul and the  Structure of  Being  in Late Neoplatonism: Syrianus, Proclus and Simplicius. Papers and discussions  of  a Colloquium held at Liverpool (15-18 April 1982), ed. by H. J. Blumenthal - A. C. Lloyd, Liverpool 1982, [pp. 18-45], pp. 20-21; G. Van Riel, The One, the Henads, and the Principles, in All from One. A Guide to Proclus, ed. by P. d’Hoine - M. Martijn, Oxford 2017, [pp. 73-97], pp. 82-89. 38 Cfr. Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., p. 71). 39  Ibid., p. 77.

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colo triadico descritto da ciascuna triade» 40. Beirwaltes identifica nel sistema procliano sei triadi fondamentali: limite – illimite – misto, essere  – diversità  – identità, principio  – mezzo  – fine, intellegibile  – intelligibile-e-intellettivo  – intellettivo, essere  – vita – spirito [νοῦς], manenza – processione – conversione (μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή). Q uest’ultima è «insita in ogni altra triade, [e ne] costi­tuisce il fondamento dinamico» 41: in essa si pone infatti in evidenzia il dinamismo circolare del νοῦς e  si esplicano i nessi ontologici della causalità, in quanto i suoi tre termini «si mostrano come i  tre momenti strutturali dell’intero movimento dell’agire della causa» 42. Citando l’Elementatio theologica di Proclo: «Ogni effetto resta nella sua causa, procede da essa e si rivolge ad essa» 43. La concezione della causalità in Proclo presuppone l’eternità del mondo e l’azione demiurgica che si esplica attraverso la triade bontà – volontà – provvidenza (ἀγαθότης – βούλησις – πρόνοια), e nella quale la volontà è  «il compimento della bontà propria del demiurgo intesa come provvidenza» 44. Q uesta triade trova svolgimento in altre tre triadi, delle quali una è la triade essere – potenza – atto. Beierwaltes non chiarisce tuttavia come avvenga e  cosa implichi questo svolgimento, né si addentra nell’analisi di quest’ultima triade in particolare, né qui né in altre parti del volume. Q uesta derivazione, che non trova approfondimento teorico (né viene discussa in relazione alla sua origine), ha più che altro lo scopo di far rientrare nel generale sistema triadico procliano la triade essenza  – potenza  – operazione, dal momento che questa ricorre comunque nell’opera del Diadoco, allegandola alla sua trattazione della causalità nel divenire cosmico. Se andiamo a considerare un altro riferimento alla triade nell’opera di Beierwaltes, quello che compare nel saggio Unità e Trinità, dedicato al pensiero eriugeniano, essa è detta caratterizzare «la struttura ontologica dello spirito [cioè del Νοῦς] ed insieme il   Ibid., p. 64.   Ibid., p. 161. 42   Ibid., p. 172. 43  Proclus, Elementatio, prop. 35, p.  38,  9-10; cfr.  anche ibid., prop. 38, p. 40, 17-19; cit. in Beierwaltes, Proklos cit. (tr. it. cit., p. 172). 44  Ibid., p. 186. 40 41

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suo movimento interiore» 45. In una nota relativa a questo passo Beierwaltes compie un’osservazione rilevante al  fine del chiarimento della genesi della triade: «La  trasformazione dearistotelizzante del concetto di δύναμις nel senso della attiva capacità o potenza affonda le sue radici nel neoplatonismo sia per quanto concerne un’affermazione sul primo Principio, sia all’interno della triade usia-dynamis-energheia» 46. In  relazione all’associazione compiuta dall’Eriugena tra i  termini della triade e  le tre persone della Trinità, lo studioso tedesco illustra nei seguenti termini la dialettica triadica: «La  differenza nell’unità diventa manifesta ed attiva, come nella Trinità divina, attraverso un interno ed attivo dispiegarsi di una essentia che, tuttavia, permane in sé; in questo atto essa diventa la propria ‘virtus’, la ‘potenza’ o ‘forma’ che si mostra, e che, attraverso una ‘operatio essentialis’, una ‘attività o un atto essenziale’, trasmette, in modo costitutivo o conoscitivo, la propria potenza o forma ad un altro» 47. Poco più sotto aggiunge che la triade «esse-virtus-operatio caratterizza in modo universale la realtà» 48. Da questi riferimenti ci sembra possibile rilevare la difficoltà incontrata da Beierwaltes nel collocare la triade essenza – potenza – operazione all’interno del sistema triadico procliano, motivo per cui si limita a menzionarne la derivazione da altre triadi senza offrire giustificazioni né analisi delle implicazioni di questa asserzione. Il motivo di questa difficoltà traspare implicitamente dalle succinte note di approfondimento date nel saggio eriugeniano e va riconosciuto nel fatto che la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια non obbedisce al principio di triadicità circolare, come le altre triadi, ma costi­tuisce un dispiegamento lineare e manifestativo che non comporta reversibilità bensì finalità. Ancora più marginale è  la posizione che la triade occupa nell’ampia riflessione dedicata da Stephen Gersh al pensiero neoplatonico. Nel suo primo libro, ΚΙΝΗΣΙΣ ΑΚΙΝΗΤΟΣ, non se

  Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Frankfurt a. M. 1994 (tr. it., Milano 1998, p. 262). 46  Ibid., p. 286, nota 128. 47  Ibidem. 48  Ibidem. 45

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ne ha traccia 49. In From Iamblichus to Eriugena troviamo un’unica menzione di essa in riferimento alla Gerarchia celeste di Dionigi 50: i  termini della triade vengono qui brevemente ricondotti alle caratteristiche principali della gerarchia angelica, ma nulla è detto circa l’origine della loro struttura, salvo rimandare in nota a una precedente sezione del volume, dove però non troviamo nessun riferimento alla triade, bensì la trattazione della trasformazione neoplatonica dei concetti di ἐνέργεια e  δύναμις; una scorsa agli indici degli autori ci permette infine di constatare come in questo volume non siano presi in considerazione i passi delle opere in cui essa compare – da quelli del De anima e del De mysteriis di Giamblico alla propositio 169 dell’Elementatio di Proclo, fino ai passi del Periphyseon eriugeniano. È lecito pensare che la marginalità della triade in due opere destinate a  occupare un ruolo di primo piano nella storiografia degli studi neoplatonici, nelle quali inoltre la discussione della triadicità come paradigma concettuale nel neoplatonismo ha avuto centralità e diverse triadi vengono illustrate come suoi elementi chiave, abbia sfavorito l’interesse da parte degli studiosi di questa tradizione ad approfondire le ragioni di questa struttura, al  contrario invece del maggior interesse che si può constatare negli studi di patristica per via delle auctoritates che vi hanno fatto riferimento. Una conferma di questo stato delle cose viene anche dalla monografia di Lutz Bergemann dedicata alla metafisica della potenza nel neoplatonismo, dove la triade trova spazio solo in un paragrafo dedicato a  Giamblico, in relazione al  solo frammento del Commento all’«Alcibiade», ed è  interpretata in relazione alla metafisica della luce-potenza e  come elemento strutturante dell’intellegibile 51. Possiamo peraltro constatare che dalla storiografia tedesca degli ultimi quindici anni sono anche giunti segnali in controtendenza, con due studi in cui la triade è oggetto di riflessioni approfondite e non limitate a singoli episodi, come nel caso

49  Cfr. S. Gersh, ΚΙΝΗΣΙΣ ΑΚΙΝΗΤΟΣ. A Study of  spiritual Motion in the Philosophy of  Proclus, Leiden 1973 (Philosophia Antiqua, 26). 50 Cfr. Id., From Iamblichus to Eriugena cit., p. 174 (tr. it. cit., p. 216). 51 Cfr. L. Bergemann, Kraftmetaphysik und Mysterienkult im Neuplatonismus. Ein Aspekt neuplatonischer Philosophie, München - Leipzig 2006 (Beiträge zum Altertumskunde, 234), pp. 228-233.

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di Christoph Helmig che dedica un’analisi al ruolo della triade in relazione alle differenze tra la psicologia aristotelica e quella neoplatonica 52, e di Thomas Leinkauf, che analizza la presenza della triade nel pensiero tardomedievale e  umanistico, premettendo alcune righe sulla sua presenza in Proclo in quanto fonte degli sviluppi tardomedievali 53.

2. La formazione della triade Considerata come struttura terminologica, la triade presuppone con ogni evidenza il binomio aristotelico di atto (ἐνέργεια) e potenza (δύναμις), tuttavia non è  immediato dedurre che quella derivi da questo mediante la semplice aggiunta dell’οὐσία. L’intui­ tiva identificazione – ricorrente nella storiografia – del pensiero dello Stagirita come retroterra della triade va infatti commisurata con l’evidenza che questa struttura non trova spazio nell’opera e  nel pensiero di Aristotele, né – come cercheremo di illustrare più sotto – avrebbe potuto trovarlo; inoltre, nel passaggio al contesto neoplatonico, i termini ἐνέργεια e δύναμις hanno subito una radicale trasformazione concettuale rispetto a come Aristotele ha inteso questo binomio. Un quesito allora si pone: perché nella tradizione neoplatonica si è formata e radicata questa struttura che muove da un binomio caratteristico del pensiero aristotelico? Da un punto di vista storico-testuale una preliminare risposta può venire dalla constatazione che le prime occorrenze della triade emergono in ambito neoplatonico proprio nel confronto con 52 Cfr. Ch. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus on Parts, Capacities and ousiai of  the Soul and the Notion of  Life, in Partitioning the Soul. Debates from Plato to Leibniz, ed. by K. Corcilius - D. Perler, Berlin - Boston 2014 (Topoi. Berlin Studies of  the Ancient World, 22), pp. 149-177, sui cui risultati ritorneremo in seguito; cfr. infra, p. 34, testo corrispondente alle note 60 e 61. 53 Cfr.  Th.  Leinkauf, Der Ternar essentia-virtus-operatio und die Essentialisierungen der Akzidentien, in Philosophie im Umbruch. Der Bruch mit dem Aristotelismus im Hellenismus und im späten Mittelalter, seine Bedeutung für die Entstehung eines epochalen Gegensatzbewusstseins von Antike und Moderne. VI Tagung der Karl und Gertrud Abel-Stiftung (Marburg, 29-30 November 2002), hrsg. von G. Radke-Uhlmann - A. Schmitt, Stuttgart 2009 (Philosophie der Antike, 21), pp. 131-153; inoltre Id., Francesco Patrizi, in Interpreting Proclus: from Antiquity to the Renaissance, ed.  by S.  Gersh, Cambridge 2014, [pp.  380-402], p. 397. Per la disamina di questi sviluppi tardivi della triade e la relativa letteratura scientifica, rimandiamo al saggio di R. Melisi in questo volume.

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i  testi aristotelici, come nel caso della critica portata da Plotino in Enneadi VI, 7 alla dottrina dell’atto-potenza – analizzata in questo volume nel saggio di Michele Abbate –, oppure nella trattazione giamblichea dell’anima – in questo volume analizzata da Iris Martone. Pur dovendosi escludere che la triade sia presente anche solo in forma germinale nel De anima di Aristotele, come mostra Martone in confutazione all’ipotesi che questo testo fosse la fonte diretta della triade in Giamblico, è tuttavia plausibile ipotizzare che la ripresa della terminologia aristotelica nei trattati neoplatonici sull’anima sia avvenuta proprio a partire dal confronto critico svolto dagli autori neoplatonici con l’ontologia e  la psicologia aristoteliche 54. Q uesto confronto giunse a  sistematizzare le nozioni di atto e  potenza in relazione all’essenza, passando per una reinterpretazione di questi concetti e semplificando da una parte il discorso – non sempre lineare – dello Stagirita, sia col risolvere la ridondanza comportata dalla nozione di ἐντελέχεια, sia formulando un modello adattabile alla metafisica neoplatonica 55. Nel secondo libro del De anima, Aristotele attribuisce tre significati alla nozione di οὐσία: da una parte quello di ‘materia’ (ὕλη), dall’altra quello di ‘figura’ e  ‘forma’ (μορφή καὶ εἶδος), e  infine l’unione dei due. La  materia è  qui definita δύναμις, la forma ἐντελέχεια 56. Essendo il corpo sostrato, Aristotele deduce la necessità che «l’anima sia sostanza (οὐσία), in quanto forma del corpo naturale che ha la vita in potenza. Tale sostanza (οὐσία) è entelechia: dunque l’anima è entelechia di un corpo di siffatta natura» 57. Per Aristotele «l’entelechia di ciascuna cosa si realizza naturalmente in ciò che è in potenza questa cosa, ossia nella materia appropriata. Che dunque l’anima sia entelechia e nozione di   Cfr. i saggi di M. Abbate e L. I. Martone in questo stesso volume; inoltre cfr. supra, alla nota 11, per il giudizio di Daniela Taormina. 55 Cfr. G. Bruni, Note di polemica neoplatonica contro l’uso e il significato del termine ἐντελέχεια, in «Giornale critico della filosofia italiana», 3° S., 14 (1960), pp. 205-236; S. Menn, The Origins of  Aristotle’s Concept of  Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73-114], pp. 75-76. 56 Cfr. Aristoteles, De anima, II 1, 412a 8, ed. W. D. Ross, Oxford 1961 (rist. 1967): ἡ μὲν ὕλη δύναμις, τὸ δ’ εἶδος ἐντελέχεια. 57   Ibid., 412a 19-22 (tr. it., Bari 1983, pp. 127-128): ἀναγκαῖον ἄρα τὴν ψυχὴν οὐσίαν εἶναι ὡς εἶδος σώματος φυσικοῦ δυνάμει ζωὴν ἔχοντος. ἡ δ’ οὐσία ἐντελέχεια· τοιούτου ἄρα σώματος ἐντελέχεια. 54

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ciò che ha in potenza di essere così, è chiaro da tutto questo» 58. Q ueste conclusioni permettono di constatare come il ragionamento dello Stagirita non presupponga alcuna dinamica triadica dietro al passaggio dalla potenza all’atto, a patto di non vedere nel riferimento al  «realizzarsi naturalmente» un riferimento a  una natura dietro alla quale si supponga esser adombrata l’οὐσία, poiché in Aristotele questo non c’è 59. Per comprendere il passaggio dal binomio aristotelico all’ontologia triadica neoplatonica si deve partire dalla constatazione – come sottolineato da Christoph Helmig nella sua riflessione sull’origine della triade – che lo Stagirita distingue nel De anima tra due sensi di δύναμις e due sensi di ἐνέργεια: se prendiamo come esempio la capacità di leggere, nel caso di un uomo che non ha ancora imparato a leggere si avrà una prima accezione di δύναμις, mentre, nel caso di un uomo che ha imparato a leggere si parlerà di essa in una seconda accezione. A questo secondo senso di δύναμις corrisponde la prima accezione di ἐνέργεια, mentre una seconda accezione di ἐνέργεια si avrà in riferimento all’atto concreto del leggere 60. Per i neoplatonici il primo senso di δύναμις è inammissibile in quanto – richiama sempre Helmig – l’anima razionale non è in nessun momento mera potenzialità, ma contiene tutte le sue facoltà nella sua essenza eterna 61. Se l’approdo alla triade è stato dunque raggiunto dal pensiero neoplatonico contestualmente al  confronto e  al superamento del modello psicologico aristotelico, la comprensione della formazione della triade non può esimersi dal considerare la trasfor  Ibid., 2,  414a 25-28 (tr.  it., pp.  133-134): ἑκάστου γὰρ ἡ ἐντελέχεια ἐν τῷ δυνάμει ὑπάρχοντι καὶ τῇ οἰκείᾳ ὕλῃ πέφυκεν ἐγγίνεσθαι. ὅτι μὲν οὖν ἐντελέχειά τίς ἐστι καὶ λόγος τοῦ δύναμιν ἔχοντος εἶναι τοιούτου, φανερὸν ἐκ τούτων. Per maggior chiarezza sull’assenza in Aristotele di riferimenti a potenzialità preesistenti nell’οὐσία/ natura ci siamo discostati dalla traduzione di Laurenti, che rendeva τοῦ εἶναι τοιούτου con «essere di tale natura», specificando però in nota che con questa espressione va inteso l’essere animato. 59 Per un esempio di deformazione ‘ousialistica’ del pensiero aristotelico rimandiamo ai rilievi critici offerti da L. I. Martone, in partic. alle note 27 e 29 del suo saggio in questo stesso volume. 60 Cfr.  Aristoteles, De anima, II 5,  417a 22-417b 2: la distinzione qui tracciata dallo Stagirita è tra ‘potenza’ ed ‘entelechia’ e le loro diverse accezioni sono identificate nell’essere sapiente, nell’avere scienza e nell’esercitare la scienza in atto. Cfr. anche supra, il testo corrispondente alla nota 35. 61 Cfr. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus cit., p. 162. 58

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mazione che in essa si compie del paradigma ontologico sotteso al binomio aristotelico: atto e potenza costi­tuiscono infatti, tanto dal punto di vista ontologico quanto da quello temporale, due stati oppositi ed escludentisi, la cui relazione permette di comprendere il venire all’essere di ciò che non è. La potenza, per Aristotele, non è  ciò che non si manifesta in quanto appartenente a un livello metafisico superiore, ovvero una potenza trascendente che si manifesta solo nell’atto, bensì è lo stato di potenzialità di ciò che può attualizzarsi in un essere 62. La δύναμις è potenzialità non causale, in quanto, per lo Stagirita, solo l’atto è l’agente causale che porta ad essere ciò che non era – in quanto mera potenzialità – e  non aveva alcuna possibilità di venire all’essere a  prescindere dall’atto. La  potenzialità stabilisce i  limiti dell’attuazione, definendo ciò che può attuarsi da un determinato essere, ad esempio una sedia da un tronco d’albero, oppure un topo da un topo e non da un elefante, ma lo stato di potenzialità non implica l’immanenza invisibile della sedia nel tronco, né di un individuo di una specie nel genitore della stessa specie. Ciò che porta un essere dalla potenza all’atto può essere solo un essere in atto che agisce come agente causale. In base a questo ragionamento Aristotele stabilisce l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza, in quanto dalla mera potenzialità non si produrrebbe alcun atto, ma è l’attualità di ciò che è proprio di un essere a fare sì che quell’essere abbia in potenza (cioè la potenzialità) di produrre atti secondo la propria specificità ontologica. L’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza richiede inoltre che il movimento universale presupponga in ultima istanza un’attualità eternamente in atto, e questa è la pura ed eterna attualità del primo motore 63. Nei capitoli ottavo e  nono di Metafisica Θ, Aristotele argomenta l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza in base a  tre criteri – la «nozione» (λόγος), il «tempo» e l’«οὐσία» –, mo62 Sulla critica aristotelica al concetto platonico di potenza e l’approdo alla concezione di δύναμις come potenzialità, cfr.  D.  Lefebvre, Dynamis. Sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance, Paris 2018 (Bibliothèque d’histoire de la philosophie), pp. 325, 357-440. 63 Cfr. E. Berti, Genesi e sviluppo della dottrina della potenza e dell’atto in Aristotele, in «Studia Patavina», 5 (1958), [pp. 477-505], pp. 492-495, 497, 501504; Menn, The Origins of  Aristotle’s Concept cit., pp. 73-78, 105.

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strando che la potenza non può essere principio dell’essere e del divenire 64. Il divenire e il cambiamento delle cose avvengono infatti in vista di un fine, il quale si trova nell’atto e non nella potenza 65. Gli animali hanno infatti la vista – esemplifica Aristotele – al fine di vedere e non il contrario (cioè non vedono al fine di avere la vista), mentre l’atto si esplica nell’oggetto che è prodotto 66; se ne conclude che l’essenza e la forma sono atto, e da qui si deduce l’anteriorità dell’atto rispetto alla potenza in base all’essenza 67. Nel pensiero di Aristotele atto e potenza sono i due stati ontologici in cui si scandisce il divenire di ogni essere particolare: non presuppongono un terzo elemento che giustifichi la loro origine da un punto di vista ontologico né il loro rapporto da un punto di vista logico. Essi definiscono la polarità sussistente, in relazione alla temporalità, tra le due più generali condizioni ontologiche in cui ogni essere può sussistere, ossia il non-essere-ancora e l’essere che si attua come immanenza concreta. Il rapporto di causalità tra queste due condizioni non presuppone nessun tipo di processione emanatistica tra esse (ovvero, l’una non è pre-contenuta nell’altra), bensì una relazione binaria contestuale alla causalità dell’essere, la cui continuità si riconduce sempre al  preliminare essere in atto dell’agente causale. Lo Stagirita contesta agli Accademici di non aver riconosciuto – in ragione della fedeltà da essi tributata al presupposto parmenideo dell’univocità dell’essere – la distinzione tra i due sensi del «non-essere», ammettendo il nonessere assoluto, che egli ritiene contraddittorio. Aristotele, infatti, accetta unicamente il secondo senso dell’essere, cioè il non-essere relativo, che è  la condizione ontologica della potenzialità. Ogni essere, che sia in atto o in potenza, presuppone infatti sempre l’anteriorità dell’essere in atto che trova la sua giustificazione ultima nell’attività eterna del primo motore 68. La riflessione di Aristotele sul divenire trova nel binomio attopotenza una sistemazione compiuta, autosufficiente e non accostabile agli sviluppi successivi del modello triadico neoplatonico.  Cfr. Lefebvre, Dynamis cit., p. 435.  Cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 8, 1050a 7-10. 66 Cfr. ibid., 1050a 12.30-31. 67 Cfr. ibid., 1050b 2-3. 68 Cfr. ibid., 1050b 5; cfr. Berti, Genesi e sviluppo cit., p. 492. 64 65

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Q uesto modello vedrà infatti nell’οὐσία il fondamento ontologico da cui derivano la potenza e l’atto. L’essenza è il principio di sussistenza e di identità di ogni essere ed è quindi anteriore all’atto e distinta da esso; l’atto perde il ruolo causale che aveva nella teoria aristotelica e diventa la realizzazione della potenza dell’essenza su un livello ontologico di minore trascendenza; la potenza costi­ tuisce a sua volta il momento in cui la trascendenza dell’essenza si determina in una molteplicità di proprietà anteriormente al loro esercitarsi come operazione/atto nella dimensione del movimento e della temporalità. Ribaltando il rapporto di causalità che avevano nel pensiero aristotelico, la δύναμις e  l’ἐνέργεια si configurano nel neoplatonismo come la causa e l’effetto del divenire di ogni essere (la cui sussistenza è garantita dall’essenza e non dal­ l’anteriorità dell’atto): esse istanziano una processione ontologica e manifestativa in cui si coniuga il binomio di origine aristotelica con il modello esemplaristico platonico, il quale comporta la corrispondenza tre le essenze e gli intellegibili. Di conseguenza la triade non avrebbe potuto trovare spazio nel pensiero di Ari­ stotele in ragione della sua posizione anti-idealista 69. Stephen Gersh ha illustrato la ricezione della teoria dell’attopotenza da parte dei neoplatonici come una ripresa integrale della teoria aristotelica della causalità con due fondamentali trasformazioni: 1) l’estensione della causalità oltre il dominio del sensibile (in Aristotele trovava applicazione solo nel dominio dei fenomeni fisici e  psicologici) e  la sua applicazione per analogia alle entità del mondo sovrasensibile (dèi, intelletti divini e  anime divine); 2)  la  sua combinazione con la teoria dell’emanazione. Q ueste due trasformazioni hanno portato all’applicazione della teoria dell’atto-potenza nel dominio dell’intellegibile e  la sua comprensione alla luce del modello emanazionista 70. Essendo l’ema­ nazione un «processo discendente che implica la conversione della forza in debolezza, in quanto, nella misura in cui la sorgente effonde la sua energia, l’irradiazione si depotenzia» 71, la sorgente emanativa è costi­tuita dalla potenza attiva (δύναμις) dell’agente di 69  La dottrina dell’atto e potenza iniziò a delinearsi nella riflessione aristotelica proprio in relazione alla critica della teoria delle idee; cfr. ibid., p. 480. 70 Cfr.  Gersh, From Iamblichus to Eriugena cit. (alla nota 35), pp.  32-33 (tr. it. cit., pp. 44-46). 71  Ibid., p. 33 (tr. it., p. 46).

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Aristotele, mentre il risultato dell’emanazione consiste nell’atto (ἐνέργεια) inteso come attività. La triade ha così visto il suo ingresso nella storia del pensiero soltanto con la riflessione neoplatonica, che si è misurata criticamente con il pensiero aristotelico e ha superato l’impianto ontologico con cui lo Stagirita aveva illustrato la dinamica generale del divenire. Ciò costi­tuisce un presupposto fondamentale per individuare correttamente la natura, gli sviluppi e  le trasformazioni di questa struttura ontologica: il primo rischio nel tracciare una fenomenologia della triade è, infatti, quello di riconoscerla dove essa non si trova, scambiandola per la dialettica aristotelica di atto e potenza, oppure di interpretare abusivamente, come sue ‘metamorfosi’, costruzioni metafisiche troppo lontane dal suo contesto di appartenenza o  troppo vaghe nel richiamarsi implicitamente ad essa 72. Oltre a ciò, bisogna osservare come l’elaborazione del modello della triade sia stata graduale: in primo luogo esso doveva rispondere al problema posto dall’incompatibilità tra la teoria aristotelica dell’atto-potenza e il paradigma platonico che stabilisce negli intellegibili il principio della molteplicità dell’essere – passaggio   Per questo motivo, il volume dà spazio ad alcune trasformazioni e ripensamenti della dottrina originaria solo nel caso in cui questi ne richiamino il modello vuoi nella terminologia (che è il primo punto di riferimento essenziale, nella liceità di variazioni come substantia/essentia oppure operatio/actio) vuoi nell’impianto concettuale, e dunque possano essere inclusi nella sua storia, che è quella di una struttura ontologica in grado di spiegare contemporaneamente la permanenza stabile dell’essere e la sua dinamicità evolutiva. In quest’ottica vanno letti i contributi di R. Schiavolin, M. Giannetta e D. Riserbato (cfr. i riferimenti infra, § 3). In base allo stesso principio, sono stati del tutto esclusi autori (come ad esempio Tertulliano, Aezio o Alessandro di Afrodisia, per cui si vedano i riferimenti in Festugière, Note cit. [alla nota 2], p. 190, nota 1) che attestano la sola conoscenza dei termini, il loro utilizzo magari a coppie, o la loro occasionale menzione complessiva; tutto ciò, infatti, non genera necessariamente né la triade né, tantomeno, una sua comprensione come modello ontologico unitario. Ricercare predecessori ancora più lontani, ad esempio nella dottrina platonica, avrebbe portato sulla via di un approccio generalistico alla storia del pensiero, perché se è indubbio che in Platone è sviluppata una riflessione sulla δύναμις, ad esempio nella Repubblica e nel Sofista (cfr. ad es. Plato, Respublica, V, 477c; Id., Sophista, 247de), e di fatto il problema del rapporto fra essere e divenire è centrale almeno nella seconda parte della sua speculazione, per arrivare alla triade bisogna considerare la critica aristotelica al divenire stesso come inteso da Platone, la ricezione di questa critica da parte dei neoplatonici, e soprattutto il concetto di ἐνέργεια, che di fatto risale proprio allo Stagirita. 72

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questo intrapreso da Plotino – 73; la fissazione della triade come struttura ontologica unitaria fu quindi raggiunta nell’ambito della riflessione di Giamblico sull’anima; con Proclo, la triade è infine consacrata come modello ontologico che si estende a ogni realtà, con le aporie che vedremo più sotto in relazione alla sua predicazione rispetto al Principio. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια si è configurata nell’elaborazione neoplatonica come ricezione della prospettiva teleologica implicata dalla concezione aristotelica del divenire – originariamente iscritta nella polarità degli stati di atto e potenza –, e della sua ricomprensione attraverso la molteplicità dei paradigmi intellegibili del Νοῦς 74. I  neoplatonici hanno infatti cercato di dare risposta a un problema che nella teoria aristotelica – da un punto di vista platonico – rimaneva irrisolto, ovvero: cosa fa sì che la potenzialità di una natura attualizzi sempre ciò che le è proprio? Perché da un cavallo si generano sempre cavalli e non ippopotami? In base al pensiero aristotelico la risposta a tale quesito consisterebbe nell’affermare che c’è sempre stata una catena generativa di generi e  specie, senza che per questo si debba ammettere un paradigma ideale che determini la sussistenza di questa catena. Ogni genere e ogni specie appartengono a una particolare catena generativa in cui il divenire dall’atto alla potenza di un determinato essere si produce sin dall’eternità del mondo. Per i neoplatonici invece l’identità o la distinzione tra gli esseri non può essere dedotta dalla ripetizione o assenza dei caratteri specifici nel

73 Cfr. W. Beierwaltes, Deus est esse – esse est Deus. Die onto-theologische Grundfrage als aristotelisch-neuplatonische Denkstruktur, in Id., Platonismus und Idealismus, Frankfurt a. M. 1972 (Philosophische Abhandlungen, 40), [pp. 5-82] (tr. it., Bologna 1987, pp. 27-30); Id., Denken des Eines. Studien zum Neoplatonismus und dessen Wirkungsgeschichte, Frankfurt a. M. 1985 (tr. it., Milano 1992, pp. 50-51, 60-61); per la relativa posizione di Proclo, cfr. Lloyd, Procession and Division in Proclus cit. (alla nota 36), p.  19: «Multiplicity first appears in the intelligible and intellectuals»; inoltre M.  Abbate, Il  divino tra unità e  molteplicità. Saggio sulla «Teologia platonica» di Proclo, Alessandria 2008 (Hellenica, 28), p. 19; Van Riel, The One, the Henads, and the Principles cit. (alla nota 36), pp. 73, 82. 74 Sulla teleologia aristotelica e  il suo rapporto con il finalismo platonico, cfr. R. J. Hankinson, Cause and Explanation in Ancient Greek Thought, Oxford 1998, pp. 127, 140ss.; D. Sedley, Creationism and its Critics in Antiquity, Berkeley - Los Angeles, CA - London 2007 (Sather Classical Lectures, 66), pp. 167ss., 184.

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divenire, ma deve presupporre un modello intellegibile universale, immutabile e trascendente rispetto agli individui, che garantisce la produzione dell’individuo indipendentemente dalla dimensione diveniente della contingenza. Un altro aspetto che ha verosimilmente guidato i neoplatonici verso la definizione del modello della triade è identificabile nella reazione alla concezione aristotelica del primo principio come ‘atto eterno’ e  ‘pensiero di pensiero’, che il neoplatonismo non poteva accettare, concependo il Principio, cioè l’Uno, come superiore all’Essere e  all’Intelletto. A  partire da Plotino questo problema trova soluzione nella concezione per cui nel Principio atto e potenza coincidono con l’essenza. Al di sotto della prima ipostasi, cioè dell’Uno, questo trinomio unificato assume invece una valenza propriamente triadica. Michele Abbate, nel suo contributo a questo volume, mostra come Plotino concepisca nei tre termini della triade la strutturazione del Νοῦς, in quanto complessivamente dotato di una potenza che si dispiega come attività che produce la molteplicità degli enti in quanto οὐσίαι 75. Ora, benché i  tre termini della triade siano concepiti come tre distinti momenti del­l’intellegibile, in Plotino essi non assurgono ancora pienamente a struttura terminologico-concettuale univocamente stabilita, come è possibile verificare dal loro utilizzo nel trattato sui numeri 76. L’indagine dei passaggi che hanno portato alla graduale configurazione dei tre termini in una struttura coordinata e  unitaria trova indizi utili in Porfirio, che da una parte li menziona – come già il suo maestro Plotino – per asserire l’estraneità dal quadro ontologico da essi stabilito rispetto al  Primo principio («[L’Uno] non ha necessità di nulla, né di parti, né di un’essenza, né di potenze, né di energie, ma è  la causa di tutte queste» 77),   Cfr. il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, pp. 87-89.  Cfr. ibid., p. 86, alla nota 23, e la relativa citazione da Plotinus, Enneades, VI 6. L’idea di Plotino è che il numero sia insito nel suo essere nella seconda ipostasi, ma abbia pure la potenzialità di determinare e differenziare gli enti, cosa che effettivamente accade in atto nella reale produzione degli enti stessi. Il Νοῦς è dunque esso stesso in certo modo triadico, perché nel suo Essere possiede potenzialmente e  produce effettivamente gli enti intellegibili, che a  loro volta danno origine alla realtà cosmica. 77   Porphyrius, Historia philosophiae (fragmenta), 15, in Id., Opuscula selecta, ed. A. Nauck, Leipzig 1886 (repr. 1963), p. 13, 18-20: χρῄζει γὰρ οὐδενός, οὐ μερῶν, οὐκ οὐσίας, οὐ δυνάμεων, οὐκ ἐνεργειῶν, ἀλλ’ ἔστι πάντων τούτων αἴτιος. 75 76

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dall’altra li evoca come criterio di distinzione tra le classi di esseri («Non è poi necessario che ti venga dimostrato in cosa un demone differisce da un eroe o da un’anima, se in base all’essenza oppure in base alla potenza o all’operazione» 78). Q ueste due occorrenze sono le uniche in cui i tre termini della triade compaiono giustapposti in Porfirio, tuttavia non è possibile affermare con certezza se tale accostamento sia il prodotto di una concezione unitaria dei tre termini come triade oppure una semplice enumerazione di proprietà ontologiche. Da esse possiamo però ricavare alcuni elementi utili allo scioglimento del quesito, in quanto entrambe evidenziano come la δύναμις e  l’ἐνέργεια siano ormai svincolate dalla relazione ontologica che avevano nel binomio aristotelico. In particolare, la concezione della potenza non è più circoscritta al significato di potenzialità in quanto non-essere relativo. Nella sua Storia della filosofia Porfirio parla di potenze al plurale, signi­ ficando così la potenza come capacità di molteplicità, mentre nella Lettera ad Anebo essa diventa il criterio della differenza ontologica tra le diverse classi di anime (ovvero dèi, demoni, eroi e uomini) 79. Q uesti aspetti lasciano intendere che l’interpretazione dei tre termini e la loro associazione in Porfirio si collochi in un contesto speculativo ormai post-aristotelico. Tuttavia, l’esiguità di queste occorrenze e la possibilità che la seconda di esse vada intesa come polarità di essenza da una parte e potenza e atto dall’altra piuttosto che come una triade vera e propria, suggeriscono prudenza nel pronunciarsi a favore dell’ipotesi che i tre termini si siano costi­ tuiti in una triade strutturata e  unitaria già nella riflessione del   Id., Epistula ad Anebonem, 1, 3e 5, ed. A. R. Sodano, Napoli 1958, p. 7: δεῖ δὲ δὴ καὶ τοῦτο προσαποδειχθῆναί σοι, δαίμων ἥρωος καὶ ψυχῆς τίνι κατ’ οὐσίαν διαφέρει ἢ κατὰ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν. 79  Cfr.  C. Militello, Antecedenti porfiriani della triade ΟΥΣΙΑ-ΔΥΝΑ­ ΜΙΣ-ΕΝΕΡΓΕΙΑ, in «Annali della facoltà di Scienze della formazione. Università degli studi di Catania», 9 (2010), [pp. 171-182], p. 175 (la ricerca pubblicata in questo contributo era stata presentata dall’autrice, nell’a.a. 2007-2008, nel contesto del seminario dedicato alla triade organizzato presso il dottorato in «Filosofia tardo-antica, medievale e umanistica» dell’Università di Salerno, da cui trae origine il presente volume). Secondo la studiosa, Porfirio cerca di stabilire il rapporto fra l’anima come incorporeo in sé e il corpo, e dichiara in particolare che la sostanza [= essenza] dell’anima resta al di là dello spazio fisico, ma le sue potenze e i suoi atti si esprimono in un corpo. In questo modo l’anima indivisibile si dividerebbe in parti che sono appunto le sue possibilità e le sue azioni. 78

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filosofo di Tiro 80. Il contributo di Porfirio alla formazione della triade potrebbe tuttavia riconoscersi nell’aver ispirato Giamblico a  sviluppare la concezione unitaria dei suoi tre termini, quale il filosofo di Calcide mostra di aver raggiunto nel De mysteriis, opera che costi­tuisce precisamente una confutazione della porfiriana Lettera ad Anebo 81, e  poi sviluppato nel De anima. Appare con evidenza che nel De mysteriis Giamblico abbia preso le mosse dalla distinzione triadica tra le classi di anime posta come quesito da Porfirio proprio in quella Lettera 82. Con Giamblico la triade raggiunge una configurazione strutturale definitiva in quanto unità triadica o triadicità unitaria e come tale assume una posizione definita e  ricorrente all’interno del discorso ontologico neoplatonico. La formazione della triade si è dunque intrecciata con l’evoluzione della posizione neoplatonica nei confronti dell’ontologia aristotelica, dalla posizione critica di Plotino, nella cui riflessione si ha per la prima volta l’evidenza della posizione dell’οὐσία come elemento centrale alla comprensione del binomio δύναμις-ἐνέργεια, alla posizione di sintesi che accetta la piena compatibilità tra il pensiero dello Stagirita e quello di Platone, raggiunta dai successivi autori neoplatonici, come Por80  Sul terreno della prudenza si muove anche Militello, la quale propende per riconoscere soltanto in Giamblico la fissazione del trinomio οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια come struttura triadica compiuta, riconoscendo però il retroterra della sua formazione in Porfirio; cfr. ibid., pp. 176, 181-182. La triade sarebbe presente anche nel Commentario al «Parmenide» dubitativamente attribuito a Porfirio, ma nella forma ὕπαρξις – vita – intelletto che, in quanto tale, va esclusa dal novero delle occorrenze vere e proprie. Cfr. T. Leinkauf, Das höchste Prinzip als reines Sein: [Porphyrios], Victorinus, Boethius, in Metaphysik und Religion. Zur Signatur des spätantiken Denkens. Akten des internationalen Kongresses (Würzburg, 13.-17. März 2001), München - Leipzig 2002, [pp. 63-99], pp. 74-80. 81  Va ricordato che il titolo De mysteriis Aegyptiorum è una licenza editoriale di Marsilio Ficino, traduttore princeps dell’opera, mentre il titolo reale è: Risposta di Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo e risoluzione delle difficoltà che vi si incontrano; cfr.  É.  Des Places, Notice, in Jambliq ue, Les mystères d’Égypte, ed. É. Des Places, Paris 1966 (Collection de l’Université de France), pp. 6-7. 82  Cfr. R. Chiaradonna, Causalité et hiérarchie métaphysique dans le néoplatonisme: Plotin, Porphyre, Jamblique, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 12 (2014), [pp. 67-85], pp. 83-85; in questo articolo viene messo in luce come Giamblico contesti a Porfirio di suddividere gli esseri divini in base agli ἰδιώματα, che lui considera come differenze specifiche, sicché gli esseri divini non sarebbero altro che specie. L’utilizzo della triade da parte di Giamblico sembrerebbe dunque funzionale ad affermare la piena differenza ontologica tra questi esseri.

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firio e Giamblico, nella cui riflessione sull’anima la triade matura la sua definitiva fisionomia 83. L’interpretazione di questa struttura triadica ha tuttavia assunto significati differenti a  seconda del grado ipostatico – stando alla metafisica neoplatonica – a cui essa è riferita: come viene mostrato da Michele Abate nel presente volume, sia in Plotino sia in Proclo, in relazione alla trascendenza e alla semplicità delle prime due ipostasi, rispettivamente l’Uno e l’Intelletto, la triade può essere concepita solo attraverso l’identità dei suoi termini, anche se i due pensatori si distinguono per il fatto che Proclo concepisce la triade solo al livello dell’Intelletto, in quanto, al contrario di Plotino, non ritiene possibile predicare i suoi termini dell’Uno 84. L’incompatibilità tra la distinzione ontologica dei termini della triade e il dominio sovressenziale e indifferenziato del Primo principio è quanto emerge dalle soluzioni formulate dagli autori neoplatonici senza eccezioni. Plotino distingue un’attività precipua dell’Uno, il quale è potenza di tutte le cose e, al contempo, atto rivolto verso se stesso e trascendente l’Essere 85; quest’ultimo aspetto costi­tuisce il motivo per cui nell’Uno non si può avere la distinzione ontologica definita dalla triade, né si può indicare la triade come criterio di derivazione della molteplicità dall’Uno. Q uesto passaggio si stabilisce invece a livello dell’ipostasi dell’Intelletto, dove la triade, nel quadro della corrispondenza tra l’essere e il pensiero, consisterà nella distinzione e nella processione manifestativa dell’essenza, della sua potenza e della sua operazione. Per Proclo la triade è  elemento costitutivo di ogni realtà, come egli esemplifica additando il caso del fuoco, tuttavia in relazione agli intelletti presi nella dimensione eterna, la sua argomentazione giunge ad affermare l’identità dei tre termini 86. Analogamente si  Sul rapporto tra l’ontologia neoplatonica e il pensiero aristotelico cfr. Id., Plotino e la teoria degli universali: Enn. VI 3 [44],9, in Aristotele e i suoi esegeti neoplatonici. Logica e ontologia nelle interpretazioni greche e arabe, a cura di V. Celluprica - C. D’Ancona, Napoli 2004 (Elenchos, 40), [pp. 1-35], pp. 32-35. 84  Cfr. in questo stesso volume il contributo di M. Abbate, pp. 90-91, 93. 85 Cfr. ibid., p. 84. 86  Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 169, pp. 146-148; per il testo e la traduzione cfr. ancora il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 30. Per quanto riguarda in particolare il mondo intellegibile, Proclo instaura un parallelo fra i tre elementi della triade e, rispettivamente, il νοητόν (oggetto del νοῦς), la νόησις (elemento mediano fra pensante e pensato) e l’attività dell’intel83

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legge in Damascio, dove in relazione all’Unificato, i  tre termini della triade non sono differenziabili, cosa che è  possibile solo a partire dall’Intelletto, configurandosi qui la triade – secondo la ricostruzione offerta in questo volume da Ilaria Grimaldi – come «struttura metafisico-concettuale che si è articolata in modo analogo nei livelli progressivamente inferiori delle ἀρχαί» 87. Q uesta posizione spiega anche perché l’ultimo diadoco ateniese adottò in prevalenza una struttura terminologica della triade modificata in ὕπαρξις  –  δύναμις  –  ἐνέργεια, in ragione del suo riferimento al dominio sovra-ontologico del Principio ineffabile 88. letto di pensare se stesso. Q uesta articolazione, in ogni caso, non inficia l’unità e l’eternità degli intellegibili. Il filosofo utilizza infine la triade, sulla scorta degli Oracoli caldaici (per i quali cfr. infra, alla nota 99), anche in chiave teologica, instaurando una corrispondenza fra dimensione divina, demoniaca e umana. 87  Cfr. il contributo di I. Grimaldi in questo stesso volume, p. 138. 88  A giudizio di Grimaldi, ὕπαρξις è per Damascio un termine maggiormente adeguato per indicare la natura assolutamente semplice e ineffabile dell’Uno, che fa venire all’essere le cose ed è in qualche modo precedente a potenza e atto. Con οὐσία si indicherebbe invece un essere realmente sussistente, che deriva dall’interazione di ὕπαρξις e δύναμις. Va in ogni caso precisato come, per Damascio (come già in Plotino, Proclo e poi nel prosieguo latino-occidentale della triade, fino a Giordano Bruno), tutta questa terminologia sia valida soltanto al livello del linguaggio e della concettualizzazione umana; in sé, ὕπαρξις e  οὐσία finiscono per coincidere al  livello delle ipostasi, e ogni divisione o ‘sovrastruttura’, compresa la composizione triadica, vale soltanto ex parte hominis. Nel discutere dei principi, in ultima analisi è necessario far valere il principio della semplificazione, e ogni dispiegamento – compreso quello numerico – assume soltanto valenza simbolica. Da alcuni riferimenti rinvenibili nella letteratura secondaria si potrebbe ricavare l’impressione che la triade ὕπαρξις  –  δύναμις  –  ἐνέργεια sia stata utilizzata anche da Proclo: cfr. Lloyd, Procession and Division in Proclus cit., p. 21; M. Martijn - L. P. Gerson, Proclus’ System, in All From One cit. (alla nota 36), [pp. 45-72], p. 69, n. 59. Di questi riferimenti, tuttavia, il primo si limita a riferire della presenza in Proclo della triade nella forma con ὕπαρξις senza corroborare questa affermazione con alcuna citazione o riferimento a passi dell’opera del Diadoco; il secondo riferimento rimanda invece a due passi in cui la triade compare nella sua forma canonica con οὐσία al primo termine. Sebbene nell’opera di Proclo sia possibile imbattersi in alcuni accostamenti tra ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια, queste giustapposizioni non possono tuttavia essere intese alla stregua di una triade; per Proclo infatti l’ὕπαρξις è l’Esistenza pura, che trascende ogni essere e dunque supera ogni potenza e operazione, come affermato nel Commento al «Parmenide», per cui cfr. Proclus Diadochus, In Platonis Parmenidem Commentaria, VII, ed. C. G. Steel, 3 voll., Oxford 2007-2009, III, 2009, p. 1167, 24-25: ἡ γὰρ τῆς πρώτης τριάδος τῶν νοητῶν ὕπαρξις πάσης ἐστὶν ἐπέκεινα δυνάμεως καὶ πάσης ἐνεργείας. Per l’analisi del concetto di ὕπαρξις in Proclo, cfr. C. G. Steel, Ὕπαρξις chez Proclus, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taormina, 1994 (Lessico intellettuale europeo, 64),

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La coincidenza dei tre termini della triade nella dimensione intellegibile è anche la posizione sostenuta e sottolineata da Simplicio il quale argomenta anche, sulla scorta di Proclo, la valenza della triade nella realtà sensibile, riprendendo sempre da quest’ultimo l’esempio del fuoco. Peculiarità simpliciana è  invece l’applicazione della triade al  processo della sensazione, nel riconoscimento del suo attuarsi da una potenzialità che si origina da un nucleo sostanziale, come mostra Claudia Lo  Casto nel suo contributo al presente volume. Fra le altre menzioni della triade da parte di autori tardoantichi pagani vanno infine ricordate quella nel Commento al «Fedro» di Ermia di Alessandra, autore pressoché contemporaneo di Proclo, e nel Commento al «De interpretatione» di Ammonio 89. Per i neoplatonici la predicazione della triade rispetto alla dimensione principiale e trascendente – sia in riferimento a quella henologica-iperontologica sia a quella noetico-ontologica – è possibile soltanto dal punto di vista nominale-concettuale, in quanto la distinzione scandita dai suoi termini non ha modo di essere effettiva in relazione all’assoluta semplicità del Principio. La  distinzione triadica risulta così effettiva solo con il passaggio alla molteplicità degli esseri, al  livello dell’ipostasi dell’anima, come è  il caso delle classi di anime di Giamblico, oppure a livello del movimento cosmico, dove l’attività estrinseca la potenza dell’essenza e riguarda tutte le realtà animate e inanimate che partecipano del divenire – come nell’esempio del fuoco fatto da Proclo.

[pp. 79-100], pp. 93-94: «Si l’intellect intelligible est désigné comme ὕπαρξις, il l’est comme premier élément dans la structure triadique de l’être (οὐσία): subsister, pouvoir, et agir. Par contre, l’absolument Premier est au delà de toute structure et n’a aucune relation avec d’autres principes. Si on l’appelle ‘ l’Existence’ pure, cela ne signifie pas qu’il entre comme élément dans une triade existence, puissance, acte (qui constituent l’essence). Il n’est pas l’ὕπαρξις au sens que Damascius donnera à ce terme, c’est-à-dire comme ‘sub-sistence’, ce qui en ferait l’élément et le fondement des êtres. Mieux vaut peut-être l’appeler ὑπερ-ύπαρξις comme l’a fait le pseudo-Denys (De div. nom. 593 C)!». Per l’ὕπαρξις in Damascio (e, in particolare, la sua introduzione nella triade) cfr.  J. Combès, Ὕπαρξις et ὑπόστασις chez Damascius, ibid., [pp. 131-147], p. 134, e, nel presente volume, i contributi di M. Abbate e I. Grimaldi. 89 Cfr.  rispettivamente  Hermias Alexandrinus, In  Platonis Phaedrum Scholia, edd. C.  M. Lucarini - C.  Moreschini, Berlin - Boston 2021); Ammonius, In Aristotelis De interpretatione commentarius, 9, ed. A Busse, Berlin 1897 (CAG, 4.5), p. 136, 1-11.

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Dobbiamo quindi tornare al momento in cui la triade si è fissata nella storia del pensiero come paradigma ontologico, ovvero in seno alla riflessione giamblichea sulla natura dell’anima, in quanto già il filosofo di Calcide riconosce una differente valenza della triade in relazione alla regione cosmica a cui l’anima afferisce. In risposta a Porfirio, Giamblico afferma che la triade funge da criterio di distinzione ontologica tra le diverse classi di anime (dèi, demoni, eroi ecc.), tuttavia il porsi in essere di tale distinzione va commisurato con lo status di trascendenza proprio di ciascuna classe, dacché è soltanto quando le anime si dividono nei corpi che i loro atti si distinguono dalle loro potenze 90. Nel caso dell’anima umana Giamblico deve giocoforza distinguere tra il suo stato di separatezza dal corpo, nel quale le potenze e le attività coincidono con la sua stessa essenza, e la sua condizione di unione al  corpo, nella quale la sua attività si estrinseca dalla potenza distinguendosi dall’essenza, ma non semplicemente come attività dall’anima bensì come attività dell’essere vivente composto 91. La condizione intermedia dell’anima fa sì che essa, partecipando del Νοῦς, partecipi dell’οὐσία e delle sue potenze intellegibili, e allo stesso tempo partecipi, in virtù della sua unione con il corpo, della dimensione della contingenza cosmica in cui la congiunzione tra l’intellegibile e la materia diviene sussistenza ontologica spazio-temporale. L’anima contempla le οὐσίαι in quanto paradigmi noetici e ne attualizza le δυνάμεις come ἐνέργειαι nella dimensione del movimento cosmico. Conseguentemente il divenire, in quanto manifestazione e operazione della potenza dell’essenza, vede stabilita la sua causa efficiente nel principio ipostatico della Ψυχή (che agisce a livello universale nell’azione dell’anima del cosmo e, a livello particolare, nell’azione delle singole anime). L’ipostasi della Ψυχή, in quanto partecipe dell’intellegibile e ri90 Cfr.  Taormina, Il  lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit. (alla nota 10), p. 41: «Q uesto carattere intermediario dell’essenza dell’anima umana nel suo stato incarnato coinvolge anche la dottrina delle ‘potenze’ perché ogni termine della triade οὐσία-δύναμις-ἐνέργεια è la manifestazione di una totalità complessa rappresentata dalla triade nel suo insieme  e, rimandando continuamente agli altri termini, non può essere considerata come un’unità statica che esiste solo in se stessa. Tale dottrina si trova così a fungere da premessa per la teoria delle ‘potenze’ dell’anima umana e ad essere, al contempo, una sua conseguenza». 91 Cfr.  Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus cit. (alla nota 51), pp. 163-164 e il contributo di L. I. Martone in questo volume, pp. 111-113.

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volta al movimento cosmico, costi­tuisce dunque il tramite imprescindibile del divenire degli esseri nel tradurre in azione le loro potenze essenziali. In  questo contesto, inoltre, la triade acquisisce anche una importante funzione gnoseologica: come attestato da Lucrezia I. Martone, secondo Giamblico l’essenza dell’anima può essere colta dagli uomini comuni soltanto indirettamente, attraverso gli atti che realizzano le sue potenze; solo gli intelletti purificati potranno conoscere direttamente, ma sempre in modo intuitivo, gli enti divini di ogni ordine. La conoscenza completa delle cose non può non contemplare le essenze, la cui apprensione è dunque preclusa a tutti coloro che non praticano la filosofia. Se si confrontano le diverse concezioni neoplatoniche sulla triade, se ne deriva che essa è pensata e utilizzata per spiegare la struttura del reale e le dinamiche del divenire: estranea al Primo Principio, è  presente a  tutti gli altri livelli del cosmo (dunque anche nell’anima), e permette di spiegare perché esso muti mantenendo dei caratteri costanti. Ai  livelli più alti dell’essere, essa è  intesa generalmente in senso metaforico, o  come illustrazione concettuale di una realtà che è, di fatto, indivisa. Il percorso che ha portato alla fissazione della triade si è dunque profilato come un’elaborazione finalizzata a dare una giustificazione teorica della finalità dell’essere nel divenire in relazione al  sistema neoplatonico delle ἀρχαί; questo percorso è giunto a identificare nell’ipostasi della Ψυχή il principio delle relazioni onto-gnoseologiche che si istanziano tra la dimensione noetica e quella contingente. Pur rettificando il modello aristotelico, che nega la realtà ipostaticometafisica del Νοῦς, questa soluzione ha visto il suo fulcro in un termine di creazione aristotelica, cioè ἐνέργεια, e  lo ha reinterpretato come azione/operazione della potenza essenziale nella dimensione cosmica. Non ci sembra allora fortuito che proprio in relazione alla riflessione sulla natura dell’anima sia possibile incontrare un utilizzo dei termini οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια, in reciproca correlazione, che risulta del tutto indipendente dagli sviluppi neoplatonici fin qui seguiti: è il caso di Galeno, che, riprendendo elementi del pensiero tanto di Platone quanto di Aristotele, introduce in relazione all’anima la distinzione tra la δύναμις e  l’ἐνέργεια, intendendole rispettivamente come facoltà e  attività di quella. Nel trattato sulle Facoltà naturali il medico-filosofo pergameno applica la di47

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stinzione triadica alla costituzione di un organismo nei seguenti termini: «Ora, se il calore innaturale danneggia l’atti­vità non accidentalmente ma per la sua propria essenza e facoltà, sarà da considerarsi fra le malattie primarie» 92. Analogamente leggiamo nel trattato sulla relazione tra i costumi dell’anima e i temperamenti del corpo, ad esempio dove sostiene che «la  natura dell’anima non è in tutti la stessa (…), i ragazzi differiscono fra loro nell’essenza dell’anima nella misura in cui differiscono nelle azioni e nelle passioni psichiche. Se ciò è  vero, allo stesso modo differiscono nelle facoltà psichiche» 93, e ancora: «Per questo diciamo che l’essenza ha tante facoltà quante ha azioni» 94. Per quanto la correlazione e  la distinzione di οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια risulti chiaramente attestata in questi passi, è  altrettanto evidente che le osservazioni di Galeno derivano da una fenomenologia delle attività fisiologiche dell’anima incorporata piuttosto che da una elaborazione metafisica complessa quale sarà sviluppata più tardi dagli autori neoplatonici, motivo per cui i  tre termini sono ancora lontani dall’istanziare un effettivo modello ontologico triadico assimilabile a quello che sarà fissato da Giamblico. Ci sembra pertanto che parlare qui di una triade con valenza analoga alla sua successiva configurazione neoplatonica sia forse prematuro 95. Il  caso di Galeno pone comunque in evidenza come il dominio psicologico abbia costi­tuito per la riflessione tardoantica il terreno su cui è stato possibile cogliere la relazione tra l’essenza, la potenza e l’ope­razione attraverso una reinterpretazione dei concetti ari  Claudius Galenus Pergamenus, De naturalibus facultatibus, edd. G. Helmreich - J. Marquardt - I. Müller, Leipzig 1891 (repr. Amsterdam 1967) (Scripta minora, 2), [pp. 101-257], p. 121, 7-9 (tr. it., Torino 1978, p. 909; corsivi nostri): ἀλλ’ εἰ βλάπτει τὴν ἐνέργειαν ἡ παρὰ φύσιν θερμασία μὴ κατά τι συμβεβηκός, ἀλλὰ διὰ τὴν αὑτῆς οὐσίαν τε καὶ δύναμιν, ἐκ τῶν πρώτων ἂν εἴη νοσημάτων·. 93  Id., Q uod animi mores corporis temperamenta sequantur, K IV, ibid., [pp. 3279] p. 769, 5-11 (tr. it., p. 970, con alcune modifiche; corsivi nostri): δῆλον οὖν, ὅτι διαφέρουσιν ἀλλήλων οἱ παῖδες εἰς τοσοῦτον ταῖς τῶν ψυχῶν οὐσίαις, εἰς ὅσον καὶ ταῖς ἐνεργείαις τε καὶ τοῖς παθήμασιν αὐτῶν· εἰ δὲ τοῦτο, καὶ ταῖς δυνάμεσι. 94  Ibid., p.  769,  18-20 (tr.  it., p.  970; corsivi nostri): καὶ διὰ τοῦτο τοσαύτας δυνάμεις ἔχειν τὴν οὐσίαν φαμέν, ὅσας ἐνεργείας. 95  Cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit. (alla nota 15), p. 59: «Galen thus recognizes a general distinction between the energeiai of  bodily faculties or the soul, which we are in a position to know, and their ousiai, which we are not in a position to know. The triad consisting of  a dunamis with its knowable energeia and unknowable ousia is one that will later find wide application among the Neoplatonists and Church Fathers». 92

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stotelici di δύναμις ed ἐνέργεια da stati ontologici escludentesi a distinti gradi della sussistenza di ogni essere, in virtù della riflessione sull’essenza dell’anima come principio di specificità e di identità ontologica. Non per caso il passo compiuto da Giamblico verso la fissazione in triade di questo trinomio è stato suscitato dalla questione della distinzione tra classi di anime. La storia della triade purtuttavia – tanto nella sua fase embrionale quanto successivamente agli sviluppi relativi alla dottrina del­l’anima – è  stata caratterizzata dalla ricorrente problematica del­l’applicazione del suo modello al dominio metafisico, dove l’ontologia della distinzione tra i suoi termini lascia il passo alla loro identità henologica. Q uesta aporia nasce dal fatto che il pensiero neoplatonico, reinterpretando la concezione aristotelica dei fondamenti ontologici del divenire, ha innestato tali sviluppi nel sistema platonico, per il quale la causalità universale si riconduce agli intellegibili trascendenti, e  ha dato vita a  un modello ontologico applicabile autonomamente rispetto alle problematiche henologiche e, in particolare, alla questione della derivazione della molteplicità dall’Uno 96. Assumendo una posizione critica rispetto alla concezione platonica per cui la δύναμις è immanente a ogni essere, Aristotele è giunto a intendere questo concetto come ciò che non si è  ancora prodotto nell’essere e  si distingue dal­ l’opera/azione (ἔργον) 97. I neoplatonici hanno accolto questo passaggio, ma si sono lasciati alle spalle tanto la concezione aristotelica della potenza come mera potenzialità, ovvero come non-essere relativo, quanto lo status di indeterminatezza che per lo Stagirita caratterizza la potenzialità stessa 98, e sono così arrivati a reinterpretare l’ἐνέργεια come l’effetto e non più la causa della potenza. L’ἐνέργεια è così intesa come l’azione in cui si manifesta la δύναμις, la quale è concepita come determinazione non manifestata delle proprietà ontologiche che derivano dall’identità ontologica costi­ tuita dall’essenza. In questo modo la causalità è riportata all’essenza intellegibile, che risulta inquadrata entro una struttura che ne salvaguarda la trascendenza e  ne spiega la manifestazione e l’azio­ne come discesa sul piano della contingenza cosmica.  Cfr. supra, alla nota 73.  Cfr. Lefebvre, Dynamis cit. (alla nota 62), pp. 307, 312, 324-325. 98 Cfr. ibid., pp. 361-362. 96 97

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I primi sviluppi di una riflessione sul trinomio essenza – potenza – atto/operazione come struttura ontologica coordinata si sono non casualmente registrati sul terreno metafisico e  non su quello psicologico, e precisamente nella critica di Plotino alla teoria aristotelica dell’atto-potenza; tuttavia è soltanto in riferimento alla funzione mediatrice della Ψυχή, che il quadro ontologico delineato dal trinomio in questione si è  fissato in una struttura triadica unitaria, delineata dalla causalità dell’οὐσία, dall’emanazione di questa nell’ἐνέργεια e dall’intermediazione della δύναμις. Possiamo inoltre ipotizzare che l’evoluzione verso questo tipo di configurazione, in cui i termini della triade sono legati da un ordine preciso e da una funzionalità reciproca, sia stata favorita dallo strutturalismo triadico che ha caratterizzato in maniera sempre più sistematica il pensiero neoplatonico, forse anche corroborato dell’autorevolezza degli Oracoli Caldaici 99. Con Giamblico la triade si è definita come struttura terminologica dotata di una precisa fisionomia, la cui ricchezza di significato, oltrepassando la semplicità del suo modello formale, ne ha assicurato l’adattamento ai diversi contesti speculativi che hanno concorso al suo Fortleben. Fra i primi esempi dell’apporto giam Gli Oracoli caldaici, raccolta sapienziale redatta alla fine del secolo ii e giuntaci incompleta, sono rilevanti per la dottrina della triade soprattutto per quanto riguarda il quinto frammento: cfr. Oracula Chaldaica, fr. 5, in The Chaldean Oracles. Text, Translation, and Commentary, ed. R. Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), p. 50. Sulla dimensione triadica della metafisica caldaica cfr. N. Spanu, Proclus and the «Chaldean Oracles». A Study on Proclean Exegesis, with a Translation and Commentary of  Proclus’ Treatise «On Chaldean Philosophy», London - New York 2021 (Routledge Monographs in classical Studies), pp. 4-6. Per l’intersezione tra la triade in Proclo e la triade caldaica Padre  –  Potenza  –  Intelletto, cfr.  ibid., p.  17. Per quanto quest’ultima abbia una valenza essenzialmente teologica, e  non si proponga come principale obiettivo quello di spiegare il dinamismo di un essere immutabile, essa è utilizzata – oltre che da Proclo – anche da Giamblico e infine da Damascio, che la integra costitutivamente al suo pensiero. Il trinomio caldaico, interno alla Monade, che alcuni frammenti estendono però a tutto l’universo, può quindi essere considerato in un certo senso come una fonte della successiva dottrina, anche se gli spunti e gli insegnamenti originari vengono ripensati in un contesto differente, quello della filosofia neoplatonica, che ne salva il nocciolo teoretico adattandone funzioni e finalità. Per quanto con una certa imprecisione, dato che fa risalire la triade ad Aristotele, già Friedrich W. Cremer aveva riconosciuto in questo senso l’influsso degli Oracoli sui pensatori neoplatonici: cfr. F. W. Cremer, Die Chaldäischen Orakel und Jamblich «De mysteriis», Meisenheim am Glan 1969 (Beiträge zur klassischen Philologie, 26), in partic. pp. 39-41. 99

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blicheo alla diffusione della dottrina della triade sono le menzioni di quest’ultima nell’Inno a Helios Re di Giuliano Imperatore, composto alla fine del 362 100. Proclo, che ha ripreso verosimilmente la triade dalla psicogonia di Giamblico 101 e ne ha affermato la presenza in «ogni natura (ἐν ἑκάστῃ φύσει)» 102, in relazione alla sua applicabilità al dominio noetico si trova costretto ad ammettere l’incompatibilità tra la distinzione dei termini del suo trinomio e la semplicità del Νοῦς, postulando quindi l’identità in esso dei suoi tre termini. Incontrandosi la medesima problematica in tutti gli autori neoplatonici, possiamo affermare che la duplice condizione della nominalità della triade nel Principio e  dell’effettiva distinzione ontologica tra i suoi termini costi­tuisce l’aporia principale, originaria e ricorrente della teoria della triade. Q uesta aporia è riconducibile all’incompatibilità tra il criterio distintivo che la triade istanzia e il paradigma henologico dell’unità dell’Intelletto, in base al quale nella dimensione puramente noetica il pensante e  il pensato coincidono 103; tale incompatibilità, dal punto di vista della storia del pensiero, può essere ricondotta al fatto che la triade si è formata nella riflessione neoplatonica a partire da un adattamento di una teoria eterogenea rispetto ai suoi basilari elementi platonici – cioè la giustificazione aristotelica del divenire. Si rende dunque necessario comprendere come la triade si inquadri – per la speculazione neoplatonica – in relazione al dominio della trascendenza, dove essa vi sussiste in modo puramente nominale. Le  fonti non offrono una soluzione expressis verbis a  questo problema, tuttavia la descrizione del modello ontologico istanziato dalla triade e i riferimenti alla sua valenza in rela-

 Cfr. Iulianus Imperator, Oratio 11, ed. Ch. Lacombrade, Paris 2003 (Oeuvres completes, II.2), pp. 76-138. Non solo Giamblico è ricordato più volte come fonte autorevole, ma la triade è richiamata da subito a strutturare e indirizzare l’inno stesso, che discuterà, fra le altre cose, di essenza, poteri e attività del dio: cfr. ibid., in partic. pp. 102-103, 120-121. 101  Cfr. il saggio di L. I. Martone in questo volume, p. 98, nota 9; p. 100. 102 Cfr.  Proclus Diadochus, In  Timaeum commentaria, III,  178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cfr. in questo volume saggi di M. Abbate, p. 90, alla nota 31, e L. I. Martone, p. 100, alla nota 22. 103  Nella prop. 52 della Elementatio, Proclo afferma che tutto ciò che è eterno è  un «tutto simultaneo»; cfr.  Proclus, Elementatio, prop. 52, p.  50, 7-8; cfr. Beierwaltes, Deus est esse – esse est Deus cit. (alla nota 72) (tr. it., Bologna 1987, p. 26). 100

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zione ai diversi gradi ipostatico-ontologici e alla contingenza cosmica suggeriscono che postulare la triade come modello nominale-concettuale nel dominio della trascendenza, dove i suoi termini si identificano, possa essere ricondotta alla sua concezione come paradigma intellegibile del divenire e quindi modello ontologico del movimento cosmico, anteriore e trascendente rispetto ad esso, sul cui piano la distinzione dei tre termini della triade diviene effettiva 104. Il secondo motivo che giustifica la predicabilità del modello triadico rispetto alla sfera dell’Intellegibile è  che i  suoi termini, nella loro distinzione nominal-concettuale, costi­tuiscono l’archetipo di ogni distinzione ontologica che si produce sui piani della realtà inferiori all’unità e alla semplicità noetica. La triade, in quanto modello unitario, funge da archetipo della distinzione interna a  una stessa natura tra l’essenza di questa e  le proprietà ontologiche che le afferiscono. L’unificazione della distinzione ontologica triadica nell’Intellegibile o nell’Uno è dunque conseguente al prevalere della prospettiva henologica rispetto al principio di distinzione, che, per il pensiero neoplatonico, implica molteplicità.

3. Il modello ontologico della triade e le sue ricezioni Caratteristica primaria del modello triadico che abbiamo analizzato nella sua formazione e nella sua funzionalità in seno al pensiero neoplatonico è l’istanziarsi per esso di un’ontologia teleologica, riconducibile al darsi la sua stessa triadicità come compimento finale nella distinzione reale dei suoi termini. Il fondamento ontologico per cui le potenze dell’essenza si estrinsecano a livello sovracosmico e si traducono nel divenire cosmico in quanto operazione nella contingenza si riconduce alla finalità intrinseca al modello della triade, che consiste nella distinzione nominal-concettuale dei suoi termini. L’ἐνέργεια determina la possibilità che l’οὐσία agisca nel cosmo senza che la sua trascendenza ne venga in qualche modo 104 Fa eccezione alla generale mancanza di una metateoria della triade, sia tra i neoplatonici sia tra gli autori cristiani, Giovanni Scoto Eriugena, che arriva a formulare la funzionalità della triade come archetipo del divenire, per cui cfr. infra, alla nota 121.

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toccata e questo comporta, in virtù della corrispondenza neoplatonica tra essere e pensiero 105, il darsi dell’essenza alla conoscenza secondo la stessa dinamica triadica, delineandosi quindi la triade come principio di teleologia gnoseologica. Nella tradizione neoplatonica questo principio emerge per la prima volta con Porfirio – per il quale le ἐνέργειαι dell’anima rivelano il carattere della sua οὐσία 106 –, è adottato da Giamblico – per il quale la triade è una struttura manifestativa in cui l’energia manifesta l’essenza attraverso la potenza 107 –, e si attesta in termini analoghi in Proclo 108. La ratio teleologica della triade consiste di un termine causante, al quale si riporta l’origine e il fondamento della sussistenza di ogni essere, l’οὐσία, e di un termine attuante, l’ἐνέργεια, in cui l’essenza si manifesta e  agisce al  di fuori della propria trascendenza; la δύναμις occupa la posizione intermedia ad esse, unendo il significato di potenzialità in quanto somma delle possibilità ontologiche di ogni essenza e  il significato di facoltà in quanto determinazione prima delle proprietà ontologiche dell’essenza, dotata di un minor grado di trascendenza rispetto ad essa e di un maggior grado rispetto all’ἐνέργεια. Essendo prodotta dall’οὐσία e  produttrice dell’ἐνέργεια, la δύναμις ha un ruolo di causalità secondaria rispetto all’οὐσία, che costi­tuisce il nesso di causalità primaria della sussistenza degli esseri, della loro potenza e del loro agire. Il  modello neoplatonico della triade costi­tuisce dunque il fondamento ontologico per cui ogni natura si configura come trascendenza noetica ipercosmica ed emanazione di questa nella  Cfr. Id., Platonismus und Idealismus cit. (alla nota 73) (tr. it. cit., p. 26).  Cfr.  Bradshaw, Aristotle East and West cit., pp.  98-99; Larchet, La théologie des énergies divines cit. (alla nota 18), p. 50. 107  Cfr. Iamblichus, In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 4, ed. J. M. Dillon, Leiden 1973 (Philosophia antiqua, 23), p. 74, 14-16: τὰς δὲ δυνάμεις αὐτῶν καὶ ἰδεῖν καὶ διασαφῆσαι ῥᾷον. ἀπὸ γὰρ τῶν ἐνεργειῶν, ὧν εἰσὶ προσεχῶς αἱ δυνάμεις μητέρες, και αὐτῶν ἐκείνων ἐπαισθανόμεθα· μέση γὰρ ἠ δύναμίς ἐστι τῆς τε ὀυσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομἐνη μὲμ ἀπὸ ὀυσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν (tr. ingl. ibid., p. 75: «We attain to a perception of  them [the powers of  daemons] through their activities, of  which the powers are the immediate mothers; for a power is median between an essence and an activity, put forth from the essence on the one hand, and itself  generating the activity on the other»); cfr.  anche Id., De mysteriis, II, 3, edd. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Paris 2013, pp. 51-56; Bradshaw, Aristotle East and West cit., pp. 136, 141. 108 Cfr. Proclus Diadochus, In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 1-12; per il testo e la tr. it. cfr. il saggio in questo volume di L. I. Martone, p. 98, nota 9. 105 106

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dimensione intermedia e  sovracosmica della δύναμις, e  si finalizza nell’immanenza cosmica nell’unione con la materia. In essa si articola il paradigma della differenza dei piani dell’essere, da quello essenziale e  atemporale delle οὐσίαι, a  quello intellegibile e atemporale delle δυνάμεις, a quello contingente e temporale delle ἐνέργειαι. Considerata come struttura unitaria nel dominio dell’intellegibile, la triade costi­tuisce un modello ontologico statico, nel quale è stabilito il principio di distinzione tra essere, potere e agire in ogni natura; considerata invece nella sua struttura interna, in relazione alla funzionalità dei suoi tre termini e al reciproco rapporto tra essi, la triade costi­tuisce un modello dinamico, per cui è stabilita la possibilità di estensione dell’essenza al di fuori della trascendenza noetica. In  base al  modello triadico così definito l’essenza viene a costi­tuire il fondamento ontologico del divenire dell’essere, garantendo al contempo il mantenimento dell’identità ontologica e della determinazione della potenza per ogni natura, nonché il suo partecipare nell’operazione alla trasformazione contingente. La valenza teleologica della triade comporta ugualmente che il rapporto di causalità finalistica tra l’οὐσία e l’ἐνέργεια attraverso la δύναμις sia irreversibile: l’οὐσία non può infatti essere il prodotto dell’ἐνέργεια o della δύναμις, così come la δύναμις non è il prodotto dell’ἐνέργεια. Q uesta proprietà ontologica, che trova la sua ragione d’essere nella struttura finalistica della triade, costi­ tuisce il fondamento ontologico dell’irreversibilità del movimento cosmico. Il movimento teleologico che si istanzia tra l’οὐσία e l’ἐνέργεια attraverso la δύναμις costi­tuisce un’alternativa teorica al modello triadico circolare ed epistrofico – per il quale, cioè, la fine coincide con l’inizio – che caratterizza le altre triadi del neoplatonismo, e  in particolare la triade μονή  –  πρόοδος  –  ἐπιστροφή, che molti studiosi hanno riconosciuto come quella che meglio ne esprime il sistema metafisico 109. Q uesta triade descrive la circolarità metafisica della totalità rispetto al Principio, mentre la triade οὐσία – δύναμις  –  ἐνέργεια illustra la finalità del principio trascendente che realizza la sua potenza nell’immanenza mediante la sua ener109 Cfr. supra, testo corrispondente alle note 41 e 42; Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit. (alla nota 73), pp. 17-18.

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gia produttiva. Se la triade μονή  –  πρόοδος  –  ἐπιστροφή esprime il fondamento henologico della metafisica neoplatonica, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια è funzionale alla sua dimensione teologica. Di fatto le due triadi, che hanno genesi differenti, presupponendo retroterra speculativi differenti, comportano un conflitto teorico tra la concezione circolare del movimento metafisico, rispondente al  paradigma henologico, e  la sua concezione teleologica, che invece risponde al paradigma teologico 110. Il neoplatonismo manterrà questa aporia speculativa, nella quale si consuma il limite della sua capacità di superare l’antinomia della derivazione del molteplice dall’Uno (per la quale Proclo ha sviluppato il complesso sistema delle enadi, basato sulla moltiplicazione dei principi intermedi 111) e della relazione causale e gnoseologica tra il Primo principio e il cosmo (per la quale Damascio ha elaborato il concetto-limite del Principio ineffabile 112). La  triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, nell’impostazione neoplatonica, non ha tuttavia potuto darsi come strumento utile a  superare questa aporia, in quanto, come abbiamo visto, essa cessa di essere tale nelle ἀρχαί ipercosmiche, realizzandosi il principio di distinzione che la caratterizza solo nella dimensione inferiore a quelle.

110  L’applicazione per analogia della causalità triadica neoplatonica al dominio degli esseri sovrasensibili (dèi, intelletti divini, anime divine; cfr. supra, pp. 37, 41, 46) determina la valenza teologica della triade; cfr. Gersh, From Iamblichus to Eriugena cit. (alla nota 36), p. 32 (tr. it. cit., pp. 44-45): «In rapporto al mondo spirituale, (…) concetti filosofici, come potenza ed atto, possono essere adeguatamente applicati all’ambito della teologia una volta stabilito che il loro impiego deve essere sempre accompagnato da una consapevolezza, e cioè che essi riflettono solo in modo vago i processi che trascendono una piena comprensione umana». Anche Werner Beierwaltes giunge a definire la posizione della triade all’interno del sistema procliano in relazione all’azione del Demiurgo, per cui cfr. supra, alla nota 44. Cfr. anche Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit., pp. 11-16: la «teologizzazione del reale» costi­tuisce un tratto speculativo caratteristico del neo­ platonismo in ragione dell’identificazione del Primo principio con il Primo Dio. 111 Cfr. C. D’Ancona, Proclo: Enadi e arxai nell’ordine sovrasensible, in «Rivista di Storia della Filosofia», N. S., 47 (1992), pp. 265-294; Abbate, Il divino tra unità e molteplicità cit., pp. 18-19: «Il problema dell’unità del reale nella sua intrinseca molteplicità ed al  contempo la moltiplicazione dei livelli che costi­ tuiscono il ‘Tutto’ nel suo insieme divengono, a tutti gli effetti, ‘un’ossessione’ nel tardo Neoplatonismo»; cfr. inoltre ibid., pp. 27, 95-96. 112 Cfr.  V. Napoli, Ἐπέκεινα τοῦ ἑνός. Il  principio totalmente ineffabile tra dialettica ed esegesi in Damascio, Catania  - Palermo 2008 (Symbolon, 33), pp. 201-259.

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Svincolata dalla problematica henologica, la funzionalità teologica della triade è  definita dal costi­tuire la sua struttura ontologica un modello esplicativo della causalità immediata esercitata dall’essere trascendente sull’immanenza, evitando le aporie logiche connesse alla derivazione del molteplice dall’Uno. In ragione di questa configurazione la triade doveva trovare una posizione stabile nella speculazione teologica cristiana, o  almeno in quella più nutrita di platonismo e neoplatonismo. Da principio la dottrina è utilizzata in modo non sistematico, ma inizia ad assumere nuove connotazioni, dovendo rientrare in un mutato contesto teologico-metafisico; in generale, da un sistema emanatistico deve ‘adattarsi’ a uno creazionistico e volontaristico, e dunque non può più spiegare in modo diretto la propagazione del reale a partire da un Principio originario e ineffabile. Si trova poi, al contempo, nella necessità di commisurarsi, da una parte, con le dinamiche trinitarie (in questo senso, emerge la problematica dell’instaurarsi un parallelo fra i suoi tre termini e le tre persone divine), e dall’altra con l’escatologia cristiana (comportando ciò un confronto con il tema del ritorno al Principio, problema che sarà centrale in autori come Massimo il Confessore e Giovanni Scoto). Non è immediato individuare un preciso punto d’inizio della diffusione della triade nel cristianesimo: da quanto emerge gli autori latini tardoantichi non hanno contezza di essa, al punto da ignorarla completamente. Mario Vittorino (290-364 ca.), ad esempio, si serve di numerose strutture neoplatoniche (a  cominciare dalla triade esse – vivere – intelligere) e argomenta l’esistenza tra il Padre e il Figlio di un rapporto di potenza e atto che sembra richiamare in qualche modo la sfera concettuale dell’ontologia triadica, restando però lontano dal suo modello 113. L’assenza di riferimenti alla triade in Agostino e Boezio, nonché in tutta la speculazione patristica latina precedente all’epoca carolingia, permette di affermare che, allo stato attuale delle conoscenze, nella tradizione teo­ logica occidentale essa ha fatto comparsa soltanto con la traduzione in latino del Corpus Dionysiacum realizzata da Giovanni Scoto Eriugena. Tale assenza, peraltro, potrebbe essere indicata come argomentum ex post circa la presenza meramente embrio­nale della triade nelle fonti neoplatoniche precedenti a Giamblico.   Si veda nel presente volume il contributo di Roberto Schiavolin.

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Nel contesto ellenofono, le prime tracce della triade sono ravvisabili nei Padri cappadoci, per i quali il discorso è particolarmente complesso, come mostra il saggio di Ilaria Ramelli incluso in questo volume. Basilio di Cesarea (330-379) e Gregorio di Nissa (335394) hanno certamente presente la terminologia e probabilmente conoscono il modello neoplatonico della triade, ma oscillano tra il semplice accostamento dei tre termini, il loro rapportarsi entro un modello propriamente triadico e la teoria aristotelica dell’attopotenza. Tutto questo sembra suggerire che il passaggio della triade dal neoplatonismo al  cristianesimo e  il suo fissarsi come modello terminologico-concettuale non sia stato ispirato tanto da Plotino o da Giamblico, quanto piuttosto vada rapportato alla ricezione di Proclo, e debba riconoscere l’autore fondamentale di questa translatio nello pseudo-Dionigi Areopagita e nel suo retroterra neoplatonico, ateniese e  procliano. Come mostra Ernesto Sergio Mainoldi, Dionigi applica la triade alle intelligenze angeliche e  ai demoni, mai alle tre persone Trinità o  all’ipostasi del Verbo, facendo tuttavia di essa un tassello importante della sua riflessione ontologica. Dionigi tende a considerare come sovrapponibili o  coincidenti potenza ed energia, aspetto questo che costi­tuirà una delle caratteristiche della ricezione bizantina della triade, come ben si evidenzia nella pressoché totalità degli autori che hanno incarnato la tradizione affermatasi come ‘ortodossa’ e nei quali è stato possibile riscontrare l’utilizzo di questa struttura, da Giovanni Damasceno ad Andronico Camatero, da Gregorio Palamas a Filoteo Cocchino 114. Alla luce di questi dati, ciò che è  importante considerare in relazione a Dionigi è non tanto che la teoria vada a sostanziare una struttura cosmologica ovvero ontologica, ma che essa diventi universalmente nota nell’orizzonte cristiano, garantita dall’incontestabile prestigio di una delle massime auctoritates medievali: la preminenza di Dionigi influenzerà continuativamente la ricezione della triade a Bisanzio, venendo rafforzata dalla presenza di questa negli scritti di Massimo il Confessore (579 ca.-662) e Giovanni Damasceno (post 650-750), a  loro volta ricettori ed esegeti del 114 Si vedano in questo volume entrambi i  contributi dovuti a  Ernesto S. Mainoldi; per un quadro d’insieme sull’autore degli Areopagitica e il suo rapporto con la scuola neoplatonica di Atene, cfr. Id., Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum, Roma 2018 (Institutiones, 6).

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pensiero di Dionigi, nonché dal crescente repertorio di impieghi del trinomio durante tutta la successiva storia del pensiero bizantino. Per il mondo latino il tramite sarà costi­tuito da Giovanni Scoto (810-877), traduttore e  commentatore di Dionigi e  Massimo 115. Tale acquisizione storiografica viene corroborata dall’osservazione della storia della triade nel suo insieme, occasione che finora la mancanza di studi complessivi non rendeva pienamente accessibile alla medievistica. Alla presenza della triade nel pensiero teologico nel sistema speculativo di Massimo è  dedicato, in questo volume, il contributo di John Gavin, che mostra come essa, di fatto, costi­tuisca la struttura che designa come ogni essere abbia come obiettivo il realizzarsi nella propria pienezza, attualizzando in modo completo la propria ἐνέργεια attraverso la realizzazione delle δυνάμεις proprie dell’οὐσία. Nel sistema del Confessore, essa si sovrappone all’ulteriore (e già menzionata) triade γένεσις – κίνησις – στάσις, che indica, in aperta contraddizione con gli origenisti, il complessivo orientamento dell’universo, il quale passa dalla creazione al movimento per poi raggiungere la quiete definitiva in Dio.  Attualizzazione completa delle creature – e dell’uomo in particolare – è dunque raggiungere questa quiete, che corrisponde, di fatto, alla deificazione, scopo ultimo del creato, che si muove nella sua interezza verso la propria origine. Il raggiungimento della θέωσις è però un dono divino, che supera le potenzialità dell’essenza dell’uomo: la realizzazione completa di quest’ultimo avviene dunque soltanto attraverso un atto gratuito di Dio. Il cambio di passo operato da Massimo è  assolutamente evidente, perché non c’è quasi luogo della sua riflessione in cui il modello dinamico triadico, che lui impiega per orientare e risolvere i  problemi del dibattito cristologico del suo tempo, non sia presente. Ad esempio, attraverso di essa egli contesta gli esiti del monotelismo, perché ogni operazione deve procedere dalla potenza di una ben determinata essenza – e per questo, se il Cristo ha due essenze, quella umana e quella divina, deve necessariamente avere anche due volontà. Muovendo dal paradigma triadico dionisiano, Massimo utilizza la triade essenza – potenza – operazione 115 Si vedano, rispettivamente, i saggi di J. Gavin S. J. e R. de Filippis contenuti in questo volume.

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per illustrare altri schemi triadici volti a dischiudere le dinamiche della deificazione: negli Ambigua ad Ioannem egli la lega a  una ulteriore triade, essere (τὸ εἶναι), essere bene (τὸ εὖ εἶναι) ed essere sempre (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι), dove il primo e l’ultimo elemento sono donati da Dio, ma quello centrale (che corrisponde, in un parallelismo non esatto, all’ἐνέργεια) è conseguibile dall’uomo in base alla propria libera scelta. Alla luce di queste considerazioni, è possibile tracciare alcuni rilievi generali in relazione alla presenza e  alla percezione della triade in seno al pensiero patristico orientale nel suo complesso. Essa ricorre come struttura unitaria definita dal suo canonico trinomio, ma il suo significato, come si accennava, risulta esser stato sensibilmente trasformato rispetto all’originario contesto neoplatonico in ragione del suo adattamento a un contesto speculativo che non rispondeva più ai presupposti teorici del paganesimo, bensì alla visione del mondo giudaico-cristiana teologicamente plasmata dalle rivisitazioni concettuali dovute ai concili ecumenici. Due sono i  principali capovolgimenti di senso operati dal pensiero patristico che valsero a  conferire alla triade una nuova economia speculativa: innanzitutto l’ammissione della distinzione interna alla triade pur nel domino della trascendenza; in secondo luogo, la dismissione dell’interpretazione emanatistica della triade. Il primo punto è conseguente agli sviluppi della teologia trinitaria: identificando il Principio e causa prima con il Dio trinitario, nella cui natura eterna e increata l’essenza è distinta dall’ipostasi, la quale è  a sua volta triplicemente distinta in Tre persone coessenziali, la teologia affermatasi come ortodossa dopo i  concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381) ha elevato il principio di distinzione a fattore ontologico primario. La distinzione ipostatica interna alla Trinità avalla precisamente la possibilità di affermare una distinzione reale in seno al Principio, nella sfera della sua trascendenza assoluta. Il concetto di ipostasi è stato reinterpretato a partire dalle opere trinitarie dei Padri cappadoci al fine di rendere nel linguaggio dell’ontologia la nozione intuitiva di persona, mentre la distinzione dell’ipostasi dall’essenza, introdotta dagli stessi Cappadoci, ha portato alla comprensione dell’origine della Trinità nell’ipostasi del Padre e non nell’essenza comune alle tre divine persone. Q uesto approdo ha fatto sì che la Trinità delle 59

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divine ipostasi sia stata concepita come principio dell’unità che si fonda sull’essenza comune, ovvero ‘enarchia’, come l’ha definita lo pseudo-Dionigi, il quale ha ripreso e sviluppato i fondamenti speculativi dell’insegnamento cappadoce 116. Attraverso questi sviluppi la teologia trinitaria si è emancipata tanto dall’ontologia quanto dall’henologia neoplatoniche 117. La  fortuna della triade nella riflessione patristico-orientale e bizantina va infine commisurata con un’altra distinzione ontologica fondamentale che la teologia patristica, a partire dai Cappadoci, elevò a sua cifra paradigmatica più precipua, ovvero la distinzione reale tra essenza ed energia nella natura divina 118. In base a questo assunto, in Dio non solo l’essenza comune alle tre ipostasi è ritenuta eterna e trascendente, ma anche la sua energia, la quale, pur essendo realmente distinta dall’essenza, non è  esterna alla natura divina eterna e increata. La seconda grande trasformazione concettuale a cui è stata sottoposta la triade è conseguente a questo quadro ontologico e consiste nel permanere l’essenza inconoscibile in sé. Q uesto significa che l’energia non permette né di conoscere ad extra la sua essenza né di partecipare di essa. L’apofatismo dell’essenza fu conseguenza della radicale separazione tra il dominio dell’increato e quello del creato raggiunta nel corso della lotta contro l’arianesimo e fissata dall’ontologia espressa dal Credo di Nicea-Costantinopoli: questa consapevolezza ha comportato una tacita dicotomia nel pen116  Cfr. DN II, 4, 641A, p. 126, 15: τῇ ἑναρχικῇ τριάδι. L’idea che il Dio della rivelazione mosaica sia superiore all’essere e all’Uno si trova già in Filone di Alessandria, cfr. T. A. Pino, An Essence-Energy Distinction in Philo as the Basis for the Language of  Deification, in «The Journal of  theological Studies», N.S., 68 (2017), [pp. 551-571], pp. 556, 562. 117 Q uesto sviluppo si è  prodotto nel corso del dibattito anti-ariano grazie all’apporto dei Padri Cappadoci, per essere poi ripreso e precisato dallo pseudoDionigi; cfr. E. S. Mainoldi, La ricezione della rivoluzione ontologica dei Padri cappadoci: la triadologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e i suoi obiettivi, in Trinità in relazione. Percorsi di ontologia trinitaria dai Padri della Chiesa all’Idealismo tedesco, a cura di C. Moreschini, Panzano in Chianti 2015 (Theántropos. Testi e studi sul cristianesimo antico, 2), pp. 167-181. 118  Cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit., p. 153ss.; Larchet, La théologie des énergies divines cit., pp. 145-232. Va rilevato che, pur in un quadro diverso dalla comprensione trinitaria di Dio e del Λόγος, anche in Filone Alessandrino si riscontra la distinzione tra l’essenza divina, inconoscibile, e le potenze divine, in sé inconoscibili, ma conoscibili e partecipabili nelle loro ἐνέργειαι; cfr. ibid., pp. 73, 79-80; Pino, An Essence-Energy Distinction cit., p. 565.

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siero ontologico cristiano-orientale, basata sull’impossibilità di concepire la più remota analogia tra l’essenza divina e  l’essenza delle cose create, il cui unico punto in comune risiede nel linguaggio, cioè nella predicazione omonimica del termine οὐσία quale fondamento ontologico di ogni natura, creata o increata. Di fatto la teologia patristica orientale, a partire dai Cappadoci, seguiti dai teologi bizantini, ha inteso implicitamente l’οὐσία divina come ὑπερουσία – principio che è assurto alla sua definitiva e duratura consacrazione con lo pseudo-Dionigi 119. L’energia divina, conseguentemente, è concepita come ciò che rivela l’esistenza della natura divina e permette di partecipare di essa, ma non rivela né consente di partecipare della sua essenza. La distinzione tra essenza ed energia in Dio comporta ugualmente la distinzione tra la natura e l’essenza divine, in ragione della quale il concetto di natura in riferimento a Dio guadagna una valenza più generale dell’essenza e  di conseguenza si ascrive alla sfera super-ontologica e increata. Il criterio apofatico di comprensione della natura divina definisce l’assoluta trascendenza nonché l’inconoscibilità dell’essenza divina, ma allo stesso tempo esclude che la potenza o l’energia siano un’emanazione di quella per degradazione su un livello inferiore di trascendenza. L’essenza costi­ tuisce perciò il fondamento iperontologico della causalità divina, restando inattingibile, inconoscibile e impartecipabile, mentre le sue energie, in quanto attingibili, conoscibili e partecipabili, permettono una partecipazione reale alla natura divina. Il criterio di distinzione reale tra essenza ed energia in Dio preserva conseguentemente la trascendenza assoluta della natura divina e allo stesso tempo esplica la possibilità della sua azione provvidenziale nel cosmo. Perdendo la struttura della triade il carattere emanatistico che aveva nel neoplatonismo, la potenza cessa di essere intermedia tra l’essenza e l’energia. Perciò la potenza e l’energia tendono ad essere  Incidentalmente possiamo osservare che lo pseudo-Dionigi non ha insistito sulla distinzione tra creato e increato nei termini del linguaggio biblico e del Credo niceno-costantinopolitano (principalmente – ma non solo – per ragioni pseudo-epigrafiche), quanto ha inteso questa distinzione alla luce del linguaggio me-ontologico, cioè della divisione tra il sovra-essere divino e l’essere creaturale; questo spiega anche perché Dionigi non applica il modello della triade se non alle realtà create (in particolare agli intelletti angelici). 119

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assimilate nel loro significato e  ruolo ontologico già nella riflessione teologica patristica, tendenza seguita dalla maggior parte dei teologi bizantini. Q uesta assimilazione implica che nella trascendenza non vi sia né attualità né potenzialità, né causalità ontologica ad intra; la distinzione tra δύναμις ed ἐνέργεια in riferimento a Dio può avere senso solo dal punto di vista economico, cioè in relazione allo svolgersi nel tempo dell’azione provvidenziale, ed è per questo motivo che la distinzione triadica viene mantenuta nella tradizione testuale bizantina in riferimento al discorso teologico, anche laddove è stabilita l’equivalenza dei due termini. Se la speculazione neoplatonica si è trovata concorde nel concepire il trinomio della triade come distinzione puramente nominale in relazione alla semplicità del Primo principio, nella teologia cristiana ellenofona è la distinzione tra la potenza e l’energia ad essere concepita come nominale nella trascendenza divina: la novità portata da questa tradizione è consistita invece nel concepire come reale la distinzione tra l’essenza e  le potenze-energie divine. L’essenza divina costi­tuisce il polo apofatico e  assoluto della natura divina, mentre le potenze-energie ne costi­tuiscono il polo catafatico e  provvidenziale. Allo stesso modo va escluso che tra l’essenza e l’energia divine sussista un rapporto di causalità, perché questo introdurrebbe una degradazione nella natura divina che ne comprometterebbe l’assoluta semplicità. Essendo la natura divina increata e superiore all’essere, in essa non si dà alcun rapporto di causalità ontologica in quanto tale, bensì una relazionalità meontologica che trova fondamento nei λόγοι divini (cioè nelle predeterminazioni provvidenziali del Logos-Sophia divini). Viceversa, se la triade è considerata in relazione alle creature, per le quali non solo la distinzione tra essenza ed energia, ma anche la distinzione tra potenza ed energia diviene effettiva, sussiste un rapporto di causalità ontologica tra i termini della triade, che si traduce nella superiorità, anteriorità e  precedenza della causa rispetto all’effetto, cioè dell’essenza rispetto alla potenza e all’operazione. La struttura della triade illustra dunque i fondamenti ontologici della causalità e il loro differente applicarsi ai dominî della natura divina increata e ai diversi gradi dell’essere sul piano della realtà creata. Passando al  contesto latino lo snodo fondamentale è, come già osservato, il pensiero di Giovanni Scoto Eriugena. Nel contri62

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buto dovuto a Renato de Filippis si mostra come, nel Periphyseon, Nutritor e Alumnus diano in pratica per scontata la conoscenza della triade, definita però in un passaggio subsistentia di tutte le cose; i  suoi tre elementi costi­tuiscono un’unità dinamica che opera a tutti i livelli del cosmo, dalle realtà più infime alle anime umane, dai numeri alle intelligenze angeliche. Per quanto alcuni testi siano controversi, sembra che essa si possa ammettere in Dio soltanto a livello metaforico – ma ciò non le impedisce di costi­ tuire, nelle creature, un modello che richiama alla Trinità divina. Particolarmente interessante è  notare come, nella ricostruzione dell’Eriugena, la triade ideale contenuta nel Verbo divino emani le singole triadi che costi­tuiscono gli esseri creati, e che sono accidenti del modello; ciò permette alla struttura ontologica di permanere immutabile (nel Λόγος) e contemporaneamente di divenire e modificarsi (nel creato). L’Irlandese attua anche un interessante collegamento fra logica e ontologia: dato che il primo elemento della triade è, naturalmente, l’essentia, che è anche la prima delle dieci categorie, e dato che gli altri nove praedicamenta sono tutti accidenti di quest’ultima, allora essi sono anche accidenti della triade, nella quale, di fatto, accade ogni cosa. I collegamenti che Giovanni Scoto instaura per mezzo della triade si completano con un richiamo gnoseologico: la corrispondenza viene estesa anche alla struttura conoscitiva umana e al trittico agostiniano esse – velle – scire. Se la mente umana e la struttura dell’universo sono modellate secondo il medesimo schema, sarà possibile in certa misura alla prima conoscere la seconda, e  quindi aspirare anche a  una conoscenza del suo Creatore. Ma il luogo metafisico in cui la triade si esplica nel modo più perfetto è il reditus, il momento in cui tutto il creato tornerà a Dio e sarà in Lui ricompreso, nella perfezione eterna e immutabile propria della quarta natura, che non crea e non è creata 120. In essa, tutti gli esseri saranno ricompresi in unità pur nelle loro determi  Al riguardo si veda G. d’Onofrio, «Cuius esse est non posse esse»: la quarta «species» della natura eriugeniana tra logica, metafisica e gnoseologia, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and His Time. Proceedings of  the Tenth International Conference of  the Society for the Promotion of  Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven University Press, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30), pp. 367-412. 120

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nazioni e differenze, così come la triade stessa è una eppure molteplice: in questo modo, azioni meritevoli e peccati degli uomini si preserveranno per l’eternità, nell’immutabilità delle essenze e nel permanere degli effetti. Unico ‘escluso’ sarà il male, privo di essentia, e dunque anche di virtus e di operatio. Oltre a utilizzare la triade in diversi ambiti della sua riflessione, Giovanni Scoto ha costi­tuito un caso unico nel tentativo di formulare una giustificazione teorica del suo modello, ponendo il problema della distinzione tra i suoi termini; pur arrivando al risultato della loro identità in Dio, questo argomento lo ha condotto a riconoscere la funzionalità originaria della triade quale archetipo del divenire, ovvero «il fondamento stesso delle cose esistenti, la base ontologica, eternamente e  immutabilmente contenuta nel Verbo, dalla quale si sviluppano» 121. La triade continuò ad essere utilizzata per tutto il tardo Medioevo orientale e  occidentale, apparendo anche laddove – ovviamente in contesti orientati verso il neoplatonismo – sembrerebbe insolito riconoscerla. Il  pensiero arabo-islamico riprenderà la triade direttamente dalle fonti neoplatoniche, ma non ne elaborerà tanto un’applicazione al contesto teologico, quanto ne farà uno strumento di comprensione emanatistica del cosmo, come ha mostrato nel suo contributo a  questo volume Beate Ulrike La Sala 122. Nel corso della storia della triade, la teologia bizantina ha rappresentato un caso unico in virtù dell’applicazione del principio   Si veda il saggio di R. de Filippis in questo volume, p. 329.  La studiosa argomenta la presenza della triade nel pensiero arabo attraverso la mediazione di Plotino e Proclo: è possibile infatti individuare questa struttura, a diversi gradi di cognizione e precisione – tenendo conto della traduzione in un contesto linguistico del tutto distante da quello greco e  latino –, quantomeno in Al-Farabi (la terminologia triadica ricorre nella sua cosmologia), Avicenna (in relazione ai concetti di movimento ed emanazione), Al-Ghazali (in contesti psicologici ed epistemologici), nel Liber de causis e nella Theologia Aristotelis (la quale da ultimo rielabora anche il sesto libro delle Enneadi, fonte iniziale della dottrina). Tuttavia, in tale contesto essa è spesso configurata in forte contaminazione con l’impostazione aristotelica, per cui, tranne rari casi, è difficile – almeno al presente stato della ricerca – individuarla nella sua specificità ontologica. Un esempio lampante in questo senso viene dalla Metafisica di Avicenna, dove ğauhar (sostanza), quwwa (potenza) e faʿʿāl (azione) sono avvicinati più volte, ma con un approccio che è più vicino al pensiero dello Stagirita che a quello di Plotino. 121 122

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di distinzione reale e non solo nominale del suo trinomio nel dominio della trascendenza (sebbene la distinzione vada compresa tra l’essenza e  la potenza-energia), ma si sarebbe fuori strada se si considerasse questa tradizione univoca circa questo punto: tale concezione trovò infatti un ampio fronte di opposizione, che emerse soprattutto durante la disputa esicasta e vide la posizione dei teologi bizantini latinofroni unirsi alla voce critica degli oppositori del principale difensore del paradigma distinzionista, Gregorio Palamas. La questione della distinzione interna alla natura divina fu anche oggetto del dibattito teologico che vide impegnati, a  partire dal xii secolo, bizantini e  latini intorno alla questione del Filioque. Fu proprio l’argomento della triade che – in mancanza di una teoria delle energie divine nella teologia occidentale – fece emergere le divergenze in materia di ontologia trinitaria invalse tra l’Oriente e l’Occidente cristiani, mettendo in luce come le due tradizioni fossero approdate a posizioni inconciliabili circa la distinzione reale tra i termini della triade in relazione alla natura divina. L’elaborazione dell’ontologia triadica sviluppata dai latini era infatti giunta a stabilire la coincidenza in Dio dei tre termini della triade, convergendo dunque con il modello neoplatonico dell’indistinzione triadica nella trascendenza pur senza averne una conoscenza diretta. I risultati di questo confronto teorico sono attestati sia dalle fonti bizantine – in autori come Niceta Byzantios, Nicola di Metone, Niceta di Tessalonica, Andronico Camatero e  Giorgio Acropolita – 123, sia dalle fonti latine, come, ad esempio, nel caso della lettura emanatistica della triade a cui Ugo Eteriano – il quale, per le proprie vicende personali (fu legato pontificio a  Costantinopoli, presso la corte di Michele Comneno), ebbe accesso a testi preclusi agli occidentali – fece ricorso al fine di giustificare per via analogica il Filioque 124. Nel suo De processione Spiritus sancti il parallelismo con la triade è, infatti, uno degli argomenti addotti per sostenere che lo Spirito Santo, contrariamente a quanto sostenuto dai Greci, procede dal Padre e dal Figlio. 123  Cfr. in questo volume il contributo di E. S. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina, pp. 280-289. 124  Cfr. in questo volume il contributo di A. Sordillo, pp. 350-353.

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In merito all’approdo della teologia occidentale a una posizione sostanzialmente coincidente con il modello neoplatonico, va rilevato che pur muovendo i teologi mediolatini da una conoscenza della triade derivata dallo pseudo-Dionigi, essa trovò un’interpretazione teologica e ontologica sostanzialmente scollegata dalla lettura dionisiana, che in Occidente fu seguita con una certa fedeltà solo per quanto riguarda l’angelologia, nonostante Dio­ nigi abbia applicato la triade proprio in questo ambito dottrinale. La  teologia dionisiana delle unioni e  distinzioni nella natura divina non trovò infatti ricezione in Occidente, se non in relazione alla –  scontata  – distinzione ipostatica tra le persone divine, e  non trovò alcuna applicazione in relazione all’ontologia trinitaria 125. Ugualmente inavvertita fu la distinzione argomentata dai Cappadoci tra essenza ed energia. Neanche Giovanni Scoto Eriugena, per quanto profondo conoscitore e attento esegeta di Gregorio di Nissa, Dionigi e Massimo, fa eccezione rispetto a questo quadro 126: la mancata ricezione da parte sua della distinzione tra essenza ed energie divine viene confermata dal fatto che egli ammette l’identità dei tre termini della triade in Dio 127. Mantenendo tuttavia la distinzione dionisiana tra l’essenza divina e l’intellegibile, affermando che dell’essenza si può solo dire quia est, non quid est 128, l’Eriugena si è smarcato su questo punto tanto dalla gnoseologia neoplatonica, quanto dalla gnoseologia patristicolatina, in seguito riaffermata dalla Scolastica, che ha ammesso la possibilità di conoscere Dio nella sua essenza. Nonostante i differenti approcci alla triade, va sottolineato che tra i teologi cristiani essa non viene mai impiegata come schema esplicativo dell’ontologia trinitaria, sebbene in alcuni casi il suo  Sulle unioni e  distinzioni nello pseudo-Dionigi, cfr.  E.  S. Mainoldi, La  meontologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e  la sua collocazione nella tradizione patristica e filosofica, in Il nihil nell’Alto Medioevo. Atti di Convegno (Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 28-29 maggio 2015), a cura di P. De Feo, Roma 2017 (Ragione plurale, 3), [pp. 71-131], pp. 87-89. 126 Cfr. G. Kapriev, Eodem sensu utentes? Die Energienlehre der «Griechen» und die causae primordiales Eriugenas, in «Theologische Q uartalschrift», 180 (2000), pp. 289-307. 127  Cfr. ancora il saggio di R. de Filippis, pp. 334-335. 128  Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Periphyseon, PL 122, [441-1022], ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM 161-165), I, 1996, 443C, p. 5; 487AB, p. 63; II, 1997, 550D, p. 34; 585B, p. 81; III, 1999, 665C, p. 67; IV, 2000, 767D, p. 39; 771BC, pp. 44-45; 843B, p. 144; V, 2003, 919C, p. 84. 125

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modello sia stato applicato per analogia alle relazioni tra le Tre persone divine, come è il caso di alcune argomentazioni latine in favore del Filioque 129, oppure dello stesso Giovanni Scoto, il quale, senza discostarsi dalla sua posizione anti-filioquista 130, non derogò dal principio per cui la triade non si trova in Dio, asserendo per contro l’assoluta unità della natura divina 131, ma ammettendo la possibilità, in relazione al discorso antropologico e all’assunto biblico dell’essere l’uomo creato ad imaginem Dei, che sia possibile tracciare un parallelismo per imaginem tra le persone della Trinità e i tre termini della triade 132. Seguendo quindi le effettive occorrenze testuali dell’alto Medioevo latino post-eriugeniano, che la fonte sia Giovanni Scoto o  direttamente Dionigi, la triade si ritrova in Eirico di Auxerre (841-876 ca.), Ugo di San Vittore (1096-1141), Isacco della Stella (1120 ca.-1169), nel già citato Ugo Eteriano (1115-1182), e in Tommaso Gallo (1200-1246) 133. Si tratta in quasi tutti i casi di menzioni occasionali, che testimoniano però come la dottrina non cada nell’oblio e continui ad essere utilizzata nei contesti più diversi, dal commento teologico al sermone ecclesiologico. A parte va considerato il peculiare caso di Pietro Abelardo (1079-1142), nei cui scritti teologici la triade attua una delle sue più sorprendenti metamorfosi 134. Egli è consapevole della terminologia, che in un paio di casi applica alla Trinità in senso metaforico (anche se resta dubbio quale possa essere la sua fonte); ma la celeberrima immagine del sigillo di bronzo, da lui impiegata, non solo rispetta in pieno le corrispondenze triadiche, ma tenta pure, come era negli originali intenti neoplatonici, di offrire una articolazione interna del divino – in questo caso, naturalmente, della Trinità stessa. Nel sigillo, infatti, si trovano un sostrato esistente, che corrisponde naturalmente all’essentia; la possibilità (virtus) di sigil Cfr. supra, alla nota 124.  Cfr.  É. Jeauneau, Érigène entre l’Ancienne et la Nouvelle Rome. Le  Filioque, in Chemins de la pensée médiévale. Études offertes à Zénon Kaluza, éd. par P. J. J. M. Bakker, Turnhout 2002 (Textes et études du Moyen Âge, 20), pp. 289-321. 131   Cfr. ancora il saggio di R. De Filippis in questo volume, p. 334. 132 Cfr. ibid., pp. 326-327; anche supra, alla nota 47. 133  All’arco cronologico che va da Eirico di Auxerre a Egidio Romano è dedicato il saggio di A. Sordillo in questo volume. 134   Cfr. il saggio di M. Giannetta in questo volume, pp. 372-374. 129

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lare; e quella di essere sigillante in atto. Grazie a questa immagine, Abelardo può da una parte evidenziare l’articolazione interna alla Trinità (nella salvaguardia della comune essenza e  dell’identità ultima delle tre personae), dall’altra mostrare come essa operi al di là di se stessa, nel mondo creato e  nella redenzione dell’uomo. Q uale che sia la fonte da cui Abelardo ha attinto questa immagine, resta pur evidente come la rappresentazione del sigillo lo inserisca, almeno per quanto concerne la triade, nella stessa linea speculativa di Giovanni Scoto: per chiarire le articolazioni della Trinità, nella quale di fatto i tre elementi non esistono come tali, l’unica risorsa è ricorrere a simboli e figurae. Seguire la storia della triade nel basso Medioevo è ancora più difficoltoso, e non è escluso che scoperte future possano ulteriormente ampliare l’attuale campo delle conoscenze. Come già nel neoplatonismo, anche nel pensiero scolastico la posizione indistinzionista relativa alla triade nella trascendenza ha configurato un’interpretazione emanatistica della gnoseologia triadica per cui, identificandosi la divina operatio con la divina substantia, quest’ultima risulta essere conoscibile attraverso l’intelletto. Possiamo quindi constatare come la teologia scolastica abbia operato una ri-neoplatonizzazione di questa struttura ontologica ricevuta dallo pseudo-Dionigi, sviluppo nel quale giocò probabilmente un ruolo il ritorno del pensiero procliano, divenuto direttamente accessibile a partire dalla fine del secolo xii attraverso il Liber de causis, le traduzioni di Guglielmo di Moerbeke e l’esegesi di Bertoldo di Moosburg 135. Si può peraltro constatare come il ritorno di Aristotele in Occidente segni un arretramento della dottrina triadica, che viene spesso ‘sostituita’ dalla dialettica potenza/atto, e perde terreno in tutte le situazioni in cui lo perde il modello emanatistico di stampo neoplatonico. Tuttavia, essa si ritrova ancora, almeno citata, in Enrico di Gand (1217 ca.-1293), Enrico Bate di Malines (12641310 ca.), Umberto di Preuilly (†  1298), Egidio Romano (1243 o 1247-1316), in una delle Glose super Librum de causis che dipendono da quest’ultimo, e in Giovanni di Mallinges (fine xiii sec.) 136.  Cfr. Interpreting Proclus cit. (alla nota 53), i capp. 5, 9, 11.  Per la disamina della triade in questi autori, si veda ancora il saggio di A. Sordillo in questo volume. 135 136

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Stando allo stato attuale delle ricerche, è possibile riconoscere una delle sue più eccentriche metamorfosi in Enrico di Gand: il trinomio res, esse essentiae ed esse existentiae, ripreso poi anche da Duns Scoto (in senso critico) e Guglielmo di Alnwick, sembra avere nel suo pensiero la stessa funzione ontologica 137. Nonostante questi ‘vuoti’ e questi adattamenti è tuttavia possibile constatare come un non sparuto gruppo di autori accordi spazio nelle proprie teorie teologico-metafisiche a modelli ontologici genericamente riferibili alla triade. Essa gioca anche un ruolo importante nella psicologia di Tommaso d’Aquino (1225-1274), cosa non fortuita né inaspettata se si considera la nuova immagine storiografica che si è  andata affermando del pensiero dell’Aquinate, che lo colloca al  crocevia tra prospettive neoplatonizzanti e  quella, ben attestata nella storiografia, aristotelica 138. Tommaso da una parte assume che l’anima intellettiva sia forma del corpo, e  dall’altra che l’intelletto, che è separato, pur essendo una facoltà dell’anima, non lo sia del corpo; per questo spiega che l’anima ha una essentia (che dà l’essere al corpo di cui è forma) e una potentia che compie determinate operationes ad essa commisurate. Tali operazioni, evidentemente, non sono atti di un corpo e non hanno effetti su di esso (come avviene invece nel caso della vista, atto dell’occhio); se ne conclude, proprio a  partire da questa dialettica, che l’intelletto è una potenza dell’anima, ma non del corpo. La distinzione elaborata da Tommaso, che non viene applicata a Dio, in cui essenza, potenza e atto sono coincidenti, ha connotati neoplatonici e non aristotelici, dato che sembra supporre da una parte una metafisica dell’emanazione in cui l’atto è l’espressione di una ‘forza’ insita nelle essenze, e dall’altra un cosmo gerarchico, dove l’inferiore è  espressione del superiore; ed è  necessaria per giustificare lo statuto che l’Aquinate vuole assegnare all’anima, forma e contemporaneamente soggetto sussistente, ma non ente separato dal corpo. Statuto, come è dato osservare, che stride con i basilari principi dell’aristotelismo, ma che gli permetteva di sal-

137  A tale variante della triade è dedicato in questo volume il saggio di D. Riserbato. 138  Al pensiero di Tommaso è dedicato il saggio di M. Lenzi nel presente volume.

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vare contemporaneamente i propri principi filosofici (soprattutto epistemologici) e teologici (soprattutto escatologici); e la triade si è prestata ottimamente a tale mediazione 139. La triade trova pure un certo spazio nella tradizione domenicana, soprattutto in area tedesca, già a partire da Alberto Magno 140. Q uesti la utilizza in modo relativamente sporadico, ma in moltissimi ambiti della sua speculazione, dall’angelologia (per spiegare la natura composita delle intelligenze celesti) alla teologia trinitaria (negando ancora una volta la presenza della triade in Dio e affermando che il Figlio è identico al Padre per essenza, virtù e operazione), passando per la psicologia e la cosmologia. La dottrina diviene poi oggetto di un rinnovato interesse, come già accennato, a seguito della traduzione dell’Elementatio theologica da parte di Guglielmo di Moerbeke (1268); il testo fu commentato da Bertoldo di Moosburg, che manifesta una certa difficoltà nel­l’u­tilizzare la triade in un contesto fortemente influenzato da Aristotele (e per questo, ad esempio, egli riconosce che gli angeli hanno essenza, potenza e operazione, ma questo non vale per le sostanze intellettuali, dato che Aristotele riconosce per esse identità di intelligens, intellectum, ratio intelligendi e intelligere). Più diffuso è l’utilizzo del trinomio da parte di Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), che lo riconosce come trinitas Dionysii, e lo ritrova, negli ultimi anni della sua vita, anche nella succitata traduzione dell’Elementatio theologica 141. La  prima fonte utilizzata da Bonaventura è però, probabilmente, la Summa Halensis, dove addirittura l’intera struttura della teologia è divisa in essentia, virtus e operatio: l’essenza divina ineffabile è conosciuta attraverso la sua virtus, il Cristo, e le operazioni di quest’ultimo, ovvero l’opera della redenzione. La  Summa si spinge poi a  riconoscere 139  Francesco Fiorentino ha rinvenuto negli scritti di Tommaso altri occasionali utilizzi della triade, che però, a suo giudizio, nella maggior parte dei casi «svolgono un ruolo marginale»; il più significativo si trova nella distinctio terza del I libro del Commento alle Sentenze, in cui essa diventa vestigium della Trinità. Per le occorrenze cfr. F. Fiorentino, La triade substantia – virtus – operatio in rapporto alle altre agostiniane e bibliche in Bonaventura da Bagnoreggio e Tommaso d’Aquino, in Schegge di filosofia antica, a cura di I. Pozzoni, Villasanta 2015 (Esprit, 67), [pp. 183-199], pp. 188-191 (citazione a p. 189). 140 Al contesto domenicano fra xiii e  xiv secolo è  dedicato il saggio di M. Perrone in questo volume. 141  Alle occorrenze triadiche presenti negli scritti di Bonaventura e nel contesto dei primi Francescani è dedicato il saggio di A. Di Maio nel presente volume.

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– forse per la prima volta nel pensiero occidentale – come la triade sussista realmente anche in Dio, che è nelle cose essentialiter per la sua essenza, potentialiter per la sua potenza, e praesentialiter per le sue operazioni. Il pensatore di Bagnoregio non accoglierà però tale ampliamento. Per Bonaventura la triade, che viene spesso citata – in posizione non preminente – assieme ad altre strutture ternarie, serve essenzialmente a spiegare i dinamismi del reale, salvaguardando l’unità delle cose pur nella loro azione ed esplicazione; egli la utilizza sia in ambito teologico (ad esempio in demonologia, asserendo che gli spiriti malvagi possono conoscere soltanto le operationes esterne, ma non i segreti delle anime) sia in ambito filosofico (egli mostra come l’anima abbia essentia unitaria pur nella molteplicità delle sue operationes). La triade rappresenta anche uno dei momenti in cui, come è detto nell’Itinerarium mentis in Deum, l’uomo riconosce i vestigia Dei nel creato (per quanto il Creatore resti assolutamente semplice in sé); la struttura è utilizzata in particolare nelle Collationes in Hexaemeron, forse in consapevole funzione antiaristotelica, tracciando la dialettica fra le diverse operationes delle persone della Trinità e la loro comune essentia 142. Sono invece degni della massima attenzione il modo e la frequenza con cui Dante Alighieri (1265-1321) cita e  utilizza la triade con piena nozione di causa. Giulio d’Onofrio mostra come nelle opere dell’Alighieri sia identificabile un vero e  proprio fil rouge, costi­tuito da occorrenze che sostanziano tanto la sua cristologia quanto la sua visione politica 143. Ad esempio già nella Vita nuova, e specificamente nel sonetto Vede perfettamente ogne salute, Beatrice diventa il modello di realizzazione perfetta dell’essentia della donna, che si attualizza attraverso un amore rettamente indirizzato. Nella Monarchia, invece, il riferimento alla triade si universalizza e, cosa ancora più interessante, acquisisce una coloritura politica che è pressoché assente negli autori precedenti (ma sarà poi recepita da Bartolomeo di Lucca): una 142  Su questi aspetti cfr. ancora Fiorentino, La triade substantia – virtus – operatio cit., in partic. le conclusioni, pp. 194-199, che ben contestualizzano l’utilizzo della triade neoplatonica nel contesto delle altre strutture ternarie utilizzate nella speculazione di Bonaventura. 143 Al significato e  all’utilizzo della triade in Dante è  dedicato il saggio di G. d’Onofrio nel presente volume.

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dottrina squisitamente metafisica diventa così occasione per una precisa teoria di filosofia pratica. Nella distinzione fra la felicità che l’uomo può raggiungere nella vita terrena, attraverso l’attuazione piena delle proprie potenzialità naturali, e quella propria della vita eterna, che è la fruizione della visione di Dio, raggiungibile solo per grazia, Dante afferma che la prima potrà essere raggiunta grazie all’unificazione del potere terreno nelle mani dell’imperatore, che sarà quindi garante della felicità ultima di tutti i suoi sudditi. L’uomo, infatti, ha una finalità unica come specie, che è l’attuazione della conoscenza mediante l’intelletto, e  tale finalità è  realizzabile soltanto nella pace universale che l’imperatore deve garantire. Solo in tale contesto, storicamente concretizzatosi sotto Ottaviano Augusto, poteva del resto realizzarsi l’uomo perfetto, cioè Cristo; e solo nella partecipazione alla sua essentia l’umanità schiava del peccato potrà attualizzarsi pienamente, esattamente come solo nell’impero si attua la piena comunità politica che è altrimenti limitata da contingenze e particolarità che ne danneggiano il compimento. La triade, infine, è impiegata da Dante – con significativa spregiudicatezza – per distinguere i due poteri della Chiesa e dell’Impero nel suo commento alla celebre immagine del Sole e della Luna presente nel libro profetico di Abacuc (3, 11 secondo la versione di Girolamo: «Elevatus est sol, et luna stetit in ordine suo»). Come la seconda, che, pur ricevendo la luce dal primo, ha essere, potenza e atto propri che non dipendono da esso, benchè sia unicamente dal Sole che essa può ricevere il proprio atto perfetto, così il potere temporale, per quanto possa essere giustamente ‘illuminato’ e perfezionato da quello della Chiesa, ha una propria indipendenza che è essenziale. La teologia orientale, in epoca tardo-medievale come nelle epoche precedenti, mostra di essere approdata a posizioni divergenti rispetto alla contemporanea teologia latina: il divario rispetto agli assunti ontologici della teologia scolastica, ad esempio, è ben messo in luce per parte bizantina dal monaco palamita Callisto Angelicude nella sua confutazione della Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino 144. La  divergenza tra le interpretazioni  Cfr.  E.  S. Mainoldi, La  triade οὐσία –  δύναμις –  ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina, in questo stesso volume, pp. 292-295. 144

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latine e bizantine del modello ontologico triadico risulta particolarmente significativa poiché travalica i  limina confessionali: gli Scolastici arrivarono a posizioni analoghe a quelle dell’ontologia triadica neoplatonica, accogliendone le implicazioni nelle questioni di ontologia e gnoseologia trinitarie. Nel quadro del pensiero scolastico, si può dunque considerare la triade anche come un argomento con il quale si conferma come la riscoperta della metafisica di Aristotele in Occidente a  partire dal secolo xii si sia innestata su un impianto speculativo neoplatonico, aspetto che viene approfondito nei contributi a questo volume dovuti ad Antonio Sordillo e a Massimiliano Lenzi. Sul versante bizantino si è verificato un fenomeno analogo nel caso del filosofo Barlaam il Calabro, il quale, prendendo posizione contro la formulazione dogmatica della teologia trinitaria latina, di fatto ha sposato il quadro ontologico a questa sotteso, negando la distinzione reale dell’essenza e delle potenze-energie in Dio 145. Con Dante la stagione bassomedievale della triade sembra essere arrivata a  conclusione: la struttura infatti, stando allo stato attuale degli studi, è poco adoperata nel xiv secolo; la sua storia tuttavia non sarebbe completa senza considerare l’ultima fioritura, quella rinascimentale, che si sviluppa – favorita dal rigoglio degli studi platonici e neoplatonici – in Marsilio Ficino, Niccolò Cusano e Giordano Bruno. Ficino si serve della struttura triadica, che nel suo pensiero è presente con una certa ricorrenza, senza però poter essere considerata uno ‘schema fisso ontologico’, anzitutto nella Theologia platonica, a  mostrare le articolazioni interne dell’anima, mobile nelle proprie ‘espressioni’ ma sempre unica per essenza 146. È interessante notare come il filosofo fiorentino, contaminando proficuamente le proprie fonti, riconosca in essa differenti tipologie di virtutes e operationes. Nel Commento al «Parmenide» si precisa che l’atto finale dell’anima è quello di raggiungere la beatitudine: tematiche ontologiche e morali si incrociano dunque ancora una volta, mostrando come la dottrina della triade abbia anche contribuito, in ogni epoca, alla precisazione di problematiche esu Cfr. ibid., p. 291.  Allo studio della triade in Marsilio Ficino e nella sua scuola è dedicato il saggio di R. Melisi in questo stesso volume. 145 146

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lanti da questioni metafisiche. Essa, peraltro, ha un ruolo speculativo anche nel pensiero di altri platonici fiorentini, discepoli più o  meno fedeli di Ficino, come Francesco Cattani da Diacceto e Francesco Patrizi da Cherso. Niccolò Cusano aveva a disposizione numerose opere di Proclo (che riteneva essere un discepolo di Dionigi), e vive dunque in un contesto in cui il confronto con il pensiero greco pagano è quanto mai ricco e sfaccettato; egli conosce tuttavia anche Dionigi e Giovanni Scoto, Bonaventura e la Scuola di Colonia, e può dunque cogliere con uno sguardo unitario un importante segmento della ‘storia’ della triade 147. La teoria triadica viene da lui utilizzata in senso antiaristotelico, a tenere insieme un cosmo fondato sul principio neoplatonico dell’emanazione. Il trinomio si ritrova soprattutto nei sermoni, ma essa è presente lungo tutto l’arco della sua carriera intellettuale, a testimonianza di un perdurante interesse, e va infatti a chiarire punti spesso fondamentali del suo sistema, dalla teologia trinitaria (dove il punto di riferimento centrale è l’Eriugena) alla gnoseologia (l’uomo conosce le cose partendo dalle operationes, risalendo alla virtus e giungendo infine all’essentia), passando per il rapporto fra il Dio-Uno e il molteplice e la possibilità dell’uomo di raggiungere la christiformitas, realizzando pienamente le potenze e le operazioni che gli sono proprie. Tutte queste teorie, peraltro, sono sviluppate in relazione a  problemi attuali e pressanti della filosofia del tempo (in particolare la comparatio tra Platone e Aristotele), a testimoniare come, a un millennio dalla sua prima elaborazione, la triade trovi ancora utilizzi speculativamente rilevanti. Pur nella necessità di esplorare ulteriormente il contesto rinascimentale, questa storia trova una – forse provvisoria – conclusione con Giordano Bruno, che utilizza la struttura triadica neoplatonica in senso polemico, a sostituire la Trinità cristiana, per mostrare – ancora una volta – il rapporto fra l’unità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni sensibili 148. La riflessione del nolano, che pure tiene in considerazione quella di Cusano, riadattandola tuttavia a mutate esigenze, rappresenta probabilmente   A Cusano è dedicato il saggio di P. Secchi nel presente volume.   Alla riflessione triadica di Bruno è dedicato il saggio di G. Gisondi in questo volume. 147 148

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la chiusura del cerchio fin qui tracciato (o almeno un significativo punto fermo), perché nel De la causa, principio et uno si mostra chiaramente come la tripartizione non esista da un punto di vista ontologico (Uno, materia-potenza e forma-atto non sono distinguibili), ma solo nella mente dell’uomo; a differenza degli autori cristiani precedenti, che in massima parte – pur non riconoscendola in Dio – individuavano la triade nel creato, Bruno le attri­ buisce un valore soltanto gnoseologico e figurativo, dissociandola di fatto dalla struttura dell’essere. Come più volte richiamato, è  plausibile che la storia fin qui tracciata nelle sue linee fondamentali possa ricevere, attraverso futuri riconoscimenti e ulteriori ricerche, approfondimenti anche significativi. Q uel che però ci sembra possibile concludere, già allo stato attuale dell’indagine, è  che la dottrina della triade, in larga parte trascurata dalla storiografia e prevalentemente ridotta alla dialettica aristotelica di atto e potenza, spesso misconosciuta anche nelle sintesi più approfondite e  informate, costi­tuisca un vero e proprio ‘universale’ del pensiero tardoantico, medievale e umanistico, e possa dunque essere individuata, almeno per i suoi sviluppi cristiani e occidentali, tra i tratti caratterizzanti di quel ‘paradigma medievale’ che è una delle possibili chiavi di lettura del pensiero filosofico occidentale fra iv e  xvi secolo 149. Il  modello ontologico istanziato dalla triade può essere annoverato a ragion veduta tra le teorie filosofiche di più lungo corso; tra quelle che in più larga misura si sono adattate ai contesti speculativi, culturali e storici più disparati; tra quelle poche, infine, che hanno preteso di dare una spiegazione onnicomprensiva e autosufficiente – certo declinata in modo differente dai vari pensatori che ad essa si sono rifatti, ma sempre sulla base di comuni presupposti teorici di fondo – di uno dei problemi fondamentali dell’ontologia in qua ipsa, ovvero il rapporto fra essere e divenire. La fortuna della triade è rispecchiata dall’universalità del suo modello ontologico e  dalla sua adattabilità a  contesti speculativi diversi e per molti versi irriducibili. Al di là delle differenze e delle convergenze tra le diverse tradizioni filosofiche e teologiche e gli  Cfr.  The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy. Papers of  the International Congress (Rome, 29 October - 1 November 2005), ed. by G. d’Onofrio, 2 voll., Turnhout 2012 (Nutrix, 4). 149



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autori che l’hanno adottata, questa particolare struttura terminologico-concettuale può essere identificata come uno degli elementi dirimenti di una grande epoca della storia della filosofia ed essere indicata come uno dei tratti precipui del suo paradigma ontologico. Nella sua valenza più generale la triade costi­tuisce un modello di realtà che presuppone la relazione e la separazione tra la trascendenza e l’immanenza, tale che, per il paradigma di pensiero vigente nei secoli in cui essa si è attestata, senza l’una non si darebbe l’altra e in assenza tanto dell’una quanto dell’altra non si avrebbe alcun dispiegamento ontologico della realtà: né l’essenza si darebbe senza la potenza e  l’energia, né l’energia e  la potenza senza l’essenza. La triade è dunque strumento del realismo teologico, per il quale la realtà non si dà né si comprende al di fuori della relazione causale e deliberativa tra la sfera della trascendenza e quella dell’immanenza. In base al realismo neoplatonico l’applicarsi dello schema ontologico della triade a  ogni realtà si fonda sull’essere questa il modello noetico della struttura ontologica di ogni essere, mentre, in base al paradigma creazionista giudaico-cristiano, la strutturazione triadica di ogni essere si riconduce alla predisposizione divina di tutti gli enti in essenza, potenza e operazione. L’orientamento teleologico e  la dinamica ontologica implicati dalla triade presuppongono tuttavia un agente causale che definisca la ragione e  la finalità della realizzazione delle potenze dell’essenza nell’operazione. Se il pensiero neoplatonico ha riconosciuto nell’emanazione – quale necessario istanziarsi dell’intellegibile sui diversi piani dell’essere – la chiave per la comprensione del processo causale delineato nella struttura della triade, il pensiero cristiano ha identificato nella volontà l’agente causale della teleologia dell’essere. Conseguentemente la comprensione delle condizioni in cui la triade diviene effettiva si sono intrecciate con le modalità con cui le ragioni e le finalità dell’ontologia triadica sono state inquadrate all’interno del sistema metafisico di riferimento: nel neoplatonismo la dinamica dell’emanazione ha escluso che alla volontà si attribuisse un ruolo decisivo nello sviluppo dell’ontologia triadica 150, viceversa il pensiero cristiano 150 Nel neoplatonismo la volontà ha un ruolo metafisicamente secondario: per Plotino la volontà si identifica con l’essenza nel Bene, soluzione che si adatta al  sistema emanatistico e  necessitaristico neoplatonico; cfr.  in questo volume il saggio di M. Abbate, pp. 84-85.

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patristico e medievale, accordando alla volontà un ruolo centrale nelle ragioni del divenire, ha intrecciato questo elemento, sebbene in modo non sistematico, con l’elaborazione dell’ontologia triadica 151. La  triade si configura dunque come modello aperto, in quanto la sua funzionalità ontologica e gnoseologica si completa in relazione al  paradigma di pensiero a  cui essa viene applicata, e questo ne illustra l’ampia fortuna. Il ruolo della volontà in relazione alla triade, precisando in direzione della personeità l’orientamento teleologico della concezione cristiana dell’essere, ha fatto sì che questa struttura si attestasse come modello non esclusivo né esaustivo del discorso ontologico, come del resto era stato per il neoplatonismo, sebbene su diverse basi rispetto alla funzione ontopoietica della volontà riconosciuta dal cristianesimo. Per quanto gli adattamenti concettuali della triade possano essere stati differenti fino a risultare antitetici, essa ha costi­tui­to uno dei tasselli centrali del pensiero ontologico tardoantico e medievale, rappresentando la cifra della prospettiva teleologica teologicamente fondata che ne ha distinto il paradigma rispetto alle epoche precedenti o successive alla sua elaborazione – che di fatto o  non hanno sviluppato la triade o  l’hanno accantonata. La  triade espone il significato ontologico dell’agire e  la valenza operativa dell’ontologia, segna cioè il successo del concetto di ἐνέργεια in quanto perpetuità e necessità ontologica dell’operare, quale effetto dell’eterno e assoluto operare di Dio: raccogliendo l’eredità del pensiero tardoantico, il paradigma medievale ha guadagnato, attraverso l’ontologia triadica e  il concetto di operatio divina, la più pregnante giustificazione delle modalità di sussistenza e del divenire di ogni essere. Una locuzione in cui si riassumerebbero questi significati potrebbe dunque suonare come: operat ergo esse.

151 Il tema della volontà in relazione all’ontologia triadica è stato toccato in diversi contributi raccolti in questo volume; un suo approfondimento, tuttavia, avrebbe portato nel campo delle metafisiche della volontà, esulando dagli obiettivi della presente miscellanea; cfr. i contributi di E. S. Mainoldi (pp. 192, 208209, 266-267. 278), I. Ramelli (pp. 165, 170), J. Gavin S. J. (pp. 242, 245-246), G. d’Onofrio (p. 483), P. Secchi (p. 566).

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SIGNIFICATO E FUNZIONE DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL NEOPLATONISMO GRECO PAGANO

All’interno della tradizione neoplatonica pagana greca, i princi­ pali riferimenti alla struttura triadica costituita da οὐσία – δύνα­μις – ἐνέργεια, ossia sostanza/essenza – potenza – atto/attività, compaiono in autori appartenenti a  epoche diverse e  hanno soprattutto la funzione di descrivere il modo in cui determinati ambiti del reale sono costituiti e gerarchicamente ordinati dal punto di vista metafisico e ontologico. Tali riferimenti consentono, al contempo, di comprendere come nel neoplatonismo la relazione fra potenza e atto venga pensata in una prospettiva sostanzialmente diversa rispetto a quella aristotelica. A cominciare da Plotino, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια viene per lo più ricondotta alla natura e ai caratteri fondamentali della realtà intelligibile, la quale, a sua volta, dipende originariamente dal Primo Principio, posto al  di sopra dell’essere stesso. In  base alla concezione plotiniana, come vedremo, se il Principio Primo può essere, per certi aspetti, considerato come una forma di δύναμις assoluta, implicante una sorta di attività irrelata, autenticamente originaria e  anteriore a  ogni determinazione, esso tuttavia, proprio per la sua assoluta ulteriorità, risulta completamente trascendente rispetto alla nozione di οὐσία, essenza o  anche – come è  pure possibile intendere in alcuni contesti  – sostanza. Entro tale prospettiva di pensiero, dunque, la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια viene in particolar modo utilizzata per esprimere la natura intrinsecamente dinamica e relazionale della dimensione intelligibile, al  cui interno, ovviamente, il concetto di οὐσία, nel senso di essenza/sostanza di natura intelligibile, riveste un ruolo assolutamente fondamentale. Al contempo, alla luce La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127952 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 79-95      © 

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della funzione attribuita di volta in volta alla triade in oggetto nell’ambito della realtà intelligibile, emerge ulteriormente la natura dell’assoluta semplicità e trascendenza del Principio primo. L’analisi di alcuni significativi testi dei principali autori neoplatonici pagani, ossia Plotino, Proclo e Damascio, consente inoltre di comprendere quali siano stati i fondamentali sviluppi filosofico-teoretici della riflessione neoplatonica sulla relazione triadica tra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια.

1. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Plotino: la trascendenza assoluta del Principio e l’attività del νοῦς Nel breve trattato II 5 delle Enneadi – il venticinquesimo secondo l’ordine cronologico – Plotino prende in esame i concetti aristotelici di τὸ δύναμει (ciò che è in potenza) e τὸ ἐνεργείᾳ (ciò che è in atto) in rapporto ad alcune specifiche problematiche, con particolare riferimento al modo in cui tali nozioni devono essere considerate in relazione alla dimensione intelligibile 1. Nel cap. 3 di questo trattato egli afferma esplicitamente che nella dimensione intelligibile non si può parlare di esistenza in potenza: in essa tutto è determinato in forma attuale, poiché gli enti intelligibili esistono autenticamente nella dimensione dell’eternità e non della temporalità 2. Dunque, nell’intelligibile non v’è δύναμις, ossia potenza/ potenzialità, in quanto essa riguarda tutto ciò che non è ancora in modo attuale, vale a dire tutto ciò che è soggetto a mutamento ed è partecipe della dimensione del divenire e della materialità. Al contrario, in alcuni trattati successivi rispetto a quello citato Plotino mette in luce come nella dimensione intelligibile, ossia 1  Il titolo del trattato II 5 riportato da Porfirio è Περὶ τοῦ δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ, ossia Intorno a ciò che è in potenza e in atto. Per una breve analisi del contenuto di questo trattato cfr.  A.  Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano - R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 63-77], pp. 63-66. Si veda inoltre A. Pigler, L’Aristote de Plotin. Sur le problème de la puissance et de l’acte dans le traité 25 (II, 5), in Ἀλλ᾿ εὖ μοι κατάλεξον… «Mais raconte-moi en détail…» (Odyssée, III, 97). Mélanges de philosophie et de philologie offerts à Lambros Couloubaritsis, éd. par M. Broze - B. Decharneux - S. Delcomminette, Bruxelles - Paris 2008, pp. 503-516. 2  Cfr. Plotinus, Enneades, II 5, 3, 7-8.

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nell’ipostasi del νοῦς, sia presente una forma di δύναμις, la quale va intesa come una potenzialità attiva capace di produrre e determinare gli enti nella loro piena compiutezza. Tale concezione, come vedremo, appare riconducibile alla struttura triadica costituita da οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, che non è menzionata nel trattato II 5, mentre è invece presente in tre trattati della VI Enneade: si tratta di VI 6 (il trentaquattresimo in base all’ordine cronologico), VI 7 (il  trentottesimo) e  VI 8 (il trentanovesimo). Tra questi, parti­ colare rilevanza, come vedremo, riveste un interessante passo del trattato VI 7 che consente di comprendere come Plotino rielabori radicalmente la concezione aristotelica della relazione fra atto e  potenza, attraverso una critica sistematica della nozione di ‘primo motore immobile’, inteso come pensiero di pensiero e Principio primo. Pertanto, appare opportuno prendere le mosse dall’analisi di tale passo. Ma se [il Principio inteso aristotelicamente come ‘primo motore immobile’ e ‘pensiero di pensiero’] deve pensare, poiché è atto [ἐνέργεια], ma non potenza [δύναμις], se è sostanza [οὐσία] sempre pensante ed è per questo che dicono che è atto, essi [cioè i peripatetici] comunque parlano di due cose, ossia sostanza e intellezione [νόησις], e non dicono che è semplice, ma gli aggiungono qualcosa di altro, come agli occhi il vedere in atto, anche se essi vedono sempre. Ma se dicono che è in atto, poiché è atto ossia intellezione, proprio in quanto intellezione, non potrebbe pensare 3, così come neppure il movimento potrebbe essere in moto. ‘E allora? Non siete voi a dire che quelle realtà lassù sono sostanza e atto?’ Sì, ma noi conveniamo che queste sono molteplici e dunque differenti, mentre il Primo è semplice; inoltre, noi attribuiamo a ciò che deriva da altro il pensare e per così dire il ricercare la propria sostanza, se stesso, e ciò che lo ha prodotto. Ed esso, dopo essersi volto indietro nella contemplazione e divenuto consapevole, risulta a questo punto in senso proprio e corretto Intelletto. Invece ciò che né è venuto a essere, né ha nulla anteriormente a sé,  Cfr. ibid., VI 9 [9], 6, 54-55, ove Plotino afferma che la νόησις – nel senso di ‘intellezione’, ovvero ‘atto di pensiero’ origine del ‘pensare’ – non pensa, ma è causa del pensare per qualcos’altro (αἰτία τοῦ νοεῖν ἄλλῳ): la causa, infatti, non è identica a ciò che è causato. In questo contesto, dunque, la νόησις, intesa come intellezione/atto di pensiero, viene considerata da Plotino in qualche modo anteriore e ulteriore rispetto al νοεῖν, il quale implica in sé la relazione con un determinato oggetto di pensiero. 3

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ma è sempre ciò che è, quale ragione avrà di pensare? Perciò Platone afferma correttamente che esso è al di sopra dell’Intelletto 4.

Nel brano citato, Plotino sviluppa un’articolata critica alla concezione aristotelica in base alla quale il principio universale inteso come primo motore immobile è concepito come ‘pensiero di pensiero’ in quanto ‘atto puro’ 5. Nella prospettiva plotiniana attribuire οὐσία e νόησις al Principio primo implicherebbe che esso non sia assolutamente semplice e dunque totalmente trascendente, bensì che sia originariamente connotato da una forma di dualità, costituita appunto dal suo essere a un tempo sostanza e intellezione/ atto di pensiero. Pertanto, per Plotino, alla luce della propria concezione della dimensione intelligibile come realtà essenzialmente connotata dall’identità dinamica di essere e pensiero 6, il Principio – nella sua assoluta e originaria semplicità – non può venire identificato con il pensiero pensante, identificazione che, invece, appare implicita nella concezione aristotelica del primo motore immobile come νόησις νοήσεως. Nell’ottica plotiniana, è il νοῦς che è costitutivamente in relazione dinamica con il suo stesso oggetto, ossia 4   Ibid., VI 7 [38], 37, 10-24: εἰ δ᾿ ὅτι ἐνέργειά ἐστιν, ἀλλ᾿ οὐ δύναμις, δεῖ νοεῖν, εἰ μὲν οὐσία ἐστὶν ἀεὶ νοοῦσα καὶ τούτῳ ἐνέργειαν λέγουσι, δύο ὅμως λέγουσι, τὴν οὐσίαν καὶ τὴν νόησιν, καὶ οὐχ ἁπλοῦν λέγουσιν, ἀλλά τι ἕτερον προστιθέασιν αὐτῷ, ὥσπερ ὀφθαλμοῖς τὸ ὁρᾶν κατ᾿ ἐνέργειαν, κἂν ἀεὶ βλέπωσιν. εἰ δ᾿ ἐνεργείᾳ λέγουσιν, ὅτι ἐνέργειά ἐστι καὶ νόησις, οὐκ ἂν οὖσα νόησις νοοῖ, ὥσπερ οὐδὲ κίνησις κινοῖτο ἄν. ‘τί οὖν; οὐ καὶ αὐτοὶ λέγετε οὐσίαν καὶ ἐνέργειαν εἶναι ἐκεῖνα; ἀλλὰ πολλὰ ταῦτα ὁμολογοῦμεν εἶναι καὶ ταῦτα ἕτερα, τὸ δὲ πρῶτον ἁπλοῦν, καὶ τὸ ἐξ ἄλλου δίδομεν νοεῖν καὶ οἷον ζητεῖν αὐτοῦ τὴν οὐσίαν καὶ αὐτὸ καὶ τὸ ποιῆσαν αὐτό, καὶ ἐπιστραφὲν ἐν τῇ θέᾳ καὶ γνωρίσαν νοῦν ἤδη δικαίως εἶναι· τὸ δὲ μήτε γενόμενον μήτ᾿ ἔχον πρὸ αὐτοῦ, ἀλλ᾿ ἀεὶ ‹ὂν› ὅ ἐστι, τίς αἰτία τοῦ νοεῖν ἕξει; διὸ ὑπὲρ νοῦν φησιν ὁ Πλάτων εἶναι ὀρθῶς. Tutte le traduzioni sono mie. 5 Su ciò cfr.  Aristoteles, Metaphysica, XII 7,  1072b 14-30. Sulla ripresa e rielaborazione di Metafisica XII 7 nella filosofia plotiniana si veda C. Lo Casto, Teleia Zoe. Ricerche sulla nozione di vita in Plotino, Pisa 2017 (Greco, arabo, latino. Le vie del sapere. Studi, 5), pp. 82-85. Sulla critica plotiniana alla concezione aristotelica del primo motore immobile come Principio primo si rinvia a S. Roux, La théorie du Premier moteur: Plotin critique d’Aristote, in «Études platoniciennes», 10.1 (2013) (online). Si veda inoltre M. Vlad, De l’unité de l’intellect à l’un absolu: Plotin critique d’Aristote, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 5 (2007), [pp. 121-139], pp. 135-139. 6  Sull’identità dinamica di essere e pensiero come carattere essenziale della realtà intelligibile in Plotino rinvio a M. Abbate, Plotino erede e interprete critico di Parmenide: la relazione tra «essere» e «pensiero» alle origini della riflessione ontologica occidentale, in «Giornale di Metafisica», 42.1 (2020), pp. 187-200.

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con l’essere. Dal canto suo, l’ἀρχή autenticamente prima non può venire identificata con l’essere e il pensiero, poiché essa, nella sua originaria indeterminatezza deve risultare assolutamente semplice e dunque trascendente rispetto all’essere e al pensiero stessi, i quali, dal canto loro, risultano realtà intrinsecamente determinate e connotate da differenza e molteplicità, che si manifestano nella pluralità unitaria degli oggetti intelligibili. Di conseguenza, per Plotino la dimensione intelligibile – ossia il νοῦς, l’Intelletto, cui è intrinsecamente connesso il νοεῖν, il pensare – non può essere assolutamente originaria, ma risulta derivare da altro rispetto a sé: infatti, secondo la prospettiva metafisica di Plotino, il νοῦς si determina in quanto tale allorché prende coscienza della propria natura giungendo a contemplare il Principio dal quale deriva e dipende 7. Dal canto suo, quest’ultimo, che è anteriore e ulteriore rispetto a  ogni forma di determinazione, permanendo nella sua identità assoluta 8, non ha alcun motivo per pensare, poiché il pensare in senso autentico e  originario è  ricerca del Principio e  del fondamento autentico e assoluto del reale, mentre l’ἀρχή autentica non ha bisogno di nulla 9. Nel passo appena esaminato, dunque, Plotino ricorre alla struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια come a una sorta di schema metafisico-concettuale per mostrare che la realtà intelligibile, quale ambito privilegiato della relazione fra essere e pensiero, non ha la caratteristica fondamentale che deve essere attribuita al Principio, ossia quella di essere a un tempo assolutamente semplice e totalmente trascendente. Ma questo implica allora che il Principio, Uno-Bene, trascenda oltre alla nozione di οὐσία – come Plotino desume certamente dal VI libro della Repubblica 10 – anche quelle 7   Sulla questione si veda l’ancora fondamentale volume di W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade  V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995). 8 Sull’identità assoluta del Principio in Plotino rinvio a M. Abbate, L’origine e il fondamento del tutto in Plotino: il Principio primo come Identità assoluta, in «Intersezioni», 39.2 (2019), pp. 165-182. 9 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 7, 37, 31: ἀρκεῖ γὰρ αὑτῷ καὶ τοῖς ἄλλοις ὢν αὐτὸς ὅ ἐστιν, ossia «infatti egli basta a se stesso e a ogni altra cosa essendo ciò che è». 10  Cfr. Plato, Respublica, VI, 509b 8-10, ove il Bene viene definito ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, ossia «al di là dell’essenza», in quanto la supera per dignità e potenza (πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει).

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di δύναμις e ἐνέργεια? La questione è particolarmente complessa. Per quanto riguarda la nozione di δύναμις, occorre in primo luogo osservare che in più luoghi delle Enneadi Plotino afferma che il Principio è δύναμις πάντων, ovvero «potenza di tutte le cose» 11, con riferimento alla sovrabbondante ulteriorità e trascendenza del Principio, da cui deriva e dipende la totalità del reale. A proposito della nozione di ἐνέργεια, nel trattato VI 7, Plotino afferma che il Principio, in considerazione della sua trascendente irrelatezza, è la di là dell’ἐνέργεια 12. Invece altrove, in particolare nel trattato VI 8, con un linguaggio traslato e finalizzato alla persuasione (τῆς πειθοῦς χάριν) 13, egli attribuisce al Principio una sorta di ‘attività originaria e trascendente’, che coincide con la sua stessa volontà, la quale, a sua volta, si può considerare come identica alla sua stessa essenza. Se noi attribuissimo a lui attività, e queste, a loro volta, per così dire, alla sua volontà (…), e, inoltre se le sue attività sono, per così dire, la sua essenza, la sua volontà e  la sua essenza saranno la stessa cosa 14.

Si potrebbe dunque dire che nella prospettiva plotiniana la natura, la potenza e  l’attività del Principio coincidono in una perfetta identità. Nel trattato VI 8, ricorrendo al linguaggio traslato impiegato, come si è detto, al fine della persuasione, Plotino afferma che nel Bene volontà ed essenza devono coincidere, poiché esso, in quanto Principio autenticamente primo, non può essere molteplice 15. Q uella dell’Uno-Bene è quindi la prima ἐνέργεια, la quale, per la sua trascendenza, è priva di οὐσία e proprio questo aspetto va considerato, per così dire, come la sua stessa sussistenza (αὐτὸ

11 Cfr. ad esempio Plotinus, Enneades, V 1 [10], 7, 9-10; V 3 [49], 15, 3233; V 4 [7], 1, 36: ἡ πάντων δύναμις. 12  Cfr. ibid., VI 7 [38], 17, 10: ἐπέκεινα ἐνεργείας. 13  Ibid., VI 8 [39], 13, 4. Sui diversi registri linguistici impiegati da Plotino in riferimento al Principio, si può vedere ad esempio E. K. Emilsson, Plotinus, London - New York 2017, pp. 64-66. 14  Plotinus, Enneades, VI 8,  13,  5-8: εἰ γὰρ δοίημεν ἐνεργείας αὐτῷ, τὰς δ᾿ ἐνεργείας αὐτοῦ οἷον βουλήσει αὐτοῦ (…) αἱ δὲ ἐνέργειαι ἡ οἷον οὐσία αὐτοῦ, ἡ βούλησις αὐτοῦ καὶ ἡ οὐσία ταὐτὸν ἔσται. 15 Cfr. ibid., 13, 52-53: δεῖ δὲ τοῦτο μὴ πολλὰ εἶναι, συνακτέον ὡς ἓν τὴν βούλησιν καὶ τὴν οὐσίαν.

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τοῦτο τὴν οἷον ὑπόστασιν θετέον) 16. L’energheia insita nel Principio non è qualcosa che gli si aggiunge, poiché in tal caso esso non rimarrebbe uno, bensì gli è in qualche modo intrinseca: si tratta, infatti, di un’attività che nel Principio non è vincolata all’essenza, ma è puramente e assolutamente libera; di conseguenza il Principio, sarà se stesso da se stesso 17. Entro tale prospettiva la libertà, la potenza e l’attività insite nel Principio vengono a coincidere con la sua identità assoluta. Che cosa, dunque, di lui v’è che non sia lui stesso? Che cosa è  ciò che egli non attua? E che cosa che non sia opera sua? Se ci fosse qualcosa in lui che non fosse opera sua, non sarebbe puramente incondizionato né capace di ogni cosa 18.

L’Uno-Bene, di conseguenza, è la sua stessa volontà 19, poiché in esso non vi può essere nulla di differente da ciò che esso è 20: ciò significa, in ultima istanza, che in esso, volontà, potenza, atto si identificano completamente. Alla luce di ciò si comprende la con  Su ciò cfr. ibid., 20, 9-11.  Cfr. ibid., 20, 17-19: ἐνέργεια δὴ οὐ δουλεύσασα οὐσίᾳ καθαρῶς ἐστιν ἐλευθέρα, καὶ οὕτως αὐτὸς παρ᾿ αὑτοῦ αὐτό. Sulla nozione di ἐνέργεια in riferimento al Principio in Plotino cfr. F. Ferrari, Motivi platonici e motivi aristotelici nella concezione della doppia energheia dell’uno in Plotino, in ΕΝΩΣΙΣ ΚΑΙ ΦΙΛΙΑ, unione e amicizia. Omaggio a Francesco Romano, a cura di M. Barbanti - G. R. Giardina R. Manganaro, Catania 2002, [pp. 375-388], pp. 378-380. È opportuno osservare che nel caso del Primo Principio si può parlare di una doppia ἐνέργεια – concezione su cui torneremo brevemente più avanti – in senso, per così dire, analogico, in quanto l’ἐνέργεια interna del Principio coincide con la sua μονή, ossia la sua manenza, il suo permanere nell’identità assoluta che lo contraddistingue, mentre la seconda ἐνέργεια, ossia quella che procede da esso, è già il costituirsi della seconda ipostasi, vale a dire il Νοῦς. 18  Plotinus, Enneades, VI 8, 20, 34-37: τί οὖν αὐτοῦ, ὃ μὴ αὐτός; τί οὖν, ὃ μὴ ἐνεργεῖ; καὶ τί, ὃ μὴ ἔργον αὐτοῦ; εἰ γάρ τι εἴη μὴ ἔργον αὐτοῦ ἐν αὐτῷ, οὐ καθαρῶς ἂν εἴη οὔτε αὐτεξούσιος οὔτε πάντα δυνάμενος. 19 Cfr. ibid., 20, 16: πρῶτον ἄρα ἡ βούλησις αὐτός. 20 Cfr. ibid., 20, 13: οὐχ ἕτερον ἄρα τῆς οὐσίας οὐδέν. Si noti che qui, in base al linguaggio finalizzato alla persuasione di cui si serve Plotino in Enneade VI 8, si afferma che nell’Uno-Bene non v’è nulla di differente dalla sua essenza. Il Principio, in effetti, per Plotino è  trascendente rispetto all’οὐσία e  all’essere stesso. Si tratta chiaramente di un’espressione con una funzione meramente indicativa, il cui effettivo scopo è quello di suggerire la natura dell’identità assoluta del Principio, nel quale non può sussistere differenza. In effetti, qualche paragrafo prima (cfr. ibid., 14, 42), nel medesimo trattato Plotino afferma che il Principio è primariamente se stesso e se stesso in modo trascendente rispetto all’essere: καὶ γὰρ πρώτως αὐτὸς καὶ ὑπερόντως αὐτός. 16 17

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clusione del trattato VI 8: esso solo è veramente libero (ἀληθείᾳ ἐλεύθερον), poiché non è  asservito a  se stesso (δουλεῦον ἑαυτῷ), ma è solamente e realmente se stesso (μόνον αὐτὸ καὶ ὄντως αὐτό), mentre ciascuna delle altre cose è se stessa e altro 21. Q uesto implica che anche la sua ποίησις, ossia il suo fare e produrre, sia assoluta e svincolata (ἀπόλυτος), in quanto essa non è finalizzata alla realizzazione di un prodotto, ma coincide con il Principio stesso, che, nella sua assoluta semplicità irrelata, è uno 22. Si potrebbe quindi dire che la natura assoluta, ovvero svincolata da ogni forma di determinazione ontologica, del Principio implica che anche la sua δύναμις e la sua ἐνέργεια siano assoluti, identificandosi fra loro in una perfetta unità. Radicalmente differente è la condizione del νοῦς, ovvero della seconda ipostasi del sistema metafisico plotiniano, coincidente con la totalità della realtà intelligibile. In essa la struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sembra manifestarsi in modo specifico e determinato. Ciò emerge soprattutto da alcuni passi del trattato VI 6, sui numeri 23. In  questo testo Plotino intende chiarire in quale ambito del reale venga a sussistere il numero nel suo complesso e, con esso, i numeri nella loro pluralità e determinatezza. La conclusione cui egli perviene è che il numero nella sua totalità, potremmo dire non dispiegata, è nell’essere, ma anteriore agli enti determinati. È la potenza del numero che, una volta determinatasi, ha diviso l’essere e lo ha reso gravido della molteplicità. Tale concezione emerge in un significativo passo del trattato in questione. Q uindi il numero nella sua totalità esisteva prima degli enti stessi. Ma se il numero esisteva prima degli enti, non era gli enti. Piuttosto era nell’Essere, non essendo però numero dell’Essere – infatti l’Essere era ancora uno – ma la potenza propria del numero quando è  venuta a  sussistere ha diviso l’Essere e lo ha reso, per così dire, gravido della molteplicità.

  Su ciò cfr. VI 8, 21, 31-33.   Su ciò cfr. ibid., 20, 4-9. 23 Sul rapporto fra la concezione del numero e  la struttura della seconda ipostasi in Plotino si veda C. Maggi, Sinfonia matematica. Aporie e soluzioni in Platone, Aristotele, Plotino, Giamblico, Napoli 2010, in partic. pp. 117-120 e 123125. Per un commento del trattato VI 6, cfr. Plotino, Sui numeri. Enneade VI, 6 [34], a cura di C. Maggi, Napoli 2009 (Università degli Studi ‘Suor Orsola Benincasa’. Dissertazioni di dottorato, 2). 21 22

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Infatti, o la sua essenza o il suo atto sarà il numero, e il Vivente in sé e l’Intelletto sarà numero. L’Essere non è forse numero unificato, mentre gli enti numero dispiegato, l’Intelletto numero che si muove in se stesso, e  il Vivente, dal canto suo, numero che comprende? Dal momento che l’Essere è venuto dall’Uno, come l’Uno era Uno, così bisogna che esso sia numero 24.

Il numero nel suo insieme, dunque, ossia il numero che precede la pluralità dispiegata e numerabile, è anteriore al determinarsi degli enti e di conseguenza non fa parte di questi ultimi. Esso è piuttosto insito nell’Essere stesso, nella misura in cui quest’ultimo nella prospettiva neoplatonica plotiniana è costituito da un’unità fondamentale, implicita nella nozione di ἓν ὄν, ossia di Uno-che-è, con cui va identificata l’ipostasi del νοῦς. Dal canto suo, tuttavia, il numero nella sua totalità è caratterizzato per Plotino da un’intrinseca δύναμις, ossia da una potenzialità capace di determinare la pluralità complessiva degli enti originandola. Pertanto, esso può al tempo stesso venire concepito come οὐσία, essenza, della realtà intelligibile stessa e sua ἐνέργεια, atto, poiché – si potrebbe dire – l’Essere della seconda ipostasi è, nella sua essenza, eterna attività produttiva della totalità degli enti. Ciò risulta più chiaro anche alla luce della così detta ‘dottrina della doppia ἐνέργεια’, in base alla quale la prima ἐνέργεια di una determinata sostanza consiste nel suo permanere se stessa unitariamente nella sua propria essenza, mentre la seconda ἐνέργεια può essere intesa come un’attività che procede all’esterno di una determinata sostanza e  origina qualcosa di diverso, ossia nel caso del νοῦς, in primo luogo, la pluralità dispiegata degli enti intelligibili 25. Con l’espressione τὸ ζῷον αὐτό, ossia ‘il Vivente in sé’, Plotino, sulla base di quanto è affermato 24  Plotinus, Enneades, VI 6 [34], 9, 23-31: πᾶς ἄρα ὁ ἀριθμὸς ἦν πρὸ αὐτῶν τῶν ὄντων. ἀλλ᾿ εἰ πρὸ τῶν ὄντων, οὐκ ἦν ὄντα. ἢ ἦν ἐν τῷ ὄντι, οὐκ ἀριθμὸς ὢν τοῦ ὄντος – ἓν γὰρ ἦν ἔτι τὸ ὄν – ἀλλ᾿ ἡ τοῦ ἀριθμοῦ δύναμις ὑποστᾶσα ἐμέρισε τὸ ὂν καὶ οἷον ὠδίνειν ἐποίησεν αὐτὸν τὸ πλῆθος. ἢ γὰρ ἡ οὐσία αὐτοῦ ἢ ἡ ἐνέργεια ὁ ἀριθμὸς ἔσται, καὶ τὸ ζῷον αὐτὸ καὶ ὁ νοῦς ἀριθμός. ἆρ᾿ οὖν τὸ μὲν ὂν ἀριθμὸς ἡνωμένος, τὰ δὲ ὄντα ἐξεληλιγμένος ἀριθμός, νοῦς δὲ ἀριθμὸς ἐν ἑαυτῷ κινούμενος, τὸ δὲ ζῷον ἀριθμὸς περιέχων; ἐπεὶ καὶ ἀπὸ τοῦ ἑνὸς γενόμενον τὸ ὄν, ὡς ἦν ἓν ἐκεῖνο, δεῖ αὐτὸ οὕτως ἀριθμὸν εἶναι. 25 Per tale concezione cfr. in partic. ibid. V 4 [7], 2, 27-33. Sulla distinzione tra ‘ἐνέργεια interna’ ed ‘ἐνέργεια esterna’ in Plotino si veda Emilsson, Plotinus cit., pp. 48-51.

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nel Timeo di Platone, si riferisce alla totalità viva e vitale dell’uni­ verso intelligibile, a  sua volta identificabile con la seconda ipostasi, il νοῦς, ovvero l’Intelletto. Vivente in sé e Intelletto sono numero, in quanto il Vivente in sé comprende in modo unitario la totalità dispiegata degli enti intelligibili, mentre l’Intelletto è ciò che con il suo movimento, ovvero la sua attività intelligibileintellettiva è origine della natura degli intelligibili e del loro costituirsi. L’Essere, d’altronde, in quanto ἓν ὄν, è numero unificato (ἀριθμὸς ἡνωμένος), proprio perché nella sua unità è anteriore alla pluralità dispiegata degli enti. Esso, in quanto deriva e dipende dall’Uno, che nella sua assoluta semplicità trascende l’Essere stesso, risulta a sua volta determinato come Uno-che-è, nel quale il numero si dà come potenzialità originaria del sussistere della pluralità degli enti. In riferimento alla realtà intelligibile, dunque, la struttura triadica οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια consente a  Plotino di descrivere ed esplicitare la natura di tale realtà. A loro volta, Essere – Intelletto  – Vivente-in-sé costituiscono nel medesimo trattato VI 6 un’ulteriore struttura triadica in base alla quale risulta complessivamente determinata la natura della seconda ipostasi 26. In tale dimensione l’essenza del νοῦς viene a  coincidere perfettamente con la sua attività interna. Per comprendere in modo più chiaro la differenza che intercorre tra l’ἐνέργεια del Principio e  quella del νοῦς è  opportuno tornare nuovamente a quanto Plotino afferma nel trattato VI 8, nel quale, come si è visto, attraverso un linguaggio figurato e finalizzato alla persuasione, viene descritto il carattere della ποίησις dell’Uno-Bene. Esso si delinea come – per usare un termine impiegato da Plotino proprio in tale trattato – una ὑπερνόησις eterna, ossia una ‘sovra-intellezione’, o  anche ‘super-pensiero’, senza inizio e senza fine che trascende il pensiero stesso 27: il Principio,   Su ciò cfr. Plotinus, Enneades, VI 6, in partic. 8, 17-22.  Cfr. ibid., VI 8, 16, 32. Occorre sottolineare che Plotino in uno dei primi trattati da lui scritti, ossia il brevissimo trattato V 4, il settimo in base all’ordine cronologico, attribuisce al  Principio una forma di attività noetica nella quale, però, non sussiste la distinzione fra pensiero (νοῦς) e oggetto di pensiero (νοητόν), che invece è costitutiva della dimensione intelligibile, ossia dell’ipostasi del Νοῦς. Si potrebbe dire che in questo trattato il Principio Primo è inteso come una originaria forma di intellezione, νόησις, che è al contempo intelligibile, νοητόν, ma non in 26 27

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attraverso il proprio atto, ‘fa sussistere’ se stesso come assoluta permanenza (μονή) 28 e come Identità assoluta, trascendente rispetto a ogni forma di determinazione e differenziazione. Per questo il Principio è al contempo anche potenza di tutte le cose, in quanto atto assolutamente originario anteriore e  trascendente rispetto alla totalità del reale e all’Essere stesso: la sua attività è rivolta interamente verso se stesso e coincide con la sua stessa natura. Così il Principio si delinea come un’attività in atto posta al  di sopra dell’intelletto, del pensiero e della vita 29. La seconda ipostasi, ossia il νοῦς, invece, si potrebbe dire che è complessivamente riconducibile alla struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella misura in cui il suo essere stesso include potenzialmente e produce effettivamente attraverso la propria attività intellettiva la pluralità dispiegata degli enti intelligibili nella loro totalità.

2. La struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Proclo: tra metafisica e teologia Anche nella riflessione ontologico-metafisica di Proclo è  possibile rintracciare alcuni significativi riferimenti alla struttura triadica οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια. Ad esempio, nel suo Commento al «Timeo», egli afferma esplicitamente che in ogni ambito della realtà naturale, la quale deriva e  dipende necessariamente dalla dimensione intelligibile, sono presenti in parte οὐσία, in parte δύναμις e  in parte ἐνέργεια. Proclo, a  tale proposito, ricorre – in modo simile a  come fa Plotino per illustrare la propria conce-

base a quell’identità dinamica e relazionale tra pensante e pensato che determina la natura del Νοῦς, bensì in modo originariamente statico e fisso, nella forma di un’identità assoluta. Su ciò cfr. ibid., V 4, 2, 4-42, ove il Principio viene concepito come una forma di intelligibile assolutamente originario e di νόησις che è diversa da quella propria del Νοῦς e che permane in una fissità eterna (ἐν στάσει αἰδίῳ) riconducibile all’identità assoluta propria dell’Uno, il Principio Primo: in tal modo esso permane trascendente rispetto all’essenza (ἐπέκεινα οὐσίας), al pensiero stesso (ἐπέκεινα νοῦ) e, in generale, a tutte le cose (ἐπέκεινα τῶν πάντων), in quanto è anteriore a tutte. Su tale questione, in riferimento alla dottrina della doppia energheia, si veda ancora Ferrari, Motivi platonici cit., pp. 377-378. 28  Su ciò cfr. Plotinus, Enneades, VI 8, 16, 24-33. Su questo passo cfr. Lo Casto, Teleia Zoe cit. (alla nota 5), pp. 242-243. 29 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 8, 16, 35-36: αὐτὸς ἄρα ἐστὶν ἐνέργεια ὑπερ νοῦν καὶ φρόνησιν καὶ ζωήν.

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zione della doppia ἐνέργεια 30 – all’esempio del fuoco: una cosa è la sua essenza/sostanza, in base alla quale al fuoco pertiene specificamente il suo essere fuoco; un’altra è la sua potenza e un’altra ancora il suo atto: esso, infatti, fa seccare alcune cose, altre le scalda, altre ancora le fa mutare in qualche altro modo 31. Certamente il riferimento all’οὐσία a proposito della realtà naturale implica di per sé un rinvio alla dimensione intelligibile, la quale anche in Proclo, in alcuni specifici contesti, assume i  caratteri della struttura triadica in questione. Assai indicativo è a questo proposito quanto viene da lui affermato nella prop. 169, con relativa spiegazione, della Elementatio theologica: qui Proclo, riferendosi a ogni singolo intelletto insito nella pluralità dispiegata della dimensione intelligibile, mostra come in essa essenza, potenza e atto coincidano, in considerazione del fatto che intelletto (νοῦς), intelligibile (νοητόν) e pensiero/intellezione (νοήσις) in tale realtà vengono a identificarsi. Ogni intelletto ha essenza, potenza e atto nell’eternità. Infatti, se pensa se stesso e l’intelletto e l’intelligibile sono identici, anche l’intellezione è  identica all’intelletto e  all’oggetto intelligibile. Infatti, poiché essa è  intermedia tra il pensante e il pensato, essendo quelli identici, l’intellezione sarà certo a sua volta identica a  entrambi. Ma senza dubbio che l’essenza dell’intelletto sia eterna appare evidente: infatti è tutta quanta insieme simultaneamente. Allo stesso modo è anche l’intellezione, se è  vero che è  identica all’essenza: in effetti, se l’intelletto è immobile, non potrebbe essere misurato dal tempo né in base all’essere né in base all’attività. Ma essendo questi allo stesso modo, anche la potenza è eterna 32.

 Cfr. ibid., V 4, 2, 30-33.   Su ciò cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22: ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσία, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ’ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια·καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. 32   Proclus, Elementatio, prop. 169, p. 146, 24-25: πᾶς νοῦς ἐν αἰῶνι τήν τε οὐσίαν ἔχει καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν. εἰ γὰρ ἑαυτὸν νοεῖ καὶ ταὐτὸν νοῦς καὶ νοητόν, καὶ ἡ νόησις τῷ νῷ ταὐτὸν καὶ τῷ νοητῷ· μέση γὰρ οὖσα τοῦ τε νοοῦντος καὶ τοῦ νοουμένου, τῶν αὐτῶν ἐκείνων ὄντων, ἔσται δήπου καὶ ἡ νόησις ἡ αὐτὴ πρὸς ἄμφω. ἀλλὰ μὴν ὅτι ἡ οὐσία τοῦ νοῦ αἰώνιος, ‹δῆλον›· ὅλη γὰρ ἅμα ἐστί. καὶ ἡ νόησις ὡσαύτως, εἴπερ τῇ οὐσίᾳ ταὐτόν· εἰ γὰρ ἀκίνητος ὁ νοῦς, οὐκ ἂν ὑπὸ χρόνου μετροῖτο οὔτε κατὰ τὸ εἶναι οὔτε κατὰ τὴν ἐνέργειαν. τούτων δὲ ὡσαύτως ἐχόντων, καὶ ἡ δύναμις αἰώνιος. 30 31

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Q ui Proclo sembra identificare nell’ambito dell’intelligibile l’οὐ­ σία con il νοητόν, ovvero l’oggetto del νοῦς, che coincide con il νοῦς stesso, e l’ἐνέργεια con l’attività del νοῦς per il tramite della quale esso pensa se stesso, e infine la δύναμις dell’intelletto con la sua propria νοήσις, che viene infatti definita intermedia (μέση) tra pensante e pensato. Comunque, al di là della specifica determinazione dei termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nell’ambio dell’intelligibile, Proclo, in una prospettiva sostanzialmente simile a quella plotiniana, mette in luce come nell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica sussista una sostanziale identità, garantita e fondata dall’identità fondamentale tra pensante e pensato. Inoltre poiché tale ambito del reale è essenzialmente contraddistinto dal carattere dell’eternità, la quale implica la totale simultaneità unitaria dell’intelletto, in esso non vi può essere effettiva distinzione fra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, che risultano così perfettamente coincidenti senza implicare una loro effettiva differenziazione, diversamente, come si è visto, rispetto a  quanto avviene nell’ambito della realtà naturale, la quale, potremmo dire, è  intrinsecamente soggetta alla dimensione della temporalità. Proclo, inoltre, secondo una prospettiva filosofico-esegetica per lui usuale, propone anche una concezione e  sistematizzazione della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in chiave metafisico-teologica 33 attraverso la rielaborazione di una dottrina contenuta negli Oracoli Caldaici, in cui è presente la fondamentale e originaria triade costituita da Padre – Potenza – Intelletto 34. Proclo riprende tale dottrina e la rielabora alla luce della struttura triadica in questione in un interessante passo del suo Commento all’«Alcibiade I», ove egli se ne serve per illustrare i rapporti fra i diversi livelli divini che costituiscono il reale. 33   Sul tema della ‘teologizzazione del reale’ nel tardo neoplatonismo e in particolare in Proclo rinvio a M. Abbate, Tra esegesi e teologia. Studi sul Neoplatonismo, Milano - Udine 2012 (Askesis. Studi di Filosofia Antica, 3), pp. 77-80. Sulla funzione divina attribuita da Proclo alla δύναμις si veda H. D. Saffrey, Fonction divine de la δύναμις dans la théologie proclienne, in Dunamis nel Neoplatonismo cit. (alla nota 1), pp. 107-120. 34 Sulla questione cfr. N.  Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles», London - New York 2021 (Routledge Monographs in Classical Studies), pp. 17-33. Si veda inoltre H. Seng, Un livre sacré de l’Antiquité tardive: les Oracles Chaldaïques, Turnhout 2016 (Bibliothèque de l’École des hautes études. Sciences religieuses, 170), pp. 42-61.

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La potenza, infatti, è intermedia tra l’essenza e l’attività, in quanto è prodotta dall’essenza e, a sua volta, genera l’attività. In secondo luogo, poi bisogna dire che la potenza è assolutamente specifica dei demoni. In ogni ambito, infatti, la potenza ha avuto in sorte una posizione mediana: anche negli intelligibili connette il Padre e l’Intelletto ‘infatti la potenza è con quello, mentre l’Intelletto viene da quello’ 35. Invece negli intellettivi la potenza collega le attività alle essenze; infatti, l’attività è prodotto generato della potenza, mentre l’essenza introduce le potenze da se stessa. E dunque anche i generi che ci sono superiori, che occupano una posizione intermedia tra gli dèi e noi, sono indicati propriamente attraverso la potenza in considerazione del fatto che essa ha avuto in sorte in ogni ambito una posizione intermedia. Infatti, l’autentica essenza e  il vero essere si trovano presso gli dèi, mentre la potenza al  servizio degli dèi è  posta presso i  demoni,  e, a  loro volta, l’attività, che procede fuori attraverso la loro potenza, e  la produzione sono insite in noi 36.

Alla luce di questo brano, dunque, emerge con evidenza come Proclo si serva della scansione tra i tre termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια per illustrare la relazione che inter35 Si tratta del fr. 4 degli Oracoli Caldaici secondo l’edizione di Édouard des Places, in La sagesse des Chaldéens: les Oracles chaldaïques, ed. É. des Places, Paris 1971 (Aux sources de la tradition, 3), p. 67 per il testo e p. 124 per il commento. Per l’interpretazione di questo frammento cfr.  anche The Chaldean Oracles. Text, Translation and Commentary, ed. by R. Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), pp. 142-143. Si rinvia inoltre alle considerazioni di Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles» cit., pp. 28-29. Proclo prende in esame la triade Padre – Potenza – Intelletto più diffusamente in Proclus Diadochus, Theologia Platonica, III 21, edd. H. D. Saffrey - L. G. Westerink, 6 voll., Paris 1968-1997, III, 1978, pp. 73-78. 36  Id., In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 9ss.: μέση γὰρ ἡ δύναμίς ἐστι τῆς τε οὐσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομένη μὲν ἀπὸ τῆς οὐσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν. δεύτερον δὲ ὅτι καὶ ἄλλως ἡ δύναμις οἰκειοτάτη τοῖς δαίμοσίν ἐστι. πανταχοῦ γὰρ ἡ δύναμις τὸ μέσον κεκλήρωται· καὶ ἐν μὲν τοῖς νοητοῖς συνάπτει τὸν πατέρα καὶ τὸν νοῦν, ῾ ἡ μ ὲ ν γ ὰ ρ δ ύ ν α μ ι ς σ ὺ ν ἐ κ ε ί ν ῳ , ν ο ῦ ς δ ’ ἀ π ’ ἐ κ ε ί ν ο υ ᾽ , ἐν δὲ τοῖς νοεροῖς [scil. ἡ δύναμις] τὰς ἐνεργείας συνδεῖ πρὸς τὰς οὐσίας, ἡ μὲν γὰρ ἐνέργεια γέννημα τῆς δυνάμεώς ἐστιν, ἡ δὲ οὐσία προάγει τὰς δυνάμεις ἀφ’ ἑαυτῆς. καὶ οὖν καὶ τὰ κρείττονα ἡμῶν γένη μέσα τῶν θεῶν ὄντα καὶ ἡμῶν οἰκείως σημαίνεται διὰ τῆς δυνάμεως ὡς μέσην πανταχοῦ τάξιν λαχούσης. ἔστι γὰρ ἡ μὲν ἀληθινὴ οὐσία καὶ τὸ ὄντως εἶναι παρὰ τοῖς θεοῖς, ἡ δὲ δύναμις ἡ ὑπουργὸς τῶν θεῶν παρὰ τοῖς δαίμοσιν, ἡ δὲ ἔξω προϊοῦσα διὰ τῆς δυνάμεως αὐτῶν ἐνέργεια καὶ ποίησις ἐν ἡμῖν. Sull’uso e sul significato del concetto di δύναμις in questo contesto si veda N. Spanu, Proclus on the «Chaldean Oracles» cit., pp. 29-30.

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corre fra la dimensione divina, corrispondente all’οὐσία, quella demonica, corrispondente alla δύναμις, e infine quella umana, corrispondente all’ἐνέργεια e alla ποίησις, ossia all’attività e alla produzione all’interno della dimensione fenomenica. Occorre infine precisare che, comunque, per Proclo, a  differenza di Plotino, nessun termine della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια può in alcun modo essere riferito direttamente al  Primo Principio, che per la sua assoluta trascendenza è  radicalmente anteriore a  qualunque forma di determinazione. Ciò emerge in modo lampante nel libro II della Teologia Platonica – il capolavoro procliano – libro specificamente dedicato alla trattazione della natura assolutamente semplice e  trascendente dell’Uno-Bene. Q ui Proclo afferma esplicitamente che esso va inteso come anteriore alla δύναμις e all’ἐνέργεια 37. Il Bene, infatti, precede tutte le potenze, tutti gli atti e  ogni forma di pluralizzazione e di movimento, poiché il Bene costituisce per ciascuna di queste cose il fine (τέλος) 38.

3. La struttura triadica οὐσία/ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια nella dimensione intelligibile dispiegata: una costante nella riflessione pagana greca Come è  emerso da alcuni testi di Plotino e  Proclo precedentemente esaminati, una costante nella riflessione neoplatonica relativa alla struttura triadica costituita da essenza – potenza – attività è che essa sembra prendere forma compiuta all’interno della realtà intelligibile perfettamente dispiegata. In effetti, il termine stesso οὐσία, essenza/sostanza, implica necessariamente il riferimento a una dimensione ontologicamente determinata, differenziata e definita. Sulla base della concezione neoplatonica, nella sua forma costitutivamente unitaria l’intelligibile viene inteso, alla luce della seconda ipotesi del Parmenide di Platone, come Unoche-è, al  cui interno la determinazione e  la differenziazione tra i molteplici enti non risultano compiutamente dispiegate. Come si è  visto, tale prospettiva metafisico-teoretica si profila già nel 37 Cfr. Proclus Diadochus, Theologia Platonica, II 7, edd. Saffrey-Westerink cit., II, 1974, p. 51, 7-16. 38 Cfr. ibid., p. 51, 12-15.

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trattato VI 6 delle Enneadi di Plotino 39. Anche nella prospettiva procliana, la sommità unitaria dell’Essere stesso, ossia l’Uno-cheè o anche Monade dell’Essere 40, è caratterizzata da una forma di unità tale da risultare anteriore a ogni forma di specifica differenziazione e determinazione ontologica e, quindi, necessariamente trascendente rispetto alla nozione stessa di οὐσία, intesa come determinazione ontologica specifica. Anche nel pensiero dell’ultimo scolarca della Scuola platonica di Atene, Damascio – che, come Proclo, riprende rielaborandola la triade caldaica Padre (Intelligibile puro), Potenza (Vita intelligibile) e Intelletto/Atto (Intelletto intelligibile) – il livello più alto dell’intelligibile, ossia τὸ ἡνωμένον, l’Unificato, risulta caratterizzato da un’unità sostanzialmente indifferenziata 41. Egli, che nella struttura triadica in questione sostituisce la nozione di οὐσία con quella più generale di ὕπαρξις, ossia ‘realtà effettiva’, in quanto quest’ultima implica un minor grado di determinazione e particolarità, mette in luce come al livello dell’Unificato, sostanzialmente riconducibile alla nozione di Uno-che-è, i tre termini della triade risultino a loro volta unificati, quindi non distinguibili e non differenaziabili fra loro 42. Nella sommità degli enti, infatti, le nozioni di δύναμις e di ἐνέργεια sono assorbite da quella di ὕπαρξις, in quanto nella dimensione dello ἡνωμένον esse costituiscono un’unità indifferenziata 43. L’Unificato si delinea infatti come un’uni­ca contrazione omnicomprensiva posta la di sopra della totalità di tutto ciò che è 44. Per questa sua trascendenza rispetto a  ogni determinazione ontologica, esso non risulta nemmeno intelligibile 45. Anche nella prospettiva damasciana, dunque, la struttura traidica οὐσία/  Cfr. supra, alla nota 24.  Su tali concetti in Proclo rinvio a  M.  Abbate, Parmenide e  i neoplatonici. Dall’Essere all’Uno e  al di là dell’Uno, Alessandria 2010 (Hellenica, 33), pp. 166-175. 41  Su ciò cfr. Damascius, De primis principiis, II ed. L. G. Westerink, 3 voll., Paris 1986-1991, II, 1989, p. 88, 1-4. Per una più ampia e dettagliata trattazione della concezione damasciana relativa alla struttura triadica in oggetto si veda nel presente volume il contributo di I. Grimaldi. 42  Cfr. ibid., p. 88, 1-2: ἀλλ᾿ ἔτι ἡνωμένα ἐκεῖ τὰ τρία, ἐνέργεια, δύναμις, ὕπαρξις. 43 Cfr. ibid., p. 88, 18-20: ἐν δέ γε τῇ ἀκρότητι τῶν ὄντων καταπίνεται ὑπὸ τῆς ὑπάρξεως ἡ δύναμις καὶ ἡ ἐνέργεια, ἓν οὖσα ὅμως. 44 Cfr. ibid., p. 88, 23-24: ἀλλὰ μία παντοῦχός ἐστιν ὑπὲρ πάντα συναίρεσις. 45 Cfr. ibid., p. 89, 7-8.: (…) ὥστε οὐδὲ νοητὸν ἐκεῖνο. 39

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SIGNIFICATO E FUNZIONE DELLA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ

ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια potrebbe esplicarsi solo a partire da quel livello intelligibile che è già compiutamente dispiegato e differenziato 46. Alla luce delle precedenti considerazioni, è  possibile concludere che nell’ambito della tradizione neoplatonica greco-pagana la struttura triadica in esame è presente in autori centrali all’interno di tale tradizione e appartenenti a epoche diverse. Essa sembra fornire, come emerge dalla loro riflessione, una sorta di schema concettuale di riferimento per delineare gradi differenti, e via via più specifici, di determinazione ontologica, partendo dalla trascendenza assoluta del Principio primo, posto al di sopra dell’essenza e dell’Essere stesso, fino ad arrivare alla determinazione delle singole realtà naturali. Certamente, all’interno della tradizione neoplatonica, al di là di alcune rilevanti differenze nella riflessione dei suoi più significativi rappresentanti, un aspetto comune e costante è che in tale struttura triadica le nozioni di δύναμις ed ἐνέργεια assumono una valenza profondamente diversa rispetto a quella originariamente aristotelica: esse infatti vengono impiegate entro una prospettiva ontologico-metafisica specifica finalizzata a  mostrare come la realtà nel suo complesso sia costituita da gradi via via sempre più specifici di determinazione e pluralità, sulla base di una struttura piramidale, il cui vertice, assolutamente trascendente, è costituito dal Principio e  la cui base dalla molteplicità compiutamente dispiegata delle singole entità naturali. Entro tale prospettiva di pensiero, il Principio primo viene inteso come il fondamento primissimo e  assolutamente originariο dell’unità e  dell’identità stessa di ogni realtà singolarmente determinata, la quale in virtù di tale fondamento è ricondotta, pur nella sua specifica singolarità, all’unità e armonia complessiva del Tutto. Inoltre, la connessione fra i  tre termini di questa struttura triadica implica una concezione dinamica della dimensione intelligibile nel suo dispiegarsi: tale dinamicità, sostanzialmente, si riflette nei diversi ambiti della realtà che da quella intelligibile derivano e dipendono.

 Sul concetto di δύναμις nel De primis principiis di Damascio si può vedere il contributo di J. Dillon, Some Aspects of  Damascius’ Treatment of  the Concept of  dynamis, in Dunamis nel Neoplatonismo cit., pp. 139-148. 46

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La triade οὐσία  –  δυνάμεις  –  ἐνέργειαι riveste una particolare importanza nel De anima di Giamblico, tanto che nella ricostruzione dell’ordine dei frammenti, conservati nell’Anthologion di Giovanni Stobeo 1, Festugière l’ha tenuta in gran conto. Infatti, secondo la struttura proposta da Festugière 2, e  ripresa da Finamore e  Dillon 3, il trattato giamblicheo, nella prima sezione, si articola come segue: una prima parte verte sull’οὐσία dell’anima 4, la seconda sulle δυνάμεις 5, la terza sulle ἐνέργειαι o  ἔργα 6. Non è questa la sede per entrare nel merito della complessa questione della ricostruzione dell’ordine dei frammenti dell’opera giamblichea 7. Potremo però notare come in realtà Giamblico, in ognuna  Cfr. Johannes Stobaeus, Anthologium, ed. C. Wachsmuth - O. Hense, 5 voll., Berlin 1884-1923; in partic. Id., Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, ed. C.  Wachsmuth, Berlin 1884, I, in partic. pp. 362-385. 2  Cfr.  Iamblichus, De anima, tr. fr. e  commento di A.-J.  Festugière, in A.-J. Festugière, La révélation d’Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1944-1954 (20062), III: Les doctrines de l’âme, 1953, pp. 177-264. 3  Cfr. Iamblichus, De anima, edd. J. F. Finamore - J. M. Dillon, Leiden Boston - Köln 2002 (Philosophia antiqua, 92). 4  Cfr.  Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, ed. Wachsmuth cit., pp. 362-367. 5 Cfr. ibid., pp. 367-370. 6 Cfr. ibid., pp. 370-375. 7   A riguardo, mi sia consentito rinviare a un mio articolo, in cui ho affrontato tale questione: La  struttura del «De anima» di Giamblico, in «Studia graecoarabica», 2  (2012), pp.  99-128. Le  considerazioni lì espresse sono alla base del riordinamento dei frammenti di Stobeo proposto in L. I. Martone, Giamblico, 1

La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127953 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 97-119      © 

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di queste tre parti, tratta sempre anche delle altre due, poiché esse si implicano l’un l’altra e si chiariscono a vicenda, in quanto possono essere colte dall’uomo solo «in un modo conforme all’Uno» (μονοειδῶς, ἑνοειδῶς). Il metodo stesso dell’indagine filosofica di Giamblico si basa su questo presupposto, come testimonia Proclo 8 nel Commento all’«Alcibiade»: Anche il divino Giamblico afferma che contemplare la sostanza dei demoni e degli esseri interamente superiori a noi è  più difficile per quelli che non hanno del tutto purificato l’intelletto dell’anima, in quanto anche vedere la sostanza dell’anima non è  assolutamente facile (infatti solo Timeo rivelò tutta quanta la sostanza dell’anima: «poiché essa è interamente dappertutto, necessita di un’esposizione divina e  lunga», come dice anche Socrate nel Fedro); al  contrario, sia vedere sia spiegare le loro potenze è più facile. In effetti, dagli atti, dei quali le potenze sono direttamente le madri, percepiamo anche le loro sostanze: la potenza è  intermedia tra la sostanza e l’atto, in quanto da un lato è prodotta dalla sostanza, dall’altro produce a sua volta l’atto 9.

Non è possibile per l’uomo comune, che non si è ancora purificato, conoscere gli enti divini come la sostanza (οὐσία) dell’anima; è più facile invece coglierne la potenza e la forza (δυνάμεις), perché esse generano le attività (ἐνέργειαι), e dalla natura degli effetti si può risalire alla natura della causa. De anima. I frammenti, la dottrina, Pisa 2014 (Greco, Arabo, Latino. Studi, 3). I passi del De anima e le traduzioni sono qui citati secondo questa monografia. 8 Com’è noto, dato il carattere dossografico dell’antologia di Stobeo, non è possibile ricostruire il trattato di Giamblico senza far riferimento alle citazioni riportate dai filosofi successivi, soprattutto da Proclo, Simplicio e Prisciano. 9  Proclus Diadochus, In Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph. Segonds, 2 voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p.  84, 1-12: ὃ καὶ ὁ θεῖος Ἰάμβλιχός φησιν, ὅτι τὰς μὲν ὑπάρξεις τῶν δαιμόνων καὶ ὅλως τῶν κρειττόνων ἡμῖν θεωρῆσαι χαλεπώτατόν ἐστι τοῖς μὴ τελέως ἐκκεκαθαρμένοις τὸν τῆς ψυχῆς νοῦν, ὅπου γε καὶ ψυχῆς οὐσίαν κατιδεῖν οὐ ῥᾴδιον παντί (μόνος γοῦν ὁ Τίμαιος ἅπασαν αὐτῆς τὴν οὐσίαν ἐξέφηνεν· οἷον γάρ ἐστι πάντῃ πάντως θείας καὶ μακρᾶς δεῖται διηγήσεως, ὥς πού φησι καὶ ὁ ἐν τῷ Φαίδρῳ Σωκράτης)· τὰς δὲ δυνάμεις αὐτῶν καὶ ἰδεῖν καὶ διασαφῆσαι ῥᾷον. ἀπὸ γὰρ τῶν ἐνεργειῶν, ὧν εἰσὶ προσεχῶς αἱ δυνάμεις μητέρες, καὶ αὐτῶν ἐκείνων ἐπαισθανόμεθα· μέση γὰρ ἡ δύναμίς ἐστι τῆς τε οὐσίας καὶ τῆς ἐνεργείας, προβαλλομένη μὲν ἀπὸ τῆς οὐσίας, ἀπογεννῶσα δὲ τὴν ἐνέργειαν. La traduzione è mia.

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Q uesto modo di procedere è chiaramente espresso da Giamblico stesso nel suo De mysteriis 10. Sin dalle prime pagine dell’opera, Giamblico chiarisce infatti le sue indicazioni di metodo: non è corretto ragionare sull’esistenza degli dèi, per ammetterla o per metterla in dubbio – come fa Porfirio – perché «la conoscenza degli dèi coesiste innata nella nostra stessa sostanza» 11, noi siamo circondati e  riempiti dalla presenza del divino 12. La  conoscenza razionale presuppone invece una separazione tra ciò che conosce e ciò che è conosciuto 13, e questa non si adatta alla connessione intima che ci unisce agli dèi, la quale «è stata fissata sempre in atto in modo conforme all’Uno» 14. Giamblico fa lo stesso discorso anche a proposito delle stirpi superiori che seguono gli dèi, cioè i demoni, gli eroi e le anime pure 15. A loro ci si deve rivolgere solo in un modo conforme all’Uno 16. L’anima umana, quando persegue la sostanza divina, non deve servirsi di congetture, opinioni o sillogismi, che hanno origine dal tempo, ma di intuizioni pure e  perfette, che ricevette dagli dèi sin dall’eternità 17. Per questo motivo, Porfirio sbaglia quando cerca di comprendere i  diversi generi di esseri divini e le loro proprietà (ἰδιώματα) 18 a partire da una categoria corporea. Infatti Porfirio ha realizzato una distinzione negli enti divini a  partire dai loro atti (ἐνέργειαι), distinguendo dei movimenti attivi o passivi (τῶν δραστικῶν ἢ παθητικῶν

  La questione della dubbia paternità giamblichea di quest’opera è ormai superata; cfr. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Le témoignage de Saint Augustin dans la reconstitution de la «Lettre à Anébon l’égyptien» par Porphyre, in «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscription», 153.1 (2009), pp. 163-193. 11  Iamblichus, De mysteriis, I, 3, edd. H. D. Saffrey - A.-Ph. Segonds, Paris 2013, p. 5, 14-16: συνυπάρχει γὰρ ἡμῶν αὐτῇ τῇ οὐσίᾳ ἡ περὶ θεῶν ἔμφυτος γνῶσις. 12 Cfr. ibid., p. 6, 9-10: περιεχόμεθα γὰρ ἐν αὐτῇ μᾶλλον ἡμεῖς καὶ πληρούμεθα ὑπ’ αὐτῆς. 13 Cfr. ibid., p. 6, 1-2: διείργεται γὰρ αὕτης πως ἑτερότητι. 14  Ibid., p. 6, 6-7: ἕστηκε γὰρ ἀεὶ κατ’ἐνέργειαν ἑνοειδῶς. 15 Cfr.  ibid., p.  6, 12-14: ὁ δὲ αὐτός ἐστί μοι λόγος πρὸς σὲ καὶ περὶ τῶν συνεπομένων θεοῖς κρειττόνων γενῶν, δαιμόνων φημὶ καὶ ἡρώων καὶ ψυχῶν ἀχράντων. 16  Cfr. ibid., p. 6, 23: μονοειδῶς δὲ αὐτῶν ἀντιλαμβάνεσθαι δεῖ. 17  Cfr. ibid., p. 7, 2-8: οὕτω καὶ ἡ ἀνθρωπίνη ψυχὴ κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ γνώσει πρὸς αὐτοὺς συναπτέσθω, εἰκασίᾳ μὲν ἤ δόξῃ ἤ συλλογισμῷ τινι, ἀρχομένοις ποτὲ ἀπὸ χρόνου, μηδαμῶς τὴν ὑπὲρ ταῦτα μάντα οὐσίαν μεταδιώκουσα, ταῖς δὲ καθαραῖς καὶ ἀμέμπτοις νοήσεσιν αἷς εἴληφεν ἐξ ἀιδίου παρὰ τῶν θεῶν. 18 Cfr. ibid., 8, p. 22, 5ss. 10

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κινήσεων) 19 o degli accidenti (παρεπομένα) 20. Pertanto, Giamblico afferma: La tua domanda procede in modo incompleto: bisognava chiedersi infatti quali proprietà sono loro proprie, prima secondo la sostanza, poi secondo la potenza, e  solo dopo secondo l’atto; invece, chiedendo ‘con quali proprietà’, hai parlato solo degli atti: pertanto, tu ricerchi la differenza in quelle stirpi solo in relazione agli aspetti finali, mentre lasci inesplorati proprio gli elementi che sono i primissimi e i più importanti della loro varietà 21.

Proclo dimostra di far tesoro di queste indicazioni giamblichee nel suo Commento al «Timeo»: La seconda questione è di dividere come conviene l’intera psicogonia. Faremo dunque ciò, prendendo le mosse di nuovo a  partire dai fatti. In  ogni natura ci sono sostanza (οὐσία), potenza (δύναμις) e operazione (ἐνέργεια). E infatti del fuoco una cosa è l’essenza, secondo la quale appartiene al fuoco l’essere stesso del fuoco, un’altra è  la potenza, un’altra ancora l’operazione: infatti esso secca, riscalda, causa cambiamenti diversi, e lo stesso può dirsi di altre cose. Bisogna dunque che anche dell’anima, una cosa sia la sostanza, un’altra la potenza, un’altra ancora l’operazione e, se si vuole comprenderla e teorizzarla tutta quanta, bisogna parlare di tutto questo. Pertanto la psicogonia sarà articolata in tre capitoli principali, uno sulla sostanza dell’anima, l’altro sulla potenza, l’altro ancora sull’operazione 22. 19  Cfr.  ibid., 4, p.  8, 21-24: πρόσκειται δὲ δὴ αὐτόθι καὶ τὸ τῶν δραστικῶν ἢ παθητικῶν κινήσεων, ἥκιστα προσήκουσαν ἔχον διαίρεσιν εἰς διαφορὰν τῶν κρειττόνων γενῶν («Q ui si aggiunge la tua questione sui movimenti attivi o passivi, la quale implica una divisione che non è assolutamente adatta alle stirpi superiori», traduzione mia). 20 Cfr. ibid., p. 9, 22. 21  Ibid., p. 8, 12-20: ἡ δ᾽ ἐρώτησις ἀτελῶς πρόεισιν· ἔδει μὲν γὰρ κατ᾽ οὐσίαν πρῶτον, ἔπειτα κατὰ δύναμιν, εἶθ᾽οὕτω κατ᾽ ἐνέργειαν, πυνθάνεσθαι τίνα αὐτῶν ὑπάρχει τὰ ἰδιώματα· ὡς δὲ νῦν ἠρώτησας τίσιν ἰδιώμασιν, ἐνεργειῶν μόνον εἴρηκας· ἐπὶ τῶν τελευταίων ἄρα τὸ διάφορον ἐν αὐτοῖς ἐπιζητεῖς, τὰ δὲ πρώτιστα αὐτῶν καὶ τιμιώτατα ὡσπερεὶ στοιχεῖα τῆς παραλλαγῆς ἀφῆκας ἀδιερεύνητα (traduzione mia). 22   Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22: δεύτερον ἦν τὸ διελέσθαι τὴν ὅλην ψυχογονίαν κατὰ τρόπον. τοῦτο οὖν μετὰ ταῦτα ποιῶμεν, ἀπὸ τῶν πραγμάτων πάλιν τὴν ἀρχὴν λαβόντες. ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσὶα, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ᾽ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ

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Dunque, secondo Giamblico, la sostanza divina, a cui anche l’anima appartiene, si può cogliere solo in modo intuitivo e  innato; quando si cerca di sottoporla a  un’indagine razionale, come fa Porfirio, si finisce col cogliere solo gli aspetti finali, quelli relativi agli atti, perché questi sono più evidenti per l’uomo non ancora purificato dai legami con il corpo; invece, gli aspetti più importanti, quelli relativi alla sostanza e  alla potenza degli dèi, richiedono un’indagine di altra natura, che appunto procede attraverso intuizioni pure e  perfette. Ecco perché Giamblico e  poi Proclo prevedono questa distinzione triadica, che quindi va intesa come ripartizione di metodo per parlare in modo completo degli enti divini – non a caso infatti tali puntualizzazioni compaiono nelle parti iniziali delle opere considerate – tenendo però presente che ciascun componente della triade presuppone sempre gli altri due.

1. Il «De anima» di Aristotele come fonte di Giamblico? Secondo alcuni studiosi, le origini della distinzione fra οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι o ἔργα, riscontrabile nelle opere di Giamblico, risalgono al De anima di Aristotele 23. I passi indicati a sostegno di tale affermazione sono i seguenti. Per quanto concerne il rapporto οὐσία/δυνάμεις: Da quanto precede risulta dunque chiaro che l’anima è  un certo atto ed una certa essenza di ciò che ha la capacità di essere di una determinata natura 24. πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. δεῖ δὴ οὖν καὶ τῆς ψυχῆς ἄλλην μὲν εἶναι τὴν οὐσίαν, ἄλλην δὲ τὴν δύναμιν, ἄλλην δὲ τὴν ἐνέργειαν, καὶ τὸν πᾶσαν αὐτὴν ἑλεῖν καὶ θεωρῆσαι βουλόμενον χρὴ περὶ ἁπάντων εἰπεῖν. ἔσται ἄρα καὶ τῆς ψυχογονίας τρία πρῶτα κεφάλαια, τὸ μὲν περὶ οὐσίας αὐτῆς, τὸ δὲ περὶ δυνάμεως, τὸ δὲ περὶ ἐνεργείας (traduzione mia). 23 Tale opinione è espressa, per esempio, in Festugière, La Révélation cit. (alla nota 2), p. 190, nota 1, a cui rinvia anche P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), I, p. 268, nota 10 (tr. it., Milano 1993, p. 235, nota 147). Anche Daniela Taormina la fa risalire ad Aristotele: cfr. D. P. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico, Firenze 1990 (Symbolon, 10), p. 17, nota 3; infine cfr. Giamblico, I misteri degli Egiziani, a cura di C. Moreschini, Milano 2003, p. 67, nota 26. 24  Aristoteles, De anima, II 2, 414a 27-29 (tr. it., Milano 2001, p. 127): ὅτι μὲν οὖν ἐντελέχεια τίς ἐστι καὶ λόγος τοῦ δύναμιν ἔχοντος εἶναι τοιούτου, φανερὸν ἐκ τούτων.

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Per il rapporto δυνάμεις/ἐνέργειαι viene indicato il passo seguente, tratto dalla parte iniziale dell’esposizione sulle facoltà: Chi intende effettuare una ricerca sulle facoltà dell’anima deve stabilire che cos’è ciascuna di esse  (…). Ma se bisogna dire che cos’è ciascuna di queste facoltà, ad esempio che cos’è la facoltà intellettiva o sensitiva o nutritiva, prima ancora si deve dire che cos’è l’intellezione e  che cos’è la percezione, poiché le attività e  le funzioni dal punto di vista logico sono anteriori alle facoltà 25.

La questione era stata già introdotta da Aristotele nel primo libro: Difficile è anche determinare quali di queste parti siano essenzialmente distinte tra loro, e se si debbano esaminare prima le parti o le loro attività (…) 26.

Tuttavia, nel primo passo considerato, è abbastanza agevole notare che il termine οὐσία non compare affatto 27; δύναμις inoltre è preso nel passo in due significati diversi: 1) come potenza, e non come facoltà: il senso della frase riguarda il fatto che l’anima in quanto tale è atto di un corpo che deve avere una potenza determinata verso quell’atto, ovvero di un corpo che possiede la vita in potenza. In gioco è dunque il rapporto anima-corpo, secondo ciò che comporta la definizione (λόγος) dell’anima: essere atto (ἐντελέχεια) di un corpo che ha la vita in potenza (δυνάμει); 2) la seconda occorrenza di δύναμις al genitivo plurale è ambigua: potrebbe sì essere resa con ‘facoltà’, ma non bisognerebbe riferire ‘suddette’ a ciò che precede – visto che Aristotele, come si è detto, non stava parlando qui di facoltà – ma al massimo a quanto dice diversi passi prima 28, dove spiega che l’essere animato si distingue   Ibid., 4, 415a 14-20 (tr. it., p. 133): ἀναγκαῖον δὲ τὸν μέλλοντα περὶ τούτων (θρεπτικόν) σκέψιν ποιεῖσθαι λαβεῖν ἕκαστον αὐτῶν τί ἐστιν (…) εἰ δὲ χρὴ λέγειν τί ἕκαστον αὐτῶν, οἷον τί τὸ νοητικὸν ἢ τὸ αἰσθητικὸν ἢ τὸ θρεπτικόν, πρότερον ἔτι λεκτέον τί τὸ νοεῖν καὶ τί τὸ αἰσθάνεσθαι· πρότεραι γάρ εἰσι τῶν δυνάμεων αὶ ἐνέργειαι καὶ αἱ πράξεις κατὰ τὸ λόγον (…). 26  Ibid., I 1, 402b 10-12 (tr. it., p. 57): χαλεπὸν δὲ καὶ τούτων διορίσαι ποῖα [scil. μόρια] πέφυκεν ἕτερα ἀλλήλων, καὶ πότερον τὰ μόρια χρὴ ζητεῖν πρότερον ἢ τὰ ἔργα αὐτων (…). 27 La traduzione di Movia, che considera equivalenti di οὐσία ἐντελέχεια o λόγος appare, direi, piuttosto imprecisa e fuorviante. 28  Cfr. ibid., II 2, 413a 25ss. 25

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dall’inanimato per il fatto che vive e che ha facoltà in virtù delle quali cresce 29. Anche nei passi successivi non compare οὐσία, né alcun termine equivalente a ‘essenza’ o ‘sostanza’. Il discorso verte invece sulle parti, e cioè se parti diverse possano avere funzioni diverse. Il  primo dei due passi riguarda il rapporto δυνάμεις – ἐνέργειαι e postula l’anteriorità logica delle attività rispetto alle facoltà. Ciò è assolutamente coerente nel metodo aristotelico, ma crea qualche problema in impianti conoscitivi differenti, come quelli di alcuni Neoplatonici (come si è visto). Se poi si procede nel trattato aristotelico di qualche altra linea, si legge: Ma se questo è  vero, ancor prima che le attività si devono prendere in considerazione gli oggetti correlativi, poiché è di questi anzitutto, e per lo stesso motivo, che si deve trattare, ossia dell’alimento, del sensibile e dell’intelligibile 30.

Aristotele sottolinea l’anteriorità degli ἀντικείμενα di tali attività: dunque, la priorità non viene in questo caso data dall’anima come essenza rispetto alle facoltà e  alle attività, ma agli oggetti delle facoltà (il cibo, il sensibile e  l’intelligibile), poi alle attività, per arrivare infine alle facoltà. Anche il seguente passo del primo libro sembra confermare questa stessa impostazione: Sembra che non solo la conoscenza di che cos’è una cosa sia utile a cogliere le cause degli accidenti delle sostanze (…), ma anche, viceversa, che gli accidenti contribuiscano in larga misura a conoscere che cos’è una cosa. Q uando infatti siamo in grado di dar conto, in conformità all’esperienza, di tutti (o  della maggior parte) gli accidenti, allora potremo parlare dell’essenza nel modo più corretto 31. 29  Anche in questo caso dunque la traduzione di Movia appare fuorviante; il passo aristotelico può essere utile ai nostri scopi solo se si traduce utilizzando ‘essenza’ e ‘facoltà’, ma a quanto pare Aristotele qui sta parlando di altro, anche se è ovvio che ammette una distinzione di δυνάμεις. 30  Ibid., 4,  415a 20-22 (tr.  it., p.  133): εἰ δ᾽ οὕτως, τούτων δ᾽ ἔτι πρότερα τὰ ἀντικείμενα δεῖ τεθεωρηκέναι, περὶ ἐκείνων πρῶτον ἂν δέοι διορίσαι διὰ τὴν αὐτὴν αἰτίαν, οἷον περὶ τροφῆς καὶ αἰσθητοῦ καὶ νοητοῦ. 31  Ibid., I  1,  402b 16-25 (tr.  it., p.  59): ἔοικε δ᾽ οὐ μόνον τὸ τί ἐστι γνῶναι χρήσιμον εἶναι πρὸς τὸ θεωρῆσαι τὰς αἰτίας τῶν συμβεβηκότων ταῖς οὐσίαις… ἀλλὰ καὶ ἀνάπαλιν τὰ συμβεβηκότα συμβάλλεται μέγα μέρος πρὸς τὸ εἰδέναι τὸ τί ἐστιν· ἐπειδὰν

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Mi sembra chiaro dunque che il ragionamento di Aristotele procede non dall’essenza dell’anima alle attività, passando per le facoltà, ma dagli oggetti alle facoltà, passando per le attività; pertanto non è  possibile ravvisare in quest’opera una triade come quella da noi cercata. Inoltre, nei passi giamblichei analizzati nel paragrafo precedente, è evidente l’utilizzo del lessico aristotelico in parole come συλλογισμός, διαίρεσις, ἰδιώματα o παρεπομένα, ma abbiamo visto come quelle parole sono riferite tutte al discorso di Porfirio, che Giamblico critica e supera. Non è dunque Aristotele, a mio avviso, la fonte diretta del pensiero di Giamblico. I termini οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι si ritrovano nelle scuole filosofiche di epoche diverse, ma non nella forma completa di una triade. Prendiamo in considerazione alcuni passi indicati ancora da Festugière 32. In  alcuni casi si trovano soltanto i  due termini οὐσία e δυνάμεις (quest’ultimo termine, peraltro, è spesso sostituito con μέρη, termine non perfettamente equipollente all’altro), ad esempio in Aezio (i-ii sec.) 33, Alessandro di Afrodisia (ii-iii sec.) 34 e Tertulliano (ii-iii sec.) 35. Il metodo giamblicheo (sopra delineato) riecheggia invece nella sua forma completa non solo in Proclo (come si è visto), ma anche negli scolii al Fedro di Ermia: Avendo parlato della sostanza dell’anima nel discorso sull’immortalità, e delle sue potenze nella ricerca sulle sue idee, voglio ora parlare del discorso rimanente, e cioè anche delle sue attività (…) 36. γὰρ ἔχωμεν ἀποδιδόναι κατὰ τὴν φαντασίαν περὶ τῶν συμβεβηκότων, ἢ πάντων ἢ τῶν πλείστων, τότε καὶ περὶ τῆς οὐσίας ἕξομεν λέγειν κάλλιστα. 32 Cfr. Festugière, La révélation cit., p. 190, n. 1. 33 Cfr. Aëtius, Placita, IV, 3, in Doxographi Graeci, ed. H. Diels, Berlin 1879 (repr. 1958), p. 387, 9-10: τίς ἠ οὐσία αὐτῆς, e ibid., IV, 4, p. 389, 8: περὶ μερῶν τῆς ψυχῆς. 34 Cfr. Alexandrus Aphrodisiensis, De anima, ed. I. Bruns, Berlin 1887 (CAG. Supplementum, 2.1), p. 27, 1-3: τίς μὲν οὖν ἡ τῆς ψυχῆς οὐσία, καὶ τίνα τὰ ἑπόμενα αὐτῇ (…) δεδηλώκαμεν· ἀκόλουθον δὲ ἑξῆς περὶ τῶν μερῶν αὐτῆς εἰπεῖν, πόσα τε καὶ τίνα. 35  Cfr. Q uintus Septimius Florens Tertullianus, De anima, XIV, 2, PL 2, [641-752], 668B, ed. J. H. Waszink, Leiden - Boston 2010 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 100), p. 17, 28: «Dividitur autem in partes»; 3, 668B, p. 18, 4-5: «Huiusmodi autem non tam partes animae habebuntur quam vires et efficaciae et operae» (affermazione che viene introdotta dopo aver trattato la natura dell’anima, nei §§ 5-13). 36  Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum scholia, ed. P. Couvreur, Paris 1901 (repr. 1971), p. 129, 18-20: εἰπὼν περὶ τῆς οὐσίας τῆς ψυχῆς ἐν τῷ περὶ

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2. La triade οὐσία, δυνάμεις, ἐνέργειαι nel «De anima» di Giamblico La stretta correlazione tra gli elementi della triade, presente nel pensiero giamblicheo, non ha solo un valore metodologico, ma si applica nel tardo Neoplatonismo sia in ambito psicologico sia in ambito metafisico. Com’è noto, la realtà è concepita dai Neoplatonici come una gerarchia di cause nella quale ogni membro è atto a ricevere una quantità di potenza ridotta rispetto al termine immediatamente precedente: si produce così una gerarchia continua di potenze ascendenti a  partire dalla materia – la semplice potenzialità che si situa al  di sotto di qualsiasi atto –, sino al  primo principio – la potenza generatrice di tutti gli esseri, superiore all’ἐνέργεια che la genera. Le δυνάμεις dell’anima, così come l’οὐσία e le ἐνέργειαι (o ἔργα) dipendono, dunque, dalla regione del cosmo in cui l’anima stessa si trova e sono in stretta correlazione con il posto che l’anima occupa all’interno della più complessa gerarchia degli esseri. Nel diciottesimo capitolo del De anima, infatti, Giamblico presenta la propria teoria basandola sulla necessità di porre un’importante distinzione: Ci sarebbe anche un’altra opinione da non respingere: dividendo gli atti secondo i generi e le specie di anime, essa insegna che gli atti delle anime universali sono perfetti, quelli delle anime divine puri e immateriali, quelli delle anime demonia­ che efficaci, quelli delle anime eroiche grandi, quelli delle anime poste negli animali e negli uomini sono di natura mortale, e così di seguito per gli altri. Definiti quelli, anche le cose congiunte a essi riceveranno l’identica distinzione 37.

ἀθανασίας λόγῳ, εἰπὼν δὲ καὶ περὶ τῶν δυνάμεων αὐτῆς ἐν τῷ περὶ τῆς ἰδέας αὐτῆς σκέμματι, λοιπὸν βούλεται νῦν εἰπεῖν καὶ περὶ τῶν ἐνεργειῶν αὐτῆς (traduzione mia). 37  Iamblichus, De anima, 18 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 13-20, ed. Wachs­ muth cit. [alla nota 1], p. 372, 15-22; ed. Martone cit. [alla nota 7], pp. 116-117): γένοιτο δὲ κἂν ἄλλη δόξα οὐκ ἀπόβλητος, ἡ κατὰ γένη καὶ εἴδη τῶν ψυχῶν ἄλλα μὲν τὰ τῶν ὅλων παντελῆ, ἄλλα δὲ τὰ τῶν θείων ψυχῶν ἄχραντα καὶ ἄυλα, ἕτερα δὲ τὰ τῶν δαιμονίων δραστήρια, τὰ δὲ τῶν ἡρωικῶν μεγάλα, τὰ δὲ τῶν ἐν τοῖς ζῴοις καὶ τοῖς ἀνθρώποις θνητοειδῆ καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως ἔργα διαιρουμένη. τούτων δὴ διωρισμένων καὶ τὰ ἐχόμενα τούτων τὴν ὁμοίαν λήψεται διάκρισιν.

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Giamblico pone dunque, alla base del suo ragionamento, un principio logico: definiti i generi e le specie di anime, anche tutte «le cose congiunte a essi», come le facoltà e le attività, «riceveranno l’identica distinzione». Il vertice della gerarchia è occupato dall’anima ipercosmica. Essa è  trascendente, indipendente, ha autorità su tutte le cose, non è partecipata; definita da Giamblico anche come ‘anima prima’, è Monade al di sopra delle anime encosmiche, non appartiene a nessun corpo e non è ancora in nessun rapporto con il corpo, ma è al contempo presente in tutte le cose e separata da tutte le cose 38. Da quest’anima ipercosmica procedono, in linea orizzontale, due altre anime, intellettive e  partecipi dell’intelletto divino. Q uesta processione è  descritta dettagliatamente in rapporto al Timeo di Platone: dall’anima unica e  ipercosmica viene tratta una diade di anime 39. Q ueste due anime sono reciprocamente legate, sussistono l’una nell’altra, ma nonostante ciò si distinguono l’una dall’altra e ognuna di esse conserva la propria purezza. Create dal Demiurgo prima della stessa creazione del cielo, sono intellettive e  partecipano dell’intelletto divino poiché tale diade viene introdotta nella diade intellettiva che, per essenza, è  superiore alle anime stesse. L’essenza dell’anima dell’universo viene tratteggiata da Giamblico nel De mysteriis: L’anima universale, non essendo contenuta in nessuna specie particolare, è vista come un fuoco senza forma che manifesta, 38 Cfr. Iamblichus, In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 50, ed. J. M. Dillon, Leiden 1973 (Philosophia antiqua, 23), p. 156, 19-27 (= Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 171E, ed. Diehl cit., II, p. 105, 15-28): ὁ δὲ δὴ φιλόσοφος Ἰάμβλιχος ἀξιοῖ ψυχῆν ἀκούειν ἡμᾶς τὴν ἐξῃρημένην καὶ ὑπερκόσμιον καὶ ἀπόλυτον καὶ πᾶσιν ἐνεξουσιάζουσαν· μηδὲ γὰρ εἶναι περὶ τῆς κοσμικῆς τῷ Πλάτωνι τὸν λόγον, ἀλλὰ περὶ τῆς ἀμεθέκτου ψυχῆς καὶ ὑπὲρ πάσας τὰς ἐγκοσμίας ὡς μονάδος τεταγμένης· εἶναι γὰρ τοιαύτην τὴν πρώτην ψυχὴν καὶ τὸ μέσον ἐπὶ ταύτης ὡς πᾶσιν ὁμοίως παρούσης, διὰ τὸ μηδενὸς εἶναι σώματος μηδὲ ἐν σχέσει πω γεγονέναι κατὰ μηδένα τρόπον, καὶ πάντα ὁμοίως ψυχούσης καὶ πάντων ἴσον ἀφεστώσης· οὐ γὰρ ἄλλων μὲν ἧττον, ἄλλων δὲ μᾶλλον ἀφέστηκεν ἄσχετος γάρ ἀλλ᾽ ὁμοίως ἁπάντων, εἰ καὶ μὴ πάντα τὸν αὐτὸν αὐτῆς ἀφεστήκοι τρόπον· ἐν γὰρ τοῖς μετέχουσι τὸ μᾶλλόν ἐστι καὶ ἧττον. 39 Cfr. Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit., p. 36: «La scissione infatti indica la divisione demiurgica che, nell’identità e nella perfezione, progredisce operando risultati identici secondo i numeri posteriori, mentre la processione che si svolge dal Demiurgo verso il basso indica una rottura verticale del divino».

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intorno al cosmo intero, l’anima del tutto, che è intera, unica, indivisa e senza forma 40.

Al di sotto, si trovano le anime divine, composte da generi che hanno una sovreminenza trascendente: Il divino Giamblico distingue tra gli esseri perfetti la stirpe, prescelta come eminente, delle anime degli dèi 41.

Sono le anime degli dèi visibili, cioè degli astri; esse sono intelligenti e occupano i  pianeti e  le sette sfere celesti. Q ueste anime sono presentate da Giamblico nel ventiseiesimo capitolo del De anima: Plotino, Porfirio e Amelio fanno passare tutte le anime allo stesso modo dall’anima sopraceleste ai corpi. Tuttavia il Timeo sembra rappresentare molto diversamente la prima venuta all’esistenza delle anime: il Demiurgo le dissemina fra tutte le classi superiori, attraverso tutto il cielo, in tutti gli elementi dell’Universo. Così la semina delle anime da parte del Demiurgo sarà ripartita fra le creazioni divine e  coesisterà con esse la prima processione delle anime, che ha con sé i ricettacoli per le anime stesse: l’Anima universale [avrà per ricettacolo] il mondo intero, le anime degli dèi visibili le sfere celesti, quelle degli elementi gli elementi stessi, ai quali anche sono state assegnate delle anime con un’estrazione a sorte per ognuna. Da questi luoghi dunque avvengono tutte le discese delle anime, a  partire da tutte le estrazioni a  sorte, come intende dimostrare saggiamente l’ordinamento del Timeo 42. 40   Iamblichus, De mysteriis, II,  7, edd. Saffrey-Segonds cit. (alla nota 11), p. 63, 13-17: ψυχῆς δὲ τῆς μὲν ὅλης καὶ ἐν οὐδενὶ τῶν κατὰ μέρος εἴδει κατεχομένης, πῦρ ὁρᾶται ἀνείδεον περὶ ὅλον τὸν κόσμον ἐνδεικνύμενον τὴν ὅλην καὶ μίαν καὶ ἄτομον καὶ ἀνείδεον τοῦ παντὸς ψυχήν (traduzione mia). 41  Id., In Platonis dialogos commentariorum fragmenta, fr. 83, ed. Dillon cit., p. 196, 6-7 (= Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, IV, 318B, ed. Diehl cit., III, 1906, p. 257, 26-28): καὶ τὸν θεῖον Ἰάμβλιχον ἐξῃρημένην ὑπεροχὴν ἀπονέμοντα τοῖς συμπληρωτικοῖς τῶν θείων ψυχῶν γένεσιν (traduzione mia). 42  Iamblichus, De anima, 26 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 39, 6-19, ed. Wachsmuth cit., p. 377, 13-29; ed. Martone cit., pp. 128-131): Πλωτῖνος μὲν καὶ Πορφύριος καὶ Ἀμέλιος ἀπὸ τῆς ὑπὲρ τὸν οὐρανὸν ψυχῆς καὶ πάσας ἐπίσης εἰσοικίζουσιν εἰς τὰ σώματα. πολὺ δὲ διαφερόντως ἔοικεν ὁ Τίμαιος τὴν πρώτην ὑπόστασιν τῶν ψυχῶν ποιεῖν, τὸν δημιουργὸν διασπείροντα περὶ πάντα μὲν τὰ κρείττονα γένη, καθ’ ὅλον δὲ τὸν οὐρανόν, εἰς ὅλα δὲ τὰ στοιχεῖα τοῦ παντός. ἔσται δὴ οὖν καὶ ἡ σπορὰ ἡ δημιουργικὴ

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Ancora al  di sotto delle anime degli dèi, quindi, si trovano le anime particolari, incapaci di dimorare immutabilmente in alto e dipendenti dal fato: sono le anime degli στοιχεῖα. Esse sono situate sotto i pianeti e, poiché le regioni del cosmo che si trovano sotto i  pianeti sono formate dagli elementi, queste anime sono appunto quelle degli elementi. Q ui στοιχεῖα designa dunque le regioni del cosmo che, dall’alto verso il basso, si dividono in base agli elementi, ciascuno dei quali produce un genere particolare di esseri viventi. Giamblico parla infatti delle anime dei demoni e di quelle degli eroi, e l’ultimo livello di questa gerarchia è rappresentato dalle anime individuali, che sono le anime pure dei teurghi, quelle degli uomini e degli animali. Nel diciannovesimo capitolo del De anima, Giamblico si interroga sulla posizione di ‘alcuni’ che ritengono che l’anima sia identica ai suoi atti: In effetti, alcuni, sostenendo che l’anima è  una e  la stessa ovunque, sia secondo il genere sia secondo la specie, come ritiene Plotino, o anche secondo il numero, come afferma con giovanile sconsideratezza non poche volte Amelio, diranno che l’anima è identica ai suoi atti. Altri, invece, disponendo tali cose in maniera più sicura e sostenendo che processioni prime, seconde e terze delle essenze dell’anima procedono in avanti, diranno assolutamente senza dubbi, come ci si aspetterebbe da coloro che entrano nella discussione con argomenti nuovi ma incontestabili, che le attività delle anime universali, divine e  immateriali terminano anche nell’essenza; ma essi negheranno risolutamente che le anime particolari, confinate in una sola specie e  divise nei corpi, siano immediatamente identiche agli atti che compiono 43. τῶν ψυχῶν διαιρουμένη περὶ τὰς θείας δημιουργίας καὶ ἡ πρώτη τῶν ψυχῶν πρόοδος συνυφισταμένη, μεθ’ ἑαυτῆς ἔχουσα τὰ δεχόμενα τὰς ψυχάς· ἡ μὲν ὅλη τὸν ὅλον κόσμον, αἱ δὲ τῶν ἐμφανῶν θεῶν τὰς κατ’ οὐρανὸν σφαίρας, αἱ δὲ τῶν στοιχείων αὐτὰ τὰ στοιχεῖα μεθ’ ὧν καὶ ψυχαὶ συνεκληρώθησαν καθ’ ἑκάστην τοιαύτην λῆξιν, ἀφ’ ὧν δὴ αἱ κάθοδοι γίγνονται τῶν ψυχῶν ἄλλαι ἀπ’ ἄλλων διακληρώσεων, ὡς βούλεται ἐνδείκνυσθαι σαφῶς ἡ τοῦ Τιμαίου διάταξις. 43  Ibid., 19 (= I, 49, 37, 21-33, pp. 372, 23 - 373, 9; pp. 118-119): οἱ μὲν γὰρ μίαν καὶ τὴν αὐτὴν πανταχοῦ ψυχὴν διατείνοντες ἤτοι γένει ἢ εἴδει, ὡς δοκεῖ Πλωτίνῳ, ἢ καὶ ἀριθμῷ, ὡς νεανιεύεται οὐκ ὀλιγάκις Ἀμέλιος, εἶναι αὐτὴν ἐροῦσιν ἅπερ ἐνεργεῖν. οἱ δ’ ἀσφαλέστερον τούτων διαταττόμενοι καὶ προόδους πρώτας καὶ δευτέρας καὶ τρίτας οὐσιῶν τῆς ψυχῆς διισχυριζόμενοι προχωρεῖν εἰς τὸ πρόσω, οἵους ἄν τις θείη τοὺς καινῶς μὲν ἀπταίστως δὲ ἀντιλαμβανομένους τῶν λόγων, τὰ μὲν τῶν ὅλων ψυχῶν καὶ θείων καὶ ἀύλων ἐνεργήματα ἐροῦσιν οὗτοι πάντως δήπου καὶ εἰς οὐσίαν ἀποτελευτᾶν· τὰ δὲ

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Riguardo alla posizione di Plotino, Giamblico potrebbe aver avuto in mente questo passo: Non dobbiamo perciò affermare che una parte dell’anima sia presente alla vista, un’altra all’udito – questo genere di divisione lasciamolo ad altri [scil. agli Stoici]. È piuttosto la stessa anima che, con funzioni diverse, agisce in questo e in quell’organo (ἀλλὰ τὸ αὐτό, κἂν ἄλλη δύναμις ἐν ἑκατέροις ἐνεργῇ); in quanto gli organi sono distinti anche le percezioni sono distinte, benché tutte siano percezioni di forme e anzi convergano verso una forma capace di assumere ogni forma. (…)  Ma che l’anima sia una ovunque, anche quando svolga diversi compiti, è stato detto (Ἀλλ’ ὅτι ἕν γε πανταχοῦ, εἴρηται, καὶ ἐν τοῖς διαφόροις τῶν ἔργων) 44.

Riguardo ad Amelio, invece, Giamblico ritiene la sua opinione espressa «con giovanile sconsideratezza» 45: per quale ragione? Sembra avere una certa importanza l’uso delle espressioni γένει ἢ εἴδει e ἀριθμῷ. La distinzione tra ciò che è uno e identico per specie e ciò che è uno e identico per numero, infatti, verrà adoperata da Damascio per risolvere l’aporia di come l’anima possa subire un cambiamento non solo nei suoi atti ma anche nella sua sostanza, senza perdere la propria identità 46. Infatti, la difficoltà che Damascio cercherà di risolvere è questa: l’anima ha un’identità debole (per specie) – come le cose del mondo sublunare – oppure ha un’identità forte (per numero) – come gli astri? Si tratta di un problema non facile, poiché se l’anima nel cambiamento resta una per specie, si perde la sua immortalità; se al contrario, l’anima resta una per numero, non si può più sostenere che la sua sostanza cambi, poiché ciò comporterebbe la nascita di un nuovo essere. τῶν μεριστῶν κρατουμένων ἐν ἑνὶ εἴδει καὶ διαιρουμένων περὶ τοῖς σώμασιν οὐδαμῶς συγχωρήσουσιν εὐθὺς εἶναι ταῦθ’ ἅπερ ἐνεργοῦσι. 44  Plotinus, Enneades, IV 3 [27], 3, 14-27 (tr. it., 2 voll., Torino 1997, II, pp. 539-540). 45 Cfr. supra, nota 42. 46   Cfr. l’analisi di questo tema in C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40), pp. 93-119 (nuova ed. e tr. it. Il Sé che cambia. L’anima nel tardo neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano, a cura di L. I. Martone, Bari 2006 [Biblioteca filosofica di «Q uaestio», 2], pp. 164-194, in partic. pp. 166-167).

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Damascio supera quest’ultima convinzione, sostenendo che l’identità per numero e il cambiamento sostanziale possano coesistere, sulla base della distinzione tra εἶδος τῆς ὑπάρξεως e εἶδος τῆς οὐσιώδους μεθέξεως 47. La  «forma dell’esistenza» del­l’anima è la sua struttura essenziale, ciò che fa sì che essa sia quel­l’anima e non un’altra, e pertanto tale forma è  immutabile; la «forma della partecipazione sostanziale», invece, fa sì che l’anima, a seconda delle realtà con cui entra in contatto, subisca un cambiamento sostanziale. A questo punto è  chiaro perché Giamblico critichi Amelio per la sua «giovanile sconsideratezza». Ancora una volta infatti Giamblico contrappone in maniera velata e sfumata la sua posizione a quella dei suoi predecessori immediati. Q uesta volta, però, la contrapposizione non è netta su tutti i fronti, ma riguarda solo una parte della dottrina. Il  riferimento alle «processioni prime, seconde e terze», che rievoca Timeo 41d, si ritrova in questo passo della quarta Enneade: è chiaro infatti che le anime, derivando tutte dalla stessa, da cui anche l’anima universale deriva, sono fra loro simpatetiche. Si è detto infatti che la natura dell’anima è una e molteplice. (…)  Se poi si vuole cogliere in generale la natura dell’anima, già menzionammo le differenze tra un’anima e l’altra quando parlammo di seconde e terze, e dicemmo che le anime sono tutte tutto, ma ognuna è diversa a seconda di ciò che è attivo in lei, poiché una è unità in atto con l’intelligibile, l’altra è  in una condizione di conoscenza, l’altra ancora di desiderio; ognuna guarda a  cose diverse, e  ciò a  cui guarda, questo è e diviene. Pienezza e perfezione non sono dunque lo stesso per tutte le anime 48.

Se si afferma che esiste una gerarchia di perfezione e purezza fra le anime – come fa qui Plotino – allora bisogna accettare anche le conseguenze di tale affermazione: le anime più nobili sono pre47 Cfr. Damascius, In Platonis Parmenidem, IV, 414, ed. L. G. Westerink, 4 voll., Paris 2002-2003, IV, 2003, p. 47, 6-7: αὐτὴ τὸ μὲν ἑαυτῆς εἶδος σῴζουσα τῆς ὑπάρξεως, τὸ δὲ τῆς οὐσιώδους μεθέξεως ἀλλοιοῦσα («L’anima conserva [identica] la forma della sua esistenza, mentre modifica quella della sua partecipazione sostanziale», traduzione mia). 48  Plotinus, Enneades, IV 3 [27], 8, 2-17 (tr. it. cit., II, pp. 545-546, corsivi miei).

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senti interamente in ciascuno dei loro atti, poiché la loro attività è del tutto semplice come la loro essenza; ma ciò non vale per le anime inferiori, come quelle individuali, che subiscono invece una ‘scissione’ fra la loro essenza e i loro atti, per i quali non si può più dire quindi che εἰς οὐσίαν ἀποτελευτᾶν. Nel ventesimo capitolo Giamblico prosegue l’esposizione della sua dottrina: Applichiamo dunque lo stesso metodo d’indagine e l’analisi sia conforme a esso. Dico allora che aderiscono alle potenze gli atti di quelle anime che sono compiute in sé, di natura semplice e  separate dalla materia, come direbbe questa dottrina appena inventata, mentre gli atti delle anime imperfette e  ripartite sulla terra sono simili alle generazioni dei frutti. Inoltre bisogna riflettere sul fatto che gli Stoici congiungono tutti gli atti dell’anima, qualunque essa sia, agli esseri governati [dall’anima] e inanimati [scil. ai corpi], invece i seguaci di Platone non li congiungono tutti [a essi]. Infatti ci sono alcune potenze dell’anima, come la sensitiva e la appetitiva, che sono unite al corpo come a una materia, e ce ne sono altre più pure e che non fanno per nulla uso del corpo, come l’intellettiva 49.

Le anime più nobili sono interamente presenti in ciascuno dei loro atti: sino a quando non si legano al corpo, la loro attività è semplice come la loro essenza e, di conseguenza, l’essenza si confonde con le operazioni le quali, a loro volta, dipendono direttamente dalle potenze. Applicando lo stretto parallelismo tra οὐσία, ἔργα e δυνάμεις, quindi, non è arbitrario dedurre che «le potenze dell’anima universale siano perfette, le potenze delle anime divine pure e  immateriali, le potenze delle anime dei demoni efficaci   Iamblichus, De anima, 20 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 34-46, ed. Wachsmuth cit., p. 373, 9-21; ed. Martone cit., pp. 118-119): κατὰ δὴ τὴν αὐτὴν μέθοδον προΐτω καὶ ἡ συγγενὴς πρὸς ταύτην διαίρεσις. λέγω δὴ προσπεφυκέναι μὲν ταῖς δυνάμεσι τὰ ἔργα ἐκείνων τῶν ψυχῶν τῶν αὐτοτελῶν καὶ μονοειδῶν καὶ χωριστῶν ἀπὸ τῆς ὕλης, ὡς ἂν φαίη ἡ νεωστὶ παρευρεθεῖσα ἥδε αἵρεσις, ἐοικέναι δὲ ταῖς τῶν καρπῶν ἀπογεννήσεσιν ἐπὶ τῶν ἀτελεστέρων καὶ περὶ γῆν ἀπομεριζομένων. ἐπὶ δὴ τούτοις δεῖ νοεῖν ὡς οἱ μὲν Στωικοὶ πάσας τῆς ὁποιασοῦν ψυχῆς τὰς ἐνεργείας συμμιγνύουσιν τοῖς διοικουμένοις καὶ ἀψύχοις, οἱ δ’ ἀπὸ Πλάτωνος οὐ πάσας. εἶναι μὲν γάρ τινας δυνάμεις τῆς ψυχῆς αἳ τοῦ σώματος ὡς ὕλης ἐφάπτονται, ὡς τὴν αἰσθητικὴν καὶ ὁρμητικήν, καθαρωτέρας δὲ τούτων τὰς μηδὲν σώματι προσχρωμένας, ὡς τὴν νοεράν. 49

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e  quelle delle anime degli eroi valorose» 50. Le  anime divise nei corpi, invece, producono atti distinti dalle loro potenze, e assomigliano ai frutti prodotti dalla pianta, che sono una manifestazione esterna e separabile della pianta stessa. Per Finamore e Dillon «Iamblichus now seems to change the subject rather abruptly» 51; al contrario, a mio avviso, Giamblico continua con l’applicare τὴν αὐτὴν μέθοδον in maniera perfettamente consona a quanto detto precedentemente. Infatti, nel tredicesimo capitolo del De anima, Giamblico tratta delle diverse opinioni relative al modo in cui le potenze sono nell’anima, e inizia proprio distinguendo la posizione degli Stoici da quella dei Platonici; ora non fa che riportare le stesse conclusioni agli atti dell’anima: Come si distinguono dunque le potenze? Secondo gli Stoici, alcune si distinguono per la differenza delle parti corporee sottostanti: essi dicono infatti che, a partire dall’egemonico, gli πνέυματα, diversi a seconda delle diverse parti del corpo, tendono alcuni verso gli occhi, altri verso le orecchie, altri ancora verso gli altri organi di senso. Altre potenze si distinguono, relativamente allo stesso sostrato, per il proprio carattere qualitativo: infatti, come la mela ha nello stesso corpo il sapore dolce e il buon odore, così anche l’egemonico ha riunito nello stesso luogo facoltà immaginativa, assenso, appetito, ragione. Secondo gli Aristotelici e tutti coloro che concepiscono l’anima come indivisibile, le potenze ‹non si distinguono› per l’essenza, ma per gli effetti che possono produrre. Secondo Platone, l’anima può dirsi tripartita in un senso, in quanto muta in tre modi in altre sostanze di vita, in un altro senso, in quanto ha molte potenze, non essendo più diversa per sostanza di vita, ma distinguendosi, nello stesso [sostrato], in molte proprietà particolari. Insomma, una parte differisce dalla potenza per il fatto che la parte presenta una differenza di sostanza, mentre la potenza presenta una distinzione generativa o produttiva nello stesso [sostrato] 52.

  Taormina, Il lessico delle potenze dell’anima in Giamblico cit., p. 38.   J.  F. Finamore - J.  M. Dillon, Commentary to De anima, in Iamblichus, De anima, edd. Finamore-Dillon cit. (alla nota 3), [pp. 76-227], p. 130. 52  Iamblichus, De anima, 13 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 33, 25-42, ed. Wachsmuth cit., pp. 368, 14 - 369, 4; ed. Martone cit., pp. 108-111). 50 51

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Q uindi gli Stoici, come congiungevano le potenze al corpo, così congiungono a esso anche gli atti; i Platonici, invece, postulando la ‘doppia vita’ dell’anima, distinguevano fra le potenze legate al corpo, come la potenza sensitiva e quella appetitiva, e le potenze proprie soltanto dell’anima; allo stesso modo distingueranno anche gli atti. L’affinità tra questo passo e quanto detto precedentemente appare in maniera evidente nell’ultima frase, che non è altro che una vera e propria ripetizione di quanto già detto: essa sarebbe altrimenti difficilmente spiegabile in un passo come questo dedicato agli atti e non alle potenze. Nel ventunesimo capitolo, Giamblico discute gli ἔργα che derivano dalle differenti potenze dell’anima: Platone infatti non collega per essenza ai corpi gli atti delle potenze corporee, ma dice che comunicano [con essi] per conversione, mentre libera del tutto da ogni tendenza verso i  corpi gli atti delle potenze separate. Pertanto gli atti delle anime universali e più divine, a causa della purezza della loro essenza, non sono mescolate [ai corpi], invece gli atti delle anime immerse nella materia e  particolari non sono incontaminati allo stesso modo; e quelli delle anime che risalgono e si liberano dal legame con il divenire si allontanano dai corpi da allora in poi, mentre quelli delle anime che discendono sono intrecciati e intessuti con essi in molti modi. Le anime che hanno per veicolo dei corpi pneumatici di natura sempre identica a se stessa e che tramite essi eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare, manifestano i  loro atti sin dal principio senza fatica; ma le anime seminate in corpi più solidi e  imprigionate in essi sono contaminate (ἀναπίμπλασθαι) 53 in un modo o nell’altro della natura di quei corpi. Le anime universali convertono verso di sé le cose governate, mentre le anime particolari si convertono esse stesse verso le cose di cui si prendono cura 54. 53  Il passo di Plotinus, Enneades, IV 8 [6], 2, 30, che presenta paralleli con questo passo giamblicheo, mostra che il verbo ἀναπίμπλασθαι allude a  Plato, Phaedrus, 67a 5: μηδὲ ἀναπιμπλώμεθα τῆς τούτου [scil. il corpo] φύσεως, dove ἀναπίμπλημι significa ‘contaminare’. Cfr. C. D’Ancona, À propos du De anima de Jamblique, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 90 (2006), pp. 617-640, in partic. p. 631, nota 30. 54  Iamblichus, De anima, 21 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 46-63, ed. Wachsmuth cit., pp.  373,  22  -  374, 8; ed. Martone cit., pp.  120-121): πῶς οὖν

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Giamblico attribuisce a Platone una dottrina tipicamente neoplatonica 55, presente anche nella settima Sententia di Porfirio 56: L’anima si lega al corpo con un movimento che la fa rivolgere alle passioni che vengono da lui, e al contrario, se ne distacca a causa della sua impassibilità 57.

Giamblico sostiene che, secondo Platone (in realtà, Porfirio), questi ἔργα che appartengono alle potenze corporee dell’anima, anche se non sono legati al  corpo κατ’ οὐσίαν, possono comunicare con esso per conversione (κατ’ἐπιστροφὴν δὲ κοινωνεῖν), mentre gli ἔργα che appartengono alle potenze separate dell’anima sono affrancati «del tutto da ogni tendenza verso i corpi». Giamblico distingue quindi fra gli ἔργα dei differenti tipi di anime: gli ἔργα delle anime «universali e più divine» non hanno alcuna comunione con il corpo, mentre quelli delle anime individuali e immanenti alla materia comunicano con il corpo. Q uelli delle anime che si elevano, si allontanano dai corpi, mentre quelli delle anime che discendono, sono «intrecciati e intessuti con essi in molti modi». Q uelli delle anime che «hanno per veicolo dei corpi pneumatici (…) eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare», mentre quelli delle anime seminate nei corpi più soδιακρίνονται; κατὰ μὲν τοὺς Στωικοὺς ἔνιαι μὲν διαφορότητι ‹τῶν› ὑποκειμένων σωμάτων· πνεύματα γὰρ ἀπὸ τοῦ ἡγεμονικοῦ φασιν οὗτοι διατείνειν ἄλλα κατ’ ἄλλα, τὰ μὲν εἰς ὀφθαλμούς, τὰ δὲ εἰς ὦτα, τὰ δὲ εἰς ἄλλα αἰσθητήρια· ἔνιαι δὲ ἰδιότητι ποιότητος περὶ τὸ αὐτὸ ὑποκείμενον· ὥσπερ γὰρ τὸ μῆλον ἐν τῷ αὐτῷ σώματι τὴν γλυκύτητα ἔχει καὶ τὴν εὐωδίαν, οὕτω καὶ τὸ ἡγεμονικὸν ἐν ταὐτῷ φαντασίαν, συγκατάθεσιν, ὁρμήν, λόγον συνείληφε. κατὰ δὲ τοὺς Ἀριστοτελικοὺς καὶ πάντας ὅσοι ἀμέριστον τὴν ψυχὴν διανοοῦνται κατὰ μὲν τὴν οὐσίαν αἱ δυνάμεις ‹οὐ διακρίνονται›, κατὰ δὲ εἴδη ὧν δύνανται ποιεῖν. κατὰ δὲ Πλάτωνα ἄλλως μὲν λέγεται ἡ ψυχὴ τριμερής, ὡς ἐν ἑτέραις οὐσίαις τριπλῇ ζωῆς παραλλάττουσα, ἄλλως δὲ πολυδύναμος, οὐκέτι κατ’οὐσίαν ζωῆς διαφέρουσα, ἐν ταὐτῷ δὲ πολλαῖς ἰδιότησι διακρινομένη. καὶ ὅλως μέρος δυνάμεως ταύτῃ διενήνοχεν, ᾗ τὸ μὲν μέρος οὐσίας ἑτερότητα, ἡ δὲ δύναμις ἐν ταὐτῷ γεννητικὴν ἢ ποιητικὴν διάκρισιν παρίστησιν. 55 Finamore e Dillon notano delle affinità con vari passi plotiniani (cfr. Finamore - Dillon, Commentary to De anima cit., p. 131), nella fattispecie con Plotinus, Enneades, I 6, 5, 23ss. e 49; III 6, 5, 25; IV 4, 8, 54; fonte principale sono i  trattati IV 8[6] e  I  1[53]. Cfr.  D’Ancona, À  propos du De anima cit., pp. 631-633. 56 Come Finamore e Dillon ravvisano a giusto titolo: cfr. Finamore - Dillon, Commentary to De anima cit., p. 131. 57   Porphyrius, Sententiae ad intelligibilia ducentes, 7, ed. E. Lamberz, Leipzig 1975, p. 3, 4-5: ψυχὴ καταδεῖται πρὸς σῶμα τῇ ἐπιστροφῇ τῇ πρὸς τὰ πάθη τὰ ἀπ’ αὐτοῦ καὶ λύεται δὲ πάλιν διὰ τῆς ἀπαθείας (traduzione mia).

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lidi sono contaminate in una certa misura dalla natura di questi ultimi. Il συμπλέκεσθαι di Giamblico può sicuramente ispirarsi al Timeo di Platone (36e 2): tuttavia, il contesto suggerisce che il verbo derivi piuttosto dalla discussione che Plotino consacra alla possibilità che l’anima sia mescolata con il corpo: Ma se era mescolata, o c’era un determinato tipo di fusione, o l’anima era come intrecciata 58. D’altra parte, l’ipotesi di un’anima intrecciata non comporta che siano uguali nelle affezioni le componenti dell’intreccio: è possibile che ciò che si intreccia sia immune da affezioni ed è possibile che, come accade alla luce, l’anima, pur compenetrando il corpo, non patisca le affezioni di quello, e  questo è tanto più vero se essa risulta intrecciata con il corpo in modo onnipervasivo 59.

È Plotino e non Platone a porre la questione se l’anima, nel caso in cui sia διαπλακεῖσα con il corpo, ne condivida le affezioni: proprio il punto sollevato da Giamblico nel passo qui discusso. Per quanto concerne i paralleli con Enneade IV 8[6], essi sono ancora più marcati, come mostra il confronto fra questi due passi: Plotino, Enneades, IV 8 [6] Per questo Platone dice che la nostra anima, se è  unita a  questa anima perfetta, possiede, anch’essa, la perfezione e  ‘vola in alto e  governa tutto quanto il mondo’. Finché non lo lascerà, in modo da non entrare nel corpo o in un oggetto materiale, essa governerà facilmente l’universo come l’Anima del tutto (…). C’è un doppio modo di governare ogni cosa: uno è  quello dell’insieme che organizza le cose con un’au-

Giamblico, De anima, 21 Le anime che hanno per veicolo dei corpi pneumatici di natura sempre identica a se stessa e che tramite essi eseguono facilmente quanto hanno deciso di fare, manifestano i loro atti sin dal principio senza fatica; ma le anime seminate in corpi più solidi e imprigionate in essi sono contaminate in un modo o nell’altro della natura di quei corpi. Le  anime universali convertono verso di sé le cose governate, mentre le anime (cont.)

58  Plotinus, Enneades, I 1 [53], 3, 18-19 (tr. it., Pisa 2006, p. 70): ἀλλὰ εἰ ἐμέμικτο, ἢ κρᾶσίς τις ἦν, ἢ ὡς διαπλακεῖσα. 59  Ibid., 4, 12-18 (tr. it., p. 71).

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Plotino, Enneades, IV 8 [6] torità regale che si esercita senza un coinvolgimento nell’azione; l’altro è quello degli esseri particolari, che si esercita con un’azione personale e  con un contatto con il soggetto dell’azione, dove l’agente s’impregna della natura del soggetto su cui agisce 60.

Giamblico, De anima, 21 particolari si convertono esse stesse verso le cose di cui si prendono cura 61.

Il celebre passo in cui Plotino, sviluppando la sua esegesi del Fedro e del Fedone 62, sostiene che il fatto di prendersi cura di un inferiore non contamina necessariamente il superiore, è ripreso da Giamblico. Tuttavia, la dottrina di quest’ultimo presenta delle differenze. Plotino confronta le due maniere in cui l’anima individuale può governare (διοικεῖν) i corpi: o rimanendo unita all’anima universale – in questo caso, la natura inferiore delle cose sensibili non può contaminarla, nella misura in cui l’anima individuale condivide l’ἐπιμέλεια perfetta dell’anima universale –, o  con un contatto diretto con il corpo, il che fa sì che essa sia contaminata (ἀναπιμπλᾶσα) da questa natura inferiore. Giamblico dal canto suo enumera le diverse classi di anime, universali e  individuali, fornite di un veicolo pneumatico o corporeo che salgono o discendono, che si volgono verso i  διοικούμενα o  li convertono verso 60  Ibid., IV 8 [6], 2, 19-30: διὸ καί φησι καὶ τὴν ἡμετέραν, εἰ μετ’ ἐκείνης γένοιτο τελέας, τελεωθεῖσαν καὶ αὐτὴν μετεωροπορεῖν καὶ πάντα τὸν κόσμον διοικεῖν, ὅτε ἀφίσταται εἰς τὸ μὴ ἐντὸς εἶναι τῶν σωμάτων μηδέ τινος εἶναι, τότε καὶ αὐτὴν ὥσπερ τὴν τοῦ παντὸς συνδιοικήσειν ῥᾳδίως τὸ πᾶν (…). Διττὴ γὰρ ἐπιμέλεια παντός, τοῦ μὲν καθόλου κελεύσει κοσμοῦντος ἀπράγμονι ἐπιστασίᾳ βασιλικῇ, τὸ δὲ καθέκαστα ἤδη αὐτουργῷ τινι ποιήσει συναφῇ τῇ πρὸς τὸ πραττόμενον τὸ πρᾶττον τοῦ πραττομένου τῆς φύσεως ἀναπιμπλᾶσα (traduzione mia). 61  Iamblichus, De anima, 21 (= Johannes Stobaeus, Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physicae et ethicae, I, 49, 37, 46-63, ed. Wachsmuth cit., pp. 373, 22-374, 8; ed. Martone cit., pp. 120-121): καὶ τὰ μὲν τῶν ἐποχουμένων τοῖς αὐτοειδέσι πνεύμασι καὶ δι’ αὑτῶν τιθεμένων εὐκόλως, ἅπερ ἂν ἕλωσιν, ἄνωθεν ἀπραγμόνως ἐκφαίνειν τὰ σφῶν ἔργα· τὰ δὲ τοῖς στερεωτέροις σώμασιν ἐνσπειρόμενα καὶ κατεχόμενα ἐν αὐτοῖς ἀναπίμπλασθαι ἀμωσγέπως τῆς τούτων φύσεως. Καὶ τὰ μὲν τῶν ὅλων ἐπιστρέφειν εἰς ἑαυτὰ τὰ διοικούμενα, τὰ δὲ τῶν διῃρημένων αὐτὰ ἐπιστρέφεσθαι πρὸς ταῦτα ὧν ἐπιμελοῦνται (traduzione mia). 62  L’espressione di Plotino μετεωροπορεῖν καὶ πάντα τὸν κόσμον διοικεῖν deriva da Plato, Phaedrus, 246b 7-246c 3; l’ἐπιμέλεια dell’anima deriva da ibid., 246b 6. Cfr. D’Ancona, À propos du De anima cit., p. 631, nota 31.

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l’alto. Se ci si chiede a quale di queste classi appartenga l’anima umana, sarà facile rispondere con Giamblico che l’anima umana è individuale, fornita di un veicolo corporeo, che discende in un corpo e che, facendo ciò, si volge verso la natura inferiore. Detto questo, si impone una conclusione su un essenziale punto dottrinale: il ruolo della teurgia, che offre all’anima umana la possibilità di entrare in contatto con il mondo intelligibile e divino al quale essa non appartiene per natura, proviene dal rifacimento operato da Giamblico della dottrina plotiniana della discesa dell’anima 63. Il criterio in base al quale è possibile porre una discriminazione ontologica tra le potenze e dunque tra gli atti e le sostanze delle varie specie di anime è costituito dal legame che esse contraggono con il corpo. Secondo Giamblico, infatti, una volta discesa nel corpo, l’anima non può più godere dell’attività intellettuale con nessuna sua parte 64; essa dunque discende interamente subendo così un cambiamento che non investe soltanto le facoltà e  gli atti, ma tocca anche la sostanza dell’anima stessa. Ciò non significa tuttavia che essa perda completamente le sue caratteristiche divine: in quanto intermedia, l’anima è simultaneamente permanente e  cangiante, indivisibile e  divisibile, incorrotta e  corruttibile, capace di permanere intera in sé e  di procedere allo stesso tempo interamente fuori di sé. Giamblico dunque impiega la triade οὐσία, δυνάμεις ed ἐνέργειαι come una chiave utile a  concepire gli aspetti più ardui delle sue costruzioni metafisiche e psicologiche, portandola fino alle estreme conseguenze. La sostanza deve essere così come le attività la manifestano: e questo è, paradossalmente, un principio aristotelico, che Giamblico accetta. Il seguente passo dello pseudo-Simplicio – una

63 Cfr. ibid., p. 633: «Ce développement, qui caractérise la théologie de Jamblique et de Proclus, s’enracine dans la doctrine psychologique de Jamblique, qui n’est au fond qu’une réponse à Plotin». 64 Giamblico critica decisamente la concezione di Plotino secondo cui una parte dell’anima umana rimane sempre nel mondo intelligibile. Su questo punto fondamentale della filosofia giamblichea e sulle molteplici componenti sottese alla sua critica, cfr. almeno Steel, The changing Self  cit., in partic. pp. 47-77 della traduzione italiana; H. J. Blumenthal, Neoplatonic Elements in the «De anima» Commentaries, in «Phronesis», 21 (1976), pp. 64-87 (e in Aristotle transformed. The ancient Commentators and their Influence, ed.  by R.  Sorabji, Ithaca [N.Y.] 1990, pp. 305-324); C. J. de Vogel, L’image de l’homme chez Plotin et la critique de Jamblique, in «Diotima», 8 (1980), pp. 152-154.

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delle principali fonti indirette per la ricostruzione dell’opera psicologica giamblichea – chiarisce ulteriormente la sua posizione: Se la sostanza più alta dell’anima non permanesse completamente identica, la sua attività, che non permane la stessa, non sarebbe come l’essenza, se essa a volte pensa, a volte non pensa. Se anche la stessa essenza suprema dell’anima non rimane pura nell’inclinazione verso le cose inferiori, così che anche in questo, come crede Giamblico nel suo trattato ‘Sull’anima’, essa sarebbe media non solo fra le cose divisibili e  indivisibili, ma anche fra quelle generate e ingenerate, corruttibili e incorruttibili, e  così che, anche per questo motivo, a  volte può pensare a volte no (infatti, se agisse da sé rimanendo immutabile, non solo agirebbe sempre allo stesso modo, ma, quando progetta vite inferiori e si intreccia a esse, non potrebbe talvolta rimanere inseparabile nel congiungimento con esse, e talvolta separarsene: infatti, come proprio questo è la separazione, la purezza incorruttibile dell’essenza ciò che Aristotele intende quando scrive ‘una volta separata, è ciò che è’ 65, così la vita non ancora separata dalle cose inferiori, non è ciò che è); è pertanto ragionevole, anzi necessario, che non soltanto l’attività, ma anche la sostanza dell’anima, e persino la sostanza più alta, intendo della nostra anima, sia in qualche modo differenziata in se stessa e distesa, e per così dire si abbassi nell’inclinazione verso le cose inferiori, senza uscire completamente da sé (altrimenti non sarebbe più un’anima), ma anche senza conservare più la sua purezza, così che si preservi insieme identica e non identica, poiché né l’alterità la cambia completamente, né la sua identità rimane pura e  immodificabile, e  così, divisa in qualche modo per il cambiamento e non permanendo ciò che era, subisce anche la divisione dell’attività dall’essenza, così che talvolta non agisce. Una volta che è  ritornata in modo puro alla sua essenza, allontanandosi da ogni proiezione esterna, si è fortificata dal ritorno in sé e ha ripreso la misura che le conviene, è  ciò che è,  e, raccogliendosi senza divisioni nel sommo rivolgimento verso di sé, unisce anche l’attività alla sua essenza 66.

65  Aristoteles, De anima, III 5,  430a 22-23: χωρισθεὶς δ’ἐστὶ μόνον τοῦδ’ὅπερ ἐστί. 66  Pseudo-Simplicius, In  Aristotelis libros De anima commentaria, ed. M.  Hayduck, Berlin 1882 (CAG, 11), pp.  240,  33  -  241,  26; cfr.  anche ibid., pp. 89, 22 - 90, 25; p. 244, 26-31. La traduzione e i corsivi sono miei.

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La questione è: se l’anima manifesta nelle sue attività temporalità, cambiamento, divisione e corruzione, ciò non implica forse che anche la sua sostanza debba essere temporale, mutevole, divisibile e corruttibile? I Neoplatonici facevano difficoltà ad accettare questa conclusione, perché essa compromette l’identità stessa dell’anima, che così non si distinguerebbe dalle cose periture. A  causa di questa difficoltà, la posizione tradizionale, sostenuta da Proclo, manteneva che cambiamento e  temporalità riguardano solo le attività dell’anima, mentre la sua sostanza rimane sempre la stessa. Proclo, infatti, mosso dall’intento di salvaguardare l’identità dell’anima, compromessa a suo avviso dalla concezione giamblichea, limiterà con vari argomenti il cambiamento subìto dall’anima incarnata soltanto agli atti e  alle facoltà, escludendo che esso possa investire anche la sostanza 67, nonostante egli stesso affermi la tesi contraria, come si è  visto (lo ricordiamo: Proclo scrive: «partendo dagli atti, di cui le potenze sono direttamente le madri, perveniamo a percepire le essenze stesse»). In tal modo, però, egli ridimensiona anche lo stretto parallelismo concettuale tra i tre elementi della triade. Al contrario, Giamblico ritiene che, se si dà il giusto rilievo al carattere intermedio dell’anima, si deve accettare che essa cambia anche nella sua sostanza. Chi considera la sostanza dell’anima come qualcosa di immutabile, cade inconsapevolmente nella posizione di Plotino, per cui ‘qualcosa’, «la parte più elevata» dell’anima, rimane sempre pura e imperturbabile. La posizione di Giamblico è  più radicale: temporalità e  cambiamento non sono accidentali all’anima, ma interessano la sua stessa sostanza; tuttavia, pur sottostando a  questo cambiamento sostanziale, l’anima preserva ancora la sua identità, o, come dice Giamblico, «l’anima simultaneamente cambia e permane».

67 Cfr.  Proclus Diadochus, In  Timaeum commentaria, V,  342A, ed. Diehl cit. (alla nota 22), III, p. 335, 24ss.; 342F, III, p. 338; 343D, III, p. 340, 14ss. Cfr. J. Opsomer, Proclus et le statut ontologique de l’âme plotinienne, in «Études platoniciennes», 3 (2006), pp. 195-207.

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ὝΠΑΡΞΙΣ, ΔΎΝΑΜΙΣ, ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN RELAZIONE ALL’UNIFICATO LA TRIADE NEOPLATONICA NEL «DE PRIMIS PRINCIPIIS» DI DAMASCIO

1. La teoria della triade nel trattato aporetico sui Principi Primi Nel De primis principiis Damascio prospetta un complesso sistema di derivazione dei Principi che ha avvio dal Totalmente Ineffabile, continua con l’Uno-Tutto e termina con l’Unificato. Tuttavia, il filosofo neoplatonico introduce ulteriori scansioni interne a ciascun livello della realtà principiale e  di conseguenza l’Unificato (ἡνωμένον) – in oggetto nel presente studio – viene inteso come terzo termine della triade intelligibile in cui si articola 1 l’Uno assolutamente semplice anteriore alla triade. Come argomentato in accordo con Giamblico e attraverso un confronto critico con le varie posizioni maturate in seno alla tradizione neoplato-

1  Il processo di articolazione triadica dell’Uno è prestato da J. Combès come un processo di modalizzazione del Primo Principio. Combès osserva che i  termini della triade si configurano come modi dell’Uno anteriore alla triade stessa: cfr. J. Combès, Notes complémentaires, in Damascius, De primis principiis, ed. L. G. Westerink, 3 voll., Paris 1986-1991, II, 1989, pp. 246-247. In modo analogo, anche Taormina descrive la scansione triadica dell’Uno-Tutto come un processo di ‘modalizzazione’ del Principio Primo; a tal proposito cfr. D. P. Taormina, Filosofia e filosofi di lingua greca nei sec. iii-vi d.C., in La filosofia antica. Itinerario storico e testuale, a cura di L. Perilli - D. P. Taormina, Torino 2012, pp. 490-493. Inoltre, tra gli studi sul tema della triade si segnalano J. Trouillard, La notion de δύναμις chez Damascios, in «Revue des études grecques», 85 (1972), pp. 353363; R. Majercik, Chaldean Triads in Neoplatonic Exegesis: Some Reconsiderations, in «The classical Q uarterly», 51 (2001), pp.  265-296; C.  Térézis, The Platonic Pair «Limit – Infinitude» according to the Neo-Platonist Damascius, in «Phronimon», 5 (2004), pp. 71-84. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127954 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 121-139     © 

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nica 2, la triade in questione è successiva all’Uno, che dunque la trascende e i suoi termini costitutivi sono identificabili sulla base dell’accordo che Damascio individua tra le principali concezioni teologico-speculative pagane: quella pitagorica, quella platonica e  quella caldaica 3. Pertanto, secondo lo schema deducibile dalle argomentazioni damasciane, all’Uno-Tutto anteriore alla triade segue l’Uno-Tutto come prima enade, o monade (Pitagora), o uno limitante (Platone), o Padre (Oracoli Caldaici). In second’ordine si colloca invece il Tutto-Uno come seconda enade, o diade (Pitagora), o  uno illimitato (Platone), o  Potenza (Oracoli Caldaici). Infine, vi è  l’Unificato come terza enade, o  triade (Pitagora), o misto (Platone), o Atto (Oracoli Caldaici) 4. A sua volta, l’Unificato è  articolato in modo triadico in essere, vita e  intelletto; in tal senso, l’Unificato manifesta – ad un grado inferiore rispetto al  superiore Uno anteriore alla triade – la tripartizione caldaica di Padre (Intelligibile puro), Potenza (Vita intelligibile) ed Atto (Intelletto intelligibile). In Damascio la struttura triadica οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια è sottoposta a una significativa ridefinizione; il cambiamento apportato trova immediata espressione innanzitutto sul piano lin2  Cfr. Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., II, pp. 1, 1 - 39, 27. Sulla questione si vedano Taormina, Filosofia e  filosofi di lingua greca cit., pp. 489-490 e S. Ahbel-Rappe, Introduction to the Life and Philosophy of  Damascius, in Damascius’ Problems and Solutions Concerning First Principles, ed. by S. Ahbel-Rappe, Oxford 2010, [pp. 1-61], p. 45. 3  Damascio eredita tale concezione da Proclo, che nella Teologia Platonica si impegna a dimostrare la piena armonia della dottrina platonica con la tradizione teologica greca; su ciò cfr. Proclus Diadochus, Theologia Platonica, I 6, edd. H.-D. Saffrey - L. G. Westerink, 6 voll., Paris 1968-1997, I, 1968, pp. 25, 24 - 26, 22. Sul tema cfr. M. Abbate, Il divino tra unità e molteplicità. Saggio sulla «Teologia Platonica» di Proclo, Alessandria 2008 (Hellenica, 20), pp. 70-72. 4 Cfr.  Damascius, De primis principiis, ed.  Westerink cit., III, 1991, p.  148,  8-14: καὶ ἃς ἠβουλήθησαν ἀρχὰς ἐνδείξασθαι δι’ ἄλλων ἄλλοι, οἷον οἱ Πυθαγόρειοι διὰ μονάδος καὶ δυάδος καὶ τριάδος, ἢ ὁ Πλάτων διὰ τοῦ πέρατος καὶ τοῦ ἀπείρου καὶ τοῦ μικτοῦ, ἢ ‹ὃ› πρότερόν γε ἡμεῖς διὰ τοῦ ἑνὸς καὶ τῶν πολλῶν καὶ τοῦ ἡνωμένου, τοῦτο οἱ χρησμοὶ τῶν θεῶν διὰ τῆς ὑπάρξεως καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας («E questi Principi [scil. i  Principi della triade] che differenti [filosofi] hanno voluto indicare attraverso [nomi] differenti, per esempio i Pitagorici con [i nomi] di monade, diade e triade, Platone con i nomi di limite, illimitato e misto, o ancora [i Principi] che noi precedentemente [abbiamo designato] con [i nomi] di uno, molti e unificato, tali [Principi] gli Oracoli degli dèi [li designano] con [i nomi] di sussistenza, potenza e atto»). Le traduzioni italiane dei passi tratti dal De primis principiis presenti nel testo e in nota sono mie.

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guistico: nel riferirsi al primo termine della triade neoplatonica il diadoco preferisce parlare di ὕπαρξις anziché di οὐσία 5. A monte di tale processo di ripensamento della nozione di triade vi è  la necessità di inquadrare correttamente i  rapporti tra henologia e  ontologia, e  dunque l’esigenza di chiarire in che modo l’Uno (τὸ ἕν) sia a fondamento dell’Essere (τὸ ὂν) inteso come ipostasi inferiore. Pertanto, la dottrina della triade – nella sua doppia articolazione sovraontologica e ontologica 6 – deve dare conto sia della differenza tra le ipostasi dell’Uno e dell’Essere, sia del rapporto di derivazione del secondo dal primo. In  tal senso il filosofo si sofferma sulla distinzione tra ὕπαρξις e οὐσία, evidenziando che la prima nozione (ὕπαρξις) attiene all’Uno, mentre la seconda (οὐσία) all’Essere. La teoria della triade consente di fare luce sulla specificità di ciascuna delle due suddette nozioni e inoltre illustra in che termini deve essere intesa la relazione di causazione tra Uno ed Essere a cui i concetti di ὕπαρξις e οὐσία sono rispettivamente connessi. Damascio spiega che la ὕπαρξις è  una proprietà che attiene al  Principio Primo che è  l’Uno, mentre l’οὐσία attiene all’inferiore Essere-Unificato, terzo termine della triade costituita 5 Nel corpus damasciano una traccia della triade interpretata in una chiave diversa e presentata secondo la denominazione classica comunemente attestata negli autori che ricorrono alla dottrina della triade neoplatonica, ossia οὐσία, δύναμις, ἐνέργεια, compare nel Commentario al «Filebo». Il passo in questione è Damascius, In Philebum, ed. G. Van Riel, Paris 2008, p. 70, 1-6: ὃτι ταυτότης μὲν καὶ ἑτερότης περὶ οὐσίαν, ἡ δὲ ὁμοιότης καὶ ἡ ἀνομοιότης περὶ δύναμιν, περὶ δὲ τὰς ἐνεργείας ἰσότης καὶ ἀνισότης, ὡς ἐν ἄλλῳ φησίν. Ἐπιστῆσαι δὲ χρὴ καὶ νῦν ὡς πάντα κατ’ οὐσίαν· ἡ γὰρ δύναμις καὶ ἡ ἐνέργεια ἀπὸ τῆς οὐσίας. Nel passo Damascio si riferisce al Commentario al  «Parmenide» di Proclo con l’intento di sottolineare come δύναμις ed ἐνέργεια derivino dall’οὐσία, a  sua volta da intendersi come sostanza/essenza (cfr. infra, alla nota 9). Dunque occorre tenere presente che nelle righe in discussione Damascio non sta enunciando una propria teoria, ma sta riportando una concezione riconducibile a Proclo. Su questo ultimo aspetto si rimanda a G. Van Riel, Notes complémentaires, ibid., p. 114. 6  Con l’espressione ‘triade ontologica’ mi riferisco alla triade che l’Unificato, nella sua identità con l’Essere, realizza in se stesso in senso pieno. Difatti, secondo la lettura damasciana, in una delle sue plurime accezioni e funzioni l’Unificato coincide propriamente con l’Essere. Tuttavia, nell’indagine sui Principi Primi condotta da Damascio è possibile identificare anche una ‘triade sovraontologica’, in considerazione del rapporto analogico che lega i diversi piani della realtà fondativa. La triade sovraontologica è espressione dell’articolazione triadica dell’UnoTutto trascendente l’Unificato-Essere. In relazione a tale triade l’Unificato – che è al contempo anch’esso triade – ne rappresenta il termine ultimo.

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da Uno-Tutto, Tutto-Uno e  Unificato, e  quindi ‘prodotto’ dei primi due termini superiori. Nello specifico, la ὕπαρξις è  definita «[la proprietà] del far venire all’essere» ([τὸ ἰδίωμα] τοῦ ὑποστατικοῦ) 7. Tale proprietà, a sua volta, opera in continuità con la proprietà riconducibile alla potenza (δύναμις), definita «la forza generatrice propria della sussistenza» (τὸ γόνιμον τῆς ὑπάρξεως) 8. Dunque, la δύναμις si configura come una sorta di ‘estensione’ della ὕπαρξις, mirante all’attualizzazione della sussistenza nella forma di sostanza/essenza (οὐσία) 9 ed Essere (ὄν). È propriamente la mistione di sussistenza (come capacità di far venire all’essere) e  potenza (come forza generatrice propria della sussistenza) a determinare il terzo Principio della triade, il quale è  ἐνέργεια (atto), οὐσία (sostanza) e ὄν (Essere), e in quanto tale coincide con l’ἡνωμένον (l’Unificato), definito da Damascio Essere e Sostanza 10. Per tale ragione l’Essere e l’οὐσία sono propriamente il prodotto scaturito dall’interazione tra ὕπαρξις e δύναμις. Alla luce di ciò si comprende che nella concezione damasciana l’οὐσία è meno originaria della ὕπαρξις dal momento che l’οὐσία – come visto – si ricava per derivazione dalla ὕπαρξις. Il  diadoco chiarisce infatti l’anteriorità di ὕπαρξις rispetto ad οὐσία affermando: Per questa ragione la sostanza [οὐσία] è  successiva alla sussistenza [ὕπαρξις], ossia perché [la sostanza] è  insieme alla potenza e all’atto, mentre la sussistenza li [scil. potenza e atto] precede, dal momento che essa stessa è la causa che fa esistere [ὑποστατικὸν αἴτιον] tutte le cose 11.   Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., II, p. 72, 3-4.   Ibid., p. 72, 5. 9 La nozione di οὐσία è assunta da Damascio nella doppia valenza platonica e aristotelica. Essa pertanto indica sia l’‘essenza’ – secondo l’accezione platonica implicante una maggiore astrazione metafisica e  il riferimento alla dimensione intelligibile – sia la ‘sostanza’ – secondo l’accezione aristotelica implicante una maggiore determinazione in termini ontologici. 10  L’Unificato è considerato non solo mediante la nozione di ‘misto’ (cfr. ibid., pp. 40, 1 - 55, 16), ma anche mediante quella di ‘essere’ (ὂν) e ‘sostanza’ (οὐσία). L’Unificato pertanto si presenta come Essere puro (τὸ ἁπλῶς ὂν) e Sostanza prima (ἡ πρώτη οὐσία). La teoria dell’Unificato come Essere viene articolata attraverso una puntuale determinazione dei generi in cui l’Essere può essere distinto, sulla base di specifici riferimenti alla Repubblica, al Sofista e al Parmenide, oltre che alla posizione plotiniana in merito. Su ciò cfr. ibid., pp. 56, 1 - 99, 14. 11   Ibid., p. 71, 6-8: διὸ μετὰ τὴν ὕπαρξιν ἡ οὐσία, ὅτι σὺν δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ, πρὸ δὲ τούτων ἡ ὕπαρξις αὐτὸ οὖσα τὸ πάντων ὑποστατικὸν αἴτιον. 7 8

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Pertanto lo scolarca dichiara anche che la nozione di sussistenza non implica alcuna forma di determinazione e  per questo la ὕπαρξις risulta essere τὸ πάντων ἁπλούστατον, vale a dire «[la proprietà] in assoluto più semplice di tutte» 12. Proprio in considerazione di ciò, il concetto di ὕπαρξις può essere riferito all’Uno assolutamente semplice con maggiore pertinenza rispetto ad ogni altro. Difatti, la gerarchia delle ἀρχαί è definita sulla base del maggiore grado di semplicità e indeterminatezza attribuibile a ciascun Principio, e  culmina con la postulazione del τὸ ἀδιόριστον, ossia l’indeterminato per eccellenza che corrisponde all’Ineffabile trascendente l’Uno. In  considerazione di ciò, occorre distinguere sussistenza e sostanza in base a quanto lo stesso filosofo precisa: Per questo dunque la sussistenza [ὕπαρξις] [è] altro rispetto alla sostanza [οὐσία], in considerazione del fatto che [la sussistenza] è una proprietà unica spogliata delle altre al fine di indicare il Principio Primo [scil. l’Uno] 13.

Come spesso accade nella speculazione damasciana, in primo luogo il filosofo tende ad operare puntuali distinzioni linguisticoconcettuali al fine di chiarire identità e funzioni di ciascun Principio, ma in seguito egli stesso invita a superarle poiché ogni forma di rigida sistematizzazione teorizzabile è  sempre il frutto fallace dalle operazioni distinguenti del pensiero. Ciò accade anche a proposito della differenza tra ὕπαρξις e  οὐσία. Infatti, il diadoco dichiara di voler trasporre il discorso sulla triade dal piano concettuale (oggettivante e definitorio) a quello ipostatico. Il risultato è che, affrancato dalla necessità di stabilire nozioni e proprietà dei termini della triade, il pensiero è stimolato ad innalzarsi fino alla sfera delle ipostasi. A  tale livello, originario e  indifferenziato, la distinzione minuziosamente stabilita tra le proprietà della ὕπαρξις e dell’οὐσία sembra venire meno. In relazione a ciò leggiamo: Ma, per parlare dal punto di vista dell’ipostasi, la sussistenza sarebbe appunto lo stesso della sostanza, la quale sussistenza, unitamente a potenza e atto, esiste realmente 14.   Ibid., p. 71, 23-24.   Ibid., p. 72, 13-15: οὕτω μὲν οὖν ἄλλο παρὰ τὴν οὐσίαν ἡ ὕπαρξις, ὡς ἰδιότης μία γυμνουμένη τῶν ἄλλων εἰς ἔνδειξιν τῆς πρώτης ἀρχῆς. 14  Ibid., p. 72, 15-17: ὡς δὲ καθ ὑπόστασιν φάναι, καὶ ταὐτὸν ἂν εἴη ὕπαρξις τῇ οὐσίᾳ, ἥ γε μετὰ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ὑφέστεκεν ὡς ἀληθῶς. 12 13

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In breve, dal punto di vista ipostatico, la sostanza è la sussistenza realmente esistente, ossia essa è  la sussistenza che si manifesta in termini ontologici. In tal senso l’οὐσία è la stessa cosa della ὕπαρξις che, proiettata verso i livelli successivi di realtà, perviene effettivamente all’essere. In tal modo ὕπαρξις e οὐσία – distinguibili in termini logici e linguistici, sulla base dei canoni di intelligibilità umani – finiscono per coincidere. Come anticipato, il presente studio sarà incentrato sull’analisi della triade in riferimento all’Unificato. Dalla lettura del trattato aporetico si apprende innanzitutto che l’Unificato, oltre a costituire propriamente il terzo Principio della triade, è  a sua volta espressione compiuta dell’intera triade, in quanto attualizzazione delle proprietà connesse ai Principi superiori della triade stessa. Ciò si verifica dal momento che esso è propriamente la triade derivata da monade e diade (o si potrebbe dire che è il misto derivato dall’uno limitante e  dalla pluralità illimitata, o  ancora, che esso è l’Atto discendente dal Padre e dalla Potenza). In ragione di questo, l’ipostasi dell’Essere – che nella teoria dei Principi elaborata da Damascio corrisponde all’Unificato – esprime secondo la sua specificità, ossia l’atto, le proprietà relative ai termini dai quali deriva. Infatti, Damascio dichiara quanto segue: Dunque, il primo Principio si conosce secondo la sussistenza (ὕπαρξις), come si è visto presso gli Oracoli, il secondo Principio secondo la potenza (δύναμις) (…); al terzo si aggiungerà anche l’atto (ἐνέργεια), e di conseguenza esso sarà sussistente, dotato di potenza e agente; per tale ragione noi chiamiamo il terzo Principio ‘sostanza’ (οὐσία) ed ‘essere’ (ὄν), ossia perché esso è la triade tutta intera (διὸ καὶ τριάς) 15.

In base al passo sopra riportato è possibile osservare che l’ultimo diadoco della Scuola platonica di Atene intende l’Unificato come la triade in senso pieno («esso [scil. l’Unificato] è la triade tutta intera»), in ragione del fatto che tale Principio è  ‘sussistente’, ‘dotato di potenza’ e ‘agente’. In altri termini, come si è accennato precedentemente, l’Unificato racchiude in sé tutti i termini/pro15  Ibid., p.  71,  1-6: οὐκοῦν ἡ μὲν πρώτη ἀρχὴ κατὰ τὴν ὕπαρξιν θεωρεῖται, ὡς ἐν τοῖς λογίοις, ἡ δὲ δευτέρα κατὰ τὴν δύναμιν (...) ἡ τρίτη ἄρα προσλήψεται καὶ τὴν ἐνέργειαν, ἔσται ἄρα καὶ ὑπάρχουσα καὶ δυναμένη καὶ ἐνεργοῦσα· τοῦτο δὲ οὐσία καλεῖται καὶ ὄν· διὸ καὶ τριάς.

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prietà/Principi superiori e distinti della triade. Tuttavia, l’apparente linearità della dottrina della triade neoplatonica in qualche modo deducibile dalle argomentazioni damasciane è corredata da numerose note critiche che il filosofo introduce in merito alla possibilità di ricondurre all’Unificato un’effettiva scansione triadica. Più in generale, le riflessioni dello scolarca – in numerosi casi apertamente polemiche – rientrano nel contesto dei problemi concernenti lo statuto dei Principi Primi, il loro grado di intelligibilità e dicibilità. Pertanto, la discussione su ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια in relazione all’Unificato confluisce necessariamente all’interno dell’analisi riguardante la natura della trattazione metafisica e del corrispondente lessico protologico.

2. La scansione triadica dei Principi: ‘convenienza’ e problematicità Il primo nodo teorico da valutare ha a che fare con la natura dei Principi Primi. Con grande frequenza Damascio ne ricorda il carattere assolutamente indifferenziato. Infatti, lo statuto delle ἀρχαί è  di semplicità in senso autentico e  di conseguenza risulta erroneo attribuire a  queste ultime forme di determinazione e/o caratterizzazioni numeriche, nominali e  predicative. Pertanto, si rivela particolarmente problematica la concezione che vuole la dimensione originaria della realtà comprensibile attraverso la struttura triadica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια. Ciononostante, la teoria della triade ha una propria legittimità entro la trattazione protologica damasciana, possiede una certa efficacia anagogica e rivelativa della verità superiore dei Principi; tuttavia, la validità della dottrina della triade è subordinata all’assunzione critica del pensiero logico-proposizionale come strumento imperfetto di accesso alla realtà prima. Difatti, in modo esclusivamente congetturale, analogico e  indicativo-allusivo l’intelligenza umana può elaborare delle nozioni parzialmente idonee sulle ἀρχαί. Più nel dettaglio, il diadoco si riferisce alle suddette questioni in un passo particolarmente esemplificativo, passo che ha in oggetto l’Unificato considerato come ‘misto’: Il misto [scil. quello rappresentato dall’Unificato] deriva dal limitante e dall’illimitato, poiché esso è sovrasemplificato al di sopra di tutto ciò che viene dopo di lui, e poiché esso racco127

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glie in sé le cose che nascono da lui all’infinito. E tuttavia, esso è in verità, una monade, non quella che è il principio del numero (…), ma quella [monade] che, secondo indicazione, è simile all’uno del primo Principio [scil. alla monade], così come ai molti del secondo [scil. alla diade] 16.

Le affermazioni ricavate dal trattato sui Principi evidenziano che l’assoluta semplicità caratterizza l’Unificato quale misto derivato dalla monade (o limitante) e dalla diade (o illimitato), tanto che il filosofo siriano lo descrive iperbolicamente come ciò che è «sovrasemplificato al di sopra di tutto ciò che viene dopo di lui» 17. Nonostante questo, il misto-Unificato è comprensivo della totalità delle entità che in esso hanno origine secondo un processo infinito 18. L’intrinseca unità che lo contraddistingue fa sì che esso costituisca una monade, per via della sua derivazione dalla monade-limitante. Tuttavia, Damascio specifica che non si tratta della monade aritmetica, vale a dire «quella che è il principio del numero» 19, bensì della monade che è indicativamente (κατὰ ἔνδειξιν) – cioè ‘per approssimazione’ – riconducibile alla monade del primo termine della triade. La  nozione di monade con cui è  designato l’Unificato possiede un valore meramente ipotetico-indicativo; pertanto, bisogna tenere presente che il concetto di monade può essere ascritto all’Unificato soltanto simbolicamente e in ragione dell’analogia che lega l’Unificato quale terzo termine della triade con la ‘natura monadica’ 20 ed originaria dell’uno a fondamento 16  Ibid., pp.  52,  26  -  53,  4: τὸ μικτὸν ἐξ ἀπείρου καὶ πέρατος, ὅτι καὶ πάντων ὑπερήπλωται τῶν μεθ’ ἑαυτό, καὶ τὴν ἀπειρίαν συνείληφεν τῶν ἐπ’ ἄπειρον ἀπ’ αὐτοῦ γιγνομένων. Kαὶ μονὰς ὅμως ἐστὶν κατὰ τὸ ἀληθέστατον, οὐχ ἡ ἀρχὴ τοῦ ἀριθμοῦ (…), ἀλλὰ τοιαύτη κατὰ ἔνδειξιν, οἷον μὲν τὸ ἓν τῆς πρώτης ἀρχῆς, οἷα δὲ τὰ πολλὰ τῆς δευτέρας. 17   Ibid., p. 52, 27. 18  Cfr. ibid., pp. 52, 28 - 53, 1. 19  Ibid., p. 53, 2. 20 In diversi passi del trattato sui Principi Primi Damascio spiega in che termini deve essere intesa l’attribuzione dei caratteri ‘monadico’ e ‘triadico’ all’uno quale prima enade e primo termine della triade. In riferimento alla seconda questione cfr. ibid., III, p. 139, 1-2: καὶ πῶς τὸ ἓν ἔσται τριπλοῦν; Ἢ ὅτι ἓν ὄν, ὅμως ἀρκεῖ πρὸς τὸ τριπλοῦν τοῦ ἡνωμένου («Come l’uno sarà triplo? Rispondiamo che, anche se esso è  uno, soddisfa ugualmente il carattere triplo dell’Unificato»), il quale Unificato a sua volta si sviluppa in modo triadico in essere, vita, intelletto. Successivamente Damascio aggiunge che «l’uno, secondo l’uno, ha in sé una vaga manifestazione del triplo» (ibid., p.  139,  4-5: τὸ ἓν κατὰ τὸ ἓν ἔχει τὸ τριπλοῦν

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della medesima triade. Inoltre l’Unificato, nel suo essere problematicamente monade, è al contempo totalità, ma ancora secondo indicazione della molteplicità potenziale espressa dalla nozione di diade della triade intelligibile. Come accennato in precedenza, il problema tematizzato da Damascio nel passo in analisi è rappresentato dalla difficoltà di numerare i Principi. Difatti, il numero è  una forma di determinazione incompatibile con l’indeterminatezza della dimensione fondativa, e nel caso specifico con l’inconcepibile uni-totalità indifferenziata dell’Unificato. Di conseguenza, Damascio con frequenza dichiara di servirsi della nozione di numero a  proposito delle ἀρχαί esclusivamente in termini ipotetico-indicativi, ossia senza alcuna pretesa di sottoporre i Principi a  scansioni e  classificazioni realmente rappresentative degli stessi. Ne deriva che anche il concetto di triade, in quanto legato al  tentativo di numerare 21, distinguere e  contrapporre 22 i  Prinἐμφαινόμενον); ne discende che «non vi è  nulla da meravigliarsi, né di difficile da comprendere nel fatto che l’uno (…) è triadizzato, non perché esso è contato né ancor meno perché è distinto, ma perché esso anticipa in se stesso la triplicità dell’Unificato, e perché esso è uno triadico in quanto interamente presente all’interno della triade» (ibid., p. 139, 10-14: οὐκ ἄρα θαυμαστὸν οὐδὲ χαλεπὸν ἐννοῆσαι τὸ ἓν (…) τριαδιζόμενον, οὐχ ὅτι ἀριθμεῖται οὐδὲ διορίζεται, ἀλλ’ ὅτι προείληφεν ἐν ἑαυτῷ τὴν τοῦ ἡνωμένου τριπλόην, καὶ ὅτι ἕν ἐστιν ὡς ἐν τριάδι τῇ ὅλῃ τριαδικόν). Invece, quanto al problema della riconducibilità del carattere ‘monadico’ all’uno della triade si consideri ibid., II, p. 13, 1-6: ἀλλὰ μὴν καὶ ὁ ‹ἐκ› τῆς διαφορᾶς τοῦ ἑνὸς πρὸς τὴν μονάδα συλλογιζόμενος ἀναμιμνησκέσθω τῶν εἰρημένων, ὅτι οὔτε μονάς οὔτε ἓν ἐν ἐκείνοις κατὰ ἀλήθειαν, ὥστε οὐδὲ ἡ τούτων διαφορὰ πρὸς ἄλληλα θετέα ἡμῖν ἐν ἐκείνοις, ἀλλ’ ἔστιν καὶ ἑκάτερον ἀνάγειν πρὸς τὴν αὐτὴν ὑπόθεσίν τε καὶ ἔνδειξιν («Ma colui [scil. Giamblico] che ragiona ‹a partire dalla› differenza dell’uno in rapporto alla monade si ricordi di ciò che si è già detto, ossia che, presso quelli [scil. i Principi], [non si ha] secondo verità, né monade né uno [scil. l’unità in quanto numero], così che noi non dobbiamo porre più, presso quelli, la loro [scil. dell’uno e della monade] differenza mutuale, ma è possibile ricondurre ciascuno dei due [scil. la monade e la nozione di unità in quanto numero] alla stessa ipotesi o indicazione»); ibid., III, p. 140, 5-8: ἓστω γὰρ τὸ ἁπλῶς ἓν τῷ ὄντι τὸ ἀνάριθμον, καὶ εἰ χρὴ φάναι σαφέστερον, ἀτρίαστον καὶ ἀμονάδιστον· οὐδὲ γὰρ μοναδικόν ἐστιν, ὅτε γε μηδὲ ἓν κατὰ ἀλήθειαν, κατὰ δὲ ἔνδειξιν λέγεται μόνην· («Ammettiamo, in effetti, che l’uno puro [scil. l’uno come primo Principio della triade] è realmente ciò che non è numerabile, e, se bisogna parlare in modo più chiaro, [esso è] ciò che non può essere né triadizzato né monadizzato; infatti esso non è nemmeno monadico, poiché esso non è nemmeno uno in verità, ma è detto uno soltanto per indicazione»). 21  Sul problema della numerazione dei Principi in particolar modo per mezzo della nozione di triade cfr. supra, alla nota 20, e infra, alla nota 33. 22 Relativamete ai processi di ‘distinzione’ e  ‘contrapposizione’ all’interno della dimensione dei Principi cfr. G. Van Riel, «N’essayons pas de compter l’in-

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cipi, presenta dei tratti di debolezza che ne minano la tenuta, se rigidamente applicato alla natura semplice e non numerabile dei Principi. Anche allorché l’Unificato è considerato secondo la sua accezione di Intelligibile puro o  Somma dell’Intelligibile Damascio polemizza contro la possibilità di suddividere concettualmente e verbalmente il Principio in questione secondo le caratterizzazioni/ denominazioni triadiche; proprio queste ultime, infatti, hanno il limite di determinare proprietà non correttamente riconducibili alla condizione di totale indifferenziazione dell’Uni­ficato. A  tal proposito leggiamo: Ma se l’Unificato [è] completamente senza differenza e, per questa ragione, senza processione, come possiamo dividere l’intelligibile [scil. l’intelligibile che è  l’Unificato] in tre modi, ossia in primo, medio e ultimo, o ancora in sostanza, vita e intelletto, o in padre, potenza e intelletto, o ancora in qualsiasi altro modo si voglia dire? (…) Bisogna dire relativamente a ciò che, trasportando tali nozioni a partire dalle cose di quaggiù, noi le facciamo risalire all’intelligibile, desiderosi di indicare qualcosa a suo riguardo, per analogia con ciò che noi conosciamo meglio 23.

telligible sur les doigts». Damascius et les principes de la limite et de l’illimité, in «Philosophie antique», 2 (2002), pp. 201-219. Van Riel evidenzia l’impossibilità di ricondurre le nozioni di ‘distinzione’ e  di effettiva ‘contrapposizione’ ai Principi Primi; in effetti, proprio in merito a  ciò Damascio è  in polemica con i  propri predecessori: «l’essence de la critique de Damascius est que le schéma des principes opposés est irréconciliable avec l’unité absolue des principes» (ibid., p. 209). Il neoplatonico lascia intendere che la distinzione è riferibile alla realtà prima esclusivamente in termini endeictici: «C’est uniquement en soutenant κατὰ ἔνδειξιν que l’unité se manifeste sous plusieurs aspects qu’on peut postuler, au niveau des principes, un développement progressif  de la multiplicité» (ibid., pp. 209-210). Pertanto il diadoco argomenta a più riprese sul fatto che non è possibile ricondurre ai Principi indifferenziati ‘il più e il meno’ poiché nell’ambito delle realtà prime non sussiste alcuna ‘differenza formale’ (cfr. ibid., pp. 210-211). Ne consegue che i Principi non possono essere differenziati gli uni dagli altri e proprio ciò impedisce di ipotizzare l’esistenza di una reale opposizione tra Principi gerarchicamente ordinati (cfr. ibidem). 23  Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., III, pp. 56, 20 - 57, 14: ἀλλ’ εἰ διάφορον πάντῃ τὸ ἡνωμένον καὶ ἀπρόοδον διὰ τοῦτό, πῶς ἔχομεν καὶ τὸ νοητὸν τριττῇ διελεῖν εἰς πρῶτον καὶ μέσον καὶ ἔσχατον, ἢ εἰς οὐσίαν καὶ ζωὴν καὶ νοῦν, ἢ εἰς πατέρα καὶ δύναμιν καὶ νοῦν, ἢ ὅπως ἄλλως ἐθέλοι τις λέγειν; (…) Ἢ ῥητέον πρὸς ταῦτα ἓν μὲν ὅτι ταῦτα ἀπὸ τῶν κάτω φέροντες ἀνάγομεν εἰς τὸ νοητόν, ἐνδείξασθαί τι περὶ ἐκείνου ἐφιέμενοι κατὰ τὴν τῶν γνωριμωτέρων ἀναλογίαν.

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Se esistono numerose difficoltà legate alla determinazione puntuale dell’Uno-Tutto in base ai Principi della triade intelligibile poiché l’Uno-Tutto è postulato come Principio Primissimo trascendente l’Unificato, il medesimo problema si presenta anche in riferimento all’Unificato, sia in quanto manifestazione della «triade tutta intera» 24, sia in quanto a  sua volta articolato in modo triadico in sostanza, vita, intelletto (o Padre, Potenza, Atto, secondo il lessico della teologia caldaica). Il  neoplatonico ribadisce che non è  possibile stabilire l’esistenza di un ‘primo’, un ‘medio’ e un ‘ultimo’ relativamente all’Unificato, e che pertanto applicando tali divisioni al Principio rispondiamo esclusivamente all’esigenza di «indicare qualcosa a  suo riguardo» 25. L’indicare si esprime attraverso il movimento dal basso verso l’alto, dal più noto al meno noto, che l’intelligenza compie grazie all’analogia delle nozioni a  noi più comuni con la natura aporeticamente incommensurabile del Principio sommo. Al fine di chiarire in cosa consista il processo intellettivo ascensivo verso la sommità dei Principi Primi, il filosofo siriano dichiara che è necessario mettere in atto delle operazioni di pensiero esattamente opposte a quelle che comunemente si compiono in conformità con il procedere naturale dell’intelligenza umana, caratterizzata da uno stato di ‘grande divisione’ 26 intrinseca ed originaria. In  effetti, quest’ultima tende a  determinare i  propri oggetti di riferimento con concetti puntuali e termini linguistici definitori, mentre il piano dei Principi, indeterminato, assolutamente semplice e non oggettivabile, si dimostra refrattario proprio a tali procedimenti. Pertanto, l’elevarsi in direzione delle ἀρχαί richiede un progressivo abbandono della ‘consuetudine intellettiva’ 27 e dun  Ibid., II, p. 71, 6. Cfr. supra, pp. 126 e 127.   Ibid., III, p. 57, 13-14. 26 Cfr. ibid., p. 18, 23-24. 27  A proposito della ‘consuetudine intellettiva’ (συνήθεια), Damascio discute della triade in cui si articola l’Unificato (essere, vita e intelletto) e del modo meno erroneo di predicare del Principio tali tre termini; riguardo a  questo tema il filosofo dichiara ibid., p. 131, 8-13: μηδὲ ἀπὸ τῶν προχειροτέρων ἐννοιῶν ἀναγέσθω πρὸς τὸν ὑπερφυέστερον τρόπον πάσης συνηθείας, ἀλλ’ οὐσίαν ἀκουέτω λεγόντων ἡμῶν καὶ ζωήν, καὶ μέντοι καὶ νοῦν τὸν ὡς ἀληθῶς, κατὰ ἔνδειξιν ἀπὸ τῶν συνήθων τῆς ἐν ἀβάτοις μενούσης καὶ πόρρωθεν ἡμῖν ὑπονοουμένης φύσεως («Non si risalga dalle nozioni che ci sono più familiari verso il modo che trascende tutta la consuetudine [intellettiva], ma si comprenda che noi parliamo realmente della sostanza, della 24 25

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que dei processi di pensiero ‘abituali’. Ciò significa che anziché tentare vanamente di determinare l’indeterminato attraverso la pluralizzazione di nozioni, proprietà e nomi, occorre semplificare riducendo ad unità i concetti distinti ricondotti all’Origine. Q uest’ultimo è  precisamente il monito che espone Damascio allorché afferma: Risulta meglio dire che noi concepiamo e denominiamo tutte le cose come distinte, e tra le altre cose, l’unione e la distinzione, ma che a partire da queste [scil. le cose distinte] indichiamo qualcosa anche riguardo alle realtà indifferenziate [scil. i Principi e nello specifico l’Unificato]. (…) Tuttavia ci serviamo dei nomi delle cose distinte, sia in loro stessi, sia in combinazione, nell’intenzione di indicare qualcosa riguardo alle cose che sono completamente indifferenziate, delle quali non abbiamo né concetto né nome ben distinto, a causa della grande divisione del nostro pensiero; di conseguenza bisogna contrarre insieme tutti i nostri concetti in un unico concetto supremo che sia la somma unica di tutti i concetti, se vogliamo cogliere una qualche traccia di questa alta natura aggregata [scil. l’Unificato] 28.

Come bene esprime il passo, in sé e nella loro combinazione i nomi rappresentano forme di determinazione utili al fine di significare le realtà distinte; proprio per tale ragione, qualora venissero utilizzati in riferimento alla dimensione dei Principi, indifferenziati e anteriori alla distinzione, sarebbero solamente delle indicazioni rivelative dell’incommensurabilità tra ciò che si fonda sulla distinzione e l’indifferenziato, tra ciò che può essere nominato e l’anonimia assoluta della realtà prima. Pertanto, testata l’indicibilità delle ἀρχαί delle quali «non abbiamo né concetto né nome ben vita e, certamente, anche dell’intelletto, indicando semplicemente, a partire dalle nozioni consuete, la natura che dimora presso l’inaccessibile e che noi congetturiamo soltanto da lontano»). 28  Ibid., p. 18, 11-27: ἣ ἄμεινον λέγειν ὡς πάντα μὲν ἡμεῖς διωρισμένα νοοῦμεν καὶ ὀνομάζομεν, τά τε ἄλλα καὶ ἕνωσιν καὶ διάκρισιν, ἀπὸ δὲ τούτων ἐνδεικνύμεθά τι καὶ περὶ τῶν ἀδιορίστων. (…) Προσχρώμεθα δὲ τοῖς τῶν διωρισμένων ὀνόμασιν ἢ καθ’ αὑτὰ ἢ κατὰ συμπλοκήν, ἐνδείξασθαί τι βουλόμενοι περὶ τῶν πάντῃ ἀδιορίστων, ὧν οὔτε ὄνομα οὔτε νόημα διηρθρωμένον ἔχομεν διὰ τὸν πολὺν μερισμὸν τῆς ἡμετέρας διανοήσεως· δεῖ γὰρ πάντα ὁμοῦ συνελεῖν τὰ νοήματα ἡμῶν εἰς ἓν μετανόημα, τὴν μίαν πάντων νοημάτων κορυφήν, εἰ μέλλοιμέν τινος ἴχνους ἐπιλαβέσθαι τῆς συνῃρημένης ἐκείνης φύσεως.

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distinto, a causa della grande divisione del nostro pensiero» 29, lo sforzo ascensivo in direzione dei Principi deve necessariamente prevedere l’elaborazione di un’idea sintetica e trascendente la singolarità delle nominazioni comuni, derivante dalla contrazione del complesso delle nozioni «in un unico concetto supremo che sia la somma unica di tutti i concetti» 30. Q uesto concetto supremo, tuttavia, in quanto ancora nome e  nozione, si limita a  cogliere esclusivamente «una qualche traccia» (τι ἴχνος) 31 dell’onnicomprensività del Tutto costituito dall’Unificato. Alla luce di simili considerazioni, si comprende la ragione per cui le scansioni triadiche con cui si intende stabilire rapporti numerici e differenziazioni reciproche tra i  Principi richiedano un inevitabile superamento. Tale concezione è ribadita dallo scolarca neoplatonico con maggiore incisività in un’argomentazione affine a quella appena considerata: Prima dell’atto vi è la potenza, e prima della potenza la sussistenza (ὕπαρξις). ‹Ma lassù›, non vi è ‹né sussistenza› senza dubbio, né a maggior ragione potenza, né a maggior ragione ancora atto; in effetti, queste proprietà sono in una certa distinzione e  si differenziano le une rispetto alle altre; dunque, non è vero che il sussistere, il potere e l’agire convengono al completamente indifferenziato 32.

Le righe sopra riportate denunciano la non convenienza (οὐκ ἁρμόζειν) del ‘sussistere’, del ‘potere’ e dell’‘agire’ a ciò che è ‘completamente indifferenziato’, ossia non solo all’Unificato, ma alla dimensione dei Principi considerata nella sua totalità. In effetti, le operazioni concettuali del distinguere (διορίζω) e differenziare (διακρίνω), conducono ad individuare ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια come proprietà specifiche che è possibile riferire ai Principi esclusivamente in senso indicativo. Proprio in considerazione di ciò, Damascio osserva criticamente che le suddette operazioni con  Ibid., p. 18, 22-24.   Ibid., p. 18, 25-26. 31  Ibid., p. 18, 26. 32   Ibid., I, p. 114, 13-18: πρὸ δὲ τῆς ἐνεργείας δύναμις καὶ πρὸ δυνάμεως ὕπαρξις. *** ἴσως οὔτε δύναμις πολλῷ μειζόνως, οὔτε ἔτι μᾶλλον ἐνέργεια· καὶ γὰρ ἐν διορισμῷ τινι τὰ τοιαῦτα καὶ διακρίνεταί πως ἀπ’ ἀλλήλων, οὐκ ἄρα ἁρμόζει τῷ πάντῃ ἀδιαφόρῳ τὸ ὑπάρχειν καὶ δύνασθαι καὶ ἐνεργεῖν. 29 30

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cettuali risultano improprie, dal momento che distolgono il pensiero dal procedere maggiormente compatibile con la natura delle ἀρχαί: il semplificare (ἀναπλόω). Dunque, i  termini della triade – intesi come concetti e appellativi attribuiti ai Principi – vanno concepiti come una sorta di ‘sovrastruttura’ imposta ad un ordine di realtà non riducibile ai meccanismi della strumentazione razionale umana.

3. La triade come ‘struttura concettuale’. La ridefinizione damasciana della metafisica e del linguaggio protologico Considerata la perentorietà della confutazione damasciana circa la ‘convenienza’ delle determinazioni triadiche in riferimento ai Principi Primi, resta da interrogarsi sulle ragioni che giustifichino il costante impiego delle stesse nel corso dell’intero De primis principiis. In verità Damascio alla lucida condanna dei limiti del pensiero-linguaggio oggettivante sulle ἀρχαί affianca una ugualmente chiara consapevolezza delle potenzialità che lo stesso può esprimere se assunto e impiegato non in termini apodittici, bensì nella sua funzione analogica, iconica e  simbolica. Entro tale orizzonte di senso anche le proprietà numeriche espresse dalla triade acquisiscono un ruolo di assoluto rilievo in vista del parziale disvelamento della dimensione principiale. Pertanto, il concetto di numero – implicito nella stessa nozione di triade – mutuato dal contesto aritmetico può essere risemantizzato all’interno di un linguaggio metafisico completamente reinterpretato. Proprio quest’ultima concezione è espressa dal diadoco nei termini seguenti: La monade [scil. il primo Principio della triade], non è numerica, ma è la monade di tutte le cose, nella quale il tutto è anticipato, come nella monade del numero tutto intero; e, per dirla in breve, così come ci serviamo di criteri formali per indicare realtà sovraformali, allo stesso modo ci serviamo anche delle proprietà numeriche come simboli delle realtà non numerabili e di fatto completamente indifferenziate 33. 33  Ibid., III, p. 135, 16-21: ἡ μονὰς οὐκ ἦν ἀριθμητική, ἀλλὰ πάντων μονάς, ἐν ᾗ τὰ πάντα προείληπται, ὥσπερ ἐν τῇ μονάδι πᾶς ἀριθμός· ἁπλῶς δὲ εἰπεῖν, καθάπερ τοῖς

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Dunque, le ‘proprietà numeriche’ con cui si indica la triade hanno un valore simbolico poiché rinviano a ciò che, in quanto senza alcuna determinazione, non è  suscettibile a  numerazione. Pertanto, Damascio lascia intendere che la carenza di concetti, appellativi e  forme attributive adeguate ed efficaci riconducibili ai Principi è  alla base della funzione simbolica con cui occorre fare uso del linguaggio. Q uanto al  linguaggio analogico e  iconico – che per l’appunto ricorre ad immagini per significare in qualche modo l’ine­sprimibile – Damascio dimostra che esso può rappresentare una via di accesso all’inattingibile trascendenza delle ἀρχαί. In ragione di ciò, vi è un’immagine, quella del cerchio o della sfera 34, particolarmente esplicativa delle funzioni specifiche e delle interrelazioni sussistenti tra i termini della triade: Di conseguenza, al  fine [di esprimerci] su ciò di cui intendiamo parlare, se non siamo capaci di parlarne, dobbiamo utilizzare un’altra immagine, come quella che ad esempio [ci permette di affermare che] l’uno [scil. la monade della triade] è il centro di Tutto, mentre la distensione a partire dal centro εἰδητικοῖς χρώμεθα εἰς ἔνδειξιν τῶν ὑπερειδέων, οὕτω καὶ τοῖς ἀριθμητικοῖς ἰδιώμασιν ὡς συμβόλοις τῶν ἀναρίθμων καὶ παντάπασιν ἀδιορίστων. In  linea con tale passo è ibid., II, pp. 37, 14 - 38, 8, in cui Damascio suggerisce di assumere il concetto di numero non in senso aritmetico, ma in termini congetturali e indicativi: οὐ τοίνυν δύο ῥητέον τὰς ἀρχάς, οὐδὲ γὰρ μίαν, ὡς ἀριθμοῦντας, ἀλλὰ κατὰ τὴν ἰδιότητα μᾶλλον ὑπονοοῦντας, ἥν φαμεν εἶναι δυάδος τε καὶ μονάδος. (…) Ἔκαστον γὰρ αὐτῶν μερικόν τέ ἐστι καὶ διωρισμένον, καὶ οὐκ ἀρκούμεθα τούτοις, ἀλλὰ καὶ ἄλλοις προσχρώμεθα πρὸς ἔνδειξιν τῆς φύσεως ἐκείνης· καὶ οὐδὲν μὲν κατατυγχάνει τοῦ ἀληθοῦς, ἐκ πάντων δὲ ἀναγκάζομεν τὴν ἡμετέραν ὑπόνοιαν εἰς τὸ ἀδιόριστον ἀναφεύγειν καὶ μεγαλοφυέστερον, ἐπεὶ καὶ δύο λέγομεν τὰς ἀρχάς, καὶ τὴν ἑτέραν ὑποτάττομεν τῇ ἑτέρᾳ κατὰ πρόοδον, οὔτε δυάδος οὔσης ἐκεῖ οὔτε προόδου τινός («Non bisogna dire dunque che i Principi [sono] due [scil. monade e  diade], infatti [non bisogna dire] neppure [che sono] uno, come se li contassimo, ma piuttosto [bisogna parlare dei Principi] per congetture, secondo la proprietà che diciamo essere della diade e della monade. (…) Ciascuno di questi [scil. i concetti di monade e diade] è, in effetti, particolare e determinato, e noi non ci accontentiamo di questi, ma ci serviamo anche di altri per indicare quest’alta natura. Senza dubbio, nessuno [di essi] perviene alla verità, tuttavia a partire da tutti [i concetti] noi costringiamo la nostra ipotesi a fuggire verso ciò che è indeterminato e di natura più nobile, poiché nel dire che i Principi [sono] due, li subordiniamo l’uno all’altro secondo la processione, mentre non vi è lassù né diade né alcuna processione»). 34  Sull’uso e significato dell’immagine del cerchio nel neoplatonismo e in particolare in Plotino si veda R. Chiaradonna, L’analogia del cerchio e della sfera in Plotino, in Sphaera. Forma immagine e metafora tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Totaro - L. Valente, Firenze 2012 (Lessico intellettuale europeo, 117), pp. 13-35.

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è il secondo Principio [scil. la diade] che è flusso del centro, e  che il contorno e  l’ultima circonferenza, dopo la distensione, è una certa conversione verso il centro, [è] l’intelletto paterno [scil. il terzo termine della triade, l’intelletto o atto], e che l’insieme completo [è] un cerchio unico, o, per parlare in modo più appropriato, una sfera 35.

Nel passo la triade è  rappresentata attraverso l’immagine del cerchio o  della sfera: il centro, nella sua permanenza, indica il primo Principio, la distensione a  partire dal centro come flusso del centro indica il secondo Principio e infine il perimetro della circonferenza come conversione verso il centro indica l’azione dell’intelletto inteso in qualità di terzo Principio. La  metafora geometrica utilizzata da Damascio consente di rappresentare in termini figurativi l’azione specifica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια. Tale tipologia di linguaggio traduce con maggiore immediatezza di significato – e dunque, garantendo un maggiore grado di intelligibilità – ciò che il neoplatonico altrove esprime secondo concetti complessi desunti dal lessico sapienziale della dottrina oracolare caldaica, interpretata alla luce della metafisica damasciana: Così dunque, a  ragione, [si dice che] l’uno è  il Padre della triade, in quanto il Padre è anteriore all’Essere e generatore dell’Essere, mentre [si dice che] i molti sono la Potenza del Padre, in quanto questi sono un’estensione dell’uno verso la generazione dell’Essere, infine [si dice che] l’Intelletto paterno è l’Unificato o l’Essere, considerato secondo la conversione verso l’Uno paterno 36.

Come dimostra il passo sopra menzionato, Damascio si appella alla dottrina degli Oracoli Caldaici per chiarire in che misura la teoria della triade possa dare conto dei tre momenti della dialet35  Damascius, De primis principiis, ed. Westerink cit., III, pp. 135, 21 - 136, 4: ἐπεὶ καὶ ἄλλην πρὸς ἔμφασιν ὧν λέγειν βουλόμεθα, καὶ εἰ μὴ δυνάμεθα λέγειν, ἐκόνα παραληπτέον, ὡς τὸ ἓν μέν ἐστι κέντρον ἁπάντων, ἡ δὲ ἀπὸ τοῦ κέντρου διάστασις ἡ δευτέρα ἀρχή, ῥύσις οὖσα τοῦ κέντρου, τὸ δὲ πέριξ καὶ ἡ ἐσχάτη περιφέρεια, μετὰ τὴν διάστασιν ἐπιστροφή τις οὖσα πρὸς τὸ κέντρον, ὁ νοῦς ὁ πατρικός, κύκλος | δὲ τὸ σύμπαν εἷς, ἢ σφαῖραν εἰπεῖν προσφυέστερον. 36  Ibid., p. 154, 19-24: οὐκοῦν ἐν δίκῃ τὸ μὲν ἓν ὁ πατὴρ τῆς τριάδος, ὅτι πρὸ τοῦ ὄντος καὶ γεννητὴς τοῦ ὄντος, ἡ δὲ δύναμις τοῦ πατρὸς τὰ πολλά, ὅτι ἐκτένεια ταῦτα τοῦ ἑνὸς ἐπὶ τὴν τοῦ ὄντος γέννησιν, ὁ δὲ πατρικὸς νοῦς τὸ ἡνωμένον τε καὶ τὸ ὂν κατὰ τὴν πρὸς τὸ ἓν τὸ πατρικὸν ἐπιστροφὴν θεωρούμενον.

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tica neoplatonica di manenza, processione e  conversione: il Padre della triade (il ‘centro’ della circonferenza nel passo precedente o l’Uno-Tutto damasciano), nella propria permanenza in se stesso, indica l’anteriorità del Principio Primo rispetto all’Essere, la Potenza del padre (il ‘flusso’ o la ‘distensione’ dal centro nel passo precedente’ o il Tutto-Uno damasciano) indica la proiezione del Principio Primo verso la generazione della totalità e infine l’Intelletto paternale (il ‘contorno’ e l’‘ultima circonferenza’ nel passo precedente o l’Atto o ancora, l’Unificato damasciano) indica propriamente l’ipostasi dell’Essere considerato nella specificità che lo caratterizza, vale a  dire il movimento epistrofico in direzione del Padre della triade. Nella prospettiva damasciana la nozione di triade – unitamente alla descrizione delle rispettive funzioni di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια – assume il carattere di una ‘struttura concettuale’ teorizzata al fine di compensare i limiti del λόγος umano, costitutivamente incapace di avere accesso immediato alla trascendenza irrappresentabile e ineffabile della dimensione metafisica. Tuttavia, in quanto ‘teoria di compensazione’, Damascio fa comprendere che il concetto di triade di cui egli stesso fa largo uso deve essere considerato funzionale ma inesatto; per tale ragione è indispensabile svincolarsi dal suo utilizzo e contrariamente stimolare i  processi che sono alla base della superiore intuizione metarazionale, autentica e non più mediata del mondo originario. Proprio tale idea è espressa dal pensatore neoplatonico nel contesto della discussione sui paradossi connessi alla determinazione triadica dell’Uno-Tutto successivo all’Ineffabile: Il Tutto [scil. l’Uno-Tutto] è allora tre e non uno, ossia è sussistenza (ὕπαρξις), potenza ed atto. Ma abbiamo già detto che l’Uno è anteriore all’atto, alla potenza e alla sussistenza (…), e  che è  per indigenza di pensieri ed espressioni che, noi, diciamo tuttavia che esso produce. Ma bisogna purificare completamente la modalità di tale produzione, in quanto a noi ci è estranea e [dire] che essa non si realizza né attraverso l’agire, né attraverso la potenza, né attraverso la sussistenza, ma grazie all’Uno anteriormente ai tre, in un modo ineffabile 37. 37  Ibid., I, p.  121,  8-16: τρία οὖν τὰ πάντα, ἀλλ’ οὐχ ἕν, ὕπαρξις, δύναμις, ἐνέργεια. Ἀλλ’ εἴρηται ὅτι ἐκεῖνο πρὸ ἐνεργείας καὶ δυνάμεως καὶ ὑπάρξεως (ἓν γάρ, ἀλλ’ οὐ τρία, πρὸ δὲ τῶν ἄλλων ὡς ἓν καὶ τὰ τρία), ἀπορίᾳ δὲ ἡμεῖς καὶ νοήσεως καὶ ἐξηγήσεως παράγειν αὐτὸ ὅμως λέγομεν. Διακαθαρτέον δὲ τὸν τρόπον τῆς παραγωγῆς,

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Come accennato in apertura, lo studio sulla triade in Damascio può essere condotto in relazione a  differenti gradi della dimensione principiale, dal momento che la triade si presta ad essere letta come struttura metafisico-concettuale che si è articolata in modo analogo nei livelli progressivamente inferiori delle ἀρχαί. Ciò significa che se da un lato l’Unificato realizza completamente il significato della nozione di ‘triade’ al punto tale da essere la triade in senso pieno 38, dall’altro è possibile sviluppare un discorso speculare sulla triade attinente all’Uno anteriore all’Unificato. Per questa ragione, le riflessioni contenute nel passo sopra riportato hanno in oggetto l’Uno-Tutto, ma possono essere estese ai restanti Principi, compreso l’Unificato su cui si è indagato più dettagliatamente. Puntualizzato questo aspetto, dalle righe menzionate è possibile dedurre quattro considerazioni fondamentali che possono valere da sintesi e conclusione dello studio sulla triade condotto in queste pagine. In  primo luogo, occorre considerare i Principi come anteriori alle loro scansioni triadiche; non si tratta esclusivamente di un’anteriorità in termini metafisici indicante i  rapporti di trascendenza tra i  diversi piani del reale, piuttosto si tratta di un’anteriorità che marca il senso della separazione (e dunque della non corrispondenza) tra le realtà prime e i nomi e le nozioni a loro ricondotti. In secondo luogo, si osserva che i termini della triade e le rispettive peculiarità sono ‘indicativamente’ rappresentativi della specificità incomprensibile e indicibile di ciascun Principio a cui vengono attribuiti; in tal senso, si fa uso della nozione di triade – inesatta e parziale – «per indigenza di pensieri ed espressioni» 39 integralmente compatibili con l’inconcepibile straordinarietà dei Principi. Inoltre, il diadoco sembra suggerire che all’interno della disamina metafisica l’impiego della ‘struttura concettuale’ della triade è  subordinato alla consapevolezza del necessario superamento della forma imperfetta e  limitata di nozione espressa per l’appunto dalla triade. In ragione di questo il neoplatonico invita alla purificazione (διακάθαρσις) e semplificazione (ἀνάπλωσις) del pensiero imbrigliato in termini e concetti ὡς ὄντα ἀσύμφυλον ἡμῖν, καὶ οὔτε τῷ ἐνεργεῖν οὔτε τῷ δύνασθαι οὔτε τῷ ὑπάρχειν ἐπιτελούμενον, ἀλλὰ τῷ ἑνὶ πρὸ τῶν τριῶν ἀπορρήτῳ τρόπῳ. 38 Cfr. supra, pp. 126-127 e 131. 39  Ibid., I, p. 121, 12.

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non riferibili ai Principi. Ancora, si apprende che i processi principiali avvengono in una condizione di inconoscibilità e indicibilità; di conseguenza, il silenzio rappresenta la modalità superiore e più appropriata di riferimento ai Principi. Concludiamo sottolineando che, sebbene nella teorizzazione del De primis principiis Damascio avanza numerose considerazioni critiche circa la possibilità di stabilire una dottrina della triade coerente ed effettivamente ammissibile, la scansione triadica di ὕπαρξις, δύναμις ed ἐνέργεια resta un fondamentale strumento di analisi e comprensione della verità ultima sull’Origine della totalità. Difatti la triade neoplatonica è utile a chiarire i rapporti di derivazione tra i Principi e a fare luce sul processo generativo del reale, senza che tuttavia essa sia in grado di dare conto definitivamente né dell’uno né dell’altro dei due processi. Infatti, nella dimensione originaria e insondabile dei Principi – come precisa Damascio – tutto si realizza in un modo che resta ineffabile.

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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO DI SIMPLICIO

Il nome di Simplicio, insieme con quello degli altri commentatori neoplatonici di Aristotele, come ha sottolineato Alessandro Linguiti in un suo studio 1, è stato a lungo ignorato, dal momento che gli studiosi avevano preferito concentrare la loro attenzione più sulle opere originali che sui lavori dei commentatori. Alla fine degli anni ’90, si assiste invece ad un cambiamento, e cioè al risveglio di un interesse per la lettura dei commenti neoplatonici che vengono considerati vere e proprie opere filosofiche, dotate di una loro coerenza interna e di un loro spessore scientifico. In particolare, fioriscono studi non soltanto sulla biografia di Simplicio 2 ma anche sugli aspetti dottrinali della sua opera, i quali certamente sono il frutto degli incontri del pensatore con i maggiori esponenti delle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria. Come afferma Ilsetraut Hadot 3 , possediamo di Simplicio i commenti al Manuale di Epitteto, al De caelo, alle Categorie e alla Fisica di Aristotele e il Commento al «De anima» 4, tramandato 1 Cfr. A. Linguiti, Studi recenti sulla vita e le opere di Simplicio, in «Studi classici e orientali», 38 (1989), pp. 331-346. 2  Cfr. I. Hadot, La vie et l’ouvre de Simplicius d’après des sources grecques et arabes. Introduction biographique, in Simplicius. Sa vie, son œuvre, sa survie. Actes du colloque international (Paris, 28 septembre - Ier octobre 1985), éd. par I. Hadot, Berlin - New York 1987 (Peripatoi, 15), pp. 5-39. 3 Cfr. ibid., pp. 5ss. 4  La sua autenticità venne messa in dubbio nel xvii secolo da Francesco Piccolomini che attribuiva la paternità del Commento al «De anima» a Prisciano. Cfr. Franciscus Piccolominei Senensis, Commentarii in libros Aristotelis De coelo, ortu et interitu; adiuncta lucidissima expositione, in tres libros eiusdem La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127955 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 141-152     © 

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CLAUDIA LO CASTO

sotto il nome di Simplicio, sul quale però sono ancora accese le discussioni circa la sua paternità. In questo contributo si tenterà di ricostruire il significato e la funzione della triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio e di mostrare come le nozioni di δύναμις e di ἐνέργεια all’interno della triade assumano un significato completamente differente da quello aristotelico. Per comprendere il significato che i  singoli termini della triade rivestono nel pensiero di Simplicio, saranno presi in esame alcuni passi del Commento alla «Fisica» e altri del Commento al «De anima» di Aristotele, nei quali la loro occorrenza risulta particolarmente rilevante sul piano ermeneutico. La triade costituita da οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια (sostanza/ essenza – potenza – atto/attività) sembra attraversare tutta la tradizione neoplatonica pagana, soprattutto con la funzione di descrivere il modo in cui gli ambiti del reale siano strutturati e gerarchicamente ordinati dal punto di vista metafisico e ontologico. Nell’utilizzo della triade, Simplicio sembra innanzitutto seguire Proclo  e, in particolare, quanto affermato nella proposizione 169 degli Elementi di Teologia, dove il filosofo neoplatonico de anima, nunc recens in lucem prodeunt, Moguntiae 1608, p. 1001ss. Su questo tema si veda lo studio di Henry Blumenthal, il quale pur non entrando nel merito della questione della paternità dell’opera, ne analizza la struttura, l’influenza aristotelica e in particolare le caratteristiche comuni a tutti gli esegeti neoplatonici; cfr. H. J. Blumenthal, Simplicius (?) on the first book of  Aristotle’s De anima, in Simplicius. Sa vie cit., pp. 91-112. In favore della paternità di Simplicio, cfr. I. Hadot, Le  problème du néoplatonisme Alexandrin, Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978 (Collection des études augustiniennes. Antiquité, 76); Soul and the Structure of Being in late Neoplatonism: Syrianus, Proclus and Simplicius. Papers and discussions of a Colloquium held at Liverpool (15-18 April 1982), ed. by H. J. Blumenthal - A. C. Lloyd, Liverpool 1982, pp. 46-70. Carlos Steel ritiene invece che l’opera possa non appartenere a  Simplicio, dal momento che sembrano esserci delle divergenze di stile, di metodo e di contenuto tra questo commento e gli altri commenti aristotelici appartenenti a  Simplicio  e, invece, delle somiglianze del Commento al «De anima» con la Metaphrasis di Prisciano. Cfr. F. Bossier C.  G. Steel, Priscianus Lydus en de «In de Anima» van Pseudo Simplicius, in «Tijdschrift voor Filosofie», 34 (1972), pp. 761-822 e C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006). Non intendo discutere in questa sede il problema della paternità del Commento al «De anima», in quanto non ritengo possa in alcun modo influenzare la mia ricostruzione della triade in oggetto nel pensiero di Simplicio.

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LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NEL PENSIERO DI SIMPLICIO

rivela come nella dimensione intelligibile sostanza, potenza e atto coincidano 5. Come si cercherà di mostrare, la perfetta identità della triade sostanza, atto e potenza è un concetto già espresso da Plotino, che la riferisce alla seconda ipostasi, il Νοῦς. L’identità di sostanza, potenza e atto si basa sul presupposto che, nella dimensione intelligibile, pensante (νοῦς), pensato (νοητόν) e intellezione (νοήσις) si identificano; Proclo afferma infatti: Ogni intelletto possiede nell’eternità essenza, potenza e atto. Infatti, se pensa se stesso e  l’intelletto e  l’intelligibile sono identici, anche l’intellezione è identica all’intelletto e all’intellegibile. Infatti, poiché l’intellezione è  intermedia tra il pensante e il pensato, essendo quelli identici, sarà certo a sua volta identica a entrambi. Ma appare evidente che l’essenza dell’intelletto sia eterna: infatti essa è  tutta quanta insieme simultaneamente. E l’intellezione allo stesso modo, se è vero che è identica all’essenza: in effetti, se l’intelletto è immobile, non potrebbe essere misurato dal tempo, né in base all’essere né in base all’atto. Ma essendo questi allo stesso modo, anche la potenza è eterna 6.

Proclo assume una prospettiva sostanzialmente simile a  quella plotiniana, affermando che nell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica sussiste una sostanziale identità, fondata a  sua volta sull’identità tra pensante e  pensato. Inoltre, come già sottolineato da Plotino, poiché l’ambito dell’intelligibile non è soggetto alla dimensione della temporalità, bensì all’eternità, devono necessariamente esserci un’assoluta simultaneità e  uniformità all’interno di esso e la conseguente assenza di qualsiasi forma di divisione e di successione 7. Il primo passo in cui non soltanto si ritrova la presenza della triade, ma nel quale Simplicio sembra

5  Per un maggiore approfondimento sulla presenza della triade in Proclo, si veda il contributo di M. Abbate contenuto in questo volume. 6  Proclus, Elementatio, prop. 169, p.  146, 24-30: πᾶς νοῦς ἐν αἰῶνι τήν τε οὐσίαν ἔχει καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν. εἰ γὰρ ἑαυτὸν νοεῖ καὶ ταὐτὸν νοῦς καὶ νοητόν, καὶ ἡ νόησις τῷ νῷ ταὐτὸν καὶ τῷ νοητῷ· μέση γὰρ οὖσα τοῦ τε νοοῦντος καὶ τοῦ νοουμένου, τῶν αὐτῶν ἐκείνων ὄντων, ἔσται δήπου καὶ ἡ νόησις ἡ αὐτὴ πρὸς ἄμφω. ἀλλὰ μὴν ὅτι ἡ οὐσία τοῦ νοῦ αἰώνιος, ‹δῆλον›· ὅλη γὰρ ἅμα ἐστί. καὶ ἡ νόησις ὡσαύτως, εἴπερ τῇ οὐσίᾳ ταὐτόν· εἰ γὰρ ἀκίνητος ὁ νοῦς, οὐκ ἂν ὑπὸ χρόνου μετροῖτο οὔτε κατὰ τὸ εἶναι οὔτε κατὰ τὴν ἐνέργειαν. τούτων δὲ ὡσαύτως ἐχόντων, καὶ ἡ δύναμις αἰώνιος. 7 Cfr. Plotinus, Enneades, III 7 [45], 3, 15-23.

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riprendere il contenuto della proposizione 169 di Proclo, è tratto dal Commento alla «Fisica» di Aristotele, dove si afferma: Dal momento che entrambi hanno riferito di questo essere unico, Platone nel Parmenide, lodando la sua superiorità, e Aristotele nella Metafisica, sostenendo che esso esiste e  gridando che ‘molte teste non sono buone’, egli avendo proclamato anche prima di lui l’unificazione, e avendo bene osservato ciò, cioè che l’intelletto e  l’intelligibile e  la sostanza e  la potenza e l’attività sono la stessa cosa 8.

Simplicio, menzionando prima Platone e poi Aristotele, afferma la superiorità ontologica della dimensione intelligibile e ne definisce il carattere essenziale e costitutivo, ossia l’unificazione, sottolineando come la molteplicità nella sua separatezza non possa dirsi ‘buona’ in alcun modo, mentre la molteplicità che si trova perfettamente unificata al suo interno è divina, poiché appartiene all’essere intelligibile. Simplicio fa la stessa operazione di Proclo, ossia sembra identificare nell’ambito dell’intelligibile l’οὐσία, dunque il νοῦς, con il νοητόν, il pensato, l’oggetto del νοῦς che, a sua volta, coincide con il νοῦς stesso, e l’ἐνέργεια con l’attività del νοῦς, l’intellezione, attraverso la quale l’intelletto pensa sé stesso, e infine la δύναμις dell’intelletto con la sua propria νοήσις. Il commentatore sembra riprendere, anche se in modo più contratto, quanto affermato da Proclo e soprattutto il concetto per cui nell’ambito dell’intelligibile fra i tre termini della struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sussiste una sostanziale identità, fondata sul principio dell’identità originaria di pensante e pensato. L’identità di sostanza, potenza e atto, come affermato da Proclo nella proposizione 169 degli Elementi di Teologia, e  lasciato, invece, intendere da Simplicio, è  motivata dal fatto che in tale ambito ontologico c’è assenza della dimensione temporale, dal momento che l’intelligibile è  caratterizzato dall’eternità. 8  Simplicius, In Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. H. Diels, Berlin 1882 (CAG, 9), p. 148, 17-23: ἐπεὶ καὶ ὁ Πλάτων τὸ ἓν ὂν τοῦτο παραδέδωκεν ἐν τῷ Παρμενίδῃ τὴν ὑπεροχὴν αὐτοῦ ἀνυμνῶν καὶ Ἀριστοτέλης ἐν τῇ Μετὰ τὰ φυσικὰ ἓν αὐτὸ εἶναι διατεινόμενος καὶ ἀναβοῶν ‘οὐκ ἀγαθὸν πολυκοιρανίη’ πρότερον αὐτοῦ καὶ οὗτος τὴν ἕνωσιν ἀνυμνήσας καὶ ὅτι ταὐτὸν ἐκεῖ νοῦς καὶ νοητὸν καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καλῶς θεασάμενος.

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Q uest’ultima implica, infatti, la simultaneità della molteplicità degli intelligibili all’interno dell’Intelletto e quindi la loro identità; pertanto nel Νοῦς non può esserci una effettiva distinzione fra οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια. La  sostanza dell’Intelletto coincide con la sua potenza più propria, ossia con l’attività dell’intellezione. Non accade lo stesso, invece, nell’ambito delle realtà naturali, le quali sono soggette al  movimento e  dunque alla dimensione temporale. In  un passo successivo del Commento alla «Fisica» di Aristotele, Simplicio ricorre nuovamente alla triade, ma questa volta in riferimento al fuoco 9, affermando: Infatti il fuoco ha una natura tale da possedere in sé stesso il principio e la causa del movimento verso l’alto, ed è così per natura e  da esso, per natura, si muove verso l’alto, e  non si può dire che l’innalzarsi verso l’alto abbia una natura, né che questo sia una natura; e neppure infatti una sostanza, ma piuttosto una potenza e  un’attività che appartengono al  fuoco, secondo la descrizione della sua stessa natura essa è detta in questo modo secondo natura 10.

In queste linee Simplicio prende in esame il fuoco, mostrando come anche nelle realtà naturali, le quali dipendono da quella intelligibile, sia presente la triade, anche se in modo differente e  soprattutto non sotto forma di identità. In  particolare, viene 9 Q uesto passo del Commento alla «Fisica» di Simplicio sembra riprendere Plotinus, Enneades, V [7] 4, 2, 30-33, dove Plotino fa riferimento al fuoco per chiarire la teoria della doppia attività, affermando che c’è una attività che è propria della realtà stessa e che coincide con la sua essenza e un’altra, invece, che scaturisce dalla realtà, ma si dirige verso l’esterno. Nel caso del fuoco, sottolinea Plotino, c’è un calore che ne costituisce l’essere e un altro che proviene da questo ma che finisce poi per distinguersi da esso, ossia dalla sua fonte. Cfr. anche Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 12-17: ἔστι τοίνυν ἐν ἑκάστῃ φύσει τὸ μὲν οὐσία, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια· καὶ γὰρ τοῦ πυρὸς ἄλλη μὲν ἡ οὐσία, καθ’ ἣν τῷ πυρὶ τὸ εἶναι πυρὶ πρόσεστιν, ἄλλη δὲ ἡ δύναμις, ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια·καὶ γὰρ τὰ μὲν ξηραίνει, τὰ δὲ θερμαίνει, τὰ δὲ ἄλλως πως μεταβάλλει, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως. 10  Simplicius, In  Aristotelis physicorum libros commentaria, ed. Diels cit., p.  271, 3-8: γὰρ τὸ πῦρ φύσιν ἔχει ἐν ἑαυτῷ ἀρχὴν ἔχον καὶ αἰτίαν τῆς ἐπὶ τὸ ἄνω κινήσεως, κατὰ φύσιν δέ ἐστι καὶ φύσει τῷ πυρὶ ἡ ἄνω φορά. καὶ οὐκέτι φύσιν ἔχει τὸ φέρεσθαι ἄνω οὐδὲ ἔστι τοῦ ο φύσις· οὐδὲ γὰρ οὐσία, ἀλλὰ δύναμις καὶ ἐνέργεια κατὰ τὸν τῆς φύσεως λόγον ὑπάρχουσα τῷ πυρὶ καὶοὕτως λεγομέ η κατὰ φύσιν. καὶ φύσει δὲ τὸ αὐτὸ λέγεται. διὰ γὰρ τὴν ἑαυτοῦ φύσιν καὶ τὸ πεφυκέναι οὕτως ἔχει τὴν τοιαύτην δύναμιν καὶ ἐνέργειαν.

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presa in esame l’attività propria del fuoco, ossia quel movimento verso l’alto, che non è  definibile né come φύσις, né come οὐσία, bensì nei termini di δύναμις e di ἐνέργεια, nel senso di una potenza e di un’attività che appartengono intrinsecamente al fuoco. In tal modo sembra evidente che in una realtà naturale, come quella del fuoco, i tre termini della triade sono presenti separatamente, nella misura in cui il fuoco può essere sostanza, in quanto fuoco; tuttavia, in riferimento alla sua peculiare attività, ossia al  movimento che si sprigiona verso l’alto, esso non può essere definito nei termini di sostanza, bensì come potenza e  attività. È inoltre interessante da osservare come Simplicio in riferimento al movimento del fuoco non sembri distinguere in alcun modo il concetto di δύναμις da quello di ἐνέργεια, bensì identificarli. L’identità della potenza con l’attività, come si cercherà di mostrare, comparirà anche nel Commento al «De anima» di Simplicio, dove il concetto di δύναμις è inteso in un’accezione differente da quella aristotelica, e cioè nel senso di facoltà o di potere, che corrispondono all’attività dell’anima. Come ha sottolineato Blumenthal, Simplicio, diversamente da Aristotele, non fornisce una definizione di δύναμις, bensì tende ad assimilare il concetto di potenza ad un altro che gli è simile, ma non necessariamente congruente 11. In questo caso, il concetto di potenza assume il significato di quello di attività; questo modo di procedere sembra richiamare ancora una volta Plotino e in particolare la sua definizione del Principio, l’Uno. Plotino afferma, infatti, che l’Uno è δύναμις τῶν πάντων 12, potenza di generare e  di produrre tutte le cose, facendo riferimento alla sua capacità attiva di produrre ogni essere. In un altro passo del Commento alla «Fisica», Simplicio, analizzando il corpo vivente, mette invece in relazione il concetto di δύναμις con quello di οὐσία, affermando: [Ma se secondo Aristotele], la potenza di ogni corpo finito risulta a  sua volta finita, è  quindi necessario che la potenza 11 Cfr. H. J. Blumenthal, Dunamis in ‘Simplicius’, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 149-172], p. 159. 12  Plotinus, Enneades, III 8 [30], 10, 1-2.

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motrice, vale a dire quella che fa sussistere la sostanza, come possiede il movimento eterno a partire dalla causa immobile, allo stesso modo riceva la sostanza eterna corporea da quella incorporea 13.

In queste linee, il commentatore mette a confronto la δύναμις di un corpo finito con la sua sostanza: se la potenza che ogni corpo possiede è delimitata, anche la sua esistenza sarà delimitata; invece, per quanto concerne la potenza motrice, ossia quella che è causa dell’esistenza della sostanza, essa possiede il movimento eterno che riceve dal motore immobile, principio eterno e  incorporeo, e da quest’ultimo riceve anche la sostanza eterna corporea. Simplicio sembra, quindi, distinguere la sostanza e la potenza finita del corpo sensibile da quelle infinite del motore immobile aristotelico, sottolineando che il corpo ha una sostanza finita, poiché la sua potenza è delimitata; mentre, poiché la causa immobile è  una sostanza eterna e  il suo movimento è, infatti, anche esso eterno, la potenza motrice che genere la sostanza dovrà anch’essa essere infinita e  eterna. Anche in questo passo, il concetto di potenza riveste un significato differente da quello aristotelico, poiché esso sembra assumere un ruolo determinante nel processo di costituzione dell’essenza di un ente. La δύναμις è ciò che, innescando il movimento, genera la sostanza corporea. Il concetto di δύναμις anche in Simplicio, come già in Plotino, andrebbe quindi inteso nel senso di una potenzialità attiva capace di produrre e determinare gli enti. Il Primo Principio in Plotino è infatti la potenza di generare e di produrre ogni ente, che, altrimenti, non esisterebbe. La  potenza dell’Uno è  la sua attività: δύναμις è utilizzato come sinonimo di ἐνέργεια 14. L’Uno è δύναμις, intesa non nel suo significato di potenza passiva, che si attribuisce 13  Simplicius, In  Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. H.  Diels, Berlin 1895 (CAG, 10), p. 1363, 4-8: εἰ δὲ καὶ παντὸς σώματος πεπερασμένου κατ’ αὐτὸν πεπερασμένη ἡ δύναμις, ἡ κινητικὴ δηλονότι καὶ ἡ τῆς οὐσίας ὑποστατική, ἀνάγκη ἄρα ὥσπερ τὴν ἀίδιον κίνησιν ἀπὸ τῆς ἀκινήτου αἰτίας ἔχει, οὕτω καὶ τὴν ἀίδιον σωματικὴν οὐσίαν ἀπὸ τῆς ἀσωμάτου παραδέχεσθαι. 14  Aristotele concepisce Dio come atto puro, privo di potenza, che realizza la sua vita nel pensiero di sé stesso; cfr. Aristoteles, Metaphysica, XII 7, 1072 b 27ss. Il Principio di Plotino è invece definito come δύναμις attiva che non ha bisogno di pensare sé stesso, ossia di autodeterminarsi. Per l’approfondimento della questione cfr.  W.  Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt

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alla materia, ossia come capacità di ricevere una forma, diventando qualcosa nel pervenire all’atto alla fine di un processo, bensì, come potenza attiva, come forza produttiva di tutto l’essere. In un altro passo del Commento alla «Fisica», Simplicio si serve della triade in oggetto, questa volta però in riferimento alla sensazione, affermando: Le sensazioni mutano, [Aristotele] afferma di aver dimostrato come le sensazioni diventino tali in base all’attività. Triplice è infatti la sensazione, l’una sostanziale, l’altra è potenza della stessa sostanza, e la terza è attività della sostanza in relazione alla potenza. Q uesta dunque è  la sensazione, egli afferma, rispetto all’attività, come il vedere e il sentire, è movimento attraverso una parte del corpo del sensibile che si è aggregato o disgiunto 15.

In questo passo Simplicio analizza la sensazione, affermando in primo luogo che essa muta, e  che è  tale, ossia una determinata sensazione, in base alla sua attività (ἐνέργεια). Inoltre, essa è triplice, proprio sulla base della triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια. Si distinguono, infatti, una sensazione ‘sostanziale’, che è propria della sostanza, un’altra che è definita invece «potenza della stessa sostanza» e un’altra ancora che, invece, rappresenta la sensazione in atto, ossia l’ἐνέργεια. Anche in questo caso, facendo riferimento all’ambito del sensibile, a ciò che sempre muta, la triade non può trovarsi simultaneamente, bensì separatamente, in quanto viene utilizzata per distinguere le tre tipologie di sensazione. La  sensazione viene definita da Simplicio un movimento (κίνησις) di aggregazione o  di disgregazione di una parte del sensibile. Simplicio distingue quindi il movimento dall’attività (ἐνέργεια), dal momento che quest’ultima ha la funzione di specificare il movi-

a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995, p. 135); J. M. Rist, Plotinus, the Road to Reality, Cambridge 1967 (tr. it., Genova 1995), pp. 236-237. 15  Simplicius, In  Aristotelis Physicorum libros commentaria, ed. Diels cit., pp.  1058,  30  -  1059,  4: ὅτι δὲ ἀλλοιοῦνται καὶ αἱ αἰσθήσεις, ἔδειξεν εἰπών, πῶς γίνονται αἱ αἰσθήσεις αἱ κατ’ ἐνέργειαν. τριττὴ γὰρ ἡ αἴσθησις, ἡ μὲν οὐσιώδης, ἡ δὲ δύναμις τῆς τοιαύτης οὐσίας, ἡ δὲ ἐνέργεια τῆς οὐσίας κατὰ τὴν δύναμιν. αὕτη οὖν ἡ κατ’ ἐνέργειαν, φησίν, αἴσθησις, οἷον τὸ ὁρᾶν καὶ ἀκούειν, κίνησίς ἐστι διὰ τοῦ σώματος τοῦ αἰσθητικοῦ μορίου συγκρινομένου ἢ διακρινομένου. Si tratta del Commento al libro VII della Fisica.

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mento e quindi di determinare la sensazione, guidandola verso la realizzazione di sé. Anche nel Commento al «De anima» è possibile trovare diverse occorrenze nelle quali il termine δύναμις è  utilizzato da Simplicio in un senso più attivo, come in Plotino, riferendosi all’anima come potenza attiva capace di dare vita ad una serie di atti tra i quali quello della percezione sensibile. Infatti, se Plotino definisce l’anima «potenza infinita (δύναμις ἄπειρος)», forza creativa che non conosce limiti, in quanto si estende dovunque fra i  corpi 16, Simplicio riprendendo la concezione neoplatonica dell’anima la definisce una natura intelligibile che, come dispiegamento di una realtà superiore, si estende dall’alto verso il basso fino ad essere presente nel mondo sensibile. Nel Commento al «De anima» compare la triade in oggetto; in questo passo Simplicio afferma che Aristotele distingue nell’anima due generi di potenze intellettuali: una pratica, la quale si serve dell’immaginazione e l’altra teoretica che, invece, è doppia: [Aristotele] distingue sufficientemente anche la potenza intellettuale delle anime, vedendone una pratica e  una che invece si serve dell’immaginazione, una forma di vita corporea in accordo con la premessa particolare. L’altra è teoretica, e questa è doppia: una, attraverso l’attività che procede dall’essere, è incompleta o viene resa completa. Cade via nella prima potenzialità attraverso il suo essere incompleta, o  si mantiene salda come potenzialità più completa, o anche come attività. Q uesta non fa alcun uso dell’immaginazione, ma le va dietro, come se fosse mossa da un procedere contemplativo attivo e da un ritirarsi dall’essere. L’altra consiste in quell’attività che è a riposo e che concentra la sua attività in una sola come identica all’essere. In questo imita anche l’intelligenza trascendente, ed è attività nella sua essenza. In questo stato di riposo è immortale, poiché è così in contatto con l’eterno ed è eternamente a riposo, pura nella sua vita separata; si muove in un certo senso da sé stessa nella sua inclinazione al modo di vita secondario, ma non per non essere mai a riposo. Q uindi è  anche immutabile in un secondario modo; ma ciò che si inclina all’esterno non è immortale, poiché è variabile e non presente nella vita separata. Ha anche distinto i poteri deside-

 Cfr. Plotinus, Enneades, IV 3, 9, 36-43.

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rativi dell’anima da quelli cognitivi, e indagato la natura dei poteri che gli esseri viventi hanno rispetto al movimento che gli fa cambiare di posto 17.

In queste linee Simplicio, distinguendo l’anima dalle sue potenzialità, sembra richiamare la teoria plotiniana della doppia attività. Il commentatore afferma infatti che all’interno della δύναμις teoretica è possibile distinguere un’attività dell’anima intellettuale in sé che corrisponde al suo atto interno e un’altra che si muove verso l’esterno. La prima attività si identifica quindi con l’essere e imita l’intelligenza trascendente; essa infatti, essendo in contatto con l’eterno, si trova in uno stato di riposo. Al contrario, l’attività che si rivolge verso l’esterno è soggetta al mutamento, quindi è variabile  e, per questo, non è  immortale. In  questo passo Simplicio, ancora una volta, quando fa riferimento all’attività interna all’essere, assimila il concetto di ἐνέργεια a quello di οὐσία, dal momento che nell’ambito dell’intelligibile la sostanza si identifica con il suo atto e  quindi anche con la sua δύναμις. Invece, per quanto concerne l’attività che si rivolge verso l’esterno, essa è definita ‘attività incompleta’, poiché corrisponde ad un ritrarsi dall’essere per dirigersi verso altro da sé. Nell’ultimo passo che mi sembra valga la pena prendere in considerazione, Simplicio commenta De anima 403a 27, e afferma le ragioni per le quali lo scienziato naturale decide di studiare l’anima: Come ‘tale’ egli intende non solo ciò che informa l’organo ma anche ciò che lo attiva e lo usa come organo, grazie al quale si 17  Pseudo-Simplicius, In Aristotelis libros «De anima» commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1882 (CAG, 11), p. 5, 6-23: διακρίνει δὲ ἱκανῶς καὶ τὰ περὶ τῆς νοερᾶς τῶν ψυχῶν δυνάμεως, ἑτέραν μὲν ὁρῶν τὴν πρακτικὴν ταύτην καὶ φαντασίᾳ χρωμένην, σωματοειδεῖ οὔσῃ ζωῇ, κατὰ τὴν μερικὴν πρότασιν· ἑτέραν δὲ τὴν θεωρητικήν, καὶ ταύτην διττήν, τὴν μὲν κατὰ τὴν ἀπὸ τῆς οὐσίας προϊοῦσαν ἐνέργειαν ἢ ἀτελῶς ἔχουσαν ἢ τελειωθεῖσαν, καὶ ἢ εἰς τὸ πρότερον δυνάμει διὰ τὸ ἀτελὲς ἐκπίπτουσαν ἢ κατὰ τὸ τελειότερον ἱσταμένην δυνάμει ἢ καὶ κατὰ τὸ ἐνεργείᾳ· ἥτις οὐ χρῆται μὲν τῇ φαντασίᾳ, ἑπομένην δὲ αὐτὴν ἔχει ὡς τῇ προϊούσῃ καὶ ἐξισταμένῃ τῆς οὐσίας ἐνεργητικῇ θεωρίᾳ συγκινουμένην· τὴν δὲ κατὰ τὴν μόνιμον καὶ εἰς ἓν καὶ ταὐτὸν τῇ οὐσίᾳ τὴν ἐνέργειαν συνάγουσαν· καθ’ ἣν καὶ τὸν ἐξῃρημένον μιμεῖται νοῦν, καὶ ἔστι τῇ οὐσίᾳ ἐνέργεια. καθ’ ἣν μόνην ἐστὶν ἀθάνατος, ὡς δι’ αὐτῆς τοῖς αἰωνίοις συναπτομένη καὶ ὡς ἀεὶ μὲν τὸ μόνιμον ἔχουσα, ἀκραιφνὲς μὲν ἐν τῇ χωριστῇ ζωῇ, ἀφιστάμενον δέ πως ἑαυτοῦ ἐν τῇ εἰς τὰ δεύτερα ῥοπῇ, ἀλλ’ οὐχ οὕτως ὡς μηδαμῶς μένον. ἔστι μὲν οὖν καὶ τότε μόνιμον δευτέρως· τὸ δὲ ἔξω ῥέπον οὐκ ἀθάνατον, ὡς μεταβαλλόμενον καὶ ὡς ἐν τῇ χωριστῇ ζωῇ οὐ παρόν. διελὼν δὲ καὶ τὰς ὀρεκτικὰς δυνάμεις ἀπὸ τῶν γνωστικῶν, τίνες αἱ κατὰ τόπον τῶν ζῴων κινητικαὶ δυνάμεις ἐπεξεργάζεται.

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muove e di cui si serve, e ciò che è generalmente incline verso il corpo, verso il quale si inclina. Ma come ‘tutta’ intende, oltre a questi aspetti, ciò che studia la verità sulle cose attraverso la proiezione e integrando la sua attività nella sua essenza. Poiché, infatti, l’essenza dell’anima è  una e  molteplice – nella misura in cui la stessa risiede nel substrato, in maniera durevole, e di volta in volta contemplando grazie alla proiezione e inclinandosi verso il corpo e usando il corpo e muovendolo – lo scienziato naturale sembra discutere di tutta l’anima. Chi studia questa in relazione all’aspetto, entra in contatto con essa nella sua interezza 18.

In queste linee Simplicio distingue l’anima come ‘tale’, ossia nella sua funzione di dare forma all’organo, il corpo, conferendogli la vita e il movimento, e l’anima come ‘tutta’, ossia l’anima nella sua parte più autentica, quella intelligibile. Simplicio afferma infatti che in riferimento a quest’ultimo senso, l’anima è ciò che studia la verità degli enti (τὴν θεωρητικὴν τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας), e questa attività finisce per identificarsi con la sua essenza. Pertanto, nell’anima ‘tutta’ l’ἐνέργεια e l’οὐσία sono caratterizzate da una intrinseca identità, dal momento che la ricerca della verità dell’essere rappresenta per l’anima la sua attività più alta, quella che ne definisce la sua natura intelligibile. Come è  emerso dai passi esaminati, Simplicio nell’utilizzo della struttura triadica essenza – potenza – attività, sembra inserirsi perfettamente all’interno della tradizione neoplatonica, poiché dimostra come essa prenda forma compiuta all’interno della realtà intelligibile perfettamente dispiegata. Soltanto all’interno dell’Intelletto, infatti, non può essere presente né distinzione né differenziazione, piuttosto una dimensione originariamente unitaria che include in sé la molteplicità, che soltanto successivamente potrà dispiegarsi. Ecco perché i tre

18  Ibid., pp.  20-21, 39-45: τοιαύτην μὲν λέγει οὐ μόνον τὴν τὸ ὄργανον εἰδοποιοῦσαν, ἀλλὰ τὴν ὡς κινητικὴν αὐτοῦ καὶ ὡς ὀργάνῳ χρωμένην, ᾗ κινεῖ καὶ ᾗ χρῆται, καὶ τὴν ὅλως πρὸς σῶμα ῥέπουσαν, ᾗ ῥέπει· πᾶσαν δὲ πρὸς ταύταις καὶ τὴν θεωρητικὴν τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας κατά τε προβολὴν καὶ κατὰ τὴν εἰς τὴν οὐσίαν τὴν ἐνέργειαν συναιροῦσαν. ἐπεὶ γὰρ μία καὶ πολλὴ ἡ τῆς ψυχῆς οὐσία, καθὸ μὲν μία καὶ ἡ αὐτὴ τῷ ὑποκειμένῳ ἥ τε μονίμως καὶ ποτὲ κατὰ προβολὴν θεωροῦσα καὶ πρὸς σῶμα ἀπονεύουσα καὶ χρωμένη τῷ σώματι καὶ κινοῦσα αὐτό, περὶ πάσης ἂν δόξειεν ὁ φυσικὸς ποιεῖσθαι λόγον· τῆς γὰρ ὅλης ἐφάπτεται ὁ καθ’ ὁτιοῦν αὐτὴν θεωρῶν.

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termini della triade risultano a loro volta unificati all’interno della dimensione intelligibile. Inoltre, si è potuto osservare come, molto spesso, anche quando Simplicio prende in esame le realtà naturali o  il corpo vivente, le nozioni di δύναμις e  ἐνέργεια assumono una valenza profondamente diversa rispetto a  quella originariamente aristotelica. In  primo luogo, esse vengono utilizzate quasi in modo interscambiabile, dal momento che la nozione di potenza assume una valenza attiva e  causale fino a  identificarsi con l’attività vera e propria.

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ILARIA RAMELLI

LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ IN GREGORIO DI NISSA E NEI CAPPADOCI PARALLELI FILOSOFICI E ASCENDENZE ORIGENIANE

La triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια fu sistematizzata da Giamblico per primo, così come l’esegesi neoplatonica. Plotino, come Porfirio, era ben noto a  Gregorio di Nissa, ma sembra che anche Giamblico abbia esercitato qualche influenza sul Nisseno, almeno dal punto di vista esegetico, riguardo all’unicità dello σκοπός di un testo letterario. Anche Ronald Heine sostenne questa ipotesi nella sua introduzione alla traduzione del trattato In Inscriptiones Psalmorum di Gregorio 1, che interpreta il Salterio come unificato dallo σκοπός di condurre il lettore alla beatitudine. Gregorio aveva ben presente anche Origene sullo σκοπός dei libri scritturistici, ma Giamblico sembra pure averne influenzato l’esegesi, lo sviluppo delle facoltà dell’anima, ed anche la teorizzazione della triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια. Lo  sviluppo progressivo delle facoltà dell’anima in ogni bambino, sostenuto da Gregorio 2, coincide con la dottrina propugnata da Giamblico agli inizi del secolo iv, una teoria che Giamblico affermava non essere ancora stata sostenuta: di lì a poco sarebbe stata sostenuta dal Nisseno. Giamblico, dopo aver riportato l’opinione di Porfirio che un bambino riceva l’anima appena nato, spiega la propria posizione: Potrebbe sorgere qualche altra opinione, non ancora espressa, che ci siano molte potenze e proprietà essenziali nell’anima (τὰς δυνάμεις καὶ τὰς οὐσίας τῆς ψυχῆς), e in certi momenti critici, in modi e  tempi diversi, quando il corpo che viene svi1  Cfr. R. Heine, Introduction, in Gregory of  Nyssa, Treatise on the Inscription of  the Psalms, tr. ingl. di R. Heine, Oxford 1995 (OECS), pp. i-xii. 2  Cfr. I. Ramelli, Gregory of  Nyssa, in A History of  Mind and Body in Late Antiquity, ed. by S. Cartwright - A. Marmodoro, Cambridge 2018, pp. 283-305. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127956 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 153-179     © 

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luppandosi è adatto, prenda parte dapprima alla vita vegetale, poi della sensazione, poi alla vita appetitiva, quindi all’anima razionale (τῆς λογικῆς ψυχῆς), e finalmente dell’anima intellettuale (τῆς νοερᾶς) 3.

In effetti, lo sviluppo graduale delle facoltà dell’anima era stato sostenuto dagli Stoici 4, ma all’interno di una visione immanentistica. Gregorio, piuttosto, svilupperà la teoria di Giamblico, ed anche la sua teorizzazione della triade neoplatonica. Ulteriori paralleli con Giamblico potrebbero darsi nell’idea della partecipazione alla ἐνέργεια di Dio come una modalità della conoscenza di Dio e  di se stessi, in sé ‘deificante’ (in quanto sia Giamblico sia Gregorio escludevano, come già Origene, che potesse darsi un’identificazione, da parte delle creature, con la οὐσία di Dio) 5. Anche Basilio e Gregorio di Nazianzo potrebbero essere venuti in contatto con le idee di Giamblico, ad esempio durante il loro soggiorno ateniese degli anni Cinquanta del secolo iv, sebbene non sembrino sussistere prove esplicite in questo senso. In Gregorio di Nissa l’applicazione più interessante della triade substantia  –  virtus  –  operatio sembra aversi in riferimento a Dio, quando Gregorio nel suo apofatismo, pur non estremo ma che giustamente è stato descritto come sistematico, sostiene che non possiamo dire nulla della natura di Dio (οὐσία), ma possiamo conoscere soltanto le sue operazioni (ἐνέργειαι), e ancora distingue tra le operazioni stesse e la potenza (δύναμις), che parimenti sembra rimanerci preclusa 6. Giustamente, infatti, Sarah Coakley 3  Iamblichus, De anima, 31, edd. J.  F. Finamore - J.  M. Dillon, Leiden Boston - Köln 2002 (Philosophia antiqua, 92), p. 58, 13-19 (traduzioni sempre mie, se non diversamente indicato). 4  Cfr. Chrysippus, Logica, I, 83, in Stoicorum veterum Fragmenta, ed. J. ab Arnim, 4 voll., Stuttgart 1903-1924, II, 1903, Chrysippi fragmenta logica et physica, p. 28, 11-30. 5  Q uesti ultimi paralleli sono stati osservati in D.  Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of  Christendom, Cambridge 2004, pp. 177-179. 6 Ari Ojell suggerisce che esistano quattro principî del ‘sistema apofatico’ di Gregorio, tra cui la distinzione creato-increato e  quella οὐσία-ἐνέργεια; cfr. A. Ojell, The constitutive Elements of  the apophatic System of  Gregory of  Nyssa, in «Studia Patristica», 41 (2006), pp.  397-402 (repr. in Id., One Word, one Body, one Voice. Studies in apophatic Theology and Christocentric Anthropology in Gregory of  Nyssa, Helsinki 2007); sull’apofatismo del Nisseno, cfr. I. Ramelli, Apofatismo cristiano e relativismo «pagano»: un confronto tra filosofi platonici, in

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ha sottolineato di recente l’importanza della connessione istituita per Dio da Gregorio tra natura (φύσις) inconoscibile, potenza (δύναμις) nascosta e intima, e attività (ἐνέργεια) esplicata negli atti e nelle opere di Dio 7. Tale apofatismo moderato del Nisseno si trova soprattutto nell’Ad Ablabium 8, ove la natura divina è detta ἀκατονόμαστόν τε καὶ ἄφραστον: «con i nomi non si designa la natura divina, bensì con quanto si afferma si indica qualcosa di ciò che la riguarda (τι τῶν περὶ αὐτήν)» 9, ma ciò «non indica affatto quello che la Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda Antichità, a cura di A. M. Mazzanti, Bologna 2009 (Filosofia. ESD, 34), pp.  101-169; concorda G.  Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Roma 2013 (Collana di teologia, 79), pp. 164 e 166. 7 Cfr. S. Coakley, Re-thinking Gregory of  Nyssa: Introduction-Gender, Trinitarian Analogies, and the Pedagogy of  the Song, in Re-thinking Gregory of  Nyssa, ed. S. Coakley, Malden - Oxford 2003, pp. 1-13 (= «Modern Theology» 18 [2002], pp. 431-443). La suddetta opposizione influì profondamente sull’interpretazione dell’analogia uomo-Trinità, soprattutto per tramite di Théodore de Regnon; cfr. Th. de Régnon, Études de théologie positive sur la sainte Trinité, 3 voll., Paris 1892, su cui cfr. A. de Halleux, Personnalisme ou essentialisme trinitaire chez les Pères Cappadociens, in Id., Patrologie et oecumenisme: recueil d’études, Leuven 1990 (Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovaniensium, 93), pp. 215-268; M. R. Barnes, De Régnon reconsidered, in «Augustinian Studies», 26 (1995), pp. 51-79; discussione anche in M. Ludlow, Gregory of  Nyssa ancient and (post-) modern, Oxford 2007, e nella mia recensione all’opera in «Review of  Biblical Literature», 2008/4 (online). Su δύναμις ed ἐνέργεια in Gregorio cfr. A. Torrance, Precedents for Palamas’ Essence-Energies Theology in the Cappadocian Fathers, in «Vigiliae Christianae» 63 (2009), pp. 47-70, in partic. pp. 64-65; sul primo concetto in Gregorio, cfr. M. R. Barnes, Δύναμις and the anti-monistic Ontology of  Nyssen’s «Contra Eunomium», in Arianism. Historical and theological Reassessments. Papers from the 9th International Conference on Patristic Studies (Oxford, Sept. 5-10 1983), ed. by R. C. Gregg, Cambridge (MA) - Philadelphia (PA) 1985 (Patristic Monograph Series, 11), pp. 327-334; J. C. M. van Winden, Notiz über Dynamis bei Gregor von Nyssa, in Hermeneumata. Festschrift für Hadwig Hörner zum sechzigsten Geburtstag, hrsg. von H.  Eisenberger, Heidelberg 1990 (Bibliothek der Klassischen Altertumswissenschaften. NF, 2. Reihe, 79), pp. 147150 [= Id., Arché. A Collection of  Patristic Studies, ed. by J. den Boeft - D. T. Runia, Leiden 1997 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 41)]. 8 Su quest’opera cfr. G. Maspero, La Trinità e l’uomo. L’«Ad Ablabium» di Gregorio di Nissa, Roma 2004 (Contributi di teologia, 42) (tr. ingl., Leiden 2007); e  Id., Trinidad, in Diccionario de san Gregorio de Nisa, ed. por G.  Maspero L.  F. Mateo-Seco, Burgos 2006, pp.  870-895; anche A.  Meredith, The Idea of  God in Gregory of  Nyssa, in Studien zu Gregor von Nyssa und der christlichen Spätantike, hrsg.  von H.  Drobner - C.  Klock, Leiden 1990 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 12), pp. 127-147. 9   Gregorius Nyssenus, Ad Ablabium. Q uod non sint tres dei, PG 45, [115135], 122B, ed. F. Müller, Leiden 1958 (Opera, 3.1), p. 43, 14-15.

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natura è  κατ᾽ οὐσίαν» 10, laddove οὐσία e  φύσις in senso ontologico – e  specialmente in ambito teologico, dove ricevono la caratterizzazione più importante, in particolare nella controversia eunomiana – nell’uso lessicale di Gregorio in genere si sovrappongono ampiamente 11. «Infatti, Colui che è  invisibile nella sua natura diviene visibile nelle sue opere, ed è  compreso per mezzo dell’intelletto in alcuni aspetti che la riguardano (τινα περὶ αὐτήν)» 12. Gregorio istituisce in effetti anche una connessione tra le attività divine e  i nomi divini, nel senso che dalle attività derivano i  nomi, quelli che Origene chiamava ἐπίνοιαι (che sono modi di concepire specialmente Cristo: Λόγος e Sapienza sono le sue due ἐπίνοιαι primarie, e hanno alle spalle un preciso retroterra filoniano; Giustizia è quella che segue Λόγος e Sapienza) 13. Dunque, ciò che per noi è conoscibile è l’ambito dell’estrinsecazione dell’attività divina, non la sua natura intrinseca; è ciò che ‘riguarda’ la natura (περί), non l’essenza stessa. Anche in questo caso, come spesso avviene in ogni campo, Gregorio si rifà a Origene 14, il quale pure 10  Ibid., 122C, p. 43, 20; cfr. L. F. Mateo-Seco, Nombres divinos, in Diccionario cit., pp. 659-670; G. C. Stead, Logic and the Application of  Names to God, in El «Contra Eunomium I» en la producción literaria de Gregorio de Nisa. VI Coloquio internacional sobre Gregorio de Nisa, ed. por L. F. Mateo-Seco - J. L. Bastero, Pamplona 1988 (Colleción teológica, 59), pp. 303-320. 11 Cfr.  Id., Ontology and Terminology in Gregory of  Nyssa, in Gregor von Nyssa und die Philosophie. Zweites Internationales Kolloquium über Gregor von Nyssa (Freckenhorst bei Münster, 18-23 September 1972), hrsg. von H. Dörrie M. Altenburger - U. Schramm, Leiden 1976, pp. 107-119; J. Zachhuber, Ousia (Esencia, Sustancia), in Diccionario cit., pp. 702-709. 12   Gregorius Nyssenus, De beatitudinibus, VI, PG 44, [1194-1303], 1269A ed. J. Callahan, Leiden - New York - Köln 1992 (Opera, 7.2), p. 141, 25-27. 13 Cfr.  Origenes, Contra Celsum, V,  39, PG 11, [641-1631], 1244AC, ed. M.  Borret, 5  voll., Paris 1967-1976 (SC 132-136-147-150-227), III, 1969, pp.  116,  1  -  120, 28; I.  Ramelli, Philosophical Allegoresis of  Scripture in Philo and its Legacy in Gregory of  Nyssa, in «Studia Philonica Annual», 20 (2008), pp. 55-99. Propone anche influssi gnostici Gaetano Lettieri, il quale nota come le ἐπίνοιαι Sophia-Unigenito e Logos-Primogenito corrispondano alle prime due tetradi valentiniane; cfr. G. Lettieri, Il nous mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel «Commento a Giovanni», in Il commento a Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti. Atti dell’VIII Convegno di studi del Gruppo italiano di ricerca su Origene e la tradizione alessandrina (Roma, 28-30 Settembre 2004), a cura di E. Prinzivalli, Verucchio - Rimini 2005 (Biblioteca di Adamantius, 3), pp. 177-277. Sono anche le potenze/ipostasi principali filoniane. 14 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 65, PG 11, 1397AC, ed. Borret cit., III, 1969, pp. 340, 1 - 342, 31.

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conosce l’espressione τὰ περί, già impiegata anche da Clemente Alessandrino in un passo precisamente concernente il processo di astrazione nella nostra conoscenza di Dio 15. Tale espressione e concezione fu usata anche da Plotino 16 seguito dai Neoplatonici ‘pagani’ 17, e dai Cappadoci 18 e sarà ripresa da un altro origeniano, lo pseudo-Dionigi 19. 15 Cfr.  Clemens Alexandrinus, Stromata, V,  11, 71, 3, PG 8-9, [6851384/40-602], 9, 108B, ed. O. Stählin, 2 voll., Leipzig 1906-1909, I, 1909, p. 374, 2. La forte e continua dipendenza di Gregorio cui intendo riferirmi è dal vero pensiero di Origene, in via di riscoperta (oltre a  lavori come quelli di Crouzel e  di Simonetti e  discepoli, nonché diversi della scrivente, ricordo M.  Edwards, Origen against Plato, Aldershot 2002; P. Tzamalikos, Origen: Cosmology and Ontology of  Time, Leiden 2006 (Supplement to «Vigiliae Christianae», 77); Id., Origen: Philosophy of  History and Eschatology, Leiden 2007 (Supplement to «Vigiliae Christianae», 85), per cui rimando alle mie recensioni in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 99 (2007), pp.  177-181; 100.2-3 (2008), pp.  453458; cfr.  anche C.  Markschies, Origenes und sein Erbe. Gesammelte Studien, Berlin 2007 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 160); G.  Lekkas, Liberté et progrès chez Origène, Turnhout 2002; C. Hengstermann, Origenes und der Ursprung der Freiheitsmetaphysik, Münster 2015 (Adamantiana, 8); P. Tzamalikos, Anaxagoras, Origen, and Neoplatonism: The Legacy of  Anaxagoras to Classical and Late Antiquity, 2 voll., Berlin 2016 (Arbeiten zur Kirchengeschichte, 128), con la mia recensione in «Gnomon» 92.2 (2020), pp. 109-113; A. Fürst, Origenes: Grieche und Christ in römischer Zeit, Stuttgart 2017 (Standorte in Antike und Christentum, 9). Riteniamo che un’indagine sistematica delle dipendenze del Nisseno da Origene sia ancora necessaria. 16 Cfr. Plotinus, Enneades, V 3, 14, 8. 17 In particolare da Giamblico, come mostro in questa sede; quindi Siriano, Proclo e Damascio. 18 In ambito cappadoce, dove pure forte fu l’influsso di Origene, è usata nel secondo libro del Contra Eunomium da Basilio, secondo il quale Dio non è conoscibile in sé, ma solo attraverso quanto ‘Gli è attorno’, ossia mediante ciò che Lo riguarda; questa concezione va di pari passo con altre che Basilio ha in comune con Gregorio Nisseno, come quella della inconoscibilità di Dio e della sua ineffabilità; per questi temi e i relativi riferimenti cfr. I. Ramelli, Philo as One of  the main Inspirers of  early Christian Hermeneutics and apophatic Theology, in «Adamantius», 24 (2018), pp. 276-292. Per il rapporto tra Origene e lo pseudo-Dionigi cfr. Ead., The Christian Doctrine of  Apokatastasis. A critical Assessment from the New Testament to Eriugena, Leiden 2013 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 120), pp.  694-722; Ead., Origen, Evagrios, and Dionysios, in The Oxford Handbook to Dionysius the Areopagite, Oxford 2022, pp. 94-108. Il rapporto con Origene e quello con Proclo (spesso al contempo) rientrano nel doppio schema di riferimento tipico di Dionigi: cfr. I. Ramelli, «Pagan» and Christian Platonism in Dionysius: The double-reference Scheme and its Meaning, in Byzantine Platonists 284-1453, Steubenville 2021 (Theandrites: Studies in Byzantine Platonism and Christian Philosophy, 1), pp. 92-112. 19 Cfr. CH II, 3, 140D, p. 12, 16-17.

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Secondo il Nisseno, «il divino, dal punto di vista della sua natura, è inafferrabile e inconcepibile (ἀνέπαφον, ἀκατανόητον)» 20, «inesprimibile con le parole e inaccessibile ai ragionamenti (ἄρρη­ τον, ἀνεπίβατον)» 21, cosicché noi ne conosciamo l’esistenza, ma non l’essenza 22. Nella seconda Omelia sul Cantico, l’anima si rivolge infatti a  Cristo-Dio nei seguenti termini: «‘Dimmi, o  tu che l’anima mia ha amato’ (Ct 1, 7): così, infatti, io ti chiamo per nome, poiché il tuo nome è al di sopra di ogni nome ed è inesprimibile e incomprensibile ad ogni natura razionale. Dunque, il sentimento dell’anima mia verso di te è  il nome che fa conoscere la tua bontà» 23, e nella sesta Omelia Sulle beatitudini: «La natura divina, in quello che essa è in sé e per sé, è al di sopra di ogni pensiero che la possa comprendere, inaccessibile e  inavvicinabile ad ogni intuizione di carattere congetturale, e  finora nessuna forza umana è  stata trovata capace di comprendere le realtà che sfuggono alla comprensione» 24. Nella dodicesima omelia sul Cantico, Gregorio ritorna più lungamente su questa problematica, nel contesto del tentativo dell’anima di accedere a Dio: Q uello che risulta essere sempre al di fuori di ogni impronta che lo faccia riconoscere, come potrebbe essere compreso per mezzo di un’indicazione contenuta in questo o  quel nome? Per questo motivo l’anima escogita ogni significato di nomi, pur di indicare quel bene inesprimibile, ma ogni capacità discorsiva del ragionamento rimane sempre vinta e  dichiarata inferiore all’oggetto che va cercando. Perciò [l’anima] dice: ‘Io l’ho chiamato come ho potuto, escogitando parole che indicassero la sua inesprimibile beatitudine, ma egli era sempre superiore all’indicazione suggerita dagli oggetti significati’. La  stessa esperienza capita spesso anche al grande David, il quale invoca Dio con una infinità

20  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 138, PG 45, [243-1123], 956C, ed. W. Jäger, 2 voll., Leiden 1960 (Opera, 1), p. 265, 26-27. 21   Ibid., 140, 957A, p. 266, 13-14. 22 Cfr. ibid., 72-76, 933B-936A, pp. 247, 4 - 248, 24. 23  Id., In Canticum Canticorum, II, PG 44, [755-1119], 801A, ed. H. Langerbeck, Leiden 1960 (Opera, 6), p. 61, 12-17. 24  Id., De beatitudinibus, VI, PG 44, 1268B, ed. Callahan cit., p. 140, 15-20.

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di nomi, e  ciononostante riconosce di essere rimasto al  di sotto della verità 25.

L’anima, infatti, spiega Gregorio alla fine della stessa omelia, «non riesce a trovare Colui che è irraggiungibile dal significato dei nomi, apprende che ama un essere irraggiungibile e desidera Colui che è incomprensibile» 26. Per Gregorio, infatti, quando parliamo di Dio, «ci serviamo di svariate denominazioni (ἐπωνυμίαι) relative ad Esso, adattando gli appellativi (προσηγορίαις) in base alla varietà delle concezioni (κατὰ τὴν τῶν ἐπινοιῶν διαφοράν) 27», in quanto «il Signore è  denominato dalla Scrittura in base a  differenti ἐπίνοιαι (κατὰ διαφόρους ἐπινοίας)» 28: si nota qui il termine origeniano, anche se in Gregorio le ἐπινοίαι sono generalmente riferite a tutta la Trinità 29. L’ineffabilità e incomprensibilità di Dio e la nostra possibilità di dire qualcosa soltanto di quello che lo riguarda è un principio che Gregorio condivide con Plotino. Secondo quest’ultimo, infatti, poiché il dire presuppone una separazione tra parlante e oggetto nominato, e pertanto, per sua natura, afferisce alla dualità, e non all’uno, allora l’Uno «in verità, è indicibile, poiché, qualsiasi cosa tu dica, dici sempre qualche cosa (τι) (…) ci limitiamo a dire qualcosa che lo riguarda (περὶ αὐτοῦ)» 30. Per Gregorio, «la divinità, come sia secondo natura, è  intangibile (ἀνέπαφον) e  inconcepibile (ἀκατανόητον) e superiore ad ogni presa fornita dai ragionamenti (πάσης ἀντιλήψεως τῆς ἐκ τῶν λογισμῶν ὑψηλότερον)» 31. Similmente, per Plotino, è  impossibile toccare, avere una presa sull’Uno, che sia egli stesso sia Gregorio concepiscono come infinito: «È ridicolo cercare di afferrare e circondare (περιλαμβάνειν) 25  Id., In  Canticum Canticorum, XII, PG 44,  1028BC, ed. Langerbeck cit., pp. 357, 18 - 358, 8. 26  Ibid., 1037B, p. 369, 17-19. 27  Id., Contra Eunomium, II, 144, PG 45, 957CD, ed. Jäger cit., p. 267, 20-21. 28   Ibid., 300, 1012C, p. 314, 25-26. 29 Tuttavia, in De perfectione Gregorio analizza le ἐπίνοιαι di Cristo stesso; cfr. infra, nota 64. 30  Plotinus, Enneades, V 3, 13, 1-8. 31   Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II,  138, PG 45,  956C, ed. Jäger cit., p. 265, 26-28.

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ciò che per natura è infinito (ἄπλετον)» 32. Anche per Gregorio, infatti, Dio, infinito com’è (principio di estrema importanza in Gregorio, derivato da Plotino ma, sospetto, anche da Origene), è  inafferrabile come il punto d’origine di un cerchio, o  come il raggio di luce del sole, come Gregorio spiega in metafore teologiche nel Contra Eunomium 33. È interessante osservare come la comparazione tra il sole e  Dio, che risale ultimativamente alla Repubblica di Platone 34, sia particolarmente sviluppata anche nel Nazianzeno 35. L’equazione tra Dio e il sole in quanto supreme fonti di luce, l’una intellettuale e l’altra sensibile, era già ben presente in Origene, dove il Salvatore è definito ad esempio «luce intelligibile» 36 e «il sole che dà origine al gran giorno del Signore» 37. Origene si serve poi della similitudine con il sole per illustrare l’eccellenza e l’incomprensibilità divina, un altro aspetto pienamente recepito dai Cappadoci 38. Dunque, sia per Gregorio sia per Plotino – nel quale significativamente la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sembra comparire, nel sesto trattato delle Enneadi, in rapporto alla derivazione della seconda ipostasi dalla prima 39 –, lo sbocco è la teologia negativa, sebbene in Plotino questa possa essere molto più radicale per una   Plotinus, Enneades, V 5, 6, 15.  Cfr. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 666-669, PG 45, 456C457A, ed. Jäger cit., pp. 217, 26 - 218, 18; II, 80, 957B, p. 250, 10-17. Argomentazione per la derivazione dell’infinità di Dio anche da Origene nel mio Apokatastasis and Epektasis in Hom. in Cant.: The Relation between two Core Doctrines in Gregory and Roots in Origen, in Gregory of  Nyssa: In  Canticum Canticorum. Commentary and supporting Studies. Proceedings of  the 13th International Colloquium on Gregory of  Nyssa (Rome, 17-20 September 2014), ed. by G. Maspero M.  Brugarolas - I.  Vigorelli (Supplements to Vigiliae Christianae, 150), Leiden 2018, pp. 312-339. 34 Cfr. Plato, Respublica, VI, 508e ss. 35 Cfr. a titolo esemplificativo Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 301, 423, 495, 509, 647, 1125. 36   Origenes, Contra Celsum, V, 11, PG 11, 1196C, ed. Borret cit. (alla nota 13), III, 1969, p. 40, 1. 37  Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, I, 24, 161, PG 14, [21-829], 68B, ed. E. Preuschen, Leipzig 1903 (Origenes Werke, 4), p. 31, 5. 38 Cfr. Id., De principiis, I, 1, 5, PG 11, [115-414], 124AB, edd. H. Crouzel M.  Simonetti, 5  voll., Paris 1978-1984 (SC 252-253-268-269-312), I, 1978, pp. 96, 114 - 98, 135. 39  Sulla triade in Plotino, cfr. in questo volume il contributo di M. Abbate. 32 33

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precisa base ontologica, in quanto in Plotino l’Uno trascende completamente l’essere, mentre Gregorio, come già Origene, in parte mantiene l’identificazione di Dio con l’essere. Per Plotino, l’Uno, o Dio, è conoscibile e dicibile solo negativamente: «Diciamo ciò che non è, ma ciò che è, non lo diciamo» 40; secondo Gregorio, la sostanza (οὐσία) divina «è conosciuta soltanto nel non poter essere compresa» 41, e già nel De anima et resurrectione troviamo rappresentati molti aggettivi negativi riferiti a  Dio: è  privo di dimensioni e di quantità e di forma sensibile; è invisibile, impalpabile, illimitato, incorporeo, immateriale, immortale, increato, indicibile, inesprimibile, non coglibile da alcuna definizione; la sua essenza è inaccessibile: soltanto la sua esistenza è rivelata grazie alla contemplazione del mondo – secondo il principio enunciato dal Salmo 18, 2, che Gregorio cita: «caeli enarrant gloriam Dei» – e le sue caratteristiche attinte per analogia. Infatti, quando Gregorio dice che la οὐσία di Dio non ci è comprensibile e conoscibile 42, intende certamente questo termine in senso non esistenziale – come pure è attestato nelle sue opere, ma preferibilmente in riferimento al creato –, bensì essenziale. Possiamo sapere che Dio esiste, ma non che cosa sia. Gregorio illustra l’impossibilità di comprendere e  di esprimere la sostanza divina 43, interpretando la vicenda di Abramo come espressione allegorica dell’ascesa all’Uno 44. A partire dalla conoscenza sensibile, rappresentata dalla filosofia dei «Caldei», si passa, per via analogica, all’intelligibile, per cui la prima acquisizione dell’ascesa di Abramo è la conoscenza negativa di Dio, la consapevolezza dell’inconoscibilità della natura divina: Dopo avere percorso, riguardo ai concetti (ὑπολέψεις) relativi a  Dio, ogni rappresentazione (εἰκασία) della sua natura proveniente dal nome, avendo purificato la facoltà razionale (λογισμός) da tali supposizioni (ὐπόνοιαι) e accolto la fede sce  Plotinus, Enneades, V 3, 14, 5.   Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I, 373, PG 45, 368B, ed. Jäger cit., p. 137, 1-2. 42 Cfr.  Id., In  Hexaemeron explicato apologetica, PG 44, [62-123], 72C, ed. H. R. Drobner, Leiden - Boston 2009 (Opera, 4.1), pp. 19, 10-15. 43 Cfr. Id., Contra Eunomium, II, 67-71, PG 45, 932C-935D, ed. Jäger cit., pp. 245, 18 - 248, 3. 44 Cfr. ibid., 84-96, 940A-944A, pp. 251, 15 - 254, 30. 40 41

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vra e pura da ogni nozione (ἔννοια), considerò un indizio certo ed evidente della conoscenza (ἐπίγνωσις) di Dio il credere che esso sia al di sopra e al di là di ogni segno che ne procuri la conoscenza (γνωριστικός) 45.

Nella sesta Enneade Plotino affermava che è necessario allontanarsi sia dalla scienza sia dai suoi oggetti sia da ogni altro oggetto di contemplazione (θέαμα), per quanto sia bello. Ogni realtà bella, infatti, è posteriore all’Uno e proviene dall’Uno, come la luce diurna proviene interamente dal sole. Per questo si dice che non può essere detto né scritto, e  tuttavia noi parliamo e  scriviamo per indirizzare verso di esso e per svegliare dal sonno delle parole alla veglia della contemplazione, come se indicassimo la strada a chi volesse contemplare 46.

Insomma, i nomi e i concetti costituiscono il primo stadio della progressione verso l’Uno, rispetto al quale sono totalmente inadeguati: e sono essi stessi a rivelare tale inadeguatezza. Gregorio interpreta dunque Abramo come il simbolo di questa conoscenza negativa di Dio – condivisa da Plotino anche più radicalmente – 47, ma al contempo anche di quella della fede/fiducia (πίστις), che, a differenza di quanto accade in Platone, è totalmente positiva ed elimina il dualismo implicato invece dal dire/concettualizzare, che vorrebbe cogliere l’Uno come un oggetto, ma non può, mentre la fede ha esperienza diretta dell’Uno come presenza e si risolve nel silenzio di ogni parola e pensiero: «abbiamo imparato a onorare con il silenzio le realtà superiori alla parola e al pensiero discorsivo» 48. Anche per Plotino, l’Uno «è presente nel silenzio (ἀψοφητί)» 49 e  «la conoscenza (σύνεσις) di esso non si ottiene né attraverso   Ibid., 89, 941A, p. 253, 10-17.   Plotinus, Enneades, VI 9, 4, 6-10. 47 Per l’influsso di Plotino sul Nisseno nella teologia apofatica, cfr.  I.  Ramelli, The Divine as inaccessible Object of  Knowledge in ancient Platonism: A common philosophical Pattern across religious Traditions, in «Journal of  the History of  Ideas», 75 (2014), pp. 167-188. 48  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 1, PG 45, 909A, ed. Jäger cit., p. 226, 1. 49  Plotinus, Enneades, V 8, 11, 5. 45 46

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la scienza né attraverso il pensiero, come per gli altri intellegibili, bensì grazie ad una presenza che vale più della scienza  (…) esso è  presente, ma non è  presente se non a  coloro che possono accoglierlo» 50. La fede/fiducia, infatti, non è un possesso, ma l’accoglienza dell’Uno presente: «Basterà poterlo toccare in maniera intellegibile (…) solo più tardi si potrà riflettere su di lui. Ma in quell’istante bisogna credere (πιστεύειν) di aver visto (…) bisogna ritenere che esso sia presente» 51. «Dona loro, infatti, qualcosa di meglio e di più grande che il conoscerlo (εἰδέναι), concedendo loro piuttosto di toccarlo (ἐφάψασθαι) per quanto è loro possibile» 52. La fede è infatti un toccare l’Uno, il che è possibile soltanto attraverso l’astrazione, l’eliminazione di tutto il resto: è il celebre ἄφελε πάντα plotiniano 53. L’esito della teologia sia gregoriana e cappadoce (incluso Evagrio, che deve tanto del suo pensiero ai Cappadoci), sia plotiniana è mistico. Dio, infatti, secondo il Nisseno, si colloca al  di sopra della nostra intelligenza, ma – a differenza di quanto accade nei Neoplatonici e a somiglianza di quanto accadeva invece in Platone – non è propriamente al di sopra dell’essere: anche Gregorio, come già Filone e in parte come Origene (che però è più ambiguo su Dio come Essere e al di là dell’Essere, Nοῦς e al di là del Nοῦς), non può prescindere dalla definizione di Dio in Esodo: Ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (Es 3, 14). In questo senso della distinzione tra essenza ed esistenza di Dio, dunque, sono interpretate da Gregorio le parole di Q ohelet, 5, 1, che non si deve proferire parola al cospetto di Dio, e quelle del Siracide, 3, 1, che non si deve indagare ciò che è troppo profondo: l’essenza di Dio, essendo inintelligibile e  inesprimibile, non dev’essere sottoposta a  una ricerca curiosa. Piuttosto, i  nomi di Dio (le ἐπίνοιαι studiate da Origene e i nomi divini studiati poi da Dionigi Areopagita) sono da noi dati «a partire da ciascuna delle attività (ἐνέργειαι) a noi note» 54. «Il divino è nominato secondo diversi appellativi riferiti alle multiformi attività (ἐνεργειῶν)» 55;   Ibid., VI 9, 4, 10-12.   Ibid., V 3, 17, 2. 52   Ibid., 6, 6, 3. 53 Cfr. ibid., 3, 17. 54  Gregorius Nyssenus, Ad Ablabium, PG 45, 121D, ed. Müller cit. (alla nota 9), p. 44, 8-9. 55  Id., Contra Eunomium, II, 304, PG 45, 1013A, ed. Jäger cit., p. 315, 24. 50 51

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«Colui che è  invisibile nella natura (τῇ φύσει ἀόρατος), diviene visibile nelle attività (ἐνέργειαι)» 56. Con i nomi possiamo dire solo «com’è» Dio, πῶς ἐστι, non «che cos’è», τί ἐστι 57. Dunque, conformemente agli altri due Cappadoci, Gregorio distingue l’esistenza e  l’essenza di Dio, sostenendo che possiamo conoscere che Dio esiste, senza tuttavia sapere che cosa sia 58. Dio, infatti, in sé «trascende ogni movimento della mente» (ὑπερβαίνειν πᾶσαν διανοίας κίνησιν) 59. Perfino in contesto omiletico, Gregorio ritorna sulla distinzione tra l’ineffabilità della natura o sostanza divina e la nominabilità riservata al versante delle opere, dunque tra ambito della οὐσία e ambito delle ἐνέργειαι 60 – che sono comuni alle tre Persone – 61, ossia, usando ancora la terminologia dei Cappadoci, tra l’ambito intradivino della θεολογία e  quello della οἰκονομία, dell’esplicazione della divinità nelle sue opere finalizzate alla sua gloria e alla nostra salvezza. Infatti, la fine del primo libro del Contra Eunomium e l’inizio del secondo vertono su una discussione dei rapporti tra teologia apofatica e teologia catafatica, con anche una disputa sull’origine naturale o convenzionale dei nomi. Gregorio, soprattutto all’inizio del secondo libro, propugna la teologia negativa (quoad nos) nella forma sopra specificata: la natura di Dio è  assolutamente inaccessibile alla

56  Id., De beatitudinibus, VI, PG 44, 1269A, ed. Callahan cit. (alla nota 12), p. 141, 25-26. A riprova di quanto sia radicata in Gregorio questa distinzione tra la natura e le attività od operazioni di Dio, in Id., In Ecclesiasten Homiliae, VII, PG 44, [615-755], 732D, ed. P. Alexander, Leiden 1962 (Opera, 5) p. 414, 12-15, egli interpreta così la celebre sentenza che esiste un tempo per parlare e un tempo per tacere (Q o 3, 7): «Il ‘tempo di tacere’ si ha quando si vuole indagare sulla natura di Dio, mentre il ‘tempo di parlare’ si ha quando si vogliono annunciare le meraviglie delle sue opere»: si tratterebbe delle rispettive metafore della teologia apofatica e catafatica. 57  Id., Ad Ablabium, PG 45, 133C, ed. Müller cit., p. 56, 19. 58  Cfr., ad es., Basilius Caesarensis, Epistolae, 234,  2, PG 32, [868C872A], 869C, ed. Y. Courtonne, 3 voll., Paris 1957-1966, III, 1966, p. 43, 12-13: «La conoscibilità di Dio consiste nella percezione della sua inconoscibilità». 59  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 587, PG 45, 1108C, ed. Jäger cit., p. 397, 28-29. 60 Cfr. Id., In Canticum Canticorum, I, PG 44, 781D-784C, ed. Langerbeck cit. (alla nota 23), p. 36, 12 - 39, 1 (tr. it., Roma 1988, pp. 52-53). 61  Cfr. ad es. S. González, La identidad de operación en las obras exteriores y la unidad de naturaleza divina en la teología trinitaria de s. Gregorio de Nisa, in «Gregorianum», 19 (1938), pp. 280-301.

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mente umana; questa può conoscere soltanto «ciò che è intorno a Dio», ciò che Lo riguarda, τὰ περὶ τὸν Θεόν 62. La οὐσία di Dio, per noi inaccessibile, è comune a tutte le tre Persone, che sono tra loro consustanziali, e  dunque vanno fatte rientrare tutte nell’ambito che Eunomio riservava al solo Padre, la «Οὐσία somma e unica propriamente detta», cosicché, fra l’altro, tra le Persone divine non è  né necessaria né ammissibile alcuna forma di mediazione 63. Si comprende, su questa base, l’estensione non solo della οὐσία, ma anche della δύναμις, a tutte e tre le Persone della Trinità e  l’identificazione completa tra δύναμις e  volontà (θέλημα, βούλησις), e in genere fra tutti i nomi attribuiti alla divinità, cosicché gli attributi tradizionali di Cristo, quali Medico, Roccia, Sorgente, Via, Vita, Resurrezione, che Origene intendeva come ἐπίνοιαι di Cristo, sono attribuiti da Gregorio all’intera Trinità, che comunque, in tutte le tre Persone, trascende ogni nome, anche se quoad nos «diviene πολυώνυμος grazie alla varietà delle sue operazioni benefiche» 64. Dall’unicità della οὐσία discendono anche l’unicità della δύναμις e l’unicità della ἐνέργεια, cosicché, secondo l’ordine della nostra conoscenza, a partire da quanto possiamo constatare, se le tre Persone della Trinità hanno un’unica attività (ἐνέργεια), allora devono avere anche un’unica potenza (δύναμις)  e, se hanno la stessa attività e la stessa potenza, avranno necessariamente anche la stessa φύσις e la stessa οὐσία 65. Si tratta di un’idea già presente in Ireneo, e, in area alessandrina, in un grande estimatore di Origene quale fu Atanasio, e in Didimo, discepolo di Origene. Sebbene Gregorio sia il pensatore che ha sviluppato la triade in modo più stringente, tra i Cappadoci, la nozione era condivisa anche da Basilio 66, che la utilizza come presupposto sia in rapporto al problema della conoscenza umana della Trinità, sia in rapporto alla 62  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II,  103, PG 45,  945A, ed. Jäger cit., p. 256, 28-29. 63  Cfr. Id., De beatitudinibus, PG 44, 1269A, ed. Callahan cit., p. 141, 15-27. 64  Id., Contra Eunomium, IIΙ, 8, PG 45, 832Α, ed. Jäger cit., p. 242, 10-11. 65 Cfr. Id., De oratione dominica, III, PG 44, [1120-1193], 1160A, ed. J. F. Callahan, Leiden 1992 (Opera, 7.2), p. 41, 6-10. Sul concetto di physis in Gregorio applicato soprattutto o alla divinità o alla natura umana, cfr. J. Zachhuber, Human Nature in Gregory of  Nyssa, Leiden 2000. 66  Cfr.  Basilius Caesarensis, De Spiritu Sancto, XVI,  38, PG 32, [67219], 136A-140B, ed. B. Pruche, Paris 19682 (SC, 17bis), pp. 376-384.

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trasmissione dei doni divini di bontà, santificazione e  regalità: «La modalità della conoscenza di Dio viene dallo Spirito, che è uno, attraverso il Figlio, e risale al Padre, che è uno. Viceversa, la bontà per natura, la santificazione e la regalità provengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito» 67. L’unità di natura delle tre ipostasi garantisce anche l’unità delle loro operazioni. Nel caso della creazione, dunque, essendo unica la natura divina, unica è anche l’operazione creatrice delle tre ipostasi, anche se ogni ipostasi declina la causalità creatrice a  proprio modo: il Padre è la causa iniziale, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa che perfeziona e santifica. Ogni ipostasi ha la stessa volontà d’agire (volontà di ἐνέργεια) delle altre 68. Basilio, come Gregorio, impiega la distinzione tra essenza e attività di Dio per salvaguardare la teologia apofatica: «Le attività di Dio (ἐνέργειαι) discendono verso di noi, mentre la sua sostanza (οὐσία) rimane inaccessibile» 69, sebbene qui non sia espressa la δύναμις. Inoltre, la necessità di considerare unitariamente οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια è  un’istanza che in àmbito neoplatonico trova un parallelo anche in Giamblico 70, che, come esposto all’inizio del saggio, fu il sistematizzatore della triade in questione e influenzò il Nisseno in alcuni aspetti, possibilmente anche in rapporto alla triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Il legame che i Cappadoci ponevano tra οὐσία e δύναμις, per cui dalla identità di οὐσία discende l’identità della δύναμις, e viceversa, sul piano gnoseologico, dalla identità di δύναμις si può risalire alla identità di οὐσία, è istituito anche da Agostino. Agostino infatti enfatizzava «l’unità e l’eguaglianza» delle tre Persone della Trinità 71, e consequenzialmente l’attività della Trinità come «inseparabile ed eguale» 72. La consequenzialità tra l’unità ontologica   Ibid., XVIII, 47, 153B, p. 412, 17-21.  Cfr. ibid., XVI, 38, 136A-140B; cfr. anche ibid., VIII, 21, 105AC, pp. 318-

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69   Id., Epistolae, 234, 1, PG 32, 869A, ed. Courtonne cit., III, 1966, p. 42, 2225: αἱ μὲν ἐνέργειαι αὐτοῦ πρὸς ἡμᾶς καταβαίνουσι, ἡ δὲ οὐσία αὐτοῦ μένει ἀπρόσιτος. 70 Cfr.  Iamblichus, De mysteriis, I,  5, 18, edd. H.  D. Saffrey - A.-Ph.  Segonds, Paris 2013, p. 9. 71 Cfr.  Augustinus Hipponensis, De Trinitate, I,  6, 13, PL 42, [8191101], 827, edd. W. J. Mountain - F. Glorie, 2 voll., Turnhout 1968 (CCSL, 5050A), I, p. 42, 111-112; I, 7, 14, 828, p. 44, 4: «Unitas et aequalitas Trinitatis». 72   Ibid., II, 1, 3, 847, p. 83, 56: «Inseparabilis et par operatio».

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(di οὐσία) e  quella dinamica o  di attività (di δύναμις) è  la stessa postulata dai Cappadoci e da Agostino (che da Origene fu influenzato profondamente in molti modi dalla sua fase anti-Manichea in poi) 73, probabilmente in base alle premesse di Origene 74. A monte di Atanasio, di Didimo e dei Cappadoci, e anche di Agostino, Origene aveva infatti insistito sull’assoluta unità di Dio, da lui descritto come monade o enade nel De principiis: essendo «di natura intellettuale», e non corporea, Dio è semplice, cui assolutamente nulla si può aggiungere, perché non si pensi che abbia in sé qualcosa di più o  di meno, ma è  in senso assoluto monade,  e, per così dire, enade: intelligenza e  fonte da cui deriva ogni intelligenza  (…). Dio, che è principio di ogni cosa, non dobbiamo crederlo composto: altrimenti verrebbero ad essere anteriori allo stesso principio gli elementi di cui è composta qualsiasi cosa che diciamo sia composta 75.

In questo passo, a mens nella versione rufiniana è sotteso il greco νοῦς, che dunque qui Origene identifica con Dio, anche se nel Contra Celsum egli afferma che Dio o è Νοῦς o anche al di là del Νοῦς e della οὐσία 76, come Mario Vittorino dirà che Dio è «sine exsistentia, sine substantia, sine intellegentia, sine vita  (…),  Cfr.  I. Ramelli, Origen in Augustine: A  paradoxical Reception, in «Numen», 60 (2013), pp. 280-307. L’argomentazione è confermata da I. Perczel, St. Maximus on the Lord’s Prayer, in The Architecture of  the Cosmos. St. Maximus the Confessor: New Perspectives, ed. by A. Lévy - P. Annala - O. Hallamaa et alii, Helsinki 2015 (Schriften der Luther-Agricola-Gesellschaft, 69), pp.  221-278, in partic. p.  229; da D.  Heide, Ἀποκατάστασις: The Resolution of  Good and Evil in Origen and Eriugena, in «Dionysius», 3 (2015), [pp. 195-213], p. 206; da C. Burns, Christian Understandings of  Evil: The historical Trajectory, Minneapolis 2016, p. 77; da W. Howard-Brook, Empire Baptized: How the Church embraced what Jesus rejected, New York 2016, passim; e da M. Cameron, Origen and Augustine, in The Oxford Handbook of  Origen (in stampa). 74 Cfr. I. Ramelli, Divine Power in Origen of  Alexandria: Sources and Aftermath, in Divine Powers in Late Antiquity, ed. by A. Marmodoro - I. F. Viltanioti, Oxford 2017, pp. 177-198. 75   Origenes, De Principiis, I, 1, 6, PG 11, 125A-126A, edd. Crouzel-Simonetti cit. (alla nota 38), pp. 100, 150 - 193. 76  Cfr. Id., Contra Celsum, VII, 38, PG 11, 1473B, ed. Borret cit. (alla nota 13), IV, 1969, p. 100, 1-6; I. Ramelli, The Reception of  Paul’s Nous in the Christian Platonism of  Origen and Evagrius, in Der νοῦς bei Paulus im Horizont griechischer und hellenistisch-jüdischer Anthropologie, ed.  by J.  Frey - M.  Nägele, Tübingen 2021, pp. 279-316. 73

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non per privationem sed per supralationem  (…), praeexsistens, praevivens, praecognoscens» 77, «supra omnem exsistentiam, supra omne ὄν, supra omnem cognoscentiam, inintelligibile et incognoscibile» 78, dunque al di là o precedente la substantia, la conoscenza intellettuale e  anche la operatio, come risulta dalle espressioni inoperans operatio e actio inactuosa 79, e dalla dichiarazione «ineffabiles res et investigabilia mysteria Dei voluntatum aut operationum» 80. Analogamente, Origene afferma che Dio è  al di là anche dei νοητά 81, e  sostiene che la natura e  la potenza di Dio sono al  di là della οὐσία 82. Si tratta di un’oscillazione presente in Platone stesso, che nella Repubblica dichiarava il Bene superiore all’Essere in dignità e potenza 83. Se Senocrate e Numenio identificano Dio con l’Uno e il Nοῦς, in Plotino il Nοῦς è notoriamente subordinato all’Uno. Gregorio aveva ben presente anche la trattazione origeniana; Origene precorre precisamente l’impostazione del Nisseno relativa all’incomprensibilità della natura o sostanza di Dio e alla pos­ sibilità, per noi, di conoscere Dio tramite le sue opere: Nei limiti delle nostre esigue forze, abbiamo conosciuto la natura divina considerandola più dalle sue opere che con la nostra capacità conoscitiva, abbiamo osservato le sue creature visibili e  abbiamo conosciuto per fede quelle invisibili, poiché la fragilità dell’uomo non può vedere tutto con gli occhi   Marius Victorinus Afer, Adversus Arium, IV, 23, PL 8, [1039-1138], 1129D, ed. A. Locher, Leipzig 1976, p. 156, 15-21; cfr. anche ibid., 26, 1132B, 29-33. 78  Id., Ad Candidum arianum, 13, PL 8, [1019-1036], 1027B, ed. A. Locher, Leipzig 1976, p. 18, 15-17. 79  Id., Adversus Arium, I,  12, PL 8,  1047B, ed. Locher cit., p.  42, 19; ibid., 13, 1047C, p. 42, 30. 80  Id., Ad Candidum arianum, 1, PL 8, 1019C, ed. Locher cit., p. 10, 5. Per uno studio linguistico dei termini negativi applicati a Dio in Vittorino cfr. C. O. Tommasi, Linguistic Coinages in Marius Victorinus’ Negative Theology, in «Studia Patristica», 43 (2006), pp. 505-510. 81  Cfr. Origenes, Exhortatio ad Martyrium, 46, PG 11, [563-637], 625A629A, ed. P. Koetschau, Leipzig 1899 (Origenes Werke, 1), pp. 42, 4 - 43, 18. 82  Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIX,  6,  37, PG 14,  536C, ed. Preuschen cit. (alla nota 37), p. 305, 16-17: ὑπερέκεινα τῆς οὐσίας; inoltre Contra Celsum, VI, 64, ἐπέκεινα οὐσίας ἐστὶ πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει (cfr. infra, alla nota 124). 83 Cfr. Plato, Respublica, VI, 509b. 77

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e conoscerlo con la ragione, in quanto l’uomo è il più debole e imperfetto fra tutti gli esseri razionali 84.

Lo stesso concetto si presenta poi anche in un altro autore che conosceva bene Origene: il Nazianzeno. In questi, l’applicazione della triade teologicamente più interessante e  parallela a  quella del Nisseno si trova nella seconda orazione teologica 85. Q ui Gregorio descrive i fondamenti principali della gnoseologia cristiana e  significativamente incomincia con un’allusione al  Simposio di Platone 86: la conoscenza di Dio sulla terra è fortemente limitata, non dal corpo tout court – che è proprio di tutte le creature, come osservava già Origene, probabilmente fin dalla creazione quali sostanze 87 – ma dal corpo spesso, «pesante e  carnale», conseguente alla caduta 88. Q uesta osservazione era già di Origene, che per tanti versi ispirò il platonismo cristiano del Nazianzeno, e che il Nazianzeno difese nel Contra Eunonium Oratio prodialexis 89. Ad es. nel primo libro De principiis: «il nostro intelletto (mens) è  limitato nella conoscenza delle realtà incorporee fintantoché è  racchiuso nella prigione della carne e  del sangue (intra carnis et sanguinis claustra concluditur)» 90, designante il corpo mortale post-lapsario e  non il corpo in generale, che è  posseduto anche dagli angeli. Per Origene, infatti, solo Dio-Trinità è senza corpo 91. Il passo di questa fondamentale orazione che ci interessa maggiormente in rapporto alla triade è  28,  2-3, ove Gregorio si fonda su un’interpretazione filoniana di Esodo 33, 23 che aveva 84   Origenes, De Principiis, II, 6,1, PG 11, 209BC, edd. Crouzel-Simonetti cit., p. 308, 4-11. 85 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, PG 36, 25-72, ed. P. Gallay, Paris 1978 (SC, 250), pp. 100-174. 86  Cfr. Plato, Symposius, 211e. 87  Cfr. I. Ramelli, Origen, in A History of  Mind and Body cit. (alla nota 2), pp. 245-266. 88 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 4, PG 36, 29C-32A, ed. Gallay cit., pp. 106, 1 - 108, 19. 89 Cfr. Ramelli, The Christian Doctrine of  Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 446-460. 90  Origenes, De principiis, I, 1, 5, PG 11, 124B, edd. Crouzel-Simonetti cit., p. 98, 125-128. 91  Cfr.  Ramelli, Origen cit., e  Conceptualities of  Angels in Late Antiquity, in Inventer les anges de l’Antiquité à Byzance, ed.  by D. Lauritzen, Paris 2021, pp. 1-58.

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già influenzato Origene 92. Q ui si precisa che Mosè non vide il volto di Dio, ma soltanto «il retro» di Dio (τὰ ὀπίσθια). Gregorio riflette che, quando rivolge lo sguardo a Dio, vede solo il retro di Dio, e  anche questo «con fatica». Mosè non vede la natura di Dio, la «natura prima» che rimane nascosta perfino ai Cherubini. Q uanto gli esseri umani sulla terra possono raggiungere è «un’estremità» della natura di Dio e più precisamente la sua attività (ἐνέργεια) nella creazione e  nel governo della creazione. Q ueste sono le indicazioni che Dio ha lasciato dietro di sé, come il retro. Dunque, la natura di Dio è la sua essenza (οὐσία), il retro di Dio è la sua attività (ἐνέργεια). Pertanto, Gregorio insiste che dobbiamo scoprire Dio attraverso la bellezza e l’ordine di ciò che vediamo, usando la vista come una guida verso quanto trascende la vista corporea 93. Con questi argomenti il Nazianzeno confuta anche Eunomio, il quale credeva di dedurre una diversità di sostanza fra le tre Persone a  partire dalla diversità delle loro operazioni e  non ammetteva la loro relazione 94: Gregorio desume invece l’unità di sostanza dall’unità di volontà, poiché «la volontà coincide con la natura (…) l’identità della volontà dimostra sicuramente anche la comunione delle nature di coloro che vogliono le stesse cose» 95. L’unità d’azione implica infatti anche unità di volere 96, poiché in Dio non intercorre alcun intervallo tra la volontà e la sua realizzazione nell’azione 97: la volontà del Figlio è specchio di quella del Padre e  ne segue il movimento; anzi, il Figlio si è  fatto volontà

92 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 2-3, PG 36, 28A-29B, ed. Gal­ lay cit., pp. 102, 1 - 106, 26; Ramelli, Philosophical Allegoresis cit. (alla nota 13). 93 Cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 28, 13, PG 36, 41C-44B, ed. Gallay cit., pp. 126, 1 - 128, 34. 94  Cfr.  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I,  207-210, PG 45,  313BD, ed. Jäger cit. (alla nota 20), pp. 87, 3 - 88, 17. Su cui cfr. Maspero, Essere e relazione cit. (alla nota 6); Id., Dio Trino perché vivo, Brescia 2018 (Letteratura Cristiana Antica, 31). 95  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, I,  439-440, PG 45,  338A, ed. Jäger cit., p. 154, 6-9. 96 Cfr.  G. Isaye, L’unité de l’opération divine dans les écrits trinitaires de Grégoire de Nysse, in «Recherches de Science Religieuse», 27 (1937), pp.  422439. 97  Cfr. Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 227-230, PG 45, 985D988C, ed. Jäger cit., pp. 292, 3 - 293, 6.

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del Padre 98. Gregorio interpreta infatti la creazione nel senso del βούλημα di Dio che si fa sostanza (οὐσιοῦται) 99, nello stesso modo in cui si legge nell’In Illud: Tunc et Ipse Filius: «il volere divino divenne materia e sostanza delle creature» 100. L’implicazione della potenza di Dio nella creazione risulta anche dall’Explicatio in Hexaemeron, ove Gregorio afferma che Dio ha creato τῇ δυνάμει, in principio, la οὐσία di tutte le cose 101. Come osserva Zachhuber 102, il Nisseno dipende in questo da una tradizione stoica accolta anche dal neoplatonismo 103, ove la δύναμις non ha un senso deteriore, di imperfezione e mancanza di essere, come in Aristotele, bensì di potenzialità ontologica, di forza. Ma soprattutto, anche nell’uso di οὐσία per la creazione, Gregorio mi sembra dipendere da Origene, il quale ad esempio afferma che Dio «εἰς οὐσίαν ἔφερε τὰ πάντα» 104. Dopo avere realizzato la creazione, Dio resta presente nel mondo allo stesso modo in cui l’anima è  presente nel corpo umano, in virtù della sua δύναμις, che consente di mantenere il mondo nell’essere 105, pur rimanendo completamente trascendente (dialettica derivata dallo pseudo-aristotelico De mundo), così come l’anima opera nel corpo attraverso la sua ἐνέργεια vitale, pur mantenendo la sua purezza e la semplicità della sua essenza 106. Già Origene sviluppa la similitudine tra la Provvidenza e la δύναμις  Cfr. ibid., I, 288, 340B, p. 111, 17-22.  Cfr. Id., De anima et resurrectione, PG 46, [11-161], 124B, edd. A. Spira E. Mühlenberg, Leiden 2014 (Opera, 3.3), p. 93, 11. 100   Id., In Illud: Tunc et Ipse Filius, PG 44, [1304-1325], 1312A, ed. K. Kenneth Downing, Leiden 1997 (Opera, 3.2), p. 11, 6-7. Cfr. Ramelli, Divine Power in Origen of  Alexandria cit. (alla nota 76), pp. 177-198. Nella biografia di Gregorio il Taumaturgo, in Gregorius Nyssenus, De vita Gregori Thaumaturgi, PG 46, [893-959], 920A, ed. G. Heil, Leiden 1990 (Opera, 10.1), p. 24, 11-12, si legge l’affermazione che la volontà divina «si è fatta materia, struttura e potenza del mondo, di tutte le cose in esso contenute e delle altre che sono al di sopra del mondo». 101  Cfr. Id., In Hexaemeron explicato apologetica, PG 44, 77D, ed. Drobner cit. (alla nota 42), p. 27, 10-14. 102 Cfr. Zachhuber, Ousia cit. (alla nota 11), pp. 704-705. 103 Cfr. Plotinus, Enneades, III 2, 2. 104   Origenes,  Fragmenta  in  Evangelium  Ioannis  (in  catenis), Fr. 1,  in Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, ed. Preuschen cit. (alla nota 37), p. 485, 3. 105 Cfr. Gregorius Nyssenus, De anima et resurrectione, PG 46, 24C, edd. Spira-Mühlenberg cit., p. 11, 3-7. 106 Cfr. ibid., 44BC, pp. 27, 19 - 28, 13; I. Ramelli, Gregory of  Nyssa on the Soul (and the Restoration): From Plato to Origen, in Exploring Gregory of  Nyssa: 98 99

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di Dio, che è diffusa ovunque nella creazione, e l’ispirazione divina che caratterizza l’intera Scrittura, dall’inizio alla fine, fino nei minimi particolari: dovunque possiamo trovarvi le tracce, le indicazioni della Sapienza divina, sparse in ciascuna lettera, poiché le parole della Scrittura, come sostenevano già i maestri giudaici, noti a Origene, sono state calcolate con la massima precisione. Considerata, dunque, la triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια in Gregorio, sorge l’interessante problema del rapporto con le triadi di Mario Vittorino, in particolare esse – virtus – operatio 107. Vittorino rientra nel Platonismo Cristiano, come Origene, il Nisseno, Sinesio, lo Ps.  Dionigi ed Eriugena. Vittorino ascrive al  Padre molte caratteristiche dell’Uno neoplatonico, e  cerca di applicare gli schemi triadici neoplatonici alla Trinità, ad es. esse, vivere ed intelligere, che era anche stata una triade gnostica (Vittorino aveva una buona conoscenza della gnosi). Vittorino era un antiAriano, e anche in questo si mostra simile a Origene, che era di fatto un anti-subordinazionista 108; potrebbe anche aver guardato con simpatia la dottrina origeniana dell’apocatastasi 109. Il Padre in Vittorino è il polo dell’esse, e il Figlio (e lo Spirito) ricoprono quello dell’agere (ciò soprattutto nel IV libro Adversus Arium), conformemente alla forte concezione dinamica che caratterizza il pensiero vittoriniano. Historical and philosophical Perspectives, ed. by A. Marmodoro - N. McLynn, Oxford 2018, pp. 110-141. 107 Cfr.  M. Baltes, Marius Victorinus. Zur Philosophie in seinen theologischen Schriften, München - Leipzig 2002 (Beiträge zum Altertumskunde, 174). Per un’altra triade cfr. D. N. Bell, Esse, vivere, intellegere: The noetic Triad and the Image of  God, in «Recherches Théologiques», 52 (1985), pp. 5-43; R. Majercik, The Existence - Life - Intellect Triad in Gnosticism and Neoplatonism, in «Classical Q uarterly», 42 (1992), pp.  475-488; M.  T. Clark, A  Neoplatonic Commentary on the Christian Trinity: Marius Victorinus, in Neoplatonism and Christian Thought, ed. by D. J. O’Meara, Norfolk (VA) 1982 (Studies in Neoplatonism, 3), pp. 24-33. 108  Cr.  I. Ramelli, Origen’s Anti-Subordinationism and its Heritage in the Nicene and Cappadocian Line, in «Vigiliae Christianae» 65 (2011), pp. 21-49; Ead., The Father in the Son, the Son in the Father in the Gospel of  John: Sources and Reception of  dynamic Unity in Middle and Neoplatonism, ‘Pagan’ and Christian, in «Journal of  the Bible and its Reception», 7 (2020), pp. 31-66. 109  Sull’escatologia origeniana in Vittorino basata sulla dottrina dei λόγοι cfr. Ead., The Christian Doctrine of  Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 607-616; E. Scully, Physicalism as the Soteriological Extension of  Marius Victorinus’s Cos­ mology, in «Journal of  Early Christian studies», 26 (2018), pp. 221-248.

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Si può sospettare, come in molti casi, un influsso origeniano. Ovviamente Vittorino e  Gregorio conoscevano bene anche il primo neoplatonismo 110; credo che però si possa fare un passo in avanti e supporre un’assimilazione non solo degli sviluppi del Platonismo, ma anche di un sistema platonico già cristianizzato come era quello di Origene, dove la riflessione su οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια in specifico riferimento al Dio cristiano aveva assunto connotati già precisi. Ricordiamo che Origene aveva avuto ad Alessandria lo stesso maestro di filosofia di Plotino, Ammonio Sacca, e  che Porfirio aveva conosciuto Origene in gioventù e  lo stimava profondamente come filosofo (rammaricandosi che fosse ‘diventato’ cristiano) 111. Sia Vittorino sia il Nisseno, come pure altri estimatori ed ammiratori di Origene, inclusi Atanasio e Marcello di Ancira, erano fortemente antiariani. Q uesto è indicativo rispetto al presunto subordinazionismo di Origene 112. Diversamente da Plotino, che pone l’Uno al di là dell’essere, Porfirio, ben noto sia a Vittorino sia al Nisseno, identifica l’essere e l’Uno 113 secondo una concezione più compatibile con quella che deve considerare Esodo 3, 14: l’essere, quindi, diviene intelligibile nell’atto (ἐνέργεια). Ora, la stessa opzione metafisica di Porfirio che si ritroverà sia in Vittorino 114 sia in Gregorio, ossia l’identificazione di Dio con l’essere e  la sua esplicazione nell’azione, si 110  Per Gregorio cfr. Ramelli, Gregory of  Nissa cit. (alla nota 2); per Vittorino cfr. P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33); Id., Marius Victorinus. Recherche sur sa vie et ses oeuvres, Paris 1971 (Études augustiniennes. Antiquité, 44). 111  Su cui cfr.  I.  Ramelli, Origene filosofo cristiano, Il  Peri Arkhôn e  i suoi oppositori, in Teologie dell’esperienza, a cura di D. Bertini - G. Salmeri - P. Trianni, Roma 2010, pp. 111-136; Ead., Origen, Patristic Philosophy, and Christian Platonism: Re-Thinking the Christianisation of  Hellenism, in «Vigiliae Christianae», 53 (2009), pp. 217-263. 112  Cfr.  Ead, The Trinitarian Theology of  Gregory of  Nyssa in his In  Illud: Tunc et Ipse Filius. His Polemic against «Arian» Subordinationism and the Apokatastasis, in Gregory of  Nyssa: The minor Treatises on Trinitarian Theology and Apollinarism. Proceedings of  the 11th International Colloquium on Gregory of  Nyssa (Tübingen, 17-20 September 2008), ed. by V. H. Drecoll - M. Berghaus, Leiden 2011 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 106), pp. 445-478. 113 Cfr.  M. Edwards, Porphyry and his intelligible Triad, in «Journal of  Hellenic Studies», 40 (1990), pp. 14-25. 114 Cfr. A. Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung der göttlichen Seinsfülle nach Marius Victorinus, München 1972 (Münchener Theologische Studien, 2, Systematische Abteilung, 41).

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riscontra già in Origene, sebbene, come si è  detto, con notevoli sfumature. Proprio l’identificazione di Dio con l’essere modera l’apofatismo di Vittorino, così come quello del Nisseno e, prima di loro, quello di Origene. Vittorino, infatti, ha chiaro che la sua teologia negativa non implica la negazione dell’essere di Dio, ma ne afferma la trascendenza assoluta: «non per privationem, sed per supralationem» 115. L’associazione δύναμις-ἐνέργεια è  tipica del Corpus Hermeticum, degli Oracoli Caldaici, che tanta parte hanno nella teologia neoplatonica, e che postulano un Padre, un principio intermedio identificabile con la Δύναμις, e un Νοῦς paterno, e in Porfirio, che conosceva bene sia questi testi sia, come si è detto, anche Origene. Nel De regressu animae (un testo da studiare per la concezione porfiriana dell’apocatastasi), Porfirio postulava un Padre, un Figlio o Nοῦς paterno, e un principio intermedio che Agostino, riportando il pensiero di Porfirio, identificava con lo Spirito Santo 116. Oltre a  Vittorino, anche Marcello di Ancira usa la coppia δύναμις-ἐνέργεια, e Origene, ben noto a Marcello, trovava il binomio δύναμις-ἐνέργεια in un testo per lui fondamentale nella formazione del suo concetto trinitario di ipostasi, cioè Sapienza 7, 25-26: il Figlio è emanazione della δύναμις di Dio e specchio della ἐνέργεια di Dio.  Se il Figlio condivide δύναμις ed ἐνέργεια, condividerà anche la οὐσία di Dio, e in effetti Origene riteneva il Figlio coeterno e consustanziale al Padre 117. Nelle seguenti considerazioni sarà necessario includere alcune riflessioni sull’anti-subordinazionismo di Origene e sulla sua propensione verso la ὁμοουσιότης del Figlio, data l’importanza della nozione di ὁμοούσιος in questo contesto: Gregorio sembra infatti essersi ispirato a Origene per la propria teologia trinitaria, che è riassunta dalla formula μία οὐσία

115   Marius Victorinus Afer, Adversus Arium, IV, 23, PL 8, 1129D, ed. Locher cit. (alla nota 79), p. 156, 17-18. 116 Cfr. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, X, 29, PL 41, [13-805], 307-309, edd. B. Dombart - A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 47-48), I, pp. 304-307. 117 Cfr. M. Edwards, Did Origen apply the Word Homoousios to the Son?, in «Journal of  theological Studies», 49 (1998) 658-670; I. Ramelli, Origen, Greek Philosophy, and the Birth of  the Trinitarian Meaning of  Hypostasis, in «Harvard Theological Review», 105 (2012), pp. 302-350; Ead., The Father in the Son cit.

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τρεῖς ὑποστάσεις 118. L’ispirazione origeniana e l’importanza della ὁμοουσιότης spiegano come mai Gregorio insista sul concetto di una οὐσία – una δύναμις – una ἐνέργεια nella Trinità e  deduca, come vedremo, l’unicità della οὐσία di Dio dalla unicità della δύναμις e della ἐνέργεια (quoad nos) e viceversa (quoad Deum). L’analisi sistematica dei concetti di οὐσία, ἐνέργεια e δύναμις in Origene porta a ritenere che la concezione dei Cappadoci, e specialmente del Nisseno, sia debitrice delle riflessioni teologiche origeniane. Il passo più interessante e rappresentativo mi sembra trovarsi nel diciannovesimo libro del Commento a Giovanni, in cui Origene sostiene che Dio ha una essenza οὐσία e che la φύσις e la δύναμις di Dio sono al di là dell’essere οὐσία, e che non ci è dato di raggiungerle direttamente. Origene afferma infatti che si deve dapprima «comprendere e contemplare (νοεῖν, θεωρεῖν) la verità», e poi, non «comprendere e contemplare», ma soltanto scorgere (ἐνιδεῖν) «l’essenza di Dio (οὐσία), ovvero la sua potenza (δύναμις) e  la sua natura, che si trovano al  di là dell’essere (ὑπερέκεινα ὀυσίας)» 119, con reminiscenza dalla Repubblica di Platone 120. L’accesso a  Dio non avviene direttamente, ma tramite una scala che esiste anche in Plotino 121, che con Origene condivise il discepolato presso Ammonio. Tuttavia, va osservato che in Origene la scala è non il νοῦς, bensì il Figlio di Dio (che è Νοῦς divino), ed è paragonata ai gradini del Tempio attraverso cui si accedeva al Santo dei Santi. Si noti anche che in Origene la verità viene sia compresa sia contemplata, mentre l’essenza e la potenza di Dio, superiori all’essere, vengono soltanto intraviste, ma non possono essere comprese. Dio, infatti, secondo Origene, è impossibile da conoscere alla ragione umana 122, e  tuttavia è  intelligibile (νοητός), pur essendo superiore a tutto (πάντων ἐπέκεινα ὤν) 123. Dio è infatti superiore 118 Cfr. Ead., Origen’s Anti-Subordinationism cit., passim, e Ead., The Trinitarian Theology of  Gregory of  Nyssa cit., passim. 119 Cfr. Origenes, Commentarii in Evangelium Ioannis, XIX, 6, 37-38, PG 14, 536CD, ed. Preuschen cit., p. 305, 16-17; l’essenza e la potenza di Dio com­ paiono in coppia anche ibid., XX, 24, 207, 628C, p. 358, 19-20. 120  Cfr. Plato, Respublica, VI, 509B. 121 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 7, 36: ἀναβασμοί, ἐπιβάσεις. 122 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 65, PG 11, 1397AC, ed. Borret cit. (alla nota 13), III, 1969, pp. 340, 1 - 342, 31. 123  Cfr. ibid., VII, 45, 1485C-1488B, IV, 1969, pp. 120, 1 - 122, 34.

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all’essere e all’intelletto per dignità e potenza (ἐπέκεινα οὐσίας ἐστι πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει 124 ed ἐπέκεινα νοῦ καὶ οὐσίας 125), ma al contempo è anche essere in senso pieno (καὶ αὐτός ἐστιν οὐσία 126). Come Origene spiega nel ventesimo libro del Commento a Giovanni 127, soltanto la natura invisibile e incorporea è οὐσία in senso proprio (κυρίως οὐσία) 128, platonicamente tutto il resto è  οὐσία e ha l’essere solo per partecipazione all’essere che è Dio 129: a differenza delle creature, invece, il Figlio, che è Dio, non ha l’essere per partecipazione, così come non è Dio per partecipazione, bensì per essenza (οὐ κατὰ μετουσίαν, ἀλλὰ κατ᾽ οὐσίαν ἐστι Θεόν) 130. Analogamente nel Contra Celsum, giocando sulla categoria platonica di partecipazione – che Origene usa spesso –, Dio non partecipa (μετέχει) della οὐσία, poiché è anzi partecipato (μετέχεται) da quanti hanno lo Spirito di Dio, più che partecipare; così anche «il Salvatore non partecipa della Giustizia, ma è la Giustizia ed è partecipato dai giusti» 131. Origene deve mantenere l’identità di Dio con l’essere in senso assoluto e sommo per via della citata formula di Esodo 3, 14, ma anche per poter identificare, con Platone, l’essere con il Bene, e ridurre il male a non-essere, esattamente come poi farà il Nisseno:   Ibid., VI, 64, 1396C, III, 1969, p. 340, 20.   Ibid., VII, 38, 1473B, IV, 1969, p. 100, 1; cfr. J. Whittaker, Epekeina Nou kai Ousias, in «Vigiliae Christianae», 23 (1969), pp. 91-104. 126  Origenes, Contra Celsum, VII, 38, PG 11, 1473B, IV, 1969, p. 100, 1; cfr. anche Id., De principiis, I, 3, 5, PG 11, 150B, edd. Crouzel-Simonetti cit. (alla nota 38), I, p. 152, 146. 127 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 18, 159, PG 14, 613D, ed. Preuschen cit., p. 351, 11-14. 128  Cfr. Id., Contra Celsum, VI, 71, PG 11, 1405B-1408A, ed. Borret cit., III, pp. 356, 1 - 360, 28. 129 Cfr. ibid., VI, 64, 1396BD, pp. 338, 1 - 340, 28. 130  Id., Selecta in Salmos, PG 12, [1053-1685], 1656A, che molto probabilmente riflette il pensiero maturo di Origene; cfr.  I.  Ramelli, Origen between apophatic Theology and a new Trinitarian Ontology: Ousia, Will, Hypostasis, and Legacy, Invited lecture, New Trinitarian Ontologies (Cambridge University, 1315 September 2019), in pubblicazione. Anche l’insistenza di Origene sull’eternità del Figlio e sulla sua identità di οὐσία con il Padre sono indicazioni contro il suo presunto subordinazionismo. Cfr. Ramelli, The Trinitarian Theology of  Gregory of  Nyssa cit., pp. 445-478; per la nozione di eterno in Origene, Ead., Origene ed il lessico dell’eternità, in «Adamantius», 14 (2008), pp. 100-129. 131 Cfr. Origenes, Contra Celsum, VI, 64, PG 11, 1396C, ed. Borret cit., III, p. 338, 15 - 340, 1. 124 125

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infatti, οὐκ ἔσονται οὐσίαι τὰ κακά 132. Dio è Bene non soltanto per habitus, ma anche per sostanza 133. La δύναμις di Dio è buona e la sua ἐνέργεια si esplica nella creazione e nella Provvidenza. Un’ulteriore distinzione tra la οὐσία di Dio e la sua ἐνέργεια, che si manifesta nella provvidenza e nell’aiuto alle creature, si trova nell’esegesi origeniana ai Salmi 134. La stessa polarità si ritrova in Gregorio, per cui, se Origene dice che Dio è  superiore al  Nοῦς e  alla οὐσία 135, Gregorio afferma che è superiore al νοῦς 136, a tutti gli esseri 137, e al Bene stesso 138. Q uest’ultimo punto poteva essere problematico per i  Platonici, anche se altrove Gregorio identifica Dio con il Bene e il Bello 139. Addirittura, da Origene sembrerebbe precorsa la formula cappadoce μία οὐσία τρεῖς ὑποστάσεις, come pure quella dello ὁμοούσιος; scrive infatti l’Alessandrino: il Padre, il Figlio e lo Spirito «sono Uno non per confusione, ma per una sola οὐσία; tre ipostasi perfette in tutti e corrispondenti. Il Padre generò secondo natura; perciò il Figlio è stato generato consustanziale» 140. E nel 132  Id., Philocalia, XXIV,  4, ed. J.  Armitage Robinson, Cambridge 1893, p. 218, 25. 133 Cfr. Id., Selecta in Numeros, PG 12, [573-583], 577D. 134  Cfr. Id., Selecta in Salmos, PG 12, 1521. 135 Cfr.  Id., Contra Celsum, VI 64, PG 11,  1396C, ed. Borret cit., III, p. 338, 15 - 340, 1; VII, 38, IV, pp. 100, 1 - 102, 27. Così, egli dice che il Λόγος è superiore agli angeli e alle anime dei giusti «per ousia e dynamis e dignità»; Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIII, 25, 152, PG 11, 444A, ed. Preuschen cit., p. 249, 26-28; afferma inoltre in Id., De oratione, 23, PG 11, [415-561], 485D, che l’ousia di Dio è separata da tutte le creature, evidentemente per la sua trascendenza. 136 Cfr. Gregorius Nyssenus, In Canticum Canticorum, V, PG 44, 873C, ed. Langerbeck cit. (alla nota 23), p. 157, 15. 137 Cfr. Id., De perfectione Christiana, PG 46, [251-287], 265A, ed. W. Jäger, Leiden 1963, (Opera, 8.1) p. 188, 15-16). 138  Cfr.  Id., In  Ecclesiasten homiliae, VIII, PG 44,  740D, ed. Alexander cit. (alla nota 58), p. 425, 8-13. 139 Cfr. I. Ramelli, Good/Beauty, Agathon/Kalon, in The Brill Dictionary of  Gregory of  Nyssa, ed. by G. Maspero - L. F. Mateo-Seco, Leiden 2010 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 99), pp. 356-363. 140 [Origenes], Scholia in Matthaeum, 28, PG 17, [289-310], 309. Naturalmente la paternità del passo degli scolii può essere contestata; tuttavia, un’imponente serie di altre prove induce a ritenere che Origene abbia precorso la dottrina trinitaria niceno-costantinopolitana, come cerco di mostrare in Ramelli, Origen’s Anti-Subordinationism cit. (alla nota 110), in The Father in the Son cit., pp. 31-66 e, con ulteriori argomentazioni, in Origen between apophatic Theology cit. Concorda con la mia interpretazione del commento a Mt 28, 19, anche Panayiotis

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ILARIA RAMELLI

Commentario a  Giovanni Origene precisa che la οὐσία delle tre Persone è comune 141: Padre e Figlio sono una cosa sola non solo per essenza (οὐσία) ma anche per sostanza/sostrato (ὑποκείμενον), e si differenziano solo per alcune ἐπίνοιαι 142. Secondo Origene, è possibile avere dalle sacre Scritture spunti (ἀφορμαί) in base ai quali poter dire qualcosa della οὐσία di Dio 143. Origene differenzia in Dio οὐσία ed ἐνέργεια, affermando che lo Spirito Santo è una οὐσία dotata di una propria ὕπαρξις o ὑπόστασις, e non è soltanto una ἐνέργεια di Dio: è οὐσία ἐνεργη­ τική 144. E per il Figlio, trattando del suo sacrificio propiziaorio, istituisce una distinzione analoga: ἡ μὲν οὐσία αὐτοῦ ἱλαστήριον, ἡ δὲ ἐνέργεια ἱλασμός 145. L’uso stesso di οὐσία in Origene e lo spettro semantico che nei suoi scritti assume questo termine si ritrovano nel Nisseno. Se infatti Gregorio applica questo sostantivo, oltre che a Dio, anche all’anima, pure Origene lo applicava a  tutti i  λογικά, insistendo sulla loro uguaglianza di οὐσία e sulla loro differenziazione dovuta a diverse scelte, in polemica con Eracleone, il quale riteneva che il diavolo avesse una οὐσία diversa da quella degli altri λογικά 146. Tzamalikos che riporta il passo mattaico nella forma espansa del codice Jersualem, Patriarchal Library, Sabaiticus 232; cfr. Tzamalikos, Anaxagoras cit. (alla nota 15), pp. 1565ss. Per un diverso inquadramento del significato di queste analogie tra formule trinitarie, cfr. invece P. F. Beatrice, The Word «Homoousios» from Hellenism to Christianity, in «Church History», 71 (2002), pp. 243-272. 141 Cfr. Origenes, Commentarii in Evangelium Ioannis, II, 10, 74, PG 11, 125D128A, ed. Preuschen cit., p. 64, 6-15; 23, 149, 153C, p. 80, 1-7. 142 Cfr. ibid. X, 37, 246, 277C, p. 213, 30-32. Il Figlio è detto essere Dio κατ᾽ οὐσίαν in Id., Fragmenta in Evangelium Ioannis (in catenis), Fr. 1, ed. Preuschen cit. (alla nota 106), p. 485, 13. 143 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XIII, 21, 124, PG 11, 432C, ed. Preuschen cit., p. 244, 24-27. 144   Id., Fragmenta in Evangelium Ioannis (in catenis), Fr. 37, ed. Preuschen cit. (alla nota 106), p. 513, 17. 145  Id., Commentarii in epistola ad Romanos, ed. J.-B. Scherer, in J.-B. Scherer, Le Commentaire d’Origène sur Rom. 3. 5-5. 7 d’après les extraits du papyrus No. 88748 du Musée du Caire et les fragments de la «Philocalie» et du Vaticanus Gr. 762. Essai de reconstruction du texte et de la pensée des tomes 5. et 6. du «Commentaire sur l’Épîtres aux Romains», Le Caire 1957 (Institut français d’archéologie orientale du Caire. Bibliothèque d’études, 27), p. 162, 17. 146 Cfr.  Origenes, Selecta in Psalmos, PG 12,  1576; Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 23, 199-200, PG 11, 625C, ed. Preuschen cit., p. 357, 2027. Sulla οὐσία del diavolo e  il problema della sua apocatastasi per Origene cfr.  G.  Bunge, Créé pour être, in «Bulletin de Littérature Ecclésiastique», 97

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Q uesta οὐσία, nel caso degli esseri umani, è  costituita dalla loro anima 147, ed è  una οὐσία indistruttibile sia nel caso del diavolo, che non può perire ma sarà restaurato in quanto creatura, sia nel caso degli uomini: se la Scrittura dice che Dio farà perire il loro frutto e la loro semenza, Origene spiega che a perire non saranno i peccatori nella loro οὐσία, bensì le loro qualità malvagie, i loro cattivi frutti, la pula e la paglia che saranno bruciati nel fuoco purificatore 148. Similmente, quando i  peccatori sono chiamati «figli del diavolo» nella Scrittura, Origene precisa che non sono tali κατ᾽οὐσίαν, ma solo per la loro attività, i loro ἔργα 149. Si ripresenta anche qui la distinzione tra οὐσία ed ἐνέργεια che ha molta parte nel pensiero di Origene, come poi in quello dei Cappadoci. Credo che il presente studio possa contribuire a illuminare un aspetto importante, fra i molti e sostanziali 150, della dipendenza del pensiero dei Cappadoci, e specialmente di Gregorio di Nissa, da quello autentico di Origene.

(1997), pp. 21-29; R. L. Holliday, Will Satan be saved? Reconsidering Origen’s Theory of  Volition in Peri Archon, in «Vigiliae Christianae», 63 (2009), pp. 1-23. 147   Origenes, Fragmenta in Lucam, ed. M.  Rauer, Berlin 1959 (Origenes Werke, 9), p. 181, 2: «L’essere umano interiore è la sua οὐσία in senso primario». 148 Cfr. Id., Selecta in Salmos, PG 12, 1252. 149 Cfr. Id., Commentarii in Evangelium Ioannis, XX, 24, 219, PG 11, 629BC, ed. Preuschen cit., p. 260, 5-9. 150  Cfr.  anche I.  Ramelli, Christian Soteriology and Christian Platonism. Origen, Gregory of  Nyssa, and the Biblical and philosophical Basis of  the Doctrine of  Apokatastasis, in «Vigiliae Christianae», 61 (2007), pp. 313-356; Ead., The Christian Doctrine of  Apokatastasis cit. (alla nota 18), pp. 137-215.

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Il numero, affatto cospicuo, di occorrenze della triade οὐσία  – δύναμις – ἐνέργεια nel repertorio testuale patristico-orientale e bizantino ci spinge a parlare di presenza piuttosto che di ricezione: la triade infatti, a partire dal sesto secolo, risulta largamente attestata nell’armamentario terminologico e speculativo degli autori cristiani di lingua greca quale elemento ricorrente della loro riflessione ontologica, utilizzata come strumento concettuale ormai acquisito e  fatto proprio, piuttosto che alla stregua di elemento preso a prestito occasionalmente da fonti più antiche. Per questo motivo, il quadro speculativo entro cui la triade è stata utilizzata dai Padri ellenofoni e  dagli autori bizantini ci porterà a  investigare l’effettiva corrispondenza tra la concezione ontologica ad essa sottesa e  la sua formulazione triadica. Conseguentemente, sarà importante soppesare tanto la fortuna, quanto il mantenimento della struttura formale della triade in relazione allo sviluppo del canone terminologico-concettuale proprio dell’ontologia cristianoorientale e al ruolo giocato dai corpora quali snodi essenziali nella sua diffusione. Il Corpus Dionysiacum ha costituito per gli autori bizantini la più importante fonte della triade. La  sua influenza ha permesso loro – analogamente e forse in misura ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto nel Medioevo latino – non solo di prenderne conoscenza, ma anche di basarsi su un’auctoritas atta a giustificare il suo utilizzo in ambito teologico. Lo pseudo-Dionigi ha infatti adattato la teoria neoplatonica della triade al  sistema dell’ontologia patristica post-nicena, mantenendone l’esoscheletro terminologico e alcuni aspetti concettuali paradigmaticamente neutri La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127957 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 181-223     © 

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rispetto alla teologia pagana. Possiamo quindi affermare che già nello pseudo-Dionigi, autore che va identificato come colui che ha introdotto a tutti gli effetti la triade nella tradizione patristica orientale e, conseguentemente, in quella bizantina, si incontra il bivio che porta la teoria della triade verso una nuova economia rispetto alla sua originaria matrice neoplatonica. A fianco di Dionigi, vanno annoverati gli autorevoli corpora di Giovanni Damasceno e di Massimo il Confessore, senza dimenticare i  Padri Cappadoci, in particolare Gregorio di Nissa, nei cui testi la triade inizia ad assumere la propria fisionomia, e dove, soprattutto, si pongono le fondamenta dell’edificio ontologico che fornirà alla teologia bizantina la sua base terminologica e concettuale. Il  concorso di queste fonti, dottrinalmente importanti e quantitativamente rilevanti, ha fatto sì che la triade si sia innestata e diffusa come un elemento proprio della tradizione speculativa bizantina, ricorrendo nei più disparati ambiti. Q uale parte non trascurabile di questa trasmissione va sottolineata la duratura attualità e autorialità in ambito bizantino delle fonti patristiche, che non smetteranno mai di essere citate o  riportate in florilegi e lessici. Una ricerca nel database ‘Thesaurus Linguae Grecae’ ha restituito diverse centinaia di occorrenze della triade tra gli autori cristiani di lingua greca. In considerazione del fatto che la triade si attesta sovente in forme e interpretazioni standardizzate, non risulterebbe né utile né economico – anche per ragioni quantitative – studiarla sistematicamente in ogni autore in cui essa fa comparsa. La nostra indagine partirà dagli autori attivi tra il vi e il vii secolo, in particolare dallo pseudo-Dionigi e i suoi commentatori, ai quali si riconduce l’origine e il fondamento della fortuna della triade in ambito bizantino 1.

  Per quanto riguarda gli autori che sono oggetto di trattazioni specifiche nei saggi inclusi nel presente volume dovuti a I. Ramelli e J. Gavin S. J., ci limiteremo a  sottolineare il loro contributo alla storia della triade nel pensiero cri­ stiano orientale senza addentrarci in disamine esaustive, per le quali rimandiamo ai detti capitoli. 1

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1. Pseudo-Dionigi Areopagita La triade ontologica compare nel Corpus complessivamente in sette occorrenze: quattro nei Nomi divini, una nella Gerarchia celeste e  due (imperfette) nella Gerarchia ecclesiastica. In  nessun caso lo pseudo-Dionigi associa ad essa una definizione o  dedica un’esegesi particolare alle relazioni tra i suoi termini, tuttavia, con ogni evidenza, egli la adotta nella sua speculazione come modello ontologico ben definito. Oltre ad essere una fonte decisiva per la trasmissione della triade al  Medioevo greco, il Corpus Dionysiacum va tenuto in considerazione anche per quanto riguarda l’indagine della formazione della triade e della sua eventuale adozione da parte dei Padri precedenti allo pseudo-Dionigi, in particolare i  Padri Cappadoci, il cui insegnamento costituì per l’autore del Corpus un fondamento imprescindibile della sua speculazione. 1.1. Inizieremo la nostra disamina dai Nomi divini, assumendo che questo trattato risalga alla fase antiquiore della scrittura del Corpus, nella quale la formazione neoplatonica dello pseudoDionigi emerge con maggior evidenza 2. La prima citazione della triade che vi incontriamo tradisce il contesto neoplatonico da cui essa è stata ripresa, reso evidente dalla terminologia impiegata da Dionigi, benché tale ripresa terminologica non comporti la pedissequa riproposizione dello stesso impianto concettuale delle sue fonti 3: Per mezzo di questi [raggi divini] sono state costituite tutte le essenze, potenze ed energie intelligibili e intelligenti (ὑπέστησαν αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ πᾶσαι καὶ οὐσίαι καὶ δυνάμεις καὶ ἐνέργειαι), e per mezzo di questi esse sono e hanno una vita senza fine e  senza declino, libere da ogni corruzione, morte, materia e generazione 4.

I tre termini della triade – al plurale – indicano qui per sineddoche le intelligenze angeliche nel loro complesso. Oltre che per la 2  Cfr. E. S. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum, Roma 2018 (Institutiones, 6), pp. 467-477. 3 Le opere del Corpus Dionysiacum sono citate secondo le indicazioni offerte nella sezione ‘Sigle e abbreviazioni’. La traduzione e i corsivi sono nostri. Per brevità indichiamo lo pseudo-Dionigi semplicemente come ‘Dionigi’. 4  DN IV, 1, 693B, p. 144, 6-7.

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triade, questo passo mostra un ulteriore debito verso il neoplatonismo nel binomio νοηταὶ καὶ νοεραί, che a partire dalla Theologia Platonica di Proclo costituisce una locuzione ben attestata nelle opere dei neoplatonici ateniesi ed è utilizzata per designare gli dèi intelligibili-intellettivi 5. In altri due successivi passi dei Nomi divini, il binomio νοηταὶ καὶ νοεραὶ è  associato esplicitamente agli angeli in relazione ai primi due termini della triade, l’essenza e la potenza: Da questa causa di tutte le cose, derivano le essenze intelligibili e intelligenti degli angeli conformi a Dio (αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ τῶν θεοειδῶν ἀγγέλων οὐσίαι), e le nature delle anime e di tutto il cosmo 6. Da questa [Causa più che sapiente] derivano le potenze intelligibili e intelligenti delle intelligenze angeliche (αἱ νοηταὶ καὶ νοεραὶ τῶν ἀγγελικῶν νοῶν δυνάμεις) le quali hanno intellezioni semplici e beate 7.

Q ueste definizioni ricadono ancora sotto la figura della sineddoche, dacché un singolo elemento della natura angelica è utilizzata per indicarne la totalità. Il primo di questi passi ha valenza ontologica, in quanto giustifica l’esistenza degli angeli e, in generale, di ogni realtà in virtù del nome divino dell’Essere (da cui le οὐσίαι), che è oggetto del quinto capitolo dei Nomi divini; il secondo ha valenza gnoseologica, facendo discendere la potenza dell’essere 5  Le trasformazioni a cui Dionigi sottopone il significato di questo binomio rispetto alle fonti neoplatoniche sono rilevanti, ma essendo tangenziali alla teoria della triade ontologica ci limitiamo ad accennarvi soltanto: per Proclo gli dèi intelligibili e intellettivi costituiscono la seconda triade della serie degli dèi, mentre per lo pseudo-Dionigi tutti i nove ordini angelici sono νοηταὶ καὶ νοεραί. Per Proclo, inoltre, questa triade ha una funzione mediana tra la prima triade (gli dèi intelligibili) e la terza (gli dèi intellettivi), ovvero ha una funzione di intermediario ontologico, garantita dalla duplice partecipazione all’attributo superiore (l’intelligibilità) e a quello inferiore (l’intellettività); cfr. E. P. Butler, Essays on the Metaphysics of  Polytheism in Proclus, New York 2014, p. 122; M. Abbate, La «Teologia Platonica» di Proclo: struttura e significato, in Proclo, Teologia Platonica, a cura di M. Abbate, Milano 2019, [pp. xvi-cxxxvi], p. xxxvii. In Dionigi questa funzione viene meno in quanto la gerarchia angelica ha la funzione di trasmettere le illuminazioni tearchiche e non ha una funzione di mediazione ontologica. Va infine notato che nei Nomi divini non compare accenno alla divisione triadica degli ordini angelici, che ha invece un ruolo centrale nella Gerarchia celeste. 6  DN V, 8, 821C, p. 186, 1-2. 7  DN VII, 2, 868B, p. 195, 3-4.

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intellegibile e  dell’intelligenza dal nome divino della Sapienza, oggetto del settimo capitolo della stessa opera. Nel primo caso le οὐσίαι determinano la sussistenza ontologica degli angeli, nel secondo caso le δυνάμεις appaiono come attributo ontologico della loro natura. Q uesto ci permette di avvicinarci alla comprensione di come Dionigi abbia concepito i  tre termini della triade nella loro reciproca relazione e funzionalità. Rimane da comprendere come venga trattata l’ἐνέργεια in relazione alle potenze angeliche. Prendiamo allora in considerazione i passi in cui l’operazione viene posta in relazione con la potenza al di fuori del modello della triade. Nella Gerarchia celeste, abbiamo diversi casi utili a risolvere il nostro quesito. Nel primo di essi la potenza e l’operazione mediante cui gli angeli della prima schiera celeste imitano Dio appaiono come due realtà correlate, anche se nulla viene detto su una loro eventuale relazione di concomitanza o priorità: Infatti queste [essenze elevatissime] per prime conoscono Dio e desiderano al di sopra di ogni cosa la divina virtù (θείας ἀρετῆς) e sono fatte degne di essere le prime amministratrici (πρωτουργοὶ), per quanto possibile, della potenza e dell’operazione che imitano Dio (θεομιμήτου δυνάμεως καὶ ἐνεργείας) 8.

Lo stesso tipo di relazione emerge da un passo di poco successivo, dove si delinea il rapporto di analogia tra le energie divine, le operazioni sacerdotali e quelle angeliche: Come infatti Dio purifica tutte le cose, in quanto è la causa di ogni purificazione, o  meglio – per utilizzare un esempio che ha all’incirca lo stesso significato – come il gerarca [della nostra gerarchia] che attraverso i suoi ministri che purificano o  i  suoi sacerdoti che illuminano è  detto purificare e  illuminare, attribuendo a  lui stesso le sacre operazioni (ἱερὰς ἐνεργείας) proprie degli ordini che sono stati da lui consacrati, così allo stesso modo l’angelo che opera la purificazione del teologo [scil. Isaia] vede attribuita la propria scienza e potenza catartica (τὴν οἰκείαν καθαρτικὴν ἐπιστήμην καὶ δύναμιν) a Dio, in quanto ne è la causa, e al Serafino, in quanto ne è il primo operatore gerarchico (ὡς πρωτουργὸν ἱεράρχην) 9.   CH XIII, 3, 301C, p. 45, 21.   CH XIII, 4, 305D, p. 48, 26.

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Da quest’ultimo passo la potenza e l’operazione risultano essere equivalenti e i loro termini interscambiabili. Nel seguente passo –  dove viene illustrato il simbolismo di alcune immagini bibliche – si pone invece la correlazione tra i due termini attraverso il complemento di specificazione, sicché l’operazione appare come la potenza in processione: Le ruote alate, che procedono in avanti senza ritorno e senza flessione indicano la potenza della loro operazione (αὐτῶν ἐνεργείας δύναμιν), la quale procede in direzione retta e ascendente 10.

Nelle battute finali della Gerarchia celeste, i  due termini compaiono infine in riferimento alle potenze della natura angelica e agli atti provvidenziali compiuti dagli angeli secondo la narrazione biblica: Se mi dicessi che non ho ricordato in modo sistematico le potenze, gli atti o le immagini (δυνάμεων ἢ ἐνεργειῶν ἢ εἰκόνων) angeliche nelle Scritture (…) 11.

Dai passi sopra analizzati possiamo constatare come la concezione dionisiana del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια non implichi – neoplatonicamente – una divisione tra i loro rispettivi ambiti ontologici: in altri termini l’energia non appare essere una emanazione/degradazione ontologica – ossia, una realtà meno trascendente – della potenza, né la potenza un agente intermediario tra l’essenza e l’energia. Dionigi fa usualmente riferimento alle intelligenze celesti per sineddoche, indicandole come ‘Essenze’ o  ‘Potenze’, con l’aggiunta o  meno dell’aggettivo ‘celesti’, mentre in riferimento ad esse non troviamo mai l’impiego del termine ‘energie’. Dionigi parla di ‘essenze’, ‘potenze’ ed ‘energie (operazioni o azioni)’ degli angeli, oppure di ‘essenze’ e ‘potenze celesti’, ma non utilizza mai la sineddoche ‘energie [celesti]’ per designare gli angeli. Gli angeli sono dunque ‘essenze’ e ‘potenze’, ma non ‘energie’. Essi hanno energie (ovvero compiono operazioni), così come hanno essenza

  CH XV, 9, 337CD, p. 58, 12-14.   CH XV, 9, 340B, p. 59, 8-9.

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e potenza 12. Nel passo di Nomi divini IV, 1, da cui abbiamo preso le mosse, troviamo le qualità di «intelligibili e intelligenti» come attribuito delle ‘energie’, tuttavia questi due termini sono riferiti all’intera triade e non alle sole energie: Dionigi non sta qui parlando ‘di energie celesti’ e le energie qui in questione devono essere lette come le operazioni o attività delle essenze/potenze celesti. Analogamente, Dionigi parla di ‘potenza’ e  di ‘operazione’ in riferimento alla natura umana (guardando in particolare alle facoltà naturali nell’uomo della ragione e dell’intelletto) 13, e nello specifico degli ordini sacerdotali, delle potenze e delle operazioni che sono nelle loro prerogative particolari 14. Pur implicando gli atti liturgici l’agire nella dimensione temporale, Dionigi non considera neanche in questo caso il rapporto tra atto e  potenza alla luce del divenire dalla potenza all’atto. Una concezione del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια in cui la potenza sia concepita – aristotelicamente – come assenza di energia-atto, e  l’energiaatto come compimento ontologico (ovvero attualizzazione) della potenza non trova dunque riscontro in Dionigi – il quale del

12 Ad esempio DN VII, 2, 868B, p. 195, 8: «E a queste [potenze intelligibili e intelligenti] è propria una potenza e un’energia splendente di una purezza senza mescolanza e immacolata (καὶ ἔστιν αὐταῖς ἡ νοερὰ δύναμις καὶ ἐνέργεια τῇ ἀμιγεῖ καὶ ἀχράντῳ καθαρότητι κατηγλαϊσμένη)»; CH VIII,  1,  237D, 33, 8: «Il nome delle sante Potenze indica una forza inconcussa in tutte le operazioni che imitano il divino in conformità a questa [forza] (τὴν δὲ τῶν ἁγίων δυνάμεων ἀρρενωπόν τινα καὶ ἀκατάσειστον ἀνδρείαν εἰς πάσας τὰς κατ’ αὐτὴν θεοειδεῖς ἐνεργείας)». La traduzione di ἐνέργεια costituisce una crux degli studi di filosofia tardoantica e bizantina: riteniamo opportuno non perdere di vista la ricchezza semantica che il termine ha assunto con l’optare per un termine univoco, bensì rendendo il termine nel modo più opportuno, a seconda dei contesti, con ‘atto’, ‘azione’, ‘operazione’ o ‘energia’; in merito, cfr. Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229), pp. 36-44; D. Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of  Christendom, Cambridge 2004, p. xi; T. Th. Tollefsen, Activity and Participation in Late Antique and Early Christian Thought, Oxford 2012 (OECS), pp. 4-5. 13 Cfr. DN I, 1, 585B, p. 108, 3: «Della nostra [umana] potenza e operazione razionale e intellettiva (καθ’ἡμᾶς λογικῆς καὶ νοερᾶς δυνάμεως καὶ ἐνεργείας)». 14  Cfr. EH V, 1, 500D, p. 104, 3-5: «È ora di esporre, dopo aver parlato di queste divine azioni sacerdotali, gli ordini del sacerdozio e  le loro ripartizioni, le loro potenze e  le operazioni e  le ordinazioni (καιρὸς δ’ἂν εἴη μετὰ τὰς θείας ἱερουργίας αὐτὰς ἐκθέσθαι τὰς ἱερατικὰς τάξεις τε καὶ ἀποκληρώσεις δυνάμεις τε αὐτῶν καὶ ἐνεργείας καὶ τελειώσεις)»; cfr. anche EH V, 7, 509A, p. 110, 6-7; EH VI, 1, 529D, p. 115, 1-2.

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resto non usa mai il termine aristotelico ἐντελέχεια 15. Δύναμις ed ἐνέργεια sono concepite da Dionigi quali sinonimi come potenza/ energia dell’essenza, nelle quali si esprime la capacità ontologica di operazione di questa, e  ciò vale tanto per gli atti eterni della natura divina, quanto per le operazioni sovratemporali della gerarchia celeste, quanto per le azioni della gerarchia ecclesiastica nella dimensione temporale. 1.2. La seconda occorrenza della triade in ordine di scrittura compare sempre nel quarto capitolo dei Nomi divini, all’interno di una serie di termini che si riconnettono al nome divino dall’Essere buono e bello: Infatti ‘da lui e per mezzo di Lui’ (Rm 11, 36) derivano l’essenza (οὐσία) e tutta quanta la vita dell’intelletto e dell’anima e di ogni natura (πάσης φύσεως), le piccolezze, le uguaglianze, le grandezze, ogni misura, nonché le proporzioni, le armonie e le fusioni degli esseri, le totalità, le parti, tutto ciò che è uno e il molteplice (…) gli elementi, le forme, ogni essenza, ogni potenza, ogni energia (πᾶσα οὐσία, πᾶσα δύναμις, πᾶσα ἐνέργεια), ogni attitudine (ἕξις), ogni sensazione, ogni ragione, ogni intellezione, ogni contatto, ogni scienza, ogni unione 16.

Il fatto che i  termini della triade siano qui disposti in sequenza lascia capire che Dionigi abbia voluto contestualizzarne la struttura trinomica all’interno di una definizione più generale, comprensiva dei termini che definiscono il quadro ontologico e gnoseologico in cui si iscrive «ogni natura». Se dunque la triade rientra a  pieno titolo tra i  termini che definiscono l’ontologia di ogni essere, il suo inserimento in una definizione polinomica sembra allo stesso tempo indicare che egli non la concepisse come modello ontologico univoco nel quale si ricapitola e  si esaurisce la piena comprensione dell’essere delle cose che sono 17. 15   Su questo termine in relazione al concetto di atto in Aristotele, cfr. E. Berti, Genesi e sviluppo della dottrina della potenza e dell’atto in Aristotele, in «Studia Patavina», 5 (1958), [pp. 477-505], pp. 486, 497-498; S. Menn, The Origins of  Aristotle’s Concept of  Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73-114], pp. 75-77. 16  DN IV, 10, 705CD, p. 154, 17-18. 17 Per un altro caso in cui la triade non risulta sufficiente secondo Dionigi per definire univocamente le caratteristiche ontologiche di un genere particolare, cfr. infra, § 1.4.

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1.3. Le ultime due occorrenze della triade nei Nomi divini compaiono nei paragrafi dedicati al  problema del male, che Dionigi ha scritto parafrasando il trattato procliano De malorum subistentia 18. Nel primo passo si pone il quesito relativo ai possibili effetti ontologici dalla malvagità dei demoni: E dunque, [i demoni] sono cattivi per se stessi o per gli altri? Se per se stessi, allora distruggeranno se stessi; se per gli altri, in che modo distruggono o  che cosa (πῶς φθείροντες ἢ τί φθείροντες), l’essenza o la potenza o l’attività (οὐσίαν ἢ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν)? Se è  l’essenza, in primo luogo non [possono agire] contro natura, infatti non distruggono le cose che sono indistruttibili per natura, ma distruggono quelle che possono essere distrutte (εἰ μὲν οὐσίαν, πρῶτον μὲν οὐ παρὰ φύσιν, τὰ γὰρ φύσει ἄφθαρτα οὐ φθείρουσιν, ἀλλὰ τὰ δεκτικὰ φθορᾶς) 19.

Dionigi si riferisce qui alla triade per sostenere che l’agire malvagio dei demoni non tocca l’essere delle cose. Poche righe più sotto offrirà la sua risposta al problema del male, che viene ricondotto all’ambito della volontà: i  demoni sono cattivi perché hanno smesso di volere i  beni divini 20. Q uesto argomento esula chiaramente dalle prospettive del neoplatonismo, rispondendo alla demonologia cristiana e di fatto non compare nell’ipotesto procliano, nel quale leggiamo però l’argomento della distruzione, illustrato in riferimento ai termini della triade 21. Proclo ammette 18  Cfr. C. Steel, Proclus et Denys: de l’existence du mal, in Denys l’Aréopagite et sa postérité en Orient et en Occident. Actes du Colloque International (Paris, 21-24 septembre 1994), éd. par Y. de Andia, Paris 1997 (Collection des Études Augustiniennes. Série Antiquité, 151), pp. 89-116. 19  DN IV, 23, 724C, p. 170, 16-17. 20 Cfr. DN IV, 23, 725A, p. 171, 5-7: ἐν τίνι γάρ, εἰπέ μοι, κακύνεσθαί φαμεν τοὺς δαίμονας, εἰ μὴ ἐν τῇ παύσει τῆς τῶν θείων ἀγαθῶν ἕξεως καὶ ἐνεργείας; cfr. E. S. Mainoldi, Il  non essere volontario: la concezione del male nella tradizione teologica e ascetica bizantina, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 6 (2008), pp. 181-210. 21  Essendo perduto l’originale greco, il trattato procliano è  oggi accessibile solo nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbecke; il testo originale è parzialmente ricostruibile in base alla parafrasi greca realizzata da Isacco Sebastocratore (sec. xi); avvalendosi della versione latina e della parafrasi di Isacco, Benedikt Strobel ha proposto una retroversione greca dell’intero trattato: B.  Strobel, Proklos, Tria opuscula. Textkritisch kommentierte Retroversion der Übersetzung Wilhelms von Moerbeke, Berlin 2014 (Commentaria in Aristotelem Graeca et Byzantina, 6).

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la possibilità di distruzione dell’essenza, da cui consegue la distruzione della potenza e  dell’operazione, escludendo però che la distruzione abbia effetto a  ritroso dall’operazione all’essenza 22. La  triade viene qui inquadrata dal Diadoco come una struttura emanatistica, i  cui tre termini sono disposti all’interno di una catena causale per la quale l’essenza ha effetto sulla potenza e questa sull’energia, ma in cui la cessazione degli effetti non riguarda la causa, sicché né l’essenza viene toccata dalla distruzione della potenza o dell’energia, né la potenza dalla distruzione dell’energia. Dionigi si discosta da Proclo sull’argomento della distruzio 23 ne : esclude infatti che l’essenza possa essere distrutta, tenendo fede al presupposto di matrice biblica per cui ogni creatura è stata creata nel bene, onde la sua essenza non è  distruttibile né corruttibile. Lo  stesso vale per la potenza e  l’energia, che possono essere indebolite ma mai distrutte 24. Inoltre, la struttura emanatistica della triade, per come illustrata da Proclo, rimane estranea al testo dionisiano. Dionigi, confermando il suo scarso interesse per i problemi di ontologia della temporalità, non prende in considerazione il divenire temporale in relazione all’operazione della natura, lasciando dunque comprendere come per lui ogni natura abbia sempre con sé la propria potenza ed energia.

22  Cfr.  Proclus, On the Existence of  Evils, §  39, tr. ingl. di J.  Opsomer C. Steel, London - New York 2003, p. 87, 16-23: «In general, that which can damage greater things is a greater evil. Substance is above power and power is above activity. And that which destroys substance at the same time destroys power and activity; that which destroys power [also destroys] activity. Hence the destruction of  these [i.e. power and activity] cannot entail that of  substance, nor can power be abolished as a consequence of  the cessation of  activity. Or perhaps, evil that extends to activity is privation and not contrariety, whereas ‹that which is destructive of  either power or substance› is the contrary of  ‹either power or› substance»; per la retroversione greca cfr. Strobel, Proklos, Tria opuscula cit., p.  962, 15-20, dove si utilizza il termine φθαρτικόν per significare l’agente distruttivo. 23 Proclo sembrerebbe qui avvicinarsi a un’ontologia del mutamento dell’essenza compatibile con la posizione giamblichea che ammette il cambiamento sostanziale dell’anima; sulle oscillazioni di Proclo tra gli insegnamenti di Plotino e  Giamblico circa il divenire dell’anima, cfr.  C.  G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006, pp. 108-116 e in partic. p. 114). 24 Cfr. DN IV, 23, 725A, p. 171, 1.

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In un successivo paragrafo della trattazione sul male Dionigi ritorna sull’argomento della distruzione, affermando che il male non consiste nella distruzione (φθορά) della natura, cosa che – ribadisce – è  impossibile, bensì nell’affievolirsi delle energie e  delle potenze della natura. Il  riferimento alla debolezza e  al difetto (ἀσθένεια καὶ ἔλλειψις) esclude infatti che le energie e le potenze siano soggette a  distruzione, cioè che possano andare incontro a un completo annientamento. Anche qui il modello ontologico della triade è  presente, e  in contrasto con Proclo è  sottolineata ulteriormente la non distruttibilità della natura, della potenza e dell’energia che le sono inestinguibilmente connesse: Dal momento che l’impossibilità di distruggere la natura non è un male (τὸ μὴ φθείρεσθαι τὴν φύσιν οὐ κακόν), la distruzione della natura (φθορὰ δὲ φύσεως) è  [da intendersi come] una debolezza e un difetto (ἀσθένεια καὶ ἔλλειψις) delle attitudini, delle energie e delle potenze della natura (τῶν φυσικῶν ἕξεων καὶ ἐνεργειῶν καὶ δυνάμεων) 25.

Dionigi conclude la sua argomentazione definendo il male come la mancata realizzazione delle potenzialità naturali: Perciò, non è la natura ad essere cattiva (οὐκ ἔστι κακὴ φύσις); il male per la natura è questo (τοῦτο τῇ φύσει κακὸν): l’incapacità di realizzare le cose che sono [prerogativa] della propria natura (τὸ ἀδυνατεῖν τὰ τῆς οἰκείας φύσεως ἐκτελεῖν) 26.

Q uesto argomento apre un raro squarcio nell’opera dionisiana sulla realizzazione degli esseri – in questo caso di ogni natura in generale – nel divenire in base alle proprie prerogative naturali. Essa è ripresa dal testo di Proclo e questo spiegherebbe l’assenza di quella centralità causale accordata all’azione provvidenziale divina e della prevalente focalizzazione sull’anagogia e sulla deificazione che permea generalmente le pagine del Corpus 27.   DN IV, 25, 728B, p. 173, 7.   DN IV, 26, 728C, p. 173, 14-16. 27 Cfr. Proclus, On the Existence of  Evils cit., § 25, p. 75, 5-6: «Evil in them will consist in not acting according to [their] nature»; ibid., § 26, p. 76, 14-18: «But that which is naturally disposed to receive perfection from its natural virtues lacks both the perfection of  its nature and this disposition. This, then, is [its] evil: the privation of  a virtuous disposition. In the case of  such a privation, the un25 26

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1.4. Coerentemente con la soluzione al  problema del male, che Dionigi riconduce al  venir meno nei demoni della volontà di compiere il bene, l’ultima occorrenza della triade nei Nomi divini intercala tra i suoi termini la volontà: Se il bene è un essere, voluto, dotato di potenza e attivo (τὸ ἀγαθὸν καὶ ὄν ἐστι καὶ βουλητὸν καὶ ἐνδύναμον καὶ δραστήριον), come può avere qualche potere (πῶς δυνήσεταί) ciò che è contrario al bene (ἐναντίον τἀγαθῷ), essendo privo di essenza, di volontà, di potenza e di attività (τὸ οὐσίας καὶ βουλήσεως καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ἐστερημένον) 28?

Il male non è solo la privazione di sussistenza ontologica, ma è il prodotto della mancata volontà di fare il bene. La volontà è dunque la vera chiave per comprendere l’origine del male. In questo passo essa è posta da Dionigi dopo l’essenza, quasi a indicare che essa costituisce il raccordo tra l’essenza – inderogabilmente connessa al Bene –, e la potenza/energia. È dunque la volontà a fare sì che l’operazione della creatura intelligente e razionale aderisca o meno al bene che è connesso al suo partecipare dell’essere. Da qui vediamo ancora come la triade, per quanto costituisca per Dionigi il modello concettuale e  terminologico in cui si delinea l’ossatura ontologica fondamentale di ogni natura, non sia concepita da lui come sufficiente ad esaurire la comprensione dell’essere delle creature intelligenti in relazione al loro agire. 1.5. Nell’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste, Dionigi si preoccupa di mettere in chiaro che la denominazione degli angeli per sineddoche come essenze o potenze celesti non implica il venir meno della distinzione tra gli ordinamenti angelici, i cui confini ontologici sono definiti in base al  trinomio essenza  – potenza – ope­razione: Usando una denominazione comune a tutte le potenze celesti, non vogliamo asserire alcuna confusione delle proprietà di ciascun ordinamento, ma, dal momento che tutte le divine intelligenze (οἱ θεῖοι νόες) possono essere distinte, secondo la derlying nature may be perverted, and possibly even becomes the complete opposite of  its own virtue». Va sottolineata l’assenza del tema della volontà in Proclo. 28  DN IV, 32, 733A, p. 177, 19-20.

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ragione ipercosmica che è  propria di ciascuna di esse (κατ’ αὐτοὺς ὑπερκοσμίῳ λόγῳ), in queste tre (εἰς τρία διῄρηνται), cioè in essenza, potenza e  operazione (εἰς οὐσίαν καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν), quando le chiamiamo indistintamente nel loro insieme o  singolarmente ‘essenze celesti’ (οὐρανίας οὐσίας) o ‘potenze celesti’ (οὐρανίας δυνάμεις), deve essere inteso che stiamo parlando in modo perifrastico (περιφραστικῶς) e  ci stiamo riferendo ad esse in merito all’essenza o alla potenza di ciascuna di quelle (καθ’ ἕκαστον αὐτῶν οὐσίας ἢ δυνάμεως); ma non si vuole intendere che la proprietà superiore delle sante potenze, attualmente ben distinte rispetto noi, sia attribuita in generale anche alle essenze inferiori, sovvertendo il principio dell’ordine inconfuso degli ordinamenti angelici (τῆς ἀσυγχύτου τῶν ἀγγελικῶν διακόσμων ταξιαρχίας) 29.

La distinzione «in essenza, potenza e operazione», non implica soltanto che in ogni intelligenza siano distinguibili i tre elementi della triade, ma anche che le molteplici intelligenze si distinguano reciprocamente per avere ciascuna una propria essenza, una propria potenza e una propria operazione. Tuttavia, bisogna chiedersi a quale classe di esseri Dionigi faccia qui riferimento parlando di distinzione in base all’οὐσία; il quesito infatti ammette tre possibili soluzioni: l’οὐσία può essere riferita 1) alla natura generale degli angeli, oppure 2) all’ordinamento angelico (διακόσμησις) in cui si suddivide la gerarchia celeste (cherubini, serafini, arcangeli ecc.), oppure 3) a un angelo preso nella sua individualità. Nel primo caso avremmo un modello di partecipazione esemplaristica di più individui a un’unica essenza, ovvero la condivisione della natura comune (per cui la distinzione tra individui sarebbe data soltanto dalla differenziazione della potenza e dell’energia – differenziazione riportabile alla concezione porfiriana dell’individualità come collezione di attributi 30); nel secondo caso avremmo una divisione ontologica interna alla gerarchia angelica (cosa che darebbe vita a generi e a specie di angeli – e di ciò Dionigi non

  CH XI, 2, 284D, pp. 41, 20 - 42, 8.  Cfr.  R. Sorabji, Self: Ancient and modern Insights about Individuality, Life, and Death, Chicago 2006, pp. 137-153 J. Zachhuber, Individuality and the theological Debate about «Hypostasis», in Individuality in Late Antiquity, edd. A. Torrance - J. Zachhuber, Surrey - Burlington (VT) 2014, [pp. 91-109], pp. 94, 100, 107-108. 29 30

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parla da nessuna parte); nel terzo caso invece l’οὐσία non può esistere al di fuori dell’ὑπόστασις, cioè fungerebbe da sostrato ontologico dell’esistenza particolare della natura angelica, soluzione che a sua volta non trova giustificazione esplicita nel testo dionisiano. La questione va riconsiderata alla luce dell’asserzione iniziale del testo, per cui la distinzione delle intelligenze si fonda sul λόγος ὑπερκόσμιος che è proprio di ciascuna di esse. Con questa espressione Dionigi fa riferimento alle cause provvidenziali (λόγοι) contenute nella potenza superessenziale del Logos-Sapienza divini e da cui dipende la creazione di ogni essere 31. La triade si configura dunque come la distinzione ontologica di ciò che è pre-ontologicamente distinto nella Sapienza divina. Il modello triadico stabilisce così, da una parte, la distinzione ‘esterna’ degli angeli rispetto ad ogni altra creatura – in base alla loro οὐσία –, cioè la loro perenne identità ontologica in base all’essenza generale della natura angelica, nonché la distinzione ‘interna’ tra i nove ordini angelici in base alla δύναμις propria di ciascuno di essi di partecipare alle illuminazioni divine (con gli ordinamenti superiori che condividono le potenze di quegli inferiori, ma non viceversa) 32 e alla ἐνέργεια di trasmettere quelle illuminazioni agli ordini inferiori 33. La triade non funge dunque da archetipo esemplare dell’individualità di ogni singola intelligenza celeste, bensì costituisce l’articolazione nell’essere della causalità sovracosmica da cui deriva tanto la natura angelica nel suo complesso quanto l’individualità particolare degli angeli: l’οὐσία non è causa dell’esistenza dell’angelo (sua causa è infatti il suo λόγος sovressenziale, ovvero 31  In particolare, Dionigi parla dei λόγοι divini in DN V,  9,  824C, p.  188; i λόγοι non hanno peraltro valenza intellegibile, ma sono disposti nella Sapienza divina che trascende ogni intelletto. Q uesta teoria sarà successivamente ripresa e sviluppata da Massimo il Confessore, per cui cfr. infra, alla nota 85. 32 Cfr. CH V, 196B, p. 25, 9-11: «Diciamo che in base al sacro ordinamento gli ordini superiori possiedono anche le illuminazioni e le potenze degli ordinamenti inferiori, mentre gli inferiori non partecipano delle stesse [illuminazioni e  potenze] degli ordini che sono sopra di loro (φαμὲν δὲ ὅτι κατὰ πᾶσαν ἱερὰν διακόσμησιν αἱ μὲν ὑπερβεβηκυῖαι τάξεις ἔχουσι καὶ τὰς τῶν ὑφειμένων διακοσμήσεων ἐλλάμψεις καὶ δυνάμεις, ἀμέθεκτοι δὲ τῶν αὐτὰς ὑπερκειμένων εἰσὶν αἱ τελευταῖαι)». 33 Cfr. CH III, 2, 165B, p. 18, 15-17: «Ciò che è più divino di tutto è, come dicono le Scritture, diventare ‘collaboratori di Dio’ (1Cor 3,  9) e  mostrare che l’energia divina si mostra in se stessi per quanto è  possibile (καὶ τὸ δὴ πάντων θειότερον ὡς τὰ λόγιά φησι ‘Θεοῦ συνεργὸν’ γενέσθαι καὶ δεῖξαι τὴν θείαν ἐνέργειαν ἐν ἑαυτῷ κατὰ τὸ δυνατὸν ἀναφαινομένην».

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la volontà stessa del Λόγος divino, trascendente il dominio ontologico 34), bensì costituisce la base della sua sussistenza nel dominio dell’essere come risultato dell’atto creazionale divino; essendo l’οὐσία angelica comune a tutti gli angeli, essa è un universale che non può realizzarsi altrimenti che nei singoli individui angelici. Se l’οὐσία avesse infatti una consistenza ontologica come archetipo al di fuori dagli individui sarebbe un’idea platonica, cosa che Dionigi esclude con piena consapevolezza paradigmatica 35. Ogni angelo ha un’οὐσία nella quale partecipa della generale natura angelica, e allo stesso tempo, riceve un ordinamento nella gerarchia celeste in virtù della sua potenza di ricezione e della sua operazione di trasmissione delle illuminazioni divine 36. 34  Dionigi formula questo principio nella definizione data in CH IV, 1, 177D, p.  20,  16-17: «L’essere di tutte le cose e  la divinità sopra l’essere (τὸ γὰρ εἶναι πάντων ἐστὶν ἡ ὑπὲρ τὸ εἶναι θεότης)». 35 Cfr. DN XI, 6, 953CD, p. 222, 6-11, luogo capitale dell’anti-platonismo di Dionigi: «Non diciamo che l’Essere-in-sé (τὸ αὐτοεῖναι) sia una qualche essenza divina o angelica (οὐ γὰρ οὐσίαν τινὰ θείαν ἢ ἀγγελικὴν εἶναί), causa dell’essere di tutti gli esseri (τοῦ εἶναι τὰ ὄντα πάντα αἰτίαν), giacché soltanto l’Essere sovressenziale è il principio, l’essenza e la causa (τὸ εἶναι τὸ ὑπερούσιον ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ αἴτιον) dell’essere di tutti gli esseri (μόνον γὰρ τοῦ εἶναι πάντα τὰ ὄντα); né diciamo (…) per dirla in breve, che vi siano delle essenze e ipostasi principali che creino gli esseri (οὔτε, συνελόντα εἰπεῖν, ἀρχικὰς τῶν ὄντων καὶ δημιουργικὰς οὐσίας καὶ ὑποστάσεις)». Gli unici archetipi ammessi da Dionigi sono i λόγοι divini, ovvero le divine provvidenze o volontà, le quali sono al di sopra dell’essere e della creazione; cfr. supra, alla nota 31. Per quanto i λόγοι possano essere interpretati come universali, la posizione di Dionigi non è tuttavia semplicemente riducibile a quella realistica di stampo platonico, in quanto questi sono piuttosto degli ‘universali me-ontologici’ e dunque non coincidono con le οὐσίαι bensì le trascendono. 36  Dionigi esprime la proporzionalità di partecipazione alle illuminazioni divine con l’espressione κατ’ οἰκείαν ἀναλογίαν (cfr. ad esempio, DN I, 1, 588A, p. 109, 3; CH III, 2, 165B, p. 18, 10; ibid., III, 3, 168A, p. 19, 22; EH IV, iii, 4,  477C, p.  98,  25). A  questa proporzionalità sono commisurate la potenza e l’ope­razione delle creature intellettuali e razionali. Esiste un altro luogo del Corpus in cui Dionigi propone l’argomento della distinzione dei singoli esseri, in termini analoghi a CH XI, 2, ovvero nell’ottavo capitolo dei Nomi divini, dedicato al  nome divino di Δύναμις (cfr.  DN VIII,  5,  892C, p.  202,  6-7). È di un certo interesse che Dionigi faccia qui riferimento a tutti gli esseri, animali e piante comprese, e non ai soli esseri intellettuali e razionali, come fa in prevalenza altrove. La  triade, tuttavia, qui non compare e  l’inconfusione e  amescolanza (ἀσύγχυτα καὶ ἀσύμφυρτα) degli esseri è ricondotta al loro logos e definizione (κατὰ τὸν οἰκεῖον ἕκαστα λόγον καὶ ὅρον), come del resto in CH XI, 2. Dal momento che la terminologia utilizzata in questi due loci paralleli è la stessa, la mancanza della triade ci pone il quesito se Dionigi non l’abbia presa in considerazione solo in una fase più avanzata di elaborazione del Corpus, e introdotta nelle opere o nelle parti più tardive, come CH o la parafrasi procliana sul male interpolata in DN IV; sulla cro-

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Per quanto riguarda la motivazione contingente che ha spinto Dionigi ad elaborare un argomento ontologico a garanzia dell’inconfusione degli ordini angelici, dobbiamo verosimilmente guardare alla diffusione di concezioni escatologiche eterodosse ad opera degli origenisti che militavano nelle fila del monachesimo siriaco e palestinese agli inizi del secolo vi, secondo i quali tutte le intelligenze (incluso il Cristo) sarebbero state destinate alla fine dei tempi ad essere unificate in un’enade indistinta. L’argomento di Dionigi, compreso il riferimento alla triade, venne segnalato dall’imperatore Giustiniano nella lettera inviata ai Padri del Q uinto concilio ecumenico (553) per sottoporre al loro giudizio gli errori degli origenisti 37: Dicono infatti (per ricordare alcuni punti tra i molti) che gli intelletti (νόες) fossero del tutto privi di numero e nome (δίχα παντὸς ἀριθμοῦ τε καὶ ὀνόματος), e che tutti gli esseri razionali saranno un’enade (ἑνάδα) in identità di essenza, energia (τῇ ταυτότητι τῆς οὐσίας καὶ ἐνεργείας) e in potenza (τῇ δυνάμει), in unione e conoscenza presso il Dio Verbo (τῇ πρὸς τὸν θεὸν λόγον ἑνώσει τε καὶ γνώσει) 38. Anche il diavolo ritornerà alla sua antica condizione, e  gli altri demoni torneranno alla stessa unità, sicché gli empi e gli uomini malvagi saranno una sola cosa con gli uomini divini e  perfetti di fronte a  Dio, e  con le virtù celesti; allo stesso modo sarà anche con Cristo, dovendo tornare ad essere uniti a  Dio, come lo erano in precedenza, sicché perfino Cristo non differirà da quelli in nessun modo, né per essenza, né per conoscenza, né nella potenza, né nell’energia (ὡς μηδε­μίαν εἶναι διαφορὰν τῷ Χριστῷ πρὸς τὰ λοιπὰ λογικὰ παντελῶς οὔτε τῇ οὐσίᾳ οὔτε τῇ γνώσει οὔτε τῇ δυνάμει οὔτε τῇ ἐνεργείᾳ) 39.

Le indicazioni di Giustiniano vennero successivamente recepite dai Padri conciliari, i quali condannarono Origene e introdussero nologia relativa tra le opere del Corpus, cfr. supra, alla nota 2. Ricordiamo che nel Corpus, le occorrenze della triade si trovano solo ed esclusivamente in questi loci. 37 Cfr. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit. (alla nota 2), pp. 45-51. 38  Flavius Justinianus, Epistula ad synodum de Origene, PG 86a, [989993], 991A, edd. M. Amelotti - L. Migliardi Zingale, in Scritti teologici ed ecclesiastici di Giustiniano, Milano 1977 (Legum Iustiniani imperatoris vocabularium. Subsidia, 3), p. 122. 39   Ibid., 991C, p. 122.

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la distinzione ontologica triadica negli anatematismi decretati nei documenti ufficiali: [II] Se qualcuno sostiene che gli esseri razionali senza eccezione vennero prodotti come intelletti privi di corpo e materia, senza alcun numero e  nome, in modo che formassero un’enade per identità di essenza, potenza ed energia, e in questa enade fossero in stato di unione e conoscenza con il Verbo Dio (τῆι ταυτότητι τῆς οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας, καὶ τῆι πρὸς τὸν θεὸν λόγον ἑνώσει τε καὶ γνώσει) (…) sia anatema 40. [XIII] Se qualcuno sostiene che in nulla il Cristo sarà diverso da alcuna delle creature razionali, né per essenza, né per conoscenza, né per potenza su tutto, né nell’energia (οὐδὲ τῆι οὐσίαι, οὐδὲ τῆι γνώσει, οὐδὲ τῆι ἐφ’ ἅπαντα δυνάμει ἢ ἐνεργείαι), ma che tutti saranno alla destra di Dio; e che tutti avrebbero avuto una preesistenza, come vaneggiano, allo stesso modo di colui che viene da loro chiamato Cristo, sia anatema 41.

In questi passi la triade ontologica ha dunque fatto il suo ingresso nell’apparato dogmatico della fede stabilito da un concilio ecumenico. Dionigi non trova qui menzione esplicita, ma il raffronto testuale mostra come l’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste possa essere identificato con buona plausibilità come la fonte di questa autorevole ripresa della triade 42. La ricezione di Origene a  Bisanzio mostra come la confutazione dell’escatologia del teologo alessandrino attraverso il ricorso alla triade abbia trovato a sua volta ricezione: è il caso di Niceforo Callisto Xanthopulo (secc. xiii-xiv) che ripropone questo stesso argomento nel quinto libro della sua Storia ecclesiastica, dedicato a Origene 43. 1.6. Le  ultime due occorrenze della triade nel Corpus, in apertura della Gerarchia ecclesiastica, sono occorrenze imperfette, in 40   Concilium universale constantinopolitanum sub Iustiniano habitum, 3 voll., I, ed. J. Straub, Berlin 1971 (ACO, 4, 1), p. 248; Mansi IX, col. 396. 41  Ibid., p. 249; coll. 399-400. 42 Cfr. Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit., pp. 51-55. 43  Cfr.  Nicephorus Callistus Xanthopulus, Historia ecclesiastica, V,  33, PG 145, [604-1332], 1129C. Niceforo riprende pressoché alla lettera le parole di Giustiniano nell’Epistula ad synodum de Origene, per le quali cfr. supra, alle note 38 e 39.

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quanto la triade non si presenta nel suo tipico trinomio, ma vede θεουργία al posto di ἐνέργεια come terzo termine. Il motivo di questa scelta terminologica è dovuto al fatto che Dionigi sta parlando della divinità di Gesù quale vertice della gerarchia: Come la Scrittura ha trasmesso a noi fedeli, Gesù stesso, l’intelletto assolutamente tearchico e  sovressenziale (Ἰησοῦς, ὁ θεαρχικώτατος νοῦς καὶ ὑπερούσιος), è il principio e l’essenza e la potenza del tutto tearchica della santificazione e della teurgia dell’intera gerarchia (ἡ πάσης ἱεραρχίας ἁγιαστείας τε καὶ θεουργίας ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ θεαρχικωτάτη δύναμις), il quale illumina in modo più chiaro e allo stesso tempo più intellettivo quelle beate essenze, a  noi superiori, rendendole simili alla propria luce. In quanto a noi, elevandoci per l’amore dei beni che ci guida verso di Lui, unifica le nostre molteplici differenze, e  avendo così portato a  perfezione l’attitudine e l’azio­ne (ἕξιν τε καὶ ἐνέργειαν) in una vita unificata e divina ci dona la potenza (δύναμιν), conforme alle cose sacre, del divino servizio sacerdotale, dal quale, procedendo nella santa operazione del sacerdozio (ἱερατείας ἐνέργειαν), ci avviciniamo, per quanto possibile, alle essenze che sono sopra di noi, mediante l’assimilazione alla stabilità e  immutabilità della loro sacra condizione 44.

Pur non presentandosi nel suo consueto schema terminologico, ci sembra tuttavia evidente che Dionigi, scrivendo questo passo, avesse in mente il modello ontologico della triade; questo esempio ci aiuta dunque a comprendere meglio come Dionigi abbia inteso questa struttura e i limiti della sua applicabilità. Allontanandosi dal significato che il termine θεουργία aveva nel suo originario contesto neoplatonico, Dionigi intende con esso univocamente l’energia divina nella sua azione deificante 45. Per lui, dunque, la teurgia è l’energia divina intesa come azione provvidenziale a favore degli esseri ed è un’operazione unitaria delle tre ipostasi della Trinità, motivo per cui sottolinea che essa proviene dalla potenza tearchica (cioè è prodotta dall’essenza comune della Trinità). Benché θεουργία sia assimilabile a ἐνέργεια, la sua sostituzione nella triade   EH I, 1, 372AB, p. 63, 11-64.  Cfr.  A. Louth, Pagan Theurgy and Christian Sacramentalism in Denys the Areopagite, in «The Journal of  theological Studies», 37 (1986), pp. 432-438; Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’ cit., pp. 246-247. 44 45

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evidenzia come Dionigi eviti di applicare l’ontologia triadica alla Trinità a  meno di sottolineare la sua trasposizione nel dominio iperontologico trinitario attraverso la modifica della sua terminologia. Analogamente si legge in un successivo passo della Gerarchia ecclesiastica, dedicato alla consacrazione mediante il santo Myron (crisma): Sovraceleste e  sovressenziale (ὑπερουράνιος καὶ ὑπερούσιος) è questa teurgia (θεουργία) [il sacramento della consacrazione mediante il Myron], principio, essenza e  potenza che porta a compimento (ἀρχὴ καὶ οὐσία καὶ τελεσιουργὸς δύναμις) ogni santificazione operata da Dio a nostro favore (θεουργικῆς ἡμῶν ἁγιαστείας) 46.

In questo passo, oltre ad affermarsi che l’operazione divina è superiore al dominio cosmico e ontologico alla volta, cosa che si può tradurre dicendosi che essa è ‘energia increata’ – espressione peraltro non usata da Dionigi –, vediamo come il modello ontologico della triade giochi da schema di fondo ma non trovi applicazione al soggetto in questione, che è Dio, in quanto le operazioni teurgiche, appartenendo al dominio sovra-mondano e sovra-ontologico (ὑπερουράνιος καὶ ὑπερούσιος), non sono in potenza ma sono eternamente attive, essendo piuttosto la potenza divina da concepirsi come attività, senza inizio e senza fine. 1.7. Possiamo ricapitolare nei seguenti punti quanto abbiamo osservato sulla presenza della triade in Dionigi: 1) nel Corpus Dionysiacum, la triade ricorre in senso stretto una volta nella Gerarchia celeste e quattro nei Nomi divini; queste ultime occorrenze compaiono tutte nel quarto capitolo, che per la maggior parte parafrasa il De subsistentia malorum di Proclo, e tre di esse rientrano proprio nella parafrasi in ragione del fatto che la triade è attestata ai §§ 39 e 54 del trattato procliano. La triade è riferita alle intelligenze celesti o ai demoni. Dionigi non ne tenta mai l’applicazione alle tre persone della Trinità per spiegarne le relazioni oppure all’ipostasi del Verbo incarnato, tenendo ferma la distinzione tra il dominio superontologico divino e quello ontologico creaturale. Le due occor  EH IV, 12, 484CD, p. 103, 2-4.

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renze nella Gerarchia ecclesiastica, che abbiamo definito imperfette, applicano lo schema triadico al  dispiegarsi dell’energia divina, ma in entrambi i casi se ne sottolinea l’origine sovressenziale, sicché l’energia è  qui definita ‘teurgia’. In  Dionigi non compare traccia di applicazione della triade alla dottrina dell’anima. 2) I tre termini della triade non istanziano una processione emanatistica, caratteristica questa del pensiero neoplatonico 47. Q uesto aspetto è  una conseguenza dell’ontologia non-esemplaristica propria dell’Areopagita. Elevare l’οὐσία degli esseri a causa trascendente di potenze che si producono in atto nella realtà immanente avrebbe infatti comportato la reintroduzione dell’idealismo platonico, cosa che Dionigi esclude stabilendo che ogni causalità trascendente va ricondotta esclusivamente a Dio e non ad altri intermediari causali 48. 3) I termini della triade riflettono sul piano ontologico le distinzioni tra gli esseri, le quali sono stabilite da Dio nei suoi λόγοι pre-eterni; Dionigi tuttavia non sviluppa un’ontologia delle divisioni dell’essere in generi e specie, perché il suo interesse è  prevalentemente rivolto alle dinamiche della deificazione, ovvero alla partecipazione delle intelligenze celesti e razionali alle energie divine. Il mondo di Dionigi è un mondo non-porfiriano, anche se di principio non anti-porfiriano, dal momento che possiamo ammettere che l’ontologia di Diongi sia compatibile con la soluzione dell’immanenza dell’essenza negli individui. Se all’οὐσία si riconduce la distinzione ontologica tra gli esseri (non come causa ma come effetto della distinzione preontologica nei λόγοι divini eterni), alla δύναμις e  all’ἐνέργεια vanno ricondotte le differenze nel grado di deificazione tra esseri della stessa natura. La potenza e l’energia di ogni natura creata sono infatti distinte non come effetto dell’essenza della natura a cui appartengono, bensì in base alla partecipazione alle energie divine, ovvero alle illuminazioni deificanti: è  quindi 47 Cfr.  Proclus, In  Alcibiadem Primum, ed. A.-Ph.  Segonds, 2  voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 15ss.; per cui cfr. il contributo di M. Abbate in questo stesso volume, p.  92, alla nota 36; inoltre supra, testo corrispondente alle note 22 e 23. 48 Cfr. DN XI, 6, 953B-956B, pp. 221-223; cfr. supra, alla nota 35.

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nella sinergia (συνεργία) – concetto chiave del sistema gerarchico dionisiano – tra la potenza e l’energia di ogni creatura e le potenze e le energie divine che si istanzia l’ordine ipostatico della deificazione. Siccome questo ordine non coinvolge l’essenza, osserviamo come la teoria triadica in Dionigi si snodi nell’intersezione tra l’ontologia della creazione, la sua radice meontologica e gli aspetti iperontologici ed enipostatici della deificazione. 4) Constatata l’interscambiabilità tra potenza ed energia, la triade appare configurarsi in Dionigi come struttura binaria che vede da una parte l’essenza in quanto indeterminazione apofatica e dall’altra le potenze-energie come determinazione manifestativa di quella. Q uesta struttura chiaramente non è sovrapponibile a  quella binaria aristotelica di ἐνέργεια e  δύναμις intese come attualità e potenzialità. Allo stesso modo essa si distanzia dalla dialettica ternaria tra classi di esseri sviluppata dal pensiero neoplatonico, per la quale si ha una corrispondenza tra i termini della triade e le classi di divinità; ugualmente l’interpretazione dionisiana esclude che i  termini della triade corrispondano a  una triplicità di domini ontologici nei quali si dispieghi la sussistenza di ogni natura particolare, escludendo al contempo che i tre termini istanzino una processione emanatistica comportante una triplice degradazione ontologica nelle realtà che sono al di sotto dell’intellegibile 49. Viene così meno in Dionigi la funzione della potenza come intermediario causale tra l’essenza e l’energia, risultato questo che caratterizzerà la lettura della triade nel suo Fortleben bizantino. 5) Se per i  neoplatonici, e  in particolare per Proclo, la triade nell’intelligibile perde la sua distinzione interna e  i suoi tre termini vengono a identificarsi 50, per Dionigi invece, ammettendosi – sulle scorte dell’insegnamento cappadoce – unioni 49 Cfr.  supra, il testo corrispondente alle note 10-12; questo è  particolarmente evidente nella teoria dell’anima di Giamblico e nella sua applicazione della triade alle classi di esseri intellegibili, che ritroviamo anche in Proclo, per cui cfr.  i capitoli dovuti a  L.  I. Martone e  M.  Abbate, in questo stesso volume, nonché il saggio introduttivo, pp. 22, 41, 46; Steel, The changing Self  cit. (alla nota 23) (tr. it. cit., p. 93). 50 Cfr. supra, Introduzione, pp. 43, 49, 51-52, 62, 65-66; nonché i capitoli di M. Abbate, L. I. Martone, e C. Lo Casto in questo stesso volume.

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(ἑνώσεις) e distinzioni (διακρίσεις) in Dio, la potenza e l’energia divina risultano essere eterne e distinte dall’οὐσία divina, e con essa rientrano nel dominio iperontologico e ipercosmico. Dalla parte dell’unione in Dio si ha la sua essenza sovressenziale, che è comune alle tre ipostasi divine ed eternamente dotata della sua energia, dalla parte delle distinzioni si hanno invece le processioni-energie dell’essenza divina 51. In base ai punti 1 e 2, possiamo ipotizzare che Dionigi abbia ripreso la triade principalmente dai testi di Proclo: il fatto che applichi la triade fondamentalmente alle intelligenze angeliche (celesti o decadute) è verosimilmente riconducibile all’influenza del Diadoco, in particolare alla proposizione 169 della Elemen­ tatio theologica 52 e  al De subsistentia malorum. La  mancanza di riferimenti alla triade in relazione al problema dell’anima – occu­ pando del resto la psicologia un posto marginale nel pensiero dio­ nisiano  – non ci permette di appurare se –  ed eventualmente come  – Dionigi abbia fatto riferimento a  Giamblico o  al Commento al «Timeo» di Proclo, dove la triade trova applicazione in ambito psicologico. Stando ai punti 3-5, possiamo concludere che la triade, pur avendo una chiara fisionomia concettuale all’interno del Corpus, non assurge a modello volto a ricapitolare e a definire esaustivamente il quadro ontologico delle realtà che pur consistono di essa. Pur assommando nella sua icastica forma triadica i termini fondamentali dell’ontologia, Dionigi non fa di essa né il modello dell’essere generale o  di una natura particolare, né il principio di un movimento triadico dell’essere, limitandosi a  presentarla come uno degli elementi del discorso ontologico fondamentale, che è  quello che verte sul rapporto tra l’οὐσία e  le sue δυνάμειςἐνέργειαι. Dionigi trova in essa un modello utile ad argomentare, in base alla distinzione tra i suoi termini, la distinzione ontologica ad extra tra gli esseri (ogni natura ha una propria essenza-potenza51 Cfr.  DN II,  636C-652A, pp.  122-137; E.  S. Mainoldi, La  meontologia dello pseudo-Dionigi Areopagita e  la sua collocazione nella tradizione patristica e  filosofica, in Il  nihil nell’Alto Medioevo. Atti di Convegno (Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 28-29 maggio 2015), a cura di P. De Feo, Roma 2017 (Ragione plurale, 3), pp. 71-131. 52  Per la quale cfr. il saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 32.

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energia) e la distinzione ontologica ad intra degli esseri (in ogni natura si distinguono essenza e potenze-energie). Possiamo quindi constatare come l’utilizzo della triade da parte di Dionigi sia riconducibile all’influenza di contesto della letteratura filosofica coeva, che egli accoglie, come nel caso di tanti altri elementi specifici del tardo neoplatonismo, rielaborandoli e adattandoli a sostegno dell’asse portante del suo pensiero ontologico, il quale affonda nella dottrina cappadoce e vede come elementi primari l’apofaticità dell’essenza divina e le processioni di questa come energie-nomi divini. Dionigi tende quindi a leggere la triade nel quadro della distinzione, risalente ai Padri cappadoci, tra l’essenza e l’energia. Tale distinzione è funzionale da una parte a salvaguardare la co-essenzialità delle ipostasi trinitarie (in virtù della loro perfetta unità di operazione) e  dall’altra a  salvaguardare l’impartecipabilità dell’essenza divina stante la possibilità per le creature di partecipare alle operazioni divine e quindi alla vita divina (ciò in cui consiste la θέωσις, ovvero la deificazione). Q uesto aspetto fondamentale dell’ontologia dionisiana emerge con chiarezza nell’elaborazione consacrata al  nome divino di ‘Altro’, nel nono capitolo dei Nomi divini, dove Dionigi afferma: 1) l’equivalenza di potenza ed energia, 2) l’azione incessante delle energie divine, 3) la partecipabilità delle energie-potenze di Dio impartecipabile, 4) la finalità nella deificazione: Dio è l’Altro (τὸ ἕτερον), in quanto in modo provvidenziale è  presente a  tutti e  diviene «tutte le cose in tutti» 53 per la salvezza di tutti, rimanendo in se stesso, in modo inseparabile dalla propria identità (τῆς οἰκείας ταὐτότητος ἀνεκφοιτήτως), emergendo per un’energia unica e incessante (κατ’ ἐνέργειαν μίαν καὶ ἄπαυστον ἑστηκὼς) e dandosi per una potenza indeclinabile (ἀκλίτῳ δυνάμει) al  fine della deificazione (πρὸς ἐκθέωσιν) di coloro che si rivolgono a lui 54.

Tale dicotomia risulta prevalere anche nella concezione dell’ontologia sottesa alla triade nella sua applicazione alle intelligenze celesti. La  triade si presenta quindi in Dionigi nominalmente come essenza  –  potenza  –  energia, ma si configura concettual Cfr. 1Cor 12, 6.   DN IX, 5, 912CD, p. 209, 7-11.

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mente come essenza – energia/potenza. Considerato che le energie divine sono eterne, il modello triadico in Dionigi non si rivolge alla comprensione del problema del divenire come realizzazione delle potenzialità di ogni singola natura (tema solo accennato in relazione al problema del male), né come passaggio delle potenze dell’οὐσία dalla potenzialità all’attualità nell’operazione. Il fatto che Dionigi si rivolga alla teoria della triade riferendosi in prevalenza alle potenze angeliche rende marginale il problema della temporalità implicato nel divenire dalla potenza all’atto. Il  suo principale interesse è quello di illustrare le dinamiche dell’anagogia e  della deificazione, le quali sono il frutto dall’azione sovranaturale della Trinità e in virtù di ciò, per quanto Dionigi non trascuri affatto che la deificazione si realizzi nondimeno nella storia, la sua comprensione del rapporto tra δύναμις ed ἐνέργεια si pone sul piano sovratemporale, dove ciò a cui i due termini fanno riferimento è lo stesso e medesimo eterno agire divino 55. In ragione del retroterra neoplatonico da cui Dionigi trae il suo lessico filosofico e del suo retroterra patristico, costituito dalla teologia delle energie divine dei Padri cappadoci, ci sembra che la triade non costituisca nel suo pensiero e nella sua opera una dottrina ontologica a se stante, quanto vada a costituire il tassello in cui si evidenzia la compresenza di modelli ontologici provenienti da retroterra culturali distinti, per quanto storicamente e speculativamente intrecciati, tanto nella sua formazione intellettuale quanto nella cultura filosofica del suo tempo, armonizzati tuttavia nella sintesi offerta nel Corpus.

2. Uno sguardo retrospettivo ai Padri Cappadoci Avendo più volte richiamato il legame tra l’ontologia pseudodionisiana e quella dei Cappadoci, ci sembra opportuno verificare se vi possano essere anche dei punti di contatto tra le occorrenze della triade negli scritti di Dionigi e  in quelli dei tre Padri che hanno costituito la principale fonte della sua riflessione teologica 56. 55 Cfr. J.-C. Larchet, La théologie des énergies divines. Des origines à Saint Jean Damascène, Paris 2010 (Cogitatio fidei, 272), p. 313. 56 I Padri cappadoci sono stati attivi in un periodo ascrivibile alla preistoria della triade vera e propria. Per l’indagine sul retroterra speculativo e sulle strut-

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In Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa abbiamo alcune occorrenze dei termini della triade disposti in una prossimità tale da suscitare il quesito se essi non implichino effettivamente la triade in quanto tale: in virtù della loro formazione filosofica, attenta in particolare al  pensiero neoplatonico, essi avrebbe potuto incontrarla in Giamblico, la cui produzione è cronologicamente compatibile con una simile ipotesi, oppure averla ripresa a livello terminologico senza seguire le implicazioni teoriche proprie dell’utilizzo fattone dal filosofo siriano. Le occorrenze dei termini della triade nei testi dei Cappadoci non sembrano peraltro attestare univocamente la presenza di questa struttura come modello definito, ma neanche escludere il quadro ontologico che ad essa si collega. 2.1. Nel trattato Sullo Spirito Santo (composto intorno al  374375) 57, Basilio di Cesarea ricorre ai termini della triade per sottolineare l’unità del quadro ontologico comune alle ipostasi trinitarie: Se, infatti, egli [il Verbo] è senza alcuna differenza [rispetto al Padre] in quanto all’essenza (κατὰ τὴν οὐσίαν ἀπαραλλάκτως), egli sarà anche senza differenza in quanto alla potenza (κατὰ τὴν δύναμιν). Degli esseri di cui la potenza è  uguale, anche l’operazione sarà assolutamente uguale (ὧν δὲ ἡ δύναμις ἴση, ἴση που πάντως καὶ ἡ ἐνέργεια). Cristo infatti è  «Potenza (δύναμις) di Dio e Sapienza (σοφία) di Dio» 58.

Q uesto passo pone il quesito se all’inequivocabile presenza dei termini della triade sia sottintesa una struttura nella quale i  tre termini siano effettivamente pensati come una triade. Basilio non aggiunge nulla sui rapporti interni all’eventuale triade, ma il fatto che il vescovo di Cesarea riporti l’affermazione paolina che Cristo è «Potenza di Dio», lascia comprendere che nel dominio trinitario, che egli sta qui trattando, la potenza non comporti separazione ontologica rispetto all’essenza e all’energia, bensì distinzione. ture analoghe alla triade nei Cappadoci e nelle loro fonti rimandiamo al saggio di I. Ramelli in questo stesso volume. 57 Cfr. B. Pruche, Introduction, in Basile de Césarée, Sur le Saint-Esprit, éd. par B. Pruche, Paris 19682 (SC, 17bis), p. 52. 58  Basilius Caesarensis, De Spiritu Sancto, VIII,  19, PG 32, [67-219], 104ΑΒ, ibid., p. 316, 59-62. La citazione finale è da 1Cor 1, 24.

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2.2. In  Gregorio di Nissa il quesito sull’assenza/presenza della triade si ripropone in diversi passi 59, come nel seguente frammento, dove i  tre termini effettivamente compaiono ma sono lungi da mettere in campo una struttura ontologica realmente triadica: Diciamo che l’energia è  la potenza e  il movimento naturale di ogni essenza; nessuna natura è priva di essa e senza di essa nessuna natura può essere conosciuta 60.

Q ui l’energia è assimilata alla potenza e assurge a un ruolo ontologico e gnoseologico fondamentale. Essa è il corredo ineliminabile dell’essenza, ed è solo tramite essa che una natura può essere conosciuta al di fuori della sua dimensione essenziale. Da questa affermazione si deduce tuttavia che non l’essenza ma la natura complessiva di un essere è conosciuta attraverso l’energia. 2.3. Come nel passo testé citato, anche nel De opificio hominis, la presenza dei tre termini della triade difficilmente lascerebbe pensare che la loro occorrenza sia casuale: Non si produce sensazione senza una sostanza materiale, né si produce l’attività della sensazione senza la potenza intellettiva 61.

Se ancora una volta riscontriamo la presenza della sequenza terminologica della triade, di fatto constatiamo che essa non corrisponda a  una struttura ontologica propriamente triadica, in quanto l’οὐσία è riferita al substrato materiale che è oggetto della sensibilità (onde la traduciamo qui con ‘sostanza’), mentre la δύναμις e l’ἐνέργεια sono riferite al soggetto intellegibile che percepisce. I tre termini triadici non risultano dunque riferiti al mede59  Jean-Claude Larchet parla di «plusieurs reprises» della triade nel Nisseno, elencandone tuttavia solo tre, di cui una non può essere considerata come una vera occorrenza della triade; cfr. Larchet, La théologie des énergies divines cit., p. 189. 60  Gregorius Nyssenus, Tractatus ad Xenodorum (fragmentum), in Ana­lecta patristica, a  cura di F.  Diekamp, Roma 1938 (repr. 1962) (Orientalia Christiana Analecta, 117), p. 14, 4-5: ἐνέργειαν γὰρ ἡμεῖς εἶναί φαμεν τὴν φυσικὴν ἑκάστης οὐσίας δύναμίν τε καὶ κίνησιν, ἧς χωρὶς οὔτε ἐστὶν οὔτε γινώσκεται φύσις. 61  Id., De opificio hominis, PG 44, [124-256], 176B: οὔτε οὖν αἴσθησις χωρὶς ὑλικῆς οὐσίας, οὔτε τῆς νοερᾶς δυνάμεως χωρὶς, αἰσθήσεως ἐνέργεια γίνεται.

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simo soggetto ontologico, quindi non è  possibile parlare qui di triade 62. 2.4. A questo passo se ne può accostare uno altro dal De anima et resurrectione, dove la triade è effettivamente presente e i suoi termini sono attribuiti alle facoltà dell’anima: Non mi è  stato dimostrato a  sufficienza allorquando consideravo le facoltà insite nell’anima (τῇ ψυχῇ δυνάμεις) quella affermazione secondo la quale l’anima sarebbe un’essenza intelligente (νοερὰν αὐτὴν εἶναι οὐσίαν) che, mediante il corpo che è  suo strumento (τῷ ὀργανικῷ σώματι), ingenera una potenza vitale (ζωτικὴν δύναμιν) volta all’attività delle sensazioni (τῶν αἰσθήσεων ἐνέργειαν) 63.

Q ui il modello causale della triade si presta alla descrizione di un’attività che ha luogo nell’immanenza di un corpo in grado di compiere operazioni. Il fatto che l’anima possa esplicare la sua azione mediante il corpo ci fa però comprendere che qui la triade non vale come modello trascendente, bensì serve a spiegare la sua esistenza nell’immanenza. Q uesto approccio ci sembra dunque paragonabile a quella differenziazione tra i termini della triade che i  neoplatonici hanno concepito in relazione alle diverse regioni cosmiche con cui l’anima ha contatto o alle classi di esseri intellettuali a cui la triade è applicata 64. 2.5. Nelle opere teologiche contro l’arianesimo, Gregorio chiama in causa in diversi punti i  termini della triade, discutendone le relazioni reciproche. Una prima occorrenza è la seguente: Ebbene l’espressione «sono circoscritte insieme» rivela l’equivalenza dell’essenza in sé perfetta (τὸ ἰσοστάσιον τῆς ἀποτελεσθείσης οὐσίας) rispetto alla potenza a cui ha dato sussistenza 62   Una plausibile fonte per questo passo potrebbe essere indicata in Aristoteles, Metaphysica, VIII 7, 1049a, 27-36, dove si fa riferimento alla distinzione tra il soggetto dell’affezione e l’affezione in relazione alla potenza e all’atto, menzionandosi infine la ὑλική οὐσία. L’ipotesto aristotelico ci porterebbe a maggior ragione ad escludere che qui Gregorio avesse in mente la triade secondo l’interpretazione neoplatonica. 63  Gregorius Nyssenus, De anima et resurrectione, 19, PG 46, [11-161], 48C, edd. A. Spira - E. Mühlenberg, Leiden 2014 (Opera, 3.3), pp. 31, 18 - 32, 1 (tr. it., Milano 2014, p. 377, con alcuni adattamenti terminologici). 64 Cfr. supra, alla nota 49.

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(τὴν ὑποστήσασαν δύναμιν), o  meglio, non della potenza, ma dell’operazione della potenza (δυνάμεως ἐνέργειαν), come egli la definisce, affinché il prodotto non sia l’effetto (ἀποτέλεσμα) di tutta la potenza di colui che esegue l’opera (τοῦ ἐνεργοῦντος δυνάμεως ἔργον), ma soltanto di un’operazione parziale (μερικῆς ἐνεργείας), che si è messa in moto dall’intera potenza, solo tanto quanto doveva apparire proporzionato alla produzione di quello che è stato fatto 65.

In questo passo il Nisseno si sofferma sui termini che compongono la triade in funzione critica contro l’equiparazione compiuta da Eunomio del Figlio e  lo Spirito alle energie, cosa che comporterebbe una degradazione ontologica interna alla Trinità. Gregorio esclude ogni processione emanatistica tra i suoi termini, e per fare questo stabilisce l’equivalenza ontologica tra l’essenza e la potenza in atto, la cui distinzione va concepita come rapporto di causalità 66. 2.6. In un successivo passo, Gregorio presenta l’ordine di processione dei tre termini della triade, sostenendo per analogia l’anteriorità delle cose rispetto ai nomi. Benché i  suoi termini non siano qui in sequenza, bensì disseminati in due frasi differenti, il modello terminologico della triade agisce evidentemente come presupposto dell’argomentazione in questione: Se, invece, l’essenza è anteriore alle operazioni (εἰ δὲ προϋφέστηκε τῶν ἐνεργειῶν ἡ οὐσία) (…)  e, prima dell’operazione esiste la potenza (προϋφεστηκε δὲ τῆς ἐνεργείας ἡ δύναμις) e la potenza dipende dalla volontà divina (ἡ δὲ δύναμις ἐξήρτηται τοῦ θείου βουλήματος); se la volontà ha un posto a parte nel potere della natura divina (τὸ δὲ βούλημα ἐν τῇ ἐξουσίᾳ τῆς θείας ἀπόκειται φύσεως) (…) 67.

Q ui Gregorio introduce un ordine di anteriorità tra essenza ed energia, nonché tra potenza ed energia, che ci sembra tenere in 65   Id., Contra Eunomium, I, 244, ed. W. Jäger, 2 voll., Leiden 1960 (Opera, 1), I, p. 98, 9-19 (tr. it., Milano 1994, p. 52, con alcuni adattamenti terminologici). La citazione è dalla perduta opera di Eunomio di Cizico. 66 Cfr. Larchet, La théologie des énergies divines cit., pp. 189-190. 67  Gregorius Nyssenus, Contra Eunomium, II, 150, ed. Jäger cit., I, p. 269, 2-3 e 8-11 (tr. it., Milano 1994, pp. 208-209, con alcune modifiche).

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considerazione da una parte l’ordine dei tre termini stabilito dal neoplatonismo, con la potenza che risulta essere anteriore all’operazione, e dall’altra lo schema logico aristotelico dell’attualitàpotenzialità, che vede nella volontà divina (corrispondente al primo motore aristotelico) l’attualità da cui deriva ogni potenzialità. 2.7. In un altro passo ancora, il Nisseno pone un distinguo tra il rapporto di potenza ed energia nelle creature e in Dio, da cui possiamo valutare il ruolo attribuito alla temporalità. Nelle creature potenza ed energia sono distinte in base al tempo, in Dio coincidono: Non è come per gli altri esseri, che posseggono per loro natura la capacità di fare (πρακτικὴ δύναμις ἐκ φύσεως), e nei quali una cosa si vede in potenza, un’altra nel compimento dell’operazione (τὸ μὲν δυνάμει θεωρεῖται τὸ δὲ κατὰ τὴν τῆς ἐνεργείας ἐκπλήρωσιν): ad esempio, noi diciamo che il costruttore delle navi è  sempre, in potenza, colui che possiede l’arte della costruzione delle navi, ma che opera solo quando mostra nelle opere la sua scienza –, ebbene, questo non avviene nella vita beata, ma tutto quello che si pensa esistente in essa, è  operazione e  azione (ἐνέργεια καὶ πρᾶξίς), in quanto la volontà passa senza intermediari alla fine che si è proposta 68.

Come si può constatare, qui la triade non compare, entrando in gioco la dottrina aristotelica dell’attualità-potenzialità come schema dell’immanenza ontologica in cui si inquadra l’azione degli esseri nel tempo; nella vita beata, invece, si ritorna a  uno schema trascendentalista per cui potenza e  operazione vengono a coincidere. Q uesti passi valgono a convincerci che Gregorio di Nissa non fosse giunto ad elevare la triade a modello ontologico di riferimento univoco nella sua riflessione. In  lui si riscontra ancora un’oscillazione verso una lettura aristotelica del rapporto temporale tra atto e potenza, e una lettura ormai modellata dagli sviluppi neoplatonici, in virtù dei quali, al contrario dello Stagirita, la potenza è  determinazione ontologica dell’essenza e  non mera potenzialità, l’energia è operazione dell’essenza e non mera attualità, e la potenza è precedente all’atto.   Ibid., 230, p. 293, 1-9 (tr. it., pp. 227-228, con alcune modifiche).

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In Gregorio si delineano diversi aspetti dell’elaborazione ontologica della triade che si ritroveranno in Dionigi, in particolare, l’esclusione di una lettura teologico-trinitaria dell’ontologia triadica (ovvero lo stabilire corrispondenza o  analogia tra i  termini della triade e le ipostasi trinitarie), l’assimilazione in Dio di energia e potenza, la distinzione tra l’essenza impartecipabile e le energiepotenze partecipabili. Ad esclusione della lettura aristotelizzante, è possibile che Dionigi abbia ripreso proprio dal Nisseno questo approccio alla triade, che per lui aveva tuttavia una configurazione più definita in ragione del consolidamento che questa struttura aveva nel frattempo ottenuto nel neoplatonismo ateniese, i cui sviluppi furono successivi agli anni di attività del Padre cappadoce. Va infine osservato che l’ontologia triadica, per come si presenta nel pensiero dei Cappadoci, non sembra aver maturato una concezione della triade quale paradigma ontologico definito, come si può evincere dal fatto che i suoi termini ricorrono in relazione alla spiegazione delle loro relazioni causali e mai all’interno di una definizione dove i tre termini risultano coordinarsi in modello terminologico-concettuale a sé, come invece avviene in Dionigi sulle scorte del neoplatonismo ateniese.

3. I primi commentatori di Dionigi: gli scholia al Corpus (Giovanni di Scitopoli e Massimo il Confessore) Negli scholia al  Corpus non mancano commenti di particolare rilievo ad alcune delle occorrenze della triade nel testo dionisiano, i quali hanno certamente contribuito a metterne in luce il trinomio come struttura unitaria e verosimilmente a promuoverne la fortuna tra i lettori di Dionigi. Nei marginalia dovuti a Giovanni di Scitopoli, in particolare, vengono sottolineati aspetti del pensiero dionisiano particolarmente significativi per inquadrarne la piena compatibilità con la teologia cristiana, tenendo così fede a uno dei principali scopi del Commento dello Scolastico 69, dall’altra sono offerti sviluppi teorici di rilievo. 69 Tanto la rielaborazione del testo dionisiano quanto il commento dovuti al vescovo di Scitopoli vanno concepiti a monte della vera e propria ricezione del Corpus: essi infatti, per molti versi si presentano nel quadro di un’operazione finalizzata a sostenere la genuinità dottrinale degli scritti dionisiani, corroborandone

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3.1. Il passo in cui cade la prima occorrenza della triade nei Nomi divini 70, è  oggetto di un lungo Commento di attribuzione certa a Giovanni di Scitopoli 71. Il Commento muove dalla distinzione tra gli intelligibili e le intelligenze (νοηταὶ καὶ νοεραί), del cui binomio viene sottolineato il significato gerarchico, distinguendo inoltre i due termini in relazione alla loro differente funzione gnoseo­ logica. Le  essenze e  le energie vengono dette «enipostatiche» (ἐνυπόστατοι) nella dimensione intelligibile: «Ma lassù le essenze e le energie sono enipostatiche: infatti ogni movimento e quiete colà è enipostatico, le potenze vivono e sono superiori ai cambiamenti e alle alterazioni corporee» 72. Il termine ἐνυπόστατος è di tutto interesse in quanto esso caratterizza lo sviluppo della cristologia neo-calcedonese nella prima metà del secolo vi 73. L’uso fattone qui dallo Scolastico non è tuttavia cristologico, ma è significativo di un’attenzione crescente al  ruolo dell’ipostasi come referente della sussistenza dell’essenza e  delle sue energie. Il  riferimento all’enipostatizzazione costituisce inoltre un indizio della possibile interpretazione della condizione ontologica della triade l’impianto pseudo-epigrafico e puntellando o moderando le dottrine più insolite per il linguaggio teologico cristiano degli inizi del sesto secolo; per una discussione del problema rimandiamo a  Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Aeropagita’ cit. (alla nota 2), pp. 81-86, 517-523; A. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario di Giovanni di Scitopoli. Tra neocalcedonismo e prima recezione del Corpus Dionysiacum, Roma 2019 (Studia Ephemeridis Augustinianum, 156), pp. 119-131. 70 Cfr. DN IV, 1, 693B, p. 144, 6-7; cfr. supra, al punto 1.1, p. 183. 71  Cfr. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario cit., p. 465; in appendice a questo studio è data una tabella sinottica in cui sono riportate in modo analitico tutte le informazioni circa lo status e l’attribuzione degli scholia al Corpus Dionysiacum: ad oggi costituisce il più aggiornato strumento di informazione circa la paternità degli scholia al  Corpus; cfr.  anche B.  R. Suchla, Die Überlieferung von Prolog und Scholien des Johannes von Skythopolis zum griechischen Corpus Dionysiacum Areopagiticum, in «Studia Patristica», 18.2 (1989), pp. 79-82; P. E. Rorem J. C. Lamoreaux, John of  Scythopolis and the Dionysian Corpus: Annotating the Areopagite, Oxford 1998 (OECS). 72  Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4, [185-416], 240C; Corpus Dionysiacum, IV/1. Ioannis Scythopolitani prologus et scholia in Dionysii Areopagitae librum De divinis nominibus cum additamentis interpretum aliorum, ed. B. R. Suchla, Berlin - Boston 2011 (PTS, 62), pp. 209, 8 - 210, 2: ἀλλὰ καὶ ἐνέργειαι ἐκεῖ ἐνυπόστατοί εἰσι καὶ οὐσίαι, πᾶσα γὰρ κίνησις καὶ ἠρεμία ἐκεῖ μέντοι ἐνυπόστατοί εἰσιν, καὶ δυνάμεις ζῶσαι, καὶ τῶν ῥευστῶν καὶ σωματικῶν ἀλλοιώσεων ὑπέρτεραι. 73 Cfr.  B. Gleede, The Development of   the Term ἐνυπόστατος from Origen to John of  Damascus, Leiden - Boston 2012 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 113), p. 49ss.

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come universale sussistente negli individui. Viene poi dedicata un’esegesi particolare ai termini δυνάμεις ed ἐνέργειαι: Si possono intendere in un altro modo le potenze e le energie: le potenze nel senso che ancora non appaiono nella creazione, tutte le cose in potenza (δυνάμει) sono state predisposte in Dio, e  saranno da lui condotte all’essere (εἰς τὸ εἶναι); le energie, invece, nel senso che la creazione (ἡ δημιουργία) le ha portate all’azione (ἔργον) 74.

In questa esegesi Giovanni non si sofferma sulla triade, quasi che non ne consideri il trinomio come una struttura coordinata, come invece fa con il binomio potenza-atto, dove si dà una lettura teologica e creazionista dell’implicazione temporale di marca aristotelica per cui uno stato esclude l’altro. 3.2. La seconda occorrenza della triade non attira l’interesse di nessuno scoliasta 75, mentre delle due occorrenze relative al problema del male soltanto la prima riceve un lungo Commento, di sicura attribuzione a  Giovanni di Scitopoli 76. In  questo Commento lo Scolastico offre alcune importanti precisazioni circa i rapporti tra i termini della triade: ribadisce, come già Dionigi, che «innanzitutto i demoni non distruggono (οὐ φθείρουσιν) le essenze, poiché le essenze in quanto essenze non procedono nella non-esistenza (οὐσίαι καθ’ ὃ οὐσίαι οὐ χωροῦσιν εἰς ἀνυπαρξίαν)» 77, quindi pone il quesito se i demoni corrompano la potenza e l’energia, discostandosi tuttavia dalla semplice soluzione che Dionigi aveva offerto. Per rispondere Giovanni aggiunge una precisazione sulla differenza tra la potenza e l’energia, per cui la potenza sta all’energia, come la capacità (ἕξις) sta all’energia che è propria della «capacità» (ἡ ἕξις πρὸς τὴν ἐνέργειαν τὴν κατὰ τὴν ἕξιν), interpretando quindi ἕξις come la «qualità permanente» (ποιότης ἔμμονος) 78. 74  Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4,  240D, ed. Suchla cit., pp. 210, 5-9. 75  Cfr. DN IV, 10, 705CD, p. 154, 17-18; cfr. supra, al § 1.2, p. 188. 76 Cfr.  DN IV,  23,  724C, p.  170,  16-17; DN IV,  32,  733A, p.  177,  19-20; cfr. supra, ai punti 1.3, 1.4, rispettivamente alle pp. 189 e 192. 77  Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 288, 13, PG 4, 289A, ed. Suchla cit., p. 284, 6-8. 78  Ibid., 289A, p. 285, 3-4.

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Per esemplificare questa differenza ricorre all’esempio del fuoco, che ha la δύναμις di scaldare (θερμαντική), e la cui «capacità o qualità» (ἕξις ἢ ποιότης) è l’essere capace di scaldare (τὸ θερμαντικόν), mentre l’energia consiste nello scaldarsi di un corpo, ovvero nel prodursi della capacità del fuoco. In conclusione «la potenza ha l’energia presso di sé, e l’energia è il prodursi della stessa potenza fuori di sé. Infatti, la potenza viene colta nel prodursi» 79. L’esem­ pio del fuoco potrebbe sottendere la conoscenza del passo del Commento al «Timeo» di Proclo in cui la triade viene esemplificata con questa metafora, assente nel testo di Dionigi 80. Il commentatore potrebbe averla recuperata arguendo – o sapendo – che il filosofo neoplatonico era tra le fonti di Dionigi in relazione alla triade. Concludendo sul problema della distruzione, il vescovo di Scitopoli si avvale del tema della debolezza impiegato da Dionigi per spiegare in quale senso vada intesa la ‘distruzione’ dell’essenza: ‘Distruzione’ va dunque intesa come l’operazione della potenza (φθορὰ οὖν δυνάμεως ἡ ἐνέργεια). Come dunque per la potenza dell’essenza, lo stesso avviene con l’energia, la quale al  di fuori dell’ordine, della giusta misura e  dell’armonia è un procedere malfermo (ἀσθενὴς πρόοδος), per cui continuando disordinatamente in esso non è  possibile che la potenza, l’ener­gia e l’essenza rimangano come erano. La loro debolezza è  totale, come abbiamo detto, non certo parziale, e  distruggerà il soggetto (τὸ ὑποκείμενον φθείρει), nel quale è la potenza e l’energia. Q uindi, né la potenza, né l’energia, come neanche l’essenza, ma neppure la stessa distruzione, rimarranno in quelli che sono stati colpiti dalla distruzione. L’energia degli intelletti intellegibili e  intellettivi (νοητῶν καὶ νοερῶν νοῶν) è dunque l’agire secondo natura, cioè l’agire verso Dio degli intelletti intelligenti, il tendere verso Dio. È però potenza dell’intelletto il discendere nei pensieri, e muovendosi disordinatamente intorno ad esso, i suddetti [intelletti] abbandonano il bene. Nulla è quindi male per natura 81. 79   Ibid., 289B, p. 285, 8-10: ἡ οὖν δύναμις παρ’ ἑαυτῇ ἔχει τὴν ἐνέργειαν. αὐτῆς γάρ ἐστι τῆς δυνάμεως ἡ ἐνέργεια τὸ ἐξ αὐτῆς ἀποτελούμενον. ἡ γὰρ δύναμις κατὰ τὸ ποιεῖν λαμβάνεται. 80 Cfr.  Proclus Diadochus, In  Timaeum commentaria, III,  178A, ed. E.  Diehl, 3  voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p.  125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31. 81  Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 289BC, ed. Suchla cit., pp. 285, 10 - 286, 8.

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3.3. Tra gli scholia che corredano la tradizione manoscritta del Corpus, uno è dedicato al passo di Gerarchia celeste XI in cui compare la triade, tuttavia esso non è attribuibile a Giovanni di Scitopoli 82; in questo scolio i rapporti tra i termini della triade sono illustrati per analogia con il fuoco, nel quale si distingue come essenza la natura del fuoco stesso, come potenza la capacità di illuminare, e come operazione – che è detta essere l’effetto (ἀποτέλεσμα) della potenza – l’illuminare e il riscaldare 83. Benché nessuno degli scholia ai passi in cui compare la triade nel Corpus sia attribuibile a  Massimo il Confessore, possiamo tuttavia riconoscere nell’Ambiguum 67 un’esegesi della dottrina esposta da Dionigi nel locus qui in esame. In un paragrafo dedicato alla discussione del simbolismo del numero dodici Massimo prende infatti le mosse dalla teoria dei λόγοι e della triade esposta nell’undicesimo capitolo della Gerarchia celeste, collegandolo con acume esegetico al problema delle azioni malvagie dei demoni, che Dionigi aveva affrontato nel quarto capitolo dei Nomi divini: Il numero dodici mostra chiaramente i triplici λόγοι del giudizio e  della provvidenza (πρόνοια) che riguardano le realtà intellegibili e  quelle sensibili (τοὺς περὶ νοητῶν καὶ αἰσθητῶν κρίσεώς τε καὶ προνοίας τριττοὺς λόγους). Ognuna di queste realtà ammette in se stessa tre λόγοι (τρεῖς λόγους) in base ai quali essa è ciò che è, come è risultato evidente da molte cose ai sommi iniziati e iniziatori nelle cose divine (καθὼς τοῖς ἄκροις τῶν θείων μύσταις καὶ μυσταγωγοίς) attraverso un vasto studio delle Scritture (τῶν λογίων). (…)  Se infatti gli esseri (τὰ ὄντα) hanno essenza, potenza ed energia, possiedono chiara82 Cfr. Nigra, Il pensiero cristologico-trinitario cit., p. 431. Lo scolio in questione non sembra neanche attribuibile a Massimo il Confessore, se vogliamo attenerci alla mancanza del segno distintivo (crux) in uno dei manoscritti che ancora riportano le cruces con cui Anastasio il Bibliotecario ha distinto gli scolii dovuti a Massimo da quelli di Giovanni di Scitopoli all’interno della sua traduzione latina, il ms. Firenze, Bib. Med. Laur., Plut. 89 sup. 15, alla carta 17r. Su questi testimoni cfr. M. Cupiccia, Le sorti di un testo tradotto, rivisto e commentato. Il «Corpus pseudo-dionysiacum» nella versione latina di Giovanni Scoto (secc. ix-xii), in «Filologia mediolatina», 16 (2009), [pp. 57-80], p. 65; A. Nigra, Note per l’attribuzione a Massimo il Confessore di parte degli scholia al Corpus Dionysiacum: le cruces identificative in alcuni manoscritti della versione latina di Anastasio Bibliotecario, in «Augustinianum» 61 (2021), [pp. 237-262], p. 247. 83 Cfr. Ioannes Scythopolitanus, Scholia in CH, 93, 2, PG 4, [29-113], 93A. Un’edizione critica aggiornata degli scholia a CH è in preparazione per la cura di Beate Suchla e comparirà in un volume a venire dei PTS.

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mente un triplice λόγος (τριττὸν λόγον) del loro essere (ἐπ’ αὐτοῖς τοῦ εἶναι). Se la provvidenza lega questi λόγοι all’essere, chiaramente in quanto essi sono, anche il λόγος della provvidenza sarà triplice. Ma se il giudizio delle corruzioni passate, presenti, e future dei suddetti λόγοι che si sono pervertiti, è di castigo in quanto punizione del male, anche questo si baserà su un triplice λόγος nella sua contemplazione (τῆς θεωρίας), in base al quale circoscrive (περιγράφουσα) l’essenza, la potenza e l’energia degli esseri e rimane stabile preservando senza soluzione di continuità la propria illimitatezza (ἀοριστίαν) 84.

Considerato il contenuto del passo, è possibile cogliere nei «sommi iniziati e iniziatori» un’allusione a Dionigi. Massimo definisce qui «λόγος della provvidenza» quello che Dionigi aveva chiamato λόγος ipercosmico 85. In  Dionigi detto λόγος costituiva la causa creazionale, pre-ontologicamente stabilita nella Sapienza divina, di ogni essere, il quale nella sua sussistenza ontologica è distinto in essenza, potenza ed energia. In  Massimo il discorso iperousiologico lascia il passo al discorso provvidenzialista ed escatologico, come era avvenuto con il passaggio della triade da Dionigi alla lettera anti-origenista di Giustiniano e agli anatematismi del Q uinto concilio ecumenico 86. Massimo specifica la triplicità del λόγος crea­zionale di ogni essere, distinguendo tre λόγοι, i quali non sono nient’altro che i termini della triade. Se Dionigi non ha specificato come dal λόγος ipercosmico si passi alla definizione del genere e della specie a cui appartiene l’individuo, Massimo, più sensibile al problema del rapporto tra gli universali e le esistenze particolari, riconduce ai tre termini della triade la distinzione tra i singoli esseri. 84   Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 67, 8, PG 91, [1031-1418], 1400BC, ed. e  tr. ingl. N.  Constas, 2  voll., Cambridge (MA) - London (Engl.) 2014 (Dumbarton Oaks Medieval Library, 28-29), II, pp. 293-295. Per la traduzione qui proposta ci siamo basati sulla versione inglese di Constas e quella italiana degli Ambigua curata da C. Moreschini (Milano 2003). 85 Cfr. supra, al punto 1.5, p. 193, alla nota 29. Su Dionigi fonte di Massimo per la teoria dei λόγοι, cfr. D. Bradshaw, The Logoi of  Beings in Greek Patristic Thought, in Toward an Ecology of  Transfiguration: Orthodox Christian Perspectives on Environment, Nature, and Creation, a cura di B. Foltz - J. Chryssavgis, New York 2013, pp. 9-22. 86 Cfr. supra, § 1.5, pp. 196-197. Il motivo anti-origenista è peraltro presente anche in Massimo, per cui cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo volume, alle pp. 228-231.

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Nel prosieguo del passo egli giustifica il giudizio divino in base alla triplice contemplazione della corruzione che ha avuto effetto sui tre λόγοι, cioè sull’essenza, sulla potenza e sull’energia. La  chiusa del passo può essere interpretata in relazione al  fatto che l’essere delle creature è  preservato dall’annichilimento che conseguirebbe alla loro corruzione in quanto i tre λόγοι sono stabiliti eternamente dalla divina Provvidenza. L’applicazione escatologica presuppone la volontà quale fattore di trasformazione, lasciando quindi trasparire come la triade per Massimo – come già per Dionigi – non sia un modello esaustivo per descrivere l’identità ontologica di ciascun essere, ma costituisca un modello adatto a stabilirne la distinzione ad intra e ad extra. Q uesto commento ‘nascosto’ di Massimo alla triade nella Gerarchia celeste 87, costituisce un caso particolarmente interessante ai fini del­ l’ontologia della triade, in quanto il Confessore la intende alla luce della teoria dei λόγοι come cifra della distinzione ontologica tra gli esseri, dando però, rispetto a Dionigi, un’interpretazione originale di essa come metro del giudizio escatologico a  cui gli esseri saranno sottoposti. Sempre negli Ambigua ad Ioannem incontriamo una definizione della natura dell’anima basata sull’ontologia della triade per la quale la potenza risulta essere la determinazione potenziale dell’essenza, e l’energia l’attività in cui si dispiega quella determinazione: L’anima ha esistenza (ὑπάρχουσα) in quanto essenza (οὐσία) intelligente e razionale, pensa e ragiona avendo (ἔχουσα) come potenza (δύναμιν) l’intelletto (τὸν νοῦν), come movimento (κίνησιν) l’intelligenza (τὴν νόησιν), e come attività (ἐνέργειαν) la riflessione (τὸ νόημα) 88.

Q uesta impostazione ci sembra ricadere nello schema ‘binario’ in virtù del quale la potenza e  l’energia, pur costituendo due momenti distinti ed essendo la potenza anteriore da un punto di vista logico e cronologico rispetto all’energia, rappresentano due modi di estensione ad extra dell’essenza, non tuttavia come pro  Per il passo dionisiano cfr. supra, § 1.5, alle pp. 192-193.   Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 15, 8, PG 91, 1220A, ed. Constas cit., I, p. 370; tr. nostra; cfr. tr. it. cit., p. 358. 87 88

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cessione degradante che farebbe della potenza e dell’energia delle risultanti ontologicamente inferiori. Nel discorso propriamente teologico constatiamo invece l’emer­ gere di un distinguo circa la valenza del modello ontologico della triade. Massimo apre una delle sue opere speculativamente più dense, i Capitoli teologici ed economici, con una presentazione apofatica della natura divina in relazione all’ontologia triadica: Per quanto ci è  possibile sapere, Dio per se stesso non è  né principio, né mezzo, né fine, né un tutto diverso rispetto a quelle cose che sono contemplate come a  lui naturalmente inerenti da quelli che vengono dopo di lui: è illimitato, immobile e infinito, in quanto è colui che è infinitamente oltre ogni essenza, potenza ed energia (ὡς πάσης οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας ἀπείρως ὢν ὑπερέκεινα) 89.

Una distinzione ontologica in Dio è di fatto conoscibile solo in relazione alla sua economia creatrice e manifestativa: Ogni essenza, contenendo in sé la propria definizione (ὅρος), è  il principio che produce il movimento che viene contemplato in essa secondo la potenza. Ogni movimento naturale dell’essenza è conosciuto a posteriori nel prodursi come operazione, mentre è preconosciuto (προεπινοουμένη) come condizione mediana (μεσότης) dell’operazione, come è conosciuta naturalmente attraverso entrambi in quanto mezzo (κατὰ τὸ μέσον): ogni operazione, che è  circoscritta per natura in base al λόγος di quella stessa, è il fine (τέλος) del movimento essenziale (οὐσιώδους κινήσεως) che è precedente a essa secondo il pensiero (κατ’ ἐπίνοιαν) 90.

L’importanza attribuita alla questione del movimento naturale è verosimilmente riportabile all’influenza della nozione aristotelica di potenza come sostrato del movimento 91. La predicazione degli attributi ontologici della triade rispetto a Dio si rende dun89   Id., Capita theologica et oeconomica. I, 2, PG 90, [1083-1462], 1084A, edd. K. Hajdú - A. Wollbold, Freiburg i. B. - Basel - Wien 2017 (Fontes Christiani, 66), p. 90 (tr. it. nostra). 90  Ibid., 3, 1084AB, pp. 91-93. 91 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 1, 1042ab; D. Lefebvre, Dynamis: sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance, Paris 2018 (Bibliothèque d’Historie de la Philosophie), pp. 443-444.

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que possibile in base alla capacità del linguaggio di significare la realtà divina per traslato: Dio non è essenza nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o  in modo particolare essenza, così che sarebbe anche principio, né è  potenza nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o in modo particolare potenza, così che sarebbe anche mezzo (μεσότης), né è energia nello stesso senso di quella che viene detta semplicemente o  in modo particolare energia così che sarebbe anche fine (τέλος) del movimento secondo la potenza, il quale è  preconcepito come essenziale (οὐσιώδους). Egli è  bensì l’entità creatrice del­l’essenza e lei stessa sovressenziale (οὐσιοποιὸς καὶ ὑπερούσιος ὀντότης), è fondamento creatore della potenza e lui stesso al di là della potenza (δυναμοποιὸς καὶ ὑπερδύναμος ἵδρυσις), nonché capacità (ἕξις) efficiente (δραστικὴ) e incessante (ἀτελεύτητος) di ogni attività (ἐνεργείας), ovvero, per dirla in breve, creatrice del principio, del mezzo e della fine, di ogni essenza, potenza ed energia 92.

Sotteso a  questi passaggi iniziali dell’opera, dal valore introduttivo e sistematico, è il problema del salto logico e gnoseologico tra apofasia e  catafasia. Esso era già stato affrontato da Dionigi nel tredicesimo capitolo dei Nomi Divini, e risolto mediante il ricorso al linguaggio, che permette – per grazia divina – di parlare in modo veritiero delle realtà divine indicibili. Allo stesso modo Massimo parla di una distinzione ontologica in Dio che è reale in relazione alla sua manifestazione.

4. Sviluppi dell’ontologia triadica tra vi e viii secolo: Giovanni Filopono e Giovanni Damasceno Tra gli autori cristiani successivi a  Dionigi il modello triadico emerge nelle riletture della dottrina aristotelica dell’attualità/ potenzialità attraverso il modello causale e  manifestativo neoplatonico, per cui i tre momenti in cui si dispiegano le potenze dell’essenza e  le attività potenziali dell’essenza costituiscono una produzione di quanto è già predisposto provvidenzialmente 92  Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, I,  4,  1084BC, edd. Hajdú - Wollbold cit., p. 92, 6-14.

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nell’essere di ogni cosa. Se in Dionigi la problematica della potenzialità/attualità rimane assente nell’utilizzo della triade, la sintesi tra il modello ontologico aristotelico e quello neoplatonico – che abbiamo già incontrato nei Cappadoci – è ben avvertibile negli autori che scrivono dopo Dionigi e sono stati da lui influenzati in una qualche misura, soprattutto in quelli che costituiscono un caso accertato di ricezione di Aristotele e di ripresa critica del neoplatonismo, quali – oltre a Massimo il Confessore, del quale abbiamo già parlato – Giovanni Filopono e Giovanni Damasceno 93. 4.1. Nel caso di Giovanni Filopono, filosofo cristiano di formazione neoplatonica alessandrina, la triade ricorre nei commentari ad Aristotele, con oscillazioni tra il modello bipartito aristotelico dell’attualità/potenzialità e lo schema triadico nelle sue rielaborazioni post-neoplatoniche. Il fondo aristotelico resta ben evidente in diversi passi, come nel seguente Commento alle «Categorie»: How is it, then, they ask, that Aristotle, after saying that genera and species are predicated (κατηγορεῖσθαι) in answer to ‘What is it?’ (τί ἐστι), now says that they determine a qualification of  substance (τὸ ποιὸν αὐτὰ περὶ τὴν οὐσίαν)? We reply that they are said to determine a  qualification of  substance insofar as the species (εἴδη) share in differentiae in actuality 93  Sui rapporti tra filosofia e teologia in questi autori, e, in particolare, sul loro ‘aristotelismo’, cfr. K. Oehler, Aristotle in Byzantium, in «Greek, Roman and Byzantine Studies», 5  (1964), [pp.  133-146], pp.  141ss.; K.  Verrycken, The Development of  Philoponus’ Thought and its Chronology, in Aristotle Transformed. The ancient Commentators and their Influence, ed. by R. Sorabji, Ithaca - New York 1990, pp. 233-274; G. Benevich, John Philoponus and Maximus the Confessor at the Crossroads of  philosophical and theological Thought in Late Antiquity, in «Scrinium», 7-8 (2011-2012), pp.  102-130; C.  Moreschini, Sulla presenza e  la funzione dell’aristotelismo in Massimo il Confessore, in «Koinonia», 28-29 (2004-2005), pp. 105-124; M. Törönen, Union and Distinction in the Thought of  St Maximus the Confessor, Oxford 2007 (OECS), pp. 19-34; Ch. Erismann, A  World of  Hypostases. John of  Damascus’ Rethinking of  Aristotle’s categorical Ontology, in «Studia Patristica», 50 (2011), pp. 269-287; S. Markov, Die metaphysische Synthese des Johannes von Damaskus. Historische Zusammenhänge und Strukturtransformationen, Leiden - Boston 2015 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 118), pp. 19-32; D. Bradshaw, The Presence of  Aristotle in Byzantine Theology, in The Cambridge Intellectual History of  Byzantium, ed.  by A.  Kaldellis - N.  Siniossoglou, Cambridge 2017, pp.  381-396. Per la conoscenza di Dionigi da parte di Filopono, cfr.  Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Aeropagita’ cit. (alla nota 2), pp. 88-89.

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(ἐνεργείᾳ), and the genera (γένη) either in potentiality (εἴτε δυνάμει) (according to the Peripatetics) or in actuality (εἴτε ἐνεργείᾳ) (according to the Platonists) 94.

In altri passi emerge invece il legame triadico e manifestativo di origine neoplatonica; ad esempio nel Commento al «De anima»: The study of   the intelligible objects (τῶν νοητῶν θεωρία), which are in all respects unchanging in being, in potentiality and in actuality (ἀμεταβλήτων κατ’ οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατὰ ἐνέργειαν), that is of  supreme importance; the study of   the soul comes second because, even though its being (τὴν οὐσίαν) is unchanging, its actuality is not (οὐ τὴν ἐνέργειαν) 95. Now, given that the essences (οὐσίαι) of  things are obscure (ἄδηλοι), but their activities are evident (δῆλαι δὲ αἱ ἐνέργειαι), for this reason we should start from what is evident. For we fathom (σταθμώμεθα) the dispositions (ἕξεις) on the basis of   the activities, the dispositions being obscure, and when we have learnt the dispositions – which is the same as the faculties (ταὐτὸν δὲ εἰπεῖν τὰς δυνάμεις) – we fathom on the basis of  them also the essences; for each faculty arises from an essence, and each activity from a faculty (πᾶσα γὰρ δύναμις ἐξ οὐσίας, καὶ πᾶσα ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως) 96. Those bodies whose activities (ἐνέργειαι) are separable (χωρισταὶ), the essences (οὐσίαι) will also be separable, and that of  those bodies whose activities are inseparable the essence will inevitably also be inseparable. For if  the activities are inseparable, whereas the essence is inseparable, since the activities are based on the potentialities (ἐνέργειαι ἐκ δυνάμεων), while the potentialities are based on the essences (δυνάμεις ἐκ τῶν οὐσιῶν), then, whenever the activity is separated, if  indeed it is separable, there will have to be an activity without essence or without potentiality (τινὰ ἐνέργειαν εἶναι ἀνούσιον καὶ ἀδύναμον), and this is impossible; for every activity is based on a potentiality, 94   Ioannes Philoponus, In Aristotelis categorias commentarium, ed. A. Busse, Berlin 1898 (CAG, 13.1), p. 73, 16-20; tr. ingl. by R. Sirkel - M. Tweedale - J. Harris, London - Oxford - New York 2015 (Ancient Commentator on Aristotle), p. 109. 95  Id., In  Aristotelis libros de anima commentaria, ed. M.  Hayduck, Berlin 1897 (CAG, 15), p. 24, 22-24; tr. ingl. by Ph. J. van der Eijk, London - Oxford New York 2005 (Ancient Commentators on Aristotle), p. 40. 96  Ibid., p. 39, 5-10 (tr. ingl., p. 55).

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and every potentiality is based on an essence (πᾶσα γὰρ ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως, πᾶσα δὲ δύναμις ἐξ οὐσίας) 97.

Essa ricorre infine nelle argomentazioni apologetiche anti-pagane che il filosofo alessandrino ha condotto rivendicando metodologicamente il ricorso alla sola ratio piuttosto che all’auctoritas. La  troviamo in due passi dell’opera dedicata alla confutazione dell’eternità del mondo contro Proclo 98. In un primo argomento, la triade è invocata in relazione alla differenza ontologica tra crea­ tore e creatura: And if  what is created is in all respect inferior to its creator (ὑφεῖται τοῦ δημιουργοῦ τὸ δημιουργούμενον) – in substance, in power and in activity (καὶ οὐσίᾳ καὶ δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ) – it certainly must also be as a  consequence inferior in its very existence (ὕπαρξιν) 99.

In un secondo argomento è riferita all’anima come principio del movimento: But if  the soul has its being and essence (τὸ εἶναι καὶ ἡ οὐσία) in one way and its being the source of  movement (τὸ ἀρχῇ κινήσεως εἶναι) in another, [then] it  is certainly an activity (ἐνέργεια) or a power (δύναμίς) of  soul that leads to its being the source of  movement, just as the teacher, who is the source of  change in the pupil, is not the source of  such change qua man (…) but in consequence of  one of  the powers or activities associated with his essence (ἀλλὰ κατά τινα τῶν περὶ τὴν οὐσίαν αὐτοῦ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν) 100.

Come già visto in Dionigi e nel commento ‘nascosto’ di Massimo alla Gerarchia celeste 101, la triade serve qui ad indicare la distinzione ontologica definita dai suoi tre termini.

  Ibid., p. 46, 21-26 (tr. ingl., p. 63).  Filopono scrisse Sull’eternità del mondo contro Proclo nel 529; cfr. Benevich, John Philoponus and Maximus the Confessor cit., p. 104. 99  Ioannes Philoponus, De aeternitate mundi contra Proclum, I,  4, ed. H. Rabe, Leipzig 1899 (rist. 1963), p. 14, 15-18 (tr. ingl. by M. Share, Ithaca New York 2005, p. 26). 100  Ibid., VII, 5, p. 254, 19-27 (tr. ingl., pp. 93-94). 101 Cfr. supra, ai §§ 1.5 e 3.3, rispettivamente alle pp. 192ss. e 214ss. 97 98

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In Filopono l’uso della triade è soltanto filosofico e non trova applicazioni teologiche, mentre la successiva fortuna della triade si contestualizzerà per la maggior parte in argomentazioni filosofiche finalizzate al perseguimento di obiettivi teologici: questo è particolarmente evidente in Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno 102. 4.2. L’assimilazione concettuale della potenza e dell’energia, che costituisce una tendenza latente ma evidente in tutta la tradizione bizantina della triade a  partire da Dionigi, viene presentata da Giovanni Damasceno in termini quantomai chiari. Nel capitolo dedicato alle energie della sua Esposizione della fede ortodossa, il teologo arabo scrive infatti: Bisogna sapere che tutte le facoltà (δυνάμεις) sopraddette, e cioè quelle conoscitive, quelle vitali, quelle naturali e quelle pratiche sono dette energie (ἐνέργειαι): infatti l’energia è  la potenza e il movimento naturale di ogni essenza (ἐνέργεια γάρ ἐστιν ἡ φυσικὴ ἑκάστης οὐσίας δύναμίς τε καὶ κίνησις) 103.

Anche in questo caso il riferimento al movimento ha una chiara ascendenza aristotelica 104. Altrove il Damasceno specifica che l’energia ha funzione manifestativa della potenza dell’essenza, muovendo dalla distinzione dei significati del termine ἐνέργεια: Il termine ἐνέργεια ha diversi significati. Proprio dell’ἐνέργεια di Dio è non solo l’essere assolutamente al di là di ogni percezione dell’intelletto e di ogni immanenza cosmica (παντὸς αἰῶνος), ma anche di ogni essenza e denominazione (κλήσεως). L’ἐνέργεια è  infatti la potenza e  il movimento naturale di ogni essenza. (…) E ancora: l’ἐνέργεια è la potenza naturale e manifestativa di ogni essenza (…) E per dirla più semplicemente: l’ἐνέργεια è la potenza e il movimento naturale di ogni essenza, senza la quale vi è soltanto il non-essere (τὸ μὴ ὄν) 105. 102   Per l’analisi dell’applicazione della triade e della sua ontologia da parte di Massimo a obiettivi teologici, oltre alle osservazioni date supra, al § 3.3, cfr. il saggio di J. Gavin S. J. in questo stesso volume. 103  Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 37, PG 94, [789-1228], 949A, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 12), p. 93, 2-5. 104 Cfr. supra, p. 217, alla nota 91. 105   Id., De duabus in Christo voluntatibus, 34, PG 95, [128-185], 169D-172A, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 22), p. 218, 4-6.13-14.

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Successivamente, al trentacinquesimo capitolo, sono date ulteriori precisazioni circa la sfera concettuale dell’ἐνέργεια in relazione alla potenza: Una cosa è  l’operazione (ἐνέργεια) un’altra l’operare (ἐνεργεῖν), un conto è  cosa e  come operare un altro è  l’operato (ἐνεργητόν), che è  il prodotto dell’azione (ἐνέργημα); allo stesso modo una cosa è ciò che è in grado di operare (τὸ ἐνεργητικὸν) un’altra chi opera (ὁ ἐνεργῶν). L’energia (ἐνέργεια) è la potenza operativa (ἐνεργητικὴ δύναμις), cioè la capacità di operare (τὸ δύνασθαι ἐνεργεῖν), mentre l’operare è  l’usarsi (κεχρῆσθαι) della potenza operativa (τῇ ἐνεργητικῇ δυνάμει) 106.

Da qui constatiamo che l’ἐνέργεια è intesa come una componente ontologica permanente dell’essere, ovvero come «potenza operativa» dell’οὐσία – espressione questa che avrà una considerevole fortuna nel Fortleben bizantino della triade –, che è legata nelle creature alla sua attuazione nel tempo, mentre per Dio non può che essere eterna e  di fatto venire a  coincidere del tutto con la potenza. Q uesta distinzione riprende il discorso della distinzione tra potenzialità e  attualità, riportando però il tutto alla preminenza dell’energia, a  cui si assimila la potenza. Risuona dunque nella concezione dell’energia del Damasceno la dottrina aristotelica dell’attualità/potenzialità, che pur nella lettura post-neoplatonica della triade rimane latente dietro alla sua ontologia.

  Ibid., 35, 172B, p. 218, 1-4.

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Massimo il Confessore (580-662 a.C.) ha fondato la sua visione cosmica su un punto fondamentale: la volontà del Λόγος di incarnarsi. Il  grande monaco, teologo e  martire riassume questa dottrina nelle Q uaestiones ad Thalassium: Q uesto è il mistero che comprende tutte le epoche e manifesta il Grande Consiglio di Dio. Q uesto mistero preesiste a tutte le epoche in un modo infinito e senza limiti. Il Λόγος stesso di Dio divenne essenzialmente il messaggero di questo Grande Consiglio. Si fece uomo e stabilì se stesso, si può dire, come il visibile e intimo fondamento della bontà eterna. In se stesso dimostra il fine per cui tutte le cose chiaramente ricevettero il loro principio per entrare nell’esistenza 1.

Ogni essere si definisce secondo il proprio λόγος, che è la volontà o l’intenzione divina verso una natura. Tutti i λόγοι sono uniti nel Λόγος divino che riassume o ricapitola ogni esistente in se stesso. Q uindi, la realizzazione di ogni essere è secondo la definizione del suo λόγος nel Λόγος di Dio 2. Il desiderio divino di incarnarsi, invece, dà alle creature razionali una finalità che va oltre la loro propria natura. In  cooperazione con la grazia, ogni essere razionale (angeli inclusi) ‘incarna’, 1  Maximus Confessor, Q uaestiones ad Thalassium, 60, PG 90, [244-786], 621A, edd. C. Laga - C. Steel, 2 voll., Turnhout 1980-1990 (CCSG, 7 e 22), I, 1980, p. 75, 40-48 (tr. it. mia). 2  Cfr. Id., Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, [1031-1418], 1081A, ed. e tr. ingl. N. Constas, 2 voll., Cambridge (MA) - London (Engl.) 2014 (Dumbarton Oaks Medieval Library, 28-29), I, p. 98. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127958 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 225-246     © 

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nel proprio modo, il Λόγος. Il  compimento dello σκοπός divino sarà la divinizzazione e  l’unità perfetta, allorché tutto sarà con Dio e tutto sarà Dio, senza che nulla perda la particolarità del suo essere individuale 3. Tutta la creazione, in cooperazione con la grazia, si eleva verso una mèta gratuita e soprannaturale. Per comprendere il ruolo della triade neoplatonica οὐσία  – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero massimiano, dobbiamo tenere presente quella che egli vede come la finalità ultima della creazione, per cui la realizzazione del singolo essere si svolge nel contesto di questa visione cosmica. In questo breve saggio, dopo avere passato in rassegna alcuni studi già pubblicati a proposito di questo tema, mi propongo di illustrare l’importanza della triade in quattro sue occorrenze nelle opere di Massimo e  nel dramma delle creature intelligenti. In tale modo, si potranno rintracciare alcuni aspetti fondamentali della sua dottrina.

1. L’uso della triade secondo cinque studiosi moderni L’importanza della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Massimo il Confessore è  già stata ben sottolineata da diversi studiosi moderni. Hans Urs von Balthasar aveva rimarcato il ruolo fondamentale della triade per l’ontologia massimiana. Nell’analisi di questo autore, la triade descrive la realizzazione di ogni essere contingente secondo il fine pensato da Dio: «La contingenza (Endlichkeit) non è una semplice imperfezione che dovrebbe essere eliminata. Piuttosto, la contingenza è non-identità e  perciò movimento ontologico. L’origine di questo movimento è la sostanza (οὐσία) di un essere contingente, il quale deve realizzarsi come ἐνέργεια in un modo naturale attraverso una forza intermedia, la δύναμις» 4.

3 Ogni essere partecipa a questa unione ‘proporzionalmente’, secondo la sua natura e il suo modo di essere (τρόποι). Cfr. Id., Capita theologica et oeconomica, II,  93, PG 90, [1083-1462], 1100BC, edd. K.  Hajdú - A.  Wollbold, Freiburg i. B. - Basel - Wien 2017 (Fontes Christiani, 66), p. 232. La divinità non assorbe la natura particolare e non trascura mai il logos che definisce una natura; cfr. ibid., II, 84, 1164C, p. 224. 4   H. U. von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus’ des Bekenners, Trier 1988, p. 601 (tr. it. mia).

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Polycarp Sherwood ha dedicato a questo tema un intero capitolo della sua opera The earlier «Ambigua» of  St.  Maximus the Confessor, nel quale riassume il significato generale della triade nel progetto divino con le seguenti parole: «God is principle as creator; the substance itself  is principle of  its motions; these motions are the activations of  the natural powers tending to their goals; the goal is in one way the operation itself, or, in another, the result of  the operation; the tendency, however, to the goal is motivated cause by God the final cause» 5. Sherwood cerca di mostrare lo svolgimento della triade nella finalità della creazione, procedendo verso la sua realizzazione nell’unità divina. Lars Thunberg si concentra sull’atto di «auto-realizzazione» della sostanza nel pensiero di Massimo. Secondo Massimo, «οὐσία needs to be realized in an act of  self-fulfilment. In  rational creatures, this leads to well-being, and from natural potentiality to effective actuality» 6. L’essere (τὸ εἶναι) passa da (1) una potenzialità sostanziale (δύναμις) a (2) un’attualizzazione intenzionale (ἐνέργεια) che è  «l’essere bene» (τὸ εὖ εἶναι); ma per un essere razionale (l’uomo e l’angelo), c’è ancora una terza tappa: (3) l’essere sempre bene (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι), che si realizza soltanto per mezzo della grazia divina. La triade neoplatonica si svolge principalmente con la comunicazione fra l’auto-realizzazione dell’essere razionale e la grazia divina 7. Philipp Gabriel Renczes ha approfondito questo tema, specialmente paragonandolo con la comprensione della finalità in Aristotele: Secondo Massimo, l’essere (εἶναι) significa – come in Aristotele – il fatto di essere essenzialmente in un movimento finalizzato. La realizzazione di questo movimento, d’altra parte, non è  – e  qui appare la differenza rispetto ad Aristotele – 5   P. Sherwood, The earlier «Ambigua» of  St. Maximus the Confessor and His Refutation of  Origenism, Roma 1955 (Studia Anselmiana philosophica theologica, 36), p. 110. 6  L.  Thunberg, Microcosm and Mediator: The theological Anthropology of  Maximus the Confessor, Chicago 1995, p. 85. 7 Cfr. ibid., p. 85: «Thus substance exists on account of  God’s will as Creator; natural self-realization of  substance is effected on account of  God’s will as creator of  good things and the source of  all good; but the transcendence of  substance is made available to human beings thanks to God’s ‘economy’ which relates ‘independent’ creation to the Creator in positive communication».

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solamente attualizzazione (ἐνέργεια) di una semplice potenzialità (δύναμις), ma di una potenzialità (δύναμις) proveniente dall’essenza (οὐσία). La  struttura ternaria, che aggiunge un momento distintivo alla potenzialità rispetto all’essenza da cui dipende, mette in atto un processo di individualizzazione fondato sul λόγος della natura. Ciò conferisce una qualità propria ad ogni attualizzazione della potenzialità, l’«ὁ τοῦ πῶς εἶναι τρόπος». Siamo di fronte ad una finalità ontologica particolare 8.

Più recente, Marius Portaru ha criticato le tendenze di alcuni studiosi precedenti di interpretare i termini fondamentali di Massimo attraverso una lente aristotelica 9. Nonostante l’influsso di Aristotele, Portaru sottolinea l’influenza neoplatonica e il contributo specifico del cristianesimo nella riformulazione dei concetti da parte di Massimo, cioè, un «Platonic-morphism of  Revelation» 10. L’uso massimiano della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια trova le sue radici specialmente nel neoplatonismo e nei dibattiti cristologici 11. In generale, in questi studiosi vediamo che la triade è interpretata come espressione positiva della finalità della creazione secondo lo scopo divino: l’universo sorge in vista di un fine divino che, con il potere della grazia, oltrepassa anche i limiti stessi della sostanza. Per di più, la visione massimiana lascia spazio per l’individuazione personale dello svolgimento della sostanza secondo il «modo di essere», ὁ τοῦ εἶναι τρόπος. A queste osservazioni vorrei aggiungere alcune precisazioni basate sull’analisi di quattro esempi concreti tratti dalle opere di Massimo.

2. Per contrastare gli origenisti Nel settimo Ambiguum ad Ioannem, Massimo parla di un certo gruppo che interpreta Gregorio Nazianzeno con «molti punti 8   Ph. G. Renczes, Agir de Dieu et liberté de l’homme. Recherches sur l’anthropologie théologique de saint Maxime le Confesseur, Paris 2003 (Cogitatio fidei, 229), p. 169 (tr. it., Roma 2014, p. 159). 9 Cfr.  M. Portaru, Classical philosophical Influences. Aristotle and Platonism, in The Oxford Handbook of  Maximus the Confessor, ed. by P. Allen - B. Neil, Oxford 2015, pp. 130-134. 10  Ibid., p. 133. 11  Cfr. ibid., pp. 138-139 e 141.

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delle dottrine dei Greci» 12. L’insegnamento più problematico si riassume nel seguente testo: Essi dicono che esistette una volta, secondo loro, quell’enade delle creature razionali in grazia alla quale noi siamo connaturali a Dio, e che avevamo in lui la nostra collocazione e la nostra ferma sede. Inoltre, essi pensano che esistette successivamente il movimento (κίνησις), in seguito al quale le creature razionali in vari modi si separarono da quella enade. Essi, quindi, considerano Dio in funzione della nascita di questo mondo materiale, poiché legano tali creature ai corpi, affinché siano punite dei peccati precedenti 13.

La dottrina di questo gruppo è  la dottrina degli ‘origenisti’, i seguaci di Origene di Alessandria e di Evagrio Pontico, condannati nel Sinodo di Costantinopoli del 543 e nel V Concilio ecumenico, tenutosi a Costantinopoli nel 553 14. In generale, esprime la cosiddetta ‘doppia creazione’, cioè, la caduta della creazione spirituale nelle diverse forme della creazione razionale in questo mondo. Ciascun νοῦς (tranne l’anima del Λόγος, che è  rimasto fedele a Dio) decade a un certo grado dell’essere, a seconda della gravità del proprio abbandono del Creatore, divenendo angeli, astri, uomini, demoni e via dicendo 15.   Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, 1069A, ed. Constas cit., I, p. 76 (tr. it., Milano 2003, p. 212). 13  Ibid., 1069AB, p. 76 (tr. it., p. 212). 14 Cfr.  von Balthasar, Kosmische Liturgie cit., p.  122; I.  H. Dalmais, Saint Maxime le Confesseur et la crise de l’Origénisme monastique, in Théologie de la via monastique: Études sur la tradition patristique, Paris 1961 (Théologie, 49), pp. 411-421; A. Guillaumont, Les «Képhalaia gnostica» d’Évagre le Pontique et l’histoire de l’origenisme chez le Grecs et chez les Syriens, Paris 1962 (Patristica Sorboniensia, 5), pp. 158-159.; Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., pp. 2223. Per la storia della controversia origeniana, cfr. E. Clark, The Origenist Controversy: The cultural Construction of  an early Christian Debate, Princeton (N. J.) 1992; B. E. Daley, What did «Origenism» mean in the sixth century?, in Origeniana sexta: Origène et la Bible. Actes du Colloquium ‘Origenianum sextum’ (Chantilly, 30 août - 3 septembre 1993), éd. par G. Dorival - A. le Boulluec, Leuven 1995 (Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovaniensium, 118), pp. 627638; E. Prinzivalli, Magister Ecclesiae: Il dibattito su Origene fra iii e iv secolo, Roma 2002 (Studia ephemeridis Augustinianum, 82). 15  Per esempio, cfr.  Origenes, De principiis, III,  2, 1, PG 11, [115-414], 303BC, edd. H. Crouzel - M. Simonetti, 5 voll., Paris 1978-1984 (SC 252-253268-269-312), III, 1980, pp. 222-224; Evagrius Ponticus, Kephalaia gnostica, [S2] III, 38, ed. A. Guillaumont, Paris 1958 (Patrologia Orientalis, 28), p. 109. 12

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Per ribattere agli origenisti, Massimo analizza la loro dottrina riconducendo alla triade definita dai termini di ‘riposo’ (στάσις), ‘movimento’ (κίνησις) e  ‘creazione’ (γένεσις): la creazione spirituale, che comincia nel riposo (στάσις) presso Dio, cade a  causa della sua negligenza (κίνησις), e  da qui nasce il nostro cosmo (γένεσις). Secondo gli origenisti, dice il Confessore, lo stato originale sarà anche lo stato finale del ritorno, quindi il movimento e la creazione sono i risultati dell’abbandono di Dio. Le creature si trovano in un ciclo, che va dal riposo al riposo 16. Rovesciando l’ordine di questa triade Massimo ribatte che il «movimento» (κίνησις) è  un elemento positivo di una «creazione» (γένεσις) che si realizza secondo un piano divino e si muove verso un fine, il «riposo» (στάσις) nell’unità divina. Il nuovo ordinamento della triade è dunque «creazione» (γένεσις), «movimento (κίνησις)», e «riposo (στάσις)» 17, in cui si descrive la realizzazione cosmica e il compimento escatologico della creazione: la creazione di Dio deve muoversi verso la sua mèta stabile ed eterna in Dio. L’errore degli origenisti è  di vedere la creazione come un atto già compiuto in un’esistenza primordiale e il movimento come la caduta da questo stato originale. È ora possibile vedere l’influenza della triade neoplatonica οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια sulla triade massimiana 18. La  triade γένεσις – κίνησις – στάσις risulta infatti essere l’espressione cosmica ed escatologica della triade ontologica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, come possiamo dedurre dalla seguente citazione: 16  Massimo dimostra l’instabilità di tale ciclo; cfr. Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91,  1069C, ed. Constas cit., I, p.  78, (tr.  it. cit., p. 213): «Una volta, infatti, che le creature razionali hanno potuto disprezzare qualche cosa, per averne fatto la prova, non ci sarà nessun modo per impedire che lo possano fare sempre». 17 Cfr. ibid., 1073C, I, p. 86 (tr. it., p. 217): «Il fine del movimento di chi si muove sta, infatti, nell’essere sempre bene, così come il principio è l’essere quello che è  Dio, il quale dona l’essere e  concede la grazia dell’essere bene, in quanto è principio e fine; deriva da lui, infatti, in quanto principio, anche il nostro semplice muoverci, ed il nostro muoverci in un certo modo è verso di lui, in quanto è fine». 18   Polycarp Sherwood aveva già avanzato questa osservazione; cfr. Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., p. 103: «The other triade is substance, power, operation (οὐσία, δύναμις, ἐνέργεια) whose transposition, I think it not too much to say, onto the eschatological plane – a transposition necessitated by the tenor of  the Origentist myth – results in the first mentioned triad: movement, becoming, rest».

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Ché la quiete (στάσις) non è certo l’operazione naturale del­ l’origine delle cose che si muovono, ma è il fine della potenza o  dell’operazione indirizzata alla quiete, o  comunque la si voglia definire 19.

In questo passo si coglie la corrispondenza fra le due triadi: (1) οὐσία – δύναμις (la sostanza e la potenza) = γένεσις (la creazione): la creazione (γένεσις) è la creazione ex nihilo 20 di una sostanza (οὐσία), definita dall’intenzione divina (λόγοι) con la potenza (δύναμις) di realizzarsi 21. (2) Ἐνέργεια (l’energia)  = κίνησις (il movimento): il movimento (κίνησις) è  il movimento che sorge da una potenzialità (δύναμις) inerente ad un essere e  si manifesta come atto (ἐνέργεια) 22. La diade δύναμις – ἐνέργεια dirige l’essere verso il fine stabilito nel Λόγος divino. (3) Στάσις (il riposo): il riposo (στάσις) non si realizza mai pienamente in questa vita, perché l’ἐνέργεια è limitata, cioè, non può rimanere sempre in atto e non raggiunge il compimento fino all’unione divina. Piuttosto l’ἐνέργεια in questo mondo è soltanto un segno della realizzazione perfetta di un essere in Dio. Al finale, solamente la grazia può sollevare un essere creato all’unione perfetta con Dio, il riposo. Ma questo non significa che un essere si annulla nella divinizzazione, perché il riposo finale in Dio (στάσις) è «il riposo che sempre si muove» (στάσις ἀεικίνητος), il movimento paradossale nell’infinità divina che è la deificazione eterna della creatura 23. Il riposo è un’operazione di approfondimento eterno nell’infinità di Dio. Torniamo a questo tema più avanti. La triade ontologica (οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια) sottende dunque un’altra triade cosmica ed escatologica (γένεσις  –  κίνησις  – στάσις), che è utilizzata da Massimo nella sua critica agli origenisti. 19  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 15, PG 91,  1217D, ed. Constas cit., I, p. 368 (tr. it. cit., p. 358). 20  Cfr. Id., Capita de caritate, IV, 9, PG 90, [959-1083], 1049B, ed. A. CeresaGestaldo, Roma 1963 (Verba seniorum, N. S. 3), p. 196. 21 I λόγοι sono espressioni della volontà divina (θελήματα) che definiscono ogni essere; cfr. Id., Q uaestiones ad Thalassium, 13, PG 90, 296A, edd. Laga-Steel cit. (alla nota 1), I, p. 95, 6-15. 22 Q ui si vede la sempre presente ambiguità fra δύναμις e  ἐνέργεια, collegate strettamente nella realizzazione della sostanza. 23  Ibid., 65, 760B, II, 1990, p. 285, 541-546. Anche cfr. P. Blowers, Maximus the Confessor, Gregory of  Nyssa, and the Concept of  «Perpetual Progress», in «Vigiliae Christianae», 46, (1992), pp. 151-171.

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3. Per distinguere la creazione dal creatore e per rivelare l’immagine divina Da una parte, Massimo distingue ogni creatura da Dio ricorrendo alla distinzione fra la creatura composita (κτίσις σύνθετος) e la semplicità trinitaria 24. Dio è la natura sopra ogni sostanza (ἡ ὑπερούσιος φύσις) 25 e  senza limiti, mentre la creatura consiste in sostanza (οὐσία) e accidente (συμβεβηκός) 26. Ogni essere, quindi, è limitato e definito; Dio è al di sopra di ogni definizione e limite. Dall’altra, Massimo vede la necessità di giustificare anche l’esistenza della creatura immateriale e incorporea, forse a causa di certe dottrine origeniane 27. Egli continua a  sottolineare la semplicità divina (ἀπλότης) come distinta dalle nature composite, ma allarga la concezione relativa alla diade di ogni essere: ce ne sono infatti due, la ‘materia’ e la ‘forma’ (ὕλη – εἶδος) per la creatura corporale 28 e sensibile 29, la ‘sostanza’ e l’‘accidente’ (οὐσία – συμβεβηκός) per la creatura incorporale 30 e intelligibile 31. Dio non dipende da nessuna relazione e non deriva la sua esistenza da nessun’altra causa,  Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones et dubia, 13, PG 90 [786-855], 796B, ed. J. H. Declerck, Turnhout 1982 (CCSG, 10), p. 11, 7-8. 25  Id., Ambigua ad Ioannem, 17, PG 91, 1224C, ed. Constas cit., I, p. 380; Id., Opuscula theologica et polemica, 21, De qualitate, proprietate et differentia, seu distinctione, PG 91, [245-258], 249BC. 26  Id., Capita de caritate, IV,  9, PG 90,  1049B, ed. Ceresa-Gestaldo cit., p. 198. 27  In Epistola 6, Massimo difende l’anima incorporea da un gruppo scono­ sciuto che sostiene che non sarebbe possibile distinguere un essere spirituale da Dio; cfr. Id., Epistolae, 6, PG 91, [362-650], 423D: «Ma se dicono che il divino è  senza corpo, temendo qualcosa che non esiste, non possiamo dire che l’anima è  incorporea, per renderla uguale a  Dio». Q uesto gruppo potrebbe essere so­stenitori della dottrina di Origene, per cui soltanto Dio è  incorporeo nel senso assoluto. Cfr. H. Crouzel, Origène, Paris 1985 (Le sycomore. Chrétiens aujourd’hui, 15), pp. 126-128; P. Tzamalikos, Origen: Cosmology and Ontology of  Time, Leiden - Boston 2006 (Supplements to «Vigiliae Christianae», 77), p. 116. 28 Cfr. Maximus Confessor, Q uestiones ad Thalassium, 40, 36, PG 90, 396C, edd. Laga-Steel cit., I, p. 269, 28-37. 29 Cfr.  Id., Ambigua ad Ioannem, 67, PG 91,  1400C, ed. Constas cit., II, p. 294. 30 Cfr. Id., Q uestiones ad Thalassium, 40, 36, PG 90, 396C, edd. Laga-Steel cit., I, p. 269, 30-34. 31 Cfr.  Id., Ambigua ad Ioannem, 67, PG 91,  1400C, ed. Constas cit., II, p. 294. 24

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mentre ogni essere creato contiene una relazione in se stesso (la diade) e riceve la sua esistenza da Dio 32. Il problema della diade, invece, è  di non permettere lo sviluppo della sostanza. Da una parte, essa spiega la relazione che definisce ogni essere (ὕλη  –  εἶδος, οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια). Dall’altra, la sostanza rimane chiusa in se stessa, senza lo spazio per l’auto-realizzazione verso la sua finalità. Per risolvere questo problema, il Confessore tenta di dimostrare la differenza infinita fra il creatore e  la creatura per mezzo della triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. L’infinito [Dio], infatti, è infinito secondo ogni logos e ogni modo, sostanza, potenza, atto (κατ’ οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατ’ ἐνέργειαν), entrambi i limiti (intendo dire quello verso l’alto e quello verso il basso, cioè, l’inizio e la fine). È incontenibile, infatti, nella sostanza, e impensabile nella potenza e incircoscritto secondo l’atto e privo di inizio verso l’alto e privo di fine verso il basso,  e, per dirla semplicemente in modo più veritiero, è in tutto e per tutto non delimitato, poiché assolutamente niente può essere pensato insieme con lui in uno dei modi che abbiamo enumerato 33.

Vi sono due cose da notare in questo passo: Massimo non nega l’esistenza della triade in Dio, ma la eleva all’infinità divina. Il logos della triade come svolgimento dell’essere è lo stesso per il creatore e per la creatura; ma il modo (τρόπος) della triade è diverso per Dio e per un essere creato 34. Il Confessore pone l’accento sull’in32  Cfr. ibid., 10, 1184D, I, p. 302 (tr. it. cit., p. 323): «La diade è circoscritta secondo la divisione in quanto si muove con il numero, dal quale ha preso l’inizio e dal quale è contenuta, poiché non possiede per natura l’essere e l’essere privo di relazione». 33  Ibid., 10, 1184D, I, p. 302 (tr. it., pp. 323-324). 34  Massimo spesso parla del λόγοι di una qualità che è comune a ogni creatura razionale (uomini, angeli) e anche a Dio stesso, ma che si distingue nel «modo» (τρόποι) in ciascuna natura. Per esempio, «la tristezza secondo Dio» (ἡ λυπή κατὰ θεόν) esiste in ogni creatura razionale come il dolore per i peccatori ed i caduti, ma in Dio si esprime in un modo che va oltre la comprensione razionale. «Il λόγος della tristezza è uno, ma riceve molti modi di espressione» Cfr. Id., Q uestiones et dubia, 129, 13-20, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 95, 14-15. Per il λόγος dell’incarnazione ed i suoi diversi modi (τρόποι), cfr. J. M. Garrigues, Le dessein d’adoption du Créateur dans son rapport au fils d’après S. Maxime le Confesseur, in Maximus Confessor. Actes du Symposium sur Maxime le Confesseur (Fribourg, 2-5 septembre 1980), éd. par F. Heinzer - C. Schönborn,

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comprensibilità della triade divina usando gli aggettivi «incontenibile, impensabile, e incircoscritto». Significa che Dio è ancora semplice e privo di ogni limite, ma allo stesso tempo è in se stesso dinamico come causa efficiente e causa finale 35. La triade come realizzazione di ogni essere è un riflesso dell’azione divina, della divina provvidenza. Il fatto che ogni creatura è  οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια la rende dinamica (l’auto-realizzazione) e, allo stesso tempo, comprensibile; ma questa dinamicità è l’immagine divina in un altro modo (τρόπος), un riflessο delle ragioni divine (λόγοι) che formano la creazione 36.

4. L’uso della triade nel contrastare il monofisismo, il monoenergismo, e il monotelismo Nel 633 il Patriarca di Alessandria Ciro, in un tentativo di unire la Chiesa ancora divisa fra monofisiti e  difisiti, lesse ad alta voce nove capitoli durante una liturgia. Al settimo dichiarò: «L’uni­co Cristo e Figlio ha agito in un modo divino e in un modo umano tramite l’unica energia divino-umana (μία θεανδρικὴ ἐνέργεια)» 37. Q uesta formula (la formula del monoenergismo) Fribourg 1982 (Paradosis, 27), pp.  171-192. Per il λόγος di auto-realizzazione (αὐτεξουσιότης) e i suoi diversi modi, cfr. Maximus Confessor, Disputatio cum Pyrrho, PG 91, [287-354], 324D-325A. 35  Sherwood, The earlier «Ambigua» cit., pp. 109-110: «There is here no contradiction, but a difference in the orders of  causality according to which these terms are predicated of  creatures and of  the creator. For creatures the formal and material causes are rather referred; for God, the supreme efficient cause and last end». 36 Q uesto non significa che Massimo voglia identificare ciascun elemento della triade con una persona della Trinità; cfr. Renczes, Agir de Dieu cit. (alla nota 8), p. 176 (tr. it. cit., p. 166): «Massimo non identifica in modo puro e semplice ciascuna delle tre tappe del moto degli esseri con ciascuno dei tre momenti riconosciuti in Dio – come se le caratteristiche degli esseri in movimento fossero in qualche modo un riflesso del mistero trinitario. Ma collega le tre ad una sola ‘operazione’ in Dio, cioè la sua Provvidenza, che si diversifica in tre modi, come possiamo riconoscere a posteriori». 37  Per la storia dello sviluppo della crisi del monoenergismo e  del monotelismo, cfr. D. Bathrellos, The Byzantine Christ: Person, Nature, and Will in the Christology of  saint Maximus the Confessor, Oxford 2004; M. Doucet, Est-ce que le monothélisme a  fait autant d’illustres victimes?: Réflexions sur un ouvrage de F. M. Léthel, in «Science et esprit», 35 (1983), pp. 53-83; J. Farrell, Free Choice in Maximus the Confessor, South Canan (Pa.) 1989; F. M. Léthel, Théologie de l’agonie du Christ: la liberté humaine du fils de Dieu et son importance so-

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scatenò una reazione forte da parte del monaco Sofronio, futuro Patriarca di Gerusalemme e maestro di Massimo. Sofronio andò a Costantinopoli e riuscì a convincere il Patriarca Sergio a pubblicare uno psephos che proibiva la discussione del numero delle volontà di Gesù. Ma allo stesso tempo, lo psephos parlava del­ l’uni­co soggetto del Cristo, escludendo due volontà in conflitto – una posizione che ha dato inizio alla triste storia del monote­ lismo 38. Massimo dedicò i  suoi ultimi anni, prima del martirio, alla lotta contro il monoenergismo e il monotelismo. Nel corso della sua partecipazione al conflitto ebbe occasione di precisare il significato del concetto di volontà umana e di volizione, concludendo con la necessità di riconoscere due energie (divina e umana) e due volontà (divina e umana) nell’unica persona di Gesù Cristo. Pur non potendoci addentrare nell’approfondimento di questa problematica, possiamo tuttavia mettere in rilievo il ricorso fatto da Massimo alla triade neoplatonica in relazione a questo argomento. Dalla triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια Massimo arriva a una conclusione fondamentale: l’operazione deve procedere dalla potenza che inerisce alla sua essenza. In senso stretto, soltanto una ὑπόστασις o  una οὐσία esistono veramente, cioè, non dipendono da un’altra realtà per esistere; al  contrario, le qualità essenziali (ποιότητες οὐσιώδεις, cioè l’intelligenza o  la volontà libera per l’uomo) e  le qualità inessenziali (ποιότητες ἐπουσιώδεις, cioè il colore o  la misura di una persona), per esistere devono essere relative a  un’οὐσία 39. Una δύναμις particolare cade nella categoria di una qualità essenziale, cioè, esiste soltanto in un’οὐσία, ma la δύναμις distingue quella sostanza dalle altre e fa parte della sua tériologique mises en lumière par Saint Maxime le Confesseur, Paris 1979 (Théologie historique, 52); J. Meyendorff, Imperial Unity and Christian Divisions. The Church A. D. 450-680, New York 1989 (The Church in History, 2), pp. 333-380. Per lo pseudo-Dionigi, cfr. DN IV, 1, 693C, p. 144, 1-12. 38 Cfr. J. Herrin, The Formation of  Christendom, Princeton 1987, pp. 206208; Meyendorff, Imperial Unity cit., p. 349. 39 Cfr.  Maximus Confessor, De qualitate, proprietate et differentia, seu distinctione, PG 91, 249BC. Per le radici di queste definizioni cfr. B. E. Daley, «A Richer Union»: Leontius of  Byzantium and the Relationship of  Human and Divine in Christ, in «Studia Patristica», 24 (1989), pp. 239-265.

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definizione 40. Q uindi, non è possibile avere una δύναμις – ἐνέργεια senza la sostanza in cui sussistono. Massimo sottolinea i problemi insiti nel ragionamento di monofisiti, monoenergisti e  monoteliti: non è  possibile ammettere le diverse qualità divine e umane in Cristo senza accettare anche le nature/sostanze in cui sussistono; e viceversa, accettare le due nature/sostanze di Cristo richiede anche l’accettare tutte le qualità essenziali delle nature (cioè, la volontà divina e  la volontà umana). Per esempio, Massimo parla della posizione inconsistente dei monofisiti, che ammettono le qualità umane (le energie che realizzano la natura umana) di Cristo, ma non accettano le sue due nature: Se dicono che il Λόγος non è  senza energia (ἐνέργεια) nel nostro modo, è chiaro che lui ha un’energia (ἐνέργεια) umana e naturale (ἔμφυτος). Come può essere altrimenti? Poiché non è possibile agire (ἐνεργεῖν) senza un’energia naturale (φυσικὴ ἐνέργεια); così non è  possibile esistere (ὑπάρχειν) senza una sostanza e una natura (οὐσία καὶ φύσις). Ma è completamente necessario che l’attore (cioè, il Λόγος – τὸν ἐνεργοῦντα) non abbia, se ha la doppia natura, una sola energia naturale 41.

La triade neoplatonica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια offre a Massimo un modo di analizzare le nature e le qualità del Λόγος incarnato e di confutare gli argomenti di coloro che volevano ridurre la pienezza delle nature, divina e umana, di Cristo. Se Gesù non avesse un’energia umana e  una volontà umana, non avrebbe neanche una natura umana; se non avesse una natura umana, non avrebbe neanche le qualità della natura.

5. Per dimostrare la gratuità della deificazione Lo scopo della creazione è l’incarnazione del Λόγος e la divinizzazione della creazione. Ma la divinizzazione non è il risultato della potenza naturale dell’uomo, piuttosto è un dono divino che rende 40 Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones et dubia, 104, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 78, 5-9. 41  Id., Opuscula theologica et polemica, 16, De duabus unius Christi Dei nostri voluntatibus, PG 91, [183-212], 200C (tr. it. mia).

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l’uomo capace di oltrepassare la propria natura. Massimo, sostituendo il termine ‘sostanza’ (οὐσία) con ‘natura’ (φύσις), spiega la gratuità completa della deificazione della natura umana: Q uesto avviene nella frase: «Io l’ho detto, voi siete dèi» (Sap 81, 6); non certo secondo la natura né secondo la relazione l’uomo ha il privilegio di essere o  di essere chiamato ‘Dio’, ma diviene ed è  chiamato ‘Dio’ per collocazione (θέσις) 42 e  per grazia. La  grazia della divinizzazione (ἡ χάρις θεώσεως), infatti, è  assolutamente priva di relazione, perché la natura non possiede nessuna potenzialità, quale che sia, di riceverla (οὐκ ἔχουσα τὴν οἱανοῦν δεκτικὴν ἑαυτῆς ἐν τῇ φύσει δύναμιν): allora, infatti, non sarebbe più grazia, ma manifestazione dell’atto secondo la capacità naturale. E così, ancora, non sarà assurdo, se la divinizzazione (θέωσις) dell’uomo avviene secondo la potenzialità (δύναμις) di riceverla, che ha la sua natura. Altrimenti, infatti, la divinizzazione sarà logicamente opera della natura e  non dono di Dio, se avverrà secondo la potenzialità (δύναμις) di ricevere, che ha la natura dell’uomo, ed in tal modo siffatta persona potrà essere ed essere chiamata propriamente ‘Dio’ per natura. Infatti, la potenzialità naturale (ἡ κατὰ φύσιν δύναμις) di ciascuna cosa non risulta essere altro che un moto incessante (ἀπαράβατος κίνησις) della sua natura (φύσις) in funzione del suo atto (πρὸς ἐνέργειαν). Ed in che modo la divinizzazione è compresa nei limiti della natura umana? Proprio non riesco a capirlo 43.

L’analisi di Massimo dipende di nuovo dalla strutturazione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. La realizzazione (ἐνέργεια) della deificazione (θέωσις) è  un dono perché supera la capacità della natura umana: una sostanza non può realizzare una potenza che non le sia gia insita. Q uindi, se la natura umana (φύσις = οὐσία) possedesse la potenzialità (δύναμις) di realizzare la divinizzazione da sé stessa, questa non sarebbe più un dono, piuttosto sarebbe un 42 Θέσις o  ‘posizione’ è  la fissità desiderata da Dio nelle cose create, cioè la capacità di ragionare è una qualità, ma ha la sua fissità (θέσις) nella sostanza o natura umana a causa dell’atto sovrano di Dio. In generale, la parola denota la creazione come un atto buono e desiderato da parte di Dio. La divinizzazione (θέωσις) è anche una θέσις, ma stabilita soltanto dalla grazia divina e quindi non è la conseguenza né della natura umana né del suo rapporto con Dio. Cfr. Thunberg, Microcosm and Mediator cit. (alla nota 6), p. 63. 43  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 20, PG 91,  1237B, ed. Constas cit., I, p. 410 (tr. it. cit., pp. 378-379).

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moto naturale della sostanza. Non è dunque possibile attribuire la potenzialità della divinizzazione alla natura umana 44. Soltanto la grazia divina può portare una natura fuori dei limiti imposti dalla propria potenzialità.

6. La triade nel dramma delle creature razionali Le creature razionali (λογικοί) si realizzano in un dramma cosmico che coinvolge la libertà e la grazia divina. Si svolgono verso un fine che oltrepassa la loro natura, ma quel fine non assorbe la sua autonomia e la sua individualità. E questa storia dell’umanità trova la sua forma nella storia del Λόγος incarnato, che restaura e realizza il piano divino 45. Per vedere come rientra la triade neoplatonica in questo teodramma, offrirò in questo paragrafo un’analisi dell’Ambiguum ad Ioannem 65 alla luce di altri brani relativi. Tale Ambiguum tratta un testo di Gregorio Nazianzeno in cui si dice: «Meno un giorno, che abbiamo assunto dal secolo venturo, giorno che è l’ottavo e il primo, o piuttosto, l’unico e indistruttibile. Bisogna, infatti, che lì cessi la celebrazione del sabato da parte delle nostre anime» 46. Il testo offre a Massimo l’opportunità di approfondire alcuni concetti relativi allo scopo della creazione razionale nel piano divino – dal suo inizio ex nihilo al suo fine soprannaturale. La struttura di questo piano si rivela in una serie di triadi: Coloro che sono esperti nelle cose di Dio dicono che tre sono i  modi. Si osserva che λόγος complessivo della nascita delle sostanze razionali è  quello che contiene il λόγος dell’essere (τὸ εἶναι), quello dell’essere bene (τὸ εὖ εἶναι) e quello dell’essere sempre (τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι): il primo, quello dell’essere, è stato dato secondo la sostanza (οὐσία); il secondo è  stato dato secondo la loro libera scelta (προαίρεσις), in quanto si muo44  Infatti, per ricevere la realizzazione (ἐνέργεια) della divinizzazione, l’uomo deve ricevere un nuovo ‘abito’ (ἕξις) in unione con Gesù Cristo; cfr. Renczes, Agir de Dieu cit., pp. 329-335. 45 Cfr. P. Blowers, Maximus the Confessor. Jesus Christ and the Transfiguration of  the World, Oxford 2016, pp. 101-109. 46  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91,  1389D, ed. Constas cit., II, p. 276 (tr. it. cit., p. 544). Anche cfr. Gregorius Nazianzenus, Oratio 41, 2, PG 36, [427-452], 429B-432B.

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vono autonomamente (αὐτοκινήτος), mentre il terzo, quello dell’essere sempre, è  ottenuto dalla loro ricerca per grazia (χάρις). E il primo contiene la potenza (δύναμις), il secondo l’atto (ἐνέργεια), il terzo la quiete (ἀργία) 47.

La struttura fondamentale si trova nella triade essere, essere bene ed essere sempre. Il  primo e  l’ultimo sono doni divini e  quindi si ricevono gratuitamente e  non attraverso lo sforzo personale. Il secondo, invece, dipende dalla scelta libera, dall’esercizio della volontà razionale 48. Tutti e  tre si collegano alla triade anti-origenista già menzionata: γένεσις – κίνησις – στάσις. All’interno di questa struttura troviamo la triade neoplatonica dividersi secondo il movimento della sostanza razionale verso il suo fine in Dio.  Il seguente schema illustra la distribuzione della triade neoplatonica nello sviluppo di un essere razionale: τὸ εἶναι (γένεσις)  = dono divino οὐσία δύναμις

τὸ εὖ εἶναι (κίνησις) = libertà ἐνέργεια προαίρεσις

τὸ εὖ ἀεὶ εἶναι (στάσις) = dono divino χάρις ἀργία

La sostanza e la potenza sono doni ricevuti da Dio, mentre l’atto di un essere razionale, che ha capacità di movimento (αὐτοκίνητος), appartiene alla scelta libera e forma il suo modo (τρόπος) di essere. Ma l’atto che unisce la creatura al Creatore e che termina nella quiete ha bisogno della grazia, qualcosa che viene da fuori e trasforma completamente l’essere razionale. Q ui di seguito focalizzeremo la nostra attenzione sulle singole parti di questo schema. 47  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91,  1392A, ed. Constas cit., II, p. 276 (tr. it. cit., p. 544). 48 Vediamo la stessa struttura nell’Ambiguum 10; cfr.  ibid., 10,  1116B, I, p. 166 (tr. it., p. 257): «Essi [i santi] appresero, infatti, dalla esatta considerazione delle cose, per quanto è  possibile all’uomo, che esistono tre modi generali, per mezzo dei quali Dio creò l’universo: e cioè che, dopo averci dato sostanza, fece l’essere, e l’essere bene e l’essere sempre. Di essi, due sono i più alti e pertengono solamente a Dio, in quanto egli è la causa, mentre l’altro è intermedio e dipende dalla nostra volontà e dal nostro comportamento e fornisce ai due estremi la proprietà di poter essere nominati esattamente in quel modo; se esso manca, la loro denominazione non ha un vero motivo, perché quei de modi non posseggono a se congiunto, il bene; e solo con l’eterno movimento verso Dio può propriamente provenire ed essere conservata in loro la verità, che è negli estremi».

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6.1. τὸ εἶναι: οὐσία e δύναμις Una sostanza (οὐσία) è creata ex nihilo e quindi si trova fra due contrari o limiti: l’essere e il non-essere 49. Sempre dipende da Dio per la continuazione della sua esistenza e  per il suo movimento verso la deificazione. Una sostanza razionale vive quindi continuamente in dipendenza da Dio; altrimenti volgerebbe verso il nonessere e la propria dissoluzione: E per questo essa [la sostanza] sempre è e sarà retta dalla Sua potenza onnipotente, anche se ha il non-essere come contrario, come si è detto, essendo stata tratta da Dio dal non essere all’essere e dipendendo il suo essere o non essere dalla volontà di Lui 50.

A causa di questa dipendenza, la ‘sostanza’ è una categoria fondamentale di un essere creato che si distingue completamente dall’essere semplice e non-creato, cioè, da Dio: unica sostanza semplice, uniforme, senza qualità, pacifica e immutabile è la sostanza infinita, onnipotente e creatrice di tutti quanti gli esseri. Ogni creatura invece è  composta di sostanza e accidente ed è sempre bisognosa della provvidenza divina, non essendo libera da mutabilità 51.

L’essere razionale riceve da Dio la sua potenza sostanziale, la quale rivela la natura della sostanza allorché viene ad essere in atto. La  polarità fra sostanza e  potenza significa che un essere razionale – umano o angelico – non è mai semplice: la sostanza deve realizzarsi secondo la sua potenza, non è una sostanza completa e in riposo. Secondo Massimo, «non esiste un essere libero e semplice secondo la sostanza, tranne il solo essere divino. Tutte le altre cose, che hanno il proprio essere dopo Dio e da Dio, consistono in sostanza e qualità, o potenza, cioè, in sostanza e accidente» 52. Q uindi, contro Origene, Massimo sostiene l’importanza del mo Cfr. ibid., 7, 1069B, I, p. 77.   Id., Capita de caritate, III, 28, PG 90, 1025B, ed. Ceresa-Gestaldo cit. (alla nota 20), p. 157 (tr. it. mia). 51  Ibid., IV, 9, 1019B, p. 199. 52   Id., Q uaestiones et dubia, 104, PG 90, [luogo assente in PG], ed. Declerck cit., p. 78, 5-9 (tr. it. mia). 49 50

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vimento (κίνησις) nello svolgimento di una sostanza dalla sua potenza all’atto. 6.2. τὸ εὖ εἶναι: l’ἐνέργεια e la libertà Nell’Ambiguum 65, Massimo descrive il movimento di una sostanza razionale in atto: Ad esempio, il λόγος dell’essere (ὁ τοῦ εἶναι λόγος) possiede per natura solamente la potenza (δύναμις) in funzione dell’atto (ἐνέργεια), ma, senza la libera scelta (προαίρεσις), non può possedere assolutamente l’atto stesso nella sua pienezza; quello dell’essere bene possiede solamente l’atto stesso della potenza naturale secondo l’intenzione (γνώμη), ma assolutamente non possiede la potenza stessa nella sua totalità, se è separato dalla natura 53.

Un essere razionale si muove autonomamente (αὐτοκίνητος) 54 secondo la libera scelta (προαίρεσις) e  la volontà intenzionale (γνώμη). L’atto che realizza la potenza di una sostanza quindi si svolge secondo l’autonomia del soggetto – un’autonomia che da forma alla «quiete» che è  il termine e  il limite del movimento dell’essere. La libera scelta acquista un significato preciso nel dibattito con i monoteliti. Implica non solamente la possibilità di scegliere fra i beni, ma anche include la possibilità di scegliere il male. Demetrios Bathrellos definisce προαίρεσις come «l’attualizzazione di una disposizione (γνώμη) verso ciò che è necessario per compiere un fine desiderato» 55. La  προαίρεσις, aperta ai desideri ordinati 53   Id., Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91, 1392B, ed. Constas cit., II, p. 277 (tr. it. cit., p. 545). 54 Q ui sentiamo un’eco neoplatonica della categoria dell’αὐθυπόστατος, che apre lo scopo della volontà libera nell’emanazione dall’Uno; cfr. Proclus, Elementatio, prop. 40-42, pp. 42-45. 55 Cfr. Bathrellos, The Byzantine Christ cit., p. 149. Per una sintesi sulla posizione di Massimo sulla volontà naturale, la disposizione e  la libera scelta, cfr. J. Bieler, Maximus the Confessor on Christ’s Human Will, in «Communio», 43 (2016), pp. 55-82; P. G. Renczes, The Concept of  «hexis» in the theological Anthropology of  saint Maximus the Confessor, in Knowing the Purpose of  Creation through the Resurrection. Proceedings of   the Symposium on St.  Maximus the Confessor (Belgrade, 18-21 October 2012), ed.  by M.  Vasiljevic, Belgrad 2013 (Contemporary Christian thought series, 20), pp. 190-191.

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e disordinati, appartiene quindi allo stato postlapsario dell’uomo, ma scompare nei santi in cui ci sono solamente la volontà naturale (θέλημα) – la volontà sempre diretta verso il bene della sua natura – e il desiderio intellettuale. Ma, allo stesso tempo, la libera scelta è lo strumento dell’auto-movimento che mette la potenza della sostanza in atto. In somma, il contributo umano all’attuazione della potenza sottolinea l’importanza della volontà umana in Cristo – una volontà divinizzata in unione con la volontà divina nell’unica ὑπόστασις. Nonostante l’importanza della libertà delle creature razionali, Massimo insegna che l’essere – τὸ εἶναι (οὐσία, δύναμις) – e la libertà umana che determina il modo di essere – τὸ εὖ εἶναι (ἐνέργεια) – dipendono da Dio. Dio lascia lo spazio per la autorealizzazione, ma l’uomo mai può separarsi da Dio senza cadere nel non-essere. Dumitru Staniloae riassume l’insegnamento di Massimo in questi termini: Si la bonne opération dépend aussi de la bonne volonté, alors le repos dans l’éternelle existence bonne dépend non seulement de Dieu mais aussi de l’homme  (…). D’autre part, pour qu’on ne croie pas que l’opération bonne ou l’existence bonne dépendent seulement de la volonté de l’homme, saint Maxime déclare que l’opération n’a pas toute la puissance en soi, mais dans la nature donnée par Dieu. Donc l’existence bonne dépend également de Dieu 56.

6.3. τὸ ἀεὶ εἶναι: la passività attiva Un essere razionale non può raggiungere il suo limite (ὅρος) o il suo compimento con il suo auto-movimento dacché tal limite oltrepassa la sua potenza: il riposo in Dio, la divinizzazione. Massimo scrive nell’Ambiguum 65: Q uello dell’essere-sempre circoscrive (περιγραφών) nella loro totalità i λόγοι che lo precedono, e cioè la potenza (δύναμις) dell’uno e l’atto (ἐνέργεια) dell’altro, ma assolutamente non esiste per natura secondo la potenza, né consegue affatto di necessità alla volontà della libera scelta (προαίρεσις): come 56  D.  Staniloae, Commentaires, in Saint Maxime le Confesseur, Ambigua, tr. fr. E. Ponsoye, Paris 1994, p. 528.

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è  possibile, infatti, che in quegli esseri che possiedono inizio secondo la natura e  fine secondo il movimento vi sia l’essere sempre, che non possiede né inizio né fine? Ma tale λόγος è limite (ὅρος), perché rende salda la natura per quanto attiene la potenza e la libera scelta per quanto attiene l’atto, e non scambia assolutamente tra di loro il λόγος secondo cui l’una o l’altra è, ma delimita ad ogni cosa ogni secolo ed ogni tempo 57.

Q ui vediamo il paradosso del compimento di un essere razionale: l’essere razionale raggiunge il suo fine in Dio solamente per il dono trasformativo della grazia, ma questo fine non trascura l’integrità dell’essere razionale. Massimo sottolinea il fatto che l’essere sempre «circoscrive (περιγράφων) nella loro totalità i  λόγοι che lo precedono». Q uindi il dono originale dell’essere e il contributo umano nell’essere bene si uniscono alla natura divina, l’essere sempre, senza diventare un tertium quid fra umano e divino e senza essere assorbito. Ciò che accade nella quiete (ἀργία) divina – la divinizzazione dell’essere razionale – è  analogo all’unione delle due nature di Cristo, nel quale, secondo il Concilio di Calcedonia, si ha l’integrità delle nature nell’unione ipostatica: [Cristo] si fa conoscere in due nature senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. Poiché assolutamente non è  stata eliminata la differenza delle nature a  causa dell’unione, ma invece sono state preservate le proprietà dell’una e dell’altra natura e sono confluite in un solo prosopon (πρόσωπον) e in una sola ipostasi 58.

L’essere umano (οὐσία, δύναμις) e il suo modo di essere determinato con la libertà di scelta (ἐνέργεια) forma il modo dell’essere sempre, ma il termine del suo movimento viene solamente da Dio e in Dio: A seconda, dunque, di come si serva della pianezza della natura (vale a dire, secondo natura o contro natura), l’atto conforme 57  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91,  1392B, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., p. 545). 58  Il Simbolo di Calcedonia, in Il Cristo. II: Testi teologici e spirituali in lingua greca dal iv al vii secolo, a cura di M. Simonetti, Roma - Milano 1998 (Scrittori greci e latini), pp. 444-445.

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alla libera scelta, riceveranno la natura che avrà il suo termine nell’essere bene o nell’essere male, vale a dire l’essere sempre; con esso le anime festeggiano il loro sabato perché tutte ricevono la quiete del loro movimento 59.

Q uesto paradosso dell’essere razionale si trova in un altro concetto massimiano, συγχώρησις o  ἐκχωρησις: «la concessione», «la consegna», o  «l’abbandono» 60. Nel dramma della caduta dell’uma­nità, l’uomo ha respinto l’amore di Dio per disobbedienza e  per rifiuto di consegnarsi/abbandonarsi alla grazia divina. Nel disordine della sua natura l’uomo non era più in grado di compiere l’atto libero dell’abbandono di sé stesso a Dio, onde rimaneva intrappolato nel ciclo del peccato, senza speranza di raggiungere l’essere bene per sempre in Dio. Ma Cristo, nell’abbandono di sé stesso sulla Croce – un consegnarsi libero al  Padre motivato dall’amore – ha restaurato la capacità della volontà umana di consegnarsi alla grazia. L’uomo, con la grazia, adesso può compiere continuamente l’«abbandono volontario» (ἐκχώρησις γνωμική) 61, una passività attiva che si rinnova per sempre nell’unio­ne con Dio. Si riposa in Dio con «il voler essere circoscritto tutto intero» 62. L’essere razionale quindi ‘subisce’ la trasformazione divina, senza la perdita della sua volontà naturale e senza la trasgressione della sua natura 63. 59  Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91,  1392C, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., pp. 545-546). 60  Per un riassunto dell’insegnamento di Massimo cfr. J. Gavin, «They are like the Angels in the Heavens»: Angelology and Anthropology in the Thought of  Maximus the Confessor, Roma 2009 (Studia ephemeridis Augustinianum, 116), pp. 238-241. 61   Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 7, PG 91, 1076C, ed. Constas cit., I, p. 90 (tr. it. cit., pp. 219). 62  Ibid., 1076A, I, p.  88 (tr.  it., p.  218). Cristo riunisce il λόγος dell’essere dell’uomo all’essere-bene mediante la sua libertà divino-umana. Per un riassunto delle conseguenze etiche di questa guarigione, cfr. V. Cvetokovic, «All in all» (1Cor 15:28): Aspects of  the Unity between God and Creation according to st. Maximus the Confessor, in «Analogia» 1.2 (2017), pp. 13-28, in partic. pp. 20-21. 63  Per una sintesi dell’insegnamento di Massimo, cfr. A. Cooper, The Body in st. Maximus the Confessor. Holy Flesh, wholly Deified, Oxford 2005, p. 248: «Nature’s passivity, the full conclusion of  its natural activity, provides the raw material par excellence with which God’s infinite activity elevates that same nature and overwhelms it with his glory. In this sense passivity paradoxically constitutes a superior ontological order that, chronologically speaking, may coexist with the

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LA TRIADE NELLA VISIONE COSMICA DI MASSIMO IL CONFESSORE

L’essere razionale trova il suo fine sia nella partecipazione 64 in Dio (l’essere sempre bene) sia nella mancanza della partecipazione completa (l’essere sempre male). Massimo così conclude l’Ambiguum 65: Dio è  presente tutto intero, in modo corrispondente a  ciascuno, in tutti quelli che secondo natura, rispondendo alla loro libera scelta, hanno usato il λόγος dell’essere, e  con la partecipazione (μετοχή) a sé dona loro l’essere sempre bene, poiché lui solo veramente è  ed è  sempre ed è  bene, mentre a quelli che nella loro intenzione si sono serviti contro natura del λόγος dell’essere Dio assegna l’essere sempre male (τὸ φεῦ ἀεὶ εἶναι) invece dell’essere sempre bene, come è logico, perché essi non possono più da quel momento contenere l’essere bene, in quanto la loro condizione è contraria ad esso 65.

La triade neoplatonica per Massimo coinvolge il dono divino (l’essere: οὐσία, δύναμις) e la libertà (l’essere bene: ἐνέργεια) nel­ l’essere razionale. Ma, in ultima istanza, l’essere sempre (bene/ male) richiede la passività libera, l’abbandono alla grazia ispirato dalla grazia stessa. L’attività drammatica dell’essere razionale si trasforma in un riposo attivo nella quieta divina.

7. Conclusione In generale, la triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια nel pensiero di Massimo serve a esprimere la dinamicità e la finalità di ogni essere. Mentre le diadi ὕλη – εἶδος e οὐσία – συμβεβηκός servono per spiegare la natura composita di ogni essere, cosa che li rende distinti dalla natura divina, la triade dimostra la realizzazione del fine definito dal logos di ciascun essere. Per gli esseri razionali la triade è aperta al processo dell’individualizzazione e all’azione della grazia. Da una parte, la volontà naactive state characteristic of  nature’s progression to its goal by the use of  its natural powers». 64  Per la «partecipazione graduale» in Massimo, cfr. M. Portaru, Gradual Participation according to St. Maximus the Confessor, in «Studia Patristica» 44 (2013), pp. 281-293. 65   Maximus Confessor, Ambigua ad Ioannem, 65, PG 91,  1392D, ed. Constas cit., II, p. 278 (tr. it. cit., p. 546).

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turale (θέλησις) è una potenza (δύναμις) 66 dell’essere razionale che permette l’auto-realizzazione secondo la triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια 67. L’uomo e l’angelo, in base allo scopo della propria natura, possiedono la libertà di esprimere la loro persona (ὑπόστασις) in modi diversi. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια non distrugge la volontà libera di un essere naturale. Dall’altra parte, la triade può oltrepassare i suoi limiti per grazia divina. La divinizzazione supera la capacità di ogni essere, ma questo non significa che la trascendenza della natura non sia possibile. L’incarnazione del Λόγος in ogni essere significa una partecipazione alla natura divina, una concessione a prendere parte all’azione divina. Q uale perno della visione massimiana di tale cooperazione fra l’essere umano e la grazia divina troviamo dunque l’incarnazione del Λόγος.

66 Cfr.  Id., Opuscula theologica et polemica, I, PG 91, [11-38], 12D, dove si afferma che la volontà è  «una potenza desiderosa dell’essere secondo la natura e  conserva tutti gli attributi che sono le caratteristiche essenziali della natura» (tr. it. mia). 67  Cfr. Id., Disputatio cum Pyrrho, PG 91, 324D-325A; cfr. anche P. Piret, Le Christ et la Trinité selon Maxime le Confesseur, Paris 1983 (Théologie historique, 69), pp. 340-342.

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ERNESTO SERGIO MAINOLDI

LA TRIADE ΟὐΣΊΑ – ΔΎΝΑΜΙΣ – ἘΝΈΡΓΕΙΑ NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA E FILOSOFICA DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA

In questo capitolo la nostra indagine sarà mirata a identificare le principali linee teoriche e i principali contesti di utilizzo filosofico e teologico della triade in età medio e tardobizantina, riportando un ventaglio – il più possibile significativo – di autori in cui questa presenza trova attestazione. Partiremo da una rassegna di contesti teologici e  filosofici in cui la triade ricorre con frequenza, in base alla quale potremo valutare il radicamento di questa struttura nell’orizzonte speculativo e terminologico bizantino. A differenza del mondo latino, che non ebbe la possibilità fino al  tredicesimo secolo di leggere le fonti pagane da cui Dionigi aveva ripreso la triade, i bizantini ebbero l’accesso a queste fonti senza soluzione di continuità. La  presenza dei testi dei filosofi neoplatonici nelle biblioteche bizantine pone di conseguenza il quesito circa la possibilità che la triade possa esser stata conosciuta direttamente dalle fonti pagane; questo richiederà una verifica sull’impatto di queste fonti, soprattutto nel caso della ‘Proclus Renaissance’ del secolo xi. Uno sguardo specifico verterà su Gregorio Palamas e  sulla disputa esicasta, in quanto la teoria delle energie divine che fu dibattuta in essa e che venne riconosciuta sinodalmente nell’interpretazione del monaco aghiorita, poi arcivescovo di Tessalonica, come genuina espressione della teologia ortodossa, oltre a  vedere al  suo cuore il problema del rapporto tra essenza ed energie divine, ha coinvolto in larga misura il modello ontologico della triade, riprendendo e  ampliando quanto nei secoli precedenti la riflessione cristiana in lingua greca aveva espresso sull’argomento. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127959 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 247-297     © 

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Prenderemo infine in considerazione un contesto di grande rilievo non solo per lo studio della fortuna bizantina della triade, ma anche per la sua ricezione nel pensiero medievale in generale, ovvero il dibattito teologico tra latini e bizantini che si aprì nel ix secolo con il cosiddetto scisma di Fozio, si sviluppò esponenzialmente dopo il Grande scisma del 1054, per arrivare ai confronti prodottisi col Secondo Concilio di Lione (1274) e, soprattutto, al Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze (1417-1431): vedremo qui opporsi due interpretazioni della triade in cui si riflettono le divergenze maturate all’interno del pensiero filosofico e teologico tra bizantini e latini. Oltre al  mainstream della teologia bizantina, in cui la triade ricorre con precise costanti interpretative, i  contesti in cui essa si presenta, manifestando tratti speculativamente discordanti rispetto a  quel filone principale, quali la speculazione filosofica del­l’undicesimo secolo, il dibattito polemico con i  latini, dal dodicesimo secolo in poi, e il dibattito teologico tardobizantino sul­l’esi­casmo, costituiscono un terreno di verifica della varianza concettuale della triade e, conseguentemente, delle ontologie da essa implicate, mostrando così non solo la ricchezza filosofica che fa da intorno alle sue occorrenze, ma anche uno spaccato delle divergenze paradigmatiche che si sono sviluppate e scontrate sia all’interno del pensiero bizantino sia nel confronto con quello latino.

1. La triade nel canone dell’ontologia bizantina e la sua tradizione Con Massimo il Confessore e  Giovanni Damasceno il canone terminologico e  concettuale dell’ontologia bizantina è  giunto alla definizione dei suoi confini generali, entro i quali il discorso teologico e filosofico si muoverà nei secoli a venire. Le definizioni date da questi due Padri a  riguardo della triade e  del rapporto tra i  suoi termini, al  pari delle definizioni dionisiane, si attesteranno come canoniche nella letteratura filosofica bizantina, trovando diffusione attraverso le innumerevoli citazioni dalle loro opere, nonché attraverso riprese, implicite o esplicite, all’interno di catene, lessici e florilegi. Ad esempio, l’argomento dionisiano della distinzione triadica delle potenze angeliche dato nell’undice248

LA TRIADE NELLA RIFLESSIONE DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA

simo capitolo della Gerarchia celeste è riportato per intero in uno degli opuscoli teologici di Psello 1, e da qui ripreso nella anonima miscellanea filosofica del secolo xii trasmessa dal Codex Baroccianus Graecus 131 2; similmente, gli argomenti che coinvolgono l’ontologia triadica nei Capitoli teologici ed economici di Massimo il Confessore 3 sono citati per esteso nella Panoplia dogmatica ad Alessio Comneno di Eutimio Zigabeno 4, nonché nella Historia romana di Niceforo Gregoras 5. Troviamo poi attestazioni della triade nel Lessico dello pseudo-Zonara 6, nonché in diverse catenae del Nuovo Testamento 7. A questa fortuna hanno contribuito anche le attribuzioni spurie, che in virtù dell’autorevolezza e  dell’antichità degli autori implicati hanno conferito rilevanza all’argomento triadico. Apprendiamo così dalle catene dei commentari ai Salmi, del­l’im­ piego della triade da parte del presbitero agiopolita Esichio, vissuto nel secolo v 8: non avendo elementi per verificare se si tratti qui di un’interpolazione o  di un’occorrenza genuina, ci accon1 Cfr. Michael Psellus, Opusculum 112, in Id., Theologica, ed. P. Gautier, 2 voll., Leipzig 1989-2002, I, 1989, p. 441, 62-68; cfr. supra, p. 193, alla nota 29. 2 Cfr. Anonymi miscellanea philosophica. A Miscellany in the Tradition of  Michael Psellos, ed. I. N. Pontikos, Athens - Paris - Brussels 1992 (Corpus philosophorum Medii Aevi. Philosophi Byzantini, 6), p. 104, 9. 3 Cfr. Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, I, 2, PG 90, [1083-1462], 1084A, edd. K.  Hajdú - A.  Wollbold, Freiburg - Basel - Vienna 2017 (Fontes Christiani, 66), pp.  91-92; cfr. supra, p. 217. Ricordiamo che quest’ope­ra è riportata integralmente nella Filocalia di Nicodemo Aghiorita e Macario di Corinto. 4 Cfr.  Euthymius Zigabenus, Panoplia dogmatica ad Alexium Comnenum, 3, PG 130, [33-1361], 145, 19. 5  Cfr. Nicephorus Gregoras, Historia Romana, in Id., Historiae Byzantinae, edd. I. Bekker - L. Schopen, 3 voll., Bonn 1830 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae), II, p. 1066. 6 Cfr. Pseudo-Zonaras, Lexicon, in Iohannis Zonaras, Lexicon ex tribus codicibus manuscriptis, ed. J. A. H. Tittmann, 2 voll., Leipzig 1808 (repr. Amsterdam 1967), II, p. 725, 17. 7 Cfr.  Catena in epistulam ad Romanos (typus Monacensis) (e cod. Monac. gr. 412), in Catenae Graecorum patrum in Novum Testamentum, ed. J. A. Cramer, 8 voll., Oxford 1842 (rist. Hildesheim 1967), IV, p. 298, 25; Catena in epistulam ad Ephesios (typus Parisinus) (e cod. Coislin), ibid., VI, p. 129, 13-18. 8 Cfr. Hesychius, Fragmenta in Psalmos (e commentario magno in catenis), Psalmus 107, PG 93, [1180-1340], 1312B,  83-84: ὡς τῆς Τριάδος μίαν ἐχούσης οὐσίαν δύναμίν τε καὶ ἐνέργειαν. Sull’utilizzo della triade per significare l’unità ontologica della Trinità, cfr. infra, § 2; per una ripresa del testo cfr. infra, alla nota 13.

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tentiamo di sottolineare come questa attestazione si profilerebbe come testimonianza di tutto rilievo in virtù della sua antichità e per il fatto di essere pre-dionisiana; essa potrebbe dipendere dai Cappadoci, se non addirittura essere una ripresa originale dai testi neoplatonici. Particolare fortuna per ragioni pseudo-epigrafiche ha avuto il passo dedicato alla triade nel Sermo in annuntiationem Deiparae, attribuito ad Atanasio di Alessandria – in realtà testo di età più tarda  e, a  giudicare dalla terminologia, sicuramente post-dionisiano 9; questo passo è stato citato in diverse opere degli autori filopalamiti coinvolti nella disputa esicasta: da Gregorio Palamas 10 a  Filoteo Cocchino 11 e  Giovanni  VI Cantacuzeno 12. Meno diffusa, ma significativa la presenza della triade in un Commento ai Salmi attribuito a Giovanni Crisostomo 13.

2. Nelle argomentazioni di teologia trinitaria A partire dai secoli vi e vii la triade trova ricorrente impiego come argomento finalizzato a illustrare l’unità ontologica delle tre ipo9 Cfr.  Pseudo-Athanasius Alexandrinus, Sermo in Annuntiationem Deiparae, PG 28, [913-939], 920: ἀλλ’ ἕνα Θεὸν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσι θεολογοῦντες, μίαν ἔχοντα τὴν οὐσίαν, καὶ τὴν δύναμιν, καὶ τὴν ἐνέργειαν, καὶ ὅσα ἄλλα περὶ τὴν οὐσίαν θεωρεῖται θεολογούμενα καὶ ὑμνούμενα. 10 Cfr. Gregorius Palamas, Capita physica, theologica, moralia et practica CL, 114, ed. R. E. Sinkewicz, Toronto 1988 (Studies and Texts, 83), p. 214, 1416 (cfr.  infra, alla nota 20); Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum (Ἀντιρρητικοὶ πρὸς Ἀκίνδυνον), Oratio II, 21, 100, edd. L. Kontogiannes - B. Phanourgakes, in Id., Συγγράμματα, dir. by P. K. Chrestou, 6 voll., Thessalonica 19622015, III, 1970, p.  157,  10-13; Id., Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), VI,  1, ed. G. Mantzarides, ibid., II, 1970, p. 164, 9-10; Id., Epistulae (Ἐπιστολαί), 6, ed. N. A. Matsoukas, ibid., II, p. 415, 19-25; Id., Contra Nicephorum Gregoram (Κατὰ Γρηγορᾶ συγγράμματα), Oratio 4, 65, ibid., IV, 1988. 11 Cfr.  Philotheus Coccinus, Antirrhetici duodecim contra Gregoram, Oratio 5, ed. D. V. Kaimakes, Thessalonica 1983 (Thessalonian Byzantine Writers, 3), r. 495 (i testi di autori bizantini per i quali non è stato possibile reperire le edizioni a stampa originali saranno citati secondo la paginazione e le indicazioni del Thesaurus Linguae Graecae). 12 Cfr.  Ioannes  VI Cantacuzenus, Refutationes duae Prochori Cydonii, I, 26, edd. F. Tinnefeld - E. Voordeckers, Turnhout 1987 (CCSG, 16), p. 37, 47; ibid., II, 12, p. 129, 36; Id., Disputatio cum Paulo Patriarcha Latino epistulis septem tradita, I, 6, ibid., p. 183, 12; ibid., III, 3, p. 194, 24. 13 Cfr.  Pseudo-Ioannes Chrysostomus, In  Psalmos 101-107, PG 55, [635-674], 673, 62: ὡς τῆς Τριάδος μίαν ἐχούσης οὐσίαν, δύναμίν τε καὶ ἐνέργειαν.

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stasi divine. Il dibattito teologico di questi secoli fu agitato dalle teorie cristologiche monotelita e monoenergetista, che iteravano la comprensione dell’incarnazione sotto la specie di una visione ontologica monistica in continuità speculativa con il monofisimo. La  triade è  servita indirettamente in ambito cristologico ad affermare il principio per cui a  ogni natura corrisponde una volontà, una potenza e un’operazione. Q uesto tipo di argomento ricorre con frequenza nel discorso sulla natura divina e su ciò che è comune alle tre ipostasi. La triade implica la distinzione in Dio di essenza, potenza ed energia, ma allo stesso tempo la corrispondenza di una singola natura a  una propria potenza ed energia. In  ambito trinitario, le tre divine ipostasi, in virtù dell’essenza comune, possiedono una potenza e un’energia comuni. Esempi di questo utilizzo della triade si trovano a partire dagli influenti testi di Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno: Q uindi un solo Dio sono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, una e  medesima (μία γὰρ καὶ ἡ αὐτὴ) è  l’essenza, la potenza e l’energia del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tale che nessuno può essere o essere pensato senza l’altro (οὐκ ὄντος οὐδενὸς τοῦ ἑτέρου χωρὶς ἢ νοουμένου) 14. Q uando guardiamo alla divinità e alla prima causa, all’unica sovranità (τὴν μοναρχίαν), all’unico e medesimo movimento e volere (κίνημά τε καὶ βούλημα) – per così dire – della divinità, e all’identità (ταυτότητα) dell’essenza, della potenza, dell’operazione e della signoria (κυριότητος), allora ciò che ci viene in mente è uno (ἓν ἡμῖν τὸ φανταζόμενον) 15.

Q uesto argomento ricorrerà come canonico in una nutrita serie di autori appartenenti a  epoche e  a contesti differenti, nei quali l’ontologia triadica manterrà una sostanziale stabilità dottrinale, ad esempio in Fozio (saec. ix) 16, Michele Psello 14   Maximus Confessor, Capita theologica et oeconomica, II,  1, PG 90, [1083-1462], 1125C, edd. Hajdú-Wollbold cit., pp. 160, 26 - 162, 3. 15  Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 8, PG 94, [789-1228], 829B, ed. B. Kotter, Berlin 1973 (PTS, 12; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 2), pp. 29, 268 - 30, 271. 16 Nella Bibliotheca di Fozio la triade viene riferita come argomento utilizzato nel florilegio di sentenze contraddittorie di un certo Stefano Gobar, monofisita «triteista», vissuto forse nel secolo vi; cfr.  Photius, Bibliotheca, Codex 232, 289a, ed. R.  Henry, 9  voll., Paris 1959-1991 (Collection Byzantine), V,

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(saec. xi) 17, Eustrazio di Nicea (saec. xii) 18, Giorgio Acropolita (saec. xiii) 19 e Gregorio Palamas (saec. xiv) 20. La natura divina viene presentata da questi autori come avente la stessa essenza, potenza ed energia senza sostanziali variazioni di significato, per cui la triade risulta essere l’espressione delle distinzioni divine ad extram e  si attesta come elemento stabile del canone termi­ nologico dell’ontologia trinitaria bizantina. Come già visto in Dionigi e Massimo, tra gli autori bizantini si riscontra la tendenza a inserire i termini della triade all’interno di definizioni che includono altri attributi ontologici della natura divina – tra i  quali, particolarmente significativa è  l’aggiunta o  l’inserimento della volontà –, inquadrandosi così la struttura triadica come componente fondamentale ma non esclusiva della definizione generale dell’essere divino. Così in Giovanni Damasceno: 1967, p. 72, 33-40: «Sul fatto che il Verbo di Dio sia tutto intero in tutto e al di sopra di tutto, e  intero nel corpo a  cui si è  unito secondo l’ipostasi: [questo significa] semplicemente che l’essenza della divinità riempie tutte le cose (πάντα πληροῖ) per natura, per la potenza e per l’energia, e passa attraverso ciascuno degli esseri per mescolanza con ogni cosa (καὶ δι’ ἑκάστου τῶν ὄντων δίεισι τῇ πρὸς τὸ πᾶν ἀνακράσει). Al contrario, le cose non stanno così, ma Dio è al di fuori del tutto secondo l’essenza, mentre è in ogni cosa per le sue potenze». 17 Cfr. Michael Psellus, Oratio in Crucifixionem, in Id., Orationes hagiographicae, ed. E. A. Fisher, Stuttgart 1994, p. 139, 540-542: «Uno (εἷς) dunque è Dio, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, per cui anche una e medesima è l’essenza, la potenza e  l’energia delle tre ipostasi (μία ἡ αὐτὴ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια τῶν τριῶν ὑποστάσεων)»; Id., Opusculum 27, in Id., Theologica, edd. J. M. Duffy - L. G. Westerink, 2 voll., Munich - Leipzig 1989-2002, II, 2002, p. 117, 7273: ἤγουν μίαν οὐσίαν καὶ θεότητα καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσιν. 18 Cfr. Eustratius Nicaeensis, Orationes, 3, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. A. Demetrakopoulos, Leipzig 1866 (repr. 1965), I, [pp. 47-198], p. 92, 26: ἐστί τε καὶ ὀνομάζεται, καὶ ὅσα ἔχει ὁ Πατὴρ καὶ ὁ Υἱός, ἔχει καὶ αὐτό, τῆς αὐτῆς ὂν καὶ αὐτὸ οὐσίας, δυνάμεως, ἐνεργείας, βασιλείας, κυριότητος, ἐξουσίας, θελήσεως, διαιροῦν ἑκάστῳ καθὸ βούλεται τὰ χορηγούμενα ἀγαθά. 19 Cfr. Georgius Acropolita, Homilia in transfigurationem (BHG, 1995), ed. M.  Kalatzi, in «Βυζαντινά», 27 (2007), [pp.  21-45], p.  37,  20-21: μία γὰρ ἐν αὐτοῖς ἡ θεότης ὡς καὶ ἡ οὐσία καὶ ἡ κυριότης, ἡ δύναμίς τε καὶ ἡ ἐνέργεια, καὶ τὸ μυστήριον ἀπόρρητον, ὅτι τὰ τρία ἕν; Id., In Gregorii Nazianzeni sententias, 9, ed. A. Heisenberg, Leipzig 1903 (Opera, II), p. 76, 20-22: ἢ τῷ ὄντι εἰκόνας ἔχει καὶ ἀμυδρὰς ἐμφάσεις τοῦ πρώτου ὄντος, ἐξ οὗ πᾶσα οὐσία κατ’ ἐνέργειαν οὖσα καὶ κατὰ δύναμιν. 20 Cfr.  Gregorius Palamas, Capita physica, theologica, moralia et practica CL, 114, ed. Sinkewicz cit., p.  214,  14-17: κατὰ τὴν κοινὴν τῶν τριῶν θείαν ἐνέργειαν. ἕνα γὰρ θεὸν ἐν τρισὶν ὑποστάσεσι θεολογοῦμεν, μίαν ἔχοντα τὴν οὐσίαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν καὶ ὅσα ἄλλα περὶ τὴν οὐσίαν θεωρεῖται.

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Vi è  infatti un Dio, cioè una sola divinità, non tre dèi alla stregua di tre uomini: né infatti sono divisi per essenza, né sono separati per potenza, né per luogo (τόπῳ), né per energia, né sono ripartiti (μερίζονται) in base alla volontà (βουλήσει), avendo il loro inseparabile (ἀνεκφοίτητον) fondamento (ἵδρυσίν) e pericoresi (περιχώρησιν) gli uni negli altri 21. Un Dio, che, in quanto una divinità, una potenza, una essenza, una volontà, una energia, è  indivisibile nelle singole ipostasi distinte e certo nelle proprietà dell’esistenza 22.

Anche in questo caso la casistica è ampia, onde riportiamo a titolo di esempio, alcune delle occorrenze più interessanti, come quelle in Nicetas David (saec. x), che accosta l’unità di volontà, di energia e di potenza all’unità di essenza ricorrendo al termine ὁμοούσιος 23, Niceta Byzantios (saec. ix) 24, il patriarca filo-palamita Filoteo Cocchino (saec. xiv), che presenta le distinzioni della natura divina come ciò che è comune nella Trinità 25, nonché Gregorio 21  Ioannes Damascenus, Contra Jacobitas, 78, ed. B. Kotter, Berlin - New York 1981 (PTS, 22; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 4), p. 135, 35-38. Va rilevato in questo passo l’utilizzo del raro aggettivo ἀνεκφοίτητος (inseparabile), un termine che Dionigi ha ripreso da Proclo e che ha introdotto nel linguaggio teologico cristiano, mostrandosi in questo imprestito un ulteriore elemento comprovante il suo debito verso la scuola neoplatonica ateniese, per cui cfr. D. P. Taormina, ΑΝΕΚΦΟΙΤΗΤΟΣ. L’immanenza del derivato nel principio, in «Elenchos», 22 (2001), pp. 121-132. 22  Ioannes Damascenus, Homilia in sabbatum sanctum, ed. B.  Kotter, Berlin - New York 1988 (PTS, 29; Die Schriften des Johannes von Damaskos, 5), p.  124,  23-26: εἷς Θεὸς, ὅτι μία θεότης, μία δύναμις, μία οὐσία, μία βούλησις, μία ἐνέργεια, ἀμέριστος ἐν μεμερισμέναις μόναις ταῖς ὑποστάσεσιν, ἤτοι ταῖς τῆς ὑπάρξεως ἰδιότησι. 23  Cfr. Nicetas David Paphlagonius, Laudatio in Gregorium theologum (BHG, 725), 6, ed. J.  J. Rizzo, Bruxelles 1976 (Subsidia hagiographica, 58), pp. 31, 81 - 32, 85: τριὰς οὖν ἐν μονάδι καὶ μονὰς ἐν τριάδι τὸ προσκυνούμενον ἀποκαλύπτεται, τριὰς προσώποις καὶ μονὰς τῇ οὐσίᾳ, ἄτρεπτος, ἰσότιμος, ἄχραντος φύσει, ὁμόδοξος, ὁμόθρονος, ὁμοούσιος, ἓν βούλημα, ἐνέργεια μία, δύναμις ἡ αὐτή, ἐξουσία, κυριότης, βασιλεία μία, μὴ μεριζομένη. 24  Cfr. Nicetas Byzantios (= Didaskalos), Confutatio falsi libri, quem scripsit Mohamedes Arabs, I, 24, 1, ed. K. Förstel, Würzburg 2000 (Corpus IslamoChristianum. Series Graeca, 5), p. 128, 13-15: εἰ δὲ αὐτὸς πάντα παράγει, κρείττων ἄρα ἀπειράκις τῶν παραχθέντων ἐκ παντὸς ἂν εἴη κατὰ πάντα, οὐσίᾳ, δυνάμει, ϊδιότητι, θελήσει καὶ ἐνεργείᾳ. 25 Cfr.  Philotheus Coccinus, Orationes et homiliae, Oratio 5, ed. B.  S. Pseftonkas, Thessalonica 1981 (Thessalonian Byzantine Writers, 2), r. 138: εἴτε καὶ τὴν ἁγίαν Τριάδα, πᾶσαν κοινῇ κοινὴν ἔχουσαν, ὥσπερ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν θεότητα, οὕτω δὴ καὶ τὴν φυσικὴν ἐνέργειαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν σοφίαν αὐτήν; Id., Con-

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Palamas 26. La posizione teorica espressa da questi autori consiste nell’ammettere la distinzione senza separazione all’interno della natura divina, conciliando l’assunto della semplicità dell’essenza divina con la molteplicità delle potenze-energie 27. In questa posizione possiamo riconoscere uno degli aspetti fondamentali dell’ontologia trinitaria bizantina, ma va tenuto presente che l’assenso ad essa non fu unanime. Giovanni Ciparissiota (1310-1378), pur accettando la distinzione nei tre termini della triade, la riduce a mero fatto nominale, insistendo sull’identità (ταυτότητα) ed escludendo la mera somiglianza (ὁμοιότητα) degli attributi comuni alla Trinità: la sua posizione esprime uno dei principali assunti teorici dell’antipalamismo nel secolo xiv 28. All’interpretazione ‘distinzionista’ della triade in relazione all’ontologia trinitaria si lascia ricondurre la lettura del patriarca Fozio, il quale concepisce la natura divina come inseparabilmente connessa alla sua essenza, potenza e operazione; premettendo che i tre termini triadici non sono prerogative particolari delle singole persone della Trinità, bensì della natura divina nella sua totalità, Fozio ricorre alla loro associazione ai nomi trinitari e alle loro proprietà (τῶν θεοπρεπῶν ὀνομάτων τε καὶ ἰδιωμάτων) al fine di illustrare l’agire provvidenziale della Trinità ad extra: Laddove contempliamo nel divino le cose divinamente proprie, troviamo che la natura assunta fin dal principio si ricapitola in tre cose (εἰς τρία συγκεφαλαιοῦσθαι), nulla più e fessio fidei, ed. Ch.  Arambatzes, in «Ἐπιστημονικὴ ἐπετηρὶς θεολογικῆς σχολῆς πανεπιστημίου Θεσσαλονίκης, Νέα Σειρά», 10 (2000), [pp. 23-41], r. 39: πιστεύω τοιγαροῦν εἰς Πατέρα καὶ Υἱὸν καὶ ἅγιον Πνεῦμα, τὸν ἕνα τρισυπόστατον Θεόν, τὸν αὐτὸν ἕνα καὶ τρία, τὸ καινὸν καὶ ὑπερφυέστατον, ἕνα μὲν τῇ οὐσίᾳ, τῇ δυνάμει, τῇ θελήσει, τῇ ἐνεργείᾳ, τῇ ἐξουσίᾳ, τῇ θεότητι καὶ ἁπλῶς πᾶσι τοῖς φυσικοῖς ἰδιώμασι. 26 Cfr. infra, al § 5.1, in partic. p. 267, alla nota 68. 27 Sulla questione della semplicità, cfr.  D.  Bradshaw, Aristotle East and West. Metaphysics and the Division of  Christendom, Cambridge 2004, pp.  117, 165, 224-234, 240-243, 246-247, 250-262. 28  Cfr. Ioannes Cyparissiotes, Expositio materiaria, IX, 4, ed. B. L. Den­ takes, Athens 1982 (Ἡσυχαστικαὶ καὶ φιλοσοφικαὶ μελέται, 5), r. 45: ἐκεῖ γὰρ τὸ μὲν κοινόν (…) καὶ τὸ ταὐτὸν τῆς οὐσίας, καὶ τῆς ἐνεργείας, καὶ τοῦ θελήματος, καὶ τὴν τῆς γνώμης σύμπνοιαν, τήν τε τῆς ἐξουσίας, καὶ τῆς δυνάμεως, καὶ τῆς ἀγαθότητος ταυτότητα. οὐκ εἶπον ὁμοιότητα, ἀλλὰ ταυτότητα, καὶ τὸ ἓν ἔξαλμα τῆς κινήσεως· μία γὰρ οὐσία, μία ἀγαθότης· μία δύναμις, μία θέλησις, μία ἐνέργεια, μία ἐξουσία, μία καὶ ἡ αὐτή, οὐ τρεῖς ὁμοῖαι ἀλλήλαις, ἀλλὰ μία καὶ ἡ αὐτὴ κίνησις τῶν τριῶν ὑποστάσεων.

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nulla meno. In quali? In essenza, potenza e operazione. Non è infatti possibile separare la divinità dalla potenza (θεότητος τὴν δύναμιν ἀφελεῖν), né dall’operazione, né tanto più dall’essenza. E dal momento che queste non si possono concepire come la stessa cosa (μὴν οὐδ’ εἰς ταὐτόν ἐστιν), né ricondurre a un’unica ipostasi (καὶ μίαν ὑπόστασιν συναγαγεῖν), né concedere che una e la stessa sia la causa della potenza e dell’essenza (λόγον ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν ἀποδοῦναι δυνάμεώς τε καὶ οὐσίας), o della potenza e dell’energia, o dell’energia e dell’essenza, ma neanche della loro associazione (τοῦ συναθροίσματος αὐτῶν) che molto occorre (πολλοῦ δεῖ). È a queste tre realtà (τριῶν οὖν ὄντων) 29 che si ricapitolano e  si riconducono gli altri nomi adeguati a  Dio e  le loro proprietà (τὰ ἄλλα τῶν θεοπρεπῶν ὀνομάτων τε καὶ ἰδιωμάτων συγκεφαλαιοῦται καὶ ἀνάγεται), cosicché, come è ragionevole, il divino non rimane confinato all’interno della Trinità, né esubera da essa (τὸ θεῖον οὔτε ἐντὸς τῆς τριάδος περικλείεται οὔτε μὴν ταύτης ὑπερεκτείνεται) 30.

In un precedente capitolo, Fozio ponendo il quesito di come Dio possa essere in tutto, propone un utilizzo combinato della distinzione essenza – energia con il binomio atto – potenza: mentre la prima si applica a Dio, il secondo si applica alle creature. Un’importante precisazione è  poi quella per cui in Dio l’essere è  una energia della sua essenza, la quale resta al  di là dell’essere; allo stesso modo l’agire divino nelle cose finite è  secondo l’energia, mentre l’essenza rimane prerogativa di Dio soltanto: Ma in che modo [Dio] è in tutto? Si è detto che questo non avviene secondo alcuna delle modalità proprie degli esseri (κατ’ οὐδένα τρόπον τῶν ὄντων), ma se è  necessario dire ancora qualcosa che abbia maggior valore contemplativo di quelle cose elevatissime che innalzano con sé il pensiero e non temono per elevatezza i dogmi principali della teologia, [diremo che] il divino è in tutto secondo l’energia e l’essenza (ἔστι τὸ θεῖον ἐν τῷ παντὶ κατ’ ἐνέργειάν τε καὶ κατ’ οὐσίαν).

29  La locuzione τρία ὄντα, attraverso cui Fozio fa qui riferimento ai tre termini della triade, trova un preciso precedente nel neoplatonico Ermia di Alessandria, allievo di Siriano ad Atene; cfr.  Hermias Alexandrinus, In  Platonis Phaedrum Scholia, edd. C. M. Lucarini - C. Moreschini, Berlin 2012, p. 77, 20: τριῶν ὄντων τούτων, οὐσίας, δυνάμεως, ἐνεργείας. 30  Photius, Amphilochia, 181, ed. L. G. Westerink, Leipzig 1986 (Photii patriarchae Constantinopolitani Epistulae et Amphilochia, 5), p. 235, 22-32.

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E non mi chiedere come. Si è infatti detto [che non lo è] in base ad alcuno dei modi degli esseri. Come infatti potrebbe esserlo secondo l’essenza? Hai inteso che è secondo l’energia (πῶς οὖν ἐστι κατ’ οὐσίαν; ὡς ἐνόησας κατ’ ἐνέργειαν). Giacché infatti le altre cose sono in potenza o in atto (τὰ μὲν ἄλλα καὶ δυνάμει ἐστί ποτε καὶ ἐνεργείᾳ), il divino – come un intelletto perspicace potrà comprendere – è sempre in atto (ἀείπερ ἐστὶν ἐνεργείᾳ): non è infatti il procedere dalle cose infinite alle cose finite (οὐ γὰρ ἐξ ἀτελοῦς εἰς τελειότητα πρόεισιν), e il suo essentificarsi non è altro che il suo inattuarsi (οὐδ’ ἄλλο τι παρὰ τὴν αὐτοενέργειάν ἐστιν τὸ αὐτοούσιον), appare con chiarezza che Egli è in queste secondo l’energia, mentre in quelle è secondo l’essenza (δῆλον ὡς ἐν οἷς ἐστιν κατ’ ἐνέργειαν, ἐν τοῖς αὐτοῖς ἐστι καὶ κατ’ οὐσίαν) 31.

In questo passo la triade non compare esplicitamente nella sequenza dei suoi tre termini, che pure sono presenti; considerato che Fozio fa ricorso alla triade nel 181° capitolo dell’Amphilochia – come abbiamo visto –, questo dettaglio ci sembra indicativo del fatto che la triade non vada a sostituire né a precisare uno degli assiomi fondamentali dell’ontologia trinitaria bizantina, ovvero la distinzione tra essenza ed energia in relazione a  Dio, ma si affianchi ad essa con la funzione di esplicitare il riferimento alla potenza; nel presente passo, il riferimento al  binomio di atto – potenza pone la contrapposizione tra la potenza intesa nel suo senso aristotelico di non-essere-ancora delle cose che divengono nel tempo, e la potenza-energia divina che è sempre in atto, muovendosi eternamente ed essendo eternamente presso l’essenza in quanto parte della natura divina. L’importanza di questa precisazione potrebbe spiegare la decisione di non includere la potenza nel discorso sulla distinzione tra essenza ed energie, cosa che avrebbe fatto emergere la triade, onde non creare confusione con il discorso sull’attualità – potenzialità a cui soggiacciono le realtà finite. Un ricorso alla triade per illustrare un analogo problema, quello dell’inabitazione dello Spirito Santo in ogni cosa, si legge anche in Nicola di Metone (saec. xii), il quale, partendo dall’affermazione di Gregorio di Nazianzo per cui lo «Spirito riempie   Ibid., 75, p. 87, 41-51.

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tutto in essenza, tutto contiene, contiene il cosmo secondo l’essenza, non limitato dal cosmo nella potenza» 32, afferma: Il riempimento è quanto fa conoscere la potenza (τὸ πληρωτικὸν δυνάμεως ἐστὶ παραστατικόν), dalla quale è manifestata l’operazione in ciò che è  riempito (ἐν τῷ πληροῦν δηλουμένη). Una volta conferito a  questi e  mostrato il suo essere ‘non limitato dal cosmo nella potenza’ e  la sua superiore separatezza (τὴν ὑπεξηρημένην) nonché l’infinita elevatezza al  di sopra di ogni cosa (ἄπειρον ὑπὲρ τὰ πάντα ὑπεροχὴν) attraverso la potenza (διὰ τῆς δυνάμεως), la quale è intermedia (ἣ μεσότης ἐστὶν) tra l’essenza e l’energia, raccoglie (συνδέουσα) in essa tutte le cose e abbraccia le cose supreme (τὰς ἀκροτάτας συμπεριλαβοῦσα) 33.

Va qui rilevata l’affermazione per cui la potenza è intermedia tra l’essenza e l’energia, cosa che suona in contrasto con la consueta interpretazione bizantina. In base a quanto viene affermato all’inizio del passo, tuttavia, ci sembra che questa medietà non implichi una distinzione ontologica tra le potenze/energie divine, quanto una loro distinzione secondo il movimento nella dimensione cosmica 34. Un analogo utilizzo della triade in questioni di economia provvidenziale ricorre in un’orazione dello stesso Nicola di Metone, in cui afferma che Dio, il quale «è sovressenzialmente in tutte le cose», negli angeli è  «santificazione, illuminazione e perfezione secondo l’essenza, la potenza e l’energia» 35. La con  Nicolaus Methonaeus, Ad magnum domesticum, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 204, 10-14: τοῦτο γοῦν οἶμαι καὶ τὸν μέγαν ἐν θεολόγοις Γρηγόριον δηλῶσαι βουλόμενον εἰπεῖν «[τὸ Πνεῦμα] πάντα τῇ οὐσίᾳ πληροῦν, πάντα συνέχον, πληρωτικὸν κόσμου κατὰ τὴν οὐσίαν, ἀχώρητον κόσμῳ κατὰ τὴν δύναμιν». La  citazione è  da Gregorius Nazianzenus, De spiritu sancto (Oratio 31), 29, 15, ed. J.  Barbel, Düsseldorf  1963 (Testimonia. Schriften der altchristlichen Zeit, 3), pp. 268, 24 - 269, 1. 33  Nicolaus Methonaeus, Ad magnum domesticum, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 204, 24. 34  Spunti analoghi su questo argomento in Maximus Confessor, Capita theo­ logica et oecumenica, I, 3, edd. Hajdú-Wollbold cit. (alla nota 3), pp. 90, 14 - 92, 2: πέφυκεν εἶναι τῆς ἐπιθεωρουμένης αὐτῇ κατὰ δύναμιν κινήσεως. πᾶσα δὲ φυσικὴ πρὸς ἐνέργειαν κίνησις τῆς μὲν οὐσίας μετεπινοουμένη, προεπινοουμένη δὲ τῆς ἐνεργείας μεσότης ἐστίν. 35   Nicolaus Methonaeus, Orationes, 5, in Ἐκκλησιαστικὴ βιβλιοθήκη, ed. Demetrakopoulos cit., p. 317, 21-28: καὶ πῦρ ἐστιν ὁ Θεὸς καὶ ἀὴρ καὶ ὕδωρ καὶ γῆ, καὶ πάντα ὅσα ἐκ τούτων συνέστηκε, καὶ χωρεῖ διὰ πάντων, καὶ ἔστιν ἐν πᾶσιν 32

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giunzione qui emergente tra la triade anagogica (santificazione, illuminazione e perfezione) e la triade ontologica non dà addito a  una rispettiva corrispondenza dei termini dell’una con i  termini dell’altra, quanto un coinvolgimento completo (in essenza, potenza ed energia) della natura angelica nell’anagogia deificante. La diffusione della triade nel linguaggio teologico viene assicurata dalla sua presenza anche nel linguaggio poetico, sia con intento dottrinale, come in un inno di Simeone il Nuovo Teologo, in relazione all’economia del Verbo 36, oppure in chiave meramente retorica in un’opera di dubbia attribuzione allo stesso Simeone 37.

3. Nell’argomentazione filosofica Il ricorso alla triade trova ampia attestazione anche nei testi filosofici medio e  tardobizantini non direttamente finalizzati al dibattito teologico, come nei commentari ad Aristotele, o nelle trattazioni su temi ripresi dal neoplatonismo, di cui Michele Psello costituisce il caso più rilevante. Abbiamo così attestazioni della triade nei più importanti commentatori attivi a cavaliere tra i secoli xi e xii, quali Eustrazio di Nicea 38 e Michele di ὑπερουσίως, ἀμιγῶς, ἀχράντως, ἀπεριγράπτως, καὶ πρό γε τῶν αἰσθητῶν καὶ συνθέτων ὑπερτέρως ἐστὶ τὰ πάντα ἐν τοῖς ἁπλοῖς καὶ νοητοῖς τε καὶ νοεροῖς ἁγίοις Ἀγγέλοις ἁγιασμός, φωτισμός, τελείωσις κατ’ οὐσίαν τε καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν, καθὼς ἤδη καὶ προλαβὼν ὁ λόγος ἀμυδρῶς παρεδήλωσεν. 36 Cfr.  Symeon Neotheologus, Hymni, 47, ed. A.  Kambylis, Berlin New York 1976 (Supplementa Byzantina, 3), p. 382, 31-36: «Colui che è lassù insieme al Padre e si trova con noi, non come alcuni dicono per la sola energia, né come pensano molti per la sola volontà o per la sola potenza, ma anche per l’essenza, benché sia davvero ardito parlare o pensare l’essenza in relazione a te, o Immortale, o solo Sovressenziale» (ὁ ἄνω ὢν σὺν τῷ πατρὶ καὶ μεθ’ ἡμῶν τυγχάνων, οὐχ ὥς τινες λογίζονται τῇ ἐνεργείᾳ μόνῃ, οὐδ’ ὡς νομίζουσι πολλοὶ τῷ θελήματι μόνῳ οὐδὲ δυνάμει μόνῃ σου, ἀλλὰ καὶ τῇ οὐσίᾳ, εἴπερ οὐσίαν ἐπὶ σοὶ τολμητέον τοῦ λέγειν ἢ ἐννοεῖν, ἀθάνατε, ὑπερούσιε μόνε). 37  Cfr.  Symeon Neotheologus, Capitula Alphabetica,  III,  1, ed. Ἱερὰ Μονὴ Σταυρονικήτα (Mount Athos) 2005, r. 105: δείκνυται τοίνυν τὸ πᾶν περὶ τὴν πολιτείαν ὑπάρχειν. ὅσοι τοιγαροῦν χρστιανοὶ μὴ τὴν προσήκουσαν χριστιανοῖς πολιτείαν μετέρχονται, ἢ περὶ τὸ εἶναι τουτέστι τὴν οὐσίαν ἀσθενοῦσιν, ἢ περὶ τὴν δύναμιν τουτέστι τὴν ζωήν, ἢ περὶ τὴν ἐνέργειαν τουτέστι τὸ πολιτεύεσθαι. 38  Cfr. Eustratius Nicaeensis, In Aristotelis analyticorum posteriorum librum secundum commentarium, ed. M. Hayduck, Berlin 1907 (CAG, 21.1), p. 258, 21-23: οὔτε οὖν ὡς προϋπάρχουσαι τῶν σωμάτων αἱ ψυχαὶ εἰς ἀνάμνησιν ἔρχονται τῶν

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Efeso 39, e in un commentatore vissuto tra i secoli xiii e xiv, Sofonia Filosofo 40. In merito a questi commentari va sottolineato che la triade viene interpretata in chiave neoplatonica come modello di progressione causale ed emanativa dall’essenza alla potenza e dalla potenza all’operazione 41. Psello fa riferimento alla triade nei capitoli della Omnifaria doctrina dedicati all’intelletto e  all’anima, i  quali, per impostazione speculativa e  fonti, risultano di chiaro orientamento neoplatonico (nonostante alcuni inserimenti patristici sparsi e il riferimento alla dottrina aristotelica dell’anima). Il  tenore neoplatonico seguito dal Console dei Filosofi emerge dall’affermazione che apre il ventiduesimo capitolo, per la quale «ogni intelletto ha essenza, potenza e operazione eterni», ma soprattutto nella precisazione che chiude lo stesso capitolo in cui si mette in luce il carattere emanativo della triade, concependo la potenza come intermedia tra l’essenza e  l’energia non solo nella dimensione cosmica, bensì in quella trascendente: «Se la sua essenza e la suo operazione sono eterni, anche la sua potenza, che si trova a metà fra questi, ha un’eterna sussistenza» 42. Sviluppando il problema dell’anima, in un successivo paragrafo, Psello presenta una giustapposizione ἀρχῶν οὔτε μὴν ὡς κατ’ οὐσίαν ἐκ τοῦ δυνάμει εἰς τὸ ἐνεργείᾳ προβαίνουσαι εἰς γνῶσιν τῶν ἀμέσων προΐασι διὰ τῶν αἰσθήσεων. 39 Cfr.  Michael Ephesius, In  ethica Nicomachea ix-x commentaria, ed. G. Heylbut, Berlin 1892 (CAG, 20), p. 561, 21-24: ἡ ζωὴ ἄρα ἐνέργεια. ἀλλὰ δὴ καὶ κατ’ αὐτὸ τὸ ζωτικὸν ἰδίωμα ἐνέργειά τίς ἐστιν, οἷον γὰρ ζέουσά τίς ἐστιν οὐσία καὶ ἀεὶ ἀναβλύζουσα δυνάμεις ζωτικάς. 40  Cfr. Sophonias, In Aristotelis libros de anima paraphrasis, ed. M. Hayduck, Berlin 1883 (CAG, 23.1), p. 5, 33-41: καὶ εἰ τὰ μόρια, ἐπεὶ ταῖς δυνάμεσιν αἱ ἐνέργειαι ἕπονται (πᾶσα γὰρ ἐνέργεια ἐκ δυνάμεως, καὶ δύναμις ἐξ οὐσίας) καὶ ἀδηλότεραι μὲν αἱ οὐσίαι καὶ δυνάμεις, δῆλαι δὲ αἱ ἐνέργειαι, σταθμώμεθα δὲ τὰς ἕξεις ἐκ τῶν ἐνεργειῶν, ὅταν περὶ τῶν μερῶν τῆς ψυχῆς ζητῶμεν, πρότερον αὐτὰ λάβωμεν ἢ τὰ ἔργα αὐτῶν, οἷον τὸ νοεῖν ἢ τὸν νοῦν, τὸ αἰσθάνεσθαι ἢ τὸ αἰσθητικόν. 41  Un approccio neoplatonico nel contesto di un commento bizantino al testo aristotelico non deve del resto stupire, allineandosi ai risultati delle ricerche che stanno portando a un superamento della posizione storiografica che classificava questi commentari sotto l’etichetta di ‘aristotelismo bizantino’, di contro al loro evidente orientamento neoplatonico, per cui cfr. M. Trizio, Il neoplatonismo di Eustrazio di Nicea, Bari 2016 (Biblioteca filosofica di «Q uaestio», 23), p. 59. 42  Michael Psellus, De omnifaria doctrina, 22, PG 122, [687-784] 701D, ed. L. G. Westerink, Nijmegen 1948, p. 27, 2-3.11-12 (tr. it., Firenze 1990, pp. 7172, con alcune modifiche): πᾶς νοῦς καὶ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν αἰώνια ἔχει. (…) εἰ οὖν καὶ ἡ οὐσία τούτου αἰώνιος καὶ ἡ ἐνέργεια, καὶ ἡ μέση τούτων οὖσα δύναμις αἰωνίαν τὴν ὑπόστασιν ἐκληρώσατο.

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originale dei tre termini della triade, dove però potenza e atto sono intesi in senso aristotelico: «Bisogna indagare se l’anima sia un’essenza oppure no, e, nel caso che sia un’essenza, bisogna vedere se lo sia in potenza o in atto» 43. Nel prosieguo, parlando della generazione dell’anima, Psello torna a un suo inquadramento triadico neoplatonico, sottolineando la distinzione tra i tre termini della triade, in quanto costituiscono i momenti della sua generazione: Una cosa è l’essenza dell’anima, un’altra la sua potenza, un’altra l’operazione. Q uesti sono i  primi tre fondamentali della generazione dell’anima (ψυχογονίας). (…)  Consideriamo il fuoco: una cosa è l’essenza per cui esso è, un’altra la potenza, un’altra l’azione per cui brucia certe cose e riscalda certe altre. (…)  Prima viene l’esistenza, seconda l’armonia, terza l’idea (ἰδέα), quarta la potenza, quinta l’operazione, sesta e  ultima, derivante da tutte queste cose, la forma (εἶδος) 44.

In questa definizione troviamo tanto elementi neoplatonici (a partire dalla metafora procliana del fuoco per illustrare la triade), quanto aristotelici (in particolare l’idea dell’anima-forma). Che la principale accezione attraverso cui Psello concepisce la triade sia tuttavia quella realistica neoplatonica, dove la potenza costituisce la radice causale ed effettiva dell’operazione, e non semplicemente l’essere in potenza di questa, lo si può constatare dall’ultima affermazione intorno a questa problematica che compare nella stessa opera: «La potenza dell’anima non è  un’esistenza incompiuta, ma compiuta, originaria, generativa delle operazioni, feconda, piena e di per sé esistente» 45. 43   Ibid., 44, p. 35, 8-9 (tr. it., p. 87): δεῖ δὲ ζητεῖν πότερον οὐσία ἡ ψυχὴ ἢ οὔ· καὶ εἰ οὐσία, δυνάμει ἢ ἐνεργείᾳ. 44  Ibid., 52, p. 38, 2.5-7.9-11 (tr. it., pp. 92-93, con alcune modifiche). La metafora del fuoco compare con alcune differenze anche in Michael Psellus, De meteorologicis (Opusculum 19), in Id., Philosophica minora. Opuscula logica, physica, allegorica, alia, ed. J.  M. Duffy, 2  voll., Leipzig 1992, I, p.  72,  97-100: τοῦτο δὲ οὐκ ἐνεργείᾳ πῦρ ἐστιν, ἀλλὰ καπνὸς μὲν κατὰ τὴν οὐσίαν, φλὸξ δὲ κατὰ τὴν δύναμιν, ὅθεν καὶ ὑπέκκαυμα τῷ Ἀριστοτέλει ὠνόμασται, τουτέστιν ὑφειμένον πῦρ. Per la metafora del fuoco applicata alla triade in Proclo, cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31. 45  Michael Psellus, De omnifaria doctrina, 55, p.  39,  2-4: οὐκ ἔστιν ἡ τῆς ψυχῆς δύναμις ἀτελὴς ὕπαρξις, ἀλλὰ τελεία καὶ πρωτουργὸς καὶ γεννητικὴ τῶν ἐνεργειῶν γόνιμός τε καὶ πλήρης καὶ καθ’ ἑαυτὴν ὑπάρχουσα (tr. it. cit., pp. 94-95).

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4. Nell’apologia antipagana A Michele Psello vanno riportati gli inizi della riscoperta di Proclo che a partire dalla fine del secolo xi ha dato vita a un crescente interesse per la filosofia del Diadoco ateniese 46. Q uesta fortuna doveva nondimeno suscitare la reazione apologetica di Nicola, vescovo di Metone, da cui prese forma una capillare spiegazioneconfutazione (ἀνάπτυξις) degli Elementi teologici di Proclo 47. Q uesto episodio ci permette di valutare l’incontro tra la triade ripresa dal suo originario contesto neoplatonico e il suo Fortleben bizantino. In questo lungo trattato la triade trova infatti diverse attestazioni, non motivate tuttavia dalla sua presenza nel testo procliano – dove è limitata alla proposizione 169 – bensì spiegabile in base alla rilevanza e ai significati che essa aveva maturato all’interno del canone dell’ontologia bizantina. Q uesto è  ben evidente in relazione a  uno dei temi fondamentali del trattato, la difesa della dottrina trinitaria, per la quale Nicola ricorre alla triade al fine di illustrate l’unità della Trinità divina mettendola in contrasto con la molteplicità ontologica implicata dalla teologia politeistica greca 48. Analogo argomento si presenta al capi46  Cfr. G. Podskalsky, Nikolaos von Methone und die Proklosrenaissance in Byzanz (11./12. Jh.), in «Orientalia Christiana periodica», 42 (1976), pp. 509523; L.  Benakis, Neues zur Proklos-Tradition in Byzanz, in Proclus et son influence. Actes du Colloque de Neuchâtel (Juin 1985), ed.  by G.  Boss  - G.  Seel, Zürich 1987, pp.  247-259; N.  Siniossoglou, Radical Platonism in Byzantium: Illumination and Utopia in Gemistos Plethon, Cambridge, 2011, pp. 85-92; F. Lauritzen, The Renaissance of  Proclus in the eleventh Century, in Proclus and his Legacy, edd. D. D. Butorac - D. A. Layne, Berlin - Boston 2017 (Millennium. Studien zu Kultur und Geschichte des ersten Jahrtausends n. Chr, 65), pp. 233239. 47  Per una disamina di quest’opera, cfr. J. M. Robinson, Dionysius Against Proclus: the Apophatic Critique in Nicholas of  Methone’s «Refutation of  the Elements of  theology», ibid., pp. 249-269; una discussione circa la questione dell’attribuzione a Nicola e un inquadramento nel contesto della riflessione teologica e  filosofica medio bizantina sono offerti in A.  Gioffreda - M.  Trizio, Nicholas of  Methone, Procopius of  Gaza and Proclus of  Lycia, in Reading Proclus and the «Book of  Causes». II: Translations and Acculturations, ed. D.  Calma, Leiden 2021 (Studies in Platonism, Neoplatonism, and the Platonic Tradition, 26), pp. 94-135. 48 Cfr. Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 6, ed. A. D. Angelou, Athens 1984 (Corpus philosophorum Medii Aevi. Philosophi Byzantini, 1), p. 10, 11-15: πατὴρ γὰρ καὶ υἱὸς καὶ ἅγιον πνεῦμα, εἷς τὰ τρία θεός, ἀλλ’ οὐ τρεῖς θεοί, ἵνα καὶ πλῆθος λέγοιντο καθάπερ καὶ οἱ πολλοὶ τῶν Ἑλλήνων θεοί. ἐκεῖνοι μὲν γὰρ πολὺ διαφέροντες ἀλλήλων εἰσάγονται, τούτων δὲ οὐδὲν τὸ διάφορον, ἀλλὰ

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tolo 131, in risposta alla Proposizione 116 degli Elementi 49, relativa alla molteplicità e  diversità delle operazioni delle divinità pagane: dopo aver sottolineato che nella concezione pagana le operazioni degli dèi sono proprie a ciascuno di essi e separate in quanto a essenza, potenza e operazione 50, Nicola richiama l’unità del Dio cristiano che raccoglie in sé ogni essenza, potenza e operazione, intendendo queste non come riferite a partizioni interne alla natura divina, bensì alle proprietà comuni di questa 51, introducendo inoltre l’associazione – caso raro nell’utilizzo teologico della triade a Bisanzio – tra i tre termini della triade e le persone della Trinità, ovvero il Padre come essenza, il Figlio come potenza e lo Spirito come energia 52. Il vescovo medonense si preoccupa tuttavia di mettere in chiaro che il Figlio e lo Spirito non sono meno essenza del Padre, né il Padre essere estraneo all’energia 53; da qui ci sembra possibile concludere che l’accostamento in questione abbia valore metaforico per descrivere il passaggio pericoretico delle energie divine comuni dall’essenza unica 54. Il finale del passo ci assicura infatti che i termini della triade non fanno μία καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καὶ βουλὴ καὶ δόξα καὶ βασιλεία καὶ πάντα τὰ θεοπρεπῆ προτερήματα (…). Q uesto passo è in risposta alla proposizione 6 degli Elementi. 49 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 131, p. 116, 15: πᾶς θεὸς ἀφ’ ἑαυτοῦ τῆς οἰκείας ἐνεργείας ἄρχεται. 50 Cfr.  Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 131, ed. Angelou cit., p. 123, 27-31: ἰδοὺ καὶ πολλαὶ τῶν πολλῶν θεῶν αἱ ἐνέργειαι· ἄλλη γὰρ ἄλλου οἰκεία καὶ ἡ τοῦδε οὐκ ἐκείνου. καὶ πῶς ὁ μὴ πᾶσαν ἐν ἑαυτῷ συλλαβὼν καὶ προέχων οὐσίαν τε καὶ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν, ἀλλὰ τήνδε μὲν ἔχων, τῶν δ’ ἄλλων ἐστερημένος, οὐ μᾶλλον ἐνδεὴς ἢ πλήρης, παρόσον καὶ πλειόνων ἐστέρηται; 51 Cfr. ibid. p. 123, 31-32: ἡμῖν δὲ ὁ εἷς θεὸς πᾶσαν μὲν οὐσίαν, πᾶσαν δὲ δύναμιν καὶ πᾶσαν ἐνέργειαν ἐν ἑνὶ συλλαβών (…). 52  Cfr.  ibid. p.  124,  1-8: αὐτός ἐστιν οὐσία μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης καὶ αὐθυπόστατος πάσης οὐσίας παρακτική, ὁ πατήρ· δύναμις μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης, οὐσιώδης καὶ ἐνυπόστατος ἐκ τοῦ πατρὸς γεννητῶς ὑποστᾶσα πρὸ πάντων αἰώνων, πάσης αἰτία δυνάμεως, ὁ υἱός· ἐνέργεια μία καὶ ὅλη καὶ ὑπερπλήρης καὶ αὐτὴ οὐσιώδης καὶ ἐνυπόστατος ἐκ τοῦ αὐτοῦ πατρὸς ἐκπορευτῶς προαχθεῖσα πρὸ πάντων αἰώνων, πάσης ἐνεργείας αἰτία, τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον. 53 Cfr. ibid., p. 124, 9: οὐχ ὅτι ὁ πατὴρ οὐσία διὰ τοῦτο ὁ υἱὸς καὶ τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον οὐκ οὐσία. 54 Sullo ‘sgorgare’ dell’energia dal Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo secondo la tradizione teologica bizantina e in particolare in Gregorio Palamas, cfr. M. E. Hussey, The Persons-Energy Structure in the Theology of  St. Gregory Palamas, in «St. Vladimir’s Theological Q uarterly», 18 (1974), [pp. 22-43], p. 28-35.

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riferimento a  proprietà delle singole ipostasi divine, bensì alla natura comune ad esse 55. L’unità ontologica della divina Trinità era stata peraltro sottolineata da Nicola anche in un precedente paragrafo, sempre attraverso il ricorso alla triade, a  commento della cinquantaseiesima proposizione, nella quale Proclo parla di ciò che è portato all’essere da principi ontologici secondari 56. Il  verbo usato da Proclo è παράγω, al passivo, che indica l’atto di portare all’essere e comporta il conflitto paradigmatico con il monocausalismo cristiano, di contro a  una condivisione della prerogativa ontificante tra diversi livelli dell’essere secondo il politeismo procliano. Nicola, oltre a  sottolineare l’unicità causalistica e  l’unità ontologica di Dio, ne sottolinea anche la consistenza iperontologica. Facendo riferimento all’unico agente casuale, il vescovo afferma infatti: Q uesto è il Dio uno nella trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, dal quale e attraverso il quale e nel quale sono tutte le cose (cfr. 1Cor 8, 5). La questione può essere ulteriormente posta così: tutto ciò che è illuminato dagli esseri secondi (ὑπὸ τῶν δευτέρων ἐλλαμπόμενον) ed è  illuminato maggiormente dagli esseri primi (ἀπὸ τῶν προτέρων ἐλλάμπεται μειζόνως), dai quali anche gli esseri secondi sono illuminati, tutto riceve l’essenza, la potenza e l’energia dall’una, sovra-essenziale (ὑπερουσίου) e  onniessente (πανουσίου) essenza, dalla sovrapotente (ὑπερδυνάμου) e  onnipotente (παντοδυνάμου) potenza, dalla sovra-operante (ὑπερενεργοῦς) e  onnioperante (παντενεργοῦς) energia del Padre e  del Figlio e  dello Spirito Santo 57.

Va notato che Nicola introduce sovente la triade a commento di proposizioni in cui Proclo, trattando della potenza o dell’energia, non l’aveva chiamata in causa, questo perché il modello triadico, permettendo di affermare l’aspetto fondamentale dell’azione 55  Cfr.  Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 131, ed. Angelou cit., p. 124, 18-20: καὶ οὕτω μία τῶν τριῶν καὶ οὐσία καὶ δύναμις καὶ ἐνέργεια καὶ τὸ ὅλον εἰπεῖν εἷς τὰ τρία θεός. 56 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 56, p. 54, 4-6: πᾶν τὸ ὑπὸ τῶν δευτέρων παραγόμενον καὶ ἀπὸ τῶν προτέρων καὶ αἰτιωτέρων παράγεται μειζόνως, ἀφ’ ὧν καὶ τὰ δεύτερα παρήγετο. 57  Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 56, ed. Angelou cit., p. 59, 18-26.

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provvidenziale divina eterna, è  venuto ad assumere nella teologia bizantina un significato paradigmaticamente discriminante rispetto alla visione del mondo neoplatonica. Dove ad esempio il Diadoco afferma che «ogni potenza è finita o infinita» 58, Nicola ribatte che «ogni potenza è finita, in quanto ogni essenza e ogni operazione ha la sua esistenza dalla prima, infinita e unica essenza, potenza ed energia, la quale è al di sopra di tutte quelle» 59. Analogamente, in relazione al «ritorno» (ἐπιστροφή) in base alla propria operazione ed essenza, laddove il filosofo neoplatonico aveva affermato che «tutto ciò che nella sua operazione ha la capacità di ritornare a se stesso può ritornare a se stesso secondo l’essenza» 60, Nicola oppone una confutazione dello schema neoplatonico della processione – ritorno argomentata sulla base della triade, che in Proclo invece non compariva: Se nulla procede da se stesso, è evidente che neanche ritorni a se stesso, né secondo l’essenza, né secondo la potenza, né secondo l’operazione. Se parli dell’energia naturale (κατὰ φύσιν), la quale può essere l’atto di illuminare della luce, di scaldare del fuoco, di intellezione dell’intelletto, non si tratta di processione (πρόοδος) né di ritorno (ἐπιστροφή), bensì di stazione (μονή) e dimora (ἵδρυσις) in se stesso di ciò che opera secondo la propria natura, cosicché tu aggiungi vanamente spiegazioni superflue. Nulla infatti ritorna a  se stesso (ἐπιστρέφει πρὸς ἑαυτό) che non sia proceduto da se stesso (προῆλθεν ἀφ’ ἑαυτοῦ), né secondo l’essenza, né secondo la potenza, né secondo l’operazione. Diversamente, ciò che può ritornare ritorna in base all’energia da ciò che è contro natura a ciò che è secondo natura, da cui è decaduto (ὅθεν ἐξέπεσεν) – e, come già detto, certamente non è proceduto (οὐ μὴν προῆλθεν) – preservando la propria essenza (σῷζον τὴν οἰκείαν οὐσίαν) 61.  Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 91, p. 82, 17-19: πᾶσα δύναμις ἢ πεπερασμένη ἐστὶν ἢ ἄπειρος· ἀλλ’ ἡ μὲν πεπερασμένη πᾶσα ἐκ τῆς ἀπείρου δυνάμεως ὑφέστηκεν, ἡ δὲ ἄπειρος δύναμις ἐκ τῆς πρώτης ἀπειρίας. 59  Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 91, ed. Angelou cit., p. 91, 7-9: πᾶσα δύναμις πεπερασμένη ἐστίν, ἐπεὶ καὶ πᾶσα οὐσία καὶ πᾶσα ἐνέργεια ἐκ τῆς πρώτης ἀπείρου καὶ μόνης οὐσίας καὶ δυνάμεως καὶ ἐνεργείας τὴν ὑπόστασιν ἔχουσιν, ἥτις καὶ ὑπὲρ πάσας ἐστίν. 60 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 44, p. 46, 1-2: πᾶν τὸ κατ’ ἐνέργειαν πρὸς ἑαυτὸ ἐπιστρεπτικὸν καὶ κατ’ οὐσίαν ἐπέστραπται πρὸς ἑαυτό. 61   Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 44, ed. Angelou cit., p. 52, 10-20. 58

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Oggetto di questo passo è  la condizione ontologica delle realtà finite e create e la loro dinamica. Del triplice movimento dell’essere, secondo la prospettiva neoplatonica scandito nei momenti di μονή – πρόοδος – ἐπιστροφή, Nicola accoglie soltanto la μονή, quale condizione di permanenza dell’essere, la cui attività si dispiega come dinamica triadica di essenza, potenza ed energia. Il ricorso alla triade va qui inteso come alternativa opposta al  modello emanativo neoplatonico istanziato dalla processione (πρόοδος) e dal ritorno (ἐπιστροφή); il movimento ontologico delle creature viene infatti collegato al discorso del loro allontanamento volontario dalla loro condizione naturale. Plausibilmente, il vescovo di Metone si rifaceva alla triade ritenendola schema concettuale proprio della tradizione patristica, giocando qui in sottofondo il motivo pseudo-epigrafico che ha accompagnato la fortuna di Dionigi e del suo insegnamento, ovvero la sua presunta antecedenza cronologica rispetto ai filosofi neoplatonici. Un ultimo caso di utilizzo della triade da parte di Nicola è in riferimento all’ottantacinquesima proposizione, nella quale Proclo mostra che tutto ciò che sussiste perpetuamente ha potenza infinita 62. Il  contrasto paradigmatico con i  fondamenti della cosmologia cristiana non poteva passare inosservato al  Medonense, che infatti contesta al filosofo neoplatonico che quanto è infinito per potenza non può non esserlo anche nell’essere 63, concludendo che solo in un caso ciò che è infinito in potenza, lo è anche nell’essenza e nell’energia, e questo è il caso della natura divina 64.

5. In Gregorio Palamas e nella disputa esicasta La triade è largamente attestata nel principale dibattito teologico tardobizantino, quello sull’esicasmo, il quale, pur vertendo sulla natura dell’esperienza ascetica, ha toccato in modo sostanziale 62  Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 85, p. 78, 12: πᾶν τὸ ἀεὶ γινόμενον ἄπειρον τοῦ γίνεσθαι δύναμιν ἔχει. 63 Cfr.  Nicolaus Methonaeus, Refutatio institutionis theologicae Procli, 85, ed. Angelou cit., p. 88, 9-10: πῶς οὖν κατὰ δύναμιν μόνην ἔσται τι ἄπειρον, ὃ μὴ καὶ κατ’ οὐσίαν ἐστὶν ἄπειρον; 64 Cfr. ibid., p. 88, 11-14: ἀνάγκη μόνον τὸ θεῖον καὶ κατ’ οὐσίαν καὶ κατὰ δύναμιν καὶ κατ’ ἐνέργειαν εἶναι ἄπειρον, ὃ καὶ πρὸ πάντων καὶ ὑπὲρ πάντα καὶ πάντων ἐστὶν αἴτιον καὶ πάντα περαίνει καὶ περιέχει οὐ κατὰ μόνην τὴν δύναμιν ἀλλὰ καὶ τὴν οὐσίαν καὶ τὴν ἐνέργειαν.

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i  fondamenti ontologici della teologia bizantina e  la sua concezione della salvezza. Numerose attestazioni della triade si trovano nelle opere del principale protagonista della disputa, il monaco aghiorita e poi arcivescovo di Tessalonica Gregorio Palamas, nonché in quelle dei suoi seguaci e in quelle dei suoi avversari 65. 5.1. La  triade fornisce all’armamentario dottrinale di Palamas il fondamento terminologico e  concettuale per argomentare la distinzione nell’unità divina, tema che costituisce la base di tutta la sua teologia e della sua concezione dell’economia. A più riprese il teologo dell’esicasmo sottolinea la compatibilità tra la distinzione triadica nella natura divina e la sua unità ontologica: Dovresti temere di introdurre qualcosa di creato nella pie­ nezza della divinità (κτίσιν εἰσενεγκεῖν τῷ πληρώματι τῆς θεότητος), che separa (ἀπαλλοτριοῦσαν) dalla divina essenza la divina potenza ed energia e  lacera in divinità (εἰς θεότητας) che di fatto sono diseguali, dissimili e  inconciliabili l’unica divinità (μίαν θεότητα) che è nell’essenza, nella potenza e nel­ l’energia e in tutte quelle cose che sono contemplate (θεωρουμένοις) intorno all’essenza (περὶ τὴν οὐσίαν) come increate (ἀκτίστως), le quali sono distinte in modo inseparabile (ἀδιαιρέτως διαιρουμένοις) e unite in modo non confuso (ἀσυγχύτως ἡνωμένοις) 66.

In Palamas vediamo consolidarsi tendenze interpretative già emerse nel corso della storia bizantina della triade, come la sua inclusione in definizioni ontologiche della natura divina a fianco delle altre sue proprietà increate, tra le quali, in primo luogo, la volontà: Q uindi neppure in merito all’essenza, alla potenza, all’energia, alla volontà (θελήσεως) e  simili, le quali sono tutte increate 65  Per la ricostruzione delle fasi storiche della disputa cfr. A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicasta (con un’edizione critica delle «Epistole greche» di Barlaam), Roma 2005 (Medioevo, 11); R. E. Sinkewicz, Gregory Palamas, in La théologie byzantine et sa tradition. II: xiiie-xixe s., dir. di C. G. Conticello - V. Conticello, Turnhout 2002 (Corpus Christianorum. La théologie byzantine et sa tradition, 2), pp. 132-137; per una disamina delle problematiche ontologiche implicate nella disputa cfr. Bradshaw, Aristotle East and West cit. (alla nota 27), pp. 229-242. 66  Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), VI,  13, ed. Mantzarides cit. (alla nota 10), II, p. 273, 1-8.

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(ἀκτίστων ἁπασῶν οὐσῶν), il fatto che ci sia un ordine di superiorità in base alla causa non impedisce che ci sia un’unica divinità. Q ueste infatti sono l’unica divinità delle tre persone adorate: l’essenza, la volontà, la potenza, le energie e via dicendo, non in quanto siano una sola realtà (οὐχ ὡς ἓν ὄντα) e siano del tutto senza differenza (ἀδιάφορα) l’una rispetto all’altra e  tutte si riducano soltanto all’essenza –  questo è  infatti il delirio di Barlaam – ma in quanto sono contemplate in modo unitario e immutabili (ὡς ἑνιαίως καὶ ἀπαραλλάκτως) nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo 67.

Centrale all’ontologia trinitaria palamita è che, in riferimento a Dio, essenza, potenza ed energia siano increate e che i tre termini non siano meri sinonimi, bensì distinzioni dell’unica e  unitaria natura divina increata: Noi infatti non diciamo che Dio sia increato soltanto nel­ l’essenza (κατ’ οὐσίαν μόνον τὸν θεὸν ἄκτιστόν), ma anche nelle ipostasi, nelle potenze e nelle energie: abbiamo insegnato che la sua filantropia e la sua bontà nei nostri confronti e la sua provvidenza su ogni cosa e, in breve, tutte le cose analoghe, non sono essenze (οὐκ οὐσίας), né ipostasi (οὐδὲ ὑποστάσεις), ma energie che sono contemplate intorno a  Dio (ἀλλ’ ἐνεργείας περὶ τὸν θεὸν θεωρουμένας), inseparate dalla sua natura (ἀχωρίστους τῆς φύσεως αὐτοῦ), il ché equivale a dire increate (ἀκτίστους): non vi è infatti nulla di creato che sia precedente per natura rispetto a Dio (τῶν γὰρ φύσει προσόντων τῷ θεῷ κτιστὸν οὐδὲν) e nulla di increato al di fuori di Dio (ἐκτὸς θεοῦ ἄκτιστον οὐδέν) 68.

Q uesto argomento costituisce il nucleo teorico della posizione palamita, sottolineato a più riprese dal teologo esicasta nell’indicare le differenze tra la sua posizione e quella dei suoi avversari, in primo luogo Barlaam e Acindino. Ad essi contesta di aver introdotto una separazione ontologica tra l’essenza, assimilata alla 67  Id., Epistulae ad Acindynum et Barlaam, V,  8, ed. J.  Meyendorff, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit. (alla nota 10), I, 1962, p. 301, 28 - 302, 9; cfr. Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum, VI, 13, 46-47, edd. Kontogiannes-Phanourgakes cit. (alla nota 10), III, p. 422, 3-4.20. 68  Ibid., IV, 9, 19-20, p. 256, 6-14; cfr. ibid., II, 19, 95, p. 152, 1-10; III, 10, 31, p. 186, 18-29; Id., Epistulae ad Acindynum et Barlaam, V, 7, ed. Meyendorff  cit., p. 301, 12-14: ἐν ἀκτίστῳ δὲ οὐσίᾳ καὶ φυσικῇ δυνάμει καὶ θελήσει καὶ λαμπρότητι καὶ ἐνεργείᾳ μία ἐστὶ θεότης.

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divinità increata, e la potenza o l’energia, da loro concepite come create, nonché l’aver negato che la potenza, la grazia e l’energia divine siano increate, così come la divinità delle tre persone è adorata in un’essenza ed energia increate 69. Il teologo esicasta precisa inoltre che potenza ed energia sono increate nella natura increata, mentre sono create nella natura creata 70. A  più riprese Palamas insiste sul fatto che essenza, potenza ed energia sono componenti inseparabili dell’essere, tali che in assenza di uno dei termini non si danno gli altri, e insieme costituiscono l’unità di ogni natura. Allo stesso modo essi sono irriducibili l’uno all’altro e inconfondibili l’uno con l’altro. Parlando nel registro apofatico – di chiara ispirazione dionisiana – Palamas afferma: In relazione a  Dio non possiamo parlare in senso proprio (κυρίως) né di essenza né di energia. Molte delle cose che diciamo in senso affermativo (καταφατικῶς) di lui hanno una simile valenza (δύναμιν). Dovresti ascoltare Basilio il Grande che dice che «l’energia è la potenza (δύναμιν) manifestativa (δηλωτικὴν) di ogni essenza, della quale è priva soltanto il non essere (ἧς μόνον ἐστέρηται τὸ μὴ ὄν)». (…) Q uindi chi ha separato (διαζεύξας) l’essenza e la potenza – che noi anche chiamiamo energia (ἣν καὶ ἐνέργειαν καλοῦμεν) – l’una dall’altra (ἀλλήλων), ha escluso ciascuna di esse dall’insieme delle cose che sono (ἐκ μέσου τῶν ὄντων) 71.

Pur avendo familiarità con l’ontologia aristotelica, Palamas non accorda spazio alla distinzione tra atto e potenza in quanto attua69  Cfr.  Id., Orationes antirrheticae contra Acindynum, II,  19, 91, edd. Kon­ togiannes-Phanourgakes cit. p. 149, 17-19; Id., Contra Barlaam et Acindynum (Ἐπιστολιμαῖαι Πραγματεῖαι), ed. B.  Phanourgakes, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit., IV, § 5, 23-30: ὁ δὲ τάλας Ἀκίνδυνος καὶ αὐτὸν τὸν πατέρα εἰς κτιστὰ καὶ ἄκτιστα διχοτομεῖ, τὴν μὲν οὐσίαν αὐτοῦ λέγων ἄκτιστον θεότητα, τὴν δὲ θεοποιὸν αὐτοῦ δύναμιν καὶ ἐνέργειαν κτιστὴν εἶναι διαβεβαιούμενος θεότητα καὶ κατηγορῶν τῶν ἄκτιστον εἶναι λεγόντων τὴν θείαν καὶ θεοποιὸν δύναμιν καὶ χάριν καὶ ἐνέργειαν καὶ οὕτως ἐν οὐσίᾳ καὶ ἐνεργείᾳ ἀκτίστῳ μίαν προσκυνούντων θεότητα τοῦ Πατρὸς καὶ τοῦ Υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου Πνεύματος. 70 Cfr. Id., Pro hesychastis, III, 1, 24, ed. J. Meyendorff, Louvain 1973 (Spicilegium Sacrum Lovaniense. Études et documents, 30), p. 603, 3-6: ὅτι τῆς ἀκτίστου φύσεως καὶ τὰ φυσικὰ πάντα καὶ πᾶσα δύναμίς τε καὶ ἐνέργεια ἄκτιστός ἐστιν, ὥσπερ καὶ τὰ τῆς κτιστῆς φύσεως κτιστά. 71  Id., Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II, 14, ed. Mantzarides cit., p. 107,  8-20. La citazione attribuita a san Basilio è in realtà tratta da Ioannes Damascenus, Expositio fidei, II, 23, ed. Kotter cit. (alla nota 15), p. 93, 9.13.

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lità e potenzialità, neanche per argomentare i fondamenti del divenire temporale in relazione alle realtà create 72. Per lui la successione temporale emerge piuttosto dall’esercitarsi (cioè dall’uso, χρῆσις) della potenza/energia nel produrre l’effetto: Soltanto l’uomo ha la capacità di leggere e di scrivere (γραμματικόν). Q uesta è  detta tanto in relazione alla potenza quanto all’operazione (τὸ αὐτὸ δὲ λέγεται δύναμίς τε καὶ ἐνέργεια). In  particolare, viene poi detto ‘operazione’ anche soltanto l’uso (χρῆσις) della potenza connaturata (τῆς ἐμφύτου δυνάμεως), e  questo è  l’effetto (ἀποτέλεσμα) che viene dall’uso. Il  risultato è  sempre creato (κτιστὸν), anzi lo è  al massimo grado. L’uso e l’azione (ἐνέργεια), che chiamiamo anche po­ tenza (ἣν καὶ δύναμιν καλοῦμεν), in relazione tanto al creato quanto all’increato vengono sempre l’uno dopo l’altra (κατὰ τὸ κτιστόν τε καὶ ἄκτιστον ἕπονται ἀεὶ ἀλλήλαις) 73.

L’impego del termine χρῆσις, possibile indizio del retroterra aristotelico di Palamas, sembrerebbe essere scelta finalizzata a marcare il confine tra il dominio dell’energia, in quanto appartenente alla sfera naturale dell’essenza, e  il dominio degli effetti nella dimensione temporale 74. Nei due precedenti passi riportati è affermato rispettivamente, con costrutto speculare, che «la potenza è  chiamata energia» (ἣν καὶ ἐνέργειαν καλοῦμεν) e «l’energia è chiamata potenza» (ἣν καὶ δύναμιν καλοῦμεν), rispecchiando la tendenza ricorrente nella storia bizantina della triade di assimilare la potenza e  l’energia in relazione a Dio. Palamas riduce la distinzione tra la potenza e l’energia a una questione terminologica e concettuale, escludendo che essa implichi una distinzione ontologica reale; tuttavia egli fa costantemente riferimento nel suo discorso ai termini della triade, 72   Per il debito di Palamas verso l’ontologia aristotelica, cfr. Ch. Erismann, St. Gregory Palamas and Aristotle’s Categories, in Triune God: incomprehensible but knowable. The philosophical and theological Significance of  St.  Gregory Palamas for contemporary Philosophy and Theology, ed. C. Athanasopoulos, Newcastle upon Tyne 2015, [pp. 132-141], p. 140. 73  Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II,  23, ed. Mantzarides cit., II, pp. 113, 27 - 114, 3. 74  Χρῆσις è termine usato da Aristotele in modo interscambiabile con ἐνέργεια ma non come suo sinonimo; cfr. S. Menn, The Origins of  Aristotle’s Concept of  Ἐνέργεια: Ἐνέργεια and Δύναμις, in «Ancient Philosophy», 14 (1994), [pp. 73114], pp. 79-81.

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verosimilmente in virtù della loro consolidata attestazione all’interno del canone dell’ontologia bizantina. Q uesta assimilazione viene ribadita dal teologo esicasta in diversi altri passi: Che poi le stesse potenze siano anche chiamate energie (ὅτι δὲ αἱ δυνάμεις αὗται καὶ ἐνέργειαι καλοῦντα), lo puoi apprendere dal divino Damasceno, che ha ben precisato queste cose. Dice infatti che «tutte le potenze (πᾶσαι αἱ δυνάμεις), che siano quelle conoscitive (γνωστικαί), quelle vitali (ζωτικαί), quelle naturali (φυσικαὶ) o  quelle artificiali (τεχνικαί), sono chiamate energie (ἐνέργειαι καλοῦνται)» 75. Che poi, in relazione a Dio, anche se non parliamo di differenze essenziali e naturali (οὐσιώδεις καὶ φυσικὰς διαφορὰς), ma di energie, ascolta di nuovo lui stesso, che dice 76 «è impossibile che un’essenza sia priva di un’energia naturale. Un’energia naturale è infatti la potenza e  il movimento che rivelano ciascuna essenza, della quale è privo (ἐστέρηται) soltanto il non-essere (τὸ μὴ ὄν)» 77.

Un’importante precisazione sull’ontologia triadica emerge in un passo della terza Triade in difesa dei santi esicasti: contestando la posizione di Barlaam per la quale le potenze/energie divine sono create e partecipano dell’essenza divina, il teologo esicasta obietta che in realtà solo le potenze/energie divine sono partecipate. Mette quindi in luce come le idee sostenute dal suo rivale portino alla negazione dell’assioma fondamentale dell’apofatismo, cioè l’impartecipabilità dell’essenza divina, e ad introdurre una confusione tra le potenze/energie e l’essenza divina (che verrebbe così a moltiplicarsi di numero all’infinito): Si avranno così due assurdità (ἄτοπα): l’essenza di Dio risulta essere partecipata (μεθεκτὴν) e  le potenze diventare essenze – e non semplicemente essenze, ma essenze di Dio. Infatti, da una parte la potenza procederebbe nell’energia e  dall’ener­ gia si produrrebbe l’effetto (ἡ μὲν γὰρ δύναμις πρόεισιν εἰς ἐνέργειαν καὶ ἐκ τῆς ἐνεργείας τὸ ἀποτέλεσμα γίνεται); dall’altra, l’essenza risulterebbe, proprio per questo motivo, partecipata e  produrrebbe le partecipazioni della stessa essenza in virtù della partecipazione (ἡ δὲ οὐσία τοῦτ’ αὐτό ἐστι μετεχομένη   Ioannes Damascenus, Expositio fidei, 37, ed. Kotter cit. p. 93, 2-3.   Ibid., p. 93, 7-8, 12-13. 77  Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae (Πραγματεῖαι), II,  24, ed. Mantzarides cit., p. 114, 4-13. 75 76

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καὶ τῆς αὐτῆς οὐσίας κατὰ μετοχὴν ποιεῖται τὰ μετέχοντα). Vedi che grande assurdità? Chi afferma che le potenze partecipano di questa e  sono create, come fa costui, è  davvero politeista (ὄντως πολύθεός), in quanto professa che l’essenza di Dio non sia una, ma molte e differenti (διαφόρους) 78!

Da questo argomento emerge un altro aspetto fondamentale della concezione palamita dell’ontologia triadica, ovvero che le energie e  le potenze non sono causate dall’essenza, altrimenti costituirebbero realtà ontologiche separate e  inferiori rispetto a  questa. Il rapporto di causa ed effetto costituisce di fatto un rapporto di partecipazione che si instaura tra entità ontologicamente differenti, una partecipata e una partecipante, le quali, in virtù di questo rapporto, occupano rispettivamente una posizione superiore e  una inferiore. Benché siano reciprocamente distinte, essenza, potenza ed energia, appartengono unitariamente ed eternamente alla natura di Dio. Se dunque la natura divina è impartecipabile nell’essenza ma diviene partecipabile dalle creature nelle sue potenze ed energie, nulla della natura divina – per contro – partecipa di alcunché, né ad extra né tantomeno ad intra, cosa che significa che le sue distinzioni interne, ovvero le ipostasi, l’essenza e le potenze/energie, non si rapportano le une alle altre attraverso un rapporto di partecipazione. 5.2. La  discussione sulla natura delle energie divine nell’ambito della disputa esicasta ha fatto quasi immancabilmente riferimento alla triade, comparendo questa – come già detto – tanto nelle argomentazioni dei sostenitori di Palamas quanto in quelle dei suoi oppositori. Tra i  sostenitori, ad esempio, possiamo riscontrare il ricorso alla triade in Neofito Prodromeno, che in uno scritto apologetico del 1363 si preoccupa di mostrare come le Scritture affermino l’equivalenza delle potenze e  delle energie comuni dell’essenza divina 79. A sua volta il patriarca Filoteo Cocchino contribuì alla diffusione dell’ontologia triadica nell’interpretazione palamitica: parlando della grazia, egli afferma infatti   Id., Pro hesychastis, III, 2, 19, ed. Meyendorff  cit., p. 677, 20-29.  Cfr. Neophytus Prodromenus, Orationes contra Barlaam et Acindynum, I, 11, in B. Kalogeropoulou-Metallinou, Ὁ μοναχὸς Νεόφυτος Προδρομηνὸς καὶ τὸ θεολογικὸ του ἔργο, Athens 1996, [pp. 337-407], r. 243: λέγονται δυνάμεις καὶ αἱ τῆς τρισυποστάτου οὐσίας τοῦ Θεοῦ κοιναὶ φυσικαὶ ἐνέργειαι. 78 79

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la distinzione fondamentale tra l’essenza divina e  le sue processioni, e la coincidenza di queste: «Perciò crediamo che la grazia sia l’energia e l’illuminazione (ἔλλαμψιν) e la potenza, la diciamo essere sgorgata (πηγαζομένην) dalla divina essenza» 80. Per Filoteo la distinzione non esclude l’unità ontologica dell’essenza e di quanto procede da essa: Come infatti Dio creatore non è soltanto essenza ma anche ipostasi, così non è solo essenza ma anche potenza ed energia naturali; allo stesso modo le cose che sono della sua essenza non sono estranee alla sua ipostasi: l’unico Dio è  infatti e  questo e  quello, e  né l’essenza è  separata dall’ipostasi, né l’ipo­stasi è senza l’essenza, ciascuna custodendo chiaramente la sua proprietà inconfusa (τῆς ἰδιότητος ἀσυγχύτου). In questo modo anche le [proprietà] dell’energia e  della potenza essenziali non sono estranee all’essenza che le fa sgorgare naturalmente, giacché anche la potenza naturale e  inseparata (φυσικὴ καὶ ἀχώριστος) di questa è lo stesso operante e creante (ἐνεργῶν καὶ κτίζων) uno, tripostatico e onnipotente Dio che opera attraverso di essa – in quanto essa gli è connaturata ed essenziale (ἐμφύτου καὶ οὐσιώδους) – ed è l’operare (ἐνεργεῖν) della sua suddetta potenza connaturata e della sua energia 81.

La distinzione palamita tra l’ontologia del creato e quella dell’increato sulla base della distinzione tra le energie/potenze divine rispetto all’essenza e  alle ipostasi divine ha costituito il compimento del percorso storico della teologia bizantina, diventando la chiave di volta del suo canone ontologico nel periodo precedente alla caduta di Costantinopoli. Q uesto assetto dottrinale caratterizzerà nondimeno il Fortleben di questa tradizione, come possiamo vedere nel Thesaurus di Damasceno Studita, vescovo di Tessalonica (1500-1577), dove, ancora una volta, incontriamo la triade letta come struttura ontologica binaria distinta in essenza ed energia/potenza: Siccome un’essenza creata (κτιστὴ οὐσία) possiede un’energia creata (κτιστὴν ἐνέργειαν), un corpo visibile (ὁρατὸν σῶμα) 80  Philotheus Coccinus, Antirrhetici duodecim contra Gregoram, VI, ed. D.  V. Kaimakes,  Thessalonica 1983 (Thessalonian Byzantine Writers, 3), rr. 1292-1294. 81  Ibid., VIII, rr. 309-320.

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possiede una potenza visibile (ὁρατὴν δύναμιν): l’essenza increata (ἄκτιστος οὐσία), invece, ha un’energia increata (ἄκτιστον ἐνέργειαν); ad esempio il sole, essendo creato, ha una energia creata, ovvero il calore e la luminosità. E Dio, essendo increato, possiede (ἔχει) un’energia increata 82.

5.3. Sul versante antipalamita la peculiarità dottrinale di maggior rilievo teorico in relazione alla triade è costituita dalla tesi dell’indistinzione ontologica dei suoi termini nell’unità divina. Q uesta tesi è  sostenuta ad esempio da Teodoro Dexius, il quale ebbe a evocare la triade nel suo discorso apologetico contro l’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, il quale aveva presieduto il Concilio delle Blacherne del 1351 che aveva sancito la vittoria del palamismo e aveva portato alla condanna dello stesso Dexius. Dexius esclude che il Dio tripostatico ammetta in sé qualcosa che sia altro da sé, né che l’essenza sia distinta in base all’attributo dell’essere increato dall’energia, dalla sapienza e dalla potenza, essendo egli semplice e indivisibile, tutto essenza, tutto energia, tutto sapienza, tutto potenza, fatta solo eccezione per la distinzione delle ipostasi 83. Giovanni Ciparissiota (1310-1378), raffinato letterato e strenuo teologo antipalamita, elaborò un’articolata apologia di questa posizione teorica. Muovendo dalla distinzione tra le energie create e  quelle increate stabilita dalla formula dienergita del Sesto Concilio ecumenico 84, arriva a  ribadire l’unità ontologica priva di distinzioni in Dio: 82   Damascenus Studites, Thesaurus, 11, ed. E.  Deledemou, New York 1943, rr. 807-811. 83 Cfr.  Theodorus Dexius, Appelatio adversus Joannem Cantacuzenum, XXXVIII, ed. J. Polemis, Turnhout 2003 (CCSG, 55), p. 94, 1-11: πρὸς τούτους δ’ ὅμως, ὡς ἐκκαλῇ, τοὺς περὶ ἐνεργείας δηλαδὴ λόγους, χωροῦντες, αὐτὸν τὸν τῇ φύσει παρόντα καὶ ἐνεργοῦντα πανταχοῦ, τὸν οὐδὲν ἐν ἑαυτῷ ἑτεροῖον ἑαυτοῦ ἔχοντα τρισυπόστατον ἕνα Θεόν, οὔτ’ ἄλλην οὐσίαν οὔτ’ οὐσιῶδες ἰδίως τὴν τοῦ ἀκτίστου κατηγορίαν ἐπιδεχόμενον, οὔτ’ ἐνέργειαν οὔτε σοφίαν οὔτε δύναμιν, ἀλλ’ ἁπλοῦν ὅλον καὶ ἀδιαίρετον καὶ ταυτόν, κατὰ μηδεμίαν τοσύμπαν ἐπίνοιαν τὴν ἰσχνοτάτην διάφορόν τι ἑαυτοῦ ἔχοντα ἄκτιστον καὶ ὑφειμένον – πῶς γὰρ ἂν εἴη πάντοθεν ἡ τριὰς ἴση, πάντοθεν κατὰ τὸν Θεολόγον ἡ αὐτή; –, πλὴν μόνης τῆς τῶν ὑποστάσεων διαιρέσεως, ὅλον οὐσίαν, ὅλον ἐνέργειαν, ὅλον σοφίαν, ὅλον δύναμιν. Per il profilo e le vicende storiche inerenti a questo autore cfr. ibid., Introduction, [pp. xiii-cxxxvi], pp. xv-xxxi. 84 Cfr.  Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae quinque contra Nilum Cabasilam, V,  6, ed. S.  Th.  Marangoudakis, Athens 1985 (Ἡσυχαστικαὶ καὶ φιλοσοφικαὶ μελέται,  13), rr. 6-9: «Ma anche la Santa Sesta Sinodo Ecumenica definisce espressamente increata l’energia divina (ἄκτιστον ῥητῶς εἶπε τὴν

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Per il fatto che noi non diciamo queste [realtà connaturate in Dio (τῶν ἐν τῷ Θεῷ ἐμφύτων)] essere differenti (διάφορα) e  non distinguiamo (διῃρηκότες) –  subordinando questa a quella (ἄλλην ταύτην παρ’ ἐκείνην ὑποθώμεθα) – la potenza e l’energia della divina essenza in relazione a queste, veniamo da voi vessati come se fossimo monoteliti 85.

In un successivo paragrafo della stessa orazione, in riferimento alla distinzione triadica di ascendenza dionisiana relativa alle potenze angeliche 86, il Ciparissiota piuttosto che citare apertamente l’Areopagita riporta un passo del Commento di Giovanni di Scitopoli in cui le energie e le essenze, in riferimento alla natura angelica, sono definite «enipostatiche» 87, e, traendo le proprie conclusioni, presenta le energie e  le potenze come equivalenti a  essenze enipostatiche, passando sotto silenzio quella distinzione che non sembra esser messa in discussione dallo scoliasta dionisiano: Se dunque negli angeli le potenze e  le energie connaturate (ἔμφυτοι δυνάμεις καὶ ἐνέργειαι) sono essenze enipostatiche (ἐνυπόστατοι οὐσίαι εἰσί), in relazione al  principio unico e sovressenziale di tutte le cose, non sarà affatto possibile investigare che cosa esso sia (ὅπερ ἐστὶ ζητεῖν), non essendo qualcosa che è in atto (μὴ τοῦτ’ οὔσης ἐνεργείᾳ), ma sarà possibile investigare la differenza (διαφορὰν) tra essenza ed energia θείαν ἐνέργειαν). Afferma infatti nei suoi atti: ‘Il Cristo, essendo uno, ha come energie naturali (φυσικὰς ἐνεργείας) quella divina e  quella umana (τὴν θείαν καὶ τὴν ἀνθρωπίνην), quella increata e quella creata (τὴν ἄκτιστον καὶ τὴν κτιστήν)’». Per questa citazione, cfr.  Concilium universale Constantinopolitanum tertium (680-681), in Concilii actiones I-XVIII, ed. R.  Riedinger, 2  voll., Berlin 1990 (ACO, 2, 2), I, p. 102, 17-18. 85  Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 6, ed. Marangoudakis cit., rr. 119-122. 86 Cfr. E. S. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino, in questo stesso volume, §§ 1.1, 1.5, alle pp. 183188 e 192-193. 87   Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 11, ed. Marangoudakis cit., rr. 186-191: καὶ τοὺς ἀγγελικοὺς διακόσμους εἰς οὐσίας καὶ δυνάμεις καὶ ἐνεργείας διαιροῦντες οἱ θεολόγοι τρανότερόν πού φασιν· ‘ἀλλὰ καὶ αἱ ἐνέργειαι ἐκεῖ ἐνυπόστατοί εἰσι καὶ οὐσίαι’. La  citazione è  da Ioannes Scythopolitanus, Scholia in DN, 240, 3, PG 4, [185-416], 240C; Corpus Dionysiacum, IV/1. Ioannis Scythopolitani prologus et scholia in Dionysii Areopagitae librum De divinis nominibus cum additamentis interpretum aliorum, ed. B. R. Suchla, Berlin - Boston 2011 (PTS, 62), p. 209, 8-9, per cui cfr. Mainoldi, La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino cit., p. 211, alla nota 72.

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secondo la successione (κατ’ ἀριθμὸν). Si è  infatti mostrato che ciò che è al di fuori dall’agire (τὸ παρὰ τὴν ἐνέργειαν ὂν) non è in atto (ἐνεργείᾳ ὂν) e ciò che non è in atto o non è in nessun modo (μηδαμῇ μηδαμῶς ἐστιν) o è in potenza (δυνάμει). Q uesta è la natura della materia 88.

Oltre a trasformare il senso della citazione relativa alle essenze e alle energie enipostatiche rispetto all’originale, l’affermazione che l’essenza e l’energia (operazione) siano distinguibili solo in base alla successione, pone il discorso al  di fuori della natura divina, rispetto alla totalità della quale  – e  non solo della sua essenza, come da apofatismo ‘classico’ – il Ciparissiota nega ogni possibilità conoscitiva. Il rifiuto della distinzione tra essenza ed energia esclude dunque che il modello della triade possa applicarsi alla natura divina, concependo una tale differenza solo in relazione all’ordine della successione, ovvero della temporalità. È singolare che la ripresa della triade secondo l’argomento della sua reale indistinzione ad  intra rispetto alla natura divina, argomento nel quale riemerge la concezione neoplatonica dell’identità dei termini della triade nell’intellegibile 89, sfoci poi in un argomento basato sul binomio aristotelico di atto e potenza. Giorgio Pelagonio, che scrive quasi un secolo dopo la disputa, interpreta a sua volta la distinzione triadica come differenziazione ontologica che introduce una composizione nella natura divina e  ne contraddice la semplicità. Rifacendosi all’autorità di Massimo il Confessore afferma: Dio è in base ad entrambi [l’essenza e il concetto] del tutto semplice: l’essenza è  nel soggetto separatamente (ἐν ὑποκειμένῳ χωρίς), e  il concetto (νόησις) non ha alcun soggetto, non è degli esseri intelligenti (νοούντων) né degli intellegibili (νοουμένων). E altrove: Dio è conosciuto dalla bontà (ἀγαθότητος) e dall’energia, dalla prescienza delle sue opere ma non dalla sua essenza. Chiamiamo energia le opere (ἔργα), non la potenza operativa (ἐνεργητικὴν δύναμιν). Q uella, infatti, non è altro rispetto all’essenza (οὐκ ἄλλο παρὰ τὴν οὐσίαν), perché

88  Ioannes Cyparissiotes, Orationes antirrheticae, V, 11, ed. Marangoudakis cit., rr. 192-197. 89 Per il problema dell’indistinzione dei termini della triade cfr.  l’introduzione di R. de Filippis - E. S. Mainoldi in questo volume, pp. 43, 65, 68.

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non si può concepire (νομισθῇ) composizione (σύνθεσις) in Dio 90.

Demetrio Cidone, principale rappresentante del tomismo bizantino e strenuo oppositore del palamismo, rivolgendosi al patriarca Filoteo nell’aprile del 1368 in apologia del fratello Procoro, elabora una lunga argomentazione sul valore dei termini della triade in relazione all’ontologia trinitaria, sottolineando l’incompatibilità tra la distinzione dei termini della triade e la semplicità divina: Null’altro infatti persuadono a pensare le guide di questa devozione, in relazione al  logos enipostatico di Dio e  allo Spirito, cioè l’impedirsi della composizione di ciò sussiste fianco a fianco (τὸ σύνθεσιν ἐκ τῶν παρυφεστώτων ἀνίσχειν). Considera dunque questo. Una cosa dici essere l’essenza e una cosa diversa la potenza e un’altra ancora l’energia. Pertanto, queste non sono la stessa cosa ma sono di ciò che è  identico (ἀλλὰ ταὐτοῦ), non uno ma di uno. Seppure sono uno, tuttavia uno dai molti (ἐκ πολλῶν ἕν), quelle sono le parti e questo il composto (σύνθετον) 91.

Il fratello Procoro, da parte sua, aveva sostenuto l’argomento del­ l’in­distinzione ontologica nella natura divina nei seguenti termini: È impossibile che unica sia la natura (μίαν φύσιν) o la potenza o  l’energia della natura increata e  di quella creata; siccome è stabilito che le cose della divinità siano della divinità (τὰ τῆς θεότητος, τῆς θεότητος) e  quelle dell’umanità siano del­ l’umanità, le cose dell’umanità non vengano prese per quelle della divinità né quelle della divinità vengano prese per quelle del­l’umanità, e  così per tutte le altre innumerevoli cose da cui si è mostrato che le potenze e le energie rimangono separate (διακεκριμένας μεῖναι), così come lo sono anche le essenze 92.   Georgius Pelagonius, Adversus Palamam, 33, in Theologica varia inedita saeculi xiv, ed. J. Polemis, Turnhout 2012 (CCSG, 76), [pp. 3-51], p. 46, 30-38. 91   Demetrius Cydones, Τοῦ αὐτοῦ Δημητρίου τῷ ἀυτῷ παριάρχῃ (Vat. Gr.  678, ff. 2-10v) [Apologia di Procoro al patriarca Filoteo nell’imminenza della condanna], in G. Mercati, Notizie di Procoro e Demetrio Cidone, Manuele Caleca e Teodoro Meliteniota ed altri appunti per la storia della teologia e della letteratura bizantina del secolo xiv, Città del Vaticano 1931 (Studi e  Testi, 56), [pp.  296338], p. 300, 28-33. 92   Prochorus Cydones, De lumine Thaborico, 21, in Theologica varia 90

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Ricalcando in modo inconsapevole il punto di vista neoplatonico, per cui nell’Uno non si può ammettere distinzione, essendo questa principio della molteplicità, cosa che – neoplatonicamente – si dà solo al livello dell’Intelletto, e ragionando all’interno dello schema della divisione aristotelico-porfiriana, per cui la differenza costituisce il principio di divisione ontologica tra le specie, la distinzione, concepita come differenza, non può che darsi al di fuori dell’unità divina, altrimenti ne minerebbe la semplicità; l’energia dunque, distinguendosi dall’essenza di Dio, deve anche distinguersi dalla natura increata di Dio e ricadere nel novero delle realtà create. 5.4. Palamas e  i suoi seguaci concepiscono la distinzione sulle scorte di tutt’altre premesse rispetto alla dialettica aristotelicoporfiriana e alla problematica neoplatonica della opposizione tra l’Uno-semplice e  il molteplice-complesso. Il  paradigma speculativo entro cui Palamas si muove e la tradizione in cui si istanzia – i  Cappadoci, Dionigi, Massimo il Confessore e  Giovanni Damasceno – affonda le sue radici nel pensiero antinomico, in base al quale si rende possibile un’ontologia che ammette la conciliazione di istanze logicamente inconciliabili, cosa che la teologia conciliare ha espresso a più riprese – da Nicea a Calcedonia, fino ai concili palamiti del quattordicesimo secolo – di fronte alla difficoltà di definire la natura divina e la sua economia 93. La vittoria di Gregorio Palamas, decretata dai sinodi costantinopolitani convocati tra il 1341 e  il 1368, ha stabilito la teologia delle energie divine come fondamento dell’edificio dogmatico della teologia mantenuta dalla cristianità bizantina e post-bizantina 94. La triade essenza – potenza – energia costituisce una presenza costante in questo edificio, ricorrendo in particolare nel discorso sulla distinzione ontologica relativa alla natura divina, e vede ricapitolate nel pensiero del dottore esicasta i punti che hanno caratterizzato la inedita saeculi xiv, ed. J.  Polemis, Turnhout 2012 (CCSG, 23), [pp.  327-379], p. 354, 44-50. 93   Per una dettagliata discussione sulle strutture e i paradigmi filosofici implicati nella disputa esicasta e le posizioni storiografiche più recenti cfr. N. Russell, Gregory Palamas and the Making of  Palamism in the Modern Age, Oxford 2019 (Changing Paradigms in historical and systematic Theology), pp. 112-129. 94   Sulla vittoria conciliare della teologia di Palamas, cfr. Sinkewicz, Gregory Palamas cit. (alla nota 65), pp. 136-137; Russell, Gregory Palamas and the Making of  Palamism cit., pp. 21ss.

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sua fortuna nel percorso storico-dottrinale della teologia bizantina. Ponendosi nella linea che ha visto le definizioni dogmatiche delle verità di fede affermarsi attraverso formulazioni antinomiche, il palamismo sancisce l’antinomia della non-partecipabilità di Dio (nell’essenza) e  della sua partecipabilità (nelle potenzeenergie divine) 95. L’ontologia triadica presenta dunque nel pensiero teologico tardobizantino tratti dottrinalmente non unitari e  interpretazioni non condivise dei suoi fondamenti teorici, il principale dei quali è  quello della distinzione all’interno dell’unità divina: la divergenza tra queste interpretazioni ha stabilito il confine tra la concezione risultata vincente, quella palamita, e  perciò divenuta canonica dell’ortodossia teologica, e  quella riconosciuta invece come eterodossa. Dal quadro del discorso teologico affermatosi come ortodosso, la triade risulta essere costitutiva (sebbene non esclusiva) della natura divina e resta ad essa confinata, ovvero non esce dal perimetro di questa natura, che non partecipa di nulla all’interno di essa né tantomeno all’esterno. Se però la partecipazione alla creazione va esclusa per la natura divina increata, per la natura creata la partecipazione alle energie divine costituisce il fondamento della sua stessa sussistenza ontologica e della sua azione, mentre la partecipazione alle energie create costituisce una rete di sinergie che determina la sua forma nella dimensione crea­ta. Sebbene la distinzione ad intra riguardi i tre termini della triade, nonché eventuali altri termini – come la volontà –, la distinzione fondamentale in essa resta quella tra essenza e potenze-energie: la prima, impartecipabile, è  il referente gnoseologico e  linguistico dell’apofaticità della natura divina, nonché il referente ontologico della sua trascendenza assoluta, la quale esclude ogni analogia con la realtà creata; le seconde invece costituiscono il rivelarsi catafatico della stessa natura divina attraverso le sue distinzioni. Sottolineando come le strutture ontologiche abbiano una valenza  Per l’utilizzo del concetto di antinomia nelle interpretazioni novecentesche della storia del dogma (dall’unitrinità divina definita nei primi due concili, alla formula cristologica calcedonese, arrivando al secondo di Nicea che stabilisce la non-rappresentabilità della natura divina compatibile con la rappresentabilità della persona del Verbo divino), cfr. B. Gallaher, The «Sophiological» Origins of  Vladimir Lossky’s Apophaticism, in «Scottish Journal of  theology», 66 (2013), pp. 278-298. 95

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diversa a  seconda che siano applicate al  dominio dell’increato piuttosto che a quello del creato, Palamas pone in luce la problematica latente nell’utilizzo della triade in ambito teologico, per cui la sua terminologia triadica risulta essere pleonastica, comportandosi la triade come un fossile solidificatosi all’interno della tradizione speculativa che l’ha ricevuta. In più casi abbiamo visto infatti come i due concetti di energia e potenza siano assimilati. Eppure, la loro distinzione viene mantenuta, lasciandoci pensare che questo avvenga, oltre che per motivi di conservatorismo terminologico, inquadrabile come fenomeno storico-filosofico, anche e  soprattutto per un motivo teorico, ovvero che la triade costituisca un elemento per concettualizzare la potenza divina infinita in sé, mentre l’operazione l’agire provvidenziale di questa medesima potenza 96. Di conseguenza, la differenza tra potenza ed energia si configura come una questione di gnoseologia teologica, dal momento che le potenze e le energie divine, nel loro rapporto indissolubile con l’essenza di cui sono la distinzione ad extra (περὶ τὴν οὐσίαν), sono la stessa natura divina eternamente attiva e provvidente – a prescindere dalla realtà creata. In ultima istanza, avendo constatato che tra i  termini della triade si esclude un rapporto di partecipazione, allo stesso modo deve essere escluso anche un rapporto di causalità, in quanto l’increato è  causa del creato e  non dell’increato. Se questo esclude una lettura esemplaristica platonica, allo stesso modo esclude una lettura aristotelica: la dicotomia di atto e potenza risulta incompatibile con l’antinomia biblica fondamentale tra increato e creato. L’increato è causa del creato e non viceversa; diversamente, la preminenza dell’atto secondo la concezione di Aristotele comporterebbe come unica soluzione accettabile che il creato sia causa del creato.

6. Nella polemica contro i latini Il Grande scisma tra le chiese di Roma e di Costantinopoli (1054) ha in un certo senso istituzionalizzato il dibattito polemico tra latini e bizantini che già da quasi due secoli ruotava intorno ai temi 96 Cfr. Gregorius Palamas, Orationes dogmaticae, II, 24, ed. Mantzarides cit., p. 114, 4-13; supra, alla nota 77.

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teologici su cui si consumò la divisione. Q uesto dibattito diede vita a  una cospicua letteratura polemica, all’interno della quale indubbia centralità ha tenuto la questione del Filioque, cioè la processione dello Spirito Santo 97. Pur coinvolgendo ambiti metodologici disparati, in particolare quelli dell’esegesi delle Scritture e della comprensione del pensiero dei Padri, la questione ha messo in luce una sostanziale divergenza sull’ontologia trinitaria e sulle modalità di esercizio dell’economia divina. Molti dei testi prodotti in seno a questo dibattito vedono il ricorso alla triade come strumento argomentativo finalizzato a  discutere i  fondamenti ontologici della questione trinitaria. Un primo esempio dell’uso della triade in un’argomentazione trinitaria contro il Filioque si legge nei Sillogismi sulla processione dello Spirito Santo del filosofo Niceta Byzantios, autore attivo tra l’842 e il 912 e non altrimenti noto che attraverso le sue opere 98. Q uesto trattato costituisce una delle prime opere polemiche bizantine contro il Filioque e  sembrerebbe ricollegarsi alla polemica antilatina del patriarca Fozio (con cui Niceta fu per certo in contatto). La diffusione di quest’opera è significativa, come mostra la cospicua tradizione manoscritta, nonché la tradizione indiretta, costituta da citazioni nelle opere polemiche di Andronico Camatero e di Ugo Eteriano 99. La triade viene qui chiamata in causa in due passi per argomentare l’unità divina. Nel primo di questi, essa viene presentata come componente della natura divina, dove i tre termini sono intesi come coeterni e comuni alle tre ipostasi divine, stante che queste mantengono le specifiche proprietà, tra le quali 97   Per una rassegna circa le problematiche e i confini generali di questo scontro, cfr. A. Bucossi, Dibattiti teologici alla corte di Manuele Comneno, in Vie per Bisanzio. VII Congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini (Venezia, 25-28 novembre 2009), a cura di A. Rigo, 2 voll., Bari 2013, I, pp. 311321; Contra Latinos et Adversus Graecos. The Separation between Rome and Constantinople from the ninth to the fifteenth Century, edd. A. Bucossi - A. Calia (Bibliothèque de Byzantion, 286), Leuven 2020; sul Filioque in partic. cfr. E. A. Siecienski, The Filioque. History of  a doctrinal Controversy, Oxford - New York 2010 (Oxford Studies in Historical Theology). 98 Cfr. A. Rigo, Niceta Byzantios, la sua opera e il monaco Evodio, in In partibus Clius. Scritti in onore di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di G. Fiaccadori - A. Gatti - S. Marotta, Napoli 2006, pp. 147-187. 99 Cfr.  Monumenta graeca ad Photium ejusque historiam pertinentia, ed. J.  Hergenroether, Regensburg 1869, p.  7; cfr.  Rigo, Niceta Byzantios cit., pp. 162-163.

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– come spiegato nel prosieguo, attraverso il richiamo all’insegnamento di Gregorio di Nazianzo – si hanno l’essere generato (del Figlio) e l’essere procedente (dello Spirito Santo): È professato da tutti quelli che hanno una conoscenza precisa e distinguono chiaramente ciò che riguarda Dio e ciò che riguarda gli esseri, che il divino (τὸ θεῖον) in se stesso è semplice (ἁπλοῦν) ed è al di là di ogni composizione (συνθέσεως) e di ogni nozione composita (συνθετικῆς ἐννοίας), avendo una nozione assoluta di semplicità, non comparabile con alcuno degli esseri,  e, in virtù dell’esistenza semplicissima, per cui non è  suscettibile neanche nel pensiero di essere presentata come composita (συνθετικῆς ἐμφάσεως), oltre all’essenza singolare (μοναδικὴν) e alla natura che le corrisponde, esso mantiene l’esistenza dell’essenza semplicissima, una potenza infinita e  una energia naturale coestesa (συμπαρεκτεινομένην) al­l’infinità dell’essenza. E non solo la nozione comune (κοινὴ ἔννοια) mostra la manifestazione (ἔμφασιν) semplicissima e singolare (μοναδικὴν) del divino secondo la ratio (λόγον) di essenza, potenza ed energia, ma anche è contemplata in quelle – per così dire – unità o ipostasi tearchiche quale costituente (συμπληρωτικὴ) di queste, o  per dire più accuratamente, stando al  divino Gregorio 100, queste [tre] sono là [in Dio] completamente per ciascuna ipostasi il singolare e lo specifico delle proprietà (τὸ μοναδικὸν καὶ ἴδιον τῶν ἰδιωμάτων), sottolineando poi che [le proprietà specifiche di ciascuna] non sono affatto ciò che è comune (κοινοποιούμενον) all’altra 101.

In un secondo passo la triade è invocata per confutare la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio, contrapponendo l’unità basata sull’essere triadico comune alle ipostasi trinitarie, al  proprium delle singole ipostasi, costituito dagli ἰδιώματα, cioè dalle proprietà particolari di ciascuna delle tre divine persone: Se infatti [lo Spirito] procedesse dal Figlio, la produzione (προβολὴ) dello Spirito sarebbe del Padre e del Figlio; se fosse comune non sarebbe per proprietà specifica (ἰδίᾳ), né sarebbe 100 Cfr.  Gregorius Nazianzenus, Oratio 39 (In Sancta Lumina), 1112, PG 36 [336-360], 345B-348C, ed. C.  Moreschini, Paris 1990 (SC, 358), pp. 170-176. 101  Nicetas Byzantios, Capita syllogistica XXIV de processione spiritus sancti, 19, in Monumenta graeca ad Photium ejusque historiam pertinentia, ed. Hergenroether cit., pp. 124-125.

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contemplato in modo singolare (μοναδικῶς) in una singola ipostasi, secondo la ragione che abbiamo detto, per cui unicamente il Padre è il Padre del Figlio e l’originatore (προβολέα) dello Spirito. Se invero il ragionamento ha già mostrato in relazione a Dio, alla [sua] natura, potenza e operazione e alle proprietà ipostatiche che si ha una singolare manifestazione (μοναδικὴν ἔμφασιν) e una proprietà (ἰδίωμα) per ciascuna delle ipostasi tearchiche, sarà dunque evidente che la proprietà del Padre, cioè la produzione dello Spirito non è comune al Figlio. Se non sarà comune, sarà del tutto propria, e stando così le cose, lo Spirito non procede (οὐκ ἐκπορεύεται) dal Figlio così come dal Padre, come alcuni – da quanto risulta – insegnano (δογματίζειν) empiamente 102.

Il richiamo alla triade per porre un distinguo tra l’ontologia unitaria della natura divina e le proprietà ipostatiche esclusive delle singole Persone si ripresenta nell’opera di Nicola di Metone dedicata alla processione dello Spirito Santo in funzione antilatina. Commentando il passo giovanneo in cui Cristo rivela l’unità sua e del Padre (Io 10, 30: ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ ἕν ἐσμεν), Nicola afferma: ‘Uno’, non per numero, ma per l’essenza, ovvero per la sovressenzialità (τῇ ὑπερουσιότητι), per la potenza e  per l’ener­gia creatrice (ποιητικῇ) e produttrice (συνεκτικῇ) di tutte le cose, per il volere (τῇ θελήσει), per il potere (τῇ ἐξουσίᾳ) e per tutte le cose divine sovreminenti (πᾶσι τοῖς θείοις ὑπερτερήμασι). Dunque tutte le cose che il Padre ha, il Figlio e  lo Spirito le hanno, eccetto la proprietà paterna (πλὴν τῆς Πατρικῆς ἰδιότητος) 103.

Con il secolo xii il confronto intorno al Filioque divenne il tema caldo del dibattito con i latini, e, nel contesto della temperie culturale che caratterizzò il regno di Manuele  I Comneno (11431180) 104, si arricchì di nuovi e significativi episodi testuali, spesso presentati sotto la forma letteraria di dialogo tra i contendenti 105.   Ibid., p. 127.   Nicolaus Methonaeus, Adversus Latinos de spiritu sancto, ed. K. Simonides, London 1858, p. 8, 8-13. 104 Cfr.  Bucossi, Dibattiti teologici alla corte di Manuele Comneno cit., pp. 313ss. 105  Cfr. L. D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν. Alcune considerazioni sul prologo ai «Dialoghi sulla processione dello Spirito Santo» di Niceta di «Maronea», in Contra La102 103

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La  prima opera di questo periodo nella quale si fa ricorso alla triade in relazione a questo soggetto sono i Dialoghi sulla processione dello Spirito Santo di Niceta di Tessalonica 106. Q uest’opera si sviluppa secondo una prospettiva ‘irenistica’, basandosi sull’opinione per cui non la dialettica, bensì la sola autorità di un concilio avrebbe potuto dirimere la questione del Filioque 107. Per questo Niceta predilige procedere per rassegna e analisi degli argomenti piuttosto che attraverso la polemica apologetica. Nel quarto dialogo, i due interlocutori, un greco e un latino, discutono il problema della processione in base ad alcune metafore e analogie. Tra queste, il latino, che conduce la discussione, introduce la triade. Dopo aver entrambi convenuto che i tre termini della triade sono indissolubilmente associati, in quanto connaturati 108, il latino presenta l’essenza come causa una, principio e fonte della potenza e dell’energia, deducendo che a sua volta la potenza è causa, fonte e principio dell’energia 109. In conclusione: L’energia è dall’essenza e dalla potenza, da una parte l’essenza è principio (ἀρχή) e fonte (πηγή) della potenza e dell’energia, così come la potenza lo è dell’energia. Ma non si tratta di due principi (ἀρχαί), bensì di uno solo (μία), cioè l’essenza, alla quale la potenza è riportata in quanto proprio principio 110.

A questo punto il greco chiede se il latino intenda i rapporti tra il Figlio e lo Spirito riguardo al Padre alla stessa stregua della relazione appena descritta tra i termini della triade. Il latino risponde offrendo una articolata risposta, chiarendo che questo paragone tinos et Adversus Graecos cit., [pp. 217-239], p. 217 e i riferimenti bibliografici qui riportati alla nota 2. 106 A lungo questo autore è stato erroneamente riferito come ‘Niceta di Maronea’; cfr. A. Bucossi, Seeking a Way out of  the Impasse: the Filioque controversy during John’s reign, in John II Komnenos, Emperor of  Byzantium. In the Shadow of  Father and Son, edd. A. Bucossi - A. Rodriguez Suarez, Oxford 2016, [pp. 121134], p. 127; D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν cit., p. 218. 107  Cfr. Bucossi, Seeking a Way out of  the Impasse cit., p. 126. 108 Cfr.  Nicetas Thessalonicensis, Orationes de processione Spiritus Sancti, in N. Festa, Niceta di Maronea e i suoi «Dialoghi sulla processione dello Spirito Sancto», in «Bessarione», 18 (1915), [pp. 61-75], p. 61, 23: εἴγε ταῦτα ἀλλήλοις εἰσὶ συμφυῆ. 109  Ibid., p. 62, 1-2: ἆρα δὲ οὐχὶ καὶ ἡ δύναμις αἰτία τῆς ἐνεργείας καὶ ἀρχὴ καὶ πηγή; 110   Ibid., p. 62, 4-7.

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non va inteso in senso proprio, bensì «in un certo senso», ovvero per analogia: Non in assoluto, ma in un certo senso (οὐχὶ κατὰ πάντα, ἀλλὰ κατά τι). Infatti, intendevo inadeguato ogni esempio (παράδειγμα), e  [la questione] molto si allontana rispetto a questo esempio, tanto di più riferendosi a  ciò che è  al di là (ἐπέκεινα) di ogni essenza. Tuttavia, troviamo almeno un moderato bagliore che ci guida dall’esempio verso di essa. In questo esempio infatti né l’essenza è una ipostasi autosussistente (ἰδιοϋπόστατος), né lo è  la potenza che le è  propria, né lo è  l’energia. Là infatti il Padre è  un’ipostasi propria, il Figlio è un’ipostasi che viene (προερχόμενος) dal Padre come potenza enipostatica (δύναμις ἐνυπόστατος), e lo Spirito come energia è un’ipostasi propria, vivente, santificante e perfetta. Ma in una cosa vi è analogia (τὸ ἐμφερές), e cioè che come qui (ἐνταῦθα) la potenza procede (πρόεισι) dall’essenza e l’energia procede dalla potenza, così là (ἐκεῖ) il Figlio è la potenza [che proviene] dall’essenza paterna (ἐκ τῆς Πατρικῆς οὐσίας), e dal Figlio [proviene] – come l’energia dalla potenza – lo Spirito. Diciamo infatti, in base ai santi Padri, il Figlio e  lo Spirito rispettivamente potenza ed energia 111.

Pur escludendosi che la triade costituisca il modello in senso proprio dei rapporti tra le ipostasi trinitarie, essa viene applicata a queste per analogia. Q uesta analogia si appoggia su un’interpretazione emanatistica della triade, che ci permette di cogliere in filigrana alla questione teologica l’azione di un paradigma ontologico neoplatonizzante dietro all’interpretazione delle relazioni intertrinitarie. La risposta del greco si limita a contestare questo modo di intendere le relazioni trinitarie, sottolineando che questo non si incontra presso i Padri, tuttavia egli non oppugna nulla sotto il profilo metodologico all’analogia tra la Trinità e la triade né al modello di triade proposto dal latino. In un secondo esempio, il latino propone l’analogia della triade con l’azione del fuoco: il fuoco è l’essenza, la potenza è la capacità di bruciare (καυστικὴ) e l’energia della potenza, ovvero l’azione, è il bruciare (καῦσις). Così nella triade l’azione comune (ἐνέργημα) delle tre Persone è  la creazione nel suo complesso, ovvero ogni   Ibid., p. 62, 11-23.

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crea­tura (κτίσις  πᾶσα) 112. Il  discorso volge quindi sul problema della causalità: Come infatti l’essenza del fuoco è causa (αἰτία) della potenza, così la potenza del bruciare lo è dell’azione, ovvero del bruciare, ma dunque se l’essenza è  causa, causa sarà anche la potenza, eccetto che la potenza è  riferita all’essenza e  dunque la causa è  una. Ora, questo non è  assurdo e  neppure lo è  che se la prima [causa] è  il principio del bruciare, lo sarà anche la [causa] contigua (προσεχής). Così avviene anche nel caso del Padre e  del Figlio e  dello Spirito Santo. Se ciò che è causa (αἴτιον) dello Spirito è il Figlio quanto lo è il Padre, pur restando il Padre la causa una, non è neppure assurdo che, se è causa ciò che è principale (πρῶτον), sia causa anche ciò che è contiguo (προσεχές) 113.

In linea con l’impostazione interlocutoria e non confutatoria del dialogo 114, il greco non si oppone all’interpretazione della triade proposta dal latino, basata su un rapporto di causalità emanatistica – aspetto che sarà invece oppugnato nel Sacro Arsenale di Andronico Camatero, come vedremo più sotto –, ma si limita a contestare il trasferimento di questi rapporti alle persone della Trinità. Appoggiandoci al  giudizio di Luigi D’Amelia per cui i dialoghi di Niceta hanno natura meramente fittizia, dobbiamo constatare come il loro autore metta in bocca all’interlocutore latino non solo un argomento teologicamente in linea con la teologia filioquista, ma anche un’ontologia della triade in linea con il modello interpretativo sostenuto dai latini per come traspare in generale attraverso le testimonianze bizantine. L’introduzione dell’analogia tra la triade e il fuoco potrebbe peraltro sottendere un’intenzione critica, volendosi alludere all’improprietà dell’argomento del latino, esulando tale analogia dall’ambito teologico e ricadendo in quello cosmologico 115.

  Ibid., p. 65, 11-14.   Ibid., p. 65, 19-23. 114 Cfr. D’Amelia, Οὐ πρὸς ἔριν cit., pp. 237-238. 115  Q uesta applicazione trova infatti precedenti in Proclo e  in Psello, per cui cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 10-22; cit. nel saggio di M. Abbate in questo stesso volume, p. 90, alla nota 31, e supra, alla nota 44. 112 113

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Uno dei testi più significativi, risalente sempre a  questo periodo, in cui la triade fa comparsa è il già citato Sacro Arsenale di Andronico Camatero. Q uest’opera, scritta tra il 1173 e il 1174, è  presentata dal suo autore come la reportatio dei colloqui tra l’imperatore Manuele I Comneno e una delegazione di cardinali romano-cattolici. In essa viene offerta una sintesi di quanto elaborato dal punto di vista bizantino sul primato della Chiesa di Roma e sulla processione dello Spirito Santo fino al dodicesimo secolo. Commissionata dallo stesso Manuele, essa divenne un punto di riferimento per le discussioni a venire e fino al secolo xv fu presa in considerazione da diversi importanti protagonisti bizantini del dibattito con i latini 116. Nel corso della discussione sulla processione dello Spirito Santo, i cardinali latini proposero all’imperatore, dopo averne lodato le competenze teologiche, la seguente analogia basata sulla triade: Ascolta tuttavia questo esempio: così come insieme all’essenza si danno anche la potenza e  l’operazione, e  come la potenza è nell’essenza, così anche l’operazione procede (πρόεισι) dalla (ἐκ) potenza. Noi pure affermiamo qualcosa di simile a  riguardo della Trinità: il Figlio è stato generato (γεγέννηται) dal Padre (ἐκ τοῦ Πατρὸς), come lo Spirito procede (προέρχεται) dal Figlio (ἐκ τοῦ Υἱοῦ) 117.

Manuele replica impugnando l’interpretazione dei rapporti tra termini della triade proposta dai latini: Q uesto esempio è del tutto privo di analogia con la Trinità. Infatti la potenza che è  propria dell’essenza null’altro è  che l’operazione (ἐπὶ μὲν γὰρ τῆς οὐσίας ἡ δύναμις οὐκ ἄλλο τί ἐστι παρὰ τὴν ἐνέργειαν), la quale si produce tuttavia in base alla successione (ἀλλ’ ἡ αὐτὴ τυγχάνει κατ’ ἀριθμόν). L’operazione costituisce infatti la potenza perfetta nel suo fluire nel tempo e in base a questo si ha il divenire della perfezione (προκόψασα 116 Cfr. A. Bucossi, The «Sacred Arsenal» by Andronikos Kamateros, a forgotten treasure, in Byzantine theologians. The Systematization of  their own Doctrine and their Perception of  foreign Doctrines, edd. A. Rigo - P. Ermilov, 3 voll., Roma 2009 (Q uaderni di Nea Romi), III, pp. 33-50; Ead., New historical Evidence for the Dating of  the «Sacred Arsenal» by Andronikos Kamatero, in «Revue des Études Byzantines», 67 (2009), [pp. 111-130], pp. 113-114. 117  Andronicus Camaterus, Sacrum armamentarium, Pars prima, I, 56, ed. A. Bucossi, Turnhout 2014 (CCSG, 75), p. 63, 6-11.

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τελειότητά) e la manifestazione (ἔκφανσιν) di essa, mentre la potenza costituisce l’operazione incompiuta (ἀτελής). Inoltre essa dimora nel profondo (τῷ βάθει) dell’essenza, e qui rimane ritirata e nascosta, attendendo di procedere (πρόοδον) in base al  tempo nelle sue manifestazioni. Come infatti nel caso di un uomo attempato, che prima, da infante, era chiamato neonato, adesso non sarà detto essere un altro, essendo lo stesso prima e dopo, anche se è divenuto quello perfetto da quello che era in potenza. Così la penso io a proposito della potenza e  dell’operazione, e  pertanto questo [esempio] per me non è  assunto come una buona rappresentazione delle cose che sono contemplate nella Trinità 118.

Pur non potendo dire nulla di preciso sulla fonte dell’argomento dei cardinali romani, anche ammettendo che non sia mero frutto della finzione dialogica, va rilevato come in questo scambio si pone consapevolmente in luce una divergenza inerente ai fondamenti dell’ontologia triadica. I cardinali propongono infatti una lettura emanatistica della triade, dove la potenza e l’operazione appaiono corrispondere a due diversi livelli ontologici. Andronico oppone a  questa impostazione la tradizionale prospettiva bizantina che vede la potenza e  l’operazione come realtà ontologicamente coincidenti benché distinte – affermandolo con ancora maggior chiarezza rispetto ad altre formulazioni. Peraltro la triade è  qui contestualizzata in relazione al  dominio del creato e  della temporalità – probabilmente al fine sottolineare la distanza rispetto all’ambito teologico-trinitario –, per cui la distinzione tra potenza e  operazione è  ricondotta all’ordine di produzione nel tempo. Incidentalmente aggiungiamo, nell’ottica di precisare i  confini della fortuna della triade attraverso i testi del dibattito teologico con i latini, che questo stesso passo venne ripreso e riproposto alla lettera da Nicola Mesarite, arcivescovo di Efeso, in una sua opera apologetica risalente agli anni 1213/1214, in cui si plagia sistematicamente il Sacro Arsenale 119.   Ibid., 57, pp. 63, 3 - 64, 19.  Cfr.  Nicolaus Mesarites, Renuntiatio rerum politicarum et ecclesiasticarum, in Neue Q uellen zur Geschichte des lateinischen Kaisertums und der Kirchenunion. III: Der Bericht des Nikolaos Mesarites über die politischen und kirchlichen Ereignisse des Jahres 1214, ed. A. Heisenberg, München 1923 (repr. London 1973) (Q uellen und Studien zur spätbyzantinischen Geschichte), [pp.  6-54], p. 43, 24-36; cfr. Bucossi, The «Sacred Arsenal» cit., p. 41. 118 119

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Incontriamo un altro interessante utilizzo della triade in relazione alla questione trinitaria, un secolo più tardi, nell’opera antilatina di Giorgio Acropolita, diplomatico di primo piano nelle trattative con il papato dopo la fine dell’occupazione latina di Costantinopoli, in qualità di legato di Michele  VIII Paleologo a  Roma, nel 1273, e  al Secondo Concilio di Lione, nel 1274. L’Acropolita indica nella triade ciò che è in comune nella natura divina, mentre la distinzione tra le persone si dà in base alle loro proprietà ipostatiche particolari, che non sono condivisibili: Ricevere (λαμβάνειν) lo Spirito dal Figlio, chi dei credenti lo dubiterà? Si parla tuttavia di ricevere la manifestazione (ἔκφανσιν), il dono (δόσιν), l’abbondanza (χορηγίαν). Chiedo allora che cosa è il proprio [dello Spirito]? Esso ha tutte le cose che ha il Figlio, dal Padre riceve in modo semplice la stessa essenza, potenza e  operazione, ad eccezione delle proprietà (ἰδιοτήτων), ma questo è per quanto riguarda l’essere (τὸ εἶναι) e l’esistenza (ὕπαρξιν); oltre a queste cose, ha pure quelle che prende dal Figlio 120.

Affermandosi che lo Spirito riceve la natura dal Padre, nella triplice distinzione di essenza, potenza e  operazione, escludendosi al contempo che queste gli vengano dal Figlio, si esclude chiaramente la doppia processione. In  un secondo passo, contestando l’affermazione della parte avversaria per cui lo Spirito sarebbe icona del Figlio, così come il Figlio è  detto icona del Padre 121, secondo la definizione di Atanasio di Alessandria affermatasi come dogmatica, l’Acropolita afferma l’identità ontologica del Paraclito rispetto al Figlio, «essendo della stessa essenza, operazione ed energia del Figlio», cosa che non implica tuttavia il venire meno della distinzione in base alla proprietà esclusiva di essere icona del Padre 122. La discussione dell’argomento dello Spirito a immagine del Figlio fu diffusa nel dibattito coevo, considerato che anche 120   Georgius Acropolites, Contra Latinos, Oratio 2, 8, ed. A. Heisenberg, Leipzig 1903 (Opera, 2), p. 49, 26-32. 121 Cfr. ibid., 20, p. 58, 4-5: ἀλλὰ πάλιν θροεῖ σε τὸ ὑπό τινων εἰρημένον ὡς εἰκὼν μὲν πατρὸς ὁ υἱός, υἱοῦ δὲ τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον. 122  Ibid., p.  58,  29-34: ὁ παράκλητος κατελήλυθε, τῆς αὐτῆς ὢν οὐσίας καὶ ἐνεργείας καὶ δυνάμεως ὧν ὁ υἱός, μὴ ἀντίφθογγα διδάσκων υἱοῦ ὡς οὐδὲ ὁ υἱὸς τοῦ πατρός, ἀπαράλλακτος εἰκὼν ἑαυτοῦ ἀναπέφανται, ἐν ἑαυτῷ παραδείξας τὰ τοῦ υἱοῦ καθὼς ἐκεῖνος τὰ τοῦ πατρός.

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Tommaso d’Aquino nel suo trattato Contra errores Graecorum, scritto intorno al 1263-1264 su richiesta di Urbano IV, afferma che lo Spirito è immagine del Padre e del Figlio, contando l’essere immagine (ratio immaginis) tra gli attributa essentialia e non tra le proprietates personales 123. Dai passi sopra analizzati di Niceta Byzantios, Nicola di Metone e Giorgio Acropolita possiamo osservare come la triade ricorra nella polemica antilatina per significare l’unità ontologica e operativa delle persone della Trinità, di contro alle distinzioni ipostatiche definite dalla proprietà specifiche (ἰδιώματα, ἰδιότητες) di ciascuna di esse. Nella triplice distinzione della triade si delinea il commune delle tre persone della Trinità, nelle proprietà ipostatiche il loro proprium: da tale quadro argomentativo, la processione, così come ogni altra proprietà del Figlio, viene esclusa dall’essere proprietà comune al Padre e al Figlio. Dall’epoca di Fozio (saec. ix ex.) fino alla prima epoca paleo­ loga (fine saec. xiii), i ritmi del dibattito con i latini erano stati dettati dagli eventi storici che avevano scavato e  poi allargato il fossato tra Roma e  Costantinopoli; dalla metà del quattordicesimo secolo il dibattito si rinnovò su un terreno di confronto più marcatamente filosofico, dovuto al fiorire della scolastica in Occidente. Q uesto confronto ha coinvolto tanto i temi più annosi del dibattito teologico (gli azzimi, la processione dello Spirito Santo, il primato romano), quanto era destinato ad arricchirsi di ulteriori questioni foriere di contrasto (come il Purgatorio), che andranno ad accrescere di lì a un secolo il dossier del confronto che si terrà nel quadro del Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze (1417-1431). Se in precedenza gli apologeti bizantini si erano misurati con le argomentazioni e le definizioni dogmatiche recate dagli ambasciatori latini, ora essi si dovevano misurare con una dottrina teologica filosoficamente strutturata, il tomismo, che aveva iniziato a mettere radici a Bisanzio attraverso l’insegnamento e le traduzioni dal latino al greco promosse dal convento domenicano di Pera, sulla sponda nord-orientale del Corno d’Oro. Tuttavia, prima ancora che le traduzioni effettuate dai latinofroni bizantini dessero vita  Cfr. Thomas de Aq uino, Contra errores Graecorum, I, 10, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1967 (Opera omnia, XL.1), pp. 77-78; cfr. anche ibid., II, 5, pp. 91-92. 123

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al  fenomeno del tomismo bizantino, vi fu un autore ellenofono che ebbe conoscenza della scolastica latina tanto da poter rapportarsi criticamente con gli argomenti di Tommaso d’Aquino favorevoli al Filioque. Q uesti fu Barlaam di Seminara, il quale, secondo la ricostruzione di Antonio Fyrigos, prese verosimilmente conoscenza dell’opera di Tommaso soltanto quando arrivò in Oriente, costituendo il primo caso di antitomismo bizantino 124. Nel corso della polemica esicasta non abbiamo evidenze di un utilizzo della triade da parte di Barlaam al di fuori di una lettera a Palamas nella quale egli ripropone aproblematicamente un sillogismo basato sulla triade che gli era stato indirizzato dallo stesso Palamas 125. Nel primo dei suoi trattati contro i  latini, databili al 1334 126 e dunque antecedenti all’esplodere della questione esicasta (1340) 127, il filosofo calabrese utilizzò invece la triade in due occorrenze per argomentare l’unità ontologica della natura divina e l’equivalenza di partecipazione ad essa del Figlio e dello Spirito, argomento dal quale egli deduce la processione dal solo Padre. La prima definizione che coinvolge la triade, secondo cui «né per tempo, né per luogo, né per dignità, né per essenza, né per potenza, né per energia, né per volontà questo [lo Spirito] è  separato da quello [il Figlio]» 128, ricalca i riferimenti a ciò che è comune alla natura divina quali abbiamo già incontrato in altri autori bizantini 129, ma di fatto se ne discosta nell’introdurre il luogo e il tempo 124 Cfr. A. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» di Barlaam Calabro, in Barlaam Calabro. L’uomo, l’opera, il pensiero, a  cura di A.  Fyrigos, Roma 2001, [pp. 119-140], pp. 121, 124. 125 Cfr.  Barlaam Calabrius, Epistulae, I,  70, ed. G.  Schirò, Palermo 1954 (Istituto Siciliano di Studi Bizantini e  Neogreci. Testi e  Monumenti, 1), p. 254, 634-636; nuova ed. in A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicasta cit. (alla nota 65), p. 245, 623-626: πατρὸς καὶ Υἱοῦ μία ἐστὶν ἐνέργεια· ὧν μία ἐστὶν ἐνέργεια τούτων μία ἐστὶ καὶ δύναμις· ὧν δὲ μία δύναμις τούτων οὐσία καὶ φύσις ἡ αὐτή· Πατρὸς ἄρα καὶ Υἱοῦ ἡ αὐτὴ οὐσία καὶ φύσις. L’editore identifica la fonte della citazione in Gregorius Palamas, Epistula I ad Barlaam, 28-29, in Id., Συγγράμματα, dir. Chrestou cit. (alla nota 10), I, p. 240, 27 - 242, 17. 126 Cfr. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» cit., p. 124. 127 Cfr. Russell, Gregory Palamas and the Making of  Palamism cit. (alla nota 93), p. 22. 128  Barlaam Calabrius, Contra Latinos (Tractatus A), I, 30, ed. A. Fyrigos, Città del Vaticano 1998 (Studi e  Testi,  348; Opere contro i  Latini, 2), II, p. 522, 291 - 524, 292: μήτε χρόνῳ μήτε τόπῳ μήτε ἀξίᾳ μήτε οὐσίᾳ μήτε δυνάμει μήτε ἐνεργείᾳ μήτε θελήσει αὐτοῦ διειργόμενον. 129  Cfr. supra, § 2, alle pp. 250-258.

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al fianco degli altri aspetti della stessa natura divina; da qui deduciamo che Barlaam non concepisca questa definizione come riferita esclusivamente a ciò che è interno alla natura divina increata, che è sovratemporale e sovracosmica, ma riguardi la sua manife­ stazione cosmica. La seconda occorrenza, affermando che essenza, potenza ed energia costituiscono le proprietà (ἰδιώματα) dell’unica divinità, per le quali essa è  conosciuta (γνωρίσματα) 130, si segnala di uguale interesse, in quanto l’uso di questa terminologia si discosta da quanto abbiamo incontrato in precedenza negli autori bizantini coinvolti nel dibattito sulla processione dello Spirito Santo, per i quali le «proprietà» non erano predicati dell’unica natura divina, bensì delle tre divine persone, essendo questi predicati non ontologici, bensì predicati delle relazioni ipostatiche: il singolare uso di Barlaam, ci sembra dunque un’anticipazione della posizione che egli assumerà nella polemica contro Palamas sull’ontologia trinitaria, concependo la natura divina come unità senza distinzioni interne, onde le operazioni divine non possono essere concepite da lui altro che in quanto esterne alla natura increata. Sebbene Barlaam abbia concepito il suo intervento apologetico nel quadro di una critica filosofica al  baluardo speculativo della posizione latina, quello elaborato da Tommaso d’Aquino, il cui nome è menzionato quindici volte e le cui argomentazioni a favore del Filioque sono ugualmente riportate e discusse dal Calabro nei suoi trattati antilatini, di fatto la sua concezione dell’ontologia triadica ricalca l’impostazione ontologica di fondo dell’autore a cui rivolge la sua critica, il quale, in nome della semplicità divina, nega la realtà della distinzione in Dio tra l’essenza e le potenze/ energie. Barlaam sembra concepire la problematica trinitaria all’interno di un quadro ontologico dove la predicazione degli attributi divini è  tenuta ben distinta dalla realtà divina in sé, discostandosi dal canone argomentativo seguito dagli autori bizantini impegnati nella polemica antifilioquista a partire dal nono secolo,

 Cfr. ibid., II, 9, II, p. 536, 78-80: ἡ οὐσία, ἡ δύναμις, ἡ ἐνέργεια, τὸ θέλημα, ἡ ἐξουσία, ἡ δεσποτεία, ἡ κυριότης, ἡ τῶν ὄντων πάντων πρόνοια καὶ ὅσα ἄλλα τῆς μιᾶς θεότητός εἰσιν ἰδιώματα καὶ γνωρίσματα. 130

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come Niceta Byzantios o Nicola di Metone, i quali peraltro Barlaam ha ben presente e anche cita nei suoi trattati 131. Nel contesto della storia bizantina della triade, la posizione di Barlaam si presenta eccentrica rispetto all’interpretazione che fu maggioritaria e non solo nella polemica antilatina. I punti fondamentali di questa interpretazione si trovano riaffermati nel trattato antilatino del monaco filopalamita Neofito Prodromeno, datato al 1363. Q ui riemerge netta la distinzione argomentativa tra ciò che è della natura comune della Trinità e ciò che proprietà delle ipostasi, oltre all’argomento dell’unità e distinzione tra essenza ed energia, ormai canonizzato dalla vittoria del palamismo: Così, il Padre ha lo Spirito Santo, che ugualmente è  senza principio (συνάναρχον) e  uguale nel potere (ἰσοσθενὲς), connaturato (συμφυὲς) e  della stessa natura (ὁμοφυὲς), uguale in onore (ἰσότιμον) e  coeterno (συναΐδιον), precedente tutti i secoli (προαιώνιον) e onnioperante (παντουργὸν), il quale egli ha prodotto (προβαλλόμενος) secondo la natura (φυσικῶς) dalla sua essenza (ἐκ τῆς οὐσίας αὐτοῦ), non al modo del Figlio (οὐχὶ δὲ υἱικῶς), come solo lui può fare. Ma lo Spirito Santo non è una delle energie che stanno intorno a Dio e Padre, bensì una ipostasi perfetta (τελεία) e  in sé compiuta (αὐτοτελὴς). Come infatti una e  identica è  la natura e  l’essenza delle tre ipostasi in sé perfette, così anche hanno la stessa potenza e la stessa energia. L’essenza e  l’energia non sono la stessa cosa (οὐ ταὐτὸν), benché siano unite (σύνεισι) 132.

Apparso intorno a quegli anni e di grande rilevanza per la storia della triade, è il trattato contro Tommaso d’Aquino del monaco esicasta Callisto Angelicude. Rivolgendo esplicitamente la sua critica alla Summa contra Gentiles (Κατὰ Ἑλλήνων) 133, Callisto aveva  Cfr. Fyrigos, Considerazioni sulle «Opere contro i Latini» cit., p. 123.   Neophytus Prodromenus, Contra Latinos, 2, ed. B. KalogeropoulouMetallinou, Athens 1996, rr. 139-147. Il verbo σύνειμι implica qui l’essere della stessa natura, ovvero l’essere afferenti alla stessa realtà ontologica. 133 La Summa contro Gentiles era stata tradotta in greco nel 1354 da Demetrio Cidone; cfr.  O.  Rodionov, The Chapters of  Kallistos Angelikoudes, in Byzantine Theology and its philosophical Background, edd. A. Rigo - P. Ermilov M. Trizio, Turnhout 2011 (Byzantioς. Studies in Byzantine History and Civilization, 4), [pp. 141-159], p. 150; M. Plested, Orthodox Readings of  Aquinas, Oxford 2012 (Changing Paradigms in Historical and Systematic Theology), p. 1ss. e pp. 113-114. 131 132

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come reale obiettivo il tomismo bizantino, che nella disputa esicasta – in particolare con il suo principale rappresentante, Demetrio Cidone – aveva mostrato un indirizzo prevalentemente antipalamita 134. Al di là della complessità degli schieramenti, il dibattito teologico aveva portato allo scoperto non solo le divergenze di ordine teologico ed esegetico tra bizantini e latini o bizantini latinofroni, ma anche quelle di ordine speculativo. L’interpretazione della triade figura come un capitolo precipuo di questo confronto e costituisce una cartina tornasole delle divergenze intorno all’ontologia trinitaria e  all’economia di partecipazione della natura divina. Nell’indistinzione tra l’energia-potenza e l’essenza divine, Callisto individua lo snodo che conduce Tommaso ad ammettere la partecipabilità dell’essenza divina: Egli non ammette che l’energia di Dio, della divina essenza, sia una potenza in qualche modo diversa rispetto alla divina essenza, per cui concede, di necessità, che Dio sia visibile e partecipabile secondo l’essenza 135.

Contestando a Tommaso di contraddire la Chiesa e i Padri «guardando ad Aristotele e ai greci» 136, Callisto riporta alcuni passi in cui l’Aquinate interpreta l’ontologia triadica assumendo l’indistinzione reale dei suoi tre termini 137. Tra i casi di indistinzione 134  Cfr. M. Mantzanas, s. v. Angelikoudes Callistos, in Encyclopedia of  Renaissance Philosophy, ed. M. Sgarbi, Cham 2016 (online). 135  Callistus Angelicudes, Refutatio Thomae Aquinae, 17, ed. S. G. Papadopoulos, Athens 1970, rr. 11-14: ἐνέργειαν Θεοῦ, θείας οὐσίας, δύναμιν ἕτερόν πως παρὰ τὴν θείαν οὐσίαν οὐ συγχωρεῖ, διὸ καὶ κατ’ οὐσίαν ὁρᾶσθαι καὶ μετέχεσθαι τὸν Θεὸν δίδωσιν ἐξ ἀνάγκης. 136  Ibid., § 228, 2-3: καὶ ὁ Θωμᾶς γοῦν, ὅτε ἑαυτοῦ γένηται, εἰς ταῦτα συμφωνεῖ τοῖς ἁγίοις. ὅταν δὲ ἀπίδῃ πρὸς τὸν Ἀριστοτέλην καὶ Ἕλληνας, πάλιν, παρατραπεὶς τὴν διάνοιαν, ἀντιλέγει τῇ Ἐκκλησίᾳ καὶ ἀντικείμενος γίνεται ἑαυτῷ ἐπὶ τῶν αὐτῶν. Con i ‘Greci’ si intendono qui i filosofi pagani. 137  Cfr.  ibid., §  229,  8-12; ἀλλ’ οὗτος, πάλιν, (…)  φησίν· ‘ἡ θεία δύναμις αὐτή ἐστιν ἡ τοῦ Θεοῦ οὐσία’. Καὶ ἔτι· ‘ἡ δύναμις τοῦ Θεοῦ ἔστιν ἡ οὐσία τοῦ Θεοῦ» καὶ «ἡ ἐνέργεια αὐτοῦ ἔστιν ἡ οὐσία αὐτοῦ’. Καὶ ἔτι· ‘ἡ δύναμις τοῦ Θεοῦ οὐχ ἕτερόν τί ἐστιν τῆς αὐτοῦ ἐνεργείας’ καὶ ‘ἐν τῷ Θεῷ οὐκ ἔστιν ἕτερον ἡ δύναμις καὶ ἕτερον ἡ ἐνέργεια’. Q ueste citazioni sono tratte da Thomas de Aq uino, Summa contra Gentiles, II,  9, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1918 (Opera omnia, XIII), p. 284: «Ex hoc autem ostendi potest quod potentia Dei non sit aliud quam sua actio. ‘Q uae enim uni et eidem sunt eadem, sibi invicem sunt eadem’ [cfr. Aristoteles, De sophisticis slenchis, VI 8, 168b 30-40]. Divina autem potentia est eius substantia, ut ostensum est. Eius etiam actio est eius substantia, ut in primo

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che Callisto contesta a  Tommaso anche quella tra la potenza e  l’energia, che abbiamo visto essere generalmente accettata dai bizantini in relazione alla natura divina. In  un successivo passo, nel quale Callisto – richiamandosi ai testi di Dionigi e Massimo da lui citati in precedenza – afferma la distinzione fondamentale tra le energie, che sono partecipabili e conoscibili, e l’essenza, che rimane impartecipabile e inconoscibile, il problema del rapporto tra potenza ed energia divine risulta alquanto sfumato: Vuoi ascoltare i sacri maestri proclamare come altro siano le energie che procedono increate (προϊούσας ἀκτίστους) dalla potenza di Dio, e  chiamare queste partecipazioni (μετοχὰς) che rimangono differenti (οὖσι διαφερούσας) nelle cose che sono differenti (ἐν διαφόροις) e che l’essenza di Dio è trascendente (ὑπερκειμένην) a queste, e mentre queste sono conoscibili dalle parti (γινωσκομένας ἐκ μέρους), l’essenza di Dio è del tutto incomprensibile e inconoscibile per ogni creatura 138?

La questione viene riaperta in seguito, in relazione alla discussione sulla conoscibilità dell’essenza divina; qui Callisto fa riferimento alla posizione latina sull’ἐνέργεια concepita come operazione creata, dunque esterna alla natura divina. In riferimento all’affermazione di Tommaso per cui «l’operazione mostra la potenza, qualunque potenza, mentre qualsiasi potenza manifesta l’essenza» 139, Callisto vi oppone le seguenti precisazioni: Pericolosi e falsi sono questi due enunciati: né infatti l’operazione mostra la potenza infinita di Dio, che è ciò da quanto Dio crea il cielo e  la terra, e  non è  indefinita (ἀόριστα), né è  infinita (ἄπειρα), mentre la potenza divina, come anche Tommaso e tutti ammettono, è infinita. Come potrebbe mai libro ostensum est de intellectuali operatione: eadem enim ratio in aliis competit. Igitur in Deo non est aliud potentia et aliud actio. Item. Actio alicuius rei est complementum quoddam potentiae eius: comparatur enim ad potentiam sicut actus secundus ad primum. Divina autem potentia non completur alio quam seipso: cum sit ipsa Dei essentia. In Deo igitur non est aliud potentia et aliud actio. Amplius. Sicut potentia activa est aliquid agens, ita essentia eius est aliquid ens. Sed divina potentia est eius essentia, ut ostensum est. Ergo suum agere est suum esse. Sed eius esse est sua substantia. Ergo divina actio est sua substantia». 138  Callistus Angelicudes, Refutatio Thomae Aquinae, ed. Papadopoulos cit., § 314, 1-6. 139  Ibid., §  351,  1-2: τὴν δύναμιν ἡ ἐνέργεια δείκνυσιν, ἥτις δύναμις δηλοῖ τὴν οὐσίαν.

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l’opera finita (τὸ  πεπερασμένον  ἔργον) mostrare la potenza infinita 140?

Non meno severo il giudizio del monaco Giuseppe Briennio (ca. 1350-1431/38), strenuo oppositore dell’unione delle Chiese, il quale, in un dialogo sulla processione dello Spirito Santo con un certo Maximos dell’ordine dei Predicatori, elencando le posizioni di Tommaso d’Aquino che egli ritiene inaccettabili, menziona anche l’indistinzione in Dio dei tre termini della triade. Maximos. Ma Tommaso d’Aquino non insegna così queste cose. Ioseph. Io vedo che a Tommaso – e non hai disapprovato  – sfugge quanto è  corretto in tante altre questioni, soprattutto in quelle che pensa di concludere circa lo Spirito Santo e in tutti i suoi capitoli contro di noi. Da qui è chiaro che egli è  caduto in tali bestemmie, giacché afferma che la divina essenza è  visibile (ὁρατὴν), attribuisce (προσάπτει) le idee platoniche alla divina natura 141, [ritiene] che in riferimento a Dio (ἐπὶ Θεοῦ) l’essenza, la potenza e l’energia siano la stessa cosa, e ancora dichiara che in riferimento a Dio l’essenza e la persona (πρόσωπον) sono la stessa cosa, ritiene che quattro siano le proprietà (τὰς ἰδιότητας) inerenti (προσεῖναι) alle divine persone, che lo Spirito Santo proceda dal Padre senza mediazione (ἀμέσως) e  mediatamente (ἐμμέσως) alla volta, ed esclude molti nomi dal coro dei santi 142.

L’ultimo significativo esempio di utilizzo della triade da parte di un autore bizantino è attestato in uno scritto dedicato alla processione dello Spirito Santo del più importante teologo della tarda età   Ibid., § 351, 2 - 352, 2.  Secondo Tommaso le idee sono i modi in cui Dio conosce la propria essenza come imitabile dalle creature; cfr.  Thomas de Aq uino, Summa Theologiae, I, q. 15, a. 1, ad ter., cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1888 (Opera omnia, IV), pp. 199-200: «Ad tertium dicendum quod Deus secundum essentiam suam est similitudo omnium rerum. Unde idea in Deo nihil est aliud quam Dei essentia»; cfr.  ibid., a. 2, resp., pp.  201-202: Id., Q uaestiones quodlibetales, IV, q. 1, a. 1, resp., ed. R.-A. Gauthier, Roma - Paris 1996 (Opera omnia, XXV.2), p. 319, 31-60; Id., Scriptum super libros Sententiarum, I, d. 36, q. 2, a. 2, sol., cura P. Mandonnet, 2 voll., Paris 1929, I, p. 841; Id., Summa contra Gentiles, I, 54, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1918 (Opera omnia, XIII), p. 178. Sono debitore verso Massimiliano Lenzi di queste precisazioni. 142  Josephus Bryennius, Dialogi de processione spiritus sancti, I, Dialogus 1, ed. E. Boulgares, 2 voll., Leipzig 1768 (repr. 1991), I, rr. 333-344. 140 141

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ERNESTO SERGIO MAINOLDI

paleologa, Marco Eugenico (ca. 1392-1445), metropolita di Efeso, già allievo di Giuseppe Briennio e portavoce costantinopolitano al Concilio di Ferrara-Firenze 143. Vicino alle posizioni dell’esicasmo e  alla teologia di Gregorio Palamas, la sua opera ripercorre l’ontologia trinitaria alla luce degli argomenti che erano emersi nel corso delle discussioni sul Filioque dalla prima epoca paleologa fino al Concilio di Ferrara-Firenze. Uno dei punti da lui dibattuti è la predicazione dei nomi neotestamentari di potenza e sapienza rispetto alla persona del Verbo 144, distinguendola dalla predicazione degli stessi rispetto al commune della natura divina (la triade, la volontà ecc.): Se qualcosa dalla maggioranza viene detto unitario nelle divine persone, questo è in assoluto l’essenza o ciò che è dell’essenza (οὐσιῶδές). Come infatti è assolutamente uno (ἕν ἐστι πάντῃ), e in base a questo ognuna delle restanti [proprietà] delle Persone è distinta (χωρίζεται), così non è assolutamente uno, e in base a ciò le tre sono unite (ἑνίζονται). Q uesto è l’essenza, una in quanto al  numero (μία τῷ ἀριθμῷ), oppure ciò che delle Persone è essenzialmente in base ad essa (τι τῶν οὐσιωδῶς αὐτῇ προσόντων), come la volontà una, la potenza una e  l’energia una. Diciamo infatti il Figlio Dio da Dio, e ambedue un solo Dio, Luce da Luce, e  ambedue una sola Luce, Sapienza dalla Sapienza, e  ambedue una sola Sapienza, Potenza dalla Potenza, e ambedue una sola Potenza. In nessun modo dunque è possibile che le divine persone siano uno, a meno che non si intenda secondo ciò che è uno in esse, e questo è ciò che è relativo all’essenza (τοῦτο δ’ ἐστὶν οὐσιῶδες) 145.

L’utilizzo della triade non si discosta qui da altre formulazioni emerse in precedenza, tuttavia possiamo osservare come l’Eugenico sottolinei la distinzione degli elementi essenziali della natura divina in funzione della loro predicazione in quanto comuni all’intera Trinità. In altri punti della sua opera invece egli afferma 143  Cfr. N. Constas, Mark Eugenikos, in La théologie byzantine et sa tradition cit. (alla nota 65), pp. 411-422. 144 Cfr. 1Cor 1, 24: Χριστὸν θεοῦ δύναμιν καὶ θεοῦ σοφίαν. 145 Cfr. Marcus Eugenicus, Capita syllogistica adversus Latinos de spiritus sancti ex patre processione, 35, ed. L. Petit, Roma 1977 (Concilium Florentinum documenta et scriptores, A; Opera anti-unionistica, 10/2), p. 96, 6-20; per un’analisi della dottrina trinitaria di questo trattato cfr. Constas, Mark Eugenikos cit., pp. 441-452.

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LA TRIADE NELLA RIFLESSIONE DI ETÀ MEDIO E TARDOBIZANTINA

l’unità in Dio della potenza e dell’energia 146, inserendosi così in una linea che abbiamo già riscontrato in altri autori impegnati nel dibattito sulla processione dello Spirito Santo, ma anche vicini alle posizioni palamite: se da una parte viene affermata la distinzione tra i termini della triade per contrastare la posizione che, sottolineando la semplicità divina, esclude ogni distinzione tra essenza ed energia, senza quindi sottilizzare sulla distinzione tra potenza ed energia, dall’altra tiene fede alla tendenza generale del pensiero bizantino a concepire in Dio queste due come sinonimi dal punto di vista della realtà e del loro grado ontologico, cosa che permette di concepire la divina energia come co-eterna alla divina essenza e superiore alla creazione, ovvero come potenza eternamente operante e non come operazione-atto che si attua nella dimensione del creato.

 Cfr. I. Bulovič, Τὸ μυστήριον τῆς ἐν τῇ ἁγίᾳ Τριάδι διακρίσεως τῆς θείας οὐσίας καὶ ἐνεργείας κατὰ τὸν ἅγιον Μάρκον Ἐφέσου τὸν Εὐγενικόν, Athens 1980, p. 137. 146

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ROBERTO SCHIAVOLIN

LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO IL PENSIERO DI MARIO VITTORINO

Nel suo complesso ed articolato discorso teologico, Mario Vittorino riconosce che, per definire Dio in maniera adeguata, più che di sostanza si dovrebbe parlare di pura esistenza, vero lo status privo di accidentalità che caratterizza la sua natura 1. In effetti la   Nelle note successive, si farà riferimento con ‘ed. Henry’ a Marius Victorinus, Traités théologiques sur la Trinité, ed. P. Henry, 2 voll., Paris 1960 (SC 6869), con indicazione del volume utilizzato. – Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 30, PL 8, [1039-1138], 1062D-1063A, ed. Henry, I, p. 274, 21-26, per la differenza tra esistenza e sostanza. M. Clark, The earliest Philosophy of  the living God: Marius Victorinus, in «Proceedings of  the American Catholic Philosophical Association», 41 (1967), [pp. 87-93], p. 90, ritiene che la nozione di esistenza possa identificare al meglio la dinamicità del Dio concepito da Vittorino; cfr. su questo anche M. P. Corsini, Il «Timeo» di Platone nell’opera teologica di Mario Vittorino. Interpretazione aritmo-geometrica, in «Atti e Memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’», 59 (1994), [pp. 61-133], pp. 116-121. Va ricordato come la teoria che postula una pura esistenza (ὕπαρξις), anteriore ad ogni determinazione, a giudizio di Pierre Hadot andrebbe fatta risalire a Porfirio, specificamente alla sua esegesi degli Oracoli Caldaici, in cui, secondo Damascio, egli denomina il Padre ὕπαρξις. Si veda P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), I, p. 112 (tr.  it., Milano 1993, pp.  92-93). La  nozione in effetti è  presente nell’anonimo In Platonis Parmenidem, un commentario tardoantico che Pierre Hadot e, nella sua scia, numerosi altri studiosi, riconducono proprio a Porfirio – scelta che verrà effettuata anche nel presente studio – malgrado tale attribuzione rimanga scientificamente una questione ancora aperta e dibattuta: cfr. [Porphyrius], In Platonis Parmenidem, XI-XIV, ed. P. Hadot, ibid., II, [pp. 59-113], pp. 98-112 (tr. it. cit., pp. 86-96). Per un’analisi dell’esistenza come momento trascendente ed ancora implicito nel processo di autoposizione della sostanza cfr. Id., Saggio introduttivo, in Porfirio, Commentario al Parmenide di Platone, a cura di P. Hadot, Milano 1993, pp. 50-54; A. Smith, ΥΠΟΣΤΑΣΙΣ and ΥΠΑΡΧΙΣ in Porphyry, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taormina, 1994 (Lessico intellettuale 1

La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127960 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 299-319     © 

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sostanza, in linea con la definizione di sostrato (ὑποκείμενον) formulata da Aristotele nella Metafisica, essendo un subietto implica necessariamente una certa complessità ontologica. Ma l’autore latino in questo caso ricorre alla Scrittura, la quale a suo modo di vedere dichiara e certifica che in Dio vi è propriamente ‘sostanza’ 2. Q uest’ultima, tuttavia, non va intesa materialmente, alla maniera ‘fisica’ o ‘biologica’, essendo di pertinenza delle realtà celesti, per definizione semplici e incomposte 3. Nella Scrittura, inoltre, Vittorino trova chiari riferimenti alla sinergia tra Padre e Figlio, ed in virtù di questa comune proprietà dinamica egli sovente deduce l’unità della loro sostanza: da un lato europeo, 64), [pp. 33-41], pp. 38-41; G. Girgenti, L’identità di Uno ed Essere nel «Commentario al  Parmenide» di Porfirio e  la recezione in Vittorino, Boezio e  Agostino, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 86 (1994), [pp.  665-688], pp. 680-681; Id., Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione fra henologia platonica e ontologia aristotelica, Milano 1996 (Pubblicazioni del Centro di ricerche di metafisica. Temi metafisici e problemi del pensiero antico, 47), pp. 265-268. 2 Cfr. P. Hadot, Commentaire, in ed. Henry, II, pp. 792-793, il quale fa notare l’ambiguità di tale dimostrazione, in virtù del fatto che, nonostante il testo latino della Bibbia possedesse il vocabolo substantia, la versione in greco recava nondimeno termini più vicini al significato di ipostasi quali ὑποστήματι (Ger 23, 18, declinazione di ὑπόστημα) e  ὑποστάσει (Ger 23,  22, declinazione di ὑπόστασις). Vittorino, per dimostrare la ‘prossimità’ ontologica tra ὑπόστασις ed οὐσία, utilizzerà altri passi scritturistici quali Sal 138,  15; Mt 6,  11; Lc 15,  12; Tt 2,  14; Eb 1, 3. Va comunque ricordato come in Occidente ὑπόστασις fosse ancora usato come sinonimo di οὐσία, e tradotto in latino con substantia, mentre ὀυσία veniva reso preferibilmente con essentia; cfr.  D. Spada, Le formule trinitarie da Nicea a Costantinopoli, Roma 20032 (Subsidia, 32), pp. 154-155. 3  Per la nozione di subiectum quale sostrato dotato di una posizione ontologicamente preminente rispetto a tutto ciò di cui esso è fondamento cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 30, PL 8, 1062D, ed. Henry, I, p. 274, 18-20 e, soprattutto ibid., II, 4, 1092C, p. 408, 36-42: «Si ergo dicitur de deo subsistentia, magis de deo dicitur substantia, et magis ista, quoniam subiectum significat et principale quod convenit deo; non sic autem subiectum sicut in mundo substantia, sed quod honoratius et antiquius et secundum fontem universitatis, verum quod est esse, quod praestat deus his quae sunt ut unumquodque sit». Sull’idea di sostanza in Vittorino, cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 235-238; A. Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung der göttlichen Seinsfülle nach Marius Victorinus, München 1972 (Münchener Theologische Studien, 2, Systematische Abteilung, 41), pp. 164-167; M. Clark, Introduction, in Marius Victorinus, Theological treatises on the Trinity, Washington, DC 1981 (The Fathers of   the Church, 69), [pp. 3-44], pp. 41-42; W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, Frankfurt a. M. 1998 (Philosophische Abhandlungen, 73) (tr.  it., Milano 2000, pp. 31-43); M. Baltes, Marius Victorinus. Zur Philosophie in seinen theologischen Schriften, München - Leipzig 2002 (Beiträge zum Altertumskunde, 174), pp. 32-36; C. O. Tommasi, Introduzione, in Mario Vittorino, Opere teologiche, Torino 2007, [pp. 9-71], pp. 69-70.

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LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO

il Padre, forza nascosta, dall’altro il Figlio, compiuta manifestazione di questa vis. Ma tale scansione gli offre il destro per stabilire anche il principio della distinzione ipostatica: il Padre viene a rappresentare la ‘sostanza potenziale’ che permane celata e nella quale è precontenuta ogni cosa, il Figlio la ‘sostanza operativa’ che conduce a definizione, a sviluppo e a compimento tutte le realtà, dapprima intellegibili, quindi sensibili 4. Tra i  molti passi che esprimono questa dottrina, si può scegliere un luogo del secondo libro Contro Ario, che illustra con una certa efficacia la reciprocità tra potenza ed atto sussistente in seno alla sostanza trinitaria: Deus enim potentia et Λόγος actio, in utroque autem utrum­ que. Nam et potentia quod potest esse est, et quod est, potest esse. Ipsa igitur potentia, actio est, et ipsa actio potentia actio est. Ergo et pater agit et filius agit; et pater, ideo pater, quia potentia gignit actionem et, ideo filius, actio, quia actio ex potentia. Ergo et pater in filio et filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo autem, quia quod magis est, id alterum apparet; magis autem pater potentia, et actio filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio quia foris actio. Hoc si ita est, et substantia pater et filius, et una substantia, et de patre substantia, et simul substantia, et semper et ex aeterno simul pater et filius, eadem simulque substantia, hoc est ὁμοούσιον 5. 4 Fra i numerosi luoghi in cui risulta illustrato il rapporto ontologico sussistente tra occultamento e disvelamento, cfr. Marius Victorinus, Ad Candidum, 14, PL 8, [1019-1036], 1028A, ed. Henry, I, p. 150, 16-21, passo in cui tale dialettica viene allegorizzata nell’ottica del legame tra gravidanza e parto. Si vedano inoltre Id., Adversus Arium, I, 33, 1066B, ed. Henry, I, p. 288, 21-23: «Iste igitur verus deus et solus deus, quia et potentia et actione deus, sed interna, ut Christus, et potentia et actione, sed iam fori set aperta»; I, 59, 1085A, p. 372, 1-10; III, 7, 1103D-1104A, p. 458, 27-33. 5  Ibid., II, 3, 1091BC, p. 402, 34-47. Nel terzo libro del Contro Ario, quello più finalizzato ad esprimere la consustanzialità trinitaria, compaiono affermazioni analoghe: cfr. ibid., III, 1, 1098D, p. 438, 33-36; 5, 1102B, p. 452, 11-14. Sul rapporto dialettico potenza (Padre)-atto (Figlio) in Vittorino cfr. E. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung der abendländischen Willensmetaphysik, Stuttgart 1932 (Forschungen zur Kirchen-  und  Geistesgeschichte, 1), pp.  89-92; R.  A. Markus, Marius Victorinus and Augustine, in The Cambridge History of  Later Greek and Early medieval Philosophy, ed. by A. H. Armstrong, Cambridge 1970, pp. 336-337; Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung cit., pp. 65-68 e 156-161 (con schemi relativi alla terminologia trinitaria); D. N. Bell, Esse, Vivere, Intellegere: the noetic Triad and the Image of  God, in «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 52 (1985), [pp. 5-43], pp. 15-17; W. Beierwaltes, Identität und Differenz, Frankfurt a. M. 1980 (Philosophische Abhandlungen, 49) (tr. it., Mi-

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La pienezza divino-umana di Cristo e il suo essere imago patris dei fornisce poi lo spunto per illustrare al meglio la peculiarità funzionale di questa operazione filiale: Q uod Iesus, hoc est Λόγος, et semen est et velut elementum omnium quae sunt, maxime autem iam in energia et manifestatione eorum quae sunt: quod in eo inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Col 2, 9), hoc est in operatione substantialiter. In patre enim potentialiter omnia inhabitant, et idcirco Iesus Λόγος imago est patris dei; hoc ipsum quod est potentia esse, iam hoc est quod est actionem esse. Omne enim quod in actionem exit, et imago est eius quod est potentialiter et eius quod est potentialiter, filius est quod in actione est. Ex his, filius et pater ὁμοούσιον 6.

Il termine energia, raramente impiegato da Vittorino, contrassegna l’attività produttiva del Λόγος, mentre il sintagma in operatione substantialiter, susseguente alla citazione paolina (Col 2, 9), risulta particolarmente pregnante se messo a confronto con l’avverbio potentialiter, riferito subito dopo al  Padre: il Figlio, sua immagine, è colui che attua, che fa uscire ciò che giace potenzialmente nel seno paterno. Per questo la figliolanza si può definire un atto proprio alla sostanza divina, connotabile come immanente e al contempo transitivo: ad ogni modo su tale dialettica ontologica l’autore latino insisterà più volte, allo scopo di difendere e garantire la perfetta consustanzialità tra Padre e Figlio, sia questi il Λόγος preesistente o il Λόγος incarnato. Substantialiter viene quindi a  sottolineare il possesso della medesima sostanza nonostante la diversità dell’operazione ipostatica: come esprime Vittorino in numerose sue affermazioni, il Padre corrisponde alla potenza generativa, il Figlio all’atto da costei manifestato 7. lano 1989, pp. 103-107); Tommasi, Introduzione cit., pp. 41-42, la quale rileva le origini medioplatoniche nonché gnostiche di questa relazione. I  presupposti logico-ontologici di tale dialettica, di matrice perlopiù stoico-platonica, sono analizzati da M.  P. Corsini, Il  ΛΟΓΟΣ nell’opera di Caio Mario Vittorino: verbo creatore e discorso, in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», 13 (1993), [pp. 149-210], pp. 201-207. 6  Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 25, 1059A, ed. Henry, I, p. 258, 25-34. 7 Cfr. ibid., II, 3, 1091BC, p. 402, 34-47: «Deus enim potentia et Λόγος actio, in utroque autem utrumque. Nam et potentia quod potest esse est, et quod est, potest esse. Ipsa igitur potentia, actio est, et ipsa actio potentia actio est. Ergo et pater

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LA SOSTANZA TRA POTENZA ED ATTO

Entrambi quindi agiscono, ma ciascuno nella loro forma propria, rispettivamente attiva e  passiva: in altri termini la dinamicità, ossia il motus, è la ‘proprietà sostanziale’ che accomuna e al tempo stesso distingue Padre e Figlio. Gli apparenti contrari impliciti nel rapporto fra potenza ed atto, come indistinzione e distinzione, silenzio e voce, ecc., risultano implicati l’un l’altro all’interno di un processo – l’actus in quanto potentiae progressio – che avviene senza soluzione di continuità 8. Geometricamente tutto ciò risulta traducibile come quel rapporto vigente tra il punto (σημεῖον) e  la linea (γραμμή): quest’ultima non è altro che la messa in atto dell’estensione spaziale insita potenzialmente nel punto 9. Nel discorso sviluppato da Vittorino l’accezione di perfezione e di completezza che connota la potenza riflette e riutilizza teologicamente il patrimonio concettuale fissato attorno al termine δύναμις dai primi Neoplatonici, i quali a loro volta misero in atto un’articolata ed elaborata esegesi dell’originaria nozione aristotelica 10. In  quest’ottica Plotino ebbe modo di effettuare in taluni agit et filius agit; et pater, ideo pater, quia potentia gignit actionem et, ideo filius, actio, quia actio ex potentia. Ergo et pater in filio et filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo autem, quia quod magis est, id alterum apparet; magis autem pater potentia, et actio filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio quia foris actio. Hoc si ita est, et substantia pater et filius, et una substantia, et de patre substantia, et simul substantia, et semper et ex aeterno simul pater et filius, eadem simulque substantia, hoc est ὁμοούσιον». 8 Cfr. ibid., III, 7, 1103D, p. 458, 18-28. 9  Cfr. ibid., I, 60-61, 1085C-1086B, pp. 374, 1 - 376, 6. Il passo risulta incastonato in un più ampio discorso che, colmo di echi neopitagorici, mira a descrivere la perfezione connaturata alla sphaera λόγου, figura tridimensionale tratteggiata dal movimento trinitario. Su questo aspetto cfr. Corsini, Il «Timeo» di Platone cit., pp. 110-111 e C. O. Tommasi, L’androginia divina e i suoi presupposti filosofici: il mediatore celeste, in «Studi classici e orientali», 46 (1998), [pp. 973-988], p. 981, nota 25. In quest’ultimo studio, incentrato sulla complementarità dei generi all’interno della divinità, l’autrice ha modo di rilevare come l’oscillazione tra la maschile δύναμις, statica ed occulta, e la femminile ἐνέργεια, dinamica e manifesta, possa essere ricondotta a matrici medioplatoniche e soprattutto neopitagoriche (si pensi a Moderato di Cadice), con riverberi che giungeranno financo alla speculazione aritmologica tardoantica, specificamente latina; cfr. a proposito R. Schiavolin, Il Platone pitagorico nelle speculazioni aritmo-teologiche dell’Occidente tardo-antico, in Princeps philosophorum. Platone nell’Occidente tardoantico, medievale e umanistico, a cura di M. Borriello - A. M. Vitale, Roma 2016 (Institutiones, 5), pp. 83-109. 10 In realtà già in Aristotele non manca una certa ambiguità nell’utilizzo del termine δύναμις: esso può essere inteso oltre che consuetudinariamente come ca-

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trattati una certa distinzione semantica tra la valenza attiva del ‘potere’ e  quella passiva della ‘potenzialità’, giungendo a  caratterizzare con l’epiteto di potenza assoluta (δύναμις πάντων) sia l’Uno sia la materia, il primo in quanto dotato di feconda ed inesauribile produttività, la seconda a causa della sua perenne ed indefinita recettività 11. Vittorino, come detto, mantiene questa prospettiva e la riconduce alla sua teologia trinitaria, assegnando al Padre, che permane beato, quieto ed impassibile, un inesauribile potere creativo 12. Ad esempio, in sede di commento al passo giovanneo me maior est pacità di subire un’azione (significato passivo) anche quale facoltà di esercitare un mutamento (significato attivo); cfr. Aristoteles, Metaphysica, VIII 1, 1046a 11-29. Elevando quest’ultima prospettiva in una dimensione trascendente e conferendo al  termine una valenza spiccatamente produttiva, l’ottica neoplatonica renderà alla fine possibile la sua applicazione agli intellegibili; si vedano in merito le considerazioni conclusive di F. Romano, L’uso di dunamis nel «De Mysteris» di Giamblico, in Dunamis nel Neoplatonismo. Atti del II Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli studi di Catania, 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano - R. L. Cardullo, Firenze 1996 (Symbolon, 16), [pp. 79-106], pp. 102-104; cfr. inoltre A. Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry, ibid., [pp. 63-77], pp. 64-69. 11 Esemplificativo, per la permanenza dell’ottica aristotelica nelle Enneadi, il trattato II 5, che connota in termini di compiutezza e perfezione soprattutto l’atto, tant’é che per questa ragione la potenzialità negli intellegibili è recisamente esclusa. Per altro verso, risultano particolarmente importanti, al fine di stabilire l’esistenza di una forza latente in seno al mondo intellegibile, i trattati V 2-4 e VI 4, dedicati alla diffusività universale dell’Uno. Tale discorso sarà fatto proprio ed ulteriormente sviluppato da Porfirio, il quale parla del principio primo nei termini di un’essenza infinita per potenza; cfr. Porphyrius, Sententiae ad intellegibilia ducentes, 40, ed. E. Lamberz, Leipzig 1975, pp. 47, 9 - 52, 6 (tr. it., Milano 1996, pp.  150-154); [Id.], In  Platonis Parmenidem, I,  1-35, ed. Hadot cit., pp.  64-68 (tr. it. cit., pp. 59-63). Su questo argomento si veda infine Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 200-205. 12  Dio Padre è potenza somma e, in quanto tale, costituisce la preesistenza di tutte le cose: cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 33, 1066A, ed. Henry, I, p. 286, 8-9; ibid., II, 3, 1090D-1091A, p. 400, 15-18. Il Padre viene descritto anche in termini quali «potentia potentiarum» o come ciò che «inenarrabili potentia pure exsistens», cfr. ibid., I, 49, 1078D, p. 344, 35-36 e 39. Sulla potentia patris cfr.  Beierwaltes, Identität und Differenz cit. (tr.  it. cit., pp.  98-100); sul suo potere creativo si possono vedere le considerazioni di Clark, Introduction cit., p. 42 e di Baltes, Marius Victorinus cit., pp. 37-39. Sulla recezione del patrimonio stoico-aristotelico da parte di Vittorino e sulla sua elaborazione neoplatonizzante del termine potentia cfr. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung cit., pp. 67-70; Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 198-201; Ziegenaus, Die trinitarische Ausprägung cit., pp. 175-178; si veda infine M. Simonetti, La crisi ariana nel iv secolo, Roma 1975 (Studia ephemeridis Augustinianum), pp. 287288, il quale inoltre sottolinea le possibili radici gnostiche di questa concezione.

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pater (Gv 14, 28) egli ha modo di affermare: «Adhuc autem maior [scil. Pater], quod actio inactuosa; beatior enim, quo sine molestia et inpassibilis et fons omnium quae sunt, requiescens, a se perfecta et nullius egens» 13. Una collocazione ontologicamente eminente spetta quindi a tale ipostasi, l’unica della Trinità a potersi definire, in senso proprio, sostanza nonché, transitivamente, sostanza delle altre due. In alcuni passi viene pertanto sottolineato come la condizione potenziale ed occulta goda di maggior, per così dire, ‘prestigio metafisico’ rispetto a quella operativa e manifesta, essendo sine molestia, ossia scevra da quei condizionamenti esterni che caratterizzano l’atto in quanto tale. Un ulteriore luogo, all’interno di un discorso sviluppato alla fine del primo libro Contro Ario volto a delineare i rapporti vigenti tra il primo Uno (il Padre, definito unum solum, inexsistentialiter unum o secundum potentiam exstistentialiter unum) e il secondo Uno (il Figlio, caratterizzato come unum unum, exsistentialiter unum o in motu unum), ribadisce in forma leggermente differita quanto esposto nell’ultimo passo citato: Habet enim potentiam et magis habet quod ei futurum est, secundum operationem, esse, et, secundum veritatem, non habet, sed est, quoniam potentia, qua actio actuosa fit, omnia est sine molestia et vere omnimodis, non egens quae sit, ab hoc ut sint omnia, potentia etenim, qua potens nata actio agit, agens ipsa. Unalitas igitur ista 14. 13  Marius Victorinus, Adversus Arium, I,  13,  1047CD, ed. Henry, I, p. 214, 11-13. Sull’actio inactuosa del Padre, cfr. Baltes, Marius Victorinus cit., pp.  40-43. La  nozione compare in [Porphyrius], In  Platonis Parmenidem, XIII, 9-24 e XIV, 21-23, ed. Hadot cit., pp. 106-108 e 110 (tr. it. cit., p. 92 e 94), riferita all’atto immobile proprio del pensiero in quanto esistenza, ed è in qualche modo ricollegabile al cessans motus, sintagma presente in Marius Victorinus, Adversus Arium, III, 2, 1099D, ed. Henry, I, p. 442, 36; ibid., IV, 8, 1119A, p. 524, 27. Si vedano in merito le considerazioni di Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry cit., pp. 71-75, il quale riconosce un significato anche ascetico-morale di quest’attività – significato sottinteso in Plotino e più esplicito in Porfirio – riconducibile ad un movimento ascensionale di conversione unitiva; cfr. Porphyrius, Sententiae ad intellegibilia ducentes, 11, ed. Lamberz cit., p. 5, 1-4 (tr. it. cit., p. 80), ove si parla dell’unificazione delle ipostasi incorporee, e 28, 6 - 29, 7 (tr. it., pp. 126128), in cui viene discussa l’unificazione come effetto delle virtù paradigmatiche. 14  Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 50, 1079B, ed. Henry, I, p. 346, 27-32. Q uesto passo si inserisce nel contesto di un discorso più generale relativo alle due modalità henologiche, paterna e filiale, cfr. ibid., I, 49-51, 1078A-1080B, pp. 340-347. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, p. 231 (tr. it. cit., p. 200), chia-

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In questi ultimi due passi la distinctio conditionis tra Padre e Figlio risulta metaforizzata attraverso l’utilizzo di una coppia di sintagmi – rispettivamente actio inactuosa ed actio actuosa – simmetricamente complementari. Se quindi la perfezione operativa si addice al Figlio, poiché in esso ogni realtà viene generata e giunge a compimento, l’eccellenza ‘statica’ della condizione paterna è  volta a  caratterizzare una trascendenza assolutamente ineffabile: il Padre è infatti preesistente, giacché in lui giace occultamente ogni sostanza 15. Riassumendo per sommi capi quanto visto finora, la potenza è una forza operante con moto esclusivamente centripeto (actio inactuosa); può definirsi l’atto più beato (beatior) e perfetto (a  se perfecta), in quanto non bisognoso di nulla (nullius egens), che giace quieto (requiescens), senza patire alcuna affezione (sine molestia), impassibile (inpassibilis) e, soprattutto, in uno stato di assoluta unità (unalitas); esso possiede infine in modo perfetto ogni futura sostanza da lui derivata (omnia est sine molestia et vere omnimodis). La  potenza trasmette quindi la propria vis agendi all’atto, in modo tale che nell’operazione filiale risultino paradossalmente implicati tanto la prima quanto il secondo (ad hoc ut sint omnia, potentia etenim, qua potens nata actio agit, agens ipsa). Similare contesto dottrinale appare in un altro luogo del Contro Ario, in cui tuttavia è maggiormente accentuato il tema della risce che: «‘En puissance’ ne signifie nullement ce qui a besoin d’être actué, mais bien au contraire ce qui transcende tous les actes possibles, parce qu’il est déjà, par son être même, tout ce qu’une activité ultérieure, ‘un mouvement tourné vers l’extérieur, pourrait lui apporter’». Sull’idea di una potenza perpetuamente in atto cfr. P. Manchester, The noetic Triad in Plotinus, Marius Victorinus and Augustine, in Neoplatonism and Gnosticism, ed. by R. T. Wallis, New York 1992 (Studies in Neoplatonism, ancient and modern, 6), [pp. 207-222], p. 215. Infine, per quanto concerne l’ambiguità semantica relativa all’ipostasi paterna, la quale da una parte viene predicata apofaticamente mentre dall’altra deve essere riferita ad una sostanza, si veda quanto detto supra nelle note 2 e 3. 15 Sulla metafora, più volte ribadita, del Padre in cui giace segretamente ogni cosa cfr. ad es. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 19, 1052D, ed. Henry, I, p. 234, 23-24: «Q uoniam deus in occulto, in potentia enim; Λόγος autem in manifesto, actio enim». La dialettica dell’esistenza in atto che scaturisce dalla potenza preesistente viene utilizzata per illustrare al  meglio la ineffabilis generatio propria della Trinità, cfr. ad es. Id., Ad Candidum, 2, 1021A, ed. Henry, I, p. 134, 23-28; 14, 1027BC, p. 148, 3-5; 16, 1029B, p. 154, 23-26. Cfr. inoltre Id., Adversus Arium, I, 3, 1041D, ed. Henry, I, p. 196, 24-27, luogo ove il Padre è la causa prima «propter magnam divinitatem», il Figlio «sibi et aliis causa est et potentia et substantia causa exsistens».

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consustanzialità. Vittorino, citando esplicitamente Gv 5,  19, afferma che il principio di ogni potenza, ossia il Padre, è integralmente posto in atto solo grazie al  Figlio, e  questa operazione assicura l’unità e l’identità della sostanza scaturita dal Padre ma posseduta da entrambe le ipostasi: Q uod deus, causa qui sit et praepotens et praeprincipium potentiae, ipse facit omnia, cum filius facit, et, si pater in filio et filius in patre, ipse in filio facit, quae filius facit, et quae pater facit, filius facit. Indifferenter igitur aut patri aut filio dantur omnia, sive operationes, sive res. In altero enim alterutrum et nihil alterum quod in uno alterum, et idcirco unum solum et nihil alterum, sed subsistentia propria, et pater et filius est, ab una ex patre substantia. Filius autem, hoc est Λόγος, activa potentia est, et quae faciat et quae vivificet, et sit intellegentialis 16.

Tutto ciò che esiste può quindi essere attribuito indifferenter al  Padre, sive res, o  al Figlio, sive operationes. In  questo senso vi è tra i due perfetta reciprocità: pur essendo uniti secundum substantiam risultano distinti iuxta subsistentiam. Un’identica terminologia si può riscontrare anche nella Lettera a Candido, in cui da un lato si afferma che il Padre agisce eternamente per mezzo del Λόγος, dall’altro che questi si mette in moto da sé e si costituisce quale atto esplicitamente distinto dalla potenza paterna 17. In tale contesto il sintagma activa potentia – che nell’ultimo passo citato connotava la funzione ipostatica propria del Λόγος – assume il ruolo fondamentale di cardine tra Padre e Figlio, poiché esprime l’ope­razione comune e simultanea ad entrambi, ossia la loro mutua implicazione sostanziale. In effetti, se da un punto di vista protologico il Padre è inquadrabile come condizione a  priori per l’attuarsi della potenza, in una prospettiva ontologica ciò determina un rafforzamento del legame tra sostanza e  potenza, in quanto la prima, che poi sarà   Ibid., I, 39, 1070BC, pp. 302, 2 - 304, 11.  Cfr. Id., Ad Candidum, 17, 1029BC, ed. Henry, I, p. 154, 2-9: «Q uid est Λόγος? Dico, quoniam patrica activa quaedam potentia et quae in motu sit et quae se ipsa constituat, ut sit in actu, non in potentia (…). Operatur ergo deus per Λόγον et semper operatur. Λόγος igitur activa potentia est et in motu et quae constituat, ut sit actione, quod fuit potentia. Istum igitur dicimus, quoniam in principio fuit». 16 17

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manifestata dal Figlio, giace tutta contenuta nell’essere paterno 18. A tal proposito l’ultimo passo citato evidenziava l’istanza logica di ‘arretrare’, per così dire, il Padre ad un livello di preesistenza, nel caso in cui la potenza fosse riferita anche al Figlio, operazione giustificabile in virtù della consustanzialità implicata nella Trinità. Ciascuna ipostasi viene quindi identificata univocamente dal­l’atto a lei ‘proprio’: da qui una sorta di sinonimia tra Padre (esse), Figlio (vivere) e Spirito Santo (intellegere), le tre potenze ‘comuni’ che poi si differenziano tra loro in base alla predominanza ipostatica 19. Per questa ragione l’atto proprius specifica e connota ipostaticamente i  tre, mentre quello communis rappresenta la sostanza, che di converso rende possibile la loro comunione: essi si possono quindi definire ‘sinonimi’, in virtù di questa identità ontologica, malgrado al Padre spetti il ruolo di vertice della sostanza e origine del movimento, in quanto – come discusso precedentemente – a lui solo appartiene la capacità generativa 20. Tale ‘movimento sostanziale’, in quanto divino, risulta perfettamente coeso, omogeneo, unitario, non patendo alcuna accidentalità, in virtù della semplicità ontologica che caratterizza gli intellegibili. Nei rapporti trinitari, infatti, l’energia non implica mutazione o alterazione, ma solo quella che si potrebbe definire una ‘differenziazione consustanziale’ resa possibile da questo atto immanente:

18  Cfr.  Id., Adversus Arium, I,  51,  1079C, ed. Henry, I, p.  348, 10-15; I, 56, 1082D, p. 362, 1-4; ecc. Si può pertanto parlare, come fa Pierre Hadot, di un atto del Padre invisibile, confuso con la sostanza; cfr. Hadot, Commentaire cit., p. 740. 19 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 54, 1082A, ed. Henry, I, p. 358, 9-10; III, 17, 1113A, p. 492, 10-13. Il nome proprio esprime la potenza mediante la quale l’ipostasi si appropria della sostanza trinitaria comune; cfr. Hadot, Commentaire cit., p.  865. Non a  caso Vittorino – sulla base di probabili suggestioni gnostiche – giunge a caratterizzare Dio come tripotens; cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 50, 1078D, ed. Henry, I, p. 344, 4, o τριδύναμος; cfr. ibid., IV, 21, 1128D, p. 564, 26. Sulle tre potenze e gli antecedenti porfiriani di tale dottrina cfr.  il rapido cenno di F.  Romano, Platonismo e  cristianesimo dell’opera teologica di Mario Vittorino, in Id., Studi e ricerche sul Neoplatonismo, Napoli 1983 (Esperienze, 90), [pp. 67-73], pp. 71-73; C. O. Tommasi, Tripotens in unalitate spiritus: Mario Vittorino e la gnosi, in «ΚΟΙΝΩΝΙΑ», 20 (1996), pp. 53-75. 20 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 55, 1082C, ed. Henry, I, p. 360, 16-18.

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Sic igitur id ipsum quod est operari, et ipsum esse habet, magis autem non habet; ipsum enim operari esse est – simul enim et simplex – et esse et operari eorum quae supra sunt, natura est declarans et sortita secundum quod est requiescere ipsum esse et substantiam, secundum autem quod est in motu esse, actionem, operationem. Hoc autem, quod est in motu esse, declaratio est eius quod est esse, secundum actionem 21.

Declinando in chiave metafisica il concetto paolino di Cristo imago dei, questa teoria viene talora metaforizzata nei termini del rapporto che sussiste tra la sostanza e la sua immagine. Ciò offre il destro al teologo per esprimere l’equivalenza funzionale tra imago ed actio, entrambe rappresentate dal Λόγος, manifestazione dinamica dell’invisibile ed immota potenza paterna: Et quare imago dei Λόγος? Q uoniam deus in occulto, in potentia enim; Λόγος autem in manifesto, actio enim. Q uae actio, habens omnia quae sunt in potentia, vita et cognoscentia, secundum motum producit, et manifesta omnia. Propter quod, omnium quae sunt in potentia, imago est actio, unicui­ que eorum quae in potentia sunt speciem perficiens, et exsistens per semet: a nihilo enim nulla substantia 22.

Dal passo, inoltre, si evince che il movimento del Figlio in prima istanza si costituisce come vita, per manifestarsi infine sotto forma di intelligenza. A tal proposito, soprattutto nel quarto ed ultimo libro del Contro Ario, autentico chef-d’œuvre della letteratura 21  Ibid., I, 4, 1042C, p. 196, 11-16; cfr. anche III, 2, 1099CD, p. 442, 26-31. Si vedano le considerazioni di Clark, The earliest philosophy cit. (alla nota 1), p. 92, la quale riconosce a Vittorino non solo e non tanto di aver fondato una concezione trinitaria basata sul movimento, ma soprattutto di aver reso il movimento da mero accidente della sostanza a vera e propria proprietà ontologica: quest’atto è quindi sostanziale, in sé sussistente e capace di distinguere le tre Persone divine. Cfr. inoltre le considerazioni conclusive di Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 485-488 (tr. it. cit., pp. 428-431) per il significato storico-filosofico di questo dinamismo tonico esteso fino alla sfera intellegibile, che egli definisce efficacemente nei termini di una «trasposizione platonica dello stoicismo». 22  Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 19, 1052D, ed. Henry, I, p. 234, 22-29. Poco oltre il discorso prosegue insistendo sul significato immanente e non transitivo che possiede il verbo habere in Gv 16, 15; cfr. ibid., 1053AB, pp.  234,  42  -  236,  47: «Secundum autem quod est potentia et actione, potentia pater, actione filius. Natus igitur filius, habens in actione et potentialiter esse, sicuti potentialiter esse habet ipsum actionem esse in semet ipso quod est potentialiter esse».

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patristica latina, Vittorino sviluppa una elaborata dottrina riguardante il duplice statuto ontologico del pensiero: nell’identità con il Padre, in quanto potenza di conoscere, esso è  definibile come praeconognoscentia, mentre nel momento in cui viene reso manifesto attraverso la distinzione ipostatica esso corrisponde alla vera e  propria cognoscentia 23. La  matrice di tale dottrina è  forse porfiriana, com’è testimoniato da un paio di luoghi dell’anonimo Commentario al «Parmenide», i quali si riferiscono alla ‘potenzialità’ o ‘virtualità’ conoscitiva che giace indeterminata nell’essere divino 24. Tuttavia non va tralasciata l’importanza degli Oracoli Caldaici, in cui è presente una scansione ternaria Padre – Potenza – Intelletto posta alla sommità di tutta la gerarchia intellegi­ bile, in cui il primo elemento si manifesta poi negli altri due 25. 23  Praecognoscentia, pertanto, indica la potenzialità dell’atto conoscitivo che permane nel Padre in uno stato informale, e che poi si manifesta ‘formalmente’, ossia ipostaticamente, come cognoscentia: cfr.  ibid., IV 24,  1130C, pp.  570,  14  -  572, 20. 24 Cfr. [Porphyrius], In Platonis Parmenidem, IX, 1-4 e XIII, 34 - XIV, 4, ed. Hadot cit., p. 90 e 108 (tr. it. cit., p. 80 e p. 94). Su questi luoghi cfr. Hadot, Saggio introduttivo cit. (alla nota 1), pp. 21-24 e Id., Porphyre et Victorinus cit., II, p. 109, nota 4 (tr. it. cit., p. 129, nota 113), per il senso tecnico dell’importante termine διαφέρουσα (reso da sintagmi quali «che supera» ed «eccellente al di sopra»); in merito si vedano inoltre i rilievi di Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 179-181 mentre, per la recezione vittoriniana di tale dottrina, cfr. ibid., pp. 241-242. 25  Gli Oracoli Caldaici evidenziano palesi analogie con la triade neoplatonica soprattutto nel fr. 5, luogo in cui è presente un Intelletto Paterno non-agente, una Potenza che è suo riflesso diretto nella materia ed un Intelletto demiurgico atto a costituire, attraverso l’energia pirica da lui emanata, l’intero cosmo; cfr. Oracula Chaldaica, fr. 5, in The Chaldean Oracles. Text, translation and commentary, ed.  R.  Majercik, Leiden 1989 (Studies in Greek and Roman religion, 5), p.  50. Per i rapporti tra questa triade e quelle neoplatoniche cfr. Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, pp. 305-312 (tr. it. cit., pp. 268-274); H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurgy: Mysticism, Magic and Platonism in the later Roman Empire, Paris 1978, pp.  106-117 (Études augustiniennes. Antiquité, 77); H.  D. Saffrey, Connaissance et inconnaisance de Dieu: Porphyre et la Théosophie de Tübingen, in Gonimos. Neoplatonic and Byzantine studies presented to Leendert G. Westerink at 75, ed. by J. Duffy - J. Peradotto, Buffalo 1988, [pp. 1-20], pp. 4-5 (parallelismi tra Porfirio ed alcune concezioni degli Oracoli Caldaici); si veda infine l’importante contributo di R. Majercik, The Existence - Life - Intellect Triad in Gnosticism and Neoplatonism, in «The Classical Q uarterly», 42 (1992), pp. 475-488, ove si analizzano le modalità di ricezione della letteratura caldaica e gnostica da parte di Porfirio, e nello specifico l’assimilazione tra Padre (Primo Intelletto o esistenza pura, ὕπαρξις) e Potenza (δύναμις) che sarà sfruttata dal filosofo di Tiro in prospettiva ermeneutica nel suo Commentario al «Parmenide». Si ricordi infine come la

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Tornando a Vittorino, le raffinate argomentazioni metafisiche del quarto libro Contro Ario non fanno altro che ribadire e rafforzare la reciprocità a livello intratrinitario tra potenza ed atto. Valore preminente assumono in particolare il concetto di Dio quale infinito atto d’essere e del Λόγος come sua forma – talora chiamata potentia – avente funzione definitoria nei confronti di tutte le realtà esistenti: Et quoniam diximus confici ab actu potentiam – sic enim se prima habent, ut cum sint omnia divina energia, id est actus et operationes – necessarium est ut, a deo principio, omnium potentiarum universaliter universalium fons et origo nascatur. Iste namque rerum progressus est ut, cum omnia a deo, et potentiae et actus, a deo qui supra potentias et actus accipitur, orta haec esse credantur 26.

In questo libro Vittorino, nel contesto del suo consueto schema triadico, effettua spesso una distinzione fra il significato dei verbi esse – vivere – intellegere e quello dei sostantivi exsistentia – vita – intellegentia: i  primi designano il puro atto d’essere, mentre i secondi, conformemente alla derivazione paronimica, rappresentano la forma definitoria di tale atto 27. Sembra allora capovolta la prospettiva fin qui intravista, in cui la potenza veniva assimilata all’ipostasi paterna. In realtà si attua una specie di ‘riflessione semantica’: la capacità poietica intradivina viene trasferita dall’aspetto passivo, ov’è protagonista l’infinitezza che giace a  livello

nozione di ὕπαρξις influenzi lo stesso Vittorino, che tende a distinguere tra il significato di exsistentia e di substantia, si veda quanto detto supra alla nota 2. 26  Marius Victorinus, Adversus Arium, IV,  22,  1129B, ed. Henry, I, p. 566, 22-27. 27  Cfr. ibid., IV, 19, 1127BC, p. 558, 21-37. Come l’atto d’essere determina la forma, così la forma lo rende conoscibile all’intelletto: cfr. ibid., IV, 23, 1129C, p. 566, 6-11. Su questo principio di specificazione ‘formale’ interno alla potenza di Dio e sull’identità fra l’autoposizione della forma ‘preformata’ e la produzione della stessa, cfr. Corsini, Il «Timeo» di Platone cit., p. 97, nota 201, ove si trova un elenco dei luoghi in cui Vittorino, mediante la dottrina dei paronimi, ipostatizza ciò che deriva dal puro agire; in merito si vedano inoltre le pp. 104-107, 112-113, 124-126 del medesimo studio. Tale specificazione potrebbe trovare dei riscontri con la teoria plotiniana che impone l’autolimitazione del νοῦς nel suo nesso riflessivo con la propria origine: cfr.  W.  Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit. Plotins, Enneade V 3: Text, Übersetzung, Interpretation, Erläuterungen, Frankfurt a. M. 1991 (tr. it., Milano 1995, pp. 102-115).

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potenziale, a quello attivo, contraddistinto dalla sovrabbondanza della vis existendi. In questa dialettica un ruolo fondamentale va attribuito alla volontà, la quale esprime la tendenza connaturata alla potentia dei 28. Fulcro di questo rapporto tra potenza e volontà è il movimento, innanzitutto vitale, che rappresenta la manifestazione esplicita di quell’impulso che promana spontaneamente dall’essere divino: Et quoniam omnis potentia naturalis est voluntas, voluit vita movere semet ipsam, insita iuxta substantiam motione inpassibiliter erecta in id quod est. Naturalis enim voluntas, non passio. Secundum hoc igitur quod est esse dei, in quo potentia exsistentia est, substantialitas patrica, secundum potentiam, secundum istud esse ipsum, et vita est. Si ergo movit vita semet ipsam, motio autem voluntas, patrica ergo motio et patrica voluntas, quoniam patrica potentia vita 29.

Nella substantialitas patrica giacciono nello stato di perfetta identità ed immota quiete esistenza e vita. Ma questo ‘riposo’ è solo apparente, poiché l’istanza naturale propria di ogni potenza è la volontà di attuarsi in conformità al proprio essere: ed è proprio da questa tensione immanente che si genera un movimento transitivo 30. Nel passo è presente inoltre l’idea che questo moto sia operato volontariamente dalla vita al fine di autodefinirsi: la potenza allora oggettiva se stessa e si manifesta in un atto – teologicamente associabile al Figlio – che rimane contiguo alla natura della pro-

28  Ernst Benz fu il primo a riconoscere il ruolo cardine giocato dalla volontà nella speculazione di Vittorino e, anzi, ebbe modo di incentrare su quest’aspetto la sua ampia e pionieristica analisi: cfr. Benz, Marius Victorinus und die Entwicklung cit., pp. 78-80. Si veda inoltre Hadot, Commentaire cit., p. 861, il quale sottolinea che Vittorino potrebbe aver conosciuto, attraverso l’intermediazione di Porfirio, la teoria della potenza come desiderio naturale volto alla piena espressione di sé, di lontana ascendenza aristotelica. 29  Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 52, 1080D, ed. Henry, I, p. 352, 22-30. 30 Per la correlazione volontà-atto-automovimento cfr.  Id., Ad Candidum, 22, 1031BC, ed. Henry, I, p. 160, 8-14. Nei commenti a san Paolo l’autore latino insisterà proprio su Cristo come volontà di Dio: cfr., ad esempio, Marius Victorinus, Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1, 11, PL 8, [12351294], 1246AB, ed. e tr. it. F. Gori, Torino 1981 (Corona Patrum, 8), p. 60, 1726.

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pria causa, ossia il Padre. È importante infine sottolineare che tale actus risulta connotato ipostaticamente nei termini di un esse cum forma, equivalente all’esse proprium di cui si è parlato supra, mentre la consustanzialità si fonda sulla compartecipazione trinitaria a  questo dinamismo: per il Padre in quanto egli è  l’esse, per il Figlio attraverso l’agere, che inizialmente si manifesta come vivere, successivamente come intellegere 31. Nella riflessione trinitaria dell’autore latino una certa ambiguità di significato pare contraddistinguere il sintagma paolino che inquadra il Figlio come «virtù e sapienza di Dio» (1Cor 1, 24): Sapientia igitur et virtus operationes; hanc enim nunc virtutem significat; coniunxit enim sapientiam et virtutem. Ergo horum potentia est deus, et ideo pater quod ab ipso ista. Gignit enim ista in actionem et inpassibiliter quod ὁμοουσία sunt potentia et actio, et deus, et dei virtus et sapientia 32.

Tale virtus, che da un punto di vista semantico sembrerebbe a  prima vista accostabile alla potenza, è  in realtà più vicina allo specifico modus operandi dell’atto. Vittorino, se da un lato per ragioni esegetiche deve giustificare il versetto neotestamentario, dall’altro è costretto ad ‘allinearlo’ ai suoi schemi metafisici, nei quali l’atto della potenza paterna è  costitituito dal Figlio. Ora, in quanto quest’ultimo è  sia activa potentia sia – come appena visto – virtus et sapientia dei, per proprietà transitiva il Padre, in quanto potenza del Figlio, è potenza generatrice sia della virtus 31 Sulla triade in questione resta fondamentale lo studio di P. Hadot, Être, Vie et Pensée chez Plotin et avant Plotin, in Les Sources de Plotin. Dix exposés et discussions (Vandoeuvres-Genève, 21-29 Aout 1957), éd. par E. R. Dodds, Van­ doeuvres 1960 (Entretiens sur l’antiquité classique, 5), pp. 105-158. 32  Marius Victorinus, Adversus Arium, I,  40,  1071BC, ed. Henry, I, p.  306, 23-28. Sul Figlio potenza e  sapienza di Dio cfr.  ibid., I,  38,  1069D, pp. 300, 14 - 302, 17 e I, 56, 1083AB, p. 364, 15-20: in quest’ultimo caso lo si definisce actio potentialis e, con metafora geometrica, medius in angulo trinitatis. La virtus dei è il Λόγος eterno, che solo dopo l’incarnazione e la risurrezione riceve il «nomen supra omne nomen» (Col  2,  9: filius), ed è in questo senso strettamente ontologico che Vittorino lo definisce «virtus et sapientia, actio et operatio»: cfr.  Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 2,  9-11, PL 8, [1197-1236], 1210C, ed. Gori cit., p. 336, 45-47. In un luogo del Commentario agli Efesini Vittorino sviluppa un discorso sull’economia salvifica incentrato sulla resurrezione di Cristo, ov’egli intreccia le nozioni di virtus, potestas, operatio: cfr.  Id., Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1,  20-23, 1249CD, ed. Gori cit., pp. 68, 6 - 70, 14.

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sia della sapientia: entrambe quindi corrispondono agli atti che sgorgano dalla vis paterna, nei confronti della quale risultano consustanziali. La tematica, nella particolare angolazione del quarto libro Contro Ario, viene sviluppata dal punto di vista dell’atto d’essere, nel cui dinamismo sostanziale è  riposta una potenza gemina, che realizza simmetricamente un doppio ufficio 33. Il Figlio tuttavia, nell’adempiere alla propria peculiare mansione, subisce una certa frizione con la dimensione esogena propria delle realtà a cui dona l’essere, un attrito tale da porlo in una condizione di privazione ontologica 34. Per questa ragione in lui è  presente simultaneamente un ‘atto sostanziale’, impassibile, e un ‘atto transitivo’, passibile. Il primo, essendo immanente alla sostanza divina, è  della sua stessa natura mentre il secondo, che procede verso l’esterno, patisce una certa alterità: Etenim, cum quasi geminus ipse pater sit: exsistentia et actio, id est substantia et motus  (…), necessario et filius, cum sit motus et αὐτόγονος motus, eadem substantia est. Eadem enim haec inter se, sine coniunctione unum sunt et sine geminatione simplex, suo ut proprio exsistendi diversum – vi autem potentiaque, quia numquam sine altero alterum, unum atque idem – tantum actu, sed qui foris est, in passiones incedente, alio autem interiore semper manente atque aeterno, quippe originali et substantiali 35. 33  Cfr. Id., Adversus Arium, IV, 16, 1124D, ed. Henry, I, p. 546, 18-21: «(…) utrumque enim motus est et unus motus, duas virtutes praestans officio gemino – una eademque substantia. Nam substantia his motus est; non enim in his aliud est esse, aliud moveri». Su questa ‘doppia mansione’ del movimento, cfr. ibid., III, 8, 1104D-1105A, p. 462, 25-37. 34  A tal proposito il luogo del Contro Ario visto supra alla nota 13, in cui Vittorino commenta il passo giovanneo me maior est pater (Gv 14, 28), così prosegue, cfr. ibid., I, 13, 1047D, ed. Henry, I, p. 214, 18-20: «(…) inpassibilis et passibilis. Ergo et aequalis et inaequalis. Maior igitur pater». Per questa complementarità si veda anche Id., Hymni, III, PL 8, [1139-1146], 1144A, ed. Henry, I, p. 640, 8384: «Inpassibilis inpassibiliter (Padre) / impassibilis passibiliter (Figlio)». L’ossimoro sembra essere la figura letteraria preferita dall’autore latino per esprimere la concezione teologica che successivamente sarà espressa nella formula dell’unione ipostatica, quell’intimo ed inseparabile legame che, attraverso la persona di Gesù Cristo, è stato realizzato tra natura divina e natura umana. 35  Id., Adversus Arium, III, 17, 1113AB, ed. Henry, I, pp. 492, 13 - 494, 24. Sulla distinzione tra atto sostanziale e  atto transitivo cfr.  Hadot, Porphyre et Victorinus cit., I, p. 228, nota 4 (tr. it. cit., p. 198, nota 119), dove si ravvisa un’influenza plotiniana, a sua volta debitrice del patrimonio dottrinale stoico. Porfirio, teorizzando nelle Sentenze sugli intellegibili l’unità nell’alterità propria agli

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Da ciò si evince come nell’atto sostanziale non vi sia alcuna diminuzione o perdita dal punto di vista ontologico; nell’atto transi­ tivo, al  contrario, sussiste una certa alienatio, giacché in questo moto centrifugo il Figlio patisce come detto l’eterogeneità degli enti mondani a cui fornisce l’esistenza. Tale operazione, infatti, è vincolata alle condizioni di alterità, molteplicità e temporalità caratteristiche delle realtà non intellegibili, e raggiunge in tal senso il punto apicale nell’incarnazione 36. In  altre parole, nel mondo sublunare, diversamente da quello celeste, sussiste una certa frattura tra lo stato virtuale e lo stato realizzativo di una determinata natura, e tra le due non vi può mai essere perfetta corrispondenza. L’ilemorficità è quindi la cifra fondamentale delle realtà mondane le quali, patendo questa situazione, risultano costitutivamente frammentate tra essere e non-essere o, per meglio dire, sono costrette ad esternare temporalmente, attraverso una serialità di atti, ciò che giace potenzialmente al loro interno: Cetera quae post deum sunt et potentiae sunt et actiones: potentiae, quae, vi sua, iam esse creduntur ut omnia et esse et habere videantur quae, maturis processionis actibus, exsistentia, in suo opere, hic habere provenit; actiones autem dicuntur, cum, existendis processibus, gignunt ac foras promunt quod esse possunt, ut semen iam potentia est et culmus et folia, vel mas aut femina, veneriae cupiditatis effusio. Sed haec in mundo atque sub luna. Supra vero, in aethere atque caelo, actiones sunt atque actionibus vivunt, sed genita et iam, quod futurum fuerant, facta. Ex ortu enim suo, in operationes proprias suasque dimissa, suos actus naturae continentis contagione discurrunt 37.

Negli enti sensibili pertanto il passaggio da potenza ad atto, o  da occultamento a  manifestazione, è  asincrono, implica una distanza tra condizione interiore ed esteriore. Cifra peculiare intellegibili e l’alterità nell’unità propria ai sensibili, potrebbe costituire un’altra possibile fonte di tale dottrina; cfr. Smith, Dunamis in Plotinus and Porphyry cit., pp. 69-71, e Girgenti, Il pensiero forte cit., pp. 236-237. 36 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 22, 1056CD, ed. Henry, I, p. 248, 48-55. 37  Ibid., IV,  12,  1122AB, pp.  534,  17  -  536,  29. Sulla differenza tra la semplicità degli intellegibili e la complessità degli enti sensibili si veda anche Id., Ad Candidum, 9, 1024C-1025A, ed. Henry, I, p. 142, 15-17.

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di questo divario è  proprio la successione temporale: laddove il mondo intellegibile risulta caratterizzato dalla sincronicità – efficacemente espressa, nel luogo citato, dall’avverbio iam –, nelle realtà mondane tale passaggio avviene attraverso una sequenzialità di istanti, posti tra loro in rigorosa ed irreversibile successione 38. V’è infine da sottolineare come, in prospettiva escatologica, Vittorino miri ad armonizzare ed integrare tra loro questi due differenti aspetti – celeste e terrestre, simultaneo e seriale – della dialettica in esame. Da questo punto di vista già nelle sue opere retoriche egli aveva manifestato talune istanze ‘conciliatorie’, giocate sulla complementarità del rapporto sapientia – eloquentia 39. È  tuttavia nell’evento fondante del cristianesimo che il neoconvertito troverà definitivo appagamento per queste sue esigenze: egli infatti lascia intendere qua e là, in alcuni scorci del suo discorso teologico, una visione pneumatocentrica in virtù della quale l’unità e  la semplicità dei rapporti che caratterizzano il mondo intellegibile viene estesa gratia dei a tutta la realtà sensibile affinché, nella pienezza filiale di Col 3,  10, la presenza divina si possa universalmente diffondere. Dal momento che la sostanza di Dio è Spirito, il Figlio, che attua la potenza del Padre, è anch’esso Spirito in virtù dell’implicazione sostanziale propria a ciascuna ipostasi 40. Inoltre, secondo Vittorino, quest’atto risulta sequenzialmente bipartito tra Cristo e lo Spirito Santo, per cui la generazione vitale  Cfr. Id., Adversus Arium, IV, 15, 1124A, ed. Henry, I, pp. 542, 13 - 544, 22.  Vittorino, in sede di commento alle prime pagine del De inventione di Cicerone, in cui era descritto lo stato barbaro dell’umanità prima dell’intervento della sapienza, afferma come l’esercizio dell’eloquenza, pur non apportando cambiamenti sostanziali alla natura del sapiente, possa contribuire ad ampliare e rendere pienamente efficace la sua virtus entro un piano oggettivo ed universale. In tal modo l’eloquenza trasmette e comunica la sapienza, viceversa, l’operazione (eloquenza) separata dalla sostanza (sapienza) è solo una falsa apparenza che inganna; cfr. Id., Explanationes in Ciceronis rhetoricam, I, 2, ed. A. Ippolito, Turnhout 2006 (CCSL, 132), pp. 19, 165 - 20, 191. Successivamente tale opposizione sarà quella metafisico-teologica della sostanza e dell’economia, cfr. ad es. Id., Ad Candidum, 29, 1034C, ed. Henry, I, p. 168, 17-19: «Ista omnia dicuntur non in eius exsistentiam, sed in actus et in ministrationem eius potentiae atque virtutis». 40 Sulla pneumatologia di Vittorino cfr. R. Schiavolin, La nozione di Spirito nelle opere teologiche di Mario Vittorino. Diss., Università degli studi di Salerno 2008, in corso di stampa. 38 39

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iniziata dal primo viene continuata e completata dal secondo, che opera una rigenerazione intellettuale grazie alla quale tutto ciò che esiste è  riportato teleologicamente ad unam virtutem 41. In  altre parole ogni realtà, una volta attuata integralmente la propria sostanza mediante la doppia operazione filiale, verrà ricondotta alla potenza paterna, «ut sit in deus omnia in omnibus» (1Cor 15, 28): Evacuatis enim omnibus, requiescit activa potentia, et erit in ipso deus, secundum quod est esse et secundum quod est quiescere, in aliis autem omnibus spiritaliter, secundum suam et potentiam et substantiam. Et hoc est: ut sit in deus omnia in omnibus. Non enim omnia in unoquoque, sed omnia in omnibus. Manebunt igitur omnia, sed deo exsistente in omnibus, et ideo omnia erit deus, quod omnia erunt deo plena 42.

L’activa potentia specifica del Λόγος, che fino ad ora si era vista connotare un dinamismo transitivamente centrifugo e vitale, qui muta il suo verso, convertendosi in attività centripeta ed intellettuale, fino a raggiungere la quiete finale 43. L’avverbio spiritaliter qualifica l’universalità di questa inversione che, dapprima immanente alla Trinità, compenetra progressivamente ogni cosa (omni-

 Cfr. Marius Victorinus, Adversus Arium, I, 12, 1047B, ed. Henry, I, p. 214, 29-32: «Etenim omne mysterium hoc est, pater inoperans operatio, filius operans operatio in id quod est [re]generare, sanctus autem spiritus operans operatio in id quod est regenerare». Cfr. Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3, 21, 1226C, ed. Gori cit., p. 372, 25-27: «Itemque, deus cum spiritus sit, subicientur universa deo cum ad unam virtutem redigentur et sic, inquit, poterit universa illi subdere, scilicet deo». 42  Id., Adversus Arium, I,  39,  1070D, ed. Henry, I, p.  304, 26-34. Cfr.  Id., Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3,  21,  1227A, ed. Gori cit., p. 374, 45-47: «Ergo ubi dixit potentiae suae, illic intellegitur deus, cui scilicet subdit universa, et propter hoc operatur ut possit etiam universa illi subdere. Q uod autem dixit etiam universa, refertur ad id quod ipse illi subditus». 43 Q uesta cessazione non significa l’eclissarsi del Λόγος entro la sostanza divina ma la conclusione della sua attività economica, volta al ricongiungimento di tutte le realtà con Dio. Come dice Hadot, Commentaire cit., p. 820: «Le repos de la ‘puissance agissante’ ne signifie pas la fin du Logos en tant qu’acte de la puissance paternelle, mais la fin de son acte extérieur, c’est-à-dire de l’économie ou du mystère, fin qui n’est d’ailleurs pas une pure cessation, mais un accomplissement, le but du mystère étant justement l’unité de tout l’univers et des âmes dans l’unité divine». Su quest’attività eminentemente unificativa cfr. le considerazioni espresse supra alla nota 13. 41

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bus spiritaliter), anche se con modalità diverse per ciascuna (secundum suam et potentiam et substantiam) 44. In conclusione, il paradigma ontologico in base al quale Vittorino stabilisce e  definisce il rapporto sussistente tra potenza ed atto risulta essere partitivo: da un lato la sincronicità caratteristica delle realtà divine, dall’altro la serialità propria di quelle mondane. Per ragioni squisitamente dogmatiche, volte alla difesa dell’ὁμοούσιον niceno, egli struttura la circumcessio trinitaria sulla base di una complementarità sostanziale tra stasi paterna e  dinamismo filiale, dapprima centrifugo (Cristo) quindi centripeto (Spirito Santo). Ecco quindi che nelle realtà intellegibili, a  cominciare dal Λόγος, prevale una logica di simultaneità che fa propria la dialettica dei generi sommi del Sofista, in primo luogo la correlazione tra quiete e movimento 45. Q ualora applicata alla struttura ontologica delle realtà sensibili, e più in generale ad ogni ente mondano, tale sequenza si sviluppa attraverso una costante e progressiva manifestazione della sostanza, la quale dapprima giace latente nella virtualità delle facoltà potenziali, successivamente si palesa nella concretezza delle varie operazioni che avvengono nello spazio e  nel tempo, per poi riconvergere verso la propria remota origine. Da ciò si evince che nell’autore latino non si è ancora in presenza di una triade ontologica configurabile nei termini di una netta e  definita scansione tra essentia, virtus ed operatio, come 44 È l’uomo il primo beneficiario di tale dono; cfr.  Marius Victorinus, Commentarius in Epistulam Pauli ad Philippenses, 3, 21, 1226BC, ed. Gori cit., p.  372, 22-25. Tuttavia – privilegio esclusivo dell’essere umano – da un punto di vista ontologico la spiritualizzazione viene ad implicare non solo il perfezionamento della propria sostanza originaria, ma addirittura il suo ‘innalzamento’; cfr. Id., Commentarius in Epistolam Pauli ad Ephesios, 1, 8, 1244AB, ed. Gori cit., p. 56, 10-16: «Igitur et cum angeli et daemones et materia et elementa et animae ceteraque huiusmodi omnia, quaeque sunt, habeant naturam suam, genere procreationis habent vim virtutemque et conditione sua manentia, animae tamen, quae utique et ipsae inter omnia vi sua valent, non in eo perseverant ut exstiterunt atque substantiam sortitae sunt, sed dei potentia in meliorem substantiam provehuntur et ex animis cum animae sint, spiritus fiunt». Su questo innalzamento ontologico in prospettiva escatologica cfr. R. Schiavolin, Non tamen in eo quod animae sunt iam spiritus sunt. Platonismo e cristianesimo nella soteriologia di Mario Vittorino, in Platone e il governo delle passioni. Studi per Linda Napolitano, a cura di F. Benoni - A. Stavru, Perugia 2021, pp. 439-453. 45 Cfr.  Plato, Sophista, 254c-256d. Per l’intera questione cfr.  Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., I, pp. 213-246 (tr. it. cit., pp. 185-214).

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avverrà a  partire da Giamblico, ma di una rimodulazione originale e, se si vuole, piuttosto singolare di un rapporto sostanziale imperniato sulla dialettica tra potenza ed atto. L’accentuazione in esso della prospettiva escatologica, infine, denuncia l’influenza e soprattutto la preminenza che il pensiero cristiano ha esercitato nei confronti di un modo di ragionare tipicamente filosofico, ovvero quella forma mentis che Vittorino ebbe modo di praticare per lunghissimo tempo, e che in extrema senectute integrò abbracciando una religione che evidentemente gli seppe offrire orizzonti ulteriori e del tutto inopinati.

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LA TRIADE DELL’ESSERE IN GIOVANNI SCOTO ERIUGENA

Se una delle esigenze fondamentali del sistema di Giovanni Scoto (810-877 ca.) è quella di «mettere in opera (…) una considerazione filosofica del divenire» 1, la dottrina della triade dell’essere, che egli con ogni probabilità deriva solo da Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore, essendogli precluso l’accesso diretto a tutte le altre fonti della teoria, assume un ruolo particolarmente rilevante 2. Come è noto, il primo ‘incontro’ con tale concezione avviene nelle traduzioni del Corpus Dionysianum 3, ma la sua compiuta 1  G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e  le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), a  cura di M.  Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), [pp. 337-366], p. 343. Q uesto articolo di Giulio d’Onofrio è il primo che ha, in modo esplicito e  filosoficamente consapevole, enucleato dagli scritti eriugeniani il tema della triade; ad esso dunque ci rifaremo in dettaglio nel corso della trattazione. 2 In passato, si è considerato che Giovanni Scoto fosse il traduttore latino di una delle possibili fonti della triade, le Solutiones ad Chosroem di Prisciano Lido, scolaro di Damascio, ospite del sovrano di Persia dopo la chiusura della Scuola di Atene. Cfr. M.-Th. d’Alverny, Les «Solutiones ad Chosroem» de Priscianus Lydus et Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie (Laon, 7-12 juillet 1975), a cura di R. Roques, Paris 1977 (Colloques internationaux, 561), pp. 145-160, in partic. p. 145 per le informazioni sull’attribuzione. Il dato resta controverso (nessuna delle prove avanzate dalla d’Alverny appare dirimente), ma le Solutiones, di fatto, non presentano la teoria della triade, perché utilizzano la sua terminologia solo nelle due coppie essentia-operatio e virtus-operatio, senza mai considerare i tre termini insieme (cfr. ibid., p. 157). 3 Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Versio operum sancti Dionysii Areopagitae, De caelesti Hierarchia, 11, PL 122, [1035-1069], 1059CD; Id., De divinis nominibus, 4,  [1111-1171], 1142AB (per le corrispondenti opere dionisiane, si veda il saggio di E. S. Mainoldi in questo volume). Il commento della Expositio La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127961 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 321-341     © 

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problematizzazione si presenterà soltanto nell’opera maggiore. In quel gioco di scatole cinesi che è il Periphyseon, dove il filo principale del discorso è  interrotto da numerose digressioni spesso collegate fra di loro, la prima menzione della triade è, tutto sommato, inattesa. Nel corso del libro I, Nutritor e Alumnus stanno discutendo dell’applicabilità delle dieci categorie a Dio, e si soffermano a  lungo sulle complessità relative a  quella del locus; si ravvisa così che una delle modalità di quest’ultimo, forse la più perfetta, è la diffinitio, se il locus stesso può essere definito «actionem intelligentis atque comprehendentis virtute intelligentiae ea quae comprehendere potest, sive sensibilia sint sive intellectu comprehensa» 4 – e dunque come qualcosa di incorporeo. Il discepolo chiede allora se ci sia coincidenza fra la natura dell’animo di chi definisce e la diffinitio che da esso viene elaborata: la domanda non è  oziosa, perché se l’arte del definire è  una parte della dialectica, e  se ci fosse questa identificazione, quest’ultima e  le arti liberali (oggetto della digressione appena precedente) sarebbero un accidente dell’uomo che le pensa 5. Negando tale possibilità, il maestro ricorda ex abrupto che per ogni natura rationabilis et al De caelesti Hierarchia non problematizza l’aspetto triadico, e rimanda piuttosto al Periphyseon. Cfr. Id., Expositiones in Ierarchiam coelestem, 11, 2, PL 122, 229C230B, ed. J. Barbet, Turnhout 1975 (CCCM, 31), p. 160, 78-100. Per i richiami a Massimo il Confessore e a Giovanni di Scitopoli si veda ancora il saggio di E. Mainoldi; cfr.  anche d’Onofrio, «Inoperans gratia», pp.  348-349, note 26, 27, 28, 30 e 31. 4 Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [441-1022], 485D, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM 161-165), I, 1996, p. 61, 1857-1860. Nelle note successive si farà riferimento all’opera semplicemente come Periphyseon, senza indicazione dell’autore; seguiranno riferimento al libro, alle colonne della Patrologia Latina e quindi alle pagine e alle righe dell’edi­zione Jeauneau (ogni singolo volume – I, 1996; II, 1997; III, 1999; IV, 2000; V, 2003 – contiene un libro dell’opera). 5 Cfr. ibid., 486AB, p. 62, 1870-1883: «Alumnus. Nunc autem velim scire utrum aliud est natura animi definientis (id est omne quod ab eo intelligitur cognitionis loco comprehendentis) et aliud locus ipse seu diffinitio locati vel diffiniti. Nutritor. Nec hoc inquisitione indignum esse video; multi enim de hoc dubitant. Sed quoniam videmus aliud esse constitutas in anima liberales artes, aliud ipsam animam quae quasi quoddam subiectum est artium, artes vero veluti inseparabilia naturaliaque animae accidentia videntur esse, quid nos prohibet diffiniendi disciplinam inter artes ponere, adiungentes dialecticae, cuius proprietas est rerum omnium quae intelligi possunt naturas dividere, coniungere, discernere, propriosque locos unicuique distribuere? Atque ideo a  sapientibus vera rerum contemplatio solet appellari».

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intellectualis si considerano «tria inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia», ovvero essentia, virtus e operatio, che secondo la testimonianza di Dionigi sono inseparabili fra di loro, immutabili, immortali «ac veluti unum». Le arti liberali sarebbero dunque non accidenti, ma «naturales virtutes et actiones» insite «naturaliter» nell’anima stessa, eterne come i tre elementi di quest’ultima, e relative alla sua operatio. Nam cum in omni rationabili intellectualique natura tria inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia considerentur, ΟYCIΑΝ dico et ΔYΝΑΜΙΝ EΝEΡΓΕΙΑΝque (hoc est essentiam, virtutem, operationem) – haec enim teste sancto Dionysio inseparabiliter sibimet adhaerent ac veluti unum sunt et nec augeri nec minui possunt, quoniam immortalia sunt atque immutabilia – num tibi verisimile videtur certaeque rationi conveniens omnes liberales disciplinas in ea parte, quae EΝEΡΓΕΙΑ (id est operatio) animae dicitur, aestimari? Siquidem a philosophis veraciter quaesitum repertumque est artes esse aeternas et semper immutabiliter animae adhaerere ita ut non quasi accidentia quaedam ipsius esse videantur, sed naturales virtutes actionesque nullo modo ab ea recedentes nec recedere valentes nec aliunde venientes sed naturaliter ei insitas, ita ut ambiguum sit utrum ipsae aeternitatem ei praestent quoniam aeternae sunt eique semper adhaereant ut aeterna sit, an ratione subiecti quod est anima artibus aeternitas administratur – ΟYCIΑ enim animae et virtus et actio aeternae sunt – an ita sibi invicem coadhaereant, dum omnes aeternae sint, ut a se invicem segregari non possint 6. 6  Ibid., 486BD, pp. 62, 1883 - 63, 1902, con la penetrante analisi di d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 351-354. Si osservi di sfuggita come anche le arti liberali, quali parti sostanziali della mente, costituiscano con quest’ultima e la peritia una ulteriore triade: cfr. Periphyseon, IV, 767CD, p. 39, 1040-1050. – Nel presentare la triade, Giovanni Scoto utilizza sempre il termine essentia, tranne per un singolo caso isolato nel terzo libro, che può ben essere una svista o una eccezione non significativa. Substantia, infatti, generalmente nel suo linguaggio indica ypostasis: cfr.  C.  Martello, Alle origini del lessico filosofico latino. «Ypostasis/ substantia» in Giovanni Scoto, in Hyparxis e hypostasis nel Neoplatonismo. Atti del I Colloquio Internazionale del Centro di Ricerca sul Neoplatonismo (Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992), a cura di F. Romano - D. P. Taor­ mina, Firenze 1994 (Lessico intellettuale europeo, 64), [pp.  169-184], p.  174; K. Trego, La subsistence des existants. La contribution de Jean Scot Érigène à la constitution d’un vocabulaire latin de l’être, in «Χώρα. Revue d’études anciennes et médiévales», 6 (2008), pp. 143-179, in partic. pp. 154-157. È una significativa precisazione rispetto a Boezio e a parte della tradizione latina precedente, come

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Il discepolo approva il discorso, che però subito dopo torna sul provo a dimostrare in Essence and substance in Boethius: a matter of  terminology, ibid., 18-19 (2020-2021), pp. 289-304. Ai fini di quest’articolo si possono invece considerare equivalenti e  intercambiabili da una parte vis e  virtus, e  dall’altra actio e  operatio. Dal canto proprio, lo stesso Giovanni Scoto (o  al  limite il suo entourage: per la difficile questione cfr. da ultimo l’eccellente ricognizione di E. S. Mainoldi, I problemi critici del «Periphyseon» di Giovanni Scoto Eriugena alla luce delle due recenti edizioni-traduzioni italiane, in «Studi medievali», IIIa S., 60.2 [2019], pp.  735-769, in partic. pp.  737-739, pp.  757-759) è  ben consapevole della polisemia di virtus, come dimostra una glossa di i2 a  un luogo del III libro. Cfr. Periphyseon, III, 632AB, p. 235 (testo espunto nell’edizione Jeauneau): «Sciendum quoque virtutem tripliciter intelligendam. Est enim virtus substantialis: omne namque quod subsistit naturali quadam trinitate subsistit, essentia, virtute, et operatione, de quibus in primo libro satis disputatum est. Secunda species virtutis est quae pugnat adversus corruptionem naturae, ut sanitas adversus aegritudinem, scientia et sapientia adversus ignorantiam et stultitiam. Tertia est quae opponitur malitiae, ut humilitas superbiae, castitas libidini. Q uae species in tantum patet, in quantum liberae voluntatis irrationabilis motus intellectualis naturae porrigitur». – Non può essere questo il luogo per una trattazione del significato di essentia in Giovanni Scoto; ci limiteremo quindi ad alcuni ragguagli, rimandando alle approfondite trattazioni di Ch.  Erismann, «Generalis essentia». La théorie érigénienne de l’ousia et le problème des universaux, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 69 (2002), pp. 7-37, precisate poi in Id., L’homme commun. Le  genèse du réalisme ontologique durant le haut Moyen Âge, Paris 2011, studi che in diversi punti propongono teorie differenti da quelle qui presentate; di P. E. Hochschild, Ousía in the «Categoriae decem» and the «Periphyseon» of  John Scottus Eriugena, in Divine Creation in Ancient, Medieval, and Early Modern Thought. Essays Presented to the Rev’d Dr. Robert D. Crouse, a cura di M. Treschow - W. Otten - W. Hannam, Leiden 2007 (Brill’s Studies in Intellectual History, 151), pp. 213-222; e del contributo già citato di Kristell Trego. Da numerosi riferimenti contenuti nel Periphyseon, possiamo certamente derivare quanto segue: l’essentia è incomprensibile e immodificabile, dunque «nec moveri nec augeri nec minui potest» (Periphyseon, I, 476A, p. 49, 1450); non può essere definita, e dunque di essa si può dire soltanto quia est, non quid est (ibid., 487AB, p. 63, 1911-1926); è semplice ed eterna, dunque non accetta composizione con la materia (ibid., 489CD, p.  66, 2024-2030); non può essere corrotta (ibid., 490A, p. 66, 2030-2044); è termine sostanzialmente intercambiabile con natura/φύσις, per quanto più esattamente quest’ultimo vocabolo indichi le essenze nel loro essere create, e sottoposte allo spazio e al tempo (ibid., V, 866D-867B, pp. 11, 269 - 12, 298); può essere resa anche con il greco ὄν (ibid., 914CD, p. 78, 2473-2479). Per Hochschild, le fonti principali di questa dottrina sono Aristotele e  le Categoriae decem pseudo-agostiniane (cfr.  Hochschild, Ousía in the «Categoriae decem» cit., in partic. p. 213 – sull’influsso delle Categoriae decem cfr.  anche d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp.  349-351). Differente è la conclusione di Erismann, che in un primo momento (nello studio del 2002) vede Giovanni Scoto usare (e contestare) i presupposti aristotelici per giungere a un esito neoplatonico radicale. Erismann riconosce chiaramente, nel Periphyseon, la duplicità boeziana nel caratterizzare il concetto di essentia; concentrandosi sul primo significato, la riconosce come genere generalissimo che si individua solo accidentalmente, diventando particolare e conoscibile nei soggetti

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problema del locus 7: la triade viene accantonata rapidamente così come era stata evocata, senza essere esattamente definita e  presupponendo evidentemente che il lettore possa esserne già informato attraverso gli scritti dionisiani. Per comprendere allora cosa Giovanni Scoto intendesse esattamente con il concetto di triade ontologica, e  in che modo se ne serva per il suo sistema metafisico, bisogna raccogliere gli indizi e gli elementi sparsi lungo tutto il Periphyseon e ricomporli in unità. L’impressione finale sarà che, per Giovanni, la triade sia – con le dovute proporzioni – quello che la teoria delle idee è per Platone: è fondamentale per la comprensione del suo pensiero, è  presupposta a  molti dei ragionamenti, ma non viene praticamente mai trattata in modo diretto e sistematico. I passi del Periphyseon che parlano della triade, in tutto una ventina, possono agevolmente essere divisi in due gruppi: il primo, e più nutrito, permette di comprendere cosa essa sia; il secondo, quali siano le sue funzioni e la sua utilità nel sistema eriugeniano. Fondamentale per una definizione della triade è allora la sua seconda e più articolata menzione, ancora nel libro I, quando essa viene nuovamente richiamata al  termine della discussione sulle categoriae, nel corso della trattazione su agere e  pati. Il  maestro chiede al discepolo se colui che agisce, la possibilità di agire e l’agire effettivamente siano una o tre cose distinte: il discepolo si orienta per la seconda opzione, ritenendo che l’agens sia una substantia, e i due ulteriori elementi, invece, accidentia. Per dimostrargli il suo errore, il maestro richiama la tripartizione dionisiana, in cui i tre componenti sono in realtà una unità. (che la contengono intera ed identica), ma restando inconoscibile in sé. Tutto questo è inserito nel contesto di un realismo radicale in cui gli individui si distinguono soltanto per i  loro accidenti. Nel volume L’homme commun, invece, lo studioso riconosce come molto più presente, nell’intero pensiero altomedievale, l’impostazione aristotelica: la dottrina eriugeniana dell’essenza nascerebbe sotto l’influenza di Porfirio e del suo tentativo di integrare la dottrina delle categorie in una metafisica neoplatonica (cfr. Erismann, L’homme commun cit., in partic. pp. 69-70, 79-80, 200-202). Ancora diversa la concezione di Kristell Trego, secondo la quale è la Patristica greca, filtrata da Mario Vittorino che già inizia ad adattarla all’universo mentale latino, a costituire l’ossatura del pensiero metafisico eriugeniano e del relativo vocabolario. 7 Cfr. Periphyseon, I, 486D-487A, p. 63, 1903-1906: «Huic rationi, quoniam vera est, nescio quis audeat reluctari. Nam quodcunque horum quis firmaverit, rationi non resistit. Ultimum tamen quod a te positum est verisimilius esse ceteris elucet. Sed ut ad eadem redeamus (…)».

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Nutritor. Recordarisne collectum conclusumque a  nobis fuisse ΟYCIΑΝ, ΔYΝΑΜΙΝ, EΝEΡΓΕΙΑΝ (id est essentiam, ut saepe diximus, virtutem et operationem), trinitatem quandam inseparabilem incorruptibilemque nostrae naturae esse, quae sibi invicem mirabili naturae armonia coniuncta est, ut et tria unum sint et unum tria? Neque veluti diversae naturae sunt, sed unius atque eiusdem, non ut substantia eiusque accidentia, sed quaedam essentialis unitas substantialisque differentia trium in uno? Alumnus. Recordor, ac deinceps nunquam oblivioni tradam. Apertissimam namque conditoris imaginem oblivioni tradere stultissimum est atque miserrimum 8.

Rispetto al  primo riferimento, la natura della triade è  precisata in due aspetti fondamentali. Anzitutto, si puntualizza che i suoi tre elementi non hanno fra di loro un rapporto come quello fra sostanza e accidente, ma costituiscono piuttosto l’unitas essentialis e la differentia substantialis di tre cose in una: l’essenza non prevale, temporalmente e ontologicamente, sulla potenza e sull’azio­ ne 9. Inoltre, la triade costituisce una immagine del Creatore   Ibid., 505C-506A, p. 88, 2727-2737.  Nel linguaggio boeziano, la differentia substantialis è  l’elemento che permette di distinguere con sicurezza una substantia da un’altra all’interno di uno stesso genere o  nel confronto fra diverse specie. Si veda ad esempio Anicius Manlius Severinus Boethius, In  Isagoges Porphyrii commenta, Editio secunda, II, De differentia, 116AC, ed. S. Brandt, Wien - Leipzig 1906 (CSEL, 48), pp. 240, 14 - 241, 9: «Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere, specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis substantialibus informantur. Nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam facit. Addita enim sensibilis qualitas animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quae virgulta sunt. Igitur homo atque arbor genere differunt – utraque enim sub animalis genere poni non possunt –, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate». Ne deriverebbe dunque che la differentia della triade rispetto alle altre substantiae sarebbe proprio quella di essere una unità di tre elementi. Non risulta però così chiaro di quale genere farebbe parte la triade stessa (quello delle substantiae in generale? Q uello delle triadi?) e in che cosa la triade si distinguerebbe, a questo punto, dalla Trinità divina (ma al riguardo cfr. infra). La rapidità dell’accenno lascia pensare che Giovanni Scoto non abbia approfondito il problema; esiste anche la possibilità che si tratti di una 8 9

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nell’uomo (su questo aspetto si tornerà più diffusamente nel libro II, dove si dice chiaramente che il Padre corrisponde all’essentia, il Figlio alla virtus e lo Spirito Santo all’operatio 10). Il discepolo però non è  ancora del tutto convinto, perché la triade essentia – virtus – operatio gli sembra differente da quella agens – posse agere – agere (o da una qualunque altra triade in cui si possano trovare una sostanza e degli accidenti); egli si domanda dunque se «in natura rerum» possano reperirsi entrambe, e  in quel caso quale sia la loro differentia 11. L’articolata risposta del maestro contiene altre informazioni fondamentali: Q uisquis enim dixerit essentialem trinitatem, essentiam scilicet, virtutem, operationem, inconcussam incorruptibilemque omnibus inesse et maxime rationabilibus intellectualibusque naturis a  veritate, ut opinor, non recedit. Q uae trinitas in omnibus quibus inest nec augeri nec minui potest. Sequens vero trinitas veluti praecedentis trinitatis effectus quidam intelligitur esse. Non enim veritati obstrepat, ut aestimo, si dicamus ex ipsa essentia, quae una et universalis in omnibus creata est omnibusque communis atque ideo, quia omnium se participantium est, nullius propria dicitur esse singulorum se participantium, quandam propriam substantiam, quae nullius alicuius est nisi ipsius solummodo cuius est, naturali progressione manare. Cui etiam substantiae propria possibilitas inest, quae aliunde non assumitur nisi ex ipsa universali virtute ipsius praedictae universalis essentiae. Similiter de propria operatione specialissimae et substantiae et potestatis dicendum non aliunde descendere nisi ab ipsa universali operatione eiusdem universalis et essentiae et virtutis. Nec mirum si haec tria quae in singulis considerantur quasi quaedam accidentia espressione ridondante o di taglio retorico, volta a creare assonanza con «unitas essentialis», a voler designare soltanto, con linguaggio non tecnico, che la triade è una in οὐσία in tutti gli individui, i quali però sono naturalmente differenti gli uni dagli altri. Su questo difficile passaggio mi sono giovato di un confronto con Ernesto S. Mainoldi, che ringrazio anche per tutti i suoi altri suggerimenti. 10 Cfr. Periphyseon, II, 567A-568C, pp. 56-58, in partic. 567C-568B, p. 57, 1313-1320: «A. Hoc totum fides catholica universalis ecclesiae fatetur et, quantum datur, intelligit. Sed quorsum tendunt istac? N. Non aliorsum, nisi ut quaeramus pro viribus quomodo trinitas nostrae naturae Trinitatis creatricis imaginem et similitudinem exprimat, hoc est quid convenientius Patri, quid Filio, quid sancto Spiritui adiungendum. A. Nil mihi probabilius occurrit, quam ut Patris imaginem essentia, Filii virtus, Spiritus sancti operatio nostrae naturae accommodet». 11 Cfr. ibid., I, 506AB, pp. 88, 2740 - 89, 2750.

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praedictae universalis trinitatis dicantur esse primaeque apparitiones, quandoquidem ipsa per se unum sit et in omnibus quae ex ea et in ea existunt incommutabiliter permanet, nec augeri nec minui nec corrumpi nec perire potest. Haec vero quae specialissime in singulis considerantur augeri possunt et minui multipliciterque variari. Non enim omnes similiter participes sunt universalis essentiae et virtutis et operationis; alii enim plus, alii minus, nullus tamen participatione ipsius penitus privatur. Ipsa quoque in omnibus participantibus se una atque eadem permanet nullique ad participandum se plus aut minus adest, sicut lux oculis; tota enim in singulis est et in se ipsa. Augeri autem vel minui quidam defectus seu profectus est participationis, ideoque non irrationabiliter accidens esse iudicatur 12.

A differenza di quanto indicato in precedenza, stavolta la triade viene individuata in tutte le cose (omnibus inesse), «et maxime» nelle nature razionali e intellettuali: Giovanni Scoto non si deciderà mai su questo punto, stretto fra l’aspirazione a seguire Dionigi (che appunto limita la composizione triadica ad angeli e demoni) e la volontà, che del resto sarebbe maggiormente confacente al suo sistema, di estendere la triade a tutto il creato 13. Ma ancora più interessante è la distinzione fra la triade universale in sé, l’immutabile struttura ontologica ideale (contenuta, si può facilmente dedurre, nel Verbo divino), e le singole triadi che emanano (il verbo utilizzato è  proprio il neoplatonico manare; più avanti si dirà procedere 14) dai suoi tre elementi, e che costituiscono di fatto «apparitiones» e «accidentia» di essa. Diversamente dal loro modello queste triadi, ‘calate’ nella mutevolezza spazio-temporale, possono variare nella loro partecipazione alla triade (pur tuttavia senza mai distaccarsi completamente da quest’ultima): è uno spunto importante anche per l’escatologia del V libro, perché permette, di fatto, l’allontanamento dei malvagi dal modello divino attraverso la realizzazione di operationes lontane da quella che dovrebbe essere l’essentia umana.   Ibid., 506B-507A, p. 89, 2752-2782.   Come dimostrano, in ogni caso, i saggi di questo volume dedicati al neoplatonismo, tale oscillazione e incertezza era già presente negli autori greci. La triade è, in ogni caso, di nuovo propria di tutte le nature ibid., II, 567A, p. 55, 1281-1285. 14 Cfr. infra, il testo citato alla nota successiva. 12 13

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Poche righe più avanti troviamo infine l’unica, stringatissima, definizione della triade di tutto il Periphyseon, che apre subito ad altre considerazioni: N.  Trinam rerum intelligentiam, hoc est essentiae, virtutis, operationis immutabilem subsistentiam firmumque fundamentum rerum a conditore omnium constitutum ponamus, si placet. A. Ponendum arbitror. N. Deinde illa trinitas, quae in singulis considerari potest, et a  prima trinitate essentiali procedens, veluti praecedentis causae effectus eiusque primordiales motus quaedamque primordialia accidentia pensanda est, ut video. A. Hoc quoque fatendum. N. Q uicquid autem illis tribus sequentibus, sive interius sive exterius, sive naturaliter sive quibusdam evenientibus acciderit, veluti accidens accidentium fieri videtur. A.  Huic etiam conclusioni non resisto 15.

Il maestro definisce chiaramente la triade come la subsistentia di tutte le cose: il termine, piuttosto raro in Giovanni Scoto, secondo Kristell Trego indica (con minime oscillazioni) le cose che esistono nel loro permanere e  nel restare stabilmente ancorate all’essere 16. Ciò farebbe della triade il fondamento stesso delle cose esistenti, la base ontologica, eternamente e immutabilmente contenuta nel Verbo, dalla quale si sviluppano. Le varie triadi del creato derivano come un effetto deriva dalla propria causa, e non sono che accidenti della prima triade (e conseguentemente, ciò che accade ad esse è soltanto accidente di un accidente); nell’immediato prosieguo del discorso, il Maestro inserisce poi la triade nel contesto categoriale, dandole infine una valenza logica oltre che ontologica. Infatti gli «immutabilia fundamenta» di tutte   Ibid., I, 507BD, p. 90, 2795-2807.  In quest’ottica, il subsistere sarebbe qualcosa di più del semplice existere, e la subsistentia, per quanto accomunabile all’ ὕπαρξις greca, indicherebbe in particolare la dipendenza delle cose esistenti dalle loro essentiae eterne contenute nel Verbo: cfr. Trego, La subsistence des existants cit., in partic. pp. 168-170. La studiosa evidenzia chiaramente (ibid., pp. 170-173) come tale concezione sia in continuità con quella di Boezio, che considera subsistentia ogni ente che non ha bisogno di accidenti per sussistere, e che anzi può essere il loro sostrato. Q uesto senso corrisponde al greco οὐσίωσις, e Giovanni Scoto poteva derivarlo dalla trattazione di persona all’interno del Contra Eutychen et Nestorium. Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, Contra Eutychen et Nestorium, III, PL 64, [1337-1354], 1343D-1345B, ed. C. Moreschini, München - Leipzig 2000, pp. 214-219. 15 16

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le cose sono le ousiae/essentiae, che sussistono in una trinitas che è appunto costituita dalla stessa essentia, dalla virtus e dalla operatio; ma dato che l’essentia è anche, come è universalmente noto, la prima delle categoriae, e  che gli ulteriori nove generi sommi sono tutti accidenti del primo, allora gli altri nove generi sussistono nella triade e sono anche suoi accidenti. In questo modo, la triade in sé si sottrae anche dal punto di vista logico allo spazio e al tempo, che nella gerarchia degli esseri si trovano rispetto ad essa in posizione subordinata. Nam cum sint secundum Aristotelem decem genera rerum, quae kategoriae (id est praedicamenta) dicuntur, et huic divisioni rerum in genera nullum Graecorum vel Latinorum obstare reperimus, sub uno genere omnes primas essentias, quas Graeci ΟYCIΑC appellant – merito quia per se sunt et nullius indigent ut sint; sic enim a conditore omnium veluti quaedam immutabilia fundamenta stabilitae sunt – conclusas esse videmus; et ad similitudinem principalis omnium causae mirabili incommutabilique sua trinitate subsistunt, hoc est, ut saepe iam dictum, essentia, virtute, operatione. Cetera vero novem genera accidentia esse dicuntur. Nec sine ratione; non enim per se, sed in praedicta essentiali trinitate subsistunt. Nam quod a Graecis locus et tempus appellantur, ΩΝ AΝΕΥ (hoc est sine quibus cetera esse non possunt) non ita intelligendum est ut inter ea quae sine loco et tempore non valent subsistere substantialis illa trinitas praedicta rerum computetur. Ea nanque loci temporisque auxilio ut subsistat non eget, dum per seipsam ante supraque tempus et locum conditionis suae dignitate existat 17.

I luoghi fin qui esaminati sono già sufficienti per delineare una dottrina complessiva della triade, subsistentia di tutto (o  quasi) il creato, struttura logico-ontologica unitaria ma articolata in tre momenti simultanei, eterna e  immutabile nella mente divina, in divenire nella creazione attraverso le sue manifestazioni accidentali. Ma Giovanni Scoto è  ancora più preciso: la corrispondenza che lega la struttura triadica del reale alla Trinità si estende, a  dimostrazione di un perfetto ordine cosmico, sia ai tre apparati conoscitivi dell’uomo, sia addirittura alla triade agostiniana   Periphyseon, I, 507C-508A, pp. 90, 2807 - 91, 2825.

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esse – velle – scire; la corrispondenza è così esatta che, in relazione al parallelismo con intellectus, ratio e sensus interior, il discepolo può affermare che i due gruppi differiscono «solis nominibus», e  non costituiscono «duas substantiales trinitates, sed unam eamdemque» 18 (ciò lascia anche supporre che la conoscenza della triade sia in buona misura conseguibile dagli esseri umani, dato che il loro intero apparato conoscitivo è  come modellato su di essa). Analogamente, dalla tripartizione agostiniana la struttura ontologica si differenzia «in significationibus vocabulorum», e dunque non «iuxta rerum speculationem» 19. Chiarito che cosa sia la triade, diventa oltremodo interessante verificare come venga utilizzata nel pensiero eriugeniano: i richiami ad essa, spesso rapidi, ma sempre puntuali ed efficaci, attraversano tutto il Periphyseon, anche in punti cruciali. 18 Cfr. ibid., II, 570AC, pp. 60, 1386 - 61, 1399: «Et quid de praedicta trinitate naturae nostrae sentio pro ingenioli mei captu edisseram. Duae trinitates videntur esse, quibus nostra natura quantum ad imaginem Dei facta est probatur subsistere; sed consulta veritate non re ipsa sed solis nominibus a se invicem discrepare reperiuntur. Nam ΝΟYC et ΟYCΊΑ (hoc est intellectus et essentia) excelsissimam nostrae naturae partem significant. (…) Essentia enim animae nostrae est intellectus, qui universitati humanae naturae praesidet. ΛOΓΟC vero vel ΔYΝΑΜΙC (hoc est ratio vel virtus) secundam veluti partem insinuat. Tertia vero pars ΔΙΑΝΟIΑC et EΝΕΡΓΕIΑC (id est sensus et operationis) vocabulis denominatur. Ac per hoc non duas substantiales trinitates, sed unam eandemque ad similitudinem Creatoris sui conditam oportet nos intelligere». Il  parallelismo fra triade ontologica e  conoscitiva è  evocato ancora ibid., IV,  807BC, pp. 93, 2780 - 94, 2797 e ibid., 825BC, p. 119, 3581-3591. 19 Cfr. ibid., V, 941D-942B, pp. 114, 3661 - 115, 3683: «N. Age itaque. Dic, quaeso, putasne illam humanitatem, inter quam et suum Creatorem nulla creatura intercluditur, unam quandam simplicem, inseparabilem, partitione in se ipsa carentem naturam subsistere? A.  Non aliter existimo. Alioquin imago Dei non est eius qui unus et unitas inseparabilis est et una essentia in tribus substantiis, ad cuius imaginem trinitas quoque humanitatis intelligitur, quae est esse, velle, scire, ut sanctus Augustinus in libris Confessionum suarum disputat. Beatus autem Dionysius Areopagita eandem trinitatem essentiam, virtutem et operationem perdocet. Nec inter se dissonant, nisi in significationibus vocabulorum, neque hoc in omnibus. Ambo siquidem esse dicunt, unus autem velle, alter virtutem. Nec in hoc iuxta rerum speculationem inter se discrepant. Nulla enim naturalior et substantialior virtus est humanitatis quam bene velle. Unus item ait scire, alter operationem. Et quae est rationabilis naturae operatio, praeter seipsam et Deum suum (quantum datur sciri, quia superat omnem scientiam) scire? Haec namque est naturalis nostra operatio, quae non extra nos, sed intra nos constituta est. Q uid enim nosse appetimus, nisi causam nostram intra nos ineffabili providentia et ultra nos incomprehensibili virtute? Ac de his in superioribus libris satis inter nos est actum, ut arbitror».

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La triade ha anzitutto un certo ruolo nella definizione degli attributi divini e della stessa essentia divina. Nel secondo libro, il maestro presenta al discepolo assai turbato («valde me movet» 20) l’ignorantia che Dio ha di Se stesso, e ripercorrendo i caratteri della Sua infinità gli attribuisce essenza, potenza ed atto inesauribili, per quanto incomprensibili da parte umana 21. Ciò lascerebbe supporre che anche in Dio si trovi la triade, anche se questo assunto andrebbe non solo contro il basilare principio dell’unità e indivisibilità divine, ma anche contro i numerosi ed espliciti passaggi in cui Giovanni Scoto nega che il Creatore abbia una essentia 22. In realtà, come è noto, la questione è ancora più complessa: Dio è  più volte considerato «essentia omnium» o  «summa ac vera essentia», ed è la «participatio» a Lui che dona la stessa essentia alle creature 23; in più, un passo molto esplicito sembra creare un parallelismo esatto fra elementi della triade, parti dell’uomo e persone della Trinità. Nell’ambito della trattazione sulla seconda natura, il maestro riconosce infatti alla Trinità una sola operatio, ammettendo però che ci siano differentiae e proprietates di ciascuna persona 24; richiamando poi l’idea che l’uomo sia creato «ad imaginem et similitudinem Dei» (quanto all’anima, naturalmente, e non quanto al corpo), e che tutte le cose create (qui senza la limitazione alle nature razionali e  intellettuali 25) sussistano nella triade, invita   Ibid., II, 593C, p. 93, 2202.  Cfr.  ibid., 593BC, p.  93, 2193-2200: «Q uod enim infinitum est omni ratione et modo infinitum est: per essentiam, per virtutem, per operationem, per utrosque fines, sursum dico et deorsum, hoc est secundum principium et finem. Incapabile enim secundum essentiam, et inintelligibile secundum virtutem, et secundum operationem incircumscriptum, et sine principio desursum et sine fine deorsum est infinitum, et simpliciter dicendum ac verius per omnia infinitum». 22  Per porre solo due esempi: Dio è «superessentialis», il che significa è che «negatio essentiae», ibid., I, 462B, p. 31, 849-853; ibid., III, 681A, p. 88, 25492553, si dice invece che il Creatore, «supra omnem essentiam», appare «in omni essentia» creata, ovvero nelle theophaniae. 23 Cfr. rispettivamente ibid., I, 518A, p. 104, 3258-3264; III, 622C, p. 8, 650; 644A, p. 38, 1044-1046. 24 Cfr. ibid., II, 562C, p. 280, 2600-2605: «Q uanquam enim trium substantiarum divinae bonitatis una atque eadem communisque credatur et intelligatur esse operatio, nulla tamen differentia ac proprietate dicendum est carere». 25  Cfr. supra, alla nota 13. 20

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l’alumnus a  indagare la corrispondenza tripartita fra uomo e Dio 26. Q uesta la sua risposta: A.  Nil mihi probabilius occurrit, quam ut Patris imaginem essentia, Filii virtus, Spiritus sancti operatio nostrae naturae accommodet. Paterna siquidem substantia, quae de se substantiam filiolitatis genuit et processionis substantiam ex se emisit, non immerito principalis dicitur substantia. Non quod una essentia sit sanctae Trinitatis separabilis – est enim una atque individua – sed quod substantialibus differentiis, dum sit una, non careat. Est enim Deitas genitrix et Deitas genita et procedens Deitas, dum sit una Deitas individua, non tamen substantialibus differentiis indiscreta. Virtus quoque non incongrue Deo Filio adiungitur, quoniam saepe virtus Patris a theologia nominatur. Sed ut unum a pluribus testimoniis accipiamus, audi Apostolum: Invisibilia enim eius per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque eius virtus et aeternitas (Rm 1, 20). In hoc enim loco virtutem Patris sapientiam Patris intelligimus, aeternitatem vero Spiritum sanctum, teste Maximo venerabili magistro. Nam quod Spiritus sanctus virtutis nomine in Scripturis solet appellari, testatur Evangelium, Domino dicente, mulierem ΑIΜAPOYCAN (hoc est fluxum sanguinis patientem) sanans: Sensi a me exisse virtutem (Lc 8, 46), hoc est Spiritum sanctum, qui dividit dona sanitatum. Q uid dicam de operatione essentiali nostrae naturae? Nonne aptissime sancto Spiritui copulatur, cui veluti proprie operatio virtutum divinarumque donationum et universaliter et proprie unicuique divisio tribuitur? In naturae igitur nostrae essentia paternae substantiae, in virtute vero substantiae Filii, in operatione substantiae Spiritus sancti proprietas dignoscitur 27.

«Responsionem tuam a  veritate non discrepare arbitror», approva il maestro, sancendo così una contraddizione apparentemente radicale 28. In realtà, è facile rendersi conto di come il problema non sussista.

 Cfr. ibid., 567AD, pp. 56, 1287 - 57, 1318.   Ibid., 568AD, pp. 57, 1319 - 58, 1344. Subito dopo queste affermazioni, viene poi instaurata la corrispondenza fra triade ontologica e triade gnoseologica di cui si è discusso supra, testo all’altezza della nota 18. 28  Ibid., 568D, p. 58, 1345. 26 27

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Il passo appena citato, infatti, non costruisce una corrispondenza esatta, ma parla piuttosto di rimandi fra proprietates e di un parallelismo dove sono chiamate in causa soltanto imagines; che ciascuna delle persone della Trinità abbia delle proprietates non è dato in discussione, ma è ancora più notevole osservare come, in Giovanni Scoto, il termine imago sia spesso usato tecnicamente a indicare una delle figure retoriche, quella che, per usare le parole del Rhetor ad Herennium, traccia una «formae cum forma cum quadam similitudine conlatio» 29. Il rimando appare dunque soltanto metaforico – e apre peraltro una possibile riflessione su quanto e  come l’ars rhetorica sia presente nel tessuto del Periphyseon. Volendo scavare ancora più a fondo, in realtà la questione appare già risolta nel libro I, nel corso della lunga indagine sulla possibilità di applicare le dieci categorie a Dio. Il maestro è chiaro fin dal principio della discussione: di Dio potranno dirsi soltanto cose verisimiles, altro termine cruciale della teoria retorica latina; tutte le predicazioni potranno essere soltanto trans­ latae (termine che di per sé indica la metafora), perché Dio non è né un genere né una specie; e dunque, come viene detto alla fine della trattazione, del Creatore si può parlare solo «quadam similitudine aut dissimilitudine aut contrarietate aut oppositione» 30. Con buoni argomenti si può dunque sostenere che la triade non si trovi in Dio, del quale è dunque preservata l’assoluta unità; e che le (rare) occasioni in cui Giovanni Scoto la attribuisce al Creatore 29 [Cornificius], Rhetorica ad C.  Herennium, IV,  49, 62, ed. G.  Calboli, Bologna 1969 (Edizioni e saggi universitari di filologia classica, 11), p. 196. 30 Cfr. rispettivamente: Periphyseon, I, 458A, p. 26, 674-681: «De hoc negotio nescio quis breviter atque aperte potest dicere. Aut enim de huiusmodi causa per omnia tacendum est et simplicitati orthodoxae fidei committendum, nam exsuperat omnem intellectum, sicut scriptum est: Q ui solus habes immortalitatem, et lucem habitas inaccessibilem (1Tm 6, 16). Aut si quis de ea disputare coeperit, necessario multis modis multisque argumentationibus verisimile suadebit, duabus principalibus theologiae partibus utens» (…); 458C, p. 27, 699-705: «Sed prius considerandum, ut arbitror, cur praedicta nomina, essentiam dico, bonitatem, veritatem, iustitiam, sapientiam, ceteraque id genus, quae videntur non solum divina sed etiam divinissima esse, et nil aliud praeter illam ipsam divinam substantiam seu essentiam significare metaphorica fieri, id est a creatura ad Creatorem translata, praedictus sanctissimus pater atque theologus pronuntiarit»; 510D, p. 95, 29502955. Per una classica definizione della metafora cfr. ancora [Cornificius], Rhetorica ad C. Herennium, IV, 34, 45, ed. Calboli cit., p. 184: «Translatio est, cum verbum in quandam rem transferetur ex alia re, quod propter similitudinem recte videbitur posse transferri».

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vadano intese soltanto come metafore. In questo, dunque, il filosofo carolingio non si discosta dalla tradizione neoplatonica alla quale indirettamente fa riferimento, la quale aveva come caposaldo l’idea che le ἀρχαί siano indissolubilmente unitarie 31. La triade ha però, come in parte si è già visto, un ruolo cruciale nel disegnare la natura dell’uomo. Naturalmente l’anima ha una articolazione triadica, come viene ampiamente dimostrato nel IV libro, all’interno del cosiddetto Esamerone eriugeniano, nello specifico nella trattazione dedicata al quinto giorno della creazione 32. Dividendo il concetto di vita – ritenuto pressoché coincidente con quello di anima 33 – nelle sue quattro differenze intellectualis, rationalis, sensualis ed insensualis, il maestro osserva che tutte sono presenti nell’uomo, che in quanto tale è «creaturarum omnium officina» 34; tuttavia, essenza, potenza e attività dell’anima sono una soltanto, per quanto essa si articoli in modalità differenti che svolgono, ciascuna, specifiche e determinate mansioni. Et ne dicas: si ergo omnis species vitae in homine est, non unam sed multas et a  se differentes vitas continet,  habens irrationalem et rationalem, sensualem simul et germinalem. Intuere diligentius humanae animae potentias, quae, dum sit unius eiusdemque subsistentiae et virtutis et operationis in omnibus simul corporibus humanis et generaliter et in singulis specialiter, cunctos tamen vitales motus administrationesque in corpore suo intra seu extra potest peragere. Siquidem ultra corporeos sensus et ratiocinatur et intelligit, ut angelica vita; in sensibus corporeis sentiendi vim exercet similitudine irrationabilium,  suam rationabilitatem non deserens; nutrit et auget corpus suum, ut illa quae sensu caret herbasque ac ligna penetrat. Ubique in se ipsa tota et in omnibus tota totos sensus suos custodit 35.

A partire da un nucleo essenziale e immutabile, dunque, l’anima si articola in funzioni e motus vitales che agiscono effettivamente 31 Si vedano, in questo stesso volume, in partic. i saggi di M. Abbate e I. Grimaldi. 32  Sull’Esamerone cfr. la rapida ed efficace sintesi di G. d’Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena, in Storia della teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I: I principi, [pp. 243-303], pp. 277-281. 33 Cfr. Periphyseon, III, 732CD, p. 163, 4756-4766. 34  Ibid., 733B, p. 163, 4786-4877. 35  Ibid., 733C-734A, p. 164, 4808-4822.

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sulla realtà: e così l’uomo comprende e conosce a differenti livelli, sente, ma anche si nutre e cresce, operando senza mutare la propria essenza. Incidentalmente, tutto ciò permette a  Giovanni Scoto anche di confutare la dottrina, per lui incomprensibile, che vuole mortale l’anima degli animali: alla spiegazione logica (tutte le anime fanno parte dello stesso genere, e la dissoluzione di una delle specie, ad esempio quella irrazionale, porterebbe alla dissoluzione del genere stesso) egli affianca quindi quella ontologica (se il genere ‘anima’ ha una sostanzialità, e  tutte le sue specie sono dotate dell’articolazione triadica, che è immutabile e incorruttibile, non ci si può attendere che il genere si corrompa o perisca) 36. Come pure si è  già accennato, la triade ha, in relazione all’uomo, anche un importante ruolo conoscitivo. Nella trattazione sul locus dalla quale sono partite queste riflessioni, e a fronte di una ulteriore menzione della incorruttibilità e inseparabilità di essentia, virtus e operatio, il discepolo chiede un esempio che illustri la natura dei tre componenti 37. La scelta del maestro non è certamente casuale: N.  Nulla natura sive rationalis sive intellectualis est, quae ignoret se esse, quamvis nesciat quid sit. A. Hoc non ambigo. N.  Dum ergo dico ‘intelligo me esse’, nonne in hoc uno verbo quod est ‘intelligo’ tria significo a  se inseparabilia? Nam et me esse, et posse intelligere me esse, et intelligere me esse demonstro. Num vides uno verbo et meam OYCIAN meamque virtutem et actionem significari? Non enim intelligerem si non essem; neque intelligerem si virtute intelligentiae carerem; nec illa virtus in me silet sed in operationem intelligendi prorumpit. A. Verum et verisimile 38.

 Cfr. ibid., 738AB, p. 170, 5009-5025.  Cfr. ibid., I, 490AB, pp. 66, 2044 - 67, 2049: «N. Haec enim tria in omni creatura sive corporea sive incorporea, ut ipse [scil. Dionysius Areopagita] certissimis argumentationibus edocet, incorruptibilia sunt et inseparabilia: OYCIA, ut saepe diximus, ΔΙNAMIC, EΝΕΡΓΕIΑ (hoc est essentia, virtus, operatio naturalis). A. Horum trium exemplum posco». 38  Ibid., 490B, p. 67, 2050-2060. In questo passaggio, così come ibid., V, 881A, p. 31, 930-931 citato infra, e ibid., 915C, 3430-3431, pur senza riferimento specifico alla triade, Giovanni Scoto usa il sintagma «operatio naturalis». È facile supporre come l’aggettivo voglia specificare la natura effettiva, sul creato visibile, del dispiegamento dell’actio. 36 37

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Il maestro spiega che ogni natura rationalis o intellectualis (dunque, angeli e  uomini) sa di essere e  può dunque dire, in questa basilare consapevolezza, ‘intelligo me esse’. Ma in questo intelligo sono compresi tre elementi inseparabili: l’uomo infatti non solo sa di essere, ma anche di poter comprendere di essere, e può attualizzare consapevolmente («demonstro») tale cognizione. In queste poche righe, triade e processo gnoseologico si affiancano e quasi si sovrappongono: ogni uomo è per essenza, comprende per la virtù dell’intelligenza, e tale virtù si esprime nella fattuale operazione di comprendere, atto che appare possibile proprio in funzione della triplice articolazione ontologica dei soggetti di conoscenza. L’ordine triadico del cosmo, insomma, si esprime anche nel processo triadico dell’acquisizione del sapere; in questo parallelismo, è credibile intravedere nuovamente la possibilità, per l’uomo, di conoscere la vera natura delle cose, nella stabilità delle loro essenze, al di là dell’apparenza fenomenica 39. Altro luogo d’elezione, nel Periphyseon, nel quale la triade è fattivamente utilizzata per dare ragione della struttura del reale, ancora una volta in relazione all’ambito delle arti liberali, è  il discorso sull’aritmetica nel libro III. Maestro e discepolo si trovano subito d’accordo sul fatto che la monade contiene in sé eternamente tutti i numeri, che sono infiniti come la monade stessa; da essa procedono la diade e la triade, che sono l’origine del pari e del dispari (da cui derivano a loro volta tutti gli altri numeri) 40. La trattazione si sposta poi sull’origine dei numeri: per il Nutritor, essi – ed è qui che interviene, in una delle sue metamorfosi, la terminologia della triade – «vi et potestate» sono eterni nella monade, «actu et opere» sono creati. Nella loro idealità, insomma, essi permangono «in sapientia et scientia aeternaliter», ma come tutti gli altri modelli sono contemporaneamente creati, e  ciò permette che la loro potenzialità possa dispiegarsi attualmente nel reale. N.  Omnes numeros causaliter (hoc est vi et potestate) in monade semper esse non dubitamus. A. Hinc dubitare minus est intelligentium. N. Monada autem in sapientia et scientia  Cfr. d’Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena cit., pp. 273-274.  Cfr. Periphyseon, III, 651A-654B, pp. 47, 1350 - 52, 1444. Per questa sezione cfr. d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 358-359. 39 40

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aeternaliter subsistere intelligis, ut arbitror. A. Si aliter sentio, ab ipsius monadis vera cognitione alienus sum. N. Non alios reris, ut opinor, numeros in monade vi et potestate constitutos, et alios actu et opere in genera et species intelligibilium numerorum, sed eosdem profluentes. A.  Non alios, eosdem vero, sed aliter. N. Dic, quaeso, quomodo aliter. A. In monade quidem vi et potestate, in generibus vero et formis actu et opere 41.

Per quanto qui Giovanni Scoto stia operando ulteriori distinzioni (fra vis e  potestas da una parte, e  actio ed opus dall’altra), non è  difficile riconoscere qui il contesto triadico: i  numeri in sé, attraverso passaggi intermedi, ‘transitano’ dal mondo ideale a  quello reale mantenendo intatta la loro essenza. Infatti, come viene chiarito nel prosieguo della discussione, la vis dei numeri è la loro virtus, in funzione della quale esistono nella monade; la potes­ tas è la possibilità con la quale possono moltiplicarsi nei generi e nelle specie; l’actus è il moto dell’animo con cui si può contemplare, unicamente in modo intellettuale e nella memoria, il modo in cui i numeri possono moltiplicarsi dalla monade; l’opus, che si intende stare per operatio, è invece l’azione dell’anima attraverso la quale si comprendono e in qualche modo si ‘riconoscono’ con i sensi i numeri, rivestiti della materia 42. Grazie alla struttura triadica, dunque, è possibile comprendere come qualcosa di eterno si esprima nella infinita dispersione del reale, senza mutare se stesso: e i numeri sono un caso eclatante, perché sono essi, in certo modo, a creare e regolare la realtà 43. Il quarto e  fondamentale punto in cui la triade è  strumento perfetto al servizio del sistema eriugeniano è, come non è difficile

  Periphyseon, III, 657AB, p. 56, 1576-1589.  Cfr. ibid., 657B-659A, pp. 56, 1590 - 58, 1651. 43 Si veda l’interessantissimo spunto ibid., 651D-652A, p.  49, 1373-1383: «Siquidem non solum aliarum trium metheseos sequentium se partium (hoc est geometriae, musicae, astrologiae) immobile subsistit fundamentum primordialis­ que causa atque principium, verum etiam omnium rerum visibilium et invisibilium infinita multitudo iuxta regulas numerorum, quas arithmetica contemplatur, substantiam accipit, teste primo ipsius artis repertore Pithagora summo philosopho, qui intellectuales numeros substantias rerum omnium visibilium et invisibilium esse certis rationibus affirmat. Nec hoc scriptura sancta denegat, quae ait omnia in mensura et numero et pondere (Sap 11, 21) facta esse». 41 42

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intuire, la teoria del reditus 44. Giovanni Scoto deve infatti dimostrare come tutto il reale torni al  Creatore mantenendo le proprie specificità, ma contemporaneamente riunendosi a Lui in perfetta unità: nulla più che la dialettica di essentia, virtus e operatio poteva illustrare tale ‘impossibile’ composizione. Introducendo il difficile concetto dell’adunatio di tutte le sostanze, in cui le inferiori saranno comprese nelle superiori, le corporee nelle spirituali, e infine tutte in Dio, il Nutritor risolve i ‘risibili’ dubbi dell’Alum­ nus proprio attraverso un cristallino riferimento alla triade: se i suoi tre elementi sono unitari ma contemporaneamente distinti, nessun problema ci sarà (in una silenziosa applicazione del topos a comparatione 45) a una unificazione del creato che salvi le differenze dei singoli. N.  Cur te talia movent multum admiror, cum tibi, prout potui, suaserim intelligibilium naturarum adunationem fieri posse sine cumulo et compositione, proprietatibus observatis et incommutabiliter manentibus. Tria etenim sunt, quae in omni substantia sive corporibus adhaerente sive omni corpore absoluta (si tamen aliqua substantia est praeter Deum, quae sive intelligibili sive sensibili corpore careat) incommutabilia et inconversibilia permanent, ut in prioribus libris multipliciter perdocuimus: essentia, virtus, et naturalis operatio. Nunquid haec tria unum sunt, et non unum compositum,  sed simplicissimum unum et inseparabilis unitas? 44  Seguiamo qui in generale l’impostazione di G. d’Onofrio, «Cuius esse est non posse esse»: la quarta «species» della natura eriugeniana tra logica, metafisica e gnoseologia, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and his Time. Proceedings of  the Tenth International Conference of  the Society for the Promotion of  Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30), pp. 367-412. Cfr. anche Id., «Inoperans gratia» cit., pp. 360-362, e L. M. Harrington, Eastern and Western Psychological Triads in Eriugena’s Realized Eschatology, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena cit., pp. 447-462. 45 Cfr. G. d’Onofrio, «Fons scientiae». La dialettica nell’Occidente tardoantico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo, 31), p. 266: «L’argumentum a comparatione, ultimo degli argomenti inerenti alla cosa, è  diviso in tre gradi diversi, a seconda che si tratti di una comparatio maiorum, di una comparatio minorum o  infine di una comparatio parium. Cicerone ne offre una classificazione molto particolareggiata, il cui scopo è quello di mostrare tutte le forme di confronto possibile tra realtà della stessa natura, diverse tra loro per numero, forma, intensità ecc.».

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Horum enim nullum sine altero esse potest, quoniam unius eiusdemque substantiae sunt, et tamen ratione consulta nonnulla differentia discernuntur. Aliud est enim esse, aliud posse aliquid efficere, aliud ipse effectus. Aliud est arbori esse, aliud posse aliquid crescere, aliud crescere. Aliud homini est esse, aliud posse intelligere, aliud intelligere quod potest intelligere. Et haec tria omni creaturae visibili et invisibili inesse dubium non est 46.

Indirettamente la triade giunge addirittura a salvare e giustificare l’escatologia eriugeniana: nel permanere del singolare nell’universale, meriti e colpe degli individui potranno certamente essere considerati e giudicati come tali. Tuttavia, come viene più avanti illustrato, volontà di peccare e superbia non entreranno a far parte della quarta natura: né l’una né l’altra, infatti, sono essentia, virtus o  operatio, perché, nel contesto agostiniano-neoplatonico in cui Giovanni Scoto si muove, il male non ha consistenza ontologica 47. La certezza che nulla, nella quarta natura, perderà i  propri caratteri, sta pure nella considerazione che le essenze non sono passibili di corruzione: e anche per giustificare questo assunto, il maestro ricorre in due rapidi passaggi, ancora del V libro, alla dottrina triadica. La creazione in tutte le sue forme, infatti, è buona, e di conseguenza «nullum bonum aequale sibi bonum corrumpere appetit, dum eiusdem virtutis sint et operations et essentiae» 48. Tanto più questo accadrà nel reditus; nel punto cruciale in cui il maestro sconfessa l’esistenza di supplizi corporali eterni, si ribadisce che nessun patimento materiale potrà toccare la «ipsius (…) naturae trinitatem (quae est essentia, virtus, operatio)» 49. Ricollegandosi poi strettamente a  Dionigi, Giovanni Scoto completa il quadro spiegando che neanche il male compiuto dai demoni,   Periphyseon, V, 881AB, p. 31, 922-940. Si noti qui come torni, nell’esempio che riguarda l’uomo, la dimensione intellegibile che ben si adatta alla triade. Altri esempi che vengono aggiunti nelle righe immediatamente successive sono la differenza delle specie nei generi, la singolarità dei punti che costituiscono una linea e, nuovamente, i numeri che sussistono nella monade ma si esplicano nella realtà. 47 Cfr. ibid., 944A, p. 117, 3761-3767. Si noti che, in base allo stesso principio, è possibile inferire – per quanto Giovanni Scoto non lo dica direttamente – che anche la materia, non essendo dotata di essentia, sia priva della triade. Cfr. ibid., I, 479BC, p. 53, 1583-1595. 48  Ibid., V, 956C, p. 135, 4354-4356. 49   Ibid., 939B, p. 111, 3565-3566. 46

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che non sono malvagi per natura, potrà intaccare la loro essenza o natura, triadicamente incorruttibile 50. Alla luce di tali evidenze testuali, è possibile affermare che la triade, in Giovanni Scoto, diventa un principio strutturale della creazione 51; presente in tutti gli aspetti di quest’ultima, permette non soltanto la giustificazione del divenire delle cose nella permanenza dell’essere, ma getta lumi sulla natura dell’uomo, sulla struttura ordinata del cosmo, sul destino escatologico delle cose. Ma non basta: nella sua corrispondenza con le strutture conoscitive degli esseri razionali, lega in un armonico rapporto uomo e  Dio.  Conoscendo il mondo, l’uomo riconosce la triade, e  in questo modo si avvicina al Creatore: essa «diventa così principio di riconoscimento da parte delle creature intelligenti tanto della verità eterna delle cose create nella mente di Dio, quanto della concretizzazione fattuale di tale verità divina nelle cose create» 52. Se forse è eccessivo dire, allora, che Giovanni Scoto ha basato il proprio sistema sulla triade dell’essere, si può però certamente affermare che essa non è, nel suo pensiero, una dottrina secondaria o un corollario scarsamente operante, ma al contrario un elemento vivo e centrale, in grado di spiegare punti nodali della sua metafisica. Forse anche per questo essa è  riconosciuta fra i  massimi beni dell’uomo, quelli che occupano la sedes principalis della nostra natura: Sed notandum neminem summis naturae nostrae bonis male uti valere. Naturalis siquidem virtus essentia, virtute et operatione nullum sinit abuti, sicut neque sapientia et intellectu et ratione, quoniam haec sunt quae principalem naturae nostrae possident sedem 53.

50  Cfr. ibid., 933A-934B, pp. 102, 3251 - 104, 3302, e i riferimenti supra, alla nota 47. 51 Cfr.  Harrington, Eastern and Western Psychological Triads cit., pp. 449-450. 52  d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., p. 352. 53   Periphyseon, V, 975C, 7716-7724.

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ANTONIO SORDILLO

LA TRIADE DELL’ESSERE DA EIRICO DI AUXERRE A EGIDIO ROMANO Alter ab altero, et uterque unum; non duo unus, sed alius in alio, quia non aliud in utroque. Hilarius Pictaviensis, De Trinitate, III, 4. Dasein ist Pflicht, und wars ein Augenblick. J. W. Goethe, Faust, II, 9418.

Negli esametri prefatori al libro VI della sua Vita di San Germano Eirico di Auxerre (841-876) illustra le ragioni di una perfetta corrispondenza tra Creatore e creazione a partire dalla loro comune struttura triadica, per cui nella trinitas di ogni ente (costituita da οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια), senza la quale non vi sarebbe alcuna natura, si riflette fedelmente la Trinitas divina. Tale corrispondenza è  rimarcata anche a  proposito della triade delle facoltà dell’anima (νοῦς, λόγος e διάνοια), a sua volta immagine di Dio: O clemens Trinitas, nostrae quoque fons trinitatis. Nam tribus omne subest: Οὐσίαν, δύναμιν dicunt, ἐνέργιαν atque; Q uis sine, nulla φύσις. Est etiam trinitas animae contermina nostrae, Q ua fit imago Dei: Νοῦς haec, atque λόγος, etiam διάνοια vocatur, Hanc quoque tu tribuis 1.

A fugare ogni dubbio circa l’utilizzo di una terminologia più o  meno eriugeniana da parte del maestro di Auxerre interviene lo scoliaste 2 dell’attuale ms.  Paris, Bibliothèque Nationale, 1  Heiricus Antissiodorensis, Vita sancti Germani episcopi Antissiodorensis, VI, PL 124, [1131-1208], 1194D-1195A, ed. L. Traube, in Poetae latini aevi Carolini, III, ed. L. Traube, Berlin 1886 (MGH, Poetae Latini Medii Aevi, 3), p. 501. 2  La timida opinione di Traube è che Eirico redasse personalmente l’attuale ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 13757 o, con buona probabilità, ne curò la redazione. Cfr. L. Traube, Prooemium, ibid., [pp. 421-426], p. 425. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127962 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 343-364     © 

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lat. 13757, il quale, oltre ad arginare la mania di Eirico per le parole greche, di cui la Vita è  disseminata 3, fornendo la traduzione supra lineam della seconda triade in essentia, virtus e operatio, aggiunge, a  margine, un testo esplicativo che riprende il Periphyseon di Giovanni Scoto: In omni natura rationabili intellectalique tria haec inseparabilia semperque incorruptibiliter manentia considerantur. Horum exemplum. Nulla natura, sive rationabilis seu intellectualis, est, quae ignorat se esse, quamvis nesciat, quid sit. Dum ergo dico: ‘Intellego me esse’, nonne in hoc uno verbo, quod est intellego, tria significo a se inseparabilia? Nam et me esse et posse et intelligere me esse demonstro. Non enim intelligerem, si non essem; neque intelligerem, si virtute intellegentiae carerem; nec illa virtus in me silet, sed foras in operationem intellegendi prorumpit 4.

Prendendo in prestito l’esempio onto-epistemologico dall’Eriu­ gena, lo scoliaste dimostra qui l’assoluta incorruttibilità e  inseparabilità di essenza, potenza e  atto: nel pronunciare, infatti, l’espressione «intellego me esse», la significatività della parola intellego, spiega, racchiude sia l’essenza (me esse), sia la potenza (posse me esse), sia l’atto stesso del comprendere (intelligere me esse). Dunque la capacità di comprendere prescinde da qualcuno che comprenda, e  l’atto stesso della comprensione non avrebbe ragion d’essere senza la sua potenzialità, la quale, a  sua volta, erompe nell’atto dell’intellezione. Tuttavia, da studi più recenti è  emerso che, pur non trattandosi della mano di Eirico, tale manoscritto poteva essere appartenuto a Eirico stesso. Cfr. G. Billanovich, Dall’antica Ravenna alle biblioteche umanistiche, in «Aevum», 3 (1956), [pp. 319-353], p. 336 (e in «Annuario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», aa.aa. 1955-56/1956-57, [pp. 73-107] p. 90), e, soprattutto, É. Jeauneau, Heiric d’Auxerre disciple de Jean Scot, in L’École carolingienne d’Auxerre, de Murethach a Remi 830-908. Entretiens d’Auxerre 1989, éd. par D. Iogna-Prat C. Jeudy - G. Lobrichon, Paris 1991 [pp. 353-370], p. 357. 3 Secondo quanto sostenuto da Jeauneau, probabilmente Eirico non conosceva il greco, ma si è limitato a trascriverne delle parole, tutte attinte dal vocabolario eriugeniano, comprese quelle relative alla triade οὐσία, δύναμις e ἐνέργεια. Cfr. ibid., pp. 358-360. 4 Ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 13757, f. 70v. Per il riferimento al Periphyseon, cfr. Johannes Scotus Eriugena, Periphyseon, I, 48, PL 122, [440-1022], 490AB, ed. É.  A. Jeauneau, 5  voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, 1996, pp. 66, 2044 - 67, 2059.

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Lo scolio chiarisce pertanto come i  tre momenti della triade corrispondano, in Giovanni Scoto come in Eirico, suo intelligente discepolo 5, all’essere di ogni creatura, alla loro potenzialità di essere, divenire o agire e all’attualizzazione di tale potenzialità. Se, dunque, i meccanismi epistemologici che stanno alla base dello scolio intendono chiarire le dinamiche che portano all’atto del comprendere, lo fanno in ragione di una corrispondenza biunivoca che è instaurata ab origine tra la realtà di tutto ciò che è e  non è (la natura in senso eriugeniano) e la struttura epistemologica stessa dell’anima. È quindi questa la ragione della necessità di una esplicazione a margine del folio: nella descrizione del processo di ascesa di san Germano dallo stato mortale alla vera patria, passando per tutti gli stadi gnoseo-ontologici del reditus, Eirico avverte la necessità di illustrare la struttura del reale. Nel fare ciò, non può non servirsi del vocabolario eriugeniano, di cui la Vita è intrisa e, nello specifico, è la struttura triadica di essentia, virtus e operatio, che è insita nell’anima quale specchio della Trinità divina, a costituire, quindi, l’imprescindibile scheletro della natura 6. Una ulteriore conferma della conoscenza della triade da parte di Eirico è  data da un suo commento a  un passo del Categoriae decem 7. Anche in questo caso i concetti di potenza e atto non vengono concepiti come semplici modi dell’essere o  sue manifestazioni, ma come componenti complementari della natura in senso 5  Jeauneau definisce l’eriugenismo di Eirico profondamente assimilato, tutt’altro che superficiale. Cfr.  É. Jeauneau, Les écoles de Laon et d’Auxerre, in La scuola nell’Occidente Latino dell’Alto Medioevo, XIX Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 15-21 aprile 1971), 2 voll., Spoleto 1972, II, [pp. 495-522], pp. 511-520. 6 Sulla triade dell’essere in Giovanni Scoto e le sue fonti neoplatoniche si rimanda, oltre che agli altri contributi contenuti nel presente volume, a G. d’Ono­ frio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e  potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. 7   Si tratta di una parafrasi del iii-iv secolo poco fedele al testo aristotelico che la tradizione manoscritta ha falsamente attribuito ad Agostino e che rappresenta una, se non l’unica fonte attraverso cui Giovanni Scoto ha conosciuto il trattato aristotelico. In generale, e per il passo commentato da Eirico, cfr. Pseudo-Augustinus, Paraphrasis Themistiana (Categoriae decem), 103, ed. L. Minio-Paluello, Brugge - Paris 1961 (AL, I, 1-5), p. 156, 15-18.

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eriugeniano 8. Ciò apre l’indagine a un’ulteriore possibilità che la scuola di Auxerre (e, più in generale, l’alto Medioevo) possa aver assorbito i concetti di potenza e atto intesi in questa chiave neoplatonica, rinvenendoli nel corpus di opere di logica di quel periodo 9. Eirico di Auxerre consegna dunque ai secoli successivi una traccia significativa della triade dell’essere οὐσία οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια, letta in chiave gnoseologica sulla scorta dell’insegnamento di Giovanni Scoto. Sorprende allora il dato della scomparsa della triade fino al secolo dodicesimo, il che lascia supporre che essa attraversi i secoli centrali del Medioevo percorrendo sentieri sotterranei 10. Diverso è  il discorso per Ugo di San Vittore 8 Cfr. Heiricus Antissiodorensis, Commentum super Augustini Categoriae decem, ed. (parz.) in J. Marenbon, From the Circle of  Alcuin to the School of  Auxerre, Cambridge 1981 (Cambridge studies in medieval life and thought. III ser., 15), p. 192: «Tria sunt in omni re: usia, dinamis, energia. Usia quidem ipsum est esse. Dinamis virtus et potentia naturalis, qui inest omni usyae, sicut etiam in ipsis cernitur elementis. Utpote lapis difficile per naturalem potentiam secatur, nec facile redintegratur; aqua e contra facile quidem divisionem recipit, nec minus integritatem e vestigio recipit. Energia tertio sequitur, id est operatio, quia post scibile cui inest scientia, id est dinamis, ei subsequatur operatio, dum scientia ipsa percipitur ab aliquo». 9 Per esempio, in un Commento all’opera di Marziano Capella è Remigio di Auxerre (841-908) a riutilizzare le nozioni di potenza e atto riguardo la qualità del lottatore, propria del suo corpo già in potenza anche prima della sua manifestazione in età adulta. Cfr. Remigius Antissiodorensis, Commentum in Martianum Capellam, IV, 171, ed. C. E. Lutz, 2 voll., Leiden 1962-1965, II, p. 38, 2-8. Sulla diffusione del corpus logico in epoca carolingia, cfr. L. Minio Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica: la seconda fase della riscoperta di Aristotele e  di Boezio, in La  scuola nell’Occidente Latino cit., II, pp.  743-766 e  841-845; G. d’Onofrio, «Fons scientiae». La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo, 31), pp. 3-22. Cfr., inoltre, Id., «Inoperans gratia» cit., pp. 349-350, alla nota 32. 10  Un caso singolare è  rappresentato dalla monaca Rosvita di Gandersheim (935-974  ca.) che, nell’Epistola eiusdem ad quosdam sapientes huius libri fautores, prefatoria ad alcuni suoi dialoghi drammatici, si serve dei concetti di potenza e atto, utilizzando un linguaggio erudito, ma pur sempre come semplice espediente retorico, per manifestare la propria riconoscenza nei confronti di Dio per averle fatto dono della capacità di apprendere; tuttavia, in quanto essere creato, finito, la conoscenza del vero da parte della monaca non potrà che essere sempre potenziale (per dynamin), non potendo mai giungere a un perfetto e compiuto (per energian) possesso della Verità. Cfr.  Hrotsvitha Gandeshemensis, Epistola eiusdem ad quosdam sapientes huius libri fautores, PL 137, [973-974], 974C: «Unde non denego praestante gratia Creatoris per dynamin me artes scire, quia sum animal capax disciplinae, sed per energian fateor omnino nescire». D’ora in poi, tutti i corsivi nei testi latini citati saranno miei. Per un commento a questo passo di Rosvita, cfr. G. d’Onofrio, Sapientia terrena e philosophia coelestis tra decadenza

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(1096-1141) che ritrova la triade nella sua indagine sul De coelesti hierarchia dello pseudo-Dionigi. Di fatto Ugo si limita a un commento dell’opera, ma sembra non trovare congeniale al suo discorso la struttura triadica dell’essere, sulla quale sorvola: Omnes enim divini intellectus in tria dividuntur, non inter se, alius scilicet ad alium, sed unusquisque secundum se, sive in se, supermundana ratione, id est spirituali. Q uod enim dividuntur non fit ex consideratione partium, ubi non simplicitas essentiae, sed spiritualis est discretio, ubi non totum in partes, sed natura discernitur in proprietates. Postea subiungit, in quae tria unusquisque spiritus in se dividatur, scilicet in essentiam et virtutem et operationem. In omni enim spiritu haec tria sunt. Primum essentia, in qua subsistit; deinde virtus, secundum quam valet; deinde operatio per quam efficit 11.

Ogni intelletto divino, spiega Ugo riprendendo le parole dello pseudo-Dionigi, si divide in tre, per mezzo di una supermundana ratio che interviene nella divisione non tra un intelletto e l’altro, ma internamente; non con una partitio che opera distinguendo le singole parti dalla totalità, ma mediante una spiritualis discretio simile a quella per la quale una data natura si distingue nelle sue proprietà. E continua, constatando la presenza in ciascuno spirito della triade essentia, virtus e operatio, intese appunto come le proprietà che costituiscono l’organizzazione interna di ciascun intelletto: l’essentia è ciò che permette allo spirito di sussistere e detiene un primato logico e ontologico; seguono la virtus, secondo cui lo spirito valet, ovvero è in potenza di fare qualcosa, ha la capacità di e renovatio dell’impero (875-1030 ca.), in Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di G.  d’Onofrio, 3  voll., Casale Monferrato 1996, I: I  principi, [pp.  339-389], pp. 361-362. – Sulla tradizione dell’eriugenismo nelle scuole medievali, cfr. Id., Die Überlieferung der dialektischen Lehre Eriugenas in den hochmittelalterlichen Schulen (9.-11. Jh.), in Eriugena redivivus. Zur Wirkungsgeschichte seines Denkens im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit, Vorträge des V. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Werner-Reimers-Stiftung, Bad Homburg, 26.-30. August 1985), Heidelberg 1987, pp. 47-76. 11  Hugo de Sancto Victore, Commentarium in Hierarchiam coelestem, IX, xi, 2, PL 175 [923-1154C], 1106CD, ed. D. Poirel, Turnhout 2015 (CCCM, 178) p. 654, 59-68. Il passo commentato è in CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22 - 42, 2. Lo stesso passo è tradotto e commentato in Johannes Scotus Eriugena, Versio operum sancti Dionysii Areopagintae de caelesti Hierarchia, 11, PL 122 [10231194C], 1059CD; Id., Expositiones in Hierarchiam coelestem, 11, 2, PL 122 [125266B], 229C-230B, ed. J. Barbet, Turnhout 1975 (CCCM, 31), p. 160, 78-100.

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farla, e l’operatio, attraverso cui lo spirito efficit, ovvero ciò per cui la potenzialità giunge a compimento, si attualizza. Nel passaggio analizzato, i termini intellectus e spiritus, pur non avendo evidentemente lo stesso senso, sono intesi come sinonimi per approssimazione, in ragione del contesto che li vede entrambi designanti gli angeli, definiti pressoché indistintamente intelletti, spiriti, virtù o essenze (celesti). Un indizio significativo, inoltre, che potrebbe suggerire una scelta decisa di Ugo nel preferire la lezione originaria dello pseudo-Dionigi a quella del Commento di Giovanni Scoto sta nel ruolo giocato dal concetto di supermundana ratio. Nelle Expositiones in Hierarchiam coelestem infatti l’Eriu­gena interpreta la triade in senso antropologico, senza ricorrere all’impianto pseudo-dionisiano teso tra immanenza e  trascendenza 12; diversamente, Ugo è più fedele allo pseudo-Areopagita, collocando la triade essentia, virtus e operatio nella sola sfera sovramondana e  declinando il termine essentia come, appunto, sinonimo di intelletto angelico 13. D’altra parte, l’obiettivo della stesura del Commento all’opera dello pseudo-Dionigi nasce, in Ugo, da un’esigenza mossa dai suoi allievi di San Vittore, che lo richiedono per scopi didattici. La cifra pedagogica del commento di Ugo, dunque, se da una parte rifiuta ogni ambizione filosofica, dall’altra fa del suo testo materiale di studio, un testo per così dire ibrido tra la profondità delle Expositiones di Giovanni Scoto e le minute glosse di Atanasio Bibliotecario 14. 12  Cfr. ibid., 11, 2, 230B, p. 160, 100-103. Sulla presa di distanza dell’Eriugena dallo pseudo-Areopagita, rispetto a  questo passaggio, cfr.  d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 348-351. 13  Per un commento più dettagliato sulla questione, cfr. ibid., p. 351. 14  Una sintetica panoramica dell’uso delle fonti di Ugo di San Vittore per il suo Commento allo pseudo-Dionigi e sul suo particolare tipo di commento è proposta in D. Poirel, Avant-propos, in Hugo de Sancto Victore, Commentarium in Hierarchiam coelestem, ed. Poirel cit., pp. 14-17. Invece, sulla predominante figura dello pseudo-Dionigi presso la scuola di San Vittore e in particolare in Ugo, cfr. Id., Des symboles et des anges. Hugues de Saint-Victor et le réveil dionysien du xiie siècle, Turnhout 2013 (Bibliotheca Victorina, 23); E. S. Mainoldi, «Immediate viam facimus». La teologia dionisiana al bivio dell’interpretazione di Ugo di S.  Vittore, in Ugo di San Vittore. Atti del XLVII Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 2010), Spoleto 2011 (Atti dei convegni del Centro italiano di studi sul basso Medioevo-Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale. N. S., 24, Convegni, 47), pp. 153-172.

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Nel commentare puntualmente lo pseudo-Dionigi, dunque, Ugo non si mostra troppo originale, ma consegna la triade del­ l’essere alle generazioni a lui successive. Solo qualche anno dopo, in effetti, la triade dell’essere riappare in un sermone per la seconda domenica di quaresima, sotto la piuma di Isacco della Stella (1120 ca.-1169), che la utilizza come strumento per l’edificazione della sua ecclesiologia. Q ui l’abate cistercense Isacco, infatti, costruisce il classico parallelo tra il corpo umano e il corpo mistico di Cristo, la Chiesa, che evidentemente attinge da Paolo 15, indicando come il ruolo e  la posizione di ogni membro all’interno della Chiesa sia da intendersi come quello di ciascun membro del corpo umano: in entrambi è  il meccanismo divino della predestinazione ad agire nella scelta, ma ciò non comporta l’annichilimento dell’attività o della libertà umana 16. E dunque, specifica Isacco, come nel corpo umano vi è una sola anima, ovunque presente interamente per la sua essentia, tuttavia in maniera differente per virtutem et operationem, così nella Chiesa vi è un solo spirito che unifica tutto, ma in maniera differente secondo operatio, officium e gratia: Sicut etiam cum una sit in hominis corpore anima, tota ubique per essentiam, differenter tamen per virtutem et operationem, similiter in Ecclesia unus in omnibus spiritus, differenter tamen operatione, officio, et gratia 17.

In Isacco la presenza della triade dell’essere testimonia inequivocabilmente la sua aperta accoglienza in area monastica, nella abituale struttura che prevede l’elemento sussistente dell’essentia (desumibile dal tota ubique), distinto (differenter tamen) dalle dinamiche di potenza e atto. Se, tuttavia, la triade essentia, virtus e  operatio appare spesso in maniera cursoria nei chiostri nel secolo xii, al  punto da ren15   Cfr. per esempio 1Cor 12, 12: «Sicut enim corpus unum est et membra habet multa, omnia autem membra corporis, cum sint multa, unum corpus sunt, ita et Christus»; Gal 3, 28: «Non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos unus estis in Christo Iesu». 16 Cfr. Isaac de Stella, Sermones, XXXIV, PL 194, [1689-1876A], 1800C1806A, edd. A. Hoste - G. Raciti, 3 voll., Paris 1967-1987 (SC 130, 207, 339), II, 1974, pp. 232-255. 17  Ibid., 1801D, p. 238.

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dere lecito l’interrogativo circa il grado di ricezione della stessa in ambiente monastico, in un autore appartenente alla generazione appena successiva a quella di Isacco, Ugo Eteriano da Pisa (11151182), sembra assumere connotati più rilevanti. Le ragioni vanno forse ricercate nella biografia del diplomatico pisano, prossimo, per ideologia, agli ultimi allievi della scuola di Gilberto di Poitiers e a cui di certo era familiare il milieu culturale greco, in quanto, insieme al fratello Leone Toscano, fu legato pontificio a Costantinopoli e consigliere per le questioni teologiche dell’imperatore Manuele I Comneno. Q uesti fattori causali che, da una parte, permisero a Ugo Eteriano di compiere i propri studi nelle arti liberali presso le scuole parigine del suo tempo, e  dall’altra, di apprendere la lingua greca, dandogli la possibilità di recepire testi classici e patristici non ancora tradotti nell’Occidente latino, gli offrirono gli strumenti per la stesura di uno dei più esaustivi trattati controversistici sulla dottrina del Filioque, il De processione Spiritus sancti (o De sancto et immortali Deo), redatto in greco e latino intorno al 1176 proprio a Costantinopoli, ma giunto a noi soltanto nella sua traduzione latina 18. In questo trattato la triade dell’essere, questa volta declinata secondo i lemmi di substantia, virtus e actio, si presenta come uno degli argomenti centrali al fine di esporre e dirimere la questione dottrinale relativa alla processio dello Spirito Santo dal Padre congiuntamente al Figlio, a differenza della formula trinitaria greca, monopatrista. Scrive Ugo: Persona est substantia rationalis, quae per suas proprietates singularis potest intelligi, ut Pater per generationem, Filius per nativitatem, sanctus vero Spiritus per processionem. Per horum similia, quae singulis personis connecti possunt singulariter, substantia vero eorum et natura simplex est et uniformis. Unum sunt natura, et eiusdem substantiae, tres personae   Sulla vicenda biografica di Ugo Eteriano, cfr. A. Dondaine, Hugues Étérien et Léon Toscan, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge» 28 (1953), pp. 78-93; D. Vero, Un teologo latino a Costantinopoli nel secolo xii. Ugo Eteriano da Pisa, Roma 1982. Su Ugo teologo e le sue fonti, cfr. R. Q uinto, Trivium e teologia: l’organizzazione scolastica nella seconda metà del secolo dodicesimo e i maestri della sacra pagina, in Storia della Teologia nel Medioevo cit., II, pp. [435-468], pp. 455-456; e soprattutto G. d’Onofrio, Q uando la metafisica tornò in Occidente. Ugo Eteriano e la nascita della theologia, in «Aquinas» 55.1-2 (2012), pp. 67-106. 18

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utputa simplices. Composita enim non unum natura dicuntur, etsi unum numero existant. Etenim mundus est compositus sic ex differentibus naturis, non unus videtur natura, sed unus numero  (…). Non unum modum et incomplicabilem tantum, sed unicam naturam, personarumque significando differentiam. Nam divinum natura unum, sed non personis. Q uomodo ergo in supradicta conclusione, quae dicit: ‘Si non est ex uno solo Patre Spiritus, sed ex Filio’, non ergo idem unum accipere unum, si dicit Spiritum non esse idem unum Patri et Filio, manifestum est inconveniens, quia idem unum sunt per substantiam et per naturam? Q uod si dicere intendit, non esse unam personam eumdem Spiritum, eo quod ex duabus prodeat personis, et hoc a veritate omnino remotum est. Nam ex duobus luminibus tertium provenit, duobus nequaquam imminutis, rursus ex substantia et virtute actio progreditur, ex vena et fonte fluvius emanat, ex Patre et Filio Spiritus mittitur 19.

La definizione boeziana di persona come sostanza individuale di natura razionale 20 permette a Ugo di chiarire fin da subito la questione relativa alle persone della Trinità, che vengono distinte in base alle loro proprietà singole (l’atto generativo per il Padre, la nascita per il Figlio, la processione per lo Spirito Santo): benché singolarmente le persone siano connesse, la loro substantia ha natura semplice ed uniforme, per cui, nell’esempio di Ugo, come il mondo è uno per numero sebbene in esso vi siano differenti nature, così nella Trinità vi sono persone differenti che tuttavia costituiscono l’unità della natura divina, la quale è però una e unica per numero, non per distinzione delle persone. Di conseguenza, il diplomatico pisano si interroga sulla necessità logicoontologica che lo Spirito Santo costituisca unità, per sostanza e per natura, con il Padre e il Figlio, pur nella pluralità delle persone. Infatti come da due luci proviene una terza senza per questo generare una diminuzione nelle due, come dalla substantia e dalla virtus procede l’actio, come dalla sorgente e dal ruscello si genera 19  Hugo Eterianus, De sancto et immortali Deo, PL 202, I,  11, [227A369D], 250AC. L’edizione del Migne, carente in alcuni punti, mi ha obbligato a delle correzioni sulla punteggiatura. 20 Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, Contra Eutychen et Nestorium, V,  3, PL 64, [1337-1354], 1343CD, ed. C.  Moreschini, Leipzig 2000, p. 214, 171-172: «[Persona est] naturae rationalis individua substantia».

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il fiume, così necessariamente dal Padre e dal Figlio si diffonde lo Spirito Santo 21. Già dunque nel primo libro del De sancto et immortali Deo Ugo Eteriano si fa carico della costruzione di prove e  sillogismi volti a segnalare la verità delle posizioni addotte dai Latini e l’errore insito nella formula greca. Il serrato confronto tra le due dottrine si dipana per tutto il primo libro, in cui l’abilità del teologo si fonde a quella del dialettico, che segnala la correttezza delle deduzioni sillogistiche al fine di ammettere l’opportunità del Filioque. Nel caso in analisi, deve essere necessariamente ammessa l’unità indissolubile, circolare e dinamica tra le persone divine, così come chiarito dall’esempio delle luci e da quello fluviale, ma soprattutto dalla struttura logica stessa della triade substantia, virtus e actio 22. Se però le argomentazioni del primo libro del De sancto et immortali Deo sono condotte seguendo le regole della dialettica, nel secondo la riflessione di Ugo si sposta sul versante metafisico relativo alla veridicità delle nozioni sulle res divine già esposte. E così la triade ricompare nella stessa struttura, ancora una volta in rapporto alle persone della Trinità divina: Actio a substantia ex qua progreditur tertia existens, a virtute quae substantiae censetur effectus, ut absque medio ex illa prosiliens secunda est: qua virtus dignitate, ut virtute substantia, ex qua procedit prior est. Ex quo satis liquere potest, quod sicut substantia virtutis, virtus vero actionis causa est simplex et individua perseverans, ita Pater Filii, Filius vero Spiritus causa est simplex existens et indivisibilis. Sciendum vero quod quidam actionem distinguentis, dupliciter aiunt eam etiam et circa Patrem Filii et Filium considerari: et unam quidem dicunt assistricem, nec prodeuntem extrinsecus, secundum 21 Una delle prime attestazioni dell’individuazione dell’operatio come attività eternamente operante di Dio (Provvidenza) in ambiente latino è data da Giovanni Scoto che, nel Periphyseon, la mutua dalle Q uaestiones ad Thalassium di Massimo il Confessore. Diversamente da Ugo Eteriano, tuttavia, in Massimo non vi è una relazione binaria tra i  termini della triade dell’essere e  le persone della Trinità. Cfr. Maximus Confessor, Q uaestiones ad Thalassium, 2, PG 90, [241-786B], 269D-272B, edd. C. Laga - C. Steel, 2 voll., Turnhout - Leuven 1980 (CCSG, 7 e 22), versione eriugeniana, I, p. 50, 2, 15. Cfr., inoltre d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 344-346. 22 Probabilmente la conoscenza della triade di Ugo proviene dal De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi (DN IV, 23, 724C-725A, pp. 170, 12 - 171, 7). Cfr. d’Onofrio, Q uando la metafisica cit., pp. 73-74.

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quam genitor genitusque similiter et eodem modo Spiritum emittunt. Aliam vero attribuunt naturae, quae tres pariter comitatur personas secundum quam quae ab ipsis personis aliena existunt, ex nihilo Pater, Filius, Spiritusque sanctus condunt et faciunt. Si ergo ex substantia virtus provenit, ex virtute vero procedit actio. Nec ideo virtus duo, vel aliquod duplex est: multo amplius de Patre, qui sine principio est, virtus exit, Filius scilicet, ex quo, ut ex Patre, Spiritus sancti emanatio profluit 23.

La struttura trinitaria divina è comparata a quella della triade substantia, virtus e actio nei termini di una chiarificazione della dottrina del Filioque: come, infatti, sussiste un rapporto di causalità diretta tra la substantia e la virtus e, di conseguenza, tra la virtus e l’actio, allo stesso modo il Padre è causa semplice e indivisibile del Figlio e  il Figlio lo è  dello Spirito Santo. Tuttavia, prosegue Ugo, ogni actio va considerata duplicemente anche in rapporto alle persone della Trinità, per cui, come dal genitore e dal generato allo stesso modo e in maniera simile scaturisce lo Spirito, così logicamente non possono esservi due virtutes, poiché la potenza si ha a partire dalla sostanza e l’atto procede dalla potenza. Q uindi, dal momento che non può esservi atto senza potenza, ma la potenza, per sussistere, necessita della sostanza, la Trinità viene disarticolata a partire da questi tre elementi, nella biunivocità della corrispondenza che vuole il Padre, senza principio, associato alla sostanza, il Figlio alla potenza e lo Spirito all’atto. La presenza della triade dell’essere, attestata in Ugo Eteriano, resta dunque l’ultima stazione di un percorso che, nel secolo dodicesimo, tenta di conservarsi e trasmettersi, seppur con fatica. Probabilmente la cifra cosmopolita della sua vicenda biografica è ciò che ha costituito la differenza rispetto ad altri autori contemporanei che, portavoci di un eriugenismo più scialbo e scolorito, non hanno avuto piena contezza della portata filosofica della triade dell’essere, ma a cui si devono ad ogni modo riconoscere meriti pionieristici. È questo, ad esempio, il caso di Ugo di San Vittore, il cui carattere enciclopedico, se non gli consente di penetrare nei dettagli di una teologia così articolata come quella dello pseudoDionigi, ha tuttavia il pregio di aprirne la strada allo studio.   Hugo Eterianus, De sancto et immortali Deo, II, 5, PL 202, 287D-288B.

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Sull’esempio del grande Commento al corpus delle opere dello pseudo-Dionigi di Ugo, Tommaso Gallo (1200-1246), canonico regolare dell’ordine di San Vittore, ultimo baluardo dei grandi maestri vittorini, recepisce gli insegnamenti spirituali del maestro e fondatore della scuola e li annette alla teologia mistica aeropagitica, che assimila perfettamente, risultando secondo in questo solo a Giovanni Scoto 24. L’attività esegetica sul corpus pseudo-dionisiano di Tommaso Gallo è in effetti notevole e si articola in tre momenti fondamentali: alla preliminare compilazione di glosse al  testo (quelle sul De coelesti hierarchia risalgono al  1224 e  sono ancora inedite 25; altre sul De mystica Theologia furono redatte circa dieci anni dopo 26) segue, nel 1238, quella che egli stesso definisce Extractio 27, ovvero una sorta di riscrittura più accessibile dell’intero corpus, una parafrasi ragionata che prende a modello la versione latina di Giovanni Saraceno, comparandola a quella di Giovanni  Cfr. D. Poirel - P. Sicard, Figure vittorine: Riccardo, Acardo e Tommaso, in Figure del Pensiero Medievale. Storia della teologia e della filosofia dalla tarda Antichità alle soglie dell’Umanesimo, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, 6 voll., Milano 2008-2010, II, La fioritura della dialettica. x-xii secolo, 2008 (Di Fronte e Attraverso, 819), [pp.  459-537], pp.  518-519. Sulla vita di Tommaso Gallo, inoltre, cfr. soprattutto M. Capellino, Tommaso di San Vittore abate vercellese, Vercelli 1978; Id., Tommaso il primo abate di S. Andrea, Vercelli 1982. Sul fil rouge che lega i  commentari allo pseudo-Dionigi di Giovanni Scoto e  Tommaso Gallo, cfr. J. McEvoy, John Scottus Eriugena and Thomas Gallus, commentators on the ‘Mystical Theology’, in History and Eschatology in John Scottus Eriugena and his Time. Proceedings of  the Tenth International Conference of  the Society for the Promotion of  Eriugenian Studies (Maynooth and Dublin, August 16-20, 2000), a cura di J. McEvoy - M. W. Dunne, Leuven 2002 (De Wulf-Mansion Centre. Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 30); Id., Thomas Gallus, Abbas Vercellensis and the Commentary on the «De mystica theologia» ascribed to Iohannes Scottus Eriugena. With a  concluding note on the Second Latin Reception of   the Pseudo-Dionysius (1230-1250), in Traditions of  Platonism: essays in honour of  John Dillon, ed. by J. J. Cleary, Aldershot 1999, pp. 389-405. 25  Cfr. Thomas Gallus, Glossae in Hierarchiam caelestem pseudo-Dionysii, ms. Paris, Bibliothéque Mazarine, 715. 26 Cfr. Poirel - Sicard, Figure vittorine cit., p. 524. 27 Cfr. Thomas Gallus, Extractio operum pseudo-Dionysii, in Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués à Denys l’Aréopagite, ed. Ph. Chevallier, 2 voll., Paris 1937, I, pp. 673-717 e 1043-1066. Sono giunte a  noi anche le glosse al  De divinis nominibus: cfr.  Id., Glossae in Nomina diniva pseudo-Dionysii, in Mystical Theology. The Glosses by Thomas Gallus and the Commentary of  Robert Grosseteste on «De mystica Theologia», ed. J. McEvoy, Leuven - Paris - Dudley 2003 (Dallas Medieval Texts and Translations, 3), pp. 3-54. 24

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Scoto e correggendole entrambe, laddove necessario, eliminando ciò che ritiene superfluo e inserendo spiegazioni più o meno dettagliate, a seconda del caso. Negli ultimi anni della sua vita (12411243), infine, redige un grande Commento a tutto il corpus, ricco di glosse e di rimandi scritturali, che chiama Explanatio 28. In ragione delle numerose ma ripetitive occorrenze della triade dell’essere in Tommaso Gallo, appare forse più funzionale una diretta disamina dell’Explanatio, dalla quale emerge meglio e più nitidamente l’impronta personale dell’autore, rispetto all’Extractio, dove il rischio di sovrapposizioni fra il testo pseudo-dionisiano e  quello del Vittorino è  più alto. E dunque, nell’Explanatio de divinis nominibus Tommaso interviene sulla traduzione di Giovanni Saraceno, smembrandola della sua originaria costruzione e apponendo a più riprese aggiunte chiarificatrici. In una precisa descrizione della fisica pseudo-dionisiana, la processione dall’Essere bello e buono che sorpassa ogni movimento o stato è indicata come direttamente causata, conservata e avente come fine l’Essere bello e  buono stesso. Nella dettagliata enumerazione che segue di tutto ciò che procede da Lui e  in Lui termina, compaiono la sostanza, l’intelligenza, la vita, grandezze, molteplicità, ogni rapporto tra le parti, ogni elemento, ogni scienza: la triade substantia, virtus e operatio, che in Giovanni Saraceno (e nello pseudoDionigi) sembra quasi confondersi nella ricchezza e  nella complessità dei dettagli della creazione, in Tommaso Gallo viene aperta e  analizzata nella sua dinamicità. Tutto ciò che procede dall’Essere buono e bello deve pertanto tornare all’Essere buono e bello, deve raggiungere cioè la sua terminatio finalis o perfectio; per questo ogni ente creaturale è ora scisso secondo la triade in ciò  Le Explanationes Hierarchiae caelestis, Hierarchiae ecclesiasticae e Nominum divinorum, contenute nei mss. Oxford, Merton College, 69 e Wien, Österreichischen Nationalbibliothek, 695, sono state edite di recente da Lawell: cfr. Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii, ed. D. A. Lawell, Turnout 2011 (CCCM, 223), mentre l’Explanatio sulla mystica Theologia è pubblicata in Id., Kommentar zu Mystischen Theologie und andere Schriften, ed. J. Vahlkampf, Dollnstein 2000 (Theologia Patrum, Schriften zur Mystischen Theologie), pp. 1-45. Infine, l’Explanatio delle epistulae dello pseudo-Dionigi si trova, sempre edita da Vahlkampf, ibid., pp. 53-68. – Sul metodo di Tommaso Gallo commentatore dello pseudoDionigi, cfr. D. A. Lawell, Thomas Gallus’s method as Dionysian commentator: a study of  the «Glose super Angelica Ierarchia» (1224), with considerations on the «Expositio librorum beati Dionysii», in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 76.1 (2009), pp. 89-117. 28

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che sussiste, nella potenza di ciò che sussiste e nell’attuazione della potenza di ciò che sussiste 29. L’universo del Vittorino, allora, sembra essere caratterizzato da una tensione perennemente finalistica di tutte le creature, sovrapponibile al reditus eriugeniano, che sono in qualche modo obbligate dalla loro stessa natura a compiere un totale recupero della primigenia coincidenza degli elementi di sostanza, potenza e atto, venuta meno in seguito alla Caduta. Più avanti, Tommaso Gallo interviene in una delle dimostrazioni pseudo-dionisiane sulla negazione della sussistenza ontologica del male, il quale non può provenire dalla causa del tutto, Dio, ma si caratterizza in senso relativo come assenza di bene. Secondo lo pseudo-Dionigi per questa ragione neanche i demoni possono essere considerati malvagi per natura, né verso se stessi, né verso gli altri, poiché, se lo fossero verso se stessi sarebbero autodistruttivi, se invece lo fossero verso gli altri potrebbero distruggerne la sostanza, la potenza o l’azione. Ciò tuttavia non è possibile, perché la distruzione della sostanza non può essere mai completa, ma avviene soltanto in ragione di una deviazione dall’ordine naturale, per cui non si può parlare di distruzione, ma tutt’al più di corruzione della natura, e lo stesso vale per la potenza e l’atto 30. L’idea che il male non sia sostanziale, dunque, si lega al dato dell’impos29 Cfr. Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii. De divinis nominibus, ed. Lawell cit., IV, pp.  224,  1111  -  226,  1144: «et sensibilium trium motionum, id est motus recti, circularis et obliqui, in hoc omni, id est in hac rerum sensibilium universitate, pulcrum et bonum est causa ut isti motus sint contenti, et contentiva ut perseverent, et finis ut perficiantur  (…). propter q uod pulcrum et bonum est omnis statio, etc., ex q uo ut causa, in q uo conservante, ad q uod tendens, cuius gratia, propter quod. ex ipso fontali omnium causa, per ipsum omnia facientem, est et substantia et vita omnis et mentis, quantum ad celestes intelligentias, et anime rationalis vel sensibilis vel vegetabilis, et omnis nature in quibuscumque animatis vel inanimatis. Et ex ipso sunt omnes rerum distantie, concordie, proportiones, sive relative sive absolute (…). Unde sequitur: omnis infinitas, omnis finis, rerum terminatio finalis vel perfectio; substantia, virtus ipsius substantie, operatio per substantie virtutem, et simpliciter generaliter omne existens est ex pulcro et bono causaliter, et in pulcro et bono exemplariter (…). et convertitur ad pulcrum et bonum tamquam causam finalem». D’ora in poi il maiuscoletto indicherà il testo del De divinis nominibus nella traduzione latina di Giovanni Saraceno. 30 Cfr. DN IV, 23, 724C-725A, pp. 170, 12 - 171, 7. Vale la pena notare come questo specifico passo dello pseudo-Dionigi sia lo stesso commentato da Giovanni Scoto, ma lo si ritrova anche nello scolio alla Vita Sancti Germani di Eirico di Auxerre e in Ugo Eteriano.

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sibilità che la corruzione nelle creature demoniache sia naturale. Di conseguenza, il peccato non corrompe l’unità nella sostanza di ciascun demone, né ne intacca l’aspetto potenziale, né quello attuale. La natura degli angeli corrotti, dunque, dal momento che essi sono comunque creature di Dio, è sempre di per sé buona, per cui la corruzione conseguente al peccato incide soltanto sull’accidentalità delle creature e mai sulla loro sostanzialità 31. Se pure volessimo ridimensionare, facendone un grave torto, l’opera del Vittorino a un mero ma scrupolosissimo e minuzioso lavoro di cesello, essa avrebbe comunque il merito di traghettare la lezione dello pseudo-Dionigi nel secolo xiii. Di fatto, l’Extractio di Tommaso Gallo entrerà in breve tempo a far parte del Corpus Dionysianum dell’Università di Parigi, aggiungendosi alla traduzione di Giovanni Scoto con gli apparati di Atanasio il Bibliotecario (le sue glosse, gli Scholia di Massimo il Confessore e  Giovanni di Scitopoli) e alla translatio nova di Giovanni Saraceno 32. Sebbene, inoltre, quasi contemporaneamente a Tommaso Gallo, anche Roberto Grossatesta realizzerà un notevole Commentario completo al Corpus di scritti dello pseudo-Dionigi 33, questo non avrà grande circolazione oltre la Oxford francescana, mentre la versione parigina sarà utilizzata, per esempio, da Alberto Magno 31  Per il lungo commento del Vittorino si rimanda a Thomas Gallus, Explanatio in libros Dionysii. De divinis nominibus, ed. Lawell cit., IV, pp. 287, 2738 290, 2803. Tommaso ritrova la triade dell’essere anche commentando il De caelesti hierarchia, in cui si afferma che ogni intelligenza angelica è divisa in substantia, virtus e operatio. Ciò permette di sciogliere il dubbio circa il corretto utilizzo del termine virtutes (δυνάμεις) nelle Scritture per designare tutte le schiere angeliche, benché, nella distinzione dello pseudo-Dionigi, le Potenze o Virtù siano gli angeli del quinto ordine gerarchico. Pertanto, poiché la costituzione in οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια comune a tutte le intelligenze angeliche consente, per analogia (περιϕραστικῶς), di definirle Essenze, allo stesso modo esse possono essere dette anche correttamente Potenze o Virtù. Cfr.  Id., Explanatio in libros Dionysii super angelica hierarchia, 11, ibid., p. 644, 33-47. Il passo commentato è CH XI, 2, 284D-285A, pp. 41, 20 - 42, 12. 32 Cfr. H. F. Dondaine, Le Corpus dionysien de l’université de Paris au xiiie siècle, Roma 1953 (Storia e  letteratura, 1953); B.  Faes de Mottoni, Il  Corpus Dionysianum nel Medioevo. Rassegna di studi: 1900-1972, Bologna 1977 (Pubblicazioni del Centro di studio per la storia della storiografia filosofica, 3); R. Q uinto, Scolastica. Storia di un concetto, Padova 2001 (Subsidia Mediaevalia Patavina, 2), pp. 107-113. 33 Cfr. Robertus Grossatesta, Versio celestis hierarchiae pseudo-Dionysii Areopagitae, edd. D.  A. Lawell - J.  McEvoy - J.  S. McQ uade, Turnhout 2015 (CCCM, 268).

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e Tommaso d’Aquino per i domenicani e da Pietro di Giovanni Olivi e Francesco di Meyronnes per i francescani 34. Ad ogni modo, la triade substantia, virtus e  operatio viaggia anche al  di fuori degli ambienti frequentati dagli appartenenti agli ordini mendicanti, scambiando con essi rapporti di influenza reciproca, ma talvolta restandone autonoma. Uno di questi casi è quello rappresentato da Enrico di Gand (1217 ca.-1293), appartenente al  clero secolare, che sembra conoscere bene la struttura della triade dell’essere, e  che la applica, per esempio, commentando il Genesi nel tentativo di spiegare la natura delle stelle crea­te da Dio nel quarto giorno. Nell’indicare gli atti della luce come duplici, nella distinzione dei loro effetti, Enrico chiarisce che ogni astro o stella dapprima illumina o produce luce, mentre soltanto in un secondo momento la luce permette di distinguere le forme delle cose o, più semplicemente, il giorno dalla notte. Inoltre, aggiunge, ogni stella si distingue ancora in maniera triplice, poiché è costi­ tuita, come ogni altra creatura, di substantia, virtus e operatio: Et cum duplex sit effectus sicut et actus ipsius formae: unus primus, alius secundus, actus lucis quae est forma stellae sive luminaris, primus est lucere sive illuminare, actus vero secundus est distinguere illuminando. Primo igitur tangit tres actus distinguendo, secundo tangit unum actum illuminandi ibi: ut luceant. Stella autem distinguitur tripliciter, quia in stella tria sunt sicut in qualibet alia re secundum philosophum: substantia, virtus et operatio. Substantia sua, id est luce, unde stella est, distinguit inter diem et noctem. Virtute distinguit inter duos effectus quorum signum et causa. Operatione sua, ‹id› est motu, distinguit inter tempora 35.

La substantia della stella, secondo Enrico, sta nella sua luce, che fa appunto di essa una stella, e che permette di distinguere tra giorno 34 Cfr. Faes de Mottoni, Il Corpus Dionysianum cit., p. 15; Q uinto, Scolastica cit., p. 112. – Sull’opera di commento allo pseudo-Dionigi di Grossatesta in rapporto a Tommaso Gallo, cfr. J. McEvoy, Thomas Gallus Vercellensis and Robertus Grossatesta Lincolniensis. How to Make the Pseudo-Dionysius Intelligible to the Latins, in Robert Grosseteste. His thought and its Impact, Toronto 2012, pp. 3-43 (Papers in mediaeval studies, 21). 35  Henricus de Gandavo, Lectura ordinaria super Sacram Scripturam, De opere quartae diei, I, ed. R.  Macken, Leuven 1980 (Opera omnia, XXXVI), p. 117, 38-47. Per il riferimento aristotelico, cfr. Aristoteles, De caelo, II 12, 292b 1-2.

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e notte. Per mezzo della virtus, d’altra parte, si distingue tra i due effetti di cui si è detto (il far luce, di cui è causa, e la distinzione tra giorno e notte, di cui è signum). Infine, per mezzo dell’operatio, vale a dire per mezzo dei movimenti che la stella compie in cielo, si scandiscono i tempi astronomici. L’ingresso del corpus aristotelico nel circuito della speculazione bassomedievale permette una ulteriore modalità di lettura della triade dell’essere. A  partire da un riferimento al  De caelo, Enrico qui infatti ribadisce la perfetta corrispondenza delle strutture insite negli enti sublunari e  sovralunari. Se però il ragionamento dello Stagirita verte sul tentativo di sciogliere le aporie relativamente ad una questione cosmologica complessa quale è quella della apparente casualità del numero dei moti degli astri nelle rispettive sfere celesti, Enrico isola una parte del testo aristotelico servendosene per i suoi scopi. Aristotele, infatti, gli suggerisce che, perché vi sia un fine, è necessario un passaggio logico da ciò che si compie in vista del fine al conseguimento del fine stesso. Pur non utilizzando la terminologia di potenza ed atto, in questo punto lo Stagirita afferma che, nel caso di un essere che abbia conseguito la condizione di perfezione assoluta, questi non ha invece alcuna necessità di agire, di operare questo passaggio, dal momento che i due termini distinti dello stato di partenza iniziale e del fine da raggiungere verrebbero a coincidere in un solo punto 36. Enrico di Gand assorbe la lezione aristotelica e la innesta su quella neoplatonica della triade, per cui la specularità intercettata da Aristotele nell’intima struttura stessa degli astri collocati nelle differenti sfere celesti si sovrappone alla parimenti intima struttura degli enti del reale individuata dallo pseudo-Dionigi nella triade substantia, virtus e operatio che rispecchia la trinitarietà divina 37. 36 Cfr. ibid., 5-11. In alcuni commenti al De caelo aristotelico del secolo xiii viene adoperata la triade dell’essere come in Enrico di Gand. È il caso delle Q uaestiones supra Librum de caelo et mundo di Pietro d’Alvernia (1240 ca.-1304), magister artium e poi in teologia a Parigi, che probabilmente la recepisce da Tommaso d’Aquino, di cui è allievo. Cfr. Petrus de Alvernia, Q uaestiones supra Librum de caelo et mundo, I, q. 18, solutio, ed. G. Galle, Leuven 2003 (Ancient and Medieval Philosophy, Series 1, 29), p. 101, 32-33: «Operatio autem manifestat virtutem substantiae; sed alicuius substantiae est virtus infinita, quod probatur dupliciter». 37  Altrove, nell’opera di Enrico, compare ancora un riferimento esplicito alla triade dell’essere letta in chiave pseudo-dionisiana. Cfr.  Henricus de Gandavo, Summa (Q uaestiones ordinariae), a. 42, q. 2, ed. L.  Hödl, Leuven 1998

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La riflessione intorno alla struttura ontologica dell’essere continua a comparire in ambiente parigino. Enrico Bate di Malines (1264-1310  ca.), astronomo e  filosofo, maestro in arti a  Parigi prima del 1274 e in teologia all’inizio del Trecento, nel suo Speculum divinorum et quorundam naturalium utilizza la triade per spiegare i  concetti aristotelici di forma e  materia applicati alla sostanza intellettuale, nelle sue componenti di potenza e  atto 38. Sempre a  Parigi, in quegli stessi anni, Umberto di Preuil­ly (†  1298), cui si deve l’introduzione del tomismo nell’ordine cistercense, in un Commento alla Metafisica di Aristotele adopera la triade dell’essere per illustrare cosa si intenda propriamente per natura. La stringente formulazione del testo, tipica del genere di commento sentenziale, porta Umberto a  enucleare i  differenti sensi della parola ‘natura’, articolati nei tre elementi della triade. Q uesto commentario risulta piuttosto interessante dal momento che Umberto legge Aristotele sulla base di una sintesi interpretativa di Averroè, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, dai quali potrebbe aver recepito l’idea della triadicità dell’essere 39, che applica in tutta la sua portata metafisica affermandone la presenza in ogni ente che abbia connaturato in sé (importet) il desiderio di compiutezza (perfectio) 40. E dunque più avanti, proprio tentando (Opera omnia, XXIX), p.  37, 33-35. Lo  stesso passo è  ripreso, con riferimento esplicito allo pseudo-Dionigi, in Id., Q uodlibet, VI, q. 4, solutio, ed. G. A. Wilson, Leuven 1987 (Opera omnia, X), pp. 52, 40 - 53, 45. 38 Cfr. Henricus Bate Mechliniensis, Speculum diuinorum et quorundam naturalium, III, 15, 10, ed. E. Van de Vyver, 2 voll., Louvain - Paris 19601967 (Philosophes Médiévaux, 4 e  10), I, 1960, p.  212, 21-24: «Igitur, si substantia intellectualis forma est corporis, oportet quod esse eius sibi et corpori sit commune; ex forma enim et materia fit aliquid simpliciter unum, quod est secundum esse unum. Simpliciter erit ergo operatio substantiae intellectualis corpori communis, et virtus eius virtus in corpore, quod est impossibile». 39 Sul pensiero di Umberto di Preuilly, cfr. M. Brinzei - N. Wicki, Introduction, in Humbertus de Prulliaco, Sententia super librum Metaphysicae Aristotelis (libri I-V), edd. M. Brinzei - N. Wicki, Turnhout 2013 (Studia Artistarum, 36), pp. 7-40. 40  Cfr. ibid., V, 5, pp. 505, 239 - 506, 255: «Si vero dicatur ut proprie, cum natura perfectionem importet, perfectum autem in tribus consistit, ut dicitur I Celi et mundi, oportet naturam tripliciter dici. Natura ergo proprie dicta aut significat operationem aut virtutem aut substantiam. Si significet operationem, sic est primus modus, secundum quem natura dicitur generatio nascentium. Si vero significet virtutem, hoc est dupliciter, quia vel significat virtutem propriam viventibus, et sic est secundus modus, vel significat virtutem communem omnibus moventibus vel mobilibus, et sic est tertius modus. Si vero significet substantiam, hoc est duplici-

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di spiegare il concetto di totum potentiale che riprende da Alberto, la triade è riutilizzata per rendere ragione della relazione che intercorre tra essenza e potenze all’interno dell’anima. La dottrina del totum potestativum di Alberto Magno, infatti, che viene elaborata per definire lo statuto ontologico unitario dell’anima nel totum costituito dalle differenti potenze e virtù, è ripresa da Umberto, che distingue un totum universale da un totum integrale, laddove solamente nel primo è  garantita l’unitarietà dell’anima in ogni sua parte, dunque anche per quel che riguarda i  momenti della potenza e dell’atto 41. Infine, una testimonianza peculiare della ricezione della triade al di fuori degli ambienti degli Ordini Mendicanti, ma che non può non prescindere dall’influenza e dall’interpretazione di essa fornita da questi ultimi, è  resa dall’agostiniano Egidio Romano (1243 o 1247-1316) 42. In una sua Expositio sul Cantico dei Cantici, ter, quia aut significat substantiam que est materia aut substantiam que est forma. Primo modo hoc est dupliciter, quia vel significat materiam propinquam, et sic est quartus modus, vel remotam, et sic est sextus. Si vero significat substantiam que est forma, hoc est dupliciter, quia vel significat formam partis, et sic est quintus modus, vel formam totius, et sic est septimus. Sed in octavo modo metaphorice dicto natura maxime significat substantiam que est compositum». Umberto conclude affermando che la natura si dice dalla forma (che associa alla substantia) che ha un primato logico rispetto alla virtus e all’operatio. Cfr. ibid., p. 507, 288-295: «Constat enim ex dictis quod natura de quocumque dicatur vel dicitur de eo tamquam de substantia vel tamquam de virtute vel tamquam de operatione. Est autem sic quod operatio est prius nota nobis quam virtus vel substantia sive forma. Forma autem est prius nota simpliciter, virtus autem medio modo se habet. Natura ergo que dicitur de generatione nascentium, que est operatio quedam, dicitur per prius nobis (…). Sed natura per prius simpliciter dicitur de forma, que est simpliciter prior virtute et operatione». 41 Cfr. ibid., 22, p. 661, 142-150. Sul totum potestativum, cfr. Albertus Magnus, Summa de creaturis, II, i, q. 55, a. 4, 1, solutio, ed. E. C. A. Borgnet, Paris 1896 (Opera omnia, XXXV), p. 470a. 42  Il ms. Worcester, Cathedral Library, Q . 90 contiene l’unico testimone di alcune Reportationes de causis di un tale Giovanni di Mallinges, in cui la triade sostanza, potenza e atto è adoperata per illustrare l’impianto emanatista, di chiara ascendenza neoplatonica, dell’ordine gerarchico delle cause. Cfr. Johannes de Mallinges, Reportationes de causis, I, qq. 5 e 7, edd. A. Baneau - D. Calma, Turn­ hout 2016 (Studia artistarum, 42.1), p.  222, 33 e  p.  226, 3-10. La  triade compare nuovamente nell’esporre, più avanti, la dottrina psicologica delle operazioni dell’anima di matrice tomista, già rinvenuta in Umberto di Preuilly. Cfr.  ibid., p.  243, 11-29. Tali Reportationes furono probabilmente compilate tra gli anni 1274-1276 e il triennio 1289-1291, anni in cui furono redatti i commenti al Liber de causis rispettivamente di Sigieri di Brabante e di Egidio Romano. Cfr. A. Baneau - D. Calma, Le commentaire sur le «Liber de causis» de Jean de Mallin-

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infatti, i tre elementi di substantia, virtus e operatio sono adoperati quasi liricamente nella descrizione del processo del conseguimento di pulchritudo della Chiesa. Partendo dall’aggettivo pulchra rinvenuto nel Cantico, Egidio ne analizza la presenza nella Chiesa (e, tropologicamente, dell’anima di ogni fedele), in quanto qualità posseduta per natura ma da perseguire in maniera compiuta, perfetta. Proseguendo nella metafora ecclesiologica, la virtus risiede negli occhi della sposa, ovvero nell’intelletto e  nelle affezioni, metafora delle colombe nel Cantico. E dunque le potenze o virtù dell’anima sono per Egidio gli occhi della Chiesa, «quia oculus est illud quo mediante tendimus in aliquid ut in finem, quod fit per intellectum et affectum: per intellectum, inquantum dirigit in finem; per affectum, inquantum inclinat in ipsum» 43. Le operationes delle azioni affettive e intellettuali sono, poi, nella metafora ecclesiologica, rispettivamente i capelli e i denti della sposa, e ne manifestano la pulchritudo 44. È tuttavia l’abisso tra storia e ierostoria, che sarà colmato nel raggiungimento della Gerusalemme celeste, a fornire infine a Egidio la soluzione al dilemma già platonico della coesistenza dell’unità e del molteplice: Habitum est quod tanta diversitas est in Ecclesia, quia in quolibet statu in tota universali Ecclesia est dare pulchritudinem substantiae, virtutis et operationis: et est dare tantam diversitatem operum; non tamen propter hoc tollitur Ecclesiae unitas, quia omnia ista uniuntur per fidem, uniuntur in caritate, in gratia, in fine. Et si per haec uniuntur ea quae sunt diversarum personarum, multo magis uniuntur substantia, virtus et operatio, quae ad unam personam pertinere possunt. (…) Electa ges, ibid., [pp.  153-210], p.  164. Infine, un’ulteriore testimonianza coeva della rilevanza della triade nei commenti al Liber de causis è data da un anonimo cui si deve la compilazione di alcune singolari Glose super Librum de causis, contenute nel ms. Augsburg Staats und Stadtbibliothek, 4° Cod. 68, ai ff. 272va-278ra, che sono posteriori al commentario di Egidio Romano (citato nel testo come fonte) e che seguono il modello di un commento, probabilmente un insegnamento orale. Cfr. Iid., The «Glose super Librum de causis» and the Exegetical Tradition, ibid., [pp. 137-147], pp. 138-139. Nel testo il riferimento alla triade è alla Propositio I, p. 150, 10-13: «Et hoc est quod (…) substantia, virtus et operatio habent se per ordinem, quia si recipit substantiam, ‹recipit› et operationem et virtutem». 43  Aegidius Romanus, In Canticum expositio II «in principio», 4, in Thomas de Aq uino, Expositio in aliquot libros veteris testamenti et in psalmos L adjectis brevibus adnotationibus, Parma 1863 (Opera omnia, 14), pp. 404, 1, 20-23. 44 Cfr. ibid., pp. 404, 2, 43 - 405, 1, 30.

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genitrici suae, propter unitatem finis, quia substantiam nostram, virtutem et operationem, et totum quod in nobis est, secundum mensuram fidei et ordinem caritatis, et perfectionem gratiae, ordinare debemus ad illam caelestem Jerusalem, quam quasi genitricem imitari debemus. (…)  Deinde cum dicit, viderunt eam, postquam ostendit, unitatem Ecclesiae non impediri propter diversitatem substantiae, virtutis et operationum occurrentium ad quemlibet statum, et existentium in qualibet persona, et in quolibet membro Ecclesiae; hic ostendit, hujusmodi unitatem non impediri propter diversitatem statuum, vel etiam personarum 45.

Pensiero e azione devono essere orientati, per Egidio, all’imitatio della Gerusalemme celeste come una madre: la perfectio, ovverosia il compimento finale del percorso che porta all’attualizzazione totale della sostanza, diventa sinonimo della pulchritudo primigenia da dover perseguire, in un processo circolare, pericoretico, che abbraccia la molteplicità nell’unità della sostanza e la risolve nel movimento di discesa nel corruttibile e di ritorno finale a Dio. * * * Una tale ricchezza di dati, nella pur modesta raccolta di fonti fin qui presentata, lascia aperto l’interrogativo circa le ragioni effettive della fortuna della triade dell’essere nel Medioevo. Il ricorso a  dei criteri di mediazione dialettica per cui tra due termini in relazione tra loro deve necessariamente instaurarsene un terzo che renda possibile la loro stessa relazione è alla base, per esempio, del pensiero hegeliano e  dell’hegelismo in generale, ma ha radici profonde, rintracciabili nelle triadi di stampo neoplatonico e nella cosiddetta legge dei termini medi. Nella sovrabbondanza delle produzioni triadiche del sistema neoplatonico, infatti, la legge dei termini medi garantisce l’unitarietà di qualsivoglia triade pur preservandone l’articolazione in momenti differenti 46.

  Ibid., 6, 1, p. 415, 1, 55 - 2, 27.  È il caso, per esempio, della distinzione procliana dell’οὐρανός collocato come termine medio nella triade della Vita. Cfr. R. Wallis, Neoplatonism, London 1972, p. 124; S. Gersh, From Iamblichus to Eriugena: An Investigation of  the Prehistory and Evolution of  the pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie, 8) (tr. it., 45 46

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La stringente logicità della struttura è assicurata dalla permanente purezza monodica dell’elemento primario, che si articola nei momenti della processione nell’alterità, il momento dell’assenza, della negazione dell’elemento primario, e  del ritorno sintetico determinato dal superamento cosciente dell’alterità. Nella triade costituita da substantia, virtus e  operatio il prius è  riconosciuto nell’elemento sostanziale nella sua forma pura. La  fusione del cristianesimo con il neoplatonismo porta tuttavia a generare una riflessione sulla sostanza, intesa come priva della sua purezza primigenia: nello stato di totale mancanza e lontananza dall’Essere essa è pura potenzialità, carica però di un movimento interno che la porta, naturalmente e necessariamente, a compiere un processo di ritorno allo stato originario di pienezza assoluta, la terminatio finalis o perfectio di cui scrive Tommaso Gallo, ossia l’ἐντελέχεια aristotelica 47. Inoltre, l’intuizione di una relazionalità biunivoca fra l’operatio neoplatonica e  la seconda Persona della Trinità divina dimostra l’assoluta centralità del momento negativo della δύναμις per tutto l’impianto salvifico del cristianesimo. Alla luce di ciò, in conseguenza del peccato soltanto la totale negazione dell’οὐσία della prima Persona avrebbe potuto garantire, nel suo intrinseco e  inevitabile movimento interno dato dallo Spirito Santo (ἐνέργεια), il processo di raggiungimento cosciente dell’umanità intera dello status primigenio di perfezione. In  questo senso, la triade dell’Essere racconta al  Medioevo la filosofia e  la storia di un ritorno, del ritorno di tutte le cose create presso il loro comune Creatore.

Bari 2009), pp. 106-112; F. Romano, Il neoplatonismo, Roma 1998 (Studi superiori, 370), pp. 72-76. 47 Cfr., per esempio, Aristoteles, De anima, II, 1, 412a 27-412b 1, dove per ἐντελέχεια si intende il fine, l’in vista di cui raggiunto da qualsiasi ente e, dunque, il suo stato di perfezione finale.

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UNA METAMORFOSI DELLA TRIADE DELL’ESSERE NELLE «THEOLOGIAE» DI ABELARDO

Il contributo di Pietro Abelardo per una storia del trinomio ontologico essenza (substantia o essentia), potenza (virtus o potentia) e atto (actus o operatio) deve essere considerato a partire da una serie di eccentricità, che spiegano perché la storia della triade, fuori dal contesto neoplatonico, si configuri spesso come una storia della sua metamorfosi. La triade come struttura metafisica basilare, che in quanto tale deve essere considerata distinta sia dai suoi singoli elementi, sia dal rapporto che a due a due essi intrattengono (con particolare riguardo per la fortuna della coppia di potenza e  atto), chiede di essere indagata con molta cautela nel pensiero del maestro di Le Pallet. Infatti, nel discorso abelardiano la sua presenza rischia di testimoniare per un’assenza. Il piano solidamente aristotelico su cui Abelardo osserva la perpetua realizzazione di potenzialità, che sono in definitiva una manifestazione di forme che rivelano la natura della sostanza, rischia di esaurire in un orizzonte bidimensionale quella triangolazione che il neoplatonismo aveva invece pensato capace di ancorare il reale a proprietà e processi dialettici dei piani ipostatici superiori. Un’analisi della principale delle occorrenze teologiche della triade – che permette ad Abelardo di isolare un modello che le res prestano alla ragione per pensare la Trinità – permette tuttavia di comprendere come, lungi dall’essere un trompe-l’oeil, la profondità della struttura più elementare che si ottiene dalla scomposizione della realtà permette anche ad Abelardo di recuperare quella verticalità, che è la vertigine della triade e il suo senso proprio nel pensiero neoplatonico. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127963 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 365-383     © 

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In questa prospettiva, al  netto della varietà delle coordinate che individuano il sistema di pensiero specificamente abelardiano nel contesto di questa ‘storia’, sul crinale della trasfigurazione di una storia dell’ente in quanto ente in quella dell’Ego sum qui sum (Es 3, 14), la triade nel pensiero di Abelardo è il tool che invece di disancorare il divenire dalla ‘grande catena dell’essere’ riconosce che quell’infrastruttura, nel parallelismo di microcosmo e macrocosmo, è capace a) di spiegare l’identità e l’unità di un groviglio metafisico che non è  né identico, né uno e  b) tracciare il movimento di una creazione continua, che risulta riflessa nella realtà delle cose in cui si dà la più autentica Rivelazione della divinità. Le occorrenze della triade nelle opere logiche di Abelardo possono essere considerate, ai fini del rilevamento della presenza della struttura neoplatonica, un falso positivo, perché la prospettiva solidamente aristotelica non è sovradeterminata da un punto di vista né metafisico, né ontologico. Nelle opere logiche, non soltanto nelle Glossae, ma anche in quella summa che è  la Dialectica, non è possibile, infatti, rintracciare una semantizzazione della triade tale da fornire una risposta alla domanda che una sua storia pone. È questo il caso emblematico di un passo delle Glossae super Porphyrium della Logica «Ingredientibus», in cui Abelardo ragiona sul valore della proprietà ‘capacità (id est possibilità di essere ricettivo) di scienza’ («perceptibilitas scientiae»), che può essere considerata allo stesso tempo una differenza sostanziale, quanto alla natura dell’uomo («secundum naturam»), e  accidentale, quanto alla sua attualizzazione («secundum exercitium discendi»). Q uaeritur, cum disciplinae substantialem differentiam Porphyrius dicat, quomodo Boethius in Divisionibus potentiam discendi geometriam substantialem esse negat. Sed profecto aliud est perceptibilitas scientiae aliud potentia ad discendum scientiam. Nam illa secundum naturam, scilicet simpliciter pensatur, haec secundum exercitium discendi accipitur 1.

  Petrus Abaelardus [d’ora in poi: Abaelardus], Glossae super Porphyrium, in Id., Logica «Ingredientibus», ed. B.  Geyer, Münster 1919 (BGPTM, 21.1), [pp. 1-109], p. 70, 10-15; corsivo di chi scrive. 1

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Nel lavorio ermeneutico con cui Abelardo supera la contraddizione delle auctoritates di Porfirio e Boezio quanto allo statuto di «differentia substantialis» da accordare alla ‘capacità di scienza’ rispetto all’ente homo, la presenza del lessico triadico (in corsivo) non è capace di produrre una occorrenza. La struttura metafisica, che il filtro neoplatonico di Porfirio applica al problema del rapporto tra le forme in fieri e la natura che permane, è quella aristotelica binaria di sostanza-accidente che, in riferimento al terzo predicabile, la differenza, distingue tra quella ‘proprietà’ che è parte integrante della definizione, la cui sottrazione produce un altro e non solo un’alterazione, dalla differenza che non è parte integrante della definizione e la cui contingenza può dare effetto a un’alterazione e non a un’alterità 2. Dall’intersezione della logica binaria di valore positivo (atto) e  negativo (potenza) con la struttura elementare che individua l’ente o  come una sostanza (prima o  seconda) o  come un accidente (che classifica nelle restanti categorie), Abelardo conclude che è possibile riferirsi alla medesima forma (la proprietà espressa dalla differenza) ora come sostanziale, ora come non-sostanziale, quindi accidentale. L’occorrenza dei termini triadici (substantia, nella sua variante aggettivale, o natura; potentia; exercitio) rimanda in questo contesto a un’operazione di dissezione metafisica che ha il valore di una penetrazione logica, ma non già ontologica della struttura dell’ente. Altrove il lessico triadico compare nel contesto della combinazione della coppia potenza e  atto non più con la struttura elementare sostanza-accidente, ma coerentemente con quell’applicazione, in dialogo con la composizione ilemorfica dell’ente 3. In questi casi è piuttosto la dicotomia di materia e forma a fungere da base ontologica che permette poi di articolare il passaggio dalla potenza all’atto. In tutti questi contesti evidentemente la storia 2 Cfr. Porphyrius, Isagoge, 9, ed. A. Busse, Berlin 1895 (rist. 1957), (CAG, 4.1), pp. 14-23, traduzione latina di Anicius Manlius Severinus Boethius (in seguito: Boethius), ed. L.  Minio-Paluello, Bruges - Paris 1966 (AL, I.6), p. 16, 1-12. 3 Per una ricostruzione della metafisica abelardiana e quanto alla legittimità dell’utilizzo della categoria di ‘ilemorfismo’ per riferirsi alla sua visione delle entità individuali, si rimanda alla ricostruzione di Peter King: P. King, Metaphysics, in The Cambridge Companion to Abelard, edd. J. E. Brower - K. Guilfoy, Cambridge 2004, pp. 65-125.

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della triade si allontana dalla storia dei suoi elementi, che non ordinano gerarchicamente il reale per offrire una pista di ricomposizione metafisica, ma ne illustrano la composizione per dare la misura della sua complessità. È nel movimento teologico del pensiero di Abelardo 4 che la triade fa una timida apparizione, perché è  nella semplificazione della struttura ontologica divina che si dà uno schiacciamento delle coppie materia-forma, sostanza-accidente tale da produrre una triangolazione perfetta con gli elementi di potenza e atto. Alla prova della loro resistenza nel perimetro ontologico divino Abelardo può tuttavia mostrare la vera natura di quegli strumenti che la tradizione filosofica aveva fornito alla rappresentazione del Principio. Infatti, in una theologia costruita interamente sotto il segno della semantica, il Peripatetico palatino può ignorare i grandi temi che la metafisica neoplatonica aveva posto all’attenzione del cristianesimo, perché alla base del linguaggio teologico deve essere riconosciuto il fenomeno del trasferimento semantico o translatio, che è insieme condizione di possibilità e limite ultimo di efficacia di ogni discorso su Dio. His itaque rationibus patet divinam substantiam omnino individuam, omnino informem perseverare, atque ideo eam recte perfectum bonum dici et nulla re alia indigens, sed a  seipso habens, non aliunde quod habet accipiens. Creaturae autem  L’analisi del versante teologico del pensiero di Abelardo richiede che si tengano in considerazione tre diverse versioni della stessa opera, la Theologia. Secondo un modus operandi caratteristico del suo pensiero, è possibile distinguere, nel processo ininterrotto di scrittura che va dalla condanna del 1121 a Soissons a quella del 1140 a Sens, tre stadi testuali, cui gli studiosi abitualmente si riferiscono come alle versioni della «Summi boni», della Christiana e della «Scholarium». Da questo momento in poi si farà riferimento a ciascuna versione dell’opera singolarmente – che resta la ‘stessa’, quanto all’acuta percezione dei limiti della conoscenza umana di Dio e del linguaggio chiamato a esprimerla, ma cambia ed è continuamente ‘altra’ quanto alle istanze di rinnovamento che motivano un ricorso sempre più esigente, per quanto costitutivamente insoddisfacente, agli strumenti logici – come fonti diverse in una relazione di superamento reciproco. Cfr. J. Jolivet, Arts du langage et théologie chez Abélard, Paris 19822 (Études de philosophie médiévale, 57); M. de Gandillac, Sur quelques interprétations recentes d’Abélard, in «Cahiers de civilisation médiévale», 4  (1961), pp.  293-301; G.  Allegro, La  teologia di Pietro Abelardo fra letture e pregiudizi, Palermo 1990 (Scrinium, 9); J. Marenbon, The Philosophy of  Peter Abelard, Cambridge 1997; M. Giannetta, «Q uid verisimile sit dicturum me arbitror». Il Laboratorio delle Theologiae di Pietro Abelardo, Diss., Università degli Studi di Salerno 2019. 4

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quantumlibet bone adiunctione egent alterius, ex qua quidem indigentia imperfectionem suam profitentur. (…) Cum itaque divina substantia singularis prorsus et unica sit, in qua tres personae consistunt, ita ut unaquaeque personarum sit eadem penitus substantia quae est et altera, nec ulla sit partium aut formarum diversitas illius simplicis boni, multo minus haec persona aliud ab illa dici potest quam Socrates a Platone, cum videlicet trium personarum una sit singularis essentia, Socratis vero et Platonis non sit eadem essentialiter 5.

Il lessico dell’indigenza permette ad Abelardo di restituire, in termini neoplatonici, lo scarto ontologico tra Principio e principiato che l’utilizzo del linguaggio rischia di rendere equivoco. Il limite contro cui si infrange la capacità della parola umana di essere significativa diventa l’occasione di indicare la strada di una teologia superlativa, che approfondisca lo scarto ontologico al  punto da produrre una identità linguistica sempre e solo equivoca, consapevole che in senso proprio non ci sia corrispondenza («vere») tra il referente (la sostanza divina) e la nozione di substantia, di potentia o di operatio, perché ogni termine, portato in Dio, deve rispondere di un surplus di eccellenza che non può propriamente essere rintracciato nell’«impositio nominum» originaria 6. Il lessico formalizzato da Boezio, che Abelardo segue meticolosamente nella seconda versione della sua Theologia, gli permette di precisare, nella dialettica «proprie»-«improprie», le possibilità offerte dal linguaggio per restituire la differenza ontologica tra l’essere che è  fonte di ogni altro e  gli enti che ne derivano. Infatti, in senso proprio non si può correttamente predicare di Dio («proprie dici negat») l’essere sostanza, cioè l’essere «accidentium sustentamentum», perché il nome accidens, esattamente come il nome forma, e come qualsiasi altro referente linguistico, 5  Abaelardus, Theologia «Summi Boni» (in seguito soltanto: TSum), II,  40-41, edd. E. M. Buytaert - C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), p. 128, 363-378; cfr.  Id., Theologia Christiana (in seguito soltanto: TChr), III,  84, PL 178, [1113-1330], 1235CD, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12.2), p. 228, 1079-1088. 6 Cfr.  TChr, III,  85,  1235D-1236B, pp.  228,  1088  -  229,  1108. Cfr.  Boe­ thius, De sancta Trinitate, 2, PL 64, [1247-1256], 1250C, ed. C. Moreschini, München 2005, p.  170, 100-104; 4, 1252A, p.  173, 183-184; 1252AB, p.  174, 187-196.

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può essere applicato proprie solo alle cose create («in rebus tantum creatis») 7. Nella chiosa di Abelardo al  De Trinitate boeziano è  interessante che alla negazione di fondatezza ontologica («vere non sunt») corrisponda l’interdizione di appropriatezza linguistica («proprie dici negat», «dici non convenit»); la logica permette, nella consapevolezza della differenza originaria, non soltanto un accesso negativo alla natura di Dio, ma anche un accesso che si serve della via superlativa («via eminentiae») e che si formalizza nel linguaggio in una complessa teoria dell’«improprie» o  del «quasi», che supera l’imprecisione a  favore dell’efficacia, senza tuttavia redimerla. Non è  un caso che il ricorso al  modello del rapporto che tra identità e differenza nella specie homo si dà tra i  singoli individui, Socrate e  Platone, ritorni proprio nel punto in cui la simmetria di «vere non sunt» e «proprie dici negat» sembra chiudere il linguaggio nella sua costitutiva inadeguatezza. L’approssimazione («multo minus») restituisce l’asimmetria tra le relazioni della teologia trinitaria e  il rapporto tra gli individui, Socrate e  Platone, nella stessa specie homo; la disequazione che Abelardo così rileva permette da un lato di approfondire il valore ‘solo’ illustrativo degli strumenti offerti dalla logica umana, e dall’altro offre una brillante sintesi della dimensione di ulteriorità a cui puntano le predicazioni quando il referente è Dio 8.  Cfr. TChr, III, 86, 1236B, p. 229, 1109-1119.  Cfr.  TSum, II,  41, p.  128, 372-384; TChr, III,  87,  1236BD, pp.  229, 1120 - 230, 1133. L’ambiguità semantica del lemma essentia nell’opera di Abelardo è  rilevata e  problematizzata come dato lessicografico da Jean Jolivet, che mette l’indecisione abelardiana in relazione a due elementi: l’identità di substantia ed essentia sancita da Calcidio nel suo Commento al «Timeo» («essentia quidem alicuius rei substantia est», «substantiam sive, ut Cicero dicit, essentiam») e l’apertura alla multivocità garantita dal magistero agostiniano, che avrebbe esposto il lemma alla molteplicità di significati della nozione di «esse» («sicut enim ab eo quod est sapere vocatur sapientia, sic ab eo quod est esse vocatur essentia»). La difficoltà di formalizzare un’accezione del lemma è determinata da un suo uso ambiguo e spesso contraddittorio; infatti, in questo contesto Abelardo si riferisce al perimetro dell’essenza come a quello dell’esistenza, e distingue le sostanze di Socrate e Platone e le loro rispettive essentiae, mentre poco prima (cfr. TSum, II, 32, p. 125, 287-300) si era richiamato alla comune appartenenza specifica come identità di sostanza. Cfr. J. Jolivet, Notes de lexicographie abélardienne, in Pierre Abélard - Pierre le Vénérable: les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du xiie siècle (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris 1975, [pp. 531-543], pp. 542-543. 7 8

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Ora, alla stregua di ogni altra formalizzazione metafisica, i singoli elementi della triade possono essere rintracciati in Dio a condizione di essere assunti in maniera radicalmente diversa da come è possibile considerarli propriamente nelle res. Est itaque harum trium personarum una et eadem omnino substantia, et individua penitus et simplex essentia, una prorsus potentia, una gloria, una maiestas, una ratio, una voluntas, eadem operatio, non divisa. Unum atque idem per omnia ipsae sunt, excepto quod ad differentiam attinet proprietatum, per quas ipsae ita ab invicem perpetuo diversae consistunt, ut nunquam unius personae proprietas in aliam transfundatur personam, neque unquam ab altera communicetur persona: alioquin non esset proprietas, sed communitas 9.

La descrizione dell’identità e dell’unità della sostanza divina offre un’altra attestazione degli elementi della triade, determinata dal livellamento sull’essenza delle polarità ontologiche che Abelardo aveva invece descritto come proprie degli enti. In quest’ottica alla sostanza, una e identica, che individua un’essenza assolutamente semplice, possono essere riferite una potentia e una stessa indivisa operatio. Dietro il riconoscimento dell’assoluta semplicità della natura di Dio, Principio primo del sistema metafisico cristiano, si cela tuttavia per Abelardo il pressante problema di spiegare l’indivisibilità delle operazioni alla luce della ‘differenza’ degli operatori. Infatti, l’aspetto indubbiamente più controverso che nasconde la teologia trinitaria abelardiana è l’assunzione che, per quanto le opere delle tre persone («opera trium personarum») debbano essere considerate indivisibili («indivisa sint»), perché unica e singolare è l’essenza di colui che opera, tuttavia è possibile attribuire, a causa della diversità delle persone e delle opere («diversitas personarum et operum»), specialiter a  una ciò che pure non può essere sottratto all’efficacia di tutte 10. Il crollo di autorevolezza della metafisica, ridotta al  rango di mera proiezione umana, toglie al pensiero teologico abelardiano   TChr, III, 61, PL 178, 1229D-1230A, p. 220, 798-806; corsivo di chi scrive.  Cfr. TSum, III, 48, p. 177, 574-577: «Cum itaque sint indivisa opera trium personarum, quarum nullo modo diversa est essentia, pro diversitate tamen personarum et operum quaedam specialiter opera uni personae tanquam propria tribuuntur, quaedam alii»; TChr, IV, 65, 1279D, p. 293, 941-944. 9

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la consistenza necessaria a farne una valida dimora per la triade, così come il neoplatonismo l’aveva concepita. Persino una timida presenza del lessico finisce per testimoniare la difficoltà di far dialogare la complessità della costruzione teologica con il residuo di quell’impalcatura neoplatonica, dal momento che l’ossessione trinitaria del magistero teologico di Abelardo spinge i termini in una direzione che, pur condividendo l’enfasi sull’assoluta semplicità e trascendenza del Principio, non è perfettamente sovrapponibile a quell’orizzonte di problemi e conseguentemente di soluzioni. In definitiva nel pensiero di Abelardo si trova una triade che non (cor)risponde allo schema metafisico neoplatonico, perché alterata dalla consuetudine aristotelica e dalle asperità di una teologia cristiana. Ciononostante, la Theologia è in grado di fornire un indizio della sopravvivenza della triade neoplatonica e di non essere ricordata in una sua storia soltanto come luogo di un’assenza. Infatti, è possibile che il pensiero di Abelardo risulti triadicamente significativo a  condizione di trasformare la domanda sulla presenza del modello neoplatonico da una corrispondenza testuale a una coerenza speculativa. Nel luogo più aspro per una teologia cristiana, vale a  dire di fronte alla descrizione della Trinità, Abelardo ricorre a una singolare metamorfosi del trinomio ontologico sostanza, potenza e atto per esprimere la natura intimamente dinamica della dimensione intelligibile e  il suo riflesso nella realtà, testimoniando non soltanto la sopravvivenza della struttura, anche dove non evidenziabile immediatamente, ma la sua collocazione al cuore stesso della spiegazione della natura del Principio. Lo sviluppo più significativo della Theologia nella terza versione è senza dubbio la comparsa di un nuovo modello interpretativo della τάξις trinitaria, che supera le rappresentazioni delle versioni precedenti e introduce una variazione della triade («aes», «sigillans», «sigillantis») come maggiormente rappresentativa rispetto al  binomio materia e  forma. Dove nelle versioni precedenti Abelardo si era servito dell’immagine di cera o della statua di bronzo per offrire all’intelligenza un modello di comprensione delle relazioni intra-trinitarie, fa ora la sua comparsa l’immagine del sigillo di bronzo. Abelardo recupera questo modello dalla tradizione, senza inventarlo, ma lo ripensa e  ne trasforma radicalmente la fisionomia, guardandolo come percorso da linee di ten372

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sione, queste sì inedite, che provocarono un certo smarrimento nel lettore contemporaneo 11. Il  sigillo di bronzo è  in questo senso 11  Tra le fonti che potrebbero spiegare l’utilizzo abelardiano del sigillo e che lo riportano in un contesto prossimo a quello della presente indagine deve sicuramente essere ricordato Remigio di Auxerre. Nel commento all’opuscolo boeziano dedicato alla Trinità, che risente di una notevole influenza eriugeniana, e da cui, secondo l’editore Mews, si può almeno congetturare che Abelardo sia stato ispirato, Remigio parla della traccia che Dio lascia nella creazione non come forma, lemma che rimanderebbe a una purezza ontologica, ma come imago, con riferimento alla traccia di materia che abita quella forma. Nel farlo, Remigio ricorre appunto alla metafora del sigillo che analogamente modella e  rilascia nella cera (materia) un’immagine (forma). Del resto, per la frequentazione dei topoi biblici, non si può pensare, secondo Mews, che Abelardo abbia esplorato le potenzialità figurative del sigillo di bronzo prescindendo dal motivo biblico dei Salmi: «Signatum est super nos lumen vultus tui» (Sal 4,  7). Potrebbero quindi aver giocato un ruolo determinante nel portare la struttura del sigillo all’attenzione di Abelardo anche i commenti coevi a quel versetto scritturale, in particolare quello che l’abate Migne nel volume 131 della Patrologia attribuisce a Remigio di Auxerre (opera dimostrata poi spuria), e che compare in un Commento ai Salmi, che almeno in un manoscritto è attribuito a Roscellino di Compiègne. Secondo la linea esegetica che si ritrova affermata nello pseudo-Remigio, nell’anonimo testo attribuito in un manoscritto a Roscellino e in Bruno di Colonia, il calco, analogo all’immagine ottenuta nella cera dal sigillo, porterebbe con sé una diminutio della chiarezza dell’immagine originaria, che sarebbe appunto stata oscurata nella condizione post-lapsaria, e  dovrebbe essere riferito specificamente all’azione dello Spirito Santo («in ipso sigillo Spiritus sancti»). Cfr. Remigius Autissiodorensis, Glossae in Boethium, ed. E. K. Rand, in Q uellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, ed. L. Traube, 2 voll., München 1906, I.2, [pp. 28-80], pp. 37-38: «Nam ceteras. Sicut cera subiecta sigillo non formam recipit, sed imaginem, ita nec nos formas vere habemus sed imagines. (…) Imagines. Verbi gratia, ex sigilli forma imago in cera repraesentatur expressa». Cfr.  pseudo-Remigius Autissiodorensis, Enarrationes in Psalmos, 4,  7, PL 131, [133D-844C], 165A: «Nam sunt multi qui non sperant, dicentes: Q uis ostendet nobis bona? Scilicet illa quae promittis. Q uis ascendit in coelum qui illa videret et nobis renuntiaret? Aut quis ostendet nobis mala, scilicet illa tormenta quae dicitis esse apud inferos? Frustra hoc dicunt, quia tu, Domine, ostendisti nobis dando nobis rationem ad similitudinem tuam. Nam signatum, id est, sigillatum, et in ipso sigillo Spiritus sancti, est super nos lumen vultus tui, Domine, id est, lux illa quae imaginem tuam in nobis facit apparere. Vel lumen vultus tui, id est claritas imaginis tuae quae in nobis obscurata est in Adam, scilicet vera ratio, qua tibi similes sumus, antecedente sigillo sancti Spiritus in nobis reformata est». L’unico argomento che permette di recuperare alla storia delle fonti di Abelardo (per quanto in maniera non decisiva) l’opera dello pseudo-Remigio è codicologico e tuttavia è reso debole dalla dubbia autorialità riportata dai codici manoscritti in cui si trova il Commento ai Salmi; infatti, l’opera è attribuita a magister Roscellinus in ms. Paris, Bibliothèque de l’Arsenal 83, f. 15; a magister Bruno in ms. Troyes, Bibliothèque Municipale 1507, f. 34; ed è anonimo in ms. Paris, Bibliothèque national de France, lat. 436, f. 8v e f. 12, e in ms. London, Lambeth Palace Library 176, f. 56v e f. 179: «Et est dictum a similitudine sigilli quod cerae impressum regiam imaginem signat. Sicut enim sigillum impressum regiam ponit imaginem, ita

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illuminante, perché combina entrambi i  prototipi precedenti, l’immagine di cera e la statua di bronzo, e conferisce loro un dinamismo che completa e in certo senso si può dire ‘concluda’ l’operazione teologica di Abelardo. L’evoluzione che interessa questo luogo testuale nella revisione della Theologia è significativa per uno studio della rilevanza della triade, perché mostra le potenzialità che Abelardo dovette intravedere nel modello metafisico neoplatonico per restituire l’istantanea del movimento trinitario a fronte dell’inadeguatezza degli filius dei suo modo superiori nostro, id est rationi, secundum similitudinem impressam, quandam summi boni presentationem exprimit, quamvis in aliis plus, in aliis vero – malis meritis suis exigentibus, cum lucernam ad vera bona cognoscenda sibi data sub modio carnis ponant – minus luceat». Cfr. Bruno Coloniensis, Expositio in Psalmos, PL 152, [637B-1420C], 652A: «Nam sicut sigillum cum sit imago, cerae impressum figuram sibi similem ibi ponit, quae tamen in aliquo dissimilis est, ita rationalitas mentibus nostris est impressa ad similitudinem rationalitatis filii dei, qui uultus est patris». Q uesta linea interpretativa si pone in una dimensione ermeneutica diversa rispetto alla canonica auctoritas di Agostino che, nelle sue Enarrationes in Psalmos, aveva sviluppato quel motivo con il parallelismo tra l’immagine di Dio nell’uomo e l’effige del re nella moneta. In questo senso, secondo Mews, l’interpretazione abelardiana sarebbe derivata da un modello alternativo rispetto alla linea esegetica classica sostenuta dall’auctoritas di Agostino e  seguita dallo pseudo-Rufino, Bruno di Würzburg, pseudo-Beda, Cassiodoro, pseudo-Aimone di Auxerre e Bruno di Segni. Cfr. Augustinus Hipponensis (in seguito: Augustinus), Enarrationes in Psalmos, Psalmum 4, 7, PL 36, [671028], 81, edd. E. Dekkers - J. Fraipont, 3 voll., Turnhout 1956 (CCSL, 38-3940), I, p. 17, 20-29: «Q uis novit si vera sunt, aut quis venit ab inferis ut ista nuntiaret? Magnifice igitur et breviter, sed intrinsecus videntibus, ostendit quae bona quae­renda sint, respondens illorum interrogationi qui dicunt: ‘Q uis ostendit nobis bona? Signatum est’, inquit, ‘in nobis lumen vultus tui, Domine’. Hoc lumen est totum hominis et verum bonum, quod non oculis, sed mente conspicitur.  ‘Signatum’ autem dixit ‘in nobis’, tanquam denarius signatur regis imagine: ‘Homo enim factus est ad imaginem et similitudinem Dei’ (Gn 1, 26), quam peccando corrupit: bonum ergo eius est verum atque aeternum, si renascendo signetur. Et ad hoc credo pertinere, quod quidam prudenter intelligunt, illud quod Dominus viso Caesaris nummo ait: ‘Reddite Caesari quod Caesaris est, et Deo quod Dei est’ (Mt 22, 21); tanquam si diceret: Q uemadmodum Caesar a vobis exigit impressionem imaginis suae, sic et Deus; ut quemadmodum illi redditur nummus, sic Deo anima lumine vultus eius illustrata atque signata»; C. J. Mews, Introduction, in TSch, [pp. 203-308], p. 208, nota 4. Una dipendenza da questa tradizione, che tuttavia non può essere rigorosamente dimostrata, ma soltanto ipotizzata, come fa Constant Mews, permette di inferire una più forte relazione del pensiero abelardiano con l’opera eriugeniana, che viene qui soltanto accennata e che permetterebbe di recuperare la variazione aes, sigillabilis, sigillans a una storia della triade più che delle sue metamorfosi. Cfr. G. d’Onofrio, Giovanni Scoto e Remigio d’Auxerre: a proposito di alcuni commenti altomedievali a Boezio, in «Studi Medievali», 22 (1981), pp. 587-693.

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strumenti offerti dalla relazione ilemorfica o dalla relazione tra il genere e la specie. La strategia argomentativa resta fondamentalmente inalterata: l’apostolo Paolo è testimone dell’esistenza di un accesso naturale alla verità, che ha permesso ai filosofi, non indipendentemente da Dio («Domino revelante»), di rintracciare («vestigare») e  riconoscere («assignare») – quindi di seguire una traccia e  attribuire dei segni –, la presenza di tre persone, distinte in base alle rispettive proprietà, nell’unica natura divina, che sarebbe stata compresa ed espressa con il ricorso a similitudini adeguate. Ora, il vero protagonista della storia di questa scoperta è Dio che illumina la ragione («illuminando rationem») di tutti gli uomini, cui la fede indica il compito di sollevarsi («assurgerent») dalla similitudine delle cose corporee e visibili («ex similitudine corporalium seu visibilium rerum») alla contemplazione della natura incorporea e invisibile di Dio («ad incorpoream atque invisibilem divinitatis naturam contemplandam»). Dove la similitudine ha commercio con le cose del mondo, la contemplazione le supera e punta il suo sguardo direttamente su ciò che è inaccessibile ai sensi. Nella natura e nelle opere («‘per ea quae’ in ipsa ‘sunt facta’ [Rm 1, 20], tam a nobis quam a natura») sarebbe dunque custodita una traccia, depositata secondo la ratio dei filosofi nella composizione triadica di tutte le cose 12. Verbi causa, aes quoddam est inter creaturas, in quo artifex operans et imaginis regiae formam exprimens regium facit sigillum, quod scilicet ad sigillandas litteras, cum opus fuerit,   TChr, IV, 85, 1287D-1228B, pp. 305, 1241 - 306, 1283; Theologia «Scholarium» (in seguito soltanto: TSch), II, 110-112, PL 178, [979-1114B], 1068C-1069A, edd. E. M. Buytaert - C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), pp. 461, 1613 462, 1652. – Per un’analisi a partire da questo «problematico parallelismo» della similitudine del sigillo di bronzo, si rimanda all’attento studio di Sergio Paolo Bonanni, dedicato specificamentre alla lettura della «Scholarium»: S. P. Bonanni, Parlare della Trinità: lettura della Theologia Scholarium di Abelardo, Roma 1996 (Analecta Gregoriana, 268), pp. 185-221. Lo sviluppo della sensibilità ermeneutica nei confronti dell’Epistola paolina può essere messo in relazione al lavoro di commento dei Commentaria in epistulam Pauli ad Romanos. Sulla complessa relazione tematica tra le due opere (basti pensare che i Commentaria contengono almeno otto riferimenti espliciti a luoghi della Theologia, già scritti o da scrivere) e sui relativi problemi della cronologia relativa, si vedano: C. J. Mews, Introduction, in Abaelardus, Commentaria in epistulam Pauli ad Romanos, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 11.1), [pp.  3-38], pp.  27-37; C.  J. Mews, On dating the works of  Peter Abelard, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 52 (1985), [pp. 73-134], pp. 130-132. 12

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cerae imprimatur. Est igitur in sigillo illo ipsum aes materia ex quo factum est, figura vero illa imaginis regiae forma eius, ipsum vero sigillum ex his duobus materiatum atque formatum dicitur, quibus videlicet sibi convenientibus ipsum est compositum atque perfectum. Nichil quippe est aliud sigillum ipsum quam aes ita formatum. Idem itaque essentialiter est ipsum aes quod est materia aerei sigilli et sigillum ipsum cuius est materia, cum tamen in suis proprietatibus ita sint disiuncta ut aliud sit proprium aeris, aliud aerei sigilli. Et quamvis idem sint essentialiter, sigillum tamen aereum est ex aere, non aes ex aereo sigillo, et aes est materia sigilli, non sigillum aeris. Nec ullo modo aes materia sui ipsius esse potest, quamvis sit materia sigilli quod est ipsum aes. Non enim aes ex aere fit sicut sigillum ex aere est constitutum. Et quamvis idem sit materia ipsa quod est materiatum, nequaquam tamen in sigillo illo materiatum est materia vel materia est materiatum. Facto autem ex aere sigillo, iam sigillabile est, hoc est aptum ad sigillandum, etsi nondum sit actualiter sigillans. Cum autem per ipsum sigillari ceram contingit, iam in una aeris substantia tria sunt proprietatae diversa, aes videlicet ipsum, et sigillabile et sigillans 13.

Si consideri tra le creature («inter creaturas») una materia determinata, un certo bronzo («aes quoddam»), e un artefice («opifex»), che ne tragga un sigillo con cui, quando lo ritenga necessario («cum opus fuerit»), lasciare la sua impronta nella cera. La narrazione è in due tempi; il modello della costituzione materiale viene fatto valere rispetto al sigillo in cui si distinguono nitidamente la causalità materiale, il bronzo, la causalità formale, il sigillo dell’immagine regale, e la causalità efficiente, la volontà dell’artefice. Ora, in un secondo momento, l’artefice o  il Principio – a  cui, come vuole la metafisica cristiana, è conferita la personalità – può imprimere con il sigillo la forma dell’immagine regia («imaginis regiae forma») nella cera. Nell’analisi del trasferimento dell’immagine dal sigillo alla cera, Abelardo ricorre esattamente a  quella struttura metafisica triadica, che permette distintamente di scorgere nel sigillo tre livelli diversi: il bronzo (aes), il sostrato materiale, l’essere capace di sigillare (sigillabilis), in quanto potenzialità 13  TSch II, 112, 1068B-1069B, pp.  462,  1045  -  463,  1667; corsivo di chi scrive.

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(«aptum ad sigillandum») e  il sigillare (sigillantis), in quanto attualità («actualiter sigillans»). Si comprende bene quanto potesse apparire ad Abelardo perspicuo il sigillo di bronzo, perché non soltanto modello delle relazioni tra proprietà diverse e non reciproche in una stessa essenza, ma paradigma del dinamismo extra-trinitario che gli permette di ricapitolare in un’immagine l’opera della creazione e della redenzione. Dal punto di vista della struttura metafisica, il sigillo di bronzo offre all’intelligenza, suffragata dalla chiarezza che gli deriva dall’essere davanti agli occhi («ante oculos»), una realtà in cui la materia è altro dalla forma e pertanto può essere riconosciuto come un composto («compositum atque perfectum») ottenuto dalla convenienza di queste come delle sue parti («ex his duobus materiatum atque formatum»). In questo senso il sigillo di bronzo realizza le condizioni di un’identità che altrove Abelardo ha qualificato come numerica ed essenziale («idem essentialiter»), che vive di una differenza in cui devono essere considerate non reciproche la proprietà della materia e  la proprietà di ciò che è  dalla materia («aliud sit proprium aeris, aliud aerei sigilli»). Infatti, pur nell’indiscernibilità ontologica, perché materialmente identiche, le proprietà denotano una struttura che non può essere narcotizzata, pena il riferire al  bronzo ciò che è solo del sigillo di bronzo o il riferire al sigillo di bronzo ciò che è solo del bronzo. L’infrastruttura metafisica del ‘medesimo’ può essere chiaramente osservata a partire dalle relazioni di origine, perché il bronzo non è dal sigillo, mentre il sigillo è dal bronzo («non enim aes ex aere fit sicut sigillum ex aere est constitutum»), per cui in nessun modo potrà esserci confusione tra ciò che non è definizionalmente identico, perché non è in ciò per cui è bronzo, che è un sigillo, così come non è in ciò per cui è un sigillo, che è bronzo («nequaquam tamen in sigillo illo materiatum est materia vel materia est materiatum»). Abelardo non esaurisce il fascino del suo plastico triadico in questa felice ricapitolazione di tutta la ‘sua’ teologia trinitaria. Q uando immette il sigillo di bronzo nel tempo («facto autem ex aere sigillo») e nello spazio, cioè di fronte a una materia plasmabile, la cera («cum autem per ipsum sigillari ceram contingit»), ricostruisce in filigrana quell’architettura metafisica che il neoplatonismo ‘cristiano’ aveva trovato nelle creature a  guisa della 377

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Trinità, e  cioè scorpora nell’identità di ogni ente la presenza di «tre componenti strutturali coesistenti e al tempo stesso articolate in successione dialettica: essenza, potenzialità ed atto» 14. Che questo possa o meno essere un argomento decisivo a riprova del debito che la Theologia avrebbe contratto con l’idea centrale del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena, a  cui si deve la ricapitolazione cosmica, nell’exitus e nel reditus escatologico, di questa «armatura metafisica» è difficile da dimostrare. Gli argomenti che indurrebbero a pensare a una dipendenza dell’opera abelardiana dal sistema pseudo-dionisiano che anima la ricapitolazione della natura eriugeniana appaiono piuttosto deboli. Tra questi deve essere ricordato che l’editore moderno della Theologia, Constant J. Mews, suggerisce, in assenza di alcun precedente diretto dell’applicazione del termine «theologia» a un trattato sulla Trinità, di individuare nel De theologia mystica dello pseudo-Dionigi l’unica possibile opera nota ad Abelardo con un simile titolo. Abelardo dice l’Areopagita «magnus ille philosophus» 15, testimoniando, se non una dipendenza, almeno una certa conoscenza e una forte ammirazione. Sarebbe possibile andare oltre nella determinazione dell’ascendente che l’Areo­ pagita ebbe su Abelardo, se si riuscisse effettivamente a  dimostrare la dipendenza del modello metafisico offerto dall’immagine del sigillo di bronzo dalla struttura di essenza, potenza e atto che regge la prospettiva cosmica mediata al  Medioevo latino dall’Eriu­gena 16. Ma la coerenza speculativa in questo contesto, 14   G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 1719 gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), [pp. 337-366], p. 346. 15  TSum, II, 23, p. 121, 204. 16 Cfr. Mews, General introduction, in TSum, edd. Buytaert-Mews cit., [pp. 1537], p. 19, nota 10. Tuttavia, rispetto alla genesi del titolo, il valore congetturale dell’ipotesi, la difficoltà di provare una reale influenza pseudo-dionisiana nell’opera abelardiana, e sicuramente la non corrispondenza della nozione di ‘teologia’ dell’Areopagita con gli obiettivi della Theologia abelardiana, spingono a ritenere che, se anche potesse essere istituita una relazione quanto ai due titoli, essa dovrebbe essere considerata accidentale. Cfr. R. Roq ues, Note sur la notion de «theo­ logia» chez le Pseudo-Denys l’Areopagite, in «Revue d’ascétique et de mystique», 25 (1949), pp. 200-212. Per i luoghi più significativi dell’opera abelardiana avvertiti dell’esistenza e del pensiero dello pseudo-Dionigi: TSum, II, 23, pp. 121, 202 -

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anche alla luce delle risultanze negative di un’indagine sulla corrispondenza testuale, non può essere apodittica. È certamente sul piano dell’affinità metafisica che potrebbe tuttavia essere almeno posto il tema di un’influenza sulla Theologia di Abelardo del pensiero di Giovanni Scoto Eriugena, che permetterebbe di spiegare sia il ruolo che questi eventualmente giocò come fonte nella visione della terza persona come «force substaining creation», sia nel rispecchiamento della Trinità nella struttura metafisica del creato 17. La direzione di cui le relazioni di origine sono vettori nel sigillo di bronzo evidenziano le peculiarità di quella struttura metafisica che doveva risultare perfettamente funzionale alle esigenze della teologia trinitaria 18. Assumendo la postura ermeneu122, 204; TChr, III, 45, PL 178, 1224D-1225A, p. 213, 569-572; Id., Epistola ad amicum suum consolatoria (o  Historia calamitatum), 47, PL 178, [113A-182A], 153B, ed. D.  E. Luscombe, Oxford 2013 (Oxford Medieval Texts), pp.  72-74; Id., Epistola ad Adam abbatem de Dionysio Areopagita, XI, PL 178, 341A-344C, ed. E. R. Smits, Groningen 1983, pp. 249-255. 17 Il tema della concezione dello Spirito Santo come «force sustaining creation» è uno degli elementi che ha spinto il primo editore, Heinrich Ostlender, a supporre che la lettura dei primi due libri del Periphyseon, specificamente della sezione del secondo libro dedicata allo Spirito, potesse avere influenzato l’opera del Peripatetico palatino. Tuttavia, Constant J. Mews ha definitivamente escluso che questa affinità possa superare le difformità tra i due sistemi, che riguardano principalmente la diversa tematizzazione del rapporto tra Spirito Santo e anima del mondo platonica e il problema dell’identificazione della bontà direttamente con Dio, come nel Periphyseon, o con una sola persona della Trinità, come invece nelle Theologiae. In  generale, come già mostrato a  proposito dell’originalità del titolo di «theologia» non è  possibile rintracciare alcuna sostanziale conferma della presenza dell’influenza pseudo-dionisiana nell’opera del maestro di le Pallet. Cfr. H. Ostlender, Einführung, in Abaelardus, Theologia «Summi boni», ed. H. Ostlender, Münster 1939 (BGPTM, 35.2-3), [pp. xx-xxii], p. xxiv, con riferimento a M. De Wulf, Historie de la Philosophie Médiévale, 3 voll., Louvain Paris 19346, I, p.  140; C.  J. Mews, Introduction, in TSum, [pp.  39-81], p.  51; Iohannes Scotus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [441-1022], 441A524B, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, 1996, pp. 3-111; ibid., II, 609B-614B, II, 1997, pp. 115, 2864 - 122, 3080. 18 Cfr. TSch, II, 112, 1069AB, p. 463, 1667-1675: «Q uae quidem ad invicem sic se habent ut ex aere sit factum sigillabile, hoc est sigillum, et ex aere simul et sigillabili contingat fieri sigillans. Ex aere quippe quod primitus erat, ad hoc productum est ipsum aes ut sigillabile esset, deinde ut, quod aes sigillabile iam erat, sigillans fieret. Sic igitur cum sit eadem essentia aeris et sigillabilis et sigillantis que tria proprietate diversa sunt, ita haec tria invicem sunt sibi coniuncta, ut ex aere sigillabile, et ex aere simul et sigillabili sigillans habeat suum esse»; corsivo di chi scrive.

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tica caratteristica del cristiano che si concepisce ‘vero filosofo’, Abelardo riconosce alla filosofia neoplatonica come merito e come limite l’aver intravisto ciò che ai cristiani sarebbe stato compiutamente rivelato e approfondisce la riflessione triadica in senso trinitario 19. Infatti, il sigillo deriva la sua potenzialità esclusivamente dalla materia, e deriva invece l’attualità dal simultaneo concorso di materia e potenzialità, proprio come solo il Padre genera il Figlio e sono coinvolti entrambi nella processione dello Spirito e nell’estensione trinitaria ad extra 20. Q ualora si volesse poi verificare compiutamente la validità della similitudine del sigillo di bronzo nella restituzione della generazione del Figlio con riferimento alla triade di appropriazioni Potenza, Sapienza e Bontà, si scoprirebbe che il sigillo di bronzo è dalla sostanza del bronzo come la Sapienza divina è  dalla sostanza della Potenza divina, poiché come essere sapienza è  essere una certa potenza, così essere sigillo di bronzo è dare una precisa configurazione alla duttilità della sostanza bronzea e essere uomo è dare una precisa fisionomia, in un rapporto di specificazione stringente, all’essere animale 21. La validazione dello 19  Sul rapporto che Abelardo intrattiene con la filosofia e con i filosofi, si veda emblematicamente: T. Gregory, Abélard et Platon, in «Studi medievali», 13 (1972), pp.  539-572 [ripr. in Peter Abelard. Proceedings of   the International Conference (Louvain, 10-12 May 1971), ed. E. M. Buytaert, Leuven 1974, pp. 3864]. L’idea che il filosofo cristiano rappresenti lo stadio finale del progresso umano dipende dal modo stesso in cui Abelardo concepisce la ratio in particolare nelle Collationes, come ha dimostrato Mario Coppola. Cfr. M. Coppola, La «ratio» nelle Collationes di Abelardo, in Dialogus. Il  dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico, a cura di M. Coppola - G. Fernicola L. Pappalardo, Roma 2014 (Institutiones, 4), pp. 245-290. 20 Cfr. Bonanni, Parlare della Trinità cit., p. 201: «Come il sigillo che sigilla, che imprime la sua immagine nella cera, vive della materia bronzea di cui è fatto e della forma che lo rende atto a sigillare: e d’altra parte tale materia e tale forma trovano la pienezza di senso del loro essere sigillo, si compiono come materia e forma del sigillo, proprio nel sigillo che sigilla». 21  Cfr. TSch, II, 116, 1069D-1070B, p. 463, 1667-1675: «Cum igitur sapientia quaedam, ut dictum est, sit potentia sicut aereum sigillum est quoddam aes, liquet profecto divinam sapientiam ex divina potentia esse suum habere, ad eam videlicet similitudinem qua sigillum aereum ex aere dicitur esse quod est eius materia, vel species ex genere quod quasi materia speciei dicitur esse, ut animal hominis. Sicut enim ex eo quod est aereum sigillum exigit necessario ut aes sit, et ex eo quod est homo ut animal sit sed non e converso, ita divina sapientia, quae est potentia discernendi, exigit quod sit divina potentia sed non e converso. Q uippe sicut aes tam ad aereum sigillum quam ad alia se habet, et animal tam ad hominem quam ad alia, sic et potentia divina tam ad discernendum quam ad operandum se habet.

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strumento del sigillo di bronzo avviene anche sul piano linguistico, dove conferma la sua efficacia, perché impedisce nella predicazione l’unione dei nomi relativi che riferiscono delle proprietà non reciproche, mentre ammette la congiunzione dei nomi assoluti che puntano alla sostanza comune 22. È per tutte queste sue caratteristiche che la triade astratta dal sigillo di bronzo, come ha scritto Concetto Martello, non senza un certo gusto ossimorico, è «immagine del mistero» 23. Per quanto debba essere considerato valido il modello triadico espresso nel sigillo, esso è pur sempre un modello tra gli altri che non a caso prova la sua maggiore efficacia rispetto a modelli più inadeguati come le triadi ‘sole, luce, calore’ e ‘fonte, ruscello, staEt sicut aereum sigillum de ipsa aeris substantia vel essentia dicitur esse, cum esse videlicet aereum sigillum sit esse aes quoddam, et esse hominem, id est ‘animal rationale mortale’ sit esse animal quoddam, ita et divina sapientia de substantia divinae potentiae dicitur esse, cum videlicet esse sapientiam, id est potentiam discernendi, sit esse potentiam quandam quod est filium de substantia patris esse vel ab ipso genitum esse. Nam et species ex genere quasi gigni sive creari philosophi dicunt, secundum hoc scilicet quod ex ipso, ut dictum est, esse contrahunt». È a questa sezione testuale che guarderà come eretica l’autore dei Capitula Haeresum quando imputerà ad Abelardo l’«horrenda similitudo» del sigillo di bronzo e della specie e del genere in riferimento alla Trinità. Cfr. Capitula haeresum Petri Abaelardi, I, 1, PL 182, [1045-1054], 1049A, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12.2), p. 473, 3-14. 22 Il modello del sigillo di bronzo viene validato dal punto di vista logicolinguistico, quando Abelardo mostra che la predicazione delle sue proprietà può avvenire in modo assoluto o  relativo, a  seconda che ci si riferisca all’identità di essenza o  alla differenza di relazione; infatti, a  rigore si può dire che il sigillo di bronzo è il bronzo con riferimento alla sua sostanza, ma in termini relativi si può dire esclusivamente che il sigillo di bronzo è dal bronzo. Cfr. TSch, II, 147, 1074D-1075A, pp. 469, 2165 - 470, 2181: «Sicut igitur in aere et aereo sigillo absoluta eorum nomina sibi per predicationem coniunguntur, quando videlicet eorum eandem esse substantiam demonstramus, veluti cum dicimus ‘aes est aereum sigillum’ vel e converso, et similia, nec tamen eorum relativa nomina quae proprietates eorum predicant, secundum quas hoc ex illo habet esse, sibi coniungi possunt, sicut materia aerei sigilli et materiatum ex aere. Nemo etenim dicit ‘materia aerei sigilli est materia ex aere’, vel ‘materiatum ex aere est materia aerei sigilli’. Sic et in divinis contingit personis. Ipse etenim omnipotens est sapiens sive benignus, et e converso, sed non ipse pater est filius, scilicet sui, vel est spiritus sanctus, cum ipse videlicet pater non procedat ex patre, hoc est ex seipso vel filio sicut spiritus ex patre procedit sive filio. Non enim quemadmodum bonus dei affectus ex potentia eius et sapientia, ut dictum est, procedit, ita potentia ipsa sive sapientia ex seipsis procedere possunt – quod esset patrem vel filium esse spiritum sanctum». 23 Cfr. C. Martello, Pietro Abelardo e la scoperta della filosofia. Percorsi intellettuali nel xii secolo tra teologia e cosmologia, Roma 2008, pp. 66-73.

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gno’ che si erano rivelati insoddisfacenti («minus fortasse quam volumus») 24. Nel confronto con la ricerca agostiniana di un’analogia prende forma in tutta la sua evidenza la specificità dell’edificio teologico abelardiano. Infatti, se si volesse cercare nella Theo­ logia un corrispettivo dell’illustrazione del dogma che Agostino tenta a  partire dall’analisi psicologica dell’uomo come specchio della Trinità quale «mens, notitia, amor», «memoria, intelligentia, voluntas sui», «memoria, intelligentia, voluntas Dei» si arriverebbe piuttosto (per quanto impropriamente) alle appropriazioni di Potenza, Sapienza e Bontà, ma mai alla triade o alla res da cui è astratta, il sigillo, che conserva la sua specificità come strumento di comprensione 25. Da notare che il parallelo fra Trinità e sigillo non va fatto per ricercare una qualche suggestiva peculiarità; assumere una similitudine e  ribadirne la centralità, per Abelardo significa piuttosto darsi un punto di riferimento credibile in ordine alla comprensione del senso e della dinamica del rapporto tra i tre. Dove ‘credibile’ significa che il sigillo si presenta come un’ipotesi di ricerca teologica in grado di fornire uno schema atto a  facilitare la sintesi degli elementi offerti dal dato rivelato, i  soli a  poter dare fondamento a  una riflessione sul mistero trinitario. Un modello dunque. Ma non tanto nel senso che riproduce in scala o imperfettamente l’oggetto reale, ma nel senso che offre, nonostante tutti i  suoi limiti, la possibilità di farsi un’idea della sua struttura e del suo funzionamento: si pensi, per fare un esempio, più al modello dell’atomo che al plastico di un edificio da costruire 26.

 Cfr. TSch, II, 118-120, 1070C-1071D, pp. 466, 1762 - 468, 1815.  Abelardo risolve sul piano esclusivamente logico il problema della rappresentazione della Trinità e in questo modo libera le sue similitudini e il suo sigillo dalla responsabilità di essere analogie. Q uesto è evidente proprio nel confronto con gli sforzi di Agostino, che ha tuttavia una finalità mistica dove Abelardo mostra chiaramente di avere come obiettivo «un cammino di approfondimento che è innanzitutto intelligenza». Cfr. Bonanni, Parlare della Trinità cit., pp. 216219; M. Perkams, The Trinity and the Human Mind. Analogies in Augustine and Peter Abelard, in Intellect et imagination dans la philosophie médiévale. Actes du XI Congrès international de Philosophie médiévale de la Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie médiévale (SIEPM) (Porto, 26-31 août 2002), éd. par M. C. Pacheco - J. F. Meirinhos, 2 voll., Turnhout 2006 (Rencontres de Philosophie médiévale, 11), II, pp. 903-913. 26   Bonanni, Parlare della Trinità cit., p. 215. 24 25

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Il modello triadico, nella sua trasformazione nella storia del pensiero, passa dall’essere una struttura ontologica capace di spiegare il divenire e fornire la misura della differenza ontologica tra il Principio e i principiati al diventare modello logico capace di illustrare la natura divina ad intra e la sua operatività ad extra, conservando la sua attitudine a descrivere la dimensione intimamente dinamica dell’essere. Al netto della metamorfosi che la trasforma e la sfigura, il fatto che la struttura paradigmatica per parlare dell’Ego sum qui sum dovesse essere prestata alla prima Theologia cristiana dalla metafisica neoplatonica, in fondo, non è affatto sorprendente.

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1. Introduzione Un’applicazione triadica della terminologia filosofica di sostanza, potenza e azione appare già invalsa a partire dagli approcci ontologici e metafisici della Tarda Antichità. E dato che anche la tradizione filosofica araba dovrebbe essere considerata come uno dei suoi eredi, ci si può domandare se questa terminologia non possa ritrovarsi anche nei testi dei filosofi arabi classici. I tre termini arabi rilevanti in questo contesto sono ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/potenzialità/potere) e faʿʿāl (azione/ influenza/attualità) e  il pensatore arabo islamico all’apparenza più importante ai fini di questa indagine sembra Abū Nasṛ Muh ̣ammad ibn Muh ̣ammad Al-Fārābī (ca.  872-950), il quale da una parte aveva una profonda familiarità con la tradizione aristotelico-neoplatonica, e  dall’altra ha efficacemente influenzato i  successivi pensatori arabo-islamici e  giudeo-arabi che ebbero a loro volta un rilevante impatto sulla più tarda tradizione latina. Q uesta influenza è  vera specialmente per Abū ʿAlī al-Ḥusain b. ʿAbd Allāh Ibn Sīnā (980-1037), noto anche come Avicenna, che al pari di Al-Fārābī può essere considerato come uno dei maggiori rappresentanti della cosiddetta tradizione della falāsifa. E influenti si rivelano anche le sue considerazioni sulla triade qui indagata. Tuttavia, pure le corrispondenti considerazioni del famoso critico della falāsifa, Abū Ḥāmid Muh ̣ammad b. Muh ̣ammad Al-Ghazālī (1058-1111), sono molto istruttive per chi voglia indagare i processi di ricezione della suddetta triade nel pensiero arabo classico. Un importante retroterra filosofico delle teorie di questi autori lo si può trovare nelle opere arabe pseudo-aristoteliche o neoplaLa triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127964 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 385-408     © 

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toniche, talvolta menzionate anche col titolo di Neoplatonica arabica. Q ueste opere includono gli adattamenti arabi per un verso dell’opera di Plotino e per l’altro dei testi di Proclo. Tra questi, due libri pseudo-aristotelici sono di grande importanza per la presente indagine: il Kitāb al-Īdạ̄ ḥ li-Arist ̣ūt ̣ālis fī l-khayr al-maḥd ̣ (Libro di Aristotele sull’esposizione del Bene Puro, conosciuto nel mondo latino come Liber de causis) e  la cosiddetta Teologia di Aristotele (Kitāb bi-ut ̣ūluğiyya) 1. Il primo testo è un adattamento degli Elementi di teologia di Proclo 2. Invece la Teologia di Aristotele è una parafrasi araba delle Enneadi di Plotino e costituisce un importante retroterra delle discussioni di Al-Fārābī e  Ibn Sīnā sull’emanazione. Q uesta parafrasi comprende Enneadi IV-VI ed è sfociata, tra i pensatori arabi, in una percezione e ricezione del pensiero aristotelico contrassegnata da influenze neoplatoniche 3.

2. L’esempio di Al-Fārābī Nelle sue opere Al-Fārābī si attiene in modo sistematico alle idee neoplatoniche 4. In particolare, egli sembra aver avuto familiarità con la Teologia di Aristotele, testo che attribuisce senz’altro ad Aristotele e non a Plotino 5. Tuttavia, una ricostruzione della ricezione da parte di Al-Fārābī di quest’opera è impedita dal fatto che 1   L’autrice e i curatori ringraziano Massimiliano Lenzi per aver tradotto il saggio dall’inglese (volgendo anche le traduzioni inglesi originali delle opere citate). – Sulla discussione di ʿAbd al-Latīf̣   al-Baghdādī della Teologia di Aristotele, si veda C. Martini Bonadeo, ʿAbd al-Lat ̣īf  al-Baġdādī’s philosophical Journey: From Aristotle’s «Metaphysics» to the «Metaphysical Science», Leiden - Boston 2013 (Islamic philosophy, theology and science, 88), p. 172. 2 Cfr.  D. Janos, Method, Structure, and Development in Al-Fārābi’s Cosmology, Leiden - Boston 2012 (Islamic Philosophy, Theology and Science, 85), pp. 22-23. 3 Per il Plotino arabo si veda P. Adamson, Arabic Plotinus: A philosophical Study of  the «Theology of  Aristotle», London 2002; M. Aouad, La «Théologie d’Aristote» et autres textes du Plotinus arabus, in Dictionnaire des philosophes antiques, I, Paris 1989, pp. 541-590. 4 Cfr. M. Fakhry, A History of  Islamic Philosophy, New York 1983 (Studies in oriental Culture, 5), p. 107; Id., Al-Fārābi, Founder of  Islamic Neoplatonism: His Life, Works and Influence, Oxford 2002. 5 Cfr. Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), Kitāb al-ğamʿ baina raʾyai alḥakīmain, ed. A. Nasri Nadir, Beirut 1980, pp. 101 e 105; Fakhry, A History cit., p. 115.

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si dovrebbe esaminare attentamente quali testi egli abbia effettivamente composto e quali gli siano stati soltanto attribuiti 6. In questo contesto due opere importanti sono il Kitāb al-­ ğamʿ baina raʾyai al-ḥakīmain (L’armonia tra le opinioni dei due sapienti, il divino Platone ed Aristotele), così come il famoso Mabādiʾ Ārāʾ ahl Al-Madīna al-fād ̣ila (Sui fondamenti delle idee degli abitanti della città virtuosa) 7. Q ueste opere mettono insieme una teoria neoplatonica dell’emanazione con il modello tolemaico dell’universo ed elementi della dottrina aristotelica della causalità. In linea di massima tutto ciò indica che per le opere di Al-Fārābī come per i testi che vengono qui esaminati è consigliabile un’analisi che non si focalizzi solamente sulla pura ricezione e applicazione di temi e teoremi neoplatonici, bensì una ricerca che dia per scontato la presenza di un amalgama composta da temi sia aristotelici sia neoplatonici, la cui presenza viene confermata da una minuziosa ricerca. In considerazione del fatto che Al-Fārābī abbia appunto recepito la parafrasi di un testo neoplatonico nel Kitāb bi-ut ̣ūluğiyya, come testo aristotelico, offre un plausibile modello di spiegazione della confluenza nel suo testo tanto di temi neoplatonici quanto aristotelici. Q ui di seguito si cercherà di esaminare più accuratamente il testo Al-Madīna al-fād ̣ila di Al-Fārābī, dove l’autore spiega il suo concetto di comando e direzione ideale. Egli basa questo concetto su una teoria metafisica fondata sulla gerarchia dell’essere. Il  livello più alto della gerarchia è  assegnato all’Uno, in qualità di causa fondamentale. In  questo contesto il termine sostanza (ğauhar) è applicato da Al-Fārābī al primo Uno, ma nei capitoli successivi è usato anche per indicare le cose materiali, gli intelletti e  le anime. La  sostanza (ğauhar) del Primo causa l’emanazione (faid ̣) di numerosi altri esistenti. Al-Fārābī formula tutto ciò come segue: Gli esseri esistenti sono molteplici e, nella loro molteplicità, [occupano diversi] gradi di eccellenza. Dalla sostanza [di Dio] 6 Cfr.  T.-A.  Druart, Al-Farabi, Emanation and Metaphysics, in Neoplatonism and Islamic Thought: Beyond transnational Globalization, ed.  by P.  Morewedge, Albany 1992 (Studies in Neoplatonism, 5), [pp. 127-148], pp. 127-128. 7 Cfr. supra, nota 5 e Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), On the perfect State (Mabadi’ ara’ ahl al-madina al-fadila) (d’ora in poi: On the perfect State), ed. R. Walzer, Oxford 1985.

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emana tutto l’esistente così com’è, sia perfetto sia imperfetto. Anzi, la sostanza [di Dio] è tale per cui, siccome da essa emanano tutti gli esseri esistenti secondo un ordine scalare gerarchizzato, ognuno di questi ne riceve la giusta porzione di esistenza e il giusto livello di gradazione 8.

Dunque, il termine sostanza è  impiegato qui per descrivere un essere divino primario, che solamente nei capitoli epistemologici viene chiamato Dio 9. In luogo di sostanza (ğauhar) Al-Fārābī utilizza nei suoi scritti anche il termine essenza (d̠ āt) 10. Secondo Al-Fārābī la prima sostanza è contrassegnata dalla sua perfezione e dal fatto di non essere composta e di non poter essere divisa. Q uesto Primo-Uno è  «secondo la sua sostanza, intelligenza in atto» (bi-ğauharihi ‘aql bil-fiʿl) 11 che pensa e  viene pensato da se stesso. Q uesta descrizione viene direttamente messa a confronto da Al-Fārābī con l’essere umano, il quale secondo l’autore non è  intelletto nella sostanza. Al-Fārābī dichiara che questo Uno perfetto ed eterno a causa del suo bene emana in un atto d’inondazione dieci intelletti in modo discendente, l’ultimo dei quali è  l’intelletto agente (al-ʿaql al-faʿʿāl). Q uesta descrizione rimanda alla rappresentazione plotiniana dell’Uno indeterminato di Enneadi V, che è all’origine di tutta la tradizione dell’ema­ nazionismo 12; anche se la descrizione dell’Uno come intelletto in atto rievoca un topos aristotelico della Metafisica, provando ancora una volta il legame inscindibile delle idee neoplatoniche e aristoteliche presente nel testo di Al-Fārābī. Il primo intelletto (al-‘aql al-awwal), che in qualità di secondo essere non è identico al primo Uno, pensa se stesso. Q uesto processo di autoriflessione origina la prima delle dieci anime. La contemplazione del primo Uno da parte del primo intelletto, invece, porta all’emanazione del secondo intelletto come terzo essere. Al-Fārābī lo esprime come segue:

  Ibid., II, 2, p. 94, 6-10 (tr. it., Milano 2008, VIII, p. 97).  Cfr. ibid., XV, 10, p. 244, 9 (tr. it., XXVIII, p. 219). 10 Si veda Id., Die Prinzipien der Ansichten der Bewohner der vortrefflichen Stadt. Mabādiʾ ārāʾ ahl al-madīna al-fādị la, ed. C. Ferrari, Stuttgart 2009, p. 134, nota 10. 11  Id., On the perfect State, I, 6, ed. Walzer cit., p. 70, 4-5 (tr. it. cit., V, p. 73). 12 Cfr. Plotinus, Enneades, V 4, 234, 1 - 237, 48. 8 9

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Dal Primo emana il secondo essere e  anche questo è  una sostanza del tutto incorporea che non sta nella materia. Il secondo [essere] intellige la sua essenza e  intellige il Primo e quello che intellige della sua essenza non è cosa diversa dalla essenza [stessa]. Dal [secondo essere], in quanto intellige il Primo, è  necessario che provenga il terzo  e, come risultato della sostanzializzazione della sua specifica essenza, è necessario che si produca l’esistenza del primo cielo 13.

Q ui emanazione e  cosmologia sono strettamente collegate. Pertanto, l’atto di riflessione con cui il primo intelletto pensa il primo Uno dà il via a un processo creativo, al termine del quale si avrà l’origine del mondo. Già il primo intelletto porta nella sua essenza il potenziale di molteplicità, e  l’autoriflessione di questi come atto di sostanzializzazione (mutağauhir) porta alla formazione della prima delle nove sfere celesti, la cosiddetta al-samā’ al-ʼūlā. L’autoriflessione dei seguenti intelletti conduce alla formazione delle ulteriori sfere. Al-Fārābī descrive come segue la costituzione dell’ultimo intelletto, alla fine del III capitolo di Al-Madīna al-fād ̣ila: Il decimo [essere] ha un’esistenza immateriale e  intellige la sua essenza e il Primo, e, come risultato della sostanzializzazione della sua essenza, si produce da Lui l’esistenza della sfera della luna, mentre, per quanto intellige il Primo, deriva necessariamente da Lui l’undicesimo [essere]. Anche questo [scil. l’undicesimo essere] è  immateriale e  intellige la sua essenza e il Primo; ma con Lui termina quel modo di essere che non ha bisogno, per esistere, della materia o di un sostrato. Q uesti sono, dunque, gli [esseri] separati, contemporaneamente nella loro sostanza intelligenze e intelligibili. Con la sfera della luna termina la serie dei corpi celesti la cui natura è di muoversi di moto circolare 14. 13  Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), On the perfect State, III,  1, ed. Walzer cit., p. 100, 11-15 (tr. it. cit., X, p. 105). Il termine yafīd ̣u, che Al-Fārābī utilizza qui, può essere tradotto con ‘traboccare’, ‘scorrere’, ‘inondare’, ‘emanare’. Cfr. H. Wehr, Arabisches Wörterbuch für die Schriftsprache der Gegenwart, Beirut 1990, p. 991. Per una discussione generale del termine fayd ̣ nella filosofia araba e soprattutto nel Plotino arabo, in Al-Fārābī e in Ibn Sīnā, si veda A. Hasnawi, s. v. Fayd ̣, in Encyclopédie philosophique universelle, dir. par S. Auroux, 3 voll., Paris 1990-1992, II.1, 1990, pp. 966-972. 14  Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), On the perfect State, III,  9-10, ed. Walzer cit., p. 104, 3-11 (tr. it. cit., X, p. 107 [leggermente modificata]).

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Diversamente dagli intelletti che lo precedono, il decimo intelletto (o undicesimo essere) non è congiunto a una propria sfera. Al-Fārābī discute per la prima volta il decimo intelletto col nome di intelletto agente (al-ʿaql al-faʿʿāl) nel capitolo XIII, che nello sviluppo dell’intero trattato è un capitolo piuttosto tardivo. In  questo capitolo, nell’ambito di una riflessione epistemologica, Al-Fārābī si concentra sulle capacità umane di conoscenza e comprensione. Tuttavia, in Al-Fārābī l’intelletto agente non ha soltanto un ruolo epistemologico pertinente alle abilità cognitive dell’essere umano, ma la sua influenza va ben oltre, svolgendo un ruolo decisivo perfino nella cosmologia. In quanto sostanza per sé sussistente, esso ha effetto anche sulla generazione e formazione del mondo sublunare, modificando in maniera fondamentale il concetto dell’intelletto sviluppato da Aristotele nel quinto capitolo del terzo libro del De anima 15. Tutti i dieci intelletti e le undici esistenze sono sostanze completamente immateriali, essendo prive di materia come di sostrato. Non è però del tutto chiaro quale sia la natura dei corpi celesti. Dato che Al-Fārābī afferma espressamente, nel VII capitolo, che «i [corpi celesti] assomigliano a quelli mondani per il fatto che hanno sostrati» 16, uno è  portato a  considerarli come costituiti almeno in parte di materia. Nello stesso luogo tuttavia Al-Fārābī afferma anche che essi sono «per essenza» degli intelletti 17. In  questo modo appaiono come una specie davvero particolare di sostrati (mawd ̣ūʿ), la cui forma è un intelletto agente (ʿaql bilfaʿʿāl). Di conseguenza un corpo celeste è  una forma intermedia tra il Primo e i dieci intelletti da una parte e l’essere umano dall’altra e perciò «l’uomo partecipa come [il corpo celeste] della materia» 18. Rispetto al  mondo sublunare, però, è  dotato della forma più perfetta di materia, per la quale Al-Fārābī usa qui, ripetutamente, il termine arabo che sta per hyle, hayūlā, indicando con

 Cfr. J. McGinnis - D. C. Reisman, Classical Arabic Philosophy: An Anthology of  Sources, Indianapolis 2007, pp.  54-55; Aristoteles, De anima, III 5, 429b 31-430a 25. 16  Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), On the perfect State, VII,  3, ed. Walzer cit., p. 120, 9 (tr. it. cit., XIV, p. 121). 17  Ibid., p. 122, 1 (tr. it., XIV, p. 123). 18   Ibid., VII, 4, p. 122, 9 (tr. it., XIV, p. 123). 15

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ciò in qualche modo che il corpo celeste consiste, in parte, di una forma di materia prima 19. Il VII capitolo di Al-Madīna al-fād ̣ila è quello in cui i termini di potenza (quwwa) e azione (faʿʿāl) sono più strettamente connessi. Ad esservi discussa è  la questione del divenire nel mondo sublunare. Si producono negli elementi, e in ciascuno dei corpi citati, (a) [potenze] grazie alle quali essi si muovono autonomamente verso cose la cui natura è di esistere per loro o con loro, senza [necessità di] un motore esterno; (b) [potenze] che interagiscono l’una con l’altra e (c) [potenze] grazie alle quali alcuni ricevono l’azione di altri. I corpi celesti, poi, hanno influenza su quelli [sublunari], ed alcuni agiscono sugli altri  (…). Gli elementi si mescolano innanzitutto tra di loro, e così danno luogo a numerosi corpi contrari 20.

Al-Fārābī parla qui di potenze capaci di agire (quwwa yaf ʿal) su qualcos’altro e di potenze grazie a cui le azioni sono ricevute (quwwa yuqabil). L’idea di potenze capaci di muovere, di agire e di ricevere è ripresa nella discussione delle singole specie. Al-Fārābī afferma che tutte le specie che vengono all’essere sono generate con questi tre tipi di potenze. In ciascuna di queste specie [di esseri] si danno [potenze] che li fanno muovere autonomamente, [potenze] grazie alle quali ognuno di essi agisce sugli altri diversi da sé, oppure [potenze] grazie alle quali [essi] subiscono l’azione di qualcosa di esterno a loro. L’agente che opera su qualcosa di diverso da sé interviene di norma in tre modi: più frequentemente, meno frequentemente o paritariamente. Così ciò che subisce l’azione da un agente diverso da sé, la subisce secondo tre modalità: o  più frequentemente o  meno frequentemente o  paritariamente 21. 19   Perciò non si può asserire in modo perentorio, come fa Damien Janos, che «al-Fārābī deliberately omits all hylic terms in connection with the heavens (such as māddah, ʿunsur, ̣ and hayūlā), a  fact which cannot be merely coincidental» (Janos, Method, Structure, and Development cit., p. 217). 20  Alfarabius (Abū Nas ̣r Al-Fārābī), On the perfect State, VIII, 2-3, ed. Walzer cit., pp. 136, 12 - 138, 1 (tr. it. cit., XVIII, p. 135 [leggermente modificata]). 21  Ibid., VIII, 5, pp. 140, 1 - 142, 9 (tr. it., XVIII, p. 137 [leggermente modificata]).

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Q uindi in questo modo i  corpi celesti influenzano il mondo sublunare. La  discussione su sostanza, potenza e azione torna ad assumere importanza quando, nella parte psicologica ed epistemologica di Al-Madīna al-fād ̣ila, Al-Fārābī si concentra sulla descrizione degli oggetti del pensiero e sul modo in cui questi vengono percepiti. All’inizio del XIII capitolo, trattando delle forme intelligibili impresse sulla facoltà razionale, Al-Fārābī scrive: Degli intelligibili, la cui caratteristica è  di imprimersi nella potenza razionale, ve ne sono [di due tipi]: quelli che, per sostanza, sono intelletti e intelligibili in atto – e dunque sono separati dalla materia; e quelli che non sono per sostanza intelligibili in atto (…). Q ueste ultime cose, invero, non sono né intelletti né intelligibili in atto. Q uanto all’intelletto umano, che sopravviene [all’uomo] per natura fin dall’inizio, è una disposizione che si trova in una materia [a sua volta] apprestata a ricevere le forme intelligibili: esso è, dunque, intelligenza in potenza o intelletto ilico [o materiale o passivo] e anche intelligibile in potenza. [Al contrario], tutte le altre cose che si trovano nella materia o che sono la materia [stessa] o dotate di materia, non sono intelletti né in atto né in potenza, anche se sono in potenza intelligibili ed è  possibile che divengano intelligibili in atto. Nella loro sostanza non vi è  capacità di diventare da se stesse intelligibili in atto 22.

Al-Fārābī introduce qui, tra gli intelligibili (mʿaqūlāt), una fondamentale distinzione, individuando innanzitutto quelli che nella loro sostanza (ğawāhir) sono intelletti in atto (ʿaql bil-faʿʿāl) e possono perciò essere pensati intellettualmente. Essi sono intelligibili attuali (mʿaqūlāt bil-fiʿl). Invece tutti quegli intelligibili per i  quali questo non è  vero sono intelligibili solo in potenza e di conseguenza sono chiamati intelligibili potenziali (mʿaqūlāt bil-quwwa). L’intelletto umano è discusso in relazione a questo genere di intelligibili. Dato che esiste nella materia ed è concepito per ricevere le impronte degli intelligibili, esso è in primo luogo un intelletto potenziale (ʿaql bil-quwwa) ed è chiamato anche intelletto materiale, ilico (al-ʿaql al-hayūlānī) o passivo (ʿaql al-munf ʿal) 23. 22  Ibid., XIII, 1, pp. 196, 15 - 198, 10 (tr. it., XXII, p. 177 [leggermente modificata]). 23 Cfr. ibid., XIII, 2, p. 202, 10 (tr. it., XXII, pp. 179 e 181).

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In questo modo c’è un senso profondo di capacità e potenzialità connesso tanto all’intelletto materiale quanto agli intelligibili non attuali, vale a dire intelligibili potenziali. Di seguito Al-Fārābī descrive la capacità umana di conoscenza come una naturale disposizione materiale, cioè potenziale. Essa riceve le impronte degli oggetti del pensiero sia potenziali, cioè materiali, che attuali, cioè immateriali. Gli esseri umani non sono infatti di per sé capaci di convertire in atto il loro pensiero. Per una simile conversione è necessario un intelletto immateriale esterno, come spiega Al-Fārābī: Né la potenza razionale o ciò che si possiede per natura inclinano a diventare da se stessi intelletti in atto, poiché, per farlo, hanno bisogno di un qualcosa [di esterno] che li traduca dalla potenza all’atto. Invero, diventano intelletti in atto quando in essi occorrono gli intelligibili 24.

La funzione dell’intelletto immateriale è paragonata, secondo una modalità neoplatonico-aristotelica, alla funzione del sole rispetto alla vista umana. In questo contesto Al-Fārābī chiama questo intelletto intelletto attivo, identificandolo con la decima intelligenza della gerarchia di esseri dispiegata all’inizio del trattato: L’azione di questo intelletto separato sull’intelletto materiale è simile all’azione del sole sulla vista; e questo intelletto separato è quello che si chiama intelletto agente. Esso occupa il decimo grado degli esseri separati al  di sotto della Causa Prima, come si è  già detto. L’intelletto materiale si chiama anche passivo. Poiché nella potenza razionale si produce, per effetto dell’intelletto agente, quella cosa di cui abbiamo richiamato l’analogia riguardo alla luce con la vista, avviene che i  sensibili conservati nella potenza immaginativa divengono intelligibili nella potenza razionale 25.

Il fine più alto dell’esistenza umana è  la perfezione conoscitiva, in modo che l’anima possa pervenire alla sostanza immateriale. Tuttavia, anche qualora si consegua l’immaterialità a cui si aspira, l’anima umana non raggiunge mai lo stesso livello dell’intelletto agente, ma rimane al di sotto di esso. Al-Fārābī esclude qui cate  Ibid., 1, p. 198, 10-14 (tr. it., XXII, pp. 177-179 [leggermente modificata]).   Ibid., XIII, 2, p. 202, 6-13 (tr. it., XXII, p. 181 [leggermente modificata]).

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goricamente una possibile mescolanza dell’intelletto umano con l’intelletto agente o  addirittura con la causa prima. In  questo modo sembra lasciare aperta la possibilità di una interpretazione religiosa della sua prospettiva. E questa apertura potrebbe essere una delle ragioni per cui la sua teoria ha conservato una certa attrattiva per autori arabo-islamici come Al-Ghazālī  e, analogamente, per autori giudeo-arabi come Maimonide. In qualità di ultimo intelletto nella gerarchia dei dieci intelletti, l’intelletto agente funziona, nella prospettiva di Al-Fārābī, come nesso tra le sfere celesti e  l’esistenza mondana. Da esso scaturisce la forma del mondo e degli esseri umani, esso causa le anime umane e i quattro elementi e permette l’attualizzazione dell’intelletto potenziale dell’uomo. È dunque evidente che per Al-Fārābī henologia, teoria dell’emanazione e  epistemologia sono strettamente intrecciate. Il  che è  ancora più vero se si considera la triade ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/potenzialità/potere) e faʿʿāl (azione/influenza/ attualità). Si potrebbe arrivare a dire che questi si possono considerare come termini chiave, che aiutano a  costituire una relazione tra i diversi ambiti del suo approccio e che hanno influenzato in maniera decisiva anche l’approccio di Ibn Sīnā. La teoria dell’ema­nazione pare mostrare chiari tratti neoplatonici, ma per l’applicazione della triade questo non è possibile stabilirlo con certezza assoluta, poiché influenze aristoteliche rimangono tuttavia evidenti. Mentre l’impiego della triade mostra tratti del neoplatonismo nel contesto della cosmologia ed emanazione, l’utilizzo della stessa terminologia nei capitoli psicologici ed epistemologici è segnata da un’inclinazione più che altro aristotelica.

3. Ibn Sīnā L’opera di Ibn Sīnā è immensa, ma il suo lavoro più importante è  il Kitāb al-Shifā’ (Libro della guarigione), opera nella quale si dispiega il suo progetto filosofico. Probabilmente Ibn Sīnā ha cominciato a  comporla tra il 1016 e  il 1020, per terminarla nel 1027 26. Essa comprende testi di logica, fisica, psicologia, metafisica 26 Cfr.  L.  E. Goodman, Avicenna, London - New York 1992, pp.  28-31; D. Gutas, Avicenna and the Aristotelian tradition: Introduction to reading Avi-

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e teologia. Soprattutto le opere della sua maturità sono considerate espressione del neoplatonismo, seppure nelle stesse sia possibile trovare argomenti per una interpretazione puramente razionalista 27. E dato che l’opera di Ibn Sīnā è  così vasta, per questa indagine va fatta una scelta. Di seguito si farà allora riferimento a due testi principali, che appaiono essenziali per la nostra discussione: il Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt: al-Samāʿ al-t ̣abīʿī (Fisica) e il Kitāb al-Ilāhiyyāt (letteralmente Libro delle cose divine, noto anche sotto il titolo di Metafisica). Ibn Sīnā ha iniziato la composizione del suo enciclopedico Kitāb al-Shifā’ proprio con la Fisica, ponendo le basi teoriche per il suo progetto filosofico. Si può trovare già qui una discussione della triade di sostanza, potenza e  azione. Tuttavia, in questo testo, che appartiene alla fase iniziale del lavoro filosofico dell’autore, sembra delinearsi per gli anzidetti termini un impiego aristotelico. In generale, però, bisogna fare attenzione al fatto che Ibn Sīnā, come già Al-Fārābī, sembra adoperare nelle sue opere il termine sostanza (ğauhar) in egual misura per le cose materiali, per le anime e per gli intelletti. Un primo importante esempio nel Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt è  la discussione nel I libro del termine natura. Ibn Sīnā critica qui gli antichi filosofi, soprattutto Antifonte, per aver supposto che la natura delle cose si trovi nella materia. Al contrario, egli afferma che questo può essere vero soltanto per la forma delle cose esistenti. Ibn Sīnā sostanzia la sua convinzione nel modo seguente: Non vedi che quando il legno e i mattoni esistono allora la casa ha una esistenza potenziale [wuğūd mā bil-quwwa], ma la sua cenna’s philosophical Works, Leiden - Boston 2014 (Islamic Philosophy, Theology and Science, 4), pp. 106-107. 27 Per una investigazione degli elementi neoplatonici e  mistici in Ibn Sīnā vedi Sh. C. Inati, Ibn Sina and Mysticism: Remarks and Admonitions, London New York 1996, mentre per una valorizzazione di una interpretazione razionalistica aristotelica vedi D. Gutas, Avicenna’s Eastern («Oriental») Philosophy: Nature Contents, Transmission, in «Arabic Sciences and Philosophy», 10 (2000), pp. 159-180; Id., Intellect without Limits: The Absence of  Mysticism in Avicenna, in Intellect et imagination dans la philosophie médiévale. Actes du XI Congrès international de Philosophie médiévale de la Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie médiévale (SIEPM) (Porto, 26-31 août 2002), éd.  par M.  C. Pacheco  - J.  F. Meirinhos, 2  voll., Turnhout 2006 (Rencontres de Philosophie médiévale, 11), I, pp. 351-372.

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esistenza attuale [wuğūd bil-fiʿl] fa uso della sua forma [s ̣ūra], al  punto che se fosse possibile per la forma sussistere senza la materia, allora uno potrebbe fare a  meno della [materia]. Inoltre è sfuggito a quest’uomo che la ‘ligneità’ è una forma che viene preservata anche quando c’è la crescita. Se nella considerazione delle condizioni, se qualcosa è  una natura, è importante per noi, che fornisca alla cosa la sua sostanzialità, allora la forma sarebbe il primo 28.

La forma (s ̣ūra) è  qui non solo equiparata alla sostanzialità, ma anche all’attualità o all’esistenza in atto (wuğūd bil-fiʿl). D’altra parte, in base all’esempio, Ibn Sīnā sembra collocare la potenzialità dalla parte della materia. È interessante notare che l’espressione «esistenza in atto» (wuğūd bil-fiʿl) rievoca il concetto di intelletto attivo (ʿaql bil-faʿʿāl) o intelletto in atto (ʿaql bil-fiʿl), già familiare a partire dalla prospettiva di Al-Fārābī. Tuttavia, nel Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt, Ibn Sīnā non introduce né fa menzione di alcun intelletto attivo o in atto. La terminologia di potenzialità e attualità riappare con tutto il suo impeto nel contesto discorsivo del movimento. Nel primo capitolo del II libro del Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt Ibn Sīnā discute il movimento e la quiete in qualità di accidenti 29. Nel contesto delle sue considerazioni sul moto, scrive: Inoltre, ogni cosa che ha potenza passa dalla potenza all’atto successivo; e se vi è l’omissione del passaggio all’atto, non ha potenza. Ora il passaggio dalla potenza all’atto avviene talora tutto in una volta e talaltra no, laddove però [il passaggio in sé] è più generale di ciascuno dei due. E in quanto più generale esso appartiene a ogni categoria, poiché non esiste categoria in cui non ci sia passaggio da una potenza a un atto: rispetto alla sostanza, è come il passaggio dell’uomo all’atto dopo essere 28  Avicenna (Ibn Sīnā), Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt, I, 6, 6, ed. J. McGinnis, 2 voll., Provo (UT) 2009, I, p. 48 (tutte le traduzioni successive da quest’opera sono di chi scrive). 29 Per una discussione più dettagliata del concetto avicenniano di movimento, cfr. A. Hasnawi, La définition du mouvement dans la «Physique» du «Šifā’» d’Avicenne, in «Arabic Sciences and Philosophy», 11.2 (2001), pp.  219-255. Per un confronto invece del concetto avicenniano di movimento con quello di Alberto Magno, si veda J. McGinnis, A medieval Arabic Analysis of  Motion at an Instant: the Avicennan Sources to the forma fluens/fluxus formae Debate, in «The British Journal for the History of  Science», 39.2 (2006), pp. 189-205.

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stato in potenza; rispetto alla quantità, è come il passaggio di una cosa in crescita dalla potenza all’atto; e rispetto alla qualità è come il passaggio della nerezza dalla potenza all’atto 30.

In questo testo il passaggio di tutte le cose esistenti dalla potenza all’atto è in primo piano. La questione della sostanza è menzionata brevemente, senza però essere discussa in dettaglio. Q uindi conformemente ad Aristotele, Ibn Sīnā definisce in maniera chiara il movimento nella sua Fisica come un passaggio dalla potenza all’atto. Tuttavia, in un capitolo ulteriore, discute la relazione di movimento e sostanza ed esclude esplicitamente che il movimento possa aver luogo nella sostanza. Ibn Sīnā formula la cosa nel modo seguente: Noi diciamo: la sostanza, se dicessimo che in essa c’è movimento sarebbe un discorso metaforico. In realtà il movimento non si trova in questa categoria, perché quando la natura sostanziale si corrompe o  diviene lo fa tutto in una volta, per cui non c’è una perfezione intermedia tra la sua assoluta potenzialità e  la sua assoluta attualità (…). Q uindi la forma sostanziale [s ̣ūra gˇawhariyya] tutta in una volta viene annullata e succede e qualunque cosa di questo genere non ha intermediario, tra la sua potenzialità e  la sua attualità, quale è  il movimento 31.

In questo modo per Ibn Sīnā la sostanza delle cose non soggiace al movimento inteso nel senso del passaggio dalla potenza all’atto e  viceversa. Ibn Sīnā sostanzia questa affermazione, sostenendo che il soggetto delle forme sostanziali esiste solo potenzialmente, fintantoché la forma non è stata ricevuta. È la forma sostanziale in quanto tale che dà allora attualità a una cosa esistente. La sostanza in sé non subisce alcun mutamento in questo processo. Q uesto corrisponde alle conclusioni precedenti, relative all’equivalenza di sostanza, natura e  atto, che erano già emerse nel I libro del Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt. Il tema della sostanza e del movimento e quindi della potenza e dell’atto è ripreso nell’undicesimo capitolo del III libro, allorché Ibn Sīnā discute l’idea secondo cui 30  Avicenna (Ibn Sīnā), Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt, II, 1, 2, ed. McGinnis cit., I, p. 108. 31  Ibid., 3, 2, I, pp. 136-137.

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movimento e tempo sono preceduti dal Creatore (al-bārīʼ). Scrive Ibn Sīnā: Resta allora che la possibilità dell’esistenza [ğawāz al-wuğūd] – cioè la potenzialità di esistere [al-quwwa ʿalā al-wuğūd] – sussiste in una sostanza diversa dal motore e dal suo potere. La  sostanza in cui c’è la possibilità dell’esistenza del movimento è quella a cui appartiene il carattere dell’essere mossa 32.

Il concetto di movimento e il concetto di emanazione sono strettamente intrecciati per Ibn Sīnā, dal momento che egli afferma che «di necessità il movimento emana sempre da un motore» 33. Q uesto dovrebbe essere di nuovo un argomento a  favore di un primo creatore e motore 34. Ma la cosa interessante è che l’intensa discussione dell’idea di emanazione non la si ritrova nel libro in questione, ma nel suo più tardo Kitāb al-Ilāhiyyāt 35. Ed è proprio in quest’opera posteriore che Ibn Sīnā discute in maniera più stringente il nesso di sostanza, potenza e atto. Che una più dettagliata discussione si sarebbe trovata nel Kitāb al-Ilāhiyyāt, Ibn Sīnā l’aveva già promesso, scrivendo nel suo Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt: «Un’indagine su ciò verrà intrapresa a breve» 36. Lo stesso vale per la sua discussione intorno all’idea secondo cui ciò che è sostanziale non può essere accidentale, una discussione che Ibn Sīnā rimanda al Kitāb al-Ilāhiyyāt: «Ora una cosa sarebbe nella sua natura un accidente, pur essendo accidentalmente una sostanza, e così la sostanzialità sarebbe qualcosa di accidentale per una delle nature – il che è impossibile, come sarà chiaro in particolare nella Filosofia prima» 37. In questo modo la discussione condotta nel Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt si costituisce come   Ibid., III, 11, 2, II, p. 361.   Ibid., 11, 4, II, p. 365. 34  Per una ulteriore discussione della critica del primo motore aristotelico e dell’esistente necessario come concetto fondamentale nell’opera di Avicenna, cfr. Gutas, Avicenna and the Aristotelian Tradition cit., pp. 296-300. 35  Sulla connessione di emanazione e movimento celeste nel Kitāb al-Ishārāt wa-al-tanbīhāt di Ibn Sīnā, cfr. D. Janos, Moving the Orbs: Astronomy, Physics, and Metaphysics, and the Problem of  celestial Motion according to Ibn Sīnā, in «Arabic Sciences and Philosophy», 21 (2011), [pp. 165-214], pp. 207-208. 36  Avicenna (Ibn Sīnā), Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt II, 1, 2, ed. McGinnis cit., I, p. 107. 37   Ibid., 8, 2, I, p. 179. 32 33

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un chiaro ed esplicito fondamento per le considerazioni metafisiche del Kitāb al-Ilāhiyyāt. E questo diventa particolarmente evidente, se si intraprende un’analisi più serrata della triade di sostanza (ğauhar), potenza (quwwa) e azione (faʿʿāl). Il Kitāb al-Ilāhiyyāt (letteralmente Libro delle cose divine, conosciuto anche sotto il titolo di Metafisica) è l’ultima parte del Kitāb al-Shifā’ di Ibn Sīnā. È il frutto della sua riflessione sulla metafisica aristotelica, sulla filosofia e teologia islamica e sulla religione rivelata, e sviluppa il concetto di una scienza che riflette sul divino e sulla sua natura come un’esistenza necessaria. Ed è soprattutto questa l’opera di Ibn Sīnā che ha fatto prova di essere molto influente nella storia della filosofia. Possiamo trovare la triade di sostanza, potenza e  azione nel Kitāb al-Ilāhiyyāt quando Ibn Sīnā, nel IV libro, si concentra sulla questione della priorità della potenza rispetto all’azione. Nel secondo capitolo Ibn Sīnā descrive la natura delle cose prodotte, discutendo le opzioni fondamentali della possibilità e dell’impossibilità di esistenza di tutti gli esseri prodotti e  affermando che ogni essere esistente è  preceduto dalla sua possibilità e  con ciò, necessariamente, dalla precedente esistenza del concetto di questa pura possibilità. In questo contesto una sostanza è definita come segue: (…) qualunque cosa sia esistente o  sussiste in un soggetto o  sussiste non in un soggetto. Ora, qualunque cosa sussista non in un soggetto ha un’esistenza propria in virtù della quale non deve essere relativa [a qualcos’altro]; ma la possibilità dell’esistenza è solo in virtù della relazione nei confronti di ciò di cui è la possibilità d’esistenza; la possibilità d’esistenza perciò non è una sostanza che non sia in un soggetto ed è qualcosa che è in un soggetto e che accade a un soggetto. Noi chiamiamo la possibilità dell’esistenza ‘potenza dell’esistenza’ e  chiamiamo ciò che sostiene la potenza dell’esistenza e  in cui si trova la potenza d’esistenza della cosa ‘soggetto’, hyle, ‘materia’ e altro in relazione a diverse considerazioni; a qualunque cosa venga a essere è quindi anteriore la materia 38.

  Id., Metafisica. La Scienza delle cose divine (Al-Ilāhiyyāt), IV, 2, a cura di O. Lizzini - P. Porro, Milano 2002, p. 404, 11-15 (la traduzione italiana è quella del medesimo volume). 38

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Ibn Sīnā definisce qui sostanza e potenza l’una in relazione all’altra. La potenza riguardo all’esistenza è intesa come possibilità di esistenza e  al contempo considerata come sinonimo di materia e  soggetto. Essa è  piuttosto un accidente, ma non una sostanza. In ciò che segue Ibn Sīnā discute allora la sua comprensione della relazione che lega potenza e atto. Scrive Ibn Sīnā: Ora, diremo, per quanto riguarda le cose particolari e gli enti corruttibili la questione è  come hanno sostenuto [costoro]: in queste cose, infatti, la potenza è  prima dell’atto secondo un’anteriorità temporale. Ma alle cose universali o  a  quelle eterne, che non si corrompono – fossero pure particolari – quelle che sono per potenza non sono affatto anteriori. Inoltre, la potenza è posteriore, a parte queste condizioni, sotto ogni aspetto 39.

In questo passaggio Ibn Sīnā intreccia strettamente i  termini di ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/potenzialità/potere) e faʿʿāl (azione/influenza/attualità) in un’applicazione triadica. Ibn Sīnā arriva alla conclusione che la potenza precede l’atto fintantoché si tratta di cose particolari e temporali. Invece, le cose universali, eterne e incorruttibili, secondo questa argomentazione, non sono mai precedute dalla potenza. Ibn Sīnā lo giustifica scrivendo: Infatti, poiché la potenza non sussiste per sé, le appartiene immancabilmente di sussistere in virtù di una sostanza che ha bisogno di essere in atto; infatti se [la cosa] non fosse divenuta in atto, essa non sarebbe preparata a  ricevere nulla, poiché quel che non è, in senso assoluto, non è possibile che riceva nulla 40.

Un’altra riflessione sulla triade di ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/potenzialità/potere) e  faʿʿāl (azione/influenza/attualità) si trova nel libro IX del Kitāb al-Ilāhiyyāt. Q ui Ibn Sīnā riprende la sua discussione sul movimento dal Kitāb al-Ṭabīʿiyyāt e la terminologia che stiamo indagando vi risalta quando Ibn Sīnā riflette sul motore delle sfere celesti.

  Ibid., IV, 2, p. 406, 12-15.   Ibid., p. 406, 15-17.

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A verificare quel [che abbiamo detto] è  che il motore della sostanza celeste – lo si è ormai chiarito – muove a partire da una potenza infinita. Ora, la potenza che appartiene alla sua anima vincolata al corpo è finita e tuttavia, in quanto [il motore della sostanza celeste] ha intellezione del Primo, su di esso cade continuativamente il favore della Sua luce e  della Sua potenza, cosicché è come se gli appartenesse una potenza infinita. Non è però che gli appartenga una potenza infinita; essa appartiene piuttosto a quel che viene intelletto e che su di esso fa cadere il favore della Sua propria luce e della Sua propria potenza. Ed esso, cioè il corpo celeste, è nella sua sostanza nella sua massima perfezione: nella sua sostanza non gli resta, infatti, alcunché che sia in potenza, come [non gli resta nulla in potenza] nella sua quantità e  nella sua qualità; esso resta [in potenza] soltanto, in primo luogo, riguardo alla sua posizione o  al suo dove  e, in secondo luogo, riguardo a  quelle cose che ne conseguono; per la sua sostanza, infatti, l’essere in una data posizione o  in un dato ‘dove’ non è  più degno dell’essere in un’altra posizione o in un altro ‘dove’ che spettino egualmente alla sua localizzazione. Nessuna delle parti della rotazione di una sfera [celeste] – o di un pianeta – è più degna di essere in contatto con la [sfera] o con una sua parte di quanto non lo sia un’altra; così, quando [la sfera celeste] è in atto riguardo a  una certa parte, rimane in potenza riguardo a un’altra parte 41.

L’apprensione intellettuale del Primo operata dalla sostanza celeste si risolve in un’emanazione che causa movimento. La sostanza celeste come tale può essere soggetto sia di potenzialità che di attualità. In  questo modo, l’intreccio della cosmologia di Ibn Sīnā con il tema dell’emanazione e con il tema della triade viene ad essere in primo piano in questo passaggio. Si potrebbe perciò affermare che l’interdipendenza della terminologia della triade sia un tratto tipico della fisica e della metafisica di Ibn Sīnā.

4. Al-Ghazālī e la triade Abū Ḥāmid Muh ̣ammad b. Muh ̣ammad Al-Ghazālī (1058-1111) è noto per aver criticato Al-Fārābī e Ibn Sīnā nel loro approccio filosofico e  per il loro adattamento della filosofia greca classica.   Ibid., IX, 2, p. 894, 10-17.

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La sua dettagliata critica della cosiddetta falāsifa la si può meglio osservare nel suo Tahāfut al-falāsifa (L’incoerenza dei filosofi). Perciò questo libro costituisce un’ottima scelta, tra la sua vasta opera, per analizzare in modo esemplare l’applicazione della triade di ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/potenzialità/potere) e faʿʿāl (azione/influenza/attualità). Nel corso della sua argomentazione, Al-Ghazālī afferma di voler assumere una posizione anti-filosofica o  meglio non filosofica, conformemente al  suo intendimento della filosofia. Egli entra esplicitamente in polemica con certe convinzioni metafisiche della falāsifa come l’eternità del mondo, l’ignoranza divina dei particolari e le teorie filosofiche dell’emanazione. Il che non significa, tuttavia, che l’approccio di Al-Ghazālī sia privo di contenuto filosofico. Altre opere, come il suo tardo scritto autobiografico al-Munqidh min al-dạ lāl (La liberazione dall’errore) o come altri testi psicologici ed epistemologici, sono testimoni di un approccio più bilanciato e di un parziale apprezzamento nei confronti delle prospettive di Al-Fārābī e Ibn Sīnā. Come le sue opere Maqāsid ̣ al-falāsifa (Le intenzioni dei filosofi, 1091-1094) e Mīzān al-‛Amal (Il criterio dell’azione, 1095), anche il Tahāfut al-falāsifa (1094-1095) è espressione del pensiero del primo periodo della sua vita – prima di lasciare il suo ‘posto accademico’ a Baghdad, nel 1095, e di assumere un più marcato interesse nei confronti del sufismo. Concentrandosi sull’approccio di Al-Ghazālī all’emanazionismo, ci si trova quindi di fronte a un dilemma. Prima di tutto ci si confronta con la sua evidente critica delle teorie filosofiche dell’emanazione contenuta nei suoi primi lavori. Al contempo, però, si deve tenere a mente il fatto che nelle sue opere più tarde è possibile trovare tracce di una ricezione delle teorie neoplatoniche dell’emanazione. Nella III ‘discussione’ del Tahāfut al-falāsifa Al-Ghazālī riporta meticolosamente la teoria dell’emanazione con cui si può avere familiarità a partire dalla Al-Madīna al-fāḍila di Al-Fārābī, adottando il computo degli intelletti contenuto in questa teoria 42. Non sembra invece che Al-Ghazālī abbia avuto consuetudine con  Cfr.  Algazel (Al-Ghazālī), Tahāfut al-falāsifa, III,  43-44, ed. M.  E. Marmura, Provo 20002, p. 67 (tutte le traduzioni successive da quest’opera sono di chi scrive). 42

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L’armonia tra le opinioni dei due sapienti (Kitāb al-ğamʿ baina raʾyai al-ḥakīmain) 43. Ora, il problema principale della prospettiva filosofica a  cui Al-Ghazālī fa riferimento è posto, a suo giudizio, da una dottrina della ‘trinità’ che in quella prospettiva potrebbe essere potenzialmente contenuta 44. Per Al-Ghazālī l’emanazione di un intelletto da un primo principio o da un primo Uno, un intelletto che grazie alla sua contemplazione dell’Uno dà origine a un altro intelletto e  grazie all’autoriflessione a  un’anima, porta all’introduzione nel pensiero islamico di un’idea che è incompatibile con la concezione monoteistica di Dio come unico ed unitario. Per quanto riguarda l’idea di Dio, la tripartizione in questione di intelletto, anima della sfera e corpo si risolve in una molteplicità del divino. Al-Ghazālī non scrive esplicitamente che questa tripartizione, oltre a contraddire la concezione islamica di Dio, adotta un’idea cristiana di Dio. Tuttavia, la terminologia che usa indica che questo era parte del problema con cui egli intende qui venire a patti 45. È interessante notare che Al-Ghazālī, in Tahāfut al-falāsifa, rifiuta apertamente la teoria dell’emanazione solo riguardo all’essere di Dio, e critica le teorie filosofiche relative alle sfere celesti. Sembra invece escludere da questa critica la questione dell’intelletto agente e dei suoi possibili effetti sull’immaginazione e sull’intelletto umano. Il che è di grande importanza, dal momento che nelle concezioni psicologiche ed epistemologiche di Al-Ghazālī presenti in altre opere, come per esempio nella sua ʽAjā’ib al-qalb o  in Mishkāt al-anwār, appaiono delle adozioni del concetto di intelletto agente 46. 43  Cfr.  Druart, Al-Farabi, Emanation and Metaphysics cit. (alla nota 6), p. 134. 44 Cfr.  Algazel (Al-Ghazālī), Tahāfut al-falāsifa, III,  44-46, ed. Marmura cit., pp. 67-68. 45 Q uesta ipotesi sembra d’altronde verosimile, perché Al-Ghazālī fa uso qui dei termini tat ̣līt ̣ e t ̣ālūt ̣ che in arabo sono generalmente utilizzati per la dottrina cristiana della Trinità. 46  Cfr.  B. Abrahamov, Ibn Sīnā’s Influence on al-Ghazālī’s non-philosophical Works, in «Ancient near Eastern Studies», 29 (1991), pp. 1-17. Per una discussione sull’applicazione, da parte di Al-Ghazālī, della teoria dell’intelletto agente di Ibn Sīnā nel suo Mishkāt al-anwār, si veda M.  De Cillis, Free Will and Predestination in Islamic Thought: Theoretical Compromises in the Works of  Avicenna, al-Ghazālī and Ibn ‛Arabī, London - New York 2013 (Culture and Civilization in the Middle East, 42), pp. 102-103.

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La triade di sostanza (ğauhar), potenza (quwwa) e  azione/ influenza (faʿʿāl) non è  uno schema argomentativo dominante, ma nondimeno lo si può ritrovare nel Tahāfut al-falāsifa in diversi casi come più avanti verrà dimostrato. Un’analisi più stringente dei relativi passaggi del Tahāfut al-falāsifa porta alla questione degli autori e dei testi con cui Al-Ghazālī era familiare e a quella dei testi e  dei relativi contenuti contro i  quali è  effettivamente indirizzata la sua critica. Q uesto è  della massima importanza, dal momento che Al-Ghazālī parla in un modo generale della falāsifa. Apparentemente egli fa riferimento alle teorie dell’emanazione così come stabilite nelle opere di Al-Fārābī e  Ibn Sīnā. Almeno il nome di quest’ultimo è  menzionato direttamente nella III ‘discussione’ del Tahāfut al-falāsifa: «Ibn Sīnā e il resto degli indagatori» 47. Nella IV ‘discussione’ Al-Ghazālī dichiara di avere familiarità con le concezioni dell’anima di Al-Fārābī, Ibn Sīnā e altri falāsifa, dicendo: «In merito ai problemi dell’anima abbiamo presentato qualcosa contro Ibn Sīnā, Al-Fārābī e gli indagatori (…)» 48. E quando si giunge alla triade in questione, anche se gli autori non sono esplicitamente menzionati, il loro vocabolario filosofico è nondimeno applicato. La terminologia filosofica della triade di sostanza (ğauhar), potenza (quwwa) e azione/influenza (faʿʿāl) appare nel Tahāfut al-falāsifa nella V ‘discussione’. Come nei capitoli successivi, è in parte un contesto epistemologico quello nel quale la terminologia è applicata. La V ‘discussione’ è dedicata alla critica dell’argomento dell’unità divina della falāsifa. Di sicuro la sua obiezione non è  diretta contro l’affermazione dell’unità divina come tale – lui stesso condivide energicamente questa convinzione –, ma piuttosto contro una dottrina degli attributi divini che è  sullo sfondo dell’argomento che non condivide. Parte della sua confutazione è basata sull’affermazione per cui la falāsifa argomenta contro una pluralità in Dio secondo assunzioni sbagliate. Nel descrivere quelle che ritiene essere le affermazioni dei filosofi, Al-Ghazālī si concentra sul concetto secondo il

47  Algazel (Al-Ghazālī), Tahāfut al-falāsifa III,  56, ed. Marmura cit., p. 70, 17-18. 48  Ibid., IV, 25, p. 83, 11-12.

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quale Dio stesso è una sostanza e l’apprensione intellettuale uno dei suoi attributi. E in questo contesto scrive: Se è detto ‘esistente’, significa ‘sciente’. E se è detto ‘sostanza’ [ğauhar], significa che l’immanenza in un soggetto è negata; questa è negazione. (…) Perciò, l’intelligente e l’intelligibile diventano uno sotto un certo aspetto. E se il nostro intelletto differisce dal Primo intelletto in questo, ciò accade perché quello che appartiene al Primo è sempre in atto [bil-fiʿl], mentre quello che appartiene a noi è ora in potenza [bil-quwwa] ora in atto [bil-fiʿl] 49.

Al-Ghazālī ascrive la permanenza dell’atto al divino, mentre l’oscillazione tra la potenza e l’atto appartiene al regno terreno ed è riscontrabile nella capacità di apprensione umana. Con tale descrizione l’autore imita una concezione neoplatonico-aristotelica. D’altra parte, l’attribuzione a  Dio del termine sostanza in questo libro non è ancora criticata da Al-Ghazālī. Il successivo contesto epistemologico del Tahāfut al-falāsifa in cui la terminologia triadica è  nuovamente impiegata è  la XVIII ‘discussione’, che si concentra sui dibattiti filosofici relativi all’anima umana e alle sue capacità. Q ui si può osservare un’analoga descrizione dell’atto e  della potenza come già nella V ‘discussione’. Al-Ghazālī vi sostiene che la conoscenza non appartiene soltanto a  una sostanza corporea, né ha luogo in certe parti del corpo, come il cervello o  il cuore – il che potrebbe essere vero per la percezione sensibile che ha luogo nei sensi. Piuttosto, egli descrive la conoscenza come il risultato di un processo di apprensione che riguarda l’intera anima umana e le sue capacità apprensive. In questo contesto Al-Ghazālī scrive: «Se uno allora dicesse: ‘Perché non respingete queste prove dimostrative (burhān), affermando che la conoscenza risiede nel corpo, in una sostanza spaziale non frammentata – cioè un singolo atomo’?» 50. Cosa a cui fanno seguito le seguenti chiarificazioni: All’uomo appartiene l’atto [fiʿl] e questo non è concepibile tranne che con potenza e volontà, e la volontà è concepibile solo con conoscenza. [Ora,] la potenza di scrivere esiste nella   Ibid., V, 24, p. 90, 4-6 e 35-39.   Ibid., XVIII, 29, p. 187, 4-6.

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mano e nelle dita, mentre la conoscenza [della scrittura] non è nella mano, perché non recede con il taglio della mano; e la volontà [di scrivere] non è nella mano. Perché una persona può voler [scrivere] dopo una paralisi della mano, ma gli è impossibile non per una mancanza di volontà, ma di potenza 51.

Al-Ghazālī applica qui nuovamente il vocabolario della sostanza (ğauhar), della potenza/potenzialità (quwwa) e dell’azione (faʿʿāl), per discutere le capacità mentali e  intellettuali dell’uomo. E diversamente dalla V ‘discussione’, queste capacità non vengono confrontate, in questo capitolo, con le capacità divine. Con un simile impiego della terminologia della triade AlGhazālī sembra deviare da quell’ambito di applicazione ontologico e metafisico evidente nelle opere di Al-Fārābī e Ibn Sīnā, per farne un uso esclusivo in contesti psicologici ed epistemologici – secondo una modalità pure prevalente nella prospettiva di AlFārābī. E questo potrebbe essere dovuto al suo accantonamento delle teorie dell’emanazione, un accantonamento che in effetti sembra accompagnare il suo distacco dalla triade. Uno sguardo ad altri testi di Al-Ghazālī mette in evidenza questi risultati. In  Al-Iqtisād ̣ fī al-i‛tiqād (Il giusto medio nella credenza) 52, che è un’espressione della sua teologia filosofica anteriore al 1095 (probabilmente del 1094), si può trovare una discussione dettagliata del suo concetto di attributi divini. È stato detto che in questo fondamentale lavoro dogmatico viene in primo piano la sua relazione con la teologia Ashʽarita 53. La cosa è già prefigurata in Tahāfut al-falāsifa, dove Al-Ghazālī aveva espresso l’intenzione di scrivere un’opera di questa natura 54. Lo si può quindi   Ibid., 30, p. 187, 11-17.   Per le citazioni dall’originale arabo, faccio riferimento all’edizione di Atay e Cubkcu: Al-Iqtisād ̣ fī l-i‛tiqād, ed. by H. Atay - I. Cubkcu, Ankara 1962. Ma si veda anche la seguente traduzione inglese: Al-Ghazali’s Moderation in Belief: al-Iqtịsād fī al-i‛tiqād, translated, with an interpretive essay and notes by A. M. Yaqub, Chicago 2013 (tutte le traduzioni successive da quest’opera sono comunque di chi scrive). 53 Cfr.  R.  M. Frank, Al-Ghazālī and the Ashʽarite School, Durham 1994 (Duke Monographs in Medieval and Renaissance Studies, 15), p. 4; M. E. Marmura, Al-Ghazali, The Cambridge Companion to Arabic Philosophy, ed.  by P. Adamson - R. C. Taylor, Cambridge 2004, [pp. 137-154], p. 141. 54  Si veda W. M. Watt, Muslim Intellectual. A Study of  al-Ghazali, Edinburgh 1963, p. 140. 51 52

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considerare come il seguito di questo lavoro 55. Q uesto libro è un buon esempio per verificare se Al-Ghazālī, in altri contesti, adotti la terminologia della triade secondo un’accezione metafisica od ontologica. Il  termine sostanza (ğauhar) è  usato qui in maniera costante, anche per argomentare contro la possibilità che Dio stesso possa essere considerato una sostanza estesa. Al-Ghazālī formula questa obiezione come segue: Noi affermiamo che l’artefice del mondo non è una sostanza spaziale. Perché la sua eternità anteriore è  stabilita; e  se lui fosse spaziale non sarebbe privo di movimento nel suo spazio e di inattività; e ciò che non è privo di avvenimenti è denso di avvenimenti, come si è precedentemente stabilito 56.

In questo testo, tuttavia, sostanza non è  usato nello stesso contesto di potenza e  atto – e  mentre atto è  menzionato anche più avanti, il termine potenza non avrà più alcun rilievo. È introdotto invece il termine teologico che esprime il potere divino (qudra) e che riceve un’elaborata discussione, essendo uno degli attributi divini. Azione o atto è usato invece per riferirsi sia agli atti umani che divini. La seguente citazione può servire come esempio: Insomma, il Potente [qādir], il cui potere è vasto, è capace di creare il potere [qudra] e con esso l’abilità [maqdūr]. Poiché ‘creatore’ e ‘autore’ sono termini per colui che genera qualcosa con il suo potere, e poiché sia il potere sia l’oggetto sono [portati all’esistenza] attraverso il potere di Dio Eccelso, egli è  chiamato ‘Creatore’ e  ‘Autore’. L’oggetto del potere non è dovuto al potere del servo, sebbene essi concorrano; perciò egli non è chiamato ‘creatore’ o ‘autore’. Un termine diverso deve essere cercato per questo tipo di relazione. Il  termine ricercato è ‘acquisizione’, seguendo l’esempio del Libro di Dio Eccelso, perché questo uso si trova nel Q ur’ān per [descrivere] le azioni dei servi [di Dio]. Come per il termine ‘atto’, essi ne fanno un uso frequente 57.

55   Cfr. le considerazioni di Michael Marmura: cfr. M. E. Marmura, Translator’s Introduction, in Algazel (Al-Ghazālī), Tahāfut al-falāsifa, ed. Marmura cit., [xv-xxvii], pp. xvii-xviii. 56  Id., Al-Iqtisād ̣ fī l-i‛tiqād, edd. Atay-Cubkcu cit., p. 38, 2-4. 57  Ibid., p. 92, 1-6.

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Q uesto chiarisce come il contesto teologico conduca Al-Ghazālī a un abbandono della terminologia filosofica della triade, ancora visibile in Tahāfut al-falāsifa, e all’adozione di un vocabolario teologico.

5. Conclusione I contesti nei quali la triade di ğauhar (sostanza), quwwa (potenza/ potenzialità/potere) e  faʿʿāl (azione/influenza/attualità) viene applicata differiscono in base ai testi e  agli autori indagati. Per Al-Fārābī e Ibn Sīnā questa triade filosofica rappresenta una base fondamentale delle loro teorie. Specialmente per Ibn Sīnā si può notare come l’applicazione della terminologia triadica e il dispiegarsi di una teoria dell’emanazione siano strettamente connessi. Come conclusione è possibile constatare che l’applicazione e l’interpretazione dello schema triadico da parte di entrambi gli autori non è solamente influenzato da tratti neoplatonici ma anche da elementi distintivi del sistema aristotelico. Invece Al-Ghazālī critica quelle parti della teoria dell’emanazione della falāsifa che gli sembrano contraddire il testo sacro del Corano. Allontanandosi dalla teoria emanazionista neoplatonico-aristotelica di Ibn Sīnā, egli sembra allontanarsi al  contempo dalla triade. Mentre ne fa ancora un uso in Tahāfut al-falāsifa, che si concentra su una critica diretta delle teorie della falāsifa, la triade non gioca più un ruolo nelle opere in cui Al-Ghazālī dispiega il proprio progetto filosofico e teologico. Q uesto vuol dire, che la triade non trova spazio nel pensiero di Al-Ghazālī, ma egli se ne occupa solo in funzione critica dei falāsifa. L’applicazione ambigua ed equivoca della triade neoplatonica di Al-Fārābī e Ibn Sīnā nelle opere qui discusse può anche essere interpretata come un tentativo di questi di evitare la critica di un autore come Al-Ghazālī, appunto quella di una argomentazione imbevuta di una tripartizione cristiana.

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«SICUT MAGNES ATTRAHIT FERRUM» TOMMASO D’AQ UINO, L’IMMATERIALITÀ DELL’INTELLETTO E IL FONDAMENTO OCCULTO DELLE VIRTÙ NATURALI Ogne forma sustanzïal, che setta è da matera ed è con lei unita, specifica vertute ha in sé colletta, la qual sanza operar non è sentita, né si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita (Dante Alighieri, Purgatorio, XVIII, 49-54)

Q uiconque voudra considerer combien les proprietez de l’aymant (ed. latina: magnetis proprietates) (…)  sont admirables (…) & quels sont tous les autres effets, dont je croy auoir icy donné des raisons assez claires, sans les déduire d’aucuns autres principes que de ceux qui sont généralement receus & connus de tout le monde, à sçauoir, de la grandeur, figure, situation & mouuement des diuerses parties de la matière: il me semble qu’il aura sujet de se persuader qu’on ne remarque aucunes qualitez qui soient si ocultes (ed. latina: nullas esse vires in lapidibus aut plantis tam occultas) (…), que la raison n’en puisse estre donnée par le moyen de ces mesmes principes.

Così scriveva Cartesio nei Principes de la philosophie al  termine di una lunga trattazione dedicata al  magnetismo terrestre e  alle varie forme naturali di attrazione, tutti fenomeni da lui ricondotti a  un’unica e  semplice spiegazione geometrico-meccanica basata sulla configurazione della materia e sul movimento 1. Con scelta tutt’altro che casuale Cartesio rivendicava la potenza esplicativa 1  René Descartes, Principes de la Philosophie, IV, 187, edd. Ch. Adams P. Tannery, Paris 1904 (Œuvres des Descartes, IX), p. 309. Cfr. analogamente Id., Principia Philosophiae, IV,  187, edd. Ch.  Adams - P.  Tannery, Paris 1904 (Œuvres des Descartes, VIII), pp. 314, 19 - 315, 5 e altresì Id., Correspondance, 303, Descartes à [Huygens], edd. Ch. Adams - P. Tannery, Paris 1899 (Œuvres des Descartes, III), p. 670, 3-6. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127965 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 409-441     © 

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della sua filosofia, confrontandosi con un tema non solo di grande attualità, perché al centro del dibattito scientifico moderno, ma anche di enorme significato simbolico e  culturale. Nel sapere premoderno l’attrazione magnetica aveva rappresentato infatti l’esem­pio per eccellenza di ciò che appariva inspiegabile e misterioso, l’emblema di quel genere di fenomeni privi di evidenza causale e perciò ricondotti a un potere occulto della natura. Un potere che al  pari dei suoi contemporanei Cartesio identificava con le virtù specifiche delle forme sostanziali, facendone un’istan­za del­ l’aristotelismo e del suo ilemorfismo 2. Negando di conseguenza, e con la sola significativa eccezione dell’‘anima’ umana, l’esistenza di forze così arcane e  trascendenti da non poter essere integralmente spiegate dai principi meccanici della sua filosofia, e  con ciò privando la materia di tutte quelle virtù con cui il naturalismo medievale e  poi rinascimentale l’aveva animata 3, Cartesio operava con straordinaria lucidità e  consapevolezza una rottura epocale con l’immagine qualitativa del mondo eretta a  sistema dalla filosofia aristotelica e, in particolare – come vorrei suggerire 2 Così anche N. Weill-Parot, Points aveugles de la nature. La rationalité scientifique médiévale face à l’occulte, l’attraction magnétique et l’horreur du vide (xiiie-milieu du xve siècle), Paris 2013, p. 136, con opportuno riferimento a René Descartes, Correspondance, 266, Descartes à Regius, edd. Adams-Tannery cit., pp. 505, 8 - 507, 15. Ma cfr. altresì B. P. Copenhaver, The occultist Tradition and its Critics, in The Cambridge History of  Seventeenth-Century Philosophy, ed. by D. Garber - M. Avers, 2 voll., Cambridge 1998, I, pp. 454-512, e Id., Magic, in The Cambridge History of  Science, III: Early modern Science, ed. by K. Park L. Daston, Cambridge 2008, pp. 518-540. 3 «Q ue si vous trouvez estrange que, pour expliquer ces Elemens, je ne me serve point des Q ualitez qu’on nomme Chaleur, Froideur, Humidité, & Sécheresse, ainsi que font les Philosophes: je vous diray que ces Q ualitez me semblent avoir elles-mesmes besoin d’explication; & que, si je ne me trompe, non seulement ces quatre Q ualitez, mais aussi toutes les autres, & mesme toutes les Formes des corps inanimez, peuvent estre expliquées, sans qu’il soit besoin de supposer pour cét effet aucune autre chose en leur matière, que le mouvement, la grosseur, la figure, & l’arrangement de ses parties» (René Descartes, Le Monde, V, edd. Ch. Adams - P. Tannery, Paris 1909 [Œuvres des Descartes, XI], pp. 25, 25 - 26, 8. Si veda analogamente Id., Les Météores, edd. Ch. Adams - P. Tannery, Paris 1902 [Œuvres des Descartes, VI], p. 239, 5-12). La paradossalità dell’occulto, che consiste nell’attribuire all’ignoto valenza esplicativa, si esprime per Cartesio nella trivialità epistemica «delle forme sostanziali e delle qualità reali», chimères incapaci nella loro strutturale tautologia (per cui vale l’abusata virtus dormitiva di Molière) di spiegare alcunché, e alle quali Cartesio sostituisce, con una radicalità pari solo alla semplicità del gesto, materia e  movimento (cfr.  Id., Correspondance, 210, Descartes à Mersenne, edd. Adams-Tannery cit., p. 212, 1-5).

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in questo studio –, da quel fenomeno ambiguo e  sovradeterminato rappresentato dall’aristotelismo scolastico e medievale. In effetti, se di per sé la critica cartesiana si iscrive nel più ampio orizzonte meccanicista della rivoluzione scientifica, nel quale il ‘disincantamento’ del mondo si configura come semplicemente e coerentemente antiaristotelico 4, il rapporto istituito tra ontologia della forma e occulto naturale presuppone una trasformazione dell’ilemorfismo che merita esame. In linea di principio le forme non sono per Aristotele delle misteriose entità agenti insite nella materia e neanche, mi sembra, dei principi primi e inanalizzabili 5, ma preordinate capacità naturali che, sebbene nell’ambito di una natura qualitativa (e come tale irriducibilmente premoderna), ‘emergono’ dalla progressiva organizzazione della materia. Esse di conseguenza non eccedono le possibilità dei corpi, ma si identificano con le capacità di un corpo dall’organizzazione complessa, trovando nelle modalità organiche, fisiologiche e  psicofisiche della loro esistenza adeguati principi di spiegazione della loro operazione. Non mi pare invece sia così per l’aristotelismo che si configura a partire dalla Tarda Antichità come parte integrante della tradizione platonica e che da quella tradizione eredita un’idea di forma come principio additivo, chiamato nella sua misteriosa potenza causale a dare forza alla materia e a incrementarne le possibilità 4 Cfr. ancora ibid.­­­­, 229, Descartes à Mersenne, pp. 297, 30 - 298, 7, con le potenti pagine di G. Stabile, Scienza e disincantamento del mondo: Poesia, verità, nulla in Leopardi, in Giacomo Leopardi e il pensiero scientifico. Atti del Convegno ‘Leopardi e il Pensiero scientifico’ (Roma, 14-16 maggio 1998), a cura di G. Stabile, Roma 2001, pp. 187-204; Id., Lo Statuto di «inesorabile» in Galileo Galilei, in Lexiques et glossaires philosophiques de la Renaissance. Actes du Colloque international organisé à Rome par l’Academia Belgica en Collaboration avec le Projet des Corrispondenze scientifiche, letterarie ed erudite dal Rinascimento all’Età moderna, l’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ et la Fédération Internationale des Institutes d’Études Médiévales (FIDEM) (Academia Belgica, 3-4 novembre 2000), éd par J. Hamesse - M. Fattori, Louvain-La-Neuve 2003 (Textes et Études du Moyen Âge, 23), pp.  269-285; Id., L’idea di natura nella scienza del Seicento, in Natura. XII Colloquio internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2007), a cura di D. Giovannozzi - M. Veneziani, Firenze 2008 (Lessico intellettuale euro­ peo, 105), pp.  331-351; Id., Suono - Macchina - Significato: Il  disincantamento della voce, in A cavallo di un monocordo. Lo strumento musicale come accordatura di saperi, a cura di G. Mambella, Bologna 2013, pp. 105-114. 5 Analogamente  R.  J. Hankinson, Causes, in A  Companion to Aristotle, ed. by G. Anagnostopoulos, Malden - Oxford 2009, [pp. 213-229], p. 222.

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attraverso l’apporto di proprie specifiche capacità. Una prospettiva in base alla quale l’ontologia aristotelica è  ripensata e  integrata in una metafisica del flusso che della forma spiega non solo l’origine ma anche la struttura, facendo della potenza una precontenuta manifestazione della sua essenza. Credo allora che associando forma specifica e  virtù occulta (occulta perché derivata dall’inesperibile entità metafisica della forma) Cartesio colga, al  di là delle sue intenzioni critiche più generali, un nesso storicamente autentico e decisivo che costituisce – ed è la tesi che mi impegno a sostenere nel caso specifico di Tommaso d’Aquino – un assoluto fattore di intelligibilità per una archeologia dell’aristotelismo medievale. In questo studio vorrei infatti mostrare come la teoria medievale dell’occulto naturale – che consiste nel ricondurre le virtù curative delle pietre e delle erbe alla qualità di una forma che ha nella causalità del cielo la ragione della sua specifica costituzione – prefiguri in Tommaso, dandole coerenza scientifica, la soluzione dell’apparente ‘paradosso’ di un intelletto facoltà dell’anima senza essere facoltà del corpo. Facendo appello alla gerarchia delle cause – i  cieli, le intelligenze e il primo motore –, Tommaso è in grado di modulare una gradazione di principi formali culminanti nella natura di una forma spirituale: un’entità che, benché forma di un corpo, ha nella spiritualità dell’essenza una condizione adeguata all’incorporeità della sua potenza. Q uesta spiritualità rappresenta l’elemento qualificante dello statuto dell’anima umana e  ciò che la distingue da tutte le forme materiali per avvicinarla vertiginosamente alla natura delle sostanze separate. È l’assunto – meno banale di quanto possa sembrare – su cui si basa la grande tesi dell’ani­ma forma per se subsistens e che nelle pagine seguenti proverò a documentare, mostrando in particolare come nella prospettiva di Tommaso, erede attraverso la mediazione araba e dionisiana della filosofia della Tarda Antichità, le nozioni di essenza, potenza e  operazione – che pure appartengono di per sé al  vocabolario dell’ontologia e della psicologia aristoteliche 6 – facciano sistema 6 Così  E. Eliasson, L’anima e  l’individuo, in Filosofia tardoantica: Storia e problemi, a cura di R. Chiaradonna, Roma 2012 (Frecce, 132), [pp. 213-231], p. 220, ma cfr. Ch. Helmig, Iamblichus, Proclus and Philoponus on Parts, Capacities and ousiai of  the Soul and the Notion of  Life, in Partitioning the Soul. Debates

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e impongano ad anima e intelletto una connaturazione immateriale che restituisce il profilo di un’autentica e impensata forma intellettuale, un’entità liminare situata al  confine delle sostanze separate e delle forme materiali.

1. Aristotele trasformato. La potenza come emanazione dell’essenza Per comprendere nella sua specificità teorica e concettuale la tesi di Tommaso che fa dell’anima intellettiva un’effettiva forma del corpo e dell’intelletto una facoltà dell’anima che non è facoltà del corpo, c’è una distinzione preliminare che merita esame, quella tra ‘essenza’ e ‘potenza’, e un passo della Somma contro i Gentili si rivela a tal proposito illuminante. Tommaso sta replicando a chi obietta l’impossibilità che l’intelletto, essendo separato, sia unito al corpo come forma e la sua tesi è che nulla in realtà lo impedisce, perché non è sotto lo stesso rispetto che l’intelletto va considerato unito e separato: Nec tamen per hoc quod substantia intellectualis unitur corpori ut forma, removetur quod a philosophis dicitur, intellectum esse a corpore separatum. Est enim in anima considerare et ipsius essentiam, et potentiam eius. Secundum essentiam quidem suam dat esse tali corpori: secundum potentiam vero operationes proprias efficit. Si igitur operatio animae per organum corporale completur, oportet quod potentia animae quae est illius operationis principium, sit actus illius partis corporis per quam operatio eius completur: sicut visus est actus oculi. Si autem operatio eius non compleatur per organum corporale, potentia eius non erit actus alicuius corporis. Et per hoc dicitur intellectus esse separatus: non quin substantia animae cuius est potentia intellectus, sive anima intellectiva, sit corporis actus ut forma dans tali corpori esse 7.

from Plato to Leibniz, ed. by K. Corcilius - D. Perler, Berlin - Boston 2014 (Topoi. Berlin Studies of  the Ancient World, 22), [pp. 149-177], pp. 161-163. 7  Thomas de Aq  uino, Summa contra Gentiles, II,  69, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Romae 1918 (Opera Omnia, XIII), p.  447a, 24-41. Cfr. M. Lenzi, Anima, forma e sostanza: Filosofia e teologia nel dibattito antropologico del xiii Secolo, Spoleto 2011 (Uomini e Mondi medievali, 28), pp. 232-248, pagine di cui, con qualche ripresa, questo studio costituisce una riscrittura.

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Con chiarezza Tommaso esprime qui una tesi costantemente ribadita: l’intelletto è una potenza che, senza essere atto di alcun organo corporeo, appartiene a  un’anima per essenza forma del corpo. Anima e intelletto vanno quindi distinti in qualità, rispettivamente, di essenza e  di potenza. E mentre l’essenza è  causa dell’essere, la potenza è il principio dell’operazione. Tralasciamo per il momento la specificità dell’intelletto, ovvero la sua immaterialità, per concentrarci esclusivamente sul suo statuto di potenza ontologicamente distinta dall’essenza. Si tratta di uno statuto e di una distinzione cruciali, a cui Tommaso attribuisce un valore al  contempo teorico (metafisico) ed esegetico, facendone un principio chiave della sua antropologia e del suo aristotelismo. Ma sulla base di quali assunzioni? A me sembra che a pesare siano qui soprattutto dei presupposti estranei ad Aristotele e che, se anche lo stesso Aristotele dà l’impressione di distinguere l’anima dalle sue facoltà, è in base a una distinzione di ordine meno ontologico che mereologico. Aristotele non solo parla delle facoltà come di ‘parti’ dell’anima 8, ma, definendo l’anima come ‘atto primo’ al modo della ‘conoscenza’ anziché del suo ‘esercizio’, sembra alludere proprio al concetto di δύναμις inteso come principio di operazione 9. Del resto nel prosieguo della trattazione Aristotele esplicita questa identificazione, affermando che l’anima è atto del corpo «al modo della facoltà di vedere e della capacità dello strumento». E questo basta, mi sembra, per poter dire che l’anima è concepita come un principio non tanto dotato quanto costituito e  perciò definito dalle facoltà 10. 8  Cfr. Aristoteles, De anima, I 1, 402b 9-10; II 1, 413a 4-5; 2, 413b 14-16 e 27-29; III 4, 429a 10-11 e 9, 432a 22-432b 7, con lo studio di K. Corcilius P. Gregoric, Separability vs. Difference: Parts and Capacities of  the Soul in Aristotle, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 39 (2010), pp. 81-120 (dove Aristoteles, De anima, I  5,  411a 26-411b 14 andrà inteso come una critica rivolta meno alla divisibilità dell’anima come tale che alla sua interpretazione platonica: cfr. T. K. Johansen, The Powers of  Aristotle’s Soul, Oxford 2012, p. 49). 9 Cfr.  Aristoteles, De anima, II 1,  412a 19-28, con le considerazioni di Johansen, The Powers cit., p. 23 e K. Corcilius, Faculties in Ancient Philosophy, in The Faculties. A History, ed. by D. Perler, Oxford 2015, [pp. 19-58], pp. 38 e 40. 10 Cfr. Aristoteles, De anima, II 1, 413a 1, e 2, 413b 11-13. D’altra parte è  proprio perché le cose sono definite dalla loro capacità che un oggetto che l’abbia perduta è tale solo per omonimia (cfr. Id., Politica, I 3, 1253a 23 e Id., De anima, II 1, 412b 13-15, con le considerazioni ancora di Johansen, The Powers cit., pp. 73 e 86-87 e Corcilius, Faculties cit., pp. 34-35).

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Descrivendo allora l’anima come la forma e perfezione del corpo, Aristotele, almeno in linea di principio, non introduce nessuna misteriosa entità attiva e  causale, ma si limita a  classificarne la natura tra le proprietà del corpo, identificandola con il set delle sue capacità 11. Profondamente diversa invece per presupposti e obiettivi l’ipo­ tesi di Tommaso, il quale, per dirla davvero in breve, ritiene che ‘essenza’ e  ‘potenza’ vadano distinte in quanto principi, rispettivamente, dell’essere e  dell’agire che solo in Dio, in ragione della sua infinità, coincidono. La  potenza potrebbe appartenere all’ordine dell’essenza solo se vi appartenesse l’operazione. Ma questo accade soltanto in Dio.  Solo in Dio l’azione, essendo in senso proprio creazione, rientra nel genere della sostanza al pari della potenza da cui scaturisce. Nelle creature, dove non oltrepassa i  limiti della trasformazione, l’azione procede sempre da una forma accidentale, per cui anche l’anima, non potendo essere il principio immediato delle sue operazioni, è necessario che agisca mediante degli accidenti. Q uesti accidenti sono le sue facoltà, che dunque non si identificano ma si aggiungono alla sua essenza come proprietà della sua natura. Tecnicamente le facoltà sono infatti ‘accidenti propri’, attributi naturali che conseguono alla forma (consequuntur formam) e che nella fattispecie derivano (fluunt) dall’anima. Attributi di cui l’anima costituisce il ‘principio’ integrale e il ‘soggetto’ parziale: principio integrale in quanto origine di tutte le facoltà; soggetto parziale in quanto subiectum solo di quelle facoltà della cui operazione è titolare in proprio 12. È dunque sulla base di una motivazione di ordine eminentemente teologico e metafisico che Tommaso, configurando l’anima come il principio (e il soggetto) delle sue facoltà, delinea – contro Aristotele – il profilo di una misteriosa entità operativa. Del 11 Notevole ancora ibid., p.  37  e, analogamente, M.  Frede, On Aristotle’s Conception of  Soul, in Essays on Aristotle’s «De anima», ed. by M. C. Nussbaum A. Oksenberg Rorty, Oxford 19972, [pp. 93-107], p. 102. 12 Cfr. Thomas de Aq uino, Summa theologiae, I, q. 77, a. 1, resp. e ad 5, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1889 (Opera Omnia, V), pp. 236237; a. 5, resp., p. 245, e Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 12, sc., ed. B. C. Bazán, Roma - Paris 1996 (Opera Omnia, XXIV.1), p.  107, 111-113; resp., pp. 109-110, 150-226 e ad 7, p. 111, 265-287. Si veda inoltre Id., De ente et essentia, V, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1976 (Opera Omnia, XLIII), p. 380, 50-72.

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resto, mentre Aristotele definisce l’anima ‘atto primo’ del corpo, Tommaso nega che in quanto forma l’anima sia un atto ordinato a un atto ulteriore, ritenendola piuttosto il termine ultimo di un processo dinamico di generazione. Come forma del corpo l’anima è causa del suo essere non del suo agire e il fatto di essere ‘in potenza’ a un atto ulteriore non le compete in quanto forma ed essenza, ma in quanto causa e principio di una potenza 13. Di qui l’impiego, riferito anche all’anima, dell’autorità di matrice procliana dello pseudo Dionigi – «tutte le intelligenze divine sono divise in tre parti  (…), essenza (οὐσίαν), potenza (δύναμιν) e operazione (ἐνέργειαν)» 14 –, che Tommaso recepisce nel quadro connaturato del peripatetismo avicenniano. Ed è  in questo contesto ambiguo e sovradeterminato che si rinnova l’idea, estranea alla filosofia aristotelica, secondo cui, nella loro differenza ontologica, le facoltà procedono dall’essenza dell’anima come dal loro principio fontale 15. Una prospettiva che rimanda a  un 13 Cfr. Id., Summa theologiae, I, q. 77, a. 1, resp., ed. cit., p. 237 (che mette a profitto Aristoteles, De generatione animalium, II 3, 736b 4-5), su cui restano condivisibili le considerazioni di É.-H.  Wéber, L’homme en discussion à l’Université de Paris en 1270, Paris 1970 (Bibliothèque thomiste, 40), pp. 93-98 (diversamente J. W. Wippel, The metaphysical Thought of  Thomas Aquinas: From finite Being to uncreated Being, Washington, DC 2000 [Monographs of  the Society for Medieval and Renaissance Philosophy, 1], p. 282). 14  CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22 - 42, 2 (cfr. Proclus, Elementatio, prop. 169, p. 146, 24-25: πᾶς νοῦς ἐν αἰῶνι τήν τε οὐσίαν ἔχει καὶ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν). Si veda ad es. Thomas de Aq uino, Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 11, sc. 1, ed. J. Cos, Roma - Paris 2000 (Opera Omnia, XXIV.2), p. 117, 157161. Q uesta autorità circola anche attribuita ad Aristotele (De caelo, I  1, 268a 19-20): Cfr. J. Hamesse, Les Auctoritates Aristotelis. Un florilège médiéval, Louvain - Paris 1974, p. 160, § 6, su cui L. Bianchi, Couper, distinguer, compléter: trois stratégies de lecture d’Aristote à la Faculté des arts, in Les débuts de l’enseignement universitaire à Paris (1200-1245 environ), éd. par J.  Verger - O. Weijers, Turnhout 2013 (Studia Artistarum, 38), [pp. 133-152], pp. 147-150. 15  «(…) sicut Dionysius dicit, in substantiis omnibus invenitur essentia, virtus et operatio. Horum autem talis est ordo, quod virtus ab essentia, et operatio a virtute procedit» (Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 36, q. 1, a. 5, resp., ed. P.  Mandonnet, 2  voll., Paris 1929, II, p.  935). D’altra parte l’uso del vocabolario del flusso è sistematico in Tommaso: dall’essenza dell’anima la o le potenze fluunt (ad es. Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 11, ar. 17, ed. Bazán cit., p. 97, 122-123), effluunt (ad es. ibid., ad 17, p. 103, 380-384), emanant (Id., Scriptum super libros Sententiarum, III, d. 13, q. 1, a. 1, resp., ed. M. F. Moos, Paris 1933, p. 396), derivatur (Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 1, ar. 4, ed. cit., p. 208), egrediantur (ad es. Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 3, q. 4, a. 3, resp., ed. Mandonnet cit., II, p. 118). Il tema è avicenniano (cfr. Avicenna [Ibn Sīnā], Liber de anima seu sextus de naturalibus, I, 3, ed. S. Van Riet, 2 voll., Louvain - Lei-

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modello di causalità come trasmissione di forza e che se prolunga tematiche aristoteliche è  per trasporne e  rovesciarne i  termini, facendo delle capacità del vivente meno un attributo del corpo che una misteriosa prerogativa dell’anima che il corpo manifesta partecipando del flusso della sua azione – che è la ragione per cui Proclo interpreta la δύναμις come una vera e propria mediazione (μεσότης), un quasi effetto compreso tra la causa, l’οὐσία, e il causato, l’ἐνέργεια 16. A me sembra allora che attraverso Dionigi e Avicenna e in linea con le radici tardoantiche dell’aristotelismo medievale Tommaso prolunghi qui, adattandola alla sua prospettiva, un’istanza platonizzante che nelle cosiddette facoltà dell’anima vede una manifestazione causale della sua connaturata e misteriosa forza vitale, e che sia alla luce di questa implicazione metafisica che la relazione tra l’anima e l’intelletto vada analogamente intesa. 1.1. Essenza, potenza, operazione. Proclo e le radici tardoantiche dell’Aristotele medievale Per chiarirlo soffermiamoci ancora un istante sulla trasformazione di Aristotele, fenomeno semplicemente capitale per un’archeologia dell’aristotelismo medievale. L’idea che le potenze scaturiscano dall’essenza dell’anima come dal loro principio fontale si spiega evidentemente nel quaden 1968-1972, I, 1968, pp. 64, 13 - 65, 14; V, 1, II, 1972, pp. 80, 58-60 e 81, 7274; V, 7, II, pp. 155, 39-40, 160, 33-36, 161, 40-44 e 174, 31-32, su cui M. Sebti, Avicenne. L’Âme humaine, Paris 2000 [Philosophies, 129], pp.  36-38). Ne minimizzano, ma vorrei dire banalizzano, l’impatto teorico su Tommaso, Th. Bonin, The emanative Psychology of  Albertus Magnus, in «Topoi. An international Review of  Philosophy», 19 (2000), [pp. 45-57], pp. 52-53 (come S. W. de Boer, The Science of  the Soul. The Commentary Tradition on Aristotle’s De anima, Leuven 2013 [Ancient and medieval Philosophy, 46], pp. 227-228, nota 49, che ne dipende) e D. Perler, Faculties in Medieval Philosophy, in The Faculties cit., pp. 107-108 e 138. 16 Cfr.  Proclus, Elementatio, prop. 81, p.  76, 12-21  e, analogamente, Id., In  Alcibiadem Primum, ed. A.  Ph.  Segonds, 2  voll., Paris 1985-1986, I, 1985, p. 84, 9-13 (= Iamblichus, In Alcibiadem, fr. 4, ed. J. M. Dillon, Leiden 1973, p. 74, 13-16) e 15-17. Cfr. inoltre ibid., p. 122, 9-11; Id., In Rem publicam, II, ed. W. Kroll, Leipzig 1901, p. 70, 19-20 e Id., In Platonis Parmenidem commentaria, VI, edd. C. Luna - A. Ph. Segonds, 7 voll., Paris 2007-2021, VI, 2017, p. 102, 2831, dove ‘essenza’, ‘potenza’ e ‘operazione’ appaiono connesse da una relazione di dipendenza e di filiazione.

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dro antiaristotelico della precontenenza causale e della metafisica del flusso. Mi sembra allora degno della massima considerazione il fatto che a farsene carico sia in realtà l’Aristotele tardoantico, archetipo e modello dell’Aristotele medievale. L’occasione è costituita dalla celeberrima aporia dei πάθη τῆς ψυχῆς, cioè dalla questione se le affezioni dell’anima – tra cui si annoverano le attività – siano tutte ‘comuni’ al  soggetto che la possiede o se ve ne sia qualcuna che le sia ‘propria’. Secondo Aristotele – ed è  quanto importa qui considerare – la soluzione di questo dilemma è dirimente ai fini di una più esatta comprensione della natura dell’anima. Se infatti si potesse accertare che tra le sue affezioni ve n’è qualcuna che le sia propria – come sembra essere soprattutto il pensiero –, allora l’anima potrebbe essere separata 17. Porre d’altra parte la questione della separabilità dell’anima equivale a porre il problema della sua sostanzialità ed è per questo che la tradizione del commentarismo tardoantico, interessata a difendere una certa condizione platonica dell’anima, ha scorto in questo ragionamento la traccia di una regola (κάνων) fondamentale: che bisogna giudicare la natura dell’anima a partire dalle sue attività, perché ogni entità possiede un’attività corrispondente, per cui l’entità che possiede un’operazione separata è necessario che sia essenzialmente separata. Una conclusione di cui Giovanni Filopono fornisce una spiegazione dal punto di vista archeologico semplicemente illuminante. Q ualora infatti una simile entità non fosse separata, scrive Filopono, accadrebbe che il causato sarebbe superiore alla causa (συμβή­ σεται τὸ αἰτιάτον τοῦ αἰτίου κρεῖττον εἶναι) e l’inferiore migliore del superiore (τοῦ κρείττονος τὸ καταδεέστερον κρεῖττον), il che è assurdo. Bisogna infatti che la causa sia sempre superiore al causato e che ciò che è primo per natura sia superiore a ciò che viene dopo. Superiore è quindi ciò che è primo per natura. In che modo allora stanno le cose? Noi sappiamo che ogni operazione (πᾶσα ἐνέργεια) procede dalla potenza (ἐκ δυνά­μεως) e che ogni potenza (πᾶσα δύναμις) procede dall’es­ senza (ἐξ οὐσίας). L’operazione si classifica quindi al  terzo posto a  partire dall’essenza. Di conseguenza, se l’essenza è inseparabile dal corpo mentre l’operazione è  separata, poiché ciò che è  separato è  superiore a  ciò che è  inseparabile,  Cfr. Aristoteles, De anima, I 1, 403a 3-11.

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l’operazione sarà superiore all’essenza, che è come dire che il causato è superiore alla causa e che il secondo o piuttosto il terzo è superiore a ciò che è primo per natura, il che è assurdo. È quindi impossibile che un’operazione separata dal corpo non proceda da una sostanza altrettanto separata 18.

Ora, ai fini del mio discorso, l’aspetto che merita qui una rapidissima considerazione riguarda l’evidente sovradeterminazione teorica e testuale che Filopono impone all’argomentazione aristotelica 19. Per giustificare l’inferenza che Aristotele ritiene ricavabile dal­ l’ipotesi (ammessa ma in realtà mai concessa, come adesso vedremo) che il pensiero sia un’operazione propria dell’anima, cioè un’operazione che si esercita senza il concorso del corpo, Filopono si appella a un teorema dell’Elementatio theologica, in base al quale «è impossibile che mentre l’essenza (οὐσίας) è inseparabile dal corpo, l’operazione che deriva dall’essenza (ἀπὸ τῆς οὐσίας ἐνέργειαν) sia separata. In  tal caso, infatti, l’operazione sarebbe migliore (κρεῖττων) dell’essenza» 20. Ma questo teorema, che insiste su un modello di causalità intelligibile, traspone radicalmente la prospettiva aristotelica, facendo della relazione che lega l’attività all’essenza un’istanza, se pure semplificata, della teoria plo18   Iohannes Philoponus, In  Aristotelis De anima libros commentaria, prohem., ed. M. Hayduck, Berlin 1897 (CAG, 15), p. 15, 22-34 (analogamente Id., De aeternitate mundi contra Proclum, VII,  3, ed. H.  Rabe, Leipzig 1899, pp. 251, 18 - 252, 9). Ma si vedano anche pseudo-Simplicius, In Aristotelis libros De anima commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1882 (CAG, 11), p. 16, 6-10 e Priscianus Lydus, Metaphrasis in Theophrastum, ed. I. Bywater, Berlin 1886 (Supplementum Aristotelicum, 1.2), p. 31, 30-31. 19  Imponendole per altro anche una trasformazione logica: mentre infatti Aristotele sembra fare di un’attività ‘propria’ dell’anima una condizione necessaria ma non sufficiente di separabilità – che giustifica per Temistio la correttezza logica di un’inferenza ottenuta attraverso la negazione dell’antecedente (cfr.  Themistius, In libros Aristotelis De anima paraphrasis, ed. R. Heinze, Berlin 1899 [CAG, 5.3], p. 6, 11-27, e analogamente R. Polansky, Aristotle’s De anima, Cambridge 2007, p. 52) –, Filopono ravvisa tra antecedente e conseguente una relazione necessaria, per cui ogni sostanza che possiede un’operazione separata sarà inevitabilmente separata dal corpo. Per lui d’altra parte qui non è questione di conversione di un’unica proposizione condizionale, ma dell’articolazione di due proposizioni e per questo distingue in realtà due regole (cfr. anche Iohannes Philoponus, In Aristotelis De anima libros commentaria, I, 1, ed. Hayduck cit., p. 46, 10-20), stabilendo parimenti che una sostanza che non abbia un’operazione separata sia inseparabile, altrimenti la sua esistenza sarebbe vana (cfr. ibid., p. 15, 12-22). 20  Proclus, Elementatio, prop. 16, p. 18, 10-12.

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tiniana della doppia ἐνέργεια 21. L’aporia aristotelica si trova così ad essere riformulata nel quadro di una metafisica del flusso in cui l’atto che deriva dalla sostanza si costituisce come l’espressione di un’occulta e connaturata forza essenziale. Ed è proprio questo che induce a ripensare la relazione tra essenza, potenza e operazione secondo lo schema della processione, dove sempre l’inferiore si costituisce come manifestazione del superiore, essendone determinato come l’immagine dal modello e l’effetto dalla causa. Un’iniziativa cruciale, che si prolunga nella tradizione peripatetica araba prima e  in quella greco-latina e  arabo-latina poi, fino a sostanziare la ricezione medievale di Aristotele e fondare sulla sua autorità la separabilità dell’anima 22. 1.2. «Unicuique competit operari quo sibi competit esse». La regula di Aristotele e l’anima forma per sé sussistente A questa tradizione – questo il punto che mi preme evidenziare – l’Aristotele di Tommaso appartiene a  pieno titolo. Del resto 21 Cfr. Id., In Timaeum commentaria, III, 178A, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, II, 1904, p. 125, 12-15: «Q uindi c’è in ogni natura un’essenza, una potenza e un’operazione (τὸ μὲν οὐσία, τὸ δὲ δύναμις, τὸ δὲ ἐνέργεια). Altra è infatti l’essenza del fuoco (τοῦ πυρός ἄλλη μὲν ἡ οὐσία), in virtù della quale al fuoco conviene l’essere fuoco, altra la sua potenza (ἄλλη δὲ ἡ δύναμις), altra la sua operazione (ἄλλη δὲ ἡ ἐνέργεια)», dove chiara è l’allusione a Plotinus, Enneades, V 4 [7], 2, 27-33 (su cui E. K. Emilsson, Plotinus on Intellect, Oxford 2007, pp. 22-68). 22  «Omnis substantia, cuius operatio non pendet ex corpore, nec eius essentia pendet ex corpore. Liberiorem enim a  corpore necesse est esse essentiam quam operationem cuiuscunque substantiae. Q uia ergo operatio animae humanae, id est eius quod est in anima humana subtilissimum ac nobilissimum, scilicet quo brutis antecellimus, non pendet ex corpore, sicut est operatio virtutis intellectivae, manifestum est, quod eius essentia non pendet ex corpore. Est igitur separabilis a corpore naturaliter et vivens praeter corpus ac sine corpore» (Dominicus Gundissalinus, De immortalitate animae, ed. G. Bülow, Münster 1897 [BGPM, 2.3], p. 5, 3-11). Sul Proclo e il Filopono arabi, cfr. rispettivamente G. Endress, Proclus arabus. Zwanzig Abschnitte aus der Institutio theologica in arabischer Übersetzung, Beirut 1973 (Beiruter Texte und Studien, 10), pp. 195-200, 235 e 262264, e  Aristoteles’ De anima. Eine verlorene spätantike Paraphrase in arabischer und persischer Überlieferung, hrsg von R. Arnzen, Leiden - New York - Köln 1998 (Aristoteles semitico-latinus, 9), pp. 124-126; 220 e 382-383. Per quanto riguarda invece la tradizione greco e arabo-latina, si vedano almeno Priscianus Lydus, Solutionum ad Chosroem liber, ed. I. Bywater, Berlin 1886 (Supplementum Aristotelicum, 1.2), pp. 45, 10-33 e 49, 11-12 e Liber de causis, XXX, ed. A. Pattin, Leuven 2000 (Instrumenta theologica, 23.1), p. 111, 62-65.

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Tommaso non solo non ignora il principio in base al quale una potenza dell’anima non può essere più immateriale (immaterialior) o più semplice (simplicior) della sua essenza, riconducendone la ragione a un rapporto metafisico e causale di processione 23, ma su di esso fonda quella che, al pari di Filopono, chiama la regola (regula) di Aristotele, cioè la direttiva che consente di inferire la sussistenza dell’anima dall’incorporeità della sua operazione, e che Tommaso riconduce al principio generale secondo il quale l’operare compete nello stesso modo dell’essere (unicuique competit operari quo sibi competit esse) 24. Un presupposto che mi sembra estremamente indicativo. Sebbene infatti ci sia chi ritenga che per Tommaso la spiritualità dell’anima non consista in altro che nella sua capacità mentale – per cui l’anima umana sarebbe una forma come tutte le altre, non contraddistinta da alcuna particolare qualità spirituale 25 –, è chiaro, e qui va affermato con forza, che la noetica tommasiana non è emergentista, ma radicalmente e coerente-

23  «Virtutes autem et actiones necesse est formis proportionari, utpote procedentes ex eis» (Thomas de Aq uino, De operationibus occultis naturae, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1976 [Opera omnia, XLIII], p.  185, 208-209). Cfr. Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 1, q. 2, a. 4, ar. 4, ed. Mandonnet cit., II, p. 52; d. 17, q. 2, a. 1, ar. 2, p. 420; d. 18, q. 2, a. 1, resp., pp. 459-460; Id., Summa contra Gentiles, II, 56, ed. cit., p. 404b, 22-24; II, 62, p. 430b, 29-30; Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 1, ar. 4, ed. cit., p. 208; Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 11, ar. 12, ed. Cos cit., p.  116, 87-96 e  Id., De unitate intellectus, III, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1976 (Opera omnia, XLIII), p. 307, 387-389, tutti testi che certificano la padronanza di un principio reso ulteriormente celebre da Sigerus de Brabantia, Q uaestiones in tertium De anima, III, q. 7, ed. B. C. Bazán, Louvain - Paris 1972 (Philosophes médiévaux, 13), pp. 22, 16 - 23, 19; q. 15, p. 54, 20-24 e Id., Tractatus de anima intellectiva, III, ed. B. C. Bazán, Louvain - Paris 1972 (Philosophes médiévaux, 13), p. 82, 101-102 e pp. 82, 18 - 83, 22, su cui ci sarebbe ancora molto da dire (cfr. infra nota 33) nonostante già B. C. Bazán, Le dialogue philosophique entre Siger de Brabant et Thomas d’Aquin. À propos d’un ouvrage récent de E. H. Wéber O. P., in «Revue philosophique de Louvain», 72 (1974), [pp. 53-155], pp. 90-91. 24 Cfr. Thomas de Aq uino, Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 19, q. 1, a. 1, sc 4, ed. Mandonnet cit., II, p. 481, e Id., De unitate intellectus, I, ed. cit., p. 298, 622-630. 25  È la tesi di R. Pasnau, Thomas Aquinas on Human Nature. A philosophical Study of  Summa theologiae Ia 75-89, Cambridge 2002, pp. 29; 71-72 e 94, che altrove qualifica la dottrina di Tommaso come una specie di «materialismo non riduzionista» e come una forma di «emergentismo» (Ch. Shields - R. Pasnau, The Philosophy of  Aquinas, New York 20162, pp. 197-202).

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mente essenzialista, e che la qualità della potenza manifesta nella sua derivazione la natura dell’essenza 26. La pretesa di inferire il peculiare statuto dell’anima umana, forma per sé sussistente, dalla perseità e quindi dalla incorporeità del pensiero riposa dunque sulla profonda, genetica connaturazione che lega, in un rapporto metafisico di filiazione, l’operazione alla potenza e  la potenza all’essenza. Si tratta tuttavia di un’inferenza delicata e che va intesa correttamente se si vuole salvaguardare l’equilibrio – precario e creativo – di uno statuto che, secondo Tommaso, non è semplicemente quello di una sostanza ma di un’entità sui generis, sussistente senza essere a  sé stante. La difficoltà è allora di ordine sia esegetico che teorico. E tanto più perché Aristotele sembra negare che il pensiero sia quell’affezione propria dell’anima che pretendono i commentatori tardoantichi e  medievali, basandovi la loro dimostrazione. Ma andiamo con ordine, partendo dall’interpretazione di Aristotele. Tommaso in effetti non ignora che a  causa del primato del­ l’immaginazione Aristotele sembra quanto meno dubitare della possibilità di attribuire all’anima la titolarità del pensiero, ritenendo preferibile dire non che l’anima pensa ma l’uomo per mezzo dell’anima 27. Per Tommaso, però, il fatto che sia l’uomo a pensare – tesi capitale della sua antropologia antiaverroista e cristiana – non va confuso con l’attribuzione del pensiero al sinolo di materia e forma. Che l’uomo pensi – ci torneremo tra un attimo – non dipende dal corpo (pensare non è propriamente un atto del composto psicosomatico se non per accidente), ma dal fatto che l’anima, a cui spetta di per sé la titolarità del pensiero, costituisce la forma dell’uomo. Per ragioni profonde Tommaso si trova allora a dover far quadrare il pensiero di Aristotele con le proprie esigenze teoriche, e  a farlo innanzitutto relativizzando le implicazioni del ruolo 26  «(…) sicut operatio quae procedit a virtute rei, est virtutis indicium; ita et virtus est indicium essentiae vel naturae quae procedit a principiis essentialibus rei» (Thomas de Aq uino, Commentum in quatuor libros Sententiarum, d. 47, q. 2, a. 1, qc 3, ad 2, Parma 1858, p. 1161). 27 Così Aristoteles, De anima, I  4,  408b 13-15 e  25-27, che sembra legittimo mettere in prospettiva con I  1,  403a 3-12 e  ancora con III 7,  431a 1415 e 431 b2; 8, 432a 8-9 e Id., De memoria et reminiscentia, 1, 449b 30-450a 1, come fa C. Rossitto, I ΠΑΘΗ ΤΗΣ ΨΥΧΗΣ nel «De anima» di Aristotele, in «Elenchos», 16 (1995), pp. 155-178.

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dell’immaginazione nel processo cognitivo. Ma questo lo porta a  instaurare un rapporto complesso e  a tratti inconseguente col testo aristotelico. Mentre infatti Aristotele sembra fare della dipendenza dall’immaginazione una condizione sufficiente per privare l’ani­ma della titolarità del pensiero, Tommaso – che distingue tra una dipendenza strumentale e una ‘oggettiva’ – trae dalla stessa premessa una conclusione opposta. Per lui, pur concesso che nell’uomo il pensiero dipende dall’immaginazione, il fatto che questa dipendenza consista a suo giudizio in un uso dell’immagine, e quindi del corpo che la genera, solo come oggetto (sicut obiecto) di conoscenza e non come strumento (sicut instrumento) basta per considerare lo stesso pensiero un’attività propria del­ l’ani­ma, cioè funzionalmente indipendente dal corpo, e  legittimare così la separabilità della sua natura 28. Q uando allora Aristotele afferma che è preferibile dire non che l’anima «pensa, ma l’uomo per mezzo dell’anima», aggiungendo che il pensiero non è «una proprietà dell’intelletto ma di questo determinato soggetto che lo possiede» 29, Tommaso esclude che le sue parole siano da prendere alla lettera. E non – come ho già detto – perché non creda che il pensiero vada attribuito all’uomo, ma perché la causa di questa attribuzione non può essere lo statuto comune dell’operazione. Di qui una duplice strategia, che 28 Cfr.  Thomas de Aq  uino, Sentencia libri De anima, I,  2, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma - Paris 1984 (Opera omnia, XLV.1), pp.  9, 46  -  10,  81, ma già Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 19, q. 1, a. 1, ad 6, ed. Mandonnet cit., II, p. 484. Su questa distinzione, cfr. Averroes Cordubensis, Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros, I, 12, ed. F. S. Crawford, Cambridge 1953 (Corpus Commentariorum Averrois in Aristotelem, VI.1), p.  18, 57-69 (analogamente J.-B.  Brenet, Corps-sujet, corps-objet. Notes sur Averroès et Thomas d’Aquin dans le De immortalitate animae de Pomponazzi, in Pietro Pomponazzi entre traditions et innovations, éd. par J. Biard - Th. Gontier, Amsterdam - Philadelphia 2009 [Bochumer Studien zur Philosophie, 48], [pp. 11-28], pp. 26-27, nota 3), che mi sembra da mettere in relazione con Iohannes Philoponus, In Aristotelis De anima libros commentaria, I, 1, ed. Hayduck cit., pp. 45, 17 - 46, 6. 29  Aristoteles, De anima, I 4, 408b 13-15 e 25-27, con le considerazioni di Johansen, The Powers cit., p.  235. Analogamente Alessandro di Afrodisia, per il quale nessuna attività dell’uomo è  separata da un movimento corporeo, «in quanto è il corpo che svolge quelle attività in virtù della potenza che ha in sé», e  anche il pensiero, «se non si ha senza immaginazione, persino esso si dovrà realizzare mediante il corpo» (Alexander Aphrodisiensis, De anima, ed. I. Bruns, Berlin 1887 [CAG. Supplementum, 2.1], p. 12, 5-22; trad. it., Roma Bari 1996, pp. 12-13).

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porta Tommaso da una parte a ipotizzare che Aristotele non stia parlando in prima persona, ma supponendo (e criticando) l’opinione altrui e nella fattispecie di quanti ritengono l’esercizio del pensiero analogo a quello psicofisico della sensazione 30; dall’altra a concedere che ‘pensare’ possa dirsi atto del composto non per sé ma per accidente, e cioè «in quantum (…) eius obiectum, quod est fantasma, est in organo corporali» 31. Ad ogni modo Tommaso si vede costretto qui a  respingere come irricevibile la fondazione aristotelica di una tesi altrimenti centrale della sua antropologia, ovvero che sia l’uomo a pensare per mezzo dell’anima. Il fatto è che per lui il primato della soggettività dell’individuo non è (e non può essere) a discapito della soggettività dell’anima, ma proprio in virtù di essa, valendo nell’unità ilemorfica dell’ente il principio del trasferimento metonimico al tutto di ciò che compete alla parte. Per Tommaso il pensiero è senz’altro un’‘affezione’ dell’anima, per cui è legittimo dire che l’anima pensa. Ma dal momento che l’anima è  una forma e  in quanto forma agisce in funzione e a condizione del tutto di cui è parte, sarà più appropriato (magis proprie) dire che è l’uomo che pensa in virtù dell’anima 32. 30  Che è  la soluzione che Tommaso privilegia, attribuendola a  Temistio. Cfr. Thomas de Aq uino, De unitate intellectus, I, ed. cit., pp. 298, 654 - 299, 674, ma già Id., Sentencia libri De anima, I, 10, ed. cit., pp. 51, 269 - 52, 296 e Id., Summa theologiae, I, q. 75, a. 2, ad 2, ed. cit., p.  196. L’opi­nione criticata da Aristotele sarebbe, secondo Tommaso, quella di Platone. Va detto però che Aristotele non sembra voler attribuire a Platone una teoria psicofisica del pensiero, ma al contrario verificare la questione del movimento dell’anima partendo dalla sua presunta e  comunemente ammessa agenzialità. Q uanto poi a  Temistio, in realtà questi si limita a  dire che Aristotele assomiglia più a  uno che dubita che a  uno che insegna (cfr.  Themistius, In  libros Aristotelis De anima paraphrasis, ed. Heinze cit., p. 30, 37-38; trad. lat., ed. G. Verbeke, Leiden 1973, p. 75, 90-91). 31  Thomas de Aq uino, De unitate intellectus, I, ed. cit., p. 299, 674-680; ma già Id., Scriptum super libros Sententiarum, IV, d. 50, q. 1, a. 1, ad 2, ed. Parmensis cit., pp. 1247-1248 e Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 1, ad 11, ed. Bazán cit., p.  12, 421-428. Anche questa tesi va intesa però correttamente: Tommaso non vuole dire che l’uomo pensa per accidente (cfr. infatti Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 1, resp., ed. cit., p. 209), ma che è per accidente che il pensiero compete al composto di anima e corpo. 32 Cfr. ibid., q. 75, a. 2, ad 2, p. 197, da mettere in relazione con Id., Sententia Libri Ethicorum, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1969 (Opera omnia, XLVII.1), I, p. 4, 88-95. Cfr. inoltre Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 2, ad 2, ed. Cos cit., p. 30, 326-335; e Id., Q uaestiones disputatae de

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Se Tommaso si trova allora a dover fondare diversamente il suo aristotelismo è perché diversa da quella aristotelica è l’interpretazione che dà dell’anima, facendone una forma per sé sussistente. E l’imbarazzo ermeneutico riflette qui, mi sembra, un imbarazzo teorico, che deriva dal tentativo di tenere insieme cose in linea di principio differenti 33. Se l’anima per Aristotele è una forma anziché una sostanza è anche perché non è titolare di alcuna funzione propria ed esclusiva 34. Tommaso invece pretende di attribuirle soggettività e  immortalità, preservandone lo statuto di forma, e quindi di farne un soggetto sussistente senza farne un ente separato. Tommaso pensa infatti che l’anima, benché incorporea e spirituale, abbia bisogno del corpo per realizzarsi attraverso un percorso di conoscenza fondato sulla sensibilità. E dal momento che ogni ente agisce secondo il proprio modo di essere, Tommaso pensa che almeno fintantoché l’anima sarà unita al corpo, il suo pensiero non possa prescindere dall’immaginazione. Q uesta però è solo in parte una condizione essenziale della sua natura, o meglio è  una condizione che pur essendo naturale per l’anima – nella misura in cui il modo di conoscenza che meglio si confà alla sua natura è  quello che consente una conversione alle immagini –, tuttavia non ne esaurisce le possibilità. Spesso si dimentica infatti che una volta separata l’anima si comporta esattamente come una sostanza angelica (perfecte assimilabitur substantiis separatis quantum ad modum intelligendi) – per quanto infima di grado e relati-

anima, q. 2, resp., ed. Bazán cit., p. 19, 321-327 e ancora Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 1, resp., ed. cit., p. 209, su cui J.-B. Brenet, «… set hominem anima». Thomas d’Aquin et la pensée humaine comme acte du composé, in «Mélanges de l’Université Saint-Joseph», 59 (2006), pp. 69-96, e Id., Thomas d’Aquin pense-t-il? Retours sur hic homo intelligit, in «Revue de sciences philosophiques et théologiques», 93 (2009), pp. 229-250. 33 È la grande critica di Sigieri (cfr. Sigerus de Brabantia, Tractatus de anima intellectiva, III, ed. Bazán cit., p. 80, 62-66), su cui mi propongo di ritornare in un prossimo lavoro. Ma si veda adesso anche B. C. Bazán, Esquisse d’une anthropologie philosophique selon Thomas d’Aquin, in Thomas d’Aq uin, L’âme et le corps. Texte latin, traduction par J.-B. Brenet. Introduction par B. C. Bazán, Paris 2016, [pp. 7-113], pp. 91, 95-96 e 109. 34 Come in effetti si è  visto, porre il problema della separabilità dell’anima equivale a  porre quello della sua sostanzialità, per cui se l’anima fosse capace di agire per sé sarebbe «something which has a  form, not something which is a form» (S. Everson, Aristotle on Perception, Oxford 1997, p. 233).

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vamente poco potente –, giustificando così l’appartenenza al suo genere 35. Ma torneremo su tutto questo tra breve. Per adesso basti qui dire che la regula di Aristotele così come recepita da Tommaso si iscrive nel quadro di un aristotelismo tipicamente scolastico e medievale, un aristotelismo che affonda le sue radici nella filosofia della Tarda Antichità e  al quale la peculiarità teorica di Tommaso appare tutt’altro che alternativa, trovando anzi nel suo fenomeno di platonizzazione una condizione imprescindibile di realizzazione.

2. L’intelletto, le virtù occulte e la gerarchia delle forme In effetti, per legittimare la sua tesi di un’anima forma per sé sussistente, Tommaso fa appello a una concezione gerarchica e gradazionista dell’essere in buona parte estranea alla filosofia di Aristotele. Si tratta di una concezione nella quale la forma è  meno un correlato della materia che un’entità metafisica misurabile secondo gradi variabili di intensità o attualità. Brevemente, Tommaso pensa che la forma in quanto tale non dipenda dalla materia e che se si trovano delle forme che non possono sussistere senza materia sia a causa della loro intrinseca debolezza ontologica, del fatto cioè che il loro tasso di attualità non gli consente di realizzarsi senza un sostegno corporeo. Le forme corporee con le loro virtù appaiono così contraddistinte da livelli diversi di materialità, dipendenti dal grado della loro entità. A un 35 Cfr. Thomas de Aq uino, Summa contra Gentiles, II, 81, ed. cit., p. 506b, 18-20 e Id., Summa theologiae, I, q. 89, a. 1, ed. cit., pp. 370-371. Diversamente A. Pegis, The separated Soul and its Nature in St. Thomas, in St. Thomas Aquinas 1274-1974. Commemorative Studies, 2 voll., Toronto, 1974, I, pp. 131-158, che ritiene questi testi eterogenei, convinto che nella Summa Tommaso abbia evoluto, scoprendo il carattere preternaturale dell’anima separata e del suo modo di conoscenza. A me sembra invece che Tommaso abbia sempre avuto chiaro che l’anima è di natura una forma ma per sé sussistente. Q uello che sembra sfuggire a quanti enfatizzano unilateralmente la natura formale dell’anima, minimizzandone la sussistenza (e immaginando improbabili evoluzioni), è il fatto che, come provo a mostrare qui, l’esistenza al pari dell’azione non sono delle variabili indipendenti dall’essenza, per cui Tommaso è piuttosto alla ricerca di un’entità che possa, nella sua gradazione, fondare adeguatamente immanenza formale e trascendenza intellettuale (ed esistenziale).

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grado più intenso corrisponde una maggiore capacità di emergere dalla materia, sicché una forma compiutamente separata non è  altro che un ente che ha in sé, nella propria forza ontologica, anziché in una massa fisica e organica, il proprio fondamento e il fondamento della propria potenza causale. La peculiarità dell’anima umana si spiega allora con la peculiarità del suo statuto metafisico, ovvero con il grado di attualità della sua natura che le permette di trascendere la materia ma non fino al punto di esserne completamente separata 36. Alla base di questa rappresentazione c’è sicuramente un’intuizione aristotelica, che consente a Tommaso di fondare la sua prospettiva su un piano esegetico. Aristotele non solo afferma che «le anime differiscono per nobiltà e ignobiltà le une dalle altre», stabilendo una corrispondenza assiologica tra il corpo, o  piuttosto la sua infrastruttura pneumatica e seminale, e la specifica qualità dell’anima, ma sembra anche ritenere che le diverse funzioni dei viventi, dalla capacità di movimento alla conoscenza intellettuale, siano, in quanto espressione del meglio e del divino, forme di imitazione delle cause superiori (dei cieli e della stessa natura divina dei loro motori) 37. L’autorità di Aristotele funziona qui come una sorta di polo di attrazione e condensazione, sul quale tuttavia è fatto precipitare, ricevendone ordine e legittimità teorica, un esemplarismo e un gradazionismo estesi ben oltre i limiti concettuali dell’aristotelismo. Tommaso del resto esprime la sua visione gerarchica e gradualistica facendo ricorso anche a ulteriori elementi aristotelici come il celeberrimo principio della causalità del massimo o le immagini della consecuzione delle figure e dei numeri, sempre però adattandoli a una prospettiva in larga misura non aristotelica 38. 36  Cfr. Thomas de Aq uino, De ente et essentia, IV, ed. cit. (alla nota 12), pp. 376, 49-54 e 377, 167 - 378, 201, e Id., Q uaestiones disputatae de anima, a. 7, resp., ed. Bazán cit., pp. 59, 278 - 60, 360. 37  Oltre a Aristoteles, De generatione animalium, II 3, 736b 31-32, si veda Johansen, The Powers cit., p. 126, con riferimento ad Aristoteles, De generatione animalium, II 1, 731b 30-31; 3, 736b 27-29; Id., De generatione et corruptione, II 10, 337a 1-8 e Id., Ethica Nicomachea, X 7, 1177a 13-17. 38 Cfr.  Id., Metaphysica, II 2,  994a 12-13; VIII 3,  1043b 36-1044a 2 e  Id., De anima, II 4, 416a 9-18. Analogamente J.-F. Courtine, Inventio analogiae. Métaphysique et ontothéologie, Paris, 2005, p. 265.

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In particolare Tommaso articola uno schema causale in base al quale a sostanziare l’interpretazione dell’ilemorfismo e a giustificare la strutturale e progressiva capacità delle forme di eccedere le possibilità della materia è una forma emendata – perché ‘astrologizzata’ – di metafisica del flusso. Q uesto schema è  fondato sulla teoria medievale dell’occulto naturale, di cui si costituisce come uno sviluppo creativo, basato sull’ordinamento gerarchico delle cause. Tommaso pensa che le ragioni che spiegano le misteriose proprietà curative e attrattive delle forme soprattutto minerali siano, per analogia, le stesse che spiegano le virtù specifiche delle forme vegetali e animali (la vita, la sensazione, il pensiero). Ragioni che rendono queste virtù tutte parimenti occulte e viepiù trascendenti, perché tutte indifferentemente radicate nell’oscuro sostrato metafisico della forma e  proporzionate a  un grado di attualità determinato, per assimilazione, dalla dignità della causa. Q uanto più infatti le cause sono elevate tanto più nobili risultano le forme che ne partecipano e tanto più avanzate le operazioni che scaturiscono dalle loro potenze. Di qui la ricorrente analogia tra l’intelletto e la capacità attrattiva del magnete, che serve a Tommaso a  legittimare da un punto di vista metafisico e  causale la pur peculiare trascedenza dell’anima, riconducendola, come caso limite, all’ordine progressivo con cui le forme eccedono le possibilità della materia. 2.1. L’anima, il magnete e l’eccedenza ontologica delle forme Dunque, secondo Tommaso comprendere come sia possibile che l’anima sia forma del corpo e una qualche facoltà dell’anima non sia facoltà del corpo non è  difficile se si osserva la forma anche nelle altre cose. Videmus enim in multis quod aliqua forma est quidem actus corporis ex elementis commixti, et tamen habet aliquam virtutem quae non est virtus alicuius elementi, sed competit tali formae ex altiori principio, puta corpore caelesti; sicut quod magnes habet virtutem attrahendi ferrum, et iaspis restringendi sanguinem. Et paulatim videmus, secundum quod formae sunt nobiliores, quod habent aliquas virtutes magis ac magis supergredientes materiam. Unde ultima formarum, quae est anima humana, habet virtutem totaliter supergredientem materiam corporalem, scilicet intellectum. Sic ergo 428

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intellectus separatus est, quia non est virtus in corpore, sed est virtus in anima; anima autem est actus corporis 39.

Benché non tutto sia qui esplicitato e  alla ragione che consente all’anima il possesso di una facoltà separata Tommaso faccia solo allusione, resta il fatto che essa va ricavata, per analogia, dalla costituzione delle forme naturali, a partire da quelle minerali. Q ueste infatti, pur essendo forme senz’altro materiali, e come tali incapaci di sussistere e  operare indipendentemente dal corpo, non sono forme completamente immerse nella materia e riducibili alle sue possibilità – che per Tommaso sono le possibilità delle qualità attive e passive degli elementi, cioè di quelle forme elementari (aria, acqua, terra e fuoco) che fanno perfettamente corpo con la materia –, perché la loro entità, oltre a presupporre la natura degli elementi, è  costituita da un fattore ulteriore, ontologicamente distinto e trascendente: la virtù del cielo. Tommaso fa qui sua l’interpretazione ‘ermetica’ della virtù occulta, che secondo una prospettiva standard del xiii secolo riconduce le proprietà meravigliose delle pietre e  delle erbe – quelle stesse di cui parla il Cartesio latino – alla loro costituzione celeste 40. Secondo Tommaso è l’influenza del cielo che, informando e arricchendo la complessione materiale, e quindi aggiungendo alle sue qualità una proprietà ulteriore, fa della forma ‘generata’ qualcosa di essenzialmente (e funzionalmente) sporgente sulla strut39  Thomas de Aq uino, De unitate intellectus, I, ed. cit., p. 296, 469-487, ma già Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 17, q. 2, a. 1, ad 2, ed. Manconnet cit., II, p. 429 e, più approfonditamente, Id., Summa contra gentiles, II, 68, ed. cit., p. 441; Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 1, resp., ed. Bazán cit., pp. 9, 292 - 10, 341 e Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 2, resp., ed. Cos cit., pp. 28, 273 - 30, 318 (cfr. Th. Litt, Les corps célestes dans l’uni­ vers de saint Thomas d’Aquin, Louvain - Paris, 1963 [Philosophes médiévaux, 7], pp. 113-129). 40 Cfr. I. Draelants, La virtus universalis: un concept d’origine hermétique? Les sources d’une notion de philosophie naturelle médiévale, in Hermetism from Late Antiquity to Humanism. Atti del Convegno internazionale di Studi (Napoli, 20-24 novembre 2001), ed. by P. Lucentini - I. Parri - V. Perrone Compagni, Turnhout 2003 (Instrumenta Patristica et Medievalia, 40), [pp.  157-188], pp. 179-183. Resta però inteso che l’idea di una causalità dei cieli è di per sé profondamente connaturata alla fisica aristotelica (basti citare qui Aristoteles, De generatione et corruptione, II 10, 336b 2-9, e Id., Meteorologica, II 2, 339a 21-25), per cui l’appello alla tradizione astrologica trova sempre una giustificazione possibile nello stesso Aristotele.

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tura elementare della materia 41. Le capacità delle forme minerali – che esattamente come le facoltà dell’anima sono proprietà che conseguono alla forma (speciem consequentes) 42 – sono dunque più ampie di quelle elementari, perché superiore a quello elementare è  il grado ontologico di attualità della forma da cui procedono. E il fatto che ad essere trascesa sia qui la natura qualitativa degli elementi, natura a cui si arresta l’orizzonte della sensibilità, spiega il carattere occulto e misterioso di queste capacità 43. Q uel che allora Tommaso vuole dire è che il caso dell’immaterialità dell’intelletto non può davvero sorprendere o meravigliare se già nel gradino più basso della scala della natura si osservano fenomeni, come l’attrazione magnetica, che eccedono le possibilità elementari dei corpi. Certo, si potrebbe obiettare – come farà ad esempio l’Anonimo di Giele – che le proprietà occulte delle forme minerali non sono virtù separate, per cui l’analogia con l’intelletto è inappropriata 44. Ma il punto per Tommaso è un 41 Mi sembra di cruciale importanza il fatto che Tommaso intenda questa influenza (cfr. E. Grant, Planets, Stars, and Orbs. The Medieval Cosmos, 12001687, Cambridge 1994, pp. 569-617) come l’impressione di un costituente formale e dunque come una determinazione ontologica (cfr. Thomas de Aq uino, De operationibus occultis, ed. cit., p. 183, 25-29). 42 Cfr. Id., Scriptum super libros Sententiarum, IV, d. 7, q. 1, a. 2, qc. 2, ad 1, ed. M. F. Moos, Paris 1947, p. 271. Le proprietà che accompagnano la specie sono quelle che dipendono dalla forma (cfr. ibid., I, d. 3, q. 4, a. 2, resp., ed. Mandonnet cit., I, p. 116; d. 8, q. 5, a. 2, ad 4, p. 231; II, d. 7, q. 3, a. 1, ad 5, p. 196, e Id., Summa theologiae, I, q. 3, a. 4, resp., ed. cit., p.  42) e  che perciò appartengono indifferentemente a tutti gli individui della specie (cfr. Id., De operationibus occultis, ed. cit., p. 184, 79-85 e 108-133). Tommaso ammette che in un individuo l’operazione specifica si possa manifestare in modo più o meno intenso (cfr. ibid., pp. 185, 246 - 186, 258). Tuttavia le diverse complessioni e i diversi influssi astrali possono far variare la qualità dell’operazione non la sua tipologia. 43  Esperibili negli effetti delle loro operazioni, queste virtù non sono però per sé conoscibili, perché l’uomo non può avere percezione del principio metafisico da cui derivano (Q usta ibn Luq a, De physicis ligaturis, edd. J. Wilcox - J. M. Riddle, in «Medieval Encounters», 1 [1995], [pp. 1-50], p. 39, 165-168). 44  «Item arguo sic: magnes propinquus ferro ferrum attrahit, nam agens attrahit et agit in definita distantia: unde appropinquatus ferrum attrahit, elongatus autem non; similiter et caccabus [ms. Oxford, Merton College 275, f. 115ra: cacabus, ‘ambra’, dall’arabo kaharaba’ (cfr.  Weill-Parot, Points aveugles de la nature cit. [alla nota 2], p.  151)] paleas; quare aliquid habet heac operatio a materia et forma: habet enim propinquitatem et distantiam ‹a materia›; quare non habet operationem a forma separata: agere enim in tanta distantia et non in tanta non debetur formae separatae, sed solum materiali hoc debetur» (Ignoti auctoris quaestiones in Aristotelis libros I et II De anima, II, 4, ed. M. Giele, in

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altro. Partendo dal presupposto che i quattro elementi non esauriscono la costituzione dei corpi naturali, quello che a lui importa di questa analogia è l’idea che essa prefigura nel rapporto istituito tra la nobiltà della forma e la trascendenza del suo principio causale, dove lo statuto separato dell’intelletto si configura come un caso limite ma perfettamente coerente e naturale, perché equivalente – nella sua proporzione alla forma – alla condizione di ogni virtù sostanziale. 2.2. Galeno, Avicenna e la fondazione metafisica dell’occulto naturale Da questo punto di vista appare allora decisivo, perché concettualmente esplicativo, il fatto che, al  di là dell’interpretazione ‘ermetica’, la matrice teorica (e testuale) della dottrina medievale dell’occulto naturale si possa individuare – come ormai è  indiscutibilmente assodato 45 – in una celeberrima pagina del Canone, dove, riflettendo sui diversi modi in cui l’alimento agisce sul corpo, ma nel quadro speculativamente avanzato di una metafisica della preparazione e del flusso, Avicenna stabilisce l’esistenza di virtù e di operazioni trascendenti le possibilità elementari della materia e riconducibili a quella che lui chiama, con vocabolario indifferentemente aristotelico e  galenico, ‘forma specifica’ o  ‘intera sostanza’. L’esempio è quello standard dell’attrazione magnetica, ma a fare la differenza è la prospettiva teorica che ne comanda la spiegazione, inquadrandone il fenomeno nell’orizzonte di un’ontologia peripatetica della forma. Scrive Avicenna che ciò che si mangia e si beve opera sul corpo umano in tre modi: in virtù della sola qualità, della materia oppure dell’intera sostanza (tota sui substantia). Opera in virtù della sola qualità ciò che ad esempio riscalda o  raffredda senza assimilarsi M. Giele - F. Van Steenberghen - B. Bazán, Trois Commentaires anonymes sur le Traité de l’âme d’Aristote, Louvain - Paris 1971 [Philosophes médiévaux, 11], p. 71, 10-17). 45  Penso qui al pionieristico studio di B. P. Copenhaver, Scholastic Philosophy and Renaissance Magic in the «De vita» of  Marsilio Ficino, in «Renaissance Q uarterly», 37 (1984), pp. 523-554 (nonostante P. Zambelli, L’ambigua natura della magia, Milano 1991, pp. 319-323) e naturalmente ai lavori esemplari di Nicolas Weill-Parot.

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al corpo; opera in virtù della materia ciò che muta di natura ricevendo la stessa forma della parte che lo assimila; opera invece – ed è quanto merita qui attenzione – in virtù della propria sostanza forma suae speciei (…) quam acquisivit post complexionem, quod cum eius simplicia se commiscuerunt et ex eis generata fuit res una, preparavit se ad recipiendum speciem et formam additam super illud quod habent simplicia illius. Haec ergo forma non est qualitates primae quas habet materia neque est complexio quae generatur ex eis; sed est perfectio quam acquisivit materia secundum aptitudinem quae fuit ei acquisita ex complexione sicut in magnete virtus attractiva et sicut natura cuiuscumque speciei vegetabilium et animalium, scilicet illa quam habent post complexionem propter complexionis preparationem et neque est de simplicibus complexionis neque ipsamet complexio quia non est caliditas neque frigiditas neque siccitas neque humiditas, neque simplices neque commixtae, sed est verbi gratia color aut odor aut anima aut alia forma de non perceptis sensu (…). Tota autem operatio haec non provenit ex eius complexione, immo ex eius forma specifica adevenientem post complexionem. Unde propter hoc vocamus huiusmodi operationem a tota substantia scilicet forma specifica et non qualitate scilicet non aliqua quatuor qualitatum neque eo quod est earum commixtio 46.

La prima cosa che qui vale la pena osservare è l’introduzione e al contempo la trasformazione della nozione di matrice galenica di tota substantia (ὅλη οὐσία) 47, che Avicenna – e del tutto coerentemente dal punto di vista della sua ontologia aristotelica – riconduce a  quella di forma specifica o  sostanziale. Operando questa sovrapposizione, tuttavia, Avicenna rompe l’equivalenza che in 46  Avicenna (Ibn Sīnā), Liber Canonis, I, fen. 2, doctrina II, summa 1, cap. 15, Venetiis 1507 (ripr. an. Hildesheim 1964), 33v. 47 Sulla nozione di ‘intera sostanza’, cfr.  Claudius Galenus Pergamenus, De propriis placitis, 9, edd. V.  Boudon-Millot - A.  Pietrobelli, in «Revue d’études grecques», 118 (2005), [pp. 168-213], p. 181, 5-25 (cfr. ed. V. Nutton, Berlin 1999 [Corpus Medicorum Graecorum, V, 3.2], pp. 84-89; trad. it., Roma 2013, p. 205), che rinvia a Id., De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, V, 1, ed. C. G. Kuhn, Leipzig 1826 (Opera omnia, 11), pp. 705-706 e 18, p. 761 (cfr. anche Weill-Parot, Points aveugles de la nature cit., pp. 4143). Si veda inoltre G. Harig, Bestimmung der Intensität im medizinischen System Galens. Ein Beitrag zur theoretischen Pharmakologie, Nosologie und Therapie in der Galenischen Medizin, Berlin 1974, pp. 108-110.

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Galeno sussiste tra οὐσία e  κρᾶσις 48, insistendo sul fatto che la natura e la sostanza non sono equivalenti alla complessione, ma alla forma che si aggiunge alla complessione. Posta così, questa parrebbe una prospettiva aristotelicamente ortodossa e riconducibile grosso modo all’interpretazione di Alessandro di Afrodisia. È Alessandro infatti che in polemica con certo materialismo fa di una forma sostanziale come l’anima la potenza che sopraggiunge alla mescolanza (ἡ ἐπὶ τῇ τοιᾷδε κράσει δύναμις γεννωμένη) 49 – tesi per altro respinta dallo stesso Galeno. Ma mentre per Alessandro il sopraggiungere della forma esprime la sua emergenza corporea nel classico vocabolario aristotelico della ‘sopravvenienza’ (ἐπιγίγνεσθαι) 50, in Avicenna questo va inteso come un autentico fenomeno avventizio di induzione, secondo una prospettiva meno aristotelica che platonica in cui ‘dall’alto’ la forma integra con le sue specifiche virtù le possibilità elementari della materia. La nozione di tota substantia si costituisce allora come un rimedio esplicativo di matrice metafisica e causale. Di fronte a un fenomeno empirico come l’attrazione magnetica di cui si ignora la spiegazione, perché irriducibile a qualsiasi evidenza fisica o elementare, la nozione di tota substantia o di forma specifica postula l’esistenza di un principio in grado di darne ragione e istituisce, 48  Cfr.  Claudius Galenus Pergamenus, De temperamentis, III, ed. G. Helmreich, Leipzig 1904, pp. 91, 6-8 e 104, 1-3 (trad. it., Roma 1997, pp. 123124 e 131). Galeno identifica la nozione di ‘intera sostanza’ anche con il composto di materia e forma, ma dove di nuovo la forma equivale alla complessione e il composto alla materia complessionata: cfr. Id., De constitutione artis medicae ad Patrophilum, 10, 6-7, ed. S. Fortuna, Berlin 1997 (Corpus Medicorum Graecorum, V, 1-3), p. 86, 12-14, e Id., Q uod animi mores corporis temperamenta sequuntur, 3, ed. I. Müller, Leipzig 1891, pp. 36-37 (trad. it., Torino 1978, pp. 972-973). 49 Si veda Alexander Aphrodisiensis, De anima, ed. Bruns cit., pp. 24, 21-23; 25, 2-3 e 7-8, e 26, 26-27 (trad. it. cit., pp. 25-27), da mettere in relazione con la testimonianza di Galeno (riferita però ad Andronico): «Q uanto ad Andronico il peripatetico (…), nella sua affermazione che l’anima è o temperamento o facoltà derivante dal temperamento (δύναμιν ἑπομένην τῇ κράσει), biasimo l’aggiunta della parola facoltà» (Claudius Galenus Pergamenus, Q uod animi mores corporis temperamenta sequuntur, 4, ed. Müller cit., p. 44, 12-20 [trad. it. cit., p. 977]). 50 Cfr.  P. Accattino, Generazione dell’anima in Alessandro di Afrodisia, De anima 2.10-11.13?, in «Phronesis», 40 (1995), [pp. 182-201], pp. 198-199, ma anche V. Caston, Commentary, in Alexander of  Aphrodisias, On the Soul. Part I, ed. by V. Caston, London - New Delhi - New York - Sydney 2012 (The ancient Commentators on Aristotle, 94), [pp. 71-168], p. 114.

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come ha efficacemente scritto Nicolas Weill-Parot, «l’inconnu en occulte» 51. Un occulto, aggiungo, che trasposto e inglobato in uno schema metafisico di unità gerarchica di provenienza e assimilazione fonda, nel punto di intersezione tra un’ontologia ilemorfica e una metafisica del flusso, un’idea di forma come misteriosa entità metafisica e causale. Ciò che infatti davvero importa di questa testimonianza è  il suo carattere sistematico di spiegazione generale della natura e la coerenza esplicativa con la quale si inserisce nella stessa prospettiva metafisica di Avicenna 52. È bene allora sapere che nel meccanismo avicenniano della preparazione e del flusso a cui si allude in questo testo, due principi concorrono alla spiegazione del mondo sublunare: un principio dispositivo (praeparans), che prepara la materia e  che Avicenna riconduce all’azione dei cieli, e una causa che porta a compimento (perficiens), che Avicenna identifica con l’intelligenza che dona la forma 53. In base a questa prospettiva ogni forma specifica, virtualmente corredata delle sue virtù operative, è infusa dal datore secondo il diritto – il ‘merito’ diranno i  latini – che la materia ha di riceverla e di cui è misura la sua preparazione (equivalente alla complessione). Avicenna stabilisce una corrispondenza tra la qualità della preparazione – che, in base al principio per cui ogni agente produce qualcosa di simile a sé, è determinata dal grado di assimilazione all’ottima complessione dei cieli – e la nobiltà della forma – che in base al medesimo principio è invece determinata dal grado di imitazione dell’intelligenza celeste. In  breve (e con allusione a quella qualità della materia seminale con cui Avicenna recepisce e  reinterpreta l’autorità aristotelica del De generatione animalium), quanto più la preparazione della materia si assimila al  temperamento celeste, tanto più nobile (nobilior) e  perfetta 51  Cfr. N. Weill-Parot, Encadrement ou dévoilement. L’occulte et le secret dans la nature chez Albert le Grand et Roger Bacon, in «Micrologus», 14 (2006) [pp. 151-170], p. 154 (ma adesso Id., Points aveugles de la nature cit., pp. 28-37). 52 Cfr. ancora ibid., p. 86 (ma anche J. Chandelier - A. Robert, Nature humaine et complexion du corps chez les médecins italiens de la fin du Moyen Âge, in «Revue de synthèse», 134 [2013], [pp. 473-510], pp. 486-487). 53 Cfr.  Avicenna (Ibn Sīnā), De causis et principiis naturalium, I,  10, ed. S. Van Riet, Louvain - Leiden 1992, p. 87, 27-35, con lo studio fondamentale di O. Lizzini, Fluxus (fayd ̣). Indagine sui fondamenti della metafisica e della fisica di Avicenna, Bari 2011 (Biblioteca filosofica di «Q uaestio», 14), pp. 335-451.

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(perfeccior) si rivela la forma che le compete, fino al  caso limite della materia umana che, dotata della complessione più conforme a quella dei cieli, ‘merita’ l’infusione di una forma del tutto simile (simillima) alla natura intellettuale dei loro motori 54.

3. «Ex immaterialitate essentiae sequitur immaterialitas potentiae». L’anima come forma spirituale e trascendente Il gradualismo di Tommaso si iscrive in questo orizzonte teorico compreso tra lo schema riproduttivo di Aristotele – del pensiero del quale la filosofia di Tommaso si propone sempre come un’interpretazione autentica – e  la sua radicale riscrittura metafisica avicenniana 55. Certo, secondo Tommaso le forme materiali, non essendo sussistenti, non possono essere prodotte per sé – per cui il modello platonizzante dell’inductio formarum va come tale senz’altro respinto. Esse sono tratte dalla potenza della materia attraverso la generazione del sinolo. E poiché il generante è sempre simile al generato, è necessario che ciò avvenga mediante un agente e  una virtù di natura fisica e  corporea. Q uesto però non esclude il contributo delle cause superiori. Tommaso, che su questo fonda l’analogia col magnete, condivide come abbiamo visto il 54 Il testo chiave è costituito da Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de anima seu sextus de naturalibus, V, 7, ed. Van Riet cit. (alla nota 15), II, p. 172, 98-09, ma va integrato con l’‘esposizione’ di Algazel (Al-Ghazālī), Metaphysica, II, 4, ed. J.  T. Muckle, Toronto 1933, pp.  162,  12  -  163,  24; 172, 2-9 e  182, 15-22, che chiarisce come l’orizzonte teorico sia effettivamente qui quello di Aristoteles, De generatione animalium, II 3,  736b3 1-33 (cfr.  Id., De animalibus, XVI 3, ed. A. M. I. van Oppenraaij, 2 voll., Leiden - New York 1992-1998, II, 1998 [Aristoteles Semitico-latinus, 5], p.  74), dove si dice che le anime differiscono specificamente tra loro «in nobilitate (τιμιότητι) et ignobilitate (ἀτιμίᾳ)» così come differisce la natura del pneuma contenuta nel seme. Avicenna in effetti sembra sviluppare l’ana­logia aristotelica tra la natura del pneuma e  l’elemento astrale (cfr. Avicenna [Ibn Sīnā], De natura animalium, XVI, 1, in Id., Opera, Venetiis 1508, f.  61rb), prolungando un’interpretazione ‘medica’ e  tardoantica di Aristotele, nella quale il pneuma (spiritus) si rivela il ‘mezzo’ dell’anima, ciò che ne veicola le funzioni e le facoltà. A misurare allora il grado di vita infuso dal ‘datore’, prima ancora degli organi e dei tessuti, sarà la qualità dello ‘spirito’, vera infrastruttura materiale del vivente (cfr. Id., De medicinis cordialibus. Fragmentum, in Id., Liber de anima seu sextus de naturalibus, ed. Van Riet cit., II, Appendix, [pp. 187-210], p. 190, 31-44 e ibid., V, 8, pp. 175, 49-51; 175, 58 - 176, 75, e 177, 91-96). 55 Emblematico in questo senso Thomas de Aq uino, De operationibus occultis, ed. cit., p. 185, 202-245.

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bisogno tipico dell’aristotelismo tardoantico e medievale di non ridurre le forme a proprietà funzionali della materia. E per soddisfare questa esigenza rimpiazza la figura del dator formarum con l’appello alla virtù del cielo e dei loro motori 56. Tommaso interpreta la funzione dei cieli iscrivendola nello schema metafisico del De causis, dove nella serie ordinata dei principi causali l’inferiore agisce sempre in funzione del superiore e tutta la serie si costituisce come organo dell’azione divina, secondo un modello di causalità al contempo assimilativo e strumentale 57. L’appello alla virtù del cielo consente allora di interiorizzare nel principio seminale di ogni nascita, minerale, vegetale o animale, e dunque nel quadro fisicamente determinato della teoria aristotelica della generazione naturale, un modello metafisico universale, in grado di ricondurre a una crescente e ordinata partecipazione causale la specificità di ogni natura formale e del suo progressivo incremento di essere e  di virtù 58. Ciò che infatti i  cieli veicolano insieme alle virtù delle stelle, differenziando e potenziando l’attualità dei loro specifici effetti, sono le virtù dei loro motori, forze a cui compete – spiega Tommaso – la funzione architettonica e causale di guidare e sostanziare, attraverso un fenomeno di assimilazione, lo sviluppo delle specie naturali, determinandone tutte quelle proprietà occulte che, nel lessico avicenniano dell’ari­ stotelismo medievale, sono dette conseguire alla forma o  alla natura specifica 59. Proprietà, quindi, il cui potere è  in funzione  Cfr. Id., Summa theologiae, I, q. 110, a. 2, resp., ed. cit., p. 512.  Cfr. Id., Super Librum de causis expositio, prop. I, ed. H. D. Saffrey, Fribourg Louvain 1954 (Textus philosophici Friburgenses, 4-5), pp. 9, 29 - 10, 3. 58   Vale qui un’interpretazione del ruolo causale dei cieli sul modello biologico del seme e delle sue virtù congregate (cfr. Aristoteles, De generatione animalium, II 3, 736b 33-737a 1), per il quale cfr. Albertus Magnus, Liber mineralium, I, 1, 9, ed. A. Borgnet, Paris 1890 (Opera Omnia, V), p. 11. 59 Cfr. Thomas de Aq uino, Summa theologiae, I, q. 65, a. 4, ad 1 e q. 110, a. 2, ad 2, ed. cit., p. 153, p. 512. Secondo Tommaso la causalità dei cieli si estende su tutte le specie (con parziale eccezione dell’uomo nella sua parte razionale). I cieli sono la causa delle forme naturali (e della loro conservazione), per cui è innanzitutto attraverso i cieli che le nature dei corpi sono quello che sono. Q uesta tesi, costantemente ribadita (per cui rimando al dossier raccolto da Litt, Les Corps célestes cit., pp. 166-173), costituisce l’essenziale del processo di astrologizzazione del modello avicenniano dell’inductio formarum e giustifica l’affermazione secondo cui le forme procedono dalle sostanze separate come da principi primi (cfr. Thomas de Aq uino, De operationibus occultis, ed. cit., pp. 184, 134 - 185, 169), oltre 56 57

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della trascendenza della causa da cui dipende la forma. In breve, assimilandosi alla graduale perfezione delle cause superiori (dei cieli e dei loro motori) e con ciò incrementando la propria entità, le forme emergono progressivamente dalla potenza della materia con effetti viepiù numerosi e trascendenti. Nella gerarchia che ne deriva ogni specie esprime un grado di attualità costituito da proprietà ontologiche e formali che ne determinano la nobiltà e ne qualificano la capacità: le forme dei minerali per influenza della virtù dei corpi celesti; le anime dei viventi, invece, per influenza non solo dei corpi celesti ma anche dei loro motori, a cui si assimilano ora nella capacità di movimento e di conoscenza sensibile (le anime sensitive), ora nella capacità di conoscenza intellettuale (le anime razionali) 60. Ciascuna forma gode quindi, in base alla superiorità della causa e al grado della sua partecipazione, di un arricchimento ontologico che è fondamento e misura della sua specifica sporgenza funzionale. Un processo che culmina e si particolarizza nella nobiltà dell’anima umana, che tra le forme naturali si costituisce come la più simile – simillima ripete Tommaso con Avicenna 61 – alle sostanze separate, capace come queste di sussistenza e conoscenza intellettuale e perciò come queste creata e infusa direttamente da Dio 62. Il che indica una volta di più come sia con assoluta consaa  spiegare perché le sostanze separate siano cause dell’essere (cfr.  Id., In  Meta­ physicam Aristotelis commentaria, proemium, ed. M.-R.  Cathala, Torino 1935, p. 2, su cui G. T. Doolan, Aquinas on separate Substances and the Subject Matter of  Metaphysics, in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 22 [2011], pp. 347-382). 60  Cfr. in partic. Thomas de Aq uino, Summa contra Gentiles, II, 68, ed. cit. (alla nota 7), p. 441ab, 19-24; Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 1, resp., ed. Bazán cit. (alla nota 12), pp. 9, 292 - 10, 341 e Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 2, resp., ed. Cos cit. (alla nota 14), pp. 28, 273 - 30, 318. 61  Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, d. 17, q. 3, a. 1, ad 1, ed. Mandonnet cit., II, p. 436, con riferimento ad Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de anima seu sextus de naturalibus, V, 7, ed. Van Riet cit., II, p. 172, 5-7 e Algazel (AlGhazālī), Metaphysica, II, 5, ed. Muckle cit., p. 193, 21-23. 62   Nessuna forza fisica può infatti generare un’entità metafisica e incorporea. Cfr. Thomas de Aq uino, De operationibus occultis, ed. cit., p. 185, 239-245 (ma anche Id., Summa theologiae, I, q. 118, a. 2, ed. cit., pp. 566-567). Si tratta di una prospettiva che Tommaso ha buon gioco a ricondurre, come tutta la tradizione, a Aristoteles, De generatione animalium, II 3, 736b 27-29 (cfr. però E. Berti, L’origine dell’anima intellettiva secondo Aristotele, in Anthropine Sophia. Studi di filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni, a cura di F. Alesse et alii, Napoli 2008 [Elenchos, 50], pp. 295-328).

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pevolezza e coerenza teorica che Tommaso possa ritenere l’anima umana congenere alla natura dei motori celesti (pares natura generis), collocandola all’ultimo grado (infimum gradum) della loro serie 63. La teoria dell’occulto naturale, integrata in una forma emendata di metafisica avicenniana, si costituisce allora come un dispositivo generale, capace di illuminare nella sua integralità l’ontologia della forma e di restituirne l’unità analogica fondata sul­ l’azione gerarchica dei principi causali: i cieli, i loro motori e in ultima istanza Dio. Tra la superiorità della causa, la nobiltà della forma e l’eccedenza della sua virtù resta una costante proporzione che Tommaso riproduce fino al caso limite dell’anima razionale, forma ultima dotata di una facoltà compiutamente immateriale 64. Ma un’immaterialità – questo il punto che mi premeva mostrare – che, conformemente a un ordine di derivazione causale, trova un fondamento nell’immaterialità della forma: essentia animae excedit corporis proportionem  (…): unde non sequitur quod potentia est immaterialior quam essentia; set ex immaterialitate essentie sequitur immaterialitas po­ tentie 65. 63  Cfr. Thomas de Aq uino, De ente et essentia, IV, ed. cit. (alla nota 12), p. 377, 178-179; Id., Scriptum supra libros Sententiarum, II, d. 17, q. 1, a. 1, resp., ed. Mandonnet cit., II, p. 413; III, d. 31, a. 2, a. 4, ed. Moos cit. (alla nota 15), resp., p. 996; Id., Summa contra Gentiles, II, 68, ed. cit., p. 440b, 30-31; 91, p. 552a, 48-49 e 98, p. 581b, 1-2; III, 61, p. 169b, 2; Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 7, resp., ed. Bazán cit., p. 60, 308-311; q. 8, resp., p. 66, 185-187 e ad 1, p. 69, 316-318; q. 15, resp., p. 136, 368-369; q. 17, resp., p. 150, 132-136 e q. 18, resp., pp. 157, 313 - 158, 314; Id., Summa theologiae, I, q. 75, a. 7, ad 3, ed. cit., p. 207 e q. 76, a. 5, resp., p. 228; Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, q. 2, resp., ed. Cos cit., p. 30, 314-316 e ad 11, p. 32, 425-427, e Id., Compendium theo­ logiae, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1979 (Opera omnia, XLII), I, 79, p. 107, 52-54 e I, 80, p. 107, 18-20. 64 Cfr. Id., De unitate intellectus, 1, ed. cit. (alla nota 23), p. 296, 482, cit. supra, alla nota 39, e, analogamente, Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 1, ad 1, ed. cit., p. 210, su cui M. Lenzi, Entre Averroès et l’Aristote latin. Thomas d’Aquin interprète de «Physique», II, 2, 194b9-15, in La philosophie arabe à l’étude. Sens, limites et défis d’une discipline moderne (Studying Arabic Philosophy. Meanings, Limits and Challenges of  a  modern Discipline), éd par J.-B.  Brenet - O.  Lizzini, Paris 2019, pp. 445-471. 65  Thomas de Aq uino, Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 11, ad 12, ed. Cos cit., pp. 122, 404 - 123, 410. Cfr. parimenti Correctorium corruptorii «Q uare», ed. P. Glorieux, Kain 1927 (Bibliothèque Thomiste, 9), a. 31, ad 5, p.  137: «Ad quintum dicendum quod non est inconveniens quod anima in

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La possibilità che l’anima sia forma del corpo senza che la sua facoltà intellettuale sia una facoltà del corpo va dunque ricondotta alla peculiare immaterialità della sua natura. Una prerogativa dovuta alla specificità del suo grado ontologico che la rende al contempo conforme alle creature spirituali, situandola al  confine delle forme materiali e delle sostanze separate, simultaneamente partecipe di proprietà che competono all’uno e all’altro genere 66. Q uesta liminarità non è d’altra parte semplice concessione a un topos filosofico e  teologico 67, ma elemento di struttura. L’ambiguità con la quale Tommaso definisce l’anima razionale testimonia lo sforzo di definire un’entità letteralmente e intrinsecamente sui generis. Del resto, e per ragioni teoriche profonde, Tommaso non pensa che questa ambivalenza si fondi su un’effettiva articolazione della sua natura, quasi che altra sia l’essenza dell’anima dal suo essere forma 68. Piuttosto e  fin dall’inizio della sua riflessione si sforza di dare corpo a una precisa e coerente intuizione, quantum est forma corporis dicatur forma corporea sive corporalis; quia tamen minime est immersa materiae, et in tantum nobilitate naturae sublimata quod habet potentias et actus penitus immateriales et spirituales, inde est spiritus et forma spiritualis». 66 Cfr. Thomas de Aq uino, Scriptum supra libros Sententiarum, prol., ed. Mandonnet cit., I, p. 2; Id., Summa contra Gentiles, II, 68, ed. cit., pp. 440b, 32 441a, 4 e III, 61, p. 169a, 13-14; Id., Summa theologiae, I, q. 77, a. 2, resp., ed. cit., p.  240 e  Id., De unitate intellectus, I, ed. cit., p.  297, 521-522, con lo studio di G.  Verbeke, Man as a  «Frontier» according to Aquinas, in Aquinas and Problems of  his Time, edd. by G. Verbeke - D. Verhelst, Leuven - The Hague 1979 (Mediaevalia Lovaniensia. Studia, 5), pp. 195-223. Per questo, conformemente al lessico della psicologia peripatetica medievale, l’anima umana è detta al contempo anima et spiritus, forma et substantia o  forma et hoc aliquid (cfr.  Thomas de Aq uino, Scriptum supra libros Sententiarum, II, d. 19, q. 1, a. 1, ad 4, ed. Mandonnet cit., II, pp. 483-484; Id., Summa contra Gentiles, II, 68, ed. cit., p. 441a, 2-4; Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 1, resp., ed. Bazán cit., p. 9, 286-290; Id., Summa theologiae, I, q. 97, a. 3, resp., ed. cit., p. 443 e Id., Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 2, resp., ed. Cos cit., p. 29, 306-310 e ad 4, p. 30, 346-349). 67 Cfr.  Nemesius Emesenus, De natura hominis, I, PG 40, [483-847], 512BC, ed. G.  Verbeke, Louvain 1975 (Corpus Latinum commentariorum in Aristotelem Graecorum, 1), p.  9, 10-13; Liber de causis, II, ed. Pattin cit. (alla nota 22), p. 50, 81-82 e Isaac Israeli, Liber de definicionibus, ed. J. T. Muckle, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 12-13 (19371938), [pp. 299-344], p. 313, 25-27 (secondo un classico sviluppo di Plotinus, Enneades, IV 8 [6], 7, 5-7). 68 Cfr. Thomas de Aq uino, Scriptum supra libros Sententiarum, II, d. 19, q. 1, a. 1, ad 4, ed. Mandonnet cit., II, p. 484.

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MASSIMILIANO LENZI

secondo la quale l’anima umana è  uno ‘spirito’ il cui grado di (im)perfezione – ma vorrei dire adesso, con più precisione, di potenzialità – le impone una destinazione fisica, che la porta a condividere e partecipare con il corpo il proprio essere, fino a comandarne la resurrezione 69. Per questo la sua essenza è di essere forma di un corpo e quindi parte e  principio di un’essenza ulteriore. E il fatto di essere una forma e di non possedere completezza nel suo genere se non col concorso del corpo non si aggiunge in maniera estrinseca alla sua ‘spiritualità’ ma ne esprime esattamente la misura e il grado, che è quello di una spiritualità ‘debole’ o se si preferisce ‘possibile’, che per realizzarsi non può prescindere da un corpo a  cui ‘appartenere’ e in cui maturare una conoscenza non innata della verità 70. Una prospettiva, aggiungo e concludo, la cui genialità risiede ancora una volta nella capacità di sollecitare e  mettere a  frutto precise indicazioni di Aristotele, costituendosi come un saggio di interpretazione della sua filosofia 71. La  debolezza spirituale dell’anima umana, ovvero il grado massimo di potenzialità che la caratterizza nella serie delle sostanze intellettuali e che la colloca al livello più basso, trova infatti la sua legittimazione nella nozione aristotelica di intelletto possibile o potenziale. È la tabula rasa di cui parla il De anima ciò che agli occhi di Tommaso restituisce la differenza tra le nature – pure congeneri – dell’anima razionale e della sostanza angelica, esprimendo il bisogno naturale che l’anima ha di unirsi al corpo per realizzare, attraverso i sensi, la propria spiritualità. La nozione di intelletto possibile costituisce in breve il punto di equilibrio esegetico e teorico di quell’impensata natura dell’anima forma per 69  Cfr. Id., Summa contra Gentiles, IV, 79, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1930 (Opera omnia, XV), p. 249a, 3-12 e Id., Super primam Epistolam ad Corinthios lectura, 15, lect. 2, § 924, ed. R. Cai, Torino - Roma 19538, p. 411. 70 Cfr. Id., Summa theologiae, I, q. 76, a. 5, resp., ed. cit., p. 228, con lo studio di G. Galluzzo, Il problema dell’oggetto della definizione nel Commento di Tommaso d’Aquino a «Metafisica» 10-11, in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 12 (2001), [pp. 417-465], pp. 462-463, nota 95. 71 Sebbene Tommaso prolunghi qui una tesi riconducibile già ad Avicenna, per il quale è l’attaccamento corporeo ciò che rende possibile attraverso un percorso di esperienze conoscitive lo sviluppo e il perfezionamento dell’anima nella sua stessa spiritualità (cfr. Sebti, Avicenne cit. [alla nota 15], pp. 9-10; 25 e 123124 e almeno Thomas de Aq uino, Summa theologiae, I, q. 89, a. 1, resp., ed. cit., pp. 370-371).

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sé sussistente, la cui rappresentazione, pur debitrice ad Aristotele, presuppone una profonda e creativa riscrittura della sua filosofia, nel tentativo di far coesistere in una stessa nozione dipendenza essenziale e indipendenza esistenziale 72.

72 Cfr. Aristoteles, De anima, III 4, 429b 31 - 430a 2, su cui almeno Thomas de Aq uino, De ente et essentia, IV, ed. cit., p. 377, 178-192 e Id., Q uaestiones disputatae de anima, q. 8, resp., ed. Bazán cit., pp. 66, 187 - 67, 198, secondo una prospettiva che mi sembra mettere ulteriormente a profitto un’intuizione di Averroè (Averroes Cordubensis, Commentarium magnum in Aristotelis De anima libros, III,  19, ed. Crawford cit. [alla nota 28], p.  442, 63-65). Sul fatto d’altra parte che anche Averroè sia alla ricerca di una analoga nozione di frontiera, che tenga insieme ‘trascendenza’ e ‘immanenza’, si veda J.-B. Brenet, Les Possibilités de jonction. Averroès - Thomas Wylton, Berlin - Boston 2013 (Scientia graeco-arabica, 10), p. 179. Naturalmente la sua soluzione è radicalmente diversa. Ed è esattamente sulla base dei principi che la comandano, che Sigieri può criticare Tommaso (cfr. supra, nota 33), elaborando la celeberrima dottrina dell’operans intrinsecum, formidabile rilettura della nozione averroista di ‘perfezione separata’ (cfr. Id., Siger de Brabant et la notion d’operans intrinsecum: un coup de maître?, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 97 [2013], pp. 3-36). Resta tuttavia il fatto che, pur diverse e  conflittuali fra loro, queste esperienze teoriche si iscrivono tutte nel comune e condiviso orizzonte epistemico dell’aristotelismo tardoantico e medievale (cfr. L. Bianchi - E. Randi, Le verità dissonanti. Aristotele alla fine del Medioevo, Roma - Bari 1990 [Biblioteca di Cultura moderna, 991], p. 14, che adatto qui alla mia prospettiva).

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«ILLA TRINITAS DIONYSII» (SOSTANZA, VIRTÙ E OPERAZIONE) IN BONAVENTURA

1. La terminologia (essentia/substantia – virtus/potentia – operatio/actio) e le sue occorrenze Bonaventura utilizza più volte la congiunzione dei tre termini substantia, virtus e operatio (o loro sinonimi), citandola una volta come «illa trinitas Dionysii» 1, come se fosse comunemente nota ai suoi lettori del tempo; non sembra però altrettanto riconoscibile per i  suoi moderni lettori e  interpreti 2. Proveremo quindi a studiarla con un criterio lessicografico, ermeneutico e sistematico, con l’ausilio delle concordanze elettroniche della Library of  Latin Texts 3. 1 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, Liber I Sententiarum, I, d. 3, p. 1, ad db. 3, cura et studio pp. Collegii  S. Bonaventurae, Q uaracchi 1934 (Opera theologica selecta, 1), p. 79: «In quantum agit actione naturali (…) sumitur illa trinitas Dionysii, substantia, virtus et operatio». 2 Né il Dizionario bonaventuriano del 2008, né il Lexique Saint Bonaventure del 1969 considerano la triade dionisiana; lo fa invece (limitandosi però a menzionarla) l’insuperato Lexicon Bonaventurianum, opera et studio Antonii Mariae a Vicetia et Joannis a Rubino, Venezia 1880, p. 226. Per il resto, è stata studiata la dottrina bonaventuriana della sostanza in quanto tale (cfr. V. Ch. Bigi, Il termine e il concetto di sostanza in San Bonaventura, in «Studi Francescani», 56 (1959), pp. 16-36; ripubblicato in Id., Studi sul pensiero di Bonaventura, Assisi 1988), ma non la triade. 3 Tutti i testi latini sono desunti dalla banca dati elettronica della Library of  Latin Texts, Leuven - Turnhout 2021. In particolare, le opere di Bonaventura ivi censite (quasi tutte) sono tratte da Id., Opera omnia, cura et studio pp. Collegii S. Bonaventurae, 10 voll., Q uaracchi 1882-1902 (abbreviata come OO), ad eccezione dei testi specificati. Se ne tengano presenti le seguenti abbreviazioni, in ordine alfabetico (salvo dove diversamente indicato, sono tutte incluse negli Opera omnia citati alla nota precedente, di cui si riportano volume e pagine di volta in volta La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127966 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 443-472     © 

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La triade non era in realtà proprio ‘di Dionigi’: formulata nella proposizione 169 della Elementatio theologica di Proclo per parlare degli ‘intelletti’ eterni, la triade di οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια venne adottata e  adattata cristianamente dallo pseudo-Dionigi per parlare invece degli angeli; da lì fu nota alla cristianità latina solo attraverso le traduzioni e tradizioni dionisiane, e altre interferenze, finendo per diventare una ‘chiave universale’ per problemi teologici, finché, nel 1268 Guglielmo di Moerbeke (traducendo in latino la suddetta opera di Proclo) ne rimise in luce l’origine filosofica. Si tenga presente che in questa triade i termini si riferiscono non a molte cose numericamente diverse, ma a tre livelli ontologici di ogni singola realtà. A volte substantia è sostituita da essentia, virtus da potentia, operatio da actio o actus. Che nell’uso del tempo la terminologia fosse intercambiabile appare evidente confrontando lo stesso passaggio orale delle Collationes in Hexaëmeron nelle due reportationes scritte pervenuteci 4. Meno evidente l’equivalenza di operatio e actus 5. interessate): Brev (Breviloquium, V, pp. 201-291), Don (Collationes de septem donis Spiritus sancti, V, pp. 457-503), Hex (Collationes in Hexaëmeron, V, pp. 329449), HexD (In Hexaëmeron, altra reportatio edita in Sancti Bonaventurae Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, ed. F.  Delorme, Q uaracchi 1934 [Bibliotheca Franciscana scholastica Medii Aevi, 8]), InEccle (In Ecclesiasten, VI, pp. 3-99), InIo (Commentarius in Evangelium sancti Ioannis, VI, pp.  237-634), Itin (Itinerarium mentis in Deum, V, pp.  295-313), MyTrin (Q uaestiones disputatae de Mysterio Trinitatis, V, pp. 45-115), Parab (De Regno Dei descripto in parabolis evangelicis, V, pp. 539-553), PerfEv (Q uaestiones disputatae de perfectione evangelica, V, pp. 117-198), Red (De reductione artium ad theo­logiam, V, pp. 317-325), ScienChr (Q uaestiones disputatae de scientia Christi, V, pp. 3-43), Sent (In Sententiarum libros, I-IV); SermDi (Sermones de diversis, in Id., Sermones de diversis, ed. J.-G. Bougerol, 2 voll., Paris 1993); SermDo (Sermones Dominicales, in Id., Sermones dominicales, ad fidem codicum nunc denuo editi studio et cura I.  G. Bougerol, Grottaferrata 1977 [Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, XXVII]). Negli opuscoli bonaventuriani riportati elettronicamente manca la punteggiatura intermedia, che è  stata rimessa secondo l’edizione a  stampa. Tutti i  corsivi sono redazionali e  indicano i  lemmi studiati. Ringrazio Matteo Valdarchi per l’aiuto a completare la ricerca e ad approntare il manoscritto. 4   Laddove la reportatio detta «di Q uaracchi» distingue l’intellezione del Sole intelligibile «secundum substantiam, potentiam et operationem» (Hex, 23, 6, p. 446), quella edita da Delorme la distingue «secundum eius substantiam, secundum eius virtutem, secundum eius operationem» (HexD, v. 4, c. 4, n. 6, p. 266). 5  Cfr. Sent, I, d. 3, p. 2, a. 2, q. 1 co, I, p. 90: «Nihil unum in anima cognoscit et diligit nisi substantia: ergo si mens staret pro una potentia, non haberet illos duos actus, scilicet nosse et amare».

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Nelle opere bonaventuriane finora censite elettronicamente, la co-occorrenza dei lemmi substantia (o essentia), virtus (o potentia) e operatio (prescindendo però da actio o actus) si trova in 49 contesti (a volte nel medesimo contesto lo stesso lemma può apparire più volte): per farci un’idea approssimativa di frequenza, si può calcolare il rapporto tra numero di contesti in cui ricorre la terna e il numero complessivo di parole (forme) contenute nell’opera 6. Colpisce che nel corso della sua produzione Bonaventura abbia utilizzato la triade dionisiana con una frequenza via via crescente: nelle Collationes in Hexaëmeron del 1273 è  decuplicata rispetto al Commento alle Sentenze e, soprattutto, utilizzata non più solo in contesti teologici, ma anche filosofici, forse anche in conseguenza alla scoperta (nel 1268) dell’origine filosofica ‘platonica’ della triade, grazie alla suddetta traduzione di Guglielmo di Moerbeke (peraltro mai menzionata da Bonaventura). Occorre premettere che la triade dionisiana è  solo una delle tante strutture concettuali bonaventuriane che chiamiamo ennari: insiemi ordinati di n termini (da tre a dodici lemmi o sintagmi) che costituiscono una vera e  propria struttura letteraria e  concettuale, con la funzione di dare compattezza a un elenco di cose o concetti 7. Propri della tradizione sapienziale ebraica e in generale delle culture orali, gli ennari hanno trovato grande fortuna nella predicazione e  catechesi cristiana tardoantica e  medievale. Bonaventura fece un uso massiccio di tali tali strutture, soprattutto nelle Collationes, per fornire all’uditorio una traccia facilmente memorizzabile della complessa articolazione del discorso orale, cosicché i singoli elementi vengano definiti in base alle loro 6  Le co-occorrenze della triade nel medesimo periodo sintattico risultano così distribuite: 20 nel Commento alle Sentenze (0,001%); 1 nelle questioni de Scientia Christi; 1 nelle questioni de Mysterio Trinitatis; 1 nel Commento all’Ecclesiaste; 4 in Breviloquium (0,0078%); 2 in Itinerarium (0,02%); 4 nei Sermoni; 7 nelle Collationes in Hexaëmeron edite inizialmente (0,012%); 10 nelle Collationes in Hexaëmeron edite da Delorme (0,014%). La frequenza più alta nell’Itinerarium è poco significativa, data la brevità dell’opera. Le frequenze troppo basse non sono registrate. Al  computo delle co-occorrenze ne vanno aggiunte due nell’Itinerarium (che non rientrano però precisamente nella triade dionisiana) e  due nelle Collationes (nella triade analoga di esse, sic esse, bene esse). 7 Cfr. A. Di Maio, La concezione bonaventuriana della natura quale potenziale oggetto di comunicazione, in «Miscellanea francescana», 90 (1990), [pp. 61116], pp. 108-110.

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reciproche opposizioni. Particolarmente rilevante è  il ternario, peraltro comune alla cultura letteraria e filosofica 8. Vige una sorta di isomorfismo tra ternari nell’opera bonaventuriana, attraverso una costante opera di reductio di quasi ogni pluralità a un ternario, e di ogni ternario alla trinitas o delle persone in Dio o delle nature (divina, spirituale, corporea) in Cristo: tutto si riconduce alla struttura originaria e originante della crux intelligibilis, raffigurabile in forma di tau francescano 9. Chiameremo ‘triade orizzontale’ ogni ternario i cui elementi siano in un rapporto di reciproca circumincessione, per questo riconducibile alla trinità delle persone in Dio; e  ‘triade verticale’ ogni ternario i  cui elementi si trovino in un rapporto espansivo e  manifestativo, per questo riconducibile alla trinità delle nature in Cristo, o (in senso lato) all’economia divina ad extra. Ma la trinitas Dionysii è una triade orizzontale (di elementi in circumincessione) o verticale (di elementi in progressione)? Come vedremo, essa può assumerne entrambi i valori, quasi a costituire un’articolazione a cerchi concentrici: più che una struttura ontologica e concettuale definita e stabile, la triade dionisiana è come una chiave passe-partout utile a interpretare ogni dinamismo epifanico che da un nucleo centrale, originario e  nascosto di realtà (essere), mediante le sue naturali capacità (poter-agire), si espande nell’attività (agire). In questa interpretazione, la circolarità neoplatonica è funzionale a un’epifania in senso genuinamente cristiano. Rispetto infatti alla riconduzione neoplatonica (inevitabilmente riduzionistica) di tutta la molteplicità alla sola unità, la reductio bonaventuriana riconduce la molteplicità alla Trinità divina, salvaguardando così il valore originario tanto dell’unità quanto della pluralità.

8 Così, come si dirà (cfr. nota 77), per Kant (nella tavola dei giudizi e delle categorie), o Peirce (primità, secondità e terzità), o Brandt (D’Artagnan o il quarto escluso). 9 Cfr. Id., La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia all’ermeneutica testuale, in «Gregorianum», 81 (2000), pp.  101-136, in partic. pp. 131-136.

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2. L’assimilazione delle fonti: traduzioni e tradizioni 2.1. La fonte remota e il suo riuso: dalla metafisica neoplatonica all’angelologia e teofania, alla teologia trinitaria e alla cristologia Come sempre accade nel lessico della Scolastica, terminologie di origini differenti vengono in qualche modo combinate e concordate. Le vicissitudini storiche delle traduzioni dal greco al latino hanno ulteriormente complicato il quadro. Il termine greco οὐσία, tradotto a volte più esattamente come essentia, e  altre volte, meno esattamente ma più comunemente, come substantia, viene inteso a  seconda dei casi più platonicamente, o più aristotelicamente. Il termine greco δύναμις è tradotto a volte con virtus, altre con potentia, intesa non come mera possibilità passiva, ma come potenzialità o capacità attiva. Se in contesto teologico virtus e potentia sono del tutto intercambiabili 10, viceversa in contesto antropologico si preferisce il termine potentia, abitualmente utilizzato per la distinzione delle facoltà dell’anima, dal momento che il termine virtus faceva pensare soprattutto all’habitus mentale (si ha quindi un’interferenza tra i vocabolari neoplatonico e aristotelico) 11. Il termine greco ἐνέργεια viene tradotto a  volte come actus o actio, ma altre volte (e più comunemente all’interno della triade) come operatio. La triade nell’opera dionisiana è utilizzata in due passi (nella Gerarchia celeste per questioni di angelologia e nei Nomi Divini, per questioni di teofania), che fino al tredicesimo secolo i latini poterono leggere nelle traduzioni di Ilduino, di Eriugena e  di Grossatesta, con una oscillazione nella scelta dei termini latini: essentia (per Eriugena) o substantia (per gli altri), virtus (o a volte potentia) e operatio (o a volte actio o actus) 12. Non è sempre possi10  Cfr.  Alexander Halensis, Glossa in quattuor libros Sententiarum, I, dist. 2 (De cognitione Dei per auctoritatem), n. 22, studio et cura pp. Collegii s.  Bonaventurae, Q uaracchi 1954 (Bibliotheca Franciscana scholastica Medii Aevi, XII), p. 36, 6: «Sicut una essentia, ita una virtus vel potentia trium et una operatio». 11  Cfr. Sent, I, d. 3, p. 2, a. 1, q. 3, ag 2, I, p. 84. 12 Cfr.  Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués au Denys de l’Areopage, ed. Ph. Chevallier, 2 voll., Paris 1937,

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bile dire per quali vie Bonaventura acceda all’opera dionisiana, dal momento che la sua conoscenza è mediata dai commentatori: in particolare, si riferisce più volte a Ugo di San Vittore (che usa la variante essentia come primo elemento della triade 13) e Tommaso Gallo (Abbas Vercellensis). L’occorrenza dionisiana più direttamente citata della triade è quella nella seconda parte del capitolo XI della Gerarchia celeste, ove viene affrontato un problema di terminologia: se nella Scrittura le ‘virtù’ sono una delle denominazioni delle creature angeliche (che Dionigi colloca al secondo posto nella seconda gerarchia) 14, come mai tutte le creature angeliche sono in qualche modo dette ‘potenze’ o  ‘virtù’? Dionigi risolveva l’aporia dicendo che tutte le creature celesti possono essere suddivise «secondo l’essenza, secondo la potenza e  secondo l’atto»; dunque, come gli ordini più alti possiedono in modo sovrabbondante le proprietà degli ordini più bassi e questi possiedono anche se solo parzialmente le proprietà superiori dei primi, così tutte le creature angeliche sono dotate di virtù. La  complessa angelologia bonaventuriana segue questa traccia per comporre i problemi relativi alla variazione di ordinamento delle gerarchie angeliche 15. Ma la triade è citata anche nel quarto capitolo del De divinis nominibus, per fondare le diverse teofanie: è  infatti a  causa dei raggi del bene assoluto che sussistono le realtà intelligibili e quelle intellettuali, e  le sostanze, le potenze e  le operazioni 16. In  altre II, p. 930. I traduttori si comportano così: Ilduino, Saraceno e Grossatesta concordano nel tradurre: «in substantiam et virtutem et operationem»; solo Eriugena (aderendo maggiormente all’οὐσίαν del testo greco) traduce: «in essentiam et virtutem et operationem». Cfr. ibid., I, p. 147, per il De divinis nominibus sul bene, e  p.  273 sul male. Nel 1268, Guglielmo di Moerbeke tradurrà la proposizione 169 della Elementatio theologica di Proclo «(…) substantiam habet et potentiam et operationem»: cfr.  Proclus Diadochus, Elementatio theologica translata a Guillelmo de Morbecca, ed. H. Boese, Leuven 1987 (Ancient and Medieval Philosophy, Series 1, 5), p. 82, 1. 13  Cfr.  Hugo de Sancto Victore, Commentarium in Hierarchiam coelestem, IX, 11, 2, PL 175 [923-1154C], 1106 CD, ed. D. Poirel, Turnhout 2015 (CCCM, 178), p. 654, 65: «Postea subiungit in quae tria unusquisque spiritus in se diuidatur, scilicet in essentiam et virtvtem et operationem». 14 Cfr. CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22 - 42, 2; Col. 1, 16; Ps 102, 21: «Benedicite Domino omnes virtutes eius, ministri eius». 15 Cfr. B. Faes de Mottoni, San Bonaventura e la scala di Giacobbe. Saggi di angelologia, Napoli 1995 (Saggi, 49), pp. 66-81 e 90-98. 16 Cfr. DN IV, 1, 693B, p. 144, 6-7.

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parole, in ogni realtà spirituale creata questi tre livelli si distingono, mentre in Dio coincidono. Gli Scolastici compiranno un passo ulteriore, attribuendo la distinzione dei tre livelli a tutte le realtà create (anche naturali). Un anello di congiunzione tra Dionigi e Bonaventura è costituito dall’opera eriugeniana, che, nonostante l’oblio, riaffiorava direttamente (tramite l’omelia Vox spiritualis aquilae, che circolava attribuita a  Origene) e  indirettamente (tramite termini e  concetti), come segnalato da Jeauneau 17. Inoltre, la triade di essenza, virtù e operazione consentiva ad Eriugena di distinguere tre gradi delle facoltà mentali (la mente vera e propria, la ragione e  il senso interno), con una tripartizione molto simile a  quella che sarebbe stata adottata da Bonaventura nella struttura del­ l’Itinerarium 18. Altre mediazioni, stratificatesi nel xii secolo, hanno contri­ buito ad estendere l’uso linguistico della triade alla teologia trinitaria e  alla cristologia: ad esempio, nella Theologia Scholarium di Abelardo, i termini substantia o essentia, potentia e operatio sono usati per indicare ciò che compete all’unica natura divina, e non alle singole persone 19; nella traduzione di Burgundio da Pisa del 17  Cfr.  E.  A. Jeauneau, «Tendenda vela». Excursions littéraires et digressions philosophiques à travers le Moyen Âge, Turnhout 2007 (Instrumenta patristica et mediaevalia, 47): a p. 126 e a pp. 554-555, illustra il ‘cogito’ eriugeniano come una triplice certezza: che sono, che posso intendere (intelligere) che sono, e che intendo (intelligo) che sono, secondo tre gradi delle facoltà mentali mens, ratio, sensus interior, che possono ulteriormente corrispondere rispettivamente alla essentia, alla uirtus e  alla operatio o  actio; a  p.  134  menziona l’importanza di Dionigi per Bonaventura; inoltre a p. 508 rimanda alla citazione di una frase dell’omelia eriugeniana Vox spiritualis aquilae (passata come omelia di Origene, in ScienChr, 4, ag 13, p. 18). Oggi, dalla Library of  Latin Texts possiamo appurare che né ‘Eriugena’ né ‘Scotus’ ricorrono in Bonaventura; in compenso Origene è nominato 41 volte. 18 Cfr.  A. Di Maio, «Animalitas, spiritus, mens». Antropologia tripartita e struttura dell’«Itinerario» bonaventuriano, in L’uomo nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, a cura di I. Zavattero, Roma 2019 (Flumen Sapientiae, 11), pp.  93-128. La  tripartizione dell’anima in animus (o  mens o  intellectus), ratio e sensus (interior, che unifica i cinque sensi esterni) si ritrova in Iohannes Scottus Eriugena, Commentarius in Evangelium Iohannis, IV,  5, PL 122, [297348], 336B, ed. É. Jeauneau, Turnhout 2008 (CCCM, 166), p. 115, 24. 19 Cfr. Petrus Abaelardus, Theologia christiana, III, 61, PL 178, [11131330], 1230A, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12), p. 220, 798-800: «Est itaque harum trium personarum una et eadem omnino substantia et indiuidua penitus et simplex essentia, una prorsus potentia, una gloria, una maiestas, una

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De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, e i termini substantia, virtus, operatio sono utilizzati per giustificare la distinzione di due volontà e operazioni in Cristo, contro l’eresia monotelita e monoergita 20. Rimane da indagare se nella dottrina scolastica latina della derivazione delle operazioni dalla virtù e dall’essenza di Dio si rifletta in qualche modo la dottrina palamita delle energie di Dio e quella cabalistica delle sefiròt divine 21. 2.2. La «Summa Halensis», probabile fonte immediata: al cuore della teologia La scuola francescana parigina nacque quando Alessandro di Hales, già maestro secolare, abbracciò la vita minoritica trasferendo la sua cattedra di teologia nel convento dei Cordiglieri. Ebbe come collaboratore Jean de la Rochelle (Giovanni Rupella) e, dopo la sua prematura scomparsa, Eudes Rigaud (Odo Rigaldi), il quale successe ad Alessandro e  fu maestro di Bonaventura. Lo  studium minoritico era in relazione stretta con la scuola di San Vittore, il cui esponente Tommaso Gallo aveva conosciuto Antonio di Padova. All’interno della scuola fu avviato un imponente lavoro cooperativo di sintesi e sistematizzazione del sapere teologico, il cui frutto fu la cosiddetta Summa fratris Alexandri o Summa Halensis, opera ratio, una voluntas, eadem operatio, non divisa». Ma cfr. poi Id., Theologia «Scholarium», III, 72, PL 178, [979-1114], 1106, edd. E. M. Buytaert - C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), p. 530, 969-972: «Q uod tamen ubique esse per substantiam dicitur, iuxta eius potentiam vel operationem arbitror dici, ac si videlicet diceretur ita ei cuncta loca esse presentia, ut in eis aliquid operari numquam cesset nec eius potentia sit alicubi ociosa». 20 Cfr. Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa. Versions of  Burgundio and Cerbanus, VIII, ed. E. M. Buytaert, St. Bonaventure (N. Y.) 1955 (Franciscan Institute Publications. Text series, 8), p. 43, 275-276: «Una enim substantia, una bonitas, una virtus, una voluntas, una operatio, una potestas; una et eadem, non tres similes ad invicem, sed unus et idem motus trium hypostaseon». 21  Cfr. M.-H. Coungourdeau, Cultural Exchanges between Jews and Christians in the Palaeologan Period, in Jews in Byzantium. Dialectics of  Minority and Majority Cultures, ed. by R. Bonfil, Leiden 2012 (Jerusalem Studies in Religion and Culture, 14), pp. 709-721, in partic. p. 720: «Could we not compare this distinction [‘between the divine essence, totally inaccessible; and the divine operations or energies, eternal and uncreated (…), but accessible’], characteristic of  Palamite theology, to the conception of  the Sefirot by Abulafia? For him, indeed, the Sefirot are attributes of  God (…). All of  this must be said cautiously, as an hypothesis».

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in realtà di compilazione protrattasi nel tempo, di cui solo una parte ci è pervenuta (edita dai padri di Q uaracchi e immessa nella Library of  Latin Texts). L’incendio che successivamente devastò il convento ci ha privato di un immenso patrimonio di manoscritti, di cui qua e là rimangono e pian piano vengono editi altri testimoni. Al momento ci è possibile indagare solo i testi della Summa Halensis; da quanto comincia ad emergere, un ruolo fondamentale nella assimilazione delle fonti filosofiche e scientifiche è stato esercitato da Jean de la Rochelle, il cui influsso è evidente non solo su Bonaventura, ma persino su Tommaso 22. Nel trattato introduttivo della Summa Halensis, si discute la doctrina della teologia (ossia il suo statuto epistemologico). In particolare, si distingue la conoscenza delle realtà materiali e  delle realtà immateriali; mentre per le prime si dà in senso aristotelico una scienza della sostanza e degli accidenti che le competono, per le seconde (come la natura divina e  la Trinità delle Persone) si richiede un processo conoscitivo speciale, radicato nel pensiero biblico e in quello neoplatonico: (…) ut per operationem cognoscamus virtutem, per virtutem ipsam divinitatis substantiam: Invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque eius virtus et divinitas (Rm 1, 20). Praeterea, alius est modus cognoscendi simplicia, alius composita 23.

La conoscenza delle operazioni divine ci consente di risalire a una qualche conoscenza della virtù divina e (di conseguenza) della sua misteriosa sostanza. Poco più in là, la Summa utilizza la distinzione di Dionigi in senso non più angelologico, ma teologico. Discutendo dell’og22 Cfr. Iohannes de Rupella, Q uaestiones disputatae de legibus, ed. R. Saccenti (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, 34), Roma 2021; R. Saccenti, La ragione e la norma. Dibattiti attorno alla legge naturale fra xii e xiii secolo, Turnhout 2019 (Rencontres de philosophie médiévale, 18); e il suo lavoro in corso sul De lege di Jean de la Rochelle. L’osservazione che la ragione «viene a mancare al terzo segno» (alludendo all’impotenza dei maghi d’Egitto dopo la terza piaga, cfr. Es 8,19) è spesso ripresa da Bonaventura (cfr. Don, 4, 19, p. 477; Hex, 2, 30, p. 341; 9, 18, p. 375). 23 [Alexander Halensis], Summa theologica, I, Tractatus introductorius, q. 1, cap. 1, n. 1, studio et cura PP. Collegii San Bonaventurae, Q uaracchi 1928, p. 4 (gli editori di Q uaracchi rimandano al De Trinitate di Boezio).

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getto («materia de qua») della teologia, la Summa dice che può essere assegnata in tre modi «secundum illud B.  Dionysii»: «In tria dividuntur supermundana ratione omnes divini intellectus: in essentiam, virtutem et operationem» 24. Avulsa dal contesto angelologico dionisiano e citata ad sensum in una formulazione che fonde e mescola le due diverse traduzioni latine esistenti 25, l’auctoritas non è più riferita alle creature angeliche, ma a  tutte le realtà sopramondane: ecco perché la triade dionisiana si applicherà in generale al mistero di Dio. All’essenza divina, di per sé inaccessibile, si accede tramite la sua virtus, che è  Cristo 26; il quale è  conosciuto in ragione della sua operazione che sono le opere della redenzione: pertanto, «la teologia è  la scienza della sostanza divina da conoscere mediante Cristo nell’opera della riparazione» 27. Più in là, la Summa affronta il problema della «existentia Dei in rebus» (ossia, di come Dio sia nelle cose create): secondo un trinomio proposto dal Lombardo (e ripreso dagli Scolastici successivi), Dio è  dappertutto «per potenza, per presenza e  per essenza» 28. Q uesta triade, che nel Lombardo non era molto perspicua e felice 29, nella Summa Halensis viene ricompresa e ricondotta alla triade dionisiana: (…) in Deo sunt tria, scilicet essentia, virtus et operatio – et dico tria secundum rationem intelligentiae – et distinguuntur illi modi ita: quod per essentiam est in rebus essentialiter, per virtutem est in rebus potentialiter, per operationem vero praesentialiter: nam per operationem innotescit rebus divina essentia et potentia, Rom. 1, 20: Invisibilia Dei, etc., et   Ibid., pp. 4-5.   La triade essentia, virtus, operatio risulta una fusione tra la triade eriugeniana essentia, potentia, operatio e quella più comune substantia, virtus, operatio. 26  In 1Cor 1, 24 Cristo è detto «Dei virtus et Dei sapientia». 27 Cfr. infra, nota 51. 28  Petrus Lombardus, Sententiae in IV libris distinctae, I, dist. 37, cap. 3, par. 5, ed. I. Brady, 3 voll., Grottaferrata 1971-1981 (Spicilegium Bonaventurianum 4), I, 1971, p. 368, 4-5. 29  Cfr. R. Busa, La terminologia tomistica dell’interiorità. Saggi di metodo per un’inter­pretazione della Metafisica della presenza, Milano 1949 (Archivum philosophicum Aloisianum, Series 2, 4); Id., Il mistero del linguaggio. Invito al Medioevo, a cura di I. Biffi - C. Marabelli, Milano 1982 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di cultura medievale, 76), pp. 57-64, in partic. pp. 58-59. 24 25

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Sap. 13, 5: A magnitudine speciei creaturae poterat cognoscibiliter Creator eorum videri 30.

Che Dio sia in tutto per essenza, potenza e presenza può essere spiegato anche in base alla triplice nozione di essere: ciò che è in generale, ciò che è in potenza e ciò che è in atto; rispettivamente richiamanti la dimensione essenziale, potenziale e  presenziale. Tale distinzione è, per la Summa, solo di ragione e non reale. In una pagina della trattazione della bontà divina partecipata alle creature, che sono vestigia della Trinità, la Summa mette in sinossi sette triadi: misura, numero, peso (cfr. Sap 11, 21); unità (o eternità), verità, bontà; modo, specie, ordine; sostanza, specie (o forma), virtù; essenza, virtù, operazione (questa citata esplicitamente da Dionigi); sostanza, specie, ragione (questa attribuita a Trismegisto); e l’ultima, di carattere conoscitivo e tratta da Agostino, in riferimento a ciò per cui qualcosa si consta, è congruo, si discerne 31. In conclusione, utilizzata inizialmente per ordinare il lessico angelologico, la triade dionisiana ha la sua fortuna in quanto riflette i gradi progressivi di manifestazione della realtà divina e, parallelamente, della sua conoscibilità. Insomma, citando «illa trinitas Dionysii», Bonaventura può contare su una tradizione interpretativa già ben consolidata, attraverso la scuola di Alessandro di Hales, ma più generalmente nella esegesi comunemente accettata nel suo secolo. Usi linguistici analoghi possono essere rinvenuti negli altri grandi maestri del xiii secolo, come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, il quale distinguerà la trattazione su Dio in tre aspetti: l’esistenza (‘che Dio sia’), l’essenza (‘ciò che Dio è, o meglio non è’), e l’operazione (immanente, fondamento di quella ad extra) 32.

30  [Alexander Halensis], Summa theologica, I, p. 1, in. 1, tr. 2, q. 3, tit. 3, m. 1, cap. 2, n. 46, ed. cit., p. 72. 31 Cfr. ibid., tr. 3, q. 3, m. 3, cap. 1, art. 3, n. 113, p. 179. 32 Cfr. Thomas de Aq uino, Summa Theologiae, I, q. 2, pr., cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1988 (Opera omnia, IV), p. 27: «(…) primo considerandum est an Deus sit; secundo, quomodo sit, vel potius quomodo non sit; tertio considerandum erit de his quae ad operationem ipsius pertinent (…)».

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2.3. Ritorno alla metafisica: possibili influssi della riscoperta di Proclo Nel 1268, la traduzione della Elementatio Theologica realizzata da Guglielmo di Moerbeke svelava l’origine ‘platonica’ della triade di substantia, potentia e  operatio (in ogni intelletto separato) 33. È plausibile che una tale scoperta, che appurava anche la vera origine del celeberrimo Liber de causis, fosse giunta a Bonaventura 34. Sia come sia, nelle Collationes del 1273 egli decise di opporre alla metafisica degli aristotelici radicali (gli artistae detti averroisti) una metafisica ispirata ai filosofi nobilissimi e  antichi 35 (tra cui annoverava Socrate, Platone, Plotino, conosciuto tramite Macrobio, e Cicerone; ma non Proclo). In tale contesto, come vedremo, la triade viene utilizzata da Bonaventura anche e  soprattutto in contesto metafisico, e non più solo teologico. D’altra parte, la scoperta di Guglielmo non portò immediatamente a  una divaricazione tra aristotelismo e  ‘platonismo’; è anzi notevole che nel celebre florilegio delle Auctoritates Aristotelis elaborato tra il 1267 e il 1325 (ma che riflette una tradizione anche antecedente), la triade dionisiana sia stata tranquillamente immessa nell’impianto concettuale della fisica aristotelica: Natura apta nata est facere sicut fecit. Ex quo habetur quod ad perfectionem unius cujuslibet rei tria requiruntur scilicet substantia sive natura, virtus et operatio 36.

 Cfr. supra, nota 12.  Il Liber de Causis (già ben noto nello studium francescano parigino, dato che Ruggero Bacone l’aveva in precedenza commentato senza minimamente sospettarne il carattere neoplatonico) viene citato 12 volte da Bonaventura: 11 in opere precedenti al 1268 (in particolare nel Commento alle Sentenze), in cui spesso viene attribuito al Philosophus (cioè Aristotele); 1 in HexD, v. 4, c. 1, n. 26, p. 231, col solo titolo. 35  Hex, 6, 6, p. 361. 36   Auctoritates Aristotelis: Senecae, Boethii, Platonis, Apulei Africani, Porphyrii et Gilberti Porretani, ed. J.  Hamesse, Louvain - Paris 1974 (Philosophes médiévaux, 14), p.  160. Il  florilegio attribuisce surrettiziamente la citazione al  I libro del De caelo et mundo di Aristotele; l’identificazione della fonte secondo l’editore (cfr. p. 160, nota 6) piuttosto nel Commentario di Tommaso al De caelo et mundo, non è  però soddisfacente. Per la datazione del florilegio cfr.  J.  Hamesse, Les sources manuscrites, ibid., [pp. 17-43], p. 38. 33 34

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3. L’uso nelle opere universitarie: una chiave per molti problemi teologici 3.1. La triade dionisiana, le altre triadi e la Trinità divina In base a questa ricostruzione delle fonti, non deve stupire che il ricorso bonaventuriano alla triade dionisiana nelle sue opere teologiche universitarie non si discosti molto dalla Summa Halensis, che a  volte addirittura riproduce implicitamente. Così, rispondendo a  un dubbio sulla correttezza del modo con cui il Lombardo enumerava le triadi che in ogni creatura rispecchiano la Trinità delle persone divine, Bonaventura, distingueva tre coppie possibili di triadi riprendendo (senza dichiararlo) il passo della Summa Halensis sopra esaminato: in ogni creatura considerata in sé quanto ai princìpi della sostanza, troviamo la triade materia, forma, compositio; quanto alle relazioni, la triade del libro della Sapienza per cui tutto è  disposto in numero, pondere et mensura (qui numero, peso e misura indicherebbero, rispettivamente, la «principiorum distinctio», la «ipsorum inclinatio», e  la «eorum ad invicem proportio» 37); inoltre, in ogni creatura in rapporto alle altre creature, in quanto agisce per azione naturale, si ha «illa trinitas Dionysii, substantia, virtus et operatio»; ma se agisce per azione spirituale (come è  per l’anima umana) si ha anche la triade «quo constat, quo congruit, quo discernitur»; infine, in ogni creatura in rapporto a  Dio (il quale viene qui significativamente chiamato Causa prima), si ritrova la triade modus, species e  ordo, in quanto ogni cosa si riferisce genericamente a  Dio; oppure, in quanto ogni cosa non solo si riferisce, ma anche si assimila a Dio, la triade unitas, veritas, bonitas, e in questa triade soltanto consiste propriamente il vestigium di Dio nelle creature (nel Commento alle Sentenze, legato alla littera del Lombardo, Bonaventura è più restrittivo di quanto sarà successivamente): con una formulazione che integra la dottrina aristotelica e  quella platonica delle cause, l’unità, la verità e  la bontà

37 Cfr. Sap 11, 21. In Itin, 1, 11, p. 298, invece, questi tre termini saranno intesi nell’ordine variato: la misura come finitezza rispetto all’origine che rimanda al  Padre, il numero come conformità al  modello che rimanda al  Figlio, il peso come inclinazione al fine, che rimanda allo Spirito.

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si riconducono a  Dio «ut causam efficientem», «ut exemplar» e «ut finem» 38. In questa densa tassonimia, la triade dionisiana occupa un posto curioso: viene qui applicata all’interazione naturale (e non spirituale) tra creature. Ma qui naturalis va inteso in riferimento alla natura in generale (indifferentemente spirituale o corporea) e non alla natura fisica; mentre spiritualis viene inteso come consapevole e deliberato. Così, a ben riflettere, Bonaventura ha colto bene il carattere spontaneamente diffusivo della sostanza nelle sue virtù e operazioni: quindi ha ricondotto la triade dionisiana al suo ambito propriamente ontologico, piuttosto che etico. 3.2. La triade in Dio e la distinzione tra Dio in sé e l’economia divina La seconda parte dell’ottava distinzione del primo libro del Commento alle Sentenze è  dedicata alla simplicitas di Dio: con questo termine in latino si intende l’avere una singola ‘piega’. Nella seconda questione Bonaventura definisce la semplicità di essenza come privazione di composizione, differenza e  molteplicità essenziale. Pertanto, occorre partire dalla composizione riscontrabile nelle cose: una prima è  quella di sostanza, virtù e  operazione, ricondotta a quella aristotelica tra sostanza e accidenti; una seconda è quella tra suppositum individuale (la sostanza prima) ed essentia specifica (la sostanza seconda); una terza è quella tra ente ed essere 39. Ebbene, Dio è  effettivamente semplice, per l’esclusione di tutte e tre queste composizioni; anzi, la somma semplicità conviene unicamente a Dio. Si noti la distinzione concettuale tra multiplicitas e pluralitas: la prima è esclusa da Dio, la seconda sarà invece compresa. Nelle questioni De Mysterio Trinitatis viene tematizzata la sfida (per il teologo cristiano) di come sia possibile la creazione nel tempo: se in Dio coincidono sostanza, virtù e operazione, e se l’operazione divina coincide con la sua sostanza e l’essere divino è eterno, anche la creazione dovrebbe essere eterna. La soluzione 38  Cfr. Sent, I, d. 3, p. 1, ad db. 3, I, pp. 78-79 (con i riferimenti ad Agostino, alla Regula fidei, a Filippo il Cancelliere). 39 Cfr. ibid., d. 8, p. 2, q. 2, I, p. 260.

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è  che l’atto creatore è  ab aeterno, ma l’effetto creaturale è  nel tempo 40: da sempre Dio ha voluto che le cose iniziassero a essere nel tempo. 3.3. La triade tra epifania e fenomenologia Affrontando un problema spinoso di demonologia (se il diavolo possa conoscere quanto è occulto), Bonaventura pone il problema dei segreti del cuore. In base al principio per cui dall’operazione si può conoscere qualcosa della potenza, e dalla potenza si può conoscere qualcosa della sostanza, sembrerebbe che i  demoni (come ogni altro soggetto creato) possano arrivare a conoscere i segreti dei cuori. In  realtà, sostanze e  virtù sono conoscibili solo nella misura in cui si manifestano con operazioni estrinseche e  naturalmente diffusive; invece, non vale per le virtù e operazioni solo intrinseche e per quelle volontarie (e quindi liberamente imprevedibili). Insomma l’interiorità si manifesta ad extra solo per libera scelta, e  perciò si può conoscere solo in parte e  per congettura, e non per certa scienza 41. Esplicitando il non-detto di Bonaventura, questa distinzione spiega bene la differenza tra teologia naturale dei filosofi e teologia rivelata: la prima si basa sulla manifestazione per così dire parziale e indiretta dell’essenza e potenza divina tramite le sue operazioni creative; la seconda invece sulla libera rivelazione dell’essenza e potenza divina tramite le sue operazioni salvifiche. Importante è la concezione della scienza che emerge dall’utilizzo della triade nel Commento all’Eccle­siaste 42: sapere veramente significa conoscere sostanza, virtù e operazioni. Inoltre, nelle questioni De scientia Christi 43 la finitudine dell’atto di conoscere comporta anche la finitudine della capacità e del soggetto conoscente. Vi può essere circolarità tra conoscenza della sostanza e conoscenza delle operazioni: ad esempio, lo scienziato naturale attra  Cfr. MyTrin, q. 5, a. 1, sc 16, p. 89; e ad 16, p. 92.   Cfr. Sent, II, d. 8, p. 2, a. unicus, q. 6, conclusio, II, p. 234. 42  Cfr. InEccle, 1, quaestiones, p. 16: «Ille perfecte cognoscit, qui plene novit substantiam, virtutem et operationem et causas et rationes horum». 43  Cfr. ScienChr, q. 6, sc 7, p. 34 (argomento accettato). 40 41

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verso le operazioni delle cose ne risale alle virtù e ne classifica le sostanze; ma conoscendo le sostanze e le virtù delle cose ne prevede altre possibili operazioni. In senso analogo a quello naturalistico, si riscontrano ulteriori usi (per la verità marginali) della triade in ambito sacramentario 44. 3.4. La triade, chiave per l’antropologia e l’etica: l’anima umana, le sue potenze… e le sue virtù In un sermone, pur protestandosi alieno dal filosofare con una vera e  propria preterizione («procedere philosophando non est meum») Bonaventura illustra ai fedeli l’ordine delle gerarchie angeliche e quello delle gerarchie ecclesiastiche per analogia con l’ordine degli astri, dal momento che in tutti e tre questi ordini ci sono sostanza, virtù e operazioni 45. Sempre ricorrendo alla triade dionisiana, Bonaventura può spiegare come le potenze dell’anima abbiano uno statuto intermedio tra la sostanza vera e propria dell’anima e le sue facoltà e operazioni. Per quanto riguarda la gerarchia delle capacità spirituali, il nodo problematico consiste nel rapporto fra anima, intelletto e volontà, ossia tra le facoltà in senso aristotelico, e i gradi delle potenze dell’anima in senso neoplatonico. Come abbiamo già notato, la triade dionisiana consente di formulare un’antro­ pologia in cui l’unità dell’anima si esplica nella trinità delle sue potenze (memoria, intelletto e volontà) e operazioni 46, anche se a  volte Bonaventura preferisce distinguere intellectus ed affectus (ad intra) ed effectus (ad extra) 47. Partendo dal presupposto dionisiano che solo in Dio la triade substantia, virtus e operatio coin44  Sulla virtù sovrannaturale dell’acqua battesimale, cfr. Sent, IV, d. 3, p. 2, a. 1, q. 2, IV, p. 78: «(…) Omnis operatio egreditur a substantia mediante aliqua virtute: ergo cum aqua tangendo corpus abluat animam, hoc est ab aqua virtute aliqua mediante; sed non naturali». Sulla mescolanza di un po’ d’acqua al vino della Messa (che non viene convertita in Sacramento, ma semmai assorbita dal vino), cfr. ibid., d. 12, p. 1, a. 2, q. 2, ad 1, IV, p. 279: «Et species illae, quamvis non habeant substantiam vini, habent tamen virtutem et operationem». 45 Cfr. SermDi, Sermo 54 (de sanctis angelis), 5, II, p. 689. 46  Cfr. Sent, II, d. 31, a. 1, q. 1, conclusio, II, p. 742; IV, d. 43, a. 1, q. 5, conclusio, IV, p. 893; II, d. 25, p. 1, a.1, qq. 2-3, II, pp. 595-599 (sul libero arbitrio). 47  Cfr. SermDo, 5.1, p. 163; oppure (nella variante intellectiva, affectiva, operativa) Hex, 2, 1, p. 336.

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cide, mentre diverge nelle creature, Bonaventura ha buon gioco nel dimostrare la tesi, tipica della scuola francescana, secondo cui «anima non est suae potentiae per essentiam» 48. Applicata all’anima, quindi, la terminologia della triade si adatta per sovrapporsi a quella aristotelica: l’unica essentia dell’anima si distingue dalle sue potentiae. La plasticità del lessico può però causare curiose interferenze: virtus può riferirsi sia alle potenze dell’anima, sia alle rispettive virtù (in senso morale). Ma allora il principio di manifestatività della sostanza nella virtù e  di questa nella operazione sembra costituire un’aporia nella dottrina della giustificazione, come se l’anima non potesse essere giustificata dall’infusione delle virtù teologali nelle sue tre potenze; la risposta nel Commento alle Sentenze prelude alla più matura riflessione nella quinta parte del Breviloquium, secondo cui la grazia infusa nell’anima si ramifica attraverso le sue potenze nelle virtù teologali, nei doni, nelle beatitudini e nei frutti e sensi spirituali 49. Anche in un sermone Bonaventura utilizzerà il principio che la sostanza si manifesta attraverso le virtù e le virtù attraverso le operazioni: quindi non basta fare qualche opera buona per essere buoni; diciamo di essere buoni perché facciamo cose buone, ma in realtà il bene non è meritorio se non è informato dalla grazia; in questo, acutamente, viene focalizzata la differenza tra etica filosofica ed etica teologale 50.

  Cfr. Sent, I, d. 3, p. 2, a. 1, q. 3, ag 2 e ad 2, I, p. 85.  Cfr. ibid., II, d. 26, a. unicus, q. 5, ad 5, II, p. 644 (a confronto con l’argomento contestato): «(…) Potentia potest esse sine actu, et gratia in potentia absque merito operis. Substantia autem absque potentia esse non potest; et si possit intelligi, non tamen potest intelligi absque potentiis divina dona suscipere, in quibus donis decorari dicitur facies animae eo genere decoris, per quem Deus acceptat». 50 Cfr. SermDi, Sermo 5 (de s. Stephano martyre), collatio, 1, I, p. 131: «Manifestatur autem substantia per virtutem, virtus per operationem; (…). Sapientia christiana aliud dicit de operibus virtutum, et aliud philosophi. Philosophi dicunt secundum exteriorem intellectum, et nisi sane intelligantur, ducunt in errorem. Dicimus, boni sumus quia bona facimus; sed certe bonum non est meritorium nisi sit gratia informatum. Bona facimus, ergo boni sumus, verum est de virtute consuetudinali, quae est habitus politicus; vera autem bonitas est quia, si boni sumus, bona facimus». 48 49

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4. L’uso nelle opere di ‘sintesi teologica’: una chiave per la teologia in quanto tale 4.1. Nel «Breviloquium» Il Breviloquium, frutto degli anni di insegnamento parigino, ne è la sintesi matura, come manuale (un discorso breve, secondo la raccomandazione di Francesco d’Assisi) di teologia che potremmo definire affermativa. In questo contesto, la triade dionisiana serve proprio a strutturare tutta la teologia intorno a Cristo. Nel prologo del Breviloquium Bonaventura (nel solco della Summa Halensis, senza però citarla) distingue e ordina i vari subiecta (o, nel nostro linguaggio, oggetti) della teologia: quanto alla sostanza, oggetto della teologia è Dio; quanto alla virtù, è Cristo; quanto all’operazione, è l’opera di riparazione; ma, quanto a tutte queste cose insieme, è il credibile, che in quanto credibile è contenuto nella Scrittura, e in quanto intelligibile è contenuto nella scienza teologica 51. Q uesto significa che la teologia (e più in generale la Sacra Scrittura) ha sì come oggetto Dio, ma lo può attingere solo tramite Cristo; d’altra parte, coglie Cristo attraverso l’opera salvifica di fatto da lui compiuta; poi, attraverso un processo di tematizzazione, l’oggetto della teologia si esplicita negli articoli di fede che sintetizzano il testo della Scrittura. In altre parole, la triade permette di comprendere come, attraverso lo studio di contenuti dottrinali, si possa conoscere l’opera della salvezza e, di conseguenza, che Cristo è Dio. Nel Breviloquium, a  differenza che nel Commento alle Sentenze, la triade non trova applicazione nella teologia trinitaria, ma direttamente nella cristologia. Insomma, la sostanza indicherebbe il nucleo più intimo del mistero cristiano, totalmente inaccessibile se non si manifestasse tramite i due stadi successivi; la virtù sarebbe il Cristo Dio e uomo, e quindi il mistero rivelato in lui; ma anche questo resterebbe ora inaccessibile, se non fosse per il suo carattere continuamente operante nella Chiesa. Il mistero trinitario si rivela nelle sue operazioni ad extra: sebbene sia solo la  Cfr. Brev, prologus, 4, p. 205: «Subiectum enim illius quoad substantiam Deus est; quoad virtutem, Christus; quoad operationem, reparationis opus; quoad omnia haec est ipsum credibile». 51

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persona del Figlio ad incarnarsi, l’incarnazione come operazione va indivisibilmente attribuita (come tutte le operazioni divine ad extra) a tutta la Trinità 52. All’interno della cristologia, poi, la triade dionisiana serve a dipanare uno dei problemi gnoseologici che più ha affascinato Bonaventura, quello della conoscenza avuta da Cristo 53, già oggetto di un ciclo di questioni disputate. 4.2. Nell’«Itinerarium» L’Itinerarium è la sintesi bonaventuriana della teologia negativa d’impronta dionisiana, in cui il riconoscimento di Dio avviene attraverso tre grandi tappe (attraversando il macrocosmo, il microcosmo e  il mondo archetipo dei Nomi di Dio), più l’approdo finale dell’estasi 54. Nella prima tappa dell’Itinerarium il contemplativo riesce a vedere nelle cose mondane le seguenti triadi: peso, numero e misura; modo, specie e  ordine; sostanza, virtù e  operazione; e finalmente potenza, sapienza e bontà. La prima triade è  quella classica del libro della Sapienza, già considerata dallo stesso Agostino; la seconda è tipicamente agostiniana; la terza sarebbe quella dionisiana; la quarta è quella più chiaramente appropriabile alla Trinità, secondo l’approccio agostiniano più vicino a Bonaventura. Dal momento che qui la triade dionisiana va intesa in orizzontale (su uno stesso piano) 55, il suo 52  Cfr. ibid., 4, 2, p. 242: «Q uoniam ergo incarnatio, in quantum dicit aliquem effectum, est a primo principio, quod omnia facit ratione summae virtutis; et substantia, virtus et operatio unita est et indivisa omnimode in tribus personis: hinc est, quod necesse est, incarnationis operationem a tota trinitate manare». 53 Cfr. ibid., 6, p. 247: «Q uoniam autem divina substantia, virtus et operatio est immensa, hinc est, quod (…) qui est per naturam Deitatis, infinita actualiter comprehendit  (…). Q uia vero creaturae quantumcumque sublimatae finita est substantia, virtus et operatio, (…): hinc est, quod (…) anima Christi per gloriam comprehensionis capit quantumcumque potest capere natura finita». 54  Cfr. A. Di Maio, La scala e lo specchio: l’«Itinerario» bonaventuriano riletto in chiave umanistica odierna, in La  scala e  lo specchio. L’originalità di San Bonaventura a otto secoli dalla nascita. Atti del Convegno ‘Pensiero e attualità di Bonaventura da Bagnoregio a otto secoli dalla nascita’ (Milano, 31 maggio 2017), a cura di D. Riserbato, Roma 2018 (Essay research series, 43), pp. 13-48. 55  Cfr. Itin, 1, 11, p. 298: «(…) Aspectus contemplantis, res in se ipsis considerans, videt in eis pondus, numerum et mensuram: pondus quoad situm, ubi inclinantur, numerum, quo distinguuntur, et mensuram, qua limitantur. Ac per

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primo elemento (la sostanza) corrisponde al primo elemento della triade agostiniana (la potenza); il suo secondo elemento (la virtù) corrisponde al secondo della triade agostiniana (la sapienza); il suo terzo (l’operazione) corrisponde al terzo della triade agostiniana (la bontà). Da queste ed altre considerazioni è possibile salire alla considerazione della potenza, sapienza e bontà di Dio quale esistente, vivente e intelligente puramente spirituale, incorruttibile e immutabile. A questo punto, secondo un tipico artificio retorico medievale, Bonaventura propone una dilatatio, ossia una riproposizione approfondita degli stessi temi. In questo caso considera sette condizioni (nel senso di caratteristiche costitutive) delle creature: origine, grandezza, moltitudine, bellezza, pienezza, operazione e ordine. A proposito della seconda condizione, Bonaventura considera le tre dimensioni spaziali (diremmo noi, i  tre assi cartesiani dello spazio tridimensionale) che si estendono come appare nella diffusione della luce: simbolo, questo, della immensità della potenza, sapienza e bontà del Dio trino, il quale per potenza, presenza ed essenza, «incircumscriptus existit», cioè è  presente in ogni cosa, senza identificarsi con alcuna 56. Nella seconda tappa dell’Itinerarium troviamo una variante della triade 57: gli oggetti delle tre scienze teoretiche sono identificati nelle essenze delle cose (per la metafisica), nei numeri e nelle figure delle cose (per le matematiche), nelle nature, virtù e operazioni diffusive delle cose (per la fisica). Si noti la reinterpretazione neoplatonizzante della distinzione aristotelica: le tre scienze teoretiche non differiscono perché studiano realtà diverse, come per Aristotele; infatti, esse studiano le medesime cose materiali, ma considerandole sotto aspetti diversi. Per quanto riguarda la fisica, le cose materiali sono studiate dinamicamente attraverso tre aspetti che traducono la triade in termini di fisica aristotelica: le operazioni sono intese come le comunicazioni di forme sostanziali o accidentali, le virtù come le potenze attive che le rendono possihoc videt in eis modum, speciem et ordinem, nec non substantiam, virtutem et operationem. Ex quibus consurgere potest sicut ex vestigio ad intelligendum potentiam, sapientiam et bonitatem Creatoris immensam». 56 Cfr. ibid., 13-14, p. 299. 57 Cfr. ibid., 3, 6, p. 305.

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bili, le nature come le differenze specifiche, che la fisica aristotelica è tenuta a individuare e classificare. Infine, nella terza tappa dell’Itinerarium, trattando della Trinità, Bonaventura descrive la circumincessione per cui ogni persona divina è  nell’altra e  ciascuna opera con l’altra ad extra mediante la onnìmoda indivisione della sostanza, virtù ed operazione della stessa Trinità 58.

5. L’uso nell’ultimo ciclo di «Collationes»: una chiave metafisica globale 5.1. La triade dionisiana nelle «Collationes» Nelle Collationes de decem praeceptis e de donis la triade non compare, mentre nelle Collationes in Hexaëmeron ricorre più frequentemente che in ogni altra opera (a  parte l’Itinerarium che, come abbiamo visto, è un caso particolare). Si tratta solo di una differenza di contenuti, o anche di contesto storico e dottrinale? Certo è che dopo il 1268 Bonaventura abbia trovato conveniente il ricorso a  strutture concettuali e  tesi dottrinali neoplatoniche come antidoto a  un eccessivo aristotelismo in metafisica. L’aristotelismo è comunque mantenuto per le nove principali scienze filosofiche 59, ma abbandonato nella cosiddetta decima scientia, contemplativa e sapienziale, relativa al soggetto umano, alle intelligenze celesti e alla realtà divina 60. Nel Principium delle Collationes in Hexaëmeron Bonaventura usa una variante originalissima della triade, che però esamineremo in seguito. Al termine della prima visio, che è quella dell’indagine razionale e filosofica, Bonaventura pone la conoscenza di Dio detta per contuizione: l’Essere è  primo, purissimo, semplicissimo, avente 58 Cfr. ibid., 6, 2, p. 311: «(…) Necesse est (…) esse (…) summam cointimitatem, qua unus est in altero necessario per summam circumincessionem et unus operatur cum alio per omnimodam indivisionem substantiae et virtutis et operationis ipsius beatissimae Trinitatis». 59   Cfr. Hex, 6, 5, p. 361. 60 Cfr.  ibid., 5,  23-33, p.  357; 6,  1-32, pp.  360-364 (con ampia citazione di Plotino tratta, come rilevano gli editori di Q uaracchi, da Macrobio); 7, 1-4, pp. 365-366.

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sostanza, virtù e  operazione (da cui si ricavano tutti gli altri attributi) 61. Nella trattazione della seconda visio, che è  quella della professione di fede, la triade è utilizzata per ribadire che le azioni divine ad extra, sebbene appropriate alle singole persone, tuttavia derivino dall’unica sostanza, virtù e  operazione divina 62. Nelle due reportationes a  confronto, abbiamo modo di capire meglio la relazione tra teologia immanente ed economia ad extra. Alla domanda se i Gentili, intendendo Dio come uno, ma non come trino, possano intenderne pienamente la creazione; o, più in generale, se si possa intendere che Dio abbia sostanza, virtù e operazioni prescindendo dalla conoscenza delle processioni trinitarie, si risponde distinguendo un duplice intendimento (intellectus) della realtà divina: uno definito difettivo, che intende semipienamente; uno pieno, o meglio, compiuto, che ‘risolve’ pienamente le operazioni divine ad extra nelle emanazioni trinitarie intime 63. Detto nei termini della teologia neoscolastica, è possibile concepire un trattato De Deo uno a priori del trattato De Deo trino? E tale trattato De Deo uno potrebbe essere identico e in una prospettiva cristiana, e in una prospettiva monoteistica non trinitaria? La risposta di Bonaventura è negativa. Solo imperfettamente pos Cfr. ibid., 5, 32-33, p. 359 (è menzionato Socrate).   Cfr. HexD, v. 2, c. 1, n. 13, p. 115: «In Deo quidem, Patre scilicet et Filio et Spiritu sancto, est una substantia, una virtus, una operatio. Diffundit se haec substantia, virtus et operatio in creaturam hoc modo, ut unus Deus Pater, Filius, Spiritus sanctus sit omnium creaturarum unus creator, unus sanctificator, unus praemiator a substantia, virtute, operatione». Cfr. Hex, 8, 12, p. 371: «Fides in Deum aeternum est una illustratio senarum alarum; et hoc dupliciter: aut quantum ad distinctionem personarum, aut quantum ad diffusionem Trinitatis in creaturam secundum essentiam, virtutem et operationem. (…) Similiter in sinistro sunt tres alae, in quantum ab una essentia, virtute et operatione est diffusio in creaturam». 63 Cfr. ibid., 11, 10, p. 381: «Sed quid? Dices, nunquid intelligendo, primum esse unum esse suppositum, ut gentiles, adhuc intelligunt substantiam, virtutem et operationem? Ergo, non intellecta Trinitate vel emanatione, est intelligere productionem. Respondeo: intellectus duplex est: perfectus et plenus et plene resolvens; et tali intellectu non est intelligere sic; intelligere autem semiplene potest intellectus defectivus sic, quod resolvat in plura, quae in Deo sunt unum, aliter non». Cfr. anche HexD, v. 2, c. 4, n. 10, p. 136: «Sed numquid, non intellecta Trinitate, intelligetur primum esse habens substantiam, virtutem et operationem? Ergo Deus potest facere operationes, non intellecta emanatione intrinseca. Ad quod dicendum quod est intellctus defectivus, qui hoc apprehendit, et est intellectus plenus resolvens quae in Deo concurrunt, et hic non intelligit operationem extrinsecam sine intrinseca». 61 62

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siamo cogliere l’azione di Dio ad extra prescindendo dal mutuo circumincedere delle persone divine. La triade si applica diversamente alla dinamica intradivina ed extradivina: soltanto una piena intelligenza (o intelligenza pienamente risolvente) è in grado di ricondurre le operazioni dell’economia divina alle processioni della vita intima della Trinità. Nella terza visione, data dalla meditazione della Scrittura, si distingue una triplice manifestazione di Dio in qualunque creatura, secondo sostanza, virtù e  operazione; di conseguenza ogni creatura rappresenta Dio che è Trinità, e siccome si arriva a Dio attraverso la fede, la speranza e la carità, allora ogni creatura suggerisce cosa si deve credere, cosa si deve sperare, cosa si deve operare e amare 64. E in base a questa apertura della realtà alle tre virtù teologali si ha la triplice intelligenza allegorica, anagogica e tropologica delle Scritture. Il testo sembrerebbe alludere alla corrispondenza tra la triade delle virtù teologali e la triade neoplatonica: la sostanza potrebbe alludere alla definizione di fede come «sostanza di cose sperate» (Eb 11, 1); l’operazione neoplatonica potrebbe allora corrispondere all’operazione propria della tropologia; e  la virtù neoplatonica, all’attesa paolina. Ma potrebbe anche esserci una traccia della tesi del Lombardo, reinterpretata dalla Summa Halensis, secondo cui Dio è in tutte le cose per essenza, potenza e presenza: la sostanza corrisponderebbe al  ‘per essentiam’, la virtù al  ‘per potentiam’, l’operazione al  ‘per praesentiam’; ma al  momento non risultano riscontri testuali di tale ipotesi. La triade ricorre un’ultima volta nella trattazione della quarta visio, quella della contemplazione: l’anima deve volgersi allo stesso Sole increato che è Cristo intendendolo secondo la sua sostanza,  Cfr.  ibid., v. 3, c. 1, n.  10, pp.  149-150: «Ideo in Scriptura primo voces significant res, postea sunt tres intelligentiae. Deus enim trinitas ad minus in qualibet creatura se manifestat triformiter, scilicet secundum substantiam, virtutem et operationem, et omnis creatura manifestat Deum qui est trinitas et sic aliquo modo ad Deum pervenitur per fidem, spem et caritatem. Ideo omnis creatura insinuat quid credendum, quid sperandum, quid amandum». Cfr. anche Hex, 13, 11, p. 389: «Deus enim manifestat se in qualibet creatura tripliciter: secundum substantiam, virtutem et operationem». Nel contesto si associano i tre sensi spirituali della Scrittura alle tre virtù teologali (l’allegoria alla fede, l’anagogia alla speranza, la tropologia alla carità; si noti però che la reportatio di Delorme contiene un evidente errore, ricollegando invece la tropologia alla speranza). 64

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virtù (o, nella reportatio di Q uaracchi, «potentia») e  operazione, e  perciò vede che tutte le cose sono ricondotte alla legge eternamente sussistente. In altre parole, la contemplazione riesce a vedere la storia, per così dire, sub specie aeternitatis 65. 5.2. La triade modificata (esse, sic esse, bene esse) e la rifondazione della metafisica Nella reportatio di Q uaracchi della seconda delle Collationes in Hexaëmeron troviamo anche quella che forse è una delle dottrine metafisiche più originali di Bonaventura, ossia la distinzione (probabilmente modellata su quella dionisiana) tra essere, tal-essere, e ben-essere. Q uesti tre atti sono correlati: qualsiasi cosa esistente esiste secondo una misura (infatti, non si può essere senza essenza, e l’essenza è la misura del grado d’essere di un ente); d’altra parte agere sequitur esse e ogni cosa, secondo la sua specie e virtù, tende a operare, e ogni operazione conforme all’essenza è ben-essere; al contrario, il mal-essere è un’operazione difforme rispetto all’essenza, quindi difettiva, perché non consegue lo scopo inteso, o a livello naturale, o a livello morale. Bonaventura afferma che la creatura è  esistente mediante la sostanza, è vigente mediante la virtù, è efficiente mediante l’operazione 66: è chiaro qui che ‘substantia’ non ha il senso aristotelico, ma coincide con l’esse nel senso del creazionismo neoplatonizzante. Infatti, virtù e operazione in questo senso, precisa Bonaventura, non sono qui accidenti della sostanza, benché tali appaiano al filosofo naturale, ossia al naturalista in senso aristotelico 67. 65   Cfr. HexD, v. 4, c. 4, n. 5-6, p. 266: «(…) Intelligit ipsum solem aeternum secundum eius substantiam, secundum eius virtutem, secundum eius operationem et videt omnia reducta ad legem sempiternaliter existentem». Cfr.  Hex, 23,  6, p. 446. 66 Cfr. ibid., 2, 26, p. 340: «Vestigium aliud huius sapientiae est substantia, virtus et operatio; virtus est a substantia, operatio a substantia et virtute; res a substantia habet esse, a virtute vigere, ab operatione efficere». Cfr. anche HexD, Principium, c. 2, n. 26, p. 28: «Unde creatura per substantiam est, per virtutem viget, per operationem efficit». 67 Cfr. ibidem: «Et haec virtus et operatio non sunt accidentia substantiae, licet videantur esse accidentia, quia secundum philosophum naturalis potentia vel impotentia sunt modus quidam consequendi substantiam».

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Secondo la base di dati della Library of  Latin Texts, aggiornata a inizio 2021, la triade esse, sic esse e bene esse risulta esclusiva di Bonaventura, che la utilizza due volte nella seconda delle Collationes in Hexaëmeron. In questa conferenza Bonaventura spiegava quale sarebbe stato il punto d’arrivo delle Collationes, che illustrano le sei fasi del progresso dell’habitus sovrannaturale di intelligenza fino al suo pieno compimento nell’habitus sovrannaturale di sapienza. La sapienza sarà quadriforme: uniforme è  la sapienza che coglie quello che oggi potremmo chiamare il senso morale della vita, esplicitato nel Decalogo ma implicitamente proclamato da tutta la realtà; multiforme è la sapienza che intende le Scritture secondo il rispettivo senso letterale e i corrispettivi sensi spirituali (allegorico, tropologico, anagogico); onniforme è la sapienza che riconosce Dio in tutte le cose, che ne sono o vestigio, o immagine e  similitudine, o  nome 68; nulliforme è  la sapienza mistica, specificatamente cristiana, a  cui Paolo allude nella Prima lettera ai Corinzi e che Dionigi tratta nell’omonimo opuscolo. Trattando la terza forma di sapienza, che corrisponde ai primi sei capitoli dell’Itinerarium (mentre il settimo capitolo, sull’eccesso mentale, corrisponderebbe alla sapienza nulliforme), Bonaventura ricorreva alla triade neoplatonica per spiegare in che senso ogni ente anche mondano possa portare l’impronta divina 69. In base al  celebre versetto secondo cui Dio ha creato tutto in peso, numero e misura (Sap 11, 21), interpretato sulla scia di Agostino, non vi è creatura che non abbia misura (da intendersi come finitudine che rimanda a  un principio), numero (da intendersi come regolarità secondo un modello a mo’ di algoritmo) e inclinazione (da intendersi come attrazione verso la condizione a sé connaturata); in questa triplice condizione creaturale si ha come la visione indiretta di un piede nella sua impronta lasciata nel terreno 70.   Cfr. Hex, 2, 20-21, pp. 339-340.  Cfr.  ibid., 22, p.  340: «Opus autem Dei tripliciter dicitur: primo modo essentia, quodcumque illud sit et in quocumque genere sive substantiae, sive accidentis; alio modo essentia completa, scilicet sola substantia; tertio modo essentia ad imaginem Dei facta, ut spiritualis creatura. – Super has effusa est sapientia Dei, sicut super opera sua». 70 Cfr. ibid., 23, p. 340: «Est autem ordo in his. Deus enim creat quamcumque essentiam in mensura et numero et pondere (Sap 11, 21); et dando haec, dat modum, speciem et ordinem; modus est, quo constat; species, qua discernitur; ordo, quo 68 69

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In altre parole, il vestigio sarebbe come una presenza per assenza, un rimando al pieno a partire dal mancante. Nel primo capitolo dell’Itinerarium, Bonaventura aveva ulteriormente ricondotto il limite al principio che è il Padre, l’algoritmo al Figlio e l’inclinazione al suo termine nello Spirito. Nella sostanza creata, però, materia, forma, composizione; principio originale o fondamento, complemento formale e collante; sostanza, virtù e  operazione, rappresentano la Trinità: rispettivamente il Padre, l’origine; il Figlio, l’immagine; lo Spirito Santo, la compagine 71. Secondo la teologia scolastica delle appropriazioni, ci sono attributi che pur non essendo di per sé proprietà delle singole persone divine (ma semmai attributi dell’essenza divina), possono venire appropriate all’una o all’altra, in quanto ne favoriscono la conoscibilità. In questo caso, la triade dionisiana viene utilizzata nel senso di una circumincessione orizzontale, ricondotta alla Trinità divina. Si presti attenzione alla sovrapponibilità, ma non identità, delle tre triadi citate: materia, forma e composizione sono tre elementi della fisica aristotelica; principio originale, complemento formale e collante costituiscono piuttosto la triade, sempre di origine platonico-aristotelica, delle tre cause esterne (originante, esemplante e  finiente); sostanza, virtù ed operazione costituiscono la triade neoplatonica che va intesa, a  differenza della precedente, non in una simmetria orizzontale, bensì verticale. In altre parole, mentre la triade di originante, esemplante e  finiente rimanda alla triade delle cause (tutte egualmente trascendenti) del singolo ente finito, la triade di sostanza, virtù e operazione indica la struttura interna dell’ente a  tre livelli di espansione (quasi a  cerchi concentrici), come se la sostanza fosse il sasso in uno stagno che genera una prima espansione nella virtù e un’ulteriore espansione nell’operazione. congruit. Non est enim aliqua creatura, quae non habeat mensuram, numerum et inclinationem; et in his attenditur vestigium, et manifestatur sapientia, sicut pes in vestigio; et hoc vestigium in illam sapientiam ducit, in qua est modus sine modo, numerus sine numero; ordo sine ordine». 71 Cfr. ibidem: «In substantia autem est altius vestigium, quod repraesentat divinam essentiam. Habet enim omnis creata substantia materiam, formam, compositionem: originale principium seu fundamentum, formale complementum et glutinum; habet substantiam, virtutem et operationem. – Et in his repraesentatur mysterium Trinitatis: Pater, origo; Filius, imago; Spiritus sanctus, compago».

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Fra i  tre elementi di questa triade creaturale non vi è  distinzione ipostatica, come è tra le persone divine, e neppure accidentale, ma costitutiva, come tra princìpi: se si nega che tale triade sia costitutiva della creatura, le si negherebbe di rappresentare la Trinità; sarebbe come dire che la creatura fosse atto puro e non avesse composizione; l’essere-da-altro non implica di per sé la composizione (altrimenti sarebbero composti sia il Figlio, procedendo dal Padre, sia lo Spirito Santo, procedendo da entrambi): «soltanto essere divino è semplice, né in esso differiscono essere e tal-essere e ben-essere. E perciò Essere è detto nome di Dio, perché, in Dio, Essere è  ciò che Dio è. Nella creatura invece differiscono essere e tal-essere e ben-essere» 72. Si noti che sebbene in latino manchi l’articolo, gli scolastici quando necessario usavano come articolo il francese ly, in particolare per indicare le parole in supposizione materiale o per concettualizzare e sostantivare un aggettivo o un verbo. Dunque, la triade di essere, tal-essere e ben-essere non va cosificata neanche nella traduzione italiana: si tratta di tre verbi (assoluto il primo, modificato da avverbi il secondo e il terzo), e quindi di atti. Anche quella di Bonaventura è dunque una metafisica dell’atto d’essere. La triade di esse, sic esse, bene esse non sembra molto lontana da quella che nella teologia bizantina distingue, riguardo al mistero di Dio, le ipostasi, l’οὐσία e  le energie; queste ultime sarebbero, all’interno della teologia immanente, il fondamento dell’economia creaturale e salvifica 73. In Bonaventura, però, si insiste sulla coincidenza di questi tre livelli in Dio 74.

72   Ibid., 24, p. 340: «Ratio autem originalis principii a formali complemento habet distinctionem in creatura, non quidem hypostaticam, ut est in divinis, nec accidentalem, sed sicut principiorum, quorum unum activum, alterum passivum. Et hoc tollere a creatura est tollere ab ea repraesentationem Trinitatis; ut dicere, quod creatura sit purus actus et non habeat compositionem. Nec valet id quod dicitur, quod composita est, pro eo quod est ab alio, quia esse ab alio compositionem non facit; quia tunc Filius esset compositus, cum sit a Patre, et Spiritus sanctus ab utroque. Solum enim esse divinum simplex est; nec differt in eo esse et sic esse et bene esse. Et ideo esse dicitur nomen Dei, quia esse in Deo est id quod est Deus. In creatura autem differt esse et bene esse et sic esse». 73 Cfr. Coungourdeau, Cultural Exchanges cit. (alla nota 21). 74 La distinzione e connessione tra essere ed esser buono come pure la definizione di Dio come «ciò di cui non si può pensare il Migliore» è affermata in Itin, 5, 6, p. 309; Hex, 5, 31, p. 359.

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Nella creatura, essere e  tal-essere (quest’ultimo da intendersi come essenza), differiscono: infatti da questa differenza derivano sia la specificità, ossia la limitazione qualitativa delle creature, sia la loro finitudine, ossia limitatezza temporale, che altrove Bonaventura aveva definito come nihilitas (essere limitati dal non-essere); la distinzione poi tra tal-essere e  ben-essere comporta la fallibilità delle creature; la divergenza tra i due è il male (che possiamo appunto intendere come mal-essere). Q uando l’operazione non è coerente con l’essenza, si ha il male, di due tipi: morale (o male di colpa) e naturale (o male di pena) 75. Proseguendo nella collatio, Bonaventura riproponeva la triade dionisiana, come un ulteriore vestigio della sapienza onniforme: la virtù è dalla sostanza, l’operazione dalla sostanza e dalla virtù; ogni cosa ‘ha’ esse grazie alla sua sostanza, ‘ha’ vigere (nel senso di poter fare) grazie alla sua ‘virtù’, ‘ha’ efficere (fare) grazie alla sua operazione. Che la terminologia non vada intesa in senso precisamente aristotelico, lo mostra la precisazione che «la virtù non è accidentale alla sostanza, sebbene il Filosofo dica che la potenza naturale è  una qualità»; la tesi di Aristotele però non è  negata, ma limitata al  solo ambito fisico 76. Tra il livello dell’essere e  il livello dell’agire, è  innestato il livello del ‘poter fare’, ovvero di quella che la tradizione aristotelica, anche averroista, aveva caratterizzato come potenza attiva. Q uesta distinzione ha una notevole portata antropologica: le capacità mentali, non possono essere meramente accidentali, perché esse rientrano nell’identità umana stessa; in questo, la scuola francescana, propugnando la distinzione tra essenza dell’anima e sue potenze, è tutt’altro che meramente conservatrice, ma avvia quella riflessione che poi caratterizzerà l’antropologia e la gnoseologia della modernità.

75 Cfr. A. Di Maio, Bonaventure on Evil and Nothingness, in via di pubblicazione negli atti del convegno Frater, Magister, Minister et Episcopus. The Works and Worlds of  Saint Bonaventure, The Franciscan Institute at St.  Bonaventure University (St. Bonaventure, NY, July 12-15, 2017). 76 Cfr. Hex, 2, 26, p. 340: «Vestigium aliud huius sapientiae est substantia, virtus et operatio; virtus est a substantia, operatio a substantia et virtute; res a substantia habet esse, a virtute vigere, ab operatione efficere. Virtus etiam non est substantiae accidentalis, licet Philosophus dicat, quod naturalis potentia est qualitas. Ipse enim loquitur, prout dicit modum consequentem substantiam; sicut patet, quia durum et molle dicunt modum substantiam consequentem».

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«ILLA TRINITAS DIONYSII» (SOSTANZA, VIRTÙ E OPERAZIONE) IN BONAVENTURA

6. Considerazioni finali Nata come ampliamento della diade aristotelica di potenza e atto, la triade ontologica neoplatonica di essenza, potenza e  atto (che non si applicava all’ineffabile Uno, ma solo alle realtà determinate) arrivò agli Scolastici latini del tredicesimo secolo attraverso la mediazione di Dionigi ed Eriugena. Ebbene, il veicolo fondamentale della trasmissione culturale nel Medioevo latino fu il lessico: le traduzioni (più o meno felici) permisero la confluenza o  almeno l’interferenza tra apporti diversi: ad esempio la virtus della triade ontologica neoplatonica fu associata alla virtus etica aristotelica e  a quella teologale paolina, ma anche ad espressioni occasionali, come la definizione paolina di Cristo come virtus Dei. Una caratteristica della Scolastica fu proprio quella di concordare in senso lessicografico, ossia per lemmi, gli apporti della tradizione, e  quindi di conseguenza di concordarli semanticamente (attraverso un’articolazione ragionata degli usi e significati della terminologia filosofica e  teologica) e  dottrinalmente (attraverso un’articolazione sistematica e sintetica). Rispetto ai moderni che, di fronte ad apporti di tradizioni divergenti, optarono per sceglierne alcuni a scapito di altri (ad esempio, la giustizia paolina rispetto a quella aristotelica), i medievali, soprattutto quelli del tredicesimo secolo, cercarono il più possibile di tenere insieme tutto, unificandolo sotto questo o quell’aspetto ritenuto primario. Secondo un comportamento costante nell’uso del linguaggio, quando nel lessico troviamo una struttura terminologica (una tassonimia), questa tende a svilupparsi in una struttura concettuale (una tassonomia). Così, nel Medioevo latino, aver ritrovato nei testi della tradizione entrambi i termini conscientia e synderesis (in realtà rispettivamente traduzione a calco e traslitterazione corrotta del medesimo termine greco συνείδησις) ha indotto i teologi a usarli entrambi, cercando di distinguerne i significati: in tal modo, da una svista, si è sviluppata l’importante dottrina della sinderesi, con sfumature diverse, ad esempio tra Tommaso e  Bonaventura (il primo la considera l’abito dei primi princìpi morali, il secondo l’apice della mente, o  grado sommo delle facoltà umane). 471

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Q ualcosa di analogo, e  anzi più profondo è  avvenuto con la triade essentia/substantia  – virtus/potentia  – actio/operatio. Infatti, secondo un criterio di ordinamento molto diffuso nella cultura occidentale e messo in luce da Brandt 77, buona parte dei nostri concetti si struttura in maniera triadica. Se poi tutto sia visto triadicamente perché la nostra mente è triadica, oppure se la nostra mente sia triadica perché il fondamento stesso della realtà è  (come per Agostino e  Bonaventura) triadico, è  una questione teoretica ulteriore. La triade ontologica neoplatonica ebbe fortuna speciale nella Scolastica latina e in particolare in quella parigina francescana (più sensibile alla tradizione dei ‘Platonici’): non capendone appieno l’origine, ma intuendone la portata speculativa, Bonaventura (e prima di lui la Summa Halensis) ne diede una sovrainterpretazione a volte consentanea al senso neoplatonico, a volte originale e a tratti geniale, come nell’applicazione a Dio stesso e a ogni ente. È proprio grazie a  questa triade che possiamo comprendere tre fondamentali strutture dottrinali bonaventuriane: quella che potremmo definire oggi ‘fenomenologia teologica’, ossia il processo per ricavare (secondo il Breviloquium) la teologia immanente dalla cristologia e  questa dalle operazioni della vita della Chiesa; la tripartizione della mente (secondo l’Itinerarium) in animalitas, spiritus e  mens propriamente detta (corrispondente, come abbiamo visto, ai tre gradi distinti da Eriugena); la fondamentale articolazione metafisica (secondo le Collationes in Hexaemeron) di esse, sic esse, bene esse – coincidenti in Dio, ma distinti in ogni creatura.

77 Cfr.  Die Macht des Vierten. Über eine Ordnung der europäischen Kultur, hrsg. von R. Brandt, Hamburg 2016.

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«VEDE PERFETTAMENTE OGNE SALUTE» LA TRIADE ‘NASCOSTA’ IN DANTE, DALLA «VITA NOVA» ALLA «MONARCHIA»

Molteplici temi e strumenti del discorso teologico che sostiene la fenomenologia sacrale dell’amore nelle pagine più ispirate della Vita nova rivelano una adesione di Dante al mondo di pensiero del platonismo cristiano e agostiniano, rielaborato e sedimentato nelle opere esegetiche e  nelle meditazioni contemplative degli autori monastici latini, dall’Europa romano-barbarica alle scuole del secolo xii 1. Q ueste testimonianze di condivisione speculativa della metafisica e  dell’antropologia platonizzanti non sono mai apertamente dichiarate come tali, in Dante, ma scrutando con attenzione i  suoi testi è  dato reperire non di rado certe ‘parole segnaletiche’ (secondo la terminologia suggerita e  condivisa da non pochi commentatori recenti) che lasciano trapelare, dal tessuto linguistico che ne ricopre la sostanziale coerenza, molteplici indizi certi di una non dichiarata, ma riconoscibile adesione all’ontologia e al fenomenologismo propri del platonismo latino 2. Tra queste ‘parole’ che schiudono le modalità profonde del suo 1  Su questa tematica si veda ora il mio volume Per questa selva oscura. La teologia poetica di Dante, Roma 2020 (Institutiones, 7). – Il presente saggio è stato già in ampia parte pubblicato sotto il titolo Esse, virtus, operari. Educazione dell’uomo e perfezione naturale nella Monarchia di Dante, in «Ratio practica» e «ratio civilis». Studi di etica e politica medievali per Giancarlo Garfagnini, a cura di A. Rodolfi, Pisa 2016 (Philosophica, 172), pp.  119-156. Con opportune modifiche questo testo sarà incluso anche in un capitolo di un mio secondo volume di studi danteschi, in corso di stampa nella collana Institutiones (nell’ambito del Progetto Paradigma Medievale, per le edizioni Città Nuova di Roma); ringrazio Renato de Filippis per avermi aiutato ad adattarne il testo per accoglierlo qui. Le opere di Dante sono citate senza indicazione dell’autore. 2  Cfr. R. Mercuri, Il metodo intertestuale nella lettura della «Commedia», in Dante, oggi, 1, a cura di R. Antonelli - A. Landolfi - A. Punzi [= «Critica del testo», 14.1 (2011)], pp. 111-151, in partic. p. 118. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127967 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 473-498     © 

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pensiero, Dante accoglie e utilizza spesso termini che evidenziano nella composizione dell’essere e dell’agire degli uomini, presi sia come individui sia come comunità universali, la presenza della triadicità di essere o essenza, potenza e atto, rispettivamente come essentia o natura o substantia, potentia o virtus, perfectio o operatio. Nella Vita nova, in particolare, sono riconoscibili alcune significative esemplificazioni di questa tendenza. Per esempio, subito dopo avere trascritto e commentato il famoso sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, con il quale mira a invitare i lettori a una conversione sincera e  determinante alla dimensione della spiritualità reale che dopo la morte ha definitivamente e stabilmente accolto Beatrice, Dante lo fa seguire da un’altra composizione poetica dello stesso genere, il cui fine è illustrare, per farli conoscere a chiunque lo desideri, gli effetti che producono le qualità della Donna in coloro che la sua sola vista rende capaci di parteciparne. Non soltanto Beatrice stessa, per tali virtù, era fatta oggetto di ammirazione e tacita devozione in quanti la vedevano, «ma per lei erano onorate e laudate molte» 3: Vede perfettamente ogne salute chi la mia Donna tra le Donne vede: quelle che vanno con lei son tenute di bella grazia a Dio render merzede. E sua beltate è di tanta virtute, che nulla invidia all’altre ne procede, anzi le face andar seco vestute di gentilezza, d’amore e di fede. La vista sua fa ogni cosa umile; e non fa sola sé parer piacente, ma ciascuna per lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente che non sospiri in dolcezza d’amore 4. 3 Cfr. Vita nova., xxvi, 8-9 (ed. G. Gorni, Milano 2011, 17, 8-9): «Q uesto sonetto è si piano ad intendere per quello che narrato è dinanzi, che non abisogna d’alcuna divisione. E però, lasciando lui, dico che questa mia Donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Onde io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole, nelle quali ciò fosse significato; e dissi allora questo altro sonetto, che comincia Vede perfettamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua virtute adoperava nell’altre…». Tutti i corsivi nei testi danteschi sono nostri. 4   Ibid., 10-13 (10-13).

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Dalle battute iniziali di questo sonetto spicca il ricorso esplicito alla dottrina della composizione triadica universale. Sinteticamente, ma innegabilmente, questi versi alludono infatti alla dialettica di potenzialità-attualità che orienta la genesi, lo sviluppo, e quindi il senso autentico dell’esistere di ogni creatura. Le parole per dirlo sono scelte dal poeta con attenzione e sottigliezza, evidenziando la sua dipendenza dal contesto terminologico e  dottrinale delle arti liberali. Innanzi tutto l’avverbio «perfettamente» richiama il concetto di atto o attuazione piena (perfectio, da per-ficere), grado massimo in cui può essere portata a realizzazione una natura; la celebrazione contestuale della virtute di Beatrice implica invece il riferimento evidente alla ‘potenza’, ma (posta l’equivocità, in italiano come in latino, con il significato tradizionale di ‘virtù’) con connotato positivo, in quanto ‘capacità di operare’, ossia di far essere, in sé e nelle altre Donne, la ‘gentilezza’ o la ‘nobiltà’, che vuol dire una condizione di superiorità rispetto agli altri individui del ‘genere’ femminile, raggiunta proprio mediante una attuazione delle migliori potenzialità in esso presenti per natura. Q uesto significa che la «Donna» del poeta è stata in grado di portare in se stessa ad atto ‘perfetto’, nella propria sostanza eterna, nella misura più alta possibile per una creatura vivente nello stato temporale, tutte le qualità positive il cui compimento va inteso, secondo il progetto divino, come obiettivo e  snodo esistenziale della crescita naturale della natura (o sostanza) umana: e coincide dunque, sul piano etico, con l’acquisizione dello stato di pienezza che i filosofi chiamano ‘felicità’ (εὐδαιμονία, in greco, e beatitudo in latino) e i Padri della Chiesa, interpreti della Rivelazione, chiamano ‘salvezza’, ossia «salute» (salus). Chi ne contempla bellezza («beltate») di Beatrice, emergente tra le bellezze naturali come esito migliore del loro percorso di attuazione («chi la mia Donna tra le Donne vede»), vede dunque, ossia constata e riconosce, la perfectio dell’essenza dell’uomo di genere femminile, e  coglie in tale vista la piena «salute» realizzabile dalla creatura umana in questa vita. Tutte le donne sono perciò invitate ad accostarsi alla ‘gentilissima’ – superlativo assoluto che designa all’interno del genere, tra le più dotate di dignità, e quindi tra le ‘gentili’, unicamente Beatrice, modello di perfezione piena – perché possano condividere con lei il positivo attuarsi, in ciascuna nella misura che le compete, delle loro migliori potenze o virtù. Ed è per que475

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sto che «nulla invidia» insorge nelle ‘gentili’ nei confronti della ‘gentilissima’, perché tutte, e ciascuna singolarmente, sono da lei invitate e guidate, per il suo tramite, al compimento della perfezione propria di ciascuna. L’incremento fulgido delle virtù umane assicurato da Beatrice viene quindi espresso dal poeta mediante la serie gentilezza, amore e fede, dove è evidente, per l’identità sottintesa di ‘amore’ e ‘carità’, che per ricomporre la terna delle virtù teologiche è  opportuno intendere la gentilezza come corrispondente alla ‘speranza’: nel senso che Dante intende presentarla nella Donna come l’habitus o  dispositio stabile («le face andar seco vestute»), ossia come il possesso, in potenza ma non alienabile, delle capacità necessarie per portare ad atto le promesse della forma perfetta («ne li atti suoi») 5. Ricorrendo a  una terminologia di riconoscibile spessore teoretico (cioè teologica e filosofica), il poeta spiega esplicitamente (in prosa) che entrambi i  sonetti (Tanto gentile e  Vede perfettamente) mirano a rendere conto apertamente del modo in cui l’amore nel soggetto amante passa dalla potenza della predisposizione naturale («disposto alla sua operazione») all’efficacia dell’atto operante («come operava in me la sua virtute»). Appresso ciò, cominciai a pensare un giorno sopra quello che detto avea della mia Donna, cioè in questi due sonetti precedenti; e veggendo nel mio pensero che io non avea detto di quello che al presente tempo adoperava in me, pareami defettivamente avere parlato. E però propuosi di dire parole, ne le quali io dicesse come mi parea essere disposto alla sua operazione, e come operava in me la sua virtute 6.

«Amore», nel senso più autentico, è perciò per Dante un accesso attuativo («adoperava in me») alla contemplazione del vero e 5  Sulla valenza logica e la differenza di dispositio (predicazione di qualità possedute dal soggetto in forma accessoria e mutevole) e habitus (qualificazione stabile e non alterabile, e quindi connotativa), cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, In Categorias Aristotelis, II, PL 64, [159-294], 218CD. 6  Vita nova, xxvii, 1-2 (ed. Gorni cit., 18, 1-2). Cfr. ibid., xxvi, 4 (17, 4): «Q ueste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente. Onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo della sua loda, propuosi di dicere parole nelle quali io desse ad intendere delle sue mirabili ed eccellenti operazioni, acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere».

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dell’eterno, mediata dalla bellezza essenziale posseduta in potenza fin dall’accesso alla vita mortale dalla creatura amata: è  questa un’idea chiaramente delineata nel suo pensiero e destinata a perdurare come tema portante del sistema teo-antropologico della Commedia. Secondo il sistema della dottrina morale dantesca, l’amore è  la tendenza innata in ogni creatura, ma in modo particolare nell’uomo a congiungersi con qualcosa la cui immagine l’attrae: ogni forma di amore è  dunque rivolta all’essere, che è  sempre buono, in quanto creato da Dio, ed è  quindi potenzialmente virtuosa; nel suo attuarsi può tuttavia svilupparsi in modo conforme oppure contrario alle leggi della morale. È buona dunque la tendenza naturale ad amare, non lo è  ogni attuazione di tale tendenza. La chiarificazione di questa dottrina viene affidata da Dante a un passaggio della lunga dissertazione sulla natura dell’amore tenuta da Virgilio nei canti XVII e XVIII del Purgatorio, il cui fine primario è  giustificare l’ordinamento delle modalità di espiazione dei sette peccati capitali lungo le cornici del monte. Il  linguaggio di Virgilio è, anche in questo caso, palesemente ancorato alla terminologia propria della dottrina antropologicotriadica neoplatonica: Q uinci comprender puoi ch’esser convene amor sementa in voi d’ogni virtute e d’ogne operazion che merta pene 7.

L’accostamento dei due termini «virtute» e  «operazione» in questi versi invita anche qui a cogliere il fondarsi della morale dantesca, ormai matura e speculativamente consolidata, sulla concezione antropologica secondo cui l’essentia universale dell’uomo si realizza mediante un diversificato pervenire ad atto negli individui delle potenzialità naturali comuni all’intero genere. L’amore è  infatti principio («sementa») della transizione di ogni moto dell’animo dalla δύναμις amorosa, ovvero dalla naturale e universale tensione di tutte le creature a congiungersi con l’oggetto desiderato, all’ἐνέργεια del concretizzarsi del desiderio in azione volta al conseguimento dell’obiettivo, sulla quale si esercita il giudizio 7  Purgatorio, XVII, 103-105 (tutte le citazioni sono secondo l’ed. G. Petrocchi, Milano 1966-1967).

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divino: solo quando viene portato ad atto, e si fa «operazione», l’amore diviene infatti meritevole di premio, oppure di punizione («merta pene»). Dante sembra però voler giocare, anche in questa terzina, sull’equivoca valenza filosofica di «virtute», che, in volgare come in latino, può significare tanto la virtù etica (o buona disposizione morale) quanto la potenzialità ontologica: nel secondo verso di questa terzina è evidente infatti la polivalenza dell’espressione «ogni virtute», che si riferisce tanto alla disposizione etica dell’anima (in senso aristotelico), quanto anche alla potenzialità dell’amore orientato al bene; nel terzo, «ogne operazion» indica invece l’attuarsi di tale potenzialità amorosa, in un grado più o meno adeguato di perfezione ontologica. È probabile in effetti che, con questa oscillazione semantica, Dante intenda soprattutto armonizzare la classificazione filosofica delle virtù morali (esposta in corrispondenza inversa con il catalogo dei vizi) con la sua idea dominante, di ordine teologico, della tensione universale della creazione verso la maturazione delle potenzialità virtuose dell’individuo, nell’aspirazione al  conseguimento della perfectio naturale. * * * È significativo constatare come sia possibile connettere anche la teoria politica della Monarchia alla generale concezione dantesca della scansione triadica del processo che conduce il genere umano alla perfezione naturale, chiaramente emersa dalla trattazione dei concetti di ‘gentilezza’ nella Vita nova e di ‘nobiltà’ nel Convivio; e quanto sia altresì proficuo, inversamente, reperire nel testo della Monarchia un’ulteriore, chiara e solida convalida per tale concezione stessa, trasferita dal piano dell’individualità a quello dell’uni­ versale sussistenza reale del genere umano come entità collettiva, effettivamente esistente nella storia. La  dottrina dei due assoluti poteri, civile e  spirituale, si sviluppa in effetti come uno spontaneo coronamento della complessiva concezione antropologica (di matrice platonizzante) che guida Dante nell’assumersi l’incarico di portare agli altri uomini la conoscenza della verità e la pratica del bene, nel più generale quadro di una complessiva considerazione dell’opera creatrice divina come progettualità universale: Haec igitur irrefragabilis veritas prefigatur: scilicet quod illud quod naturae intentioni repugnat Deus nolit. Nam si 478

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hoc verum non esset, contradictorium eius non esset falsum, quod est: Deum non nolle quod naturae intentioni repugnat. (…) Manifestum est quod Deus finem naturae vult, aliter coelum otiose moveret; quod dicendum non est. Si Deus vellet impedimentum finis, vellet etiam finem impedimenti, aliter etiam otiose vellet; et cum finis impedimenti sit non esse rei impeditae, sequeretur Deum velle non esse finem naturae, quem dicitur velle esse 8.

Sotto la forma stringata della deduzione in forma ipotetica delle conseguenze del quadrato logico di opposizione, si riconosce con facilità la riconduzione dell’intera dottrina politica di Dante al presupposto (qui enunciato negativamente) della piena coincidenza tra, da una parte, le buone finalità che devono essere perseguite non soltanto (come già è evidente nel Convivio) da ogni singola creatura, ma anche dalla collettività di un genere naturale, come quello umano, nel corso del suo processo di sviluppo esistenziale; e, dall’altra, l’atto originario con cui la volontà divina ha fissato nei modelli eterni del Λόγος l’obiettivo proprio di ogni natura generale, in cui la creatura singola si risolve, e quello dell’intero universo naturale nel suo insieme, in un organico concerto cosmico in cui si armonizzano in unità tutte le distinte finalità della creazione. Per questo è lecito dire che se Dio volesse non portare anche una sola singola natura al compimento della perfezione per essa prevista come fine, il cielo si muoverebbe invano, nel senso che l’intero ordine del cosmo ne risulterebbe compromesso. Non è possibile dunque che Dio voglia qualcosa che sia impedimentum alla perfezione singolare, come a quella universale: nozione, questa di ‘impedimento’, già introdotta nel Convivio per designare qualsiasi ostacolo, reale o  simbolico, che possa produrre nell’uomo una deviazione dal retto percorso che conduce al conseguimento dell’«abito» del sapere e, conseguentemente, aprire la possibilità dell’inclinazione all’errore 9. Nella Monarchia tale nozione viene però utilizzata, con maggiore estensione, per indicare tutto ciò che è  di ostacolo o  di 8  Monarchia, III, ii, 2 e 5 (tutte le citazioni sono secondo l’ed. D. Q uaglioni, Milano 2014). 9 Cfr.  Convivio, II, viii, 14 (tutte le citazioni sono secondo l’ed. G.  Fioravanti, Milano 2014); ibid., IV, iv, 2.

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diverso orientamento rispetto al  compiersi dell’esistere pieno della creatura voluta da Dio: il che significa che anche l’impedimento ha comunque una sua finalità, che corrisponde a esiti possibili di potenzialità proprie dell’essere delle singole creature, ma tali da risultare devianti rispetto alle autentiche finalità che Dio ha voluto per ciascuna di esse nell’ampio contesto della natura creata in generale. In tale universo organizzato secondo una complessa e onnicomprensiva gerarchia teleologica, ogni fine particolare giustifica la natura della cosa particolare, così come un fine più complesso guida nell’insieme, e orienta nelle singole azioni, tutti i  partecipanti a  ogni singola comunità nazionale e  sociale organizzata sotto il governo del Monarca, fino al  fine generale (o universale) che giustifica l’essere complessivo della comunità cui l’intero genere umano, di grado in grado di universalità crescente, appartiene: Nunc autem videndum est quid sit finis totius humanae civilitatis (…). Et ad evidentiam eius quod queritur advertendum quod, quemadmodum est finis aliquis ad quem natura producit pollicem, et alius ab hoc ad quem manum totam, et rursus alius ab utroque ad quem brachium, aliusque ab omnibus ad quem totum hominem; sic alius est finis ad quem singularem hominem, alius ad quem ordinat domesticam comunitatem, alius ad quem viciniam, et alius ad quem civitatem, et alius ad quem regnum, et denique optimus ad quem universaliter genus humanum Deus aeternus arte sua, quae natura est, in esse producit 10.

In evidente armonia con la metafisica platonica dell’ordine gerarchico della realtà dominante nella letteratura patristica (in special modo in Agostino) e poi in tutto l’alto Medioevo teologico, Dante ritiene dunque che l’universale uomo («universaliter genus humanum») sia una realtà oggettiva, realmente sussistente in sé e, insieme, partecipata da innumerevoli individui che in essa sussistono. E anche la comunità politica è da lui concepita, allo stesso modo, come una realtà spirituale sussistente, tanto quanto lo è l’intero genere umano, perché le vere realtà universali esistono in quanto sono pensate da Dio Padre nella sua eterna Arte, che è il   Monarchia, I, iii, 1-2.

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suo Verbo o Intelletto, o Sapienza, ossia la seconda persona della Trinità («ars sua, quae natura est»). Il che significa anche che la felicità della comunità terrena è  l’esito di una perfezione naturale, che si realizza nel tempo e nella storia con il raggiungimento della piena concordia sociale tra gli interessi dei singoli cittadini; e che la felicità dell’intero genere umano è altrettanto l’esito di una perfezione di natura, ma superiore e  sussistente nell’eterna Mente divina, dove è in modo inalterabile congiunta con la condivisione, universalmente partecipata da tutti i singoli, della altissima e onnicomprensiva Volizione divina, principio e fine ultimo di ogni volizione creaturale. E ogni natura inferiore è perfetta nel suo ricomporsi partecipativo con l’essenza della natura superiore di cui è parte: cosicché il cittadino è perfetto ed è felice nella storia civile, nel ricomporsi della società politica; il credente è perfetto e felice nella storia spirituale, nel suo costituire la comunità ecclesiale; l’individuo umano meritevole, con tutte le sue componenti e qualità realizzate, sarà perfetto e felice nell’eternità, nel suo rientrare nella compiutezza incorruttibile dell’idea, ossia nella Mente divina, in cui inalterabilmente sussisterà come perfezione compiuta, nella pace del paradiso. Il riferimento alla concezione della perfezione naturale come attuazione piena delle potenzialità corrispondenti alla compiutezza dell’essere naturale, si fa dunque più diretto e corposo nella Monarchia soprattutto nel cuore di approfondimenti speculativi sul tema della felicità ‘di questa vita’ (cui è preordinato il potere imperiale). È dunque importante tenere presente che, nel lessico peculiare di tale dottrina, operatio o actus possono essere significativi sia del farsi atto di una potenzialità particolare, o comunque di un numero limitato di potenze e capacità qualitative, che potrebbe anche avere una valenza negativa nell’ambito del progetto evolutivo della res; sia anche del pervenire di una cosa alla sana e piena maturazione delle migliori aspettative qualitative e  quantitative insite nel suo essere: così, per esempio, un ramo d’albero può fiorire ma può anche inaridire, e in entrambi i casi si tratta comunque dell’attuarsi di una potenzialità, ma solo nel primo giunge a compimento in modo corretto il fine previsto dal processo naturale. Per designare il ‘soggetto’ proprio di questo positivo sviluppo, ossia del passaggio dalla potenza naturale della specie all’atto corrispondente, Dante utilizza il termine essentia, che egli introduce 481

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senza illustrarne quello che ne è qui il preciso significato: quello di realtà prima e originaria della cosa (metafisicamente anteriore, cioè, al  suo divenire), che è  soggetto dell’intero processo di sviluppo delle sue virtutes in operationes. Tutte le «operationes propriae essentiae», ossia le attuazioni del sostrato essenziale di ogni cosa in divenire, sono dunque anche le «operationes propriae virtutis», perché tutte le ‘potenze’ («virtutes») che vengono portate ad ‘atto’ («operationes») – che sia per un processo naturale o per grazia divina –, sono sempre forme di perfezionamento dell’individuo, ma solo quando queste ‘potenze’ sono quelle naturalmente proprie dell’‘essenza’ l’individuo intero perviene al compimento del suo fine ultimo e alla appagante conquista della sua peculiare felicità: Propter quod sciendum primo quod Deus et natura nil otiosum facit, sed quicquid prodit in esse est ad aliquam operationem. Non enim essentia ulla creata ultimus finis est in intentione creantis, in quantum creans, sed propria essentie operatio: unde est quod non operatio propria propter essentiam, sed hec propter illam habet ut sit 11.   Ibid., 3. La formula «Deus et natura nil otiosum facit» proviene da Aristoteles, De caelo, II 12, 271a. – Secondo una dimostrazione di Iacopo Costa, l’espressione «propria essentiae operatio» è indizio della familiarità di Dante con la tradizione dei commenti all’Etica Nicomachea (comprensiva delle esegesi di Alberto Magno, Tommaso e di alcuni maestri delle Arti attivi fra i secoli xiii e xiv): cfr. I. Costa, Principio di finalità e fine nella «Monarchia» dantesca, in «Ad ingenii acuitionem». Studies in Honour of  Alfonso Maierù, ed. by S. Caroti - R. Imbach - Z. Kaluza et alii, Louvain-la-Neuve 2006 (Textes et études du Moyen Âge, 36), pp. 39-65, in partic. p. 42, nota 9. In questa tradizione è attestata la «dottrina secondo cui l’azione o l’operazione (operatio) è sempre il fine di una data essenza» (cfr. ibid., p. 49): questo principio si collega alla distinzione aristotelica tra atto primo e atto secondo (o ἐντελέχεια prima ed ἐντελέχεια seconda), secondo cui una cosa è l’atto essenziale che si concretizza nell’anima «come un sostrato» (per esempio il possesso della scienza), e una cosa diversa è l’atto che risulta dall’«esercizio di un’operazione» cui è finalizzato l’atto primo (come l’operazione che si compie secondo la scienza posseduta). In  questo senso il conseguimento della felicità naturale da parte dell’uomo è  secondo Dante un’operatio propria dell’essenza in quanto è l’atto secondo cui è destinata, come fine ultimo, l’intera specie umana (cfr. ibid., p. 51). Credo che, sulla base di tale suggerimento, si possa parlare in Dante di una efficace sintesi tra questa dottrina di matrice aristotelica e la tradizione triadica neoplatonica, apertamente evocata e applicata nella Monarchia. È evidente come per Dante l’atto primo degli aristotelici e la potenzialità dell’essenza dei neoplatonici coincidano, in quanto designano entrambi il fondamento virtuale dell’«operazione in cui consiste il fine ultimo dell’universitas hominum, operazione che realizza l’essenza della specie umana» (ibidem). 11

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Ancora una volta la terminologia filosofica di Dante è  rigorosa e  sottile. Q uale effetto primo e  immediato della sua opera creatrice, Dio ha dato esistenza alle sostanze o  essentiae originarie, dense di possibili sviluppi nel corso del divenire storico. Il  fine della creazione, e  quindi l’ordine ad essa imposto dalla volontà divina, è l’attuazione di tali sviluppi, lungo un processo di passaggio dalla potenza o  virtus alla attuazione o  operatio in cui trova piena realtà ciò che è solo virtualmente implicito nella condizione originaria. In questo senso, nell’opera creatrice divina il fine è la creatura portata ad attuazione, passata cioè dalle numerose e indefinite potenzialità originarie alle operationes determinate che le realizzano in modo più o meno definitivo. L’essentia è quindi realizzata dall’operatio, e non viceversa. Sulla scorta di tali princìpi ontologici generali, Dante analizza e  illustra la situazione specifica dell’essere umano. La  creazione dell’umanità è  stata finalizzata all’attuazione delle potenzialità proprie della specie nella sua totalità: è  dunque confermato che non si tratta delle finalità proprie del singolo individuo (cominciando dall’esistenza stessa) o  di quelle condivise da particolari gruppi o  comunità costituite da più individui, ma della finalità unica che è condivisa dall’intera specie, in quanto attuazione delle potenzialità comuni a  tutti gli uomini. In  pieno accordo con la tendenza comune a gran parte della tradizione scolastica del suo tempo, Dante afferma che l’operatio o attuazione delle potenzialità comuni all’umanità consiste nell’esercizio della conoscenza mediante l’intelletto possibile, condizione propria dell’uomo che lo differenzia tanto dagli esseri a  lui inferiori (dai bruti in giù) quanto da quelli superiori (gli angeli). Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest. Q ue autem sit illa, manifestum fiet si ultimum de potentia totius humanitatis appareat. Dico ergo quod nulla vis a pluribus spetie diversis participata ultimum est de potentia alicuius illorum; quia, cum illud quod est ultimum tale sit constitutivum spetiei, sequeretur quod una essentia pluribus spetiebus esset specificata; quod est inpossibile. Non est ergo vis ultima in homine ipsum esse simpliciter sumptum, quia etiam sic sumptum ab elementis participa483

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tur; nec esse complexionatum, quia hoc reperitur in mineralibus; nec esse animatum, quia sic etiam in plantis; nec esse apprehensivum, quia sic etiam participatur a brutis; sed esse apprehensivum per intellectum possibilem: quod quidem esse nulli ab homine alii competit vel supra vel infra. Nam, etsi alie sunt essentie intellectum participantes, non tamen intellectus earum est possibilis ut hominis, quia essentie tales speties quedam sunt intellectuales et non aliud, et earum esse nichil est aliud quam intelligere, quod est quod sunt; quod est sine interpolatione, aliter sempiterne non essent 12.

La conoscenza è  l’atto in cui si realizza la potenzialità migliore dell’essentia umana. Ma essa non è  possibile se l’essentia non è interamente coinvolta nel suo attuarsi, ossia nella piena operatività, assoluta e  necessaria, della capacità conoscitiva propria del genere umano. È evidente allora che la compiutezza della natura dell’uomo, e in essa la piena conoscenza intelligibile mediante l’intelletto possibile, non può realizzarsi nel singolo individuo, ma solo nella comune e condivisa partecipazione del genere umano, fatto di un numero immenso di individui e comunità (o specie) parti­ colari, a un unico processo attuativo del conoscere intellettuale: Patet igitur quod ultimum de potentia ipsius humanitatis est potentia sive virtus intellectiva. Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia haec actuetur 13. 12  Monarchia, I, iii, 4-7. Nell’ultima frase Q uaglioni legge «quid est quod sunt». Per il significato di vis come potenzialità piena, nell’area terminologica platonizzante latina, cfr. G. d’Onofrio, «Inoperans gratia»: problemi del neoplatonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 gennaio 1989), a  cura di M.  Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. Secondo Iacopo Costa vis è piuttosto sinonimo di essentia: cfr. Costa, Principio di finalità cit., p. 59 e nota 45; anche in questo caso credo però che in Dante operi un efficace sincretismo tra fonti aristoteliche e platoniche: la potenza piena o vis, carica di tutte le qualità positive di una realtà, coincide (nella tradizione neoplatonica) con la sua essentia originaria, così come l’atto pieno, la piena realizzazione di tali qualità, coincide con l’essentia pienamente realizzata (e quindi con l’operatio compiuta): nell’uomo, dunque, vis e operatio corrispondono, rispettivamente, alla capacità intelettiva potenziale e alla capacità intelettiva portata a compimento. 13  Monarchia, I, iii, 7-8.

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La pienezza o  perfezione naturale dell’essenza umana è  dunque demandata a  un compito che riguarda la totalità degli individui, e che consiste – e qui il linguaggio di Dante si fa ancora più tecnico  – nel portare ad atto («actuare») l’intera potenzialità dell’intelletto possibile sul duplice versante del sapere, teoretico («ad speculandum») e pratico («ad operandum»), in tutta l’estensione possibile della sua funzionalità conoscitiva e  attiva 14. Ora, poiché nell’individuo l’esercizio effettivo di tale duplice sapere è  sempre subordinato a  una condizione di tranquillità e pacificazione, è  importante osservare che il processo di realizzazione piena della natura umana nell’intero genere umano, da cui dipende il conseguimento comune della felicità naturale, è subordinato alla stabilità della pace universale, la cui realizzazione è affidata al potere imperiale, incarnato in un unico ministro plenipotenziario occultamente prescelto da Dio 15: Satis igitur declaratum est quod proprium opus humani generis totaliter accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis, per prius ad speculandum et secundario propter hoc ad operandum per suam extensionem. Et quia quemadmodum est in parte sic est in toto, et in homine particulari contingit quod sedendo et quiescendo prudentia et sapientia ipse perficitur, patet quod genus humanum in 14 Cfr.  P. Chiesa - A.  Tabarroni, Commento, in Dante Alighieri, Monarchia, a cura di P. Chiesa - A. Tabarroni, Milano 2013, pp. 19-20, ad loc.: «La piena comprensione di questo passaggio (…) è cruciale per intendere il senso del tentativo dantesco, unico e veramente originale nella storia del pensiero medievale, di dare una fondazione metafisica alla trattazione di un argomento politico. Dante afferma che la completa e simultanea realizzazione in atto di tutta la potenzialità conoscitiva dell’uomo non è alla portata né di un singolo né di alcuna comunità parziale, ma essa può essere compiuta soltanto dall’umanità nella sua interezza». Sul piano terminologico la nozione «ultimum de potentia» è di origine scolastica e indica il «limite massimo che può essere raggiunto dall’esercizio di una data facoltà operativa»; ma Dante «fa leva» in modo originale «su tale concetto» per evidenziare come tale limite vada inteso come proprio dell’essenza umana universale, e «continuare a cercare le condizioni che si richiedono, affinché l’umanità tutta intera possa raggiungere il limite massimo delle sue capacità intellettuali (possa conoscere tutto ciò che essa può conoscere), e in questo modo realizzare il proprio fine». Per una analisi approfondita della nozione di ultimum de potentia, con la proposta, in riferimento alla tradizione aristotelica, di identificarlo con la virtù morale, cfr. Costa, Principio di finalità cit., pp. 51-55. 15 Cfr. Chiesa - Tabarroni, Commento cit., p. 20: «Per questa via Dante intende fondare la necessità (deontologica) dell’impero come migliore organizzazione politica di tutti gli uomini».

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quiete sive tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est iuxta illud minuisti eum paulominus ab angeli (Sal 8, 6) liberrime atque facillime se habet. Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum quae ad nostram beatitudinem ordinantur 16.

Si evidenzia dunque in questo capitolo della Monarchia l’incardinarsi, tacito ma incontestabile, dell’antropologia dantesca sull’ontologia platonizzante di cui la dottrina della triadicità delle componenti dell’essere e  del divenire è  stata veicolo efficace nel platonismo tardoantico e altomedievale e nella teologia monastica. La concezione dell’uomo come un soggetto in progresso verso il conseguimento di una perfezione che scaturisce dallo sviluppo e dall’attuazione delle potenzialità migliori di cui è stato dotato da Dio, con la creazione e con l’immissione in un ordine cosmico effetto delle sue scelte provvidenziali, è la stessa che sosteneva la sua potente reinterpretazione in chiave filosofico-teologica della concezione poetico-cortese della ‘gentilezza’ (già nella Vita nova) e della nobiltà (nel Convivio). Alcune tematiche, che caratterizzano con costanza l’esplicazione e  la descrizione di questa teoria, confermano tale continuità e ne siglano l’applicazione alla teoria politica del duplice e concorde assolutismo, imperiale e pontificio, evidenziando l’uni­ tarietà dell’intero progetto di educazione teoretica e  pratica del genere umano che si consolida nelle opere giovanili del poeta prima di confluire nella pienezza e sistematicità di ispirazione della Commedia: 1) la perfezione di natura descritta come essenza pervenuta alla piena attualizzazione delle potenze naturali migliori; 2) l’idea della ‘via’ retta, o del ‘mezzo’ adeguato, che conducono a tale attuazione, quale finalità prima della natura di ciascun singolo essere e di ciascuna specie o genere cui i singoli appartengono; 3) l’esplicita celebrazione della ‘pace universale’ come strumento e come segno, al tempo stesso, dell’avvenuto raggiungimento della meta di tale cammino umano; 4) il principio della condivisione di tale orientamento alla perfezione naturale da parte di tutte le 16  Monarchia, I, iv, 1-2. Da notare che opus è qui sinonimo di operatio, come indicativo dell’atto naturale perfettamente portato a  compimento (o  perfectio), cosa frequente nella tradizione platonizzante altomedievale: cfr.  d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit.; Chiesa - Tabarroni, Commento cit., p. 22, ad loc.

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creature e  di tutte le loro specie, volute da Dio proprio perché portassero ciascuna a  una diversa misura di attuazione del bene comune; e dunque 5) il suo compiersi in particolare nell’uomo, creato «a immagine» della perfezione divina; questi temi si sposano nel dettato della Monarchia specificamente orientato alla costruzione di una teoria politica cristiana definitiva – con altri, tipici della filosofia peripatetico-averroista: 6) la considerazione dell’intelletto possibile come strumento proprio e  privilegiato della realizzazione naturale delle potenzialità naturali dell’uomo; 7) la necessità del riconoscimento del potere assoluto del monarca terreno, unico per garantire l’orientamento degli uomini al vero, e quindi l’unitarietà, anzi l’unicità, del fine della società terrena. * * * Ex hiis ergo quae declarata sunt patet per quod melius, immo per quod optime genus humanum pertingit ad opus proprium; et per consequens visum est propinquissimum medium per quod itur in illud ad quod, velut in ultimum finem, omnia nostra opera ordinantur, quia est pax universalis 17.

Il pensiero esemplaristico si integra e si sovrappone alla teoria politica della sana convivenza umana come unificazione degli interessi e degli obiettivi del corpo sociale: la perfezione massima perseguibile dall’umanità è  infatti quella che le compete come ‘genere’, ossia come universalità degli individui che la compongono nella sua distribuzione storica nelle varie comunità e nazioni particolari e nelle varie epoche. Tale universalità è una realtà superiore a quella delle sue singole parti, tanto quanto l’Uno è superiore alla molteplicità: perché Dio stesso, che ha comandato agli uomini la convergenza in una comunità politica, è principio assoluto di quella unità tendendo alla quale ogni cosa in generale, e il genere umano più di qualsiasi altra cosa, progredisce verso la perfezione naturale; e  l’unicità del princeps scelto da Dio stesso per governarlo è  garanzia assoluta di tale progresso degli uomini verso la   Monarchia, I, iv, 5. Cfr. K. C. Comoth, «Pax universalis». Philosophie und Politik in Dantes «Monarchia», in Soziale Ordnungen in Selbsverständnis des Mittelalters, hrsg. von A. Zimmermann - G. Vuillelmin-Diem, 2 voll., Berlin New York 1980, II, pp. 341-350; A. C. Colombo, Dante per la pace nel mondo, in «Nuova Antologia», 127 (1992), pp. 347-359. 17

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corretta efficienza della capacità intellettiva, che coincide con la piena attuazione delle potenzialità della loro essenza, e garantisce, in essa, l’unità naturale che li assimila al Creatore 18: Et omne illud bene se habet et optime quod se habet secundum intentionem primi agentis, qui Deus est; et hoc est per se notum, nisi apud negantes divinam bonitatem actingere summum perfectionis. De intentione Dei est ut omne causatum divinam similitudinem representet in quantum propria natura recipere potest. Propter quod dictum est: Faciamus hominem ad ymaginem et similitudinem nostram (Gn 1, 26); quod licet ad ymaginem, de rebus inferioribus ab homine dici non possit, ‘ad similitudinem’, tamen de qualibet dici potest, cum totum universum nichil aliud sit quam vestigium quoddam divine bonitatis. Ergo humanum genus bene se habet et optime quando, secundum quod potest, Deo assimilatur. Sed genus humanum maxime Deo assimilatur quando maxime est unum: vera enim ratio unius in solo illo est, propter quod scriptum est: Audi, Israel, Dominus Deus tuus unus est (Dt 6, 4; Mc 12, 29). Sed tunc genus humanum maxime est unum, quando totum unitur in uno: quod esse non potest nisi quando uni principi totaliter subiacet, ut de se patet. Ergo humanum genus uni principi subiacens maxime Deo assimilatur, et per consequens maxime est secundum divinam intentionem: quod est bene et optime se habere 19.

La convergenza di unità, pace e  pienezza della natura assicurata dall’evento dell’incarnazione di Cristo in un uomo ‘perfetto’ non avrebbe potuto realizzarsi (e non può essere concepita, nell’ottica di una lettura politica della realtà umana) se non in un contesto, come quello assicurato dalla prima fiorente realizzazione della monarchia imperiale, di pace e unità universali. Solo tale contesto, che la teologia chiama ‘pienezza dei tempi’, era quello in cui poteva prendere realtà la compiutezza attuale della natura umana in Cristo: Rationibus omnibus supra positis experientia memorabilis attestatur: status videlicet illius mortalium quem Dei Filius, in salutem hominis hominem assumpturus, vel expectavit vel 18 In accordo con questa lettura Iacopo Costa: cfr. Costa, Principio di finalità cit., pp. 61-63. 19  Monarchia, I, viii, 1-5.

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cum voluit ipse disposuit. Nam si a lapsu primorum parentum, qui diverticulum fuit totius nostre deviationis, dispositiones hominum et tempora recolamus, non inveniemus nisi sub divo Augusto monarcha, existente Monarchia perfecta, mundum undique fuisse quietum. Et quod tunc humanum genus fuerit felix in pacis universalis tranquillitate hoc ystoriographi omnes, hoc poetae illustres, hoc etiam scriba mansuetudinis Cristi (cfr. Sir 4, 8; Dn 3, 42; 2Cor 10, 1) testari dignatus est, et denique Paulus plenitudinem temporis (Gal  4,  4) statum illum felicissimum appellavit 20.

Ancora una volta sulla piena convergenza e concordia di informazioni provenienti dalla scienza naturale e dalla rivelazione, Dante definisce la propria teoria dell’unità dello Stato perfetto, che realizza nelle situazioni e condizioni particolari della storia umana la piena realizzazione dell’idea ‘uomo’, ossia del modello esemplare eterno del genere umano, concepito da Dio nel Verbo, e incarnato nella piena natura (potenziale) dei progenitori prima e (attuale) del Cristo poi. La teoria della triade ontologica soggiace anche a questa precisazione: l’essenza dell’umanità perfetta è realizzabile, dopo il peccato originale, solo nella perfetta maturazione della natura umana assunta dal Cristo incarnato, mentre negli altri individui umani si compie progressivamente una attuazione storica e determinata, sempre imperfetta e limitata, delle potenzialità insite nella particolare partecipazione di ciascuno a  tale essenza; al  tempo stesso nelle varie formazioni di comunità sociali umane trovano attuazione sempre e soltanto alcune tra le infinite potenzialità dell’essenza del governo terreno, la cui piena e  perfetta maturazione si è  compiuta soltanto in occasione della pace universale assicurata dalla provvidenziale opera unificante di Augusto, per creare nell’impero la condizione perfetta per l’apparizione storica del perfetto uomo-Dio. * * * A conferma definitiva di tale lettura – con un sorprendente slancio speculativo che lo orienta apertamente verso le radici platonizzanti di questa tematica – Dante ripropone infine la dottrina   Ibid., xvi, 1.

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della triade, in modo inatteso, ma diretto e  assolutamente efficace, anche nel cuore della formulazione della sua teoria della distinzione dei due poteri, imperiale e  papale, altro tema centrale dell’opera, affrontato e  gestito con schietta impostazione averroista 21. È noto il fatto che tale concezione della operatività distinta e parallela dei due governi imposti da Dio all’umanità, naturale e spirituale, in relazione alla duplicità di corpo e anima che caratterizza il genere umano e di rispettive finalità (secondo la formula delle due felicità), è  illustrata nel terzo libro della Monarchia per mezzo della discussione della famosa metafora del sole e della luna 22: che in realtà, più che come una figura retorica, si propone al lettore come esito di una lettura allegorica («allegorice dicta») del versetto biblico relativo alla creazione dei due «grandi luminari», uno maggiore, il sole, e uno minore, la luna, rispettivamente proposti dai trattatisti anti-ghibellini del tempo come simbolo dei due poteri («regimina»), pontificio e  imperiale al fine di argomentare la dipendenza dell’autorità dell’Impero da quella della Chiesa, ordinata secondo la medesima relazione per cui la luna non splende di luce propria ma solo di luce mediata dal sole 23.

21 Cfr.  J. Marenbon, Dante’s averroism, in Poetry and Philosophy in the Middle Ages: A Festschrift for Peter Dronke, ed. J. Marenbon, Leiden 2001 (Mittellateinische Studien und Texte, 29), pp. 349-374; J.-B. Brenet, Organisation politique et théorie de l’intellect chez Dante et Averroès, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 98 (2006), pp. 467-486; R. Imbach, Q uattro idee sul pensiero politico di Dante Alighieri, in «L’Alighieri», 28 (2006), pp. 41-54. 22 Cfr.  Monarchia, III, i, 5: «Q uaestio igitur presens, de qua inquisitio futura est, inter duo luminaria magna versatur: romanum scilicet Pontificem et romanum Principem; et queritur utrum auctoritas Monarchae romani, qui de iure Monarcha mundi est, ut in secundo libro probatum est, inmediate a Deo dependeat an ab aliquo Dei vicario vel ministro, quem Petri successorem intelligo, qui vere claviger est regni celorum». – Sulla diffusione e sull’origine canonistica della metafora (e dell’argomento) dei due luminari, cfr. M. Maccarrone, Il terzo libro della «Monarchia», in «Studi danteschi», 33 (1955), pp. 5-142, in partic. pp. 27-45; G. Carletti, Dante politico: la felicità terrena secondo il pontefice, il filosofo, l’imperatore, Pescara 2006, pp. 97-99; Chiesa - Tabarroni, Commento cit., pp. 168-171, ad loc. 23 Cfr. Monarchia, III, iv, 1-3: «Isti vero ad quos erit tota disputatio sequens, asserentes auctoritatem Imperii ab auctoritate Ecclesiae dependere velut artifex inferior dependet ab architecto, pluribus et diversis argumentis moventur  (…). Dicunt enim primo, secundum scripturam Geneseos, quod Deus fecit duo magna luminaria, luminare maius et luminare minus, ut alterum preesset diei et alterum

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L’interpretazione a sfondo politico dell’allegoria dei due luminari si contestualizza nella tradizione esegetica relativa a un versetto del profeta Abacuc, trasmesso da un Commento di Girolamo in una versione diversa da quella della Vulgata e fondata, invece, sul testo dei Settanta: «Elevatus est sol, et luna stetit in ordine suo» (Ab 3, 11: «Il sole fu innalzato, e la luna si mantenne nella sua posizione secondo l’ordine conveniente») 24. Sulla scorta dei Padri, in particolare di Girolamo e Agostino 25, queste parole furono lette nel primo Medioevo, fino al secolo xii, come indicative della subalternazione della Chiesa (di cui sarebbe simbolo la luna) al  potere e  alla gloria di Cristo (cui è  riferito il sole, in omaggio al  vaticinio sul «sol iustitiae» di Ml 3,  20 e  al verbo «elevatus est», quale allusione all’ascensione in cielo in At 1, 9) 26. Un autore di area monastica che ha deviato da questa compatta tradizione proponendo una identificazione della Chiesa con il sole e del potere secolare con la luna, è il cisterciense inglese Baldovino abate di Ford, e poi arcivescovo di Canterbury († 1189) sotto Enrico II. In un suo breve trattato contro la corruzione morale del clero, scritto dopo essere divenuto primate, egli afferma che i più gravi avvenimenti del tempo, come l’assassinio del suo predecessore Thomas Becket, sono una conseguenza tanto dell’immoralità degli ecclesiastici quanto dell’arroganza dei politici, e che solo una preesset nocti (Gn 1, 16): que allegorice dicta esse intelligebant ista duo regimina: scilicet spirituale et temporale. Deinde arguunt quod, quemadmodum luna, que est luminare minus, non habet lucem nisi prout recipit a sole, sic nec regnum temporale auctoritatem habet nisi prout recipit a spirituali regimine». 24  Nella vulgata il versetto recita, invece: «Sol et luna steterunt in habitaculo suo». Cfr. Hieronymus Stridonensis, Commentaria in Abacuc prophetam, II, 3, 10-13, PL 25, [1273-1337], 1323C, ed. M. Adriaen, Turnhout 1970 (CCSL, 76A), p. 637, 718-726: «Elevatus est sol et luna stetit in ordine suo. Si simplicem interpretationem sequimur, ex praesentibus verbis profectus solis demonstratur et lunae. (…) Cum in consummatione mundi omnis creatura fuerit liberata, liberabitur et sol et luna, et in suo stabunt ordine». 25 Cfr. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, XVIII, 32, PL 41, [13805], 590, edd. B. Dombart - A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 47-48), II, p. 625, 64-66: «Elevatus est sol, et luna stetit in ordine suo: hoc est, ascendit Christus in coelum, et ordinata est Ecclesia sub rege suo». 26  Solo a titolo di esempio, cfr. Gregorius I papa, Moralia in Iob, XVII, 16, 22, [PL 75, 509-1162; PL 76, 9-781], PL 76, 22A, ed. M. Adriaen, 3 voll., 1985, II, p. 864, 8-12; e Beda Venerabilis, In canticum Abacuc prophetae, PL 91, [12351253], 1246C, edd. D.  Hurst - J.  E. Hudson, Turnhout 1983 (CCSL, 119B; Opera exegetica, 2B), p. 397, 439-446.

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purificazione morale della società religiosa, guidata da una estensione universale del modello di vita comunitario cisterciense può ricondurre i poteri terreni all’ordine voluto da Dio 27. Il concetto di ordo gli riporta alla mente il versetto di Abacuc, che interpreta affermando che, come la luce della luna proviene tutta dal sole 28, così la «saecularis potestas» non può rivendicare il diritto a esercitare un potere che non sia corretto e  guidato dalla «ecclesiastica auctoritas» 29. Se viene capovolto il giusto ordine delle cose («perverso ordine rerum»), la Chiesa sarà soggetta alle violenze e  alle intemperanze dei sovrani; se invece il potere ecclesiastico riprenderà a illuminare il potere politico, entrambi saranno orientati al conseguimento della «perfectio» loro e dei sudditi da essi orientati e ordinati 30. La proposta esegetica di Baldovino è con probabilità la fonte ispiratrice della ripresa della medesima lettura, posta alla base di una argomentazione rigorosamente teocratica in alcuni documenti emanati da Innocenzo III (e poi da Bonifacio VIII) in polemica con i sostenitori radicali dell’autonomia dell’impero. Oltre che per la condivisione della medesima chiave allegorica, questi testi di curia sembrano riprendere anche la terminologia dell’arcivescovo inglese, con la distinzione di «pontificalis auctoritas» e «regalis potestas» e la loro corrispondenza, rispettivamente, ai 27  Cfr. Balduinus Cantuariensis Episcopus, De corruptis moribus cleri et populi, PL 204, [415-418], 416CD. – Cfr. M. G. Newman, The Boundaries of  Charity: Cistercian Culture and Ecclesiastical Reform, 1098-1180, Stanford 1996, p. 218. 28 Cfr. Balduinus Cantuariensis Episcopus, De corruptis moribus cleri et populi, PL 204, 416AB: «Q uod in firmamento sunt sol et luna, hoc in Ecclesia Dei sunt ordo rectorum et vita subditorum; ecclesiastica quoque auctoritas, et saecularis potestas. Luna sole inferior est, et a  se non lucet, sed a  sole. Sic et vita subditorum inferior est, quam vita praelatorum, per quos accendi debent et illuminari». 29 Cfr. ibid., 417CD: «Nobis merito imputandum est, et in periculum nostrum redundat, quod saecularis potestas ecclesiastica iudicia sibi vindicat, quod ecclesiastica auctoritate non regitur». 30  Cfr. ibid., 418BD: «Perverso enim ordine rerum luna supra solem exaltata est, et non stat in ordine suo (Ab 3, 11, LXX). (…) Elevetur sol, et revocetur in locum suum, redeat vita sacerdotum ad ordinem suum: sit ordinata, sit disciplinata. (…) Ex tunc erit vita subditorum ordinata et disciplinata suisque finibus contenta. (…)  Thronus Dei in praelatis et perfectis erit sicut sol, luna longe splendidior, longe superior: et luna in subditis minusque nunc perfectis, tunc erit in aeternum, sed perfecta in ordine suo».

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simboli del sole e della luna, con evidente allusione all’ordine corretto che tra esse deve vigere 31. Le pagine che nella Monarchia affrontano la discussione sul­ l’allegoria dei due grandi luminari sono direttamente finalizzate a  contestare la radicalità dell’argomentazione teocratica più accentuata: Dante si propone perciò di confutarla rimettendo le cose a  posto, in difesa di una rispettosa ma decisa autonomia dell’impero, rispetto alla linea interpretativa sostenuta da Baldovino a  sostegno di un deciso programma riformatore e  poi marcata dal pontefice come principio argomentativo della supremazia assoluta del potere ecclesiale. Egli si impegna dapprima nell’individuare l’errore formale nella tesi ierocratica radicale, evidenziando come essa sia innanzi tutto insostenibile sul piano puramente esegetico, perché la natura dei due luminari, che sono stati creati prima degli uomini, non può alludere a quella di due regimi la cui costituzione è invece accidentale alla natura umana in quanto sono finalizzati a porre rimedio alle conseguenze del pec31 Cfr. Innocentius III papa, Epistolae, I, 401, Nobili viro Acerbo priori et aliis rectoribus Thusciae et Ducatus (1 nov. 1198), PL 214, 377AB: «Sicut universitatis conditor Deus duo magna luminaria in Firmamento coeli (Gn 1,  14) constituit, luminare maius, ut praeesset diei, et luminare minus, ut nocti praeesset (Gn  1,  16); sic ad firmamentum universalis Ecclesiae, quae coeli nomine nuncupatur, duas magnas instituit dignitates: maiorem, quae quasi diebus animabus praeesset, et minorem, quae quasi noctibus praeesset corporibus: quae sunt pontificalis auctoritas et regalis potestas. Porro sicut luna lumen suum a sole sortitur, quae re vera minor est illo quantitate simul et qualitate, situ pariter et effectu, sic regalis potestas ab auctoritate pontificali suae sortitur dignitatis splendorem». E cfr. anche un testo quasi identico in Id., Decretale «Solitae», Constantinopolitano imperatori, in Corpus iuris canonici, ed. A. Friedberg, 2 voll., Graz 1959, II, col. 198. Vedi anche Bonifatius VIII papa, Allegacio pro confirmando rege Romanorum Alberto, ed. I. Schwalm, Hannover - Leipzig 1906 (MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, IV.1), p. 139, 15-20: «Fecit Deus duo luminaria magna (Gn 1, 14) (…). Haec duo luminaria fecit Deus ad litteram, sicut dicitur in Genesi. Et nichilominus spiritualiter intellecta fecit luminaria praedicta, scilicet solem, id est ecclesiasticam potestatem, et lunam, hoc est temporalem et imperialem, ut regeret universum. Et sicut luna nullum lumen habet, nisi quod recipit a sole, sic nec aliqua terrena potestas aliquid habet, nisi quod recipit ab ecclesiastica potestate». – Cfr. G. Puletti, Temi biblici nella «Monarchia» e nella trattatistica politica del tempo, in «Studi danteschi», 61 (1989), [pp. 231-306], pp. 247-254; D. Q uaglioni, s. v. Duo luminaria, in Enciclopedia Federiciana, 2 voll., Roma 2006, II, pp. 320-325; O. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e nella prassi dei secoli xii e xiii, a cura di M. P. Alberzoni, Milano 2000 (Cultura e storia, 20), pp. 33-68; Maccarrone, Il terzo libro cit., pp. 33-35.

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cato originale 32. Q uindi, passando oltre tale prima confutazione, introduce quella che è, a suo parere, la corretta ermeneusi dell’immagine profetica: Potest etiam hoc mendacium tollerando per distinctionem dissolvi: mitior nanque est in adversarium solutio distinctiva; non enim omnino mentiens esse videtur, sicut interemptiva illum videri facit 33.

La precisazione in questione viene quindi formulata con una decisione e una schiettezza che può, di primo acchito, sorprendere: Dico ergo quod licet luna non habeat lucem habundanter nisi ut a sole recipit, non propter hoc sequitur quod ipsa luna sit a sole. Unde sciendum quod aliud est esse ipsius lune, aliud virtus eius, et aliud operari. Q uantum est ad esse, nullo modo luna dependet a  sole, nec etiam quantum ad virtutem, nec quantum ad operationem simpliciter; quia motus eius est a motore proprio, et influentia sua est a propriis eius radiis: habet enim aliquam lucem ex se, ut in eius eclipsi manifestum est. Sed quantum ad melius et virtuosius operandum, recipit aliquid a  sole, quia lucem habundantem: qua recepta, virtuosius operatur. Sic ergo dico quod regimen temporale non recipit esse a spirituali, nec virtutem que est eius auctoritas, nec etiam operationem simpliciter; sed bene ab eo recipit ut virtuosius operetur per lucem gratiae quam in coelo et in terra benedictio summi Pontificis infundit illi 34.

Il dettato di questo testo è reso complesso dall’intenzionale contaminazione che Dante imbastisce tra la terminologia relativa alle componenti (potenza e  atto, in particolare) della triade ontologica neoplatonica e i concetti di potere e azione di governo, cui alludono equivocamente i termini virtus e virtuosius da una parte e  i termini opus, operatio e  operari dall’altra 35. La  presenza però  Cfr. Monarchia, III, iv, 12-16.   Ibid., 17. 34  Ibid., 17-20. 35  Non mi sembra che l’origine neoplatonica della triade essentia – virtus – operatio sia riconosciuta da alcuno fra i  lettori recenti della Monarchia, che intendono e traducono diversamente i tre termini e le tre nozioni corrispondenti: cfr.  Dante’s Monarchia, transl. by R.  Kay, Toronto 1998 (Studies and Texts, 131), pp. 228-231 (che li rende genericamente con «essence», «virtue» e «operation», o, quest’ultimo, con le forme verbali «to operate» e  «operating»); 32 33

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anche del primo termine della triade, esse (inequivocabilmente equivalente, qui, a essentia, ragione e fondamento del sussistere di qualcosa), sul quale gli altri due, virtus e operatio, vengono a incardinarsi come diverse condizioni, rispettivamente potenziale e attuale, del sussistere del potere proprio del soggetto (potere di illuminare nei due ‘luminari’, di ben governare nei due regimi), conferma qui in modo inequivocabile lo sfondo di ontologia neoplatonica che attraversa l’intero testo della Monarchia e  rende ragione e spiegazione di alcuni tra i suoi passaggi tematici nodali. Michele Maccarrone è stato il primo a riconoscere uno stretto parallelismo tra questo passaggio dal terzo libro dell’opera politica di Dante e una pagina del De regno (o De regimine principum) 36, appartenente alla sezione finale dell’opera che, come è noto, è stata lasciata incompleta da Tommaso d’Aquino ed è  stata portata a termine dal suo discepolo Tolomeo da Lucca 37: Corporale et temporale ex spirituali et perpetuo dependet, sicut corporis operatio ex virtute animae. Sicut ergo corpus per animam habet esse, virtutem et operationem, ut ex verbis Philosophi et Augustini de immortalitate animae, patet, ita et temporalis iurisdictio principum per spiritualem Petri et successorum eius 38.

Tanto il rimando ad Aristotele, quanto quello al De immortalitate animae agostiniano non mi sembrano facilmente individuabili, se riferiti alla triade: ambedue evidenziano piuttosto una ridotta coscienza, da parte di Tolomeo, dell’origine neoplatonica di questa terminologia, che viene evidentemente integrata alla ed. Q uaglioni cit. (alla nota 8), p. 1275, e Dante Alighieri, Monarchia, a cura di Chiesa - Tabarroni cit. (alla nota 14), p. 179 («essere», «virtù» e «operare»). Cfr. inoltre G. Cremascoli, La Bibbia nella «Monarchia» di Dante, in La Bibbia di Dante: esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante, Atti del Convegno internazionale di studi (Ravenna, 7 novembre 2009), a cura di G. Ledda, Ravenna 2011 (Centro dantesco dei frati minori conventuali. Q uaderni della Sezione studi e ricerche, 4), [pp. 31-47], p. 42. 36 Cfr. Maccarrone, Il terzo libro cit., pp. 46-49. 37 Cfr.  M.-D.  Chenu, Introduction à l’étude de Saint Thomas d’Aquin, Montréal - Paris 1954 (Publications de l’Institut d’études médiévales, 11), pp. 286-288. 38   Tholomaeus de Fladonis, De regno (contin.), III,  10, 980, in Thomas de Aq uino, Opuscola philosophica, ed. R. M. Spiazzi, Torino - Roma 1954, p. 309a.

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concezione tommasiana dell’anima forma unica del corpo. È vero dunque che queste righe del De regno possono essere direttamente collegate alla terminologia usata da Dante («aliud est esse, aliud virtus, et aliud operari»), soprattutto in ragione dell’applicazione della triade alla dottrina della superiorità del potere ecclesiastico su quello imperiale; ma è anche palese il fatto che l’applicazione che se ne fa nella Monarchia alla natura della luna, per procedere alla verifica che essa non dipende dal sole secondo nessuna delle tre componenti da cui la sua natura è formata, conduce il lettore entro l’alveo di una concezione schiettamente platonizzante. È qui del tutto evidente, in effetti, come l’introduzione della ‘distinzione’ (la distinctio metodologica cui fa riferimento Dante all’inizio) di essenza, potenza e atto nella sussistenza naturale di ciascuna creatura, particolare e universale, sia indispensabile per consentire la convalida di verità di un attributo o di un carattere, o di uno stato predicato del soggetto: in questo caso, della condizione di ‘dipendenza’ di una cosa da un’altra; e  come, quindi, una volta verificato che in nessuna delle tre componenti essenziali sussiste propriamente tale dipendenza, sia possibile concludere che non si tratta di una dipendenza di tipo sostanziale, ovvero naturale. Si intende perciò come l’immagine e la terminologia stessa con cui Dante introduce in questo passaggio la dottrina della composizione ontologica trinitaria («sciendum quod aliud est esse ipsius lunae, aliud virtus eius, et aliud operari») si colleghi apertamente, anche se non esplicitamente, alla tradizione dottrinaria della triade sostanziale dei neoplatonici. È dunque definitivamente chiaro come per Dante la realtà di ciascuna creatura scaturisca dall’idea divina corrispondente, quale divenire di una ‘essenza’ o ‘sostanza’ soggiacente a innumerevoli possibilità di attuazione, la cui realizzazione nel processo storico dell’universo creato consiste sempre nel passaggio da condizioni potenziali ad attualità definite, che solo nella compiuta «perfezione» giungeranno alla piena adesione alla volontà divina, produttiva di felicità in atto (cioè ‘operante’) tanto per i singoli individui nella loro singolarità, quanto per la comunità universale corporea e la comunità universale spirituale in cui la loro singolarità si invera. Posto quindi che la realtà della luna (o dell’impero), come quella di ogni cosa creata, si risolve in queste tre componenti, per valutare se la sua dipendenza dal sole (e quindi la dipendenza dell’impero dal papato) sia 496

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naturale, viene singolarmente verificata l’eventuale presenza di tale condizione in ciascuna di esse, dal momento che esse sono le componenti costitutive, come di tutte le altre nature, anche della natura della luna (o dell’impero). Ora, tale dipendenza non concerne l’essere della luna, perché, evidentemente, il sole non è causa efficiente del suo esistere; né la sua potenza, perché essa è capace di illuminare, sia pure in misura ridotta, per sua capacità naturale. Resta l’atto (o operazione), e qui Dante introduce una ulteriore distinzione: simpliciter l’azione illuminante della luna non dipende da quella del sole per lo stesso motivo evidenziato per la potenza, ossia la sua capacità naturale di illuminare e influenzare il mondo sublunare con i  propri raggi; il sole supporta invece l’azione illuminante della luna solo in quanto essa viene compiuta «nel modo migliore e più potente» («quantum ad melius et virtuosius operandum»): il che consente alla sua ‘perfezione’ un incremento qualitativo preziosissimo, ma non indispensabile. Allo stesso modo, dunque, sarà in conclusione eccellente e inestimabile, e tuttavia non sostanziale, il contributo di guida e sostegno che il papato può dare, nella storia dell’umanità, all’operare naturale e dunque autonomo dell’impero. Appare insomma evidente quanto sia significativo – e  certo non secondario per una adeguata comprensione del pensiero politico dantesco – questo suo fondarsi su un principio ontologico di origine platonizzante che sostiene e  consolida una potente concezione dell’autonomia essenziale delle creature. Ogni essere creato è  concepito in questo quadro come finalizzato a  perseguire per natura una perfezione propria, e come capace di riuscire a farlo. Tale perfezione è comunque, per ciascun essere, l’esito di un ricongiungimento con l’archetipo ideale divino, realizzabile singolarmente da ciascun individuo, nella misura consentita dalle sue possibilità naturali,  e, complessivamente, dall’intera specie (o  genere) cui appartiene. Nell’eterna e  immutabile sussistenza identica dell’archetipo vive infatti l’essenza primordiale di ogni individuo, tesa, in un divenire singolare che è il suo proprio e preordinato ‘cammino’, tra la fecondità della potenza e la determinazione dell’atto. Come per ogni creatura, ciò vale pure per i due grandi luminari del cielo, e – che sia accettabile o no la similitudine allegorica che li congiunge ad essi – anche per i due grandi regimina che governano 497

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i  due diversi compiti e  destini dell’umanità intera. La  dottrina politica tracciata nella Monarchia si viene compiutamente a inserire dunque, grazie all’aprirsi di questa specifica tematica, nell’alveo del progetto ontologico-antropologico di Dante, e anzi se ne propone come un determinante coronamento filosofico. Deli­ neato già con chiarezza nella Vita nova e  poi articolatamente esposto e convalidato in tutto il suo spessore teoretico nel Convivio, tale progetto – avente come obiettivo il compimento della «nobiltà» o  «perfezione dell’essere» di ciascuna creatura, in generale, e  dell’essere umano in particolare – si pone dunque come la struttura di supporto speculativo, prima filosofico e poi teologico, che appare sottesa all’intera opera di Dante. E che è dunque destinata a trovare la sua massima espressione – incomparabile, per l’eccezionale convergenza di compiutezza sistematica ed efficacia narrativa che la caratterizza, a ogni altro prodotto della storia del pensiero occidentale – nella composizione del «sacrato poema».

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LA TRIADE SUBSTANTIA – VIRTUS – OPERATIO NEGLI AUTORI DELLA SCUOLA DOMENICANA TEDESCA ALBERTO MAGNO, ULRICO DI STRASBURGO, TEODORICO DI FREIBERG E BERTOLDO DI MOOSBURG La triade substantia  –  virtus  –  operatio, che non di rado compare anche sotto le varianti analoghe essentia – virtus – operatio, forma – potentia – operatio, esse – posse – agere, esse – posse – operari, ricorre frequentemente negli autori della cosiddetta Scuola domenicana tedesca, trovando applicazioni di rilievo in ambiti molteplici, sia all’interno della teologia, dove propriamente si origina, che della filosofia. Gli autori qui esaminati, appartenenti all’area renana e  legati da rapporti di discepolato, oltre che da comuni interessi di studio, sono presentati in ordine cronologico: Alberto Magno, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg e Bertoldo di Moosburg. Si cercherà in primo luogo di indicare la provenienza della triade, per poi chiarire i  diversi significati che essa riveste negli scritti di questi autori.

1. Alberto Magno (ca. 1200-1280) 1 1.1. Genesi della triade nelle opere albertine La conoscenza del trinomio substantia – virtus – operatio giunge ad Alberto dalle opere dello pseudo-Dionigi Areopagita: in primo 1 Le opere di Alberto sono citate secondo le due edizioni di riferimento: 1) l’edi­zione coloniense in corso (indicata di seguito con la sigla «Ed. Colon.», seguita dal nome dei curatori, dall’anno di edizione e – fra parentesi – dal numero del volume): Sancti doctoris Ecclesiae Alberti Magni Ordinis Fratrum Praedicatorum episcopi opera omnia, Institutum Alberti Magni Coloniense, Münster i. W. 1951-2019; 2) l’edizione parigina a cura di Auguste Borgnet per i volumi non anLa triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127968 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 499-520     © 

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luogo dalla Gerarchia celeste, che egli commenta negli anni di insegnamento a Parigi (prima del 1248), poi dai Nomi divini, la cui esposizione sembra risalire agli anni 1249-1250, dopo il suo trasferimento a Colonia (1248) 2. Le versioni latine di base impiegate da Alberto nei Commenti al corpus Dionysiacum sono tuttavia differenti. Per quanto riguarda l’esposizione della Gerarchia celeste, il testo seguito da Alberto è ancora quello di Giovanni Scoto Eriugena 3, compilato intorno all’862, dove i termini οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια sono resi rispettivamente con essentia, virtus ed operatio 4. È questa la forma più antica in cui la triade compare negli scritti di Alberto. L’esposizione ai Nomi divini, invece, segue la versione più recente di Giovanni Saraceno, risalente al 1167, dove i termini della triade sono quelli che appaiono più di frequente nelle opere di Alberto, vale a dire substantia 5 – virtus – operatio. Nell’intero arco della sua produzione, la paternità del trinomio verrà sempre ed unicamente attribuita da Alberto ai due scritti dello pseudoDionigi. Partiremo quindi dal Commento alla Gerarchia celeste per illustrarne prima il significato originario e poi esaminarne le diverse applicazioni.

cora disponibili in edizione critica (indicata di seguito con la sigla «Borgnet», seguita dall’anno di edizione e – fra parentesi – dal numero del volume): B. Alberti Magni Ratisbonensis episcopi Ordinis Praedicatorum opera omnia, cura et labore A. Borgnet, 38 voll., Paris 1890-1899. 2  Secondo  A. Weisheipl il Commento al  De caelesti hierarchia risalirebbe a prima dell’estate del 1248, quando Alberto era ancora a Parigi; il Commento ai Nomi divini apparterrebbe agli anni di insegnamento a Colonia: cfr. J. A. Weisheipl, The Life and Works of  St. Albert the Great, in Albertus Magnus and the Sciences. Commemorative Essays 1980, ed. by J. A. Weisheipl, Toronto 1980 (Studies and Texts, 49), p. 29. 3  Cfr. Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, Prolegomena, § 1, Ed. Colon., edd. P. Simon - W. Kübel, 1993 (XXXVI.1), p. v, 32-46: la traduzione di Eriugena è stata confrontata da Alberto con quelle di Ilduino (composta intorno all’832), Giovanni Saraceno (1167) e Roberto Grossatesta (1235), alle cui varianti testuali Alberto rimanda con le formule «alia translatio», «alia littera», «alia lectio». 4 Cfr. ibid., 11, p. 169, 73. Per il testo pseudo-dionisiano, cfr. CH XI, 2, 284D, in Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués au Denys de l’Aréopage, ed. Ph. Chevallier, 2 voll., Paris 1937, II, p. 930B. 5 Cfr. ibidem.

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1.2. Angelologia Il testo dello pseudo-Dionigi offre ad Alberto l’occasione di svolgere ampie digressioni sui temi che vi erano trattati. Nel cap. VI della Gerarchia celeste viene esposto l’ordine dei nove cori angelici in tre triadi gerarchicamente dipendenti 6 e strutturate come segue: 1) Serafini, Cherubini, Troni; 2) Virtù, Dominazioni, Potestà; 3) Principati, Arcangeli, Angeli. Il  cap. XI 7 affronta conseguentemente una difficoltà che sorge dai testi della Sacra Scrittura e  connessa appunto al  tema delle gerarchie angeliche. In alcuni passi biblici, infatti, il nome «Virtù» (δυνάμεις, virtutes) è impiegato per indicare tutte le intelligenze angeliche; in altri, invece, designa inequivocabilmente un solo ordine, il primo della seconda triade. Premesso dunque che nessuno degli ordini inferiori può eguagliare l’eminenza di quelli superiori, la risposta dello pseudo-Dionigi a  questo equivoco apparente verte sul doppio significato del termine «virtù»: in senso stretto, esso si predica solo dell’ordine angelico a cui è stato conferito il dono della virtus, che caratterizza appunto la sua specifica dignità 8. Più in generale, invece, il nome «virtù» rimanda a  una delle componenti della natura angelica, che per lo pseudo-Dionigi si tripartisce appunto in «essenza» o «sostanza» (οὐσία, essentia/substantia), «virtù» (δύναμις, virtus) e «operazione» (ἐνέργεια, operatio), ognuna delle quali è necessaria per la perfezione degli angeli secondo il loro stato di sostanze intellettuali 9. Il commento albertino si sforza di precisare meglio il significato di questi termini: l’«essenza» è ciò per

 Cfr. CH VI, 2, pp. 830C-834A.  Cfr. CH XI, 2, pp. 929B-933A. 8 Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 8, Ed. Colon., p. 124, 15-25. 9   Alberto non precisa nel passo in questione se la distinzione di sostanza, virtù e  operazione negli angeli sia reale o  semplicemente di ragione. Roberto Grossa­ testa esprime la propria preferenza per una distinzione di ragione; cfr.  Rober­ tus Grosseteste, Versio Caelestis Hierarchiae pseudo-Dionysii Areopagitae cum scholiis ex Graeco sumptis necnon commentariis notulisque eiusdem Lincolniensis, edd. D. A. Lawell - J. McEvoy - J. S. McQ uade, Turnhout 2015 (CCCM, 268), p. 220, 53-56. Secondo Dionigi il Certosino si tratta invece di una distinzione reale; cfr. Dionysius Cartusianus, Commentaria in librum De coelesti seu angelica hierarchia, cura et labore monachorum sacri Ordinis Cartusiensis, Montreuil-surMer - Tournai - Parkminster 1902 (Opera omnia, XV), p. 202aC. 6 7

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mezzo di cui ogni angelo esiste ed è un determinato angelo 10; la «virtù» fluisce dall’essenza ed è la potenza per mezzo della quale l’angelo svolge le proprie operazioni naturali 11; l’«operazione» è l’atto concreto che procede dalla virtù. Al pari di quest’ultima, l’operazione si aggiunge all’essenza e  con la virtù contribuisce a denominare e  distinguere i  diversi ordini angelici 12. Nel cap. V della Gerarchia celeste si era già data la spiegazione del perché tutte le sostanze celesti vengano dette «angeli» 13. La spiegazione ritorna anche nella seconda parte della Summa theologiae 14, dove Alberto spiega che per la comune essenza gli ordini celesti sono chiamati «essenze celesti», per la comune virtù «virtù celesti» e per la comune operazione «angeli»: sono infatti tutti messaggeri o annunciatori del lume divino. Il primo punto che Alberto esamina nel commentare la Gerarchia celeste è stabilire se l’essenza degli angeli sia semplice oppure no. La risposta è negativa 15: ricorrendo a una terminologia di matrice boeziana 16, Alberto dichiara che l’essenza degli angeli è composta di esse e quod est. In quanto sostanze incorporee ma individuali, è necessario distinguere in essi da un lato un principio di comunicabilità (principium communicabilitatis) che funga da atto o forma universalmente comunicabile, ovvero l’essere (esse); dall’altro, un principio di incomunicabilità (principium incommunicabilitatis) per mezzo del quale l’essere angelico venga individuato, ossia il quod est 17. Essenza, virtù 10  Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 8, Ed. Colon., p. 172, 67-75. 11 Cfr. ibid., p. 174, 86-89. 12  Cfr.  ibid., p.  175, 48-52; Id., In  I  Sententiarum, 31,  10, Borgnet, 1893 (XXVI), p. 113a. 13  Cfr.  CH V,  0, 196BD, ed. Chevallier cit., pp.  821-827; Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 5, Ed. Colon., p. 79, 37-40. 14 Cfr. Id., Summa theologiae, II, tr. 10, q. 42, Borgnet, 1895 (XXXII), p. 506b; Id., De IV coaequaevis, tr. 4, q. 53, Borgnet, 1895 (XXXIV), p. 591a. 15 Cfr. Id., Super Dionysium De caelesti hierarchia, 11, Ed. Colon., pp. 169, 52 173, 58. 16  Cfr. ibid., p. 172, 67-68; Anicius Manlius Severinus Boethius, Q uomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia bona (De hebdomadibus), ed. C. Moreschini, München - Leipzig 2000, pp. 187, 26 e 29-31; 188, 37-40; 190, 96-97. 17 Sulla terminologia impiegata da Alberto e  sull’applicazione della distinzione boeziana all’essenza degli angeli, cfr. Albertus Magnus, In II Sententiarum, 1, 4, arg. 3, Borgnet, 1894 (XXVII), p. 13a; Id., De intellectu et intelligibili, I, tr. 2, cap. 1, Borgnet, 1890 (IX), p. 491b.

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e operazione costituiscono pertanto le tre perfezioni della natura angelica, e di queste l’essenza partecipa della immutabilità (incommutabilitas), mentre le due restanti sono esposte alla mutevolezza (commutabiles) 18. Secondo Alberto, inoltre, dalla natura angelica vanno escluse le potenze, le passioni e  gli abiti che Aristotele nel II libro del­ l’Etica Nicomachea 19 assegna all’anima umana. Infatti, mentre la «potenza» è propria dell’anima ed è imperfetta, la «virtù» indica una potenza perfetta. Alla natura degli angeli non possono appartenere neppure le passioni e  gli abiti acquisiti per consuetudine, ma solo gli abiti infusi o  quelli naturali concreati e  inclusi nella «virtù» 20. Passando poi a  discutere della virtus, Alberto afferma che anch’essa, come l’essenza, non è una realtà semplice, ma si compone di due facoltà: l’intelletto e la volontà, procedenti entrambe dall’essenza, e dalle quali deriva, a sua volta, il libero arbitrio, distinguibile da esse solo razionalmente 21. La volontà non si divide in potenze molteplici, come avviene per l’anima umana, poiché nelle sostanze intellettuali non rientra l’appetito irascibile e concupiscibile e il diletto nasce in esse solo dalle operazioni intellettuali naturali o dai doni ricevuti da Dio 22. Il discorso è valido tuttavia solo per gli angeli beati. I  demoni, infatti, pur non avendo perduto i beni naturali di cui dispongono gli angeli beati (come scrive lo pseudo-Dionigi, essi restano «integri e  splendentissimi» 23), sono però indeboliti nel compiere le proprie azioni naturali; essi mancano propriamente di «virtù» e «operazioni» e possiedono piuttosto i  loro contrari: «debolezze» (infirmitates) e  «operazioni difettose» (operationes deficientes) 24. 18 Cfr.  Id., Summa theologiae, I, tr. 5, q. 23, cap. 1, art. 2, Ed.  Colon., ed. D. Siedler, 1978 (XXXIV.1), p. 128, 31-34: qui il termine impiegato è substantia invece di essentia. 19 Cfr.  Aristoteles, Ethica Nicomachea, II 4,  1105b 19-20; Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 11, Ed. Colon., p. 175, 15-18. 20 Cfr. ibid., p. 175, 18-26. 21  Cfr. ibid., p. 176, 30-34. 22 Cfr. ibid., p. 176, 35-43. 23  DN IV, 23, 725C, ed. Chevallier cit., p. 282A: «Integra et splendidissima». 24  Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 11, Ed. Colon., p. 175, 43-47 (Alberto riprende questo tema dallo pseudo-Dionigi: cfr. DN IV, 23, 725B, ed. Chevallier cit., pp. 278D-279D).

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Il Commento alla «Gerarchia celeste», in risposta ad alcuni argomenti avanzati, offre altre precisazioni importanti. Alberto nega che le intelligenze motrici dei cieli di cui parla la tradizione aristotelica si possano identificare con gli angeli 25. Gli angeli infatti non sono realtà immobili, poiché a loro volta sono mossi da Dio: essi muovono in virtù della forma (l’esse) e  sono mossi in virtù del principio ‘materiale’ intrinseco (il quod est) 26. In  più, essi non sono i datori delle forme, poiché in tal caso ne sarebbero anche i creatori, e se sono causa di alcune forme lo sono non di quelle sostanziali, ma solo di quelle presenti nell’intelletto, che possiedono una natura più semplice rispetto a quella delle forme sostanziali 27. 1.3. Trinitaria La triade essentia – virtus – operatio ricorre anche in contesti molto diversi da quello dell’angelologia in cui fa la sua prima comparsa nelle opere di Alberto. Per importanza, il primo ambito da segnalare è quello della teologia trinitaria. Nel I libro del Commento alle Sentenze Alberto afferma che essentia, potentia e operatio in Dio sono la stessa cosa 28 e nella Summa theologiae ribadisce lo stesso concetto spiegando che fede e  filosofia attestano entrambe che substantia, virtus e operatio in Dio coincidono realmente 29. Dio, inoltre, viene detto «eterno» poiché è il solo ad avere substantia, esse, virtus ed operatio (ad intra) immutabili e a non muovere in alcun modo se stesso 30. In lui l’istante dell’eternità (nunc aeternitatis) è un tutto simultaneo presente ugualmente nella sostanza, 25 Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 11, Ed. Colon., p. 173, 7-10. I filosofi citati sono quelli della tradizione araba. Sulla svolta di Alberto, inizialmente favorevole a identificare le intelligenze motrici dei cieli con gli angeli, poi contrario a simile associazione, cfr. L. Sturlese, Storia della filosofia tedesca nel Medioevo. Il secolo xiii, Firenze 1996 (Accademia toscana di scienze e lettere ‘La Colombaria’. Studi, 149), pp. 90-95. 26 Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De caelesti hierarchia, 11, Ed. Colon., p. 173, 51-53. 27  Cfr. ibid., p. 173, 26-33. 28 Cfr. Id., In I Sententiarum, 35, 2, 3, ad 1, Borgnet, p. 182a. 29 Cfr. Id., Summa theologiae, I, tr. 6, q. 29, cap. 1, art. 1, Ed. Colon., p. 216, 37-38. 30  Cfr. ibid., tr. 5, q. 23, cap. 1, art. 2, p. 127, 24-27.

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nella virtù e nell’operazione 31. L’operazione essenziale di Dio è la perseveranza e la permanenza nell’essere e questa è l’azione permanente dell’essenza divina 32. La triade ha anche un ruolo importante nella spiegazione di alcuni appellativi con cui Dio viene indicato nella Scrittura: in più luoghi 33 Alberto afferma che la denominazione «Colui che  è» (Q ui est) implica un riferimento alla sostanza divina; il nome «Signore» (Dominus) rimanda invece alla sua virtù; quello di «Dio» (Deus), infine, all’operazione di provvedere al bene delle creature. Il  concetto in base al  quale il termine «Dio» rappresenta un nomen operationis viene esplicitamente ripreso da Giovanni Damasceno e  Massimo il Confessore (sebbene lo scolio attribuito da Alberto a Massimo rappresenti in realtà un estratto del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena), sulla base della derivazione del sostantivo θεός dal verbo θέειν, currere 34. Nel Com Cfr. ibid., q. 22, cap. 2, art. 2, p. 119, 34-36.  Cfr. Id., De caelo et mundo, II, tr. 1, cap. 7, Ed. Colon., ed. P. Hoßfeld, 1971 (V.1), p. 123, 24-26. 33  Cfr. Id., In I Sententiarum, 2, 4, Ed. Colon., ed. M. Burger, 2015 (XXIX.1), pp. 51, 36 - 52, 12 e p. 53, 24-25; I, 23, 7, arg. 4, Borgnet, 1893 (XXV), p. 600ab; Id., Summa theologiae, I, tr. 8, q. 36, cap. 2, Ed. Colon., p. 280, 41-45; tr. 13, q. 51, Borgnet, 1895 (XXXI), p. 526ab; Id., Enarrationes in evangelium Lucae, 11, 2, Borgnet, 1895 (XXIII), p. 113b. 34 Si vedano in partic. i seguenti passi: Id., In I Sententiarum, 2, 4, Ed. Colon., p. 52, 1-6: «Item: Maximus: ‘Hoc nomen theos derivatur a graeco verbo theoro, idest video sive contemplor sive considero; vel a  verbo theo quod est curro, quia et omnia circumspicit et omnia providentia circuit’, circumspicere autem et circuire sunt operationes, ergo est nomen operationis»; Id., Summa theologiae, I, tr. 8, q. 36, cap. 2, Ed. Colon., p. 280, 38-45: «[In nominibus divinis omnibus] Q uaedam etiam solum connotant effectum et significant essentiam divinam, ut ‘deus’, quando ab operatione divina imponitur, ut dicunt Dionysius et Damascenus. Dicitur enim theos vel a  thein, quod est ardere, vel a  theaste, quod est currere vel circuire, eo quod omnia circuit providentia et cura, vel a theoro, theoras, quod est video, vides, quia omnia videt et considerat»; ibid., tr. 13, q. 51, Borgnet, p. 526ab: «Ad primum objicit Dionysius in libro De divinis nominibus: ‘Deitas est quae omnia videt, providentia et bonitate perfecta omnia circumspiciens et continens, et in seipsa implens, et excedens omnia providentia ipsa utentia’, sive fruentia, secundum aliam translationem. Ubi dicit Maximus in commento: Hoc nomen, θεός derivatur a verbo Graeco θεωρέω, id est, video, sive contemplor, sive considero: vel a verbo θέω, quod est curro: quia et omnia conspicit, et omnia providentia circuit. Hiis addit Damascenus, quod etiam derivatur a verbo Graeco θειοῦν [recte: αἴθειν] quod est ardere». Per i riferimenti albertini a Massimo il Confessore, cfr. Id., In I Sententiarum, 2, 4, Ed. Colon., p. 52, nota 1. Riguardo alla complessa paternità degli scolii che accompagnano il corpus dionisiano, che Alberto poteva leggere nella versione di Scoto Eriugena, cfr.  P.  Simon, Prole31 32

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mento alle «Categorie» 35 aristoteliche, inoltre, Alberto scrive che quando si afferma che Dio è la «sostanza prima», si intende dire che egli è veramente un ente per sé, da sé e in sé esistente, e che gli altri enti si dicono «sostanze» solo per analogia e in proporzione ad esso, poiché quanto più vicini e  simili sono a  Dio, tanto più veramente attingono l’essere per se stessi. 1.4. Cristologia L’identità di sostanza, virtù e  operazione in Dio comporta un significativo riflesso anche nella cristologia. Cristo, in quanto Figlio incarnato, è unito in sostanza, virtù e operazione al Padre. Cristo ha ricevuto la propria sostanza dal Padre, la virtù con cui opera è la virtù divina e le opere che lui compie sono le opere del Padre: vedere lui è vedere il Padre, conoscere lui è conoscere il Padre 36. 1.5. Sacramentaria I termini della triade compaiono anche nell’ambito della sacramentaria. In  un passo del Commento alla «Gerarchia ecclesiastica», in cui si chiede se tutti i  sacramenti ricevano la propria perfezione dal sacramento dell’eucaristia, Alberto risponde che ciascun sacramento in sé è  perfetto secondo la virtù (virtus) e

gomena, § 5, Id., Super Dionysium De divinis nominibus, Ed. Colon., ed. P. Simon, 1972 (XXXVII.1), [pp. v-xx], p. xviii, 31-49. Come si è detto, i rimandi a Massimo nei testi sopra riportati costituiscono in realtà degli escerti aggiunti al testo dello pseudo-Dionigi da un redattore anonimo ed estrapolati da Giovanni Scoto Eriugena (cfr. Johannes Scottus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [440-1022], 452BC, ed. E. A. Jeauneau, Turnhout 1996 [CCCM, 161], p. 18, 436-445). Per i rimandi a Damasceno, cfr. Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa. Versions of  Burgundio and Cerbanus, I, 9, ed. E. M. Buytaert, St. Bonaventure (N. Y.) 1955 (Franciscan Institute Publications. Text series, 8), p. 49, 20-24: «Theos (id est Deus), quod dicitur ab eo quod est thein (id est currere), et fovere universa; vel ab ethin, id est ardere: Deum [recte: Deus] enim ignis consumens omnem malitiam est; vel a theaste (id est considerare) universa: nulla enim eum latent, immo omnium est considerator». Il De fide orthodoxa era accessibile ad Alberto nella versione di Burgundio da Pisa, risalente alla metà del xii sec. 35 Cfr.  Albertus Magnus, De praedicamentis, tr. 2, cap. 12, Ed.  Colon., edd. M. Santos-Noya - C. Steel - S. Donati, 2013 (I.1b), p. 45, 26-32. 36 Cfr. Id., Enarrationes in Iohannem, 8, 19 e 14, 7, Borgnet, 1899 (XXIV), pp. 341a, 533a.

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l’ope­razione (operatio) propria essenziali 37, ma quanto alla congiunzione con il fine ultimo, ogni sacramento riceve la propria perfezione dall’eucaristia, poiché essa contiene in se stessa il fine di tutti i sacramenti, che è Cristo. 1.6. L’universalità della triade come struttura metafisica delle sostanze Il capitolo undicesimo della Gerarchia celeste da cui siamo partiti applicava la triade essentia  –  virtus  –  operatio alle sole sostanze angeliche. Il capitolo quarto dei Nomi divini compie un passo in avanti, poiché estende i termini 38 della triade a tutte le sostanze esistenti. È questo probabilmente il motivo per cui Alberto nel Commento ai «Nomi divini» vede attuata questa universalizzazione già nel capitolo undicesimo della Gerarchia celeste, a cui rimanda esplicitamente 39. Nel capitolo quarto dei Nomi divini il concetto della universale articolazione in substantia – virtus – operatio (la triade viene qui espressa secondo la versione di Saraceno) viene introdotto all’interno della questione in cui si chiede se i demoni siano cattivi per natura 40. Per negarlo, Alberto avanza due ragioni. La prima è che l’angelo non può essere cattivo fin dall’istante della sua creazione, poiché l’operazione dell’angelo segue nel tempo la creazione del proprio essere, cioè l’operazione di Dio, che è buona 41. La  seconda ragione è  quella dello pseudo-Dionigi: i  demoni non possono nuocere né a se stessi né ad altri esseri, poiché in tal caso dovrebbero annientarne o la sostanza o la virtù o l’operazione. Ma è impossibile che ne distruggano la sostanza, poiché questa, intesa non come supposito o composto, ma come natura 37 Cfr. Id., Super Dionysium De ecclesiastica hierarchia, 3, Ed. Colon., p. 56, 61-63. 38  Nel Commento ai Nomi divini Alberto segue la versione di Giovanni Saraceno; la triade che qui compare è pertanto substantia – virtus – operatio: cfr. Simon, Prolegomena cit., p. xviii, 1-3. 39 Cfr.  Albertus Magnus, Super Dionysium De divinis nominibus, 4, Ed. Colon., p. 269, 70-71. 40 Cfr. DN IV, 23, 724CD, ed. Chevallier cit., pp. 271D-273D; ma la triade compare già all’inizio del cap. IV (cfr. ibid., 693B, p. 147D), sebbene sia ancora riferita alle sostanze celesti: cfr. Albertus Magnus, Super Dionysium De divinis nominibus, 4, Ed. Colon., p. 119, 55-75. 41  Cfr. ibid., p. 269, 19-40.

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qual è  la forma, è  indistruttibile; di conseguenza i  demoni non potranno nemmeno annientarne la virtù, che dalla sostanza fluisce, né l’operazione che dalla virtù deriva 42. Q uesti ultimi concetti ricorrono frequentemente nelle opere di Alberto, fino a diventare una sorta di adagi o massime indipendenti: la virtù o potenza si radica nell’essenza 43 e da essa fluisce 44; da nature diverse fluiscono virtù e operazioni diverse 45; nessuna sostanza può essere privata della propria operazione 46 e  per mezzo delle operazioni ci sono note le virtù e dalle virtù le sostanze 47. 1.7. Il legame della triade con la dottrina del vestigio della Trinità La rilevanza della universalizzazione della triade emerge in modo significativo nei passi in cui essa viene associata da Alberto al tema del vestigium Trinitatis nelle creature, l’immagine o impronta di Dio nel mondo come segno della sua esistenza e azione creatrice e provvidente 48. Ciò appare in diversi passi del  Cfr. ibid., pp. 269, 54 - 270, 45; 119, 59-64.  Cfr. Id., Super Porphyrium De V universalibus, Ed. Colon., ed. M. SantosNoya, 2004 (I.1A), p. 101, 38; De praedicamentis, tr. 5, cap. 4, Ed. Colon., p. 111, 1-2; De sex principiis, tr. 2, cap. 1, Ed. Colon., ed. R. Meyer, 2006 (I.2), p. 17, 9-10; Metaphysica, VII, tr. 2, cap. 9, Ed.  Colon., ed. B.  Geyer, 1964 (XVI.2), p.  350, 62-65; In I Sententiarum, 7, 2, ad 4, Borgnet, p. 208b; In II Sententiarum, 25, 1, sol., Borgnet, p. 423b; Summa theologiae, I, tr. 6, q. 27, cap. 1, Ed. Colon., p. 203, 63-65; II, tr. 2, q. 6, Borgnet, p. 121b. 44 Cfr. Id., Physica, VII, tr. 1, cap. 6, Ed. Colon., ed. P. Hoßfeld, 1993 (IV.2), p. 528, 33-36; Metaphysica, VII, tr. 5, cap. 10, Ed. Colon., p. 387, 67-70; De unitate intellectus, Ed. Colon., ed. A. Hufnagel, 1975 (XVII.1), p. 28, 61-63. 45  Cfr.  Id., De animalibus, XV, tr. 2, cap. 2, ed. H.  Stadler, Münster 1920 (BGPM, 16), p. 1020, 3-4; De vegetabilibus, V, tr. 1, cap. 4, edd. E. Meyer - C. Jessen, Berlin 1867, p. 303, 35. 46  Principio derivato da Damasceno: cfr. Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa, II, 37, ed. Buytaert cit., p. 142, 6-10. 47 Cfr. Albertus Magnus, De sex principiis, tr. 2, cap. 3, Ed. Colon., p. 22, 67-68; De anima, I, tr. 1, cap. 1, Ed. Colon., ed. C. Stroick, 1968 (VII.1), p. 2, 4648; De causis et processu universitatis a prima causa, I, tr. 4, cap. 8, Ed. Colon., ed. W. Fauser, 1993 (XVII.2), p. 57, 56-58; II, tr. 2, cap. 31, p. 125, 50-60; De vegetabilibus, III, tr. 2, cap. 4, edd. Meyer - Jessen cit., p. 202, 94. 48  Nel Commento al De caelo Alberto afferma che la perfezione di ogni cosa è nel numero ternario: cfr. Id., De caelo et mundo, I, tr. 1, cap. 2, Ed. Colon., p. 5, 71: «Perfectio cuiuslibet est in ternario». 42 43

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De bono 49, del Commento alle Sentenze 50 e  della Summa theologiae 51. In apertura del Commento alla «Gerarchia celeste» Alberto afferma che Dio, per la liberalità della sua volontà, comunica alle sue creature l’essere (esse), il potere (posse), l’agire (agere) e le grazie aggiunte (gratias superadditas), termini che dunque non rientrano fra i beni naturali, ma nella libera provvidenza di Dio (in providentia dei) 52. I  testi del De bono e  del Commento alle Sentenze (entrambi risalenti al periodo parigino) presentano un testo parallelo. La triade essentia – virtus – operatio è introdotta come una delle nove possibili divisioni del bene (bonum) enumerate dai santi, cioè del vestigio presente nelle creature, ed è attribuita, come di consueto, alla Gerarchia celeste secondo la versione di Eriugena (essentia – virtus – operatio). Nell’ente considerato in actu operis, spiega Alberto, cioè nell’atto perfetto della sua opera, si distinguono: 1) l’essenza come natura in quanto principio di moto, di quiete e di ogni opera 53; 2) la virtù come ciò che la potenza è in grado di realizzare al  massimo grado 54; 3) l’operazione o  atto

49 Cfr. Id., De bono, tr. 1, q. 2, art. 2, Ed. Colon., ed. H. Kühle, 1951 (XXVIII), p. 25, 55-59; p. 27, 4-17; cfr. a questo proposito E. H. Wéber, Dynamisme du bien et statut historique du destin créé, in Die Mächte des Guten und Bösen. Vorstellungen im xii. und xiii. Jahrhundert über ihr Wirken in der Heilsgeschichte, hrsg. von A. Zimmermann, Berlin - New York 1977 (Miscellanea Mediaevalia, 11), [pp. 154-205], p. 181. 50 Cfr. Albertus Magnus, In I Sententiarum, 3, 1, Ed. Colon., pp. 88, 1-2; 89, 28-35. 51 Cfr. Id., Summa theologiae, I, tr. 3, q. 15, cap. 2, art. 1, Ed. Colon., pp. 61, 45-52; 63, 15-27. 52  Cfr. Id., Super Dionysium De caelesti hierarchia, 1, Ed. Colon., p. 6, 22-27. 53  Cfr. Aristoteles, Physica, II 1, 192b 20-23; cfr. anche le Auctoritates Aristotelis: Senecae, Boethii, Platonis, Apulei Africani, Porphyrii et Gilberti Porretani (d’ora in poi: Auctoritates Aristotelis), 2, 50, ed. J. Hamesse, Louvain - Paris 1974 (Philosophes médiévaux, 17), p. 144, 98-99. 54 Nel De bono la virtus viene definita come «ultimum potentiae, quod iam prolapsum est in opus» (tr. 1, q. 2, art. 2, Ed. Colon., p. 27, 9-10) e nelle Sententiae «ultimus prolapsus potentiae in opus» (I, dist. 3, cap. 1, Ed. Colon., p. 89, 3233); è  definizione aristotelica: cfr.  Aristoteles, De caelo, I  11,  281a 11-12; Auctoritates Aristotelis, 3, 37, ed. Hamesse cit., p. 162, 45; Albertus Magnus, De caelo et mundo, I, tr. 4, cap. 5, Ed. Colon., p. 88, 17-56. Nel De bono (tr. 1, q. 2, art. 2, Ed. Colon., p. 27, 11-15) il concetto viene chiarito meglio con l’esempio della differenza fra la virtus come capacità di scrivere nel bambino e quella nello scrittore perfetto: l’esempio proviene ancora da Aristotele, cfr.  Aristoteles,

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dell’opera. Nella Summa, dove la triade compare nella versione di Saraceno (substantia – virtus – operatio), si precisa in aggiunta che la «sostanza» di cui parla Dionigi non è il suppositum o soggetto contrapposto agli accidenti, ovvero il primo genere delle categorie, fondamento di tutte le altre (poiché in tal caso ciò che non è di per sé sussistente, come gli accidenti, non recherebbe traccia della Trinità), ma la realtà costituita dai principi del proprio genere e della propria coordinazione, e in questo senso la «sostanza» è presente in ogni genere 55. Anche l’«operazione» può essere intesa in due sensi: o come l’atto prodotto da una potenza su un oggetto esterno, come vuole Aristotele, e così l’operazione appartiene solo ai particolari 56; oppure, secondo la definizione di Avicenna 57, come l’atto essenziale (actus essentialis) per mezzo del quale l’essenza esiste, atto che è l’essere di ogni cosa creata, il divenire continuo dello stesso essere dalla sua causa. Le operazioni essenziali inoltre, come dice Damasceno 58, si realizzano invisibilmente (inapparibiliter), nel modo in cui, ad esempio, dall’intelletto procede l’operazione dell’intendere (intelligere), dalla facoltà del senso quella del sentire (sentire), dalla facoltà vegetativa quella del vegetare (vegetare), dalla luce quella dell’illuminare (lucere), dall’uomo quella dell’essere uomo (humanare) e dall’asino quella dell’essere asino (asinare). In questa seconda accezione va intesa secondo Alberto l’operazione come immagine della Trinità nelle cose 59. De anima, II 5, 417b 30-32; Auctoritates Aristotelis, 6, 92, ed. Hamesse cit., p. 181, 48-50. 55 Cfr. Albertus Magnus, Summa theologiae, I, tr. 3, q. 15, cap. 2, art. 1, Ed. Colon., p. 63, 88-96. 56  Cfr. Aristoteles, Metaphysica, I 1, 981a 16-20; Ethica Nicomachea, II 7,  1107a 31-32; riguardo all’assioma «le azioni sono dei suppositi», cfr. R. Cross, Accidents, substantial Forms, and causal Powers in the late Thirteenth Century. Some Reflections on the Axiom actiones sunt suppositorum, in Compléments de substance. Études sur les propriétés accidentelles offertes à Alain de Libera, ed.  by C. Erismann - A. Schniewind, Paris 2008, pp. 133-146. 57 Cfr.  Avicenna (Ibn-Sīnā), Liber de philosophia prima sive scientia divina, tr. 8, cap. 1, ed. S. Van Riet, 3 voll., Leuven - Leiden 1977-1983, II, 1980, pp. 376-377. 58 Cfr. Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa, III, 59, ed. Buytaert cit., p. 230, 31, cit. in Albertus Magnus, Summa theologiae, I, tr. 3, q. 15, cap. 2, art. 1, Ed. Colon., p. 63, 20-21. 59 Cfr. M. J. F. M. Hoenen, Trinität und Sein, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 45 (1998), [pp. 206-263], p. 216, note 37-39.

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1.8. Antropologia e cosmologia Anche nel De causis et processu universitatis, la parafrasi dello pseudo-aristotelico Liber de causis (composta fra il 1264 e  il 1267 60), ricorre il tema della triade in chiave universale 61. Va notato tuttavia che nel Liber de causis i termini del trinomio non compaiano mai congiuntamente, né vengono mai esplicitamente riferiti a tutte le sostanze. La struttura degli enti secondo la coordinazione di «sostanza» o  «essere», «virtù» e  «operazione» trova solo accenni rapidi e  in contesti differenti. Si afferma ad esempio che gli intelletti separati sono incorporei poiché in essi substantia e  operatio sono identiche 62; che l’anima nobile congiunta alle sfere celesti possiede tre operazioni (operationes) poiché possiede tre virtù (virtutes) 63; che la virtù divina è superiore alle virtù intellettuale, animale e naturale, poiché è causa di esse 64; che la causa prima effonde le virtù della vita e ogni bene su tutte le realtà con un’unica effusione, mentre i singoli enti recepiscono l’effusione in modo conforme alla propria virtù (virtus) e al proprio essere (esse) 65. Alberto, da parte sua, introduce i termini della triade in due contesti distinti. In primo luogo a  proposito dell’anima razionale o  intellettuale dell’uomo, dichiarando che le potenze sensibili e vegetative possono essere considerate sotto due aspetti: o  secondo l’essere e l’ope­razione, oppure secondo la sostanza, la radice o il principio da cui fluiscono. Q uanto all’essere e all’operazione, le potenze si trovano negli organi; di conseguenza, distrutti gli organi, anche le potenze si corrompono. Secondo la sostanza o  la radice, invece, si radicano nell’anima razionale, dove restano simpliciter anche dopo la corruzione degli organi 66. La ragione di ciò è nella natura 60 Cfr. W. Fauser, Prolegomena, § 2, in Albertus Magnus, De causis et processu universitatis a prima causa, Ed. Colon., [pp. v-xxxii], p. v, 55-80. 61 Cfr. ibid., II, tr. 5, cap. 17, p. 182, 14-41. 62 Cfr. Liber de causis, 6, 70, ed. A. Pattin, Louvain 1966, p. 63, 90-92. La prop. 6 viene esplicitamente menzionata da Ulrico e Teodorico per dimostrare l’identità di sostanza, virtù e operazione nelle intelligenze (cfr. infra, note 83 e 94). 63  Cfr. ibid., 3, 36, p. 53, 32-33. 64 Cfr. ibid., 8, 89, p. 69, 95-97. 65 Cfr. ibid., 19, 157, p. 89, 7-11. 66  Cfr. Albertus Magnus, De causis et processu universitatis a prima causa, II, tr. 5, cap. 8, Ed. Colon., p. 176, 1-10; Super Dionysium De divinis nominibus, cap. 6, Ed. Colon., p. 331, 46-51; De IV coaequaevis, tr. 3, q. 16, Borgnet, p. 443b.

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stessa dell’anima intellettuale, che non inerisce al corpo 67, ma resta appunto separata «secondo la sostanza, l’essere e l’operazione» 68. La triade ricorre anche nel commento alla prop. 28 del Liber de causis, dove viene esposta la differenza fra sostanze soggette alla temporalità e sostanze trascendenti il tempo. Alberto distingue tra sostanza immutabile posta sopra il tempo (supra tempus), sostanze mutevoli soggette al  tempo (sub tempore) e  sostanze intermedie (mediae). La sostanza posta al di sopra del tempo (supra tempus) e prima del tempo (ante tempus) è la causa prima, immutabile sotto ogni aspetto: rispetto all’essere, al quod est, alla virtù e all’operazione. Il suo essere è intrasmutabile, la sua virtù non è mai ostacolata, la scienza del suo intelletto universalmente attivo è priva di oscurità (obumbrationem), il lume intellettuale (lumen) è la virtù della sua operazione, conoscendo se stessa come principio di tutto fa tutte le cose e la sua opera non conosce successione (vicissitudinem). Le sostanze mutevoli, al contrario, sono soggette alla temporalità (sub tempore): sono le sostanze degli enti generabili e corruttibili, che possiedono essere, virtù e operazione sempre mutevoli. Tra le sostanze intermedie se ne distinguono tre. Alcune sono simili alla sostanza che trascende il tempo, e queste sono le intelligenze, che Alberto nel De causis distingue esplicitamente dagli angeli 69, e  che possiedono essere, virtù e  operazione simultanei, ma la loro virtus è sotto un certo aspetto adombrata: in quanto causa seconda, infatti, l’intelligenza ha ricevuto l’essere e l’id quod est dal principio primo da cui deriva (che consiste nell’intelletto universalmente agente 70): per via del principio ‘materiale’ di cui si compone, l’id quod est, essa viene creata dal nulla ed è nulla (ex nihilo est et nihil est). La conoscenza di sé come essere causato, a sua volta, genera la sostanza seconda, che è l’anima motrice del cielo, anch’essa appartenente alle sostanze intermedie. Infine, secondo che l’intelligenza conosce se stessa come proveniente dal nulla ed  Cfr.  Liber de causis, 26,  191-193, ed. Pattin cit., pp.  102,  14  -  103,  24: ho cercato di rendere con il concetto di inerenza quello che nel Liber de causis è reso con l’espressione «delata super rem aliam». 68 Cfr. Albertus Magnus, De causis et processu universitatis a prima causa, II, tr. 5, cap. 10, Ed. Colon., p. 177, 55-63. 69 Cfr. ibid., I, tr. 4, cap. 8, p. 58, 19-29. 70  Cfr. ibid., II, tr. 1, cap. 24, p. 90, 80-87. 67

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essere stata in potenza, patisce un oscuramento: la sua virtù cessa (occidit) e inizia un grado della sostanza che è in potenza, e questa è la materia del corpo celeste. Le anime delle sfere celesti, chiamate per la loro natura «anime nobili», sono immutabili nella sostanza e  nella virtù. Non essendo mosse dal mobile, il loro essere non soggiace al tempo, ma restano sopra il tempo; secondo il loro atto, invece, che è  il moto causato nel mobile, sono dopo l’eternità e  congiunte al tempo. Per questo nel Liber de causis sono dette essere «nell’orizzonte inferiore dell’eternità e sopra il tempo» 71. Esse hanno virtù molteplici. Come è stato detto, la loro operazione è  triplice 72: «divina», in quanto da esse procedono le forme naturali che dispongono la materia inferiore a  ricevere la vita e  il movimento: in questo senso Alberto definisce questa attività dell’anima celeste come attività «creatrice», simile a quella di Dio, causa prima; «intellettuale», in quanto formatrice del lumen intellettuale necessario per la costituzione delle forme intelligibili; «animale», in quanto capace di influire la vita e il moto locale al corpo celeste a cui è congiunta. Anche in un passo della Summa theologiae 73, di poco successiva al De causis, la triade compare associata al tema della temporalità. Si afferma che in nessun modo sono identici il nunc misurante l’essere della sostanza, della virtù e  dell’operazione dell’eterno, il nunc misurante l’essere della sostanza, della virtù e dell’operazione dell’eviterno, e il nunc misurante l’essere della sostanza, della virtù e  dell’operazione degli esseri generabili e corruttibili. 1.9. La triade nella materia della generazione In un passo del De animalibus 74 la triade è  applicata alla materia della generazione. In questa, scrive Alberto, si distinguono la 71   Liber de causis, 2, 22, ed. Pattin cit., p. 50, 80-82: «In horizonte aeternitatis inferius et supra tempus». 72 Cfr. Albertus Magnus, De causis et processu universitatis a prima causa, II, tr. 1, cap. 15, Ed. Colon., pp. 78-79; Liber de causis, 3, 27, ed. Pattin cit., p. 51, 98-100. 73 Cfr. Albertus Magnus, Summa theologiae, I, tr. 5, q. 22, cap. 2, art. 2, Ed. Colon., p. 119, 75-80. 74  Cfr. Id., De animalibus, XVIII, tr. 2, cap. 9, ed. Stadler cit., p. 1242, 7-9.

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sostanza (substantia), composta a sua volta di un principio materiale e di uno efficiente, la virtù (virtus) e l’operazione (operatio). Nel processo generativo, la somiglianza del nascituro con i parenti prossimi o gli avi va progressivamente declinando per disperdersi completamente dopo il quarto grado di parentela per via della crescente mescolanza con l’elemento estraneo alla famiglia di origine. Lo stesso concetto ritorna anche nel Commento al Vangelo di Matteo 75. Nei figli la sostanza dei genitori si trova indivisa secondo natura, virtù e operazione. Nei figli dei figli, per la commistione con l’elemento esterno alla famiglia di origine, si ritrova la virtù e l’operazione, ma la natura solo in parte. Nei nipoti dei figli, per la doppia commistione con l’elemento esterno, non resta che la virtù e l’operazione. Nei pronipoti dei figli si disperdono natura, virtù e operazione.

2. Ulrico di Strasburgo (ca. 1225-1277) Il De summo bono di Ulrico di Strasburgo 76, confratello di Tommaso d’Aquino e  con lui allievo di Alberto prima a  Parigi, poi a Colonia, non presenta approfondimenti di rilievo rispetto alla lezione albertina. La triade rimane legata al nome dello pseudoDionigi, di cui ricorre una sola menzione esplicita, quella di Gerarchia celeste, cap. XI, che ripropone la partizione della natura angelica in essenza, virtù e operazione 77. Il luogo di Nomi divini, cap. IV, utile ad Alberto per generalizzare a  tutte le sostanze la struttura triadica, invece, non ricorre mai in Ulrico, sebbene l’applicazione a principio metafisico universale resti ugualmente operante, come dimostrano diversi passi. Più volte si afferma infatti che nell’essenza di Dio la virtus e l’operatio sono una cosa sola 78 75  Cfr. Id., Super Matthaeum, cap. 19, 5, Ed. Colon., ed. B. Schmidt, 2 voll., II, 1987 (XXI.2), p. 491, 46-59. 76 L’edizione di riferimento per l’opera di Ulrico è: Ulricus Engelberti de Argentina, De summo bono, 6 voll., Hamburg 1987-2017 (Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi). Per ciascuno dei successivi riferimenti si segnalano editore critico, anno e numero del singolo volume dell’edizione. 77 Cfr. ibid., IV, 3, 10, ed. A. Palazzo, 2005 (IV.4), p. 164, 335-336. 78  Cfr. ibid., II, 2, 3, ed. A. de Libera, 1987 (II.1), p. 33, 87; 3, 8, p. 83, 57-60; 5, 12, ed. A. Beccarisi, 2007 (II.2), pp. 71, 28 e 76, 157; III, 5, 6, ed. S. Tuzzo, 2007 (III.2), p. 78, 68-69.

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e  che le sostanze soggette alla temporalità sono invece mutevoli secondo l’essere, le virtù e le operazioni 79. In merito alla dottrina delle sostanze intermedie (intelligenze, anime nobili, sfere celesti), Ulrico mostra una certa incoerenza 80. Da un lato, diversamente da Alberto, identifica gli angeli con le intelligenze celesti e  le anime nobili, distinguibili solo in base alla funzione che svolgono 81, salvo poi ripetere la posizione di Alberto riguardo alla distinzione delle sostanze intermedie esposta nel Commento al «Liber de causis»: la sostanza più prossima al principio primo è appunto l’intelligenza, che nell’essere, nella virtù e  nell’operazione partecipa della immutabilità della causa prima; inoltre con il Liber de causis, prop. 6 82, Ulrico ne rimarca l’unità sostanziale 83; la sostanza più prossima agli esseri temporali è  il cielo, immutabile secondo la sostanza e  l’essere, mutevole quanto all’operazione; media equidistante fra l’intelligenza e il cielo è infine l’anima nobile 84. Viene poi ribadito il concetto secondo cui Dio è un nomen operationis che indica la provvidenza, secondo l’insegnamento di pseudo-Dionigi, Damasceno e  Massimo il Confessore 85. Ritornano molti degli adagi già incontrati in Alberto (all’essere consegue la virtus e l’operatio 86, le potenze fluiscono dalla natura 87 e le operazioni dalla potenza 88), mentre l’associazione della triade al  tema del vestigium Trinitatis non è mai esplicitamente menzionata.

 Cfr. ibid., IV, 3, 3, ed. Palazzo cit., p. 51, 367-369.  Come è stato già evidenziato da Alessandro Palazzo in un suo contributo: cfr.  A.  Palazzo, La  sapientia nel De summo bono di Ulrico di Strasburgo, in «Q uaestio», 5 (2005), pp. 495-512, in partic. pp. 499-501. 81 Cfr. Ulricus Engelberti de Argentina, De summo bono, IV, 3, 1, ed. Palazzo cit., pp. 3-21. 82 Cfr. Liber de causis, prop. 6, 64, ed. Pattin cit., p. 61, 65: «Intelligentia est substantia quae non dividitur», con il commento a p. 63, 93-100. 83  Cfr. Ulricus Engelberti de Argentina, De summo bono, IV, 3, 2, ed. Palazzo cit., p. 34, 387-388. 84  Cfr. ibid., IV, 3, 3, p. 52, 374-394. 85 Cfr.  ibid., II,  1,  5, ed. de Libera cit., p.  16, 9-10; 5, 16, ed. Beccarisi cit., p. 108, 10-13. 86 Cfr. ibid., 4, 1, ed. de Libera cit., p. 118, 42-43. 87 Cfr. ibid., 6, 1, ed. Beccarisi cit., p. 191, 156. 88  Cfr. ibid., III, 1, 2, ed. S. Tuzzo, 2004 (III.1), p. 10, 30-31. 79 80

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3. Teodorico di Freiberg (ca. 1250-ca. 1310) Nel De cognitione entium separatorum 89, dopo avere enumerato i cinque generi di sostanze spirituali esistenti (Dio, le intelligenze, le anime dei cieli, le sostanze angeliche e le anime umane), anche Teodorico di Freiberg dichiara che nelle sostanze angeliche vanno distinte substantia, virtus e operatio, ma la tesi manca di qualunque rimando esplicito allo pseudo-Dionigi. Un aspetto importante che Teodorico non manca di segnalare è  che l’operazione degli angeli (consistente nell’intelligere e nel velle) differisce realmente dalla loro sostanza 90 e  che questa distinzione appare in maniera più chiara e manifesta nelle anime umane 91. Al contrario, le intelligenze e le anime dei cieli non presentano una distinzione essenziale fra sostanza, virtù e operazione 92, concetto che ritorna anche nel De substantiis spiritualibus 93, dove l’identità essenziale di sostanza e operazione nelle intelligenze è fondata sulla prop. 6 del Liber de causis 94. In questo senso, osserva Teodorico, l’intelligenza – ma lo stesso discorso vale anche per le anime dei cieli – è da un lato una moltitudine costituita dal trinomio substantia  –  virtus  –  operatio (altrimenti non disterebbe dalla causa prima, che è Dio), dall’altro è anche un’unità essenziale di questi tre principi, poiché diversamente non potrebbe sussistere come sostanza intellettuale per essenza 95.

89 L’edizione di riferimento per le opere di Teodorico di Freiberg è: Theodericus de Vriberg, Opera omnia, Leitung von K. Flasch, 4 voll., Hamburg 1977-1985 (Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi). Per ciascuno dei successivi riferimenti si segnalano editore critico, anno e numero del singolo volume dell’edizione. 90 Cfr.  Id., De cognitione entium separatorum, 1, ed. R.  Imbach, 1980 (2), p. 169, 64-68. 91 Cfr. ibid., p. 169, 73-74. 92  Cfr. ibid., 5, p. 171, 41-46. 93 Cfr. Id., De substantiis spiritualibus, 9, ed. Imbach cit., p. 310, 12-22. 94 Cfr. Liber de causis, prop. 6, 64, ed. Pattin cit., p. 61, 65. In Teodorico è indicata come prop. 7, a cui viene accompagnata anche la prop. 9: cfr. Id., De substantiis spiritualibus, 9, ed. Imbach cit., p. 310, 12-22. 95 Cfr. ibid., p. 310, 23-26.

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4. Bertoldo di Moosburg († dopo il 1361) Il Commento di Bertoldo di Moosburg 96 all’Elementatio theologica di Proclo nella versione moerbekiana del 1268 97 – che costituisce il primo e l’unico commento medievale a quest’opera fino ad oggi noto – consentì ai lettori dell’area latina di recepire per la prima volta il principio della triade nella sua originaria formulazione procliana. L’esposizione del tema continua a risentire non solo dell’insegnamento di Alberto 98, ma anche di Teodorico 99, del quale Bertoldo fu allievo. La forma essentia – virtus – operatio è impiegata allo stesso modo di quella più recente substantia – virtus/potentia – operatio, e i luoghi classici della Gerarchia celeste 100 e dei Nomi divini 101 pseudo-dionisiani continuano ad essere impiegati da Bertoldo per dimostrare la distinzione reale di questi princìpi nelle sostanze celesti (o  angeli). L’applicazione del trinomio alle intelligenze separate (e conseguentemente alle anime celesti, anch’esse sostanze di natura intellettuale) trova invece il suo fondamento nella prop. 169 dell’Elementatio theologica, in cui Bertoldo trovava formulato il principio della triade. Inoltre, al  pari di Alberto, Bertoldo estende la triade a  tutte le sostanze esistenti, ma a differenza di Alberto l’universalizzazione del principio triadico viene operata senza un riferimento esplicito allo pseudo-Dionigi. Nell’essenza superessenziale, che è Dio, l’essenza e l’operazione coincidono 102. In polemica con l’anonimo Liber de

 Edizione di riferimento: Bertholdus de Moosburg, Expositio super Elementationem theologicam Procli, 8  voll., Hamburg 1984-2014 (Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi). Per ciascuno dei successivi riferimenti si segnalano editore critico, anno e numero del singolo volume dell’edizione. 97 Per la versione latina di Guglielmo di Moerbeke, cfr.  Proclus Diadochus, Elementatio theologica, translata a Guillelmo de Morbecca, hrsg. von H. Boese, Leuven 1987 (Ancient and Medieval Philosophy, Series 1, 5). 98  Cfr. Bertholdus de Moosburg, Expositio super Elementationem theologicam Procli, prop. 52B, ed. A. Sannino, 2001 (III), p. 121, 140-149. 99  Cfr. ibid., prop. 169, edd. U. R. Jeck - I. J. Tautz, 2003 (VII), pp. 90-93. 100 Cfr. ibid., prop. 10B, edd. M. R. Pagnoni-Sturlese - L. Sturlese, 1984 (I), p. 180, 130-131; 174C, edd. Jeck - Tautz cit., p. 140, 126-127. 101 Cfr. ibid., prop. 5B, edd. Pagnoni-Sturlese-Sturlese cit., pp. 115, 98 - 116, 103; 193B, ed. L. Sturlese, 2014 (VIII), p. 100, 20-24. 102 Cfr. ibid., prop. 13F, edd. Pagnoni-Sturlese-Sturlese cit., p. 218, 312-313. 96

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intelligentiis 103 e in continuità con l’insegnamento di Teodorico, Bertoldo precisa che la distinzione reale di essenza, virtù e operazione è valida solo per gli angeli, ma non per le intelligenze, poiché secondo Aristotele 104 nelle sostanze intellettuali sono identici l’intelligens, l’intellectum, la ratio intelligendi e  l’intelligere; in esse pertanto coincidono la sostanza, la potenza e l’operazione 105. Lo stesso principio è altrimenti espresso dichiarando che mentre negli enti soprannaturali (in supernaturalibus) sostanza, potenza e  operazione differiscono solo rispettivamente (respective), ma coincidono in assoluto (re absoluta), negli enti naturali (in naturalibus) sono realmente diverse 106. Inoltre, sulla base della prop. 7 della Elementatio («Omne productivum alterius melius est quam natura eius quod producitur» 107), dove il tema della triade ancora non compare, si afferma che, poiché nessun emanante è superiore al principio da cui emana e ogni operazione emana dalla sua sostanza, nessuna operazione è superiore alla propria sostanza 108. Il maggiore approfondimento del trinomio è  svolto naturalmente nel Commento alla prop. 169, in cui Proclo enuncia il principio della triade. La proposizione recita: «Omnis intellectus in aeternitate substantiam habet et potentiam et operationem» 109. Bertoldo articola i suoi complessi argomenti in tre punti: prima discute della sostanza dell’intelletto separato, della sua potenza e operazione in generale; poi mostra che sostanza, potenza ed operazione sono realmente identici sotto ogni aspetto; infine spiega che ogni intelletto in atto possiede queste proprietà in eterno (in duratione aeternali), poiché possiede una natura immateriale, separata, semplice, attuale, universale, invariabile, impassibile, dotata delle perfezioni di tutti i  generi degli enti (sebbene si tratti di una perfezione infinitamente inferiore rispetto a quella di Dio 103 Cfr. Liber de intelligentiis, capp. 20-58, ed. C. Baeumker, in C. Baeumker, Witelo. Ein Philosoph und Naturforscher des xiii. Jahrhunderts, Münster 1908 (BGPM, 3.2), pp. 25, 16 - 71, 14. 104 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, XII 9, 1074b 38-1075a 5. 105 Cfr. Bertholdus de Moosburg, Expositio super Elementationem theologicam Procli, prop. 27E, ed. L. Sturlese, 1986 (II), p. 165, 155-163. 106  Cfr. ibid., prop. 44B, ed. Sannino cit., p. 75, 72-75. 107 Cfr. ibid., prop. 7, edd. Pagnoni-Sturlese-Sturlese cit., pp. 139-156. 108 Cfr. ibid., prop. 16, prob., ed. Sturlese cit., p. 32, 284-285. 109 Cfr. ibid., prop. 169, edd. U. R. Jeck - I. J. Tautz cit., pp. 90-93.

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e degli altri dèi). All’intelletto sono presenti tutte le cose simultaneamente e, poiché potenza ed operazione sono realmente identiche alla sostanza, esse sono eterne quanto lo è la sostanza. Una certa importanza, come già rilevato in Alberto, ha infine la connessione che Bertoldo istituisce nel Commento alla prop. 74 fra la triade essentia – virtus – operatio (si cita espressamente il capitolo undicesimo del De caelesti hierarchia dello pseudoDionigi) e l’immagine della Trinità nella natura umana (trinitas humanitatis) in associazione con la triade agostiniana esse, velle, scire 110, benché resti un accenno privo di sviluppi ulteriori.

5. Conclusioni Sulla base dell’analisi qui condotta, è possibile trarre alcune osservazioni conclusive. 1) La triade neoplatonica substantia – virtus – operatio è ampiamente nota ai teologi della Scuola domenicana di area renana, e trova applicazioni sia in teologia che in filosofia. 2) Le forme espressive prevalenti sotto cui compare la triade negli autori esaminati sono due: essentia  –  virtus  –  operatio, che costituisce la forma originaria risalente alla versione di Scoto Eriugena della Gerarchia celeste pseudo-dionisiana, e substantia – virtus – operatio, secondo la più recente versione di Saraceno, che si afferma da ultimo come la più ricorrente. 3) La triade è recepita dai teologi renani attraverso le opere dello pseudo-Dionigi Areopagita, al  quale viene attribuita esplicitamente. I luoghi classici di riferimento sono il cap. XI della Gerarchia celeste e il cap. IV dei Nomi divini. In seguito, attraverso la versione latina della Elementatio theologica di Proclo redatta da Guglielmo di Moerbeke nel 1268 e commentata da Bertoldo di Moosburg, il principio della triade viene recepito per la prima volta in area latina nei termini formulati da Proclo nella prop. 169 della Elementatio theologica.  Cfr. ibid., prop. 74C, ed. I. Zavattero, 2003 (IV), p. 56, 210-211. Per la triade agostiniana cfr.  Augustinus Hipponensis, Confessiones, XIII,  11, 12, PL 32, [659-869], 849, ed. L. Verheijen, Turnhout 1990 (CCSL, 27), p. 247, 7-8. 110

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4) Sebbene l’ambito originario in cui compare la triade nelle riflessioni di questi autori sia costituito dall’angelologia, essa trova fin da subito un’applicazione generalizzata a  tutte le sostanze; operazione giustificata con il ricorso al  cap. IV dei Nomi divini. 5) Gli usi più diversificati della triade emergono nelle opere di Alberto. In  teologia, oltre che in riferimento agli angeli, essa compare nell’ambito della trinitaria, della cristologia e  della sacramentaria. In  sede filosofica, le applicazioni più rilevanti riguardano la cosmologia, la filosofia della natura e la biologia. 6) Teodorico e  Bertoldo tematizzano espressamente la distinzione essenziale di substantia – virtus – operatio negli angeli e la loro identità reale nelle intelligenze motrici dei cieli. In  Bertoldo l’argomento è svolto in dichiarata polemica con il Liber de intelligentiis, aspetto assente in Teodorico. Inoltre, l’identità essenziale di sostanza, virtù e operazione nelle intelligenze viene fondata diversamente dai due domenicani: la dimostrazione di Teodorico si fonda sul Liber de causis, quella di Bertoldo sulla Metafisica di Aristotele. 7) Da un punto di vista dottrinale, in ambito filosofico la triade costituisce la struttura metafisica di ogni sostanza e il modello esplicativo che attraversa l’intera gerarchia degli enti, dalla sostanza eterna (Dio), a quelle eviterne (sostanze intellettuali, angeli e anime nobili) fino a quelle temporali. In teologia essa rappresenta una delle principali articolazioni del bene (bonum), e in Alberto compare strettamente connessa con la dottrina del vestigium o immagine della Trinità che risplende nelle sostanze create.

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RES (ESSENTIA), ESSE ESSENTIAE (VIRTUS), ESSE EXISTENTIAE (OPERATIO)

DALL’ESSERE DI ESSENZA ALL’ESSERE INTELLIGIBILE: DUNS SCOTO E GUGLIELMO DI ALNWICK

1. Nelle costruzioni dottrinali degli autori della prima metà del secolo xiv, a livello espressamente lessicale, sembra difficile rilevare una presenza significativa della triade essentia/substantia – virtus/ potentia – operatio/actus 1, costitutiva di ogni realtà, tale da supportare l’ipotesi di un suo esercizio in chiave neoplatonica più che di una semplice declinazione in senso aristotelico dei termini che la compongono 2. Nel pieno rispetto della sua sintassi, di là dalle differenze relative alle voces – ma ogni cautela è qui assolutamente d’obbligo –, ritengo nondimeno possibile individuarne un vesti1 Cfr. G. D’Onofrio, Esse, virtus, operari. Educazione dell’uomo e perfezione naturale nella Monarchia di Dante, in «Ratio practica» e «ratio civilis». Studi di etica e  politica medievali per Giancarlo Garfagnini, a  cura di A.  Rodolfi, Pisa 2016 (Philosophica, 172), [pp.  119-156], p.  132: «Dottrina ontologica di origine neoplatonica, secondo cui ogni realtà sussistente è composta da una triadicità di elementi: da un esse (o essenza, o ousía) che soggiace al procedere di ogni sua virtus (o potentia, potenza) nel compimento naturale in una corrispondente operatio (o actus, atto)»; si veda inoltre Id., «Inoperans gratia»: problemi del neo­ platonismo cristiano ed ermeneutica trinitaria di atto e potenza in Giovanni Scoto Eriugena, in L’Atto aristotelico e le sue ermeneutiche. Atti del Colloquio Internazionale (Laterano, 17-19 Gennaio 1989), a cura di M. Sánchez Sorondo, Roma 1990 (Dialogo di filosofia, 7), pp. 337-366. 2  Per la presenza di questa terminologia in Duns Scoto, in senso aristotelico, si veda per esempio l’assunto di Aristotele citato in Iohannes duns scotus, Ordinatio, IV, d. 49, pars 1, q. 2, n. 19, studio et cura Commissionis Scotisticae, Città del Vaticano, 2013 (Opera omnia, XIV), p. 292: «Operatio autem immediatius perficit potentiam quam essentiam, quia non competit operatio essentiae nisi mediante potentia, ex II De anima et IX Metaphysicae». Cfr. Aristoteles, De anima, II 1,  412a 27-28; Id., Metaphysica, IX 5,  1047b 31-1048a 24. Nelle note successive si farà riferimento all’edizione delle opere di Giovanni Scoto con il riferimento ‘ed. Vaticana’, seguito dall’anno di edizione e, fra parentesi, dal numero del volume. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127969 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 521-539     © 

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gio nella terminologia e nella struttura che si è andata elaborando a  partire dall’impiego in ambito metafisico (e teologico) della nozione di origine avicenniana dell’esse essentiae, uno dei punti più noti e insieme più controversi del pensiero di Enrico di Gand 3. In questo senso mi sembra discretamente plausibile una rilettura della triade neoplatonica essentia – virtus – operatio in quest’altra, anch’essa ontologicamente connotata, di res, esse essentiae ed esse existentiae. Mi è doveroso premettere che tale intuizione, che adotto qui come punto di vista prospettico, ha evidentemente una natura puramente congetturale; e  poiché credo che l’identificazione di questo vestigio possa forse essere più constatata che dimostrata, mi muoverò senza eccessiva preoccupazione di una sua verifica puntuale. Il mio intento si limiterà pertanto a un affondo in questa prospettiva, contestualizzando però l’ipotesi euristica all’interno di un segmento storico-dottrinale preciso: la dottrina delle idee – luogo già in sé eminentemente neoplatonico – sviluppata in opposizione al maestro fiammingo da Duns Scoto 4, e nelle obie-

3 Cfr. P. Porro, Possibilità ed esse essentiae in Enrico di Gand, in Henry of  Ghent. Proceedings of   the International Colloquium on the Occasion of   the 700th Anniversary of  his death (1283), ed. by W. Vanhamel, Leuven 1996 (Ancient and Medieval Philosophy. Series 1, 15), [pp. 211-253], p. 211; Henricus de Gandavo, Q uodlibet, I, q. 9, ed. R. Macken, Leuven - Leiden 1979 (Opera omnia, V), p. 53, 64-68: «Et est distinguendum de esse, secundum quod distinguit Avicenna in fine VI Metaphysicae suae, quod quoddam est esse rei quod habet essentialiter de se, quod appellatur esse essentiae, quoddam vero quod recipit ab alio, quod appellatur esse actualis existentiae». Cfr. Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de philosophia prima sive scientia divina, VI, 1, ed. S. Van Riet, 3 voll., Leuven Leiden 1977-1983, II, 1980, p. 295, 85-91: «Igitur quod illi est essentialiter ab agente, hoc est scilicet esse; hoc uero esse non est ei nisi quia concurrerunt illi alii rei omnia ex quorum concursu debet ut praeter esse quod habet essentialiter habeat aliud esse; sed hoc quod non habuerit esse non est ei ex causa agente» (tr. it., Milano 2002, p. 579: «Dunque, quel che [la cosa] ha per sé dall’agente consiste nell’esistenza e nel fatto che l’esistenza che le appartiene è soltanto perché l’altra cosa [e cioè l’agente] si trova in una situazione [tale] per cui è necessario che a partire dalla sua esistenza, che le appartiene per essenza, provenga un’esistenza per l’altro da sé»). Si veda inoltre Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., p. 226, nota 37. Sul precedente impiego dell’espressione esse essentiae in ambito logico, cfr. J. Pinborg, Logik und Semantik im Mittelalter. Ein Überblick, Stuttgart - Bad Cannstatt 1972 (Problemata, 10), p. 78. 4  Cfr. Iohannes duns scotus, Lectura in primum Librum sententiarum (d’ora in poi: Lectura), I, dist. 36, q. unica, ed. Vaticana, 1966 (XVII), pp. 461476; Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, ed. Vaticana, 1963 (VI), pp. 271-298.

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zioni che a quest’ultimo ha rivolto Guglielmo di Alnwick 5, suo allievo «ma non esattamente suo discepolo» 6. Ora, tentare di seguire le tracce di questa triade nel contesto dottrinale delle idee divine, significa scegliere consapevolmente di porsi sul primo dei due livelli – eterno l’uno, temporale l’altro – nei quali si declina la dimensione sintetica degli elementi costitutivi di ogni creatura, che viene così a essere considerata due volte sintesi di essenza e di potenza-atto: eternamente, in quanto pensiero divino (cioè nella causa primordiale di ogni essere), e  temporalmente, in quanto chiamata all’esistenza particolare (cioè negli effetti spazio-temporali di ogni causa primordiale). Ne risulta una duplicità metafisica della triade naturale, in equilibrio perfetto ed universale in Dio prima della creazione, scissa e moltiplicata nella particolarità degli effetti creati nel loro allontanamento da Dio.  Più schematicamente: essenza-potenza-atto in potenza nell’intelletto divino, essenza-potenza-atto in atto nello svolgimento temporale 7.

In tale contesto, intendo concentrarmi, stante l’ipotesi, sul secondo membro della triade, l’esse essentiae – quello relativo alla potenza (virtus) 8 –, dal duplice punto di vista della sua riconduzione a mero esse intelligibile: nella forma cioè di una riduzione a esse deminutum (Duns Scoto) e nella sua identificazione con l’essere dell’essenza divina (Guglielmo di Alnwick) 9. 5 Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, in Id., Q uaestiones disputatae de esse intelligibili et de quodlibet, ed. A.  Ledoux, Firenze - Q uaracchi 1937 (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, 10), pp. 1-175. 6  Cfr. É. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Paris 1952 (Études de philosophie médiévale, 42), p. 294, nota 1 (tr. it., Milano 2008, p. 303, nota 26). Sulla vita e le opere del francescano, mi permetto di rinviare a D. Riserbato, «Ut induit rationem ideae». L’essenza divina e l’essere intelligibile: identità (e differenza) secondo Guglielmo di Alnwick, in Divine Ideas in Franciscan Thought (xiiith-xivth Century), ed. by I. Zavattero, (Flumen sapientiae, 8), Roma 2018, [pp. 177-201], p. 177, nota 2. 7  d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit., pp. 352-353. 8 Cfr. Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., p. 226: «L’essere dell’essenza coincide dunque con la possibilità, con la capacità di ricevere l’esistenza attuale che manca invece alle res puramente immaginate». 9 Un autorevole tentativo di operare questa riduzione/riconduzione è  rappresentato dalla proposta di Riccardo di Middleton, il quale suggerisce di iden-

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2. La dottrina delle idee acquista in ambito filosofico e teologico, già dalla fine del secolo xiii fino ai secoli xvi e xvii, un interesse sempre più marcato a partire dalla proposta teoretica elaborata dal maestro secolare Enrico di Gand 10. Non intendo qui avventurarmi in un’analisi della nozione di esse essentiae, che, com’è noto, è l’essere che il maestro fiammingo assegna all’idea divina, e  al quale non solo attribuisce una consistenza ontologica maggiore rispetto a quella di un ente di ragione e minore rispetto a quella di un ente esistente in atto 11, ma anche assegna – secondo Duns Scoto – un eccessivo grado di realtà 12. Mi limito piuttosto a giustificare il mio assunto riferendomi a un contributo altamente suggestivo di Jacob Schmutz 13. Egli individua in particolare tre paradossi portati all’emergenza dalla ricezione del pensiero di Enrico e dall’oscillazione tificare l’esse essentiae con l’esse intellectum: cfr. Richardus de Mediavilla, Q uaestiones super quatros libros Sententiarum, I, dist. 35, a. 1, q. 4, Brixiae 1591, f.  303: «Videtur mihi dicendum sine praeiudicio, quod creaturae ab aeterno non fuerunt nec in esse existentiae, nec in esse essentiae, nisi voces esse essentiae esse intellectum, seu repraesentatum intelligatur. Certum est enim, quod creaturae ab aeterno per suas ideas fuerunt divino intellectui repraesentatae, et ab ipso perfectissimae intellectae». Cfr. inoltre J. Paulus, Henri de Gand. Essai sur les tendances de sa métaphysique, Paris 1938 (Études de Philosophie médiévale, 25), pp. 128-129; J. Schmutz, Les paradoxes métaphysique d’Henry de Gand durant le seconde scolastique, in «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 24 (1998), [pp. 89-149], p. 90, nota 2. Per quanto riguarda la rilettura di esse essentiae in esse intelligibile in Guglielmo di Alnwick, cfr. D. Riserbato, Lo statuto ontologico dell’idea e la critica di William Alnwick all’esemplarismo nelle questioni disputate de esse intelligibili (quaestio IV), in «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale» 44 (2019), pp. 181-241. Per una ricognizione della posizione di Guglielmo di Alnwick sull’esse intelligibile, cfr. invece Id., «Ut induit rationem ideae» cit. 10  Cfr. Schmutz, Les paradoxes metaphysiques cit., p. 96: «Henri de Gand fut lui-même un des artisans majeurs de cette mutation considérable qui avait affecté la notion d’idée au xiiième siècle, lorsque le terme abandonne le sens traditionnel de ‘forme subsistante’ pour recouvrir progressivement celui qu’il aura encore à l’âge classique, à savoir celui d’instrument et de terme de la connaissance»; cfr. inoltre L. M. de Rijk, Un tournant important dans l’usage du mot idea chez Henri de Gand, in Idea. VI Colloquio Internazionale del lessico intellettuale europeo (Roma, 5-7 gennaio 1989), a cura di M. Fattori - M. L. Bianchi, Roma 1989 (Lessico Intellettuale Europeo, 51), pp. 89-98. 11   Sul grado di realtà dell’esse essentiae secondo Enrico, cfr. Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., pp. 236-241. 12 Cfr. Iohannes duns scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 13, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 464; Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 13, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 276. 13 Cfr. supra, nota 9.

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della sua proposta dottrinale nella questione delle idee divine nel confronto con Avicenna: (1) Premier paradoxe, qui provient de l’affirmation d’Henri selon laquelle les idées des choses possibles peuvent se définir comme les moyens par lesquels Dieu connaît son essence, mais que ces idées jouissent également d’un être propre de toute éternité. (2) Deuxième paradoxe, celui de savoir s’il convient d’attribuer à ces essences possibles un statut purement négatif, à savoir de les définir par leur non-contradiction, ou bien un statut véritablement positif. (3) Troisième paradoxe enfin, celui de savoir si en dernière analyse, les choses sont possibles parce que Dieu peut les faire ou si Dieu peut les faire parce qu’elles sont possibles. Le terme commun de ces trois paradoxes est en vérité la tension entre la doctrine classique de l’exemplarisme et l’émergence d’un possible intrinsece ou d’une essence possible ad se – c’est-à-dire d’une possible qui ne trouve son fondement ni dans la science, ni dans la puissance divine mais qui puisse néanmoins jouir d’un statut objectif, et qui semble pouvoir se dégager du texte d’Henri – (…) et qui témoigne de l’étonnante créativité d’une oeuvre du xiiième 14.

Personalmente ritengo che questi paradossi siano riducibili a due, nella misura in cui il terzo si può riassorbire nel secondo, e  che siano ultimamente riconducibili a  un unico problema che può essere formulato in questi termini: quale consistenza ontologica attribuire all’idea divina, a un’essenza cioè considerata non come semplice risultato di un’attività o di un’operazione (che per Enrico non si esaurisce nel loro essere conosciute 15) e, dunque, proprio in quanto la precede, quale statuto di ‘possibilità’ conferirle, tale però che essa non deroghi alla nozione di creatio ex nihilo? 16.

  Schmutz, Les paradoxes métaphysiques cit., pp. 95-96.  Cfr. Henricus de Gandavo, Q uodlibet, IX, q. 2, ed. Macken cit., XIII, p. 31; Schmutz, Les paradoxes métaphysiques cit., p. 99. 16 Cfr.  Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., pp.  220-226; 233-234; Schmutz, Les paradoxes métaphysiques cit., p.  103: «Dieu comme créateur semble faire face à l’esse essentiae comme à un possible d’une certaine manière intrinsèque: ‘toute essence existant réellement d’une créature est créée, mais elle ne doit pas à cette création d’être une essence. Ce n’est pas la création actuelle de l’essence qui fait que l’essence est une essence’». 14 15

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Nelle pagine che seguono vedremo come Duns Scoto abbia risposto alla questione dello statuto ontologico dell’idea divina assegnandole un esse intelligibile (o cognitum) 17, interpretato quale esse deminutum, mentre Guglielmo di Alnwick, dopo aver affrontato la questione della possibilità di una res – con riferimento esplicito ad Avicenna e implicito a Enrico di Gand, e muovendosi, in linea con Duns Scoto, per una considerazione del possibile giocata sul duplice livello di possibile/intelligibile ex se formaliter (intrinseco) e  principiative per intellectum divinum (estrinseco) 18 –, si risolva infine a favore dell’identità tra esse intelligibile dell’‘idea/ creatura possibile’ e l’essenza divina e, in base a questa, sviluppi una critica a Duns Scoto circa la produzione dell’essere intelligibile eterno delle idee divine. 3. Nei testi di Duns Scoto l’espressione esse essentiae appare assai di rado: oltre alla sua presenza (non quantitativamente) significativa nelle questioni cristologiche relative al duplice esse (esse essentiae) di Cristo 19, compare in particolare nella critica che rivolge a Enrico di Gand nella dist. 36 del I libro del suo Commento alle 17  Per Duns Scoto non si rileva una differenza significativa tra esse intelligibile ed esse cognitum o intellectum, non così per Guglielmo di Alnwick: cfr. D. Riserbato, «Ut induit rationem ideae» cit., p. 178, nota 6; Per altre sinonimie, cfr. Iohannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 34, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 284: «Esse in intellectione, sive esse exemplatum, sive esse cognitum, sive repraesentatum, quae omnia aequivalent». 18 Cfr.  ibid., dist. 43, q. unica, n.  7, p.  354: «Possibile, secundum quod est terminus vel obiectum omnipotentie, est illud cui non repugnat esse et quod non potest ex se esse necessario; lapis, productus in esse intelligibili per intellectum divinum, habet ista ex se formaliter et per intellectum principiative; ergo est ex se formaliter possibilis et quasi principiative per intellectum divinum». Cfr.  al riguardo F. Mondadori, The independence of  the possible according to Scotus, in Duns Scot à Paris, 1302-2002. Actes du colloque (Paris, 2-4 septembre 2002), a  cura di O.  Boulnois - E.  Karger - J.-L.  Solère et alii, Turnhout 2004 (Textes et Études du Moyen Âge, 26), pp. 313-374; T. Hoffmann, Duns Scotus on the origin of  the possible in the divine intellect, in Philosophical Debates at Paris in the Early fourteenth Century, a cura di S. F. Brown - T. Dewender - T. Kobush, Leiden  - Boston 2009 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 102), pp. 359-379; E. Dezza, La teoria modale di Giovanni Duns Scoto, Roma 2018 (Studia Antoniana, 56), pp. 79-150. 19 Cfr.  Iohannes Duns Scotus, Lectura, III, dist. 6, q. 1, ed. Vaticana, 2003 (XX), pp. 169-183; Id., Ordinatio, III, dist. 6, q. 1, ed. Vaticana, 2005 (IX), pp.  233-248. Cfr.  D. Riserbato, Duns Scoto: fisica, metafisica e  teologia. Saggi sul sacramento dell’altare e  l’unione ipostatica, Frigento 2013 (Collana di Studi scotisti, 1), pp. 182-185.

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Sentenze, ove ricorre già nell’enunciato stesso della questione 20. Duns Scoto critica la posizione di Enrico, ritenendo errato attribuire all’idea un esse essentiae, dotato di un eccessivo grado di realtà ontologica, e che non solo precede la stessa operazione dell’intelletto divino 21, ma implica conseguenze deleterie per la consistenza della nozione di creatio 22, problema cui peraltro lo stesso Enrico non si era mostrato insensibile 23. In  estrema sintesi, per il maestro francescano all’idea bisognerebbe attribuire invece soltanto un esse deminutum, ancorché non privo di una sua consistenza 24. Al termine della sintetica ma precisa recensione della posizione di Enrico, secondo la quale «come Dio, in quanto è efficiente, è causa della cosa nell’essere di esistenza, così, in quanto è esemplare, è causa della cosa nell’essere di essenza» 25, Duns Scoto ci informa che il maestro di Gand sostiene, inoltre, che «la cosa che viene creata è  composta, dal momento che secondo l’essere di essenza è in potenza all’essere di esistenza» 26. Ritengo la precisa20 Cfr. Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 1, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 461: «Utrum creatura, in quantum est fundamentum relationis idealis proximum (sicut suppositum est in quaestione praecedente), habeat verum esse essentiae»; Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 1, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 271: «Circa distinctionem trigesimam sextam quaero utrum fundamentum relationis aeternae ad Deum ut cognoscentem habeat vere esse essentiae ex hoc quod est sub tali respectu». Per un commento e la traduzione della dist. 36 di Lectura, I e Ordinatio, I, cfr. E. Dezza - A. Nannini - D. Riserbato, Fare cose con il pensiero. L’eterna produzione delle idee secondo Duns Scoto. Introduzione, testo e traduzione di Lectura e Ordinatio, I, dd. 35 e 36, Roma 2019 (Bibliotheca Manualia. Complementi, 11). 21 Cfr. Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., pp. 236-241. 22 Cfr. infra, nota 29. Sulla dottrina della creazione in Giovanni Duns Scoto e il concetto di creatio ex nihilo, cfr. E. Dezza, La dottrina della creazione in Giovanni Duns Scoto, Roma 2016 (Medioevo, 27), in partic. pp. 37-41. 23 Cfr. supra, nota 16. 24  Cfr. Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 26, ed. Vaticana, 1966 (XVII), pp. 468-469 e Id., Ordinatio I, dist. 36, q. unica, nn. 44-46, ed. Vaticana, 1963 (VI), pp. 288-289. 25  Id., Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 4, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 462: «Sicut Deus – in quantum efficiens est – est causa rei in esse exsistentiae, ita in quantum est exemplar est causa rei in esse essentiae». Nel testo parallelo di Ordinatio è  Duns Scoto stesso a  indicarci il riferimento preciso ai testi di Enrico: cfr. Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 4, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 273: «Hic quaere opinionem Gandavi de aeternitate essentiarum, et specialiter in Summa 21 quaestione 4». 26  Id., Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 12, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 464: «Res quae creatur composita est, quia secundum esse essentiae est in potentia

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zione circa questo tipo di composizione di atto e potenza secondo Enrico di notevole interesse, per quanto lapidaria, per suffragare l’ipotesi della declinazione della distinzione binaria di potenza e atto in una struttura ternaria, per la quale la composizione ontologica costitutiva di una realtà sia stata in certo modo riletta e reinterpretata – perlomeno dal maestro fiammingo e probabilmente a livello inconsapevole – in quest’altra di res, esse essentiae ed esse existentiae. A  quella precisazione il Sottile aggiunge, però, una riserva circa la natura compositiva di una res nei termini sostenuti da Enrico: nulla est compositio ex hoc quod prius fuit in potentia obiectiva et postea in actu, sicut nulla est compositio in albedine ex hoc quod prius fuit in potentia obiectiva et post in actu; igitur si res, antequam exsistat, sit in potentia obiectiva ad exsistendum et post terminat, nulla propter hoc erit compositio in re 27.

Limitandosi qui alla potenza intesa in senso oggettivo 28, il Sottile obietta alla posizione del Gandavense circa l’attribuzione di un ad esse exsistentiae». Cfr.  inoltre Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n.  12, ed. Vaticana, 1963 (VI), pp. 275-276; Henricus de Gandavo, Summa quaestionum ordinarium, a. 21, q. 4, in corp., ed. J. Badius, 2 voll., Parisiis 1520, I, f. 128S: «Omnis creatura existens in actu est composita ex potentia et actu sive ex essentia et esse»; a. 28, q. 4, in corp., f. 168V e ad 1, f. 168X-Y. 27  Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 20, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 466; cfr. inoltre Id., Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 24, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 280. 28 Cfr.  Henricus de Gandavo, Q uodlibet, VIII, q. 9, ed. Badius cit., f. 318vF; Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., pp. 222-225, in partic. p. 222: «Enrico ricorre ad uno dei tratti più caratteristici e originali del suo intero impianto metafisico, la distinzione tra potentia subiective e potentia obiective: qualcosa può dirsi in potenza rispetto ad un determinato atto o come subiectum da cui qualcos’altro può o deve esser prodotto (…) o come l’obiectum che costitui­sce il termine stesso della produzione  (…). Nel primo caso, l’agente interviene imprimendo se stesso o qualcos’altro – come forma – al sostrato potenziale già disponibile; nel secondo, non si dà una potenza effettiva rispetto all’acquisizione di una forma ulteriore, ma solo rispetto all’intervento dell’agente». Sulla nozione di potentia obiectiva in Duns Scoto, cfr. Iohannes Duns Scotus, Ordinatio, II, dist. 1, q. 3, n. 94, ed. Vaticana, 1973 (VII), pp. 49-50: «Licet enim concedatur potentiam obiectivam praecedere actum, non tamen ipsa est in aliquo actu». Sulla possibilità/potentia in Duns Scoto, mi limito a rinviare a Dezza, La teoria modale di Giovanni Duns Scoto cit., pp.  91-115 e  alla bibliografia ivi segnalata. Si veda inoltre Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 6, ed. Ledoux cit. (alla nota 5), p. 169.

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esse essentiae all’‘idea/creatura fondamento della relazione ideale’. Se, infatti, essa fosse dotata di un essere essenziale, non si darebbe più creazione dal nulla, dal momento che il possesso di tale essere, conferitole dall’eternità, «non è assolutamente un nulla» 29. La conclusione di Duns Scoto è piuttosto chiara: creatura (ut lapis), ut est fundamentum relationis idealis, non est verum ens secundum esse essentiae, nec secundum esse exsistentiae 30; res ab aeterno non habuit esse verum essentiae vel exsistentiae, sed fundat relationem idealem secundum esse deminutum, quod habuit ab aeterno (quod est esse verum, distinctum contra esse essentiae et esse exsistentiae, sicut patet ex VI Metaphysicae): sicut si ponatur quod ego fuissem ab aeterno et quod ab aeterno intellexissem rosam, ab aeterno tunc intellexi rosam secundum esse suum essentiae et secundum esse exsistentiae; et tamen non habuit esse nisi cognitum, – sicut si modo rosa omnino nihil esset, intelligo rosam et secundum esse essentiae et exsistentiae, et tamen neutrum habet. Unde terminus intellectionis est esse essentiae vel esse exsistentiae, et tamen illud quod obicitur intellectui, tantum habet esse deminutum in intellectu 31.

È certamente degna di nota la sottolineatura dell’apprezzabile realismo conoscitivo di Duns Scoto, in base al quale la conoscenza di Dio termina all’essere di essenza come all’essere di esistenza di 29   Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n.  13, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p.  464: «Si res, in quantum aeternaliter fundat relationem ad Deum et ad cognitionem Dei, sit res habens esse essentiale et verum esse reale extra animam, tunc creatio non erit entis de nihilo, sicut patet, quia quod habet esse quiditativum, non est simpliciter nihil, et creatura per positionem ab aeterno habuit esse essentiae». Per le altre argomentazioni, si veda ibid., nn. 14-22 e i testi paralleli di Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, nn. 13-25, ed. Vaticana, 1963 (VI), pp. 276-281. Cfr. Dezza - Nannini - Riserbato, Fare cose con il pensiero cit., p. 38: «Come per il problema delle relazioni eterne, anche in riferimento a questo aspetto Duns Scoto scorge nella proposta di Enrico di Gand un difetto non trascurabile e a suo giudizio insostenibile: l’attribuzione cioè di una sorta di aeternitas all’esse essentiae, che lo rende per ciò stesso termine eterno, per così dire ‘già dato’». 30  Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 36, q. unica, n. 23, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 468. 31  Ibid., n. 26, pp. 468-469. Cfr. Aristoteles, Metaphysica, VI 4, 1027b 3334. Cfr. inoltre Iohannes Duns Scotus, Ordinatio, I, dist. 36, q. unica, n. 28, ed. Vaticana, 1963 (VI), pp. 281-282.

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una res; tuttavia, non si può omettere di osservare al  contempo – ed è ciò che qui più ci interessa – come egli abbia chiara consapevolezza che, non perché Dio conosca la res secondo il suo proprio essere, allora si possa ammettere che questa abbia ricevuto dall’eternità altra consistenza ontologica diversa da quella propria di una realtà conosciuta (esse intelligibile) 32. A questo proposito è possibile sviluppare le seguenti considerazioni: qual è  la consistenza dell’esse intelligibile? E perché Duns Scoto lo antepone alla distinzione (a  suo giudizio insufficiente) tra esse essentiae ed esse existentiae ampiamente utilizzata da Enrico di Gand? La  questione, oggetto della distinzione 36, viene impostata in questi termini: il fondamento della relazione eterna, che è  la creatura/idea in quanto prodotta dall’intelletto divino nell’esse intelligibile in un secondo istante di natura, possiede in sé una reale consistenza in quanto esse essentiae, oppure no? Si potrebbe parlare inizialmente di una consistenza intesa come generica non-ripugnanza: siccome l’idea è possibile in quanto pensata da Dio e prodotta nell’esse intelligibile, allora l’esse intelligibile è per ciò stesso dotato di una sua consistenza (nonché di una sua potenza/virtus). Ma il circolo non esclude il problema: quale consistenza? Q uella (a) della semplice non-contraddittorietà o  della possibilità logica, o  (b) quella dell’esse essentiae nei termini posti da Enrico di Gand, che vincolerebbe tuttavia l’intelletto divino a  terminare o  a  un’essenzialità per certi aspetti già esistente/già offerta al  pensiero divino o  quantomeno implicitamente ‘già selezionata (elicita) per essere creata’, oppure ancora (c) quella di un ‘deminutum’ esse intelligibile, che proprio in quanto ‘ridotto’ (deminutum) offre alla volontà divina il sostrato sul quale esercitare la propria volizione contingente? 33.

Di Duns Scoto conosciamo già la risposta.

32  Tale assunto sarà invece messo in discussione da Guglielmo di Alnwick nel corso della sua critica alla produzione dell’esse intelligibile: cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 5, ed. Ledoux cit., p. 124. 33  Dezza - Nannini - Riserbato, Fare cose con il pensiero cit., pp. 37-38. Cfr. C. G. Normore, Scotus, Modality, Instants of  Nature and the Contingency of  the Present, in John Duns Scotus. Metaphysics and Ethics, ed. by L. Honnefelder R. Wood - M. Dreyer, Leiden - New York - Köln 1996 (Studien zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 53), pp. 161-174, in partic. pp. 161-163.

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4. Passando ora a  Guglielmo di Alnwick – la cui proposta teoretica nell’ambito della dottrina delle idee divine consiste nel considerare l’esse intelligibile come identico all’essenza divina e, conseguentemente, nel negarne ogni origine nei termini di produzione –, e proseguendo nell’indagine riguardo al secondo elemento della triade, quello cioè della virtus/potentia, secondo la prospettiva ermeneutica della riconduzione della nozione di esse essentiae verso una congruenza asintotica con l’esse intelligibile, intendo mettere a tema un’istanza avicenniana sulla natura del possibile, già cara a  Enrico, presente nella discussione avviata dallo stesso Alnwick nella terza delle sue questioni disputate de esse intelligibili 34. Un significativo richiamo ad Avicenna avviene nel contesto della questione «se l’essere intelligibile competa dall’eternità alla creatura in modo intrinseco e formale» 35. Sostenere che l’essere intelligibile eterno competa alla creatura nell’intelletto divino in virtù di una causa estrinseca, ossia Dio, implicherebbe, viceversa, che la non-intelligibilità di un non-intelligibile debba essere imputata a un’impossibilità da parte di Dio di conferirle la qualità di essere intelligibile 36. D’altra parte, in base all’autorità di Anselmo d’Aosta – per il quale la possibilità del mondo non precede affatto la possibilità da parte di Dio di crearlo –, sembrerebbe necessario ammettere, invece, che la creatura sia intelligibile dall’eternità non in virtù di una potenza a sé intrinseca, ma proprio per la potenza di Dio che le è estrinseca 37. In questi termini si presenta l’istruzione della questione che possiamo peraltro considerare come un 34  Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 3, ed. Ledoux cit., pp. 64-93. 35  Ibid., p. 64: «Utrum esse intelligibile conveniat ab aeterno creaturae intrinsece et formaliter». 36 Cfr. ibid., pp. 64-65. Si tratta dello stesso problema di fronte al quale si era già trovato Enrico di Gand: cfr. Porro, Possibilità ed esse essentiae cit., pp. 244246; Schmutz, Les paradoxes metaphysiques cit., pp.  113-124. Cfr.  inoltre Hoffmann, Duns Scotus on the origin of  the possible cit., p. 370: «Scotus refutes Henry’s view in Q uodl. VIII, q. 3, where Henry attributes the impossibility of  a thing to God’s inability to produce it». 37  Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 3, ed. Ledoux cit., p. 65. Cfr. Anselmus Cantuariensis, De casu diaboli, 12, PL 158, [325-359], 342, ed. F. S. Schmitt, Roma - Edinburgh 1946 (Opera omnia, I), p. 253, 13-17.

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prologo irrinunciabile alla critica a Duns Scoto circa la tesi della produzione dell’esse intelligibile 38. La soluzione prospettata dal maestro inglese si fonda sulla distinzione che egli introduce riguardo alla modalità con la quale tale esse può essere attribuito a una creatura: ossia per denominazione estrinseca o in modo formale e intrinseco, ossia in virtù di una potenza intrinseca 39. La  distinzione è  attinta appunto dalle affermazioni di Avicenna presenti nel quarto trattato della sua Metafisica. In base a tale distinzione – prosegue Alnwick – il filosofo arabo dimostra che «istae sunt duae intentiones possibilitatis rei sic: quia ipsam esse possibilem in se est respectu sui ipsius et ipsam esse sic ut sit possibile posse super eam est cum respectu suae relationis ad datorem esse» 40. Non solo: egli si premura di precisare che non intende riferirsi alla potenza intrinseca nei termini immediatamente posti da Avicenna, cioè a quella che compete a una res in virtù di qualcosa di reale che le appartiene – cioè un principio materiale dal quale avrebbe origine tutto ciò che possiede l’essere – e che contraddice alla fede nella creazione ex nihilo 41. Egli la intende piuttosto come una potenza intrinseca che compete a una res secondo la propria ragione formale e, dunque, a prescindere dalla sua esistenza 42. In base a questa distinzione, egli può affermare che

38 Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, qq. 5-6, ed. Ledoux cit., pp. 118-144; pp. 144-175. 39   Tale distinzione richiama quella tra potentia subiective e obiective di Enrico di Gand: cfr. supra, nota 28. 40  Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 3, ed. Ledoux cit., p. 66. Cfr. Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de philosophia prima sive scientia divina, IV, 2, ed. Van Riet cit. (alla nota 3), I, 1977, p. 209, 72-75: «Ipsam enim esse sic ut sit posse super eam, comitans est ad ipsam esse possibilem in se, quia ipsam esse possibilem in se est respectu sui ipsius, et ipsam esse sic ut sit posse super eam est respectu suae relationis ad datorem essendi» (tr.  it. cit., p.  405: «Ed [è chiaro che] il fatto che su di una [cosa] si abbia potere consegue a  che [la cosa] sia possibile in sé, e il fatto che [la cosa] sia possibile in sé è in considerazione dell’essenza stessa, mentre il fatto che su di essa si abbia potere è in considerazione della relazione di essa con quel che la fa esistere»). 41 Cfr. ibid., I, p. 208, 50: «Omne quod incipit habet principium materiale» (tr. it., p. 403): «Per ciò che viene ad essere vi è sempre un principio materiale»; Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 3, ed. Ledoux cit., p. 66. 42  Cfr. ibidem.

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creatura est intelligibilis sive possibilis intelligi dupliciter: uno modo a  potentia primi intelligentis, quia scilicet Deus potest eam intelligere, et sic creatura est intelligibilis a potentia extrinseca. Alio modo dicitur intelligibilis a potentia sibi intrinseca, quia ex ratione sua formali et intrinseca convenit ei quod possit intelligi. Si enim ex parte sui sibi repugnaret intelligi, nunquam a  Deo esset intelligibilis plus quam chimera. Dico igitur quod creatura primo habuit ab aeterno esse intelligibile a potentia Dei intelligentis, quia ab essentia divina, omnia creabilia repraesentante, per quam Deus potest omnia intelligere, et sic creatura dicitur ab aeterno intelligibilis a  potentia extrinsecus denominante  (…), et istud esse intelligibile creaturae est idem realiter cum essentia divina repraesentante omnia 43.

Mi sembra che qui assistiamo al ricorso a una concezione di possibilità non lontana da quella messa in campo, pur con tutta la sua ambiguità terminologica, da Duns Scoto 44. La precisazione circa la natura solo formale della potenza intrinseca pone Guglielmo al  riparo da qualunque necessità di attribuire alla creatura una previa consistenza ontologica, reale e  in atto, diversa da quella dell’esse intelligibile che le compete dall’eternità, cui però – come si vedrà – non intende assegnare lo statuto di ens deminutum. E a un’obiezione secondo la quale, anche ammessa questa duplice potenza, intrinseca ed estrinseca, si dovrebbe ammettere la precedenza della prima sulla seconda, e conseguentemente sostenere che la creatura sia intelligibile in sé, cioè intrinsecamente e  formalmente, prima di essere intelligibile in virtù di Dio 45, Alnwick è disposto anche a concedere che le cose stiano effettivamente in

  Ibid., pp. 66-67.  Cfr. per esempio Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 43, q. unica, nn. 16-17, ed. Vaticana, 1966 (XVII), p. 534. Si veda al riguardo S. P. Marrone, Revisiting Duns Scotus and Henry of  Ghent on Modality, in John Duns Scotus. Metaphysics and Ethics cit., pp. 175-189; Id., Duns Scoto on Metaphysical Potency and Possibility, in «Franciscan Studies», 56 (1998), pp. 265-289, in partic. p. 280: «From his first work on the Sentences, the Lectura, to his last, the Reportatio parisiensis, Duns made it plain that he no longer wanted to be associated with a resolution of  the problem of  modal ontology dependent on Henry’s theory of  essence». Cfr. Hoffmann, Duns Scotus on the origin of  the possible cit., p. 379. 45 Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 3, ed. Ledoux cit., pp. 81-82. 43 44

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questi termini, dato che «ciò che può essere conosciuto precede la conoscenza che se ne può avere» 46, per questa ragione lapis habet esse intelligibile ante actum intelligendi divinum tam ab essentia divina repraesentante quam secundum suam rationem formalem qua lapis est lapis, et nisi lapis formaliter secundum suam rationem formalem esset, intelligibilis et repraesentabilis, quo modo repugnat chimerae esse intelligibile et repraesentabile, non repraesentaretur per essentiam divinam nec esset denominative intelligibilis ab esse intelligibili et esse repraesentato quod est realiter essentia divina, et quando dicitur quod nihil est prius divino intellectu nec divino intelligere et per consequens non prius est lapis intelligibilis quam intelligatur a Deo, dico quod nihil secundum suum esse reale et in effectu est prius divino intelligere, esse tamen intelligibile praecedit secundum rationem, quo modo essentia divina repraesentans omnia praecedit actum intelligendi divinum quo intelliguntur omnia alia 47.

5. Per quanto riguarda la critica di Guglielmo a Duns Scoto, possiamo individuare almeno due plessi argomentativi. Il primo, sviluppato già nella seconda questione disputata 48, colpisce la riduzione dell’esse intelligibile eterno della creatura a un esse secundum quid, cioè a un esse deminutum. Nell’obiettare alla posizione scotiana, Guglielmo si domanda anzitutto, al  di là della riduzione sostenuta da Duns Scoto all’essere dell’intellezione divina 49, «se l’essere intelligibile eterno della creatura coincida realmente con Dio, oppure no» 50. Nel primo caso, non si potrà parlare dell’esse intelligibile eterno come di un esse secundum quid e  diminutum che competa alla creatura per riduzione a quello dell’intellezione divina; il secondo caso, invece, non è più nemmeno contemplabile 46  Ibid., p. 84: «Potest uno modo dici quod hoc est concedendum, praecedit enim cognitionem quidquid cognosci potest». 47   Ibid., pp. 84-85. 48 Cfr. ibid., q. 2, pp. 39-44. 49 Cfr.  ibid., p.  39: «Dicit quod esse intelligibile conveniens creaturae ab aeterno est esse secundum quid quod reducitur simpliciter ad esse intellectionis divinae». 50   Ibid., p. 40: «Q uomodocumque enim esse intelligibile creaturae ab aeterno reducatur ad intellectionem divinam, quaero an esse intelligibile creaturae ab aeterno sit idem realiter cum Deo an non».

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in base a tutta una serie di argomentazioni sviluppate soprattutto nelle sue prime due questioni disputate de esse intelligibili 51. Il secondo plesso della critica di Guglielmo colpisce il tema della produzione dell’essere intelligibile eterno, che trova ampia trattazione nelle questioni disputate quinta e sesta 52. Nella quinta – alla quale mi limiterò assai brevemente –, che si interroga «se l’essere intelligibile eterno della creatura sia prodotto dall’intelletto divino» 53, Guglielmo rileva come molti maestri – tra cui proprio Duns Scoto – rispondano alla questione in termini affermativi: «conoscendo dall’eternità realtà diverse da sé, Dio le ha prodotte e  costituite nell’essere intelligibile eterno mediante un atto di conoscenza» 54. Egli prende le distanze da questa soluzione, obiettando anzitutto che l’oggetto che dall’intelletto è insieme conosciuto e prodotto, è prodotto nell’essere secondo il quale è conosciuto, proprio perché è prodotto in quanto è conosciuto 55. Così, se le creature sono conosciute da Dio dall’eternità, e prodotte da Lui, e sono conosciute non soltanto nell’essere di essenza ma anche in quello di esistenza – come anche l’avversario è disposto ad ammettere 56 –, ne conseguirà che sostenere che l’esse intelligibile eterno delle creature sia prodotto dall’intelletto divino comporterà l’affermazione inammissibile secondo la quale esse siano prodotte dall’eternità nell’essere di essenza e nell’essere di esistenza 57. Ma è a questo punto che, a partire da un argomento contrario all’opinione di Duns Scoto, si sviluppa un’ampia discussione che 51 Per le quali rimando a Riserbato, «Ut induit rationem ideae» cit. (alla nota 9). 52 Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 5, ed. Ledoux cit., pp. 118-144; q. 6, pp. 144-175. 53  Ibid., q. 5, p. 118. 54   Ibid., p. 124: «Deus intelligendo alia a se ab aeterno produxit illa sive instituit in esse intelligibili aeterno per actum intelligendi». 55 Cfr. ibidem. 56 Cfr. supra, nota 32. 57  Cfr.  ibidem: «Si igitur actus intelligendi Dei sit productivus obiecti secundarii in aliquo esse, sequitur quod produxit creaturas ab aeterno secundum naturas proprias sicut modo sunt, quod est impossibile, unde sic opinantes decipiuntur, quia prius secundum rationem intellectus Dei intelligit creaturam secundum propriam naturam quam intelligat esse intelligibile creaturae, si igitur actus intelligendi divinus sit productivus ante operationem voluntatis, prius produceret Deus creaturas in esse reali quam in esse intelligibili».

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ripropone in forma ancor più articolata la questione circa la potentia, che possiamo rileggere ora in termini di possibilità/intelligibilità e, soprattutto, di impossibilità/non-intelligibilità: si creaturae sint productae in esse intelligibili per intellectum divinum, igitur prius natura fuerunt non intelligibiles, ut probabo. Aut ergo creaturae in isto priori erant non intelligibiles, possibiles tamen intelligi, et tunc habuerunt esse intelligibile non causatum, quod est propositum; aut erant non intelligibiles, impossibiles intelligi, et sic nunquam intelligerentur 58.

Tale argomento, che tra l’altro obietta incidentalmente anche al ricorso agli istanti di natura caratterizzante la soluzione del Sottile 59 e, già prima, quella di Enrico di Gand 60, non procede – a differenza dei molti altri argomenti che lo precedono 61 – a determinare direttamente, e in positivo, l’anteriorità dell’esse intelligibile della creatura rispetto all’atto dell’intellezione divina, ma si fonda sulla problematica affermazione della necessaria precedenza – di natura – della non-intelligibilità delle creature, una volta che sia ammessa la loro produzione nell’esse intelligibile, cioè quando si consideri lo stesso esse intelligibile eterno come risultato di una produzione. Tale affermazione trova conferma per Guglielmo nell’assunto di Avicenna secondo cui «la cosa da sé ha il nonessere, e dopo il non-essere possiede l’essere» 62.

  Ibid., p. 127.   Cfr., per esempio, Iohannes Duns Scotus, Lectura, I, dist. 35, q. unica, n. 22, ed. Vaticana, 1963 (XVII), pp. 452-453; Id., Ordinatio, I, dist. 35, q. unica, n. 32, ed. Vaticana, 1963 (VI), p. 258; ibid., dist. 43, q. unica, n. 14, pp. 358-359. 60 Cfr. Porro, Possibilità ed esse essentiae cit. (alla nota 3), pp. 224-225: «Nel primo signum, l’essenza perde il suo non-essere; nel secondo, l’essenza è intermedia tra il non-essere che ha abbandonato e l’essere che sta per acquisire, e in questo senso è subiectum della trasmutazione; nel terzo, infine, l’essenza ha acquisito il suo essere, e in quanto tale è terminus del mutamento»; cfr. Henricus de Gandavo, Summa quaestionum ordinarium, art. 59, q. 2, ed. Badius cit. (alla nota 26), f.  138vR; Id., Q uodlibet, X, q. 7, ed. R.  Macken, Leuven - Leiden 1981 (Opera omnia, XIV), p. 189, 42-45. 61 Cfr. Guglielmo di Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 5, ed. Ledoux cit., pp. 124-127. 62  Cfr. ibid., p. 127. Cfr. Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de philosophia prima sive scientia divina, VI, 1, ed. Van Riet cit. (alla nota 3), II, p. 295, 84-86: «Postquam non fuerat sed ab agente habet tantum quod est postquam autem res ex 58 59

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Ora, è  impossibile – prosegue il maestro inglese – che si dia una creazione che non implichi un passaggio dal non-essere all’essere. Se, infatti, si ammettesse che una creatura fosse prodotta da Dio dall’eternità, dovrebbe essere prodotta da qualcosa o dal nulla; data l’impossibilità della prima ipotesi – non può infatti essere prodotta da qualcosa, poiché non è prodotta de substantia Dei, e in questo caso non sarebbe più una creatura –, è necessario concedere che ogni creatura prodotta dall’eternità sia prodotta dal nulla. Ma tutto ciò che è  prodotto dal nulla, che è  cioè creato, implica un passaggio dal non-essere all’essere: ciò deve valere anche per l’esse intelligibile eterno della creatura, una volta che lo si ritenga prodotto dall’intelletto divino 63. L’esse intelligibile, pensato come prodotto, seguirà dunque necessariamente il non-esse intelligibile secondo una posteriorità di natura 64. Eppure, Dio non può rendere possibile qualcosa che sia in sé assolutamente impossibile 65; e d’altra parte, «non perché Dio la conosca dall’eternità seipsa habet non esse, sequitur tunc ut esse eius sit post non esse et fiat postquam non fuerat» (tr.  it. cit., p.  579: «Se da sé stessa le appartiene la non-esistenza (al-lā-wugˇūd), consegue necessariamente che la sua esistenza venga ad essere dopo non essere stata e che [la cosa] sia, dunque, dopo non essere stata»). 63 Per Guglielmo, dunque, non si potrebbe parlare di produzione di esse intelligibile senza per ciò stesso ammettere che si tratti di una vera e propria creazione. 64  Cfr. Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 5, ed. Ledoux cit., pp. 127-128. Cfr. Avicenna (Ibn Sīnā), Liber de philosophia prima sive scientia divina, VI, 2, ed. Van Riet cit., II, p. 304, 71-73: «Q uod autem est rei ex seipsa apud intellectum prius est per essentiam, non tempore, eo quod est ei ex alio a se. Igitur omne causatum est ens post non ens posterioritate essentiae» (tr. it. cit., p. 591: «E quel che alla cosa appartiene in sé è anteriore nella mente – per essenza, non per quanto riguarda il tempo – rispetto a quel che è a partire da altro da sé. Ecco allora che ogni causato ‘è’ [aysa] dopo che ‘non è’ [laysa], secondo una posteriorità di essenza»). 65 La considerazione della questione, per così dire, attraverso il suo negativo, aveva determinato in Enrico di Gand un cambio di prospettiva, cfr. Schmutz, Les paradoxes métaphysiques cit. (alla nota 9), p.  137: «Dans le Q uodlibet  VI (datant de 1281 ou 1282), lorsqu’il cherchait à identifier l’origine de la possibilité des choses, il semble y conclure que la possibilité intrinsèque de la créature dépend de la puissance de Dieu. Les choses sont ainsi possibles en elles-mêmes seulement parce que Dieu a le pouvoir de les faire. En revanche, pour l’impossibilité, c’estil renverse le schéma: si des choses sont absolument impossibles, c’est en vertu d’elles-mêmes. Cependant, deux ans plus tard, dans le Q uodlibet VIII, il semble changer de position quant à l’impossible. Il dit alors que c’est parce que Dieu ne peut pas faire l’impossible qu’elles le sont. (…) il semble donc bien y avoir ici une consistance absolue de l’esse essentiae».

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allora la creatura ha l’essere intelligibile dall’eternità» 66; al contrario, lo si era visto: esse intelligibile non solum convenit creaturae ab aeterno extrinseca denominatione ab essentia divina repraesentante, sed etiam intrinseca ratione ipsius creaturae, ita quod creatura est intelligibilis ab aeterno formali et intrinseca sua ratione et significatione 67.

La risposta alla questione non potrà che consistere nel fatto che per Guglielmo «l’essere intelligibile che compete alla creatura dal­l’eternità non è  prodotto dall’intelletto divino» 68. Come Enrico per l’esse essentiae, così Guglielmo per l’esse intelligibile: entrambi pretendono di assegnare a essi una consistenza ontologica superiore a quella di un semplice esse deminutum e che certamente non potrà essere conseguenza di un’azione produttrice per quanto eterna, dato che precede qualunque operazione del­ l’intelletto divino. 6. È sullo sfondo di questo dibattito assai stimolante che si è tentato di situare l’ipotesi della presenza e dell’esercizio della triade neoplatonica (essentia/substantia – virtus/potentia – operatio/actus) secondo la rilettura, diversa per vocabolario ma identica nel significato, di essentia – esse essentiae – esse existentiae, documentando in particolare la trasformazione del secondo elemento (virtus/ potentia) a partire dall’esse essentiae di Enrico di Gand fino all’esse intelligibile di Duns Scoto e di Guglielmo di Alnwick, con le rispettive differenze. In base a questo suggestivo scenario, trovo che assegnare una consistenza ontologica all’essenza che non si riduca a  quella di un mero ente di ragione (esse essentiae, esse deminutum, esse intelligibile nella sua identità con l’essenza divina), pur secondo un differente grado di realtà, e  il parallelo approfondimento della nozione di potentia, che già in Enrico di Gand aveva determi66   Guillelmus de Alnwick, Q uaestiones disputatae de esse intelligibili, q. 5, ed. Ledoux cit., p. 136: «Non igitur habet esse intelligibile ab aeterno, quia a Deo intelligitur ab aeterno». 67  Ibid., q. 3, p. 75. 68  Ibid., q. 5, p. 136: «Esse intelligibile conveniens creaturae ab aeterno non est productum ab intellectu divino».

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nato una profonda mutazione del vocabolario ereditato da Aristotele 69, siano indizi di una concezione medievale della struttura metafisica del reale che non si rassegna alla prospettiva aristotelica binaria di potenza e atto 70 – pur riproposta essa stessa come «una chiave interpretativa del rapporto esistenziale vigente tra Dio e le creature» 71 –, ma che sia sempre tendenzialmente e  inconsapevolmente sensibile alla dimensione triadica di esse, virtus, operatio, secondo la quale ogni realtà deve essere considerata come una essentia, che in sé è in potentia ciò che i suoi effetti realizzano in actu. Ogni essere creato è dunque al tempo stesso essentia, potentia e actus: o, per meglio dire, a immagine della triadicità delle persone divine, ogni creatura è una realtà unitaria ma naturalmente triadica, composta di una ‘essenza’ (essentia o οὐσία), ossia l’essere che è  soggetto di ogni divenire, una ‘potenza’ (potentia o  virtus o vis, ossia δύναμις), che di tale divenire implica e orienta le molteplici possibilità, che si traduce in un ‘atto’ (actus o operatio, cioè ἐνέργεια) in cui ne sono fissati gli esiti 72.

 Cfr. Schmutz, Les paradoxes métaphysiques cit., p. 113.  Da princìpi prettamente aristotelici di mutamento accidentale (movimento, alterazione qualitativa o  quantitativa) e  sostanziale (generazione e  corruzione), potenza e  atto sembrerebbero riassorbiti – in chiave neoplatonica – nell’essere stesso quali suoi componenti costitutivi; cfr. d’Onofrio, «Inoperans gratia» cit. (alla nota 1), p. 347. 71  Ibid., p. 344. 72   Id., Esse, virtus, operari cit. (alla nota 1), p. 133; cfr. Id., «Inoperans gratia» cit., pp. 351-353. 69 70

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1. Il contesto storico-culturale L’attitudine ad impiegare un lessico tendenzialmente aristotelico – si è visto, per esempio, nell’introduzione, che vi sono rilevanti occorrenze del termine δύναμις nella Repubblica e  nel Sofista 1  – all’interno di una henologia o, più in generale, di una assiologia neoplatonica 2 diviene un habitus nella filosofia del Q uattrocento. Non si tratta, naturalmente, di una novità in senso assoluto, né si vuole riprodurre qui l’immagine di burckhardtiana memoria del Rinascimento quale ‘fiore nel deserto’ 3. È noto, infatti, e proprio il presente volume ne fornisce innumerevoli evidenze, che un fiume carsico concordista, o  quanto meno ‘compatibilista’, attraversi tutta la cultura occidentale, da Porfirio a Giamblico, da Proclo a Dionigi, passando per Eriugena, per la scuola di Chartres, per l’albertismo di Colonia e  Meister Eckhart, fino a  giungere a Bertoldo di Moosburg. Q uel che è certo, tuttavia, è che ora tale fiume carsico si rivela il cuore pulsante di un dibattito stratificato, pubblico, aperto, a volte persino irridente e provocatorio, si pensi   Cfr. ad es. Plato, Respublica, V, 477c e Id., Sophista, 247de.  Al riguardo, rimane un classico il Saggio introduttivo di Giovanni Reale a Proclo, I manuali. I testi magico-teurgici, Milano 1999, pp. v-ccxxiii, in partic., p. lxxi. Più in generale, si veda anche J. A. Aertsen, Ontology and Henology in Medieval Philosophy (Thomas Aquinas, Meister Eckhart and Berthold of  Moosburg), in On Proclus and his Influence in Medieval Philosophy, ed. by E. P. Bos - P. A. Mejer, Leiden - New York - Köln 1992 (Philosophia antiqua, 53), pp. 120-140. 3  Cfr. F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino 1967 (Biblioteca di Cultura storica, 94), p. 79. 1 2

La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127970 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 541-566     © 

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alle figure carismatiche di Giorgio Gemisto Pletone 4 e Giorgio di Trebisonda 5. Un dibattito, nel quale e attraverso il quale, la conoscenza del platonismo e del neoplatonismo tocca di livelli di precisione e di specificità non più raggiunti dal mondo tardoantico. A leggere l’argumentum del Commento di Ficino al  Parmenide ed il De ente et uno di Pico, è preziosa al riguardo l’edizione critica di Francesca Lazzarin 6, pare di essere tornati all’acribia e  alle sottigliezze teoretiche del iv-v secolo. Molti fattori contribuiscono a  questo mutamento di scenario, prescindendo dai quali l’opzione per una fonte neoplatonica a discapito di un’altra resterebbe inintelligibile, con la conseguenza di perdere di vista il progetto intellettuale di molti degli autori coinvolti. Va da sé che citare Proclo e  Dionigi pressoché come un unicum, dato il persistente errore di datazione, come fa Cusano, è  ben diverso dal conferire un estremo rilievo a Porfirio, a Giamblico, agli Oracoli caldaici, come fanno Ficino e Pico, il quale elogia addirittura Giuliano 7. Occorre considerare, dunque, innanzitutto la precoce traduzione di molti dialoghi ad opera di Manuele Crisolora, Uberto Decembrio e Leonardo Bruni (i primi due traducono, nel 1402, la Repubblica, il terzo, a  partire dal 1405, l’Apologia, il Critone, il Gorgia, il Simposio, il Fedro, il Fedone), alla quale seguono una nuova versione della Repubblica, curata da Pier Candido Decembrio nel 1450, nonché le traduzioni delle Leggi, nel 1453, e  del Parmenide, nel 1459, per mano di Giorgio da Trebisonda, incaricato proprio da Niccolò Cusano. Del 1462 è la traduzione com4 Sulla figura e  l’influenza di Pletone, si segnalano C.  M. Woodhouse, George Gemistos Plethon. The last of  Hellenes, Oxford 1986; V. Hladký, The Philosophy of  Gemistos Plethon: Platonism in late Byzantium, between Hellenism and Orthodoxy, Farnham 2014. 5 Su Giorgio di Trebisonda, la monografia essenziale è, ad oggi, J.  Monfasani, George of  Trebizond. A  Biography and a  Study of  his Rhetoric and Logic, Leiden 1976. 6  Cfr.  Marsilius Ficinus, In  Parmenidem, ed. F.  Lazzarin, Firenze 2012 (Immagini della Ragione, 15); Iohannes Picus Mirandolanus, De ente et uno ad Angelum Politianum cum obiectionibus Antonii Citadini et Responsionibus Pici, edd. F. Bacchelli - R. Ebgi, Milano 2011. 7 Cfr. E. Garin, Ricerche su Giovanni Pico della Mirandola, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Milano 1994, pp. 229289, in partic. pp. 241-253; si veda anche S. Trovato, L’imperatore Giuliano e Pomponio Leto: la prima decisa rivalutazione dell’Apostata, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 161 (2002-2003), pp. 799-836.

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pleta della Theologia platonica procliana, condotta da Pietro Balbi, segretario personale dello stesso cardinale. Molto più tarda, infine, è  la versione latina di Porfirio e  Giamblico, posteriore all’Opus magnum ficiniano del 1484 8. Fa da sfondo a  questa nuova disponibilità di testi, che naturalmente investe anche il filone aristotelico, una conoscenza della lingua greca sempre più approfondita – per merito di maestri quali il già citato Crisolora, Guarino da Verona e suo figlio Battista, Giovanni Argiropulo – che permette a molti pensatori, non al Nostro, si badi, di leggere le opere direttamente in lingua originale 9. Giovanni Aurispa, che tornando porta con sé un patrimonio di circa duecento manoscritti, e Francesco Filelfo, per esempio, trascorrono anni di studio a Costantinopoli. È da tenere presente, in secondo luogo, la vicenda del Concilio di Ferrara-Firenze, tenutosi fra il 1438 e il 1439, per negoziare la riunificazione con la Chiesa ortodossa, in cambio dell’aiuto militare contro i turchi. Vi accorrono molti dei personaggi decisivi del panorama del xv secolo: si è avuto modo di menzionare Giorgio Gemisto Pletone, forse alle origini della fondazione dell’Accademia Platonica di Firenze, ma non si può tacere di Giorgio Scolario e, soprattutto di Basilio Bessarione. Platonismo, neoplatonismo e aristotelismo sono i riferimenti onnipresenti delle dispute, che vanno ben oltre la pur spinosissima questione del Filioque. Essere platonici significa attirarsi l’accusa di essere anti-unionisti, soltanto perché in realtà si è neopagani, fautori di un enoteismo solare, inteso come unica speranza per la salvezza di Bisanzio; essere aristotelici, d’altro canto, soltanto apparentemente vuol dire essere unionisti, perché in realtà equivale a  preferire una filosofia incline all’ateismo, che distrugge 8  A riguardo, rimane essenziale J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, 2 voll., Leiden - New York - København - Köln 1990 (Columbia Studies in the classical Tradition, 17), I, pp. 300-311. Si vedano anche E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli 1983 (Istituto italiano per gli Studi filosofici. Lezioni della Scuola di Studi superiori in Napoli, 1); S. Gentile, Il ritorno delle culture classiche, in Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli - P. C. Pissavino, Milano 2002, pp. 70-92; C. S. Celenza, The Revival of  the Platonic Philosophy, in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, ed. by J. Hankins, Cambridge 2007, pp. 72-96. 9 Cfr. R. Black, The Philosopher and the Renaissance Culture, ibid., [pp. 1329], p. 27.

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la possibilità della conoscenza – l’unico vero accesso al  divino è  mistico – ed accoglie posizioni mortalistiche, quali quelle di Alessandro di Afrodisia e di Averroè. Anche l’ombra della controversia sull’Esicasmo aleggia sul Concilio, come hanno riconosciuto James Hankins 10, Luigi Chitarin 11 e Georg Steiris 12. È proprio dalle sue ultime propaggini, tra gli emigrati in Occidente, che nasce il celebre dibattito fra platonici e  aristotelici, che è un ulteriore contesto in cui necessariamente si iscrive ogni formulazione concettuale della seconda metà del xv secolo. Originatosi con la pubblicazione del De differentiis di Pletone, nella primavera del 1439, e conclusosi con il De ente et uno di Pico nel 1491, esso si stratifica su più livelli 13. Sullo sfondo condiviso, per cui la filosofia non è altro che esegesi di una verità già da sempre rivelata e presente, si tratta di scegliere l’auctoritas suprema, decidere se se ne debba fare un uso esclusivo oppure no e, se no, in che misura. Occorre, poi, vagliare quale auctoritas sia più funzionale a strutturare e a corroborare una theologia e una sapientia cristiane che devono trarre nuova linfa dal ritorno dell’antico, come suggerisce, per esempio, Ambrogio Traversari 14. Non ci si può esimere, infine, dall’addentrarsi nell’ambito più prettamente teoretico della questione, vale a dire la relazione fra l’Uno e i molti. L’essere è Uno o molteplice? E ancora, i due termini si escludono, si coimplicano, oppure, più semplicemente, coesistono? Letta al  di fuori di tutte queste questioni, la produzione di Cusano, che va dal 1430 al  1464, risulterebbe del tutto astrusa. È necessario, pertanto, identificare il senso precipuo delle sue affermazioni, e dunque anche dell’impiego della triade che è oggetto  Cfr. Hankins, Plato in the Italian Renaissance cit., I, pp. 195-205.  Cfr. L. Chitarin, Greci e latini al Concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), Bologna 2002 (Storia e cultura, 3), pp. 155-164. 12 Cfr.  G. Steiris, Byzantine Philosophers of   the 15th Century on Identity and Otherness, in The Problem of  modern Greek Identity. From the Ecumene to the Nation-State, ed. by G. Steiris - S. Mitralexis - G. Arabatzis, Newcastle 2016, pp. 173-199. 13 In proposito, cfr. P. Secchi, Il dibattito del xv secolo tra platonici e aristotelici e la posizione di Giovanni Pico della Mirandola, in «Bruniana & Campelliana», 2 (2019), pp. 419-433. 14  Cfr. M. Pontone, Ambrogio Traversari. Monaco e umanista. Fra scrittura latina e scrittura greca, Torino 2011 (Istituto nazionale di Studi sul Rinascimento. Miscellanea, 4), pp. 1-21. 10 11

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d’interesse del presente volume, considerando che esse sono sempre – il suo ruolo di vescovo e cardinale, del resto, lo rende inevitabile – un messaggio indirizzato al  suo tempo, un tempo nel quale nodi nuovi e urgenti debbono essere sciolti e per questo deve essere indicata una direzione.

2. Cusano e la catena aurea La prima operazione da compiere per non cadere in un’analisi estrinseca o  in una mera enumerazione dei passi e  delle occorrenze è un’indagine attenta sulle fonti. Se è vero, infatti, che l’uso congiunto di οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια è  di chiara provenienza procliana, si tratta della proposizione CLXIX dell’Elementatio theologica, è altrettanto vero che esso si articola, attraverso sovrapposizioni e slittamenti semantici, in una Wirkungsgeschichte plurisecolare, molti dei cui protagonisti, si pensi soltanto a Dionigi, Eriugena, Bonaventura, e agli esponenti della scuola di Colonia, sono autori di riferimento per Cusano. Come è da valutare, in termini sia materiali sia concettuali, la loro presenza? Eventuali riletture o re-interpretazioni della triade sulla scia delle fonti indicano un’intenzione filosofica riconoscibile? E, infine, che relazione c’è, se è tematizzata, tra le altre auctoritates e Proclo? Considerare questi interrogativi significa non perdere contatto con il contesto di cui si è detto. Il primo dato che appare evidente allo storico riguarda la dettagliata conoscenza della tradizione platonica, sorprendente per un uomo che non fa in tempo ad apprendere il greco in maniera sufficiente né ad usufruire delle monumentali traduzioni ficiniane, licenziate fra gli anni ’80 e ’90. Dermot Moran scrive: «He had the greatest knowledge of  the Platonic tradition of  anyone prior to Ficino» 15. L’inventario della sua biblioteca, famosa in tutta Europa, non è un caso che Pico della Mirandola manifesti il desiderio di visitarla al ritorno dalla fuga in Francia 16, annovera, oltre 15  D.  Moran, Nicholas of  Cusa and modern Philosophy, in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy cit., [pp. 173-192], p. 174. 16 Cfr. E. Colomer, Microcosmo e macrocosmo fra il primo e il secondo umanesimo, in Giovanni Pico della Mirandola. Convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), 2  voll., a  cura di G.  C. Garfagnini, Firenze 1997 (Studi pichiani, 5), I, [pp. 281-301], p. 282.

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alle testé nominate traduzioni di Leonardo Bruni e di Pier Candido Decembrio, opere di tramiti quanto mai significativi quali Plutarco, Apuleio, Clemente di Alessandria, Origene  e, soprattutto, Eusebio di Cesarea, unica via di accesso a Plotino. Un esame a  parte merita, naturalmente, il contatto con gli scritti di Proclo, l’autore che più di ogni altro, unitamente a Dionigi, considerato ancora anteriore nella Directio speculantis seu de non aliud 17, impernia la grammatica speculativa cusaniana. Si dispone, fortunatamente, di un notevole numero di contributi, che si è andato per di più ad ampliare negli ultimi anni. Rudolf  Haubst, in uno studio ancora fondamentale del 1961 18, si sofferma sul Codicillo 84 – che contiene degli estratti, trascritti direttamente dal Nostro, dall’Elementatio theologica e dalla Theologia platonica, nella versione parziale di Ambrogio Traversari – e data al 1438 circa la conoscenza di Proclo. Vi è poi il secondo volume delle serie Cusanus-texte, curato da Hans Gerard Senger 19, che riporta i  marginalia alle medesime opere (i marginalia al  Commento al «Parmenide» compaiono, invece, in appendice all’edizione di Carlos Steel 20), e, soprattutto, vi sono le ricerche di Claudia D’Amico, pubblicate in due saggi nel 2007 e nel 2009 21, che hanno il merito indiscutibile di integrare e riorganizzare tutte le acquisizioni precedenti. Si menzionano i Codices cusani, sui quali ci si deve basare: il 185, che comprende la Theologia platonica; il 186, che contiene il Commento al «Parmenide»; il 195, che contiene l’Elementatio theologica e il Liber de causis. 17 Cfr. Nicolaus Cusanus, Directio speculantis seu Non aliud, XX, 90, 2324, edd. L. Baur - P. Wilpert, Leipzig 1944 (Opera omnia, XIII), p. 47: «Proculum tuum, Petre, Dionysio Areopagita tempore posteriorem fuisse certum est». 18  Cfr. R. Haubst, Die Thomas und Proklos-Exzerpte des Nicolaus Treverensis in «codicillus Strassburg 84», in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 1 (1961), pp. 17-51. 19  Cfr. Cusanus-texte. III. Marginalien. 2. Proclus latinus. Die Exzerpte und Randnoten zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. 2. 1: Theologia platonis - Elementatio theologica, hrsg. von H. G. Senger, Heidelberg 1986. 20 Cfr. Proclus Diadochus, In Platonis Parmenidem Commentaria, 3 voll., ed. by C. G. Steel, Oxford 2007-2009, II, 2008, pp. 529-557. 21 Cfr. C. D’Amico, Nikolaus von Kues als Leser von Prokos, in Nikolaus von Kues in der Geschichte des Platonismus, hrsg. von K. Reinhardt - H. Schwaetzer, Regensburg 2007 (Philosophie Interdisziplinär, 19), pp. 33-65; Ead., La recepción del pensamiento de Proclo en la obra de Nicolás de Cusa, in «Anales del Seminario de Historia de la Filosofía», 26 (2009), pp. 107-134.

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Se ne desume che, verosimilmente, anche perché non si rilevano altre citazioni esplicite, soltanto queste tre, più l’epitome araba, siano le opere di cui si serva Cusano; non v’è traccia del­ l’Ele­mentatio physica, dei Tria opuscola e dei Commenti agli Elementi di Euclide, all’Alcibiade primo, alla Repubblica, al  Cratilo e al Timeo, che saranno noti alcuni decenni più tardi. È possibile, inoltre, distinguere tre fasi della ‘convivenza’ con il filosofo neoplatonico: una prima fase, anteriore al  1440, determinata dal Codicillo 84; una seconda fase, successiva al  1450, scandita dal Commento al  «Parmenide»; un’ultima fase, che va dal 1458 al 1464, in cui Proclo è  chiamato in causa con grande frequenza. È da segnalare, infine, per completare il quadro delle notizie principali su cui si può fare affidamento, un capitolo di Stephen Gersh, all’interno del volume Interpreting Proclus. From Antiquity to the Reanaissance 22, nel quale si analizzano dei passi ben precisi del De principio, della Directio speculantis seu non aliud e del De venatione sapientiae. Se si volge lo sguardo agli altri veicoli della triade ai quali si è fatto cenno, si riscontra una chiara conformità, per non dire omogeneità. Fin dagli anni ’40, dal De docta ignorantia e dal De genesi, Cusano ha in mente l’idea di una catena aurea, composta da tutti coloro che hanno pensato la relazione Uno-molti, in maniera rigorosa, come costitutiva dell’essere e  della struttura stessa del pensiero 23. La mens esiste e produce le sue congetture perché partecipa in senso forte, vale a dire nel senso della metessi e non della mimesi, della creatività e del posse divini. Non è possibile una gnoseologia o, per meglio dire, una noologia senza ontologia, perché il pensiero dipende dell’essere. I termini e/o le proposizioni per essere espressi, se si vuole anche per essere falsi, devono pur rinviare a  qualcosa, che sia almeno la loro causa. Se nulla esistesse, e qui Proclo e il Contra Academicos di Agostino si sovrappongono perfettamente, non esisterebbe neppure la nozione di falso. E non è  possibile neppure un’ontologia senza una gnoseologia o  una noologia, perché il principio da cui tutto deriva è  una persona 22 Cfr. S. Gersh, Nicholas of  Cusa, in Interpreting Proclus. From Antiquity to the Renaissance, ed. by S. Gersh, Cambridge 2014, pp. 318-349. 23  Sul tema, è già un classico l’ultimo, monumentale lavoro di W. Beierwaltes, Catena aurea. Plotin, Augustinus, Eriugena, Thomas, Cusanus, Frankfurt a. M. 2017.

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dotata di intelletto e volontà e le creature non sono soltanto explicationes ma anche intentiones voluntatis omnipotentis. Potrebbe sorgere, a  questo livello concettuale, una tensione, o  peggio, un’incompatibilità fra Proclo e  le altre fonti, fra neoplatonismo pagano e  neoplatonismo cristiano 24. È noto, infatti, che per una posizione che si fondi sull’esegesi in chiave henologica del VI libro della Repubblica e del Parmenide, e questo vale per Plotino, Giamblico, Proclo e Damascio, mentre più sfumata è la posizione di Porfirio, all’Uno non possono essere attribuiti né la volontà, né il pensiero, neanche di se stesso. Eppure, agli occhi di Cusano, tutto ciò non appare, se non in modo estremamente sfumato. Benché, come si è detto, notevole sia la sua conoscenza del platonismo, egli non è consapevole dell’humus sottesa, né dei dissidi interni, anche fortissimi, che lo agitano a lungo, si pensi soltanto agli attacchi di Giamblico a Porfirio nel De mysteriis 25. Per lui, Proclo non è un teurgo che combatte una disperata battaglia contro il cristianesimo, è semplicemente un fine esegeta, discepolo di Dionigi, che può e deve essere impiegato per corroborare e dare cogenza teoretica ad un paradigma teso a ricostruire la teologia cristiana su basi nuove e a sottrarla alle secche di un ‘cattivo infinito’ aristotelico, prigioniero della molteplicità  e, in ultima istanza, destinato allo scetticismo. Così, del resto, è letto dai testimonia della triade di cui si è parlato, dal vi al xiv secolo. Essi, infatti, hanno in comune l’intenzione – con l’eccezione di Bonaventura, ma si dovrebbe tenere conto delle polemiche politiche e accademiche del xiii secolo tra domenicani e francescani – non di disfarsi di Aristotele, bensì di relegarlo ad una funzione subordinata, sottraendogli l’egemonia in divinis. Lo Stagirita può essere un logico o un fisico, può produrre, cioè, soltanto una conoscenza verbale o macroscopica del reale: se si accetta il postulato delle Cathegoriae, secondo il quale «dell’essere si dice in molti modi» 26, si finisce per approdare 24  A  riguardo, si veda, ad esempio il volume Neoplatonismo pagano vs. neoplatonismo cristiano. Identità e  intersezioni. Atti del Seminario (Catania, 25-26 settembre 2004), a cura di M. Di Pasquale Barbanti - C. Martello, Catania 2006 (Symbolon, 32). 25 Cfr. Iamblichus, De mysteriis, III, 31, ed. E. des Places, Paris 1966, p. 146, 13-20. 26  Aristoteles, Metaphysica, IV 2, 1003a 32-33.

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ad un radicale contingentismo che sa (odorat, per citare ironicamente Pomponazzi) di ateismo. Sono queste, paradossalmente, le stesse critiche elaborate da Pletone, con le quali Cusano, come suggerisce Vojtĕch Hladký 27, ha degli interessanti punti di tangenza che certamente non sono sfuggiti ai contemporanei, al di là dei propositi generali. Per tutti gli autori della catena, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa o  confessionale, due sono i  principi da rivendicare: 1) l’unità precede sempre la molteplicità, ogni ente che compone quest’ultima è necessariamente uno; 2)  la conoscenza dell’Uno, per quanto è  possibile, è  condizione della conoscenza dei molti, perché, nei molti, l’Uno esiste più dei molti stessi. Prima di passare ad analizzare le occorrenze della triade, come si è alluso in apertura del paragrafo, conviene riferirsi in modo più circostanziato a  pensatori e  a opere cui ci si è  rivolti solo genericamente 28. La presenza di Dionigi, per iniziare, appare incircoscrivibile. È l’auctoritas summa, cui Proclo, in fondo, dà soltanto sostegno. L’intera scrittura teologica cusaniana può considerarsi –  si guardi soltanto ai titoli più famosi, De docta ignorantia, De quaerendo Deum, Directio speculantis seu Non Aliud, De possest, De venatione sapientiae – un imponente Commento al De divinis nomibus, del quale si nomina sia la traduzione di Traversari del 1436, sia una serie di interpreti consultati 29. Si tratta di riprendere il Corpus areopagitucum, spiegarlo, smussando o ‘passando sotto silenzio’ alcuni neoplatonismi ortodossi, e far sì che germogli nel cuore del Q uattrocento. Molto utili, in proposito, sono gli studi di John Monfasani e  Claudio Moreschini 30. La  monografia più  Cfr. V. Hladký, From Byzantium to Italy: «Ancient Wisdom» in Plethon and Cusanus, in Georgios Gemistos Plethon. The Byzantine and the Latin Renaissance, ed. by J. Matula - P. R. Blum, Olomuc 2014, pp. 273-292. 28 Per una disamina più approfondita, corredata di bibliografia, di tutte le mediazioni attraverso le quali Proclo giunge a Cusano, si rinvia a P. Secchi, Cusano e Proclo: le mediazioni platoniche, in «Historia Philosophica», 16 (2018), pp. 19-45. 29 Cfr. Nicolaus Cusanus, Apologia doctae ignorantiae, 13 e 30, ed. R. Klibansky, Leipzig 1932 (Opera omnia, II), pp. 10 e 21. 30  Cfr. J. Monfasani, Pseudo-Dionysius the Areopagite in Mid-Q uattrocento Rome, in Supplementum Festivum. Studies in Honor of  Paul Oskar Kristeller, ed. by J. Hankins - J. Monfasani - F. Purnell Jr., Binghamton (NY) 1987 (Medieval and Renaissance Texts and Studies, 49), pp.  189-220; C.  Moreschini, 27

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completa è di Giga Zedania, che si occupa per esteso del rapporto Cusano-Dionigi 31. Eriugena è  un altro autore capitale: non soltanto il Nostro legge e annota la Clavis Physicae, un’epitome composta da Onorio di Autun tra l’xi e il xii secolo, ma studia e glossa accuratamente il primo libro del Periphsyeon, come mostra il Codex additivus 11035 del British Museum, al quale hanno rivolto le loro attenzioni Donald Duclow  e, più recentemente, Mauro Ferrante 32. Giovanni Scoto si va a inserire esattamente sull’asse Proclo-Dionigi, confermandone l’ontologia della metessi ed aggiungendo quel cristocentrismo, la cui assenza in Dionigi poteva procurare qualche difficoltà. Bonaventura occupa una posizione più marginale rispetto al filone che conduce ad Alberto, Eckhart e Bertoldo. Nella biblioteca di Kues vi sono i  Commenti ai Libri sententiarum di Pietro Lombardo, il Breviloquium e  un Liber de pietate. La sua funzione è prettamente gnoseologica, vale a dire sostenere il modello illuminazionistico e innatistico di matrice agostiniana, di contro al  sensismo peripatetico e  al riemergente scetticismo provocato dalla traduzione delle Vite dei filosofi del 1433, in cui compare Pirrone, e dal ritorno dei trattati di Sesto Empirico, portati da Bessarione e da Filelfo, che traduce alcuni stralci del Contra dogmaticos 33. La  concezione per la quale la conoscenza della verità nasce dalla presenza della verità stessa (nel secondo libro dell’Idio­ta de sapientia, si legge che ogni questione su Dio presuppone ciò che si cerca 34), del resto, coincide con il secondo principio rivendicato dalla catena aurea. L’influsso di Alberto ed Eckhart è pressoché analogo a quello di Proclo e Dionigi. Sono le altre colonne sulle quali si edifica il L’autenticità del Corpus Dionysianum: contestazioni e difese, in Id., Rinascimento cristiano. Innovazioni e riforma religiosa nell’Italia del quindicesimo e sedicesimo secolo, Roma 2017 (Temi e testi, 160), pp. 95-142. 31  Cfr. G. Zedania, Von Einheit zu Pluralität. Nikolaus von Kues als Interpret der Schriften des Dionysius Pseudo-Areopagita, Saarbrücken 2009. 32 Cfr. D. Duclow, Coinciding in the Margins: Cusanus Glosses Eriugena, in Eriugena-Cusanus, ed. by A. Kijewska - R. Majeran - H. Schwaetzer, Lublin 2011, pp. 83-103; M. Ferrante, Le radici carolinge del pensiero di Cusano, Roma 2017 (Studi e ricerche, 4). 33 Cfr.  J. Kraye, The Revival of  Hellenistic Philosophies, in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy cit., [pp. 97-112], p. 108. 34  Cfr.  Nicolaus Cusanus, Idiota de sapientia, II,  18-21, edd. L.  Baur R. Steiger, Hamburg 1983 (Opera Omnia, V), p. 61.

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pensiero di Cusano: sono i primi autori di chiara formazione aristotelica, il programma filosofico di Alberto è «rendere Aristotele intelligibile ai latini» 35, ad avere una fortissima inclinazione neoplatonica. Per il maestro di Colonia il Liber de causis è di Aristotele e il De causis et processu universitatis a causa prima è, di fatto, un compendio di metafisica procliana. Importantissimi, e di grande diffusione, sono anche i Commenti al De divinis nominibus e alla Theologia mystica. Certo, non è ancora chiaro che Proclo e Dionigi siano superiori, ma forse, per questo, bastano Eckhart e Bertoldo. Il primo, difeso vibratamente da Cusano, dall’accusa di panteismo e di commistione con gli esiti più antinomici dei movimenti dei begardi e dei Fratelli del Libero Spirito, insiste sui motivi dell’ineffabilità divina 36. Afferma, tuttavia, soprattutto, il concetto di creatura come negazione. Nei sermoni tedeschi, sicuramente noti insieme all’Opus tripartitum (per un’indagine materiale si rinvia ai lavori di Donald Duclow e Stephanie Frost 37), ritorna costantemente il motivo per cui, stricto sensu, soltanto Dio esiste mentre il mondo non è che quel puro nulla, dal quale l’‘uomo nobile’ deve liberarsi attraverso la via del distacco, dell’Abgeschiedenheit. Soltanto quando ci si sarà liberati della corporeità, della volontà e del sé connesso alla temporalità, si lascerà spazio alla generazione eterna del Λόγος nell’anima e si coglierà l’assoluta consustanzialità con Dio. È la dottrina del fondo dell’anima, della scintilla increata e increabile la quale, a ben guardare, riecheggia più Plotino e la teoria dell’anima non discesa 38 che non Proclo. Q uesti, infatti, nella proposizione CCXII dell’Elementatio teologica e  nel Commento al  «Timeo», seguendo Giamblico 39, la rifiuta esplicitamente. 35 Cfr. T. Gregory, Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma 1992 (Storia e Letteratura, 181), p. 25. 36  Cfr. P. Secchi, Studi cusaniani, Firenze 2018 (Istituto nazionale di Studi sul Rinascimento. Studi e testi, 52), pp. 68-73. 37 Cfr. D. Duclow, Nicholas of  Cusa in the Margins of  Meister Eckhart: Codex Cusanus 21, in Nicholas of  Cusa in Search of  God and Wisdom. Essays on honor of  Morimichi Watanabe by the American Cusanus Society, ed.  by G.  Christianson - T. M. Izbicki, Leiden 1991 (Studies in the History of  Christian Thought, 45), pp. 57-69; S. Frost, Nikolaus von Kues und Meister Eckhart. Rezeption im Spiegel der Marginalien zum «Opus tripartitum» Meister Eckharts, Münster 2006 (BGPTM, N. F. 69). 38 Cfr. Plotinus, Enneades, IV 8, 8, 2-3. 39 Cfr. Proclus Diadochus, In Timaeum commentaria, II, 119, ed. E. Diehl, 3 voll., Leipzig 1903-1906, III, 1906, p. 334, 3-4. A riguardo, si veda C. G. Steel,

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Eppure, quel che conta di più è che sia destituita di senso l’idea di un’auto-sussistenza della molteplicità. Su questo, Plotino, Proclo ed Eckhart concordano perfettamente e  con loro concorda Bertoldo, che secondo Irene Zavattero, vuole fare dello studium di Colonia una consapevole alternativa all’aristotelismo di Parigi, utilizzando le sue stesse armi 40. È proprio a partire dagli Analytica Posteriora, infatti, che si può stabilire la superiorità della teologia platonica, in grado di accedere al piano meta-categoriale, necessariamente precluso a chi accetti un pluralismo metodologico. Proclo appare, allora, come l’unico pagano toccato dalla grazia e l’Elementatio theologica un testo cui riservare un commento, edito e studiato da Loris Sturlese, unico nel suo genere nel Medioevo 41. Nel preambulum a  tale Commento, e  il cerchio qui pare chiudersi, compare un elenco di autorità che, come si è mostrato altrove, costruiscono molte delle mediazioni attraverso le quali Proclo giunge a  Cusano: i  doctores ecclesiae, Agostino, Boezio, Dionigi, Massimo il Confessore, Giovanni Scoto Eriugena, Onorio di Autun, Ugo e Riccardo di San Vittore; i philosophi, Platone, Apuleio, Macrobio, Ermete Trismegisto, Proclo, il Liber de causis, Avicebron 42. Messe in luce le precondizioni dell’analisi, di storia ‘materiale’ e di storia delle idee, è ora possibile volgersi alle occorrenze della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια.

3. Cusano e la triade Da una ricognizione condotta grazie anche all’ausilio di nuovi data base informatici, quali il Cusanus Portal della Cusanus Gesellschaft di Trier, sull’intera produzione cusaniana, risultano venti The changing Self. A Study on the Soul in later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40). 40 Cfr. I. Zavattero, La figura e il pensiero di Proclo in Bertoldo di Moosburg, in «Arkete. Rivista di Studi Filosofici», 1 (2005), [pp. 51-67], p. 52. 41 Cfr. Bertholdus de Moosburg, Expositio super Elementationem theologicam Procli, 8 voll., Hamburg 1984-2014 (Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi). 42  Cfr. Zavattero, La figura e il pensiero di Proclo cit.

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occorrenze della triade che, nella sua versione latina, si presenta come essentia o substantia, virtus, operatio. Vi possono essere lievi varianti – per esempio, natura in luogo di essentia, actio o actus in luogo di operatio oppure perifrasi – ma i tre termini si trovano sempre insieme. Due aspetti significativi, emergono immediatamente: la triade è impiegata dal 1430 al 1463, dunque, lungo tutto l’arco della parabola speculativa cusaniana; è strumento di articolazione e delucidazione di questioni filosofiche e teologiche estremamente significative. Non si è al cospetto di una funzione marginale o semplicemente interessante, bensì rivelativa di molte delle opzioni fondamentali, con le quali Cusano si inserisce nel dibattito coevo di cui si è parlato nel primo paragrafo. Per evitare un’enumerazione sterile dei passi, che non gioverebbe alla comprensione del pensiero dell’autore, né della Wirkungsfähigkeit di un’idea, si ritiene opportuno procedere attraverso un criterio tematico. All’interno di ciascun gruppo dei loci, naturalmente, si seguirà un ordine cronologico. Delle venti occorrenze, ben quindici fanno parte dei sermones, una del De docta ignorantia, una del De dato patris luminum, una del De beryllo, due del De venatione sapientiae. È un dato da non trascurare affatto, non per nulla si è detto dell’incidenza del Concilio di Ferrara-Firenze, ma non pregiudizievole. La scrittura omiletica del Nostro, infatti, è molto lontana dalla tradizione monastica cenobitica e non è caratterizzata, pertanto, da un’ispirazione prevalentemente anagogica. Si nutre, al contrario, come quella di Eckhart, al quale si devono affiancare Suso e Taulero, di forti elementi teoretici che spesso accompagnano la stesura delle opere più famose. Su questo aspetto, ha recentemente posto l’accento uno studio di Valentina Zaffino, in particolare sulle risonanze platoniche ed ermetiche 43. I nuclei tematici, che è possibile individuare sono i seguenti: 1) la teologia trinitaria nel senso più tecnico, vale a  dire la spiegazione – quantum fieri potest, si ricordi il Vae de te tacentibus! agostiniano – della relazione fra le persone divine; 2) la struttura trinitaria/triadica della natura, che costituisce la sua ragion d’essere e di intelligibilità; 3) la chiarificazione, in ter43 Cfr. V. Zaffino, Platonism and Hermetism in the Preaching of  Nicholas of  Cusa: Rethinking an Ancient Creative Language, in Aussprechen des Unaussprechlichen. Sprache und Kreativität bei Nikolaus von Kues, hrsg. von J. Hueck - S. Kabisch - C. Kny, Regensburg 2020 (Philosophie interdisziplinär, 50), pp. 122-140.

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mini più generali, del modo in cui Dio o  l’Uno è  presente nei molti; 4) la differenza fra la mente e  la conoscenza divine e  la mente e la conoscenza umane; 5) la perfezione dell’uomo, ossia la sua christiformitas. La triade, al ‘servizio’ della Trinità, si rileva nel De dato patris luminum del 1446. Si legge: «In patrem habent omnia essentiam, in filio potentiam, in spiritu sancto operationem. Deus pater est ‘omnia in omnibus’ (1Cor 15,  28), deus filius potest omnia in omnibus, deus spiritus ‘operatur omnia in omnibus’ (1Cor 12,  6)» 44. Si parla, in realtà, nel paragrafo quinto, del dono del padre dei lumi, ossia di tutto ciò che costituisce la creatura ma che non è della creatura. Se la creatura esiste, è perché Dio esiste e perché, in Dio, essenza, potenza e operazione coincidono. In tal modo, non v’è nulla che, per quanto gli consenta il modo discensivo in cui è  ricevuto il dono, non possa giungere alla propria deificazione (un’affermazione simile, veicolata da virtus, essentia e operatio si rinviene anche in uno dei due luoghi del De venatione sapientiae 45). I tre termini, però, qui non si rivestono di nessuna coloritura fisica o cosmologica e, si potrebbe dire, neppure ontologica. Obiettivo del passo non è spiegare la natura o gli enti, bensì soltanto giustificare la loro esistenza e la loro possibilità di determinazione per mezzo del principio da cui derivano. Esso è, dunque, squisitamente tecnico e teologico, come le due citazioni della Prima lettera ai Corinzi palesano. E, ancora, più precisamente, non si è di fronte ad una mera teologizzazione, la ‘teologia’ esiste anche in Proclo come dottrina dei principi; si è di fronte ad una ‘trinitarizzazione’. Ne segue che la fonte della triade non è Proclo; piuttosto, come identificato dalla critica, è Eriugena 46. Egli afferma che tutto ciò che insegna la fede cattolica tende a far sì che, a partire dall’immagine della Trinità – e l’immagine partecipa sempre dell’esemplare, seppur in misura minima, altrimenti non potrebbe essere immagine – che è nella nostra anima, 44   Nicolaus Cusanus, De dato patris luminum, V, 112, 13-16, ed. P. Wilpert, Hamburg 1983 (Opera Omnia, IV), p. 83. 45 Cfr. Id., De venatione sapientiae, XXXI, 93, edd. R. Klibansky - G. Senger, Hamburg 1982 (Opera omnia, XII), pp. 88-89. 46 Cfr. Johannes Scotus Eriugena, Periphyseon, II, PL 122, [441-1022C], 568AD, ed. É. A. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), II, 1997, pp. 57, 1319-58, 1344.

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cogliamo qualcosa, pro viribus, in proporzione alle nostre capacità, della Trinità in sé. Ed il modo più alto di coglierla è descriverla come essentia, virtus, operatio. Alla fonte Eriugena possono sovrapporsi Agostino e Bonaventura, per la convinzione in base alla quale la conoscenza di Dio, e la conoscenza tout court, nascano sempre dalla presenza originaria di Dio. È un motivo, ovviamente, anche procliano e  dionisiano, che si è  indicato come secondo punto cardine della catena aurea. Il passo che fa da ponte tra il primo e il secondo gruppo è del Sermo I del 1430, cioè del primo testo pervenutoci 47. È un passo breve, ma estremamente denso, imprescindibile per le sue varie sfumature: «Sed quia ‘Trinitas in unitate’ 48 est, gerit intra se omne creatum in suo esse imaginem Trinitatis: per hoc quod habet ‘esse, virtutem et operationem’ 49, per hoc, quod est ex ‘potentia, obiecto et actu’ 50, per hoc quod est ex suis ‘innatis correlativis’ 51» 52. Si è di fronte, apparentemente, ad un’espressione analoga a quella dell’opuscolum. Ogni ente, si dice, porta in sé l’immagine della Trinità. Il discorso, tuttavia, questa volta è prettamente ontologico e non si definisce di ‘filosofia della natura’ esclusivamente perché, ci si perdoni l’asserzione forse troppo perentoria, una ‘filosofia della natura’ all’interno di una henologia non esiste. Il sermone illustra, infatti, «quo modo autem cuncta fluant a  Deo in esse

47 Su questo sermone, si vedano, Cfr.  K. Flasch, Nikolaus von Kues: Geschichte einer Entwicklung. Vorlesungen zur Einführung in seine Philosophie, Frankfurt a. M. 1988 (trad. it., Roma 2011, pp. 13-27); T. Müller, Der junge Cusanus. Ein Aufbruch in das xv. Jahrhundert, Münster 2013, pp. 134-150. 48  Symbolum Q uicumque, 25, in Augustinus Hipponensis, De Trinitate, Appendix C, edd. W. J. Mountain - F. Glorie, 2 voll., Turnhout 1968 (CCSL, 50-50A), II, p. 556, 42. 49   CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22-42, 2. Va sottolineato che la triade non compare in questa forma – con esse al primo termine – in alcune delle traduzioni latine del De coelesti hierarchia; cfr. Dionysiaca. Recueil donnant l’ensemble des traductions latines des ouvrages attribués au Denys de l’Aréopage, ed. Ph.  Chevallier, 2  voll., Paris 1937, II, p. 930B. 50  Raymundus Lullus, De potentia, obiecto et actu (ineditus) et quae Nicolaus inde excerpsit (Cod. Cus. 83, fol. 98v-99v), ed. E. Colomer, in E. Colomer, Nikolaus von Kues und Raimund Llull. Aus Handschriften der Kueser Bibliothek, Berlin 1961, [pp. 164-172], p. 164. 51  Ibidem. 52   Nicolaus Cusanus, Sermo I, 14, 18-23, edd. R. Haubst - M. Bodewig W. Kramer, Hamburg 1970 (Opera omnia, XVI.1), p. 12.

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suo» 53 ed  è  sugli enti che indugia. I  termini fluant, fluit, fluunt in rapida successione, indicano che ora la fonte primaria è Proclo. Nel quarto capitolo del secondo libro del De docta ignorantia, si sostiene che il massimo contratto deriva dal massimo assoluto per «simplicem emanationem» 54. E derivano tre classi di creature, le spirituali, le corporali e le miste, che includono l’uomo. È un Proclo, però, quanto mai semplificato  e, soprattutto, cristianizzato attraverso Dionigi e  Alberto. Il  primo è  chiamato in causa nella stessa pagina («Sanctus Dionysius ad hierarchias ascendit» 55) ma anche, e  soprattutto, nel Sermo CCXXXV del 1456, nel quale si afferma che egli pone «in omni re essentiam virtutem et operationem» 56 e  si menziona la traduzione del 1436, della quale si è parlato appositamente poc’anzi, specificando che essa reca substantia, anziché essentia; il secondo, utilizzato nel Sermo CCXII, sul quale si avrà modo di tornare, è  quanto mai utile, perché fautore di un aristotelismo già neoplatonizzato, in cui emerge, senza stridori anti-creazionistici, una metafisica del fluxus, anche a causa dell’incidenza di Avicenna. Scrive Cusano: «Et  talem  fluxum  creationem  vocamus» 57. Ecco l’operazione concettuale, filosofica e culturale, che si è finora solamente enunciata a proposito della valutazione di Proclo, e che ora si può verificare attraverso i testi. Q uesti è un’arma imprescindibile, per la sua fama (e Bertoldo è importante) e per la sua acutezza con la quale incarna, meglio di Aristotele, la voce pura della ragione. E la voce pura della ragione, cui si affianca anche Raimondo Lullo, va a ricostruire due tra le verità che stanno più a cuore (l’altra è il cristocentrismo, che vedremo nell’ultimo gruppo di occorrenze): l’anteriorità assoluta del principio, articolata in entrambe le idee guida della catena aurea; l’ordine trinitario che innerva l’universo intero. E non si tratta di un ordine mistico-carismatico, a riguardo Cusano non è vicino al De Trinitate di Agostino, bensì di un ordine che coincide con la natura stessa del pensiero, che non ha alternative   Ibid., 13, 1, p. 11.   Id., De docta ignorantia, II, 4, 116, 26-27, edd. E. Hoffmann - R. Klibansky, Leipzig 1932 (Opera omnia, I), p. 74. 55  Id., Sermo I, 14, 16-17, edd. Haubst-Bodewig-Kramer cit., p. 12. 56  Id., Sermo CCXXXV, 6, 1-2, ed. M.-A. Aris, Hamburg 2001 (Opera omnia, XIX.2), p. 196. 57  Id., Sermo I, 13, 22, edd. Haubst-Bodewig-Kramer cit., p. 13. 53 54

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possibili, se non si vuole ‘porre il mondo a caso’. Teologia, ontologia e logica coincidono senza residui: Hegel è il Proclo tedesco, per usare la geniale definizione di Feuerbach! A questo punto, l’occorrenza del Sermo I e molte altre dovrebbero divenire più chiare. Poiché la Trinità è  nell’unità, si legge, cioè, poiché il principio, che è trino, è in ogni principiato, altrimenti nulla esisterebbe, accade quanto si dice: ogni essenza celeste ha in sé «esse, virtus, operatio», come insegna Dionigi 58; ogni ente si compone di «potentia, obiecto et actu» e dei suoi «innati correlativi», come insegna Raimondo Lullo, nelle opere omonime 59. Sul pensatore catalano, prima di procedere con l’esposizione, è  d’uopo spendere qualche parola. È l’autore più presente nella biblioteca di Cusa, con ottantasette opere, classificate recentemente da Marta Romano 60. La  sua conoscenza è  molto precoce, già nel 1428, secondo Rudolf  Haubst, il Nostro avrebbe trascritto estratti da ben ventisette testi 61. Egli accompagna, dunque, passo passo, la costruzione o  l’Entwicklung, per citare il titolo originale della monografia di Kurt Flasch 62, della filosofia cusaniana, senza che la sua funzione diventi mai irrilevante. Eppure, non figura nella catena aurea che si è ricostruita. Ebbene, come è noto, Lullo, per la sua particolarissima biografia e formazione intellettuale, è completamente al  di fuori della tradizione platonica e  neoplatonica e  non conosce, per la verità, in maniera approfondita, neppure Aristotele. La relazione Uno-molti, al centro di questa indagine,  Cfr. CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22-42, 2.  Cfr. Raymundus Lullus, De potentia, obiecto et actu (ineditus) et quae Nicolaus inde excerpsit (Cod. Cus. 83, fol. 98v-99v), ed. Colomer cit.; Id., De correlativis innatis dist. 1-3 (Opera parva 1/II, 18-40) et quae Nicolaus inde excerpsit (Cod. Cus. 85, fol. 55v), ed. R. Haubst, in R. Haubst, Das Bild des Einen und Dreieinen Gottes in der Welt nach Nikolaus von Kues, Trier 1952 (Trier theologische Studien, 4), pp. 339-341. 60  Cfr. M. M. M. Romano, Q uale incontro tra Cusano e Lullo? Elementi per un paradigma di lullismo, in Niccolò Cusano - L’uomo, i  libri, l’opera. Atti del LII Convegno storico internazionale (Todi, 11-14 Ottobre 2015), Spoleto 2016 (Atti dei convegni del Centro italiano di studi sul basso Medioevo-Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale, N. S., 29), pp. 125-148. 61 Cfr. R. Haubst, Die Erkenntnistheoretische und mystische Bedeutung der «Mauer der Koinzidenz», in Das sehen Gottes nach Nikolaus von Kues, Akten des Symposions (Trier, 25-27 September 1986), hrsg. von R. Haubst, Trier 1989 (Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, 18), [pp. 167195], p. 174. 62 Cfr. supra, alla nota 47. 58 59

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non costituisce il fulcro del suo pensiero. Resta, perciò, a  latere rispetto alle autorità ‘nobili’; da lui, però, si attingono due motivi imprescindibili: l’adozione di un monismo metodologico, la sua ars generalis, che diventa, questa volta sì, platonizzata, ars coniecturalis (per Cusano, non c’è altro modo di conoscere, se non cogliendo l’unità nella molteplicità 63); la ferrea e persino ‘ossessiva’ configurazione trinitaria – è appunto la teoria dei correlativi che il Sermo I richiama – che caratterizza ogni aspetto dello scibile e del reale, per cui non si dà nulla di irrazionale o di incomprensibile (si ricordi che il sogno di Lullo è la conversione di tutti gli infedeli su presupposti razionalistici 64). È fin troppo evidente che entrambi i motivi, quasi ironica è l’ossessività trinitaria-triadica, pur di provenienza totalmente allotria, si ritrovano identici nel pensiero di Proclo. Così, si può procedere all’esposizione del secondo gruppo di occorrenze, le quali non fanno altro che collocarsi sulla falsariga della prima, mostrando un castello che si ritiene inespugnabile. Nel Sermo IV del 1431, si parla nuovamente di «essentia, virtus et operatio» 65, mentre nel capitolo ventesimo del primo libro del De docta ignorantia si afferma esplicitamente che non si può pensare, se non ‘trinitariamente’ (‘triadicamente’). Il triangolo massimo, di conseguenza, è la misura di tutte le cose, le quali agiscono «in potentia, obiecto, actu», secondo la formulazione lulliana che è ripetuta verbatim 66. Il Sermo XXXVIII del 1444, nel quale è  molto presente Eckhart, allude, come il Sermo  I, alla presenza della Trinità nella creatura ed evoca Agostino («numero, pondere et mensura»), ancora Agostino insieme a Pietro Lombardo, Bonaventura ed Eimerico di Campo («unitas, veritas, bonitas»), Dionigi, ma più letteralmente Eriugena («esse, posse, operari»), e  Lullo («item correlativa -tivum, -bile, -are»). L’argomenta63  Cfr.  Nicolaus Cusanus, De coniecturis, II,  1,  71,  5-7, edd. J.  Koch K. Bornmann, Hamburg 1972 (Opera omnia, III), p. 72: «Q uapropter non habes alia consideratione opus, nisi ut in diversitate rerum a te indagandarum identitatem inquiras aut in alteritate unitatem». 64  A riguardo, cfr. J. G. Esterlich, Raimondo Lullo. Una teologia per la missione, Milano 2002 (Eredità medievale, 20). 65  Nicolaus Cusanus, Sermo IV, 30, 6, edd. Haubst-Bodewig-Kramer cit., p. 69. 66  Cfr. Id., De docta ignorantia, I, 20, 62, edd. Hoffmann-Klibansky cit., p. 41. Per quanto riguarda Lullo, cfr. supra, nota 56.

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zione si conclude emblematicamente, ribadendo la triade nella sua modalità standard: «In omnibus infimis et supremis creaturis est ‘essentia, virtus et operatio’» 67. Vi sono, poi, cinque luoghi, due nel Sermo CLVIII del 1454 e tre nel Sermo CCXII del 1455, nei quali si tenta di rendere più comprensibile tutto ciò, sempre a  partire dalla partecipazione del principio, ricorrendo al  caso del magnete che attrae il ferro. Detto per inciso, che secondo Proclo il principio non sia trino, né triadico, non sembra, per Cusano, un problema. Proclo, come si è detto, al pari delle altre autorità, si impiega, si adatta e si sovrascrive. Dionigi, Eriugena e Lullo servono esattamente a questo. Se poi si vanno a guardare i nomi delle persone, il diadoco ha persino ragione, perché noi definiamo Dio Padre, Figlio e Spirito Santo «in habitudine creaturarum», laddove, considerato in sé stesso è soltanto infinito 68. Ma si torni al magnete e al ferro. È un esempio classico, dal xiii secolo, riconducibile al Canone di Avicenna, che è un personaggio importante per il cardinale. La sua Metafisica, tradotta da Domenico Gundissalvi, è letta e annotata scrupolosamente; sono conosciuti anche i Commenti ai libri aristotelici De animalibus, il Liber de anima e il Tractatus de medicinis cordialibus. L’idea, diffusa dal filosofo arabo, è che ogni ente è costituito dalle sue qualità elementari, le quali si mescolano e assumono una disposizione ordinata, la complessione. Su di essa agisce il datore delle forme – il sintagma dator formarum, non per accidente, si trova due volte del De dato patris luminum e una volta nel De venatione sapientiae 69 – infondendo, appunto, la forma della specie. Q uesta, dunque, è una perfezione che deriva dall’esterno e non può essere colta dalle caratteristiche materiali degli individui (iuxta propria principia). In questo senso, per Avicenna, è una qualità occulta. Ora, la forma della specie è, di fatto, ciò che identifica la virtus di una creatura, come la capacità del magnete di attrarre il ferro, dalla quale scaturisce l’operazione, ossia, nell’esempio, l’at67   Id., Sermo XXXVIII, 13, 10-11, ed. M.-A. Aris, Hamburg 1983 (Opera omnia, XVII.1), p. 112. 68 Cfr.  Id., De docta ignorantia, I,  26,  87,  2, edd. Hoffmann-Klibansky cit., p. 55. 69 Cfr. Id., De dato patris luminum, II, 98, 12 e 99, 2, ed. Wilpert cit. (alla nota 44), p. 73; Id., De venatione sapientiae, XXIX, 87, 10, edd. Klibansky-Senger cit., p. 84.

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trazione in quanto tale. La sequenza logico-ontologica è pertanto essentia (qualità elementari e  complessione), virtus (forma della specie), operatio (azione concreta che ogni ente esercita) 70. Q uel che è decisivo notare è che, mentre l’interpretazione avicenniana è  comunemente respinta – attraverso una consistente aristotelizzazione, che fa provenire le qualità occulte o  virtutes dalla potenza della materia e  dal concorso delle cause superiori, che sono i cieli, per i minerali, i motori, per le piante e gli animali, e  Dio, per l’anima razionale – Cusano pare richiamarvisi direttamente oppure attraverso Alberto 71 e  alcuni non meglio precisati naturales. Si tocca, in tal modo, una questione estremamente delicata ed insidiosa, che è possibile soltanto accennare: esiste, per il Nostro, una fisica? Da tutto quel che si è detto e mostrato in questa sede, la risposta non può che essere negativa. Se non esiste un’auto-sussistenza della molteplicità e  se la conoscenza di ogni principiato presuppone la conoscenza del principio, senza la quale è impossibile, non può esistere una disciplina autonoma; ed ecco spiegato anche l’apprezzamento per il monismo metodologico lulliano. Cusano, tuttavia, ha studiato a Padova, è entrato in contatto con l’aristotelismo più progressista – si pensi a Paolo Veneto – e dà prova di grande interesse per l’osservazione empirica. Un testo su tutti lo dimostra, il terzo libro del De idiota, vale a dire il De staticis experimentis 72. L’opinione di chi scrive è che questi due aspetti o queste due anime, prima facie inconciliabili, non siano stati ancora indagati dalla critica nella loro coesistenza e nella loro eventuale interazione. Rivolgendosi di nuovo ai passi, è da segnalare che, in due occasioni, la triade è qualificata in termini prettamente trinitari, con le parole prescritte dalla bolla Laetentur coeli del 6 luglio 1439. Si legge, perciò: «Ab essentia generatur virtus, ab utroque procedit operatio» 73. Considerando che si tratta di sermoni del 1454 e del 70  Q uesta parte specifica del saggio si deve ai dati materiali e alle spiegazioni gentilmente forniti dal dott. Massimiliano Lenzi. 71 Cfr. Albertus Magnus, Physica, VII, 1, 3, ed. P. Hossfeld, 2 voll., Münster 1993 (Opera omnia, IV), I, p. 523, 70-72. 72 A riguardo, si veda P. Secchi, La conoscenza possibile: tre saggi su Cusano, Roma 2017, pp. 117-119. 73   Nicolaus Cusanus, Sermo CLVIII, 7, 3, ed. H. Pauli, Hamburg 2001 (Opera omnia, XVIII.2), p. 175.

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1455, il dato non è da sottovalutare, anzi dà conto del fatto che, nel primo paragrafo, si è parlato del Concilio come di un evento che non poteva essere ignorato. Il Nostro, infatti, insignito ormai della porpora e vescovo di Bressanone, avverte evidentemente che il partito degli anti-unionisti, dopo la caduta di Costantinopoli, ha trionfato e che il sinodo di Mosca, dal 1448, è in aperta ostilità 74. Anche Pletone si era servito di Proclo, ma in che modo! Inserire dunque una citazione dogmatica all’interno di un’autorità condivisa anche dagli avversari, significa rendere noto chiaramente che è ancora il tempo di combattere. Il terzo gruppo di occorrenze, che include un passo del Sermo CCXII del 1455, già nominato, uno del Sermo CCXLVI del 1456 e uno del De beryllo del 1458, si qualifica per la dimensione schiettamente teoretica. Tralascia l’ambito della Trinità, e cerca di chiarire, in termini di pura pensabilità, come l’Uno sia presente nei molti. La  sua analisi permetterà di rispondere agli interrogativi posti alla fine del suddetto primo paragrafo. La fonte, ora, è Proclo, che non ha bisogno di essere sovrascritto da numi tutelari cristiani. Nel Sermo CCXII si legge che la virtus, quanto più è unita, tanto più è forte 75. Una simile equazione fra unità, compiutezza ed esistenza è tipica di tutta l’assiologia procliana ed è, si potrebbe dire, l’intera spina dorsale dell’Elementatio theologica. Vale la pena citare lo scolio alla proposizione XIII: «Se anche l’unificazione è un bene in sé e il bene ha la facoltà di creare unità, il Bene assoluto e l’Uno assoluto si identificano, unificando e rendendo buone contemporaneamente le cose che esistono» 76. Vanno più a  fondo e  si caricano di maggiore complessità gli altri due passi. Il  primo ha a  che fare con la relazione fra specie ed individuo. Utilizza, dunque, un lessico aristotelico. Q uest’ultimo, per Cusano, lungi dall’essere bandito, può lecitamente inserirsi all’interno di una struttura neoplatonica, purché rappresenti un utile strumento linguistico, si serve di termini uni74  Cfr.  E. Delaruelle - R.  Labande - P.  Ourliac, Histoire de l’Église, XIV.2: L’Église au temps du Grand Schism et de la crise conciliaire (1378-1449) (tr. it., Torino 1981, pp. 734-738). 75 Cfr.  Nicolaus Cusanus, Sermo CCXII, 11, 13-14, edd. S.  Donati I. Mandrella, Hamburg 2005 (Opera omnia, XVIII.5), p. 59. 76  Proclus, Elementatio, prop. 13, p. 14.

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versalmente noti, e purché resti confinato ad una comprensione microscopica, senza pretendere di fondare i  principi generali. È, del resto, la medesima posizione di Giamblico e  Proclo, nel mondo antico (i ‘piccoli misteri’ propedeutici ai ‘grandi misteri platonici’), e di Bessarione e Ficino, nel Q uattrocento. Si legge, che per ogni individuo la specie è come un cielo cui presieda un angelo, come un Dio nel suo regno 77 (la stessa metafora si rileva nel Sermo CLXXII, in cui pure compare la triade 78). Al di là della contaminatio dionisiana, l’assioma secondo cui ciò che sovrintende a  un determinato ordine è  come l’Uno per quell’ordine è di nuovo centrale nell’Elementatio theologica, così come l’idea che ciò che è superiore si comunica all’intero ordine che gli soggiace 79. Si può allora spiegare l’unicità del moto di una singola specie con l’unicità dell’intelligenza motrice, altrimenti non vi sarebbe «una species, virtus et operatio» 80. Estremamente rivelativo per la comprensione del pensiero cusaniano: un problema posto, ad un primo sguardo, con Aristotele, è risolto con un’ontologia procliana. Se poi questo dipende dal fatto che non si può disconoscere che in Aristotele permanga molto platonismo, ancor meglio, in quanto è  una risposta a  tutti coloro che rifiutano la tesi concordista, come Pletone, da un lato, e  Giorgio di Trebisonda dall’altro. L’occorrenza del De beryllo, infine, riguarda il corpo e  le relazioni fra le sue membra: natura, virtus e  operatio fanno sì che vi sia un ordine, che formi un solo uomo 81. Si tratta della concezione secondo la quale tutte le parti dell’intero sono intimamente connesse fra loro, sì da muoversi di concerto e per un unico fine, che è la perfezione dell’organismo. Già presente in Plotino 82, è un denominatore comune di tutto il neoplatonismo e si trova anche nell’Elementatio theologica 83 e nella Theologia pla77 Cfr.  Nicolaus Cusanus, Sermo CCXLVI, 8, 1-3 edd. I.  Mandrella H. D. Riemann, Hamburg 2004 (Opera omnia, XIX.4), p. 282. 78 Cfr.  Id., Sermo CLXXII, 12, 33-38, edd. S.  Donati - I.  Mandrella H. Schwätzer, Hamburg 2003 (Opera omnia, XVIII.3), p. 255. 79 Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 145, p. 128. 80   Id., Sermo CCXLVI, 7, 8-9, edd. Mandrella-Riemann cit., p. 282. 81 Cfr. Id., De beryllo, 25, 1-3, edd. G. Senger - K. Bormann, Hamburg 1988 (Opera omnia, XI.1), p. 28. 82 Cfr. Plotinus, Enneades, IV 4, 40, 1-14. 83  Cfr. Proclus, Elementatio, prop. 146, p. 128.

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tonica 84. Sarà poi il presupposto di tutta la riflessione magica del Rinascimento, da Ficino a Campanella 85. È possibile ora, prima di passare a commentare le ultime occorrenze, di coloritura antropologica e  mistica, rispondere alle questioni sull’Uno e i molti. Ci si era chiesti se l’essere fosse uno o molteplice. L’essere è uno, la fenomenologia della triade, intesa proprio nel senso di progressivo e razionale mostrarsi, rivela e conferma i  principi rivendicati dalla catena aurea. Un aristotelismo radicale, che venga da Padova o da Costantinopoli, è contraddittorio. Ci si era chiesti, poi, se l’Uno e i molti coesistessero o si coimplicassero. Q ui è più insidioso, perché Cusano diverge da Proclo. Ex parte ante, l’Uno e i molti non si co-implicano. L’esistenza di Dio, non implica l’esistenza delle creature. Nel capitolo ventiduesimo del primo libro del De docta ignorantia, si dice: «Nam posita complicatione non ponitur res complicata, sed posita explicatione ponitur complicatio» 86. Ex parte post, vale a dire una volta che i  molti esistono, l’Uno e  i molti si co-implicano. L’Uno  è  i molti e Proclo viene in soccorso: l’Uno esiste nei molti più di quanto i molti esistano in se stessi. Il nesso è ontologico e mai, soltanto, logico-predicativo. Il quarto e il quinto gruppo presentano una serie di occorrenze che sottolineano il Leitmotiv (si richiami il celeberrimo esempio del poligono iscritto nel cerchio 87) della sproporzione tra il finito e l’infinito, tra Dio e la creatura, e, al contempo, indicano la via per il contatto, precluso tanto alla ratio quanto all’intellectus, che produce la filiatio o  deificatio 88, e  dunque la felicità. Si trovano nel Sermo XLVII del 1445, nel Sermo CXCII del 1455, nel Sermo CCXV del 1456, nel De venatione sapientae del 1463. Nell’espo84 Cfr. Id., Theologia Platonica, V 26, edd. H. D. Saffrey - L. G. Westerink, 6 voll., Paris 1968-1997, V, 1987, p. 97, 22-25. 85  Si rinvia, in questa sede, al classico D. P. Walker, Spiritual and demonic Magic from Ficino to Campanella, London 1958 (Studies of  the Warburg Institute, 22), in partic. p. 14. 86 Cfr.  Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, I,  22,  69, 21-22, edd. Hoffmann-Klibansky cit., p. 45. 87 Cfr. ibid., I, 3, 10, 14-20, p. 9. 88   Per un approfondimento di questi concetti specifici e per una riflessione più generale della relazione di Cusano con la mistica, si rinvia a Secchi, La conoscenza possibile cit., pp. 45-84, in partic. pp. 51-81.

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sizione, si deroga in questo caso dal criterio cronologico prescelto, per privilegiare una maggiore omogeneità concettuale. Il Sermo XLVII si colloca su un terreno gnoseologico e  pare proseguire, quasi materialmente, il discorso del De coniecturis, pubblicato un anno prima. Si distinguono la conoscenza divina e  la conoscenza umana. Se Dio conosce le cose prima che siano fatte, l’uomo non può che conoscerle a posteriori. E benché, come si è  detto, la conoscenza sorga sempre dalla presenza originaria della verità – è il modello illuminazionistico – non si parla mai di idee innate ed è dunque all’esterno che, poi, le nostre facoltà devono rivolgersi. In più luoghi della sua produzione, seppur con qualche tentennamento, Cusano ribadisce l’imprescindibilità dei fantasmi 89. Ne segue che noi ricaviamo la virtus dall’operatio e il quia est dell’essentia – la quidditas rerum è sconosciuta 90 – dalla virtus 91. Speculare è il passo del 1456, in cui si legge che il medico conosce la virtus di un’erba dalla sua operatio e  che noi conosciamo il calore attraverso il riscaldamento e il fuoco attraverso il calore 92. Anche il capitolo ventinovesimo del De venatione sapientiae riproduce letteralmente il primo capitolo del primo libro del De coniecturis. Come la mente divina complica ed è il principio degli enti reali, delle essentiae, la mente umana, che partecipa della fecunditas creatricis, ha la capacità o virtus di complicare ed essere il principio degli enti razionali e  questa è  la sua operatio 93. Ora, date la sproporzione e la regula della docta ignorantia, per la quale dove vi sono un più e un meno non è possibile giungere al massimo assoluto, come è  possibile che l’uomo, e  con lui l’intera creazione se è vero che è un microcosmo, resti infinitamente lontano da Dio? Per quanto sembri assomigliare sempre più ad un cerchio, è l’epistemologia dell’approssimazione condotta attraverso 89 Cfr. Id., I fantasmi: una questione complessa, in Id., Studi cusaniani cit. (alla nota 36), pp. 57-74. 90  Cfr.  Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, I,  3,  10, 24-26, edd. Hoffmann-Klibansky cit., p. 9. 91 Cfr. Id., Sermo XLVII, 9, 15-19, edd. R. Haubst - H. Schnarr, Hamburg 1991 (Opera omnia, XVII.2), p. 198. 92 Cfr. Id., Sermo CCXV, 5, 5-8 edd. K. Reinhardt - W. A. Euler, Hamburg 1996 (Opera omnia, XIX.1), p. 80. 93 Cfr. Id., De venatione sapientiae, XXIX, 86, 1-6, edd. Klibansky-Senger cit. (alla nota 45), p. 81; Id., De coniecturis, I 1, 5, 1-7, edd. Koch-Bornmann cit. (alla nota 59), p. 7.

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la ratio e l’intellectus, il poligono non sarà mai identico al cerchio. La  ratio conduce a  scorgere l’insufficienza della predicazione e della teologia catafatica e apre all’intellectus che scorge la necessità logico-ontologica del principio, ma non riesce ad abbracciarlo (comprehendere, per Cusano, ha anche un’accezione fisica). L’unica via d’accesso al  divino, dunque, supera senza abbandonarlo ogni processo conoscitivo – il dibattito con i  monaci del Tegernsee, dal quale scaturisce il De visione Dei non lascia adito a dubbi e, si è detto, non si può fare a meno dei fantasmi – e conduce all’identificazione con il massimo assoluto e  contratto ad un tempo, ossia con il Verbo incarnato. È questo l’unico luogo, non solo dello spirito, in cui l’infinito si dà pienamente, senza residui, nel finito. E siccome il Verbo incarnato, se si guarda al terzo libro del De docta ignorantia 94, ha una funzione cosmogonica e ontologica prima ancora che carismatica, è il vero e proprio architrave grazie al quale tutte le creature posso toccare Dio, l’uomo deve trovarlo in sé, divenendo come Cristo. È il tema della christiformitas che si rileva negli due ultimi passi. Il Sermo CXCII richiama con molta forza il primato della grazia. In  tutte le cose, si afferma, «est essentia, virtus et operatio» 95. Dove l’operazione non è perfetta, tuttavia, non sono perfette neppure la virtus – intesa come capacità di agire in senso morale – né tantomeno la natura o l’essentia. L’operatio virtuosa che distende la sua perfezione su tutta la natura comune, come insegna la Lettera di Giacomo, è  l’azione della grazia. Da essa deriva, perciò, anche la christiformitas, che si costituisce quando lo spirito di Gesù si infonde nell’anima umana: soltanto allora la perfezione della natura e  dell’essenza tralucerà nella virtus e  nell’operatio. Sono, queste, le occorrenze della triade più lontane dal senso procliano. Perché? Affermare che il contesto è  cristiano o  mistico ha ben poco senso. Negli anni ’40, Cusano si era avvicinato ad un ‘misticismo’ di stampo neoplatonico, sulle orme dell’ἄφελε πάντα! plotiniano 96, che aveva cristianizzato attraverso i sermoni di Eckhart, ma era stato accusato da Wenck di aver distrutto il 94  Cfr.  Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, III,  3-4, 195-207, edd. Hoffmann-Klibansky, cit., pp. 125-132. 95  Id., Sermo CXCII, 2, 5-6 edd. S. Donati - H. Schwätzer - F.-B. Stammkotter, Hamburg 2004 (Opera omnia, XVIII.4), p. 383. 96 Cfr. Plotinus, Enneades, V, 3, 17, 38.

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seme di ogni conoscenza negando il principio di contraddizione ed era stato costretto a scrivere l’Apologia doctae ignorantiae. Nel 1454, invece, è accusato da un libello di Vincenz von Aggsbach, l’Impugnatorium doctae ignorantiae, di aver introdotto l’aristotelismo nella mistica, di essere un iper-intellettualista e, dunque, un pelagiano 97. Il  Nostro deve, evidentemente, ancora difendersi e  riaffermare che tutto dipende dalla volontà di Dio.  Alla domanda se quest’ultimo gruppo di occorrenze possa coesistere, a livello teoretico, e culturale, in senso più generale, con gli altri gruppi, si crede, abbia già risposto questo contributo, il quale, servendosi della triade e della sua storia, ha cercato di illuminare, per quanto possibile, il pensiero di uno dei protagonisti del xv secolo.

  Su entrambe le controversie, è ora essenziale K. M. Ziebart, Nicolaus Cusanus on Faith and the Intellect. A case study in 15th-century fides-ratio controversy, Leiden 2014 (Brill’s Studies in intellectual History, 225). 97

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1. Premesse storiografiche In un recente saggio pubblicato all’interno del volume Interpreting Proclus: from Antiquity to the Renaissance, Thomas Leinkauf  sostiene con particolare enfasi che nello spiegare la triadica struttura dell’Essere, Francesco Patrizi da Cherso, come Cusano, Ficino e altri prima di lui, non abbia tanto utilizzato la triade essentia – vita – intellectus (οὐσία – ζωή – νοῦς), quanto quella di essentia  –  potentia/virtus  –  operatio/actio «privilegiata da Proclo» 1. La citazione apparentemente scontata del Diadoco in tale contesto non è, però, suffragata da un immediato riferimento alla fonte; ciò lascerebbe intendere che per lo studioso tedesco il lettore possegga già una sufficiente conoscenza della triade citata 2. La questione è, tuttavia, ben più problematica se si pensa che quest’ultima è assente nel volume di Werner Beierwaltes dedicato ai fondamenti del pensiero di Proclo 3: tale constatazione ha generato una singolare dimenticanza o, per meglio dire, una marginale 1  Th. Leinkauf, Francesco Patrizi, in Interpreting Proclus: from Antiquity to the Renaissance, ed. by S. Gersh, Cambridge 2014, [pp. 380-402], p. 397. 2  Per un approfondimento delle implicazioni speculative della triade, cfr. Id., Der Ternar essentia-virtus-operatio und die Essentialisierungen der Akzidentien, in Philosophie im Umbruch. Der Bruch mit dem Aristotelismus im Hellenismus und im späten Mittelalter, seine Bedeutung für die Entstehung eines epochalen Gegensatzbewusstseins von Antike und Moderne. VI Tagung der Karl und Gertrud Abel-Stiftung (Marburg, 29-30 November 2002), hrsg. von G. Radke-Uhlmann A. Schmitt, Stuttgart 2009 (Philosophie der Antike, 21), pp. 131-153. 3  Cfr.  W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Frankfurt a. M. 1965 (Philosophische Abhandlungen, 24) (tr. it., Milano 1990, pp. 96-203). La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127971 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 567-588     © 

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attenzione da parte della critica nei confronti della storia della triade essentia – virtus – operatio. Non è  certamente possibile ripercorrere in questa sede tutti i problemi ermeneutici legati all’interpretazione della fonte procliana, dal momento che l’oggetto di questo studio è  quello di indagarne la presenza a  partire dal pensiero di Marsilio Ficino. Tale ricerca risulta imprescindibile poiché il filosofo fiorentino – com’è noto – fu profondo conoscitore e traduttore degli autori neoplatonici, diventando un punto di riferimento inevitabile per tutti quei pensatori che a tale tradizione si sarebbero ispirati (seppur a vario titolo) già alla fine del Q uattrocento e per l’intero Cinquecento. Paul Oskar Kristeller fu il primo studioso ad evidenziare il ruolo giocato dalla triade nella filosofia ficiniana. All’interno del primo capitolo della sua monografia Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, intitolato L’essere e i suoi aspetti fondamentali e dedicato alla presentazione dei capisaldi della filosofia ficiniana, troviamo subito una tematizzazione del rapporto tra potenza e atto a proposito dell’analisi della qualità tra i cinque gradi di tutte le cose: la qualitas è, infatti, intesa come forza attiva, più precisamente virtus operatrix 4. Di qui, lo studioso tedesco nota l’importanza della relazione tra virtus e  operatio non soltanto per l’ontologia ma anche per la gnoseologia ficiniana, collocando tali concetti nel contesto della «triade di essentia, virtus ed operatio che circoscrive l’intero processo e  si trova spesso nel Ficino come schema fisso ontologico» 5. Ora, considerando le riserve interpretative della più recente letteratura critica sulla ricerca del ‘sistema’ da parte del Kristeller 6, è necessario provare a ridimensionare anzitutto il peso speculativo di tale affermazione al fine di osservare da vicino i passi della Theologia Platonica addotti dallo studioso per avvalorare la sua tesi. Se, infatti, probabilmente non è corretto parlare della triade come «schema fisso ontologico», è pur vero che essa riveste un ruolo non secondario in diversi luoghi dell’opera principale del filosofo. 4 Cfr. P. O. Kristeller, The Philosophy of  Marsilio Ficino, New York 1943, p. 42 (tr. it., Firenze 1988, p. 33). 5  Ibid. (tr. it., p. 34). 6  Cfr. Kristeller Reconsidered. Essays on his Life and Scholarship, ed. by J. Monfasani, New York 2006.

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Senza dubbio, il più rilevante uso di questo schema triadico per il tema portante dell’intero testo (che – giova ricordarlo – è la dimostrazione dell’immortalità dell’anima individuale 7) è quello dedicato alla cosiddetta tertia essentia. Prima di analizzare i brani tratti dal capitolo quarto del primo libro a ciò dedicati è opportuno, per ragioni di chiarezza ermeneutica, considerare il seguente passo, in cui vi è una originale definizione della triade: Praeterea res omnis praeter ipsum deum creatura dicitur a theologis et ex quattuor quibusdam componitur necessario. Ideo Pythagorici non solum in corporibus, verum etiam in spiritibus quodammodo ponunt quattuor elementa, quia utraque constant ex essentia, esse, virtute et actione. Nempe aliud in eis essentia est, aliud esse; est enim esse actus essentiae. Q uod si praeter hunc actum non esset illic essentia cui talis actus haereret, esset actus purus et infinitus, quia non circumscriptus ab ullo. Hic autem solus est deus. (…) Merito creatura non est ipsum esse suum, quia ipse suus actus esse nequit, cum habeat in se potentiae passivae nonnihil immixtum, quia subest deo. Potentia vero opponitur actui. Q uoniam vero operatio differt ab essentia magis quam esse ipsum (prius enim est essentia quam operetur), ideo ubi est essentiae et ipsius esse distinctio, multo magis est distincta operatio ab essentia. Operatio quidem ita est virtutis essentialis actus, sicut esse est actus essentiae 8.

È evidente che qui la triade è  arricchita con l’esse 9  e, pertanto, risulterebbe snaturata al punto da diventare una quadriade: l’essere in quanto actus essentiae viene introdotto per differenziare la creatura da Dio. La stessa struttura viene impiegata anche per

 Per un’analisi del tema dell’immortalità nel trattato ficiniano, rimando ai classici Id., The Theory of  Immortality in Marsilio Ficino, in «Journal of  the History of  Ideas», 1.3 (1940), pp.  299-319; G.  Di Napoli, L’immortalità dell’ani­ma nel Rinascimento, Torino 1963, pp.  121-178. Più in generale, cfr. P. R. Blum, The Immortality of  the Soul, in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, ed. by J. Hankins, Cambridge 2007, pp. 211-233, in partic. pp. 214-217. 8  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, V, 13, latin text ed. by J. Hankins W. Bowen, tr. by M. J. B. Allen - J. Warden, 6 voll., II, Cambridge - London 2002 (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 4), p. 82. 9 Cfr. Kristeller, The Philosophy of  Marsilio Ficino cit. (tr. it., p. 34). 7

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spiegare, nel libro sesto, capitolo 9, l’animazione del corpo da parte dell’anima: Q uoniam vero ab essentia fluit esse, a virtute operatio, anima, quae singulis membris esse operationemque largitur, singulis quoque essentiam suam virtutemque communicat. Ita enim esse operationemque praestat, sicut unitur 10.

Il nodo da sciogliere riguarda la peculiare commistione di metafisica platonica e  aristotelica, quest’ultima desunta dalla lettura, in particolar modo, della Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino 11. È innanzitutto fondamentale rilevare la natura del debito contratto dal filosofo fiorentino nei confronti di Tommaso, che è un dato oramai assodato per la storiografia 12, per poi rilevarne le ricadute speculative. L’analisi della fonte tommasiana, tuttavia, consente di verificare esclusivamente il contesto della Theo­ logia Platonica, dal momento che occorrerà cercare altrove per quel che riguarda il Commento al «Parmenide», che sarà oggetto della seconda parte del presente studio. Le difficoltà che offrono i luoghi ficiniani hanno spesso origine dall’intreccio tra le nozioni di forma e  materia ed atto e  potenza, peraltro complicate dalla nozione neoplatonica di ‘potenza attiva’, che determina un’importante revisione del concetto aristotelico di passività 13. Tuttavia, tale mescolanza – come si vedrà – è il dato ereditario di una 10   Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, VI, 9, edd. Hankins-Bowen cit., II, p. 174. 11 Cfr. A. B. Collins, The Secular is Sacred. Platonism and Thomism in Marsilio Ficino’s «Platonic Theology», The Hague 1974 (International Archive of  the History of  the Ideas, 69), pp. 114-215; É. Gilson, Marsilio Ficino et le «Contra Gentiles», in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 32 (1957), pp. 101-113. 12 Cfr. B. P. Copenhaver, Ten Arguments in Search of  a Philosopher: Averroes and Aquinas in Ficino’s Platonic Theology, in «Vivarium», 47 (2009), pp. 444479; L. Rizzo, Echi ed influenze aristoteliche nella «Theologia platonica» di Marsilio Ficino, in Aristotle and Aristotelian Tradition. Innovative Contexts for Cultural Tourism. Proceedings of  the International Conference (Lecce, 12-14 giugno 2008), a  cura di E.  De Bellis, Catanzaro 2008, pp.  327-341; A.  Tarabochia Canavero, Agostino e Tommaso nel Commento di Marsilio Ficino all’«Epistola ai Romani», in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 65 (1973), pp. 815-824. Più in generale, cfr. P. O. Kristeller, Il Tomismo e il pensiero italiano del Rinascimento, ibid., 66 (1974), pp. 841-896. 13  Cfr. S. Gersh, From Iamblichus to Eriugena: An Investigation of  the Prehistory and Evolution of  the Pseudo-Dionysian Tradition, Leiden 1978 (Studien zur Problemgeschichte der antiken und mittelalterlichen Philosophie, 8), pp. 27-45.

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lunga tradizione di pensiero in cui l’Aquinate riveste un ruolo di primo piano.

2. Ficino e Tommaso d’Aquino: la «Teologia Platonica» Cornelio Fabro, in un pionieristico saggio sulla presenza tomistica nel pensiero ficiniano, notava come l’influsso della filosofia di Tommaso fosse particolarmente evidente nella psicologia di Ficino, prendendo anzitutto in considerazione il seguente passo: Sed num differt operatio a virtute et virtus ab essentia atque esse? Certe. Primo enim quia actus potentiae semper opponitur, operatio, quae est actus, a virtute discrepat et essentia, quae potentiae quaedam sunt, et virtus ab esse, quod est actus, et ab essentia, quia potentiae per suos actus distinguuntur, cum propria potentia proprium respiciat actum. Essentiae actus est esse, virtutis actus est operatio. Igitur tanto inter se distant essentia atque virtus, quanto esse distat et operatio 14.

Il filosofo fiorentino, poi, spiega l’importanza di queste distinzioni su un piano ben più universale, tanto da interessare tutte le creature: Q uorsum haec tam multa? Ut intellegas operationem cuiuslibet creaturae virtuti haerere, virtutem et esse essentiae, ac nullam creaturam per substantiam proxime operari, sed per virtutem operatricem quae est qualitas sive accidens, cum a substantia undique distinguatur 15.

Il medesimo valore assoluto delle considerazioni riguardanti la triade viene difeso anche da Tommaso d’Aquino nella Q uaestio 54 della prima pars della Summa Theologiae. Trattando della conoscenza degli angeli, il Doctor Angelicus sostiene dapprima che «impossibile est quod actio angeli, vel cuiuscumque alterius creaturae sit eius substantia», per poi concludere: Actio enim est proprie actualitas virtutis; sicut esse est actualitas substantiae vel essentiae. Impossibile est autem quod 14  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, V, 13, edd. Hankins-Bowen cit., II, pp. 84-86; cfr. C. Fabro, Influenze tomistiche nella filosofia del Ficino, in «Studia Patavina», 3 (1959), [pp. 396-413], p. 400. 15  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, V, 13, edd. Hankins-Bowen cit., II, p. 86.

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aliquid quod non est purus actus, sed aliquid habet de potentia admixtum, sit sua actualitas: quia actualitas potentialitati repugnat. Solus autem Deus est actus purus. Unde in solo Deo sua substantia est suum esse et suum agere 16.

La distinzione tra Dio in quanto atto puro e infinito e le creature sembra essere la fonte del primo passo ficiniano citato che, inoltre, Collins ha messo in relazione anche con un brano del libro II della Summa contra Gentiles 17. Ad ogni modo, laddove il luogo deputato alla discussione delle nozioni di essentia, virtus ed operatio per Tommaso è quello della natura delle sostanze intellettive separate 18, per Ficino sembra essere quello dell’anima. Si rinviene tale distinzione triadica in modo particolare nel capitolo intitolato Anima rationalis per substantiam immobilis est; per operationem est mobilis; per virtutem est partim immobilis, partim mobilis, contenuto nel primo libro della Theologia Platonica. Dopo aver affermato che nella qualità vi sono tre costituenti («essentia», «virtus» e «actio»), puntualizzando che tutte versano nel movimento, il canonico fiorentino scrive che anche nel­ l’anima si distinguono l’essenza, la potenza e l’operazione: Tria quidem in se habet et ipsa [scil. anima]: essentiam, virtutem, operationem. Q uid horum stabit? Q uid movebitur? Operatio quidem stare non potest, si duo praecedentia per-

16   Thomas Aq uinas, Summa Theologiae, I, I, q. 54, a. 1, ed. P. Caramello, 3 voll., Torino - Roma 1952, I, pp. 266-267. Cfr. anche Id., Scriptum super libros Sententiarum, II, dist. 36, q. 1, a. 5, ed. R. P. Mandonnet, 2 voll., Paris 1929, II, p. 935: «(…) in substantiis omnibus invenitur essentia, virtus et operatio. Horum autem talis est ordo, quod virtus ab essentia et operatio a virtute procedit». 17 Cfr. Id., Summa contra Gentiles, II, 52, 3, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Roma 1918 (Opera omnia, XIII), p. 387: «Impossibile est quod sit duplex esse omnino infinitum: esse enim quod omnino est infinitum, omnem perfectionem essendi comprehendit; et sic, si duobus talis adesset infinitas, non inveniretur quo unum ab altero differret. Esse autem subsistens oportet esse infinitum: quia non terminatur aliquo recipiente. Impossibile est igitur esse aliquod esse subsistens praeter primum». Cfr. Collins, The Secular is Sacred cit., pp. 170-171. 18  La trattazione delle sostanze intellettive deriva dalla fonte dionisiana, cfr. CH XI, 2, 284D, pp. 41, 22-42, 2. Cfr. Thomas Aq uinas, Q uaestio disputata de spiritualibus creaturis, a. 11, sc. 1, ed. J. Cos, Roma - Paris 2000 (Opera omnia, XXIV.2), p. 117, 157-161: «Sed contra est quod Dyonisius dicit XI cap. Angelicae ierarchiae quod superiores essentiae dividuntur in substantiam, virtutem et operationem; multo igitur magis in animabus aliud est earum essentia et aliud virtus sive potentia».

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mutentur. Neque moveri essentia, quin sequentia moveantur. Stabit ergo primum, scilicet ipse essentia: mutabitur ultimum, videlicet operatio. Sed medium utrorumque virtus, quid? Stabit et ipsa partim, partim quoque mutabitur 19.

L’anima, in quanto copula mundi e  vinculum naturae, ha uno statuto ontologico peculiare: la sua potentia è in parte stabile, in parte mobile. L’eccezionalità della terza essenza si riflette anche nella particolare declinazione della triade all’interno della quale la δύναμις sembra ancipite: se – come si è visto – «l’operazione di qualsivoglia creatura inerisce alla potenza», come spiegare la differenza tra potenza ed operazione dell’anima? Ficino chiarisce immediatamente nel capitolo seguente, il quinto del libro I della Theologia Platonica, che l’essenza dell’anima razionale permane sempre identica, come dimostra la stabilità della volontà e  della memoria; d’altro canto, l’operazione comporta sempre mutamenti «perché l’anima razionale non pensa tutto simultaneamente ma in modo graduale [e] non alimenta, accresce e genera il corpo in un istante ma nel tempo». Tutto ciò si spiega poiché nell’anima vi sono una «potenza naturale» (naturalis virtus) e  una «potenza acquisita» (virtus acquisita): la prima «si conserva stabile, perché il suo vigore vige perenne e non si intensifica né si indebolisce», invece la seconda «comporta cambiamenti, perché passa dalla potenza all’atto, dall’atto alla disposizione stabile (in habitum) e viceversa» 20. Peraltro, questa non è l’unica distinzione della virtus proposta dal filosofo fiorentino poiché si rinviene spesso un’ulteriore scansione in potenza attiva e potenza passiva. Tale divisione, che è per lo più sottolineata da una diversa resa terminologica con virtus per la prima e potentia per la seconda 21, deriva dalla complessa 19   Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, I, 4, edd. Hankins-Bowen cit., I, Cambridge - London 2001 (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 2), p. 58. 20  Ibid., 5, I, p. 58: «Hactenus formam quandam supra corporis complexionem invenimus, quam rationalem animam appellabimus, cuius essentia semper eadem permanet. Q uod significat stabilitas voluntatis atque memoriae. Operatio autem ex eo mutatur quod non simul cogitat omnia, sed gradatim, neque momento alit, auget et generat corpus, sed tempore. Naturalis virtus manet, quia naturalis eius vigor viget perennis, neque intenditur, neque remittitur. Virtus acquisita mutatur, quia ex potentia in actum, ex actu transit in habitum atque converso». 21 Cfr. ibid., X, 1, III, Cambridge - London 2003 (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 7), p. 106: «Videmus in corporum ordine sublime corpus, videlicet su-

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e articolata interpretazione della teoria aristotelica della dinamica potenza-atto che esula dalle finalità del presente lavoro 22. Eppure, anche in questo caso sembra essere Tommaso la fonte diretta di Ficino 23. Il canonico fiorentino sostiene, poi, che anche l’operatio sia duplice: «Duplex enim est operatio, una effluit extra operantem, ut calefactio, altera manet intus, ut cognitio et voluntas» 24. Q uesto passo, seppur direttamente dipendente dalla Metafisica aristotelica 25, può essere messo in relazione con l’articolo secondo della quaestio tommasiana: Duplex enim est actionis genus, ut dicitur IX Metaphys. Una scilicet actio est quae transit in aliquid exterius, inferens ei passionem, sicut urere et secare. Alia vero actio est quae non transit in rem exteriorem, sed manet in ipso agente, sicut sentire, intelligere et velle: per huiusmodi enim actionem non immutatur aliquid extrinsecum, sed totum in ipso agente agitur 26. premum caelum, in natura sua cunctas vires formarum omnium efficiendarum continere, per quas utique vires, tamquam activas et efficaces, inferiora corpora ad varias formas suscipiendas disponit. Q uapropter variis naturae suae viribus et variis motionis suae configurationibus corpora inferiora varie movet et format, ut merito dici possit sublime caelum formas corporum reliquorum vel actu vel activa virtute complecti. Corpora vero sequentia affirmare possumus illi adeo subiici ut ipsa quidem in potentia quadam susceptiva, ut dicitur, et passiva easdem habeant formas atque actu ab illo suscipiant». Cfr. anche Kristeller, The Philosophy of  Marsilio Ficino cit. (tr. it., p. 35). 22 La bibliografia sul tema della relazione tra potenza e  atto in Aristotele è pressoché sconfinata, pertanto mi limito a rimandare ai saggi raccolti in Unity, Identity, and Explanation in Aristotle’s Metaphysics, ed. by T. Scaltsas - D. Charles - M. L. Gill, Oxford 1994, pp. 171-244. L’origine della distinzione tra potenza attiva e potenza passiva è da ricercare in Aristoteles, De anima, III 4-5, 429a 10-430a 25. 23 Cfr. Thomas Aq uinas, Summa contra Gentiles, II, 52, 3, ed. cit., p. 372: «Sicut quae fiunt ex materia sunt in potentia materiae passiva, ita quae fiunt ab agente oportet esse in potentia activa agentis. Non autem potentia passiva materiae perfecte reduceretur in actum si ex materia fieret unum tantum eorum ad quae materia est in potentia. Ergo, si aliquis agens cuius potentia est ad plures effectus, faceret unum illorum tantum, potentia eius non ita complete reduceretur in actum sicut cum facit plura. Per hoc autem quod potentia activa reducitur in actum, effectus consequitur similitudinem agentis». 24  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, V, 13, edd. Hankins-Bowen cit., II, p. 84. 25 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, IX 8, 1050a 4-1050b 5. 26   Thomas Aq uinas, Summa Theologiae, I, q. 54, a. 2, ed. Caramello cit., p. 267.

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3. Ficino e il neoplatonismo: il Commento al «Parmenide» Nonostante la comunanza testuale, Ficino rivendica la paternità platonica delle sue teorie a discapito della fonte aristotelica. Evidentemente, è il sistema metafisico ficiniano ad influire sulla teoria della potenza e  dell’atto; intendo riferirmi, da una parte, alla trasformazione delle ipostasi plotiniane nelle cinque sostanze (Dio, angelo, anima, qualità, corpo) 27  e, dall’altra, alle implicazioni della metafisica neoplatonica nella dottrina cristiana della Trinità 28. Soltanto attraverso l’analisi di questo duplice e controverso aspetto della filosofia ficiniana, potrà rendersi intelligibile il ruolo peculiare che riveste la relazione tra potenza e operazione nella teoria dell’anima. Il punto di partenza della metafisica ficiniana è – come è noto – il concetto di un Dio creatore; tuttavia, come per la maggior parte dei pensatori della prima età cristiana che vennero a  contatto con le teorie platoniche, la difficoltà di Ficino sta nel conciliare il sistema emanazionista plotiniano con il frutto di un’azione libera e volontaria del Creatore 29. La sua soluzione – per dirla in breve – consiste nel ridistribuire, per così dire, gli attributi della seconda ipostasi (l’Intelletto) tra Dio e l’anima 30. Tale trasformazione comporta anche un essenziale ripensamento della causalità dal momento che la dipendenza di una realtà da quella immedia27  Cfr. M. J. B. Allen, Ficino’s Theory of  the five Substances and the Neoplatonists’ «Parmenides», in «The Journal of  Medieval & Renaissance Studies», 12 (1982), pp. 19-44, ora in Id., Plato’s third Eye. Studies in Marsilio Ficino’s Methaphysics and its Sources, Aldershot 1995, VIII; Kristeller, The Philosophy of  Marsilio Ficino cit. (tr. it., pp. 102-105). La prima occorrenza della teoria dei «cinque gradi di tutte le cose» si ha in Theologia Platonica, I, 1: «Proinde cum huc ascenderimus, hos quinque rerum omnium gradus – corporis videlicet molem, qualitatem, animam, angelum, deum – invicem comparabimus» (Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, I, 1, edd. Hankins-Bowen cit., I, p. 16). 28 Cfr.  M.  J.  B. Allen, Marsilio Ficino on Plato, the Neoplatonists and the Christian Doctrine of  the Trinity, in «Renaissance Q uarterly», 37 (1984), pp. 555584, ora in Id., Plato’s Third Eye cit., IX. 29  Cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, Frankfurt a. M. 1998 (Philosophische Abhandlungen, 73) (tr. it., Milano 2000); P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968 (Études augustiniennes. Antiquité, 32-33), (tr. it., Milano 1993). 30  Cfr. Allen, Marsilio Ficino on Plato cit., p. 562: «Ficino attempted what was perhaps the only acceptable solution when, in effect, he distinguished between various attributes of  Mind, and redistributed them to God on the one hand and to Soul on the other».

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tamente precedente subisce una forte revisione. Come ha chiarito Stephen Gersh, mentre in Plotino tutti i principi al di sotto dell’intelletto primo acquisiscono il loro essere e la loro potenza mediatamente dal primo principio e immediatamente da quello subito precedente nella ‘catena’, in Ficino accade quanto segue: tutti i principi al di sotto dell’intelletto primo acquisiscono il loro essere immediatamente dal primo principio, il loro essere determinato mediatamente dal primo principio e  immediatamente dal principio superiore più prossimo ad essi e da se stessi, la loro potenza immediatamente dal primo principio 31. Il seguente passo tratto dal capitolo XXXVIII del Commento al «Parmenide» può chiarire quanto appena esposto: Audi praeterea comparationem Platonicam in sexto De Republica eadem manifestissime confirmantem. Q uemadmodum sol in oculis et coloribus generationem virtutemque et actionem mutuam cum lumine praebet, ipse tamen sol nec oculus neque color neque generatio est, sed longe superior, sic ipsum bonum intellectibus intellegibilibusque essentiam et vim actumque mutuum cum ipso veritatis splendore largitur neque tamen est intellectus vel intellegibile vel veritas vel essentia, sed his omnibus dignitate et potestate superius 32.

La celebre analogia solare platonica, così frequente nelle pagine ficiniane 33, diventa l’occasione per spiegare la maniera in cui il primo principio elargisce essenza, potenza e atto agli intelligibili. 31  Cfr. S. Gersh, Analytical Study of  the «Commentary on Ennead III», in Marsilius Ficinus, Commentarium in Plotinum, ed. and tr. by S. Gersh, Cambridge - London 2017 (Commentary on Plotinus, 4, Ennead  III, Part 1) (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 80), [pp. xi-ccxxxi], pp. xxxvi-xxxvii. 32  Marsilius Ficinus, Commentarium in Parmenidem, ed. by M. Vanhaelen, 2 voll., Cambridge - London 2012 (Commentaries on Plato, 2: Parmenides), I (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 51), p. 168. 33 Cfr. A. Rabassini, L’analogia platonica tra il Sole e il Bene nell’interpretazione di Marsilio Ficino, in «Rivista di storia della filosofia», 4 (2005), pp. 609629; Id., «Amicus lucis». Considerazioni sul tema della luce in Marsilio Ficino, in Marsilio Ficino. Fonti, Testi, Fortuna. Atti del Convegno internazionale (Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1-3 ottobre 1999), a cura di S. Gentile - S. Toussaint, Roma 2006 (Studi e testi del Rinascimento europeo, 30), pp. 255-294; Id., La concezione del sole secondo Marsilio Ficino. Note sul «Liber de Sole», in «Momus», 7-8 (1997), pp.  115-133; T.  Katinis, L’eliocentrismo di Marsilio Ficino nel «Libro dell’amore» e nel «De sole», in «Itinerari», 2 (2001), pp. 73-90.

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Dal momento che ogni realtà è costituita dalla triade – come egli stesso ribadisce nel Commento 34 –, e considerando quanto detto più sopra a proposito del sistema ficiniano, si può affermare, dunque, che sia il Bene stesso, Dio, a donare non soltanto l’esistenza, ma anche la virtus e l’operatio a tutte le creature. L’operatio dell’anima riceve un’attenzione tutta particolare sia nel Commento al «Parmenide» sia nella Theologia Platonica; anzi, per meglio dire, i passi oscuri del primo vengono chiarificati dalla seconda da cui è opportuno cominciare. Ficino, dopo aver scritto che l’agente, operando, attua un dato ente in funzione delle qualità che esso ha in potenza e, pertanto, «tutto ciò che è creato si compone di potenza e atto, cioè di essenza ed essere» 35, sostiene che l’operazione dell’anima è  speciale dal momento che non si attua interamente nel medesimo istante: Cum enim non totam operationem suam anima, per quam semper operatur, simul explicet, sed paulatim, constat eam hanc infinitam semper operandi virtutem haud totam simul habere. Si enim totam simul haberet, ederet quoque totam simul et unicam. Omnis enim, ut aiunt, potentiae operatio, una unius. Igitur semper accipit virtutem semper agendi. Propterea non similiter semper, sed alias aliter agit, ut summatim dici possit, quicquid temporaliter agit, sive corpus sive anima, accipere quidem continue paulatim operandi virtutem; numquam vero simul totam penitus possidere 36.

Per tale ragione – conclude Ficino – i platonici sostengono che l’ani­ma è  eternamente generata nel senso che «acquisisce la propria potenza a  poco a  poco, attuando interiormente forme 34  Cfr. Marsilius Ficinus, Commentarium in Parmenidem, ed. Vanhaelen cit., II (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 52), p. 90: «In Theologia nostra probavimus in omni re post primum quattuor haec inter se differre, essentiam et esse et virtutem et actionem». 35  Id., Theologia Platonica, XVII, 2, edd. Hankins-Bowen cit., VI, Cambridge London 2006 (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 23), pp. 10-12: «Semper enim agens, dum agit, quod potentia tale est, efficit actu tale (…) quare quicquid producitur ex potentia et actu, scilicet essentia et esse componitur». In questo capitolo, inoltre, Ficino assimila le nozioni aristoteliche di potenza e atto (in relazione allo schema della triade) a quelle platoniche di infinità e limite, cfr. ibid. p. 12: «Essentiam quidem potentiamque ad infinitatem, esse vero et actum ad terminum Platonici referunt». 36  Ibid., p. 14.

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diverse in modi diversi e  modificando continuamente disposizioni e  atti» 37. Nel capitolo primo della terza ipotesi del Commento al «Parmenide», si legge che nell’anima, anche in quella divina, vi è cambiamento in tutte le sue potenze (vegetativa, sensitiva o immaginativa, razionale, intellettiva), tuttavia, nell’anima umana siffatti mutamenti non sembrano riguardare la sua essenza: commutationes eiusmodi, dum in anima nostra contingunt, non adeo videntur ad essentiam pertinere. Non enim adeo uniformes continuaeque aguntur nec affectu vel actione tam efficaci nec formae, vires actionesque animae tam proximae sunt essentiae nostrae quam intimae sunt divinarum essentiis animarum 38.

Poco dopo, il filosofo ribadisce la sua tesi assicurando che «non è l’essenza stessa dell’Anima e la sua specie prima a mutare, ma il suo aspetto, la sua immagine e la sua conformazione» 39. Ciononostante è la considerazione finale a destare la nostra attenzione: «(…) è come se le anime stesse fossero perfezionate da tale mutamento perpetuo» 40. Particolarmente interessanti, infatti, sono le   Ibidem: «Q uamobrem anima non solum semper esse, sed etiam gigni semper a Platonicis iudicatur, scilicet quatenus vim suam haurit paulatim et formas intrinsecus alias aliter explicat atque affectus actionesque continue variat». 38   Id., Commentarium in Parmenidem, ed. Vanhaelen cit., II, p. 258. 39  Ibid., p.  262: «Sed tu interim intellexeris non ipsam quidem animae essentiam speciemque primam, sed vultum et effigiem et habitum permutari, non animam quidem aliunde compulsam vel quomodolibet agitam, sed ipsam suapte natura sua sponte seipsam iugiter transformantem». 40  Cfr. ibid., pp. 262-264: «Non igitur horrere debes quando audis divinas animas, id est caelestes, augeri, minui, rare fieri, condensari, nasci, perire, si memineris interim et haec metaphorica quadam accipi ratione et motiones ipsas, quae in corporibus praesertim inferioribus et aliunde fiunt et passiones quaedam sunt, easdem in animabus praesertim illis et ex seipsis effici et actiones existere animasque ipsas eiusmodi vicissitudine perpetuo quasi perfici». Cfr.  Id., Theologia Platonica, XII, 6, edd. Hankins-Bowen cit., IV, Cambridge - London 2004 (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 13), p. 198: «Q uantum ad partem spectat qua regitur corpus, reperitur in anima temporalis vicissitudo seminum alias aliter in ea emergentium ad corporalia generanda. Q uantum vero ad partem animae pertinet, quae in cognitione versatur, inest ipsa de cognitione affectioneque alia in aliam discursio temporalis: ab effectibus naturae ultimis in superna principia per causas medias temporalis ascensio, ac vicissim a supernis principiis per medias causas ad ultimos effectus descensio. Hae discursiones motiones quaedam sunt, et naturae animi propriae, ut alias declaravimus. (…) Huiusmodi vero discursiones ad divina nos ducentes, supra naturam corporis elevant». 37

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ricadute speculative sul piano antropologico, poiché non bisogna dimenticare che per Ficino «homo est animus» 41. Ciò che è in gioco è la ricostruzione di un’innovativa immagine della perfezione a cui aspira l’uomo virtuoso: essa, pertanto, sarà la realizzazione della propria essenza in quanto sua perfectio oppure la sostanzializzazione, per così dire, del divenire 42? La  metafora del ‘sé che cambia’ 43 potrebbe rappresentare una formula efficace per rendere ragione del particolare statuto ontologico dell’essere umano identificato con l’anima. Tuttavia, bisogna sottolineare che il piano sul quale può avvenire tale ‘perfezionamento’ sembrerebbe essere quello etico, non gnoseologico. Ripercorrendo il discorso ficiniano sulle virtù, è necessario sottolineare che nel Commento al «Simposio» o De amore il raggiungimento della beatitudine per l’anima assetata di Dio è l’esercizio delle quattro virtù cardinali: prudentia, fortitudo, iustitia, temperantia 44. Come si legge nell’epistola Virtutum definitio, officium, finis, infatti, «Virtus est habitus animi electione ad beatitudinem conferens» 45. Dunque, il fine dell’esercizio della virtù coinciderà 41  Id., Homo est animus. Amantis animus est in amato, in Epistolarum familiarium liber I, ed. S. Gentile, Firenze 1990, pp. 71-72. 42  Sul peso speculativo di questa teoria ficiniana, rimando all’esaustiva analisi di F. Mariani Zini, La pensée de Ficin. Itinéraires néoplatoniciens, Paris 2014, pp. 195-202. 43  Cfr. C. G. Steel, The changing Self. A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussels 1978 (Verhandelingen van den Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren, Jaargang 40) (tr. it., Bari 2006). A tal proposito, in particolare sulle implicazioni antropologiche della teoria dell’‘anima non discesa’ plotiniana (insieme alle successive contestazioni in ambiente neoplatonico), si vedano le interessanti osservazioni di S. Fellina, Modelli di episteme neoplatonica nella Firenze del ’400. Le gnoseologie di Giovanni Pico della Mirandola e di Marsilio Ficino, Firenze 2014 (Studi pichiani, 17), pp. 65-84. 44 Cfr. Marsilius Ficinus, Commentarium in Convivium Platonis de amore, ed. R. Marcel, Paris 1956 (Les classiques de l’humanisme, 15), pp. 173-174: «Verum cum deus lucem suam infudit in animum, ad id potissimum eam accommodavit ut homines ad beatitudinem que in ipsius possessione consistit perduceret. Ad hanc quatuor virtutibus ducimur: prudentia, fortitudine, iustitia, temperantia. Prudentia primo beatitudinem nobis ostendit. Tres ille virtutes relique, quasi vie tres ad beatitudinem ducunt». Sul tema, rimando a L. Catana, Readings of  Platonic Virtue Theories from the Middle Ages to the Renaissance: The Case of  Marsilio Ficino’s «De amore», in «British Journal for the History of  Philosophy», 22.4 (2014), pp. 680-703. 45  Marsilius Ficinus, Virtutum definitio, officium, finis, in Epistolarum familiarium liber I, ed. Gentile cit., p. 184.

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con il bene poiché l’actio di ogni cosa è finalizzata ad esso come sua perfezione 46. Tuttavia, il caso dell’essere umano è singolare poiché egli stesso è autore della propria beatitudine che è ottenuta, peraltro, con sofferenza 47. Così Ficino celebra a suo modo la dignitas hominis: bisogna ricercare nella capacità di autodeterminazione umana la ratio della sua superiorità su tutti i viventi 48. Il fecondo dialogo tra ontologia ed etica, quindi, getta nuova luce sull’idea di ‘autonomia’ già considerata tra i cardini dell’umanesimo ficiniano 49.

4. L’eredità ficiniana Proviamo a tirare le somme di quanto detto finora. La triade neoplatonica assume un ruolo decisivo nella spiegazione dell’essenza dell’anima; dal momento che questa è un’entità intermedia, è la sua potentia o, per meglio dire – come si è visto – le sue potenze, a determinare il suo carattere di Giano bifronte. È, però, l’operatio a consentire quella particolare forma di ‘attività’ dell’uomo che gli 46 Cfr. Id., Theologia Platonica, II, 7, edd. Hankins-Bowen cit., I, pp. 132-134: «Ideoque bonum appetunt omnia, quoniam, cum a bono sint nata, suam originem repetunt, ut unde effecta sunt, inde perficiantur. (…) Q uapropter a bono per bonum ad bonum fit omnis in rebus quibuslibet actio». Per un’interpretazione ‘ottimista’ della filosofia ficiniana, si veda V. Rees, «A bono in bonum omnia diriguntur»: Optimism as a Dominant Strain in the Corrispondence of  Marsilio Ficino, in «Accademia», 10 (2008), pp. 7-28. 47 Cfr.  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, XVI,  4, edd. HankinsBowen cit., V, p. 260: «Forsitan et ipse deus instituit divina gaudia superioribus quidem mentium gradibus natura obtingere, ordini vero inferiori laboribus comparari, ut essent et qui nascendo beati fierent, et qui se vivendo beatos efficerent, ne aut sublimes spiritus pluris quam sint aestimentur, cum aliunde beatitudinem nanciscantur, aut inferiores spiritus contemnantur, cum ipsimet sibi sint beatitudinis auctores». Cfr. J. Papiernik, The Objective Character of  Virtues in Marsilio Ficino’s «Platonic Theology», in «Hybris», 34 (2016), [pp. 37-53], pp. 47-49. 48 Cfr. C. Vasoli, Marsilio Ficino e la «dignitas hominis», in Id., Q uasi sit Deus. Studi su Marsilio Ficino, Lecce 1999 (Attraverso la storia, 5), pp. 74-89. Più in generale, sul concetto di dignitas hominis, dal momento che la bibliografia è a dir poco sterminata, mi limito a rimandare a M. Pellegrini, Umanesimo. Il lato incompiuto della modernità, Brescia 2015 (Il pellicano rosso. N. S., 232), pp. 41-97. 49 Cfr. C. Trinkaus, Marsilio Ficino and the Ideal of  human Autonomy, in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, a cura di G. C. Garfagnini, 2 voll., Firenze 1986 (Istituto nazionale di Studi sul Rinascimento, 15), I, pp. 197-210; Id., In our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, 2 voll., London 1970, II, pp. 461-504, in partic. pp. 470-471.

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permette di perfezionare la sua natura fino ad elevarsi al di sopra di essa; quest’ultima eventualità viene resa possibile esclusivamente dalla peculiare articolazione della virtus. L’analisi della potenza dell’anima umana, infatti, conduce necessariamente ad una sua differenziazione da quella delle anime superiori; essa, già presente nel libro X della Theologia Platonica a proposito della distinzione tra virtus activa e potentia passiva 50, viene ripresa nel Commento allo pseudo-Dionigi Areopagita in relazione alla potentia Dei: Q uod Greci dunamin vocant proprie potentiam interpretamur et potestatem, tametsi virtutem pro potentia usus iam communis usurpavisse videtur. Deum igitur potentiam vel virtutem religionis antistites nominant, non quia Deus proprie per formam sit illa virtus que in effectum prodit et in definitionem excogitationemve pervenit, sed quoniam omnem potentiam super potentiam eminenter anticipat; et unicuique potentias semper, infatigabiliter, ubique distribuit. Atque quod ipsa potentia universalis simul et particularis et esse possit existatque potentia Deus efficit 51.

Q uesto doveva essere un problema particolarmente discusso all’interno dell’Accademia: lo si ritrova, sottolineato con particolare enfasi, nel De pulchro di Francesco Cattani da Diacceto, discepolo entusiasta di Marsilio Ficino tanto che alla sua morte fu riconosciuto quale suo legittimo successore e  come il più illustre dei platonici del suo tempo 52. Anche il filosofo fiorentino 50  Cfr. Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, X, 1, edd. Hankins-Bowen cit., III, p. 106: «Videmus in corporum ordine sublime corpus, videlicet supremum caelum, in natura sua cunctas vires formarum omnium efficiendarum continere, per quas utique vires, tamquam activas et efficaces, inferiora corpora ad varias formas suscipiendas disponit. Q uapropter variis naturae suae viribus et variis motionis suae configurationibus corpora inferiora varie movet et format, ut merito dici possit sublime caelum formas corporum reliquorum vel actu vel activa virtute complecti. Corpora vero sequentia affirmare possumus illi adeo subiici ut ipsa quidem in potentia quadam susceptiva, ut dicitur, et passiva easdem habeant formas atque actu ab illo suscipiant». 51  Id., Commentarium in Dionysium Areopagitam, CCLXIV, ed. and tr. by M. J. B. Allen, Cambridge - London 2015 (On Dionysius the Areopagite. II: The Divine Names, part II) (The ‘I Tatti’ Renaissance Library, 67), pp. 242-244. 52 Per una conoscenza generale del filosofo fiorentino, rimando a P. O. Kristeller, Francesco Cattani da Diacceto, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma 1960, pp. 507a-511b; Id., Francesco da Diacceto and Florentine Platonism in the Sixteenth Century, in Id., Studies in Renaissance Thought and Letters, 4 voll., Roma 1956, I, pp. 287-336.

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afferma l’esistenza di due differenti concetti di potenzialità; nel suo sistema metafisico ispirato a Plotino, all’Intelletto, in quanto è prodotto dall’Uno, si accompagna non una potentia patiendi ma una potentia agendi 53, come si legge nel seguente passo: Q uaecunque sunt post unum condita, sunt potestatisque actusque participantia. (…)  Verum aliter in divinis, aliter in corporeis caducisque haec se habent. In  his enim potentia materia est, nuda informisque potestas, actionis penitus cuiusvis expers. (…)  In illis autem nihil aliud potestas est, quam facultas ad agendum 54.

Bisogna evidenziare come, rispetto al  maestro Ficino, la trattazione di Cattani sia maggiormente influenzata dalle fonti aristoteliche: la categoria alla luce della quale viene letta la duplice valenza della potestas è quella di potenza e atto. Ma egli si spinge ancora oltre quando, nel commentare i capitoli 4 e 5 del terzo libro del De anima, interpreta in maniera inedita la teoria dell’intelletto potenziale: Atqui esse omnia potestate, nihil vero actu, facultatem [scil. Aristoteles] designat ratiocinantem. Non enim patiendi potestas est, quemadmodum prima materia quae formis sensilibus subiicitur; sed agendi potius, quae per functionem absolvitur, qui revera ac primo motus est 55.

Per il Fiorentino, dunque, lo Stagirita avrebbe inteso l’intelletto potenziale non come una patiendi potestas, analoga a quella attribuita alla materia, ma una sorta di ‘virtualità operativa’ capace di portare a perfezione la sua natura: la plasmabilità dell’intelletto, dunque, non implica alcuna passività ma, piuttosto, una potenzialità attiva, come quella che possiede il fuoco prima di produrre calore in atto 56. Tuttavia, non è questo il luogo per discutere del significato di tale peculiare teoria, seppur ispirata all’assimilazione 53  Cfr. S. Fellina, Alla scuola di Marsilio Ficino. Il pensiero filosofico di Francesco Cattani da Diacceto, Pisa 2017 (Clavis, 5), p. 82. 54  Franciscus Catanei Diacetius, De pulchro libri III, accedunt opuscula inedita et dispersa necnon testimonia quaedam ad eumdem pertinentia, II,  2, ed. S. Matton, 3 voll., Pisa 1986 (Nuova collezione di testi umanistici inediti o rari, 18), II, pp. 89-90. 55  Ibid., III, 2, III, p. 167. 56  Cfr. Fellina, Alla scuola di Marsilio Ficino cit., p. 231.

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tra intellectus passibilis e  ratio proposta da Giovanni Pico 57, né dell’autentico valore del nuovo progetto di concordia tra Platone e Aristotele portato avanti dal filosofo 58. L’originale discussione dei temi della potestas e dell’actus nella filosofia di Francesco Cattani dimostra la persistenza non soltanto della problematica della triade nei primi anni del Cinquecento ma anche, e soprattutto, dell’irrinunciabile dialettica tra platonismo e aristotelismo. Q uest’ultima è, a dire il vero, nient’altro che una revisione dell’autentica speculazione ficiniana. Infatti, sebbene le difficoltà riscontrate nell’analisi della riflessione di Ficino riguardo alla triade siano ascrivibili alla complessità già insita nei testi chiave del neoplatonismo da lui studiati, tuttavia – come si è visto ampiamente – la sua posizione viene ad essere particolarmente complicata dalla lettura di Tommaso d’Aquino, «splendore della teologia» 59: il rinvenimento di ‘consonanze’ neoplatoniche nel 57 Cfr.  Iohannes Franciscus Picus Mirandulanus, Commento sopra una canzone d’amore, in Id., De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, ed. E. Garin, Firenze 1942, pp. 555-556: «Nell’altre potenzie inferiore, o razionale o immaginarie, veggonsi non le idee in sè ma le loro immagine e similitudine, tanto più perfette nella ragione, detta intelletto passibile da’ Peripatetici, che nella fantasia, ovvero immaginazione, quanto quella è più propinqua all’intelletto (…)». 58 Cfr. Fellina, Alla scuola di Marsilio Ficino cit., p. 41: «Si apprezza qui (…) come le ragioni della concordia non primeggino quasi mai sull’adesione alle dottrine platoniche: qualora non sia possibile ricondurre Aristotele a  Platone, è  il primo a  soccombere»; ibid., pp.  111-112: «In conclusione, le repliche di Cattani costituiscono un’ulteriore testimonianza di come il progetto di concordia tra Platone e Aristotele lo obbligasse al confronto con lo Stagirita, un confronto che tende ad assumere in lui un carattere sintomatico, tanto da divenire uno dei tratti distintivi della sua riflessione filosofica. Tuttavia, (…) dove la conciliazione non riesce praticabile, sono ancora le istanze aristoteliche a farne le spese». Il progetto di concordia Platonis et Aristotelis di Cattani avrebbe particolari affinità con quello di Giovanni Pico, cfr. L. Valcke, Giovanni Pico della Mirandola e il ritorno ad Aristotele, in Giovanni Pico della Mirandola. Convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), a cura di G. C. Garfagnini, 2 voll., Firenze 1997 (Studi pichiani, 5), I, [pp. 327-349], p. 334: «(…) quando nell’autunno del 1486, stava per elaborare le Conclusiones, il Mirandolano era convinto, o  quasi convinto, che il platonismo fosse l’autentico depositario della verità filosofica e di ogni sapienza umana (…). In questo contesto, il ‘platonismo’ diventa norma della verità filosofica e, di conseguenza, stabilire la Concordia tra Aristotele e Platone presuppone che sia l’aristotelismo ad essere adeguato al platonismo, che sia Aristotele ad essere ricondotto a Platone». 59 Cfr.  Marsilius Ficinus, Theologia Platonica, II,  12, edd. HankinsBowen cit., I, p.  188: «(…) ut placet divo Thomae Aquinati nostro, splendori theologiae (…)».

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pensiero dell’Aquinate, peraltro, risultava particolarmente utile al progetto di pia philosophia del canonico fiorentino. Ben più radicale, invece, è il progetto di fondare una nova philosophia sul recupero della prisca theologia perpetrato da Francesco Patrizi da Cherso: presupposto della costruzione di un innovativo sistema filosofico, che potesse sanare la crisi in cui versava il Cristianesimo a seguito della Riforma, era la critica ad Aristotele 60. Le  Discussiones peripateticae (probabilmente il testo più significativo ed esaustivo della tradizione antiperipatetica rinascimentale 61) costituiscono la pars destruens di un pensiero che trova la sua piena articolazione nella Nova de universis philosophia (1591). L’intento di Patrizi in quest’opera è quello di proporre una nuova spiegazione dell’universo totalmente scevra da principi aristotelici 62. Pertanto, egli recupera diversi temi neoplatonici all’interno delle quattro sezioni di cui è costituito il testo: Panaugia, Panarchia, Pampsychia, Pancosmia. Tra questi, la triade essentia – virtus – operatio viene applicata come «principio universale» 63. Essa, infatti, appare già nel primo libro a proposito della «luce universale»: in continuità con la tradizione platonica della metafisica della luce, nel tentativo di proporre una spiegazione del lumen sensibile e  sovrasensibile, e  di Dio come «fonte e  padre della luce», il filosofo la utilizza a proposito del rapporto tra la luce e i  Cfr. M. Muccillo, La dissoluzione del paradigma aristotelico, in Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli - P. C. Pissavino, Milano 2002, [pp. 506533], pp. 513-522; M. A. Granada, New Visions of  the Cosmos, in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy cit. (alla nota 7), [pp. 270-286], pp. 275278; sulla relazione tra platonismo e prisca theologia in Patrizi, si veda B. P. Copenhaver, Pious, Perennial, and Platonic Philosophies: Francesco Patrizi, in Renaissance Philosophy, ed.  by B.  P. Copenhaver - C.  B. Schmitt, Oxford 1992 (A  History of  Western Philosophy, 3), pp.  184-195; più in generale, cfr.  C.  B. Schmitt, Prisca theologia e philosophia perennis: due temi del Rinascimento italiano e la loro fortuna, in Il pensiero italiano del Rinascimento e il tempo nostro. Atti del V Convegno internazionale del Centro di studi umanistici (Montepulciano, 8-13 agosto 1968), a  cura di G.  Tarugi, Firenze 1970, pp.  211-236, ora in Id., Studies in Renaissance Philosophy and Sciences, London 1981 (Collected Studies Series, 146), II. 61 Cfr. C. Vasoli, Aristotele e i filosofi «antiquiores» nelle «Discussiones Peripateticae» di Francesco Patrizi, in «Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze», 44 (1981), pp. 205-233. 62 Cfr. Id., La critica di Francesco Patrizi ai «principia» aristotelici, in «Rivista di storia della filosofia», 51.4 (1996), pp. 713-787. 63  Cfr. Th. Leinkauf, Il neoplatonismo di Francesco Patrizi come presupposto della sua critica ad Aristotele, Firenze 1990 (Symbolon, 9), pp. 39-44. 60

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raggi 64. Ma è nel secondo, in cui compaiono i principi della ‘nuova filosofia’, che essa trova più ampio spazio, confermando anche la modifica terminologica già rinvenuta precedentemente: Patrizi preferisce il termine actio ad operatio in quanto più idoneo a significare un’azione manifesta al di fuori del soggetto 65. Nella discussione sulla natura del principio, si legge una chiara definizione del significato della triade: Essentia autem cuiuscumque est existentia in actu, vires habens, et a  viribus, actiones. Et omne quod est, ipso esse est. Esse autem, est entis actus. Et vis, ab essentia quasi stante provenit, et est in ea, et eius quaedam extensio, et actionis interna quaedam praeparatio, prout actio est, virium ipsarum ad extra protensio, et proprii operis adimpletio 66.

All’interno della sezione intitolata De essentia et ente, poi, la triade costituisce un fondamentale principio interpretativo della complessa struttura del reale derivante dall’Uno-Tutto (Unomnia) 67:  Cfr. Franciscus Patricius, Nova de universis philosophia, I, apud Benedictum Mammarellium, Ferrariae 1591, p.  10r: «Et alia fortasse his similia plura cum radiis habet communia. Propriam vero, ut habet lumen essentiam, ita et vires proprias habet, et actiones: nec non etiam passiones»; cfr.  C.  Vasoli, Su alcuni temi della «filosofia della luce» nel Rinascimento: Ficino («De Sole» e «De lumine») e Patrizi (libro primo della «Panaugia»), in «Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Cagliari», 46 (1988), pp. 63-89. 65 Cfr.  Franciscus Patricius, Nova de universis philosophia, II, ed. cit., p.  3v: «Res et entia, necessario, aut finita sunt, aut infinita. Cum finitum dico, et essentia, et viribus, et actionibus finitum esse intelligo. Itidem et infinitum, et essentia, et viribus, et actionibus esse infinitum». L’origine di questa teoria sarebbe rinvenibile nella duplice natura dell’operatio individuata da Ficino (di cui si è discusso più sopra), ma non sono escluse altre fonti più antiche: cfr. Leinkauf, Il neoplatonismo di Francesco Patrizi cit., pp. 41-43. 66  Franciscus Patricius, Nova de universis philosophia, II, ed. cit., p. 7v. Cfr.  Th. Leinkauf, Der Ternar «essentia-virtus-operatio» cit. (alla nota 2), pp. 152-153. 67 Cfr.  Franciscus Patricius, Nova de universis philosophia, II, ed. cit., p.  29v: «Est enim omne unum, omne ens foecundum. Imitans enim primum unum, ob similitudinem quam (quantacumque ea sit) cum illo gerit, sterile esse non potest. Hanc igitur internam motionem, vim, et potentiam nominamus. Ex hac prodit actio, et operatio secunda, quam dicimus ex essentia, ad extra. Sed quoniam vires multae sunt, et ex eis multae prodeunt actiones, totidem scilicet, quot ipsae sunt vires, quae ab eis producitur multitudo extranea, necessario internae respondit multitudini. Atque ideo integra essentia ea est, quae in ipso sui esse, et vires habet, et operationes potest edere. Unde plene deffiniri potest. Essentia, sive ens hyparxis est, potens, et operans»; cfr. ibid., III, p. 39r: «Haec divisione rerum 64

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la ‘catena dell’essere’ è  composta da nove gradi di cui l’anima (come in Ficino) costituisce il grado intermedio. Ad essa, poi, è dedicata la sezione più breve dell’opera (Panpsychia). Nel primo libro (Unde sit animus), in merito alla trattazione della bontà di tutte le cose in quanto create da Dio, il filosofo chersino sostiene che esse imitano quanto più possibile il Creatore nel compiere operazioni buone (benefacere), le quali sono espressioni delle loro potenze derivanti, a  loro volta, dall’essenza 68. Nella Pancosmia, la triade ritorna per spiegare la relazione tra i  quattro elementi (spatium, lumen, calor, fluor), sostanze semplici che, combinate tra loro, generano i  sette ‘mondi’ (Empireo, tre eterei e  tre ilei o ‘materiali’) di cui è costituito l’universo. L’esposizione intorno all’Empireo, contenuta nei libri VI e XIV, è coerentemente articolata sulla dinamica triadica già affermata nelle sezioni precedenti 69. Essa viene utilizzata, poi, per spiegare l’azione degli astri facta, sic progrediamur. Horum singula genera. Et essentiam habent, et potentiam, et actionem propriam. Q uae tria, per omnia descendunt genera, et per horum generum species cunctas, et per omnia speciebus contenta individua. Corpora ergo quae in se non sunt, sed in alio, in Natura nimirum: in alio quoque potentiam suam habebunt, et actionem. Ita ut quidquid, vel posse, vel operari videantur, per naturam in illa fusam, et poterunt, et agent. Si in alio haec habent, neque in se, neque in aliud, possunt agere nec agunt»; p. 40v: «Et quoniam, qualis essentia est, talis quoque est potentia, et qualis potentia, talis operatio. Et qualis operatio talia etiam ab ea eduntur opera: opificis huius, ut essentia, et potentia sunt infinitae, ita infinita erit eius actio, et operatio». 68 Cfr. ibid., IV, p. 49v: «Nullum entium Dei bonitate caret. Q uaecumque enim fecit, fuere valde bona. Si bona sunt, Dei bonitatem quatenus poterunt, imitabuntur propria eorum bonitate. Bonitatis omnis, proprium est benefacere. Facient ergo aliquid. Factio, haec, actio est. Actio omnis a viribus. Vires ab essentia. Essentiam ergo beneficam cuncta entia ad usque minima, et vilissima habent. Et quia essentia omnis benefica, in se prius vires parturit; et per vires, actiones parturit ad extra (…) quia vita, nihil est aliud, quam essentia parturiens actionem, tum in se ipsa, tum ex se ipsa. Si in se ipsa, actionem edit, ea actio, e se non exit, in se sit, et in se manens, nihil edit aliud, quam se ipsam. Si vero ex se ipsa actionem profert, ea actio non est ociosa». 69  Cfr. ibid., V, p. 78v: «Lumen primaevum fluor est. Nam si actionem fluendi habuit, (quod est ostensum) etiam vires habuit fluendi. Et si vires, etiam essentiam in fluore habet, seu fluor est. Calor a lumine primaevo progenitas fluor est. Nam si propria actione fluit, etiam viribus fluendi est praeditus. Et si viribus, etiam essentia eius est fluxa, et fluor. Calor enim a suo primo fonte lumine, et fluxionem, et ut sit calor, habet. At lumen, et calor, Empyreus est mundus, uti proxime ostendaetur. Coelum igitur seu mundus Empyreus fluor erit, et essentia, et viribus, et actione. Et conversim, si actione, etiam viribus, si viribus, et essentia»; ibid., VI, 95r: «Si Empyreus usque ad terrae centrum penetrat, rationes, et causae sunt inveniendae, quibus id queat facere. Nam vel essentia, vel viribus, vel actionibus

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e  della Luna giustificandola sulla base della sympathia cosmica; quest’ultima, peraltro, è intesa proprio come convenientia tra i tre momenti della triade 70. È possibile rinvenire un uso parziale della triade anche ne L’amo­rosa filosofia (1577) 71. Nel secondo dei quattro dialoghi di cui è costituita l’opera, Tarquinia Molza discorre con Patrizio Patrizi sulla radice o  origine dell’amore chiedendo al  suo interlocutore se esso sia una qualità essenziale o  accidentale. Prendendo le mosse dall’affermazione di Patrizio il quale, dichiarandosi seguace della ‘setta platonica’, sostiene che vi possa essere un ‘continuo innamoramento’ 72, la Molza 73, in qualità di novella Diotima, espone la ‘nuova filosofia dell’amore’ articolandola nei seguenti argomenti. Se l’amore è essenziale, esso «sarà o proprio penetrat. Si actionibus dicamus solis, cur non addemus etiam viribus? Cum actio nulla, non nisi a viribus fiat; et nullibi actio sit, aut esse possit, ubi non sint vires. At neque vires ab essentia sua sciunguntur umquam, aut alio ab ea amandantur. Ita ut ipsae procul sint ab essentia, aut essentia procul a viribus. Igitur ubicunque Empyrei actio est, ibi etiam eius vires sunt, et ubi vires, ibi etiam essentia». 70 Cfr.  ibid., VI,  116r: «Unum essentia, specieve. Viribus plura, pluraque actionibus, quatenus in speciei eiusdem individuos secantur effectus, qui ab eis pronascuntur. Non enim, stellae ociosae sunt substantiae, neque ociosas habent vires, aut ociosas actiones. Agunt igitur. Q uid vero agunt? Actiones, quae singulis illis competunt, quaeque propria sunt cuique, notas partim, partim nobis ignotas»; ibid., VI,  113r: «Haec autem omnia minime fieri possunt, nisi permagna inter eam et nostratia, intercedat Sympathia. Haec autem Sympathia, non nisi in magna est, tum virium, tum actionum convenientia. Virium autem convenientia, non nisi in essentiae similitudine consistit. Pro ratione namque essentiae, uti toties dictum, rei vires insunt, et ab ea proveniunt. Et pro ratione virium, actiones quoque eduntur necessario». 71 Per un’introduzione all’opera, si veda C.  Vasoli, «L’amorosa filosofia» di Francesco Patrizi e  la dissoluzione del mito platonico dell’amore, in «Rivista di storia della filosofia», 43.3 (1988), pp. 419-441; E. Banić-Pajnić, Marsilio Ficino and Franciscus Patricius on Love, in Francesco Patrizi, Philosopher of   the Renaissance. Proceedings from The Centre for Renaissance Texts Conference (24-26 April 2014), ed. by T. Nejeschleba - P. R. Blum, Olomouc - Sbornik 2014, pp. 213-231. 72 Cfr.  Franciscus Patricius, L’amorosa filosofia, ed. J.  C. Nelson, Firenze 1963, p. 85: «Tar‹q uinia›: Di cosa adunque di poco rilievo si vantano i vostri della setta, vantandosi di sempre stare innamorati. Et voi altresì di poco andate glorioso. Patr‹itio›: Ora sì, o signora, che mi ci havete colto; nè vorrei io mai essere hoggi entrato in questo ragionamento, poscia che egli a tanto mio danno è riuscito». 73 Sulla figura di Tarquinia Molza e  sul suo ruolo nella filosofia di Patrizi, cfr. I. Skuhala Karasman - L. Boršić, Patrizi and his Women, in Francesco Patrizi, Philosopher of  the Renaissance cit., [pp. 162-184], pp. 170-178.

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dell’animo o proprio del corpo, o commune ad ambidue, corpo et animo, poi che l’huomo è uno composto di queste due principali parti»; in ogni caso, esso dovrà necessariamente essere «o materia sua o forma sua o alcuna potenza sua o alcuna sua operatione o alcuna sua passione, qualità o  quantità, o  se vi è  altro tale» 74. Tuttavia, poiché esso non si accompagna sempre né all’anima né al corpo (né al composto di entrambi), non si può affermare che sia essenziale ma, viceversa, indubbiamente accidentale. Tale ragionamento, dunque, sottintende il carattere necessario della potenza e dell’operazione che, sebbene siano qui inseriti in un più ampio catalogo di principi, vengono ancora una volta confermati come espressione fondamentale dell’essenza. In conclusione, si può affermare che il problema della triade essentia – virtus – operatio rappresenti un vero e proprio ‘banco di prova’ per quella filosofia che, secondo la tradizione, rinasceva a Careggi dalla penna del Plato redivivus Ficino e che avrebbe trovato originali interpreti nel corso dell’intero Cinquecento.

  Franciscus Patricius, L’amorosa filosofia, ed. Nelson cit., p. 84.

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ANTITRINITARISMO E TRIADICITÀ IN GIORDANO BRUNO IL RICORSO ALLA TRIADE SUBSTANTIA/ESSENTIA – POTENTIA – ACTUS NEL «DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO»

1. Tra antitrinitarismo e triadicità La presenza della triade substantia/essentia  –  potentia/virtus  – actus/operatio nel pensiero di Giordano Bruno è legata, innanzitutto, a un rifiuto della struttura teologica trinitaria come recepita durante gli anni della formazione giovanile conventuale napoletana, attraverso lo studio della tradizione scolastico-tomista 1. Come Bruno dichiara durante il terzo costituto del processo veneto, confessando ai propri inquisitori i  suoi dubbi circa il dogma della Trinità e dell’Incarnazione, Parlando christianamente et secondo la teologia che ogni fidel cristiano et chatolico deve creder, ho in effetto dubitato circa il nome di persona del Figliuolo et del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre se non (…) parlando filosoficamente, et assegnando l’intelletto del Padre per il Figliuolo et l’amore per il Spirito Santo, senza conoscer questo nome persona, che appresso sant’Augustino

1  Sulle letture e  sulla formazione conventuale e  preconventuale di Bruno, cfr. V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti, 2 voll., Messina 1921 (Studi filosofici, 10); Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la peregrinatio europea: immagini, testi, documenti, a cura di E. Canone, Cassino 1992; C. Carella, Tra i maestri di Giordano Bruno. Nota sull’agostiniano Teofilo da Vairano, in «Bruniana & Campanelliana», 1 (1995), pp. 3-82; S. Ricci, Giordano Bruno nell’Europa del Cinquecento, Roma 2000 (Profili, N. S. 26); M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Milano 2007; I. Rowland, Giordano Bruno, Philosopher/Heretic, Chicago - London 2009 (tr. it. come Un fuoco sulla terra. Vita di Giordano Bruno, Roma 2011). La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale, a c. di R. de Filippis, E. S. Mainoldi, 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.127972 Turnhout, 2022 (NUTRIX, 13), pp. 589-606     © 

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è dichiarato nome non antico, ma novo et di suo tempo; et questa opinione l’ho tenuta da disdotto anni della mia età sino adesso (…) 2.

In questa confessione d’antitrinitarismo emergono due elementi particolarmente significativi ai fini di questa ricerca: il primo è relativo al riferimento agostiniano sull’uso «non antico ma novo et di suo tempo» del termine persona, indice di una profonda conoscenza da parte di Bruno, domenicano e  tomista di formazione, dei testi del vescovo d’Ippona e  della lunga tradizione neoplatonico-cristiana. Il  secondo elemento testimonia, invece, della giovane età a partire dalla quale egli ha nutrito dubbi circa il dogma della Trinità e  dell’Incarnazione. Entrambi questi elementi manifestano come l’antitrinitarismo non sia in Bruno un problema di contorno, ma costituisca, invece, il frutto di un travagliato esercizio di dubbio sul piano teologico e della fede, nonché di un lungo processo di studio e di critica sul piano teoretico, metodologico e sulla scelta del lessico filosofico 3. Non è un caso, ad esempio, se, nel prosieguo della sua confessione, egli ponga il problema nei termini di un superamento del principio d’autorità aristotelico-tomista e  di un recupero di fonti patristiche, Ario e Sabellio, e di lessici non scolastici 4. Proprio tale recupero cela, 2  L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Q uaglioni, Roma 1993 (Profili, 15), p. 170. 3 Sull’antitrinitarismo di Bruno, cfr.  D.  Ragazzoni, Bruno, Seripando e l’Arrii error. Considerazioni sulle origini dell’antitrinitarismo bruniano negli anni di San Domenico Maggiore, in Favole, metafore e  storie. Seminario su Giordano Bruno, a cura di O. Catanorchi - D. Pirillo, Pisa 2007 (Seminari e Convegni, 10), pp. 311-386; E. Fantechi, La posizione sulla Trinità e la riflessione metafisica di Bruno, ibid., pp. 387-406. 4  Cfr. Firpo, Il processo di Giordano Bruno cit., pp. 170-171: «Ho creduto et tenuto indebitamente tutto quello che ogni fidel cristiano deve tenere et credere della prima persona. Q uanto alla seconda persona io dico che realmente ho tenuto essere in essentia una con la prima, et cusì la terza; perché, essendo indistinte in essentia, non possono patire inegualità, perché tutti li attributi che convengono al Padre convengono anche al Figliuolo et Spirito Santo; solo ho dubitato come questa seconda persona se sia incarnata (…). Et se ho detto qualche cosa di questa seconda persona, ho detto per refferir l’opinione d’altri, come è de Ario et Sabellio et altri seguaci (…): cioè che, dechiarando l’opinione d’Ario, mostrava essere manco perniciosa di quello che era stimata et intesa volgarmente. Perché volgarmente è intesa, che Ario abbi voluto dire sia prima creatura del Padre; et io dechiaravo che Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo intra il

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dietro la maschera della scelta del metodo e del lessico da adottare in teologia, un problema ben più profondo e radicale: quello del rifiuto di ogni forma di distinzione reale sul piano della divinità, ovvero di ciò che è assolutamente Uno, indivisibile, semplice, permanente e infinito. In questa prospettiva, l’antitrinitarismo rappresenta un problema originario con cui Bruno si confronta lungo tutto l’arco della sua riflessione teologico-filosofica e che chiama in causa il tema della configurazione dell’essere o della sostanza sia sul piano dell’infinito, sia sul piano del finito. Nel proferire il nome di Ario 5, persino dinanzi ai propri inquisitori, non vi è da parte di Bruno l’adesione ad un movimento ereticale o di riforma, né semplicemente la volontà di stupire i propri interlocutori, ma s’intravede qualcosa di più profondo: «il nodo filosoficamente decisivo – osserva Michele Ciliberto – che attraverso Ario, Bruno mise a fuoco fin dagli anni giovanili è la sproporzione radicale e incommensurabile tra finito e infinito, tra ente ed accidente: in altre parole, uno dei punti archimedei di tutta la nova filosofia» 6. Tra la sfera del finito e quella dell’infinito non vi è alcuna proporzione, ma uno scarto incolmabile: si tratta, come già annotava Nicoletta Tirinnanzi commentando il De la causa, della presa di coscienza della «dissimmetria che sussiste tra essere dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce e ritorna ogni cosa all’ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo». 5 Cfr. ibid., p. 191: «Io non saprei immaginarmi de che articuli mi processassero, se non è che, ragionando un giorno con Mont’Alcino, che era un frate del nostro ordine, lombardo, in presentia de alcuni altri padri, et dicendo egli che questi heretici erano ignoranti et che non avevano termini scholastici, diss’io che si bene non procedevano nelle loro dechiarationi scholasticamente, che dichiaravano però la loro intentione comodamente et come facevano li padri antichi della santa Chiesa, dando l’esempio della forma dell’heresia d’Ario, che gli scholastici dicono non intendeva la generazione del Figlio per atto di natura et non di volontà; il che medesmo si può dire con termini altro che scholastici, rifferiti da sant’Augustino, cioè che non è di medesma substantia il Figlioulo et il Padre, et che proceda come le creature dalla volontà sua. Onde saltorno quelli padri con dire che io diffendevo li heretici et che volevo fossero dotti (…). Et fuggì di Roma, perché ebbi lettere da Napoli et fui avisato che, doppo la partita mia da Napoli, erano stati trovati certi libri delle opere di San Grisostomo et di San Hieronimo con li sholii di Erasmo scancellati, delle quali mi servivo occultamente; et li gettai nel necessario quandi mi partì da Napoli, acciò non si trovassero, perché erano libri suspesi per rispetto de detti scholii, se ben erano scancellati». 6  Ciliberto, Giordano Bruno cit., p. 33.

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assoluto ed essere comunicato» 7, della sproporzione tra «conoscibile oggetto e conoscitiva potentia» 8. Bruno era giunto a questa convinzione trasponendo su di un terreno esclusivamente filosofico un problema di carattere teologico. Tale questione avrebbe costituito il fulcro stesso della nolana filosofia, muovendosi su di un duplice binario parallelo, quello dell’Ombra e della Luce, del­ l’Uno e del molteplice, del complicato e dell’explicato, utilizzando le categorie poste da Nicolò Cusano nella sua lettura del parmenidismo platonico, ma torcendole in una chiave del tutto nuova. In una prospettiva teologica, Cristo rappresenta per il Nolano una contraddizione non ammissibile, «et la causa è stata, perché tra la substantia infinita et divina, finita et humana, non è proporzione alcuna com’è tra l’anima et il corpo, o qual si voglian due altre cose le quali possono fare uno subsistente» 9. Il rifiuto del­ l’incarnazione sul piano teologico è strettamente legato al modo di concepire e porre il problema dell’infinito e della relazione tra il principio e i principiati. Se agli occhi del Nolano l’incarnazione del Cristo, e con essa la distinzione trinitaria delle persone divine, appaiono illegittime su di un piano teologico, divengono, al contrario, legittime in una prospettiva ontologica, in cui all’immagine del Cristo, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, è posto «lo universo, che è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura» 10. Si tratta di una radicale trasposizione delle categorie della tradizione teologica, riformulate e  applicate alla filosofia naturale. Come ha notato Antonella Del Prete, «ce phénomène n’a cependant pas le sens d’une théologisation du monde, mais d’une naturalisation du divin, qui perd tous les caractères personnels qui lui étaient traditionnellement attribués par la théologie chrétienne» 11. In altre parole, se per Bruno risulta inconciliabile 7 N.  Tirinnanzi, Note e  commento, in Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, [pp. 163-296], p. 1051, in nota. 8   Ibid., p. 1031, in nota. 9  Firpo, Il processo a Giordano Bruno cit., p. 173. 10  Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 248. 11  A. Del Prete, La relation entre dieu et l’univers chez Giordano Bruno, in Giordano Bruno. Une philosophie des liens et de la relation, éd. par A. Del Prete T. Berns, Bruxelles 2016, [pp. 19-34], p. 22.

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affermare, sul piano teologico, una distinzione reale delle persone divine, dell’Uno assolutamente semplice e infinito, egli traspone, tuttavia, quella stessa terminologia trinitaria su di un piano ontologico, utilizzandola e riformulandola non più in divinibus ma in naturalibus, laddove essa riacquisisce la sua piena legittimità.

2. «Potentia actus utriusque nexus». La presenza della triade nel De la causa La prospettiva sin qui osservata è pienamente elaborata da Bruno nel De la causa, opera propedeutica all’ontologia della nolana filosofia, nonché struttura portante e fondamento teorico dell’intera riflessione bruniana 12. In quest’opera, nel descrivere il processo di risalita che dalla molteplicità, attraverso la cognizione dialettica della relazione tra materia e  forma, giunge sino a  ritrovare l’Uno, il Nolano procede ad una sistematica tripartizione dell’essere o  della sostanza. Egli richiama termini e  categorie centrali nella tradizione cristiano-neoplatonica, ricercando e mobilitando fonti che possano proiettare la sua riflessione ontologica in un orizzonte post-scolastico e, al tempo stesso, pre-aristotelico, inverando motivi latenti della tradizione platonico-parmenidea. Proprio all’interno di quest’orizzonte il recupero della triade substantia/essentia o  Uno, potentia o  potestà d’esser fatto, actus o  potestà di fare, si configura come una tripartizione necessaria nel tentativo di comprensione della relazione tra l’unità della sostanza o  dell’essere e  la molteplicità delle sue manifestazioni sensibili. La configurazione triadica dell’essere o della sostanza è particolarmente rilevante nel terzo dialogo dell’opera, laddove Bruno svolge una serie di considerazioni sottese ad accogliere l’istanza monista racchiusa nella nozione di materia ma evitando, al tempo stesso, d’assolutizzare una visione riduttivamente materialistica della realtà. L’intuizione per cui la materia è  un tutto, coglie, infatti, ai suoi occhi soltanto un lato della verità. L’errore con12 Cfr.  T. Dagron, Unité de l’être et dialectique. L’idée de philosophie naturelle chez Giordano Bruno, Paris 1999 (De Pétrarque à Descartes, 65), p.  19: «Le De la causa propose une isagogia, c’est-à-dire une propédeutique, qui doit servir de point de départ ou de ‘fondement’ aux sciences naturelles et spéculatives».

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sisterebbe non nell’intendere che la divinità sia immanente alla materia, ma nel non riconoscere che lo è anche della forma e come questa sia assolutamente necessaria e  complementare all’altra 13. Oltrepassando una rappresentazione riduttivamente materialistica, Bruno afferma così la distinzione e, al tempo stesso, l’interdipendenza ontologica tra il principio formale e quello materiale, poiché è necessario riconoscere in natura due generi di sostanza, una attiva ed una passiva, o meglio, una potestà di fare ed una potestà d’esser fatto: (…) troviamo che è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l’uno che è  forma, e  l’altro che è  materia; perché è necessario che sia un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto; et ancora una potenza et un soggetto, nel quale non sia minor potenza passiva di tutto: in quello è potestà di fare, in questo è potestà di esser fatto 14.

Ma in che modo è possibile stabilire, nella prospettiva bruniana, una distinzione tra la materia e  la forma, tra una potestà di fare ed una potestà d’esser fatto? Su che cosa questa distinzione può essere fondata e, allo stesso tempo, in che modo questi due principi possono essere considerati nella loro unità e interdipendenza o  consustanzialità? La  differenza tra materia e  forma poggia aristotelicamente sulla distinzione tra la potenza e  l’atto, l’efficiente e il ricevente; in tal senso, queste non possono essere considerate se non come opposte, in una distinzione apparentemente irriducibile. Com’è possibile, allora, ricomporre quella «grande unione che ha quest’anima del mondo e forma universale con la materia» 15? Facendo un passo indietro nell’esame del rapporto tra i  due principi naturali, Bruno sottopone il concetto di materia ad una necessaria e fondamentale distinzione: questa può essere conside13  Cfr. Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., pp. 242-243: «Niente assolutamente opera in se medesimo, e sempre è qualche distinzion tra quello che è agente e quello che è fatto, o circa il quale è  l’aczione et operazione: là onde è  bene nel corpo della natura distinguere la materia da l’anima; et in questa distinguere quella raggione delle specie. Onde diciamo in questo corpo tre cose: prima l’intelletto universale indito nelle cose; secondo, l’anima vivificatrice del tutto; terzo il suggetto». 14  Ibid., pp. 232-233. 15  Ibid., p. 242.

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rata in due modi, «prima come una potenza, secondo come un soggetto» 16. La  materia in quanto potenza non rappresenta il semplice ricettacolo delle forme, ma è soggetto attivo nel portare a compimento l’atto. La potenza passiva non è necessariamente sinonimo di una «imbecillità», di una debolezza o passività assolute, ma è invece l’immagine dell’infinità informata della materia. (…) la potenza comunemente si distingue in attiva per la quale il soggetto di quella può operare, et in passiva per la quale o può essere, o può ricevere, o può avere, o può essere soggetto di qualche efficiente in qualche maniera. De la potenza attiva non raggionando al  presente, dico che la potenza che significa in modo passivo (benché non sempre sia passiva) si può considerare [o relativamente] o  vero assolutamente; e  cossì non è  cosa di cui si può dir l’essere, della quale non si dica il posser essere. E questa sì fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una non è senza l’altra in modo alcuno: onde se sempre è stata la potenza di fare, di produrre, di creare, sempre è stata la potenza di esser fatto, produto e creato; perché l’una potenza implica l’altra: voglio dir, con esser posta, lei pone necessariamente l’altra. La  qual potenza, perché non dice imbecillità in quello di cui si dice, ma più tosto confirma la virtù et efficacia, anzi al fine si trova che è tutt’uno et a fatto la medesma cosa con la potenza attiva (…). Or contempla il primo et ottimo principio, il quale è tutto quel che può essere; e lui medesimo non sarebe tutto, se non potesse essere tutto: in lui dumque l’atto e la potenza sono la medesima cosa 17.

Momento cruciale nel discorso ontologico del Nolano, il vincolo indissolubile tra potestà di fare e  potestà di esser fatto, tra anima e materia, mens et hyle, è rintracciabile nell’unità del primo principio e prima causa: nell’orizzonte della molteplicità e della differenza, le forme composte rappresentano delle explicationi terminate di un sostrato unico, infinito, semplicissimo e permanente. Per ritrovare il «punto dell’unione» 18 tra la materia e la forma, occorre innanzitutto risolvere la questione dell’unità e della coessenzialità di potenza ed atto. E in questa prospettiva Bruno comprende come la potenza non rappresenti una forza pura  Ibid., p. 246.   Ibid., p. 247. 18  Ibid., p. 295. 16 17

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mente passiva, ma sia piuttosto il sostrato su cui l’atto può agire. La forma non è predicabile senza la materia, così come l’atto senza la potenza: quest’ultima non è  puro principio di passività, ma forza plastica e infinita che si dispone alla trasformazione. Al fondo dell’ontologia bruniana agisce l’esigenza che per essere bisogna innanzitutto poter essere. Occorre, cioè, distinguere una potenza attiva, che opera come causa efficiente e  principio formale, ed una potenza passiva, intesa in un duplice senso: passivamente come sostrato, ovvero possibilità d’azione dell’agente, e attivamente come ciò che pone in essere l’agente stesso. Porre il principio materiale e la potenza come realmente predicabili solo se in relazione alla forma e all’atto e viceversa, equivale per Bruno a coniugare identità e differenza, ovvero ad affermare una verità che si costituisce solo attraverso la reciprocità di opposte e  differenti prospettive. Sta in questo propriamente l’approccio dialettico del Nolano: considerare il rapporto tra la materia e la forma, la potenza e l’atto, prima dal punto di vista dell’una, poi dell’altra, riflette come esse trapassino l’una nell’altra, divenendo entrambe polarità dell’unità e della molteplicità. Ciò è possibile in quanto sia la forma che la materia, sia la possibilità che l’attualità, sono nella loro identità espressione dell’Uno, vale a dire della sostanza unica, infinita, indivisibile, semplice e permanente. Q uesto connubio tracciato da Bruno tra potestà di fare e potestà d’esser fatto è ricavato dalla distinzione e correlazione tra il posse facere ed il posse fieri del Trialogus de possest di Cusano 19. Il cuore dell’argomentazione con cui Bruno pone una soluzione al  problema della relazione tra materia e  forma, nonché il lessico utilizzato, sono ripresi pressoché testualmente, e secondo una prassi consolidata nei suoi dialoghi, dal De possest cusaniano 20. 19 Cfr. Nicolaus Cusanus, Trialogus De possest, ed. R. Steiger, Hamburg 1973 (Opera omnia, XI.2). 20 Cfr. ibid., XI, 2, p. 7, 6-7: «Nec potest ipsa iam dicta possibilitas prior esse actualitate quemadmodum dicimus aliquam potentiam praecedere actum. Non quomodo prodisset in actum nisi per actualitatem? Posse enim fieri si se ipsum ad actum produceret, esset actu antequam actu esset. Possibilitas ergo absoluta, de qua loquimur, per quam ea quae actu sunt actu esse possunt, non praecedit actualitatem neque etiam sequitur. Q uomodo enim actualitas esse posset possibilitate non existente? Coeterna ergo sunt absoluta potentia et actus utriusque nexus. Nec plura sunt aeterna, sed sic sunt aeterna quod ipsa aeternitatis».

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Partendo dalla distinzione e  dall’implicazione reciproca di materia e forma, potenza ed atto, Bruno può giungere ad affermare la loro consustanzialità nel «primo principio sopra naturale» 21. Non deve stupire il ricorso ad un principio sovrannaturale se si considera che la ripresa del lessico e  delle categorie teologiche cusaniane sono qui funzionali all’affermazione della coincidenza di potenza ed atto, non più nell’immagine del Dio cristiano, ma nel cuore stesso della natura, nel legame di materia e forma. Ciò che Bruno compie con il ricorso a un lessico teologico è come lo ha definito Pietro Secchi, il tentativo di «‘naturalizzare’ il linguaggio teologico, proponendo al contempo il risultato di tale slittamento come la ‘vera o nova teologia’» 22. Si tratta della trasposizione del linguaggio della teologia cusaniana adoperato non più per descrivere il Cristo, bensì «l’unigenita natura». Il concetto di coincidentia oppositorum elaborato da Cusano nel De possest è funzionale, nella ripresa bruniana, a ridefinire come la coincidenza dell’atto e  della potenza nell’unigenita natura, non sia affatto inverosimile, ma attestata dall’autorità di «molti più antichi teologi e  filosofi» 23. Non è  dunque illegittimo, trasponendo le categorie teologiche nel campo proprio della filosofia naturale, sostenere che in natura «l’atto e la potenza son la medesima cosa» 24. Per che la possibilità assoluta per la quale le cose che sono in atto, possono essere, non è prima che la attualità, né tampoco poi che quella: oltre il posser essere è  con lo essere in atto, 21   Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 247. 22  P. Secchi, «Del mar più che del ciel amante». Bruno e Cusano, Roma 2006 (Centuria, 2), p. 103. 23   Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p.  247; cfr.  Id., Cena de le ceneri, ed. E.  Ciliberto, in Id., Dialoghi filosofici italiani cit., [pp. 9-109], p. 13, pp. 95-96. Su questi stessi problemi cfr. A. Del Prete, «L’attiva potenza dell’efficiente» et l’univers infini.  Giordano Bruno à propos de l’oisiveté de Dieu, in Mondes, formes et société selon Giordano Bruno, éd. par T. Dagron - H. Védrin, Paris 2003 (De Pétrarque à Descartes, 57); M. A. Granada, «Verum est facere Deum alium a Deo»: la polemica di Bruno con l’ari­ stotelismo a proposito della potenza di Dio, in Letture bruniane I-II del Lessico intellettuale europeo: 1996-1997, a cura di E. Canone, Pisa - Roma 2002 (Bruniana e Campanelliana. Supplementi, 7. Studi, 3), pp. 88-151. 24  Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 247.

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e non precede quello; per che se quel che può essere facesse se stesso, sarebbe prima che fusse fatto. Or contempla il primo et ottimo principio, il quale è tutto quel che può essere; e lui medesimo non sarebe tutto, se non potesse essere tutto: in lui dumque l’atto e la potenza son la medesima cosa. Non è cossì nelle altre cose, le quali quantumque sono quello che possono essere, potrebono però non esser forse; e  certamente altro, o  altrimente che quel che sono: perché nessuna altra cosa è tutto quel che può essere 25.

Seguendo passo dopo passo l’elaborazione di Cusano, Bruno traspone e riformula il problema della coincidenza di atto e potenza non più in una prospettiva creazionista, quale quello della sua fonte 26, ma in un orizzonte che potremmo definire ‘generativo’. La coincidenza di potenza ed atto assume per Cusano un senso soltanto all’interno di uno schema creazionista in cui le realtà finite sono messe in rapporto di asimmetria e  sproporzione rispetto al primo principio sovrannaturale. Per Bruno, al contrario, è possibile ripensare la coincidentia oppositorum non più da un punto di vista teologico, ma filosofico-naturalistico, attraverso una decostruzione della teologia trinitaria. La  teologia cusaniana fonda la coincidenza di potenza ed atto sull’impossibilità di un salto nell’orizzonte del creato: solo nell’articolazione interna a  Dio, nella sua natura trinitaria, vi è coincidenza assoluta di potenza ed atto 27. Il termine possest esprime al suo interno una struttura non binaria ma trinitaria: la parola possest, nella sua unità, lega insieme posse ed esse; non è pertanto semplicemente doppia ma tripla, o trina per essere più precisi. Si presenta, in altre parole, come connessione o nexus di potere ed essere, di potenza ed atto e  la loro coeternità non è altro che l’espressione della consustanzialità delle persone divine. Unità della parola come dell’essenza e  trinità delle sue componenti (potentia, actus utriusque nexus),   Ibidem.  Cfr. Nicolaus Cusanus, Trialogus De possest, XI, 2, ed. Steiger cit., p. 8, 7-8: «Omnia autem quae post ipsum sunt cum distinctione potentaie et actus, ita ut solus deus id sit quod esse potest, nequamquam autem quaecumque creatura, cum potentia et actus non sint idem nisi in principio». 27 Cfr.  Secchi, «Del mar più che del ciel amante» cit., p.  113: «Il possest esprime, nella maniera migliore consentita al linguaggio, la coeternità di potenza e atto ed il fatto che esso sia il nome di Dio fornisce elementi esegetici decisivi». 25 26

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come delle persone: ecco la traduzione in termini linguistici dell’uni­trinità 28.

La coincidentia oppositorum non rappresenta altro che il tentativo di fondare, a partire dalle categorie filosofiche di potenza ed atto, la dottrina della consustanzialità delle tre persone divine. Nel sistema cusaniano la tesi trinitaria implica necessariamente che il Verbo sia assolutamente identico al Padre; in questo senso il possest non è altro che la congiunzione del Padre al Figlio per mezzo della mediazione del nexus, o  Spirito Santo, del legame che unisce i due estremi della Trinità 29. Non solo: tra il Padre e il Figlio vi è un processo di generazione e non di creazione, per cui il Verbo può essere inteso come unigenito. Al contrario, nella creazione vi è un salto da parte del divino in un qualcosa di radicalmente altro rispetto alla sua natura infinita. È così stabilita la differenza tra l’azione ad intra con la quale Dio genera il Verbo e l’azione ad extra con la quale crea il mondo 30: l’unico rapporto di Aequalitas 31 o assoluta coincidenza di atto e potenza si dà tra il Padre ed il Figlio nella generazione ab aeterno del Verbo, mentre non può esservi coincidenza perfetta tra la creatura ed il creatore, tra la misura ed il misurato 32. La maggiore conseguenza della tesi cusaniana è individuabile nella spaccatura che determina tra il creatore e la creatura, vale a dire   Ibidem.  Cfr. Nicolaus Cusanus, Trialogus De possest, XI, 2, ed. Steiger cit., p. 58, 47-48: «Nam sine potentia et actu utriusque nexu non est nec esse potest quicquam. Si enim aliud horum deficeret, non esset. Q uomodo enim esset si esse non posset? Et quomodo esset si actu non esset, cum esse sit actus? Et si posset esse et non esset, quomodo esset? Oportet igitur utriusque nexum esse. Et posse esse et actu esse et nexus non sunt alia et alia. Sunt enim eiusdem essentiae, cum non faciant nisi unum et idem. Rosa in potentia et rosa in actu et rosa in potentia et actu est eadem et non alia et diversa, licet posse et actus et nexus non verificentur de se invicem sicut de rosa». 30  Cfr. M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, in «Rivista di storia della filosofia», N. S., 94.3 (1994), pp. 495-532. 31 Cfr. Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, I, 8, edd. E. Hoffmann R. Klibansky, Hamburg 1932 (Opera omnia, I), p. 17, 19-22: «Unitas vero semel repetita solum gignit unitatis equalitatem; quod nihil aliud intellegi potest quam quod unitas gignit unitatem. Et haec quidem generatio aeterna est». 32 Cfr. Secchi, «Del mar più che del ciel amante» cit., p. 175: «Confondere generazione e creazione significherebbe cioè ritenere che con un unico e medesimo atto Dio generi il Verbo e produca infiniti enti finiti». 28 29

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tra l’infinità assoluta di Dio e la finitezza degli enti creati, tesi che Bruno può recuperare solo in parte. La concezione di un universo acentrico, quale quello cusaniano, mostra come l’universo possa essere considerato esclusivamente privative infinitum, diminuzione ed allontanamento costante e progressivo dei principiati dal principio. In questo scenario, stabilendo una priorità dell’esigenza teologica su quella ontologica, Cusano definisce la creatura come ciò di cui non è possibile predicare né la precisione né l’uguaglianza. Vi è, dunque, tra il creatore e le creature una profonda e insuperabile asimmetria, una distanza ontologica per cui gli enti finiti possono essere intesi solo come allontanamento dal principio  e, di conseguenza, infiniti in un senso esclusivamente privativo 33. È proprio sul terreno della teologia trinitaria che Bruno abbandona Cusano, per trasporlo sul piano della filosofia naturale 34. In  questo abbandono e  in questa riformulazione della sua fonte assistiamo al  passaggio dall’antitrinitarismo al  recupero della triade substantia/essentia – potentia – actus, quasi a rilegittimare una triadicità naturale e non teologica. Nel momento in cui Bruno fa derivare dalla coincidentia oppositorum cusaniana l’unità dell’atto e  della potenza nella natura, egli riformula con Cusano e  oltre Cusano la tesi del De possest. L’operazione bruniana che traspone nella natura la dialettica della coincidenza degli opposti è tesa a svuotare di senso teologico la tesi cusaniana. Ciò che appare teologicamente inammissibile, vale a dire la distinzione reale delle persone divine, diviene possibile sul piano della filosofia naturale 35. 33  Cfr.  Dagron, Unité de l’être et dialectique cit. (alla nota 12), p.  333: «La contrepartie de la thèse selon laquelle ‘Dieu est tout chose’ est donc bien que le fini, en tant que fini, n’est rien». 34 Cfr. Iordanus Brunus Nolanus, De l’infinito universo e mondi, ed. Ciliberto cit., in Id., Dialoghi filosofici italiani cit., [pp. 301-423], p. 382: «Ha molto conosciuto e visto questo galant’uomo, et è veramente uno de particolarissimi ingegni ch’abbiano spirato sotto questo aria: ma quanto all’apprension de la verità, ha fatto qual nuotatore da tempestosi flutti or messo alto, or basso; per che non vedea lume continuo, aperto e chiaro, e non nuotava come in piano e tranquillo, ma interrottamente e con certi intervalli. La raggion di questo è che lui non avea evacuati tutti gli falsi principi de quali era imbibito dalla commune dottrina onde era partito; di sorte che forse per industria gli vien molto a proposito la intitulazion fatta al suo libro Della dotta ignoranza, o della ignorante dottrina». 35 Cfr. Id., De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 277: «È dunque l’universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto. Una la forma o anima; una la materia o corpo. Una la cosa. Uno lo ente. Uno il

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3. Il ricorso alla triade come problema gnoseologico Giunti a  questo punto della nostra analisi possiamo osservare come, nella prospettiva bruniana, la trasposizione della Trinità ed il ricorso alla triade sul piano naturale si riversino sul piano gnoseologico. La  configurazione dell’essere o  della sostanza in materia-potentia, forma-actus, e  Uno o  coincidenza di materia e forma, potenza ed atto, non possiedono un valore ontologico, bensì esclusivamente logico-gnoseologico. Per quanto necessaria ai fini della conoscenza, la distinzione dei due principi di materia e  forma, potenza ed atto, non dice e  non può dire nulla di una sostanza che è assoluta unità infinita, indivisibile, semplice e permanente. Se osservati per via di ragione, materia e forma rappresentano due principi separati e distinti, ma che non sono affatto tali nell’intima e profonda vitalità della natura. È qui che Bruno riprende nuovamente Cusano. Insieme e attraverso la sua fonte, egli ritrova e  recupera quelle dottrine e quelle filosofie che avevano subito la critica e la censura scolasticotomista nel tentativo di delineare il rapporto tra l’unità della sostanza e la molteplicità delle sue manifestazioni: prima fra tutte la configurazione gnoseologica triadica della sostanza in mens, hyle e Deus, così come posta da David de Dinant 36, autore centrale nella riflessione ontologico-gnoseologica del De la causa 37. E ancora, quelle tradizioni filosofiche presocratiche 38, da Pitagora agli eleati massimo et ottimo: il quale non deve posser esser compreso, e però infingibile et interminabile, e per tanto infinito et interminato; e per conseguenza inmobile». 36  A proposito di David de Dinant, cfr. G. Théry, Autour du décret du 1210: I, David de Dinant. Étude de son panthéisme, Paris 1925 (Bibliothèque thomiste, 6); E.  Casadei, David di Dinant, traduttore di Aristotele, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 45 (1998), pp. 381-406; Id., Il corpus dei testi attribuibili a David di Dinant, ibid., 48 (2001), pp. 87-124; Id., I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, Spoleto 2008 (Testi, studi, strumenti, 20); T. Dagron, David de Dinant. Sur le fragment «Hyle, Mens, Deus» des «Q uaternuli», in «Revue de métaphysique et de morale», 40 (2003-2004), pp. 419-436. A proposito dell’uso bruniano di David de Dinant, mi permetto di rinviare a G. Gisondi, «Non stultam concludentes». Giordano Bruno e il ricorso a David de Dinant tra il De la causa e il De vinculis in genere, in «Historia Philosophica», 18 (2020), pp. 57-76. 37 Cfr. Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 168, p. 275. 38  Sul recupero in Bruno della tradizione filosofica presocratica, cfr.  ibid., p. 242.

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Melisso, Parmenide, Senofane, vale a dire, di ciò che Bruno definisce l’antiqua vera filosofia 39. Il recupero di questi autori e delle tradizioni filosofiche che avevano subito la critica di Aristotele 40 prima e di Alberto Magno 41 e Tommaso d’Aquino 42 poi, assume ne De la causa lo scopo di far rivivere una verità amputata dall’ari­ stotelismo scolastico-tomista. Q uesta verità consiste nel riconoscere come l’essere o la sostanza sia essenzialmente uno e non patisca alcuna divisione reale, nonostante sia stato, invece, considerato ed indagato nelle sue molteplici figurazioni e apparizioni. Nel tentativo di ridestare quest’antica verità, Bruno scrive, al termine del terzo dialogo del De la causa: in questo simulacro di quell’atto e di quella potenza, per essere in atto specifico tutto quel tanto che è in specifica potenza, (…) l’universo (…) è tutto quel che può essere (…), viene ad avere una potenza che non è absoluta dall’atto; una anima non absoluta dal animato, non dico il composto, ma il semplice: onde cossì l’universo sia un primo principio che medesmo se intenda, non più distintamente materiale e formale; che possa inferirse dalla similitudine del predetto, potenza absoluta et atto. Onde non fia difficile o  grave di accettar al  fine che il tutto secondo la sustanza è uno: come forse insete Parmenide, ignobilmente trattato da Aristotele 43.

Il riferimento alla dottrina parmenidea e la necessità della riflessione ontologica di tendere all’Uno, procede qui di pari passo con il riconoscimento dell’errore tipico della tradizione aristotelica e  scolastico-tomista, ovvero l’introduzione nella realtà del principio astratto della separazione: è  a partire da questo principio che la ragione umana si allontana dall’immagine della sostanza o  dell’essere, intesa come assoluta unità nella molteplicità, ed è in questa stessa linea interpretativa che Aristotele diviene colui 39 Sulla nozione di antiqua vera filosofia, cfr. Id., Cena de le ceneri, ed. Ciliberto cit., p. 25. 40  Cfr. Aristoteles, Physica, I 2, 185a 15-186a 30; Id., De caelo, III 1, 298b, 15-25. 41 Cfr. Albertus Magnus, Summa theologiae, pars II, tr. 1, q. 4, m. 3, ed. A. Borgnet, Paris 1895 (Opera omnia, XXXV), p. 108, 1-2. 42 Cfr. Thomas de Aq uino, Scriptum super libros Sententiarum, II, dist. 17, q. 1, a. 1, co. 1, t. 1, ed. P. Mandonnet, 2 voll., Paris 1929, II, pp. 412-413. 43  Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 252.

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«il quale mai si stanca di dividere con la raggione quello che è indiviso secondo la natura e verità» 44. Allo stesso modo, il principio della separazione conduce a sovvertire e ribaltare il rapporto tra natura e logica, anteponendo la seconda alla prima, tanto che «al fine qualche logica intenzione viene ad esser posta principio di cose naturali» 45. È questo, secondo il Nolano, il principio ispiratore della filosofia peripatetica e della sua ripresa e riformulazione in età scolastica 46. Pur muovendosi all’interno di un lessico, di categorie e concetti propri alla tradizione aristotelica, Bruno tende a  ripensare tale impianto logico, riportando ad un principio di unità ciò che ai suoi occhi Aristotele ha separato e diviso. Egli si colloca, cioè, in una prospettiva unitaria che cerca di ricomporre quelle che dal punto di vista aristotelico appaiono come delle antinomie strutturali. I concetti e le categorie che egli riformula possono essere considerati separati e  distinti soltanto ponendosi nell’orizzonte del finito e del molteplice, non nella prospettiva dell’Uno infinito e permanente: è quest’ultimo a rappresentare il necessario punto d’osservazione della natura, delle sue forze e dei suoi principi 47. Dal punto di vista dell’Uno, dell’infinito, laddove potenza ed atto, materia e forma sono unum et idem 48, non sussiste alcuna distin  Ibid., p. 222.   Ibid., p. 240. 46  Cfr.  L. Ruggiu, La  ripresa dell’antico in Giordano Bruno, in Giordano Bruno. Destino e verità, a cura di D. Goldoni - L. Ruggiu, Venezia 2002 (Presente storico, 20), [pp. 185-224], p. 202: «La ragione aristotelica introduce la scissione laddove esiste l’unificazione, il molteplice laddove si dà l’uno, la contraddizione e l’opposizione laddove sussiste solo l’implicazione reciproca degli opposti. In questo modo una ragione astratta si contrappone alla natura operando dall’esterno». 47 Cfr. ibid., p. 203: «L’adozione in senso speculativo e sistematico dell’infinito come caratterizzazione essenziale dell’essere, capovolge completamente il significato che queste relazioni hanno con l’essere». 48 Cfr. Iordanus Brunus Nolanus, De vinculis in genere, in Id., Opera latine conscripta, edd. F. Tocco - H. Vitelli - V. Imbriani - C. M. Tallarigo, III.III, t. 8, Napoli - Firenze 1891, [pp. 635-700], pp. 695-696: «Et divinum ergo quoddam est materia, sicut et divinum quoddam existimatur esse forma, quae aut nihil est, aut materiae quiddam est. Extra et sine materia nihil, sicut posse facere et posse fieri tandem, unum et idem sunt, et individuo uno consistunt fundamento, quia simul datur et tollitur potens facere omnia cum potente fieri omnia»; cfr. David de Dinanto, Frammento P, in Casadei, I testi di David di Dinant cit., pp. 298299: «Ex hiis ergo colligi potest mentem et ylen idem esse. Huic autem assentire videtur Plato, ubi dicit mundum esse Deum sensibilem. Mens enim, de qua loquimur et quam unam dicimus esse eamque impassibilem, nichil aliud est quam 44 45

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zione reale. Ogni assunto logico non è semplicemente svuotato di senso o annullato, ma la sua validità è riconosciuta esclusivamente all’interno dell’ambito del finito, nel molteplice in cui sono rintracciabili differenze e distinzioni tra i termini. Come definito nel quinto e  ultimo dialogo del De la causa, l’Uno è non soltanto unità fisica di materia e forma, ma è anche unità logico-metafisica 49. Ogni distinzione della sostanza non rappresenta una sua moltiplicazione reale, ma attiene esclusivamente alle modalità umane di figurazione di quella stessa sostanza: se «vero, uno et ente son la medesima cosa» 50, allora, la loro scomposizione si pone come puramente gnoseologica, non ontologica. Materia e forma, potenza ed atto, rappresentano nella loro unità una ragione generalissima, superiore e  antecedente a  qualsiasi distinzione logica tra sostanza e accidente. In questa prospettiva, le ipostasi o  le emanazioni neoplatoniche non corrispondono a qualcosa di ontologicamente diverso dalla sostanza unica, moltiplicazioni reali dell’Uno, ma sono volti, tracce e segni di un unico essere infinito in atto, estensioni di quell’unica, identica e grande voce «la quale è tutta in tutta una stanza et in ogni parte di quella, per che da per tutto se intende tutta» 51.

Deus. Si ergo mundus est ipse Deus preter se ipsum perceptibile sensui, ut Plato et Zeno et Socrates et multi alii dixerunt, yle igitur mundi est ipse Deus, forma vero adveniens yle nil aliud quam id, quod facit Deus sensibile se ipsum»; cfr. Thomas de Aq uino, Scriptum super libros Sententiarum, II, dist. 17, q. 1, a. 1, co. 1, ed. Manodonnet cit., p. 435: «Respondeo dicendum, quod quorumdam antiquorum philosophorum error fuit, quod Deus esset de essentia omnium rerum: ponebant enim omnia esse unum simpliciter, et non differre, nisi forte secundum sensum vel aestimationem, ut Parmenides dixit: et illos etiam antiquos philosophos secuti sunt quidam moderni; ut David de Dinando. Divisit enim res in partes tres, in corpora, animas, et substantias aeternas separatas; et primum indivisibile, ex quo constituuntur corpora, dixit yle; primum autem indivisibile, ex quo constituuntur animae, dixit noym, vel mentem; primum autem indivisibile in substantiis aeternis dixit Deum; et haec tria esse unum et idem: ex quo iterum consequitur esse omnia per essentiam unum (…) et inde ortus est error Parmenidis et Melissi, qui videntes ens praedicari de omnibus, locuti sunt de ente sicut de una quadam re, ostendentes ens esse unum et non multa, ut eorum rationes indicant in 1 Physicor recitatae». 49  Cfr. Dagron, Unité de l’etre et dialectique cit., p. 348: «L’unité de l’être comme transcendantal ne doit pas être une unité logique de signification. Ce sont les différences qu’il faut penser comme logique». 50  Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 281. 51  Ibid., pp. 225-226.

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L’esigenza bruniana è, dunque, quella di ricondurre ogni separazione, ogni gerarchizzazione, partecipazione ed emanazione all’unicità dell’essere infinito e  permanente, in cui non sussiste alcuna distinzione tra materia e  forma, tra forma materiale e  materia formale. Q ueste ultime non sono altro che categorie concettuali necessarie all’intelletto umano, il quale procedendo razionalmente e discorsivamente non può conoscere nulla dell’unica sostanza, se non per segni, vestigia e simulacri. La difficoltà o l’impossibilità umana risiede essenzialmente nell’incapacità di rappresentazione di una sostanza che oltrepassa la struttura e l’ordine del pensiero. Se nel De la causa Bruno ricorre al  tema neoplatonico della scala naturae, alla gerarchica dell’essere, ciò non costituisce, tuttavia, il recupero di una distinzione ontologica reale. La scala dell’essere o scala naturae, intesa come ordine del mondo fisico e metafisico, è  una pura rappresentazione logica necessaria all’uomo nel processo di conoscenza e  auto-figurazione del mondo, pur non designando e  non definendo alcuna distinzione reale della sostanza unica, infinita e permanente. L’immagine scalare, tanto del mondo fisico quanto di quello metafisico, possiede un valore soltanto in relazione alla capacità umana di figurazione. L’Uno definito da Bruno, essendo totalmente estraneo alle possibilità umane d’intellegibilità, risulta estraneo dall’orizzonte della conoscenza. È questa la ragione per la quale egli può interpretare la dottrina neoplatonica e  la rappresentazione triadica come un puro processo di figurazione che non corrisponde ad alcuna distinzione reale sul piano ontologico. Come ha rilevato a tal proposito Tristan Dagron, definendo dialettica la modalità umana di accesso o di rappresentazione dell’Uno espressa da Bruno, la figuration hiérarchique de l’être n’ai jamais pour lui qu’un sens subordonnée, relatif  au caractère spéculatif  d’une pensée qui ne saurait appréhender l’Un immédiatement ou directement (…). La distinction des hypostases n’a de sens que relativement à notre mode de compréhension, elle résulte clairement de ce que notre intellection est une ‘spéculation de fantasmes’ et qu’elle procède par images, signes et simulacres 52.   Dagron, Unité de l’être et dialectique cit., p. 110.

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In questo senso, dunque, la rappresentazione scalare e gerarchica dell’essere e degli enti, assume per l’uomo un valore esclusivamente figurativo: essa non riflette, non dice e non può dir nulla dell’Uno, inconoscibile «anco in vestigio» 53. È questa l’unica e necessaria via alla conoscenza umana. In  questa stessa prospettiva rientra anche la rappresentazione e la configurazione triadica dell’essere o della sostanza in substantia/essentia – potentia – actus. Q uesta, ereditata e recuperata da Bruno attraverso la lettura di Cusano e, indirettamente, per il tramite della dottrina di David de Dinant e dei presocratici, si pone come necessaria sul piano della figurazione della conoscenza della relazione tra l’Uno e  il molteplice. Tuttavia, questa stessa configurazione non corrisponde in alcun modo ad una distinzione o ad una separazione ontologica reale di un essere e di una sostanza che è assoluta, radicale e permanente unità. Ne l’uno infinito, immobile, che è la sustanza, se vi trova la moltitudine, il numero, che per essere modo e moltiformità de lo ente, la quale viene a denominar cosa per cosa, non fa per questo che lo ente sia più che uno: ma moltimodo e moltiforme figurato. Però profondamente considerando con gli filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie, troviamo che tutto che fa differenza e numero, è puro accidente, è pura figura, è pura complessione: ogni produzione di qualsivoglia sorte che la sia è una alterazione; rimanendo la sustanza sempre medesima, perché non è che una, uno ente divino, immortale 54.

53  Iordanus Brunus Nolanus, De la causa, principio et Uno, ed. Ciliberto cit., p. 205. 54  Ibid., p. 281.

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Renato de Filippis – Ernesto Sergio Mainoldi La formazione e le ricezioni della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. Una presentazione del problema storico e storiografico (pp. 19-77) Il saggio, introduttivo al  volume, si apre con una ricognizione sulla presenza della triade essenza – potenza – operazione nella storiografia dell’ultimo secolo, focalizzata in particolare sulle in­ terpretazioni relative alla sua origine e  alla sua valenza teorica. Q uesti due aspetti sono approfonditi attraverso una ricostruzione complessiva e  originale dei passaggi testuali e  concettuali che hanno condotto alla formazione di questa struttura, la quale si è configurata come una rielaborazione dell’ontologia aristotelica in seno al pensiero neoplatonico. Vengono poi seguite le ri­ cezioni, gli adattamenti e le trasformazioni della triade dall’epoca tardo-antica fino all’età umanistica. Le conclusioni a cui approdano i diversi capitoli del volume sono qui ricomposte nel quadro di una presentazione unitaria volta a  evidenziare le continuità e le discontinuità tra i diversi paradigmi speculativi, le epoche, le scuole e gli autori che hanno fatto ricorso alla triade, giungendo così a  restitui­re una storia della sua ricezione. In  base a  questa viene proposta un’interpretazione del suo significato teorico in quanto modello ontologico attestato sull’arco di un millennio di storia del pensiero occidentale, recepito in diversi contesti speculativi e  adattato a  differenti esigenze paradigmatiche. Emerge in particolare come gli approcci alla triade varino in relazione all’effettiva distinzione dei suoi tre termini nel principio primo. 607

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La  triade, in quanto strumento concettuale inteso come descrizione della struttura interna dell’essere, nonché illustrazione delle dinamiche del divenire cosmico, ha decretato il successo del termine aristotelico enérgeia, reinterpretato in senso non aristotelico dai filosofi neoplatonici e dai teologi medievali di area latina, bizantina e islamica. This essay, introductory to the volume, opens with a survey on the presence of   the triad ‘essence  –  power  –  operation’ in the historiography of  the last century, focusing in particular on the interpretations related to its origin and its theoretical value. These two aspects are deepened through a  comprehensive and original reconstruction of  the textual and conceptual steps that led to the formation of  this structure, which is configured as a reworking of  Aristotelian ontology within Neoplatonic thought. The receptions, adaptations and transformations of  the triad are then traced from Late antiquity to Humanist age. The outcome of   the singular chapters of   the volume are here recomposed in the framework of  a unitary presentation, aimed at highlighting the continuities and discontinuities between different speculative paradigms, ages, schools and authors who have referred to the triad, ultimately drawing a history of  its reception. On the basis of  this reconstruction, an interpretation of  its theoretical significance is proposed as an ontological model, attested over a millennium of  history of  Western thought, introduced in several speculative contexts and adapted to different paradigmatic purposes. In  particular, it emerges how the approaches to the triad vary in relation to the acceptance of  the distinction among its three terms within the first principle. The triad, being a conceptual tool intended as a description of  the internal structure of  being, as well as an illustration of  the dynamics of  cosmic becoming, has decreed the success of   the Aristotelian term enér­ geia, reinterpreted in a  non-Aristotelian sense by Neoplatonic philosophers and medieval theologians in Latin, Byzantine and Islamic context.

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Michele Abbate Significato e funzione della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel neoplatonismo greco pagano (pp. 79-95) Nella tradizione neoplatonica, i  riferimenti più consistenti alla triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια si possono rintracciare soprattutto in relazione ai caratteri fondamentali della realtà intelligibile nel suo insieme, la quale dipende originariamente dal Primo Principio, posto al  di sopra dell’essere stesso. In  base a  tale prospettiva di pensiero, se il Principio Primo può essere per certi aspetti considerato come una forma di potenzialità autenticamente originaria e assoluta, anteriore a ogni determinazione, esso tuttavia, proprio per la sua assoluta ulteriorità, trascende completamente sia la nozione di οὐσία sia quella di ἐνέργεια implicante in sé una forma di relazione. Dall’analisi di alcuni testi di Plotino, Proclo e Damascio, è possibile comprendere come la relazione triadica tra οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero neoplatonico possa connotare ed esprimere la natura intrinsecamente dinamica e relazionale della dimensione intelligibile nella sua totalità dispiegata, mentre il Primo Principio permane necessariamente al  di sopra di ogni forma di determinazione. According to Neoplatonic tradition, the most consistent references to the triad οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια can be found first and foremost in relation to the fundamental characteristics of  intelligible reality as a whole, originally depending on the First Principle, which is above being itself. Based on this perspective of  thought, if  the First Principle can, in some respects, be considered as a form of  truly original and absolute potentiality, prior to any specification and due to its absolute ulteriority, it nevertheless completely transcends both the notion of  οὐσία and that of  ἐνέργεια, implying a type of  relation. From the analysis of  some texts of  Plotinus, Proclus and Damascius, one can understand how the triadic relationship between οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Neoplatonic thought can connote the intrinsically dynamic and relational nature of  the intelligible dimension in its unfolded totality, whereas the First Principle remains above any form of  specification.

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Lucrezia Iris Martone Oὐσία, δύναμις ed ἐνέργειαι nell’opera di Giamblico (pp. 97-119) L’articolo dimostra come la triade sostanza – potenza – atto rivesta una fondamentale importanza nell’opera di Giamblico, in particolare nel suo De anima, non solo perché essa è alla base della ricostruzione dell’ordine dei frammenti dell’opera, quanto perché costituisce il fondamento stesso del metodo di indagine sugli enti divini, adoperato da Giamblico e  ripreso dai Neoplatonici successivi. Infatti, dopo aver esaminato la diffusa indicazione di Aristotele quale fonte della riflessione di Giamblico sul tema, l’articolo dimostra come questi impieghi tale triade come una chiave utile a concepire gli aspetti più ardui delle sue costruzioni metafisiche e psicologiche. The article shows that the triad of  substance – power – act is of  fundamental importance in Iamblichus’ thought, particularly in his work De anima. This is not only because it is the reconstruction’s basis of  the order of  the work’s fragments, but also because it constitutes the very foundation of  the method of  investigation into the divine entities, used by Iamblichus and later adopted by other Neoplatonists. Upon examining Aristotle’s widespread indication as the source of  Iamblichus’ reflection on the subject, the article shows that Iamblichus uses this triad as a useful key in conceiving the most difficult aspects of  his metaphysical and psychological constructions. Ilaria Grimaldi Ὕπαρξις, δύναμις, ἐνέργεια in relazione all’Unificato. La triade neoplatonica nel «De primis principiis» di Damascio (pp. 121-139) Il presente contributo analizza il concetto di triade che nel De primis principiis Damascio riferisce all’Unificato. Nello studio si evidenzia che la dottrina della triade è articolata in senso sovraontologico e ontologico. La prima articolazione è ricondotta all’Uno che si sviluppa in modo triadico, profilandosi come triade formata da termini stabiliti in base dell’accordo tra le concezioni pitago610

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rica, platonica e  caldaica. La  seconda articolazione è  ricondotta all’Unificato, espressione compiuta dell’intera triade. L’analisi mette in luce il modo in cui Damascio ridefinisce la struttura triadica οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια e le ragioni per cui di conseguenza egli sostituisce la nozione di οὐσία con quella di ὕπαρξις. Inoltre si dimostra che rielaborare il concetto di triade significa definire l’esatta relazione tra henologia e  ontologia, al  fine di chiarire la funzione causale esercitata dall’Uno sull’Essere. Ulteriore punto focale del contributo è l’esame sulla pertinenza teoretica e predicativa della triade ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια in relazione ai Principi indeterminati. Dall’esame emerge che il concetto di triade è incompatibile con la natura non numerabile dei Principi. La tesi sostenuta è  che Damascio legittima l’utilizzo di tale concetto a  condizione che il pensiero e  il linguaggio metafisici vengano acquisiti unicamente nel significato analogico, iconico e simbolico che possono assumere. This paper analyses the concept of   the triad, which, in the De primis principiis, Damascius refers to the Unified. The study highlights that the doctrine of  the triad is developed in a supraontological and ontological sense. In  the first sense, the One is articulated in a triadic manner, composed of  terms deduced from the harmonization between the Pythagorean, Platonic and Chaldean conceptions. The second sense is related to the Unified, the complete expression of   the entire triad. The analysis underlines how Damascius redefines the triadic structure οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια. The reason why he replaces the notion of  οὐσία with that of  ὕπαρξις is also pointed out. Additionally, it  is demonstrated that rethinking the concept of  triad means establishing the exact relationship between the henology and the ontology, aiming to clarify the causal function performed by the One on the Being. The examination of   the theoretical and predicative pertinence of  the triad ὕπαρξις – δύναμις – ἐνέργεια in relation to the indeterminate Principles is a further focal point. This shows that the concept of   the triad is incompatible with the non-numerable nature of  the Principles. The argument put forth in the study is that Damascius legitimizes the use of  this concept, provided that the metaphysical thought and language are employed only in the analogical, iconic and symbolic meaning that they can assume. 611

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Claudia Lo Casto La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio (pp.141-152) Oggetto di tale studio è il tentativo di ricostruire il significato e la funzione della triade οὐσία  –  δύναμις  –  ἐνέργεια nel pensiero di Simplicio. Q uesta struttura triadica riveste, infatti, nel neoplatonismo un’importanza decisiva, in quanto viene utilizzata, secondo modalità differenti, per esprimere l’ordine ontologico delle realtà metafisiche e, soprattutto, per definire la dimensione intelligibile, caratterizzata dall’identità di sostanza, atto e potenza. Uno degli aspetti più interessanti che si cerca di delineare è il fatto che, all’interno della triade, le nozioni di δύναμις e ἐνέργεια assumono una valenza profondamente diversa rispetto a quella originariamente aristotelica. The object of  this study is the attempt to reconstruct the meaning and function of  the triad οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in the thought of  Simplicius. This triadic structure is of  decisive importance in Neoplatonism, seeing as it expresses the ontological order of  metaphysical realities in various ways and, above all, defines the intelligible dimension, characterized by the identity of  substance, act and power. One of  the more interesting aspects that is outlined is the fact that, within the triad, the notions of  δύναμις and ἐνέργεια assume a profoundly different valence from that of  the original Aristotelian. Ilaria Ramelli La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in Gregorio di Nissa e nei Cappadoci. Paralleli filosofici e ascendenze origeniane (pp. 153-179) Q uesto saggio studia la triade substantia – virtus – operatio (οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια) nei Cappadoci, e  specialmente in quello che ha la mentalità più filosofica ed è più profondamente ispirato da Origene: Gregorio di Nissa (che sembra avere conosciuto la triade giamblichea). In Gregorio, l’applicazione più interessante della triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια sembra aversi 612

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in riferimento a Dio, quando Gregorio nel suo apofatismo, pur non estremo, sostiene che non possiamo dire nulla della natura di Dio (οὐσία), ma soltanto delle sue operazioni (ἐνέργειαι), e ancora distingue tra le operazioni stesse e la potenza (δύναμις), che discende dalla οὐσία e parimenti sembra rimanerci preclusa. Q uesta triade è individuata e delineata nella teologia di Gregorio, e in parte in quella degli altri Cappadoci; è svolta un’analisi comparativa con Plotino, ed è suggerito il problema del rapporto con le triadi di Vittorino, ma anche un’ascendenza giamblichea. Suppongo che si possa sospettare, come in molti casi nel Nisseno, un influsso origeniano. L’analisi sistematica di οὐσία, δύναμις ed ἐνέργεια in Origene conduce a una conferma di questa supposizione. Sembra guadagnato un ulteriore tassello al vasto mosaico, in buona parte ancora da ricostruire, della dipendenza del pensiero dei Cappadoci, e specialmente di Gregorio, da quello (vero) di Origene. This essay studies the substantia – virtus – operatio (οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια) triad in the Cappadocians, particularly Gregory of  Nyssa (who seems to have known Iamblichus’ Triad, too), the most philosophically minded and the most deeply inspired by Origen. In  Gregory’s works, the most interesting application of  this triad seems to be that which refers to God. Here, Gregory affirms in his apophaticism that we cannot say anything about the nature, essence or substance of  God (οὐσία), but we can only know God’s operations (ἐνέργειαι). He again distinguishes between operations (ἐνέργειαι) and power (δύναμις), which derives from God’s οὐσία. God’s nature (φύσις) cannot be known, God’s power (δύναμις) is hidden and God’s activity (ἐνέργεια) explicates itself  in the actions and works of  God. This triad is pointed out and examined in Gregory’s theology, as well as partially in that of  the other Cappadocians. A comparative study is offered with Plotinus; the relation with Victorinus is also studied. It is probable that Origen provided an influence. The analysis of  οὐσία, δύναμις and ἐνέργεια in Origen seems to confirm this hypothesis (and offers one further example of  the influence of  Origen’s theology on that of  the Cappadocians, especially Gregory of  Nyssa).

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Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nel pensiero patristico-orientale e proto-bizantino (pp. 181-223) Il saggio analizza la presenza della triade essenza – potenza – operazione nel pensiero patristico ellenofono e bizantino fino all’viii secolo, dai Padri cappadoci allo pseudo-Dionigi Areopagita e  ai suoi commentatori, arrivando fino a Giovanni Filopono e a Giovanni Damasceno. Sebbene le prime tracce della terminologia triadica si attestino nei Padri cappadoci, è in Dionigi che la triade emerge pienamente come struttura unitaria, riflettendo la fisionomia definita che essa aveva guadagnato in seno all’elaborazione filosofica neoplatonica, ancora embrionale al  tempo dei Cappadoci. Dionigi applica la triade soltanto all’essere degli angeli e dei demoni, tuttavia l’ontologia ad essa sottesa rientra in una più generale teoria delle energie, divine o  creaturali, debitrice verso l’insegnamento dei Cappadoci. Benché la triade non assurga in Dionigi a modello ontologico dell’essere generale o di una natura particolare, né tantomeno a  strumento per illustrare il divenire cosmico, essa si presenta come uno degli elementi fondamentali del discorso ontologico, declinandosi in base alla distinzione tra l’οὐσία e le sue δυνάμεις-ἐνέργειαι. Q uesta distinzione, sottolineata successivamente con la massima chiarezza da Giovanni Damasceno, è  ritenuta valida anche in riferimento alla Trinità, e  ciò costituirà un tratto caratteristico della ricezione bizantina della triade, che la distanzierà rispetto alla posizione già assunta dal neoplatonismo e da quella seguita dalla teologia latinofona, le quali escludono ogni distinzione nel Principio primo e in Dio. In alcuni degli autori qui considerati, in particolare in Gregorio di Nissa, Filopono e  nello stesso Damasceno, la triade mostra un’oscillazione tra una lettura aristotelica dei suoi tre termini e una propriamente triadica, consonante con la trasformazione neoplatonica dei concetti di potenza ed atto. This essay analyses the presence of   the triad essence  –  power  – operation in Easter Patristics and Early Byzantine thought until the eight century, from the Cappadocian Fathers to Pseudo-Dionysius the Areopagite and his commentators, up to John Philoponus and John Damascene. Although the first traces of  triadic termi614

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nology are attested in the Cappadocian Fathers, only in Dionysius the triad emerges as a unitary structure, reflecting the defined physiognomy that it had gained through the Neoplatonic elaboration, which was still embryonic at the time of  the Cappadocians. Dionysius applies the triad only to the being of   the angels and demons, however, the ontology underlying it is intended as part of  a more general theory of  energies, referred either to God or to creatures, which is indebted to the teaching of  the Cappadocians. Although the triad, according to Dionysius, is not conceived as the ontological model of  the whole Being or of  a particular nature, nor as a tool to illustrate the cosmic becoming, it appears as one of  the basic elements of  the ontological discourse, relying on the distinction between οὐσία and its δυνάμεις-ἐνέργειαι. This distinction, later emphasized with the utmost clarity by John Damascene, is applied to the Trinity, and this will constitute a characteristic feature of  the Byzantine reception of  the triad, which will differentiate it from the position assumed by Neoplatonism and from that followed by Latin-speaking theology, which exclude any distinction in the First Principle and in God. According to some of   the authors here considered, particularly Gregory of  Nyssa, Philoponus and the Damascene himself, the interpretation of  the triad oscillates between an Aristotelian interpretation of  its three terms and a properly triadic one, consonant with the Neoplatonic transformation of  the concepts of  power and act. John Gavin S. J. La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella visione cosmica di Massimo il Confessore (pp. 225-246) Massimo il Confessore (580-662 a.C.) ha fondato la sua visione cosmica su un punto fondamentale: la volontà del Λόγος di incarnarsi. Per comprendere il ruolo della triade οὐσία  – δύναμις  – ἐνέργεια nel pensiero massimiano, dobbiamo tenere presente quella che egli vede come la finalità ultima della creazione, per cui la realizzazione del singolo essere si svolge nel contesto di questa visione cosmica. In questo breve saggio, dopo avere passato in rassegna alcuni studi già pubblicati a proposito di questo tema, mi propongo di illustrare l’importanza della triade in quattro sue 615

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occorrenze nelle opere di Massimo e  nel dramma delle creature intelligenti. In tale modo, si potranno rintracciare alcuni aspetti fondamentali della sua dottrina. Maximus the Confessor (580-662 A.D.) established his cosmic vision on a fundamental point: the desire of  the Λόγος to become incarnate. To understand the role that the triad οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια holds in Maximus’ thought, we must keep in mind this understanding of  the goal of  creation, through which the fulfillment of  a single being unfolds. In this brief  article, after a review of  some previous studies of  this theme, I  will demonstrate the importance of  the triad in four examples from Maximus’ works and in the overall drama of  intellectual beings. In this way, one can trace certain fundamental aspects of  Maximus’ teachings. Ernesto Sergio Mainoldi La triade οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια nella riflessione teologica e filosofica di età medio e tardobizantina (pp. 247-297) Q uesto saggio si propone di effettuare una valutazione di massima circa la cospicua presenza della triade nella speculazione teologica e filosofica bizantina dall’viii fino al xv secolo. Il ricorso alla triade negli autori ellenofoni medievali pone innanzitutto il problema della sua possibile ricezione diretta attraverso le fonti neoplatoniche conservate nelle biblioteche bizantine. Tale quesito sembra però trovare risposta negativa, in quanto la fortuna della triade tra gli autori bizantini si riconduce in larga parte al  suo utilizzo da parte dei Padri, dallo pseudo-Dionigi a  Massimo il Confessore e  Giovanni Damasceno. Si propone poi una disamina della valenza della triade all’interno del canone dell’ontologia bizantina e  nelle argomentazioni di teologia trinitaria, dove si riscontra una tradizione unanime nel riconoscere i termini della triade come elementi comuni all’essere trinitario, del tutto avulsi rispetto alla distinzione ipostatica tra le persone divine. Uno sguardo particolare viene poi rivolto alla disputa esicasta, dove la triade emerge nel dibattito intorno alla teologia palamita sulle energie divine. Q uesto punto di approdo della speculazione triadica bizantina conferma la tendenza, già riscon616

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trata a  partire dallo pseudo-Dionigi, che vede una coincidenza ontologica tra il secondo e il terzo termine del trinomio triadico, mantenendo la distinzione fondamentale tra questi e  il primo termine, una distinzione che vale anche in seno all’essere divino. Viene infine analizzato il ricorso alla triade nelle argomentazioni apologetiche utilizzate nel dibattito con i  latini, riscontrandosi come l’elemento di divergenza paradigmatica ruoti intorno alla predicazione della distinzione tra l’essenza e le potenze/energie in seno alla Trinità. The purpose of  this essay is to carry out a comprehensive assessment of  the conspicuous presence of  the triad essence – power – operation in Byzantine theological and philosophical thought from the eighth to the fifteenth century. The recourse to the triad by medieval Hellenophone authors raises the problem of  its possible direct reception through the Neoplatonic sources that were preserved in Byzantine libraries. This question, however, is to be answered in the negative, since the fortune of  the triad among Byzantine authors is largely due to its use by the Fathers, from PseudoDionysius to Maximus the Confessor and John Damascene. An examination of  the value of  the triad within the canon of  Byzantine ontology and in trinitarian theology is then proposed: in this field a unanimous tradition that recognizes the terms of  the triad as common elements of  the trinitarian being is detected, evidencing also the absence of  any attempt of  applying the triad to the hypostatic distinctions between the divine persons. A particular survey is then devoted to the Hesychastic dispute, where the triad emerged in the debate around Palamite theology on divine energies. This point of  arrival of   the Byzantine triadic speculation confirms the tendency already observed since pseudo-Dionysius, which sees an ontological coincidence between the second and the third term of  the triadic trinomial, maintaining the fundamental distinction between them and the first term, and applying it also to the divine being. Finally, the use of  the triad in the apologetic arguments poured into the debate with the Latins is analysed, concluding that the element of  paradigmatic divergence between these traditions revolves around the preaching of  the distinction between essence and powers/energies within God.

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Roberto Schiavolin La sostanza tra potenza ed atto. Il pensiero di Mario Vittorino (pp. 299-319) L’utilizzo da parte di Mario Vittorino delle nozioni di sostanza, potenza ed atto nel contesto della sua produzione teologica ed esegetica determina il prodursi di una dottrina atipica ed eccentrica rispetto alla coeva riflessione patristica, si pensi ad esempio a  quella sviluppata da Ilario nell’Occidente latino e  ad Atanasio nell’Oriente greco. Tali concetti risultano utilizzati soprattutto nella riflessione ruotante attorno alle ipostasi trinitarie, alimentando una dialettica perpetuamente sussistente tra Padre e Figlio o, per meglio dire, tra ciò che la sostanza divina cela ‘potenzialmente’ in occulto e ciò che essa manifesta ‘attivamente’ operante potentia. L’altra ‘legge’ posta a fondamento della sua speculazione è quella, più precipuamente ontologica, dell’implicazione sostanziale entro la predominanza ipostatica, in ragione della quale v’è sempre un mutuo coinvolgimento tra la potenza del Padre e l’atto del Figlio. Marius Victorinus’ use of  the notions of  substance, power and act in the context of  his theological and exegetical production determines an atypical and eccentric doctrine towards the contemporary patristic thought, such as that of  Hilary in the Latin West and Athanasius in the Greek East. These concepts are employed especially in the reflection on the Trinitarian hypostases, fostering a perpetual existing dialectic between Father and Son; in other words, between what the divine substance ‘potentially’ (or in occulto) hides and what this substance ‘actively’ (or operante potentia) manifests. At the basis of  Victorinus’ thought, there is also the substantial implication within the hypostatic predominance, because there is always a mutual involvement between the power of  the Father and the act of  the Son. Renato de Filippis La triade dell’essere in Giovanni Scoto Eriugena (pp. 321-341) Nel Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena si trovano numerose menzioni della triade essentia, virtus e  operatio. Da un esame di 618

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queste occorrenze, si deriva che essa ha una funzione fondamentale, ma spesso non evidente, nel suo sistema metafisico. Essa è  infatti struttura ontologica di base di tutto il cosmo, eterna e immutabile nel Verbo divino, ma capace di manifestarsi in divenire nel creato; è assente però in Dio, cui può essere applicata solo metaforicamente. L’Eriugena si serve della dottrina della triade nella sua antropologia, per spiegare i moti dell’anima; in gnoseologia; nel chiarire la natura del numero; e nella dottrina del reditus, dove permette di spiegare come ogni cosa ritornerà in Dio pur rimanendo nella propria specifica natura. In John Scottus Eriugena’s Periphyseon, one can find several references of  the essentia – virtus – operatio triad; an analysis of  those mentions shows that it has a basic (but often hidden) function in his metaphysical doctrine. The triad appears to be the fundamental ontological structure of  the whole cosmos, eternal and unalterable in the Divine Word, but, at the same time, in constant flux in the Creation. However, since the triad is not found in God, it can only be considered metaphorically in Him. Eriugena uses the triad’s theory in his anthropology to explain the soul’s motions, in his knowledge theory to clarify the essence of  the number, and in the doctrine of  the reditus, disclosing how everything will return to God, even in its preserved, specific nature. Antonio Sordillo La triade dell’essere da Eirico di Auxerre a Egidio Romano (pp. 343-364) La triade dell’essere substantia, virtus e operatio si innesta nell’Occidente latino altomedievale prettamente sul modello neoplatonico, che attinge dalle opere dello pseudo-Dionigi, mediate per lo più dalla lettura di Giovanni Scoto. A partire dai primi lettori dell’Eriugena, rinvenibili nella scuola di Auxerre, la triade entra perciò nel pensiero filosofico e  teologico latino percorrendo canali sotterranei: ciò è testimoniato da menzioni occasionali della triade in autori come Ugo di San Vittore, Isacco della Stella, Ugo Eteriano (che la utilizza per giustificare per via analogica la dottrina del Filioque) e Tommaso Gallo (il cui commento al corpus degli scritti dello pseudo-Dionigi immetterà la triade nel mondo 619

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universitario parigino). Utilizzata dunque in differenti contesti, dal sermone al  commento teologico, la dottrina della triade si presenta anche nel cuore della Scolastica in autori come Enrico di Gand, Enrico Bate di Malines, Umberto di Preuilly, Egidio Romano e Giovanni di Mallinges, confermando il dato dello sviluppo della metafisica aristotelica bassomedievale a partire da un impianto speculativo neoplatonico. In the early medieval Latin West, the ontological triad of  substantia, virtus and operatio is based purely on the Neoplatonic model, which draws on the works of  the pseudo-Dionysius, mostly mediated by the reading of  John Scottus Eriugena. Starting from the first readers of  the Eriugena, found in the school of  Auxerre, the triad is introduced to Latin philosophical and theological thought along underground channels. This is testified by occasional mentions of  the triad by authors such as Hugh of  St. Victor, Isaac of  Stella, Hugh Etherianus (who uses it to justify the doctrine of  the Filioque by analogy) and Thomas Gallus (whose commentary of  the pseudo-Dionysius writings would then introduce the triad into the Parisian university setting). Being used in different contexts, from the sermon to the theological commentary, the doctrine of  the triad also appears in the middle of  Scholasticism by authors such as Henry of  Ghent, Henry Bate of  Malines, Humbert of  Preuilly, Giles of  Rome and John of  Mallinges, confirming the fact of  the development of  Aristotelian metaphysics in the late Middle Ages from a neo-Platonic speculative framework. Melissa Giannetta Aes, sigillabilis, sigillantis. Una metamorfosi della triade dell’essere nelle «Theologiae» di Abelardo (pp. 365-383) Il contributo di Pietro Abelardo alla storia del trinomio ontologico di essenza (substantia o essentia), potenza (virtus o potentia) e atto (actus o operatio) è eccentrico. In questo saggio chi scrive si propone di mostrare che se la ricerca di una corrispondenza testuale non è  capace di produrre altro che falsi positivi, è  la ricerca di una coerenza speculativa – che difficilmente riesce a esibire un’evidenza testuale del rapporto con la fonte eriugeniana – 620

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a  produrre i  risultati più interessanti per una storia delle metamorfosi che hanno assicurato la sopravvivenza della triade nel processo di suo superamento. Il modello metafisico neoplatonico è, infatti, ripreso chiaramente nella horrenda similitudo (secondo Bernardo di Clairvaux) del sigillo di bronzo (aes, sigillabilis, sigillantis) e risulta un dispositivo di comprensione delle dinamiche trinitarie, fondamentale nell’evoluzione del progetto di teologia razionale proposto da Abelardo nell’ultima sua Theologia. Proprio la struttura ontologica neoplatonica, assunta come modello soltanto logico, permette di illustrare (quasi) convenientemente la natura divina ad intra e la sua operatività ad extra, conservando la sua attitudine a descrivere la dimensione intimamente dinamica dell’essere. In Peter Abelard’s logical works, triad’s task (substantia or essentia; virtus or potentia; actus or operatio) is basically at odds with its context in the Neoplatonic tradition. In  this paper, I  would like to show that there are no pieces of  evidence that Abelard uses the Neoplatonic triad in its original meaning. Textual research finds false positives. Hence this paper aims to inspect the remaining meaning (removed its ontological background) of  the triadic texture in Abelard’s thought. In the development of  his rational theology (as stated in Theologia Scholarium), we find the horrenda similitudo (according to Bernard of  Clairvaux) of  the bronze seal and its three-fold structure. It consists of  aes (that is substantia or essentia), sigillabilis (that is virtus or potentia), sigillantis (that is actus or operatio). As much as we cannot prove Eriugena’s influence on Abelard’s thought, we need to focus on this meaningful theological purpose of  the Neoplatonic tool (i.e. explaining Trinitarian relations ad intra and ad extra, approximately) to understand its legacy. Beate Ulrike La Sala Substantia, potentia e actus nella filosofia araba (pp. 385-408) L’articolo si cimenta con il tema dell’applicazione triadica della terminologia filosofica di sostanza, potenza e  azione presente nelle opere di tre differenti filosofi arabi classici. Partendo dalla 621

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supposizione che la tradizione filosofica araba sia anche contrassegnata da una influenza della filosofia della tarda Antichità in cui la triade era ricorrente, l’investigazione si concentra tanto su una raccolta di testi selezionati dei due massimi rappresentanti della cosiddetta falāsifa tradizione, vale a dire Abū Nasṛ Muh ̣ammad ibn Muh ̣ammad Al-Fārābī (ca. 872-950) e  Abū ʿAlī al-Ḥusain b. ʿAbd Allāh Ibn Sīnā (Avicenna, 980-1037), quanto su alcuni testi del loro critico più famoso, ossia Abū Ḥāmid Muh ̣ammad b. Muhạ mmad Al-Ghazālī (1058-1111). L’analisi rivela che la triade ha svolto un ruolo importante per i primi due autori, e specialmente per il filosofo Avicenna essa è associata alla sua teoria dell’emanazione. Per Al-Ghazālī la terminologia della triade sembra avere un’importanza notevole solamente nella critica alle tesi dei due autori, mentre per il suo progetto filosofico essa perde rilevanza e significatività. The article focuses on the triadic application of  the philosophical terminology of  substance, potentiality and action in the works of  three different Classical Arabic philosophers. It starts from the assumption that the Arabic philosophical tradition is also marked by the influence of  late antique philosophy, in which the mentioned triad was prevalent. The investigation focuses on chosen texts from two major representatives of   the so-called falāsifa-tradition, namely Abū Nas ṛ Muh ạ mmad ibn Muh ạ mmad Al-Fārābī (ca. 872-950) and Abū ʿAlī al-Ḥusain b. ʿAbd Allāh Ibn Sīnā (Avicenna, 980-1037), as well as from their famous critic, Abū Ḥāmid Muh ạ mmad b. Muh ạ mmad Al-Ghazālī (1058-1111). The analysis shows that the triad played an important role for the first two mentioned authors and especially for the philosopher Avicenna, as it is closely associated with his theory of  emanation. Instead, for Al-Ghazālī, the triadic terminology appears only to play a role in his criticisms of  the former authors, but does not become an integral part of  his own philosophical project.

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Massimiliano Lenzi «Sicut magnes attrahit ferrum». Tommaso d’Aquino, l’immaterialità dell’intelletto e il fondamento occulto delle virtù naturali (pp. 409-441) In questo studio vorrei mostrare come la teoria medievale dell’occulto naturale – che consiste nel ricondurre le virtù curative delle pietre e delle erbe alla qualità di una forma che ha nella causalità del cielo la ragione della sua specifica costituzione – prefiguri in Tommaso la soluzione dell’apparente paradosso di un intelletto facoltà dell’anima senza essere facoltà del corpo. Facendo appello alla gerarchia delle cause – i  cieli, le intelligenze e il primo motore –, Tommaso è in grado di modulare una gradazione di principi formali culminanti nella natura di una forma, l’anima umana, che ha nella spiritualità dell’essenza una condizione adeguata all’incorporeità della sua potenza. In questa prospettiva le nozioni di essenza, potenza e operazione fanno sistema, delineando un’ontologia delle virtù, e  impongano ad anima e  intelletto una connaturazione immateriale che resti­ tuisce il profilo di un’autentica e  impensata forma intellettuale, un’entità liminare situata al  confine delle sostanze separate e delle forme materiali. The aim of  this paper is to show how Aquinas’ theory of  natural occult – relating the curative virtues of  stones and herbs to the quality of  their substantial forms via celestial influences – outlines the apparent paradox of  making the intellect a faculty of  the soul without considering it a faculty of  the body. By referring to the hierarchy of  causes – heavens, intelligences and the prime mover – Aquinas provides a  series of  corresponding natural principles culminating in a form, the human soul, which finds a condition adequate to the incorporeity of  its power in the spirituality of  its essence. In this perspective, which unfolds an ontology of  virtues, the triad of  essence, power and operation becomes a metaphysical system. The latter imposes an immaterial connaturation on soul and intellect, and reverberates the profile of  a liminal entity that is located on the boundary between separate substances and material forms. 623

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Andrea Di Maio «Illa Trinitas Dionysii» (sostanza, virtù e operazione) in Bonaventura (pp. 443-472) Bonaventura utilizzò i  tre termini substantia, virtus e  operatio (oppure essentia, potentia e actio o actus), identificati come ‘la celebre triade di Dionigi’, una cinquantina di volte, che possiamo analizzare lessicograficamente attraverso la Library of  Latin Texts. Le principali fonti da cui Bonaventura aveva attinto questa triade erano le traduzioni latine del corpus dionisiano, riletto attraverso la mediazione di Tommaso Gallo e della Summa Halensis. Rispetto all’originale applicazione agli angeli o  alle intelligenze, la tradizione francescana e  soprattutto Bonaventura usarono la triade per spiegare come la misteriosa essenza di Dio si riveli nella persona di Cristo (inteso come ‘virtù di Dio’) tramite le operazioni sacramentali della Chiesa. Alla fine della sua vita, Bonaventura riformulò la triade tradizionale nella nuova triade di essere, tal‑essere, ben‑essere (esse, sic esse, bene esse), quasi a voler rinnovare la metafisica in opposizione al  radicalismo aristotelico dei Maestri delle Arti a Parigi. La distinzione ‘dionisiana’ tra potenza e azione potrebbe inoltre spiegare perché, secondo Bonaventura (e contrariamente a Tommaso d’Aquino), il libero arbitrio sia un habitus (che facilita l’esercizio dell’atto delle potenze conoscitiva e volitiva), piuttosto che una vera e propria potenza: il che risulta pienamente intelligibile solo se inteso non aristotelicamente, ma neoplatonicamente. The three terms substantia, virtus and operatio (also referred to as essentia, potentia and actio/actus) were identified by Bonaventure as ‘the famous triad by Dionysius’. He mentioned these terms more than 50 times, enabling us to lexicographically analyse through the Library of  Latin Texts. The main sources of  Bonaventure were the Latin translations of   the Dionysian corpus, interpreted through the mediation of  Thomas Gallus, and of   the Summa Halensis. In  comparison to the original use of  the triad, which applied to angels or intelligences, the Franciscan school, and mainly Bonaventure, used the triad to interpret how the mysterious essence of  God is revealed in the person of  Christ (meant as the ‘virtue of  God’) and through the sacra624

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mental practices in the church. At the end of  his life, Bonaventure transformed the traditional triad into the new triad as ‘to be’, ‘to be so’ and ‘to  be well’ in order to renew metaphysics in opposition to the Aristotelian radicalism of  the Masters of  Arts in Paris. The ‘Dionysian’ distinction between potency and action could also explain why free will, according to Bonaventure and differently from Aquinas, is a habitus (facilitating the act of  mental potencies) rather than a potency in itself  – something incomprehensible in an Aristotelian perspective but intelligible in a Neo-Platonic one. Giulio d’Onofrio «Vede perfettamente ogne salute». La triade ‘nascosta’ in Dante, dalla «Vita nova» alla «Monarchia» (pp. 473-498) Nelle opere di Dante Alighieri si trovano almeno quattro aperte menzioni della triade dell’essere. Nel sonetto Vede perfettamente ogni salute, della Vita nuova, Beatrice è colei che realizza perfettamente, attraverso l’attualizzazione dell’amore, l’essentia della donna. Tutte le altre occorrenze si trovano invece nella Monarchia. Anzitutto, nell’opera si dice invece che la felicità ultima degli uomini è l’attualizzazione delle potenzialità perfette dell’uomo, la cui essenza si realizza dunque completamente solo nel realizzarsi di questa felicità, che può esistere soltanto nella pace universale. Nello stesso testo, si allude al fatto che l’essenza dell’umanità si può attualizzare, dopo il peccato, soltanto in Cristo. Infine, la triade appare nell’illustrare la dottrina dei due poteri, e in particolare nella metafora astrale del Sole e della Luna. Q uest’ultima, anche se riceve la luce dal sole, ha un proprio essere, potenza e atto che non dipendono da esso; tuttavia, dal Sole riceve il proprio atto perfetto. Q ueste occorrenze mostrano che Dante conosceva la dottrina, e di conseguenza la usa in passaggi non marginali della propria speculazione. In Dante’s work, there are at least four references to the triad of  being. In the sonnet Vede perfettamente ogni salute, from the Vita nuova, Beatrice is the one who perfectly realises, through the fulfilment of  her love, the essentia of  the woman. All other references 625

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are found in the Monarchia. First of  all, in this work, Dante writes that human happiness is the fulfilment of  man’s full potentiality: man’s essence is completely realised only in the actualization of  such happiness, which can exist only in universal peace. In  this same text, Dante hints to the fact that the essence of  humanity can be fulfilled, after sin, only through Christ. Finally, the triad is used to illustrate the theory of  the ‘two powers’, especially in the astral metaphor of  the Sun and the Moon. The latter, although receiving its light from the Sun, independently maintains its own essence, potentiality and act; the Moon however receives its own perfect act from the Sun. These references clearly show that Dante was aware of  the triad and, consequently, he uses it in rather relevant passages of  his speculation. Massimo Perrone La triade substantia – virtus – operatio negli autori della scuola domenicana tedesca. Alberto Magno, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg e Bertoldo di Moosburg (pp. 499-520) La triade substantia – virtus – operatio, che non di rado compare anche sotto le varianti analoghe essentia – virtus – operatio, forma – potentia – operatio, esse – posse – agere, esse – posse – operari, ricorre frequentemente negli autori della cosiddetta scuola domenicana tedesca, trovando applicazioni di rilievo in ambiti molteplici, sia all’interno della teologia, dove propriamente si origina, che della filosofia. Gli autori qui esaminati, appartenenti all’area renana e  legati da rapporti di discepolato, oltre che da comuni interessi di studio, sono presentati in ordine cronologico: Alberto Magno, Ulrico di Strasburgo, Teodorico di Freiberg e Bertoldo di Moosburg. Si cercherà in primo luogo di indicare la provenienza della triade, per poi chiarire i  diversi significati che essa riveste negli scritti di questi autori. The triad substantia – virtus – operatio (often appearing under the analogous variants: essentia – virtus – operatio; forma – potentia – operatio; esse – posse – agere; esse – posse – operari) frequently occurs in the works of  authors of  the so-called German Domini626

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can School, finding relevant applications in multiple fields, both within theology, where it originates, and in philosophy. The authors examined here, belonging to the Rhenish area and linked with discipleship and common interests of  study, are presented in chronological order: Albert the Great, Ulrich of  Strasbourg, Theodoric of  Freiberg and Bertoldo of  Moosburg. Firstly, the origin of   the triad will be indicated. The different meanings it holds in the writings of  these authors will then be clarified. Davide Riserbato Res (essentia), esse essentiae (virtus), esse existentiae (operatio). Dall’essere di essenza all’essere intelligibile: Duns Scoto e Guglielmo di Alnwick (pp. 521-539) Negli autori della prima metà del secolo xiv sembra difficile rilevare una presenza significativa della triade essentia/substantia, virtus/potentia, operatio/actus, costitutiva di ogni realtà, tale da supportare l’ipotesi di un suo esercizio in chiave neoplatonica più che di una semplice declinazione in senso aristotelico dei termini che la compongono. Ritengo nondimeno possibile individuarne un vestigio nella terminologia e nella struttura che si è andata elaborando a partire dall’impiego in ambito metafisico (e teologico) della nozione di origine avicenniana dell’esse essentiae, uno dei punti più noti e  insieme più controversi del pensiero di Enrico di Gand. In  questo senso, mi sembra discretamente plausibile una rilettura della triade essentia, virtus, operatio in quest’altra, anch’essa ontologicamente connotata, di res, esse essentiae ed esse existentiae. Il mio intento si limiterà pertanto a un affondo in questa prospettiva, contestualizzando però l’ipotesi all’interno di un segmento storico-dottrinale preciso: la dottrina delle idee sviluppata in opposizione al maestro fiammingo da Duns Scoto, e nelle obiezioni che a  quest’ultimo ha rivolto Guglielmo di Alnwick. In tale contesto, intendo concentrarmi sul secondo membro della triade, l’esse essentiae – quello relativo alla potenza (virtus) –, dal duplice punto di vista della sua riconduzione a mero esse intelligibile: nella forma cioè di una riduzione a esse deminutum (Duns Scoto) e nella sua identificazione con l’essere dell’essenza divina (Guglielmo di Alnwick). 627

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In the works of  authors from the first half  of  the 14th century, it seems difficult to detect a significant presence of  the triad essentia/ substantia, virtus/potentia, operatio/actus, constitutive of  any reality, such as to support the hypothesis of  its exercise in a neoplatonic perspective, rather than a simple aristotelian declination of  its terms. Nevertheless, I believe it is possible to identify a vestige in the terminology starting from the use, in the metaphysical (and theological) field, of  the avicennian notion of  esse essentiae, one of  the most well-known and, at the same time, most controversial points of  Henry of  Ghent’s thought. In this way, it seems to me quite plausible to re-interpret the triad essentia, virtus, operatio in this one, also ontologically characterized: res, esse essentiae and esse existentiae. Therefore, my purpose will be limited to a lunge in this direction, contextualizing the hypothesis within a precise historical-doctrinal frame: the doctrine of  ideas developed in opposition to the flemish master by Duns Scotus, and observing the objections that William of  Alnwick addressed to the latter. In this context, I intend to focus on the second item of  the triad, the esse essentiae (virtus), from a twofold point of  view related to the concept of  esse intelligibile: in the form of  a reduction to the esse deminutum (Duns Scotus), and in its identification with the being of  the divine essence (William of  Alnwick). Pietro Secchi La triade in Cusano (pp. 541-566) Niccolò Cusano è  una delle figure cardine nel contesto del xv secolo, implicata in tutte le controversie più significative, filosofiche, teologiche, politiche ed ecclesiologiche. Il fine di questo contributo è chiarire l’uso peculiare della triade procliana οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια, sì da comprendere come ciascuna posizione che egli formuli sia una chiara risposta a  questioni contemporanee, urgenti e condivise. Il terzo paragrafo, dunque, dedicato specificatamente all’analisi e al commento delle occorrenze, è preceduto da due paragrafi tesi ad indicare le personalità, gli eventi e i temi dominanti e a scoprire le altre fonti alle quali Proclo si sovrappone, formando la catena aurea, ossia l’insieme di tutti gli autori capaci di pensare nel modo più corretto la relazione fra l’Uno e i molti. 628

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Nicholas of  Cusa is one of  the pivotal figures within the context of  the 15th century, involved in all the most significant controversies: philosophical, theological and political-ecclesiological. The goal of  this essay is to clarify the peculiar use of  the proclean triad οὐσία – δύναμις – ἐνέργεια in order to understand how each conception he formulates is a precise and decisive option, attempting to answer an urgent and shared question. As a consequence, the third paragraph, dedicated to the textual analysis, is preceded by two paragraphs both aiming to highlight the central personalities, events and issues, as well as to discover the other sources which interact with Proclus and constitute the catena aurea, the group of  philosophers who correctly thought about the relationship between the One and the many. Roberto Melisi La triade essentia – virtus – operatio nei platonici del Rinascimento (pp. 567-588) Il saggio si propone di ricostruire la presenza e l’uso della triade all’interno del platonismo rinascimentale. Dopo una breve ma necessaria premessa di natura storiografica volta ad evidenziare l’interesse degli studiosi nei confronti del tema, si analizza il ruolo della triade dell’essere nel pensiero di Marsilio Ficino. Si sottolinea, da una parte, l’influsso della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino sulla Theologia Platonica  e, dall’altra, l’originalità del Commentarium in Parmenidem nonché di alcuni passi dell’Epistolarium al  fine di mostrare la plasticità della teoria all’interno della metafisica ficiniana. Nella seconda parte, poi, viene posta l’attenzione sulla sua persistenza prima nell’ambito della cerchia più vicina al filosofo fiorentino (in particolar modo, nel pensiero di Francesco Cattani da Diacceto) e, infine, nella Nova de universis philosophia di Francesco Patrizi da Cherso. The essay aims to reconstruct the presence and use of   the triad in Renaissance Platonism. After a  short, but necessary historiographic premise aimed to highlight the interest of  scholars in the topic, I analyze the role of  the triad in the thought of  Marsilio Ficino. The influence of  Thomas Aquinas’ Summa Theologiae on 629

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Theologia Platonica and, in another aspect, the originality of  the Commentarium in Parmenidem, as well as some passages of  the Epistolarium, are underlined in order to show the plasticity of  the theory in Ficino’s metaphysics. Attention is then paid to its persistence, first in the circle of  followers of  the Florentine philosopher (particularly in the thought of  Francesco Cattani da Diacceto) and finally in Francesco Patrizi’s Nova de universis philosophia. Giulio Gisondi Antitrinitarismo e triadicità in Giordano Bruno. Il ricorso alla triade substantia/essentia – potentia – actus nel «De la causa, principio et uno» (pp. 589-606) Il problema della configurazione triadica dell’essere o  della sostanza, nonché del rapporto tra i tre termini concettuali substantia/essentia  –  potentia/virtus  –  actus/operatio, si configura nel pensiero di Giordano Bruno sin dalle origini della sua esperienza biografica e intellettuale. Cercheremo qui di seguirne lo sviluppo attraverso due prospettive complementari: 1) quella biografica, legata agli anni della formazione e  al maturare di una specifica riflessione teologico-filosofica; 2) quella interna al  suo pensiero, attraverso l’esame del problema dal punto di vista ontologico come delineato nel De la causa, principio et Uno, pubblicato a Londra nel 1584. The problem of   the triadic configuration of  being or substance, as well as the relationship between the three conceptual terms substantia/essentia – potentia/virtus – actus/operatio, emerges in Giordano Bruno’s thought starting from the origins of  his biographical and intellectual experience. In this article, we will aim to follow its development through two complementary perspectives: 1) the biographical perspective, linked to the years of  his education and to the maturation of  a specific theological-philosophical reflection; 2) the internal perspective of  his thought, through the examination of  the problem, from an ontological point of  view, as outlined in De la causa, principio et Uno, published in London in 1584.

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INDICI a cura di Vanni Claves, Giuseppe Donnarumma, Simone Luigi Migliaro e Antonio Sordillo

INDICE DEI NOMI

INDICE DEI NOMI

Ab Arnim, J.  154n Abbate, M.  9, 15, 33, 39n, 40, 43n, 45n, 51n, 54-55nn, 76n, 79-96, 160n, 184n, 200-202nn, 213n, 260n, 285n, 335n, 609 Abelardo, Pietro (vide Pietro Abelardo) Abrahamov, B.  403n Abramo (bib.)  161-162 Accattino, P.  433n Adamo (bib.)  373n Adams, Ch.  409-410nn Adamson, P.  386n, 406n Adriaen, M.  491n Aertsen, J. A.  541n Aezio (Aëtius)  48n, 104 Agostino d’Ippona (Augustinus Hip­ po­nensis)  56, 166-167, 174, 300n, 331n, 345n, 374n, 382, 453, 456n, 461, 467, 472, 480, 491, 519n, 547, 552, 555-556, 558, 570n Agostino d’Ippona, pseudo (Augu­ stinus Hipponensis, pseudo) 345n Ahbel-Rappe, S.  122n Aimone di Auxerre, pseudo (Haimo Autissiodorensis, pseudo)  374n Alberto Magno (Albertus Magnus) 10, 70, 357, 360-361, 396, 417n, 434, 436, 453, 482, 493, 499-515, 517, 519-520, 550-551, 556, 560, 602, 626-627 Alberto, re dei romani (Albertus rex romanorum)  493n

Alberzoni, M. P.  493n Alessandro di Afrodisia (Alexandrus Aphrodisiensis)  38n, 104, 423n, 433 Alessandro di Hales (Alexander Halensis)  447n, 450, 451n, 453 Alexander, P.  164n Alighieri, Dante (vide Dante Alighieri) Allegro, G.  368n Allen, M. J. B.  569n, 575n, 581n Allen, P.  228n Altenburger, M.  156n Amelio Gentiliano (Amelius Gentilianus)  107-110 Amelotti, M.  196n Ammonio Sacca (Ammonius)  45, 173, 175 Anagnostopoulos, G.  411n Anastasio Bibliotecario (Anastasius Bibliothecarius)  214n Andronico Camatero (Andronicus Camaterus, Andronikos Kamateros)  57, 65, 280, 285-287, 433n Angelou, A. D.  261-265nn Annala, P.  167n Antonelli, R.  473n Antonio Maria da Vicenza (Antonius Maria a Vicetia)  542n Aouad, M.  386n Apuleio, Lucio Africano (Lucius Apuleius Africanus)  546, 552 Arambatzes, Ch.  254n

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INDICE DEI NOMI

Ario (Arius haeresiarcha presbyter) 590-591 Aris, M.-A.  556n, 559n Aristotele (Aristoteles, Stagirita)  22, 24n, 25, 32-38, 42, 43n, 45n, 47, 48n, 49, 50n, 53n, 60n, 64n, 68, 70, 73-74, 82, 86n, 101104, 117n, 118, 141-142, 144146, 147n, 148-149, 154n, 171, 187-189nn, 207n, 209, 217n, 219-220, 227-228, 254n, 258, 266n, 269n, 279, 293, 300, 303304nn, 324n, 330, 346n, 358n, 359-360, 364n, 386-387, 390, 397, 411, 413-427, 429n, 433n, 435, 436-437nn, 439-440nn, 441, 454n, 462, 470, 482n, 495, 503, 509n, 510, 518, 520, 521n, 529n, 539n, 548, 551, 556-557, 562, 570n, 574n, 582-584, 601n, 602-603, 610 Arnzen, R.  420n Atanasio di Alessandria (Athanasius Alexandrinus)  165, 167, 173, 250, 288, 348, 357, 618 Atanasio di Alessandria, pseudo (Athanasius Alexandrinus, pseudo) 250n Atay, H.  406-407nn Auroux, S.  389n Averroè (Averroes Cordubensis, Ibn Rushd)  360, 423n, 438n, 441n, 490n, 544, 570n Avers, M. 410n Avicenna (Abū ʿAlī al-Husain b. ˙ ʿAbd Allāh Ibn Sīnā, Avicenna) 64n, 385, 389n, 394-402, 403n, 404, 406, 408, 416n, 417, 431435, 437, 440n, 510, 522n, 525526, 531-532, 536, 537n, 556, 559, 622 Bacchelli, F.  542n Badius, J.  528n, 536n Baeumker, C.  17, 518n Bakker, P. J. J. M.  67n Balbi, P.  543

Baldovino di Ford (Balduinus Cantuariensis episcopus)  491-493 Baltes, M.  172n, 300n, 304-305nn Baneau, A.  361n Banić-Pajnić, E.  587n Barbel, J.  257n Barlaam il Calabro (Barlaam Calabrius)  73, 266n, 267, 268n, 270, 271n, 290-292 Barnes, M. R.  155n Basilio Bessarione (Basilius Bessarion)  543, 550, 562 Basilio di Cesarea (Basilio il Grande, Basilius Caesarensis, Basilius Magnus)  57, 154, 157n, 165-166, 205, 268 Bastero, J. L.  156n Bathrellos, D.  234n, 241 Baur, L.  546n, 550n Bazán, B. C.  415-416nn, 421n, 424425nn, 427n, 429n, 431n, 437439nn, 441n Beatrice (lett.)  71, 474-476, 625 Beatrice, P. F.  178n Beda il Venerabile (Beda Venerabilis)  491n Beda il Venerabile, pseudo (Beda Venerabilis, pseudo)  374n Beierwaltes, W.  28-30, 39n, 51n, 55, 83n, 147n, 300-301nn, 304n, 311n, 547n, 567, 575n Bekker, I.  249n Bell, D. N.  172n, 301n Benevich, G.  219n, 221n Benoni, F.  318n Bergemann, L.  31 Berghaus, M.  173n Berns, T.  592n Berti, E.  35-36nn, 188n, 437n Bertini, D.  173n Bertoldo di Moosburg (Bertholdus de Moosburg)  10, 68, 70, 499, 517520, 541, 550-552, 556, 626-627 Bianchi, L.  416n, 441n, 524n Biard, J.  423n Bieler, J.  241n Biffi, I.  354n, 452n

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INDICE DEI NOMI

Bigi, V. Ch.  443n Billanovich, G.  344n Bisogno, A.  15 Blowers, P.  231n, 238n Blum, P. R.  549n, 569n, 587n Blumenthal, H. J.  28n, 117n, 142n, 146 Bodewig, M.  55n, 556n, 558n Boese, H.  448n, 517n Boezio, Anicio Manlio Severino (Anicius Manlius Severinus Boethius) 42n, 56, 300n, 323-324nn, 326n, 329n, 346n, 351n, 366-367, 369, 374n, 451n, 454n, 476n, 502n, 509n, 552 Bonanni, S. P.  375n, 380n, 382n Bonaventura da Bagnoregio (Bonaventura de Balneoregio)  10, 23, 70-71, 74, 443-472, 545, 548, 550, 555, 558, 624-625 Bonfil, R.  450n Bonifacio VIII, papa (Bonifatius VIII papa)  492, 493n Bonin, Th.  417n Borgnet,  C.  A.  361n, 436n, 499n, 500, 502n, 504-506nn, 508n, 511n, 602n Bormann, K.  562n Borret, M.  156n, 160n, 167n, 175177nn Borriello, M.  303n Boršić, L.  587n Boss, G.  261n Bougerol, J.-G.  444n Boulgares, E.  295n Brabanti, M.  85n Bradshaw, D.  24, 48n, 53n, 60n, 154n, 187n, 215n, 219n, 254n, 266n Brandt, R.  326n, 446n, 472 Brenet J.-B.  423n, 425n, 438n, 490n Brinzei, M.  360n Brower, J. E.  367n Broze, M.  80n Brugarolas, M.  160n Bruni, G.  33n Bruni, Leonardo (Leonardus Brunus Aretinus)  542, 546

Bruno di Colonia (Bruno Coloniensis)  373n Bruno di Segni (Bruno de Segni) 374n Bruno di Würzburg (Bruno Herbipolensis)  374n Bucossi, A.  280n, 282-283nn, 286287nn Bulovič, I.  297n Bülow, G.  420n Burger, M.  505 Burgundio da Pisa, Giovanni (Iohannes Burgundius Pisanus)  449, 450n, 506n Burns, C.  167n Busse, A.  45, 220n, 367n Butler, P.  184n Buytaert, E.  M.  369n, 375-376nn, 378n, 380-381nn, 449-450nn, 506n, 508n, 510n Bywater, I.  419-420nn Calboli, G.  334n Calia, A.  280n Callahan, J.  156n, 158n, 164-165nn Callisto Angelicude (Callistus Angelicudes)  72, 292-294 Calma, D.  261n, 361n Cameron, M.  167n Campanella (vide Tommaso Campanella) Canone, E.  589n, 597n Caramello, P.  572n, 574n Cardullo, R. L.  80n, 146n, 304n Carletti, G.  490n Caroti, S.  482n Cartesio, Renato (René Descartes, Renatus Cartesius)  409-410, 412, 429 Cartwright, S.  153n Casadei, E.  601n, 603n Caston, V.  433n Cathala, M. R.  437n Celluprica, V.  43n Ceresa-Gestaldo, A.  231-232nn, 240n Cesare, Gaio Giulio (Gaius Iulius Caesar)  374n

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INDICE DEI NOMI

Chandelier, J.  434n Chevallier, Ph.  354, 447n, 500n, 502-503nn, 507n, 555n Chiaradonna, R.  42, 135, 412n Chiesa, P.  385n, 486n, 490n, 495n Chitarin, L.  544 Chrestou, P. K.  250n, 267-268nn, 290n Chryssavgis, J.  215n Cicerone, Marco Tullio (Marcus Tullius Cicero)  316n, 339n, 370n, 454 Ciliberto, M.  589n, 591, 592n, 594n, 597n, 600-602nn, 604n, 606n Clark, E.  229n Clark, M.  T.  172n, 299-300nn, 304n, 309n Claves, V.  15, 631 Clemente Alessandrino (Clemente d’Alessandria, Clemens Alexandrinus)  157, 546 Coakley, S.  154, 155n Collins A. B.  570n, 572 Colombo, A. C.  487n Colomer, E.  545n, 555n, 557n Combès, J.  45n, 121n Comoth, K. C.  487n Constas, N.  215-216nn, 225n, 229232nn, 237-239nn, 241n, 243245nn, 296n Conticello, C. G.  266n Conticello, V.  266n Cooper, A.  244n Copenhaver, B. P.  410n, 431n, 570n, 584n Corcilius, K.  32n, 413-414nn Cornificio, Lucio (Lucius Cornificius)  334n Corsini, M. P.  299n, 302-303nn, 311n Cos, J.  416n, 421n, 424n, 429n, 437-439nn, 572n Costa ben Luca (Q usta ibn Luqa, Constabulus) 430n Costa, I.  482n, 484-485nn, 488n Coungourdeau, M.-H.  450n, 469n

Courtine, J.-F.  427n Courtonne, Y.  164n, 166n Cramer, J. A.  249n Cremascoli, G.  495n Cremer, W. F.  50n Crouzel, H.  157n, 160n, 167n, 169n, 176n, 229n, 232n Cubkcu, I.  406-407nn Cusano, Niccolò (Nicolaus Cusanus, Nicolaus Treverensis)  10, 73-74, 541-566, 567, 592, 596598, 599n, 600-601, 606, 628629 Cvetokovic, V.  244n Ciro di Alessandria, patriarca (Cyrus Alexandrinus patriarcha)  234 D’Alverny, M.-Th.  321n D’Amelia, L.  282-283nn, 285 D’Amico, C.  546 D’Ancona, C.  43n, 55n, 113-114nn, 116n D’Hoine, P.  28n d’Onofrio, G.  10, 13-15, 22-23, 63n, 71, 75n, 77n, 321-324nn, 335n, 337n, 339n, 341n, 345348nn, 350n, 352n, 374n, 378n, 473-498, 521n, 523n, 539n, 625 Dagron, T.  593n, 597n, 600-601nn, 604n, 605 Daley, B. E.  229n, 235n Damasceno Studita (Damascenus Studites)  272, 273n Damascio (Damascius)  9, 20n, 44, 45n, 50n, 55, 80, 94, 95n, 109110, 121-139, 157n, 299n, 321n, 548, 552n, 579n, 609-611 Dante Alighieri (Dantes Alagherii) 10, 14, 23, 71-73, 409, 473-498, 521n, 546n, 549n, 625-626 David (bib.)  158 David di Dinant (David de Dinanto) 601, 603-604nn, 606 De Bellis, E.  570 De Boer, S. W.  417n De Cillis, M.  403n De Feo, P.  66n, 202n

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INDICE DEI NOMI

de Filippis, R.  9-10, 14, 16, 19-77, 275n, 321-341, 473n, 607-608 De Gandillac, M.  368 De Halleux, A.  155n De Régnon, T.  155n Decharneux, B.  80n Declerck, J.  H.  232-233nn, 236n, 240n Dekkers, E.  374n Del Prete, A.  592, 597n Delcomminette, S.  80n Delorme, F.  444-445nn, 465n Demetrio Cidone (Demetrius Cydonius)  276, 292-293 Dentakes, B. L.  254n Des Places, É.  42n, 92n, 548n Dezza, E.  526-530nn Di Cresce, C.  3, 16, 20 Di Maio, A.  10, 15, 70n, 443-472, 624-625 Di Napoli, G.  569n Di Pasquale Barbanti, M.  548n Diehl, E.  51n, 90n, 100n, 106-107nn, 119n, 145n, 213n, 260n, 285n, 420n, 551n Diekamp, F.  206n Dillon, J.  M.  53n, 95n, 97, 106107nn, 112, 114n, 154n, 354n, 417n Dionigi Aeropagita, pseudo (Dionysius Areopagita, pseudo)  10, 18, 21, 23, 25, 28, 31, 57-58, 6061, 66-68, 70, 74, 157, 163, 167, 172, 181-204, 210, 211n, 212216, 218-219, 221-222, 235n, 247, 252, 253n, 261n, 265, 274n, 277, 294, 321, 323, 328, 331n, 336n, 340, 347-349, 352-357, 358n, 359-360, 363n, 378, 379n, 416-417, 443-444, 448-449, 451453, 467, 471, 499-501, 502n, 503, 504-505nn, 506-507, 509n, 510, 511n, 514-517, 519, 541542, 545-546, 548-552, 556-559, 570n, 581, 614-617, 619-620, 624-625 Dodds, E.  18, 313

Dombart, B.  174n, 491n Domenico Gundisalvi (Dominicus Gundissalinus)  420n, 559 Donati, S.  506n, 561-562nn, 565n Dondaine, A.  350n, 357n Donnarumma, G.  15, 631 Doolan, G. T.  437n Dorival, G.  229n Dörrie, H.  156n Doucet, M.  234n Drecoll, V. H.  173n Dreyer, M.  530n Drobner, H. R.  155n, 161n, 171n Druart, T.-A.  387n, 403n Duclow, D.  550-551 Duffy, J. M.  252n, 260n, 310n Dunne, M. W.  63n, 339n, 354n Ebgi, R.  542n Edwards, M.  157n, 173-174nn Egidio Romano (Aegidius Romanus) 10, 67n, 68, 343-364, 619-620 Eimerico di Campo (Heymericus de Campo)  558 Eirico di Auxerre (Heiricus Antissiodorensis)  10, 67, 343-364, 619620 Eliasson, E.  412n Emilsson, E. K.  84n, 87n, 420n Endress, G.  420n Enrico Bate di Malines (Henricus Bate Mechliniensis)  68, 360, 620 Enrico di Gand (Henricus de Gandavo, Gandavense)  68-69, 358359, 522, 524-528, 529n, 530531, 532-533nn, 536, 537n, 538, 620, 627-628 Enrico Suso (Henricus Suso)  553 Eracleone (Heracleones)  178 Erismann, Ch.  219n, 269n, 324325nn, 510n Ermete Trismegisto (Hermes Trismegistus)  552 Ermia di Alessandria (Hermias Alexandrinus)  45, 104, 255n Ermilov, P.  286n, 292n Esichio (Hesychius)  249

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INDICE DEI NOMI

Esterlich, J. G.  558n Euclide (Euclides)  547 Eunomio di Cizico (Eunomius de Cizicus)  25, 165, 170, 208 Eustrazio di Nicea (Eustratius Nicaeensis)  252, 258-259 Eutimio Zigabeno (Euthymius Zigabenus)  249 Evagrio Pontico (Evagrius Ponticus) 157n, 163, 229 Everson, S.  425n Fabro, C.  571 Faes de Mottoni, B.  357-358nn, 448n Fakhry, M.  386n al-Farabi (Abū Nasr Muhammad ibn ˙ ˙ Alfarabius) Muhammad al-Fārābī, 64n,˙ 385-394, 395-396, 401402, 403n, 404, 406, 408, 622 Farrell, J.  234n Fauser, W.  508n, 511n Fellina, S.  579n, 582-583nn Ferrante, M.  550 Ferrari, C.  388n Ferrari, F.  85n, 89n Festugière, A.-J.  20-21, 38n, 97, 101n, 104 Fiaccadori, G.  280n Ficino, Marsilio (Marsilius Ficinus) 42n, 73, 431n, 567-588, 629-630 Filippo il Cancelliere (Philippus Cancellarius Parisiensis)  456n Filone d’Alessandria (Philo Alexandrinus)  24-25, 60n, 156-157nn, 163 Filopono, Giovanni (Iohannes Philoponos, Philoponus)  32n, 34n, 46n, 218-223, 412n, 418-419, 420n, 421, 423n, 614-615 Filoteo Cocchino (Philotheus Coccinus)  57, 250, 253, 271-272, 276 Finamore, J. F.  97, 112, 114n, 154n Fioravanti, G.  479n Fiorentino, F.  15, 70-71nn, 479n Firpo, L.  590n, 592n Fisher, E. A.  252n

Flasch, K.  516n, 555n, 557 Foltz, B.  215n Förstel, K.  253n Fozio di Costantinopoli (Photius Constantinopolitanus)   248, 251, 254-256, 280, 289 Fraipont, J.  374n Francesco Cattani da Diacceto (Franciscus Catanei Diacetius)  74, 581-583, 629-630 Francesco d’Assisi (Franciscus Assisiensis)  460 Francesco di Meyronnes (Franciscus de Mayronis)  358 Francesco Filelfo (Franciscus Philelphus)  543, 550 Francesco Patrizi da Cherso (Franciscus Patritius)  32, 74, 567, 584585, 587, 629-630 Francesco Piccolomini (Franciscus Piccolominei Senensis)  141n Frank, R. M.  406n Frede, M.  415n Frey, J.  167n Friedberg, A.  493n Frost, S.  551 Fürst, A.  157 Fyrigos, A.  266n, 290, 292n Galeno, Claudio Pergameno (Claudio Pergameno Galeno)  24, 4748, 431-441 Gallaher, B.  278n Gallay, P.  169-170nn Galluzzo, G.  440n Garber, D.  410n Garfagnini, G. C.  23, 473n, 521n, 545n, 580n, 583n Garin, E.  542-543nn, 583n Garrigues, J. M.  233n Gatti, A.  280n Gavin, J.  9, 15, 21n, 58, 77n, 182, 215n, 222n, 225-246, 615 Germano d’Auxerre (Germanus Autissiodorensis)  343, 345 Gersh, S.  28, 30, 31-32nn, 37, 55n, 363n, 547, 567n, 570n, 576 Gerson, L. P.  44n

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INDICE DEI NOMI

Gesù Cristo (bib.)  58, 70, 72, 157n, 158, 159n, 165, 196-198, 205, 234-236, 238n, 241n, 242-244, 274n, 282, 301n, 302, 309, 312314nn, 316, 318, 349, 446, 450, 452, 460-461, 465, 471, 488489, 491, 506-507, 526, 565, 592, 597, 624-626 Geyer, B.  366n, 508n al-Ghazali (Abū Hāmid Muhammad ˙ al-Ghazālī, ˙ Algab. Muhammad ˙ zeli)  64n, 385, 394, 401-408, 435, 437, 622 Giamblico di Calcide (Jamblichus) 9, 20-22, 24-25, 28, 31, 32n, 33, 34n, 37n, 39, 42-43, 45-51, 53, 55n, 56-57, 86, 97-119, 121, 129n, 142n, 153-154, 157n, 166, 190n, 201n, 202, 205, 304n, 319, 363n, 412n, 417n, 541543, 548, 551, 552n, 562, 570n, 579n, 610, 613 Giannetta, M.  10, 38n, 67n, 365383, 620 Giano bifronte (mitol.)  580 Giardina, G. R.  85n Giele, M.  430-431nn Gilberto di Poitiers (Gilbertus Porretanus)  350, 454n, 509n Gilson, É.  523n, 570n Giordano Bruno (Iordanus Brunus Nolanus)  11, 44, 73-75, 589606, 630 Giorgio Acropolita (Georgius Acropolita)  65, 252, 288-289 Giorgio di Trebisonda (Georgius Trapezuntius)  542, 562 Giorgio Gemisto Pletone (George Gemistos Plethon, Plethon) 261, 542-543, 549 Giorgio Pelagonio (Georgius Pelagonius)  275 Giorgio Scolario (Georgius Scholarius)  543 Girolamo, Sofronio Eusebio (Sophronius Eusebius Hieronymus)  235 Giovanni  VI Cantacuzeno, impera-

tore (Ioannes VI Cantacuzenus imperator)  250, 273 Giovanni Argiropulo (Ioannes Argyropulos)  543 Giovanni Aurispa (Ioannes Aurispa) 543 Giovanni Ciparissiota (Ioannes Cyparissiotes)  254, 273-274, 275n Giovanni Crisostomo, pseudo (Ioannes Chrysostomus, pseudo)  250 Giovanni Damasceno (Ioannes Damascenus)  24n, 25, 57, 182, 204n, 218-223, 248, 251-252, 253n, 268n, 270, 272, 273n, 277, 450, 505, 506n, 508n, 510, 515, 614-617 Giovanni da Rubino (Joannes a Rubino)  443n Giovanni di Mallinges (Johannes de Mallinges)  68, 361n, 620 Giovanni di Scitopoli (Ioannes Scythopolitanus)  21, 210-218, 274, 322n, 357 Giovanni Duns Scoto (Ioannes Duns Scottus)  10, 69, 521-539, 627628 Giovanni Filopono (Ioannes Philoponus)  32n, 34n, 46n, 218-223, 418-419, 420n, 614-615 Giovanni Pico della Mirandola (Iohannes Picus Mirandolanus) 542, 544-545, 579n, 583n Giovanni Rupella (Iohannes de Rupella)  450-451 Giovanni Saraceno (Ioannes Sarracenus)  354-355, 356n, 357, 448n, 500, 507, 510, 519 Giovanni Scoto Eriugena (Iohannes Scottus Eriugena)  10, 13, 22, 28, 30n, 31, 37n, 52n, 55n, 56, 62, 66, 157n, 167n, 172, 321-341 Giovanni Stobeo (Johannes Stobaeus) 97, 98n, 105n, 107n, 111-113nn, 116n Giovannozzi, D.  411n Girgenti, G.  300n, 304n, 310n, 315n Gisondi, G.  11, 74n, 589-606, 630

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INDICE DEI NOMI

Giuliano, imperatore (Iulianus imperator)  51, 542 Giuseppe Briennio (Josephus Bryennius)  295-296 Giustiniano, Flavio Pietro Sabbazio (Flavius Petrus Sabbatius Justinianus)  196, 197n, 215 Gleede, B.  211n Glorie, F.  166n, 555n Glorieux, P.  438n Goethe, J. W.  343 Gontier, Th.  423n González, S.  164n Goodman, L. E.  394n Gorni, G.  474n Granada, M. A.  584n, 597n, 599n Grant, E.  430n Gregg, R. C.  155n Gregoric, P.  414n Gregorio Acindino (Gregorius Acindinus)  267 Gregorio di Nazianzo (Gregorius Nazianzenus, Nazianzeno)  154, 160, 169-170, 228, 238, 252n, 256, 257n, 281 Gregorio di Nissa (Gregorius Nyssenus, Nisseno)  9, 25-26, 57, 66, 153-179, 182, 205-206, 209, 231n, 612-615 Gregorio il Taumaturgo (Gregorius Thaumaturgus)  171n Gregorio Palamas (Gregorius Palamas)  57, 65, 155, 247, 250, 252, 254, 262n, 265-279, 290-291, 296 Gregory, T.  380n, 551n Grimaldi, I.  9, 44-45, 94, 121-139, 335n, 610 Grossatesta, Roberto (vide Roberto Grossatesta) Guarino da Verona (Guarinus Veronensis)  543 Guglielmo di Alnwick (Guillelmus de Alnwick)  10, 69, 521-539, 627-628 Guglielmo di Moerbeke (Guillelmus de Moerbeke)  68, 70, 189n, 444445, 448n, 454, 517n, 519

Guillaumont, A.  229n Gutas, D.  394-395nn, 398n Hadot, I.  141, 142n Hadot, P.  21, 101n, 173n, 299300nn, 304-305nn, 308-310nn, 312-314nn, 317-318nn, 575n Hageneder, O.  493n Hajdú, K.  217-218nn, 226n, 249n, 251n, 257n Hallamaa, O.  167n Hamesse, J.  411n, 416n, 454n, 509510nn Hankins, J.  543n, 544, 549n, 569571nn, 573-575nn, 577-578nn, 580-581nn, 583 Hankinson, J.  39n, 411n Hannam, W.  324n Harrington, L. M. 339n, 341n Hasnawi, A.  389n, 396n Haubst, R.  546, 555-556nn, 557, 558n, 564n Hayduck, M.  118n, 150n, 220n, 258-259nn, 419n, 423n Heine, R.  153 Heinze, R.  414n, 419n Heinzer, F.  233n Heisenberg, A.  252n, 287-288nn Helmig, Ch.  32, 34, 46n, 412n Helmreich, G.  48n, 433n Hengstermann, C.  157n Henry, R.  251n, 299-302nn, 304309nn, 311-317nn Hense, O.  97n Herrin, J.  235n Hladký, V.  542n, 549n Hochschild, P. E.  324n Hödl, L.  359n Hoenen, J. F. M.  510n Hoffmann, E.  556n, 558-559nn, 563-565nn, 599n Hoffmann, T.  526n, 531n, 533n Holliday, R. L.  179n Honnefelder, L.  530n Hossfeld, P.  505n, 508n, 560n Howard-Brook, W.  167n Hudson, J. E.  491n Hueck, J.  553n

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INDICE DEI NOMI

Hufnagel, A.  508n Hurst, D.  491n Ilario di Poitiers (Hilarius Pictaviensis)  343, 618 Ilduino di Saint-Denis (Ilduinus Episcopus)  447, 448n, 500 Imbach, R.  482, 490, 516 Imbriani, V.  603n Innocenzo III, papa (Innocentius III papa)  492, 493n Ippolito, A.  316n Ireneo di Leone (Irenaeus Lugdunensis)  165 Isacco della stella (Isaac de Stella)  67, 349, 619-620 Isacco I Comneno, imperatore (Isacco Sebastocratore, Isaccus I Comnenus imperator)  189n Isacco Israeli (Isaac Israeli ben Solomon)  439n Isaia (bib.)  185 Jäger, W.  158-165nn, 170n, 177n, 208n Janos, D.  386n, 391n, 398n Jeauneau, É. A.  66-67nn, 322n, 324n, 344-345nn, 379n, 449, 506n, 554n Jeck, U. R.  517-518nn Jessen, C.  508n Johansen, T. K.  414n, 423n, 427n Jolivet, J.  368n, 370n Kaimakes, D. V.  250n, 272n Kalatzi, M.  252n Kalb, A.  174n, 491n Kaldellis, A.  219n Kalogeropoulou, B.  271n, 292n Kaluza, Z.  67n, 482n Kant, I.  446n Kapriev, G.  66n Kenneth Downing, K.  171n Klibansky, R.  549n, 554n, 556n, 558-559nn, 563-565nn, 599n Klock, C.  155n Koch, J.  558n, 564n Koetschau, P.  168n Kontogiannes, L.  250n, 267-268nn

Kotter, B.  222n, 251n, 253n, 268n, 270n Kramer, W.  555-556nn, 558n Kraye, J.  550n Kristeller, P. O.  549n, 568, 569570nn, 574-575nn, 581n La Sala, B. U.  10, 64, 385-408, 621622 Laga, C.  225n, 231-232nn Lamberz, E.  114n, 304-305nn Lamoreaux, J. C.  211n Landolfi, A.  473n Larchet, J.-C.  24-26, 53n, 60n, 204n, 206n, 208n Lauritzen, D.  169n, 261n Lawell, D. A.  355-357nn, 501n Lazzarin, F.  542 Le Boulluec, A.  229n Ledda, G.  495n Ledoux, A.  523n, 528n, 530-533nn, 535-538nn Lefebvre, D.  35-36nn, 49n, 217n Leinkauf, T.  32, 42n, 567, 584585nn Lekkas, G.  157n Lenzi, M.  10, 15, 69n, 73, 295n, 386n, 409-441, 560n, 623 Leonardo Bruni (vide Bruni, Leonardo) Leone Toscano (Leo Toscanus)  350 Léthel, F. M.  234n Lévy, A.  167n Lewy, H.  310n Linguiti, A.  141 Lizzini, O.  399n, 434n, 438n Lloyd, A. C.  28n, 39n, 44n, 142n Lo Casto, C.  9, 45, 82n, 89n, 141152, 201n, 612 Locher, A.  168n, 174n Louth, A.  198n Lucarini, C. M.  45n, 255n Lucentini, P.  429n Ludlow, M.  155n Macario di Corinto (Macarius Notaras)  249n Maccarrone, M.  490n, 493n, 495

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INDICE DEI NOMI

Macken, R.  358n, 522n, 525n, 536n Macrobio, Ambrogio Teodosio (Ambrosius Macrobius Theodosius) 454, 463n, 552 Maggi, C.  15, 86n Mainoldi, E. S.  9-10, 16, 19-78, 181223, 247-297, 321-322nn, 324n, 327n, 348n, 607, 614, 616 Majeran, R.  550n Majercik, R.  50n, 92n, 121n, 172n, 310n Malden, M.  155n, 411n Mambella, G.  411n Manchester, P.  306n Mandonnet, P.  295n, 416n, 421n, 423n, 430n, 437-439nn, 572n, 602n Mandrella, I.  561-562nn Manganaro, R.  85n Mantzanas, M.  134n Mantzarides, G.  250n Manuele Caleca (Manuel Calecas) 276n Manuele Crisolora (Manuel Chrysoloras)  542-543 Manuele I Comneno, imperatore (Manuel I Comnenus imperator) 280n, 282, 286, 350 Maometto (Abū l-Q āsim Muhammad ˙ 253n ibn Mohamedes, Mahomet) Marabelli, C.  354n, 452n Marangoudakis, S. Th.  273-274nn Marcel, R.  579n Marcello di Ancira (Marcellus Ancyrensis)  173-174 Marco Eugenico, metropolita di Efeso (Marcus Eugenicus metropolita) 296 Marenbon, J.  346n, 368n, 490n Mariani Zini, F.  579n Mario Vittorino (vide Vittorino, Mario) Markov, S.  219n Markschies C.  157n Marmodoro, A.  153n, 167n, 172n Marmura, M. E.  402-404nn, 406407nn

Marotta, S.  280n Marquardt, J.  48n Marrone, S. P.  533n Marsilio Ficino (vide Ficino, Marsilio) Martello, C.  323n, 381, 548n Martijn, M.  28n, 44n Martini Bonadeo, C.  386n Martone, L. I.  9, 15, 21-22nn, 33, 34n, 46n, 47, 51n, 53n, 97-119, 201n, 610 Marziano Capella, Minneo Felice (Martianus Mineus Felix Capella) 346n Maspero, G.  155n, 160n, 170n, 177n Massimo il Confessore (Maximus Confessor)  9, 21, 23-27, 56-58, 66, 167n, 182, 194n, 210, 214219, 221-222, 225-246, 248249, 251-252, 257n, 275, 277, 294, 321, 322n, 352n, 357, 505, 506n, 515, 552, 615-617 Mateo-Seco, L. F.  155-156nn, 177n Matsoukas, N. A.  250n Matteo (bib.)  514 Matton, S.  582n Matula, J.  549n Maximos, monaco  295 Mazzanti, A. M.  155n McEvoy, J.  63n, 339n, 354n, 357358nn, 501n McGinnis, J.  390n, 396-398nn McLynn, N.  172n McQ uade, J. S.  357n, 501n Meirinhos, J. F.  382n, 395n Mejer, P. A.  541n Melisi, R.  15, 32, 73, 567-588, 629 Menn, S.  33n, 35n, 188n, 269n Mercati, G.  276n Mercuri, R.  473n Meredith, A.  155n Mews, C. J.  369n, 373-376nn, 378, 379n, 450n Meyendorff, J.  235n, 267-268nn, 271n Meyer, E.  508n

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INDICE DEI NOMI

Meyer, R.  508n Michele Comneno (Michael Comnenus)  65 Michele Psello (Michael Psellus)  249, 251, 252n, 258-261, 285n Michele VIII Paleologo, imperatore (Michael VIII Palaeologus imperator)  288 Migliardi Zingale, L.  196n Migne, J.-P.  17, 451n, 373n Migliaro, S. L.  15, 631 Militello, C.  15, 41-42nn Minio-Paluello, L.  17, 345-346nn, 367n Mitralexis, S.  544n Molza, Tarquinia (Tarquinia Molza) 587 Mondadori, F.  526n Monfasani, J.  542n, 549, 568n Moos, M. F.  416n, 430n, 438n Moran, D.  545 Moreschini, C.  45n, 60n, 101n, 160n, 215n, 219n, 255n, 281n, 329n, 351n, 369n, 502n, 549 Morewedge, P.  387n Mosè (bib.)  170 Mosè Maimonide (Mōsheh ben Maimōn, Moses Maimonides) 364 Mountain, W. J.  166n, 555n Movia, G.  102-103nn Muccillo, M.  584n Muckle, J. T.  435n, 437n, 439n Mühlenberg, E.  171n, 207n Müller, F.  155n, 163-164nn Müller, I.  48n, 433n Müller, T.  555n Nannini, A.  527n, 529-530nn Napoli, V.  55n Nasri Nadir, A.  386n Nejeschleba, T.  587n Nelson, J. C.  587-588nn Nemesio di Emesa (Nemesius Emesenus)  439n Neofito Prodromeno (Neophytus Prodromenus)  271, 292 Nestorio di Costantinopoli (Nesto-

rius Costantinopolitanus)  329n, 351n Newman, M. G.  492n Niccolò Cusano (vide Cusano, Niccolò) Niceforo Callisto Xanthopulo (Nicephorus Callistus Xanthopulus) 197 Niceforo Gregoras (Nicephorus Gregoras)  249 Niceta Byzantios (Nicetas Byzantios) 65, 253, 280, 281n, 289, 292 Niceta di Tessalonica (Niceta di Maronea, Nicetas Thessalonicensis) 65, 282n, 283, 285 Niceta Paflagone (Nicetas David Paphlagonius)  253 Nicodemo Aghiorita (Nicodemus Hagiorita)  249n Nicola di Metone (Nicolaus Methonaeus)  65, 256-257, 261, 265, 282, 289, 292 Nicola Mesarite, arcivescovo di Efeso (Nicolaus Mesarites, Nikolaos Me­ sarites)  287 Nigra, A.  211n, 214n Normore, C. G.  530n Numenio di Apamea (Numenius Apamensis)  268 Nussbaum, M. C.  415n Nutton, V.  432n O’Meara, D. J.  172n Oehler, K.  219n Ojell, A.  154n Oksenberg Rorty, A.  415n Olivi (vide Pietro di Giovanni Olivi) Onorio di Autun (Honorius Augustodunensis)  550, 552 Opsomer, J.  119n Origene di Alessandria (Origenes Alexandrinus)  153-154, 156, 157n, 160-161, 163, 165, 167-179, 196197, 229, 232n, 240, 449, 546, 612-613 Ostlender, H.  379n Ottaviano Augusto, Gaio Giulio Cesare, imperatore (Gaius Iulius

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INDICE DEI NOMI

Caesar Octavianus Augustus imperator)  72, 489 Otten, W.  324n Ourliac, P.  561n Pacheco, M. C.  382n, 395n Pagnoni-Sturlese, M. R.  517-518nn Palazzo, A.  514-515nn Paolo di Tarso (bib.)  167n, 312n, 349, 375, 467, 489 Paolo Veneto (Paulus Venetus)  560 Papadopoulos, S. G.  293-294nn Papiernik, J.  580 Pappalardo, L.  380n Park, K.  22n, 410n Parmenide (Parmenides)  82n, 94n, 602, 604n Parri, I.  429n Pasnau, R.  421n Pattin, A.  420n, 439n, 511-513nn, 515-516nn Paulus, J.  524n Pegis, A.  426n Peirce, C. S.  446n Pellegrini, M.  580n Perczel, I.  167n Perilli, L.  121n Perkams, M.  382n Perrone Compagni, V.  429n Perrone, M.  10, 70n, 499-520, 626 Petit, L. 296n Phanourgakes, B.  250n, 267-268nn Pier Candido Decembrio (Petrus Candidus Decembrius)  542, 546 Pietro Abelardo (Petrus Abaelardus) 10, 67-68, 365-383, 449, 620-621 Pietro Balbi (Petrus Balbus)  543 Pietro d’Alvernia (Petrus de Alvernia)  359n Pietro di Giovanni Olivi (Petrus Johannis Olivi)  358 Pietro Pomponazzi (vide Pomponazzi, Pietro) Pietrobelli, A.  432n Pinborg, J.  522n Pino, T. A.  60n

Piret, P.  246n Pirrone di Elide (Phyrron Elidensis) 550 Pissavino, P. C.  543n, 584n Pitagora di Samo (Pythagoras Samius)  122, 601 Platone (Plato)  32n, 38n, 42, 74, 82, 83n, 86n, 88, 93, 106, 111-115, 116n, 122, 144, 157n, 160, 162163, 168-169, 171n, 175-176, 303n, 318n, 325, 369-370, 380n, 387, 388n, 413n, 424n, 454, 509n, 541n, 543n, 552, 575n, 580n, 583, 603-604nn Plested, M.  292n Plotino (Plotinus)  18, 33, 39-40, 4243, 44n, 50, 57, 64n, 76n, 7989, 93-94, 107-110, 113-114nn, 115-116, 117n, 119, 135n, 143, 145n, 146-147, 148n, 149, 153, 157, 159-162, 168, 171n, 173, 175, 190n, 303, 304-306nn, 311n, 315n, 386, 388-389nn, 420n, 439n, 454, 463n, 546, 548, 551-552, 562, 565n, 576, 582, 609, 613 Plutarco di Cheronea (Plutarchus Chaeronensis)  546 Perler, D.  32n, 413-414nn, 417n Podskalsky, G.  261n Poirel, D.  347-348nn, 354n, 448n Polansky, R.  419n Polemis, J.  273n, 276-277nn Pomponazzi, Pietro (Petrus Pomponatius)  423n, 549 Ponsoye, E.  242n Pontikos, I. N.  249n Pontone, M.  544n Porfirio di Tiro (Porphyrius Tyrius) 40-42, 46, 53, 80n, 99, 101, 104, 107, 114, 153, 173-174, 299300nn, 304-305nn, 310n, 312n, 314n, 325n, 366-367, 541-543, 548 Porro, P.  399n, 522-525nn, 527528nn, 531n, 536n Portaru, M.  228, 245n

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INDICE DEI NOMI

Pozzoni, I.  70n Preuschen, E.  160n, 168n, 171n, 175-179nn Prinzivalli, E.  156n, 229n Prisciano Lido (Priscianus Lydus) 20n, 98n, 109n, 141-142nn, 190n, 321n, 419-420nn, 552n, 579n Proclo Diadoco (Proclus Diadochus) 18, 20-22, 28-29, 31-32, 34n, 39, 43, 44n, 45, 46n, 50n, 51, 53, 55, 57, 64n, 68n, 74, 80, 89-94, 98, 100-101, 104, 106-107nn, 117n, 119, 122-123nn, 142-144, 145n, 157n, 184, 189-191, 192n, 199, 200n, 201-202, 213, 221, 241n, 247, 253n, 260n, 261, 262n, 263-265, 285n, 386, 412n, 416n, 417, 419-420nn, 444, 448n, 454, 517-519, 541-542, 545-552, 554, 556-559, 561-563, 567, 609, 628-629 Procopio di Gaza (Procopius Gazaeus) 261n Procoro Cidone (Prochorus Cydones) 276 Pruche, B.  165n, 205n Pseftonkas, B. S.  253n pseudo Dionigi (vide Dionigi Aeropagita, pseudo) Pugliese Carratelli, G.  280n Puletti, G.  493n Punzi, A.  473n Purnell Jr., F.  549n Q usta ibn Luqa (vide Costa ben Luca) Rabassini, A.  576n Rabe, H.  221n, 419n Raciti, G.  349n Radke-Uhlmann, G.  32n, 567n Ragazzoni, D.  590n Raimondo Lullo (Raymundus Lullus) 555n, 556-559 Ramelli, I.  9, 15, 57, 77n, 153-179, 182n, 205n, 612n Rand, E. K.  373n Randi, E.  441n

Rees, V.  580n Reinhardt, K.  546n, 564n Reisman, D. C.  390n Remigio d’Auxerre (Remigius Autissiodorensis)  346n, 373-374nn Remigio d’Auxerre, pseudo (Remigius Autissiodorensis, pseudo)  373n Renczes, Ph. G.  23-24, 187n, 227, 228n, 234n, 238n, 241n Riccardo di Middleton (Richardus de Mediavilla)  523-524nn Riccardo di San Vittore (Richardus a Sancto Victore)  354n, 552 Ricci, S.  589n Riddle, J. M.  430n Riedinger, R.  274n Riemann, H.  D. 562n Rigo, A.  280n, 286n, 292n Riserbato, D.  10, 38n, 69n, 461n, 521-539, 627 Rist, J. M.  148n Rizzo, L.  253n, 570n Robert, A.  434n Roberto Grossatesta (Grossatesta, Robertus Grossetesta)  357, 358n, 447, 448n, 500-501nn Robinson, J. M.  177n, 261n Rodolfi, A.  23n Rodriguez Suarez, A.  283n Ruggero Bacone (Rogerius Bacon) 434n, 454n, 473n, 521n Romano, F.  44n, 80n, 85n, 146n, 299n, 304n, 308n, 321n, 323n, 364n Romano, M. M. M.  557 Roques, R.  321n Rorem, P. E.  211n Roscellino di Compiègne (Roscelinus de Compendiis)  373n Rossitto, C.  422n Rosvita di Gandersheim (Hrotsvitha Gandeshemensis)  346n Roux, S.  82n Rowland, I.  589n Rufino, pseudo (Rufinus, pseudo) 374n Ruggiu, L.  603n

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INDICE DEI NOMI

Runia, D. T.  155n Russell, N.  277n, 290n Sabellio (Sabellius)  590 Saccenti, R.  451n Saffrey, H.  D.  53n, 91-93nn, 99n, 107n, 122n, 166n, 436n, 563n Sánchez Sorondo, M.  22, 321n, 345n, 378n, 484n, 521n Sannino, A.  517-518nn Santos-Noya, M.  506n, 508n Scaltsas, T.  574n Schiavolin, R.  10, 15, 38n, 56n, 299319, 618 Schirò, G.  290n Schmidt, B.  514n, 574 Schmitt, A.  32n, 567n Schmitt, C. B.  584n Schmitt, F. S.  531n Schmutz, J.  524-525nn, 537n, 539n Schnarr, H.  564n Schniewind, A.  510n Schönborn, C.  233n Schramm, U.  156n Schwalm, I.  493n Schwätzer, H.  546n, 550n, 562n, 565n Schwyzer, H.-R.  18 Scully, E.  172n Sebti, M.  417n, 440n Secchi, P.  10, 74n, 77n, 541-566, 597, 598-599nn, 628n Sedley, D.  39n Segonds, A.-Ph.  53n, 92n, 98-99nn, 107n, 166n, 200n, 417n Seng, H.  91n Senger, H.  G.  546, 554n, 559n, 562n, 564n Senocrate di Atene (Xenocrătes Athenienses)  168 Senofane di Colofone (Xenophănes Colophonius)  602 Sergio I, patriarca di Costantinopoli (Sergius I Constantinopolitanus) 235 Sgarbi, M.  293n Shaw, Ph. G.  22

Sherwood, P.  21, 24, 26, 227, 229230nn Shields, Ch.  421n Sicard, P.  354n Siecienski, E. A.  280n Siedler, D.  503 Sigieri di Brabante (Sigerus de Brabantia)  361n, 421n, 425n, 441 Simeone il Nuovo Teologo (Symeon Neotheologus)  258n Simon, P.  500n, 505-507nn Simonides, K.  282n Simonetti, M.  157n, 160n, 169n, 176n, 229n, 243n, 304n Simonides, K.  282n Simplicio (Simplicius)  9, 28n, 45, 98, 141-152, 612 Simplicio, pseudo (Simplicius, pseudo) 117, 118n, 142n, 419n Siniossoglou, N.  219, 261n Sinkewicz, R.  E.  250, 252n, 266n, 277n Siriano (Syrianus)  28n, 142n, 157n Skuhala Karasman, I.  587n Smith, A.  80n, 299n, 304-305nn, 315n Smits, E. R.  379n Socrate (Socrates)  98, 369-370, 454, 464n, 604n Sofonia Filosofo (Sophonias)  259 Sofronio, patriarca di Gerusalemme (Sophronius patriarcha Hierosolymitanus)  235 Sorabji, R.  117n, 193n, 219 Sordillo, A.  10, 15, 65n, 67-68nn, 73, 343-364, 619 Sorge, V.  15-16 Spada, D.  300n Spampanato, V.  589n Spanu, N.  50n, 91-92nn Spiazzi, R. M.  495n Spira, A.  171n, 207n Stabile, G.  411n Stadler, H.  508n, 513n Stammkotter, F.-B.  565n Staniloae, D.  242 Stavru, A.  318n

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INDICE DEI NOMI

Stead, G. C.  156n Steel, C. G.  20n, 22, 44n, 109n, 117n, 142n, 189-190nn, 201n, 225n, 231-232nn, 352n, 506n, 546, 551n, 552, 579n Stefano Gobar (Stephanus Gobar) 251n Steiger, R.  550n, 596n, 598-599nn Steiris, G.  544 Straub, J.  17, 190n Strobel, B.  189-190nn Stroick, C.  508n Sturlese, L.  504n, 517-518nn Suchla, B. R.  18, 211-214nn, 274n Suso (vide Enrico Suso) Sinesio di Cirene (Synesius Cyrenensis)  172 Tabarroni, A.  485-486nn, 490n, 495n Tallarigo, C. M.  603n Tannery, P.  409-410nn Taormina, D.  22, 33n, 44n, 46n, 101n, 106n, 112n, 121-122nn, 253n, 299n, 323n Tarabochia Canavero, A.  570n Tarugi, G.  584n Taulero, Giovanni (Ioannes Taulerus) 553 Tautz, I. J.  517-518nn Taylor, R. C.  406n Temistio (Themistius)  419n, 424n Teodorico di Freiberg (Theodericus de Vriberg)  10, 499, 511n, 516518, 520, 626-627 Teodoro Dexius (Theodorus Dexius)  273 Teodoro Meliteniota (Theodorus Meliteniota)  276n Térézis, C.  121n Tertulliano, Q uinto Settimio Fiorente (Q uintus Septimius Florens Tertullianus)  20, 38n, 104n Théry, G.  601n Thomas Becket  491 Thomas Wylton (Thomas Wilton) 441 Thunberg, L.  227, 237n

Tinnefeld, F.  250n Tirinnanzi, N.  591, 592n Tittmann, J. A. H.  249n Tocco, F.  603n Tollefsen, T. Th.  26-27, 187n Tolomeo da Lucca (Bartolomeo da Lucca, Tholomaeus de Fladonis) 71n, 495 Tommasi, C. O.  168n, 300n, 302303nn, 308 Tommaso Campanella (Thomas Campanella)  563 Tommaso d’Aquino (Thomas de Aquino)  10, 23, 69, 70n, 72, 289-295, 358, 359n, 360, 362n, 409-441, 451, 453, 454n, 471, 482n, 495, 514, 541n, 547n, 570-572, 574, 583-584, 602, 604n, 623-624, 629 Tommaso Gallo, abbate di San Vittore (Thomas Gallus abbas Vercellensis)  67, 354-357, 358n, 364, 448, 450, 619-620, 624 Törönen, M.  219n Torrance, A.  155n, 193m Torstein, T. Th.  26 Totaro, P.  135n Toussaint, S.  576n Traube, L.  343n, 373n Trego, K.  323-325nn, 329 Treschow, M.  324n Trinkaus, C. 580n Trismegisto (vide Ermete Trismegisto) Trizio, M.  259n, 261n, 292n Trouillard, J.  121 Trovato, S.  542n Tuzzo, S.  514-515nn Tzamalikos, P.  157n, 178n, 232n Uberto Decembrio (Hubertus Decembrius)  542 Ugo di San Vittore (Hugo de Sancto Victore)  67, 346-349, 354, 448, 552, 619 Ugo Eteriano (Hugo Etherianus) 65, 67, 280, 350-353, 356n, 619620

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INDICE DEI NOMI

Ulrico di Strasburgo (Ulricus Engelberti de Argentina)  10, 499, 514, 515n, 626 Umberto di Preuilly (Humbertus de Prulliaco)  68, 360-361, 620 Urbano IV (Urbanus IV)  289 Vahlkampf, J.  355n Valcke, L.  583n Valdarchi, M.  444n Valente, L.  135n van der Eijk, Ph. J.  220n van Oppenraaij, A. M. I.  435n Van Riel, G.  28n, 39n, 123n, 129130nn Van Riet, S.  416n, 434-435nn, 437n, 510n, 522n, 532n, 536537nn Van Steenberghen, F.  431n van Winden, J. C. M.  155n Vanhaelen, M.  576-578nn Vanhamel, W.  552n Vasiljevic, M.  241n Vasoli, C.  543n, 580n, 585n, 587n Veneziani, M.  411n Verbeke, G.  17, 424, 439 Verger, J.  416n Verheijen, L.  519n Verhelst, D.  439n Vero, D.  350n Verrycken, K.  219n Vigorelli, I.  160n Viltanioti, I. F.  167n Vincent d’Aggsbach (Vincentius de Aggsbach)  566 Virgilio, Publio Marone (Publius Vergilius Maro)  477 Vitale, A. M.  303n Vitelli, H.  603n Vittorino, Mario (Marius Victorinus Afer)  10, 21, 42n, 56, 101n, 167168, 172-174, 299-319, 325n, 613, 618 Vlad, M.  82n von Balthasar, H. U.  226n, 229n

Voordeckers, E.  250n Vuillemin-Diem, G.  487n Wachsmuth, C.  97n, 105n, 107n, 111-112nn, 116n Walker, D. P.  563n Wallis, R. T.   306n, 363n Walzer, R.  387-391nn Warden, J.  569n Waszink, J. H.  104n Watanabe, M.  551n Watt, W. M.  406n Wéber, É.-H.  416n, 421n, 509n Wehr, H.  389n Weijers, O.  416n Weill-Parot, N.  410n, 430-432nn, 434n Weisheipl, J. A.  500n Westerink, L. G.  92-94nn, 110n, 121-122nn, 124n, 130n, 136n, 252n, 255n, 259n, 310n, 563n Wicki, N.  360n Wilcox, J.  430n Wilpert, P.  546n, 554n, 559n Wippel, J. W.  416n Witelo (Vitello Thuringopolonis) 518n Wollbold, A.  217-218nn, 226n, 249n, 251n, 257n Wood, R.  530n Woodhouse, C. M.  542n Yaqub, M.  406n Zachhuber, J.  156n, 165n, 171, 193n Zaffino, V.  553 Zambelli, P.  431n Zavattero, I.  449n, 519n, 523n, 552 Zedania, G.  550 Zenone di Cizio (Zeno Citiensis) 604n Ziebart, K. M.  566n Ziegenaus, A.  173n, 300-301nn, 304n Zimmermann, A.  487n, 509n Zonara, pseudo (Zonaras, pseudo) 249

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INDICE BIBLICO

INDICE BIBLICO

Bibbia, sacra pagina, Scrittura, sa­ cre Scritture  159, 172, 178-179, 198, 300 (300n), 350n, 448, 460, 465 (465n), 495n, 501, 505

Genesi  358 Salmi, Salterio  153, 161, 177, 179n, 249 (249n), 250, 362n, 373n, 374n Ecclesiaste  163, 164n, 177n, 444n, 445n, 457 (457n)

Cantico dei Cantici  158 (158n), 159n, 160n, 164n, 177n, 362 (362n) Sapienza  455, 461 Siracide  163 Abacuc  72, 491-492 (491n) Vangelo di Luca  179n, 505n Vangelo di Giovanni  160n, 168n, 171n, 175n, 178 (178n), 444n, 449n, 506n Lettera ai Romani  570n Prima lettera ai Corinzi  467, 320 Lettera di Giacomo  565

Gen 1, 14  493n 1, 14-19  358 1, 16  491n, 493n 1, 26  374n, 488

18, 2  161 101-107  250n 102, 21  448n 107  249n 138, 15  300n

Es 3, 14  163, 173, 176, 366 8, 19  451n 33, 23  169

Qo (Eccle) 1, 16  457n 3, 7  164n 5, 1  163

Dt 6, 4  488

Ct 1,7  158 4, 1  362

Nuovo Testamento  26, 249

Sal 4, 7  373n, 374n 8,6  486

Sap 7, 25-26  174

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INDICE BIBLICO

11, 21  338n, 453, 455 (455n), 467 (467n) 13, 5  453 81, 6  237 Sir 3, 1  163 4, 8  489 Ger 23, 18  300n 23, 22  300n Dn 3, 42  489 Ab 3, 10-13  491n 3, 11  72, 491, 492n Ml 3, 20  491 Mt 6, 11  300n 19, 15  514 (514n) 22, 21  374n 28, 19  177n Mc 12, 29  488 Lc 8, 46  333 11, 2  505n 15, 12  300n Gv 5, 19  307

14, 28  305, 314n 16, 15  309n At 1, 9  491 Rm 1, 20  333, 375, 451-452 3, 5 – 5, 7  178n 11, 36  188 1 Cor 1, 24  205n, 269n, 313, 452n 3, 9  194n 8, 5  263 12, 6  203n, 554 12, 12  349n 15, 28  244n, 317, 554 2 Cor 4, 4  309 10, 1  489 Gal 3, 28  349n 4, 4  489 Col 1, 16  448n 2, 9  302, 313n 3, 10  316 1 Tm 6, 16  334n Tt 2, 14  300n Eb 1, 3  300n 11, 1  465

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TITLES IN SERIES TITOLI DELLA COLLANA

1. Giulio d’Onofrio, Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought (English text by John Gavin) 2. Luigi Catalani, I Porretani. Una scuola di pensiero tra alto e basso Medioevo 3. Armando Bisogno, Il metodo carolingio. Identità culturale e dibattito teologico nel secolo nono 4. The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy Papers of the International Congress (Rome, 29 october - 1 november 2005), ed. by Giulio d’Onofrio 5. Luciano Cova, Il Liber de virtutibus di Guido Vernani da Rimini. Una rivisitazione trecentesca dell’etica tomista (con l’edizione del testo) 6. Cinzia Arruzza, Les mésaventures de la Théodicée. Plotin, Origène, Grégoire de Nysse 7. Luisa Simonutti (a cura di), Religious obedience and political resistance in the early modern world. Jewish, Christian and Islamic philosophers addressing the Bible 8. Lucia Pappalardo, Gianfrancesco Pico della Mirandola: fede, immaginazione e scetticismo 9. Alain Galonnier, Le De scientiis Alfarabii de Gérard de Crémone. Contribution aux problèmes de l’acculturation au xii e siècle (édition et traduction du texte). Préface de Jean Jolivet. Postface de Max Lejbowicz

10. Claudio Moreschini, Apuleius and the Metamorphoses of Platonism 11. Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale Atti del XVIII Convegno internazionale di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (SISPM) (Cava de’ Tirreni – Fisciano, 5-8 dicembre 2009) a cura di Luigi Catalani e Renato de Filippis 12. Christian Trottmann, Bernard de Clairvaux et la philosophie des Cisterciens du xiie siècle 13. La triade dell’Essere. Essenza – Potenza – Atto nel pensiero tardo-antico, medievale e rinascimentale a cura di Renato de Filippis ed Ernesto Sergio Mainoldi